JOHANNES MARIO SIMMEL LA TRAMA DEI SOGNI (Der Stoff Aus Dem Die Träme Sind, 1971) Dedicato all'uomo cui è stato attribui...
38 downloads
902 Views
2MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
JOHANNES MARIO SIMMEL LA TRAMA DEI SOGNI (Der Stoff Aus Dem Die Träme Sind, 1971) Dedicato all'uomo cui è stato attribuito in questo romanzo il nome di Bertie Non si voleva che questo libro fosse pubblicato. Il manoscritto, nella sua prima stesura, è stato rubato all'autore e distrutto, poiché si è tentato in ogni modo di impedirne la pubblicazione. L'autore - un giornalista - ha allora deciso di trasferirsi oltre oceano. Ed è di lì che mi sono pervenuti i nastri registrati con la descrizione dettagliata di tutto quello che gli è capitato. Sono stato autorizzato a riferire queste sue traversie, ma nel farlo mi sono avvalso di tutti gli espedienti immaginabili per evitare che possa derivarne danno a quel giornalista o ad altre persone innocenti. E infatti ora, con le circostanze completamente mimetizzate, e per di più proposte sotto forma di romanzo, nessuno avrà motivo di dolersene, anche per le molte modifiche che ho apportato alla vicenda. Per esplicito desiderio di quel giornalista (che vive da anni sotto altro nome) ho narrato la storia così come egli stesso l'aveva un giorno scritta: in forma soggettiva cioè. La bella poesia detta dalla signorina Louise è desunta da un film americano prodotto nel 1948 e tratto dall'omonimo romanzo di Robert Nathan: Ritratto di Jenny. J.M.S. Voglio dire semplicemente che è più fecondo credere in ciò che è sconosciuto, piuttosto che disperarci attorno a cose note. Lasciateci dire una parola buona per la fede, l'amore e per altre simili illogiche cose, e gettiamo uno sguardo un po' scettico sulla realtà e sugli analoghi prodotti della ragione. PADDY CHAYEFSKY INCHIESTA 1
«Dunque ora i miei amici uccideranno quella persona» mi disse la signorina Luise. Era ieri. Davanti alle finestre della sua stanza si ergevano ippocastani vecchi e spogli. Pioveva con insistenza, i tronchi e i rami degli alberi luccicavano. «L'uccideranno senz'altro» disse la signorina Luise. «A ogni costo.» E sorrideva felice. «L'hanno trovata finalmente?» chiesi io. «No, non ancora» rispose la signorina Luise. «Ah» dissi io. «Già» disse lei. «Dunque può anche darsi che questa persona sia un uomo o una donna.» Il cognome della signorina Luise è Gottschalk. Sul suo volto si leggeva un'espressione di sconfinata fiducia. «Un giovane. Un vecchio. Uno straniero o un tedesco.» (La signorina Gottschalk è originaria di Reichenberg, la città che ora si chiama Liberec, in quelli che un tempo erano i Sudeti, e il suo accento ha inflessioni vagamente austro-cèche.) «Ha fratelli, sorelle, padre, madre? Altri parenti? Forse. Può darsi anche che quella persona non abbia nessuno. E la professione? Che mestiere fa? Nessuno sa niente. Almeno, non ancora.» «Capisco» dissi io. «Dove abita? Che stia fuggendo proprio adesso? Come si chiama quest'uomo? O questa donna? Non sappiamo ancora niente, amico mio. Non sappiamo assolutamente niente di questa persona. Non ne abbiamo la benché minima idea, vero?» «No» dissi io. «Eppure lei è assolutamente certa che...» «Sì che lo sono, eccome! E sa il perché? Perché li ho abbindolati!» «Abbindolati?» «Ne ho discusso con loro, ne ho parlato e riparlato, e alla fine se ne sono convinti anche loro, così come lo sono io. Noi non possiamo permettere che uno, che ha già fatto del male, continui a farne. Per amor suo, no! Per amor suo... Mi capisce, signor Roland?» «Si.» «Sono stata furba, vero?» «Si.» «E così i miei amici me lo hanno promesso. Ecco perché lo so, capisce? I miei amici possono fare tutto. E così io so con certezza che la troveranno, quella persona, della quale non sanno ancora niente, e che la libereranno: i miei amici!» disse la signorina Luise Gottschalk. Ha i capelli bianchi come la neve, 62 anni: e da 44 anni fa l'assistente sociale per i giovani. «Riesce a
capire quanto sono felice, signor Roland?» «Sì.» «E poi, caro mio, quando l'avranno scovata finalmente, e uccisa, quello sarà il più bel giorno di tutta la mia vita» e rideva come una bambina che aspetta, felice, il Natale. Ora la pioggia batteva con tale violenza contro i vetri che non si riuscivano quasi più a distinguere gli ippocastani. Non ho mai incontrato una persona che mi sia apparsa più buona di Luise Gottschalk. Solo da quando la conosco, so cosa significano davvero tanti concetti che un abuso privo di scrupoli ha stravolto e svuotato di significato: tolleranza, bontà, fedeltà, fiducia, amore, coraggio e lavoro instancabile per la felicità, la sicurezza e la pace degli altri. Gli amici della signorina Luise sono: un tecnico pubblicitario statunitense, di New York, Madison Avenue; un editore di libri scolastici olandese, di Groningen; un industriale della mayonnaise, tedesco di Seelze, vicino ad Hannover; un clown da circo russo, di Leningrado; un architetto cèco, di Brno; un polacco, insegnante di matematica all'università di Varsavia; un impiegato di banca, tedesco di Bad-Homburg; un contadino ucraino di Petrikowa, cittadina sulla Dnjepr; un cronista giudiziario francese, di Lyon; un cuoco norvegese di Kristiansand, una località all'estrema punta meridionale del paese, nei pressi di Capo Lindesnes; e uno studente di filosofia, tedesco di Rondorf, vicino a Colonia. Gli amici della signorina Luise sono assolutamente diversi l'uno dall'altro, per provenienza e origine. Hanno caratteri, esperienze, predilezioni, tendenze, opinioni e grado di cultura assai diversi. Hanno una sola cosa in comune: sono tutti morti, da decenni. 2 Sentì gli spari. Poi udì la voce di suo padre. Sembrava venire da lontano. Gli spari non lo spaventarono, ne aveva ormai sentiti tanti da quando era lì, e poi, proprio in quel momento, stavano sparando anche nel suo sogno. Fu la voce del padre a svegliarlo. «Cosa c'è?» chiese, e si fregò gli occhi. Il suo cuore batteva forte e le sue labbra erano asciutte. «Devi alzarti, Karel» disse il padre. Era chino sul letto nel quale il ragazzo aveva dormito, e sorrideva rassicurante. Il padre era un uomo alto e slanciato, con una fronte alta e ampia, e aveva belle mani. Quella sera il suo viso stanco aveva però il colore del piombo opaco.
«Ho parlato con la gente del villaggio» disse. «Ä mezzanotte cambiano le sentinelle. E allora, per cinque minuti, il fossato non sarà sorvegliato. Cosi potremo andarcene dall'altra parte.» «E se non fanno il cambio delle sentinelle?» chiese Karel. «Le cambiano ogni notte» disse il padre. «Ogni notte c'è gente che va dall'altra parte. Hai dormito bene?» «Sì.» Karel distese le braccia alte sulla testa e si stirò. Poco meno di quindici ore prima aveva lasciato Praga col padre. Erano in fuga da quasi quindici ore. Era stato difficile uscire dalla città. Avevano dovuto fare giri oziosi, complicati, su tram sovraffollati, su un camion e a piedi, per sfuggire ai soldati stranieri, ai posti di blocco dei carri armati e ai controlli. Alla fine avevano viaggiato a lungo in treno, su un carro per bestiame vuoto. Il padre sapeva che era ricercato. Lo aveva saputo prima ancora che lo avvisassero. Aveva chiaramente intuito tutto quello che sarebbe accaduto, quello che inevitabilmente si sarebbe verificato, sin dall'alba di quel 21 agosto, non appena aveva avuto la notizia. Lo cercavano per arrestarlo, e tutto questo gli appariva logico e fatale. Non ce l'aveva con quelli che gli davano la caccia, perché loro dovevano ora agire così come egli aveva dovuto agire prima di loro. Il suo comportamento aveva determinato quello degli altri, così come egli e i suoi amici erano stati indotti all'azione dall'atteggiamento di altri ancora. Il fatto di essere ricercato lo rendeva quindi molto prudente. Aveva calcolato con esattezza ogni passo. E fino a quel momento tutto era andato bene: la frontiera con la Baviera era ormai vicinissima. Due chilometri ancora, e ce l'avrebbero fatta. Ma quegli ultimi due chilometri erano i più pericolosi: per questo il padre aveva insistito perché Karel si riposasse per bene, lì nella piccola casa della nonna, che era poi la madre di papà. Solo gli amici sapevano dove abitava sua madre, e non lo avrebbero tradito. La vecchia donna viveva sola, alla periferia del villaggio. Era proprietaria d'una cartoleria e, quando c'erano, vendeva anche giornali. La piccola nonna camminava tutta curva, a causa della sciatica. Karel e il padre si erano recati da lei poiché viveva in una zona della frontiera che - così dicevano - non era ancora del tutto sbarrata, e oltre la quale dunque sarebbe stato più facile fuggire. E così figlio e nipote avrebbero anche avuto modo di congedarsi dalla nonna, prima di andare di là, in quell'altro paese. «Che ore sono?» chiese Karel. «Le dieci» disse il padre, e mise una mano sulla fronte del bambino. «Ma tu scotti! Hai la febbre?»
«No di certo» disse Karel. Parlava in cèco, senza inflessioni. Capiva poco il tedesco, contrariamente a suo padre. Era una lingua difficile, persino l'inglese gli era parso più facile. Aveva studiato inglese e tedesco a scuola. «Tutto questo caldo che ho è colpa dei leoni» disse. «Quali leoni?» «Quelli di piazza Venceslao. Li ho sognati e ce n'erano molti. E ancor più conigli. I leoni avevano fucili, ed erano dappertutto, e i conigli non riuscivano a svignarsela. Tutti i leoni avevano fucili. E sparavano coi fucili sui conigli. E ogni volta che uno sparava, uno cadeva.» «Poveri conigli.» «Ma no! Ai conigli non è successo niente! Ogni volta che un leone sparava, cadeva a terra un leone! Sul colpo. E non si muoveva più. È veramente strano, vero?» «Sì» disse il padre. «È molto strano.» «Sette leoni hanno sparato, uno dopo l'altro, e tutti e sette sono caduti» disse Karel. «E in quel momento mi hai svegliato.» Scostò la coperta a scacchi e saltò fuori nudo dal letto alto e cigolante della nonna nel quale aveva dormito. Karel aveva undici anni. Aveva un corpo robusto e abbronzato, e le gambe lunghe. I suoi occhi erano grandi e neri come i capelli tagliati corti che brillavano alla luce della lampadina elettrica. Karel era un ragazzo riflessivo, abituato a leggere molto. I suoi insegnanti lo lodavano. Era vissuto col padre nel grande appartamento d'un vecchio palazzo nella via Gerusalemme. Sporgendosi da una finestra, si potevano scorgere i begli alberi, i cespugli in fiore, le aiuole del grande parco Vrchlického sady, e il laghetto che c'era nel mezzo. All'epoca in cui era ancora un bambino molto piccolo, Karel vi era andato a passeggio, ogni giorno, con sua madre. Se ne ricordava ancora perfettamente. Proprio quando Karel stava per compiere cinque anni, sua madre aveva ottenuto il divorzio e si era trasferita nella Germania occidentale, per andare a vivere con un altro uomo. Non aveva più mandato neanche una lettera. Per tutti quegli anni Karel aveva guardato, quasi ogni giorno, dalla finestra della sua stanza, verso il Vrchlického sady; lo aveva osservato quando c'erano neve, ghiaccio e freddo, e poi ancora sotto il sole cocente di piena estate, nei giorni della sua piena, splendida fioritura. Lo aveva guardato con attenzione, pensieroso: il parco e anche le molte giovani donne che, bambini alla mano, percorrevano i vialetti del parco, oppure giocavano coi loro piccini. Karel guardava dalla finestra, pensava alle sue passeggiate e sperava sempre di riuscire a ricordarsi di sua madre. Ma era
un'impresa vana. Da molto, molto tempo ormai, non avrebbe più saputo nemmeno dire che aspetto aveva sua madre. Quando, all'alba del 21 agosto, il padre era andato a svegliare Karel, aveva preparato in fretta due valigie e aveva lasciato precipitosamente la casa col ragazzo, per nascondersi inizialmente presso degli amici, Karel aveva scorto nel parco, fra i garofani e le rose, fra i cespugli di mimose e le aiuole delle dalie, alcune autoblindo con mitragliatrici: parevano giocattoli persi nella penombra e nella foschia di quel precoce inizio d'una calda giornata d'estate. Sulle autoblindo c'erano uomini in uniformi straniere, disorientati e tristi. Karel aveva rivolto loro un saluto con la mano e molti soldati avevano risposto al suo saluto... «Ti ho già tirato fuori la tua roba» disse il padre, indicando una sedia che era accanto al letto. Sulla sedia c'era il vestito azzurro di Karel, quello buono, quello che di solito poteva indossare soltanto la domenica. «Dobbiamo metterci le cose migliori che abbiamo.» Anche lui aveva un vestito blu, una camicia bianca e una cravatta blu sulla quale erano ricamati tanti piccoli elefanti d'argento. «Potremmo perdere le nostre valigie, o essere costretti ad abbandonarle» disse il padre. «Già, ecco perché gli abiti buoni» disse Karel. «Capisco.» Si sedette a terra per infilarsi le calze. Era stata una giornata d'un caldo soffocante, ma nella stanza della nonna era fresco. Era sempre fresca, l'aria eternamente umida, e tutti gli oggetti, a toccarli, parevano bagnati. In tutta la casa c'era odore di muffa e di panni vecchi. Sia che Karel andasse a trovare la nonna durante le vacanze estive o a Natale, c'era sempre odore di muffa in quella casa gialla dal tetto coperto di tegole e col minuscolo negozio di cartoleria: sopra l'ingresso del negozietto, in una piccola nicchia, c'era la statua di un santo. Da molti anni, nella vetrina, facevano bella mostra di sé due grandi bocce di vetro, piene di caramelle dai colori vivaci. Perché la nonna vendeva anche dolci di poco prezzo. In vetrina c'erano solo le bocce, e nient'altro. Mentre Karel s'infilava la camicia, il padre si avvicinò alla finestra stretta e scostò un poco la tenda di mussola, per guardare verso la strada del villaggio, deserta alla luce della luna. «Luna maledetta» disse il padre, e guardò il disco giallo come il miele che sembrava nuotare in un cielo buio, vellutato, pieno di stelle. «Ho sperato tanto che si annuvolasse.» «Già, ci sarebbero volute le nuvole» disse Karel. «Per favore, mi annodi la cravatta?» Karel si esprimeva sempre con toni bene educati.
Mentre il padre gli avvolgeva la cravatta rossa, Karel piegò la testa all'indietro. «Però portiamo con noi anche la tua tromba, vero?» chiese, molto eccitato. «Ne avrai bisogno, in quell'altro paese!» «Naturalmente» disse il padre. «Porteremo le due valigie e la mia tromba.» Il padre era musicista. Suonava da tre anni quella tromba che adesso s'apprestava a portare con sé: dalla repubblica popolare di Cecoslovacchia, di là, nella repubblica federale di Germania. Ed era una tromba bellissima: anche Karel l'aveva suonata, spesso. Aveva spiccate doti musicali. Il padre, in quegli ultimi tre anni, sino a quella notte del 20 agosto, aveva lavorato in uno dei locali notturni più ricercati di Praga, annesso a un hotel di lusso, l'Esplanade, che era vicinissimo alla loro casa di via Gerusalemme. «Io porto le valigie e tu l'astuccio con la tromba» disse il padre. «Oh si!» Karel guardò il padre, raggiante. Adorava suo padre e l'ammirava perché sapeva suonare così meravigliosamente la tromba. Una volta che Karel fosse stato grande avrebbe fatto il musicista anche lui: non c'era alcun dubbio! Ogni volta che suo padre si esercitava in casa, allora avevano ancora una casa, Karel gli si rincantucciava ai piedi per ascoltare, rapito. Quando era cominciata la «primavera di Praga», Karel non era più riuscito a sentire il padre esercitarsi. Molti uomini e donne, conoscenti e no, erano venuti nella grande abitazione, per parlare col padre e fra di loro: pomeriggi interi. Karel era stato ad ascoltarli. Tutti parlavano di «libertà», di «tempi nuovi» e di «futuro». Deve trattarsi di cose molto belle, aveva pensato allora il ragazzo, affascinato. E poi era venuta la sera in cui Karel era stato infinitamente fiero di suo padre: era stato invitato - accanto a uomini e donne famosi, i cui volti e i cui nomi il ragazzo conosceva dai giornali - a partecipare a un dibattito alla televisione. Suo padre aveva parlato a lungo. Karel aveva capito assai poco, ma era certo che si trattava di cose tutte molto giuste e intelligenti. Quasi tutti gli adulti del paese seguirono quella trasmissione, piangendo di gioia e applaudendo i loro televisori, per dare il loro tributo di consenso agli uomini e alle donne che dicevano tutto quello che milioni di persone avrebbero voluto dire, e che avevano a lungo, tanto a lungo, e inutilmente sognato di poter dire. Fra le molte cose che Karel ancora non capiva c'era appunto quella: che, a causa di quell'esibizione televisiva di suo padre, avessero poi dovuto più tardi, quando erano venuti i soldati stranieri - abbandonare la loro casa,
vivere nascosti alcuni giorni in casa d'amici e poi fuggire addirittura in piena notte: eppure era così, suo padre gli aveva detto che quello era il motivo. «Sarei rimasto a Praga volentieri» disse il ragazzo, annodandosi i lacci delle scarpe. «Anch'io» disse il padre. «Però non è possibile» disse Karel, e annuiva con espressione seria. «No. Purtroppo non è possibile.» «Perché metterebbero te in prigione e me in un istituto.» «Sì, Karel.» E dal momento che non riusciva a comprendere tutto questo, il ragazzo ricominciò con le sue domande. «Se quella volta, in televisione, non aveste parlato tanto del futuro e della libertà e dei tempi nuovi, allora i soldati stranieri non sarebbero venuti qui da noi?» «No, allora sarebbero certamente rimasti a casa loro.» «E noi potremmo vivere ancora in via Gerusalemme?» «Sì, Karel.» Il ragazzo pensò a lungo. «Eppure è stato molto bello quello che hai detto alla televisione» dichiarò poi. «E non capisco perché ora devi fuggire con me e perché ti vogliono arrestare.» «Evidentemente quella trasmissione non è piaciuta a tutte le persone» disse il padre. «Ai soldati stranieri non è piaciuta, vero?» «Quelli fanno solo quello che gli si ordina.» «Quindi non è piaciuta a quelli che comandano?» «Può darsi che a loro non sia piaciuta» disse il padre. «Che faccenda complicata» disse suo figlio. «Sono molto potenti quelli che comandano i soldati?» «Molto potenti, già. Ma per certi versi anche molto impotenti.» «Questa però proprio non la capisco» asserì Karel. «I loro popoli potrebbero scacciarli, così come noi abbiamo scacciato i nostri potenti» spiegò il padre. «Per questo quella gente è così potente eppure anche così impotente. Capisci?» «No» disse Karel. E, come a titolo di giustificazione, aggiunse aggrottando la fronte: «Questa è politica, vero?». «Sì» rispose il padre.
«Ah!» fece Karel. «Per questo non la capisco.» Da qualche parte, dietro le piccole case illuminate dalla luna, nei campi ove s'ergeva ancora alto il raccolto, risuonò rapido e senza eco il crepitio d'una raffica di mitra. «Sparano di nuovo» disse Karel. «Ma non più tanto come nel pomeriggio» disse il padre. «Vieni, la nonna aspetta in cucina.» Lasciarono la camera da letto buia e antiquata, fatta di mobili del secolo prima. Il padre lanciò una breve occhiata al quadro appeso sul letto. Era una grande oleografia, che raffigurava Gesù e i suoi discepoli nel giardino di Getsemani. I discepoli dormivano, ma Gesù, unico desto, era in piedi in mezzo a loro. Parlava tenendo una mano alzata. Sul margine inferiore del quadro spiccavano, in cèco, queste parole: ALZATEVI E PREGATE, COSÌ DA NON CADERE IN TENTAZIONE! PERCHÉ LO SPIRITO È FORTE, MA LA CARNE È DEBOLE. A sinistra, in un angolo, si poteva leggere una scritta minuta: Printed by Samuel Levy & Sons, Charlottenburg (Berlino), 1909. Fuori, nell'irreale notte di luna, un mitra continuava a martellare. Cani ululavano. Poi ci fu di nuovo silenzio. Relegato nell'anno 1909, da Samuel Levy e dai suoi figli, a Berlino-Charlottenburg, su un foglio di carta per oleografie, il Redentore del mondo parlava sempre ancora ai suoi discepoli dormienti. Erano le 22 e 14 minuti del 27 agosto 1968, un martedì. 3 «... qui parla Radio Europa Libera. Abbiamo trasmesso notizie per i nostri ascoltatori cecoslovacchi. La trasmissione è terminata» diceva la voce dell'annunciatore. Da uno studio di Monaco, Radio Freedom for Europe, una emittente che operava in molte lingue e con tanti programmi per gli stati del blocco orientale, mise in onda un disco: l'ouverture del Fidelio. La vecchia radio era in un angolo della cucina bassa e affumicata. La nonna, l'orecchio vicinissimo all'altoparlante, aveva ascoltato la trasmissione. Spostò l'indicatore esattamente sulla tacca di Radio Praga e spense l'apparecchio. Si avviò, curva, verso la stufa sulla quale c'era una grande pentola. Il suo volto, col passare degli anni, si era fatto sempre più minuto. E aveva a poco a poco perso la capacità di muoversi anche solo parzialmente eretta. Il medico le prescriveva una medicina contro la sciatica, ma
erano iniezioni che non servivano a molto. La nonna si augurava spesso di morire. Ma la morte si faceva aspettare. «Oh, eccovi» disse la nonna, quando il padre entrò in cucina con Karel. Afferrò un mestolo e riempì tre piatti. «È minestra di fagioli» disse. «Ho aggiunto qualche fetta di carne affumicata.» «Grassa?» chiese Karel, e guardò spaurito mentre si sedeva alla tavola apparecchiata accanto alla stufa. «Magra. Magrissima, cuoricino mio» disse la nonna. Chiamava Karel sempre «cuoricino mio». «Grazie a Dio, è magra!» Il ragazzino le fece un gran sorriso, e si legò un enorme tovagliolo attorno al collo, attese che gli altri cominciassero a mangiare, ed intinse a sua volta il cucchiaio nella minestra. «Ottima, nonna» disse. «Dico davvero. Più magra di così!...» Sul tavolo pendevano, gialle e lucenti, pannocchie di granturco, appese a delle corde tese. Il fuoco nella stufa crepitava rumorosamente. Eppure anche in cucina non faceva mai davvero caldo, e anche lì c'era sempre un po' d'odore di muffa. Dopo che la nonna si fu infilata per quattro volte il cucchiaio in bocca, raccontò: «Radio Europa Libera ha appena detto che all'ONU continuano a riunirsi per noi». «Commovente da parte dell'ONU» disse il padre. «E che gli americani sono fuori di sé dall'indignazione!» «Sì, certo che lo sono» disse il padre. «Dobbiamo resistere e avere coraggio. Il nostro é un popolo eroico, ha detto la radio» aggiunse la nonna. «Sì sì» disse il padre, continuando a mangiare la minestra. «E accorreranno in nostro aiuto.» «Eccome no! Certo che lo faranno. Esattamente come sono accorsi in aiuto degli ungheresi, quella volta!» «No, questa volta sul serio! Lo ha detto la radio! Tutti si aspettano che gli americani ordinino ai russi di andarsene immediatamente dalla nostra terra. E anche tutti gli altri.» «Non faranno un accidente» disse il padre. «Non capisco» disse la nonna, impressionata. «Politica» disse Karel. «E tu come fai a saperlo?» chiese la nonna a suo figlio. «La nostra gente a Praga è riuscita ad accertarlo, nel frattempo. I grandi
si sono messi d'accordo fra di loro. Però in apparenza, in Occidente, devono fingere di essere indignati. E quella radio diffonde ancora speranze e incita alla resistenza! Esattamente come ha fatto quando c'è stata la sollevazione in Ungheria, e prima di allora per la sollevazione in Germania orientale e per la sollevazione in Polonia!» Seguì un lungo silenzio. La nonna - preoccupata ora da un problema più intimo e immediato chiese: «Come potrò sapere che sarete giunti bene dall'altra parte? Come potrò sapere che non vi è successo niente?». «Non ci succederà niente, vedrai» disse il padre. «Ho bisogno di esserne certa. Tu sei l'ultimo mio figlio. E Karel è il mio unico nipote. A parte voi due, non mi rimane più nessuno.» «Portiamo con noi la tromba» disse il padre. «Quando saremo dall'altra parte, suonerò una canzone che tu conosci. La frontiera è vicinissima, e la sentirai certamente.» «Anch'io so già suonare la tromba, nonna!» «Sul serio, cuoricino?» «Sì!» Karel annuì, orgoglioso. «So suonare Škoda lásky e Kde domov muj e Plují lodi do Triany e Strangers in the Night e... e poi altre ancora!...» «Strangers in the Night» disse la nonna «è una vecchissima canzone che piaceva tanto al mio Andrej. Che Dio l'abbia in gloria! E piace tanto anche a me. Suonerai quella canzone, figlio, quando sarete giunti dall'altra parte?» «Sì, mamma.» Improvvisamente la nonna abbassò il cucchiaio e si coprì il viso minuto con le mani rosse, sciupate dal lavoro. Karel la fissò, spaventato. Il padre abbassò la testa. «È così triste perché andiamo di là in quell'altro paese?» chiese Karel, piano. Il padre annui. «Qui però non possiamo restare» mormorò Karel. «Per questo è così triste» sussurrò il padre, ancora più piano. 4 Si avviarono alle 23 e 15 minuti. La nonna si era calmata. Baciò Karel e suo figlio. E ad entrambi fece il
segno della croce sulla fronte. «Addio, mamma» disse il padre e le baciò la mano. Poi impugnò le valigie, una grande e una più piccola. Karel prese l'astuccio nero nel quale c'era la tromba. Lasciarono la casa attraverso l'uscita che dava sull'orto e sul frutteto, dietro la casa, poiché al padre parve pericoloso farsi vedere sulla strada del villaggio, deserta. Fianco a fianco, padre e figlio s'inoltrarono sotto la luna che conferiva un aspetto spettrale a tutto il paesaggio: alberi, siepi, case e campi. La nonna era rimasta sulla porta, curva e immobile; le sue labbra avvizzite formulavano parole prive di suono: «Dio onnipotente che sei nei cieli, proteggi ti prego mio figlio e il suo ragazzo, fa' che possano raggiungere sani e salvi quell'altra parte, e fa' che io possa poi sentire la tromba. Farò tutto quello che vorrai, buon Dio, tutto, tutto! Ma ti prego, fa' ch'io senta la tromba...». Quando il figlio e il nipote furono fuori dalla portata del suo sguardo, chiuse la porta che dava sull'orto e tornò in fretta nella cucina. Spalancò una finestra per essere sicura di poter sentire il suono della tromba quando essi sarebbero giunti sull'altra sponda. In precedenza aveva anche spento la luce. E rimase lì, seduta al buio, senza muoversi... Nel frattempo il padre e Karel avevano già lasciato il villaggio alle loro spalle, e procedevano cauti, con le orecchie tese, uno dietro l'altro, attraverso un campo. La mietitura non era stata ancora fatta. Il grano copriva Karel quasi completamente e arrivava sino al petto del padre. La notte era molto calda. Quando attraversarono un sentiero, Karel vide delle luci in lontananza. «È quella l'altra parte?» sussurrò. «Sì» sussurrò di rimando il padre. «Ormai siamo vicini al fossato.» La luce irreale della luna gli fece improvvisamente una gran rabbia. Pensò: devo cercare di controllarmi. Non posso perdere il controllo dei nervi proprio ora che ci siamo. E disse, piano: «Se ci scoprono, buttati subito a terra e non muoverti. Se però poi ti gridano di alzarti e di alzare le mani, fallo. Farai tutto quello che ti diranno, capito?». «Sì.» «Ma se ti dico "Corri!", allora corri, qualsiasi cosa accada e qualsiasi cosa gridino. Vai sempre in direzione di quelle luci dall'altra parte. Devi correre e basta, senza badare assolutamente a quello che farò io. Se ti dico "Corri!", tu devi correre!»
«Sì» disse Karel di nuovo. Il suo viso splendeva, illuminato dalla luna. Il campo di grano era finito. Seguiva una stretta striscia di bosco. Abeti, cresciuti fitti l'uno accanto all'altro. Il terreno era ricoperto d'uno strato d'aghi che assorbiva il rumore dei loro passi. Procedevano cauti su quel cuscino morbido. Continuando a guardare in tutte le direzioni, il padre cercava la via migliore per avanzare, passando di tronco in tronco. A un tratto un ramo si spezzò sotto le sue scarpe. Si fermarono per alcuni secondi, senza muoversi. Poi ripresero il cammino, cauti, in avanti. Dietro gli alberi apparve la sagoma di una torre di guardia: una costruzione rozza. Quell'alto traliccio, con la baracca quadrata in cima, aveva proprio un brutto aspetto. Ma di lassù non veniva alcun rumore, non un barlume di luce che trapelasse dalle fessure della baracca. La torre di guardia distava circa mezzo chilometro. Avevano raggiunto il margine del bosco. Il padre si distese sul manto d'aghi, e Karel si distese accanto a lui. Il terreno era caldo, e l'odore degli aghi era forte e stimolante. Karel sussurrò all'orecchio del padre: «Le sentinelle... sono lassù su quella torre?». «No» sussurrò il padre all'orecchio di Karel. «La gente del villaggio dice che sulla torre non c'è nessuno. Le sentinelle se ne stanno accanto ai loro carri armati, sparse un po' ovunque. E i carri armati sono mimetizzati.» Guardò il suo orologio da polso. «Mancano ancora undici minuti alla mezzanotte» disse, piano. «Dobbiamo aspettare.» Karel annuì. Se ne stava disteso, premuto contro la terra, e respirava a fondo il profumo degli aghi. È tutto molto semplice, pensava. Ora abbiamo passato anche il bosco, e lì c'è l'acqua. L'acqua era appunto lì davanti a loro, nera. Scorreva pigra in un fosso diritto, da nord verso sud. In alcuni punti luccicava e rifletteva la luce della luna. Il fossato era largo circa cinque metri. I primi profughi l'avevano attraversato a nuoto. Ora c'era un tronco d'abete gettato di traverso oltre il letto artificiale del torrente, e all'altezza di un metro circa c'era un filo metallico sottile, al quale ci si poteva reggere quando ci s'inoltrava lungo il tronco. L'abete doveva essere stato abbattuto nel boschetto, e poi trascinato giù verso l'acqua, oltre la fascia di prato profonda una decina di metri. In quel punto il terreno degradava verso il fosso. «Tu passerai per primo» bisbigliò il padre. «Il tronco regge una sola persona alla volta, e inoltre io dovrò badare che non cominci a rotolare.» «Però se cado in acqua... io non so nuotare...» «Non cadrai. Vedi quel filo?» Il filo metallico brillava alla luce della lu-
na. «Devi aggrapparti a quello. Se vuoi, lasciami la tromba. Vuol dire che porterò io anche quella.» «E le due valigie? No, la tromba la tengo io!» La piccola mano di Karel si strinse forte attorno all'impugnatura di cuoio dell'astuccio nero. A questo punto se ne stettero zitti. Il padre non toglieva più lo sguardo dall'orologio da polso. I minuti parevano ore, ogni secondo un'eternità. Poi, finalmente, si sentì il motore di un'automobile. Il motore vibrava in lontananza: prima piano, poi un po' più forte e infine svanì. Nello stesso momento la campana della chiesa del villaggio cominciò a rintoccare la mezzanotte. «Puntualissimi» sussurrò il padre. «Ora c'è il cambio?» «Sì.» Il padre guardò ancora una volta in tutte le direzioni, poi diede uno sculaccione a Karel. «Via, corri adesso. Corri!» Piegato in due, Karel si avviò di corsa oltre il prato umido, giù verso l'acqua e il tronco d'abete. Due battiti di cuore, ed ecco anche il padre correre dietro di lui con le due valigie. Mentre Karel s'arrampicava già sul tronco, il padre poggiò a terra le valigie e si sedette sulla larga parte terminale dell'albero. Karel reggeva con la mano sinistra l'astuccio della tromba, e si aggrappava con la destra al filo metallico freddo e liscio. Avanzò lentamente sull'acqua, in equilibrio sul tronco. «Così va bene» mormorò il padre, alle sue spalle. Il filo ondeggiò improvvisamente. Karel, per un attimo, temette di scivolare, ma si riprese subito. Il sudore gli scorreva ora sul piccolo viso e i denti gli battevano dalla agitazione. Raggiunse la parte centrale del fossato. Pensò: non devo guardare giù! Basta che non guardi giù, e andrà tutto bene... Ancora un passo. Un altro. Karel ansimava. Il tronco d'abete s'era fatto più sottile, s'inarcava sotto il suo peso. Karel guardava spasmodicamente diritto davanti a sé. Ora un metro e mezzo soltanto lo separava dall'altra sponda. Un metro. Non guardare giù... non guardare giù... Il tronco si avvitò un poco. Karel ebbe di nuovo la sensazione di stare per cadere, ma di nuovo riuscì a tornare in equilibrio. Due passi ancora... Fece un salto e toccò terra. Tenendo stretta l'impugnatura di cuoio dell'astuccio, attraversò di corsa, chino, il prato che era largo e bagnato e morbido come quello dell'altra parte, fino al limitare di un bosco e dietro i primi
alberi. E lì si accucciò. Aghi dappertutto, pensò. E abeti dappertutto. Più o meno come dall'altra parte, ma il bosco era più piccolo. Vide il padre arrampicarsi a sua volta sul tronco. Il padre reggeva una valigia con la sinistra, e teneva la seconda, la più piccola, stretta sotto il braccio, mentre con la mano destra si teneva al filo metallico sottile, così come aveva fatto Karel. Il padre avanzava molto più alla svelta. Karel ammirava la sua abilità. Con quelle valigie così pesanti! In poche lunghe falcate il padre raggiunse la metà del tronco. E quando fece il primo passo oltre la metà, sulla torre di guardia s'accesero due riflettori, presero a vagare a velocità pazzesca lungo il fosso: poi i fasci di luce inquadrarono il padre che si era irrigidito, come paralizzato a metà d'un movimento. Karel emise un grido soffocato. I riflettori investivano suo padre e lo abbagliavano. Barcollava sul tronco, e tentava di voltare la testa in modo da poter guardare verso il buio. Karel pensò, terrorizzato: Ma allora c'è qualcuno su quella torre! Allora non è abbandonata! Che quelli del villaggio abbiano mentito a papà? No, non è possibile. Sono tutti brava gente di campagna. Non sapevano che su quella torre c'era di nuovo qualcuno: forse soltanto da questa notte. Una trappola dunque? Quindi non era vera la storia delle sentinelle ferme accanto ai loro carri armati, che si davano il cambio a mezzanotte? I pensieri di Karel si rincorrevano l'un l'altro a velocità folle. Una voce, distorta da un megafono, tuonò: «Tornare indietro o spariamo!». Karel si era gettato ventre a terra. Aveva gli occhi fissi sul padre quando la voce stentorea risuonò ancora: «Indietro, o spariamo!». Il padre fece un movimento grottesco per non perdere l'equilibrio. Tutto il suo corpo s'inarcò, e abbandonò le due valigie. Caddero in acqua, con fracasso. E a questo punto due mitragliatrici cominciarono a sparare sull'uomo inquadrato dai riflettori. «Corri!» urlò il padre. «Corri, Karel, corri!» I proiettili che colpirono il suo corpo lo fecero sobbalzare. Cadde pesantemente in acqua. I mitra continuavano ad abbaiare, le pallottole schiaffeggiavano ora l'acqua, sollevando una pioggia di zampilli, e poi colpirono di nuovo il padre che ora l'acqua sospingeva lentamente, la faccia rivolta all'ingiù. Il primo riflettore seguì il padre, il secondo si sollevò verso l'altra sponda, lungo il margine del bosco ove era disteso Karel. In quello stesso attimo la vita tornò nel ragazzo. Balzò su e partì di corsa. Correva più che poteva sul cuscino d'aghi, veloce come non era mai corso in vita sua. Ince-
spicò in una radice, si rialzò immediatamente per continuare a correre: il suo cuore batteva furiosamente, eppure correva, correva... La luna illuminava il terreno allentato fra gli alberi: chiazze scure, chiazze verdi. Karel procedeva a balzi selvaggi sul tappeto scivoloso degli aghi, sfrecciando a zig-zag fra i tronchi d'albero. Vide un campo. Rovinò a terra due volte, nel correre sul suolo fattosi ora più duro e compatto. Raggiunse un sentiero lungo i bordi del quale c'erano parecchi alberi da frutto. Alle sue spalle, nei pressi del fosso d'acqua, udì confuse voci maschili. Quelle voci lo riportarono in qualche modo alla realtà. Si lasciò cadere sul viottolo polveroso. Guardò ansimante verso la luna. L'astuccio con la tromba era lì accanto a lui. Gli tornò in mente suo padre. L'aveva completamente dimenticato. E gridò, più forte che poteva: «Papà!». E poi ancora: «Papà!». Di nuovo: «Papà!». Nessuna risposta. Un singulto terribile soffocò la voce di Karel. Cominciò a muoversi come una bestia, a quattro zampe, nella polvere, finché ritrovò la voce e fu in grado di urlare di nuovo: «Papà!... Papà!... Papà!...». Si alzò barcollando, portandosi le mani agli occhi, perché sentì che stava per piangere. Tutto gli girava attorno. Pensava sempre e soltanto: Papà è morto. Hanno ucciso papà. Papà è morto. Il mio papà. Lo hanno ucciso. Eppure riprese a gridare con la sua vocina sottile, disperata, di bambino: «Papà! Sono qui, papà! Papà! Vieni papà!». Il padre non rispose. Dall'altra parte c'erano dei cani che abbaiavano e soldati che bestemmiavano. Karel gridò ancora. Poi gli si rovesciò lo stomaco e vomitò sin quasi a soffocarsi. Ora mugolava soltanto: «Papà... papà... papà...». E tacque, di colpo. E se papà non fosse morto? E se avesse raggiunto la terra a nuoto, e ora cercasse il suo Karel da qualche parte, in quel buio tinto di argento? E se non potesse sentire la voce di Karel? Il bambino si alzò di scatto. Gli era venuta un'idea. Se non sentiva la sua voce... avrebbe certamente sentito la tromba, anche di lontano! Anche il papà l'aveva detto: avrebbe suonato una canzone per avvertire la nonna... Se ora Karel si fosse messo a suonare, allora papà l'avrebbe sentito. Doveva sentirlo! Karel si mise a piangere e a ridere contemporaneamente. La testa gli girava al punto che cadde ripetutamente, mentre correva verso l'astuccio nero, abbandonato vicino al sentiero. Lo aprì con le mani che gli tremavano. Ora papà avrebbe potuto raggiungerlo. Se avesse suonato la tromba abbastanza a lungo, papà sarebbe di nuovo tornato da lui. Karel piangeva e rideva e rideva e piange-
va. Con entrambe le mani portò la tromba pesante, dorata, lucente alle labbra. Ma nel farlo perse l'equilibrio e cadde. Si rialzò subito. «Papà...» sussurrò «aspetta papà, aspetta, subito...» Ma cadde a terra un'altra volta. Prima di fare un nuovo tentativo di portarsi la tromba alla bocca, Karel si puntellò per precauzione contro un melo, i cui rami carichi di frutti pendevano sin quasi a terra. Le piccole scarpe si piantarono salde nella terra smossa. Ora Karel era pronto, lo strumento sollevato. E cominciò a suonare. La vecchia canzone risuonò alta e struggente. Non tutte le note che Karel strappava alla tromba erano note giuste e limpide, ma si poteva riconoscere chiaramente la melodia. Strangers in the Night suonò il ragazzo, nella terra di nessuno lungo la frontiera. E pensava: papà mi sentirà. Mi troverà. Non è morto. È stato un trucco, il suo. Papà è furbo. Si è comportato come se fosse stato colpito, e poi si è abbandonato in acqua e ha raggiunto la sponda su questo versante a nuoto. Ma certo, è andata proprio così. Sì, sì, certamente... «Ascolta un po'» disse il sergente Heinz Subireit, che era a bordo d'una jeep delle guardie di frontiera, due chilometri circa dal punto ove era Karel. Pattugliava una strada di campagna e la persona cui si rivolgeva era il suo amico caporale Heinrich Felden. «Strangers in the Night» disse Felden, che era al volante del veicolo. «Dev'essere un pazzo» disse Subireit. «Solo un pazzo può mettersi a suonare qui la tromba.» «... exchanging glances, wond'ring in the night» cantò Felden, a bassa voce. «... what were the chances we'd be sharing love before the night was through» suonava Karel. Vieni, papà. Ti prego, vieni. Ho tanta paura. Papà, ti prego, caro papà... «... something in your eyes was so inviting» cantava il caporale Felden al volante. «Piantala» disse il sergente Subireit. «Spicciati. Laggiù deve essere successo qualcosa. Andiamo a vedere.» «... something in your smile was so exciting» suonava Karel, e grandi lacrime scendevano sulle sue guance da bambino. Papà è vivo. Papà è vivo. Ora verrà qui da me. Ora mi sente. Sì, sì, ora mi sente... «... little did we know that love was just a glance away...» La canzone si alzava dalla tromba, e dalla vecchia terra indifferente, verso il vecchio cie-
lo indifferente con la sua luna e le sue stelle infinitamente lontane e fredde. Volava per la campagna. I soldati che ripescavano il cadavere dal fossato la sentirono proprio come la nonna nella sua piccola cucina. «... a warm embracing dance away, and ever since that night we've been together, lovers at first sight...» La nonna s'inginocchiò davanti alla stufa, con movimenti impacciati, e disse queste parole, giungendo le mani: «Ti ringrazio, buon Dio, per aver salvato mio figlio e il bambino». La melodia che usciva dalla tromba risuonava sempre ancora alta nella notte. La nonna, inginocchiata sul pavimento della cucina, si mise a piangere di gioia. 5 «... e il povero piccolo ha continuato e continuato ancora a suonare la sua canzone, fino a quando i soldati della guardia di frontiera lo hanno trovato» raccontò la signorina Luise Gottschalk. Erano all'incirca le 15 e 30 del 12 novembre 1968. Uno splendido sole autunnale spiccava nel cielo sgombro di nuvole, d'un azzurro profondo. Faceva un caldo stupefacente per la metà di novembre. Fra il melo carico di frutti al confine fra la Baviera e la Cecoslovacchia, fra quella fuga notturna nelle prime ore del 28 agosto, e il luogo e il giorno in cui conobbi la signorina Luise, c'erano più o meno mille chilometri ed erano trascorse esattamente undici settimane. Avevo incontrato la signorina Luise in una zona della Germania settentrionale, completamente isolata, fra Brema e Amburgo: circa due ore prima, subito dopo che eravamo arrivati, il mio amico Bert Engelhardt e io. Engelhardt era un uomo grande e grosso di 56 anni, con occhi e capelli chiari, una faccia rosea da ragazzino e una vita così piena di avventure e di pericoli alle spalle, che non c'era niente, ma proprio niente che potesse più commuovere quell'uomo. Che dico: commuovere? Neanche toccare di lontano! Aveva un gran cuore, un faccione allegro e nervi d'acciaio. È per questo che si manteneva così giovane. Nessuno avrebbe saputo indovinare la sua età. Sorrideva quasi sempre: cordiale, amichevole, premuroso. Sorrideva anche quando era di cattivo umore. Bertie aveva una benda bianca attorno alla fronte. Gli era stata cambiata appena la sera prima. Aveva bisogno di quella benda per proteggere una ferita in fronte. Se l'era procurata 72 ore prima, a Chicago. Bertie faceva il fotoreporter dal 1938. Aveva cominciato alla Berliner Il-
lustrierten. Neanche lui sapeva più quante volte, da allora, era volato attorno al mondo per conferenze politiche sensazionali o sensazionali processi per omicidio; per stelle del cinema, milionari, premi Nobel, malati di lebbra; a Macao, isola di contrabbandieri; nei peggiori dei miserabili quartieri di Calcutta; all'interno, molto all'interno del Tibet, della Cina, del Brasile e del Messico; nelle miniere d'oro del Sudafrica; nell'inferno verde del Borneo; in Antartide, nelle steppe canadesi. E poi le guerre, sempre nuove guerre. Più guerre di quante poteva ricordare, e lo avevano ovviamente sempre mandato lì ove erano più sporche e più sanguinose: e di guerre non c'era stata penuria davvero, da quando Bertie era del mestiere. Era stato insignito di molte decorazioni internazionali, e una mostra delle sue fotografie più belle girava per il mondo, esattamente come per il mondo vagava Bertie. Era stato ferito un paio di volte, leggermente, nel corso delle molte grandi e piccole guerre altrui; ed era stato ferito una volta, gravemente, nel corso della nostra seconda guerra mondiale. Lo avevano colpito alla gamba destra, e da allora Bertie zoppicava leggermente. Io, Walter Roland, avevo appena compiuto i 36 anni allorché ci trovammo invischiati nella storia arruffata e strana, dolce e atroce che sto per riferire. Se Bertie, d'aspetto, appariva più giovane di quanto in realtà non fosse, io sembravo più vecchio della mia età. Eh già, molto più vecchio. Sono alto di statura, rinsecchito. Non avevo il bel colorito fresco di Bertie; il mio era giallognolo allora, e sotto gli occhi scuri, dall'espressione sempre stanca, avevo profonde occhiaie. I miei capelli castani erano già bianchi sulle tempie, e per il resto tutti striati di grigio. Un uomo sempre senza appetito, sempre con una sigaretta appesa all'angolo della bocca, sempre con una smorfia come di schifo sulle labbra, dicevano molti. Può darsi. E del resto è proprio così che mi sentivo: schifato. È così che vivevo. Troppo lavoro, troppe donne, troppe sigarette, troppo alcool. Alcool soprattutto. Da anni ormai non riuscivo a sopravvivere senza whisky. Se non avevo sempre una bottiglia a portata di mano, ero colto dal panico. In viaggio portavo sempre addosso, al fianco, una fiaschetta d'argento. Ogni tanto infatti impallidivo, mi sentivo l'anima scendere nei tacchi ed ero regolarmente colto dalla fifa di lasciarci le penne. Per farla breve, in casi come quelli mi ci volevano un paio di robuste sorsate, e mi rimettevo in carreggiata. Mera illusione alcoolica. Facevo il giornalista. L'inviato di grido del settimanale Blitz. Da quattordici anni. Bertie era già al suo diciottesimo anno. Due assi, lui e io. Non ho nessuna intenzione di darmi delle arie: dico sul serio. E del resto non avrei
nessun motivo di vantarmene. Ma gli assi di quella fogna eravamo noi. Con contratto d'esclusiva. Bertie era il fotografo meglio pagato di tutta la Germania, e io il giornalista meglio pagato. Sapete anche voi cos'è Blitz: uno dei tre più diffusi settimanali della repubblica federale. E inoltre... Ma di questo riparleremo. Non appena mi capiterà l'occasione, ve ne potrò raccontare a bizzeffe. Più tardi però. All'inizio il lavoro era stato assai piacevole, e io non ero ancora alcolizzato e sconciato dalle donne. Poi a Blitz erano avvenuti alcuni cambiamenti. Ed ero cambiato anch'io. Bertie no. Era rimasto sempre lo stesso buon compagno: tranquillo, fidato, buontempone e coraggioso. Solo io, con gli anni, ero diventato un altro. E dal momento che guadagnavo tanto, ero diventato uno snob che si faceva fare su misura i vestiti, le camicie e persino le scarpe; che guidava la più pazza delle automobili; che abitava in una supermansarda di lusso; e che beveva esclusivamente Chivas Regal, il whisky più caro del mondo. E anche le fanciulle dovevano essere sempre di prima scelta, e costare un patrimonio. Negli ultimi anni non avevo fatto altro che rinscimunirmi sempre di più e sempre più furiosamente con le donne, col whisky e con la roulette. E questo accadeva perché in quegli ultimi anni tutto quello che mi toccava scrivere per Blitz mi faceva sempre più nausea: e vi racconterò a suo tempo anche di questo. C'erano momenti in cui non riuscivo più a lavorare: e allora dovevo restarmene a letto, ingoiare una montagna di Valium o di altra roba più forte ancora, per riuscire a dormire un giorno e una notte, due giorni e due notti, e questo perché mi trovavo improvvisamente sfinito da quella orribile sensazione di impotenza, di panico e di abbandono; non riuscivo più a respirare e avevo disturbi di cuore; ero colto da vertigini e non ce la facevo più a concentrarmi; avevo paura insomma: paura, paura. E non so di che cosa. Della morte? Anche, ma non principalmente. Non saprei dire che paura fosse. Forse la conoscete anche voi. Il fegato a pezzi. E altre rogne ancora, naturalmente. Colpa della vita che facevo. E quindi avevo il mio "sciacallo" personale. Chiamavo così quella condizione, poiché a tratti ero come colto dall'impressione che una bestia di quel genere mi girasse attorno, si avvicinasse sempre di più, si piegasse su di me, sino a soffocarmi quasi col fetore infernale del suo fiato. Dopo un paio di giorni, al più, attacchi di quel genere sparivano; allora mi bastava farmi una gran bevuta e tutto tornava a filare via liscio e riuscivo di nuovo a lavorare. Il mio vanto era che sapevo comunque, di notte e
di giorno, lavorare più di tutta l'altra banda di scribacchini messa assieme che c'era li da noi. Solo il giorno in cui non mi fosse più riuscito di farlo, mi sarei deciso a cambiare vita. Ma era soltanto una delle mie tante idee merdose. Andavo dal medico solo quando era indispensabile, perché ormai sapevo a memoria tutto quello che i medici mi avrebbero detto. Mi dicevano di continuare pure così, e non avrei passato la quarantina. Me lo dicevano da molti anni. Gente simpatica, i medici. La sede di Blitz - redazione e tipografia - era a Francoforte. Vi chiederete come mai avevano spedito lassù, a Neurode, in quel deserto, proprio Bertie e me: noi, i meglio pagati di tutta la banda. Una ragione c'era, naturalmente. Quando vi avrò raccontato qualcosa di più sul conto di Blitz, capirete tutto. «... si è difeso come un forsennato, il piccolo Karel» raccontava la signorina Luise. «Non voleva muoversi di lì. Era fermamente convinto che suo padre fosse ancora in vita e che potesse raggiungerlo...» Aveva raccontato a Bertie e a me l'intera storia di quella fuga, seduta nel suo ufficio. Una stanza da lavoro molto grande e molto brutta, in una baracca che ospitava numerosi altri uffici. C'erano una scrivania, un telefono, una macchina da scrivere, sedie, scaffali con raccoglitori di documenti: e c'era anche un fornello elettrico sul quale la signorina aveva messo un pentolino d'acqua perché voleva farci del caffè. («Beviamo un po' di caffè e poi vi presenterò i miei bambini cèchi e racconterò tutto quello che so di loro. Anche quel ragazzo verrà qui subito...») Sul polveroso davanzale della finestra c'erano tre vasi di terracotta, nei quali avvizzivano cactus dall'aria deprimente. Di fronte alla finestra era appeso un grande disegno in bianco e nero. Raffigurava un gran monte fatto solo di ossa e di teschi. Sopra quel tumulo d'orrore si ergeva, nel cielo luminoso, una croce possente. Guardai più da vicino, e lessi, in fondo a destra: GOTTSCHALK 1965. Dunque quel tetro quadro era stato disegnato dalla signorina Luise. Sotto il dipinto c'era una stufa cilindrica con una gran canna fumaria, più volte ripiegata lungo le pareti prima di uscire fuori dalla baracca attraverso il muro perimetrale. Nella stufa non c'era fuoco, eppure faceva un gran caldo lo stesso, quel 12 novembre. «Ha lottato coi soldati, povero Karel...» diceva la signorina Luise. «Con mani e piedi, con unghie e denti. Era proprio fuori di sé.» «Che ne hanno fatto di lui?» chiesi. Mi ero seduto di fronte alla signorina, a cavallo d'una sedia, coi gomiti appoggiati sullo schienale. Lontano, molto lontano, avvertivo lo sciacallo. Nessun motivo di panico. Avevo nel-
la tasca laterale dei calzoni la fiaschetta col Chivas. «I soldati si sono spaventati. Hanno chiesto, via radio, un'ambulanza con un medico. Il medico ha fatto a Karel un'iniezione e il piccolo s'è calmato, tanto che hanno potuto portarlo via di lì.» «Dove lo hanno portato?» chiesi, e sfregai la punta arroventata della mia Gauloise in un portacenere d'alluminio battuto. Fumavo soltanto sigarette francesi, fatte di tabacco nero. Accanto al portacenere, sulla scrivania, c'era uno dei taccuini che avevo sempre con me. Stenografavo bene e velocemente. E anche la mia memoria funzionava ancora. Avevo già riempito molte pagine di appunti, poiché avevo visto un mucchio di cose interessanti lassù. Non mi ero annotato però quello che mi era stato detto a voce: per questo avevo un registratore a cassette che funzionava sia a batteria che collegandolo alla rete di alimentazione elettrica. Mi trascinavo sempre appresso anche quello. Il piccolo apparecchio col piccolo microfono era sulla scrivania, in funzione. Avevo sempre un mucchio di nastri in tasca e mi servivo di quell'apparecchio - o di un altro - per tutte le mie inchieste. Il registratore era in azione sin dal momento in cui avevamo incontrato la signorina Luise. A intervalli, naturalmente. «Dove lo hanno portato? Be', prima qui, poi là, e infine a Monaco. In una clinica. Aveva subito un grave choc. È rimasto all'ospedale per sei settimane, povero piccolo. E poi lo hanno mandato qui da noi, al campo.» «Il che significa che è qui da cinque settimane.» «Si. E ci rimarrà ancora a lungo.» «Quanto a lungo?» «Sino a quando riuscirò a impormi. Non voglio che lo assegnino a un collegio qualsiasi. Stiamo sempre ancora cercando sua madre. Pare che viva qui in Germania occidentale. Altrimenti non ha nessuno, povero Karel. Da quando è qui da noi, parla in continuazione di sua madre. Continuamente.» Seduta accanto al tavolo ingombro, la signorina aggiunse: «Questo nostro mondo è brutto, signori miei. Specialmente per i bambini. È brutto da quando faccio l'assistente. E prima di allora non è stato certo migliore. Per questo ho voluto fare l'assistente sociale. E sapete il perché? Che colpa ne hanno i bambini, se il mondo è così brutto?». «Da quando fa l'assistente sociale?» chiesi. «Dal 1924.» «Cosa?» «Già, da rabbrividire, vero? Quarantaquattro anni! Ho fatto l'assistente per quasi tutta la mia vita, e sempre accanto ai bambini. Ho cominciato che
avevo 18 anni. Erano tempi tremendi allora, subito dopo la grande inflazione. Inizialmente ho lavorato a Vienna. Nel ventesimo distretto. Che miseria! Fame. Niente da mangiare, niente soldi, sporcizia e miseria, tanta miseria. Abbiamo organizzato dei ricoveri per bambini. Sono andata a chiedere l'elemosina negli uffici, per avere soldi per i miei bambini. I piedi piagati avevo, a furia di correre. Ma i tempi non sono diventati migliori. È venuta la crisi economica mondiale del 1929, portando più miseria di prima. In quell'epoca mi hanno...» S'era interrotta di colpo. «Le hanno fatto cosa?» chiesi. «E chi?» «Niente» disse in fretta. «Non importa. Altra miseria, dunque, dopo il 1929! Disoccupati... Pareva quasi che metà Austria fosse senza lavoro, quando è venuto Hitler. Ecco perché ha potuto farcela così facilmente. Perché prometteva pane e lavoro. Giusto?» «Già» dissi io. «E poi, dopo l'avvento di Hitler?» «Sono rimasta assistente sociale, naturalmente! Subito dopo è scoppiata la guerra. Per tutta la guerra non ho fatto altro che occuparmi di poveri bambini abbandonati. Mi sono trasferita con loro in campagna, non appena la guerra s'è fatta più dura. E sono finita proprio nella mia patria. A due passi da Reichenberg! Ma nel 1945, in gennaio, ce ne siamo dovuti andare. Duecentocinquanta bambini e solo tre assistenti. Li ho guidati attraverso la neve e il gelo al sicuro sino a Monaco, alla periferia della città, in un campo di raccolta. Tutti sono riuscita a portarli in salvo, tutti meno tre che mi sono morti congelati, con tutto quel freddo...» Il suo sguardo si perse nel vuoto, triste. «Con tutto quel freddo» ripeté, smarrita. La signorina Gottschalk («Chiamatemi signorina Luise» aveva chiesto non appena l'avevamo incontrata) era di costituzione fisica minuta, e aveva l'aria esausta, distrutta dal lavoro. Ed era molto magra. I suoi capelli bianchi scintillavano addirittura: li portava pettinati all'indietro, raccolti in un nodo sulla nuca. Gli occhi erano grandi e azzurri pieni d'una dolcezza infinita: così come tutto quel suo viso delicato, smunto, pallido, dalle labbra grandi ma esangui. Aveva ancora denti robusti. Indossava, con una gonna grigia, una vecchia maglia di lana marrone, dalla quale spuntava, sul collo, una blusa. Aveva stivaletti ai piedi, per sorreggere meglio le gambe gonfie. («Mi riesce sempre più difficile camminare. Per via dell'acqua che mi si ferma nei piedi. Ma non lo dico per lamentarmi! Non ho fatto altro che correre in vita mia, sempre correre. Hanno camminato tanto i miei piedi...») «E dopo?» chiesi io. Spensi il mozzicone della sigaretta e ne accesi subito un'altra, con un accendisigari d'oro... «Dopo sono venuti gli americani,
vero?» La signorina Luise annuì. «Sì. Ragazzi simpatici. Brava gente. Mi hanno dato cibo, vestiti, carbone e baracche per i miei bambini. Anche i russi però sono gente simpatica!» aggiunse in fretta. «I loro carri armati ci avevano raggiunti e superati durante la grande fuga. I soldati russi ci hanno gettato roba da mangiare e coperte dai loro carri... per i bambini. Hanno trovato per noi anche un paio di carretti con cavalli. Senza la gentilezza di alcuni fra i russi non ce l'avremmo fatta sino al momento di poter approfittare della gentilezza di alcuni fra gli americani. Buffo, vero? Guerra, morte, desolazione, e tanta gente cattiva: ne so qualcosa, io. Ma anche nelle situazioni più disperate i nostri nemici ci hanno aiutati: tutti. Hanno aiutato i miei bambini, anche i russi, nonostante tutto quello che avevano sofferto anche loro. Già...» Sospirò. E il mio registratore continuava a girare, a incidere. «E così dunque ho badato ai miei bambini anche in Baviera, sotto gli americani, sino a quando è venuta la divisione della Germania con il blocco di Berlino, quando è fuggita tutta quella gente, tanta gente, dalla zona orientale. Altri bambini. E mi hanno mandata quassù...» «Cosa? Nel 1948?» dissi, stupefatto, e la sigaretta stava per cadermi di mano. «È qui da vent'anni?» «Da vent'anni, esatto, signore. Un terzo della mia esistenza... Questo era un campo per ragazzi, sa. Fino ai diciotto anni. Come oggi ancora. Non sempre le famiglie potevano fuggire tutti insieme, vero? Solo i bambini a volte, o solo i genitori. A centinaia di migliaia ne sono venuti, a milioni! E tanti di quei ragazzi! Gesù, a volte non sapevamo più dove avevamo la testa. E dopo la sollevazione a Berlino del 17 giugno, nel 1953, non abbiamo avuto neanche più il tempo per dormire... Il campo era pieno, stipato come un uovo, eppure questo è un campo enorme, l'ha visto. Io ho sempre badato ai più piccini... Bambini! Tanti bambini! Si potrebbe popolare una grande città con tutti i bambini che ho sorvegliato e protetto sin dal 1924...» «E non ha ancora finito...» «Continuerò a farlo finché morirò» disse la signorina Luise. «E non importa che bambini sono, che colore ha la loro pelle, di che religione sono e da quale paese provengono. E non m'importa il regime sotto il quale faccio questo lavoro! Ogni regime mi va bene, purché mi lasci coi miei bambini!» Mi rivolse un sorriso incerto. E il suo labbro inferiore tremava un poco. Bertie ci lasciava parlare. Da quando eravamo arrivati, lui lavorava per
conto suo. Aveva portato due macchine fotografiche con sé, una Nikon-F per le inquadrature normali, e una Hasselblad-Dinger dotata di obiettivi straordinariamente sensibili. Anche in quel locale chiuso e con la scarsa luce che c'era, Bertie riusciva a fotografare senza dover ricorrere al flash. E infatti continuava a fotografare la signorina Luise mentre io chiacchieravo con lei! "Human interest": se volevamo che da quella storia saltasse fuori qualcosa di buono, avevamo bisogno di human interest. E quella signorina ce ne offriva, a mucchi. Dissi: «Dopo la costruzione del muro di Berlino però ci deve essere stato un rallentamento. Dopo d'allora ne saranno venuti ben pochi, suppongo». «Non dalla zona orientale» disse la signorina Luise. «Non più. Prima del muro c'erano ventiquattro campi nella repubblica federale. Ora ne sono rimasti solo pochi. Friedland e Zirndorf, nei pressi di Norimberga, e sono i più famosi, riservati agli adulti e alle famiglie. E poi questo qui, a Neurode, per ragazzi e bambini. Oramai siamo diventati internazionali! Ho già detto che il mondo è cattivo. Continua a esserci, ovunque, gente che ha paura: altre guerre, rivoluzioni, dittature e gente che deve fuggire. Vede pure: ora la Cecoslovacchia! E la Germania orientale! E la Grecia!» Sorrise un poco. «Che dico, persino cinque piccoli vietnamiti ho avuto qui, sei mesi fa... No, no, non c'è tregua, non c'è pace, e io devo continuare a preoccuparmi dei miei bambini, poveri piccoli... Negli ultimi mesi, naturalmente, ci hanno mandato soprattutto cèchi...» «Bambini della sua patria.» «Esatto, signore. Abbiamo degli interpreti qui, l'ha visto. Ma coi piccoli ci s'intende anche altrimenti. E poi io parlo il cèco, e per questo lasciano a me tutti i bambini cèchi. Sono io che mi occupo di loro e quindi anche di Karel, naturalmente, poverino...» «È il suo cocco» dissi. «Lo sono tutti per me» disse la signorina Luise. «Tutti allo stesso modo. Karel però... è ancora così spaesato, così spaventato e spaurito, e allora devo dedicarmi a lui in modo particolare...» Karel era li vicino, solo una parete di legno ci divideva da lui. Avevo visto quel ragazzo, e anche Bertie, subito, quand'eravamo entrati nell'ufficio. La porta che dava sul locale accanto era aperta. Quel locale era adattato a stanza di soggiorno, con un grande tappeto a toppe, fatto di avanzi di stoffa coloratissimi, un armadio, uno scaffale di libri, un letto, una lampada a stelo, una radio e - appesi alle pareti - sei quadri dipinti da bambini. La signorina Luise ci aveva spiegato che quella era la sua stanza: abitava lì. E mi
era parso strano. Infatti tutte le altre assistenti del campo erano alloggiate in due grandi baracche, che avevo già visitato e che erano parecchio distanti da lì. Mi proposi di chiedere alla signorina Luise come mai lei abitava da sola. Quando eravamo entrati, Karel era seduto su uno sgabello in mezzo a quella seconda stanza. Il suo bel vestito azzurro era pulito e stirato, la camicia bianca lavata di fresco, la cravatta rossa annodata con garbo. Le sue scarpe brillavano. Karel mi era apparso molto piccolo, magro e pallido. Reggeva sulle ginocchia la lucente tromba da jazz. Stava seduto col viso rivolto verso la parete, ci voltava la schiena ed era stato triste vederlo in quell'assoluta, disperata immobilità. «Perdio, Walter, questo è un bel colpo!» aveva detto Bertie, estasiato, cominciando a predisporre la sua Nikon-F. Karel non si voltò, nel sentire le nostre voci e i nostri passi. Fuori, davanti alla baracca, altri bambini giocavano alla tiepida luce del sole di quel pomeriggio. Ballavano in girotondo, al ritmo della musica trasmessa dagli altoparlanti. Ci avvicinammo a pochi passi da Karel. La signorina Luise ci disse come si chiamava. Karel non ci guardò e non si mosse. Una pattuglia di caccia a reazione sfrecciò a volo radente sul campo. Il baccano era infernale, m'innervosì e inalai bruscamente il fumo della sigaretta. Se c'è qualcosa che odio, è quel rumore pazzesco, oppure - anche peggio - la detonazione che s'avverte non appena i piloti superano la barriera del suono. Lì attorno continuavano a volare degli Starfighter: ogni venti minuti circa passava una squadriglia. Karel non accennò alcuna reazione nemmeno al fracasso prodotto dai reattori degli aerei. Non vidi contrarsi nemmeno le sue membra. Pareva che fosse morto seduto. «Buon giorno, Karel» dissi. Niente. «Capisce molto poco il tedesco» disse la signorina Luise, con tono di scusa, ridicolo e commovente in un tempo. Prese un pezzo di cioccolato e lo offrì al ragazzo. Parlò in cèco con lui, e lui scosse la testa. «Non ne vuole» disse la signorina, sospirando. «E pensare che è cioccolato al latte con nocciole! Di solito gli piace tanto. Ma non è ancora riuscito a superare la sua crisi, continuo a ripeterlo a tutti quanti, quando mi dicono che non debbo riservargli un trattamento speciale, né debbo consentirgli di starsene sempre qui da me, seduto tutto il giorno. Ma è lui che lo desidera! Qui da me non ha paura, dice.»
«Paura di che?» «Paura che gli sparino.» «Chi?» «E come faccio a saperlo? C'è ancora tanta confusione in quel suo piccolo cervello. Ha paura che qualcuno gli spari, così come hanno sparato a suo padre. Qui, dice, qui da me non gli succederà nulla. E così sta sempre qui, io lavoro nella stanza accanto, la porta resta aperta e lui può riprendersi in pace. Solo per mangiare e dormire deve naturalmente andare assieme agli altri bambini cèchi, nelle loro baracche.» La signorina Luise si chinò su Karel. Lui la guardò e sorrise un poco. Era un sorriso terribile, il più triste che io abbia mai visto. La signorina Luise si era messa di nuovo a parlare in cèco. Ci indicò. Karel voltò la testa e squadrò Bertie e me. Il sorriso svanì dal suo viso. E ci voltò le spalle. «Gli ho detto che lor signori sono di un settimanale» dichiarò la signorina Luise. «Di un grande settimanale, e che sono venuti per scrivere, per fotografare e per riferire la storia del nostro campo.» Bertie continuava a scattare come un forsennato. Inquadrava Karel e la sua tromba da tutte le possibili posizioni e angolazioni: riuscì a ritrarlo anche di fronte. Bertie sapeva quello che faceva. Piccoli bambini e piccoli animali, ragazze nude e fotografie di orribili disgrazie: ecco cosa la gente vuol vedere! Ne è eccitata. Ne è commossa. Sex appeal. Human appeal. Mestiere di merda. «Lo è davvero un grande settimanale?» chiese la signorina Luise. «Sì» dissi io. «Quanto grande, prego?» «Tiratura uno virgola nove milioni la settimana» dissi io. Bertie continuava a fotografare il ragazzo. S'era disteso a terra, sul pavimento di legno, con la sua giacca di pelle e i suoi calzoni di velluto a coste, e inquadrava Karel - che pareva non rendersi affatto conto della sua presenza - dal basso. Quando aveva da lavorare, Bertie si vestiva sempre in un modo alquanto trasandato, a meno che non vi fosse obbligo di smoking o di frac. Per il resto, indossava raramente una cravatta, e quasi sempre camicie sportive. Io invece ero tirato a lucido in ogni circostanza. Quel giorno avevo un vestito di mohair marrone, una camicia gialla, una discreta cravatta pop e mocassini marroni di coccodrillo. Avevo lasciato in macchina il mio cappotto di cammello. «Dalle nostre indagini si può dedurre che ogni copia è letta da almeno cinque persone. Fanno dunque all'incirca nove milioni» snocciolai a memoria, come tante altre volte. E fu proprio
allora che la signorina lo fece per la prima volta. Piegò la testa un po' di lato, il suo sguardo si smarrì, guardò oltre la mia spalla e disse, in modo poco chiaro e a mezza voce, come se quello che diceva non fosse diretto a noi: «Venite, voglio mostrarvi la fine della grande meretrice, che sta seduta accanto a molte acque e con la quale hanno fornicato tutti i re e tutti i potenti della terra, tanto da ubriacarsi tutti di vino e delle sue porcate. E così, vero? O no? Che ne dite?». Guardava oltre la mia spalla, tutta tesa, e pareva stare ad ascoltare, con la bocca leggermente schiusa. Mi aveva cacciato in corpo un bello spavento. Dette da lei, erano parole davvero insolite, e per di più insensate, pensai. Chi poteva essere entrato nel locale e trovarsi ora alle mie spalle? Mi girai di scatto. Non era entrato nessuno. Non c'era nessuno dietro di me. Nessuno. Neanche un'ombra. La signorina Luise aveva detto «venite», e quindi si era rivolta a più persone. Una cosa grottesca. Una cosa folle. Parlava a persone che io non vedevo. Che sciocchezze dico?, a persone che non c'erano affatto, naturalmente! La guardai di nuovo. Tenendo sempre la testa un po' piegata, continuava ad ascoltare. E poi disse, piano: «Si azzufferanno coll'agnello. Ma voi dite che l'agnello li vincerà tutti. Che ne siete assolutamente certi!». «Chi è assolutamente certo?» chiesi io, ad alta voce. Il suo sguardo si schiarì di colpo, e mi guardò come se si fosse appena svegliata. Chiese, lentamente: «Assolutamente certo? E di che cosa?». «Dell'agnello» dissi io. «Quale agnello?» «Sono io che lo chiedo a lei! Lei ha parlato di un agnello! E di altre cose ancora. È lei che ha detto...» La signorina fece un passo avanti e m'interruppe, mentre il suo viso pallido arrossiva violentemente. «Io non ho detto niente!» «Ma sì!» «No!» gridò agitata e, contemporaneamente - almeno così mi parve -, molto imbarazzata e impaurita. «L'ho sentito anch'io» disse Bertie, che era ancora disteso a terra per fotografare. Parlò sorridendo, con tono gentile e spassionato. Era talmente concentrato su Karel, da non aver notato il mutamento avvenuto nella signorina, né compreso il senso di quelle sue singolari parole. «Devono aver sentito male tutti e due» disse la signorina Luise. «Gli
uomini possono sentire solo le cose di questa terra. Per favore, vengano ora di là in ufficio, dobbiamo lasciare il ragazzo in pace. E prima di proseguire il giro attraverso il campo, farò un caffè e racconterò tutto quello che gli è capitato, a quel povero piccolo.» Si avviò per precederci, impacciata sulle sue gambe gonfie. Bertie si alzò davanti al sempre immobile Karel. Ci guardammo l'un l'altro, sopra la testa del ragazzo. Bertie lanciò un'occhiata sorridente verso la signorina e si picchiò coll'indice sulla tempia. Ma in quel momento ebbi la sensazione precisa e assolutamente chiara che non era affatto così semplice spiegare l'atteggiamento di Luise Gottschalk. A quella non mancava soltanto una rotella. C'era dell'altro, di ben diverso. Dovevo il mio super-ricompensato lavoro, fra l'altro, anche al fatto di saper scrivere come Blitz richiedeva. Ma anche, e in egual misura, a una mia sensibilità speciale per le cose e per le persone. E lo avvertii subito chiaramente: quello era l'inizio di una traccia che si perdeva ancora nel buio, ma che conduceva - ne ebbi la sensazione esatta - a qualcosa di grande, di singolare, di inaudito. Contemporaneamente cominciò a girarmi la testa. Era il mio sciacallo che tornava a farsi vivo. Avvertii un principio di nausea. Tirai fuori alla svelta la fiaschetta piatta, svitai il tappo e ingoiai un sorso di Chivas. E poi, per sicurezza, anche un secondo. «Finirai coll'accopparti con quella roba» disse Bertie. «Ma sì, ma sì» dissi io, tirando una boccata di Gauloise. Lo sciacallo era sparito. Sparito anche il mio senso di nausea. Sparito il capogiro. «Allora, signori, cosa c'è? Non vengono?» chiamò la signorina Luise dalla stanza accanto. «Certo, certo, naturalmente» disse Bertie. E andò di là da lei. Io mi voltai e fissai l'armadio al quale la signorina aveva parlato come se vi fossero state davanti più persone. Era un armadio molto brutto, di poco prezzo, fatto di assicelle di legno impiallacciate, chiare, neanche laccate. Difficile immaginare un armadio più brutto e scadente di quello. Un armadio, e basta. E io me ne stavo lì e lo fissavo come uno scemo. Già, questo fu l'inizio. Fu così che cominciò quella che poi, rapidamente, molto rapidamente, doveva diventare la storia della mia vita, il più straordinario dei colpi giornalistici che mi fosse mai capitato: un letamaio di menzogne e di inganni, con delinquenti e traditori disposti a tutto; con idealisti, bugiardi, farabutti e volgari assassini; con autorità accondiscendenti e falsi testimoni; un letamaio di smisurate ingiustizie e di delitti compiuti nei modi più crudeli; di furti materiali e ideali; di deliberato e raffinato rinscimunimento della gente, di consapevole inganno del pubblico; di ricatti infami e di titanici pro-
getti che - portati avanti senza riguardo alcuno e quindi tali da evocare necessariamente la malasorte - crollarono rovinosamente addosso a coloro che li avevano concepiti. Appunto, cominciò proprio così. Da un armadio fatto d'assicelle di legno, squallido e nemmeno laccato. 6 Nel suo ufficio, la signorina Luise ci narrò la storia di Karel. Fuori gli altoparlanti continuavano a diffondere musica radiofonica, e quando lei ebbe finito, il sole pomeridiano illuminava d'una luce cruda il locale polveroso. I capelli della signorina Luise parevano argento puro finemente lavorato. Voci di bambini che giocavano e voci di ragazzi che discutevano giungevano fino a noi. Parlavano in molte lingue. Mi venne in mente una cosa. «Signorina Gottschalk...» «Luise» disse, con tono di preghiera. «Signorina Luise. È così che tutti mi si rivolgono.» «Signorina Luise, le altre assistenti abitano tutte laggiù, in fondo, in quelle due baracche bianche, è vero?» «Già, capisco cosa vuol dire. Infatti le altre assistenti non mi vogliono molto bene. C'è molta gente qui che non mi può soffrire.» E aggiunse, con tono di sfida: «E io non posso soffrire loro!». «Proprio nessuno?» «La maggior parte. Ad alcuni voglio bene, perché sono persone così buone! Il signor Kuschke, per esempio: il conducente dell'autobus del campo. E il signor dottor Schiemann: il nostro medico. E il signor pastore Demel: il parroco protestante. E il reverendo Hinkel: il parroco cattolico. A tutti questi voglio bene! E specialmente al signor pastore. Forse perché sono protestante. Ma no,» aggiunse in fretta «non per questo. Perché è una persona tanto gentile e buona. Anche il reverendo è una brava persona. Però ho più contatti con il signor pastore.» «Lei ama tanto i bambini, vero?» intervenne Bertie. La signorina annuì, raggiante. «I bambini, oh sì, naturalmente! Sono l'unica fonte di gioia che ho, la ragione della mia vita... I bambini non sono ancora così malvagi come gli adulti...» «È vissuta sempre qui da sola, perché non riesce ad andare d'accordo con le altre assistenti?» chiese Bertie.
Sul volto della signorina Luise apparve un'espressione angosciata. «Inizialmente» rispose «abitavo insieme a loro, nelle loro baracche. Avevo una mia stanza, questo sì. E non mi occupavo di quelle donne: le ignoravo, ecco. Vent'anni sono stata di là con loro. Venti anni! Fino a cinque settimane fa.» «Cinque settimane?» «Sì» disse. «Fino a quando è venuto Karel. Da quel giorno mi sono trasferita e ho sistemato la mia stanza qui.» «Perché?» chiese Bertie. «Perché...» La signorina s'interruppe. «Ah, ci sono state delle chiacchiere e poi una gran baruffa e... Ma non credo che questo possa interessare.» «E invece sì» dissi io. «Sì!» La signorina Luise si mise a parlare a scatti. «E va bene. Dunque. Le altre assistenti si sono lamentate di me.» «Lamentate?» «Sì. Hanno detto che io... che io... sono buffa.» «Buffa?» «Non buffa nel senso di allegra! No. Nell'altro... di... strana, insomma. Lo dicono loro. Specialmente la Hitzinger. La Hitzinger non mi può soffrire. È un essere malvagio. Spesso cattiva coi bambini. Quante volte mi ci son dovuta arrabbiare! Una come quella non avrebbe mai dovuto fare l'assistente! Ma la Hitzinger me le ha montate tutte contro...» le sue parole s'eran fatte precipitose «...le ha istigate al punto che ora nessuna mi vuole più.» Si piegò oltre la scrivania, con fare confidenziale. «Mi crede se le dico che c'è un complotto vero e proprio contro di me?» «E perché mai?» chiese Bertie. «Vogliano sbarazzarsi di me» disse la signorina, e la sua voce era bassa e preoccupata. «Vogliono che me vada. Lontana dai miei bambini! Ma riesce a immaginarselo? Dove vogliono che vada, senza i bambini?» «Ci sarà pure un motivo, signorina Luise.» «Oh certo, la Hitzinger e le sue bugie! Continua a raccontare bugie su di me! Volgarità! Apprese da quella sua amica, la Reiter. Ora non è più qui, la Reiter. Ma la Hitzinger! E ora vogliono togliermi di mezzo. Tutti! Persino il dottor Schall, il direttore del campo! Vogliono mandarmi in pensione. Ma se ho appena 62 anni!» «Non capisco» dissi. «Qual è stata la ragione...» La signorina Luise non mi stava ad ascoltare: si passò una mano sugli occhi e deglutì a fatica.
«Non riesco più nemmeno a dormire dalla paura che ho! Mi sento male, tutte le mattine! Tremo sempre all'idea che mi arrivi quella lettera, nella busta azzurra... E nessuno mi aiuta! Nessuno! Sono assolutamente sola. E tutti contro di me...» Leggero inizialmente, poi man mano sempre più forte, risuonò il fischio acuto e lacerante di un'altra squadriglia di caccia a reazione. Il fischio si trasformò in un baccano spaventoso. I vetri delle finestre tremavano. Pensai che gli apparecchi sarebbero sfrecciati direttamente sopra le baracche, e subito dopo infatti li vidi, attraverso la finestra. Socchiusi gli occhi. Mi lacrimavano perché fissavo verso la luce del sole e perché il fumo della sigaretta me li aveva irritati, ma scorsi i tre Starfighter che erano passati su di noi, a bassissima quota, e che ora si alzavano compiendo una larga conversione a destra, puntando contro il cielo sgombro di nubi. Mi ero messo a sacramentare, nel momento in cui non si poteva sentire una parola. Poi dissi, innervosito, alla signorina Luise: «Ma come fa a resistere!». «Non li sento nemmeno più» rispose. «Oltre la palude, dall'altra parte, c'è una base aerea della Bundeswehr. Fanno sempre esercitazioni quando il tempo è così bello.» Mi fissò con uno sguardo serio: «Le ho detto che nessuno mi aiuta». «Ho sentito.» «Proprio nessuno.» C'era un'idea che le frullava per la testa. «Però un uomo come lei, signor Roland, ha certamente tante relazioni e conoscenze.» «In che senso, scusi?» «Be', lei lavora per una grande casa editrice. Ha scritto anche due libri: il pastore Demel me lo ha detto ieri, quando lei ha telefonato per avvisare che sarebbe venuto.» «Libri scritti dieci anni fa» dissi bruscamente. «Porcherie. Tutti e due.» «Al signor pastore sono piaciuti» insistette la signorina. «A me non avanza molto tempo per leggere, e poi gli occhi mi bruciano sempre... Però il signor pastore ha detto...» «La smetta!» dissi con forza: ed eccolo riapparire, ancora lontano, quel maledetto sciacallo. «Io non voglio sapere quello che dice il suo signor pastore. Quei libri sono delle porcherie, punto e basta!» «Perché si è incattivito così, tutto d'un colpo?» La signorina Luise mi guardava, spaventata. Cercai di controllarmi. L'accenno a quei due libri, che avevo scritto pri-
ma di mettermi a lavorare per Blitz, aveva richiamato alla mia memoria quei tempi e... e tutto quello che era poi seguito. Bertie capì subito e mi guardò preoccupato. Ora non sorrideva più. Feci un sorriso storto e dissi: «Mi scusi, signorina Luise, non volevo essere scortese. Il fatto è che in questo momento...». Era più forte di me. «... non mi sento molto bene... mi dispiace...» Allungai la mano verso la fiaschetta, la tirai fuori, svitai il tappo, e sorrisi alla signorina, sempre ancora spaventata e ora anche stupita. E chi se ne frega! Lo sciacallo era là. Dovevo poter lavorare in pace. Quell'accenno ai libri mi aveva maledettamente scosso. Quegli anni. Tutti quegli anni. Tanti di quegli anni sciupati... Merda! Buttai giù una gran sorsata. «Ho qualche problema con lo stomaco» dichiarai, dopo aver bevuto. Ma i pensieri della signorina correvano per conto loro, era prigioniera della sua idea fissa. Era tutta di nuovo presa dalla sua preoccupazione: «Sono contenta che non ce l'abbia con me, signor Roland. E anche lei, signor Engelhardt, anche lei conosce certamente tanta gente! Gente importante! Gente ricca! I ricchi sono così potenti! Forse alcuni di quei signori ricchi possono aiutarmi. Io devo poter restare coi miei bambini!». Bertie sorrideva, imbarazzato, e scuoteva la testa dai capelli chiari e scomposti sopra la benda bianca. Io dissi: «Signorina Luise, noi siamo solo due reporter...». «Reporter famosi!» «... noi andiamo dove ci mandano gli altri» continuai, senza badare all'interruzione. «Fotografiamo e scriviamo quello che ci chiedono. Sì, è vero, conosciamo molta gente, anche famosa, ricca: ma è gente che non farebbe niente per noi. Noi siamo al loro servizio, non viceversa. Andiamo, a volte voliamo lì dove ci spediscono. Siamo venuti qui, a Neurode, in questo campo per ragazzi profughi, solo perché ci hanno mandati. Temo quindi che non potremo fare niente per lei. Non possiamo esserle d'aiuto. Noi...» Mi resi conto di aver sempre ancora la fiaschetta in mano e che la signorina la fissava; dissi, un po' interdetto: «Posso offrirgliene un goccio? Nel caffè forse?». «Cos'è, cognac?» «No, whisky.» «Uh! Ne ho bevuto una volta. Per sbaglio. Sa di farmacia!» La signorina rabbrividì. «No, no, grazie, signor Roland. A proposito di caffè... Che suc-
cede all'acqua? Dovrebbe già bollire...» Si alzò e si avvicinò al pentolino che aveva messo sul fornello. Aggrottò la fronte. E infilò, con precauzione, un dito nell'acqua. Proruppe in un grido improvviso: «Fredda! Gelida!». Sollevò il pentolino e passò una mano sulla piastra. «Fredda! Questa piastra non funziona!» Bertie aveva impugnato di nuovo la sua Nikon-F, ma lei non se ne accorse. Urlava, fuori di sé: «Ecco, guardino! Per forza l'acqua non si riscalda! La spirale è stata strappata!». Bertie scattava un fotogramma dietro l'altro. «Una di quelle lì è venuta di nuovo a prendersi il mio fornello! Senza alcun rispetto! Sanno quanto ho bisogno del mio caffè! Abitare con me non vogliono... però vogliono il mio fornello! Ah no, perdiana, non sono più disposta a tollerarlo! Questa è un'infamia! Lo dirò immediatamente al direttore del campo!» Ed a questo punto accadde di nuovo inaspettatamente, da un momento all'altro. Questa volta Bertie reagì con prontezza e continuò a fotografare la signorina che s'era interrotta di colpo nella sua sfuriata: aveva piegato leggermente la testa e guardava oltre la mia spalla, con quello sguardo stranamente perso. Sembrava che ascoltasse qualcuno, a bocca aperta: tre secondi, quattro. Bertie scattava, e sorrideva pacifico. Lei non se ne rendeva conto, esattamente come se non se ne era reso conto Karel prima, quando Bertie s'era dato da fare attorno a lui. Stava lì, immobile, e ascoltava una voce indistinguibile. Mi girai di scatto. Dietro di me c'erano solo quel quadro tetro, con la montagna d'ossa e la croce, e il tubo della stufa: nient'altro. Nessuno. Mi voltai di nuovo verso di lei, e la signorina si mise a parlare al quadro, a tono basso e non chiaramente intellegibile: «Con umiltà, d'accordo. E con calma. Va bene. Anche quella volta i tuoi uomini ci regalarono pane e strutto, lo so, certo che lo ricordo. E i tuoi uomini quelle buone razioni militari. Il vostro era un esercito così ricco, mentre i russi erano tanto poveri, non avevano abbastanza da mangiare nemmeno per loro, eppure... Sì, e le coperte. Benché facesse così freddo. C'era quella terribile tempesta, me ne rammento perfettamente». Anche Bertie ne fu scosso stavolta. Pur continuando a lavorare, smise di sorridere. Io mi alzai. Era un errore affrontare così l'anziana donna, ma in quel momento non pensavo: agivo soltanto d'istinto. Spensi la sigaretta nel portacenere e dissi a voce molto alta: «Signorina Luise!». Vidi un lampo negli occhi di lei. Si accorse che Bertie l'aveva fotografata e si abbandonò sulla sedia. «Non ha diritto di farlo, signore! Mi dia quella pellicola!» «Mi dispiace, ma...»
«La prego!» «No!» dissi, bruscamente. «Non prima che lei ci abbia detto con chi sta parlando e cosa significa tutto questo.» La signorina Luise sprofondò la testa fra le mani. Bertie l'inquadrò di nuovo. Non si muoveva. Dopo una pausa soltanto mormorò: «Se adesso saltano fuori anche fotografie mentre io... allora è finita, allora è proprio finita». In quell'attimo, si levò dalla stanza accanto un urlo. Un urlo orribile, tormentoso, lungo. Non aveva niente d'umano: sembrava quello d'un animale che, per una ferita improvvisa, fosse sul punto di morire. La signorina Luise dimenticò tutto quello che l'aveva tanto agitata. Dimenticò le sue gambe gonfie. Si precipitò verso la porta della sua stanza e la spalancò con uno strattone. Entrò di corsa. E noi dietro. Nella stanza c'era solo il piccolo Karel. I suoi occhi erano enormi, spalancati; il suo viso distorto e bianco come gesso. La saliva gli colava dalla bocca. Gridò di nuovo come una bestia ferita, e poi ancora. «Formidabile, assolutamente formidabile» disse Bertie, sorridendo entusiasta accanto a me. Aveva la Nikon-F incollata all'occhio e scattava continuamente. Karel urlava, urlava... La signorina si gettò su di lui e disse qualcosa in cèco. Lui replicò gridando: parole smozzicate, brandelli di frasi, sempre in cèco. Indicò la finestra. I suoi occhi si rovesciarono, si scorgeva solo il bianco. La tromba che si stringeva addosso rotolò sul pavimento. Karel si portò le mani alla gola, perse l'equilibrio e cadde poi a terra come un sasso. E lì restò disteso, immobile, con le membra scomposte. «La canzone!» gridava intanto la signorina. E così anche Bertie e io capimmo, anche noi sentimmo la melodia di Strangers in the Night trasmessa, fuori, dagli altoparlanti. L'a-solo della tromba si levò lento e malinconico. «Ha sentito la sua canzone!» mormorava la signorina Luise. «La sua canzone! Ha pensato di essere di nuovo... e che quelli venissero per ucciderlo... Ma cos'ha?... Che gli è successo?» Accorsi vicino al ragazzo, m'inginocchiai accanto e lui e lo esaminai in fretta. «È svenuto» dissi poi. «Sul letto!» esclamò la signorina. «Per favore, signori, lo mettano sul letto. Vado a chiamare il dottor Schiemann...» Si avviò tutta agitata nella stanza attigua, nel suo ufficio. Stavo per sollevare Karel.
«Un momento» disse Bertie, sorridendo pacifico. «Scostati. Voglio ritrarlo ancora un paio di volte, così a terra. Aspetta, prendo una pellicola a colori. Potrebbe saltarne fuori persino una copertina. Questo sì che è un colpo!...» Infilò la pellicola nella Hasselblad, mentre sentivo la signorina telefonare dalla stanza accanto. «Staccate quella musica!» urlava all'apparecchio. «Smettetela!... Vi sto dicendo che dovete staccarla! Ve lo spiegherò dopo! No, è indispensabile!... Grazie...» La musica s'interruppe, di colpo. Nel frattempo Bertie continuava a fotografare, a colori e da diverse angolazioni, lo svenuto Karel; e poi ancora in bianco e nero con la Nikon-F. Aveva ragione: quella scena era sensazionale. Bertie aveva anche spostato la tromba in modo da poterla inquadrare a effetto. Immagini formidabili. Autentici strappalacrime. Non bisognava dimenticare il motivo per il quale eravamo lì... Il pasto delle masse. Delle donne soprattutto. «Che colpo, ragazzo mio, che colpo!» mormorava Bertie. «Ho quasi finito, poi distendo il ragazzo sul letto e apro la finestra. È solo uno svenimento da poro, niente di grave.» Bertie era l'uomo più mite del mondo, ma quando c'era di mezzo il suo lavoro diventava d'una mancanza di sensibilità e di tatto senza pari. Poi ritornava a essere se stesso. Lo vidi infatti sollevare Karel con precauzione e deporlo con delicatezza sul letto. Accanto al letto c'era un tavolino, sistemato sotto una lampada. Sul tavolino c'era una sveglia; notai anche un tubetto di sonnifero e un libro aperto. Mentre distendevamo Karel in modo che tenesse la testa piegata di lato (perché non gli si rovesciasse la lingua), gettai una occhiata alla pagina aperta del libro: c'era una frase sottolineata in rosso. Chiusi il libro, tenendovi infilato un dito. Shakespeare. Opera omnia. Terzo volume. Dunque qualcosa leggeva, la signorina. Nonostante i suoi occhi malandati.., Riaprii la pagina che era stata sottolineata. La tempesta. Quarto atto. Scena prima. Parla Prospero: «... La festa è finita. I nostri attori, come vi ho detto, erano solo fantasmi, e si sono sfatti nell'aria, nell'aria sottile...». Non riuscii a continuare a leggere, perché la voce della signorina risuonò dietro di me: «Come sta?». Feci scivolare il libro sul tavolino, con un gesto il più naturale possibile. «Niente di grave. Si riprenderà subito...» Aprii la finestra. Bertie svolse una coperta di lana che era arrotolata, ai piedi del letto, e la
distese sul ragazzo. «Dov'è il dottore?» chiesi. «Dalla Panagiotopulos. Una greca.» «Cos'ha?» «Sta per partorire. Un parto prematuro. Troppo prematuro! Speriamo che vada tutto bene.» Karel si mosse leggermente, con un lamento. La signorina Luise si sedette sul bordo del letto, accarezzò il suo viso smunto e cominciò a parlargli amorevolmente in cèco. Lui annui debolmente e poi chiuse di nuovo gli occhi. «L'aria fresca gli ha fatto bene» disse la signorina. «Nascono molti bambini qui da voi?» chiesi io. «Se sapesse quanti ne sono nati, negli ultimi vent'anni! Certe ragazze vengono che sono già al nono mese.» Il telefono squillò. La signorina Luise si precipitò in ufficio. Io la seguii. Bertie rimase accanto a Karel. Aveva di nuovo spalancato gli occhi: enormi. Il ragazzo tremava. E Bertie aveva di nuovo trovato da lavorare... Quando entrai nell'ufficio, la signorina stava già parlando. «Centralino?... Cosa c'è?... Ah, telegramma per la Hromatka...» Ascoltavo, molto teso. Continuava a crescere in me la sensazione di essere capitato in un altro mondo. Ed era una sensazione che, in seguito, avrei dovuto avvertire anche più netta: oh, mille, mille volte di più. Un altro mondo. Un mondo diverso... «Com'è arrivato stavolta?... Da Pilsen, via Lipsia eh... Bene, ho capito» diceva la signorina, e la sua voce aveva ora un'intonazione piena di rabbia. «Sentiamo allora: chi sta morendo?... Ah, la madre... Però... Non dica nulla alla Hromatka, mi raccomando. Sa come sono questi cattolici... D'accordo, e allora se ne occupi lei. Grazie.» E riagganciò. Chiesi, perplesso: «Che madre sta morendo?». «Probabilmente nessuna» disse la signorina Luise. «Però al telefono...» La signorina spiegò: «Continuano a spedire ai nostri ragazzi telegrammi con notizie false. Un vecchio trucco. Quelli della Germania orientale hanno cominciato, e gli altri paesi si sono subito impadroniti della tecnica». «Quale tecnica?» «Quella dei telegrammi falsi! Che i figli tornino subito a casa! Immediatamente. Perché c'è qualcuno che sta per morire. La madre. La zia. La so-
rella maggiore. Il fratello.» «O il padre» dissi io. «No, quello mai!» disse la signorina. «È appunto il padre che cercano di intrappolare in questa maniera.» «Non capisco.» «È semplicissimo! Il padre è quasi sempre il primo che fugge, poi vengono i figli e infine la madre. Quando la famiglia è numerosa, non si può fuggire tutti insieme. Ma a parte questo, i telegrammi li spediscono sempre a quelli che sono figli di medici, o...» «... per vie traverse...» «... di scienziati, di uomini politici e così via. Una volta davamo i telegrammi ai ragazzi, subito. Ed era un errore grave. Fonte di continue tragedie. Adesso prima accertiamo se è vero quello che il telegramma dice.» «E come potete stabilirlo?» «Le Chiese collaborano ancora, almeno quelle. Dappertutto. Hanno la loro gente. E possibilità di comunicare e di verificare, in fretta. Nei primi tempi, quando davamo subito i telegrammi, i ragazzi non riuscivano a resistere il tempo necessario per le verifiche. Fuggivano anche di qui e in men che non si dica erano già di nuovo nel loro paese. Dove li mettevano dentro. Cosa vuole che potessero fare i padri allora? Naturalmente tornavano di là anche loro.» «Bei sistemi!» «Già» disse la signorina. «È una cosa orribile... D'altra parte... Sa, è da molto tempo ormai che mi astengo da ogni forma di giudizio. Sento solo il dovere di proteggere i bambini. I bambini sono innocenti: qualsiasi cosa gli adulti facciano, i bambini non ne devono soffrire!» Le ultime parole della signorina Luise furono soffocate da un improvviso, forte chiasso che veniva da fuori. «E adesso cosa succede?!» Accorremmo alla finestra. La signorina Luise la spalancò con un gesto deciso. In lontananza, in fondo all'enorme campo, alla luce del sole calante, vidi parecchie persone: bambini, ragazzi, adulti. C'erano alcuni degli agenti addetti alla sorveglianza del campo (tutti uomini anziani, in una grigia uniforme), un uomo giovane e slanciato, un omaccione in tuta, un uomo grasso e tremolante con un cappotto grigio e una ragazza dai capelli neri. I bambini strillavano e gli uomini imprecavano. L'omone in tuta aveva strappato il manganello di mano a un guardiano dall'aria irresoluta, e se ne serviva per malmenare l'individuo dall'aria flaccida. La ragazza strillava
come una ossessa, ma non riuscivo a capire cosa. Bertie attraversò l'ufficio di corsa, zoppicando. «Ma questo è un manicomio!» gridò, esultante. Subito dopo lo vidi correre fuori, lungo le stradine asfaltate e i piazzali coperti di erbacce scure, un apparecchio fotografico in mano. La voce della signorina Luise s'incrinò quando prese a gridare: «Indigo!». E poi ancora: «Indigo!... Irina Indigo!». La ragazza si chiamava evidentemente Indigo, perché guardò verso di noi. «Venga subito qui!» gridò la signorina. «No!» gridò la ragazza. «No! Voglio andarmene di qui! Voglio andarmene di qui!» E tentò di correre via. «Pastore Demel!» gridò la signorina. L'uomo giovane, che indossava un abito nero, afferrò per un braccio la Indigo. Il grassone intanto era riuscito a rialzarsi e tentava di liberarsi. Colpì l'uomo in tuta con un calcio nel ventre, si voltò per un tentativo disperato di raggiungere l'uscita del campo. Spinse da parte due guardiani, colpì un terzo con un pugno in faccia. Pensavo già che ce l'avrebbe fatta, quando il gigante in tuta gli fu addosso, alle spalle, e gli appioppò un altro colpo di randello sul cranio. Il sacco di lardo crollò a terra. L'uomo in tuta lo costrinse a rialzarsi, con uno strattone. «Signor Kuschke!» strepitò la signorina Luise. L'omone in tuta si volse verso di noi. E vociò, con marcato accento berlinese: «Tutto a posto, signorina Luise! Tutto a posto!». Lui e un guardiano trattenevano il sacco di lardo che bestemmiava a gran voce e soffriva palesemente per la botta presa. Per ridurlo alla impotenza tuttavia, Kuschke dovette afferrarlo meglio, perché quello continuava a divincolarsi e a tentare di svignarsela. «Conduca qui subito la Indigo, signor pastore» gridò la signorina Luise. «E anche quell'uomo!» «Non voglio! Non voglio!» strillava la ragazza. Il pastore - quello che la signorina aveva indicato prima come uno dei suoi amici e come una "brava" persona - condusse la ragazza recalcitrante verso la nostra baracca. Kuschke, l'autista berlinese, anche lui amico della signorina e da lei catalogato fra le "brave" persone, aveva intanto afferrato l'uomo flaccido per il colletto e gli aveva anche torto un braccio dietro la schiena. Bastava guardarlo, il grassone, per comprendere che non stava
molto bene in quella posizione. L'intero gruppo si avvicinò in fretta. E Bertie saltabeccava con la sua gamba zoppa in mezzo alla gente, ora di qua, ora dall'altro lato, la macchina fotografica alzata: e scattava, scattava... 7 Francoforte. Kassel. Göttingen. Hannover. Brema. Quattrocentosessantasei chilometri d'autostrada. Una bazzecola per la mia macchina. Una Lamborghini 400 GT bianca. Dodici cilindri a V. 3930 cc di cilindrata. Rapporto di compressione 9:1. Potenza: 330 cavalli a 6500 giri di motore al minuto. Doppia carburazione. Serbatoio da 80 litri. Velocità massima: 250 chilometri all'ora. Due posti. Ve l'ho pur detto che ero uno snob. Bertie e io eravamo partiti quella mattina, alle 7, da Francoforte. Lui, come sempre, aveva preso con sé solo una sacca; io una grande valigia, e avevo appeso i vestiti, sistemati per benino sulle loro grucce, al finestrino posteriore della vettura. Non sapevamo quanto tempo saremmo rimasti via, né dove ci saremmo andati a cacciare. Di conseguenza avevo stivato nel portabagagli anche tre grandi bottiglie di Chivas, e riempito la borraccia. Quando entrammo in autostrada, lasciandoci finalmente alle spalle la Francoforte caotica e sconvolta dagli scavi, c'era ancora foschia fitta, e dovetti procedere con cautela. Alle 8 e 30 l'orizzonte s'era schiarito, splendeva il sole e io pigiavo sull'acceleratore. Eppure arrivammo solo alle 12 e 30 al nostro albergo di Brema. Il Park-Hotel, naturalmente. In attesa di qualcosa di meglio. Le ragazze della segreteria di redazione sapevano cosa prenotare per me. Sempre il meglio del meglio. Ero riuscito a convincere l'editore, dopo lunghe battaglie, che scrivevo al massimo delle mie possibilità solo se circondato dal miglior lusso disponibile. Specialmente se mi toccava di scrivere di miserie umane e di umana degradazione. Il che noi due speravamo appunto di trovare a Neurode. È per un servizio sulla miseria e sulla degradazione che ci avevano spediti lassù. Umane tragedie e sofferenze umane si vendono benissimo. In quel caso particolare poi, l'editore Herford perseguiva anche un altro scopo, e di conseguenza eravamo stati scelti noi due, gli assi, per la spedizione a Neurode. Al Park-Hotel non ci fermammo molto. Solo il tempo di trangugiare qualche sandwich, issati sugli sgabelli del bar, e poi proseguimmo verso nord. Volevamo sfruttare la luce del giorno per le fotografie. E poi c'era
qualcosa che mi diceva di procedere in fretta. E questo "qualcosa" aveva sempre ragione, quando me lo sentivo dentro. Fino a Brema, Bertie aveva dormito: era tornato appena il giorno prima da oltre Atlantico. L'avevo lasciato dormire. Era curioso: al volante della mia macchina mi sentivo sempre benissimo. Non ero mai giù di corda. Ero felice. E infatti fino a Brema non avevo buttato giù neanche un goccio. All'albergo però mi feci due doppi. Ma, a pensarci bene, solo perché mi sentivo a posto: per nessun altro motivo. M'infilai in un'altra autostrada che da occidente porta in direzione di Amburgo. Il sole picchiava e, a un certo punto, il caldo fu tale da consentirmi di aprire la capote. Proseguii fino allo svincolo di Bockel, e di li fino a Zeven, passando per Weldorf e Bruttendorf. Le case dei vari centri abitati erano disposte lungo la strada: edifici costruiti tutti con la stessa tecnica, i tetti ricoperti di tegole rosse, le cornici delle finestre e delle porte dipinte di bianco. Anche le travi che sporgevano dai muri erano bianche. Dopo Zeven, la strada divenne impossibile. Non m'era mai capitato di trovare un tracciato così merdoso. Niente banchine laterali, una buca dopo l'altra, curve da impegnare tutto il gioco del volante. E diventava sempre peggio. Ormai era solo una mulattiera. Ogni duecento metri s'apriva, a destra o a sinistra, fra i cespugli, una piazzuola, per consentire l'eventuale incrocio di autoveicoli. Ma non ne incontrai. I villaggi si fecero man mano più piccoli e squallidi. A volte consistevano solo d'una dozzina di case. Lungo la strada, solo arbusti di ginestre e altra robaccia dall'aspetto pungente, e poi salici, brutti e contorti. Più in là, sulla sinistra, altri cespugli e canneti. Vasti canneti. Molti cespugli. Circa mezzo chilometro dopo cominciava una palude che pareva senza fine. Superfici smisurate coperte d'erica. Tutto il resto era già sfiorito e marcio. In molti punti si scorgeva l'acqua, stagnante e nera. Il paesaggio si faceva sempre più triste. In mezzo alla palude scorgemmo montagnole di torba da poco estratta e accatastata un po' ovunque: tutt'attorno betulle bianco-nere e nude, ontani scuri, salici contorti. Quindi tre villaggi. Che dico villaggi: manciate di case! Uno più piccolo dell'altro. Chiesa. Bottega. Osteria. Fine. E subito dopo riprendeva il deserto del paesaggio palustre. Dovetti ridurre la velocità sino ai quindici chilometri all'ora, la macchina ormai sobbalzava soltanto da una buca all'altra. «Quella roba spinosa è ginepro» spiegò Bertie. Era un patito della natura. «Quella striscia di terra fino alla palude è abbastanza solida. E qui a destra, la distesa sabbiosa, è una morena glaciale": è un po' più elevata rispet-
to alla palude, e la delimita. Quanto alla palude, è una palude alta.» «E poi che abbiamo ancora di bello?» chiesi, mentre mi sforzavo di procedere con la maggior precauzione possibile, per non sciupare la mia Lamborghini. Bertie s'entusiasmò del tema. Mi raccontò di paludi basse (o di pianura) che si formano per il ristagno di acque di superficie; e della flora delle paludi alte. C'era stato un tempo in cui lui avrebbe voluto fare lo scienziato. E io il giurista. Studi interrotti, tutti e due. «Se c'è torba, allora, il più delle volte, vuol dire che è una palude alta. Contrariamente alla palude di pianura, quella alta si gonfia lentamente.» Guardai, ma non vidi niente. A tratti, banchi di nebbia impedivano la visuale e ostruivano il passaggio ai raggi del sole. Non mi era mai capitato di trovarmi in una zona così deserta. «La palude alta è rigonfia come il vetro d'un orologio» diceva Bertie. «Quando l'evaporazione è minima, a causa della molta pioggia e dell'accentuata umidità dell'aria, allora si forma sul terreno acido, scarso di principi nutritivi, il muschio di torbiera. È il muschio di torbiera che forma la palude. Si chiama sfango...» Io badavo alle buche e Bertie continuava a raccontarmi dettagliatamente della flora delle paludi e del muschio di torbiera. «Molto interessante» dissi io. «Guarda però che da un chilometro circa non vedo più cumuli di torba. Solo acqua e palude, e quelle isole con i tronchi d'alberi. Non la prelevano la torba di qui?» «Evidentemente no» disse il mio dotto Bertie. «In questa zona non c'è più torba. Non c'è più niente da prelevare. Non c'è più nulla sotto, fatta eccezione per i cadaveri, forse...» «Quali cadaveri?» chiesi io. «Di persone cadute dentro, o che so io. Hai mai sentito parlare dei cadaveri di palude?» «Può darsi. Ma non me ne ricordo. Cos'hanno di particolare?» «Si conservano perfettamente» disse Bertie. «Vuoi dire che conservano lo stesso aspetto che avevano in vita?» «Proprio così. Perfettamente. Anche gli abiti. Nello Schleswig-Holstein hanno trovato nelle paludi dei corpi umani dell'età del bronzo!» «E come mai si conservano così?» «L'acido del suolo pietrifica corpi e abiti, e impedisce ogni forma di pu-
trefazione» spiegò Bertie. Fu quella la prima volta che parlammo di cadaveri. Per questo ho riferito così minuziosamente le spiegazioni di Bertie. Cadaveri: già, quella fu la prima volta che ne parlammo, sotto un sole mite, lungo la miserabile strada per Neurode, un bel pomeriggio di novembre. 8 Neurode ci apparve dopo una stretta curva, ed era formata forse da due dozzine di case. Il terreno era ricoperto d'una polvere sottile, color mattone. Passammo davanti a due osterie e a qualche negozio, e poi ci ritrovammo sulla strada sterrata. Un'insegna dalle lettere sbiadite avvisava: «Campo profughi per ragazzi: 1 km». La zona attorno era, anche vista di giorno, così poco rassicurante da indurmi a dire: «Per la miseria, Bertie, se mi toccasse di passarci di notte e mi scappasse da pisciare, non avrei nemmeno il coraggio di fermarmi e di scendere. Piuttosto me la farei addosso». «Ti credo bene» disse Bertie. «È pericoloso sostare ai margini delle paludi. Tentare di attraversare una palude poi... Basta un nonnulla e il piede sprofonda nel muschio rigonfio, l'acqua scintilla traditrice alla pallida luce della luna, fuochi fatui distraggono il viandante e lo portano lungi dall'argine sicuro, giù giù verso l'acquitrino senza fondo...» «E piantala!» dissi. «Ci siamo. Lì, dove c'è la freccia.» Raggiunta la seconda tabella, curvai stretto a sinistra. La palude era ora più distante, parecchio più in là, e la terraferma sembrava penetrare come una vasta lingua solida in mezzo all'infido acquitrino: davanti a noi, presumibilmente racchiuso dalla palude lungo tre dei quattro lati, scorgemmo il campo. Una strada breve e larga, asfaltata (!), conduceva verso l'ingresso. Bertie fischiò fra i denti, e confesso che restai a bocca aperta anch'io. Innanzi tutto era un campo enorme. Non avrei potuto nemmeno immaginarmelo così grande. Pareva senza fine. Piazzali sgombri e poi baracche, baracche, ancora baracche. Erano tante da non potersi contare. E poi: aveva maledettamente l'aspetto di un campo di concentramento. Era tutto circondato da un recinto di filo spinato, con la parte superiore piegata verso l'interno. Tralicci con riflettori, ovviamente spenti in quel momento. Barriere. Sbarramenti. La strada asfaltata portava verso un ampio cancello chiuso. Solo una piccola porta, accanto a quella grande, era aperta. Subito
al di là c'era una baracca, evidentemente per gli addetti alla sorveglianza. Ma ecco il particolare più strano: nel grande piazzale davanti all'ingresso, posteggiate sull'erba ingiallita, c'erano una o forse due dozzine d'automobili. Automobili costose e costosissime, grandi e grandissime. Mercedes. Diplomat. Chevrolet. Buick. Ford. Moltissimi modelli americani. «Che vorranno dire queste automobili?» dissi, nel fermare la Lamborghini accanto a una Oldsmobile. Scendemmo. Bertie prese le sue macchine fotografiche e parecchie pellicole, infilandole nelle tasche della sua giacca di pelle. Io presi il registratore e un taccuino. E ci avviammo verso il campo. Lungo il recinto, per un tratto di almeno tre o quattrocento metri, se non di più, sostavano i proprietari delle automobili: uomini e donne. Molte di quelle donne indossavano costose pellicce: leopardo, giaguaro, visone, persiano. Signore distintissime, le mani ingioiellate. Gli uomini erano per lo più in abito scuro; non pochi avevano cappelli, camicie bianche, cravatte da gran sera. Un pubblico da "prima" teatrale insomma. Sostavano tutti dalla parte esterna del recinto. Dalla parte interna c'erano invece dei giovani: ragazzi e ragazze d'età compresa più o meno fra i 15 e i 18 anni. Alcuni di loro indossavano a loro volta vestiti assai decorosi, altri delle tute, oppure maglioni e indumenti più semplici. Attraverso le fitte e robuste maglie della rete metallica si svolgeva una vivace discussione. Le belle signore e i loro cavalieri parlavano alle ragazze e ai ragazzi, a gran gesti, con irruenza e precipitazione. I giovani ascoltavano, tesi. Cercai di capire di che parlavano, ma non appena mi avvicinavo, quei dialoghi si spegnevano e i visitatori mi squadravano con ostilità. Fra gli uomini notai parecchi individui dall'aria equivoca, nonostante i vestiti e i cappotti eleganti. E dall'altra parte del recinto vidi le ragazze: bionde, rosse, brune. Quelle ragazze erano una cannonata, tutte così in fila a ridosso del recinto! Mi sentii subito meglio. E Bertie fotografava. Un uomo si girò d'improvviso e s'avvide che Bertie stava per inquadrarlo; alzò subito le braccia davanti al viso e urlò: «Togliti subito di mezzo, o ti spacco la faccia!». «Simpatico» disse Bertie. «Che vorrà dire tutta questa storia?» chiesi io. «Vieni via» disse lui. «Poi ce lo diranno.» Entrammo nel piazzale attraverso il piccolo cancello, al di là del quale c'era una tabella con questa scritta:
L'INGRESSO AGLI ESTRANEI È ASSOLUTAMENTE VIETATO! E infatti non avevamo ancora fatto tre passi che ci ritrovammo con un guardiano fra i piedi. «Buon giorno, signori. Dove andiamo di bello?» Era un uomo vecchio, dall'aspetto malato. Gli mostrai la mia tessera di giornalista. Avevo annunciato il nostro arrivo con una telefonata al direttore del campo, un certo dottor Horst Schall, e quello ci aveva dato il permesso di visitare il campo, di fare interviste e di fotografare. Il guardiano squadrò Bertie e me con attenzione, poi guardò di nuovo le nostre tessere: io intanto gli spiegavo che eravamo attesi. Annuì. «Loro sono quelli che vengono per i bambini cecoslovacchi?» «Soprattutto. Ma non solo per quelli, naturalmente.» «Prego, mi seguano» disse, e ci precedette nella baracca della guardia, dove c'erano tre altri sorveglianti, seduti. Aprirono bocca solo per rispondere al nostro saluto. Avevano tutti più di cinquant'anni. Quello che ci aveva scortati s'attaccò al telefono. Molta cortesia, molta indifferenza. Il guardiano ci invitò a sederci: entro pochi minuti sarebbe venuto qualcuno per accompagnarci nella visita. Sei minuti dopo apparve la signorina Luise Gottschalk. «Buon giorno, signori» disse, sorridendo cordialmente. Dicemmo i nostri nomi, e lei il suo. «Dal momento che ai signori interessano soprattutto i bambini cecoslovacchi, hanno mandato me. Sono io quella che si occupa dei bambini cèchi.» Sorrise ancora, ma con amarezza, «È per questo che sono qui. Altrimenti avrebbero mandato di certo un'altra. Prego, mi seguano. Mostrerò loro innanzi tutto che aspetto ha il nostro campo, nell'insieme.» Riuscimmo appena ad afferrare le ultime parole, poiché in quel momento sfrecciò su di noi la prima delle squadriglie di caccia che mi toccò di sentire e di vedere: passò a bassa quota, con un fracasso infernale, e a volo così radente che la terra tremava. 9 Nel corso delle due ore seguenti la signorina ci mostrò il campo. Non tutto, ma una buona parte. Ci raccontò come era organizzato. Il campo era amministrato e diretto dalla Croce Rossa, dalla Caritas e dalle Missioni in-
terne, dalle due maggiori Chiese e dalla previdenza sociale. I contributi venivano da Bonn. Ma non abbastanza, diceva la signorina: non abbastanza. Non bastavano mai. Una radio, sistemata chissà dove, trasmetteva musica leggera attraverso gli altoparlanti. Vedemmo ragazzi di molte nazionalità. I più piccoli giocavano con le assistenti, oppure da soli; i più grandi passavano da un ufficio all'altro dei vari organismi pubblici che avevano una loro rappresentanza al campo, oppure passeggiavano discutendo animatamente lungo i viottoli coperti di lastre di ruvido cemento, ai lati dei quali erano betulle spoglie e ontani nudi dalla nerissima corteccia. Le baracche erano tutte uguali: lunghe, basse e fatte di legno. Sembravano dipinte di fresco ma, una volta entrati, ci si accorgeva che erano molto vecchie. Un tanfo accumulatosi per anni e anni, prodotto dal succedersi di tanta, tanta gente - quel tipo di tanfo che non si può più eliminare - aleggiava nei locali, pur tirati a lucido che fossero. Vidi che c'era un settore per le ragazze e uno per i ragazzi. Vedemmo locali d'intrattenimento, camerate (letti a castello, tre vani l'uno sopra l'altro), mense. Il tutto era molto ordinato, ingentilito da qualche fiore; sulle pareti c'erano fotografie che ritraevano scene da film oppure pin-up-girls, e c'erano anche quadri dipinti dai giovani. Nei locali dei più piccini c'erano giocattoli. Tutti quelli che incontrammo ci salutarono gentilmente. Bertie fotografava. Sentii parlare in molte lingue. In un grande stanzone trovammo una ragazza che se ne stava tutta sola, seduta a un tavolo. Aveva appoggiato le braccia sul ripiano, e la testa sulle braccia: piangeva in silenzio. Bertie l'inquadrò, naturalmente. Ma la ragazza non si accorse nemmeno di noi. Già, era tutto in ordine, ma tutto puzzava di disperazione, miseria, solitudine; di vestiti bagnati e di grande tristezza. Un velo di questa tristezza ricopriva l'intero campo. Accanto alle porte d'accesso alle baracche c'erano delle scritte, in lettere maiuscole ormai quasi cancellate dal tempo. Lessi: «Prussia orientale, Memel, Prussia occidentale, Danzica, Posen, Koenigsberg, Stettino, Slesia settentrionale, Marca di Brandeburgo, Sassonia, Turingia, Mecklenburg». Questi nomi e altri ancora erano stati tracciati su molte baracche: nomi di quei territori che, dopo la guerra, erano stati assegnati all'Unione Sovietica, alla Polonia o alla Germania orientale. Dentro c'erano ragazzi che venivano dalla Polonia e dalla Germania orientale, certo, ma anche giovani di molti altri paesi. Continuavamo a incontrare ragazze. Mi parve che ci fos-
sero assai più ragazze che ragazzi. O fu soltanto un'impressione mia, perché fra quelle ragazze ve n'erano di così belle? C'era anche una chiesa, abbastanza grande, fatta interamente di legno, con un campanile alto che consisteva soltanto di quattro pilastri, tanto che si poteva guardare da una parte all'altra e scorgere, su in cima, la campana. All'interno della chiesa faceva freddo. Bertie fotografò un bambino inginocchiato davanti all'altare, e che si era addormentato durante una preghiera. La signorina Luise ci precedeva e ci spiegava tutto. Ci spiegò cos'era una procedura di assunzione, e ci condusse dal funzionario dell'autorità regionale competente per questa procedura. Nel suo ufficio c'erano, in quel momento, un cèco e un interprete. Una procedura d'assunzione era una faccenda complicata e lunga. Ma non se ne poteva fare a meno, disse la signorina. Ci condusse nei locali dell'ufficio del lavoro, alla baracca per la disinfestazione, in quella dove i giovani erano sottoposti a visita medica accurata subito dopo il loro arrivo e anche negli uffici del servizio di sicurezza. Qui trovammo due uomini seduti dietro due scrivanie che conversavano con uno spagnolo e con un greco. I due uomini parlavano la lingua dei ragazzi. Quando entrammo, i dialoghi s'interruppero subito. Quei due uomini furono di poche parole, e Bertie non ottenne il permesso di fotografare. Poteva farlo dappertutto, ma li no. Uno di quei silenziosi signori del servizio di sicurezza si chiamava Wilhelm Rogge, l'altro Albert Klein. Almeno dicevano di chiamarsi così. Klein era grande e grosso, Rogge era magro e portava occhiali dalle lenti molto spesse. Io capisco lo spagnolo, e quindi chiesi se potevo seguire il colloquio in corso col giovane spagnolo. «No» disse Rogge. «È assolutamente escluso.» «Se ha finito di guardarsi attorno, le saremmo grati se se ne andasse da quest'ufficio» disse Klein. «Abbiamo molto da fare.» «Senta un po'...» cominciai io. «La prego» disse Klein. Inutile discutere coi servizi di sicurezza. Convenni che quella riservatezza era necessaria, e glielo dissi. I signori Klein e Rogge mi sorrisero: molto gentilmente ma senza un'ombra di gratitudine. La signorina Luise ci condusse nell'ufficio della Caritas, nell'ufficio della previdenza sociale, nell'ufficio dello psicologo del campo. Ci mostrò le due baracche bianche nelle quali alloggiavano le assistenti. Ci condusse in
una grande cucina comune, dove ragazze dai grembiuli azzurri pelavano patate. Ci condusse nella baracca del medico. Il medico non c'era, ma constatammo che la baracca era molto bene attrezzata, con strumenti, apparecchiature, medicinali e un locale nel quale c'era persino un tavolo operatorio. La signorina Luise ci condusse nella centrale telefonica del campo. C'era una ragazza carina, seduta davanti a un quadro per allacciamenti vecchissimo, che lei azionava con abilità. Esprimemmo il desiderio di parlare con adulti, ragazzi e bambini. Per mezzo di due interpreti ci facemmo raccontare da bambini e ragazzi perché erano fuggiti. I motivi indicati erano sempre di natura politica. Registravo tutto, tenendo il microfono in mano. «Non accade sempre per ragioni politiche» mi sussurrò la signorina Luise. «Molte volte le cause sono tutt'altre, ma devono dire che sono politiche, al fine di essere riconosciuti come profughi politici durante la procedura di assunzione, capisce?» Infine, la signorina Luise ci volle mostrare anche la sua stanza da lavoro. Attraversammo la distesa d'erba fino a una baracca che era in fondo al campo. «Io sto lì» disse la signorina Luise. Passammo accanto a un grande pennone che si ergeva in mezzo a un enorme piazzale ricoperto di cemento. Doveva essere stato, una volta, il piazzale dell'appello. «Da quanto tempo esiste questo campo?» chiesi alla signorina Luise. Non mi rispose. Ripetei la domanda. Parve non sentirmi, di nuovo. «Di quanto denaro disponete per ogni ospite, al giorno?» chiese Bertie. «Due marchi e cinquanta» rispose con premura la signorina Luise. «Per dar loro da vestire, da mangiare, da dormire, qualche soldo che possano spendere liberamente, il riscaldamento d'inverno: per tutto insomma. Non è molto, vero?» «No» disse Bertie, sorridendo. «Non è molto.» «Per gli adulti che sono negli altri due campi la somma è di due marchi e quaranta a testa, per giorno. Ai miei bambini danno dieci pfennig in più.» I miei bambini, diceva. Due marchi e cinquanta a testa, per giorno. Bertie e io avevamo preso alloggio al Park-Hotel: due stanze con bagno, ciascuna delle quali costava ottantacinque marchi al giorno. Solo la stanza.
Solo per abitarci. E il Park-Hotel non distava che sessanta chilometri. Eravamo ormai giunti a ridosso della baracca della signorina Luise. E improvvisamente scorsi al di là dell'edificio un fitto filare di ontani neri, e poi ancora l'alto recinto di filo spinato e i tralicci coi riflettori. «Il campo finisce qui?» chiesi io. «Sì, lì dietro» disse lei. «E che c'è dall'altra parte del recinto?» Non mi rispose. Chiesi un'altra volta. Nessuna risposta. Lo vidi da me. Al di là dell'alto recinto di filo spinato c'era la palude, sinistra, sconfinata e ormai già tutta avvolta da grandi banchi di nebbia. 10 La porta dell'ufficio della signorina Luise fu spalancata violentemente dall'autista del campo, Kuschke, che sospingeva davanti a sé il grassone, coll'aiuto di un vecchio e traballante guardiano. «Toglietemi le mani di dosso, gentaglia!» sbraitava il ciccione. Sotto il cappotto grigio indossava un vestito azzurro, una camicia rosa e una cravatta sgargiante. Era avvolto in una nube di profumo dolciastro. Aveva un timbro di voce cantilenante, femminile; sembrava debole e flaccido, ma anche furbo e infido. «Questa me la pagherete! Ho degli amici ad Amburgo! Anche un funzionario superiore dell'amministrazione! E io gli riferirò per filo e per segno tutte le belle cose che accadono qui.» «Chiudi il becco» disse Kuschke. «Eccole il rospo, signorina Luise. E abbiamo portato anche la Indigo. Voleva svignarsela col rospo.» In quel momento entrò nell'ufficio, condotta dal pastore Demel, la ragazza che si chiamava Irina Indigo. Era tesa per la rabbia. Il pastore era molto giovane, portava una cravatta nera e aveva i capelli tagliati a spazzola. Le parlava con gentilezza, ma inutilmente. La Indigo investì la signorina Luise urlando: «Non ci resisto più! Devo andarmene di qui! Devo andarmene!». Anche Bertie era entrato, e fotografava ora con la Hasselblad. Mi chiese, piano: «Chi è quello grasso?». «Non so.» «Eppure lo conosco.»
«Cosa?» «Lo conosco! Lo conosco...» Bertie fissava il grassone. «Maledizione, se mi ricordassi almeno dove l'ho visto!» Bertie si grattava la testa, sopra la benda. Nel frattempo la signorina Luise s'era avventata sulla ragazza. L'investì con un'asprezza stupefacente, se rapportata alla gentilezza che aveva dimostrato fino a quel momento. Mi ricordai poi anche, però, del suo sfogo, quando aveva visto il fornello rotto. Pareva essere incline a quelle brusche esplosioni d'ira. «Signorina Indigo, lei sa benissimo, e io gliel'ho più volte ripetuto, che non può lasciare il campo senza permesso e senza il documento di autorizzazione!» Irina Indigo aveva i capelli neri tagliati alla paggio, occhi neri e tristi, che però in quell'attimo sprizzavano scintille, labbra piene e rosse, la pelle bianchissima. Era alta e slanciata, indossava scarpe basse senza tacco, una gonna che le lasciava scoperte le ginocchia, un maglioncino azzurro e un cappotto blu. Ciglia lunghe, come di seta. Si avvertiva appena il suo accento cèco. «Io devo raggiungere il mio fidanzato. Anch'io gliel'ho detto e ripetuto decine di volte! Devo andare da lui!» Puntò il dito sul grassone. «E questo signore era disposto ad accompagnarmi, con la sua macchina!» «Solo per cortesia» brontolava quello, palpandosi il cranio dolorante. «Ma evidentemente qui è un delitto essere troppo cortesi.» L'autista Kuschke sollevò il braccio libero, come per rifilargli un'altra sberla. Il grassone si chinò, fulmineo, e intanto sbraitava: «Come si permette!». Sempre chinato, s'accorse che Bertie lo stava guardando. «E lei cosa vuole da me?» «Io la conosco» disse Bertie. «Mai visto in vita mia!» disse il ciccione, fra smorfie di dolore e tastandosi la nuca dove, fra i capelli, stavano crescendogli due bei bernoccoli. Kuschke non era stato di mano leggera. «Eppure» disse Bertie. «Eppure io la conosco.» «Vaffanculo!» disse il grassone. Kuschke gli strattonò più in alto il braccio piegato dietro la schiena. Il ciccione ululò di dolore. La signorina Luise gli si avventò addosso, pronta a combattere come una chioccia che difende i suoi pulcini. «Che ci fa lei qui nel campo? Dov'è il suo permesso?» «Non ce l'ha» disse imbarazzato il vecchio guardiano.
Kuschke impugnò di nuovo il manganello che gli ballava appeso al polso. «Voltati!» disse al ciccione. «Faccia al muro! Le mani contro la porta. Ci siamo?» Il grassone, lasciato libero, lo squadrò con una rabbia che quasi lo strozzava. «Stronzo» disse. «Ora ti do un'altra randellata su quella tua crapa da fetente» disse Kuschke. Il registratore girava e immortalava tutto... Sulla tuta di Kuschke, sopra la pancia, lì dove il grassone lo aveva colpito con un calcio, si notava l'orma polverosa d'una suola. Diede uno spintone al pancione, e quello appoggiò le mani al muro e si lasciò perquisire dall'autista. Il guardiano del campo si teneva pronto a intervenire col suo manganello. E Bertie fotografava. «Si può sapere come mai era nel campo, se non ha l'autorizzazione scritta?» chiese la signorina Luise, rivolgendosi al sorvegliante. Questi arrossì violentemente. «E allora?!» disse la signorina. «La colpa è nostra, signorina Luise» fu la risposta impacciata. «E di Germania-Albania.» «Di che cosa?» «Be', insomma, dell'incontro di calcio. Alla televisione. Anche molti ragazzi stanno guardando la partita, nelle baracche.» «Ma benone» disse la signorina. «Ed ecco cosa capita quando la gente pensa solo a spassarsela, anziché a fare il suo dovere!» «Già» disse con accento infelice il guardiano dall'aria stanca e abbattuta. «Tutti e quattro a guardare la televisione?» «Sì, tutti e quattro, signorina Luise. E così quell'individuo è riuscito a intrufolarsi.» «Ma che bellezza!» La signorina Luise era molto arrabbiata. «E intanto qui ne succedono di tutti i colori!» «Mi dispiace. Finora non era mai capitato nulla che...» «Guarda un po'» disse l'autista Kuschke, nell'estrarre una pistola dalla cinta dei pantaloni del grassone. La consegnò al vecchio sorvegliante. «Una Walther. Calibro 7,65.» Fece scattare il caricatore. «Caricatore pieno.» Kuschke trovò altri due caricatori nella tasca sinistra dei pantaloni del pancione, il quale puzzava di muschio da stordire. «Un intero deposito di munizioni» disse Kuschke.
«Ce l'ha il porto d'armi?» chiese il guardiano. «Naturalmente» disse il grassone, con fare aggressivo. «Dov'è?» «Ad Amburgo. Crede forse che io abbia voglia di trascinarmi sempre in giro tutte quelle cartacce?» «Però il cannone sì, eh?» disse Kuschke. E poi chiese, piano, al guardiano: «Come stanno?». «Prima erano ancora zero a zero, al trentacinquesimo del primo tempo» rispose, piano. E poi, a voce più alta: «La pistola è sequestrata». Il ciccione fece una piroetta a stupefacente velocità. «Lei non sequestra un bel niente!» strillò con la sua curiosa vocina cantilenante. «Tutto questo è illegale!» «Chiudi il becco, ippopotamo» disse Kuschke. Era un omone robusto, con un basco in testa e mani enormi. Il tono della sua voce era pericolosamente tranquillo. «Se non taci, ti spiaccico sul muro.» Quando Kuschke aveva trovato la pistola, la Indigo si era spaventata. Ora la ragazza se ne stava zitta e disorientata, cercando di sfuggire lo sguardo della signorina Luise. Bertie girava attorno al grassone e lo osservava pensoso da tutte le parti. Cercava di ricordare dove aveva visto quell'uomo. Feci un sorriso alla Indigo. Ma lei parve non accorgersene. «Documenti» disse il guardiano del campo. «E perché?» chiese il grassone. «Un'altra domanda cretina come questa, e ti sfascio!» urlò Kuschke. Il pancione sussultò e poi tirò fuori dalla tasca della giacca un passaporto. Il sorvegliante si avvicinò alla scrivania e cominciò a trascriverne i dati. Irina Indigo strillò d'un tratto: «Questo signore è entrato nel campo per me! Sono io che gli ho fatto un cenno!». Stava ancora sbraitando, quando Bertie sollevò la Hasselblad e scattò una foto al grassone. «Io non le permetto!» gracchiò il pidocchio lardoso, e si lanciò di scatto verso Bertie. Mi staccai dalla parete alla quale mi ero appoggiato, schizzai attraverso l'ufficio e piazzai al ciccione un cazzotto fra le costole e un altro nello stomaco: volò su una sedia, annaspando aria. Bertie aveva continuato a scattare come un forsennato. E così ora avevamo anche una foto d'azione! Tanto per non cambiare, la Indigo si mise a strillare anche con me: «Che le viene in mente? Chi è lei?». «Okay, baby» dissi io, e mi accesi un'altra sigaretta. «Okay. Ne riparle-
remo dopo.» Guardavo Bertie. «Tutto a posto?» «Perfettamente» disse, e scattò altre due foto del grassone. Ve l'ho già detto: ho un certo istinto per quel che riguarda la gente, e una sensibilità spiccata per le cose. Mi sentivo come un cacciatore su una pista. Inizialmente avevo pensato che sarebbe stato un viaggio inutile, in un paesucolo insignificante: da quando però la signorina Luise s'era messa a parlare con gli esseri invisibili, era cambiato tutto, ma proprio tutto. Mi avvicinai al guardiano che trascriveva i dati dal passaporto. «Come si chiama quell'individuo?» «Karl Concon» disse il sorvegliante. «Concon» ripeté Bertie. «Concon...» Il guardiano aggiunse: «Albergatore di professione». «Albergatore!» disse Kuschke, con tono sprezzante. «Un piccolo bordello sulla Reeperbahn sarà, dico bene? Scusi sa, signorina Luise, ma qui ormai non se ne può più. Ormai arrivano a branchi, questi porci. Promettono una casa, a queste stupide oche, e duemila marchi garantiti al mese! E invece cosa si beccano poi? Lo scolo!» «Il signor Concon non mi ha promesso un bel niente!» strillò la Indigo. Incontrò il mio sguardo. Le sorrisi di nuovo. Mi rispose con una occhiata inferocita. Bertie si diede una gran botta in fronte. E poi disse sorridendo: «Ci sono. Ora so chi è lei. Non dimentico mai una faccia. L'ho vista in tribunale, ad Amburgo, sul banco degli imputati. Nel 1956. Anzi no, nel 1957. Facemmo un servizio fotografico, allora. Per Blitz!». «Che aveva fatto?» chiesi, impaziente. «Chi è?» «Un porco» disse Bertie, sorridendo felice. «Un grandissimo porco. Un invertito. Anche se non ho niente contro gli invertiti, sia chiaro.» «Neanch'io» dissi io. «Ho un mucchio di amici invertiti. Le persone più simpatiche che si possano immaginare.» «Già» disse Bertie. «Questo porco qui però non è affatto un simpaticone. Questo invertito ricattava gli altri invertiti. E, fra gli altri, un ufficiale tedesco, un pezzo grosso. Ecco perché era finito in tribunale.» «Estorsione per denaro?» chiese il pastore. «No. Per ottenere informazioni riservate.» «Sono stato assolto!» gridò Concon, tastandosi di nuovo i suoi bernoccoli. «Già. Per insufficienza di prove!» disse Bertie. «Estorsione. Segreti militari. Caro il mio signor Karl Concon, lo sa che è ingrassato ancora, nel
frattempo? Segnati tutti i dati, Walter, anche il numero del passaporto e la data del rilascio. Già che ci siamo, tanto vale andarci a fondo in questa storia.» «Anch'io voglio avere quei dati» disse la signorina Luise. Il pastore le gettò un'occhiata strana, ma non disse niente. La signorina prese un foglio di carta e una matita e si mise a fianco del guardiano. Sentii uno scatto. Il nastro era finito. Ne infilai in fretta un altro nel registratore, mi avvicinai alla signorina Luise e mi annotai tutto quello che c'era sul passaporto del ciccione. Il signor Karl Concon era nato nel 1927, il 13 maggio. Dunque aveva 41 anni. La signorina Luise disse al guardiano: «Mi metta dentro quest'uomo e chiami la polizia a Zeven. Che vengano a prenderselo». «Sissignorina Luise.» «Non potete arrestarmi!» sbraitò Concon, con una smorfia. I bernoccoli, evidentemente, gli facevano male davvero. «Possiamo, eccome se possiamo!» disse Kuschke mentre si sfregava le sue mani gigantesche. «Noi la denunceremo» rincarò la signorina Luise. «Non mi faccia ridere! E per che cosa?» scherni Concon. «Per essere entrato nel campo senza permesso» disse la signorina Luise. «Violazione di domicilio, tentato sequestro d'una minorenne...» «Ma se non l'ho neanche...» «Macché! Ce lo siamo sognato, vero?» intervenne ironico Kuschke. «...e faremo anche verificare quello che ha detto il signor Engelhardt» aggiunse la signorina. «Pezzo di merda!» disse Concon a Bertie. E Bertie gli fece un bel sorriso. La Indigo disse, con tono supplichevole: «Mi permetta almeno di telefonare al mio fidanzato, signorina Luise». «No, assolutamente.» «Lasci che la ragazza telefoni» dissi io. «L'ho chiesto tante di quelle volte!» esclamò la Indigo. «Continuamente, continuamente. E tutte le volte mi hanno risposto di no.» «Non è permesso» disse la signorina Luise. «Per una questione di principio. Tutti vogliono telefonare, ogni cinque minuti. Non si può! Ci danno soltanto due marchi e cinquanta al giorno per ciascuna di voi!» Io dissi: «La pago io, la telefonata». «Lei?»
«Ma sì. Devo anche chiamare la redazione.» La signorina esitava ancora. «La prego» dissi io. «Glielo chiedo per favore...» Il telefono squillò. La signorina Luise afferrò il ricevitore. «Gottschalk!... Si, dottore... Ah, benissimo... Ma certo, veniamo subito...» Riagganciò e annunciò: «La Panagiotopulos ha avuto una bambina». Si avviò poi verso la porta dell'ufficio e l'aprì. Kuschke e io la seguimmo. L'autista diceva: «Sono proprio contento. Aveva tanta paura che fosse un maschio e che gli toccasse di fare il soldato in una prossima guerra». Guardammo nel locale attiguo. Karel era seduto sul letto della signorina Luise, molto pallido, minuto e coi capelli scomposti. La tromba era ancora sul pavimento. «Mio Dio,» disse Kuschke, commosso, «quel poverino! Che mondo schifoso. Se almeno i bambini non fossero costretti a fuggire di casa.» La signorina Luise si era avvicinata a Karel. «Dobbiamo andare dal dottore. Lui non può venire qui, ha ancora tanto da fare. Credi di poter camminare?» chiese in tedesco, ma poi rammentò che Karel capiva poco il tedesco, e rifece la domanda in cèco. Il ragazzino assentì con aria seria, bene educata. Si alzò e, nel farlo, barcollò un poco. La signorina Luise lo sostenne. Bertie mi scostò e scattò due foto. La signorina Luise condusse il ragazzo attraverso l'ufficio. E disse alla Indigo: «Se il signor Roland paga, telefoni pure. Ma non tenti più di scappare!». «Mai più, glielo giuro, signorina!» La Indigo s'era fatta improvvisamente raggiante. «Basta ch'io possa telefonare al mio fidanzato...» «Pronto?» chiese la signorina al guardiano del campo. «Sissignora!» L'uomo in uniforme si alzò, intascò la sua agenda e anche la pistola di Concon. «Andiamo» disse al grassone. Il povero vecchio si sforzava di apparire energico. «E non facciamo stupidaggini. Altrimenti una botta in testa non gliela leva nessuno!» «E poi ci sono anch'io» disse Kuschke. «Vado con loro» disse Bertie. «Okay» dissi io. «E quando arriva la polizia da Zeven, avvertimi.» «D'accordo» disse lui. La signorina Luise aveva quasi raggiunto la porta dell'ufficio, quando Karel le si sottrasse senza dire una parola, e rientrò nel soggiorno. Riapparve subito. Era andato a prendersi la tromba che era rimasta nella stanza
accanto. Reggeva il grande strumento dorato stringendolo nella piccola mano con tutta la sua forza. Non parlava, e si muoveva quasi come un cieco, lento e impacciato. Sentimmo ancora Concon sbraitare, fuori, nel corridoio della baracca. Bertie seguiva il gruppetto, zoppicando. Karel aveva di nuovo raggiunto la signorina Luise. Ci guardò e ci fece un bell'inchino. «Ci vediamo, Karel» dissi io. «Vengo anch'io con lei» disse il pastore Demel. La signorina Luise si ricordò d'una cosa. «Oh, per piacere, signor pastore!» «Dica?» «Col ragazzo me la sbrigo io. Il mio fornello: è di nuovo rotto. La spirale. Lei che è così bravo e che me l'ha sistemata già un paio di volte: le dispiacerebbe darci un'occhiata?» «Ma certamente» disse Demel, e le fece un amichevole cenno d'assenso. «Grazie» disse la signorina. La porta si chiuse dietro di lei e a Karel. Il pastore esaminò il fornello e tirò fuori di tasca un temperino. E poi cominciò a lavorare. Irina Indigo mi guardava. I suoi occhi erano molto grandi e scuri, e ora di nuovo anche tristi. La guardai anch'io. Eravamo a due metri l'uria dall'altro. Ci guardammo a lungo. Un'altra squadriglia di Starfighter stava arrivando, urlando. Il baccano dei reattori diventava sempre più forte. I vetri tremarono di nuovo. Il rimbombo raggiunse l'acme. M'aspettavo d'innervosirmi, di sentirmi sconvolgere. No: non accadde nulla. Me ne rimasi assolutamente tranquillo, per la prima volta. Mi analizzai per vedere se c'era lo sciacallo nei paraggi. Niente. Non c'era. Il baccano divenne meno forte e svanì. Irina e io continuavamo a guardarci. 11 «Lei è la prima persona in tutta la Germania federale che sia stata gentile con me» disse infine. «Sciocchezze» dissi io. «Non è una sciocchezza!» Scosse la testa. «Gli altri non sanno far altro che dare ordini. Soprattutto quella strega d'una assistente.» Gettò un'occhiata al pastore, che grattava qualcosa attorno al fornello. «Mi scusi l'espressione. Non fa che il suo dovere, quella vecchia, lo so. Continuano a
venire sempre nuovi profughi. Posso capire che la gente di questo paese cominci a esserne stufa e che non ci possa più vedere, tutti quanti.» «La faccenda è diversa» disse il giovane pastore, che si era seduto alla scrivania. «Nessuno ce l'ha con lei. Dico sul serio. I profughi stanno male. E noi stiamo bene. Quella che lei scambia per una forma di rigetto è solo frutto della nostra coscienza sporca. Dopo tutto il male che abbiamo fatto, noi tedeschi, il benessere che ci è piovuto addosso è inconsciamente sentito come un'ingiustizia: ad altri, a quelli della Germania orientale per esempio, è andata male, e per molto tempo. Ora non più, grazie a Dio. E adesso faccia la sua telefonata!» Mi sforzai di pensare alla mia posizione: un giornalista ubriacone, malmesso e con un lavoro da fare: e ora anche con una storia fra le mani che prometteva interessanti sviluppi. Non potevo mettermi a fare il playboy, progettare di portarmi a letto quella bella ragazza, giovane e ingenua; almeno non senza averle prima dato una mano. Mi scossi dunque e dissi: «Sa il numero di telefono del suo fidanzato?». «Ho continuato a ripetermelo, come una preghiera, durante tutta la fuga: Amburgo 2-20-68-54.» «Il suo fidanzato ha una casa ad Amburgo?» chiese Demel, sorpreso. Aveva un viso segnato dal tempo e dal vento, e occhi grigi sotto le sopracciglia cespugliose. I suoi capelli bruni erano corti come i miei. Quell'uomo aveva più o meno la mia stessa età, ma sembrava di almeno dieci anni più giovane. «No, quella è l'abitazione del suo migliore amico, qui nella repubblica federale. Si chiama Rolf Michelsen. Si conoscono da anni. Il signor Michelsen abita in via Eppendorfer Baum, al numero 187.» Il registratore col nastro nuovo era sempre in funzione, e incideva tutto. «Il signor Michelsen ha offerto ospitalità al mio fidanzato. Si erano già messi d'accordo molto prima della fuga. Il signor Michelsen è stato tante volte a Praga a trovare Jan.» «Jan?» «Jan Bilka. È il nome del mio fidanzato.» «Che fa di mestiere questo signor Michelsen?» chiesi io. «Non lo so.» «E come mai?» «Non lo conosco personalmente. Jan mi ha solo detto di lui. Sa, non poteva dirmi tutto. Jan era capitano, e lavorava al ministero della difesa. E così, di molte cose, non poteva assolutamente parlare.»
Mi sentii improvvisamente investire da un'ondata di calore. «Certo che no» dissi. «Ha detto capitano?» «Sì» disse Irina. «Possiamo ora chiedere quel numero?» «Subito» dissi. Fuori, dalle baracche, proruppe improvvisamente - ma lontano e come ovattato - l'urlo di più persone. «Gol» dissi. «Devono aver fatto un gol.» «Probabilmente gli albanesi» disse il pastore dall'aria giovanile, senza alzare lo sguardo. «Gran calciatori, gli albanesi.» «Se il vostro fidanzato era capitano e lavorava alla Difesa, avrà almeno trent'anni, no?» chiesi a Irina. «Trentadue. E non c'è nessun bisogno che mi guardi in quel modo! Io ne ho diciotto! E allora?» «Allora? Niente.» «Io studiavo psicologia. Lui aveva un suo alloggio, una stanza in subaffitto. Ci conosciamo da due anni. Le basta?» Annuii, mi avvicinai al telefono, formai il 9 e mi rispose la centralinista che avevo visto prima. «Ah, la simpatica signorina Vera» dissi con tono gentilissimo. «Parla Roland, signorina Vera. Sì, appunto, poco fa sono stato lì da lei. La prego, mi dia questo numero di Amburgo...» guardai Irina. «2-20-68-54» suggerì. «2-20-68-54» ripetei. «Poi passo a pagare: questa telefonata va sul mio conto. Sì, la signorina Luise mi ha dato il permesso. Mille grazie, signorina Vera.» Passai il ricevitore a Irina. Disse: «Pronto!» precipitosamente, ansiosa. E poi, dopo una pausa: «Sì, naturalmente, capisco...». E a noi: «Deve ancora formare il numero, devo aspettare». «Benissimo» dissi io. «Lei è Walter Roland?» chiese il pastore, alzando il naso dal fornello e squadrandomi incuriosito. «Appunto, sono io» dissi con tono meno gentile di quanto avrei voluto, ma improvvisamente mi sentii di malumore. Si presentò: «Paul Demel». «Piacere» dissi io. E a Irina: «Quando è fuggito il suo fidanzato?». «Quasi tre mesi fa» disse Irina. «Il 21 agosto.» Teneva il ricevitore appiccicato all'orecchio. «La signorina Luise mi ha detto che lei sarebbe venuto» disse il pastore, sorridendo. «Sono molto lieto di poterla conoscere personalmente. Ho
molte cose da chiederle.» «Lei è il signore al quale sono piaciuti quei due miei libri» dissi io, e sentii che la bestia schifosa, lo sciacallo, stava per tornare. «Sì. Cielo infinito è quello che mi è piaciuto di più.» «E ora certamente mi chiederà come mai non ho continuato a scrivere libri.» «Fra l'altro» disse lui, gentile. Risposi tentando di arginare la mia irritazione, ma senza riuscirci del tutto: «Perché non so scrivere libri! Ecco perché! Quel che so fare, basta appena per scrivere decentemente su un settimanale». «Non lo credo» disse lui. «In fondo ha già dimostrato...» «Non ho dimostrato un bel niente» dissi io. «La prego, signor pastore!» Il mio tono era quasi implorante. «Si è perso di coraggio troppo presto, tutto qui» disse lui. «E facevo anche la fame» dissi io. Ero comunque contento che non sapesse niente del mio secondo nome, di cui mi servivo da anni, per scrivere su Blitz. «Lei è giornalista?» chiese Irina. C'era un fondo di paura nella sua domanda. «Sì. Perché?» dissi io, sempre ancora seccato. «Le dispiace?» «No, assolutamente. No...» Rideva, ma c'era un suono falso in quella risata. «Perché dovrebbe dispiacermi?» «A molti dispiace» dissi io. «Quando devo scrivere di loro.» «Oh, quanto a questo, c'è ben poco da... Pronto!? Sì?» Si fermò ad ascoltare. «Ah» disse poi. «Grazie.» E riagganciò. «Il numero di Amburgo è occupato. La signorina tenterà dopo di nuovo.» «Pazienza» dissi io. «Sì si» disse lei. «E lei, come mai è fuggita?» chiesi a Irina. «Per colpa del mio fidanzato.» «Come sarebbe a dire?» «Subito dopo la sua fuga, sono venuti da me dei funzionari. Polizia di stato. Cecoslovacchi. E anche russi. Mi hanno trattenuta due giorni per interrogarmi. Ore e ore. Giorno e notte.» «Cosa volevano sapere?». «Tutte cose sul conto del mio fidanzato.» «Quali cose, per esempio?» «In che settore lavorava... di quali pratiche si occupava... la sua posizio-
ne, la sua vita privata, i nostri rapporti... Volevano sapere tutto. Ma io ho potuto rispondere solo a una piccola parte di quelle domande. Non so in che settore lavorasse Jan, che mansione avesse, di quali pratiche si occupasse. E così mi sono anche resa conto d'un tratto di saperne davvero poco di lui. Il che mi ha spaventata. Molto spaventata. Mi capisce?» «Certo. E poi?» «Poi... non mi hanno creduto. Mi hanno rilasciata ma hanno continuato a venire da me, ogni giorno. La mia padrona di casa ha perso la pazienza e voleva sfrattarmi. Una brava donna, ma non ne poteva più. Quegli uomini, certe volte, venivano alle quattro di mattina. Naturalmente non mi ha sfrattata. Ma aveva paura. Una paura tremenda. E anche io.» «Non avrà mica rivelato loro l'indirizzo di Amburgo e il nome dell'amico tedesco del suo fidanzato?» Irina mi squadrò indignata. «Certo che no!» «Era solo una domanda. Non occorre mica arrabbiarsi subito. E poi?» «Poi... poi mi hanno convocata per altri interrogatori. Ho trascorso delle giornate lì da loro. Sempre le stesse domande! Sempre altri funzionari. Mi hanno proibito di frequentare l'università. Mi hanno proibito di lasciare Praga. Ogni giorno dovevo presentarmi due volte al commissariato di polizia del quartiere. E poi ancora interrogatori.» «Quella gente era davvero curiosa sul conto del suo fidanzato» intervenne il pastore. «Sì» disse Irina. «Ma perché? Perché?» Tacemmo entrambi, il pastore e io, e ci guardammo. «Poi,» continuò Irina «la settimana scorsa, giovedì, sono stati arrestati tutti gli amici, i conoscenti e i collaboratori di Jan. Tutti insieme. Ho dimenticato di dire una cosa: sono stata messa ripetutamente a confronto con quella gente. Ne conoscevo alcuni, la maggior parte solo di nome, ma molti neanche di nome. Però ho saputo che li hanno arrestati.» «Come lo ha saputo?» chiesi io. «Una telefonata. Anonima. Brevissima. Non so chi fosse. Certo è solo che ho tagliato la corda un'ora dopo. Non ce l'ho fatta a resistere. Ho pensato: ora verranno a prendermi! Avevo i nervi a pezzi. M'interessava una cosa sola: raggiungere Jan! Ad Amburgo! Riesce a capirmi?» «Naturalmente» dissi io. «Ora è al sicuro. Si tranquillizzi. La prego, si calmi.» Il pastore, allora, palesemente per cambiare discorso, si rivolse a me:
«Ma guardi un po'! La spirale è tutta schiacciata. Qualcuno deve averci dato una martellata». Mi guardò. «Le dispiacerebbe darmi una mano? Quest'affare continua a scivolarmi!» Mi sedetti accanto a lui, per reggergli il fornello, mentre lui tentava di riunire i frammenti rotti della spirale elettrica. Dalle baracche venne di nuovo un urlo soffocato. «Questa volta forse hanno segnato i nostri» disse il pastore Demel. «Abbiamo un paio di ragazzi in gamba, nella nazionale... Niente da fare, devo smontare questa parte, altrimenti non ci riuscirò a fissarla.» Cercò la lama col cacciavite, nel manico del suo gran temperino, la fece scattare e riprese il lavoro. «Un consiglio però, lo posso dare... al giornalista Roland, vero?» «La prego.» «I cèchi, d'accordo. Un tema d'attualità, capisco. Però poi vada anche a dare un'occhiata davanti al campo, e guardi le belle dame e i bei signori che ci sono. Non sono soltanto lenoni, quelli che vengono a prendersi le nostre ragazze, a bordo di Lincoln e Cadillac.» «Dove le portano?» chiese Irina. La guardai e pensai a quanto era ingenua, senza malizia, semplice e pulita; e poi pensai che molte altre delle ragazze che avevo incontrato al campo avevano il suo stesso aspetto. Gentili, carine, tranquille e molto, molto ingenue. E dire che Irina aveva già da due anni una relazione con un uomo molto più anziano di lei... «Nei loro locali» disse il pastore. «A fare lo spogliarello. A tenere compagnia ai clienti. O le buttano subito sul marciapiede. Dopo un anno o due quelle poverette tornano. Esauste, sfinite, spesso malate. Facciamo quello che possiamo, ma non possiamo interferire in quello che voi ragazze fate una volta fuori dal campo. Dopo qualche tempo che siete qui, vi danno il permesso di uscire: lo sa anche lei.» «Si» disse Irina. «Da quando è qui?» chiesi io. «Da ieri» rispose lei. «Troppo presto, naturalmente» disse Demel. «Non è stata ancora nemmeno negli uffici, al collocamento, dai servizi di sicurezza e così via. Prima di allora non si può uscire. Ma dopo si. Dopo i giovani possono uscire. E vanno laggiù, al villaggio, dove c'è il bar Colpo alla Nuca.» «Dove vanno?» «Al Colpo alla Nuca. Sono stati i ragazzi della Germania orientale a battezzarlo così.»
«E perché?» «Anni fa alcuni giovani hanno trovato, nel terreno attorno al bar, ossa umane. Anche teschi. C'è stata agitazione al campo, se lo può immaginare. È stato allora che i contadini hanno raccontato che, ai tempi dei nazisti, facevano le esecuzioni lì dove oggi c'è quell'osteria. I contadini non ne parlano volentieri, e siamo riusciti a tirarglielo fuori solo a fatica. L'uomo che ha aperto l'osteria dopo la guerra non ne sapeva niente. Ora lo sa anche lui... Lungo lo steccato avvengono i preliminari. Poi quelle belle signore e i loro accompagnatori attendono i ragazzi al bar Colpo alla Nuca. E di lì se li portano via. Però quel Concon aveva una fretta incredibile di portare via lei.» «Già» dissi io. «È incredibile. Perché non sbarrano tutte le uscite? Perché non impediscono a questi giovani di uscire?» «Sarebbe un'inammissibile limitazione della loro libertà, illegale per di più» disse Demel. «E del resto quei tipi che stazionano allo steccato andrebbero a pescarsi i ragazzi dopo, nei luoghi ove li sistemiamo tramite l'ufficio di collocamento, a procedura d'assunzione definita, quando se ne vanno da qui. C'è poco da fare: neanche se decidessimo, per esempio, di chiudere il piazzale davanti al campo. Li attenderebbero al varco a Zeven. Oppure lungo la strada.» «Chi è quella gente?» chiesi io. «A parte gli individui della Reeperbahn...» «Ma perché mi fanno aspettare tanto...» interruppe Irina, con voce soffocata. «Non sia così impaziente. Fra poco le daranno la sua comunicazione... Dunque, che gente è, signor pastore? Le donne, per esempio.» «Vive qui in Occidente anche lei» disse lui. «Ce l'ha una donna di servizio, lei?» «Fissa? No. Solo due volte la settimana.» «Si consideri fortunato allora» disse lui. Spazientita, Irina cominciò a mordersi il labbro inferiore e a percorrere avanti e indietro l'ufficio. «Le domestiche: non se ne trovano più al giorno d'oggi. Ma qui da noi ne può trovare quante ne vuole. A queste povere ragazze qui da noi non c'è nemmeno il bisogno di promettere una stanza con bagno privato e televisore, o la pelliccia per Natale. Si accontentano di poco, gli basta che quelle distinte signore garantiscano per loro, e si assumano l'onere delle pratiche burocratiche per toglierle di qui.» «Di dove vengono quelle distinte signore?» chiesi.
«Da Düsseldorf, da Colonia, Francoforte, Amburgo, Monaco. Stupito, eh? Vengono da tutte le parti, anche da molto lontano. E non cercano soltanto domestiche. Vengono per conto delle industrie. Catene di montaggio. Calze. Confezioni. Stabilimenti farmaceutici. Anche gli uomini vengono a reclutare per le industrie. Industrie pesanti, industrie leggere. Industrie elettroniche. Cantieri navali. Un po' di tutto. Dalla pasta all'uovo alle putrelle d'acciaio. Siamo affamati di braccia, noi tedeschi! Definiscono i preliminari in quattro e quattr'otto, attraverso il recinto, poi vanno a prelevare i ragazzi al Colpo alla Nuca e li portano in fabbrica. E gli editori! Scusi sa, signor Roland, ma sarei pronto a scommettere che lì fuori ce ne sono almeno un paio anche del suo settore.» «E cosa vogliono?» «Ragazzi che vadano di casa in casa a raccogliere gli abbonamenti. Ormai nemmeno gli studenti poveri lo fanno più, a quelle miserabili condizioni di remunerazione. E invece questi nostri giovani sono disposti a tutto. Questo che abbiamo qui è un mercato, nel vero senso della parola, e in grande stile: mercato di braccia e di altro.» Il telefono squillò. Irina vi si precipitò strappando il ricevitore dalla forcella. «Pronto?... Pronto, Jan?» La delusione si dipinse sul suo volto. «Ah sì, grazie.» Riagganciò, e mi disse, come se la colpa fosse mia: «È sempre occupato». All'improvviso, rapido e inatteso, eccolo, lo sciacallo: vicino, vicinissimo. Mi alzai. Poi mi sedetti. Mi alzai di nuovo. «Mah!» fece il pastore Demel. Poi mi guardò e disse: «Che cos'ha? Ha un aspetto così strano, stravolto. E anche le labbra livide». Non m'importava più di niente. Tirai fuori la fiaschetta, svitai il tappo e l'allungai al pastore. «Gradisce del whisky?» «No» disse. «Mai di giorno. Non dovrebbe berne nemmeno lei. È veleno per i nervi.» Bevvi. «A volte mi sento girare la testa» dissi. «Da un momento all'altro. E sto male.» Buttai giù un altro sorso. «Qui è tutto così deprimente. Quella signorina Luise, per esempio. Senta un po' ma non le manca per caso...» «Vuol dire che non è psichicamente a posto?» Fissava il fornello. «Credo che così ora funzionerà. Ora non mi resta che fissare le due...» «Signor pastore!» «Sì» disse lui. «È così strana. Sente delle voci. Parla ai fantasmi...»
«Sì» disse lui ancora. E sospirò. «Fa una pena! Ed è una donna così buona. Così preziosa. E come vuol bene ai bambini! Purtroppo tutte queste chiacchiere e dicerie si diffondono. Sarebbe ora di mandarla in pensione, dicono tutti. E in coscienza non riesco più quasi a trovare argomenti contrari. Ma se lo faranno, se la costringeranno ad andarsene di qui, lontana dai bambini... sarà la fine della signorina Luise. Quella è capace d'impiccarsi. Anzi no... di buttarsi nella palude.» «Ma si può sapere chi sta ad ascoltare? Con chi parla?» «Sono i suoi amici.» «Quali amici?» «Be', i morti» disse il pastore Demel. 12 Eccola lì, lontana, nella palude, su una collinetta di terra ferma, leggermente ricurva, e attorno a lei c'erano undici figure che formavano quasi un cerchio chiuso. La signorina Luise parlava, con irruenza, nervosa, torcendosi le mani e agitando le braccia, muovendosi avanti e indietro. Di tanto in tanto il vento sospingeva un banco di nebbia verso di lei e quelle figure, rendendo tutto invisibile. C'era luna piena. Una luce argentea che la nebbia diffondeva per tutta la palude. Le chiazze d'acqua scoperte rilucevano nere. I rumori della palude notturna erano misteriosi, così come le sue voci spettrali. Schiamazzando, si levavano in volo dall'acqua alcune anatre. Le vaste distese - mosse dal vento e insidiose - dell'erba palustre stridevano e scricchiolavano. In lontananza risuonò, lungo e triste, il fischio d'una locomotiva. Ancora un brandello di nebbia, e poi la signorina Luise riapparve. La si poteva scorgere chiaramente con quei suoi capelli bianchi e lucenti: lei, ma anche le undici sagome che erano attorno a lei. Una riunione di fantasmi. Un convegno di spettri... La giovane donna, che osservava la scena, rabbrividì. Si chiamava Hilde Reiter. Indossava il mantello e reggeva la sua sacca. Voleva fuggire dal campo. E aveva ottime ragioni per farlo. Sapeva che i guardiani avrebbero avvisato il direttore, se fosse uscita dal cancello: era un loro dovere. E così, di nascosto, aveva raggiunto quel pilastro mezzo inclinato che era a est del campo. Per un quarto d'ora, sbuffando e usando tutte le sue forze, aveva tentato di farlo cadere, perché trascinasse con sé anche la recinzione di filo
spinato. Quello era forse l'unico punto di tutto il campo ove si poteva tentare una fuga. Hilde Reiter era in preda al panico. Se fosse rimasta, sarebbero venuti a prenderla il giorno dopo, l'avrebbero processata e rinchiusa e... La giovane donna aveva scosso il pilastro, sino all'esaurimento delle sue forze. Il pilastro non si era mosso. Hilde Reiter non era abbastanza forte. Disperata, con lacrime di rabbia agli occhi, si era infine raddrizzata... e aveva visto la signorina Luise, in mezzo alla palude. Sto impazzendo, pensò la giovane donna. Ho perso la ragione! Ma come ha fatto la vecchia a uscire di qui? Nessuno può uscirsene di qui... Hilde Reiter fu scossa da un brivido, benché la notte fosse tiepida... La palude, da tanto tempo abbandonata, era gonfia d'acqua e assolutamente impercorribile. I fossati di scolo, nella cui acqua marcia si specchiava la luna, erano pieni sino all'orlo; gli argini, a destra e a sinistra dei canali, erano crollati da tempo, oppure sprofondati e divenuti invisibili. Sui pochi rialzi che parevano galleggiare sulla palude, c'erano vecchi tronchi di salice, tutti contorti, simili a figure con quelle teste nodose. La signorina Luise si mise a parlare con una di quelle figure. Hilde Reiter deglutì. Dovette aggrapparsi al recinto, altrimenti sarebbe caduta dallo zoccolo sul quale era salita. La paura che l'aveva sospinta sin lì svanì di colpo. Affascinata, Hilde Reiter sbarrava gli occhi verso il luogo dove, a poche centinaia di metri, la signorina Luise parlava con undici figure: eccitata, agitata, come fuori di sé. Erano due anni che l'assistente Hilde Reiter lavorava in quel campo. Era arrivata a Neurode perché una sua amica, Gertrud Hitzinger, che era lì già da tre anni e mezzo come assistente, le aveva scritto che il lavoro era facile e gradevole, non pesante, e che c'era tanto tempo libero. Hilde Reiter aveva 33 anni, era carina, ma aveva un'espressione dura: e soprattutto certe sue particolari inclinazioni. Passò un bel po' di tempo prima che la signorina Luise scoprisse di che inclinazioni si trattava. Fino al giorno cioè in cui la signorina Luise sorprese la collega mentre picchiava un ragazzino. Gli aveva calato i calzoni e lo picchiava con una canna sul sedere nudo. Il ragazzo gridava. La signorina Luise, che già da tempo sospettava qualcosa sul conto della collega, la stava spiando dal suo nascondiglio. La Reiter disse: «Hai gridato? Benissimo! Avrai altri tre colpi. Per ogni grido, tre colpi!». La signorina Luise uscì lentamente dal suo nascondiglio. Il ragazzino urlava come un forsennato. Venne gente dappertutto, giovani e adulti. Ci fu uno scandalo. La signorina Luise era fuori di sé. Quella sadica doveva andarsene! Via dal campo! E aveva continuato a
sbraitare fino a quando il direttore del campo l'aveva convocata, assieme a Hilde Reiter. Il dottor Horst Schall aveva rivolto un duro ammonimento a Hilde Reiter. Che non si verificasse mai più. Alla prossima occasione l'avrebbe denunciata e fatta processare. La signorina Luise disse: «Ci bado io a questa donna, dottore, si fidi di me!». Sorvegliata! Tenuta d'occhio! La Reiter se ne sentì sconvolta. Essere spiata, osservata in ogni movimento da quella vecchia ciabatta cui mancava qualche rotella, che parlava all'aria e pareva sentire voci, perché a volte si bloccava a bocca aperta, nel bel mezzo di un discorso, e ascoltava quello che le dicevano esseri invisibili. E Hilde Reiter avrebbe dovuto farsi sorvegliare da una pazza come quella? Decise di vendicarsi. Assieme alla sua amica, l'assistente Gertrud Hitzinger, cominciò a sua volta a osservare e a spiare ogni movimento della signorina Luise, e con tanta cautela e attenzione che quella non se ne accorse. Le due donne cominciarono a inoltrare una denuncia dopo l'altra al dottor Schall, a proposito del singolare comportamento della signorina. Il dottor Schall conosceva Luise Gottschalk da molti anni, sapeva quanto fosse fidata, disposta in ogni momento a farsi persino uccidere, se questo fosse servito a salvare la vita a uno solo dei tanti, tanti bambini. Accantonò le denunce. Hilde Reiter divenne ancora più furiosa quando si rese conto che le denunce restavano senza conseguenze, e il suo odio crebbe. Lei e la Hitzinger si misero a spiare la signorina Luise anche più di prima. E scoprirono così che la signorina, spesso, lasciava il campo, di sera: e nessuno sapeva dove andava. Le due donne la seguirono alcune volte. La signorina Luise procedeva sempre lungo il bordo dell'acquitrino, in direzione del villaggio; attraversava il villaggio, proseguiva fra i canneti e i cespugli; e poi, improvvisamente, ogni volta, spariva. Via. Non c'era più. Come inghiottita dalla terra. Una cosa incredibile! Hilde Reiter e Gertrud Hitzinger raccontarono tutto quello che erano riuscite a sapere o a sospettare sul conto della signorina Luise alle altre assistenti, nessuna delle quali voleva particolarmente bene alla vecchia signorina. Era troppo scostante per riuscire simpatica, troppo ruvida di carattere, troppo diffidente e troppo chiusa. Donava tutto il suo amore ai bambini, e non gliene avanzava per gli altri. Non dimostrava interesse per le ripicche, le gelosie, le liti interne fra le assistenti. E così credettero subito a quello che Hilde Reiter e Gertrud Hitzinger raccontavano. La signorina Luise eb-
be così due soprannomi: uno era «la pazza», l'altro «la strega». E la tensione crebbe. Il dottor Horst Schall divenne infelice. Cercò di fare opera di mediazione: inutilmente. Parlò con Luise Gottschalk: inutilmente. «Bugie! Bugie! Soltanto bugie, glielo giuro, dottore!» gridò la signorina, facendosi ora pallida e ora rossa in volto. Nella prima settimana di giugno, Hilde Reiter ebbe una ricaduta. Era arrivato al campo un bel ragazzo, un greco dai capelli scuri, dal carattere focoso. Aveva 14 anni. Ruppe con una pallonata il vetro di una finestra. Il sole era alto nel cielo, e tutti i ragazzi erano all'aperto. Hilde Reiter convocò il ragazzo greco in una baracca, gli ordinò di togliersi i calzoni, afferrò un righello e - per evitare che lui la «sporcasse» (disse proprio così) - si tirò su alta la gonna. Il ragazzo dovette distendersi sulle cosce di Hilde Reiter, rivestite dalle calze. Nel picchiarlo, lei cominciò a eccitarsi. Il giovane greco non emise un solo suono. Il respiro di lei si fece più affannoso, il sangue le pulsava caldo nel grembo. Non si accorse che qualcuno apriva la porta della stanza. Ormai era sull'orlo dell'orgasmo. Quando sollevò lo sguardo offuscato, richiamata da un rumore, era già troppo tardi. Nella stanza c'era il dottor Schall, il direttore del campo. Disse solo un paio di frasi. «Si consideri licenziata, naturalmente. E immediatamente sospesa dal servizio. Farò un rapporto su di lei. E domani mattina l'accompagnerò io stesso dalla polizia, a Zeven. Sino a quel momento le proibisco di lasciare il campo.» Tutto questo accadde nel tardo pomeriggio del 5 giugno 1968, un mercoledì. 13 «È sempre occupato» disse Irina Indigo, e riappese il ricevitore. Era molto agitata. Aveva seguito senza interesse il racconto del pastore, che era nel frattempo riuscito a riparare il fornello. Aspettava solo di poter sentire la voce del suo fidanzato: e con che ansia l'aspettava! «Avrà una lunga chiacchierata da fare» dissi io, seccato, perché ero ancora tutto preso da quello che Demel mi aveva riferito. «Oppure anche diverse lunghe chiacchierate. Non tema, la signorina del centralino continuerà a tentare. Abbia pazienza.» Irina Indigo alzò le spalle e si abbandonò su una sedia.
«La prego, signor pastore,» dissi «prosegua quel suo racconto.» 14 «Gertrud! Gertrud! Svegliati, Gertrud!» Hilde Reiter s'era inginocchiata accanto al letto dell'amica, e la scuoteva. La Hitzinger si svegliò lentamente e di cattivo umore. «Per Dio, ma si può sapere... cosa c'è... brucia qualcosa?» Le parole di Hilde Reiter s'accavallarono mentre raccontava quello che aveva appena visto. Improvvisamente la Hitzinger fu ben sveglia. «La vecchia è ancora lì fuori nella palude?» «Ma si, certo, te lo sto dicendo!» «Ma non può essere nella palude! Non ci sono sentieri per arrivarci! Non è possibile!» «E invece ti dico che è proprio lì! Nella palude! E c'è della gente lì con lei, e lei parla con loro.» «Uomini?» chiese la Hitzinger stringendo gli occhi. «Mi sembra, sì... Sì, uomini, sono uomini!» esclamò la Reiter. Nel momento stesso in cui lo disse, se ne convinse. Uomini, ma certo che erano uomini quelli attorno alla vecchia strega! La Reiter reagì inconsapevolmente, ma in modo tipico del suo carattere: quella maledetta Gottschalk era stata la prima a cacciarla nei guai, quando aveva picchiato un ragazzo! Era di quella maledetta la colpa della situazione disperata in cui si trovava. E, viste le conseguenze, tanto valeva far sì che anche la vecchia strega avesse la sua parte, quella che si meritava: e che fosse pure licenziata, sissignora! Gertrud Hitzinger era già uscita dalle lenzuola. S'infilò scarpe e cappotto e dichiarò: «La devono vedere anche le altre. Svegliale. Dài, dài, spicciati Hilde!». Pochi minuti dopo un drappello di otto assistenti correva sulla sabbia, sull'erba e sul cemento del piazzale per gli appelli, Hilde Reiter in testa. La luna diffondeva ora una luce chiara e forte, la nebbia si era diradata. Trascorsi altri pochi minuti, le donne s'ammucchiarono a ridosso del recinto e vicino al pilastro di cemento dove era stata Hilde Reiter. «Dov'è?» chiese Gertrud Hitzinger, sbarrando gli occhi sulla palude. «Non riesco a vederla.» Nessuna delle donne riusciva a vedere la signorina Luise. «Eppure era lì!» esclamò la Reiter. «Era lì! Su quella collinetta dove ci
sono quei salici! Anzi, no... più a destra! Dove c'è quel pino spezzato, lo vedete?» «Il pino sì. Ma non la vecchia.» «E allora deve essere già andata.» «Andata? E come? Camminando sul fango? Sull'acqua! Ma è impossibile!» «Assolutamente impossibile. Ma guarda! La sabbia finisce lì, a pochi metri dallo steccato, e poi c'è palude. E ci si sprofonda!» «Dopo tutta la pioggia che c'è stata!» «Appunto!» Le loro voci si accavallavano. «Non poteva camminare sulle piante galleggianti.» «E un sentiero solido non c'è.» «Eppure vi dico che Gertrud ed io l'abbiamo vista tante volte, sparire improvvisamente subito dopo il villaggio!» esclamò la Reiter. «Giuro su Dio che è vero quello che dico! Era li fuori e parlava con degli uomini! Uomini! Li ho visti io! Con i miei occhi! Ch'io possa diventare cieca, qui sul colpo, se non è vero!» La signorina Luise rientrò al campo un'ora dopo. Il guardiano magro che era di servizio notturno la salutò dalla sua baracca, mentre lei apriva e poi richiudeva il cancello piccolo con la sua chiave. Lei gli rispose con un gesto gentile, e proseguì col suo passo pesante. Quando entrò nella stanza della sua baracca e accese la luce elettrica, vide che nel locale c'erano delle donne. Otto donne. «Che succede?» chiese, spaventata. «Siamo noi che lo chiediamo a lei!» disse la Hitzinger. «È l'una e mezza. Dov'è stata?» «Io... io...» la signorina aveva il fiato grosso. «Non riuscivo a dormire... E allora sono andata a fare quattro passi.» «Nel cuore della notte?» «Sì.» «Dov'è andata a spasso? Per il campo?» «Sì» disse la signorina, a mezza voce. «Per il campo.» «Non è vero!» gridò furibonda la Reiter. «Abbiamo detto al sorvegliante di avvisarci non appena lei fosse rientrata aprendo il cancello. E lui ci ha telefonato! Ecco perché siamo qui! Lei è andata a spasso fuori, non nel campo! Dov'è andata a passeggio, signorina Luise? Dove?» «Questa è una faccenda che non vi riguarda» esclamò la signorina Luise,
perdendo alla fine il controllo. «E se ora non vi spicciate ad andarvene dalla mia stanza, avviso il direttore del campo!» «L'abbiamo già fatto noi» disse la Hitzinger, con un sorrisetto cattivo. «Le manda a dire di trovarsi domani mattina alle 8 nel suo ufficio.» La signorina Luise si abbandonò sul letto. «Mio Dio» disse con voce quasi impercettibile. «Mio Dio del cielo...» 15 «Signorina Luise,» disse Paul Demel «noi siamo sempre andati molto d'accordo, vero? Siamo amici. Dico bene?» «Certo, signor pastore» disse Luise Gottschalk. Era seduta nella stanza di lavoro di Demel, di fronte a lui. Era assolutamente tranquilla e sorrideva con aria innocente. «Non deve aver paura» disse Demel. «Non ho paura» disse la signorina. «Un caffè?» «Sì, grazie.» Demel prelevò un bricco dal fornello e riempì due tazze che erano sul tavolo. E poi s'accese una sigaretta. «Oh che bellezza, signor pastore. Avevo proprio voglia d'una tazza di caffè!» La signorina Luise beveva visibilmente soddisfatta. «Signorina Luise,» disse Demel «devo chiederle una cosa.» «Chieda pure, chieda, signor pastore.» «L'assistente Hilde Reiter è partita. Non deve quindi più aver paura di lei.» «Non ho mai avuto paura di quella psicopatica che picchiava i bambini! Io non ho paura di nessuno, signor pastore.» «E allora perché non ha voluto dire al dottor Schall dov'è stata la scorsa notte, signorina Luise? Questo sta forse a significare che lei ha paura del direttore...» «Be', no: ho temuto che non potesse capirmi. E che di conseguenza mi vietasse di rimanere coi miei bambini, se gli avessi detto tutto.» La signorina Luise chinò la testa. «Ed è per questo che non ha voluto rispondere al dottor Schall?» La signorina Luise annuì. «Se però ora le dico che il dottor Schall mi ha pregato di parlare con lei,
visto che noi due ci conosciamo meglio, e se le dico che lui ha parlato di lei come della sua collaboratrice più preziosa, e che non ci pensa nemmeno a mandarla via di qui, perché non è possibile che lei abbia fatto qualcosa di male... mi dirà allora dov'è stata stanotte?» «Glielo ha detto davvero, che sono la sua collaboratrice più preziosa e che non ci pensa nemmeno a...» «Sì, signorina Luise, sono parole sue. E allora, me la vuol dare quella risposta?» La donna sollevò la testa, e i suoi grandi occhi blu erano pieni di fiducia e di sollievo. «Certamente,» disse «volentieri, signor pastore. Le dirò quello che vuole sapere. Lei sa comprendermi! Siamo amici, e io so che lei non può che volermi del bene.» «Dov'è stata, dunque?» chiese Demel. «Nella palude» disse la signorina Luise, premurosa. «Molto in dentro. Dove vado sempre. Dai miei amici.» «E chi sono?» «Dunque,» rispose la signorina Luise «innanzi tutto un pilota di carri armati russo, e poi un bombardiere americano, e un radiotelegrafista cecoslovacco che ha combattuto nell'esercito inglese; un artigliere polacco; un bracciante ucraino; un tedesco, capomanipolo delle SS; un comunista norvegese; un testimone di Jehova, tedesco anche lui; un fante francese; un socialista olandese e un tedesco che lavorava per il servizio di lavoro obbligatorio del Reich. Aspetti, glieli ho detti tutti? Uno, due, tre... undici. Sì, undici in tutto, è giusto. È gente che ha sofferto e patito. A volte me lo raccontano. Il francese per esempio, soffriva d'asma, di un'asma terribile. Ora naturalmente non ne soffre più.» 16 Per qualche tempo, nella stanza del pastore, ci fu silenzio. La signorina Luise vuotò la sua tazza, sorrise felice a Demel e chiese: «Potrei averne un altro po', signor pastore? È così buono!». «Naturalmente, volentieri... subito» disse Paul Demel, che era alquanto scosso. Prese il grande bricco e, nel riempire di nuovo la tazza della signorina Luise, disse, sforzandosi di mantenere fermo il tono della sua voce: «Ha davvero tanti amici... e di tanti paesi diversi». «Già, di tanti paesi. E anche d'età sono tutti diversi. Quello del servizio
di lavoro, per esempio, quello è il più giovane, di gran lunga. Ventitré anni, neanche compiuti, aveva quando è morto, qui, nel 1935.» Sorseggiava il caffè. «Lo sapeva che allora questo campo esisteva già?» «No.» «Esiste dalla fine del 1934! Che roba, eh? Sa bene come vanno queste cose: quando da noi in Germania costruiscono un campo di baracche, c'è da giurarci che rimarrà per sempre. E c'è sempre qualcuno da rinchiudervi. Ora glielo racconto: dunque, inizialmente questo era un campo del servizio di lavoro obbligatorio del Reich. Gente che avrebbe dovuto bonificare la palude. Non sono rimasti qui a lungo. Solo fino al 1937. Poi è diventato un campo per detenuti politici: inizialmente tedeschi, poi anche di quegli altri paesi che abbiamo aggredito. Un campo di concentramento, si. Fu così che finirono qui il testimone di Jehova, poverino, e poi anche il comunista norvegese e il socialista olandese. Sono tutti morti qui. E sepolti nella palude. Sì sì, signor pastore, è inutile che mi guardi in quel modo! Se sapesse quanti morti ci sono lì fuori: a centinaia! La palude è piena di morti! Ai nazisti andava benissimo che ci fosse la palude qui attorno. Più semplice di così non poteva essere, vero?» «No, più semplice di così no» disse Demel. S'accorse che la brace della sigaretta stava per bruciargli le punte delle dita, e spense in fretta il mozzicone. «Già, e dopo la parentesi politica, hanno trasformato il campo di concentramento in un campo di prigionia, e sono venuti i prigionieri di guerra, dappertutto. Quel mio compatriota, il cecoslovacco, e poi il francese, il polacco, il russo. Mandavano anche gente quassù dagli altri campi, quando erano sovraffollati. È un campo enorme, questo di Neurode, vero? Ed è così che sono morti qui anche quei prigionieri di guerra di cui le dicevo. E poi, visto che c'era un pigia pigia tale nei tanti loro campi, che non sapevano più dove andare a sbattere la testa, allora i nazisti hanno diviso questo campo in due, e hanno ammucchiato da una parte anche quelli dei lavori forzati. È così che è capitato qui l'ucraino, per morire poi di polmonite... Sì, e poi, proprio alla fine della guerra, hanno sistemato qui anche i piloti degli aerei, quelli che avevano abbattuto. Li hanno messi in un reparto speciale, qui dietro, alla fine del campo. Inglesi e americani. È così che è arrivato qui anche il mio americano.» «Ed è morto» disse il pastore, piano. «Ed è morto. Appena finita la guerra, questa zona è stata occupata dagli inglesi: e il campo se lo sono preso loro, gli inglesi appunto. Ed erano en-
tusiasti della sua posizione, per l'isolamento, eccetera. E hanno spedito qui i pezzi grossi del nazismo e delle SS. Anche il mio capomanipolo. Insomma, per tre anni è stato un campo per nazisti, e poi è venuto il blocco di Berlino e sono arrivati i primi profughi dalla Germania orientale, dico bene? I tedeschi si sono ripresi il campo, hanno smontato le torri di guardia, tolto l'elettricità dal filo spinato, dipinto a nuovo le baracche, piantato qualche fiorellino per renderlo più carino: e così il campo s'è subito di nuovo popolato! Di bambini, stavolta. Fino a oggi. Si può dire, signor pastore, che dal giorno dell'inaugurazione non c'è stato un sol giorno di tregua!» La signorina Luise sorrise della sua stessa osservazione. «Quei suoi amici quindi sono tutti morti nella palude» disse il pastore, angosciato. Ma riuscì ugualmente a sorridere un poco. «Gliel'ho detto!» La signorina Luise annuiva, raggiante. Considerava naturalissimo tutto quello che aveva raccontato. Ovvio. Era così, punto e basta. Il pastore si propose di indagare sulla vita passata della signorina Luise, e di accertare se era già stata sottoposta a qualche trattamento psichiatrico. Da quando è qui, pensò il pastore con tristezza, non ha più in pratica avuto un solo amico adulto. Il medico, forse. E il mio collega cattolico. Il direttore del campo già non più. Solo i bambini. E molti fra i più grandi preferiscono non avere a che fare con lei, rammentò Demel. E ripensò anche all'aria vagamente rapita, chiusa e assente che assumeva a volte. «Dove ha saputo tutte queste cose sul campo?» chiese. «Me le hanno raccontate certi vecchi contadini. Quelli se ne ricordano ancora.» «E da quando va nella palude dai suoi amici?» «Be', come dire... all'incirca da due anni, forse. Prima, circa tre anni fa, si sono limitati a parlarmi, si sono presentati e mi hanno detto cosa facevano, prima di morire.» «Allora però lei sentiva solo le loro voci?» «Soltanto le voci, sì. Specialmente di notte. Qui nel campo non riesco a vederli, neanche adesso. Nel campo, sa, sono invisibili.» «Capisco» disse Demel. «Però lei parla a loro, e qualche volta loro rispondono, vero?» «Appunto, signor pastore.» «In questo momento... voglio dire... C'è qualcuno dei suoi amici qui, in questo momento? Qui nella stanza?»
La signorina piegò la testa, ascoltò un poco, lo sguardo perso nel vuoto, e poi assentì. «Sì, signor pastore. Il francese e l'ucraino. Mi hanno detto che è giusto che io le racconti tutto. E vuole sapere il perché? Perché lei è una brava persona, che sa capire: lo hanno detto loro, tutti e due.» «Suvvia...» «Sì, sì! Me l'hanno proprio detto!» esclamò la signorina. Sorseggiò un altro po' di caffè. Aveva un'aria felice, felice come non le accadeva da tempo, pensò Demel. «E poi» continuò la Gottschalk «circa due anni fa, una volta, di notte, è venuto lo studente, il mio preferito. Quando lo vedo, mi sento il cuore che mi si spezza quasi.» «Di gioia?» «Di gioia e di dolore, l'una e l'altro. Non so neanch'io dire cos'è. È come se tutta la mia vita si concentrasse in quel solo momento, quando lo vedo, lo studente: magro, piccolo, sciupato. Io mi esprimo come una sciocca, sono soltanto una stupida donnetta, ma il signor pastore riesce a capirmi, vero?» Paul Demel annuì e pensò: Quanto sola deve essere una persona per giungere al punto di crearsi degli amici con la fantasia, crearseli al punto che le appaiano reali, veri. E il tutto solo per provare un po' di felicità, avere amici, non sentirsi più sola! «Dunque, lo studente è venuto da me e mi ha domandato perché non andavo anch'io a trovare lui e i suoi compagni, ogni tanto, così come loro facevano con me.» «In poche parole, le hanno chiesto di andare a trovare i suoi amici nella palude...» «Sì, nella palude. Allora, quella notte, sono riuscita persino a vederlo, lo studente. È stata l'unica volta che ho potuto vedere uno dei miei amici qui nel campo! Strano, vero? Aveva addosso il suo abito da lavoro. Una tuta a strisce, grigia, e gli stivali. È magrissimo, e minuto. Mio Dio, gli spuntano le scapole! Certamente, per tutta la sua vita, non ha avuto abbastanza da mangiare. Ma è così intelligente! Gliel'ho già detto che è il mio preferito?» «Sì.» «Voglio bene a tutti: tanto, tanto! Ma allo studente ne voglio più che agli altri!» «In che punto della palude le hanno detto di andare?» chiese Demel. «Su quella collinetta dove ci sono gli undici salici, signor pastore: la conosce anche lei. Un bel pezzo dentro la palude.»
«Ma non ci sono sentieri che conducono sino a lì! Non è possibile arrivarci! C'è solo pantano attorno!» «Questo lo dice lei!» La signorina Luise rideva. «Un sentiero c'è. In tutte le paludi ci sono sentieri così. Ma sono difficili da scoprire. Solo alcuni contadini che vi si avventurano d'inverno per andare a tagliare le canne da usare come strame, nelle stalle, li conoscono. Proprio uno di loro mi ha mostrato il sentiero. A dire il vero non è proprio un sentiero. È una pista, appena una traccia si può dire...» Una traccia, pensò Demel. E da due anni la signorina Luise la percorreva a rischio di... Si costrinse a non pensare oltre, e chiese: «Non le è mai successo d'aver paura, signorina Luise? È molto pericoloso!». «Non per me, signor pastore! Non per me! E sa perché? Perché vado dai miei amici, che mi aspettano, e coi quali poi mi trovo su quella piccola collina, dove ci sono gli undici salici. Ma quando arrivo io, non sono più dei salici, allora sono i miei undici amici. Quando siamo insieme, i salici spariscono.» «La Reiter non ha visto salici» disse il pastore. «Quella ha visto persone. Uomini.» La signorina si soffermò a pensare. «Già, è vero» disse, stupita. «Proprio lei, una donna così malvagia. Ma com'è possibile? Secondo me ha visto solamente i salici ma ha creduto che fossero uomini! Un'illusione, perché ha voluto che io fossi lì a parlare con degli uomini, per potermi poi rinfacciare qualcosa. Dev'essere andata così. Anche le persone cattive hanno molta forza d'immaginazione, signor pastore. Lei lo sa, vero?» «Sì» disse lui, sospirando. «Su quella collina dunque lei e i suoi amici vi trovate e chiacchierate.» «Con loro, sì! E mi sento al sicuro! Sotto la loro protezione! Non mi può succedere nulla! E poiché lo so e poiché ci credo così fermamente, non mi è mai successo niente su quella pista. E non mi succederà nemmeno mai niente!» «Quando lei arriva sulla collina, i suoi amici sono sempre già lì che l'aspettano?» «Sì, tutti!» «E che aspetto hanno?» «Oh, l'aspetto che avevano in vita! Io voglio loro bene, mi sento unita a loro: e così li distinguo chiaramente.» «Quindi sono sempre ancora su questo mondo? Non hanno ancora trova-
to pace nell'aldilà?» «Ma certo che l'hanno trovata! E che pace meravigliosa, signor pastore! Aspetti che glielo spiego molto esattamente, signor pastore, così come i miei amici l'hanno spiegato a me. Dunque: un morto, dopo la morte, vaga ancora a lungo, per anni, su questa terra, poiché è dalla terra che proviene. E in questo periodo può ancora apparire agli uomini vivi. Poi, finalmente, arriva all'altro mondo. Ma all'inizio solo nello strato inferiore dell'altro mondo.» «Strato?» chiese Demel. «Sì, strato. Se l'immagini come una scala con tanti, tanti gradini, signor pastore.» La signorina Luise era eccitata. Le sue guance erano in fiamme e i suoi occhi blu brillavano. «Giù in fondo alla scala c'è l'essere umano. E su in cima, alla fine della scala, c'è l'essere divino: è lassù che sono i beati. I miei amici sono su uno scalino intermedio...» «Capisco...» «Non sono ancora assieme ai santi! Un po' più in giù. Qualche scalino sotto i santi.» «In uno stadio preparatorio» disse Demel, e il fumo della sigaretta gli andò di traverso. «Esatto, in uno stadio preparatorio. È una bella espressione! E poi, signor pastore, il meraviglioso è questo: nello strato in cui vivono i miei amici, esiste solo l'amicizia, esiste solo la pace, esiste solo la bontà.» «Questi suoi amici morti sono stati dunque uomini buoni?» La signorina esitò. «No, non direi proprio che lo fossero... Adesso sì, adesso lo sono, buoni, naturalmente, altrimenti non sarebbero mai arrivati in quello strato, capisce?» «Capisco.» «Tutto quello che di male c'era in loro è andato via, suppongo. E in quello strato in cui vivono i miei amici, a mezza via fra gli uomini e Dio onnipotente, conservano ancora un ricordo della loro vita su questa terra. E del ruolo che hanno avuto qui da noi. E della loro nazionalità. Anche delle loro professioni. Il cèco, per esempio, faceva l'architetto a Brno. Il norvegese era cuoco. L'olandese era editore di libri scolastici a Gröningen. E l'americano tecnico pubblicitario a New York, Madison Avenue. Il capomanipolo fabbricava mayonnaise a Seelze, vicino a Hannover. Il russo faceva il clown in un circo di Leningrado. Il polacco era un professore: insegnava matematica all'università di Varsavia. L'ucraino era un contadino. E il
francese lavorava come cronista giudiziario per un giornale di Lyon. Il testimone di Jehova era impiegato d'una cassa di risparmio a Bad Homburg. E quello del servizio di lavoro obbligatorio, il più giovane, quello che è morto da più tempo, era studente di filosofia e stava a Rondorf, vicino a Colonia...» «Continui, la prego» disse Demel. «Be', loro ricordano tutte queste cose. E anche i loro caratteri... la loro personalità... sì, penso che si possa dire così... la conservano ancora; però, ed è questo il meraviglioso, sono tutti amici, un gruppo di amici, perché ormai sono completamente senza passioni. Sono soltanto esseri spirituali. La passione, quella è soltanto una prigione per il corpo e in questa loro mancanza di passionalità sono tutti uniti, così come sono uniti a tutti i beati, giusto?, e io faccio parte del loro gruppo, mi hanno accolta fra di loro, c'incontriamo nella palude e chiacchieriamo.» «Di cosa parlate?» chiese Demel. «Di tutto quello che succede al campo. Vogliono sapere delle preoccupazioni che ho coi bambini. Quando non so come devo comportarmi con un ragazzo o con una bambina, quando un piccino è difficile di carattere, o malato, o è fuggito via, o è cattivo: allora loro mi consigliano.» La signorina piegò la testa di lato, stette come ad ascoltare e poi annui. «Cosa c'è?» chiese il pastore. «Il francese» disse la signorina. «Ci sta ascoltando!» «Ah, già... E dov'è?» «Vicino alla finestra, dietro di lei, signor pastore. Il francese mi ha detto di riferirle che loro non parlano mai molto esplicitamente con me - "concretamente" è la parola che ha usato - non mi danno degli ordini, delle disposizioni. Non dicono, per esempio: "Torna al campo e sii particolarmente gentile e riguardosa con quel bambino cattivo, è cattivo soltanto perché ha visto tante cose cattive"... No, mi dicono: "Fai quello che ti proponi di fare, senza indugio, e vedrai che ti andrà bene". E allora io so con precisione che cosa debbo fare! Del resto è chiaro, vero?» «Già... naturalmente. È tutto chiarissimo. E qualche volta l'ammoniscono anche, quelle voci, signorina Luise?» «Certo che lo fanno! E spesso! Ma sempre in quel modo che io devo poi capire da sola. Loro non sono del resto capaci di parlare diversamente.» «E perché no?» «Insomma, perché nell'aldilà non c'è niente di concreto» disse la signorina Luise. «Mi sembra chiaro come il sole, signor pastore!»
17 «Schizofrenica» dissi io. «Naturalmente» disse Paul Demel. Si passò una mano fra i capelli corti. «Povera signorina. Ormai lo sanno tutti. Ecco perché non la vogliono più nelle baracche delle assistenti, perché è stata praticamente emarginata da quelle donne ed è venuta a rifugiarsi qui, perché i risentimenti contro di lei - nonostante tutti i miei tentativi di favorire una distensione - hanno assunto forme tali che anche il dottor Schall ha dovuto cominciare a riflettere se non sia il caso di mandare in pensione la signorina Luise. È una tragedia, davvero...» «Finirò coll'impazzire!» disse Irina, con irruenza. Era seduta accanto al telefono e lo fissava come per ipnotizzarlo. «Non è possibile che sia occupato per ore e ore! Sicuramente la signorina del centralino si è dimenticata di me!» «Ma no.» Misi una mano sulla spalla di Irina. «Abbia pazienza. Solo un poco ancora di pazienza. E vedrà che fra non molto le passeranno la sua telefonata.» Poi mi rivolsi di nuovo a padre Demel e gli chiesi: «Lei sa se, in passato, la signorina Luise è stata sottoposta a trattamento psichiatrico?». «Sì» disse lui. «E allora?» chiesi io, e gettai un'occhiata al registratore. Continuava a funzionare bene. «Nata e cresciuta a Reichenberg,» disse Demel «ha perso prestissimo i genitori. Due anni di orfanotrofio. Una ragazza piena di carattere, simpatica. E servizievole, sempre disposta ad aiutare il prossimo. A 18 anni ha cominciato a lavorare come assistente sociale, a Vienna. A 24 anni è stata mandata, per un breve periodo, nel Massiccio centrale. Parte boema, dove ci sono i Prati Bianchi.» «Cosa sono i Prati Bianchi?» «Una palude alta, come questa qui» disse. «Già, come vede, una relazione c'è. Anzi: c'è un particolare in più. È là, nel Massiccio centrale, che la signorina ha avuto la sua prima, relativamente tarda esperienza amorosa. La sua unica esperienza del genere, per quel che sono riuscito a stabilire. Un giorno quel giovanotto, che era più giovane di lei, s'inoltrò nella palude e risulta morto nei Prati Bianchi. La sua salma non è stata mai più ritrovata. Non sono riuscito a stabilire nemmeno se è stata una disgrazia, oppure se quel giovane soffriva di manie depressive o di qualcosa del genere.»
«Ad ogni modo è morto giovane, annegato in una palude come...» M'interruppi. «Come gli amici che la signorina Luise ha qui» disse il pastore, annuendo. «Dopo il soggiorno nel Massiccio centrale, segue una parentesi di sei mesi. Non so cosa le sia accaduto in quel periodo.» «Il primo manifestarsi della schizofrenia forse» dissi io, accarezzando le spalle tremanti di Irina. «Calma,» le dissi «stia calma. Ora le daranno la linea, è questione di attimi.» Alzò gli occhi su di me e sorrise, tormentata. «Probabilmente ha ragione» disse Demel. «Sarà stata in una clinica. Dopo, guarita, è tornata a lavorare come assistente, sempre come assistente, e sempre in campi come questo. Campi di ogni genere.» «E sotto ogni genere di regime» dissi io. «Sotto ogni genere di regime, appunto» disse il pastore. «Forse non ha avuto altra scelta, visto che ormai quel suo attacco di follia risultava ufficialmente.» Lo disse senza ombra di cinismo. «Del resto dicono che fosse allora come oggi: molto gentile e servizievole, ma carente sul piano delle relazioni. Quasi inavvicinabile da parte di adulti. Capace di voler bene solo ai bambini. Per questo tutti i regimi l'hanno spedita nei campi di profughi: anche nelle condizioni più terribili, col freddo e con la fame, sapeva non trascurare mai i suoi bambini, si dedicava loro sino al limite delle sue forze. Ha conosciuto alcune persone di valore, con le quali è riuscita a stabilire un rapporto affettivo. Ma non molte. Poche. E ora è qui da vent'anni, signor Roland: vent'anni! Può immaginare anche lei cosa significa essere qui quando la nebbia si alza davvero, oppure d'inverno, quando siamo sepolti da metri di neve! Luise va a Zeven una volta la settimana. Sono anni che non si reca più a Brema o ad Amburgo. È per questo dunque, secondo me, che la sua fantasia ha partorito quegli amici, fatti di brandelli di ricordi delle persone con le quali era riuscita a stabilire un contatto nella sua vita, e di racconti dei contadini sui tanti morti che sono finiti qui nella palude...» Il telefono squillò di nuovo. Irina, con un balzo, raggiunse l'apparecchio, strappando alto il ricevitore. «Sì... sì... grazie.» E a noi disse: «Ora mi passa la comunicazione». «Ecco, vede» disse Demel. Irina era tesa allo spasimo. A un tratto le si dipinse in volto una espressione di stupore. «Cosa c'è?» chiesi io. «Trasmettono musica» disse lei. «Musica... e che musica, mio Dio!...
Ascolti anche lei...» Mi porse il ricevitore. E sentii risuonare lontana, confusa, disturbata dai fruscii della linea, una melodia lenta e malinconica, suonata da molti violini. «È Girotondo» dissi, restituendole il ricevitore. «La mia canzone preferita» disse Irina. «Una vecchia melodia vero?» e canticchiò anche lei qualche battuta, a mezza voce. La guardai, e di colpo mi fu chiaro che Irina, nonostante la psicologia cui si era dedicata, nonostante la sua intelligenza indubbia, era una creatura sola e indifesa. Di quelle cui è facile mentire. Di quelle che è facile ferire. Il tipo che crede a tutto quello che le raccontano le persone che le sono vicine. Irina Indigo era stata un problema semplice per tutti quelli che l'avevano avvicinata. Ma Irina Indigo, la ragazza dagli occhi tristi, ne aveva tratto solo delusioni: ne fui improvvisamente convinto. E ora aveva riversato tutta la sua fiducia, tutto il suo amore sull'uomo di cui diceva che era il suo fidanzato e al quale stava telefonando: il capitano Jan Bilka. «Girotondo piace tanto anche a Jan» stava dicendo Irina. «E proprio adesso questa canzone... Un buon segno, vero?» Un attimo dopo gridò: «Jan!». E si mise a parlare in cèco molto rapidamente. Il pastore e io la stavamo a guardare. Le parole di Irina si accavallavano. Si interruppe di colpo. Il viso le si contrasse dalla rabbia. «Pronto! Pronto!» gridò. «Pronto, signorina!» Cominciò a picchiare sulla forcella. «Qualcosa che non va?» «Sono stata interrotta...» La signorina Vera del centralino dovette intervenire a questo punto, perché Irina si mise di nuovo a parlare, con tono acceso, a scatti: «Signorina, è caduta la linea! Interrotta... No, no, no! La comunicazione era interrotta già prima che io premessi sulla forcella!... La prego, chiami ancora... La prego!... Sì... sì... va bene... La ringrazio». Ora Irina tamburellava con le dita della mano libera sul ripiano della scrivania. Peccato che Bertie non la possa fotografare così, pensai, e chiesi: «Cos'è successo? Cosa gli ha detto?». «Gli ho detto: "Jan, sono Irina. Sono in Occidente anch'io. Nel campo di Neurode. Puoi venirmi a prendere, se vieni con quel tuo amico e...".» «E...» «La comunicazione si è interrotta!» «Chi ha risposto dall'altra parte?» «Jan naturalmente!»
«Ne è certa?» «Certissima!» gridò lei, furibonda. «Non ha senso prendersela con me» dissi io. «Non è mica colpa mia.» «Mi dispiace. Mi scusi.» «Di niente» dissi io, e pensai: il bambino con la trombetta; la signorina schizofrenica; il capitano fuggito... Avanti di questo passo... Sì... Sì... Benissimo... Lo sentivo, l'avevo sempre sentito quando io e Bertie ci trovavamo sulle tracce d'una grossa notizia. Chiesi: «Cos'ha detto il suo fidanzato?». «2-20-68-54.» «In tedesco?» «Sì.» «E nient'altro?» «Dopo ho parlato sempre io!» «Però ha riconosciuto la sua voce.» «Sì, certo.» «È sicura di aver riconosciuto la sua voce?» «Glielo sto dicendo, sì! Era la voce di Jan! La sua voce! Non c'è dubbio!» Tese l'orecchio. «Ecco, ora c'è di nuovo il segnale.» Afferrò il ricevitore con tutte e due le mani. «Il segnale... il segnale...» La luce del sole calante la investiva di raggi color sangue. Diedi una breve occhiata fuori dalla finestra. Verso occidente gli ontani e le betulle nude del campo si ergevano contro la parete luminosa del cielo. «Sempre il segnale, solo il segnale...» Irina cominciò a singhiozzare di colpo. «Ma non è possibile! Se ha appena risposto!» Le tolsi il ricevitore di mano. Era umido di sudore. Ascoltai. Il segnale dava la linea libera. Irina piangeva senza ritegno. Il pastore le si avvicinò. «Suvvia» disse. «Non faccia così. La prego. Vedremo subito cos'è successo. Non si disperi così.» «Eppure quella era la sua voce! Gli ho appena parlato, era lì! Ma com'è possibile?» «Un momento» dissi io, sforzandomi di non tradire la mia agitazione. Riagganciai, sollevai di nuovo il ricevitore e chiamai il centralino. «Signorina, sono Roland. Non si arrabbi, la prego. Amburgo ora non risponde.» «Io ho fatto il 2-20-68-54» disse la telefonista, irritata. «Ma certo. Forse uno dei contatti è saltato. Le dispiacerebbe tentare an-
cora una volta? La prego... per amor mio.» Io e il mio potere sulle donne. Folgorante. Davvero. Non avevo proprio motivo di lamentarmi. Benché fossi un vecchio ubriacone, potevo avere tutte quelle che volevo. «Va bene, lo faccio per lei, signor Roland. Però ho anche dell'altro da fare, mi capisce?» «La ringrazio, signorina Vera, lei è una perla!» «Quell'individuo prima... quello che era disposto a portarmi via di qui... è davvero già stato processato per estorsione?» balbettò Irina. I suoi occhi scuri mandavano lampi, riflettendo il sole rosso. Improvvisamente tutto divenne rosso nel vasto ufficio, rosso sangue: tutto. «Pensa che volesse rapirmi? Pensa che abbia a che fare con Jan? Che sia successo qualcosa a Jan?» Sì - pensavo - comincio a crederlo, e dissi: «Sciocchezze. Nessuno voleva rapirla. Quell'untuoso individuo s'era fatto tutt'altre idee su di lei. E poi che significa: successo qualcosa a Jan? Se ha appena detto di aver sentito la sua voce». Che storia! Una vera miniera d'oro, pensavo. «Ecco il segnale di nuovo» dissi. Irina allungò la mano verso il ricevitore, ma stavolta me lo tenni io. Stavolta volevo parlare io per primo, se si fosse fatto vivo qualcuno. Guardai il mio orologio e feci suonare il segnale di linea libera per tre minuti. «Niente» dissi e riabbassai il ricevitore. «Qui non risponde nessuno.» Le labbra di Irina tremavano. Parlava a scatti: «Ho paura... Tanta paura... È successo qualcosa!... Deve essere successo qualcosa!». Ci puoi scommettere che è successo qualcosa, pensavo io, e dissi: «La prego, cerchi di dominarsi. Sì, d'accordo, c'è qualcosa che non quadra. Ma non sappiamo ancora cosa. Può esserci una spiegazione semplicissima. Ci possono essere centinaia di ragioni per cui ora nessuno risponde». «Me ne dica una sola, almeno!» Ah no, pensai, e dissi: «Signorina Indigo! La prego, cerchi di conservare la calma. Adesso è la cosa più importante. E poi tenterò di aiutarla». Mi guardò come se fossi stato il suo peggior nemico. «Lei? E perché proprio lei?» «Perché taccio il giornalista. Vado sempre a caccia di notizie. E qui forse c'è sotto qualcosa. Però potrò aiutarla solo se avrà fiducia in me.» Il telefono. Irina gettò un breve grido. Sollevai il ricevitore. Era la centralinista. «È riuscito a parlare?» volle sapere.
«No, purtroppo no. Non c'è stato niente da fare. La ringrazio comunque. La richiamerò presto per parlare con un numero di Francoforte.» «D'accordo, signor Roland. Mi dispiace per Amburgo.» Riattaccai e mi rivolsi a Irina. «Allora, Irina! Si fida di me?» «No» fece lei, con rabbia. «Signorina Indigo...» disse il pastore. «Io non mi fido più di nessuno. E perché dovrei?» Irina cominciò a piangere. Si abbandonò su una sedia e appoggiò la testa sulle braccia che aveva incrociato sul ripiano della scrivania: pianse a lungo. E io la lasciai piangere per un po'. Sapevo come sarebbe andata a finire. Non aveva scelta. E infatti alla fine sollevò il viso bagnato di lacrime, singhiozzò, singhiozzò un'altra volta, e poi disse: «No... non volevo...». «Allora: ha deciso di fidarsi di me?» Irina annui senza parlare. «Benissimo. Vedrà che la risolveremo in fretta.» E mi attaccai al telefono. Chiesi alla signorina Vera di collegarmi con la redazione di Francoforte. Le diedi il numero del giornale. La comunicazione arrivò quasi subito. Una voce di ragazza: «Redazione di Blitz, buon giorno». Conoscevo da anni tutte le nostre telefoniste. «Buon giorno a te, dolce Marion» dissi. «Qui parla Roland.» «Oh, signor Roland!» Le si era bloccato il respiro. Che vi ho detto? «Sono in una località della Germania settentrionale. Ti prego, passami il signor Kramer.» «Subito, signor Roland.» «Grazie, tesoro.» Vennero al telefono prima la segreteria di Kramer, e poi lui in persona. Kramer era il capo della redazione giornalistica e un mio buon amico. Lo conoscevo sin da quando avevo cominciato a lavorare per Blitz. «Salve, Hem!» «Salve, Walter. Che c'è? Ti sei sborniato anche lassù? Sciacallo in vista?» «No, Hem.» Lo chiamavamo Hem perché Paul Kramer, 56 anni, assomigliava moltissimo al grande Hemingway: il volto, i capelli grigi eternamente scompigliati, gli occhiali cerchiati d'acciaio che inforcava a volte, i calzoni di flanella spiegazzati, le coloratissime camicie da spaccalegna che indossava tanto volentieri: e poi soprattutto quel suo carattere. Se c'era
qualcuno capace di tenermi su di corda, a Blitz, quello era Hem. Il giornalista più generoso, più intelligente e più buono che conoscessi e, probabilmente, del mondo. L'unico uomo di cui avevo rispetto. Mi sarebbe piaciuto essere come lui, ma so che non lo sarò mai. «Sei in un bordello?» «No.» «Strano... Be', dimmi che t'affligge.» E io raccontai. Irina e il pastore ascoltavano, attenti. Raccontai quello che mi era capitato. Riferendo di Irina e del suo fidanzato, mi espressi con cautela. Hem capì lo stesso che avevo fiutato una faccenda grossa. E la fiutò anche lui. Avevamo elaborato, nel corso degli anni, un nostro linguaggio tutto particolare per casi del genere. Hem si eccitò quasi quanto m'ero eccitato io. «Vecchio mio, Walter, qui può saltar fuori qualcosa...» «Si. Appunto.» «E allora non mollare l'osso!» «Oh, no!» «Da parte mia ti do carta bianca. Fai quello che ritieni giusto. Non perdere i contatti, fatti vivo ogni due ore. Continua a richiamarmi.» «Sì.» E continuai a dire soltanto di sì. Il pastore e Irina assunsero espressioni perplesse. Feci loro un sorriso innocente. «Di notte chiamami a casa. Sai il mio numero.» «Sì.» «Dobbiamo sapere dove ti vai a cacciare.» «Sì.» «Suppongo che vorrai raggiungere Amburgo con Bertie e con quella ragazza... al più presto, vero?» «Sì.» «È lì che ascolta?» «Sì.» «Avverto subito Lester e Herford.» Lester era il direttore, Herford l'editore. «Hem, ho bisogno di soldi.» «Chiaro, me lo posso immaginare. Quanto?» «Quindicimila. Bisogna dire all'amministrazione che me li spediscano subito, telegraficamente al Park-Hotel di Brema. A nome mio... anzi no, a nome di Bertie.» Mi era venuta in mente una cosa.
«Va bene. Aspetta un momento. Avverto Ruth. Così non perderemo tempo.» Ruth era la sua segretaria. Sentii che parlottava brevemente con lei. «Rieccomi. Vai avanti, Walter.» «Poi ho bisogno che l'archivio mi fornisca tutti gli elementi di cui disponiamo su Karl Concon» e dettai il nome, lettera per lettera. «Quando è stato processato?» chiese Hem. «Bertie dice nel 1957. Ne facemmo un servizio fotografico, allora. Mi faccia mandare gli originali, o le fotocopie, come preferisce.» «Ad Amburgo?» «Sì. Aeroporto di Fuhlsbüttel. Fermo posta. Provvederemo noi a ritirare. Bertie o io. Che l'archivio ci indichi entrambi come destinatari.» «OK, Walter.» «E infine spediscano un messaggio per telescrivente a Conny.» Conny era Conrad Manner, il nostro corrispondente da Amburgo. «Che si dia subito da fare a questo indirizzo... Un attimo, Hem!» Mi rivolsi a Irina: «Com'è l'indirizzo di quel suo signor Michelsen?». «Eppendorfer Baum 187» disse, impressionata da quel dialogo telefonico a raffiche. «Eppendorfer Baum 187» ripetei nel ricevitore. «Conny deve riuscire a rintracciare questo Jan Bilka. Ma senza strafare. Solo una verifica.» «Ho capito. Muoversi con cautela.» «Esatto. E non deve mollarlo più, se lo trova. Mi pare che Conny abbia una amichetta, una con cui vive. Non mi ricordo il nome.» «Edith. La bella Edith.» «Giusto. Che le telefoni, continuamente, e le dica dove si trova e cosa succede, sino a quando arriverò io. Andrò prima da Edith. Conny ha bisogno d'una descrizione di questo Bilka. Ancora un attimo, Hem, le passo la signorina Indigo.» Le allungai il ricevitore: «Descriva il suo fidanzato» dissi. «Sì» fece lei, ubbidiente. E disse al ricevitore: «Buon giorno. Mi è stato detto che... Sì, allora: ha 32 anni... alto un metro e 80 circa, capelli biondi, tagliati molto corti... sì, un taglio militare... Occhi grigi... Viso lungo... una cicatrice sul lato destro del mento... slanciato... però è molto robusto... viso abbronzato... non saprei dire altro... Sì, va bene...». Mi restituì il ricevitore. Hem disse: «Dovrebbe bastare. Metto subito in moto la telescrivente. E tu fatti sentire più spesso che puoi».
«Okay. Salve, Hem. Ora vorrei parlare per cortesia con il dottor Rotaug.» Il dottor Helmuth Rotaug era l'esperto di faccende legali di Blitz, il capo dell'ufficio legale. «Ho capito, non puoi parlare liberamente lì dove ti trovi» disse Hem, e per un momento mi parve di sentire il profumo del suo tabacco Dunhill. Hem fumava sempre la pipa. «Suppongo che Rotaug ti debba spiegare esattamente come va formulata una dichiarazione di cessioni in esclusiva dei diritti di citazione.» «Esattamente» dissi io, con gratitudine. «Glielo dico io, tu limitati a scrivere. A risentirci, Walter.» Sentii uno scatto nella linea. Aspettai e feci un sorriso a Irina. Mi guardava triste e tutta seria. Era comprensibile che lo fosse. Poi venne Rotaug al telefono, con quella sua voce sottile che pure aveva un'intonazione stranamente pericolosa. Questo Rotaug era un uomo di 60 anni, lavorava da Blitz sin dalla sua fondazione, godeva dell'illimitata fiducia dell'editore e sembrava una tartaruga umana. Si muoveva piegato, con circospezione, indossava solo abiti neri, camicie bianche, cravatte d'argento e colletti bianchi inamidati dalle punte arrotondate. Aveva un collo lungo, sul quale la pelle, giallastra e piena di lentiggini, pendeva molle e a pieghe; un volto ovale e privo d'espressione, giallo e lentigginoso anche quello. Il cranio, completamente calvo, era come il collo, solo che la pelle era tesa. Le palpebre degli occhi, molto piccoli e immobili, erano quasi senza ciglia. Portava sempre, fissata sul nodo della cravatta, una perla grande e bella. Nel suo campo era un genio. Un genio però, non un uomo. Non ero mai riuscito a cogliere in lui un tratto umano. Blitz aveva in lui uno dei più furbi avvocati del paese, e certamente il miglior esperto in fatto di diritti d'autore. I nostri rapporti? Freddi e cortesi. Sapevo che, anni prima, Rotaug aveva detto all'editore, parlando di me: «Grande firma, esatto. Incassiamo milioni con quello che scrive, verissimo. Ragazzo in gamba. Però si rammenti le mie parole: un giorno questo ragazzo in gamba ci procurerà il più grande scandalo della storia della nostra casa editrice». Ecco chi era il dottor Helmuth Rotaug che, dopo un cortese saluto, mi chiese immediatamente: «Ha carta e matita?». «Un momento» dissi io, e pescai il mio taccuino e una penna a sfera dalle tasche. «Sono pronto.» «Ha la macchina da scrivere?» «Nell'automobile.»
«Bene. Questa roba va battuta a macchina. In due esemplari. L'originale va al cliente, la copia la conservi per noi. Dunque: località e data. Poi: "Dichiarazione". E sotto: "Io sottoscritto...".» E mi dettò il testo, impeccabile e ridondante. Nessuno che sottoscrivesse una dichiarazione del genere poteva poi più sottrarsi all'impegno assunto. Ne venne fuori una bella pappardella. Quel Rotaug le pensava proprio tutte. Finalmente concluse. «Ecco, questo è il testo esatto. Una volta pagato il suo informatore, si faccia anche dare una ricevuta del denaro. Altre domande?» «No» dissi io. «È stato molto gentile da parte sua, dottore.» «Buon giorno» disse lui, e riagganciò. Già... («Un giorno questo ragazzo in gamba ci procurerà il più grande scandalo della storia della nostra casa editrice...») Riappesi il ricevitore e intascai il mio taccuino. Mentre facevo scattare il pulsante della penna a sfera, sentii risuonare fuori una voce femminile acuta: «Corri, Karl, corri!». Ci precipitammo tutti alla finestra. La prima cosa che vidi fu il grasso Karl Concon che correva verso il piccolo cancello aperto accanto all'ingresso del campo. Dietro di lui si affannavano incespicando due guardiani. Spalancai la finestra, quando la voce femminile echeggiò di nuovo. Veniva da fuori del campo, mi parve, dal parcheggio mi sembrò, da un'automobile: «Karl! Corri! Corri, Karl!». Karl Concon correva. «Quegli stronzi maledetti» urlai io. «Ecco che se lo son fatto sfuggire un'altra volta!» Saltai oltre il davanzale della finestra, all'aperto, e mi misi a correre, più svelto che potevo, sulla sabbia piena di erbacce scure, su sentieri di cemento, verso la porta del campo. Quello che vi riferisco avvenne in pochi secondi, non di più. Anche fuori tutto era tinto di rosso dalla luce del sole che tramontava. Ombre lunghe. Le belle dame e i signori lungo il recinto del campo parevano paralizzati. Alcuni si erano chinati, o addirittura gettati a terra. Non uno che si muovesse. Pareva che la pellicola d'un film si fosse bloccata su un fotogramma. Karl Concon arrancava verso il cancello del campo. Correva a zigzag, piegato in due, come una lepre. Sì, era proprio una donna, a bordo di una Buick nera, quella che sentii gridare di nuovo: «Karl! Corri! Corri! Corri, Karl!». Vidi la testa di lei sporgere dal finestrino della macchina. Portava un foulard, e non distinsi
altro di lei. La distanza era eccessiva per poter notare altro. E un attimo dopo vidi la signorina Luise. Uscì dalla baracca del medico, che era accanto al cancello, con Bertie e tenendo il piccolo Karel per mano. Mi diressi di corsa verso i tre, più in fretta che potevo. Con stupore vidi il piccolo Karel, la tromba in mano, divincolarsi dalla mano della signorina Luise, e precipitarsi a sua volta verso il cancello. Non era lontano dall'uscita, e correva velocissimo. E intanto gridava qualcosa in cèco. Compresi solo una parola: «Mama». Avevo capito: il ragazzo si chiamava Karel, e quella palla di lardo di un invertito si chiamava Karl. Al ragazzo era parso che quella voce di donna chiamasse «Karel» e non «Karl». «Parla in continuazione di sua madre, da quando è qui» aveva raccontato la signorina. Quella frase mi tornò in mente, fulminea. Suo padre durante la fuga gli aveva spiegato di mettersi a correre quando gli avesse detto: «Corri, Karel, corri!». E ora Karel correva. La signorina Luise cacciò uno strillo e si precipitò dietro di lui. Gridò qualcosa in cèco. Karel non reagì. Vidi Bertie, la Nikon-F in mano, partire di corsa pure lui. E poi improvvisamente, davanti al cancello, accadde il caos. Da una Dodge scura, posteggiata accanto alla Buick, qualcuno cominciò a sparare raffiche di mitra. Vidi la canna che spuntava dal finestrino. Le pallottole del mitra si piantavano nella sabbia, sollevando spruzzi di fango secco. Il rosario dei colpi si muoveva a velocità folle verso il cancello del campo, attraverso il quale Concon se l'era appena svignata. Chiunque fosse quello che sparava, lo faceva per dare una copertura a Concon, per bloccare gli inseguitori. I due guardiani del campo che rincorrevano l'invertito si gettarono subito a terra. Alcuni proiettili colpirono le sbarre del cancello e schizzarono via, in traiettorie pazze. Bertie costrinse la vecchia signorina a gettarsi a terra accanto a lui. D'un tratto, là davanti, erano tutti distesi a terra. Una palla mi fischiò accanto. E mi buttai nella sabbia anch'io. I bambini urlavano, gli adulti sacramentavano. E mentre una morsa gelida mi si stringeva attorno al cuore, vidi che Karel continuava a correre. Non c'era nulla che potesse fermarlo. Era convinto che chiamassero lui. E lui andava. Correva un po' barcollando, come stordito. E corse diritto incontro alla successiva raffica di mitra. Fu uno di quei momenti che fanno rivoltare lo stomaco, quando la raffica centrò Karel. Per effetto dell'impatto dei colpi nel corpo, il piccino fu
sollevato in aria di almeno un metro, e ricadde poi all'indietro. Vidi Bertie tirarsi su e scattare. Se quella foto gli era riuscita, valeva un patrimonio! Karel ricadde in mezzo all'erba. La tromba volò via. Urla si levarono da molte gole. Karel rimase a terra, immobile. Karl Concon intanto aveva raggiunto la Buick, e saltò in macchina. La donna che era al volante pigiò sull'acceleratore: la Buick compi una lunga curva facendo stridere i pneumatici e partì poi a razzo. La Dodge scura, con quello che aveva sparato, si avviò a sua volta. Anche i pneumatici della Dodge stridettero durante la manovra d'inversione. E partì dietro la prima macchina. In pochi secondi sparirono. Tutti gridavano e parlavano: un bailamme. Dalla baracca dell'infermeria uscì precipitosamente un uomo vestito di bianco: evidentemente il dottor Schiemann. La signorina Luise, il medico, Bertie e i due sorveglianti, assieme a venti o trenta curiosi, accorsero accanto a Karel che non si muoveva. Io mi alzai e ripresi a correre. Raggiunsi il piccolo gruppo e il ragazzo. Andai a sbattere contro Bertie che, impolverato come me, la grande Hasselblad in pugno, scattava foto come un forsennato. «Ragazzo, ragazzo mio» borbottava. Ma non sorrideva più. «Che foto!» «C'è ancora luce a sufficienza?» «Ma certo. Tutto diaframma e un trentesimo di secondo.» Correva zoppicando attorno al gruppo, s'inginocchiava, riprendeva a scattare. Raggiunsi la signorina Luise. Barcollava, e temetti che potesse cadere a terra da un momento all'altro. «Karel... il mio Karel... che orrore!...» balbettò, non appena mi riconobbe. «Se quel cane, quel miserabile, non si fosse chiamato Karl, tutto questo non sarebbe successo. Ha creduto che sua madre lo chiamasse.» Le lacrime scorrevano sul suo viso. Il medico, che si era inginocchiato accanto al ragazzo, si rialzò. Il suo volto era scuro. «È...» «Sì» disse il dottor Schiemann. «Deve essere morto sul colpo.» Con un grido, la signorina Luise si gettò in ginocchio vicino al ragazzo, si chinò su di lui, gli accarezzò il viso, gli parlò con tono implorante, in cèco, come se così potesse richiamarlo in vita. Il terreno attorno al corpo di Karel si tinse rapidamente di rosso. La signorina Luise era ormai inginocchiata nel sangue. Non se ne accorse. Un guardiano si alzò da terra, e prese a sua volta a gridare alla gente che
stazionava nei dintorni: «Indietro! Via di qui! Tornate alle baracche!». I suoi colleghi cominciarono a sospingere coloro che ancora si attardavano. Gridavano anche loro. Spaventati, gli ultimi curiosi se ne andarono. «Una barella!» disse il dottor Schiemann. «Portatelo dentro da me!... Anzi, no» aggiunse in fretta. «Lasciatelo li dov'è. Non muovetelo. Non toccate niente. Bisogna chiamare Zeven. Avvisate la polizia, dite che vengano! E presto!» «Sissignor dottore!» Uno dei guardiani si avviò di corsa verso la baracca accanto all'ingresso. «Togliti di mezzo Walter, per favore!» disse Bertie. Era disteso a terra, la Hasselblad fra le mani. «E anche lei, prego, dottore.» Ci scostammo. E Bertie fotografò il ragazzo morto e la signorina Luise china su di lui: bassa, bassissima, sfrecciò di nuovo su di noi una squadriglia di Starfighter con i reattori urlanti. La terra tremò. L'aria tutta vibrava. Mi sentii improvvisamente male da morire. I tre apparecchi s'avventarono, sagome nere, contro il tramonto di fuoco. Oltre la striscia di cielo arrossata, verso occidente, incombeva una scura parete di nuvole. Si scorgeva solo una parte del disco del sole. I cespugli nudi e gli alberi che si stagliavano, bui, controluce, mi parvero anche più squallidi di prima. Guardai verso la signorina Luise. Sembrava impietrita dal dolore. Non si muoveva, non parlava. Se ne stava in ginocchio, tutta chinata sul bambino morto. Tolsi la fiaschetta dalla tasca posteriore dei pantaloni, svitai il tappo e bevvi sino a quando mi venne a mancare il respiro. Lo sciacallo scomparve. Me l'ero trovato accanto, improvvisamente: vicinissimo. 18 Un quarto d'ora dopo. Ormai era quasi buio. La signorina Luise era ancora inginocchiata accanto al corpo del piccolo Karel. Le donne e gli uomini che erano presso il recinto erano scomparsi. Il parcheggio era vuoto. Abbandonati e deserti anche i viottoli, i piazzali e le vaste superfici cosparse d'erba del campo. I ragazzi si erano rinchiusi nelle loro baracche. La porta accanto al cancello principale era stata chiusa. I guardiani del campo attendevano l'arrivo della polizia di Zeven. Ne avevano da aspettare. Non era ancora arrivata nemmeno la prima macchina, quella che avevano chiesto per portare via Concon. Nessuno aveva osato mandar via la signorina Luise.
«Allora, cosa ha deciso?» chiesi, piano. Mi ero addossato, con Irina Indigo, alla parete d'una baracca, in modo che non potessero vederci. Avevo trovato un angolino appartato. Lei mi sbarrava gli occhi addosso. «Mi vuole portare ad Amburgo?» «Oh Dio, ma se gliel'ho già detto!» risposi, innervosito. «L'accompagniamo noi, il mio amico e io. E le diamo una mano a cercare il suo fidanzato. Allora, vuole o non vuole?» «Certo che voglio... però... però hanno appena detto che nessuno può lasciare il campo...» «Il mio amico e io potremo andarcene, non appena la polizia avrà le nostre deposizioni. E quando saremo fuori, verrà anche lei.» «Dove? Come?» Tremava, le braccia incrociate sul petto. Aveva rialzato il bavero del cappotto. Faceva freddo. Improvvisamente rabbrividii anche io. Il mio cappotto era in macchina. «Ha sentito anche lei parlare di quel pilastro di cemento. È vicino alla strada che conduce al villaggio. Lì davanti.» Accennai col mento. «Certo che ne ho sentito parlare. Molti hanno tentato di fuggire per quella via. Ma nessuno è riuscito a smuovere quel pilastro.» «Una persona da sola non può farcela» dissi io. «Però noi abbiamo la macchina. E con la macchina si può.» «Con la macchina? Quale macchina?» «La mia. L'unica che è ancora lì fuori, nel parcheggio. Useremo una fune da traino. Garantito che ci riusciremo.» Almeno lo spero, pensai. «Mancano dieci minuti alle 5. La polizia arriverà al più tardi fra tre quarti d'ora. L'aspetterò dalle 22 in poi vicino al pilastro.» «Ma la mia roba...» «Quale roba?» «Una valigia piena...» «La lasci qui! Cos'ha da portar via? Solo vestiti, vero? Ne compreremo degli altri. Si rende conto che non riuscirà più ad andarsene di qui tanto alla svelta, quando quelli dei servizi di sicurezza si saranno occupati di lei un po' più attentamente?» «Oh Dio!» disse, e mi si aggrappò a un braccio. «Quindi lei crede davvero che tutto questo abbia a che fare con Jan?» «Sì, certo» dissi io. «Prima però ha detto...» «Prima ho mentito. Per tranquillizzarla.» Avevo bisogno di quella ragazza. Doveva venire via con me. Dovevo convincerla. Ma non potevo
portarla fuori dal campo prima delle 22, perché prima dovevo spedire Bertie a Brema, a ritirare la nostra roba e i soldi che avevo chiesto che ci spedissero telegraficamente. E poi dovevo parlare con la polizia. Stipulare alcuni contratti per la cessione dei diritti. Avevo ancora da fare, insomma. «Ma quello che mi propone è illegale» mormorò Irina. I suoi occhi neri erano pieni di apprensione. «Naturalmente» dissi. «Ma ne prendo io la responsabilità. Allora: ci verrà al pilastro, verso le 22? È la sua ultima occasione per raggiungere subito il suo fidanzato... Dunque: sì o no»?» «Sì» sussurrò lei. «Bene! Ora torni alla sua baracca. Senza farsi notare. Vada tenendosi all'ombra, se è possibile. Nessuno dove accorgersi che...» «Oh, eccola» disse una voce maschile alle nostre spalle. Mi girai di scatto. Davanti a me c'era Wilhelm Rogge, lo smilzo con gli occhiali dalle lenti spesse, che avevo conosciuto nell'ufficio del servizio di sicurezza. Eccoli già all'opera! Maledizione! Avrei dovuto portar via Irina dal campo subito, dopo tutto quello che era successo. Ora come avrei potuto farlo? «Buona sera, signor Rogge» dissi io. Si limitò a farmi un cenno di saluto col capo. Poi si rivolse a Irina: «L'ho cercata dappertutto, signorina Indigo. Il mio collega Klein ha bisogno di lei». «Di me? E perché?» chiese, con fare aggressivo. «Be', vorremmo fare una chiacchierata» disse Rogge, gentile. «Adesso, subito?» «Adesso subito. Se non fossimo già tanto oberati di lavoro, l'avremmo fatto ieri. Lei è proprio in cima alla nostra lista.» «In cima?» chiese Irina. «Naturalmente. Una profuga così importante. Con un fidanzato così interessante. La prego, venga con me. Buona sera, signor Roland.» «'Sera» dissi io, guardandoli avviarsi nell'oscurità. Maledizione, che situazione merdosa! Che fare? Se Irina avesse raccontato a quel Rogge e al suo collega tutto quello che aveva detto a me e al pastore - e non le restava molto altro da fare! - allora lo sa il cielo dove l'avrebbero rinchiusa. Chissà se avesse ancora avuto la possibilità di trovarsi alle 22 accanto al recinto. Merda! Ero fuori di me dalla rabbia! Ma lo fui solo per poco. Mi calmai quasi subito. Non mi restava che continuare ad agire partendo dal presupposto che tutto filasse via liscio. Per arrendermi c'era tempo anche dopo.
Guardai verso il corpo senza vita di Karel. La nebbia stava salendo e ricopriva il terreno. Cominciava ad avvolgere il corpo di Karel e la signorina Luise che non si era ancora mossa dal suo posto. Sembravano una moderna Pietà: me lo suggerì il gusto kitsch che è abbastanza tipico del nostro mestiere. Già. Sperai che Bertie potesse, nonostante il buio, fissare quell'immagine, sia pure stemperata com'era dall'oscurità e dalla nebbia. Doveva essere una mensa, il locale alla cui parete esterna mi ero appoggiato, perché improvvisamente sentii molte voci di bambini che pregavano: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano... Amen». 19 «Di dove sono io?» disse l'autista Kuschke. «Sono di Berlino.» «Ma no!» «Ma sì, sul serio!» disse, aggrottando la fronte. Stavamo chiacchierando nella sua stanza, nella baracca dell'amministrazione. Erano arrivati quelli della polizia e la squadra mobile; Bertie era partito due ore e mezzo prima, per andare a prelevare a Brema i quattrini e i nostri bagagli al Park-Hotel. Avevo ricuperato macchina da scrivere, carta, carta carbone e cappotto: ero andato a prendere tutto prima, nella mia Lamborghini. Ero anche già stato interrogato dalla squadra mobile. Niente di speciale. Fotografi e squadra scientifica avevano svolto il loro lavoro alla luce dei riflettori. Il corpicino senza vita di Karel era stato prelevato da un'ambulanza. Non avevo più avuto notizie di Irina. Non avevo più visto nemmeno la signorina Luise, da quando l'avevo incontrata prima di essere interrogato dalla squadra mobile. Mi era parsa abbastanza calma, ma non si era resa certamente conto di chi ero, quando aveva risposto istintivamente al mio saluto. Aveva borbottato qualcosa ed era scivolata via, nella notte, verso la baracca. Erano le 19 e 45. Nel frattempo m'ero dato molto da fare. Ormai avevo diverse dichiarazioni di cessione dei diritti. Non avevo ancora avuto il coraggio di chiederla al pastore. Ma ero stato dalla Hitzinger, un gigantesco donnone con possenti mammelle. E avida di denaro, come capita spesso. Conosceva a memoria l'intera storia della signorina Luise, così come me l'aveva già raccontata il pastore Demel. Solo che lei, naturalmente, me la riferì condita d'odio. La cessione dei suoi diritti di citazione m'era costata 1500 marchi. Due dei quattro vecchi guardiani del campo s'erano ammorbiditi per 500 marchi a testa. Ma la vera sorpresa me l'aveva riservata la
signorina Luise. Quando potei avvicinarla, temevo che non accettasse. Avevo torto! «Scriva, signor Roland, scriva tutto quello che è successo, la prego! Anche su di me, tutto quello che vuole!» Si era più volte messa a piangere durante il nostro colloquio, nel suo ufficio, prima che arrivasse la polizia. «Quei criminali che hanno assassinato un povero bambino innocente... Che la gente legga! Che la gente sappia!» Non voleva accettare soldi, e dovetti letteralmente costringerla a prendere 2000 marchi. Tutta questa gente si era fidata di me al punto da sottoscrivere prima ancora di intascare i soldi che Bertie doveva ancora portarmi. E così ero arrivato all'autista Eugen Kuschke. Uno che moriva dalla voglia di chiacchierare. Ero seduto di fronte a lui con la macchina da scrivere, avevo già battuto il testo della dichiarazione, ma Kuschke insisteva per sputare anche tutta la sua storia personale. Non potevo dir di no. «Abitavo a Neuköln, io. Con moglie e bambina. Aveva giusto due anni quando cominciò quella storia della divisione di Berlino.» «Poi, signor Kuschke?» «Voglio essere onesto, signor Roland. Io ero nella SED, il partito comunista. Sissignore! Io mi son sempre detto che se socialisti e comunisti fossero rimasti uniti, alla fine della repubblica di Weimar, anziché baruffare fra di loro, Hitler non avrebbe mai potuto impadronirsi della baracca: mai! Lei che ne pensa?» «Sono completamente del suo parere, signor Kuschke. Ora se vuol essere così gentile di farmi una firma qui...» «Un attimo ancora. Vede dunque, io ero comunista, sissignore. Anima e corpo. Ma poi i russi hanno combinato quella faccenda del latte.» «Quale latte?» «Be', il blocco, no? Non hanno più fatto entrare in Berlino nemmeno il latte fresco. Neanche per i poppanti! Mi sono girate le scatole. Quel latte in polvere che gli americani portavano non era roba fatta per i bambini piccoli! Un bambino piccolo ha bisogno di latte buono, latte vero. E del migliore! Di conseguenza ho dato le dimissioni dalla SED e ho fatto in modo di svignarmela da Berlino.» «E la bambina? La moglie?» «La piccola Helga è morta. Denutrizione. E la Frieda m'è scappata, con un pianista. Non c'era più niente che ci legasse, dopo la morte della piccola Helga. Già, è passato tanto tempo ormai! Nel 1949 poi sono approdato quassù. E ci sono rimasto. Ci sono quasi quanto la povera signorina Luise.»
«Perché povera?» Feci il finto tonto. «Suvvia, che se ne è accorto anche lei! È un po' picchiata in testa, la poverina. L'ha fatto anche davanti a lei? Si è messa a parlare coi suoi morti?» «Si.» «Ecco, vede! Dio, che tempi di merda! Per una volta che capita d'incontrare una persona in gamba, le manca una rotella. E ora mi dia pure quello scartafaccio e firmo. Dica un po': e gli spiccioli? Siamo sicuri che quel suo compare poi li porta?» «Li avrà. Stia tranquillo, signor Kuschke.» «Ci mancherebbe solo che mi fregaste anche voi.» «Non ha fiducia nel prossimo, signor Kuschke?» «Sono qui da 19 anni, signor Roland! Ho visto tanta miseria e tante porcherie da non credere. Se volesse, potrebbe scrivere un intero libro su di me. Da non credere, ripeto. E io dovrei fidarmi del prossimo? Ah no, io no! Non ho più fiducia di nessuno. Anzi, si, di una persona sola: della povera signorina Luise...» 20 Avevamo fissato il cappio della fune da traino proprio in cima al pilastro inclinato, perché l'effetto di leva risultasse il più forte possibile. L'altro capo della fune era legato all'asse posteriore della Lamborghini. Avevo guidato la macchina oltre il villaggio; poi, lasciata la strada, mi ero inoltrato in mezzo ai cespugli, su un terreno sgradevolmente molle, fino a ridosso del recinto. La Lamborghini era nascosta in mezzo alle ginestre e ai ginepri. Tutto il campo era illuminato a giorno dai fari fissati sui tralicci: ce n'era uno anche lì. Una luminaria maledetta. E, come se non bastasse, c'era anche luna piena. E cielo senza nuvole. E tante stelle. «Quella non viene» disse Bertie, che era seduto accanto a me, in macchina. «Forse sì. Mancano ancora cinque minuti alle 22.» «Non può venire. Gli uomini dei servizi di sicurezza le hanno messo gli occhi addosso. Non potrà più fare un passo senza un piedipiatti alle costole.» «Che ne sai? Può farcela lo stesso.» A volte Bertie era capace di far cadere le braccia al prossimo. Fumavamo e continuavamo a guardare verso il campo illuminato, dove nulla si
muoveva. «Comunque aspettiamo, almeno fino alle 23. Ti dico che verrà. Lo sento. Scommettiamo?» «Sarebbe come rubare cioccolata a un bambino. No, non scommetto. Bella storia, ma ormai ci è andata a monte.» «Perché andata a monte?» «Be', senza la ragazza...» «Andremo ad Amburgo anche senza di lei E adesso chiudi il becco. Non voglio più sentirtelo dire.» Bertie, offeso, se ne rimase zitto. Aveva percorso la strada NeurodeBrema-Neurode a tempo di record. Io avevo distribuito i soldi che mi aveva portato in base agli accordi stipulati, e mi ero fatto dare le ricevute. Poi anche altri della polizia avevano voluto interrogarci. Strano, ma dei servizi di sicurezza non si fece vivo nessuno: né il grande signor Klein, né il signor Wilhelm Rogge dalle spesse lenti. Finalmente avevamo potuto lasciare il campo e raggiungere quel posto. Ed erano quaranta minuti che ce ne stavamo seduti lì. Avevo contraddetto Bertie, ma senza troppa convinzione. Neanch'io potevo dire con certezza che Irina sarebbe venuta, perché i servizi di sicurezza... «Eilà!» Ci voltammo di scatto. Il mio cuore batteva furiosamente. Oltre la rete metallica, per terra, c'era Irina. Sollevò una mano. Saltai giù dalla macchina e raggiunsi il pilastro, correndo piegato sul terreno morbido. «Puntuale» sussurrai. Lei si limitò ad annuire. «Resti distesa» dissi, piano. Avevo il crick con me. Bertie guardava verso di noi, dal suo finestrino, al volante. Gli feci un cenno. Lui avviò il motore. Cominciò a muoversi. Procedeva piano, pianissimo. Nel silenzio della notte mi pareva che la Lamborghini facesse un chiasso d'inferno. La fune si tese. La macchina si bloccò di colpo. Se adesso le ruote si mettono a slittare, pensai, siamo fregati. Le ruote non slittarono. La macchina procedeva di centimetro in centimetro, con la fune sempre più tesa. Il pilastro di cemento si incrinò dalla parte interna, mentre si inclinava maggiormente verso l'esterno. Saltai verso il recinto, infilai il crick nella fenditura e diedi uno strattone, con tutte le forze di cui potevo disporre. La macchina fece un altro balzo in avanti. La fessura si allargò d'un poco. I fili metallici cigolavano. Bertie faceva il suo lavoro con assoluta perfezione. Non accelerava mai troppo. Il pilastro ge-
meva. Tutta la rete metallica, filo spinato compreso, era ora tesa. A questo punto ci voleva un po' di fortuna. Se fosse arrivato qualcuno, addio! Se fosse passata una macchina e qualcuno avesse guardato fuori dal finestrino, buona notte! Maledetti lampioni! Sentivo il sudore scorrermi su tutto il corpo. E sentivo come un leggero sussurro sopra di me. Era la fune di nylon. Se si fosse spezzata... Non si spezzò. A un tratto la parte superiore del pilastro inclinato cominciò a piegarsi all'infuori, prima piano, poi sempre più velocemente. Trascinava con sé tutta la rete metallica. Dovetti fare un salto all'indietro per scansare il filo spinato che calava su di me. «Ora» sussurrai. Irina si alzò. Indossava il suo cappotto, ma non aveva bagagli. «S'arrampichi lungo la rete... Ormai è quasi distesa... Si tenga ferma alle maglie... Piano... Piano... Ormai è fatta...» Il sudore mi colava sugli occhi. Bertie aveva spento il motore. «Attenta, il filo spinato... Ci pesti su...» Lo fece, trattenendosi sempre ancora alla rete metallica piegata, tesa a circa un metro da terra. «Ora si alzi di scatto e faccia un salto verso di me...» «Ho paura!» «Salti! Io la prendo al volo!» «Ma se il filo spinato...» «Salti, le ho detto!» sibilai. Irina si alzò, vacillò per un momento avanti e indietro, e poi fece un salto, approdando direttamente fra le mie braccia. Sentii il suo respiro. Era puro e dolce come latte fresco. Quel latte che durante il blocco di Berlino non passava, pensai io da idiota. «È fatta» dissi io. Lei mi guardò, e per la prima volta vidi i suoi occhi tristi brillare. Irina era bella... Mentre lei era ancora alle prese con la rete metallica, Bertie aveva già riavvolto la fune, gettandola nel bagagliaio. Corremmo verso la macchina. Sistemammo Irina fra di noi. Mi misi al volante, e partii. Due minuti dopo viaggiavamo già lungo quella strada schifosa piena di buche. Irina disse, col respiro ancora affannato: «Non credevate, vero, che sarei venuta?». «No» disse Bertie. Una lepre s'infilò all'improvviso nel cono di luce dei fari. Non riusciva più a trovar la strada per scappare. Spensi per un attimo le luci. Quando le riaccesi, l'animale era sparito.
«Neanch'io» disse Irina. «Dopo il modo in cui mi hanno interrogata quei due: Rogge e Klein.» «Come si sono comportati?» «Oh, molto corretti e gentili, nella forma. Però hanno voluto sapere tutto. Tutto! Tutto! Molto, molto di più di quanto non m'abbia chiesto lei» rispose Irina. «Come quei funzionari a Praga. Ero certissima che dopo l'interrogatorio mi avrebbero portata fuori dal campo, da qualche parte ove mi fosse impossibile fuggire. Ne ero sicura.» «Però non l'hanno fatto» dissi io. «No, non l'hanno fatto. A un certo punto, nella stanza accanto, s'è sentito lo squillo di un telefono. Rogge è andato a rispondere. Ha parlato a lungo... Poi è venuto a chiamare Klein. Sono rimasti di là a discutere per un bel po'. Non sono riuscita a capire una sola parola di quello che dicevano. Quando sono tornati erano ancora più gentili e cortesi di prima. Mi hanno detto che potevo andarmene. Nella mia baracca. Sarebbero venuti a cercarmi, se avessero ancora avuto bisogno di me...» «E l'hanno lasciata andare così, semplicemente? Non l'hanno neanche accompagnata, fatta sorvegliare?» chiese Bertie, stupefatto. Ma non era certo meno stupito di me. «Ma sì! M'hanno permesso d'andarmene, senza storie!» M'accorsi improvvisamente che Irina tremava. «Sa cosa le dico?» «Cosa?» chiesi, cercando di uscire alla svelta da quella strada maledetta senza rompere un'asse. «Io credo che quella telefonata avesse a che fare con Jan. Voglio dire: quei due devono aver saputo qualcosa che è successo ad Amburgo. Qualcosa che ha fatto loro perdere ogni interesse per me.» «Se fosse accaduto qualcosa ad Amburgo, sarebbe stato semmai un motivo in più per occuparsi di lei» dissi io. «E perché non lo hanno fatto? Cosa è successo? Cosa, signor Roland, cosa?» Nel dire queste ultime parole, mi aveva afferrato per le spalle e si era messa a scuotermi. La macchina rimbalzò su una mezza dozzina di buche, e noi fummo sballottolati a destra e a manca. Piantai una gomitata nel fianco di Irina. Cacciò un urlo di dolore. «Non lo faccia mai più» dissi. «Mai più. Capito?» «Mi dispiace» mormorò lei. «Mi dispiace. Ho perso la testa.» «Okay» dissi. «Okay, baby. Si metta tranquilla. Tutto andrà bene. Fra non molto sapremo anche noi tutto quello che può essere successo ad Amburgo.»
Povero idiota che non ero altro. 21 La signorina Luise procedeva cautamente, un piede davanti all'altro, su uno stretto sentiero che s'inoltrava nella palude fra pozze d'acqua e ciuffi di canne. Riusciva a respirare solo con difficoltà. Le bruciavano gli occhi per le molte lacrime versate, le facevano male i piedi. Mancava mezz'ora alla mezzanotte. La signorina Luise indossava un vecchio cappotto nero, un cappellino a cuffia e portava una borsa alquanto grande. La luna splendeva sui suoi capelli bianchi. Avanzava con ansia lungo il sentiero. Più in là, sulla collinetta, vide delle figure buie. Erano i suoi amici che l'aspettavano. Non doveva farli attendere. L'avevano chiamata mentre era già a letto, insonne, tormentata da pensieri strazianti. Erano venuti e le avevano parlato. «Noi siamo sempre a disposizione di Luise...» «Luise venga da noi, da noi nella palude...» Si era alzata, vestita e si era avviata. La guardia all'ingresso del campo la vide e la salutò, quando lei aprì la porta piccola accanto a quella grande. Il guardiano del campo sapeva dove andava. Era un uomo malandato di salute, e nel vedere la signorina si augurò di poter anche lui credere a qualcosa, di poter parlare a un qualche essere superiore, per dirgli quali pensieri e quali preoccupazioni lo opprimevano. Ma il poliziotto non sapeva a chi rivolgersi, perché non riusciva ad aver fede, non c'era niente da fare, per quante volte avesse tentato... La signorina Luise ora proseguiva in fretta, guardando in avanti, lì dove i suoi undici amici aspettavano, fermi e immobili. Una civetta di palude continuava a passare sulla sua testa. La civetta è stupita, probabilmente crede ch'io sia un arbusto di ginepro, pensò la signorina, e non sa spiegarsi come mai un arbusto di ginepro si sia messo a correre. Sì, ora la signorina correva davvero lungo quel sentiero che lei sola conosceva. L'aveva percorso tante volte, che conosceva a memoria ogni curva, ogni strettoia. Correva alla luce della luna, fra le fosse d'acqua infinitamente profonde e le ingannevoli isole di erba galleggiante. Per darsi forza, recitava a se stessa una poesia. La conosceva da anni. Da vent'anni almeno. Non rammentava più come mai la sapeva. A volte credeva che fossero stati i suoi amici a dirgliela. Poi però ricordava di aver visto una volta un film, subito dopo la guerra, un film meraviglioso, ambientato fuori dal tempo e dallo spazio e nel quale, forse, qualcuno aveva de-
clamato quella poesia, indelebilmente fissata nella sua memoria... «... Nessuno può dir, di dove soffi il vento... Nessuno chieder può, dov'è diretto il vento... Io vengo dall'infinito... e vado... verso... l'eternità...» Tutto questo, e quel che segue, la signorina me lo ha raccontato ieri. Mentre scrivo, vado di tanto in tanto a trovarla. Raramente. Troppo raramente. Dovrei farlo più spesso. Ma scrivo come in preda a una febbre, animato da una sola volontà: andare avanti, proseguire, finire. È indispensabile che quello che so sia messo al sicuro. Devo proteggere quello che so, cose segrete e segreti mortali. Non esco quasi più di casa, scrivo dall'alba sino a sera inoltrata. Ieri però sono tornato ancora una volta dalla signorina Luise. Mi vuole bene, si fida di me. «Lei è una brava persona» mi ha detto. Ho protestato. «D'accordo, va bene, e allora forse no» ha detto la signorina. «Però le piacerebbe esserlo.» «Sì. Lo vorrei davvero.» «Ecco, vede?» ha detto la signorina. E mi ha raccontato tutto quello che accadde quella notte. Ora me ne sto seduto qui, e lo trascrivo. 22 Se non avesse saputo - ma la signorina Luise lo sapeva - che erano undici uomini, avrebbe giurato che erano undici tronchi di salice che, di notte, vagamente simili a figure umane, nella nebbia e alla pallida luce della luna, stavano su un leggero sopralzo in mezzo alla palude, alla fine del sentiero, fra canne e cespugli. La signorina Luise raggiunse quel posto col fiato corto. Fu il russo a salutarla per primo. «Eccola che arriva finalmente, la nostra cara mammina. Buonasera.» «Buona sera a voi, beati» disse la signorina Luise. E anche gli altri uomini la salutarono. Il russo era un uomo robusto. Indossava l'uniforme color oliva nella quale aveva combattuto. Il russo asserì: «È bello poter riavere Luise di nuovo qui fra noi». «Se sapeste quanto è bello per me» disse la signorina. Attorno a lei, nella palude, guizzavano i fuochi fatui. Il russo, prima della guerra e prima di fare il soldato, era stato un grande clown. La gente aveva riso fino alle lacrime, nel vederlo percorrere ciondolando la pista. Ma senza trucco e senza la maschera, il suo volto aveva un'espressione seria.
«Sapete naturalmente quello che è successo e che il piccolo Karel è morto» disse la signorina Luise. I suoi undici amici annuirono, in silenzio. «Sapete anche che Irina è fuggita: forse con quel giornalista venuto da fuori. Hanno sradicato quel pilastro di cemento davanti alla rete, e hanno piegato la rete all'ingiù. Deve essere passata di là, scavalcandola. L'ho visto mentre venivo qui. E c'erano tracce di pneumatici. L'avete visto anche voi, vero?» Gli amici annuirono di nuovo. «Anche quando è partita?» «Sì, Luise» disse l'americano, che era grande e indossava ancora la sua tuta d'aviatore. «Quel Roland e quell'altro, il fotografo, sono soltanto poveri peccatori. Ancora tutti immersi in questo mondo.» «Però c'è speranza anche per loro» disse il testimone di Jehova. Aveva un abito a strisce bianche e grigie che sembrava un pigiama, con una banda scolorita lungo i calzoni. In mano, il testimone di Jehova reggeva un libro rosso. «Lo credete soltanto o ne siete proprio sicuri?» chiese la signorina Luise. «Sappiamo sempre ancora così poco» disse l'ucraino, che aveva addosso una casacca, calzoni di tela e stivali scalcagnati dalle suole di legno. Il suo viso sembrava un campo arato dalle rughe, vecchio, terroso. «A ben pensarci, non sappiamo quasi niente.» «Però ci credete?» chiese la signorina. «Credere è più importante che sapere.» «Sì, lo crediamo» disse il polacco. «Però non è importante. Luise deve crederci, soltanto lei.» Il polacco parlava con fermezza. Anche lui indossava ancora la sua uniforme, assai malridotta. «Tutto dipende soltanto da quello che tu vuoi fare» disse lo studente tedesco, il più giovane di tutti. Aveva un abito di tela grigia e stivali sporchi che gli salivano fino ai polpacci. Lo studente era l'unico che dava del tu alla signorina. Gli altri parlavano di lei in terza persona. La signorina guardò lo studente, e di nuovo provò la gran commozione che le colmava il cuore. Quel giovanotto le rammentava un qualcosa della sua lunga vita. Non sapeva però che cosa, e questo ricordo confuso era causa d'un continuo dolore: ma era un dolore dolce. «La nostra Luise vuole andare ad Amburgo» disse lo studente. «Al più presto possibile. Ha già indossato il cappotto invernale e ha portato con sé
la sua borsa, tanta è la fretta che ha. È bene che vada ad Amburgo? Glielo possiamo permettere?» Nessuno parlò. «Bambini!» esclamò la signorina Luise, con trasporto. «Erano bambini tutti e due... il mio povero Karel e anche Irina! Mi hanno ucciso Karel e portato via Irina: chissà dove? Non posso permetterlo! non voglio permetterlo! io...» dovette fermarsi, per respirare, «... devo trovare Irina, e devo trovare l'uomo che ha assassinato Karel! Quell'uomo deve essere salvato! Perché ha ucciso! Devo riuscire a far sì che il mio povero Karel morto gli perdoni e l'assolva. E per questo, quell'uomo deve andarsene da questo mondo!» Gli undici uomini la guardavano e tacevano. «E parlate, dunque!» gridò la signorina, indignata. «Se non parlerete, il maligno vincerà di nuovo. E l'ingiustizia e l'arbitrio continueranno a regnare su questo mondo, l'ingiustizia e l'arbitrio di cui avete sofferto anche voi, prima della vostra liberazione!» Il capomanipolo delle SS, un uomo alto dal viso lungo e sottile, che un tempo era stato proprietario d'una fabbrica di mayonnaise a Seelze, vicino ad Hannover, disse con tono triste: «Io non ho sofferto. Io ho dato solo sofferenza agli innocenti». Il capomanipolo indossava una uniforme nera e stivaloni. «Però hai riconosciuto il tuo torto» gli disse l'olandese, per consolarlo. L'olandese aveva un vecchio abito civile e una camicia senza colletto. «Gli innocenti che hanno sofferto per causa tua ti hanno condotto verso un'esistenza superiore» disse il russo. «Sì, è vero» disse il capomanipolo, con tono triste. «E ora giaci qui con noi nella palude» disse il polacco. «Non con voi» disse il capomanipolo, avvilito. «Non assieme a voi.» La signorina sapeva cosa voleva dire. Gli altri, una volta morti, erano stati gettati nella palude, dai nazisti, infilati semplicemente in sacchi appesantiti da qualche sasso. Il capomanipolo invece era morto all'epoca dell'amministrazione britannica del campo. E gli inglesi, nel seppellirlo, si erano dimostrati più civili. Avevano individuato dietro il campo una zona dove il terreno era più consistente, avevano scavato delle fosse e sepolto i loro prigionieri nazisti morti, chiusi in bare di legno. Ecco cosa voleva dire il capomanipolo, quando aveva affermato di non essere proprio assieme ai suoi amici. «Giaci in questa stessa palude, come noi» asserì il russo. «Sei morto qui,
come noi. Che vuoi che contino un sacco con qualche pietra oppure una bara di legno con una fossa? Assolutamente niente.» «Qui dove ora siamo, tutti gli uomini sono uguali» disse l'ucraino. «E allora fate in modo che sia fatta giustizia!» esclamò la signorina, impaziente. «L'idea che tu hai della giustizia può solo nuocere alla giustizia vera» disse l'olandese. A questo punto la signorina, ormai in preda all'ira, gridò: «Può nuocere alla giustizia solo il fatto di starcene qui con le mani in mano!». E un attimo dopo tutto si confuse davanti ai suoi occhi, e quando riuscì finalmente a fissare di nuovo chiara l'immagine davanti a sé, gli undici uomini erano svaniti. La signorina Luise si ritrovò circondata da undici vecchi e contorti tronchi di salice, sola, assolutamente sola, lontana, molto lontana in mezzo alla palude. «Oh, vi prego!» gridò allora, spaventata. «Oh, vi prego, no... Non andatevene... Tornate...» Ma nessuno degli undici tornò. Allora si piegò così profondamente che le sue mani giunte e la sua fronte toccavano la terra fredda. Sussurrò, singhiozzando: «Perdonatemi... Vi prego, perdonatemi... Non griderò mai più... Però tornate... Tornate qui da me... Sono così sola... E ho tanto bisogno di voi... Per amor di Cristo vi scongiuro, tornate...». Una folata di vento passò su di lei e, con sollievo infinito, in un attimo che fu di assoluta felicità, udì l'olandese dire: «Siamo qui di nuovo, Luise». 23 «Per favore, perdonatemi per aver gridato. È successo solo perché sono così disperata» disse la signorina. «Io voglio soltanto giustizia. Devo pensare a Irina. Devo trovare l'assassino del piccolo Karel. Non pensate anche voi, ch'io debba farlo?» E si guardò in giro. Il pilota americano disse: «Quando si vuole assolutamente una cosa, la si ottiene». «Davvero?» chiese la signorina Luise, felicemente sorpresa. Che strano! Prima di sparire i suoi amici avevano espresso dei dubbi sulla opportunità che si recasse ad Amburgo. E ora sembrava invece che avessero cambiato parere.
«Sì» disse l'americano. E il russo chiese: «Perché la nostra mammina ha tanta fretta, perché tanta furia? Il tempo...» s'interruppe e poi proseguì: «... il tempo è un qualcosa di terreno. Noi non sappiamo più cos'è. Il nostro mondo è senza tempo. Ma quello che la nostra mammina, nel suo mondo, chiama tempo, lavora per lei. Per questo non sia impaziente. La bontà vince sempre, alla fine». «Nel mio mondo non sempre, però» disse, piano, la signorina. «No, molto spesso no. Ma poi nel nostro sì. Che importanza ha allora?» disse il russo. «Per me ha una grande importanza. Non posso attendere tanto a lungo. Sono già vecchia» disse la signorina Luise. Il contadino ucraino, che all'epoca della sua morte era un lavoratore forzato, disse: «Uno che è più in alto di noi aiuterà Luise e la guiderà. Noi potremo solo trasmetterle le nostre speranze e le nostre preghiere. Questo lo faremo volentieri». «Non basta» disse la signorina Luise, angosciata. «Tutto questo non basta. Io sono sola. Non potete pretendere che io combatta tutta sola a questo mondo contro il maligno onnipotente.» Il capomanipolo scosse la testa e disse: «Luise ha vissuto la sua vita con coraggio. Se Luise si batterà anche ora al limite delle sue possibilità, alla fine sarà indifferente se sarà riuscita a vincere o meno. Non chieda di vincere». «Io però devo chiederlo» disse la signorina Luise. «Io sono di questo mondo. Non riuscirei a sopportarlo, se dovessi fallire.» «Perché Luise vive ancora. È questa la disgrazia di Luise» disse il capomanipolo. «E tu?» chiese Luise al francese, che era stato una volta cronista giudiziario a Lyon, che aveva sofferto d'asma, e che era morto poi come soldato, durante la prigionia. Indossava la sua vecchia uniforme con scarponi e gambali, ed era ancora molto giovane. Teneva la bocca leggermente distorta in una espressione ironica. E disse: «In linea di principio, sono del parere della nostra amica». «Sul serio?» disse la signorina. «Sì. Però agire troppo, sulla terra, è sempre stato fonte di guai. È meglio quindi affidare la faccenda a qualcuno che sta più in alto, a qualcuno che non abbiamo ancora raggiunto, è vero, ma che possiamo comprendere meglio di Luise.» La signorina Luise si sentì di nuovo scoraggiata e cominciò a piangere,
piano. «Io vi credo» disse. «Vi raggiungerò presto. Vi voglio bene. Ma non vi capisco.» «Noi ti siamo amici, lo sai» disse il testimone di Jehova nell'abito di tela a strisce bianche e grigie, che era stato impiegato di banca a Bad Homburg. Sollevò la mano col libro rosso: «Il piccolo Karel è stato strappato a un mondo cattivo ed è entrato a far parte del nostro, che è buono. Tutto quello che accade in vita è destinato a confluire in Dio. E se dovesse accadere qualcosa anche a Irina, diverrebbe certamente più felice di quanto non sia adesso. Per questo io credo che tutto proceda lungo una strada giusta, la strada voluta da Dio onnipotente». «Stammi a sentire, amico mio» disse il cuoco norvegese, che era stato arrestato e portato al campo di Neurode perché comunista. Era molto alto, più alto persino dell'americano e indossava la tuta del campo di concentramento, con il triangolo rosso dei detenuti politici sul petto. «Fino a quando gli uomini non vivranno insieme in pace e amicizia, vi saranno sempre oppressi e oppressori, assassini e vittime. Per questo credo giusto che Luise debba intraprendere la sua lotta per il bene.» «Io sono d'accordo con quello che dice il cuoco» disse l'olandese, editore di libri scolastici a Groningen. «Voi dunque agireste come voglio agire io?» chiese la signorina Luise, agitata. «Sì» dissero, contemporaneamente, il cuoco norvegese e l'editore olandese. «Anch'io agirei» disse l'artigliere comunista polacco, che un tempo aveva insegnato matematica all'università di Varsavia. «Ho portato qui con me nelle più alte sfere quello che nel comunismo vi è di buono e di eterno.» «E tu, Frantisek?» chiese la signorina al cecoslovacco, che era stato architetto a Brno. Era un suo compatriota, e l'unico al quale si rivolgesse chiamandolo per nome. Agli altri suoi amici si rivolgeva soltanto col "tu". «Naturalmente. Io agirei così come intende agire la mia compatriota» disse il cèco. «Sono anch'io dalla parte di Luise» asserì quello del servizio di lavoro obbligatorio, il giovane magro e debole. «Anche tu!» La signorina era felice. Ma è ovvio, pensò. Il mio amico preferito non poteva pensarla diversamente! «Sì, anch'io» ripeté il giovane del servizio di lavoro. «Perché studiando ho chiaramente capito che a questo mondo le cose andranno finalmente
meglio solo quando i filosofi cominceranno ad agire.» «È proprio quello che penso io» disse il cuoco norvegese. «Statemi a sentire!» disse la signorina, eccitata. «Vi prego, statemi a sentire. Ho dell'altro da dirvi.» La palude notturna era piena di rumori e di vita, piena di vita e di morte. 24 «Voi sapete» disse la signorina ai morti che l'ascoltavano attentamente «che mia madre è morta giovane. Aveva 36 anni soltanto. Io ero la sua unica figlia, ed ero disperata dopo la sua morte. Lo sapete, vero?» I morti annuirono. «Mio padre faceva il soffiatore di vetro. Un uomo silenzioso. La gente di Reichenberg diceva sempre che conosceva tanti segreti. E quanto amavamo la mamma, lui e io! Quando dunque papà ha visto tutto quel mio terribile dolore, mi ha parlato, in questi termini: "Non piangere più, Luise, non essere triste. La mamma è morta presto. Non ha avuto il tempo di vivere e di fare tutto quello che avrebbe voluto. Quando però un essere umano muore prima del suo tempo, allora la sua anima può tornare su questa terra, in modo da poter compiere ciò che ha lasciato d'incompiuto, di non definito". È vero?» I morti tacquero a lungo. Infine lo studente di filosofia disse: «Sì, è vero». L'americano disse: «Se lo desiderano, allora le anime di quelli che sono morti presto possono trasferirsi nel corpo di persone vive». «Anche mio padre l'ha detto!» esclamò la signorina Luise. «Le anime possono trovare ospitalità nei corpi dei vivi! E possono decidere poi quello che questi vivi dovranno fare, e cosa pensare e come agire!» Guardava i suoi amici, e i suoi amici guardavano lei: e tacevano. «Tutti voi qui» continuò la signorina con tono implorante «siete morti prima del vostro tempo. Tutti voi non avete potuto portare a compimento quello che vi eravate proposto di fare. E quindi voi tutti potete, sì, potete tornare, purché lo vogliate!» «Noi non abbiamo bisogno di tornare» disse il polacco. «Noi siamo già qui.» «E le nostre anime possono entrare nei vivi, se riteniamo di dover guidare dei poveri mortali verso una miglior vita» disse il russo. La signorina Luise congiunse le mani.
«Oh fatelo!» disse, implorante. «Vi prego! Vi scongiuro! Sono troppo debole e troppo vecchia per poter agire da sola! Ho bisogno di aiuto! Del vostro aiuto! Di altro aiuto non potrò disporre. I cuori di coloro che vivono sono induriti. Sono capaci solo di odio e di menzogna... Tutti i ricchi e i potenti... Tutti gli uomini politici e i militari con le loro pompose medaglie, non mi aiuteranno, no... Sanno soltanto deporre corone, stringere mani, abbracciarsi, baciare bambini in pubblico: ma sono soltanto dei bugiardi, tutti... Non m'importa niente di loro e a loro non importa niente dei miei bambini! E sapete perché? Perché non sanno cos'è l'innocenza! Perché non vogliono capire che c'è il vostro monde!... Mi state a sentire?» «Con molta attenzione, Luise» disse l'americano. «Ho cambiato parere» disse il contadino ucraino. «Ora la penso come il cuoco, come il professore e gli altri che la pensano come Luise.» «Ritieni davvero che dovremmo intrometterci in questioni terrene?» chiese il francese, dubbioso. «Ma sì, naturalmente! Per aiutare me! Per essermi vicini!» esclamò la signorina. Gli uomini tacquero di nuovo. Alcuni borbottavano fra di loro. «Luise deve sapere che ci saranno dei pericoli, se lo faremo» disse il francese. «Per noi, per lei e per tutti gli uomini.» «Come può essere pericoloso stare al mio fianco?» «Sarà pericoloso se saremo al fianco di Luise nel suo mondo» disse il francese «perché il nostro mondo è differente, e Luise non potrà mai capirci completamente. Nessun essere vivente lo può. Adesso noi siamo senza passioni e siamo amici. Ma nel mondo di Luise cosa accadrà? Potremo restare amici?» «Ma sì, è ovvio» disse il norvegese. «Ormai tutti noi sappiamo cosa è bene e cosa è male.» «Eppure...» disse il francese. «Venite, vi prego, vi prego!» implorava la signorina. «Voi farete solo del bene, lo so. Siete saggi. Non potrete più fare del male, è impossibile! È vero che verrete?» Gli uomini si riunirono in gruppo fitto, mentre la signorina Luise aspettava in disparte. Non riuscì a capire cosa quegli undici uomini sussurravano. Si consultavano. E la signorina Luise vide che la luna, con la sua luce, formava un ponte sopra la palude, come un ponte fra il regno dei vivi e il regno dei morti. «Allora,» chiese la signorina «cosa avete deciso?»
«Tenteremo di aiutare Luise» disse l'americano. «Io però ripeto: è pericoloso» insisté il francese, e la sua bocca si atteggiò, come sempre, in una smorfia ironica. La signorina Luise era molto agitata. «Se ora decidete di venirmi ad aiutare... vi riconoscerete poi anche fra di voi?» «No» disse il russo. «Noi ci siamo conosciuti soltanto dopo morti.» «E che aspetto avrete, in vita?» «Non lo sappiamo ancora. Potremmo apparire sotto tanti aspetti. Tutto dipende da chi ci sceglieremo per la nostra anima» disse lo studente. E il polacco disse: «Noi abbiamo e avremo sempre l'aspetto che Luise vorrà». Il testimone di Jehova disse: «Nella morte siamo diventati più simili a Dio. Noi esisteremo soltanto fino a quando Luise crederà in noi e nella nostra esistenza. Quando non lo crederà più, non esisteremo più». «Io credo in voi» disse la signorina. «Voi rimarrete al mio fianco! Così non sarò sola, se ora vado ad Amburgo! Accadranno molte cose, vero? E assai presto. Forse già domani.» «Forse già domani» disse l'olandese. «Fra quante ore?» chiese la signorina. «Che importanza ha?» disse il russo. «È sempre domani, mammina, deve saperlo. Anche l'oggi è stato una volta domani.» «Vi ringrazio! Vi ringrazio! Oh, come sono felice!» esclamò la signorina Luise, piangendo. Corse verso lo studente e l'abbracciò. Era gelido, in quei suoi vecchi vestiti, ruvido e duro come la scorza di un albero. GRAFICA 1 «Il membro virile si erge. E a questo punto l'organo sessuale maschile è nella condizione di poter svolgere la sua funzione. Continua il prossimo numero.» Avevo battuto in fretta queste ultime parole. Tolsi la carta millimetrata dalla pesante macchina da scrivere, unitamente alla carta carbone e alla copia. Benone. Ero riuscito a riempire esattamente diciotto pagine. Fra le due delimitazioni verticali della carta millimetrata c'era lo spazio esatto per
sessanta battute, e tre pagine, una volta stampate, formavano una colonna di testo. Mi erano state assegnate sei colonne per quella puntata. Ed ero riuscito a farcela, preciso alla riga. Riuscivo quasi sempre a farcela alla riga. Semplice questione di abitudine. In fondo è dal 1954 che lavoravo come giornalista, e negli ultimi tre anni e mezzo quale redattore di servizi a puntate di quel tipo. Il titolo era: "Il sesso perfetto". Era la sedicesima puntata. E la faccenda si sarebbe protratta certamente per venticinque puntate almeno. Forse anche trenta: tutto dipendeva da ciò che l'azienda - lodata sia e benedetta - m'avrebbe chiesto. In precedenza, le altre serie avevano avuto titoli come: "Sai amare?", "Le meraviglie dell'estrogeno", "L'amore in tre" (che non è quello che state pensando, ma ciò che debbono fare le coppie che hanno un bambino), "Perché ragazze amano ragazze", "La pillola d'oro", "Rendimi felice!", e così via... Ormai, pensavo, ne abbiamo un vasto assortimento. E intanto separavo gli originali dalle copie. Mai, dal giorno in cui era nata la repubblica federale tedesca e da quando avevamo di nuovo una stampa libera e democratica, un tema aveva sfondato in quel modo. Era la bomba del momento. Tutti gli altri settimanali, naturalmente, si erano affrettati a seguire le orme di Blitz, senza tuttavia avere ancora trovato lo stesso favoloso successo. Perché non avevano - bando alla falsa modestia: e perché, poi, perché! - non avevano, dicevo, un Curt Corell. Curt Corell: ero io. Io, Walter Roland. Il mio secondo nome. Come vi ho già detto, anche al di fuori di quel pettegolo ambiente, molti ormai sapevano che Walter Roland e Curt Corell erano la stessa identica persona. Ma non moltissimi. In questo almeno ero riuscito a impormi e a ottenere un qualche risultato: che milioni di persone rammentassero le grandi e belle inchieste che un tempo avevo scritto come Walter Roland, e che non mi identificassero coll'individuo che da tre anni e mezzo ammanniva loro quelle schifose pappe di pseudo-educazione sessuale. Quello che sto scrivendo non si adatta cronologicamente allo svolgimento della vicenda. Non trovo però altro modo per farlo. Sono stato talmente avviluppato nella gigantesca rete dell'industria dei settimanali, e questa svolge un ruolo così importante in quello che vi sto riferendo, che debbo scriverne. Esaurientemente. Era tempo, del resto, che lo facessi. Così che voi possiate comprendere a fondo la situazione in cui mi trovavo quando prelevai Irina Indigo dal campo di Neurode. Dunque... Tre anni e mezzo prima, la tiratura di Blitz era un po' fiacca. Diciamolo
apertamente: calava. Capita nelle migliori famiglie. Il reparto della pubblicità fu colto immediatamente da attacchi isterici. Tutti i prezzi (astronomici, sia detto per inciso) degli annunci sui settimanali dipendono infatti dalla diffusione, accertata da un notaio. Quando cala, devono essere abbassati anche i prezzi per le inserzioni, le quali - seguendo le indicazioni elaborate da un calcolatore - devono occupare all'incirca la metà dello spazio d'ogni numero del giornale. A intervalli regolari, ogni sei mesi, Blitz pubblicava i dati sulla diffusione e sui prezzi della pubblicità. Ai grandi clienti pubblicitari (quelli da pagina doppia o da pagina intera a colori) si fornivano con mesi di anticipo. Quando dunque succedeva che la tiratura scivolasse sotto un certo livello di prezzo, alla direzione editoriale erano alti lamenti perché le conseguenze erano di due tipi: se la tiratura fosse calata ancora, l'editore sarebbe stato obbligato a comunicare ogni ulteriore contrazione del 5 per cento a tutti gli inserzionisti, cui si sarebbe dovuto in tal caso restituire del denaro, o accreditarglielo per future inserzioni. Gli annunci infatti dovevano diventare sempre meno cari col calare della tiratura. E questa è la prima conseguenza. Ed ecco la seconda: posto il miracoloso caso che la tiratura, come vuole un'antica legge, non fosse calata ulteriormente, ma si fosse anzi ripresa rapidamente e per robusti balzi in avanti, l'editore non avrebbe potuto chiedere un solo centesimo in più sino alla successiva convenzione. Meccanismo diabolico, eh? Già, e la situazione, tre anni e mezzo prima, era appunto questa: eravamo appena, ma appena appena al di sopra del terrificante limite. E la tiratura calava. Calava. E il giorno della pubblicazione del nuovo listino dei prezzi si avvicinava. Fu allora che accadde il miracolo. Mi venne cioè una folgorazione. Pensai, voglio dire, alla faccenda delle informazioni in materia di sesso. Scrissi le prime parti d'una prima serie. E - per la miseria! - la tiratura fece un balzo in avanti: e che balzo. «È l'apocalisse!» esclamò l'editore Thomas Herford, le lacrime agli occhi, quando, dopo quattro puntate di quel primo capolavoro di Curt Corell, la tiratura di Blitz risultò fulmineamente accresciuta di 90 mila copie. E quindi, a quella provvidenziale serie, dovette seguirne immediatamente una seconda, e poi una terza, e quindi una quarta, e così via, senza interruzioni, senza pause: Curt Corell divenne prigioniero (in una prigione d'oro) del suo genio. Settimana per settimana, cinquantadue volte all'anno, ho dovuto continuare a frugare in questa materia sconcertante, ma profondamente amata dai lettori e dall'azienda. Ho dovuto darci dentro come un invasato, e fornire ogni sette giorni una nuova puntata su questo tema - per fortuna - davve-
ro inesauribile. Avevo a mia disposizione tutta la letteratura specializzata: un'intera biblioteca. Un gigantesco archivio fotografico. Fotografi e disegnatori aspettavano soltanto i miei ordini. Non importava quanto denaro spendessi: rientrava sempre in cassa, centuplicato! Fatti, fotografie allusive, spiegazioni, delucidazioni, eccitazioni e scientifici pretesti per consolare e incoraggiare teenager disperate, mariti, mogli, amanti, grandi e piccoli, vecchi e giovani, impotenti senza rimedio, feticisti, lesbiche, ermafroditi, omosessuali (c'è di tutto nella natura umana, e tutto bisogna capire e comprendere: ma bisogna innanzi tutto conoscere, perché conoscere significa perdonare, significa perdere complessi, senso di colpa, frigidità, e tendenze devianti. In breve: vivere una vita sessuale piena...): ecco, io impastavo tutta questa roba, ogni settimana, sino a farne una pappa calcolata in ogni ingrediente, al millimetro, mescolata con estrema seriosità. E ne cucinavo poi le mie torte meravigliose. Come contorno offrivo - quando non era proprio possibile ricorrere alle fotografie - raffigurazioni grafiche disegnate col miglior gusto possibile. Questi disegni - come testimoniavano le ricerche di mercato - godevano di un favore eccezionale. Nella serie "Rendimi felice!" pubblicammo una volta persino un disegno in quadricromia, su una intera pagina, con didascalie esplicative e molti richiami: A, B, C, a, b, c, 1, 2, 3, I, II, III, e così via fino al 27 e al XXVII, passando per l'intero alfabeto in caratteri maiuscoli e minuscoli. Ne era venuta fuori una vera e propria opera d'arte, che a vederla sembrava un incrocio fra un piano di battaglia e un quadro di Dali: l'uccello in rosso, la bernarda in blu, tutti gli altri organi annessi e connessi in giallo imperiale o violetto, il tutto corredato di linee tratteggiate, punteggiature, asterischi, indicazioni e frecce, e soprattutto di un titolo stampato a lettere maiuscole color rosso fuoco: COME PERVIENE IL SEME ALL'OVULO. Dopo di che un diffuso bollettino giornalistico battezzò Blitz: Corriere del Caz & Fig. «Tutta invidia» commentò Thomas Herford, alzando le spalle. A guardare la tiratura di Blitz, s'era propensi a dare ragione all'editore. Perché la tiratura saliva, saliva, e Blitz si avvicinava in tal modo ai due giganti fra i settimanali. Circostanza che procurava a Herford, oltre all'euforia, anche sensazioni di tutt'altra specie. Ai suoi più stretti collaboratori -
aveva invitato anche me a quel colloquio - disse: «Naturalmente voglio una tiratura altissima e tariffe d'inserzioni altissime. Però non voglio una tiratura troppo alta! A nessun costo! Non lo dimentichino, signori miei! Tutto, ma non diventare troppo grandi! Mi costerebbe milioni ogni anno. E finirei sul lastrico...». Un incubo assolutamente giustificato! C'era infatti un limite massimo per i prezzi delle inserzioni. Oltre quel limite non si poteva andare, anche se la tiratura, per la sua imponenza, poteva giustificarlo. Una tiratura gigantesca ingoiava montagne di quattrini sotto forma di carta, stampa, spedizione e diffusione, e di articoli coi quali riempire giornali di quelle dimensioni. Sino ad un certo limite i soldi delle inserzioni compensavano queste spese in un rapporto commercialmente sano. Ma oltre un certo punto no: diventando troppo grandi, si era costretti a produrre fascicoli troppo grossi e non era possibile - nonostante tutto chiedere più denaro per le inserzioni. In tal caso, per paradossale che possa apparire, ci si rimetteva. E pesantemente. Milioni all'anno, come aveva detto l'editore. L'imperativo categorico dunque era il seguente: avere il maggior successo possibile, ma non tutto il maggior successo possibile. Poiché si sarebbe tradotto nella rovina dell'azienda. Già, è proprio così: la vita affligge i milionari senza pietà, secondo inesorabili leggi... 2 Erano le 8 e 20 dell'11 novembre 1968, un lunedì. Bella mattina di autunno inoltrato. Cielo azzurro, chiaro. Sole fiacco. Nebbia attorno alla città. Freddo. Io avevo però caldo. Come sempre. Ero seduto alla scrivania con le maniche rimboccate, la cravatta allentata, una Gauloise nell'angolo della bocca. I capelli ancora umidi, perché avevo fatto la doccia. Il mio ufficio era al settimo piano d'un grattacielo ipermoderno - tutto acciaio, vetro e cemento - nella Kaiserstrasse di Francoforte. Le finestre davano sul cortile, ed era una fortuna, poiché giù avevano sventrato la Kaiserstrasse: quelli della metropolitana scavavano a tutto spiano, stridio di gru, baccano di macchine, un inferno. Il chiasso possente penetrava sino al cortile, ma lo si poteva sopportare. Nell'edificio c'era aria condizionata, naturalmente. Nessun bisogno di aprire finestre. Al settimo piano erano sistemate la direzione e la redazione giornalistica. La redazione fotografica era al piano di sotto. L'intera barac-
ca era come un mostruoso acquario. Persino la maggior parte delle pareti delle stanze era fatta di vetro. Potevo guardare attraverso molti uffici, lungo quasi tutto il piano. Non c'era ancora anima viva, a parte le donne delle pulizie e io che lavoravo alla mia scrivania. A volte quel palazzo di vetro faceva impazzire i redattori. A me non dava quasi fastidio. Io non ero redattore, bensì libero collaboratore sia pure legato da contratto d'esclusiva, e non avevo obbligo alcuno di starmene lì. Quando potevo disporre di più tempo di quel giorno, lavoravo sempre a casa. I collaboratori di rango scrivevano di rado in redazione, e - se capitava - in una stanza in comune. A me avevano assegnato un ufficio personale. Perché io ero la prima firma di Blitz, il salvatore della tiratura; il ragazzo prodigio che riusciva a sfondare anche con le più lerce storie... Davanti a me c'erano bottiglie vuote di Coca-Cola, un portacenere colmo. Tutt'attorno libri e riviste dalle quali desumere il mio materiale. Il Rapporto Kinsey. Il Rapporto Master. Il buon vecchio Magnus Hirschfeld. Periodici di medicina. Il Dizionario dell'Erotismo. Foglietti con appunti. Solo un paio di foglietti, non me ne servivano di più. La parte sentimentale, l'«autentica partecipazione» (mi veniva da ridere solo a pensarci) ormai la buttavo giù sui tasti quasi senza pensarci, mi veniva di getto. Quanti quattrini si potevano fare con quella merda! Spensi la Gauloise, ne accesi subito un'altra, bevvi Coca direttamente dalla bottiglia - che brucior di stomaco avevo, quella mattina! - e cominciai a correggere. Dunque, vediamo un po'... Zone erogene. Necking. Petting. Perfetto, perfetto. Clitoride. Un momento! Qui facciamo un richiamino e annotiamo, in una delle vaste bande laterali della carta millimetrata, fatte apposta per le correzioni, una specificazione fra parentesi: "(grilletto)". Un'aggiunta già fatta centinaia di volte, sempre fra parentesi. Ma il grilletto fa sempre un ottimo effetto. Esitai, e poi ampliai la parte da inserire. Era straordinariamente importante - e non ci si pensava mai abbastanza - che quelle serie avessero la veste più scientifica possibile. Per tenere buoni la procura della repubblica, l'ente per la salvaguardia della morale popolare e l'istituto di autocontrollo dei settimanali. E poi erano i lettori che le desideravano così! Dove accidenti s'è cacciato quel libro, maledizione... ah, eccolo! Avevo fatto un segno in corrispondenza d'una pagina di quel libro, dove c'era un
passaggio da inserire assolutamente: in compenso tagliai poi alcune righe dal paragrafo sul prepuzio, per restare esattamente nell'ambito delle sei colonne. Ecco dunque la parte aggiunta: «"E poiché dalla manipolazione del grilletto risulta una potente eccitazione della donna, il famoso van Swieten, l'olandese che era medico personale dell'imperatrice Maria Teresa, allorché questa ebbe a consultarlo sulla sterilità che afflisse la prima parte della sua vita matrimoniale, consigliò..." (No, no, prima lo scriviamo in latino, proprio come sta qui: faccenda serissima, o lettore, la chiavata!) «"Praetero censeo, vulvam Sacratissimae Majestatis ante coitum diutius esse titillandam." Il che significa: "Inoltre sono del parere che l'organo sessuale della Sacra Maestà Vostra debba essere solleticato a lungo prima dell'accoppiamento". Il risultato di questo ragionevolissimo consiglio? Eccolo: (Annotai con estrema chiarezza, scrivendo le singole lettere staccate l'una dall'altra, affinché i tipografi non mugugnassero di nuovo, affermando di non poter leggere la mia grafia) "l'imperatrice mise al mondo sedici figli!"». Queste si che erano cose che tiravano su il morale! Sorrisi di nuovo. Mi era venuta in mente la battuta sentita in un cabaret di Francoforte, che ero andato a vedere poco prima. Sul palcoscenico c'era un letto matrimoniale. Un uomo, seduto sul letto, chiedeva alla ragazza che gli era distesa al fianco: «Dimmi un po', l'hai letta questa settimana la puntata di Corell?». Dopo di che la ragazza, molto spaventata, balbettava: «Sì, certo... Perché?... Ho fatto qualche gesto sbagliato?». Eccola, signori miei, la fama! Il mio nemico mortale, intimo e personale, il direttore Gert Lester, poteva venirmi a dire una dozzina di volte la settimana che stavo scadendo, che buttavo giù la roba, che i miei indici di gradimento calavano, che non ero più il "primo della classe" come una volta: quel porco d'un idiota! Io ero Curt Corell, in gamba come sempre! Giù un altro sorso. Passai il dorso della mano sulla bocca e ripresi a correggere. Dunque, che veniva ora di bello?
Ora toccava alle piccole labbra. Poi le grandi labbra. Il monte di Venere. Masturbazione, naturalmente, non mastorbazione. Colpa di quel mio battere a macchina troppo veloce. La matita dalla mina morbida inserì nuove frasi, tracciò linee ondulate sotto le parole che dovevano essere composte in corsivo, disegnò asterischi lì dove cominciava un nuovo capitoletto. A leggerla, quella porcheria, era una cannonata. 3 Quattro ore prima invece pensavo: che bella resistenza hai, ragazzo mio, roba da matti! M'ero svegliato alle 4 e 30 in punto. Io potevo svegliarmi quando volevo, purché me lo proponessi, e quel giorno la levataccia era stata indispensabile, perché ero ormai maledettamente vicino al termine ultimo postomi da Blitz. La puntata per il numero sul quale si stava lavorando avrebbe dovuto essere consegnata già venerdì. Ma ero stato male. Non gliene doveva fregare niente a nessuno, era una faccenda esclusivamente privata, ma a Hem avevo naturalmente dovuto dirlo, per telefono. «Hem, non ce la faccio a consegnare oggi.» «Di nuovo lo sciacallo?» «Sì, sono a letto.» «Bevuto troppo, eh?» «Troppo di troppo. E fumato troppo. Oggi non me la sento di buttar giù una riga.» «Finirai coll'ucciderti, ragazzo mio» disse Hem: a me che me ne stavo a letto con lo sciacallo! «Fesserie, Hem! Ho solo bisogno di dormire. Butto giù venti milligrammi di Valium e dormo tutto il giorno.» «D'accordo, ragazzo mio, e auguri.» «Sa che le dico, Hem? È un miracolo che io riesca ancora a scrivere quella serie! Ne ho le scatole piene. Mi viene da vomitare solo a pensarci!» «Capisco benissimo. Ma a che serve? Il pezzo va buttato giù, comunque.» «Buttarlo giù, comunque!» Paul Kramer, timorato di Dio e divenuto saggio nella nostra bottega, lo diceva spesso. Una volta, da giovane, avrebbe voluto diventare un grande musicista. Ma non ce la fece. Se ne infischiavano delle sue composizioni, faceva la fame e suonava il piano nei locali pubblici. Poi andò in guerra. Tornò a casa, dalla prigionia, nel 1946.
Tentò di comporre altra musica. Altro fallimento. Alcuni amici gli trovarono una sistemazione in un quotidiano, come critico musicale. Le sue brillanti recensioni richiamarono l'attenzione di Blitz, che se lo accaparrò: prima come redattore, e poi come capo-servizio. Fu un importante esperimento, ma a quell'epoca da Blitz si facevano ancora esperimenti. Quello riuscì, eccome! Da un compositore fallito era nato un giornalista bravo e ammirato da tutti quelli del nostro mestiere. Quasi tutti coloro che lavorano per i settimanali hanno coltivato in passato altre speranze, hanno avuto altri mestieri, oppure sognato una vita molto, ma molto diversa. Sarebbe esagerato dire che sono gente rovinata. Però ciascuno ha alle spalle la sua frana. La vita li ha spezzati: chi prima, chi poi. Quella macchina produttrice di sogni che è il giornalismo dei periodici è mandata avanti da una vasta schiera di individui che hanno perso ogni illusione, e che pure continuano a illudersi: è appunto per questo forse che funziona così bene. «Sì sì, lo so, non c'è niente da fare» dissi io. «Ecco, vedi. Gli altri naturalmente bestemmieranno...» «E che lo facciano, quegli stronzi! O se la scrivano loro quella roba!» «Su Walter, non t'arrabbiare. Cercherò di giustificarti. Però lunedì mattina alle nove quella roba deve essere sulla mia scrivania, altrimenti scoppia la rivoluzione.» Lo sciacallo mi afflisse per tutto il venerdì, e poi anche per tutta la giornata di sabato, anche peggio, con forti crisi d'angoscia: mi guardai bene tuttavia dal chiamare un medico. Doveva passare. Ma domenica mattina non era ancora passata. E allora decisi di usare le maniere forti, e mi costrinsi a mangiare, al ristorante, una montagna di roba; feci appena in tempo a tornare alla mia abitazione, che rividi tutto. Ed è quello che volevo. Ora avevo lo stomaco irritato e sensibile, e il Chivas avrebbe fatto effetto. Cominciai a bere verso le 3 e continuai a bere per tutto il pomeriggio, notando che lo sciacallo cominciava ad arretrare. Poi uscii. Passai per sette o otto locali notturni, non ricordo più bene quanti fossero: so solo che avevano tutti la "mia" bottiglia di Chivas, e che in una di quelle stalle dovevo aver raccattato le due ragazze che ora, alle 4 e 30 del mattino, erano distese accanto a me, una rossa a sinistra e una bruna a destra, nude entrambe, giovani, e innocenti perché immerse nel sonno. Mi alzai con precauzione. Non volevo svegliarle. Gettai solo un'occhiata ai loro bei corpi, e poi le ricoprii. La bruna russava leggermente. Mi resi conto d'essere nudo anch'io, e vidi, sparsi per la stanza da letto, i capi d'ab-
bigliamento delle ragazze. Mi tornò tutto in mente quando notai il disco sul giradischi, e il lumino ancora acceso a rivelare che l'apparecchio era in funzione. Lo spensi. Ciaikowski, Patetica. Il mio compositore preferito, Ciaikowski. Ero stato a sentirmelo, la notte prima, mentre le due ragazze si erano esibite in uno striptease originalissimo e selvaggio. Ah, che musica meravigliosa! Mi ero seduto a bere Chivas e a guardare le ragazze. Le avevo pagate in anticipo: troppo, come sempre. «Orsù, amatevi!» avevo detto loro. Dopo di che avevano organizzato uno show eccezionale, rotolandosi sul mio letto stralargo, fra gemiti e gridolini esagerati. Posto anche che fossero lesbiche davvero, non avrebbero potuto trarne soddisfazione alcuna perché erano troppo sbronze. «Be', che c'è?» mi aveva chiesto infine la rossa. «Ti decidi a venire anche tu?» Se ne stava a gambe larghe sul mio letto, la bruna distesa accanto. «Ma sì, certo, subito.» Un altro po' di Ciaikowski. Un altro po' di Chivas... La rossa era autentica, la bruna tinta. In realtà era una bionda. Aveva le tette migliori. «Ti piacciamo?» «Mi piacete da matti, dolcezze.» «Vuoi che ti aiutiamo un po'?» «Molto gentile. Non occorre, grazie.» «Oppure vuoi che...» La bruna, che in realtà era una bionda, mi aveva fatto un'altra proposta. «Nemmeno. Faccio solo un salto in bagno e poi vengo da voi. Fra di voi.» «Che bellezza!» Be', insomma: ero andato in bagno e m'ero lavato. Quel che poi combinammo in tre non è il caso di scrivere, tanto non lo stamperebbero lo stesso. Me le scopai, tutte e due, e tanto a lungo che alla fine mi chiesero piagnucolando di smetterla, perché non ce la facevano più. E pensare che ero ubriaco quanto loro. Però mi si rizzava particolarmente bene, quando ero ubriaco. E non voleva saperne di tornare giù. Ecco perché - a meno che non fosse già nei paraggi - in quei momenti non avevo paura dello sciacallo, né timori d'una qualche grave malattia o della morte. La morte non esiste per chi sgobba come un mulo, si scopa da sbronzo due ragazze col solo risultato di eccitarsi sempre di più: non è il tipo fatto per la morte. Dopo ogni visita dello sciacallo, mi portavo sempre a casa due ragazze.
Nel novembre del 1968 io, Walter Roland, alias Curt Corell, ero al vertice - pretendete forse che me ne vergogni, quando basta dare un'occhiata al mondo com'è, a chi guadagna i quattrini, e in che modo? - ero al vertice, dicevo, della mia carriera. Sissignori! Disponevo di un attico. Di proprietà della casa editrice, che pagava tutto: io neanche un centesimo. Era un appartamento di sei stanze, con ogni immaginabile confort, in cima a uno di quei grattacieli di lusso lungo il viale Gregor Mendel, nel quartiere residenziale per persone importanti di Lerchesberg, a sud del Meno. Era una vera e propria casa in cima a un'altra casa! Arredamento super-moderno. Nella stanza da letto (bianchissima) c'era un letto enorme, di cuoio. Illuminazione indiretta e lampade a stelo con paralumi colorati. Una parete intera ricoperta di libri, con televisore incorporato. Da tutte le stanze si poteva uscire all'aperto, attraverso porte di vetro, sulla vasta terrazza. D'estate c'erano fiori e piante; sedie a sdraio e ombrelloni dappertutto; di notte si poteva starsene seduti fuori a godersi il panorama di tutta Francoforte. Ecco cosa avevo conquistato scrivendo! Oltre alla mia bianca Lamborghini 400 GT. Sulla quale avevo scarrozzato a casa mia le due fanciulle. Per ubriaco che fossi, riuscivo sempre a guidare (e a scopare) perfettamente. Avevo quattrini a palate. E ne spendevo a piene mani. Nonostante lo stipendio spropositato, avevo sempre debiti con la casa editrice: dovevo ricorrere in continuazione agli anticipi. Ero in rosso di 210 mila marchi. Be'? Chi se ne frega! Mi davano tutti i soldi che volevo, con amore e trepidazione, mi rincorrevano addirittura, con le braccia tese: prendine, oh prendine! (Perché non passassi alla concorrenza, che mi faceva almeno una proposta al mese.) Avevo raggiunto il successo, sissignori: e che gli idioti ridessero pure, sacramentassero e spettegolassero a piacimento. Avevo successo! Ma dovevo anche continuamente ripeterlo a me stesso. Ecco perché guidavo una macchina dal prezzo astronomico, mi presentavo in società sempre al fianco delle più belle stelline del cinema, davo rinomati ricevimenti, abitavo soltanto negli alberghi più esclusivi... La rossa s'era voltata, sedere all'aria, i capelli scompigliati sul cuscino. Negli ultimi tempi mi concedevo sempre più spesso due ragazze da portare contemporaneamente a letto. E sempre dopo ogni crisi da sciacallo. Riuscivo a dormire magnificamente, dopo, disteso in mezzo a quella carne calda, soda, giovane. Mi avviai verso la cucina a tastoni, nudo. Misi su l'acqua per il caffè.
Avevo bisogno di molto caffè, perché dovevo mettermi subito al lavoro, ed ero sempre ancora ubriaco. Raggiunsi vacillando e col cervello annebbiato il bagno rivestito di mattonelle nere, e mi cacciai a lungo sotto la doccia, alternando acqua calda e fredda. Ottimo rimedio. Riuscivo di nuovo a ragionare. Mi feci la barba. E ascoltai la radio. Avevo un minuscolo apparecchio a transistor giapponese, me lo trascinavo in giro dappertutto. Una stazione a onde corte trasmetteva un notiziario. Battaglia feroce nel delta del Mecong. Azione repressiva in Cecoslovacchia. Dubcek ulteriormente degradato. Aereo americano dirottato a Cuba, e uno israeliano ad Atene. Duri combattimenti al confine fra Israele e Giordania, azioni di commandos in Siria. Sanguinosa guerra di religione in Irlanda. Disordini razziali negli USA. Rivalutazioni, svalutazioni, scioperi, catastrofi. Niente di speciale. Tutte le mattine ascoltavo, per prima cosa, un notiziario. Bisogna tenersi informati. Lasciai il bagno ed entrai nello spogliatoio, fatto tutto d'armadi a muro color crema, uno accanto all'altro, e tutti con specchio. Scelsi un vestito grigio di flanella, una camicia bianca di seta cruda, una cravatta nera, calze nere, mocassini neri. In cucina filtrai il caffè in modo che risultasse molto forte e lo bevvi a piccoli sorsi. Non avevo fame. Dopo aver dato un'altra occhiata alle due ragazze addormentate, presi quattro banconote da cento marchi dal mio portafogli, e le infilai per metà sotto il lume del comodino. E scrissi con una penna a feltro rossa, su un foglio di carta: «Ciao, bellezze. Questi sono per voi. Chiudete per bene e gettate la chiave nella buca delle lettere». Nessuna firma, nemmeno le iniziali. Non era proprio il caso di darsi alle intimità. E non ci saremmo comunque mai più rivisti. Dai, dai! Ora avevo fretta. Era tempo che mi mettessi a lavorare. Mi diressi - con la mia Lamborghini - verso la sede della casa editrice attraverso la città fredda e ancora vuota. Arrivai presto a destinazione. M'infilai nel garage sotterraneo. Feci a piedi i gradini sino all'atrio. Lo facevo sempre. Niente ascensore per quel tratto! Bisogna anche pensare alla salute. Un gigantesco portiere, che indossava un'uniforme blu con galloni d'oro, mi aprì la porta che dal garage conduce all'atrio, dopo che ebbi suonato. Come tutti quelli che facevano qualcosa per me, anche il portiere ebbe una mancia eccessiva.
«Buon giorno, signor Kluge.» «Buon giorno, signor Roland, e mille grazie!» Avevo una borsa gonfia di roba con me. Era piena di materiale, libri, riviste, appunti per la puntata che dovevo scrivere. L'atrio imponente aveva pavimento e pareti di marmo, poltrone di cuoio e tavoli rivestiti di cuoio. Attraverso una delle alte porte a vetri azionate da cellule fotoelettriche apparve un uomo grande e grosso, con un vestito stazzonato, la barba lunga, l'espressione di chi non dorme da molto tempo. Quattro macchine fotografiche gli ballonzolavano dalle spalle, e trascinava una borsa da viaggio piena da scoppiare. Una benda bianco-sporca gli avvolgeva la fronte. Era il mio amico Engelhardt. «'Giorno, Walter.» «Salve, Bertie. Ehi dico, t'hanno beccato!» «Sciocchezze. Una sassata.» Sorrideva, come sempre. Tre giorni prima, a Chicago, era stato assassinato un leader negro. Ne erano seguiti disordini razziali un po' ovunque. «Quando sei atterrato?» «Mezz'ora fa. Gli altri arriveranno coll'aereo di mezzogiorno.» Blitz aveva spedito negli Stati Uniti una squadra di fotografi e di reporter. «Vecchio mio, vedessi come si scannano a Chicago. E che foto ho qui con me, che foto!...» «Hanno già preparato grandi inserzioni pubblicitarie su tutti i quotidiani più diffusi» dichiarai io. «E lo spazio? Ci danno sufficiente spazio?» «Nove pagine.» «La miseria!» «Ho visto ieri le bozze. Titoli alti così! E tu sei citato, naturalmente, nome e cognome.» «Benissimo! Adesso vado in laboratorio. Ho tre pellicole da sviluppare.» «Pensavo che avreste mandato tutto con gli altri aerei.» ' «Se sapessi quante ne portano ancora i ragazzi!» Quindi neanche in quel momento si poteva ancora sapere con esattezza quanti negativi sarebbero stati sviluppati: e invece Gert Lester... Mi avviai verso i due grandi ascensori del palazzo. La nostra era una azienda editoriale molto grande, con tanti dipendenti: spedizione, reparto inserzioni pubblicitarie, amministrazione dei dipendenti, amministrazione dei collaboratori, redazione fotografica, redazione giornalistica, archivio e ricerche, lettere al giornale. Davanti a uno dei due ascensori c'erano tutto il
giorno persone in attesa. L'altro invece era quasi sempre libero. E infatti l'ascensore davanti al quale c'era sempre qualcuno in attesa era riservato a piccoli e medi dipendenti, e ai visitatori. Il secondo ascensore invece era riservato ai capi-servizio, al direttore, al dirigente editoriale, al capo della spedizione, ai dirigenti e vice-dirigenti amministrativi e, naturalmente, all'editore. Ciascuno di questi importanti signori disponeva delle chiavi per il "lanciacapi", come lo chiamavano. Ed era un segno di grande onore e distinzione: occorreva una chiave come quella per azionare il "lanciacapi". Per l'altro ascensore non c'era bisogno di chiavi. Le porte si aprivano da sole, quando il "montacarichi del proletariato" arrivava. Ma non arrivava mai. E così la plebe doveva aspettare. Quattordici anni prima, allorché - appena interrotti per mancanza di soldi i miei studi di giurisprudenza - ero entrato lì per la prima volta e avevo visto quel bel sistema dei due ascensori, avevo seriamente chiesto a me stesso se era il caso di lavorare per un'azienda editoriale nella quale accadevano cose del genere. Mi ero molto indignato. Ma l'indignazione svanì e cominciai a lavorare per la bottega. Otto anni prima - ormai, a furia di scrivere, ero già diventato il top-writer - avevano consegnato anche a me, tutti commossi in occasione d'una festa natalizia, una di quelle chiavi per l'ascensore delle autorità. Mi ero sentito male dalla rabbia, e per altri quattro anni continuai a servirmi, con ostentazione, del "montacarichi del proletariato", sempre occupato e maleodorante. Un giorno mi seccai. (Avevo appena sfondato con la prima serie di articoli di educazione sessuale, e comperato la mia Lamborghini.) Quella baracca d'un ascensore non si decideva ad arrivare: e allora impugnai la chiave dell'altro, quello bello, e salii con quello. E così continuai. Nell'ascensore "bello" pareva sempre d'essere in una profumeria. Da certi pertugi emanava un'aria balsamica e profumata, e di giorno una musica dolce e ovattata passava da un nastro alle membrane degli altoparlanti invisibili. A quell'ora - era molto presto - la musica non c'era ancora. Ma il buon profumo sì. E che profumo! Settimo piano. Scesi e mi avviai verso il mio box di vetro. Strada facendo, prelevai dal frigorifero tre bottiglie di Coca, perché avevo un terribile bruciore di stomaco. Tirai fuori libri e riviste, mi arrotolai le maniche, allentai la cravatta, aprii il colletto della camicia. Sigaretta. Ecco.
Infilai nella pesante macchina da scrivere la carta millimetrata, la carta carbone e l'altro foglio di carta millimetrata: e gettai un'altra occhiata al mio orologio. Le 6 e 12. Cominciai a picchiare sui tasti. Le frasi d'avvio me l'ero già pensate durante il percorso fino al giornale. Poi la puntata si scrisse, per così dire, da sola. Nel silenzio generale, il crepitio della macchina da scrivere risuonava come una mitragliatrice. E fu così che produssi la mia razione settimanale di surrogato sessuale, tale e quale milioni di persone erano ansiose di avere. Buon divertimento! 4 «... un ruolo fondamentale è svolto dai baci dati sugli organi genitali. È capace di produrre una soddisfazione così intensa, che questo genere di rapporto sessuale è stato certamente il più diffuso, in molto paesi e in molte epoche...» Le 8 e 35. Ora non restava che rivedere tutta la puntata. Rilessi con qualche perplessità le ultime frasi. E poi compresi cosa mancava. Asterisco. Annotazione al margine. Non bastava naturalmente parlare di «genitali», bisognava precisare: «genitali femminili»! Erano le donne soprattutto che divoravano quelle serie, povere creature. La maggior parte di loro non ricavava da un rapporto normale nessuna soddisfazione. E si sentivano almeno consolate se potevano anche leggerlo nero su bianco. Potevano andare a sbatterlo sotto il naso dei loro compagni e: «Ecco, lo dice anche Curt Corell!». Pensare sempre alle donne, e non essere mai volgare. Era questa la vera ragione del successo di quella porcata: la patina scientifica, la componente etica, il distacco signorile e (eccome no: rieccola) l'«autentica partecipazione». «... una definizione usuale per questo genere di soddisfazione sessuale è: bacio alla francese...» Correggere alla svelta, compagno! Pensa al termine ultimo che scade oggi! I redattori bestemmieranno orrendamente, quando saranno costretti ad aspettare per tutta la notte seguen-
te che le pagine appena composte salgano dalla tipografia in redazione per le ultime correzioni prima dell'impaginazione! Però: bestemmiare sotto voce! Contro di me nessuno poteva permettersi di bestemmiare ad alta voce. Tutt'al più il direttore Gert Lester. E che quello andasse pure a farsi fottere. Di tutta l'altra banda non ce n'era uno che potesse permettersi il lusso di perdere le mie grazie. Anzi. Mi leccavano i piedi, i signorini. E quando ce n'era uno sul punto di essere licenziato, arrivava strisciando e piagnucolava: «Walter, aiutami, ti prego. Va' e di' loro che ti licenzi se mi buttano fuori!». Dico davvero, è questa la preghiera che mi rivolgevano, con umide occhiate da cuccioli: padri di famiglia, a volte con più di cinquant'anni! E sarebbe stato del resto un guaio davvero, per loro, perdere il posto. Dove avrebbero potuto trovarne un altro, a quell'età? E quanti di loro erano poi davvero in gamba? Hem! Lui sì. Ne sapeva più di tutti gli altri messi insieme. Valeva più lui di tutta la baracca. Ma quante mezze calzette in quella redazione! E quando capitava che stavano per cacciare una di quelle schiappe, allora venivano da me e piangevano: «Diglielo, sai, che ti licenzi: così verrà loro un colpo!». Già, e io l'ho fatto, ripetute volte. Sono andato dal capo del personale, dal direttore, dal dirigente editoriale, persino dall'editore, e ho fatto chiassate d'inferno. Le mie minacce hanno sempre avuto il loro effetto. Nessuna delle schiappe per le quali mi sono battuto è mai stata mandata via. E quindi, maledizione, potevano anche starsene lì una notte, a tracannare birra e a badare alle bozze, se per una volta mi capitava di far tardi per colpa del mio sciacallo! Le 8 e 40. Avevo rivisto l'intera puntata. Un ultimo sorso di Coca, infilai una gran graffa nell'originale e un'altra nella copia, e mi alzai. Nessun redattore in giro ancora, nessuna dattilografa. Le ragazze arrivavano soltanto alle 9, i giornalisti verso le 9 e 30. Guardai giù dalla finestra nel gran cortile che si apriva fra il grattacielo del giornale e i capannoni della tipografia e delle rotative. Il solo settore delle rotative occupava due piani sotto terra. Laggiù stavano già lavorando. C'erano in giro enormi autotreni. Operai muniti di paranchi prelevavano dai cassoni i rotoli di carta patinata alti come un uomo. Trattenuti da corde e catene, quei rotoli scivolavano lentamente nella cantina della stamperia, scorrendo su travi, incontro alle rotative. Impaginatori e linotipisti chiacchieravano e fumavano in cortile.
Mi gettai la giacca sulle spalle. Lasciai arrotolate le maniche della camicia, e la cravatta restò dov'era: a mezz'asta. Piantai lì tutto sulla scrivania e mi avviai verso una porta di vetro ove c'era scritto: PAUL KRAMER CAPO DEI SERVIZI GIORNALISTICI La porta era aperta. Entrai. Nella stanza di Hem c'era odore di tabacco da pipa, come sempre. Una donna delle pulizie stava lavando il pavimento. Mi fece un sorriso confidenziale. «Buon giorno, signor Roland!» Sentii le mie mani inumidirsi. Raggrinzii il viso per un sorriso e risposi con gentilezza: «Buon giorno, signora Wassler». «È quella la nuova puntata?» chiese la Wassler, inginocchiata a terra, uno strofinaccio in mano, un secchio pieno d'acqua e detersivo accanto. Annuii nel deporre i manoscritti sulla scrivania ingombra di Hem. Tutta la leggerezza, tutto lo slancio del mattino erano improvvisamente svaniti. «Be', sa che le dico: sono proprio curiosa» disse la Wassler, strofinando a gran gesti. «Spero che le piaccia» dissi io, rauco. Lasciai la stanza. Gocce di sudore si erano formate sulla mia fronte. Percorsi il corridoio sino agli ascensori. E li c'erano addirittura due donne di pulizia. Davano la cera. «Buon giorno, signor Roland!» Mi rivolsero gesti confidenziali, come se fossi stato un loro complice o compagno di lavoro. Ed erano gesti anche un po' arroganti: ma certo! C'era infatti un'ottima ragione per cui quelle - e anche le altre donne di pulizia - fossero impegnate così tardi nel loro lavoro, lì da noi... «Buon giorno, signora Schwingshaxl! Buon giorno, signora Reincke! Bella giornata, vero?» «Troppo calda per novembre» disse la Schwingshaxl, una bavarese purosangue. «Già consegnato l'articolo?» chiese la Reincke, una berlinese alta e ossuta. «Sì, proprio ora.» Detersi il sudore che mi scorreva ormai sugli occhi. La Reincke era quella che m'incuteva lo spavento più grande. Si chiamava
Lore di nome, non aveva ancora trent'anni, e una faccia sempre segnata di cattivo umore. «Che cos'ha?» «Chi? Io?...» «Lei è diventato verde, tutto d'un colpo! Mi sembra un fantasma. Sta forse...» «Sto benissimo.» Ormai tremavo, letteralmente, dal momento in cui ero andato a sbattere anche contro la Schwingshaxl e la Reincke. Mamma mia, le donne di pulizia! Mi capitava tutte le volte che andavo al giornale di mattina presto e le incontravo. «Come sta suo marito, signora Reincke?» Ecco, la domanda era stato un tentativo d'ingraziarmela: indegno, schifoso. Eppure mi prostravo davanti a loro, sempre! «Di nuovo a posto la sua gamba?» «Ma si che è a posto! Però fa finta di niente. Perché non ha nessuna voglia di lavorare, il pelandrone. Uomini!» La Reincke passava la lucidatrice con fare sprezzante. «Del resto lei ne sa qualcosa: ne sa quanto me! Ha scritto anche sugli uomini?» «Naturalmente. Anche sugli uomini, signora Reincke.» «E allora sono proprio curiosa!» Il tono era minaccioso. «Bene bene» dissi io, barcollando. «Arrivederci, signore...» Via di scatto verso l'ascensore, giù di corsa col "lanciacapi" fino all'atrio. Stavo male, da anni, ogni volta che incontravo una di quelle donne addette alla pulizia. Avevo paura di ciascuna di loro. In ciascuna di loro avevo una nemica. Già, una fifa tremenda, di quelle povere donne sciupate. Ma non solo di loro, macché! Anche delle segretarie dell'azienda, delle telefoniste, delle telescriventiste, delle ragioniere, delle apprendiste, delle cuoche e delle bariste, delle cameriere, delle lavapiatti, di quelle che lavoravano in spedizione, nell'archivio, nei gabinetti fotografici! Continuavo a sognarle, tutte, ed erano incubi orrendi. Mi bastava solo pensare a tutte le femmine che lavoravano al giornale perché mi venissero i crampi allo stomaco. E andava sempre peggio, di volta in volta. Non riuscivo quasi più a tollerare quella paura che mi prendeva per tutto quello che, per l'ennesima volta, stava per accadere... 5 «Nessuno sa di dove vengo... Dove vado, vanno tutte le cose... Il vento impazza... il mar sconquassa... E nessuno mai saprà...»
Era la mezzanotte circa del 12 novembre. La signorina Luise, bisbigliando questi versi, gli occhi infiammati dalle molte lacrime versate, si stava avviando sullo stretto sentiero della palude verso i suoi amici. In quello stesso momento io, con Irina e Bertie al fianco, raggiungevo, allo svincolo autostradale di Veddel, il ponte sull'Elba. Sfruttavo tutta la potenza della Lamborghini. La macchina aveva continuato a sbandare a destra e a manca, sull'autostrada deserta, poiché nella notte s'era levata una bufera, con un vento gelido da nord-est, che m'investiva a folate improvvise e così potenti da potermi sbattere letteralmente fuori di strada. Ma stavo molto attento. Irina aveva cacciato un paio di strilli, all'inizio, quando l'uragano aveva avvolto la Lamborghini. Bertie le aveva detto: «Non abbia paura. Il signor Roland sa guidare. E lei, non vuole raggiungere in fretta il suo fidanzato?». Dopo d'allora, ogni qual volta la macchina aveva preso a sbandare, mi si era aggrappata al braccio destro, piantando le unghie nella stoffa del cappotto. Ma senza più dire una parola. Eravamo seduti molto stretti l'uno accanto all'altro, e attraverso i nostri abiti potevo avvertire il suo corpo e il suo calore. Una sensazione gradevole: mi eccitò il pensiero che sarebbe stato bello andare a letto con Irina. Ma mi ci soffermai solo fugacemente. Tutto il mio interesse andava a quella storia che stavo rincorrendo. Anche in quel momento ero fermamente convinto che sarebbe stata formidabile, eccezionale, e il mio cuore batteva più in fretta all'idea che io avrei scritto quella storia: io, io, io! Finalmente un servizio giornalistico come si deve dopo anni di rinscimunimento a base di puntate sul sesso! Tre persone eravamo, sedute strette l'una accanto all'altra in macchina, e ciascuna con altro per la testa. Io con la ferma convinzione che quella vicenda avrebbe segnato il mio trionfale ritorno come giornalista per bene; Irina certamente presa da Jan Bilka e dal suo amore, sballottata fra paure e speranze. E Bertie pacificamente immerso nel sonno, perché si era addormentato e sorrideva beato. Quel Bertie! Era un uomo dai nervi d'acciaio. Niente sembrava turbarlo. Ricordo quella volta che ci spedirono insieme a Johannesburg. Eravamo sopra l'Africa, di notte, quando il nostro apparecchio si trovò improvvisamente in mezzo a un temporale tremendo. L'aereo sobbalzava di continuo, colpito da fulmini. Una danza terribile, su quel Boeing. Tutti gli altri passeggeri gridavano o piangevano o pregavano ad alta voce, la luce si spegneva e si
accendeva in continuazione, molti davano di stomaco. Puzzava tutto l'aereo. Quando, a un tratto, incontrammo un vuoto d'aria di almeno cinquecento metri. Mi sentii sollevare nonostante la cintura di sicurezza agganciata, una coperta che era sul portabagagli cadde in testa a Bertie che finalmente si svegliò. Mi guardò sorridendo, si grattò la testa, sentì ancora mezzo addormentato le invocazioni, i pianti e gli strilli dei passeggeri, e disse: «Volo un po' agitato, eh?». «Agitato?» dissi io. «È da un'ora che siamo in mezzo a questo temporale e non riusciamo a uscirne.» Proprio in quell'attimo un altro fulmine centrò un'ala, e l'apparecchio schizzò via come un sasso. «Un altro po' e me la faccio sotto. Ma tu non hai proprio paura?» Bertie mi guardò, sorridendo, stupito. «Di che?» chiese. «Diciamo, per esempio, di precipitare» dissi io. «E perché mai» disse, senza il benché minimo senso di solidarietà. «Sono assicurato. Mia madre si becca un sacco di quattrini.» E due minuti dopo era di nuovo addormentato. Sua madre era molto vecchia, viveva con lei e le voleva molto bene. Due suoi matrimoni erano falliti: non avevano saputo sopportare il tipo di esistenza che conduceva Bertie. Raggiunsi il ponte nuovo sull'Elba. Ogni volta che mi capitava di raggiungere Amburgo di notte, quel panorama mi affascinava. Le molte luci dei cantieri e dei magazzini, delle navi e dei traghetti. I fari di posizione rossi, verdi e bianchi che si specchiavano nell'acqua. Le sciabolate del neon sul ponte illuminato a giorno. Mi piaceva, e guardai giù in acqua e verso le luci colorate. Avendo notevolmente rallentato la corsa, Bertie si svegliò. Si stropicciò gli occhi, guardò l'orologio e disse: «Per la miseria, hai fatto in fretta, Walter. Gente, che arietta!». La bufera imperversava anche su Amburgo. Le navi oscillavano in acqua. Tegole volavano via dai tetti, si sentivano lamiere vibrare, fischi e urla. Percorsi tutto l'Heidenkampsweg attraverso le località periferiche e buie di Klostertor e Borgfelde, sino alla Porta di Berlino. Vicino alla Uhlenhorsterstrasse e al Bellavista cominciava la Adolfstrasse col suo folle traffico a senso unico alternato a seconda delle ore del giorno. M'infilai nella strada che in quel momento era quasi deserta, e mi fermai sul marciapiede davanti alla casa segnata dal numero 22 A. Irina chiese, eccitata: «Siamo già all'Eppendorfer Baum? È questa la casa?».
«No» dissi io. «Raggiungeremo l'Eppendorfer Baum dopo. Dobbiamo prima fermarci qui. È qui che abita Conrad Manner.» «Chi?» «Il nostro corrispondente da Amburgo» spiegai. «Cerchi di ricordare. Ho telefonato in sua presenza alla mia redazione per chiedere che gli inviassero subito un messaggio per telescrivente, affinché si desse da fare per rintracciare quel suo Jan Bilka.» «Ah sì» disse lei, inquieta e impaziente. «L'amica di Conny ci attende. Sentiremo da lei cosa Conny è riuscito a sapere. Venga, su, da brava.» Aiutai Irina a scendere dalla macchina. Bertie era già sceso, dall'altra parte. «La sua amica Edith» disse, sorridendo. «La bella Edith.» La bufera impazzava. Gli alberi al bordo della strada scricchiolavano e gemevano, i rami si piegavano bassi e sbattevano avanti e indietro. E ombre bizzarre ballavano sull'asfalto, alla luce dei lampioni. Passammo per il piccolo giardino e premetti il pulsante del campanello che era accanto al nome di Conny Manner. Abitava al secondo piano. Aspettammo parecchio. Poi sentimmo il rumore del citofono. Da un altoparlante inserito in un riquadro sopra i campanelli risuonò una voce femminile, incrinata dal pianto e dallo spavento: «Chi è?». «Roland» dissi nell'altoparlante. «Roland, Engelhardt e un'altra persona.» «Un'altra persona chi?» chiese la voce femminile. E ci parve un singhiozzo. «Perdio, si spicci ad aprire, Edith» dissi io. «Le racconterò tutto dopo.» «Io voglio sapere chi è quella terza persona.» «Una signorina» dissi io. «Che signorina?» «Edith, è sbronza?» Altro singhiozzo. E poi: «Allora non me lo vuol dire?». «No. Non da qui. Voglio entrare. E alla svelta. Si spicci ad aprire, per la miseria.» La voce di Edith chiese: «Quale è il nome col quale chiamate il signor Kramer?». «Che significa questa storia?» «Mi dica quel nome! Altrimenti non apro!» «Lo chiamiamo Hem» dissi io. «Soddisfatta?»
«E quanti anni ha?» «Maledizione...» «Quanti anni ha?» «Cinquantasei.» Sentimmo lo scatto della porta. Entrammo in fretta. Trovai il pulsante per la luce elettrica. Nel pianerottolo stretto e alto non c'era ascensore. Dovemmo raggiungere a piedi il secondo piano. La porta dell'abitazione di Conny Manner era chiusa. Suonai di nuovo. La porta si aprì d'uno spiraglio soltanto, quel tanto cioè che consentiva la catena inserita. L'anticamera era al buio. Poi vidi la pistola. Enorme. Una Colt 45, calibro 9, un piccolo cannone. La polizia militare americana l'aveva in dotazione. L'arma spuntò con la canna lucida e striata attraverso la fessura della porta. Sapevo che Conny aveva un aggeggio come quello. Ora evidentemente l'aveva la sua bella. Noi non la potevamo vedere: solo una parte della mano stretta attorno al calcio della pistola. E sentimmo la voce tremante di lei: «Mettetevi accanto alla vetrata così che possa vedervi. Tutti e tre. O quanti siete». «Tre, maledizione!» dissi io. «Gliel'ho già detto, Edith.» «Su, alla vetrata» disse Edith, dal buio. La luce del pianerottolo si spense. La riaccesi, guardai Bertie e Irina e alzai le spalle. Che potevamo fare? Mi avvicinai per primo alla vetrata formata da molte parti colorate, saldate fra di loro con piombo. «Bene» disse Edith da dietro la porta. «Lei è il signor Roland. Ora gli altri.» Irina e Bertie si schierarono al mio fianco. «Riconosco il signor Engelhardt, ma chi è quella signorina?» «Mi stia a sentire, Edith. Tutto questo è idiota. Vuol decidersi ad aprire, oppure...» cominciai io, ma lei mi interruppe: «Oppure che cosa? Oppure un bel niente! Oppure io chiudo la porta e chiamo la polizia!» «Ma è impazzita?» «Sono assolutamente normale» singhiozzò lei. «Chi è quella donna? Avanti, devo saperlo!» «È Irina Indigo, una nostra amica» la presentai io, mentre Irina mi guardava spaventata. Dopo di che, Edith volle anche sapere di dove veniva. Solo quando le ebbi raccontata tutta quella maledetta storia - e la luce nel pianerottolo si spense di nuovo, naturalmente, e per due volte dovetti premere il pulsante - la canna della pistola arretrò, lei tolse la catena e aprì la porta. «Entrate» disse Edith Herwag. Era davvero molto bella, alta e bionda:
aveva fatto la mannequin prima di andare a vivere con Conny. Lui avrebbe voluto sposarla. E prima o poi l'avrebbe anche fatto, pensai. Edith era pallida, malferma sulle gambe e i suoi occhi verdi erano spalancati in un modo innaturale. Se ne stava lì e teneva la pistola puntata direttamente sulla mia pancia: e riprese a piangere. Singhiozzava disperatamente, ma io riuscivo a pensare solo quant'era facile far partire un colpo con quella pistola. «Su da brava, Edith, cosa c'è?» chiese Bertie. «Conny...» mormorò lei, fra le lacrime. «Conny cosa?» chiese Bertie, con la sua incrollabile gentilezza. «Gli è successo qualcosa?» Edith riuscì soltanto ad annuire. E quel cenno mi procurò un brivido freddo. «Cosa gli è successo, dunque?» gridai. «Hanno tentato di ucciderlo» disse Edith Herwag, piangendo senza più ritegno. 6 Conny Manner scese dalla sua Porsche 911 S blu, e attraversò lentamente la carreggiata in direzione della casa col numero 187 che noi gli avevamo indicato, e nella quale Jan Bilka abitava presso il suo amico Rolf Michelsen. Conny era di statura media, slanciato, aveva 30 anni e lavorava per Blitz da quattro anni. In precedenza aveva lavorato alla sede centrale di un'agenzia tedesca di notizie giornalistiche, e prima ancora nell'ufficio regionale di Amburgo della United Press International. Indossava un soprabito color ruggine e non aveva cappello. Era a casa quando la telescrivente aveva cominciato a trasmettere il mio messaggio. Mancavano, in quel momento, 10 minuti alle 5. Conny aveva confermato la ricezione del telex, spiegato alla sua amica che forse non sarebbe rientrato presto, ma che le avrebbe telefonato di tanto in tanto per raccontarle le novità. Le spiegò che doveva annotarsi tutto e leggere poi le annotazioni a me, che sarei giunto più tardi, in serata. Quindi era partito con la sua Porsche 911 S. Non aveva calcolato che era già ora di punta, e si era arrabbiato poiché gli ci volle quasi tre quarti d'ora per raggiungere l'Eppendorfer Baum. Per la precisione, erano le 17 e 38 quando vi arrivò. Lo dissero, più tardi, due testimoni che avevano assistito allo svolgersi dell'episodio. Entrambi i testimoni videro anche,
più in giù lungo l'Eppendorfer Baum, i fari d'una Mercedes lampeggiare brevemente tre volte nel momento in cui Conny s'inoltrava sulla carreggiata. Al terzo lampo una macchina scura e pesante uscì da un parcheggio dall'altra parte della strada. La Mercedes spari, passando alle spalle di Conny. La macchina scura distava da Conny più o meno come in precedenza la Mercedes: cento metri, forse. Conny aveva posteggiato accanto a una striscia pedonale, e la stava ora attraversando. La macchina pesante e scura scese lungo l'Eppendorfer Baum. Il conducente cambiò rapidamente le marce e, secondo i testimoni, procedeva alla fine certamente a più di 100 chilometri l'ora. L'uomo al volante puntò direttamente su Conny e l'avrebbe arrotato proprio al centro delle strisce se Conny - resosi conto all'ultimo momento di quello che stava succedendo - non avesse fatto un disperato balzo all'indietro. Conny fu scaraventato di lato, fece un volo e piombò quindi sul selciato del passaggio pedonale. Attorno a lui si formò subito una vasta pozza di sangue. Automobili si bloccarono di colpo, accorse gente gridando confusamente, uno dei due testimoni andò subito a telefonare alla polizia. Sei minuti dopo giunse un'ambulanza dal vicino ospedale universitario: sette minuti dopo arrivarono due vetture del pronto intervento; undici minuti dopo due macchine con funzionari della squadra mobile che erano stati chiamati dagli altri poliziotti. Subito dopo di loro arrivò uno dei grandi furgoni della polizia stradale, di quelli in uso per gli accertamenti e i primi rilievi. Il medico del pronto soccorso disse che Conny era ferito in modo assai grave e che doveva essere operato immediatamente. Lo adagiarono con precauzione su una barella e l'infilarono nell'ambulanza che partì a sirene spiegate. Poliziotti e funzionari della mobile rimasero poi per oltre un'ora sul luogo dell'accaduto. I due testimoni furono interrogati. I tecnici scattarono fotografie, presero le misure della zona e svolsero tutto l'altro lavoro richiesto dalle circostanze. I funzionari stavano ancora interrogando i due testimoni nel grande furgone della polizia stradale, quando furono chiamati dalla Centrale. Una faccenda assolutamente strana, disse più tardi uno dei due testimoni a Edith Herwag. «Dunque: per prima cosa la Centrale ha chiamato senza far uso di parole di riconoscimento. Poi una voce che veniva dall'altoparlante ha detto una frase completamente senza senso.» «Quale?» aveva chiesto Edith al testimone. «"Capri ha bisogno d'una guida"» aveva riferito il teste. «Cosa?»
«Già, proprio così: "Capri ha bisogno d'una guida". Sono le parole esatte» aveva dichiarato anche il secondo testimone. «E cosa ha risposto il funzionario alla Centrale?» aveva chiesto Edith. «Ha risposto: "Cinabro passa sul polo Nord. Ricevuto". Quindi si è rivolto di nuovo a noi e io gli ho detto: "Quello non è stato un incidente. È stato palesemente un tentativo d'omicidio".» «Proprio così!» aveva esclamato il secondo teste. «Abbiamo visto entrambi la Mercedes fare segnali coi fari alla macchina dell'assassino.» Il funzionario che li interrogava, e che sembrava essere diventato improvvisamente molto distratto, aveva detto ironico: «Segnali coi fari... aha... segnali coi fari... Suvvia, signori... aha...». 7 «La polizia mi ha chiamato due minuti dopo le sei» raccontò Edith Herwag. «Mi hanno detto che Conny era stato investito e quindi ricoverato all'ospedale dell'università, nella Martinistrasse. Ci sono andata immediatamente. Dieci minuti prima delle sette ero all'ospedale. Quando sono arrivata, stavano operando Conny. Mi hanno detto che era inutile attendere, che era meglio che me ne andassi, ma sono rimasta lì, naturalmente. L'operazione è durata ancora un'ora. Io ho aspettato davanti alla sala operatoria. Alle 8 e un quarto l'hanno portato fuori.» «L'ha potuto vedere?» «No. Era tutto coperto, e un medico lo accompagnava reggendo una di quelle bottiglie per le trasfusioni. Ho seguito gli infermieri che sospingevano la barella. Il medico m'ha detto che non si poteva. Ho cominciato a gridare. E allora sono venuti due uomini in borghese, mi hanno presa per le braccia e mi hanno condotta all'uscita. Ho gridato ancora, ho tirato calci contro quei due, ma non hanno pronunciato una parola e mi hanno trascinata verso l'uscita dove ce n'era un terzo che mi ha detto di andare a casa in taxi, e che avrebbero pensato loro ad avvisarmi, quando avessi potuto vedere Conny, o se le sue condizioni fossero peggiorate, o se fosse...» La sua voce si spense. «Che uomini erano?» chiesi io. «Non ne ho idea.» «Funzionari di polizia?» «Forse. Non lo so. È stato tutto così strano. I primi due non mi hanno nemmeno rivolto la parola, il terzo m'ha detto solo poche frasi e poi se ne
sono andati.» «Andati dove?» chiese Bertie, sorridendo. «Dentro, nell'ospedale. Io sono rimasta sul marciapiede. Un minuto dopo, più o meno, mi sono diretta all'Ufficio Informazioni dell'ospedale. Qui, una suora, che evidentemente non aveva ricevuto alcun avvertimento, mi ha detto che Conny era stato sistemato in una stanza singola, al centro di rianimazione del secondo piano.» «Tutti quelli che sono stati appena operati finiscono inizialmente al centro di rianimazione» disse Bertie. «Lo so. Ma perché stanza singola?» chiese Edith. «Sono salita al secondo piano con un montacarichi e ho cercato il centro di rianimazione. E quando l'ho trovato finalmente, ho visto di nuovo quei due individui che poco prima - mi avevano costretta ad allontanarmi. Erano davanti all'ingresso del centro e mi hanno ripetuto che non potevo far niente; che dovevo andarmene a casa; che mi avrebbero chiamata loro per darmi notizie di Conny.» «Che aspetto avevano quei tipi?» «Sembravano impiegati» disse Edith. «Molto robusti, molto corretti. Anche nel vestire.» «Giovani?» «Sulla quarantina, forse.» «L'hanno minacciata?» «Quando ho detto loro che non ci pensavo nemmeno di tornarmene a casa e che avrei aspettato lì, seduta su una panca, uno dei due mi ha detto che se non mi toglievo dai piedi subito, mi avrebbe portata giù di peso, mi avrebbe caricata su un taxi e provveduto perché non mi facessero più entrare in ospedale.» «Ma non è possibile!» disse Irina, indignata. «Fino a quel momento lo pensavo anch'io» disse Edith. «Eppure è stato possibile. Mi sono rifiutata di alzarmi da quella panca, e allora quell'individuo mi ha afferrata sul serio, trascinata giù fino all'uscita, infilata in un taxi e ha dato l'indirizzo al conducente.» «Qualcuno, lì all'ospedale, deve pur aver visto cosa stava succedendo.» «C'erano solo medici e infermiere. I malati erano già tutti a letto. E i visitatori se n'erano già andati da un pezzo.» «E poi?» chiesi io. «E poi niente» disse Edith. «Infermiere e medici non hanno reagito. Si comportavano come se non ci fossimo, io e quel tipo. Ed è stato allora che
ho cominciato a temere anche per la mia pelle: è comprensibile, no? E più tardi anche di più.» «Più tardi quando?» «Dopo aver parlato con quei due testimoni, quelli che mi hanno raccontato tutto. Non sono andata a casa, naturalmente. Non subito. Ho detto all'autista di voler andare prima all'Eppendorfer Baum 187. Gli ho chiesto di aspettarmi.» Rabbrividì. «Vuole un po' di whisky?» chiesi io, allungando la mano verso la bottiglia. «No, grazie.» Altre lacrime scorrevano sul bel viso di Edith. «M'è tornato in mente il sangue. Il sangue lì sulla carreggiata. Era buio ormai, i lampioni erano accesi. Qualcuno aveva sparso della segatura sul sangue, ma ne era trapelato lo stesso, in alcuni punti...» Gettò la testa all'indietro. «Poi ho cercato i due testimoni.» «Come mai sapeva che c'erano dei testimoni?» chiese Bertie. «La prima volta che m'hanno chiamata per avvertirmi dell'incidente, un poliziotto ha accennato qualcosa a proposito di due testimoni. Non era stato ancora avvisato, quello lì.» «Avvisato di cosa?» «Be', di... Non lo so neanch'io, di che cosa... Lei lo sa?» Bertie scosse la testa. «Eppure sta succedendo qualcosa... Voglio dire, non è una situazione normale, quella in cui mi sono trovata!» esclamò Edith. «No,» dissi io «non è normale.» «C'è sotto qualcosa» disse Edith. «Qualcosa che deve essere tenuta segreta. Io non devo esserne messa al corrente. E quel poliziotto evidentemente non lo sapeva ancora. Giusto?» «È possibile» dissi io. «Ma ha trovato quei due testimoni?» «Naturalmente. Altrimenti non saprei tutto quello che ho appena finito di raccontarle. Uno dei due è il portiere del 187; l'altro è un antiquario. Ha il suo negozio in quella casa. Abbiamo chiacchierato nel suo appartamento, noi tre. Il polacco aveva una gran paura che lo potessero vedere assieme a me.» Vidi Irina sussultare. E poi chiese, piano: «Che polacco?». «Be', il portiere» disse Edith. «Il portiere è un polacco?» chiesi io stupidamente. Non riuscivo a impedirmi di pensare (e nemmeno Irina e Bertie - lo vidi -) alla signorina Luise
e a quello che il pastore Demel ci aveva riferito di lei e dei suoi amici. «Gliel'ho detto. Il portiere è un polacco. Perché mi guardate in quel modo? Anche l'antiquario è uno straniero: un francese.» «Un polacco e un francese» mormorò Bertie che, per una volta tanto, non sorrideva. «Cosa c'è di così strano?» si stupì Edith Herwag. «Ad Amburgo ci sono molti stranieri! Sarebbe stato altrettanto normale trovare come testimoni un cinese e un negro». «Però ha trovato un polacco e un francese» disse Irina Indigo, fissandosi le scarpe. Edith era di nuovo tutta agitata. Disse: «Che significa tutto questo? Li conoscete, quei due, per caso? Sapete qualcosa e me lo nascondete?». «Ma no» disse Bertie. «E allora non capisco le vostre perplessità» disse Edith. «Sono due signori molto simpatici, gentili, tutti e due. Erano davanti alla porta del 187 quando è successo. Mi spiace che il francese sia sofferente.» «Cos'ha?» chiesi io. «Asma» rispose Edith Herwag. 8 Il negozio d'Alimentari Kniefall, a Francoforte, è direttamente di fronte all'edificio della casa editrice. Alimentari Kniefall: un negozio celebre e stimato in tutta la città. Era un vasto ambiente rivestito di mattonelle bianche, suddiviso in molti reparti: carne; pesce vivo in vasche; salumeria; formaggi; verdure; insalate piccanti; liquori; pane; scatolame. Faceva un mucchio di quattrini, il grasso ma agile signor Waldemar Kniefall. La sua intraprendenza e la sua fantasia non avevano limiti. Al di là degli svariati reparti del grande negozio, aveva fatto costruire un bar con alti sgabelli. Davanti al bancone erano schierati anche tavolini e sedie. Brillantissima idea! Le casalinghe potevano andarcisi a sedere per spettegolare, bersi un caffè e buttar giù un tramezzino in attesa che le loro ordinazioni fossero eseguite; a mezzogiorno arrivavano gli uomini d'affari, gli impiegati, le commesse: prendevano un aperitivo, qualche sandwich, oppure mangiavano un menù leggero e delicato (e non caro!). In pratica quel locale lavorava senza interruzione dalla tarda mattinata sino a sera. Quel mattino tuttavia, lì dietro, il bar era ancora vuoto. C'era un uomo soltanto, seduto su una sedia, un bicchiere davanti a sé, la
faccia rivolta al muro: io. «Me ne dia un altro, per favore, signorina Lucie!» «Ne ha già bevuto uno doppio» cominciò la signorina Lucie, giovane e carina, in piedi dietro il bancone, con l'aria infelice. Io la interruppi: «Non si preoccupi. È roba che sopporto bene». Alla parete c'era uno specchio: mi ci osservavo e mi facevo schifo. Mi ero già guardato, quella mattina, nel farmi la barba. Il cambiamento aveva dell'incredibile. Avevo improvvisamente l'aspetto di un altro. E, perdio, quest'altro non era certamente il più bello! Grigio in volto, spenti gli occhi brillanti che avevo ancora mentre battevo a macchina la puntata, svanita l'euforia del mattino. Io, che poco prima martellavo ancora con cinismo e spavalderia sui tasti, me ne stavo ora seduto nella penombra di un piccolo snack-bar, nel negozio di Alimentari Kniefall: ed ero esausto, amareggiato, avvilito. La ragazza Lucie - bionda, occhi scuri, vent'anni, un bel grembiulino bianco addosso - appoggiò sul piccolo tavolino, davanti a me, un altro bicchiere colmo di whisky e un sifone di selz. Ci conoscevamo da tanto tempo, e lei era innamorata di me. Non riusciva a nascondere questo suo sentimento. Io me n'ero accorto, e anche gli altri. Scrivo tutto questo senza spocchia, Dio sa che non intendo affatto vantarmi di questa conquista! «Ecco il suo whisky, signor Roland» brontolò Lucie. La guardai, feci un cenno con la testa e un sorriso storto. Sorrise anche lei, subito, ma lo vidi solo nello specchio perché avevo già riabbassato la testa. Aggiunsi ghiaccio, selz e buttai giù una gran sorsata. Lo sciacallo era arrivato, all'improvviso. Vicino. Vicinissimo. Da un momento all'altro. Ma da quanto durava questa storia? Da 7 anni, da quando era arrivato al Blitz un nuovo direttore, quel Gert Lester. Lester era uno di quegli arrampicatori svelti e agili, dalla carriera fulminea, dotati di gomiti, brutalità e furbizia, che oggigiorno tutti cercano disperatamente nelle imprese, nelle industrie, nelle case editrici. Lester divenne direttore di Blitz che aveva 37 anni. E fra di noi ci fu dell'antipatia fin dalla prima occhiata. Ma nessuno poteva nuocere all'altro. E così fingevamo di vivere in amicizia e buona armonia. Lester aveva ancora fatto in tempo a partecipare all'ultima guerra. Era stato il più bel periodo della sua vita, raccontava a tutti. Tutto quello che aveva a che fare con la vita militare godeva della sua incondizionata simpatia. Amava le uniformi e le donne: le donne che sanno amare l'uomo ve-
ro, diceva Lester, che si riteneva ovviamente un vero uomo. Appena assunta la direzione di Blitz, due temi s'imposero sul giornale: la guerra e il sesso. Si cominciò con la guerra, e Lester sembrava letteralmente impazzito. Erano trascorsi esattamente vent'anni dalla fine della guerra: un'ottima occasione per riparlare di quei bravi ragazzi! Riesumammo tutto quello schifo in una serie d'inchieste smisurate, che naturalmente scrivevo io: la più celebre firma del Blitz. "Alle 4 e 45: fuoco!" (Polonia), "Carri armati verso occidente!", "Sangue tedesco nel deserto di sabbia", "La bandiera del Reich sul Caucaso", "Il treno per l'Acropoli", "Eppure avete vinto voi!" (Stalingrado), "C'è del nuovo sul fronte occidentale" (l'invasione), "Il fronte a Berlino", "Sino all'ultimo colpo". E poi venne il turno dell'aviazione: "Sganciate le bombe!". Quindi i sommergibili: "Puntiamo sull'Inghilterra!". E le sorti della Bismarck, della Principe Eugenio, della Graf Spee! Quando vennero le battaglie navali, alla quinta serie, ebbi un crollo nervoso. Fesserie: una piccola cura del sonno, e poi avanti popolo! hip hip hurrà! Sul bancone del bar suonò il telefono. Lucie sollevò il ricevitore e disse subito: «È per lei, signor Roland!». «Chi è?» «Una signora...» Raggiunsi il telefono, portando con me il bicchiere. Dopo aver risposto, lo vuotai e lo sospinsi oltre il banco, con un gesto inequivocabile per la simpatica Lucie, che annuì tristemente. Avevo anche lì la "mia" bottiglia di Chivas. La voce che mi risuonava all'orecchio parlava nel più bell'accento berlinese: «'Giorno, Walter. M'hanno detto al giornale di cercarti da Kniefall». Dissi, con gentilezza: «'Giorno, Tutti. Che succede?». Capita di conoscere tanta gente nel mio mestiere. Conoscevo Tutti dall'epoca di un'inchiesta sulla prostituzione a Francoforte. Ragazza affascinante. Si chiamava Gertrud Reibeisen. Ma preferiva farsi chiamare Tutti perché Gertrud non le piaceva. Il suo protettore, una pasta d'uomo, era Max Knipper. La mia vecchia amica Tutti rispose alla mia domanda con una sola parola: «Beccamorto». «Beccamorto! Ma allora è da te!» «Appunto, è qui da me» fu la risposta. «E non vuole più andarsene. Ogni volta sempre la stessa commedia! Però questa è stata l'ultima rappresentazione! Se si fa rivedere un'altra volta, Max lo butta giù dalle scale!»
«Che sta facendo?» «Max? È qui accanto a me. Vuoi parlargli? Aspetta che...» «Ma no, non Max. Il Beccamorto!» «Ah, lui! È a letto e dice che non se ne va, che vuol far all'amore un'altra volta.» La voce di Tutti si ammorbidì: «Non ce l'ho con te, Walter! Mica è colpa tua. T'ho telefonato solo perché tu mi hai detto di chiamarti quando Beccamorto fa il matto qui da me». «Ti ringrazio, Tutti. Sei davvero gentile.» «Ma va', piantala. Ti voglio bene, che ci vuoi fare. Perché non ti decidi tu piuttosto a venire una volta qui da me? Per la miseria, Walter, è da venerdì che ho questo Beccamorto fra le braccia. Max dice che devo chiudere il becco, perché paga bene e quindi per lui è tutto okay. Ma la grana non è tutto! Alla mia mammoletta chi ci pensa?» «È li da te da venerdì?» «Da tre giorni, appunto! Non da un paio d'ore. Allora, che faccio? Chiamo la "madama"?» «No» dissi io. «No, ti prego. Ho una soluzione migliore. Di' al Beccamorto che mi hai telefonato, e che ti ho detto che Lester ha solennemente giurato...» «Chi ha solennemente giurato?» «Lester. Il direttore.» «Ah.» «Dunque, ha giurato solennemente che licenzierà in tronco Beccamorto se questa storia dovesse ripetersi e se non si presenterà in redazione oggi alle dieci.» «Dici sul serio?» esclamò Tutti, spaventata. «Ma no, naturalmente! Se ne guarderà bene! Uno specialista come quello... Ma è l'unica possibilità che abbiamo di riportare il Beccamorto al lavoro senza fare tanti scandali. Per fortuna nostra è un debole, un timido, un inibito...» «Be', guarda, io non me ne sono accorta!» «Nel tuo campo, no. Ma in tutti gli altri sì.» «E tu pensi davvero che serva?» «Sono sicuro. Parlagli di licenziamento con tono serio e drammatico, digli che io sono molto, ma molto preoccupato, e che lo considero ormai fottuto. Vedrai come filerà!» «Dio t'ascolti! Ora glielo riferisco. Chissà che non si decida a levare le tende. Sono proprio stufa sai, di lui e di quel ridicolo affarino che ha fra le
gambe! Quando uno ha avuto la sua razione d'amore, e Dio sa che gliene ho data tanta, e poi non si decide ad andarsene nemmeno quando vede che sono malridotta e infiammata, allora non lo posso soffrire! Ciao, Walter! Se vedo che non va, ti richiamo subito. Tu non muoverti di lì!» «No, no, non mi muovo. Ma vedrai che filerà tutto liscio. Ciao, Tutti. E salutami Max.» «Sarà fatto. Ciao, Walter!» Riagganciò e io ricollocai con un sospiro il ricevitore sulla forcella e me ne tornai al mio tavolino. La povera Lucie aveva già preparato la nuova razione di whisky, e io mi rimisi a bere. «Che disastro, quell'individuo!» dissi io. «Beccamorto?» chiese Lucie, incuriosita. «E chi è? Un nome così strano...» «Si chiama Heinrich Leidenmüller, in realtà. Noi però lo chiamiamo "Beccamorto", perché ne ha proprio l'aria. Pare sempre lì lì sul punto di tirare gli ultimi: magro, pallido, le guance incavate, gli occhi febbricitanti. Però, per la miseria, è il miglior grafico che abbiamo mai avuto! È il nostro capo dei grafici. Il classico bravo cittadino, a vederlo, sa? Sposato, due figli. Ma a intervalli irregolari è colto da un'oscura smania erotica, e sparisce senza lasciare tracce: due giorni, tre. E sempre nei momenti in cui c'è più urgente bisogno di lui. È da venerdì pomeriggio che lo stiamo cercando. Lester, il nostro direttore, è già stato colto da attacchi isterici per colpa sua. Per fortuna finisce quasi sempre da quella Tutti. Il Beccamorto. Non Lester. Tempo fa, un giorno, ho promesso alla signora Leidenmüller» (e dovevo essere ubriaco, naturalmente, pensai) «che avrei badato io a suo marito. Per questo ho chiesto a prostitute e protettori di chiamarmi quando si mette a fare il matto. E allora, ogni volta, devo pensare a nuove minacce. Però poi torna all'ovile. Per il resto è l'essere più inoffensivo del mondo. Grazie a Dio è di nuovo dalla Tutti, una mia buona amica.» Lo sciacallo arretrava sempre di più: così come svaniva il chiasso fuori, sulla strada. Cominciavo a sentirmi di nuovo meglio. «E lo pagano bene» continuai. «Di buoni grafici ce ne sono pochi. Ma il Beccamorto è un asso, davvero... E adesso, per semplificare le cose, mi porti la mia bottiglia, signorina Lucie.» Nel dire questo, guardai la ragazza che mi amava con tenerezza. «Con ghiaccio e selz. Così poi m'arrangio io.» «Tutta... tutta la bottiglia?» domandò afflitta. «Ma sì. Vedrà che non me la scolo tutta!» «Come vuole» disse Lucie, e si avviò decisa al bancone. Quando ritornò
mi sbatté la preziosa bottiglia di Chivas davanti al naso. Era davvero fuori di sé. E chi se ne frega. Bevvi, guardai verso lo specchio e il mio viso si distorse in una smorfia di ribrezzo, poiché mi venne anche da pensare che erano tre anni e mezzo ormai che scrivevo quelle inchieste sull'educazione sessuale. All'inizio quella porcheria m'aveva persino divertito. Poi la tiratura cominciò a salire, a salire: tutto per via del sesso. E così il divertimento finì. La faccenda divenne improvvisamente seria, ammirata e lodata da tutti: e non finiva più, non finiva più... Una volta che dissi di non voler più scrivere quella schifezza, Lester mi offrì più soldi. Lester conosce gli uomini. Accettai i soldi e continuai a scrivere. Alla lunga però quella storia non mi faceva bene, non mi faceva affatto bene. Da quando avevo Lester come direttore, avevo la sensazione di dovermi continuamente stordire: con le donne, col whisky o con la roulette. Per il momento riuscivo ancora a sopportare tutto. Ma non poteva andare avanti così in eterno. Da sette anni passavo la mia esistenza in uno stato di seminarcosi continua. Due persone sole sapevano il perché: io stesso e Paul Kramer, al quale avevo detto una volta: «Hem, ho una paura folle del momento in cui potrei trovarmi senza whisky e senza donne. Mi capisce?». «Sì,» aveva risposto Hem «ti capisco benissimo, ragazzo mio.» Un tipo fantastico, il nostro Hem, il migliore di tutti! Quelle bevute mattutine avevano poi un altro, gravissimo motivo. Appena insediato, il nuovo direttore aveva creato un "reparto ricerche". Tale reparto doveva stabilire cosa - di ciò che il giornale stampava - piaceva, piaceva meno, non piaceva affatto: prima coll'aiuto di studenti malpagati, che entravano nelle rivendite e intervistavano proprietari e acquirenti di settimanali; poi con indagini a campione, coi rilievi di tiratura all'inizio d'ogni nuova serie; poi ancora con test di massa (questionari spediti a decine di migliaia, e chi li riempiva poteva avere Blitz gratis per sei mesi!) e altri sistemi che valevano, tutti assieme, meno d'un mucchio di... be', insomma. E infine coll'aiuto di un computer. E anche se a questo punto vi torcerete dalle risate, e direte che vi racconto bugie, vi garantisco che è la sacrosanta verità! Tutto quello che da allora avete letto su Blitz, tutte le foto che avete visto, lo stile, il contenuto, i temi, i colori: tutto è stato deciso da un computer. 9
Un computer, maledizione: sissignori! Lo si nutriva di risultati d'inchieste svolte da un istituto di sondaggio dell'opinione pubblica. Il reparto ricerche era diretto da Erhard Stahlhut. Un amico di Lester. Uno studente di matematica fallito. E l'istituto di sondaggio poi apparteneva a un suo cognato. E così tutto restava per benino in famiglia. Nel frattempo, per l'editore Herford, quel che diceva il computer - il quale diceva sempre, guarda il mirabile caso, esattamente quello che pensava lui - era diventato una Bibbia. Il color verde scuro e l'indice 100 significavano il non-plus-ultra di risultati positivi che il computer poteva fissare. Ma quel livello ideale non era stato ancora mai raggiunto. Le mie serie di educazione sessuale avevano il record assoluto con indice di gradimento 92. Il colore peggiore era il rosso cupo e l'indice più scarso l'uno. E chi aveva, coi tempi che correvano, il coraggio di dir male del computer? Nessuno se la sentiva. Ma tutti lo maledivano. Allora, ai primi tempi, Stahlhut aveva detto all'editore Herford: «Chi vuole confezionare un giornale illustrato come si deve, deve tenere sempre il dito sul polso del popolo. Non basta fare ricerche su ciò che si è già stampato. Non possiamo assolutamente permetterci di stampare cose di cui non possiamo sapere prima, con quasi assoluta certezza, che piaceranno al popolo!». E l'editore Herford aveva chiesto: «E dove andiamo a cercarlo, il popolo?». Stahlhut aveva replicato: «Semplicissimo! Di "popolo" ne abbiamo abbastanza in casa nostra: i nostri dipendenti! Un pubblico ideale! Io propongo di far leggere tutto prima alla nostra gente: ogni puntata di romanzo, gli articoli, le inchieste, tutto. E che la gente sputi la sua opinione! La sua opinione sarà la voce del popolo! Io me ne infischio degli intellettuali! Tanto quelli, sui settimanali, ci vomitano lo stesso. E allora! I nostri lavoratori e i nostri impiegati - e le donne soprattutto! - dicano ciò che loro piace e ciò che loro non piace: prima che sia stampato! E i giornalisti si adeguino e riscrivano a seconda del parere espresso». Quest'idea formidabile aveva quasi fatto cadere dalle loro sedie editore e direttore. Lì per lì non riuscirono quasi a parlare, dall'entusiasmo! E la prima di quelle letture avvenne la settimana seguente. Con un pubblico maschile: perché si trattava d'una storia di guerra. Il turno delle donne venne col romanzo. A meno che non si trattasse di argomenti specificata-
mente virili, toccava sempre alle donne, poiché sono le donne che, di solito, acquistano e leggono i settimanali illustrati! E dopo quel primo esperimento, fatto sette anni prima, il metodo era stato stabilmente adottato. Si leggeva tutto. Sempre. Non c'era autore cui fosse risparmiata quella prova, nemmeno se si trattava d'uno straniero che aveva scritto un bestseller acquistato dal giornale per un mucchio di soldi. Anche lui, dopo le osservazioni del "popolo", era sottoposto a revisione, riscritto e stravolto. E naturalmente toccava anche a me! Avevo una dote tutta particolare, io, di scrivere per le donne: l'ho sempre avuta. Quelle serie di educazione sessuale si rivolgevano appunto, soprattutto, alle donne. E così, ovviamente, anche le mie serie erano sottoposte al test delle femmine: e che diamine! Era questo il motivo per cui, ogni volta dopo aver consegnato una puntata, mi rifugiavo nel negozio d'Alimentari Kniefall. Stavo lì ad aspettare, mentre di là, nella sede del giornale, il mio ultimo prodotto "intellettuale" era fatto a pezzi dal "popolo". E nell'attesa bevevo. 10 «Quella faccenda dell'uso della bocca, bisogna che sia messa giù in modo più chiaro» disse la donna delle pulizie Wassler. «Lì si continua a chiacchierare a vanvera, senza mai arrivare al dunque. "Bacio alla francese" non basta. Che il signor Roland lo descriva, nei dettagli. Senza latino e senza parole straniere!» «Secondo me è fin troppo chiaro!» gridò una giovane signora della amministrazione. Protesta generale. Wassler: a Non scrive per niente chiaro, il signor Roland! Anche nell'altro numero! L'ho dato da leggere a mio marito, e lui m'ha detto che non capisce quello che il signor Roland intende dire!». La sua collega, l'eternamente imbronciata Reincke, la rimbeccò con cattiveria: «Berta, la colpa è tua, perché sei scema! Il tuo vecchio capisce benissimo. Finge soltanto di non capire. Non vuole capire, ecco la verità!». La Wassler chiese, spaventata: «Sei sicura? Guarda che noi abbiamo quattro figli!...». «Appunto! Ecco la spiegazione!»
Nella grande sala delle riunioni l'aria era blu di fumo. Le mie giurate erano sedute attorno a un grande tavolo: donne di pulizia, tipografe, ragioniere, cuoche, cameriere. Ventisette fra donne fatte e ragazze, in totale. E a capotavola c'era una ventottesima donna: Angela Flanders, una delle poche redattrici di Blitz. Angela Flanders aveva 54 anni, vestiva con cura ed eleganza, faceva la giornalista da un quarto di secolo, prima nei quotidiani, poi nei settimanali e infine, da dieci anni, da Blitz. È lei che poi m'ha riferito, nei dettagli, come si è svolta quella riunione... Angela Flanders era una donna energica e intelligente, la quale doveva continuamente farsi valere in un mondo di uomini. E a volte era un compito gravoso. Ma quando una è costretta a lavorare, senza poter guardare in faccia a nessuno; se non ha nessuno che provveda a lei; se il marito è morto in guerra; se non ha imparato un mestiere e soltanto scribacchiato un po', più per passatempo che per altro: allora deve ingoiarne di rospi, se vuole poter lavorare. Intanto il passatempo d'una volta, dell'epoca in cui vivevano ancora i genitori benestanti di Angela Flanders, era diventato un'amara necessità. La Flanders dei 1968 era felice di avere un posto come redattrice da Blitz. Ed era disposta a tutto, pur di tenerselo. Anche a quello: a leggere continuamente le varie puntate alle donne, stare a sentire quello che le donne trovavano da ridire, annotarselo e poi riferire tutto, nei dettagli, a Gert Lester. Gert Lester era un uomo bene educato. Mai e poi mai avrebbe consentito a un uomo di leggere alle donne le mie inchieste di educazione sessuale, o deciso di soffermarsi egli stesso nella sala delle riunioni, per osservare le reazioni: come faceva invece per gli altri temi. Ma in questi casi gli ascoltatori erano uomini, oppure uomini e donne. Le mie inchieste invece... roba scabrosa, roba scabrosa e delicata, specialmente se c'era da discuterne! Probabilmente anche per donne lasciate sole fra di loro, pensava Lester. E pensava male. Per quelle donne non esisteva niente di scabroso! Avevano tutte la loro tazza o addirittura un bricco di caffè davanti, e molte fumavano allegramente. Pacchetti di sigarette ovunque. Ogni donna, ogni ragazza disponeva di un taccuino e d'una matita. Se ne stavano sedute raggruppate per professione: telefoniste accanto a telefoniste, cuoche accanto a cuoche. Angela Flanders aveva più volte tentato di variare quella disposizione: ma inutile. Quelle che già si conoscevano fra di loro, volevano assolutamente restare insieme. La Flanders aveva appena finito di leggere, con voce pacata, la mia puntata, e poi aperto il dibattito. Indossava un tailleur verde chiaro, con una
spilla d'oro sul risvolto. I capelli accuratamente tinti di castano. Curava molto il suo aspetto esteriore, e lavorava come un uomo. Anche più di un uomo perché, più invecchiava, più era perseguitata dalla paura: non faccio abbastanza, qui continua a venir gente giovane, che faccio se mi licenziano? Molti colleghi, che conoscevano questa paura, la sfruttavano. Nei giorni di chiusura del giornale erano capaci a volte di lasciarla sola in redazione fino alle due di notte. Mi voleva bene, e io ne volevo a lei. A volte le regalavo dei fiori. La Flanders picchiettò la matita sul tavolo. «Signore, per favore! Chiedere prima la parola!» Un topo grigio con occhiali e trecce, venuto su dalle cucine, sollevò la mano, esitante. «Dica, signora Eggert.» La Eggert cominciò a parlare piano, balbettando: «Dunque... La mia è solo un'osservazione... ma non si capisce mica molto bene in questa puntata... eppure si tratta di robe importantissime per noi donne...». S'azzittì, rossa in volto. «Quali "robe", signora Eggert? Su, dica, da brava! Siamo fra di noi. Nessuno saprà mai quale di voi ha fatto le varie osservazioni.» La Eggert ricominciò: «Be', insomma... io dico che bisognerebbe proprio dirlo una volta, chiaro e tondo, che gli uomini devono resistere... a lungo... resistere più che possono!». Consenso generale. La matita di Angela Flanders volava sul foglio. La Eggert, incoraggiata dai consensi, prosegui: «Specialmente ora che è stato scritto, nelle ultime inchieste, che noi dobbiamo prendere gli estrogeni!». Applausi. «E ora molte di noi lo prendono, l'estrogeno... e tutte loro sanno, che conseguenze ha!» La Reincke, che aveva ancora in testa il suo foulard, esclamò: «Ci fa venir più voglia, ma non accelera l'orgasmo!». A questo punto la riunione si animò, e la Flanders faticava a stenografare tutto. Una cuoca grassa: «Ma non hanno inventato ancora niente, signora Flanders, perché gli uomini ci mettano di più?». «Certo che esistono dei mezzi...»
«E allora che li dicano!» «Sissignori! Fuori i nomi!» «Vogliamo sapere come si chiamano!» «Ho preso nota, signore. E poi?» Una segretaria sulla quarantina, magra come un chiodo: «Ho preso un appunto: "Solleticamento dell'organo sessuale". Quello dell'imperatrice Maria Teresa. L'accenno è troppo generico!». «Giusto!» esclamò una ragioniera. «Qui si vede che persino le imperatrici ne hanno bisogno! E quindi si spieghi bene, anche nei particolari, come questo solleticamento deve essere fatto!» «Giustissimo!» Altro caffè, altre sigarette. La Reincke partì in quarta: «Andiamo al sodo, signora Flanders, d'accordo? Io non ce l'ho col signor Roland. In sé e per sé questa idea di spiegare come vanno queste cose è formidabile. Spiegazioni come queste non bastano mai! Però, se andiamo al sodo, se analizziamo per bene tutta questa serie di articoli, scopriamo che è stata scritta soprattutto per gli uomini! Non vorrei essere fraintesa: io sono perfettamente d'accordo che ai signori uomini si sbattano finalmente sul grugno queste cose! Così che capiscano, finalmente, quali sono i loro obblighi e i loro doveri!». Esclamazioni: «Brava!». «Però,» continuò la Reincke, e sollevò una mano, «però, signore mie, non facciamoci illusioni! Quelle che leggono siamo soprattutto noi, giusto? I signori uomini, al massimo, guardano le foto di qualche donna nuda, ma non ce n'è uno che si prenda a cuore quello che il signor Roland scrive, e ve lo posso garantire sulla base della mia personale e amara esperienza. Prima...» fu interrotta da un vibrante applauso e dovette alzare la voce per sovrastare il chiasso: «... prima, nove anni fa, quando ci siamo sposati, mio marito e io, io ero ancora vergine. Di baci francesi e di solleticamenti non avevo la più pallida idea. E oggi? Men che meno! Oggi, se vi interessa saperlo, il mio vecchio sbriga la faccenda più o meno così: dentro, fuori, fatta!». La Flanders, un po' disorientata, chiese lumi: «Come ha detto, prego?». «Be', insomma,» spiegò una ragioniera «c'è poco da capire: il signor Reincke esegue l'atto sessuale senza alcuna preparazione, e la signora Reincke ne risulta eccitata ma non soddisfatta.» «Esattamente!»
«Proprio il caso mio!» esclamò un'incollatrice del reparto spedizione. «E per quel che riguarda il marito mio, quello cerca sempre di convincermi che la colpa è mia. Sapete che mi dice, quello zoticone? "Ma certo, Minka, anche tu hai la tua parte: il fatto è che il tuo è un orgasmo strisciante." Lui dice che ne è certo, gliel'ha spiegato uno studente di medicina. E a questo punto io chiedo: che significa "strisciante"? O godo o non godo. E io non godo affatto! E quindi il signor Roland si decida a darci su questo argomento una spiegazione chiara!» «Certo che deve farlo, il signor Roland! Sissignore!» Il signor Roland. Ecco. Come potete constatare, quelle mie giurate sapevano benissimo che Corell stava per Roland, e certamente andavano a raccontarlo a chiunque avevano modo di dirlo. Ecco cosa intendevo dire quando ho scritto che, anche fuori dal settore, molta gente conosceva il mio segreto. E non c'era modo di evitarlo. Però milioni di persone non lo sapevano! «Io penso» continuò l'incollatrice «che mio marito se la prende comoda! Tanto lui la sua parte di soddisfazione ce l'ha! E io? Se ne infischia! Io non ce la faccio così in fretta come lui! Non sono mica una mitragliatrice! Ho bisogno del mio tempo! Come noi tutte! E credo che le signore qui presenti mi daranno ragione, vero?» «Certamente!» «Come tutte noi!» «Per l'appunto» sospirò la Schwingshaxl, la bavarese, ricorrendo a una sua espressione preferita. «E per questo» esclamò la Reincke «l'intera serie, e scusatemi ma devo dirlo, l'intera serie è sbagliata! C'è scritto continuamente quello che deve fare l'uomo per rendere felice la sua donna. Ma lo fa poi? No! Per non compromettersi, non la legge nemmeno quella roba! E se la legge, poi non fa niente lo stesso! È troppo egoista! E quindi...» proseguì la Reincke alzando la voce, per sovrastare gli applausi delle compagne di sesso, «... e quindi, ed è questa la grande differenza rispetto a quello che scrive il signor Roland, bisogna spostare l'accento su quello che dobbiamo fare noi donne, per indurre quei pelandroni a darsi da fare!» «Perfetto!» «Anch'io la penso così!» «Esatto!» «Noi...» gridò la Reincke «noi donne poi sapremmo cosa fare per suonare la sveglia ai signorini, per ringalluzzirli un po'! Il mio parere è questo: in
questa serie bisogna scrivere quello che noi dobbiamo fare affinché l'uomo poi faccia quello che c'è scritto lì. Perché siamo noi che dobbiamo darci da fare per prime, altrimenti non se ne farà mai niente! E che allora si decidano a scrivere dell'uomo e di come lo si può eccitare! Tanto bisogna scrivere di questo, molto di più! Così che anche lui si decida a far qualcosa, quando saremo riuscite a tirargli un po' su la cresta! Ed è importante specialmente per le donne sposate da molto tempo! Altrimenti quelle poverine restano sempre fregate! Come tutte noi sappiamo, è statisticamente dimostrato che le donne anziane sono più numerose delle giovani: e io le garantisco, signora Flanders, che sono proprio quelle non più giovani che leggono questi articoli!» «Mi pare che questo sia un punto da analizzare meglio» disse la Flanders, e intanto pensava: Una volta sono stata redattrice politica, ho girato il mondo e scritto articoli che erano citati da giornali stranieri. E adesso? «E noi lo analizzeremo» garantì la Flanders. Una pallida addetta alle telefoto gridò: «Quello che dice è sbagliato, signora Reincke! Anche noi donne sposate da poco abbiamo i nostri problemi! Non s'illuda che da noi le cose funzionino come si deve!». E la Reincke: «Visto, signora Flanders? Qui sono in ballo tutti i matrimoni, recenti e no!». E la Schwingshaxl sottolineò con un: «Per l'appunto!». Una cameriera del bar fece un cenno di diniego: «Mi dispiace, ma la devo contraddire, signora Reincke! Sono sposata da due anni. All'inizio andava proprio male. E invece adesso va magnificamente! Noi abbiamo letto attentamente quegli articoli, e mio marito specialmente!». La Reincke si agitò: «Può darsi, signora Puerzel! Ma lo sa il perché? Perché la sua generazione vive in un'epoca di progresso sessuale. Quando ero giovane io, i giornali non scrivevano ancora di queste cose!». «Per l'appunto!» «Altrimenti saremmo diventate donne più felici, tutte! Adesso che so quante varianti e possibilità esistono nell'amore, adesso è troppo tardi! Anche se gli faccio leggere queste storie dieci volte, al mio vecchio, crede forse che quello cambi? Crede che quello sia capace di trattenersi anche per un minuto soltanto? No, no, io insisto: questa roba è scritta per gli uomini! E non mi va giù! Tanto quelli non lo tanno lo stesso, quello che c'è scritto, se prima noi donne non facciamo la nostra parte! Quindi il signor Roland deve decidersi a scrivere tutti i trucchi cui può ricorrere la donna!» «La sua mi pare un'obiezione fondamentale, signora Reincke» disse la
Flanders. «Ne parleremo al signor Roland.» Una tizia allegra, poco meno di vent'anni, stenografa, con curve inverosimili: «Non capisco proprio di cosa state parlando! Fatte poche eccezioni, io la mia parte di soddisfazione l'ho sempre avuta. Io...». «Lei!» «Ormai lo sappiamo a memoria! Ce lo dice tutte le volte!» «Non la voglio più sentire! Ne sono proprio stufa!» esplose la Reincke. Una segretaria della redazione scientifica intervenne, piena di sarcasmo: «Evidentemente la signorina è un miracolo biologico!». La Flanders dovette intervenire con energia: «Signore! Signore!». E poi, rivolta alla segretaria-chiodo: «La sua obiezione è stata annotata. Andiamo avanti, per favore». Ma la Reincke, profondamente indignata, si piegò oltre il tavolo rivolta alla "benedetta da Dio", e l'investì: «Perché non ci rivela il suo segreto?! Dica un po', come avviene il suo coito?». «In modo del tutto normale. Il mio Uwe va avanti fino a quando voglio io, poi mi chiede se ne ho abbastanza, e io gli dico: "Sì. Uwe, puoi smettere", e lui smette!» Si vide la mascella della Reincke cadere letteralmente, e per qualche attimo non riuscì a dire una parola. Ma poi si riprese'. «Non potremmo fare cambio, signora Schoenbein?» «Le piacerebbe!» «Ma va'» gridò la Reincke. «La smetta una buona volta di raccontare balle!» Angela Flanders, temendo che le due donne s'accapigliassero, picchiò per disperazione un pugno sul tavolo. «Signore, per favore!» A questo punto un'impiegata del reparto spedizione cominciò a piangere senza ritegno. Le lacrime le scorrevano dagli occhi spenti. «Ma cosa c'è... cosa c'è...» balbettò la Flanders, stupita da quel pianto improvviso. «Ma perché piange così, signora...» «Westphal» singhiozzò quella che piangeva. «Signora Westphal...» «Signorina!» «Cosa le succede, "signorina" Westphal?» E la Westphal, fra le lacrime: «Io... io non ce la faccio più! Vi prego di volermi dispensare per il futuro da queste riunioni!». «Ma perché?» «Che le piglia?»
«Ma se sono così interessanti, queste sedute!» La Reincke s'informò: «È mai stata con un uomo?». «Con uno?» singhiozzò la Westphal. «Con tanti! Ma non sento niente! Uomini di tutte le età. E non sono mai riuscita ad avere un organismo!» «Vuol dire orgasmo» spiegò la Reincke, intenerita, e si volse quindi con energia alla Flanders: «E aggiungiamoci anche questa, per piacere!». «Cosa, prego?» «Danni morali!» disse la Reincke. E indagò sulla disperata signorina della spedizione: «È stata per caso violentata da ragazzina, lei?». «Sì» urlò la Westphal. «E brutalmente...» La Reincke trionfava: «Visto? Cosa avevo detto io? Danni morali! Aggiungere, per favore, aggiungere!». «Ho preso nota, signora Reincke. Ho preso nota...» «È stato un russo?» chiese la Reincke, afflitta da personali e poco piacevoli ricordi. «No, un americano.» «Strano...» Una telefonista alzò la mano. «Sì, prego?» «C'è una cosa sulla quale volevo richiamare l'attenzione da tempo. E proprio in questa puntata ho sentito che ci sono di nuovo un paio di frasi che, in certe circostanze, possono indurre al riso. Lo dico solo perché mio marito ha letto l'ultima puntata domenica scorsa, e si è messo a ridere al punto dove si trattava di una cosiddetta erezione. Così non è stato poi più neanche il caso di sognare. E pensare che io stessa gli ho dato il giornale e gli ho detto: "Leggi qui!".» «Per l'appunto!» si lagnò la Schwingshaxl. Molte voci si accavallarono. Tutte erano del parere che la serie di articoli doveva essere d'una compostezza assoluta. «Ci badi lei, signora Flanders. Io dico che anche oggi ci sono un paio di passaggi di quel genere!» Una giovane signora dell'amministrazione: «Anche mio marito ha letto la puntata sulle erezioni, e non ha riso affatto. Anzi, la sua reazione è stata tutt'altra». Una del reparto pacchi s'informò: «Da quanto è sposata, lei?». «Sei mesi.» Risate maligne.
E quella del reparto pacchi, con cattiveria: «Aspetti di essere sposata da diciott'anni! Dopo diciott'anni... la saluto!». E la Reincke intervenne, caparbia: «E così ci risiamo, a quello che ho già detto: bisogna capovolgere il senso dell'intera serie! Siamo noi donne che dobbiamo sapere cosa eccita gli uomini, così che loro poi possano eccitare noi! Bisogna scrivere di più sugli uomini, altrimenti tutte quelle sono chiacchiere al vento!». 11 La bufera s'era trasformata in un piccolo uragano, quando giungemmo in macchina all'Eppendorfer Baum. Il vento impetuoso squassava il cielo su di noi. Quando scese dalla vettura, Irina fu quasi travolta da una folata. Dovetti sostenerla. Mi si aggrappò con tutte le sue forze. Aveva tanta paura. E non era il caso di meravigliarsene, dopo quello che era accaduto venti minuti prima. Mi meravigliavo che riuscisse ancora a conservare il controllo su se stessa. Il vento aveva spazzato via la segatura dalla strada, e qualcuno aveva lavato le tracce di sangue. Povero Conny! Speravo proprio che se la cavasse. Non vi erano state chiamate dall'ospedale fino a quando eravamo stati in compagnia di Edith Herwag, e alla fine l'avevamo lasciata sola con la sua disperazione e con la bottiglia del whisky di Conny. Speravo che non si ubriacasse, altrimenti non avrebbe saputo reagire se fosse successo qualcosa: a proposito di Conny o di altro ancora. Ormai mi aspettavo di tutto. Chini in avanti, per opporci alla violenza del vento, Irina ed io lottammo per raggiungere il portone della casa segnata col numero 187. Eravamo le uniche persone in strada. Il mio orologio segnava l'una e 55. Alla destra del portone vidi la vetrina e l'ingresso al negozio di antiquariato. C'erano soprattutto begli oggetti dell'Estremo Oriente nella vetrina illuminata. Sulla porta a vetri si leggeva: ANDRÉ GARNOT - ANTIQUITÄTEN - ANTIQUITIES - MARCHAND D'ANTIQUITÉS. Lettere dorate stampate sul vetro. A sinistra del portone c'era una boutique, ma la vetrina era buia. Non vidi un riquadro con i nomi degli inquilini, solo il pulsante d'un campanello e, subito sopra, una piccola targa sulla quale si leggeva: STANISLAV KUBITZKY - PORTIERE. Suonai. Aspettai. Suonai di nuovo. Non un segno di vita. «Ormai dormono tutti» disse Irina, che era ora molto agitata. Suonai ancora, e stavolta lasciai il dito premuto sul pulsante. Nell'altra
mano, che tenevo infilata nella tasca del cappotto, impugnavo una banconota da venti marchi. Il dorso della mano venne a contatto con qualcosa di freddo. Era la Colt 45 di Conny. L'avevo portata via a Edith, perché non facesse sciocchezze. E poi perché adesso sentivo io la necessità di avere un'arma. Il caricatore era pieno. Avevamo almeno in parte tranquillizzato la povera Edith. Un medico di servizio notturno, cui avevamo telefonato all'ospedale, ci aveva detto che Conny stava relativamente bene, ma che era troppo presto per una prognosi definitiva: dovevano trascorrere ancora delle ore. Ci eravamo messi d'accordo con Edith che non avrebbe fatto più entrare in casa nessuno e che sarebbe rimasta dov'era, fino al nostro ritorno, a meno che non l'avessero chiamata dall'ospedale (e in tal caso avrebbe dovuto fare una telefonata di controllo, per verificare che la chiamata fosse stata fatta proprio dall'ospedale): e poi eravamo partiti: Irina, Bertie e io, a bordo della mia Lamborghini. Mi diressi in fretta verso la stazione centrale. Cercai una cabina telefonica dalla quale potevo chiamare Francoforte. Avevo cambiato dei soldi a uno sportello, facendomi dare una manciata di monete da un marco. Bertie e Irina erano rimasti ad aspettare fuori, in macchina. Irina aveva protestato, dicendo di voler finalmente andare all'Eppendorfer Baum da Jan Bilka. Ma io avevo bisogno di parlare con Hem, e il telefono di Conny, dopo quello che gli era successo, non mi era parso sicuro: e la telescrivente nemmeno. Nella cabina faceva caldo. Uscito di macchina, avevo aperto il bagagliaio, estratto una delle tre grandi bottiglie di Chivas che avevo con me, e riempito la mia fiaschetta. Appena formato il numero privato di Hem, buttai giù un paio di sorsate. La cabina sapeva di profumo e di piscio, ma non ebbi il tempo di aprire la porta poiché, quando stavo per farlo, Hem mi rispose. Non era ancora andato a letto. Gli raccontai tutto quello che era successo nel frattempo. «Walter, ragazzo mio, se va avanti così, abbiamo non una, ma la notizia.» «Già, lo credo anch'io, Hem.» In quella cabina, il puzzo d'urina sovrastava il profumo. Buttai giù un altro sorso, perché ero stato colto da nausea. «Telefono immediatamente al redattore di notte, al capo dei servizi fotografici, a Lester e a Herford. Sono certo che butteremo all'aria almeno tre pagine, forse anche più, per poter dar subito un primo lancio, con le foto. Ti sei procurato i diritti di citazione, come t'ha detto Rotaug?»
«Certo.» La mia voce si alzò di tono. «Ma se pubblichiamo questa storia, la scrivo io: e col mio nome!» «Naturalmente, Walter. Non c'è bisogno di gridare.» «Mi scusi. Sono un po' eccitato. È la prima notizia che mi capita da anni, e devo poterla scrivere io, col mio nome. Nessuno me la deve portar via!» «Nessuno, te lo prometto. Ora piantala! Dunque possiamo ribaltare tre pagine, o anche quattro, sino a lunedì, però abbiamo bisogno delle foto di Bertie il più presto possibile.» «Lo mando subito a Fuhlsbüttel. Cosi i rollini partiranno col primo aereo. Li avrete a Francoforte verso le otto.» «Bene. Bertie li consegni a nostro nome, fermo posta all'aeroporto. Manderemo da qui un autista, così li avremo più in fretta. A te chiedo per ora un breve pezzo introduttivo, diciamo una cartella, e le indicazioni per le didascalie delle foto. Entro le dieci. Detta tutto per telefono.» «Okay, Hem.» «E chiamami a qualsiasi ora, se succede qualcosa di nuovo. Mi porto il telefono accanto al letto.» Durante questo dialogo, ogni volta che s'accendeva un piccolo segnale luminoso, per indicare che la conversazione stava per finire, infilavo una moneta nella fessura. E lo feci spessissimo. «E, soprattutto, non fatevi scappare la ragazza!» «Ci bado io.» «Dove vai a dormire?» «Penso che andrò al Metropol.» Il Metropol era uno degli alberghi di lusso di Amburgo, e io ci andavo sempre. «Chiamami quando ci sarai. E adesso dove vai?» «Da quel Michelsen. La piccola vuole raggiungere il fidanzato. Sta già scalciando.» «Vacci. Ma non lasciarla lì. A nessun costo!» «Hm.» «Che vuol dire: hm?» «Come crede che possa farcela, Hem? Se quello è davvero il suo fidanzato, e dice di volerla tenere lì con sé? E se non vuole più andarsene neanche lei?» «Fesserie» disse Hem. «Quella ragazza è fondamentale, lo sento... la chiave di tutta la faccenda... Non possiamo permetterci di farcela sfuggire.» «Ma come...»
«Di' che chiami la polizia, se non ci riesci altrimenti. Dille che riferirai alla polizia dove la potranno rintracciare. E che la riporteranno subito al campo.» «È un'idea.» «Certo che lo è! Bilka sarà ragionevole, vedrai, e la lascerà andare. Del resto potrà vederla quando vuole. Le hai già fatto firmare il contratto?» «Non ancora.» «E perché no, maledizione?» «Perché non ho ancora avuto l'occasione di farlo, maledizione! Quella ragazza è ridotta a un groviglio di nervi!» «Va be'. Ora però, innanzi tutto, dobbiamo procurarcela, questa storia! Stammi bene attento, Walter, è molto importante: Bertie conosce certamente qualche pezzo grosso della polizia ad Amburgo.» «Sì. Perché?» «Quando avrete sistemato la ragazza in albergo, uno di voi vada alla centrale di polizia e dica tutta la verità. Che siete lì con la ragazza, dove e perché.» «Ma è una pazzia!» «Sarebbe una pazzia se non lo faceste! Quelli vi stanno cercando da quando la ragazza è sparita. Preferisci forse aspettare che vi sbattano dentro tutti?» «No, naturalmente...» «E allora! Vacci tu, è meglio. Dalla persona che Bertie ti dirà. Lui l'avvertirà prima, con una telefonata.» «Adesso non ci sarà nessuno...» «Ma va', idiota. Bertie chiede di quel tale. Dice che è urgente. Faccenda grossa. E lo è anche, del resto. Si fa dare il numero privato. E lo chiama. Spiega tutto al suo amico. Così che tu possa contare su una buona accoglienza alla centrale, quando ci arriverai. Ti presenti. Dici che garantisci tu..., anzi, no, di' che Blitz si assume la responsabilità per la ragazza! Tu agisci con pieni poteri. Possono in qualsiasi momento raggiungere l'editore e chiedere conferma. Se c'è da pagare una cauzione, ti mandiamo il denaro telegraficamente. Oppure paghi tu, se non è una gran somma. È una questione che va regolata, altrimenti finirete per guastare tutto! Abbiamo bisogno che la polizia stia dalla nostra parte. Se continui a scorazzare con quella tua bagnarola poi, ti beccherebbero comunque.» «Già, è vero. Non ci avevo ancora pensato.» «Ecco» disse Hem. «E ora un'altra cosa molto importante. Vorrei... Hai
abbastanza monete da un marco?» «Ne ho ancora una ventina.» «Bene. Ascolta, allora. Dopo quello che mi hai raccontato, voglio che tu mi affronti questo caso da un punto di vista ben preciso. La figura principale... la figura principale, per me almeno, in tutta questa storia, è la signorina Luise.» «Be', non saprei...» «Lasciami finire!» Hem sembrava molto agitato, non mi era mai capitato di sentirlo così. Ma subito dopo continuò a parlare con calma: «Quella signorina Luise, è una schizofrenica. Giusto?». «Sì, una malata di mente. Malata nel cervello.» «Ah» disse Hem. «Malata nel cervello. E su cosa ti basi tu, nel fare il tuo lavoro, Walter? Sul tuo cervello, dico bene?» «Be', su quello che vedo, su quello che sento. Sul mio istinto.» Hem disse: «Istinto, vista, udito: tutte impressioni che ricavi dal cervello». «Ma che significa?» chiesi io. «È ovvio che sia così. Il cervello...» «Appunto, il cervello» disse Hem. «Ti parrà strano se ora ti dirò alcune cose che certamente non ti saresti mai aspettato di sentirmi dire. Ma è una mia convinzione, da quando ho letto alcune cose su questo argomento, e vorrei che diventasse anche una convinzione tua, almeno in questo caso. Vedi, il nostro cervello non è soltanto una specie di centrale di smistamento di stimoli e reazioni. È una cosa ben diversa: è un calcolatore, costruito in modo complesso... Non per niente si parla continuamente anche di cervelli elettronici.» «Ah, ho capito. Lei mi vuol dire che il cervello è un computer.» «Esatto» disse lui. «Ehi, non dimenticare di inserire le monete!» Buttai giù tutti i marchi che avevo nella gettoniera telefonica. «Un computer, hai detto, Walter» sentivo dire da Hem. «Un computer, e continua a tenerlo ben presente man mano che procedi nell'inchiesta su questo caso.» «Che c'entra il computer?» dissi io. «Aggiunga che quello nella testa della schizofrenica è anche rotto...» «Ora te lo spiego, Walter» proseguiva Hem. «Intanto comincia col non parlare subito di computer rotto. Noi non riusciamo nemmeno ancora a immaginare cos'è davvero un cervello, tanto è incredibilmente complesso nella sua struttura. «Miliardi di cellule, direttamente o indirettamente collegate attraverso miliardi di miliardi di terminazioni nervose. Se vogliamo fare un paragone
con un computer, dovremmo avere sul collo non una testa, ma un grattacielo. E invece no, da noi tutto questo lavoro è svolto da un cervello del peso d'un chilo e qualche etto. Questo sì che è un miracolo, non ti pare?» «Sì» dissi io. Hem proseguiva: «Questo miracolo che è il cervello, l'opera più miracolosa di questa terra è una piccola nullità, una ridicola nullità, addirittura insignificante nella sua pochezza, se lo paragoni all'eternità e allo spazio infinito nel quale viviamo, persi su una stella che è una fra miliardi e miliardi di miliardi di altre stelle! Se consideri tutte queste cose, dovrai ammettere che questo presunto miracolo, il nostro cervello, riesce a spiegare solo una misera parte, anzi, non è in grado nemmeno di concepire quanto di straordinario vi è nell'universo, nel creato. «E chi dice poi che sia il nostro, il pianeta con le forme di vita più sviluppate? Eh? Chi lo dice? Io posso figurarmi degli esseri con dei cervelli, in un punto qualsiasi dell'universo infinito, per i quali per esempio i concetti terreni di tempo o di successione temporale cronologica - passato, presente, futuro - non esistono! Questi esseri percepiscono dunque l'intero creato contemporaneamente! Per loro Omero e Hitler possono tranquillamente coesistere, ed Echnaton accanto ad Einstein. Gente morta da tempo o esseri viventi accanto ai non ancora nati. Questi esseri hanno una visione quale noi mai riusciremo ad avere. Scorgono tutti i collegamenti. Guardano al passato, al futuro e al presente contemporaneamente, e così si sottraggono alle leggi del nostro razionalismo, del nostro materialismo! Mi segui?». «Sì» dissi, sempre più stupito. «Forse,» continuava Hem «forse, Walter, anche gli schizofrenici hanno cervelli costruiti in questo modo o in una maniera simile. Quella tua signorina Luise, forse, è anche lei uno di questi esseri! Che ne sappiamo noi della schizofrenia? Poco più che niente. Soltanto che le allucinazioni degli schizofrenici hanno spesso un contenuto religioso. Come nel caso della signorina Luise.» «Non mi vorrà dire che quello che percepisce lei è la verità, e quello che vedo e sento io, quello che vediamo e sentiamo noi, no?» esclamai. «Può darsi, Walter, può darsi. E voglio che tu lo tenga continuamente presente, durante gli sviluppi della vicenda sulla quale stai lavorando. Molti malati di mente sviluppano i cosiddetti filosofemi: i principi d'una filosofia. Quel loro avvertire le cose già vissute, il tornare indietro nel tempo, le premonizioni e le preveggenze del futuro, le profezie degli schizofrenici:
tutto questo può benissimo stare a significare che posseggono cervelli molto più complessi, molto più raffinati dei nostri, di noi cosiddetti individui normali.» «Porca miseria!» dissi io. «Non m'aspettavo di sentirmi dire queste cose da lei, Hem. Lei, insomma, sta tentando di dirmi che c'è sul serio un polacco, li in quella casa dell'Eppendorfer Baum, e se c'è anche un francese coll'asma, allora, considerato che la signorina dice di avere per amici un francese asmatico morto e un morto polacco... tutto questo possa anche non essere una mera coincidenza?» «Intendo dire proprio questo, Walter. Pensaci, continuamente. Non fidarti troppo solo del tuo cervello. Forse, le mie, sono soltanto le balorde elucubrazioni di un giornalista che è incappato in una grossa notizia, ma mi sono sentito in dovere di dirtele. Non ho potuto farne a meno. Mi capisci, vero?» «Sì, Hem» dissi io. «Non me ne dimenticherò.» «Ma senza dare i numeri!» aggiunse in fretta. «Non equivocare, ti prego. Quella tua signorina Luise, quanto meno su questa terra, è certamente una malata di mente. Ed è altrettanto ovvio che tu dovrai scrivere usando il tuo cervello per cervelli come il mio e il tuo, coi piedi piantati su questa terra. E quindi della tua storia non se ne farà niente se non descriverai quella tua signorina come una schizofrenica, e le sue vicende come le vicende d'una schizofrenica. Quindi distorsioni visionarie e così via... Però vorrei anche che tu mi ponessi un po' in forse questa nostra compiaciuta certezza di sapere sempre e ovunque distinguere fra realtà e illusione, affinché almeno qualcuno sia indotto a rifletterci. Mi capisci?» «Certo, capisco, Hem. La saluto. Ci sentiamo dopo.» «Ci sentiamo dopo, ragazzo mio» disse Hem. Fine della telefonata e dei marchi. Buttai giù un'altra bella sorsata dalla fiaschetta, e poi me l'infilai in tasca, mentre stavo già lasciando l'atrio. Mi avviai verso la mia macchina e dissi a Bertie di scendere e di portare con sé le sue pellicole. Irina mi guardava, spaurita. «Torno subito» la rassicurai. «Accompagno solo Bertie fino al taxi.» Non volevo che quello che dovevo dire a Bertie l'inquietasse ancora di più. In fondo non avevo ancora un contratto con Irina. Lottammo con l'uragano nell'avvicinarci all'unico taxi che attendeva davanti all'ingresso del parcheggio. E intanto urlai all'orecchio di Bertie quello che era necessario che sapesse.
«Quando avrai sistemato tutto, torna subito all'Eppendorfer Baum 187. Ti aspettiamo lì!» gridai. «D'accordo, bellezza!» urlò Bertie, sorridendo, e salì sul taxi. Lo sentii ancora dire all'autista l'indirizzo dell'aeroporto, e poi lo sportello si chiuse e la macchina partì. Prima ancora di avere il tempo di voltarmi, udii, confuso, il grido di Irina: «Signor Roland!». Mi girai di scatto e restai impietrito. C'era un uomo al volante della mia Lamborghini. Accese i fari, la macchina compì una brusca manovra di retromarcia per poter girare. Partii di corsa. Volavo quasi, perché avevo il vento alle spalle. La Lamborghini tracciò un'ampia curva, poi quello che la guidava cambiò marcia e la vettura cominciò a venirmi incontro. Io da parte mia l'avevo già raggiunta. «Signor Roland! Signor Roland! Aiuto! Aiuto!» strillava Irina. Il finestrino dalla parte del conducente era abbassato. Vidi al volante un uomo dai capelli biondi che portava un berretto da marinaio. Tentò di spingermi via. Tirai fuori di tasca la Colt 45 e la puntai alla tempia del marinaio, urlando: «Alt, o sparo!». Si prese uno spavento terribile, staccò il piede dall'acceleratore - intanto io correvo accanto alla macchina che aveva già acquistato una bella velocità - e bloccò il motore. Irina andò a sbattere con la testa contro l'imbottitura del cruscotto, e rimase in quella posizione. Doveva aver preso una botta notevole, e quindi aver perso conoscenza. L'automobile si fermò. Non c'era un'anima viva in tutti i paraggi. Continuai a premere la canna fredda della Colt sulla tempia di quell'individuo e urlai: «Fuori di lì!». Non si mosse. Gli diedi uno strattone alla manica, che si strappò, con un rumore secco, all'attaccatura della spalla. Gli spinsi di nuovo la Colt contro la testa e gridai: «Fuori, o sparo!». Lo sportello si spalancò all'improvviso. Arretrai barcollando e l'uomo balzò fuori dalla mia automobile. Mi spaventai. Quello era un orango, un mostro. E non era affatto ubriaco. Mi diede un colpo, dal basso in alto, contro la mano. La Colt volò via. Il marinaio mi si avventò contro e le sue mani enormi si strinsero attorno al mio collo, con una presa ferrea. Quello voleva uccidermi, era chiaro. Non avevo armi. L'uragano infuriava. Tutto cominciò a girarmi attorno. Non riuscivo più nemmeno a rantolare. Alzai di scatto il ginocchio sinistro, con tutte le forze che mi riuscì di raccoglie-
re, e centrai il marinaio nei coglioni, con notevole violenza. Quell'individuo cacciò un urlo e cadde in ginocchio. Riuscii a respirare, vidi la Colt luccicare sull'asfalto, mi avviai di corsa per raccoglierla, e tornai altrettanto velocemente accanto al marinaio. Era raggomitolato per terra, col viso distorto dal dolore, le mani strette attorno alle palle. Tentò di afferrarmi la gamba destra. E io gli pestai la mano con la scarpa sinistra, caricandola di tutta la forza possibile. E subito dopo gli rifilai una pedata nello stomaco. Rotolò di lato e cominciò a vomitare. Dall'altra parte della strada vidi finalmente della gente. Usciti da una macchina che si era appena fermata, tre uomini lottavano contro il vento che li investiva e si dirigevano verso di me. Meglio filarsela, e alla svelta! Raggiunsi la Lamborghini, saltai al volante, avviai il motore e accelerai. La macchina partì con un balzo. Mi accorsi che anche Irina si era ripresa, e si reggeva ora la testa ammaccata con le mani. Via! Via di lì! Presto! Uscii dal parcheggio curvando su due ruote, dalla parte settentrionale del piazzale della stazione. Irina cacciò uno strillo. Non le badai. Con i pneumatici che stridevano, curvai nel Glockengiesserwall e schizzai oltre il vecchio ponte Lombard verso l'Esplanade, in direzione della stazione del metro. Continuai a guardare nello specchio retrovisore. Nessuna macchina ci seguiva. La paura mi attanagliava ancora. All'altezza della stazione del metro girai il volante e mi diressi a tutto gas verso l'altra stazione, al Dammtor, e di lì, oltre la Theodor-Heuss-Platz, feci un bel tratto della Rothenbaumchaussee. E finalmente mi fermai. «Cosa... cosa è successo?» balbettò Irina. «È a lei che lo chiedo! Come ha fatto quell'individuo a entrare in macchina?» «Me lo son trovato improvvisamente seduto accanto... Non ha detto una sola parola... Ho tentato di scendere, ma è partito subito... Lei aveva lasciato la chiave d'avviamento inserita nel cruscotto... Era un marinaio ubriaco...» «Quello non era affatto ubriaco» dissi io. «Per niente.» «Ma cosa voleva?» «Portare via lei» dissi io. «Me?... Intende dire che voleva rapirmi? Signor Roland! Signor Roland, cosa sta succedendo... Me lo dica!» «Volentieri, se lo sapessi!» dissi io. «Come va la testa?» «Mi fa male. Ora però va già meglio. Ho perso i sensi per qualche se-
condo, vero?» «Così pare. Mi faccia vedere.» Accesi la luce interna della vettura e guardai la fronte di Irina. «Si vede qualcosa? Sono gonfia?» «Non vedo niente» dissi io. Invece vidi qualcosa, ma solo quando mi girai di nuovo in avanti. Sul pavimento, fra i pedali, c'era un pezzetto di stoffa. L'avrò strappato dalla manica di quel marinaio, pensai, e mi piegai per raccoglierlo. Era un pezzetto di stoffa rettangolare, ricamato di rosso e attraversato da una croce blu. La striscia verticale era vicina a uno dei lati minori del rettangolo. Tutti i rami della croce blu erano bordati di bianco. «Ma questa... è una bandiera... una piccola bandiera» disse Irina. «Sì» dissi io. «Una di quelle che si applicano, come contrassegno, alle maniche.» «E di che paese è?» chiese Irina. «Norvegia» dissi io, e improvvisamente dovetti pensare a tutto quello che Hem mi aveva detto per telefono. Rabbrividii. «Norvegia?» sussurrò Irina. I suoi occhi erano spalancati. «Si, Norvegia» dissi io, e m'accorsi che le mie mani si erano messe a tremare, di colpo. Presto, la borraccia! Buttai giù una gran sorsata. «La prego, ne dia un po' anche a me» disse Irina, piano. Le allungai la fiaschetta. Bevve e guardò fuori, nella notte sconvolta dalla tempesta. «Norvegia...» sussurrò poi. 12 La luce si accese finalmente al di là dei vetri smerigliati del portone. Un'ombra si stagliò contro il vetro, prima gigantesca, e poi sempre più piccola, man mano che quella persona si avvicinava a noi. Una delle finestrelle si aprì. Nel riquadro apparve un uomo di una certa età, con occhiali, una rada corona di capelli grigi attorno al cranio pelato. «'Sera» disse, con tono irritato ma anche spaurito. Pensai che fosse ancora sconvolto dallo spavento del pomeriggio. «Buona sera, signor Kubitzky» dissi io. «Mi spiace di averla dovuta svegliare. Vorremmo salire dal signor Michelsen.» Nel sentire quel nome, sobbalzò. Gli occhiali gli scivolarono sul naso. Se li rimise a posto. Indossava un cappotto pesante sopra il pigiama. «Michelsen?» disse lui. «Michelsen» ripetei io.
«Sì, da...» cominciò Irina, ma io la interruppi e le diedi una stretta al braccio per farle capire di tacere. «Il signor Michelsen abita qui, vero?» chiesi io. «Io... lui... sì, certo. Abita qui.» Stanislav Kubitzky parlava con un leggero accento polacco. Si teneva aggrappato alle sbarre di ferro battuto che schermavano la finestra. «Ma a quest'ora... nel mezzo della notte... Lei chi è?» Gli porsi la mia tessera stampa. L'esaminò. «Signor Walter Roland» constatò. «Giornalista.» E poi mormorò: «Gesù mio!». Ne avevo abbastanza. Gli tolsi la tessera e urlai: «Ne ho le scatole piene! Si decide ad aprire? Se non apre, chiamo la polizia!». L'effetto fu immediato. Aprì la porta e ci fece entrare. Nell'atrio c'era un silenzio di tomba. Dopo tutto il baccano dell'uragano mi sentii come stordito. Il portiere disse, con aria infelice: «Lei mi ha costretto ad aprire». «Sì» dissi io. «E se ci saranno guai, farò rapporto» spiegò lui. «Ma certo» dissi io, e mi accorsi di parlare a voce troppo alta. L'ingresso era d'una casa molto signorile. Lastre di marmo alle pareti, un vecchio ascensore in una gabbia di ferro nero, piazzato nel bel mezzo del pianerottolo, scale di marmo con una corsia rossa. «A quale piano sta il signor Michelsen?» chiesi. «Terzo» disse Kubitzky, e intascò la banconota da venti marchi. «Molte grazie, signore. Non può sbagliare. A ogni piano c'è un solo inquilino. Vuol salire coll'ascensore?» «Si.» Kubitzky aprì prima la porta a maglie di ferro e poi lo sportello scorrevole di legno dell'ascensore. E nel farlo fu colto da nuove paure. Quell'uomo viveva di paura. «La prego, quando sarà su, dica che io non volevo farla entrare, perché è così tardi.» Il tono della sua voce era implorante. «D'accordo» dissi io. Chiuse le porte, io premetti un bottone e il vecchio ascensore cominciò a salire lentamente, cigolando. Stanislav Kubitzky non si era mosso e ci guardava. Le sue labbra si muovevano, pareva che borbottasse una preghiera. Pensai che mi sarebbe piaciuto sapere se Kubitzky pregava davvero, e cosa pregava.
«Di cosa ha paura quell'uomo?» chiese Irina. La paura aveva ripreso anche lei. «Paura? Ma no. Lo abbiamo buttato fuori dal letto. Era solo seccato. Nessuna paura.» «E invece si» insisté Irina. «Ma no» ripetei. L'ascensore si fermò. Io uscii per primo dalla cabina. Irina mi seguì. Anche lassù, al terzo piano, c'erano corsie rosse sul pavimento di marmo, e vidi una sola grande doppia porta, proprio di fronte all'ascensore. Su una targa di ottone era scritto: MICHELSEN. Sopra la targa di ottone c'era uno spioncino con accanto il campanello. Suonai. Restammo per parecchi minuti davanti a quella porta chiusa. Per tutto il tempo continuai a premere il campanello. «O Dio» disse Irina, e mi afferrò una mano. La sua era gelida. «O Dio, ma che significa?» «Niente» dissi io, rabbioso, perché la placca metallica dello spioncino era stata sollevata dalla parte interna della porta, e un occhio ci fissava, immobile. «Avanti» gridai irritato. «Ti spicci ad aprire la porta, maledizione!» «Sarebbe meglio che lei si esprimesse più correttamente» disse una voce secca e altezzosa da dietro la porta. L'occhio continuava a squadrarci: «È una vergogna, mettersi a scampanellare senza alcun riguardo, a quest'ora di notte». «Mi chiamo Roland» dissi io, e mi costrinsi a essere calmo e paziente. Tirai di nuovo fuori il mio tesserino stampa e lo sollevai all'altezza dello spioncino. «Giornalista?» «Si.» «Se ne vada! A quest'ora non si ricevono giornalisti.» «Lei è il signor Michelsen?» «No. Si decide ad andarsene o devo chiamare la polizia?» «Ottima idea» dissi io. «Vorrei proprio che ci fosse. Anzi, se non lo fa lei, scendo giù un attimo e lo faccio io.» Mi girai. E nello stesso momento sentii la porta che si apriva. Sulla soglia c'era un uomo alto e magro di circa cinquant'anni, molto ben curato nell'aspetto, i capelli neri con lunghe basette, un viso lungo, labbra sottili e sopracciglia alzate. Indossava un abito marrone scuro, una camicia bianca e una cravatta blu. «Prego» disse l'uomo. Notai, nel corridoio alle sue spalle, un lampadario di cristallo acceso. Le pareti erano ricoperte di stoffa di seta rossa, e su un
antico cassettone c'era un grande vaso cinese. «Lei chi è?» chiesi io. «Mi chiamo Notung, Olaf Notung. Sono il domestico del signor Michelsen.» «Il che cosa?» «Il domestico» disse lui. «Mi sembra di aver parlato chiaro.» Ero un po' disorientato. Dunque esisteva ancora gente che si poteva permettere un domestico. In una casa d'affitto. Curioso, vi pare? Mi sarebbe piaciuto sapere che razza di domestico era il signor Notung, e che genere di servizi svolgeva. Chiesi: «Questo è il suo abito da lavoro?». «No, signor Roland. Ho potuto disporre quest'oggi del mio pomeriggio libero. Sono stato in centro. Prima mi sono trovato con degli amici, e sono andato con loro a teatro. Poi ci siamo fermati anche a bere qualcosa in un bar. Sono rientrato a casa appena mezz'ora fa.» Fece un cenno cortese con la mano. «S'accomodi. Suppongo che sia venuto per un qualcosa. Non è il caso di discuterne sulla porta.» Feci passare Irina. Notung chiuse la porta alle nostre spalle. «Forse è meglio che andiamo in salotto» disse, prima che noi potessimo dire qualcosa. Ci precedette. Persino il suo modo di camminare aveva un che di altezzoso. Quell'anticamera era piena di porte. Il domestico ne aprì una che conduceva in un salone vasto come metà campo da tennis. Il soffitto era decorato di stucchi preziosi, tutt'attorno c'erano poltrone e divani; notai un camino, la tappezzeria di seta gialla, i bei mobili antichi, tre lampadari e grandi tappeti. Dalle pareti pendevano quattro quadri, tre grandi e uno piccolo. Il più piccolo era un Renoir, l'avrei giurato: un Renoir autentico. «Si accomodi, la prego» disse il domestico. «Cosa posso offrire loro? Un drink? Caffè? Tè? Sigarette? Se vogliono darmi i loro soprabiti provvedere...» «Piantiamola con questi salamelecchi» l'interruppi. «Dove sono gli altri?» «Prego? Quali altri?» «Il signor Michelsen e il signor Bilka» dissi io. «Non capisco» disse lui, la faccia immobile. «Lei mi ha capito benissimo. Le ho fatto delle domande. Voglio delle risposte. Si spicci!» Ero fuori di me dalla rabbia, quell'individuo mi faceva perdere le staffe. «Mi dispiace, ma non. capisco lo stesso» disse Notung. «O meglio: non
del tutto. Il signor Michelsen è partito.» «Cosa?» disse Irina, spaventata. «Partito, signorina.» «Dov'è andato? Quanto starà via? Quando è partito?» chiesi. «Non lo so. Voglio dire: non so per dove è partito e per quanto si tratterrà lontano. Ha lasciato l'abitazione nel pomeriggio. Ho trovato solo questo appunto, nel rientrare a casa.» Notung s'infilò una mano nella tasca della giacca e ne prelevò un biglietto strappato da un notes, sul quale era stato scritto, a matita e a lettere maiuscole: CARO OLAF, DEVO PARTIRE IMMEDIATAMENTE PER AFFARI. LA CHIAMERÒ DOMATTINA E LE SAPRÒ DIRE QUANTO TEMPO STARÒ VIA. SALUTI - MICHELSEN. «Capita spesso che il signor Michelsen parta così all'improvviso?» urlai io. «Capita spesso, sì, signore» disse lui, con tono volutamente basso. «Il signor Michelsen ha un'impresa di esportazioni e importazioni. Gli uffici sono in Jungfernstieg. Il signor Michelsen è spesso assente. Viaggia molto, a volte va molto lontano.» «E allora ci faccia parlare col signor Bilka» dissi io. «Di nuovo questo nome!» disse Notung, coll'espressione di chi non riesce proprio a capire. «Come sarebbe a dire: di nuovo?» «Lei mi ha chiesto anche prima di questo signore. Per questo ho detto di non aver capito la sua domanda. Un signor Wilka...» «Bilka!» dissi io. «Jan Bilka!» «Non conosco nessun signor Jan Bilka» disse il domestico. «La pianti di dire sciocchezze!» gli urlai in faccia. Sollevò le sopracciglia. E io continuai a urlare: «Lei conosce il signor Bilka benissimo! È un buon amico del signor Michelsen, e abita qui!». «Mi dispiace infinitamente,» disse il servitore Notung, con accento virtuoso, «ma all'infuori del signor Michelsen qui non abita nessuno.» Irina si portò una mano alla gola e chiese: «Questo significa che lei non ha mai visto Jan Bilka?». «Non l'ho mai visto, né ho mai sentito parlare di lui, signorina» disse Olaf Notung. 13
Irina si abbandonò su un vasto divano. Non si reggeva più in piedi. Mormorò: «Me lo sentivo... lo immaginavo...». Improvvisamente cominciò a tremare con tutto il corpo, violentemente. Il servitore la guardava con interesse. Tirai fuori la mia borraccia. «Oh,» disse Notung «vuole che...» «Non si scomodi» dissi io, e svitai il coperchio. Mi piegai su Irina: «Beva!». Scosse la testa. Aveva il volto bianco, e le sue piccole mani s'erano strette a pugno. «Su, da brava» insistei piegandole la testa un po' all'indietro e piazzandole la fiaschetta sulle labbra. Buttò giù qualcosa che le andò di traverso. Restò senza respiro. «Ancora una volta» dissi io. «Una bella sorsata.» Inghiottì una bella sorsata e fu colta da un brivido. Ma non tremava più. Balbettò: «Ma... ma... ma... non è possibile! Il signor Bilka abita qui! Lo so! Lo so!». Il domestico guardò prima lei e poi me, come per far capire di non sapere proprio cosa fare. E disse: «Signori, qui ci deve essere stato un equivoco. Molto spiacevole. La prego, signorina, non pianga». «Io non piango» disse Irina, mentre le lacrime le scorrevano giù dalle guance. Non se le asciugava. Le allungai il mio fazzoletto. Notung disse: «Non posso che ripetere: al di fuori di me e del signor Michelsen qui non abita nessuno, né mai c'è stato qualcuno. Altrimenti lo saprei...». «La pianti» dissi io, con tono brutale, e buttai giù anch'io un sorso prima di richiudere la borraccia. «Lei mente. Lei sa benissimo...» «Questa è un'ingiuria! Lasci immediatamente questa casa!» esclamò lui, quasi contemporaneamente. Continuai a parlare, scuotendo la testa: «...che è una menzogna. Noi abbiamo parlato questo pomeriggio, per telefono, col signor Bilka. E lui era qui, in questa abitazione». «Lo escludo! Non è possibile.» «Qual è il vostro numero di telefono?» chiesi io. E lui, pronto: «2-20-68-54». «Ecco! È proprio chiamando questo numero che abbiamo parlato col signor Bilka.» «E io le dico che non è possibile. Qui non c'è nessun signor Bilka!» ripeté Notung. Irina si alzò di scatto e gridò: «Dica la verità! La prego, la prego, la prego: dica la verità! Per me è importante! Gli è accaduto qualcosa? Non ne
può parlare? Cos'è successo?». «Per favore,» disse Notung, infastidito, «per favore, cerchi di calmarsi, signorina.» «Calmarmi? Semmai ho motivo di agitarmi!» esclamò Irina. Tremava di nuovo, ma non ebbi più coraggio di darle del whisky. Erano anni che non mi faceva più pena nessuno. Al massimo facevo pena a me stesso. Ma in quel momento, per la prima volta dopo tanti anni, c'era una persona che mi faceva pena, una pena profonda, di cuore. Irina era così indifesa, così giovane, così smarrita. Pensai che io ero l'unico suo punto di riferimento, l'unico su cui poteva contare. Ed era andata a cercarsi un bel punto di riferimento davvero! «Io sono la fidanzata del signor Bilka! Il signor Michelsen è un buon amico del mio fidanzato! È venuto tante volte a Praga, per fargli visita! Hanno deciso che il mio fidanzato sarebbe venuto qui dopo la fuga! E io stessa ho sentito la sua voce, oggi pomeriggio, qui, da questa abitazione, dopo aver chiamato il vostro numero!» Notung la squadrava col viso immobile. E disse, piano, a me: «Vuole che chiami un medico...». «Le ho detto di piantarla!» lo investii io. Irina mi si aggrappò convulsamente, rivolgendo verso di me il suo visetto atterrito. Balbettò: «E ora... che facciamo? Signor Roland, la prego... mi aiuti... mi aiuti! Deve essere accaduto qualcosa... Deve essere accaduto qualcosa a Jan... La prego, signor Roland...». «Suvvia, si calmi» dissi io, e le passai una mano fra i capelli sottili. «Vedrà che riusciremo a spiegare tutto. Ne sono certo. Però adesso cerchi di controllarsi.» Annuì, si asciugò le lacrime e si staccò dal mio braccio. «A questo punto capirà bene che saremo noi ad avvertire la polizia» dissi, rivolto a Notung. «Si regoli come meglio crede» rispose il domestico, freddo. «Anzi. Non ho nessuna intenzione di tollerare ulteriormente le sue ingiurie. Io stesso chiamerò subito la polizia e la denuncerò per violazione di domicilio e...» «Adesso, basta!» urlai. Il domestico si ritrovò con la bocca della Colt 45 piantata nello stomaco. Ero così agitato e adirato che avevo istintivamente estratto di tasca la pistola di Conny. Sapevo che potevano derivarmene solo grane, ma non m'importava. Tutta quella storia puzzava maledettamente! Notung mi guardava. Voleva guardarmi con disprezzo, ma nel suo sguardo c'era paura, una paura infinita. E non soltanto della canna della pi-
stola che gli premeva sullo stomaco, no: anche di qualcosa d'altro, lo avrei giurato. «Ma che fa?... È impazzito?... Rimetta via quell'arma o grido aiuto!» «Avanti, gridi!» dissi io. Passarono due secondi. Tre. Cinque. Otto. Dieci. Non gridò. I suoi occhi erano ridotti a fessure. «Cosa vuole da me?» chiese Notung, rauco: e ora non era più tanto altezzoso. «Si giri,» ordinai «e non dimentichi che tengo la pistola puntata alla sua schiena. Ora facciamo una passeggiata.» «Dove?» «Per la casa» dissi io. «Avanti!» Lo urtai leggermente con la pistola, fra le scapole. Si avviò. E noi dietro. Girammo per tutta l'abitazione. Era composta di sette grandi stanze e di molti locali secondari. C'erano tre camere da letto. L'intera casa era arredata con molto gusto e con pazzesco dispendio di quattrini. Ovunque tappezzerie di seta. I colori sempre diversi, i mobili tutti antichi. «Non mi verrà a dire che lei da solo provvede a tutta la casa?» chiesi al domestico. «Abbiamo anche una donna per le pulizie e una cuoca. Però vengono la mattina e se ne vanno la sera. Di lunedì poi restano solo fino a mezzogiorno, tutte e due.» «Come si chiamano? Dove abitano?» «La donna delle pulizie si chiama Marie Gernold, la cuoca Elsbeth Kurz. Dove abitano, non lo so.» «C'era da immaginarselo. Ma le troveremo lo stesso.» «Trovarle per che cosa?» «Forse loro hanno visto il signor Bilka!» Non replicò più. Passammo di stanza in stanza. Aprii i cassetti dei mobili, le porte degli armadi a muro. Gettai a terra tutto quello che c'era. Avevo detto a Irina: «Guardi se trova qualcosa che appartiene al suo fidanzato. Sia pure un bottone. Basta un oggetto qualsiasi». Ma non trovò assolutamente niente. Nel vestibolo le porte degli armadi a muro erano spalancate. Mancavano due o tre vestiti, perché notai gli spazi vuoti.
«Ecco, prego» disse il domestico. «Non c'è nemmeno la valigia bianca che il signor Michelsen adopera quando parte. Mancano anche biancheria e scarpe.» Parlavamo a bassa voce, io stesso glielo avevo ordinato, perché continuavo a spiare per sentire eventuali rumori in anticamera. Ma c'era silenzio assoluto. Finalmente completammo il nostro giro. Nessuna traccia di Michelsen. Nessuna traccia di Bilka. In quell'appartamento c'era solo il signor Olaf Notung. «Si è deciso a credermi, adesso?» chiese il servitore. «No» dissi io. «Non una parola.» «Se posso darle un consiglio...» «Se li tenga i suoi consigli! E non creda che finisca qui. Tornerò. E non da solo. Ci conti, signor Notung. E se per caso decidesse di partire a sua volta, avvisi la polizia e lasci un recapito. Perché ora io vado direttamente dalla polizia a raccontare quello che è accaduto.» Dalla polizia ci saremmo andati comunque, lo aveva chiesto Hem, e quindi non si trattava di un bluff. «Anch'io avrò molte cose da dire alla polizia» disse Notung, immobile. Intascai la pistola. Tornammo in anticamera. Irina faceva sforzi enormi per dominarsi, lo si vedeva. Notung riaprì la porta di casa. Uscimmo sul pianerottolo. Nessuno di noi disse una parola di congedo. La porta si chiuse alle nostre spalle, e sentii Notung sbarrarla dall'interno. Condussi Irina verso l'ascensore. Nell'attimo in cui l'ascensore cominciò a muoversi, cigolando, mi ritrovai Irina fra le braccia. Mi si era letteralmente abbandonata addosso, piangeva, coll'aria di non voler mai più smettere. Le accarezzai le spalle e le dissi, meccanicamente, un mucchio di sciocchezze, dal momento che io stesso non avevo la benché minima idea di quello che era successo e di quello che poteva ancora accadere. «Non pianga più, Irina. Riuscirò a trovare il suo Jan, glielo prometto! Fosse pur l'ultima...» Non completai la frase perché, guardando in giù, vidi un uomo in piedi davanti all'appartamento del primo piano. Indossava una vestaglia di seta ricamata a molti colori, e mi faceva dei gran cenni. 14 André Garnot aveva arredato il suo appartamento in stile spagnolo antico. I mobili erano scuri, le sedie rivestite di stoffa preziosa, a righe verdi
chiare, rosse e brune. C'erano alti candelabri di bronzo con tante candele, illuminazione indiretta, lampade a stelo con paralumi di pergamena. Le pareti erano ricoperte d'una tela grezza, color rosso e ocra. In alcune stanze c'erano travi scure che sporgevano dal soffitto: anche nel salotto nel quale ci eravamo seduti. Alle pareti erano appesi quadri, piatti, insegne antiche, spade e un bell'orologio. Eravamo seduti in quattro attorno a un tavolo basso: l'antiquario, il portiere, Irina e io. Kubitzky aveva ancora il suo pesante cappotto invernale infilato sopra il pigiama. Borbottava parole incomprensibili spinto dall'agitazione e dalla paura. André Garnot era un uomo alto e magro, coi capelli corti e grigi che gli formavano sulla testa come una fitta spazzola. Aveva un volto sensibile e dei begli occhi sotto le lunghe ciglia. Pareva proprio un aristocratico di campagna, con quella elegante vestaglia, e si esprimeva come se lo fosse davvero. «Già, è esattamente quello che ci aspettavamo» dichiarò. La sua voce conservava una leggera inflessione straniera. Io avevo appena concluso il mio racconto su quello che ci era successo in casa di Michelsen. «Proprio così, già» disse il piccolo polacco. «Ma lei, di chi ha tanta paura?» chiesi io. «Di quelli lassù» rispose Kubitzky. «Del domestico?» «Del domestico e di quel Michelsen.» «E perché ha paura?» Il francese spiegò: «Il signor Michelsen è un signore... be', diciamo che è un personaggio piuttosto singolare. E anche le persone che riceve sono alquanto singolari». «Stranieri?» chiesi io. «Anche» disse Garnot. «Ma anche molti tedeschi. A ogni ora del giorno e della notte. Tutta gente che ha la chiave del portone. Il che preoccupa il signor Kubitzky da anni. E poi lassù gridano a volte, tanto che li si sente anche qui.» «Cosa gridano?» «Non lo so.» «Come mai? Non ha detto di averli sentiti anche da qui?» «Gridano fra di loro in una lingua straniera, che né io né il signor Kubitzky siamo mai riusciti a capire quale. Forse usano anche lingue diverse.» «Hanno anche sparato lassù» aggiunse il portiere dalla rada coroncina di
capelli attorno alla pelata, e mi guardò al di sopra delle lenti spesse degli occhiali. «Quando?» «Un paio di volte. Una sera poi hanno trascinato via un tale. Due uomini. E un terzo in mezzo. Coi piedi strusciava sul pavimento. L'hanno caricato in macchina e via.» «Non ha avvisato la polizia?» «Naturalmente» disse Garnot. Teneva in mano qualcosa che sembrava un astuccio per rossetto d'argento. E ci giocava. «E allora?» «Siamo stati sentiti come testimoni. I funzionari sono saliti su. Sono rimasti su per un paio d'ore. Sono ridiscesi. Senza dire una parola. Sono spariti. E non sono tornati più.» «Ma è impossibile!» esclamai io. «Eppure è andata proprio così» disse Garnot, molto pallido in volto. «Altro che impossibile! Il giorno dopo il signor Kubitzky è stato chiamato al telefono. Gli hanno detto che se si fosse immischiato ancora una sola volta nelle faccende di lassù, avrebbe fatto conoscenza con un barile di cemento.» «Con che cosa?» chiese Irina. «Con un barile di cemento. La persona che ha chiamato il signor Kubitzky si è spiegata molto chiaramente. Lo infileranno in un barile che sarà poi riempito di cemento e affondato nell'Elba. Ora capirà perché il signor Kubitzky ha un po' di paura. E poi oggi c'è stata la faccenda di quelle due automobili. È stato un tentativo di omicidio!» «Ne è proprio convinto?» dissi io. «Nel modo più assoluto.» Garnot si portò improvvisamente le mani al petto, lamentandosi. «Cosa c'è?» saltò su Irina, spaventata. Garnot si appoggiò all'indietro nella sua alta poltrona e alzò un braccio. Ansimando tenne quel piccolo oggetto d'argento davanti alla bocca e premette un pulsante. Si senti un leggero sibilo. «Asma» spiegò Kubitzky, sussurrando. «Il signore, poverino, soffre d'asma. E quando ci sono tempeste, come oggi, sta anche peggio del solito.» Era una bomboletta spray. Garnot si spruzzò nella bocca spalancata il contenuto della bombola, lottando per riuscire a respirare. Il suo viso era cianotico e il suo respiro era accompagnato da un ansito penoso. Rimanemmo seduti, senza muoverci. Fuori imperversava l'uragano.
Riuscivo soltanto a pensare: asma. L'amico morto, il francese della signorina Luise. E l'asma. «Non c'è modo di aiutarlo» diceva Kubitzky, piano. «Non resta che aspettare che la medicina faccia il suo effetto.» Dopo due o tre minuti il volto di Garnot riprese il colore normale, il respiro affannoso cessò. «Mi scusino» disse. «È colpa di questa maledetta tempesta. I bronchi s'intasano facilmente di catarro: e poi mi si contraggono, spasmodicamente e non riesco a espirare come dovrei, mi capisce? Be', non parliamone più. Anzi, mi scusino. Dunque: l'uomo che loro cercano, mademoiselle et monsieur... ha all'incirca trent'anni?» «Sì» disse Irina. «Un metro e ottanta d'altezza?» «Sì! Sì!» «Capelli biondi, tagliati corti. Molto corti? Un taglio militare, si potrebbe dire...» «Sì! Sì! Sì!» Irina era saltata in piedi. «Viso lungo, aspetto robusto, abbronzato e una cicatrice sul mento?» «È lui!» esclamò Irina, fuori di sé. «È Jan Bilka!» «Non sapevamo il suo nome» disse il portiere. «Come mai? Se abitava come inquilino presso Michelsen, o anche solo come ospite, lei - come portiere della casa - doveva pur segnalare la sua presenza alla polizia» dissi. «È vero» disse Kubitzky, mordendosi il labbro inferiore. «Quel Michelsen non le ha compilato e consegnato il formulario?» «No» disse Kubitzky. «E lei non glielo ha chiesto?» «No. Mi ha detto di aver segnalato direttamente alla polizia l'arrivo del suo amico.» «E non ha controllato?» «No» disse Kubitzky, abbassando la testa. «Aveva paura» intervenne Garnot. «Dopo tutto quello che era successo lassù da Michelsen... e gli era stato pur detto di non occuparsi delle faccende di Michelsen.» «Va bene» dissi. «Da quanto tempo Jan Bilka abitava da Michelsen?» «Dalla fine di agosto» disse il portiere. «Quindi il domestico ha mentito.» «Certamente. Quel signor Bilka è vissuto in casa di Michelsen dalla fine
di agosto a oggi e oggi hanno lasciato l'abitazione insieme.» «Hanno lasciato...» Irina non riuscì a completare la frase. «Si sieda» dissi io, e la costrinsi a rimettersi accanto a me. «Hanno lasciato l'abitazione insieme, sì» disse Garnot. «Il signor Kubitzky li ha visti, e li ho visti anch'io.» «Quando?» domandai io. «Prima del momento in cui quell'uomo è stato investito qui davanti o dopo?» «Dopo» disse Garnot. «Quanto tempo dopo?» «Oh, un po' ne è passato. Prima c'è stata la polizia.» «Per l'esattezza hanno lasciato la casa alle 20 e 4 minuti» precisò Kubitzky. «Ho guardato l'orologio.» Si passò un fazzoletto sulla fronte per asciugare il sudore, conseguenza della paura. «Sono arrivate tre macchine. Quindi quel Michelsen e quel signor Bilka sono scesi coll'ascensore. Avevano delle valigie: una Michelsen e due Bilka. Sono saliti sulla macchina che era in mezzo. C'era poca gente per strada, ho potuto osservare tutto con esattezza.» «Anch'io» disse Garnot. «Da quella finestra lì. Nelle macchine c'erano degli uomini.» «Quanti?» chiesi io. «Nove, complessivamente. Sono scesi e si sono appostati ai lati della strada. Sembrava che dovessero badare affinché non avvenissero contrattempi.» «Ha riconosciuto quegli uomini?» «No. Troppo lontani e tutti con cappotti e cappelli. Michelsen e quel signor Bilka sono saliti nella macchina di mezzo. Era una vettura nera. Molto grande. Sembrava un furgone. Completamente chiusa. Tutta la messa in scena m'è parsa sospetta, e così ho annotato i dati della targa di quella vettura.» Sollevò un pezzo di carta da un tavolino. «Eccoli.» Presi la carta e lessi: «HH-DX 982». «È certo che i dati siano proprio questi?» chiesi. «Certissimo. La macchina era ferma sotto un lampione. Le altre due vetture erano più all'ombra. Non appena i due uomini sono saliti, quegli altri, che si erano appostati, si sono riuniti di corsa, sono saliti e poi le tre macchine sono partite a tutta velocità.» «E il domestico?» «Quello ha il suo pomeriggio libero, il lunedì, è vero» disse il portiere. «Anche la cuoca e la donna delle pulizie. Ed è anche vero che il domestico
è rientrato soltanto a notte fatta.» Si picchiò una mano sulla fronte. «Ecco cosa abbiamo dimenticato, signor Garnot! Quella giovane donna!» «Ma sì, che sciocchi» disse l'antiquario. «Michelsen e Bilka sono scesi in compagnia di una donna.» «Quale donna?» «Una bionda, molto carina. E molto giovane. Era venuta qui da Michelsen con il signor Bilka, in agosto.» Sentii la mano di Irina, che era aggrappata alla mia, farsi di ghiaccio. «È partita anche lei, assieme a loro?» chiese con voce appena intellegibile. «Ma sì, anche lei, naturalmente! Siamo stati davvero sciocchi: quasi quasi ce ne dimenticavamo. Siamo tutti e due così agitati...» disse Garnot. «Chi era quella donna?» chiesi. «Sa come si chiama, per caso?» «No» disse Garnot. «Non lo so.» «Una volta però ho incontrato Michelsen e lei sul pianerottolo» disse Kubitzky. «Li ho salutati, e loro mi hanno risposto. Michelsen mi ha anche borbottato un nome, che non ho capito. Ma poi ha aggiunto che quella signorina era la fidanzata dell'amico che aveva come ospite in casa sua» terminò Stanislav Kubitzky. 15 «La prego, non s'arrabbi, signor Roland...» Me ne stavo lì, gli occhi sbarrati, in fondo al negozio di Generi Alimentari Kniefall - e tutto questo accadeva quarantadue ore prima - sempre in attesa che mi telefonassero dal giornale per comunicarmi cosa quelle maledette femmine avevano trovato da ridire sulla mia ultima puntata. Lucie era in piedi davanti a me, il volto in fiamme, la voce esitante. Aveva raccolto tutto il suo coraggio per aggiungere: «Lo so che son cose che non mi riguardano, però...». «Però cosa?» «Perché beve sempre tanto di mattina?» chiese la bionda Lucie. «Sono affari suoi, naturalmente... Ma... io...» E la sua voce tremava ora sensibilmente: «...mi preoccupo tanto per lei». «Lei si preoccupa!» Guardai Lucie. E mi colse un'enorme autocommiserazione. Ma benone, pensai. Benissimo. Questa è la prima volta che una ragazza mi dice una cosa del genere. Quelle due puttane, per esempio, con le quali me l'ero spassata durante la notte, non erano affatto preoccupate
per me. Stavano smaltendo la loro sbornia dormendo e, una volta sveglie, avrebbero acceso la radio, fatto il bagno e la colazione, si sarebbero pettinate e truccate. E così tutte le altre. Solo quella Lucie si preoccupava per me... La quale Lucie era ormai partita in quarta, e riusciva a parlare più scorrevolmente: «Ogni volta che viene qui, beve e parla da solo, e ogni volta il suo aspetto peggiora. Si può sapere cos'ha, signor Roland?». «Cosa vuole che abbia? Sto magnificamente!» Buttai giù un sorso di whisky, rabbrividii e improvvisamente mi parve che quella ragazza fosse l'ultima persona buona rimasta a questo mondo. Era ovviamente l'effetto dell'alcool che avevo bevuto, e del tanto, tanto whisky della notte precedente. Ogni individuo ha un suo punto di rottura, a prescindere dai liquori. Pervenuto a quel punto di rottura, ciascuno di noi non apre il cuore alla persona che gli è più cara, ma a uno qualsiasi, che si ritrova accanto e che gli sia simpatico, a uno che conosce appena: un barista, il conducente d'un taxi, il controllore d'un vagone letto, la piccola commessa d'un negozio di generi alimentari... «E va bene» dissi io. «Non mi sento affatto magnificamente. Mi sento miserabilmente male.» E mi parve del tutto naturale parlarne alla Lucie dai capelli biondi e dagli occhi molto scuri, della quale non sapevo niente se non che proveniva da Brandoberndorf. «Ma come mai?» Lucie mi guardava e scuoteva la testa. «Lei guadagna tanti soldi. È famoso. Tutti leggono quello che scrive...» «Aaaaahh!» L'interruppi con un gesto di schifo. «Quello che scrivo finirà coll'uccidermi!» «Non capisco!» disse Lucie, spaventata. «Ma se le fa tanto male, perché lo scrive allora?» Già, perché? Ottima domanda. E a quel punto io avrei dovuto dire: Perché ormai sono già tanto corrotto, degradato e indebitato da non avere più la forza d'intraprendere qualcosa di decente. Ma si possono dire queste cose? No, si dice: «Ho scritto anche delle altre cose. Un tempo. Molto migliori. Diverse». «Ma quello che scrive adesso non è mica male! Lo leggo anch'io!» Lucie arrossì di nuovo. Anche lei, naturalmente, conosceva il mio pseudonimo. «E tutti i miei conoscenti lo leggono! Sono cose così interessanti... così istruttive... e scientifiche...» «Sono porcherie» dissi io, a bassa voce. «Porcherie e basta! Ma non de-
ve dirlo a nessuno, non racconti a nessuno che gliel'ho detto io, signorina Lucie!» «A nessuno! Parola d'onore!» Era in piedi davanti a me e si torceva le piccole mani. «Dica un po', non la rimprovereranno mica? Può starsene qui a chiacchierare con me?» Lucie fece un gesto come d'indifferenza. «Lei è nostro cliente! E poi non c'è altro da fare qui al bar.» «Bene!» Mi alzai, il bicchiere in mano, e mi resi conto di essere ubriaco. «Andiamo però a parlare al bancone. Così non ci faranno caso.» La precedetti, a cauti passi, tipici degli sbronzi che sanno di doversi controllare per non cadere. Lei mi seguì con la bottiglia del Chivas e s'infilò dietro il bancone. M'arrampicai su uno sgabello, appoggiai con precauzione il bicchiere. «E lei cosa beve?» «A quest'ora! Signor Roland!» «Deve bere anche lei. Una cosa qualsiasi. Altrimenti non potrò dirle nulla» insistetti io, testardo. «E va bene, se insiste, un bicchiere di succo di pomodoro...» «Con vodka. Con un bel po' di vodka.» «No, senza vodka, per favore.» «Va bene. Come vuole.» La guardai mentre prendeva il bicchiere, prelevava una caraffa di succo di pomodoro rosso scuro dal frigorifero e si riempiva il bicchiere. «Cosa stavo dicendo?» chiesi io. «Che una volta lei scriveva altre cose, forse migliori...» «Già. Appunto. Era l'epoca in cui ho cominciato a lavorare per Blitz.» Mi giravo il bicchiere in mano. «Allora era non solo il più grande, ma anche il migliore settimanale di tutta la Germania. Di grande livello! Conosciuto all'estero. Qualcosa come Life...» Lucie, che non aveva certamente mai sentito nominare Life, annuì con aria comprensiva. «Tutto merito di Hem...» «Di chi?» «Del nostro caporedattore. Si chiama Paul Kramer. Noi lo chiamiamo Hem. Ce l'ha messa tutta, per fare di Blitz il migliore dei giornali... e per tanti anni! Era un onore, allora, poter lavorare per Blitz... Pubblicavamo novelle di Hemingway e di Somerset Maugham, romanzi di Jan de Hartog e di Remarque... e poi racconti di Ernest Lehman, di Irwin Shaw, di Tru-
man Capote...» M'interruppi. «Prego, continui a raccontare!» disse Lucie. Ma ormai mi ero distratto. Stavo seduto lì, e disegnavo segni a casaccio attorno ai cerchi umidi che il mio bicchiere imprimeva sul bancone. Lucie taceva... «Quel Kramer!» ripresi dopo un po', buttando giù un altro sorso. «È lui che m'ha insegnato cos'è davvero il giornalismo! M'ha fatto scrivere inchieste bellissime, casi importanti di cronaca nera. Erano la mia specialità! Svolgevo da solo le mie ricerche. Avevo un fiuto straordinario...» Che c'entra il fiuto, si chiedeva certamente Lucie, ma annuiva piena di zelo. «A quei tempi Hem mi dava da seguire tutti i grandi crimini! E non solo in Germania. In tutta Europa! Persino in Brasile.» Altra sorsata. «Già» dissi io. «Dunque all'inizio ci fu l'ansia di ricupero della letteratura! Tutta quella smania di sapere! Una vera e propria sete di sapere, di riempire lacune. Poi ci fu la grande ripresa economica, qui da noi, e venne il periodo dell'attualità. I grandi casi di cronaca nera, gli scandali politici e finanziari. Poi c'è stata... be', diciamo l'infornata della storia. C'era tanta curiosità, nella gente, a proposito del passato. E così abbiamo fatto quelle nostre grandi serie sui re e sugli imperatori, sugli Hohenzollern, i Wittelsbach... Serie come quelle si snodavano per quarantacinque, a volte persino per cinquanta puntate, pensi un po'!» Continuavo a bere, perso nei ricordi. «Quando ormai potevamo dirci arrivati - eravamo il settimanale più letto di tutti - è arrivata l'ondata culinaria. Se ne rammenta? Pagine e pagine dedicate alla cucina, e i servizi fotografici sui cuochi... Oggi non si può più sfogliare un settimanale senza trovare una o due pagine di culinaria...» «È proprio vero!» Lucie rideva. «Le scriveva lei, le ricette di Blitz?» «No, non le ho fatte io, quelle. Ma dopo l'ondata culinaria è venuta l'ondata edilizia... Quella era roba mia... e tutte le altre serie che sono seguite anche...» Altro sorso di whisky. Me ne stetti zitto un po', e mi accorsi che Lucie mi guardava con tenerezza. Abbassai gli occhi sulle mie mani. Già, eccome ricordavo... Fu allora, dopo la serie edilizia, che vennero Gert Lester e la sua banda. Fu allora che Blitz cominciò a rovinarsi, grazie al gusto "raffinato" del signor Lester e del signor Thomas Herford, e grazie al nostro splendido reparto ricerche diretto dal caro signor Stahlhut.
Che battaglie aveva dovuto sostenere Hem, per riuscire a inserire almeno un buon articolo! Perché tutto non fosse riscritto secondo canoni lacrimevoli, bellici, sessuali o criminali. Che liti c'erano state! Hem si era battuto come un eroe! Inutilmente. Alla fine proprio inutilmente. E quindi s'era ormai rassegnato, da tempo. («Che senso ha, ragazzo mio? Buttarle giù bisogna, comunque...») Il giornale si riempì di porcherie, di falsità, sempre di più e sempre di più, per assecondare istinti sempre più bassi. Stampammo romanzi di merda, scritti addosso al più cretino dei lettori, a volte da più autori diversi, fino a cinque. Il tutto pre-programmato sino ai minimi dettagli dal computer, sulla base dei suoi ultimi calcoli. Se ci capitava fra le mani un buon romanzo già pronto da pubblicare, lo si doveva ribaltare per adattarlo alle «esigenze del giornale». Da quel momento, è ovvio, non riuscimmo più ad avere un romanzo scritto da un buon autore. Certe voci si diffondono velocemente. E del resto preferivamo confezionarci i nostri romanzi in casa, su misura. Non facevamo altro che ingannare il lettore, imbottirlo di menzogne, da gridar vendetta al cielo. Ma che senso aveva raccontare tutto questo alla ragazza di nome Lucie? Gli occhi stanchi mi bruciavano. Bevevo e non m'accorgevo che il liquido mi colava giù dal mento. Lucie però mi guardava sempre con amore. «Ma cosa è successo poi?» chiese lei, sempre confusa. «La tiratura» dissi io, con voce colma d'amarezza. «La maledetta tiratura!... E poi... e poi il computer...» Sussurrai con aria di cospiratore: «Però questo è un segreto, signorina Lucie, non lo deve dire a nessuno! Noi al giornale abbiamo un computer, il quale decide cosa dobbiamo scrivere... Hem non riesce più a inserire un buon articolo nel giornale neanche rischiando un infarto...». «Un computer?» «Si. Un computer! Ci bada quel caro signor Stahlhut... e a me badano le care signore dell'azienda, a tutte le righe che scrivo... Analizzano ogni riga, quelle care donne, anche adesso, ed è per questo che sono qui...» «Lo so» mormorò Lucie. Con un dito disegnavo lettere sui cerchi umidi che si formavano sul ripiano nero del bancone. E intanto dicevo: «Altri tempi, allora. E non torneranno mai più...». Mi accesi una sigaretta, i miei movimenti erano impacciati. «Che pensieri mi tormentano, eh?» Risata. «Tutte scuse per sborniarmi! Lo sa anche lei: ogni alcolizzato ha bisogno d'una scusa. All'uno è
morto il cane. L'altro soffre d'amore. Un terzo è afflitto dai figli. Non scuota la testa, signorina Lucie! Io sono un alcolizzato. Stia alla larga da me.» «Lei è infelice» disse Lucie, molto piano. E ci guardammo per la prima volta, con intenzione. A questo punto, lì nel bar, squillò il telefono. Sussultammo entrambi, e poi Lucie rispose. Poche parole, poi riagganciò e disse, angosciata: «Vogliono che lei vada là». Mi alzai con precauzione. E Lucie stette a guardare, infelice, mentre non riuscivo quasi a infilarmi la giacca. Per la miseria, ero sbronzo marcio. E allora? E allora merda! Pagai - soltanto il succo di pomodoro e il selz, poiché la bottiglia di Chivas era quella "mia", e l'avevo già pagata - e lasciai, come sempre, come ovunque, una mancia troppo alta. «Ma no, signor Roland. Non posso accettare!...» «Accetti! Accetti!» insistei e le allungai cerimoniosamente la mano. «Mi stia bene, signorina Lucie.» «Arrivederci, signor Roland...» Marciai attraverso il negozio, rigido e duro come un bastone. Mi voltai una sola volta, e vidi lacrime negli occhi di Lucie. Se le stava asciugando e fissava le lettere che avevo disegnato sul bancone col whisky rovesciato. LUCIE avevo scritto. E poi cancellato il nome, con due tratti. Mi girai e cercai d'andarmene alla svelta dal negozio. 16 Barcollando leggermente, le mani contratte a pugno, le spalle protese in avanti come un pugile: così mi avviai verso il giornale. Il sole splendeva, ma debole e fiacco. Avevo caldo. Avrei dovuto bere di meno, pensai. Dopo tutto quel whisky della notte prima... un po' troppo, davvero. Per la miseria, se il Chivas mi faceva effetto! Sulle ginocchia, negli occhi, in testa. In testa soprattutto: qualcosa che girava, girava, girava... E chi se ne frega! A volte m'era capitato di essere anche più sbronzo, quando mi avevano convocato dal "signor direttore" Lester. Dovetti fare una deviazione. Gli operai che costruivano la metropolitana e che avevano scavato la Kaiserstrasse sin giù nelle viscere della terra, avevano anche preparato alcune passerelle di legno, da un lato all'altro della strada, ma solo in alcuni punti. I ponti erano fatti di lunghe assi, sostenute da una ragnatela di travi, ed erano dotati di ringhiere. La gente vi si am-
mucchiava, in entrambe le direzioni: tutti si urtavano a vicenda. Gran traffico, su quei ponti. Giù in fondo, centinaia di operai con gli elmetti di protezione in testa, si agitavano come formiche; scavavano, correvano avanti e indietro sotto gru gigantesche, facendo spostare putrelle d'acciaio; lavoravano davanti a macchine a loro volta sorrette dalle gru... Martelli pneumatici, perforatrici. Mi fermai nel mezzo della passerella di legno, mi appoggiai al parapetto e guardai giù, nella futura corsia della metropolitana che stava nascendo a cielo aperto, in quel tratto. Il fossato era puntellato con migliaia di travi, sulle quali erano state tese reti metalliche. Le mescolatrici rovesciavano cemento nelle future pareti del tunnel, provvisoriamente delimitate da intelaiature metalliche. Una di quelle mescolatrici era sistemata in cima a un grande traliccio, e cinque operai italiani trafficavano attorno al cemento, urlando (non è proprio il caso di dire che fosse un canto, il loro): «Evviva la torre di Pisa, che pende, che pende... e mai non va giù!». Sorrisi. Conoscevo l'italiano. Bella canzone. Loro però la cantavano con varianti oscene. Guardavo come se tutti quegli operai, tutti, fossero miei amici. Era facile perdere l'equilibrio, e infatti andai a urtare contro il parapetto. Conficcai le dita nel legno, spaventato nel sentirmi il terreno scivolare sotto i piedi. Qualcuno mi urtò. Questa sì che è gente onesta, pensavo, e guardavo gli operai, tutto serio e immerso nei miei pensieri. Questa è gente che produce. Gente in gamba. Greci, italiani, jugoslavi, turchi, tedeschi e di chissà quali altri paesi ancora. Lavoratori! E io invece? Io sono un parassita, uno stronzo. Se fossi un vero lavoratore anch'io, uno che costruisce qualcosa, che crea qualcosa, qualcosa di utile e di concreto, qualcosa che serve agli altri uomini... «Ehi dico, non può stare attento?» gridò, incattivito, il passante che mi aveva urtato. Proseguii, incespicando. Non guardai più giù verso gli operai. Perché improvvisamente sentii di vergognarmi davanti a loro, davanti a tutti. 17 «Se dovesse capitare una sola volta ancora, dico e ripeto: una sola volta, mi capisce, lei sarà licenziato!» La voce alta, abituata al comando, del direttore mi venne incontro non appena uscii, al settimo piano, dal "lanciacapi". Passai lungo il corridoio,
fra le pareti di vetro, dietro le quali i redattori dei vari settori avevano i loro uffici. Segreteria di redazione, esteri, interni. Servizi speciali. Teatro e cinema. Scienza. Tecnica. Umorismo... «Tutto ha un limite! Ho avuto fin troppa pazienza con lei! Non c'è uomo che sia insostituibile, nemmeno lei!» sbraitava Gert Lester nel suo box di vetro. Davanti a lui, in piedi, c'era il padre di famiglia tormentato da oscure smanie sessuali, nonché eccezionale capo dei grafici Heinrich Leidenmüller: un uomo magrissimo, con occhiali e orecchie a sventola. Continuava a fare inchini. Era pallido e con la barba lunga. Aveva, come sempre, quella sua aria smarrita. Da Lester c'erano anche Angela Flanders e Paul Kramer, seduti a destra e a sinistra della sua grande scrivania sorretta da tubi metallici. «Se lei crede di poter fare il puttaniere nella mia redazione, si sbaglia! Non nella mia redazione!» Quel porco!, pensavo io. E mi colse di colpo una rabbia cieca. Quel lurido porco di Lester! Sapeva benissimo che si sentiva ogni parola, in quel letamaio. E intanto il Beccamorto continuava a dire «Sì», «Sissignore», «Certamente», «Mai più», ogni volta con un inchino e con l'aggiunta di un «Signor Lester!». Questi stava rendendo ridicolo quel poveraccio davanti a tutta la redazione giornalistica! Mi sentii avvampare di calore, e mi tolsi la giacca. Senza bussare, aprii la porta che conduceva all'ufficio della segretaria di Lester. «'Giorno, signora Zschenderlein» dissi io. Sophie Zschenderlein soffriva d'insufficienza renale. Doveva prendere del cortisone, una medicina che il medico le prescriveva in dosi elevate. E di conseguenza quel preparato diabolico, che pur la conservava in vita, le aveva anche conferito il tipico faccione da luna piena. Era aumentata anche di peso. La malattia aveva colpito due anni prima quella povera donna, che era stata una volta bellissima. In teoria non avrebbe dovuto lavorare. E le riusciva spesso anche penoso. Ma che senso ha dire d'una donna che non dovrebbe lavorare, se ha un figlio di undici anni a scuola, se è divorziata senza colpa e se ha un ex marito che, all'estero, non paga un centesimo di alimenti? È facile a dirsi. La malattia e le avversità della sorte l'avevano amareggiata e incattivita. Si dedicava anima e corpo al capo. Gli si era letteralmente arresa. Aveva così l'impressione che, in tutto il giornale, c'era almeno un uomo che aveva bisogno di lei e che era contento di vederla: nonostante il suo aspetto poco gradevole. Per questo gli amici di Gert Les-
ter diventavano subito anche amici suoi: e i nemici di Lester, automaticamente, anche nemici di lei. La Zschenderlein indossava gonna nera e camicetta bianca. Come tutte le persone i cui uffici si affacciavano sulla Kaiserstrasse, soffriva di eccitabilità nervosa, aveva sempre mal di testa e a volte anche attacchi di vertigine. Il chiasso infernale prodotto dai costruttori della metropolitana investiva direttamente la parte anteriore dell'edificio del giornale, a ondate atroci, dall'alba al tramonto. Erano mesi e mesi che andava avanti così. C'era davvero da impazzire! Avevo già aperto la porta verso il sacrario. «Ma lei non può... Cosa fa...» La Zschenderlein era saltata su, inviperita. Ah, la sbronza, la sbronza! Mi limitai a farle un sorriso da ubriaco e già ero nell'ufficio di Lester. Il direttore mi lanciò un'occhiata gelida. «Ma che gioia! Il signor Roland, la nostra celebrità! Abbiamo perso l'abitudine di bussare e di attendere che io dia il permesso di entrare, vero, signor Roland? Ma si accomodi, signor Roland,» e il tono della voce di Lester divenne ironico «non si faccia riguardi, si consideri a casa sua.» «Già fatto, signor Lester.» «Bene, bene» disse Lester. «Un attimo ancora, mi resta una sciocchezza da sbrigare prima di potermi dedicare a lei, signor Roland.» Il baccano del cantiere, snervante, incessante, penetrava anche nell'ufficio di Lester. M'inchinai davanti ad Angela Flanders (c'era una autentica, vecchia amicizia fra di noi) e feci un cenno di saluto a Paul Kramer. Questi si passò, preoccupato, una mano fra i capelli grigi e scomposti, e si accarezzò quindi la sua barba alla Hemingway. Dentro di sé bestemmiava, di certo. Era proprio necessario che mi ubriacassi un'altra volta? Kramer scambiò alcune occhiate tetre con la Flanders. Anche lei aveva un'aria triste. Hem indossava una camicia a scacchi, molto colorata, e calzoni di flanella. Non aveva cravatta né giacca. Non s'infilava mai la giacca, quando Lester lo convocava. E non si privava mai della sua pipa Dunhill, e infatti se ne serviva anche in quel momento. Era il suo modo per far capire al direttore che scarsa stima aveva di lui. C'era un simpatico odore in quell'ambiente. E pensai: almeno qualcosa di simpatico c'è! Gert Lester (abito scuro, camicia bianca, cravatta a scialle) si passò una mano sui capelli tagliati corti. I suoi occhi si erano rimpiccioliti e il naso aquilino vibrava. Ma Lester aveva bisogno di me, e quindi doveva dominarsi. In compenso investì il povero Beccamorto: «Torni giù al suo lavoro! Questa è l'ultima volta che intervengo per salvarla! Se ne rammenti! L'ul-
tima!». Il Beccamorto continuava sempre a inchinarsi. E balbettò: «Non accadrà mai più, signor Lester! Mai più!». Ma certo che accadrà ancora, pensai io. E nessuno ti licenzierà, perché sei troppo in gamba nel tuo lavoro. Ma il gran porco si divertirà a umiliarti ancora. «La ringrazio di cuore per la sua fiducia, signor Lester...» Il Beccamorto cominciò ad arretrare, in atteggiamento servile, e mi venne addosso. «Oh, pardon!» «Ma piantala» mormorai io. «Smettila di fartela sempre addosso davanti a quell'individuo!» «Cosa ha detto?» gracchiò Lester. «Niente di particolare» risposi. «Io vorrei saperlo lo stesso!» Alzai le spalle. Il Beccamorto nel frattempo aveva lasciato la stanza, fra altri inchini. Nei molti uffici attorno, il lavoro si era fermato, solo un paio di persone battevano a macchina. Tutti quelli che c'erano - reporter, giornalisti, redattori, dattilografe - guardavano ora verso la stanza di Lester. Quello col Beccamorto era già stato un bello spettacolo. E ora si profilava qualcosa anche con me! «Gli ho detto di non farsela sempre addosso di fronte a lei, signor Lester» gli spiegai. Hem succhiava la sua pipa, soffiò una nuvola di fumo: non un muscolo del suo volto si muoveva. Lester cominciò a urlare. «Questo è intollerabile! Si può sapere cosa...» Mi voltai e mi avviai verso la porta. «Dove va?» «Fuori. In attesa che si calmi.» Passarono cinque secondi. Ci limitavamo a guardarci. Il grattacielo vibrava leggermente a causa degli scavi, e le macchine facevano un orrendo baccano... Infine Lester constatò: «Bevuto un bicchierino, eh?». «Diversi bicchierini» risposi. «Si sieda!» abbaiò Lester. Mi sistemai, alzando le spalle, in una poltroncina fatta di tubi metallici, che ondeggiava in modo sgradevole, proprio davanti alla sua scrivania. La
giacca mi scivolò a terra. La sollevai e me l'appoggiai sulle ginocchia. Negli altri uffici tutti avevano smesso di lavorare. «Prego, dica pure» dissi io. Lester s'era sforzato in tutti i modi di conservare la calma, di vincere la sua avversione. Riuscivo però ogni volta a fargli perdere le staffe. Si piegò in avanti. «Sta cercando un motivo per litigare?» «No, signor Lester.» «Perché se ci tiene a litigare, l'accontento subito! Sono proprio dell'umore adatto!» «Mi dispiace, signor Lester. Che ne dice se passassimo al dunque?» «Veniamo al dunque, ma certo! Eccome se ci veniamo! Signor Roland, lei dovrà lavorarci ancora un bel po', attorno a quella sua ultima puntata! Le nostre signore hanno trovato parecchio da ridire: e purtroppo anche su questioni di fondo. E non abbiamo tempo. Perché per l'ennesima volta ci ha consegnato il suo lavoro solo all'ultimissimo momento!» «Ho spiegato il perché. Stavo male. Ho...» «Lei l'ha buttata giù alla bell'e meglio, questa puntata! E soltanto stamattina! Ed ecco il risultato: un articolo scritto alla carlona! Ma cosa crede, signor Roland, di potersi permettere proprio tutto, eh?» «Signor Lester, constato che lei mi sta parlando con tono ostile. Non le permetterò di usare oltre questo tono.» «Walter,» intervenne Hem, togliendosi la pipa di bocca, «comportati finalmente da persona seria e non come uno stupido ubriaco!» Annuii. Quando parlava Hem, riuscivo sempre a riconquistare un po' di controllo su me stesso. «Mi scusi, signor Lester.» «Va bene. Signora Flanders, sia così gentile, ci legga le obiezioni fatte dalle signore.» La Flanders impugnò il suo blocco stenografico e cominciò a decifrare quello che si era segnata. Di tanto in tanto mi guardava coll'aria di chiedermi scusa. Era davvero tanta roba. Per due volte feci per dire qualcosa, ma colsi l'occhiata di ammonimento di Hem e tacqui. La Flanders leggeva, dava delucidazioni sulla base dei suoi appunti e continuava a insistere sull'obiezione di fondo emersa dalla conferenza delle donne: io avevo sviluppato quella puntata, ma anche l'intera serie, in modo sbagliato. Avrei dovuto tenere in considerazione molto, ma molto maggiore le specificità, le preferenze, le funzioni e le reazioni dell'uomo. Lester sobbalzava sulla sua sedia, tamburellava sul ripiano della scriva-
nia, mi squadrava con irritazione. Io invece, man mano che la Flanders proseguiva, diventavo sempre più calmo. Sorrisi persino. Hem se ne accorse, preoccupato. Anche la Flanders divenne nervosa, quasi impaurita. Cominciò a balbettare durante la sua esposizione. E concluse, finalmente. Per un certo tempo il silenzio regnò sovrano nel grande box di vetro. Mi resi conto che tutti mi guardavano, e mi informai: «Altri desideri?». «Nient'altro, signor Roland.» Lester s'era rimesso a tamburellare sul ripiano della scrivania. «Ritengo tuttavia che basti. Dobbiamo immediatamente cambiare rotta! L'avremmo dovuto fare già da parecchio tempo. Cominceremo da questa puntata, subito, e la rifaremo da capo! È un bel po' di lavoro, lo so. Per i dettagli, si rivolga al signor Kramer. Ma prima di cominciare, torni un'altra volta qui da me. Non possiamo compromettere il successo di questa serie. Per fortuna lei scrive alla svelta. Beva un bel po' di caffè, così tornerà sobrio. Alle diciotto dobbiamo essere pronti per andare in macchina. Colpa sua! Se avesse portato prima...» Già, e in quel momento il whisky bruciò le mie ultime valvole di sicurezza. E avvenne, dopo un servilismo troppo a lungo protratto, il crollo di un uomo che non ne poteva più, che non intendeva sopportare più, che non ne aveva più alcuna voglia! Sentii il chiasso di fuori, improvvisamente, molto più acuto, e rividi di colpo l'enorme trincea della metropolitana, i molti operai giù in fondo, li sentii cantare, cantare, la canzone della torre di Pisa, e quello fu il colpo di grazia. Il mio udito, i miei occhi e i miei pensieri erano molto lontani, quando dissi: «No». «Cosa, no?» chiese Lester, tutto sbalordito, sul momento. «Walter...» Hem si era alzato di scatto. Voleva interrompermi, ma mi alzai anch'io, a fatica, e gli feci cenno perché si calmasse. La mia voce era improvvisamente molto tranquilla. «No, non riscrivo quella roba.» «Lei...» «Ho detto che non la riscrivo, signor Lester. Non riscriverò mai più niente. Lo faccia lei, signor Lester.» Il direttore era un uomo di media statura. Saltò su anche lui, ed era un po' ridicolo dietro quella sua smisurata scrivania. Riprese a urlare: «Questa è una provocazione! È da un mucchio di tempo che noto il suo ostruzionismo! Non s'illuda che io non la osservi! Però se crede di spuntarla, si sbaglia! Ho messo redini al collo a tutt'altra gente, io! E piegherò anche lei, signor Roland, la farò strisciare!». «Walter!» esclamò la Flanders. «Sia ragionevole, la prego! Lo faccia per
me!» «Io sono ragionevole. Mi dispiace, Angela, mi dispiace Hem, se ora metto nei guai anche voi, sul serio. Però... però... non ce la faccio più!» «Walter, perdio, Walter!» esclamò Hem. «Ora mi farai il favore di chiudere il becco! Ma cosa credi, che per noi siano rose e fiori? Che significa questa storia? Tanto non serve a niente! Il giornale deve uscire! E la puntata deve essere riscritta!» «Ma non da me» dissi, cocciuto. «Sono ubriaco, lo so. Ma non al punto da non sapere quello che dico! Io non riscrivo quella puntata!» Lester si mise a sbraitare: «La vedremo! La ridurrò così, io, così...». E mostrava, con pollice e indice, la dimensione alla quale voleva ridurmi. «Lei è... lei è un alcolizzato!» A Lester piaceva urlare. Tutti lo sapevano, al giornale. Pretendeva che lì in ditta tutti scattassero come in caserma. Lester abbaiava: «Glielo ripeto, signor Roland: lei è scaduto. Quello che scrive non vale più quello che faceva una volta! E non sono soltanto io che lo dico! Lo dimostrano anche le ricerche di mercato!». «Le ricerche di mercato sono cacca liquida!» «Questo è... questo è... Ah, ma che senso ha arrabbiarsi?» sbraitava Lester. «La colpa è tutta dell'alcool! Lei ha alcool nel cervello! L'ultima puntata che ha scritto è scandalosa! Raffazzonata! Tanto per riempire la carta! E noi scemi che continuiamo a darle un mucchio di soldi! E ora che le dico di riscrivere, osa anche rifiutarsi? Benissimo! Molto bene! L'editore sarà felicissimo di saperlo!» Lester aveva urlato così forte da farsi sentire da tutti, nei loro box di vetro. Alcuni avevano già lasciato le loro tane e si avvicinavano. Reporter, redattori, segretarie: tutti in fila lungo le pareti esterne dell'ufficio del boss, come davanti a un acquario, capivano tutto e vedevano tutto. E continuavano a venirne degli altri, con espressioni curiose, eccitate, spaventati o sogghignanti, inquieti o profondamente soddisfatti che quel Lester avesse finalmente trovato pane per i suoi denti. La testa protesa in avanti, m'incamminai verso la scrivania, verso Lester, passando molto lentamente davanti a Hem che cercava inutilmente di bloccarmi. Quello che dissi era pregno d'odio e di avversione per tutta quella fogna. Stranamente, non gridai, ma parlai: molto lentamente, molto piano, molto chiaramente. «Per anni ho scritto quello che mi ha chiesto lei, signor Lester! Tutte le porcherie che ha voluto! Tutte le droghe per rinscimunire il popolo che lei
ha preteso! Ho scritto che, in fondo, a Stalingrado abbiamo vinto noi! A Verdun ha vinto il nostro amato principe ereditario, il miglior principe che sia mai esistito! Ho ricucinato a base di menzogne e rivoltato, buono e ubbidiente, tutta la storia tedesca, perché risultasse la più eroica possibile! Aggiunga gli stupratori di bambini! Le sconvolgenti storie delle puttane! Persino le memorie di criminali nazisti usciti di prigione ho riscritto, perché quei sadici banditi non sono capaci di scrivere neanche una sola parola in modo corretto!» «Walter!» Hem mi si era fatto incontro. E balbettava, con aria infelice: «Cerca di essere ragionevole... ti prego, Walter...». Ormai avevo raggiunto la scrivania. Cominciai a girarci attorno, le mani unite dietro la schiena, proteso in avanti: puntavo direttamente su Lester. «Ragionevole!» dissi. «No, Hem, non voglio più essere ragionevole. Mi spiace per lei. E anche per lei, Angela. Voi due mi siete amici. Vorrei che lo foste anche in questa circostanza. E mi piacerebbe anche restare solo in compagnia di questo signore...» «La diffido!» gridava il direttore, pallido in volto, le braccia levate davanti al petto, per un gesto di difesa. Contro le lastre di vetro, sul corridoio, erano premuti i nasi dei curiosi, dei divertiti, dei soddisfatti, degli spaventati: vi si erano ammucchiati tutti quelli che lavoravano in quel piano. «Chi ha fatto continuamente salire la tiratura del giornale?» chiesi, con una calma inquietante. «Io! Io che per ubbidire a lei ho fatto di quello che era un giornale onesto una cloaca!» Ormai mi stavo già piegando su Lester. E lui arretrò di un passo. Di un altro ancora. «Signor Roland, io le chiedo immediatamente...» E io dissi: «Una bella merda!». Lester arretrò di altri due passi. Quelli di fuori, sul corridoio, seguivano a bocca aperta ogni parola, ogni gesto. Una ragazza si mise a strillare. La Zschenderlein entrò di corsa nell'ufficio, indignata. «Signor Lester, cosa...» «Fuori!» dissi, con un tono di voce così calmo ma anche così decisamente pericoloso che la Zschenderlein si ritirò velocissima. Lester sbraitava: «Miserabile porco, ubriacone, e lei osa...». Per la prima volta mi eressi in tutta la mia statura, e per la prima volta in vita mia urlai come un sergente infuriato: «Chiuda il becco, lurido imbecille!».
E a questo punto accadde una cosa incredibile: le mani di Lester si distesero lungo le cuciture laterali dei pantaloni. Sembrava proprio sul punto di mettersi sull'attenti. Angela Flanders affondò piangendo il viso fra le mani. Hem si sedette, sconsolato: la sua pipa si era spenta. Lester ora annaspava. E poi cominciò: «Lei... lei...». Però io l'incalzavo sempre più in fretta attraverso l'ufficio di vetro: passo dopo passo, io avanzavo e Lester retrocedeva. Ci muovevamo in circolo, per linee curve. Lo spettacolo era grottesco, ma nessuno rideva: nessuno. I volti, appiattiti contro la lastra di vetro del corridoio, parevano maschere. E continuai a incalzare il mio direttore attraverso l'ufficio. «Ricorda tutto quello che abbiamo fatto insieme, noi due, signor Lester? Abbiamo delirato di medicamenti miracolosi contro il cancro, medicamenti che esistevano solo nella fantasia di ciarlatani! Abbiamo elevato la chiavata a sistema filosofico!» Parlavo di nuovo con tutta calma, ma in quel momento ero assolutamente irresponsabile. Lo schifo, le umiliazioni, la rabbia per tutti quegli anni buttati via: tutto mi si affollava alla gola. «Ma lo sa che siamo dei benemeriti della patria, noi due? Dovrebbero decorarci, entrambi! Che imprese abbiamo compiuto! L'orgasmo tedesco è il migliore di tutti! Leggete Blitz e anche voi diverrete stalloni berberi e vacche in calore! Leggete Blitz il giornale che ha il livello intellettuale e morale del suo direttore!» «Maledetto!» reagì Lester, urlando come un forsennato. «Io...» Nessuno seppe mai cosa avrebbe voluto dire o fare, perché in quel momento tuonò la voce di uno degli altoparlanti che erano in tutti gli uffici, e che erano manovrati dal centralino telefonico. Facevano parte di un sistema di comunicazione interno. Dall'altoparlante scese su di noi, anonima, la voce di una ragazza: «Attenzione prego! Il direttore Lester, il signor Kramer, il signor Roland e il signor Engelhardt sono pregati di recarsi immediatamente dal signor Herford. Ripeto: il direttore Lester, il signor Kramer, il signor Roland e il signor Engelhardt subito dal signor Herford, prego!». 18 «Con la sua fidanzata...» «Già.» «Ma la sua fidanzata sono io!»
«Già.» «Allora ne ha un'altra?» «Evidentemente.» «Doveva averla già a Praga! Il portiere ha affermato che quella ragazza parlava con accento cèco, e che il signor Michelsen ha detto che Jan se l'era portata via con sé da Praga!» «Mi dispiace» dissi io. «Le cose stanno proprio così.» «Ma allora è fidanzato con due donne contemporaneamente!» «Già» dissi io. Non mi restava molto da dire e poi non la stavo nemmeno a sentire. Era seduta accanto a me sulla Lamborghini, sulla strada deserta, coll'uragano che imperversava attorno alla macchina e la scuoteva. Io avevo acceso il motore e avviato il ventilatore dell'aria calda, perché faceva maledettamente freddo. E inoltre erano ormai le 2 e 35. Eravamo fermi in macchina davanti al numero 187 dell'Eppendorfer Baum, e aspettavamo Bertie, col quale mi ero messo d'accordo di ritrovarci lì. Ma Bertie non arrivava. L'aeroporto era molto lontano: forse c'era stato qualche contrattempo. Ora Irina non piangeva più. Guardava fissa davanti a sé, verso la strada, e la sua voce aveva un tono metallico. Si sforzava di darsi un contegno, per non crollare. Pensavo di farla parlare ancora per un po', e poi di passare al dunque. Fumavo, e di tanto in tanto buttavo giù un sorso. Irina non voleva bere. E diceva: «Ma siamo vissuti insieme per due anni!». «Già» dissi io. «Ma quell'altra quando l'ha conosciuta? Prima? Dopo?» «Non lo so.» Mi faceva proprio pena, ma questa seconda donna mi veniva a fagiolo. Ora non ci saranno difficoltà, pensavo. «Può un uomo amare due donne?» «Sì» dissi io. «No!» esclamò lei. «Non tutte e due insieme. Non onestamente. Ama l'una e con l'altra va solo a letto.» «Non è detto che sia sempre così» dissi io. Ma dove s'era cacciato Bertie? «Ma nel nostro caso sì! Amava l'altra! E veniva a letto con me. A letto gli andavo bene. Però è fuggito coll'altra! È lei che ha portato con sé, dico bene?» «Lei sarebbe fuggita con lui?» «Naturalmente» disse lei, con quella sua voce metallica. «Poi è venuto a dirmi che non potevamo fuggire insieme: era troppo rischioso. Lo avrei raggiunto dopo, non appena si fosse sistemato qui in Occidente. E quanto
ho atteso che mi scrivesse! Infine, dopo tre mesi, mi scrisse che voleva che aspettassi ancora, e avrei aspettato ancora, se...» «Lo so» dissi io. «Lei non sa proprio niente!» disse lei, alzando la voce. «Mi scusi. I nervi non mi reggono più. Lei è buono con me. Mi scusi.» «Ma certo. Naturalmente. Io la capisco benissimo. Lui l'ha ingannata...» «Appunto.» «... e piantata...» «Appunto.» «... e ha tagliato la corda con un'altra.» «Appunto» disse lei, piena di rabbia. «Direi che è il modo di comportarsi d'un farabutto» asserii, pieno di speranza, ma con cautela. Esistono donne capaci anche di continuare ad amare un farabutto come quello. Ma non Irina. Non Irina, grazie a Dio, pensai, nel sentirla urlare improvvisamente: «È un porco, ecco cos'è! Un volgare porco! E io che gli ho dato la mia fiducia! Ho sempre creduto a tutto quello che mi raccontava!». Ma bene, pensai. E allora tentiamo. E dissi: «E ora se l'è svignata di nuovo con quella lì, e chissà dove. Forse non è neanche più in Germania. E lei se ne sta qui, senza soldi e senza sapere cosa fare. Direi proprio che le ha giocato un brutto scherzo». Ricominciò a singhiozzare, disperata. E io le ridiedi il mio fazzoletto. Si soffiò energicamente il naso. «Grazie.» «Vede, Irina,» dissi io, cercando di usare il tono più adatto alla situazione, «io l'ho portata via dal campo e condotta qui...» «Le sono molto grata, signor Roland.» «Sciocchezze, non è gratitudine che le chiedo. Io faccio il giornalista. Io devo scrivere tutta questa vicenda. E in questa vicenda ovviamente appare anche lei...» «E allora? Ah sì, lei pensa alla concessione dei diritti...» Le era tornato in mente il discorso che avevo fatto col portiere Kubitzky e coll'antiquario André Garnot, prima, nell'abitazione di quest'ultimo. E c'era stata parecchia burrasca quando avevo chiesto che mi sottoscrivessero le loro dichiarazioni. Il portiere pareva uscito di senno. «Dichiarazioni? Da sottoscrivere? E poi lei riferisce tutto? Ma non sono mica matto! Ci rimetto la pelle, io! No, signor Roland, da me non avrà alcun consenso, neanche morto!»
«Mi stia bene a sentire» avevo detto. «Io, adesso, mi sento in obbligo di riferire pari pari alla polizia tutto quello che lei mi ha detto.» «No! La prego! Non la credo capace d'una simile cattiveria!» «E invece lo farò. È mio dovere. Lei non può proibirmi di andare alla polizia. E così la faccenda si risaprà comunque.» «Ma la mia vita...» «Non viviamo mica nel Texas.» «Ah no, dice lei? E tutto quello che è successo finora...» E via di questo tono, per un quarto d'ora. Poi era intervenuto Garnot: «Signor Kubitzky, se vuol seguire il mio consiglio, sottoscriva quella dichiarazione. Se uno sa d'una palese ingiustizia, e non fa niente per opporsi, commette a sua volta un'ingiustizia. E poi la polizia conosce già i nostri nomi... come testimoni. E così ci siamo già dentro, in questa storia. Io ho fiducia nella polizia. Ci proteggerà». «Eccome no, come quei simpatici funzionari che sono stati qui e che mi hanno detto di non ficcare il naso nelle faccende di Michelsen!» «Io non mi rivolgerò a un poliziotto qualsiasi» avevo detto. «Io vado direttamente alla centrale. Questo nostro paese non è uno stato di gangster. Lei deve rendersi conto di esporsi a un pericolo ben maggiore, signor Kubitzky, se io non mi rivolgo alla polizia, ma pubblico lo stesso tutto quanto.» «Il signor Roland ha ragione» era intervenuto ancora Garnot. «In fondo siamo stati noi a fargli cenno di entrare e gli abbiamo raccontato tutto spontaneamente. Giusto?» Kubitzky cominciava ad ammorbidirsi. «E va bene... se proprio ci tiene... Però non accetto denaro, mi ha capito? Neanche un centesimo!» «Neanch'io» aveva aggiunto recisamente Garnot. Non ci fu verso di far cambiare loro idea, su questo punto. E così andai a prelevare la mia macchina da scrivere dall'automobile, battei le dichiarazioni e loro me le sottoscrissero. Tutto questo era accaduto un quarto d'ora prima. E ora, in macchina, dissi a Irina: «Già, i diritti... Se vuole, può impedirmi di scrivere su di lei. Ma con lei sono onesto. Se lei me lo proibisce, non potrò farci niente. Però in tal caso lei dovrà vedersela con tutta la stampa, e non con me soltanto, se e quando tutta questa vicenda avrà degli sviluppi, e ne avrà, inevitabilmente. Lei però può darmi il consenso di scrivere, di lei, in esclusiva...». «Certo che glielo consento!» disse lei, con mio sconfinato sollievo.
«Scriva! La scriva tutta, questa lurida storia!» Quindi avevo fatto bene ad aspettare così a lungo nel caso di Irina. Ora era il momento adatto. Avevo in un certo senso intuito che sarebbe andata incontro a una delusione, ad Amburgo, e che di conseguenza me la sarei trovata in preda a disperazione. Lo avevo intuito subito dopo il colloquio telefonico interrotto in quello strano modo F avevo atteso. Ora era tutto semplice. «C'è un dettaglio però...» cominciai. «Quale?» «Be', insomma,» dissi, con una breve risata, «lei non conosce certe grandi case editrici. Hanno numerosi avvocati. Dei cacadubbi. Le pensano tutte pur di non perdere il posto. Ne inventano ogni giorno una nuova. E chiedono quindi a noi giornalisti di farci rilasciare una dichiarazione scritta di cessione dei diritti di pubblicazione da parte di tutti coloro sui quali vogliamo scrivere, esattamente come ho fatto con Garnot e Kubitzky.» «E io glielo metto per iscritto.» «Bene. E io le darò dei soldi. Vanno bene cinquemila marchi?» In fondo lei era il personaggio-chiave, e quindi il giornale poteva ben permettersi di scucire qualcosa. «Non voglio soldi, neanch'io» disse Irina. «Ma perché no?» chiesi io. «Non sono mica soldi miei. Sono soldi di Blitz. Li accetti. Non abbia paura, non ci rimetteranno.» Scosse la testa. Io dissi: «D'accordo, intanto butto giù il contratto a macchina, e scrivo cinquemila: le spettano. E se non li vuole subito, vuol dire che glieli darò in seguito». Non rispose. Fissava la strada e la bufera che sollevava vorticosamente pezzi di carta e foglie secche. Arretrai il mio sedile, per poter disporre di più spazio, mi voltai e prelevai la mia portatile e una piatta valigetta diplomatica, nella quale conservavo fogli di carta e carta carbone. Mi misi la valigia sulle ginocchia, vi appoggiai la macchina da scrivere, inserii la carta, carta carbone e il foglio per la copia, accesi la luce interna della vettura e cominciai a battere sui tasti il contratto di esclusiva secondo i termini che il dottor Rotaug mi aveva dettato. Irina mi guardava, poi, indicando la fiaschetta appoggiata sull'ampio bracciolo, chiese: «Posso?». «Certo,» dissi io, continuando a picchiare sui tasti, «quanto ne vuole.
Dietro, nel bagagliaio, ce n'è ancora.» Si appoggiò la fiaschetta alle labbra, rovesciò la testa all'indietro. Io smisi di scrivere e la guardai. Vidi il suo collo bianco e il suo delicato profilo, e pensai che era proprio una bella ragazza. Spensi la sigaretta nel portacenere della macchina e finii di scrivere il contratto. Le diedi l'originale, la copia e una penna. Firmò lentamente, come in trance. «I soldi restano a sua disposizione,» la informai «per tutto il tempo che vorrà. Può averli anche subito, se vuole.» «No, non voglio niente» disse lei, mentre io firmavo a mia volta. «Ne riparleremo.» «Sì,» disse Irina «un'altra volta, forse.» E ricominciò a piangere, in silenzio, senza muoversi. Sistemai carte, valigia e macchina da scrivere sul sedile posteriore della vettura, dove c'era già il registratore, poi mi voltai verso Irina, le misi un braccio sulle spalle e mi sforzai di consolarla: tutte frasi sciocche, lo sapevo, ma mi faceva pena, sul serio, mi faceva molta pena. Qualcuno bussò al finestrino laterale della macchina, dalla mia parte. Irina emise un breve grido. «Non succederà niente, vedrà» dissi io. Prima di abbassare il finestrino, m'infilai la mano nella tasca del cappotto e ne prelevai la Colt 45. Fuori c'era un uomo paffuto con un mantello a scacchi. Indossava un cappellino a scacchi e una cravatta molto sgargiante. Mi fece un timido sorriso. Quell'uomo avrà avuto 45 anni circa. Tenni la Colt nascosta nella mano destra e abbassai il finestrino con la sinistra. «Hello!» disse l'uomo paffuto. «Hello!» dissi io. «Sorry to disturb you» disse lui. «Capire tu?» «Yeah» dissi io. «What's the matter?» «Io sono Richard McCormick» disse lui, con evidente accento americano. «Droghiere di Los Angeles.» «Glad to meet you» dissi io. «Parlare tedesco, prego. Io amare tedesco. Volere imparare di più. Io qui per grande viaggio in Europa, capire tu?» «Sì.» «Io e Joe.» «Joe?» «Amico mio. Joe Rizzaro. Anche lui droghiere. We got lost. Noi perduti. Capire tu?»
«Dov'è il suo amico?» chiesi, e impugnai la Colt con più forza. «In macchina» disse lui, e fece cenno all'indietro. Mi voltai. Dietro di noi era posteggiata una grande Chevrolet, color verde oliva. Un uomo era seduto al volante, sorrideva anche lui e mi fece un cenno di saluto. Ero stato così preso dallo scrivere a macchina, che non avevo sentito sopraggiungere la vettura. E poi l'uragano. Nella mia Lamborghini c'era la luce accesa. E così, pensai, non ho notato i fari della Chevrolet. Ora erano spenti. «Noi volere andare sulla Reeperbahn, Sankt Pauli, capire tu?» disse McCormick. «Sì» dissi io. «Well. Dove essere?» «Vi siete allontanati troppo in qua» dissi io. McCormick disse: «Noi andare a Sankt Pauli. Noi volere meravigliose signorine. Capire tu quello che io dire?». S'inchinò: «Excuse me, lady». Irina lo guardava, immobile. «Reeperbahn buono per meravigliose signorine, eh?» «Molto buono» dissi, il dito appoggiato al grilletto della Colt. «Ecco: e noi come arrivare?» «You turn your car and...» dissi io. «Parlare tedesco! Io amare tedesco» disse McCormick. «Dunque, girare macchina e poi?» Appoggiò al bordo del finestrino una pianta della città che reggeva in mano e mi porse anche una matita. «Segnare la strada, prego, mister.» «Mi stia a sentire...» «Prego! Noi andare da meravigliose signore. Tu sapere perché!» E mi guardava con occhietti furbi. Presi la matita con la mano sinistra e dissi: «Noi siamo qui. Ripercorrete tutta la strada fino...» Non riuscii a proseguire. L'altra mano di McCormick (o come accidenti si chiamava) scattò in avanti e mi piazzò contro la bocca e contro il naso un panno umido. Alzai la Colt di scatto. Lui lasciò cadere la piantina e mi torse la mano tanto da costringermi ad abbandonare la pistola. Aveva una forza incredibile. Vidi Irina aprire la portiera dalla sua parte e saltare in strada. Il panno era imbevuto d'un liquido puzzolente e penetrante, molto freddo. Nel tentativo di respirare, mi sentii penetrare nei polmoni quelle maledette esalazioni. L'ultima cosa che udii, prima che tutto si facesse nero attorno a me, fu un urlo di Irina seguito da passi affannosi sul marciapiede.
19 DIO ONNIPOTENTE MI HA DATO IL MIO DENARO JOHN DAVIDSON ROCKEFELLER 1839-1937 Queste parole erano incise su una tavoletta d'oro, che aveva più o meno le dimensioni d'una copia di Blitz ed era stata affissa in uno spazio lasciato libero da una libreria a parete che arrivava fino al soffitto dell'ampio locale. Tre intere pareti erano ricoperte in quel modo di libri: libri nuovi e colorati, oppure vecchi e preziosi, alcuni rilegati in pelle. Gli scaffali - tutti di mogano, naturalmente - erano illuminati dall'interno. Conoscevo già quel sacrario dell'editore, perché c'ero stato spesso: e tutte le volte mi sarebbe piaciuto scommettere che, delle molte migliaia di libri che c'erano in quella biblioteca, non più d'una dozzina erano stati letti dal loro proprietario. Entrai per ultimo, alle spalle di Hem, Lester e Bertie. La povera cara Zschenderlein mi aveva preparato del caffè nero e forte, ancora quando era in corso la lite col direttore, e prima di salire ne avevo buttate giù due tazze. Era una mistura orribile perché il caffè era stato abbondantemente corretto con succo di limone, ma l'effetto fu miracoloso. Dopo la seconda tazza ero andato a vomitare in bagno. Poi avevo bevuto ancora caffè al limone, rovesciandolo nello stomaco irritato, ma anche vuoto ormai. Non direi che fossi sobrio: anzi; ma non ero nemmeno più tanto ubriaco. La Zschenderlein aveva promesso che mi avrebbe spedito su altro caffè, perché potessi continuare a berne. DIO ONNIPOTENTE MI HA DATO IL MIO DENARO Era lo slogan del mio editore, Thomas Herford. John Davidson Rockefeller era stato ai suoi tempi il più ricco uomo del mondo. Multimilionario in dollari. Anche Herford era multimilionario: un po' meno multi, e in marchi, ma comunque. Ed era pio come il suo titanico modello. Su un antico leggio c'era una Bibbia, rilegata in pelle di cinghiale e sempre aperta: un possente in-folio, le pagine di pergamena, la scrittura con iniziali rosse, verdi, blu e oro. L'ufficio di Herford aveva dimensioni impressionanti. Sei metri di altezza, circa centoventi metri quadrati di estensione. Sulla moquette, dappertutto, tappeti: alcuni enormi. Un tavolo che sembrava non finire mai, con molte sedie di legno intagliato, dotate di schienali stretti e intagliati anche
loro: per le riunioni. Tre gruppi di poltrone con divani e tavolini bassi. Di fronte all'ingresso dell'anticamera c'era l'antica scrivania di Herford, ingombra di carte, libri e giornali. Quattro telefoni: uno d'argento e uno di cui si diceva che fosse d'oro zecchino. Un impianto di citofono in argento. Alla sinistra della scrivania, due apparecchi televisivi: uno era un televisore vero, l'altro un monitor collegato al computer. Il monitor era acceso. Lo schermo brillava, nero. E sullo schermo c'erano, proprio in quel momento, alcune cifre tracciate nel carattere verdastro del computer. Thomas Herford - così come il suo direttore editoriale e l'intero reparto analisi - aveva i suoi uffici all'ultimo piano, l'undicesimo. Le finestre alle spalle della scrivania erano a tre scomparti, e sembravano la gigantesca imitazione d'una cabina di pilotaggio d'aereo: l'una frontale e orizzontale; le altre due, sempre orizzontali, ma leggermente inclinate di lato e più piccole. Chi entrava in quell'ambiente, era inizialmente abbagliato dalla molta luce che l'investiva da tutte le parti. Nell'avvicinarmi con gli altri alla scrivania - dietro la quale riconobbi la silhouette di Herford - vidi la città illuminata dal sole di quella bella giornata d'autunno. Il sole batteva su centinaia di migliaia di finestre, e si potevano scorgere persino, in lontananza, la pianura del Reno e i rilievi del Massiccio centrale. Chi vedeva per la prima volta quello spettacolo, ne era sopraffatto. Anch'io ne ero stato sopraffatto, anni prima. Ma in quel momento pensavo solo che sarebbe stato bello se la Zschenderlein m'avesse spedito su in fretta il mio caffè. Thomas Herford si alzò. Da un angolo dietro la scrivania si levarono altri due uomini. Riconobbi il dottor Rotaug, sempre più simile a una tartaruga, e il direttore editoriale Oswald Seerose. In mezzo a loro era seduta Grete Herford, la moglie dell'editore, «Mami» come la chiamava lui e come era chiamata un po' da tutti al giornale: un personaggio importantissimo, perché per Herford il gusto di sua moglie era ancora più fondamentale del suo. La faceva partecipare a tutte le riunioni di un qualche interesse. Che ci sarà d'importante in questa riunione?, pensavo io. «Ah, eccovi signori» tuonò Herford, venendoci incontro. «Mi dispiace di avervi dovuto distogliere dal vostro lavoro, ma Herford ha delle comunicazioni fondamentali da farvi.» Ci strinse la mano, uno dopo l'altro. Il mio turno era l'ultimo e quindi, nell'attesa, gettai un'altra occhiata allo schermo del monitor. Vi si leggeva, in lettere verdastre fluorescenti, il seguente messaggio:
PICCOLA CITTÀ DELLA GERMANIA MERIDIONALE, SONDAGGIO NELL'AMBIENTE CATTOLICO: ETÀ MEDIA 35-40 ANNI, SPOSATI, CASA PROPRIA, 1-2 FIGLI, REDDITO MENSILE CIRCA 1.850 DM, CETO MEDIO, IMPIEGATI E FUNZIONARI, NESSUN LAVORATORE AUTONOMO, TUTTI CON MATURITÀ, SCUOLA SUPERIORE O TECNICA... PREFERENZE PER LE BIONDE: 72,7%, PER LE BRUNE: 15,5%, PER LE ROSSE: 3,8%, INCERTI: 8,0%... «Che le succede, Roland?» tuonò la voce di Herford. Distolsi lo sguardo dallo schermo: stavo per addormentarmi in piedi. L'editore mi porse la mano. E rideva, gioviale. «Di nuovo qualche bicchierino di primo mattino, eh?» Afferrò la mia mano con la sua zampa pelosa e me la strinse da farmi male. «Confessi, Roland: per questa volta non chiederò la sua testa! S'è fatto una bevutina in attesa del responso!» «Signor Herford, io...» «Là, da Kniefall, eh?» «Io... Ma come fa a sapere...» «Herford sa tutto. Ha gli occhi dappertutto. Hahaha. So anche della sua lite con Lester. Herford sa, Herford sa tutto. I suoi osservatori riferiscono. Hahaha.» Si rivolgeva a tutti nominandoli per cognome, senza titoli o altro, fatta eccezione per gli amici cui dava del tu. E, quasi sempre, si compiaceva di parlare di se stesso in terza persona. Lester tossicchiò, imbarazzato. Dal momento della lite avvenuta al settimo piano non aveva più detto una parola. «Bene, ma ora basta coi litigi, capito? Dobbiamo discutere una faccenda. Herford ha bisogno dei suoi ragazzi. Di tutti! E li vuole in buona armonia. Quindi datevi la mano e fate la pace.» «Ma, signor Herford, quest'ubriacone mi ha investito in un modo così inqualificabile che mi vedo costretto...» cominciò Lester, indignato, ma Herford l'interruppe, secco: «Taccia, Lester. Le ho detto di tacere. Neanche lei è un santarellino. Io la conosco. Ottima persona. Persona eccellente. Ma non sa trattare con i dipendenti. Le manca la sensibilità, ecco. Si pone sempre in un atteggiamento di comando. Non è così che si dialoga con gli artisti». Lo disse senza la benché minima traccia d'ironia. «Roland è il migliore dei miei giornalisti. Un uomo nervoso, sensibile. È per questo che beve. Me ne infischio. Purché continui a scrivere come sa! Un fenomeno, questo Roland!» Lester era un porco, e anche un coniglio. Dopo quello che Herford aveva
appena detto sul mio conto, ritenne prudente rimangiarsi la sua rabbia. Lo guardai. Era grigio in volto. Sapevo che per il momento avrebbe taciuto, ma anche che la sua vendetta sarebbe venuta: oh, senza dubbio. E io? Io non ero d'un grammo migliore di quel Lester! Ero un porco e un coniglio come lui. Avevo avuto davvero la ferma determinazione di buttare tutto all'aria, di licenziarmi da Blitz o di farmi cacciare. Avevo fatto di tutto! Avrei voluto farla finita, ero decisissimo. E magari l'avessi fatto! Mi sarei risparmiato molte cose. Però non avevo abbastanza carattere, da alcuni anni almeno, e poi mi era anche venuto meno il coraggio, dal momento in cui avevo bevuto il caffè della Zschenderlein e mi ero ritrovato meno sbronzo di prima. Tutta la mia ansia di ribellione era di colpo svanita. L'idea di essere mandato a spasso non mi andava più, pensavo alla mia bella vita, alla mia bella macchina, alla mia super-mansarda... «E allora, vogliamo deciderci a stringerci le mani?» urlò Herford all'improvviso. Lester mi allungò la mano di scatto. Io gliela strinsi. Quella mano era come fatta di gomma. E dissi: «Senza rancore, signor Lester». «Nessun rancore nemmeno da parte mia, signor Roland» disse Lester. Quelle parole, per poco, non gli fecero venire un colpo. Rischiò di soffocare, di schiattare, ma le disse. Hem, alle sue spalle, mi sorrideva. Anche Bertie sorrideva, ma io continuavo a pensare: la vendetta di Lester verrà, oh se verrà. «Così va bene!» sbraitò Herford. Fece un cenno in direzione dei due uomini e di sua moglie. «I signori si conoscono, Herford non ha bisogno di fare presentazioni.» C'inchinammo. Lester si avvicinò scodinzolando alla signora Herford e le baciò la mano. Mami aveva un trucco pallido, sembrava un cadavere, ed era vestita, come sempre, in modo orribile. Sul vestito di lana bianca portava una mantellina color sabbia, lavorata all'uncinetto; e poi calze di seta grigia e scarpe da passeggio, basse e robuste, con le suole grosse. Sullo schienale della sua poltrona c'era una pelliccia di visone, di quelle che costano un occhio. Sui suoi capelli grigi, tinti d'una tonalità di viola acceso, era piantato un cappellino marrone, alla cacciatora, con una lunga e arcuata penna di fagiano. Mami aveva un viso inespressivo e profondi occhi bovini. «Forse ci vorrà del caffè per il nostro autore di successo» disse il dottor Rotaug. Indossava come sempre un vestito nero, una cravatta grigioargento, una camicia bianca con il colletto inamidato. Mi scrutava coi suoi
occhietti tondi come bottoni. «Glielo stanno già portando» disse Lester in tono acido. «Povero il mio giovane amico» disse il capo dell'ufficio giuridico, che aveva un giorno detto a Herford: «Si ricordi queste mie parole: un giorno questo ragazzo in gamba ci procurerà il più grande scandalo della storia della nostra casa editrice». Quella frase mi tornò in mente per l'ennesima volta, nel vedere Rotaug lì davanti a me, con la sua pelata, col suo cranio coperto di macchie lentigginose. Oswald Seerose, il direttore editoriale, disse con tono amichevole: «Le rintrona la testa, eh? So che vuol dire. L'altro ieri, durante un party, se sapeste, Dio mio! Ho buttato giù di tutto!». «Non si dovrebbe mai» disse mami. Parlava con accento dell'Assia e, a vederla così, avrebbe potuto benissimo sostenere il ruolo d'una qualsiasi brava massaia televisiva. Ma non certamente quello della moglie di un grande editore. «Non lo farò mai più in vita mia, signora» disse Seerose. Indossava un abito grigio, tessuto principe di Galles; era alto e magro, e sembrava un aristocratico britannico. Era di gran lunga il personaggio dall'aspetto più distinto di tutto il giornale. «Prima di cominciare... a proposito, il capo dei servizi fotografici, Ziller, è purtroppo ancora in volo, sta rientrando dagli Stati Uniti, e quindi Herford non ha potuto dirgli di venire... prima di cominciare, dicevo, consentitemi di leggere un passo dalle Sacre Scritture.» Sacre Scritture: Herford diceva sempre così, parlando della Bibbia. Conoscevo anche quel momento. Era un rito. Non c'era riunione, non c'era discussione che non cominciasse e non finisse con la lettura di auguste parole tratte dalle Sacre Scritture. Mami si alzò e, nel farlo, il cappellino alla cacciatora le si mise un po' di traverso. Congiunse le mani, prive di trucco. Anche gli altri giunsero le mani: non io però, e neanche Hem e Bertie. Mi misi in modo da poter osservare il monitor, sul quale brillava la scritta trasmessa dal computer: RISULTATO CONCLUSIVO: IL 79,696 DELLE PERSONE INTERPELLATE PREFERISCE LE BIONDE... IL 17,296 LE BRUNE... IL 3,2% LE ROSSE... CONSEGUENZA ASSOLUTAMENTE UNIVOCA/LE RAGAZZE DI COPERTINA DEVONO - RIPETO DEVONO - ESSERE BIONDE...
Girai un attimo la testa e vidi Herford avvicinarsi al leggio con la Bibbia. L'editore era un uomo grande e massiccio: al suo fianco, mami sembrava solo una bambina. Aveva un cranio quadrato, con capelli grigi, folti e arruffati, una mascella possente e sopracciglia nere e cespugliose. Se sua moglie vestiva senza gusto, lui era agghindato con eccessiva ricercatezza: un completo color grigio-argento di stoffa lucida (e fatto dal miglior sarto della città), una camicia azzurra con le punte del colletto arrotondate, cravatta nera e scarpe basse nere. La cravatta era trattenuta da una spilla di platino, aveva un orologio di platino al polso e un grande anello di platino con brillante al dito mignolo della mano destra. La pietra sfavillò di mille colori nel momento in cui Herford sollevò le sue mani pelose. E cominciò a parlare, con accento commosso: «Dalla prima lettera di Paolo ai Corinzi, capitolo tredicesimo: il prezzo dell'amore...». Guardai il monitor mentre lui parlava, e lessi man mano i responsi dati, a scatti nervosi, dai caratteri verdi: PROGRAMMA 24 A-11: SENI... RISULTATO CONCLUSIVO... GLOBALE: SENI TOTALMENTE SCOPERTI: SÌ 84,696... SENI SCOPERTI IN MODO CHE RESTINO COPERTI I CAPEZZOLI: SÌ - 62,396... CAPEZZOLI NASCOSTI DA VESTITO: SÌ - 32,096... COPERTI DA COSTUME DA BAGNO (PARTE SUPERIORE DI BIKINI): SÌ - 69,596... «"Se io parlassi con voce d'uomo e con voce d'angelo, e non fossi mosso d'amore"» leggeva Herford, con tono solenne «"bronzo tonante sarei o tintinnante campanello..."» ...DA REGGIPETTO: SÌ - 68,396... DA MANI APPOGGIATE SOPRA: SÌ - 85,496... DA PIANTE (FOGLIE, FIORI, ECC.): SÌ - 87,796... QUESITO DI DETTAGLIO A/: CAPEZZOLI RICONOSCIBILI SOTTO LA COPERTURA: SÌ - 92,396... «"...e se io fossi profeta e conoscessi tutti i segreti, e avessi ogni scienza e ogni fede, da poterne smuovere le montagne..."» ...RICONOSCIBILI SOTTO STOFFE NON TRASPARENTI: SÌ - 52,396... SOTTO STOFFE TRASPARENTI: SÌ - 68,596... FORTEMENTE PROTESI SOTTO STOFFA PESANTE: SÌ -
71,596... SPORGENTI SOTTO CAMICIA MASCHILE BAGNATA: SÌ - 93,7%... QUESITO DI DETTAGLIO B/: FORMA DEL CAPEZZOLO: PUNTUTO E PICCOLO CON PICCOLA AUREOLA: SÌ - 42,4%,.. PUNTUTO E CON AMPIA AUREOLA: SÌ - 58,4%... GROSSO E FORTE CON PICCOLA AUREOLA: SÌ - 67 1%... «"...e non avessi l'amore"» diceva Thomas Herford, commosso, «"non sarei nulla. E quand'anche donassi tutto il mio avere ai poveri..."» ...GRANDE CON GRANDE AUREOLA: SÌ - 89,9%... QUESITO DI DETTAGLIO C/: COLORE DEL CAPEZZOLO... ROSA: SÌ - 49,3%... MARRONE CHIARO: SÌ - 55,6%... MARRONE SCURO: SÌ - 91,3%... CON PELI: SÌ - 11,3%... «"...e facessi bruciare il mio corpo, e non avessi l'amore, a nulla mi servirebbe. L'amore è indulgente e gentile..."» ...QUESITO DI DETTAGLIO D/: FORMA DEI SENI... TENERI, DA ADOLESCENTE: SÌ - 45,6%... DA DONNA, TURGIDI E PIENI: SÌ - 60,3%... TURGIDI E DI DIMENSIONI SUPERIORI ALLA NORMA: SÌ - 95,4%... «"...l'amore non eccede"» declamava Herford, con fervore «"l'amore non si esprime con petulanza, non fa ostentazione di sé, non si manifesta in modo smodato..."» ...A FORMA DI PERA: SÌ - 39,6%... «"...non cerca il suo interesse..."» ...A FORMA DI BOCCIOLO: SÌ - 9,1%... «"...non si fa smuovere, non consente il male..."» ...A FORMA DI MELA: SÌ - 93,4%... «"...non si rallegra dell'ingiustizia..."»
...QUESITO DI DETTAGLIO E/: COLORE DEI SENI... ROSA: SÌ - 87,7%... ABBRONZATI: SÌ - 67,8%... «"...ma si rallegra della verità". Amen» disse Herford. «Amen» dissero mami, Seerose e Rotaug. Uno dei telefoni si mise a ronzare. «Mondo porco e schifoso!» urlò l'editore, furibondo. «Lo sanno benissimo che Herford non deve essere disturbato in questi momenti!» Il telefono continuava a ronzare. L'editore si avvicinò a gran passi alla scrivania e sollevò uno dei tanti ricevitori: quello giusto, perché lui sapeva quale era quello che ronzava. «Cosa c'è!» abbaiò. «Avevo detto espressamente... Cosa?... E va bene, d'accordo... Dove? Il citofono, va bene...» Riappoggiò il ricevitore e premette uno dei molti tasti dell'impianto del citofono. «Herford!» Staccò il dito dal tasto. Dall'altoparlante risuonò una voce devota: «Mi spiace terribilmente disturbarti, Tommy, ma è una questione molto importante...». «Qualcosa che brucia, Harald?» chiese Herford, piegato sull'apparecchio e dopo aver premuto di nuovo il tasto. E continuò poi, durante il seguito del dialogo, a premerlo e a lasciarlo. Harald, e cioè Harald Viebrock, il capo del personale, un pezzo grosso della baracca anche lui. Noi tutti ascoltammo in silenzio la conversazione che segue. «Dio mio, Tommy, sono assediato dagli imbecilli. Ti ricordi che avevamo deciso di liberarci di Klefeld, vero?» «Sì: e allora? Ne abbiamo già parlato. All'inizio di febbraio il giovane Höllering prenderà il suo posto.» Il giovane Höllering, lo sapevo, era il figlio neanche poi così giovane di uno dei nostri più importanti distributori, verso il quale Herford aveva degli obblighi e al quale voleva evidentemente fare un favore. Klefeld invece era un vecchio impiegato del reparto spedizione, sezione "distributori". Friedrich Klefeld lavorava lì da noi da circa vent'anni, dall'epoca della fondazione di Blitz quasi. Ascoltai con maggiore attenzione. Quella brava gente, tanto per non cambiare, stava di nuovo organizzando una vigliaccata. «Tommy, credo proprio che non riusciremo a sistemare il giovane Höllering.» «Che significa: non riusciremo? Dobbiamo riuscirci! Per la miseria, il padre secca Herford tutti i giorni. Herford glielo ha promesso!»
«Vuoi che non lo sappia? È per questo che ne ho parlato con Lang e Kalter, e ripetutamente. Ho detto loro che bisognava licenziare Klefeld. Che gli inviassero tempestivamente la lettera con la comunicazione.» «Appunto.» «Appunto, già, dovevano farlo! E invece sai cos'è successo?» «Cosa? Spicciati, Harald! Herford ha ospiti!» «Lang e Kalter, quei due imbecilli, hanno fatto scadere i termini.» «Scadere i termini? Vuoi dire che non abbiamo licenziato Klefeld secondo le procedure?» «Esattamente questo volevo dirti. Sono fuori di me. Stamattina...» «Quegli stronzi! Quei pezzi di merda! Quei...» «Herford! Ti prego, Herford!» intervenne mami, con voce lievemente indignata. «Scusa, mami, ma mi fanno arrabbiare! Questi cretini... Harald, trova una soluzione! Subito! Herford deve fare quel favore al figlio di Höllering! Lo sai anche tu che Höllering controlla in pratica tutta la Baviera settentrionale!» «Lo so, lo so. Ma c'è poco da fare. Non ho finito di dirti tutto...» «Avanti, sputa: che c'è ancora?» «Il capo della spedizione non sapeva niente del licenziamento. Avevamo deciso di tenere riservata la decisione, ricordi? E così ieri hanno organizzato una festa per Klefeld, con tanto di colletta, regali, fiori, bottiglie... Una bella festa insomma. E gli hanno persino consegnato un diploma...» «Rottinculo, maledetti!» «...e sul diploma hanno scritto che la nostra casa editrice lo ringrazia per i vent'anni di lavoro e di dedizione, e che tu speri che questa collaborazione affettuosa possa protrarsi per molti anni ancora!» «Io? Io?» «Sì, Tommy, purtroppo. Hanno trascritto anche la tua firma sul diploma, un facsimile, con quella nuova macchina, sai... Sembra proprio la firma tua, una vera. A questo punto quindi non possiamo più licenziare Klefeld! Se quello si presenta col diploma in tribunale...» Herford soffocava per l'ira. «Imbecilli rincoglioniti! E dire che tutto stava andando per il meglio. La moglie di Klefeld è malata da più anni. Lui, perciò, è spesso assente con grave pregiudizio per il lavoro. Il suo licenziamento, per motivi disciplinari, non avrebbe avuto ostacoli da alcun tribunale. Ora stammi bene a sentire, Harald. Dai un'occhiata ai fascicoli personali. Vedi se c'è qualcuno da mandar via subito. Non di quelli in gamba,
però. Io so soltanto che il giovane Höllering deve essere assunto! Suo padre è troppo importante, perdio! Herford dirà a suo padre che si tratta per intanto d'una sistemazione provvisoria, perché si faccia una idea, e che avrà il posto di Klefeld in un secondo tempo...» «Sarà fatto, Tommy.» «Ti considero personalmente responsabile: Klefeld deve assolutamente avere il preavviso di licenziamento alla prossima scadenza!» «Certo Tommy, certo. Fidati di me.» «Verifica subito quei fascicoli, trovami una sistemazione provvisoria per il giovane Höllering...» «Lo faccio subito. Poi ti richiamo. Salve, Tommy.» «Salve, Harald.» Herford abbandonò il citofono, si raddrizzò e disse: «Maledizione, prima o poi mi faranno venire l'ulcera! Banda di coglioni! E quanto a quei due: fuori dalle scatole, subito!». Si diede uno strattone ai lembi della giacca e, da un momento all'altro, sul volto che appena un attimo prima era ancora distorto dalla rabbia, apparve un sorriso gioviale. «Bene, sistemata anche questa. Sempre grane! Sempre nuove rogne! E pensare che c'è chi crede che Herford si guadagni i suoi quattrini dormendo.» «Tutta invidia» disse Lester, per consolarlo. «Invidia, appunto» disse mami. «È terribile, l'invidia, vero? E pensare quanto ha dovuto lavorare, il signor Herford, per costruire tutto questo!» Guardai Hem, ma lui, per precauzione, guardava fuori dalla finestra. «Prendi le tue pillole, Herford, ora che ti sei di nuovo agitato» disse mami. Herford pescò dal taschino dell'orologio del suo gilet una scatoletta d'oro, ne fece scattare il coperchio e vidi che era piena di tante pillole dai più svariati colori. (Herford era un famoso divoratore di pillole. Ne ingoiava a montagne.) Prese due capsulette blu e le buttò giù con un po' d'acqua versata in un bicchiere da una caraffa pronta sulla scrivania. «Se Herford non amasse davvero il suo mestiere, a quest'ora l'avrebbe piantato da un pezzo» disse Herford. Il suo mestiere e i suoi milioni. Speriamo che la signora Klefeld, sofferente di leucemia, viva ancora abbastanza a lungo, e che nel 1969 il signor Klefeld possa lasciare l'azienda almeno con una liquidazione decente... «Signori!» Herford si era di nuovo avvicinato al leggio con la Bibbia: un uomo d'onore, dalla testa ai piedi. Lo guardai: ero davvero curioso di sapere cosa aveva di così urgente da
comunicarci. Ora eravamo tutti sprofondati nelle poltrone. Mami guardava suo marito, e pareva che adorasse l'immagine luminosa di un santo. Quei due erano proprio fatti l'uno per l'altra. Prima della guerra, all'epoca in cui Herford lavorava ancora nel reparto annunci pubblicitari di un altro settimanale, lei era stata la sua segretaria. «Dunque signori...» Herford s'interruppe. «Cosa c'è, adesso?» Una segretaria sciatta, vecchiotta e tutto fuorché carina (era mami che sceglieva le segretarie dell'undicesimo piano) aveva bussato e stava entrando col bricco del caffè. «Ah,» disse Herford, col sorriso di pazienza di un pescecane, «per il nostro poeta. Ma certo, signora Schmeidle, lo metta lì accanto al signor Roland.» La Schmeidle mi versò una tazza di caffè dalla caraffa, e io aggiunsi una gran dose di succo di limone da un bicchiere. Ero sempre ancora alquanto ubriaco. Ed era ora che tornassi sobrio alla svelta. «Chiedo scusa per il disturbo, signor Herford» disse la Schmeidle, e se ne andò a passettini, come un vecchio topo grigio. «Nessun disturbo, nessun disturbo» disse Herford, gentile. «Beva, beva pure con calma, Roland. Qui c'è urgente bisogno di lei» disse, rivolgendosi a me. Io annuii. «Herford vi ha convocati» disse l'editore, un pollice infilato nel taschino del gilet dove c'era la scatola delle pillole «per discutere con voi alcune questioni fondamentali. Sono mesi che mami e io ci stiamo pensando.» «Giorno e notte» precisò mami. «E ora siamo dell'opinione che sia nostro dovere farlo» disse Herford. «Fare che cosa?» chiese Rotaug, l'avvocato-tartaruga. Parlava sempre in modo tranquillo, mai agitato o ad alta voce. «In questo paese la stampa è democratica» disse Herford, commosso dalle sue stesse parole. «Ed Herford è orgoglioso di poter dire che Blitz è sempre stato all'avanguardia della stampa democratica. In fondo un giornale con la nostra tiratura ha anche delle specifiche responsabilità, dico bene?» «A volte temo che il signor Herford possa crollare sotto il peso che grava sulle sue spalle» disse mami, rivolgendosi a me. E io le feci un cenno d'assenso, molto serio. «Blitz è sempre stato consapevole di questa sua responsabilità» continuò Herford. «Herford rammenta ancora i tempi all'epoca di Adenauer, quando si manifestò il pericolo d'una evoluzione in senso comunista dei sindacati e dalla SPD.» (Che non si era mai manifestata, pensai io. Mai!) «In quell'e-
poca fu nostro ovvio dovere ostacolare tendenze ed errori gravi, e di conseguenza assumemmo un indirizzo liberale di destra.» (Sino a oggi non siamo mai stati altro che liberali di destra, pensai io e guardai verso Hem che guardava fuori dalla finestra.) «Ora però, ora che abbiamo il governo di coalizione, si avvertono con sempre maggiore insistenza tendenze radicali di destra. Ed è per questo che... mami e io abbiamo già sinteticamente sottoposto queste idee al signor Stahlhut e lo abbiamo pregato di predisporre un vasto sondaggio d'opinione.» (Ci siamo, pensai io: ci siamo!) «Il nostro compito, in questo momento, è quello di controbattere, col possente strumento che possediamo, sintomi allarmanti. Pensate soltanto, vi prego, alla crescita registrata dalla SPD! Dobbiamo riportare al più presto il popolo sulla retta via.» «Il signor Herford pensa sempre al popolo» disse mami. «E anch'io.» «Lo facciamo noi tutti, signora» disse il direttore editoriale Oswald Seerose. «Voce di popolo, voce di Dio» sentenziò il dottor Rotaug, come parlando fra sé. Non saprei dirvi se quell'uomo intuiva che razza di sondaggio poteva aver organizzato Stahlhut: aveva parlato con un'espressione imperscrutabile, senza muovere un solo muscolo del viso. Pareva che non muovesse nemmeno le labbra, quando parlava: le apriva appena. «Negli stati autoritari, la stampa può esprimere una sola opinione» proseguì Herford. «Negli stati democratici il suo compito è quello di tenerla sotto controllo.» Mise una mano sulla Bibbia. «E questo è il nostro sacro compito.» (Disse proprio sacro, non vi racconto balle!) «E per controllare l'opinione pubblica, per mantenerla sulla retta via, abbiamo deciso di dare a Blitz, nel prossimo futuro, un indirizzo liberale di sinistra! Per la libertà del nostro popolo! Per il suo bene!» Avvertivo un po' di nausea, lo sciacallo s'aggirava da qualche parte attorno a me. Continuai a bere, con disperazione, il mio caffè al limone. Avrei dato non so che cosa per un sorso di Chivas. Quindi Herford e mami avevano aperto il loro cuore a sinistra! DIO ONNIPOTENTE MI HA DATO IL MIO DENARO. Herford a sinistra. Il diavolo e l'acqua santa. Altro che sinistra. Col loro fiuto di segugi, Herford e mami avevano intuito che la grande coalizione fra CDU CSU e la SPD avrebbe retto certamente solo fino alle elezioni dell'anno seguente; che nella CDU CSU c'erano segni di stanchezza; che la SPD era in fase di crescita elettorale; e che probabilmente avrebbe formato un nuovo governo con la
FDP sotto forma di piccola coalizione. E quindi era soltanto logico, ma che dico logico: era semplice e naturale tentare la via più spiccia per saltare sul carro per primi, raggiungere la mangiatoia e partecipare al gran banchetto. Herford disse, la mano sempre appoggiata sulla Bibbia: «Durante il nostro ormai trascorso periodo liberale di destra, si sono palesati segni di decadimento, e i nostri avversari ce li hanno sbattuti sotto il naso, addebitando a quell'indirizzo l'aumento della nostra tiratura». «E se ora, dopo la virata a sinistra, salirà ancora, ce ne faranno una colpa di nuovo» disse mami, triste. «Son cose che purtroppo non si possono evitare» disse il dottor Rotaug con la sua faccia impassibile. «Non se ne preoccupi.» «Il signor Herford è naturalmente superiore a queste cose» disse mami. «Vero, oh come è vero» disse il direttore editoriale Seerose. «E sino a quando uno vive nella ferma convinzione di fare il giusto, deve trovare la forza di non farsi piegare dalle sofferenze.» Evidentemente dunque la tiratura sta calando, pensai io, e sapevo che Bertie - che non aveva ancora detto una parola - ed Hem pensavano la stessa cosa. Quanto meno si sono manifestati dei sintomi, pensai. Ma sarebbe stato sciocco anche solo pensare che Herford e mami avessero preso un abbaglio. Avevano l'istinto dei topi che sanno quando è l'ora di abbandonare una barca. Al momento opportuno sarebbero di nuovo saliti a bordo: armati della loro nobile sensibilità, naturalmente! «I buoni propositi» disse Herford «non sono affatto sempre collegati ai buoni profitti. Finora lo sono stati, qui da noi. Herford non sa naturalmente cosa accadrà ora quando, per seguire la nostra coscienza, andremo a sinistra. Però se anche questa svolta dovesse portarci del guadagno, ciò non toglierà nulla alla nobiltà e all'onestà dei nostri intenti.» Improvvisamente mi venne da pensare a una affermazione di Hem: «Le ideologie, in fondo, non falliscono, per esempio, per malvagità umana, bensì per bassezza umana: per la disgrazia che l'uomo ha di saper pensare solo in termini spiccioli, ottusi e limitati». 20 «Battifiacca!» urlò il sorvegliante, massiccio, rosso in volto. «Cane maledetto, pelandrone, ma cosa pretendi? Di stenderti al sole e di farti una dormitina?» Era fermo al bordo di un lungo fossato che penetrava nella palude di Neurode e nel quale molti giovani, muniti di badili, stavano lavo-
rando. Dovevano bonificare quell'enorme palude. Il sorvegliante se ne stava a gambe larghe, le mani sui fianchi, e continuò a inveire all'indirizzo del giovane gracile, che barcollava giù nel fosso, gli stivali sprofondati sino all'orlo nel fango. Il giovane si appoggiò tremante, allo stremo delle forze, alla parete del fosso. «Ti faccio un culo così» urlava il sorvegliante. «Porco merdoso individuo! Il signorino è studente universitario! Crede di essere migliore di noi, lui! Lo studentello di filosofia! Qui da noi non c'è filosofia! Qui si lavora, capito? E quand'anche tu dovessi vomitare l'anima da quel tuo cadavere d'intellettuale, merdoso che non sei altro, continuerai a lavorare come tutti gli altri!» «Non ne posso più» sussurrò il giovane nel fossato. Il sudore gli scorreva a rivoli sul volto smunto e sottile. «Non ne posso davvero più, signore.» Tutto questo accadeva verso il mezzogiorno del 12 agosto 1935. Sulla palude gravava un caldo insopportabile. Non c'era un alito di vento. L'aria era piena del ronzio delle zanzare. I giovani nel fossato ne erano assaliti senza tregua. Bestemmiavano e si davano grandi colpi sui loro busti denudati, ma colpivano solo raramente una di quelle bestiacce. I loro corpi erano lucidi di sudore. Erano tutti sull'orlo dello sfinimento, anche se non al punto di quello studente di filosofia di 22 anni che il grosso sorvegliante aizzava e tormentava sin dal momento in cui l'aveva incontrato. Il sorvegliante - che, da civile, era stato un macellaio fallito - odiava i «cacasenno», come li chiamava, quella maledetta gente colta coi suoi atteggiamenti di superiorità, la sua miserabile fiacca e debolezza fisica. «Sì che puoi!» urlò il sorvegliante al giovane, che prestava, come tutti gli altri, servizio obbligatorio di lavoro. «Non immagini neanche per quanto tempo dovrai farcela ancora! Guarda i tuoi compagni! Anche loro ce la fanno ancora! Brutta troia schifosa d'un superfurbo dalla faccia da culo, stai pur certo che riuscirò a fare di te un vero uomo! Avanti, spicciati! Continua a scavare!» «Io... io... non ne posso più davvero, signore» sussurrò lo studente. Barcollava, lo si vedeva. «Ho paura...» «Paura, eh?» tuonò il sorvegliante. «Paura di che, cacainbraghe?» «Di cadere e di annegare» gemette lo studente. «Qui non è mai annegato nessuno!» sbraitò il sorvegliante. «Hai paura di crepare, eh?» «Sì» mormorò lo studente. «Un uomo tedesco non ha paura della morte!» urlò il sorvegliante.
«Che... relazione c'è... fra l'essere tedesco... la morte... e questa palude?» gemette lo studente. «E osi darmi una simile risposta?...» Il sorvegliante respirò rumorosamente. «Ora vedrai, animale!» urlò poi, e saltò giù nel fosso. Acqua e fango schizzarono alti. Con tutta la sua forza, il sorvegliante colpì lo studente gracile nel fianco, con lo stivale. Il giovane cadde, in avanti. Il sorvegliante gli diede un altro calcio, nel deretano. Il giovane piombò col viso nel fango, e vi restò, immobile come un fantoccio. La sua testa sprofondò, anche il corpo cominciò a sprofondare nella melma. Il sorvegliante lo colpì ancora. «Porco maledetto» disse. E poi urlò agli altri, che lavoravano attorno: «Venite qui, spicciatevi! Tirate fuori questo vigliacco d'un maiale!». Una mezza dozzina di giovani si avvicinarono, arrancando nell'acqua, silenziosi, pieni d'odio per il sorvegliante. Si urtavano vicendevolmente, si ostacolavano e passò un bel po' di tempo prima che sollevassero lo studente dal fango e lo raddrizzassero. La sua testa ciondolava all'indietro, non si muoveva. Uno gli appoggiò l'orecchio sul petto, gli tastò il polso. «Cosa c'è? Cosa c'è?» sbraitava il sorvegliante. «Cos'ha quel porco? Dategli un paio di sberloni sul grugno, e così si riprenderà subito! Avanti, spicciatevi! Sul grugno! Dico a te!» Quello cui si era rivolto, e che aveva cercato di sentire il cuore dello studente, scosse la testa. «Non vuoi dargli sberloni sul grugno, cane?» Quello scosse nuovamente la testa. «E perché no? Perché non vuoi picchiare questo porco sul grugno?» La voce del sorvegliante si era fatta acuta, uno strillo in falsetto. «Perché questo porco è morto, signore» disse il giovane, che reggeva lo studente fra le braccia. L'autopsia concluse che lo studente era morto per una crisi cardiaca acuta. Contro il sorvegliante fu avviato un procedimento disciplinare davanti al tribunale del servizio obbligatorio di lavoro del Reich. Fu degradato e trasferito a titolo di punizione. Più tardi fece parte dello staff del commissario plenipotenziario per il servizio di lavoro obbligatorio, Gauleiter Sauckel. Oggi è nel consiglio di amministrazione d'una società per la lavorazione della carne. 21 «Lo studente è l'unico del quale sa com'è morto?» chiesi alla signorina
Luise. È lei che mi ha raccontato questa storia. Ieri. Ieri sono andato a trovarla un'altra volta. «Sì» rispose la signorina dai capelli candidi e dall'espressione buona sul viso che sembrava sempre un po' svanito. «Lo studente è l'unico. Gli altri non parlano della loro morte. Lo studente invece me ne ha parlato, anni fa.» «Come mai proprio lo studente e gli altri no?» «Ah, non lo so neanch'io» disse lei, con uno sguardo infantile. Il registratore fissava le nostre parole. Pensai che forse non sapeva davvero perché lo studente le stava più a cuore degli altri suoi morti, e che aveva forse già dimenticato da tanto, tanto tempo quell'altro studente che era stato il suo unico amore e che aveva perso la vita, tanti anni prima, nel Massiccio centrale, nella palude dei Prati Bianchi. Lei aveva dimenticato, pensai io, ma sino a quando fosse vissuta, una parte infinitesimale del suo cervello avrebbe certamente conservato quello che aveva allora visto e sofferto, e influenzato i suoi pensieri e le sue fantasie, senza che la signorina stessa potesse rendersene conto. Forse, pensai: ma naturalmente non potevo chiederglielo. Comunque, dopo tutto quello che era successo, potevo ormai parlare con la signorina Luise con la stessa confidenza del pastore Demel. Nel frattempo aveva imparato a fidarsi di me, e sapeva che non le volevo del male. Per questo parlò con me anche dei suoi amici. Perché non aveva più paura di me. Io dissi: «C'è una cosa che non capisco. Lei si è recata nella palude solo verso la mezzanotte di quel 12 novembre, per andare a parlare coi suoi amici». «Sì, e allora?» «Però già quel pomeriggio, e quindi ore prima che i suoi amici promettessero di aiutarla, l'antiquario francese André Garnot e il portiere polacco Stanislav Kubitzky riferivano alla polizia, come testimoni, a proposito del brutale tentativo che era stato fatto di uccidere il nostro corrispondente Conny Manner.» «E allora?» «Lei mi ha detto che Kubitzky e Garnot sono il suo amico morto polacco e il suo amico morto francese, tornati sulla terra nei corpi di due persone vive.» «Certo che è così, certo. E sa perché lo so? Ho parlato io stessa, dopo, con quei due...»
«Se si è trattato di due di quei suoi amici morti, allora sono entrati in azione molte ore prima di quel suo colloquio con loro! Molto prima che promettessero di aiutarla! Mi capisce? Quel pomeriggio i suoi amici non sapevano ancora niente di quel suo progetto! Come si spiega questo divario di tempo?» «Tempo, viene a parlarmi di tempo!» borbottò la signorina, e scosse la testa, meravigliata di tanta mia ingenuità. «Vede, signor Roland, di là, nell'altro mondo, il tempo non esiste. Il tempo è un concetto solo ed esclusivamente terreno. Come può esservi del tempo nell'infinito e nell'eterno?» Scossi la testa. «Non capisce?» «No.» «E allora ci deve credere.» «Non posso nemmeno credere.» «E allora deve tentare almeno, per poter avere un'idea di tutto questo che le sto dicendo» insisté la signorina Luise. «Lei dice che all'incirca a mezzanotte del 12 novembre io ho incontrato i miei amici e loro mi hanno promesso che mi avrebbero aiutato. Ma questo significa parlare in termini terreni. È sciocco! Misurando coi nostri stupidi concetti di tempo, i miei amici possono muoversi avanti e indietro nel tempo, e fare qualcosa molto prima di averlo promesso a un vivente, oppure molto dopo. Glielo ripeto un'altra volta: di là, il tempo, non c'è, ed è per questo che il francese e il polacco hanno potuto tranquillamente essere con lei ad Amburgo, già prima del mio colloquio, inseriti nel corpo di persone viventi.» «Quindi quei suoi amici agiscono prima ancora di aver avuto un motivo che li induca all'azione.» «In termini terreni, sì! Ma in termini non terreni, allora naturalmente agiscono solo dopo aver avuto un impulso. Perché nell'universo non vi è nulla di illogico. Mi capisce adesso? Almeno un poco?» «Un pochino» dissi io, esitante, e ripensai a tutto quello che mi aveva detto Hem, quella volta, quando ero in una cabina telefonica davanti alla stazione centrale di Amburgo. «Bene, e allora voglio aiutarla un altro po'» disse lei. «Se ci pensa, capita così anche a noi nella vita. Più o meno.» «Cosa?» «Be', che avvertiamo per esempio a volte le conseguenze di un qualcosa prima che questo qualcosa avvenga. Ci pensi un po' su. Le è mai capitato di essere triste, senza poter dire in tutta coscienza il perché?»
«Sì, però...» «Ecco! Lei era triste per un qualcosa che non si era ancora verificato, per un qualcosa che doveva ancora verificarsi! Quello è stato un momento, per così dire, di preveggenza! In quel momento forse lei sapeva persino quello che le sarebbe accaduto, però non ha voluto crederci e quindi se lo è tolto di testa. Solo la tristezza, naturalmente, quella è rimasta. Per concludere: se capita che persino noi, poveri mortali, possiamo a volte scivolare su e giù fra il passato e il futuro e il presente, crede forse che non ne siano capaci i miei amici? Per loro non esiste uno spazio, non esiste il tempo, non esiste ieri e non esiste oggi: esiste sempre e soltanto un domani!» «Sì, ora credo di capire quello che mi vuol dire.» «Oh, finalmente!» E rise di nuovo. «E mi raccomando, scriva tutto, sa, questa storia del tempo e dell'eternità, capito? E scriva tutto anche di me, così che la gente capisca quello che è successo. Io le do il mio consenso: scritto!» Già, io avevo il suo consenso, scritto; e la signorina Luise aveva anche accettato il denaro in cambio; ma di fronte a un tribunale la sua dichiarazione di cessione dei diritti di citazione non avrebbe avuto alcun valore, nemmeno quello della carta sulla quale era scritta. 22 «Cosa fece dopo quel colloquio coi suoi amici?» chiesi a Luise Gottschalk. «Be', sono partita subito» rispose lei. «Subito?» «Certo! Ero pronta per partire. Avevo con me la borsa, con il passaporto e i soldi...» «Quanti soldi?» «Oh, poco più di quattromila marchi.» «Come?» «Be', i duemila che mi aveva dato lei, e poi i miei risparmi, insomma. Non ho mai speso niente lì nella palude, avevo ancora tutto, mi restava da mettere da parte tutto il mio stipendio... meno quella parte che regalavo.» «Ne regalava molto?» Rise, contenta, e disse: «Lei ha visto quanta miseria c'è a Neurode, signor Roland! Non che io sia una scialacquatrice. Però i bambini, poverini...».
«L'essere partita con quattromila marchi però... Voglio dire, non è stata una leggerezza da parte sua?» «Sarebbe stata una leggerezza se avessi lasciato i soldi al campo! Sia pure nel loro nascondiglio. E sa perché? Perché mi spiavano, quelle donne, e alla fine me li avrebbero trovati e rubati!» «Teneva i suoi risparmi in un nascondiglio?» «Sì, sì, ed era un buon nascondiglio. Ma poi mi sono detta: chissà, forse lo scoprono lo stesso.» «Perché non hai mai portato i suoi risparmi in banca?» «Alla larga dalle banche!» esclamò la signorina. «Non ho nessunissima fiducia nelle banche! Ricordo benissimo, nel 1929 e dopo il '45: quello che la gente aveva in banca, è sparito, via, tutto d'un colpo! Ecco cosa hanno fatto le banche e le Casse di risparmio e quelle specie di istituzioni.» «I soldi sparirono, e cioè persero il loro valore, anche per coloro che se li erano tenuti in casa» dissi io. «Davvero? Comunque io non avevo risparmi nel 1929, e men che meno dopo il 1945. Ma anche se ne avessi avuti, non li avrei affidati mai a una banca o a una Cassa di risparmio! Non mi fido di quelle faccende lì...» Tacque per un po', e poi cambiò argomento: «Avevo naturalmente chiesto al pastore, così, quasi per caso, a chi aveva telefonato l'Irina, e lui mi aveva detto di quel signor Bilka, che prima ha risposto e poi non più. L'indirizzo di Bilka me l'ero segnato, ricorda? E il numero di telefono era il 2-20-6854. Giusto?». «Se lo ricorda ancora!» chiesi io, stupefatto. «Oh, io ho una memoria eccellente!» Rise di nuovo. «No, no, ho soltanto scherzato! Ecco, guardi, il mio notes: quella volta mi sono annotata tutto, è chiaro.» Mi mostrò una piccola agenda rilegata in similpelle, di quelle che regalano nei negozi alla fine d'anno. «E lei come ha potuto capire che io sarei andato ad Amburgo con Irina?» «Eh via! Lei era sparito; era sparita Irina, quella che voleva andare assolutamente dal fidanzato... lei è giornalista, e aveva trovato qui una storia eccitante... Non sono mica scema, signor Roland!» «No di certo, signorina Luise.» «Ma io come potevo arrivarci, nel mezzo della notte? Decisi di andare al bar Colpo alla Nuca. Spesso capita che ci sia gente ancora fino a tardi. Ho pensato: forse c'è qualcuno che va ad Amburgo e mi dà un passaggio. Che nome orribile: Colpo alla Nuca! E pensare che è solo una baracca, pacifica e tranquilla. Da mangiare soltanto roba fredda. Da bere però, quello che
vuole. I soldi che ha fatto il barista, con le bevande!... E tutto grazie al nostro campo, dico bene?» Io annuii. «Sulle pareti ci sono foto di ragazze nude, di carta, ritagliate da Playboy e, chi vuole, può servirsi del grande juke-box che il barista s'è procurato... Dunque, son lì che dalla palude mi avvio verso il villaggio ed ecco che, guarda un po', mi pigli un colpo, un matto mi viene addosso, diritto su di me, dopo la curva grande...» 23 Il camion viaggiava senza rumore, a fari spenti. Fino a pochi minuti prima il camionista si era soffermato al bar Colpo alla Nuca e aveva bevuto un ultimo bicchierino coll'autista del campo di Neurode, Kuschke. Kuschke aveva riferito per ore e ore, sempre da capo, sugli avvenimenti drammatici e sanguinosi che si erano verificati nel pomeriggio al campo. I suoi interlocutori lo avevano ascoltato, indignati, e gli avevano offerto da bere. Era dunque alquanto alticcio, quando si era avviato verso il campo. L'ultima persona alla quale aveva raccontato la sua storia era stato proprio il conducente del camion, un tale piccolo e tondo, con calzoni unti, pullover blu e berretto da marinaio. Il suo camion era parcheggiato davanti al bar. A braccio di ferro aveva vinto lui. L'autista del camion, ad ogni modo, aveva bevuto solo tre birre e tre grappe: non troppo quindi, perché doveva ancora guidare. Dopo che s'erano trovati perfettamente d'accordo nel dire che la colpa d'ogni disgrazia a questo mondo era della politica maledetta, i due uomini si erano stretti le mani callose davanti al bar, guardandosi reciprocamente negli occhi blu (e, per quanto riguardava Kuschke, notevolmente intorbiditi). Si erano congedati, commossi. Kuschke aveva continuato a picchiar manate sulla spalla di quel suo nuovo amico che non avrebbe certamente visto mai più, e gli aveva giurato che era proprio un ragazzo in gamba. «Anche tu sei un ragazzo in gamba» aveva detto quello. «Però che cosa merdosa è la maledetta politica!» aveva soggiunto Kuschke. «E anche i politici sono merdosi!» aveva detto il suo nuovo amico. Poi si erano stretti di nuovo la mano, e Kuschke aveva dato all'altro una ennesima manata sulla spalla e si era avviato, barcollando. L'autista aveva aperto lo sportello della cabina di guida del camion, si era arrampicato al volante, aveva avviato il motore e innestato la prima marcia. Non era ubriaco: solo un po' alticcio. La luna diffondeva una luce
così chiara che non s'accorse nemmeno di non aver acceso i fari. Se ne avvide solo quando, giunto a una curva, si trovò all'improvviso davanti a un'ombra. Poi sentì un colpo leggero contro il parafango anteriore destro, e vide l'ombra volar via di lato. L'autista si spaventò tanto che bloccò il motore e si fermò di colpo. Scese con le ginocchia che gli tremavano, girò attorno al camion verso il fossato che era sulla destra e rivide l'ombra: era una donna piccola e vecchia, che giaceva immobile fra le canne. L'autista scosso dall'emozione, disse, a voce alta e rauca: «Ježis Maria, doufám že se staré pani nie nestalo!» e raggiunse la signorina Luise. Lei, toccata appena dal parafango destro, era stata scaraventata di lato ed era ricaduta sul morbido: ora guardava l'autista con gli occhi spalancati. Il cappellino a cuffia le si era messo di traverso sui capelli bianchi, e reggeva l'impugnatura della sua borsa con entrambe le mani. «Fatto male?» chiese l'autista, improvvisamente reso sobrio dallo spavento. La signorina Luise lo guardava e taceva. «E allora!» disse l'autista. La signorina Luise ammiccò confidenzialmente e atteggiò la bocca a un sorriso e chiese, in cèco: «Non hai appena detto: "Gesummaria, non sarà mica successo qualcosa a quella vecchia"?». L'autista, felicissimo, rispose anche lui in cèco: «Esattamente, compaesana». E visto che lei gli aveva dato del tu, le diede del tu anche lui: «E allora? Ti sei fatta male?». «No, per niente» lo rassicurò la signorina Luise. Lui l'aiutò a rimettersi in piedi. Lei si scosse la polvere dal cappotto, stirò le braccia, scosse la testa e raddrizzò il corpo. «Almeno credo» disse. La conversazione proseguì in cèco. «Colpa mia. Viaggiavo a luci spente. M'ero fermato in quell'osteria laggiù e nel partire mi sono dimenticato...» «Già, hai dimenticato di accendere i fari.» Si mise a fiutargli il fiato. «Compaesano,» disse «tu hai bevuto.» «Solo tre boccali, piccoli.» «Non mentire! Sento anche odore di grappa.» «Ma sì, anche un po' di grappa.» «Ma non lo sai che è una leggerezza criminale, compaesano?» L'infuriare del vento sulla palude s'era fatto più forte. È per questo che la
signorina Luise non aveva sentito il sopraggiungere del camion. «Ci sei stato a lungo in quell'osteria?» «Un'ora forse. Abbiamo chiacchierato del piccolo Karel che è stato ucciso questo pomeriggio al campo, e di tutte quelle altre cose che sono successe.» L'espressione del viso della signorina Luise si fece estatica. Disse, quasi senza fiato: «Sai tutto allora?». «Certo che so.» «Povero, povero Karel.» «Già, povero bambino. Porci maledetti, quelli che l'hanno fatto. La colpa di tutto è della politica. Maledetta politica di merda. Scusa, compaesana.» La signorina Luise spazzò via la scusa con un movimento della mano. E disse, con tono leggero e confidenziale, piegando la testa leggermente: «Sei mio amico, vero?». «Certo» assicurò l'autista, cui era caduto un peso dal cuore nel vedere la signorina illesa. «Sono tuo amico.» «Sì, adesso ne sono sicura. Oh mio Dio, come sono contenta!» La signorina Luise levò gli occhi al cielo. «Che c'è lassù?» Anche l'autista sollevò lo sguardo, ma poi capì. «Ah» disse. «Il buon Dio.» «Sì» disse la signorina. Questa sta ringraziando il buon Dio di non essersi rotta le ossa, pensò l'autista. In fondo dovrei farlo anch'io. E quindi sollevò di nuovo lo sguardo al cielo e disse: «Grazie». «Poco ci mancava, e avresti arrotato la tua povera Luise, Frantisek» disse la signorina. L'autista la guardò perplesso. Che storia è questa adesso? Frantisek? E perché proprio la mia Luise? Gli venne in mente, di colpo, la storia di quella assistente mezza matta che c'era al campo, quella che parlava con essere invisibili, coi morti: una storia che Kuschke gli aveva raccontato a patto che giurasse di non parlarne a nessuno. Quella mezza matta si chiamava... si chiamava... Luise! L'autista se ne ricordò benissimo. Luise! Dio onnipotente, e ora era lì davanti a lui. Però è innocua, assolutamente innocua, la più brava persona del mondo, gli aveva detto Kuschke. Ma guarda che caso, pensò l'autista, ora me la trovo qui davanti... E disse: «Mi spiace tanto, Luise. Non l'ho fatto apposta, è chiaro. Quei fari maledetti...». «Maledetta la grappa e maledetti i boccali di birra» disse lei, minacciandolo con un dito. E si misero entrambi a ridere.
L'autista disse: «Io sono...». «Lo so benissimo chi sei» disse la signorina Luise, certissima del fatto suo. «Ah sì?» «Sì!» «E chi sarei, secondo te?» chiese l'autista, curioso. «Sei il mio amico cecoslovacco, compaesano!» Attento, questa è svitata!, pensò l'autista, e disse: «Giusto, e tu sei la mia Luise». La signorina sentì gli occhi che le si riempivano di lacrime di gioia, appoggiò la testa sul vasto petto di lui e disse: «Oh che bello, Dio mio, che bello! E tu mi aiuterai, vero?». «Certo che ti aiuto» disse l'autista, che cominciava a sentirsi un po' in imbarazzo. «Io devo andare ad Amburgo» disse la signorina. «Del resto lo sai. Stai per caso andando ad Amburgo, compaesano?» «No, a Brema. Sono venuto a prender della torba... Di là, dall'altra parte del campo, ove ne scavano ancora.» «Mi daresti un passaggio sino a Brema?» chiese Luise. «Fino alla stazione, magari? Così potrò prendere il prossimo treno per Amburgo...» L'autista esitò un attimo, poi considerò che quella matta avrebbe anche potuto denunciarlo, piantar grane e procurargli un mucchio di dispiaceri se l'avesse contrariata; e quindi disse: «Ma certo, Luise». «Perché sei amico mio, lo sapevo. È così dunque che comincia.» Comincia che cosa? si domandò l'autista, e poi pensò: merda! e chi se ne frega, e disse: «Sono tuo amico, Luise. Sali dunque. Devo spostare la carretta dalla curva, altrimenti qui finisce che qualcuno mi tampona». «Sei certo di non essere più ubriaco?» «No, parola d'onore.» Pochi minuti dopo il camion carico di torba correva su quella strada orribile, sobbalzando e scricchiolando, con i fari abbaglianti accesi. La signorina Luise era seduta accanto al guidatore, la grande borsa sulle ginocchia, e gli occhi sempre ancora spalancati dall'agitazione e dalla felicità. «Di dove sei tu, Frantisek?» «Di Gablonz» disse l'autista. «Adesso si chiama Jablonec» aggiunse. «Ma non importa.» Non me ne importa niente, pensava. Anch'io mi chiamo Josef e non Frantisek, ma se la matta preferisce chiamarmi Frantisek, prego, s'accomodi!
«Ma allora siamo vicini di casa!» esclamò la signorina. «Io sono di Reichenberg!» «Ma guarda un po'» fece l'autista. «E proprio quassù dovevamo incontrarci!» La signorina Luise si sentiva felice e beata come non mai. «Sei fuggito anche tu, Frantisek?» «Si. Due mesi fa. E tu, Luise?» E aggiunse in fretta: «Ma sì! Che sciocco! Tu no, naturalmente! Tu sei qui già da vent'anni!». «Già, vent'anni» disse la signorina Luise. L'idea che l'autista potesse aver raccolto quelle informazioni al bar Colpo alla Nuca non le passò neanche un attimo per la testa. Quello era il suo cecoslovacco, quello era il suo morto, quello era il suo amico Frantisek: i suoi amici glielo avevano promesso che l'avrebbero aiutata. «Tu ora mi conduci fino a Brema, e poi io proseguo per Amburgo, e ad Amburgo continuerete ad aiutarmi, vero?» «Ma certamente» disse l'autista, e pensava: A Brema mi tolgo la matta dai piedi, non la vedrò mai più e nessuno mi denuncerà. Gran Dio del cielo, che culo ho avuto! L'autista compì il viaggio molto in fretta. Fece scendere la signorina Luise davanti all'edificio della stazione centrale di Brema, più o meno alla stessa ora in cui ad Amburgo, davanti alla casa contraddistinta dal numero 187 dell'Eppendorfer Baum, un americano, che aveva dichiarato di essere un droghiere e di chiamarsi Richard McCormick, mi premeva sul volto uno straccio imbevuto d'una sostanza narcotica, e tutto mi divenne nero attorno. 24 Quel locale era molto vasto. Non aveva neanche una finestra. In quel locale tutto era bianco: le pareti, i mobili, gli strumenti, il pavimento e il soffitto ove splendevano molti lunghi tubi al neon, diffondendo una luce bianca e morta. Quel locale era completamente isolato dalla polvere e accuratamente climatizzato. Io lo vedevo per la prima volta, poiché quel sacrario della casa editrice si apriva solo a pochi eletti, e anche a questi solo raramente. Dovetti pensare subito al 1984 di George Orwell. Di fronte a me, lucido e possente, con migliaia di lampadine che si accendevano fulminee e disorientanti, rosse e gialle, verdi e blu, con bobine di nastro magnetico protet-
te da vetro che si muovevano a scatti avanti e indietro, c'era l'anima nera della famiglia, il più odiato, il più temuto, da tutti maledetto, ma svisceratamente amato da Herford e mami: il computer, quel mostro. Sparsi per il locale c'erano altri apparecchi, fra i quali uno che sembrava una grande macchina da scrivere. Grossi fasci di cavi passavano, fra binari di legno, da una macchina all'altra. Attorno a un tavolo bianco cinque giovani in camice bianco erano curvi su una lunga striscia di carta ripiegata, e parlavano piano fra loro. Davanti alla curiosa macchina da scrivere c'era un uomo in bianco che batteva sui tasti. Si sentivano gli scatti, i colpi, i ronzii e i fruscii degli apparecchi. E le lampadine colorate continuavano ad accendersi e a spegnersi senza sosta... In quel locale privo di finestre c'erano due pesanti porte scorrevoli di metallo. La prima dava sul corridoio, era dotata di numerose serrature e di un cartello sul quale, in rosso, era scritto: È SEVERAMENTE VIETATO L'ACCESSO AGLI ESTRANEI! La seconda porta conduceva in una stanza attigua all'ufficio di Herford. È in quella stanza che poteva riposare, se voleva, ed è lì che consumava i pasti servitigli da una ragazza del Frankfurter Hof. C'era anche un bagno. Herford poteva trascorrere le notti in quel piccolo appartamento, quando si faceva molto tardi, e poteva anche cambiarsi. Poteva accedere all'ufficio attraverso una porta che, dall'altra parte, era una scaffalatura di biblioteca. Si richiudeva silenziosamente alla semplice pressione di un pulsante. È così che eravamo entrati, per proseguire poi attraverso la seconda porta di metallo bianco, sulla quale però non c'erano scritte di divieti. Scivolò di lato, sempre silenziosa, non appena Herford ebbe composto, su una specie di quadrante telefonico applicato alla porta, un certo numero, e si richiuse poi automaticamente alle nostre spalle. Quello dunque era il regno del signor Stahlhut, che era ora lì davanti a noi, ma parlava solo a Herford e a mami. Era un uomo magro, con le basette tagliate alla moda, occhi freddi, bocca quasi senza labbra e capelli tagliati a spazzola. Parlava con una voce dal suono stranamente innaturale, che non tollerava obiezioni, impostata sempre su toni aggressivi. Eravamo insomma penetrati nel cuore della casa editrice e nel cuore dell'editore. Per Herford, tutto quello che accadeva lì dentro era Corano, rivelazione, volontà divina. Stahlhut era il sacerdote di quel computer miracoloso, onnisciente come Dio. Forse Herford s'immagina Dio sotto forma di computer, pensai: non è affatto da escludere. E in tal caso Stahlhut era il suo profeta. Il caffè al limone non era ancora riuscito a schiarirmi le idee. Avrei fumato volentieri, ma nel sacrario era proibito. Eravamo tutti in piedi, fatta
eccezione per il giovane alla macchina da scrivere e per mami, che era stata sistemata su uno sgabello bianco a rotelle. Stahlhut stava accanto a un monitor identico a quello che c'era nello ufficio di Herford. E impartiva lezione davanti allo schermo ancora vuoto, nero e scintillante. «Abbiamo fatto svolgere la nostra ricerca sui mutamenti d'indirizzo politico dal nostro istituto di sondaggio di opinione, utilizzando un campione il più vasto e articolato possibile» diceva, con voce oratoria. «In via del tutto eccezionale abbiamo potuto disporre di un po' più di tempo del solito. Abbiamo rivolto i nostri quesiti sugli orientamenti del pubblico a due gruppi-campione, e quindi il nostro programma è doppio. Nell'uno abbiamo posto domande a persone che leggono Blitz, nell'altro a persone che non leggono Blitz.» E così eccoci già alla prima bella manipolazione!, pensai io. Comunque fosse stata formulata la domanda sullo spostamento a sinistra, come si poteva pretendere che rispondessero persone che non sapevano affatto fino a qual punto Blitz fosse a destra o a sinistra in quel momento? Bertie doveva aver pensato la stessa cosa. E disse: «Un momento! Gente che non conosce Blitz non può neanche...». Mami lo squadrò, offesa. «Silenzio!» disse Herford, cattivo. Hem mi guardò e sussurrò: «Ricordi ancora quello che ti ho detto a proposito delle buone ideologie e della loro spaventosa applicazione alla realtà?». Io annuii. «Silenzio, prego!» disse Rotaug. Stahlhut riprese: «Sono state interpellate diecimila persone, sparse per tutto il territorio federale...». «Interpellate come?» s'informò Bertie. «Vuole farmi la cortesia di non interrompermi?» disse Stahlhut. «Silenzio, maledizione!» strillò Herford. Bertie lo guardò con quel suo sorriso infantile. Poi guardò me ed Hem. Io alzai le spalle. Hem chiuse gli occhi e scosse la testa. Era insensato fare delle domande lì dentro. Sarebbe stato come mettere in dubbio l'esistenza di Dio davanti a Herford e alla sua mami. DIO ONNIPOTENTE CHE GLI AVEVA DATO I SUOI SOLDI. A lui che, dopo una crisi di coscienza protrattasi per più notti e animato da instancabile preoccupazione per il popolo, aveva deciso ora di fare una conversione a sinistra... Questo Stahlhut è un furbo di tre cotte, pensai io ancora una volta.
Coll'aria più innocente di questo mondo, in modo che non se ne rendesse conto, s'informava regolarmente da Herford, e soprattutto da mami, su quello che i due trovavano di buono sul giornale, su quello che per loro era così-così, e su quello che giudicavano male. Infatti Stahlhut aveva capito da tempo che Herford e mami avevano lo stesso orribile gusto che hanno milioni di persone nel nostro paese, orribile gusto che era alla base della gigantesca tiratura di Blitz. Molti milioni di persone non la pensano così. Se fosse stata fatta un'indagine onesta, allo staff di Stahlhut sarebbe ovviamente successo di interpellare anche tante persone che avrebbero risposto che il nostro era un giornalaccio di merda. Per evitarlo, Stahlhut e suo cognato formulavano personalmente, parola per parola, le domande dei questionari che erano poi affidati ai collaboratori dell'istituto. E così gli intervistati rispondevano alle domande manipolate esattamente come essi avevano voluto. Stahlhut continuò a interpretare la sua parte di grande mago. «Il fattore decisivo della nostra inchiesta è stata la formulazione di un questionario che ha consentito alla gente di rispondere liberamente, senza influenza o manipolazione alcuna» spiegò Stahlhut. Animale, pensai io. Sapevi benissimo che risposte ti sarebbero state date. Le risposte che il tuo editore e la sua mami desideravano. Risposte che, senza condizionamenti, una così grande quantità di cittadini tedeschi non avrebbe mai potuto dare, altrimenti avremmo già da tempo un governo socialdemocratico e non di coalizione! Guardai verso Hem e Bertie, e loro mi fecero cenni di consenso. Anche loro pensavano le stesse cose. Oswald Seerose, il gentleman, mi osservava con interesse clinico, e si sistemava il fazzolettino nella tasca della giacca. Era l'individuo più appariscente e più freddo di tutta la compagnia. Non mi era mai capitato di sentirgli esprimere un suo parere. Lo chiamavano l'«eminenza grigia». E infatti era una via di mezzo fra un Talleyrand, un Fouché e un Holstein... «Com'era fatto il questionario?» chiese mami. «È semplicissimo, signora» rispose Stahlhut, pronto. «Prima c'erano le domande generali: se all'interpellato piace Blitz, cosa gli piace di più, cosa lo lascia indifferente, cosa gli piace di meno.» Mami annuì. «Seguivano domande su cosa aveva particolarmente soddisfatto nel giornale, sugli argomenti più seguiti, su quelli di cui si leggerebbe volentieri, sulle cose di cui la gente sente la mancanza. E poi: perché!? Questa domanda fondamentale, tendente a individuare l'orientamento politico, è
stata oculatamente inserita fra le domande a carattere generale, così che l'interpellato non potesse in alcun modo avere la sensazione di essere esplorato sulle sue opinioni politiche. Molta gente non ne parla volentieri agli estranei, giusto?» «Giustissimo» tuonò Herford. «Dopo di che» continuò Stahlhut «i questionari ci sono stati restituiti. I miei collaboratori» e indicò gli uomini in camice bianco che discutevano a bassa voce attorno a un tavolo «hanno innanzi tutto elaborato un programma. Per farlo, i questionari sono stati suddivisi a seconda del tipo dei vari campioni interpellati. Abbiamo aggiunto le risposte a carattere generale come nuove informazioni al vecchio programma standard del computer, programma che è continuamente aggiornato e che fornisce indicazioni sul modo di fare il giornale. La domanda particolare, e cioè quella sull'indirizzo politico desiderato per Blitz, è diventata invece il punto focale del nuovo programma. Le risposte sono state inserite nel computer secondo un nuovo schema, suddivise secondo tutti i menzionati gruppi. Voglio precisare a questo punto che abbiamo inserito anche le risposte degli interpellati che non leggono Blitz, ma che ne hanno sentito parlare, e che hanno quindi anche loro detto in che direzione deve muoversi, secondo il loro parere, un grande settimanale nell'attuale situazione politica interna del nostro paese.» Bertie mi guardò. Io guardai Hem. Hem guardò Bertie. No comment. «Ci interessava a questo proposito anche la giovane generazione sotto i 24 anni. Sappiamo che non è mai stata una nostra sistematica, e nemmeno potenziale clientela. Le risposte tuttavia sono state valutate in modo che, se il giornale sarà per il futuro fatto in maniera conseguenzialmente diversa, avremo ottime probabilità di conquistare le simpatie d'uno strato di popolazione sinora rimasto estraneo o indifferente alle nostre proposte.» «Magnifico!» disse Herford. «E dopo aver suddiviso i questionari, ha trasmesso i risultati al computer con quell'apparecchio, macchina da scrivere o cos'altro è?» chiese mami. «In effetti questa è una specie di macchina da scrivere con specifiche funzioni di controllo, signora» rispose Stahlhut. «Stiamo giusto elaborando un piccolo programma. E così utilizziamo questa, diciamo, macchina da scrivere. Ma nel caso dei diecimila questionari abbiamo optato per una tecnica più moderna. Grazie alla generosità del signor Herford» (profondo inchino di Stahlhut, gesto della mano con aria di sereno distacco da parte dell'editore) «possediamo un computer di capacità tali da essere in grado di leggere direttamente mediante cellule fotoelettriche interi questionari, con
tutte le loro crocette tracciate nei riquadri per "sì", "no" e "non so". Il computer trasmette quindi gli impulsi alla banda magnetica e noi colleghiamo la banda magnetica all'impianto di analisi e valutazione dei dati. Dal momento che abbiamo accuratamente suddiviso i questionari in molti piccoli gruppi, il computer è anche in grado di dare risposte molto esatte e precise. Ulli!» Uno degli uomini in bianco attorno al tavolo sollevò lo sguardo. «Sì?» «Il programma RX 22, la prego» disse Stahlhut. Il giovanotto che si chiamava Ulli si avvicinò a un apparecchio e cominciò a premere bottoni. Sulla facciata del computer esplose il caos. Le lampadine colorate ballavano, le bande magnetiche si muovevano a scatti. E sul monitor apparve la prima scritta verde: CITTÀ DI GRANDI DIMENSIONI, GERMANIA SETTENTRIONALE, PROFESSIONI MERCANTILI, UOMINI, GRUPPO D'ETÀ 35-40, SPOSATI, 1-2 BAMBINI, CASA O ABITAZIONE PROPRIA, REDDITO MENSILE 4000-5500 DM, RELIGIONE PROTESTANTE, AUTOMOBILI DI MEDIA SINO AD ALTA CILINDRATA... RISULTATO: FAVOREVOLI A UNA TENDENZA DI BASE LIBERALE DI SINISTRA IN TUTTI GLI ARTICOLI DI BLITZ... 13,296... Herford e mami guardavano affascinati lo schermo scintillante. L'impianto per l'analisi dei dati fremeva piano: i relais scattavano, le lampadine guizzavano, i dischi coi nastri magnetici roteavano. ...CITTÀ DI GRANDI DIMENSIONI, GERMANIA SETTENTRIONALE, LIBERI PROFESSIONISTI, UOMINI, GRUPPO D'ETÀ 35-40, SCAPOLI, NIENTE BAMBINI, ABITAZIONE IN AFFITTO, REDDITO MENSILE 1700-2.500 DM, RELIGIONE PROTESTANTE, AUTOMOBILI DI PICCOLA SINO A MEDIA CILINDRATA... RISULTATO: FAVOREVOLI A UNA TENDENZA DI BASE LIBERALE DI SINISTRA IN TUTTI GLI ARTICOLI DI BLITZ... 22,4%... «Herford! 22,4 per cento!» esclamò mami, entusiasta. Herford annuì, serio.
Il direttore editoriale Seerose assisteva con le braccia incrociate, il viso privo di espressione. Il dottor Helmut Rotaug si sistemò il suo colletto inamidato, e poi tornò immobile. Stahlhut continuava ad atteggiarsi a grande mago. Per mezz'ora le scritte luminose verdi continuarono a succedersi sullo schermo. Io stavo per cadere a terra. Bertie sbadigliò rumorosamente. Herford gli lanciò un'occhiata malevola. Poi tornò a rivolgere lo sguardo sul monitor che mami non perdeva d'occhio. Il suo viso si fece estatico. La stessa faccia che deve aver fatto Mosè nello scorgere la terra promessa, pensai io. Dopo quarantacinque minuti finalmente apparve questa scritta: ELABORAZIONE FINALE... DI TUTTI GLI INTERPELLATI SONO FAVOREVOLI A UNA TENDENZA DI BASE LIBERALE DI SINISTRA IN TUTTI GLI ARTICOLI DI BLITZ... 35,6%... «Non è meraviglioso?» esclamò mami. «Herford, il popolo la pensa come noi, ora lo sappiamo con certezza!» «Sì,» disse Herford «il popolo e noi siamo d'accordo.» Io pensavo: ammiro questo Stahlhut soprattutto perché è riuscito a evitare che il risultato finale fosse 35 o 36 per cento, bensì 35,6 per cento. Quei sei decimi di percentuale mi riempirono d'improvvisa ammirazione per quell'uomo che disprezzavo. Che personalità! 25 ...ELABORAZIONE FINALE... DOMANDA: QUALE AVVENIMENTO DI POLITICA MONDIALE DEGLI ULTIMI MESI VI HA SCOSSO DI PIÙ? Le lettere del computer guizzavano ora sul monitor che era nell'imponente studio di Herford. Vi eravamo tornati tutti, e Stahlhut era venuto con noi per dare altre spiegazioni. Nel locale accanto, quello senza finestre, il solito Ulli faceva scorrere una dopo l'altra tutte le varie domande aggiuntive del programma che potevano in qualche modo interessare Herford. ...RISPOSTA: OCCUPAZIONE DELLA CECOSLOVACCHIA
DA PARTE DEGLI STATI DEL PATTO DI VARSAVIA 82,3%... «Perbacco!» disse Herford. Già, che si aspettava?, pensai io. «Sì, è la cosa che ha scosso anche me più di tutte le altre» disse mami, e si sistemò il cappellino alla cacciatora con la lunga piuma. Guardai Stahlhut di traverso. Rispose alla mia occhiata senza alcuna espressione. Continuai a bere il mio caffè al limone che, nel frattempo, era stato scaldato un'altra volta. ...ELABORAZIONE FINALE... DOMANDA: SECONDO LEI QUELL'INTERVENTO ERA GIUSTIFICATO?... RISPOSTA: NO - 95,4%... Che domanda, pensai io. ...ELABORAZIONE FINALE... DOMANDA: PROVA DELLA SIMPATIA PER IL POPOLO CECOSLOVACCO?... RISPOSTA: SÌ - 97,896... «Come lorsignori possono constatare,» disse Stahlhut «abbiamo contemporaneamente elaborato un programma anche per alcune serie di articoli o inchieste da svolgere nel prossimo futuro.» Già: constatammo. ...ELABORAZIONE FINALE... DOMANDA: LA COMMUOVE LA SORTE DI COLORO CHE HANNO DOVUTO DARSI ALLA FUGA?... RISPOSTA: SÌ - 98,296... Ecco dunque come erano poste le domande. Mi sarebbe piaciuto sapere chi erano quell'1,896 che avevano risposto «no» oppure «non so». ...ELABORAZIONE FINALE... DOMANDA: CHI LE FA MAGGIORMENTE PENA FRA I PROFUGHI: A/INTELLETTUALI? - B/POLITICI? - C/ARTISTI? D/GENTE SEMPLICE? - E/UOMINI? - F/DONNE? G/BAMBINI E RAGAZZI?... RISPOSTA SIGNIFICATIVA: G/BAMBINI E RAGAZZI - 97,896...
«Mio Dio, quei poveri bambini» disse mami, e si passò una mano sugli occhi. «È terribile» disse il dottor Rotaug, lo sguardo perso nel vuoto. ...ELABORAZIONE FINALE... DOMANDA: LE PIACEREBBE SAPERE COME VIVONO ORA QUESTI BAMBINI E RAGAZZI?... RISPOSTA: SÌ - 85,896... Oh finalmente: eccoci al punto. Bertie non riuscì a tenere la bocca chiusa. «Un computer è davvero una cosa meravigliosa» disse. «Vero? Un'invenzione straordinaria» disse Herford. L'ironia era sempre sciupata con un uomo come lui. Stahlhut si alzò, si avvicinò al monitor e premette un bottone. La scritta verde si spense e lo schermo tornò a brillare nero. Stahlhut disse: «L'analisi complessiva dimostra che se Blitz dovesse assumere una tendenza liberale di sinistra, il primo argomento di presumibile maggior successo sarà, secondo il computer, un'inchiesta o una serie di articoli sui bambini e sui ragazzi profughi. È l'argomento dotato del maggior human appeal, interessa in egual misura gli uomini e le donne, a prescindere dal reddito, dalla professione, dall'età e dalla condizione sociale». «Bene. Cosi il primo argomento è scelto» disse l'editore, trionfante. «Herford vi ha pregati di venire qui, perché poteste verificare i risultati di questa ricerca, così come egli stesso e mami li hanno verificati, per la prima volta e contemporaneamente a voi. Qualcuno dei signori presenti ha delle obiezioni da muovere contro lo spostamento verso una sinistra liberale? Viviamo in democrazia. La mia casa editrice è democraticamente amministrata. Io stesso sono un democratico.» Per un attimo mi parve di dover vomitare. «Se c'è una maggioranza in grado di convincere Herford con altre argomentazioni, anzi, comunque dovesse formarsi una maggioranza, Herford è pronto a rinunciare a questo progetto. Allora?» Silenzio. «Nessuno ha niente in contrario?» «Nessuno» disse Lester, zelante. «Siamo tutti entusiasti. Vero, signori?» «Tutti favorevoli» disse Rotaug, secco. «Bene, bene. Herford ha chiesto a lei, Roland, e a lei, Engelhardt, di partecipare a questa riunione, poiché lei è il nostro miglior giornalista, e lei il
nostro miglior fotografo. Herford vuole che la prima inchiesta o serie o qualsiasi altra cosa si decida di fare sia affidata alla sua gente migliore. Capito?» «Sì» dissi io. Ora stavo di nuovo meglio. Mi sentivo di poter lavorare più facilmente in un giornale orientato a sinistra che in uno orientato a destra, anche se sapevo benissimo che si sarebbe trattato d'una situazione transitoria. L'orientamento del giornale, voglio dire. Bertie disse: «La ringrazio, signor Herford. Credo che mi divertirò a lavorare di nuovo con Walter. E sono contento anche della sua decisione. Al giorno d'oggi una persona intelligente non può che essere socialista». Seguì un silenzio imbarazzato. Infine Herford esplose in una gran risata. «Lei ha ragione, Engelhardt! Tutto questo dimostra se non altro che Herford non è un idiota: dico bene?» disse l'uomo carico di tanti milioni. Poi tornò serio. «Voi due dunque mi farete una bella inchiesta su quei bambini profughi.» «Però la serie di educazione sessuale...» intervenne Lester, prontissimo. «Talvolta mi son trovato nella condizione di dover scrivere quattro serie contemporaneamente» dissi io. «È vero, è vero. Senonché proprio quest'ultima puntata che mi ha consegnato oggi...» Il suo tono era perfido. Aveva dovuto attendere a lungo per giocare la sua carta. «Cos'ha questa puntata?» chiese Herford. «La conferenza femminile ha sollevato moltissime obiezioni» disse Lester, e mi sorrise. E io sorrisi a lui. «Per amor del cielo! Bisogna tenerne conto, Roland, naturalmente» disse Herford, spaventato. «E facciamo in fretta. Oggi è l'ultimo giorno utile. L'ultimissimo. Come mai...» «È stato malato» intervenne Hem. «Hm, vedo...» Herford tossicchiò. «Be', insomma, vuol dire che la riscriverà subito.» Lester mi guardava soppiatto. «Naturalmente, signor Herford» dissi. (Capito che nobile carattere avevo io?) «La riscrivo subito.» Lester distorse il viso in una smorfia irritata. Aveva sperato tanto in un mio nuovo rifiuto e quindi in uno scandalo. «Inoltre mi deve scrivere assolutamente un'altra puntata per il prossimo numero, visto che ora dovrà partire con Engelhardt!» disse Herford.
«Lo farò stanotte» assicurai. Che tempra, eh? Ma volevo poter scrivere di quei bambini. E non m'importava cosa ne sarebbe saltato fuori. Dovevo, dovevo assolutamente poter di nuovo scrivere almeno una volta su qualcosa che non fossero orgasmi, sollecitazioni linguali, petting e zone erogene. Altrimenti sarei impazzito. «Molto bene» disse Herford. «Noi ci rendiamo conto del suo valore» disse mami. Mi sentii di nuovo male. «Mio Dio, guarda, Herford, è persino arrossito!» «Davvero!» disse Rotaug, sinceramente stupito. E mi squadrò con aria meditabonda. «Dove sono questi bambini, Stahlhut?» chiese Herford. «I ragazzi sino a diciotto anni e i bambini sono al campo di Neurode. A nord di Brema. Gli adulti sono sistemati in altri campi. A Neurode ci sono bambini di molti paesi. Attualmente, è ovvio, sono soprattutto cecoslovacchi. Ma anche greci...» «La Grecia è nella NATO» disse Rotaug. «... polacchi e spagnoli.» «La nostra casa a Maiorca!» esclamò mami. E si portò nervosamente la mano alla bocca. «Piantiamola con la NATO e con la nostra casa» disse Herford, alzandosi. Il suo volto aveva un'espressione decisa. «La vogliamo questa tendenza liberale di sinistra oppure no? E allora! Dobbiamo quindi dimostrare anche del coraggio. Non succederà niente. Un sacco di socialisti hanno una casa in Spagna. E la NATO si guardi bene dal dire qualcosa a Herford. E poi questa sarà un'inchiesta con human appeal e human interest!» Cominciò a sognare e allargò le braccia. «Bambini, bambini innocenti! Con sfondo politico, naturalmente, ma da un punto di vista molto umano. Umano, signori miei: capito?» «Sì» disse Bertie. «Sì,» dissi io «umano.» Pensai al vecchio Klefeld del reparto spedizione, quello che non erano riusciti a licenziare in tempo. «Però contemporaneamente voglio, ripeto voglio - e s'arrangi lei a combinarla, in fondo è per questo che la pago - anche un'accusa spietata contro le crudeltà commesse in tutti gli stati e sotto tutti i regimi! Mi ha ben sentito, Rotaug? Tutti!» «Neurode, il Golgota della gioventù innocente» disse Hem, assolutamente serio. «Golgota; sì, Golgota! Oh se si riuscisse a metterlo nel titolo!» esclamò
mami. E si tamponò gli occhi col risvolto della sua manica. Forse qualcuno di voi penserà che sto esagerando. Che trasformo esseri umani in caricature. Nient'affatto. È andata proprio così. Quel che mami disse, rapportato a quel che succedeva in quel giornale dalla direzione editoriale computerizzata, poteva sembrare cinismo mostruoso. Però mami ed Herford non erano cinici. Erano troppo ottusi per essere cinici. Non erano neanche gente malvagia. Voglio dire: non più malvagia di altri milionari che ambiscono di mettere le mani su altri milioni. Erano più semplicemente parti integranti del sistema sociale in cui viviamo. Un sistema sociale che aveva determinato la loro mentalità e la loro esistenza. Come quella di tutti noi. Chi se ne rendeva conto, come Hem, era intelligente. E da compatire. Chi possedeva ancora una scintilla di onestà, era continuamente costretto a stordirsi per resistere in quella baracca, per non buttare tutto all'aria. Stordirsi con la musica o con una filosofia che non approdava a nulla. Stordirsi con le donne e col bere, come facevo io, amico e allievo di Hem. Riscriverò immediatamente quella puntata merdosa qui al giornale, pensai, e poi me ne andrò a casa e butterò giù un'altra puntata per il prossimo numero. A tarda notte o la mattina presto avremmo così potuto partire. E soprattutto non dovevo dimenticare di portarmi dietro la borraccia e un paio di bottiglie di Chivas. «Pensino a una possibile copertina, miei signori» disse il direttore editoriale Oswald Seerose, l'aristocratico inglese. Era la quarta o quinta volta soltanto che apriva bocca quella mattina. Un signore molto silenzioso. Il momento in cui sarebbe toccato a lui di parlare doveva ancora venire, ma in quel momento non potevo immaginarlo. «Dobbiamo sottolineare anche otticamente lo spostamento dell'indirizzo politico.» Bertie annuì. Herford si diresse di nuovo verso il leggio con la Bibbia. Tutti si alzarono e congiunsero le mani, meno Hem, Bertie e io. «Herford leggerà ancora un passaggio dalle Sacre Scritture. E che possa proteggere e favorire un esito felice del nostro progetto» disse l'editore. Sfogliò le grandi e pesanti pagine di pergamena, a lungo, sino a quando trovò quello che cercava. Sapeva la Bibbia a memoria. «"Il Signore è il mio pastore..."» lesse Thomas Herford, e mami annuì, commossa. «"Nulla mi mancherà. Egli ristorerà l'anima mia; Egli mi condurrà sulla retta strada per amor del nome Suo."» Herford tacque, e poi disse, con forza: «Amen». «Amen» ripeterono tutti, meno Hem, Bertie e io. Un telefono si mise a ronzare.
In pochi possenti passi l'editore raggiunse la sua scrivania e sollevò il ricevitore. «Sì?» Rimase ad ascoltare. «Va bene.» Calcò un dito su un pulsante del citofono d'argento e sbraitò: «E allora, Harald?». La voce del capo del personale risuonò trionfante dall'altoparlante. «Abbiamo avuto fortuna, Tommy! Ho setacciato le schede del personale e ho trovato! Peter Miele! Lavora nel settore Circoli di lettura... È qui da noi solo da due anni. Un socialista. Continua a far strani discorsi, incita la gente a proposito dei diritti, dei sindacati e così via!» «Un socialista, eh? Un agitatore?» ringhiò Herford. «Appunto. E abbiamo tutto il tempo che vogliamo per spedirgli il preavviso di licenziamento! Ha moglie, tre figli, una casa sua e un mucchio di debiti sulle spalle. Solo 29 anni. Accetterà la liquidazione e se ne andrà subito. Sono certissimo!» «Benone» tuonò Herford, e un sorriso felice si distese sul suo viso. «E allora licenziatemi immediatamente quell'individuo. Herford sapeva che avresti trovato una soluzione, Harald! E così Herford potrà sistemare subito nella sua azienda il giovane Höllering, hahaha!» «Hahaha!» risuonò la risata di Harald Viebrock attraverso l'altoparlante. Fu così che noi ci orientammo a sinistra. Dio ci conceda gioia e felicità. Con una tendenza di fondo liberale di sinistra. A seno completamente scoperto. COMPOSIZIONE 1 Il treno successivo per Amburgo era il diretto proveniente da Colonia, che fermava a Brema alle 4 e 30, per raggiungere Amburgo alle 5 e 49. La signorina Luise acquistò un biglietto di seconda classe e andò a sedersi su una panchina accanto a un pilastro. Il vasto atrio della stazione era deserto. Su molte panche dormivano uomini dall'aria malconcia, tutti raggomitolati. La signorina Luise si assopì un paio di volte. Ma quando testa e busto le ciondolavano in avanti si risvegliava. La borsa!, pensava allora, spaventata. Ma per fortuna la borsa era sempre ancora lì. In essa c'era tutto il denaro che possedeva. Alle 4, la signorina s'inoltrò per la pensilina, si avvicinò a un chiosco,
acquistò un bicchiere di caffè e lo sorseggiò lentamente. Poi ne chiese un'altra porzione. L'uomo del chiosco delle bibite sbadigliava. Aveva dovuto alzarsi presto per iniziare il suo turno di lavoro, e non aveva dormito a sufficienza. La signorina Luise, che non aveva dormito affatto o quasi, era invece tutta arzilla. È quasi un anno che non viaggio più in treno, pensò. E ad Amburgo poi, col treno, non ci sono andata mai. Sempre in macchina. Tre anni sono, che non ci vado più... Si sentiva come se, invece di quell'orribile caffè, avesse bevuto champagne: aveva la sensazione di essere trasportata sulle ali della fortuna. E si trattava ovviamente solo dell'eccitazione che le procurava tutta quell'avventura. Dalla palude e dalla solitudine, d'un tratto, direttamente ad Amburgo. E poi? E poi dove? Che fare? Non aveva ancora un piano preciso. Tutto quello che aveva erano un numero telefonico, due nomi e due indirizzi. Oh, ma che testa sbadata! I suoi amici! Aveva anche i suoi amici, naturalmente! E loro l'avrebbero aiutata. L'avevano già aiutata. Se non ci fosse stato Frantisek, come avrebbe potuto arrivare così in fretta fino a lì? La signorina Luise si fece di nuovo coraggio, ordinò con decisione un paio di salamini con senape e mentre li mangiava indirizzò a Dio onnipotente una muta preghiera: Ti ringrazio per quello che hai fatto e per l'aiuto che mi hai dato. Continua ad aiutarmi, Ti prego. Fa' che il male sia punito e il bene trionfi, come dice sempre il signor pastore, e che prima o poi tutto si sistemi. Ma, Ti prego, fa' che il trionfo avvenga il più presto possibile, perché non ho più molto tempo per attendere. Amen. E grattò con quel che le restava del secondo salamino il po' di senape rimasta sul fondo del piatto di cartone sul quale le erano stati serviti, e s'infilò il boccone in bocca. Pagò. «Soddisfatta, signora?» chiese l'uomo del chiosco, mezzo assonnato. «Molto» disse la signorina Luise; ci pensò un po' su, e poi aggiunse anche una pietosa bugia: «Il caffè era ottimo». «Grazie, signora.» La signorina Luise verificò attentamente i soldi che quello le diede come resto d'una banconota da dieci marchi, sospinse verso il commesso stanco una moneta da venti pfennig e disse: «Questa è per lei». «Grazie, signora» disse il commesso per la seconda volta. Il treno da Colonia arrivò puntuale. La tempesta infuriava sulla stazione deserta e abbandonata. I lampioni oscillavano. Una voce rauca risuonò dall'altoparlante. Nessuno scese dal
treno. Vi salirono solo due persone: la signorina Luise e un uomo di circa 40 anni, grande, robusto, con un cappotto pesante, senza cappello e con un libretto rosso in mano. La signorina Luise non riusciva ad aprire lo sportello del vagone che aveva scelto. «Permette» disse l'uomo grande, e sorrise alla signorina Luise. Aveva occhi scuri, capelli neri, ondulati e tagliati corti, che incorniciavano un volto largo e glabro. Azionò la maniglia con perizia e lo sportello si spalancò di colpo. L'uomo porse una mano alla signorina Luise. «Gli scalini sono alti» disse, e l'aiutò come se sapesse che lei aveva difficoltà con le gambe. Sali dopo di lei. Non appena ebbe richiusa la porta, il treno ripartì con uno scossone. Nel corridoio c'era solo la scarsa illuminazione notturna. Si avviarono lungo lo stretto passaggio. La signorina Luise era davanti. La maggior parte delle tendine erano abbassate sui finestrini dei vari scompartimenti di quel vagone di seconda classe. «Qui c'è gente che dorme» disse la signorina Luise. «Li sveglieremo se apriamo una porta.» «Laggiù» disse l'uomo grande «vedo della luce accesa in uno scompartimento.» Quando lo raggiunsero, constatarono che la tenda era sollevata e che lo scompartimento era vuoto. «Sistemiamoci qui» disse la signorina Luise. L'uomo annuì. La signorina Luise si sedette accanto alla finestra, la borsa sulle ginocchia. L'uomo - che indossava un vestito scuro, una cravatta rosa su una camicia bianca, e un cappotto blu - le si sedette di fronte. «Forse vorrà dormire ancora un po', vero? Spengo subito la luce.» «No, no, la prego» disse la signorina Luise. «Non voglio dormire. Sono completamente sveglia. E lei poi, ha quel libro. Vorrà leggere certamente.» «Sì, se non la disturbo» disse l'uomo. Tolse gli occhiali cerchiati d'oro dal taschino della giacca e li inforcò. Il che vuol dire che è presbite, pensò la signorina. L'uomo le sorrise. E lei sorrise a sua volta. Quando l'uomo sollevò il libro e lo aprì, la signorina Luise trattenne per un attimo il respiro. Era riuscita a leggere quello che, a lettere d'oro, era scritto sulla copertina rossa: UN ORDINE NUOVO PER UN CIELO NUOVO E UNA NUOVA TERRA
E sotto, a lettere più piccole: LA TORRE DI GUARDIA Il cuore della signorina Luise batteva in fretta, quasi come le ruote del treno, che ora viaggiava già veloce, avvolto dalle folate di vento della bufera. Quell'uomo con la cravatta rosa leggeva un libro dei testimoni di Jehova! La Torre di Guardia era la loro casa editrice! È straordinario, è come un sogno, pensò la signorina. (Quell'uomo... se anche lui... Ma certo, era sicuramente venuto per accompagnarla fino ad Amburgo... E ad Amburgo avrebbe trovato un altro dei suoi amici, pronto ad aiutarla ancora...) La signorina Luise disse, piano, come parlando a se stessa: «Accadde al principio del giorno del giudizio millenario...». «Come, prego?» L'uomo sollevò lo sguardo, e fissò sorridendo la signorina Luise, al di sopra delle lenti degli occhiali. «Ha detto qualcosa?» «Sì» disse la signorina Luise, prudentemente. «Ho detto: "Accadde al principio del giorno del giudizio millenario...".» L'uomo la guardò stupito. «Incredibile!» disse. «È proprio quello che sto leggendo!» «"E non s'è più trovato posto per quel cielo guasto e per quella guasta terra. Sono stati distrutti, allora e per sempre." È così che dice la rivelazione di Giovanni.» La signorina Luise citò ancora, sentendosi incoraggiata: «"Vidi un grande trono bianco e colui che vi sedeva: al suo cospetto fuggirono la terra e il cielo, e per loro non si trovò più posto"». «Come mai sa queste cose?» chiese l'uomo grande, con tono di voce serio e gentile. La signorina Luise si sentì come attratta da quel suo compagno di viaggio. E quindi disse, ormai certa del fatto suo e con aria da cospiratrice: «Ma se hai continuato a dirmelo tu, tutti questi anni, lassù nella palude! Non mi riconosci? Sono Luise!». Seguì un breve silenzio, poi l'uomo disse, annuendo: «Ma naturalmente. Che sciocco da parte mia. Tu sei Luise». Le ruote del treno rimbombavano ora a ritmo frenetico, il convoglio sfrecciava nella notte e l'uragano lo avvolgeva, urlando. «E tu sei il mio testimone di Jehova» disse la signorina. «Vero che sei tu? Il mio amico, il testimone morto?» L'uomo disse, con accento ancora più gentile, e tono di voce più morbido e suadente: «Ma si, certo, sono il tuo amico morto, il tuo testimone...».
«Quello morto nella palude?» chiese la signorina. «Quello morto nella palude» confermò lui. «Te lo chiedo solo perché devo stare attenta, capisci, no? È una gran brutta storia davvero, quella in cui ci siamo cacciati. Detto in confidenza: a volte ho tanta paura.» «Non devi aver paura, Luise» disse l'uomo. «Io sono accanto a te.» «Ci siete tutti, vero?» chiese la signorina, sentendo crescere in sé la gioia e la speranza. «Tutti noi, certo» disse l'uomo. «In che corpo ti sei inserito?» chiese la signorina. «Come ti chiami? Come vuoi che ti chiami?» «Mi chiamo Wolfgang Erkner» disse l'uomo. «Però puoi chiamarmi solo Wolfgang, come io ti chiamo solo Luise e non...» esitò. «...e non Luise Gottschalk» disse la signorina, beata. «Luise Gottschalk» ripeté l'uomo facendo un cenno di assenso. «Io ricordo ancora tutto quello che mi hai detto, su quell'isola nella palude» disse la signorina, fiera. «Rammento tutto benissimo. Me ne hai parlato tante volte, per tanti anni, d'estate e d'inverno. Siamo davvero buoni e vecchi amici, vero? Tu nella morte e io nella vita. E quando vi raggiungerò...» «Suvvia!» disse Wolfgang Erkner. «Che discorsi sono questi...» «Ma sì, ma sì. Ormai sono vecchia e malconcia di salute. So che non rimarrò quaggiù molto a lungo, e che verrò presto da voi, dai miei amici beati. Ma non parliamone adesso. Vuoi che ti dica quello che mi hai detto d'altro, a proposito dell'ordine nuovo, vuoi?» chiese. «Prego» disse Erkner. Continuava a osservare la signorina con benevolenza e accondiscendenza. «"Ordunque, in quel posto della rivelazione"» recitò la signorina Luise «"è fissata l'epoca in cui questo universo sarà sostituito da un cielo nuovo e giusto e da una terra nuova e giusta..." È così vero?» «È così, Luise.» «"E più precisamente questo avverrà non alla fine del millenario dominio di Nostro Signore Gesù Cristo, dopo che tutto il male sulla terra e in cielo..."» Si fermò e fece un sorriso disarmato. «Com'è che va avanti a questo punto?» Lui gettò un'occhiata al libro e disse in fretta: «"Dopo che tutto il male sulla terra e in cielo sarà stato distrutto dal simbolico mare di fuoco"...». «Giusto!» esclamò la signorina. «Che memoria, la mia: peggio di un co-
labrodo!... Non in quell'epoca lì, dunque, ma all'inizio del dominio millenario del Nostro Signore Gesù Cristo. E a questo punto c'è un'altra cosa nella rivelazione, parole così belle... Ti dispiacerebbe leggermele, Wolfgang? Ci sono in quel libretto, certamente. Lo conosco, lo avevi sempre anche nella palude. Leggi, ti prego.» «Volentieri, Luise» disse l'uomo grande e nero di capelli. Si sistemò meglio gli occhiali e lesse: «"E io vidi un cielo nuovo e una nuova terra; poiché il primo cielo e la prima terra erano svaniti, e il mare non esisteva più. E io vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere da Dio nel cielo, come una sposa tutta ornata incontro al suo sposo..,"». «Ah sì» sospirò la signorina. «"...e io udii una gran voce dal trono che disse: Ecco, guarda la dimora di Dio fra gli uomini. Ed egli abiterà con loro, ed essi saranno il suo popolo, ed egli stesso, Dio in loro, sarà il loro Dio. E Dio asciugherà tutte le lacrime dai loro occhi, e la morte non sarà più, né saranno più il dolore, la sofferenza e lo strazio: perché il primo mondo sarà svanito".» L'uomo guardò Luise. «Qui è scritto così» disse. L'uragano scuoteva e scrollava il vagone del treno che correva, e pareva che l'aria fosse piena di urla e di grida e di strilli; la signorina disse: «Terribile, questo chiasso. Credo che gridino così anche le povere anime nell'ultimo strato. Perché dev'essere proprio terribile laggiù. Capisci quello che intendo?». Wolfgang Erkner annuì, serio e gentile. «Quella faccenda: "e la morte non sarà più", non sono mai riuscita a capirla» continuò lei. «A sentirla, sembra una cosa bella, ma voi tutti amici miei siete morti eppure felici. In vita eravate infelici. Come sarete, quando non ci sarà più la morte?» «È ancora prematuro pensarci» asserì l'uomo dai capelli neri. «Ma certo, che sciocco da parte mia, Wolfgang» disse la signorina. «Quell'epoca deve ancora venire. E porterà grandi cambiamenti, anche per voi!» «Ma certamente.» «E nel frattempo vi avrò raggiunti da un bel po'. Ma non subito. Subito non posso. Ho ancora qualcosa da sistemare ad Amburgo, vero?» L'uomo annuì. L'uragano investiva ora il treno frontalmente. La locomotiva fischiò a lungo: come un gemito. La nebbia avvolse improvvisamente il treno, e volava in enormi banchi lungo il finestrino. «Bisogna trovare l'assassino del piccolo Karel» disse la signorina «e
dobbiamo ritrovare Irina, prima che le succeda qualcosa. Questo è l'importante. È l'unica cosa che importi ora! Non ho ragione?» «Perfettamente ragione» rispose l'uomo. Si chinò in avanti, si tolse gli occhiali e disse: «Facciamo una bella chiacchierata, Luise». «Ma la stiamo già facendo!» «Anche su altre cose. Su di te.» «Ma se sai già tutto di me!» disse la signorina, colta da angoscia improvvisa. «Non so ancora tutto. Devo sapere molto di più, Luise» disse l'uomo dai capelli neri. «E tu devi sapere anche tutto di me. Io mi chiamo Wolfgang Erkner, ma non sono un testimone di Jehova, e in me non c'è lo spirito di quel tuo amico morto.» «No?» esclamò lei, spaventata. «Ma...» «Aspetta» disse lui. «Non ti accadrà nulla. Mi occuperò io di te.» Stranamente calma, la signorina disse all'improvviso, come se riuscisse a guardare nel futuro: «No, non soffrirò con te, ne sono convinta anch'io. Sarà tutto buono e bello con te». Lui annuì e poi disse: «Devo anche dirti qual è la mia professione. Io sono un medico». «Medico?» esclamò la signorina. «Sì. Uno psichiatra.» «O Dio!» esclamò la signorina, e si sentì da un momento all'altro terribilmente infelice. «Ma quel libro! Dove hai preso quel libro?» «Era su una panca, nell'atrio della stazione. L'ho preso solo per dargli un'occhiata.» «Ma che ci fai a quest'ora in treno? Perché non sei a letto?» «Ci starei volentieri» disse lui, sospirando. «Ma purtroppo devo andare ad Amburgo. Il più presto possibile.» «Come mai?» chiese la signorina, e si rese conto improvvisamente di tremare. Si era sbagliata. Quello non era uno dei suoi amici morti! «Una paziente è fuggita stasera dalla nostra clinica» disse Wolfgang Erkner, serio in volto. «È molto malata. Non si sa ancora come abbia potuto lasciare la clinica. A ogni modo la polizia ferroviaria di Amburgo ha fermato una donna e ritiene che possa essere la mia paziente. E quindi mi ci devo recare, in fretta, per verificare.» «Lei... lei... lei dunque è un medico dei matti?» balbettò la signorina. «Sì, Luise» disse lui, dolce. «Non mi chiami Luise» esclamò lei, con forza.
«Come vuole, signora Gottschalk. Temo che lei non stia molto bene...» «Io sto benissimo!» «...e quindi dovremo ora fare una bella chiacchierata... e parleremo di lei» disse lo psichiatra dottor Wolfgang Erkner, si alzò e si avvicinò alla porta che dava sul corridoio, per abbassare le tende. Tirò giù la prima tendina. E nel farlo voltò le spalle alla signorina Luise. 2 Nell'attimo prima di perdere conoscenza, vidi ancora Irina aprire lo sportello dalla sua parte e saltare sul marciapiede. Poi svenni, perché quel liquido aveva fatto il suo effetto: seppi solo più tardi quello che accadde a questo punto. Irina scorse un'automobile che scendeva lungo l'Eppendorfer Baum. Cominciò a far grandi gesti. Dalla Buick. verde oliva, che era parcheggiata dietro la mia Lamborghini, schizzò fuori un uomo: l'amico del droghiere che mi aveva premuto in faccia quello straccio bagnato. L'amico, che non era affatto impegnato in un gran viaggio per l'Europa, così come non lo era quell'altro individuo, riuscì ad afferrare Irina per il cappotto, la costrinse a voltarsi con uno strattone, e tentò di trascinarla verso la sua macchina mentre lei si difendeva disperatamente e strillava come un'ossessa. Ma l'uragano soffocò le sue grida. Irina riuscì a liberarsi una mano e cacciò le unghie in una guancia dell'uomo. Dai solchi prodotti da quelle unghiate uscì del sangue. L'uomo bestemmiò. Colpì Irina in faccia, con tanta violenza che lei ne ebbe il respiro troncato e si inginocchiò. Lui la sollevò e la sospinse verso la macchina. L'individuo che mi aveva tanto abilmente stordito lo raggiunse di corsa, e tentarono insieme di caricare Irina sulla Buick. Ce l'avevano ormai quasi fatta, quando si fermò accanto a loro, con grande stridore di freni, un taxi. Ne saltarono giù due uomini: Bertie e l'autista. L'autista, un uomo anziano, impugnava un cric. Si avventò sull'individuo che mi aveva narcotizzato, sollevò il pesante attrezzo e lo calò con forza. Colpì in testa l'uomo che aveva detto di chiamarsi Richard McCormick. Questi cacciò un urlo e cadde in ginocchio portandosi le mani alla nuca, poi cadde riverso a terra. Bertie da parte sua si era avvicinato di corsa all'uomo che stava lottando con Irina. Lei era ormai quasi sospinta sul sedile posteriore della Buick. Bertie afferrò il secondo uomo per il colletto del cappotto e gli sferrò, con tutta la sua energia, un pugno alla mascella. L'uomo, forse un pugile, si scrollò come un cane caduto in acqua, ruggì e saltò addosso a Bertie. Tutti
e due cominciarono a rotolarsi sull'asfalto. Il pugile mirava alla faccia di Bertie, che non era certamente una mezza cartuccia, e lo picchiava violentemente ai fianchi. Irina, terrorizzata, uscì dalla macchina e cominciò a gridare: «Aiuto!». Ma la bufera copriva le sue grida. Sollevò allora il cric che era caduto di mano all'autista, e corse verso McCormick, che stava rialzandosi, barcollando. Irina lo colpì e lui rovinò ancora una volta sull'asfalto. In quell'attimo ripresi conoscenza. Irina continuava a urlare, ma nemmeno io, che stavo uscendo dalla macchina proprio accanto a lei, riuscivo a capire le sue parole. Mi si aggrappò e così la sentii finalmente: «Ho paura... paura... ho tanta paura... quelli ci uccidono...». «No» dissi io, ancora alquanto confuso. «No. In macchina, presto!» «Ma...» «Si spicci!» le urlai. Lei singhiozzò, girò di corsa attorno alla Lamborghini e s'infilò ubbidiente sul sedile anteriore. Un po' alla volta mi riuscì di mettere a fuoco quello che mi stava succedendo attorno. E a usare il cervello. Mi chinai, presi la Colt 45 che mi era sfuggita di mano finendo sul pavimento della macchina sotto il volante, e diedi un'occhiata a McCormick. Per un po' di tempo quello era sistemato. Mi diressi verso Bertie e l'altro individuo. Bertie era messo male. Era riverso sulla schiena, e l'amico di McCormick, in ginocchio su di lui, gli mollava cazzotti sulla testa che Bertie aveva sempre ancora avvolta in una benda sporca. L'autista del taxi tentava di rovesciare all'indietro il secondo uomo, ma quello, con una manata, centrò l'autista nello stomaco. Il tassista finì seduto sull'asfalto, le mani premute contro il corpo. Era vecchio, ve l'ho detto. Coraggioso, ma troppo vecchio. Incespicai su di lui nel dirigermi verso Bertie e il secondo uomo, puntai la Colt 45 sul petto di quest'individuo e gli urlai: «Adesso basta, o sparo, brutto porco!». E con la mano libera, per risultare più convincente, gli piazzai un cazzotto sul mento. I denti gli si piantarono nelle labbra. Il sangue prese a scorrergli dalla bocca. «Alzati!» gridai io. Si alzò, barcollando. E vacillò diritto fra le braccia dell'autista che era riuscito a rimettersi in piedi. L'autista prese tutto lo slancio di cui fu capace, e lo colpì di destro di nuovo al mento. Dopo tutto, aveva una bella castagna, il vecchietto. Il secondo uomo barcollò all'indietro, andò a sbattere con la schiena contro la carrozzeria della Buick e crollò a terra. L'autista si avviò di corsa verso la sua vettura. Io gridai: «Che vuol fare?».
«Chiamo la polizia. Ho la radio...» «No!» strillai io. «Niente polizia. Prima che arrivi, qui siamo da capo. E chissà se avremo ancora tanta fortuna!» «Lei non ha molta stima per la polizia, vero?» strillò lui, guardandomi in modo strano. «No!» «Be', a suo rischio. Allora, che facciamo?» «Andiamocene di qui!» Non sapevo che farmene della polizia, in quel momento. E visto poi il modo col quale la polizia aveva trattato il caso di Conny Manner, avevo perso ogni fiducia. «D'accordo! Ma dove?» sbraitò l'autista. Bertie si alzò, barcollando un poco. Si palpava la testa, ma sorrideva già di nuovo. Che tipo, quel Bertie! «Hotel Metropol» strillai io. «Io la seguo» strillò l'autista. L'infuriare dell'uragano sovrastava quasi completamente le nostre grida, e riuscivamo a comprenderci a stento. «Non è necessario!» strillai io. «Lo dice lei!» strillò quello. «E se poi succede che le saltano addosso un'altra volta?» «Ha ragione» disse Bertie. «È meglio che ci segua. Per la miseria, qui siamo piombati in pieno western. Siamo arrivati giusto in tempo, eh?» Al tassista urlò: «Venga dietro di noi!». Il tassista annuì e strillò: «Prenda lei il mio cric!». Era rimasto a terra, accanto alla mia Lamborghini. Tornammo di corsa verso la mia macchina. I due presunti turisti americani erano ancora distesi in mezzo alla strada. Benissimo. Raccolsi il cric, lo gettai sotto il mio sedile, e mi infilai nella Lamborghini. Bertie salì su dall'altra parte. Gli sportelli si richiusero contemporaneamente. Avviai il motore, e descrissi una curva pazza e guidai a tutta birra nella direzione dalla quale eravamo venuti. Vidi dietro di me, nello specchietto retrovisore, i fari del taxi. Il vecchietto guidava con giovanile abilità. Bertie mi spiegò di essere stato trattenuto a lungo a Fuhlsbüttel, poiché a quell'ora ci voleva sempre un'eternità per spedire o ritirare un plico. E poi non aveva più trovato taxi all'aeroporto: aveva dovuto attendere quello che ci seguiva. «L'ho fatto correre come un indemoniato. Gli ho spiegato di avere fretta. Me la sentivo che qui c'era bisogno di noi.» Bertie si prese la testa fra le mani. «Quello sporco e miserabile bandito! Mi ha colpito proprio dove ero
già ferito. Mi fa un male tremendo. Si può sapere cos'è successo?» Improvvisamente Irina cominciò a tremare: lo choc agiva in ritardo. «Volevano rapirmi... volevano rapirmi... volevano...» E di colpo urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. «Ma perché? Non ce la faccio più! Voglio sapere cosa...» e si aggrappò un'altra volta al volante. La Lamborghini sbandò. «Maledizione!» urlai io. «Le avevo detto che...» Bertie le rifilò due sberle. Lei si azzittì, sbarrandogli gli occhi addosso, sbalordita. Però abbandonò il volante. Per fortuna. Ero già finito con due ruote sul marciapiede. «Mi dispiace» disse Bertie. «Ci volevano. È passata?» Lei annuì e disse, singhiozzando: «Perdonatemi! Sono così sconvolta! Ho perso la testa. Cosa sta succedendo? Me lo dica!». «Riusciremo a scoprirlo, vedrà» dissi io. «Al campo lei m'ha detto di aver fiducia in me, giusto?» «Sì.» «Ne ha ancora?» «Sì, signor Roland» mormorò. «E allora va bene.» Guardai nello specchietto retrovisore. «Il tuo amico è sempre alle nostre costole» riferii a Bertie. «Meno male. Ho tutta la documentazione su quell'invertito di Concon nel suo taxi.» Curvai a sinistra nella Hagedornstrasse. «Cose da pazzi!» esclamò a un tratto Bertie. «Io non ci credo a queste cose, cascasse il mondo. Ma se uno ci crede, be', qui ha da divertirsi.» «Divertirsi di che?» chiesi io. «Di chi parli?» Il taxi ci seguiva, ligio agli ordini... «Di quella tua matta signorina Luise e dei suoi amici.» Gli avevo riferito poco prima dei miei incontri coll'antiquario francese, col portiere polacco e col marinaio norvegese. «Sono tutte sciocchezze. Dico bene?» Alzai le spalle. «Ma poi mi chiedo: e se non lo fossero? Dico così per dire, non perché ci creda. Però quello è curioso.» «Cosa?» chiese Irina. «Il tassista» disse Bertie. «Che ha di speciale?» «Be', insomma,» disse Bertie «forse è persino sciocco parlarne: si chiama Ivanov. Vladimir Ivanov. Me l'ha detto lui. È venuto in Germania coi
genitori, da bambino, e poi è rimasto qui. È un'eternità che risiede qui da noi. Ad Amburgo. Parla senza alcuna inflessione russa ormai.» «Un russo?» chiese Irina, completamente disorientata. «Sì, un russo» disse Bertie. «Sono brava gente, da morti, ha detto quella signorina, vero? Be', io posso dire soltanto che se anche l'americano e il norvegese hanno deciso di tornarsene in vita, adesso sono tutt'altro che brava gente. Ma tutte queste sono pure fesserie, è ovvio. I normali siamo noi. La pazza è la signorina. I morti non tornano.» «Certo che no» dissi io, e pensai al mio colloquio con Hem. «Tutte fantasie» disse Bertie. «Tutte fantasie» dissi io. Poi tacemmo per un po', mentre io oltrepassavo il Poeseldorfer Weg e le belle ville a destra della strada, il parco buio e l'acqua che erano a sinistra. Superai la Alsterstrasse, e infine raggiunsi il Metropol. Mi fermai davanti all'ingresso. E dietro di noi si fermò il taxi coll'autista russo. Dall'hotel venne un inserviente che si occupò dei nostri bagagli e dei miei vestiti. Vladimir Ivanov, il russo, si mise ad aiutarlo. Ivanov aveva una bella faccia onesta e sembrava molto gentile. Lo ringraziai e gli diedi dei soldi, parecchi soldi. Dapprima non voleva accettarli, ma poi, naturalmente, li accettò. Mi consegnò un biglietto da visita col suo nome e col numero del suo radio-taxi. «Lì c'è il numero di telefono della centrale. Se domani... voglio dire oggi... avrà bisogno di un taxi, chieda di me, la prego. La porterò dove vorrà. Di me si può fidare.» «Sì, me ne sono accorto.» «E non è che i miei affari vadano poi così bene» aggiunse. «Penserà a me, signore?» «Ma certo.» 3 L'appartamento 423 dell'Hotel Metropol offriva, fin dalla prima occhiata, il maggior contrasto possibile e immaginabile rispetto all'ufficio della signorina Luise, ove avevo visto Irina per la prima volta. Quello diceva della povertà, questo della ricchezza. Tutte le finestre davano sul parco. Dopo un'anticamera si entrava in un salotto, e di qui si passava alla camera da letto attraverso una porta imbottita. Dalla camera da letto si accedeva al bagno: mattonelle blu scuro, riscaldamento a pannelli, due vasche e due vasti lavandini. La camera da letto e il salotto erano tappezzati di seta blu
decorata di gigli ricamati; blu anche la moquette, con tappeti; mobili in stile, molto raffinati; soffitti bianchi e stuccati; pesanti tende di damasco blu. Il letto era molto ampio, come lo sono sempre i letti matrimoniali francesi: di legno nocciola bordato d'oro. Nel salone c'era un divano. In entrambe le stanze lampadari di cristallo, lampade a stelo e tutta l'illuminazione indiretta che si poteva desiderare. E sulle pareti, naturalmente, candelabri elettrici. Nel salotto c'erano anche stampe di Amburgo, nella camera da letto riproduzioni di quadri di Boucher. Irina - cappottino di stoffa semplice sul vestitino da pochi soldi - si fermò in mezzo al salotto, ammirò tutte quelle meraviglie e disse: «Non sono mai stata in un albergo come questo. Lei invece sì, vero?». «Sì» dissi io. «Scelgo sempre il meglio.» Scostò una delle pesanti tende di damasco e guardò fuori nel parco buio. Mi avvicinai. La pioggia batteva sui vetri, e sull'altra sponda dell'Alster, dove c'era una rotonda panoramica, c'erano ancora luci accese che si specchiavano nell'acqua del fiume e nel piccolo laghetto del parco. Abbandonò la tenda e mi guardò con un'espressione seria, i grandi occhi tristi spalancati. Qualcuno bussò. Era l'inserviente che mi portava le valigie, i vestiti, il registratore, e la macchina da scrivere. Gli diedi una mancia esagerata, come sempre. «Grazie, signor Roland. La sua auto è già sistemata nel parcheggio sotterraneo.» «Benissimo» dissi io. Era ora che la Lamborghini sparisse un po' dalla circolazione. «È possibile noleggiare una macchina, anche a quest'ora?» «Naturalmente, signor Roland. Il nostro servizio funziona ventiquattr'ore su ventiquattro.» Sorrise e sparì. Subito dopo apparve un cameriere arzillo, inappuntabilmente vestito, riposato e gentile (erano le 3 e 25 del mattino!). Portava un secchiello d'argento con cubetti di ghiaccio, due bicchieri, selz e una bottiglia di Chivas. «La sua bottiglia, signor Roland. Il signor Heintze ci ha subito avvisati del suo arrivo.» «Grazie» dissi io, e anche il cameriere ebbe la sua mancia troppo generosa. Poi venne un altro cameriere. Portava spazzolino da denti, dentifricio, uno spazzolino per le unghie, acqua di Colonia e un barattolo di crema detergente, di un'ottima marca: tutti oggetti che erano accuratamente avvolti
in un foglio di cellophan. «Con gli omaggi del signor Heintze» disse. «Auguro a lorsignori un buon riposo.» «Un momento!» Lo fermai appena in tempo, sulla porta. Mancia. «Mille grazie, signor Roland.» La mancia più grossa se l'era presa naturalmente il signor Heintze, il portiere di notte, un uomo dal volto pallido, dalle profonde occhiaie, dall'alta statura. Lo vidi farsi raggiante quando entrammo. Nella vasta hall, dietro il suo bancone, tutte le luci erano accese. Le donne delle pulizie si muovevano silenziose e riassettavano il locale. Persino i loro aspirapolvere non facevano alcun rumore. Dissi a Heintze di aver bisogno di un appartamento, possibilmente in uno dei piani superiori, e inoltre di una stanza singola con bagno per Bertie. «Abbiamo due congressi, signor Roland... Ma in qualche modo la sistemerò, naturalmente, come sempre...» Come sempre. Ero già stato in quell'albergo con un sacco di ragazze. Ogni volta io solo avevo firmato il registro e aggiunto poi semplicemente: «E signora». Feci così anche quella volta. Heintze non batté ciglio. Fu di una gentilezza squisita con Irina, che si sentiva invece molto imbarazzata. Heintze parve non accorgersene. E non parve nemmeno accorgersi che sui nostri abiti c'erano ancora tracce di sporco, conseguenza della scazzottatura. Gli spiegai qualcosa a proposito dei bagagli di Irina, finiti su un aereo sbagliato, e lui mi disse che avrebbe immediatamente procurato quanto serviva, e me l'avrebbe fatto portare su nell'appartamento. Ci diedero il 423. Tipo in gamba, quell'Heintze. Bertie ebbe una stanza al piano superiore. Una diversa sistemazione non era stata possibile. Heintze abbandonò per qualche minuto il suo posto, accompagnò Irina e me sino all'appartamento, accese le luci, si accertò che tutto fosse in ordine. Nell'andarsene, ebbe la sua lauta mancia. Irina era sempre ancora ferma in mezzo al salotto, nel suo cappotto striminzito. Guardava i mobili e le stampe appese alle pareti, ma era infinitamente a disagio: e non riusciva più quasi a tenere gli occhi aperti. Mi avvicinai al vassoio d'argento col whisky e il secchiello del ghiaccio, aprii la bottiglia di Chivas, versai due generose porzioni e allungai un bicchiere a Irina. «No, grazie» disse lei. «Su, su» insistei. «Beva. Cosi poi potrà dormire meglio.»
«Non voglio...» «Deve!» Le misi il bicchiere in mano. «La prego!» Bevemmo entrambi. Irina mi squadrava con occhi inquieti. «Io devo sapere dov'è Jan. Devo sapere dov'è quell'altra donna. Devo sapere...» «Si» dissi io. «Sì, sì, sì, dobbiamo saperlo anche noi. E riusciremo a scoprirlo. Però da soli! Lei rimarrà qui. Per lei è troppo pericoloso.» «Pericoloso?» «Ha appena esperimentato sulla sua pelle quello che volevano fare di lei.» «Crede davvero che volessero rapirmi?» «Ma no. Forse no» e mi accesi una sigaretta. «Perché? Perché, signor Roland» gridò all'improvviso, e pensai che probabilmente, come aveva fatto Bertie, era il caso di rifilarle due ceffoni, perché era sull'orlo di un collasso isterico. Sperai che il whisky la placasse o la facesse crollare, e che ci lasciasse finalmente in pace. Con tutto quello che dovevamo fare, Bertie ed io, non avevamo davvero bisogno di avere Irina fra i piedi. Ero contento d'averla sistemata al Metropol. Lì era al sicuro. «Perché? La prego, signor Roland!» ripeté piano. Era così piena di sonno che la vidi oscillare. «Mi dia un po' di tempo. Solo un paio d'ore, e poi glielo saprò dire» dissi io. «Vuole uscire di nuovo, subito?» chiese terrorizzata. «Devo!» «Per andare dove?» «Non lo so ancora. Dobbiamo trovare quel Karl Concon. Quando saremo riusciti a mettere le mani su di lui, riusciremo anche a fargli dire perché ha tentato di rapirla, lassù al campo. Però dobbiamo muoverci in fretta. Siamo già molto in ritardo, maledizione!» «E io devo restare qui da sola?» «Sì. Quando andrò, la rinchiuderò a chiave...» «Cosa?» «...e dirò al portiere che dovrà consegnare la chiave soltanto a me. Lei si farà una bella dormita. Non sentirà nemmeno se qualcuno verrà a bussare. Però potrà capitarle di sentire il telefono che è accanto al letto. Non posso farlo disattivare, perché può darsi che io abbia bisogno di chiamare lei. Mi risponderà solo se riconoscerà, senza alcun dubbio, la mia voce... oppure la
voce di Bertie. D'accordo?» «Sì.» «Se, invece, è una voce che non conosce riagganci.» «Ma perché?» «Perché lei è in pericolo» dissi, brutalmente. «Possibile che non se ne sia ancora resa conto?» Tremò un poco, vuotò il bicchiere e me lo porse. Era molto, molto bella. E pensai: mi piacerebbe proprio... Le versai un'altra razione di whisky e ripetei: «Ho chiesto se se ne è resa conto». «Sì,» disse «me ne rendo conto. Ma perché...» «Basta con le domande. Non ho tempo. Subito a letto.» Entrai nella camera da letto, dove c'era la mia valigia, appoggiata su un cassettone, l'aprii e ne tolsi un pigiama blu scuro. «Ecco. Si metta questo. Domani le procurerò altra roba.» All'improvviso arrossì violentemente. «Cosa c'è adesso?» Indicò il letto matrimoniale. «Quando rientrerà... voglio dire... anche lei dovrà pur dormire da qualche parte, e...» «D'accordo, d'accordo» dissi io, e prelevai cuscino e coperta da un lato del letto. Portai il tutto in salotto e lo gettai sul divano. «Nel letto ci dorme lei, io dormirò qui.» Presi dalla mia valigia un secondo pigiama, le mie pantofole e il mio necessaire da toilette. «Non abbia paura. Non tenterò assolutamente di violentarla. Non è mia abitudine.» «Lei è buono con me» disse Irina. «Già» dissi io. «Se ci penso... un paio d'ore fa ero ancora in quella sporca baracca... e ora qui, in un hotel di lusso... È tutto come un sogno confuso.» Pensai che quello non era affatto un sogno e che sarebbe diventato certamente ancora più confuso. Pensai anche che mi sarebbe proprio piaciuto andare a letto con Irina... come con tutte le altre ragazze che avevo sino ad allora portato con me negli alberghi. Ma poi pensai che, in realtà, non lo volevo. E fu una constatazione buffa. Non riuscivo a capire me stesso. Con quella ragazza, Irina, per la prima volta in vita mia, mi accadeva tutto diverso dal solito. Il che mi rendeva rabbioso. «Avanti, a letto» l'investii. «Ho da lavorare.» Mi guardò spaventata, poi scosse la testa, borbottò qualcosa in cèco, si avviò a passi incerti verso la camera da letto e chiuse la porta dietro di sé.
Io mi preparai un altro drink, una bella dose, mi sedetti accanto al telefono color avorio che era su un armadietto molto bello e basso, e sollevai il ricevitore. Dal centralino mi rispose la voce di una ragazza. Le diedi il numero di Conny Manner. «Subito, signor Roland» disse la ragazza, gentile. E infatti mi passò la linea, che dava il segnale di libero. Lo sentii tre volte, poi qualcuno sollevò il ricevitore in casa di Conny. Ma non si udì alcuna voce. Sentii solo il respiro della persona che era al telefono. «Edith, sono Walter Roland» dissi io. «Riconosco la sua voce, Walter» disse Edith. «Dov'è adesso?» «Dove sono sempre quando vengo ad Amburgo» dissi prudentemente, ricordando che il telefono di Conny era sotto controllo. «Ah, ho capito, al... sì, ho capito.» «L'hanno chiamata dall'ospedale?» «Sì.» «E allora?» «Mi hanno detto di andarci immediatamente, perché Conny sta molto male... Me lo ha detto un uomo... Ho richiamato l'ospedale e chiesto se qualcuno mi aveva telefonato da lì...» Singhiozzò. «No, mi hanno risposto. Le condizioni di Conny sono stazionarie e perciò non c'era necessità di chiamarmi... Walter, chi ha tentato di attirarmi fuori di casa e perché?» «Non lo so» dissi. «Visto che è stata una buona idea suggerirle di richiamare sempre l'ospedale per controllo?» «Sì. Ma lei, perché mi telefona solo ora? Mi aveva detto...» «Non ho potuto farlo prima, mi spiace. Ha chiamato qualcun altro?» «Sì. Un uomo. Uno che non conosco. Doveva aver messo un fazzoletto sul ricevitore, almeno a sentir la voce.» Singhiozzò. «Cos'ha detto, Edith!» «Mi ha... mi ha detto che Conny morirà, anche se dovesse sopravvivere all'operazione... morirà... molto presto... se dirà una sola parola...» «A chi?» «A me... quando lo vedrò... La voce mi ha detto che dovrò dirglielo subito, quando potrò andare da lui. Una sola parola, e non sopravviverà un solo giorno. Riusciranno a farlo fuori anche all'ospedale...» «Insomma, cos'ha detto quella voce esattamente?» «"Una sola parola, e non soprawiverà un solo giorno. Noi riusciremo a farlo fuori anche all'ospedale."»
«Ha detto noi? Non: io?» «No: ha detto noi! Noi! Noi! Noi!» «Edith!» «Mi scusi. Ma sono ormai quasi impazzita dalla paura, Walter. Cerchi di capirmi!» «Capisco benissimo. Vedrà che non succederà niente a lei e non succederà niente a Conny» dissi io, e pensavo: speriamo. «Chi era quell'uomo, Walter?» «Riuscirà a saperlo. Mi dia tempo. Ora la smetta di bere e cerchi di dormire un poco!» «Non riesco a dormire!» Discutemmo ancora un po', e infine riagganciai. Accesi un'altra sigaretta. Sollevai di nuovo il ricevitore e chiesi al centralino il numero privato di Hem a Francoforte. La comunicazione venne subito. «Eilà, Walter, come vanno le cose?» s'informò Hem. Gliele raccontai. Non m'interruppe nemmeno una volta. E alla fine disse: «Questa diventa una faccenda molto grossa, l'ho capito subito. Herford è d'accordo di buttare all'aria tre o quattro pagine. Entro le dieci ho bisogno d'un tuo breve articolo e delle didascalie per le foto». «Sì, Hem.» «Che ne è di quel Concon?» «Non lo so ancora. Stavo per andarci adesso.» «Purché non succeda qualcosa alla ragazza, Walter! È la cosa più importante! Che sta facendo?» «È a letto. La rinchiudo a chiave. Ci si può fidare del personale dell'albergo.» «Va bene. Chiamami appena puoi e non appena ci saranno delle novità. Io non vado a letto. Sono troppo agitato.» «Non più di me» dissi io. «Che fa? Fuma la pipa?» «Sì» rispose lui. «E ascolto dischi e intanto penso.» «A che cosa?» «A come si svilupperà questa storia, e a come andrà a finire.» «E che ne pensa? Che finirà bene?» Invece di darmi una risposta mi disse solo, piano: «In bocca al lupo, Walter». E riagganciò. Avvertii lontana, molto lontana (ma aveva la maledetta abitudine di venirmi poi addosso fulmineamente) la presenza dello sciacallo. Per questo vuotai il bicchiere di colpo e mi alzai per andare in bagno. Inoltre volevo vedere se Irina dormiva già. Non dormiva. La came-
ra da letto era vuota. Nel bagno era accesa la violenta luce al neon. Scorsi Irina: mi voltava la schiena. Era davanti al lavabo e si puliva i denti. Ed era completamente nuda. Dovette accorgersi del mio sopraggiungere solo guardando nello specchio sopra il lavandino, perché si girò di colpo, spaventata, bicchiere e spazzolino in mano. Vidi il suo petto, bello e sodo, i capezzoli grandi e scuri sul vasto alone, i fianchi slanciati, le gambe lunghe, il ventre piccolo e piatto che è caratteristico di tutte le donne veramente belle e, sotto, il triangolo scuro del pelo. Sentii il sangue montarmi in corpo, caldo e violento. Non avevo mai visto una ragazza splendida come quella. E in un attimo mi dimenticai di tutto: di quello che avrei dovuto fare, di quello che era accaduto, di quello che poteva ancora accadere. Volevo Irina, subito. Immediatamente. Fu l'unico pensiero che riuscii a concepire. Mi diressi verso di lei. Mi sbarrò gli occhi addosso, incapace di muoversi. Panico nello sguardo. Non m'importava niente. Volevo avere quella ragazza. Dovevo avere quella ragazza. La sua pelle era bianca e liscia, i capezzoli le si rizzarono. Sentii il sangue battermi selvaggio nel mio sesso. Mi avvicinai, passo dopo passo. Nel pensiero ero già su di lei, dentro di lei. Il mio sangue bolliva. Irina abbandonò il bicchiere che stava adoperando per lavarsi i denti. S'infranse sulle piastrelle del pavimento. Anche lo spazzolino le sfuggi di mano. E se ne rimase li, senza muoversi, senza nemmeno fare un tentativo per coprirsi. L'avevo raggiunta. Toccai le sue spalle. Le mie mani scivolarono lentamente più in basso. Lei mi guardava con gli occhi neri spalancati. Aveva ancora tutta la bocca impiastricciata di dentifricio. Mi bloccarono gli occhi. Solo gli occhi. Non me la sentii di farlo. Sarebbe stato senz'altro possibile. Ma sarebbe stato anche ignobile. Quegli occhi scuri e tristi mi dicevano che razza di porco sarei stato se l'avessi fatto. Non lo feci. Afferrai il mio pigiama, che era appoggiato su uno sgabello ricoperto di spugna, pensai che mai in vita mia m'ero comportato in quel modo, e dissi: «Mi scusi». E poi: «Venga, l'aiuto». E aiutai Irina a indossare il mio pigiama che le stava troppo largo. Rimboccammo le maniche e il fondo dei pantaloni, ma Irina continuava ad avere un aspetto ridicolo. Per me però non era ridicola. I suoi occhi non mi abbandonarono per un solo secondo. Le tolsi con un asciugamano il dentifricio dalle labbra. «E adesso marsch» dissi. «Attenta alle schegge di vetro. Aspetti.» E così dicendo la sollevai, la
portai in camera, la infilai fra le lenzuola e la ricoprii. «Buona notte» dissi a lei che continuava a guardarmi. Me ne andai. Quando appoggiai la mano sulla maniglia della porta che dava sul salotto, la sua voce risuonò così piano che quasi non la sentii: «Signor Roland...». «Sì?» E mi voltai. «Venga» sussurrò Irina. Mi avvicinai, lentamente, esitante. Mi fece un cenno: voleva che abbassassi la testa verso di lei. M'inchinai a fondo. Mi diede un bacio leggero sulle labbra e mormorò: «Grazie». Mi raddrizzai, e improvvisamente non fui più in grado di reggere lo sguardo di quegli occhi, tutta quella purezza, tutta quella sincerità, tutto quell'abbandono. Me ne uscii alla svelta. In salotto riempii di nuovo la fiaschetta d'argento, afferrai il mio cappotto, un taccuino, il registratore e lasciai l'appartamento. Chiusi la porta che dava sul corridoio a due mandate. 4 Quando entrai nella sua stanza Bertie stava telefonando. Gli feci un cenno, attraversai la stanza diretto verso il bagno e così notai, sparsi sul letto, i ritagli che l'archivio ci aveva spedito a proposito di quel Karl Concon. In bagno mi lavai un poco e scossi la sporcizia dal cappotto. Poi tornai da Bertie. Era sempre ancora attaccato al telefono. Non stava parlando, ma ebbi anche l'impressione che non stesse ascoltando nessuno. «A chi stai telefonando?» chiesi io. «Al registro automobilistico» rispose e sorrideva. Non aveva affatto l'aria stanca. «E hai trovato qualcuno? A quest'ora?» chiesi, sorpreso. «Solo un tizio. Per le richieste urgenti della polizia. È uno che conosco. Una volta mi ha vinto cinquecento marchi al poker, e da allora ha un complesso di colpa. Che fortuna ho avuto, che ci sia proprio lui a svolgere oggi il turno di notte. È proibitissima, naturalmente, la verifica che sta facendo, eppure me la fa lo stesso. Gran cosa gli amici.» «L'avrai fatto vincere apposta, quella volta, al poker.» «Ovvio» disse Bertie. «Gli amici non bastano mai.» «Che ne è del comando di polizia? Sei riuscito a combinare qualcosa? Hem dice che dobbiamo presentarci al più presto, lo sai.» «Cosa credi che abbia fatto tutto questo tempo? Ho telefonato al coman-
do di polizia, naturalmente. Conosco il dirigente della sezione persone scomparse. Direi che la sezione persone scomparse dovrebbe entrarci in questa faccenda, che ne pensi?» «Sì, forse conviene.» «Ho chiesto di parlare con quel dirigente, che si chiama Hering. Attualmente è a Parigi a una conferenza dell'Interpol. Rientrerà in mattinata. Il suo vice si chiama Nikel. Un commissario. Conosco anche lui, ma solo superficialmente. Comunque l'ho incuriosito per bene. Ci ha fissato un appuntamento. Alle undici, al comando di polizia, nell'ufficio di Hering.» «Che hai detto per incuriosirlo?» «Gli ho detto che dobbiamo parlare degli avvenimenti accaduti nel campo di Neurode» disse Bertie, il ricevitore sempre incollato all'orecchio. «S'è svegliato di colpo. Ragazzo mio, dobbiamo aver pestato un nido di vespe maledettamente importante. Quel Nikel voleva assolutamente sapere cos'è successo. Sono rimasto abbottonato. Gli ho detto che ne possiamo parlare solo a Hering. Era così eccitato che si è dimenticato di chiedere da dove telefonavo. Alle undici, dunque.» Accentuò il suo sorriso: «E allora, l'hai già stesa la tua dolcezza?». «Chiudi il becco» dissi io, improvvisamente rabbioso. Ma non c'era verso di far desistere Bertie. «Me ne sono accorto subito» continuò con un sorriso disarmante. «Di cosa?» «Che la gentile signorina ha suscitato le tue simpatie. Non son cose che possano sfuggire a Bertie, il grande psicologo. Ma il grande psicologo Bertie ti dice anche che la gentile signorina ama il suo fidanzato... anche se il fidanzato ha poi una seconda fidanzata, se ho capito bene. Quando una come quella decide di amare, allora l'individuo che ama può combinarne di tutti i colori, e lei continuerà lo stesso a...» S'interruppe, perché s'era fatto vivo al telefono quel suo amico. «Sì, certo che sono ancora qui! Allora, è riuscito a trovare qualcosa, Steffens?» Mi fece un cenno d'assenso, raggiante. «Sì? Benissimo! A meraviglia! La ringrazio. E di chi è quella macchina?» Ascoltava, continuava a sorridere, però cominciò anche a grattarsi nervosamente il mento. «Hm» fece infine. «Ne è sicuro? Voglio dire, quella macchina è proprio intestata a...» Mi avvicinai. «Va bene» disse lui. «Se le cose stanno così, direi proprio che non possono esserci errori. La ringrazio tanto, Steffens... Come?... No, non so ancora per quanto tempo mi tratterrò qui ad Amburgo. Se avrò tempo, passerò senz'altro da lei... Ah, ora ha addirittura 48 ore di libertà! Be', allora forse potrebbe scapparci una
partitina?... Ma che sciocchezze, mica me li ha rubati quei quattrini! Al poker lei è più bravo di me, tutto qui. Vedrà che mi farò vivo! E grazie ancora.» Riagganciò il ricevitore, e continuò a grattarsi il mento e a sorridere. «Be',» dissi io «che ne diresti di aprire il becco finalmente?» «Questa è buffa» disse lui. «Cosa?» «La macchina» disse Bertie. «La macchina con la quale sono spariti Bilka, Michelsen e la fidanzata di Bilka - la seconda intendo - è intestata al servizio municipale delle pompe funebri. E non risulta rubata! Servizio municipale di pompe funebri...» 5 Le ruote del treno martellavano sui binari. Lo psichiatra dottor Wolfgang Erkner si alzò, si avvicinò alla porta che dava sul corridoio, per abbassare le tendine. (Una trappola, pensava la signorina Luise. Mi sono cacciata in una trappola, oca che non sono altro. Se questo medico riesce a mettermi le mani addosso, non mi lascia più. E invece io devo potermene andare. Devo...) Non appena il dottor Erkner ebbe abbassato la seconda tenda, la signorina cacciò un urlo, come se fosse stata colta da un improvviso e forte dolore. Il medico si girò, spaventato. La signorina Luise, che aveva afferrato la sua borsa, partì all'attacco, andò a sbattere contro Erkner, gli diede uno spintone in modo che cadesse sul sedile imbottito, e fuggì di corsa lungo il corridoio del vagone. Giunse all'ultimo scompartimento. Aprì la porta piano, con precauzione. Lo scompartimento era al buio. Silenziosa come un'ombra, la signorina Luise scorse tre persone. Dormivano. Una delle tre russava leggermente. La signorina Luise entrò e richiuse la porta senza far rumore. Si sedette. Le ruote rimbombavano. A questo punto sentì, fuori in corridoio, dei passi, vicini... ancora più vicini... e passarono oltre. (Questo è il medico, pensò la signorina. Mi sta cercando. Come posso fare? Oh mio Dio, mio Dio...) Il cuore della signorina Luise batteva forte forte. E in quell'attimo sentì la voce del suo studente morto: «Non temere, Luise. Hai incontrato il tuo destino. Questo è stato un segno premonitore». E la voce dell'americano morto le disse: «Siamo stati noi a mandarti quell'uomo. Vedrai che saprà guarirti». La voce del polacco morto: «Rivedrai quell'uomo, Luise. E quando lo
rivedrai, tutto ti sembrerà squallido e triste. Ma tutto si volgerà poi al meglio, e tu sarai salva». (I miei amici, pensò la signorina, profondamente commossa: i miei amici, sono qui accanto a me, non mi abbandonano. Mi danno del tu!, e mi chiamano Luise! Per la prima volta!) La voce del russo morto risuonò chiara e forte: «Non aver paura, Luise. Non devi aver paura. Scendi. Adesso!». L'anziana signorina non ebbe neanche un secondo di esitazione. Si alzò, lasciò in silenzio lo scompartimento, e si avviò lungo il corridoio vuoto verso la porta del vagone. Voleva scendere subito, così come le era stato ordinato. Il treno procedeva a forte velocità. La signorina se ne rese conto, alquanto stupita ma non aveva paura. Raggiunse lo sportello del vagone, e abbassò la maniglia. Riuscì anche ad aprirlo, d'una spanna soltanto, perché la corrente d'aria prodotta dal convoglio in movimento lo bloccava. Si gettò con tutte le sue energie contro lo sportello, per spalancarlo. Era fermamente decisa a uscire, anche subito, senza un attimo di esitazione, benché scorgesse le luci volare fuori lungo il treno in moto. «I miei amici sanno quello che fanno» borbottò la signorina. Ed ecco il treno subire uno scossone, lo stridio dei freni, la velocità diminuire di colpo. Vide strade illuminate, case via via sempre più grandi e più addossate alla massicciata ferroviaria, luci bianche e rosse su pali di segnalazione, e un'insegna luminosa addossata a una casamatta di cemento simile a un rifugio, sulla quale si leggeva: STELLWERK 2. La signorina Luise non era mai stata ad Amburgo col treno, sempre soltanto in macchina. Non conosceva quella linea. Il treno entrò in una stazione. «Grazie, amici miei» mormorò la signorina Luise. Il treno si fermò. La signorina scese e si avviò per un marciapiede sul quale i lampioni oscillavano nella bufera. Una dozzina circa di persone scesero dal treno, e una dozzina circa salirono. Questa deve essere una stazione secondaria, pensò la signorina, mentre risuonava una voce da un altoparlante: «Rotenburg! Stazione di Rotenburg! Il treno diretto da Colonia via Brema è in partenza sul terzo binario!». La signorina Luise rimase accanto al suo vagone. Si sentiva avvolta di certezza e sicurezza, ed era felice, tanto felice. «I miei amici...» mormorava. «I miei amici...» La voce dell'altoparlante risuonò ancora: «Diretto per Amburgo in partenza sul terzo binario».
La signorina Luise restò ferma accanto ai vagoni che le scorrevano a fianco, e attese sino a quando vide le luci di posizione posteriori dell'ultima vettura. Poi si diresse, piegata in avanti contro il vento che minacciava di travolgerla, verso un sottopassaggio e scese le scale. Il sottopassaggio era deserto. C'erano un paio di panchine. La signorina Luise si sedette su una e si mise la borsa al fianco. (Non dovrò starmene qui seduta a lungo, pensò, fra non molto verrà un accelerato che mi porterà ad Amburgo.) Nel sottopassaggio l'orologio luminoso indicava l'ora: le 4 e 56. (Ma certo, troverò subito la coincidenza, pensò la signorina.) Sorrise. Poi bisbigliò queste parole: «Nessuno sa da dove vengo... E dove vado, vanno tutte le cose...». Respirò a fondo, e un'espressione di pace assoluta si distese sul suo volto. 6 «Conosci certamente i fratelli Marx, quegli attori comici del cinema americano» disse Hem. Era entrato nella mia stanza proprio mentre stavo scrivendo le ultime parole del capitolo precedente, e aveva letto in silenzio, succhiando la pipa e annuendo un paio di volte. Aveva i capelli tutti arruffati, come sempre. E per leggere aveva inforcato un paio d'occhiali cerchiati di metallo. E ora mi stava squadrando, al di sopra delle lenti. «Sì» dissi io. «Erano quattro fratelli.» «Dopo aver letto quello che hai appena scritto, m'è venuto in mente un film nel quale Groucho Marx recitava coi suoi fratelli. Groucho diceva in quel film: "Sai che ti dico, nella casa accanto è sepolto un tesoro". Il fratello rispondeva: "Di' un po', sei matto? Qui accanto non c'è nessuna casa!". Groucho replicava, imperturbabile: "Non ha importanza, vuol dire che ne costruiremo una". Non saprei dare una migliore definizione di parapsicologia.» «Parapsicologia?» chiesi io. «Quello che la tua signorina ha sentito in treno, e poi nel sottopassaggio... è lei che te l'ha raccontato, vero?» «Quando sono andato a trovarla l'ultima volta. Mi annoto scrupolosamente tutto quello che racconta, non aggiungo nulla di mio.» «Quello che la signorina ha provato fa indubbiamente parte dell'ambito della parapsicologia. Il cervello d'una schizofrenica funziona diversamente. Il suo modo di percepire le cose è distorto. Noi non sappiamo quale sia
la vera causa di questo diverso modo di percezione. Forse gli schizofrenici hanno facoltà che li avvicinano in modo particolare alla parapsicologia.» «Lo so» dissi io. «Ho appena letto quello che uno scrittore molto intelligente ha scritto sul tema della parapsicologia. È molto, molto interessante...» «Lei ci crede a queste cose, Hem?» «Sì» disse lui. «E non io soltanto. Ti meraviglieresti nel sapere quanta gente ci crede e ci ha creduto. Il chimico russo Mendelejev. L'astronomo Friedrich Zöllner. Il grande biologo e filosofo Hans Driesch. Madame Curie. Sigmund Freud. Einstein. E molti, molti altri ancora.» «Ho sempre pensato che fosse tutto un imbroglio, fino a quando...» e mi interruppi. «Fino a quando sei capitato in questa vicenda» disse Hem, succhiò la sua pipa e annui. «Nella vita di ciascuno di noi arriva il momento in cui deve guardare alla parapsicologia come a un imbroglio oppure come alla scienza fantastica delle cose inesplicabili, in cui diventa il fratello Marx scettico oppure quello fiducioso. Noi tutti siamo così, come i fratelli Marx, tutti gli uomini: scettici o credenti.» Hem si sedette. «Pensaci un po'» continuò «e ti accorgerai che gli uomini hanno sempre creduto all'esistenza di una "casa accanto". Hanno collocato queste "case accanto" sulle stelle, nelle paludi o nel fitto dei boschi, in luoghi misteriosi della natura, in castelli solitari, nel cervello. Ho detto nel cervello, Walter.» «Sì» dissi io. «Nel cervello.» «Queste "case accanto" sono sempre state immaginate nei luoghi più straordinari. L'inesplicabile ha sempre bisogno d'una cornice drammatica. Quello che tu hai descritto, a proposito della tua malata di mente, si definirebbe - se vogliamo escludere l'ipotesi di una banale coincidenza - "precognizione". La ebbe anche il figlio di Dante, Jacopo. Otto mesi dopo la morte del padre, lo spirito di Dante lo condusse in sogno nel luogo ove era nascosto il manoscritto del tredicesimo canto della Divina commedia. La mattina dopo Jacopo si recò in quel luogo. E trovò il manoscritto. Nella località inglese di Aberfan una valanga seppellì una scuola, forse te ne ricordi. Dopo la catastrofe, i giornali ricevettero dozzine di lettere. Coloro che le avevano scritte, pur abitando in luoghi molto lontani da Aberfan, a volte in altri continenti, sostenevano di aver previsto la catastrofe in sogno. Descrivevano quel luogo terribile con assoluta precisione, pur non potendo averlo mai visto!» «Mi viene in mente quello che ha detto il cosmonauta Gagarin,» dissi io
«il primo uomo che è stato lanciato nello spazio. Ha detto qualcosa come: "Durante il mio volo ho visto cose che sono al di là di ogni immaginazione. Se potessi riferirne, scuoterei dal sonno l'umanità".» «Ecco, vedi» disse Hem. «La nostra epoca è a tal punto già tecnocratizzata, che l'uomo, per compensazione, deve assolutamente guardare all'irreale! Il cinquantacinque per cento di tutti gli europei leggono il loro oroscopo. La metà della popolazione tedesca occidentale crede nel sesto senso. Sempre più gente, che se lo possa permettere, va regolarmente a consultare un astrologo. Un adulto su cinque sostiene di aver già avuto informazioni parapsicologiche dal futuro. Anche nell'Unione Sovietica c'è un periodico che si chiama Tecnica e gioventù e ha 5 milioni di copie di tiratura. Mi sono appena fatto tradurre un articolo sulla misteriosa scomparsa di aerei e navi fra le Bermude, le Bahamas e Portorico. E uno scienziato sovietico si oppone con tutte le sue energie all'ipotesi molto razionale ma anche molto traballante secondo la quale quelli che accadono nel "triangolo della morte" sono incidenti. E, come era facile immaginare, l'industria degli armamenti delle grandi potenze si è già addentrata a tutto vapore anche in questo campo.» «Sta scherzando» dissi io. «Dico sul serio» disse Hem. «Nel luglio del 1959 il sommergibile atomico statunitense Nautilus ha lasciato un porto della costa orientale. A bordo c'era un passeggero di cui nessuno sapeva come si chiamava e cosa faceva. Quel passeggero è rimasto a bordo sedici giorni, e due volte al giorno si rinchiudeva nella sua cabina. Scriveva serie di numeri su un foglio di carta, poi lo infilava in una busta e la sigillava. Negli stessi momenti, a migliaia di chilometri di distanza, un secondo uomo era in un centro di ricerche sperimentali della società Westinghouse: scriveva anche lui serie di numeri e sigillava i fogli di carta in buste.» «E che significato aveva tutto questo?» «Un esperimento della NASA, caro mio! Il passeggero del Nautilus era un medium. I due uomini dovevano tentare di stabilire una specie di contatto "telefonico" attraverso il pensiero, e cercare di scrivere le stesse serie di numeri.» «Con che risultato?» «Non si sa. Segreto militare» disse Hem. «I russi da parte loro hanno fatto esperimenti nello spazio, tanto a lungo e con tale successo che, secondo un dirigente della NASA, forse saranno i russi a lanciare in orbita per primi un pensiero umano.»
«Un pensiero umano?» esclamai, sbalordito. «Sì» disse Hem. «È ormai accertato che i russi lavorano a grande ritmo attorno a questi progetti parapsicologici. Spedire e captare pensieri umani potrebbe risultare di importanza vitale in una guerra durante la quale tutti gli altri sistemi di comunicazione fossero messi fuori uso... Non si possono nemmeno più enumerare tutti gli esperimenti in corso. Noi sappiamo oggi che gli embrioni di pollo reagiscono al sorgere del sole: e questo benché nel laboratorio di sperimentazione l'intensità della luce e la temperatura rimangano invariate...» «E com'è possibile che captino il segnale del sorgere del sole?» chiesi io, stupefatto. «Già: come? E non basta! Certi batteri reagiscono alle macchie solari sino a quattro giorni prima del momento in cui i più raffinati strumenti possano rilevare i sintomi di un'eruzione sul sole! Prendi certi cani e gatti, per esempio. Un uomo può allontanarsi per più di duemila chilometri, senza lasciare alcuna traccia fisica di sé, eppure lo ritrovano! Quale sistema d'informazioni indica loro la strada?» «Appunto» dissi io, amaro. «E che terribile miracolo se un giorno anche ordigni nucleari potranno trovare così la loro strada!» «È da tempo che ci stanno lavorando» disse Hem. «In Occidente come in Oriente ci si arrabatta febbrilmente attorno a cose di cui negli anni Cinquanta si rideva soltanto. A Carcov hanno addestrato una cagna in modo da abituarla al fatto che, di tanto in tanto, le portavano via i suoi cuccioli. Quando poi però qualcuno produceva un dolore ai cuccioli, rinchiusi in un locale ermeticamente schermato, la cagna diventava inquieta, abbaiava e guardava nella direzione nella quale erano i suoi piccoli. I francesi hanno accertato possibilità di precognizione, e quindi di previsione, nei topi. Gli animali sono stati inseriti in una gabbia divisa in due. Alternativamente, un generatore caricava d'elettricità l'una o l'altra metà della gabbia, in modo del tutto casuale. Il topo poteva sottrarsi alla scossa solo se saltava tempestivamente sulla parte non caricata d'elettricità. Né gli scienziati né gli animali potevano sapere quale parte sarebbe stata caricata per prossima dal ritmo casuale del generatore. Ciò nonostante i topi hanno continuato a spostarsi tempestivamente sulla metà di gabbia che non avrebbe loro fatto del male!» «È fantastico» dissi io. «E tu stai scrivendo qualcosa di fantastico» disse Hem. «Solo che non te ne rendi ancora conto. Ragazzo mio, è venuta l'epoca in cui gli scienziati
sapranno dimostrare la verità di ciò che Paracelso scrisse mezzo millennio fa.» «Lei ritiene che il cervello malato della signorina Luise disponga di simili forze occulte?» «Non lo so. Voglio soltanto che tu pensi sempre a queste irreali faccende, quando scrivi la tua storia, anche se vi accadono sempre e soltanto fatti reali» disse Hem. «Oggi, scienziati di tutto il mondo parlano già correntemente di concetti come "radio del cervello", "sincronicità" e di "causalità rovesciata".» «Che significano?» chiesi. «"Sincronicità" vuol dire che due o più persone sentono, fanno e pensano la stessa cosa nello stesso momento. "Causalità rovesciata": l'effetto si manifesta prima della sua causa.» «Cosi come, secondo la signorina Luise, agivano i suoi amici, prima ancora cioè di avere un impulso ad agire, dal momento che per loro il concetto di tempo non esiste» dissi io. «Più o meno» disse Hem. «Tutto l'universo è regolato da leggi. Anche il caso non esiste. È stato Einstein a dire: "Non posso immaginare che Dio giochi ai dadi col mondo". Anche i fenomeni spirituali sottostanno a certe loro leggi. Immagini e pensieri trovano un loro ordine per forza d'attrazione reciproca. Molti scienziati sono al giorno d'oggi concordi nell'affermare che certi contenuti fortemente emozionali dell'inconscio, specialmente se riguardano situazioni marginali dell'esistenza, come la morte, la malattia, il pericolo, il rischio - tutte cose che si attagliano perfettamente al caso di quella tua signorina! - agiscono, al di là dei confini del mondo psichico, come elementi d'ordine per quelle immagini e per quei pensieri.» Hem tacque. Io dissi, dopo averci pensato un po': «Dio non gioca ai dadi col mondo. E per tornare ai suoi due fratelli Marx, il loro atteggiamento può essere interpretato così: il fratello incredulo e scettico, quello che dice che non esiste affatto una "casa accanto", guarda a se stesso e al mondo come a meccanismi che non sono tenuti in funzione da un fattore situato "fuori dal mondo". Si ritiene un prodotto del caso del destino, dei dadi appunto. Guarda all'evento parapsicologico come a un fatto naturale, solo non ancora spiegato e analizzato». «Appunto. Per l'altro fratello, invece,» disse Hem «per quello che sa dell'esistenza di un tesoro nella "casa accanto" e che vuole costruire una "casa accanto" se gli dicono che non c'è, onde poter scoprire il tesoro, per
questo fratello l'idea di essere frutto del caso è insopportabile. Non crede a un suo essere stato prodotto dai dadi. Crede invece che fra terra e cielo vi siano tante cose che l'uomo non sa nemmeno immaginare. Ed è Groucho Marx che crede appunto questo.» «E lo crede anche lei, Hem» dissi io. «Si» disse lui. «Io sono come Groucho, anche per quel che riguarda quella tua signorina. Specialmente nel caso di quella tua signorina. C'è una cosa che né gli assertori né gli avversari della parapsicologia possono togliere a un uomo.» «E cioè?» chiesi io. «E cioè di studiare se stesso e il suo prossimo» disse Hem. 7 L'archivio di Blitz era diretto da una donna: Karin von Mertzen. Personaggio formidabile: tanto di cappello. Del nostro giornale si poteva dire tutto il male che si voleva, ma bisognava fare un'eccezione per l'archivio. Era perfetto. Uno dei più ricchi e meglio organizzati che un settimanale, un quotidiano o una rivista potessero desiderare di possedere in tutta la repubblica federale. Era sistemato in un sotterraneo, e occupava in tutto sei vaste sale. Le pareti di ciascuna di quelle sale erano ricoperte da cima a fondo di classificatori metallici per documenti. C'erano scale che raggiungevano il soffitto, scorrevoli lungo rotaie fissate in alto, così che era agevole arrampicarsi sino ai contenitori più alti. Nel frattempo anche i sei grandi locali erano diventati insufficienti, e da un anno la Mertzen, con la sua équipe di quindici persone, stava trasferendo su microfilm tutto l'archivio. Due anni ancora, e il lavoro sarebbe stato completo. Fantastico, quell'archivio! Qualunque cosa vi si cercasse, la si trovava. Spesso anche di più. Perché la Mertzen era una fanatica. Aveva organizzato l'archivio seguendo il modello dell'FBI. Vale a dire: su ogni individuo, su ogni avvenimento emerso anche una sola volta all'attenzione dell'opinione pubblica, raccoglieva anche le "informazioni aggiuntive", strettamente riservate nella maggior parte dei casi, e ottenute con mezzi sui quali la Mertzen non si sbottonava. Ma dovevano essere raramente mezzi legali. Quel che c'era in quell'archivio - di fatti, dicerie, sospetti, pettegolezzi rigorosamente segreti - sul conto delle singole persone, era di natura tale da poter far tremare più d'un parlamentare, più d'un industriale, se a-
vessero anche solo immaginato l'esistenza di quel magazzino d'informazioni. Sulla base del solo nome - Karl Concon - la Mertzen era stata in grado di spedirci una grande busta gialla imbottita, piena di ritagli, di articoli, di commenti e corredata delle sue famose "informazioni aggiuntive" trascritte su carta azzurra, coperta d'una fitta scrittura a macchina, in caratteri minuti. Bertie e io, seduti sul suo letto all'Hotel Metropol, sfogliammo un ritaglio dopo l'altro. C'era naturalmente anche il reportage fotografico che Bertie aveva fatto a suo tempo per Blitz. Ma erano più esaurienti gli articoli pubblicati dai quotidiani sullo svolgimento del processo. Dicevano, sulla base di quanto era emerso al dibattimento svoltosi ad Amburgo nel 1957, che Concon ricattava da anni personaggi particolarmente qualificati, inducendoli a consegnargli documenti riservati. Non era stato possibile, però, trovare prove concrete in nessun caso, nonostante i molti sospetti e gli indizi, tanto è vero che lo avevano poi assolto per insufficienza di prove. Le "informazioni aggiuntive" di Karin von Mertzen dicevano anche perché quel processo, a un certo punto, era stato celebrato a porte chiuse: e precisamente dal momento in cui s'era discusso sul genere di segreti che Concon aveva tentato di estorcere a un alto ufficiale tedesco. Mi tolsi la sigaretta di bocca, buttai giù un sorso di Chivas dalla fiaschetta che poi allungai a Bertie. Intanto pensavo: come faceva la Mertzen a raccogliere quelle sue informazioni? Dovevano essere sistemi assai poco raccomandabili. «Stammi a sentire» dissi io. E lessi a Bertie alcune frasi: «"È accertato che Concon, dal 1949 al 1953, ha lavorato per i servizi di informazione tedeschi occidentali... Ripetuti viaggi a Berlino Est... dove ha molte conoscenze... ha fornito ai suoi mandanti tedeschi occidentali informazioni di politica interna, economiche e militari... e così via... Nel 1954 è stato smascherato dagli agenti dei servizi di sicurezza della zona orientale, che non lo hanno tuttavia infastidito... è tornato tranquillamente ad Amburgo... era stato corrotto, e da quel giorno ha preso a lavorare per un nuovo datore di lavoro, il ministero per la sicurezza di Stato di Berlino Est. Il quale lo ha così brillantemente utilizzato e protetto prima dell'inizio del processo, che non c'è stato verso di poterlo condannare..."». «Hm» fece Bertie, succhiando Chivas dalla mia fiaschetta. «"Il capo d'imputazione, che non è stato reso pubblico, parlava di tentativo di estorsione di piani top-secret della NATO... relativi ad attacchi pre-
ventivi... e ad azioni di rivalsa bellica..."» «Per la miseria» disse Bertie, sorridendo. «"...resta da sapere se Concon ha cambiato bandiera un'altra volta, e se lo hanno quindi assolto per questo, oppure se ha continuato a lavorare per quelli dell'Est... Il suo locale a Sankt Pauli, il King Kong, è sistematicamente frequentato, da anni, da agenti di tutti i Paesi, personaggi molto qualificati... Nei giorni precedenti l'occupazione della Cecoslovacchia da parte degli Stati del Patto di Varsavia..."» e a questo punto alzai di colpo il tono della voce «"... si sono visti al King Kong, per parecchie sere, cinque cecoslovacchi!"» Bertie fischiò attraverso i denti. «Non è finita. Ecco,» dissi, eccitato, «"il 9 settembre 1968... Retata della polizia al King Kong. I cinque cecoslovacchi fuggono. Uno è colpito da un poliziotto, con una rivoltellata. I suoi compagni lo trascinano fino a una macchina e riescono a svignarsela senza essere identificati. Da quel momento non si sono più fatti vivi."» Abbassai il foglio che avevo in mano. «Jan Bilka era capitano. Lavorava presso il ministero alla difesa» dissi io. «Irina ha detto che dopo la sua fuga, funzionari russi e cecoslovacchi parevano impazziti. Come mai?» «Domanda cretina» disse Bertie. «Bilka se l'è squagliata con documenti segreti. Raggiunge il suo amico Michelsen ad Amburgo. E tenta di dare quei documenti ai tedeschi occidentali o agli americani.» «O di venderli» dissi io. «Non tutte le persone sono disinteressate come te.» «O di venderli, già... Avvia trattative. E sceglie come intermediario Michelsen che deve essere un agente occidentale. Mi segui?» «Perfettamente. Continua.» «Gli orientali vorrebbero riavere quei documenti. Oppure impedire che finiscano in mano agli occidentali. Non sanno però dove Bilka s'è cacciato. Spediscono quindi Concon a Neurode, per rapire Irina. Lei sa dove trovare Bilka. E si farà in modo di indurla a cantare.» Colpo di tosse. «È tutto chiaro, sinora?» «Parecchio» dissi io. «Però se le cose stanno come tu supponi, allora perché le autorità dell'Est non sono intervenute subito? Michelsen è stato spesso a Praga, ha detto Irina. Quindi a Praga dovevano ben sapere dove abita Michelsen e che razza di animale è. Non avevano alcun bisogno di mettersi a cercarlo e di far rapire Irina per saperlo.» «Già» fece Bertie. «Ma come mai Bilka si sente così sicuro in casa di
Michelsen, se gli orientali sanno dove Michelsen abita? Deve considerare l'eventualità che possano venire a prelevarlo da un momento all'altro.» «Giusto» dissi io. «Ed ecco che spunta Irina, telefona a casa Michelsen, e chi risponde è Bilka...» «Risponde lui!» disse Bertie, e si grattò il naso. «Possibile che si sentisse così al sicuro da rispondere direttamente al telefono, non appena lo sentiva squillare? Per la miseria! Tutto ciò non ha senso!» «Già» dissi, disorientato. «Non funziona. Quel che è certo, è che c'è qualcosa di marcio attorno a questo Bilka. Non appena Irina riesce a parlargli, investono Conny Manner che vuole andare a parlare con Bilka. E poi Bilka, la sua seconda fidanzata e Michelsen spariscono. E quel domestico Notung dichiara che in casa Michelsen non ci sono mai stati un Bilka o una sua fidanzata. Invece il portiere e l'antiquario francese ci confermano che quei due abitavano proprio in quella casa. Dove si saranno cacciati? Perché? Perché Notung mente? Perché solo per un pelo Conny non è stato assassinato? Perché hanno tentato due volte stanotte di rapirmi Irina? Cosa voleva in realtà quel Concon a Neurode?» Bertie si alzò e mi fissò: «Tu stai pensando esattamente quello che penso io, vero?». «Sì» dissi io. «E allora andiamo subito al King Kong» decise Bertie. 8 Raccattammo i nostri strumenti da lavoro, indossammo i cappotti e scendemmo giù nella hall. Consegnando le nostre chiavi dissi al portiere di notte Heintze che non doveva permettere a nessuno, a nessun costo e chiunque fosse, di entrare nel mio appartamento. «D'accordo, signor Roland» disse Heintze. «Non darò a nessuno la chiave della vostra camera. Però, se dovesse venire la polizia, non potrei rifiutarmi...» «Le registrazioni degli ospiti, quando vengono spedite alla polizia?» «Quando mi danno il cambio, alle sette.» «Per quell'ora sarò già tornato» dissi io. «E nel frattempo non potrà venire alcun poliziotto. Non stanotte. Lei mi conosce da molti anni, non è vero, Heintze? Mi crede se le garantisco che non sto facendo nulla di illegale?» «Stia tranquillo, signor Roland» disse lui, e mi fece l'occhiolino mentre intascava la banconota da cento marchi.
«Bene. Mi fido di lei. Se la signora...» «...sua moglie» precisò Heintze, pieno di tatto. «...chiama e dice di volersene andare, non le apra la porta, assolutamente. Le dica che ho portato via la chiave. Non deve andarsene.» «D'accordo, signor Roland.» «La mia macchina è giù nel garage?» «Certo.» «Ho bisogno di un'altra vettura, più piccola. Una Opel Rekord, per esempio.» «Ne abbiamo quattro, signor Roland. Se vuol scendere coll'ascensore, nel frattempo io avverto il signor Croft.» «Chi è?» «Il responsabile del garage, quello che è di servizio stanotte. Preparerà i documenti e le darà una Rekord.» «Come si chiama quel tizio?» chiese Bertie. Sotto il cappotto indossava sempre la sua giacca di pelle e i pantaloni di velluto. Reggeva le due macchine fotografiche per le cinghie degli astucci. «Croft. Wim Croft» disse il portiere. «Inglese?» chiesi io. «No. Olandese. Un uomo molto simpatico. Lavora qui da noi solo da tre settimane.» «Olandese?» dissi io, un po' sorpreso. «Si» affermò Heintze. «Dell'Aja.» 9 L'imperatrice Caterina di Russia se ne stava a cosce divaricate su una coperta di velluto rosso che era distesa su un ampio divano. Attorno al divano erano sparsi parecchi capi di vestiario, a cominciare da una vasta cappa reale in porpora ricamata, e per finire con un paio di mutande di seta, di quelle che scendono fin sotto il ginocchio per esservi poi annodate con un nastro. Una volta avevo scritto una serie di articoli su Caterina la Grande. Una cronaca scandalistica riccamente illustrata. Quei capi di vestiario provenivano da una qualche agenzia di noleggio di costumi teatrali. Caterina se ne stava distesa in modo che gli spettatori potessero guardare direttamente fra le sue cosce divaricate. Era su un piccolo palcoscenico, investita da un fascio di luce violenta. Un grande arazzo Gobelin pendeva nel buio. L'imperatrice avrà avuto forse 25 anni, formosetta anzi che no,
molto ben costruita e fingeva di essere follemente eccitata. Agitava il bacino, gemeva (un altoparlante e un microfono nascosto sul palcoscenico amplificavano tutti i rumori), si massaggiava il seno generoso e gettava la testa a destra e a manca. L'imperatrice Caterina era palesemente una bionda autentica. Fra i capelli le era stata fissata una corona di cartapesta dorata, tempestata di molte scintillanti pietre false. A terra accanto a lei c'erano un globo imperiale e uno scettro entrambi di cartapesta dorata. Erano le 4 e 15, e il King Kong era ancora zeppo di marinai, bianchi neri e gialli, personaggi dall'aria selvaggia, che indossavano giacconi larghi e imbottiti, e berretti di lana; molte prostitute coi loro clienti e anche un paio di coppie di coniugi. Se ne stavano tutti seduti attorno a piccoli tavoli. I camerieri correvano avanti e indietro per il locale quasi buio, trasportando secchielli per spumante, servendo bibite. Il King Kong era nella Silbersackstrasse. Quando vi eravamo giunti (a piedi, perché avevamo parcheggiato la Rekord a noleggio nella illuminatissima Reeperbahn con le sue insegne scintillanti), Bertie aveva detto: «Questo è il locale, ma dov'è l'albergo? Quel tuo Karl Concon ha dichiarato di essere un albergatore». L'edificio nel quale era il King Kong era a un solo piano, molto basso, le mura nere, le finestre affacciate sulla strada oscurate dall'interno con pesanti tendaggi. Accanto all'ingresso c'erano fotografie fissate in vetrine luminose. Lessi, scritto in lettere rosse: LA SENSAZIONE DEL PROGRAMMA: BABY BLUE, STELLA INTERNAZIONALE DEL CRAZY HORSE! Un imbonitore alto almeno due metri, avvolto in un mantello gallonato d'oro che gli scendeva sino ai piedi, mi afferrò per una spalla e cominciò a sbraitare: «Entrate, signori! Entrate! Vedrete quello che non avete mai visto! Il terzo spettacolo è appena cominciato! Saffo e le sue compagne di gioco! Il gorilla e la vergine! Violenze carnali autentiche e garantite! Il monaco con la frusta! La severa governante! Accoppiamenti fantasiosi! Due uomini, una signora! Facciamo vedere tutto! Qui non si nasconde nulla! Entrate, signori!». Afferrò anche Bertie e annunciò: «Arrivate giusto in tempo per la fase culminante! La famosa artista Baby Blue del Crazy Horse di Parigi nel suo numero internazionale Caterina e il Grande!». «Mi stia a sentire,» dissi io, e mi aggrappai a un suo braccio, «cerchiamo il signor Concon. Dobbiamo parlargli con urgenza.» «Polizia?» «No. C'è?»
«Non ne ho idea. Glielo diranno dentro. Avanti, miei signori! Cose mai viste! Cose che non avete mai sognato! Baby Blue in Caterina e il Grande!» Si liberò di me con uno scossone, e nella luce rossastra d'un vestibolo altre due manacce mi afferrarono e mi trascinarono all'interno del locale. Bertie mi rovinò quasi addosso. Qualcuno, al buio, m'infilò una mano fra le gambe. L'allontanai con una sberla. «Non essere subito così cattivo, caro» risuonò una voce femminile. «Dio, che professione la nostra» disse Bertie un paio di minuti dopo quando, col fiato corto, ci ritrovammo attorno a un tavolo, in un palco nel quale ci avevano letteralmente trascinati. I miei occhi si abituarono alla scarsa illuminazione, vidi Baby Blue sul palcoscenico e le ombre dei molti spettatori. «Una donna mi ha persino sbottonato i pantaloni. E a te?» «Qualcosa di simile» risposi. Dall'altoparlante risuonò una voce maschile manierata, che si sforzava di esprimersi in un tedesco molto raffinato: «Che serata triste, maestà imperiale! Nessun asino nei paraggi, nessuno stallone in calore, nemmeno un paio di granatieri della guardia...». Baby Blue si agitava sempre più freneticamente, roteava gli occhi e si maltrattava il seno. C'era un'aria molto solenne in sala, come in una chiesa. Al margine del palcoscenico c'era un pianoforte, al quale era seduto un giovanotto in smoking che suonava. Non c'era orchestra, solo il pianoforte. Il giovanotto fissava lo sguardo assente nel buio e suonava in sordina il concerto per pianoforte in si bemolle minore di Ciaikovski. Lo riconobbi subito. Non c'è musica di Ciaikovski che non fossi in grado di riconoscere subito. È il mio compositore preferito... «La maestà vostra imperiale è così sola... e così piena d'amore» risuonò la voce all'altoparlante. «Voglia la maestà vostra prendere lo scettro...» Baby Blue, nuda, afferrò l'enorme scettro di cartapesta. «...e voglia ora la maestà vostra imperiale aprire lo scettro...» Baby Blue aprì lo scettro, nel senso della lunghezza, come un astuccio di violino. Dentro c'era un possente fallo di plastica. Baby Blue cacciò un urlo di felicità, gettò via lo scettro e baciò quell'aggeggio. «Si compiaccia ora la maestà vostra imperiale di accarezzarsi l'altamente riverito monte di Venere mediante quello strumento di consolazione...» Baby Blue si accarezzò. Il giovanotto al pianoforte suonava in un modo straordinario. «...voglia ora la maestà vostra imperiale solleticare la divina aristocratica clitoride col glande celestiale...»
Baby Blue eseguì, e dall'altoparlante risuonarono i suoi primi, leggeri, intermittenti gemiti e sospiri. Un cameriere si avvicinò al nostro tavolo. «'Giorno. Che posso servire?» «Vogliamo parlare col signor Concon» dissi io. «Il giovane o il vecchio?» chiese il cameriere, mentre i gemiti trasmessi dall'altoparlante diventavano più insistenti. «Perché? Ce ne sono due?» chiese Bertie, stupito. «Padre e figlio» sussurrò il cameriere, per non disturbare i clienti. «Allora, quale dei due?» «Il proprietario» sussurrai io. «...si compiaccia ora la maestà vostra imperiale d'infilarsi quel fallo meraviglioso nell'imperial vagina...» Baby Blue s'infilò l'aggeggio in corpo e cacciò un piccolo grido che l'altoparlante trasformò in un urlo gigantesco. «Non c'è» sussurrò il cameriere. «E il padre?» chiesi io, piano. «Quello c'è.» «Dov'è?» «Alla toilette per gli uomini.» «E quando torna su?» «Non torna affatto. Lavora laggiù» sussurrò il cameriere, irritato, perché la faccenda gli stava andando troppo per le lunghe. «Insomma, cosa posso servire?» Io e la mia paura maniacale di bere qualche porcheria! Whisky, naturalmente, pensai. Ma Chivas qui non ce n'è di sicuro. E se ordino due bibite già pronte, questi mi rifilano lo sa Dio che cosa. E quindi: «Una mezza bottiglia di whisky. Black Label. Però la voglio sigillata, capito?». «Costa cento marchi» mormorò il cameriere, impressionato. Bertie mi guardò di traverso, odiava quel mio modo di bere smodato, lo sapevo. E poi pensò certamente: Ma guarda un po' di che si va a preoccupare! «Se mi rifilate una porcheria, pianto una grana» dissi io. «Siamo della stampa.» «Certo, subito, miei signori, un attimo soltanto.» Il cameriere spari fra gli inchini. L'altoparlante trasmetteva a gran volume il respiro affannoso di Baby
Blue, e poi di nuovo quella voce maschile affettata: «Ora voglia la maestà vostra sospingere avanti e indietro il fallo nell'imperiale e celestial vagina... e voglia aver la compiacenza di non trascurare le pareti laterali!». Baby Blue allargò le gambe ancora di più: si tormentava un capezzolo e spingeva il fallo di plastica avanti e indietro. Cominciò a eccitarsi in modo travolgente: s'inarcava, piagnucolava, gemeva, muggiva e palpitava. Fra il pubblico si manifestò qualche inquietudine. «Ha detto padre?» mormorò Bertie. «Sarà vecchissimo!» «Probabile» sussurrai io. L'altoparlante diffondeva gemiti sempre più intensi e singole brevi grida di piacere. «Quel porco fa lavorare suo padre al cesso!» disse Bertie, che aveva uno spiccato senso della famiglia. «È un'indecenza!» «Scendo giù da lui» dissi io, piano. «Non prima che il cameriere t'abbia portato il whisky» disse Bertie. «Altrimenti pianterà grane. E paga subito. Ti sei già fatto notare troppo. Concon junior non c'è. L'hai pur sentito. Dobbiamo essere prudenti!» L'altoparlante trasmetteva il balbettio di Baby Blue: «Oh! Oh! Muoio! Muoio!». Il cameriere venne con una bottiglia e un vassoio sul quale c'erano due bicchieri, un secchiello di ghiaccio e due bottiglie di selz. Mi cacciò il whisky sotto il naso. «Ecco il Black Label. Sigillato e garantito. Prego, osservi la fascetta.» Indicò il tappo e la striscia di carta appiccicata al collo della bottiglia. «Va bene» dissi io. «Grazie.» «Centoquindici» disse lui. «Quindici per cento di servizio. Se posso incassare subito...» Lo spettacolo sul palcoscenico proseguiva, e i gemiti trasmessi dall'altoparlante erano sempre più selvaggi. Baby Blue aveva gli occhi rovesciati, e tutto il suo corpo sussultava. «Un momento» dissi io, aprii la bottiglia, versai whisky in uno dei bicchieri, l'annusai. Poi lo assaggiai. Perfetto. Io ero l'unico giornalista dell'intera casa editrice che non doveva presentare note-spesa dettagliate, e quindi allungai al cameriere cento e cinquanta marchi. «Il resto è per lei.» L'uomo quasi si inginocchiò. «Ora però devo andare al gabinetto» dissi io. «Non durante lo spettacolo! Non è possibile.» Il concerto per pianoforte stava per raggiungere il suo momento culminante.
«Mi scoppia la vescica» dissi io. «Dov'è?» «L'accompagno io» disse il cameriere. «Solo un momentino.» L'impianto di amplificazione rovesciava in sala l'orgasmo di Baby Blue. La voce maschile disse: «Fallo riposare sul tuo cuore, o Caterina, e rammenta nella tua infinita benevolenza, ancora una volta, la grazia che puoi concedere al principe Kropotkin!». Improvvisamente Baby Blue gettò via, con ampio gesto, il fallo artificiale e gridò imperiosamente: «All'inferno quest'affare! Un uomo voglio, un uomo vero! Solo in tal caso prenderò in considerazione l'eventualità di graziare il principe! Solo allora!». Un attimo dopo emersero dal buio tre giganteschi granatieri della guardia, in uniforme, con elmetti di latta, stivali e sciaboloni. Si misero sull'attenti, in fila, accanto a Baby Blue. C'era un solo dettaglio che non funzionava nelle loro splendide divise. Dai pantaloni emergevano ritti e gonfi tre cazzi enormi. Naturalmente falsi, pensai io. Di così grandi non ne esistono. Però sembravano proprio autentici. Il pianista s'interruppe. La sala piombò in un silenzio di tomba. Baby Blue afferrò il più grande e possente dei tre granatieri e attirò l'uomo a sé. Lui le si gettò addosso. La luce si spense. 10 «Sapore alla menta, miei signori» stava dicendo il vecchio mentre io scendevo le scale. «Una novità assoluta. Ondulato in superficie per agevolare l'eccitazione. Non si riesce a star dietro alla produzione, tanto è lo smercio.» Accanto all'uomo vecchio c'erano due uomini, nell'atrio piastrellato di azzurro sul quale si affacciavano i gabinetti. Nell'atrio c'erano lavandini, specchi e un tavolino sul quale erano ammucchiati in bell'ordine tutti gli oggetti di cui si poteva aver bisogno laggiù: una gran pila d'asciugamani, pettini grandi e piccoli, forbicine per le unghie, spazzole per capelli, spazzole per vestiti, brillantina, acqua di Colonia e scatole di Kleenex. C'era anche un piattino con delle monete. Un cassetto del tavolino era aperto. Vidi che c'erano riviste pornografiche e scatole di preservativi. «Se i signori vogliono sentire il profumo» disse il vecchio. E mise una confezione aperta con tre preservativi sotto il loro naso. I due, alquanto brilli, annusarono ubbidienti. «Per la miseria» disse uno. «Sul serio. Robe da matti, cosa vanno a in-
ventare oggi. Ma perché sapore di menta?» «Per l'alito fresco, idiota» disse l'altro. «Vero, nonno?» «È probabile» disse papà Concon, che indossava una giacca bianca immacolata. «È probabile.» E s'inchinò. M'infilai nel locale accanto e mi piazzai davanti a un orinatoio, perché volevo evitare di suscitare i sospetti di quei due uomini. L'acqua cominciò a scorrere automaticamente. Un ventilatore ronzava discreto. Concon senior aveva organizzato laggiù un servizio davvero inappuntabile. «Io ne prendo una scatola» disse il primo uomo. «Vediamo che effetto fa.» «Ne prendo una anch'io» disse il secondo uomo, e gettò l'asciugamano di cui s'era servito in un cestello metallico. «Piccola sorpresa, eh eh...» I due pagarono e risalirono barcollando la scala. Mi avvicinai a papà Concon, mi lavai le mani e lo salutai. «Buona sera anche a lei, signore.» Mi fece l'occhiolino. Un uomo vecchio e curvo, da far compassione. Aveva già pronto un asciugamano. Lavorava automaticamente, come un robot, il viso irrigidito in un sorriso servile. Guardai nel cassetto aperto con le riviste e i preservativi speciali. A leggere quello che c'era sulle scatole, Concon senior smerciava goldoni "attivatori dell'eccitazione", vale a dire dotati di stelline o di protuberanze di gomma, oppure dalla superficie ruvida, "preservativi di sicurezza con polvere spermicida"; vendeva anche "ritardatori" e persino scatole abbastanza grandi con "Pneu-Pres": non era difficile immaginare cosa fossero. «Il signore è soddisfatto?» chiese il vecchio. «Sì» dissi io. «Programma straordinario» cantilenò. M'accorsi che era rimbambito. Come assente e un po' confuso. Non matto. Un po' arteriosclerotico. Non alzò nemmeno lo sguardo quando Bertie scese le scale, e fu un bene, perché Bertie reggeva la Nikon-F in mano, pronto a scattare. «Tutte le sere il locale è pieno zeppo sino al mattino» disse il vecchio, orgoglioso, «Perbacco!» dissi io, mentre Bertie c'inquadrava una prima volta, per andare poi nel locale accanto da dove continuò a scattare. «Lei è il signor Concon, vero?» Sussultò spaventato. «Come... come fa a saperlo?» «Peter Enders» dissi io. «Polizia?»
«No, no. Sono un conoscente di suo figlio. Gli avrei voluto parlare. Ma non c'è, vero?» «No. Non so dov'è» disse il vecchio. «Un bravo figliolo. Il miglior figlio che ci si possa desiderare.» «E la costringe a lavorare quaggiù?» «Non mi costringe! Sono io che voglio! A casa sono così solo. Vivo tutto solo, mia moglie è morta da dodici anni. Qui almeno riesco a distrarmi un po'. Mi piace questo lavoro. Karl vorrebbe che io smettessi, continua a ripetermelo. Io però gli dico: lasciami ancora questa piccola soddisfazione, Karl. Lei è davvero un conoscente di mio figlio?» «Sì. Perché?» «Son già venuti tre suoi conoscenti stasera» disse il vecchio. «Due erano insieme, il terzo da solo.» «Cosa volevano?» «Tutti parlare con Karl. E tutti dicevano che era una questione urgente. Ma cosa è successo?» Il suo pomo d'Adamo, infilato in un colletto di camicia troppo largo, saliva e scendeva a scatti. «Avevo un appuntamento con lui. Per stasera» mentii io. «Non so cosa può essere successo. Ma qualcosa ci dev'essere, altrimenti sarebbe qui. Che aspetto avevano quei tre uomini?» Fece un cenno di mano rassegnato. «Non riesco a ricordarmi le facce e le voci! Io sto bene di salute, sa... però non sono più un ragazzino. Mi dimentico subito tutte le facce. È terribile... Erano tre uomini. I due che son venuti insieme avevano cappotti e cappelli. Sì, questo me lo ricordo. Quello che è venuto solo indossava soltanto il vestito. Erano tutti più o meno alti come lei. Di più non so proprio dirle.» «Parlavano con accento straniero?» «No. Parlavano perfettamente in tedesco. Mi hanno chiesto tutti dov'è Karl. E io ho detto che non lo so. Non mi volevano credere.» Bertie, dall'ambiente accanto, continuava a fotografare. Un tizio, ubriaco fradicio, scese giù per le scale e si avviò ondeggiando nel locale vicino, ove si rinchiuse in una toilette. «Quando sono venuti quei tre uomini?» chiesi io. «Quei due che sono venuti insieme, verso le nove. E quello che è venuto da solo, forse verso le dieci. Poco dopo che Karl m'aveva telefonato.» «Le ha telefonato?» «Gliel'ho detto. Prima che venisse quel terzo uomo. Mi hanno mandato a
chiamare su al guardaroba, dove c'è un telefono. Ce n'è anche un altro, nell'ufficio di Karl. Una volta, quando avevamo ancora l'albergo nella Kastanienallee, davo una mano in ufficio. Allora riuscivo a ricordarmi ancora di tutto, e anche a scrivere a macchina, sa.» «Da quando non avete più l'albergo?» «Da sei anni... non rendeva... le tasse... e le arrabbiature... Questo locale è meglio! Neanche da paragonare!» «E che le ha detto suo figlio al telefono?» «Senta un po', che gliene frega...» Il tono era ora stizzito. «Lo sto cercando. Sono un amico suo.» «Non ho mai sentito Karl pronunciare il suo nome.» «Noi combiniamo insieme degli affari. Roba da non raccontare ai quattro venti.» «Che affari?» «Be', un po' di tutto. Mi capisce?» «Si, capisco.» La spiegazione parve soddisfarlo. «Karl mi ha detto che oggi non può venire, e forse domani nemmeno. Ha qualcosa di urgente da sbrigare. Cosa, non me lo ha detto. Però ha detto che mi richiamerà domani sera. Alla stessa ora. Che è qui nei dintorni. Che non devo preoccuparmi, perché è tutto a posto. Ha sempre paura che mi preoccupi per lui. Gli dirò che è stato qui, signor Enders, quando mi telefonerà. Dove posso rintracciarla?» «Purtroppo non sarà possibile. Sto per partire. Non ha proprio la minima idea di dove possa essersi cacciato? È un affare urgente.» «Me l'hanno detto anche quegli altri signori. Quelli però non mi hanno detto i loro nomi, come ha fatto lei invece. Si può sapere cosa sta succedendo?» «Già, e chi lo sa? Però, se ha telefonato, allora vuol dire che non è nulla di grave» dissi io, e gettai una moneta da due marchi sul piattino. «Grazie, signor Enders, mille grazie.» 11 All'angolo fra la Detlevstrasse e la Seilerstrasse c'era un ufficio postale. Avevo ancora abbastanza monete da un marco, entrai in una cabina che era accanto all'ingresso, e telefonai a Francoforte. Bertie faceva la guardia davanti alla cabina. Chiamai Tutti. Passò un po' di tempo prima che mi rispondesse: la sua voce era addormentata ma anche curiosamente alterata.
«Sì? Pronto? Qui parla Tutti Reibeisen. Con chi parlo?» Sembrava che avesse la bocca piena di palline. E disse improvvisamente: «Ehi!». Poi udii la voce di Max Knipper: dormivano insieme in un gran letto matrimoniale, nella loro camera privata. Lui doveva averle strappato il ricevitore di mano, con modi non propriamente gentili. La sua voce era irritata: «Porco mondo! Si può sapere chi è quello stronzo d'un imbecille che chiama alle cinque di notte?». «Max, sono io, Walter Roland. Non t'arrabbiare.» «Ah, sei tu, Walter! Scusami, non ce l'ho con te... Ma se c'è una cosa che non posso digerire è questo telefono di merda che sveglia Tuttina e me quando finalmente riusciamo a dormire. Per la miseria, la povera Tutti ha lavorato sodo fino alle due! Per fine settimana la porterò un po' su in montagna, così potrà riposare. Altrimenti finisce che mi crolla, la poverina. Si può sapere dove sei? Ti sei cacciato nei pasticci? Vuoi che venga io?» «No, no. Ho solo bisogno di chiederti una cosa, Max.» Gli dissi dov'ero e, a grandi linee, quello che era successo. E ancora una volta continuai a infilare nell'apparecchio, come già avevo fatto alla stazione centrale, monete da un marco. Fuori dalla cabina scorgevo le insegne al neon dai colori sfavillanti, le puttane e gli ubriachi e l'ampia schiena di Bertie davanti alla porta della cabina. Conclusi dicendo: «Tu sai come sono combinate le cose qui, e forse conosci anche questo Karl Concon, un finocchio...». «Certo che conosco quel pezzo di merda. Finocchio... e va bene. Affari suoi. Non me ne frega niente. Ma tutto il resto che faceva...» «Lo so, lo so. Max, stammi a sentire: un tempo anche Concon aveva un suo albergo nella Kastanienallee. Penso che conosca da allora altri proprietari d'alberghi dei dintorni, e che abbia anche degli amici fra di loro, che siano in grado di nasconderlo se le circostanze lo richiedono. Perché se l'è svignata, ha paura di qualcuno.» «Per quella faccenda al campo di Neurode, eh?» «Sì. Pare che ci siano degli individui che lo cercano, che ce l'hanno con lui perché non è riuscito a portare loro la Irina. Conosci dei proprietari di alberghi a ore, qui nei paraggi?» «Quanti ne vuoi, per la miseria!» disse Max. «Sono stato a Sankt Pauli un anno solo, ma non ce n'è uno del nostro mestiere che io non conosca.» «Allora, dove pensi che Concon possa essersi nascosto? Da quale amico? Chi credi che sia in grado di aiutarlo in modo che possa starsene per un po' di tempo fuori dalla circolazione?» «Fammici pensare un attimo» disse Max. «Buoni amici di Concon, di
quelli sicuri, giusto?» «Si.» Ci pensò su e poi mi dettò i nomi di cinque alberghi, tutti attorno alla Reeperbahn e alla Grosse Freiheit. Me li annotai sul mio taccuino. Fuori pioveva sempre più forte. Quell'uragano non si decideva a sfogarsi. 12 Non avevamo molte speranze, però. Se Karl Concon aveva davvero deciso di sparire, allora i suoi amici lo avrebbero anche protetto e tenuto il becco chiuso. La nostra pista era debole, ma non ne avevamo una migliore. Dicemmo nel primo, nel secondo e nel terzo albergo di essere Carsten ed Enders, e di essere attesi da Karl Concon. Fiasco completo. Dietro i banconi di quegli alberghi a ore, indicibilmente squallidi, portieri notturni sonnolenti scuotevano diffidenti le loro teste. Nessun Karl Concon fra gli ospiti. Niente da fare: né con le preghiere né con le minacce. I portieri si fecero solo più diffidenti e ostili: uno ammise di aver sentito solo una volta questo nome, gli altri sostennero di non averlo mai sentito nominare. «Andiamo avanti, cocco» dissi a Bertie. «Hotel Paris nella Kleine Freiheit.» «Ne ho le tasche piene» disse Bertie. «Sono bagnato fradicio, porco mondo.» «Anch'io» dissi, e pilotai la macchina fino alla Kleine Freiheit. Una zona silenziosa. Fermai davanti all'ingresso sul quale pendeva un'insegna rotta (.ÔTEL PA..S), e scorsi un facchino vecchiotto, con grembiule verde e berretto a visiera, che spazzava la sporcizia ammucchiata dal vento davanti alla porta. Scendemmo e fingemmo di nuovo d'essere una coppietta d'omosessuali, anche lì come negli altri alberghi. Non era un affare semplice. Bisognava stare attenti a non esagerare. Il facchino aveva interrotto il suo lavoro. Fissò la Opel e poi noi. Aveva un viso scavato. I baffi giallo-grigi mal curati. «Buona sera, signori» disse con un accento strano. «Cosa posso fare per loro?» «'Giorno, 'giorno» dissi io, tenendomi al braccio di Bertie. «Vorremmo avere una cameretta. Dov'è il portiere?» «Non sta bene, signori. Lo sostituisco io.»
«Bene bene. Una stanza per un'ora» disse Bertie, con foce fonda. Io recitavo la parte dell'attempato farfallino che lui, un vecchio pederasta, aveva raccattato da qualche parte. «Entrino pure» disse il facchino. Ci precedette attraverso il portone dell'albergo. Sul bancone c'era una lampada con uno schermo verde. Una ripida scala conduceva ai piani superiori. Dietro il bancone si scorgeva un camerino, la cui porta era aperta. Disteso su una branda c'era un tizio magro, completamente vestito: russava. Tutto l'atrio puzzava di grappa, da star male. «È davvero molto malato, il portiere» dissi io. «Si, molto» disse il facchino, senza cogliere la mia ironia. «Ha dovuto bere tanta grappa.» «Dovuto?» «Sì. Contro la malattia» asserì il facchino. Il portiere era sbronzo marcio, non l'avrebbe svegliato neanche l'esplosione di una bomba. Il facchino si era avvicinato a un'asse appesa alla parete dietro il bancone, e dalla quale pendevano alcune chiavi. Quello era di gran lunga l'albergo più sporco fra quanti avevamo visto sino a quel momento. «E dica per favore al nostro amico signor Concon che siamo arrivati» dissi io. «Concon?» disse il facchino. «Karl Concon» dissi io, irritato. «Uh, ma che tempaccio, Peter. Muoio di freddo.» «Vedrai che starai subito meglio, caro» disse Bertie. «Qui non c'è nessun Karl Concon» disse il facchino. «Ma certo che c'è» dissi io. «È lui che ci ha detto di venire qui, il nostro amico Karl. L'abbiamo visto al Gentlemen's Pub. Ci ha invitati per una festicciola. Lei non può non conoscerlo. Da quanto tempo lavora qui?» «Da sette anni, signore.» «Ma lei è russo?» «Ucraino» precisò il facchino. Sentii di nuovo un brivido freddo. Però dissi a me stesso: Tieni i piedi piantati per terra, non perdere la bussola... «Di Ciaplino. Ero prigioniero di guerra.» O Dio, pensai. «Mi ero arreso, con i miei compagni. Poi ho avuto paura di tornare a casa nel 1945, temevo che potesse succedermi qualcosa. E così mi sono nascosto. Avevo saputo che a casa mia erano morti tutti. Sono rimasto qui.» «Sempre ad Amburgo?»
«Sempre ad Amburgo, già. Sempre qui. Sankt Pauli. Facchino. Non ho ancora imparato bene il tedesco. Vivo solo. Ma son cose che non possono interessare i signori. Possono avere la stanza numero 12.» Consegnò a Bertie la chiave, fissata a una gran sfera di legno. Sulla sfera era inciso il numero 12. «Sopra troveranno asciugamani e sapone. Fanno venti marchi per un'ora. Se non le dispiace...» Bertie mise trenta marchi sul bancone e disse: «Karl Concon. Un signore piuttosto basso, corpulento». «Pallina di grasso lo chiamiamo» dissi io, ridacchiando. «Deve essere qui» disse Bertie. «Abbiamo un appuntamento.» Il portiere ci guardò dal basso in alto, attraverso gli occhi socchiusi. «Grasso?» disse, molto piano e molto in fretta, come per timore di svegliare il portiere di notte: preoccupazione assolutamente infondata. «Alquanto» dissi io, e ridacchiai ancora. «Camicia rosa, cravatta molto vistosa, molto profumo? Uno con tanto profumo addosso?» «Si» disse Bertie. «È lui.» «Quel signore però non si chiama Concon.» «E come allora?» «Non lo so. È venuto sette o otto ore fa. Ha parlato col signor Wölfert. Il padrone. Era ancora qui. Li ho visti entrambi. Non ha però detto niente a proposito d'una festicciola. Né il suo nome. A quest'ora dorme di certo.» «Impossibile. Ci sta aspettando» dissi io, ridendo stupidamente. «Non posso muovermi di qui» disse il facchino. «Muoversi per che cosa?» «Per avvisare quel signore. E non abbiamo telefoni nelle stanze.» «Non fa niente» disse Bertie. «Busseremo noi. Siamo vecchi e cari amici. Che numero di stanza ha?» Appoggiò altri dieci marchi sul bancone. «Diciassette, signore. E mille grazie» disse l'ucraino. Mi guardò di traverso. «Cosa c'è?» Avevo continuato a ridacchiare come un fesso. «Niente» disse l'ucraino, serio. «Niente, signore.» «Vieni, caro» disse Bertie, e mi prese di nuovo per il braccio. Salimmo su per le scale molto ripide e giungemmo in un corridoio stretto, illuminato da due lampadine polverose: l'atrio, al confronto, era persino pulito. «Che sporcizia!» disse Bertie, piano. «Sta' zitto!» dissi io. «Finalmente l'abbiamo beccato.»
«Già, e se non si dimostrasse molto contento del nostro arrivo?» «Vedrai che lo sarà» e tolsi la Colt 45 dalla tasca del cappotto. «Ehi, ragazzo,» disse Bertie «aspetta che mi preparo a sparare anch'io.» Tirò fuori da sotto la sua giacca di pelle la Hasselblad, e la preparò pronta all'uso mentre procedevamo piano lungo il corridoio. Da alcune stanze venivano dei rumori. Sentimmo una ragazza strillare. Poi la risata clamorosa di un uomo. Udimmo colpi secchi, come di una frusta, e una voce femminile roca: «Hop! Hop! Alé, cavallino, ti vuoi decidere a galoppare?». Passammo davanti al numero 12. Poi 13, 14, 15, 16. La 17. Bertie si accostò alla porta, l'apparecchio fotografico sollevato e col flash innestato. Premetti la maniglia. Con mia grande sorpresa, la porta si apri subito. Dall'interno, buio pesto e nessun rumore. «Sono io, Concon» dissi. «Roland. Il giornalista che era al campo. E con me c'è Engelhardt, quello che l'ha fotografata. Non faccia lo stupido. C'è anche la polizia. Siamo armati. Se ha un'arma, la getti a terra e accenda la luce.» Nessuna risposta. «Le ho detto di accendere la luce» ripetei. Nessun rumore. Bertie si piazzò in mezzo alla soglia e scattò il primo lampo. La luce viva illuminò per un secondo l'ambiente. «Dio onnipotente!» esclamai, saltai avanti, cercai a tastoni l'interruttore della luce sulla parete e lo feci scattare. La stanza era piccola, con una tappezzeria scura che si stava sfaldando. Le tende erano chiuse. Vidi un lavabo, due sedie, un tavolo e un grande letto di ottone. Sul letto era disteso, nudo e supino, Karl Concon. Qualcuno gli aveva piantato un pugnale nel petto, sino al manico. Tutt'attorno c'erano macchie di sangue, ma il sangue non scorreva più dalla ferita, e si stava anzi raggrumando. Il corpo di Concon era già rigido. 13 «Sì, signore, lo sapevo» dichiarò il facchino dell'albergo. Eravamo giù all'ingresso, riparati dalla pioggia battente. La strada era completamente vuota e dietro di noi russava il portiere di notte ubriaco. Il
facchino era molto allarmato, avrebbe voluto sbarazzarsi di noi: ma io gli avevo detto subito, appena scesi, che avremmo chiamato la polizia, cacciandolo in un mare di guai, se non avesse risposto alle nostre domande. Gli avevamo mostrato anche le nostre tessere di giornalisti. Si era spaventato parecchio, perché in precedenza ci aveva scambiati davvero per una coppietta d'omosessuali desiderosi solo di unirci all'omosessuale Concon. S'era detto: se lo scoprano loro, quello che è successo lassù. Non voleva averci a che fare. E non voleva nemmeno parlare con noi. Cambiò idea quando gli dissi che avremmo dovuto comunque, in ogni caso, avvertire la polizia. Se si fosse deciso a chiacchierare un po', gli avremmo dato una mano. Altrimenti gli avremmo fatto passare un grosso guaio. Gli feci capire anche che c'erano dei soldi per lui, se collaborava. E fu così che divenne più loquace. «Quanti?» «Cinquecento.» «Mille» disse lui. «E subito, se non le dispiace, signore.» Un dritto, quell'ucraino! Ci accordammo su ottocento e lui si impegnò a sottoscrivere la solita dichiarazione. Inizialmente disse di non volerne sapere, ma l'intimorimmo ancora con la storia della polizia e gli promettemmo che una sua fotografia sarebbe apparsa su Blitz. Per nostra fortuna era non solo avido di denaro ma anche sciocco, e questa storia della fotografia fece il suo effetto. Acconsenti. E ora ce ne stavamo accanto all'ingresso dell'albergo, tutti in preda a un freddo cane, e Bertie e io l'interrogavamo. «Dunque prima sono venuti due uomini» disse il facchino ucraino. «Verso le dieci.» «Che aspetto avevano?» «Non lo so. Stavo pulendo le stanze. Ho sentito solo le voci. E i passi in corridoio. Ho riconosciuto anche la voce del signor Wölfen, il padrone. Lui poi se ne è andato via subito.» «Pensa che sia stato Wölfen a chiamare quei due?» chiesi io. «Non lo so. Il signor Concon, quando è venuto, aveva una gran paura e tanta fretta. Il signor Wölfen gli ha detto: "Qui da me sei al sicuro, Karl".» «Non troppo» commentò Bertie. «Il signor Wölfen e il signor Concon erano amici» assicurò il vecchio. «Già,» dissi io «lo abbiamo visto.» Era evidente che Wölfen doveva aver avvisato quei due uomini, chiunque fossero, dell'arrivo di Concon. In cambio di quanti soldi?
«Cosa volevano quei due da Concon?» chiesi io. «Non mi dica che non ha origliato.» «Ho sentito» disse l'ucraino, senza esitare, e mi guardava. «Me li dà davvero quegli ottocento?» «Certo che li avrà. Eccole intanto i primi quattrocento.» Divenne subito più loquace. «Dunque, c'è stato un gran baccano nella stanza del signor Concon. Quegli uomini lo hanno duramente rimproverato.» «Perché?» «Perché non era riuscito a prendere la ragazza al campo. Non so che campo, non so che ragazza.» «Avanti.» «Dicevano che lui avrebbe dovuto prelevarla e impedirle di raggiungere qui un uomo. Quest'uomo si chiama... si chiama... Non me ne ricordo più. Hanno detto più volte quel nome, i due signori che sono andati a trovare il signor Concon, Dio l'abbia in gloria...» «Si sforzi di ricordare!» l'interruppe Bertie. «Che nome era?» «Milka. Jan Milka» rispose l'ucraino. «Ora m'è venuto in mente.» Sobbalzò, perché alle nostre spalle il portiere ubriaco si era voltato su un fianco, con un gemito. Ma riprese quasi subito a russare. «Jan Milka, benissimo» dissi io. «Dunque quella ragazza non doveva entrare in contatto con questo tizio. E Concon aveva l'incarico di occuparsene e di impedirlo?» «Sì. Quegli uomini erano molto arrabbiati. Questo Milka deve essere un personaggio importante. Molto importante.» «Importante per chi?» chiese Bertie. «Per quel che ho capito, per gli alleati.» «Quali alleati? Vuol dire gli americani?» «Non lo so. Non lo hanno detto. So solo che erano molto arrabbiati con il signor Concon che ha buttato all'aria tutto, dopo che tutto era andato così bene.» «Cosa è andato bene?» «Boh, un affare. Questo Milka ha qualcosa da vendere, per quel che ho capito. Da vendere agli alleati. Sta trattando con loro sul prezzo. Da tanto. E chiede sempre di più. Gli americani sono molto arrabbiati con questo Milka. Però hanno bisogno di lui. E lo tengono da qualche parte, lo proteggono.» «Chi lo protegge?»
«Gli americani. O qualcuno che lavora per gli americani, se non le dispiace.» «Quali americani?» «Non lo so, signore.» «Lei che ne pensa?» «Be', questo Milka è un cecoslovacco, hanno detto quegli uomini. È fuggito dalla Cecoslovacchia. Se ha qualcosa da vendere agli americani... che vuole che possa essere? Qualcosa di politico, penso io. Quegli uomini hanno detto che Milka e gli americani si erano quasi accordati. E Concon aveva rovinato tutto. Bisognava far sparire Milka, e alla svelta. Prima che venisse quella ragazza. Oppure i giornalisti. Siete voi, vero?» «Sì» dissi io. «Dov'è finito Milka?» «Non lo so. Quegli uomini hanno parlato di metterlo al sicuro, e basta. Perché arriva la ragazza, arrivano i giornalisti. Quegli uomini erano arrabbiatissimi con Concon. Gli hanno detto di non muoversi dalla sua stanza sino a quando non glielo avessero permesso loro. Concon aveva una gran paura. "Mi dispiace! Chiedo scusa!" ha continuato a dire. E ha detto anche: "Ho lavorato tante volte per voi, ho sempre fatto bene il mio lavoro!".» Un momento, pensai io. Qui c'è qualcosa che non va. Concon aveva reso molti servizi a quelli dell'Est. E perché dunque quelli dell'Est lo rimproveravano di aver mandato all'aria un piano degli americani? Chiesi: «Come parlavano quegli uomini?». «Non capisco, signore.» «Erano stranieri? Parlavano con inflessioni straniere? Un tedesco stentato?» «No, parlavano il tedesco benissimo. Senza inflessioni.» La faccenda si faceva sempre più confusa. «E poi?» chiese Bertie. «E poi gli uomini se ne sono andati. Ho fatto appena in tempo a nascondermi nella stanza accanto. Non ho visto quegli uomini. Ho continuato a lavorare. Pulito stanze: sette stanze. Nel frattempo quegli uomini devono aver fatto bere il portiere. Un'ora, due ore. Era mezzo morto a furia di bere, quando finalmente sono sceso. Gli uomini non c'erano più. E il portiere era disteso sul letto.» «Eppure lei mente» dissi io. «Giuro che è la verità.» «E lei pretende di farci credere di non essersi incuriosito al punto da non scendere per vedere chi erano quegli uomini?»
«Io non voglio far credere niente, se non le dispiace. È andata così. Troppa paura. Per questo sono sceso solo quando gli uomini se ne sono andati.» «Balle.» «È la verità, signore!» «Lasciamo perdere» dissi io. E poi chiesi: «E allora cos'è successo?». «È venuta gente. Uomini con ragazze. Anche uomini con altri uomini. Ho avuto molto da fare. Un gran via vai...» «Però Concon viveva ancora, quando quei due uomini lo hanno lasciato: di questo è certo?» «Certissimo. L'ho sentito anche bestemmiare.» «E allora deve averlo fatto fuori qualcuno che è venuto dopo quei due uomini.» «Sì» disse l'ucraino. «E chi?» chiese Bertie. «Non ne ho idea. Lo giuro, signori. Non ne ho idea. Può essere stato uno qualunque di quelli che sono venuti poi. Perlomeno dodici uomini. E almeno sei ragazze.» «Non può essere stato uno qualsiasi» dissi io. «Non uno qualsiasi di quelli che sono venuti.» «E perché no?» «Perché Concon, con tutta la paura che aveva, si è certamente chiuso in stanza, a chiave. Però adesso la porta era aperta. Quindi deve averla aperta a qualcuno che conosceva.» «Sì, è vero» disse il facchino. Si spaventò ancora, quando il portiere si mise a tossire, rauco e catarroso. Pareva non dovesse smettere più. Poi riprese a russare. «Non è più andato a origliare alla porta di Concon?» chiese Bertie. «Oh, no! Ho dovuto starmene in continuazione quaggiù. Tutto quel traffico! È tornata un po' di tranquillità solo un'ora circa prima che venissero lorsignori.» «Allora è tornato su, vero?» L'ucraino tacque. «Ebbene?» «Sì» disse lui. «Sono tornato su. Sono stato di nuovo ad ascoltare dietro la porta del 17. Ma ho avuto una sensazione così strana. Nessun rumore, niente. Ho aperto la porta. Era disteso lì sul letto, pieno di sangue. Terribile!»
«E perché non ce lo ha detto subito, quando abbiamo chiesto di Concon?» «Io non volevo entrarci in questa storia! Io non sapevo se lorsignori erano amici o nemici del signor Concon. Capito? Ho paura anche adesso. Tanta paura.» «Di chi?» «Di una vendetta. Io ho raccontato tutto. Quelli tornano e mi fanno fuori. Idiota che sono. Rischiare la pelle per ottocento marchi. Sono proprio un idiota.» La sua voce era piagnucolosa. «Bertie, scattagli ancora un paio di foto.» «Okay» disse Bertie. Sparò un paio di lampi sull'ucraino, fissandolo così come si trovava, all'ingresso dell'albergo, il volto bianco e stravolto dalla paura. Poi lo portammo con noi nella nostra macchina a nolo, compilai una di quelle dichiarazioni dettatemi da Rotaug e mi feci mostrare dall'ucraino un documento d'identità unto e bisunto, perché non mi sottoscrivesse il foglio con un nome falso. Si chiamava Panas Myrnyi, 69 anni. Abitante a Sankt Pauli, Schmuckgasse 69, presso Schwilters. Scriveva con difficoltà, appena qualche parola. Solo la sua firma, specificò. E lo si vedeva. «Dove sono gli altri quattrocento?» chiese, non appena ebbe finito di firmare. Gli allungai altri quattro biglietti da cento marchi. «Gente simpatica, gli amici della tua signorina Luise!» disse Bertie, in inglese. «Da morti» dissi io. «Solo da morti. Anche Irina se ne è accorta.» «Piantiamola con queste fesserie» disse lui, sempre in inglese. «Figurati!» dissi io. «Però è strano questo inciampare tutto il tempo in stranieri.» «Merda» disse Bertie, in inglese. Rientrammo tutti e tre nell'albergo, dove nel frattempo il portiere si era disteso sulla pancia, immobile. Chiamai il pronto intervento del più vicino commissariato di polizia, e dissi: «Venite all'Hotel Paris, nella Kleine Freiheit. C'è un uomo accoltellato». «Chi parla?» chiese il funzionario dall'altro capo del filo. Io riagganciai. Avevamo un appuntamento, quella mattina stessa, alla centrale di polizia. E la polizia avrebbe impiegato almeno tutto quel tempo per scoprire chi eravamo e che stavamo al Metropol. Sul contratto dei diritti di pubblicazione c'erano sì nome e indirizzo di Blitz, ma dubitavo assai che Panas Myrnyi mostrasse quella carta ai poliziotti. E avevamo tenuto nascosti i
nostri veri nomi, quando gli avevamo mostrato le tessere di giornalisti. «Lei ora se ne resta qui da bravo e aspetta gli agenti di polizia» dissi io. «E dirà loro tutto quello che ha detto a noi.» «Anche che ho raccontato tutto a loro? Che lorsignori sono stati qui?» «Naturalmente. Tutto quello che vorranno» dissi io. E mi avviai di corsa, con Bertie, verso la nostra Rekord. Invertii la direzione di marcia e risalii la Reeperbahn. Lì incrociammo una macchina della polizia. La luce blu si accendeva a intermittenza, la sirena urlava. Dopo quello che eravamo riusciti a sapere, una cosa sola era certa: Irina era in grave pericolo, ora più che mai. 14 Il garagista olandese Wim Croft, di servizio quella notte, era un uomo massiccio con un faccione rosso e simpatico, e piccoli occhietti allegri. A gesti mi aiutò a infilare la nostra Rekord sulla piattaforma del montacarichi che portava al garage sotterraneo. Erano le 5 e 40 del mattino. Tutto luccicava, e dalla nostra macchina sgocciolava l'acqua, perché aveva continuato a piovere a dirotto. Eravamo stati all'aeroporto di Fuhlsbüttel. Bertie aveva spedito anche gli ultimi rollini fotografici. Nel tornare all'albergo, si era pacificamente addormentato al mio fianco. Il montacarichi era dietro una pesante porta metallica, sul lato sinistro del Metropol. Croft, dopo averci fatti entrare con la Rekord, azionò una leva per abbassare la piattaforma; quindi ci pilotò fino a un parcheggio libero. Uomini e donne con pesanti grembiuli di gomma stavano lavando delle automobili. Spensi il motore e le luci, presi registratore e macchina da scrivere; Bertie ricuperò le sue macchine fotografiche e uscimmo dalla vettura. «Brutt'affare, lavorare di notte» dissi a Croft. «Lo faccio volentieri» disse lui. «Preferisco lavorare di notte che di giorno. Anche il mio collega. Facciamo lo stesso turno a settimane alterne. La macchina è a posto?» «Tutto a posto» dissi io. «Non abbiamo rotto niente.» Finse di non aver sentito. E chiese: «Sa dirmi per quanto tempo avrà ancora bisogno della macchina?». «No» disse Bertie. «Qui per lavoro?» chiese ancora Croft, guardando le macchine fotografiche e il registratore.
«Si» disse Bertie. «L'ho chiesto solo perché abbiamo dato loro l'ultima delle nostre Rekord. Tutte le altre sono già noleggiate» disse l'olandese, gentile. «E ora abbiamo un ospite il quale vuole avere anche lui assolutamente una Rekord. Se sapessero quanta gente chiede una macchina in questo periodo! Quei due congressi ci fanno impazzire! E dopodomani ne comincia un altro. Per specialisti di malattie del cuore e della circolazione.» «E gli altri due congressi?» «L'uno è di filatelici, internazionale. È internazionale anche l'altro, di neurochirurgia» disse Croft. «Medici da tutto il mondo. Ecco, quella Rekord accanto alla loro, l'ho appena portata giù. Diciamo mezz'ora fa. Evidentemente è andato a divertirsi anche lui, il professore.» Entrò nel suo piccolo ufficio, decorato unicamente da un calendario della Coca-Cola, appeso al muro accanto a un estintore, e annotò il rientro della nostra vettura sul registro. «Che professore?» chiese Bertie. «Uno di Mosca» disse il garagista olandese. «Professor Monerov.» Verificò sul suo registro. «Questa è curiosa» disse. «Cosa?» chiesi io. «Lei ha l'appartamento 423, vero?» «Si: e allora?» «Il professor Monerov ha l'appartamento 424» disse Croft. «Avete gli appartamenti contigui! E tutti e due avete noleggiato una Rekord. Strano, eh?» «Sì,» dissi io «molto strano.» Gli piaceva chiacchierare. Era un bonaccione straordinariamente ingenuo, quasi come un bambino, quel Wim Croft. Molti olandesi lo sono, pensai. E poi, dannazione, pensai di nuovo alla signorina Luise e ai suoi amici morti. Ma era già così tardi, e io ero così stanco, che improvvisamente fui colto da nausea per il mondo della signorina Luise, e decisi: non posso e non voglio più pensare a quell'altro mondo, e che Hem mi dica pure tutto quello che gli pare. Io posso credere solo a quello che sento, a quello che vedo e a quello che dico! Oggi so che, in realtà, le cose stanno assai diversamente: quello che io (ma vale per tutti) vedo, dico, ascolto è già superato nell'attimo successivo, e diventa irreale. Solo ciò che è legato al presentimento è reale e duraturo. 15
Dormiva come una bambina. Distesa sul fianco sinistro, una mano raccolta a pugno e premuta contro la bocca, il corpo tutto rannicchiato. Ero fermo nella camera da letto buia dell'appartamento. Un raggio di luce penetrava dal salotto, e sentivo Irina respirare, piano, a fondo. Me ne rimasi lì per un bel po', e - così come due giorni prima, nel piccolo snack-bar del negozio d'Alimentari Kniefall, a Francoforte - dovetti pensare con angoscia improvvisa che conducevo una porca vita, che l'avevo sciupata, che avevo dilapidato le mie doti. Questa storia, ecco: questa storia doveva aiutarmi a trovare di nuovo un po' di rispetto per me stesso, a vedere di nuovo stampato il mio vero e ancora stimato nome. Però questa considerazione non mi procurò sollievo. Mi sentii improvvisamente male: sentii lo sciacallo, vicinissimo; afferrai la fiaschetta e bevvi a lungo, tanto a lungo che mi vennero le lacrime agli occhi. Quando Bertie e io eravamo andati a ritirare le nostre chiavi dal signor Heintze, il portiere di notte, ci eravamo informati se era successo qualcosa. Non era successo niente. Irina non aveva telefonato, nessuno le aveva telefonato o chiesto di lei, nessuno aveva cercato di me. Avevo poi accompagnato Bertie in ascensore, gli avevo dato la buona notte ed ero sceso quindi al quarto piano, avviandomi verso il mio appartamento, lungo il corridoio silenzioso. Davanti alla porta col numero 424 c'erano un paio di scarpe da passeggio e un paio di scarpe nere da smoking, molto sporche. Scarpe da smoking particolarmente belle. E appartenevano al neurochirurgo professor Monerov. Un russo. E allora?, avevo pensato. In un grande albergo soggiorna tanta gente di tutte le nazionalità. Non c'è nessun bisogno di credere a quelle fesserie. Ero stato colto da un momento di rigoroso razionalismo. E mi sarebbe piaciuto sapere dove il professore aveva trovato quelle magnifiche scarpe da smoking. Io ne possedevo tre paia, ma non uno che fosse così elegante. Poi avevo aperto la porta del mio appartamento, lasciato le scarpe mie fuori dalla porta, ero entrato nel salotto con le sole calze, avevo richiuso la porta a chiave, e infine acceso la lampada che era accanto al divano sul quale c'erano il mio cuscino e la mia coperta. Avevo appeso la giacca allo schienale d'una sedia, allentato la cravatta e poi aperto piano, pianissimo, la porta della camera da letto, perché volevo andare un attimo in bagno. E mi ero fermato accanto al letto di Irina, a guardarla, e a pensare alla sua innocenza e a me stesso, sino a quando era venuto lo sciacallo e avevo dovu-
to bere, a lungo: troppo. Ero senza fiato, quando staccai la fiaschetta dalla bocca; lo sciacallo s'era allontanato, ma non ero molto certo che se ne sarebbe restato alla larga, e quindi mi proposi di mettere la bottiglia del whisky sul tavolo, accanto al divano, in modo d'averla sempre a portata di mano. M'infilai nel bagno, aprendo e chiudendo anche lì, piano, la porta, e passai un asciugamano sul pavimento, per spazzar via le schegge del bicchiere che Irina aveva fatto cadere quando l'avevo vista nuda. Mi diedi una lavata alla svelta e mi affrettai a tornare in salotto. Finii di spogliarmi, indossai il pigiama e buttai giù un altro gran sorso a titolo di prevenzione, benché mi fossi appena lavati i denti. Tesi l'orecchio, ma nella stanza accanto c'era silenzio assoluto. Staccai il ricevitore del telefono e chiesi alla centralinista il numero di Conny Manner. Quando mi passarono la comunicazione, sentii suonare il segnale così a lungo che cominciai ad aver paura. Poi, finalmente, Edith Herwag rispose, con voce impastata e addormentata. Si svegliò un poco solo dopo che le ebbi detto chi ero. «Ah. È lei.» «Le avevo pur detto che l'avrei richiamata ogni paio d'ore. Che ne è di Conny?» «Hanno telefonato dall'ospedale. Dicono che se non sopravverranno complicazioni, potrò vedere Conny stamattina.» «Sono contento. E a che ora?» «Verso mezzogiorno, mi hanno detto.» «Bene. Richiamerò. Verso le dieci e mezza circa. Mi dispiace di averla svegliata.» «Non fa niente. Io... sono così felice che Conny stia meglio. Mi sono addormentata qui su una sedia, accanto al telefono.» «Ora si metta a letto.» «Si. E... Walter?» «Hm?» «La ringrazio. Lei e anche Bertie. Voi siete... siete... stati tanto cari con me.» «Va bene» dissi io. «Buona notte, Edith.» Riagganciai ed ebbi l'impressione di sentire un rumore nella camera da letto, ma poi pensai d'essermi sbagliato. Mi resi conto che la stanchezza stava giocandomi brutti scherzi. Buttai giù un altro po' di whisky e, bevendo, ringraziai Dio, o chi per lui, perché Conny stava meglio e se la sarebbe
cavata. Rialzai il ricevitore e chiesi di poter parlare con Francoforte. La centralinista mi passò il numero di Hem. «Ehilà, vecchio mio» disse Hem. «Ehilà, Hem» dissi io. «Com'è andata?» Gli riferii minuziosamente quello che ci era capitato. Stette a sentire con attenzione. Fece solo qualche domanda. «Complimenti» disse infine. «Buon lavoro. È davvero una storia formidabile. Le foto di Concon ci arriveranno col primo aereo del mattino?» «Sì, Hem.» «Benone. Ho detto a Lester che deve far riaprire quattro pagine. Si è rifiutato. E allora ho semplicemente chiamato il vecchio, ed Herford ha detto: "Ma certo, quattro pagine! Questa storia le vale!". Però a questo punto abbiamo bisogno di foto formidabili.» «Le avrete» dissi io. «Il testo tuo, breve, e le didascalie dovranno essere trasmessi entro le dieci, ragazzo mio: capito? Devono. Cerca di non farti beccare dal tuo sciacallo o da qualche altro accidenti. Altrimenti tutta la tua storia va a farsi benedire.» «Prima delle dieci trasmetto tutto.» «Herford è fuori di sé dalla gioia, per questa bomba che gli avete scovato. E ti assicuro che non è facile vederlo allegro, perché in queste ore è stato di un umore nerissimo.» «Come mai?» «Bob.» Bob, e cioè Robert. Il figlio di Herford. Playboy e buonanulla. «Cos'ha combinato?» «Il solito. Ne ha messa incinta un'altra. Una quindicenne. Herford è venuto a piangermi sulla spalla. La quindicenne è una gran dritta, una di quelle che non è facile mettere a tacere. Vuole avere il bambino. Non intende abortire, a nessun costo. Ha detto che denuncerà Herford se glielo proporrà un'altra volta.» Mi misi a ridere. «C'è poco da ridere» disse Hem. «Quella non vuole nemmeno gli alimenti. Le pare una soluzione poco sicura. Vuole avere mezzo milione di marchi subito, sull'unghia.» «Ma è matta!» «Nient'affatto. Quel cretino di Bob l'ha violentata.» «Bella frittata» dissi io. «La ragazza ha dei testimoni. È successo durante uno di quei festini di
gruppo. Cinque testimoni. Niente da fare, dice Rotaug. Al massimo si può trattare per indurla ad accettarne quattrocentomila. Ma meno di così sarà impossibile. Herford ha rifilato un paio di sberloni al rampollo. E mi ha detto che se Dio l'amasse davvero, gli avrebbe regalato un figlio come te.» «Ma va'!» esclamai io. «Dico davvero, ha detto proprio così. Ha perso la testa per te, ragazzo mio. Ora però fammi il piacere di cucinare la tua storia come si deve. Ti prego. È un grosso affare ed è la tua occasione, e...» «Hem,» dissi io «scriverò questa storia da farne una cannonata, ci può giurare. Mi fa pena solo quella Indigo.» «A te fa pena un essere umano?» «Sì.» «Merda» disse Hem. «No, dico sul serio. Ci pensi: quella poveraccia ama Bilka, e dopo tutto quello che siamo riusciti a cavarne fuori, è chiaro che 'sto Bilka è un tipaccio. Non ci pensa neanche più alla Indigo. E semmai, solo perché ne ha paura. È un affare grosso, quello che ha in ballo.» «Pare proprio di sì» disse Hem. «Anche se non capisco ancora di che grosso affare possa trattarsi.» «Non lo so neanch'io. A ogni modo prima o poi finiremo col pestare i piedi a un qualche servizio segreto, tedesco o straniero.» «Quando andrete dalla polizia?» «Alle undici.» «Bene. È importante che la polizia sia dalla vostra parte, ve lo ripeto. Specialmente nel caso in cui dovessero saltar fuori degli stranieri. Ho telefonato appena un quarto d'ora fa in redazione. Non ne sanno ancora niente. Le telescriventi delle agenzie non hanno trasmesso neanche una parola... di niente. Neanche dell'uccisione di quel Concon.» «E di Bilka? Dell'Indigo? Della sparatoria al campo?» «Niente, non una sillaba. Ho parlato persino coi nostri informatori a Brema e ad Amburgo. Brema niente, Amburgo niente. Il pronto intervento della polizia non segnala alcun fatto di rilievo.» Quegli informatori erano liberi collaboratori del giornale, gente con molte relazioni e molta abilità che consentivano loro di fiutare le notizie per primi. Ne avevamo parecchi... Dunque il pronto intervento non aveva segnalato alcun fatto di rilievo. Eppure l'avevo chiamato personalmente per denunciare un caso d'omicidio. «Questa è curiosa» dissi io.
«Vero?» disse Hem. «Ora mettiti giù, Walter. È quasi giorno ormai. Da dove parli? Dove intendi dormire?» Glielo spiegai. «Ho l'impressione che tu ci sia cascato» disse Hem. «Ah, sciocchezze.» «Da quanto non ti succede più di dormire su un divano, mentre nella stanza accanto c'è una bella ragazza nel tuo letto?» «Da un bel po',» dissi io «ma deve anche considerare che nel frattempo, Hem, sono diventato impotente.» «Oddio oddio» disse Hem. «Sogni d'oro, povero il mio impotente. E vedi di trasmettermi quella roba entro le dieci. Ti saluto.» Riappesi il ricevitore. Mi alzai, per scostare un po' una delle pesanti tende e aprire una delle finestre. Altrimenti non avrei potuto dormire. Attraverso la porta-finestra si accedeva a uno stretto balcone con un gran parapetto. Tornai verso il divano, mi ci buttai e spensi la luce. Al buio guardai il quadrante fosforescente dell'orologio che avevo al polso. Indicava le sei e cinque minuti. Entro le dieci devo dettare il primo pezzo, pensai. Alle undici ci aspettavano alla direzione di polizia. Potevo dunque dormire fino alle nove. Anzi no: fino alle otto e mezza. Non volevo che in quella vicenda mi capitassero dei contrattempi. Alle otto e mezza dunque, mi proposi con fermezza. A questo punto, improvvisamente, rividi il seno sodo di Irina e tutto il suo corpo nudo, così come li avevo visti ore prima, davanti a me, e mi venne una gran voglia di scopare. Ti piace, pensai. Ed Hem dice che ci son cascato. Che sciocchezze, pensai. E mi addormentai. Più o meno alla stessa ora in cui - come seppi poi in seguito - la signorina Luise giunse ad Amburgo. 16 Quando mi svegliai davanti a me seduta nella poltrona c'era Irina che mi guardava in un modo curioso, come mai aveva fatto prima. «'Giorno» dissi io. «Buon giorno, signor Roland» disse Irina. Guardai il mio orologio. Le otto e mezza precise. Il grande salotto era pieno di ombre, il raggio di luce era pallido. Colpiva direttamente il bel volto di Irina.
«È da tanto che è seduta qui?» «Si.» «Da quanto?» «Da un'ora almeno» rispose lei. «Mi deve scusare. Si sentirà in imbarazzo.» «Già» dissi io. «La capisco» disse lei. «Perché lo ha fatto?» «Mi sono affacciata piano piano, quando mi sono svegliata, e l'ho sentita parlare nel sonno. E allora...» «Si è incuriosita.» «Sì.» «Ho parlato molto?» «Moltissimo. Quasi tutto il tempo» disse Irina. Mi capitava a volte di parlare nel sonno. Lo sapevo. «Cosa ho detto?» «Cose belle» disse poi. «Molto belle...» «Ma benone» dissi, improvvisamente irritato. «E lei s'è divertita, al punto da starsene qui per un'ora ad ascoltare.» «Non ha mica parlato per tutta l'ora di... Voglio dire...» Voltò la testa da un'altra parte. Mi alzai, mi avvicinai alle finestre e scostai le tende. L'uragano era passato, il cielo era grigio, e piovigginava. Vidi il grande parco con i suoi sentieri e gli alberi neri e nudi, l'imbarcadero del traghetto e l'Alster. Sul pontile c'erano molti gabbiani. Notai due vaporetti sull'Alster. Il traghetto stava giusto ritornando. Nel parco c'era una bambina che rincorreva un terrier. Chiusi la finestra, mi voltai e vidi che Irina stava piangendo. Ed era di nuovo senza fazzoletto. Mi avvicinai e le diedi il mio. Si asciugò gli occhi. «Insomma, cerchi di capire, se lei si mette a spiare uno che dorme, non deve poi meravigliarsi se...» cominciai io. «Ma sì, certo» disse Irina. I suoi occhi non mi abbandonavano. Raccolsi i miei vestiti, m'infilai le pantofole. La mia valigia era in camera da letto. Volevo indossare un altro vestito e biancheria pulita. Fare un bel bagno caldo e radermi. «Le dispiacerebbe ordinare la colazione?» chiesi a Irina. «Dica che la portino fra venti minuti. Per me un bel bricco di caffè, poi uova e prosciutto, succo d'arancia, toast, burro e marmellata. E dica anche lei quello che
vuole che le portino.» «Credo anch'io che Jan sia un porco» disse Irina improvvisamente. Portai il mio vestito e la biancheria in camera da letto e gettai tutta la roba sull'ampio letto. Tornai nel salotto, presi coperta e cuscino dal divano e dissi: «Non c'è bisogno che si sappia in giro che non ho dormito a letto». Irina chiese: «Si può, secondo lei, smettere da un momento all'altro di amare un uomo solo perché si viene a sapere che è un porco?». «Sì... No... Non lo so. Forse una donna non può. Fortunatamente io non sono una donna» conclusi seccamente. Questa situazione mi dava ai nervi. Irina sentì la mia irritazione e riprese a piangere. Io trascinai coperta e cuscino nella stanza accanto e la sentii dire: «Le sto bagnando tutto il fazzoletto, mi scusi». «Ne ho degli altri» dissi io. Presi infatti un fazzoletto pulito dalla valigia e glielo portai. Le sue spalle sussultavano. «Grazie» disse lei. «Prego» dissi io. Lei disse: «Se Jan è davvero quel gran farabutto che lei dice...». «Lei pensa di no?» «Certo, lo penso anch'io» disse lei. «Però devo dirle un'altra cosa ancora. Io non dormivo quando lei è rientrato, si è avviato verso il bagno ed è invece poi rimasto lì a guardarmi, a lungo.» «Però fingeva di dormire.» «Sì» disse lei. «Perché?» «Ho pensato che forse avrebbe telefonato alla sua redazione, e così avrei saputo qualcosa di Jan. E lei ha telefonato in redazione.» «Al mio caporedattore» dissi io. «E lei è stata ad ascoltare tutta la conversazione?» «Sì» disse lei. «Mi sono alzata, mi sono avvicinata piano alla porta, l'ho scostata d'un pochino e ho sentito tutto. Tutto. Ora so quello che lei sa del mio fidanzato. E non sono cose simpatiche.» «No» dissi io. «Lei non poteva sapere che io spiavo. Lei non ha mentito. Lei ha trasmesso delle notizie. È il suo lavoro.» «Sì» dissi io, andai in bagno e aprii il rubinetto dell'acqua calda. Tirai fuori la roba dal mio necessaire da viaggio, mi avvicinai alla presa di corrente sopra il lavandino, per poter usare il mio rasoio elettrico e vidi improvvisamente, nello specchio, che Irina era sulla porta del bagno. Non
piangeva più e i suoi begli occhi erano grandi, spalancati. «Che c'è?» chiesi allo specchio. L'acqua scorreva dal rubinetto aperto nel bagno, e faceva parecchio baccano, così che dovetti alzare il tono della voce. Lei disse qualcosa che non compresi. Mi voltai e chiusi il rubinetto. «Come, prego?» chiesi. Ero vicinissimo a lei. «Ho detto: lei farà di tutto quest'oggi, per trovare Jan?» «Naturalmente» scattai. «Lo ha detto anche lei: questo è il mio lavoro.» Mi ero proprio svegliato male quel mattino. «Non mi parli così. Non sia arrabbiato con me.» «Non sono arrabbiato. Voglio soltanto fare un bagno.» «Sì, naturalmente. Io... vede... Io devo pur potermi fidare di una persona, giusto? Nessuno può vivere senza avere fiducia in qualcuno.» «Si può tentare» dissi io. «Non io» disse lei. «Io non posso tentare. Io... io... io devo fidarmi di lei, non mi resta altro da fare, giusto?» «Se ha proprio bisogno di qualcuno, vuol aver fiducia in me?» Annuì. «Bene» dissi io. «E farà tutto quello che le dirò?» Annuì ancora. «Ed eviterà di fare quello che potrebbe dirle un altro?» «D'accordo» disse lei. «Ma la prego, la prego, signor Roland, non m'inganni anche lei. Non mi racconti anche lei delle menzogne. Mi dica sempre la verità. Non lo sopporterei, se dovessi accorgermi che anche lei mi mente, che anche lei è un farabutto.» «Che farebbe in tal caso?» «Scapperei» disse lei, subito. «Scapperei in qualche modo. Di più non so dirle, su quello che farei. Ma fuggirei da lei, questo lo so.» «Mi sforzerò di non essere un farabutto» dissi io. «E di dirmi la verità?» «E di dirle la verità, ogni volta che sarà possibile.» «La ringrazio, signor Roland.» «Prego. Ora però è lei che mi deve dire la verità.» Si spaventò. «Io? Quale verità?» «Che numero di scarpe porta?» «Ma che significa... perché...» «Devo saperlo!» dissi io. «E allora? Fuori la verità!»
«Trentanove» disse lei, e rise d'improvviso. «E che taglia d'abiti?» «Quarantasei.» «Bene» dissi io. «E le sue misure? Mi faccia indovinare. 85-65-85?» Mi fissò. «Sì, sono giuste. Come fa a saperlo?» «Sono un genio» dissi io. «Le donne sono la mia specialità. Inoltre, qui in bagno, ho già avuto il piacere di... Mi scusi. Questa è stata una mancanza di tatto. Ma devo sapere le sue misure, perché devo comperarle dei vestiti.» «Ma neanche per idea!» «E scarpe.» «Non è possibile! Non può!» «Scarpe e biancheria. Non m'interrompa. Certo che dovrò comperarle della roba. Lei non può lasciare l'appartamento. E non può continuare in eterno a indossare solo quello che ha addosso.» «Io...» «Qual è il suo colore preferito?» «Il rosso... Ma mi stia a sentire... Non è possibile, dico davvero!» «Ma certo che è possibile. Può pagare coi soldi del suo compenso. Ha un buono di cinquemila marchi... se ne è dimenticata?» «Sì... No... Mi sento così confusa... Io... Mi scusi, signor Roland.» «Walter.» «Walter.» «Irina.» Reggevo sempre ancora, come un cretino, il rasoio elettrico in mano. «Lei è così gentile, Walter.» «E lei è così bella, Irina.» Il suo sguardo evitò d'improvviso il mio. «Vado a prenotare la colazione» disse in fretta. «Va bene. E chiami Bertie. Al 512. Che venga giù fra venti minuti, a fare colazione con noi. Quello dorme di sicuro ancora. Però ora deve alzarsi.» Annuì. «E non dimentichi di prenotare la sua colazione.» «No» disse lei, e si voltò. «Tè. Berrò molto tè.» «E mangerà come si deve.» «Non ho per niente fame» disse lei, e si avviò. M'ero appena tolta la giacca del pigiama quando rientrò.
«Oh, scusi!» «Che c'è?» «Volevo solo dire che credo di aver fame anch'io» disse Irina, e arrossì. «Ordinerò uova e prosciutto anche per me, e toast, burro e marmellata. E non berrò tè. Ci ho ripensato. Voglio caffè anch'io. E succo d'arancia. Come lei.» Sparì di corsa in salotto. Mi tolsi l'orologio e vidi che erano esattamente le nove, e così accesi la piccola radio a transistor che mi trascino in giro ovunque, e che avevo prelevato dalla valigia. Mi sintonizzai su una stazione della Germania settentrionale. Quindi m'infilai nell'acqua calda, mi insaponai e ascoltai le ultime notizie. Però l'annunciatore non disse una parola sul campo di Neurode e di quello che vi era accaduto, non disse niente dell'omicidio di Sankt Pauli, assolutamente niente di quello che riguardava il mio caso. Pensai che quella faccenda nella quale mi ero cacciato doveva essere molto, ma molto più grossa di quanto potevo supporre, altrimenti non vi sarebbe stato quel totale silenzio stampa. E poi mi venne in mente d'improvviso che Irina aveva detto di volere, anche lei, caffè invece del tè, come me, e poi uova al prosciutto, toast, succo d'arancia: come me. «Al gong sono le ore 9 e 15» annunciò lo speaker. E fu in quel momento che capii, all'improvviso, di amare Irina. M'era capitato una sola volta in vita mia, d'innamorarmi, e non ero affatto sicuro d'avere dei buoni motivi per rallegrarmi della mia scoperta. Mi sentii anzi alquanto oppresso. Il mio ultimo amore risaliva a sedici anni prima, era durato un anno e mezzo soltanto, ed era finito in un modo vomitevole. 17 Facemmo colazione in tre, attorno a un tavolo a rotelle. Lo aveva sospinto in salotto un cameriere che non conoscevo. Gli chiesi chi gli sarebbe subentrato in servizio dopo mezzogiorno. Me lo disse. Era un cameriere di cui mi ricordavo. Non sapevo che cognome avesse, ma di nome si chiamava Oskar, e io l'avevo sempre chiamato «signor Oskar». Fui lieto di sentire che quel pomeriggio e la sera avrei rivisto il signor Oskar. Dopo aver mangiato le mie uova al prosciutto e una montagna di toast, presi carta e penna e buttai giù, coll'aiuto di Bertie, le didascalie per le foto. Bertie aveva man mano preso nota dei vari rollini, contrassegnandoli. Bevvi il caffè caldo e forte, e feci un sorriso a Irina: ma lei mi replicò con
uno sguardo tutto serio. Fece solo un breve cenno di assenso. Le avevamo chiesto se potevamo metterci al lavoro mentre lei finiva di fare colazione, e aveva detto di sì. Dopo aver scritto le didascalie, chiesi a Irina se potevo fumare, e lei disse ancora di si. Dopo tre Gauloise e un mucchio di altro caffè, ebbi pronto anche l'articolo introduttivo, che non doveva essere molto lungo. Mancavano pochi minuti alle dieci. Mi alzai, mi diressi verso il telefono, dettai alla signorina del centralino il numero di Blitz a Francoforte. Sperai che nella cabina di ricezione ci fosse Olga. Era la più in gamba di tutte. «Posso fare una telefonata anch'io?» chiese Bertie. «Mi servo dell'apparecchio di là in camera.» Bertie si era cambiato: un vestito di flanella grigia, una camicia azzurra, una cravatta chiara. Era davvero elegante. «Certo che puoi.» Irina aveva un'aria incerta. «Lei resti pure qui» dissi io. «Nessun segreto per lei, può restare tranquillamente a sentire quello che trasmetto. Chi vuoi chiamare?» chiesi poi rivolto a Bertie. «Be', mia madre» rispose lui con quel suo sorriso da bambino. Quando era in viaggio, telefonava ogni giorno a sua madre, purché fosse in qualche modo possibile. Naturalmente non dal Sudamerica o dal Giappone. In quei casi spediva telegrammi. Amava molto sua madre, e lei amava molto suo figlio. Bertie disse: «Questa diventerà una giornata campale. Dopo non avrò più tempo. E poi voglio mandarle anche dei fiori». «Salutami tua madre» dissi io, mentre lui si era già avviato verso la camera da letto, e il mio telefono cominciava a squillare. Accesi un'altra Gauloise e sollevai il ricevitore. Era il giornale. Quasi subito risuonò una voce femminile. Oh meno male, pensai, ho avuto fortuna. «'Giorno, Olga. Sono Walter Roland. Ho qualcosa di urgente da dettare.» «Batto a macchina o stenografo?» chiese Olga. «Stenografa. Trascriverai poi.» «Via allora» disse Olga. «Okay.» Diedi un'occhiata a Irina. Rispose al mio sguardo con un'espressione seria e triste. Riguardai le mie carte e cominciai a dettare. 18
Era una grande città racchiusa da mura possenti. Nessuno poteva abbandonarla. Fra le mura c'erano quattro torri gigantesche, che si ergevano alte nel cielo. Sulle torri c'erano delle figure altissime che facevano risuonare in continuazione le loro voci tonanti. La signorina Luise camminava - per le strade di quella grande città - al fianco del suo amico preferito, quello che era morto durante il servizio di lavoro obbligatorio, l'ex studente di filosofia di Rondorf. Era molto felice che lo studente fosse lì con lei, perché si sentiva smarrita e indifesa in quella enorme città. Il gigante che era sulla prima torre urlava: «Venite a me, voi tutti che vivete una vita grama e difficile! Siete nati tutti uguali! Avete tutti gli stessi diritti! La legge riconosce a tutti voi protezione dalla fame, dalla miseria e dalla paura! Tendete alla vostra fortuna! Attenetevi agli ideali di giustizia, di moderazione, di sobrietà, di modestia! Siate virtuosi!». Ma gli uomini e le donne che passavano in gran fretta non erano affatto nati uguali, non avevano affatto gli stessi diritti e la stessa protezione dalla fame, dalla miseria e dalla paura; e quanto a giustizia e virtù, non sapevano cosa fossero. C'erano invece poveri e ricchi, bianchi e gente di colore, oppressori e oppressi, sfruttatori e sfruttati, picchiatori e picchiati, inseguitori e inseguiti. La signorina chiese al suo amico: «Chi è quello che strilla in quella maniera sulla prima torre?». E lo studente rispose: «Quello è il portavoce della democrazia». Il gigante che era sulla seconda torre sbraitava: «Siano maledetti tutti i peccatori che si abbandonano alle insidie della carne! Siano maledetti in eterno e possano bruciare al fuoco dell'inferno tutti coloro che s'arrendono e si abbandonano ai sensi, alle lusinghe del sesso e ai peccati terreni!». Gli uomini e le donne che passavano accanto alla signorina, frettolosamente, abbassavano le teste. Sui loro volti si leggevano paura e senso di colpa. La signorina Luise chiese al suo amico: «Chi è quello che strilla in quel modo sulla seconda torre?». Lo studente rispose: «Quello è il capo dei cristiani». Il gigante che era sulla terza torre tuonava: «Instaurate la dittatura del proletariato! Distruggete il capitalismo! Perseguite la corruzione e l'immoralità! Costruite con le vostre mani lo stato degli operai, dei contadini e degli intellettuali!». Uomini e donne si scostavano, pieni di amarezza e paura. Nessuno osava guardare in faccia la signorina. Lei chiese allo studente: «Chi è quello sulla terza torre?». Lo studente rispose: «Quello è il capo dei comunisti».
Proseguirono lungo le strade che parevano senza fine, e sentirono il gigante che urlava dalla quarta torre: «Siate coraggiosi, forti e pronti a dare la vostra vita per la patria! Distruggete gli aborti della mala pianta giudaica! Purezza della razza e onore siano obiettivi per l'avvenire del vostro popolo e per la felicità dei vostri figli!». Gli uomini e le donne si nascondevano ancora di più, e si allontanavano ancora più in fretta. Sui loro visi trapelavano il terrore e la paura che li assillavano. La signorina chiese allo studente: «Chi è quello della quarta torre?». Lo studente rispose: «Quello è il capo dei fascisti». C'era diffusa miseria in quella città. La signorina vide che uomini e donne vivevano angariati dai quattro potenti che erano sulle torri. Non osavano ribellarsi, sopportavano persecuzioni e mancanza di libertà. La signorina si senti molto triste per tutto questo... Cominciò così il sogno che Luise Gottschalk, fece in uno scompartimento vuoto di un treno accelerato, partito da Rotenburg e diretto ad Amburgo, sul quale era salita tre quarti d'ora dopo che era scesa dal treno di Colonia. Il convoglio era ancora quasi vuoto e si fermava spesso. La signorina Luise si era ripromessa di restar sveglia a ogni costo, poiché sapeva di dover essere prudente, molto prudente. La sua stanchezza risultò però più forte dei suoi propositi, si addormentò quasi subito e fece quello strano sogno. Più tardi me lo riferì: «È stato un sogno spaventoso. Sinistro. E non so nemmeno dire se ho sognato oppure se ho visto quelle cose davvero. A ogni modo mi considero fortunata di aver potuto vedere e capire...». «Cosa è accaduto poi in quel sogno?» ho chiesto io. La signorina Luise mi ha spiegate di non ricordare più con precisione, ma di aver avuto l'impressione di poter guardare nel futuro. Gli uomini di quella città, improvvisamente, compresero di non poter più sopportare a lungo quell'angosciosa mancanza di libertà e le voci tremende dei quattro tiranni. Le loro voci divennero più deboli e furono infine sopraffatte dal grido di «Libertà!». E a questo grido, lanciato da uno solo, fece eco il grido di centinaia di migliaia, di milioni d'individui: «Libertà! Libertà! Libertà!». Nella città racchiusa fra le mura avvenne una rivoluzione. La signorina e lo studente ne furono spettatori. Luise vide grappoli di uomini arrampicarsi come formiche sulle quattro alte torri. Innumerevoli erano quelli che precipitavano, ma ne venivano sempre altri, e infine la folla raggiunse le piat-
taforme sulle quali erano i quattro dittatori. Masse di uomini disarmati si avventarono sui tiranni, ci furono lotte selvagge, corpi a migliaia caddero quando i dittatori tentarono di difendersi. Alla fine però gli oppressi vinsero, e precipitarono i tiranni giù dalle loro torri, per finirli poi a colpi di pietra. Un urlo di gioia indicibile risuonò quando i tiranni morirono, e milioni di persone si precipitarono verso le mura che caddero sotto quell'assalto. La folla fluì fuori dalla città, mentre il grido «Libertà!» saliva al cielo. La signorina Luise e lo studente furono trascinati dalla folla che correva, superarono incespicando le rovine delle mura, e uscirono dalla città. La signorina Luise pensò: Ora finalmente gli sfruttati saranno pagati, i terrorizzati avranno quiete, gli oppressi giustizia; saranno liberati coloro che hanno subito torture e schiavitù; i meritevoli di pietà avranno pietà, gli sconsolati consolazione. Stava ancora pensando a queste cose, quando udì delle grida levarsi dalla folla, e vide gruppi di persone formarsi nella moltitudine: sempre più numerosi, e sempre più alte quelle grida. «Ora che avete la libertà, saprete usarne senza aiuto?» «No, non ne sarete capaci!» «Vi aiuteremo noi!» «Vi faremo vedere noi, come si vive in libertà!» «Noi vi venderemo quello che vi servirà nella libertà!» «Saremo noi a fare della libertà un paradiso!» I milioni di persone che avevano appena conquistato la libertà, dimenticarono gli incubi che li avevano afflitti nell'inferno della città, e comperarono altri sogni, altri incubi, da quelli che si erano messi a gridare quelle frasi in mezzo a loro. Quelli che gridavano, nella gran confusione, erano i mercanti. I mercanti offrivano agli altri uomini delle merci che questi - ancora disorientati e incerti - supponevano soltanto di dover avere, supponevano soltanto di aver sognato. «Ecco a voi» gridavano i mercanti «il benessere e il lusso, l'amore e la gioia, lo svago, la carriera, la proprietà, la fama, il successo, la scienza, la mondanità, il potere, la bellezza, la virilità, la femminilità, il sesso, la droga, l'avventura e mille altre cose ancora.» E gli uomini e le donne, appena sfuggiti alla grande schiavitù, credettero ai mercanti, si misero a comperare, a comperare sempre di nuovo, e finirono così ben presto in una nuova condizione di schiavitù. La signorina, angosciata, vide mutare d'aspetto i volti di coloro che s'e-
rano lasciati circuire. Erano volti segnati dall'avidità; consunti e vuoti i visi di coloro cui i mercanti offrivano orge selvagge; smunte e grigie le espressioni di coloro che, per colpa dei mercanti, erano diventati ormai vittime delle droghe. Devastate le facce di chi viveva nel lusso, orribili i volti di coloro che avevano il potere, impietriti i visi di quelli che pensavano solo alla carriera, superbi i volti di coloro che rincorrevano la fama, dure le espressioni di coloro che avevano acquistato proprietà, altezzosi in volto coloro che avevano avuto la scienza. La confusione cresceva sempre di più, e la gente correva dai mercanti a comperare sempre nuovi sogni. Le voci dei mercanti finirono col risuonare più alte di quelle dei quattro tiranni: «Comperate, gente! Comperate! Comperate, comperate! Comperate!». E la gente comperava, comperava, comperava... Ma tutto quello che comperavano non aveva alcun valore. Perché i mercanti non avevano loro venduto altro che sogni e illusioni. 19 Hem era entrato nella mia stanza mentre stavo scrivendo queste ultime righe. Dopo averle lette, mi ha detto: «Che sogno strano!». Si è messo a succhiare la sua pipa, ha soffiato una gran nuvola di fumo e ha fissato a lungo le pagine che avevo completato, coperte d'una fitta scrittura a macchina. E poi: «I mercanti. I venditori di sogni. Noi, ragazzo mio, noi di Blitz siamo come loro. Ci rivolgiamo a persone che vivono nel loro mondo come in una prigione, come circondati da alte mura, a persone che vogliono la libertà, una libertà senza confini. E vendiamo loro cosa? Sogni di libertà». «Questo è stato solo un sogno della signorina Luise» ho spiegato io. «Aveva paura. Paura della grande città di Amburgo. Paura di tutto quello che avrebbe potuto, accaderle in quella città enorme, affollata, sconosciuta.» «È stato qualcosa di più di un sogno» ha detto Hem. «È sempre qualcosa di più nel caso della tua signorina. Ha inconsapevolmente capito un qualcosa che, di solito, comprendono soltanto le persone meno adatte a capire.» «E cioè?» «E cioè che l'anelito di libertà assoluta sfocia nell'inganno, esattamente come le grida lanciate da quelle quattro torri. Gli uomini sono ancora trop-
po immaturi per saper disporre d'una libertà assoluta. Chi, come i mercanti, se ne rende conto, può continuare a renderli schiavi di nuovo, imporre loro la non-libertà che deriva dalle informazioni coatte, dai consumi coatti, dal gusto coatto: e fare sulla loro pelle affari colossali. Se gli uomini fossero davvero maturi, comincerebbero col liberarsi innanzi tutto di noi, i mercanti. Ma poiché non lo sono, non sanno farlo...» «Già, mercanti, piazzisti di sogni: siamo noi» ho detto io. «Noi... noi che non siamo affatto migliori di Lester, di Herford, di Stahlhut. Noi siamo responsabili, esattamente come lo sono loro... Pensiamo ai modi più raffinati di scrivere per assecondare meglio i gusti della gente, blandendo consapevolmente e senza scrupolo alcuno gli istinti più bassi, che sono poi sempre anche quelli prevalenti. Noi sappiamo che più della metà del nostro popolo preferisce illusioni e notizie artificiose alle informazioni veritiere sul mondo nel quale vive. E noi rincretiniamo sistematicamente questo povero popolo. Le pare possibile che si possano rendere politicamente consapevoli e coscienti le persone, quando diamo loro, per esempio, quelle nostre schifose inchieste sui problemi falsi e assurdi delle famiglie reali?» «Il fatto è che non vogliono essere resi coscienti e consapevoli» ha continuato Hem. «È per questo appunto che rifiliamo loro quelle inchieste. In questa nostra epoca, caratterizzata da sistemi di comunicazione sempre più raffinati, la folla è affidata sempre di più a informazioni di seconda mano. E quelli che le manipolano siamo noi! Noi spieghiamo alla gente un mondo incredibilmente complesso ricorrendo alle più incredibili semplificazioni. Questi sono i sogni che noi vendiamo! Noi vendiamo all'uomo qualunque, alla donna qualunque, una continua fuga dalla realtà. E tentiamo di giustificare noi stessi dicendo: ma in fondo non facciamo del bene? La vita di tutti i giorni non è forse di per sé già abbastanza dura e crudele? Non hanno diritto forse l'uomo qualunque e la donna qualunque alla loro evasione? Quanto ai falsi problemi delle famiglie reali: sai benissimo anche tu che, assieme alle tue puntate su questioni sessuali, i nostri maggiori successi sono state le inchieste su re e imperatori. Abbiamo venduto per anni la monarchia come un'istituzione ideale! Vendiamo l'illusione di una famiglia che non finisce mai, di una famiglia che descriviamo come una "grande" e "vera" famiglia. E vendiamo inoltre il sogno d'una vita immersa nello splendore. Beghe matrimoniali di gente ricca! Spacciamo immagini di eroi. Eroi del cinema, eroi dello sport, di altra gente famosa. In questo modo riusciamo a drogare gli acquirenti dei nostri sogni, a fare in modo che dimentichino le preoccupazioni per la loro famiglia, l'incertezza delle loro
condizioni di vita e di cui un numero sempre maggiore di persone ha paura. Noi facciamo in modo che moltitudini trasferiscano le loro ansie su problemi e simboli falsi. E la verità naturalmente va a farsi fottere. Il lettore però si sente alleggerito. Non dispera... non ancora. Noi vendiamo sogni contro la disperazione...» Hem mi ha messo una mano sulla spalla e ha concluso: «E ora continua a scrivere, Walter. Spicciati. Non hai molto tempo. Scrivi tutto, ma proprio tutto». «Sì, Hem» ho detto io. E ho continuato a scrivere. 20 Più o meno nel momento in cui io m'addormentavo sul divano del salotto, nel mio appartamento all'Hotel Metropol, l'accelerato da Rotenburg faceva il suo lento ingresso sotto la pensilina della stazione centrale di Amburgo. La signorina Luise s'era svegliata da un bel po' da quel suo sogno arruffato, e sentiva il cuore batterle forte in petto. Il suo coraggio era man mano scemato. Veniva dal deserto della palude, erano anni che non vedeva più Amburgo. Alle ultime fermate erano saliti sul convoglio molti passeggeri, soprattutto operai. Tutta quella gente intimoriva la signorina Luise. E pensava: Mi fa già paura la gente qui in treno. Cosa mi accadrà quando mi troverò nella ressa fatta di milioni di individui? Buon Dio, aiutami, questa città mi terrorizza. Non si può proprio dire che il buon Dio sia entrato in azione subito, e che abbia aiutato immediatamente la signorina Luise. Anzi. Appena scesa, faticosamente, dal vagone, era finita nella gran massa di viaggiatori che fluiva verso la larga scalinata che, dalle pensiline, porta all'atrio superiore. La signorina Luise fu presa a spintoni, urtata. Barcollava sulle sue povere gambe gonfie e malate. Piccole gocce di sudore le si formarono sulla fronte. Respirava a fatica. Ma la folla continuava a sospingerla innanzi, senza pietà. Dovette ripensare al suo sogno. Ora stava arrampicandosi faticosamente lungo la scalinata. C'erano tanti rumori, tanto chiasso, tante voci: si sentì letteralmente girare la testa. Pensò: Non devo arrendermi. Questo è appena l'inizio. Ne ho discusso a fondo coi miei amici. E adesso devo anche farcela. Raggiunse l'atrio della stazione. I chioschi dei giornali e dei generi alimentari erano già aperti. Di fronte a uno dei quei chioschi, la signorina vide tre uomini che, in piedi, bevevano caffè e mangiavano panini imbottiti
di salame. Ecco di cosa aveva bisogno. Si diresse verso quel chiosco e ordinò caffè e un panino imbottito. Due dei tre uomini che erano in piedi accanto a lei erano operai, evidentemente amici, perché chiacchieravano fitto e ridevano a gran voce. Il terzo uomo se ne stava in disparte. Era alto, smilzo, aveva un viso magro e capelli grigio ferro tagliati molto corti. Indossava un vecchio cappotto d'una stoffa che era stata tinta di blu. La signorina constatò che si trattava d'un ex cappotto militare, uno di quelli che un tempo indossavano gli ufficiali inglesi. Le spalle imbottite, il taglio alla vita, l'ampia semi-cintura sulla schiena... ma certo, quel cappotto era stato sicuramente di un ufficiale inglese. Guardò l'uomo più attentamente. Anche i pantaloni che indossava erano blu. Non tinti, decise la signorina, ma vecchi. Ciò nonostante, la piega era inappuntabile. Le scarpe: cuoio nero, vecchio e fragile, i tacchi un po' consunti: però tirate a lucido! Lo sguardo della signorina scivolò in alto. Vecchia cravatta, camicia di vecchio taglio, ma tutto ben curato. Il viso dell'uomo: accuratamente rasato, scavato e l'espressione pensosa di chi ha conosciuto tempi migliori. Le sopracciglia grigie, gli occhi blu - in curioso contrasto coll'atteggiamento bonario - duri e sospettosi. Portamento molto eretto. Quanti anni potrà avere quest'uomo? È certamente più vecchio di me, pensò la signorina. Qualcuno, nel passare, le diede uno spintone. La signorina Luise colpì col gomito la sua grande e pesante borsa, che aveva appoggiato sul bancone: cadde a terra. E a terra si aprì. Almeno due dozzine di banconote da cento marchi si sparsero attorno. L'uomo magro fissò il denaro come affascinato. Poi s'inchinò svelto, tanto da urtare la signorina Luise, che si era subito inginocchiata. «Se mi consente, l'aiuto...» disse lo smilzo. «Io... io... ma guarda che roba...» La signorina Luise tremava. I suoi soldi! Tutti quei soldi! Sempre in ginocchio, stette a guardare mentre l'uomo magro raccoglieva le banconote e le riponeva nella borsa. Pareva che il denaro si appiccicasse alle sue lunghe e magre dita. Chiuse la borsa, l'allungò alla signorina Luise. Poi la prese per un braccio e l'aiutò ad alzarsi. «Grazie» disse la signorina Luise. «Ma di che» disse lo smilzo. «Tutti quei soldi...» «Già» disse la signorina Luise. «Quattromila marchi.» Forse non avrei dovuto dirlo, pensò. L'uomo magro commentò: «Quattromila! Badi che quella borsa si apre
molto facilmente. Deve stare attenta». «Sì, lo so» disse la signorina Luise, ancora molto agitata. «Se mi permette, il mio nome è Reimers» disse lo smilzo, facendo un secco inchino. «Wilhelm Reimers.» «Piacere» disse la signorina Luise. «Mi chiamo Gottschalk.» «Viene di lontano?» «Perché?» «Il suo accento... È austriaca?» «No. Tedesca dei Sudeti. Però adesso vengo da Neurode. Dal campo di raccolta per profughi che c'è lassù. Vicino a Brema.» «Oh sì» disse Reimers. «Neurode. Ne ho sentito parlare. C'è una gran palude, vero?» «Sì...» «Dev'essere un posto molto isolato.» «Eccome lo è. E quando poi si capita d'improvviso in una grande città... ecco che ci s'innervosisce un po', signor Reimers.» «Me l'immagino.» Reimers parve scuotersi. «Conosce Amburgo abbastanza bene?» «No» disse la signorina, sconsolata. «Probabilmente non mi ci oriento più per niente. È passato tanto tempo da quando ci sono venuta l'ultima volta... E tutti i posti poi, dove devo andare...» «Dove precisamente?» «A...» La signorina Luise s'interruppe. Attenta, si disse. Parlo troppo. Ho parlato troppo anche con quel testimone di Jehova che non lo era perché era uno psichiatra. Devo stare attenta. «Oh, qui e là...» disse. «Non pensa di aver per caso bisogno d'una guida?» Reimers la guardava speranzoso. «Io lo sono, sa?» «Guida? Guida in che senso?» «Guida turistica» spiegò Reimers. «Mi può assumere a ore, a giornate. Sono a sua disposizione. Anche per piccole incombenze o altri incarichi. Conosco Amburgo come le mie tasche.» La signorina Luise esaminò Reimers. Le piaceva. E poi le sarebbe piaciuto anche avere un uomo al fianco in quella circostanza. Però non conosceva affatto quell'uomo. Attenta, disse di nuovo a se stessa, bada a quello che fai, Luise! Reimers aveva estratto di tasca i suoi documenti e glieli esibiva. «Prego! Perché non pensi che ci sia qualcosa che non va.» La signorina Luise esitava ancora.
«Ma lei si diverte a fare la guida turistica?» chiese. «Sì, mi diverto anche. Dico sul serio! S'incontrano tanti stranieri e gente interessante. Io parlo quattro lingue.» S'inchinò. «Glielo dico con tutta franchezza, signora: ho anche bisogno di soldi. Eccome ne ho bisogno! La mia esistenza dipende da questi piccoli lavoretti.» «Ma come, non ha una pensione decente?» chiese la signorina Luise. «Un uomo della sua età... Mi scusi, non intendevo dire...» «Oh lo dica, lo dica pure! Un uomo della mia età! Sessantanove anni. No, non ho una pensione decente. Non lo è affatto.» Reimers distorse la bocca in un sorriso senza gioia. «Grazie a Dio, al giorno d'oggi se ne può parlare apertamente. Ai più lo dico subito, è la soluzione migliore. E se poi qualcuno non mi vuole, mi lascia perdere.» «Cosa dice subito, signor Reimers?» «Chi sono. Anzi, chi ero.» «E chi era lei?» chiese la signorina. «Ero capomanipolo nelle SS» disse Reimers, continuando a sorridere. La signorina Luise sussultò. Capomanipolo! Squadrò Reimers attentamente. Che quello fosse il suo amico, il capomanipolo? Che fosse il caso di osare di trattarlo come se lo fosse, di parlargli in confidenza? Dopo tutto quello che le era appena capitato? No, non poteva rischiare. Doveva stare molto attenta! «Si sente inorridita? Indignata? Offesa?» tentò Reimers. «Ma no» disse la signorina. «È stato solo... così improvviso... e non me l'aspettavo... benché...» «Benché?» «L'aspetto dell'ufficiale ce l'ha, me ne sono accorta subito!» Esitò, e poi chiese: «È stata dura per lei, dopo la guerra, eh?». «È il caso di dirlo. Innanzi tutto l'arresto immediato da parte degli americani. Il campo di prigionia.» La signorina sobbalzò di nuovo. No, pensò, no: può essere una trappola. «Ma non avevo fatto nulla di cui potevo rimproverarmi, né in Russia né in Francia. Assolutamente nulla.» Reimers fece un altro sorriso storto. «Solo che dopo la denazificazione mi sono ritrovato con la tubercolosi. Me la son presa al campo. E così son dovuto andare in un sanatorio. Altri due anni. E poi ancora un anno di convalescenza. Prima della guerra avevo lavorato per molti anni in una fabbrica. Ho tentato di ritornarci, in quella fabbrica.» Fabbrica, pensò la signorina: fabbrica... Se ora mi parla anche di mayon-
naise... E chiese: «Che fabbrica era?». «Colori e smalti» rispose Reimers. Andiamoci piano, pensò la signorina. Dunque niente mayonnaise. Che sia un buon segno? O un cattivo segno? Che sia il mio amico? O non lo è? Niente rischi, meglio non rischiare. Però è lui, lo sento! «Aha» disse la signorina. «Già, e nel frattempo però avevo superato i cinquant'anni. Un posto come l'avevo prima non me lo volevano più dare. Né potevano, probabilmente. Se fosse dipeso solo da loro, m'avrebbero mandato al diavolo. Insomma, alla fine, mi hanno sistemato nel reparto spedizioni, e lì sono rimasto sino all'età della pensione, ai 65 anni. E poi basta. La mia pensione è calcolata in base agli anni in cui me ne sono stato lì a incollar pacchi, coll'aiuto di Dio. E sono stati pochini pochini, perché prima ero stato solo un libero collaboratore dell'azienda. Ora può immaginare anche lei, la pensione non mi basta neanche per... E così...» s'interruppe e guardò la signorina con espressione eloquente. La signorina Luise disse: «A dire il vero... voglio dire, se prendo un taxi... non avrei affatto bisogno d'una guida. Però non ci sono mai stata lì dove devo andare. A Sankt Pauli e qualcuno che mi aiuti mi farebbe comodo». Se solo sapessi se è il mio amico, pensava. Se è lui, e lo mando via, forse mi porta sfortuna. Ma in fondo, che male c'è? Chiese: «Quanto chiede per un'ora?». «Dieci marchi» disse lui, svelto. «Dieci...» Lo guardò sbalordita. «Be',» disse lui «le guide ufficiali chiedono molto di più. E poi con tutte le lingue che conosco...» «Non so che farmene. E poi lei non è una guida autorizzata. Cinque.» «Otto» fece lui. «Sette» disse la signorina, con tono definitivo e pratico. «Accetta oppure no?» «D'accordo» disse Reimers. I suoi sguardi erano come affascinati dalla borsa della signorina Luise. Lei non se ne avvide, perché stava pagando quello che aveva mangiato e bevuto. Reimers distolse gli occhi a fatica e pagò a sua volta. La signorina Luise si avviò verso l'uscita al fianco dell'uomo alto e magro. Nel pagare, aveva estratto dalla borsa il suo ombrello pieghevole, e ora, nell'uscire all'aperto, nel buio e sotto la pioggia, lo aprì. I tram passavano scampanellando; le automobili scivolavano in colonna lungo la stra-
da, coi fari accesi; la gente correva, si urtava, si spingeva. O Dio, pensò la signorina, e dire che sono appena all'inizio. Reimers alzò un braccio e fece un cenno imperioso. Dalla fila dei taxi in attesa usci una vettura e si avvicinò piano. Reimers aprì uno sportello e fece entrare la signorina. Poi si sistemò a sua volta. «Sankt Pauli» disse all'autista semiaddormentato. «Reeperbahn. Silbersackstrasse. King Kong» aggiunse la signorina Luise. Aveva annotato l'indirizzo e il nome nella sua piccola agenda e, in treno, aveva imparato quelle parole a memoria. L'autista stanco osservò la strana coppia nello specchietto retrovisore. Incredibile, pensò, e poi disse: «A quest'ora però sarà chiuso». «Ci dobbiamo andare lo stesso» disse la signorina Luise con fermezza. «Come vuole» disse l'autista. E un attimo dopo il taxi percorreva la strada ormai animatissima. L'illuminazione pubblica era ancora accesa, così come brillavano ancora le insegne al neon. «Questa città è grande e terribile!» disse la signorina e, ripensando alla città del suo sogno, rabbrividì. «Cosa l'ha indotta a venire ad Amburgo... a Sankt Pauli?» chiese l'ex capomanipolo. «Un omicidio» disse la signorina, e l'autista fece uno scarto con la vettura. «Ma è una storia troppo complicata. E personale.» «Prego, non pretendo affatto di conoscerla» disse Reimers. Però si scostò un pochino dalla signorina Luise. E lei se ne accorse, naturalmente. «Crede che io sia matta?» «Ma cosa dice!» «O teme che non le dia i suoi soldi?» «Con una signora come lei... non mi permetterei mai!» esclamò lui, e pensò che la sua era proprio una vita dura. Il tassista intanto pensava, per l'ennesima volta, che avrebbe dovuto scrivere un libro su tutto quello che gli era capitato facendo il suo mestiere. Quel libro sarebbe diventato un bestseller, garantito! Cose da non credere. Fantastiche! Questo vecchio citrullo è andato a circuire questa vecchia ciabatta direttamente in stazione, e ora lei lo trascina a Sankt Pauli: probabilmente nella Silbersackstrasse ci sarà un alberghetto. È lei quella che paga. E dire che hanno superato i sessanta tutti e due, da un bel po'. La voglia di scopare dunque non finisce proprio mai!? Io comunque non ce la farei, nemmeno se mi mettesse cinquecento marchi direttamente sull'uccello.
Questo vecchio citrullo deve averlo di ghisa. 21 Quando la signorina Luise e Wilhelm Reimers scesero, nella deserta Silbersackstrasse, davanti al King Kong, pioveva a dirotto. Il giorno non era ancora riuscito a imporre la sua luce alla notte. «Mi sento imbarazzato nel doverglielo ricordare, ma c'è il taxi...» Reimers reggeva l'ombrello aperto sulla signorina Luise. «Ma certo» disse la signorina. «Quant'è?» Il tassista indicò il prezzo della corsa. La signorina Luise gli lasciò venti pfennig di mancia. «Grazie di cuore, signora» disse ironicamente l'autista deluso, e parti di scatto, facendo schizzare l'acqua con le ruote. La signorina si voltò e vide le due vetrinette con le fotografie, alla sinistra e alla destra dell'ingresso del locale: erano ancora illuminate. Si avvicinò. E restò a bocca aperta. «No! Non è possibile...» disse, sbalordita. «Non guardi» disse lui, in fretta, e la trascinò verso il portone. «È certamente chiuso.» «Non credo» disse la signorina, con quell'intuizione di cui era spesso capace. «Vedrà, è chiuso» ripeté lui. «In tal caso che facciamo... Ehilà!» Aveva abbassato la maniglia e la porta si era aperta davvero. «Che le avevo detto?» osservò la signorina. Lui le cedette il passo e sollevò la pesante tenda rossa in fondo al guardaroba vuoto. La signorina entrò nel locale e si fermò subito. «Gesù!» esclamò esterrefatta. Nel vasto locale con i molti palchi e il piccolo palcoscenico era accesa la luce centrale, fredda e scostante. Sulle sedie c'erano - chi seduto, chi semisdraiato - una trentina fra uomini e donne: camerieri, il portiere, il buttafuori, entreneuses, spogliarelliste e i loro partners. Le spogliarelliste indossavano accappatoi, le entreneuses erano ancora in abito da sera, i camerieri avevano le loro livree da lavoro, esattamente come il portiere, che s'era infilato il berretto in testa e aveva disteso le gambe su un tavolo. C'erano anche altri uomini seduti in quel modo: per esempio tre soldati, con delle strane uniformi, antiche e sgargianti. La signorina Luise fissò interdetta quel gruppo di persone. Sui tavoli, davanti alla gente riunita nella sala, c'erano portacenere col-
mi, tazze vuote, bricchi di caffè, ammucchiati accanto alle bottiglie e ai bicchieri usati dai clienti nel corso della notte. Al piano era seduto un giovane biondo e magro, in smoking, e suonava una nostalgica canzone. A questo punto tolse le mani dalla tastiera. Nessuno si muoveva. Tutti guardavano la signorina Luise e il suo accompagnatore. Pareva d'essere in un museo delle cere. «Buon giorno» disse infine la signorina Luise, facendosi coraggio. Sono proprio contenta che il mio capomanipolo sia venuto con me, pensò. «Buon giorno» disse il giovanotto al pianoforte. Nessun altro aprì bocca. «Vorrei parlare col signor Concon» disse la signorina. Nessuna risposta. «Non hanno capito? Vorrei parlare col signor Concon!» La spogliarellista Baby Blue, che un paio d'ore prima aveva ancora recitato la parte di Caterina la Grande, si strinse meglio addosso l'accappatoio blu e chiese lentamente: «Quale signor Concon?». «Come sarebbe? Il signor Karl Concon!» disse la signorina, e fissò Baby Blue che in teoria avrebbe dovuto venire dal Crazy Horse di Parigi, e che in realtà parlava con cantilenante accento svevo. «Si chiamano Karl tutti e due, padre e figlio» disse Baby Blue. «Insomma, con chi vuol parlare?» «Non lo so. Quanti anni ha il padre? Circa quaranta?» Un cameriere intervenne: «Quello è il figlio». «Va bene» disse la signorina Luise. «È con quello che voglio parlare, per favore.» «Con quello non ci parlerà mai più» disse Baby Blue. «È morto.» «Cosa?» esclamò la signorina, inorridita. «Morto» ripeté Baby Blue. «Assassinato. All'Hotel Paris. Stanotte. E quanto al vecchio Concon, il padre, non può parlare neanche con lui. Non subito almeno. L'hanno portato via quelli della polizia.» «La... polizia?» «Sì. Squadra omicidi e compagnia bella» disse Baby Blue, mentre gli altri continuavano a starsene immobili. «Sono stati qui e hanno interrogato anche noi. Poi se ne sono andati col vecchio Concon. Per il riconoscimento della salma e il resto. Hanno detto che tornavano. Noi non possiamo muoverci. Dobbiamo aspettare. Quando si è aperta la porta, abbiamo pensato che fossero i piedipiatti. Invece...» «Assassinato» mormorò la signorina Luise, e si accasciò su uno sgabello. Il cappellino le era scivolato sulla fronte. Aveva un aspetto ridicolo.
«Assassinato. E da chi?» «Questa è buona!» disse Baby Blue. «Se la polizia lo sapesse, a quest'ora saremmo già tutti a letto. Non ne ho la minima idea. Il padre è a pezzi, poveraccio. Certo è una sberla del destino mica da ridere, eh? Cosa c'è? Perché mi fissa in quel modo?» «Lei...» la signorina deglutì a fatica. «Lei...» «Io cosa?» «L'ho appena vista qui fuori su quelle fotografie. Tutta nuda. Ma come può... come può fare quelle cose orrende... ma lo sa di essere una peccatrice terribile, lei, ma di quelle proprio tremende. Ma come può...» «Ma va', chiudi il becco» disse Baby Blue, irritata. «Mi stia a sentire...» cominciò Reimers, ma Baby Blue lo interruppe subito: «E tieni il becco chiuso anche tu, vecchio gufo! Hein, credo che ci sia bisogno di te». Il buttafuori, grande e grosso, indossava un berretto e un camiciotto a strisce orizzontali con maniche corte. Si alzò lentamente e con aria minacciosa. «Un momento!» disse la signorina. «Ciascuno è padrone di fare quello che vuole della sua vita. E chi non pensa al domani...» «Io ci penso al domani, glielo garantisco» disse Baby Blue. «Un giorno avrò abbastanza soldi per aprirmi un bar tutto mio, e allora, per un anno filato almeno, non andrò più a letto con nessuno. Ma a parte questo, quello che faccio è arte, capisce? Teatro erotico. Io sono una artista. Noi tutte qui siamo delle artiste» disse Baby Blue, e indicò le altre spogliarelliste. «Oh, artiste» disse la signorina Luise, impressionata. «Sissignora» disse Baby Blue. «E lei chi è?» «Sono un'assistente sociale del campo profughi di Neurode. Il campo di raccolta dei bambini.» Non s'accorse che tutta quella gente immobile parve rivivere: alcuni tolsero le gambe dai tavoli, altri si alzarono, parlando piano fra di loro. Luise fissava Baby Blue con aria innocente. «Mi chiamo Luise Gottschalk. Quel signor Concon, quello che è stato ucciso, come dice lei, è stato da noi ieri pomeriggio e ha tentato di rapire una persona.» «Sì» asserì Baby Blue, di nuovo più calma. «Una ragazza.» «Lo sa anche lei?» La signorina Luise girò lo sguardo per la sala. Uomini e donne annuivano. «E loro come fanno a saperlo?» Nessuno fiatò. «Come mai è venuta proprio qui?» chiese infine Baby Blue. «Perché cerco quella ragazza... e poi l'assassino del piccolo Karel... e poi
perché...» «L'assassino di chi?» «Un altro assassinio!» esclamò il cameriere. «Senta un po', avrebbe dovuto dirmelo, sa, in che faccenda mi avrebbe coinvolto» disse l'ex capomanipolo, pallido. «Non si arrabbi, signor Reimers. Io non faccio niente di male. Anzi. Voglio solo che la giustizia trionfi.» «Penso tuttavia che me ne andrò lo stesso...» «Ma no, la prego, resti con me. Io...» la signorina lottò con se stessa «... le pagherò dieci marchi l'ora!» «Dieci marchi l'ora... per che cosa?» chiese Baby Blue. «E cos'è questa storia di un secondo omicidio?» La signorina Luise fece un gesto stanco. «Quando il signor Concon è stato da noi al campo, hanno sparato e ucciso un ragazzo. Si chiamava Karel.» «La polizia però a noi non ha detto niente» disse un'altra spogliarellista. «La polizia non dice mai niente» disse il portiere. «Quella fa solo domande, sempre domande.» «E come fa a sapere allora di quella ragazza che il signor Concon voleva rapire?» chiese la signorina Luise. «Me lo ha detto Fred.» «E chi è Fred?» «Quello al pianoforte.» «E lui come fa a saperlo?» «Suvvia, Fred, racconta un'altra volta quella tua storia alla signorina Gottschalk.» disse Baby Blue al pianista. Questi volse gli occhi in direzione di Luise Gottschalk. Aveva degli occhi belli, stranamente fissi. La signorina Luise si alzò e, attraversando in tutta fretta la sala, salì sul piccolo palcoscenico ove era sistemato il pianoforte. Afferrò la mano destra di Fred e la strinse con energia. E improvvisamente ebbe la sensazione di essere come investita da una scossa elettrica. Sentì tutto il corpo in preda a uno strano formicolio, come attraversato da un fluido che proveniva da quel pianista magro e pallido. Era seduto al piano, in atteggiamento riservato e timido. La signorina ebbe immediata l'incrollabile convinzione che questo fosse il giovane morto a Neurode per le percosse di un guardiano durante il servizio di lavoro obbligatorio! Si sentì tanto sicura che chiese senza esitazione: «Lei ha studiato musica, vero? Però non solo musica, giusto?». Aveva parlato piano, gli altri non avevano sentito.
«Sì, anche dell'altro» disse Fred. «Ho studiato filosofia, per un paio di semestri. Poi l'ho piantata lì.» «Visto che lo sapevo?» disse la signorina con un cenno d'intesa. «Si, certo» disse Fred, gentile. La signorina tirò un gran sospiro. (Eccolo lì, seduto davanti a lei, il più caro di tutti i suoi amici morti! Nel corpo di un uomo vivo...) «Io sono la signorina Luise, mi capisci?» disse, e avvertì ancora una volta un dolore dolce invaderle il petto. «Dunque, come mai... Come fai a sapere tu... Come fa a sapere lei?...» Il pianista abbassò lo sguardo sulla tastiera. Baby Blue si avvicinò con passi indolenti. «Sta' tranquillo, Fred, puoi raccontarlo un'altra volta» disse, guardando Luise Gottschalk quasi con tenerezza. «L'hai pur detto alla polizia, e tutti noi l'abbiamo sentito. Basta dunque coi segreti, e se la signora Gottschalk...» «Signorina, prego...» «... se la signorina Gottschalk ci tiene proprio a saperlo, diglielo.» «Devo saperlo! Devo assolutamente saperlo!» «E allora dai, Fred!» «E va bene» disse il giovanotto pallido e magro. Wilhelm Reimers e gli altri si erano avvicinati e schierati tutt'attorno al pianoforte. Il pianista mingherlino si passò una mano sul viso e poi si rivolse verso la signorina Luise. «Vede, questo locale apre soltanto di sera, verso le otto. La mattina, fino alle undici, ci sono le donne della pulizia. E poi più nessuno. Solo il signor Concon e io. Voglio dire: il signor Concon ci veniva. Ora è morto. Lavorava sempre nel suo ufficio, lì, dietro il palcoscenico. Io ci vengo sempre per suonare. Col suo permesso. Nuovi numeri. Arrangiamenti e brani miei. Poi, verso le due, andavamo spesso a mangiare qualcosa insieme. Tutti sapevano che a quell'ora c'eravamo soltanto noi due. Il padre del signor Concon era a dormire, povero vecchio.» «E poi? E poi?» Fred era ancora rivolto verso la signorina Luise. «Ieri mattina, poco dopo le undici, hanno bussato. In precedenza qualcuno aveva telefonato al signor Concon. Aspettava quella visita, e infatti è andato alla porta, l'ha aperta e ha fatto entrare qualcuno.» «Chi?» «Un uomo» disse Fred. «Era già stato qui un paio di volte, negli ultimi due o tre anni. E sempre alla stessa ora. Sono passati di qui, davanti a me, diretti all'ufficio del signor Concon. Io ho continuato a suonare. Poi,
all'improvviso, li ho sentiti parlare.» «Come mai? La porta non era chiusa?» «Sì. Anzi l'ufficio è acusticamente isolato. Però sulla scrivania del signor Concon c'è un registratore per la musica, e per... be', diciamo per i rumori e gli effetti speciali che accompagnano gli... spettacoli. Un sistema un po' antiquato. Non c'è una trasmissione diretta, voglio dire. Il microfono è indipendente dal registratore, ha capito?» «Insomma, quando è inserito, allora qui si sente tutto quello che dicono nell'ufficio» intervenne Wilhelm Reimers. Si sentiva molto eccitato. Finalmente qualcosa di diverso dalla solita noiosa routine! «Appunto, signore» disse Fred. «Questo vuol dire che il signor Concon ha attaccato il microfono perché voleva che lei sentisse di cosa parlava con quell'altro signore!» «Esatto.» «Lo aveva già fatto prima, in qualche altra occasione?» «No, mai.» «E perché ieri si?» «Ieri aveva paura» disse Fred, e abbassò di nuovo la testa. «Molta paura.» «E come fa a saperlo?» «La sua voce» disse Fred. «Io me ne intendo di voci... e poi lo si poteva anche desumere dal tono del colloquio che ho udito, benché abbia continuato a suonare perché non se ne accorgessero.» «E cosa ha sentito?» «Il colloquio era già in corso, quando il signor Concon ha inserito l'altoparlante... A un certo punto ho sentito che il signor Concon diceva: "Non voglio! Non voglio! Ora basta! Lasciatemi finalmente in pace!". E il suo visitatore ha risposto: "Lei deve, mio caro. Punto e basta. Lei farà quello che le chiederò, altrimenti salteranno fuori immediatamente le prove che mancavano per la sua condanna in tribunale, e così finirà in prigione per i prossimi dieci o quindici, forse venti anni!".» «Le prove!» esclamò la signorina. «Già, è stato processato, il signor Concon, ora me ne ricordo: ne ho sentito dire.» «Sì, nel 1957» disse Baby Blue. «Aveva tentato di ricattare un alto ufficiale, vero?» «Si» disse Baby Blue. «Uno scandalo clamoroso. Ma fu assolto per insufficienza di prove.» «E a quel punto il visitatore ha minacciato di fornire le prove che man-
cavano?» La signorina Luise di raddrizzò il cappellino che le era scivolato sulla fronte. Contemporaneamente Reimers intervenne di nuovo: «Se quello che Concon ricattava era un ufficiale della Germania occidentale, allora può averlo fatto solo per incarico di quelli dell'Est. E di conseguenza le prove contro di lui devono essere all'Est. Quindi quel visitatore deve essere stato mandato dalla Germania orientale!». «Già, pare proprio di sì» annuì Fred. «Quel signore ha detto al signor Concon: "Lei verrà subito con me. Raggiungeremo Neurode, dove c'è il campo, il più presto possibile. Non sarà solo. Sarà protetto. Verranno con lei un uomo e una donna. Avrete due delle nostre macchine".» «Due macchine!» esclamò la signorina Luise. «Una donna e un altro uomo! Chi era quell'uomo? È lui soprattutto che cerco! Sa dirmi qualcosa di lui, signor Fred? Quel visitatore ha detto qualcosa di lui che lo potrebbe far identificare?» «Molto poco. Anche il signor Concon ha chiesto chi sarebbe stato il suo accompagnatore. E il visitatore gli ha detto: "Forse io, forse un altro. Comunque sarà uno in gamba".» «Ha detto proprio così?» «Sì. E anche che la donna sarebbe stata in gamba. E lo stesso per quel che riguardava le macchine: macchine perfettamente a posto.» «Ed era gente che sapeva sparare» disse la signorina. Si asciugò gli occhi e chiese: «E poi? Il signor Concon è stato dunque costretto ad agire, per ricatto. E avrebbe dovuto rapire Irina». «Esatto: Irina Indigo. Così quel visitatore l'ha chiamata. Poi ha mostrato al signor Concon delle fotografie e gliel'ha descritta: diciott'anni, statura media, capelli neri...» «Vuole che non sappia com'è fatta la Indigo!» l'interruppe la signorina Luise, impaziente. «Ma perché il signor Concon doveva rapirla? E perché tutta quella fretta?» «Lo ha chiesto anche lui al visitatore» disse Fred. «Quello ha risposto solo che non c'era da perdere un minuto, perché quella ragazza avrebbe tentato di raggiungere Amburgo, per andare da un amico, il suo fidanzato.» «Sì, sì! E poi?» «E che bisognava impedirglielo a ogni costo. Non doveva essere mandato all'aria un affare, ha detto, che ormai era quasi sistemato.» «Quell'uomo ha detto proprio: ormai quasi sistemato?» «Esattamente.»
«Ma cosa sistemato? Come?» «Non lo so, signorina Luise. Quell'uomo ha continuato a minacciare il signor Concon, sino a quando lui ha acconsentito. L'incarico era quello di rapire quella Indigo dal campo.» «E poi? Che avrebbe dovuto farne di lei?» «Anche il signor Concon ha chiesto la stessa cosa, ma il visitatore gli ha detto di non preoccuparsene. Una volta rapita la ragazza, il suo compito sarebbe stato concluso. Al resto ci avrebbe pensato lui.» «Lui chi? Il visitatore?» «Sì, il visitatore. Ha detto che era già tutto pronto. E che il signor Concon doveva portare la sua pistola. Per ogni evenienza.» Fred sollevò di nuovo la testa. «Poi ho sentito che il microfono è stato disinserito. E subito dopo i due sono usciti dall'ufficio. Il signor Concon mi ha detto che aveva un affare da sbrigare, che gli dispiaceva, ma che non avrebbe potuto venire a pranzo con me. Mi ha anche detto di chiudere il locale e di tenere la chiave. Suo padre avrebbe potuto servirsi della sua, quando avesse voluto riaprire il night.» Fred sorrise. «Questa è stata una bugia. Suo padre non ha la chiave.» «E come mai allora suo figlio lo ha detto?» «Era un vecchio accordo fra di noi. Sempre, quando quell'uomo veniva e s'allontanava poi con il signor Concon, allora questi mi diceva quella storia della chiave. Era un avvertimento. Voleva dire in realtà: se non torno prima di mezzanotte, avvisa la polizia. Viveva in preda a una continua paura, povero signor Concon.» «Però lei non ha avvisato la polizia!» esclamò la signorina. «No» disse Fred. «Verso le dieci il signor Concon ha telefonato a suo padre, per dire che era tutto a posto: capisce?» «Capisco, certo. E poi, dopo aver detto quelle cose, il signor Concon cosa ha fatto?» «Niente. Se ne è andato con quell'uomo.» «Che aspetto aveva quell'uomo?» chiese la signorina Luise. «Non lo so» disse Fred. «Come sarebbe a dire: non lo so?! Ma se le è passato sotto il naso due volte! Ma se era già stato qui altre volte! Lo ha detto lei stesso! Non vorrà ora negare di averlo detto?!» «Certo che l'ho detto» disse Fred, con un sorriso incerto. «E ha il coraggio di dire di non sapere che aspetto aveva?» «Non lo so davvero» asserì Fred.
«Bugiardo! Mio Dio, ma è inconcepibile! Possibile che uno menta in questo modo!» «Non dico bugie» disse Fred, sempre sorridendo. «Non so davvero che aspetto ha quell'uomo.» «Dio del cielo! Lei deve saperlo!» La signorina Luise diede una manata sul pianoforte. «Deve saperlo!» Fred abbassò la testa. Non sorrideva più. La signorina Luise avvertì all'improvviso una mano che le attanagliava un braccio. Si girò di scatto. C'era Baby Blue accanto a lei. «Fred non deve un accidenti!» disse, con tono di nuovo cattivo. «Non pretenderà di venirmi a dire che non se ne è ancora accorta?» «Accorta? Accorta di cosa?» esclamò la signorina. «Che Fred è cieco» disse Baby Blue. CORREZIONE DI BOZZE 1 Casa della Paglia 31 è l'indirizzo del comando di polizia di Amburgo. Si trova all'uscita della stazione del metro al Berliner Tor, ed è un alto edificio in cemento grigio, che sembra nero nonostante le molte finestre. Trovai un posteggio per la Rekord che avevamo noleggiato. Poi mi avviai al fianco di Bertie verso l'ingresso, sotto una pioggerella sottile. Avevamo tutti e due i cappotti addosso. Pareva che quel giorno non dovesse schiarire mai. Avevo rinchiuso nuovamente Irina nell'appartamento: le cameriere avrebbero potuto provvedere alle pulizie al mio ritorno. Irina s'era dimostrata molto calma e comprensiva, e aveva riconosciuto che si trattava d'una precauzione necessaria per la sua sicurezza. Avevo anche parlato coi portieri del turno di giorno: li conoscevo tutti. Erano già al corrente. Il portiere di notte Heintze li aveva informati. Per raggiungere l'ingresso del comando di polizia bisognava passare attraverso un vasto atrio fitto di colonne in cemento, squadrate e massicce. Più che colonne, erano veri e propri pilastri di cemento che salivano sino al secondo piano. Quell'atrio aveva fra i due piani come una fascia intermedia, simile a una balconata. Sulle pareti nere c'erano riproduzioni di paesaggi, altre fotografie e cartelli indicatori. Bertie ci si orientava bene. Mi condusse fino a uno dei due gruppi di ascensori neri che erano in mezzo all'atrio. Raggiun-
gemmo al settimo piano la sezione «Persone scomparse». Le porte di tutte le stanze erano di vetro smerigliato, con ampie sbarre trasversali nere e maniglie d'alluminio. Entrammo in una sala d'aspetto nella quale due segretarie scrivevano a macchina. Dicemmo i nostri nomi e che il capo-consigliere di polizia Hering ci attendeva. Appuntamento alle undici. Mancavano due minuti. Una delle segretarie sollevò il ricevitore del suo telefono, compose un numero di due cifre, e ci annunciò. «Il signor Hering vi riceve subito» disse. E infatti, appena un minuto dopo, fummo introdotti nel suo ufficio. Hering era un uomo tondo con cranio pelato e occhiali. Aveva un'aria stranamente abbattuta. Strinse cordialmente la mano a Bertie e a me. Il suo ufficio era arredato con molta semplicità. Una scrivania di legno chiaro era addossata alla finestra. Sul davanzale, metallico e grigio, c'erano due vasi con piante. Armadi di metallo. Un orribile traliccio a scaffali, pieno di pratiche. In un angolo, di fronte alla finestra, un tavolo tondo con quattro sedie e una poltrona. Poltrona e sedie moderne, rivestite d'una stoffa blu. Su due delle sedie erano seduti due uomini che, al nostro ingresso, si alzarono e ci fissarono. L'uno era alto e grasso, l'altro era magro e inforcava occhiali dalle lenti spesse. Erano i signori Albert Klein e Wilhelm Rogge dei servizi d'informazione federali: li avevamo conosciuti al campo di Neurode. 2 Ci salutammo in modo molto formale, corretto ma freddo. Quale oscuro presentimento mi aveva spinto ad agire? In quel minuto durante il quale avevamo dovuto attendere il capoconsigliere di polizia Hering, avevo avviato il registratore. Il microfono era infilato, invisibile, nella borsa. Spuntava solo con la piccola e argentea reticella che lo ricopriva in cima, del tutto innocua, all'apparenza. Quando era infilato nella borsa, nessuno poteva capire se l'apparecchio era in funzione oppure no. Lo sistemai sul tavolo, lontano da me, e nessuno badò al registratore, che fissò così il dialogo che segue. Ci sedemmo tutti attorno al tavolo. Il capo-consigliere di polizia aveva un'aria singolarmente afflitta. Cominciai io: «Che sorpresa, signori, il vedervi qui. A dire il vero volevamo parlare col signor Hering». «Sì, lo sappiamo» disse il grasso signor Klein. «E come mai?»
«Be', ce lo ha detto lui» disse lo smilzo signor Rogge dalle lenti spesse. «Non appena è arrivato» disse Klein. «Noi eravamo già qui ad aspettarlo. Siamo arrivati in treno, molto presto.» «Ah si?» fece Bertie. «E che ci fanno loro ad Amburgo?» «Perché non ci dice piuttosto che ci fate voi ad Amburgo?» chiese il signor Klein. Ci guardava con aria annoiata e un po' seccata. Si vedeva abbastanza chiaramente che non ci teneva in grande considerazione. Io dissi: «Volevamo appunto raccontarlo al signor Hering». Il capo-consigliere di polizia si fece ancor più piccolo. Ora non aveva più un'aria afflitta: semmai ostile. Disse: «I signori dei servizi d'informazione affermano che questo caso è esclusivamente di loro competenza. Non mia. Rispondano quindi alle loro domande». Guardò Bertie ed aggiunse, con un tono un poco più gentile: «Mi dispiace, signor Engelhardt». «È colpa sua? No. E allora...» lo giustificò Bertie. E agli altri due uomini disse: «Siamo venuti qui per comunicare al signor Hering, quale capo della sezione persone scomparse, che siamo giunti stanotte dal campo di Neurode ad Amburgo assieme alla signorina Irina Indigo, e che la signorina è attualmente in nostra compagnia». «Questo lo sappiamo già» disse ancora Klein. «E come mai?» «Lo sappiamo e basta. Loro sono scesi all'Hotel Metropol con la signorina Indigo, dopo averla illegalmente indotta ad allontanarsi dal campo. È inutile che mi chieda ancora come facciamo a saperlo. Siamo qui dall'alba, e tutti i commissariati di polizia erano già avvisati. Il loro albergo ci è stato immediatamente indicato, non appena un commissariato ha avuto la scheda di segnalazione del Metropol. Lei ha rinchiuso la signorina Indigo nel suo appartamento, perché non scappi: è vero, signor Roland?» «Sì» dissi io. «La ragazza è in pericolo. C'è una strana storia che coinvolge il suo fidanzato, e poi quel Karl Concon è stato...» «...assassinato stanotte. A Sankt Pauli. Hotel Paris. Sappiamo tutto» disse Rogge. «Anche che il loro corrispondente Manner è stato investito e gravemente ferito...» aggiunse Klein. «...e che quella signorina Luise Gottschalk è da qualche parte in giro per la città» continuò Rogge. «Chi lo dice?» «Un medico che... Ma non ha importanza. Lo sappiamo e basta. Noi siamo informati su tutto quello che loro intendevano comunicare al signor
Hering.» «E per quale ragione loro son venuti così in fretta ad Amburgo a fare tutte queste indagini?» domandai io. «Se permette, questi sono affari nostri» rispose Klein. «Visto che ci tengono tanto, perché non hanno provveduto a fare in modo che la signorina Indigo non lasciasse affatto il campo? Bastava arrestarla...» «Non avevamo alcun motivo legale per farlo» spiegò Rogge. «Non potevamo farlo. Viviamo in uno stato di diritto, signor Roland. E a parte questo, il caso ci è stato affidato solo indirettamente.» «Inoltre non lo abbiamo ritenuto opportuno» aggiunse il suo collega. «Non opportuno?» dissi io. «Lei ritiene dunque che la signorina Indigo non corra alcun pericolo?» «Nessun pericolo, se si attiene strettamente ai suoi suggerimenti, se non lascia l'albergo, se non tenterà di entrare in contatto con una certa persona. È una ragazza molto ubbidiente, vero?... Abbiamo preparato alcuni documenti, signor Roland. Se lei ce li sottoscrive e dichiara di garantire per la signorina Indigo, la ragazza potrà restarsene dov'è e non tornare al campo, ove invece si troverebbe esposta a rischi. Una firma, e tutte le formalità saranno sbrigate.» Klein spinse verso di me un foglio di carta. «E quegli altri, che documenti sono?» «Lettere di presentazione» disse Klein. «Scritte su carta intestata del nostro servizio. Chiediamo ai destinatari di garantire ogni collaborazione nello svolgimento del vostro lavoro giornalistico.» «Un momento» intervenne Bertie. «Questo vuol dire quindi che non ci denuncerete? Che non ci impedirete di proseguire le nostre ricerche?» «Non ne avremmo alcun motivo legale» ripeté Rogge. «Non dovrebbe guardare sempre ai nostri uffici come a dei suoi nemici personali, signor Engelhardt. Noi aiutiamo la stampa, ogni volta che ci è possibile, e specialmente in casi come questo.» «E che caso sarebbe questo?» chiesi io. «Un caso di pubblico interesse.» «Pubblico interesse? In che senso?» chiese Bertie, con aria innocente. «Signor Engelhardt, la prego» disse Klein soltanto. «Ho la sensazione che siate molto sicuri del fatto vostro» dissi io. I due signori tacquero. Klein alzò le spalle e riprese a fissarmi. Non c'era una traccia di gentilezza in quello sguardo. «La signorina Indigo» dissi io «mi ha raccontato che lei l'ha interrogata
molto a lungo. Pensava già che non sarebbe più stata lasciata libera. Poi è suonato il telefono, e lei ha avuto una conversazione, dopo la quale il suo atteggiamento è cambiato. E l'ha lasciata libera d'andarsene.» «Appunto» disse Klein. «Appunto cosa?» «Appunto, dopo quella conversazione telefonica, la situazione è cambiata.» «Ah.» «Eh già» disse Klein. «E grazie inoltre per aver avvisato subito il pronto intervento, dopo la scoperta del corpo di Concon all'Hotel Paris. Così s'è potuto sbrigare tutto in fretta.» «Dovere nostro» intervenne Bertie. E io, per distrarli ulteriormente dal registratore: «Suppongo che il signor Engelhardt non potrà scattare alcune foto a lorsignori». «No, il signor Engelhardt non può fotografarci» disse Rogge. «E lei, signor Roland, non avrebbe dovuto nemmeno far funzionare il registratore senza il nostro assenso... Lasci pure. Non abbiamo nulla da nascondere.» «Allora?» chiese il grasso signor Klein. «Intende sottoscrivere questa dichiarazione e assumersi le relative responsabilità?» «Naturalmente» risposi io e firmai. «Ed ecco le sue lettere di raccomandazione» disse Rogge, e spinse verso di me due fogli. «Grazie» dissi io. «Ci fa un gran favore.» «Oh,» disse Klein «non è il caso. Il gran favore l'ha fatto lei a noi.» «Non capisco» dissi io. «Non fa niente» disse Klein. E dopo aver detto questa frase, sorrise per la prima volta da quando lo conoscevo. Lo fissai. E avvertii la presenza, l'odore dello sciacallo. Me lo sentii improvvisamente girare attorno. La causa era semplice: il sorriso del signor Klein mi aveva - inspiegabilmente e illogicamente - spaventato a morte. Mi alzai, ringraziai, presi il registratore e mi congedai. Anche Bertie disse: «Arrivederci». «Mi dispiace, signor Engelhardt» disse il capo-consigliere di polizia Hering a Bertie, con un tono stranamente triste. «Le avrei dato una mano di cuore. Be', sarà per un'altra volta.» «Ma certo» disse Bertie. Ci ritrovammo di nuovo fuori, su quell'interminabile corridoio. Bertie
zoppicava al mio fianco e disse: «Per la miseria, questa storia puzza tremendamente». «Anche di più» dissi io, e spensi il registratore. «E quel trucco cretino delle lettere di raccomandazione?» disse lui. «Tirarle fuori sarà come darsi calci sui denti. Se le mostriamo davvero a qualcuno, troveremo di tutto ma non aiuto. Immediatamente quelli che sono coinvolti in questo casino sapranno cosa pensare: attenzione, qui c'è odor di bruciato! O non è così?» «Non so. Forse ci vogliono aiutare sul serio.» «Quelli? Ma non essere ridicolo! E perché dovrebbero farlo?» «Per motivi loro, naturalmente. Ci adoperano per...» M'interruppi di colpo. «Cos'hai? Sei diventato tutto verde. Ti senti...» «Sì» mormorai e tirai fuori svelto la fiaschetta e buttai giù tutto il whisky che potevo. Lo sciacallo era sparito. Ma per quanto tempo? 3 «Su, moviamoci» disse Bertie al nostro amico, il tassista Vladimir Ivanov. Era quello che ci aveva aiutati un paio d'ore prima, e che ci aveva chiesto di chiamarlo attraverso la sua centrale radio. E noi lo avevamo fatto. Erano le 12 e 15. La pioggia cadeva frammista a nevischio, e s'era fatto tanto buio che tutte le macchine dovevano viaggiare coi fari accesi. Eravamo seduti sul sedile posteriore del taxi, parcheggiato accanto a un'aiuola di fiori fradici. L'aiuola era al limite d'un parco, di fronte all'ingresso dell'ospedale universitario. Un complesso gigantesco, quell'ospedale: una vera e propria piccola città nella città. In quel momento ne uscì, bionda e slanciata, Edith Herwag. Subito il taxi di Ivanov le si avvicinò. Avevamo lasciato la nostra macchina davanti alla centrale di polizia, e chiesto del nostro russo telefonando dalla cabina più vicina. In precedenza, da quella stessa cabina, avevo parlato con Irina e con Edith. La voce di Irina mi era parsa allarmata, quando mi aveva detto di rientrare assolutamente per il pranzo, anche se si fosse fatto tardi, perché quello starsene rinchiusa avrebbe finito col farla ammattire. Le avevo detto
che l'avremmo raggiunta senz'altro. Del resto dovevamo tornare per forza: per aprire la porta e per dar modo alle inservienti di riordinare un po' l'appartamento, oltre che per pranzare in compagnia di Irina. A Edith avevo detto di aspettare fino a quando un taxi si fosse fermato davanti a casa sua, e io o Bertie le avessimo fatto un cenno d'intesa: a quel punto avrebbe dovuto chiamare un taxi anche lei, per telefono, e farsi condurre all'ospedale. Noi l'avremmo seguita, e successivamente scortata di nuovo fino a casa: era meglio che nessuno ci vedesse insieme. Il nostro tassista - papà Ivanov, il vecchio russo - s'era limitato ad annuire quando avevo cominciato a dargli lunghe spiegazioni, mostrandogli la mia tessera di giornalista. Aveva detto soltanto: «Karasciò». E si era avviato, guidando abilmente, nel traffico intensissimo. Avevamo così raggiunto la Adolfstrasse. Di lì il taxi aveva seguito quello di Edith senza mai perderlo di vista. Era andato tutto alla perfezione. Edith era scomparsa nell'ospedale e ne stava ora uscendo, venti minuti dopo. Il nostro taxi le si fermò proprio davanti, e lei salì a bordo. Aprii uno dei vetri scorrevoli della lastra di divisione e dissi: «Torniamo nella Adolfstrasse». Ivanov annuì e partì come un razzo. Richiusi il finestrino, mi appoggiai allo schienale e notai solo a questo punto che Edith - che si era seduta in mezzo a noi - piangeva. «Gran Dio!» dissi. «Non sarà mica...» «No» singhiozzò lei, e si soffiò il naso. «Se la caverà. Guarirà. Sta meglio.» «Magnifico» disse Bertie. «Magnifico. Allora è un pianto di gioia.» Edith non rispose e continuò a piangere più di prima. Di gioia? I fiocchi di neve si scioglievano sull'asfalto, sui finestrini del taxi, sulla carrozzeria. Parlavamo a bassa voce. «Ha ripreso conoscenza?» chiese Bertie a Edith. «Sì.» «Ha potuto parlare in pace con Conny?» «No. C'era un tale, un sorvegliante. È rimasto per tutto il tempo nella stanza. Ce n'era un altro davanti alla stanza, e un terzo all'ingresso del reparto. Lo hanno portato via dal reparto di rianimazione, sa. Vi manda a salutare entrambi, ha detto. E io gli ho promesso che l'avrei fatto. Verso sera potrò tornare a visitarlo, e anche domani, due volte. Poi ha voluto baciarmi, e mi son dovuta piegare su di lui. Mi ha chiesto di sciogliermi i capelli e di farglieli piovere addosso. Io l'ho fatto, mentre quel tizio stava lì a guardarci. Conny mi ha baciata e poi mi ha sussurrato all'orecchio: "Questa è gente del MAD, dillo a Bertie!"... È stato un attimo. Spero che
quell'uomo non se ne sia accorto. Cos'è il MAD?» Mi costò uno sforzo notevole, ma ce la feci a dire, con tono di voce tranquillo: «Oh, è un reparto della polizia». «Ecco, l'ho pensato anch'io. Ma perché ha voluto che ve lo dicessi?» «È un reparto speciale della polizia» disse Bertie, che si era a sua volta ripreso dallo spavento. «Una specie di squadra mobile. MAD è una sigla. Si occupano dei casi di tentato omicidio.» «Davvero? Mi state dicendo la verità?» Edith aveva ripreso a piangere, e mi resi conto del perché. Non di gioia. Di paura, naturalmente. Pensai alle minacce telefoniche: Conny sarebbe morto se avesse parlato. E ora aveva parlato... «È la verità» dissi io, e sperai che Edith non chiedesse spiegazioni ad altre persone. «Allora va bene... allora... allora nessuno potrà avvicinarlo e fargli dal male... vero?» «Ma naturalmente. È escluso» dissi io. «Però quella voce maschile, stanotte...» «Non potranno fargli niente. Dico sul serio: niente.» «Mio Dio, mio Dio, se almeno non avessi tutta questa paura...» Edith continuò a singhiozzare, e noi la lasciammo piangere, a lungo. Finalmente, giunti nella Adolfstrasse, si calmò. Le spiegammo per bene che doveva restarsene chiusa in casa e non aprire la porta a nessuno. Le promisi che avrei continuato a telefonarle. E in serata, quando avesse deciso di tornare all'ospedale da Conny, doveva telefonare e chiedere del taxi sul quale stavamo viaggiando, e dello stesso autista: glielo raccomandai con insistenza. Papà Ivanov ci aveva detto che sarebbe rimasto in servizio fino alle 22. Annotai per Edith il nome, il numero di telefono della centrale e la targa. Prima di scendere, Edith ci baciò entrambi. Poi, piangendo, entrò in casa. «Povera signora» disse Ivanov. «Molto preoccupata, eh?» «Si» dissi io. «Dio l'assisterà.» «Già, speriamo» disse Bertie. «E ora dove andiamo?» chiese Ivanov attraverso la finestrella che avevo riaperto. «Io scendo allo Jungfernstieg» gli dissi. «Poi accompagnerà il mio amico alla centrale di polizia.» Bertie doveva andare a ritirare la nostra macchina. Ivanov si avviò e io dissi, piano: «Il MAD, dunque!». «Già» disse Bertie. «Un caso di pubblico interesse, noi abbiamo lettere
di presentazione in tasca, e il MAD sorveglia Conny.» MAD è la sigla d'una delle organizzazioni spionistiche nella repubblica federale tedesca. La sigla significa: servizio di controspionaggio militare. Procedevamo molto lentamente, perché Vladimir Ivanov non riusciva quasi più a scorgere la strada in mezzo al fitto nevischio che aveva ripreso a cadere. 4 Allo Jungfernstieg andai a far spese per Irina, e me la presi comoda. M'ero messo d'accordo con Bertie, che, tornando dalla centrale di polizia, avrebbe dovuto continuare a girare attorno all'isolato, sino a quando m'avesse visto: attorno allo Jungfernstieg non ci sono parcheggi liberi. Entrai in cinque negozi e comperai per Irina un sacco di roba. Avevo abbastanza soldi e conoscevo anche le sue misure. Badai di fare in modo che i capi d'abbigliamento che comperavo s'accompagnassero fra di loro. Acquistai dunque, innanzi tutto, un abito da cocktail di seta rossa, senza spalline; un abito di lana verde con una cintura nera di vernice; e un completo di jersey color ocra. Poi venne il turno di un mantello di lana nera, bordato di visone, e di una cuffia di visone, di quelle che si abbottonano sotto il mento. Continuai, per tutto il tempo, a tentare di immaginare che aspetto avrebbe avuto Irina in quegli abiti. Le commesse che mi servirono mi fecero gli occhi dolci. È probabile che si augurassero anche loro di avere un uomo come me. Entrai in un altro negozio, acquistai un accappatoio, sottovesti, camicie da notte, reggiseni, mutandine, calze di nylon e così via, in svariate versioni e colori. E m'immaginai Irina anche con la sola biancheria addosso... Comperai una borsetta dorata che s'accompagnasse al vestito da cocktail, e poi mi dissi: al diavolo!, e comperai anche una borsa di coccodrillo nera da 1200 marchi. Potevo farmi mandare dell'altro denaro, se mi fossi trovato all'asciutto. Nel negozio delle borse presi anche una valigia di pelle nera, nella quale sistemai tutto, e poi mi avviai verso il negozio successivo. Vidi Bertie che aveva cominciato a girare attorno all'isolato. Mi fece un cenno di saluto, io gli feci un cenno di risposta e m'infilai in un negozio di scarpe. Vi acquistai un paio di scarpette di vernice nera, che Irina avrebbe potuto indossare con tutto, e un paio di scarpine di pelle dorata per l'abito da cocktail. Poi mi recai in una profumeria e acquistai rossetti, cipria, creme assortite, rimmel e altra roba simile, un flacone di profumo e una con-
fezione di sali da bagno. A questo punto la valigia era piena e anche abbastanza pesante. Ma avevo tutto. M'inoltrai sotto il nevischio e attesi che Bertie mi passasse davanti un'altra volta. Si fermò e io salii. «Al Metropol, buon uomo» dissi. Erano le 13 e 25. «Ma lo sai che hai un buon profumo, caro?» scherzò Bertie. «Non fare lo stupido» dissi io, e gli diedi una gran pacca sulla spalla. «Penso che riuscirei a sopportare un sorso di Chivas a titolo di aperitivo» disse Bertie. Gli aprii la fiaschetta e lui ingollò una bella dose, continuando a guidare coll'altra mano. Poi mi servii anche io. Ora che ci ripenso, quel viaggio che facemmo per tornare in albergo, sotto quel nevischio schifoso, bevendo whisky e io con la valigia sulle ginocchia, lo conservo come il momento più felice di tutto il periodo che trascorremmo ad Amburgo. 5 Il vecchio Concon piangeva. Era seduto nella stanza accanto a quella in cui avevano accoltellato suo figlio, al primo piano dell'Hotel Paris, sulla Kleine Freiheit. Cominciava a far giorno, e una luce debole e irreale penetrava attraverso i vetri sporchi della finestra. Dappertutto erano ancora accese le luci elettriche. Il vecchio indossava la giacca bianca che portava quando era di servizio alla toilette per uomini del King Kong: perché era proprio lì che la polizia era andata a prelevarlo. Singhiozzava, e le lacrime gli scorrevano sul volto pallido. Era seduto su un letto in disordine, nel quale doveva aver dormito qualcuno e che non era stato ancora rifatto. C'erano parecchi funzionari della squadra omicidi, della squadra mobile, fotografi, tecnici delle impronte digitali. Ciascuno faceva il suo lavoro, rapido ed efficiente. Quando la signorina Luise e la sua guida Wilhelm Reimers giunsero all'albergo, la polizia aveva appena concluso i suoi rilievi. Da una vettura parcheggiata davanti all'hotel, due uomini in camice grigio prelevarono una specie di vasca da bagno di metallo col coperchio. La trascinarono su fino al primo piano, l'aprirono, v'infilarono Karl Concon junior, la richiusero e la riportarono di nuovo giù per le scale, per sospingerla poi nel furgone. Karl Concon senior intanto era ancora seduto su quel letto sudicio e maleodorante e piangeva. Il cadavere rinchiuso nel contenitore metallico passò davanti alla signorina Luise proprio mentre si accingeva a salire le scale. Nessuno aveva fat-
to caso alla sua presenza. A un tratto il facchino ucraino Panas Myrnyi sbarrò la strada alla signorina Luise e le disse: «Non può salire adesso». La signorina Luise - era arrivata a piedi dal King Kong - lo guardò attentamente. Si trovava in una condizione di grande sovreccitazione, che l'induceva a trascurare buona parte dei suoi propositi e delle sue cautele. Strizzò l'occhio a Myrnyi e sussurrò: «Ucraino, vero?». «Sì» disse Myrnyi, stupito. «Facevi il contadino nella tua patria, giusto?» sussurrò ancora la signorina. Lui annuì, sbalordito, ma lei non se ne accorse. «Dunque ci sei anche tu» disse invece. «Ci siete tutti, dappertutto, come mi avevate promesso. Cos'è successo? Racconta.» Il facchino, pur abituato a sentirsi dare del tu, esitò. «Mi scusi, ma lei chi è?» chiese. «Ma va', che lo sai benissimo» disse la signorina, mentre Reimers diceva da parte sua: «Ci hanno riferito al King Kong quello che è accaduto. La signora era venuta per parlare col signor Concon. Per una questione molto urgente. Ma purtroppo non è più possibile, se ho ben capito». «C'è su la polizia» disse Myrnyi, incerto. «Non posso dare informazioni.» «A me, però, si» disse la signorina. Aprì la sua gran borsa e fece vedere all'ucraino le molte banconote che conteneva. «Trecento sono per te, se mi dici tutto» sussurrò e prese tre banconote. E sistemò quindi la sua borsa su una poltrona. Myrnyi arretrò verso un corridoio che conduceva alle scale per la cantina. Lei lo seguì. Reimers rimase indietro. «Prendili» disse la signorina Luise. «Hai visto com'è andata, vero?» Improvvisamente fu colta di nuovo da quella sensazione di sapere già tutto quello che era successo. «Visto direttamente no...» «Naturalmente, non direttamente» disse la signorina, e infilò le tre banconote nella tasca del grembiule del facchino. «Però sai tutto lo stesso. Com'è andata?» «Me lo hanno già chiesto altri due uomini... Oltre alla polizia, voglio dire. Due uomini che sono stati qui stanotte: hanno visto il morto e lo hanno anche fotografato. E ora non posso dirle più nulla, signora. Ho sottoscritto un contratto, e ho avuto dei soldi da quei due uomini, in cambio dell'impegno di non raccontare niente a nessuno.» «Quei due uomini li conosco» disse la signorina Luise, con rabbia. «Hai
firmato un contratto d'esclusiva con Blitz, eh?» «Sì» disse lui, sbalordito. «Ma come fa a sapere...» «So ben altro, io» disse la signorina Luise. «E lo sappiamo tutti e due, tu e io, che ne so ben altre, io.» Lo squadrò con una occhiata piena di allusioni. Panas Myrnyi fu colto da uno spavento terribile. Dal momento che non poteva assolutamente immaginare a cosa la signorina Luise si riferiva nella sua follia, si ritenne preso in fallo. Lei lo squadrava, in silenzio. «Insomma» disse alla fine. «Tu hai visto l'assassino di Concon.» «Ma come...» «Non importa come faccio a saperlo! Vuoi che vada su dai poliziotti e dica loro che tu l'hai visto?» «No... no, no, la prego!» sussurrò tremante. Si torceva le mani. «Quello è riuscito a scappare... Se lo denuncio alla polizia... se la prenderà con me!» Ho saputo di questo dialogo - così come di tutto il resto che capitò alla signorina Luise ad Amburgo e nel corso di tutto il viaggio che fece - solo molto più tardi. In effetti le cose erano andate proprio così: quel facchino, contrariamente a quello che ci aveva riferito, aveva non soltanto sentito l'assassino litigare con Karl Concon, ma lo aveva anche visto quando quello se l'era squagliata scendendo le scale. Anche in quell'occasione Myrnyi s'era trovato nel corridoio che portava alla cantina. In preda a paura, non si era mosso, e non aveva raccontato niente né a noi né alla polizia, per timore di poterci rimettere anche lui la sua pellaccia. Ed ecco che ora si trovava di fronte a una vecchia donna sconosciuta, bagnata fradicia, ridicola d'aspetto, che gli si avventava contro con fare minaccioso, asserendo con assoluta sicurezza che lui aveva visto l'assassino. Panas Myrnyi era terrorizzato. «Che aspetto aveva?» chiese la signorina Luise, inesorabile. «Io devo saperlo. Perché può darsi che questo vostro assassino sia anche l'assassino del mio piccolo Karel. Ti spicci a parlare o vuoi che mi rivolga alla polizia? Vergognati: e pensare che ti ritenevo un amico!» L'ucraino, in preda al panico, non comprese nemmeno quest'ultima, assurda osservazione. Disse solo, mormorando: «Farà fuori a coltellate anche me, come Concon, se lo tradisco. Lei non può pretendere tutto questo da me, signora!». «E invece io lo pretendo! Scegli: o lo racconti adesso, subito, a me; o altrimenti me lo farò dire poi dalla polizia. E allora?»
«Va bene, come vuole» balbettò l'ucraino disperato. «Era un uomo molto alto... vestito bene... anche troppo elegante per un posto come questo... Cappotto blu... berretto con visiera... Ehi!» strillò il facchino. Spinse la signorina da parte e corse in avanti. «Ma cosa...» cominciò la signorina, ma poi vide anche lei cosa stava accadendo. Wilhelm Reimers, la sua guida, aveva preso la borsa che aveva appoggiato su una poltrona, e si apprestava a lasciare precipitosamente la minuscola hall dell'albergo. «No!» gridò la signorina. «Signor Reimers! Signor Reimers!» L'ucraino afferrò per le spalle l'uomo anziano e magro, e lo costrinse a fermarsi. «Animale!» urlò. «Credi di poter rubare, eh? Credi di poter rapinare la signora?» «Aiuto! Aiuto!» prese a strillare anche Reimers, con voce acuta. Era pallido come un morto e pareva aver perso improvvisamente ogni controllo. Cominciò a piangere come un vitello. L'ucraino gli strappò la borsa, gridando: «Ladro! Farabutto! Figlio di un cane!». Si sentirono passi precipitosi lungo le scale. E improvvisamente la hall fu piena di uomini, in borghese e in divisa. Un signore di una certa età, che indossava un impermeabile e portava il cappello appoggiato sulla nuca, disse a voce alta e perentoria: «Silenzio!». E silenzio fu. «Che succede?» «Quest'uomo voleva scappare con la borsa della signora, signor commissario» disse il facchino. L'ex capomanipolo tremava al punto che dovette appoggiarsi al muro. E piangeva con la stessa disperazione con cui continuava a piangere, al piano superiore, in quella lurida cameretta, il vecchio Karl Concon. «È vero?» chiese il commissario alla signorina Luise. Lei si sentì come folgorata dallo spavento. Polizia! Non doveva mettersi in urto con la polizia! «Ma no... no...» balbettò la signorina. «Come no?» esclamò Panas Myrnyi. «Ma se l'ho visto io! E l'ha visto anche lei! Anche lei si è messa a gridare!» Mostrò al commissario la borsa aperta. «Guardi, signor commissario: questo farabutto voleva filarsela con tutti questi bei soldi!» «Come si chiama lei?» chiese il commissario rivolto al vecchio. «Io... io... Reimers... Wilhelm Reimers... Mio Dio, è terribile...»
Il vecchio si era nascosto il volto fra le mani e singhiozzava. «E lei?» chiese il commissario alla signorina. «Luise Gottschalk» disse lei, piena di paura. Che mi succederà adesso? Cosa mi succederà?, pensava. «Che ci fate, qui, voi due?» Reimers disse: «Io mi sono limitato ad accompagnare qui la signorina. È venuta da fuori». «Da fuori dove?» La signorina Luise non aprì bocca. «Da dove viene, signora Gottschalk?» «Da Neurode» rispose lei. «E che è venuta a fare qui?» «Io non so, io non c'entro» disse Reimers, tremando come un coniglio. «Naturalmente» disse il commissario. «Voleva solo rubare la borsa.» «Io sono venuto qui solo perché quella signorina mi ha chiesto di accompagnarla! L'ho accompagnata anche a Sankt Pauli, ma soltanto perché è lei che lo ha voluto!» «È vero, signora Gottschalk?» La signorina Luise annuì, amareggiata. «Allora mi vuol dire finalmente cos'è venuta a fare qui?» La signorina Gottschalk scosse la testa. «Non me lo vuol dire?» «Io... la prego, signor commissario... Facciamo finta che non sia successo niente... Noi ce ne andiamo... e non mi vedrà mai più!» «Ah no!» disse il commissario. «No, no, signora Gottschalk. Non possiamo sistemarla in questa maniera. Qui c'è stato un omicidio, e suppongo che lo sappia già. O non sa neanche questo?» «Sì, sì, lo so, signor commissario» disse la signorina Luise, arrendendosi. «Ed è qui per questo?» «Sì, sono qui per questo.» È inutile, pensava. È tutto inutile ormai. «Brigadiere Lütjens!» chiamò il commissario. «Sissignore!» Un giovanotto in divisa scese precipitosamente le scale. «Si prenda un altro uomo e mi accompagni queste due persone al commissariato. Io arriverò fra una mezz'ora.» «No!» esclamò la signorina. «Al commissariato no!» «E invece sì» disse il commissario. «Così potremo fare quattro chiacchiere in tutta tranquillità. Sono certo che lei ha parecchie cosette da dir-
mi.» «Ma lei non mi può arrestare!» gridò la signorina con le sue ultime energie. «Io non l'arresto. Io la prego di seguire il brigadiere sino al commissariato. Lei è stata quasi vittima di un grave furto. Quell'uomo lì, invece, lo arrestiamo. Colto in flagrante.» «Signor commissario, le giuro sul mio onore...» cominciò Reimers, ma il commissario lo interruppe, schifato: «Il suo onore di merda. Il suo onore consiste nel derubare vecchie signore, eh? Avanti, Lütjens, me li conduca via!» Il giovane brigadiere prese delicatamente per un polso la signorina Luise e l'invitò a muoversi. Intanto un altro poliziotto torceva un braccio sulla schiena a Reimers, prendeva in consegna la borsa dal commissario e ordinava all'ex capomanipolo: «Cammina!». «La prego, signora» disse il brigadiere Lütjens. La signorina Luise era sfinita, allo stremo delle sue forze. Seguì passivamente quel giovanotto, uscì sotto la pioggia, si arrampicò accanto a Reimers in una macchina della polizia che ripartì a sirena spiegata. Era disperata come mai lo era stata in vita sua, fatta eccezione soltanto per l'epoca in cui le era morta la madre. 6 Un pranzo storto come quello non mi era mai capitato! Quando Bertie e io giungemmo in albergo, erano ormai le due. Irina, seduta in salotto, sbarrava gli occhi nella pioggia. Non aprì bocca. Pensai che era meglio darle dopo mangiato le cose nuove che le avevo comperato, e portai la valigia in camera da letto. Poi suonai per far venire le cameriere: l'appartamento aveva proprio bisogno di essere rimesso in ordine. Nel rientrare, avevo parlato con un mio vecchio amico, il capo dei portieri Hanslik. Mi aveva spiegato che, se non volevamo scendere al ristorante, avremmo potuto pranzare in una saletta libera al nostro piano. Io appunto non avevo alcuna intenzione di scendere. Temevo che potesse capitare qualcosa a Irina. «È opportuno che si affretti, signor Roland» aveva detto Hanslik. «Il servizio di ristorante cessa alle due e mezza. E se dobbiamo far portar su tutto al piano superiore, ci vorrà del tempo...» «Va bene, signor Hanslik» avevo detto io.
C'era anche Hem che aspettava mie notizie e che dovevo quindi chiamare. Comparvero due cameriere, con aspirapolvere e un carrello pieno di asciugamani puliti e aggeggi vari per le pulizie. M'innervosii. Mi irritava soprattutto la tristezza di Irina. Pensai anche - da quell'idiota che ero - che cominciavo a essere geloso di quel porco di Bilka. Buttai giù un sorso dalla fiaschetta, m'accesi una sigaretta e dissi alle due ragazze di andare a sistemare prima la camera da letto e il bagno. A Bertie dissi di precedermi con Irina nella saletta e di prenotare il pranzo: li avrei raggiunti subito. «Cosa vuoi che ti ordini?» chiese Bertie. «È lo stesso. Scegli tu» dissi io. Dopo che se ne fu andato con Irina, mi sedetti sul divano in salotto, mi concessi un altro sorso e chiesi al centralino telefonico di passarmi la redazione di Francoforte. Dalla stanza accanto veniva il rumore soffocato dell'aspirapolvere. Non sentii invece le voci delle due ragazze, anche se stavano certamente chiacchierando. Quindi potevo parlare liberamente, non appena mi avessero passato il mio amico Hem. Ma non riuscii nemmeno ad aprire bocca. Fu lui a partire in quarta: «Herford è entusiasta! Non trova parole per esprimere tutta la sua gioia! Mami gongola! Lester ha ritirato la coda fra le gambe e finge di esserti amico: amico tuo, lui! Avrete quattro pagine. Un rilievo straordinario. Stanno facendo diventare matto il Beccamorto per l'impostazione grafica. Ormai ha i capelli ritti!». «E la mia firma?» «A grandi caratteri, ragazzo mio, stai tranquillo: non ti preoccupare! Questa è la tua storia. Non te la porterà via nessuno. La stamperemo in cima all'articolo: L'ultimo Roland!» E si mise a ridere. «Che c'è da ridere?» «Oh, tutto» disse Hem. «Anche la puntata che hai scritto prima di andartene è piaciuta alla conferenza delle donne. Però Herford ormai aveva fiutato odor di sangue, quando Lester gli aveva riferito quelle obiezioni... Ricordi? Parlare più dell'uomo, di come lo si può eccitare, di cosa bisogna fare per eccitarlo meglio, eccetera... Insomma, Herford ha commissionato un'indagine velocissima a santo Stahlhut. E il computer l'ha appena sfornata. Reggiti forte. La serie in corso, il tuo TUTTO SUL SESSO, sarà trasformata in una serie sull'uomo, sui suoi desideri e sulle sue voglie. Tu non dovrai far altro che scrivere un pezzo di raccordo, e comincerà subito la nuova serie. Herford mi ha appena chiesto se potrai farcela a scrivere due serie contemporaneamente.» «Certo!» esclamai io, eccitato. «Certo che ce la faccio!»
«Herford vuole assolutamente superare tutti. Con le tue due serie. Sesso e lacrime. E sterzata a sinistra. Il computer profetizza un successo strepitoso.» «E che ti aspettavi?» «Appunto. Il computer ha prodotto già anche il titolo per la tua nuova serie erotica. Si chiamerà TUTTO SULL'UOMO.» «Come?» «TUTTO SULL'UOMO» ripeté Hem. «Titolo già approvato. Ormai lo stanno disegnando. Oggi pomeriggio faremo una riunione per la copertina. Precedenza assoluta alla tua inchiesta sul campo profughi. Probabilmente sceglieremo la foto di quel ragazzo svenuto sul pavimento della baracca, accanto alla tromba. È una gran foto, dillo a Bertie, ne sarà contento. Dal numero successivo poi attacchiamo con TUTTO SULL'UOMO. Hanno già deciso di cercare qualcosa di assolutamente eccezionale per la copertina... Stammi a sentire: non mi sembra però che tu sia un pervertito.» «No, non in modo particolare.» «Va bene, ma per TUTTO SULL'UOMO dovrai esserlo. Vogliono una specie di rassegna generale di tutte le perversioni che eccitano gli uomini. Hai letteratura a sufficienza sull'argomento? T'ho già fatto comperare della roba. Ti procureremo tutto quello che c'è sul mercato.» «Ho di meglio» dissi io. «Ho Tutti! Rammenta: il grande amore del Beccamorto. Basta chiedere a lei.» «Perfetto» disse Hem. «Credo che passerò alcune ore allegre in compagnia di Tutti» dissi io. «E ora mi ascolti, Hem. Invece di perdere tempo a raccontare, le faccio sentire direttamente il colloquio che abbiamo avuto alla direzione di polizia.» Presi il registratore, lo avviai e lo tenni accanto al telefono. Così Hem ascoltò il nostro incontro con gli agenti dei servizi di sicurezza Klein e Rogge. Anch'io, nel risentirlo, sentii crescere la mia inquietudine. Che altre sorprese ci avrebbe riservato quella vicenda? Spensi il registratore e raccontai a Hem degli uomini del MAD messi a guardia di Conny Manner. «Ora butto giù un boccone e subito dopo parto con Bertie» dissi. «Andiamo alla sede del MAD, qui ad Amburgo. Così si vedrà se riusciremo a sapere qualcosa di più.» «Non sarà facile» disse Hem. «Lo so.» «Poi richiamami. E fai subito spedire i rollini con le nuove fotografie»
raccomandò Hem. «Okay» dissi io. Le due cameriere avevano bussato alla porta della camera da letto e infilato la testa nella stanza. Avevo fatto loro un cenno di assenso. Si erano subito messe a far pulizia in salotto. Mi congedai da Hem e riagganciai. «Non è necessario che vi danniate» dissi alle ragazze, e allungai a ciascuna dieci marchi. «Non c'è molto da pulire qui. E poi avete l'albergo pieno. Suppongo che abbiate da fare anche altrove.» «Un lavoro pazzesco» disse la più carina delle due. Presi il registratore e lo sistemai accanto alla mia macchina da scrivere, su un cassettone antico. In quei momenti commisi quattro gravi errori. Uno sarebbe stato comunque inevitabile, gli altri tre no. Dopo aver sistemato il registratore, mi venne in mente una cosa. Il mobiletto sul quale era appoggiato il telefono aveva una radio incorporata, con tre manopole. Consentivano di captare il programma radio locale, un programma di musica inciso su nastro, oppure le musiche che trasmettevano giù al bar. Dovevo cercare di tirar su di morale Irina, perché poi, nel pomeriggio, una volta usciti noi, non fosse colta da una crisi. Girai la manopola che collegava al bar, ma l'apparecchio restò muto. Provai le altre due manopole. Non funzionavano neanche quelle. Chiamai il centralino. «Qui è il 423. Roland. La mia radio è rotta. Per favore, mandatemi su qualcuno a ripararla.» «Subito, signor Roland.» «Grazie.» L'elettricista dell'albergo venne dopo un paio di minuti. Era un giovanotto biondo e slanciato, con una tuta blu e una borsa di attrezzi. Un ragazzo simpatico. «Buon giorno» disse. «Qualcosa che non va con la radio?» «Appunto. Non funziona per niente.» S'inginocchiò di fronte al mobiletto e aprì la borsa degli attrezzi. «La sistemiamo subito.» E cominciò a smontare la parte anteriore di quella scatola, dotata di un reticella metallica. Io intanto pensavo a tutto quello che mi aspettava: due grandi serie, forse persino un mio ritorno al giornalismo serio! E mi attaccai alla bottiglia. Le due ragazze completarono il loro lavoro e se ne andarono, salutando. «Cosa non va?» chiesi al tecnico. «Niente di grave. Una valvola e un contatto.»
«Quanto tempo le ci vorrà?» «Forse mezz'ora.» «Io devo andare a mangiare. I miei amici mi stanno aspettando. Siamo nel salotto di là, al 436. Quando ha finito, la prego, chiuda e mi porti la chiave.» Gli allungai venti marchi. «La ringrazio. Le porterò senz'altro la chiave, signore.» Trafficava con un cacciavite attorno alla radio. Stetti a guardare ancora un po', poi lo salutai e raggiunsi in fretta Irina e Bertie che mi stavano aspettando. E intanto avevo già commesso tre dei miei quattro errori. 7 Cose che non avrebbero dovuto capitarmi, dopo tanti anni di mestiere. In nessun caso. E invece mi capitarono lo stesso. Ero troppo eccitato, inorgoglito e maledettamente sicuro del fatto mio. Nonostante tutta la mia esperienza, mi succedeva ancora di aver fiducia in persone sbagliate, e di sospettare di gente sbagliata. Credevo di essere sulle tracce della verità, e avevo completamente dimenticato tutto quello che avevo imparato in quei molti anni di lavoro: e cioè che ogni cosa e ogni storia sono sempre soltanto in parte vere, e per l'altra false. Che la verità e la menzogna, il giusto e il torto si intrecciano fra di loro. Che coloro di cui ci si fida possono tradire, e che coloro di cui non ci si fida possono salvarti. Erano tutte cose che sapevo, perfettamente, ma quel giorno evidentemente avevo la testa fra le nuvole. Non ero più io, preso com'ero dal pensiero di quell'occasione che mi si era offerta per tornare finalmente a galla. Errore numero uno: il fatto che la radio fosse guasta, avrebbe dovuto insospettirmi. Nella situazione in cui mi trovavo, avrei dovuto esaminarla io stesso, e poi provvedere in modo che non potesse funzionare per niente, non importa in che modo. E invece chiamai un elettricista che non conoscevo. Errore numero due: non avrei mai dovuto lasciare l'appartamento fino a quando l'elettricista vi si fosse trattenuto. Mai, in nessun momento, avrei dovuto consentire a persone estranee di stare nell'appartamento se non sotto gli occhi attenti di uno di noi tre: Irina, Bertie oppure io. Errore numero tre: eccitato com'ero, come uno stupido novellino, non mi accorsi di aver messo il registratore acceso accanto alla macchina da scrivere. Data la mia abitudine di giocherellare continuamente coi pulsanti, lo avevo avviato, senza rendermene conto, dopo aver fatto ascoltare a Hem il
nostro colloquio con quei due tizi dei servizi di sicurezza. Subito dopo, distratto, avevo premuto il pulsante per la registrazione. E fin qui non si poteva ancora parlare di errore. Senonché, quando poi in seguito ripresi in mano il registratore, vidi che era spento e il fatto mi apparve del tutto normale. E infatti si era spento da solo, dopo che tutto il nastro si era svolto nella cassetta. Fu a questo punto che cominciò la mia dabbenaggine. Alle prese con la mia solita fretta e convinto che la cassetta fosse esaurita, la tolsi e la misi via, infilandone nel registratore una nuova. Quando finalmente mi decisi ad ascoltare il nastro che avevo messo da parte, e udii quello che vi era inciso, era già troppo tardi: la frittata, ormai, era fatta. 8 Rumore delle manopole della radio, girate e premute. Il ronzio di un aspirapolvere. La mia voce: «Qui è il 423. Roland. La mia radio è rotta. Per favore, mandatemi su qualcuno a ripararla». Queste furono le prime cose che il registratore incise subito dopo la conversazione alla direzione di polizia. Seguivano le mie chiacchiere coll'elettricista e il mio congedo. Quindi una pausa, con rumori vari di attrezzi smossi. Poi la voce dell'elettricista: «Dipende dal microfono. Il microfono si è staccato». Voce priva di accenti, adirata: «Idiota! Miserabile idiota! Troppo stupido persino per montare un microfono! Mi sa dire come potevo fare se Roland non l'avesse chiamata, per puro caso?». Voce dell'elettricista: «Chiedo scusa. Mi dispiace. Non so che farci. Due viti si sono allentate e così...». Voce senza accenti: «Perché lei non le ha fissate come si deve! Tutto sarebbe rovinato se Roland - e lo sa Dio il perché - non si fosse messo a toccare le manopole, accorgendosi che non funzionava!». Voce dell'elettricista: «Non mi accadrà più. Farò tutto, tutto quello che vuole, purché mantenga la sua parola». Voce senza accenti: «Manterrò la mia parola solo se tutto andrà bene e non ci saranno inconvenienti per colpa sua! Altrimenti se la dimentichi la mia parola, idiota!».
Voce dell'elettricista: «Mi stia a sentire: io rischio molto per lei! Il mio posto! Una denuncia! La prigione!». Voce senza accenti: «Per me? Per suo padre vorrà dire!». «Sì, sì, naturalmente...» Fra una battuta e l'altra si sentivano rumori assortiti: viti, grattate, una lima, un picchiettio. «Uno due tre quattro cinque sei sette... Come va adesso?» «Ora si sente di nuovo bene. È incredibile... Persino montare un microfono è un lavoro troppo complicato per il signorino!» «Le ho chiesto scusa!» «Non so che farmene delle sue scuse. Io le chiedo solo di fare un buon lavoro. E noi le daremo buona merce in cambio.» Breve risata: «Anzi, non daremo la merce che abbiamo, voglio dire». Ancora rumori vari, per circa cinque minuti. Poi: «Ecco, è tutto a posto». «Raccolga la sua roba e porti la chiave al signor Roland.» «Sissignore. E ancora grazie... grazie, grazie...» Dopo di che il nastro scorreva sino alla fine, senza registrare altro che i passi dell'elettricista che si allontanava, il rumore della porta aperta e poi richiusa. Ecco com'è andata. Il quarto errore, il più grave, lo commisi subito dopo, ma è stato anche l'unico che non mi sarebbe stato comunque possibile evitare. 9 Arrivai nella sala dove c'erano Irina e Bertie. Mi avevano aspettato davvero: e gliene fui grato. «Abbiamo già ordinato» m'informò Bertie. «Lady Curzon. Sogliola Walewska. Pesca Melba. Un vino della Mosella, buona annata: ce lo ha raccomandato lo chef. Ti va bene?» «Perfetto» dissi io, e guardai Irina, felice. Mi rispose con uno sguardo serio. Era quasi senza trucco e indossava sempre ancora il suo vestitino azzurro con le scarpe dal tacco basso. Non disse niente. Bertie aveva già suonato per chiamare il cameriere. Qualcuno bussò e aprì la porta. Era pomeriggio ormai, e quel pomeriggio avrebbe dovuto essere di servizio il mio amico signor Oskar. E invece Oskar non c'era. L'uomo che entrò sospingendo il grande car-
rello a rotelle con la tovaglia damascata, sul quale c'erano i contenitori per il cibo e il vino, era un cameriere che non avevo mai visto prima. «Buon giorno, monsieur» disse, rivolgendosi a me e cominciando subito a servire. Parlava con accento francese. Indossava un vestito nero dalla giacca corta in vita, camicia bianca, cravatta nera e grembiule bianco e immacolato. «'Giorno» dissi io. «Pensavo che dalle due in poi fosse di servizio il signor Oskar.» «E infatti sarebbe stato il suo turno» disse il cameriere sconosciuto. Pronunciava le "r" con qualche difficoltà. «Ma domani ho un impegno urgente e così abbiamo fatto cambio.» «Lei, come si chiama?» «Jules, monsieur. Jules Cassin.» Aveva servito i consommé alla tartaruga, e stava versando il vino bianco nel mio bicchiere. Lo assaggiai. Era un vino eccellente e glielo dissi. «Merci, monsieur.» E se ne andò, dopo aver riempito i bicchieri a tutti. «E allora: buon appetito!» dissi, con tono volutamente allegro. Mangiammo. Non uno che aprisse bocca. Pareva che fossimo riuniti per un banchetto funebre. «Si può sapere che vi piglia?» chiesi alla fine. «Oh, io, niente. Ma la signorina Indigo...» disse Bertie. «Sola soletta per tutto questo tempo. È preoccupata. Me ne ha parlato. E la capisco.» «La capisco anch'io» dissi. E da quel momento tentammo di consolarla un po'. Bertie raccontava storielle allegre (ma non spinte) e io pensavo che mi ero davvero innamorato di Irina e che non avrebbe potuto capitarmi in un momento peggiore. Le accarezzai una mano e le dissi che entro un paio d'ore avremmo saputo certamente qualcosa di più. Il cameriere Jules venne portando le sogliole con un secondo carrello. Ci servì il pesce con eleganza squisita. Era un uomo non più giovane, sulla cinquantina: e aveva lo charme e la disinvolta abilità dei camerieri francesi. La sogliola era ottima. Il mio umore migliorò rapidamente, i miei nervi si distesero. Raccontai a Bertie che ci avrebbero dato quattro pagine e che tutti erano entusiasti delle sue foto. Irina mangiava lentamente, a capo chino. Senza dire una parola. Jules Cassin rientrò con le pesche Melba e ci chiese se desideravamo il caffè. «Certo. E del cognac: Remy Martin. Nel nostro appartamento però, per favore.»
«Come desidera, monsieur. Servirò lorsignori di là. Ecco la sua chiave, monsieur. Me l'ha consegnata l'elettricista dell'albergo. La sua radio è di nuovo a posto.» «Grazie, Jules» dissi io. Nella saletta il lampadario era acceso. Fuori la pioggia insistente stava già scacciando la luce del giorno: un tempaccio orribile, e noi dovevamo uscire di lì a poco. Mangiammo il gelato e io dissi a Irina: «Le ho portato alcune cose. Quando saremo di là, aspetterà in salotto sino a quando avremo disposto tutti i pacchi in camera da letto». Sorrise improvvisamente. «Va bene» disse. «Sono contenta!» Bertie e io ci sorridemmo perché Irina aveva sorriso, e io ero felice di quel sorriso, come di un raggio di sole atteso a lungo, molto a lungo, nel gelo. Non pensai che quello poteva anche non essere stato un sorriso di allegria autentica; non pensai che Irina aveva studiato psicologia. Pensai soltanto che era bella: tanto bella. Suonai. Jules accorse subito e io gli dissi che ci saremmo trasferiti nel nostro appartamento. «Benissimo, monsieur.» Notai che mi faceva un cenno. Consegnai la chiave a Bertie e gli dissi, mentre fingevo di cercare in tasca una banconota per la mancia: «Andate pure avanti, vi raggiungo subito». Si avviarono. Io dissi: «Cosa c'è, signor Jules?» e gli allungai venti marchi. «Merci, monsieur.» Diede un'occhiata al suo orologio da polso, con ostentazione. «Mancano nove minuti alle tre e mezza. Alle tre e mezza in punto la chiamerà il suo editore.» «Come? Ma lei come fa...» «Più tardi. Le spiegherà tutto lui. O meglio: non lui, ma il signor Seerose.» «Lo conosce?» Rise. «Se lo conosco!» Ridivenne serio. «Non le telefoneranno qui, monsieur, ma al Club 88.» «E dov'è?» «Proprio di fronte all'albergo. Il portiere le darà un ombrello. Non dovrà far altro che attraversare la strada.» «Perché l'editore non mi telefona in albergo?» «Glielo dirà lui personalmente. O meglio: il signor Seerose. È molto importante per lei, signore.» «È già aperto quel club?»
«Non è un club. È un bar. Aprono alle tre. Quando tornerà, saprà molto di più su molte cose. Ora vada, monsieur, la prego. Mancano appena cinque minuti...» Mi avviai. E così facendo commisi il mio quarto errore, il più grave di tutti. Ma è un errore che avrebbe certamente commesso chiunque. «Oh, monsieur. Una cosa importante ancora!» Ero già sulla porta, quando Jules mi chiamò. Mi raggiunse, frettoloso. «Ecco, prego.» Mi mise in mano un foglietto ripiegato. «Cos'è?» «Lo porti con sé al bar. Ne avrà bisogno.» 10 Il Club 88 era davvero di fronte all'albergo, in una vecchia casa patrizia sull'altro versante dell'Harvestehuder Weg. Piccolo, molto accogliente, tutto arredato in rosso, quasi vuoto. Due coppiette sedute ai tavoli, che chiacchieravano fitto. Lasciai l'ombrello che mi avevano prestato nel guardaroba, mi sedetti e ordinai un doppio Chivas, liscio. Lo avevo appena detto alla cameriera - una ragazza carina: abito mini nero, grembiule rosa e crestina rosa - che quella tornò al mio tavolo. «Il signor Roland?» «Sì.» «La vogliono al telefono, signor Roland.» Guardai il mio orologio. Erano esattamente le 15 e 30. La ragazza mi precedette, aprì una porta di legno di mogano, e mi fece entrare in un corridoio illuminato da una lampada. Di lì si passava per andare alle toilette. All'inizio del corridoio c'era la cabina telefonica. Il ricevitore era staccato e appoggiato su una piccola mensola. Entrai nella cabina, presi il ricevitore e dissi chi ero. «Qui la casa editrice Blitz, Francoforte. Il signor Roland?» Riconobbi la voce di Marion. «Sì» dissi io. «Buon giorno, dolcezza. Che vi piglia? Perché non mi chiamate in albergo...» «Un attimo e la collego, signor Roland.» Clic. Sparita. «Roland? Sono Herford.» «Buon giorno, signor Herford. Ma che significa...» «Niente domande. Faremo più in fretta. Capirà subito tutto. Ma prima
una citazione dalla Bibbia. Lettera ai Romani, dodicesimo verso: "Siate lieti nella speranza, pazienti nella tristezza e attenetevi alla preghiera". Si attenga sempre alle preghiere, Roland.» «Ma certamente, signor Herford. Io non faccio altro che pregare...» «Molto bene. Dunque: Herford le fa le sue congratulazioni, Roland!» «Grazie.» «È formidabile quello che sta facendo. Herford è entusiasta. Anche la signora Herford. Sarà il colpo più grosso che ci sia mai capitato!» «Me lo auguro.» «Ora le passo il signor Seerose. Siamo nel mio ufficio.» Subito dopo udii la voce ricercata del nostro direttore editoriale, il gentleman sempre così ben vestito e dalle raffinate, impeccabili maniere. «Pronto, signor Roland?» «Pronto» dissi io. «Com'è la cabina da cui sta parlando. Una cabina chiusa?» «Sì.» «Bene. Jules ha fatto un ottimo lavoro. Nessuno potrà ascoltarci.» «Ne è sicuro?» «Sì» disse lui, secco. «È per questo che le sto telefonando lì e non in albergo.» «Vuol dire che in albergo...» «Jules le spiegherà tutto. Mi descriva Jules, per sicurezza.» «Avrà forse 53 anni, alto come lei, capelli grigi, magro, occhi verdi, parla il tedesco con qualche inflessione.» «Che orologio porta?» «Un orologio da polso d'oro. Piatto e quadrato.» «Cifre in nero?» «Sì, è esatto. Ma...» «Gliel'ho dato io quell'orologio. Le ha consegnato un foglietto?» «Sì, signor Seerose.» «Mi legga i nomi che ci sono scritti.» Tirai fuori il foglietto di tasca e lessi: «"Patrick Mezerette, François Tellier, Robert de Bresson, Michel Moreau, Charles Rabaudy, Philippe Fournier, Bernard Apis"». «Perfetto. Nessun dubbio. È proprio il mio Jules Cassin.» «Il suo Jules Cassin?» «Glielo spiegherà lui. Io ora le devo dire quello che dovrà fare, e cosa c'è dietro quella faccenda di Jan Bilka.»
«Come mai è lei che me lo viene a dire?» «Perché ne so più di lei. Io sono... un amico molto intimo di un certo ufficio americano. Ho appena fatto una chiacchierata con quell'ufficio sul signor Bilka e su tutta la storia che lei sta cercando di chiarire. Avrà capito anche lei che il signor Bilka sta tentando o ha tentato di vendere qualcosa, vero?» «Certo, è la stessa idea che abbiamo avuto io e il signor Engelhardt.» «Naturalmente. Ma immagina cosa possa essere quello che il signor Bilka vuole vendere?» «No.» «Io invece sì» disse Oswald Seerose, calmo e pieno di sussiego. «Si tratta di tutti i piani di difesa degli stati del Patto di Varsavia, da attuarsi in caso di guerra in Europa.» «Gli stati del Patto di Varsavia...» Dovetti fermarmi a riprendere respiro. Un caldo tremendo m'assalì, improvviso, in quella cabina. Cominciai a sudare. «Sì» disse la voce di Seerose. «E Bilka ha già venduto quei piani.» Il nostro colloquio proseguì per qualche minuto. 11 Cinque minuti dopo ero già di nuovo nel mio appartamento. C'erano Bertie e Jules Cassin il quale, con grande compitezza, stava preparando il tavolo per il caffè. «Cosa c'è?» chiese Bertie. «Un momento» risposi. «Dov'è Irina?» «Di là. Festeggia il Natale.» E infatti, quando andai a dare un'occhiata in camera, sembrava proprio una bambina sotto l'albero. Era davanti al letto sul quale Bertie aveva sparpagliato i regali, tutti impacchettati con molto gusto. Irina, senza dire una parola, guardava soltanto, meravigliata. «E allora? Che aspetta?» dissi. «Apra! Guardi!» «Lei dev'essere matto, signor Roland!» «Certo che lo sono! Verifichi tutto per bene, con calma. Provi quello che c'è e tenga presente che posso cambiare quello che non va. E dopo ci raggiunga di là in salotto. Però la voglio anche veder truccata in modo eccitante, e con un vestito nuovo. Capito?» Mi guardò sorridendo e annui. Io pensai: Com'è facile, dopo tutto, rende-
re felice una persona. Poi pensai che Irina, essendo donna, e nonostante tutte le sue preoccupazioni, sarebbe stata occupata per un po' di tempo. Ed era appunto quello che volevo. Tornai in salotto e dissi a Bertie: «Ho parlato, per telefono, con Seerose. Deve avere un qualche collegamento con gli americani. Ne sa più di noi. Lui sa cosa Bilka ha venduto, sa tutto quello su cui ci siamo rotti la testa». «Cosa?» «I piani di difesa degli stati del Patto di Varsavia in caso di guerra in Europa. E Bilka li ha venduti agli americani.» Jules mi guardava senza fare una grinza. Bertie disse, con qualche difficoltà: «I piani del Patto di Varsavia? Bella merce, non c'è che dire». «Non lo sapevo» disse Jules. «Però ammetterà che ha fatto bene a seguire il mio consiglio e a recarsi al Club 88.» «Ho fatto benissimo» dissi io. «Però non capisco perché, signor Jules, mi ha mandato là. Perché non avrei potuto telefonare da qui?» Il cameriere francese alzò le spalle. «Lei conosce il signor Hanslik, il portiere-capo, vero? Bene, è un mio buon amico. Oggi sarebbe stata la mia giornata libera, ma il signor Hanslik mi ha chiamato e mi ha chiesto di raggiungerlo subito in albergo. Mi ha detto che c'era lei e che erano venuti degli uomini a fare un certo lavoretto al centralino telefonico. Ha specificato che, secondo le telefoniste, avevano inserito nel centralino un meccanismo per intercettare le conversazioni telefoniche di questo appartamento. La direzione dell'albergo ha chiamato, naturalmente, l'ufficio dei telefoni. Però hanno risposto che il lavoro fatto da quegli uomini andava benissimo, che c'era stato un guasto alla centrale. Il signor Hanslik e io però non ne siamo molto convinti. Pensiamo che ci sia qualcuno che vuole ascoltare le sue conversazioni.» «Non me ne meraviglierei» disse Bertie. Vidi che stava fotografando Jules di nascosto, mentre io mi avvicinavo al registratore. Ero molto nervoso. Non ero in grado di rendermi conto che la nostra conversazione alla direzione di polizia non poteva aver riempito un nastro intero. Vidi soltanto che il nastro era finito e che l'apparecchio era spento. Meccanicamente ne prelevai la cassetta incisa, ne infilai dentro una nuova e rimisi in funzione il registratore. Andò così, semplicemente. Purtroppo. «E poi?» chiesi a Jules. «Sono uscito immediatamente e ho chiamato il signor Seerose, da una cabina giù in strada, e lui mi ha detto di occuparmi di lei.»
«Come mai conosce il signor Seerose?» Il registratore incideva tutto quello che dicevamo, e lo sapevo. Anche il microfono inserito nell'apparecchio radio captava però tutto: e non lo sapevo. Ma lo avrei saputo presto. Jules Cassin disse: «Monsieur Seerose è stato ufficiale in Francia. Io combattevo coi maquis. Ho fatto saltare un ponte coi miei compagni. I tedeschi ci hanno presi... me e tutti quegli altri i cui nomi ho segnato su quel foglietto. Monsieur Seerose comandava a quel tempo la guarnigione in quel settore. Ha fatto in modo che potessimo fuggire. Ha rischiato la testa per farlo. Ha salvato la vita a tutti noi». «Il filantropo» disse Bertie. «La prego di non scherzare, monsieur! Monsieur Seerose è un uomo meraviglioso. Nel 1945 mi sono presentato al governo militare francese e ho raccontato quello che aveva fatto per il nostro gruppo. Così gli hanno dato una delle prime licenze per stampare un giornale. Si è messo d'accordo col signor Herford, che ha trovato i soldi necessari. E così, è nato Blitz.» «Ah, così è andata dunque... Seerose ha ottenuto la licenza, non Herford.» «Esatto. Eravamo amici, monsieur Seerose e io, buoni amici.» «Eravate?» «Lo siamo ancora. In Francia avevo perso tutto. E così monsieur Seerose mi ha detto: "Jules, vuoi venire da me come maggiordomo?". Allora aveva una grande casa, lo sa? E così sono stato otto anni dal signor Seerose. Io ho sempre fatto il cameriere: è la mia professione. Prima della guerra ero a Parigi, al Ritz.» «E come mai ha poi lasciato il signor Seerose?» chiese Bertie. «Oh, ho voluto farmi un bar tutto mio. Ma mi è andata male. Ora sto bene qui. Sono soddisfatto. E mi sento sempre ancora in debito verso il signor Seerose.» «Lo sapeva che ha dei contatti con gli americani?» «Sì. Ne venivano sempre molti a casa sua.» «Che tipi erano?» «Uomini dei servizi d'informazione. Lunghi colloqui in biblioteca. Parlavano di politica e così via...» S'interruppe perché si era aperta la porta della camera da letto. Era Irina: vestito verde nuovo, scarpe nuove, calze nuove, truccatissima, molto seducente. «Splendida» dissi io. «Sono rapito, madame, se posso permettermi questo apprezzamento»
disse Jules. Irina sorrideva e si girava per farsi ammirare. «Le piace?» «Bellissima» disse Bertie. «E questo profumo, Walter. È meraviglioso!» «Ne sono lieto. Ora provi anche il completo, la prego.» «Volentieri. Ma che state facendo qui? Di cosa chiacchierate?» Sorrideva nel fare questa domanda, e quindi non m'insospettii. «Pensi un po'!» dissi io. «Il signor Jules conosce un pezzo grosso del mio giornale. Stiamo parlando di lui.» «Ah. Allora non vi disturberò. Vado a mettermi il completo. Il caffè però...» «Il bricco è al caldo, madame. Lo troverà perfetto.» «Grazie, Jules» disse lei, gli sorrise, e anche quello fu un sorriso al quale dovetti poi ripensare. Sparì di nuovo in camera. Mi venne in mente una cosa: mi avvicinai al telefono e chiesi di poter parlare col bar. Era di servizio Charlie. Gli dissi di trasmettere un po' di musica, durante il pomeriggio, e gli specificai anche il tipo di dischi che avrei voluto. Mi promise che me li avrebbe cercati. Quindi girai la manopola della radio che ci collegava col bar. «Sentiamo allora: cosa ti ha detto Seerose?» chiese Bertie. «Un momento.» E gridai: «Irina!». Nessuna risposta. «Stia tranquillo, monsieur» disse Jules. «Le pareti sono molto spesse e le porte imbottite. Di là non si sente neanche una parola.» «Dunque,» ripresi «a sentire Seerose, le cose stanno così: questo Jan Bilka ha sgraffignato le fotocopie... anzi, i microfilm... coi piani di difesa degli stati del Patto di Varsavia. Taglia la corda e raggiunge il suo amico Michelsen, col quale è in contatto da anni e di cui sa che è un agente americano. È convinto di essere assolutamente al sicuro in sua compagnia. Ed è un grave errore. Perché il suo buon amico Michelsen, secondo Seerose, non è un agente americano, ma un agente al servizio dei russi. Da molto tempo.» «E Bilka s'è rifugiato da un agente russo?» chiese Bertie. «È terribile» disse Jules. «Aspettate» dissi io «di sapere tutto quello che Seerose mi ha raccontato.» In quello stesso momento risuonò la musica trasmessa dal bar. Era A
foggy day in London town, suonata dall'orchestra di Ray Conniff. 12 «In breve:» dissi io «Michelsen è un agente dell'Est. Uno molto in gamba. Come s'è visto, stabilisce contatti con possibili transfughi molto prima che questi giungano al punto critico. Quel Bilka è letteralmente affamato di soldi. Se ne infischia dei princìpi morali. E anche di Irina. Ha un'altra donna da un sacco di tempo. Ed è con quella che fugge da Michelsen. Gli offre quei documenti e invita Michelsen a trattare con gli americani. Che è poi appunto quello che Michelsen voleva. Svolge il suo incarico, ma così come fa comodo ai russi, fingendo di essere un agente doppio cioè. Si mette a trattare con gli americani. Ma, a parte i soldi, chiede anche altre cose, che gli americani non sono disposti a concedere: la liberazione di due agenti orientali condannati in America; la consegna di un importante agente sovietico catturato a Saigon, e di un consigliere militare sovietico in Egitto catturato dagli israeliani; e poi ancora la parziale demolizione delle postazioni missilistiche della NATO in Europa... perché Bilka è un idealista, afferma Michelsen, mentendo senza scrupoli e soprattutto senza che Bilka lo sappia; e oltre che idealista, è anche moralista, questo Bilka, poiché chiede che siano pubblicati i documenti relativi a un porno-scandalo in cui sono coinvolte personalità governative americane, e che è stato sin qui messo a tacere. Richieste inaccettabili, insomma. Infatti Michelsen deve evitare che gli americani si decidano a comperare. Vuole tempo. Tempo per dar modo ai suoi datori di lavoro russi di scoprire dove quel Bilka ha nascosto i piani.» «Che vuol dire: dove Bilka ha nascosto i piani?» chiese Bertie. «Non li ha con sé, naturalmente. Non è mica un imbecille. Basterebbe farlo fuori e portarglieli via.» «È ovvio» disse Jules. «E dove sono allora questi piani?» «Secondo Seerose, che l'ha saputo dagli americani, Bilka ha spedito una parte dei microfilm a un suo amico a Helsinki, e l'altra parte a un suo amico a New York. Nessuno sa chi sono questi amici. Bilka chiede di essere portato con la sua amica, e ben protetto naturalmente, prima a Helsinki e poi a New York. Vuole sistemarsi negli Stati Uniti. A Helsinki intende consegnare la prima parte di quelle pellicole, e incassare la prima rata del compenso; e poi a New York consegnerà l'altra parte e intascherà il resto.» «Bella pensata» disse Bertie.
«Pensata bene, ma non abbastanza» dissi io. «Perché Michelsen, come mi ha riferito Seerose, ha tirato le trattative per le lunghe. Bilka e la sua amica non hanno potuto lasciare la sua abitazione. Erano completamente nelle mani di Michelsen. Il quale diceva loro di essere continuamente in contatto con gli americani: per mercanteggiare; per contrattare. In realtà per dar modo agli orientali di fare tutti i loro preparativi... tendenti a riportare Bilka a casa sua e a ricuperare quei film. Perché naturalmente la prima cosa che Michelsen ha fatto è stato di riferire ai suoi veri datori di lavoro dove sono i film. E i russi ce l'avrebbero fatta, a spacciarsi per americani, a portare Bilka a Helsinki e a New York, e farsi consegnare i film, se...» «Se non fosse spuntata fuori Irina e non avesse portato un elemento formidabile e sgraditissimo di confusione nello svolgimento dell'affare» intervenne Bertie. «Esatto. Irina ha messo tutto in pericolo. Bisognava impedirle a ogni costo di raggiungere Bilka. Ed è per questo che Michelsen ha spedito Karl Concon a Neurode per rapire Irina e toglierla di mezzo.» «Già,» disse Bertie «credo di immaginare come.» «Senonché Concon ha fatto fiasco, non è riuscito a rapire Irina e ha coinvolto noi nella vicenda: ecco perché l'hanno fatto fuori.» «Chi?» «Agenti orientali, naturalmente» dissi io. «E ora state attenti: quando Michelsen ha saputo che la missione al campo profughi era fallita, ha svelato tutto il suo bel carattere. Ha cambiato cioè un'altra volta bandiera, ha telefonato agli americani, si è fatto prelevare da loro a gran velocità e portare al sicuro. Ora dunque recita la parte del bravo agente americano che ha consegnato la sua merce. È sempre Seerose che lo dice. Glielo hanno detto gli americani. Gli hanno detto anche che i russi hanno tentato di mettere le mani su Irina quando noi siamo arrivati ad Amburgo.» «Il marinaio norvegese» disse Bertie. «Appunto. Però anche gli americani volevano rapire Irina. Non riuscivano a capire cosa noi volevamo fare di lei. Ed è così che sono apparsi sulla scena quel "mio" droghiere e il suo amico pugile. Ora però gli americani si sono tranquillizzati, perché sanno che Irina è in buone mani.» «E infine sono tranquilli anche i signori del nostro servizio di sicurezza. Simpatici!» disse Bertie. «Ma come sono tutti simpatici! Bilka però dov'è? Dove sono Bilka, la sua amica e Michelsen?» «Al sicuro. Protetti dagli americani.» «E dove?» chiese Bertie.
«Non lo so. Seerose non me lo ha detto. Evidentemente nemmeno gli americani gliel'hanno detto. Preferiscono lavorare in pace.» «Noi però dobbiamo scoprirlo» disse Bertie. «Naturalmente» dissi io. «Però è strano.» «Cosa c'è di strano?» «Che non abbiano detto a Seerose dove tengono nascosti Bilka e gli altri. Perché altro, e di molto più importante, lo hanno invece raccontato.» «E cioè?» «Quando l'intera compagnia partirà in volo per Helsinki. Ma forse non è vero, forse è soltanto una manovra diversiva.» «Oppure si sentono maledettamente sicuri di non incontrare altri intoppi, e vogliono avere la maggior pubblicità possibile. Non dimenticare tutto quello che siamo già riusciti a sapere, e tutte quelle foto che Blitz ha già a disposizione.» «Per quel po' che conosco gli americani, ritengo che il signor Engelhardt abbia ragione» intervenne Jules. «Fanno di tutto per la pubblicità. E sarà una pubblicità sensazionale. Gli orientali messi nel sacco! Gli invincibili americani. Andrà così.» «Già, andrà proprio così... oppure no?» dissi io. «Non mi sento poi così sicuro...» «Vediamo, allora, innanzitutto di scoprire dove hanno nascosto Bilka. Ci penso poi io a stargli alle calcagna. Quando lo faranno partire con gli altri?» chiese Bertie. Tirai fuori di tasca il foglietto che Jules mi aveva dato come segno di riconoscimento, dopo avervi segnato i nomi dei suoi compagni partigiani salvati da Seerose. Sul rovescio l'avevo riempito io di scarabocchi. «La partenza dovrebbe avvenire stasera» dissi io, senza poter nemmeno lontanamente immaginare di avere un microfono inserito nella radio: povero idiota, testa di legno che non ero altro! «Strettamente sorvegliati, naturalmente. Partiranno Bilka, l'amichetta e Michelsen. Prima andranno a ritirare i microfilm a Helsinki. Seerose ha detto che partiranno con un apparecchio della PAN-AM. Alle 19 e 40 da Fuhlsbüttel. L'arrivo a Helsinki è previsto per le 22 e 30. L'aereo per New York decollerà a mezzanotte in punto. Hanno dunque tutto il tempo che vogliono. Seerose mi ha detto di restare stasera, a qualsiasi costo, accanto a Irina, perché non le succeda niente. Se avrò da trasmettere notizie o da chiedere informazioni, mi rivolgerò al signor Jules: andrà lui di là al bar a telefonare. Seerose non si fida di nessuno come di lei, signor Jules: mi ha detto di riferirglielo espressamente.»
«Merci, monsieur. È molto gentile da parte del signor Seerose, e io cercherò di non deluderlo.» «Uno di noi, però, dovrà farsi un bel voletto a Helsinki, ha detto il nostro caro monsieur Seerose» arguì Bertie, e si alzò zoppicando. «E dal momento che soltanto uno di noi resta disponibile, vediamo di spicciarci a comperare un biglietto per il nostro caro monsieur Bertie. Un biglietto per Helsinki e uno anche per New York. Per fortuna che ho con me il cappotto pesante!» «Ovviamente non devi farti vedere» dissi io «ma nello stesso tempo devi tener d'occhio la compagnia e scattare tutte le foto che puoi.» «La cosa più semplice del mondo. Come sempre» disse Bertie. «Comunque mi arrangerò, a patto che io sappia dove sono Jan Bilka e il suo seguito. Poiché suppongo che ora i russi non se ne staranno con le mani in mano, mi sentirei meglio se potessi disporre di un'arma.» Andai nel guardaroba, presi la Colt dal mio cappotto di cammello e la allungai a Bertie, che se l'infilò nella tasca interna della sua giacca: l'arma formò un rigonfio appariscente. «Devi trovare il modo di metterla da qualche altra parte» gli dissi. «Altrimenti non ti faranno neanche salire in aereo.» «Nel mio cappottone» disse Bertie. Sentimmo un rumore e ci voltammo. Irina era sulla porta della camera da letto. Ora indossava il completo giallo di jersey e le scarpette di vernice, ci si avvicinò atteggiandosi a mannequin, con una mano appoggiata alla vita. Sorrideva, e noi tutti l'ammiravamo. Irina si fermò e chiese al cameriere: «Sempre qui a chiacchierare? Non pensa che qualcuno possa suonare e chiedere di lei altrove?». «Ci sono altri due miei colleghi, madame» disse Jules, inchinandosi. «Affascinante, assolutamente affascinante. Ma ora, se lorsignori mi consentono...» Gli aprii la porta dell'appartamento e la richiusi a chiave alle sue spalle: lo facevo per chiunque entrasse o uscisse. Non volevo trascurare nessuna cautela. Già, nessuna... «Davvero, Irina, lei sta benissimo» dissi, rientrando nel salotto. Bertie fischiò fra i denti. «La donna dei miei sogni» disse. «Dei sogni miei» dissi io. «Irina, se mi permette, le darei un rispettosissimo bacetto...» Non riuscii a completare la frase, perché lei s'irrigidì all'improvviso, sbiancò in volto e il suo sorriso svanì. Cominciò a piangere
e tornò di corsa in camera da letto. «Ma che c'è?» chiese Bertie, sbalordito. «La musica» dissi io, e spensi la radio. «Questa musica maledetta. Proprio adesso. Povera Irina! Questa era la sua canzone... Sua e di Bilka.» La radio aveva cominciato a trasmettere, dolce, triste e malinconica, suonata da molti violini, la canzone Girotondo... Bertie disse: «Accidenti! Cosa vuoi che...». «Non puoi farci niente» dissi. «Sta' qui e aspetta. Vado a vedere cosa posso fare.» Entrai in camera da letto e mi chiusi la porta alle spalle. Irina si era gettata sul letto, faccia all'ingiù, e piangeva disperatamente. Mi sedetti sul bordo del letto, le accarezzai le spalle e cominciai a parlare per calmarla. «Su da brava, la smetta... La prego, Irina, basta adesso... Non è colpa di nessuno se hanno trasmesso proprio ora quella canzone. Sono stato io che ho chiesto, apposta per lei, un po' di musica... Volevo vederla felice e contenta...» «La nostra... canzone...» singhiozzava lei, e si scuoteva, col viso sprofondato nel copriletto. «La nostra canzone...» «Sì, lo so. Però anche lei sa che il suo fidanzato l'ha volgarmente tradita con un'altra donna, e che...» «E allora?» Si alzò di scatto, mi ritrovai il suo volto vicinissimo al mio, gli occhi in fiamme. «E allora? Io non lo odio! Fino alla morte, mi ascolti bene, fino alla morte amerò l'uomo che mi ha tradita!» «D'accordo» dissi io, e mi sentii improvvisamente vecchio e spossato; l'eccitazione delle ultime ore era svanita. «D'accordo. Come crede lei. Per conto mio...» Cominciò a tirare e a strattonare la maglia del completo, aprì i bottoni, se la tolse, così che me la ritrovai seduta davanti col solo reggiseno bianco addosso. E gettò la maglia a terra. «Ecco, si ripigli pure tutto quello che mi ha regalato! Non lo voglio! Me ne infischio!» Aveva gridato le ultime parole. Pensai a quello che mi aveva detto Jules, e cioè che in quelle stanze si poteva gridare quanto si voleva. Ma pensai anche che stavo per uscire e che non potevo lasciare Irina in quelle condizioni. Per questo le dissi: «Irina, ascolti. Il suo fidanzato s'è cacciato in un brutto pasticcio». «Quale pasticcio?» «Ha tradito il suo paese. La Cecoslovacchia. Il vostro paese. Lo so con certezza. Ora cercheremo di trovarlo, Irina. È il nostro lavoro che lo ri-
chiede. Però quello non è lo Jan che lei sogna. È un farabutto, un vile, un uomo senza scrupoli, un...» Mi colpì in faccia con tutte le sue forze. Poi lei s'irrigidì. «Oh, mi scusi!» «Ma certo.» Lo schiaffo mi bruciava. Tirai fuori la fiaschetta e buttai giù un sorso. «Mi dispiace tanto.» «Non fa niente.» Balbettava: «Le devo tanta gratitudine... la mia sicurezza... probabilmente anche la vita... e ora mi metto a fare queste cose... Deve avere pazienza. Sono un po' matta, sa?». «Confidenza per confidenza: sono un po' matto anch'io.» «Walter...» «Sì?» «Mi dispiace per tutto quello che ho detto... Non me ne voglia... lo... io ero così contenta per quella roba nuova... Non ho mai avuto abiti così belli... Non lo farò mai più... Glielo giuro.» S'interruppe. «Non mi crede!» Scossi la testa. Lei allora avvicinò il mio volto al suo e mi baciò sulla bocca. Fu un bacio così dolce che tutte le mie ansie e le mie preoccupazioni, la mia inquietudine e la mia tristezza svanirono di colpo. «Mi crede ora?» mormorò Irina. «Sì» dissi io. L'abbracciai e la baciai di nuovo. La sua bocca era morbida, la sua lingua mi penetrò fra le labbra incontrando la mia. Pensai che dovevo puzzare di tabacco e di whisky, e me ne vergognai. Ma il bacio si prolungò. La pioggia batteva contro le finestre, nella camera da letto era già quasi buio, e chi avesse potuto vederci avrebbe certamente pensato di trovarsi di fronte a una coppia d'amanti. 13 La prima cosa che la signorina Luise udì, quando si svegliò, furono molte voci, maschili e femminili, il battito delle macchine da scrivere e alcune grida confuse. Si alzò di scatto, spaventata, e spalancò gli occhi. Ma cosa le era successo? La testa le faceva un po' male, e si sentiva confusa e disorientata. Si rese conto di essere stata distesa in una stanza molto sommariamente arredata, su un vecchio divano di pelle, e coperta col suo cappotto.
«Ehilà!» disse la signorina, con la voce impastata, e poi ancora, dopo che s'ebbe schiarita la gola: «Ehilà! Per favore!». Nella stanza entrò un poliziotto. La signorina Luise lo riconobbe. Era il brigadiere... il brigadiere... come si chiamava?... Ma sì, Lütjens! Quello che l'aveva accompagnata via da quell'albergo, l'Hotel Paris! «Oh bene» disse il poliziotto, con tono garbato. «Come sta? Fatta una bella dormitina?» «Dove sono?» La signorina non era ancora completamente lucida. «Al commissariato» disse Lütjens. «Non lo sa?» «Non capisco... Cosa mi è successo?...» Un grido: «La borsa! Dov'è la mia borsa?». «Non si preoccupi. L'abbiamo messa al sicuro. Potrà riprenderla poi.» «Come mai sono al commissariato? Come sono venuta qui?» «Signorina Gottschalk, come fa a non ricordare... È venuta qui con noi...» «Non ricordo niente.» «...e poi ha chiacchierato col commissario Sievers della squadra omicidi. Nella stanza degli interrogatori...» «Con chi ho parlato? Con un commissario della squadra omicidi?» «Ma sì! Per il caso di quel Karl Concon. Il delitto dell'Hotel Paris...» «Ah! ora comincio a ricordare! Ho parlato a lungo col commissario?» «Sì. Ha raccontato tante cose.» Cosa avrò mai raccontato?, pensò la signorina. Dio mio, cosa gli avrò detto? Improvvisamente udì la voce del suo pilota americano morto. Veniva dalla direzione dove stava Lütjens. «Ora Luise è un po' confusa. Non può ricordare. Ma non ha tradito i nostri segreti. E non avrebbe neanche potuto farlo, perché noi le siamo sempre vicini.» «Grazie a Dio!» disse la signorina. «Prego?» chiese Lütjens. «Niente, niente» disse la signorina in fretta. «Il commissario le è parso contento?» «Molto.» «E dov'è ora?» «È un bel po' che se ne è andato!» Lütjens rideva. «Alla centrale di polizia, immagino.» «Da un bel po'?» La signorina si tolse il cappotto e si alzò. Nel farlo,
barcollò un poco. Lütjens le si avvicinò subito per sorreggerla. «Ma... Che ore sono adesso?» Il brigadiere guardò il suo orologio. «Le quindici passate» disse. «Cosa?» La signorina Luise era molto spaventata. «Ma era mattina presto quando sono venuta qui da voi!... È lei, proprio lei che mi ci ha portata... E sono passate tante ore?» Lütjens disse, pacato: «L'importante ora è che si senta un po' meglio. Le ho preparato del tè, sul fornello che abbiamo nella stanza accanto». La signorina Luise piombò di nuovo sul vecchio divano, le cui molle cigolarono. «E sono stata qui distesa per ore e ore...» «Si» disse Lütjens, tornando dalla stanza vicina con un vassoio. «Ecco, tanto per cominciare, beva un poco di questa roba.» «Non riesco a capire...» «Alla fine della deposizione che ha reso al commissario, lei è svenuta. È stato solo un momento di debolezza, ha detto il medico della squadra omicidi. Per fortuna era ancora qui da noi. Il medico le ha fatto un'iniezione, ha detto che lei era prostrata dalla stanchezza e che dovevamo lasciarla dormire fino a quando si fosse svegliata da sola. Quindi l'abbiamo messa qui, in questa sala d'aspetto. Di là c'è troppo baccano e le celle non sono molto comode. Ha dormito come una marmotta: sono venuto a controllare un paio di volte.» Lütjens versò del tè in una vecchia tazza. «Ecco qui, beva, signorina Gottschalk.» La signorina Luise aveva sete. Bevve e poi s'informò: «E il signor Reimers?». «Quello è giù. Nella cantina dove ci sono le celle.» «Ma perché lo avete arrestato?!» «Be', mi scusi!» Lütjens rise di nuovo. «Cosa vuole che ne facessimo di lui? L'abbiamo arrestato e lo spediremo in prigione non appena verrà un giudice che ci autorizzi a farlo. In fondo è stato un furto quello che ha commesso.» La signorina Luise rischiò di far cadere la tazza. «No!» esclamò. «No, la prego, signor brigadiere! Non voglio!... Io... io non voglio che arrestiate il signor Reimers! Io dichiaro di non aver subito alcun danno! Io gli perdono! È solo un povero peccatore! E poi non ha rubato affatto la mia borsa!» «Perché glielo abbiamo impedito all'ultimo momento. No, no, signorina
Gottschalk, veda di non inquietarsi di nuovo. Ormai è una faccenda di cui dovrà occuparsi la legge. È nostro dovere arrestare quel Reimers.» «Ma è terribile... povero signor capoma... povero signor Reimers!» esclamò la signorina. «Come sarebbe a dire: povero? È un vecchio tagliaborse, ecco cos'è» disse Lütjens. Qualcuno lo chiamò dalla stanza accanto. «Cerchi di riposare ancora un poco, e non si preoccupi del resto.» Sparì, dopo aver fatto un ultimo cenno rassicurante alla signorina. 14 Un quarto d'ora dopo, più o meno, la signorina Luise si alzò, e notò che c'erano porte chiuse su corridoi deserti. Attraversò uno di questi ultimi, pervenne in un corridoio, passò davanti a diverse stanze, finché si ritrovò in un vasto locale pieno di poliziotti, poliziotte, funzionari e arrestati. Alle molte scrivanie c'erano impiegati che battevano su macchine da scrivere. Accanto a loro erano seduti uomini e donne sottoposti agli interrogatori. Luise proseguì e giunse in un altro ampio locale, dal quale risuonavano i messaggi delle autoradio della polizia. Poi scorse la sua "guida". Lo stavano appunto accompagnando in quello stanzone, scortato da due agenti. Non indossava più il cappotto, il suo abito blu era ridotto in condizioni pietose, come del resto anche il suo aspetto: grigio in volto, tremante di paura, coi capelli in disordine. «Signor Reimers!» lo chiamò la signorina e fece per avvicinarglisi, ma un poliziotto la trattenne. «No, signorina Gottschalk. La prego, torni in sala d'aspetto, e si riposi ancora un po'.» «Ma io voglio aiutare il signor Reimers...» «Non è possibile...» «Ma perché!...» «La prego» disse il brigadiere Lütjens, che era appena sopraggiunto. «La prego, signorina Gottschalk, gliel'ho appena spiegato. Non può proprio farci niente. Lei...» «Io non voglio che il signor Reimers finisca in prigione! Non lo voglio! Per favore, lasciatelo andare! E poi me ne devo andare anch'io. Ho tante cose da fare. Prima però mi prometta che non farete niente al signor Reimers. Io gli perdono, gli perdono tutto.» «È inutile» disse un funzionario dalle larghe spalle, seduto a una scriva-
nia. «Per piacere, la smetta, signorina Gottschalk. Quello che accadrà al signor Reimers non dipende da lei. E inoltre anche lei dovrà aspettare un pochino.» «Perché?» «Dobbiamo attendere il medico» disse il grosso funzionario. «Che medico?» «Quello che abbiamo chiamato. Sarà qui da un momento all'altro.» «E a che vi serve un medico?» «Non possiamo spedire la gente alla neuro così, semplicemente» spiegò Lütjens. «Prima bisogna che il soggetto sia visitato da un medico. È il dottore che decide, se si convince di essere in presenza di una persona squilibrata, pericolosa per sé e per gli altri. Ora la prego: torni nella sala d'aspetto, signorina Gottschalk.» (Un medico. La neuro. Dio onnipotente!, pensò la signorina Luise. Perché mi sottoponi a tante dure prove? È già l'ora in cui dovrò raggiungere i miei amici?) 15 Un quarto d'ora dopo la signorina Luise, seduta sul vecchio divano, sentì passi e voci nel corridoio. Riconobbe le voci di Wilhelm Reimers e del brigadiere Lütjens. Questi stava dicendo: a Si accomodi qui, dottore, se non le dispiace. L'ufficio è libero». Qualcuno aprì e poi chiuse una porta, e dei passi si allontanarono. (Un momento!, pensò la signorina, e si portò una mano alla testa. Un momento, ma che significa tutto questo? Non è da me che doveva venire il medico? Perché si è fermato a visitare il signor Reimers? Che siano tutti impazziti qui dentro?) La signorina Luise si alzò con circospezione, e si avviò lungo il corridoio, silenzioso e deserto, sino alla porta con la scritta: CANCELLERIA 1. Appoggiò un orecchio al battente e stette ad ascoltare, trattenendo il respiro. Reimers stava dicendo: «Sì, raggi, dottore». «Che genere di raggi?» «Elettromagnetici, dottore! Provengono da diverse centrali sparse per la città.» «Ah» fece il medico, che pareva interessato. «E poi?» «Tutti questi raggi sono sempre puntati direttamente su di me, dottore.
Dovunque io sia, ovunque io vada, di giorno e di notte, sempre. Così gli uomini delle centrali possono sentire tutto quello che dico... anche se mormoro soltanto.» «Anche quando mormora? Huhm... Vedo...» disse il medico. (Buon Dio!, pensò la signorina Luise. E per un attimo dovette chiudere gli occhi.) «Anche in questo momento gli uomini delle centrali sentono tutto» continuò Reimers con voce rotta, piena di paura. «Io glielo riferisco, dottore, perché non resisto più. Queste continue persecuzioni! Quest'eterna paura! Non ne posso più, davvero, non ne posso più. Ed è per questo che ho tentato anche di rubare la borsa a quella signora.» «Perché?» «Ci sono parecchi quattrini. Ho pensato di fuggire. In un altro paese. Molto lontano. Ma nel frattempo mi sono reso conto che sarebbe stata un'impresa insensata. I raggi mi avrebbero seguito. Non mi avrebbero mai lasciato in pace, quegli uomini!» (Non è possibile!, pensò la signorina: non è possibile!) E a questo punto udì di nuovo la voce del suo americano morto: «Certo che è possibile. Tante altre cose ancora sono possibili. E tutte hanno un loro senso. Anche se i poveri mortali non riescono a comprenderlo». La signorina Luise congiunse le mani e singhiozzò penosamente. Nel frattempo, il medico dietro la porta aveva chiesto: «Che uomini sono, signor Reimers?». «Appartengono a una organizzazione, mi capisce?» «Capisco.» «E quest'organizzazione mi sorveglia. Mi sorveglia da molti anni.» «Ah, da molti anni.» «M'inseguono anche con parecchie macchine della loro centrale. Di notte trasmettono segnali luminosi. Li ho visti benissimo. Non mi crede, dottore?» «Ma certo che le credo, caro signor Reimers! Non ha per caso... Non ha per caso raccontato questa storia anche ad altri?» «Me ne sono ben guardato! Non si sa mai con chi si ha a che fare. La racconto adesso, a lei. Perché riesca a capire bene la mia situazione. Perché sappia il motivo per cui ho bisogno di soldi. Perché mi possa eventualmente ancora salvare.» «Ci proverò. Perché la perseguitano, quegli uomini?» «Mi dispiace, ma non posso dirle altro. Cerchi di capirmi, dottore! Se
fornissi altre informazioni, me ne deriverebbe un pericolo mortale.» «Capisco. Capisco perfettamente. Adesso, signor Reimers, se non le dispiace, resti qui ad aspettarmi. Tornerò subito...» La signorina Luise udì il rumore d'una sedia smossa. In gran fretta corse più avanti, verso il grande locale pieno di gente. Si fermò in un angolo, accanto a un lavandino. Il medico - un uomo piccolo e grassoccio, con un'espressione nervosa senza badarle, si avvicinò alla scrivania alla quale era seduto il poliziotto massiccio. «E allora?» chiese il poliziotto. «Cos'ha?» «Il suo sospetto era esattissimo» disse il medico. «Mania di persecuzione con allucinazioni. Le preparo subito il documento per il ricovero.» Si sedette e prelevò alcuni moduli da una cartella. Il bombardiere americano morto era ora alle spalle del medico, e la signorina Luise lo sapeva perfettamente, anche se non lo vedeva. La signorina Luise disse, molto piano, al suo amico: «Ti ringrazio. Mi hai ridato coraggio». «Luise, deve aver fiducia in noi» disse l'americano morto. La signorina si fece avanti, con coraggio. Il funzionario dalle spalle larghe sollevò lo sguardo dalla scrivania. «Ho fretta» disse la signorina, con determinazione. «Ridatemi la mia borsa e lasciatemi andare, se non vi dispiace.» «È certa di sentirsi di nuovo bene?» chiese il funzionario. «Perfettamente» asserì la signorina Luise. Il medico distolse per un momento lo sguardo dalle sue carte e la guardò. Poi riprese a compilare il documento per il ricovero di Reimers. Il giovane brigadiere prelevò la borsa pesante dallo scaffale suddiviso in tanti settori. «C'è tutto» disse. «Ora le conto i soldi...» «Non è necessario» disse la signorina. «Non è certo qui che mi possono aver derubato!» Esitò, e poi si rivolse al dottore: «Mi scusi, dottore...». «Sì?» «Riguardo al signor Reimers... Lo ricovererete in una clinica per malattie nervose?» «Certo, naturalmente.» «E il processo per furto?» «Non serve più, è inutile. Quello rimarrà in clinica.» «È questo che volevo sapere... Io... Lui... non ha neanche un centesimo,
poverino. Ed è un pensiero che non riesco a sopportare...» Cominciò a frugare nella sua borsa. «Vorrei lasciargli qualcosa perché si trovi più a suo agio, e possa comperarsi quello che gli serve...» Mise alcune banconote sulle scrivania. «Ecco io gli lascio questi soldi.» «Quattrocento marchi?» stupì il grosso funzionario. «Be', i soldi sono miei! E lui sta così male! Ho sentito quello che ha appena detto il dottore. Mania di persecuzione! Chissà che malattia terribile!» «Mi stia a sentire: quell'uomo voleva derubarla dei suoi quattrini...» cominciò Lütjens, ma la signorina lo interruppe: «E ora voglio fargli un regalo, perché mi fa pena». Seguì una pausa. Gli uomini si guardavano l'un l'altro. «E va bene» disse infine quello dalle spalle larghe. «Non le possiamo impedire di fare un regalo a quell'uomo. Ora le rilascio una ricevuta.» «Non ho bisogno di ricevute» disse la signorina Luise. «Però ne abbiamo bisogno noi» disse il funzionario, che aveva già tirato fuori da un cassetto un foglio e stava scrivendo. «Vediamo di fare le cose in regola. Altrimenti qui finisce che diranno che i soldi ce li siamo tenuti noi.» «Non mi permetterei nemmeno di pensarlo!» esclamò la signorina. «Meglio non correre rischi» disse il funzionario dalle spalle larghe, e consegnò alla signorina la ricevuta, dopo averla corredata anche di un timbro. «Grazie. Ora me ne posso andare?» «Naturalmente, signorina Gottschalk. Se ci fosse ancora bisogno di lei, abbiamo il suo indirizzo. È proprio certa di sentirsi bene?» «Mi sento benone» disse la signorina, e chinò la testa in segno di saluto. «Molte grazie, signori. Specialmente a lei, signor Lütjens. Il suo tè era ottimo.» «Dovere» disse Lütjens. «Be', arrivederci, signori.» Lütjens l'accompagnò fino all'inizio delle scale. «Arrivederci, signorina Gottschalk. Le auguro buona fortuna. E stia bene attenta ai suoi soldi!» «Starò attentissima» e scese i gradini di pietra sino all'uscita. Giunta in fondo, si voltò ancora una volta per fare un cenno di saluto a Lütjens, che le rispose con un altro cenno. Aprì il suo ombrello, si avviò sul marciapiede, fece alcuni passi e notò un taxi. Alzò un braccio. Il taxi si fermò. La si-
gnorina Luise salì e disse all'autista: «Eppendorfer Baum 187, per piacere». «Bene, signora» disse l'autista, e partì, risalendo la Reeperbahn sotto la pioggia insistente. La signorina Luise era seduta sul sedile posteriore, la borsa sulle ginocchia e un sorriso soddisfatto sulle labbra. Al posto di polizia intanto il capoturno degli agenti usciva dal suo ufficio ed entrava nella sala grande. Si avvicinò alla scrivania dove c'era il medico che scriveva. Si mise a leggere, guardandogli oltre la spalla. «Eh già» disse il capoturno, un uomo anziano. «Che quello non fosse del tutto normale, l'avevo capito subito. Lütjens, mi tenga d'occhio quel Reimers. Non vorrei che gli venisse qualche brutta idea.» «Sissignore!» E Lütjens sparì. Il giovane poliziotto che badava alla centrale delle autoradio, entrò a sua volta nella sala grande. Aveva un foglio di carta in mano. «Che c'è, Friederichs?» chiese il capoturno. «Quella donna... quella signora... anzi, signorina Gottschalk: è ancora qui?» «No. Se ne è andata» disse il funzionario dalle spalle larghe, seduto alla sua scrivania. «Perché?» «Andata? Che grana!» Friederichs sventolò il foglio. «Era in mezzo alle altre segnalazioni. Quelle del turno di notte. L'ho vista solo adesso.» «Cosa dice?» scattò il capoturno. «"A tutti i distretti"» lesse Friederichs «"dalla centrale di polizia. Secondo la segnalazione di uno psichiatra dell'ospedale Ludwig di Brema, un certo dottor Erkner, una malata di mente di nome Luise Gottschalk è probabilmente fuggita stanotte da una clinica ed è stata vista su un treno diretto ad Amburgo..."» 16 Quel giorno pareva che non dovesse più finire di piovere. Con Bertie al fianco, al volante della Rekord, guidai per un bel tratto in direzione nord-ovest. In quei giorni, alle 16 e 30, era già come se fosse notte e tutte le macchine avevano i fari accesi. Bertie era seduto accanto a me, e sul sedile posteriore c'erano la sua sacca con gli abiti, la sua borsa da viaggio con le pellicole, la Hasselblad e la Nikon-F.
Dall'appartamento avevo ancora telefonato a Edith per dirle che l'avrei attesa, come la volta precedente, davanti all'ospedale, fino a quando avesse concluso la sua visita a Conny. A Irina avevo dato del Valium, perché potesse almeno dormire un po' durante la nostra assenza. Quando ero andato a salutarla l'avevo trovata distesa sul letto, come esausta, e mi aveva fatto solo un debole cenno di risposta. All'ufficio viaggi del Metropol avevamo fissato un biglietto per il volo Amburgo-Helsinki, in partenza da Fuhlsbüttel alle 19 e 40 con un aereo della PAN-AM, e poi anche prenotato il volo per New York, sempre con la PAN-AM, in partenza da Helsinki alla mezzanotte. Avevamo trovato posto su entrambi gli aerei, e i biglietti erano depositati allo sportello della compagnia aerea, a Fuhlsbüttel. Bertie era talmente abituato a quelle improvvise partenze, per una qualche parte del mondo, che non sciupò neanche una parola per lagnarsene. Si era limitato a telefonare alla madre: dalla cabina telefonica del Club 88. Mentre lui preparava le sue cose, io avevo dato un'altra scorsa ai ritagli che il nostro archivio mi aveva fornito su Karl Concon. Secondo quelle carte, la sede di Amburgo del MAD era nella Von-Hutten-Strasse, nella zona più occidentale della città, vicino al cimitero di Ottensen. Mi ero infilato in tasca un foglio coll'indirizzo e anche una fotografia di Jan Bilka. Me l'aveva data Irina, quando gliela avevo chiesta, subito dopo il nostro arrivo ad Amburgo: solo in prestito, però. Fu un viaggio così noioso e tanto lungo che ebbi tutto il tempo di pensare a quanto fosse vasta la città di Amburgo. Arrivati, finalmente, all'incrocio con la Regerstrasse, mi fermai e proseguimmo a piedi nella pioggia e nell'oscurità, passando davanti a vecchie ville circondate da vasti giardini. Bertie s'era appeso al collo le sue due macchine fotografiche, e le portava nascoste sotto il cappotto. «Non avrai dimenticato il binocolo in macchina?» mi chiese. «No, certo.» Lo strumento, molto preciso, mi ballonzolava sul petto, chiuso nella sua custodia, sotto il cappotto. L'avevamo adoperato parecchie altre volte, quando ci era capitato di fare delle inchieste insieme. Consentiva di guardare fino a distanze fantastiche. Notai che la benda attorno al capo di Bertie si bagnava sempre di più, perché non portava mai un cappello. Ma quando glielo feci osservare, si limitò a imprecare e a dire che della testa sene strafregava: era la gamba
che gli faceva un male cane con quel tempaccio. E infatti zoppicava vistosamente. Raggiungemmo un'inferriata molto alta e la costeggiammo fino a un gran cancello attraverso il quale si entrava in un giardino vasto e spoglio. In fondo al giardino si levava una costruzione in mattoni rossi. Quella dunque era la sede del MAD, almeno stando alle indicazioni del nostro archivio. Avevamo deciso di fare i finti tonti, e di andare a chiedere come mai agenti del MAD sorvegliavano Conny Manner all'ospedale. Sempre che fossimo riusciti a entrare. E poi volevamo... «Dio vive» disse una voce sottile. Mi voltai di scatto. Addossato all'inferriata, sotto i rami sporgenti e nudi di un albero, c'era un omino magro, vestito poveramente, con un viso dall'espressione dolce e le guance profondamente incavate. Reggeva, avvolte in una busta di cellophan, una dozzina di copie di una rivista. Riuscii a leggere il titolo guardando la copia che era sopra le altre: LA TORRE DI GUARDIA. «Dio vive» ripeté quell'uomo macilento, con voce piana e gentile. «E chi dice di no?» osservò Bertie. «Quanto costa una rivista?» chiesi io. «Un marco, signore.» «Me ne dia cinque» dissi io. Me le prelevò cerimoniosamente dallo involucro e me le allungò. Gli diedi dieci marchi e gli dissi di tenersi il resto. «La ringrazio, signore! Lo darò ai poveri.» «Si comperi piuttosto un bel panino al salame» disse Bertie. «Lei mi ha l'aria di aver fame.» «Infatti ho fame» disse il piccolo uomo che era un testimone di Jehova. (Non invento nulla, non dico bugie, è andata proprio così: li abbiamo incontrati tutti, uno dopo l'altro, questi uomini che avevano la nazionalità o la fede degli amici morti della signorina Luise.) «E allora, se ha fame, perché non se ne va a mangiare qualcosa?» «Potrò andarmene solo quando avrò venduto tutte le copie della rivista.» «E chi lo dice?» chiese Bertie, stupito. «Io stesso lo dico. Ho fatto un voto.» «Mi stia a sentire, stasera passerà di qui solo pochissima gente» disse Bertie. «Quante copie è già riuscito a vendere?» «Loro mi hanno comperato le prime» disse il testimone di Jehova. «Sono qui dalle undici di stamattina. Però loro me ne hanno comperate addirittura cinque. E ora me ne restano solo altre cinque. Non mi era ancora mai successo.»
«Cosa?» chiesi io, soprattutto intento a guardare verso la grande casa, con le tende abbassate. Dovevano essere tende molto pesanti, perché notai solo due spiragli di luce. «Che qualcuno ne prendesse tante... Vede» disse il testimone di Jehova «io sono pensionato. Me ne sto sempre qui. In questi paraggi, voglio dire. Anche davanti a questa casa. È un bel posto! Molti di quelli che entrano o escono mi comperano copie della rivista. Abito qui vicino. Sono due anni che ho fatto il voto, ma solo rare volte sono riuscito a farcela. Quasi sempre mi ritrovo così debole e stordito da non reggermi più in piedi.» «Dio le perdoni» disse Bertie. «Dio perdona tutti i peccatori» disse il vecchio. «Sono molto felice che loro siano passati di qui. Quando piove, non c'è nessuno che mi comperi qualcosa. Quando piove, la gente non si sente buona.» «Facciamo finta che sia andata così» dissi io. «Le ho dato dieci marchi invece di cinque, e quindi in pratica è come se avesse venduto tutte le sue riviste. Perciò può andare a casa tranquillo!» «Oh no, signore. Sarebbe un tentativo di ingannare Dio. E Dio, signore, non si lascia imbrogliare.» «Eh già, probabilmente no» disse Bertie. «Ha un'idea di chi abiti in questa casa?» domandò poi. «Molti signori» disse il vecchio. «Che tipo di signori?» «Non saprei. Vanno e vengono tutto il giorno. Alcuni indossano l'uniforme. E poi arrivano molte auto. Il cancello si apre e si richiude automaticamente.» «Ha parlato qualche volta con questi signori?» «Oh sì, spesso. Quando mi comperano la rivista. Sono persone molto gentili. Un paio di volte mi hanno comperato tutte le riviste nel corso della giornata. È un buon posto...» disse con aria smarrita, e starnutì. Povero vecchio affamato e infreddolito... «Lei ha parlato anche di molte auto. Di che genere?» chiese ancora Bertie. «Oh, di tutto un po'. Ieri sera alle otto e mezza, per esempio... be', è stata davvero strana.» «Alle otto e mezza lei era ancora qui?» chiese Bertie, sconcertato. «Il mio voto. Pensi al mio voto! Ero riuscito a vendere soltanto una copia...» «Sì sì, d'accordo, l'abbiamo capito» dissi io. «E cos'è successo alle otto e
mezza?» «Sono venute due macchine piene di uomini, e fra quelle due macchine c'era un furgone chiuso, uno di quelli che servono per il trasporto dei morti, sa?» «Ne è certo?» esclamò Bertie. «Era davvero un furgone funebre?» chiesi io, eccitatissimo. «Oh, sì. Evidentemente lì dentro è morto qualcuno, ho pensato, e sono venuti col furgone a prendere il corpo.» «E lo hanno fatto?» «Suppongo di sì. Prima tutte le macchine sono entrate nel giardino e si sono fermate dietro la casa. E non ho visto più niente. Ma subito dopo, diciamo dieci minuti dopo, tutte le macchine sono uscite di nuovo, e il furgone funebre si è fermato proprio davanti a me, perché si era fermata anche la macchina che era davanti, e l'autista ne era sceso. Si è avvicinato all'autista del furgone... ecco, più o meno lì dov'è lei si è fermato... e gli ha detto: "Niendorfer Strasse 333: sai dov'è?". E l'autista del furgone ha detto a questo punto una cosa molto strana, così strana...» «E cioè?» «Ha detto: "Dagli americani! Certo che so dov'è. Conosco la strada. Spicciatevi, così ci sbrighiamo". E poi sono partiti tutti. Io però non ho capito. Perché portavano un cadavere agli americani? E il cadavere di chi? Per farne cosa, dagli americani?» «Niendorfer Strasse 333? Ne è sicuro?» chiesi io. «Sicurissimo! È un numero che si ricorda facilmente. Cosa crede che ci facciano con un cadavere nella Niendorfer Strasse?» «Ascolti: ora le compero anche le altre cinque copie. E poi le do altri cinque marchi per i poveri.» «Oh!» Mi allungò, con le mani che gli tremavano, gli ultimi esemplari della TORRE DI GUARDIA e mi guardò con aria beata. «La ringrazio, signore. Così oggi ho mantenuto il mio voto. Era tanto tempo che non mi succedeva.» Mi strinse la mano. «Stanotte riuscirò a dormire bene, perché ho avuto una giornata benedetta. Dio onnipotente la protegga e conceda una giornata benedetta anche a lei.» «Già, non mi dispiacerebbe» dissi io, e seguii con lo sguardo il vecchio che se ne andava, molto dignitoso e rigido sulle gambe. Aveva il cappotto macchiato dall'umidità e scarpe dai tacchi tutti consumati. Continuai a guardarlo a lungo. «Bene, e allora andiamo» disse Bertie infine. «Niendorfer Strasse 333.
Che culo! Da non credere.» «Già» dissi io, e pensavo alla signorina Luise. «Da non credere.» Pensai anche all'antiquario Garnot e al portiere Kubitzky, al francese e al polacco della signorina Luise, e al furgone dell'impresa comunale delle pompe funebri di cui Garnot aveva annotato la targa. 17 Fu così dunque che percorremmo da capo la Stresemannstrasse, in direzione del centro, sino alla Kieler Strasse; e poi la Kieler Strasse verso nord fino alla Niendorfer Strasse. Oltrepassammo un cavalcavia ferroviario, e attraverso il finestrino aperto sentii di nuovo il profumo delle foglie e del bosco. Sapevo che alla nostra sinistra, non molto distante dalla strada, c'era il Niendorfer Gehege, un parco naturale. Lasciammo la macchina al di là della massicciata ferroviaria e proseguimmo a piedi. Sul lato destro della strada c'erano alcuni vecchi edifici, due dei quali con delle osterie. Il numero 333 era dall'altra parte. Attraversata la strada, giungemmo accanto a un lungo recinto fatto di sbarre di ferro, ciascuna con la punta a lancia. Dietro l'inferriata c'era un vasto parco con un'ampia strada che portava verso una grande villa, illuminata a giorno da riflettori molto forti. Raggiungemmo il cancello d'ingresso. Due grossi cani pastori cominciarono immediatamente ad abbaiare, come impazziti, e a saltare contro l'inferriata. La villa nel parco aveva, al primo piano, un balcone sorretto da colonne bianche. Illuminati dai riflettori (che erano stati sistemati in mezzo all'erba e sugli alberi) apparvero due uomini vestiti di scuro. Li vedemmo muoversi sul balcone dell'edificio. Tirai fuori alla svelta il binocolo, me lo portai agli occhi e così potei distinguerli chiaramente. Avevano spalle larghe e massicce, ed erano molto alti: sembravano proprio due pugili. Uno dei due impugnava una pistola. Guardavano verso il cancello. La vista della pistola m'impressionò, feci un gesto brusco, e il binocolo mi si spostò verso l'alto. E fu così che li vidi, dietro una finestra all'estremità sinistra della facciata, al primo piano. Già, andò proprio così... «Bertie, lassù!» «Già visto» si limitò a dire. Aveva la Hasselblad in pugno: scattava, avanzava la pellicola, scattava di nuovo. Pensai che se avevamo fortuna e se la pellicola era buona, si sarebbe potuto ricavare qualcosa da quelle immagini: in fondo la facciata era illumi-
nata come un set cinematografico. Forse si sarebbe poi potuta ingrandire la finestra o - meglio ancora - una parte soltanto della finestra, anche a costo di sgranare l'immagine. Forse si sarebbero potuti distinguere quell'uomo e quella donna. Forse. Perché dietro a quella finestra c'erano un uomo e una donna. Anche loro guardavano verso il cancello. L'uomo sembrava essere molto più grande della donna, che era una ragazza giovane, bionda e carina. L'uomo indossava un abito marrone, aveva all'incirca trent'anni e dava l'impressione di essere molto robusto. Anche i suoi capelli erano biondi, e tagliati corti, alla militare. Il viso lungo. Azionai la rotellina per mettere a fuoco l'immagine: così notai anche la cicatrice sulla parte destra del mento, e il viso molto abbronzato. Era l'uomo che avevo già visto sulla fotografia datami da Irina. Quello era Jan Bilka, senza dubbio. «Che mi venga un colpo» disse Bertie, continuando a scattare fotografie. «Ora basta» dissi io. «Spostiamoci più in là!» Dovetti gridare per farmi capire, perché i cani abbaiavano come indemoniati. «Qui fra un po' ci sarà una maledetta luminaria.» Zoppicando, si mise a correre al mio fianco. Come avevo previsto, si accesero quasi subito due forti riflettori fissati sugli alberi, illuminando il piazzale davanti al cancello. Noi però ormai eravamo fuori dal loro raggio di luce. Vidi gli uomini che continuavano ad agitarsi, perplessi, sul balcone. «Ce l'abbiamo fatta» dissi io. «Per la miseria, Bertie: ce l'abbiamo fatta!» «Non saprei» disse Bertie. «Che vuoi dire?» «Non saprei» ripeté Bertie. «Tutta questa storia fila troppo liscia per i miei gusti. Non mi piace quando tutto va troppo liscio.» «Ma va'» dissi io. «Togliti dalla strada. Andiamo di là, in quella osteria. Di li potremo osservare l'ingresso benissimo.» Attraversammo la strada. Una macchina si stava avvicinando a tutta velocità e andò a fermarsi col motore acceso alla luce abbagliante dei riflettori, proprio davanti al cancello della villa. Un uomo ne scese, cappello e cappotto addosso, e si fermò a lungo, perché i guardiani che erano sul balcone potessero riconoscerlo bene. Arrivarono di corsa, sotto la pioggia, pestando la ghiaia del viale, e aprirono il cancello. L'uomo strinse loro la mano, tornò al volante della sua Citroën e la pilotò dentro il parco, fermandosi pochi passi oltre il cancello. I due
uomini tornarono a chiudere i due battenti, e salirono a loro volta sulla Citroën, che si avviò infine verso la villa. Tutti scesero e scomparvero nell'edificio. «Non è possibile!» esclamai io, sbalordito. «È possibile, invece. Eccome è possibile» disse Bertie. «Ma se ho appena parlato con lui!» «Quando? Due ore fa! Anche più di due ore. Se subito dopo il vostro colloquio è andato all'aeroporto, e ha trovato un aereo pronto per partire, allora può avercela fatta facilmente. L'aeroporto non è lontano da qui. E la macchina l'ha certamente noleggiata.» «Già. È possibile» dissi io. «Blitz ha due aerei privati. Uno è sempre pronto al decollo.» «Vedi?» disse Bertie. «E capisci adesso perché dico che questa storia non mi piace? Mi sai spiegare perché quell'uomo ha sentito il bisogno di venirsene qui personalmente, dagli americani e dal signor Bilka... così in fretta?» L'uomo che avevamo appena visto era il signor Oswald Seerose, il direttore editoriale di Blitz, il gentleman sempre impeccabilmente vestito e dalle maniere sempre impeccabili. 18 Avevo detto «osteria», ma quel locale dall'altra parte della strada si rivelò invece un vecchio ristorante molto ben tenuto. Tre gradini conducevano dal marciapiede alla porta d'ingresso. Dentro c'era un bancone di legno scuro e lucente. Di legno erano anche il pavimento e i pannelli sulle pareti, oltre ai tavoli sistemati in molte nicchie. Nel camino scoppiettava un bel fuoco. Su ogni tavolo c'era una piccola lampada, e sul bancone ce n'erano tre. In alcuni degli scomparti notammo dei signori anziani. Probabilmente abitanti dei dintorni. Giocavano a carte o a scacchi, bevevano birra. Ci venne incontro un cameriere in pantaloni scuri e corta giacca verde. Ci spiegò che a quell'ora il locale era ancora molto tranquillo, ma che verso sera si sarebbe animato per la gente che sarebbe venuta a cena. Ci esibì una lista delle vivande molto ricca ed elaborata. C'era persino del Chivas. Simpatico locale insomma. Ordinai un Chivas, Bertie una birra e una grappa. Scostammo un poco la pesante tenda dalla finestra: la villa illuminata col grande parco era dall'altra parte della strada. Non avremmo potuto trovare un posto d'osservazione migliore.
Il cameriere ci portò quello che avevamo ordinato e chiese se, più tardi, avremmo anche cenato. Io dissi di no, Bertie di sì. «Io devo tagliare la corda» dissi, quando fummo di nuovo soli. «Devo andare all'ospedale a prendere Edith. E poi devo tornare in albergo. Ti lascio la macchina. Ecco le chiavi. Quando quella bella compagnia uscirà, tu ti metti alle calcagna. Lascia l'automobile al garage dell'aeroporto, e consegna le chiavi e il libretto di circolazione a uno degli inservienti. Infila tutto in una busta indirizzata a me. Io ho i documenti di noleggio rilasciati dal Metropol, e così potrò andare a riprendermi l'automobile domani. Se puoi, chiamami da Helsinki. Al Club 88.» «D'accordo.» «E da New York chiama Hem, a casa o in redazione. Non so dove sarò domani a quell'ora. Forse non sarò più al Metropol. Dipende da cosa succederà stanotte. Voglio portare Irina a Francoforte, non appena avrò concluso qui. Avrò bisogno di lei, quando mi metterò a scrivere.» «Hai delle altre munizioni per la Colt?» «Sì.» Nell'abitazione di Conny avevo visto e prelevato due caricatori pieni. Li consegnai a Bertie. «Se ti dovessero capitare dei contrattempi, qui, telefona al Club 88 e chiedi di Jules. Fra un'ora sarò in albergo. E non mi muoverò di lì. Sta' attento a come parli al telefono. Jules comunque ti capirà, anche per allusioni.» «Dici?» disse Bertie. «Dammi tremila marchi, per favore. Ho bisogno di soldi. Per pagare i biglietti d'aereo. E per il resto.» Gli diedi i soldi. Per fortuna ne avevo portati parecchi anche dei miei. I quindicimila marchi inviatici dal giornale non sarebbero bastati, se fosse andata avanti così. Bertie dimostrava una calma e una tranquillità incredibili. Pareva quasi annoiato. Doveva volare a Helsinki. E poi a New York. Rincorrendo un uomo che aveva rubato i segreti più gelosi del suo paese. Ma Bertie non ne era affatto impressionato. Studiò la lista e disse: «Raccomandano arrosto e gnocchi. Specialità del giorno. Credo proprio di aver fame». Il vecchio Bertie! Uscii nella pioggia, raggiunsi la Rekord, prelevai la sacca dei suoi vestiti, la portai nel locale e la consegnai a Bertie assieme alle chiavi della macchina e al libretto di circolazione. Gli diedi anche il binocolo. Avevo condotto la Rekord più vicina al ristorante, così che Bertie non dovesse correre tanto con quella sua gamba scassata, quando fosse venuto il momento di muoversi.
«In bocca al lupo» dissi io. «Altrettanto» disse Bertie. «Ti saluto, vecchio mio.» Aveva scostato la tenda in modo da poter tenere continuamente d'occhio la villa attraverso una fessura. «E salutami Irina. È una brava ragazza.» «Sì» dissi io, strinsi la mano a Bertie e pregai il cameriere di chiamarmi un taxi. «Dove andiamo?» chiese il conducente del taxi. «All'ospedale universitario.» «Molto bene, signore.» Capitammo ovviamente nel traffico serale, e ci volle parecchio tempo prima di raggiungere la clinica. Fui contento quando finalmente la macchina si fermò di fronte al complesso enorme dell'ospedale: pagai e scesi alla svelta. Restai per qualche momento lì, sotto la pioggia, a guardare e a sentire il possente traffico della sera. Le automobili mi passavano davanti in code interminabili. Pensai che probabilmente papà Ivanov era in attesa al parcheggio della rotonda, accanto alla grande aiuola. Mi avviai nel parco. Volevo andarmi a sedere nella vettura di Ivanov e aspettare Edith: eravamo rimasti d'accordo così. Raggiunsi il piccolo parcheggio accanto alla rotonda: c'erano sei autovetture private e il taxi di Ivanov. Era una Mercedes 220 nera, di cui ricordavo il numero di targa. Ho una buona memoria per i numeri. Il taxi di Ivanov aveva i fari di posizione accesi e il motore avviato. Spalancai uno sportello, mi sistemai sul sedile posteriore e salutai. Sentii una voce di ragazza. Proveniva dall'altoparlante della radio a onde corte di Ivanov, quella che gli serviva per tenersi in collegamento con la sua centrale. La voce della ragazza risuonava come se avesse già detto parecchie volte quello che stava ripetendo: «Vettura tre-uno-nove, rispondere per favore! Vettura tre-uno-nove, rispondere per favore!». Il vecchio russo era seduto al posto di guida, le mani appoggiate sul volante e guardava in avanti, nella pioggia. Pareva intento a non farsi sfuggire Edith, quando fosse uscita dall'ospedale. «Vettura tre-uno-nove, rispondere per favore! Vettura tre-uno-nove!» L'autista della vettura tre-uno-nove non si faceva vivo, benché la ragazza continuasse a chiamarlo. «Che gli sarà successo?» chiesi a Ivanov. Non rispose. Stavo per ripetere la domanda, quando scorsi sul cruscotto una piccola targa gialla smaltata, sulla quale si leggeva una scritta a carat-
teri neri: RADIOTAXI 319. Schizzai fuori dalla vettura come un razzo. Ivanov aveva abbassato il finestrino dalla sua parte. La manica sinistra e tutto il lato sinistro della sua giacca di pelle nera brillavano per l'umidità. Continuava a tenere lo sguardo fisso in avanti. Mi chinai su di lui e vidi il piccolo foro sulla sua tempia sinistra, e il po' di sangue che ne era uscito. Pochissimo sangue. Il proiettile doveva essere penetrato direttamente nel cervello, senza lacerare molti vasi sanguigni. I capelli grigi attorno al foro sembravano bruciati. Qualcuno doveva aver appoggiato un'arma di piccolo calibro direttamente alla testa di Ivanov, e poi premuto il grilletto. Restai immobile ai margini di quel mare di luce e di chiasso. La pioggia cadeva addosso a me e sulla manica sinistra e sulla parte sinistra della giacca di Vladimir Ivanov. Non era morto da molto tempo, perché gli toccai le mani ed erano ancora calde. Il rivolo di sangue brillò umido alla luce di una macchina in transito. «Vettura tre-uno-nove! Rispondere immediatamente, per favore! Vettura tre-uno-nove...» 19 Salii in ascensore sino al piano della divisione chirurgica dove era ricoverato Conny Manner. Edith mi aveva indicato il numero della stanza che si trovava in fondo al corridoio dietro una porta a vetri. Al suo ingresso c'erano due uomini. «Alt» disse il primo. «Non si può entrare» disse il secondo. «Giù in strada c'è un taxi» dissi io. «L'autista è stato ucciso. Gli hanno sparato.» Mostrai a quei due il mio tesserino stampa. «Ah, il signor Roland di Blitz» disse il secondo uomo. «Sì» dissi io. «Mi accompagni a quel taxi» disse il secondo uomo. E poi, al suo collega: «Bada a quella donna. Per intanto non farla uscire». «D'accordo.» Il secondo uomo stava già correndo per il corridoio, e io dietro di lui, verso l'ascensore. Scendemmo. Il secondo uomo si presentò: «Mi chiamo Wilke». «Piacere» dissi io. «L'autista si chiama Ivanov. Vladimir Ivanov.» «Lo conosceva?»
«Sì» e gli raccontai come lo avevo conosciuto. Tanto sarebbe saltato fuori tutto lo stesso, pensai. Quando lasciammo l'ascensore, mi colse un crampo allo stomaco e sentii lo sciacallo. Lo shock agiva in ritardo. Tirai fuori la fiaschetta e mi misi a bere. Poi ripresi a correre dietro a quel Wilke, al buio e sotto la pioggia, lungo la rampa d'accesso all'ospedale, passando davanti alla guardiola dei portieri. E poi, attraverso la strada, fino alla rotonda e al taxi, che aveva il motore e le luci di posizione sempre ancora accesi. Il vecchio russo s'era inclinato verso sinistra, la sua bocca si era schiusa, la mascella pendeva. Gli occhi erano aperti. E poiché Ivanov era scivolato verso sinistra, contro il finestrino abbassato, pioveva nei suoi occhi spalancati e morti. 20 Edith Herwag attraversò il piccolo giardino davanti alla sua casa dirigendosi verso il taxi in attesa. Vladimir Ivanov le stava tenendo aperto lo sportello posteriore. Salutò. Edith aveva chiamato la centrale dei radiotaxi, formando il numero di telefono indicato sul foglietto che io le avevo dato a mezzogiorno: e aveva chiesto di Ivanov. «Mi siedo davanti accanto a lei» disse Edith Herwag. «Benissimo» disse Ivanov, e aprì lo sportello davanti. «Andiamo all'ospedale universitario, vero?» «Sì» disse Edith. Ivanov partì. Il traffico era già molto intenso, e dovette stare attento a come guidava. Era un autista perfetto. Dalla radio risuonavano di tanto in tanto le voci delle ragazze della centrale che chiamavano i vari taxi. Ivanov aveva comunicato che stava dirigendosi verso l'ospedale dell'università. Tacque per qualche tempo, ma dopo, chiese, con tono incerto: «Se le racconto una cosa, mi promette di non agitarsi?». «Agitarmi? Perché?» «Non deve agitarsi. Altrimenti non le dirò niente.» «Le prometto che rimarrò calma. Cosa c'è?» Ivanov abbassò il finestrino dalla sua parte e poi chiese: «Il suo amico si chiama Conny Manner?». «Sì. Come mai...» «Sto appunto per dirglielo. È stato travolto ieri sera su una striscia pedonale, vero? All'Eppendorfer Baum, giusto? Da un furgone pesante, dico bene?»
«Esatto.» «Vede, dopo che il suo amico è stato investito, uno dei nostri tassisti, che stava appunto percorrendo l'Eppendorfer Baum, si è messo in contatto con la centrale. Aveva visto e annotato la targa del furgone. E l'ha trasmessa: HH-CV-541.» «Sì, e allora? E allora?» «Quel mio amico ha inseguito il furgone. È stata una corsa matta, glielo posso garantire! Fuori, sempre più fuori dalla città. Sino al lago Krupund. È dalle parti di Reilingen. Il mio amico ha continuato a tenersi a distanza, sempre di più. Non c'era nessuno lungo quella strada. E aveva un po' di paura. Comprensibile, vero? Infatti l'autista di quell'altra vettura ha fatto precipitare il furgone nel lago Krupund.» «Cosa?» «Sì. E il mio amico si è impaurito. Per questo ha comunicato alla centrale di aver perso di vista il furgone. Ma non era vero! Ha visto che lì nei dintorni, vicino al lago Krupund, c'era una grande Ford in attesa. L'autista è salito. E la Ford è partita con lui a bordo. Il mio amico si è messo allora a seguire la Ford. Sono tornati verso la città. Fino alla Niendorfer Strasse. Numero 333. È una villa molto grande, illuminata da riflettori, e tutt'attorno un alto recinto. E dentro due cani feroci. Me lo ha detto il mio amico. Quella Ford è entrata attraverso il cancello nel parco e si è diretta verso la villa. Anzi, dietro la villa. Il mio amico ha aspettato. Standosene molto lontano, per paura. Poi, dopo un'ora, è arrivato un altro taxi. L'autista del furgone è arrivato al cancello, accompagnato da due uomini. Hanno aperto il cancello e lo hanno salutato. Il taxi coll'autista a bordo è partito. Il mio amico dietro. Sino all'abitazione di quell'autista.» «A quale indirizzo!» esclamò Edith. «Non glielo posso dire. L'ho promesso. Quel mio amico ha una paura tremenda! Non vuole avere niente a che fare con questa storia. E infatti non ha raccontato niente a nessuno, né alla centrale, né agli altri colleghi. Solo a me. La polizia si comporta in un modo così strano in questo caso! Io non ho paura. Oggi, quando avrò finito il turno, andrò lì dove abita quel tale. Il mio amico me lo ha descritto. Lo troverò. E poi chiamerò la polizia! E così dovranno pure fare qualcosa!» «La sua centrale ha almeno trasmesso alla polizia la targa di quel furgone?» chiese Edith. «Sì, naturalmente.» «E allora?»
«E allora niente. L'ho detto, la polizia è strana.» «Come si chiama il suo amico?» Ivanov si mise a ridere. «Non posso dirle neanche questo. Davvero, non posso! Ha troppa paura quello lì. Lui non si muoverà, non farà niente, ne sono sicuro. Io però... stasera... quando avrò finito il mio turno... Eccoci, ci siamo. L'aspetterò lì dove ho atteso a mezzogiorno, va bene?» «Bene. Verrà un mio conoscente a prendermi, il signor Roland. Salirà sul suo taxi intanto, se sarò ancora su dal signor Manner...» 21 «"...e mi aspetterà", ho detto al signor Ivanov» riferì Edith Herwag, nella stanza di un medico del pronto soccorso, a due uomini del MAD, a un commissario della squadra omicidi e a due funzionari di polizia, uno dei quali stenografava la testimonianza. La prima volta Edith aveva riferito di quel suo colloquio con Ivanov a me: lo aveva fatto nel bel mezzo della confusione che si era verificata all'arrivo della squadra omicidi, della squadra mobile, dei funzionari della scientifica. Ero riuscito a bloccarla vicino alla porta a vetri. Wilke, uno dei due uomini del MAD, s'era messo a telefonare senza badare a noi. Edith aveva una gran paura. Balbettava: «Al telefono... l'altra notte... quella voce... Ha detto che se Conny dirà qualcosa, morirà... Ma non ha detto niente... anche se forse anche lui conosce la targa di quel furgone... e forse anche altre cose... Invece il russo ha parlato... E ora lo hanno ucciso...». «Oh che bella sorpresa, signor Roland!» disse una voce maschile. Mi voltai di scatto. Dietro di me, sul corridoio dell'ospedale, c'erano i signori Klein e Rogge, dei servizi di sicurezza federali. Si erano avvicinati pian piano. «La sorpresa è tutta mia» dissi io. «Sono felicissimo di rivedere lorsignori.» «È lei che ha scoperto il delitto?» chiese Rogge. «Lo sa benissimo.» Parecchia gente uscì dall'ascensore, e vennero tutti verso di noi. Erano funzionari di polizia e il dirigente della squadra omicidi, un commissario. Ci salutammo. «Ci hanno messo a disposizione la stanza di un medico» disse il commissario, un vecchio dall'aria triste. «Dovrò interrogarvi, per formalità: lei,
signorina Herwag, e anche lei, signor Roland. Uno dopo l'altro. Lei nel frattempo potrà sedersi qui in corridoio, sino a quando avrò sbrigato la signorina Herwag.» «Ho già raccontato tutto quello che so al signor Roland» disse Edith. «Ero così felice, perché Conny sta meglio... e ora... quel povero russo ucciso solo per avermi raccontato quella storia...» «Quella storia?» chiese il commissario triste. «Una storia molto curiosa» dissi io. Il commissario mi squadrò, meditabondo. Rogge disse: «Penso che possiamo recarci tutti insieme nella stanza di quel medico. Anche il signor Roland si occupa di questo caso. Non è nostra intenzione nascondergli qualcosa». No, pensai, non è questo che volete. «E poi,» proseguì lui «come ha sentito, la signorina Herwag gli ha raccontato tutto.» E così eravamo entrati nella stretta e disadorna stanza del medico del pronto soccorso. Edith raccontò la sua storia per la seconda volta. Gli uomini stettero ad ascoltarla, in silenzio. «Lei, dunque, non sa come si chiama quell'amico di Ivanov?» chiese infine il commissario, quando Edith ebbe concluso il suo racconto. «No! Gliel'ho detto: non ha voluto dirmi quel nome! Di chi è quell'indirizzo: Niendorfer Strasse 333? Cosa c'è in quella villa nel parco? Chi ci abita?» «Non lo sappiamo, signorina Herwag» disse il commissario triste, con un'espressione imperscrutabile in volto. «Ma lo accerteremo, naturalmente. Subito lo faremo...» S'azzittì, guardò Edith e si mordicchiò un labbro. «Lei non sa chi ci sta, Walter?» chiese Edith. «Non ne ho idea» risposi. E che altro potevo dire? «Date le circostanze, ritengo indispensabile che la signorina Herwag sia immediatamente posta sotto protezione... fino a nuovo ordine» disse Klein. «È troppo pericoloso lasciarla sola in casa.» «La stanza accanto a quella del signor Manner è libera» disse il primo uomo del MAD. «La signorina Herwag potrebbe trascorrervi la notte e restarci sino a quando questo caso sarà chiarito e non ci sarà più pericolo. E così potrebbe anche stare sempre accanto al fidanzato. Le va l'idea?» «Sì» disse Edith, tremando. «Sì, per piacere.» «Bene, e allora adesso incaricherò due agenti d'accompagnarla con una macchina della polizia nella Adolfstrasse. Lei potrà ritirare le cose di cui
avrà bisogno, e poi la riporteranno subito qui» disse Klein. «Mi pare che sia opportuno, vero, signor commissario?» Quello annuì soltanto. Continuava a mordicchiare il labbro. «Tutta questa storia mi sembra così misteriosa... così strana...» Edith ci guardò tutti, uno alla volta. Replicammo alla sua occhiata con relativa indifferenza. «Ma non potete dirmi cosa sta succedendo? Possibile che nessuno lo sappia?» «Per il momento no» disse Rogge. «La centrale dei radio-taxi ha annotato la targa di quel furgone. L'amico di Ivanov l'ha comunicato. La centrale ha almeno poi riferito quei dati alla polizia?» «Naturalmente» disse il commissario. «E allora?» «Non siamo riusciti a trovare il furgone. Come potevamo immaginare che fosse finito in fondo al lago Krupund?» «Eh già» dissi io. «Chi poteva immaginarlo?» Ci fu una pausa, e tutti gli uomini che erano nella stanza mi squadrarono. Compresi benissimo: un'altra osservazione impertinente o ironica e avrei finito di lavorare a quel caso. «Possiamo allora accompagnarla a casa, signorina?» chiese il poliziotto che aveva stenografato. Edith, immersa nei suoi pensieri, reagì alla domanda con un sussulto: «Come?... Sì, naturalmente. Però... può accompagnarmi il signor Roland? Io... io lo conosco, mi sentirei più tranquilla accanto a lui». «Come vuole» disse il commissario, dopo aver guardato Klein e dopo che questi gli ebbe fatto un cenno di assenso. Guardai il mio orologio. Segnava le 19 e 11. Se alla Niendorfer Strasse tutto era andato secondo i piani, Bertie a quell'ora doveva essere a bordo della Rekord, diretto all'aeroporto, alle calcagna di Bilka, della sua fidanzata, di Michelsen e di chissà chi altri ancora. Bussarono ed entrò un funzionario di polizia. Senza dire una parola, consegnò al commissario un oggetto che sembrava un gran bottone. «Dove l'avete trovato?» chiese il commissario. «Sotto il cruscotto. Era fissato direttamente all'asse del volante del taxi.» «Allora è tutto chiaro» disse Klein. «Cos'è?» chiese Edith. «Una cimice.»
«Una cosa?» «Noi la chiamiamo così» disse Klein. «Una piccola radio trasmittente con microfono. Ha una portata dai mille sino ai duemila metri. La radio ricevente era sistemata certamente su una macchina che ha continuato a seguire Ivanov, senza che lui se ne sia accorto.» «Lei dice...» Edith respirava a fatica. «Lei pensa che chiunque fosse su quella macchina, ha sentito tutto ciò che Ivanov mi ha detto?» «Esattamente» disse Klein. «Ed è appunto per questo che Ivanov è morto» disse il commissario, e guardò fuori dalla finestra, di malumore. Sul vetro buio della finestra le gocce di pioggia scorrevano come lacrime. IMPAGINAZIONE 1 «Bon soir, monsieur» disse Jules Cassin. Avevano bussato e io avevo di conseguenza aperto la porta dell'appartamento. Lui era lì, un vassoio d'argento in mano, e sul vassoio due bottiglie di selz, un secchiello d'argento con cubetti di ghiaccio, una bottiglia di Chivas, bicchieri. «Buona sera, signor Jules» dissi io, e lo feci entrare. Nel salotto erano accese le luci. La radio trasmetteva, in quel momento, il tema del film L'appartamento. Avevo raggiunto il Metropol mezz'ora prima. Erano le 20 e 20. «Come sta la signorina? Tutto a posto?» chiese Jules. «Tutto a posto. Si sta cambiando per la cena. L'ho convinta a farlo.» Io stesso m'ero cambiato. Indossavo un abito blu, una camicia bianca e una farfallina sottile, rossa e blu. «Bene» disse Jules. «E l'umore come va?» «Meglio.» Ed era vero. Irina mi aveva accolto tranquilla, persino sorridente, quando ero arrivato. Per evitarmi altre scenate, le avevo mentito e le avevo detto che Bertie e io non avevamo ancora trovato Bilka, ma soltanto una sua traccia, e che Bertie la stava seguendo: ecco perché non era rientrato con me. Le avevo detto che sarebbe venuto dopo. E dopo dovrò dire la verità a Irina, pensai. Dopo. Non subito. Ero stanco. La morte di Ivanov e gli sforzi fatti per accompagnare Edith sana e salva prima nella sua abitazione, e poi di nuovo in ospedale, mi erano costati molta energia nervosa. Ma era una crisi che sarebbe passata subito, non dovevo far altro che bere
qualcosa. Mi preparai un drink molto forte, e poi un altro, più diluito, per Irina. «Ho parlato per telefono con monsieur Engelhardt, di là, nel Club 88. Ha chiamato lì e mi ha fatto chiamare» disse Jules. «Quando?» «Alle 19 e 45, monsieur.» «Ma la partenza dell'aereo era prevista per le 19 e 40!» «Un leggero ritardo. Un quarto d'ora. Ora sono già in volo. Monsieur Engelhardt ha detto che tutto si svolge secondo i piani. Bilka, la sua amica, Michelsen e altri sette uomini sono usciti su due macchine dalla casa della Niendorfer Strasse. Li ha riconosciuti chiaramente. Bilka e la sua amica, e anche Michelsen, sulla base della descrizione fatta dagli abitanti dell'Eppendorfer Baum, ha detto. I riflettori al cancello erano accesi. Li ha seguiti sino all'aeroporto. Ha preso i suoi biglietti ma non ha mai perso d'occhio la compagnia. Erano tutti tranquilli e... come si dice...» «Non insospettiti.» «Ecco, appunto, non insospettiti, è la parola esatta, monsieur. Il suo amico ha visto la lista dei passeggeri allo sportello... con una scusa, capisce. Bilka è salito a bordo con un falso nome. E certamente anche tutti gli altri. Documenti falsi. È facile, per gli americani. Cos'ha?» «Fa caldo qui dentro» dissi io, e mi allentai il colletto. Faceva caldo davvero in quel salotto, ma io cominciavo anche di nuovo ad agitarmi, ecco perché. «Se permette aprirò un po' la finestra.» «Sì, lo faccia» dissi io. Jules scomparve dietro le pesanti tende blu di damasco e aprì una delle finestre che davano sul parco. Sentii il rumore della pioggia, lo scricchiolio e il cigolio di rami e alberi investiti dal vento. Jules riapparve da dietro la tenda. «Ho telefonato anche a monsieur Seerose.» Sobbalzai. Seerose? Possibile che fosse di nuovo a Francoforte? Calcolai il tempo. Era possibile, in teoria. Il che vuol dire che era rimasto dagli americani appena mezz'ora! Di cosa avevano discusso in quella mezz'ora? Doveva essere stato qualcosa di molto urgente, se il nostro direttore editoriale aveva sentito il bisogno di venire in volo, apposta... Ma di cosa? Non lo sapevo. Palesemente Bertie non aveva detto nulla a Jules dell'arrivo di Seerose alla villa della Niendorfer Strasse. E quindi nemmeno io gli dissi niente. Chiesi solo: «E allora?».
«Il signor Seerose è molto soddisfatto. É in redazione. Dall'editore. Sono lì e aspettano di sapere cosa accadrà ancora. Tutto il giornale è lì che aspetta.» Ed era vero. Prima di rientrare in albergo avevo telefonato a Francofone, dal Club 88. Avevo parlato con Hem. Gli avevo raccontato tutto quello che era successo dal momento della mia ultima telefonata. «E a proposito,» fece Hem «ho verificato: questo pomeriggio Seerose non era al giornale. È rientrato solo poco fa.» «Che significherà questa storia?» «Non ne ho la più pallida idea. Fin qui non mi pare che sia il caso di allarmarsi. È davvero un amico di vecchia data degli americani, lo sapevo già da prima. Ora è su, in compagnia di Herford e di mami. Anche Lester e io dobbiamo far loro compagnia. Vogliono che restiamo lì con loro fino a quando sapremo che Bertie è partito da Helsinki per New York, con Bilka e gli altri... Lo ha detto Herford. È fuori di sé dalla gioia...» Ero uscito dal piccolo bar sotto la pioggia, e avevo attraversato la strada per rientrare al Metropol. E a questo punto me ne stavo - vestito a nuovo e tirato a lucido - nel salotto del mio appartamento. Presi il secondo bicchiere di whisky che avevo preparato, e mi diressi verso la porta della stanza da letto. La aprii. Fui bloccato da uno strillo. Irina era mezza nuda davanti a un grande specchio. Si reggeva l'accappatoio nuovo davanti al petto. «Pardon, tesoro» dissi io, e accostai la porta in modo che restasse aperta solo d'un palmo, attraverso il quale allungai la mano che reggeva il bicchiere. «Ho solo portato qualcosa da bere.» Sentii che mi toglieva il bicchiere di mano. «Grazie» disse la sua voce. Infilai l'altra mano nella fessura della porta: la mano col mio bicchiere. Lei lo toccò col suo. «Cincin» dissi io. «Cincin» disse lei. «Molto gentile.» «Io sono l'uomo più gentile del mondo, tesoro» dissi io, sottolineando l'ultima parola. «C'è qui il signor Jules. Vorrei ordinare la nostra cena. Hai fame?» «Sì.» «Ottima notizia, tesoro. Che ti piacerebbe mangiare?» «Ma, non saprei... Chiedi al signor Jules... Digli che ci suggerisca lui qualcosa...» Il cameriere sorrideva. E disse ad alta voce, perché anche Irina lo sentisse: «Oggi abbiamo delle gallinelle, piccole e delicate. Qui le chiamiamo le
pollastrelle d'Amburgo. Sono molto buone». «D'accordo» dissi io. «Dunque: due pollastrelle d'Amburgo, signor Jules.» «Benissimo, monsieur. E prima? Suggerirei cocktail di scampi freschi.» «Perfetto. Mai risparmiare quando paga il giornale.» «E dopo?» «Vedremo.» «E da bere?» «Champagne, naturalmente.» Jules rideva e guardava la porta della camera da letto. «Bene. Suggerirei del Pommery demi-sec. Non troppo secco. Ne abbiamo ancora del '51. È stata un'ottima annata per lo champagne.» «Ti va, tesoro?» chiesi io. «Naturalmente!» esclamò la voce di Irina. «Anche questa è sistemata» dissi io, e chiusi la porta. Prima che fosse arrivato Jules, mi ero seduto alla grande e antica scrivania, in salotto, avevo scritto delle frasi su una serie di fogli della carta d'albergo, li avevo ripiegati, infilati e rinchiusi nelle buste. A questo punto presi le buste e cominciai a nasconderle: sotto la macchina da scrivere portatile, sotto il divano, dietro la tenda. Jules mi guardava, divertito. «Cosa fa, monsieur?» «Sorpresa.» «Oh» disse lui, e sorrise come solo un francese sa sorridere in queste situazioni. «Capisco. Lei vuol consolare la povera piccola mademoiselle...» «Già.» «Mademoiselle è molto charmant! È commovente come cerca sempre di atteggiarsi a sua moglie. Però le suggerirei cautela, monsieur. Mademoiselle non è un'occidentale. Mademoiselle è un'orientale. E le ragazze dell'Est non sono così facili...» «Scommetto che funzionerà» dissi io, e continuai a nascondere buste. «Mademoiselle mi ha fatto l'impressione di essere... molto... molto innocente...» «Innocente!» esclamai, quasi con rabbia e buttai giù un sorso. «È stata per due anni l'amante di quel Bilka. Lui trentadue anni, lei diciotto. Innocente!» Jules disse: «La notte scorsa però lei ha dormito qui in salotto. Me lo hanno detto le cameriere. La sua parte di letto, di là, non è stata adopera-
ta». «Ma sì, perdio!» dissi io, sempre più irritato. «Non pretenderà mica che le saltassi addosso fin dal primo momento! E poi sono rientrato solo all'alba.» «Capisco» disse Jules. «Ah sì? Capisce?» «Se si è davvero innamorato di mademoiselle, tanto meglio...» «Mi stia a sentire, io...» Ma lui proseguì: «...perché monsieur Seerose si è particolarmente raccomandato, al telefono: vuole che lei stanotte si occupi di mademoiselle. È molto importante. Tenere a bada mademoiselle! Non deve interferire in quello che sta avvenendo. Inoltre...». «Inoltre?» «Se vuol sapere tutto su mademoiselle, la sua vita, la sua storia, allora deve assolutamente, deve necessariamente... faire l'amour... e non dormire sul divano.» «Io so benissimo quello che devo fare.» In quel momento s'aprì la porta della camera da letto e Irina entrò in salotto. Meccanicamente m'infilai le buste rimaste nella tasca della giacca. Fissai Irina e dovetti deglutire, e con la coda dell'occhio notai che Jules era altrettanto sbalordito. Irina era una bellissima ragazza, ormai lo sapevo. Quel che non sapevo era come quella ragazza sapesse trasformarsi. Non più scarpette basse, non più vestitino azzurro, non più quel viso pallido e stravolto! Era fantastico! Un miracolo! Una stregoneria! Avevo già conosciuto un mucchio di ragazze capaci di mutare il loro aspetto, ma una cosa simile non m'era mai capitata sotto gli occhi. Irina era davanti a noi nell'abito da cocktail di seta rossa, le spalle nude. Indossava le scarpette dorate dal tacco alto, e teneva una mano appoggiata alla vita. Aveva infilato calze di nylon, si era truccata. Aveva la bocca grande d'un rosso vivo; la pelle liscia e rosea; le ciglia dei grandi occhi neri ritoccate col rimmel. I capelli neri, tagliati alla paggio, cadevano lisci e pettinati con cura. Le palpebre, truccate d'azzurro cupo, parevano di velluto. Il vestito modellava il corpo d'Irina in modo provocante: si notava l'attaccatura del seno. Finii di bere in fretta quello che avevo nel bicchiere e sentivo il mio cuore battere forte. Quant'era bella Irina, quanto era bella!... Mi avvicinai, le misi un braccio attorno alla vita, mi investi il profumo della pelle fresca, del buon sapone, dell'essenza. L'attirai a me e la baciai
sulla bocca. Poi la lasciai e dissi: «Affascinante, sei affascinante, carissima!». Notai che arrossiva. Anche Jules se ne accorse. S'inchinò con una scusa e se ne andò dal salotto. «Walter!» disse Irina, e le brillavano gli occhi. «Si?» «È stato... è stato sfacciato da parte sua. Lei ha approfittato della situazione!» «Esatto. Mi può perdonare?» Prima mi guardò tutta seria, poi annuì e un sorriso lieve le illuminò il volto. «A meraviglia» dissi. «E ora, perché non venga a dirmi che non so cogliere le mie occasioni...» L'attirai di nuovo a me e le premetti le labbra sulle sue. Prima mi oppose resistenza, poi sentii il suo corpo ammorbidirsi, le sue labbra aprirsi, mi si strinse addosso e rispose al mio bacio. A lungo. Mi sentii come se quel bacio non dovesse finire mai. E pensai improvvisamente che forse esisteva davvero quella di cui nei romanzi si scrive tanto, di cui io stesso avevo scritto e banalmente approfittato, quella cosa cui tutti gli uomini di questo mondo tendono e di cui tutti gli esseri di questo mondo sognano. L'amore. 2 Alla fine mi respinse, per poter riprendere respiro. Preparai altri due drinks. Allungai un bicchiere a Irina, il cui respiro era sempre ancora affannoso. Mi guardava con quei suoi occhi neri e scintillanti. «Ancora whisky? No, grazie.» «Ma sì» dissi io. «Deve bere! Alla nostra... alla nostra amicizia.» «Amicizia?» chiese Irina, con un sorriso strano. «Sì, per favore» dissi io. Irina alzò il suo bicchiere. «Va bene, alla nostra amicizia» disse, vuotò il bicchiere e me lo consegnò. Lo riempii di nuovo. Irina si appoggiò alla porta della camera da letto, riprese a bere, e canticchiava una vecchia canzone che la radio stava trasmettendo.
Passai in stanza e nascosi le altre buste: sotto il suo cuscino, dietro lo specchio del bagno. E nel frattempo continuai a chiacchierare con Irina, che si era avvicinata, in salotto, a una tenda dopo averla leggermente scostata. La sentii dire: «Quante luci sull'acqua. E sull'altra riva. Quante luci, mio Dio. È un albergo meraviglioso!». «Le piace?» «Sì, molto. Cincin, Walter.» «Cincin, Irina!» Tornai in salotto, mi avvicinai e le misi un braccio sulle spalle. Guardammo insieme fuori, nella notte con le sue tante luci e nella pioggia che, come polvere di stelle, scintillava cadendo. «Questo è il primo albergo tedesco nel quale mi capita di soggiornare» disse Irina. «Anzi no. Mi sono sbagliata. È il secondo.» «Il primo qual è stato?» chiesi io, bevendo. E beveva anche lei. «Oh, quand'ero ancora nei pionieri, diciamo una decina d'anni fa. Abbiamo fatto un viaggio a Berlino Est. E ho trascorso la notte in un albergo tedesco. Ma era orribile... squallido, freddo, sporco... un mezzo rudere...» «Come si chiamava?» «Hotel Adlon» disse lei. Risi. «Quello è stato un tempo l'albergo più famoso di Germania!» «Mi sta prendendo in giro.» «Ma no, parola mia! L'Adlon è stato...» Non continuai, perché era cambiata la musica trasmessa dalla radio. Malinconico, lento e triste risuonava Girotondo. «Maledizione! Ma se gliel'ho spiegato che...» Volevo avventarmi sulla radio e spegnerla, ma Irina mi trattenne. «No» sussurrò. «Non spegnere.» I suoi occhi scintillavano di nuovo. «Ho chiamato io il bar e chiesto al disc-jokey di far suonare questo disco. Io voglio sentirlo. Sì, voglio! Perché non mi fa più alcun effetto. Proprio nulla, vede?» Irina rideva. «È di nuovo la mia canzone, la mia bella canzone, che ho sempre amato. Non potevo andare avanti così.» La guardai, soprappensiero. «Mi sta dicendo la verità?» Annui, appoggiò il suo bicchiere al tavolo, poi mi tolse il mio di mano e lo collocò accanto al suo. «Balliamo?» chiese, molto piano. La presi fra le braccia. I nostri corpi di strinsero di nuovo l'uno all'altro.
Irina mi appoggiò la testa su una spalla, la mia guancia toccava la sua, e cominciammo a muoverci al ritmo di quella musica tenera, a ballare per il grande salotto. Irina pronunciava sussurrando le prime parole del testo: «Girate, girate, ballate il girotondo... Io ve lo fo vedere, e voi ballate con me... Nel girotondo vi mostrerò l'amore... l'amore in due, l'amore in tre...». Ammutolì. Mi si strinse più forte addosso. Le baciai la guancia. Lei sorrise. E continuammo a ballare così, piano, molto lentamente, al ritmo di quella musica malinconica, sui grandi e costosi tappeti del salotto, in silenzio. Dopo un po', nel fare un mezzo giro, mi fermai di colpo e mi staccai bruscamente da Irina. «Lei?» gridai, sbigottito. «Ma come ha fatto...» «Attraverso la porta» rispose la signorina Luise. «Era aperta.» Maledizione, mi ero dimenticato di chiudere a chiave quando Jules era uscito! Ed eccola lì dunque, la signorina: avvolta in un vecchio cappotto nero intriso d'acqua, un cappellino ridicolo sui capelli bianchi, una gran borsa in mano e fuori di sé dall'agitazione. Era proprio lei: la signorina Luise Gottschalk. Le suole dei suoi stivaletti malconci avevano lasciato impronte fangose sulla moquette chiara. 3 La signorina Luise premeva il dito sul pulsante del campanello fissato allo stipite della porta, lì dove c'era una targhetta di ottone con la scritta: MICHELSEN. Lo faceva ormai senza troppe illusioni, perché aveva continuato a suonare quel campanello per dieci minuti. E nessuno apriva. Pareva che non ci fosse nessuno in casa, e se qualcuno c'era, allora non aveva nessuna intenzione di apparire. La signorina Luise si sentiva molto scoraggiata. Era stata colta da quella depressione già nel taxi che l'aveva portala dal commissariato di polizia fin lì, all'Eppendorfer Baum. Non ho fatto alcun progresso, neanche un passettino innanzi, aveva pensato la signorina Luise. Non ho la minima idea di chi possa essere l'assassino del mio piccolo Karel. E questa storia mi si fa sempre più confusa e oscura. Ma cosa ho fatto di male, che mi va tutto storto? Ho peccato forse, che i miei amici debbano confondermi in questa maniera? Quel giovane pianista cieco, il facchino ucraino, il cèco... quali saranno mai i loro piani? Perché non riesco a comprenderli? Sono soltanto una povera creatura mortale. Sono ancora una povera creatura mortale... ma ero animata dalle migliori intenzioni! Ho voluto solo far del bene! E ora eccomi qui. E poi: perché continuo a
incontrare persone sbagliate? Quel medico in treno, che ho scambiato per il mio testimone di Jehova morto; quel capomanipolo che poi non era quello mio? Come mai i miei amici mi aiutano così poco? Ho commesso degli errori? O non si saranno per caso immischiate nella vicenda anche potenze maligne, agendo in modo che l'aiuto dei miei amici mi venga a mancare? Per la prima volta la signorina Luise ebbe l'impressione dolorosa di non essere vicina ai suoi amici. Si sentiva confusa e travolta dal caos della grande città, le facevano male i piedi e sentiva il coraggio venirle sempre più meno. E ora neanche da quel Michelsen c'era qualcuno! E adesso che faccio, pensava la signorina, infelice. Non ha senso che io continui a suonare questo campanello... Ridiscese le scale lungo le quali s'era arrampicata sin lassù, sulla corsia rossa, attraverso il pianerottolo imponente, su gradini di marmo e fra pareti di marmo. Aveva paura degli ascensori che si muovevano come in gabbia. Degli altri no. Solo di quelle gabbie. Usci dall'edificio, sotto la pioggia. Ma dove andare? Non lo sapeva. Era già quasi buio, i lampioni erano accesi, dalla vetrina del negozio d'antiquariato, accanto al portone d'ingresso, una luce gialla e calda cadeva sulla strada bagnata. La signorina Luise si avvicinò lentamente alla vetrina. Oh, ma c'erano cose meravigliose! Sorrise smarrita, nel vedere gli elefanti d'avorio, le pipe per l'oppio, i dipinti su seta giapponesi con quelle delicate figurine tracciate ad acquarello, le maschere di diavoli, i gioielli di corallo, gli oggetti intagliati. Lesse il nome del proprietario del negozio accanto alla porta: ANDRÉ GARNOT. Poi s'irrigidì. Perché oltre la vetrina, nel grande locale della bottega, tutta piena di meravigliose mercanzie dell'Estremo Oriente, notò un uomo slanciato dai capelli grigi e corti, adagiato su una poltrona; e accanto a lui un secondo uomo, più anziano, con gli occhiali e una rada coroncina di capelli grigi attorno a una gran pelata. L'uomo più anziano reggeva un oggetto all'altezza della bocca dell'altro, e lo sosteneva, poiché palesemente non riusciva a respirare. Il volto di quello che era seduto aveva assunto una colorazione viola. La signorina Luise sentì improvvisamente il cuore balzarle in petto. André Garnot... un nome francese! E quell'uomo là dentro non riusciva a respirare! E quell'altro gli reggeva un bomboletta spray davanti alla bocca... Asma! Anche il mio francese morto soffriva d'asma quando era vivo... Forse... Macché forse! È lui, è lui certamente!, pensò la signorina, e già apriva la
porta della bottega. Si fermò all'ingresso del negozio e fece un segno ai due uomini, come per dire che avrebbe ovviamente atteso che l'attacco passasse. E passò abbastanza in fretta. I due uomini andarono incontro alla signorina Luise e si presentarono. «Mi deve scusare, signora» disse André Garnot. «Ma con questo tempo mi capita spesso...» «Eh, ma lo so!» disse la signorina. E aggiunse in fretta: «È il peggior tempo per chi soffre d'asma». «Stavo giusto aiutando il signor Garnot a disfare un baule. Bronzi cinesi. Gli è venuto un attacco. Una fortuna, che fossi qui. Perché stavolta è stato un attacco brutto» disse il secondo uomo. «Ora però sto già meglio» assicurò Garnot. Era vestito in modo elegante, come sempre, e parlava e gestiva con grazia e dignità. «E lei è polacco» disse la signorina rivolta a Kubitzky. «Sì, signorina.» «E vuole che indovini di dove?» chiese la signorina, quasi allegra, perché il suo malumore era svanito come d'incanto. «Lei è di Varsavia!» «È vero» disse Kubitzky, sbalordito. «Ma come fa a...» «Già, come!» disse la signorina, e gli sorrise. Sorrise anche lui, un po' disarmato e disorientato, ma la signorina non se ne accorse. Notò solo il sorriso. «Io vengo da Neurode. Da quel campo di raccolta per giovani che c'è lì» informò lei. «Ma sì, certo» disse Garnot, gentile. «Lei è assistente sociale.» La signorina annuì, beata. Non chiese nemmeno come mai Garnot conosceva la sua professione. Irina ed io avevamo parlato del campo e della signorina Gottschalk, quando avevamo incontrato Garnot e Kubitzky. «E lei si chiama Luise Gottschalk» disse Garnot. «Proprio così» disse lei, felice. «Ma che fortuna! Vi ringrazio.» «Di che?» «Be', d'essere qui tutti e due. Certamente potrete aiutarmi. Sono stata su da Michelsen, ma non mi ha aperto nessuno.» «Non c'è nessuno in casa. Neanche il domestico. Se ne è andato due ore fa» disse Kubitzky. «Con chi desiderava parlare?» «Ma lo sapete benissimo» disse la signorina, e fece un cenno d'intesa. «Sto cercando Irina Indigo e quel giornalista, il signor Roland. Ho bisogno di trovarli al più presto.» «È una questione urgente?» chiese Kubitzky.
«Certo che è urgente, dopo tutto quello che è successo» intervenne Garnot, e la signorina lo guardò con uno sguardo pieno di gratitudine. «Già, dopo tutto quello che è successo» disse lei. «Sono stati qui, quei due, vero?» «Sì.» «E hanno anche parlato con voi» disse la signorina, che si trovava di nuovo in uno di quei suoi momenti di chiaroveggenza. «A lungo» disse Garnot. «Di che cosa?» «Del signor Bilka, della sua fidanzata e di tutto quello che è accaduto.» «E cosa è accaduto?» chiese la signorina Luise. Garnot e Kubitzky si misero a raccontare, a turno. Erano entrambi ancora agitati per l'incidente che era avvenuto, e parve loro ovvio informare anche quell'assistente sociale della quale io avevo loro parlato. E alla signorina Luise parve a sua volta ovvio che i suoi amici morti la mettessero al corrente. E continuarono quindi a parlare immersi nell'equivoco, senza che nessuno se ne accorgesse. Fu così che la signorina Luise seppe tutto. «E dove sono adesso la signorina Indigo e il signor Roland?» chiese alla fine. «Ho davvero molta, molta urgenza di parlare con loro.» «Il signor Roland mi ha lasciato un indirizzo» disse Garnot. «Per il caso che qualcuno avesse chiesto di lui o che fosse accaduto qualcosa di nuovo. Mi ha detto che lo si può raggiungere lì.» «E dove, precisamente?» chiese la signorina Luise. «All'Hotel Metropol» rispose André Garnot. 4 «Sì, signora» disse il capo portiere Eugen Hanslik, e si piegò oltre il banco verso la piccola signorina Luise, ferma davanti a lui. «Il signor Roland è sceso qui da noi.» «Con una ragazza?» «Con sua moglie» disse Hanslik, squadrando la piccola donna, poveramente vestita, con un sentimento misto di curiosità e di simpatia. «Ma sì, certo, con sua moglie» disse la signorina Luise. «Le dispiacerebbe annunciarmi ai signori? Devo loro parlare.» Ora li ho beccati, pensava fra sé: ora li ho beccati! «Purtroppo non è possibile, signora» disse il portiere capo. «Perché no?»
Hanslik, che io avevo ammaestrato per bene, si tirò fuori con eleganza dall'impiccio. Indicò il quadro delle chiavi. «Ecco vede, la chiave è lì.» «Vuol dire che sono fuori?» «Sì.» «Non è che se ne siano andati definitivamente?» «Ma no... sono soltanto usciti.» «E quando tornano?» «Non hanno lasciato detto niente. Non so proprio dirle quando i signori rientreranno. Può darsi che restino fuori a lungo.» «Io posso... posso aspettarli?» La signorina era molto impressionata ma nello stesso tempo anche molto intimidita dal lusso e dallo splendore del Metropol. «Naturalmente, signora. Forse le conviene accomodarsi nella hall. Non appena il signor Roland rientrerà...» Si corresse: «Anzi, sarà il signor Roland stesso che verrà a salutarla. Lo conosce, vero?». «Eccome! Le sono molto grata, signore.» E si avviò verso la grande hall. Mio Dio, ma quanta gente c'era! E quanti stranieri! Incredibile! La signorina Luise sbarrava gli occhi dallo stupore. Quando entrò nell'enorme hall le parve di camminare fra le nuvole. Non ho mai visto una cosa simile, pensava, impressionata. Lampadari di cristallo! E questi tappeti! Uno solo è capace di costare un patrimonio. E le pareti di marmo rosa. Quadri antichi. I fiori nei vasi preziosi. Quei magnifici mobili... Oh, e questi signori così eleganti! Le donne meravigliose nei loro abiti da sera colorati e piene di gioielli. Luccica e brilla tutto quanto! E io invece, con questo misero cappottino... Oh, come mi vergogno! Se dipendesse solo da me, fuggirei. Ma non posso. Non devo. Devo aspettare fino a quando Irina e quel Roland torneranno... Si fermò, esitante. Un cameriere in frac le si avvicinò, premuroso, e la salutò. «Se la signora vuole accomodarsi... qui forse...» e l'accompagnò verso la poltroncina ricoperta di broccato. La signorina Luise si abbandonò sul sedile con un sospiro. Dio che mi tocca soffrire, pensava, tutta triste: e cercò di nascondere i suoi brutti stivaletti sotto il tavolino. Mio Dio, fa' ch'io possa resistere, pensava la signorina Luise, fa' ch'io possa resistere! Tutta questa gente. Tutti mi guardano, vecchio spaventapasseri che non sono altro. Tutti bisbigliano di me...
Nessuno guardava la signorina Luise, nessuno bisbigliava sul suo conto. Lei strinse i denti e si sforzò di starsene seduta molto composta, la borsa sulle ginocchia, gli occhi fissi sul banco del portiere, per non farsi sfuggire a nessun costo l'arrivo di Irina o mio. Cominciò a sentire un gran caldo, col cappotto addosso nella hall riscaldata, ma resistette coraggiosa. Non posso togliermi il cappotto, pensava, assolutamente. Ma ho bisogno di aria. Aria! Aria! Devo uscire di qui per un momento. Altrimenti finirò col vomitare sul tappeto buono. Mio Dio, a che dure prove mi sottoponi. E in che situazioni mi metti... Non ce la faccio quasi più... Si alzò, confusa, e attraversò a passetti veloci la hall. Nessuno le badò. Un fattorino le aprì la porta. E così si ritrovò fuori, nell'aria fresca della sera. Udì la pioggia cadere sugli alberi, sui cespugli e sul prato; l'erba brillava argentea alla luce dei tondi lumi issati in cima ai grandi lampioni. Respirò a fondo. Un po' alla volta si sentì meglio. Dall'Harvestehuder Weg una macchina curvò verso la rampa d'accesso all'albergo, e si fermò sotto la pensilina. L'autista aiutò due signore in pelliccia di visone a scendere. Una delle due disse: «Mi sistemi la macchina giù in garage, Emil. Alle dieci però ne avremo di nuovo bisogno». La signorina Luise fu colta da un sospetto. Un momento! Quest'albergo ha anche un garage! Irina e quel Roland sanno certamente che sono alla loro ricerca! E se anche l'automobile di Roland fosse finita nel garage? E se poi c'è un ascensore che di li porta direttamente ai piani? Quanto alla chiave della stanza, bastava farsela portare. Se le cose stavano davvero così, allora la signorina Luise avrebbe atteso invano, non li avrebbe neanche visti, quei due, quando fossero tornati. Sarà bene andare a dare un'occhiata a questo garage, pensò. Aprì il suo vecchio ombrello e si avviò in fretta, sui piedi che ora le facevano di nuovo male, lungo la facciata dell'albergo, sulle tracce di quell'automobile. 5 Se ne rimase forse per dieci minuti sotto la pioggia e al buio, addossata alla grande porta d'acciaio - chiusa - del montacarichi del garage. Accanto alla porta c'era un altro ingresso con una scala a chiocciola che conduceva in basso. Ma la signorina Luise non osava ancora scendere. Così sola, pensò, darei più nell'occhio che se scendessi con qualcuno. Meglio aspettare la prossima macchina. La prossima macchina era una Rekord. Si fermò vicinissima alla signo-
rina Luise, abbagliandola coi fari. Un uomo con impermeabile e cappello scese e suonò il campanello di richiamo dell'ascensore. L'uomo era alto e magro, i capelli bianchi gli spuntavano da sotto il cappello, aveva un viso lungo e ben curato. In attesa dell'arrivo del montacarichi, si mise accanto alla signorina Luise. Si tolse il cappello e disse: «Buona sera». «Buona sera» disse la signorina Luise. «Arriva l'ascensore» avvertì l'uomo e si affrettò a risalire in macchina. Alle spalle della signorina Luise una porta metallica si sollevò. Lei ebbe un moto di spavento, poiché temette di cadere all'indietro. Ma non c'era il vuoto dietro di lei, bensì una piattaforma, e sulla piattaforma c'era un uomo corpulento con un viso colorito e aperto, e gli occhi sorridenti. Il garagista Wim Croft aveva ripreso servizio notturno già alle sei e mezza. Indossava la sua tuta color giallo acceso e fece un cenno all'uomo al volante. Alla signorina Luise disse: «Buon giorno. Vuol scendere anche lei?». «Sì» disse la signorina. «Salga pure, ma si metta laggiù in fondo. Devo far entrare la macchina» disse Croft. La signorina Luise fece un cenno d'assenso e salì sulla piattaforma. Si avviò precedendo la Rekord che il garagista faceva entrare a gesti. E poi scesero. L'ascensore faceva un gran baccano e non era possibile sentirsi. Croft fece un sorriso alla signorina. E lei sorrise a lui. Un uomo simpatico, pensò lei. Quando l'ascensore si fermò, Croft diresse la vettura verso un posto libero del garage sotterraneo. La signorina Luise uscì a sua volta, piano. Si guardò attorno e notò l'uomo che era stato al volante della Rekord. Le si stava avvicinando assieme al garagista. Udì quel signore dire: «Che tempaccio. Ho sentito dire che a Mosca nevica». Consegnò le chiavi dell'automobile al garagista che registrò sul suo libro il rientro della Rekord e appese le chiavi a un quadro. «Lei è di Mosca?» chiese esitante la signorina Luise al signore coll'impermeabile, che portava una borsa sotto il braccio. E sentì improvvisamente il sangue batterle forte alle tempie. «Già, proprio di Mosca, gentile signora» disse l'uomo dai capelli argentei. Parlava senza accento straniero. Si era tolto il cappello e fece un profondo inchino: «Mi chiamo Josif Monerov». «Luise Gottschalk» si presentò lei e mormorò poi: «Di Mosca...». Non riuscì a parlare oltre. Il russo!, pensò. Il russo... «Il signor professor Monerov è venuto ad Amburgo per un congresso» disse Croft. «È un medico famoso.»
«Lasci perdere» disse Monerov. Aprì l'impermeabile, per cercare dei soldi da lasciare in mancia al garagista, e la signorina Luise notò così che indossava uno smoking. «Congresso! Un ricevimento dopo l'altro vorrà dire. Non ce la faccio più a furia di mangiare e bere. Che tipi siete voi occidentali! E pensare che ho ancora tanto da fare stasera. Ma prima mi butterò giù un po' per riposare.» «Tanto da fare?» chiese la signorina. Ebbe l'impressione che Monerov le avesse fatto l'occhiolino. Il russo. Ecco il russo, pensava. E non riusciva a pensare altro. «Molto, molto da fare, signora, già» disse Monerov. «Se il mio amico Wim Croft non m'avesse noleggiato una macchina, non sarei nemmeno riuscito a star dietro al mio lavoro.» «Loro sono amici?» chiese la signorina. Era una domanda sciocca, ma il suo viso s'era fatto tutto smunto dall'agitazione: quel colloquio significava molto per lei... molto... tutto! Monerov disse allegramente: «E che buoni amici siamo! Vero, signor Croft? Il signor Croft è olandese. Mi piace l'Olanda. Ci sono stato spesso». Mio Dio, pensò la signorina Luise. Anche l'olandese. Ma allora è vero, è proprio vero... «Anch'io ho un amico russo e un amico olandese» disse fissando i due uomini. «È un onore per noi» disse l'olandese «avere tanti amici.» «Certo, anche noi siamo contenti se ci vogliono bene» disse il russo. Prima strinse la mano a Croft e poi gli diede la mancia. «A più tardi, professore» disse Croft. E con la signorina Luise stette a guardare mentre il russo si avviava verso l'ascensore dell'albergo. Monerov aprì la porta, fece un cenno di saluto, salì. Quindi questa storia dell'ascensore è esattamente come me l'ero immaginata, pensò la signorina Luise. «Cosa posso fare per lei, cara signora?» chiese Croft. La signorina Luise gli lanciò una nuova occhiata da cospiratrice. «Si tratta del signor Roland» disse lei. «Ah» disse Croft. «Il signor Roland, eh?» Guardava la signorina sorridendo. E sorrideva anche lei: piena di fanciullesca fiducia. «Sì» disse lei. Ora devo mentire, pensò. È un peccato, ma non c'è altro da fare. «Perché... dovrei parlare al signor Roland. Ho dimenticato in quella sua grande macchina bianca un libro di cui ho urgente bisogno. Il signor Roland non è ancora rientrato, l'ho già chiesto al portiere. Allora ho pensa-
to: forse posso aspettare quaggiù fino a quando rientra. Non vorrei che mi sfuggisse. Perché ho proprio bisogno di quel libretto.» «Eh già, il signor Roland non è ancora rientrato» disse Croft. E poi: «Quel libro è nella sua macchina grande?». «Perché? Ne ha un'altra più piccola?» «Ha preso una Rekord a nolo qui da me. Come quel professore russo. La sua macchina grande è là, la vede?» E indicò la mia Lamborghini, ferma accanto a due pilastri. «Ma sì! Certo che è lei!» esclamò la signorina Luise che aveva visto la mia vettura davanti all'ingresso del campo, quando ci eravamo incontrati la prima volta. E si spaventò. E se adesso questo olandese me la apre e mi dice di prendermi il libro... che faccio? L'olandese disse con circospezione: «Appunto, quella è la Lamborghini del signor Roland. Ha lasciato qui le chiavi. Però vorrei che mi capisse, cara signora... Voglio dire... Io... non posso aprire la macchina senza che lui me lo permetta...». «Sicuro che capisco» disse la signorina. (Buon Dio, ti ringrazio.) «E allora... vuol dire che... La disturbo, se aspetto qui sino a quando rientra il signor Roland con quell'altra macchina?» «Ma certo che no. Se vuol sedersi nel mio ufficio, intanto» disse Croft. «Molto gentile, grazie» disse la signorina ed entrò nel piccolo locale. Si accomodò su una sedia. Croft si sedette alla scrivania. Cominciarono a chiacchierare. Un periodo di gran lavoro, spiegò Croft. L'albergo tutto pieno. E che persona distinta, quel professor Monerov... «Dice di essere stato spesso anche nella mia patria...» Croft, che soffriva di nostalgia, prese a parlare dell'Olanda. Raccontò alla signorina Luise della fioritura dei tulipani nelle grandi coltivazioni tutt'attorno all'Aja, e della vista meravigliosa che il paese offriva quando i tulipani fiorivano, e così via... Continuò a raccontare, sino a quando il giovanotto che aveva riparato il tubo al neon entrò nell'ufficio. Era giovane, magro e biondo, e indossava una tuta blu. «È di nuovo a posto» disse. «Ecco, firmami qui.» Croft firmò un modulo. Nel frattempo il giovanotto osservava la signorina sorridendo. Anche lei sorrideva. Ma che simpatico giovanotto, pensava. «Ecco fatto, Jürgen. E grazie» disse Croft. «Arrivederci» disse Jürgen. Fece un cenno di saluto anche alla signorina e se ne andò.
«Un ragazzo simpatico» disse la signorina. «Già, molto simpatico. E pensare che ha una storia così triste...» Al garagista piaceva proprio chiacchierare. «Una storia triste?» «Ma sì, poveretto. Si chiama Jürgen Felmar. Non le dice niente questo nome?» La signorina pensò. E poi: «Felmar... Felmar... Ho già sentito questo nome da qualche parte... Ma così, sul momento...». «Ludwig Felmar. Quel grande criminale nazista che hanno finalmente catturato in Brasile, proprio in questi giorni. Quell'ex capomanipolo delle SS, sa...» «Il capomanipolo Felmar?» La signorina Luise parlava a fatica. «Esatto. E quel giovanotto è suo figlio» disse Croft. «Suo padre sarà processato. L'ergastolo non glielo leverà nessuno... E del resto l'ha meritato, non una, ma mille volte, giusto? Neanche il caso di discuterne. Il ragazzo però... Che colpa ne ha lui? Proprio nessuna! Ma s'immagina quello che prova? Si controlla bene, poverino, ma...» La signorina Luise afferrò le ultime parole solo vagamente. Pensava: il francese l'ho appena incontrato, e anche il polacco. Poi il cèco. L'ucraino. Il russo. L'olandese. Ora anche il capomanipolo. Figlio di capomanipolo, è vero ma più o meno... Sono qui. Sono tutti qui. Ed è qui - pensò con quell'improvvisa chiaroveggenza di cui era capace così spesso - che risolveremo questa storia. Qui, in quest'albergo, oggi stesso. Sì, oggi! Wim Croft ebbe molto da fare, e non riuscì più a occuparsi della signorina come prima. Macchine che andavano, macchine che rientravano... Appartamento 423, pensò la signorina con improvvisa determinazione. Forse quel Roland è già arrivato. E non ha riportato la macchina in garage solo perché vuole poi uscirsene di nuovo. Ma certo, pensò, è già arrivato! Lasciò il piccolo ufficio e si avviò verso l'ascensore che portava ai piani superiori. Nessuno le badò mentre apriva la porta ed entrava nell'ascensore. Premette il pulsante del quarto piano. La signorina Luise usci dall'ascensore e si trovò in un ampio e lungo corridoio dove c'erano tappeti, antichi cassettoni addossati alle pareti e sedie scure. Non c'era nessuno. Accanto all'ascensore vide frecce e numeri che indicavano dove erano le stanze del quarto piano. La signorina Luise si orientò in fretta. Si avviò lungo il corridoio, passando accanto a vecchie incisioni e a grandi quadri ad olio. 427... 426... 425... 424... (Ecco, qui abita il russo, pensò)... 423!
Una porta color crema con una maniglia dorata. La signorina Luise respirò a fondo. E abbassò la maniglia. La porta si aprì. E all'interno dell'appartamento risuonava una musica dolce e suadente... 6 «Come ha fatto ad arrivare fin qui?» Ero accanto a Irina, nel salotto dell'appartamento, a guardare sbalordito la signorina Luise. «Coll'ascensore dal garage sotterraneo. Di nascosto» rispose lei. «E cosa vuole?» La signorina Luise disse con decisione: «La ragazza deve tornare immediatamente al campo. Non sono disposta a tollerare oltre questa situazione!». Irina mi afferrò una mano. Io gliela strinsi. «Cosa non vuole tollerare?» chiesi. La signorina si avviò incontro a Irina. «Ho dovuto girare tutta la città prima di trovarla. Poi finalmente degli amici mi hanno indicato la strada giusta.» Mi fissò. «Lei è un uomo cattivo. Ha abusato della mia fiducia.» La signorina prese il braccio destro di Irina e cominciò a tirarla. «E adesso viene con me!» Irina si liberò con uno strattone. «No!» esclamò. «No! Non ci torno in quello sporco campo! Mai!» Io dissi, piano: «Signorina Luise, questo è il mio appartamento. Lei vi si è intrufolata senza diritto. Se non se ne va immediatamente, mi dispiace, ma la farò buttar fuori di qui!». La signorina Luise si raddrizzò il cappellino. «Ah sì?» disse con tono risoluto. «E sa cosa farò io allora? Presenterò denuncia contro di lei! Per rapimento! La ragazza non ha ancora ventuno anni! È senza permesso di soggiorno!» «Il signor Roland si è assunto tutte le responsabilità!» gridò Irina. «Se c'è qualcuno che garantisce per me, non devo affatto tornare al campo! E il signor Roland lo ha fatto, per iscritto! Per iscritto, capisce?» Evidentemente la signorina non aveva capito, perché strillava a sua volta: «Oche siete! Oche! Una più sciocca dell'altra! Lui garantisce! E garantisce sino a quando? Sino a quando si sarà stancato di lei e la butterà fuori!». «Un momento...» cominciai io, ma la signorina m'interruppe e disse, ri-
volta a Irina: «E guarda come s'è conciata! Mi sembra una... Lei sa benissimo cosa mi sembra! Ma non si vergogna? Ecco come l'ha ridotta... e gli è bastato un giorno!». E poi di nuovo a me: «Non è meglio, lei, di quei farabutti della Reeperbahn che vengono a prendersi le nostre ragazze al campo! Lei si vuol solo divertire con la piccola, e basta!». Dissi, dirigendomi verso la signorina: «Ora però ne ho abbastanza di lei. Io...». Non riuscii a completare la frase, perché suonò il telefono. Corsi all'apparecchio e sollevai il ricevitore. «Pronto?» gridai «Perché urla così?» chiese una voce che conoscevo. «Chi è lei? Cosa vuole?» chiesi, con tono di voce più normale. «Sono Victor Largent.» Ma certo, Largent! Largent, maledizione. Solo lui ci mancava. «Voglio parlarle. Una questione molto importante.» «Dove si trova?» «Qui in albergo. Nella hall. Sto parlando da una cabina. Ora vengo su subito da lei. Quattrocentoventitré. So long.» «Lei non viene un accidenti!» sbraitai all'improvviso. Avevo i nervi a pezzi anch'io. «Se vuole qualcosa da me, mi telefoni domattina!» «Domattina è troppo tardi. È una faccenda da sbrigare subito.» «Subito un corno! Non ho tempo! Se ne rimanga dove sta! E basta!» Scaraventai il ricevitore sulla forcella. Irina e persino la signorina Luise erano spaventate. «Chi era?» chiese Irina. «Victor Largent» dissi io. «Un agente.» «Cosa?» esclamò Irina. «Ma no!» Ridere mi costò fatica. «Non un agente come lo pensa lei. Un agente letterario. Uno che rappresenta gli autori.» Il mio sguardo cadde di nuovo sulla signorina Luise. E un'ira cieca s'impadronì di nuovo di me. «Lei sparisca di qui immediatamente, mi ha capito?» La voce della signorina Luise divenne di colpo lieve, quasi un sussurro. E disse: «La Indigo è ancora una bambina! Ma non lo vede, signor Roland? Possibile che lei sia già così corrotto e senza scrupoli da non riuscire a vedere che è ancora una bambina?». «Io non sono più una bambina!» esclamò Irina. «Ma che ne sa lei di me? Non mi conosce affatto! Non sa assolutamente niente di me!» La signorina Luise rispose con grande dignità: «Io so tutto di te. E tu sei ancora una bambina. So come sono fatti i bambini. Non ne ho partorito ne-
anche uno. Eppure ho avuto tanti bambini... più di una qualsiasi altra madre al mondo. Centinaia! Migliaia! Li ho protetti, ho provveduto a loro! Per tutta la vita, per tutta la mia vita. Ho passato notti e notti accanto ai loro letti, quando erano malati. Li ho difesi, e preservati dal male. Esattamente come le madri vere. Più delle madri vere! Sì, io ho avuto migliaia di figli... e mi hanno voluto bene... tutti, tutti mi hanno voluto bene...». La signorina barcollò per un improvviso attacco di debolezza e crollò su una poltrona. Ma non m'importava niente delle sue condizioni. Mi avvicinai e mi piegai su di lei. Divenni brutale. «Se non sparisce di qui immediatamente, dovrò fare un discorsetto, signorina Luise.» «Discorsetto... e con chi?» Alzò lo sguardo su di me. C'erano lacrime nei suoi occhi verdi. «Conosco il direttore della previdenza sociale di Brema e...» cominciai. E fui interrotto a questo punto da una voce alta e gioviale. «Hallo, everybody! Non disturbo, vero? La porta era aperta e così sono entrato. Signore... caro Roland, amico mio...» L'uomo che era entrato nell'appartamento era grande e massiccio, e non aveva più un solo capello in testa. Portava occhiali senza montatura, aveva un'aria molto furba ed era un campione di sfacciataggine e di brutte maniere. Quando lo scorsi, m'arrabbiai al punto da dimenticare per un momento anche la signorina Luise. «Le ho detto che non voglio vederla!» «E io ho spiegato al portiere che lei m'aspettava» disse palla di biliardo, ghignando. «Vedo che ha ospiti. Charmant, charmant. Non mi vuole presentare?» «No. Fuori di qui!» «Largent» disse il mio visitatore, presentandosi con un inchino a Irina e alla signorina Luise. «Victor Largent. Sono felice di conoscere le signore. Il signor Roland ed io siamo vecchi amici.» «Amici!» sbraitai io, stravolto dalla rabbia. «Fuori di qui ho detto! O ha le orecchie foderate di prosciutto?!» «Ma se ho delle cose urgenti da discutere con lei!» protestò Largent. «Cerchi di essere più gentile. Mi offra qualcosa da bere. Anzi no, non è necessario. Vedo che non vuole. Mi preparo un drink da solo.» Caracollò per il salotto e si versò del whisky in un bicchiere, aggiungendo ghiaccio e selz. Alzò il bicchiere all'indirizzo di tutti noi, lo vuotò e sospirò di soddi-
sfazione. «Lei è l'agente letterario?» chiese Irina, in qualche modo travolta da quella personalità. «Certo che lo sono, mia meravigliosa signorina, certo che lo sono.» Parlava un tedesco corretto, con forte accento americano. Lo conoscevo da tanti anni. Aveva una grande agenzia a New York, con filiali a Hollywood, Parigi, Londra e Roma, e rappresentava autori, sceneggiatori e anche attori; piazzava serie di articoli, inchieste e romanzi, ed era una figura leggendaria nel settore. Non aveva ancora cinquant'anni, ma ne dimostrava di più a causa della calvizie. Indossava sempre abiti dozzinali, eternamente stazzonati, camicie di nylon e cravatte da pochi soldi, ma tutti sapevano che era uno scapolone ricchissimo. Aveva una famosissima e vasta raccolta di orologi antichi, e viaggiava sempre in giro per il mondo. Con me, sino a quel giorno, aveva trattato sempre solo indirettamente. Aveva venduto le mie serie di articoli sul sesso in molti paesi. Ma passando sempre attraverso la casa editrice: io mi limitavo a incassare le mie percentuali. Largent si abbandonò in una poltrona, fece un profondo e soddisfatto sospiro, ci squadrò tutti quanti con quei suoi furbi occhietti da porco, e pareva sentirsi perfettamente a suo agio. La mia rabbia cresceva di secondo in secondo. «Mi stia a sentire, Largent, io la faccio buttar fuori di qui se non se ne va immediatamente» urlai. Largent si limitò a grugnire. «Ma non è simpatico!» disse poi a Irina. «Sempre così impetuoso. Così irascibile. E dire che mi conosce. Loro, mie signore, non mi conoscono, ma lui sì. Ho da fare una proposta al signor Roland. Una questione urgente. E io non sono il tipo d'uomo che si fa dir di no.» Mise i piedi su un tavolino, dopo essersi versato di nuovo da bere, e si rivolse a Irina. «Lei come si chiama, bambina mia?» «Irina Indigo» disse lei, stupita. «Bel nome. Bellissimo.» Largent annuiva, soddisfatto. Io pensavo che non potevo buttarlo fuori da solo, perché lui era troppo forte e troppo grasso. «E lei, mia signora?» Largent non tolse i piedi dal tavolo. La signorina Luise aveva continuato a guardare l'americano, sin dal momento del suo arrivo, come affascinata. Il suo viso era trasfigurato. Si alzò, gli si avvicinò e disse: «Gottschalk. Signorina Luise Gottschalk. Ma lo sai...».
Quella curiosa risposta non parve scuotere minimamente Largent. Fece solo un gran sorriso. «Ma certo, certo che lo so. Signorina Luise Gottschalk. Incontro tanta di quella gente. Mi deve scusare se a volte mi capita di non riconoscere qualcuno.» La signorina Luise lo guardava raggiante. «Ora sistemeremo tutto» disse. Largent mi lanciò una breve occhiata. Aveva a che fare, nel suo mestiere, con tante persone strampalate che niente lo stupiva più. E poi aveva un debole per i matti, lo diceva sempre. «Sistemeremo tutto. Tutto okay, signorina Luise. Stia tranquilla. È arrivato Largent. Filerà tutto liscio.» «Che bello!» sussurrò la signorina. «Oh, che bello! Proprio come desideravo...» «Ovvio» disse Largent, impassibile. «Quando c'è Largent, non ci si arrende mai.» «Il mio americano...» sussurrava la signorina. «Ai suoi ordini, signora. L'America è al suo servizio» declamò Largent. Io gli dissi: «Basta ora con queste buffonate. Se ne vada, o chiamo il portiere». «No! Non può farlo!» esclamò la signorina. «È importante che il signor Largent sia venuto!» «Certo che è importante, signorina Gottschalk» disse quello schifoso d'un Largent. «Posso chiamarla Luise?» «Ma si che può!» esclamò la signorina, estasiata. In quell'attimo la porta dell'appartamento si apri di nuovo ed entrò Jules, sospingendo il tavolo per la cena. Era già tutto pronto e apparecchiato. Tovaglia damascata. Posate d'argento. Cocktail di scampi. Il secchiello con la bottiglia di champagne. Jules ebbe un moto di sorpresa. Si fermò. «Pardon... non volevo disturbare... la cena...» Squadrò attentamente Largent. Questi gli rispose con un sorrisetto maligno. «Hallo» disse Largent. «Monsieur» disse Jules. E a me: «Posso sistemare il tavolo?». «Sì. Fra un attimo saremo di nuovo soli.» «Questo lo dice lei» gridò Largent. Fece l'occhiolino alla signorina Luise che lo fissava, come affascinata. Poi lo sguardo di lei si spostò su Jules. La signorina Luise disse: «Francese, vero?».
«Sì, madame.» Jules stava sistemando il tavolo. «Se tu sapessi come sono contenta» disse la signorina. «Oh, come sono felice. Anche tu sei venuto ad aiutarmi, vero?» Jules guardò la signorina Luise un po' innervosito. «Faccio cosa, madame?» «Mi aiuti.» «Non capisco davvero, madame...» cominciò Jules. Alle spalle della signorina, Largent, sempre stravaccato nella poltrona, fece a Jules e a noi un segno. Ghignando cominciò a picchiettarsi un dito contro la tempia, alzando le spalle. Jules sollevò le sopracciglia, ma non parve particolarmente sollevato. «Posso stappare la bottiglia, monsieur?» mi chiese. «Sì, certo, Jules. Ora ceniamo. Da soli. Provvederò a sistemare subito tutto» dissi io. Jules prese un tovagliolo bianco damascato e pescò la bottiglia di champagne dal secchiello. La signorina Luise gli si avvicinò. «Un momento» disse lei. «Dice a me, madame:'» Era di nuovo nervoso. La signorina lo guardava con un'espressione serissima. «Cosa c'è, madame?» «Lo sai benissimo...» «Pardon, madame,» disse Jules, per il quale quella scena era molto penosa, «ma non ho idea...» «Ah, è così!» disse la signorina Luise, improvvisamente minacciosa. «Lo supponevo. Ora però aspetti lo stesso un momento. Ho un messaggio per lei.» «Messaggio? Quale messaggio, madame?» Lo sguardo della signorina si perse di nuovo all'infinito. E disse a bassa voce, con tono implorante: «Aspetti ancora un momento, la prego. Devo ascoltare quello che le hanno da dire quelli lassù». Jules si fece rosso d'imbarazzo. «Quelli... lassù... madame?» «Sì...» La signorina Luise tendeva l'orecchio. Nessuno fiatava. La signorina parlò a questo punto direttamente in faccia a Jules: «Quello che lei vuole fare è male. Lei è un portatore di sciagure...». La voce della signorina Luise era piatta e monocorde. «E questa sciagura ricadrà su di lei...» Jules divenne improvvisamente pallido. Vidi che era spaventato. «Madame, davvero, io...»
«Silenzio!» disse ancora la signorina, mentre Largent rideva e Irina mi si aggrappava A un braccio. «Dovrà pagarla a lungo, molto, molto a lungo...» «Walter, ti prego!» sussurrò Irina. «Sì» dissi io. «Adesso basta.» Passai oltre il cameriere, che era sempre ancora pallido, mi avvicinai alla signorina Luise e l'investii: «Ha capito che deve andarsene, sì o no? Le ho già detto che conosco il direttore della previdenza sociale di Brema. Se ora lei non mi lascia immediatamente in pace...». «Ma io devo portare via Irina...» «Lei non deve un accidenti! Lei deve solo sparire di qui! Immediatamente! Ne ho le scatole piene di lei» dissi io, e mi costrinsi ad essere brutale. «Se non si spiccia a farlo, se continua con queste commedie oppure se mi ritorna fra i piedi, allora andrò a parlare col direttore della previdenza sociale!» Lo sguardo della signorina Luise vagava dall'americano che sorrideva al francese dall'aria costernata. Balbettò: «Parlare?». «Sì» dissi io, con cattiveria. «E lei sa benissimo di che cosa. Ritengo che sia venuta l'ora che lei vada in pensione.» «In pensione!» Quello della signorina fu un grido di spavento. «Macché pensione» disse Largent, ghignando. «Però adesso deve mettersi a far la brava. Ci bado io che qui le cose si mettano per il loro verso giusto. Può esserne assolutamente tranquilla.» «Assolutamente tranquilla... sul serio?» «Sul serio. Io sono suo amico, signorina Luise. Provvedo io perché tutto finisca bene. Non abbia paura.» «Ma è... ma è...» la signorina Luise stentava a respirare «... ma é meraviglioso... È qui anche lei... e gli altri... tanti dei miei amici...» Fissò Jules: «Però stia attento a questo qui! Questo vuole solo del male... lui è il male!». «Quello lo terremo d'occhio» disse Largent, e fece allo sconsolato Jules un altro gesto che la signorina Luise non vide. «E conosco il signor Roland. Ottima persona. Si fidi di lui.» «Però la Indigo...» «È nelle migliori mani. Sistemeremo tutto, vedrà: tutto. Ora però é necessario che lei se ne vada, signorina Luise.» La signorina non sapeva come comportarsi. Largent le fece un gran sorriso. «D'accordo, me ne vado... Ma state attenti a quel francese, vi scongiu-
ro...». «Badiamo noi a quello lì» assicurò Largent, imperturbabile. Jules, immobile e con la bottiglia in mano, faceva un'espressione idiota. «Lui non è un amico» insisté la signorina. «E lei lo sa già, vero?» «Certo che lo so» disse Largent. «Bene, e allora me ne andrò. Andrò a pregare, perché tutto torni a posto» disse la signorina. Fece un cenno di saluto a Largent, a me e a Irina. Non degnò il francese d'una sola occhiata. Piccola, curva e ridicola se ne uscì dall'appartamento. Per qualche secondo ci fu silenzio assoluto. «Grazie a Dio» disse infine Irina. Jules non si era ancora ripreso: «Ma chi era? Come ha fatto a entrare?». «Ho dimenticato di chiudere a chiave» dissi io. «Sì, ma com'è arrivata fino al quarto piano?» «Non vale la pena di rompercisi la testa» disse Largent, di buon umore. «I matti trovano sempre una strada.» «I matti?» «Ma certo! Quella vecchia è matta» disse Largent. «Completamente svitata. Ma non pericolosa. Se fosse successo anche a lei di aver professionalmente a che fare, per tutta una vita, coi matti, se ne sarebbe accorto subito, alla prima occhiata. Ora però si calmi e apra finalmente quella bottiglia.» Jules cominciò a girare e a smuovere il tappo di sughero, dopo aver tolto il filo metallico. Ma era sempre ancora così disorientato che fece scattare il tappo troppo precipitosamente, e un po' di champagne finì sul tappeto. «Pardon, madame et monsieur... Io... io... quella persona...» «Be', ora se ne è andata» dissi io, e assaggiai lo champagne. «Perfetto!» «Provvederò affinché quella persona non torni più» disse Jules. «Ma chi era? Una sua conoscente, monsieur?» «Si» dissi io. «Una conoscente. Con undici amici morti. Chiacchierano con lei, e a volte li vede persino.» «Allora è matta sul serio!» esclamò Jules. «Certo» dissi io. «Credeva che anch'io fossi uno dei suoi morti» disse Largent. «Hahaha. Charming old lady. A Hollywood m'è capitato una volta di avere a che tare con uno scrittore che vedeva sempre elefanti. Non quelli piccoli e colorati, che vedono gli alcolizzati. Macché! Affaroni enormi! Dappertutto! E una volta che sono andato a trovarlo...» «Largent,» dissi «noi vorremmo cenare. S'è scolato il suo bicchiere. La
prego, ora se ne vada anche lei.» «Non ci penso neppure» disse Largent. «Ho scolato il bicchiere, questo è vero. Vuol dire che mi preparerò un altro drink. No, no, lasci pure, Jules. Ci penso da me» Si alzò faticosamente e si preparò sul serio un altro drink. E a Jules disse: «Può andare. È tutto a posto, come vede. Vada pure a occuparsi della prossima portata». «Benissimo, signore» disse Jules, andandosene. Era sempre ancora pallido di spavento. Largent lo seguì e chiuse la porta a chiave. E poi si abbandonò sospirando sul divano. «Ecco» disse. «E ora a noi due, mio caro.» Avevo già cominciato a mangiare, e anche Irina. Sapevo che quel Largent era come una mignatta, e che non c'era verso di poterselo scuotere di dosso. «Vada al diavolo» dissi io. «Certo che lo farò, ci andremo tutti, prima o poi» disse Largent. Poi si rivolse a Irina: «Continui pure a mangiare, mia splendida signorina, non si faccia scrupoli. È solo una questione di affari. Una questione urgente però. E quindi dobbiamo sbrigarla subito.» «Le ho detto di andare al diavolo...» «Sì, dopo» disse Victor Largent. «Ora però mi stia ad ascoltare, genio ubriacone.» Tolse un taccuino di tasca, scribacchiò una parola sul primo foglio, lo strappò e lo appoggiò accanto alla mia coppa di champagne. Guardai Largent senza capire. Su quel foglio di carta aveva scritto il nome del più vecchio e più stimato settimanale degli USA. 7 «Può andarci subito e cominciare a lavorare quando le pare» disse Largent, facendo tintinnare i cubetti di ghiaccio nel suo bicchiere e nel mio Chivas. «Quel giornale vuole assumerla. Sono fermamente decisi ad averla. Per quel che li riguarda, può partire domattina per New York e cominciare a lavorare da loro dopodomani.» Irina, che non aveva capito di cosa stavamo parlando, mi guardava. Io masticavo uno scampo. M'imburrai un toast e buttai giù un sorso di ottimo champagne. «Il nostro cameriere si è innamorato di lei» dissi poi a Irina. «Mai assaggiato scampi così squisiti. Mai. Squisiti, vero?»
«La pianti» fece Largent. «Non creda di poter spillare più quattrini facendo lo sciocco. La pagheranno lo stesso una follia.» «E cioè quanto?» chiesi io. Volevo vedere fino a che punto era disposto a tirare avanti quella commedia. Si riprese il foglietto. Scrisse una cifra e me lo rimise sotto il naso. «Netti e garantiti al mese» precisò. «Che le riesca di lavorare per il corrispettivo oppure no. Capirà bene che mai nessuno sarà più disposto a offrirle tanto.» La somma che aveva scritto era quattro volte quella che mi pagava Blitz, la quale era a sua volta la più alta mai pagata in Germania. «Fa un certo effetto, eh?» disse Largent, l'uomo che manipolava ogni giorno uomini e milioni. Cominciò ad allentarsi la cravatta e a sbottonarsi la camicia spiegazzata. «La mia percentuale l'avrò da loro. Lei non mi dovrà dare niente. È il maggior ingaggio che mi sia mai capitato di trattare nel settore giornalistico; e ne ho trattati tanti. Ma questo è il più grande di tutti.» Io non feci commenti. Il nome di quel settimanale era di prima classe. Lo stipendio fantastico. Ma naturalmente quel super-ingaggio doveva avere un suo neo. Nessuno, nel nostro settore, aveva mai avuto una proposta di quella portata. «Mi hanno spedito qui in Germania apposta per lei» disse Largent. «E lei, ora, naturalmente mi dirà di sì. Io sto all'Atlantic. Domattina alle otto e mezzo le porto il contratto e un assegno per i primi sei mesi.» «Sono legato da contratto d'esclusiva a Blitz» obiettai. «E lei lo sa benissimo.» «Certo che lo so. Ma è un contratto che si può rescindere...» e indicò il foglietto. «Questi signori sono pronti ad assumersi l'onere di un processo. E naturalmente pagheranno anche i suoi debiti.» «Che debiti?» chiese Irina. «Oh, s'è fatto solo dare 210 mila marchi di anticipo» spiegò Largent. «Paghiamo noi, naturalmente.» «Ma perché vogliono avere me? E perché questa urgenza?» Immaginavo il perché, però ero curioso di sapere come me lo avrebbe detto. «Per la sua firma! Sono innamorati della sua firma! Ce ne vuole di tempo perché una firma s'imponga in America. Per anni e anni ho detto a quella gente: assumete quel ragazzo. E ora ci siamo. Vogliono Walter Roland naturalmente, e le sue inchieste straordinarie, non quel miserabile scribacchino di Curt Corell. Non avrà più bisogno di scrivere intrugli a base di sesso per quelli! Anzi! Solo roba seria. Tutti gli argomenti seri che vuole.
Grandi reportages, critiche, inchieste politiche: e nessuno tenterà d'influenzarla. Potrà scrivere di questioni scientifiche, storiche, sociologiche. I temi migliori, i più importanti: saranno tutti suoi.» «Ma la storia che sto inseguendo adesso, quella no: quella non la devo scrivere, vero?» chiesi io. «No, quella no. Roland, è ora che lei cominci a darsi una dimensione internazionale. Ma che storia vuol che sia, questa? Potrà mandar in brodo di giuggiole i tedeschi, forse. Ma quelli lì...» e indicò di nuovo il foglietto «sono diffusi e letti in tutto il mondo. Hanno nove diverse edizioni. Una tiratura di cinque milioni di copie. La dimentichi, quella sua storia da servette.» Eccolo, il piccolo neo di quel super-ingaggio, pensai. «Walter Roland: quella gente vuol fare di lei un personaggio famoso nel mondo. Le par poco? Dunque, siamo d'accordo, eh? Domattina contratto e assegno. Sono contento che ci siamo sbrigati così alla svelta...» «Largent, Blitz vuole questa storia. Non mi lasceranno andar via così facilmente.» «E invece dovranno. Dopo tutte le umiliazioni che le hanno inflitto! Non mi verrà a dire di essere stato felice a Blitz! Riguardo la sua inchiesta, poi!» e parve colto da tanto schifo da doverlo spazzar via con una gran sorsata. «È una miserabile storia! Ma è acqua passata! Da domani non ne parlerà più nessuno! Anzi, per conto mio, ne parlino pure. Ma scrivere non ne dovrà nessuno.» «Ma io ho anche dei nastri incisi con delle dichiarazioni, e abbiamo spedito in redazione una montagna di fotografie.» «Engelhardt, eh?» «Sì.» «Quel suo articolo non apparirà comunque.» «Come no! Stanno già lavorando alla scelta delle foto che correderanno, sul prossimo numero, l'inizio della mia inchiesta. L'hanno già annunciata!» «Non la pubblicheranno mai! Neanche una riga della sua storia apparirà su Blitz. Lei dice che l'hanno già annunciata? Benissimo. Vuol dire che annunceranno che non la pubblicheranno più. Che importa? È già successo tante altre volte!» «Come fa a essere tanto sicuro che la mia inchiesta non sarà pubblicata?» chiesi io. Ma intanto disagio e inquietudine avevano già cominciato a incrinare la mia sicurezza. «Il simpatico vecchietto di Colonia» disse Largent.
Appoggiai le posate sul piatto. «Non è possibile» dissi poi. «Che possa morire qui sul colpo se non è vero» asserì Largent. «Il simpatico vecchietto di Colonia farà una piccola telefonata al suo editore. Penso che basterà. È sempre bastata. Giusto?» Non risposi. Sì, era sempre bastata, pensavo. Il "simpatico vecchietto di Colonia", come lo chiamavamo, era uno degli uomini più ricchi della repubblica federale. Nume tutelare di tutti i ricconi del nostro paese. Li teneva a bada tutti, come al guinzaglio. Era pieno di miliardi e della potenza derivata da quei miliardi. S'immischiava per combinare matrimoni e per definire divorzi, per mettere a tacere scandali sul riarmo e per impedire fallimenti di certe industrie. Aiutava anche gente straniera: americani, francesi, inglesi, italiani. A patto che facessero parte del clan dei super-ricchi. Il simpatico vecchietto di Colonia aveva una voce dolcissima. E in tutti quegli anni aveva già telefonato un paio di volte a Thomas Herford perché non pubblicasse una certa intervista o un certo articolo. Ed Herford aveva sempre obbedito. Nessuno in Germania avrebbe mai osato contraddire il simpatico vecchietto di Colonia. Perché altrimenti si sarebbe ritrovato praticamente morto. Carriera, esistenza privata: tutto finito. Il simpatico vecchietto di Colonia era in grado di rovinare ben altre imprese che Blitz, se lo avesse ritenuto necessario. Il giorno in cui a Blitz qualcuno avesse osato fare obiezioni, bastava chiudere il rubinetto delle inserzioni pubblicitarie delle industrie - quelle interne e anche quelle estere - e di molti altri clienti ancora. Era sufficiente. Per Blitz sarebbe stato il fallimento. Sino allora Herford si era sempre messo sull'attenti. Lo avrebbe fatto anche stavolta? Una cosa comunque era certa, dopo quello che Largent mi aveva confidato: la mia inchiesta non doveva essere pubblicata. Ma allora perché gli americani avevano detto a Seerose quando avrebbero portato Bilka a Helsinki e poi a New York? Perché ci avevano dato tante di quelle informazioni che Bertie aveva potuto tranquillamente partire con loro alla volta di Helsinki. Perché prima amicizia, tanta cortesia... e ora improvvisamente quella minaccia del simpatico vecchietto di Colonia? O che Largent stesse tentando un bluff? Ne sarebbe stato capace. Quello era capace di tutto. «Inutile aggiungere che quei nastri registrati li porterà con sé a New York» stava dicendo Largent. «Anzi, no: li consegnerà a me, domani mattina, quando verrò col contratto.»
Mi guardai di nuovo la cifra segnata su quel foglietto. Quattro volte quello che mi dava Blitz. Il simpatico vecchietto di Colonia. Evidentemente non era un bluff. Anche se non riuscivo ancora a capire bene. Basta Herford. Basta mami. Basta Lester. Basta computer. Basta con le fesserie sessuali. Libertà. Scrivere quello che volevo. In un altro paese. Con Irina al mio fianco... Bussarono. Mi alzai subito e mi diressi verso la porta. Fuori c'era Jules. Portava il suo secondo carrello in salotto, e cominciò a servire. «Se mi consente, madame.» Riempì le nostre coppe di champagne e aprì un'altra bottiglia. «Dessert? Ha già pensato a qualcosa per dopo?» «Non riuscirò a buttar giù più neanche un boccone» disse Irina. «Niente dessert allora» dissi io. a Però mi porti un'altra bottiglia, Jules.» «Senz'altro, monsieur.» «Bene.» Lo feci uscire e chiusi la porta a chiave alle sue spalle. «Bella vita, non c'è che dire» disse Largent. «Il suo torto è di credere che la bella vita sia tutta qui. Ma lo sa che vita l'attende a New York?» Improvvisamente la sua voce risuonò dura e fredda. «Si svegli, giovanotto! Questa è la sua ultima occasione!» «Perché ultima occasione?» chiese Irina, spaventata. «Provi un po' a guardare le sue mani, mia casa signorina. Non riesce più a tenerle ferme. È un alcolizzato.» «Visto che sono un alcolizzato, perché allora vogliono avere proprio me, e a quel prezzo folle?» «Perché credono in lei.» «Aha! E anche lei crede in me, vero, Largent?» «Eccome! Pensa che altrimenti mi sarei dato così da fare, per tanti anni, in suo favore? D'accordo: okay, okay. Me ne vado. Non voglio che mi dica subito di sì. A me basta che me lo dica domattina. Conosco gli uomini. Domattina lei metterà la sua firma su quel contratto. Non potrà che farle del bene. Anche alla salute. Il buon vecchio zio Largent ha ragione, vero?» Non aveva tutti i torti, è il caso di ammetterlo... «È tutto» concluse Largent. «Ora può farmi uscire. Spedisco un cablo per comunicare che lei è d'accordo.» Tacqui. «E domattina sarò di nuovo qui. Col contratto e con gli spiccioli.» Tacqui ancora. E senza dire una parola lo accompagnai alla porta. «A domani» disse lui con un ghigno, e sparì.
Tornai da Irina e ripresi a mangiare, ma improvvisamente tutto quello che mangiavo non aveva più sapore. Il perché è presto detto: avevo constatato per l'ennesima volta quant'era facile farmi piegare la testa. Molto facile. Purtroppo. 8 Dieci minuti dopo... Durante quei dieci minuti non avevamo parlato. Solo bevuto. Io specialmente. Lo sciacallo era da qualche parte; non si muoveva, ma era pronto ad attaccarmi all'improvviso. Irina ruppe il silenzio. «Walter, non può farlo! Non può lasciare Blitz!» «No, naturalmente no. Non posso farlo.» «Ma allora perché non glielo ha detto subito e chiaramente a quel signor Largent?» «Be' quegli americani mi offrono davvero un sacco di soldi.» «E allora? Le pare un motivo sufficiente per abbandonare Blitz e quel suo amico Hem, col quale ha lavorato per tanto tempo? Che ha fatto tanto per lei?...» Ghignai. «Be', la tentazione è forte.» Dopo una pausa, durante la quale mi fissò attentamente, Irina chiese: «È vero che ha 210 mila marchi di debiti con Blitz?». «Sì. Ma mi è già capitato d'averne anche 300 mila... Ma perché mi guarda in quel modo?» Era brilla. Sorrideva come una persona brilla. «Io ho un contratto con lei! E secondo quel contratto lei dovrebbe darmi 5.000 marchi!» «E allora?» «E allora lei m'ha portato un mucchio di roba, da vestire e così via... ma non ho ancora visto soldi.» «Glieli ho dati.» «No!» «Ma sì. Solo che lei non mi dedica l'attenzione che vorrei. Provi a guardare sotto il divano. Dalla parte del cuscino.» Irina si alzò, barcollò appena e s'inginocchiò davanti al divano. Dopo aver pescato un po' con la mano, trovò la busta. L'aprì e ne uscirono delle
banconote. «Settecento marchi!» esclamò Irina. «Non sia così materialmente prosaica, compagna» dissi io. «C'è anche una lettera.» E cominciò così il giochetto delle lettere che avevo nascosto. Doveva appunto cominciare in quel momento. Faceva tutto parte del mio piano. Avevo ideato un così bel piano per le ore di quella notte durante le quali avrei dovuto badare a Irina, e durante le quali gli americani avrebbero dovuto condurre Jan Bilka a New York... con i microfilm dei piani degli stati del Patto di Varsavia per il caso d'una guerra... Inginocchiata davanti al divano, Irina si mise a leggere ad alta voce quello che avevo scritto su quel foglio di carta: «"Signorina gentile e seducente, l'uomo che ha scritto queste righe è il più povero di tutti i poveri diavoli del mondo. Se le interessa sapere il perché, guardi dietro la tenda della finestra più larga del salotto..."». Irina si alzò, ridendo e un po' incerta sulle gambe, corse alla tenda e vi scoprì la seconda busta che avevo nascosto. Quando la aprì, ne uscirono due grandi banconote. «Duemila marchi!» «Legga la lettera» dissi io. E lei lesse, ubbidiente: «"È il più povero di tutti i poveri diavoli perché ha ormai trascorso cinquanta ore in sua compagnia, e non ha ancora potuto baciare i suoi capelli, i suoi occhi, il suo collo, i suoi meravigliosi..." Ah no, qui cominciamo a esagerare, signor Roland!». Era diventata rossa come un pomodoro. «Prosegua, prosegua.» «"...e nemmeno accarezzare e stringere perché... La continuazione è nel bagno, dietro l'astuccio del rasoio..."» Irina rise di nuovo. Le buste, le lettere, i soldi in mano, si avviò dal salotto verso la camera da letto. In quel momento qualcuno bussò. C'era Jules fuori. Aprii la porta. Impugnava un secchiello per champagne e un'altra bottiglia. «Dia a me» dissi, e cominciai ad aprire la bottiglia. Nella seconda erano rimaste solo poche gocce. Jules raccolse piatti e posate sul carrello e disse: «Fila tutto liscio, monsieur. Ho appena parlato per telefono con monsieur Seerose. È perfettamente d'accordo con gli americani. Lei avrà dell'altro materiale, in esclusiva: a titolo di gratitudine per la sua collaborazione...». Ma si può sapere cosa succede?, pensavo io. Che Largent bluffasse allo-
ra davvero? O erano gli americani che ci provavano? Che fossero loro a volerci bidonare e truffare, il nostro distinto Seerose compreso? Avevamo fatto parecchia strada per conto nostro, e appreso un sacco di cose, prima che gli americani si dimostrassero così servizievoli. Si dimostravano così servizievoli perché temevano che noi potessimo alla fin fine mandare all'aria tutto e far fallire i loro progetti? E si riservavano poi, a problema risolto, di fregarci? Largent lo aveva indirettamente sostenuto. Ma in tal caso il più grande di tutti quegli artefici d'imbrogli era lui. Qual motivo poteva avere di portarmi a New York? La percentuale. La sua percentuale, naturalmente. Eppure... Ci rinunciai, perché non riuscivo a pensare altro. Dal bagno venne un breve grido di Irina. «Cosa c'è?» chiese Jules. «Un po' di soldi del mio editore. Qualche parolina gentile da parte mia. Come vede, fila tutto liscio anche qui.» Jules rise. «Bonne chance, monsieur.» Aveva deposto sul tavolo un vassoio con bicchieri puliti. Si avviò col suo carrello. Gli feci un cenno di saluto e chiusi a chiave dopo che fu uscito. E riempii altre due coppe di champagne. Irina venne dalla camera da letto. Aveva un'altra busta, un'altra lettera e ancora più soldi di prima. Aveva un'aria accaldata. E mi disse con gli occhi accesi: «Lei è uno sfacciato!». «Le dispiace leggere ad alta voce quello che è scritto in quella lettera?» «Lei sa esattamente che non posso leggerlo ad alta voce!» Mi avvicinai. «Son cose che non le ha mai detto nessuno?» «Queste cose qui... e in questo modo... no, mai!» «Posso dirgliele io?» chiesi, e l'abbracciai. Si liberò di me con un gesto impetuoso. «Mi lasci! Devo andare a guardare sotto la sua macchina da scrivere... La continuazione è lì...» «Prima però...» dissi io e le allungai un bicchiere. Mi guardò con quei suoi occhi neri e inquieti. «Mi vuole ubriacare, eh? Vuole che mi ubriachi? Che mi ubriachi completamente?» Afferrò il bicchiere. «E va bene, mi ubriacherò. Non ha senso. Ma in fondo: perché no?» Irina vuotò mezza coppa e me la restituì. Corse alla mia macchina da scrivere portatile e trovò sotto la macchina una busta, che aprì subito. Ne
uscirono altre banconote. «Ma è troppo» balbettò. «Altri duemila... Tutti insieme sono già molto più di cinquemila marchi...» Cominciò a leggere la lettera ad alta voce: «"Tutte le banche del mondo non hanno tutto il denaro che vorrei donarti. Esattamente come tutti gli uomini del mondo non saprebbero con altrettanta dolcezza..."» S'interruppe. «Mio Dio, e se qualcuno dovesse leggere questa roba? Devo immediatamente strappare e bruciare questa lettera!» Ma non la strappò e non la bruciò, riprese a leggere: «"La continuazione è sotto il cuscino del tuo letto..."». Mi sorrise, ormai molto brilla, almeno in apparenza. Partì di corsa e sparì di nuovo in camera da letto. Afferrai subito il ricevitore del telefono e chiesi del bar. Mi rispose Charlie e io gli dissi qualcosa. «Va bene, signor Roland» disse il disc-jokey Charlie. Riappoggiai il ricevitore e mi avviai verso la camera da letto. Portai con me due coppe di champagne colme. Anche in camera da letto c'era una radio, inserita in uno dei comodini: ed era accesa. La musica trasmessa dal bar era una vecchia canzone: I'm always chasing rainbows. Irina era in piedi accanto al letto, esterrefatta. Aveva fatto cadere sulla coperta le buste, le banconote e le lettere, e mi guardava con gli occhi sbarrati. «Lei è impazzito!» «Naturalmente. E la colpa è sua.» «Ha 210 mila marchi di debiti... e si comporta in questo modo... Buon Dio, non ho mai visto in vita mia tanti soldi! Ma perché fa tutto questo?» «È scritto nella lettera. Perché...» Riprese a leggere, ubbidiente: «"Perché ti amo..." Sciocchezze!». Le porsi un bicchiere e bevemmo entrambi. Poi le tolsi il bicchiere di mano, lo appoggiai accanto al mio su un tavolo e abbracciai Irina. «Non è una sciocchezza. È la verità.» E nel dirlo compresi che era, davvero, la verità. Avevo combinato tante maialate in vita mia, ma quella era la verità. Naturalmente eravamo anche brilli. Ma ciò nonostante era la verità: punto e basta. «Ma non ci conosciamo affatto» disse Irina fra le mie braccia. Non si ribellava più, però. «Non sappiamo niente l'uno dell'altra.» «Io so abbastanza di te» dissi, e me la strinsi addosso. «Mi sono innamorato di te quando, al campo, ti ho vista entrare da quella porta... Mi sono innamorato dei tuoi occhi e dei tuoi capelli neri, che hanno riflessi blu proprio come i tuoi occhi... e della tua voce...»
Finalmente. In quel momento cominciò la musica del disco che avevo chiesto a Charlie: Girotondo. Lasciai Irina un attimo e spazzai via soldi e carta dal letto, facendo piovere tutto sul tappeto, poi la riabbracciai e tentai d'indurla a distendersi. «No,» disse lei «no, per favore, no...» «Sì» dissi io. «Sì. Ti prego, amore. Ti prego, sì...» Le sue ginocchia cedettero. Si abbandonò sul letto e io fui su di lei. le baciai le labbra, la fronte, il collo, e manovravo febbrilmente attorno alla chiusura lampo del suo vestito. «Se viene qualcuno...» gemette Irina. «È chiuso a chiave» dissi io, e spensi la luce centrale premendo un pulsante che era accanto al letto. Restò accesa solo la lampadina sul comodino, un abatjour schermato di seta rossa. Non parlammo più. Si torceva fra le mie braccia e io le tolsi il vestito, poi il reggipetto e le sfilai le mutandine bianche. Si agitava lentamente, come un serpente, e gemette di nuovo, piano. Caddero a terra le sue scarpette dorate, e me la trovai nuda davanti a me, col reggicalze sottile e le calze soltanto addosso. Era bella, era meravigliosa. Io mi alzai e mi spogliai velocissimo. Gettai i vestiti a terra. Poi mi distesi di nuovo accanto a Irina, le accarezzai e le baciai tutto il corpo, dappertutto: la nuca, le orecchie, gli occhi, il petto, il ventre. Le mie labbra scivolarono più in basso. Gemette più forte e smise di torcersi: le sue cosce s'aprirono quando la raggiunsi in quel posto, vi premetti il viso, cercando di essere tenero e delicato come non mai. Le dita d'Irina si attanagliarono ai miei capelli e io capii che si eccitava, sempre di più, ed ero eccitato anch'io, come mai mi era successo con quell'intensità. Però continuai a baciarla, attesi che fosse soddisfatta e che mi chiamasse. Lo fece repentinamente, con un breve singulto. «Vieni... vieni da me... presto... ora... ora... vieni...» Mi raddrizzai e mi distesi su di lei. E mi parve che la musica di Girotondo divenisse sempre più forte, e che quella dolce melodia spazzasse via tutto: ogni stanchezza e insicurezza, la tristezza, la tensione, i dubbi, i pensieri, le preoccupazioni, l'irrequietudine, lo sciacallo. Sì, anche lui. 9 Me ne stavo seduto nudo sul bordo del letto. L'altoparlante della radio
trasmetteva ora Laura, il tema musicale del film. Irina era seduta sul letto, le gambe raggruppate vicino al corpo, i capelli scompigliati, e sul suo volto scorrevano lacrime. Lei era molto infelice e io ero molto arrabbiato. Cercai nella giacca, che era lì accanto a me sul tappeto, sigarette e accendisigari. Trovai entrambi, ma l'accendisigari non funzionava. Gettai via con una mezza bestemmia la sigaretta che m'ero infilato fra le labbra, e lasciai cadere a terra l'accendino. «Adesso è arrabbiato» disse Irina. «Ma neanche per sogno» dissi io, e mi rivestii. «Sì, invece» disse Irina. «E lo capisco. Lo capisco benissimo. È tutta colpa mia...» Bevvi un sorso di champagne e fui colto da un brivido. Quella roba era tiepida. Mi chiusi i calzoni, infilai i mocassini e indossai la giacca. Avevo la cravatta in mano. Mi avviai verso la porta del salotto. «Dove va?» «A bere whisky. Ne ho abbastanza di quello champagne. Se ne resti pure a letto. Mi porto coperta e cuscino di là.» «Walter!» Il tono della sua voce era sinceramente disperato. «Non se ne vada... non adesso... Si sieda ancora un po' qui accanto a me...» «A che scopo?» «La prego!» Mi sedetti dunque sul bordo del letto, la guardai e chiesi con fare non precisamente gentile: «Che c'è?». «Mi dispiace tanto» disse lei, e piangeva come una fontana. Ma stavolta non le diedi il fazzoletto. «Non c'è nessun bisogno che le dispiaccia» dissi io. «Evidentemente non sono il suo tipo.» «No!» esclamò lei. «Non ha niente a che vedere con questo... Lei mi è simpatico... mi piace...» «E come no» dissi io. «Me ne sono accorto.» «Sul serio! Ed ero anche fermamente decisa a... È per questo che mi sono anche ubriacata!» «Ah!» «Mi son detta: lo faccio! Lo faccio! E volevo anche farlo, sul serio, Walter... ma poi... Mi sono tremendamente vergognata e non ce l'ho fatta... non ho potuto farcela...» Era un po' troppo anche per me. Mi alzai e cominciai a correre avanti e
indietro. E dissi con cattiveria: «Fermamente decisa. Che vuol dire: fermamente decisa? Perché voleva farlo? Per gratitudine, vero?». «No» sussurrò lei, ma io finsi di non sentirla. «E se lo ha fatto per gratitudine, perché ha eccitato se stessa e anche me al punto che non resistevo quasi più, per poi scostarmi con uno spintone e comportarsi come una matta?» Che è poi esattamente quello che aveva fatto. Una roba del genere non mi era ancora mai capitata. «Non era gratitudine» disse Irina, le ginocchia premute contro il seno. «Non aveva niente a che fare con la gratitudine.» «E con che cosa allora?» «Con Jan.» Ci mancava solo quella. «Sì, con Jan. Io ero... ero ubriaca. E ho tentato di convincermi di un'idea pazza.» «Che idea pazza?» Io intanto maltrattavo la mia cravatta. «Io... ho pensato: se lo faccio, allora... allora... allora lei mi dirà tutta la verità.» «La verità?» «Su Jan!» «Ah» dissi io. «Psicologia applicata, capisco. Studentessa in psicologia, primo anno. Avrei dovuto pensarci. Naturalmente non ancora molto esperta, poiché è al primo anno soltanto, però...» «La prego! La prego, Walter! Lei mi ha mentito! Tutti mi mentono! Persino Bertie! Tutto quel parlottare sotto voce... quel cameriere francese... quel mister Largent... Dov'è andato Bertie? Perché lei è così nervoso?» «Nervoso?» Non riuscivo a sciogliere bene nemmeno il nodo della cravatta, tanto mi tremavano le mani. Se non fossi riuscito a buttar giù in fretta una robusta dose di Chivas, mi sarei ritrovato lo sciacallo fra i piedi. «Non sono mai stato meno nervoso in vita mia» dissi io, e continuai a tormentare la mia cravatta. «Ho tanta paura per Jan... Walter! Walter, la prego, mi dica: cosa gli è successo? Dov'è finito?! Cosa stanno facendo di lui! Si riprenda i suoi soldi! Tutti! Non li voglio! Potrà scrivere lo stesso di me, tutto quello che vuole! Ma mi dica la verità!» Io dissi, costernato: «Lo ama ancora, a questo punto?». Non mi rispose. I nostri occhi s'incontrarono. Passarono alcuni secondi. Poi suonò il telefono sul comodino accanto al letto. Sollevai il ricevitore. Mi rispose il portiere di notte Heintze. Disse solo poche parole. E mi si ro-
vesciò quasi lo stomaco. Non riuscivo quasi a parlare. «Sì» balbettai infine a fatica. «Bene... Gli dica che può salire...» E riappoggiai il ricevitore. Voltavo le spalle a Irina. Mi guardavo le scarpe, non capivo più niente. E dissi: «È qui». «Chi?» sentii chiedere da Irina. Mi voltai verso di lei. «Bilka» dissi io. «Jan?» urlò lei. Riuscii solo ad annuire. «È qui in albergo?» «Qui in albergo» dissi io, e mi premetti le mani sul capo. (Ma come fa Bilka a essere qui? Non è possibile. È assolutamente impossibile.) «Sta salendo...» Irina saltò giù dal letto, s'infilò la vestaglia e le pantofole che le avevo comperato, si passò una mano fra i capelli e corse con tutta la fretta che poteva verso la porta del salotto. La spalancò. Io la seguii. Irina si bloccò sulla soglia della porta aperta. E gridò: «Walter!». Io l'avevo già visto. Se ne stava seduto in una profonda poltrona, una gamba accavallata sull'altra. Un uomo di circa cinquant'anni, con una testa dai bei lineamenti, capelli argentei e lucenti, e un viso pallido. Indossava uno smoking dal taglio impeccabile e quelle eleganti scarpe da smoking che avevo già ammirato un'altra volta: davanti alla porta dell'appartamento accanto. 10 Le parole di Irina non si sentivano quasi: «Lei... chi... è?». «Mi chiami Monerov» disse il russo, che parlava il tedesco senza alcuna inflessione. «Josif Monerov. Un nome falso che suona come uno vero, no?» «Così come l'essere neurochirurgo oppure no» dissi io. Sorrise. «Esatto, signor Roland.» Notò la mia occhiata e spiegò senza che dovessi chiederglielo: «Sono entrato dalla finestra. È solo accostata. I balconi fuori costeggiano l'intera facciata. E noi siamo vicini di appartamento, dico bene?». «Che ci fa qui lei?» chiesi io. E dovetti pensare alla signorina Luise. Chissà dov'era? Che avesse intuito davvero... o saputo... saputo davvero quello che sarebbe successo quella notte? «Sto aspettando il signor Bilka» disse Monerov. «E da un bel po' di tempo anche. Però adesso finalmente sta arrivando.»
«E come fa a saperlo?» Irina barcollò e mi si aggrappò addosso. «Oh,» disse Monerov con tono gentile «me lo dice la sua agitazione. Il modo col quale si è precipitata qui dentro. E il telefono. Suppongo che il signor Bilka si sia fatto annunciare. Ci siamo dati appuntamento qui, sa?» «Lei ha che cosa?» balbettò Irina. «Ci siamo dati appuntamento» disse Monerov. Nel frattempo io mi ero avvicinato di due passi al telefono. Improvvisamente Monerov - o come accidenti si chiamasse - ebbe una pistola fra le mani. Non era un'arma grande. Brillava alla luce dei lampadari. Mi fece un cenno con la pistola. «Via dal telefono, signor Roland. Vada alla porta. Quando busseranno, apra e faccia entrare il signor Bilka. Se oserà fare una sola altra mossa, sparerò. Mi dispiace dovermi comportare in questo modo, ma lei ci ha già dato troppi dispiaceri.» Agitò di nuovo l'arma. Io non sono un eroe e non volevo esserlo. Mi avvicinai alla porta. Monerov si alzò e si piazzò al mio fianco in modo che chiunque entrasse non potesse scorgerlo subito, nel passare attraverso la minuscola anticamera. «E non richiuda la porta a chiave, dopo» disse Monerov. Gli feci un cenno di assenso. E poi nessuno di noi disse più nulla. La radio trasmetteva Night and day. Passarono forse venti secondi. Per me però passarono come venti ore. Poi qualcuno bussò alla porta che dava sul corridoio. Mi avviai nell'anticamera. Monerov puntava la pistola alla mia schiena. «Chi è?» chiesi. «Bilka» disse una voce. Aprii. Entrò un uomo di almeno quarant'anni. Aveva un'aria pallida e disperata, indossava un impermeabile fradicio ed era ubriaco. Mi guardò come un animale braccato. «Venga avanti» dissi io. E non capivo assolutamente più niente. L'uomo che si era annunciato come Bilka entrò nel salotto. E si fermò. Gocce di pioggia cadevano dal suo impermeabile. I suoi capelli erano radi. Scorse il russo e gli fece un inchino pieno di deferenza. E nel farlo cadde quasi a terra. Era molto ubriaco. Irina si mise a urlare: «Lei non è Jan Bilka! Io non l'ho mai vista! Mai in vita mia!». Il russo l'invitò a star zitta con un cenno della pistola. Si rivolse all'ubriaco. «Dica come si chiama!»
«Bilka» dichiarò l'uomo, infelice. Gocce di pioggia scorrevano sul suo volto. «Non è vero!» gridò Irina. «Vaclav Bilka» disse l'uomo. «Io sono il fratello. Il fratello di Jan.» Irina mi si avvicinò e mi prese per un braccio, disorientata. «Fratello? Jan non mi ha mai detto d'avere un fratello...» «Jan non ha detto un sacco d'altre cose» le dissi io. E all'ubriaco: «Di dove viene lei?». «Da Monaco di Baviera. Ci vivo da quasi vent'anni ormai. Mia moglie è morta. Sono solo. Ho un negozio di cornici. Una volta mi andava bene. Ora va malissimo.» Si sforzò di concentrare i suoi pensieri e poi disse: «E dire che ho delle cornici così belle. Le ho sempre avute. Ma forse non le vuole più nessuno. Le faccio con le mie mani». «Dov'è Jan?» esclamò Irina. «Che ne sa di lui? Me lo dica! La prego!» «Un momento» disse Monerov con voce ferma. E squadrò Bilka. «Perché è venuto così tardi?» «Il mio treno era in ritardo.» «Il suo treno è arrivato un'ora fa» disse Monerov, duro. «E lei puzza di grappa.» Il fratello di Bilka diede come un pugno all'aria. «Sissignore, ho bevuto!» gridò. «E io la odio!» «Naturalmente» disse Monerov. «Signor Bilka,» dissi io «perché è venuto qui?» Mi guardò con occhi offuscati. «Questa mattina molto presto» disse poi, a fatica, «sono venuti da me due uomini. Nella mia abitazione di Monaco. Uomini di quello là.» Indicò Monerov. «Me lo hanno ordinato.» «Ordinato di venire qui?» Vaclav annuì. «E come mai glielo possono ordinare?» chiesi io. Bilka stava per rispondere, barcollò, scorse la bottiglia di Chivas. «Che roba è? Non importa. Me ne dia un po'.» Gli riempii mezzo bicchiere e glielo allungai. Lo vuotò con un sorso solo. E si abbandonò ansimando su una poltrona. Noi tutti stavamo a guardarlo. «Già, come mai me lo possono ordinare?» chiese lui. E un po' alla volta divenne più calmo. «Vede, io amo mio fratello. È il mio unico parente vivo. Anche mia moglie lo amava. Jan è venuto a farci visita a Vienna. E noi
siamo andati da lui a Praga. Ha sedotto anche mia moglie, quel porco maledetto. Ma che ci posso fare. Gli voglio bene. Anche se è un maledetto porco.» «Non dica questo di lui!» scattò Irina. Bilka le gettò un'occhiata da sbronzo. «Perché, secondo lei non è stata una maledetta porcata, l'ultima che Jan ha fatto?» «È fuggito perché ha dovuto fuggire!» gridò Irina. «Almeno lei, come fratello, lo dovrebbe capire! Ma non c'è proprio nessuno disposto a capirci, in questo maledetto mondo occidentale sazio e soddisfatto?» «Fuggito» disse il fratello, e fece una risata cattiva. «Fuggito. Per anni si è fatto educare dal suo paese, istruire, pagare, promuovere, infine assegnare ai servizi segreti...» Bilka fece un gran rutto. «... E poi fotografa i piani degli stati del Patto di Varsavia per il caso di guerra, se ne scappa in Occidente e vende quei piani agli americani.» «Non è vero! Non è vero!» esclamò Irina. Poi mi guardò e disse: «O è proprio vero?». Io annuii. Tolto un altro dente. Benone. Per tutto il tempo avevo manovrato per avvicinarmi al registratore, al fine di poterlo poi mettere in moto. Finalmente allungai la mano, pensando di poterlo fare, inosservato. «Via di lì» ingiunse Monerov. «Lasci stare quell'apparecchio. E lei apra bene le orecchie, mia giovane signorina. Ora saprà tutto sul suo caro fidanzato.» «Sì,» aggiunsi io, amaro, «ora saprà tutto. Anche se in fondo avremmo potuto risparmiarci questa scena...» Lanciai una breve occhiata verso la camera da letto. L'ubriaco guardò Irina e chiese: «Secondo lei dunque, signorina, mio fratello non sarebbe un porco?». Irina taceva. Il suo labbro inferiore tremava. Le sue piccole mani erano strette a pugno. «Quei due uomini, stamattina a Monaco, mi hanno raccontato tutto. E mi hanno fornito le prove. Non c'è alcun dubbio. I due uomini mi hanno detto: vai ad Amburgo, all'Hotel Metropol, parla col signor Roland. E in tal caso metteremo tuo fratello in prigione per venti o trent'anni. In prigione. Ma non lo uccideremo, come invece meriterebbe.» Aprii la bocca e poi la richiusi di nuovo. «Lei stava per dire: prima dovete mettere le mani su Jan Bilka» disse
Monerov. «Giusto, signor Roland?» Tacqui. «Lei tace.» Diedi un'occhiata al mio orologio. «E guarda l'orologio. Le undici e mezza. E pensa: a quest'ora Bilka è atterrato a Helsinki da un bel po'. E fra mezz'ora proseguirà in volo per New York. Gli americani lo sorvegliano, e proteggono anche la sua seconda fidanzata. Mi scusi, signorina Indigo.» «Cos'è questa storia di Helsinki? E perché New York? Cosa vuol dire tutto questo! La prego!» implorò Irina. Monerov le rivolse un gesto amichevole. «Subito.» E a me disse: «E io come faccio a saperlo, pensa lei, vero?». «Sì» dissi io. Guardò il mobiletto nel quale era inserita la radio. Mi avvicinai. Con un tagliacarte sradicai la parte anteriore dell'apparecchio. Guardai all'interno della radio, che continuava a trasmettere musica. Poi vidi qualcosa di strano. «Un microfono!» dissi, come un idiota. «Quindi lei sa tutto.» «Tutto, signor Roland.» Monerov annuiva, serio. «Non sono stato ovviamente tutto il tempo nel mio appartamento qui accanto. Avevo troppo da fare in città, come può immaginare. Non possiamo permetterci che il signor Jan Bilka rubi i nostri più importanti piani di difesa e che finiscano nelle mani degli americani, giusto? Voglio dire: mi darà atto che è almeno comprensibile. Ma quando non c'ero io, c'era qualcun altro ad ascoltare cosa si diceva qui da voi. E a registrare tutto su nastro. C'è sempre stato qualcuno. Noi non siamo degli idioti, signor Roland. E neanche dei farabutti. Come il signor Jan Bilka. Noi abbiamo la massima comprensione per gli americani. Anche loro avrebbero la massima comprensione per noi, se i ruoli fossero invertiti. Credo che anche lei ci comprenda, vero, signor Roland?» «Si» dissi io, rauco. «Ne sono lieto» disse Monerov. «O Dio» disse Irina. E cadde su una sedia. La sua vestaglia si aprì sulle gambe. Non se ne accorse. E cominciò a piangere, in silenzio. Non avevo tempo di occuparmi di lei però, in quel momento. «Chi ha inserito quel microfo...» Mi interruppi: «Quel giovane elettricista dell'albergo!». «Già, signor Roland. Il microfono era rotto. Per fortuna era rotta anche la radio. Lei stesso ha fatto venire quel giovane elettricista. Sembra quasi
una barzelletta. Per qualche minuto, di là, abbiamo pensato che tutto fosse perduto. Ma poi Felmar ha rimesso a posto il microfono.» «Felmar?» dissi io. Lo sciacallo. Rieccolo, all'improvviso. Afferrai il Chivas e scolai direttamente dalla bottiglia, tanto e a lungo. «Chi è Felmar?» esclamò Irina. «Lo chieda al signor Roland» disse Monerov. «Credo che lo abbia già capito.» Sì, avevo capito. «Felmar» dissi io, e osservai che la mia voce suonava atona. «Ludwig Felmar. Un grande criminale di guerra. Responsabile dello sterminio della popolazione di intere città in Russia. Se ne stava nascosto in Brasile. Lo hanno scovato di recente. Il governo federale lo ha richiesto. E il Brasile lo estraderà, se le prove a suo carico risulteranno sufficienti. Per il momento però il governo federale non può ancora offrire ai brasiliani prove d'accusa sufficienti. E quindi lui se ne resta laggiù. Sapevo che ha un figlio. Si chiama Jürgen. La moglie è morta. Suicida. Tanti anni fa.» «Jürgen è cresciuto negli orfanotrofi» disse Monerov. «Un bravo ragazzo.» E lo disse con sincerità, senza cinismo. «Ha avuto una vita dura. Però vuol bene a suo padre così come il signor Vaclav Bilka vuol bene a suo fratello.» «E lei sapeva che Jürgen Felmar lavorava qui al Metropol» lo interruppi io. «Sì. Una fortunata coincidenza. Ma ce la saremmo cavata comunque. Così però la situazione ci si è rivelata particolarmente favorevole. Vede, le documentazioni che ancora mancano al governo federale perché il Brasile proceda all'estradizione di papà Felmar, le abbiamo noi a Mosca. Ce le hanno già chieste, con insistenza. Noi non le abbiamo fornite. Abbiamo detto a Jürgen che se ci avesse aiutato, avremmo trattenuto quel materiale e non l'avremmo dato a nessuno. Se invece non ci avesse aiutato, sarebbe stata la fine per suo padre...» «L'elettricista dell'albergo...» dissi io, sconvolto, «il signor Vaclav Bilka... Ma riuscite a ricattare proprio tutti?» Monerov fece un sorriso triste. «Visto il modo in cui la gente si comporta e agisce, signor Roland, si possono ricattare quasi tutti.» Vaclav Bilka si alzò di scatto e si precipitò su di me. Mi afferrò per le braccia e mi investì col suo alito puzzolente. «Non scriva niente di questa storia!» gridò. «Ecco cosa le devo dire! Se
scriverà questa storia, mio fratello sarà un uomo morto! Se invece non la scriverà...» «E ci consegnerà i nastri che ha inciso...» aggiunse Monerov. «... Jan finirà solo in prigione. Ma vivrà! Vivrà!» Con uno spintone respinsi Bilka, perché non riuscivo a sopportare il suo fiato. Ricadde nella poltrona. E dissi: «Lei è già il secondo che non vuole assolutamente che io scriva di questa storia. Lei lo sa già, naturalmente, professor Monerov». «Naturalmente. Ho sentito quello che le ha detto e offerto mister Largent. Non crederà davvero... Signor Roland! Lei è una persona intelligente!... Non crederà davvero che Largent parlasse solo a nome di quel settimanale di New York! Con tutto quello che c'è in ballo...» Quello che gli americani vogliono davvero, pensai, non lo sai, esattamente come non lo so io. Monerov disse, rivolto a Irina e a Bilka che lo fissavano: «Tutto dipende dal signor Roland. Gli americani gli offrono un posto da favola, se non scriverà. Noi non gli offriamo nulla. Noi promettiamo solo di non uccidere Jan Bilka. Per quel che ci riguarda dunque, tutto dipende da un atto umanitario». Io mi misi a ridere. «Non rida, signor Roland. È molto sciocco ridere in un momento come questo. L'espressione "umanitario" la diverte?» «Sì. Molto.» «Il che dimostra quanto poco spirito umanitario c'è in lei» disse il russo. «Per amor di Dio!» Bilka si era alzato di nuovo. Cercai di tenermelo lontano, perché voleva di nuovo afferrarmi per le braccia. «Io la scongiuro, la prego, m'inginocchio davanti a lei...» E cadde davvero in ginocchio, sul tappeto, torcendosi le mani. «... Non scriva! Altrimenti avrà una vita umana sulla coscienza! Signor Roland... signor Roland!...» E mi abbracciò le ginocchia. Mi chinai e mi strappai le sue mani di dosso, lui perse l'equilibrio, cadde all'indietro e se ne rimase disteso sul tappeto. «Perché tutti sono tanto ansiosi che non si scriva niente di questa vicenda?» chiese Irina, disorientata. «Be',» disse Monerov «ci sono cose che irritano ed eccitano gli uomini, giusto? Il che non è bene. Nuoce alla pace. Se la gente sarà informata di questa vicenda, di cui non sa ancora nulla...» S'interruppe, perché squillava il telefono. Lo fissai ma non mi mossi. Il telefono squillò di nuovo.
«Risponda pure» disse Monerov. Come un automa mi avviai verso l'apparecchio e sollevai il ricevitore. La voce di Bertie risuonò chiara, come se fosse lì accanto a me: «Walter, sei tu?». «Sì. Perché mi chiami qui? Non avresti dovuto... Ma dove sei?» «Helsinki.» Respirava affannosamente. «E allora?» «Aspetta un momento! Ti ho chiamato apposta per dirtelo. Sta' a sentire...» Stetti a sentire. Dopo la sua prima frase ebbi la sensazione di essere stato colpito con un gancio sinistro, da Cassius Clay, alla bocca dello stomaco. Non riuscii più a reggermi in piedi, mi piegai letteralmente in due e crollai sul divano. Il ricevitore mi sfuggì di mano e cadde sul tappeto. Sentii la voce di Bertie che squittiva. Lentamente e a fatica sollevai di nuovo il ricevitore e me lo portai all'orecchio. «Cos'è stato? Cos'è successo? Sei ancora lì, Walter?» «Sì. Sono ancora qui. Racconta pure, Bertie.» E lui raccontò. 11 La città si estendeva bianca lungo il mare. Mentre l'apparecchio sorvolava Helsinki e si abbassava sempre di più per la manovra d'atterraggio, Bertie, il binocolo in pugno, riuscì a distinguere persino, alla luce della notte chiara, alcune ampie strade e singoli edifici. Il velivolo della PAN-AM atterrò puntualmente alle 22 e 30. Bertie era seduto in prima classe, e cinque fila di sedili davanti a lui c'erano Jan Bilka, la sua amichetta bionda e Michelsen. Accanto a Bilka, e nelle fila davanti e dietro lui c'erano i sette uomini che avevano portato Bilka e la sua amica all'aeroporto di Amburgo. Le guardie del corpo erano omaccioni grandi e grossi pronti a sparare subito, se vi fosse stato anche un minimo contrattempo. Ma non vi fu neanche un minimo contrattempo, né a Fuhlsbüttel né durante il volo. L'aereo toccò terra, rullò a lungo e si fermò esattamente davanti alla aerostazione. Furono avvicinate delle scale, ed aperte tutte e due le porte d'uscita. I passeggeri lasciarono l'apparecchio. Bertie vide che Bilka, la ragaz-
za, Michelsen e quei sette uomini restavano seduti ai loro posti. Capì subito il perché: volevano lasciare l'aereo per ultimi. Scese lungo la scaletta. Accanto all'apparecchio vide un'automobile grande e nera. A bordo c'erano due uomini, l'uno al volante, l'altro seduto accanto a lui. Bertie, buon osservatore, notò anche che quella grande limousine era corazzata, aveva i vetri a prova di proiettile e inoltre era dotata di pedane esterne, come le macchine dei capi di Stato, perché possano salirvi gli agenti di scorta. Bertie si avviò lentamente verso l'aerostazione, continuando a guardarsi in giro. Infine vide Bilka, la sua amica e Michelsen affacciarsi al portello d'uscita dell'aereo, e apprestarsi a scendere la scala. Davanti e dietro loro erano schierati i sette uomini. Tutti avevano la mano destra infilata sotto la giacca e continuavano a guardarsi attorno. Non accadde nulla. Bertie, che conosceva quell'aeroporto, sapeva che l'uscita per gli autoveicoli dotati di permesso d'accesso alle piste era accanto ai magazzini riservati alle operazioni commerciali. Si avviò di corsa, zoppicando, nell'aerostazione, si fece largo fra la gente senza eccessivi riguardi, esibì il suo passaporto, lasciò perdere la sua sacca con i vestiti e corse verso il piazzale davanti all'aeroporto, ove fece un cenno a un taxi. La macchina gli si avvicinò. Bertie si sedette accanto all'autista. «Mi capisce se parlo in tedesco?» «Si» disse l'autista, un gigante dai capelli biondi e dalla pelle chiarissima. Indossava un giaccone di cuoio. Bertie gli allungò due banconote da cento marchi. «Che devo fare?» «Andiamo subito di là, verso la zona commerciale, dove c'è quel cancello di ferro. Fra poco ne uscirà una grande macchina nera. Me la dovrà seguire. È necessario però che lo faccia con grande prudenza. Non voglio che se n'accorgano.» «Polizia?» chiese l'autista. «Stampa» disse Bertie, e mostrò la sua tessera. «Di solito non faccio domande» disse l'autista. «Se mi si paga come si deve, eseguo tutto quello che mi si chiede. A patto che non sia illegale.» «È perfettamente legale» assicurò Bertie, e si congratulò con se stesso per aver trovato quel tassista. Mi piacerebbe sapere, pensò Bertie, cosa intende per illegale e cosa quindi si rifiuterebbe di fare. L'autista guidava in modo eccellente. Parcheggiò la vettura accanto al cancello che portava alle piste, ma in modo da starsene nascosto da un au-
tocarro, e spense i fari. Subito dopo Bertie sentì il cancello aprirsi. Il chiasso sferragliante coprì quello del vento. Ne uscì l'automobile corazzata. Cinque uomini erano in piedi sulle pedane esterne. Due altri si erano seduti dentro la limousine assieme a Bilka, alla sua amica e a Michelsen. La vettura si fermò. Da un magazzino aperto uscirono due macchine più piccole e scure. Gli uomini che erano sulle pedane vi si infilarono, tre nella prima, due nella seconda. Quindi la colonna si mise in movimento, e l'automobile corazzata viaggiava ora in mezzo alle altre due. «Aspetti ancora un attimo» disse Bertie all'autista. «Certo. Crede che sia un idiota?» Bertie fotografò la fila di macchine che girava attorno alla rotonda, davanti all'edificio dell'aerostazione, per avviarsi poi lungo la strada che conduceva verso la città. «Adesso» disse Bertie. Si misero in moto anche una serie di altri taxi e di vetture private che erano parcheggiate davanti all'edificio: il traffico era abbastanza fitto. Quel tassista era però un genio. Raggiunse in fretta il piccolo convoglio che, lungo il viale verso la città, aveva aumentato di molto la velocità, ma fece sempre in modo che una o due altre vetture si trovassero fra il taxi e quel gruppo. Non fece neanche una domanda. Il viaggio proseguì lungo boschi e superfici d'acqua nelle quali si specchiava la luna. Era proprio il viale che conduceva al centro della città. Bertie lo riconobbe. Però il convoglio delle tre vetture non era evidentemente diretto al centro. Svoltò improvvisamente a destra, nella Elaeintarhantie. Sulla destra c'era un bosco, sulla sinistra un lago. La notte era così chiara che l'autista spense i fari. «C'è troppo poco traffico qui» disse. «Non vorrei che finissero col notarci.» «Hm» fece Bertie, e allungò all'autista un'altra banconota da cento marchi. Raggiunsero la grande via Mannerheimintie e l'attraversarono. Bertie scorse sulla destra, in lontananza, illuminata da alcuni riflettori, la statua del famoso corridore finlandese Paavo Nurmi e, più oltre, l'enorme edificio circolare dello stadio olimpico. Stavano percorrendo la Runeberginkatu. Bertie si stupì quando vide la colonna virare all'improvviso verso una strada che conduceva alla spiaggia di Hietaranta, e quindi giù, fino al mare. Era una zona nella quale i ricchi avevano i loro bungalow o anche vere e proprie villette, che sorgevano molto distanziate l'una dall'altra.
«Si fermi» disse Bertie all'autista. «C'è troppo poca gente. Mi aspetti qui. Devo proseguire da solo.» «D'accordo» disse l'autista, che aveva per tutto il tempo continuato a masticare gomma, e che sembrava la calma personificata. Bertie scese. Cominciò a percorrere zoppicando la strada che scendeva verso la spiaggia. Vide le tre automobili del convoglio avviarsi in fila per certe stradine strette, fra le dune, in direzione di quei bungalow. Si gettò a terra, dietro un grande cespuglio frustato dal vento. Prese in mano il cannocchiale. Il convoglio si fermò davanti a un bungalow di legno scuro, che sorgeva in mezzo a un terreno recintato. Bertie cominciò a spazientirsi e si guardò attorno. Non c'era nessuno, all'infuori di quelle tre macchine. A sud della spiaggia c'era il grande cimitero militare. Bertie scorse attraverso il binocolo innumerevoli croci bianche e la tomba del feldmaresciallo Mannerheim. Tutti gli occupanti, all'infuori della ragazza e di Michelsen, avevano lasciato le automobili. Gli uomini che sorvegliavano Bilka gli si erano schierati tutt'attorno. Bertie vide che impugnavano pistole mitragliatrici. Questi sono americani di stanza a Helsinki, colleghi di quegli uomini di Amburgo, pensò. Sopra l'ingresso al bungalow s'accese una luce. Il cancello della staccionata si aprì automaticamente. Bilka, i due uomini della limousine, e altri due di quelli che erano venuti da Amburgo s'avviarono sulla sabbia e sui sassi di quel tratto di terra, verso il bungalow. Gli altri uomini se ne restarono immobili alla luce della luna. Guardavano in tutte le direzioni, si voltavano l'un l'altro le spalle e tenevano le pistole mitragliatrici in posizione di sparo. Bertie scattò alcune immagini, ma era poco convinto anche lui di poterne ricavare fotografie in qualche modo utilizzabili. La porta del bungalow si apri. Nell'inquadratura della porta apparve un uomo che indossava pantaloni di velluto a coste e un maglione a strisce orizzontali, bianche e blu. Quell'uomo portava i capelli come un hippie, notò Bertie. Tutta la compagnia scomparve nel bungalow e la porta si chiuse alle spalle del gruppo. Improvvisamente, essendo mutata la direzione del vento, Bertie udì chiaramente il rumore della risacca. Bertie attese per circa cinque minuti. Non vide, naturalmente, quello che avvenne in quei cinque minuti nel bungalow. Lo seppe poco dopo e prima di telefonare poi a me, così che posso riferirne anch'io.
L'uomo in maglione e dai capelli lunghissimi salutò Bilka. Quindi era quello il suo amico di Helsinki. Un pittore. Attraverso un soggiorno riscaldato da un fuoco che ardeva in un camino, il pittore condusse i suoi ospiti nell'atelier, una stanza molto ampia. S'inginocchiò e aprì l'ultimo cassetto di un mobile, nel quale c'erano stampe, litografie e acquarelli. La scena era grottesca: dappertutto cavalletti, quadri finiti e da finire appoggiati alle pareti, spatole, tubetti di colore, pennelli, bottiglie di trementina, tele tese su intelaiature di legno e in mezzo a tale confusione quattro uomini silenziosi armati di mitra, il pallido Bilka e un pittore nervoso che scavava in un cassetto. Infine trovò quello che vi aveva nascosto: due contenitori d'alluminio, di quelli che si usano per conservare pellicole. Il pittore consegnò gli astucci a Bilka. Questi li consegnò a uno degli uomini della limousine corazzata. Questi a sua volta si avvicinò, con un collega, alla forte lampada che pendeva dal soffitto, aprì i contenitori, ne prelevò uno dopo l'altro alcuni frammenti di pellicola e li sollevò contro la luce. Aveva anche tirato fuori di tasca una lente. Gli americani esaminarono le pellicole. Quello che videro parve soddisfarli. Il conducente dell'automobile corazzata si sedette per qualche momento e infilò con cautela i microfilm di nuovo negli astucci. Quindi li consegnò a un altro degli americani. Bilka strinse la mano al pittore, che riaccompagnò i suoi visitatori alla porta. In tutto non erano state pronunciate più di venti parole... Bertie, disteso dietro il cespuglio violentemente percosso dal vento, vide la porta del bungalow aprirsi ed uscirne un uomo armato di pistola mitragliatrice. Ne seguì un altro. Poi un terzo. Il quarto. Poi fu il turno di Bilka. Gli uomini lo circondarono e si avviarono di nuovo verso le macchine, passando per il giardino. Bertie ripercorse, più in fretta che poteva, la strada dalla quale era venuto, verso il taxi che lo attendeva. Saltò su, sul sedile accanto a quello dell'autista. «Spunteranno quasi subito» lo informò Bertie. Il tassista si limitò ad annuire, avviò il motore, arretrò la vettura in un androne buio e attese. E infatti poco dopo le tre vetture del convoglio sfrecciarono davanti a loro, a forte velocità. L'autista attese un secondo e poi riprese il suo inseguimento: senza accendere i fari. Ripercorsero lo stesso tracciato che avevano fatto all'andata, in direzione dell'aeroporto. Incontrarono ben presto altre automobili e si inserirono in un traffico ancora abbastanza vivace. Le tre macchine che li precedevano si avviarono verso l'alto cancello della stazione commerciale e s'infilarono
nell'edificio dell'aeroporto. «Alt» disse Bertie. L'autista fermò. Bertie si avviò di corsa, zoppicando, verso la cancellata, scosso dal vento. Guardò verso le piste di volo. Che intenzioni avevano? Aspettare li fuori sino alla partenza dell'aereo di mezzanotte per New York? Evidentemente sì, pensò. E poi, subito dopo, allarmato: evidentemente no! Quello che accadde poi, si svolse a una velocità fulminea: la limousine corazzata, che si era fermata fra le altre due vetture, partì di scatto e si avviò velocissima verso una delle piste di decollo. Bertie vide gli uomini che erano a bordo delle due macchine più piccole mettersi a sparare contro la vettura in fuga. I lampi che uscivano dalle canne dei mitra rischiaravano la notte. È abbastanza sciocco sparare su una macchina corazzata, pensò. E infatti la limousine continuò la sua corsa velocissima, senza che nessuno rispondesse al fuoco. Nell'inseguimento precipitoso le altre due macchine finirono l'una contro l'altra. Il serbatoio di una delle due esplose. Un'enorme fiammata color arancio si levò in aria. Bertie vide gli uomini uscire barcollando dalle due automobili, e fuggire lontano per mettersi al riparo. Subito dopo l'esplosione, tutti i riflettori dell'autostazione si erano accesi. Cominciarono a urlare delle sirene. Autopompe dei vigili del fuoco accorrevano da ogni dove. Tutto era improvvisamente immerso in una luce violenta. Bertie aveva sollevato la Hasselblad davanti agli occhi, e cominciò a scattare una foto dopo l'altra. La limousine corazzata aveva nel frattempo continuato la sua corsa folle. Ma dove la stava conducendo quell'autista? Bertie capì quasi subito dove andava, e si morse un labbro. All'inizio d'una pista di decollo, c'era il grande aereo da trasporto della compagnia aerea statale polacca. Era pronto alla partenza: luci colorate si accendevano e si spegnevano lungo la fusoliera e sulle ali, i reattori urlavano. Mentre la limousine stava ancora correndo verso l'apparecchio, la rampa di carico era uscita dalla pancia del velivolo, fino a terra. La limousine raggiunse l'aereo da trasporto e vi si infilò salendo lungo la rampa inclinata. Subito dopo quella pista improvvisata si sollevò e si chiuse. Passò pochissimo tempo. Gli uomini che sono a bordo di quell'aereo stanno ancorando la macchina, pensò Bertie, mentre i reattori dell'apparecchio rintronavano l'aria col loro urlo. Il pesante velivolo da trasporto rullò sulla pista: poi si sollevò da terra e il jet salì sempre più in alto. Ormai era diventato piccolissimo. Fece una gran virata verso sinistra...
Le prime autopompe dei vigili del fuoco avevano raggiunto la macchina in fiamme. Getti di schiuma cominciarono a investirla. Gli uomini, che erano saltati fuori dalle automobili, sbraitavano confusamente, gesticolavano. Poi si misero a correre tutti insieme, in direzione della torre di controllo. 12 Zoppicando vistosamente, Bertie si avviò lungo il corridoio che portava alla sala centrale della torre di controllo. Era proibito, per i non addetti ai lavori, soffermarsi in quella parte dell'edificio. Ma nella confusione generale Bertie era riuscito ad aggirare i controlli alla base della torre. Dopo tanti anni di quel lavoro, conosceva ormai tutti i trucchi del mestiere. Il corridoio era vuoto. C'erano alcune porte. Bertie sentì un rumore. Si diede una rapida occhiata attorno... Ecco, una toilette! Spalancò la porta, s'infilò nel piccolo locale e lo chiuse a chiave alle sue spalle. Sentì due uomini passare davanti alla porta: parlavano finlandese e sembravano molto agitati. E subito dopo - Bertie diceva sempre di aver la fortuna appiccicata addosso quando lavorava - subito dopo Bertie avvertì, molto attenuate ma chiare, alcune voci al di là della parete della toilette. Appoggiò un orecchio alla parete. Nel locale accanto era in corso una vivace discussione. Più uomini - Bertie distinse complessivamente cinque voci - parlavano in inglese. Questo è slang americano, pensò Bertie. Questi sono quattro di quegli americani che ho seguito col taxi. E poi ce n'è un altro, quello con la voce più profonda: dev'essere uno che era qui in attesa, e che ora sta ricevendo il rapporto degli altri. Che fortuna incredibile!... «...c'è Jim di là alla torre di controllo che si comporta come un pazzo! Sta telefonando a mezzo mondo! Chiede che dei caccia siano spediti all'inseguimento dell'aereo da trasporto, perché l'inducano ad atterrare...» La voce profonda: «Lo so, sta' calmo. Sono io che l'ho mandato di là». «Ma ha bisogno del consenso del ministro alla difesa, Pete...» Quello dalla voce profonda si chiamava, Pete, dunque. E disse: «E allora?». «Il ministro se ne guarderà bene! Un aereo del blocco orientale! In Finlandia!» «Dobbiamo tentare» disse Pete. «Ci sono soltanto centocinquanta chilometri sino alla frontiera sovietica!
Per la miseria, Pete, anche se arriva l'ordine di intervento, sarà troppo tardi!» «Quell'ordine non arriverà mai! Se sapeste quanti MIG di scorta lo aspettano!» «Mi sembra d'impazzire, Pete: ma c'è davvero un traditore fra di noi?» «Perché?» «Per la miseria, Pete! Nell'auto corazzata non ci sono soltanto Bilka, Michelsen e quella sgualdrina. Ci sono anche quattro dei nostri! Due di qui e due di Amburgo! Possibile che siano tutti e quattro dei porci maledetti? Ma quanti soldi avranno dato loro? Cosa...» «Idiota!» esplose Pete. Poi il tono della sua voce si fece più gentile: «Scusa, Wally, tu non c'eri prima, quando è venuta quella segnalazione...». «Quale segnalazione?» «Degli automobilisti finlandesi hanno trovato dietro uno steccato, lungo il viale, due uomini ammanettati. Cerotti sulla bocca e compagnia bella... Erano i tuoi due colleghi di Helsinki!» «Oh merda!» «Già, merda! Erano i due che avrebbero dovuto essere a bordo della limousine corazzata!» «Ma come mai...» «I due hanno dichiarato che, mentre si stavano dirigendo verso l'aeroporto, hanno visto improvvisamente un bambino disteso sulla strada... Erano stati mandati soli apposta, perché il vostro convoglio non suscitasse poi troppa curiosità... Be', insomma, hanno visto quel bambino e sono scesi... Hanno pensato che fosse accaduto davvero un incidente! E i russi naturalmente non aspettavano altro.» «Quali russi?» «Quei due dicono che erano russi. Perfettamente travestiti da americani. Parlavano senza inflessioni. Abiti americani, inappuntabili. Sapevano tutto dell'operazione in corso. Hanno ridotto i nostri colleghi all'impotenza, hanno tolto loro documenti, armi, piastrine di riconoscimento. Li hanno infilati dietro quello steccato e sono arrivati all'aeroporto: spacciandosi per l'equipaggio della limousine!» «E il bambino? E quel bambino, Pete?» «Si è rialzato, semplicemente. Si era solo disteso a terra. Una macchina lo ha portato via...» «Stramaledetti figli di puttana!» «È una cosa fantastica! Noi non ci siamo accorti di niente! Assolutamen-
te di niente! Non ho avuto un attimo di dubbio! E dire che ho parlato con quei due!» «Anch'io!» «Anch'io!» «Ecco!» disse Pete. «È stato questo il nostro errore: non vi conoscevate personalmente... Qualcuno deve aver rivelato tutto ai sovietici: con quale aereo sareste arrivati, in quanti eravate, il nascondiglio dove Bilka vi avrebbe condotti... Tutto insomma.» «Dunque, erano due russi, quelli che hanno infilato la macchina in quell'aereo da trasporto...» «Ci sei arrivato, finalmente?» «Un momento! D'accordo, i due russi, Bilka, la sua ragazza e Michelsen. Ma c'erano anche due dei nostri, venuti da Amburgo, su quell'automobile! Che ne è di loro?» Voce di Pete: «Il comandante dell'aereo da trasporto ha comunicato subito dopo il decollo che sono incolumi. Sono stati sopraffatti dai russi e dagli altri uomini che attendevano nascosti nell'aereo. Ora se li stanno portando via come ostaggi». «Ad ogni modo quello che Jim sta tentando di fare è una fesseria: vuol costringerli ad atterrare spedendo loro dietro degli intercettatori!» «Deve tentare. Ma lo sai che c'è in ballo?» «Quelli sono capaci di far fuori i nostri colleghi!» «È appunto quello che ha fatto sapere il comandante. Li accopperanno non appena scorgerà il primo caccia. Altrimenti ce li rispediranno, subito dopo l'atterraggio. A patto naturalmente che non tentiamo di ostacolare il loro volo verso l'Est. Lo so, è una situazione schifosa. Non c'è niente da fare. Ma la centrale ha ordinato di tentare almeno di far decollare i caccia, e...» Rumore d'una porta spalancata. Un'altra voce, furibonda: «È finita! Finita! Ora è finita davvero!». «Calmati, Joe. Cosa c'è?» «Ecco! Guardatevi queste pellicole! Ecco! Ecco! Ed ecco ancora! È stato uno di quei russi quello che ha preso per primo i contenitori dalle inani del pittore, laggiù nel bungalow. E poi li ha dati a me. E io glieli ho quindi restituiti, perché ci rimettesse dentro le pellicole. Ed è in quel momento che deve averle scambiate.» «Dio mio!» «Mi venga un colpo!»
«In questi astucci ci sono i rapporti sull'ultima manovra della NATO! È incredibile!» «E le pellicole di Bilka?» «Ce l'hanno i russi, naturalmente. A bordo di quell'aereo!» «Dio onnipotente, che pasticcio!» «Andiamoci piano» disse Pete. «Come sono andate le cose lì al bungalow? Come è avvenuto lo scambio delle pellicole? Spiegatemelo lentamente. E in tutti i dettagli, per favore...» 13 «...già, e così hanno raccontato tutti i dettagli a quel Pete, e io me ne sono rimasto lì a sentire: per questo ho potuto riferirlo anche a te» diceva la voce di Bertie al mio orecchio. Ero seduto sul divano e ascoltavo la sua relazione. Monerov, il fratello di Bilka e Irina stavano attorno a me, immobili come statue del museo di madame Tussaud. L'uomo che aveva detto di chiamarsi Monerov sorrideva. E reggeva una pistola in pugno. «E poi?» chiesi io. Avevo già bevuto un paio di volte direttamente dalla bottiglia, mentre stavo ad ascoltarlo, e lo feci di nuovo. «Be', ho fatto in modo d'andarmene di lassù. E di lasciare per intanto l'aeroporto. Sto telefonando... Non importa da dove. Ho trovato il taxi con lo stesso autista di prima. È disposto a far di tutto per me. Dice che mi ricondurrà all'aeroporto in tempo per salire sul primo aereo per Amburgo. A proposito, se vuoi ridere: quest'autista non è un finlandese. È un norvegese. Un comunista norvegese, mi ha precisato. Quella tua cara signorina Luise...» «Piantala» dissi io. Un norvegese. Un comunista norvegese. A Helsinki. E stava aiutando Bertie. Dovetti far forza su di me per non continuare a pensarci. «Torna indietro più presto che puoi. Chiudo.» Riagganciai il ricevitore. «I russi hanno preso Jan?» mormorò Irina, che aveva seguito il colloquio. «Sì. Anche la sua amica. E Michelsen.» Il fratello di Bilka si lamentava a gran voce. «Ecco, vede...» cominciò Monerov, quando qualcuno spalancò la porta. Jules Cassin, entrò nella stanza. Indossava cappotto e cappello sui suoi abiti da lavoro. Non ci degnò neanche di un'occhiata. Guardò solo Monerov.
«Tutto a posto, Josif» disse. «L'aereo è ormai al sicuro sul territorio sovietico. Atterrerà fra un paio di minuti. Qui abbiamo finito. Sbrigati.» Monerov gli allungò la pistola. «Vado a prendere soltanto alcune cose. Torno subito!» E uscì di corsa dall'appartamento. Io mi alzai e mi diressi verso il francese. «Mascalzone! Porco maledetto! Dunque lei lavora per i russi! E mi ha ingannato!» «Come ha fatto ad accorgersene? Lo sa che è perspicace, lei?» ironizzò Jules Cassin. Alzò l'arma. «Fermo lì. Non t'illudere: non esiterò ad aprirti un buco nella pancia!» «Lei... lei...» Però mi fermai. «È lei che aveva l'incarico di spiarci attraverso quello strumento...» Indicai il microfono inserito nella radio, che continuava a trasmettere musica dolcissima. «Lei aveva il compito di trattenermi qui...» «Sei un ragazzo intelligente. Congratulazioni!» disse Jules. «E Seerose? L'uomo che le ha salvato la vita? O non è vero neanche questo?» «Salvato la vita!»Jules sputò sul tappeto e cominciò a bestemmiare oscenamente in francese. «Salvato una merda! È stato solo un porco gesto di previdenza, e basta! E in cambio io, nel 1945, sono andato a tirarlo fuori da un campo di prigionia, ho testimoniato per lui! E gli ho procurato la licenza per fare il giornale. Nel frattempo però la mia famiglia era stata sterminata! Sono morti tutti in quella vostra guerra di merda! Uccisi perché erano partigiani! Nei lager! Io odio i tedeschi!» «Tutti e senza eccezione...» dissi io, amaramente. «Senza eccezioni, sissignore!» disse lui. «Ma perché, Jules?» «Perché? Ti ricordi d'avermi chiesto perché faccio ancora il cameriere alla mia età? Perché non ho quel bar che desideravo, eh?» «Sì...» «Perché ho sposato una donna tedesca, capisci? Avevo pensato: facciamola finita una buona volta con quest'odio. E sai che ha fatto la mia dolce mogliettina tedesca? Mi ha ingannato! Mi ha mentito! Ero troppo vecchio per lei! E quando ho avuto abbastanza soldi per comperarmi il bar, me li ha rubati ed è fuggita con un altro uomo... un americano... Grandi amici, oggi, i tedeschi e gli americani! Ma non amici miei!» Mi guardava, e i suoi occhi fiammeggiavano. «Ora me ne vado da questo lurido paese! Vado a
lavorare in un altro paese! E qui non ci tornerò mai più: mai! E ne sono felice! Felice! Capisci?» «Capisco» annuii. Monerov rientrò nell'appartamento impugnando una piccola valigia. Anche lui aveva ora cappotto e cappello addosso. «Non andrà molto lontano» gli dissi. «L'arresteranno.» «Oh no» disse Monerov. «Fra cinque minuti saremo così lontani che non ci troverà più nessuno...» Afferrò un pesante candelabro, distrusse l'apparecchio telefonico e spaccò il quadro dei pulsanti per chiamare camerieri, cameriere e facchini. Poi si spostò velocemente in camera da letto e nel bagno. Lo sentimmo dare dei colpi. Infine tornò in salotto. Bilka gli sbarrò la strada. Per tutto il tempo durante il quale ero rimasto attaccato al telefono aveva continuato a bere whisky come un pazzo. Era completamente ubriaco. Cominciò a sbraitare, barcollando: «Mio fratello... Cosa... sarà ora... di lui? Io non credo... che... lei lascerà mio fratello... in vita... se... se il signor Roland... non... scriverà!». «Le conviene anche non crederlo» disse Monerov. «Co... cosa... cosa?» «Ora che abbiamo Jan Bilka dove lo volevamo, il signor Roland può fare quello che più gli garba. Scrivere, non scrivere, e chi se ne frega! Questa è stata soltanto una misura precauzionale, per il caso che il rapimento fallisse. Non è fallito.» «Quindi... voi... ucciderete... Jan?» «Abbiamo ancora bisogno di lui. Per le altre pellicole. Quelle che sono a New York...» «E quando lui... vi avrà detto dove... sono? Quando... avrete messo... le mani... anche su... quelle... cosa farete... allora... di Jan?» «Provi a indovinare?» disse Monerov. Bilka gli saltò addosso. Jules Cassin lo colpì col calcio della pistola sul capo. E Bilka crollò a terra, con un gemito. «Ecco» disse Monerov. «Mi dispiace, ma dobbiamo rinchiudervi qui dentro. Verranno presto a liberarvi. A noi basta potercene uscire prima dall'albergo. E lo faremo prestissimo.» Uscì di corsa dall'appartamento, seguito da Jules Cassin che arretrò senza voltarci le spalle. Udimmo la chiave girare due volte nella toppa, dal di fuori. Dopo di che, nessuno si mosse nel salotto. Pareva che fossimo tutti morti. E poi - molto piano all'inizio, in sordina, quindi sempre più forte - risuonò dalla radio semi-sfasciata, ancora una volta, la melodia di Giroton-
do. Irina urlò. Mi avvicinai, per sorreggerla. In quell'attimo Vaclav Bilka lanciò un grido terribile e si precipitò incespicando verso la grande finestra che dava sul balcone, la spalancò. Lo vidi gettarsi verso la balconata, scavalcarla, restare un attimo in equilibrio. Poi lo udii urlare: «Jan!». E si lasciò cadere dal balcone, dal quarto piano. Irina si girò di scatto, nascose la testa sulla mia spalla e mi si aggrappò con tutte e due le braccia. Udimmo distintamente il momento in cui il corpo di Bilka piombò a terra. Un tonfo orrendo. Le unghie di Irina affondarono nella stoffa della mia giacca, la dilaniarono e le sentii infine, dolorosamente, penetrarmi nella pelle. IMPRIMATUR 1 «È una traditrice... traditrice...» «È una peccatrice... peccatrice...» «Ci ha traditi... traditi...» Pareva che le voci provenissero da tutte le parti del vasto Alsterpark immerso nella notte. Voci cattive, imperiose, minacciose. Voci che pronunciavano parole terribili e rimbombanti come echi. Voci che la signorina Luise non conosceva, maschili e anche femminili: sì, anche femminili! Cosa stava succedendo? E cosa succedeva a lei? Si guardava attorno in preda al panico, correva avanti e indietro sull'erba bagnata che si estendeva da un sentiero all'altro. Respirava a fatica sotto l'ombrello aperto. «Sciagura... sciagura...» «Disgrazie... altre disgrazie... disgrazie...» «È sua la colpa! È sua la colpa! Colpa... colpa...» «Ci ha traditi... traditi...» «Per superbia... superbia...» «Corrotta... corrotta...» «Perché non conosce l'amore... non conosce l'amore...» «Perché non ama... non ama nessuno... non ama nessuno...» «Perché s'è immischiata... immischiata...» La signorina Luise gridò: «Chi siete? Non vi conosco! Non ho mai sentito le vostre voci! Andatevene! Amici miei, venite!». Ma quelle voci spaventose diventavano sempre più forti e assillanti. Parevano giungere da ogni albero, dai cespugli, minacciose, sempre più mi-
nacciose. La signorina si appoggiò al tronco d'un albero. Era esausta. Gocce di pioggia e lacrime le scorrevano sul volto. Gli stivaletti sprofondavano nell'erba bagnata. Presa da paura per quello che le avevo detto, aveva lasciato il mio appartamento, era scesa nella hall, e se ne era uscita quasi di nascosto. Tutto le era andato storto. Non aveva trovato l'assassino del piccolo Karel. Non aveva saputo indurre Irina a venirsene via con lei. Aveva fallito. Completamente fallito. Il sottilissimo velo di speranza che la legava ai suoi amici e che ancora l'avvolgeva, quel velo che per anni l'aveva preservata dal crollo, cominciò a rivelare crepe, strappi, fenditure... La signorina aveva avuto un attimo di esitazione, uscendo dall'albergo, poi era corsa nel parco. Sapeva che le finestre del mio appartamento davano sull'Alster. Era rimasta sotto la pioggia, lo sguardo fisso sulla facciata dell'hotel, disperata, disperata come non mai. Ed è in quell'attimo che quelle voci sconosciute, cattive, piene di sarcasmo e di maligna soddisfazione erano cominciate a risuonare intorno a lei. E continuavano ad aumentare, facendosi offensive, minacciose, insultanti. «Bugiarda! Bugiarda!» E quando, nella sua disperazione, aveva invocato i suoi amici, s'era levato un altro coro, fatto di voci maschili e femminili. «Non sono amici tuoi!... Non sono amici tuoi!...» «Perché hai peccato... peccato...» La signorina Luise tremava in tutto il corpo. «Via di qui!» gridò una voce maschile. «Via!» Il tono era così minaccioso, che la signorina cominciò a correre verso la strada, sui prati bagnati e bui lungo il piccolo lago. Le voci scandivano ogni suo movimento. «Rincorriamola!» «Vattene via di qui... vattene...» «Guardatela come correcorrecorre... ora cadrà...» «Cadrà... cadrà...» La signorina incespicò nella radice di un albero e rovinò a terra, facendosi male. «Eccola li! Eccola lì...» «Nella sporcizia... nella sporcizia...» «È quello il suo posto... il suo posto...» «Alzati!» tuonò una voce maschile.
La signorina Luise si alzò di scatto. Riprese la sua fuga, ansimando. Trascinava dietro di sé l'ombrello e la sua borsa pesante, fissata al polso, ormai completamente sudicia e intrisa d'acqua. «Oh Dio,» invocò la signorina «oh Dio, oh Dio mio.» E continuò a correre, il più rapidamente possibile, verso le luci della strada. Le voci l'incalzavano, minacciose. «Non ci sfuggirai... sfuggirai...» «Ti puniremo... puniremo...» «Via dalla città... torna alla palude... alla palude...» «La colpa è tua... tua...» Ho tradito i miei amici, ho dato retta a falsi amici, ho peccato... Tutti questi pensieri s'accavallavano nel cervello tormentato della signorina Luise. E le voci continuarono a perseguitarla, instancabili, impietose, anche quando ebbe raggiunto, senza quasi accorgersene, la strada, dove passavano delle macchine. Un'automobile la sfiorò, sfrecciandole accanto col clacson urlante. La signorina fece un balzo all'indietro. Le automobili!, pensò, tremando di spavento. Mi danno la caccia con le automobili! Le automobili m'inseguono. Fanno quei segnali luminosi strani. Sono per me! Sono per me, quei segnali... Le macchine sfrecciavano sull'asfalto su gomme stridenti. La signorina Luise continuò a correre, inciampando, urtò un passante, cadde quasi a terra, riuscì a riprendere il controllo delle gambe. Ed ecco che una voce esclamò, ed era una voce che la signorina riconobbe: «Io ti proteggo!». Era la voce dell'ex capomanipolo Wilhelm Reimers. Inconsciamente alzò di scatto un braccio. Una vettura le si fermò accanto, facendo gemere i freni. «Dove andiamo, signora?» chiese un uomo guardando dal finestrino. Era un taxi. «Alla stazione... alla stazione... alla stazione centrale» balbettò la signorina, aprì lo sportello posteriore e si abbandonò sul sedile imbottito. Il taxi riprese la sua corsa. 2 Il taxi raggiunse la stazione centrale. La signorina Luise consegnò all'autista una banconota, facendola passare per una fessura del vetro divisorio, e
uscì in fretta dalla macchina. «Un momento è troppo! Devo darle il resto!» strillò l'autista, ma la signorina non lo udì. Correva già, affannosamente, verso l'interno della stazione, lungo il marciapiede dove aveva a suo tempo incontrato l'ex capomanipolo. C'era ancora tanta gente in attesa, oppure che si muoveva in tutte le direzioni. Dall'altoparlante risuonò una voce, che captò però solo confusamente, a brandelli: «... treno... da... coincidenza con... Brema... pochi minuti... binario quattro...». E rieccole, quelle voci terribili! Ed erano voci delle persone che erano lì attorno, nella stazione! Tutti la guardavano, parlavano di lei, le lanciavano insulti. La signorina si mise una mano davanti al viso, e cominciò a girare la testa di qua, di là... E la gente infatti la guardava, nel vederla correre in quel modo, sporca, stranita, affannata, coi capelli bianchi scompigliati perché aveva perso il suo cappellino. La signorina aveva acquistato un biglietto di andata e ritorno. Come per miracolo i suoi occhi appannati, le sue dita tremanti ritrovarono quel biglietto nella borsa. Lo allungò all'impiegato al posto di controllo e scese precipitosamente le scale. Giunta in fondo, vide entrare in stazione un treno. Ed ecco che riecheggiarono di nuovo delle voci, voci però che la signorina - con gioia e sollievo indicibili - riconobbe. La voce del russo: «Luise torna da noi nella palude...». La voce del polacco: «Noi aspettiamo Luise...». La voce del testimone di Jehova: «E che torni in fretta... in fretta... prima che sia troppo tardi...». Luise correva più che poteva. Non ce la faceva più, non ce la faceva proprio più... Non avrebbe saputo dire come riuscì a salire su una vettura del treno appena sopraggiunto e diretto a Brema. C'era un vuoto nella sua memoria. Riuscì a riprendersi solo quando il treno era ormai in movimento: sfrecciava davanti a molte luci, su ponti e su superfici d'acqua lucenti, incrinate dalla pioggia che cadeva. Riprese gradualmente il controllo su se stessa. Le voci, quelle terribili voci, tacevano. Di fronte alla signorina era seduta una giovane donna, molto carina, molto truccata, alquanto volgare d'aspetto, avvolta in una pelliccia: e la guardava con curiosità. La signorina Luise replicò piena di paura a quell'occhiata.
3 «Perché trema così?» chiese la giovane carina con la pelliccia. Aveva un tono di voce acutissimo, come stupito. «Ha freddo?» «No» disse la signorina Luise. Era stanca morta, le facevano male i piedi, si sentiva come una persona che ha appena avuto un grave collasso cardiaco. Quelle voci, quelle terribili voci... Per fortuna tacevano. Per ora! Ma avrebbero potuto ricominciare... La signorina Luise rabbrividì. «Ma cos'ha?» chiese la ragazza impellicciata, con quella sua vocina infantile. «Non ho niente» mormorò la signorina. «La vedo così agitata!» Il treno viaggiava ormai molto veloce, le luci erano sparite, la pioggia schiaffeggiava i finestrini degli scompartimenti. La signorina Luise si passò una mano sulla fronte e s'accorse d'avere il viso sporco. Aprì la borsa con dita tremanti, per estrarne un fazzoletto. La giovane carina sbarrò gli occhi nel notare i rotoli delle banconote. Guardò Luise pulirsi il viso e passarsi un pettine fra i capelli. «Sì, certo» disse la signorina. «Sono agitata.» «E perché?» «Oh, se sapesse quante me ne sono capitate! Cose terribili! E non è ancora finita...» «Cosa non è ancora finita?» chiese la ragazza. «A proposito, mi chiamo Flaxenberg. Inge Flaxenberg. Ma tutti mi chiamano Leprotto. E lei come si chiama?» «Gottschalk» disse la signorina. «Mi chiamo Gottschalk Luise. Tutti mi chiamano però solo signorina Luise.» «Cosa non è ancora finito, signorina Luise?» chiese LeprottoFlaxenberg. «Sono sulle mie tracce» disse la signorina, ancora tutta confusa e sconvolta. «M'inseguono, sa?» Leprotto socchiuse gli occhi. E poi disse: «I piedipiatti, eh?». La signorina non rispose. Leprotto interpretò il suo silenzio come una conferma. Lanciando un'occhiata alla borsa ancora aperta della signorina, disse: «Maledetti. Neanche un affaruccio in pace ti lasciano più fare». «Devo tornare dai miei amici» mormorò la signorina. Le due continuarono a parlarsi senza capirsi, e l'equivoco s'ingigantì.
«Oggi sono stati anche da noi» disse Leprotto. «Una retata. Gran casino. Quei porci!» «Loro mi proteggeranno...» sussurrò la signorina. «Sono entrati improvvisamente nel locale e si sono comportati come gorilla» continuò Leprotto. «Io lavoravo in quel locale. In un villaggio, a circa trenta chilometri da Amburgo.» Disse il nome. «Un paesino. Il signor Olbers aveva preso in affitto un'intera trattoria, capisce, la aveva adattata e trasformata, e organizzato perfino un servizio d'autobus per la clientela. La gente veniva da Amburgo. Anche con macchine private. Per giocare alla roulette.» «Se riuscirò a tornare a casa, forse potrò farcela...» «Una roulette normalissima. Funzionava perfettamente. Per due anni è andata benissimo. Io facevo la barista. Guadagnavo bene. Abitavo in un alberghetto, lì nei paraggi. Io di casa sto a Zeven. Qualche volta ci sono tornata, per trovare i miei. E qualche volta il mio fidanzato è venuto a trovare me...» «... forse lì mi lasceranno in pace, e i miei amici mi aiuteranno...» mormorò la signorina. «... ed ecco che improvvisamente arrivano i piedipiatti. E dicono che lì da noi si bara. Con un magnete sotto il tavolo.» «Cosa?» chiese la signorina, e fece un balzo di spavento. «Un magnete. Sotto la roulette. Per deviare il corso della pallina... Sa bene...» «No.» «Hanno sequestrato tutto. Arrestato il signor Olbers. Chiuso il locale. Porci maledetti, i piedipiatti. E tutto solo perché hanno trovato un magnete sotto una roulette. Benché il signor Olbers glielo abbia giurato che non ne sapeva niente. Ma le sembra giusto?» «Mi stanno inseguendo...» mormorò la signorina, che era sul punto di addormentarsi dalla stanchezza. «Il mio fidanzato mi aspetta a Brema, con la sua macchina. Lei dove deve andare?» «A Neurode.» «E i suoi amici sarebbero lì?» «Si...» «Sa che le dico? La faccio portare su dal mio fidanzato. Non è molto lontano da Zeven. E lei ha bisogno di sparire in fretta per un po', dico bene?»
«Sì. Devo... sparire... in fretta...» mormorò la signorina, semiaddormentata. «Benone. La portiamo su noi. Se non ci diamo una mano fra di noi...» disse Leprotto-Flaxenberg. Notò che il capo della signorina Luise cominciava a pendere, e che la vecchia dormiva. Con precauzione, Leprotto-Flaxenberg aprì la borsa piena di soldi. «E ora mi tocca cercare un nuovo lavoro» disse. La signorina sentì queste parole che era già immersa nel sonno. Il treno correva ora velocissimo. 4 La signorina Luise si era addormentata come un sasso. Poco prima di Brema quella simpatica ragazza, che diceva di chiamarsi Leprotto, l'aveva svegliata. Sotto la pensilina della stazione c'era il fidanzato di Leprotto in attesa: un uomo alto, silenzioso, molto distinto d'aspetto. Aveva preso la valigia di Leprotto e detto di chiamarsi Armin Kienholz. Aveva dimostrato molta comprensione quando Leprotto gli aveva illustrato la triste situazione della signorina e i pericoli che correva. «Ma certo che la portiamo su noi» aveva detto Kienholz. «E con noi si consideri al sicuro. Noi non l'abbiamo mai vista. Se qualcuno ce lo chiederà, diremo di non saper niente di niente.» «Vi ringrazio di cuore» aveva risposto la signorina. Kienholz aveva una macchina americana. Guidava bene e velocemente. La signorina Luise sì era seduta sul sedile posteriore, e aveva preso a borbottare per conto suo, mentre Leprotto, seduta davanti accanto al fidanzato, aveva continuato a raccontare e poi a ripetere sempre da capo la storia dei piedipiatti maledetti che avevano chiuso quella sua casa da gioco. E il discorso era caduto e ricaduto sul magnete. La signorina era stata ad ascoltare, ma senza capire. Di che magnete poteva mai trattarsi? Ma non ci pensò a lungo: aveva incontrato due persone gentili, e quelle voci tremende che l'avevano tanto tormentata e ossessionata, ora tacevano. La signorina Luise si sentiva stanca e molto stordita. Un solo pensiero la rallegrava: sarebbe andata nella palude, sulla collina, dai suoi amici, sì, dai suoi amici... Dopo Zeven, Kienholz aveva avviato la macchina lungo quella strada accidentata. Poco prima dell'ingresso a Neurode, la signorina Luise gli aveva chiesto di fermare.
«Vorrei scendere qui, la prego.» «Come vuole, signorina Luise» aveva detto lui, gentile, e si era fermato. Leprotto e anche lui avevano stretto la mano alla signorina, augurandole buona fortuna. «Sono amici di cui si può fidare veramente, quelli che ha qui?» aveva chiesto Leprotto. «I migliori che si possano desiderare» aveva garantito la signorina. «E allora in bocca al lupo» aveva detto il bel Kienholz. Si era diretto verso il villaggio, per poter girare la macchina, ed era tornato indietro quasi subito. Kienholz aveva suonato tre brevi colpi di clacson. La signorina Luise gli aveva fatto un cenno di saluto, e aveva poi continuato a seguire l'automobile con lo sguardo, sino a quando le luci rosse erano svanite. E poi si era avviata, cauta, nel canneto, dove cominciava quel viottolo stretto, il sentiero sul quale stava ora camminando, in precario equilibrio... La luna splendeva chiara, il manto delle nubi si era diradato, e non pioveva più. I tronchi nudi delle betulle mandavano riflessi argentei, e una civetta di palude chiamava di lontano. La signorina Luise scivolò. Fu sul punto di cadere nella palude. Ma all'ultimo momento riuscì a riprendersi. E continuò il suo cammino, in fretta: molto in fretta, nonostante i piedi gonfi, perché ardeva dal desiderio di raggiungere la collina che scorgeva lì davanti a sé, galleggiante nella nebbia. Solo lì si sarebbe sentita in salvo: i suoi amici avrebbero saputo aiutarla, proteggerla, spiegarle tutto, perché era completamente disorientata, disperata, sfiduciata. La collinetta era lì, sempre più vicina. «Vengo!» esclamò la signorina. «Vengo da voi!» E subito dopo si bloccò, perché era riuscita, per qualche secondo, a vedere chiaramente la collina, dalla quale il vento aveva spazzato via la nebbia. E non c'erano, come sempre in passato, i suoi amici in attesa: c'erano undici tronchi di salice, brutti e contorti. La signorina Luise si passò una mano sugli occhi. Non è possibile, pensò. Ci vedo male. Guardò ancora e vide di nuovo gli undici tronchi di salice. «O Dio mio! Che può voler dire?...» Continuò a correre, barcollando sempre di più, oscillando pericolosamente, e solo per miracolo non cadde giù dal sentiero. «Buon Dio, buon Dio» sussurrava la signorina. «Fa' che siano di nuovo lì, fa' che i miei amici siano ancora lì... Sono loro che mi hanno chiamata... Mi hanno detto di venire... Li ho sentiti chiaramente... Ti prego, ti prego, ti prego, Dio onnipotente, fa' che i miei amici siano sulla collina...»
Ma Dio onnipotente non esaudì la preghiera della signorina, e quando ebbe fatto gli ultimi passi e si arrampicò sulla piccola collina, si ritrovò in mezzo a undici tronchi di salice, immersi nella nebbia che ora avanzava a banchi sempre più fitti. «Dove siete?» gridò la signorina, vagando fra i tronchi di salice contorti. «Dove siete? Venite! Vi prego, venite da me!» Ma i suoi amici non vennero. La signorina avvertì che il panico si stava impossessando di lei. Gridò a voce alta: «Per amor di Cristo, vi scongiuro, venite da me! Ho bisogno di voi! Ho tanto bisogno di voi!». Ma le risposero, nella nebbia ovattata, solo il vento e la civetta che chiamava in lontananza. I suoi amici non vennero: neanche uno di loro. La signorina si fermò immobile sul bordo della collinetta che degradava verso la palude. Non capisco, pensava. Non ci capisco più niente. Perché non vengono? Perché? Cos'è successo? E in quell'attimo, dalla palude, dalla nebbia, risuonò di colpo una stridula voce femminile: «Eccola lì, la maledetta!». Un brontolio di voci maschili aggiunse: «Ora l'abbiamo presa...». «No!» urlò la signorina. Arretrò spaventata, scivolò, perse l'equilibrio e un attimo dopo precipitò in una profonda e buia pozza d'acqua ai piedi della collina. La sua borsa sprofondò. La signorina agitò disperata le braccia, riuscì ad aggrapparsi a una radice che le sfuggi però subito di mano. Finì con la testa sott'acqua, riemerse, inghiottì sorsi di melma, tossì, sputò, rigettò. Sentì forze misteriose che tentavano di trascinarla giù, sul fondo, sempre più giù. E cominciò a gridare forte, più forte che poteva: «Aiuto! Aiuto! Dove siete! Venite ad aiutarmi! Aiuto!». E riecco le voci spaventose. Nella nebbia, nella palude, urlavano e rimbombavano come esplosioni all'orecchio della signorina Luise. Insopportabili, terrificanti oltre ogni dire... «Vendetta!» «Morte!» «Aiuto!» urlò la signorina, e sputò l'acqua di palude che le aveva riempito la bocca. «Aiuto! Aiutatemi! Aiutatemi!» 5 Kuschke, l'autista del campo si raddrizzò di scatto nel letto. Aveva il sonno molto leggero. Stava facendo di nuovo quel suo sogno, sempre lo
stesso. Immaginava di essere all'inizio del 1948, a Berlino. Giocava con la sua figlioletta, Helga, e sua moglie Frida era seduta accanto a lui, al sole, nel cortile di quel palazzone di appartamenti in affitto. Kuschke faceva con la piccola Helga un sacco di sciocchezze, tanto che sua moglie ne rideva a gola spiegata, e anche Helga strillava di gioia. Ed erano tutti e tre così felici, in quella Berlino squallida e devastata dalle bombe, fatta solo di rovine. Felici come Kuschke non sarebbe mai più stato in vita sua... «Aiutatemi!» «Ma questa è...» Kuschke saltò dal letto e s'infilò di furia i suoi vestiti. Aveva riconosciuto immediatamente quella voce. Lo avevo detto che prima o poi sarebbe successo, pensò. Maledizione! Finì di abbottonarsi la tuta mentre correva già verso la porta della baracca. Dall'altro capo del corridoio male illuminato gli venne incontro il dottor Schiemann, il medico del campo. «Quelle grida...» «La nostra signorina, dottore! Proprio lei, sissignore...» «Su, venga!» I due uomini si precipitarono fuori. Avevano fatto appena pochi passi che si accesero tutti i riflettori del campo. Dalla baracca vicino al cancello d'ingresso arrivavano di corsa due guardiani. In alcune baracche si accesero delle luci. Sulle porte apparvero bambini in pigiama o con accappatoi addosso, ragazzi, ragazze, giovani incuriositi o intimoriti. «Aiutatemi! Aiuto! Aiuto!» echeggiava la voce della signorina Luise dalla palude. Il vento la portava forte e chiara verso il campo. Da una baracca usci precipitosamente il pastore Demel. Indossava il suo vestito nero, ma era senza cravatta e aveva la camicia sbottonata. «La nostra signorina» ansimò Demel. «Sì. Ma dove...» «Lo so io dove! Su quella collina con gli undici salici!» gridò Demel. Sopraggiunse di corsa il direttore del campo, dottor Horst Schall, in camicia e pantaloni, la giacca in mano. «Dobbiamo raggiungerla!» «Ma come? Non c'è modo di arrivare sin lì!» «Scale! Assi! Lunghe pertiche! Presto!» gridò Demel. Dalla palude giunse un altro richiamo d'aiuto. Gli uomini si dispersero correndo. E riapparvero subito dopo trascinando lunghe scale, assi e pali verso il confine nord-orientale del campo. Correvano a più non posso, quasi senza fiato.
«Meno male che non abbiamo ancora riparato lo steccato» gridò Kuschke al pastore, col quale stava trasportando una scala. Accorrevano anche i ragazzi, i cappotti gettati sulle spalle, gridando eccitati e facendo una gran confusione. Si precipitarono tutti verso l'angolo della recinzione dove, la notte prima, era stato sradicato e piegato all'infuori un pilastro di cemento. «Arriviamo!» echeggiò nella notte la voce del direttore del campo. «Resista, signorina Luise! Stiamo arrivando!» «Aiuto!» risuonò la risposta, più flebile e debole di prima. Kuschke e il pastore avevano raggiunto il pilastro sradicato. Gettarono la lunga scala sulla rete metallica che pendeva all'infuori e vi si arrampicarono. La luce lunare rischiarava la notte. E nel chiarore diffuso dalla nebbia videro all'improvviso e distintamente, per alcuni secondi, l'isoletta e un'ombra che si agitava disperatamente nell'acqua, ai margini della collina. «Eccola! È caduta nella palude! O mio Dio!» Altri uomini sopraggiungevano di corsa. «Una pertica! Presto! Una pertica!» gridò Demel. Gliela allungarono. S'inoltrò per primo nell'acqua stagnante. Sprofondò quasi subito. Si arrampicò allora sulla scala che sospingeva davanti a sé, usando la pertica come sonda e come remo. La scala e l'uomo che vi era disteso scivolarono sulla palude, in direzione della collina. Kuschke segui per secondo, sdraiato su una lunga asse. Anche lui si spingeva in avanti con un palo. E intanto pregava e bestemmiava ad alta voce. «Merda maledetta, stronza d'un'acqua marcia... Proteggi quella povera signorina. Dio onnipotente...» Oramai erano già cinque gli uomini sulla palude. Poi divennero sei. Otto. Dieci. Progredivano distesi su assi o scale, fra ciuffi di canne, fosse d'acqua, avanti, sempre più avanti. Scale e assi non affondavano. Era l'unico modo, quello, per entrare nella palude. «Aiuto...» La voce era ormai quasi spenta. Kuschke si voltò e vide molta gente - assistenti sociali e ragazzi - ferma accanto alla rete metallica, che guardava gli uomini nella palude. «Qualcuno vada a telefonare! Chiamate Zeven perché mandino subito un'ambulanza!» gridò Kuschke. «Presto! Fate presto! Ho tanta paura che...» Una delle assistenti sociali partì di corsa. Kuschke continuò a remare. La sua asse oscillava, e la sensazione che gli dava non era affatto piacevole. S'accorse d'essere finito con le gambe
sott'acqua e bestemmiò. Poi riprese a pregare ad alta voce. Raggiunse la piccola collina quasi contemporaneamente al pastore Demel, e si spaventò quando scorse la signorina. Aveva la faccia stravolta e cadaverica. Era ancora aggrappata a una radice, ma le sue dita cominciavano già a lasciare la presa, e scivolava all'ingiù... Kuschke saltò sulla collina. Il pastore lo seguì, sdrucciolò, cadde nell'acqua limacciosa e ne ingoiò una notevole porzione. Era fradicio quando Kuschke, (orte come un orso, lo tirò fuori. Sollevarono l'asse e la scala, e le appoggiarono in parte sulla terra solida, accanto ai bastoni. Si scorgevano già, sempre più vicini, il direttore del campo e il medico. Kuschke e il pastore accorsero accanto al fosso d'acqua nel quale era caduta la signorina. Kuschke s'inginocchiò e chiese al pastore: «Mi tenga fermo per i piedi!». Il pastore eseguì. Kuschke, a sua volta ormai tutto bagnato, si sdraiò sul ventre e afferrò le mani della signorina Luise. «Tranquilla, mi raccomando, stia tranquilla, signorina Luise. Ora ci siamo.» E si spaventò non poco quando quella, per tutta risposta, cominciò a strillare con voce acuta: «Eccoli, gli sgherri! Eccoli! Aiuto! Aiuto! Aiuto!», e cercò di sottrarsi alla sua presa. Il direttore del campo si sdraiò accanto a Kuschke, mentre il medico gli tratteneva i piedi. Presero a tirare e a strattonare insieme le mani della signorina Luise. Lei urlava come un'ossessa. «Lasciatemi! Lasciatemi! Andatevene! Siete falsi anche voi! Di nuovo quelli falsi!» «Ma signorina Luise...» «Non è in sé» ansimò il dottor Schiemann. «Non ci riconosce.» «Non mi riconosce?» «Nessuno di noi» disse Schiemann. «Buon Dio!» esclamò Kuschke. «Allora vuol dire che è diventata matta del tutto.» «Dai, conto fino a tre, e poi tiriamola insieme» disse Schiemann, stringendo i denti. E prese a contare. Quando disse «tre», i due diedero fondo alle loro forze e riuscirono a sollevare la signorina che urlava, divincolandosi. Issarono sulla collina la donna che si dibatteva. Gli abiti della signorina Luise, i suoi capelli, tutto era intriso d'acqua, e l'acqua le scorreva di dosso. Appena a terra, prese a difendersi con unghie, denti e piedi. Mordeva, graffiava, scalciava e urlava: «Delinquenti! Assassini! Assassini! Assassini! Via di qui, via! Assassini! Aiuto! Aiuto!». Kuschke l'afferrò per le braccia, gliele girò dietro la schiena, immobilizzandola con una presa ferrea. Il pastore si avvicinò alla signorina e comin-
ciò a dire: «Sia ragionevole, signorina Luise, sia...». Il viso distorto in una maschera demoniaca, lei lo squadrò con occhi allucinati, lo colpì con un calcio nello stinco e poi sputò in faccia all'uomo al quale era stata tanto affezionata e che ora non riconosceva più. Urlava: «Porci maledetti! Cani! Sbirri miserabili!». «Signorina Luise...» balbettò Demel. La saliva di lei gli scivolava sul volto. La signorina alzò ulteriormente il tono della voce e urlò: «Coloro che peccano in nome mio saranno giudicati per primi!». Kuschke, scosso, mise una mano sulla bocca della signorina. Nel farlo però dovette lasciare una delle braccia di lei. Immediatamente lei cominciò a colpire alla cieca e lo centrò allo stomaco. E poi gli affondò i denti nella mano. «Ahia!» gemette Kuschke. Subito dopo la signorina Luise s'accasciò a terra, senza più dire una parola. Era svenuta. Gli uomini le stavano attorno, ansimanti. 6 La signorina Luise sentì un urlo spaventoso. Non poteva sapere che era la sirena dell'ambulanza nella quale era stata distesa. Aprì gli occhi. Alla debole luce della vettura scorse, simili a spettri, due grandi uomini. Eccoli! Mi hanno presa! All'inferno! Ora mi portano all'inferno! «No!» urlò. «No! Non voglio andare all'inferno!» «È inutile, non c'è niente da fare» disse il dottor Schiemann al pastore Demel. «È in uno stato catatonico. Non possiamo farci niente.» «Non potremmo darle qualcosa... Una medicina...» «Solo quando saremo all'ospedale... Dobbiamo stare attenti a non fare mosse false» disse il medico, che era seduto dietro la signorina. Luise travisò anche queste parole, che ebbero per lei suono e senso diversi, molto diversi. E cioè: «Eccola finalmente...» «Non ci sfuggirà più...» «Ora la puniremo...». «Via! Via! Voglio andar via di qui!» gridò la signorina, e tentò di sollevarsi. E s'accorse così che non poteva farlo. L'avevano legata a una barella, con cinghie di cuoio che le immobilizzavano gambe e braccia: per sua si-
curezza, naturalmente, ma non lo sapeva. «Perduta! Sono perduta! Sono maledetta!» pianse la signorina. La sirena ululava mentre l'ambulanza correva nella notte, e giunse poco dopo nei pressi dell'ospedale Ludwig di Brema. La signorina Luise gridava e tentava di liberarsi delle cinghie. Gridò a lungo, fino a quando le vennero meno le forze... L'ambulanza si fermò nel cortile del reparto psichiatrico. Gli sportelli della vettura furono aperti. Due infermieri tirarono fuori la barella, la sollevarono e la trasportarono per il cortile verso l'ufficio di accettazione. Appoggiarono a terra la barella solo in un locale violentemente illuminato, dove erano di servizio due assistenti e un'infermiera. Entrarono nel locale anche il pastore Demel e il dottor Schiemann. «Lasciatemi andare! Porci! Cani! Lasciatemi! Aiuto! Aiuto! Assassini! Criminali! Gentaglia!» urlava la signorina con una voce che non era più la sua. Un giovane assistente s'inginocchiò accanto a lei e tentò di calmarla. «Vedrà che andrà tutto bene, cara signorina Luise, vedrà...» «Vade retro!» strillò la signorina Luise con quella sua voce acutissima. «Vade retro, satana! Satana! Satana!» E gli sputò nuovamente in volto. «Liberatemi! Lasciatemi andare!» «Non possiamo toglierle le cinghie» disse il giovane assistente. «Ci salterebbe addosso. Questa...» «Assassini! Assassini! Assassini!» gridava la signorina. «Togliete le cinghie» disse una profonda e calma voce maschile. «Assas...» La signorina Luise tacque e guardò l'uomo in camice bianco che era entrato nel locale. Era grande e robusto, aveva occhi scuri, capelli neri ondulati e tagliati corti, un viso largo. Sorrideva. «Oh,» disse «finalmente, signorina Luise. Buona sera.» Fece un cenno al giovane medico. Questi sciolse le cinghie. La signorina Luise si alzò, lentamente, sino a sedersi. Cominciò ad alzarsi piano, molto piano, nei suoi vestiti bagnati. Le coperte che le erano state messe addosso caddero a terra. Si avviò, passo passo, verso quell'uomo grande che continuava ad osservarla sorridente. Il pastore trattenne il respiro. «Tu» disse la signorina, col suo tono di voce normale. «Tu... ma io ti conosco...» L'uomo in camice bianco chiuse per un attimo gli occhi e poi guardò di nuovo la signorina.
«Certo che ti conosco» disse la signorina. Si era portata vicinissima all'uomo. «Tu...» cominciò, poi s'interruppe. Lui le fece un cenno d'assenso. «Tu... mi porti la pace» disse la signorina. Il dottor Wolfgang Erkner, lo psichiatra, le fece un altro cenno di assenso. La signorina lo abbracciò con impeto, aggrappandosi a lui. E finalmente, finalmente cominciò a piangere, singhiozzando. 7 «"La mia scelta è caduta sull'amore, e ho colto una dolce eredità"» lesse Thomas Herford, commosso, davanti al leggio sul quale era, aperta, la grande Bibbia. Aveva congiunto le mani pelose, e l'anello di brillanti che portava al dito sfavillò alla luce dell'illuminazione indiretta ma forte che veniva dall'alto. Alzò lo sguardo e aggiunse: «Dal salmo sedicesimo di Davide». «Amen» dissero mami, il giurista Rotaug, il direttore editoriale Seerose, il caporedattore Lester, il capo dei servizi fotografici Kurt Ziller (finalmente rientrato dagli USA) e Heinrich Leidenmüller, il capo dei nostri grafici. Hem, Bertie, Irina e io non dicemmo niente. Irina era impressionata e intimidita dalla magnificenza dello studio di Herford: come tutti quelli che vi entravano la prima volta. E poi era anche esausta: per tutto quello che era successo e per il viaggio che le avevo fatto fare da Amburgo. Avevo percorso i 495 chilometri d'autostrada a una velocità da suicidio, con una sola breve sosta. Dopo la lunga pioggia e la bufera, il tempo s'era fatto molto freddo, quasi invernale. M'ero diretto subito al giornale, e ci era stato detto di salire immediatamente da Herford, assieme a Lester, a Hem e anche col Beccamorto, visto che stavolta un ruolo importante spettava anche a lui. Quel simpatico scheletro sconciato dalle puttane s'era messo a balbettare per l'agitazione e per l'onore che gli era stato concesso. Aveva gocce di sudore in fronte e i disegni delle pagine sotto il braccio: grandi fogli d'una carta simile a quella oleata usata dai salumieri. Mami, subito dopo aver detto «Amen», si avventò con un urletto su Irina - che arretrò spaventata - la prese per la vita, la strinse a sé, attirò la testa di Irina verso la sua e le stampò un bacio sulla guancia. «Oh bambina, bambina mia!» esclamò mami. «Siamo così felici d'averla qui con noi. È vero, Herford?»
«Felicissimi» disse suo marito, s'inchinò sorridendo assieme ai signori Seerose, Rotaug, Ziller e Lester, tutti a loro volta sorridenti. Mami, tanto per non cambiare, era vestita in un modo incredibile. Indossava un abito di maglia blu (già, blu: e aveva i capelli tinti di viola...), una giacca di maglia senza maniche che le pendeva giù fin sotto il sedere, un mucchio di lunghe collane di perle e un cappello marrone alla cow boy, dalla larghissima tesa. «Bene!» tuonò Herford. «Non crediate che qui ce ne siamo stati con le mani in mano. Leidenmüller, faccia vedere!» Il cadaverico libertino spiegò i disegni delle pagine sul tavolo delle riunioni. Era sempre più agitato. Era finalmente venuta la sua grande ora! Si affrettò a illustrare i criteri ai quali si era attenuto nel disegnare le quattro pagine che dovevano sostituire le precedenti. Ci riunimmo tutti attorno al tavolo. Il risultato del lavoro del Beccamorto si vedeva benissimo: appena sviluppate le pellicole spedite da Bertie, Leidenmüller si era fatto stampare fotografie delle misure che gli erano parse più opportune e ispirate, e le aveva poi incollate sui modelli delle pagine. Anche titoli e sottotitoli erano già al loro posto. Ammetto che ero emozionato quando mi chinai sugli schemi delle pagine. Era emozionato anche Bertie. Era la nostra, era la mia inchiesta quella che si stava preparando con tanta enfasi... A caratteri d'un giallo violento, aggressivi e sfrangiati, progettati e disegnati dal Beccamorto, spiccava in alto una sola parola: TRADIMENTO! Più alto ancora, vicino al margine superiore delle pagine, c'era una striscia gialla sulla quale era scritto, a caratteri di macchina da scrivere: iale-esclusiva mondiale-esclusiva mondiale-esclusiva A destra, con caratteri e nel colore uguali a TRADIMENTO!: IL RITORNO DI WALTER ROLAND: STORIA DI UNO SCANDALO INTERNAZIONALE SENZA PRECEDENTI... DAL PROSSIMO NUMERO LA PIÙ SENSAZIONALE INCHIESTA DELLA STORIA DEL NOSTRO GIORNALE!
E poi sotto: SERVIZIO FOTOGRAFICO DI: BERT ENGELHARDT Sull'intera doppia pagina il Beccamorto aveva montato quella delle fotografie scattate da Bertie di cui avevo più sperato che fosse riuscita: fissava il momento in cui il piccolo Karel, centrato dalla raffica di mitra, era stato sollevato da terra. Era una foto fantastica. Si aveva davvero la sensazione di vedere il ragazzo volare sulle due pagine, il volto colto con perfetta precisione nell'attimo della morte; il corpo sfumato; in grande evidenza anche la lucida tromba dorata che, scivolata di mano a Karel, cadeva a terra accanto a lui; neri gli alberi e i cespugli sullo sfondo di un tramonto imponente, una vera parete rosso fuoco sotto il cielo scuro e gonfio di nuvole; e tutto attorno la gente distesa sulla sabbia, sull'erba; e panico, tanto panico stampato sui visi di adulti e bambini. Non avevo ancora mai visto una fotografia d'una così straordinaria evidenza giornalistica. «Herford si congratula per questa foto» disse Herford, e strinse la mano a Bertie. «Herford si congratula con lei per tutte le foto, Engelhardt. Sono le migliori che ci abbia mai fatto.» «Diciamo che ho avuto fortuna» borbottò Bertie, imbarazzato e sorridente. «Ed Herford si congratula con lei per la sua inchiesta» disse Herford, stringendo la mano a me. «Signori!...» E così anche mami e i signori presenti - ad eccezione di Hem e di Bertie - mi strinsero a loro volta la mano. La mano di Rotaug pareva di gomma, quella di Lester di un pesce morto, quella di Seerose mi fece male quando si chiuse attorno alla mia. Seerose era elegante come non mai, e mi guardava raggiante con quei suoi occhi scintillanti. «Questo sarà il più gran colpo giornalistico della storia» disse Herford. «La tiratura salirà di centomila copie.» «Duecentomila» rincarò Lester, il leccaculo. «Amen» disse mami. «Vediamo di non esagerare» disse Herford. «Centocinquantamila al massimo. Pensate alle inserzioni pubblicitarie!» E grugnì. «Però voglio essere il primo, superarli tutti, con questa inchiesta e con TUTTO SULL'UOMO! E far vedere finalmente a quei figli di cani di cos'è capace Herford!»
Bertie e io ci mettemmo a guardare le altre due pagine che erano state cambiate. C'erano le didascalie e il brevissimo articolo di introduzione. Era il mio testo, quello che avevo dettato. Le fotografie - davvero straordinarie - ritraevano: Karl Concon morto sul letto d'una stanza dell'Hotel Paris; Irina (primo piano), ancora Irina e la signorina Luise mentre litigavano fra di loro nell'ufficio della baracca; poi, molto sgranata per il notevole ingrandimento, ma ugualmente ben riconoscibile, una finestra della facciata illuminata della casa al numero 333 della Niendorfer Strasse e, dietro i vetri della finestra, i visi di Bilka e della sua amica; poi le auto in fuga all'ingresso del campo (la signorina Luise ritratta in primo piano, di spalle, con le braccia levate al cielo in gesto di accusa); i due americani finiti a terra dopo la scazzottatura davanti alla casa dell'Eppendorfer Baum (non m'ero neanche accorto che Bertie aveva scattato un flash dopo quello scontro);... e così via. Quattro pagine formidabili insomma. «Hai fatto uno splendido lavoro» dissi al Beccamorto. Bertie gli diede una pacca sulle spalle e gli fece un bel sorriso. «Gra-grazie» balbettò il Beccamorto. «Un attimo di attenzione, prego!» Herford si era piazzato davanti a una lavagna appoggiata su un tavolo. Ci rivolgemmo tutti verso di lui. Aveva impugnato un bastoncino, come un condottiero di fronte alle mappe prima d'una battaglia campale, e disse: «I piani dunque sono questi: oggi è appena uscito il numero 46 di quest'annata. Mercoledì, 20 novembre, è giorno di astinenza e di preghiera. Herford uscirà col numero 47 non il 21 ma, come ho detto, solo il 22, di venerdì. Nel numero 47 Herford ha piazzato i disordini razziali e queste quattro pagine che abbiamo cambiato. Una settimana dopo, il 28 novembre, nel numero 48, apparirà la prima puntata di TRADIMENTO: e veda di darci dentro, Roland! Dobbiamo darci dentro tutti. Herford la considera personalmente responsabile della copertina a colori, Leidenmüller: quella col ragazzo svenuto nella baracca. La voglio pronta in tempo!». «Sissignor Herford, è ovvio, è naturale...» «Per il numero 48 Roland farà un articolo di raccordo fra la serie sessuale in corso e TUTTO SULL'UOMO.» Io annuii. «Questa serie inizierà nel numero 49, una settimana dopo dunque, il 5 dicembre. E vediamo di preparare alla svelta la relativa copertina. Il signor Ziller ha avuto una splendida idea, della quale parleremo però più a lungo, più tardi. Signori, questa sarà per tutti noi una lunga e laboriosa notte!»
Improvvisamente vidi che Irina, pallida e stanca, si era seduta, lo sguardo fisso davanti a sé. Nessuno che si occupasse di lei. Tutti avevamo ormai soltanto il giornale per la testa. Un telefono, dei quattro che erano sulla grande scrivania di Herford, suonò un paio di volte prima che ce ne accorgessimo. Herford si avviò sui vasti tappeti e sollevò il ricevitore. L'editore disse qualcosa e poi mi chiamò con un cenno. «È per lei.» «E chi è?» «Herford non lo sa. Non ha compreso bene il nome. Qualcuno da Neurode.» Mi precipitai per quella sala da museo verso Herford e presi il ricevitore. «Pronto! Qui Roland!» «Sono il pastore Demel» disse una voce tranquilla. «Non sapevo dove avrei potuto raggiungerla ad Amburgo. Ho già chiamato il suo giornale un paio di volte quest'oggi. E mi hanno detto che lei sarebbe arrivato stasera.» «Cos'è successo, signor pastore?» «La signorina Luise...» «Cos'ha?» Mi raccontò cosa le era capitato. E la sua voce suonava ora meno tranquilla. Guardai il mio orologio da polso. Ore 19 e 26. 14 novembre 1968. Giovedì. Il giovedì successivo, il 21, saremmo stati nelle edicole col numero 47, col numero cioè che riportava le prime fantastiche fotografie. Anzi no, saremmo usciti un giorno dopo, naturalmente, venerdì 22. Ma poi il giovedì seguente... Il pastore parlava svelto e affannato, aveva molto da raccontare. Più in là, accanto al tavolo delle riunioni, Herford impartiva disposizioni. Sentivo lui e sentivo il pastore. «Cosa c'è Roland? Che sta chiacchierando? Cos'è successo?» «La signorina Luise» dissi io, poggiando una mano sul microfono del ricevitore. «L'hanno portata alla neuro. Ospedale Ludwig di Brema.» «Chi?» «La signorina Luise Gottschalk.» «E chi è?» «Quella assistente sociale che...»
«Ah sì. Maledizione! Al manicomio, eh?» «Pare di sì, signor Herford.» «Accidenti! Proprio adesso! Prima classe naturalmente, a nostre spese. Lester, faccia dare immediatamente le disposizioni. Chiami l'ospedale Ludwig.» «Sissignor Herford!» «Però è possibile andare a visitarla, vero? Farle altre domande, fotografarla...» Il pastore continuava a parlare. Misi una mano sul microfono. «Per ora no, non subito almeno, signor Herford.» «Signor Roland? Signor Roland? Mi sente?» Tolsi la mano dal microfono. «Naturalmente, signor pastore. Continui pure a raccontare. Non perdo una parola.» E rimisi la mano sulla cornetta. «E perché non subito, Roland?» «Perché il medico, un certo dottor Erkner, le ha fatto delle iniezioni per calmarla. Dovrà fare un periodo di cura del sonno. E più avanti le faranno anche degli elettroshock, pare.» «Porca puttana quella ma...» «Herford, ti prego!» squittì mami. «Posso cominciare anche così, signor Herford. Ho materiale a sufficienza per andare avanti col lavoro sino a quando potrò andare a trovare la signorina Luise.» La voce del pastore diceva intanto al mio orecchio: «...povera, cara signorina Luise. È tremendo vedere a quali dure prove il Signore sottopone quella che dovrebbe essergli la più cara delle sue creature». La voce dell'editore rimbombava all'altro mio orecchio: «Sudicia, miserabile, maledetta faccenda! Materiale a sufficienza per le prime puntate! E se a quella si mettono a dar scosse elettriche per settimane intere, se non sarà possibile andare a parlarle? Che facciamo allora, Roland? È uno scandalo che grida vendetta al cielo! Ma è possibile che quella vecchia carampana dovesse scegliere proprio questo momento per perdere quel po' di sale che le era rimasto in zucca?». Tolsi la mano dalla cornetta. «Già» risposi io. Al mio editore e al pastore Demel, contemporaneamente.
8 Vaclav Bilka si sfracellò sulle lastre di pietra della terrazza che era proprio sotto il mio appartamento. Era saltato dalla finestra del salotto al quarto piano, ed era morto sul colpo. D'estate, su quella terrazza, erano disposti dei tavoli, gli ospiti vi si trattenevano a lungo nella notte tiepida, c'era un'orchestrina che suonava e, chi voleva, poteva ballare su una pista illuminata. Quel giorno di novembre però la terrazza era sgombra e coperta solo di foglie bagnate. Le grandi porte a vetri che la separavano dal bar erano chiuse, le tende tirate. In un angolo del bar c'era un grande bancone a forma di ferro di cavallo, dietro al quale lavorava, con tre aiutanti, il discjokey Charlie. L'impianto per la trasmissione della musica dal bar era sistemato dietro gli scaffali colmi di bottiglie. Di fronte al bancone, su un podio, suonava un'orchestrina di cinque elementi. Infatti la musica trasmessa dai dischi non si poteva sentire al bar, ma solo nelle stanze. Alcune coppie ballavano. Il disc-jockey Charlie udì chiaramente il cupo schianto fuori dalla finestra. Non tradì alcun segno di sorpresa o altro, e attese alcuni secondi prima di guardarsi attorno e vedere se altri avevano avvertito il colpo. Charlie si alzò e uscì. Passando per un ripostiglio e una piccola porta, raggiunse la terrazza, vide quello che era successo e avvisò subito il portiere di notte Heintze. Nemmeno dieci minuti dopo c'era già la squadra mobile. I poliziotti si comportarono con molto tatto e riguardoso silenzio. Io ero su in alto, sul balcone del mio. appartamento, bagnato di pioggia, e invocavo a gran voce l'aiuto degli uomini che scorgevo sotto. Qualcuno orientò su di me il riflettore d'una delle macchine della polizia, e così tre di quei signori salirono in tutta fretta, accompagnati da Heintze. Mi aprirono la porta e io raccontai cosa era successo e come era successo. Constatarono la sparizione di Monerov e di Jules Cassin. I funzionari di polizia pretendevano di sapere quale fosse stato l'oggetto della nostra disputa, e proprio un attimo prima che cominciassi a dir bugie arrivarono i due che stavo ansiosamente aspettando: il grande signor Klein e il signor Rogge dalle spesse lenti, i due dei servizi di sicurezza. Avevano un'aria molto stanca e nauseata. Non m'era difficile capire quanto quella vicenda - che avevano loro affidato benché esulasse dall'ambito delle loro competenze - li schifasse. Klein e Rogge si rivolsero a me.
«Sentiamo, com'è andata, signor Roland?» chiese Klein, con un'espressione sul volto simile a quella di uno che sta per vomitare. «Anch'io sono altrettanto entusiasta di questo nostro nuovo incontro» dissi. «Vediamo di non fare i furbi, eh?» disse Rogge. «Chi fa il furbo?». «Lei. E Dio sa che non ha nessun motivo di farlo.» «Non capisco. Che c'entro io se...» «Stia zitto!» disse Rogge, secco. Poi si fece più gentile, affermò d'avere in fondo i nervi scossi anche lui, e mi lasciò raccontare tutto come si era svolto. A metà della mia relazione dissi: «Quello che è successo a Helsinki, lo sapete già». «Certo, certo» disse Rogge. «Non sappiamo solo quello che è successo qui.» «È ovvio che no» dissi io. «Avete potuto soltanto intercettare la telefonata che ho avuto con Engelhardt da Helsinki; per il resto non ho usato il telefono. Il mio telefono è controllato, dico bene?» «Sì, sì» disse Klein, soddisfatto. «Se aveste piazzato anche voi da qualche parte un microfono, come hanno fatto i russi, ora ne sapreste di più.» «È stato un errore da parte nostra» disse Rogge. «A proposito: il giovane Felmar si è presentato spontaneamente e ha ammesso tutto.» «Che ne farete di lui?» «Non lo so ancora. Per intanto l'abbiamo arrestato. Il resto lo deciderà il giudice. Domani... anzi questa mattina condurremo Felmar davanti a un giudice.» «Povero diavolo» dissi io. «Siamo tutti poveri diavoli» disse Klein. «Prosegua col suo racconto.» Continuai a riferire, dunque. Mi stettero a sentire, unitamente a tre funzionari di polizia, cui Klein aveva già spiegato che quella era una faccenda segreta, di cui non si sarebbe dovuto riferire nulla nei consueti bollettini per i giornali e per le agenzie. Klein e Rogge chiesero che tutta la storia fosse messa rigorosamente a tacere. Suicidio mediante salto dalla finestra. Per l'opinione pubblica sarebbe bastato. I funzionari stanchi avevano alzato le spalle. Dopo che mi ebbero spremuto per bene, Klein e Rogge mi chiesero che progetti avevo. «Aspetterò che Engelhardt rientri da Helsinki, poi andrò a Francoforte e
comincerò a lavorare. Loro non hanno niente in contrario, vero?» chiesi io, ed ero invece fermamente convinto che mi avrebbero proibito di scrivere anche una sola parola di tutta quella storia; ed ero altrettanto convinto che mi avrebbero sequestrato i nastri incisi e le fotografie scattate da Bertie a Helsinki. Niente di tutto questo. Annuirono entrambi, mi sorrisero e mi assicurarono che stavano soltanto facendo il loro dovere. E aggiunsero che godevo anche della loro incondizionata simpatia. «Posso andarmene allora? Portar con me la ragazza? Scrivere?» «Per quel che ci riguarda, sì» disse Klein. «Le abbiamo già spiegato una volta che non le siamo ostili e che non intendiamo ostacolarla nel suo lavoro. Questa è una vicenda di pubblico interesse. E quindi ne riferisca, ne scriva, signor Roland. Purché non pretenda poi una presa di posizione da parte di fonti ufficiali» disse Klein. Questa precisazione mi risultò sibillina. «Lei ha degli amici molto potenti» disse Rogge. E io dissi fra me: ecco perché... Eppure c'erano risvolti inquietanti in quel loro atteggiamento, e dovetti ripensare a quello che mi aveva detto Victor Largent: di quella mia inchiesta non sarebbe mai stata pubblicata una riga; la mattina dopo mi avrebbe portato contratto e assegno di un settimanale americano. Pensai anche al simpatico vecchietto di Colonia. E infine pensai che dovevo telefonare, e in fretta, al giornale. Mi ci volle un'ora intera tuttavia, per togliermi di torno tutta quella brava gente. Diedi un'occhiata in camera da letto. Irina si era addormentata con la luce accesa. Aveva un'espressione calma e respirava a fondo. La coprii, spensi la luce, presi il mio cappotto e lasciai l'appartamento. Chiusi la porta a chiave e scesi nella hall. Non avevo nessuna intenzione di farmi vedere ancora al Club 88. Chiesi quindi a Heintze di chiamarmi un taxi. Si comportò verso di me con un distacco burocratico gonfio di ostilità: eppure era un uomo che conoscevo bene, da tanto tempo. «Cosa c'è? Che le piglia, signor Heintze?» Fissò gli occhi sulle sue carte, nel rispondere, e la sua voce risultò piatta e scostante: «Mi dispiace, signor Roland, ma dopo tutto quello che è successo, la direzione l'invita a lasciar libero l'appartamento entro domani a mezzogiorno e a lasciare quindi l'albergo insieme a... a sua moglie. Sono molto dispiaciuto, signor Roland, di trovarmi nella condizione di dover essere io a dirglielo: la direzione la prega, d'ora in poi e per sempre, di non venire più al Metropol. Se dovesse presentarsi ugualmente, non ci saranno
camere libere per lei». «Capisco» dissi io. «E capisco anche il suo direttore. Però noi... noi possiamo restare buoni amici, vero?» E gli allungai una banconota da cento marchi sul banco. La respinse con un'occhiata inespressiva: «Preferisco non accettare, signor Roland». «E va bene, e allora niente» dissi io, intascai i soldi e me ne uscii all'aperto. C'era un taxi che stava giusto salendo verso la rampa d'accesso. M'infilai, stanco, sul sedile posteriore. Un facchino dell'albergo chiuse la portiera. «Stazione centrale e ritorno» dissi io. «Senz'altro, signore» disse l'autista. Fuori pioveva di nuovo, molto forte. 9 Alla stazione centrale cambiai due banconote da venti marchi in monete metalliche e m'infilai nella stessa cabina telefonica dalla quale avevo chiamato Hem. Stavolta chiamai il giornale e mi feci passare subito Herford. Mi rispose subito: «Buona sera, Roland, Herford la saluta». «Buon giorno, signor Herford» dissi io. «Si sono verificate...» «Da dove sta parlando?» «Dalla stazione. Da una cabina. Si sono verificate nelle ultime ore alcune cose...» «Herford sa tutto» tuonò la sua voce compiaciuta. «Lei sa...» «Tutto!» Rideva. «Stupito, eh?» «Sì» dissi io. «Evidentemente il signor Seerose è già stato informato dai suoi amici.» «Furbo, il ragazzo. Già già. Proprio così. Bella porcheria, eh? Ma eccellente ai fini dell'inchiesta, molto eccellente. Anche Seerose dice che sono fatti eccellenti. Tutti dicono che sono eccellenti. Sono qui tutti da me. Anche il suo amico Kramer. Herford ha inserito l'altoparlante: la stanno ascoltando tutti quanti.» «Però che Bilka è saltato fuori dalla finestra del mio appartamento e si è fracassato la testa, questo non lo sa ancora» dissi io, irritato, ma anche con maligno compiacimento. Sentii Herford fare un profondo sospiro. «È sbronzo, Roland?» «No, signor Herford.»
«Ma com'è possibile che Bilka...» Non riuscì a dire altro. Io infilai una nuova moneta e dissi: «Ora glielo spiego. E le dirò di alcune altre cosette ancora, a proposito di certe faccende di cui gli amici del signor Seerose non avranno certamente ancora avuto il tempo d'informarla». Mi lasciò parlare e io raccontai, infilando man mano nella fessura altre monete. Quella cabina puzzava sempre di piscio e di profumo. Il puzzo di piscio era però prevalente, mi sentii venir male e dovetti buttar giù un sorso dalla mia fiaschetta. Raccontai tutto quello che era successo nel mio appartamento, senza dimenticare la visita di Victor Largent: tralasciai solo la sua profezia, e cioè che di quella nostra inchiesta non si sarebbe mai pubblicata una riga. Solo alla fine, a titolo di coronamento della telefonata, chiesi: «Come la mettiamo ora, signor Herford: la pubblichiamo quest'inchiesta oppure no?». «Ma certo che la pubblichiamo!» strepitò lui, «È impazzito? Non abbiamo mai avuto una storia bella come questa! Che significa questa domanda cretina? Sta pensando di svignarsela e di andarla a vendere ad altri? La diffido, Roland! Non tenti di farmi lo sgambetto! Io la trascino davanti a tutti i tribunali del mondo! Questa è roba di Herford! Appartiene a Herford! E Herford la pubblica! Parola d'onore. Herford le giura che... ah, ho capito, lei pensa al simpatico vecchietto di Colonia, eh?» «Sì» dissi io. «Lui non ha niente in contrario. Ormai lo sappiamo con certezza, haha!» «Ha parlato direttamente con lui?» «Aspetti, glielo spiegherà Oswald. Oswald, venga qui!» Oswald arrivò. E sentii la bella voce sonora e affascinante del direttore editoriale. «Pronto, signor Roland.» «Sì, pronto, signor Seerose» dissi io. E man mano continuavo a inserire monete. «Le cose stanno esattamente così come ha detto il signor Herford. Noi pubblichiamo tutto. Nessuna obiezione da parte del simpatico vecchietto di Colonia o degli americani. Anzi.» «Che significa: anzi?» «Gli americani vogliono che questa storia appaia! Lo hanno già comunicato anche a quel signore di Colonia, me lo ha detto anche lui... Ho parlato, ripetutamente, con tutti e due.» «Gli americani vogliono... Be', signor Seerose, guardi però che gli americani non ci fanno una gran bella figura!»
«Appunto. Consideri però che questo è stato solo il primo round.» «Non capisco.» «Quella cabina telefonica, alla stazione, è ben chiusa?» «Certo che lo è» dissi io, e mi accesi una Gauloise, perché non riuscivo a sopportare più quel puzzo, né potevo aprire la porta. Quella notte, alla stazione, c'era una gran calma. «Che significa primo round?» «Oh insomma, l'altra metà dei microfilm è sempre ancora a New York, dico bene?» «Se i russi daranno una buona ripassata a Bilka, non ci resteranno a lungo.» «Nessuno può dire cosa accadrà» disse Seerose. «Gli americani continueranno a tenerci continuamente al corrente, lo hanno promesso. E non agiscono per cieco ottimismo. Ma per calcolo. Veda, poniamo che quelli dell'Est riescano a mettere le mani anche sull'altra metà di quei piani: tutto é possibile. Ma allora la nostra inchiesta dovrà essere pubblicata.» «È questo che non comprendo. Un'inchiesta che illustra una batosta degli americani?» «E perché no? Ma con un piccolo dettaglio in più.» «E quale?» «Semplicissimo: noi lasceremo intendere che gli americani hanno avuto da Bilka - quando era ancora nella Niendorfer Strasse - copie di quei microfilm, e che hanno organizzato il volo a Helsinki e tutto il resto solo per disorientare quelli dell'Est» disse Oswald Seerose. «Ma non é vero» dissi io. «O è vero invece?» «Lei che ne dice?» chiese lui. «Che non è vero, naturalmente!» «Hum. Questo lo dice lei! Però se lei scriverà che gli americani hanno le copie di quei film, e scriverà pure, ma solo per vaghi accenni, che solo per questo noi possiamo pubblicare tutta la storia, allora milioni di persone le crederanno, giusto? E i russi si ritroveranno quanto meno con gli stessi dubbi che ha ora lei, amico io. Faranno delle domande a Bilka, se sarà ancora in vita. E lui che potrà rispondere?» «Che non ha consegnato nessuna copia.» «Appunto. E appunto per questo i russi non gli crederanno mai. Ecco perché é una gran fortuna, potercene uscire in pubblico con le nostre illazioni solo fra un paio di settimane. Abbiamo fortuna in tutti i sensi.» «E cioè?» «Be',» disse Seerose, tutto contento, «il fratello di Bilka è morto, l'ha
detto lei. E così non avrà rimorsi di coscienza nello scrivere, poiché non farà più l'infelicità di quell'uomo. Vaclav Bilka: che riposi in pace.» «Mi stia a sentire» dissi io. «Questa è davvero tutta la verità? Non mi state preparando trabocchetti?» «Mio giovane amico, ma perché tutta questa diffidenza?» «Io l'ho vista ad Amburgo, quando è arrivato al numero 333 della Niendorfer Strasse» dissi io. Avevo bisogno di certezze, a ogni costo. Herford aveva inserito l'amplificatore, e quindi in quel suo magnifico salone stavano ascoltando tutti. «Ma certo» disse Seerose, con incrollabile gentilezza. «Gli americani mi avevano invitato a raggiungerli al più presto.» «E perché?» «Per discutere tutto quello che ora abbiamo in ballo» fu la sua risposta, appena appena altezzosa. «Ascolti, gli americani hanno bisogno che questa inchiesta appaia, subito! Urgentemente!» «E il simpatico vecchietto di Colonia...» «L'ho già informato. Non farà assolutamente niente, signor Roland. O meglio: lo farà, ma solo se la sua inchiesta non sarà pubblicata!» Cercai di riflettere, ma evidentemente non c'erano più ragioni per dubitare. Dissi di sentirmi ora rassicurato. «Ci fa piacere» disse Seerose. E udii la risata sguaiata di Herford. «Se non fosse stato rassicurato, lei avrebbe... cosa avrebbe fatto, signor Roland?» «Lei che avrebbe fatto al posto mio?» «Io avrei accettato l'offerta di Victor Largent e affrontato tranquillamente un processo» disse lui, tutto giulivo. «Ciascuno deve fare i propri interessi. Me ne rendo conto perfettamente. Veda il caso del signor Notung.» «Notung...» «Olaf Notung. Il domestico di Michelsen.» «Ah sì.» Avevo il cervello intriso d'alcool? Per un attimo non ero riuscito a rammentare chi fosse Notung. «Che ne è di lui?» «Ha fatto anche lui i suoi interessi.» «In che senso?» «Sarebbe diventato automaticamente un bersaglio per quelli dell'Est, dopo che s'è saputo che Michelsen aveva cambiato bandiera, dico bene?» «Sì, e allora?» «E quindi ha lasciato quello stesso pomeriggio l'abitazione dell'Eppendorfer Baum e si è recato nella Niendorfer Strasse, ove ha chiesto agli a-
mericani asilo politico. E infatti ora è li da loro: dagli americani. Al sicuro. Lei quando rientra?» «Domani, appena tornerà Bertie e avrò sistemato qui tutto con la polizia. E poi voglio ancora andare a vedere come stanno Conny Manner e la sua amica.» «Molto bene, signor Roland... Tanti saluti da tutti.» «Tanti saluti anche da parte mia. Buona notte a tutti.» «Buona notte, amico mio» disse Seerose. «Oh, un momento, il signor Herford vuole ancora dirle qualcosa.» Herford tornò al telefono. «Una parola dalle Sacre Scritture per concludere, Roland Herford cita a memoria uno dei suoi passaggi preferiti. Dal salmo cinquantasei: "Voglio glorificare la parola di Dio; sperare in Dio e non temere; che m'importa della mia carne?". Magnifico, vero, Roland?» «Sì, signor Herford.» «Glorifichi la parola di Dio, Roland.» «Glorificherò la parola di Dio, signor Herford.» «E ci pensi bene: Rotaug la porterà diritto in galera se tenterà di svignarsela altrove con questa storia. Ha capito quello che le ha detto Herford?» «Ho capito, signor Herford.» Non avevo altre monete da inserire, quindi riappesi il ricevitore ed uscii dalla cabina. «Buona sera, signor Roland» disse un signore anziano che aspettava accanto alla cabina. Era un uomo alto, indossava un impermeabile bagnato e giocherellava con la falda del cappello che portava inclinato sulla nuca. 10 «Commissario Sievers» disse l'uomo anziano, calmo e gentile. «Della squadra omicidi.» «Desidera?» Esitò. L'espressione del suo viso si fece seria. «Volevo vederla, e scambiare qualche parola con lei. Ecco i miei documenti.» Me li mostrò. «Scambiare parola? E su che? E come ha fatto a sapere che ero qui?» «Stavo giusto arrivando al Metropol quando lei è partito in taxi. Un facchino ha sentito cosa lei ha detto al tassista. Di volersi recare alla stazione centrale, cioè! Quel tassista la sta aspettando li fuori. Be', allora sono venuto qui anch'io.» Mi prese per il braccio, con un gesto lieve, e ci avviammo
lungo il largo marciapiede. «Vede,» spiegò Sievers «io mi occupo del caso Concon... Lei sa che è stato ucciso a coltellate, vero?» «Sì. Già trovato qualche traccia?» «Neanche l'ombra di una traccia» disse, scuotendo la testa. Lasciò il mio braccio, tirò fuori di tasca una sigaretta e cominciò a giocarci, mentre continuavamo a camminare lentamente. «Ha sentito qualcosa della mia conversazione telefonica?» «Sì. Non abbia paura, non ne parlerò con nessuno. Ho pensato che sarebbe partito presto. Per questo sono venuto qui. Per poterla vedere. Per farle ancora qualche domanda.» S'accese la sigaretta e soffiò alcune nuvole di fumo. «Che domande, commissario?» «Vede, sono stato a curiosare un po' in giro per il comando di polizia. So tutto quello che è successo al campo di Neurode. So che vi è stato ucciso quel piccolo Karel. So che è stato assassinato il tassista Vladimir Ivanov davanti all'ospedale universitario. Mi son fatto dire tutto sulla morte di Vaclav Bilka e su quello che è successo nel suo appartamento. O meglio: tutto quello che erano disposti a dirmi.» «Perché lo ha fatto?» E lui, molto serio: «Perché sono convinto che tutti questi fatti sono collegati fra di loro. Il mio compito è soltanto quello di trovare l'assassino di Concon. Credo però che Concon sia l'anello di una catena. E che quindi devo guardare a tutta questa storia nel suo complesso: a cominciare dalla morte del piccolo Karel». Improvvisamente mi venne in mente la signorina Luise. Chissà dov'era in quel momento? «Non sa dov'è la signorina Gottschalk?» chiese lui, contemporaneamente. E devo ammettere che mi fece un certo effetto. «Non ne ho idea. Perché?» «Penso che avrebbe potuto darmi una mano. L'ho incontrata al commissariato. Ma allora non sapevo ancora che...» S'interruppe. «Non sapeva cosa?» «Che è malata di mente.» «E da quando lo sa, crede che possa aiutarla?» «Sì, certamente» disse quello strano commissario. «Una malata di mente... E come vuole che...» «Conosceva Karel. Gli voleva molto bene. Me lo hanno detto. E tutto
comincia con quel piccolo Karel. Avrebbe potuto raccontarmi tante cose di lui.» «Si rifarà viva. E così potrà farle qualche domanda.» «Speriamo.» «Sono certo che prima o poi si rifarà viva» ripetei. «Non è questo che voglio dire» disse Sievers, aspirando il fumo della sigaretta. «E cosa allora?» «Speriamo che possa farle delle domande, quando si rifarà viva.» Mi sentii improvvisamente a disagio, e Sievers se ne accorse. «No, io non sono uno squilibrato» disse sorridendo. «Non tema. Il fatto è che avrei proprio urgente bisogno della signorina. È malata di mente, è vero. Ma sa molte cose. Mi sarebbe di grandissimo aiuto. Be', insomma. Vedrò di andare avanti anche così. E comunque, ora che ne ho parlato qui con lei, sono assolutamente sicuro che troverò l'assassino di Concon...» Avvicinò il suo viso al mio e abbassò il tono della voce. «Sono convinto che l'assassino di Concon e l'assassino del piccolo Karel sono la stessa, identica persona.» «E cosa le suggerisce questa ipotesi?» chiesi io, stupito. «Ho pensato molto a questo caso. E so anche cosa devo fare per trovare quella persona.» «Fare cosa?» «Questo è un mio segreto! Potrò continuare a contare sul suo aiuto, signor Roland?» Non saprei dire il perché, ma c'era qualcosa che m'inteneriva in quel vecchio commissario, bagnato fradicio e giallognolo in volto. «Sempre» dissi io. «Bene, molto bene. La ringrazio.» Riprese a giocare con la tesa del suo cappello, mi fece un cenno di saluto e se ne andò in fretta. Continuai a seguirlo con lo sguardo, stupito. Persino quel suo modo di andarsene aveva un che di poco rassicurante. L'intravidi ancora vicino all'uscita, ma un attimo dopo era già scomparso: senza lasciare alcuna traccia. Mi avviai lentamente, nella stessa direzione del commissario Sievers, verso l'uscita dove c'era il mio taxi in attesa. Pensai, repentinamente molto confuso e inquieto, che si era chiuso un circolo. Mi ricordo che la signorina Luise mi ha detto, quando sono andato a trovarla: «E se davvero non esistessero una fine e un principio? E se fossero entrambi la stessa cosa? Allora la nostra fine è sempre anche il nostro
principio, vero?...». E la signorina aveva tracciato col dito un gran cerchio in aria... 11 Bertie rientrò da Helsinki su un aereo che atterrò a Fuhlsbüttel alle 8 e 35. Quando giunse in albergo, verso le 9 e 30, Irina e io avevano appena finito la colazione. (E io avevo di nuovo dormito sul divano.) Ci recammo nella stanza di Bertie e, per tenergli compagnia, bevemmo un altro caffè. Lui intanto stava placando la sua fame da lupo. Gli raccontai cosa era successo. Ghignò e disse: «Ho già notato che in quest'albergo non mi trattano più con la cortesia i prima. E chi se ne frega! Quando avrete visto le foto che ho scattato...». Tazza di caffè in mano e giallo d'uovo all'angolo della bocca, si avvicinò al telefono, chiamò sua madre a Francoforte, le augurò il buon giorno e le disse che le voleva bene. Nel corso della notte ero stato molto nervoso. Ora però che Bertie era rientrato, mi sentivo di nuovo tranquillo. Bertie riusciva sempre a calmarmi. «Sapete che vi dico?» disse, dopo aver concluso la telefonata. «Visto tutto quello che ci è capitato, credo proprio che sia giunta l'ora di darci del tu, non vi pare?» E fece a Irina un sorriso raggiante. Un sorriso contagioso. Sorrise anche Irina. Annui, si alzò e Bertie la abbracciò, ricevendone in cambio un bacio sulla guancia. Poi ricevetti un bacio sulla guancia anch'io, e Irina disse: «Benissimo, diamoci del tu. Era proprio ora, Bertie: hai ragione». «Io ho sempre ragione» disse Bertie, il buon vecchio Bertie. «Rieccoti il tuo cannone» disse, e mi porse la Colt 45. «Per la miseria, quanto pesa quest'affare. Però sono stato contentissimo di averla con me.» Nel vedere l'arma, mi venne un'idea. «Largent!» dissi io. «Che c'entra?» «Aveva detto che sarebbe venuto stamattina con contratto e assegno.» Irina mi guardò, spaventata. «Niente paura. Non accetto. Però mi piacerebbe sapere come sta il mio mister Largent.» Chiamai l'Hotel Atlantic. La centralinista mi disse: «Un attimo per favore»; e poi si fece vivo un tizio della reception, non riuscii a capirne il nome. «Desiderava parlare col signor Largent?»
«Sì.» «Mi dispiace, il signor Largent ha lasciato l'albergo.» «Ma io avevo un appuntamento con lui. Quando è partito?» «Stamattina, molto presto. S'è recato all'aeroporto, in tempo per il primo volo per New York.» Quindi era proprio vero quello che Seerose mi aveva detto. Che sporca storia! «Mi chiamo Roland» dissi io, e ripetei il mio nome: Walter Roland. Mister Largent ha lasciato un messaggio o altro per me?». «No, signor Roland. Mister Largent non ha lasciato nessun genere di messaggio.» «Grazie.» Riagganciai. «Bene, compagni, credo che sia venuta l'ora di levare le tende.» «Vogliono averci fuori dai piedi al più presto, eh?» chiese Bertie sogghignando. «Si sono comportati in modo antipatico persino giù in garage.» «Già, al più presto, facciamo le valigie. Irina e io dobbiamo anche fare un salto al comando di polizia, per firmare le nostre deposizioni di stanotte. E poi voglio ancora andare a vedere Conny ed Edith.» Fu così che Irina e io tornammo nel nostro appartamento, tutto in disordine, coi telefoni fracassati, e preparammo i bagagli. Vennero a prendere la nostra roba, pagai il conto alla reception: tutti erano d'una cortesia scostante. Hanslik fu l'unico a stringermi la mano. Diedi un'ultima occhiata in giro. Ero triste perché mi avevano messo alla porta. Il Metropol mi era sempre piaciuto. Il direttore dell'albergo, quello che era spuntato fuori la notte prima, mi passò accanto senza degnarmi di un'occhiata. Scesi con Irina nel garage sotterraneo. Bertie era accanto alla Lamborghini e sovrintendeva alle operazioni di carico del bagaglio. Pagai quello che dovevo per il noleggio della Rekord, la benzina per la Lamborghini, l'olio che era stato aggiunto al motore: l'olandese non mi guardò in faccia neanche una volta. Non feci nemmeno il gesto di dargli una mancia. Ne avevo le scatole piene. Ci avviammo - Irina seduta in mezzo a noi - verso il comando di polizia. Era una mattina grigia, fredda ma molto asciutta sotto il cielo invernale. Bertie attese che Irina ed io sbrigassimo l'incombenza che ci attendeva: e durò un bel po' di tempo. Quindi ci dirigemmo verso l'ospedale, per andare a salutare Conny ed Edith. Non riuscimmo ad avere il permesso di visitare Conny - due uomini del MAD erano sempre ancora di guardia alla porta -
però Edith venne dalla stanza accanto, e aveva un'aria felice. «Sta meglio, sta molto meglio!» «Sono contento, Edith» dissi io. «Continuiamo a tenerci in contatto attraverso Blitz. Non abbia più paura. Non le succederà più niente.» «Ci badiamo noi» disse uno dei due uomini del MAD. Già, e ci avviammo finalmente fuori dalla città, raggiungemmo il ponte nuovo sull'Elba, quello che mi piaceva tanto: guardai l'acqua, le navi e i battelli, l'arsenale e le gru. C'era foschia e tutto sembrava grigio: un mondo grigio. Per la prima volta non mi sentii piacevolmente eccitato dalla vista dell'Elba e dei suoi canali: volevo solo andarmene alla svelta, il più presto possibile. Quando raggiunsi l'autostrada a Veddel, accesi il riscaldamento, perché il vento era gelido: e pestai sull'acceleratore. Dopo dieci minuti che guidavo, sentii Irina dire, piano: «Ah, voi due...». «Che c'è?» chiesi io. «Io... io sono così contenta che voi due siate con me» disse Irina. Bertie non la sentì. Si era di nuovo pacificamente addormentato. 12 La Patetica di Ciaikowski era sempre ancora sul piatto del giradischi quando, lasciato il giornale, giunsi con Irina al mio appartamento. Le donne di pulizia avevano riordinato e tutto era perfettamente a posto. Mostrai a Irina tutte le camere, compresa la stanza degli ospiti che le avevo destinato. Si limitò a guardare con aria assente i preziosi mobili laccati in svariati colori, le librerie, la terrazza fuori dalla grande porta a vetri. La riunione da Herford era stata brevemente interrotta per consentirmi di accompagnare a casa Irina, che aveva un aspetto esausto. Ora che per me stava per venire il momento in cui avrei dovuto cominciare a scrivere, avevo bisogno di averla sempre sotto mano. Durante il viaggio da Amburgo aveva acconsentito di venire ad abitare da me. Avevo telefonato questa decisione di Irina a Hem, durante la sosta che avevamo fatto. Di conseguenza, all'undicesimo piano del palazzo di Herford, l'editore mi aveva detto: «Porti la signorina a casa sua, Roland. Ceni con lei. Ora facciamo una breve pausa e andiamo a cena tutti. Mami andrà a casa. Poi ci ritroveremo qui tutti da me. Dobbiamo risolvere assolutamente, oggi ancora, tutti i problemi relativi a TUTTO SULL'UOMO. Non sia preoccupata, signorina Indigo. A casa di Roland sarà ben sorvegliata». «Sorvegliata?»
«Due funzionari di polizia, in macchina, saranno ininterrottamente fermi davanti all'ingresso di casa. Si daranno man mano il cambio. Oswald ha concordato tutto.» «Sono gli americani che lo desiderano» spiegò Oswald Seerose. «E penso che sia un'ottima idea. Saremo tutti più tranquilli, signorina.» «Certo...» disse Irina, smarrita. «E domani le manderò Leo» disse mami. «Leo è il miglior commesso del negozio dal quale mi servo. Avrà pur bisogno di qualcosa. Leo provvederà a tutto, si fidi di lui. Quell'uomo ha un gusto squisito, bambina mia.» O Dio, pensai, e guardai Hem: replicò alla mia occhiata senza muovere un muscolo del viso. Non mi resta che sperare che Leo abbia davvero un gusto squisito, pensai. Da come si vestiva mami però, non si sarebbe detto. «Naturalmente io non mi faccio mai influenzare da lui» disse mami. Mi sentii subito più tranquillo. Quando raggiunsi il palazzo dove abitavo, vidi la macchina con i due funzionari di polizia. Riconosco subito i piedipiatti. Mi fecero un cenno d'intesa, e io risposi a mia volta con un cenno mentre prelevavo le nostre cose dalla Lamborghini. Una volta nell'appartamento, disfeci i bagagli: portai la macchina da scrivere, le cassette dei nastri e i quaderni con gli appunti sulla scrivania del mio studio. Mi accorsi subito di aver lasciato il registratore in macchina. Andrò a prenderlo dopo, pensai. Non avevo fame, ma chiesi a Irina se aveva voglia di mangiare: il frigorifero era pieno di roba. Anche Irina disse però: «Non ho appetito, per niente. Sono così stanca e nello stesso tempo così agitata: sai come ci si sente in questi casi?». «Lo so benissimo» dissi io. Preparai due whisky e condussi Irina nella mia grande camera da letto, perché il giradischi era lì e perché anche Irina mi aveva detto di amare Ciaikowski. Ci sedemmo sul mio lettone, ascoltammo la Patetica e ci godemmo una pausa di pace rilassante. «Di là, nel mio studio, c'è un'intera discoteca. C'è altra roba di Ciaikowski, tanta» dissi io. «Dopo aver fatto il bagno, se non riuscirai ad addormentarti e ne avrai voglia, ascolta un paio di dischi. E bevi qualcosa. Ora sai dove trovare quello che può servirti.» «Sì, Walter.» «Però poi vai a letto, da brava. Io chiuderò l'appartamento a chiave, ma ti lascerò un mazzo di chiavi. Non aprire a nessuno. Se suona il telefono, avvicinati all'apparecchio ma non sollevare il ricevitore. Io chiamerò tre
volte semmai, in breve, e riaggancerò ogni volta. Solo la quarta volta farò suonare più a lungo e mi risponderai. Okay?» Annui. Solo in quel momento vidi che aveva quei suoi occhi belli pieni di lacrime. «Che c'è, Irina?» Mi prese la mano destra, se l'appoggiò alla guancia bagnata e sussurrò: «Io... ti ringrazio... di tutto...». «Ma va'!» «No, sul serio... Senza di te... che sarebbe stato di me?» «Senza di me! Ma se sai benissimo che faccio tutto questo solo perché voglio scrivere la tua storia!» «Questa è una bugia» disse Irina, e sorrise un poco. «Sì, è una bugia. Ti voglio bene.» Mi baciò il palmo della mano, poi l'abbandonò di scatta e buttò giù un gran sorso di whisky. «E ora che c'è?» «Io... mi è venuto in mente lui... Scusa...» «Ma è naturale. Passerà, vedrai. Passerà tutto.» «Si, deve passare tutto. Non voglio che rimanga nulla. Nulla.» In quel momento non compresi quello che voleva dire. Ma di lì a poco dovevo capire tutto: già. La musica continuava a suonare. Mi avvicinai al tavolino sul quale c'era la bottiglia di Chivas, e me ne versai una gran dose. Ma lo sciacallo non c'entrava affatto. 13 «Stammi bene a sentire, Max» dissi io. «La Tutti dice che hai un uccello come quello di un elefante.» «Altroché» annuì Tutti. «Per la miseria, Walter, è l'affare più grosso che io abbia mai visto in vita mia, e ne ho visti davvero tanti. Per ragioni di lavoro, naturalmente.» «Diciamo che non è un uccellino» disse Max, sorridendo fiero. «Come mai t'interessa, Walter? Non sei mica finocchio tu!» «Idiota!» dissi io. «Il tuo uccello m'interessa solo perché lo vogliamo per la copertina di Blitz.» «Sempre i tuoi soliti scherzi, Walter!» esclamò Tutti. «Ma che dici» fece Max. «Quanto hai bevuto?» «Sono assolutamente sobrio. Vi sto dicendo la verità. Vogliono il tuo
uccello, Max. Sono venuto qui direttamente dalla redazione, ve l'ho detto anche per telefono. Abbiamo fatto una riunione.» «Nel cuore della notte?» «È ancora in corso. Stiamo preparando due grandi inchieste. E ho bisogno di parlarne con voi due...» «Max, il tuo cazzo in copertina! Diventerai famoso! Forse ti faranno fare del cinema!» esclamò Tutti. Erano le 22 e 30, ed ero seduto nel salottino modernamente arredato di Tutti e Max. Conoscevo quella casa, c'ero già stato un paio di volte. La ventottenne Tutti Reibeisen, che in realtà si chiamava Gertrude ma cui non piaceva questo nome, aveva grandi occhi azzurri e radiosi, e una bocca smisurata il cui angolo destro era sempre tirato un po' all'insù. Indossava scarpe dal tacco altissimo e un abitino-mini rosso fuoco: se ne stava seduta in modo che potessi giudicare comodamente il tipo di biancheria intima nera che usava. Il suo protettore - quella pasta d'uomo di nome Max Knipper - era alto, slanciato e muscoloso come un dio greco. Aveva anche il profilo di un dio greco. Aristocratico, perfetto. Non c'era donna insomma che, visto Max, non fosse colta dal batticuore. Solo le mani gli erano cresciute troppo: di tre misure, diciamo. «Ecco, vedete» dissi io. «Lo sapevo d'essermi rivolto alle persone giuste. Dobbiamo fare un po' in fretta però. Ho bisogno che tu, Tutti, mi dia informazioni, spiegazioni, delucidazioni. Ma soprattutto ho urgente bisogno dell'uccello di Max.» «Porca miseria, il mondo va a rotoli» disse Max, impressionato. «Dobbiamo berci un altro goccetto, altrimenti m'incazzo.» Avevamo davanti a noi bicchieri, bottiglie di birra e grappa. In via del tutto eccezionale, rinunciavo al mio Chivas, perché non intendevo suscitare conflitti di natura sociale. Max indossava un vestito blu a righe bianche molto evidenti, una camicia gialla e una cravatta sgargiante. Era seduto a ridosso d'una parete sulla quale c'erano molte fotografie incorniciate. Erano quasi tutti ritratti di famiglia ingialliti: un po' fuori posto in quell'arredamento moderno, ma Tutti era una sentimentale. Le avevo telefonato dall'imponente ufficio di Herford, per chiederle se potevo andare a trovarla. Mi aveva risposto Max. «Adesso no» mi aveva risposto. «Soltanto fra un'ora. Tutti è di là con un cliente. Un tale pieno di quattrini. Però non vuole che lo si veda qui da noi.
Ha posteggiato la sua carretta un po' distante da casa nostra. Puoi andare a darci un'occhiata, se ci tieni. È un'Alfa rossa. Se vieni fra un'ora, e l'Alfa è ancora lì, dovrai attendere che se ne vada. Capito?» «Okay, Max.» E avevo riagganciato. Gli altri uomini che erano nell'ufficio mi guardarono ansiosi. «Be'?» chiese Herford. «Tutto a posto. Parlerò con loro questa notte. È l'uomo che cerchiamo. Se vogliamo, possiamo cominciare con le foto domattina.» «Provveda lei, Engelhardt» disse Herford. Bertie si mise a ridere. In quella grande stanza, l'aria era ormai blu. Fumavano tutti. Herford si era tolto la giacca. Noialtri no: era un privilegio riservato solo all'editore. Potevamo fumare, però. E sul grande tavolo delle riunioni c'erano anche bottiglie di birra. Una serata per soli uomini. Mami era stata accompagnata a casa da un pezzo. Nel corso di quella riunione verificai per l'ennesima volta quanto fosse nobile il mio mestiere. Sulla copertina con Karel svenuto, quei signori s'erano accordati in un quarto d'ora, e avevano lasciato a me tutta la responsabilità di come impostare l'inchiesta, puntata per puntata. TUTTO SULL'UOMO li assorbì invece per ore e ore. Ognuno aveva la sua proposta da fare, idee da illustrare, sempre da capo. Parlavano contemporaneamente, ciascuno cercava di gridare più degli altri, ognuno si complimentava con se stesso e tutti si complimentavano vicendevolmente per le varie trovate. Parevano aver perso la testa per quella schifosa pornoinchiesta. «Un uomo di profilo, naturalmente. L'intero corpo, ma di profilo!» «Mah, non so. Non sarebbe forse meglio di fronte?» «È impazzito? Il cazzo deve vedersi chiaramente sullo sfondo scuro!» «E naturalmente in stato di erezione!» «È ovvio! In tutta la sua potenza!» «Che festa, per le donne!» gracchiò Ziller. «Signori, evitiamo di dire volgarità! Quello che vogliamo dare alle donne è un aiuto: vogliamo aiutarle a vivere!» «Certo, signor Herford!», «Ovvio, signor Herford!» Aiutarle a vivere: il mio editore disse proprio così. «Quest'inchiesta è una cosa molto seria» spiegò Hem. Non era riuscito a
star zitto. «L'ha detto, Kramer!» Herford era insensibile all'ironia. Non sapeva nemmeno cosa fosse. «Avremo contemporaneamente due inchieste serie! E anche per quanto riguarda TUTTO SULL'UOMO, Roland, cerchi di non trascurare la componente umana.» «No, signor Herford, non dimenticherò la componente umana.» «Solo così potrà poi essere esplicito quanto vorrà. Capisce quello che voglio dire, vero?» «Capisco quel che vuol dire, signor Herford. Sarò molto esplicito.» «Nessun pudore! Questa nostra è un'iniziativa molto seria. Sono certo che anche la Chiesa ci impartirà la sua benedizione. E non trascuri gli aspetti di critica sociale, Roland» disse Herford. «Arretratezza e oppressione della donna nell'epoca del tardo capitalismo. Pensi anche alla nostra nuova tendenza.» «Sì, signor Herford, penserò anche alla nostra nuova tendenza.» Ancora un po', e avrebbe preteso perfino la benedizione dei sindacati per la sua serie. Il capo dei servizi fotografici Ziller disse: «Dobbiamo preparare tutto nel teatro di posa». Blitz, naturalmente, aveva anche un suo grande teatro di posa con tutti i requisiti. «Preparare cosa?» chiese Lester. «Abbiamo bisogno di ragazze. Ragazze nude.» «Ma perché?» Lester era un ingenuo, nonostante tutto. E non aveva un minimo di fantasia. «Be', insomma, se vogliamo che quell'uomo ci sfoderi un uccello così, dobbiamo pur sbattergli davanti qualche donna nuda» disse Ziller, spazientito. «Dove possiamo procurarcene un po' in fretta?» «Sono certo che il signor Roland può darci una mano» disse Lester con astio. Stava ancora rimasticando il casino che gli avevo organizzato lunedì. «Ma certamente, signor Lester» dissi io. «È solo una questione di soldi. Purché paghi come si deve, riesco a procurarmi le più belle ragazze di Francoforte.» «I soldi non contano in questa faccenda, lo sa benissimo» disse Herford. Era molto eccitato, prelevò un'altra volta la sua scatoletta d'oro dal taschino del panciotto e ingoiò cinque pillole: rosse, gialle e blu. Le buttò giù scolando un boccale di birra. «Se ci va bene, questa sarà la cannonata dell'anno! Ve lo predice Herford!»
«Oppure ci sequestrano» disse l'elegante direttore editoriale Seerose. «Non ci sequestrerà nessuno, Oswald» disse Herford. «Anche tu e Ziller c'eravate prima, quando Rotaug ha letto la sua relazione. La prego, dottore, glielo spieghi un'altra volta.» La tartaruga umana socchiuse gli occhietti. Poi il signor dottor Rotaug si raddrizzò il colletto, si toccò la perla sulla cravatta d'argento e disse quanto segue: «Non saremo sequestrati, non saremo confiscati e non avremo rimproveri nemmeno dal comitato per l'autocensura degli editori. Tutto quello che dobbiamo fare è di mettere una fascetta attorno al giornale, affinché ricopra la zona in questione». «Quale zona?» chiese il povero Ziller. «Oh insomma, sul cazzo!» sbraitò Herford, irritato. «Naturalmente si tratterà di una fascetta eliminabile» disse Rotaug. «Chiaro!» «Ovvio!» «Gli occhi che faranno le nostre fanciulle!» «Hahaha!» «Hihihihi!» «Silenzio!» sbraitò Herford. «Ma dove siamo? In un bordello o nello studio di un grande editore?» Silenzio di tomba. «Quella fascetta è sufficiente per prevenire qualsiasi accusa di turbamento dell'opinione pubblica, di corruzione di minorenni e di pornografia. La mia affermazione si basa su sentenze pronunciate dalle corti di appello di Münster e Lubecca, rispettivamente nel 1964 e nel 1967. Secondo queste sentenze...» Rotaug spiegò le motivazioni delle sentenze e si dilungò per dieci minuti in argomentazioni giuridiche. «Mi pare che sia una buona idea» disse infine Seerose, impressionato. «Gran pensata, eh, Oswald, quella della fascetta?» «Sì, Tommy.» «Pensata di Herford» disse Herford, orgoglioso. «Rotaug ha accennato solo a qualcosa come a una striscia sulla copertina... e subito Herford ha concepito l'idea!» «Idea grandiosa, signor Herford!» Lester lo guardava, adorante. «E sulla fascetta scriviamo... anche questa è una mia proposta, e ve la enuncio solo così, come primo abbozzo: "Quel che c'è sotto questa fascia scotta al punto che l'abbiamo dovuta coprire!".» «Eccezionale» disse Seerose.
«Lei non apre bocca, signor Kramer» disse Herford, irritato. «C'è qualcosa che non le garba? Le sembra che l'idea di Herford non sia buona?» «Trovo la sua idea eccellente» disse Hem, gentilissimo, succhiando la sua pipa. «Credo anzi di poter dire che quest'idea poteva venire solo a lei.» Herford era raggiante. «Sissignori, Herford ha una testolina tutta d'oro! Mi piacerebbe proprio sapere che fareste voi senza Herford, banda di schiappe!» Lester, Rotaug, Beccamorto e Ziller si misero disciplinatamente a ridere. Seerose lanciò un'occhiata severa a Hem, che gli rispose però con un'espressione innocentissima. Quindi iniziò la discussione sul come TUTTO SULL'UOMO doveva essere graficamente impostato, e venne così di nuovo la grande ora del Beccamorto. Esibì disegni di pagine, erudì tutti sui segreti della grafica e della titolazione: e tutti pendevano dalle sue labbra, pendevano dalle labbra di uno squallido puttaniere perché l'esperto, in quel caso e in ogni senso, era proprio lui. Dopo tre quarti d'ora circa mi congedai e mi avviai attraverso la città immersa nella notte. Cinque edifici prima della casa di Tutti c'era un'Alfa Romeo rossa. Mi fermai, spensi motore e fari, e attesi. Attesi venti minuti. Poi vidi un uomo venire lungo la strada, darsi occhiate spaurite in giro: salì in fretta sulla vettura e partì come un razzo. Io scesi dalla mia Lamborghini, mi avviai verso la casa di Tutti, pensando di aver visto un fantasma. 14 «No, no. Era proprio il giovane Herford» disse Max Knipper. «Hai visto benissimo. Però tieni il becco chiuso, eh?» «Bob è stato qui davvero?» chiesi io, sempre ancora sbalordito. «Dalla Tuttina, certo. Due ore. Quattrocento marchi. Appena chiesti, lui subito li ha tirati fuori! Ha detto che ormai per lui è l'unico sistema. Non ha scelta.» «Non ha scelta?» «Ne ha messa incinta un'altra. Dice che continua a mettere incinte ragazze» spiegò Tutti. Eravamo già seduti nel salottino. «E l'ultima ora vuole mezzo milione. Pare infatti che l'abbia violentata. E poi è ancora minorenne. Abortire non vuole. E che l'abbia violentata, ci credo. Porco mondo, qui da me s'è comportato come un toro furioso, Walter.» «Come mai conosce il tuo indirizzo?»
«Se l'è fatto dare dal Beccamorto. Gli ha dato dei soldi e gli ha rotto le scatole sino a quando quello ha parlato.» «Simpatico Beccamorto» dissi io. «Era soddisfattissimo, il giovane signor Herford» disse Max. «Glielo ho chiesto prima che uscisse. E così ora abbiamo un altro cliente fisso. Mica male, eh? Abbiamo bisogno di soldi.» E tornò così al suo argomento preferito. «Se sapessi quanto dobbiamo ancora pagare alla banca, per questa nostra casa! E gli interessi! Però non potevamo farne a meno, dico bene? Ci serviva un porto sicuro. E abbastanza grande. Una stanza per me, la stanza da lavoro di Tutti, la nostra camera da letto, il salotto che vedi. E poi cucina, bagno, riscaldamento centrale. E tutti i mobili nuovi! La cucina componibile è un gioiello! Tutti ne è fiera. Era un nostro antichissimo desiderio, lo sai anche tu, Walter. Tutti ha dovuto darci dentro, poverina, anche a Berlino, quando eravamo ancora lassù.» Tutti aggiunse, commossa: «Che modo di lavorare era quello! Ora però finalmente siamo fuori dalle sgrinfie degli strozzini che ci davano la stanza in affitto. E siamo padroni d'una casa nostra! Gran cosa, la proprietà». I due erano approdati a Francoforte, da Berlino, tre anni prima. E li conoscevo da allora. Prima s'erano sistemati in un albergo a ore. Era stato in quell'epoca, quando avevo scritto un'inchiesta sulla prostituzione a Francoforte, che avevo chiesto a Tutti come mai aveva lasciato Berlino. «Perché non ci si riusciva a vivere decentemente» aveva risposto. «Vede...» (allora ci davamo ancora del lei) «...vede, Berlino è diventata una frana. Ci sono tanti ragazzi... studenti e così via, che ci vanno però solo per sottrarsi al servizio militare. Poverini, non hanno neanche i soldi per mangiare decentemente. Non è gente con la quale una come me possa combinare buoni affari. E poi... i vecchi. È triste, proprio triste, per una berlinese autentica come me, il doverlo ammettere, ma Berlino è diventata una città di vecchi; e lo diventa ogni giorno di più. E i pensionati, ovviamente, non hanno soldi. Di soli turisti e di uomini d'affari non si può vivere. Non spendono volentieri, e poi c'è la concorrenza. Anche qui a Francoforte c'è concorrenza, ma almeno la città è piena di ricchi che pagano senza brontolare. E poi c'è stata quella storia di Max.» «Che gli è successo a Max?» «Max faceva il netturbino» aveva spiegato Tutti. «Il netturbino, appunto» aveva detto il bellissimo Max. «Addetto al trasporto dei bidoni. Un lavoro duro, signor Roland, c<'è da sgobbare da rompersi le ossa.»
«Me l'immagino.» «E crede lei forse che ci sia del rispetto per chi porta via la sporcizia altrui?» aveva chiesto Max, rosso di rabbia. «Una bella merda! Ti guardano dall'alto in basso solo perché trasporti bidoni! E la paga era più miserabile di tutta l'immondizia che portavo!» Preso dall'ira, Max aveva dato un gran pugno sul tavolo. «E dire che è un mestiere difficile. Non se ne trovano più che siano disposti a farlo. E io sono contento: gli sta bene! Stia a sentire...» Il tema lo affascinava. «Se a scuola quei culi rotti continuano a minacciare i ragazzini che non studiano dicendo: "Da grande potrai fare al massimo il netturbino!", mi sa dire dove andremo a finire? Io chiedo a lei: è pedagogia, questa? Quindi non si devono meravigliare se nessuno vuole più fare il netturbino e trasportare i bidoni delle immondizie! Dico bene?» «Dice benissimo, signor Knipper.» «Provi a dare un'occhiata a New York» aveva detto Max, molto serio. «Rifiuti a montagne per le strade. Sciopero dei netturbini! Col caldo che c'è! Benissimo, dico io! Giustissimo, dico io! Si ferma tutto se si ferma l'operaio! E a New York, adesso, ci sono i topi che corrono per la Fifth Avenue: l'ho letto con questi miei occhi. E che corrano pure, che corrano anche a Wall Street e alla borsa, a mangiarsi le azioni! Ah no, signor Roland, no! Chissà che sarebbe stato di me e della mia Tutti se non ci fossimo conosciuti per caso e non avessimo deciso di metterci insieme!» «Lei ora cosa fa qui a Francoforte?» «Ho certi affari in ballo. Ma non è che mi vadano proprio bene. L'inflazione, sa...» 15 I suoi affari dovevano continuare ad andar male anche tre anni dopo, perché Max s'ingolfò in una durissima contrattazione sul suo compenso per la copertina. Voleva avere 5.000 marchi, roba da matti, ma riuscii in qualche modo a portarlo ai 2.000 marchi. «Ma sì, ma sì, fregatemi pure, voi capitalisti! Tu sei un servo dei capitalisti, Walter. E pensare che ti credevo amico mio!» «Io sono amico tuo, Max. Ma devi essere ragionevole.» «Certo che lo è, certo che lo è» intervenne Tutti, per placare la discussione. «Non voleva mica dir niente di male quando ha detto servo dei capitalisti, Walter, proprio niente di male...» «Ma certo...» grugnì lui.
«Ecco vedi» continuò Tutti. «Noi lo sappiamo benissimo che le tue convinzioni sono sociali, Walter, e se dici che non c'è da cavarne altro, allora vuol dire che non se ne cava altro. Eppure lasciatelo dire: 2.000 scudi sono niente a confronto del corpo di lusso che ha il Max. Quel merdoso, il tuo editore, si farà un sacco di quattrini coll'uccello di Max. Ecco perché io dico che ci vuole il comunismo! Non si può andare avanti così, con questi sfruttatori avvoltoi che imperversano! Comunque: a che ora vuoi che Max sia in teatro di posa?» «Domani alle undici» dissi io. «D'accordo» disse Max. «Sarà tutto pronto. Ragazze e così via, voglio dire.» Max fece un cenno di sufficienza. «Ce la faccio anche senza ragazze. Ora però andiamo avanti. Hai detto che vuoi delle informazioni. Su quelle faccende lì, l'hai detto tu. Perversioni e così via. Cosa deve fare una donna perché all'uomo gli tiri. E tu vuoi che Tutti ti sveli i trucchi del mestiere. E lei che ne ricava?» «Duecento marchi a puntata.» «Duecento?» Max fece una risata sprezzante. «Hai sentito, Tuttina mia? Walter, sai che ti dico: se tutti fossero così generosi, tanto varrebbe che Tutti se la facesse cucire!» «Max, sii ragionevole! Sarà un'inchiesta in molte, moltissime puntate. Devi fare un calcolo globale.» «Per meno di cinquecento a puntata non se ne parla» disse Max. Ci accordammo, infine, per una tariffa di 300 marchi per puntata. Max mi strinse la mano, per dimostrarmi che considerava definito l'aspetto finanziario. Mi stritolò quasi le dita. «Ora posso parlare, torello mio?» chiese Tutti. «Ora puoi» disse il bel Max. Tutti respirò a fondo. E cominciò ad attingere al ricco tesoro delle sue personali esperienze. 16 Arrivai a casa solo verso mezzanotte. Davanti all'edificio c'erano altri due funzionari di polizia, in un'altra macchina parcheggiata lungo il marciapiede: riconobbi subito che erano piedipiatti, e loro non fecero nulla per nascondermelo. Feci loro un cenno. Mi risposero con un saluto. Salii nel mio appartamento col registratore in
mano, e quando entrai sentii della musica. Irina era nella camera da letto, seduta accanto al giradischi, sul tappeto. Vidi che aveva fatto il bagno. Aveva riunito i suoi capelli sotto un turbante fatto con un asciugamano, indossava uno dei miei pigiama, troppo grande per lei, e una mia vestaglia. Tutt'attorno a lei, sul tappeto, c'erano dischi, alcuni infilati nelle loro custodie, altri no: Ciaikowski, Rachmaninof, Smetana. C'erano anche un portacenere, una bottiglia di Chivas e un sifone di selz. Irina fumava e aveva un bicchiere in mano. Seduta a terra, la testa appoggiata alla parete, mi fece un cenno, indicò il disco che aveva appena messo sull'apparecchio e disse: «Bello, vero?». «Si può sapere perché non dormi? Sono già le...» «Lo so. Non riesco a dormire. Mi andava di starmene qui seduta a fumare, a bere e a sentire musica. Sei arrabbiato?» «No. No, naturalmente.» Irina fece un gran gesto con la mano. «Prendi un bicchiere. Siediti qui con me.» Aveva evidentemente bevuto molto di più di quanto potessi supporre. Andai a prendermi un bicchiere in cucina, assieme a cubetti di ghiaccio, tornai in camera da letto e mi sedetti accanto a lei sul tappeto. «Lo so, non si dovrebbe fumare in camera da letto» disse Irina. «Giusto» dissi io, e mi accesi una Gauloise. Mi preparai un drink e alzai il bicchiere. «Cincin» dissi io. «Cincin» disse Irina. Bevemmo entrambi. «Dove sei stato?» chiese lei. «In redazione e poi da una prostituta e dal suo protettore. Ti ho già raccontato di quei due.» «Amici tuoi.» «Amici miei. Per la nuova inchiesta, capisci?» «Tutto bene?» «Perfetto.» Pausa. Solo il concerto per pianoforte rompeva il silenzio. Poi: «Walter?». «Si?» «Lo sai che si sta proprio bene qui da te?» «Te l'avevo detto» dissi io. «Aspetta, ti preparo un altro drink.» Le presi il bicchiere. E seguì un'altra pausa. Si sentivano solo la musica e il tintinnare dei cubetti di ghiaccio. «Grazie» disse Irina, quando le allungai il bicchiere. Lungo sorso e poi:
«Walter?». «Si.» «Ci ho pensato a lungo, se dirtelo oppure no. Se potevo arrangiarmi da sola oppure no. Ma da sola non posso farcela. Non conosco nessuno in Germania. E poi qui da voi è anche reato. E non ho nessuna intenzione di finire in prigione.» «Ma di che stai parlando?» chiesi io. «Ti ho detto di essere fuggita da Praga perché la polizia continuava a convocarmi per interrogarmi, e io non ce la facevo più, vero?» «Sì. E allora?» «Non è vero. O meglio: non è tutta la verità. Sì, è vero, mi hanno interrogata, tante volte, ma non in quel modo assillante che ti ho detto. Non era un motivo sufficiente per andarmene. E gli amici di Jan sono stati arrestati molto prima rispetto a quello che ti ho detto io. Non poco prima della mia fuga. E non sono stati quegli arresti che mi hanno indotta a decidere. Non mi avrebbero certamente arrestata. Avevano capito che non sapevo niente.» «E allora perché sei fuggita?» chiesi io. «Perché sono incinta, Walter. Incinta di Jan. Di tre mesi.» 17 Dopo di che lei vuotò il suo bicchiere e io vuotai il mio. Poi io preparai lentamente altri due drink, mentre Irina spegneva il giradischi. Trascorsero così alcuni minuti, durante i quali evitammo di guardarci. Finalmente, quando ciascuno di noi ebbe di nuovo in mano il suo bicchiere, fissai i suoi grandi occhi tristi e chiesi: «Volevi raggiungere Jan per dirgli che aspetti un bambino?». «Certo. E restare con lui. E andare con lui, ovunque lui fosse andato. E sposarlo. E mettere al mondo questo figlio.» Rise. «Non ridere» dissi io. E lei smise di ridere. «Adesso naturalmente è cambiato tutto. Non lo voglio. Non lo voglio assolutamente. Ora non più. Non voglio un figlio di quel... di Jan. Mi capisci?» «Sì.» «E tu... mi aiuterai?» Tacqui. «Sai dove rivolgerti qui a Francoforte. Non t'è mai capitato di dover aiu-
tare una ragazza?» «Certo.» «Ecco, vedi. Conosci un medico, quindi?» Tacqui. «Ti prego. Conosci un medico?» Annuii. «Uno bravo?» Annuii di nuovo. «Uno che lo farebbe?» «Sì.» «E c'è da fidarsi di lui?» «Assolutamente. Qui a Francoforte chi ha soldi e si trova nella tua situazione, va da lui.» «E tu... e tu mi ci porterai, Walter? Sono ancora in tempo! Terzo mese. Sono sana, il cuore e il resto. Non c'è pericolo. Allora, lo farai?» «Nella mia inchiesta però non potrò scriverlo.» «Vuoi dire che lo farai?» «Sei certa, certissima di volerlo?» Riprese a bere. «Ne sono certa, certissima.» «E va bene» dissi io. «Che vuol dire: e va bene? È l'unica soluzione ragionevole. E noi dobbiamo essere ragionevoli adesso, giusto?» «Sì, ragionevoli; esatto. Domani mi metterò in contatto con quel medico. Fisserò un appuntamento il più presto possibile. È un medico molto indaffarato.» Improvvisamente cominciò a piangere, in silenzio. Le lacrime le scorrevano sulle guance e cadevano sulla vestaglia. «Ma allora... allora... Scusa sai, ma sei tu che me l'hai chiesto» dissi io, spaventato. «Certo che te l'ho chiesto io» singhiozzò lei. «Piango solo di... gioia e di sollievo... e perché ti sono così grata, Walter... tanto, tanto grata... non lo dimenticherò mai!» Le allungai, un'altra volta, un fazzoletto. Si asciugò le lacrime. «Ecco» dissi io. «Tutto a posto?» Fece un cenno d'assenso. «Adesso possiamo andare a dormire?» Annuì di nuovo.
«Bene, e allora vieni» la sollevai e me la tenni fra le braccia. Era incredibilmente leggera. Mentre la portavo nella stanza degli ospiti, avvicinò una sua guancia alla mia. La misi a letto come si mette a letto una bambina piccola, le lasciai un bicchier d'acqua sul comodino assieme a due pillole di sonnifero. «Prendine una, se non ti riesce d'addormentarti» dissi io. «Ed eventualmente anche la seconda... ma prima aspetta un po', capito?» «Non ne ho bisogno, per niente. Ora dormirò come un ghiro. Ora che so che parlerai con quel medico. Lo farai già domani mattina, vero?». «Certamente. Dovremo stare un pochino attenti però, perché ci sono quelli della polizia che ti sorvegliano.» «O Dio!» «Non è un gran problema. Ci sono tre uscite in questo palazzo. Più una quarta attraverso la cantina. Tutta questa sorveglianza é solo una stupida messa in scena. Non temere. Non ci vedranno andare e non ci vedranno tornare. E ora dormi.» La coprii come si copre un bambino, benché pensassi che avrei dovuto riprovarci, visto che l'occasione era così favorevole. Non ci riprovai. «Abbassa la testa» sussurrò Irina. Abbassai la testa. Mi baciò sulla bocca. «Grazie, Walter...» «Ma di che?» «Vai a dormire anche tu?» «Sì» e mi alzai dal bordo del letto. Però non andai a dormire. Lasciai Irina, andai a prendere la bottiglia di Chivas, il mio bicchiere, il selz, i cubetti di ghiaccio e portai tutto nel mio studio, sulla mia scrivania. Chiusi la porta per non disturbare Irina. Mi misi a cercare nella mia borsa il nastro registrato che mi occorreva, lo trovai e l'infilai nel registratore. Benché non avessi da tempo fatto una bella dormita, mi sentivo allegro ed eccitato. Mi tolsi la giacca, allentai la cravatta e mi rimboccai le maniche della camicia. Poi infilai nella macchina da scrivere un foglio bianco, uno di carta carbone e un foglio per la copia. E scrissi: ROLAND / TRADIMENTO / PARTE I Lasciai che il registratore scorresse per qualche tempo e ascoltai il collo-
quio che vi era inciso. Poi lo spensi e me ne rimasi seduto, immobile. C'era una gran calma, una calma meravigliosa. Pensai a come dovevo cominciare l'articolo. Una volta che avessi trovato l'inizio, il resto sarebbe venuto da sé. Non ci pensai a lungo. Ben presto seppi come cominciare. Buttai giù un po' di Chivas, m'accesi un'altra Gauloise, strinsi gli occhi e cominciai a picchiare sui tasti. Le prime frasi che scrissi furono queste: «Sentì gli spari. Poi udì la voce di suo padre. Sembrava venire da lontano. Gli spari non lo spaventarono, ne aveva ormai sentiti tanti da quando era lì, e poi, proprio in quel momento, stavano sparando anche nel suo sogno. Fu la voce del padre a svegliarlo. «"Cosa c'è?" chiese, e si fregò gli occhi. Il suo cuore batteva forte e le sue labbra erano asciutte. «"Devi alzarti, Karel" disse il padre...». 18 Quella ragazza, la terza, aveva due tette da impazzire e un culo che veniva voglia di andare lì a morderlo. Iniziò uno strip-tease ancora più eccitante di quelli in cui si erano esibite le altre due ragazze prima di lei. Era una rossa. Capelli rossi autentici, lo si vedeva. Nello studio fotografico di Blitz, gli uomini presenti alla scena erano alquanto stravolti. Bertie si asciugava il sudore in fronte. I due tecnici addetti alle luci parlottavano fra di loro e avevano facce d'un rosso acceso. Il piccolo e pacifico capo della redazione fotografica Kurt Ziller si leccava in continuazione le labbra. E a me cadde la sigaretta di bocca quando la rossa cominciò a far ballare le sue tette. Solo Max non reagiva. Era in piedi su un piccolo podio, davanti a un fondale azzurro cupo, completamente nudo. Da mezz'ora guardava donne nude, le più belle che m'era riuscito di scovare, ma non reagiva. Bertie cominciò a sacramentare. Max si scusò per la ventesima volta. Si sentiva spaventosamente a disagio. La rossa, tutta nuda anche lei, roteò ancora un po' le natiche, poi si arrese e disse: «In fondo non sono stata pagata per guarire un impotente totale». «Sta' zitta!» intimai alla rossa. «Però è vero» si lagnò la ragazza. «Mai visto un caso disperato come questo. Neanche la Monroe sarebbe riuscita a farglielo tirare. Se non ne
sono stata capace io, sono inutili anche pillole o altre medicine. Finiamola con questa commedia. Sono stufa.» «Rifammi un'altra volta il ponte all'indietro» disse Bertie, bruciando le sue ultime speranze. «Ti prego. Fallo per me. A gambe divaricate.» «Per amor tuo» disse la rossa, e fece il ponte all'indietro con le gambe divaricate. C'era silenzio assoluto nel grande atelier, surriscaldato dalle molte luci, e tutti guardavano Max. Ma non succedeva niente. «Niente» disse Max. «È come morto. Assolutamente morto.» «Adesso però basta, ne ho le scatole piene» disse la rossa. «Si può sapere come mai le è venuto in mente di portarci qui questo castrato?» mi disse Ziller, gran capo della banda fotografica. «Se me ne date altri duecento, potrei tentare di fargli un pompino» disse la rossa. «Chissà che non serva.» «No, no» disse Max, imbarazzato. «Comunque la ringrazio, signorina. Ma io mi conosco. Il mio Jonny ha un blocco. E non c'è niente da fare quando fa i capricci. Merda, merdosissima merda.» «Rivestiti» dissi alla rossa. Nell'atelier c'erano altre tre ragazze, sedute su altrettanti sgabelli: erano sbalordite. Due si erano già esibite nel loro show, ma senza il benché minimo successo. Toccava alla quarta: una bionda. Quelle ragazze erano autentiche bellezze, le avevo scelte io personalmente. Avevo scritto fino alle cinque, poi dormito fino alle nove; quindi fatto il bagno, buttato giù la colazione. M'ero congedato in fretta da Irina, cui avevo portato il vassoio con la colazione a letto, e le avevo promesso di telefonare al medico. Quindi ero partito e avevo raggiunto un'agenzia specializzata nel lancio di nuove stelle del cinema e di indossatrici. In realtà era un'impresa di call-girls, care come l'oro. Conoscevo la direttrice. Anche lei una specializzata. Neanche trent'anni, e una bomba da letto. L'avevo sperimentata. Ecco perché conoscevo quell'agenzia. Le ragazze costavano un patrimonio, ma la merce era sempre di prima qualità. Avevo scelto quattro fra le più belle guardando le fotografie d'un ricco catalogo, e le avevo convocate nell'atelier per le undici in punto. E alle undici in punto erano arrivate. Tre di loro avevano già sciorinato tutto il loro repertorio, senza alcun effetto. «Dai» dissi alla quarta. «Ora tocca a te.» La ragazza si alzò. «Lascia perdere» disse Max, rigirandosi disperato sul podio. «Lascia perdere, Walter. Non serve a niente. Non è neanche il caso che si spogli, la
piccola. Tanto non succede niente lo stesso.» La bionda cominciò immediatamente a piangere a dirotto. «E i miei soldi?» singhiozzava. «Il mio compenso? Perché le altre sì e io no? Questa è una truffa! Se credete di farmela, vi sbagliate! Lo dirò alla direttrice!» «Per amor del cielo!» Il buon Ziller tirò fuori di tasca un portafoglio gonfio. «Ma certo che avrà anche lei la sua parte, come tutte le altre, signorina. E chi poteva immaginare che sarebbe finita così.» Aprì il portafogli, mettendo in mostra un mucchio di banconote. Max guardava Ziller. Io guardavo Max. E me ne avvidi contemporaneamente a Bertie. «Mmmm...» mi fece lui, eccitato. Io annuii. L'avevamo visto tutti e due. All'apparire delle banconote, il Johnny di Max aveva fatto un sobbalzo. Ziller consegnò a ciascuna delle ragazze cinquecento marchi. L'uccello di Max scattò di nuovo, e stavolta più di prima. «Signor Ziller!» gridai io. «Si metta davanti al signor Knipper in modo che la possa veder bene. Alla luce. E sventoli cinque banconote da cento marchi.» Ziller eseguì, senza capire. Ma capì subito dopo. Addosso a Max c'era qualcosa che si muoveva: non abbastanza, eravamo ben lontani dal traguardo, ma qualcosa si muoveva. E morto comunque non era! «Altri cinquecento!» gridò Bertie: se ne stava dietro una apparecchiatura fotografica fissata su un carrello. Doveva lavorare con uno strumento molto pesante, e usare lastre piatte da cambiare volta per volta. Ziller sventolava dieci biglietti da cento marchi. Max era a mezz'asta. Le ragazze erano sbalordite. «Va benissimo così, signor Knipper» disse Bertie. «Benone. Faccia ancora un piccolo sforzo. Guardi i soldi. Si concentri sui soldi!» «E che sto facendo?» gemette Max. «Non ne ha altri mille?» «Certo» disse Ziller. «E allora me ne sventoli duemila, per favore!» Ziller alzò i biglietti per duemila marchi sopra la sua testa. Il gran patrimonio di Max schizzò in alto. «Oooh!» fece la rossa, impressionata. Ed in effetti si trattava d'uno spettacolo impressionante. Bertie strillava dalla felicità.
«Così, sì, così... Resista! Riesce a resistere, signor Knipper... Ce la fa ancora per un po'?» «Finché quel signore riuscirà a reggere i duemila!» Bertie scattò una lastra dopo l'altra. Max mantenne la parola. Non ebbe un attimo solo di incertezza o di esitazione. Quando finalmente Bertie ebbe finito, i presenti esplosero in un grande applauso. Max s'inchinò, lusingato, a destra e a manca. Poi scese dal podio e s'infilò gli slip. «Per la miseria, Max» dissi io. «Già» disse lui. «Che ci vuoi fare. Il mio Johnny è un po' capriccioso.» Bertie sbadigliò. «Che c'è, sei stanco?» chiesi io. «Stanco morto. Oggi me ne andrò a letto presto e farò una gran dormita.» «Sì, anch'io.» Dormimmo entrambi, quella notte, un sonno profondo e senza sogni. Diecimila metri sopra l'Atlantico. 19 Tanti aerei avevano prenotato l'atterraggio prima del nostro. Dovemmo girare per tre quarti d'ora nei corridoi d'attesa sopra l'aeroporto Kennedy. Gli assistenti di volo ci facevano scendere man mano, un piano dopo l'altro. Io ero stato a New York solo tre volte, Bertie almeno una dozzina. Mi descrisse con pazienza la struttura di quella città gonfia d'otto milioni d'individui, e mi indicò i cinque settori del territorio urbano: Manhattan, Bronx, Brooklyn, Richmond e Queens. Vidi le Avenues geometricamente disposte nell'intreccio delle strade laterali a Manhattan, i grattacieli e i grandi ponti. Su New York splendeva un sole fiacco. Io ero riuscito a riposare molto bene dopo tutte quelle notti agitate. Avevamo fatto appena in tempo a raggiungere il nostro aereo, dopo aver risposto all'ordine di mobilitazione di Herford: io mentre scrivevo la mia storia, Bertie mentre sviluppava le foto di Max. Risposi al telefono dal mio studio. In salotto imperversava, come ci era stato promesso, il mirabolante Leo, esibendo a Irina un'intera collezione di abiti, tailleur, scarpe e cappotti. Avevo chiamato il medico da una cabina telefonica, rientrando dal laboratorio fotografico. Gli avevo spiegato che mia moglie voleva sottoporsi a
una visita ginecologica di controllo. Era la formula prestabilita. Riconobbe la mia voce e mi disse di aver da fare fin sopra i capelli. Mi andava bene alle una e mezza, durante la pausa di mezzogiorno? Era logico che volesse vedere Irina, e visitarla prima di fare l'intervento: e ci teneva a farlo durante la chiusura del suo ambulatorio. Gli dissi di sì, andai a casa, lasciai la Lamborghini davanti all'ingresso e feci un cenno di saluto ai due poliziotti seduti nella loro Mercedes, dall'altra parte della strada. Risposero al mio saluto. Erano quelli del terzo turno, facce nuove. Quando Irina fu pronta, scesi con lei in ascensore sino al pianterreno dello stabile e mi avviai verso il retro, dove c'era il giardino: di lì raggiungemmo un'altra via, dove non c'erano poliziotti di guardia. Facemmo un tratto di strada a piedi, poi fermai un taxi che ci portò a lungo in direzione nord-ovest, verso il quartiere dove c'era l'ambulatorio del medico. Chiesi al tassista di fermare, e pagai. L'ultimo tratto lo percorremmo di nuovo a piedi. Era inutile correre rischi. Nella sala d'attesa del grande ambulatorio non c'era nessuno. Ci aprì la porta la moglie del medico. Era molto giovane e carina: un tempo era stata la sua infermiera. E ora fungeva da assistente nei casi di aborto clandestino. Lui sembrava davvero un medico hollywoodiano, però era in gamba lo stesso. E avido di soldi. Durante il tragitto, Irina non aveva quasi aperto bocca: se ne era stata zitta, seria e tranquilla. Entrò nell'ambulatorio col medico, mentre io mi sedevo in sala d'attesa, dove c'era odore di cipria, di cosmetici e di disinfettanti. C'erano dei giornali in giro, e poiché non riuscivo a togliermi di testa l'immagine di Irina distesa nella stanza accanto, su quella sedia, mentre il medico le metteva le mani addosso in quel modo osceno e degradante, presi una qualsiasi delle riviste che c'erano su un tavolino. Si intitolava Tu e gli animali, e lessi un articolo sulle formiche. Appresi - e non lo sapevo che esistono cinquemila specie diverse di formiche. Imparai un sacco d'altre cose sul conto delle formiche, prima che Irina mi raggiungesse in sala d'aspetto. Aveva un'espressione seria, come sempre, e il medico si fregava le mani. «Tutto benone, tutto benone» disse lui. «La sua cara signora è nelle condizioni migliori, signor Roland. Non ci saranno complicazioni di alcun genere, ho già rassicurato in tal senso la signora. Non è il caso di perdere tempo per questa piccolezza. Che ne dice: martedì alle 18 le andrebbe bene?» Guardai Irina. Mi fece un cenno di assenso, molto seria. E io dissi che m'andava bene.
«Perfetto, perfetto» disse il dottore, tutto allegro, continuando a lavarsi le mani col suo invisibile sapone. «Porti pure sua moglie, ma poi non potrà attendere qui, mi capisce?» «Sì, dottore.» «Mi assisterà mia moglie. Dopo la signora potrà rimanere qui a riposare per un paio d'ore, ma al più tardi alle dieci dovrà tornare a prenderla. Dopo quell'ora non potrà più restare. Non ho modo di farle passare la notte qui in ambulatorio.» «Va bene, dottore.» «Una volta a casa, dovrà mettersi subito a letto. Al minimo inconveniente che dovesse manifestarsi, lei mi telefonerà e io verrò immediatamente, lo sa.» «La ringrazio, dottore» disse Irina. «Mi fido di lei. Non immagina il sollievo che mi dà.» «Si fa quel che si può» disse il medico, con tono accondiscendente, e ci scortò verso l'uscita. Strada facendo mi annunciò lo sfacciato compenso che pretendeva, e che io m'aspettavo, perché lo conoscevo già. Mi limitai dunque ad assentire. Quello era un medico molto bravo e molto prudente. Mi avviai di nuovo con Irina lungo la strada. Il cielo era grigio e basso, e faceva molto freddo. Irina camminava lentamente, gli occhi fissi sul marciapiede. Solo quando fummo seduti nel taxi che avevo fermato, mi mise una delle sue mani gelate sulle mie e disse: «Ora sono tranquilla e contenta. E lo devo a te. Non potrò mai essertene grata abbastanza, Walter». «No, non potrai mai esserlo abbastanza. Considera che fortuna hai scovato con me. Io sono un esemplare unico. Dovrebbero stampare manifesti con la mia faccia, e affiggerli ovunque con la scritta: "Mamme, affidate le vostre figlie a quest'uomo!".» Cominciò a ridere. Una risata isterica, che pareva non dover finire mai: l'autista cominciò a voltarsi, incuriosito. Ma almeno rideva, ed era esattamente quello che volevo. Eravamo appena rientrati, dopo essere passati di nuovo per il giardino, e stavamo togliendoci i cappotti, quando suonò il campanello: era il signor Leo che si annunciava al citofono. Lo feci salire e lui rimase poi per delle ore. Io mi ritirai per tutto il tempo nel mio studio, a scrivere TRADIMENTO come un ossesso. Quindi era venuta la telefonata di Herford. Quella telefonata risaliva a venerdì pomeriggio, e ora che volavamo in cerchio su New York, era sabato mattina: io speravo di poter rientrare a Francoforte entro martedì, 19 novembre. Per via di Irina. Dovevo accom-
pagnarla dal medico e poi andare a riprenderla. Speravo proprio di poter rientrare in tempo. Herford mi aveva detto al telefono, il giorno prima: «Roland, messaggio urgente e importantissimo. Herford ha appena parlato con Oswald Seerose. Oswald ha delle novità da comunicarle. Novità straordinarie. È meglio che si sieda. Oswald, vieni qui». E così era venuto all'apparecchio il direttore editoriale Seerose, e mi aveva salutato in quel suo modo distintissimo. Ed era poi subito andato al sodo: «Notizie dei miei amici, signor Roland. Lei ed Engelhardt devono recarsi immediatamente a New York. Comincia il ballo». «Come fanno a saperlo?» «Non sono idioti, i nostri amici. Dal giorno in cui ha cominciato a svilupparsi quella faccenda ad Amburgo, c'è allarme generale negli USA. Per tutti. Specialisti nelle intercettazioni radiofoniche hanno rilevato un contatto fra un trasmettitore a onde corte che è a New York ed un peschereccio sovietico in Atlantico. Messaggi in codice, naturalmente. Non c'è stato verso di tradurli. Ma si tratta proprio dei microfilm, i miei amici ne sono convinti.» «E come fanno a esserlo?» «Non me lo hanno detto. Lo diranno a lei, quando arriverà. Dobbiamo spicciarci. Pare che la consegna avverrà la prossima notte.» «E lei che ne sa?» «Non mi hanno detto neanche questo. Le spiegheranno tutto a New York. Quando arriverà, vada allo sportello principale della Lufthansa. Ci sarà qualcuno che l'attenderà. Cooley si chiama quell'uomo. Melvin Cooley. Lui le dirà tutto quello che io non so.» «Va bene, signor Seerose» avevo detto io. E poi avevo raggiunto Irina e le avevo spiegato che dovevo partire per alcuni giorni: non doveva far entrare nessuno in casa, non uscire di casa e non rispondere al telefono. Mi si era gettata fra le braccia, con slancio improvviso. «Be', che c'è?» «Torna presto! Vero che torni presto? Ti prego, Walter, torna presto!» «Ma certo» le avevo detto io. «Più presto che potrò. Nel frattempo fai la brava bambina: me lo prometti?» E mi aveva sorriso fra le lacrime... Finalmente il nostro aereo ebbe il permesso di atterrare. Allo sportello della Lufthansa trovammo un uomo che ci rivolse la parola. Un tipo lungo e goffo che assomigliava a James Stewart: indossava un cappotto grigio e
un cappello grigio. «Mister Engelhardt e mister Roland?» «Sì.» «Molto lieto. Mi chiamo Melvin Cooley. Vengano. Hanno già ritirato i bagagli, vedo. La mia macchina è qui fuori, nel parcheggio.» La sua macchina era una Chevrolet grigio-argento. Cooley si mise al volante, io mi sistemai accanto a lui e Bertie sul sedile posteriore. Cooley si avviò per la grande Southern Parkway, e ci riferì quello che ancora non sapevamo. «La nostra gente s'è data parecchio da fare per controllare le comunicazioni radio, negli ultimi due giorni e nelle ultime due notti, da quando cioè siamo certi che una delle emittenti è a bordo di quel peschereccio sovietico. Abbiamo spedito dappertutto le macchine con gli apparecchi di rilevamento, per localizzare l'altra emittente. Non è stato un lavoro semplice. Per fortuna lo scambio di comunicazioni radio è stato abbastanza fitto. Loro sanno come si fa a localizzare una emittente, se si ha fortuna... I nostri ragazzi hanno avuto fortuna. Hanno localizzato persino la casa. È a Flatbush. Proprio accanto al cimitero di Holy-Cross.» Raggiungemmo il vasto Spring Creek Park: c'erano ancora molti bambini che giocavano alla debole luce del sole, e tanta gente che andava a passeggio. «Abbiamo mandato due uomini in quella casa, in tutti gli appartamenti. Hanno detto di essere della società dei telefoni. Di dover verificare gli apparecchi. Eliminare disturbi. Hanno cercato piano per piano. È stato un lavoretto semplice. Un tale Floyd Turner ha al pianterreno un negozio per riparare radio, televisori e giradischi. Abita in quella casa, al quarto piano. È lassù che ha il suo laboratorio. I nostri ragazzi non hanno nemmeno avuto bisogno di cercare a lungo per trovare l'emittente. Un apparecchio modernissimo, molto sensibile. Turner ha detto di essere un radioamatore. Ha mostrato anche la sua licenza.» «Forse è davvero un radioamatore» disse Bertie. «E quello che cerchiamo noi ha nascosto meglio il suo apparecchio.» «Assai poco probabile» disse Cooley. «Dopo la visita dei nostri ragazzi, il traffico radio di quel Turner s'è fatto addirittura febbrile. E per stanotte alle due ha prenotato un biglietto su un apparecchio della TWA per Los Angeles. Sotto falso nome. La nostra gente tiene ovviamente il suo telefono sotto controllo. Abbiamo preso in affitto un paio di locali proprio di fronte a casa sua.»
Cooley aveva una radio a bordo, attraverso la quale continuava a trasmettere i suoi spostamenti, e a chiedere se c'erano novità. «Niente di nuovo» segnalavano i suoi colleghi dall'abitazione di fronte a quella di Turner: il radiotecnico continuava a lavorare nel suo laboratorio, e non aveva l'aria di voler uscir di casa. Raggiungemmo finalmente la Troy Avenue. Una strada molto lunga, fra il Linden Boulevard e la Church Avenue. Cooley parcheggiò due isolati più in là, nella Albany Avenue. Tornammo a piedi nella Troy Avenue. Ecco il negozio di apparecchi radio di Turner. Aveva due commessi che servivano la clientela: prendemmo nota anche di questo. Era sabato mattina. Entrammo nella vecchia casa di fronte e salimmo lungo scale sporche fino al quarto piano. Cooley bussò un segnale a ritmo convenuto su una porta semi-scardinata. Qualcuno ci aprì. L'abitazione era vuota. La tappezzeria pendeva a brandelli dalle pareti. Però c'erano due giovanotti al lavoro. Erano seduti nella stanza più grande dell'appartamento, le cui finestre si affacciavano sulla strada. Ci salutarono, quando Cooley disse loro chi eravamo. I due giovanotti avevano sistemato su un tavolo alcuni telefoni da campo, dai quali usciva un gran fascio di fili, appesi in parte anche al soffitto. C'era poi un telefono comune e c'era un grande registratore collegato agli apparecchi, per intercettare le telefonate. Sistemata su una cassetta metallica grigia, vidi l'emittente a onde corte con cui quegli uomini potevano mettersi in contatto con le auto di pattuglia. Notai dei thermos e dei panini. A una parete erano addossate due brande. Gli uomini avevano anche binocoli, uno dei quali dotato d'un meccanismo che consentiva di vederci anche di notte. «Che fa Turner?» chiese Cooley. «Aggiusta un televisore» disse uno degli uomini, e passò a Cooley il suo binocolo. Cooley lo diede anche a noi. Lo puntai verso la casa di Turner che era di fronte a noi. Nell'abitazione c'era proprio Floyd Turner, seduto nel suo laboratorio, alle prese con un televisore. «Naturalmente può darsi che, nonostante tutto, noi s'abbia puntato sul cavallo sbagliato» disse Cooley, si sedette e allungò i piedi su un tavolo. «Naturalmente,» disse Bertie, sorridendo in quel suo modo fanciullesco e soddisfatto, «può darsi. Non si può mai essere sicuri in casi come questi.» E così ci mettemmo ad aspettare: aspettammo undici stramaledette ore che quel Turner si decidesse a lasciare la sua casa. Pareva che non dovesse andarsene mai. Lavorò nella sua officina, poi si recò nella stanza accanto,
si mise giù per qualche ora, poi riprese a lavorare. Quando si fece buio, accese le luci in tutta la casa e continuò a trafficare attorno a quel suo televisore. I nostri due giovanotti, nel frattempo, erano stati sostituiti da altri due, Cooley se ne era andato ed era tornato. Solo Bertie e io ce ne rimanemmo seduti su due vecchie sedie come degli idioti, in attesa che succedesse qualcosa. Ma non succedeva niente. Turner non telefonò neanche una volta, e nessuno telefonò a lui, neanche una sola volta. Alle otto, un terzo giovanotto venne e ci portò panini e caffè caldo. Mangiammo e bevemmo al buio, e poi Bertie disse di volersi mettere a dormire per un paio d'ore. Aveva fotografato Turner attraverso la finestra, subito dopo il nostro arrivo. Si sdraiò quindi sulla branda. E si addormentò immediatamente. Solo più tardi, alle 22 e 05, accadde finalmente qualcosa. 20 Uno dei telefoni da campo si mise a ronzare, il registratore entrò automaticamente in funzione, uno degli uomini che erano alla finestra sollevò il ricevitore. Di fronte, nell'abitazione di Turner, non si scorgeva nessuno: tutti i locali erano però ancora illuminati. La telefonata fu brevissima. L'uomo riagganciò e disse in fretta: «Turner ha chiamato un taxi. Troy Avenue. Davanti a casa». «Muoviamoci» disse Cooley a Bertie e a me. Afferrammo i nostri cappotti, Bertie le sue macchine fotografiche, io il mio binocolo, e ci precipitammo giù per le scale. Attraverso un'uscita posteriore giungemmo in un cortile sudicio, e di qui in una via laterale. Di corsa raggiungemmo la Chevrolet di Cooley e salimmo a bordo. Cooley attaccò la radio ricetrasmittente e prelevò una pistola mitragliatrice che era sotto il sedile anteriore. La gettò accanto a me che mi ero stavolta sistemato dietro. «Siete armati?» chiese. «No» dissi io. «La dogana non ci avrebbe fatti passare con delle armi addosso.» «E allora badate di starvene al riparo» disse Cooley. «Ho anche una pistola, ma ne ho bisognò io.» Segnalò alla centrale di essere pronto. Sentimmo parecchie altre macchine trasmettere le loro posizioni: almeno una dozzina. Il ritmo dei messaggi radio si fece subito intenso e non cessò più. Gli uomini rimasti su, nell'appartamento vuoto, videro il taxi che sopraggiungeva. «A tutte le macchine... a tutti! Yellow Cab si è fermato in Troy Avenue.
La persona sospetta sale a bordo. Yellow Cab parte. Curva a ovest nel Linden Boulevard. Macchina dodici, lo segua lei per primo. Ricevuto?» «Okay» disse Cooley. E mentre lo diceva scorgemmo il taxi giallo passarci accanto. Il traffico non era molto intenso. Cominciammo l'inseguimento, tenendoci a debita distanza. La centrale trasmetteva continuamente messaggi sugli spostamenti del Yellow Cab con Turner a bordo. «Attenzione, Yellow Cab svolta ora nella Prospect Avenue, direzione nord-ovest, verso la Fifth Avenue... ora percorre la Third Avenue... ora svolta nella Second Avenue... Pare che si diriga verso il porto...» Per "porto" intendeva le banchine di Brooklyn, i magazzini e i docks sull'Hudson. «Proseguite verso sud-ovest. Non stategli più troppo alle costole. Girate dall'altra parte degli isolati. Macchine uno, due, tre, sette: avvicinarsi lungo il campo da gioco; macchine cinque, nove, dieci e undici: proseguire fino a Sanitation Departement e alla Brooklyn Union Gas Company...» La centrale distribuiva strategicamente le vetture. «... Macchina dodici, seguire Yellow Cab con cautela. Yellow Cab diminuisce la velocità nei pressi del terzo molo...» «Okay centrale» disse Cooley. E scese verso il porto guidando l'automobile attraverso un intrico di strade buie o male illuminate. C'era già odore d'acqua e di nafta. Ci trovammo quasi all'improvviso davanti alle enormi banchine, alle navi, alle gru, alle chiatte e ai grandi magazzini. Davanti a ciascuna banchina c'erano sbarre che bloccavano il transito. Quindi Turner non voleva raggiungere una nave. Scorgemmo il taxi giallo. Passò oltre il molo tre, superando anche i depositi e i magazzini delle grosse imprese di spedizioni. La strada divenne stretta. C'erano rotaie che s'infilavano nel Bush Terminal, grandi autotreni e, per nostra fortuna, tante automobili parcheggiate. Il Yellow Cab si fermò davanti a un locale. Dire «locale», è esagerato: era una bettola per marinai, dalla quale uscivano poca luce e musica a tutto volume. Turner scese dalla sua vettura ed entrò nell'osteria. Indossava un impermeabile scuro e un cappello. Cooley avvertì che Turner era nella bettola. «Quando esce, continuare a seguirlo con precauzione.» «Ricevuto» disse Cooley. Ma non ci fu più inseguimento, di nessun genere. Dopo appena cinque minuti Turner uscì di nuovo dalla bettola. Aveva due bottiglie di liquore sotto il braccio, e fece per entrare nel taxi. L'autista sporse la testa dal finestrino, gli disse qualcosa e accennò all'indietro, verso di noi. Evidentemente si era accorto che lo stavamo sorvegliando.
Sembrava volersi rifiutare di proseguire. Vedemmo Turner gettare le due bottiglie sul sedile posteriore del taxi, e impugnare improvvisamente una pistola. L'usò per dare una gran botta in testa al tassista. Quello s'afflosciò. Turner lo tirò fuori dalla macchina e lo abbandonò sul selciato. Si mise al volante e partì. Bertie scattava foto come un ossesso. Cooley aveva trasmesso rapidamente alla centrale tutto quello che era successo. «Riprendere l'inseguimento. Bloccare e arrestare Turner a ogni costo!» abbaiò la voce della centrale. «Macchine uno, due, tre: avvicinarsi di due isolati... Macchine otto, quattro, cinque, sei...» Non sentii più quello che la voce diceva. Cooley portò il motore al massimo dei giri e partì di scatto. Caddi all'indietro. Schizzammo a tutta velocità accanto al tassista svenuto e proseguimmo sull'acciottolato sconnesso, lungo quella strada stretta, davanti ai magazzini. Turner, senza abbandonare il volante, si girò di scatto e sparò. Il proiettile colse il faro sinistro della Chewy. Cooley bestemmiò. Tirò fuori la sua arma e sparò a sua volta verso il taxi. Colpì un pneumatico, o quanto meno questa fu la nostra impressione, perché il taxi cominciò improvvisamente a sbandare paurosamente, fece un giro su se stesso, rischiò di rovesciarsi di fronte a un pilastro di cemento e s'infilò quindi in un cortile che si apriva fra due magazzini. Dalla Brooklyn Union Gas Company e da tutte le altre direzioni sopraggiungevano altre macchine, a sirene spiegate. Cooley aveva un riflettore estraibile sul tetto della sua Chewy: lo fece emergere e l'accese. Lo stesso fecero coi loro riflettori i conducenti delle altre vetture. La zona era ora immersa in una luce accecante. Dalle banchine e dalla bettola sopraggiunsero di corsa alcuni uomini, che si fermarono tuttavia ad una certa distanza. Cooley guidò la Chevrolet fino a ridosso del cancello che si apriva fra i due magazzini, alti entrambi molti piani, e costruiti con mattoni rossi e grezzi. Il taxi, nell'avventarsi là dentro, aveva investito e rovesciato una catasta di casse. Assi spezzate e un mucchio di trucioli da imballo ricoprivano la rampa d'accesso. Le sirene continuavano a urlare, i riflettori erano accesi: le prime macchine avanzarono a passo d'uomo verso l'ingresso devastato. Il muso della nostra Chewy aveva appena superato il muro d'uno dei magazzini quando s'udì una seconda rivoltellata, e l'altro faro della nostra vettura volò in pezzi. Cooley frenò di colpo e impugnò la sua pistola mitragliatrice. Saltò giù dalla macchina. «Non muovetevi di qui» disse. «È troppo pericoloso uscire senza armi. Capito?»
«Capito» disse Bertie, che trafficava attorno alla sua Hasselblad. Cooley era appena uscito dalla macchina, che eravamo già fuori anche noi. Cooley s'era piazzato dietro lo spigolo del muro del magazzino e sparava a raffica verso il cortile. Poliziotti appostati dietro l'angolo dell'altro deposito facevano lo stesso. Dal cortile risposero al fuoco. Bertie ed io ci gettammo a terra e avanzammo strisciando sino a poter guardare verso l'ingresso. C'era un cortile stretto dalle due grandi facciate, debolmente illuminato da due lampioni. Il taxi aveva compiuto una giravolta e volgeva ora i fari verso di noi. La portiera dalla parte della guida era aperta. Turner era appostato lì dietro e sparava. «È una strada senza uscita» disse Bertie, fotografando standosene disteso. Le sirene s'erano azzittite. Risuonò una voce, attraverso un megafono: «Esca di lì, Turner! Non può farcela!». La risposta furono tre colpi di pistola. Anche i poliziotti si erano gettati sul selciato. «Venga fuori di lì, le mani in alto!» risuonò la voce attraverso il megafono. Altri tre colpi di pistola. E molti altri colpi replicarono al fuoco di Turner. Centrarono il taxi. Alcune pallottole schizzarono rimbalzando attraverso il cortile. Turner sparò ancora. Una delle macchine della polizia avanzò di un breve tratto. Il riflettore illuminò il cortile. Turner sparò verso il riflettore, ma non lo colpì. Potevamo scorgere le sue ginocchia dietro la portiera spalancata del taxi. Fin a quando avesse avuto munizioni - e pareva averne parecchie - sarebbe stato molto difficile, se non impossibile, fare irruzione nel cortile. Improvvisamente vedemmo scorrere qualcosa da sotto il taxi, sull'asfalto del cortile. «Cos'è? Sangue?» chiese Bertie. «L'hanno beccato?» «Non lo so.» Evidentemente non lo avevano beccato, perché un attimo dopo Turner centrò il riflettore della vettura che si era avvicinata. Solo i due lampioni illuminavano il cortile. D'un tratto vidi un'ombra muoversi sotto il motore del taxi. Tutti la videro. Ma nessuno fece qualcosa. Eravamo troppo stupiti. Ma che stava facendo Turner? Qualcosa luccicò. «Ha messo una bottiglia sotto il motore» disse Bertie. L'ombra si mosse ancora un poco. Sentimmo suoni metallici. «Sta svitando il condotto della
benzina.» «Ma perché?» chiesi io, mentre la voce al megafono sbraitava che entro un minuto tutti avrebbero aperto il fuoco contemporaneamente su Turner se non si fosse deciso a uscire. «E quello non era sangue: ha versato il liquore che era nella bottiglia.» «Ma perché?» «Lo vedrai subito... Vedrai che ora avvierà il motore, sta' attento, Walter...» E infatti risuonò quasi subito, a lungo, il rumore del motorino di avviamento del taxi, senza tuttavia che il motore si accendesse. «Quello è impazzito!» dissi io. «Quello è un gran furbo» borbottò Bertie, continuando a fotografare. L'ombra di Turner scivolò di nuovo sotto il motore. Poi, di colpo, la parte superiore del suo corpo apparve, per una frazione di secondo, sopra la portiera. Si era alzato. I poliziotti spararono immediatamente, ma senza centrarlo. Una piccola fiammata si levò nel cortile. E poi qualcosa volò verso di noi. Era una di quelle bottiglie di liquore, la vidi chiaramente. La bottiglia colpì il muro accanto a Cooley. Si spezzò. E immediatamente il contenuto, schizzando in ogni direzione, s'incendiò. Cooley cadde a terra urlando. Aveva i vestiti e i capelli in fiamme. Alcuni suoi colleghi gli si avvicinarono di corsa, tentando di spegnere le fiamme. Ma giacche e cappotti s'incendiarono, e le fiamme avvolsero altri uomini. E contemporaneamente, fulmineo, come prodotto da un impianto d'irrigazione, si levò un sipario di fuoco a tutta la rampa d'accesso. «Avviando il motorino, ha pompato benzina nella bottiglia, poi ci ha infilato un fazzoletto o la cravatta, ha dato fuoco e ha buttato la bottiglia!» spiegò Bertie. «L'avevo capito subito!» Ora fotografava standosene in piedi, come se non potesse succedergli mai niente. Ne salteranno fuori immagini fantastiche, pensai, e vidi Turner arrampicarsi lungo una scala antincendio fissata alla parte esterna del magazzino che era alla nostra sinistra. «Eccolo!» urlai. «Eccolo lì!» Due, tre, sei mitra si misero ad abbaiare. Un altro riflettore si accese e riuscì a inquadrare Turner. A seguirlo. Le pistole mitragliatrici martellavano. Ma quell'uomo aveva una fortuna sfacciata. La scala antincendio compiva una brusca svolta e spariva lungo la facciata posteriore del magazzino. Turner scomparve dalla nostra vista. Zoppicando, Cooley si avvicinò alla sua macchina e cominciò a gridare al microfono con voce distorta dal
dolore. Spiegò la situazione alla centrale, e chiese l'immediato intervento delle macchine che erano dalla parte opposta del magazzino. Da quella parte si doveva ora poter vedere Turner. Passò tempo prezioso prima che Cooley concludesse il suo rapporto. Altro tempo trascorse per consentire alla centrale di avvisare le altre macchine. Sentimmo raffiche di mitra dall'altra parte del muro. E subito dopo udimmo un rumore diverso: l'avviarsi del rotore di un elicottero. Alzai la testa, incredulo. Dal tetto del magazzino si levò, sulle nostre teste, un elicottero. I poliziotti si misero a sparare sul velivolo: ma inutilmente. L'elicottero compì una gran curva, prese rapidamente quota e sparì fra le nuvole. Noi rimanemmo lì, come allocchi, il naso rivolto al cielo. Il fuoco scoppiettava allegramente. 21 Non restò altro da fare che arrestare l'oste della bettola, un certo Joe Bradshaw. Bradshaw ammise subito di aver consegnato a Turner una scatola con due bossoli d'alluminio. Quella scatola gli era arrivata tempo prima, come pacchetto postale, da Praga. Gliel'aveva spedita un certo Jan Bilka. Bradshaw l'aveva conosciuto quando aveva fatto, con sua moglie, un viaggio in Europa. Tre anni prima. Era stato allora che i due, lui e Bilka, si erano incontrati al museo di Praga: per caso. Un "caso" che Bilka aveva certamente fatto in modo che si verificasse, nel suo interesse. Bradshaw e Bilka avevano stretto amicizia, e per tutti quegli anni avevano continuato a scriversi. Joe Bradshaw esibì parecchie lettere di Bilka. Abitava in quello stesso stabile, e sua moglie confermò le sue dichiarazioni. Poi era giunto quel pacchetto, assieme a una lettera. Nella lettera Bilka chiedeva che il pacchetto gli fosse conservato, sino a quando egli stesso fosse arrivato a New York, molto presto, diceva. Se però non fosse potuto venire, avrebbe scritto a Bradshaw a chi avrebbe dovuto consegnare il pacchetto. Quella sera stessa gli era stato recapitato un espresso, giunto per via aerea. Bilka, da Praga, gli comunicava di aver dovuto rinviare il suo viaggio, ma che quella sera, sul tardi, si sarebbe presentato un certo Floyd Turner, e Bradshaw doveva consegnargli il pacchetto. Nella lettera di Bilka c'era una minuziosa descrizione di Turner, e vi erano anche indicati il suo indirizzo e il numero della sua tessera delle assicurazioni sociali. Quindi Bradshaw non aveva avuto alcun motivo per non consegnare il pacchetto, ancora sigillato. Turner l'aveva aperto, e poi aveva anche svitato
quei bossoli d'alluminio. C'erano delle pellicole, disse Bradshaw. Che pellicole? Non lo sapeva. Turner lo aveva ringraziato, aveva acquistato due bottiglie di bourbon e se ne era andato. Lui, Bradshaw, non sapeva assolutamente che potesse significare tutta quella faccenda. Lo arrestarono lo stesso. E anche sua moglie. Una dozzina di elicotteri della polizia si erano levati subito in volo, senza riuscire però a rintracciare quello a bordo del quale c'era Floyd Turner con i microfilm. Infatti l'impianto di controllo radar sulla zona di New York, messo immediatamente in allarme, ebbe quella notte disturbi intensi per la durata di sette minuti: fu impossibile localizzare l'elicottero di Turner, e si ebbero anzi quasi collisioni in volo fra gli elicotteri della polizia. Il velivolo fu poi trovato, abbandonato, in uno sperduto campo da gioco nella zona di Richmond. Fu così che andarono le cose quella notte, un sabato. Sabato 16 novembre. 22 «Lo sapevo che sarebbe venuto, signor Roland» disse la signorina Luise. Aveva i capelli bianchi pettinati con cura all'indietro, il grande chignon era ben fissato. Il suo viso minuto non manifestava più segni di stanchezza, le sue labbra non erano più così livide. E i suoi grandi occhi azzurri rivelavano una grande calma e tranquillità. Fu straordinariamente gentile. Parlava più lentamente: la paura, l'ansia e quegli scatti improvvisi che avevo notato in lei, quando l'avevo conosciuta al campo di Neurode, parevano spariti. Era distesa - piccola e aggraziata - in un letto, che mi fece la strana impressione di essere a sua volta piccolo e grazioso, benché fosse un letto normalissimo. La signorina Luise era sola nella grande stanza del reparto a pagamento dell'ospedale Ludwig di Brema, reparto Psichiatria. Le finestre davano su un cortile nel quale c'erano ippocastani spogli. Erano finestre senza sbarre, la porta era munita di maniglie su tutti e due i lati, l'intero reparto era "semi-aperto", nel senso che la porta d'ingresso, giù in fondo al corridoio, si poteva aprire anche dall'interno mediante un pulsante. All'esterno era dotata di una maniglia. «Come sta, signorina Luise?» chiesi io, un po' preoccupato. «Oh, io sto bene, sul serio, molto bene. E se sapesse quanto dormo! Il mangiare non è un gran che, ma non mi sono mai preoccupata molto di quello che mangio. Roba da ospedale, insomma, fatta in quelle grandi cu-
cine, capisce? Già sperimentato, in tutti i campi dove sono stata.» La porta si aprì e un'infermiera grassa e allegra portò un vaso con dei fiori che le avevo dato per Luise. «Fiori!» esclamò la signorina. «Gradisco sempre i fiori, e lei è una brava persona. Ora so che non è più arrabbiato con me.» «Arrabbiato io?» «Ma certo! Per questo le ho chiesto di venirmi a trovare.» «Perché?» «Ho continuato a dirmi: ti sei comportata proprio male col signor Roland! Bisogna proprio che gli chiedi scusa. E quindi ora...» «Su, non dica sciocchezze!» «... le chiedo scusa. Le chiedo scusa con tutto il cuore, onestamente: non sia più in collera con me, signor Roland, la prego.» «Ma perché mai dovrei essere arrabbiato con lei?» «Be',» disse la signorina, e si guardò le mani, «per il modo col quale quella volta mi sono intrufolata nella sua stanza d'albergo, per il modo col quale ho gridato e per come mi sono comportata di fronte a quei signori. È stato veramente un atteggiamento terribile e imperdonabile da parte mia.» «Ma no. Era molto agitata. Tutto qui.» «Certo che lo ero, e lei sa anche il perché. Volevo riprendermi Irina, giusto?» Sorrise. «Nel frattempo il dottor Erkner mi ha detto che Irina è con lei, sotto la sua protezione, e che sta bene, molto meglio di quanto non stesse al campo. E che lei si è assunto ogni responsabilità, ha dato le garanzie e che tutte le formalità sono state sbrigate. Io invece avevo pensato male di lei. L'avevo ritenuta capace di cose molto cattive, di cui ora mi vergogno. Facciamo pace allora?» «Ma certo, signorina Luise.» Respirò a lungo, sollevata. «Ora mi sento tranquilla. Mi sono tolta un gran peso dal cuore. Ho pensato proprio male di lei, e anche del signor Engelhardt. Neanche lui è arrabbiato con me?» «Nient'affatto. Le manda tanti saluti. E anche Irina.» «Oh Dio, grazie. Ora credo di poter sopportare di nuovo con pazienza tutti i miei mali. E forse anche di trovare un po' di quiete.» «Certo che deve» «E lo farò anche, signor Roland. Qui sono così buoni con me, che non potrà che andarmi meglio. Inizialmente il dottor Erkner mi ha dato qualcosa che mi ha fatta dormire per due giorni. Poi mi ha parlato e mi ha detto
che mi sottoporrà a sei elettroshock, uno dopo l'altro, ogni due giorni. E inoltre mi hanno dato delle polverine e mi hanno fatto delle iniezioni. Non posso davvero lamentarmi.» Elettroshock: aveva pronunciato la parola senza emozione. «Quando le faranno il primo elettroshock?» chiesi. «Ieri.» «Cosa?» «Ieri mattina mi hanno fatto il primo. Il secondo domani. Sempre di mattina, sa. Poi me ne rimarranno altri quattro. Oh, non si dia pensiero, signor Roland, sto benissimo qui. Questa è una stanza privata di prima classe! Ho sentito che lei paga per me. Naturalmente la rimborserò di tutto, è ovvio.» Ripensai a quello che mi aveva detto per telefono il pastore Demel: che la borsa della signorina Luise cioè, con tutti i suoi soldi, era sprofondata nella palude. «Ho ancora abbastanza soldi. E mi piace potermene stare qui sola in stanza. È stata proprio un'opera buona la sua, sa?» «È il mio editore che paga, signorina Luise. E non dovrà restituirgli niente. Quell'uomo è milionario. E poi io devo scrivere di lei, dei bambini e di tutta la sua storia.» «Be', se mi dice che il suo editore è milionario... allora io dico grazie e accetto! Perché quei miei soldi... dovrò cercarne di fare buon uso, sa? I miei bambini... Se soltanto sapessi perché non posso starmene con loro, invece che qui...» «Non lo sa?» «Non ne ho idea.» «Però sa dove si trova adesso?» «Certo che lo so. All'ospedale Ludwig di Brema. Me lo ha detto il dottor Erkner. Quello che non so è il perché mi trovo qui. Lui dice che devo riprendermi. Guarire. Ma che vuol dire: guarire? Non sono mica malata! Cosa c'è che non va in me? E la mia testa poi, funziona benissimo.» Ne parlava sinceramente stupita, nient'affatto irritata: solo stupita. Prima di raggiungerla nella sua stanza, avevo parlato col dottor Erkner. Quell'uomo grande e grosso - occhi scuri, capelli neri, corti e ondulati, viso largo - mi aveva condotto nel suo ambulatorio. La signorina stava bene, mi aveva detto, ne era molto soddisfatto. Il pastore Demel gli aveva riferito degli amici morti della signorina Luise. «Tutto quel suo mondo immaginario s'è per il momento defilato» mi aveva spiegato il dottor Erkner. «La parte sana della sua personalità è rimasta integra. Le allucinazioni sono svanite. Anche se ora lei le parlasse di
quei morti, la signorina non la capirebbe. Ricorda solo tutto quello che di concreto, di reale ha fatto. Resta solo qualche parentesi oscura.» «Svaniranno anche queste? Il suo mondo fantastico non emergerà più? La signorina non si rammenterà più dei suoi amici immaginari?» «Non lo so» aveva risposto lui. «La sua è una condizione schizofrenica ormai radicata da molto tempo. Può darsi che, in seguito, i sintomi riaffiorino di nuovo.» Ora ero seduto di fronte alla signorina Luise. Avevo proprio temuto che m'interrogasse su tutto quello che non aveva capito o a proposito di cose cancellate dalla sua memoria. Ma non lo fece. Si sentiva perfettamente guarita, sapeva dov'era, sapeva che il dottor Erkner le era amico e che era animato solo da buone intenzioni. Diceva di sentirsi bene. «Dovrà tornare al suo lavoro» disse lei. «L'ho sempre vista alle prese con la fretta.» «E continuo ad avere fretta.» «Ecco, vede. Per questo ho pregato il dottor Erkner di chiamarla e di dirle di venirmi a trovare. Quello che m'interessava è tutto qui: non volevo che fosse arrabbiato con me proprio lei che è sempre stato gentile. Ora sono tranquilla! Mi hanno detto che è stato in America.» «Sì, sono rientrato ieri sera. Ho trovato l'appunto relativo alla telefonata del dottor Erkner, e così stamattina sono venuto subito a Brema, in aereo.» «Nella mia memoria ci sono come dei buchi» disse, improvvisamente triste. «Rammento naturalmente quello che è successo al campo. Che hanno ucciso il povero piccolo Karel e che lei è partito con Irina per Amburgo. So anche di esserci andata anch'io, ad Amburgo. Prima un camionista mi ha dato un passaggio, e poi col treno. Ad Amburgo me ne sono successe di tutti i colori. Ho trovato una guida alla stazione, il povero signor Reimers. Poi è risultato che era malato. E sono stata al King Kong. E all'Hotel Paris dove hanno ucciso quel Concon. E all'Eppendorfer Baum. Dall'antiquario francese e dal portiere polacco. Loro mi hanno detto dove avrei potuto trovare lei e Irina. E così mi sono diretta, in taxi, al Metropol... ma ho come la sensazione che mi siano accadute altre cose, molte altre cose, e non riesco a ricordarle...» «Non fa niente, signorina Luise. Ricorda già tanto. E tanto mi ha raccontato al campo: ho registrato tutto. Vedrà che riuscirò a sbrogliarmela benissimo.» «Vuol dire che non verrà più a trovarmi? Che non ha più bisogno di me?»
«Ma certo che tornerò a trovarla, signorina Luise» e pensai che forse si sarebbe ricordata, nonostante tutto, dei suoi amici morti e che avrei quindi potuto scrivere la mia storia in modo ben più esauriente. «Continuerò a venirla a trovare.» «Be', guardi che non me ne starò mica qui in eterno!» «Certo che no. E allora vuol dire che verrò al campo di Neurode. Se prendo l'aereo, ci arriverò in un attimo.» «Non sono ancora mai stata in aereo.» E poi, senza alcuno stacco: «Sono stata anche là, nel parco dietro il suo albergo. E ho avuto una paura terribile». «Di cosa?» «E chi lo sa, signor Roland! Non lo so! So soltanto che poi sono andata a Brema, quella notte stessa, con un treno, assieme a una simpatica signorina. Si chiamava Inge Flaxenberg. Però tutti la chiamavano Leprotto, ha detto lei. Così come tutti chiamano me signorina Luise. Lavorava in una casa da gioco, quella Leprotto. Hanno chiuso la casa da gioco perché c'erano dei magneti sotto il tavolo della roulette. Son tutte cose di cui mi ricordo benissimo. E anche che il fidanzato di Leprotto e la ragazza stessa mi hanno portato in macchina sino a Neurode. Ma poi basta... da quel momento in poi non rammento più niente. La cosa successiva di cui mi ricordo è di aver parlato qui in clinica col dottor Erkner.» Aveva appena pronunciato il suo nome, che si aprì la porta e lui entrò, imponente, avvolto nel gran camice bianco, gioviale. «Contenta della visita, signorina Luise?» «Oh sì, dottore, tanto... Il signor Roland non è più arrabbiato con me!» «Visto? Gliel'avevo detto!» «Sì, è vero, dottore!» «Tutto sistemato allora!» disse Erkner. E poi, rivolto a me: «Però ora è meglio che se ne vada. La signorina Luise ha bisogno di molto riposo». «Sì. Ho bisogno di riposo, è vero. E qui da voi c'è tanta calma. Non farei altro che dormire.» «Tornerò» dissi io, e mi alzai. «Quando vorrà. Mi faccia chiamare, oppure telefonerò io. E non tema per la nostra storia. Vedrà che fra non molto avrò finito di scriverla.» «Certo. Venga quando vuole, quando le fa comodo... Non c'è bisogno di permessi, vero, dottore?» «No. Può venire quando vuole, signor Roland.» «Ma non di mattina nei prossimi giorni» disse la signorina Luise, seria.
«Dovrò fare i miei shock, e subito dopo mi addormento come un sasso.» 23 Martedì 19 novembre, dieci minuti prima delle 18, risalivo di nuovo, con Irina, la strada della zona nord-occidentale di Francoforte dove quel medico ha il suo ambulatorio. L'avevamo raggiunta allo stesso modo dell'altra volta: uscendo di casa attraverso il giardino, sul retro. Colonne interminabili di macchine procedevano lungo la strada, e anche il marciapiede era affollato di gente. Riuscivamo a progredire solo lentamente. Era già buio, e pioveva: una pioggerella sottile e gelida. «Ecco» dissi «fra un paio d'ore sarai di nuovo a casa e tutto sarà sistemato.» «Sì» disse Irina. I passanti continuavano a urtarci. Non c'erano quasi negozi lungo quella via, ma dovevano esserci degli uffici e forse qualche fabbrica: non c'era altro modo per spiegare la presenza di tutta quella gente e delle molte macchine. «Non devi aver paura, assolutamente. È il miglior medico di Francoforte per casi come questo.» «Non ho paura, per niente. Che farai durante queste ore?» «Oh, andrò a bere qualcosa, e forse andrò anche al cinema.» «A vedere cosa?» «Non lo so.» «Mi piacerebbe una volta andare al cinema con te, Walter.» «D'accordo. Ci andremo.» «Quando?» «Quando sarà finito tutto e ti sentirai di nuovo bene.» «E quando tu avrai tempo.» «Sì.» «Perché almeno per ora hai troppo da fare.» Mi strinse il braccio. «È una ragione in più per esserti grata d'avermi accompagnata.» «Ma va', era logico!» «Lo sapevo che mi avresti aiutata. L'ho capito sin dalla prima volta che ti ho visto.» «Diciamo che allora eri ancora alquanto scontrosa.» Non replicò a questa mia osservazione. Dopo una pausa disse: «Hai accompagnato altre ragazze da questo me-
dico, vero?». «Sì.» «E non c'è mai stato un incidente?» «Mai. Puoi star tranquilla, davvero.» «Sono tranquilla. Sono tranquillissima. Dico sul serio. Non sono mai stata così tranquilla. Sto già pensando, tutta contenta, che tra un paio d'ore verrai a prendermi. E non sentirò alcun male, perché mi farà l'anestesia, vero?» «No» feci io. «Non mi farà l'anestesia?» «No» ripetei, alzando il tono della voce, e mi fermai. «Ma è una pazzia!» esclamò Irina. «Senza anestesia non può...» «Piantala coll'anestesia!» dissi io, e tutto mi si prospettò di colpo facile e ovvio. «Non sto parlando dell'anestesia.» «Non ti capisco. Che significa allora il tuo no?» «Dico di no, nel senso che non andiamo dal medico.» «Ma se abbiamo un appuntamento! Fra un paio di minuti dovremo essere li, Walter!» «Non ci andiamo» dissi, calmo, tranquillo e gonfio di felicità, se per felicità si può intendere quello che provai, al buio, sotto i lampioni, nella pioggia. «Non ci andiamo. Non lo farai, Irina!» «Ma... ti ha dato di volta il cervello!» esclamò lei, spaventata. «Non mi ha dato di volta il cervello. È l'unica cosa giusta da fare. Ci ho messo fin troppo tempo per capirlo. Avrai il tuo bambino, Irina. Quell'altra soluzione sarebbe un delitto.» Qualcuno mi urtò violentemente e bestemmiò, e io attirai Irina sotto l'arcata di un portone. Ci ritrovammo così fuori dal via-vai della gente e al riparo dalla pioggia. «Walter,» disse Irina, col fiato corto, stringendosi a me, «hai perso la ragione! È tutto ormai chiaro e definito! Il dottore mi aspetta!» «Gli telefonerò. Disdirò l'impegno.» «Ma non si può! Non è possibile! Non puoi pretendere che io metta al mondo un figlio di Bilka! Walter, ho appena diciott'anni! Sono in un paese straniero! E non so ancora cosa succederà di me! Non so niente di niente! E vuoi che in queste condizioni io metta anche al mondo un figlio...» «Irina,» dissi io, interrompendola, «mi vuoi sposare?» «Cosa?» «Vuoi diventare mia moglie?»
Mi fissava a bocca aperta e non riusciva a pronunciare una parola. «Che ti piglia? Ti sembro poco simpatico? Troppo cinico? Fumo troppo? Bevo troppo? Migliorerò. Credimi, la sostanza è buona. Allora, mi vuoi sposare?» «Il bambino...» disse lei, disorientata. «Il bambino... Non è possibile...» «Perché no?» «È di Bilka, Walter! Di Bilka!» «Lo so. Ma io voglio sposare te e non Bilka. E il bambino è anche tuo. Più tuo che suo. Perché sei tu che lo metterai al mondo. E così diventerà il nostro bambino.» «Lo dici adesso, perché... perché... perché sei caro... perché sei così caro...» «Ma va'.» «...ma poi, poi torse diventerà come lui...» «Non è affatto detto. I più grandi farabutti hanno generato santi, benefattori dell'umanità, geni. Certo, potremmo aver sfortuna. Ma dal momento in cui quel bambino verrà al mondo, avrà me per padre... e non Bilka! E quel che potrò fare perché diventi una brava persona...» M'interruppi. «Fesserie!» replicai, «Come se io fossi chissà chi! È un rischio che devo assumermi, tutto qui! E lo sai il perché! Lo sai perché voglio assolutamente che noi due s'abbia questo figlio?» «Noi...» sussurrò lei. «Hai detto noi...» «Certo, noi! Tu e io. Sarai mia moglie allora. Mi son già sentito così una volta, quando ero li con te, ad Amburgo. Desideravo tanto che tu amassi me, e non quel Bilka. E allora - non ridere - ho pensato come sarebbe stato bello avere un figlio da te. Ti ho detto di non ridere, maledizione!» «Non sto ridendo.» «Questo bambino l'hai desiderato tanto anche tu, prima di sapere chi fosse in realtà questo Bilka, dico bene?» Annui soltanto. «Ecco, vedi. Irina, hai solo diciott'anni!... Io... io ne ho trentasei... Sono un vecchio, al tuo confronto...» «Piantala!» «No, dico sul serio. È l'unica cosa che mi preoccupa... mi preoccupa un poco. Ma vorrei tanto che tu divenissi mia moglie. E vorrei anche un bambino. Però non oserei mai concepire un figlio con te. Sono intriso d'alcool. Dopo tutto il whisky che ho bevuto in tutti questi anni, quel bambino diverrebbe un povero minorato infelice. Eppure desidero tanto un figlio! Da
quando ti conosco, voglio un figlio... da te! E ora posso averlo. Non un figlio del whisky. Bilka non è mica un ubriacone, per caso?» «No.» «Ecco, vedi, va tutto a meraviglia! Benone. E ora puoi anche metterti a ridere.» «Io... io non posso...» «E allora di' che vuoi essere mia moglie. Dillo subito. Perché da quel medico non ti ci faccio andare, capito? Allora, come la mettiamo? Vuoi o non vuoi?» Appoggiò la sua guancia alla mia e mormorò: «Oh sì. Sì, sì, Walter! Voglio essere tua moglie. E farò di tutto per essere una buona moglie, sempre... Oh Dio, mi sento così felice... L'ho tanto desiderato...». «Cosa? Me o il bambino?» «Tutti e due» sussurrò Irina. «Perdio! Ma perché non me l'hai detto prima allora? Avremmo potuto fare a meno di uscire, e avrei potuto lavorare. Con questo tempo, Irina! E cerchiamo di sposarci in fretta, capito?» «Sì... sì, Walter, ti prego! Oh tienimi, tienimi stretta a te...» E così me l'abbracciai e le diedi tanti piccoli baci sul viso bagnato di pioggia: e i suoi occhi, per la prima volta da quando la conoscevo, non erano tristi, ma pieni di gioia e di felicità. «Grazie» disse Irina. «Grazie, Walter.» «Sono io che ringrazio te. E ora via di qui, presto. Andiamo a casa!» La presi per mano, uscimmo dal portone nella pioggia e ci trovammo subito incastrati nel flusso della gente, che ci trascinò via con sé. Di tanto in tanto Irina appoggiava la testa alla mia spalla, e ce ne andammo così per un bel tratto, sino a quando trovammo un bar. In quel bar io chiesi un Chivas doppio e Irina un succo d'arancia. Telefonai al medico e gli dissi che ci avevamo ripensato. Lui s'arrabbiò molto e buttò giù il telefono, benché gli avessi detto che avrei ugualmente pagato la sua parcella. Quando poi lo riferii a Irina, al banco, ci mettemmo a ridere tutti e due, come bambini. Trovammo un taxi e tornammo a casa. Io mi rimisi a lavorare, mentre Irina trafficava in cucina per preparare la cena. Io mi sentivo come se fossi già sposato, ed era una sensazione meravigliosa. La pioggia tamburellava contro le finestre del mio studio. Scrivevo quello che mi era successo al campo, con la signorina Luise. La soddisfazione che provavo era simile a quella di chi ha fatto un bel bagno ristoratore. La cena fu una parentesi d'allegria. Irina sapeva cucinare assai bene.
Glielo dissi. E la resi felice. Finito di mangiare, sparecchiammo insieme e infilammo piatti e posate nella lavastoviglie, mettendola poi in moto. Andammo nella mia stanza da letto: io mi misi a bere Chivas, e Irina succo d'arancia, perché ora che s'era deciso che dovesse mettere al mondo quel figlio, non poteva più bere alcool, dal momento che le avrebbe fatto male. E infatti non volle nemmeno assaggiare il whisky. Ce ne stemmo lì seduti a sentire Ciaikowski: tanti dischi. Poi Irina andò in bagno. Io buttai giù ancora qualche sorso, ascoltando la musica, e poi andai in bagno anch'io. Quando ne uscii, andai nella stanza degli ospiti, per dare la buona notte a Irina. Si era addormentata con la luce accesa. Sorrideva. Il suo respiro era regolare e profondo. E sul suo viso si leggeva un'espressione di pace infinita. Spensi la luce sul comodino, lasciai la stanza degli ospiti in punta di piedi e andai nella mia camera da letto. Spensi subito la luce, ed ero stanco morto: ma per ore intere non riuscii ad addormentarmi. Me ne restai disteso sulla schiena, guardavo verso la finestra rischiarata confusamente dalle luci della città che era sotto di me, ascoltai la pioggia che batteva fuori sulla terrazza. E pensai a tante cose. IN MACCHINA 1 «Una bottiglia di Gordon's Gin, per piacere...» «Mezzo chilo di prosciutto cotto affumicato...» «Vorrei del caviale. Tre vasetti di quelli grandi. Col coperchio blu, solo di quelli col coperchio blu...» Le voci echeggiavano nel negozio d'Alimentari Kniefall, e risuonavano fino al piccolo ambiente col bancone del bar, gli sgabelli e i tavolini. Mi ero appena seduto a uno di quei tavolini. Il chiasso del cantiere della metropolitana s'avvertiva, ma molto attutito. Era una giornata molto grigia, anche se non pioveva. Un forte vento sospingeva nuvole nere e basse da una parte all'altra del cielo plumbeo, e nel negozio d'Alimentari Kniefall erano accese le luci. Esattamente come nella sede del giornale, li di fronte, e negli altri uffici dei dintorni. Lucie, la commessa bionda dagli occhi scuri che si occupava del bar, mi aveva salutato con un sorriso timido e nello stesso tempo raggiante. Erano le 8 e 30 di giovedì, 21 novembre. Ero stato
li l'ultima volta l'11 novembre, un lunedì: e mi pareva che fossero passati dieci anni. Quante cose erano accadute, in quei dieci giorni... La sera prima avevo completato la seconda, lunga parte di TRADIMENTO. La prima puntata doveva essere in composizione già da tempo, perché l'avevo portata al giornale, e deposta sulla scrivania di Hem, prima ancora di volare in America: proprio all'ultimo momento utile per il numero del giornale che, fra una settimana, sarebbe stato in edicola. Avevo scritto la seconda puntata dopo il rientro da New York, per consegnarla proprio quella mattina. Era un lavoro nel quale non mi sarei mai trovato coll'acqua alla gola. Riuscivo a progredire molto in fretta, la storia non mi presentava problemi, e scrivevo con piacere. Ora sarebbe venuto il turno della prima parte di TUTTO SULL'UOMO, ma sarei riuscito a buttar giù anche quella, in qualche modo. In fondo ora avevo anche la mia inchiesta! E che inchiesta! I russi ce l'avevano fatta a procurarsi, a New York, anche la seconda parte dei microfilm di Bilka. Ora disponevano di tutto il materiale. Avevano vinto: su tutta la linea. Avevo scritto in continuazione, in quei giorni, utilizzando ogni minuto libero, anche di notte, quando Irina dormiva pacifica nella stanza degli ospiti. Ero stato colto anche da incubi. Colpa dell'agitazione. Quando mi ero alzato, erano le sette e fuori era ancora quasi completamente buio. Avevo lasciato che Irina dormisse, avevo sentito le ultime notizie dalla mia piccola radio a transistor, come sempre, nel farmi la barba, e bevuto un mucchio di caffè. Non avevo mangiato niente. L'alcool non c'entrava, benché la sera prima, seduto davanti al televisore con Irina, felice e con la coscienza a posto per il buon lavoro fatto, avessi buttato giù qualche bicchierino di Chivas. Ma non mi ero ubriacato, e quella mattina non stavo male. Non avevo fame, tutto qui. L'agitazione. Quel giorno - così era stato deciso prima della mia partenza per New York - avrei dovuto consegnare la seconda puntata di TRADIMENTO: come la prima, in busta chiusa, sulla scrivania di Hem, l'originale e anche la copia. Non ci sarebbe stata pubblica lettura. Era una faccenda che doveva restare segreta, almeno le prime due puntate. Quelle due puntate sarebbero state lette in anticipo solo da Hem, da Lester e dalla direzione editoriale. Quando i signori avessero letto la seconda puntata, mi avrebbero fatto chiamare. E allora... «Ecco, signor Roland.» Alzai lo sguardo. C'era Lucie davanti a me. Con un'espressione preoccupata in volto, appoggiò sul tavolino un bicchiere, un sifone di selz, il secchiello coi cubetti
di ghiaccio e versò del whisky nel bicchiere, dalla mia bottiglia di Chivas. Mi tolsi di bocca il mozzicone della Gauloise che stavo fumando, guardai Lucie e - mi resi conto soltanto dopo di quello che stavo facendo - gettai la sigaretta nel bicchiere di whisky. «Ma... ma cosa c'è?» balbettò la bionda Lucie, spaventata. «Cosa significa?» «Non lo so neanch'io» dissi io, un po' stupito. La sigaretta si gonfiò nel whisky sino a disfarsi, schifosa. Spinsi via il bicchiere. «Penso che significhi che non voglio più whisky. E non voglio neanche più fumare. Di mattina almeno.» «Signor Roland!» «Sì, sì, lo so, è strano. M'è passata la voglia di colpo. Mi dà fastidio persino l'odore del whisky. La prego, signorina Lucie, porti via il bicchiere.» «Si sente poco bene?» «Sto benissimo!» esclamai io, e mi misi a ridere. Esplose anche lei in una risata improvvisa, di gioia e di sollievo. E tolse in gran fretta dal tavolo tutto quello che aveva portato. «Sa che le dico? Ho fame! E ho anche tempo! Me la preparerebbe una colazione? Due uova alla coque, qualche panino fresco, succo di pomodoro e caffè!» «Subito, signor Roland... naturalmente...» Continuava a ridere, ma c'erano lacrime nei suoi occhi. «Sapesse come sono contenta! Ma cosa le è successo? L'ultima volta era ancora così...» «Ah, l'ultima volta!» Feci un cenno di disprezzo. «Da allora sono accadute tante cose, signorina Lucie. Gliele racconterò. Prima però mi prepara la colazione, vero?» «Sì. Sì. Sì, volentieri» balbettò lei, e corse via. Me ne stavo seduto volgendo le spalle al negozio e mi guardavo nello specchio appeso al muro. E mi parve che la mia faccia avesse cambiato espressione. Non era più così vecchia, grigia, segnata dal bere e dalle donne. Era un'altra faccia. Così mi parve almeno. Sciocchezze, naturalmente. Non si cambia faccia in dieci giorni. Oppure sì? Ascoltavo le voci che venivano dal negozio e pensavo a cosa avrei provato quando Herford m'avesse fatto chiamare per dirmi che quella mia nuova puntata era una cannonata. Perché lo era, ne ero convinto. Non avevo il benché minimo dubbio! Altrimenti avrebbe mugugnato già sulla prima parte, che lui, Hem e Lester avevano letto senza che nessuno avesse trovato qualcosa da ridire o da rimproverarmi quando ero rientrato da New York.
Lucie mi portò la colazione. Buttai giù tutto d'un colpo il succo di pomodoro, mi mangiai le uova coi panini croccanti, aggiungendo sale e burro, conclusi col caffè e mi sentivo magnificamente. Masticando, raccontai a Lucie - che mi stava accanto tutta agitata e con le guance rosse - che in quei giorni avevo scovato una storia, una storia formidabile, e che sarebbe stata pubblicata con la mia firma. «... dopo tanto tempo finalmente una serie di articoli che posso firmare col nome mio!» «È meraviglioso» sussurrava Lucie. «Io... io mi preoccupavo tanto per lei. Però adesso tutto andrà di nuovo bene... Vero che tutto andrà di nuovo bene?» Io annuii, con la bocca piena. «Se sapesse come sono contenta, signor Roland!» «Immagini me. Immagini come sono contento io, signorina Lucie!» Non potevo naturalmente raccontarle di che si parlava in quella storia, ma dopo aver finito la colazione, mi sedetti su uno sgabello al banco, ordinai succo di pomodoro per entrambi, e feci qualche domanda a Lucie. Le chiesi di casa sua, dei suoi genitori, dei suoi progetti. Mi disse un sacco di cose dei genitori, che facevano i contadini, e di suo fratello che era militare nella Bundeswehr, e del suo villaggio natale: Brandoberndorf. Stetti ad ascoltarla con interesse: non sto scherzando. E pensavo che era passato tanto tempo, erano passati degli anni da quando l'ultima volta mi era capitato di stare a sentire qualcuno che raccontava di se stesso, senza che dovessi poi scriverne o senza che qualche altro motivo me lo imponesse. Poi, verso le dieci - molto prima di quanto avessi supposto - suonò il telefono. Lucie sollevò il ricevitore, rispose e poi mi disse: «La vogliono al giornale». «Ma certo, ma certo» dissi io, soddisfatto. Pagai, diedi a Lucie una mancia generosa, come sempre, e lei mi ringraziò tutta compunta e mi disse ancora una volta di essere molto contenta. Poi fece il gesto di sputare tre volte, simbolicamente e a titolo di scongiuro, oltre la mia spalla sinistra. Ci stringemmo la mano e, quando ero ormai già al di là del reparto vendite, mi voltai ancora una volta. Lucie era dietro il banco, sorrideva e mi faceva gesti di saluto. Sorrisi anch'io, risposi al saluto. 2 La gente s'affollava e si spingeva sul ponte gettato sopra la Kaiserstrasse sconvolta dagli scavi. Fischiettavo. Tenevo le mani in tasca, ed ero senza
cappotto perché l'avevo lasciato in ufficio, al giornale. Ma poiché faceva freddo, tirai su i risvolti della giacca. Giù in fondo, sotto di me, lavorava l'esercito internazionale degli operai che costruivano la metropolitana. Martelli pneumatici e compressori facevano un enorme baccano, le grandi gru spostavano fasci di tondino di ferro e li deponevano lì ove servivano. Era tutto esattamente come dieci giorni prima, eppure era tutto diverso. Presi la mia scatola di sigarette e la gettai giù. Un piccolo operaio italiano l'afferrò al volo, mi fece un gran sorriso, si tolse il casco di protezione giallo e urlò: «Grazie, signore, grazie!». «Tanti auguri» gridai io di rimando, in italiano. Stavolta mi sentivo come se fossi parte integrante di quella schiera, come se fossi uno dei tanti che lavoravano laggiù. Ed era una sensazione bellissima... Giunto al giornale, salii col "lanciacapi" sino al settimo piano, per una breve sosta. Entrai nel mio box di vetro, dove avevo appeso il cappotto, e prelevai di tasca un nuovo pacchetto di Gauloise. Non mi andava di restarmene completamente senza sigarette. E poi non si diventa santi da un giorno all'altro. Negli altri box di vetro, attorno al mio, erano già tutti al lavoro. Salutai tutti, e tutti salutarono me, gentili, sorridenti, e quando stavo per lasciare il box, entrò Angela Flanders, la mia vecchia e buona amica. Mi sorrise anche lei. Sembrava che quel giorno tutte le persone sentissero la necessità di sorridermi. «Ehilà, Angela!» «Buon giorno, Walter. Va su dall'editore, vero?» «Sì, Angela.» «Il signor Kramer e il signor Lester sono già saliti. È per la sua nuova inchiesta?» «Sì.» «Bene, fra non molto la leggerò anch'io. Il signor Kramer ha detto che da anni lei non scriveva più una storia così bene.» «Davvero?» «Si. Io... Vede, Walter, noi ci conosciamo da tanto tempo... Ne abbiamo passate tante insieme... So quanto si è sentito giù, a volte... E ora... ora finalmente ha di nuovo un'inchiesta tutta sua, una cosa in grande...» S'impappinava sempre di più. «E questo... tutto questo... mi rende felice, perché io... lo sa che io... le voglio bene, Walter, vero che lo sa?» «Certo che lo so, Angela. E io voglio bene a lei. E anche lei lo sa.»
Il suo viso divenne rosso fiamma. «È perché... perché siamo così vecchi amici, Walter, che sono così contenta per lei! Facciamo gli scongiuri, ma le auguro di aver fortuna, tanta fortuna per quello che ha scritto, e tanto, tanto successo! Ho sperato tanto che potesse di nuovo scrivere e firmare col suo nome!» «Già. L'ho sperato anch'io.» «Adesso salga da Herford. Penserò a lei tutto il tempo, fino a quando scenderà giù di nuovo. Mamma mia, a volte in questo nostro manicomio si ha proprio l'impressione di dover disperare, ma poi, quando uno meno se l'aspetta, ecco che accade una cosa così, una cosa bella. Bisogna proprio credere nel buon Dio, vero?» «Certo. Assolutamente. Oggi a ogni modo ci credo fermamente, Angela.» 3 La vecchia Schmeidle, la prima segretaria di Herford, mi disse di entrare subito nello studio dell'editore, perché gli altri signori mi stavano già aspettando. Quando entrai in quello smisurato ambiente, vidi Hem, Bertie, Lester e il capo della redazione fotografica Ziller. Erano seduti nell'angolo di fronte al monitor del computer, vicini a quella finestra fatta come la cabina di pilotaggio di un aereo. Benché fossimo all'undicesimo piano, dall'esterno entrava solo una luce fioca, invernale. L'illuminazione indiretta era accesa, così come i tubi al neon fissati lungo le scansie della libreria. Ne risultava un'atmosfera antipatica e irreale: una via di mezzo, uno spazio sospeso fra la vita e la morte. «'Giorno, 'giorno» dissi, allegro. Gli altri borbottarono qualcosa, Hem mi sorrise, Bertie accennò un saluto con la testa. «Che succede?» chiesi io. «Aspettiamo» disse Bertie, con quel suo eterno sorriso. «Aspettiamo il signore e la signora Herford, e il dottor Rotaug» disse Lester. «Come mai non sono qui?» chiesi io. «La Schmeidle mi ha detto che...» «Sono tutti nella stanza privata del signor Herford» spiegò Ziller. «Da un bel po'. Quando siamo venuti, l'ufficio qui era vuoto.» «E che ci fanno di là?» «Non ne ho idea» disse Bertie. «È quasi mezz'ora che aspettiamo.»
In quell'attimo ci fu un lieve rumore, e una parte della biblioteca si scostò. Era la porta che dava sulla stanza privata di Herford, collocata fra il suo ufficio e la sala del computer. Attraverso l'apertura nella biblioteca entrarono, in fila, mami, Rotaug ed Herford: lentamente, molto seri, molto solenni. Gli uomini che si erano seduti, si alzarono. «Signora...» Lester si precipitò a baciarle la mano. Mami indossava, gettato sulle spalle, un mantello di giaguaro, una cuffia piantata sui suoi capelli viola; inoltre una gonna a pieghe nera, un pullover di cachemire, una lunga collana d'oro che culminava in una gran moneta d'oro, e scarpe coi lacci. Herford aveva un abito di flanella; Rotaug, come sempre, era in nero, camicia bianca, colletto duro, la cravatta d'argento, la bella perla fissata sul nodo. In quell'orribile luce sembrava che fossimo tutti cadaveri. Herford s'avvicinò al pulpito con la Bibbia, e cominciò a sfogliarla. Finalmente trovò il passaggio che cercava. Si mise a leggere a voce bassa e un po' rauca: «Dal libro di Giobbe, primo capitolo... "Giobbe si alzò, si stracciò le vesti, s'arruffò i capelli, cadde a terra, pregò e disse: 'Nudo sono uscito dal corpo di mia madre, e nudo me ne andrò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto: sia lodato il nome del Signore!'."». Mentre gli uni dicevano «Amen» e gli altri no, guardai Bertie ed Hem: si limitarono a sollevare le sopracciglia. Quella riunione cominciava davvero in modo strano. E prosegui anche in modo davvero strano. Mami si sedette. Ci sedemmo tutti, meno Herford. Nessuno apriva bocca. Herford pescò nel taschino la sua scatoletta d'oro, ne tolse un assortimento di pillole bianche rosse e blu. S'infilò l'intera carica in bocca, versandosela fra le labbra con la mano, e ingoiò dell'acqua. Non rimise in tasca la scatoletta: l'appoggiò sulla scrivania. Altro segno poco rassicurante. «Signori,» disse l'editore, e cominciò a marciare avanti e indietro per il suo mostruoso ufficio, «quello che Herford ora comunicherà è strettamente riservato e non dovrà essere riferito a nessuno. Chi dovesse farlo ugualmente, avrà a che fare non soltanto con Herford, ma dovrà anche prepararsi a subire una condanna penale da parte degli organi dello Stato.» Ecco, fu proprio così che cominciò. Ci guardammo tutti l'un l'altro, con espressioni imbambolate. Herford disse, continuando ad andare su e giù: «Abbiamo combattuto fino a un momento fa. Abbiamo appena terminato l'ultimo colloquio telefonico. È finita. Abbiamo perduto. Non c'è più niente da fare. Per la prima volta nella storia di Blitz, un numero non sarà messo in vendita: quello che
avrebbe dovuto essere spedito domani.» Silenzio. «È il numero con quelle quattro pagine di fotografie e coll'annuncio di TRADIMENTO» disse Rotaug: e fu una precisazione superflua. «Ma... ma... ma...» cominciò Lester, scosso. «Lo so, lorsignori sono sbalorditi» disse Herford. «Non più di quanto lo sia io, prego lorsignori di credermi. Ma non possiamo più farci niente. È da lunedì sera che ci hanno imposto di mandare al macero l'intera tiratura. Non lo abbiamo detto prima, per non provocare allarmi. Il dottor Rotaug pensava che ci fosse ancora qualche scappatoia. Ha trattato. Ha continuato a trattare, da quel momento, giorno e notte: fino a due minuti fa.» «Con chi?» chiese Hem. «Col simpatico vecchietto di Colonia» disse Herford. «Ci parlava a nome degli americani. E del governo. Ci ha pregati - e tutti loro sanno cosa vuol dire, quando lui prega! - di non far uscire questo numero.» «Prima però non aveva niente in contrario... e nemmeno gli americani!» disse Bertie. «Prima la situazione era diversa» disse Herford. «Quando il vecchietto di Colonia ha chiamato la prima volta, abbiamo solo bloccato la diffusione, nel senso che abbiamo spedito sigillati, sugli autotreni, alla ferrovia e negli aeroporti, i pacchi coi giornali. Se fossimo riusciti a spuntarla, i carichi avrebbero potuto essere immediatamente inoltrati ai distributori. Perché fino a quando questa faccenda non fosse stata risolta, neanche i grossisti dovevano poter vedere il nuovo numero. Non è stato ovviamente possibile impedire che lo vedessero coloro che ci hanno lavorato. Ora però non possiamo fare altro che richiamare due milioni di copie e distruggerle.» «Ma perché?» chiesi io. Herford mi guardò coll'espressione di un cane San Bernardo. «Per via della sua nuova serie, signor Roland.» «Non ci capisco un'acca. Prima che partissi per New York con Bertie, questa serie era ancora una meraviglia! Ha letto cosa ho scritto nella seconda puntata?» «No.» «Non l'ha nemmeno letta?» «No!» urlò improvvisamente Herford, come impazzito. «Herford,» disse mami «Herford, ti prego. Il tuo cuore. Pensa al tuo cuore. Abbiamo già abbastanza altri guai.» Herford annuì, ingoiò altre pillole e fissò lo sguardo smarrito sul moni-
tor. «Signor Herford,» disse Hem «la prego, veniamo ai fatti. Io ho letto le due prime puntate. E le ho trovate eccellenti. Mi risulta quindi del tutto incomprensibile...» «Eccellenti una bella merda!» disse Herford. «Anche se le avesse scritte Goethe! Ripeto: merda. I loro riveriti signori non hanno per caso notato un'assenza nella nostra compagnia?» Dico davvero: sino a quel momento non ci avevo fatto caso. E gli altri, palesemente, nemmeno. «Il signor Seerose» disse Lester, quasi bisbigliando. «Già, il signor Seerose» disse Herford. «Il mio amico Oswald Seerose! Quello dal quale ho avuto, nel 1949, la licenza per stampare Blitz. Il mio buon vecchio amico Oswald, che da lunedì pomeriggio si è trasferito a Berlino-Est.» «Che cosa?» Ziller saltò su, e Lester fece lo stesso. «Avete sentito benissimo» disse Herford, e si mise una mano sul cuore. «Se ne è andato velocissimo. Tanto veloce, che i nostri servizi segreti non sono riusciti a prenderlo, e gli americani nemmeno.» «Ma prenderlo perché?» esclamò Lester. «Perché il mio vecchio Oswald Seerose è stato per vent'anni uno dei più abili e importanti agenti segreti della Germania orientale» disse Thomas Herford. 4 Nella sala ci fu un lungo silenzio. Era stato come se avessimo preso un pugno nello stomaco, tutti. Guardai mami. Se ne stava seduta come un sacco vuoto. Rotaug replicò alla mia occhiata con un'espressione di aperta ostilità. Che significava? Che ci potevo fare io, se quel Seerose era un agente segreto che faceva il doppio gioco? «Non mi guardi in quel modo» disse Rotaug subito. «Io non ci posso far niente se Seerose l'ha presa per i fondelli.» «Me?» dissi io, indignato. «E lei no, forse?» «È lei che ha continuamente avuto contatti telefonici con Seerose, è lei che ha eseguito i suoi ordini. Lei lo ha visto quel giorno, quando è entrato nella villa della Niendorfer Strasse 333, ad Amburgo.» «Ma tutto questo è ridicolo!» gridai io. «Le faccio presente che si è ser-
vito di uno degli aerei di Blitz! E lei sapeva dove andava! Quella notte, al telefono, lo ha detto in presenza sua che aveva parlato con gli americani.» Rotaug si limitò a squadrami in silenzio. «Non ha nessun diritto di gridare, lei!» sbraitò Herford, rivolto a me. «Herford, il tuo cuore...» «Macché cuore! Maledizione! Ho detto che non deve gridare! Proprio lui si permette di gridare!» «Che significa: proprio lui?» chiese Hem, secco. «Lui e Seerose ci hanno incastrati» disse Rotaug. «Verissimo» disse Lester, quella iena. Aveva trovato il modo di potersi vendicare dell'umiliazione che gli avevo inflitto. Ed era passato velocemente dall'altra parte. Era capace di cambiar bandiera e opinione con straordinaria prontezza. «E il signor Engelhardt» disse Rotaug, freddo. Bertie esplose in una risata. «Rida lei, rida pure! È così buffo, vero? Un'intera tiratura alla malora. Danni per milioni. Tutti i servizi segreti della repubblica federale che ci saltano addosso. Lo scandalo nell'opinione pubblica, quando si risaprà questa storia di Seerose. Le conseguenze per il giornale. Molto, molto buffo, vero, signor Engelhardt?» «Buffissimo, dottore» disse Bertie, e riprese a ridere. Ora ne aveva le scatole piene anche lui. «E la colpa sarebbe di Walter e mia! C'è da morir dal ridere.» «Non ci capisco un accidenti» intervenne Ziller. «Il signor Seerose era il miglior amico degli americani! Si è recato apposta ad Amburgo per discutere con loro i dettagli. Gli hanno confidato tutti i loro segreti. Solo così Roland ed Engelhardt hanno potuto svolgere il loro lavoro.» «Certo,» disse Rotaug «ma certo, povero e caro signor Ziller! E solo così anche i russi hanno potuto svolgere il loro lavoro.» «Ma come... Ah sì!» Ziller si spaventò, quando riuscì finalmente ad afferrare la situazione. «Il cameriere, il microfono e tutto il resto...» Jules Cassin?, pensai io. Il cameriere del Metropol! Dunque lui era stato complice di Seerose sin dall'inizio, e mi aveva ingannato con la storia della sua gratitudine e poi con quelle sue esplosioni d'odio contro il suo ex principale e contro tutti i tedeschi... «Sì, signor Ziller. Seerose è riuscito a far sapere ai russi tutto quello di cui avevano bisogno, per esempio cosa sarebbe esattamente successo ad Helsinki. Ed è riuscito a far sapere loro una cosa anche più importante: la
storia delle copie dei microfilm.» «Che c'entrano?» chiese Lester. «Quella notte Seerose ci ha raccontato che gli americani volevano assolutamente che la nostra inchiesta fosse pubblicata, a patto che noi scrivessimo che gli americani avevano una copia di quelle pellicole. Giusto? Bene, sarebbe stata una soluzione possibile. Ma nel corso di quella sua velocissima puntata ad Amburgo, Seerose s'è reso conto che gli americani non avevano niente, neanche una copia d'uno solo di quei documenti. E naturalmente lo ha riferito ai russi. Davvero un individuo simpatico.» «Tremendo» disse Ziller. «E si farà anche più tremenda, questa storia» disse Rotaug. «Ora ci sarà l'inchiesta ufficiale. Fino a qual punto il signor Roland e il signor Engelhardt erano informati della vera attività di Seerose? Fino a qual punto hanno collaborato con lui? Che legami c'erano...» «Dottore,» intervenni «se si permette anche soltanto di accennare ad un'altra di queste infami allusioni, io la trascino in tribunale.» «Badi lei piuttosto a non finire davanti a un tribunale!» «Questa è stata una sporca insinuazione, dottore» m'affiancò Hem. «Ah. Lei dice» disse la tartaruga umana. «Interessante, signor Kramer, molto interessante. Rivedranno le bucce anche a lei. A noi tutti. Ci troviamo nella condizione di dover affrontare la più grave crisi che abbia mai investito l'azienda. E che Dio ci consenta di poterla reggere.» «Amen» disse mami, che era completamente crollata. «In breve: quest'inchiesta deve sparire, per sempre» disse Herford. «Non ha senso continuare a parlarne. Il vecchietto di Colonia lo ha appena ribadito a Herford: se pubblichiamo anche una sola parola, una sola fotografia... immediata revoca di tutte le inserzioni, e boicottaggio, anche da parte degli inserzionisti americani. Boicottaggio su tutta la linea! La copertina del prossimo numero, quella con quel maledetto ragazzo cecoslovacco, è già stata distrutta. Ci sbatteremo una ragazza in bikini. Grazie a Dio, ce ne sono a bizzeffe. Kramer, lei mi scovi dell'altro materiale da mettere al posto di TRADIMENTO! Dobbiamo spicciarci. Lester le darà una mano. Ci ha cacciati proprio in un bel guaio, signor Roland.» Lester disse: «A trattarli troppo bene, gli asini credono poi anche di potersi mettere a volare». «Taci, cretino!» gli dissi io. «Questo è un insulto!» sbraitò lui. «Lorsignori hanno tutti sentito! Io pretendo che questo... questo individuo mi faccia immediatamente le sue
scuse!» «La pianti e si sieda» disse Herford. «Roland, gli faccia le sue scuse.» «No.» «Le ho detto di chiedergli scusa, porco diavolo!» «Non ci penso nemmeno.» (Cercate di capirmi: avevo deciso di farla finita. Una volta per tutte. Sono momenti in cui passano per la testa i più strani ricordi. Mi tornò all'improvviso in mente una filastrocca, che avevo sentito recitare una volta in una scuola di Londra, che ero andato a visitare per un servizio giornalistico. Diceva così: «Io credo di essere un elefante, che cerca un elefante, che cerca un elefante, che cerca un elefante, che in realtà non c'è...». Già, ecco cosa mi tornò alla mente in quell'attimo. Per tanti anni avevo creduto di essere un elefante, che cerca un elefante, che cerca un elefante, che cerca un elefante... e che l'avrei trovato! Ero certo di trovarlo! Ecco il perché di tutte le amarezze ingoiate, il perché delle porcate che scrivevo: perché ero convinto di riuscire un giorno a trovare il mio elefante! E in effetti l'avevo trovato, credevo d'averlo trovato: con quell'inchiesta, quella mia inchiesta! E ora non l'avrebbero pubblicata. Capivo che non poteva essere pubblicata. Ma capii anche con straordinaria chiarezza un'altra cosa: in quella baracca avrei potuto cercare, cercare, continuare a cercare, ma l'elefante non l'avrei trovato mai. Perché non c'era.) «Lei dunque non vuole scusarsi?» strillò Herford. «No!» strillai io. Herford mi si fece addosso. Si alzò sulle punte delle scarpe. Io mi misi a fissare le punte delle scarpe mie. Un'ira cieca mi aveva invaso, come non mai in vita mia. Affondai le mani nei braccioli della poltrona, perché temevo altrimenti di non saper resistere alla tentazione di rifilare un paio di sberle sul grugno di Herford e di Lester. Herford dovette accorgersene, perché arretrò di scatto. «E va bene» disse. «Lasciamo perdere. È un colpo del destino. Ma non ci spezzerà, coll'aiuto di Dio. Ora dobbiamo mettercela tutta, signori! Metterci tutto quello che possiamo, ogni forza, ogni impegno! TUTTO SULL'UOMO ci tirerà fuori dai guai. Le foto per la copertina sono fantastiche. Roland applicherà tutto l'ingegno di cui è capace per tentare di rimediare, e scriverà una gran cosa. Immediatamente. Non abbiamo tempo da perdere. L'importante è questo: lo spettacolo continua. Io scriverò una lettera per i lettori, per spiegare come mai l'ultimo numero non è uscito.
Rotaug la scriverà per me, lui le sa fare benissimo queste cose.» «Lei è molto buono, signor Herford» disse la tartaruga. Io mi alzai e dissi: «Io non scrivo TUTTO SULL'UOMO, signor Herford». «Eccome se lo scriverà!» sbraitò di nuovo Herford. Prese a casaccio delle pillole dalla sua scatoletta, e le ingoiò senz'acqua. Parve strozzarsi, ma poi riprese a urlare: «Lei è legato da contratto con Herford! Herford ha fatto di lei quello che è oggi! È da Herford che lei ha imparato a scrivere! E quindi non voglio più sentire una parola, capito?». «Neanche una parola, appunto. Io non scrivo» ripetei. Mi squadrò rinserrando le labbra. Lo guardai tentando di sorridere. E lui disse, molto piano: «Lei ha oltre 200 mila marchi di debiti con noi». «Sì.» «Lei abita in un appartamento che è del giornale.» «Sì.» «Herford le paga uno stipendio folle... non mi dica un'altra volta di sì, o Herford perderà il lume della ragione! Roland, miserabile animale, lei scriverà TUTTO SULL'UOMO, e lo scriverà meglio di tutto quello che ha scritto finora, altrimenti, perdio...» «Altrimenti mi caccia: è questo che voleva dirmi? E allora mi cacci, signor Herford! Coraggio, su, coraggio!» «Volgare delinquente, sporco figlio d'una puttana» ansimò lui. «Ma chi crede di essere? Crede forse di potersi sistemare altrove, se Herford la butta fuori di qui, eh? Lui ci crede magari! Hahaha!» Continuò a ululare: «Il giorno in cui Herford la caccia di qui, tutti gli altri settimanali - ma che dico settimanali: tutti i giornali, i quotidiani, fino all'ultimo scartafaccio - saranno informati di tali cose sul suo conto che nessuno oserà nemmeno pensare di darle un lavoro! Le sue sbornie! Le sue donne! Le sue equivoche convinzioni politiche! E così vedrà quello che le succederà! Tutto quello che potrà fare, se Herford la licenzia, sarà di crepare di fame, capito? Herford la distrugge! Mi ha sentito: Herford la distruggerà! Ha capito quello che ho detto?». «Lei mi distrugge, signor Herford. Ho sentito. Ha strillato abbastanza forte perché lo capissi. Lo faccia pure.» Il mio cuore batteva come impazzito. Devo farla finita, pensavo. Se non lo faccio, non potrò mai più guardare Irina negli occhi. «Non scriverò più una sola riga per lei, Herford!» «Volgare furfante ingrato!» squittì mami.
Rotaug disse, gelido: «Si ricorda, signor Herford, di quello che le ho detto un giorno, tanti anni fa... "... un ragazzo in gamba. Ma si ricordi queste mie parole: 'un giorno questo ragazzo in gamba ci procurerà il più grande scandalo della storia del nostro giornale...'."» Furbo d'un Rotaug, tu li conosci gli uomini, eh?! E infatti quel giorno era arrivato. «Bene, ora basta» sbraitò Herford, stravolto dalla rabbia. «Roland, in considerazione del suo comportamento, le annuncio che io la...» Guardai Bertie ed Hem. Bertie mi rispose con un'occhiata triste, Hem chiuse per un attimo gli occhi. Era un segno per dirmi che approvava quello che stavo facendo e dicendo. Non poteva fare altro. Era l'unica cosa che mi restava ancora da fare. E dissi: «Non ha nessun bisogno di dirmi che mi licenzia, Herford. Me ne vado io. Io! Immediatamente! Mi faccia pure pignorare tutto! Mi denunci! Mi diffami! Faccia quello che vuole. Non ne posso più, mi viene da vomitare. Mi stia bene. Anzi: non mi stia bene». E mi avviai, passandogli davanti, lungo lo smisurato tappeto, verso la porta. «Roland!» mi urlò dietro. Continuai a camminare, passo dopo passo. Basta, basta, basta, batteva il mio cuore. «Roland si fermi! Immediatamente!» strillava Herford. Proseguii. Basta. Basta. Basta. Facciamola finita. «Roland, le ho detto di fermarsi!» Mi fermai. Mi voltai. Era fermo accanto alla scrivania, ansante, una mano premuta sul petto, pallido come un morto. La sua altra mano cercava febbrilmente la scatola delle pillole. Mami si affrettò a farglisi vicina e a sorreggerlo per un braccio. «Herford le ordina, immediatamente...» cominciò Herford, a fatica, ma io l'interruppi, senza nemmeno alzare la voce: «Signor Herford...». «Si... cosa... c'è?» «Vada all'inferno, Herford» dissi io. E poi mi voltai di nuovo e me ne uscii da quell'ufficio. E mi parve che a ogni passo che facevo mi scuotessi di dosso la rabbia, il complesso di colpa e le umiliazioni di un anno intero. Ora mi sentivo benissimo, sempre meglio, sempre meglio. 5 La comunicazione del licenziamento in tronco mi raggiunse quello stesso giorno, raccomandata e per espresso, firmata dal dottor Rotaug, il quale
mi intimava anche di presentarmi il giorno seguente, alle dieci, nel suo ufficio al giornale. Irina si spaventò, ma mi riuscì di calmarla: ero ancora molto euforico. Basta Blitz! Fine con Blitz! Tutto il resto si sarebbe sistemato in qualche modo, pensavo. E infatti mi hanno sistemato: eccome! Quando, il giorno seguente, giunsi alla sede del giornale, salutai gentilmente il gigantesco portiere Kluge, che conoscevo da tanti anni: gli avevo dato un patrimonio di mance. Il signor Kluge tuttavia parve non riconoscermi, e mi fece aspettare per qualche minuto, mentre chiacchierava con dell'altra gente. Poi: «Ah, signor Roland...». Consultò una lista. Mi squadrò con somma indifferenza. «Leggo qui che lei è stato licenziato in tronco. Mi deve restituire la chiave dell'ascensore.» «Be'? Che tono è questo?» «Signor Roland, per favore! La chiave!» Che caro signor Kluge! Gli consegnai la chiave del "lanciacapi" e lui non mi ringraziò neppure, ma si rivolse a una giovine signora la quale stava spiegando di voler fare da Blitz un periodo di volontariato. Mi avviai verso il "montacarichi del proletariato", di fronte al quale c'erano sette persone, e attesi pazientemente con quei sette che lo squallido ascensore arrivasse. Arrivò dopo quattro minuti. C'infilammo nella cabina puzzolente, pigiati come sardine, e salii così fino al reparto del dottor Rotaug. Tutte le persone che erano nell'ascensore evitarono di guardarmi. Nessuno aprì bocca. Rotaug mi fece attendere esattamente un'ora e mezza, poi finalmente trovò un po' di tempo anche per me. Quando entrai, lo vidi rigido e ostile in mezzo al suo ufficio rivestito di mogano. Non mi porse la mano. M'indicò la sedia più scomoda che c'era e, dopo che mi fui seduto, prese a marciare su e giù, rigido sulle gambe, continuando a infilarsi le dita nel colletto o a giocherellare con la bella perla fissata sulla cravatta. Sprizzava gelo e trionfo da tutti i pori. Non mi aveva mai potuto soffrire, e ora si studiava di spiegarmelo per bene. Fu proprio una simpatica conversazione, la nostra. Rotaug pretese l'immediata restituzione dei 210 mila marchi che avevo avuto d'anticipo, e pretese anche che sgomberassi immediatamente l'appartamento di proprietà della società editrice. «Io non ho 210 mila marchi. Lei lo sa benissimo.»
«Certo che lo so, signor Roland. Non ho molto tempo da perdere qui con lei; ho molto da fare. Ci sono due sole possibilità...» E me le illustrò. La prima possibilità era che la casa editrice mi citasse a giudizio. Abitavo in un appartamento di servizio, il nostro rapporto di lavoro era cessato a causa del mio «comportamento inqualificabilmente vergognoso», e quindi non avevo più alcun diritto di starmene in quell'attico. Il tribunale mi avrebbe condannato a far fronte agli impegni nei confronti della casa editrice, in modo da pagare almeno in parte i miei debiti. Inoltre avrei dovuto prestare giuramento che avrei continuato a pagare con ogni mio ulteriore introito; e restarmene disponibile, in ogni momento, a verifiche da parte degli ufficiali giudiziari, i quali avrebbero avuto il diritto di pignorare denaro e quant'altro avessi nel frattempo guadagnato o acquistato. «Dal momento che mi appare assai improbabile che lei possa poter disporre, entro un periodo di tempo ragionevole, di notevoli somme di denaro» disse Rotaug «le consiglio di approfittare della seconda possibilità che rappresenta, da parte della casa editrice, un modo di venirle incontro che lei non ha affatto meritato.» «E che sarebbe?» «Lei dichiara di riconoscere fondate le nostre richieste. Sgombera entro dieci giorni l'appartamento. I mobili, i tappeti e tutto il resto rimane di nostra proprietà. Lo stesso dicasi per il denaro contante o gli oggetti preziosi che vi fossero. E anche la sua automobile naturalmente. Tutta roba comunque che non basterà a compensare i 210 mila marchi. Lei si presenterà al nostro notaio e firmerà una dichiarazione in cui affermerà la sua disponibilità a ogni intervento di natura esecutiva da parte nostra, per il ricupero del nostro credito. Ove lei accettasse questa soluzione, il signor Herford, nella sua generosità è pronto a lasciarle gli oggetti d'abbigliamento, la macchina da scrivere e una parte della sua biblioteca. Io le consiglio di accettare quest'immeritata proposta di accomodamento da parte dell'editore. Attendo una sua risposta. E si spicci a decidere. Ho fretta.» Quel porco infame. «Accetto la generosa proposta del signor Herford.» «Bene. Una cosa ancora. Saremmo propensi a fare un notevole sacrificio - notevole se rapportato alla sua attuale disperata situazione - qualora lei acconsentisse di lasciare che la società editrice di Blitz possa usare il suo pseudonimo Curt Corell.» «Perché voi possiate sbatterlo sotto TUTTO SULL'UOMO, eh?»
«Naturalmente. Corell è un nome famoso ormai, e noi lo abbiamo reso tale, come lei sa perfettamente. Senza di noi e il nostro aiuto, lei sarebbe rimasto sempre uno zero. Dunque?» «No.» «Lei non è disposto a cederci quel nome? A nessuna condizione? A nessun prezzo?» Corell! quel nome doveva sparire. Per sempre! Doveva, doveva, doveva! «No!» ripetei. «Quel nome mi appartiene. E sparirà con me. E se per caso voi osaste utilizzarlo nonostante il mio esplicito diniego...» «Va bene, va bene» disse Rotaug. «Non credo proprio che lei sia nella condizione di potersi mettere a fare il bulletto. Sopravviveremo anche senza Curt Corell. Che lei ci riesca, lo dubito. E ora, mi consegni i documenti della macchina e le chiavi. La Lamborghini resterà qui, immediatamente. Questo pomeriggio verrò da lei con dei periti giurati, così vedremo quanto vale la sua proprietà. E ovviamente questo pomeriggio mi consegnerà anche i nastri registrati, nella misura in cui abbiano un qualche legame con quest'ultimo caso, ed inoltre tutti gli appunti scritti che possiede. Ha il suo libretto degli assegni in tasca?» «Sì.» «Chiami la sua banca e si faccia dire quanto denaro ha sul suo conto. Io ascolterò all'altro ricevitore.» Telefonai. E poiché l'impiegata, addetta al gruppo di conti fra i quali c'era il mio, mi riconobbe dalla voce, ottenni l'informazione. C'erano circa 29 mila marchi sul conto: avevo dovuto prelevare poco prima una somma notevole per pagare le tasse. Il dottor Rotaug mi fece fare un assegno per 20 mila marchi, che intascò. Gli altri 9 mila marchi rimasero a mia disposizione, grazie alla sua magnanimità. «Ha degli altri conti in banca?» «No.» «Stia bene attento. Se lei mente e noi scopriamo che ha un altro conto, la denunceremo. Inoltre dovrà rilasciarci, anche a questo proposito, una dichiarazione giurata.» Mi limitai ad annuire. L'idea di travasare immediatamente, su altri nastri, l'intero contenuto di quelli che avevo registrato, era venuta a Bertie. Aveva passato la notte intera a farlo. Hem, a casa sua, aveva fatto fotocopie di tutti i miei appunti. «Non appena la sua proprietà sarà stata stimata, andremo, domani stesso,
dal notaio» disse Rotaug. «Anche se è sabato. È la nostra disposizione. Questo è tutto. Verrò coi periti alle tre.» Dopo di che marciò fuori dal suo ufficio. Io mi alzai e me ne andai. Non una delle segretarie rispose al mio saluto e - nel "montacarichi dei proletari" col quale scesi - le altre persone presenti evitarono di guardarmi. Scesi nel garage sotterraneo, a dare un'ultima occhiata alla mia Lamborghini. Passai una mano sulla carrozzeria: una carezza. E me ne andai in fretta. Feci a piedi tutta la lunga strada che mi separava da casa. Era una giornata fredda, e l'aria fresca mi fece bene. Un pensiero mi consolava. In quell'attico che non era ormai più mio, c'era una cassaforte a muro. Vi conservavo sempre del denaro contante e inoltre tre brillanti, non montati, perfetti, per un totale di circa quattro carati. Avevo già dato quelle pietre (e anche 12 mila marchi) a Bertie, perché me le conservasse. Irina aveva cucinato fegato alla portoghese e cercò, coraggiosamente, di inalberarmi una faccia allegra. Anch'io finsi di essere senza pensieri. E infatti, per il momento, lo ero ancora. E avevo anche un formidabile appetito. Alle tre in punto arrivarono i due periti assieme a Rotaug. I due giovanotti lavorarono molto in fretta. Non mi stupii nell'apprendere che tutto quello che man mano prendevano in considerazione valeva soltanto una piccola frazione di quello che avevo speso per l'acquisto. Un terzo perito aveva nel frattempo valutato la Lamborghini 15 mila marchi, mi disse Rotaug. La macchina m'era costata 58 mila marchi. Ma che ci potevo fare? Rotaug completò coi periti l'inventario e infine mi comunicò che, fatte tutte le debite deduzioni, il mio debito verso la casa editrice si riduceva a 125 mila marchi. Portò via subito con sé i nastri registrati e le agende con gli appunti: per fortuna Bertie ed Hem mi avevano riportato tutto in tempo. Il mattino seguente mi presentai al notaio, e firmai disciplinatamente la dichiarazione di debito e la mia disponibilità ad atti esecutivi per il ricupero di quella somma. Sottoscrissi anche una dichiarazione giurata che non avevo valori nascosti o altrimenti sottratti alla procedura. Fu una dichiarazione che firmai a cuore particolarmente leggero. Due cose ancora mi restano da dire: il guardaroba che mami aveva procurato a Irina non fu pignorato. La casa editrice saldò il conto senza fare una piega, automaticamente, così come continuò a versare gli importi relativi alle spese di soggiorno in prima classe, nella clinica psichiatrica, della signorina Luise. In un'azienda di grandi dimensioni come Blitz accadono di queste cose: si dà incarico a un piccolo impiegato di fare un certo lavoro,
ci si dimentica di revocare l'ordine, e così il piccolo impiegato continua a fare quello che gli era stato detto... Fu così che finì, dopo quattordici anni, la mia carriera di «grande firma» presso Blitz. Mi pare che sia stata una conclusione assolutamente degna. Tornai nell'attico, che per altri nove giorni sarebbe stato ancora nostro. Mi sforzai di essere allegro e anche Irina si sforzò di essere di buon umore. Cercammo di mostrarci reciprocamente tranquilli e spensierati. In qualche modo ci saremmo sistemati. Sarebbe proprio da ridere, pensavo, se non riuscissi a sistemarmi in qualche modo. E continuai a pensarlo, fino a quando venne il postino, nel primo pomeriggio. Nella repubblica federale di Germania - dovete sapere - c'è un giornaletto, che pubblica notizie e pettegolezzi relativi al mondo dei giornalisti. Noi tutti ovviamente eravamo abbonati. Con la posta del pomeriggio mi giunse l'ultimo numero. Herford doveva aver reagito con velocità fulminea: sta di fatto che quell'ultimo numero del giornaletto sui fatti interni dell'editoria e del giornalismo aveva un inserto di due pagine: sotto il titolo Ultime notizie, c'era un articolo interamente dedicato a me. «La fine di Walter Roland?» diceva l'introduzione. E tutto l'articolo era redatto con la stessa malizia giuridica rappresentata da quel punto interrogativo. Era pieno zeppo di «pare che», «evidentemente sembra», «si ha la sensazione di»... Ogni frase insomma era legalmente schermata, e di una infamia inimmaginabile, pur avendo io sempre creduto quella gente capace di tutto. Rotaug aveva composto, con quell'articolo, il suo capolavoro. Sembrava dunque, alla luce degli ultimi avvenimenti, che a Blitz fossero ormai convinti d'una cosa che si sospettava da tempo e di cui si chiacchierava da mesi e mesi: l'alcool aveva definitivamente distrutto la mia brillante carriera. Ero ormai ridotto al rango d'un ubriacone irresponsabile, sleale, amorale, sfrenato e assolutamente indegno di fiducia, prossimo al crollo finale e non più in grado di scrivere come una volta. Avevo offeso nella maniera più volgare il mio editore allorquando lui mi aveva fatto delle osservazioni ispirate dalle migliori intenzioni, tanto che - sia pure a malincuore - era stato costretto a separarsi «dall'uomo che era stato un tempo il fiore all'occhiello del giornale, ma che ora rappresentava ormai soltanto un continuo pericolo». E avanti così: per due pagine intere. Lessi il tutto due volte, bevendo e pensando che ora dovevo naturalmente querelare quel bollettino d'informazioni; e naturalmente anche Blitz. Ma subito dopo pensai anche a cosa
avrei potuto ottenere con quella querela, che Rotaug e quelli del bollettino avevano - naturalmente - preventivato. Poiché il giornaletto tendeva sempre al fallimento, Blitz doveva avergli fatto una consistente iniezione di denaro, e certamente anche garantito assistenza legale in caso di processo. Ero assolutamente sicuro che Herford aveva persino previsto la possibilità di perdere il processo e di trovarsi così costretto a pubblicare una smentita solenne. Ma prima che un processo del genere potesse concludersi, sarebbero trascorsi mesi e mesi, durante i quali le illazioni del bollettino sarebbero rimaste senza una replica. Ed è su questo che Herford contava soprattutto, per vendicarsi! Non gliene importava niente, neanche di un'eventuale condanna al risarcimento dei danni: avevo ancora abbastanza debiti con lui. E poteva persino darsi che Blitz non perdesse affatto la causa, perché quelle affermazioni, fatte con diabolica abilità, erano in parte anche vere. Ma quand'anche avessi vinto e fossi riuscito a ottenere la pubblicazione di una smentita: che avrei potuto farmene, di una smentita, dopo tanti mesi? E chi aveva mai preso sul serio una smentita nel mondo del giornalismo e dell'editoria? Ero stato licenziato in tronco: un fatto incontrovertibile, attorno al quale c'era poco da cavillare. Tutto il resto non aveva alcuna importanza. In fondo doveva pur esserci stato un motivo maledettamente importante, se Herford aveva cacciato sui due piedi la sua firma più nota... Fu allora che, da un momento all'altro, mi saltò alla gola. Mi strozzò il respiro, m'indusse a portarmi ansimante le mani alla bocca. Mi colmò di paura, tanta paura, una paura mortale, riducendomi a una larva disarmata, in preda a una debolezza spaventosa. Mi afflosciai sulla poltrona. Lo sciacallo era venuto senza alcun preavviso. 6 Quello che accadde poi non lo dimenticherò mai più, dovessi campare cent'anni. L'inizio fu quello di sempre. Mi svestii più in fretta che potevo, ingoiai venti milligrammi di Valium, m'infilai a letto e mi distesi, immobile, sulla schiena, tentando di respirare a fondo e di non perdere la calma, domando la paura col richiamarmi alla memoria tutte le altre analoghe situazioni in cui m'ero trovato e dalle quali ero - bene o male - uscito vivo. Irina accorse, spaventatissima, e in poche balbettanti e smozzicate parole le spiegai che si trattava di un attacco che a volte mi prendeva, a causa del troppo bere. Quindi, qualunque cosa fosse successa, non doveva chiamare un medico: l'intero ambiente giornalistico tedesco stava già divertendosi
all'idea che fossi un ubriacone, senza che occorresse dare altre conferme. Lei si dimostrò molto preoccupata, ma mi promise che non avrebbe chiamato un medico. E poi tentai di addormentarmi. Ma non ci fu verso di dormire. E le mie mani umide di sudore si misero a tremare. Testardo e deciso, riuscii però a evitare di ingoiare del whisky: presi invece altri venti milligrammi di Valium, e poi altri venti ancora. Dopo di che sprofondai in un sonno animato da incubi orribili, dei quali non ricordo nulla se non che, in quei sogni, morivo quasi sempre di paura. Quando mi svegliai, Irina era seduta accanto al mio letto, mi asciugava il sudore dalla fronte. Mi diede del succo di frutta da bere. Avevo dormito tre ore: tre ore con sessanta milligrammi di Valium! Tentai di alzarmi e caddi quasi a terra. Irina dovette sorreggermi. In bagno mi travolse la nausea e dovetti vomitare a lungo, benché non avessi quasi niente nello stomaco. Decisi di prendere altro Valium, a stomaco vuoto, ma il tubetto mi scivolò di mano e si spezzò. Irina raccolse le piccole pastiglie blu e me le diede. Quindi mi riportò nel letto che aveva nel frattempo cambiato di biancheria, perché l'altra s'era intrisa di sudore. Irina. Ogni volta che mi svegliavo terrorizzato da uno di quegli incubi, me la trovavo seduta accanto, mi portava da bere, da mangiare, insisteva perché bevessi e mangiassi. Anche se poi dopo vomitavo tutto! Mi conduceva anzi, mi trascinava - in bagno e mi riaccompagnava in camera: e sempre, ogni volta, mi rifaceva il letto. Disse poche parole, ma continuò a sorridere, sempre, benché io vedessi che aveva gli occhi pieni di lacrime. Irina. Non so come abbia potuto mantenersi sveglia: so solo che lo era, ogni volta che aprivo gli occhi. Era andata a prendersi il materasso del letto nella stanza degli ospiti, e anche lenzuola e coperte. Il materasso era ai piedi del mio letto, e me la trovavo seduta accanto, vicina, molto, molto vicina, ogni qualvolta riprendevo conoscenza. Irina. Riprendevo conoscenza, ma non si trattava di momenti di lucidità reale. I miei sensi erano sempre più confusi, e anche quando ero sveglio continuavo a vivere gli orribili avvenimenti dei sogni e degli incubi che mi perseguitavano. Incubi angosciosi, sempre presenti, nel sonno e nella veglia. S'intrecciavano alla realtà, e capitò così che insultai Irina a volte, la maledissi. Giurai d'odiarla. Le dissi di andarsene. Ma Irina non mi prese mai sul serio.
Irina. Oltre al Valium, presi altri sonniferi, di tutti i tipi. Ma gli incubi divennero soltanto più gravi, esattamente come la trasudazione, il tremito, la paura. I miei occhi non funzionavano più. La mia stanza m'appariva a tratti piccolissima, a tratti enorme. Avevo la sensazione che il mio letto fosse orientato diversamente. Tutti gli oggetti assumevano aspetti distorti e colori diversi: persino il volto di Irina. «Vuoi che ti porti del whisky?» mi chiese una volta, all'inizio della terza di quelle interminabili crisi. «No» dissi io, e la saliva mi scorreva sul mento. «No. No. No. Non voglio. Devo farcela così. Lo sciacallo deve andarsene anche così. Dammi del Valium.» Mi diede del Valium, ma lo sciacallo non se ne andò e le mie condizioni divennero anche più terribili. Sognavo gli inferni di Breughel e di Dante insieme; ma che dico: quegli inferni erano niente al confronto dei miei, e quando riprendevo conoscenza l'inferno non cessava. Ormai riuscivo a muovermi soltanto coll'aiuto di Irina: doveva sorreggermi e sostenermi, anche in bagno, e lo fece senza un gesto o una parola di ribrezzo o di stizza. Mi vergognavo, ma lei mi dimostrava solo preoccupazione e pena, mai impazienza o stanchezza, nemmeno nelle fasi peggiori: quando fui colto da coliche intestinali, da conati di vomito tremendi, e sporcavo dappertutto. Lei puliva, tutto. Irina. Gli incubi divennero insopportabili. Sentivo il fetore direttamente dalle fauci spalancate dello sciacallo che mi giaceva accanto nel letto, mi leccava il volto, mi soffocava quasi a morte. Ma Irina era sempre lì: con un succo di frutta, un brodo, oppure una fetta di pane bianco con burro e miele. Non desisteva sino a quando non mangiavo o bevevo, qualunque cosa poi accadesse. Non riuscivo più a distinguere la luce elettrica da quella naturale, non sapevo nemmeno più se era giorno o notte, e dovevo chiederlo a lei. Improvvisamente, alla fine del secondo giorno, il mio cuore cessò di battere. Lo so, non cessò di battere, è ovvio, altrimenti sarei morto: ma la sensazione fu quella, e fu la più spaventosa che mi sia mai capitato di provare. Tutto mi si fece nero attorno, e con la bocca spalancata annaspavo alla ricerca di aria, aria, aria: ma non riuscivo a respirare. Mi strinsi la mani bagnate sul petto bagnato, il mio corpo - è una cosa che ricordo abbastanza
bene - cominciò a torcersi e ansimai: «Aiuto... aiuto... aiuto...». Poi crollai, e subentrò la pace. 7 I due giorni successivi mancano nella mia vita. Li ho vissuti, ma tutto quello che so di quelle 48 ore, lo so perché me lo ha raccontato Irina, che continuò a vegliare al mio capezzale, un'ora dopo l'altra, senza mai lasciarmi solo. Mi ha detto che ho dormito in quei due giorni e in quelle due notti, ma continuando a urlare nel sonno, gettandomi da una parte all'altra del letto. A volte mi svegliavo, e lei mi conduceva in bagno, oppure mi dava da bere e da mangiare. Mi aveva perfino fatto la barba. Quando, il quarto giorno, ripresi conoscenza, non sapevo niente di tutte queste cose. Eppure dovevano essere accadute, perché ero ben rasato, indossavo un pigiama pulito, il letto era rifatto. Ai miei piedi, sul suo giaciglio improvvisato, scorsi Irina, distesa vestita sul materasso. Si era addormentata dalla stanchezza. La luce era accesa. Nel momento stesso in cui mi mossi, si svegliò: e immediatamente riapparve il sorriso sulle sue labbra. «Cosa... cosa c'è?» «Sto meglio» dissi io, con stupore infinito. «Credo di stare un po' meglio.» Cacciò un urlo di gioia, si recò di corsa in cucina e poco dopo tornò con un pasto leggero. Nel mangiare, mi accorsi di quanto fossi ancora debole, di come mi tremavano le mani, del sudore che riprendeva a scorrermi sul corpo. Ma lo sciacallo - me ne avvidi subito - si era ritirato un poco. Presi un'altra incredibile dose di Valium e riuscii a dormire sino al mattino seguente, quando - per la prima volta - fui di nuovo capace di raggiungere il bagno da solo, sia pure appoggiandomi alle pareti e sostenendomi dappertutto. Le mie ginocchia si piegavano, ero coperto di sudore, ma fui in grado di farmi la barba stando in piedi, e di lavarmi. Poi, a tastoni, tornai a letto e caddi in un nuovo sonno lunghissimo, vuoto di sogni e di incubi. Quella volta dormii ventiquattr'ore filate, perché quando mi svegliai era la mattina del quinto giorno, giovedì 28 novembre 1968: una data che non dimenticherò mai. Una luce grigia entrava dalla finestra, nella stanza le lampade erano accese, Irina s'era addormentata sul suo materasso e non si svegliò nemmeno
quando mi alzai. Ed avvenne il miracolo. Mi ritrovai saldo sulle gambe, riuscivo a camminare e a reggermi bene, non mi sentivo più male, non sudavo più, il mio cuore batteva tranquillo e regolare, respiravo senza difficoltà. E avevo fame! Preparai una gigantesca colazione per Irina e me. Mentre aspettavo che l'acqua per il caffè bollisse, mi recai al bar e nella dispensa, presi tutte le bottiglie di whisky e di altri liquori che trovai, le infilai tutte nel lavandino della cucina, presi un gran martello e le spaccai tutte, una dopo l'altra. Infine raccolsi tutte le schegge e i frammenti, con precauzione. E fu quella l'ultima volta che dovetti vomitare, nel sentire l'odore dell'alcool mentre lo facevo scorrere giù dal lavandino. Andai in bagno, a lavarmi i denti. E m'accorsi che qualcuno mi stava osservando. Era Irina. «È passata, credo» dissi io. Mi corse incontro, mi strinse fra le sue braccia, mi coprì di baci e continuò a dire: «Grazie, grazie, grazie...». Soltanto grazie. Non le chiesi chi ringraziava. Lo ringraziai anch'io. Facemmo colazione in cucina. Avevo un grande appetito. Ridemmo e scherzammo per tutto il tempo. I cinque peggiori giorni della mia esistenza erano passati. E lo sciacallo non è più venuto: mai più. 8 Irina e io fummo ospitati da Hem, nella sua grande casa. Mise a nostra disposizione due stanze: una nella quale Irina e io potessimo dormire, l'altra perché ci potessi lavorare. Quando lasciammo l'attico, due impiegati della casa editrice controllarono che non portassimo via oggetti che erano elencati nell'inventario di Rotaug. Quindi portammo con noi ben poco: bastarono alcune valigie. Trasferimmo le valigie, i miei abiti, il guardaroba di Irina e i libri in casa di Hem, servendoci della macchina - una Mercedes - di Bertie: tre viaggi furono sufficienti. Dovetti consegnare a quegli impiegati le chiavi di casa. Ne ebbi delle altre in cambio: da Hem. Traslocammo il lunedì successivo alla prima domenica d'Avvento. La casa di Hem era arredata all'antica. Nella camera c'era il grande letto matrimoniale nel quale aveva dormito con sua moglie. Ora si era sistemato in un'altra stanza, dall'altra parte dell'abitazione. Irina e io restammo soli,
perché il lunedì è giorno di chiusura al giornale, ed Hem e Bertie ebbero molto da fare in redazione. Sapevo che Hem sarebbe rientrato molto tardi. Verso sera divenni nervoso, e il nervosismo crebbe man mano, perché pensavo che avrei dovuto andare a dormire con Irina, in uno stesso letto. Ed era un pensiero che mi angosciava. Cercavo di dirmi che ci amavamo e che quindi sarebbe stato normalissimo fare anche quello. Ma continuava anche a venirmi in mente che il bambino che Irina aveva in ventre era di un altro uomo e non mio. Avevo una voglia matta di fare all'amore con lei, ma dovevo anche considerare tutto quello che c'era stato in precedenza. Quando il momento venne, lasciai che Irina andasse in bagno per prima. Poi ci andai io e pensai a quello che avrei voluto dirle, che mi sarei astenuto dal toccarla cioè, e che avrei atteso fino alla nascita del bambino: anche se c'erano da aspettare ancora sei mesi. Non potevo sapere se, standomene notte dopo notte al suo fianco, sarei stato capace di resistere. Ma se non ce l'avessi fatta, avrei potuto sistemarmi sul divano che c'era nello studio. Finalmente raggiunsi Irina. Aveva spento tutte le luci, meno quella sul comodino, e giaceva sul letto completamente nuda. «Vieni, Walter» disse, e allargò le braccia. E così accadde quello che doveva accadere, nel modo più semplice, più bello e più giusto. Mi sentii come se non avessi mai fatto all'amore prima di allora, e continuammo ad amarci e ad amarci ancora. Ero come invasato. E a Irina accadde lo stesso. Quello di cui avevo avuto tanta paura si rivelò meraviglioso. La cosa più meravigliosa che io abbia mai provato in vita mia. Per un momento, al culmine di un orgasmo, ebbi come la sensazione di dover morire, e pensai che così sarei morto volentieri: ma non potevo permettermelo, perché ora avevamo un bambino. Infine Irina si addormentò fra le mie braccia. Io rimasi sveglio ancora a lungo, nel buio, e mi sentivo felice, tanto felice. Poi devo essermi addormentato anch'io, perché quando un movimento mi svegliò e aprii gli occhi, il quadrante luminoso dell'orologio che era sul comodino indicava le tre. Irina era seduta accanto a me, le mani giunte. «Cosa c'è, amore?» chiesi io. «Non stai bene?» «Sto benissimo» disse lei. «Cosa fai?» chiesi io, e le misi un braccio sulle spalle. «Ho pregato» disse. E poi, in fretta: «Ma non posso dirti perché». «No, naturalmente no» dissi io. Tacemmo a lungo, e poi Irina disse: «Non è vero».
«Cosa non è vero?» «Quello che tu hai detto una volta ad Amburgo. Che a questo mondo c'è solo malvagità. Non è affatto vero! Ci sono anche l'amicizia, l'onestà e l'amore...» Poi sussurrò: «Perché se davvero ci fosse solo malvagità a questo mondo, allora da tanto, tanto tempo non esisterebbero più gli uomini. Neanche un solo essere umano. Ed invece ci vivono ancora in tanti, tanti...». Tacemmo di nuovo, io tenni ancora il mio braccio attorno alle sue spalle e ci mettemmo a guardare fuori dalla finestra dove la neve cadeva, senza soste, in silenzio. 9 «Signor Roland!» La signorina Luise mi guardava, raggiante. «Sono così contenta che sia tornato. Ho sentito la sua mancanza.» «Non ho potuto venire prima. Sono stato malato per qualche giorno...» «Malato?» «Niente di grave. E poi ho avuto molto da fare. Altrimenti sarei venuto prima.» Ero seduto a un tavolo, di fronte alla signorina Luise, nella sua stanza. Indossava un vecchio tailleur grigio e le pantofole. Fuori in cortile e sui rami spogli degli ippocastani c'era un sottile e gelato strato di neve. Faceva troppo freddo perché nevicasse ancora. «Nel frattempo non è venuto nessun altro a trovarla?» chiesi io. «Oh sì. Il signor pastore, e il signor Kuschke, l'autista. Mi hanno portato alcune delle mie cose da mettermi addosso. Così cari, tutti e due. Ma avevano tanta fretta. Hanno molto da fare anche loro, sa, signor Roland... Però è triste. Mi sento così sola, qui. Nessuno che si occupi di me. Perché non ho più nessun parente e nessun amico.» Quand'ebbe detto quest'ultima parola, la guardai attentamente. Non reagì in alcun modo. Aveva senza dubbio pronunciato quella parola senza darle quel particolare significato che aveva avuto una volta per lei. «Per questo sono così contenta che lei sia venuto.» Appoggiò la sua piccola, vecchia mano sulla mia e mi sorrise. «Come si sente, signorina Luise?» «Oh, bene. Molto bene, sul serio» disse. E in effetti aveva l'aria di star bene, di essersi ripresa. «E sono anche tanto contenta di essere sistemata così comodamente...»
Si chinò in avanti, verso di me, e abbassò la sua voce in un sussurro confidenziale. Anzi: da cospiratrice. «Eppure, signor Roland,» mi disse «qui le cose non vanno come sembrano...» Era il pomeriggio del 9 dicembre, un lunedì. Bertie mi aveva prestato la sua macchina, con la quale avevo raggiunto Brema. Nei giorni precedenti avevo avuto molto da fare. Irina e io eravamo stati all'anagrafe. E ci avevano spiegato che potevamo sposarci solo se Irina avesse dichiarato, davanti a un notaio, di non essere già sposata, e dopo aver esibito un certificato anagrafico. E poiché non disponeva di quel certificato, dovevamo rivolgerci alla corte d'appello, facendo istanza che la sollevassero dall'obbligo di produrre il documento. Perché l'istanza fosse accolta, ci volevano alcuni mesi. Ma poi era saltato fuori che Hem conosceva un tale in tribunale, e gli aveva chiesto di adoperarsi perché la nostra richiesta fosse esaminata con sollecitudine. Hem era addirittura innamorato di Irina. La sera quei due se ne stavano seduti insieme per delle ore a raccontarsi storie, oppure Hem suonava per Irina il violoncello e i dischi con la musica di Schoeck. Le mostrava grandi riproduzioni a colori di quadri o di sculture che ritraevano la Madonna, scelti nei grandi volumi d'arte della sua biblioteca. Lo faceva perché il bambino di Irina divenisse bello come i più belli fra i tanti Gesù ritratti su quei quadri in grembo alla Madonna. Era fermamente convinto che questo espediente servisse. Irina intanto si era messa a lavorare, come ragazza tuttofare, presso uno specialista di psichiatria infantile, dalle 9 alle 18 di ogni giorno. Il medico non poteva impiegarla come vera e propria assistente, ma aveva assoluto bisogno di qualcuno che lo sollevasse dalle incombenze burocratiche connesse al suo lavoro. E pagava da gran signore. Irina aveva espresso con irremovibile fermezza la sua volontà di mettersi a lavorare. Quando fosse venuto il momento del parto, avrebbe smesso per qualche tempo. E dopo voleva anche riprendere a studiare. «E adesso come adesso abbiamo bisogno di ogni marco che riuscirò a guadagnare» mi aveva detto. «Fino a quando tu riavrai un lavoro.» Ma non sembrava proprio che potessi riuscire a trovare lavoro abbastanza presto: nessuno si fece vivo per offrirmelo. Herford e la sua banda non avevano trascurato nulla. Per il mondo del giornalismo era come se fossi morto. E invece ero più vivo e attivo che mai. Scrivevo come un ossesso la mia storia, ogni giorno: da mattino a sera.
Non avevo idea di cosa ne avrei fatto, non sapevo immaginarlo: ma qualcosa m'induceva a scrivere, più in fretta che potevo. Doveva esserci un sesto senso che mi frustava. Come punti di riferimento avevo le fotocopie dei miei appunti e i nastri sui quali erano state riversate le registrazioni. Tenevo sempre il registratore accanto a me, su un tavolo, vicino alla macchina da scrivere, a ridosso della finestra dello studio. Le cassette coi nastri erano ammucchiate a fianco del registratore. Bertie, ogni volta che aveva un po' di tempo, si sedeva accanto a me e leggeva quello che avevo scritto: mi aiutava a correggere e a integrare il tutto, attingendo ai suoi ricordi e a quanto aveva direttamente visto e udito. Era sorta così una forma di collaborazione. Il 5 dicembre apparve la prima puntata di TUTTO SULL'UOMO, con la copertina che ritraeva Max e la fascetta che copriva il suo Johnny. Herford aveva ordinato di aumentare la tiratura di 100 mila copie: e lunedì non si trovò più una copia da comperare. Venduto tutto. Stamparono altre 50 mila copie. Quella serie divenne la sensazione del momento. Lester aveva fatto acquistare in tutta fretta tre opere americane e una svedese, tutte su quel tema. Quattro giornalisti - due uomini e due donne - erano stati riuniti in un team. Scrivevano tutta l'inchiesta in collaborazione, e la firmavano Olaf Kingström. Quei quattro copiavano dappertutto, diceva Hem. Prendevano di peso, dal materiale di cui disponevano, le parti più succose, riforniti in continuazione di altra documentazione che la Mertzen scovava nel suo archivio. «Questa serie è merda pura» diceva Hem. «Abborracciata, in parte tradotta male dall'inglese, e comunque sempre male dallo svedese. Le frasi e i periodi di raccordo fra una scopiazzatura e l'altra sono scritti dal team in modo primitivo e sciocco. Ma che ci vuoi fare? La nostra consulta femminile è entusiasta, e sono entusiasti i lettori. Il che ti dimostra ancora una volta quanto sia vero il mio vecchio discorso: lo stile non conta un accidenti. Che una cosa sia scritta nel peggiore dei modi, non conta: a patto che interessi il contenuto.» Già, e quel contenuto interessava molto sua maestà la lettrice. A me l'intera vicenda confermava una mia vecchia opinione: non esiste nessuno che sia insostituibile. Nell'ambiente di Max e Tutti, la copertina suscitò un putiferio clamoroso, naturalmente. Max mi riferì che, il venerdì in cui il giornale era uscito in edicola, gli avevano telefonato per tutto il giorno, dal mattino sino a sera, in pratica da tutta la Germania. Gli aveva telefonato gente che non ve-
deva da anni. Gli avevano spedito telegrammi. Tutte felicitazioni per la sua bella carriera. «Tutti continua a piangere» spiegò Max. «Dice che non se lo sarebbe mai sognato di avere rapporti con una personalità famosa. Rapporti intimi. E mi dice di non farmi cogliere da manie di grandezza se ora le donne mi rincorreranno a schiere, se si faranno vivi quelli del cinema e così via. Evidentemente non conosce il suo Max! Io sono assolutamente indifferente e tranquillo. Non sono certo il tipo che si mette a darsi delle arie, io. Che c'entro io col mio Johnny? Che merito ho se ce l'ho? Johnny è solo un dono del buon Dio, dico bene?» Man mano, nello scrivere, avevo dovuto soffermarmi sempre di più sulla figura e sul ruolo avuto nella vicenda dalla signorina Luise. Avevo anche tralasciato alcuni capitoli, per inserirli poi in un secondo tempo, ma era infine venuto il momento in cui non avevo più potuto fare a meno di andare a trovarla, per tentare di saperne di più da lei. Già, e quello che mi sentii dire fu quella frase curiosa: «Eppure, signor Roland, qui le cose non vanno come sembrano...». «Che vuol dire?» chiesi io, stupito. «Ce l'ha con gli inservienti? Coi medici? Con le infermiere? Non sono gentili con lei?» La signorina Luise disse: «Parli piano!» e proseguì, sottovoce: «Gentili... oh sì, lo sono. Con me! Però negli ultimi giorni mi sono accorta che le infermiere e gli altri del personale dicono cose assai poco gradevoli delle pazienti, così in generale. Chi mi dice che non lo facciano anche sul conto mio? Forse non me ne sono soltanto ancora accorta...». «Mi pare incredibile» dissi io, parlando a mia volta sottovoce. «Chissà, chissà.» La signorina scosse la sua testa bianca. «Inoltre, signor Roland, ho capito un'altra cosa: fra la gente che c'è qui, non esiste amicizia, amicizia vera. E delle leggi d'una vita superiore non capiscono proprio niente. Sono gente ancorata ai fatti di questa terra.» E insaccò le spalle, triste. «Di questa nostra piccola, miserabile terra» dissi io. «Sì. Purtroppo. Però,» sussurrò lei «c'è anche dell'altro che non va, signor Roland.» «Ma no!» Oddio, pensai, eccola che ricomincia... «Sì, sì» mormorò lei, animandosi. «Ieri sera ho sentito un gran chiacchierio e brontolio fra il personale, in corridoio. E durante la notte alcuni sono andati a sedersi qui accanto, nel cucinino, per parlare. Li ho sentiti at-
traverso la parete. Allora mi sono alzata, sono uscita piano piano in corridoio, e mi sono messa a origliare alla porta del cucinino. Sì, lo so, è una cosa che non si dovrebbe fare. Ma non ho potuto fare a meno di andare a sentire di cosa mai parlottavano così di nascosto.» «E di cosa parlavano?» «Del dottor Erkner» mormorò la signorina, preoccupata. Il suo viso era diventato pallido e tirato. «Parlavano del dottor Erkner, in continuazione.» «E cosa dicevano di lui?» «Alcuni» spiegò la signorina, a disagio, «hanno detto che il dottor Erkner non è affatto un vero psichiatra. Anzi, sarebbe addirittura un falso dottor Erkner.» «Ma non è...» m'interruppi. «E poi cosa ancora?» «Tutto il resto era quasi incomprensibile. Ma erano cose cattive, di questo sono certa. Credo che il dottor Erkner sia in pericolo.» «Ma no!» esclamai io. «Anche la signora Veronika, l'infermiera, l'ha detto.» «Quando?» «Stamattina presto. Non ce l'ho più fatta a star zitta, e così ho raccontato alla signora Veronika - è la più cara delle infermiere, sa - quello che ho sentito e quello che temo.» «E allora?» «E allora mi ha detto "Ma no!", esattamente come lei, signor Roland» rispose la signorina. «E poi mi ha detto di non dire niente al dottor Erkner, altrimenti tutto diverrà più complicato. La prego, mi dica lei, che può significare: più complicato? Quindi il dottor Erkner è davvero in una situazione difficile!» Mi sentivo molto depresso. Avevo sperato di trovare la signorina in condizioni psichiche migliori. E invece la sua mania pareva aver solo ceduto il posto a un'altra: a quella di persecuzione. «Sono certo che no» dissi io. «Ne sono sicurissimo, signorina Luise. Avrà capito male.» «Lo pensa davvero?» «Sì! Spero che non ne abbia parlato al dottore... O lo ha già fatto?» «No. Io... non ho avuto il coraggio di farlo.» Grazie a Dio, pensai. E grazie a Dio si sarà certamente detta anche l'infermiera Veronika. Quella cerca soltanto di evitare che la signorina Luise debba restarsene qui rinchiusa per sempre... Anche se è un po' inconsueto il modo in cui lo fa.
«Lo racconto solo a lei» disse la signorina. «Solo a lei. E sa il perché? Perché mi fido di lei, perché so che non mi tradirà. Forse ha ragione, forse mi sono proprio sbagliata. Ma in una cosa almeno non mi sono sbagliata, e ne sono assolutamente convinta: la gente di qui non ha una scintilla sola di comprensione per i livelli più alti dell'esistenza. Sì sì, ne sono convintissima.» Annuì con insistenza e tacque. Ci fu così una pausa nel nostro colloquio. Finalmente tentai, ma senza molta speranza... «E del mio lavoro, della storia che sto scrivendo, non vuole sapere proprio niente, signorina Luise?» Tutta presa dalle sue nuove preoccupazioni, la signorina mi rispose con uno stanco gesto della mano: «Ah, la sua storia...». «Sì?» «Sono cose di un tempo ormai lontano. Cose svanite, sparite per sempre. Le relazioni, signor Roland, le relazioni fra tutti gli avvenimenti che si sono verificati, non riusciremo a comprenderle mai, fino a quando saremo qui, su questa terra. Per questo sono quasi del parere che non sia bene occuparsi di cose che sono accadute un tempo e che ora sono definitivamente passate. Non crede?» «Si, può darsi» dissi io. C'era ben poco da fare. M'intrattenni ancora un po' con la signorina, su argomenti di poco significato, e poi mi congedai da lei. «Però tornerà a trovarmi, vero, signor Roland? La piego, torni a trovarmi!» Mi faceva pena, e quindi le dissi di si. «Quando, signor Roland? Presto? La prego, torni presto! Forse ci saranno delle interessanti novità che potrò raccontarle.» Dubitavo assai. E mi sbagliavo di grosso. 10 Aveva un'enorme villa a Königstein. È una località fuori Francoforte, ma vicinissima alla città. Ci sono ville stupende in quella zona, una accanto all'altra, immerse in vasti parchi. Quartiere per gente ricca sfondata. Joachim Vanderberg doveva essere molto più ricco di quanto pensassi. Al cancello del parco - ero venuto con la Mercedes di Bertie - dovetti suonare un campanello. Un uomo uscì da una casupola, si avvicinò, mi chiese chi ero e cosa volevo. Dopo che glielo ebbi detto, tornò nella casu-
pola e lo vidi telefonare a qualcuno. Ne uscì di nuovo e aprì il cancello. «Il signor Vanderberg l'attende. La villa è in cima al parco. Può salire.» Mi avvicinai dunque lungo una stradina asfaltata, piena di curve, in salita, in mezzo ad alberi antichissimi. Giunsi infine in un parcheggio ricoperto di ghiaia, davanti alla villa, che pareva un'aristocratica residenza di campagna inglese. Uscii dalla macchina, vidi la porta d'ingresso aprirsi e mi apparve un uomo vestito di blu: grande, massiccio, nero di capelli, con un gran naso e occhi furbi. «Signor Roland! Sono contento che sia venuto. Venga, la prego.» Mi porse la mano e io gliela strinsi. «È certo che nessuno l'ha seguita?» chiese lui. «No, signor Vanderberg. Sono stato molto attento, ma non ho notato nessuno.» «Bene. Non c'è bisogno che tutti sappiano di questo nostro incontro, vero? Per questo le ho chiesto di venire qui a casa mia, e a quest'ora tarda. Non c'è più nessuno del personale.» Mi precedette all'interno. La casa era piena zeppa di oggetti d'arte. Splendidi mobili, tappeti, quadri, arazzi, vasi e statue di Budda. Pareva che Vanderberg facesse collezione di Budda. Mi condusse in un ampio salotto nel quale c'erano molti Budda e un camino. Nel camino era acceso il fuoco, le tende erano tirate e lampade ricoperte di paralumi di seta diffondevano una luce tenue. Ci sedemmo davanti al camino, in due grandi poltrone di cuoio. Vanderberg prelevò da un armadio a muro, che utilizzava come bar, un carrello con delle bottiglie. «Lei beve Chivas» disse lui. «Come fa a...» Si mise a ridere. «Son cose di cui si chiacchiera!» «Evidentemente sono chiacchiere fasulle» dissi io. «Io non bevo più Chivas. Non bevo più alcun genere d'alcoolici.» Mi guardò stupito e incredulo, poi alzò le spalle e chiese cosa desideravo. Gli domandai un bicchiere d'acqua minerale. Me lo preparò e me lo diede. Lui si versò del Chivas. Non mi fece il minimo effetto il vederlo bere quel liquore. Vanderberg mi offrì un sigaro Avana, me lo accese, attese che aspirassi il fumo per qualche volta e che bevessi un po' d'acqua minerale, e continuò per tutto il tempo a squadrarmi con attenzione. Infine disse: «Lei ha lasciato Blitz?».
«Ne ha sentito dire anche lei?» «Certamente. Anche se non si è sentito dire nulla dei veri motivi per cui lei ha lasciato quel giornale.» «Si sapranno anche quelli.» «Non credo. No, non credo proprio.» «Però lei li sa.» «Già, io li so.» Rise di nuovo. «Lei rammenta certamente un certo signor Seerose.» «Che c'entra?» «Anche lui abitava qui a Königstein» disse Vanderberg, con tono gentile. «Qui vicino. Eravamo buoni amici... almeno lo credevo» aggiunse in fretta, nello scorgere la mia espressione. «In realtà non sapevo niente di lui. Ora ha tagliato la corda, per i ben noti motivi... Non l'avrei mai detto! Avrei riso in faccia a chiunque m'avesse detto che Seerose era un agente dei servizi segreti dell'Est! Sarebbe stato assurdo anche soltanto il pensarlo, dico bene?» Non dissi niente. «Seerose e io giocavamo spesso a golf, sa. Anche lo scorso novembre quando... quando lei era ad Amburgo. Seerose mi accennò che lei era sulle tracce d'un qualcosa di molto grosso.» Non gli credetti, sul momento. Ma dovetti credergli un attimo dopo. «I piani di difesa degli stati del Patto di Varsavia. Americani e russi in lotta. Doveva diventare l'inchiesta più sensazionale della storia di Blitz.» «Glielo ha detto lui?» «Sì. Aveva fiducia in me. Io ero amico di Seerose. Quello che ha fatto mi inorridisce, naturalmente. Ma preferisco non giudicare il mio prossimo. Invece non sono mai stato amico del suo editore. Dopo la guerra ha tentato, a più riprese, di far fallire la mia casa editrice, per potersela poi comperare lui. Per pochi soldi. Pochissimi.» «A che scopo?» «Voleva avere una casa editrice di libri.» Il che era vero. Quello che non sapevo è che Herford si fosse interessato proprio alla casa editrice di Vanderberg. «Oggi sono diventato un boccone troppo grosso anche per lui» proseguì Vanderberg. «Oggi non può nuocermi. Ma c'è stato un tempo in cui lui e il suo caro avvocato Rotaug sono quasi riusciti a farmi fuori... Herford non se ne è dimenticato, e non l'ho dimenticato nemmeno io. E continuo a non essere amico del signor Herford. Sono invece seguace dell'antica pratica
dell'occhio per occhio, mi capisce?» «Sì» dissi io, e buttai giù un po' d'acqua minerale. Il fuoco nel camino scoppiettava. «Per farla breve: ho sentito dire... e non mi chieda come e perché. Non potrei rivelarglielo comunque... Ho sentito dire insomma che lei continua a scrivere quella sua storia, come un forsennato. È vero?» «Sì,» dissi io, tirando una boccata dal mio Avana, «è vero. E allora?» «Perché questo tono così aggressivo? Non voglio mica danneggiarla. Che le piglia, signor Roland? È nervoso?» «Un po'. Non mi va quando mi si viene a dire che ci son cose che non mi si possono rivelare.» Si fece un'altra bella risata. «Mi stia bene a sentire: lei non sta certo scrivendo per il cestino della carta straccia. Lei vuole che la sua storia sia pubblicata, dico bene?» «Per il momento scrivo perché sento la necessità di scrivere quello che è successo. Al poi non ho ancora pensato.» «Io sì però» disse Vanderberg. «Io voglio che quella sua storia sia pubblicata. Da me. Se la sente di scrivere quel libro per me?» «Lei vuole che io... scriva per lei...» «Sì. Per il nostro prossimo catalogo. Vorrei anzi uscire piuttosto presto. Diciamo in agosto. Ce la farà per allora?» «Se continuo a scrivere come adesso, il manoscritto, almeno in prima stesura, sarà pronto entro due mesi.» «Benone. Poi faremo una seconda stesura, bella ripulita. Ho letto i libri che ha scritto in passato. Ho seguito il suo lavoro a Blitz. Lei è un animale di ottima razza. Ho fiducia in lei. Il tutto naturalmente deve restare segreto. Il più a lungo possibile. Neanche i miei funzionari editoriali dovranno saperne qualcosa. Voglio che diventi una vera e propria bomba, mi capisce? Quando mi consegnerà il manoscritto, avremo tutto il tempo che vorremo per definire le condizioni e firmare il contratto.» «Ah» dissi io. Si mise a ridere. Evidentemente gli piaceva ridere. «Lei crede che stia scherzando, vero? Che voglia tirarle un bidone, eh? Si sbaglia. Assolutamente. Il contratto è solo una formalità. Discutiamone ora le condizioni e io le butto giù un impegno per iscritto. Come anticipo sono disposto a darle... dunque, visto che si tratta di lei... diciamo ventimila subito e ventimila alla consegna del manoscritto. Le va?» «Lei ha dei Budda stupendi, signor Vanderberg. Non ne capisco niente,
ma scommetto che saprebbe raccontarmi storie meravigliose su ciascuna di queste statue.» «Oh sì, certo che saprei» disse lui, e versò altro whisky nel suo bicchiere. «Storie eccitanti, misteriose. Eccitanti e misteriose come la sua storia. D'accordo, allora?» «Signor Vanderberg, ho fatto quest'inchiesta per incarico di Blitz. È Blitz che ha sostenuto tutte le spese. Un fotografo di Blitz ha collaborato. Siamo stati fino a New York per seguire questa vicenda. I diritti su questa storia sono tutti di Blitz e non c'è niente da fare.» «Già. Ma allora perché lei continua a scrivere come un matto?» «Cosa intende dire?» «Non vorrà darmi da bere che le è venuto in mente solo adesso che i diritti sulla sua storia sono di Blitz, e che non c'è niente da fare?» «Nnnno» dissi io, lentamente. «E cosa ha pensato allora?» «Ho pensato... non so... ho pensato che...» Quel Vanderberg mi faceva una grande impressione. Non sapevo però ancora se era un'impressione negativa o positiva. Certo è che aveva una grande personalità. «Ho pensato che forse si sarebbe trovata una via, nonostante tutto, per collocarla da qualche parte e farla pubblicare.» «E allora! Perché tutta questa commedia? Vuole avere qualcosa di più d'anticipo?» «No. Però... però... non saprei dirle come fare per acquistare i diritti. Blitz vuole mettere a tacere questa storia, a ogni costo.» «E io intendo pubblicarla, a ogni costo. Mi stia bene a sentire: non si rompa la testa sugli aspetti giuridici della questione. Finisca di scrivere la sua storia il più presto possibile. E non si preoccupi di tutto il resto. Io avrò da Herford l'autorizzazione a pubblicare la sua inchiesta: a costo d'impegnarmi in un processo.» «E se perderà il processo?» «Non lo perderò.» «Signor Vanderberg, forse lei non si rende conto di che storia si tratta, e con che gente avrà a che fare... a parte Herford!...» «Lo so benissimo.» «E non ha paura?» «È l'unica cosa che non ho ancora avuto in vita mia» disse Joachim Vanderberg tranquillo e sorridente: e io gli credetti. Poi aggiunse: «Devo tuttavia dirle anche, per amor del vero, perché sono così di buon umore.
Anch'io so alcune cosucce che in teoria non si dovrebbero sapere: sul conto di Herford e anche degli altri signori che pretendono di impedire la pubblicazione di quello che lei sta scrivendo». Alzò le spalle. «Le ho fatto la mia proposta. Prendere o lasciare. Nessun altro gliela farà: mi creda. Io sono assolutamente sicuro di poter pubblicare la sua storia. Però sono soltanto un uomo anch'io. Se sarò molto sfortunato, dovrò recedere da questo nostro contratto. E in tal caso la sua storia se la potrà dimenticare per sempre. Vorrà dire che è proprio impubblicabile. Le probabilità, secondo me, sono di 99 contro una che il libro si farà. Le bastano?». «Sì» dissi io. Poi discutemmo delle condizioni contrattuali, e Vanderberg, come aveva promesso, scrisse di sua mano l'impegno su un foglio di carta che poi firmammo entrambi. Ricopiò tutto, e firmammo di nuovo. Ciascuno di noi ebbe una copia. Quando lasciai Joachim Vanderberg, la mezzanotte era passata da un pezzo. L'uomo della casupola accanto al cancello del parco aveva già aperto i battenti, quando lo raggiunsi sulla Mercedes di Bertie. Vanderberg doveva avergli telefonato. Diedi a quell'uomo venti marchi di mancia: come ai bei tempi. Del resto avevo in tasca un assegno da ventimila marchi. E l'impressione che Joachim Vanderberg mi aveva fatto era dopo tutto positiva: in quel momento ne ero certo. Ciò nonostante, la mattina dopo, ero davanti alla banca - su un conto della quale l'assegno era stato emesso - e aspettavo che aprisse. Mi precipitai per primo allo sportello e firmai l'assegno con un nome falso, esattamente come avevo convenuto con Vanderberg. Quando, pochi minuti dopo, mi consegnarono i soldi, dovetti andarmi a sedere su una poltrona, lì nell'atrio della banca, perché mi sentii improvvisamente mancare le ginocchia. Avevo soldi. Avevo un editore. La fortuna era di nuovo dalla mia parte. Impiegati e clienti mi guardavano, inquieti. Perché me ne stavo seduto lì e continuavo a sfogliare il mio pacco fatto di duecento banconote da cento marchi, e ridevo come un matto. M'ero reso conto che tutti mi guardavano. Ma non potevo fare a meno di ridere. 11 «Mi è successo qualcosa di meraviglioso» disse la signorina Luise. L'espressione del suo viso era radiosa, come trasfigurata. Camminava al mio fianco, attraverso il parco dell'ospedale. Indossava i suoi vecchi stiva-
letti, il vecchio mantello nero, uno scialle, un piccolo cappellino nero sui capelli bianchi, e guanti di lana neri. La poca neve caduta scintillava. Gli alberi del parco erano neri e immobili. Non c'era nessun altro in giro. L'aria era ferma e frizzante. La signorina Luise mi aveva chiesto di accompagnarla nel parco. Poteva andarci quando voleva: ormai era diventata una specie di mascotte della clinica, e inoltre le era stata anche affidata una mansione, come poi seppi. «Qualcosa di meraviglioso? E cioè?» chiesi io. Per una qualche ragione misteriosa continuavo a sentirmi attratto dalla signorina Luise e, nonostante l'esito negativo della mia precedente visita, ero tornato, neanche una settimana dopo. «Andiamo per ordine,» disse la signorina «signor Roland. Guardi, le sembra bello il parco?» «Molto bello» dissi io. Ero venuto in aereo, erano le undici del mattino, e nel cielo stinto spiccava un sole pallido. «Piace anche al professore» disse la signorina, camminando energicamente al mio fianco. «Che professore?» «Leglund si chiama. Ah, signor Roland, sapesse che uomo è! Così gentile, così buono!» E aggiunse, in tono confidenziale: «Sa, gli è stata concessa la grazia di poter vivere nell'altro mondo pur essendo ancora vivo in questo». «Ah» dissi io. «Già. È un uomo anziano. Sta per compiere 76 anni. È debole, ci vede male, e le gambe non lo reggono più come una volta. È venuta una delle sue figlie a trovarlo, un paio di giorni fa - una sposata, che abita a BadenBaden - e il professore mi ha presentata e ha detto alla figlia che noi due andiamo così bene d'accordo. Ne sono stata molto fiera, perché il professore è stato un tempo un medico famosissimo, psichiatra anche lui, sa, signor Roland, e chiacchieriamo e ci intendiamo alla perfezione, sempre. È diverso da tutti gli altri che sono qui. È un uomo davvero buono, l'ho capito subito quando l'ho incontrato la prima volta. A dirlo, sembra sciocco ed enfatico, ma io ne sono perfettamente certa: il professor Leglund è un uomo toccato dalla grazia.» «Cosa vuol dire?» «Il professore mi capisce, se gli confido i miei pensieri. Lui sa che l'esistenza umana è fatta di più stadi, e che quello che abbiamo quaggiù è solo una frazione piccola e trascurabile dell'universo infinito. È così intelligen-
te! Certe cose che mi dice non le capisco neanche!» «Per esempio?» «Be', per esempio quando parla di un "Io" e di un "Super-io"...» La signorina sorrideva. «Io sono soltanto una donnetta stupida. Però quel grand'uomo parla con me, un uomo toccato dalla grazia, uno che sa anche lui dell'esistenza di un'altra vita e delle cose magnifiche che ci attendono...» Passeggiavamo lungo un sentiero, e la signorina continuò a dirmi quello che le premeva, in tono sognante. Appresi così che il professor Leglund amava quel parco. E amava più d'ogni altra cosa uno stagno che era lì fra gli alberi. Un tempo ci si era recato sempre da solo, ma ora non ce la faceva più. («È troppo insicuro sulle gambe, sa...») E così la signorina si era offerta di andare a spasso, ogni pomeriggio, con quel vecchio signore: e di condurlo al suo amato stagno. I medici, il personale e soprattutto la figlia del professore erano contentissimi. Qualcuno s'occupava finalmente di quel paziente abbandonato a se stesso. «... la figlia: ma lo sa che mi dà perfino dei soldi perché io vada a passeggio col professore?» raccontò la signorina. «E non è un miracolo questo? I miei soldi, quelli che avevo prima, sono spariti, dico bene? Ed ecco che la figlia me li riporta! Sa che le dico? Metto da parte tutto! In marzo il professore ha il compleanno. E allora gli farò un bel regalo... Ecco, guardi, ci siamo: lo stagno!» Era una superficie d'acqua abbastanza grande sulla quale galleggiavano foglie marce. C'era una stretta passerella di legno che conduceva verso un isolotto in mezzo allo stagno. La signorina Luise mi precedette, rapida e sicura. Io la seguii. L'isolotto era piccolo, coperto di cespugli, e sulla sommità c'era una panchina. «Ecco, questo è il posto preferito del professore! Quando è qui si sente così felice! Veniamo sempre fino a qui e poi facciamo delle chiacchiere bellissime» disse la signorina Luise. Mi guardava con occhi traboccanti di felicità e ammiccanti. «Cosa c'è?» «Ieri pomeriggio il professore non stava bene, e così ci sono venuta da sola qui, verso le quattro o anche più tardi. Cominciava già a far buio. E allora m'è capitata una cosa bellissima, signor Roland.» Mi afferrò un braccio e prese a parlare con accento severo e deciso. «Però lo dico soltanto a lei! E lei non dovrà riferirlo a nessuno! Perché loro mi hanno detto di tacere. Se non starò zitta, me la faranno scontare.»
«Chi?» chiesi io, e mi sentii il cuore battere in petto. «Chi glielo ha detto, signorina Luise?» «Ma i miei amici!» rispose lei. «Vede, signor Roland, solo i morti sono fedeli!» 12 «Luise...» «Luise...» «Luise...» Confuse prima, poi sempre più chiare e distinte risuonarono le voci all'orecchio della signorina, che era sull'isolotto fra i cespugli, guardando il tramonto. «Salutiamo la nostra mammina...» Questo è il russo, pensò la signorina, stordita dalla felicità. I suoi amici! I suoi amici! Lei non li vedeva, naturalmente, ma li sentiva, riusciva di nuovo a sentirli! I suoi amici erano tornati! «Oh, come sono felice» sussurrò la signorina. «Vi saluto anch'io, vi saluto tutti, miei cari. E vi ringrazio di essere di nuovo accanto a me!» «Siamo di nuovo con te, Luise, sì.» Questo è il francese, pensò la signorina. «Dovevamo tornare» disse la voce del polacco. «Perché Luise fa parte di noi. E deve aver fiducia in noi!» «Noi...» «Noi...» «Noi...» Tre voci avevano ripetuto quella parola: quella dell'americano, quella dell'olandese e quella del capomanipolo. «Ho fiducia in voi, certo» sussurrò la signorina. «Di voi, non dei medici di qui...» «Ed è giusto che sia così» risuonò la voce del cecoslovacco. «I medici di qui hanno le migliori intenzioni. Ma sono soltanto dei poveri mortali. Non riescono a vedere al di là delle cose, nonostante tutte le loro più buone intenzioni.» La voce del testimone di Jehova disse: «La nostra visione è più perfetta. Luise fa parte di noi! E deve seguirci!». «Seguirci...» «Seguirci...»
«Seguirci...» «È quello che voglio anch'io» sussurrò la signorina con le lacrime agli occhi. «Lo voglio tanto, amici miei...» La voce del francese: «I medici di qui, poveri essere umani... noi abbiamo pietà di loro. Ma sono così limitati nella loro scienza!». La voce dello studente: «Il tuo posto non è questo, Luise...». «Sì, lo so» disse la signorina, e il cuore le balzò in petto nel sentire la voce del suo amico preferito, il quale continuò così: «Tu ci appartieni, Luise. Tu sei un'eletta». «Eletta, io?» balbettò la signorina. «Sì» risuonò la voce dello studente. «Tu sei una di noi, e fra non molto sarai tutta con noi, tutta!» La voce dell'olandese: «Luise ascolti: noi siamo più vicini alla natura divina. Quindi segua noi, quindi creda a noi: e non ai mortali». La voce del russo: «Mammina deve convincersi che è giusto quello che facciamo, che è giusto quello che abbiamo fatto». E la voce dell'ucraino disse: «Luise ha fatto spaventose esperienze». «E ora le pare che tutto sia finito in un modo spaventoso» intervenne la voce del norvegese. «Ma è solo un'apparenza. Solo le persone vive credono che sia così. In verità tutto è andato bene.» «Sì? Davvero? Ma...» La signorina non riuscì a parlare oltre. «Se qualcosa è andato male a Luise, allora è accaduto perché si è fatta fuorviare da falsi amici» echeggiò la voce dell'americano. «Falsi amici» disse la signorina con un profondo sospiro. «Sì, erano proprio falsi amici...» «E tu sei ancora confusa» risuonò la voce dello studente. «Ma per noi è tutto chiaro. Quando anche tu sarai con noi, vedrai che tutto è andato per il suo verso buono e giusto...» 13 «Ecco cosa mi hanno detto gli amici miei» raccontò la signorina, in piedi accanto a me, sull'isolotto nello stagno. Ed era profondamente commossa. «Abbiamo parlato ancora a lungo insieme, fino a quando s'è fatto tutto buio ed io sono dovuta rientrare in clinica. Però sono tornati, signor Roland, sono tornati!» «Certo, e per lei è una grande gioia» dissi io, triste e lieto nello stesso tempo. Lieto, perché ora potevo attendermi che la signorina rammentasse
tutto quello che le era accaduto, tanto da potermene riferire. Triste, perché ormai era palese che era ricaduta nella sua primitiva condizione schizoide. Nel grande edificio risuonò lo squillo d'una campanella. «È ora di pranzo» disse la signorina. «Devo rientrare.» E correva già lungo quella stretta passerella. Io la seguii. Attraversammo in fretta il parco. Lo stagno non era molto distante dalla clinica. La signorina Luise si congedò da me all'ingresso del reparto. Aprì la porta usando la maniglia che era all'esterno, e mi mostrò il pulsante che, dalla parte interna, consentiva di aprirla anche di lì. «Chi ne è al corrente, può uscire quando vuole» disse, sorridendo. «Nessuno ci pensa, sul momento, che questo bottone serve per aprire, e meno che mai quei poveretti tutti svaniti che ci sono qui fra noi. Quelli scuotono la porta ma non riescono ad aprirla. Io posso entrare e uscire quando mi pare. Ho il permesso.» Il campanello suonò di nuovo. «Ora devo andare nella sala da pranzo, signor Roland. Si arrabbiano se qualcuno arriva in ritardo. E dopo mangiato dobbiamo metterci giù per riposare.» «Devo andarmene anch'io.» «Torni però, la prego, torni presto.» La signorina mi lanciò un'occhiata penetrante. «Potrò ben presto raccontarle cose molto importanti.» «Verrò fra un paio di giorni» assicurai. Ci congedammo e lei si avviò veloce lungo il corridoio del reparto. Continuò a girarsi per farmi segni di saluto, e io le risposi, sino a quando sparì. Poi mi dissi che era mio dovere, e basta: mi avviai angosciato verso l'ambulatorio del dottor Erkner, davanti al quale c'erano alcune persone in attesa. Prima che potessi sedermi a mia volta, si aprì la porta e uscì un medico giovane dai capelli biondi lunghissimi e con la barba. «Vuole parlare col dottor Erkner?» chiese lui. Aveva un timbro di voce altezzoso. Tutto era altezzoso nel suo comportamento. Altezzoso, risoluto e arrogante. Era alto, slanciato, aveva gli occhi azzurri e portava occhiali cerchiati d'oro. «Sì.» «Il dottor Erkner ha molto da fare. Posso esserle utile io? Di che si tratta?» Un medico è sempre un medico, pensai, e dissi: «Di una paziente del reparto a pagamento». «Io sono il medico di guardia di quel reparto» spiegò, con tono aspro, il capellone con la barba. «Sono il dottor Germela. Di che paziente si tratta? Può parlare tranquillamente con me. La responsabilità di quel reparto è
mia.» Esagerato, pensai io. Comunque era un medico e gli raccontai tutto quello che mi era appena capitato con la signorina Luise. Mi stette a sentire, annui qualche volta, e continuò a sorridermi con aria di sufficienza. «Tutto qui?» chiese, quando ebbi finito. «Sì. Penso che basti, del resto.» «Caro signor Roland, penso anch'io che basti. Anche se in un senso diverso dal suo.» «Vale a dire?» «Vale a dire che non ho nessuna intenzione di mettermi a discutere con lei, caro signor Roland. Le sue preoccupazioni le fanno onore, certo. Ma non ritiene che noi qui si sappia trattare e giudicare i malati meglio di lei?» «Ho voluto soltanto raccontarle che...» «Non pensa che ciascuno di noi dovrebbe occuparsi dei fatti suoi? Io per esempio non scrivo articoli per i settimanali. Quindi le suggerirei di non immischiarsi nel nostro lavoro. Lasci a noi il compito di provvedere alla signorina Gottschalk. È una delle nostre migliori pazienti.» «Migliori pazienti in che senso, scusi!» dissi io, pieno di rabbia. «E quelle voci di cui mi ha parlato?» E lui subito, in tono secco: «Mi stia bene a sentire, caro signor Roland. Lei è venuto qui già un paio di volte. Lei fa il giornalista. E tormenta in continuazione la signorina Gottschalk a proposito di avvenimenti sui quali pretende di essere informato...». «Mi son ben guardato dal farlo!» «... la confonde e rievoca allucinazioni sparite da tempo: le fa riemergere di nuovo» continuò Germela. «E quando la paziente, comprensibilmente agitata, commette un errore, lei corre qui da me e mi dice di essere preoccupato perché le sue condizioni sono peggiorate!» «Mi stia a sentire lei...» cominciai io, ma il capellone era partito in quarta, e non ci fu modo d'interromperlo. «La paziente si è in tutto questo tempo così ben ripresa, si è inserita così intensamente nella nostra comunità terapeutica, che una ricaduta è del tutto impensabile!» Povero giovane fesso! pensai. E poi pensai a quello che le voci dei suoi amici avevano detto alla signorina Luise, a proposito dei medici animati da buone intenzioni, ma purtroppo tanto limitati. E mi sentii pieno d'ammirazione per la signorina: riusciva a limitarsi a immaginare le voci e gli amici nella sua fantasia, solo lì, senza far trapelare nulla agli altri. Dissi, scortese: «Che significa "la nostra comunità terapeutica"?».
Il capellone in camice bianco si passò una mano sulla barba bionda, con un gesto che voleva dirmi che mi considerava l'ultimo degli imbecilli. «Caro signor Roland, ma è davvero possibile che lei non abbia mai sentito parlare della psichiatria democratica?» «No.» «Mi consenta di dirle che sono molto stupito. Proprio lei, un portavoce dell'opinione pubblica! È una riforma, ormai nota. I pazienti, gli infermieri e i medici formano una comunità democratica, nella quale ciascuno ha gli stessi diritti, gli stessi doveri e le stesse responsabilità.» Alzai le spalle. «Lei non è d'accordo, eh? Ce n'è anche altri qui. S'è dovuta farsi largo una nuova generazione, per svegliare dal letargo questo vecchiume: me ne accorgo ogni giorno. I tempi cambiano, caro signor Roland. In quest'istituto stiamo ormai dibattendo il progetto di una rappresentanza elettiva dei pazienti, sissignore! E più precisamente di un parlamento comune, nel quale ciascuno abbia il suo voto, ciascuno la stessa possibilità d'interloquire, e nel quale le decisioni siano prese a maggioranza: dai malati, dal primario, dagli infermieri e anche dall'ultima delle donne di pulizia.» Non s'accorse che sobbalzai nel sentirgli usare quest'espressione. Da Blitz dunque, pensai, non erano allora così retrogradi. E quanto all'atmosfera manicomiale, era la stessa: identica. «Sì,» disse il dottor Germela, equivocando il significato del mio silenzio, «ora è impressionato anche lei, vero? Viviamo nel ventesimo secolo, caro signore! Tempi nuovi, metodi nuovi! Noi dobbiamo avere il coraggio di metterci sullo stesso piano dei nostri pazienti! Certo, molti sono contrari, anche in questa clinica, gliel'ho già detto. Ma riusciremo a convincerli tutti, sissignore: eccome ci riusciremo! Vuole un esempio? Abbiamo qui fra noi un vecchio signore, uno di cui si occupa proprio la sua signorina.» «Il professor Leglund?» «Sì, Leglund. Se sapesse quanto è importante l'aiuto che lui dà a lei, e lei a lui, per non parlare dell'aiuto che deriva a noi dal loro esempio!» «Lei si riferisce al modo in cui la signorina Luise provvede a quell'uomo?» «Esattamente. Il professor Leglund è stato un grande psichiatra. A Breslavia. Ora è completamente fuori di senno. È convinto di vivere ancora all'epoca del Kaiser. Non ha idea di dove si trovi. Confonde epoche e luoghi. Ricorda solo, sia pure frammentariamente, gli elementi della sua scienza. Se lo facessimo andare da solo sino allo stagno, non riuscirebbe
mai a ritrovare la strada per tornare. E se oggi qualcuno l'accompagna, al ritorno pensa di esserci stato accompagnato vent'anni fa. La signorina Gottschalk provvede a questo rudere devastato e penoso di quello che è stato un giorno un grande spirito. E importa non solo il fatto che l'accompagni a spasso. Importano le sue chiacchiere, la sua simpatia, la sua venerazione per Leglund. Sono la sua allegria, la sua voglia di vivere, il suo ottimismo che aiutano il suo compagno di pena. Qui sono i malati che si prendono reciprocamente per mano» concluse in tono solenne. Tacqui. Quel giovanotto sapeva quello che diceva. Forse era stata la mia presenza a far riemergere nell'animo della signorina spettri del passato; forse - chissà? - ero il responsabile di quella che a me era parsa una ricaduta, e che invece, secondo Germela, non lo era affatto. Forse la signorina Luise stava bene davvero. O comunque così come può stare chi emerge da una condizione di schizofrenia... «Convinto? Si sente tranquillo?» chiese Germela, sorridendo. Sorrisi anch'io... ma di malavoglia. «Bene» disse lui. «Restiamo buoni amici. Lei ha il suo lavoro, noi il nostro. Non c'immischiamo in quello che scrive, lei non si immischi nella psichiatria. Non agiti la signorina. E potrà tornare a trovarla, quando e per tutto il tempo che vorrà. Però la lasci in pace, caro signor Roland: solo a questa condizione. Altrimenti dovrei intervenire e proibire le sue visite. Mi sono spiegato?» «Perfettamente» dissi io. Questi ragazzi in fondo sapranno pure quello che fanno, pensai. Hanno pur studiato... 14 Ci sposammo venerdì 20 dicembre, alle ore 11, allo stato civile. La corte d'appello aveva espresso il suo consenso e - dopo l'intervento di Hem sancito a tempo di record che si poteva fare a meno di produrre il certificato richiesto. Finalmente ce l'avevamo fatta! Bertie venne a prenderci con la sua Mercedes davanti alla casa di Hem. Era una giornata serena ma fredda, sui prati del parco di Grüneburg c'era la brina. Noi uomini eravamo vestiti di scuro; Irina indossava un tailleur nero (che le era stato a suo tempo raccomandato da quel Leo inviato da mami) e inoltre il suo mantello di lana bordato di visone, le scarpette di vernice nera e la borsetta di coccodrillo che le avevo comperato ad Amburgo. Inspiegabilmente Herford non aveva preteso la restituzione di quei capi d'abbi-
gliamento, benché fossero stati acquistati coi suoi quattrini. Forse non ne sapeva niente, o aveva altro da pensare. Bertie aveva un mazzo di fiori per Irina, la quale aveva ottenuto una giornata di libertà dal suo psicologo. E così ci avviammo. Dovemmo aspettare un po' perché c'erano altre due coppie da sposare prima di noi. Irina era molto pallida e molto bella, e le sue mani erano gelate. Quando venne il nostro turno l'ufficiale di stato civile, un uomo anziano, fece a Irina un sorriso d'incoraggiamento, poiché lei sembrava davvero molto spaventata. Ci sedemmo nella prima fila delle sedie, il funzionario disse alcune cose brevi e semplici, trovò persino qualche bella frase. Infine firmammo l'atto di matrimonio. Bertie ed Hem lo sottoscrissero come testimoni. Io m'infilai una mano nella tasca della giacca e ne prelevai un astuccio con un anello. Era un sottile cerchietto di platino coperto di minuscoli brillanti. Irina mi guardò interdetta quando le infilai l'anello, poiché ci eravamo messi d'accordo di non portare fedi, e quindi lei non ne aveva per me. E infatti io non avevo nessuna intenzione di portarne. Però mi ero accorto di quanto Irina desiderasse un anello, e quindi ero andato da un gioielliere, avevo ceduto il mio accendino d'oro in cambio di quell'anello. Hem lo sapeva. E poi fumavo molto meno di prima, potevo tranquillamente adoperare fiammiferi... «Come ti sei procurato quest'anello?» sussurrò Irina. «Zitta!» sorrisi io. «L'ho rubato, naturalmente. Vedi che non se ne accorgano, per amor del cielo!» In macchina poi, visto che non mi dava tregua, dissi a Irina la verità, e lei pianse un poco, ma di gioia, mi assicurò, di gioia, perché le dissi anche: «Ho dato al gioielliere anche la mia fiaschetta d'argento per il whisky». E questa era una bugia. Bertie ed Hem lo sapevano. In realtà avevo gettato la fiasca, dal ponte della Libertà, nel Meno: il giorno prima delle nozze. È stato una specie di tentativo di corrompere il buon Dio, se ci tenete a saperlo. Io sono superstiziosissimo. Pensavo che se non avessi bevuto più, e avessi gettato via quella stramaledetta fiaschetta, Irina avrebbe avuto un parto facile, avremmo avuto un bel bambino e saremmo stati tanto felici. Al Frankfurter Hof, portieri, addetti alla reception, camerieri e cameriere ci accolsero con espressioni raggianti. Avevano certamente appreso che non ero più da Blitz, ma non ne conoscevano le ragioni: e poi ero un buon vecchio cliente di quell'albergo. Hem aveva prenotato un tavolo al ristorante francese, un tavolo che qualcuno aveva provveduto a far deliziosamente decorare di Bori. Fummo ospiti di Hem. I camerieri accorsero per
felicitarsi, e poi ci servirono un pranzo coi fiocchi. Subito dopo pranzo, Bertie ed Hem dovettero tornare in fretta in redazione poiché - eravamo alla vigilia di Natale - c'era un sacco di lavoro da sbrigare. Irina e io andammo a piedi, tenendoci per mano, fino alla casa di Hem, ci spogliammo e c'infilammo nel grande lettone. Facemmo all'amore prima di piombare in un sonno lungo e profondo. Mi svegliò il campanello di casa. Mi avviai in vestaglia ad aprire. Mi consegnarono un enorme mazzo di fiori. Era da parte di Tutti e di Max, che telefonarono subito dopo per augurarci gioia, felicità e benedizioni. Max disse: «Auguri di tutto cuore, caro Walter, sul serio. Tu sei il nostro migliore amico. E sono certo che la tua mogliettina lo diverrà». Tutti mi disse, piangendo un poco: «Caro il mio Walter! Sono così felice per te! Sai, io e Max, vogliamo sposarci anche noi: è da tanto che ci pensiamo. Ma per il momento non è possibile: Max ha degli scrupoli morali, sai? Dice che prima dobbiamo ancora mettere da parte qualche soldo. Poi, quando ne avremo abbastanza e anche i suoi affari andranno di nuovo bene, io cambio vita e ci sposiamo. E voi sarete i nostri testimoni... d'accordo?». «D'accordo» dissi io. Tornai coi fiori nella nostra camera da letto. Irina si era svegliata e le raccontai della telefonata. Quando, la sera, Hem tornò a casa assieme a Bertie, avevamo fatto il bagno e ci eravamo rivestiti. Hem e Bertie avevano portato insalate fredde, affettati e pane bianco. Per mangiare ci sistemammo nella grande cucina di Hem. Bertie ed Hem scolarono un mucchio di birra, io e Irina ci accontentammo di succo di frutta. Ci trasferimmo poi nel soggiorno di Hem e lui tirò fuori il suo violoncello e si mise a suonare dolci e commoventi melodie. Irina e io eravamo seduti l'uno accanto all'altro e ci tenevamo di nuovo per mano, Bertie ci sorrideva e ci strizzava l'occhiolino. Quando Hem smise di suonare, ce ne stemmo a lungo in silenzio. Poi Irina disse improvvisamente: «Penso alla signorina Luise...». «Anch'io stavo pensando a lei» disse Bertie. «Anch'io» disse Hem. «Io pure» dissi io. «Curioso, vero?» «La signorina Luise!» ripeté Irina, appoggiando la testa sulla mia spalla. «È lei che ci ha fatti incontrare. È con lei che è cominciato tutto...»
15 «Ora i miei amici uccideranno quella persona» mi disse la signorina Luise. Era il 27 dicembre, e a Brema pioveva a dirotto. I tronchi e i rami dei vecchi ippocastani spogli, nel cortile, luccicavano. «La uccideranno senz'altro» asserì la signorina Luise. «Ad ogni costo.» E sorrideva felice. Inquietudine e uno strano senso di doverlo fare mi avevano indotto a prendere l'aereo per Brema. Nella stanza della signorina Luise c'erano rami d'abete decorati con una candela rossa, accesa, e un piatto di noci e di biscotti. L'aspetto della signorina Luise migliorava di volta in volta. Mi aveva raccontato subito, felice della mia visita, che i suoi amici le parlavano ora con regolarità, dicendole molte cose; e io avevo colto l'occasione per sapere finalmente qualcosa di quello che le era successo. Viste le sue condizioni, mi parve di poter tranquillamente ignorare le prescrizioni del dottor Germela. La signorina Luise era ormai in grado di poter ricordare, e me ne resi conto non appena accennai incidentalmente a Karel. «Già, il povero Karel e la sua tromba» aveva detto subito la signorina. «Il piccolo Karel e il suo assassino... Ho parlato molto, di entrambi, ai miei amici...» E mi raccontò tutto quello che ho riferito all'inizio di questa mia storia. Mentre parlava, io riflettevo sulla possibilità che lei, sulla base dello spunto che le avevo dato, inventasse lì per lì il suo racconto; che quello che diceva e pensava assumesse solo in quel momento, nel suo cervello, una consistenza fantastica; che attribuisse, solo in quell'attimo, a immaginari colloqui coi suoi amici quello che mi stava dicendo. Ma chi poteva dirlo? Riferiva del come aveva "abbindolato" i suoi amici. E si ingolfò in altre spiegazioni: «... e così ho detto loro: "In questa vicenda ci saranno ancora molte disgrazie, se non troveremo l'assassino, se non riuniremo l'assassino e la sua vittima, affinché i due possano fare la pace in uno strato superiore". Lei mi capisce, vero?». «Sì.» La pioggia batteva ora con violenza tale contro i vetri della finestra che non si scorgevano quasi più gli ippocastani. Io dissi: «Ho incontrato un commissario di polizia ad Amburgo. Si chiama Sievers. Questo Sievers è deciso a trovare l'assassino, e mi ha detto anche di avere un piano». «Sì» disse la signorina, senza un attimo di esitazione. «Quello è il mio studente, lo so...»
«Ma...» «Ma cosa? Gliel'ho già spiegato tutto una volta, che per i miei amici non esiste "il tempo", non c'è "ieri", non c'è "oggi", non c'è "domani". Non se ne rammenta?» «Ma certo.» «E le ho detto anche che i miei amici devono entrare in un qualche essere vivente quando tornano. E infatti lo studente s'è scelto un poliziotto. È molto chiaro, giusto?» «Assolutamente.» «Quello che all'inizio non sono riuscita a capire, è come mai i miei amici si siano decisi soltanto ora a cercare l'assassino per redimerlo. Ora lo so, ora me lo hanno spiegato. Mi hanno detto: "Sei stata malata, Luise, ti sei fatta confondere. E poiché eri confusa, hai dato retta ad amici sbagliati".» La signorina s'interruppe di colpo e mi guardò spaurita. «Cosa c'è?» chiesi io. E lei, tutta seria: «Ho incontrato tanti falsi amici. Signor Roland, mi giuri solennemente di non essere un amico falso! Sarebbe terribile. Sarebbe tremendo. Non sono così intelligente da poter badare a tutto! E se ora anche lei...». La signorina Luise s'interruppe di nuovo. «No,» disse con decisione, dopo avermi scrutato a lungo «no, lei non è un falso amico! Lei è un amico vero. Una volta non riuscivo a capirlo così chiaramente. C'erano tante cose che mi sfuggivano. Ed è per questo che tutto non è ancora andato per il suo verso giusto, mi hanno detto i miei amici.» Il suo tono si fece un po' febbrile. «Non ho mai parlato con tanta franchezza con loro, signor Roland! Le voci sono ora chiarissime! Non ho visto i miei amici, naturalmente, ma è stato come se mi parlassero direttamente all'orecchio...» Il suo sguardo si perse in lontananza. Tacque per un po', e poi disse, con voce lieve e insicura: «Eppure: continuo a pensare e a ripensare se per caso non ho sbagliato qualcosa». «Sbagliato?» «Perché mi sono confusa in quel modo? L'ho chiesto, più volte, anche ai miei amici.» «E allora?» «Non me lo dicono, chiaramente. Mi hanno solo detto: "C'è, Luise, una spiegazione d'ordine superiore, ma non te la possiamo ancora dire. Abbi pazienza. Aspetta ancora un po', e saprai certamente anche tu, molto presto, la soluzione di questo grande mistero". È proprio così che mi hanno detto...» Il suo sguardo si perse di nuovo. «Ah, se ripenso a tutto quello
che mi è successo, signor Roland...» E poi, senza ch'io dovessi sollecitarla, cominciò a raccontarmi le sue traversie. Mi riferì del suo colloquio con gli amici sulla collina della palude, dopo la morte di Karel, del suo viaggio verso Amburgo, della sua fuga dal dottor Wolfgang Erkner, di quel suo strano sogno della città dalle alte mura con le quattro torri e i quattro tiranni, delle sue avventure ad Amburgo: mi raccontò tutto, proprio tutto. Naturalmente non tutto durante quella visita. Restai a Brema, affittai una stanza in una pensioncina, e continuai ad andare a trovare Luise, sino al giorno di San Silvestro. Portavo ogni volta con me il registratore e i nastri, e seppi così man mano l'intera odissea della signorina. Seppi anche altre cose: strane cose. Per esempio la signorina Luise mi disse una volta, non appena entrai da lei: «Ho un messaggio per lei e per il signor Engelhardt da parte dei miei amici, signor Roland. Ve lo devo riferire perché siete buone persone...» e cominciò a parlare del destino di Bertie e del mio in quel suo modo di dire fitto di simboli e di allusioni dai molteplici significati. In occasione dell'ultima mia visita mi ha detto una cosa che ora voglio qui trascrivere, perché mi ha fatto molta impressione... «Sono stupida, sono ignorante, sono debole e vecchia, eppure ho in continuazione delle intuizioni.» «Che intuizioni, signorina Luise?» Mi guardò con espressione ferma. «Ho come l'idea» spiegò «che in ciò che abbiamo vissuto debba specchiarsi il destino del mondo intero. Gli errori di tutta l'umanità: e noi ne siamo divenuti il punto focale. L'ho sentito sin dall'inizio. Per questo ero sempre così agitata e inquieta. Vede, signor Roland, é ovvio che bisogna rimettere pace fra l'assassino e la sua vittima, affinché tutti vedano che esiste una giustizia superiore. Certo, questo è molto importante, ma non è tutto! Non è in ballo solo la concordia fra l'uccisore e l'ucciso. È in ballo la pace del mondo. Vede, il problema è questo: bisogna far capire agli uomini che tutto il male di cui soffrono avviene soltanto perché ubbidiscono a istinti primitivi e terreni... benché naturalmente il male sia a sua volta soltanto in parte un male, poiché anche il male serve a ciascuno per capire e per elevarsi. Gli uomini sciupano la maggior parte delle loro qualità e delle loro energie per scannarsi a vicenda, per lotte insensate e per affrontare problemi ridicoli. E lo sa il perché? Perché sono ciechi. Se vedessero, se potessero soltanto intuire che c'è un altro mondo, vasto e meraviglioso, che regge in una sola mano questo nostro mondo piccolo e miserabile, allora...
allora sì che gli uomini potrebbero volgersi finalmente verso cose superiori. La bellezza! La religione! E non sarebbe magnifico?» «Sì, signorina Luise, sarebbe proprio magnifico.» 16 Ventimila marchi di ricompensa! Una madre disperata chiede aiuto! Il 12 novembre del 1968, al campo di raccolta per giovani profughi di Neurode, presso Brema, è stato ucciso mio figlio Karel di undici anni. Dell'assassino non è stata trovata traccia. È accertato tuttavia che almeno tre persone sanno tutto del delitto. L'omicida ha sparato da una Dodge scura e si è poi dileguato con quella macchina. Un secondo uomo, che era stato arrestato nel campo, è fuggito dirigendosi verso una Buick nera, posteggiata davanti al campo. Al volante di questa Buick c'era una donna che gridava: «Karl! Corri! Corri, Karl, corri!». Soltanto grazie all'aiuto di questa donna, il secondo uomo è riuscito a darsi alla fuga sulla seconda vettura. Nell'intera vicenda, questa donna ha avuto solo il ruolo di una complice marginale. Io la prego e la scongiuro di mettersi in contatto con me. Da parte mia m'impegno a rispettare il suo anonimato e a darle una ricompensa di 20 mila marchi se sarà in grado di fornirmi utili e concrete informazioni sull'omicida. Una madre disperata si appella alla coscienza di un'altra donna! Per favore, scrivere alla casella AH-453291. «Be',» mi chiese Max Knipper «non è scritto bene forse? Non è perfetto?» E mi guardava raggiante. «È un'idea tua?» «Certo che lo è!» Il testo che ho appena trascritto era stato pubblicato - in inserzioni incorniciate e in posizioni particolarmente evidenti - su tutti i grandi giornali di Amburgo. I giornali erano ora ammucchiati nell'ufficio del King Kong, nell'angusto locale dietro il piccolo palcoscenico. Oltre a me e a Max nella stanza c'erano la spogliarellista Baby Blue e il vecchio Karl Concon. Era più o meno il mezzogiorno del 10 gennaio 1969. Ero partito in treno, di notte, ed ero giunto ad Amburgo nella tarda mattinata. «Fra un'ora esce l'Hamburger Abendblatt, un giornale della sera, e l'an-
nuncio sarà anche lì. Walter, sei arrivato giusto in tempo. Il mio fiuto mi dice che stanotte succederà qualcosa, e il mio fiuto non si è mai sbagliato.» «Succederà cosa?» chiesi io. «E che significa tutto questo? Dove sarebbe la madre del piccolo Karel? Non è neanche più in Germania, per quel che ne sappiamo! La polizia l'ha cercata inutilmente.» «È questo appunto il particolare più importante del trucco» disse Max. «Non capisco» dissi io. Tutti mi aveva telefonato il giorno prima: c'era Bertie lì da me, come capitava spesso in quei giorni. Stava correggendo e integrando la prima stesura del mio manoscritto, che contava ormai più di 300 pagine. «Che succede, Tutti?» le avevo chiesto. «Ho appena parlato con Max. Mi ha detto che devi partire subito e raggiungerlo ad Amburgo.» «Ad Amburgo?» «Sì. Gli amici di lì gli hanno chiesto, un paio di giorni fa, di andarci per dar loro una mano. Hanno dei problemi, sai, Walter. E Max ha il cervello fino, dico bene?» «Che genere di problemi?» «Qualcosa a proposito di un assassino» aveva detto Tutti. «Sono tutti molto incazzati. Max dice che devi raggiungerlo assolutamente. Gli è venuta un'idea. Ci andrai?» «Naturalmente» avevo detto io, eccitato. «Certo che ci vado, Tutti. Per la miseria, quel tuo Max...» «Il mio bel torello...» Il tono della sua voce era sognante. «Sai che ti dico? È un ragazzo d'oro. E se qualche donna» (ma non disse: "donna") «volesse tentare di fregarmi il mio Max, a quella le rompo l'inguine» (e non disse nemmeno: "inguine") «a calci. Max mi ama, sai, mi ama proprio come io amo lui. Oh Walter, sono così felice!» Dopo la telefonata, avevo detto a Bertie di dover partire e gli avevo spiegato il perché. Lui mi aveva detto che avrebbe continuato a lavorare sul manoscritto in mia assenza, visto che aveva tempo a disposizione. Aveva la chiave di Hem per entrare in casa... Fu così che mi ritrovai ad Amburgo, a leggere quell'inserzione senza capirci un'acca. «Perché mai il particolare più importante del tuo trucco è che la madre di quel ragazzo non ci sia?» chiesi io. «Chi paga la ricompensa se ora quella donna si fa viva sul serio e decide di parlare?» «Noi» disse Baby Blue.
«E dove avete preso ventimila marchi?» chiesi io. «Offerte» spiegò il vecchio Concon. «Offerte di chi?» «Di tutti» disse Baby Blue con il suo cantilenante accento svevo e cominciò a elencare tutti i locali porno-sexy di Amburgo sino a quando Max l'interruppe per darmi altre informazioni. I suoi amici, i magnaccia, lo avevano convocato nella città perché fosse al loro fianco nell'ora del bisogno. Su Sankt Pauli era infatti calata la dannazione. Agenti delle squadre di pronto intervento, diretti da un certo commissario Sievers, setacciavano ogni santa notte, spietati e irremovibili, tutto il quartiere dei divertimenti. Irrompevano all'Eros-Center, al Plais d'Amour, nei locali dove si faceva lo spogliarello, nelle pensioncine e negli alberghi. Retate. Pretendevano che spaventati padri di famiglia esibissero i loro documenti e si annotavano i loro nomi. Le puttane erano disperate, esattamente come i travestiti, i protettori, gli esercenti, i proprietari delle pensioni e le spogliarelliste. Non c'era più nessuno che osasse recarsi a Sankt Pauli. Ancora due settimane di quell'andazzo, e anche i locali di prim'ordine avrebbero dovuto chiudere per fallimento. «Ci rimettiamo un patrimonio» disse papà Concon. «Centinaia di migliaia di marchi. Il giro d'affari è calato del sessanta per cento. Una catastrofe.» Ripensai al mio incontro notturno con quello strano commissario Sievers della squadra mobile, nell'atrio della stazione, e a quello che aveva detto: che secondo lui cioè il giovane Concon e il piccolo Karel erano stati uccisi dalla stessa persona, e che lui sapeva già come l'avrebbe scovata. Ecco dunque il suo piano: buttare all'aria Sankt Pauli, e indurre chiunque vi lavorasse e vi traesse il suo sostentamento a unirsi agli altri, per organizzare la caccia all'assassino a titolo di legittima difesa. Un buon piano. E i suoi effetti si vedevano. «Questa che abbiamo formato, è una vera e propria società di mutuo soccorso» spiegò Baby Blue. «Dobbiamo scovare l'assassino. Pare che la madre di questo Karel non sia in Germania, lo ha detto lei, signor Roland. Ma l'assassino lo sa? No.» «Oppure sì» intervenne il vecchio Concon. «Ma non ha importanza. Importante è che l'assassino legga oggi tutte quelle inserzioni, quando gli capiteranno fra le mani i giornali di Amburgo.» «E a quel punto pensi un po' quello che vuole: che sia un'inserzione fatta
pubblicare davvero dalla madre, oppure l'esca d'una trappola. Comunque sia, dovrà tremare all'idea che anche quella donna che è stata a Neurode legga le inserzioni... e che decida di vuotare il sacco per avere tutti quei soldi» disse Baby Blue. «E risponda all'inserzione, scrivendo alla casella indicata. Lui non può correre questo rischio. È chiaro, no?» chiese papà Concon. Io annuii. «E così tutti hanno dato spontaneamente un loro contributo. Nessuno si è tirato indietro.» «E un primo risultato l'abbiamo già avuto» disse papà Concon. «Un'ora fa» disse Baby Blue. «Cos'è successo?» «È venuta da Baby Blue, in casa sua, tremante di fifa e piagnucolando, e ha implorato aiuto.» «Chi?» chiesi io. «Tamara Skinner» rispose papà Concon. «E chi è?» «Be', una lucciola» disse Max. «Una lucciolina tutta particolare» disse papà Concon. «Particolare perché?» «Perché è lei la donna che diciamo di voler cercare in quell'inserzione» disse Max. «Quella che guidava la macchina, quel giorno a Neurode.» «Per la miseria!» esclamai io. «Stupito, eh?» disse Max. «Sta di fatto che questa Tamara ha raccontato tutto a Baby Blue...» «Cos'ha raccontato?» «Che il giorno in cui è successo quel fattaccio al campo, aveva trovato un cliente di prima mattina. Uno tutto strano. Non le aveva chiesto altro che di guidare una macchina. Con a bordo il giovane Concon, che naturalmente Tamara conosceva. Doveva condurlo al campo, e basta. Quell'uomo le ha promesso duemila marchi di ricompensa: e infatti più tardi glieli ha anche dati. Solo per condurre Concon lassù, aspettare davanti al campo e poi riportare Concon ad Amburgo: assieme a un'altra persona, una ragazza.» «E quella ragazza avrebbe dovuto essere Irina» dissi io. «Appunto. Però è andato tutto storto, dico bene? Tamara è stata felice di essere riuscita a svignarsela con Concon. Ma dopo, quando hanno fatto fuori Concon, s'è presa uno spaghetto terribile. Ha pregato giorno e notte,
solo di poter vivere in pace e di non rivedere mai più l'uomo che l'aveva pagata. E infatti non l'ha più visto. Ma oggi non sa più da che parte girarsi dalla fifa. Non può non temere che quello si rifaccia vivo per accopparla: e presto anche, per via di quella nostra inserzione.» Max mi guardava, fiero. «Dal momento in cui è apparsa quella roba sui giornali,» spiegò Baby Blue «l'assassino non ha più un minuto di pace. Dopo quell'inserzione sa che Tamara può mettersi a cantare: parlare alla polizia, scrivere a chi ha pubblicato l'avviso, confidarsi con un'amica, cosa che ha poi fatto, appunto. Confessare di essere stata al campo, descrivere l'uomo che l'aveva assunta: l'uomo che era al volante dell'altra macchina, l'uomo che ha sparato al ragazzo.» «Vi ha detto come si chiama quest'uomo?» chiesi io. «No. Perché non lo sa. Però ce l'ha descritto.» «E com'è?» «Un uomo alto. Ben vestito. Parla un tedesco pulito, senza accenti» disse Baby Blue. «Cappotto blu. Berretto a visiera.» Rammentai vagamente che il facchino ucraino dell'Hotel Paris aveva descritto alla signorina Luise più o meno così l'uomo che era andato a cercare Karl Concon. «Viso lungo. Labbra sottili. Capelli neri. Basette lunghe. Tamara dice di poterlo riconoscere senza alcuna esitazione.» «Porco mondo, Max» dissi io. «Visto?» fece lui, orgoglioso. «Ora parleranno un po' anche della testa di Max, e non più soltanto del suo Johnny.» «A proposito: i ventimila marchi li abbiamo già dati a Tamara» disse papà Concon. «Noi siamo gente onesta.» «E ora?» chiesi io. «Quella donna adesso è davvero .in pericolo.» «Certo che Tamara è in pericolo» disse Baby Blue. «Abita qui vicino. In piazza Hans Albers. Non osa mettere il naso fuori di casa.» «Ovviamente la teniamo d'occhio» disse Max. «Non la perdiamo di vista un attimo. Noi e i piedipiatti.» «Avete avvisato la polizia?» «Sì» disse il vecchio Concon. «Il commissario Sievers e quelli del pronto intervento. Forse daranno una multa a Tamara, perché non è andata a riferire prima quello che sa: ma non sarà una gran multa, ha detto il commissario. Ora ci sono quelli del pronto intervento, la squadra mobile e anche gente nostra: sorvegliano Tamara e aspettano che quell'individuo si faccia vivo... E si farà vivo, vedrà!» «Gente vostra... e cioè?»
«Una vera e propria banda internazionale» disse il vecchio Concon. «Di tutte le razze, Walter» rincarò Max. «Due baristi» disse Baby Blue. «L'uno è francese, l'altro è un americano rimasto qui dopo la guerra.» «Tre buttafuori, perché abbiamo bisogno di gente robusta» disse Concon. «Un tedesco, un polacco e un olandese.» «Poi Panas Myrnyi» disse Baby Blue. «Il facchino dell'Hotel Paris. Un vecchio ucraino. Però ha insistito per poter fare la sua parte. Lui sta di guardia all'ingresso della casa dove abita Tamara. Continua ad aggirarsi lì nei paraggi.» «Dunque; e poi chi c'è ancora? Il proprietario d'un bar in persona. Un peso massimo, porca miseria. Un ex lottatore. Lo farà a polpette quell'individuo, se si fa vivo, te lo garantisco. Uno di qui, di Amburgo.» «Quindi un tedesco» dissi io. «Certo che è un tedesco» disse Max. «Ma che osservazione intelligente!» «Abbiamo anche un giovane russo» disse Baby Blue. «Fa il meccanico in una stazione di servizio qui vicino. Tamara e lui sono innamoratissimi. Si son conosciuti un paio di settimane fa.» «E che ci fa un russo qui ad Amburgo?» chiesi io, e non potevo fare a meno di pensare alla signorina Luise. «È il figlio di un ufficiale sovietico, uno che durante la guerra ha collaborato coi tedeschi. Nel '45 suo padre è fuggito in Germania occidentale col figlio. E poi è rimasto qui. È morto qui. Il figlio si chiama Sergej. Ora è in casa da Tamara e fa la guardia.» «Gli altri li abbiamo distribuiti strategicamente: sui tetti, negli androni, in giro per la piazza Hans Albers» disse Concon. «E poi c'è anche Jiri» disse Baby Blue. «Chi è Jiri?» «Il mio cocco. Stiamo insieme già da quattro mesi. Profugo di Brno, in Cecoslovacchia. Viviamo insieme. Anche lui fa la guardia.» E il commissario Sievers, l'uomo che aveva messo in moto tutto quel meccanismo, è un tedesco, pensai. Undici uomini fanno la guardia a Tamara Skinner: oltre a Max e ai poliziotti. Undici uomini che hanno la nazionalità degli undici amici morti della signorina Luise, pensai... 17
«Se ne esco viva, con quei soldi prendo in affitto il distributore per Sergej. Il proprietario è un vecchio. Vuole affittarlo e poi vivere in pace. E io mi sistemo...» sussurrava Tamara Skinner. Aveva circa trent'anni, era bionda, molto carina e aveva una pelle d'un rosa delicato. Fumava una sigaretta dopo l'altra. Sergej, il suo amichetto, continuava a sussurrarle non so che cosa per tenerla tranquilla. Il commissario Sievers e io eravamo seduti, dalle sette di sera, nel salotto buono di Tamara. Ormai era mezzanotte. Lo stabile in cui era l'appartamento di Tamara era vecchio, brutto e malandato. Ci vivevano famiglie di povera gente e alcune prostitute. Fuori, nella notte, faceva un freddo polare. Tamara stava preparandoci, per la terza volta, caffè molto forte. Gli uomini del commissario, gli agenti del pronto intervento e i protettori privati di Tamara erano dislocati nei dintorni, tutti in attesa da ore. Ovviamente era possibile che fosse per tutti un'attesa inutile. Parlavamo poco e a bassa voce, sperando che quell'uomo arrivasse nell'appartamentino di Tamara che era al secondo piano. Quel dover sussurrare e muoversi in punta di piedi, per ore e ore, cominciava ormai a darmi parecchio sui nervi. Il russo e il commissario parevano invece la calma e la tranquillità personificate. Solo quando Tamara - sempre impaurita - ci versò dell'altro caffè, Sievers mi si rivolse bisbigliando: «Vedrà che ho ragione. Quell'uomo ha sulla coscienza sia Concon che Karel». «E come crede di poterlo provare?» «Se Tamara lo riconosce, e se lo riconosce anche Panas Myrnyi, allora è proprio il nostro uomo.» Sievers fece un cenno di ringraziamento a Tamara e aggiunse del latte al caffè. «Però non ha ucciso lui il tassista russo, quel Vladimir Ivanov. Questo lo so ormai con certezza.» «E chi è stato?» «Gli americani» spiegò Sievers, piano. «Quelli della Niendorfer Strasse 333. Abbiamo tutte le prove che vogliamo. Ma sono intervenuti quelli dei servizi segreti. Gli americani hanno dovuto far fuori Ivanov perché lui sapeva di quel furgone che hanno affondato nel lago Krupund e perché aveva detto di voler cercare l'autista del furgone per denunciarlo. Questo caffè è ottimo, Tamara: lo fa ogni volta meglio. Continui pure a prepararne. Può darsi che noi si debba star qui tutta la notte, e forse anche tornare domani.» Tamara gli fece un sorriso forzato. «Un delitto quindi rimarrà impunito» continuò il commissario. «Ma per
questi altri due qualcuno pagherà, l'ho giurato.» «Giurato?» lo guardai un po' spaventato, nel ricordare la signorina Luise e i suoi amici. «A chi?» «A me stesso» asserì lui, piano, sorridendo come chi s'è concesso un piccolo scherzetto. Io dissi, per provocarlo: «A proposito, la signorina Luise sta molto meglio». «Lo so.» «Lo sa? E come?» «Ho parlato con lei.» «Cosa?» «Be', ma perché s'agita in quel modo? Ho telefonato in clinica, e me l'hanno chiamata all'apparecchio... ieri.» E aggiunse, molto piano: «Fra non molto lascerà l'ospedale...». In quell'attimo Sergej ci intimò di tacere. Aveva l'udito più fine di tutti noi. Da fuori giungeva un lieve rumore. Qualcuno stava salendo le scale in punta di piedi. La scala era di legno. Era inevitabile che qualche asse, di tanto in tanto, scricchiolasse. Tamara si strinse entrambe le mani sul petto, le sue labbra tremavano. I passi felpati si avvicinavano sempre di più. Un'altra asse scricchiolò. Il commissario fece capire a Tamara che se ne restasse ferma e silenziosa, e poi guardò me e il russo. Uscimmo cautamente dal salotto e ci sistemammo dietro la porta del bagno, che era proprio accanto all'uscio d'ingresso. Ci stavamo stretti, ci urtavamo l'un l'altro. Il commissario impugnava una grossa rivoltella. Sarebbe piaciuto anche a me averne una, ma la Colt 45 m'era stata portata via settimane prima, da quella simpatica gente di Blitz, assieme a tante altre cose. I passi si fermarono davanti alla porta dell'appartamento. Era una porta sconnessa e dalla fessura in fondo trapelava certamente della luce verso il corridoio. Qualcuno bussò. Sievers fece cenno a Tamara, con la pistola, perché aprisse. Lei si inoltrò con le ginocchia molli attraverso l'anticamera, e chiese: «Si? Chi è?». «Apri, su da brava» disse una voce maschile. Una voce che conoscevo. Ma dove l'avevo sentita? Dove? Mi sforzai di ricordare, ma senza riuscirci. Tamara tolse la catena che fissava il battente e aprì la porta d'uno spiraglio. Poi arretrò di due passi. Io ero proprio in fondo al bagno strettissimo, e non riuscii a scorgere l'uomo che entrava. L'uomo però vide la pistola di Sievers, che si era portato troppo in avanti. Girò i tacchi senza pensarci un at-
timo, e sentimmo i suoi passi precipitosi lungo il corridoio. «È lui! È lui!» urlò Tamara, fuori di sé. Il commissario, Sergej e io ci avviammo di corsa verso il corridoio. Feci appena in tempo a vedere l'uomo sollevarsi oltre il davanzale della finestra in fondo al corridoio. Un attimo dopo saltava giù. Raggiungemmo la finestra. Circa un metro e mezzo sotto c'era una tettoia. L'uomo correva - se ne scorgeva l'ombra - lungo il bordo di quella tettoia. Raggiunse una scala antincendi e sparì. «Maledizione» disse Sievers. Soffiò tre volte in un fischietto, producendo sibili acutissimi. Poi saltò giù anche lui sulla tettoia. Sergej e io lo seguimmo. Sulla tettoia c'era neve. Scivolai e finii quasi oltre il bordo. Sergej mi agguantò all'ultimo istante. Mi ero ferito a una mano. Scendemmo ansimando lungo la scala antincendi. I gradini metallici erano ricoperti di ghiaccio. Incespicando e scivolando, riuscimmo a raggiungere un cortile squallido, pieno di rifiuti. C'era anche un vicolo stretto, illuminato da una lampadina. Proseguimmo in quella direzione. E alla fine del viottolo ci trovammo in piazza Hans Albers. Contemporaneamente al commissario, vidi l'ombra dell'uomo inoltrarsi nella Gerhardstrasse e poi scendere verso Mary's Treff, un locale notturno. Tanti uomini sopraggiungevano di corsa: dagli androni, dai cortili, dai tetti. Erano poliziotti e gli amici di Tamara. Fra gli altri notai Max e anche il vecchio facchino Panas Myrnyi che sbraitava col fiato corto: «Era lui... era lui... l'uomo... dell'albergo... era lui...». «L'avevo detto» grugnì Sievers, adirato, mentre la sua gente correva lungo la Gerhardstrasse ricoperta d'un sottile strato di neve, passando davanti a prostitute sbalordite, vagabondi e nottambuli vari: tutti a caccia di quell'ombra. Improvvisamente l'ombra si voltò. Vedemmo un lampo. Poi echeggiò lo sparo. Gli inseguitori si addossarono alle pareti delle case. «Avanti!» urlò Sievers, e riprese a correre. Max, Sergej e io lo seguimmo. Io continuavo a scivolare sulle mie suole di cuoio. La Gerhardstrasse sboccava nella Erichstrasse. L'ombra si fermò per un attimo. Evidentemente c'era chi accorreva anche da sinistra, perché sparò di nuovo, in quella direzione, poi svoltò a destra e spari oltre l'angolo di Mary's Treff. Lungo la Erichstrasse c'erano soltanto vecchi edifici cadenti. Quando la raggiungemmo, finimmo addosso a tre poliziotti del pronto intervento, di cui uno in divisa e due con le pistole in pugno. «Dov'è andato, Lütjens?» gridò Sievers. «Giù per la strada e poi a sinistra nella Balduinstrassc!» gridò Lütjens.
Riprendemmo a correre. Eravamo almeno in due dozzine d'uomini, più una donna. Perché anche Tamara stava arrivando di corsa. C'inoltrammo per la Balduinstrassc La strada terminava con una scalinata, lungo la quale si scendeva verso il porto. Scorsi di nuovo l'ombra dell'uomo in fuga. Parecchi poliziotti cominciarono a sparare verso di lui. E quello rispose al fuoco. Centrò un agente a una gamba. Un secondo agente si fermò per occuparsi del ferito, noi altri riprendemmo la nostra corsa, a scivoloni sul ghiaccio che ricopriva la scalinata. Io caddi un'altra volta, ma riuscii a rimettermi subito in piedi. Giù nella strada per il porto, ai margini, c'erano grandi mucchi di ghiaia coperti di neve. Accanto a quei cumuli avvengono le contrattazioni fra le prostitute e coloro che le vanno a cercare in macchina. Le ragazze presero a fuggire in tutte le direzioni, urlando. Le automobili accelerarono e sparirono quando noi ci avvicinammo. Scivolai di nuovo: ma stavolta su un preservativo. Conoscevo Amburgo e conoscevo quel tratto di strada. All'alba, dopo le notti intense e laboriose, si possono trovare dai venti ai trenta preservativi per metro quadrato. Mi rialzai bestemmiando. «Eccolo là!» urlò un uomo. Vidi l'ombra scendere di corsa lungo una scalinata di pietra, in direzione del canale. Si voltava in continuazione e sparava in continuazione. Ricaricava l'arma man mano: si udiva chiaramente lo scatto quando inseriva un nuovo caricatore. Molti uomini rispondevano sparando a loro volta. In fondo alla scala, ormai a ridosso del canale, c'era un'impalcatura sorretta da pilastri di cemento: un lunghissimo pontone che porta sull'altra sponda, dove c'è il mercato del pesce. Max ansimava accanto a me: «Se ora quello riesce a svignarsela per di là...». Già, allora si sarebbe messa proprio male. Era facile nascondersi dietro i pilastri, e il pontone era immerso nella più completa oscurità. Sparare era impossibile per chi fosse in strada. Chi invece sparava dal pontone, poteva mirare benissimo, come dovetti constatare subito. Una pallottola mi fischiò vicino alla testa. «Attento!» gridò Sievers. Si gettò a terra e sparò quattro colpi consecutivamente. Seguirono molti altri spari. Poi ancora lo scatto del caricatore. Ancora spari. Nessuno avrebbe potuto dire chi era stato colpito: certo è che all'improvviso sentimmo un gran urlo, poi dei lamenti e infine silenzio.
I poliziotti e gli altri uomini avanzavano lentamente, senza quasi far rumore, da ogni parte. Ora avevo al mio fianco Tamara e Myrnyi. Gli agenti e il brigadiere Lütjens procedevano con le armi puntate. Non volevano correre rischi. Sievers cominciò a scendere lentamente i gradini verso il pontone, tenendosi addossato al parapetto. S'infilò una mano in tasca e subito dopo s'accese la luce d'una potente lampada tascabile. Avevo seguito Sievers, e vidi immediatamente, dietro il secondo pilastro trasversale del pontone riverso faccia all'ingiù su una piattaforma di cemento che si allungava sull'acqua, le braccia protese in avanti - un uomo: il nostro uomo. Lütjens trattenne la gente che stava per scendere le scale. Si fermarono tutti, respirando affannosamente, chi armato e chi no, poliziotti e civili, tedeschi e stranieri. «Piano. Fate attenzione...» M'ero seduto su un gradino e vidi il commissario chinarsi sulla figura distesa e immobile. La luce della lampadina cadde così su un motoscafo, legato al di là del terzo pilastro trasversale. «La barca! È venuto in motoscafo e voleva usarlo anche per tagliare la corda!» disse Lütjens, senza fiato. «Signorina Skinner! Signor Myrnyi!» risuonò la voce del commissario. «Vengano qui!» Lütjens li fece passare. Si avviarono lungo la passerella del pontone verso Sievers. Io li seguii, benché nessuno m'avesse invitato a farlo. Il cappotto dell'uomo stava tingendosi di rosso. Il sangue usciva da un punto della schiena che corrispondeva al cuore. Noi tre - Tamara, Myrnyi ed io - eravamo ormai vicinissimi. L'acqua sotto di noi sciabordava e ci schizzava le scarpe. La passerella era scivolosa. Io mi afferrai a una delle travi. «Bene,» disse Sievers, inginocchiato accanto al morto, «vediamo un po' che faccia hai.» Rivoltò con precauzione il cadavere sulla schiena. E vidi il volto di Olaf Notung, il domestico. 18 Alle 7 e 15 del mattino seguente giunsi alla stazione centrale di Brema. Il pastore Demel mi aspettava sotto la pensilina. Ci stringemmo la mano e
ci avviammo in silenzio verso la Volkswagen. Demel aveva un'aria depressa e s'intuiva che quella notte non aveva dormito. La sua telefonata mi aveva raggiunto alle tre di notte alla centrale di polizia, dove mi ero recato con gli altri. Hem aveva consigliato Demel di tentare di cercarmi li. E lui mi aveva telefonato. In tono concitato Demel mi disse di prendere il primo treno per Brema. E io l'avevo fatto... «Vorrà sapere com'è andata» disse Demel, infine. «Certo» dissi io. Allora prosegui: «Andiamo per ordine, dunque. Ieri sera alle 9 e 30 la signorina Luise si è presentata, cappotto e cappellino addosso, alla portineria dell'ospedale Ludwig...». Il portiere - seppi poi - constatò che la signorina aveva un'aria felice e raggiante. Non l'aveva mai vista così in precedenza. La conosceva ormai bene, come del resto tutti i medici e gli altri impiegati dell'ospedale. Notò anche che non sembrava avere fretta. «Devo uscire ancora un attimo» disse la signorina. «Devo fare una commissione per il professore. A volte gli succede di non poter dormire e allora si mette a fumare. Però ha finito il suo tabacco preferito. E così vado a prendergliene due pacchetti.» «Va bene, signorina Luise.» Lei si avviò, per la strada buia. Nevicava parecchio a quell'ora... Mezz'ora dopo, vedendo che la signorina Luise non era ancora rientrata, il portiere avvisò il reparto e fece il suo rapporto all'infermiera di notte. L'infermiera svegliò il medico di turno. Si trattava, guarda caso, del dottor Germela, il quale - al telefono - investì bruscamente il portiere: chi gli aveva permesso di far uscire la signorina a quell'ora così tarda? «Mi scusi, dottore,» disse il portiere con finta cortesia «ma ho pensato che, ora che abbiamo la pazzia democratica e il parlamento dei matti, il consentirle di uscire rientrasse perfettamente nel suo concetto terapeutico...» In tal modo il portiere riuscì a far capire al dottor Germela quel che pensava di lui. Germela si era recato subito nella stanza della signorina e aveva constatato che aveva portato con sé sciarpa, guanti, cappellino, cappotto e tutti i suoi soldi: quelli che le aveva dato la figlia del professor Leglund e che aveva messo da parte. Sperando di poter sapere qualcosa da Leglund, Germela si era recato anche nella sua stanza. E il vecchio infatti non stava ancora dormendo.
«La signorina Luise?» chiese, meravigliato. «Che significa: dov'è? Ma se è morta dodici anni fa...» A questo punto Germela, persosi di coraggio, diede l'allarme. In quel momento la signorina era seduta in un taxi e viaggiava lungo l'autostrada, nella notte. Aveva scelto uno dei taxi che erano sempre parcheggiati a una qualche distanza dall'ingresso dell'ospedale, in attesa di clienti. Il conducente, dopo quel viaggio, era tornato all'ospedale e, quando senti dire dal portiere quello che era successo, riferì subito del suo incontro con la signorina. «È stata molto gentile» disse il tassista al dottor Wolfgang Erkner, che aveva assunto la direzione delle ricerche. «Ho pensato che fosse una d'una setta religiosa...» «Perché?» «Perché...» «...be', senta, un uomo della sua età dovrebbe proprio vergognarsi!» disse la signorina, pochi minuti dopo la partenza. Si era seduta accanto all'autista e puntava il dito, con aria indignata, su una copia di Playboy che era lì sul sedile, in mezzo a loro. Una copia aperta su un'immagine non propriamente da oratorio. «Rifugga dal peccato» continuò la signorina. «Quando sarà all'altro mondo s'accorgerà delle sciocchezze che ha fatto. Sarebbe molto meglio se si preparasse a raggiungere l'altro mondo...» («Una signorina molto simpatica ma anche molto religiosa» spiegò più tardi il tassista.) La nevicata cessò d'improvviso, le nuvole si aprirono e la luna cominciò a illuminare la strada. «Più in fretta» disse la signorina al tassista. «Le dispiacerebbe andare più in fretta?» «Volentieri, signora.» «Non vedo l'ora di arrivare» spiegò Luise. «Come mai?» «Ah, se sapesse che serata ho passato! I miei amici hanno continuato a chiamarmi! Senza darmi un attimo di tregua! E mi dicevano di raggiungerli! Di andare da loro al più presto! Dev'essere successo qualcosa di grave!» «Ha degli amici a Neurode?» chiese il tassista, a cui la signorina aveva indicato Neurode come meta della corsa. «Oh sì. Ottimi amici. I migliori. E chiedono di me. Devo proprio affrettarmi. Non si potrebbe andare più veloci?»
«Come vuole» disse il tassista. Poi, lungo l'ultimo tratto di quella strada orribile, dovette rallentare per forza, e poco prima di Neurode la signorina gli chiese di fermare. «Ma non siamo ancora a Neurode.» «Lo so. Ma... voglio fare alcuni passi a piedi, per prendere un po' d'aria. Quanto le devo?» Lui disse il prezzo della corsa e lei pagò, prelevando i soldi da un sacchetto di carta: il tassista lo notò con meraviglia. Gli diede cinque marchi di mancia. «Grazie, signora. E auguri.» «Anche a lei!» esclamò la signorina, avviandosi allegra sulla neve caduta di fresco. «Anche a lei, mio caro! E lasci perdere quegli stupidi peccati, capito?» Il tassista si mise a ridere e proseguì fino al villaggio, ove invertì la direzione di marcia. Quando ripercorse quel tratto di strada, non vide più la signorina Luise, ma non si curò nemmeno di guardare dove s'era cacciata. Il dottor Erkner ascoltò questo racconto direttamente dalla bocca del tassista alle 23 e 45. Telefonò immediatamente al campo profughi di Neurode. Di notte, il telefono era collegato alla camera da letto del direttore del campo: il dottor Horst Schall. Il dottor Schall uscì subito dal letto, non appena sentì le domande e le spiegazioni del dottor Erkner. Svegliò il medico del campo, il dottor Schiemann, l'autista Kuschke e il pastore Demel. Attraversarono insieme il campo, di corsa, interrogarono il vecchio guardiano che era di servizio al cancello, verificarono - ma senza speranze ormai - nell'ufficio della signorina Luise, e alla fine cominciarono anche a chiamarla a gran voce. I richiami svegliarono tutti nel campo, adulti e ragazzi. Una giovane spagnola si avvicinò al gruppo degli uomini. Era ancora vestita e aveva un'aria molto agitata. Schall conosceva lo spagnolo. Parlò con la ragazza e poi tradusse per gli altri: «Juanita dice di essere stata stasera al bar Colpo alla Nuca. A lungo. Con un uomo che le proponeva un posto di ballerina, ad Amburgo. Quell'uomo le ha offerto da bere... parecchio, come vedete». La bella ragazza, in effetti, era ubriaca. «Juanita dice che alla fine è stata presa dalla paura e che è fuggita via da quell'uomo, in direzione del campo. E poi ha continuato a voltarsi per vedere se quello la seguiva.» «E allora?» chiese Kuschke. «Quello non l'ha seguita» disse Schall. «Però è venuta una macchina che
ha compiuto nel villaggio un'inversione di marcia, ed è a questo punto che Juanita ha visto una figura stagliarsi sull'orizzonte rischiarato dalla luna, e può anche dirci esattamente dove. Non può affermare con certezza che si trattasse della signorina, ma ritiene che sia possibile. Dice che questa figura si è inoltrata nei canneti dall'altra parte del villaggio e si è poi avviata nella palude.» «Maledizione!» disse Kuschke. «E poi, dice Juanita, la figura s'è messa a camminare sulla palude, come se fosse sospesa sull'acqua» continuava a interpretare il dottor Schall. «L'ha vista librarsi così per un tratto. Poi improvvisamente è svanita...» «Dobbiamo spicciarci!» esclamò Kuschke. «Credo che non potremo più fare molto» disse il pastore. Il dottor Schall disse: «Vado a chiamare i vigili del fuoco. Chissà che quelli...». Non completò la frase, e si avviò di corsa verso la sua baracca. 19 «I pompieri sono arrivati subito» mi raccontò il pastore Demel. «Tre squadre, anche dai villaggi vicini. Con i loro attrezzi e le cellule fotoelettriche. Hanno lavorato per tutta la notte. Sono al lavoro anche adesso.» «Hanno trovato il punto giusto?» «Si, Juanita ce l'ha mostrato prima ancora dell'arrivo dei vigili del fuoco. La signorina Luise ha lasciato il villaggio e si è avviata nella palude lungo uno stretto sentiero che aveva sempre utilizzato quando si recava dai suoi amici sulla collina. Ho trovato le tracce delle sue scarpe, le impronte. Ed è li, lungo quel sentiero, che gli uomini cercano, da stanotte.» «E non trovano niente» dissi io, piano. «Niente» disse il pastore, ancora più piano. Dopo di che non parlammo più, e il pastore si avviò per quella strada terribile, piena di buche, che correva fra i piccoli e miseri villaggi e portava alla palude. Mi fecero un'impressione anche più squallida della prima volta che li avevo visti. L'intera zona mi apparve sinistra e inquietante. La terra ferma era coperta di neve, la palude era d'un nero profondo. Bianchi di neve erano anche i tronchi nudi e i rami delle betulle, degli ontani e dei salici. Le canne del canneto lungo la strada si ergevano rigide come lance. Più in là si scorgeva l'acqua limacciosa, immersa nella nebbia e nella foschia. Finalmente arrivammo.
La strada era bloccata dai veicoli rossi dei vigili del fuoco. Vidi uomini con scale, e altri uomini inoltrarsi all'interno della palude con delle assi. Sondavano l'acqua sporca e buia con delle pertiche. Scorsi il direttore del campo dottor Schall, il medico dottor Schiemann, l'autista Kuschke e il dottor Wolfgang Erkner. Demel fermò la macchina. Scendemmo. Salutai quegli uomini: erano pallidi, avevano le barbe lunghe e l'aria stanca. «Niente» disse il medico del campo. Il direttore del campo aggiunse: «Fra poco i vigili del fuoco rinunceranno alle ricerche. Si può dire che abbiano esplorato ogni metro quadrato di palude, con quelle loro pertiche, nell'intera zona che abbiamo preso in considerazione. Non trovano niente. Neanche un indumento. È sparita senza lasciare traccia». «Non una sola traccia» disse Kuschke, guardandosi le sue grandi mani. «La signorina è accorsa perché i suoi amici la chiamavano, allegra e felice come non mai» dissi io, piano. «Già» disse Demel. «Allegra e felice come non mai, lo hanno detto i testimoni...» Si fermò soprappensiero, e poi disse, sconvolto, come parlando a vuoto: «"Lasciate ch'io da tutti mi congedi - senza lamenti, cantando come cigno..."». E chiese: «Chi ha scritto questi versi?». Nessuno lo sapeva. «Vorrei andare a dare un'occhiata anch'io» dissi. Mi diedero una tuta di gomma e una pertica. Usando la pertica come puntello, m'inoltrai, disteso sulla scala, nella palude, lungo lo stretto sentiero ricoperto di neve. E su quella neve, su quel sentiero, notai chiaramente le impronte d'un paio di scarpe femminili, a punta: le orme erano vicine l'una all'altra, e dicevano che la signorina si era mossa in fretta. Un altro metro. Ancora uno. E poi, da un punto all'altro, quella traccia finiva. Nessuna impronta più. Solo la neve ancora, inviolata. Me ne restai disteso sulla scala, impacciato dalla tuta di gomma, gli occhi fissi su quell'ultima orma nella neve. Un vigile del fuoco, che mi si era avvicinato manovrando la sua pertica, stette a guardarmi per un po' in silenzio, e poi disse: «Qui è finita dentro. Abbiamo continuato a cercare in questo punto. Ma non è qui sotto». «Ma deve essere qui sotto!» «Già, dovrebbe! Solo che non c'è. Non la troveremo mai.» Riprese a muoversi manovrando la pertica. Lo seguii con lo sguardo e rimasi per qualche tempo ancora immobile accanto al sentiero e accanto a quell'ultima impronta di scarpa, disteso sulla mia scala, a pensare alla signorina
Luise. Poi fui colto dal freddo e mi affrettai a riguadagnare la terraferma. Mi tolsi la tuta di gomma e mi infilai di nuovo il mio cappotto. Chiesi al pastore Demel se potevo recarmi al campo, nella stanza della signorina Luise. Lui fece un cenno di assenso e mi accompagnò, in silenzio. La neve scricchiolava ai nostri passi. La baracca in fondo al campo, laggiù dove già si scorgevano di nuovo le nebbie della palude, sembrava abbandonata, perché dai suoi locali non venivano rumori né suoni di voci. Raggiungemmo l'ufficio della signorina Luise. C'era un freddo gelido e tutto era ancora come quel pomeriggio, quando ero stato lì per la prima volta. Mi guardai attorno. I brutti mobili. Le scartoffie. I fogli sulla scrivania. Qualcuno doveva aver riordinato la stanza molto tempo prima, ma c'era di nuovo polvere dappertutto. I cactus nei tre vasi di terracotta, sul davanzale della finestra, parevano congelati. I vetri erano ricoperti di fiori di ghiaccio. Ecco la piastra elettrica che il pastore aveva aggiustato. Ecco, appeso alla parete di fronte alla finestra, il grande disegno nero, bianco e grigio, che la signorina Luise aveva disegnato tre anni prima. E ora era morta. Già, ma era proprio morta? Mi avviai lentamente nell'altra stanza, nel soggiorno. Faceva molto freddo anche li. Ecco il tappeto a toppe fatto di tanti frammenti di stoffe colorate, ecco l'armadio, la libreria, i sei quadri dipinti da bambini alle pareti, la lampada, la radio sul tavolino accanto al letto, e sopra la radio il libro che avevo già sfogliato una volta. Anche il letto era stato rifatto da quella ormai lontana notte quando la signorina Luise si era alzata per correre sulla collinetta nella palude, dai suoi amici, prima di raggiungere Amburgo. «Perché ci teneva tanto a tornare qui un'altra volta?» mi chiese Demel. «Voglio sapere quello che resta d'una vita umana.» «Be', non è molto, vero?» «Chissà!» Presi il libro dal tavolino. Era aperto, accanto alla sveglia e a un tubetto di sonnifero. Era il libro con quel brano segnato di rosso che avevo cominciato a leggere, quella volta. Shakespeare. Opere complete. Terzo volume. Questa volta, pensai, voglio leggere tutto il passaggio che la signorina ha sottolineato: stavolta ho tempo. Dunque: La tempesta, atto quarto, scena prima. Dice Prospero: «La festa è finita...». Lessi e poi porsi il libro a Demel. Lui prese il volume, e lesse a bassa
voce, in quella stanza gelida, dei versi che avrebbero potuto essere un necrologio per la signorina Luise. Eccoli: «La festa è finita; i nostri attori come vi ho detto, erano solo fantasmi e si sono dissolti nell'aria, nell'aria sottile. E come l'edificio senza basi di quella visione, anche gli altri torrioni incoronati di nuvole, i sontuosi palazzi e i templi solenni, e questo stesso mondo immenso, con tutto quello che vi contiene, dovrà dissolversi come l'insostanziale spettacolo dianzi svanito, e svanirà nell'aria senza lasciar fumo di sé. Noi siamo della materia di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita si riduce a un sonno...». 20 «... Noi siamo della materia di cui son fatti i sogni...» Dovetti continuare a ripensare a quella frase, mentre rientravo in treno, da Brema a Francoforte, attraverso un paesaggio immerso nella neve. E prendevo dentro di me congedo dalla signorina Luise, la cui sorte mi stringeva il cuore, come mai nulla in precedenza era stato capace di commuovermi. Allora non sapevo ancora che mi sarebbe rimasta sempre accanto, vicino a me, dentro di me. Alla stazione ferroviaria presi il tram per andare a casa di Hem. Salii coll'ascensore. Nell'aprire la porta, ebbi l'impressione che la serratura fosse stranamente allentata o smossa, ma lì per lì non ci feci molto caso. In casa faceva caldo. Sapevo che Hem era al giornale, che Irina era dal suo psicologo e che Bertie stava lavorando al mio manoscritto. Lo chiamai, ma non ebbi risposta. Mi avviai per il lungo corridoio buio, verso le due stanze che Hem aveva messo a disposizione mia e di Irina. Aprii la porta della stanza che utilizzavo come studio. Scorsi così, sulla scrivania accanto alla finestra, la parte superiore del corpo di Bertie riversa sul ripiano. La testa era appoggiata alla scrivania, le braccia pendevano verso terra. Si era tolto la giacca. La camicia, sulla schiena, era intrisa di sangue, e sangue era sgocciolato sul pavimento. Mi avvicinai, inorridito. Almeno cinque colpi esplosi da un mitra avevano centrato la schiena di
Bertie. L'assassino (o gli assassini) aveva (o avevano) agito con grande velocità. Bertie, del tutto inconsapevole del pericolo, doveva aver sentito la porta di casa che si apriva, e aver pensato che ero io quello che entrava. Non si era nemmeno voltato quando era stata aperta la porta dello studio. E ora era lì, senza vita: la matita gli era sfuggita di mano, finendo a terra, in una pozza di sangue. La testa poggiava storta sulla scrivania. La luce degli occhi come spezzata, il viso sbiancato, le labbra distorte in un sorriso. Era morto così, sorridendo. Tutto l'appartamento era stato buttato all'aria e perquisito: i cassetti erano stati strappati dalla scrivania e dagli armadi, il loro contenuto sparso a terra. Il mio manoscritto era sparito, copertina compresa, e non trovai più nemmeno traccia dei nastri registrati, del registratore, delle fotocopie dei miei appunti. Cercai dappertutto. Non trovai niente. Chiamai la polizia e dissi loro di venire in fretta, con un funzionario. Avevo capito tutto, benissimo: e mi sentivo anche in preda di un'ira bruciante quanto impotente, e di un dolore profondo. «Cos'è successo?» chiese il poliziotto al telefono. «È stato ucciso un uomo» dissi io. Il mio amico Bertie. Il mio compagno Bertie. Morto. «Chi hanno ucciso, signor Roland?» «Me» dissi, terribilmente scosso, perché avevo compreso anche questo: Bertie era stato ucciso per sbaglio, per eccesso di precipitazione. Ma era me che avrebbero voluto ridurre al silenzio. «Lei? È impazzito?» Non riuscii più a dire una parola, e riagganciai il ricevitore. Cinque minuti dopo la prima macchina della squadra omicidi era già arrivata. 21 La polizia convenne che la mia ipotesi era esatta: Bertie era stato ucciso per errore, e quelle pallottole erano destinate a me. Del resto lo si poteva anche desumere dalla scomparsa del manoscritto e dei nastri registrati. L'inchiesta fu svolta con massima segretezza, perché nulla trapelasse in pubblico. Quando Irina e Hem rientrarono a casa, la salma di Bertie era già stata rimossa e portata via, e io avevo lavato le macchie di sangue. Quando raccontai quello che era successo, Irina pianse a lungo. Hem disse soltanto: «Quei porci, quei porci maledetti. Chi credi che sia stato?». «Può averlo fatto chiunque avesse interesse a impedire la pubblicazione di questa storia. Chiunque. Oppure tutti insieme. Forse hanno pagato un
killer. Nessuno vuole che questa storia si sappia. Herford non lo vuole. Non lo vogliono gli americani. Non lo vogliono i russi. Chissà, probabilmente non lo vuole nemmeno Vanderberg.» «Ma se è lui che ti ha detto di scrivere il libro!» disse Irina, disorientata. «Si, me lo ha detto. Ma probabilmente ha agito per incarico, come complice di altri. Volevano assicurarsi che scrivessi il libro per Vanderberg... e non ne parlassi ad altri. Per avere tempo e calma. Per potermi poi accoppare in tutta tranquillità. E invece, in tutta tranquillità, hanno ucciso un altro. Li accuso tutti: Herford, gli americani, i russi... e anche Vanderberg! Non credo più a nessuno! Vedrete, non troveranno mai l'assassino.» E avevo perfettamente ragione. L'assassino non è mai più stato trovato. Due giorni dopo avvenne la cremazione. Bertie aveva espresso il desiderio di essere cremato, e quindi il funerale si svolse presso il crematorio. C'era tanta gente. I compagni di lavoro di Bertie, e tutti quelli di Blitz che avevano potuto lasciare il giornale: Herford e mami in testa, naturalmente. Irina e io non ci andammo. Hem ci riferì che Herford aveva tenuto un discorso goffo e reboante sui meriti che Bertie aveva acquisito a Blitz: un discorso sgraziato quanto tutta la sua persona. «L'ho amato come un figlio!» aveva esclamato Herford, piangendo senza ritegno. Hem ce lo raccontò, così come ci disse delle enormi corone, dei grandi mazzi di fiori: tutto esagerato, tutto troppo pomposo. Mami - raccontò Hem - era rimasta seduta per tutta la cerimonia, in prima fila, senza muoversi, senza guardare nessuno, senza parlare. E quando la bara era stata portata via, si era alzata e se ne era andata, imperturbabile. La sera di quel giorno - era martedì 14 gennaio 1969 - Irina, Hem e io ci avviammo verso il crematorio. Non si poteva più entrare a quell'ora, non ci si poteva nemmeno più avvicinare: i cancelli dell'inferriata erano chiusi. Nevicava un poco, era buio, solo alcuni lampioni erano accesi lungo la strada. Rimanemmo lì a lungo, in silenzio. E ciascuno di noi parlò ancora una volta con Bertie, ciascuno a suo modo, ciascuno con le sue parole, muti. Lui non c'era più, forse non c'era più neanche la sua cenere, eppure parlammo tutti e tre con lui, in silenzio. Io pensai che il mio vecchio amico Bertie era ora lì dove erano la signorina Luise e i suoi amici: ovunque fosse quel luogo, in qualsivoglia regno. Poi ce ne andammo, lungo il viale coperto di neve, verso la strada principale.
Fu a quel punto che Hem mi disse, a un tratto: «È stato ucciso l'uomo sbagliato, e tu sei ancora vivo, Walter. Sai cosa significa?». «Sì, lo so.» «Ora hai una moglie, e tua moglie attende un bambino.» «Di cosa state parlando?» chiese Irina. «Di niente, amore mio. Di niente. Non ti agitare. Ho solo bisogno di fare una cosa. In fretta. Vero, Hem?» «Sì. Molto in fretta, Walter. Più presto che puoi.» «Oh sì!» disse Irina improvvisamente. «Sì. Sì, Walter, naturalmente. Devi farlo!» Mi guardava piena di paura, e sottili fiocchi di neve cadevano su di noi dal cielo scuro. Improvvisamente mi tornarono alla memoria le parole che la signorina Luise mi aveva detto a Brema, all'ospedale Ludwig: «Ho un messaggio da parte dei miei amici. Per lei e per il signor Engelhardt. Ve lo devo riferire, perché siete brave persone. I miei amici le mandano a dire che lei sarà felice, signor Roland. Ma dovrà prima percorrere una lunga strada per raggiungere la felicità, e superare ancora molte prove e avere pazienza, soprattutto pazienza. Il suo amico Engelhardt avrà una sorte più facile e bella. Per lui è sempre stato tutto più facile. Il suo amico raggiungerà molto presto quello che è giusto e bello raggiungere...». 22 Si chiamava Peter Blenheim, era grafico pubblicitario di professione. Un uomo sulla sessantina: aveva un suo fascino sottile e l'abitudine, quando parlava, di riunire le punte delle sue belle dita. Era alto, allegro di carattere; aveva fitti capelli castani, un viso smunto, la pelle abbronzata, una barbetta rada e gli occhi scintillanti e scuri d'uno scoiattolo. Aveva - nonostante l'alta statura - molto dell'aspetto buffo, scattante, e della spensierata allegria d'uno scoiattolo: bastava guardarlo in faccia. Naturalmente non aveva nulla dello scoiattolo, non era grande né allegro, parlando non riuniva le punte delle sue belle dita, non aveva fascino sottile, e non era grafico pubblicitario. Era sulla sessantina, questo è vero. Ma non si chiamava affatto Peter Blenheim. È abbastanza ovvio che lo devo descrivere come non era, e dargli un nome che non è il suo. «Gli amici di Max Knipper sono amici miei» disse a titolo di benvenuto. Poi fece accomodare Irina e me, passando per una mansarda, in un vasto
atelier ove lavorava. Alle pareti, con puntine da disegno, erano fissati abbozzi di cartelloni pubblicitari e di manifesti: grandi e piccoli, a colori e in bianco e nero. Sul tavolo da lavoro c'erano mucchi di matite, tubetti di colore, pennelli, fogli di cartoncino colorato in tutte le tinte, e poi ancora penne, inchiostri, compassi. Vidi anche un cavalletto a treppiede. Ci fece accomodare accanto a un tavolino molto basso, su un sofà appoggiato direttamente al pavimento, senza piedi, ricoperto d'una stoffa vivace. Lui si sedette di fronte a noi, su uno sgabello di cuoio di fattura araba. A Irina e a me fece subito l'impressione d'un uomo degno di fiducia, abile e coscienzioso. E lo era davvero. «È il migliore sulla piazza» mi aveva detto Max, quando gli avevo prospettato il mio problema. «Però devi aspettare che ti fissi un appuntamento.» «Ha tanto da fare?» «No, ma riceve solo su raccomandazione di buoni amici. E ha ragione! È tutta la vita che fa quel mestiere, e non gli è mai successo di finire nelle mani della polizia o davanti a un tribunale.» Peter Blenheim era un falsario di documenti: passaporti, carte d'identità, certificati di nascita, di battesimo, di residenza, di tutto quello che può capitare di sentirsi chiedere. E di ogni paese. In tutte le lingue. Non esistevano documenti originali (per lo più rubati) che non fosse in grado di procurarsi o che non avesse già. Ce ne rendemmo conto subito, quando ci chiese in quale paese avremmo voluto andare e quali nomi avremmo voluto avere. «Io lavoro bene, in fretta e a caro prezzo» disse lui. «Questo è lo slogan della mia ditta. Non ho mai avuto un cliente che sia rimasto insoddisfatto di me. E mai nessun contrattempo.» È un peccato che non vi possa dire la vera identità di Peter Blenheim, e raccomandarlo così caldamente a chiunque possa averne bisogno. Ci consigliò e ci servì in modo assolutamente perfetto. E in fondo non era poi così caro: avevo ancora i miei brillanti, e mi riuscì facile pagare tutto, anche i biglietti d'aereo, e affrontare poi le prime spese nel paese in cui ci siamo trasferiti. Siamo vissuti per tutto quel primo, difficile periodo coi soldi che avevo ricavato vendendo quei brillanti. Ormai mi sembra che quell'epoca sia lontana un'eternità. Non posso naturalmente dire come mi chiamo oggi, come si chiama Irina; né dove abbiamo trovato la nostra nuova patria. Posso dirvi che stiamo bene. Non
scrivo più, ho tutt'altro lavoro e guadagno quattrini a palate. Ora siamo in tre. Irina ha avuto una bambina, e non vi dirò nemmeno come si chiama lei. Sono innamorato pazzo della piccina. Ho sempre desiderato tanto di essere padre. A volte credo che Irina sia addirittura gelosa di sua figlia. Il lavoro che faccio è onesto e pulito, non più come quello di prima. Anch'io sono diventato un altro: così onesto, per esempio, da aver pagato - per vie traverse - tutti i miei debiti con Blitz, e persino le tasse arretrate. E continuo a non bere, neanche un goccio... Quella volta restammo a lungo da Peter Blenheim, perché avevamo molta fretta, e quindi lui si mise subito al lavoro. Ci fotografò per procurarsi le fotografie per i passaporti; scelse con noi due serie di stampati e di certificati; costruimmo insieme due nuove vite: una per Irina, l'altra per me, con nomi, cognomi, date e località. «Ora dovete cacciarvi bene in testa queste date e queste località» disse Peter Blenheim. «Impararle a memoria. Fare in modo che se un giorno qualcuno vi scuotesse dal sonno e vi urlasse i vostri veri nomi, voi siate corazzati al punto da non battere ciglio. Le vostre nuove vite vi devono penetrare in ogni fibra. Esercitatevi! Continuamente. L'uno di voi svegli l'altro nel mezzo della notte, urlando, e gli chieda dov'è nato, e quando, e il nome di sua madre. Tutto questo è assai più importante dei miei documenti, lo capite?» «Sì» dissi io. E infatti, in quei giorni, e poi ancora a lungo dopo la nostra fuga, abbiamo continuato a fare di quelle esercitazioni notturne. «Lo dico sempre e a tutti: documenti perfettamente falsificati non servono a niente, se non è perfettamente cambiata anche la persona che li usa» spiegò Blenheim. Guardai Irina e poi guardai lui. «Che c'è?» mi chiese. «Sento un'inflessione curiosa, come dialettale, nel suo modo di parlare» dissi io. «Lei non è di Franco forte, vero?» «No. Non sono di qui, benché sia un'eternità che vivo qui. È curioso, ma di questo accento non riesco a liberarmi.» «Di dov'è lei?» chiesi, lentamente. «È austriaco?» «No, vengo dalla Boemia. È di lì che sono. I miei genitori vi sono nati, tutti i miei avi. Avevamo una piccola fattoria a Spindlermühle.» «Spindlermühle? E dov'è?» chiese Irina. «Nel Massiccio Centrale. Non molto lontano dai Prati Bianchi» rispose
lui. «I Prati Bianchi sono una palude alta. Loro non mi crederanno, ma subito dopo aver dato l'esame di maturità, ho studiato ancora per qualche tempo. A Vienna. Filosofia!» Si mise a ridere. «Stupiti, eh?» «Sì» dissi io, e guardai di nuovo Irina, che ricambiò la mia occhiata. «Comunque non a lungo. A un certo punto sono venuto a contatto con gente di questo mestiere, e ho smesso di studiare. Poco dopo sono morti anche i miei genitori. E ho venduto la fattoria.» Sorrideva sempre, immerso nei suoi ricordi. «Però che bei tempi, quelli dell'università. Durante le vacanze, tornavo sempre a casa; a Spindlermühle e ai Prati Bianchi. Ogni estate, si può dire.» Il suo sorriso si accentuò. «Una volta, durante una di quelle estati, ho avuto anche una relazione sentimentale. Con una ragazza che era venuta da Vienna, anche lei. Lavorava in un istituto per bambini. Una assistente sociale. Bella ragazza... ed è stato bello anche il nostro amore. Già... Ormai è passata una vita intera...» «Ha detto che quella sua amica faceva l'assistente sociale?» chiese Irina. «Sì. A quell'epoca c'erano tante assistenti sociali» disse Peter Blenheim. «Tantissime. Giovani. Carine. Ma quella, quella mi piaceva più di tutte! La nostra relazione è durata un paio di mesi soltanto, poi ci siamo lasciati. Ma è stato un amore vero, il nostro, un amore autentico... Per lei è stato anche il primo amore, benché fosse persino un po' più vecchia di me...» Annuì con aria malinconica, da uomo anziano che rievocava la sua gioventù. «A volte... anzi, spesso devo dire... penso ancora a lei. E ancora più spesso sogno di lei, di quell'estate meravigliosa e di quella grande, infinita palude. Però...» S'interruppe. «Però?» chiesi io. «Per quanto io faccia, per quanto io mi sforzi di ricordare, di pensare, di scavare nella mia memoria: niente da fare... Che volete, sono trascorsi circa quarant'anni, non rammento quasi più nemmeno l'anno in cui è stato... Insomma, non ricordo il nome di quella ragazza...» «Il nome?» chiese Irina. «L'ho dimenticato» disse lui, sorridendo con aria timida, le punte delle dita riunite: un uomo dai capelli castani e dalla pelle abbronzata, un uomo dal viso smunto che sembrava quello di uno scoiattolo. Nei suoi occhi scuri e scintillanti c'era un'espressione di meraviglia e di tristezza per il modo col quale noi, a questo mondo e col trascorrere del tempo, dimentichiamo tutto. Ciò che ci ha fatto soffrire e penare, ma anche le cose più belle. Come l'amore.
FINE