GIANLUIGI ZUDDAS LE AMAZZONI DEL SUD (1983) GIANLUIGI ZUDDAS E LA FANTASY «DELLE AMAZZONI». Continuando nella panoramica...
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GIANLUIGI ZUDDAS LE AMAZZONI DEL SUD (1983) GIANLUIGI ZUDDAS E LA FANTASY «DELLE AMAZZONI». Continuando nella panoramica che vi stiamo proponendo circa gli autori italiani di Fantasy, eccoci arrivati a Gianluigi Zuddas. Insieme ad Adalberto Cersosimo - pur se esponenti di due tipologie completamente differenti di questo particolare genere di narrativa - è l'autore di casa nostra che io preferisco, per cui chièdo scusa sin d'ora se, nell'illustrare le caratteristiche dell'autore delle «Amazzoni del Sud», potrò dar l'idea di calcare un pò la mano su qualche aggettivazione. Zuddas rappresenta sicuramente una delle componenti più prolifiche ed interessanti della Fantasy italiana. Anche se la quasi totalità della sua produzione è incentrata sul tema delle Amazzoni e del loro mondo, bisogna tuttavia riconoscere che, in questo campo, ha già scritto una quantità veramente notevole di romanzi e racconti aventi tutti per protagoniste le simpatiche guerriere frutto della sua fantasia sbrigliata. Perchè, vi chiederete, la produzione del nostro autore è così «monocorde»? Le risposte possono essere diverse ma, prima di esporvele, voglio puntualizzare che, se anche la tematica trattata da Zuddas è sempre la stessa, purtuttavia non possiamo certo accusarlo di ripetitività, in quanto le vicende che hanno come personaggi principali le due Amazzoni, Ombra di Lancia e Goccia di Fiamma, sono le più svariate, e si svolgono in contesti paesaggistici assai diversi tra loro, dove anche i comprimari delle nostre due eroine mostrano delle caratteristiche quanto mai diversificate. È un autore che, prima di tutto, scrive perchè gli piace scrivere. Quando infatti si mette all'opera, non sa ancora esattamente quale sarà lo svolgimento esatto della vicenda che man mano va prendendo forma e vita sui fogli, per cui è lui a seguire i passi delle sue Amazzoni che, quasi animate di vita propria, gli suggeriscono di volta in volta le avventure delle quali sono immancabili protagoniste. Questa è appunto la prima delle risposte che volevo dare a chi si dovesse porre l'interrogativo del perchè il nostro autore livornese non si discosti mai da questa tematica. La seconda è che, aldilà di qualsiasi dubbio, nel descrivere le Amazzoni ed il loro mondo, Zuddas non ha chi gli possa stare alla pari. Infatti la freschezza e la molteplicità d'immagini che costella-
no i suoi romanzi, sono ben difficilmente riscontrabili in altri autori sia italiani che stranieri. Ritengo Zuddas un autore completo. Penso infatti che non vi riuscirà difficile concordare con questa mia affermazione dopo aver letto un suo romanzo. La trama della vicenda è sempre solida e collegata organicamente, mentre l'esposizione è chiara, scorrevole ed estremamente avvincente. La delineazione poi dei personaggi, sia su un piano psicologico che d'ambiente, è portata con irata vigorosi ed incisivi che denotano, oltre ad una perfetta conoscenza dei vari caratteri, una felicità d'espressione propria dello scrittore affermato. L'ironia è presente e permea ogni racconto o romanzo da lui scritto. Molti hanno voluto riscontrare in ciò la sua principale caratteristica, etichettandolo sbrigativamente di una Fantasy «dissacrante». Non sono assolutamente d'accordo. Infatti, premesso che va tenuto conto del fatto che Zuddas è un toscano e come tale quindi portato congenialmente - ed ancestralmente - all'ironia, non trovo nulla di dissacrante nelle sue storie, nelle quali riscontro piuttosto la sua abitudine a narrare con semplicità i fatti e le vicende delle quali sono protagonisti - non dobbiamo dimenticarlo degli esseri umani i quali, proprio perchè tali, non vivono solo di Eroismi, di Sacrifici, Altruismo, Dedizione e.... chi più ne ha più ne metta, sebbene anche dei lati un pò meno nobili, ma comunque più abituali dell'animo umano. E, nel delineare i personaggi, non v'è dubbio che Zuddas sia grande. Non ritengo assolutamente di peccare di esagerazione nell'esprimere questa mia convinzione, ma penso che voi tutti sarete d'accordo con me nel riconoscere che le sue eroine sembrano balzar fuori dalle pagine dei suoi libri, tanto sono reali. I sentimenti e le passioni che di volta in volta animano, sia loro che gli altri personaggi che affollano le sue storie, vengono resi, non voglio dire con abilità consumata - che mi parrebbe di defraudare Zuddas di qualche merito - bensì con una tale aderenza ai modelli di vita quotidiana, da rasentare la perfezione. Mi sono accorto di essermi forse dilungato eccessivamente sulle caratteristiche dell'autore a scapito dell'illustrazione di questo «Le Amazzoni del Sud». Conte potete constatare, il volume è veramente ponderoso, e vi assicuro che le storie in esso narrate sono molte e tutte avvincenti, per cui mi sembra sarebbe assai arduo condensarle in poche righe. Ritengo quindi più proficuo fornirvi un'inquadratura generale dell'opera di Zuddas, rimandandovi alla lettura diretta delle pagine che seguono per
quanto ha tratto con le vicende specificatamente narrate in questo romanzo. Le Amazzoni sono un popolo di donne guerriere che vivono in un bacino del Mediterraneo in un'epoca che si può approssimativamente far risalire a 10.000 anni fa: l'ambientazione è quella tipica delle storie di heroic fantasy, con Maghi, Guerrieri, Stregoni e, ovviamente, Amazzoni. Tante. E queste sono perennemente in lotta con le popolazioni barbare che le attorniano, protese a mantenere la propria indipendenza mentre, nel contesto più generale delle vicende che vivono le loro sorelle, si muovono Ombra di Lancia e Goccia di Fiamma, le quali percorrono in lungo e in largo le più distanti contrade, spinte dal loro spirito d'avventura e dai.... guai nei quali vanno immancabilmente a cacciarsi. Chiudo qui questa breve nota introduttiva, non prima però di avervi fatto presente che, dopo aver letto un romanzo di Zuddas, si ha l'impressione che sia stato detto tutto quello che era possibile dire ed inventare sulle Amazzoni. Non è vero. Questo assunto infatti è valido solo fino al momento in cui potrete leggere un altro romanzo del nostro autore, il quale vi dimostrerà come la Saga delle Amazzoni si sia arricchita ancora una volta di nuove ed affascinanti avventure, per cui diamoci appuntamento sin d'ora al prossimo volume di questo interessantissimo ciclo. Gianni Pilo CAPITOLO PRIMO Dapprima la ragazzina credette d'essersi ferita. Stava uscendo dallo stagno, con due rane infilzate su uno stecco aguzzo, ed il suo rustico vestito di lino era inzuppato fino all'altezza dei piccoli seni immaturi. Ciocche di capelli rossi le s'erano appiccicate al visetto lentigginoso, perchè s'era chinata sulla superficie dell'acqua per stanare dal fondo una biscia, che le era poi sfuggita, e li aveva bagnati. Appoggiò un piede scalzo sul bordo erboso del pantano e fu svelta a schiacciare la coda d'una lucertola, sbucata da dietro un sasso. Fu mentre si chinava ad afferrare l'animaletto che vide il sangue scorrerle lungo le gambe fino ai polpacci, e restò a guardarlo con stupore, più meravigliata che spaventata. Non sentiva alcun dolore, solo una sensazione di vuoto al basso ventre, ed il sangue era un veloce ruscello vermiglio. Allora s'alzò il bordo sfilacciato del vestito, per guardare se un ramo sommerso l'avesse graffiata, ma sulla tenera carne del ventre non c'erano lace-
razioni. Tuttavia il rosso richiamo della vita scendeva da lì, come sua madre le aveva detto che un giorno sarebbe accaduto. La ragazzina ricordava d'aver atteso con impazienza l'uscita di quel sangue che l'avrebbe fatta donna. Ricordava la quieta conversazione vicino al focolare, la sera prima che sua madre partisse per il confine e per la guerra insieme a molte altre amazzoni della vallata, e la carezza di lei era stata quasi un addio. In seguito quando le era stato detto che sua madre non sarebbe tornata mai più, per molti mesi aveva vissuto come dentro ad una nube oscura, e solo dopo che il dolore per quella perdita era scemato, ella aveva fatto uno sforzo per rendersi conto del significato delle parole di lei, pronunciate prima della separazione. Nel metterla a conoscenza di quella che sarebbe stata la sua realtà fisica di donna, le frasi di sua madre erano state un dolce, rassicurante avvertimento, ed insieme un monito: il suo destino di femmina si sarebbe compiuto nelle piccole cose della vita, ma quello di amazzone l'avrebbe trovato solo nella rudezza, nella violenza e nell'insensibilità. Avrebbe dovuto accettarli entrambi. La ragazzina rimase in piedi sulla riva fangosa dello stagno finché il sangue non cessò di scorrere, imponendosi la calma. Intorno a lei la Valle di Miralhume era verde e viva, sotto l'immenso e luminoso cielo percorso dalle tiepide brezze primaverili, e di quella vita, di quella primavera, ella era una parte. Una molecola con la sua realtà, al centro di tutto. Poi tornò nell'acqua e si lavò con cura, senza fretta. Sua zia Hallimar stava uscendo dalla stalla con un secchio pieno di sterco in ogni mano, poco più tardi, quando lei tornò di corsa alla fattoria. All'improvviso era impaziente di spiegarle cosa le era accaduto, e camminando al suo fianco verso il letamaio glielo raccontò con frasi che l'eccitazione ed un vago imbarazzo rendevano mozze e slegate. Sbirciandola da sotto in su la vide infine aggrottare le sopracciglia. «Ah! Mi domandavo cosa aspettavi, a crescere!», fu tutto il commento della donna. Passando accanto al pollaio Hallimar lasciò andare un calcio ad un'asse che si stava staccando. «Questa bisognerà inchiodarla. E in paese non si trovano più chiodi di rame da mesi,» brontolò. Rovesciò lo sterco del bue, misto a quello più odoroso della robusta cavalla da tiro, e fissò la ragazzina con una smorfia. Hallimar non era veramente sua zia, sebbene le usanze volessero che lei la chiamasse ugualmente così. Era stata la compagna di Dane, sua madre, ed era un'amazzone sulla quarantina, alta e robusta, molto rispettata nel circondario grazie al grado che aveva rivestito nella Cavalleria della Dea
ed al suo passato di combattente. Lei e Dane avevano deciso di mettersi insieme vent'anni addietro, al tempo in cui entrambe frequentavano l'ultimo anno d'istruzione nei recinti-scuola di Rosalence. In seguito erano state lontane l'una dall'altra per lunghi periodi, facendo parte di squadre diverse che agivano sui confini in operazione di pattugliamento ed in scorrerie molto sanguinose; ma il loro legame non era stato indebolito dalla distanza né dal tempo, ed infine erano riuscite a farsi assegnare alla sorveglianza territoriale nella Valle di Miralhume, innamorandosi di quei luoghi fertilissimi e della vita campestre. Unendo i loro risparmi con quelli di altre due coppie di miliziane avevano poi costruito la fattoria presso Sorriso della Dea, l'unica minuscola borgata della zona, ed avevano ottenuto campi da coltivare. Fino a quel momento la loro carriera militare era stata piuttosto diversa, ed in seguito lo era divenuta ancor più, allorché dieci anni più tardi tre nazioni confinanti s'erano alleate con lo scopo dichiarato di spazzar via le amazzoni dal nord di Afra. Hallimar, cupa e scontrosa, riflessiva, era diventata ufficialessa quasi suo malgrado, essendosi trovata nella necessità di sostituire per molti mesi la sua Comandante durante le prime fasi della guerra, quando col suo Squadrone era rimasta" isolata molto all'interno dei confini di Haydukstan. Dane invece s'era già fatta un nome fin da quando aveva terminato i duri anni d'allenamento, essendo una fortissima spadaccina ed una combattente mai sazia di compiere incursioni contro i minacciosi avamposti dei paesi limitrofi. Allorché i soldati delle Terre Alte e di Haydukstan avevano sfondato il confine a sud-ovest, distruggendo alcune piccole borgate nella Valle dell'Asino, lei si trovava là al comando di cinque squadre dell'Esercito e di una della Cavalleria. Con poco più di centotrenta miliziane, Dane s'era attestata al Passo Hoak, sulle Colline del Vento, e lì aveva contrastato l'avanzata di forze nemiche dieci volte superiori finché da Souze non erano arrivati i rinforzi al comando di Mirina. Promossa sul campo Comandante di Squadrone, ella era stata trasferita sul fiume Kaba, una delle zone attraverso le quali si sospettava che contingenti nemici avrebbero tentato di penetrare ancora nelle Terre Basse. Due mesi dopo, infatti, un esercito composto da seimila fanti di Haydukstan e da cavalleria delle Terre Alte e di Coralyne s'era spinto fino al fiume con lo scopo di guadarlo e di distruggere la cittadina di Mitis, stabilendo una testa di ponte per l'invasione. Dane s'era schierata con le sue cinquecento miliziane sulla riva opposta del Kaba, aveva inviato una staffetta
verso la lontana Sali Yan per chiedere l'intervento dei quattro Squadroni di stanza lì, ed aveva dato battaglia. Tre giorni più tardi, gli Squadroni della Cavalleria della Dea guidati dalla Regina Theba in persona erano riusciti a portarsi sul luogo dello scontro, già preparati a dover arginare il dilagare dei nemici oltre il Kaba, ma avevano trovato soltanto un tragico silenzio e corpi umani che giacevano dovunque a centinaia. La Regina era scesa dal suo cavallo ed aveva camminato muta per lo sconforto e l'incredulità fra i cadaveri delle miliziane e degli attaccanti uccisi, senza trovare alcun segno di vita eccetto qualche animale ancora sellato che vagava fra le rocce. Di cinquecento amazzoni non ne era sopravvissuta neppure una, ma il contingente di invasori che intendeva mettere a fuoco Mitis non era riuscito a fare un passo oltre la riva dei fiume. Dane era stata ritrovata presso un assembramento di macigni davanti al guado che aveva difeso, con la schiena appoggiata ad un albero e una freccia conficcata in un fianco. Aveva in petto una profonda ferita da lancia e teneva ancora in mano la sua spada, nera di sangue raggrumato. Da quei tempi Hallimar era divenuta molto più taciturna e musona, e difficilmente la si vedeva sorridere. La ragazzina non era mai riuscita a farsi raccontare le sue avventure durante la guerra, né gli avvenimenti della sua gioventù trascorsa assieme a Dane. La notizia che ella aveva avuto la sua prima mestruazione sembrò renderla, se possibile, ancor più pensierosa e di malumore. Raccolse un forcone di legno e batté sul letame, pressandolo un poco. «Benissimo, Goccia di Fiamma,» decise, rivolgendosi a lei col suo nome per esteso, cosa che faceva di rado. «Questo significa che dovrai smetterla di baloccarti e andare alla Capitale, il che accadrà fra dieci o dodici giorni, quanto partiranno i carri con la verdura. Ti darò una lettera per Nube, e penserà lei a farti diventare una vera amazzone». «Alla Capitale!» si sbalordì lei. Hallimar era di poche parole e non cincischiava mai prima di prendere una decisione, ma tutto le stava accadendo più in fretta di quanto non si fosse aspettato. Seguì sua zia di nuovo fino alla stalla. «Allora non potrò lavorare nel campo, per la mietitura?» chiese. «No. Le leggi parlano chiaro, e tu sei già in ritardo con queste maledette mestruazioni. Hai dodici anni passati. Tua madre cominciò gli allenamenti e l'istruzione nei recinti-scuola a undici, ed io anche. E ricordo che a Rosalence c'erano ragazzine più precoci di noi, già avanti di un anno. Dovem-
mo faticare, per metterci alla pari.» «Sì, ma... alla Capitale?» mormorò lei. incredula. «Laggiù sarà ancor più dura, per te. Le istruttrici non scherzano. Fra un paio d'anni si vedrà se hai la stoffa ed il fisico per entrare nella milizia, o se ti converrà imparare un mestiere. Ma se assomigli a tua madre... bene, Dane era un demonio con la spada in mano, e tu non sei molto diversa. Forse diventerai perfino più alta. E in paese mi dicono che sei una piccola scapestrata attaccabrighe. Farai la stessa strada sua e mia. Be', che hai da guardarmi così?» «Credevo che sarei andata nei recinti-scuola di Miraceli, o di un'altra città della costa,» fece lei. «Prendi il forcone e butta nell'angolo la biada di Cott. Questa dannata bestia è così pigra che non mangia se non ce l'ha sotto il naso. No, bella mia: la legge dice che le figlie delle Comandanti devono fare gli allenamenti alla Capitale. E Dane aveva sotto il suo comando un intero Squadrone di Cavalleria». «Lo so. Occhi Blu mi ha raccontato di quando fu promossa di grado, alle Colline del Vento. Fu allora che si meritò la spada di ferro, vero, zia?» «Sicuro, e grazie al suo coraggio, non certo per gli appoggi che poteva avere a Corte. Era un'impetuosa... fin troppo, forse.» Per un momento gli occhi grigi dell'amazzone parvero velarsi, al ricordo della compagna, poi la sua espressione tornò severa, «Comunque sia, si suppone che le guerriere forti abbiano figlie altrettanto capaci di difendere i nostri confini, ed è per questo che esse vengono affidate in mano alle istruttrici migliori. Nei primi tre anni di scuola dovrai accontentarti d'usare lance e spade di legno, e solo in seguito ti allenerai con vere armi di bronzo. Ma adesso mi dicono che le lame di metallo duro sono più facili ad aversi, e che al mercato della Capitale i commercianti di Mirami: vendono il ferro anche alle semplici miliziane. Bah... una volta, soltanto chi vinceva le Gare Annuali e chi dimostrava valore in battaglia aveva diritto alla spada di ferro.» Goccia di Fiamma ammucchiò ordinatamente il foraggio, senza quasi pensare a quel che faceva. Immagini confuse ed anche un pò preoccupanti le passavano davanti agli occhi. Hallimar s'era messa a spazzare il pavimento di terra battuta con una granata di stecchi. Un poco più in là il bue ruminava, facendo ondeggiare la coda. La Capitale, pensò. Imparare a leggere ed a scrivere, ad usare le armi. La Regina, il Tempio Grande della Dea, il porto con le navi da guerra... e gli uomini! Avrebbe visto e conosciuto personalmente molti uomini, forse.»
«Ci sono ...ci sono numerosissimi mercanti di Mitanni, laggiù, e gli Olmanni. È vero che gli Olmanni hanno la faccia pelosa, zia?» Hallimar la fissò con un sogghigno. «Certo, quando non si radono la barba. Ma sai bene che anche in Mitanni, qualche volta, gli adulti se la lasciano crescere. Gli uomini ...questa voglia che hai di vederli te la leverai, stai sicura. In ciascuna delle cinque città della costa potrai trovarne parecchi, ora che Theba è Regina. Ma la sola cosa che dovrai tenere a mente, riguardo a loro, quando sarai mandata a fare servizio sui confini, è che l'uomo combatte in modo diverso dalla donna. Si muove in modo diverso ed è più forte di muscoli, forse più efficiente; ma non conosce il vero coraggio, né la destrezza, né le tattiche di battaglia.» «Occhi Blu abitava vicino alla Strada dei Mercanti, prima di venire a stare da noi, e vedeva spesso passare i soldati di Mitanni diretti alla Capitale. Dice che molti sono alti e belli». «Puah!» sbuffò Hallimar. «Di certo erano quelli che la Regina invita per farli addestrare con le ragazze arrivate all'ultimo anno di istruzione. Vengono qui per imparare da noi come si fa la guerra, e quando tornano in patria hanno un posto di comando assicurato. Avrai modo di familiarizzarti con loro, di capire come ci si deve battere contro un maschio; ma non farti incantare: tu sei un'amazzone, guai se te lo dimentichi!» Lei la sentì appena. «E potrò partecipare alle Cerimonie dell'Accoppiamento?» «Ehi!» gridò Hallimar. «Sei diventata matta? Alle Cerimonie partecipano solo le ragazze in età di far figli, mica le mocciosette di campagna come te. Se non righerai dritto, scriverò a Nube di farti chiudere a chiave in caserma, quando gli Olmanni verranno alla Capitale. Hai capito?» L'irritazione della donna non era del tutto inspiegabile, ed ella si pentì d'aver toccato quell'argomento. Hallimar non aveva mai preso parte alle Cerimonie dell'Accoppiamenta in vita sua, tanto detestava gli Olmanni, Si trattava d'una popolazione di forti guerrieri e di contadini, la cui terra era così lontana a settentrione aldilà del Mare Interno, che fra loro e le amazzoni non potevano esservi motivi di rivalità politica o economica. Erano di razza fisicamente alta e prestante, e da molte generazioni le usanze volevano che le donne guerriere avessero figli quasi esclusivamente da essi. I loro servizi venivano ben pagati, tuttavia gli uomini di Olman Vuh consideravano le amazzoni con sprezzo e sufficienza, giudicando assurdi e devianti i loro costumi, in specie quelli sessuali. Visto il carattere scorbutico e prepotente di Hallimar, c'era anzi da stupirsi se ella aveva permesso a
Dane di unirsi con un uomo per due anni di seguito, nel corso delle Cerimonie, e ciò era probabilmente da addebitarsi solo al suo istintivo rispetto per le usanze. Dal primo parto di sua madre era nato un maschio, che una volta svezzato era stato mandato in Mitanni per essere adottato in base agli accordi che le Terre Basse avevano con quel paese, l'unico loro alleato. Quel bambino era figlio d'un padre diverso, aveva spesso riflettuto lei, ma era pur sempre suo fratello. Chissà cosa ne era stato di lui, e se si trovava bene con la famiglia che l'aveva allevato? Chissà se l'avrebbe mai incontrato un giorno? Di lui, sua madre le aveva detto una volta che aveva anch'egli i capelli rossi ed il volto un pò lentigginoso, caratteri fisici rarissimi in quelle terre. La legge che voleva l'allontanamento dei bambini maschi era dura, ma scrupolosamente osservata, e risaliva ai tempi antichissimi in cui le amazzoni dimoravano ancora nel lontano oriente, nelle ampie e fertili valli di Mohenjdar preso il fiume Hjnd. La leggenda narrava che a quei tempi s'era deciso d'introdurre quell'usanza, allo scopo di fare delle amazzoni una popolazione Ligia alle più assolute regole della non violenza, e la separazione dagli uomini aveva infatti ottenuto buoni risultati in tale senso, almeno fino all'epoca della Grande Migrazione. A quell'epoca, quando la Regina era la leggendaria Merope, motivi assai pressanti avevano costretto molti popoli ad emigrare ad occidente verso il Mare interno, le cui rive erano disabitate. Da allora, contrasti e dissidi d'ogni genere avevano fatto sì che le amazzoni finissero col trasformarsi in una comunità fortemente militarizzata, ma la legge che voleva l'allontanamento dei neonati di sesso maschile era rimasta, e di ciò a Goccia di Fiamma sfuggivano le ragioni. La ragazzina si distrasse da quei pensieri vedendo passare fuori dalla finestra della staila Occhi Blu, che stava tornando dall'orto. Occhi Blu era bionda e snella, esattamente il tipo opposto dell'amazzone combattente, ed infatti non aveva portato a termine la sua istruzione se non per quanto riguardava materie come la storia e la scrittura, saltando a piè pari qualsiasi tipo d'allenamento militaristico. Ciò non era affatto insolito, ed anzi accadeva per i buoni quattro quinti della popolazione. Una volta Hallimar aveva spiegato a Goccia di Fiamma che nelle Terre Basse vivevano poco più di un milione di donne, quasi tutte sparse nelle cittadine agricole delle campagne, e che in caso di guerra neppure centomila di esse sarebbero state in grado di tenere un'arma in mano. Nell'ultimo conflitto la leva militare ne aveva richiamate sessantamila, oltre alle venticinquemila circa che
facevano parte dell'esercito regolare; ma si diceva che cinquant'anni addietro Aristea, detta la Selvaggia, avesse ordinato a tutte di combattere, quando le Terre Basse avevano subito la terribile invasione delle Teste Nere di Sumer, e che in quell'occasione perfino le vecchie e le bambine avessero impugnato un'arma per difendere le loro case dalle milizie del Triarca. Occhi Blu aveva ventiquattro anni, era piuttosto fragile, e se avesse maneggiato un pugnale probabilmente avrebbe finito col piantarselo in un braccio, ma era la persona più simpatica e dolce che Goccia di Fiamma conoscesse. Aveva imparato a volerle bene quando spigolavano insieme nei campi, nel sentire le favole che ella raccontava alla sua fantasia di bambina inquieta. Di carattere era allegria quanto Hallimar era cupa, durante il lavoro le piaceva cantare, e sorrideva sempre. «Ecco la signorina che va a farsi il bagno mattutino, puntualissima,» borbottò Hallimar. che aveva seguito il suo sguardo. Nel suo commento da eterna cinica c'era però una sfumatura che fece ridacchiare la ragazzina: Hallimar non la poteva ingannare sui sentimenti che provava verso la sua nuova compagna, alla quale s'era unita dopo la morte di Dane. Occhi Blu era ingenua, timida e spesso anche un pò svampita, ma soprattutto era una dolce amica che aveva saputo cavar fuori da Hallimar quel pò di affettuosità di cui era capace una soldataccia come lei. «Vado a cercare dei chiodi per riparare l'asse dei pollaio,» disse Goccia di Fiamma, scappando fuori. «Prima porta le ceste in paese, da Nonna Lystra. E fatti dare altri due fasci di vimini!» le gridò sua zia. «Torna prima di pranzo, mi raccomando, e non fare a botte con le figlie di Camalea!» Goccia di Fiamma corse invece nel lungo edificio ad un sol piano della fattoria, e raggiunse Occhi Blu in tempo per aiutarla a levare dal gancio del camino il grosso pentolone nero pieno d'acqua fumante. «Posso fare il bagno con te?» le domandò. La bionda rise, scuotendo il capo. «Ho sentito cosa ti ha detto Hallimar: devi andare in paese. Ma per quando tornerai ti farò trovare dell'altra acqua calda.» «No, lasciami la tua. Mi piace l'acqua saponata e profumata. Tornerò indietro di corsa.» «Aiutami.» Sbuffando ed ansimando trasportarono il pentolone nel cortile sul retro, e lo versarono in un mastello già pieno per metà, d'acqua fredda. Occhi Blu si lasciò cadere a sedere sul ceppo su cui spaccavano la legna, e si tol-
se il sudore dalla fronte con una manica del rozzo vestito da lavoro. «Caspita!» Lo sai che sei già più forte di me?» le disse. Lei annuì. Nell'ultimo anno era cresciuta molto, ed a fianco a fianco con Occhi Blu la superava d'un paio di dita in altezza. Per un momento fu tentata di dirle subito che proprio quel giorno era diventata donna, ma decise di riservare la notizia per più tardi. Alla sera si sarebbero sedute nell'aia ad intrecciar canestri ed a chiacchierare pacatamente delle cose d'ogni giorno. Ad un tratto si domandò se non avrebbe sentito la mancanza di lei più di quella di Hallimar, andando via da casa verso una vita che sarebbe stata del tutto diversa e nuova, e si sentì triste. Non aveva mai avuto occasione di pensare a cose simili, prima d'allora, e adesso il futuro le sembrava freddo e spiacevole, come avvolto in una nebbia oltre la quale c'era ad attenderla un'esistenza indistinta nei particolari, assai incerta. Occhi Blu la fissava, forse intuendo che aveva un segreto. Le posò una mano su una spalla. «Ti sei fatta una ragazzona, e sei alta per la tua età. Diventerai come tua madre. Hai lo stesso cespuglio rosso in testa e tutte quelle buffe lentiggini, e non ti sono certo venute dall'olmanno a cui s'è unita per metterti al mondo. Hallimar mi ha detto che il padre di Dane, tuo nonno, era un avventuriero, un soldato senza patria e senza legge venuto da chissà dove, forse da una terra in cui tutti gli uomini hanno i capelli di questo colore. Non era nativo di Olman Vuh, perchè a nord del Mare Interno sono tutti bruni.» «Non mi hai mai detto d'aver conosciuto mia madre,» si stupì lei. «Credevo d'avertene parlato, invece, l'anno scorso. Certo che la conoscevo. A quei tempi ero ancora una ragazzina, ma me la ricordo quando veniva alla mia fattoria in giro d'ispezione, e tutti le domandavano se per caso non le avesse preso fuoco la testa. Lei allora rideva e si vantava d'essere una rossa di malpelo, la peggior razza che esista. Conobbi lei ed Hallimar insieme, perchè abitavo nel territorio sorvegliato dalla guarnigione di cui facevano parte loro due. È da quando mi son messa con Hallimar che non torno più dalle mie parti, accidenti!» La ragazza bionda fece una smorfia buffa, non essendo il tipo che si lasciava immalinconire facilmente da simili riflessioni, e lei dovette sorriderle. Per un attimo la rivide come l'aveva vista alcuni giorni prima, mentre faceva il bagno dentro a quello stesso mastello, avvolta nel vapore caldo e coi capelli appiccicati alla strana maglietta che s'infilava pudicamente in quelle occasioni. Era accovacciata nell'acqua, ed Hallimar l'aiutava a lavarsi la schiena col grumoso sapone da bucato. La bruna era quasi più ba-
gnata di lei per l'acqua che schizzava attorno ed ogni tanto immergeva le braccia nella schiuma bianca, chinandolesi addosso. Allora Occhi Blu rideva in modo diverso e mandava gridolini sciocchi, cosa che inevitabilmente provocava i commenti ironici di Silja e di Fiore di Cucuyòs, due delle altre amazzoni che abitavano con loro e che dall'interno della fattoria schiamazzavano gridando battute assai volgari. Al ricordo, il sorriso della ragazzina s'accentuò. «Che cosa stai pensando?» domandò Occhi Blu. Lei la fissò senza imbarazzo. «A quando sarò grande. Voglio trovare una compagna come te, zia... che rida come fai tu.» «Sciocca!» Occhi Blu arrossì un poco e le diede un colpetto su una mano.«Su, muoviti. Fila in paese con quelle ceste o Hallimar s'arrabbierà. E non stuzzicare il cane di Lusis, o quella bestiaccia ti morderà ancora.» Goccia di Fiamma andò a prendere le sei leggere ceste di vimini che Nonna Lystra pagava loro una piastra alla dozzina; le ficcò l'una dentro l'altra e se le caricò sulle spalle, avviandosi poi svelta verso il paese. Sorriso della Dea era composto da una quindicina di case quasi tutte a due piani, occupate per lo più da botteghe e da magazzini, e rappresentava il centro organizzativo della vasta comunità agricola costituita dalla Valle di Miralhume. Lì era di stanza una minuscola guarnigione, composta da mezza squadra di miliziane della Cavalleria alle quali toccava sorvegliare un territorio vasto oltre quaranta leghe, e che erano sempre in giro sui loro cavalli. Il tempio della Dea era una tettoia priva di pareti, sotto la quale una Sacerdotessa di mezz'età teneva una funzione religiosa ogni dieci giorni. Per il resto del tempo Lusis, questo era il suo nome, lavorava nei magazzini dove si raccoglievano i prodotti agricoli da inviarsi a Miraceli ed a Rosalence. Ogni volta che Goccia di Fiamma s'aggirava per il paese, la sua maggiore preoccupazione era di non cadere sotto le grinfie di Lusis, la quale l'annoiava mortalmente con prediche, rimproveri per la sua condotta e continue esortazioni ad un maggior rispetto per la religione. Ogni tanto Lusis faceva la sua comparsa alla fattoria e riferiva ad Hallimar ciò che era avvenuto in paese circa argomenti di questo genere: oggetti rubati, oggetti distrutti da mani ignote, pollame o gatti trovati inspiegabilmente uccisi, scherzi di cattivo gusto fatti a qualche imbestialita contadina, risse fra ragazzine avvenute per futili motivi. Pur senza fare mai il nome di Goccia di Fiamma, Lusis pronosticava regolarmente che una certa personcina avrebbe fatto una brutta fine se non la si teneva più d'occhio. Come ogni sacer-
dotessa, sapeva sempre tutto ciò che avveniva nel circondario, e nulla le sfuggiva. Goccia la detestava enormemente. La bottega di Nonna Lystra era un locale oscuro, tanto ingombro di ceste e di fasci di vimini accatastati che al centro di esso restava solo uno stretto passaggio per recarsi sul retro. La donna non c'era, e nemmeno sua figlia Ala di Pernice, una marinaia della Flotta da Guerra che in quel periodo era a casa in licenza, convalescente di una brutta ferita riportata in uno scontro navale coi Pirati Colchisi. Sulla soglia, seduta a tagliar fasci di fibre vegetali, c'era Jaline, ed a lei Goccia di Fiamma consegnò le ceste. «Mettile laggiù,» le disse Jaline, accennando verso l'interno. Poi, quando la ragazzina le tornò accanto, l'apostrofò in tono burbero: «Allora, queste rane quand'è che me le porti? È più di un mese che me le hai promesse.» «Adesso non se ne trova neanche una,» mentì lei, sedendosi a terra al suo fianco. «Però nel fiume ci sono molti pesci. Se Nonna Lystra mi lasciasse adoperare la sua rete, potrei prenderne un pò anche per te». «Quella vecchia strega non te la darà mai, la sua preziosa rete. Va a pescare tutte le mattine, anche quando piove. Forse un giorno o l'altro scivolerà nel fiume e saranno i pesci a prender lei!» Goccia di Fiamma annuì, ridacchiando. In paese tutti sapevano che Jaline e nonna Lystra non si potevano vedere, ed altercavano continuamente. L'anno addietro Ala di Pernice era tornata nelle Terre Basse in compagnia di Jaline, e l'aveva presentata alla madre come la sua nuova compagna, annunciando che avevano deciso di mettersi insieme. Le due s'erano conosciute in una cittadina della lontana Argolide, dove Jaline faceva la sguattera in una bettola del porto. Quando la nave su cui prestava servizio Ala di Pernice era ripartita, l'altra s'era nascosta nella stiva ed aveva compiuto il viaggio fino alle Terre Basse come clandestina, con la complicità dell'amica. Ma Jaline era stata scoperta prima dello sbarco, ed Ala di Pernice ci aveva rimesso il grado di caposquadra: inoltre aveva dovuto scontare venti giorni di cella e pagare una multa pesante. Dopo quell'avvenimento era venuta in paese con la compagna, l'aveva lasciata in casa di sua madre ed era ripartita. Se otto mesi dopo non le fosse capitato di restare ferita, difficilmente le due avrebbero potuto rivedersi due volte nello stesso anno. Comunque Jaline era contenta d'esser lì, e spesso raccontava a Goccia di Fiamma quanto fosse stata difficile e miserabile la vita in Argolide. per una ragazza poverissima e per nulla attraente. «È vero che nell'Argolide gli Uomini Angelo scendono a terra e stanno insieme alla gente?» domandò la ragazzina.
«Certo che è vero. Ma parlano solo coi Preti di Eleuse, ed atterrano soltanto nei loro templi. Lì dentro possono rifugiarsi anche i criminali inseguiti dalle guardie del Tiranno Tiglath, come vuole l'usanza. Quando gli Uomini Angelo hanno bisogno di scendere in qualche posto, sanno che nei templi di Eleuse sono intoccabili e nessuno può molestarli». «E tu ne hai conosciuti?». «Sicuro. Ho conosciuto una Ragazza Angelo bella come una fata dei boschi, e ho anche parlato con lei. Si chiamava Angela Thea, aveva due ali grandi come da qui al muro, trasparenti come il pizzo, e occhi tutti d'argento. L'ho incontrata nel Tempio di Punta Tricorno, e mi ha regalato una manciata di Nettare delle Nubi». «Sul serio?» si meravigliò Goccia di Fiamma. «Tu hai mangiato il Nettare delle Nubi?». L'altra sogghignò, annuendo. «Proprio così: vero Nettare delle Nubi, di quello che mangiano loro. Sapeva un po' di miele e un po' di carne, e si scioglieva in bocca che era una delizia. Se un giorno andrai alla Capitale e ti capiterà di sbirciare nel palazzo della Regina Theba, forse potrai vedere anche tu un Uomo Angelo». «Qualche volta li ho visti volare altissimi, più in alto delle aquile e sempre diretti verso oriente. Ma so che qui da noi atterrano solo di notte, o quando un temporale li sorprende vicini al suolo. E quella Ragazza Angelo cosa ti ha detto?». «Non parlava molto», rispose Ialine. «Era timida come un coniglio selvatico e stava lì con altri due di loro, un uomo e una donna anziana. Erano venuti per comprare fibbie di metallo dal Prete di Eleuse, ed hanno pagato con due sacchi pieni di Nettare delle Nubi. Poi la ragazza, questa Angela Thea, ha recitato una poesia. Non fanno altro che giocare fra loro, cantare e volare continuamente intorno al mondo; però non sono sciocchi, tutt'altro». «Mi piacerebbe vederne qualcuno da vicino. Quest'anno andrò nei recinti-scuola della Capitale, e forse potrò assaggiare anch'io il Nettare delle Nubi. Hallimar dice che gli Uomini Angelo sono nostri alleati». L'altra scosse il capo. «No, quelli non sono alleati di nessuno. Hanno troppa paura di noi. Ci chiamano 'gente di terra' e se ne stanno alla larga finché possono. Lo sai che nessuno ha mai visto i loro bambini? Però alcuni di loro scendono apertamente, qui e nell'Argolide. Ala di Pernice una volta mi ha fatto vedere una carta nautica disegnata da un Uomo Angelo. È per avere informazioni e farsi disegnare carte di tutte le terre che la vostra
Regina li lascia atterrare quando vogliono. Da altre parti, invece, gli uomini li catturano e tagliano loro le ali». Goccia di Fiamma lo sapeva già, e annuì. Poi sentì un rumore cigolante provenire dal retro dell'edificio, e Jaline la informò che quello era il carretto di Nonna Lystra. «Alzati», borbottò, di malumore. «La vecchia bacucca non vuole che io stia a chiacchierare, quando lavoro. Domanda a lei quali vimini puoi prendere». Dall'anziana amazzone, Goccia di Fiamma ebbe mezza piastra in pagamento delle sei ceste che aveva portato, e poi se ne andò carica di un fascio di vimini, coi quali ne avrebbero intrecciate altre. Hallimar aveva una pensione di cento piastre l'anno, ed altrettante ricavavano dai prodotti dei campi, mai soldi non bastavano che per le spese necessarie. Era un gran giorno quando si recavano tutte e tre a Meropea, la cittadina a mezza strada fra la valle di Miralhume e Rosalence, per acquistare vestiti e scarpe nuovi. Adesso che sarebbe andata alla Capitale, rifletté Goccia di Fiamma, per tutti e sei gli anni del periodo d'istruzione, a mantenerla avrebbero pensato le casse del Tempio, e le sarebbe spettata anche una piccola paga mensile. Questo pensiero tuttavia non la rallegrò affatto. Lungo la strada per tornare alla fattoria si fermò al casolare in cui abitavano Camalea e le sue due figlie, e qui scoprì che non era la sola ad avere pensieri tristi per la testa. Seduta in un angolo dell'aia, vicino al recinto dei maiali, c'era la sua coetanea Lulha che tirava sassi ai polli con aria immusonita. «Ehi!» la salutò. «Venite a casa mia stasera, tu e Nivea? Ho fatto un arco nuovo, con le frecce. Possiamo giocare al tiro a segno». «Mia sorella è a letto con la febbre,» rispose cupamente l'altra, una brunetta scalza ed impolverata che spesso si vantava delle sue doti di miliziana in erba. «Meglio sarebbe se fossi malata anch'io!». «Perché dici così?». «Perché? Ieri ho avuto il sangue, ecco perché! E adesso mi toccherà andarmene di casa. Dannato mestruo della Dea, ecco cosa mi va a capitare!». «Sul serio?» esclamò Goccia di Fiamma, e sentì una risata salirle in gola. «Mia madre ha detto che dovrò andare a Rosalence,» continuò Lulha, irritata. «In quegli sporchi recinti-scuola pieni di pulci e di scarafaggi, dove le istruttrici ti prendono a calci tutto il giorno. E tu che hai da ridere? Guarda che ti aggiusto la faccia, se mi prendi in giro!».
«Oggi no, ho da fare». Goccia di Fiamma s'aggiustò meglio il carico sulla schiena e proseguì per la carrareccia, ridacchiando e voltandosi indietro ogni tanto verso la ragazzina. All'improvviso le sembrava di sentirsi meglio, molto meglio. «Sei una stupida!» le gridò l'altra, tirandole dietro un sasso. Poi tacque, sorpresa, perché era la prima volta da quando la conosceva che la rossa non si fermava per replicare con insulti e sassate. Dodici giorni più tardi, allorché venne il momento della partenza, Hallimar regalò a Goccia di Fiamma un pugnaletto di bronzo e le tenne un discorsetto fatto d'esortazioni e di ammonimenti. Occhi Blu invece pianse senza vergogna, nella piazza del paese, mentre si finivano di caricare i carri con le ceste di patate e le galline da spedire a Rosalence. La ragazzina non s'era aspettata nulla di diverso da entrambe. Per molti mesi, forse per un anno o due. non avrebbe più avuto modo di rivederle. A mezzodì, quando la carovana di veicoli sfilò fra gli ultimi campi della vallata nei quali le spighe di grano cominciavano ad indorarsi al sole, desiderò disperatamente la sua casa, le persone che amava, l'aia della fattoria dove aveva giocato in quella sua breve infanzia, i cortili, e le strade di terra battuta del paese spruzzate d'acqua nelle mattine colme di luce. CAPITOLO SECONDO «Riposo!» ringhiò Assia. La Comandante del recinto-scuola passò davanti alle due adolescenti ritte in piedi presso la porta, degnandole appena di un'occhiata. Si slacciò il cinturone e lo gettò sul tavolo. Dall'esterno dell'edificio della direzione veniva il vociare confuso e lontano di decine di classi nel bel mezzo del loro orario pomeridiano. Strisce di sole si infilavano nella stanza come lame, ad illuminare la polvere ed i circoli instancabili delle mosche. Assia sbuffò, segnalando così alle due giovani amazzoni che la loro presenza in quell'ufficio, a rapporto da lei, non era affatto un avvenimento capace di stupirla. Prima di parlare si portò alla bocca una piccola anfora di terracotta e bevve una lunga sorsata. Il vino scadente le colò lungo il mento. Fissò poi la ragazza alla sua sinistra, una bruna robusta sui quindici anni, col naso affilato e gli occhi cattivi. Sia lei che l'altra vestivano abiti semplici di pelle chiara, a un sol pezzo, e rozzi stivaletti di cuoio dalla suola in legno. «Tu: nome e classe!» ordinò seccamente.
«Dunia, signora, terzo anno d'istruzione, nella classe della caporalessa Cleonte. Io desidero protestare per esser stata accusata di...». «Fai silenzio! Non è la prima volta che mi capiti davanti, è vero? Già l'anno scorso ti sei messa in mostra per una zuffa, lo ricordo benissimo. Avevi accoltellato alle spalle una ragazza dell'ultimo anno ferendola, per fortuna senza gravi conseguenze. Che punizione ti ho dato?». «Carcere, signora. Pane e acqua per sei mesi. Corso forzato di istruzione nelle paludi per altri sei mesi», rispose Dania. Assia la osservò senza alcuna simpatia. «Si vede che quel giorno ero di buon'umore. Non mi vanno le zuffe. Io riesco a capire che ci si batta a duello, perfino quando a farlo sono scimmiette che hanno avuto soltanto armi di legno fra le mani, ma detesto le zuffe e la scorrettezza. Inoltre mi si dice che sei una zuccona in storia, in scrittura e in educazione civica. Non aprire bocca! Sei in presenza di una Comandante, e non in una taverna!». Assia si grattò un eczema che aveva sul collo, e per qualche momento rimase girata da un lato. Prese poi un cartoccio pieno di pomata scura e ne tolse una ditata, che si spalmò sull'infezione. Controllò l'opera in uno specchio di lucido bronzo appeso a una parete, e mugolò qualcosa fra sé. Le due la guardavano in rispettoso silenzio. Quando si girò fu all'altra che si rivolse: «In quanto a te, capelli rossi...» «Goccia di Fiamma, signora. Terzo anno, anch'io nella classe della caporalessa Cleonte.» «Ti ho forse autorizzato a parlare? So benissimo chi sei. Cleonte mi ha detto che hai fatto a botte quattro volte, quest'anno. E solo la Dea sa che cosa hai combinato fuori dall'orario di istruzione, visto che frequenti le peggiori taverne e gozzovigli insieme alle mannaie della Flotta da Guerra. Una bella signorina sei. davvero! Ma non avevi ma tirato fuori il coltello prima d'ora, con una tua compagna.» «Veramente, sono io che ho portato il...» «Taci! Per il santo ventre della Dea, credi forse che io abbia bisogno delle tue spiegazioni? Almeno cinquecento ragazze vi hanno visto darvele di santa ragione, e per terra c'era un coltello. Chi lo ha tirato fuori? Chi è stata a cominciare?» Le due stettero zitte, a capo chino. Assia, che si era piegata in avanti come per arrostirle sotto la sua occhiata, si raddrizzò e si piazzò le mani sui fianchi. «Omertà, eh? Magari contate di chiudere il conto fra voi stasera o un'altra volta, fuori dall'orario. Bene, benissimo; quello che succede dopo il
termine degli allenamenti non mi interessa affatto. Spetta alle miliziane del Tempio occuparsi di chi fa scorrere il sangue. Un avviso, però: ormai siete segnate, e se una di voi due viene trovata sfregiata o con una lama in corpo, l'altra fila dritta al Tribunale della Dea prima d'essersi fatta passare il fiatone. I duelli restano proibiti, lo sapete, e le Sacerdotesse non scherzano. Nel frattempo, visto che il vostro alterco di stamattina ricade sotto la mia competenza, dovrò pensare io a qualche provvedimento.» «Senza nemmeno ascoltare cos'è successo?» obiettò Goccia di Fiamma. «E scusa se parlo senza permesso, signora.» Assia la fulminò con un'occhiata. «Non sei scusata. Tutte le mattine all'alba, per un mese di fila, farai quindici giri di campo in uniforme pesante e in assetto di guerra. Nessuno ti sorveglierà, ma io saprò perfino quanti passi avrai fatto di corsa e quanti a strasciconi sulle ginocchia. Mi hai inteso, testarossa?» «Sissignora. Ho inteso, Comandante.» «E tu, bellezza,» La donna cambiò improvvisamente tono, spostando uno sguardo duro sulla bruna. «Per aver portato un coltello nascosto sotto l'uniforme da fatica durante l'orario d'istruzione...» «Non è vero! Protesto, signora!» la interruppe Dunia. «Protesti, eh? E se io ti dicessi che so anche sotto quale ascella lo rimpiatti abitualmente? E se ti facessi togliere il vestito, per mostrarti il laccio con cui lo fermi? E se facessi venire qui la caporalessa Cleonte, cheti ha visto mentre lo estraevi?» A questo punto la voce di Assia si alzò di tono bruscamente, trasformandosi in un grido furibondo: «Non fare lo sbaglio di prendermi per stupida, perché so benissimo cos'è successo, e posso dimostrare che hai cercato di pugnalare la piccola Sylla, una ragazzetta del secondo anno incapace di difendersi! Questo basterebbe a mandarti a sputar sangue alla gogna sulla piazza del mercato, e sarebbe proprio quanto meriteresti, maledetta puttanella! E non azzardarti a negarlo, altrimenti ti insegnerò con queste mani come si comporta un'amazzone. Mi sento proprio una gran voglia di farlo!» Lo sfogo aveva fatto colare un filo di saliva dalla bocca dell'anziana Comandante. A sessant'anni suonati Assia non aveva ancora un solo capello bianco, e non aveva perso un filo della grinta che ne aveva fatto a suo tempo la tigre di cento battaglie oltre i confini. Si calmò con uno sforzo, e intanto nelle immediate vicinanze il vocio s'era placato quasi di colpo. Dalla finestra erano visibili alcune istruttrici che sbirciavano con aria preoccupata verso l'edificio della direzione.
«Altri sei mesi nelle paludi t'aiuteranno a capire cosa mi aspetto da una che fa gli allenamenti sotto di me. E non mandare Aquila di Guerra ad intercedere, che io me ne frego se quella pellaccia della tua amica è la nipote della Regina. Sei mesi lontano dalla tua influenza gioveranno pure a lei, anche se questo non vi farà diventare più donne di un dito, né tu né lei. Ora fila, spariscimi dagli occhi!» Dunia uscì senza proferir verbo, scura in faccia. La Comandante la guardò passare davanti alla finestra, diretta allo spogliatoio, poi riprese a tormentarsi l'eczema, fissando Goccia di Fiamma. «Tu sei la figlia di Dane, se non ricordo male, vero? Bell'onore che fai al nome di tua madre. Io non la conoscevo di persona, ma so che tenne col suo Squadrone la riva sinistra del Kaba, contro seimila soldati di Haydukstan. E si dice che in quella battaglia le acque del fiume diventarono rosse del sangue dei nemici fino alla foce. Posso capire che Dunia non sappia cosa siano l'onore e la disciplina, visto che sta qui solo perchè sua madre è una leccapiedi della Regina. Ma da te mi aspettavo una mentalità ben diversa.» La ragazza rimase a testa bassa, sopportando la ramanzina in silenzio, e l'altra continuò: «Non ho ancora capito che bestia sei. Ci tieni a far camera nella milizia oppure no? Cerchi i guai perchè ti piacciono? Mi dicono che trascorri le ore libere nelle bettole del porto, mentre invece le tue compagne assistono agli spettacoli delle commedianti, alle gare sportive o alle funzioni nel Tempio. Inoltre ti sei fatta nemica di Aquila di Guerra, che un giorno avrà un posto di alto comando nello Stato Maggiore; ti fai odiare dalla figlia di Atemania, che è la Sacerdotessa Anziana della Dea e potrebbe farti spedire a vita in una guarnigione di confine, e da altre ragazze tutte destinate a rimestare intrighi negli ambienti della Corte grazie ai loro appoggi. C'è quasi da meravigliarsi se sei ancora qui, dopo tre anni, invece che trasferita in qualche recinto-scuola di periferia.» «Tu sapevi che non era colpa mia, signora?» «Proprio così. Suppongo che quella Sylla dovrebbe ringraziar te se Dunia non l'ha colpita, e non dico certo che tu abbia fatto male ad intervenire. So anche cosa c'è sotto, e giuro che mi disgusta vedere questi intrallazzi sentimentali trovar sfogo durante l'orario d'istruzione, davanti a mille occhi. Ma non sei stata intelligente. Dovevi limitarti a disarmare Dunia ed a riferire l'accaduto a Cleonte, invéce di schiaffeggiarla ed insultarla per provocare la zuffa in pubblico. C'è qui una piccola banda di carognette,
tutte ruffiane che ronzano attorno ad Aquila di Guerra, che non te lo perdoneranno. E tu sapevi che la cosa avrebbe avuto un seguito.» Goccia di Fiamma sorrise. «Una per volta o tutte insieme, signora, io sono in grado di rimetterle in riga. E senza infrangere troppo i regolamenti.» «Ah, sì?» Assia inarcò un sopracciglio, fra ironica e contrariata. «Buon per te che sei così brava, allora. Ma non prenderti confidenza coi regolamenti, bamboccia. Qui si marcia in gamba e chi sbaglia paga. Certo, ora rammento che neppure a te fanno schifo le amicizie di una qualche levatura, se è vero che ti si vede spesso andare a braccetto per la città nientemeno che con Shalla. No, forse non sei stupida come pensavo e neppure ingenua. Ma stai attenta, che ti tengo d'occhio!» «Considero la sua attenzione un onore, signora.» «Considerami poco capace di scherzare e farai meglio!» sbottò Assia. «Cleonte mi dice che tu hai qualche possibilità di diventare una vera amazzone. Riga dritto, ragazza. Qui dentro ci sono cinquemila mammolette che saranno chiamate a dar prova di ciò che hanno imparato fin troppo presto, e nel modo più duro. I tempi sono difficili, e lo saranno ancor più fra qualche anno. Sai bene di cosa sto parlando: parlo di farsi ammazzare oppure di sopravvivere non appena verrà il momento, e cioè fra non molto!» «Signora, io...» «Stai zitta. Tu e quelle della tua classe sarete le ultime che porterò alla fine degli allenamenti, prima di tornare a quelle quattro zolle di terra che mi son sudata con quarant'anni di servizio. Ma ho paura che farò in tempo a vedervi finir male tutte quante. Le ragazze di diciott'anni son già sul confine a farsi le ossa. Alcune di quelle che tu hai visto qui l'anno scorso sono morte in qualche scorreria quest'inverno, o stanno crepando adesso.» Assia stava per aggiungere qualcos'altro, ma s'interruppe e scosse la testa. S'avviò intorno al suo tavolo e scacciò le mosche che le ronzavano davanti alla faccia. «Raggiungi la tua istruttrice, adesso. Mi hai già fatto perdere troppo tempo. E non dimenticare: quindici giri di campo ogni mattina, prima che le altre inizino l'orario. Voglio vederti grondare di sudore, quando arrivo. Capito?» Goccia di Fiamma uscì sospirando. Il recinto-scuola della Capitale era costituito da una sola immensa radura, nella quale da anni non cresceva più un filo d'erba, e che d'inverno si trasformava in un pantano praticabile
a stento. Nei mesi caldi, invece, la polvere sollevata da cinquemila paia di piedi la rendeva meno piacevole d'un deserto ed altrettanto secca. La giovane amazzone voltò a sinistra e si diresse alla lunghissima costruzione di legno adibita a spogliatoio. Alcune istruttrici erano sedute sotto i tre unici alberi della zona e fumavano sigarette arrotolate a mano, parlottando fra loro, mentre le rispettive classi erano state di certo spedite a correre intorno al perimetro del campo. La ragazza le salutò rispettosamente e proseguì svelta. Sapeva che Cleonte, l'istruttrice d'armi a cui quel pomeriggio era affidata la sua classe, probabilmente l'aveva vista uscire e l'avrebbe rimproverata perchè non s'era subito unita alle compagne; ma non poteva permettersi di lasciare in sospeso la faccenda di Dunia. Passò davanti a varie porte finché la vide. Evidentemente la bruna voleva considerarsi sospesa dagli allenamenti fin da quel momento, perchè stava cambiandosi d'abito per tornare in città. Al contrario di Goccia, che viveva in caserma e non possedeva altro vestito che quello da fatica, la quasi totalità delle ragazze poteva permettersi una certa scelta di abiti buoni, da indossare nelle ore libere. E la madre di Dunia era piuttosto abbiente, anche in una società che faceva dell'eguaglianza il suo principio dominante. Appena Dunia la vide apparire, la fissò con odio. «Che accidenti vieni a cercare, spiona?» ringhiò. Lei sorrise, appoggiandosi pigramente allo stipite della porta con una spalla. Sapeva di poter assumere un'espressione antipatica e sfottente, quando voleva. «Ma che bel vestitino abbiamo! Proprio elegante; Stivaletti di vitello, cintura con borchie di vero argento... e guarda: un pugnaletto di ferro. Scommetto che non vedi l'ora di adoperarlo, non è così, cagnetta?» Dunia si portò d'istinto la mano all'elsa dell'arma, e i muscoli del braccio le si fecero rigidi per la tensione". «Vuoi levarti la voglia con me?» la sfidò. «Per l'appunto è questa la mia intenzione. Questa sera all'ora della campana, nella stradina dietro i macelli, se non ti scomoda.» La bruna fece una smorfia d'assenso. «Ti piace il lerciume dei vicoli, vero, ruffiana della malasorte? D'accordo, ci sarò». «Non dimenticarti le due testimoni, e soprattutto le bende, caruccia. E non fare quel faccino spaventato. Quando sarai nelle paludi potrai raccontare che sei caduta da cavallo, o che ti è crollata la casa in capo» continuò Goccia di Fiamma, al solo scopo d'irritarla. In realtà sapeva benissimo che
Dunia non era affatto impressionata dall'idea di doversi battere, e che anzi di solito godeva nel farlo. Tra loro ci furono altre frasi di minaccia, tipo: «Ti farò divertire io!» e «Stasera ti pentirai di avermi conosciuta!» Poi Goccia uscì, trucemente soddisfatta. Attraversò il campo, passando fra classi di ragazze dell'ultimo anno che si allenavano tra loro con armi di metallo, ed altre sedute in circolo intorno alle loro insegnanti di materie teoriche. Molte centinaia di giovani amazzoni erano scaglionate ai bordi del recinto, suddivise in classi che seguivano lezioni di scrittura, di lingue straniere e di religione. Quella di cui faceva parte lei era piuttosto lontana dal cancello d'ingresso, quasi sulla riva del fiumiciattolo che girava intorno alla spianata, e per tutto il pomeriggio si sarebbe mossa agli ordini di Cleonte, una bruna piuttosto severa sui trentacinque anni che si occupava dell'addestramento con la spada e la lancia. Tutte le amazzoni del quarto e del quinto anno erano invece assenti da mesi, essendo state spedite in un territorio collinoso dell'interno per imparare a tenersi in sella. In un recinto-scuola più piccolo, situato dall'altra parte della Capitale, le ragazze del sesto anno assegnate ai combattimenti corpo a corpo con i volontari venuti da Mitanni potevano almeno godersi la vista del mare. Goccia le invidiava. In quei tre anni aveva imparato a conoscere gli uomini, e se ne era fatti amici parecchi. Il Regno di Mitanni era da sempre alleato delle Terre Basse, e gli uomini di quel paese erano estremamente civili oltreché più tolleranti degli altri verso le usanze delle amazzoni, le quali venivano invece considerate nel resto delle nazioni circostanti il Mare Interno come femmine infide, viziose e feroci. Bal Kadur, il giovane Re di Mitanni, dipendeva molto per la sicurezza dei propri confini dal forte esercito delle Terre Basse, e ricambiava l'alleanza militare mettendo a disposizione delle donne guerriere i prodotti commerciali della sua terra, i più sofisticati ed evoluti che vi fossero in tutto il mondo conosciuto. L'unica altra nazione con cui le amazzoni avessero contatti era la nordica Marca di Olman Vuh, della quale altro non si sapeva se non che era costantemente impegnata in guerre di conquista contro altri popoli che abitavano le fredde terre settentrionali al di là del mare. Goccia di Fiamma detestava gli Olmanni, che durante il mese delle Cerimonie dell'Accoppiamento riuscivano a provocare sempre una quantità di piccoli incidenti. Ne aveva sentito alcuni parlare con disgusto e derisione delle usanze sessuali delle amazzoni, e s'era convinta che essi venivano invitati nelle Terre Basse anche allo scopo di far conoscere alle donne la mentalità che imperava
nelle nazioni rette dagli uomini. La ragazza dovette compiere alcuni giri viziosi per evitare folti gruppi di duellanti, che facevano un chiasso infernale. Si accorse quindi che le sue compagne avevano interrotto l'allenamento e s'erano sedute a terra presso la sponda del corso d'acqua. Cleonte stava parlando con tre estranee, una giovane ufficialessa in uniforme elegante ed una Sacerdotessa del Tempio, avvolta nel suo mantello azzurro. Con loro c'era una ragazza sconosciuta che Goccia osservò con interesse, avvicinandosi. Dimostrava circa la sua età ed era robusta e abbronzata, con capelli lisci neri come la notte. Andò a sedersi in mezzo al gruppetto delle sue migliori amiche e diede di gomito a Ira Marea. «Chi è quella?» le domandò. «Una nuova. La mettono con noi,» rispose l'altra. Accanto a Ira Marea c'era la sua amica del cuore, Rhylla, che aggiunse una spiegazione: «Si tratta di una straniera. La Sacerdotessa ha detto che è una profuga di Coralyne. Laggiù hanno fatto una specie di rivoluzione, e molte donne sono passate oltre il confine.» Goccia di Fiamma annui. Sapeva che se una donna di qualche paese confinante, anche ostile, chiedeva di emigrare nelle Terre Basse, le veniva sempre fatta una buona accoglienza. Non era necessario che sapesse tenere un'arma in mano. La buona volontà sul lavoro e l'adattamento a regole comunitarie erano le sole doti richieste . Quella bruna sembrava però assai forte e svelta, e non le difettava neppure l'espressione decisa e fredda caratteristica delle amazzoni già indurite da qualche scontro armato con gli uomini. A quanto pareva, tanto la Corte che il Tempio la consideravano meritevole di attenzione al punto di presentarla agli allenamenti in grande stile. Seduta poco lontano c'era Aquila di Guerra, una bionda dagli intensi occhi gialli, che stava commentando acremente e ad alta voce il fatto che la nuova venuta venisse aggregata di punto in bianco alla loro classe. «Io mi sono rotta la schiena per tre anni,» brontolava, «e questa signorinetta annusa-profumi viene messa al pari nostro appena arrivata. Davvero la sorella di mia madre dev'essere stata ubriaca, oggi.» La mordacità del suo tono era ad uso e consumo della sua ghenga personale, e alcune delle ragazze che le stavano accanto sogghignarono. Era noto il vezzo, diffusissimo nel Diaconato di Coralyne, di profumare ogni cosa immaginabile, perfino gli animali. Ma l'accenno irrispettoso alla Regina Theba, sua zia, fece accigliare altre giovani amazzoni. Theba era soprannominata La Saggia, forse perchè non s'era mai dimostrata molto
combattiva, ma nei vent'anni da che era sul trono molti problemi economici erano stati risolti e il paese s'era arricchito. Ira Marea si rivolse alla bionda con ironia: «La ragazza sarà contenta di sapere che l'hai presa subito in simpatia,» disse. Aquila di Guerra la guardò storto, poi si accorse che Goccia di Fiamma era tornata e le piantò in faccia due occhi cattivi. Per tutta risposta lei sorrise candidamente e alzò il dito medio a pugno chiuso, facendola ringhiare. «Continua a insultarla e finirai col doverti battere con lei,» la rimproverò Ira Marea sottovoce. «Magari la posso mettere in lista, se vorrà,» rise Goccia. Ira fece un'espressione perplessa, e lei si affrettò a spiegarle quel che era successo. «Questa sera dovrai farmi da testimone. Tu e Shalla. Non hai da fare, vero?» «Lo sapevo che fra te e Dunia sarebbe finita con un duello, prima o poi. Ma... accidenti, Goccia, mia madre è malata e dovrò restare a casa con lei. Mi dispiace. «Ira Marea la sbirciò, a disagio. Poi le strinse una mano, dicendosi sicura che a versar sangue non sarebbe stata certo lei. Goccia annuì e tornò a osservare la ragazza nuova. Evidentemente capiva e parlava la lingua delle Terre Basse piuttosto bene, perchè rispondeva senza esitazione quando Cleonte la interrogava ed annuiva alle parole della Sacerdotessa. Decise che le era simpatica. Dopo qualche altra frase l'ufficialessa e la sacerdotessa salutarono Cleonte e si allontanarono. La caporalessa diede una pacca sulle spalle alla bruna, spedendola fra le nuove compagne. «Tutte in piedi, smidollate!» ordinò. «Tu e tu, di corsa a prendere le lance. Le altre in fila per due, fronte a me!» Quando la classe fu allineata, ricevette l'ordine di deporre sull'apposita rastrelliera le spade di legno usate fino a poco prima, e le ragazze sfilarono svelte. Goccia di Fiamma si trovò incolonnata dietro la ragazza straniera, e la toccò su un braccio. «Salve,» si presentò. «Io mi chiamo Goccia. E tu?» Dopo un'esitazione lei sorrise appena. «Io Ombra.» «Ombra? Dea che mi proteggi, è un nome che si adatta poco alla tua abbronzatura! Sembra che tu sia stata lontana dall'ombra per mesi. È vero che vieni da Coralyne?» «Bene ... ultimamente ero laggiù.» fu la risposta di lei. «Silenzio in seconda fila!» gridò Cleonte. «Credete di essere a una festa campestre? Questa sera farò vedere a chi ha ancora dei dubbi che con la
lancia in mano ci si possono far venire i crampi dalla fatica. Vi giuro che mi maledirete, accidenti a voi! Aquila di Guerra, degnati di disporre i bersagli. Tanto per scaldare i muscoli si comincerà con il lancio dell'arma, che è più facile del corpo a corpo.» Goccia non ebbe modo di scambiare altre parole con la bruna per un pezzo. Le ragazze furono costrette al passo di corsa, sia per il lancio dell'attrezzo sia per recuperarlo e mettersi di nuovo in fila. Cleonte assistette senza far commenti ai primi tiri di ciascuna, rivolti a quattro grosse balle di paglia tenute dritte da assi. Poi diede lo stop e si piazzò davanti a loro con aria ingrugnita. «Così, alcune di voi vengono qui in vacanza, eh? Ho spiegato cento volte che la lancia non va gettata con una graziosa mossetta del braccio, ma scagliata con tutto il movimento del corpo. Tutto il corpo, dico! Flessione indietro mentre si prende la rincorsa, flessione in avanti e colpo di spalla al tiro. Voglio vedervi sbattere la faccia in terra dopo il lancio. Tu, Nirene, vieni avanti e dai una dimostrazione alle signorine. Muoviti!» L'interpellata si avanzò con baldanza, sorridendo. Prese la rincorsa, e giunta alla linea tracciata in terra scaraventò la lancia contro uno dei bersagli. L'attrezzo compì una parabola troppo alta e andò a battere di piatto in terra davanti a una delle balle di paglia Cleonte rimandò la ragazza fra le altre con un grugnito. «La metà di voi ancheggiano come cortigiane, ed ecco il risultato: dopo un lancio così inetto, pregate di aver gambe buone per scappare, altrimenti finirete nel mucchio dei cadaveri. Questa è incapacità congenita!» esclamò, facendo arrossire Nirene. «Adesso venga avanti quella nuova. Come hai detto che ti chiami, tu?» «Mi chiamo Ombra.» «Mi chiamo Ombra, signora» berciò l'istruttrice, correggendola. Le accennò di trottare in posizione di rito. «Forza, facci vedere come stendi secco il maschio!» Goccia di Fiamma s'era già resa conto, e non senza stupore, che la nuova arrivata sembrava in grado di sostenere il confronto con le altre con estrema disinvoltura. La più parte delle giovani amazzoni non aveva però la sua stessa capacità di osservazione, e non furono pochi i commenti divertiti che si levarono allorché Ombra prese la rincorsa. Ma ciò che la ragazza fece fu stupefacente. Mentre accelerava in avanti ella gridò all'improvviso: «All'albero!» E scagliò l'arma. La lancia sorvolò i bersagli in una traiettoria inaspettatamente alta, e vo-
lò dritta verso un gruppo di alberelli sulla riva del fiumiciattolo, trenta passi più lontano. La punta di legno temprato a fuoco ne centrò uno in pieno e lo fece vibrare fino alla chioma, restandovi conficcata. «Che mi colga un accidente!» ringhiò Rhylla, una delle più forti in quell'esercizio, incredula. Il lancio era stato impressionante per potenza e precisione, e Goccia rise, ammirata. Mentre Ombra rientrava nei ranghi Cleonte sogghignò soddisfatta, conscia di averle umiliate tutte quante. «Bene!» gridò. «Ecco la dimostrazione che voi pappe moscie dovrete fare sacrifici alla Dea, prima di azzardarvi a mettere il delicato nasetto fuori dai confini in cerca di onore e di gloria. Chi vuole tornare viva da una scorreria in Haydukstan o nelle Terre Alte si rammenti ciò che ha visto, perchè Ombra ha tirato di lancia come può fare solo un uomo fornito di massa muscolare superiore. Mi spiego? Tu, là in fondo, togli la mano dal sedere della tua amica. Non voglio stupidaggini sentimentali durante la lezione. Stasera farete cinque giri di campo tutte e due. Ci furono risate e frasi mordaci, che l'istruttrice troncò sul nascere: «In fila e al galoppo, verginelle. Dovete ridurli in pezzi, quei bersagli. Non sono balle di paglia: sono maschi, luridi e puzzolenti maschi pieni di boria, capito?» Le urla di Cleonte punteggiarono l'allenamento pomeridiano simili all'abbaiare di un cane, finché il sole calò e le ombre degli alberi si confusero nel crepuscolo che era sceso sulla vasta e polverosa radura. Un poco più tardi, dopo che si furono lavate nel corso d'acqua e asciugate alla meglio, le ragazze si diressero alla spicciolata verso gli spogliatoi e le uscite. Goccia raggiunse Shalla e la prese a braccetto. La mossa strappò un mugolio di dolore alla bruna figlia della Regina, ed ella le sorrise. «Ti fa male il braccio?» «No,» mentì l'altra cupamente. Per tutto il pomeriggio Shalla si era impegnata quasi con ferocia per almeno uguagliare i lanci di Ombra. Aveva finito con il raggiungerne la potenza, ma non la precisione, e ciò la rendeva di umore pessimo. «Questa sera dovrai farmi da testimone. Ho un duello,» la informò Goccia. L'amica si limitò ad annuire. Dopo qualche passo domandò chi sarebbe stata l'altra testimone. Evidentemente s'immaginava senza difficoltà l'identità dell'avversaria. «Oh, ne ho già in mente una,» rispose lei, e accennò col capo davanti a
sé. «Ti riferisci alla straniera? Va bene. Mi piace l'idea, e quella ragazza voglio conoscerla meglio.» Goccia di Fiamma sapeva per certo a cosa era volto l'interesse di Shalla. I discorsi della figlia di Theba avevano solitamente come oggetto le armi, le tattiche di combattimento, e tutto ciò che concerneva gli scontri armati e gli allenamenti. Era inoltre un'assidua frequentatrice del Tempio, e senza dubbio si proponeva di portare la bruna straniera sui sentieri della Dea, impresa che con Goccia le era del tutto fallita. Vi erano tali e tante differenze di mentalità fra Shalla e la rossa, che quest'ultima si capacitava a stento del legame di amicizia che le univa. Se però qualcuno avesse pensato che il carattere scorbutico di Shalla, il suo fanatismo nell'addestramento con le armi o la sua religiosità, fossero sintomi di un odio violento rivolto contro gli uomini delle nazioni circostanti, si sarebbe sbagliato di grosso. Nella capitale era ormai arcinoto che la figlia della Regina, benché appena quindicenne, intratteneva relazioni intime con qualcuno dei maschi presenti alla Corte nelle vesti di ambasciatori, e se la faceva perfino con un paio di giovani mercanti di Mitanni che avevano il loro commercio nella piazza del mercato. Raggiunsero Ombra davanti a una delle porte dello spogliatoio. La ragazza non era entrata a cambiarsi, ma aveva l'aria di aspettare qualcuno. «Salve. Hai da fare stasera?» le domandò subito Goccia. Con una certa sorpresa si accorse che Ombra non si mostrava affatto lieta di parlare con lei, perchè rispose brevemente: «Sì. Vado in città con Aquila di Guerra e alcune sue amiche.» Con una gomitata Goccia zittì Shalla, che stava per dire qualcosa con faccia scontenta, e sorrise. «Be', non ti sei scelta una buona compagnia, ragazza. Aquila è un'intrigante. Che cosa vai a fare, con lei?» «Mi ha semplicemente chiesto un piacere. Sembra che una sua amica si debba battere a duello con qualcun'altra, e vuole che io faccia con lei da testimone. Per dire la verità, io non conosco affatto le vostre leggi e le usanze. Ma Aquila di Guerra mi ha garantito che basterà la mia presenza.» «Già, infatti,» assentì Goccia. «I duelli sono proibiti. Comunque, occorrono due testimoni per ogni duellante, nel caso sia poi necessario spiegare davanti al Tribunale della Dea i motivi per cui l'una o l'altra abbia reso l'anima.» «Vuoi dire che i duelli sono all'ultimo sangue?» chiese Ombra. «I duelli sono duelli, no? Solo la Dea può decidere che cosa deve succe-
dere, quando volano le pugnalate. Ma io mi propongo semplicemente di divertirmi un poco.» «Tu? Che cosa vuoi dire?» L'altra la fissò, perplessa. Fu Shalla a spiegarlo. «Goccia ti sta informando, a suo modo, che sarà lei a battersi con l'amica di Aquila. Quella Dunia è una serpe velenosa, e mia cugina non è da meno. Non mi ero accorta che vi foste parlate. «La figlia di Theba non nascondeva la sua delusione, nel vedere la ragazza nuova già legata alla bionda Aquila di Guerra, che malgrado il legame di parentela detestava apertamente. «Allora, ci vedremo in città, Goccia,» salutò la bruna, dopo una scrollata di spalle. «La roba la porto io. Tu sii puntuale. L'appuntamento è al solito posto?» Goccia di Fiamma confermò, ma non seguì con gli occhi l'amica che si allontanava. Tutta la sua attenzione era palesemente rivolta ad Ombra. «Vogliamo sederci un momento?» le propose. Dagli spogliatoi uscivano già moltissime giovani amazzoni, dopo essersi ripulite e cambiate, chi da sola, chi in coppia, chi in gruppi che chiacchieravano animatamente. Alcune di loro sarebbero andate dritte in caserma, altre risiedevano nella Capitale e potevano permettersi di mangiare e dormire a casa loro. Tra le ragazze impazienti di dimostrare che erano adulte e le numerosissime mannaie e miliziane, la vita notturna della città si sarebbe animata notevolmente, giustificando la pessima reputazione che la morale delle amazzoni aveva in altre nazioni. Goccia sedette su una panca di legno accanto ad Ombra. «Questa sera che farai? Sul tardi, voglio dire,» le domandò. «Non ti vedo molto preoccupata all'idea di duellare a morte,» osservò l'altra poco cordialmente, invece di rispondere, «Come hai detto che ti chiami? Goccia qualcosa, ani pare.» Lei ripeté il suo nome. «Questa sera non ci sarà nessun duello, se conosco bene Dunia,» continuò. «Ma parliamo d'altro. Tu mi sei simpatica. Mi piaci.» «Ah! E perchè dici che il duello non ci sarà? Forse hai intenzione di non presentarti?». «Lascia perdere, tesoro. Parliamo di noi, di te e di me,» insisté Goccia, guardandola con un po' di malizia. La bruna si rabbuiò. «Che vuoi dire? Se hai intenzione di... be', guarda che io non sono come Voialtre amazzoni. Mi capisci?» Goccia non smise di sorridere. «Hai due occhi cattivi come quelli di
Shalla, ma dentro sei di burro, ci giurerei. Voglio soltanto fare amicizia con te. Guarda: ti faccio un regalo.» Tolse da una tasca una manciata di quelle che sembravano foglie secche sminuzzate, tenendole con estrema attenzione, e gliele porse. «Sono Pezzetti di ali di Uomo Angelo,» disse. «Prendili, possono servirti. Io so dove procurarmene ancora.» Ombra non si mostrò interessata. «Tienteli. Non me ne faccio niente di cose simili.» Per nulla smontata, lei allargò le dita. I piccoli frammenti translucidi si alzarono rapidissimi nell'aria, come sollevati da un vento misterioso, e scomparvero nel cielo con la velocità di lampi argentei e silenziosi. «Hai visto? Volano via. Lo sai a cosa servono?» L'altra alzò le spalle, sbuffando di noia. «Sono molto preziosi. A me li ha dati Shalla. Sua madre ne ha in quantità. Ha anche due paia intere e perfettamente intatte di ali. Gliele hanno regalate degli ambasciatori di paesi stranieri, e sono merce rara, pregiatissima. Vuoi venire con me a vederle, domani?» «Detesto chi fa del male al Popolo degli Alati!» sbottò Ombra. «Bene ... anch'io. Ma se ti riempi le tasche coi frammenti delle loro ali. ti senti molto più leggera. Il loro potere vince il peso dei corpi, e tende a sollevarti da terra. È utile quando si corre, capisci?» La ragazza bruna si guardava attorno nervosamente, certo impaziente che Aquila di Guerra uscisse dallo spogliatoio per andarsene con lei. Goccia le si fece più vicina. «Perchè fai tanto la riservata? Ho capito che ti piaccio, un poco,» mormorò. «Non ti andrebbe di uscire con me, più tardi? La sera qui ci si può divertire, se si sa dove andare.» «Piantala!» la interruppe lei seccamente. «Aquila mi ha invitata al Palazzo Reale, dopo che tu e la sua amica avrete sistemato la vostra questione.» «Non mi dirai che ti va a genio quella smorfiosa! Senti, facciamo così: dopo cena ce ne andiamo nella taverna di Mamma Zita. Ha il vino migliore della Capitale. Ehi, lo sai che al refettorio della caserma io occupo proprio il posto vicino al tuo?» «E come fai a sapere quale sarà il mio posto?» si stupì Ombra. «Lo so, perchè farò sloggiare la ragazza che ti metteranno accanto,» rise Goccia. «Ho una torta che mi ha mandato mia zia Hallimar dalla campagna. Non hai mai assaggiato le torte di albicocche che fanno dalle nostre parti?»
Ombra strinse le labbra. «Non essere insistente. Mi secchi!» «Oh ... scusami, allora.» mormorò lei. «Stammi a sentire: mi hanno raccontato che voi amazzoni non riuscite a tirare una linea netta fra il vizio e la virtù. E adesso che conosco te, vedo che staresti dalla parte sbagliata della linea. Togliti dalla testa che io abbia voglia di ubriacarmi in qualche sordido locale pieno di debosciate.» Goccia di Fiamma fu costretta ad arrossire. «Se la pensi così...» «Tanto per parlarci francamente,» continuò l'altra, «Aquila di Guerra mi ha detto di stare alla larga da te. Afferma che hai una pessima reputazione, e a giudicare dalle strane moine che mi fai, direi che non ho motivo di dubitarne. Io non ho nessuna intenzione di mettermi in cattiva luce appena arrivata, frequentando ragazze che si danno al vizio. In altre parole, fammi il favore di starmi lontana. Chiaro?» Goccia rimase così male a quella frase che poté appena rispondere: «Certo ...» In quel momento comparve accanto a loro Aquila di Guerra, che adesso indossava un ricco vestito di stoffa ricamata, elegantissimi stivaletti alti fino al ginocchio e una cintura ingemmata dalla quale pendeva un fodero con un bel pugnale di ferro. La bionda dovette intuire che genere di conversazione si fosse svolta fra le due, perchè rivolse a Goccia una smorfia ostile. «Guarda, guarda! Vedo che in testa ti vanno ronzando pensieri del tutto diversi da quelli che dovrebbero assillarti. Certo non ti smentisci, tu. Stasera avrai una piccola e salutare lezione di buone maniere, lo sai?» La rossa la degnò appena di uno sguardo sprezzante. «Fila via, scimunita!» la avvertì. L'altra fremette, e portò una mano all'elsa del pugnale. Poi si rilassò con uno sforzo e sorrise spiacevolmente. «Così, eh? Nessun rispetto per chi sta più in alto di te. Molto bene: se sopravviverai alla punizione che ti darà Dunia, toccherà a me insegnarti a vivere!» Goccia di Fiamma si alzò e le si piazzò davanti, così vicina che i loro nasi quasi si toccavano. «Nel frattempo gira il culo e sparisci, serpente!» le ringhiò sul viso. Con uno scatto la bionda amazzone estrasse il pugnale. Prima però che Ombra facesse in tempo ad interporsi per separarle, una mano di Goccia si era già chiusa come una morsa attorno al polso dell'altra. L'arma cadde al suolo, sfuggendo dalle dita intorpidite, e Aquila si divincolò con la furia di una tigre. Le due ragazze si fronteggiarono, tese come corde d'arco.
«No!» la avvertì Goccia. «Se ti chini a raccoglierlo non ti alzerai più da terra. Lascialo lì! Adesso è mio!» «Tu! Io ti...» sibilò Aquila di Guerra, mezzo piegata in avanti. Ma non si mosse. «Prendi l'uscita e fila, prima che dimentichi che Shalla mi ha ordinato di non farti piangere, vipera infida. Devi solo a lei, se ancora non ti ho fatto sputar sangue. Ma questa può essere la tua sera, se vuoi!» Ombra si mise di mezzo e spinse indietro la bionda. «Andiamocene. Lasciala perdere. Non mi va di essere immischiata in una zuffa proprio il primo giorno che sono qui. Non vedi che lo fa apposta a provocarti? Cerca la lite con te, per poi farsi bella agli occhi delle altre.» «Certo,» fece l'altra. «Hai ragione. Questa spudorata avrà il fatto suo fra poco, del resto.» Aquila di Guerra annuì trucemente e seguì la bruna verso il cancello, voltandosi indietro un paio di volte con il viso contratto dall'odio. Goccia le rivolse un sorriso sfottente, dopo aver raccolto da terra il pugnale con un gesto plateale. Si trattava di un oggetto lavorato con finezza, originale di Mitanni, e in realtà non era di ferro ma di acciaio scadente, essendo questa una lega più facile a prodursi. Il ferro puro era praticamente sconosciuto, e le leghe ottenute a causa delle impurità di carbonio presenti nella lavorazione dovevano la loro durezza più all'ignoranza degli artigiani che alla loro abilità. «Ehi, tu!» chiamò una voce alle sue spalle. La ragazza si voltò e vide la Comandante Assia che si sporgeva dalla finestra del suo ufficio, facendole cenno di avvicinarsi. «Dammi qua. Quell'arma non è adatta a una mocciosetta come te. Fra due anni avrai il diritto di portare armi di metallo, e te la conserverò io fino a quando non l'avrai meritata.» Goccia le consegnò il puntale di malavoglia. L'altra continuò: «Sono sicura che ne nascondi da qualche parte un altro o due di bronzo, tu. Non è così? O vai in giro per i bassifondi disarmata?» Lei sorrise e scosse il capo. «No, Comandante. Non ne ho bisogno, mi creda. Nove volte su dieci, chi sa usare le mani è superiore a un avversario che crede d'essere avvantaggiato dal possesso di un coltello. Cleonte non mi vuol credere, anche se le ho dimostrato che spesso è davvero così.» «Tu. che dimostri le tecniche di combattimento a Cleonte?» brontolò Assia, incredula. «È meglio che tu ti faccia furba, ragazza, o domattina mi capiterai davanti come passata con un rastrello!»
Evidentemente, la donna era venuta a conoscenza di come sarebbero finite le cose fra lei e Dunia. Goccia non fece commenti. «Se hai tanta voglia di batterti, alienati seriamente per le Gare di fine anno. Solo ottenendo un buon punteggio potrai far dimenticare la vita dissoluta che conduci nelle ore libere,» la avvisò Assia. Poi le fece cenno di andarsene, burberamente. Goccia di Fiamma uscì dal grande recinto-scuola, diretta in città; ma sarebbe rimasta stupita nel vedere l'espressione della Comandante: seduta di traverso sul bordo del tavolo del suo ufficio, Assia si palleggiava il pugnale fra le mani, sogghignando apertamente e con palese soddisfazione. Anche se la donna imponeva al recinto-scuola una disciplina rigida, non poteva fare a meno di pensare che le migliori combattenti venivano fuori proprio da quelle ragazzine scalmanate e impavide, rissose e strafottenti, che parevano nate apposta per sfogare la loro rabbia di vivere nella mischia, a tu per tu col pericolo. Pochi giorni avanti era venuta in città Hallimar, a far visita alla nipote. Dopo aver parlato con Assia, Hallimar aveva dato a Goccia di Fiamma una solenne lavata di testa, ma se ne era tornata in campagna soddisfatta ugualmente. Adesso Assia rifletteva che Goccia di Fiamma, allevata da una zia come Hallimar e figlia di quel demonio che era stata Dane, non poteva smentirsi: solo grazie a femmine come loro, i confini delle Terre Basse erano stati ed avrebbero continuato ad essere inviolabili. La sera scese lentamente sulla costa di Afra, lambita dalle acque pesanti e salmastre del Mare Interno che si stendeva verso nord. Quando suonò la campana nella piazza del mercato, le attività della Capitale si smorzarono fino a cessare. Le botteghe vennero chiuse, i pochi mercanti di Mitanni smontarono le loro bancarelle, su cui vendevano per lo più stoffe e oggetti di metallo lavorato. Fuori dalle caserme sciamarono le miliziane in libera uscita, dirette alle numerosissime taverne o nei prati in cui si tenevano recite e spettacoli di vario genere. Le mannaie della Flotta da Guerra delle Dea si sparsero per la città, schiamazzanti, chi pregustando un'allegra serata tra commilitone, chi dirette ad appuntamenti sentimentali. La ronda delle miliziane del Tempio girava ad accendere le torce lungo le vie principali, ma nel resto della città l'illuminazione era data solo dalla luna. Nel vicolo retrostante i macelli c'era l'afrore delle pelli e l'odore della spazzatura accumulata. Poco dopo il segnale del riposo serale, due ragazze vennero avanti alla luce di una torcia fumosa. Erano Shalla e la figlia di Mamma Zita, la taverniera, una biondina snella e delicata di nome Fiore.
Shalla conficcò la torcia in una fessura del muro scabro, a illuminare un tratto del vicolo sgombro dai rifiuti e dal ciarpame. Fiore depose al suolo una cassettina di legno e la aprì. disponendo poi sul coperchio il contenuto, composto da bende arrotolate e boccette di unguenti medicinali. Le due ragazze trascinarono più in là alcune assi mezze marce e ciò che rimaneva di un carro privo di ruote, allargando così la zona in cui si sarebbe svolto il duello. Da lì a poco comparvero anche Aquila di Guerra. Dunia, ed Ombra. Quest'ultima accese un'altra torcia alla fiamma della prima e la sistemò sul muro opposto. Dunia si fece avanti spavaldamente. «E allora?» domandò. «Che fine ha fatto capelli rossi? Forse che ha deciso di rimpiattarsi in qualche osteria, ad affogare nel vino la sua vigliaccheria? Conoscendola, non me ne meraviglierei.» Aquila di Guerra rise forte. Shalla notò che le tre non si erano portate dietro il necessario per il pronto soccorso, e che Dunia non sembrava armata. «Dov'è la tua lama?» chiese, sgarbatamente. «Sai bene che tocca a me controllare se è regolare.» «Oh, non temere. Dalle mie parti non si usa il veleno. La vedrai a suo tempo. Intanto sembra che ci toccherà aspettare i comodi della tua amichetta. Non è disprezzo per le consuetudini tutto questo, ragazze?» Aquila annuì con enfasi. «Sicuro. E" mancanza di rispetto verso i testimoni, a meno che non si tratti di pura e semplice paura di presentarsi.» Shalla non replicò a tono, perchè in quel momento era apparsa in fondo al vicolo Goccia di Fiamma. La ragazza si avvicinò tranquillamente, con le mani nelle tasche del vestito; passò davanti all'avversaria e alle sue testimoni, fischiettando ed ignorandole come se non esistessero neppure. Però, quando fu al centro del tratto illuminato, si voltò bruscamente e sorrise ad Ombra, strizzandole l'occhio. «Salve, tesoro,» la salutò. «Sempre arrabbiata?» Non ebbe risposta, ma non ci badò. Fece finta di non vedere la disapprovazione dipinta sul viso di Shalla e diede un bacetto su una guancia a Fiore, quindi si sedette per terra, con la schiena appoggiata al muro. «Siano fatti i preparativi!» esclamò, imitando efficacemente la voce e il tono altero della Sacerdotessa Anziana Atemania durante le pubbliche cerimonie nel Tempio. Shalla le si chinò accanto. «Ma non hai il coltello? O credevi che lo avrei portato io? Non eravamo certo rimaste d'accordo così, mi sembra.» «Di quale coltello parli?» finse di stupirsi lei.
L'amica la guardò duramente. «Che ti prende, Goccia? Stasera mi hai l'aria d'essere rimbecillita,» commentò. Si voltò e vide che Aquila di Guerra e Dunia confabulavano sottovoce. Ombra le ascoltava con aria immusonita. Dopo qualche istante Dunia si mosse in direzione di Goccia, ma più che ostile il suo atteggiamento era insospettito. «Sei già ubriaca?» domandò. «Alzati e preparati, che io non ho tempo da sprecare con le tue buffonate.» La rossa non si mosse. «Sono io che sto sprecando il tempo, e tu sai benissimo cosa intendo dire» «Non lo so, invece. Vuoi batterti o no? Se ti ritiri, dovrai chiedermi scusa in ginocchio, altrimenti non te ne andrai da qui.» «Scostati, che devo sputare!» la avvertì Goccia. Sputò, infatti, cogliendo in pieno l'altra su una spalla. Dunia parve paralizzata dalla rabbia e la fissò a occhi sbarrati, poi si voltò e tornò dalle sue testimoni. Ripresero a parlottare fittamente fra di loro. «Non ti senti bene, Goccia? Hai davvero bevuto?» domandò Shalla, preoccupata. «Sto benissimo e sono sobria.» «Dovrò mandare Fiore a cercarti un pugnale, adesso. Accidenti a te... non ti capisco. Che intenzioni hai?» «Mettiti calma, e fra poco capirai. Anzi... apri le orecchie: non senti un rumore di passi che si stanno avvicinando?» Shalla si alzò in piedi e si girò di scatto. Da dietro l'angolo più vicino del vicolo buio proveniva infatti uno scalpiccio di passi cadenzati, inconfondibile nel suo significato. «Maledizione, le miliziane di ronda!» imprecò. Cinque donne alte e robuste, in uniformi di spessa pelle borchiata in rame ed armate di tutto punto, sbucarono dall'oscurità e si fecero avanti rapidamente. La caposquadra che le precedeva le fece arrestare con un cenno e venne nel centro dello spazio illuminato, puntando sulle presenti due occhi minacciosi. «Ma che bella scena! Mi sembra proprio di vedere due mocciosette che vogliono farsi grandi coi pugnali in mano, malgrado che i duelli siano severamente proibiti. Molto bene: questa notte le prigioni del Tempio avranno ospiti. Fatevi avanti e dichiarate la vostra identità una alla volta. Anche le testimoni!» Dunia ed Aquila di Guerra esibirono espressioni stupefatte. «Duelli? Pugnali? C'è un equivoco, signora, almeno per quanto riguarda noi. Come puoi controllare tu stessa, non portiamo armi. È ovvio che non abbiamo
intenzione di infrangere la legge.» «Mi prendi per scema? La caposquadra diede un ordine alle miliziane, e due di esse frugarono accuratamente sia Aquila di Guerra che Dunia ed Ombra, senza trovare niente. Dunia sorrise soddisfatta. «Siamo disarmate, come vedi. Noi sappiamo benissimo cosa è legale e cosa non lo è.» «E allora cosa state a fare qui?» ringhiò la donna. «Questi sono fatti nostri, signora. Io direi una pacifica discussione. Tuttavia, se qualcun altro era venuto con l'intenzione flagrante di provocare un duello, potrai accertartene perquisendo ad esempio quelle ragazze laggiù. Se non vado errata, il Tempio punisce anche l'intenzione, quando essa è manifesta.» «Proprio così,» confermò la caposquadra. A un suo cenno, anche Goccia di Fiamma, Fiore e Shalla vennero frugate. Quest'ultima evitò di rivelare le sue generalità, e sopportò l'operazione digrignando i denti, ma i suoi occhi erano due cristalli ardenti che non promettevano nulla di buono. «Neppure noi abbiamo lame,» dichiarò quindi Goccia con un ampio sorriso. «Ne si può solo dedurre che siamo qui per una ragione squisitamente pacifica, e null'altro. Non vi pare?» La caposquadra aveva l'aria perplessa e irritata. «Però avete i medicinali. Che razza di riunione è questa?» sbottò. Andò verso Dunia le piantò lo sguardo in faccia. «Questa faccenda non mi piace. Sarà meglio che tu mi dia una spiegazione chiara, Dunia, e subito. Quella laggiù è la figlia della Regina. Credi che non l'abbia riconosciuta?» Accanto a lei Ombra, la ragazza straniera, si stava facendo sempre più cupa e insospettita. Non essendo affatto timida, mise una mano su una spalla della caposquadra e la fece girare verso di sé. «Permetti che ti faccia una domanda, signora: tu conosci personalmente Dunia? E perché mai chiedi chiarimenti sulla situazione proprio a lei?» Anche Shalla si era accostata. «Sì, dimmi per quale motivo ti rivolgi a lei? Cosa ti aspettavi di trovare qui? E come mai il tuo arrivo è stato stranamente tempestivo? Voglio una risposta chiara!» La caposquadra apparve imbarazzata, e Dunia dal canto suo era impallidita. Aquila di Guerra mormorava bestemmie sottovoce. Poco distante da loro, Goccia di Fiamma ostentava di disinteressarsi completamente alla scena e canticchiava fra sé, sorridendo a Fiore. Tra Shalla e la miliziana del Tempio ci fu uno scambio di parole, in tono aspro da parte della prima, mentre l'altra obiettava le sue ragioni lamentosamente e tenendosi nel va-
go. Il risultato inevitabile, che la caposquadra doveva avere già previsto, fu che il drappello di miliziane venne avvertito che il giorno dopo, in caserma, la Regina stessa si sarebbe interessata di chiarire la faccenda. La caposquadra protestò ancora le sue ragioni, senza ammettere nulla, ma lanciando ogni tanto a Dunia occhiate di fuoco. Infine si voltò e diede un ordine secco alle altre, allontanandosi a passo di marcia. Dunia e Aquila di Guerra andarono via immediatamente dopo, evitando di proferir parola. La bionda amazzone aveva preso per un braccio Ombra, accennandole di seguirla, ma la bruna si era scostata subito da lei come se si fosse accorta che aveva la peste, con una bestemmia oscena. «Levati di torno! Tu e quella sporca cagnetta vigliacca mi avete preso in giro fin troppo,» disse duramente. Poi le voltò le spalle e restò immobile finché le due non furono scomparse nel buio. Shalla camminava avanti e indietro scura in faccia, con le mani sui fianchi. Puntò contro Goccia un dito accusatore. «Tu sapevi che quella schifosetta aveva avvertito le miliziane, con lo scopo preciso di intrappolarti. Se ti trovavano con un coltello addosso saresti finita in prigione. Lo sapevi! Non è così?» «Lo immaginavo soltanto. Poco fa sono passata dalla caserma delle miliziane del Tempio, e ho saputo che Dunia era stata lì nel pomeriggio. Aveva parlato con una caposquadra sua amica, e ciò ha confermato i miei sospetti. Dunia non è stupida, a modo suo: sapeva già che non avrebbe potuto ferirmi senza che Assia tirasse subito le sue conclusioni. In realtà non potevamo duellare impunemente, data la situazione.» «Allora sei stata una sciocca a sfidarla!» sbottò Shalla. «Dovevo sfidarla, invece! Non potevo farne a meno. Solo dopo ho capito che lei avrebbe voluto essere più furba di me, e che io le avevo offerto l'opportunità di giocarmi qualche scherzo sleale. È stata una brava calcolatrice, ma io l'ho raggirata. Tutto qui. Non te la prendere, ora andiamo a bere qualcosa.» «Ma perché non mi hai detto nulla? Mi hai fatto fare una parte da cretina, e domani sarò costretta a fare rapporto sul comportamento di quella caposquadra disonesta.» Goccia la placò con un cenno.» Se avrà dei guai, se li sarà meritati. Non è mica bello quello che ha fatto, ti pare?» Poi sorrise stranamente, fissando Ombra. «Ma le cose dovevano seguire il loro corso, altrimenti una certa signorina non si sarebbe convinta.»
«Convinta? Di che diamine stai parlando?» brontolò Shalla. «Parlo del marciume e della disonestà, i quali non stanno sempre dalla parte delle debosciate che frequentano le osterie, che non si vergognano di fare un po' di corte sincera a un'amica.» Shalla si ammutolì, sorpresa. Poi si scostò, perché Ombra era venuta a chinarsi presso la rossa. Dal suo volto non traspariva alcuna emozione. «Sei stata abile. a prevedere l'imbroglio di quella ragazza. Posso solo domandarti scusa di ciò che ti ho detto: ti avevo giudicata male,» dichiarò. «Non credo. Io sono esattamente come Aquila di Guerra mi descrive, e forse anche peggio. Bevo, sto alzata fino a tardi a straviziare, nelle taverne faccio spesso a botte e mi comporto oscenamente. E, come la nostra Fiore qui ti può confermare, le ragazze carine non fanno altro che togliersi le mie mani da sotto i vestiti quando sono con me. Sono una vera amazzone in questo, un elemento assai poco raccomandabile per una che voglia esser ben considerata dalle ufficialesse e dalle Sacerdotesse del Tempio. Non ti consiglio di frequentarmi alla leggera.» Ombra fu costretta a sorridere. «Sono certa che è davvero così. Ma sotto sotto non devi essere del tutto marcia. Magari, se qualcuno provasse a fare di te una personcina ammodo, si scoprirebbe che qualche lato buono ce l'hai anche tu.» «Si tratta di una proposta?» fece Goccia, impassibile. «Io non faccio proposte alle donne. Te l'ho detto!» Shalla e Fiore nel frattempo dovevano aver compreso che la loro era diventata una discussione privata, e stavano allontanandosi in silenzio con una delle torce e la cassettina dei medicinali. Ombra si girò a far loro un cenno di saluto, e Goccia le spiegò brevemente che Fiore doveva recarsi al lavoro nella taverna di sua madre, che a quell'ora andava animandosi. Dal canto suo, Shalla aveva senza dubbio un incontro sentimentale in programma e andava a cambiarsi in caserma. Difficilmente la bruna figlia della Regina si comportava in modo diverso dalle semplici miliziane della truppa, e da un paio d'anni non abitava più al Palazzo Reale. Ombra annuì, pensosa. «E come mai una ragazza seria e coscienziosa come Shalla è amica tua?» volle sapere. «Non ne ho idea. Magari perché sono più brava di tutte con le armi in mano, agli allenamenti. Shalla apprezza chi sa battersi. Credo che anche tu le piaccia molto. E poi non è il modello di virtù che sembri credere: se passi dal Palazzo quando arriva qualche ambasciatore o qualche mercante giovane e bello, vedrai quanto è abile ad approfittarsi della sua posizione.
A lei le donne piacciono solo quando non ci sono uomini nelle vicinanze, ma ciò capita di rado.» «Ah! Ma ha soltanto quindici anni! E Dunia e Aquila frequentano il Palazzo anch'esse? Questa sera Aquila mi aveva appunto invitato là.» Non per dare la caccia ai maschi ospiti nella Corte di Theba, cara mia. Alcune sciocche cortigiane si illanguidiscono per quelle due jene. Credo che te ne avrebbero presentate due o tre. Hai gettato via una buona occasione per indagare di persona sui pettegolezzi che si fanno all'estero sulla Corte della Regina, ragazza.» «Bene... però potrei sempre rifarmi, osservando se è vero quel che si racconta sui vostri locali malfamati del porto,» sorrise Ombra. «Tipo la taverna di Mamma Zita?» «Se tu sei disposta a farmi da guida. Del resto, non penso proprio che sia un posto tanto terribile, se ci lavora quella brava ragazzina che era qui con voi.» Goccia si alzò e si spazzolò il vestito. Poi rise ancora e la prese sottobraccio con improvvisa energia. «Naturalmente! Quel locale ha una cattiva fama soltanto da quando lo frequento io. Se tu ci andassi in mia assenza, non potresti fartene un'idea esatta. Solo dopo che ti sarai ubriacata un paio di volte con le marinaie della Flotta da Guerra potrai considerarti una vera amazzone. E non preoccuparti di nulla: se poi non saremo più capaci di ritrovare la strada della caserma, ci penseranno le miliziane di ronda a riportarci a cuccia!» CAPITOLO TERZO Correva l'anno dell'Onda di Marea, e nella Capitale delle Terre Basse fervevano i preparativi per le Cerimonie dell'Accoppiamento, che si sarebbero tenute alla fine della primavera. Nelle cinque città della costa, le navi della Flotta da Guerra della Dea si accingevano a lasciare i porti per attraversare il Mare Interno, dirette alle rive detta lontana Marca di Olman Vuh. Da quella terra nordica esse avrebbero riportato sulla costa di Afra migliaia di cacciatori bruni e di forti guerrieri, grazie agli accordi col Duca, e da loro le amazzoni in età di accoppiarsi avrebbero avuto figlie robuste, adatte alla vita dura dei campi e all'esercizio delle armi. Così era stato per moltissimi anni, e così sarebbe stato sempre. Ottenere dagli Olmanni quel particolare tipo di prestazioni era costoso, ed alloggiarli e mantenerli durante il mese delle Cerimonie sarebbe stato un onere non indifferente per
la popolazione. Ma l'economia era florida, le nazioni confinanti con le Terre Basse non mostravano ancora di volere quella guerra che era nell'aria da anni, e le amazzoni si preparavano ad accogliere quei rudi figli del nord con l'entusiasmo di sempre, per dar vita alle celebrazioni fastose e spesso sfrenate i cui resoconti, per bocca degli stessi Olmanni, stupivano e scandalizzavano da sempre le nazioni circostanti il Mare Interno. Nei quindici giorni precedenti le Cerimonie dell'Accoppiamento si tenevano, com'era l'usanza, le tradizionali Gare Annuali, durante le quali le guerriere più forti sarebbero intervenute da ogni contrada per dar prova di sé, alla presenza della Regina, delle Comandanti, delle Sacerdotesse e di migliaia di popolane confusionarie e vogliose di divertirsi. Per accogliere il pubblico erano stati approntati tre grandi stadi erbosi, circondati da spalti di legno. Il tifo era rumoroso durante le eliminatorie, e si faceva addirittura infernale all'effettuarsi delle finali. L'organizzazione dei servizi era capillare e allo stesso tempo caotica, la vita notturna raggiungeva l'apice; dal paese amico di Mitanni giungevano numerosissimi visitatori, e l'atmosfera era esaltante. In quel periodo, le scorrerie oltre i confini, miranti a intimidire le guarnigioni di Coralyne, di Haydukstan e delle Terre Alte di Afra, cessavano quasi del tutto. Ogni preoccupazione era dimenticata, e chiunque ne aveva la possibilità lasciava le valli dell'interno e le campagne paludose della costa per recarsi alla Capitale, a vedere di persona le guerriere più famose battersi per la conquista del trofeo in palio in ogni disciplina: l'agognata Spada di Ferro. Nomi fin allora sconosciuti salivano alla ribalta, destando l'ammirazione delle ragazzine; vecchie glorie erano costrette a cedere il passo alle nuove leve, mentre altre invece rinverdivano i propri allori fra il clamore della folla che salutava le loro prestazioni. Al termine di ogni finale, amazzoni sudate ed emozionate salivano sul Palco della Regina per ricevere dalle sue mani quell'arma di metallo intarsiato che per tutta la vita avrebbero conservato gelosamente. Negli stadi si facevano scommesse; al di fuori la confusione non era minore tra le bancarelle in cui si vendevano cibi e bevande, e dovunque si aggiravano le miliziane del Tempio impegnate a mantenere l'ordine, popolane che cercavano di accaparrarsi i posti migliori e bambinette che tentavano di penetrare abusivamente negli spogliatoi per vedere da vicino i loro idoli. Fu tra quella folla che l'ultimo giorno delle Gare si fece largo Hallimar, oberata dal peso di due grosse sporte piene di cibarie e seguita quasi di corsa da Occhi Blu. Entrambe erano stanche, spettinate ed ansimanti, e si
erano già perdute due volte. Malgrado fosse sulla cinquantina, Hallimar era sempre una donna alta ed energica, ma mostrava un bel pò di capelli grigi e i suoi occhi erano cerchiati di piccole rughe abbronzate. La sua bionda compagna, invece, non sembrava invecchiata di un sol giorno da quando Goccia di Fiamma aveva lasciato la loro fattoria, oltre sei anni addietro. Da quell'epoca, Hallimar e Occhi Blu non l'avevano potuta vedere che un paio di volte soltanto. «Aspettami, Hallimar!» gridò Occhi Blu. «Non andare così in fretta. Oh, Dea... stai sbagliando strada!» «Che dici? No, no, guarda: quello è il cancello principale. È da lì che si entra allo stadio. Ma fai presto, o non troveremo più posti a sedere.» La compagna le si aggrappò a un braccio, faticando a starle dietro in quella calca. «Forse faremmo meglio a cercare Goccia,» ansimò. «Lei potrebbe procurarci un buon posto. Hallimar... qui fa un caldo terribile. Dovremo stare al sole tutto il giorno?» «Ma no, sciocca. Dopo la finale di Goccia verremmo via. Però è impossibile avvicinare quella ragazza, non hai sentito? Negli spogliatoi non fanno entrare nessuno, e perciò è inutile anche provarci. La cercheremo al termine delle Gare.» «Credi che vincerà? Credi che... farà bella figura, davanti a tutta questa gente?» Hallimar rise, voltandosi appena un attimo. «Vuoi scherzare? Nessuna può battere Goccia! Nessuna, nemmeno la stessa Shalla, che dicono sia fortissima con tutte le armi. Sarà lei la vincitrice, nella classifica finale, te lo dico io.» Occhi Blu annuì, docilmente, ma il suo sorriso era piuttosto incredulo. Erano partite dalla fattoria quattro giorni avanti, dopo che una staffetta arrivata dalla Capitale aveva portato notizie sui primi giorni delle competizioni. Il viaggio sul carro era stato massacrante, ma spesso si erano fermate per chiedere aggiornamenti sui risultati, e le imprèse di Goccia di Fiamma nelle varie gare le avevano rese euforiche. In base ai punteggi ottenuti in ogni singola prova, le amazzoni che si sarebbero contese la vittoria definitiva erano tre, già decisamente staccate dalle altre: Shalla, la conosciutissima e feroce figlia della Regina Theba; una ragazza straniera chiamata Ombra di Lancia, di cui non si sapeva altro se non che era spaventosamente forte in ogni disciplina, e la loro Goccia di Fiamma. Occhi Blu stentava a crederci. Era già un fatto considerato straordinario che tre ragazze uscite di fresco dagli allenamenti si fossero imposte come
prestazioni totali a guerriere esperte, scaltrite da vere battaglie, ma che una di esse fosse Goccia era... ebbene, quasi un sogno per lei. Entusiaste ed elettrizzate, Occhi Blu e Hallimar si erano fatte prestare un carro e i due migliori trottatori del paese, e per quattro giorni avevano viaggiato sulla lunga e polverosa strada che univa le città principali dalla costa, per assistere alle ultime e decisive gare. «Mi fa male un calcagno, non correre!» si lamentò Occhi Blu. Hallimar si fermò bruscamente. «Aspetta. Vedo laggiù Nube, tra quelle ufficialesse che stanno entrando. Forse riusciremo a farci assegnare un buon posto a sedere, se faccio in tempo a fermarla.» Le due presero a tagliare la folla trasversalmente, verso l'ingresso retrostante il Palco della Regina sorvegliato da due miliziane. Per loro fortuna le ufficialesse, che certamente avevano già il posto riservato, sembravano non aver fretta. «Nube!» gridò Hallimar. «Ehi, Nube!» La Comandante dell'Esercito della Dea era una donna alta, dai capelli grigi, dritta e robusta come tutte le amazzoni combattenti, che indossava un vestito di pelle ricamata piuttosto frivolo. Nel sentirsi chiamare si guardò attorno, e quando individuò Hallimar che si faceva largo tra la gente con le sue borse gli occhi le si illuminavano. «Nube, sono io,» ansimò lei. «Ti vedo, accidenti! Hallimar, vecchia sanguisuga di palude, sei proprio tu?» L'amazzone lasciò a terra le sporte e abbracciò con forza la Comandante. Poi le due si scambiarono scherzosi pugni nelle costole e violente manate sulle spalle, ridendo e guardandosi l'un l'altra con palese compiacimento, nella maniera caratteristica delle soldatacce più rustiche e navigate. Occhi Blu assistette alla scena, sollevata di potersi fermare e grondando di sudore. «E così, hai lasciato le zolle e le fatte di cavallo per venire a vedere la tua puledra, eh? Sangue della Dea, da anni non vedevo la tua faccia di spudorata mangiamaschi. E questa è la tua nuova compagna? Ricordo la povera Dane, l'unica femmina dai capelli rossi di tutte le Terre Basse. Goccia di Fiamma è il suo ritratto sputato. L'avevo sentito dire, che quando Dane morì ti eri trovata un'altra compagna.» Hallimar le presentò Occhi Blu, la quale faticò a non mostrarsi intimidita perché Nube era un nome e un miraggio, al pari di Minna o di Zare o della giovanissima Hay Varena che gareggiava anche quell'anno. Restò in silen-
zio, mentre Hallimar chiedeva notizie di Goccia. Nube rispose ridendo a gola spiegata e sferrandole un'altra manata sulle spalle: «La tua bamboccia? Va forte, ragazza mia. Va maledettamente forte. Quella baldracca di Mirina vuole rubarmela per la Cavalleria, Ala di Luce s'adatta a cercarla nelle taverne per convincerla a scegliere la Rotta, e può essere che una di loro riesca ad accaparrarsela. Ma tu la persuaderai ad arruolarsi nell'Esercito, vero? Demoni! Dovrai parlarle e convincerla, Hallimar, o ti giuro che rimpiangerai i giorni in cui sudavi nella mia squadra. Ti ricordi quelle dannate mischie sul fiume Shinga? Che tempi! E la battaglia nella Valle dell'Asino, quando disarcionasti con un fendente quel figlio d'un cane che mi stava inchiodando? A proposito, abita sempre dalle tue parti quella Lystrane, la trecciona che sfidò a duello il Principe di Haydukstan e lo stese secco?» Occhi Blu si accostò alla compagna per non essere travolta da un gruppo di soldatesse e di marinaie della Flotta da Guerra che arrivavano berciando e schiamazzando, e ascoltò i discorsi delle altre due distrattamente, cogliendo l'occasione per riposarsi. Le reminiscenze belliche di Hallimar e di Nube furono però interrotte dal sopraggiungere di quattro o cinque ufficialesse, una delle quali conosceva bene Hallimar, e diede inizio a un'altra serie di grandi saluti, risate e battute pesanti. «Bene,» disse infine la Comandante. «Voi stavate cercando un posto, vero? Fra poco iniziano le finali dei duelli alla spada, e naturalmente è proprio questo che v'interessa. Verrete sul Palco con me.» «Sul Palco della Regina, vuoi dire?» si stupì Hallimar. «Ma certo. Theba avrà il piacere di conoscervi, anche se la vostra ragazza sta portando via la vittoria a sua figlia, punto dopo punto. Per ora Shalla è ancora in testa di poco. Dopo undici gare ha novantasei punti, seguita da quella dannata di Ombra e da Goccia. Ma ieri Ombra di Lancia si è storta una caviglia di brutto, e oggi non gareggia. Così ho sentito dire, almeno. Una bella fregatura, per lei. Del resto, con la spada la favorita è Goccia di Fiamma, e questo significa che se vince passa al comando e chiude col punteggio più alto. Si fanno scommesse su di lei come non ho mai visto. E pensare che sino a un mese fa era praticamente una sconosciuta.» Nel parlare, Nube le aveva spinte verso l'ingresso del Palco coperto sul quale prendevano posto le amazzoni di maggiore spicco. Occhi Blu e Hallimar si trovarono di fronte alla Regina, quasi troppo soverchiate dall'onore che veniva loro fatto per riuscire a guardare lo stadio, dove i duelli stavano avendo inizio. La Comandante scostò alcune Sacerdotesse e le presentò a
Theba, la quale strinse le mani di Hallimar, sorrise nel vedere le sue rustiche sporte piene di involti, e si disse poi lieta di conoscerla allorché fu informata che era la zia di Goccia di Fiamma. «Maestà, è un onore per me,» rispose lei, tenendosi eretta. Nube intervenne ancora per precisare che Hallimar era stata la compagna di Dane, la quale, ricordò, era appunto la madre di Goccia. «Ma lo sapevo!» si compiacque la Regina. «Già. Come dimenticare Dane, quella valorosa? Conosco già Goccia. La vostra testarossa è una mezza matta, ma Shalla le vuol bene. Sono amiche da anni, e spesso me la porta a Palazzo. Sono contenta che si sia fatta valere, in queste nostre Gare. Non mi aspettavo di meno, dalla figlia di una vera amazzone com'era Dane.» Accomiatatesi dalla Regina, Nube le condusse dietro il seggio e riuscì a scovare alcuni posti liberi più in alto, fra un gruppo di Sacerdotesse. In mezzo a tutte quelle donne vestite secondo il loro rango o con abiti di fantasia piuttosto lussuosi, Hallimar e Occhi Blu si sentivano un poco a disagio, sporche e trasandate nei loro vestiti da viaggio. Ma erano su di giri per l'accoglienza ricevuta. La Comandante sedette accanto a loro e indicò verso il campo. «Questa è la serie finale di incontri,» spiegò. «Comincia con sedici duelli fra trentadue ragazze, a eliminatoria diretta. Ogni duello viene effettuato al meglio delle cinque stoccate, e cioè vince la contendente che mette a segno tre colpi al corpo, esattamente come ai nostri tempi, e per ogni coppia di ragazze c'è una Sacerdotessa che funge da giudice. Osservate le due in fondo a sinistra: Goccia è quella con lo scudo giallo e il casco liscio. Ormai ho imparato a riconoscerla anche da lontano. Occhi Blu rise e batté le mani. Non vedeva la ragazza da due anni, e il suo sguardo luccicava di emozione e di felicità. Poi però si rabbuiò un poco, notando la foga delle duellanti e il rumore secco dei colpi che si portavano addosso. «Ma non rischiano di farsi male e di ferirsi?» domandò, preoccupata. «No sciocca,» la informò Hallimar. «Ebbene, tutt'al più qualche ammaccatura. Le spade sono senza filo, e indossano protezioni di vimini, non vedi? Valgono i colpi portati al bersaglio grosso, anche se naturalmente non fanno nessun danno.» Nube le diede di gomito, indicando una ragazza seduta nella fila in basso giusto davanti al seggio reale. Era una bruna abbronzatissima, dai seni piccoli, con le braccia nude e i capelli fermati da una striscia di pelle attorno alla fronte. Aveva una gamba distesa avanti a sé con la caviglia fasciata fra
due stecche di legno, e seguiva lo svolgersi dei duelli con espressione aggrondata. «Ecco là Ombra di Lancia. Dev'essere ferita davvero, altrimenti sarebbe in campo. Peccato per lei. Adesso non le rimane che fare il tifo per Goccia.» Hallimar vide che si trattava di una ragazza notevole, robustissima, e dal profilo intuì in lei un carattere duro. Dovette apprezzarne l'aspetto. «Sembra un tipo a posto,» disse. «Mi piacerebbe conoscerla.» Nube la guardò stranamente. «Che vuoi dire? Non la conosci? «No. Perché dovrei?» «Perché, dici? Certo Goccia te ne avrà parlato, qualche volta.» Hallimar aggrottò le sopracciglia. «Ho visto Goccia due anni fa, per l'ultima volta. Non mi ha parlato affatto di lei. Sono forse amiche?» Nube tossicchiò. «Em... non dovrei essere io a dirtelo, credo. Comunque, si, sono amiche. Diciamola pure tutta: sono compagne. Tutta la città lo sa, a quest'ora. Da più di tre anni filano insieme. Mi stupisce che Goccia non ti abbia detto mai nulla di lei.» «Fanno coppia fissa? Oh... cavolo! Bene, molto bene,» fece lei, stupita. La Comandante rise. «Suppongo che Goccia di Fiamma sia molto riservata, almeno intorno alle sue faccende personali. Ma non hai motivo di crucciarti, te lo assicuro. Ombra di Lancia è davvero in gamba. L'ultima leva ha prodotto alcuni elementi notevolissimi, e non c'è da meravigliarsene, visto che la direttrice dei recinti-scuola è la vecchia Assia. Prendi per esempio Shalla, che un giorno sarà Regina: se la chiamano la Tigre non è certo per caso. È un concentrato di ferocia e di aggressività, impulsiva e indomabile, straordinariamente forte. E la tua Goccia? Genio e follia, la chiamo io. Ogni volta che scende in campo la gente impazzisce, e in città il suo nome vola di bocca in bocca. Ombra invece è la freddezza in persona; si dice che Mirina, dopo averla sentita parlare una volta, adesso la cerchi continuamente e discuta con lei per ore, di che cosa lo sa la Dea. Magari di tattiche militari e di politica. Pensa: Mirina che si consulta con una ragazza uscita adesso dagli allenamenti! Oh, ne farà di strada quella lì.» «Sì, Assia sa temprarle, le sue ragazze.» Fu d'accordo Hallimar. «Purtroppo fra quelle della loro classe ci sono anche diverse pecore nere, come la nipote della Regina e la banda di carognette che le sta attorno da mattina a sera. Aquila di Guerra è una femmina infida, e il pensiero che un giorno occuperà un posto di grande responsabilità mi fa star male. Oggi gareggia anche lei, e devo riconoscere che quella bionda strega sa tener
bene la spada in mano. Ma non può vincere, anche se è cattiva e svelta come una serpe.» Hallimar non conosceva Aquila di Guerra neppure di nome, e annuì distrattamente. Nube si era rimessa a guardare lo svolgimento dei duelli e cambiò discorso: «Qui, sotto di noi: guardate come si batte Shalla. Demoni, la sua avversaria se la vede brutta. La Sacerdotessa ha due dita alzate nella mano dalla parte di Shalla e il pugno chiuso dalla parte dell'altra. Significa che la Tigre la batte già per due a zero. Peccato che da qui non si veda bene qual è il punteggio di Goccia.» «Mi pare che vinca per uno a zero,» disse Hallimar. In quel momento si vide chiaramente Goccia di Fiamma mettere a segno un affondo nel petto dell'avversaria, con tale forza da mandarla due passi indietro. Dalla parte opposta delle tribune si levarono applausi; ma il chiasso delle spettatrici era una cacofonia continua e assordante. Nube disse: «L'esito di metà di questi duelli è già scontato. Guarda laggiù: c'è anche Ligdamys, la caposquadra con cui tu litigavi sempre. Quella femmina dev'essere immortale;ha la nostra età. eppure scommetto che passerà almeno il turno. Mi sembra però che alle altre gare sia stata eliminata sempre fin dall'inizio. Quest'anno i risultati mi hanno sorpresa, Hallimar. Ci sono molte novelline col latte ancora sulle labbra nella graduatoria delle prime venti, spesso davanti a vecchie volpi della mischia con le spade piene di tacche. Per Assia dev'essere una grossa soddisfazione; dovrebbe essere da queste parti, a vedere come se la cavano le sue pulcine. Assia è un'allarmista, parla sempre di nuvole nere all'orizzonte, di guerra e di pericoli, ma devo dire che le sue istruttrici hanno tirato su classi di ragazze davvero brave.» Hallimar seguì in silenzio la prima serie dei duelli, al termine dei quali sedici ragazze vennero eliminate, tra le quali anche Ligdamys. Vi fu poi un breve intervallo, e Nube ne approfittò per riassumerle i risultati delle Gare precedenti. Nei quattordici giorni passati, si erano tenute le eliminatorie e le finali di tutte le prove, salvo quella allora in corso. Ogni gara era basata sull'uso di un'arma, alcune di esse soltanto a piedi, altre sia a piedi che a cavallo. A mani nude c'erano soltanto la prova di lotta e naturalmente le due gare di corsa, quella di velocità , sul percorso di guerra e quella di resistenza sulle dieci leghe. A quanto disse la Comandante, fin dai primi giorni si era capito che le tre amazzoni classificatesi ai primi posti l'anno precedente, e cioè Hay Va-
rena, la non più giovane Ala di Luce e Myssane, avrebbero trovato le avversarie più ostiche proprio fra le meno sospettabili. Myssane aveva vinto la prova di lotta, ma dietro di lei avevano preso punti Shalla. Ombra di Lancia e Goccia di Fiamma. La corsa di velocità aveva visto primeggiare Valeya, Ala di Luce si era imposta in quella di resistenza, e qui le tre novelline erano andate male. Però il duello col pugnale era stato vinto da Shalla, dopo uno spettacolare confronto con Ombra. Goccia di Fiamma, giunta quarta dietro Hay Varena. si era rifatta quel pomeriggio vincendo la finale nel lancio del coltello davanti alla coetanea Rhylla. Il giorno successivo c'era stato il momento di gloria di Ombra di Lancia, che aveva vinto le due gare con la sua arma preferita, il tiro e lo scontro diretto a cavallo. Goccia era giunta terza dietro Rhylla in una di queste, e seconda nell'altra, accaparrandosi punti preziosi. Poi aveva vinto la serie di scontri a cavallo con scudo e spada, guadagnandosi la seconda Spada di Ferro in pochi giorni. In seguito, Shalla aveva ristabilito le distanze classificandosi prima nel duello con la scure e lo scudo. A questo punto, le tre amiche erano salite ognuna per ben due volte sul Palco della Regina, e i loro nomi erano sulla bocca di tutte. La sera, nelle taverne della città, si discuteva sui meriti dell'una e dell'altra. Se ne parlava sulla piazza del mercato, fra le bancarelle, e si facevano scommesse; si Brigava nella foga di esaltare o sminuire le loro capacità, ed esse venivano seguite da codazzi di ragazzine ovunque andavano, mentre già le si indicava come esempi di cui tener conto. I carri della verdura portavano i loro nomi nelle campagne, e le ufficialesse di questa o di quell'arma le avvicinavano, facendo finta di parlar d'altro ma in realtà per saggiarle, blandirle, cercando di convincerle ad arruolarsi chi nella Flotta, chi nell'Esercito, chi nella Cavalleria o chi addirittura nelle Esploratrici e nelle Spie. La gara di tiro con l'arco aveva visto il prevedibile trionfo di Zare, che da dieci anni non mancava quell'appuntamento e la massacrante corsa ad ostacoli a cavallo era stata appannaggio dell'indomabile Hay Varena. Tuttavia, proprio in queste prove si era registrato un decisivo passo avanti di Shalla, che si era meglio piazzata fra le prime sedici, le uniche che prendessero punti. All'ultimo giorno delle Gare, le tre amiche erano tanto poco distanziate l'una dall'altra che il risultato finale era ancora incerto. Il duello con la spada e lo scudo, la più spettacolare ed emozionante delle prove, veniva così a caricarsi di un interesse ancora maggiore, perché sarebbe stato decisivo agli effetti del punteggio globale. Mentre Nube dava ragguagli, rammaricandosi ancora dell'incidente che
aveva messo fuori gioco Ombra, le contendenti erano tornate al centro del campo insieme alle Sacerdotesse. La Comandante spiegò che adesso i duelli non sarebbero più stati effettuati contemporaneamente. Il valore delle singole amazzoni rimaste in lista era tale che farle combattere tutte nello stesso tempo sarebbe stato un affronto al pubblico e nocivo per lo spettacolo. Per il primo scontro furono designate Hay Varena e Ilsabet. La prima era una ragazza giovane, dalle lunghe ti ecce nere e assai forte, agile come una pantera. L'altra era un'ufficialessa della Cavalleria della Dea nota per la sua eccessiva spietatezza in battaglia. Il pubblico fece udire subito un gran tifo, perché era noto che le due non si potevano vedere, e ciò le avrebbe portate a dar fondo a ogni loro energia. Vinse in poco tempo Hay Varena, e Ilsabet lasciò il campo dopo aver scaraventato via lo scudo con un gesto di rabbia. Tra le Sacerdotesse che fungevano da giudici vi era stata una breve consultazione su un colpo incerto, durante la quale le due si erano insultate pesantemente, ed il pubblico aveva strepitato e ingiuriato imparzialmente tutte quante. Occhi Blu e Hallimar cominciavano a divertirsi moltissimo, e spesso si erano sorprese ad agitare i pugni in aria e a gridare come facevano le altre amazzoni sul Palco, ad eccezione della Regina. Nel secondo duello si trovarono di fronte Aquila di Guerra e una miliziana del Tempio non molto robusta. Nube pronosticò una facile vittoria di Aquila di Guerra, cosa che infatti avvenne, ma si lasciò andare a commenti poco favorevoli nei suoi confronti, dichiarando che combatteva usando espedienti assai poco leali. Hallimar fu d'accordo con lei, in quanto la bionda nipote della Regina, pur molto forte, aveva volutamente mirato con violenza a un braccio dell'avversaria. La mossa non le aveva portato il punto, non essendo considerato quello il bersaglio da colpire, ma aveva ottenuto l'effetto di menomare la miliziana in maniera decisiva. Anche il pubblico lo aveva notato e fece udire una sonora salve di fischi allorché Aquila di Guerra tornò al suo posto sulle panche. Nei duelli successivi vinsero Myssane, Ala di Luce, Brezza dell'Est e Maani. Quindi toccò a Shalla battersi con una certa Selanie, una ragazza che si era fatta un buon nome nelle scorrerie oltre i confini di Coralyne. La bruna figlia di Theba assalì l'avversaria con tale impeto che la costrinse a retrocedere in continuazione. I suoi colpi risuonavano sullo scudo di Selanie come su un tamburo, e quando l'altra opponeva la sua spada ai fendenti si alzava nell'aria un vibrante rintocco argentino. Hallimar rimase stupefat-
ta dall'aggressività e dalla strapotente energia fisica che risaltava in ogni movimento del suo corpo. Non aveva mai visto nessuno battersi in quel modo. Shalla vinse senza che l'altra avesse avuto l'opportunità di portare un solo affondo efficace, e il pubblico le dedicò una rumorosa ovazione. Anche Hallimar e Occhi Blu si unirono con entusiasmo al battimani; si diceva che Shalla fosse scontrosa e musona, dura, e forse era vero. Tuttavia c'era in lei qualcosa che attraeva, che esaltava, e non era difficile capire come il popolo prevedesse grandi tempi per la nazione allorché sarebbe diventata Regina. Furono liete di vedere che era davvero forte come era stato loro detto. Nell'ultimo duello si fronteggiavano Goccia di Fiamma e Rhylla, una sua coetanea che Nube disse essere anche piuttosto amica della rossa. Rhylla dimostrò subito d'essere molto brava, forse più di altre che si erano già qualificate, ma altrettanto chiaro fu dall'inizio che ella non riteneva di poter vincere. Goccia di Fiamma dava l'impressione di saper disporre dell'avversaria come meglio voleva, e la sua tecnica di duellante strappò alle ufficialesse e alle Sacerdotesse mormorii di ammirazione. Hallimar commentò con Occhi Blu che la ragazza era ancora cresciuta dall'ultima volta che l'avevano vista, e tuttavia era notevole che malgrado il suo fisico eccezionale conservasse una femminilità e una grazia di movimenti del tutto inusuali in una soldatessa. Il suo occhio esperto osservò che proprio questa caratteristica le dava una flessuosità e una agilità tali da lasciar l'impressione che ella danzasse. Ma era una danza di guerra, un balletto mortale che irretiva l'avversaria e la confondeva. Il duello arrivò al limite delle cinque stoccate, e Goccia vinse per tre a due. Nube disse che la rossa aveva dato a Rhylla l'opportunità di non sfigurare a bella posta, per pura amicizia, e infatti l'altra lasciò il campa a testa alta e sorridendo, per nulla umiliata dalla sconfitta. Ci fu ancora un intervallo. Occhi Blu tolse da una delle sporte la giara del vino e alcuni frutti, che anche Nube accettò. Sullo stadio gravava la calura primaverile, appena mitigata da un leggero vento di mare. Le venditrici di bevande facevano affari d'oro. Sul Palco della Regina c'erano sette od otto uomini. Tutti Dignitari o Ambasciatori di Mitanni, il paese confinante a est con le Terre Basse ed alleato militarmente con le amazzoni. Altri di minor conto, tra cui Nube disse esservi anche una cinquantina di Olmanni, erano sparsi tra il pubblico. Con sorpresa di Hallimar, Nube le propose una scommessa, e disse che delle otto ragazze rimaste in lizza solo Shalla, Aquila di Guerra, Hay Va-
rena e Goccia di Fiamma sarebbero andate alle semifinali. «Credo anch'io.» rispose lei. «Su che risultato vuoi giocare?» «Cinque piastre che al duello conclusivo andranno Aquila di Guerra e Hay Varena.» Hallimar rise. «Sei impazzita, o vuoi buttare via i tuoi soldi. Cosa ti fa pensare una simile sciocchezza?» Nube parlò di amore del rischio e dell'improbabile, e volle mettere in palio le sue piastre ugualmente. Come Hallimar adesso ricordava, la Comandante non era mai stata capace di amministrare saggiamente il suo denaro, ed accettò, già rassegnata di doverla alleggerire della somma. Conformemente alla prima previsione di Nube, i quarti di finale si conclusero con la vittoria delle quattro amazzoni da lei nominate. Negli accoppiamenti veniva tenuto conto per quanto possibile dell'amicizia fra alcune partecipanti, e si cercava di non far combattere fra loro quelle che era noto avrebbero dato minor spettacolo per il timore di farsi male o di umiliarsi a vicenda. Aquila di Guerra eliminò con una facilità sconcertante la fortissima Myssane, al che Hallimar dichiarò che quest'ultima aveva bevuto troppo durante l'intervallo, e certo non solo l'acqua. I suoi movimenti le erano apparsi infatti scoordinati, al punto di far dubitare delle sue condizioni mentali. Nube ribatté che Myssane aveva ricevuto un colpo al capo alcuni mesi addietro, e talvolta ne soffriva le conseguenze. La Comandante rimase però perplessa, quando Hay Varena e Ala di Luce, che erano andate al duello successivo, si batterono in un modo fiacco, del tutto in contrasto con le loro caratteristiche personali, finendo per dare uno spettacolo di ben poco valore. Le due amazzoni, disse ancora Nube, si erano rinfrescate la gola con qualcosa che acqua non era. Vinse Hay Varena, ma gli applausi che ebbe furono scarsi. Goccia giostrò però contro Maani un duello entusiasmante, poiché avevano entrambe le stesse caratteristiche di finezza tecnica e agilità, e la spuntò solo per aver saputo sfruttare a fondo il suo maggiore allungo. In quanto a Sballa, essa non mutò affatto la sua impressionante maniera di combattere allorché fu opposta a Brezza dell'Est, una Comandante della Cavalleria nota sia per la sua audacia, sia per le risse che provocava abitualmente nelle taverne presso il porto. Nello stadio risuonarono i fendenti della spada di Shalla contro le protezioni di vimini dell'avversaria, uno per ogni colpo andato a segno. Vinse quindi per tre a zero. «Adesso ne vedremo delle belle,» pronosticò Nube. «Nel prossimo turno Shalla dovrà vedersela con sua cugina Aquila. Quelle due si odiano a mor-
te, e il pubblico lo sa benissimo. Evitano persino di parlarsi o di passarsi vicino; ma adesso che si trovano di fronte faranno scintille, vedrai.» Il riposo stavolta durò un pò di più. Sugli spalti il clamore delle popolane aveva raggiunto punte di parossismo. La stessa Regina si era sbilanciata con qualche gesto di entusiasmo ed esclamazioni un pò gridate e un pò sussurrate, nel vedere i successi della figlia. Le Sacerdotesse in campo sceglievano quelle fra loro più qualificate ad arbitrare gli ultimi duelli. Tra le ufficialesse stavano cambiando mano borse piene di piastre, in pagamento delle scommesse già conclusesi. «Mi sembrano tutte e quattro piuttosto provate,» disse Hallimar. «Quanto durerà l'intervallo? Fa un caldo! Sei stanca, Occhi miei?» Occhi Blu sorrise e scosse il capo. Per tutto quel tempo non aveva smesso un istante di guardare Goccia di Fiamma, anche quando la ragazza se ne stava seduta sulla panca ad attendere il proprio turno. In realtà era alquanto stanca, perché erano giunte alla Capitale dopo aver viaggiato tutta la mattina; ma il pensiero che quella sera sarebbe stata insieme a Goccia la galvanizzava. Hallimar, che le sapeva legger nei pensieri, le prese una mano e gliela strinse dolcemente. Per la bionda e delicata Occhi Blu, separarsi da Goccia era stato più duro di quanto lo fosse stato per lei, il che non finiva di meravigliarla. Dopotutto, Occhi Blu era venuta a vivere alla fattoria quando Goccia di Fiamma aveva già nove anni ed era una piccola scapestrata indipendente; eppure le due avevano subito legato molto, e parlavano fra loro in un modo particolare che la faceva sentire esclusa. Imprevedibilmente, anche due anni prima, quando ormai Goccia di Fiamma si era trasformata in un pezzo di femmina tra le più adatte a tenere un'arma in mano e certo destinata a imprese non molto femminili, lei e Occhi Blu si erano ritrovate nello stesso modo, ancora identiche nei loro sogni e nel loro parlarsi, fatto di luci e di sorrisi negli occhi, più che di parole. Nel campo stavano adesso entrando parecchie novizie del Tempio, recando altre giare piene d'acqua e bevande non alcoliche. Prima però che le amazzoni rimaste in gara avessero modo di ristorarsi, alcune miliziane corsero dentro e fecero riportare via i rinfreschi in gran fretta. Hallimar non ne comprese il motivo se non qualche momento dopo, allorché una miliziana venne di corsa sul Palco e si mise a parlare concitatamente con alcune Sacerdotesse. Si creò una certa agitazione, e Nube si unì alle altre in un colloquio nel quale abbondavano esclamazioni scandalizzate e parole pronunciate in tono duro. La Comandante riferì infine ad Hallimar e alla compagna quanto era ac-
caduto: si era scoperto, a quanto sembrava dalle prime indagini, che una certa Dunia, amica intima di Aquila di Guerra, aveva mescolato qualche droga alle bevande portate in campo durante uno dei precedenti intervalli. Le strane manovre della ragazza intorno alle anfore dove venivano tenute le bevande di riserva erano state osservate da una novizia del Tempio di servizio negli spogliatoi, la quale si era decisa a riferire il fatto assai più tardi di quanto non sarebbe stato opportuno. «Bevande drogate? Non ho mai sentito una cosa simile!» commentò Hallimar, scandalizzata. «Credi che molte concorrenti abbiano bevuto quella roba?» Nube allargò le braccia. «Non è possibile stabilirlo, adesso. E la gara dovrà continuare in ogni modo. Purtroppo non è possibile dimostrare la colpevolezza di nessuna, a parte naturalmente Dunia.» «Ma se hai appena detto che è amica di Aquila di Guerra...» Lo so, lo so, ma non c'è niente da fare. Sangue della Dea, che schifo! Adesso mi viene il sospetto che tu abbia visto giusto, riguardo a Myssane. E anche Ala di Luce e Hay Varena non mi sono parse certo all'altezza delle loro possibilità.» Occhi Blu stentava a capire l'accaduto. «Vuoi dire che Goccia è stata drogata? Oh... Dea!» «Non preoccuparti, tesoro. Non succederà niente di male. Piuttosto, Nube, ho l'impressione che Ombra stia sogghignando in un modo strano. Tu che la conosci, perché non vai giù a parlare con lei? Forse sa qualcosa sui retroscena di questo episodio.» Nube convenne che la bruna amazzone dalla caviglia steccata, lungi dal preoccuparsi per Goccia di Fiamma, aveva una espressione fra sorridente e disgustata. Scese la gradinata di tavole e andò a chinarlesi accanto. Per un pò le due parlarono. Apparentemente, le quattro amazzoni rimaste in campo non erano ancora state messe al corrente della cosa, e pensavano ognuna a controllare le proprie anni e a riprendere fiato. Quando Nube tornò a sedersi presso Hallimar, era accigliata più che mai. «Avevi annusato bene.» riferì. «Ombra di Lancia e Goccia sospettavano già qualcosa di simile, e certo la responsabile è Aquila di Guerra. Ombra dice che Aquila ha partecipato soltanto a questa gara, per paura di non figurare bene nelle altre. Con la spada è indubbiamente forte, però è il tipo che le studia tutte pur di forzare la mano alla fortuna. Mi ha anche detto che forse Goccia riserverà una brutta sorpresa alla bionda. Non si è spiegata meglio, però mi è parsa sicura del fatto suo. Purtroppo ho visto Shalla
tracannare una mezza giara di qualche bevanda. Non so più cosa dire... e Theba non fa nulla!» La Regina aveva ricevuto un breve rapporto dalla Comandante delle miliziane, ma non aveva avuto alcuna reazione visibile e non si era pronunciata in nessun modo. Stava in piedi, rivolta verso il campo, con espressione indecifrabile. Tuttavia era chiaro che anch'essa doveva aver avuto gli stessi sospetti circa le responsabilità di sua nipote Aquila, e questo non doveva piacerle affatto. Tre Sacerdotesse si erano nel frattempo portate al centro dello spazio erboso, e al loro invito Goccia di Fiamma e Hay Varena si fecero avanti. Le due ragazze presero posizione, quindi fu dato il segnale di avvio e il duello ebbe inizio. Ci fu tra loro un breve scambio di colpi larghi, e gli scudi di pesante cuoio borchiato rimbombarono sotto i primi fendenti di assaggio. Le lame di lucido bronzo mulinavano nell'aria come saette. Con sollievo di Hallimar. entrambe le ragazze sembravano lucidissime e padrone di sé; i loro movimenti erano rapidi e sicuri. Anche Nube si rilassò visibilmente. «Forse la situazione non è poi così grave,» disse. Hay Varena aveva cominciato a combattere duellando in prevalenza di rimessa, e mostrando un'ottima impostazione tecnica. Era chiaro che si rendeva conto del valore dell'avversaria e mirava a studiarne i limiti. Mandò a vuoto due successivi affondi di Goccia con altrettante finte spettacolari, che il pubblico applaudì vivamente; poi la contrastò con lo scudo, parandone i fendenti secchi come scudisciate e riuscendo ad evitarla. «Molto abile, quella Hay Varena,» commentò Nube. «È un osso duro, e sta cominciando a impegnarsi solo adesso. Nelle scorrerie oltre il confine a cui ha partecipato, non ha mai mancato di uccidere tre o quattro nemici ogni volta, ed è già stata proposta per un comando. Naturalmente, combattere sul serio e duellare in questo modo sono due cose diverse, ma osserva le sue mosse, Hallimar: è la classica amazzone addestrata a uccidere, dura, spietata e robusta come un maschio. Ben presto sarà una delle nostre più forti Comandanti. Però, se Goccia smette di fare sul serio e decide di comportarsi a modo suo, per lei non ci sono possibilità di vincere.» «Che cosa vuoi dire?» Nube rise piano tra sé. «Bene... spesso sono andata ai recinti-scuola soltanto allo scopo di vedere la vostra ragazza in allenamento. Assia me l'ha segnalata già da tempo. Quando combatte nel modo tradizionale, ce n'è più di una capace di sconfiggerla: ma se ha voglia di divertirsi... ah, allora è fantastica, credetemi. È capacissima d'inventare lì per lì dei nuovi passi da
duello, che sono degli autentici numeri di danza. Ho visto la stessa Shalla gettar via la spada e tornare negli spogliatoi bestemmiando e rossa per la rabbia, quando Goccia è in uno di quei suoi momenti di follia. La vostra bamboccia e la figlia di Theba si vogliono un gran bene, ma durante gli esercizi con le armi se le danno da far paura. Qualche mese fa, in Mitanni, ho avuto occasione di vedere il Principe sumerico Klage esibirsi nel circo; era lì in visita, ed è un tipo che non perde occasione di mettersi in mostra. Comunque, di lui si dice che sia il più forte guerriero della Terra dei Due Fiumi, cosa che son pronta a credere. Ebbene, sono certa che se mai Goccia se lo trovasse un giorno di fronte, non avrebbe difficoltà a ucciderlo.» Hallimar non rispose, perché in quel momento Goccia di Fiamma aveva segnato il primo punto a suo favore. Dopo un prolungato attacco si era scoperta un fianco apparentemente per la foga di abbattere fendenti sullo scudo di Hay Varena. Abilissima nello sfruttare l'occasione, l'altra si era gettata avanti portandole un affondo; ma quella di Goccia era stata un'esca, e la bruna era finita quasi a terra per l'impeto dell'assalto andato a vuoto. Era stata la spada della rossa, a toccarla sotto un'ascella, e il pubblico ora applaudiva soddisfatto, anche se la finezza di quel trucco era stata visibile solo agli occhi delle più esperte. Hay Varena si rimise in guardia e iniziò subito un'offensiva energica per riguadagnare il punto perduto. Goccia prese a saltellare indietro, limitandosi a contrastarla e senza troppa fretta di concludere. Dopo un poco, però, dagli spalti si alzarono mormorii: le due amazzoni avevano rallentato improvvisamente il ritmo e si colpivano con assai minore veemenza. Le loro movenze erano sempre più impacciate e stanche, i colpi faticavano a partire. Nube si era irrigidita subito; era chiaro che qualcosa non andava, ed anche alcune ufficialesse sul Palco bestemmiarono Senza alcun pudore. Goccia di Fiamma e Hay Varena sembravano le uniche a non essersi accorte del calo inspiegabile delle proprie prestazioni: tenevano alti gli scudi, più preoccupate di non esser colpite che di assalirsi a vicenda. Si scambiarono fendenti del tutto privi di convinzione per qualche momento, poi Goccia spostò scioccamente di lato lo scudo e venne toccata in pieno petto dalla spada dell'altra. Il punteggio andò alla pari, uno a uno. Occhi Blu emise un'esclamazione di disappunto. Dalle gradinate provenivano incitamenti sempre più radi, mentre aumentavano invece i commenti pesanti gridati a gran voce. Il pubblico scambiava per stanchezza o per incapacità quella loro strana apatia, e le beccava aspramente. Goccia di Fiamma venne ancora colpita, dopo esser caduta con incredibile ingenuità
in una finta neppure troppo astuta dell'altra. Subito dopo fu la volta di Hay Varena a subire un affondo; il suo scudo non si levò a pararlo ed essa ricevette il colpo nell'addome. Ci fu poi qualche momento di pausa, perché una delle Sacerdotesse volle controllare l'efficienza del corpetto protettivo della bruna, mentre ormai anche alle donne preposte all'arbitraggio doveva esser palese lo stordimento delle due ragazze. Le donne in tunica azzurra prolungarono quel breve intervallo, con l'intento evidente di dar modo alle duellanti di riprendersi, ma poi furono costrette a farle continuare. Il punteggio era sul due a due, e il duello non durò che qualche attimo ancora, perché Goccia di Fiamma ripeté l'identico affondo e l'altra si lasciò cogliere impreparata e passiva come in precedenza. A stento Hay Varena sembrava ora rendersi conto di esser stata sconfitta. Le due ragazze furono indirizzate verso le panche e sedettero, sotto un diluvio di frasi mordaci e fischi di disapprovazione delle spettatrici. Hay Varena si prese la testa fra le mani e rimase lì, invece di avviarsi verso gli spogliatoi. «È cotta, accidenti!» imprecò Nube. «E Goccia mi sembra drogata quanto lei. Non capisco perché mai Theba ancora non interviene. È uno scandalo inammissibile.» Eppure, Ombra aveva detto di non preoccuparsi...» mormorò Hallimar, interdetta. La Comandante bestemmiò ancora, girando intorno occhiate invelenite. La Regina assisteva impassibile, e nessuno aveva il coraggio di parlare. Cominciò l'altro duello di semifinale, tra Shalla e Aquila di Guerra, e dagli spalti si levarono applausi d'incoraggiamento . Fin dal primo assalto fu evidente che le due avevano tutta una serie di piccoli conti personali aperti, e che quella era l'occasione buona per regolarli, perché si dettero addosso con furia, gridando bellicosamente a ogni colpo che portavano. Shalla però era terribile: la forza devastatrice dei suoi fendenti cacciava indietro l'avversaria senza requie, e lo scudo di Aquila di Guerra si scheggiava sotto di essi. La bionda era senza dubbio molto capace, e cattiva quanto sleale, ma nulla le serviva contro la furia impressionante con cui Shalla la incalzava. Aquila di Guerra fu costretta a indietreggiare fino a compiere quasi un circolo, riuscendo ad evitare di esser colpita per miracolo ed anche grazie al fatto che l'altra aveva abbandonato ogni finezza tecnica. Tuttavia, quando invece di opporsi all'avversaria si scostò svelta da un lato, Shalla fece sei o sette passi avanti e continuò a menare grandi colpi nel vuoto. La bruna amazzone infine si girò, ed apparve sconcertata dal non avere più direttamente davanti a sé la cugina. Nube emise un grugnito di stupore:
«Ma cosa le succede?» «È drogata anche lei.» sussurrò tesa Hallimar. Shalla si scaraventò ancora contro Aquila di Guerra, mulinando la spada bronzea in vortici violentissimi. Un pezzo dello scudo di Aquila venne staccato di netto, ed essa retrocedette parando e rispondendo alla meglio. Ma di nuovo, allorché corse via da una parte invece di far fronte all'avversaria, Shalla proseguì in un assalto diretto contro l'aria, dando l'impressione di combattere contro un oppositore invisibile o un'allucinazione. «Che la Dea mi fulmini!» ansimò Nube, stupefatta. «Guardala; è completamente stordita. Non vede neppure il bersaglio!» Shalla parve rinsavire e si voltò a cercare la cugina. Scosse la testa un paio di volte, come sforzandosi di togliere via il velo che le appannava la mente, e poi caricò con la violenza di un toro. Che fosse drogata era a quel punto cosa sicura, eppure, qualsiasi cosa Dunia avesse mescolato alle bevande, la figlia della Regina era talmente feroce e indomabile che ne risultavano appannati solo i suoi sentimenti, e non il fisico. La sua selvaggia vitalità le consentiva di battersi ancora, ma ciecamente, simile a un leopardo caduto in mezzo a un branco di babbuini i quali gli avessero strappato gli occhi a unghiate, e che cercasse di distribuire la morte intorno a sé sferzando il buio con gli artigli poderosi. Nel suo terzo assalto Shalla venne colpita a un fianco, e fu chiaro che non se n'era neppure accorta. La Sacerdotessa incaricata di tenere il punteggio alzò un dito della mano dalla parte di Aquila. La bruna proseguì il duello come una marionetta dai fili spezzati, sorretta solo dalla sua demoniaca energia interiore, senza che la sua forza e la sua volontà di vincere scemassero ancora. Ma la conclusione era ormai scontata: per altre due volte Aquila di Guerra si limitò a scostarsi via dalla linea del suo assalto e la colpì con sicurezza. La vittoria era sua. Nello stadio era adesso caduto il silenzio. Anche il pubblico aveva capito che stava succedendo qualcosa di strano o poco pulito, e ad Hallimar parve di vedere migliaia di occhi puntati sulla Regina Theba, in muta attesa. «Adesso cosa succederà?» domandò a Nube. L'altra alzò le spalle. «Niente. Niente di tutto. Sono sicura che Theba lascerà continuare la gara. Ma non l'ho mai vista così rigida. Sembra una statua di sale. Se dovesse vincere Aquila... la Dea non voglia! Se fosse Aquila di Guerra a salire sul Palco, con tutto che è sua nipote, io mi aspetto divedere qualcosa di brutto. Aquila è una pazza. Ha combinato qualcosa
che Theba non le perdonerà mai. E non è neppure stata capace di farla pulita!» «Credi che la Regina sospetti di lei?» Che sospetti oppure no, sarà bene che Aquila di Guerra sparisca dalla circolazione stasera stessa. Quando Shalla, o Myssane, o Hay Varena si saranno riprese, è certo che scorrerà il sangue. E io non vorrei essere nei panni di nessuno che un» di quelle tre andasse a cercare con un'arma in mano.» Hallimar circondò con un braccio le spalle di Occhi Blu e tacque durante l'intervallo successivo. Nell'attesa del duello finale il suo sguardo non si staccò da Goccia di Fiamma, che sedeva a capo chino sulla sua panca in apparenza disinteressata agli avvenimenti. Shalla era stata avviata verso gli spogliatoi da un paio di Sacerdotesse, dopo aver dato per un poco l'impressione di non aver capito che il duello era finito e che lei era stata la perdente. Uscì tenendosi eretta, ma a nessuno sfuggì che ogni cinque o sei passi ne faceva uno quasi di lato, come se fosse ubriaca e si vedesse lo stadio girare intorno. Indovinò il cancello per un miracolo, e più oltre si vide qualcuno che la prendeva per un braccio e la sosteneva. Aquila di Guerra si era tranquillamente seduta al suo posto, e ogni tanto si voltava a salutare in direzione degli spalti. Doveva avere anch'essa qualcuno che tifava per lei, perché rispondeva sorridendo e con ampi gesti. Quando venne il momento di effettuare il duello conclusivo, si alzò baldanzosamente e andò a mettersi in posizione presso le Sacerdotesse. Sollevò spada e scudo per salutare, in risposta alle grida del pubblico, e fece gesti di plateale pazienza destinati a sfottere Goccia di Fiamma, che invece arrivava piuttosto lentamente. Mestre la rossa si portava al centro del campo. Aquila sì esibì in alcuni passi da duello menando fendesti nell'aria, a uso e consumo delle spettatrici, per mostrare la sua combattività e la sua voglia di vincere. Dopo questo piccolo spettacolo, ancora non paga, la si vide pronunciare qualche parola in direzione di Goccia, e dalla sua espressione era intuibile che la stava insultando e provocando. Fu dato l'avvio. Hallimar e Nube avevano i pugni stretti e gli occhi socchiusi. Occhi Blu girava lo sguardo dall'una all'altra, a disagio e impressionata per l'atmosfera pesante che gravava sul Palco della Regina. Theba, dal canto suo, era livida in faccia, e un'ufficialessa che le si accostò per mormorarle un consiglio ricevette una risposta che suonò secca come uso schiaffo. Nessuno osava ancora suggerirle di far sospendere la gara e inter-
rogare Dunia e Aquila di Guerra. La bionda nipote della Regina non aveva perso tempo in tattiche di studio, e neppure sembrava voler concedere molto alla platea, perché si era subito fatta sotto sferrando colpi poderosi. Goccia bloccava i fendenti con lo scudo o li deviava con la spada, spostandosi appena e senza indietreggiare. Il rumore delle armi di metallo che si scontravano, ed i tonfi sordi degli scudi sotto la grandine dei colpi, riempivano l'atmosfera dello stadio. «Aquila cerca di travolgerla usando la forza bruta,» fu il commento di Nube. «O manca di intelligenza, o è troppo sicura di sé. Purtroppo, nelle condizioni in cui è Goccia, temo che avrà vita facile.» La Comandante tacque, perché proprio in quel momento i fatti le stavano dando torto. Aquila di Guerra era infatti rimbalzata indietro al termine di quel primo assalto, respinta da una serie di mosse difensive così efficaci che il suo stesso impeto le si stava volgendo contro troppo pericolosamente. Non appena Goccia di Fiamma ebbe costretto l'altra a farsi calmare i bollori, fu evidente che qualcosa nel suo atteggiamento era molto mutato, rispetto alla prestazione precedente, perché il suo attacco fu immediato e portato con tremenda efficacia. Nessuno, in seguito, neppure durante le discussioni più accese tenute nelle taverne o nei locali di riunione delle caserme, riuscì mai a ricostruire con esattezza quali erano state le mosse della rossa: sembrava incalzare in linea retta, eppure sì muoveva obliquamente in maniera strana; dava l'impressione di voler colpire da destra e invece la sua spada saettava a sinistra. Saltellava e si spostava nei suoi scatti con la leggerezza di una danzatrice del Tempio, e tuttavia i suoi fendenti erano portati con forza impressionante. Ci fu comunque una serie di finte, un risuonare di colpi, e poi Aquila di Guerra finì col perdere la coordinazione e inciampò nei suoi stessi piedi: la punta della spada di Goccia la mandò spietatamente a sedere in terra, cogliendola giusto quando era sbilanciata. Un attimo dopo, Hallimar si ritrovò in piedi a gridare con tutto il fiato che aveva in gola, mentre Nube le dava forti manate sulle spalle. Dal pubblico, che aveva assistito a quell'assalto in silenzio, si levò un boato. Occhi Blu, in piedi dietro a una Sacerdotessa assai più alta di lei, le batteva i pugni sulla schiena senza rendersi conto che stava commettendo quasi un mezzo sacrilegio, e l'altra dovette voltarsi sorridendo a dirle di smetterla. Dopo la salva di applausi, le ufficialesse sul Palco si stavano scambiando commenti ammirati e guardavano la Regina Theba. Incredibilmente, e in contrasto con ogni suo precedente comportamento, l'anziana donna aveva
levato i pugni in aria, lanciando un grido di entusiasmo che doveva essersi sentito anche fuori dallo stadio. Il duello continuava. Aquila di Guerra si era rialzata con uno scatto rabbioso e combatteva energicamente. C'era qualcosa di ammirevole nel fatto che reagisse con estrema decisione anche dopo aver constatato che Goccia non era indebolita e stordita dalla droga, e che l'aveva giocata e illusa mostrandosi una femmina abituata a ordire intrighi e ben tagliata per la politica da corridoio del Palazzo Reale, ma non era priva della capacità di battersi contro il destino avverso allorché vedeva sventare le sue manovre disoneste. Ed infatti duellava furiosamente. Ma il divario tecnico fra lei e Goccia di Fiamma risultava ora agli occhi di tutte un abisso invalicabile. La rossa non era mai là dove l'altra portava i colpi, e riusciva a confonderla platealmente col suo incredibile modo di combattere. Gli affondi di Goccia di Fiamma erano intercalati da mosse fatte per sconcertarla, in una danza di finte e contro finte ognuna delle quali aveva lo scopo di mettere sempre più in difficoltà l'avversaria sino al tocco decisivo. Per la seconda volta le difese di Aquila furono infrante, al termine di un assalto in cui Goccia l'aveva costretta a correre indietro e di lato freneticamente mettendola alle strette con colpi portati ai fianchi e all'elmo. Al culmine della confusione la bionda perse lo scudo e cadde in una finta beffarda, cercando di parare a destra un affondo che invece le arrivò dal basso in alto. Goccia saltellò via elegantemente, deridendola, e il punteggio salì a due a zero. Il pubblico adesso era una marea di donne scatenate che si agitavano e urlavano il loro compiacimento, come se gli avvenimenti un pò oscuri di poco prima le avessero condotte all'esasperazione, e quell'imprevista esibizione di Goccia le trascinasse irresistibilmente all'estremo opposto. Hallimar cercò con gli occhi Ombra e la vide calmissima, quasi che le prestazioni della compagna non la impressionassero affatto e le giudicasse con aria critica. Ci fu qualcosa di malizioso, di premeditato, nel modo in cui la tossa prolungò l'ultimo assalto. Più volte essa diede la sensazione che volesse giocare con Aquila di Guerra, per farle sperare che una rimonta era ancora possibile. In due occasioni la bionda si vide davanti l'opportunità di colpire il bersaglio facilmente, e scattò avanti come una belva, finendo però a sferzare l'aria con la spada o col perdere addirittura l'equilibrio. Crudelmente Goccia la evitò con movimenti studiati per mettere in evidenza l'inettitudine, dando in pasto al pubblico uno spettacolo che ricevette
grandi applausi. Finì che Aquila ebbe il sangue agii occhi per la rabbia e la caricò gridando imbestialita. Stavolta Goccia di Fiamma non la eluse, e accettò lo scontro di forza gettandosi avanti a sua volta. Le spade risuonarono con rintocchi che facevano vibrare l'aria, e pezzi di cuoio e borchie furono falciati via dagli scudi percossi selvaggiamente. Poi Goccia accetterò ancora il ritmo dei suoi movimenti, ricacciando indietro l'avversaria e stroncandone la resistenza in un incalzare inarrestabile. Aquila cadde a sedere a terra, il suo scudo rotolò via, e quando cercò di rialzarsi si accorse che un piede dell'altra le schiacciava nell'erba la spada, mentre la punta dell'arma della rossa le sfiorava la gola. Tra le due ragazze ci fu uno scambio di occhiate roventi, quindi il bronzo toccò la carne del collo sopra la protezione di vimini di Aquila di Guerra, con delicatezza umiliante, e le Sacerdotesse dichiararono chiuso il duello. Centinaia di novizie corsero in campo agitando stendardi e corone di fiori. Gli applausi scrosciavano. Atemania, l'Anziana Sacerdotessa del Tempio della Dea, si fece avanti seguita da un codazzo di colleghe e mise nelle mani di Theba la spada di Ferro posta in palio, che la Regina sollevò in alto per mostrarla alle spettatrici, in attesa che la rossa amazzone salisse sul Palco a riceverla. «Bene,» disse Nube, eccitatissima. «Approfittate adesso per salutare la vostra bamboccia, ragazze mie, perché stasera ci sarà gran festa e non riuscirete ad averla tutta per voi nemmeno un momento.» «Sì, lo penso anch'io,» fece Hallimar. Era stordita, e accanto a lei Occhi Blu stava piangendo scioccamente. Fermò Sa Comandante per un braccio. «Aspetta un poco, signora mia. Dove credi di andare? Hai perduto la scommessa e devi pagarmi cinque piastre. I soldi sono soldi, caruccia!» CAPITOLO QUARTO «Ti vedo un pò malinconica. Non ti senti bene?» domandò Ombra. Goccia di Fiamma sollevò gli occhi dal boccale di birra e tentò di sorridere all'amica. «Stavo semplicemente riflettendo.» «E su che cosa, di grazia?» La ragazza fece un gesto vago; terminò di bere e si appoggiò allo schienale della panca. Poi girò uno sguardo pigro sulle donne che sedevano ai tavoli rozzamente piallati, nella semioscurità del locale. Dalla porta si scorgeva uno squarcio della piazza antistante il porto, e un lungo molo di
legno a cui era ormeggiata una nave a due alberi da carico. Il pomeriggio era nuvoloso, umido, e molte delle marinaie che frequentavano la taverna indossavano mantelli più o meno impermeabili col cappuccio gettato indietro. Ombra di Lancia era venuta a capo scoperto, e si era bagnata i capelli che, come d'abitudine, portava lisci e fermati intorno alla fronte da una striscia di pelle ricamata. La bruna amazzone aveva un bellissimo vestito di lino, a maniche corte, che le era stato regalato da Shalla, e calzava sandaletti di fine fattura. Di carattere più estroso, Goccia di Fiamma mutava continuamente la pettinatura e la foggia dei propri vestiti; quel giorno aveva riunito i capelli rossi in due grosse trecce che le penzolavano sul petto, e indossava un abito ricavato dall'uniforme da fatica della Cavalleria della Dea. Alla cintura portava un pugnale di ferro intarsiato lungo quasi due palmi, col fodero di cuoio, del valore superiore al suo peso in oro. «Ti sei perduta le Cerimonie dell'Accoppiamento, quest'anno.» continuò Ombra. «È per questo, che sei giù di morale?» «No, no. E poi, anche gli anni scorsi non ho mai potuto divertirmi come avrei voluto. Ma non me ne importa.» «Ah, si?» borbottò la bruna. «Questa mi giunge nuova. Se ti stavo troppo fra i piedi, non avevi che da farmelo capire. Ti ho detto altre volte che se vuoi provare ad avere una figlia, io non ho nulla in contrario. È questo che ti tortura?» Goccia di Fiamma sbuffò , seccata. «E rischiare di avere un maschio? Non me la sento di fare come ha fatto mia madre, e di dovermi affezionare a un bambino per poi mandarlo in Mitanni dopo averlo svezzato. Non ancora. E poi, questa sarebbe una cosa da decidersi in due, io e te.» Ombra di Lancia tacque. Due mesi prima, allorché le Cerimonie dell'Accoppiamento stavano avendo inizio e moltissimi Olmanni si aggiravano già per le strade della Capitale, Shalla aveva regalato alle due amiche una casetta di tronchi d'albero e pietra, quasi fuori città, suggerendo implicitamente che lì una di loro avrebbe potuto portare a termine una eventuale gravidanza con più comodità che in caserma, negli alloggi riservati alle miliziane incinte. La stessa Regina Theba, sfiorando più volte quell'argomento, aveva fatto capire a Goccia di Fiamma che dalle amazzoni più forti e capaci si aspettava almeno un paio di figlie, e che sarebbe stato opportuno darle alla luce alla sua età, invece che più tardi. Dal canto suo, Ombra non aveva mai nascosto che simili cose non erano per lei. La bruna amazzone faceva parte dello Stato Maggiore della Cavalleria, e il suo lavoro le premeva più che ogni altra cosa. Quando era stata mandata da Mirina sul
confine, ad organizzare meglio i servizi di pattugliamento e le incursioni contro gli avamposti della milizia di Haydukstan, Goccia aveva domandato di essere aggregata a lei come caposquadra. Durante il periodo delle Cerimonie, quindi, le due compagne avevano vissuto una vita dura e pericolosa, fatta di scontri armati con pattuglie di uomini e di pernottamenti all'aperto in zone selvagge. Ombra di Lancia non aveva ordinato nulla da bere per sé. essendo uscita poco prima dalla mensa della caserma. Si voltò verso l'orologio ad acqua appeso ad una parete, che gocciolava ritmicamente, e vide che il livello del liquido era salito fino ad indicare la settima clessidra. «È ancora presto,» disse. «Vuoi che andiamo da Mamma Zita a farci un bicchiere di vino? Questo posto non mi piace. Stasera devo trovarmi con Selanie e con Laybek, il commerciante di Mitanni. Sembra che possa procurarci degli stalloni bellissimi, alti e robusti. Quando sarà il momento di farli venire a Mitanni, forse tu potresti far parte della scorta di Laybek, così avresti modo di fermarti a casa di tua zia Hallimar. Vuoi che dica a Mirina di toglierti dalla vigilanza territoriale?» «No. Per andare e tornare da Ebla ci vogliono quasi due mesi, e non voglio stare tanto a lungo lontana da te.» Goccia fissò l'amica in modo tale che lei fu costretta a ridere. Poi continuò: «Qui nessuna sa mai che cosa le riserva il futuro. Non si possono fare progetti personali di alcun genere. Ricordi l'anno scorso? Mi feci assegnare alla vigilanza sul confine di Coralyne, e proprio in quel periodo la Diaconessa Lhyuva mandò pattuglie di sabotatori contro i nostri avamposti alle Colline del Vento, così dovetti restare là tutta l'estate. Quando tornai, scopersi che tu eri stata mandata a dirigere le squadre che bonificavano le paludi sulla costa, presso Mitanni. Allora chiesi a Mirina di fare trenta giorni di turno a Sorriso della Dea, per avere delle possibilità di vederci, e intanto saltò fuori quel brutto affare ai confini delle Terre Alte. Restammo più di sei mesi senza sapere nulla l'una dell'altra. E guarda Rhylla, che ha fatto la stupidaggine di arruolarsi nella milizia e riesce a vedere Ira Marea si e no due volte l'anno.» «Nessuno ha mai detto che la vita è tutta rose e fiori,» commentò Ombra, allungando una mano sopra il tavolo a stringere quella della compagna. «Ma non mi hai ancora detto perché oggi sei tanto di cattivo umore.» «Dovresti capirlo da sola. Tu fra poco avrai il grado di Comandante, e questo ti costringerà a restare alla Capitale per quasi tutto il tempo. Io invece andrò avanti e indietro fra qui e i confini. Sarà già molto se ci ritroveremo una volta ogni quattro mesi.»
«Per la Dea, quanto sei sciocca! È ovvio che, se avrò un posto di comando, brigherò per farti restare con me. E poi sono stanca di vederti sempre in agitazione. Da quando abbiamo terminato gli allenamenti, quattro anni fa, non sei mai stata contenta se non avevi da batterti e da rischiare la pelle da qualche parte. Appena fai ritorno, ecco che bastano pochi giorni perché la vita comoda ti venga a noia, e mi metti il broncio senza alcun motivo, come adesso. Gli unici momenti in cui siamo state felici li abbiamo avuti proprio nelle situazioni peggiori, magari in qualche desolato posto di frontiera, fra una scorreria e l'altra, in questo ti do ragione. Ma quel periodo è finito, lo sai. Mirina mi ha detto chiaramente che devo smetterla con quella vita, e mi vuole nello Stato Maggiore in pianta stabile. Anche tu, se fossi stata più intelligente, oggi non saresti ancora una semplice caposquadra.» «Non mi va che tu parli così,» brontolò Goccia. «Sei cambiata. Anche Shalla è soltanto caposquadra, e rifiuta le promozioni, perché sente che il suo posto è con le ragazze che stanno sui confini a sputare sangue. Quelle sono le mie compagne, le migliori che abbia mai avuto. Che me ne faccio di essere una Comandante, se questo mi allontana da loro?» «Shalla è incinta, lo sai?» disse Ombra, per cambiare discorso. «Ma si, lo sapevo già. E non di quel Principe di Olman Vuh che sua madre le ha messo alle costole durante le Cerimonie, ma di Vorris, con quale ha filato per più di un anno. Non le do torto, se ha sgarrato; dopotutto è a quel bravo ragazzone che s'era affezionata.» «Bene. Sei stata a casa ultimamente? Avevo sperato che tu volessi occupartene un pò, adesso che abbiamo un tetto nostro sopra la testa. A Laodicea ho già dato centoventi piastre per i mobili, ma tu non ti sei degnata di andarle a dire come li vuoi. Sei pigra.» «Ho visto Laodicea proprio ieri sera,» la corresse Goccia. «Dice che ha un sacco di lavoro, ma può consegnarci due letti e qualche sedia fra cinque o sei giorni. L'ho incontrata nella taverna di Mamma Zita, inoltre le ho consegnato cinquanta piastre perché mandasse due delle sue lavoranti a rivedere il tetto; quello che c'è adesso lascia passare l'acqua.» «Hai visto Fiore? Come sta?» domandò Ombra. La rossa scosse il capo, con una smorfia. Qualche tempo addietro la bionda figlia della taverniera aveva avuto un malore, mentre serviva le clienti del suo locale. La ragazza era fragile e delicata di salute, e la Sacerdotessa del Tempio chiamata a curarla non aveva saputo far molto per lei. Adesso giaceva a letto e si temeva che morisse. Goccia di Fiamma e Om-
bra parlarono un poco della cosa, decidendo infine che sarebbero andate a farle visita quella sera, per informarsi delle sue condizioni di salute. «Hai visto Aquila di Guerra, ultimamente?» domandò Ombra. «Di sfuggita. Shalla mi ha ordinato di stare alla larga da lei. Ha paura che voglia cercare rogna con me. Ma mi è parsa alquanto cambiata. Perché me lo chiedi? Ne ha combinata una delle sue?» Ombra di Lancia assunse un'espressione pensosa. «Speravo che tu avessi sentito qualcosa, in caserma, sul motivo per cui è stata tanto a lungo lontana. Lei e Dunia sono partite per Mitanni l'anno scorso, come sai, e hanno fatto ritorno cinque giorni fa raccontando un sacco di frottole. Avevano tutte e due l'aria di aver annusato una carogna, come se qualche loro impresa fosse finita male.» «Che frottole?» domandò Goccia, interessata. «La Regina aveva spedito Aquila a Ebla, per farla stare qualche mese presso la Corte di Baul Kadur; ma laggiù non si sono fatte vedere. Da Ilsabet ho saputo che hanno invece passato il confine della Terra di Nedda, di nascosto, l'inverno scorso. Ilsabet era andata a Lagash in missione, per togliere dai guai il Principe Sacerdote di quella città, e lì ha incontrato qualcuno che le ha detto di Aquila e di Dunia. A quanto sembra sono state viste mentre si dirigevano a cavallo verso oriente.» «Cosa?» si stupì Goccia di Fiamma. «Ma a oriente di Lagash c'è soltanto Sumer. Aquila di Guerra può essere idiota, ma non al punto di viaggiare sul territorio delle Teste Nere! Theba è al corrente di questo?» Ombra scosse il capo. «No. La Regina è convinta che Aquila sia stata per tutto l'anno a Ebla, e io ho detto a Mirina di mettere la museruola a Ilsabet. Preferisco che il suo rapporto rimanga segreto, almeno finché non ho capito meglio come sta questa faccenda. Del resto non si può accusare Aquila di niente.» «Tu vaneggi!» esclamò Goccia vivacemente. «Se Ilsabet ha le prove che quelle due sono andate nascostamente in Sumer, Theba deve saperlo subito. A casa mia esiste una parola precisa per definire azioni simili: tradimento! Oh, Dea... Per quanto pazze e carogne non le avrei mai credute capaci di un'azione simile!» «Parla piano, accidenti! Tu arrivi alle conclusioni un pò troppo in fretta, e detesti quelle due fino al punto di stravedere. Non sono affatto d'accordo con quanto dici, anche se non riesco ancora ad immaginare cosa stessero architettando». Ombra tamburellò nervosamente sul tavolo, cercando di riflettere, poi continuò: «Stasera, tornando in caserma, cerca di saper qual-
cosa dalle ragazze che frequentano Dunia. So che ama bere, e che quando è mezza ubriaca le parole non le restano in gola. Mi risulta, ad esempio, che ha ancora un debole per Jsahel, la poetessa, che tu conosci fin troppo da vicino e...» «Che cosa vuoi dire, con questo?» scattò Goccia. «Cosa significa 'da vicino' secondo te? Avanti, parla chiaro!» «Niente,» la placò Ombra, pazientemente. «Sto soltanto cercando di dirti che forse potresti convincere Jsahel a far bere un pò Dunia. Magari, con lei si sbottona un tantino. Capisci?» «Mmh! Ci proverò, sì. Se fosse per me, farei parlare Aquila con un altro sistema. E ti giuro che se Shalla non fosse mia amica...» «Shalla non è una stupida,» la interruppe la bruna. «Sa benissimo che razza di serpe velenosa è la nipote di sua madre. Ma Theba spera sempre di vederle metter la testa a partito, e Theba è la Regina.» «Certo! È per questo che l'aveva mandata in Mitanni, per farla maturare un poco. Sai che sorpresa, se andassimo a dirle che non ha neppure messo piede ad Ebla!» «Noi non le diremo un bel nulla,» stabilì Ombra. «Toccherà a Minna fare un rapporto dettagliato alla Regina, ma questo accadrà solo quando avrò chiarito meglio la cosa.» Stavano alzandosi per far ritorno in caserma, quando una addetta ai moli di mezz'età entrò nel locale e annunciò a tutte che una nave della Flotta da Guerra stava rientrando in porto. Molte marinaie uscirono subito, e le altre inservienti del porto lasciarono in fretta i loro boccali di birra per recarsi ai loro posti di lavoro. L'avvenimento era inconsueto, perché le navi della Flotta da Guerra pattugliavano il Mare Interno in squadre da cinque, e il ritorno di una di esse da sola poteva far pensare al peggio. Anche Goccia ed Ombra si incamminarono sulla piazza del porto, incuriosite e preoccupate. Videro subito il vascello, che faceva rotta verso terra con la grande vela triangolare gonfia di vento, e si diressero al molo principale per attendere l'arrivo. Tutto il lato del molo dalla parte di terra era occupato da una fila di bassi magazzini, e da un lungo edificio adibito ad alloggio per le mannaie della flotta mercantile, mentre all'estremità di quest'ultimo c'era l'ufficio della Comandante del porto. Taine era già uscita, insieme a quattro delle sue caposquadra, e sembrava molto agitata. Le due compagne si avvicinarono a lei, ed Ombra, che la conosceva bene, la salutò cordialmente. «Oh, salve, ragazze,» rispose Taine, distratta. Poi continuò a rivolgersi
alle subordinate. «Tu, Brezza, corri in caserma e porta qui una squadra di miliziane. Yanna, mentre avverti il Tempio, fermati da Zare e dille di preparare le sue ragazze. Le voglio schierate in fila qui davanti fra mezza clessidra.» Goccia di Fiamma fece una smorfia, ricordando che quelle precauzioni erano giustificate dal fatto che, assai spesso, le navi della Flotta da Guerra portavano a bordo numerosi pirati Colchisi fatti prigionieri in qualche arrembaggio. Se così era, avrebbero assistito a scene non poco movimentate, perché quelli scorridori del mare sapevano benissimo da qual genere di destino erano attesi. Nello stesso tempo, era probabile che parecchie amazzoni venissero riportate a terra ferite o già morte, per cui era necessario approntare barelle e far accorrere le Sacerdotesse del Tempio. Quando le altre si furono, allontanate per eseguire gli ordini, Taine rimase sola e si portò al riparo di una tettoia al fianco di Ombra e di Goccia, perché aveva cominciato a piovigginare. L'anziana Comandante del porto appariva scura in volto, e osservava l'avvicinarsi del vascello con inquietudine. «Quella è la nave di Ira Marea, il Pesce Volante,» disse. «Le altre della squadra forse sono rimaste a incrociare nelle acque di Cirenya, o almeno voglio sperarlo. Prego la Dea che non sia capitato loro nulla di male, perché avevano ordine di restare in quella zona tutta la primavera.» «Se Ira è tornata, certo c'è un motivo molto serio,» disse Ombra. «Auguriamoci che non sia quello che sto pensando,» brontolò Taine. «Non credo possibile che quattro navi siano state affondate dai pirati Colchisi. E ultimamente non ci sono state tempeste. Io non sarei così pessimista.» Taine si limitò ad alzare le spalle. Da lì a poco arrivarono di corsa cinquanta ragazze della milizia, che furono mandate in cima al molo per occuparsi dello sbarco di eventuali prigionieri Colchisi; una squadra di venticinque arciere salì sul tetto dei bassi magazzini, e le amazzoni imbracciarono subito gli archi. Sulla piazza del porto comparvero anche tre carri trainati da cavalli, e da essi furono scaricate delle barelle. Cinque o sei Sacerdotesse, coi pesanti mantelli azzurri bagnati di pioggia, giunsero a passo svelto e deposero a terra le loro cassettine contenenti bende e unguenti medicamentosi. Fra esse c'era Rosa Ireòs, che appena vide Goccia di Fiamma le si avvicinò e la baciò sulle guance affettuosamente. Anni addietro, la giovane Sacerdotessa aveva speso mesi interi per istillare nella ragazza maggior rispetto dei precetti religiosi, fallendo però del tutto il suo
scopo, ma le due erano rimaste molto amiche. Ombra di Lancia, la quale sospettava che sotto quell'amicizia ci fosse qualcos'altro, gettò a Rosa Ireòs un'occhiata ostile; poi si allontanò è andò a parlare con le caposquadra delle miliziane. Il vascello da guerra ammainò le vele appena ebbe aggirato il frangiflutti, e lì fu preso a rimorchio da una grossa lancia su cui remavano una quarantina di robuste portuali, che lo trainarono lentamente fino al molo. Mentre altre addette provvedevano all'ormeggio, tra le mannaie che occupavano il cassero salirono Ira Marea e le sue ufficialesse di bordo. La passerella fu gettata, e Taine salì subito in coperta seguita dalle Sacerdotesse. Ira Marea chiamò anche le miliziane, e fece scendere in un boccaporto una ventina di esse, dando ordini in tono secco. «Deve aver combattuto,» commentò Ombra, nell'osservare quella manovra. Infatti le miliziane cominciarono a portare fuori a braccia numerose ragazze ferite, un decina delle quali sembravano molto gravi e vennero immediatamente trasferite sui carri. Altre erano invece in grado di camminare, e furono accompagnate in un locale dei magazzini dove avrebbero atteso l'arrivo di nuovi mezzi di trasporto. La Sacerdotessa di servizio sulla nave aveva l'aria disfatta, e seguì stancamente le colleghe per continuare ad occuparsi delle mannaie bisognose di assistenza. Poco più tardi, quando Ira Marea scese a terra con altre, si accorse che Ombra la stava chiamando e la raggiunse al riparo dalla pioggia. «Che cosa vi è successo? domandò la bruna. «Niente di grave, non preoccuparti. Abbiamo abbordato una nave di pirati, nella baia orientale di Cirenya. Purtroppo, sette ragazze sono morte e altre sedici molto malridotte; ma non abbiamo subito molte perdite, tutto sommato, visto che quei cani erano ben sessanta.» «Hai fatto dei prigionieri?» Ira Marea sorrise a Goccia, che si era avvicinata a salutarla. «Ne abbiamo portati qui solo due, il Comandante e il suo aiutante. Gli altri sono stati giustiziati sommariamente a Cirenya, sulla spiaggia. Una ciurma di autentici sciacalli del mare; pensa che a bordo avevano due casse di monili, e alcuni anelli erano ancora attaccati alle dita mozzate dei poveracci assassinati da costoro. Credo che di recente abbiano affondato una nave di Mitanni, e quando li abbiamo sorpresi stavano facendo la posta a qualche altro mercantile. La Dea ha voluto assisterci, perché il vento era in nostro favore e li abbiamo potuti abbordare dopo un inseguimento brevissimo.»
Goccia di Fiamma abbracciò la marinaia e la baciò sulle guance, lieta che fosse tornata salva. Sapeva bene che Ira Marea non si teneva certo in seconda fila, durante i combattimenti. «Brava. Questa sera la Regina darà certamente una festicciola in vostro onore... e c'è una bella sorpresa per te.» «Rhylla è alla Capitale?» La giovane donna si illuminò in viso. «Come sta? Non ho sue notizie da tre mesi.» Goccia di Fiamma la rassicurò. Nel frattempo Ombra s'era girata a osservare le attività di bordo, e diede un'esclamazione di meraviglia quando vide salire sulla coperta una ragazza bionda come il grano maturo, snella e delicata, che una delle mannaie stava accompagnando alla passerella. «Chi è quella?» domandò. «La fanciulla? Si chiama Tangri. Per la verità, è proprio a causa sua se la Comandante di Squadra mi ha chiesto di far subito ritorno in patria. Si trovava prigioniera a bordo della nave colchisa, e ti puoi immaginare cosa ha dovuto passare quella poverina. I pirati l'avevano catturata, e può ringraziare solo la sua bellezza se è ancora in vita.. Comunque, bisogna che la faccia accompagnare a Palazzo senza indugi: Tangri mi ha raccontato una strana storia, e voglio che la Regina l'ascolti dalla sua stessa bocca.» Ombra non nascose un'espressione di meraviglia, a quelle parole, ma non fece altre domande. La ragazza bionda scese sul molo. Qualche marinaia le aveva dato da indossare dei vestiti di foggia amazzone, che le stavano larghi di misura, e sotto il cappuccio del mantello impermeabile il suo volto appariva smunto. Era però graziosissima, e la timidezza evidente con cui si guardava intorno intenerì Goccia di Fiamma, che subito le andò incontro. «Salve, tesoro. Benvenuta nelle Terre Basse. La Comandante Ira Marea mi ha detto che hai passato dei momenti molto brutti, con quei pirati. Mi dispiace. Ma adesso vedrai che tutto andrà per il meglio. Io sono Goccia di Fiamma, e quella laggiù è la mia amica Ombra. Ti senti bene, vero?» La fanciulla alzò il viso a guardarla, e fece un sorriso incerto. «Sì, grazie. Io mi chiamo Tangri.» mormorò. L'amazzone sorrise e le prese le mani, stringendole. «Lo so. Mi sembri stanca, e sei pallida. Certamente non desideri altro che riposarti per qualche giorno e riprendere le forze. Ma non preoccuparti; al Palazzo Reale vi sono molte camere libere, per gli ospiti e penserò io stessa a farti sistemare là come si conviene. Ti assicuro che ti sentirai a tuo agio.» «Sei davvero gentile,» rispose lei, sollevata dalle maniere allegre e ami-
chevoli della rossa. Goccia si rese conto che quella timida biondina si sentiva intimorita dall'ambiente, per lei nuovo, non meno che dalla presenza di tutte le miliziane armate fino ai denti, e capì che stava facendo uno sforzo per non crollare. Le circondò le spalle con un braccio e la condusse via verso la piazza del porto, anche perché in quel momento l'equipaggio stava portando a terra i due pirati messi ai ceppi e certo quella scena l'avrebbe sconvolta. Disse ad Ombra e a Ira che avrebbe pensato lei ad accompagnare Tangri a Palazzo, quindi le domandò: «Parli straordinariamente bene la nostra lingua. Dimmi, vieni da molto lontano? Oh, poverina... senza dubbio non vedi l'ora di rivedere la tua casa e i tuoi genitori!» «Sì,» mormorò lei. «Vengo da lontano, voglio dire. Ma... ma non ho più nessun parente. Mia madre è morta. Anche mio padre.» «Quanto mi dispiace! Sono forse stati i Colchisi a...» «No. Mio padre morì che ero ancora bambina. Mia madre invece è... è stata uccisa qualche mese fa a Mohenjdar, sul Lago Van, ed è stato prima che io partissi da là. Poi, sulla riva del mare, venni catturata da quegli uomini. Ma per fortuna la signora Ira Marea mi ha salvata. È una grande guerriera, davvero coraggiosa, ed è mia amica adesso.» La voce della giovane donna tremava di emozione, sebbene quella narrazione fosse stata brevissima e succinta, e nei suoi occhi Goccia lesse che ricordare le traversie passate le riusciva ancora troppo doloroso per poterne parlare con una certa disinvoltura. Fu lieta però di vederle tentare un sorriso, e decise che sarebbe stato meglio distrarla un poco. Nel frattempo aveva smesso di piovere, e le attività della Capitale stavano riprendendo, essendo cessata la pausa pomeridiana. L'amazzone indicò a Tangri il Tempio Grande della Dea, in fondo al largo viale alberato che divideva quasi in due la città, e poi accorciò il percorso verso il Palazzo Reale tagliando per le stradine retrostanti la piazza del mercato. Fra le bancarelle c'erano centinaia di persone, e il luogo era rumoroso fino al punto di sembrare caotico. Goccia fu contenta di vedere che la fanciulla straniera si guardava intorno con interesse e aveva l'aria d'essersi molto tranquillizzata; infatti sulle guance le era tornato un pò di colore. Tangri osservava con stupore la gran quantità di merci esposte in vendita, parecchie delle quali dovevano riuscirle nuove all'aspetto, ed il suo sguardo correva da un oggetto all'altro senza sosta. Di alcuni domandò i prezzi, e l'amazzone rise nel vedere tirare fuori di tasca due monete da una piastra. Con sua grande
soddisfazione Tangri contrattò l'acquisto di un fazzolettino , timidamente ma con decisione, e lo ebbe per mezza piastra. Disse che ne aveva bisogno. «Non sapevo che nelle Terre Basse ci fossero anche degli uomini.» osservò poi, indicando un mercante di Mitanni che esponeva tagli di stoffa preziosa sulla sua bancarella. L'amazzone le spiegò che fra le due nazioni confinanti c'era alleanza. L'economia di Mitanni era florida, e gli artigiani di quel paese i migliori di quanti ve ne fossero. Sottolineò quindi il fatto che il tenore di vita a Mitanni era elevato grazie alla protezione dell'esercito delle Terre Basse, il quale salvaguardava la libertà di quella gente e le consentiva una gran floridezza economica. Per merito dell'influenza politica delle amazzoni, inoltre, Mitanni era forse l'unico luogo al mondo dove il ricco non poteva sfruttare il povero, e le donne avevano diritti civili uguali a quelli degli uomini. «Anche i Mitannesi parlano la nostra lingua, hai sentito?» continuò. «Però con un accento leggermente diverso. Il tuo invece è perfetto.» Era un cauto tentativo di sondarla. La risposta di Tangri però la sorprese: «Lo so, ma è perché la vostra lingua è anche la nostra, Goccia di Fiamma. Ero stupita nel vedere tanti uomini qui, dato che noi non permettiamo loro di venire entro le mura di Mohenjdar. Capisci?» «Noi? Noi chi, ragazza?» fece lei, perplessa. «Noi amazzoni, naturalmente,» disse Tangri, con calma. Nella sala del trono, quella sera, c'era molta più confusione del solito. Cinque o sei Sacerdotesse del Tempio si aggiravano nel vasto locale, adorno di stendardi, fasci di armi, e arazzi appesi alla pareti, cercando di mettere ordine e di tenere a freno le numerose cortigiane ingioiellate e cicalanti, le quali invece non volevano saperne di stare un pò quiete. Non meno di cinquanta ufficialesse delle varie armi facevano la loro parte di baccano, riunite in capannelli che intralciavano il lavoro delle inservienti, le quali stavano sistemando file di seggiole in ampi semicerchi davanti al trono. Theba non era ancora scesa dal suo appartamento; c'erano però Mirina e Nube, le due Comandanti della Cavalleria e della Milizia, che chiacchieravano animatamente fra loro, e la Sacerdotessa Anziana Atemania, intorno alla cui figuretta curva il chiasso pareva smorzarsi rispetosamente. In un salone adiacente si stava apparecchiando per la cena, un avvenimento reso solitamente caotico dall'usanza secondo la quale a parteciparvi sarebbero state solo le prime sessanta amazzoni più svelte a prendersi i posti a tavola, e nel frattempo le due miliziane di guardia al portone stava-
no facendo di tutto per tener fuori quante più popolane fosse possibile. L'ingresso alla sala del trono era, per legge, aperto a chiunque fosse curioso di vedere e ascoltare cosa vi accadeva, e di conseguenza le donne del popolo spesso se ne approfittavano, accalcandosi nell'interno fino a stiparsi in ogni angoletto. Questo in genere si verificava solo in rare occasioni, e una cena in onore delle mannaie per l'affondamento di una nave pirata non avrebbe dovuto costituire avvenimento di gran richiamo. Malgrado ciò c'era ressa, e questo avrebbe seccato la Regina Theba, che detestava parlare senza avere un pò di spazio libero intorno a sé. Goccia di Fiamma ed Ombra erano passate dalla caserma della Cavalleria a indossare i loro abiti migliori, e si erano poi avviate a braccetto a Palazzo. Sulla soglia avevano incontrato Shalla, una volta tanto vestita in foggia molto femminile e disarmata, e le avevano sbirciato l'addome quasi senza volerlo, dandosi poi di gomito l'una con l'altra. «Ebbene, che avete da guardarmi tanto?» sbottò la bruna, imbarazzata. «La mia uniforme era sporca, e così ho dovuto mettermi questo vestituccio sciocco.» «E chi dice niente?» fece Ombra, seria. «Noto però che non porti più la cintura che ti ha regalato Yorris. Che ne pensi, Goccia? Secondo me le andava un pò stretta.» «Giusto,» sogghignò la rossa. «L'ho "sempre detto io che le cinture regalate da un uomo fanno presto a diventarti strette, specialmente se insieme ad esse ti regalano anche un'altra cosa!» Ridendo forte le due ragazze entrarono, e la bruna figlia della Regina andò loro dietro. Tutte e tre si sedettero poi nella prima fila di seggiole davanti al trono, e ingannarono l'attesa osservando quante altre erano intervenute. Il fatto che le ufficialesse dello Stato Maggiore ci fossero tutte indicava che si era sparsa la voce circa le notizie portate da Tangri, e che si attendeva con grande attenzione di sentirne i particolari. «Tua cugina sì è trovata una nuova amante?» domandò Goccia di Fiamma, dando di gomito a Shalla. Aquila di Guerra era infatti arrivata sottobraccio a una delle cortigiane che ingentilivano l'atmosfera del Palazzo con la loro presenza, ragazze quasi tutte molto graziose il cui lavoro consisteva nell'esibirsi in recite e spettacoli pubblici di ogni genere, ed era evidente che la bionda si compiaceva di mostrare alle altre quella sua nuova conquista. Shalla borbottò qualcosa, distogliendo subito gli occhi; Ombra invece fece udire un commento sprezzante. Aquila passò davanti a loro, ignorandole, e andò a se-
dersi più indietro. Non era passato molto che arrivò in sala anche Dunia, la quale esibiva una vistosa fasciatura bianca intorno alla testa. Il bendaggio le girava dietro la nuca e scendeva obliquamente a coprirle un occhio. La bruna si recò subito dove stava Aquila di Guerra, e si mise a confabulare sottovoce con lei. «Non sapevo che fosse ferita,» osservò Goccia di Fiamma. «Quando è tornata dall'est era sanissima. Non mi stupirebbe se fosse stata una delle sue amanti, a sistemarle la faccia,» disse Ombra. «Quella fanciulla, Tangri,» disse Shalla. «Siete certe che non sia una mezza matta o una bugiarda? Ombra alzò le spalle. «Domandalo a Goccia: è stata insieme a lei fino a una clessidra fa. Ma io credo che la poverina sia sanissima di mente, e che non voglia ingannare nessuno. Non è così?» «Senza dubbio,» affermò Goccia di Fiamma. «E mi auguro che Theba l'ascolti, perché mi sembra di aver capito che la sua gente si trovi in grosse difficoltà. Mi ha appena accennato alla faccenda, comunque la sua è una storia che dà da pensare. Lo sapevi che Tangri stava proprio cercando il modo di arrivare qui da noi, quando i Colchisi hanno abbordato la nave su cui viaggiava?» «Non sono riuscita a strapparle di bocca una sola parola coerente,» bofonchiò Shalla. «Vengo adesso dalla sua camera. Se ne sta lì a occhi bassi e risponde a monosillabi, come se avesse paura di essere mangiata.» La rossa ridacchiò, battendole un pugno su una spalla. «Me lo immagino, visto che cerio tu l'hai interrogata col tono che adoperi con le ragazze della tua squadra. Ma ecco che tua madre si decide a comparire.» La Regina era scesa dalle sue stanze, accompagnata da una cortigiana di mezz'età e dalla Sacerdotessa che si prendeva cura dei suoi acciacchi. Scostò una ragazza che voleva porgerle la corona, dicendo che aveva mai di testa e non intendeva calcarsi quel cilicio in capo, e andò a sedersi pesantemente sul trono. Poi si accomodò la veste, fece un cenno di saluto a Mirina e ad Atemania, e agitò una mano per chiedere un pò di silenzio. Buona parte delle presenti non aveva trovato posti a sedere, ed oltre un centinaio di donne erano rimaste addirittura fuori dal grande portone; adesso costoro domandavano che tutte si zittissero, per poter almeno ascoltare. Come sempre, tuttavia, le quattro ampie finestre che davano sulla piazza erano state lasciate aperte. «La cena sarà servita fra due clessidre,» esordì Theba, che si compiaceva di ignorare le formalità. «Perciò abbiamo tutto il tempo di ascoltare quanto
Ira Marea ha da dirci. Intanto devo complimentarmi con lei, vivamente, perché mi risulta che ad accostare i pirati Colchisi è stata proprio la sua nave, con un'abile manovra, e che lei stessa si è battuta con valore durante il successivo arrembaggio. Davvero questa ragazza non mi fa pentire di averle affidato il comando di una nave, malgrado la sua giovane età. Purtroppo abbiamo avuto delle perdite: sette coraggiose marinaie hanno dato la vita in nome degli ideali che ci uniscono, e le altre due sono in condizioni molto gravi, oltre a dodici ferite in modo più leggero. Le madri, le sorelle e le figlie delle eroiche cadute avranno dalle casse del Tempio il risarcimento prescritto; ma nessuno potrà mai consolare me. Ogni volta che muore una delle nostre brave figlie, è come se mi strappassero un pezzo di cuore, perché a sacrificarsi sono sempre le più ardimentose. Ma... evitiamo ora di parlare di loro. Domani ci sarà la cerimonia funebre, e voglio vedervi tutte accanto a me per rivolgere loro l'ultimo saluto. D'altra parte, Ira Marea mi dice che i pirati di quella nave hanno avuto di che pentirsi amaramente, per le loro scellerate imprese. Lascio adesso la parola a lei, per una breve relazione sull'accaduto. Dopo sentiremo le parole di Tangri, quella ragazza che dice di essere venuta da una città chiamata Mohenjdar. So che siete tutte ansiose di ascoltarla.» Ira Marea si fece avanti e andò a piazzarsi presso il trono. Quasi tutte le amazzoni più giovani la conoscevano, essendo simpaticissima e molto rispettata per i suoi modi franchi. In quel momento aveva la faccia dura e aggrondata. Goccia notò che in sala c'era anche Rhylla, la compagna di lei, e agitò allegramente una mano nella sua direzione. Poi vide Tangri comparire dal lungo corridoio dietro il trono, e le fece cenno di avvicinarsi senza timore. La ragazza bionda aveva una seggiola riservata fra quelle occupate abitualmente dalle cortigiane, ma preferì scambiare il suo posto con l'ufficialessa che s'era sistemata alla sinistra di Goccia di Fiamma, e durante quella manovra Ira Marea evitò di parlare, conscia che gli occhi di tutte erano puntati sulla delicata fanciulla. Goccia le circondò le spalle con un braccio e le strizzò l'occhio per rassicurarla. «Bene,» cominciò Ira Marea. «Come alcune di voi già sanno, la Squadra della Flotta da Guerra affidata alla Comandante Cerise, della quale fa parte la mia nave, aveva l'incarico di pattugliare la zona orientale del Mare Interno nei dintorni dell'isola di Cirenya, perché su quelle rotte viaggiano i vascelli mercantili di Mitanni diretti nell'Argolide, e a non molta distanza verso settentrione c'è' l'Arcipelago di Hellenos, che brulica di pirati Colchisi. Quindici giorni or sono ci eravamo disperse leggermente, per tenere
sott'occhio quanto più mare possibile, e al Pesce Volante era stata assegnata tutta la costa a oriente di Cirenya. Fu nella Baia di Legron che avvistammo i pirati, una galera a quaranta remi fornita di una piccola vela quadra, e poiché il vento ci favoriva decisi di attaccarli senza por tempo in mezzo. Dopo averli raggiunti ordinai l'abbordaggio. Come ha detto la Regina, purtroppo abbiamo avuto alcune perdite, tuttavia la vittoria è stata nostra. Quello stesso pomeriggio portammo a terra, su una spiaggia della baia, ventisei pirati superstiti dei sessanta che costituivano l'equipaggio; subito dopo, essendo io delegata di questa autorità, disposi che fossero giustiziati mediante il taglio della testa e feci eseguire la sentenza. Gli altri erano stati uccisi durante il combattimento. A due mozzi molto giovani, per quanto non meno efferati dei compagni, ho concesso la libertà. A bordo del vascello Colchiso c'erano anche sei donne, meretrici e avventuriere che convivevano coi pirati, e costoro le ho fatte marchiare a fuoco in fronte. La severità delle pene comminate non deve stupire nessuna di voi, perchè dopo aver esaminato il bottino ammucchiato nella stiva di quella nave ho potuto stabilire che i crimini compiuti erano stati gravi, e da un primo calcolo delle merci e dei preziosi è stato evidente che almeno una nave del Regno di Mitanni era stata preda dei pirati, che ne avevano sterminato l'equipaggio e i passeggeri.» Ira Marea fece una pausa, quindi si accigliò ancor più. «Domani mattina, prima della cerimonia funebre delle mie ragazze, si terrà un breve processo pubblico per giudicare Sirrush e Olimech Bey, Comandante e Secondo di bordo di quel vascello, i quali sono adesso nella prigione. Costoro mi erano già noti, e so che in passato si sono lordate le mani di sangue in ripetute occasioni. Perciò, immediatamente dopo, si potrà assistere all'effettuazione della sentenza.» Nessuna delle presenti chiese ulteriori specificazioni, essendo chiaro che i due Colchisi erano attesi dal capestro. Ira si volse verso la Regina: «Tre giorni più tardi mi sono riunita con le altre navi della Squadra, e Cerise mi ha incaricato di fare ritorno in patria, dopo aver sostituito le marinaie del mio equipaggio uccise o ferite. Se le circostanze fossero state normali, avrei sbarcato le ragazze bisognose di cure sulla costa di Mitanni, ma sulla galera dei pirati avevo scoperto l'esistenza di una ragazza fatta prigioniera da costoro, e ciò che ella ha raccontato ha convinto Cerise che era necessario farla arrivare qui alla Capitale, senza perdere troppo tempo. Questa giovane donna si trovava insieme ai Colchisi da una quindicina di giorni, e ritengo superfluo dilungarsi sulle pietose condizioni in cui quei cani l'ave-
vano ridotta. È un miracolo se in tutto quel tempo non ha smarrito la ragione. Comunque, durante il viaggio di ritorno si è rimessa molto in forze, e ora posso dire che è di nuovo in buone condizioni fisiche. È molto timida, e ancora un pò debole, ma cercherà di raccontarvi lei stessa la sua storia così come l'ha narrato a me.» Ira Marea sedette, nel silenzio generale. Nessuna mostrò delusione perché non s'era dilungata a perdersi in descrizioni emozionanti circa l'arrembaggio, essendo noto che l'amazzone era un tipo sbrigativo e di poche parole. Goccia di Fiamma mormorò in un orecchio di Tangri: «Ora devi parlare tu, tesoro. Non farti impressionare dalla Regina e da tutte queste ufficialesse; fai come se stessi narrando la tua storia a me. Più tardi, poi, andremo a passeggiare un poco nei giardini del Tempio, insieme a Ombra.» La fanciulla si alzò. Ben pettinata e vestita con un abitino datole dalle cortigiane, appariva linda e graziosissima, e non dimostrava più di diciotto o diciannove anni. Theba la invitò a farsi avanti, ed ella tenne gli occhi bassi durante tutto il tempo in cui parlò, limitandosi a guardare in viso solo la Regina e Goccia di Fiamma. «Io vengo dalla città di Mohenjdar,» disse, «che sorge sulla riva del Lago Van, nel mezzo delle montagne, sugli altopiani di Hyktos. Io... io ho vissuto sempre là, perché a noi amazzoni è proibito dalle leggi allontanarsi e recarsi nelle terre dove abitano uomini.» Quella dichiarazione scatenò un flusso di commenti concitati che percossero la sala come un brezza, e Theba fu costretta a chiedere il silenzio con voce secca. Lo stupore delle presenti era enorme. «Continua,» la incoraggiò la Regina. «Ma spiegaci cosa significa quello che hai detto.» «Tangri sta parlando dell'altra metà del nostro popolo,» intervenne con vivacità Goccia di Fiamma, incapace di starsene zitta. «Ti ricordi la Grande Migrazione, e la leggenda della favolosa Regina Merope?» «Certo. Ma è appunto una leggenda, una favola antichissima. Tangri, vuoi dire che davvero, al tempo della Grande Migrazione, una metà del nostro popolo si diresse altrove? Questa notizia è scritta in alcuni vecchi libri, ma non la si credeva autentica.» La fanciulla annuì con enfasi. «Ma è così, signora. Tante, tantissime generazioni fa, quando vennero i venti caldi e i ghiacciai millenari si ritrassero dalle terre, tutte le amazzoni vivevano pacificamente sulle rive del lontanissimo fiume Hjnd, nelle fertili valli e nelle città bianche della leggen-
daria Mohenjdar. Ma col disgelo vennero gli uomini dalla pelle gialla, che erano forti e combattivi, ed altre popolazioni ancora, le quali migravano e cercavano nuove terre su cui vivere. Ci furono stragi, pestilenze e guerre, e la rovina scese su quelle nostre remote antenate. Mohenjdar fu devastata, le città pacifiche vennero conquistate o date alle fiamme dagli invasori, e allora la Regina Merope ordinò che il popolo delle amazzoni prendesse con sé ogni suo avere ed abbandonasse quella terra. Se non avessero agito unite e con decisione, esse sarebbero state distrutte, poiché non praticavano l'arte della guerra e null'altro sapevano fare se non vivere in libertà e amicizia con le genti loro vicine. Così partirono. Certamente voi sapete già questa storia, anche se la credete una favola.» «Infatti, ma prosegui,» disse Theba, impaziente. «Le amazzoni si misero in viaggio verso le terre d'occidente, perché alcuni audaci viaggiatori avevano portato notizia che là vi erano mari e fiumi e laghi, e verdi vallate, dove nessuno abitava. Per arrivarvi si doveva intraprendere la via dell'Inferno di Pietra, il deserto roccioso a meridione nel quale si diceva abitassero orchi, giganti villosi, demoni, sauriani primitivi e tribù di uomini neri come il carbone. Ma le amazzoni erano decise a ignorare ogni pericolo, e accettarono la sfida dell'ignoto perché Merope le aveva sempre guidate saggiamente e mai aveva mentito, anche se tutte sapevano che la fame e il terrore sarebbero stati i loro compagni di viaggio per molti mesi a venire. Il cammino fu lungo, e le vecchie storie narrano che fu assai duro e sconfortante. Ma a un certo punto vi fu un dissidio fra le amazzoni: molte di quelle nostre antenate volevano prendere la via del settentrione, poiché avevano saputo da una tribù di pastori che altre genti erano passate oltre l'Inferno di Pietra ed erano andate nelle terre fredde del nord; altre invece chiedevano di continuare il viaggio verso occidente, sperando che avrebbero finito col trovare terre coltivabili e una patria sicura. Tutto ciò accadde in un periodo in cui esse erano ancora nei deserti, e pativano terribilmente la fame e la sete, al punto che molte erano già morte. Allora la Regina Merope riunì il Consiglio e lasciò libere le amazzoni di decidere chi preferiva andare con lei avrebbe deviato la marcia in direzione del nord, mentre le altre avrebbero potuto proseguire lungo la riva di un mare che i pastori avevano detto essere ancora di Afra. Fu così che avvenne la scissione della nostra gente: le donne che desideravano proseguire vennero infine ad abitare qui, e furono quelle da cui voi tutte discendete. Merope invece condusse la sua metà del vecchio popolo incontro all'ignoto sulla strada degli altopiani desolati.»
Tangri fece una pausa per riprendere fiato, e proseguì: «Per molti mesi la Regina Merope guidò a settentrione quelle donne, e due volte esse dovettero fuggire e disperdersi perché tribù di guerrieri selvaggi le minacciavano. Dapprima erano in ventimila, ma tante, troppe, morirono di fame o di stenti durante il viaggio, ed erano ormai sconvolte e disperate allorché cercarono rifugiò dagli uomini oltre una catena di montagne nevose, che dal quel giorno ancora noi chiamiamo i Monti della Disperazione. Solo circa diecimila di loro riuscirono ad attraversare quelle montagne terribili e dirupate, piene di ghiacciai, ed esse credevano di essere ormai destinate a morire tutte fra le nevi quando scopersero il Lago Van. Intorno al lago c'erano ruscelli, piccole valli, terreni incolti verdi di vegetazione, e la temperatura era mite. Allora Merope si inginocchiò su quella terra così bella e benedetta e rese grazie alla Dea. Poi le amazzoni si misero al lavoro con grande alacrità, e costruirono case, ararono campi per seminarvi le sementi che avevano portato con fatica, e il primo anno sopravvissero. Il secondo anno Merope fece innalzare un bel tempio di pietra in onore della Dea, e attorno ad esso ordinò che fosse costruita la nostra città. Memore della continua minaccia degli uomini al di là dei monti e degli altopiani, la Regina volle che la città fosse cinta da alte mura lisce, perché così le amazzoni potessero trovarvi riparo e salvezza se gli uomini le avessero assalite, e alla città diede nome Mohenjdar, affinché il ricordo della nostra bella terra perduta non si spegnesse mai nei cuori. Ma nessun nemico venne mai, perché gli altopiani e i morti circondavano quella terra per moltissime leghe, e dovunque si pativano il gelo oppure il caldo più tremendo, cosicché la valle del Lago Van era irraggiungibile.» «Un momento,» disse Theba. «Ma per gli uomini... sì, insomma, per procreare, come avete potuto provvedere, in quel luogo?» «Nel quarto anno dall'arrivo nella valle, quando la città era quasi costruita per intero», recitò Tangri, come se avesse imparato a memoria la storia e la ripetesse a una insegnante di scuola, «la Regina Merope decise che le amazzoni dovevano avere figlie che perpetuassero la loro razza, altrimenti si sarebbero estinte e ogni sacrificio sopportato si sarebbe rivelato inutile. Allora mandò le esploratrici a settentrione, al di là dei Monti Grigi, perché cercassero una tribù di uomini pacifici e ne invitassero alcuni a venire a vivere sul Lago Van. Dieci lunghi mesi trascorsero prima che le esploratrici facessero ritorno, ed esse rientrarono in Mohenjdar piangendo, perché non avevano trovato nessun essere umano; ma raccontarono che si erano spinte molto verso nord e che avevano scoperto l'esistenza di un grande
mare sconosciuto.» «Scusa un attimo,» disse Theba. La Regina si voltò e chiamò un'ufficialessa, facendole portare una carta geografica appropriata, scelta fra quelle che gli Uomini Angelo avevano tracciato per conto delle amazzoni non molti anni addietro. Due ragazze arrivarono quasi subito e tennero aperta verticalmente a lato del trono una sfoglia di papiro larga almeno tre braccia. «Se non vedo sulla carta i luoghi di cui si sta parlando, non capisco niente. Goccia, aiuta tu Tangri a indicare i luoghi a cui si riferisce, sii gentile.» L'amazzone si alzò, ben lieta di mettersi in mostra. Capì subito dall'espressione della fanciulla che ella non si raccapezzava affatto, davanti ai disegni di terre e mari che probabilmente non aveva mai visto. Coi suoi modi simpatici spiegò a Tangri cosa rappresentava la carta, mentre le amazzoni presenti stavano zitte e attentissime. Goccia indicò alla timida biondina il Mare Interno, sulla cui riva meridionale c'erano le Terre Basse di Afra. Nel nord, sporgevano la penisola di Etria, che terminava con la forma di una scarpa, e la penisola dirupata dell'Argolide. Subito a oriente dell'Argolide, al di là del fitto arcipelago di Hellenos, c'era il massiccio rettangolo montuoso di Hyktos, del tutto inesplorato salvo che sulle coste. Dalle montagne di Hyktos nascevano il Chan Bahar e l'Aladag, che poi scorrevano sinuosamente a sud est a bagnare la fertilissima Terra dei Due Fiumi, nella quale vivevano gli Akkadi e i Sumerici, entrambi nemici acerrimi delle amazzoni, separati dalle Terre Basse solo dal Regno di Mitanni. A settentrione di Hyktos c'era il Mare di Sarmath, che comunicava a sud col Mare Interno attraverso gli stretti noti come Bocche di Shuma, in mano ai pirati Colchisi. Come disse Goccia di Fiamma, buona parte di quella carta era stata disegnata dagli Uomini Angelo, che si erano prestati a dare informazioni, e raffigurava perciò anche terre che nessuno aveva mai calpestato. «Anche noi conosciamo il Popolo degli Alati,» disse Tangri. «Ma essi non scendono mai vicino al suolo.» Rasserenata dalla vicinanza e dalle maniere affettuose di Goccia, la fanciulla riuscì alfine a seguire le sue spiegazioni a sufficienza per poter leggere la carta, e puntò un dito nel bel mezzo delle montagne di Hyktos. «Il Lago Van è qui,» disse. «E questo a settentrione che voi chiamate il Mare di Sarmath è certamente quello che venne scoperto dalle esploratrici inviate dalla Regina Merope.» «Riuscì poi la Regina a trovare gli uomini?» domandò Theba.
«Sì, signora. L'anno successivo a quello, allorché i ghiacci delle montagne si sciolsero, altre esploratrici furono mandate a levante, e la Dea concesse loro di incontrare ben presto degli uomini, una tribù di pastori che conducevano la loro vita con semplicità sugli altopiani aridi. Allora ne invitarono molti, perché essi erano ospitali e di animo gentile sebbene rozzi. Quando gli uomini vennero al Lago Van ci fu una grande festa. Per essi era stata costruita una piccola città, dall'altra parte della sponda, perché le vecchie leggi ordinavano che le amazzoni non si dovevano mai mescolare con essi se non nel periodo delle Cerimonie dell'Accoppiamento. La Regina Merope era molto saggia, e sapeva che anche gli uomini pacifici potevano desiderare la guerra e la violenza, così dispose che nulla mutasse mai nelle nostre usanze. Anche nella vecchia terra di Mohenjdar si era fatto così, e solo in quel modo il popolo delle amazzoni era restato per sempre pacifico e ignaro degli errori che nascono con l'uso delle armi.» A questo punto Tangri si fermò e girò intorno un'occhiata timorosa, accorgendosi che qua e là fra le convenute quella frase aveva destato commenti in tono ironico. Goccia di Fiamma le fece cenno di non badarci. «Per molte generazioni,» riprese la ragazza, «noi amazzoni vivemmo coltivando i campi e prosperammo, restando in pace cogli uomini e unendoci a loro per mettere al mondo figli e figlie. Alla città degli uomini fu dato nome Tula. Anch'essi rispettarono sempre le nostre costumanze, vedendosi con le donne nei campi per ragioni di lavoro ma procreando con esse solo nel periodo prescritto, e mai entrarono in Mohenjdar. Così trascorsero cento e cento anni, e cento altri ancora. Ma l'anno scorso, a primavera, vennero dal sud degli uomini sconosciuti, bruni di pelle e armati di lance e spade, che attraversarono le montagne coi cavalli e scesero per un poco nella valle; poi andarono via senza far male a nessuno, e ciò malgrado noi tutte conoscemmo la paura, poiché i loro modi nei confronti delle donne erano crudeli, e sui loro volti si leggeva il desiderio della violenza.» «Puoi descriverli?» domandò la Comandante Mirina, intervenendo per la prima volta nella narrazione. Nube, seduta accanto a lei, volle sapere se indossassero divise e di quale genere. «Erano vestiti con abiti di cuoio, le loro armi erano di colore giallo come l'ottone, in testa portavano tutti dei rotondi elmetti neri,» disse Tangri senza esitazione. «I Sumerici! Le Teste Nere di Sumeri» gridarono subito alcune 'ufficialesse. «Diavolo, ragazza, è come se il lupo avesse scoperto la casetta del-
l'agnello! Cos'è successo in seguito?» Quando le voci e i commenti tacquero, la fanciulla riprese a parlare. Io non so chi fossero, né da quale terra venissero, ma noi fummo certe che ci si doveva aspettare il peggio ben presto. E tuttavia non sapevano cosa fare. Trascorse l'inverno, di nuovo i ghiacci sui Monti delle Disperazione si sciolsero, e nella primavera di quest'anno gli uomini dagli elmetti neri fecero ritorno. Venne un intero esercito, con carri e cavalli e molte armi, che scese nella valle e assali subito la città degli uomini, Tula. Tutti i nostri poveri compagni furono sterminati spietatamente, perché non conoscevano il modo di fare la guerra e non avevano neppure armi per difendersi, se non le falci. Le loro case furono date alle fiamme, e noi tutte vedemmo Terrore abbattersi sulla nostra esistenza come già era accaduto nei tempi remoti, sul fiume Hjnd. Dopo aver distrutto Tula, gli invasori misero l'assedio intorno ai bastoni di Mohenjdar, e allora noi...» La voce di Tangri si spezzò, a questo punto, ed ella abbassò il capo. «Capisco,» disse la Regina. Nella sala s'era fatto un silenzio di gelo. «Quegli uomini erano malvagi, signora,» mormorò Tangri. «Dissero che avremmo dovuto arrenderci subito e aprire le porte della città, altrimenti saremmo state prese per fame e uccise dalla prima all'ultima. Allora mia madre parlò con essi dall'altro delle mura, e chiese un accordo con il loro comandante, promettendo che avremmo consegnato ogni gioiello, ogni cosa, perfino i nostri vestiti, purché se ne andassero e ci lasciassero vivere in pace. Li supplicò di avere pietà per le bambine, e assicurò che eravamo inermi e non nutrivamo ambizioni di conquiste. Ma a nulla servì ciò che disse.» «Tua madre?» domandò Theba, perplessa. «Sì, signora. Mia madre era l'ultima Regina che fosse salita al trono, in Mohenjdar, e sebbene lavorasse nei campi come contadina aveva l'incarico di fungere da portavoce del Consiglio. Il comandante degli uomini le disse dunque di uscire dalla città, se voleva parlare e prendere un accordo con lui, ed ella decise di andare. Ma quando fu nei suo accampamento, quell'uomo... quell'uomo crudele la uccise, e la fece trascinare dai cavalli davanti alle mura, per mostrarci quale sarebbe stato il nostro destino. Fu così che morì mia madre, e il suo sacrificio non ebbe alcun risultato, perché quegli invasori ci disprezzavano e ridevano delle nostre implorazioni.» «Mi dispiace. È terribile, povera piccola,» sospirò Theba, mentre nella sala si levavano mormorii di cordoglio e compassione. Tangri doveva aver pianto da tempo tutte le sue lacrime, perché la sua
espressione rimase triste e timida come in precedenza, ed attese che le donne si fossero zittite per continuare: «Dopo quel delitto, fummo sicure che una sorte terribile ci avrebbe colpite, e nessuna di noi osò più affacciarsi dai merli della città. Per fortuna le mura erano alte e lisce, e gli invasori non poterono costruire torri o scale perché intorno al Lago Van crescono solo alberi molto piccoli. Inoltre la Regina Merope aveva predisposto che Mohenjdar potesse sottostare a un lungo assedio senza cedere, sapendo che un giorno o l'altro questa brutta cosa sarebbe certo accaduta, e nella città aveva fatto scavare pozzi d'acqua. Nei magazzini vi sono ingenti scorte di viveri. Così, seppure il raccolto di quest'anno sia andato perduto, Mohenjdar può tenere in vita le sue abitanti ancora per molti mesi.» «Quante donne vi sono, in città?» si informò Mirina, che era propensa a cercare il nocciolo pratico delle questioni. «E di quante Teste Nere si compone l'esercito assediante?» «Più di mille, forse millecento, sono gli uomini che attraversarono le montagne alla fine dell'inverno. E le amazzoni di Mohenjdar sono circa ventiduemila, più qualche centinaio di uomini scampati al massacro di Tula. Ma sono indifese, e se anche vi fossero armi nessuno saprebbe adoperarle, perché abbiamo vissuto pacificamente.» «Tu sei dunque venuta a chiedere il nostro aiuto?» domandò una delle ufficialesse. Tangri si morse le labbra, quasi che fosse imbarazzata di doverlo ammettere. Indubbiamente si rendeva conto che la cosa non sarebbe stata così semplice, e che sarebbe comunque costata del sangue. «Sì, è così. Per le amazzoni del Lago Van non c'è alcuna speranza di sopravvivere da sole, e per questo il Consiglio della città ha deciso che alcune di noi uscissero nascostamente e si allontanassero in cerca di soccorso. Dovete sapere che qualche anno fa, quando io era appena una bambinetta, arrivò un viaggiatore nella nostra valle. Egli si stupì moltissimo di trovarvi una città prospera e fiorente. Era uno straniero dai capelli neri, un esploratore proveniente dal sud, ed era amichevole; oltre a ciò eravamo molto meravigliate nel vedere che parlava passabilmente bene la nostra lingua. Il Consiglio lo invitò, ospitandolo in città, allo scopo di fargli raccontare quali popoli vivessero oltre gli altopiani e quali fossero le loro usanze. Eravamo avide di notizie, dato che da molti secoli si era perduto ogni contatto col mondo esterno. Quell'uomo aveva risalito il corso del fiume Aladag in cerca delle sue sorgenti, che son fra i Monti della Disperazione, ed era nato in quella che chiamò Akkad, una delle due nazioni della Terra dei Due Fiumi.»
«Fino a pochi anni fa, i Sumerici e gli Akkadi erano ancora in contrasto,» osservò Mirina. «Difficile che sia stato lui a fare la spia circa la vostra esistenza. Ma potrebbe anche esser così.» «Quest'uomo ci rivelò che nel meridione, dagli altopiani di Hyktos fino al Mare di Porpora, viveva la sua gente, che era civile e ricca, e ci incoraggiò a chiedere commercio con il Triarca di Akkad. Ma quando seppe che noi eravamo amazzoni si adirò moltissimo, e disse che mai fra gli Akkadi e il nostro popolo avrebbe potuto esservi commercio e amicizia. Quell'uomo raccontò che fra la sua gente e te amazzoni vi era stata una terribile guerra, in passato, e che ai tempi in cui egli era ancora un ragazzino le amazzoni guerriere di una Regina di nome Aristea la Selvaggia avevano devastato la Terra dei Due Fiumi con terribile ferocia.» «Proprio così,» ridacchiò Theba. «Quarantasei anni or sono, i Sumerici fecero lo sbaglio di assalire Mitanni, e penetrarono in forze nei nostri confini. Mia nonna Aristea, detta la Selvaggia, contrattaccò con tutta la forza del nostro esercito, e dopo sei mesi di guerra le Teste Nere erano in ginocchio. Aristea portò la milizia oltre Mitanni e penetrò prima in Akkad e poi in Sumer: le loro città furono rase al suolo, le famiglie reali sterminate, i campi dati alle fiamme, e i Sumerici impararono una lezione che non hanno ancora dimenticato, malgrado che negli ultimi tempi si siano fatti di nuovo forti e minacciosi. La loro terra è la più fertile di quante se ne conoscano, e adesso si sono di nuovo alleati con gli Akkadi. È così, bambina, fu da quell'esploratore che veniste a conoscere la nostra esistenza?» «Sì, o Regina. A quei tempi, nessuna di noi ritenne che fosse saggio inviarvi una delegazione per riallacciare i contatti, perché si temeva che praticando la guerra e la violenza avreste abbandonato la vecchia religione e gli insegnamenti della Dea. Ma adesso il mondo esterno ci ha raggiunte con la sua cattiveria e le sue nequizie, ed è per questo che cinque di noi una notte uscirono dalle mura, sperando di riuscire ad attraversare la grande distanza che ci separava.» Goccia di Fiamma gettò un'occhiata alla carta, e si rese conto che quella piccola spedizione si era. apprestata a un viaggio di per sé tremendo. Theba non domandò che fine avessero fatto le altre quattro, essendo tristemente facile immaginarlo, e rivolse alla fanciulla un sorriso materno. «Ma per fortuna,» riprese a dire Tangri, «una delle donne che erano venute con gli invasori decise di abbandonarli per aiutarci, e fu lei che ci fece da guida verso le terre dell'ovest.» «Vuoi dire che le Teste Nere avevano delle donne, al seguito della trup-
pa?» domandò Theba. La Comandante Minna fece osservare brevemente che certo si trattava di selvagge catturate da loro durante la marcia, tenute prigioniere ed usate per il sollazzo dei soldati. Tangri però la corresse subito: «No, signora. Dalle mura di Mohenjdar vedemmo spesso quelle due donne, fra gli uomini venuti dal sud. Erano soltanto due, e portavano ricchi vestiti. Sovente discorrevano col comandante degli invasori e osservavano le mura insieme a lui. Non sembravano schiave, ed infatti Laura in seguito ci disse che esse erano due dame di alto rango. Laura era una di esse, e fu lei che una notte tradì quegli uomini e venne a domandarci di entrare nascostamente in Mohenjdar.» «Molto strano,» dichiarò Theba. «E voi foste così ingenue da farla entrare in città?» «Sì, signora, poiché Laura giurò che non avrebbe avuto animo di ingannare delle donne indifese, ed anzi si offrì di darci aiuto. Ella parlava assai bene la nostra lingua, e disse al Consiglio che saremmo state uccise senza pietà se qualcosa non si fosse fatto prima che i viveri finissero. Allora noi la supplicammo di dirci come ciò poteva esser possibile. Laura asserì che in un luogo chiamato Terre Basse di Afra vivevano davvero altre amazzoni, e con nostro grande stupore rivelò che quanto avevamo udito dal vecchio esploratore molti anni addietro era vero. Raccontò che le amazzoni delle Terre Basse praticavano da sempre l'arte della guerra, ed erano grandemente temute da ogni altro popolo. Così il Consiglio accettò il suo suggerimento, poiché si sperava che esse non avessero dimenticato i legami di sangue che ci univano, e mandassero truppe in soccorso della nostra città. Laura stessa si offrì di condurre alcune di noi, e non vedendo altra speranza che questa, decidemmo di tentare. Fu così che io ed altre quattro ci allontanammo col favore delle tenebre. Non disperavamo di trovarvi, poiché Laura aveva detto di conoscere bene la strada, anche se il viaggio sarebbe stato assai duro.» La fanciulla fece pausa, perché Goccia di Fiamma era andata a riempire una tazza di limonata al miele e gliela aveva portata. Bevve, poi, mentre la rossa tornava a sedersi, continuò: «Per quasi un mese vagammo verso il sud, e ci trovammo alfine nella Terra dei Due Fiumi, in quella parte di essa che ne occupa il nord e ha nome Akkad. Ma sugli altopiani avevamo preso le febbri, ed eravamo sfinite. Due di noi non ressero alla fatica, e morirono; poi un'altra venne uccisa dai briganti Rashgaroj allorché alcuni di essi ci tesero un agguato presso la
Terra di Nedda. In quell'occasione Laura difese le nostre vite con grande coraggio, ed uccise da sola tre di quei malfattori, facendo fuggire gli altri. Senza di lei saremmo state perdute fin dall'inizio, perché era alta e forte, assai capace nell'uso delle armi, e non si ammalò mai. Più tardi, quando fummo presso il mare e venimmo avvicinate dagli schiavisti, ancora una volta Laura si batté.» «Era un tipo in gamba, questa Laura,» disse Theba pensosamente. «E che fine ha fatto?» «Io non lo so, signora,» mormorò Tangri tristemente. «Gli schiavisti erano molti, ed ella dovette fuggire. Fu la sola di noi che si poté salvare. Io e l'altra ragazza di Mohenjdar venimmo imprigionate da quella gente, che comprava e vendeva gli uomini come se fossero stati oggetti, ed io dovetti seguire poi l'uomo che mi acquistò da essi, nel mercato di Nedda. Costui era un mercante che abitava nell'isola di Cirenya; mi condusse con sé come schiava e ci imbarcammo entrambi su una nave. Fu al sesto giorno di viaggio che i pirati Colchisi ci assalirono, e quella sera stessa l'equipaggio ed i passeggeri vennero uccisi e gettati in mare. Io fui lasciata in vita, poiché il capo dei pirati voleva fare di me la sua donna. Da quel giorno...» «Ho capito,» tagliò corto Theba. «Sorvoliamo su questo, tesoro. Per fortuna la tua avventura si è conclusa bene, e tu sei qui. Ma ora mi domando cosa si può fare.» La Regina fece una smorfia, seccata dal vocio che s'era levato nel locale. Buona parte delle amazzoni presenti si scambiavano opinioni ad alta voce, e parecchie già gridavano le loro conclusioni in tono deciso. Da quella reazione, Se varie ufficialesse dello Stato Maggiore non faticarono ad intendere quale decisione il popolo aspettava da loro. «Fate silenzio!», ordinò Theba. «Un pò di calma, per la Dea! Va bene, non sarò certo io a rifiutare S'aiuto che queste donne... queste amazzoni, ci domandano. Dopotutto, l'idea che i Sumerici si espandano anche in direzione del Mare di Sarmath può essere allarmante, anche se dubito sia questo il motivo che li ha spinti ad attaccare Mohenjdar. Tu che cosa ne pensi, Mirina?» La Comandante della Cavalleria si alzò, ma prima di dare una risposta andò a chinarsi vicino ad Ombra di Lancia e scambiò con lei alcune parole a bassa voce. L'ufficialessa godeva di enorme prestigio, e non aveva certo timore di far vedere che, quando le sembrava il caso, prima di formarsi un'opinione precisa voleva il consulto di altre. Il fatto che chiedesse così apertamente il parere di Ombra, comunque, non stupì nessuno.
Quando si portò davanti al trono, Mirina disse che secondo gli ultimi sviluppi della situazione militare i Sumerici certo non intendevano affatto inviare una testa di ponte sul Mare di Sarmath, dato che la costruzione di una strada attraverso gli altipiani e le montagne sarebbe stata impossibile. Economicamente poi quella zona non offriva nulla, essendo del tutto improduttiva. Era però probabile che i Triarchi di Sumer e di Akkad fossero impensieriti dall'esistenza di una popolazione di amazzoni, anche se innocua e piccola, in quelle terre, ed avessero deciso di sterminarle per evitare l'eventualità di una alleanza fra esse e le amazzoni delle Terre Basse. I Sumerici si trovavano già le donne guerriere alla soglia di casa, visto che parte del loro esercito regolare era dislocato sugli estremi confini orientali di Mitanni in aggiunta a quello di Bal Kadur. Vedersi esposti ad un possibile attacco anche da settentrione, era senza dubbio un'idea per loro allarmante. Questa ipotesi giustificava l'estrema spietatezza con cui avevano assalito la città di Mohenjdar. «Mandiamo un esercito e facciamo a pezzi quei cani!» gridò una popolana dalle ultime file. «Le Teste Nere si preparano ad assalirci come cinquant'anni fa!» strillò un'altra, irosamente. Come spesso accadeva, erano proprio le donnette della Capitale a mostrarsi più emotive e decise delle stesse miliziane. Un'altra, grigia di capelli e curva per l'artrosi, si fece avanti scostando alcune ufficialesse e dichiarò: «Prendiamo le armi, Regina. Mia figlia è nella Cavalleria, e ti giuro che non la riconoscerò più come sangue del mio sangue se non farà parte della spedizione. Andrei io stessa, se avessi trent'anni di meno!» La Regina rise, alzando una mano per placarla.«Bene... ma pensa piuttosto alla tua bancarella di frutti di mare, Ibra, e se vuoi mostrare un pò di sano patriottismo tieni bassi i tuoi prezzi. Tutte tenne saremo grate.» Quella frase suscitò alcune risate, ed ebbe l'effetto di raffreddare un pò gli animi. Theba, che non per nulla era soprannominata La Saggia, fece zittire gli altri commenti e poi accennò a Tangri che poteva rimettersi a sedere. «Dopodomani, come forse sapete, lo Stato Maggiore si riunirà per decidere il comportamento da tenere nei confronti del Diaconato di Coralyne, dove c'è stata ancora una piccola rivoluzione. Se le notizie dal confine saranno tranquillizzanti, si potrà disporre di truppe da inviare altrove. Inoltre è chiaro che si dovrà stabilire quali saranno gli effetti di uno scontro armato con le Teste Nere, in una situazione che è già molto delicata.»
«Regina!» gridò improvvisamente Aquila di Guerra alzandosi in piedi. «Dammi il comando di dieci Squadroni di Cavalleria, e ci penserò io a mettere in ginocchio quella feccia! Mi offro come volontaria per schiacciare nel sangue questa vile e barbara aggressione. Noi non tollereremo le prepotenze dei Sumerici!» Un buon numero di popolane e di miliziane la acclamarono, ed ella si guardò attorno bellicosamente, poggiando una mano sull'elsa della spada. Accanto a lei Dunia esclamò: «Viva Aquila di Guerra, e marte alle Teste Nere, concittadine!» CAPITOLO QUINTO Il secondo giorno del Mese delle Messi, di prima mattina, dodici navi con le vele abbassate sulla tolda erano all'ormeggio di fronte a una vastissima spiaggia a mezzaluna, candida e liscia. Sul mare appena mosso molte scialuppe facevano la spola alacremente, per scaricare viveri, cavalli, armi e carri da trasporto. Al di là della fascia di vegetazione che cingeva il litorale, alcune centinaie di amazzoni stavano svellendo cespugli e preparando il terreno per un grosso accampamento. Situata nell'angolo più orientale del Mare Interno, la spiaggia costituiva il terzo lato di una valle triangolare, al cui centro scorreva un fiumiciattolo, e tutto intorno ad essa sorgevano colline brulle scarsamente alberate. Più oltre si scorgevano le cime spolverate di neve di un massiccio montuoso, lontano una cinquantina di leghe verso est, le cui pendici erano del tutto inesplorate e sconosciute alle amazzoni. In piedi davanti ad alcune casse, sulle quali aveva disteso una carta geografica, Ombra di Lancia si stava rendendo conto del genere di difficoltà che avrebbe dovuto superare fin dall'inizio, grazie al fatto del tutto imprevisto che quelle montagne non comparivano per nulla su quel disegno. Al loro posto era indicata l'esistenza di un altopiano di vaste dimensioni, sul quale la ragazza aveva già fatto conto di poter procedere senza intoppi almeno una decina di giorni. Ora si domandava dove mai fosse in realtà l'altopiano, se pure davvero ce n'era uno. Intorno a lei l'attività ferveva. Squadre di marinaie e di miliziane in uniforme da fatica sbuffavano sotto il sole ammucchiando sacchi e casse. Sulla destra dell'arco sabbioso, trecento cavalli davano da fare ad altre decine di ragazze, impegnate a impastoiarli. La bruna amazzone sbuffò di frustrazione, arrotolò la carta e la gettò da parte.
«Cominci a pentirtene?» disse una voce allegra dietro di lei. Goccia di Fiamma era sbarcata allora da una scialuppa, e si avvicinava portando un pesante sacco sulle spalle. «A cosa vuoi alludere?» fu il brontolio con cui l'accolse l'altra. «Ti informo che il tuo umorismo è quanto mai fuori posto. Non ho chiesto io di avere il comando. Demoni, sarei più felice se adesso ci fosse Mirina, o Zare, a grattarsi questa rogna al posto mio!» «Forse che ne dubito?» L'ironia di Goccia suonò chiara, quando lasciò cadere il suo carico nella sabbia, accanto alle casse. «Tranquillizzati, sorellina, sono certa che tutte ti compatiscono, dopo che ti sei vista promuovere al grado di Comandante di Squadrone così all'improvviso, e sei stata messa a capo della spedizione.» «Sono stata costretta ad accettare. Quella matta di Shalla insisteva per avere l'incarico, anche con un bambino in pancia. L'unico modo di convincerla a stare a casa era questo.» Goccia non desisté dal deriderla, e accennò con un pollice dietro a sé. «Bene, puoi sempre andare da Aquila, laggiù, e dirle che deleghi a lei tutta l'autorità. Del resto, la signorina sta già dando ordini a destra e a sinistra come se le competesse per diritto divino.» Ombra di Lancia si volse a guardare dove Se veniva indicato, e vide Aquila di Guerra in piedi al limite interno della spiaggia, intenta a dirigere il traffico delle lavoranti. La bionda nipote della Regina indossava una elegante uniforme da battaglia ed era armata fino ai denti. «Ah, taci! Almeno, finché mi sta sotto gli occhi sono sicura che non mi combina dei guai. Questa mattina lei e Dunia sono venute a dirmi che volevano avere il comando delle miliziane mandate di guardia sulle colline. Per farle star tranquille, ho dovuto affidare loro la sistemazione logistica delle difese del campo. Non sono poi due cattive ragazze, a saperle prendere per il loro verso, e hanno voglia di fare.» L'espressione di Goccia mutò bruscamente. «Quando quelle due cagne mettono piede fuori dal Palazzo Reale hanno sempre i loro motivi personali. Dovevi metterle a rizzare le tende, invece che a dirigere. Che cosa vuoi che ne sappiano di strategia preventiva? Se gli uomini del Tiranno dovessero piombarci addosso, con un campo fatto da loro, andrà bene se avremo il doppio delle perdite!» «No, Goccia: siamo fuori dai confini delle Terra di Nedda. Nell'interno di questa costa sono siate segnalate solo tribù di pastori nomadi. Il vero guaio è che non so da che parte iniziare la marcia, con questa carta fasulla.
Ci troviamo a dover scegliere fra due soluzioni, nessuna delle quali mi soddisfa. Tangri è ancora sulla nave?» «Sta venendo a terra. Ma non illuderti che possa darti qualche indicazione di rilievo. La ragazza non può conoscere questa zona.» «Vedremo cosa saprà dirmi. Poco fa ho mandato Selanie con una squadra a vedere se in fondo alla valle c'è un valico adatto al passaggio dei carri. Nel caso che vi sia, domattina cominceremo a spostarci verso quelle montagne; altrimenti non resta che girare a sud est.» Goccia prese la carta, la riaprì e vi puntò sopra un dito con un gesto che era tutto un rimprovero. «Stai dicendo che dovremo giocarci la pelle, attraversando prima la Terra di Nedda e poi il settentrione di Akkad? Guarda che siamo solo in duemila, mia cara: quante di noi arriverebbero vive sul Lago Van, se lungo la strada ci facessimo venire addosso i soldati di due diverse nazioni? So benissimo che, se prendiamo verso nord est, ci aspetta una marcia attraverso almeno cinquecento leghe su un territorio che è tutto un'ipotesi, però tu proponi come alternativa qualcosa di peggio. Io dico di affrontare le montagne. Certo, tagliando il corso superiore dei due fiumi sumerici potremmo disporre di buoni punti di riferimento: è una zona che conosciamo, ma su quegli altipiani i carri di guerra del Triarca potrebbero raggiungerci e farci a pezzi.» «Sono forse rimbecillita, che non lo so? Ma devo prendere in considerazione che altrettanto pericoloso può rivelarsi l'andare alla cieca verso le montagne. Se ci trovassimo a dover vagare per dei mesi, sperdute in una terra sconosciuta, saremmo condannate al disastro. Guarda, Goccia, fammi un favore: vai all'accampamento?» «Sì.» «Allora, se vedi Maani mandala da me. E poi un'altra cosa.» «Che cosa, tesoro mio?» La rossa fece un sorriso malizioso, nel vedere la compagna immusonirsi. Ne indovinava il motivo. «Tanto per essere chiara,» brontolò la ragazza, «vorrei definire la nostra situazione fin da ora: durante tutta la navigazione te ne sei stata a dormire nella cabina di Tangri, benché io debba ammettere che di giorno un paio di volte tu mi abbia salutata, incontrandomi per caso. Adesso che vivremo sotto una tenda, invece...» «Ma non essere sciocca, Ombra! Tangri si sente sola e sperduta, e tu sai bene quanto è sensibile. Non penserai che io e lei... oh, no!» «Io non penso niente. E non intendo farti scene di gelosia. Ti informo, comunque, che nella mia tenda c'è posto per tre giacigli comodi. Non sia-
mo qui per divertirci.» «E tu vuoi tenermi sott'occhio. Messaggio ricevuto!» esclamò la ragazza allegramente. «Sì, ridi, ridi!» mormorò Ombra di Lancia fra sé, mentre l'altra si allontanava a passo svelto. «Ma io ti conosco bene, rossaccia!» Da lì a poco l'umore di Ombra si fece meno cupo nel vedere Maani che veniva sulla spiaggia. La giovane amazzone, alta e robusta come poche, era una fortissima combattente e per di più molto sveglia. Il contingente di miliziane e di cavallerizze assegnato a quella missione non aveva svuotato neppure per un decimo le due grandi caserme della capitale, ma Ombra era riuscita a farsi assegnare le migliori ufficialesse disponibili, e questo era adesso l'unico elemento che la rendesse fiduciosa. Prese sottobraccio la collega e le spiegò quale fosse la situazione in cui erano venute a trovarsi, quindi aggiunse: «Tu prenderai due squadre a cavallo, due carri di viveri, tende e quanto altro riterrai opportuno; chiedi anche alle Sacerdotesse se una di loro vuole venire con voi. Il tuo compito sarà quello di fiancheggiare la marcia del grosso, tenendoti però sempre sul versante orientale di quelle colline. Voglio essere certa che fra qui e le montagne non avremo sorprese da parte dei soldati del Tiranno di Nedda. Nel caso che tu noti l'avvicinarsi di un contingente nemico, anche piccolo, ripiegherai sulle nostre posizioni senza combattere. Una volta arrivate alle pendici delle montagne ci riuniremo. Parti al più presto perché esiste la possibilità che qualche pastore troppo zelante ci abbia viste arrivare e si sia messo in viaggio verso la Terra di Nedda, per informare il Tiranno.» «D'accordo. Aggirerò le colline e rastrellerò la zona. Se scoprirò uomini diretti verso Nedda dovrò ucciderli», stabilì Maani. «Fai quello che ritieni meglio. Evita quanto più possibile di farti vedere, anche se ciò ti costringerà a perder tempo. Lascerò una squadra ad aspettarti alle montagne, nel caso che tu arrivassi lì in ritardo sul nostro passaggio. Non ricorrere in nessun caso alle segnalazioni coi fumogeni.» Sistemata così quella faccenda, Ombra di Lancia non ebbe di meglio che dare una mano a trasportare le provviste nella zona in cui stava sorgendo il campo. Nel rassegnarsi a quell'incombenza, s'accorse fra divertita ed irritata che Aquila di Guerra le dava istruzioni con lo stesso tono altero che adoperava con le miliziane, Quando, con un filo d'ironia, la lodò per la sua solerzia, Aquila affermò che aveva le idee molto chiare circa la sistemazione logistica di un accampamento ben ordinato, e che non intendeva accettare suggerimenti o consigli su come eseguire il suo compito.
Al tramonto le dodici pesanti navi da carico furono costrette ad allontanarsi dalla costa, perché s'era alzato il vento e le Comandanti avevano timore di affrontare un'eventuale mareggiata in quel pessimo ancoraggio. Lo scarico delle merci era del resto terminato. Ombra di Lancia avrebbe preferito veder restare i vascelli nei pressi fino al mattino successivo, nel caso che da Nedda sopraggiungesse per via di terra un contingente di armati e che la loro posizione si facesse insostenibile. Nell'accomiatarsi dalle Comandanti consegnò loro un primo rapporto per la Regina e si disse ragionevolmente certa di poter rientrare in patria entro la fine dell'estate. Rimase sulla spiaggia deserta finché le navi non ebbero alzato le vele, dirette all'orizzonte rosso e oro dal quale era ormai scomparso il sole. Quando giunse al campo, formato da duecento grosse tende disposte in circoli concentrici, ebbe la lieta sorpresa di scoprire che Aquila di Guerra aveva ordinato alle sentinelle di seguire alla lettera il manuale d'istruzioni; infatti per ben tre volte fu fermata e costretta a dichiarare la propria identità a miliziane appostate fra i cespugli, le quali, peraltro, apparvero decisamente imbarazzate alla sua presenza. La cosa ebbe l'effetto di migliorare il suo umore. Nell'aria si spandeva l'odore della cena, e tutte le ragazze a cui passò accanto avevano l'aria ottimista. Nel cerchio centrale c'erano le tende più piccole, che ospitavano le ottanta caposquadra, le quattro Comandanti di Squadrone pari grado di Ombra, e le numerose Sacerdotesse . Queste ultime avevano già montato un altare, ma la funzione religiosa sarebbe stata celebrata solo l'indomani, prima della partenza. «Carne affumicata e gallette,» la informò Goccia di Fiamma, che s'era seduta sull'erba insieme a Tangri. «E l'acqua di questo fiumiciattolo sa di neve. Accomodati qui, che Callia ti ha già visto e ti sta riempiendo una scodella. Tangri mi stava dicendo che fra qualche giorno dovremo metterci i vestiti pesanti, sotto l'uniforme: da qui al Lago Van, qualunque strada si prenda, il terreno è in continua salita.» «Lo so.» Ombra sorrise alla fanciulla bionda poi ringraziò la Sacerdotessa che le aveva sollecitamente portato la cena. Callia e le sue colleghe, come volevano le usanze, non stavano mai con le mani in mano, anche quando non avevano da curare le guerriere o da occuparsi dello loro anime. Pur non essendo sottoposte all'autorità delle Comandanti militari, non interferivano mai coi loro ordini ed erano delle lavoratrici infaticabili. Inoltre, negli accampamenti, la sera organizzavano con entusiasmo gli svaghi delle miliziane.
Con il boccone ancora in bocca, Goccia di Fiamma accennò verso il vasto spiazzo centrale dove ardeva il più grosso dei falò, e domandò a Tangri se sapeva ballare. La fanciulla rispose di sì, ma aggiunse che le danze in uso a Mohenjdar differivano moltissimo da quelle delle Terre Basse. «Davvero le vostre soldatesse ballano e fanno festa, negli accampamenti?» si sorprese. La rossa assunse un'espressione esageratamente meravigliata. «Ma dico, vuoi scherzare? Che cosa altrimenti ci resterebbe da fare, dopo cena? Fra le miliziane conosco cinque o sei scatenate che daranno spettacolo, te lo assicuro», aspetta solo che abbiano finito di vuotare i boccali di birra. Io stessa, modestamente, se ho un buon accompagnamento musicale, posso cantare...» «Tu conosci solo canzonacce sporche,» la rimbeccò Ombra. «Certo. Ma sono le migliori!» ridacchiò la compagna. A darle ragione intervennero alcune caposquadra e Ilsabet, che si erano avvicinate in cerca di compagnia. Da lì a poco arrivarono anche Rhylla e Hay Varena, le quali partecipavano per la prima volta a un'impresa con Goccia ed Ombra ed erano notoriamente ragazze assai allegre. Malgrado che le bevande alcoliche fossero severamente razionate, nel campo si stava approfittando della tranquillità per divertirsi un poco. Tangri divenne rossa come il fuoco allorché le chiacchiere delle amazzoni si spostarono sulle barzellette sconce e sui motivi per cui erano considerate tali, analisi amene a cui Goccia di Fiamma ed altri bei tipi si lasciavano andare senz'ombra di pudore. Ne vennero raccontate diverse. Più tardi, quando le esploratrici di Selanie fecero ritorno nell'oscurità e già le Sacerdotesse avevano messo su un'orchestrina, Aquila di Guerra e Dunia si unirono alle colleghe per presenziare al breve rapporto dell'ufficialessa. A quanto disse Selanie, al vertice della valle c'era un valico che avrebbe permesso il passaggio di carri, purché si facessero partire con un poco di anticipo alcune squadre per ripulire il percorso dai cespugli. Più avanti, in apparenza fino alle lontane montagne, il terreno si presentava impervio e interamente collinoso, tuttavia c'era scarsissima vegetazione. Un paio di fili di fumo avvistati in quella direzione facevano supporre che presto o tardi avrebbero incontrato tribù di pastori o cacciatori nomadi. Selanie espresse l'opinione che fosse possibile intraprendere quella via senza correre rischi eccessivi e Ombra le credette senz'altro, conoscendone la competenza. Per circa tre clessidre, prima che venisse il momento di ritirarsi nelle
tende, l'orchestrina delle Sacerdotesse gareggiò con un complesso di strumenti musicali messo insieme dalle miliziane della truppa, e in quel modo Tangri poté udire un incredibile alternarsi di canti sacri e di canzonacce che sembravano tolte di peso da una taverna del porto. Le miliziane mandate di guardia sulle colline ebbero il cambio e rientrarono al campo quando tutto ormai s'era fatto silenzioso. Nella tenda della Comandante, Tangri prese sonno tenendo una mano di Goccia di Fiamma stretta fra le sue, mentre Ombra si tormentava ancora sulle imprecisioni della carta geografica alla luce di una candela. Come Selanie aveva predetto, la marcia sul terreno collinoso procedette senza eccessive difficoltà. Ombra di Lancia aveva spedito avanti una squadra di ventidue ragazze della Cavalleria, tutte esperte esploratrici che agivano in coppia e che si separavano e riunivano continuamente per decidere quale fosse il percorso più agevole da seguire. Alcune leghe dietro di loro, alla testa del grosso, venivano i cinquanta carri delle salmerie, in apparenza assolutamente indifesi, i quali, secondo una tattica abituale durante gli spostamenti su terreni sconosciuti, avrebbero funto da specchietto per le allodole per eventuali aggressori. In realtà i carri venivano tenuti sotto costante protezione dalle quattordici squadre a cavallo, che fiancheggiavano la colonna ad urta certa distanza, disposte su entrambi i lati. Mezza lega dietro i carri marciavano le millecinquecento miliziane dell'Esercito della Dea, divise in tre Squadroni che si snodavano per una lunghezza di circa due leghe. Quando il terreno lo permetteva, gli Squadroni si allargavano molto oppure si dividevano in squadre che avevano il compito di coprirsi a vicenda, mentre se si fosse profilata l'eventualità di un brutto incontro venivano messe in atto delle tattiche che erano spesso delle vere e proprie trappole, organizzate ai danni di assalitori troppo ingenui. In un terreno vario e collinoso com'era quello, le quattro Comandanti di Squadrone avevano modo di cambiare frequentemente lo schieramento delle miliziane, e queste dal canto loro erano abituate a vedere una semplice marcia di spostamento trasformarsi in una specie di esercitazione continua e non troppo faticosa. Nei giorni tranquilli si evitava ogni genere di segnalazione e ci si muoveva quanto più possibile al coperto. In caso di attacco si faceva uso di segnali in codice con corni, con eliografi o con sostanze fumogene. Assai difficilmente, tuttavia, qualche nemico sconosciuto le avrebbe attese sul terreno aperto. Ciò che le amazzoni potevano temere, in quelle circostanze, erano le piccole imboscate portate da bande di predoni di scarsa consistenza, e prima di giungere a passaggi obbligati
esse sapevano che il comportamento migliore era quello di scoraggiare eventuali osservatori ostili esibendo uno spiegamento di forze compatto ed agguerrito. Ombra di Lancia, che viaggiava a bordo del primo dei carri, non era assillata dalle preoccupazioni che avrebbero riempito le giornate di un uomo messo a capo di una spedizione di uomini, e non doveva neppure curarsi di controllare l'attività delle quattro Comandanti di Squadrone, le quali erano perfettamente in grado di mettere in atto Se tattiche opportune in caso di necessità. Nei cinque giorni che occorsero per portarsi fino alle pendici delle montagne, Ilsabet, Rhylla e Hay Varena non ricevettero da lei né ordini né consigli; in quanto a Brezza dell'Est, che aveva sotto di sé il mezzo Squadrone della Cavalleria, l'amazzone conosceva Ombra tanto bene che avrebbe potuto leggerle nel cervello, ed anche in situazioni pericolose avrebbe saputo da sola come coordinare la sua attività con quella delle altre. I pastori che si aggiravano attorno alle montagne, e che venivano saltuariamente avvistati di lontano, avevano tuttavia un comportamento così cauto e sospettoso che la bruna amazzone non poteva fare a meno di domandarsene il motivo; infatti non si lasciavano mai avvicinare. Questo impediva alle esploratrici di contattarli per assumere informazioni, il che era già abbastanza seccante, ma soprattutto indicava che essi disponevano di vedette molto attente e che consideravano con timore ogni estraneo. Era dunque chiaro che i pastori ritenevano di avere dei nemici dai quali era indispensabile cautelarsi accortamente. Ma nella zona non si vedevano comunità abitate, né alcun segno di attività organizzata, ed Ombra faticava ad immaginare di che genere fosse la minaccia temuta dagli indigeni. Il sesto giorno le amazzoni trovarono Maani e le sue due squadre ad aspettarle, in un terreno impervio solcato da grossi canaloni sul fondo dei quali scorrevano torrenti dalle acque fredde e cristalline. Maani e le sue ragazze erano bagnate fradice, essendo state costrette a guadarne un paio per portarsi sulla linea di marcia del grosso, inoltre sembravano tutte piuttosto preoccupate. La giovane caposquadra si affiancò al carro di Ombra e saltò a cassetta al suo fianco, dopo aver ordinato alle altre di fermarsi per attendere il passaggio delle miliziane di fanteria. Fece quindi il suo rapporto con estrema concisione: «Non ho niente da segnalare per quanto riguarda i primi due giorni di viaggio: abbiamo percorso una pianura incolta, pavimentala con terra molto grassa e adattissima alla semina, ma senza segno di insediamenti di con-
tadini. Poi li terreno è cambiato bruscamente quando abbiamo dovuto salire di quota, e ci siamo trovate in una zona assai imprevista, tutta burroni, altopiani e piccole valli. L'unica vegetazione era quella lungo i corsi d'acqua. È stato lì che abbiamo catturato un paio di cacciatori nomadi.» «Catturati? Rifiutavano di lasciarsi avvicinare?» «Esatto. E non cerio per timidezza. Diffidano degli estranei, e si aspettano di doversi battere contro chiunque non conoscono. Anche altri, che abbiamo trovato in seguito, avevano lo stesso atteggiamento. Parlavamo un poco il dialetto di Nedda, e quando li abbiamo interrogati ci hanno sconsigliato dal procedere oltre. Hanno detto che fra queste montagne abitano tribù di esseri selvaggi chiamati Ginn, descritti da loro come una specie di subumani feroci e antropofaghi. Più tardi abbiamo avvistato alcuni di questi Ginn, individui dalla pelle bianchissima e nudi, che stavano frugando sulla riva di un corso d'acqua in cerca di molluschi. Quando ci siamo avvicinate, in quaranta, sono subito scomparsi fra la vegetazione senza darci modo di osservarli da vicino. Ma le orme che avevano lasciato su una spiaggetta ci hanno convinte al di là di ogni dubbio che non si trattava di uomini. Erano impronte di piedi a quattro dita, grossi e artigliali come quelli degli uccelli, e dalla loro profondità abbiamo stimato che il più alto di loro fosse pesante almeno il doppio di un uomo normale. Non avevano armi, all'apparenza, ma giurerei che siano creature pericolose.» «Hai domandato a quei cacciatori dove sono insediati questi esseri?» «Certo,» rispose Maani. «Sembra che i Ginn abbiano numerosi piccoli villaggi a sud est delle montagne. Ho domandato quali pericoli potremmo trovare se aggirassimo la catena montagnosa deviando a settentrione, come credo tu abbia intenzione di fare. I due uomini non conoscevano quella zona, però hanno detto che forse in quella direzione non ci sono tribù di Ginn. Non ne erano troppo sicuri.» Ombra di Lancia s'era fatta pensierosa. «Ho già sentito nominare questi Ginn, ma se devo dirti la verità credevo che fossero fantasie. C'era una miliziana, con noi, una cesta Alba Felice, che è stata imprigionata dagli uomini del Tiranno di Nedda cinque o sei anni fa. Fuggendo, si diresse per qualche tempo a settentrione, e quando fece ritorno in patria raccontava strane storie su uomini deformi e mostruosi che disse di aver incontrato.» «Mi stupisce che tu non l'abbia ancora interrogata!» esclamò Maani. «Se è come dici, quella ragazza conosce certamente la zona che stiamo attraversando!» «Ho parlato con lei una volta, in una taverna della Capitale. Però la po-
verina ne aveva passate troppe e non aveva più tanto il cervello a posto. Non ragionava chiaramente. Sentì, Maani, fai riposare le tue ragazze per un paio di giorni; mettile in marcia dietro al primo Squadrone di miliziane. E quando vedi Selanie dille di portarmi Alba Felice, questa sera. Le parlerò e sentiremo cosa può dirci.» Due clessidre prima del tramonta, le esploratrici tornarono a riunirsi alle salmerie e consigliarono Ombra di far mettere il campo su un piano un poco più avanti, rinunciando a sfruttare il rimanente periodo di luce diurna. Più oltre c'era una zona molto impervia, ed a sentir loro, il transito dei carri sarebbe diventato più che problematico. Quella notizia mise Ombra di pessimo umore. «Non mi è mai piaciuto far parte di una truppa di queste dimensioni,» commentò Goccia di Fiamma mentre cenavano. Accennò alla distesa di tende intorno a loro. «Siamo su un terreno troppo aperto, e abbiamo decine di falò e centinaia di torce accese. Con l'aria così chiara, da venti leghe di distanza il nostro campo sembrerà una stella posata sulla terra. E questi Ginn sono creature notturne.» «Chi sono i Ginn?» domandò Tangri, sbattendo le palpebre. La rossa si portò le mani dietro alle orecchie e le agitò, digrignando ferocemente i denti. «Aaargh!» ruggì «Mostri pelosi tutti bianchi, con denti lunghi così e artigli di tigre. Possono mangiare un cavallo come tu inghiotti un dattero!» Tangri ansimò, impressionata, e Goccia rise. Ombra di Lancia fissò la compagna con irritazione.«Vedo che le notizie volano. Scommetto che Aquila di Guerra mi chiederà di raddoppiare le sentinelle, stanotte.» «Non sarebbe un'idea sbagliata, tesoro mio,» intervenne Maani, che era sbucata giusto allora fra due tende, con un paio di colleghe. «E se fossi in te farei spegnere tutti i fuochi.» «Sedetevi.» brontolò Ombra. «E smettetela di guardarvi intorno in questo modo. Le torce resteranno accese fino all'alba, e così i fuochi. Per la Dea. siamo in duemila! E voglio che tutti quelli che possono esserci ostili se ne accorgano. Da quanto mi hai detto tu. Maani, penso che non ci sia alcun motivo di curarsi troppo di questi Ginn. Li ignoreremo, e loro ignoreranno noi.» «E cosa te lo fa pensare, di grazia?» Callia, la giovane Sacerdotessa, arrivò con una giara di birra ed una dozzina di ciotole, che distribuì attorno. Come per magia comparvero subito alcune ufficialesse e le altre Comandanti di Squadrone, che si accomoda-
rono sull'erba e chiesero da bere a voce alta. Vennero anche Aquila di Guerra e Dunia, quest'ultima mascherata da una fasciatura vistosa che le nascondeva quasi mezza faccia, ed una volta tanto le due amazzoni furono accolte allegramente, dato che portavano con sé una grossa teglia colma di sformato di castagne. Le ragazze della Cavalleria tornate assieme a Maani avevano fatto circolare la voce riguardo alla presenza di esseri umani e pericolosi, ma nell'accampamento la cosa era commentata senza molta preoccupazione. Come Ombra sapeva bene, anzi, le miliziane avevano voglia di battersi. «Poco fa,» riprese a parlare la bruna, appena tutte ebbero la loro ciotola di birra in mano, «ho parlato con Alba Felice, una ragazza che ha avuto occasione di conoscere personalmente uno di questi Ginn. Come forse alcune di voi sanno, la poveretta ha il cervello di una bambina di dieci anni, però è una forte spadaccina e quando ha un'arma in mano sa farsi temere. Una volta, Alba Felice era normalissima di mente, ma sei anni fa le accadde di essere catturata in una scaramuccia al confine fra Mitanni e la Terra di Nedda. Il Tiranno, Kandelak, la fece torturare ferocemente dal suo boia, com'era solito fare. Dalla tortura il fisico della ragazza uscì ancora sano, ma non così la sua mente, che da quel tempo è rimasta confusa. Creduta pazza, fu lasciata a morire di fame in una zona del settentrione di Nedda, e lì ella visse per diversi mesi cibandosi di insetti e di radici. Poi si diresse verso nord, nel tentativo di fare ritorno in patria, senza capire che stava andando in direzione del tutto opposta.» Ombra fece una pausa per bere, poi continuò: «Dopo un certo tempo, forse qualche giorno o forse un mese, lei stessa non lo sa ricordare, il cervello le si schiarì un poco e di accorse di avere una spada agganciata alla cintura ed un vestito nuovo. Crede di aver rubato la roba in qualche accampamento di nomadi; comunque non seppe mai come se la fosse procurata. Fatto sta che si accorse di essere fuori strada e capì che doveva tornare a sud. Io credo di aver capito che si trovava allora in una zona situata ad un centinaio di leghe a oriente della nostra attuale posizione, visto che dice di aver notato queste montagne, da lontano. E fu là che si trovò davanti uno di questi esseri. Non è stata capace di descrivermelo bene, ma è certa che fosse grosso quasi il doppio di un uomo e bianco di pelle. Era armato di una clava, o di un ramo d'albero, e la assalì dopo averla seguita per circa mezza giornata.» «E se l'è cavata» disse Goccia, con un sorriso incredulo. «Evidentemente sì, poiché è ancora viva. Alba Felice ricorda di aver lot-
tato accanitamente, e di esser stata ferita da una bastonata, e da questo Ginn ha riferito inoltre che grugniva come un animale feroce. Le ho domandato se riuscì ad ucciderlo, o se fu invece fuggendo che poté mettersi in salvo, ma non lo sa. Sembra che dalla sua mente gli avvenimenti appena un pò drammatici tendano a scomparire, mentre vi rimangono impresse solo le cose di poco conto. Ciò malgrado, io tendo a credere che lo abbia ucciso a colpi di spada. Allibel, la caposquadra di Alba Felice, è venuta insieme a lei. Mi ha confermato che la ragazza ha dei vuoti nella testa, ma è fidatissima e quando si batte fa spavento; anche lei pensa che Alba si sia difesa con estrema energia ed abbia usato la spada in modo micidiale. Così, dopotutto, non vedo motivo per considerare questi selvaggi diversamente da altri barbari. C'è il fatto che essi costruirono villaggi, e ciò significa che non sono come animali e quindi possono rendersi conto del pericolo che correrebbero avvicinando un grosso contingente di miliziane in marcia. Sono pronta a scommettere che verso i nemici agguerriti si comportano come i gatti con la pioggia: se non puoi eliminarla, lasciala cadere e fai finta che non esista neppure.» «Sei ottimista,» la rimproverò Hay Varena. «Sono realista. Tuttavia credo sia saggio raddoppiare la sorveglianza notturna intorno al campo, dopotutto. Com'è usanza caratteristica dei selvaggi disorganizzati e feroci, i Ginn potrebbero esser tentati di dimostrare il loro valore singolo compiendo azioni suicide contro un avversario forte, tanto per farsi belli coi compagni. È possibile che piccoli gruppi isolati ci attacchino, sia nottetempo che di giorno. Escludo azioni in grande stile tese a nuocerci. Ciò che mi preoccupa ora è ben altro.» «Dobbiamo scovare i villaggi dei Ginn e distruggerli!» esclamò Aquila di Guerra. «Che conoscano le amazzoni, quei bastardi! Che imparino a rispettarci, per la Dea! Dammi il comando di uno Squadrone, e io li leverò dalla nostra strada!» La bionda fu subito zittita da diverse colleghe, ed a rimbeccarla furono in special modo le Comandanti di Squadrone, che si irritarono al sentire espresse in modo così sfacciato le sue ambizioni. Altre replicarono pacatamente che non si trovavano lì per dare lezioni ai Ginn, e che i rifornimenti erano calcolati per una campagna bellica piuttosto breve. Con sorpresa di tutte, Ombra di Lancia considerò invece quella proposta tracotante con molta serietà. «L'idea di installare nei Ginn un forte rispetto per noi amazzoni, o addirittura di sterminare la popolazione, non è campata in aria come può sem-
brare, e nemmeno troppo crudele. Vi è da considerare il fatto che, una volta condotta a buon termine l'operazione contro gli assedianti di Mohenjdar, certamente dovremo intrattenere relazioni e commercio con la città di Tangri; questi contatti avverranno facendo uso della strada che stiamo ora percorrendo, che come sapete viene segnata con paletti. Abbiamo anche costruito già due ponti, e intendo quando sarà necessario farne altri. Comunque, non credo che toccherà a noi rendere sicuro questo percorso.» «E a chi altri, allora?» esclamò Aquila. «Bisogna unire una certa utilità economica alle imprese belliche, e Theba non vedrebbe di buon occhio che un esercito fosse distaccato qui per chissà quanti mesi. Questa terra non ci serve affatto. Però... bene, potrebbe interessare a Bal Kadur. Il Re di Mitanni ha dei problemi di sovrappopolazione; considererà molto favorevolmente l'idea di mandare dei coloni nei tratti di terre coltivabili che abbiamo visto più ad est, ed insieme ad essi dovrà ovviamente spedire un contingente armato. Sarà lui ad occuparsi dei Ginn e dei nomadi. A questo scopo, quando torneremo indietro farò cartografare la zona a oriente delle montagne e cercherò di avere informazioni sulla dislocazione dei villaggi Ginn.» «Di quale altra preoccupazione stavi parlando, Ombra?» volle sapere Rhylla. «Ti riferivi al rapporto delle esploratrici?» «Proprio così, cara. Sono certa che voi tutte avete già considerato l'eventualità di dover abbandonare i carri, se il percorso si facesse impraticabile. A quanto pare, ci troviamo di fronte ad un terreno inadatto ai veicoli, e domani si dovrà decidere cosa fare. Intendo perciò fare un giorno di sosta in questo campo, e mandare un paio di squadre avanti per venticinque o trenta leghe. Al loro ritorno sapremo cosa ci aspetta.» «Questo vuol dire fare a meno della Cavalleria!» strillò Aquila di Guerra. «Senza i carri, dovremo usare tutti i cavalli che abbiamo per portare il carico e le provviste. È un suicidio, e protesto contro questa tattica!» Siccome Ombra taceva, fu Ilsabet che rispose per lei: «Caruccia, come si vede che hai fatto poca pratica! Non ti è mai capitato di pensare che, così come i cavalli possono esser caricati; non è difficile toglier loro il carico all'occorrenza? È chiaro che sarebbero allora le miliziane dell'Esercito ad aprire la marcia, con pattuglie avanzate e fiancheggiataci. In caso di attacco, il loro intervento darebbe tempo alla Cavalleria di rimettersi in sella.» «Ho seguito anch'io lezioni di strategia!» ringhiò la bionda acremente. «Posso benissimo fare a meno di sentirmele ripetere da una semplice Comandante di Squadrone. Bada a stare al tuo posto, tu!»
«Che accidenti vuoi dire, razza di presuntuosa idiota?» scattò Ilsabet. «Per caso non crederai di essermi superiore, solo perché la sorella della Regina ha fatto l'errore di metterti al mondo!» «Osi insultarmi, cagna? Io sono la nipote della Regina Theba, e tu sei una zollona figlia di una mangiamerda di contadina! Posso insegnarti a rispettarmi anche subito!» Esclamò Aquila. Le due amazzoni balzarono in piedi, mettendo mano alle spade, ma Ombra di Lancia e le altre si affrettarono a farsi avanti per separarle, e le costrinsero a rinfoderare le armi. Intervennero alcune Sacerdotesse, ed Aquila di Guerra e Ilsabet furono indotte ad allontanarsi verso le rispettive tende. Goccia di Fiamma ridacchiava, confabulando sottovoce con Tangri, e quando Ombra tornò a sederlesi accanto le diede di gomito. «Perché non hai lasciato che duellassero? A questo modo ci toglievamo di torno Aquila definitivamente. Sono anni che Ilsabet cerca una scusa buona per battersi con lei, e di certo la ucciderebbe. Ancora non ha dimenticato lo scherzo che Aquila combinò alle Gare Annuali di quattro anni fa.» «E poi a Theba lo vai a riferire tu? È pur sempre del suo sangue, e avrai visto com'era contenta quando Aquila ha chiesto di venire con noi. Spera sempre che diventi una persona seria. Mi ha raccomandato di non irritarla e di non sminuirla davanti alle altre, perché sa che le ufficialesse la detestano. Vuole che diventi una vera amazzone.» «So perché lo fa, sorellina, e il motivo non mi garba affatto. Theba ha la disgrazia di avere una figlia a cui piace troppo combattere, e si domanda cosa accadrebbe se Shalla restasse uccisa. Già si è presa due brutte ferite, tre anni fa, ricordi? Ma bisognerà che qualcuno chiarisca le idee a Theba, in proposito; le sue speranze di trasformare Aquila in una possibile Regina sono assurde. Ci sarebbe una guerra civile, se quella provasse a sedersi sul trono.» «Dicono che Aristea la Selvaggia fosse pazza quanto lei,» mormorò pensosamente Ombra. «E tuttavia fu una buona Regina.» «Sacrosante balle!» sbottò Goccia. «Mia zia Hallimar diceva sempre che Aristea fu un'ottima Regina durante la guerra contro le Teste Nere, ma in tempo di pace era un disastro. Inoltre non posso fare a meno di chiedermi se non fu proprio lei ad esasperare i Sumerici, fino a provocare il loro attacco. E la sua reazione fu certo vittoriosa, ma estremamente idiota. Guarda come si è evoluta oggi la situazione: i Sumerici e gli Akkadi non hanno ancora dimenticato la ferocia con cui essa devastò le loro terre, a mezzo
secolo di distanza, e ultimamente si sono di nuovo alleati. Dimmi la verità, Ombra: al posto di Aristea tu ti saresti comportata con la stessa irragionevole spietatezza? I vecchi contadini sumerici, talvolta li hai uditi parlare tu stessa, allevano i loro figli abituandoli all'idea che noi siamo dei mostri perversi. Forse verrà il momento che dovremo pagare assai cara la pazzia di quella Regina. No, prima di vedere sul trono una seconda Aristea io sarei disposta a fare una sciocchezza!» Ombra fu costretta a ridere. «Ti capisco. Ma non lasciarti vincere dall'emotività. In guerra, più che la Regina è lo Stato Maggiore che conta, e attualmente siamo tutte ragazze ancora giovani, ad eccezione di Minna e di Nube; Aquila non potrebbe disfarsi di noi. Ed in tempo di pace, credo che la sua mentalità non nuocerebbe più che tanto alla nazione. Del resto, Aquila è ambiziosa e scriteriata, ma ha intelligenza sufficiente per apprezzare le situazioni così come stanno, finché funzionano bene.» «Mia cara, sei un'illusa,» disse Goccia di Fiamma. «Per una ragione che ancora non capisco bene, Aquila di Guerra non ha paura di nessun'altra donna all'infuori di te, e in tua presenza si comporta passabilmente bene. Ma te le fa alle spalle, e se la vedessi come agisce quando tu non ci sei, parleresti in modo diverso.» «Sciocchezze. Del resto io credo che combattere le giovi, e nel mandarla con noi Theba ha agito giustamente. Tu cerca di non provocarla, sorellina. D'accordo?» «E come potrei, se durante il giorno io sto da una parte e lei dall'altra?» La bruna le strizzò l'occhio. «Anche ad Hay Varena e ad Ilsabet lascio poche occasioni di trovarsi in stretto contatto, se l'hai notato. Via, andiamo a letto adesso, che la nostra Tangri sta sbadigliando. Domani approfitteremo della sosta per fare il bucato, se riusciremo a scendere fino al torrente.» CAPITOLO SESTO Il momento del risveglio era per Goccia di Fiamma una specie di travaglio in miniatura. Prima di tutto c'erano numerose sensazioni spiacevoli da vagliare, come il sapore che aveva in bocca, le palpebre appiccicate, un dolore che le correva lungo un braccio e l'allarmante sensazione che il mondo pendesse tutto da una parte. A volte si destava col mal di capo, o col raffreddore. Per convincersi che non era malata impiegava solitamente non meno di due o tre minuti, durante i quali faceva smorfie e si contorceva, finché grado per grado il cervello le si schiariva ed in un certo senso
partoriva se stessa anche per quel giorno. Destarsi sotto una tenda della milizia aveva, a suo avviso, due principali aspetti negativi; il primo era che sotto di lei non c'era una branda, ma solo il terreno duro e una copertaccia, dentro la quale aveva dormito vestita; il secondo, che fuori da lì l'attendeva la vista di centinaia di facce non meno stordite ed immusonite della sua. Se c'era acqua con cui lavarsi, si faceva la coda davanti all'unico posto in cui era possibile avvicinarsi al ruscello senza sprofondare nel fango; poi ci si metteva un'altra volta in coda per vedersi sbattere in mano qualcosa da mangiare dalle ingrugnite miliziane addette alle salmerie. Quando pioveva, e le ragazze proprio non se la sentivano di darsi il buongiorno a vicenda con le battute di rito, oppure quando c'era la possibilità d'incappare in qualche contingente nemico, non mancava mai un'ufficialessa vestita di tutto punto che percorreva la fila delle amazzoni appena alzate con aria energica ed efficiente, emettendo ogni due secondi odiosi suoni stridenti che le più sveglie interpretavano come ordini, esortazioni, insulti, commenti salaci, minacce ed ancora ordini. Sentendo un vocio confuso fuori della tenda, Goccia di Fiamma poté rendersi conto che le attività dell'accampamento erano già iniziate, e si girò per svegliare Ombra di Lancia. Il fatto che nessuna fosse ancora comparsa per tirarla in piedi, pensò era uno sollievo, e lo si doveva soltanto alla presenza della compagna. Ombra era forse l'unica Comandante che non si precipitasse al posto di guardia centrale subito dopo il suono del corno mattutino, e siccome nessuna caposquadra osava ficcare la testa nella tenda, capitava spesso che fosse l'ultima di tutto il campo ad uscire. La scosse leggermente, allungando un braccio sopra la testa di Tangri che era distesa fra loro due, e la bruna aprì gli occhi con un mugolio. Goccia si alzò e andò all'esterno, sbadigliando. L'aria era tersa, e faceva un pò freddo. Adesso rammentava che trovare dell'acqua per lavarsi sarebbe stato un problema, perché l'unico torrente della zona scorreva in fondo ad un ripido canalone ed era inavvicinabile. Attese la comparsa di Ombra e insieme a lei si avviò in direzione dei carri da trasporto. Chioma d'Albero, una Sacerdotessa piccolina e ciarliera, era occupata a distribuire la solita galletta ed un bicchiere di birra alle ultime ragazze della Cavalleria. Quasi tutte quelle dell'Esercito erano già fuori del campo a fare qualche lavoro, e si poteva star certi che le ufficialesse riuscivano a trovare sempre una quantità di compiti da assegnare anche in una giornata che si prospettava di tutto riposo, anzi, specialmente in quell'occasione.
In silenzio le due ragazze si accodarono alle miliziane ed ebbero la loro stessa razione di cibo. Goccia sapeva che avrebbe dovuto raggiungere subito le colleghe, parte delle quali stavano di certo occupandosi già dei cavalli, e come caposquadra avrebbe di certo ricevuto da Brezza dell'Est qualche ordine da eseguire. Ma poiché nessuna ufficialessa era ancora apparsa per portarsi via Ombra, sedette accanto a lei su di un sasso, e cominciò a sbocconcellare la galletta. «Sembra che ci siano dei pastori, dietro quella collina,» disse, indicando un filo di fumo che saliva nel cielo chiarissimo. «Lo so,» borbottò Ombra.«Mi fa piacere che non si siano allontanati. Ieri sera hanno visto che siamo qui. Devono essere gente meno intrattabile degli altri.» «Magari chiedo a Brezza di mandarmi da loro. Che ne pensi? Scommetto che hanno una quantità di formaggio e di carne fresca. Qualche provvista in più potrebbe faci comodo.» «Va bene,» annuì Ombra. «Prova pure. Cerca di avere informazioni su questa terra, sui Ginn, e chiedi se si può viaggiare verso settentrione senza difficoltà. Mostrati amichevole... anzi, manda avanti qualcuna delle ragazze più attraenti. Informati anche sulla vegetazione; voglio sapere se ce n'è di velenosa o di mangereccia, per noi e i cavalli. Se sfruttiamo quest'occasione a dovere, avremo di che guadagnarci.» «Pensi a farteli alleati?» «E che non mi piace l'idea di abbandonare i carri alle ortiche, se dovessimo continuare su un terreno impervio. Cerca di portare qui il loro capo, Goccia; si può trovare con loro un accordo di qualche genere. O venderglieli tutti in cambio di qualche dozzina di capre, oppure farglieli tenere in custodia fino al nostro ritorno. Non mi interessa particolarmente avere del cibo; è probabile che non ne abbiano a sufficienza neppure per loro stessi.» Con la prospettiva di avvicinare degli indigeni sconosciuti, in luogo sconosciuto, Goccia si sentì meglio disposta ad affrontare la giornata. Curiosa ed inquieta com'era, qualsiasi novità aveva il potere di stuzzicarla. Le due ragazze tornarono alla tenda, e qui si accorsero che Tangri era già uscita. Dopo essersi agganciate le armi alla cintura uscirono di nuovo, e da una miliziana seppero che la fanciulla s'era avviata verso il torrente. «Se è andata da quella parte è inutile che la seguiamo,» disse Goccia. «Per più di mezza lega a monte e a valle la parete del canalone cade a picco. Fare un pò di bucato sarà difficile, oggi. Magari me la porto fino al
campo dei pastori.» Ombra stava per rispondere, quando dalla direzione del torrente montano si udì venire un grido straziante. Goccia di Fiamma trasalì, facendo quasi un salto; poi si voltò e corse fuori dall'accampamento, estraendo il pugnale. «Tangri!» chiamò. «Tangri... dove sei?» Non ebbe risposta. Con Ombra di Lancia alle calcagna, l'amazzone saltò cespugli e piccoli macigni, allontanandosi dalle tende, finché nell'attraversare uno spiazzo terroso vide poco lontano Aquila di Guerra che agitava le braccia verso di loro, stravolta. Accanto alla bionda c'era Dunia, mezza spogliata, la quale si teneva aggrappata ad un arbusto e guardava in basso. Le due erano proprio sul ciglio dello strapiombo in fondo al quale scorreva il corso d'acqua. Tangri non si vedeva da nessuna parte. «È caduta! ...» stava dicendo Aquila. «Oh, Dea! Quella poverina...» Ombra la afferrò per il petto, scuotendola come un fuscello. «Cos'è successo? Dov'è Tangri?» «Una disgrazia! Oh, che cosa terribile. È caduta... laggiù!» si lamentò l'altra. «Non abbiamo fatto in tempo a... l'ho vista scivolare, e poi è scomparsa!» Goccia di Fiamma aveva già scostato Dunia ed era scesa di due o tre passi su un pericolosissimo tratto di terreno fortemente inclinato, privo di ogni appiglio. Piantò il pugnale nel suolo fino all'elsa, come unico punto di appoggio, e si sporse per quanto poté: davanti a lei si spalancava un abisso roccioso profondo oltre cento piedi, sul fondo del quale un impetuoso torrente dalle acque grigie e fredde scendeva dalle montagne in una continua serie di vorticose rapide. Se Tangri era precipitata nel vuoto, il suo era stato un solo terrificante volo verso le rocce che emergevano dalla corrente. Dalla bocca dell'amazzone uscì un gemito d'orrore e di pena, mentre le membra le si congelavano in quella posizione. Era poi sul punto di voltarsi, allorché una massa in movimento le passò accanto, scivolando ripidissima verso il baratro.» «Ombra!» urlò, sbigottita. Da quel momento in poi, gli avvenimenti divennero così confusi e indistinti, che nei giorni successivi Goccia di Fiamma non riuscì mai a pensare ad essi se non come a una serie di immagini sfocate, irreali, de) tutto prive di particolari. Sapeva solo di aver proteso entrambe le braccia per arrestare l'amica nella sua caduta, ed in quel gesto aveva condannato anche se stessa, perché in un batter di ciglia lo strappo l'aveva trascinata oltre il corni-
cione terroso, e sotto di lei c'era stato solo il vuoto. Durante la caduta parte del vestito di Ombra di Lancia le era rimasto fra le mani. Non ricordò mai se aveva gridato o meno, però dalla bocca le era uscito una specie di singhiozzo quando s'era sentita flagellare le gambe da un albero che cresceva a metà parete dei precipizio, con le radici affondate nelle crepe rocciose ed i rami protesi all'infuori. Il corpo di Ombra era stato fermato del tutto dall'impatto con quella massa verde, e qualche attimo più tardi Goccia di Fiamma era arrivata sul fondo. Il fatto d'esser viva, quando poté rendersene conto, non la stupì né la sollevò in alcun modo, perché un dolore accecante le toglieva ogni altro sentimento. La ragazza sapeva di essere finita in acqua, giusto nello spazio fra due macigni grigi, e la presenza di una profonda pozza esattamente in quel punto era la cosa più vicina ad un miracolo che mai fosse capitata. Malgrado questo, la sua fortuna non era certo assoluta, perché da una gamba e da un braccio le saliva fino al cervello una sofferenza indicibile. La corrente era violenta, e per qualche momento dovette lottare disperatamente per restare a galla. Annaspò e gemette, poi gli occhi le si fecero vacui e svenne. Fu un colpo alla nuca a farla risalire dal buio che le era piombato addosso, ed allargando le braccia sentì sotto di sé la scabra superficie di un masso piatto scivolare via veloce Rotolò lungo una cascatella, e la forza del torrente la investì in pieno, la gettò avanti contro un spunzone granitico. Sputò l'acqua che aveva inghiottito, tossendo penosamente, e con uno sforzo riuscì ad artigliare le mani alla roccia gelida. In quel momento vide Ombra, molto più indietro. La compagna non era finita nel torrente: dopo aver stroncato alcuni rami dell'albero che avevano arrestato la sua caduta, adesso penzolava sotto di esso tenendosi con entrambe le mani al ramo più grosso. La testa di lei era rovesciata all'indietro, quasi che fosse del tutto stordita, ed il vestito le si era stracciato da cima a fondo lungo la schiena. Mentre Goccia la fissava, il ramo si inclinò lentamente e poi si spezzò di netto alla sua intersezione col tronco. La ragazza bruna scomparve in basso senza un grido, dopo che anche l'ultimo suo tentativo di aggrapparsi alla vita era fallito. Goccia di Fiamma fu trascinata sott'acqua da un gorgo e batté il viso contro lo scoglio, incapace di reggersi ancora e del tutto priva di forze. Per un poco la corrente la trasportò a valle, facendole seguire un percorso sinuoso fra i macigni dove si rompeva sollevando alti spruzzi, ed ella sentì il fondale urtarle più volte le gambe. Poi si trovò di nuovo ferma. Gli spasmi al braccio sinistro ed al ginocchio destro erano ora calati d'intensità, certo a
causa del freddo che la intorpidiva, e stavolta poté tenersi puntellata contro un grosso sasso liscio. Più avanti c'era un'altra rapida, lunga forse un quarto di lega e bianca di spuma. Dappertutto spuntavano rocce simili a zanne acuminate, e la parete a picco del canalone chiudeva la scena da ogni lato. La ragazza cedette allo stordimento, i sensi la abbandonarono, e venne schiacciata contro il macigno dalla forza del torrente; ma qualcosa di atavico dentro di lei lottava ancora contro la morte, debolmente, a livello appena animalesco; la sua testa rimase fuori dall'acqua e riuscì a non affogare neppure durante quella seconda ondata di nulla. Quando riaprì gli occhi credette di essere in delirio, perché vide una massa fronzuta passarle accanto velocemente e distesa su di essa una forma umana che aveva a malapena un braccio ed il volto fuori dall'acqua: era Ombra di Lancia, ancora avvinghiata al suo grosso ramo, e sembrava morta o svenuta. Goccia lasciò la presa e si gettò dietro di lei cercando di nuotare; ma la corrente giocava col suo corpo come se fosse una pagliuzza. Ombra si trovava ad una ventina di metri di distanza verso la valle, e più oltre c'erano le rapide; doveva raggiungerla prima che quel suo provvisorio salvagente si rivelasse insufficiente a tenerla a galla. Ce la fece, grazie ad un capriccio delle acque turbinanti che travolsero sia lei che la compagna in un improvviso girotondo, presso la sponda di destra, ma non poté far altro che aggrapparsi anch'essa al ramo quando i loro corpi furono rigettati in mezzo ai vortici. «Ombra! ...» la chiamò in un rantolo. «Ombra...» L'altra non le rispose. Senza capire bene se fosse ancora viva, Goccia la afferrò e la tenne saldamente ferma contro il ramo, accertandosi che almeno la testa di lei restasse a galla. Poi ci fu l'inferno di schizzi ed urti squassanti della rapida, che le sembrò durare un'eternità. Più a valle del tratto in discesa, il torrente correva con grande rapidità ma senza gorghi, e le due amazzoni ne furono trasportate come foglie secche, a lungo, interminabilmente. Molto più in alto, in cima ai dirupi, non si vedeva anima viva. Se le loro compagne si stavano dando da fare per soccorrerle, esse erano certe molto distanti da lì, lasciate indietro dalla velocità dell'impetuoso corso d'acqua. Goccia di Fiamma aveva recuperato la lucidità, ma non le forze. Sapeva adesso d'esser stata fortunata, molto fortunata anche se un braccio ed una gamba non le rispondevano più. Ignorava le condizioni fisiche della compagna, tuttavia la vedeva respirare faticosamente e questa era pur sempre una speranza divenuta realtà. Se avesse potuto raggiungere la riva prima di
cedere al torpore ed alla debolezza, pensò, forse quel bruttissimo incidente sarebbe stato ancora superabile. Voler farlo e riuscirci erano però due cose assai diverse, visto che le sembrava d'essere ormai all'estremo. Perfino lo sforzo di tenere la bocca fuori dall'acqua cominciava a diventare troppo duro, e intorno a sé non vedeva che pareti a picco. In un lampo da incubo la sua mente si soffermò sul destino toccato a Tangri, ed ella immaginò il povero corpo martoriato di lei in balia dei flutti. Sapeva che se le fosse capitato di ritrovarlo, più avanti, non avrebbe potuto sopportare quella vista. Si augurò che la disgraziata fanciulla fosse morta in un attimo, senza soffrire, e cercò di pensare il meno possibile. «Ohi!... Ooooh!» gemette Ombra. «Non ti muovere. Stai ferma!» disse lei, con voce rauca. La ragazza bruna probabilmente non la udì nemmeno, e Goccia seguitò a tenerla a galla. Senza quel tronco, irto di rami e foglie, sia lei che la compagna sarebbero state condannate a morte, ed ella ringraziò la Dea di averlo dato loro come malsicuro ma provvidenziale appoggio. A metà della mattinata erano entrambe ancora vive, ed il torrente scorreva ora fra due rive piuttosto basse, oltre le quali c'era una fittissima vegetazione cespugliosa. Goccia di Fiamma fece lo sforzo di ignorare il dolore e mise insieme le forze residue per agitarsi e scalciare, ottenendo a poco a poco lo scopo di avvicinarsi alla sponda sinistra. Sarebbe stata migliore la destra, che era più libera dai cespugli e meno ripida, ma ella non ebbe la lucidità sufficiente per considerare quel semplice fatto. Quando toccò il fondale scoprì che era terroso, molle, ed alzando il capo vide sopra di sé un intreccio di rami e rovi spinosi. Per trascinare Ombra all'asciutto ella fu costretta ad afferrarla sotto le ascelle ed a procedere camminando all'indietro, prima su per una salitella e poi sfondando le frasche con la schiena. Alfine poté deporla fra i cespugli, in un tratto di terreno orizzontale, e quasi le cadde addosso per la gran sfinitezza. Dopo un pò di tempo si riprese a sufficienza per portarla in una zona sgombra; le si distese accanto e giacque lì fino a metà del pomeriggio, infreddolita e più dolorante che mai. Si risvegliò con un gemito. In passato aveva già sperimentato il dolore delle ferite gravi, per due volte, e non lo temeva quanto l'insieme del malessere fisico che ne era l'invitabile accompagnamento. Le era successo di cadere da cavallo e di restare parecchi giorni incapace di muoversi dal giaciglio su cui le sue compagne l'avevano deposta, durante una scorreria al confine col Diaconato di Coralyne, ed in quell'occasione era quasi certa
d'essersi fratturato l'osso di una gamba sotto il ginocchio. L'anno successivo si era presa una brutta ferita di sciabola al fianco sinistro, ed era stata salvata abilmente dalla Sacerdotessa al seguito dello Squadrone, che le aveva cucito lo squarcio curandolo poi con una muffa estratta dai funghi. Entrambe le volte il dolore puro e semplice non le aveva dato fastidio quanto la spossatezza e la debolezza, identiche a quelle che provava adesso. Si tastò cautamente il braccio sinistro e lo sentì gonfio; sotto il gomito era diventato tutto livido e nero fino al polso. Nella gamba destra aveva invece un taglio lungo e profondo, ed il sangue le era colato fino al piede. Fu mentre se lo toccava che scoprì d'essere stata fasciata rozzamente, e vide anche che Ombra di Lancia non era più accanto a lei. La chiamò, scoprendo in quel modo che la voce le usciva di bocca come un filo esile, ma ringraziò tutti gli dei che conosceva allorché l'altra le rispose subito. Ombra comparve risalendo il breve pendio della sponda; si era lavata nel torrente, ed era completamente nuda. A giudicare da come procedeva, tutta china in avanti e faticosamente, Goccia capì che anche lei era ridotta male. La compagna si piegò su di lei e le accarezzò il viso affettuosamente, ansimando, quindi le si distese al fianco sul terreno brullo. Nessuna di loro parlò, ma rimasero abbracciate finché non furono costrette a girarsi entrambe supine per la mancanza di energia. Verso sera Ombra di Lancia accese un fuoco, senza troppe difficoltà, e costruì un rustico riparo di rami e frasche nel folto dei cespugli; se non si fosse messo a piovere, almeno il vento non le avrebbe infastidite. Poi mise insieme un grosso mucchio di aghi di pino da usarsi come giaciglio e coperta. La bruna era graffiata dappertutto e presentava una vasta ecchimosi sulla nuca, dove le era venuta via una manciata di capelli; a parte un indolenzimento generale era però sana. Dal canto suo Goccia di Fiamma era riuscita appena a stare in piedi per qualche momento, appoggiandosi a lei. Se le loro compagne non le avessero ritrovate, era chiaro che non avrebbero potuto muoversi da lì per almeno un paio di giorni, o così calcolarono. Ne trascorsero invece sei, prima che Goccia dichiarasse che se la sentiva di mettersi in cammino. «Sono uno spettacolo tanto comico?» brontolò, irritata dalla espressione con cui Ombra osservava i suoi tentativi. «Vorrei vedere te, a camminare con una gruccia così corta. E con un braccio al collo. Non potevi tagliarla più lunga, maledizione?» «Speravo che sarebbe andata bene, tesoro. E quello era l'unico ramo.»
replicò l'altra. «Porta pazienza; la prossima volta che ti ferirai a una gamba farò di meglio.» Goccia di Fiamma provò a fare qualche passo avanti e indietro, poi sbuffò. «Dovrai sostenermi tu, da qui a Mohenjdar. Bell'affare! E ti toccherà anche procurarmi da mangiare per tutta la strada.» «Fra qualche giorno potrai correre; l'osso della gamba è sano. Il vero guaio è che siamo disarmate. Ti ricordi cosa faceva quella sciocca di Cleonte, quando ci insegnava come agganciarsi le armi addosso? A sentir lei, grazie alla cintura di ordinanza era impossibile perdere sia la spada che il pugnale: evidentemente non aveva mai provato a precipitare per cento piedi, e poi a farsi trascinare da un torrente per dieci o quindici leghe!» L'amazzone bruna era spettinata, e s'era accorciata il vestito usandone il bordo inferiore per fare lacci, con i quali aveva rimediato una cucitura lungo lo strappo che glielo aveva diviso in due parti nette. Anche Goccia aveva dovuto usare una parte dell'uniforme per farne bende, ma i loro robusti stivaletti erano ancora in perfetto stato. In quei giorni Ombra s'era costruita un rudimentale arco ed una lancia di legno dalla punta ben aguzza, riuscendo ad uccidere tre galli selvatici ed una specie di lontra irsuta assai combattiva. Le due ragazze erano rimaste nascoste, ed ogni volta che Ombra aveva dovuto accendere il fuoco s'era accertata che nelle vicinanze non vi fossero cacciatori o pastori nomadi. Nell'esplorare la zona si era preoccupata fra l'altro di trovare una pista o un percorso adatto ad essere sfruttato per tirarsi dietro lungo di esso eventuali inseguitori. Con Goccia di Fiamma inchiodata lì, sapeva che non avrebbe potuto limitarsi a fuggire, e perciò aveva studiato il modo di tendere un agguato efficace a chi le si fosse messo alle costole. Tanto lei che la rossa compagna erano abituate a vivere in luoghi selvaggi e pericolosi, conoscevano tutte le tecniche di sopravvivenza ed avrebbero saputo cavarsela anche dove una capra delle rocce sarebbe morta di fame. Inoltre, chi le avesse assalite avrebbe scoperto d'essere incappato in una preda tutt'altro che innocua: con un semplice bastone in mano, un'amazzone ben addestrata era in grado di tener testa a due uomini armati di spada, e se disarmata o colta di sorpresa era pronta a sfruttare il fatto d'esser femmina senza la benché minima inibizione. «Bene, facciamoci questo bagno,» sospirò Goccia. Si riferiva alla necessità di guadare il torrente, per portarsi sulla pista tracciata dalla loro colonna ad ovest di quel luogo. Carica delle armi improvvisate e del rozzo cestello in cui aveva messo la
carne, Ombra di Lancia precedette l'amica fino ad una vasta polla d'acqua nella quale la corrente era meno turbinosa. La attraversarono a nuoto, dopo essersi spogliate, usando un paio di tronchi per tenere all'asciutto le loro cose. Più tardi, quando furono in cammino sul territorio percorso dalle miliziane diversi giorni addietro, Goccia tornò su un argomento che continuava a tenerle occupati i pensieri dal momento dell'incidente: «Sei certa che quella serpe non stesse sorridendo, quando ti sei voltata?» Ombra sbuffò. «Senti, tesoro, non serve a nulla tormentarsi con questo genere di sospetti. Io non posso dimostrare un bel niente, nemmeno a me stessa, e per esser franca mi sembra assurdo che Aquila abbia voluto fare una cosa simile. So soltanto che stavo scendendo verso di te, perché ti vedevo sui punto di scivolare. Mi sono girata bruscamente, con l'idea di aggrapparmi ad Aquila, e lei era già dietro di me con le braccia protese. Può essere che stesse cercando di aiutarmi, e comunque io stessa l'ho colta di sorpresa, e sono stata urtata in mezzo al petto. Non posso assolutamente affermare che volesse darmi uno spintone.» «Aquila non voleva darti una mano, ingenua che sei!» esclamò Goccia, irritata. «L'unico aiuto che voleva offrirti aveva lo scopo di farti finire più facilmente nell'aldilà. Ecco quello che stava per fare!» «Tu esageri. Aquila e Dunia erano lì per caso. Non potevano indovinare che tu ed io saremmo arrivate di corsa, prima di ogni altra, né tantomeno che ti saresti sporta sul precipizio in quel modo scriteriato. Gli avvenimenti l'hanno colta impreparata, e se insisti ad accusarla di premeditazione vuol dire che non vuoi usare il cervello. Nemmeno il Demonio stesso avrebbe saputo organizzare un tentativo di omicidio in quella maniera.» «Io non sto dicendo questo, Ombra. Soltanto, sono convinta che Aquila abbia visto una buona occasione per eliminarti e l'abbia afferrata all'istante. Se tu potessi rammentare l'espressione della sua faccia, quando ti ha spinto...» «Ma non ricordo niente. Ero confusa, un pò stordita. E poi cosa proverebbe l'espressione che aveva? Un bel nulla, mia cara. Dai retta a me: quando saremo riuscite a raggiungere le altre, guardati bene dal fare ad Aquila di Guerra qualsiasi accusa: a mio parere sarebbe impossibile provarla. Ti ripeto, io stessa non saprei dire se si fosse sporta con l'idea di offrirmi il suo sostegno o per darmi uno spintone. Perciò non parliamone più, va bene?» «Dunia però stava ghignando, quando siamo arrivate lì. Quella povera Tangri era appena caduta nel baratro... Oh, Dea! Darei non so cosa per
sapere cos'è successo!» Vedendo che Ombra non rispondeva, ella continuò: «C'è una cosa che vorrei aver guardato meglio...» «E sarebbe?» «La faccia di Dunia. Non aveva più quel bendaggio intorno alla testa, e giurerei... non posso esserne certa, ma mi sembra di aver notato che non aveva proprio nessuna ferita sul viso.» «Che sciocchezza!» esclamò Ombra. «Eri agitata, per forza non puoi ricordare particolari simili. E il fatto che si fosse tolta le bende si spiega benissimo: sia lei che Aquila erano andate a lavarsi, e stavano cercando un modo di scendere fino al torrente. S'era sfasciata il viso per darsi una lavata; mi sembra chiaro.» Goccia di Fiamma scosse il capo, camminando al suo fianco con caparbietà ma faticosamente. La zona in cui si trovavano non era né piatta né collinosa: praticamente priva di vegetazione era tutta un susseguirsi di montagnole ed avvallamenti. A Oriente e ad Occidente c'erano colline, e circa cinquanta leghe davanti a loro iniziava la catena di montagne sulle cui pendici di sinistra, presumibilmente, le loro colleghe stavano procedendo verso nord est. Nessuna delle due si illudeva di poter riprendere contatto con esse tanto presto, ed era già molto se fossero riuscite a tenere una velocità di marcia pari a quella delle miliziane. La loro sola possibilità di accorciare le distanze stava nello sfruttare più a lungo la durata del giorno, dormendo di meno e camminando di più. A mezzodì Ombra indicò uno dei grossi pali che aveva fatto conficcare nel terreno per segnare la pista. I solchi delle ruote dei carri erano ancora visibili, sebbene due giorni prima ci fosse stato un violento acquazzone, mentre le impronte dei piedi erano state del tutto cancellate. «Facciamo sosta qui,» stabilì la bruna. «Buttiamo giù un boccone. È inutile razionare la carne.» «Sono d'accordo, sorellina. Con un territorio così nudo davanti a noi, o troviamo qualche tribù di pastori o rinunciamo a proseguire.» L'osservazione della ragazza era perfino ottimistica, considerate le caratteristiche della zona intorno alle montagne, dove il paesaggio si faceva sempre più inospitale e deserto a mano a mano che l'altitudine aumentava. Affrontare quella terra ignota senza riserve d'acqua e di viveri significava rischiare la vita. Ombra tuttavia non si lasciò contagiare dal suo pessimismo. Lasciò a terra la lancia, l'arco con le quattro frecce ed il cestello con la carne. Mentre la compagna si sedeva sospirando, sollevò un sasso e le
mostrò la fossetta nel terreno sottostante. «Guarda: due vermi e una specie di grillo. Le cavallette ed i serpenti non mancano, e sono certa che anche più avanti troveremo bacche e insetti.» «Già. Mia zia Hallimar mi diede un'ottima ricetta per cucinare vermi e cavallette. Le venne in mente un giorno, quando un baco le cadde dentro lo stufato e lo ingoiò. Purtroppo però, occorre avere un piatto di stufato per ogni insetto che si mangia. In quanto all'acqua, anche senza una borraccia non è detto che sia impossibile portarsela dietro; il solo guaio è che alla fine ti stanchi di tenere le mani a coppa.» Ombra le fece segno di stare zitta; aveva l'aria accigliata e si guardava attorno con attenzione. Dopo un poco anche Goccia udì il rumore: sembravano grida e tonfi, in avvicinamento dalla parte sud. Le due amazzoni s'affrettarono a girare dietro ad alcuni piccoli macigni, l'unico riparo che vi fosse in quel luogo e si accovacciarono a terra. Qualcosa stava accadendo, oltre le gobbe sassose che si susseguivano in ogni direzione, ma era assai difficile diagnosticare la natura esatta basandosi su quei suoni confusi. «Guarda lassù!» La voce di Ombra era incrinata da una nota di stupore, mentre indicava il cielo. «Quelli sono Uomini Angelo!» Minuscole nell'azzurro c'erano infatti molte figurette volanti, inconfondibili a causa delle aderenti tute di tessuto argenteo e le grandi ali simili a quelle delle farfalle. Ombra commentò la loro presenza con un borbottio impensierito, ed osservò che si stavano spostando ad un'altitudine insolitamente ridotta. Ne comparvero altri, veloci ed abilissimi a sfruttare il lieve vento, ma i loro movimenti risultarono di difficile interpretazione alle due ragazze. Solitamente gli Uomini Angelo erano visibili in piccoli gruppi che si spostavano a quote elevate, e la più parte di essi viveva tenendosi quasi costantemente nei pressi del Fiume d'Argento, la larga e poderosa corrente a getto che scorreva a fortissima velocità da oriente a occidente, passando sulla costa nord di Afra a oltre diecimila piedi di altezza. Le due amazzoni avevano avuto occasione di conoscerne personalmente a decine, visto che sempre più spesso avevano preso gusto ad aggirarsi fra le bancarelle delle città principali, ed erano così al corrente di alcune delle loro usanze. L'attività di quegli Uomini Angelo, così riuniti in gran numero e tanto vicini al terreno, le rendeva ora perplesse. Ed ancor più, se si teneva conto che i rumori non identificabili provenivano invece dal livello del suolo. «Che mi colga un accidente se non stanno buttando giù delle pietre!» e-
sclamò Goccia. «È incredibile... bombardano qualcuno! Stento a capacitarmene: tutti gli Uomini Angelo con cui ho parlato non avevano neppure l'aggressività di un passerotto, e invece quelli stanno combattendo. In un modo anche abbastanza sleale, per di più!» «Così pare. Ognuno di loro ha con se una pietra o due. Osserva come sembrano balzare in alto, dopo che le hanno lasciate cadere: la forza magica delle loro ali li porta subito all'insù, appena il loro peso diminuisce. Davvero strano che siano diventati bellicosi; di solito non sono neppure irritabili, né vendicativi.» Le due ragazze non si mossero dal loro nascondiglio e restarono a guardare l'attività degli uomini volanti. Una pioggia di puntolini scuri cadeva dalie loro file, sopra un bersaglio che da lì non era visibile. Dopo un poco, avendo evidentemente esaurito le munizioni, molti di essi presero ad allontanarsi diretti verso le colline a nord est di quella zona. Ombra e Goccia udivano adesso un insieme di urla e grugniti che avevano ben poco di umano, quasi che a breve distanza da lì vi fosse una mandria di bufali in corsa. Non passò molto che, giusto lungo Sa pista segnata dalle miliziane, venne avanti l'avanguardia dei misteriosi nemici degli alati, e nel vedere di chi si trattava le ragazze si sentirono mozzare il fiato. Un gruppo di creature bipedi, bianchissime di pelle e di forma umanoide, era lanciato al galoppo fra le irregolarità gibbose del terreno. Scomparvero più avanti, ma dietro di essi ne arrivarono altri cinquanta o sessanta, emettendo strepiti e muggiti che rivelavano spavento ed ira bestiale. I maschi erano individui alti non meno di sette piedi, pesanti il doppio di un uomo massiccio e dotati di facce piatte, i cui lineamenti grezzi sembravano scolpiti nei granito. Le femmine, non meno nerborute ed; anch'esse nude, erano dotale di ventri obesi e pesanti mammelle oscillanti. Buona parte del baccano era causato dai piccoli, che correvano svelti fra le gambe nodose degli adulti evitando gli urti con singolare abilità. Il loro modo di procedere, pestando forte i piedi a terra e dimenando il capo da una parte e dall'altra, era una via di mezzo fra la corsa ed il salto. Quel modo di scalpitare avrebbe potuto sembrare buffo, se non avessero posseduto un aspetto fisico tanto animalesco e minaccioso. «Sacro Ventre della Dea!» ansimò Goccia di Fiamma. «Che razza di inferno ha partorito quei bruti? Questa dev'essere una terra maledetta, se nutre simili bestiacce!» «Sono i Ginn. Tieni giù la testa e prega che non ci vedano, o abbiamo finito di campare!» esclamò la bruna, stringendo saldamente la lancia.
Un secondo gruppo di Ginn passò via velocemente, ma al loro seguito ne vennero altri, alcuni dei quali armati di bastoni o di vere e proprie clave. Le due amazzoni stavano cominciando a credere che se la sarebbero cavata, visto che i bestiali esseri pensavano solo a mettersi al riparo ed a sgomberare da quella zona, quando un grugnito alle loro spalle le raggelò. Voltandosi, videro un Ginn che le fissava dall'alto di un monticello di terra. «Merda!» imprecò Ombra, saltando in piedi. Goccia di Fiamma rotolò di fianco e nello stesso movimento tese l'arco, lasciando andare una freccia. L'asticella di legno colpì la creatura su una spalla, ma rimbalzò via spezzata in due senza aver neppure scalfito la pelle coriacea, ed un attimo più tardi il Ginn si precipitò verso di loro. Ombra gli corse incontro con la lancia protesa e lo colpì in pieno addome, con una violenza che avrebbe sbudellato un uomo spaccandogli costole e colonna vertebrale, e l'individuo ne ebbe io slancio deviato tutto da un lato; ciò malgrado parve uscire indenne dallo scontro e lanciò un formidabile urlo di collera, mentre dal canto suo Ombra rotolava a terra bestemmiando. Il Ginn ignorò una seconda freccia di Goccia, che gli arrivò di punta sul sopracciglio destro e stavolta gli fece zampillare il sangue. Si palpò l'addome, ringhiò e si chinò per abbrancare Ombra, allungando due braccia nodose come tronchi. L'amazzone era distesa fra i sassi e scalciò a piè pari, colpendolo in piena faccia. Fu come se avesse preso a pedate uno scoglio, tuttavia ciò le servì per spingersi via di lato e recuperò il suo bastone appuntito. Allorché saltò in piedi s'era resa conto che almeno in velocità il Ginn non poteva starle alla pari; probabilmente i suoi muscoli erano duri come l'ottone, ma i movimenti della sua articolazione avevano una certa goffaggine se paragonati a quelli di un essere umano, indicando che possedeva una struttura scheletrica abbastanza diversa. L'amazzone indietreggiò rapidamente, e nel vedere la velocità di lei il Ginn mandò un grugnito più seccato che feroce. Fece oscillare il capo due o tre volte, fissando alternativamente lei e Goccia quasi che fosse incerto di quale delle due occuparsi, quindi decise di insistere contro la bruna. Goccia di Fiamma si alzò in piedi zoppicando. La sua mano sinistra era gonfia e dolorante come l'avambraccio, e nell'incoccare un'altra freccia perse tempo. Poté scagliarla solo dopo qualche secondo, mentre il Ginn avanzava verso Ombra a braccia allargate, e lo colpì diritto nella nuca. Con un brontolio iroso il bestione girò il capo un momento a guardarla, ma quando si voltò nuovamente ad assalire l'altra amazzone ebbe una spiace-
vole sorpresa: Ombra era balzata avanti approfittando di quell'attimo, ed il palo acuminato che brandiva gli entrò fra i denti spinto da tutto il peso di lei, fracassandogli il palato. La ragazza bruna gridò di feroce soddisfazione, vedendolo piombare a sedere per terra stordito e dolorante, col sangue che gli colava dalla bocca. Subito dopo gli sferrò una bastonata sulla testa, così violenta che la lancia si spezzò in due, quindi corse accanto a Goccia di Fiamma e la afferrò per un braccio. «Filiamocela!» ordinò. «Presto, prima che si rialzi. Appena avrà finito di sputar sangue sarà ancora più pericoloso, e non me la sento di battermi con lui senz'armi.» Goccia invece le diede uno strattone per farla voltare nella direzione da cui era arrivato il Ginn, ed era pallida. «Ce ne sono altri due. Scappa almeno tu, sorellina. È inutile farci ammazzare entrambe. Muoviti!» Ombra di Lancia accolse con un bestemmia oscena l'arrivo dei due individui, i quali s'erano fermati un momento a guardare la scena. Dai loro lineamenti era impossibile capire che razza di pensieri si agitassero dietro quella facce piatte e rugose; probabilmente erano ringhiose ed ostili, o del tutto inespressive, per costituzione. Goccia di Fiamma si spostò presso le rocce oltre le quali s'era nascosta poco prima, restando immobile anche quando vide il più vicino dei Ginn prendere la corsa verso di lei. La creatura le arrivò addosso e protese le braccia avanti, forse per spingerla a terra; ma trovò il vuoto, perché la ragazza s'era lasciata cadere all'indietro e gli aveva puntato i piedi nella pancia. Tradito dal suo stesso impeto il Ginn volò contro uno dei piccoli macigni e vi tonfò con la testa. La polvere che costui aveva alzato finendo a terra non s'era ancora posata, che il suo compagno stava già attaccando Ombra di Lancia, muggendo come un toro. L'amazzone evitò il roteare delle sue manacce, fornite di quattro sole dita come i piedi ma larghe come padelle, e corse di lato nel tentativo di attirarlo lontano dall'amica; Goccia era infatti discesa al suolo col volto contratto dal dolore. Sudando freddo, la bruna amazzone saltellò a destra ed a sinistra, schivando per un capello pugni e manate di tale violenza che se l'avessero colta le avrebbero staccato via la testa. Il Ginn che la incalzava puzzava ed era sporco, e colava dalla bocca bava biancastra; inoltre doveva essersi reso conto che davanti a sé aveva una femmina, seppure non esattamente della sua stessa razza, perché il suo istinto animalesco reagiva producendogli un'erezione. Ciò ne diminuì l'aggressività, e dopo qualche secondo il suo modo di fare cambiò impercettibilmente. Ombra capì che il Ginn avrebbe
cercato di abbrancarla e catturarla, invece di ucciderla, e le fu chiara anche un'altra cosa: se quella creatura provava nei suoi confronti le sensazioni che sospettava le restava ancora una carta da giocare, l'unica, seppure molto spiacevole. Continuando a correre indietro e di lato, gridò: «Goccia spogliati! Togliti il vestito, fai presto!» Quando fu riuscita a far girare il bestione di nuovo dalla parte della compagna, vide che ad una ventina di passi da loro Goccia di Fiamma aveva capito la sua idea e s'era tirata su il vestito fino all'altezza dei seni, pur restando distesa a terra e indebolita dalla sofferenza com'era. Il Ginn la osservò e dalla gola gli emerse una specie di ronfare da felino. Si mosse verso di lei a passi pesanti. La ragazza non batté ciglio nel vederselo sopra, né si mosse allorché le ginocchia dell'individuo batterono al suolo ai lati del suo corpo. Il Ginn si era inginocchiato su di lei, con un tonfo tale che aveva fatto schizzar via i sassi. Con una mano rasposa le diede un colpetto su un'anca, e ruminò qualcosa che avrebbe potuto essere un commento eccitato nella sua lingua, se pure aveva un linguaggio vero e proprio. Senza alcun dubbio il corpo seminudo della giovane amazzone lo attraeva, e come Ombra aveva supposto ciò gli faceva mettere da parte ogni altro pensiero. La bruna girò a rispettosa distanza dal primo dei Ginn, che ancora pareva incapace di alzarsi da dove giaceva e sputacchiava sangue, poi raccolse una grossa pietra e si portò alle spalle di quello che si accingeva a violentare rozzamente Goccia. Gli era appena andata dietro, ed aveva sollevato in alto il pesante frammento di roccia per abbatterglielo sul cranio, quando un grido le fece fermare: «No! Non colpire, amazzone!» A parlare era stata una voce gutturale, perfettamente comprensibile benché non del tutto umana. Girandosi, Ombra vide che sulla scena era sopraggiunto un altro Ginn, e a darle quell'ordine non poteva esser stato altri che lui. L'individuo infatti continuò, alzando un braccio: «Non colpire! Tu lascia pietra, tu tranquilla... Nessuno fa male a tua amica, amazzone!» Dopo queste parole il Ginn mandò una serie di grugniti dal tono inequivocabile: si trattava di ordini, secchi e brutali quanto probabilmente chiari. Il bestione che era in ginocchio, lasciò stare Goccia, che era rigida come un legno e gli sbarrava in faccia due occhi da pesce lesso, quindi si affrettò
ad alzarsi e rispose al compagno in tono lamentoso. «Urrhm, uhramuam!» sembrò alle amazzoni che avesse detto. Il nuovo venuto parlò ancora, poi si fece avanti a passi svelti, afferrò l'altro per ti collo alzandolo quasi di peso e lo spinse via con estrema decisione. Ombra e Goccia di Fiamma, più che sollevate da quell'intervento, erano sbalordite. «Pace! Amazzoni e Ginn fare pace. Tu capito?» domandò l'individuo, fissando Ombra dall'alto della sua statura imponente. «Sicuro, facciamo la pace,» si disse d'accordo lei. «Sono molto contenta di fare la pace. Niente più lotta, va bene?» «Tellur anche dice niente lotta. Io proteggo voi: mando via altri Ginn e loro ubbidiscono. Io amico di amazzoni. Ora tutti tranquilli e niente più lottare.» Goccia di Fiamma lasciò uscire l'aria dai polmoni con un sibilo, tremando per la reazione, e si alzò a sedere. Con le mani sui fianchi la sua compagna fronteggiava ora il Ginn, osservandolo con curiosità e senza alcuna paura. «Mio nome Tellur,» disse lui.«Tuo nome quale?» «Ombra di Lancia,» si presentò lei. «E la mia amica si chiama Goccia. Sono lieta di conoscerti; sei davvero un tipo fuori dal normale.» «Arrgh!» Tellur fece l'imitazione di una risata. «Ginn diversi da donne umane. Tu sei amazzone. Tu non hai visto mai Ginn?» «Mai,» confermò lei. «Sedere e parlare!» invitò Tellur, indicandole un sasso, e la precedette lasciandosi andare a terra. Ombra accettò l'invito, dopo essersi accertata che Goccia di Fiamma non era ferita, e di nuovo guardò il colosso dalla pelle bianchissima con interesse. «Conosci le amazzoni, Tellur? Dove hai imparato la nostra lingua?» «Ah! Io conosco lingua, e conosco amazzoni.» Tuller fece un gesto verso i due della sua razza stesi a terra lì vicino. «Uno morto e uno colpito duro... cattiva fortuna. Io arrivato tardi da voi. Io conosco bene amazzoni, in Terra di Nedda, cento e cento giorni fa. Donne brave guerriere, come brava anche tu. Loro sempre colpire duro, e nemiche di uomini. Anche Ginn odiano uomini, e allora noi diventiamo amici. Loro insegnano lingua e rispettano me.» «Capisco,» disse Ombra. «Com'è accaduto?» «Accaduto che io viaggio verso terra dove sole è nascente, e aravo lontano. Io trovo là cinque amazzoni, fuggite da Terra di Nedda, e loro salva-
no me da uomini di Tiranno. Io insegue... io ero inseguito da questi uomini. Miliziana di nome Hora uccide uno di loro con freccia; miliziana Vannjsa corre vicino a me con spada e uccide un altro, e uomini di Tiranno scappano come pulcini Spaventati. Allora io guido loro in Terra di Baba Velvjna, imparo lingua, molto amico con queste amazzoni. Avevano vestiti come il tuo, molto brave combattenti anche queste donne umane.» Il tono del colosso era indubbiamente amichevole e rassicurante. Le due ragazze si guardarono attorno, cominciando a rilassarsi un pò. Tutta quell'attività non aveva certo giovato a Goccia, però, ed il volto della ragazza era imperlato di sudore ghiaccio. Tentò qualche passo, si sedette di nuovo su una pietra e fece cenno ad Ombra che stava bene, massaggiandosi la gamba ferita con una smorfia. «Ebbene, Tellur,» disse Ombra, «mi dispiace di aver conciato male i tuoi amici , uno dei quali sembra proprio morto. Ci hanno assalite, capisci? E dovevamo difenderci. Tu puoi proteggerci da altri incidenti? Se è così, te ne saremo molto riconoscenti.» «Niente incidenti, adesso. Niente più guai, Ombra di Lancia. Ginn che sono morti, sono morti, pazienza. Ginn sono selvaggi e feroci qualche volta, ma non sempre. Peccato che mia tribù aveva paura e molta rabbia, per questo voi siete assalite da Ginn. Io sono capo di tribù Yonga, molti bambini e molte donne e molti guerrieri ubbidiscono a me.» Tellur si rivolse al compagno che aveva fatto allontanare e gli disse qualche altra cosa. Costui si affrettò a far sollevare quello ferito alla bocca e lo portò via, sorreggendolo. «Io resto qui un poco,» disse Tellur. «Voi siete stanche. Molto tempo è che non parlo lingua di amazzoni, e un poco dimentico. Siete ferite? Tu hai sangue in testa, tua amica ha sangue in una gamba. Esseri umani sono morbidi... come dite, delicati. Volete aiuto? Noi non siamo nemici, tu credimi: finché io sono capo di Ginn, noi siamo alleati. Diamo aiuto.» Ombra sorrise, annuendo. Per quanto l'apparenza di Tellur fosse tutt'altro che rassicurante, il grosso individuo riusciva ad esprimersi in un modo così umano che d'improvviso trovava difficile non considerarlo con simpatia. Con brevi e concise frasi gli spiegò cos'era loro successo, e lo ringraziò per l'offerta di aiuto. Disse che non avevano bisogno di niente, a parte un pò di carne e di un otre per mettervi l'acqua, se ne avevano una da regalar loro. «Cosa ne è stato delle amazzoni che hai condotto nella Terra di Baba Velvjna?» domandò poi. «Certo non sono tornate in patria, altrimenti a-
vremmo saputo di quella loro avventura.» Tellur scosse il capo tristemente. «Morte. Grande dispiacere per me. Loro nomi Hora e Vannjsa, e Fior di Luce, e Bella, con caposquadra Damalith che aveva fatto patto di sangue con me. Io viaggio con loro tutta l'estate fino ai giorni freddi, e poi quelle ragazze sono morte.» «Tutte?» domandò Ombra, con una stretta al cuore, perché aveva conosciuto bene Damalith. «Tutte,» confermò gravemente il Ginn. «Queste cinque amazzoni dicevano che una loro Comandante era stata uccisa con inganno da un uomo di Nedda, che fuggito da prigioni del Tiranno insieme a tutte loro, e inseguivano questo traditore per fare vendetta. Da parte nord di Nedda andavano ancora a nord, per trovarlo. Incontrano me subito, in colline sul confine di Hus Nur, e uccidono i soldati che mi inseguivano. Così salvano la mia vita. Allora andiamo insieme a nord, verso Terra di Baba Velvjna, perché io conosco piste, ma anche loro molto brave a cercare tracce. Amazzoni dicevano che tornano in patria solo quando fatto giustizia per loro Comandante uccisa, per chiamare Marilan.» «Madian!» esclamò Ombra di Lancia. «Dunque non era morta sul confine di Mitanni, come si era creduto. Quattro anni fa ci furono diverse scaramucce fra il Regno di Mitanni e la Tirannia di Nedda, e le nostre miliziane distaccate insieme alle truppe di Bal Kadur vi presero parte. Evidentemente lei ed altre furono fatte prigioniere, ed in seguito fuggirono. Ma come accadde che persero la vita? Tu eri con loro in quel momento?» «Io ero sempre con amazzoni. Io faccio da guida a loro, mangio e caccio con loro, e imparo lingua bene. Amazzoni brave ragazze, molto coraggiose. Una volta incontriamo guerrieri Aramak, dodici, con cavalli, e insieme li uccidiamo tutti. Aramak sono crudeli, hanno esercito, vivono in case di pietra su montagne di Hus Nur. Poi passano due mesi e cade la neve, e amazzone Damalith dice di tornare indietro perché c'è il freddo e io non conosco le piste nord. Quando torniamo a sud arrivano dietro di noi molti altri Aramak. Noi siamo circondati vicino al fiume Lodag.» «Vuoi dire l'Aladag? Un bel pò di leghe a sud est di qui, allora,» precisò Ombra, annuendo. «L'Aladag, sì. Questo è suo nome. Amazzoni combattono e combattono con te spade. Sono solo cinque, ma uccidono senza fermarsi mai. Anch'io combatto. Poi loro sono morte, e allora fuggo. Vado verso cielo dove sole scende, per molti giorni, e torno a tribù di Yonga. Questo è successo, o amazzone Ombra di Lancia.»
«Ho capito,» mormorò lei. Non aveva mai sentito parlare degli Aramak, e solo molto vagamente della Terra di Baba Velvjna, che doveva essere fra le sorgenti dei due fiumi sumerici o più ad est ancora, e si supponeva molto fredda e inospitale. La ragazza osservò Goccia di Fiamma, che sembrava essersi un po' ripresa e fissava il Ginn con attenzione. I suoi compagni avevano smesso di transitare, e se la tribù di cui era a capo era tutta lì c'era da credere che ne esistessero diverse altre. Gli domandò chiarimenti, e lui disse che vi erano infatti diciotto o venti tribù, ciascuna col suo villaggio. Gli Yonga avevano però abbandonato il loro per migrare verso ovest, a causa della scarsità di selvaggina nei dintorni, ed era così che s'erano scontrati con gli Uomini Angelo. «Ma cos'è accaduto? Perchè vi attaccavano?» «Aah! Uomini che volano hanno molta paura di tutto. Loro hanno grande nido in collina piena di buchi, un giorno di cammino verso sole che scende. Tribù di Yonga è arrivata sotto collina, quando sta cercando posto per fare nuovo villaggio. Allora uomini che volano hanno fatto la guerra, e per due giorni cercano noi e gettano addosso pietre. Due Ginn morti, e altri feriti. Adesso noi andiamo a nord, verso le Sette Stelle. Forse troviamo altro posto buono.» Ombra annuì. Sapeva che le Sette Stelle del Piccolo Carro erano appunto la costellazione che indicava il settentrione, ed alla luce di quanto Tellur stava dicendo le parve di capire che i Ginn non erano troppo aggressivi, almeno presi collettivamente. Quello che le stava davanti di certo non lo era, e sembrava ave? capito alla perfezione che la reazione degli Uomini Angelo era da addebitarsi alla paura. Si rivolse ancora al colosso: «Sono stati i tuoi compagni ad assalire gli alati?» «No, o amazzone. Alati hanno il nido in alto su roccia grande. Sono in molti a volare, con donne e piccini, e hanno Regina cattiva. Io visto lei, donna umana senza ali, e lei dava ordini. Allora alati hanno preso molte pietre. Forse loro tornano questa sera, forse tornano domani. Regina parlava con lingua umana che io capivo, lingua di amazzoni.» affermò Tellur. «C'è da non crederci!» intervenne Goccia. «Dunque tutto ciò che sapevamo sugli Uomini Angelo era solo una parte della verità.» «Direi di no, sorellina, se ci pensi bene. Scommetto che questo loro insediamento a terra è provvisorio, e non sarà mantenuto per più di pochi giorni. Si tratta certo di uno dei luoghi che gli alati frequentano durante le loro cerimonie annuali, quella che simboleggia il tradizionale ritorno alla
terra o qualcosa di simile,» disse Ombra con calma. «È solo una festività, ed ovviamente la celebrano in un posto isolato. Questa Regina, poi, credo che non sia affatto tale. Gli Uomini Angelo non hanno capi veri e propri, né tantomeno Regine. Penso che sia piuttosto una specie di sacerdotessa, che governa lo svolgersi della festa. Il fatto che sia umana mi resta però incomprensibile; a meno che non sia una di loro, una Ragazza Angelo a cui qualcuno ha amputato le ali.» «Niente vero!» esclamò Tellur. «Era umana. Alati parlano lingua di loro popolo, e hanno occhi diversi. Lei era donna umana, cattiva e pazza.» «Sia come vuoi,» concesse Ombra, sorridendo. Il Ginn riprese: «La mia gente è selvaggia, ignorante, ma non stupida. C'era un tempo, quando gli umani non erano in queste terre, che i Ginn avevano una grande città di legno. Bellissima città. Gli «mani hanno distrutto questa città, e i Ginn allora sono diventati poveri e selvaggi. Gli umani temono i Ginn, ma sono più crudeli ancora. Il Ginn che mangia e ha una compagna è un Ginn pacifico: caccia e pesca i pesci, cerca le bacche, non va a tendere agguati ai nemici. Adesso una sventura è sul mio popolo.» Ombra di Lancia, che aveva l'impressione di sentirlo parlare sempre più correttamente man mano che le regole grammaticali gli tornavano alla mente, si sentì assai propensa a credergli. «Se dovete spostarvi verso le montagne non troverete una buona terra, è vero.» «La terra c'è invece, o amazzone. Ma la strada per giungere in questa terra è cattiva, senza piante, con burroni, tutta aperta; se gli Uomini Angelo ci attaccano, non abbiamo ripari. Anche prima io guidavo la mia tribù verso Sette Stelle dei Nord, ma per la strada veloce e bella, che fa largo giro verso colline.» Ombra rizzò le orecchie a quest'ultima frase, scambiando un'occhiata con la compagna. «Parlami di questa strada, Tellur. Davvero va verso le montagne?» «Sicuro, o amazzone Ombra di Lancia. È antichissima pista Ginn, liscia come acqua di fiume. La strada va lungo fianchi di montagne, sempre dritta, lunghissima.» «E dove mai conduce?» intervenne Goccia di Fiamma, curiosa. «Questo nessuno sa, oggi. Lontano e lontano. Voi volete seguirla? Attenti Uomini Angelo, allora. In colline loro sbarrano questa strada.» «Oh, non ho paura di loro, ragazzo mio. E se le cose andranno come spero, non è escluso che io possa ottenere il diritto di passaggio anche per la
tribù,» disse Ombra. Si girò verso Goccia di Fiamma, che la fissava senza aver ben capito, e le strizzò l'occhio. CAPITOLO SETTIMO «Chiedi alle ragazze di portarmi qualcosa da bere, Tellur. Ho sete,» disse Goccia di Fiamma. La giovane amazzone era distesa su una barella di rami e pelle di capra, che due silenziosi Ginn portavano con estrema facilità ma molti scossoni. Dal momento dell'incontro con la tribù Yonga erano trascorsi due giorni, ed il percorso piuttosto accidentato che stavano seguendo li aveva portati in prossimità delle colline. Lì aveva preso inizio una pista che Tellur aveva detto chiamarsi Sentiero Baugh, la quale portava al passo fra le colline noto come Faglia di Zenobey. A detta del Ginn, al di là del passo cominciava la strada vera e propria, che girava verso settentrione. Su un lato dell'immensa spaccatura della Faglia di Zenobey si ergeva un colossale sperone roccioso, il Tagre, e fin da dove si trovavano, le due amazzoni potevano scorgere sulla parete frontale una quantità di caverne e cornicioni in parte evidentemente artificiali. Nell'interno del Tagre, traforato come un termitaio, c'era il rifugio degli Uomini Angelo. Tellur muggì un ordine, facendo accostare alla barella di Goccia la femmina Ginn che trasportava l'otre con l'acqua. Solo tre dei giganti pallidi avevano seguito le amazzoni al nido degli alati, perché Ombra aveva stabilito che facendosi vedere in numero maggiore avrebbero rischiato d'essere nuovamente attaccati, ma costoro s'erano portati dietro le compagne ed i piccoli, cosicché il gruppetto era composto da una dozzina di unità. Prima del mezzodì giunsero al termine di una lunga salita e furono nella Faglia di Zenobey, a sinistra della quale si levava una ripida parete rocciosa lunga molte leghe; sulla destra, la mole torreggiante del Tagre sembrava un dente ciclopico variamente cariato. Non vi si scorgeva alcun segno di attività. Quando Ombra giunse alla base delle liscia parete rocciosa, ordinò ai Ginn di fermarsi; poi si portò le mani intorno alla bocca e gridò, rivolta all'insù: «Ehilà! Non c'è nessuno? Siamo amici e veniamo in pace. Rispondetemi!» Dopo qualche momento numerose facce incorniciate da lunghi capelli biondi s'affacciarono da un cornicione, situato oltre duecento braccia più in alto. La ragazza vide aprirsi le ali trasparenti di cinque o sei Uomini Ange-
lo che s'erano levati in volo, e li chiamò ancora. Agitando le braccia gridò che non avessero paura, li assicurò che le loro intenzioni erano pacifiche e chiese di parlare con qualche Anziano. Fra gli esseri alati ci fu un breve periodo di indecisione, quindi uno di essi si decise a scendere in lenti circoli, tenendo d'occhio i Ginn con palese preoccupazione. «Sono un'amazzone!» gli gridò Ombra. «I nostri popoli sono amici, o creatura del vento e delle nubi. Avvicinati pure senza timore. Noi siamo disarmati, e vogliamo salutarvi come fratelli!» L'individuo chiuse lentamente le robustissime ed ampie ali, azione con la quale otteneva l'effetto di ridurre la misteriosa energia di sostentamento che si sprigionava dalie loro fibre, e prese terra ad una dozzina di passi dalla ragazza. Era un Anziano, notò lei, vedendo i suoi capelli quasi bianchi. Gli occhi dell'alato erano laghetti d'argento, privi dell'iride e della pupilla, ed a causa della sua esilità fisica si muoveva con strana grazia effeminata. Alzò una mano col palmo rivolto avanti, in un gesto universale. «Che un buon vento sia con te, o donna di terra. Conosco le amazzoni, ed assai bene, essendo io stesso sceso sul suolo duro delle felici ed operose Terre Basse, in tempi ormai lontani. Sempre vi ho ricevuto calda e grata accoglienza. Dimmi, come si mantiene la saggia Regina Theba? Io ricordo che aveva spesso noiosi bruciori di stomaco e febbri malariche, in gioventù.» Ombra non fu stupita dalla forma verbale di quell'approccio, sapendo che il linguaggio degli Uomini Angelo si teneva sempre su un tono distaccato e silenzioso. Rispose che Theba stava abbastanza bene e gli si avvicinò, presentandosi. «Quelli che vedi,» aggiunse, «sono alcuni Ginn delle tribù a cui avete dato battaglia quattro giorni or sono, e con essi c'è una mia compagna, quella sulla barella. Desidero parlare con un gruppo di voi, perché prendiate una decisione. Potete riunirvi nel prescritto numero di dieci?» «La richiesta di un'amica sarà accolta, o Ombra della Lancia. Il mio nome è Alato Insel, e con me sono rimasti nove altri Anziani. Il gruppo riunito per celebrare il Giorno di Terra è ormai partito, ad eccezione di noi, e si trova ora nella Grande Corrente del cielo. Essendo tutti Anziani ci sarà possibile prendere una decisione meditata, qualunque sia l'argomento che tu desideri discutere e chiarire. Accetta dunque l'invito di salire nel Nido del Tagre; tu e la tua amica vi sarete accolte ed ospitate finché vorrete. Ma devo domandarti di lasciare colà dove si trovano quei pericolosi esseri coi quali vi siete accompagnate.»
L'amazzone lo ringraziò. Goccia di Fiamma tuttavia preferì non muoversi da terra e le disse di andare da sola, visto che il sistema usato dagli Uomini Angelo per trasferire eventuali ospiti fino all'altezza delle caverne consisteva nell'afferrarli per le braccia e per le gambe. Non sentendosela di farsi sballottare a quel modo, rimase ad osservare Ombra che, presa su da quattro di loro, veniva condotta in volo fino al cornicione a duecento braccia dal suolo. A causa del leggero vento, l'atterraggio dall'amazzone fu una operazione più delicata di quanto non le sarebbe piaciuto, ed ella imprecò per il sollievo allorché i quattro individui riuscirono a cacciarsi tutti nello stesso tempo all'interno della rupe cavernosa. Qui la stavano aspettando due delle loro donne, che si presentarono come Angela Lulhea ed Angela Djenuza, entrambe Anziane. «Ho già conosciuto un'Angela Lulhea,» disse Ombra alla prima di esse. «Ma era molto più giovane di te. Scese in un giorno di forte vento e bassa pressione in un luogo presso il confine della mia terra, e chiese riparo contro un violento temporale che l'aveva separata dai suoi amici. Conoscendo le vostre usanze, penso che fosse tua figlia o tua nipote. La ospitai per due notti.» L'Angela emise un'esclamazione di meraviglia e di piacere, e subito le prese una mano con gratitudine. «E così, o amica amazzone. È proprio la mia nipote più giovane quella che tu hai tanto benignamente aiutato, ed infatti mi narrò di aver avuto ricovero da voi, in un'occasione che molto l'aveva spaventata per la sua pericolosità. Io stessa le avevo detto assai spesso, quando era una bambina piccola, che in caso di necessità dalle amazzoni avrebbe ottenuto asilo e protezione, ed ella ebbe modo di vedere che la mia fiducia era ben riposta. Ma vieni, adesso; ti offriremo il Nettare delle Nubi nella grande sala centrale.» Ombra segui le due Angele lungo un percorso in salita piuttosto buio e sporco. L'assenza di luce e di ogni genere di manutenzione non la meravigliò, perché il Popolo degli Alati non faceva uso del fuoco né si intendeva di qualsiasi tipo di lavoro effettuabile al suolo. In quanto al Nettare delle Nubi, si trattava del solo cibo di cui gli Uomini Angelo disponevano, reperibile nelle misteriose nuvole rosate così frequenti alle quote più alte, ed era una sostanza filamentosa dolcissima al palato, molto nutriente. Le era già capitato di assaggiarlo ed il pensiero le stuzzicò l'appetito. Così come i loro compagni, le due donne alate indossavano aderenti tute che le coprivano dal collo ai piedi, tessute in una sostanza robustissima ad
alto potere isolante che aveva sempre incuriosito l'amazzone, la quale non era mai riuscita a sapere dove se la procurassero. Erano abbottonate in modo complesso, specialmente sulla schiena, dove spuntavano le loro ali; queste ultime occupavano uno spazio incredibilmente esiguo quando erano ripiegate, e strisciavano a terra appena con le punte. L'amazzone fu introdotta in un locale circolare largo una trentina di passi, illuminato da torce conficcate in fori della roccia nuda, e fu appunto la presenza del fuoco a ricordare ad Ombra una delle cose su cui aveva deciso di informarsi: «Angela Lulhea,» disse. «Il capo dei Ginn mi ha rivelato che fra voi c'è una donna di terra. È così?» «Ma certo: la Vahjnini. Senza di lei ci sarebbe ben difficile celebrare il Giorno di Terra. Quest'anno grande fortuna abbiamo avuto a trovarne una così adatta ed in breve tempo. Ma ecco che giungono gli altri Anziani. Siediti, che si completi il circolo dell'amicizia, e nel frattempo io andrò a prendere il Nettare per tutti.» Cinque Uomini Angelo e due donne, con le ali chiuse, entrarono nella sala da un corridoio laterale e si presentarono uno alla volta salutandola alla maniera amazzone, premendo cioè il palmo della mano destra contro il suo. Il più anziano di essi fece cenno che si poteva sedere in cerchio sul pavimento, ed Ombra si preparò a parlare per almeno una clessidra di argomenti irrilevanti, come volevano le loro usanze. In realtà quelle chiacchiere avevano uno scopo, perché si trattava di un vero e proprio scambio di notizie seppure effettuato in tono ameno e noncurante. Fu portato il Nettare delle Nubi, in piccoli contenitori fatti di foglie, e la ragazza rispose alle domande che le furono rivolte in modo da fornire anche novità e informazioni. Se le veniva chiesto come stava di salute il Re di Mitanni, ad esempio, lei rispondeva che Bal Kadur aveva l'asma, aggiungendo che ultimamente aveva stretto alleanza con la città libera di Lagash, il che significava per gli Uomini Angelo la possibilità di atterrare nella zona di Lagash senza essere immediatamente uccisi dai mercanti che avrebbero tagliato loro le ali per venderle. Quando le furono rivolti complimenti per la fiorente agricoltura delle Terre Basse, lei ringraziò e disse che si erano esportate moltissime patate nell'isola di Cirenya, e che il Re semiselvaggio di quell'isola aveva acconsentito a liberare otto Uomini Angelo insieme alle loro donne. Molti regnanti, infatti, tenevano prigioniere coppie di alati, utilizzando i maschi come vedette o messaggeri mentre le loro compagne restavano in ostaggio, a garanzia della loro fedeltà. «Lo sapevamo, o Ombra della Lancia,» le venne risposto con gravità. «E
di ciò abbiamo reso grazie alla comandante della vostra invincibile Flotta da Guerra, donandole un giubbetto fatto con frammenti delle nostre ali col quale ella potrà quasi volare. Dove arrivano le coraggiose miliziane delle Terre Basse, sempre ciò significa libertà per i nostri compagni più sventurati, e grande è la stima che proviamo per il popolo delle amazzoni.» A sua volta Ombra ebbe notizie riguardanti fatti accaduti nelle terre a settentrione del Mare Interno; gli Olmanni erano intenti a conquistare zone di pianura sulla costa del Grande Mare Atlan, e facevano continuamente guerra ai Montanari delle Penn oppure contro i Principati Indipendenti di Helgoland. A Felt-Gest, nell'interno del continente, era salito sul trono un Re imparentato col Duca di Olman Vuh, del quale si diceva che fosse un pazzo ed amasse tingersi i capelli di verde. Nel lontanissimo oriente, dove vivevano genti dalla pelle gialla, le popolazioni costiere cominciavano a costruire barche capaci di affrontare il mare aperto con facilità, ed Ombra ebbe la descrizione tecnica di una di esse. Finiti i preliminari fu possibile passare ai fatti immediati, e l'amazzone li riassunse in poche parole: «La ragione della mia venuta è collegata alla presenza della tribù di Ginn che avete assalito dall'aria alcuni giorni fa. Incontrandoli, infatti, ho saputo sia del vostro dissidio che dell'esistenza di una comoda strada diretta a nord, che parte da qui.» «Ahimè, o amazzone, tu tocchi un argomento che molto rammarico ci ha procurato, perché ogni azione e concetto riguardante la guerra ci è odioso ed estraneo. Ma quei terribili selvaggi ci portarono la minaccia, proprio durante il giorno della cerimonia. E tuttavia mai li avremmo così ricacciati se ad ordinarlo non fosse intervenuta la Vahjnini. Dovemmo ubbidirle, e raccogliemmo delle pietre per sconfiggerli gettandole dall'alto, benché tale azione ci riuscisse ripugnante. Ma era il Giorno di Terra, e la Vahjnini comandava la festività, perciò era necessario condurci secondo il suo volere.» Rispose l'uomo che s'era presentato come Alato Kobal. «Non vi sto rimproverando. So che voi siete gente pacifica. Tuttavia bisogna ora che la tribù dei Ginn transiti liberamente lungo la Faglia di Zenobey e prosegua verso le altre terre. Io vi assicuro che i Ginn non nutrono intenzioni ostili nei vostri confronti, almeno in questa occasione, ed anzi essi mi hanno delegata a parlare in loro nome allo scopo di veder cessare le ostilità. Mi autorizzate a riferire al loro capo che non li assalirete?» Alato Kobal allargò le braccia. «E come potremmo farlo, ora che siamo rimasti in dieci appena? Piuttosto, visto che tu sembri considerarli essere ragionevoli e che la tua opinione ha gran valore per noi, mi chieda se il
comportamento del nostro gruppo non fu terribilmente ingiusto e sbagliato. È possibile che sia così? Questo interrogativo mi assilla. Dimmi, o amazzone, a tuo parere abbiamo commesso un'azione indegna? E vi è possibilità di fare ammenda, con questi Ginn?» «Bene...» Ombra si passò una mano sulla bocca, per nascondere un sorriso divertito. «Facciamo così, Alato Kobal. Io dirò a Tellur, il capo dei Ginn, che voi date loro il passaggio libero. Oltre a ciò, gli prospetterò un'alleanza fra la sua tribù e gli Uomini Angelo. Le alleanze non fanno mai male. Se l'idea ti piace, potresti addirittura scendere tu stesso a parlare con lui. Ti assicuro che sa comportarsi civilmente.» Gli alati accolsero con aria soddisfatta la proposta, a testimonianza del fatto che tenevano davvero in buona considerazione la garanzia di un'amazzone. Fu portato dell'altro Nettare delle Nubi, ed Ombra se ne cacciò un pò in tasca per farlo assaggiare a Goccia di Fiamma. Stava poi rispondendo ad una domanda circa la situazione politica nel Diaconato di Coralyne, attorno ai cui laghi deliziosi gli alati non sapevano mai se fosse prudente o meno atterrare, quando nella sala entrò una ragazza bionda vestita di un corto abitino ricamato. Nei vederla Ombra di Lancia emise un grido rauco e balzò in piedi, esterrefatta: «Tangri! Oh, Dea... Oh, Dea che mi proteggi! Tangri!» L'amazzone corse dalla fanciulla e la abbracciò strettamente, con tale forza da sollevarla da terra, e nel baciarla sulle guance tremò per l'emozione. Poi l'afferrò per le spalle e la fissò, domandandosi se non aveva le allucinazioni. «Ma è incredibile! Tu sei qui, e sei viva, bambina! Com'è possibile questo? Ti credevamo morta ad un burrone, e invece non hai neppure un graffio. Questo si che è un miracolo, accidenti!» Tangri era però rimasta inerte fra le sue braccia come una bambola di pezza senz'anima, e si limitò a fissarla passivamente. Ombra se la strinse ancora al petto, ridendo di felicità, e la lasciò andare solo quando vide che gli Uomini Angelo le avevano attorniate. Si rivolse ad Alato Kobal: «Dunque è lei la Vahjnini di cui parlavate? Ma è fantastico, amici miei. Scommetto che la mia compagna avrà uno svenimento, quando lo saprà. Pensate che la credevamo morta, e... oh, diavolo! Certamente bisogna dire che la mano della Dea l'ha salvata. Oh, Tangri, quanto sono contenta!» Alato Kobal aveva dipinto sulle labbra un sorriso perplesso. «Che tu conosca la Vahjnini è certo una felice coincidenza. Tuttavia noi credevamo che il suo nome fosse Aloya. Così almeno ci ha detto, allorché la trovam-
mo addormentata presso la riva di un torrente.» Ombra osservò Tangri, ed il suo sorriso si incrinò nel vedere l'espressione vuota con cui la fanciulla accoglieva quelle effusioni. Ad un tratto ella si divincolò dalle sue mani e fece un passo indietro, scurendosi in volto. «Lasciami! come osi toccarmi, tu?» disse con alterigia. «Ma Tangri...» si sbalordì l'amazzone. «Che ti prende? Non capisco.» «Io non conosco questa Tangri della quale parli. Non so chi ella sia né voglio saperlo. Il mio nome e Aloya di Mamojad, Principessa dei Sette Soli Rossi di Gondar, Sovrana di Monastjr e di tutte le terre che si estendono fra l'oriente e l'occidente, per volontà degli Dei che governano i cieli. E tu chi sei, o donna?» «Ma... che diavolo dici?»Ombra deglutì saliva, mentre un doloroso sospetto prendeva forma nella sua mente. «Per le auree corna di Marduk! Certamente hai battuto il capo e... oh, povera bambina! Dunque non sei uscita incolume da quell'incidente, dopotutto. Davvero non mi riconosci più? E Goccia, ti ricordi di lei, almeno?» La giovanetta bionda le rispose solo ostentando un'espressione sdegnosa, e le voltò le spalle. Gli Uomini Angelo avevano l'aria imbarazzata, ed uno di essi si decise a mormorare come tutta spiegazione: «Aloya è una Vahjnini, o amazzone. Che importanza ha quello che dice? Solo gli Dei possono comprenderlo veramente, e non è da noi mortali stabilire se ella è nel giusto o meno.» «Capisco...» mormorò Ombra di Lancia. «Bene, l'importante è che sia ancora viva. Se la terribile caduta e qualche urto al capo le hanno sconvolto la mente, è in fondo cosa da poco. Spero che torni presto in condizioni normali. C'è ancora da esser grati alla Dea, se non le è capitato altro di peggio. Ma adesso la ragazza ha bisogno di cure e di tranquillità.» Tangri batté un piede a terra, voltandosi a fissarla con irritazione. «Basta! Ti ordino di cessare d'importunarmi con le tue sciocche chiacchiere. Tu sei una popolana di misere origini, lo si nota dalle tue vesti stracciate a dalle tue maniere rozze. Il modo in cui ti rivolgi a me è insopportabile, e perciò esigo che ti allontani subito dalla mia presenza. Voi tutti, conducetela via, che già mi sono stancata di vederla davanti a me!» «Non agitarti, tesoro; non ti fa bene. Vedrai che dopo un periodo di riposo starai meglio e dimenticherai questa brutta avventura,» la blandì l'amazzone, cercando di mostrarsi dolce e di sorriderle. «Ritrovarti sana è un grande dono del cielo, e da ora in avanti starai con persone amiche, che ti vogliono bene.»
«Tu mi stai offendendo!» gridò la fanciulla, facendosi indietro. «Non comprendi di rischiare la vita, comportandoti così? Io ordinerò alle mie guardie di gettarti nelle segrete, affinché tu sia punita come meriti!» «Certo, certo, ma ora calmati. Nessuno vuole offenderti, cara,» disse Ombra. «Però non puoi stare qui per molto tempo, visto che dobbiamo andare nella tua città. Vedrai che durante il viaggio potrai rimetterti in sesto.» «Ma ella non acconsente a seguirti, o Ombra della Lancia,» si azzardò ad intervenire Alato Kobal. «Mi par di capire che preferisca restare qui. E perciò che intendi fare, stando così le cose?» «Amici miei, non so che dirvi. Intanto vi sono grata per esservi presi cura della fanciulla. Tangri ha davvero sangue reale: è la Regina della città di Mohenjdar, che si trova a qualche centinaio di leghe a nord est di qui, ed è indispensabile che ritorni dalla sua gente, inferma di mente o meno. Penseranno loro a curarla. È appunto a Mohenjdar che stavamo andando, quando ella è precipitata da un burrone a cui s'era avvicinata incautamente. Il torrente poi la trascinò verso la valle, e ormai l'avevamo data per morta.» «Non so se crederti o no, e questo mi imbarazza, lo confesso,» mormorò Alato Kobal. «A sentir lei, è la Principessa Aloya. Non è possibile che sia davvero chi dice di essere, e che tu venga tratta in inganno da una pura e semplice somiglianza fisica?» «No di certo, amico Kobal, visto che indossa lo stesso vestito che le regalò Goccia di Fiamma prima che lasciassimo le Terre Basse. Non posso sbagliarmi.«Ombra guardò di nuovo Tangri, che sembrava agitatissima.«Vuoi venire con me, tesoro? Ti ricondurrò a casa tua e tutto andrà bene. Non hai nulla da temere.» «Vattene da qui,» disse Tangri tremando. «Io non voglio sapere chi tu sia e non ti seguirò. Il mio posto è nella città dorata di Monastjr, che sorge come una gemma nel cuore di Gondar, e là farò ritorno quando giudicherò venuto il momento!» «Ma tesoro, quello è un posto che non esiste nemmeno! Cioè, voglio dire... ti condurrò appunto lì, se vorrai seguirmi. D'accordo? Ce ne andremo insieme a Gondar, io, tu e Goccia di Fiamma. Ricordi Goccia di Fiamma? Lei ti vuole molto bene, e anch'io.» «Oh, smettila di mentire, tu!» esclamò Tangri. «Sappi che io non voglio venire con te, e che le tue parole mi annoiano. Io qui sono trattata secondo il mio rango, e non viaggerò con persone infide e sconosciute. Voialtri, che vi dite ai miei ordini, che attendete a cacciarla? Portatela altrove, e presto.
È la Principessa Aloya che ve lo comanda!» «Sarà meglio fare come dice lei.» Suggerì Alato Kobal. «Un accidente! La ragazza non può restare qui. E cosa credete che ne sarebbe di lei, dopo che ve ne sarete andati per i fatti vostri? Come minimo morirebbe di stenti, nelle condizioni in cui è.» «Sbagli, se ci credi incapaci di accudirla degnamente. La porteremo con noi in volo, e ti assicuro che non avrebbe mai a partire fame o sofferenza. Questo era per l'appunto il nostro progetto.» L'amazzone scosse il capo. «Non se ne parla nemmeno, signor mio. Io ho dei doveri ben precisi verso di lei e la sua gente. Tangri dovrà tornare a Mohenjdar, e qualsiasi altra possibilità dev'essere esclusa. Pertanto è necessario farla portare al livello del suolo. Continuerà il viaggio con me.» Alato Kobal fece un sospiro, scambiando occhiate nervose coi compagni. Gli Uomini Angelo si spostarono poi dall'altra parte della sala, e fecero capire all'amazzone di stare ad attendere ciò che avrebbero deciso. Sedettero in circolo e presero a parlottare fittamente fra loro, in tono preoccupato. Ombra trattenne l'impazienza e rimase ad osservare Tangri, la quale invece si rifiutava di ricambiare il suo sguardo e le aveva di nuovo voltato le spalle. Qualcosa nel suo atteggiamento la avvertì che se si fosse avvicinata troppo ella sarebbe scappata via, così non le disse altro. Non passò molto che Alato Kobal si alzò ed attraversò la sala. «Ho una proposta da farti, o Ombra della Lancia: io ed i miei compagni siamo giunti alla decisione di portare la Principessa Aloya con noi. In seguito, se lei stessa ammettesse di essersi confusa e di esser davvero un'altra persona, quella Tangri che tu hai detto, nulla ci impedirebbe di riportarla a casa sua.» «Ti ripeto, buon Kobal», insisté Ombra, vincendo a stento l'impulso di prenderlo per il petto, «che questo non è possibile. Adesso ascolta me: io sono una Comandante della Cavalleria della Dea, e quindi ricopro una carica di grande responsabilità. Ti chiedo formalmente di far scendere al suolo la fanciulla, e subito. Tangri è Regina di un popolo strettamente imparentato con noi amazzoni; è salita al trono dopo che sua madre fu uccisa dalle Teste Nere di Sumer, che hanno invaso la sua terra, ed io sono stata messa al comando di una spedizione di soccorso che è in marcia verso Mohenjdar. Questi sono i fatti e non si tratta di avvenimenti dappoco. Ti informo che molte cose possono dipendere da un ragionevole atteggiamento della tua gente, e mi riferisco ai futuri rapporti fra voi alati e noi amazzoni. Sono stata chiara?»
«Comprendo perfettamente, o amazzone. E malgrado ciò, sono costretto a constatare che la fanciulla rifiuta di seguirti. Potremmo noi farle il torto di metterla nelle tue mani contro la sua volontà, se ciò la addolorasse? Ti prego, domanda a lei stessa ciò che desidera fare, e noi saremo lieti di comportarci di conseguenza.» Ombra sbuffò, seccata; ma non ebbe modo di replicare perché Tangri era corsa ad abbracciare Alato Kobal, tremando, e gli si rivolgeva con voce rotta e supplichevole: «Ti prego, ti prego... non lasciare che questa donna bugiarda e crudele mi conduca verso un destino terribile! Proteggimi tu, amico alato, e tienimi con te. Mostrati degno di servire una Principessa di Gondar, o mio buon Kobal!» L'Uomo Angelo alzò le spalle con aria impotente, fissando l'amazzone. Accarezzò il capo della fanciulla per rassicurai la, e disse: «Vedi bene tu stessa che non ho scelta, o Ombra della Lancia. È la Principessa Aloya che rifiuta di accondiscendere alla tua richiesta, e non io . Purtroppo non è possibile fare come pretendi. Adesso ti chiedo di lasciarti accompagnare in volo fino al suolo, perché noi tutti ci apprestiamo a partire. Andremo via, quindi, e questa cara fanciulla volerà con noi finché lo vorrà.» Pochi minuti più tardi Ombra veniva fatta ridiscendere sulla pista, stavolta ad opera di due soli Uomini Angelo che la reggevano saldamente per le braccia. Un centinaio di passi più in là, i Ginn avevano trovato un comodo posto per sedersi a riposare. Goccia di Fiamma era intenta a curarsi la ferita alla gamba e la stava spalmando con una muffa medicinale che Ombra era riuscita a trovare il giorno successivo all'incidente, dopo pazienti ricerche. Non si trattava della muffa più adatta, ma mescolata a ragnatele era abbastanza efficace contro l'infezione. Un filo tolto dal vestito di Ombra era servito a cucire i lembi dello squarcio nella coscia, e quella dolorosa operazione aveva avuto buon esito, perché la cicatrizzazione era già avanzata. Difficilmente, tuttavia, l'amazzone avrebbe potuto sforzare la gamba per ancora una decina di giorni. «Reggiti forte,» la avvertì Ombra. «Sto per dirti una cosa che non ti aspetti.» Goccia aveva gli occhi fissi all'insù e la sentì appena. «Ehi! Ma che stanno facendo quelli? Se ne vanno di già?» La bruna si voltò e vide che Alato Kobal non aveva perso tempo a levarsi in volo con gli altri suoi compagni. Quattro di essi reggevano un'imbracatura fatta di funi e rete, rozza ma non troppo scomoda, entro la quale era
seduta la figuretta bionda di Tangri. Con le ali distese al massimo lo stormo di Uomini Angelo fu ben presto all'altezza della sommità del Monte Tagre, e qui il vento prese a trascinarli verso settentrione. «Così sembra, sorellina, e non c'è stato verso di farmi dire dove hanno intenzione di andare. Ma sai chi è la ragazza che si stanno portando dietro?» «Buffa cosa, volare in quel modo,» commentò lei seguendo con lo sguardo le figure argentee degli alati che s'allontanavano. «Chi sarebbe, dunque?» Ombra glielo disse. Tre giorni dopo, stavano ancora litigando. Goccia di Fiamma, che sottolineava il suo punto di vista con una colorita serie di imprecazioni, affermò più volte che era stata una pazzia permettere agli Uomini Angelo di portare via Tangri, e rimproverò Ombra di essersi mostrata troppo mite e cedevole. «Ti rendi conto che non la rivedremo mai più? Quelle cornacchie rimbecillite non ragionano come gli esseri umani, si sentono superiori, si compiacciono di agire in base a principi bovinamente retti, e considerano tutto ciò che sta al livello del suolo stupido e sporco, inferiore. In realtà hanno solo paura di noi, ecco da dove deriva il loro distacco, la loro presunzione di sapersi comportare meglio. Ma guarda invece cosa accade: per causa delle loro buone intenzioni, quella poverina è destinata a non rivedere mai più la sua casa. Chissà dove mai sono andati, adesso. E tutto perché tu non hai saputo agire con un pò di polso!» Ombra di Lancia camminava di buon passo accanto alla barella dell'amica, mentre dietro di loro veniva l'intera tribù dei Ginn, e doveva fare uno sforzo per non rivelare la propria irritazione. Il tono calmo con cui esponeva le sue ragioni derivava dalla costatazione che solo così sarebbe riuscita a tenere la discussione entro i limiti sopportabili. Se fosse stata davvero certa che Goccia ce l'aveva con lei, non le sarebbe importato nulla di litigare; ma la ragazza era disgustata da avvenimenti coi quali Ombra non c'entrava per nulla, lei stessa doveva capirlo, perciò il suo era soltanto bisogno di sfogarsi, di buttare fuori qualche urlaccio. In queste occasioni il compito di Ombra di Lancia era quello di darle un pò di corda, di sopportarla. «Avanti, allora,» le rispose. «Secondo te, cosa avrei dovuto fare? Quelle grotte distano dal suolo almeno duecento braccia, e l'unico modo di scendere da quel maledetto posto era con l'aiuto degli Uomini Angelo. Se mi mettevo a litigare con loro, magari lasciavano lassù anche me.» «Esistono oggetti chiamati corde, accidenti!» strillò Goccia. «Avrei
mandato Tellur a cercarne una abbastanza lunga, e in un modo o nell'altro vi avrei fatto scendere.» «Guarda che non sai quello che dici, tesoro. Scommetto che per cinquanta leghe intorno a noi non ci sono né corde, né materiale per fabbricarne una lunga a sufficienza. Prima che tu ne avessi trovata una, io e Tangri avremmo avuto tutto il tempo di morire di sete.» «Non hai discusso con loro! Non sei stata convincente! Protestò la rossa. «Ma se li ho perfino minacciati! Purtroppo Alato Kobal non ha neanche battuto ciglio, quando gli ho detto che il suo rifiuto di ubbidirmi avrebbe compromesso le relazioni fra i nostri due popoli. Se fra loro ci fossero stati dei giovani avrebbero potuto capirmi, ma un Anziano, e cioè una persona che deve il rispetto di cui gode alla saldezza dei suoi principi morali...» «Principi morali di merda! Non glielo hai detto che i suoi principi morali sono pura merda? Io glielo avrei scritto sulla pancia con un coltello!» «Ma era in buona fede, e convinto che Tangri avesse bisogno di un certo tipo di aiuto. A loro modo sono persone molto oneste, lo sai bene.» «Non la rivedremo mai più!» gemette Goccia di Fiamma. «Quella povera bambina, spaventata, sconvolta, bisognosa di cure... Oh, Dea! Possibile che tu abbia acconsentito con tanta calma a vedertela portare via? Eccoti lì, che te ne stai beata e tranquilla. Ma non sai che quelli possono volare in capo al mondo come se nulla fosse? Non sai che sono capaci di averla portata in un posto lontanissimo e inragiungibile. magari ai di là del Chang Lan? Loro stessi dicono che c'è un mare immenso, ad oriente del Chang Lan, ed oltre quel mare una terra vastissima, e poi un altro mare sterminato. Si tratta di luoghi così remoti che l'immaginazione vacilla al pensiero, ma gli alati ci arrivano in poco tempo. Perduta per sempre, povera Tangri!» «lo sono del parere che Sa ricondurranno a casa sua». «Illusa! E dove sarebbe la sua casa, visto che ha la mente tanto confusa da non ricordare neppure chi è? Figurarsi: si farà portare a Gondar, o dove maledizione crede di dover tornare, e cioè da nessuna parte. Gondar... Ah, penso che non sei stata neanche capace di farti riconoscere!» La strada che sessanta leghe più indietro iniziava dalla Faglia di Zenobey si stendeva dritta verso il settentrione, ed in più punti mostrava d'esser stata spianata ad arte da qualcuno che conosceva bene il suo mestiere. Era a fondo terroso, e tuttavia in quel clima arido s'era mantenuta agibile e quasi sgombra di piante. Tellur aveva ricordato qualcosa circa la zona che stavano percorrendo; a suo dire, la catena di alture nevose a destra della
strada erano i Monti di Luragwat, mentre più avanti c'erano regioni dal nome esotico come Sangrayoah, ma non aveva saputo fornire alle amazzoni alcuna informazione circa quei luoghi. I due Ginn che portavano la barella di Goccia avevano avuto dai loro capo ordini ben chiari, ed erano anche in grado di comprendere i cenni con cui la ragazza si rivolgeva ad essi. Si mostravano docili, per nulla pigri o infingardi e chiedevano solo d'essere lasciati tranquilli con le rispettive compagne dal tramonto fino al mattino successivo. Le due ragazze si erano accorte che i grossi individui avevano un gran bisogno di sfoghi sessuali, sebbene le nascite fossero relativamente scarse, ed avevano notato che in assenza di pericoli e situazioni sgradevoli il livello emotivo dei Ginn era estremamente basso. Per irritarli e renderli ferocemente aggressivi, secondo l'idea che Ombra se n'era fatta, si sarebbe dovuto prenderli a calci per almeno mezza giornata, dopo di che il loro lato peggiore sarebbe venuto in superficie. Ogni mattina la tribù si disperdeva nella ricerca di radici, animaletti e acqua, e seppure fosse evidente che conoscevano il fuoco non ne facevano uso nella preparazione del cibo. A mezzodì del quarto giorno di marcia sugli altipiani, la strada si inoltrò in una regione frastagliata e irregolare del tutto priva di vegetazione, e Goccia si alzò a sedere sulla barella per indicare alla compagna una serie di basse colline proprio davanti a loro. «Credo che oltre quelle alture ci sia una vallata. Dietro di esse tutto il panorama sembra sprofondare, come se l'altopiano finisse qui». «Già», fu d'accordo Ombra di Lancia. «Ma mi domando quanto terreno abbiamo guadagnato sulla nostra milizia. Senza dubbio Aquila di Guerra ha condotto la truppa su un percorso parallelo al nostro, tenendosi proprio alle pendici delle montagne. Non hanno il beneficio della strada, però le ragazze sanno esser veloci anche sui terreni accidentati.» «Dunque sei convinta anche tu che Aquila abbia preso il comando,» brontolò la rossa. «Tu conosci la legge: è pur sempre la nipote della Regina, e le Comandanti devono riconoscere la sua autorità, dato che la mia scomparsa rientra nelle situazioni di emergenza risolvibili solo in questo modo. Ma tranquillizzati; io credo che abbiano riconosciuto ad Aquila un comando solo nominale, ma nessuno di loro è disposto a lasciare che l'operazione venga condotta in contrasto coi miei programmi. Se non dovessimo raggiungerle, la marcia verso Mohenjdar proseguirà come se avessero me alla testa. Però devo riprendere il comando prima dello scontro con le Teste Nere. Ci sarà
una giornata campale, una volta giunte all'obiettivo.» «Se Aquila guiderà i nostri Squadroni, avremo una quantità di perdite che altrimenti sarebbero state evitabili,» ringhiò Goccia cupamente. «L'unica mia speranza, in questo caso, è che Ilsabet o Rhylla la prendano e la leghino. Già mi figuro che disastro sarebbe una battaglia diretta da quel suo cervellaccio balzano!» Ombra di Lancia dovette sorridere. «Sarebbe un guaio, certo. Ma abbiamo quattro Comandanti che sanno il fatto loro, il che è già qualcosa. La mia paura è che si lascino trascinare dalla bellicosità e attacchino.» «Che vuoi dire? Cerio che attaccheranno. Se arrivano sulle rive del Lago Van in buone condizioni, basterà un minimo di accortezza per far fuori le Teste Nere in mezza giornata.» «Non c'è dubbio; ma il mio comportamento sarebbe diverso. Non intendo attaccare le Teste Nere, se vedrò la possibilità di far sgombrare dalle loro truppe la zona del lago. Il mio scopo è di mettere i Sumerici davanti alla prospettiva d'essere massacrati dal primo all'ultimo, se non porranno subito fine all'assedio di Mohenjdar. E tu ne sai bene il motivo.» «Lo so un corno! I Triarchi di Sumer e di Akkad ci faranno guerra in ogni caso, con o senza atti di provocazione da parte nostra. Se miri a non far precipitare la situazione sui confini di Mitanni, sei un'illusa: è meglio far si che la guerra avvenga subito, invece, finché manteniamo una leggera supremazia. Fra due o tre anni potremmo trovarci in uno stato di inferiorità.» «Fra due o tre anni saremo molto più forti di oggi, quando i miei progetti di potenziamento della Cavalleria andranno in porto. Dammi il tempo di far allevare un bel pò di cavalli di quella nuova razza che hanno in Mitanni, e avremo l'arma vincente. No, Goccia, se vi dev'essere una guerra meglio ritardarla quanto è possibile. Ecco perché questo di Mohenjdar dovrà essere considerato appena un incidente di frontiera, un malinteso, una guerricciola fatta a metà o cos'altro ti pare. I Triarchi ringhieranno e scalceranno, ma faranno i loro interessi e prenderanno tempo. Mi limiterò a rimandargli a casa i loro soldati, se ci riuscirò. Ma per una trattativa con costoro mi fido solo di me stessa.» I due massicci Ginn che reggevano la barella avevano intrapreso un tratto in salita della strada senza accorciare il passo, ed Ombra di Lancia sudava sebbene la temperatura dell'aria fosse bassa. Dietro di loro, Tellur precedeva il resto della tribù che si sgranava in un percorso sinuoso fra le gibbosità del terreno. Le due amazzoni avevano calcolato di trovarsi a cir-
ca tremila piedi sopra il livello del mare, e la zona che stavano attraversando veniva assai probabilmente coperta dalla neve per tutti i mesi invernali. Il fondo della larga pista s'era fatto sassoso, e correva con continue curve in direzione di una sella al di là della quale si prospettava una vallata, ancora invisibile. «Non c'è un filo d'erba,» osservò Goccia di Fiamma. «E abbiamo quasi finito l'acqua. Da queste parti sembra che non vivano neanche i serpenti. Mi domando cosa mangeremo domani.» Ombra fece cenno ai due Ginn di rallentare, sbuffando. Dietro di loro le femmine e i piccoli emettevano una serie ininterrotta di grugniti e mugolii, identificabili come un linguaggio solo con molta buona volontà. Tellur e gli altri quaranta o cinquanta maschi della tribù camminavano senza chiacchierare troppo, poco interessati al paesaggio squallido che li circondava. Erano arrivati su un falsopiano, alla sommità della sella, e la strada si insinuava in un groviglio di enormi rocce giallastre, quando Ombra di Lancia udì un fischio assordante tagliare l'aria sopra la sua testa. Voltandosi, vide il Ginn che sorreggeva la parte anteriore della barella rovesciarsi indietro addosso a Goccia di Fiamma: dal suo petto sporgeva una specie di grossa freccia fornita di ali metalliche, spessa quanto un polso umano. Prima che potesse rendersi conto di quanto accadeva, un secondo strale massiccio arrivò con un ululato agghiacciante dritto contro il secondo Ginn, e con tale violenza che l'impatto gli fece fare cinque o sei passi indietro. Dalla schiena del disgraziato individuo sporgeva per un palmo una punta ferrea, sagomata ad imitazione della testa di un volatile dal lungo becco micidiale. «Gli uccelli di ferro!» gridò Tellur, spaventatissimo. Il capo dei Ginn corse presso le amazzoni e afferrò Ombra di Lancia per una spalla, cercando di spingerla di lato verso le rocce. «Ci sono gli uccelli di ferro... fuggite, amazzoni! La morte volante è su di noi!» Nell'atmosfera tersa si avvicinò un altro fortissimo sibilo, e dieci passi più indietro i sassi della strada schizzarono in alto mentre un terzo strale rimbalzava via sulle rocce. Con una bestemmia oscena Ombra saltò dall'altra parte della barella e trascinò di lato il Ginn che immobilizzava la compagna con tutto il suo peso; qualche attimo più tardi le due ragazze si gettavano al riparo di un macigno. Sulla strada risuonarono i sibili e gli ululati delle misteriose frecce, e nella tribù Yonga dilagò il panico. I Ginn si agitarono e saltarono goffa-
mente qua e là, mentre Tellur correva fra di loro incitandoli a fuggire e altri cadevano trafitti dai pesanti proiettili alati. Strepitando, le femmine e i piccoli presero il galoppo dietro ai maschi, diretti alla curva che avevano oltrepassato poco prima. «Stai giù con la testa!» esclamò Ombra, schiacciando la compagna al riparo del macigno. «Queste sono balestre, maledizione a tutti gli Dei!» Il fischio micidiale saettò ancora sei o sette volte, ed una delle femmine Ginn che s'era attardata per aspettare i suoi piccoli ebbe la cassa toracica sfondata dalla grigia testa di uccello di una freccia. Cadde a terra fiottando sangue. La tribù scomparve fra le asperità rocciose mandando grida di spavento, ed il rumore dei loro piedi che battevano pesantemente al suolo continuò ad udirsi ancora per un poco. A pochi passi dalle due amazzoni giacevano ben nove Ginn agonizzanti, due dei quali si agitavano ancora e sbavavano saliva rossastra. Non trascorse molto che anch'essi resero l'anima, e sulla scena tornarono a regnare l'immobilità ed il silenzio. «Da dove stanno tirando?» ansimò Goccia. «Da qui non riesco a capirlo.» «Non ti sporgere!» L'altra la tenne ferma con energia. «Banda di sporche carogne. Neanche un cane idrofobo si comporterebbe in questo modo. Perfino i tagliagole da strada hanno almeno il pudore di farsi vedere in faccia, prima di assassinarti!» «Tu non muoverti. Conosco le balestre, anche se non ne avevo mai viste di adatte a scagliare dardi così pesanti e strani. Le usano nell'Argolide, e se dispongono di un punto d'appoggio ti fanno secca a duecento passi di distanza. Scommetto che siamo incappate in un posto di guardia ben mimetizzato, attrezzato apposta per ricacciare i Ginn.» «Credo anch'io. E adesso abbiamo certo alcune di queste armi puntate su di noi. Pensi sia il caso di arrenderci? Se è come hai detto tu, questa gente vuole solo la pelle dei Ginn.» «Sì, ma se sono soldati professionisti sai anche cosa significa arrendersi a loro. Cosa diavolo stai facendo, adesso?» Faticosamente puntellata sul gomito sano, Goccia di Fiamma aveva cominciato a slacciarsi il vestito sul davanti. Gli spessi lacci dell'uniforme erano annodati strettamente, e allentandosi rivelavano che sotto la ragazza era nuda. «Non voglio che si confondano, tesoro. Se devo arrendermi, intendo farlo nel modo più utile. Spero si tratti di soldataglia rozza: sono i più facili a sistemarsi, dopo!»
«Non mi va per niente l'idea che un maschio puzzolente ti dia una ripassata,» borbottò Ombra, alzando cautamente la testa. Non vide altro che alture di roccia spoglia, scavate dal vento e dalla pioggia. Alla base di esse, grandi quantità di pietrisco e macigni testimoniavano che quel materiale lavico era molto friabile. «È davvero un buon posto per gli agguati,» commentò. «D'accordo: facciamo le femminucce e speriamo in bene. Hai un pettine, tesoro?» Goccia di Fiamma le diede un'occhiata seccata, poi si decise ad alzarsi in piedi. Fece cinque o sei passi tenendosi in piena vista, badando che il vestito le restasse bene aperto a mostrare i seni e l'addome, e ancheggiò vistosamente. «Iuuuh! C'è qualcuno, laggiù?» chiamò, con voce civettuola. Si guardò intorno, poi emise un gridolino: «Ombra, pensi che ci siano dei briganti!» «Se non ti hanno ancora tirato, allora si tratta dei fessi che speravamo,» mormorò l'altra alzandosi anch'essa. «Che ne dici? Piacerò lo stesso, tutta sporca e spettinata?» «Meno male che hanno ammazzato quegli orribili Ginn!» gridò Goccia di Fiamma, sperando d'essere udita dagli invisibili attaccanti. «Non vedo l'ora di incontrare degli esseri umani normali, magari qualche bel ragazzone gentile con le donne!» Le due ragazze attesero che comparisse qualcuno, ma trascorse almeno mezza clessidra senza che nulla accadesse, ed infine le loro espressioni si fecero perplesse. Ombra alzò le spalle e andò a chinarsi su uno dei Ginn, poi estrasse dal cadavere dello sventurato lo strale e lo soppesò. «Le ali di coda e la testa sono di ferro massiccio. Questa gente possiede una notevole capacità artigianale. Tieni, puliscilo. È sempre meglio che girare disarmate.» Lo gettò alla compagna, poi ne recuperò un secondo. «Puoi vestirti adesso, direi. Se pure ti stanno guardando, si vede che da queste parti le rosse non vanno molto di moda.» Poco più tardi decisero di andare avanti, essendo chiaro che i misteriosi individui praticamente le invitavano a procedere liberamente verso di loro. Al culmine del passo la strada curvava a sinistra e s'incuneava in una strettoia, ai lati della quale le colline formavano gobbe arrotondate e polverose. Era un passaggio obbligato, e fu soltanto quando giunsero lì che le due ragazze poterono osservare un sorprendente panorama: la grande vallata che si apriva davanti a loro era una conca di fertilità, una vera e propria oasi sugli altipiani, e nel mezzo di essa sorgeva una città. Gli edifici di pietra rosata erano disposti in modo da lasciare spazio ad
ampi giardini alberati e tutto intorno la natura verde fioriva in distese di campi arati. Malgrado fosse distante oltre due leghe da loro, l'atmosfera sul centro abitato era tanto tersa che Goccia ed Ombra riuscivano a distinguere nitidamente il viavai dei pedoni e dei veicoli per le vie, ed esse si fermarono a fissare quell'imprevista veduta a bocca aperta. «Guarda quell'enorme tempio,» mormorò la bruna. «È una costruzione monumentale. Bisogna credere che qui viva gente assai civile e anche ricca. E c'è anche un grande stadio... palazzi, casette, strade lastricate in pietra come quelle di Ebla!» Goccia la distrasse dandole una gomitata. Indicò il pendio alla sua sinistra. «Ecco le postazioni delle balestre, quassù ed anche dall'altra parte. E ci sono almeno cinquanta... Santissima Deal» «Che dici?» Ombra si voltò, brandendo la pesante freccia, ed il volto le si sbiancò per lo sbalordimento nel vedere ciò che aveva fatto trasalire la compagna. Sia sulla destra che sulla sinistra del passo c'erano larghi sentieri che conducevano alle posizioni fortificate dei balestrieri, con un paio di casematte per ogni lato, e dappertutto si scorgevano figure in uniforme che stavano perfettamente immobili. Ma non si trattava di uomini, ed anche la voce di Ombra uscì dalla sua bocca stridula per lo stupore: «Miliziane... miliziane dei nostro esercito! Sangue del Demonio, quella è Lusis... quella laggiù è Sanja, e c'è anche Ilsabet!» «Le vedi anche tu? Per un attimo mi era parsa un'allucinazione,» mormorò Goccia di Fiamma. Ombra prese la corsa su per la stradicciola di sinistra, gridando ed agitando le mani per chiamare le colleghe. Goccia le andò dietro, ma si sentiva le gambe molli ed aveva l'impressione di vivere in un sogno. Dopo un poco comprese che quella sensazione d'irrealtà era fondata, notando l'atteggiamento stranamente rigido delle amazzoni ed il fatto incomprensibile che nessuna di esse rispondeva alle loro grida. All'apparenza tutte quante consideravano il loro arrivo meno interessante dello svolazzare d'una mosca, ed anzi le prime tre o quattro a cui passarono accanto non si voltarono neppure. Ombra corse a prendere per un braccio la caposquadra di nome Lusis. «Ehi! Ma cosa diavolo fate qui? Che sta succedendo, e perché non...» Lusis si sciolse dalla sua stretta e sbuffò, con aria seccata. «Non mi distrarre, quando sono di guardia!» esclamò. Goccia le si fece accanto. «Cosa stai dicendo? Si può sapere che ti pren-
de? Sono Goccia di Fiamma, ragazza. Almeno guardami in faccia, quando ti parlo.» «Torna alla tua balestra, tu,» ordinò l'amazzone, duramente. «Vai al tuo posto. Vuoi che ti metta a rapporto?» «Guarda che ti spacco la testa, razza di scema!» si spazientì lei. Ombra di Lancia la trasse indietro, impedendole di strapazzare ancora la caposquadra. «Fermati. Qui sta accadendo qualcosa che non capisco. Guarda che faccia hanno le ragazze: sembra che siano diventate tante marionette ubriache, come fossero drogate dal fumo dell'Erba Sacra,... o stregate da qualche malefizio.» «Lasciami!» gridò la rossa. Poi corse più avanti. Le balestre su quel lato del passo erano una ventina, e si trattava di massicci archi orizzontali la cui corda era costituita da una fascia di cuoio rinforzato. Erano disposte su cavalletti, e presso ognuna di esse c'erano martinetti a vite da usarsi per caricarle, oltre a fasci di strali. L'insieme era simile ad una lunga trincea, con fortificazioni di sassi e camminamenti protetti, e da lì si dominava per intero la strada fino al punto in cui i Ginn erano stati colpiti. Goccia di Fiamma aveva dato uno scrollone ad un'altra caposquadra, una bionda foruncolosa di nome Onda Sognante, la quale aveva reagito appena con una smorfia, quindi era andata a prendere per le spalle Ilsabet. «Ilsabet.... Comandante Ilsabet, mi senti?» le domandò, fissandola negli occhi da un palmo di distanza. «Capisci quello che ti dico? Rispondimi. Cosa vi è successo? Chi abita in quella città, e dove si trova il resto delle nostre truppe?» «Vai alla tua postazione, miliziana. È proibito trascurare la sorveglianza anche per un solo momento,» fece l'altra impassibile. «La sorveglianza contro chi?» Goccia stentava a mantenersi calma. «Contro i Ginn, stupida! Contro gli stranieri indesiderati, razza di scansafatiche che non sei altro. Chiunque transita sul passo dev'essere ucciso. Adesso vai, muoviti, o ti metto a mezza razione per dieci giorni!» «Ma mi riconosci, vero? Lo sai chi sono io?» «Certo che lo so. Vi conosco una per una, Voialtre lavative. Muovi le gambe adesso, Goccia di Fiamma. Fila di corsa, marmotta!» «Merda!» imprecò lei con convinzione, indietreggiando. Ombra si avvicinò e la fece girare verso di sé. «Lasciala stare. Qui c'è qualcun altro. Non so chi, ma so che c'è. E non mi piace per niente. Le ragazze sono tutte sotto l'influsso di una potente stregoneria... Un incante-
simo, o qualcosa di simile. Capisci?» «Balle!» protestò Goccia, ma era pallida. «Forse sono drogate, questo potrei anche crederlo... E poi, come avrebbero fatto ad arrivare fin qui? Dalla strada non sono certo passate.» «Devono esser arrivate da est, deviando di novanta gradi dalla loro linea di marcia. Il fatto è che qualcuno ha usato un mezzo ignoto per rimbecillirle a questo modo... E probabilmente noi stiamo correndo il rischio di fare la stessa fine.» «Che cosa facciamo?» domandò la rossa. «Non chiederlo a me!» Ombra era scura in volto. Le due amazzoni osservarono preoccupate Ilsabet, la quale s'era rimessa a fissare la zona antistante il passo e le ignorava completamente. Da lì a poco s'avvicinò una miliziana, uscendo dalla casamatta più vicina. «Ora di pranzo, Comandante,» disse la nuova venuta. «Distribuisco il rancio alle due squadre?» «Cinque ragazze alla volta,» la avvertì Ilsabet. «Solo cinque alla volta possono togliersi dalle loro postazioni.» «Sissignora, Comandante.» Ombra di Lancia attese che l'altra si fosse allontanata, poi si accostò alla collega. «Salve, Ilsabet. Come va?» L'altra apparve stupita di vederla, e sbatté le palpebre. «Oh... Ombra. Non m'ero accorta che tu fossi qui. Tutto è a posto, la sorveglianza procede regolarmente. Hai ordini per noi?» «No, voglio solo la risposta ad un paio di domande: chi è stato a mettervi di servizio qui, e dove sono tutte le altre?» «Non capisco, Comandante. A inviarci sulla postazione è stato il Grande Ozo, naturalmente. E chi altri, se no? Sai bene che abbiamo un preciso compito da eseguire.» «E le altre miliziane che fine hanno fatto?» volle sapere Goccia di Fiamma. Ilsabet la fissò con estrema durezza. «Ma sei ancora qui, tu?» «Goccia sta con me,» disse la bruna, placandola con un gesto della mano. «Non irritarti. Siamo soltanto venute a dare un'occhiata.» «Capisco,» annuì Ilsabet. Poi si accigliò. «Ma il Grande Ozo non mi aveva avvertita della tua ispezione, Comandante. Da lui ho saputo solo che un folto gruppo di Ginn era in avvicinamento dal sud, e che con loro c'erano due miliziane. Abbiamo quindi proceduto secondo gli ordini.» «Il Grande Ozo, eh?» disse Goccia.
«Certo. I Ginn sono stati ricacciati, e le due miliziane che stavano con loro... be', di quelle due se ne occupa il Grande Ozo.» Ombra di Lancia e Goccia di Fiamma si scambiarono un'occhiata, allarmate da quella dichiarazione e senza aver capito ancora cosa mai stesse succedendo. Goccia tossicchiò. «Mmh! Vuoi dire che questo Ozo penserà, come dire... personalmente, alle due miliziane che sono arrivate insieme ai Ginn? E le sistemerà come ha sistemato voi?» «Le prenderà sotto il suo controllo, quelle stupide scansafatiche. Ma che razza di domande idiote mi stai facendo?» sbottò l'amazzone con irritazione. Goccia di Fiamma non seppe cosa risponderle. Si sentiva il cervello girare a vuoto e non era capace di mettere l'uno dietro l'altro due pensieri che avessero un senso. L'unica cosa di cui si rendeva conto era che le amazzoni presenti sul passo, una cinquantina in tutto, erano state invasate da una forza ignota di origine magica o demoniaca, e la situazione la lasciava sbalordita. Soltanto dopo una ventina di secondi s'accorse che Ombra di Lancia non era più al suo fianco: la ragazza bruna s'era incamminata a passo svelta lungo la discesa, diretta di nuovo sulla strada sterrata che usciva dal passo. La raggiunse di corsa. Dove stai andando?» «A Solaire,» rispose seccamente la compagna. «Non lo vedi?» Goccia le zoppicò al fianco. La gamba ferita cominciava a farle male. «Aspettami... non camminare così svelta. E perché diavolo vuoi avvicinarti a quella città? Secondo me non è prudente.» Vedendo che l'altra non le dava risposta, la afferrò per un braccio. «Ombra... riflettiamo un momento.» «E lasciami!» sbottò la ragazza. «Torna al tuo posto, miliziana. Dove credi di essere, a una festa campestre?» La sua espressione era così improvvisamente dura e ostile che Goccia di Fiamma rimase a bocca aperta e si fermò. Per un poco non fece altro the seguire con sguardo vacuo per lo sbigottimento la compagna, che s'era avviata velocemente lungo la discesa verso la vallata e pareva del tutto dimentica della sua esistenza. «Non è possibile... Dea, dimmi tu che non è vero!» mormorò. Dopo un'altra breve corsetta la affiancò e si mise a camminare al passo con lei, sbirciandola in viso. «Ombra?...» disse. «Che altro vuoi? Perché mi segui?»
«Niente, io... voglio sapere dove vai. Ti senti bene?» La bruna si arrestò e la fissò con astio. «Hai voglia di vederti appioppare un doppio turno di guardia, eh? Torna subito da Ilsabet e mettiti a rapporto da lei. Stanotte starai sulla postazione, capito?» «Io vengo con te, Ombra,» balbettò lei, incredula. La compagna le elargì un'occhiata sprezzante, poi si voltò bruscamente e proseguì lungo la strada. Per qualche minuto Goccia si limitò a seguirla in silenzio, domandandosi se non era in preda ad un incubo. La gamba ferita non le faceva più molto male, ma sentiva delle fitte acute nel braccio sinistro, che aveva battuto dolorosamente a terra quando era caduta dalla barella. Aveva l'impressione che nulla di quanto accadeva avesse un senso, una realtà, una spiegazione. Ombra di Lancia la ignorava del tutto, ed ella percorse almeno un paio di leghe col cervello del tutto vuoto. Quando furono sul terreno piano, la città che Ombra aveva chiamato Solaire le apparve più vasta, più vecchia, ma abbellita da parchi e da giardini dall'aspetto riposante. Vide subito parecchi degli abitanti, uomini e donne vestiti di linde tunichette dai colori pastellosi, che si aggiravano nelle viuzze periferiche a passo tranquillo o erano intenti a qualche lavoretto nei cortili delle loro case. In quella zona non c'erano botteghe, solo residenze assai ben tenute che avrebbero fatto l'invidia di chiunque, e stradine acciottolate che mostravano un insolito grado di pulizia. Ombra andava avanti con tale decisione e sicurezza da far sospettare a Goccia che avesse una mappa della città stampata nella mente. «Senti, non è per caso che stai andando da quell'Ozo?» si decise a domandarle. «Vorrai dire il Grande Ozo, razza di svanita! Nossignora, che non sto andando da lui. Perché dovrei? Vado al Quartier Generale, e tu verrai con me: adesso ti piazzo alle latrine per un mese di fila, così imparerai un pò di disciplina.» «Sissignora, certo, Comandante,» s'affrettò a rispondere lei. Mentre cercava d'imporsi un minimo di calma, Goccia notò che Solaire era una città decisamente pacifica. Nel centro c'erano tutte le attività non direttamente collegate col lavoro dei campi, vale a dire negozi, piccole officine e alcune taverne; vide anche quella che sembrava essere una scuola all'aperto e una scuderia. Su tutti gli edifici torreggiava la mole del tempio che aveva già visto dalle colline, di cui ella scorse solo l'imponente cupola. In girò c'erano pochi bambini, e sia loro che gli adulti erano vestiti nella stessa semplice foggia. Chi notava il loro passaggio aveva l'aria di
trovare perfettamente normale la presenza di amazzoni in quella città, e ciò convinse la ragazza che gli abitanti erano responsabili o complici di quello che stava loro capitando. Ma quale misteriosa potenza magica aveva la capacità di operare a quel modo sulla mente umana? La sola domanda spaventava Goccia, che si sentiva tremare all'idea di poter trovare una risposta ancor più spaventosa. E per quale motivo lei era rimasta fin allora indenne dalla stregoneria o influsso infernale che fosse? Insieme alla compagna attraversò le vie principali, e si rese conto intanto di una cosa: le conveniva assumere lo stesso atteggiamento rigido e lo stesso sguardo fisso di Ombra, particolari che dovevano esser comuni a tutte le amazzoni così affatturate, perché presentiva che essere scoperta in condizioni normali sarebbe stato pericoloso. E questo Grande Ozo, si chiedeva, chi accidenti era? Una specie di Re? Un mago? Un demonio volato fin lì dall'Oltremondo? Se l'artefice di quel fantastico incantesimo era lui in persona, allora la risposta a tutte quelle domande poteva esser trovata all'interno del grande tempio. Stabilì che Ombra non era assillata da quegli interrogativi: Ombra sembrava essere venuta improvvisamente in possesso di una quantità di informazioni, e forse, con l'opportuna cautela, qualcosa le si poteva levare di bocca. «Solaire è davvero una bella città,» le disse. «Un posticino come si deve. Qui si sta proprio bene, non ti pare?» Ombra la fissò sospettosamente in tralice, e non proferì verbo. La ragazza continuò, nello stesso tono discorsivo: «Anche il Grande Ozo, non è affatto un tipo malvagio. Buona idea la sua, di metterci a guardia del passo. Mi domando come gli è venuta.» «Piantala di seccarmi!» la rimproverò l'altra. «Possibile che tu non capisca che noi amazzoni eravamo le più adatte a questo lavoro? I solariani non gradivano fare la sorveglianza loro stessi.» «Sì, questo è ovvio. Ma pensavo al modo in cui si sono accorti che duemila di noi transitavano presso le montagne. Mica sono tanto vicine, le montagne.» «Infatti distano quasi ottanta leghe. Tu devi essere stupida, ragazza. Non lo sai che i poteri mentali dei Grande Ozo arrivano comodamente fin laggiù?» Goccia di Fiamma annuì. «Lo so, proprio nello stesso modo in cui lo sai tu. Solo mi meravigliavo per la sua ingegnosità. Il Grande Ozo è un tipo in gamba. Certo che... voglio dire, forse poteva prenderne sotto controllo an-
cora di più. Non ti pare?» «Ma sei in vena di scherzare, bamboccia? Quelle che ha fatto venire qui, ovvero circa un quarto del nostro corpo di spedizione, erano esattamente tutte quelle che potevano subire il suo influsso mentale. Né una di più, né una di meno.» «E le altre hanno tirato dritto, quelle lavative?» domandò Goccia di Fiamma. «Al Grande Ozo non piace che si parli molto. Tappati la bocca, una buona volta!» la redarguì l'altra, quasi ringhiando. «Certo. Abbi pazienza, oggi mi sento un pò confusa,» disse lei, soffocando l'impulso di stordire la compagna con un pugno in testa e di portarla via di corsa da quel maledetto posto. Ottanta leghe, pensò, era comunque un dato di cui tener conto, così come il fatto che l'Ozo riusciva a dominare circa una persona su quattro fra quelle che transitavano entro il raggio d'azione dei suoi poteri. Ma adesso lei come avrebbe fatto per portare oltre tale limite almeno cinquecento miliziane ben decise a restare ai comandi di quell'essere? Una cosa impossibile. Ad un tratto un sospetto la fece fremere: che cosa ne era stato delle altre? Riteneva da scartarsi l'idea che quelle rimaste normali non si fossero opposte con decisione alla defezione delle compagne, e forse queste ultime... no, si disse, non poteva essere che il Grande Ozo avesse ordinato loro di uccidere le miliziane che si mostravano refrattarie al suo potere. L'idea di cinquecento miliziane impazzite che si gettavano improvvisamente addosso alle altre, la riempì di orrore. Cosa era accaduto, là presso le montagne? «Ombra... cioè, Comandante Ombra di Lancia, tu pensi che le altre nostre commilitone abbiano proseguito verso Mohenjdar?» si decise infine a domandare. «E che ne so? Non sono fatti che ci devono riguardare. Saranno andate dove saranno andate, e basta. Questo al Grande Ozo non interessa affatto,» brontolò lei. «È già qualcosa,» sospirò Goccia, sollevata. Ombra di Lancia girò senza preavviso a sinistra ed attraversò una vasta piazza pavimentata in pietre piatte, al centro della quale c'erano giardinetti ben curati. Alcuni solariani stavano passeggiando o sedevano pigramente a prendere il sole; dei bambini dei due sessi vestiti di morbide tunichette giocherellavano, e dal luogo s'irradiava un'atmosfera di benessere tale che rese perplessa Goccia. All'altro lato della piazza c'era lo spazioso stadio
che aveva visto dalle colline, la cui facciata principale era costituita da una palizzata di tronchi ben piallati, dell'altezza di sei braccia almeno. Di guardia al portone c'erano due miliziane dall'aria attenta e ingrugnita. Ombra di Lancia le oltrepassò senza degnarle di un'occhiata e Goccia le tenne dietro. L'intero spazio erboso dello stadio era occupato da una cinquantina di grosse tende dell'esercito, e vi ferveva un'attività ordinata e tranquilla. La ragazza vide che era stato montato un altare, mentre da un lato sorgevano le baracche di legno dei servizi igienici e le lunghe tende adibite a magazzino e infermeria. Si fermò un momento per guardarsi attorno, chiamando a raccolta tutto il suo autocontrollo: dovevano esserci oltre quattrocento amazzoni, quasi tutte dell'Esercito, ed ognuna di quelle che osservò in viso aveva la stessa espressione ottusa e decisa. All'apparenza tutte avevano conservato le loro facoltà mentali per. quanto riguardava le loro mansioni militaresche, ma era chiaro che l'interesse verso altre questioni non faceva più parte della loro personalità. Goccia di Fiamma imprecò sottovoce: aveva davanti un buon quarto del corpo di spedizione, formato da amazzoni col cervello del tutto fuori pista, e per quanto sembrassero lasciate a sé stesse erano certo sotto il controllo di un'entità ignota. Cosa poteva fare lei, in una circostanza tanto al di fuori della normalità? Allontanarsi dalla città di Solaire era forse possibile, e la sua prima impressione fu che non le restasse altra soluzione. Avrebbe dunque dovuto rimettersi in contatto con le miliziane superstiti, oppure tornare in patria per cercare aiuto. Si voltò e vide che Ombra stava parlando con una caposquadra. Costei annuì e si diresse verso Goccia a passo marziale. «Tu sei consegnata alle latrine,» le disse. «Presentati alla caposquadra Fiordineve e rilevala nel servizio. Avrai dieci ragazze sotto di te e dovrai organizzarle in due turni per le pulizie del campo. Siamo intese?» «Va bene,» rispose lei. Ombra era scomparsa nella tenda principale, presumibilmente diretta a prendere il comando delle operazioni, quali che fossero, così lei si avvicinò alle latrine. Disse alla collega Fiordineve che si mettesse a rapporto per avere un altro incarico, e fece il giro delle latrine per ispezionare le strutture. C'erano dieci barchette di assi a quattro posti ciascuna, ed i buglioli di legno erano già mezzi pieni. Decise che le sarebbe convenuto mostrarsi efficiente, allo scopo di non destare sospetti. Nel campo c'erano diversi solariani, i quali si aggiravano fra le tende con
l'aria di curiosare nelle faccende delle miliziane, e Goccia li aveva visti parlare alle ragazze con tutta naturalezza. La mezza squadra di cui lei aveva il comando, grazie ai gradi che erano ancora visibili sulla sua uniforme malconcia, era forse dispersa a spazzare in terra e a pulire nel campo. La giovane amazzone sedette dietro le latrine, improvvisamente stanca ed abbattuta, e rimase un poco lì a pensare a ciò che poteva fare. Aveva sete, intanto, ed anche fame; poi le sarebbe piaciuto darsi una lavata e farsi medicare la gamba. Poco più tardi stabilì che niente le impediva di provvedere a quelle necessità, visto che la si considerava inserita nell'organizzazione del campo. Si recò innanzitutto alla tenda dell'infermeria, dove trovò una Sacerdotessa che le curò la coscia con abilità e le fece una fasciatura nuova. Poi passò dalla mensa, e benché la truppa avesse già finito di mangiare da alcune clessidre, le addette non ebbero nulla in contrario a darle una scodella di zuppa e del vino. Subito dopo andò nella tenda del magazzino. Vanella, l'anziana amazzone che aveva mansioni di magazziniera, non c'era, ed il suo posto era stato preso da Maani, sul cui volto Goccia non lesse un filo dell'amicizia che le univa da anni. Chiese, ed ottenne senza difficoltà, un'uniforme nuova della sua taglia con ago d'osso e filo per cucirvi i gradi, un paio di stivaletti sani, una maglia di lino, due coperte, una decina di pannolini assorbenti bianchi con la relativa mutandina e sapone. Quando domandò delle armi, Mani la indirizzò con un cenno in fondo alla tenda dalla miliziana che teneva in ordine l'armeria, e la ragazza si fece consegnare una spada di bronzo, un pugnale, la cintura di ordinanza, uno scudo, l'elmetto di cuoio e due bracciali protettivi per gli avambracci. Così equipaggiata si recò in una delle tende ed occupò la prima branda libera che vide. Poi tornò alle latrine. Quando al tramonto suonò la campana del riposo, Goccia di Fiamma s'era rimessa in sesto del tutto e si sentiva di nuovo un essere umano. S'era fatta sera senza che nessuno fosse venuto a seccarla, e dal canto suo ella non domandava di meglio. Aveva alle spalle parecchi giorni trascorsi assai disagevolmente, e sentiva la necessità di ristorarsi il più possibile prima di prendere qualsiasi decisione. Dopo il rancio serale non cercò di rivedere Ombra di Lancia, e sebbene fosse curiosa di visitare quella strana città, non imitò le colleghe che vide uscire dallo stadio, preferendo andare a distendersi nella sua branda. Quella notte dormì di un sonno pesante fino all'ora della sveglia.
CAPITOLO OTTAVO «El tavaeri, istle kamala.» «El tavaeri,» rispose Goccia di Fiamma, toccandosi cortesemente la fronte. Il solariano che le aveva augurato il buongiorno, rivolgendosi a lei come «donna guerriera», parlava una variante molto strascicata del sumerico, con termini in uso nella Città Libera di Lagash e desinenze che ricordavano il dialetto dei contadini di Akkad. Una quantità di amazzoni era in grado di esprimersi piuttosto bene in tutte le lingue del nord est di Afra, un pò perché queste venivano insegnate d'obbligo nei recinti-scuola, e un pò a cagione del fatto che tutte le miliziane erano costrette a trascorrere i primi anni del servizio militare nelle zone di confine. La ragazza aveva già classificato la popolazione di Solaire come derivante dal ceppo sumerico, e cominciava a rendersi conto che l'organizzazione di quella città dipendeva interamente dall'individuo chiamato Grande Ozo. Ordine assoluto, operosità e cieca obbedienza alle leggi dovevano essere le parole d'ordine in tutta quella fertilissima vallata. «Dimmi, onorevole cittadino, è possibile visitare il tempio?» Fermo davanti al portale di legno e bronzo, l'altro fece la faccia stupita. «La donna guerriera forse non lo sa?» «Intendevo riferirmi all'attuale momento. Non desidero entrare in una circostanza tale che la mia presenza sia sgradita.» L'uomo, un individuo di mezz'età vestito con una tunica aderente che gli scendeva appena alle cosce, fece un brevissimo inchino. «Mi meraviglia molto apprendere che la donna guerriera ignora l'orario del tempio. Dovrò riferire al Grande Ozo che si verifica un fatto strano.» Goccia di Fiamma si costrinse a restare impassibile. Si toccò di nuovo la fronte. «Jamal tavaeri, onorevole cittadino.» «Jamal tavaeri, o donna guerriera,» fece lui, salutandola nello stesso tono impersonale. La ragazza si allontanò in fretta, conscia di avere incollato alla schiena lo sguardo gelido e fisso del solariano. Ecco che s'era esposta ai suoi sospetti con un comportamento azzardato e tuttavia non poteva farci niente. Solo nel momento di varcare l'ingresso del monumentale edificio si era accorta che quel tipo era una specie di guardaportone, ed era stata costretta a spiegargli le sue intenzioni. Nell'interno aveva visto una vastissima navata immersa nella semioscurità, e un altare oltre le grandi colonne. Qualun-
que fosse la religione dei solariani, in quel momento il tempio era deserto, a parte un paio di tipi armati che sembravano guardie, ed era stata appunto la presenza di costoro a indurla ad allontanarsi senza attendere che il guardaportone le negasse l'ingresso con decisione. Eppure doveva sapere cosa stava accadendo e indagare il più possibile, prima di andarsene da quella città. Finse un atteggiamento militaresco, calmo e sicuro, e girò intorno al tempio. Si trovò in un vicolo ombroso, stretto fra l'irregolare mole dell'edificio e casette di legno e mattoni rossicci. Molto in alto il tempio assumeva contorni pieni di rientranze, di bell'effetto, con tetti degradanti e balconate colme di fiori, mentre uno striminzito terrazzo girava tutto intorno alla base del cupolone, ma la parte bassa era liscia, priva sia di porte che di finestre. Stava proseguendo, nella speranza di trovare una porticina di servizio o qualche altro tipo di apertura, quando da una nicchia del muro si fece improvvisamente avanti una figura sottile con una mano protesa. «Fammi la carità di un pezzo di rame, o amica amazzone. Mostrati generosa con chi ha bisogno, e grande fortuna te ne verrà,» disse una voce debole e lamentosa. Voltandosi, Goccia vide con stupore che il mendicante, il primo che notava a Solaire, non era affatto un normale essere umano, bensì un Uomo Angelo dai lucidi occhi d'argento. Non aveva più le ali, e dal suo aspetto emaciato si poteva dedurre che probabilmente non mangiava da quando era stato sottoposto alla crudele mutilazione. «Ma tu sei un Anziano del popolo alato! Che cosa fai in questa città, e chi mai ti ha privato così malignamente delle ali?» gli domandò lei, prendendolo per un braccio e portandolo subito in un angoletto presso il muro, per non essere vista. Aveva paura che il solariano la facesse seguire, e solo la forte curiosità la tratteneva dal togliersi rapidamente da lì. «Il mio nome è Alato Insel,» disse l'uomo. «E nel seguire al suolo alcuni miei compagni, caduti preda di una maledizione, sono finito in mano ai perversi sacerdoti del Grande Ozo. Ma ti prego, offrimi un poco di rame. Nelle botteghe della città non usano moneta, però accettano il rame, ed io ho bisogno di verdura. Questo è il solo cibo di terra che posso digerire senza soffrirne gravi disturbi.» Goccia si tolse il pugnale dalla cintura e glielo diede. La lama era una lega di rame, stagno e zinco, quindi una qualità di bronzo molto duro e fragile, ma l'impugnatura era rame quasi puro. L'uomo la ringraziò digni-
tosamente. «Vuoi dire che neppure viaggiando in alto nel cielo vi siete salvati dal potere mentale che cattura e rende schiavi gli uomini? Quando è accaduto questo?» «Quattro giorni or sono. Tu... tu, amazzone, non sei colei che giaceva sulla barella, allorché vi fermaste al nido del Monte Tagre? Riconosco i tuoi rossi capelli. Ah!... vedo che allo stesso modo mio non soggiaci all'incantesimo del Grande Ozo, e che la tua mente è salva. Sono ben lieto per te; ma fuggi da questa città, tu che lo puoi!» «Alato Insel... ma certo! Tu e i tuoi amici avete portato via in volo Tangri. Dimmi, che ne è stato di lei? Si trova qui? Cosa è accaduto?» L'Uomo Angelo raccontò con frasi concise che il loro volo verso settentrione era durato appena mezza giornata, poi quattro dei suoi compagni erano caduti preda del potere del Grande Ozo, ed avevano inspiegabilmente deciso di prender terra nel centro cittadino di Solaire. Gli altri erano stati così sprovveduti da seguirli al suolo senza chiedere spiegazioni, e subito erano stati catturati da numerosi uomini armati. Condotti in una piccola officina, a tutti erano state amputate le preziose ali, e quindi i solariani avevano scacciato a pedate i dieci disgraziati Anziani per le strade. Alato Insel disse che quattro di loro erano morti, e lui stesso si sentiva ancora male a causa della mutilazione subita. «Ma la ragazza di terra che stava con voi, dove accidenti è finita?» esclamò Goccia, prendendolo per le spalle. «La Principessa Aloya, intendi? Ah, ho ragione di temere che un'ingrata sorte l'aspetti. I sacerdoti del Grande Ozo, infatti, mi sembrarono molto compiaciuti nel vedere la sua avvenenza, e la condussero nei recessi di questo edificio. Se io avessi una tale dolce fanciulla per figlia, o amazzone, prima di saperla preda di uomini tanto laidi e malvagi le porrei il veleno alla bocca!» Goccia di Fiamma aveva gli occhi stretti come fessure, ed era tesa. Dopo aver vagliato quella dichiarazione girandosi e rigirandosi ogni parola nella mente, fece un sospirone e si rilassò. «Si trova nel tempio, allora? Dimmi, Alato Insel, che razza di individuo è questo Ozo della malasorte? Hai potuto vederlo?» «No. Ho conosciuto solo i suoi sacerdoti. Essi hanno ordinato ad un loro fabbro di allacciare le nostre ali a marchingegni fatti di cinghie, allo scopo di legarsele al corpo ed usarle essi stessi. Questa è un'ambizione comune a molti uomini di terra, che a noi alati ha portato sempre lutti e sciagure.»
La ragazza lo sapeva benissimo, e annuì. «E costoro sono uomini normali?» «Oh, fisicamente appaiono corpulenti e brutali. Le loro teste sono del tutto calve e lisce... ed ora che ci penso ricordo di aver notato sulle loro tempie una macchia rossa rotonda come una moneta. Purtroppo Alato Kobal è morto, altrimenti egli potrebbe dirti qualcosa di più su questi sacerdoti e sulla loro corona aurea, poiché in passato udì racconti strani su ciò che accade in Solaire.» «Una corona aurea?» «Non ne so molto, o amazzone. Alato Kobal mi narrò una volta che vi è nel tempio una strana corona ed un ancora più insolito altare, e che ciò è collegato coi magici poteri di cui i sacerdoti ed il Grande Ozo fanno un uso spietato. Dev'essere un oggetto pesante, poiché marchia le loro tempie con livide cicatrici sanguigne. Ah, quanto indifesi sono gli esseri umani di fronte a tali occulte stregonerie! Ma grazie del tuo rame, grazie. Tu oggi hai compiuto un'opera di misericordia. La tua Dea sia sempre con te.» Goccia di Fiamma gli domandò qualche altro particolare sulla faccenda, e circa gli avvenimenti successivi alla loro cattura, infine si allontanò in fretta. Fece il giro completo del tempio e vide che non c'erano ingressi secondari né finestre facilmente raggiungibili. Poi prese per una stradina secondaria e camminò a passo svelto senza alcuna meta precisa, cercando di mettere ordine nei pensieri. Era la terza clessidra dopo il mezzodì, e fra poco avrebbe dovuto rientrare allo stadio, così decise di avviarsi in quella direzione. Aveva oltrepassato un paio di caseggiati ad un sol piano, costruiti in legno e pietra rossiccia, quando le accadde di gettare un'occhiata entro una spaziosa bottega artigianale, e rimase perplessa nel vedere degli oggetti oblunghi dall'aspetto familiare fissati ad una parete. Si fermò, e li riconobbe per quel che erano: quattro paia di ali, chiuse e legate con lacci. Non ebbe dubbi che si trattasse di alcune fra quelle tagliate giorni addietro agli sfortunati Uomini Angelo. I singolari cimeli erano fissati a ganci, mentre con l'altra estremità puntavano verso il soffitto come se ne fossero attratti, e tendevano il legaccio con forza. Goccia di Fiamma sapeva che, se qualcuno avesse sciolto la corda che le fermava, le ali si sarebbero involate magicamente, sebbene in posizione chiusa le loro fibre sprigionassero solo una frazione della loro straordinaria energia. Aperta del tutto, una di esse avrebbe potuto sollevare un uomo da terra privandolo del suo peso corporeo. In quel momento le venne un'idea
che la fece fremere per l'eccitazione. La ragazza riprese a camminare, avendo notato che un paio di artigiani la fissavano, ma girò sul retro della fila di case. Come aveva già visto, dietro la bottega c'era un cortile, e lì un paio di ragazzotti stavano lavorando seduti davanti a dei cavalletti. Goccia non ci mise molto a capire che quegli artigiani avevano ricevuto l'incarico di fabbricare i finimenti di cinghie ed asticelle, a mezzo dei quali i sacerdoti del Grande Ozo avrebbero potuto indossare le ali e togliersi la voglia di provare l'ebbrezza del volo. Fece finta di niente e tornò in fretta allo stadio, per riprendere servizio. Un paio di anni prima, quando Goccia di Fiamma ed Ombra erano di stanza in Mitanni, avevano assistito a una dimostrazione di volo organizzata da tre ardimentosi forniti di marchingegni di quel genere. Costoro si erano allacciate ai torace asticelle e corde, sulla piazza del mercato, fissando saldamente le ali alla schiena, quindi avevano manovrato per aprirle. I risultati di quell'avventura erano stati drammatici, perché le ali li avevano fatti sollevare subito da terra molto rapidamente, spaventandoli e mettendoli in difficoltà. Uno di essi, giunto all'altezza di una cinquantina di braccia dal suolo, aveva perso la testa ed era stato visto slacciarsi freneticamente l'imbracatura; poi era precipitato come un sasso sul selciato della piazza uccidendosi sul colpo, mentre le sue ali ormai libere schizzavano via verso le nuvole. Un altro aveva continuato a sollevarsi nell'aria finché non era scomparso alla vista, e soltanto in seguito si era capito che il poveretto non era stato capace di chiudere leggermente le sue ali per dosarne la spinta e tentare di scendere; di lui non s'era più saputo nulla. Il terzo, più abile e fortunato dei colleghi, non aveva neppure provato a serrarle per diminuire la forza di sostentamento, ed aveva optato per fare a meno di una di esse. L'aveva quindi strappata via, e sorretto da un'ala soltanto si era lasciato portar via dal vento ad un'altezza abbastanza costante rispetto al suolo. Dieci giorni più tardi, i suoi amici lo avevano ritrovato ancora vivo, sulle montagne a oriente di Ebla, ed appena tornato in città costui s'era rimesso a studiare un meccanismo tecnicamente migliore che, a suo dire, gli avrebbe consentito di volare esattamente come un Uomo Angelo. Quella sera, dopo che la truppa ebbe mangiato, rientrò in città Ilsabet. Goccia la vide discutere nella tenda centrale con Ombra di Lancia e Maani, e non si provò neppure ad indovinare di cosa; non le interessava, e le era bastata un'occhiata al volto della compagna per sentirsi piena d'ira e di disgusto verso l'individuo che teneva in pugno in quel modo la Valle di Solaire. Ombra era un'estranea, una persona ignota ed incomprensibile
dalla quale erano state strappate via tutte le emozioni umane, una marionetta senz'anima. La ragazza si sentiva fremere dalla voglia di piantare una spada nel ventre del Grande Ozo e dei suoi sacerdoti, voleva agire, e nell'attesa che Solaire fosse immersa nel buio la sua impazienza crebbe, alimentata dall'odio. C'erano altre cose che le davano da pensare, e quel giorno s'era guardata attorno per vedere se fra le amazzoni presenti ci fossero Dunia ed Aquila di Guerra. Non le aveva trovate, ed era giunta alla conclusione che le due erano rimaste immuni dai poteri del Grande Ozo. Ma per quale motivo non intervenivano? Aquila aveva con sé circa millecinquecento miliziane, le cui menti non erano state toccate da quella stregoneria, e di fronte a quella forza la città di Solaire sarebbe stata indifesa. Perché non aveva seguito le colleghe affatturate? Perché non aveva attaccato Solaire? Dove si trovava, in quel momento? Erano interrogativi senza risposta o con un tipo di risposta che non le piaceva affatto, e ciò aumentava la sua rabbia. La ragazza uscì dallo stadio quattro clessidre dopo il tramonto, e si avviò per le strade buie della città. Agli angoli delle vie principali c'erano torce accese, che tuttavia davano pochissima luce, ed i pedoni erano scarsi. Nella piazza antistante il tempio camminò rasente i muri e svelta, tenendo una mano pronta sull'elsa della spada e gli occhi bene aperti. Era decisa a colpire a morte chiunque le si fosse parato davanti con intenzioni poco chiare, e quasi sperò che il portone del grande edificio si aprisse per lasciare uscire qualche solariano armato. Dopo averlo ucciso, sarebbe potuta entrare a far la festa ai sacerdoti ed a portare via Tangri, che magari in quel momento stava piangendo tutte le sue lacrime nell'alcova di quell'Ozo. Ma il portone rimase serrato ermeticamente, ed ella non ebbe così occasione di scatenarsi in un'incursione sanguinosa. Il piano che aveva architettato, tuttavia, certo non si sarebbe rivelato meno azzardato o cruento. Trovò la stradina che aveva percorso quel pomeriggio, e cercando di procedere in silenzio si portò sul retro della bottega artigianale. Alla luce della luna il cortile era uno spazio oscuro, pieno d'ombre, mentre nelle case circostanti si notava appena l'esistenza di alcune candele accese. Non c'erano cani da guardia, e la zona era immersa nel silenzio. Goccia di Fiamma si arrampicò sullo steccato e saltò cautamente nel cortile, poi estrasse il pugnale e corse fino alla porticina posteriore della bottega. A tentoni trovò la fessura fra lo stipite ed il battente, e vi infilò la lama, muovendola poi su e giù alla ricerca del saliscendi. Quando incontrò un ostacolo, provò a smuoverlo, ma con sua gran costernazione dovette accorgersi che non si
trattava di un saliscendi bensì di un catenaccio metallico a scorrimento orizzontale. Imprecò fra sé, conscia che non avrebbe potuto superare quell'ostacolo con un lavoro silenzioso e avrebbe dovuto abbattere la porta con la forza. Stava guardandosi attorno alla ricerca di qualche oggetto pesante, allorché una minuscola finestrella laterale si illuminò fiocamente dall'interno, e nel riquadro protetto da sbarre comparve una testa. Goccia s'immobilizzò, ma l'individuo che stava dentro la bottega l'aveva vista, e costui sollevò una candela per illuminarla meglio. «Chi sei? Che stai facendo lì?» disse la voce di un ragazzo molto giovane, in tono spaventato. La ragazza non rispose, maledicendo la propria sfortuna. L'altro però non diede l'allarme, ed anzi parlò in un sussurro teso: «Sei un'amazzone, vero? Ti riconosco: sei quella che oggi è passata di qui. Che vuoi fare?» «Stavo cercando di entrare, idiota!» ringhiò Goccia sottovoce. «Ma non voglio rubare nulla. Se prometti di non chiamare gente, me ne vado subito. Non sono una ladra.» Il ragazzo esitò qualche momento, infine disse: «Mi prendi per scemo? Tu vuoi rubare, signora mia, e scommetto che indovino cosa. Ma no... non te ne andare, aspetta!» Goccia, che stava scivolando indietro verso lo steccato, si fermò. Un attimo più tardi vide la porticina aprirsi, ed il ragazzo con la candela farle cenno furtivamente di entrare. «Muoviti! Non stare lì con quella faccia da stupida! Se ci vedono qui, siamo fregati tutti e due!» si sentì incitare rabbiosamente. Poco dopo, l'amazzone era nella bottega, ed il ragazzo richiuse silenziosamente il catenaccio. Alla luce della candela ella vide tre lunghi banconi da lavoro, scaffali alti fino al soffitto colmi di rotoli di pelli, sfoglie di cuoio lisce e dure, scatole di minuteria in bronzo e rame, e utensili di ogni genere ordinatamente disposti sotto i banconi. Nell'aria c'era l'odore del cuoio e di liquidi usati nelle concerie, ed un orologio ad acqua sgocciolava ritmicamente. Goccia di Fiamma era stupita, e fissò il suo imprevisto ospite mentre costui ficcava la candela in un angoletto. «Così fa meno luce,» spiegò lui. «E smettila di puntarmi addosso il pugnale. Io sono Iras il Carjota.» «Io Goccia di Fiamma,» si presentò lei. «Sei solo, qui dentro? E perché non hai gridato al ladro? Stai rubacchiando anche tu?» «Sto lavorando,» la corresse Iras. Poi sogghignò. «Ti ho fatto entrare
perché basta sentirti parlare per capire che non sei sotto il controllo dei Grande Ozo, possa essere arrostito a fuoco lento insieme ai Sette Servi! Non volevo certo lasciarmi scappare l'occasione di conoscere l'unica persona sana di mente, in questa città di merda. Mettiti pure a sedere. Ma parla sottovoce; quel porco di Ermolao abita proprio sopra di noi.» La ragazza lo osservò meglio, cominciando a rilassarsi. Iras era vestito con una tunichetta un pò sporca, dimostrava dodici o tredici anni, ed aveva corti capelli nerissimi spettinati. Ricambiava il suo sguardo con una luce di allegra malizia negli occhi. «Ermolao sarebbe il padrone?» gli domandò. «Già, che possa schiattare! Se sente un sussurro, puoi far conto che lo abbia sentito l'Ozo in persona, e in un batter di ciglia i suoi scagnozzi arriverebbero qui. E così tu sei un'amazzone... bene, bene! Ho sentito dire che odiate i maschi. È vero? Allora questo significa che fate all'amore fra di voi. Questo mi interessa, raccontami un pò cosa fate.» Goccia si infilò il pugnale nel fodero. «Non ho tempo da perdere. Sono qui per le ali. C'è un paio d'ali già pronto per essere portato addosso?» «Speravo che tu avessi il tempo di fare quattro chiacchiere. Tanto nessuno verrà in bottega prima di domattina. Sei alta, tu. Però mi piaci. Facciamo così, io ti do un paio di ali e tu dai un'altra cosa... capito quale intendo? Il tempo non ci manca.» Propose Iras, con un sorriso accattivante. «Senti, moccioso, ti pare che io abbia solo questo da pensare? Ho da fare, capito? Avanti, visto che sei così gentile, fammi un pò vedere queste ali della malora.» «Sono di là.» Iras raccolse la candela e le fece strada verso un locale attiguo, lo stesso che Goccia aveva esaminato dalla strada. Le ali erano sempre fissate al muro dove le aveva viste. Iras le si fece accanto ed alzò il viso a guardarla. «Eccole lì. Per quel che importa a me puoi prendertele anche tutte. Ehi, non ti hanno mai detto che sei una bella ragazzona? Dove li hai presi quei capelli così rossi?» Goccia gli tolse la candela di mano e osservò le ali, poi si guardò attorno. «Ce n'erano dieci paia. Dove sono state portate le altre?» «Tranciate,» rispose lui. «Ed è stato un lavoro infernale tenerle ferme, perché bisogna tranciarle quando le fibre sono aperte. In questo modo, le ali ti portano su e ti fanno sbattere la lesta contro il soffitto. Guarda quella cassa lassù!» La ragazza si accorse solo allora che in alto, a diretto contatto con te tra-
vi del soffitto, c'era una cassa di legno. Iras sorrise del suo stupore. «I frammenti sono lì dentro. Sei paia d'ali. Se la casa non fosse robusta, quella cassa sfonderebbe il tetto e volerebbe via. Per tirarla già ci vuole un argano.» «Capisco,» mormorò Goccia di Fiamma, All'apparenza, nessun paio di ali era ancora stato montato nell'apparecchiatura che avrebbe permesso di fissarlo alla schiena. L'inconveniente si rivelava decisivo, dato che il suo progetto di penetrare nel tempio dall'alto era basato sull'uso di quel mezzo di trasporto aereo. Sbuffò e tornò a fissare «I ragazzotto. «Dunque, tu sei immune al poteri del Grande Oso, proprio come me. Come sei riuscito a cavartela, fin ora?» «Non per nulla mi chiamano il Carjota, a Nedda. Io sono nato là. A Nedda il carjota sarebbe la lince, astuta, forte e svelta. L'anno scorso mi misi in viaggio con un carrozzone di commedianti, per vedere si mondo, guardarmi un pò attorno e prepararmi per quando compirò grandi impreso. Un giorno un Indovino predisse a mia madre che io sarei diventato un condottiero, ricco e potente, e che le donne di ogni terre sarebbero venute in pellegrinaggio per sedere al mio fianco su un trono di smeraldi. Quando verrà quel giorno, ragazza mia, fammi una visita; vedrai che mi ricorderò di te. Ho visto un'altra rossa soltanto, in vita mia, ma era piccola e bruttina. Mica una femmina gagliarda come sei tu.» «E questi commedianti vennero catturati dal Grande Ozo?» «Due no, e questi fuggirono. Ma io sono rimasto. Ho fatto finis di essere rimbecillito come gli altri, e mi sono messo a disposizione di questi solariani. Non è stato facile, perché questi dannati sembra che siano tutti con un orecchio appoggiato all'Ozo e se lo sentono parlare e dare ordini dentro la testa. Per ingannarli, però, basta andare attorno con l'espressione idiota e lavorare dall'alba al tramonto dove ti hanno assegnato i sacerdoti. Io sono stato preso come apprendista da quei pidocchio fetente di Ermolao... e ho capito subito che la cosa mi conveniva. Quando me ne andrò da qui, sarò ricco come un Re.» «Buono per te,» borbottò Goccia distrattamente. La ragazza fece un sospiro, incapace di progettare una variante del piano. Le ali erano a sua disposizione, comunque, e con una di esse forse sarebbe riuscita a sollevarsi fino a qualche finestra del tempio. Davanti a sé aveva l'intera notte, per riuscirci. Quello che le dava fastidio era il pensiero di Tangri, che fra il tramonto e l'alba certo doveva trascorrere momenti assai poco affascinanti nelle mani dei sacerdoti. Riportò lo sguardo su Iras.
«Cosa stavi facendo, qui dentro?» «Lavoro a un mio progettino. Questo è il mio momento, ragazza, e devo cogliere l'occasione,» fece lui, ridacchiando soddisfatto. «E che sarebbe?» «Oh, per stanotte mi limito a preparare i ganci, e domani andrò a cercare le pietre. Poi devo costruire un'imbracatura robusta e far sì che il contrappeso sia quello giusto. Se tutto va come deve andare, quella cassa di frammenti d'ali non se la godranno i sacerdoti. A Nedda valgono più dell'oro.» «Ho capito. Vuoi trascinarla dietro dopo averla appesantita in modo che non voli, facendo sì che un peso la trattenga a poca altezza dal suolo. Così non occorrerà alcuno sforzo per portarla via da qui. È vero, i frammenti d'ali di Uomo Angelo valgono molto. Ma perché quelle sei ali sono state tagliate in pezzi?» «Non hai mai sentito dire che con quella roba si possono fare dei giubbotti imbottiti? È un sistema molto migliore che appiccicarsi le ali alla schiena e cercare di imitare gli uccelli. Il giubbotto si solleva nello stesso modo.» Goccia di Fiamma annuì. «Già. Lo so. Imbottendo un giubbotto con la giusta quantità di pezzetti d'ala, lo si può usare per fare salti enormi, e poi si ricade ai suolo lenti e leggeri come piume. Ma sono oggetti pericolosi. Se esageri, e ci metti troppi frammenti, il giubbotto ti porta in cielo e nessuno ti vede più.» «Questo non accadrà a Iras il Carjeta. Giravo prima che tu grattassi alla porta, stavo cominciando a modificare il giubbotto che quel fesso di Ermolao ha preparato oggi. Leverò un po' di frammenti dall'Imbottitura, calibrandolo per sollevare il mio peso. Io sono leggero. Domani o dopodomani lo indosserò, quando taglierò la corda da questa fogna di città,» asserì il ragazzo. «Un giubbotto?» Goccia aveva rizzato le orecchie. «Ed è già pronto? Fammelo vedere un pò moccioso. Dov'è?» «Aah!» esclamò Iras sogghignando. «Sapevo che la cosa ti avrebbe interessato. Vediamo un pò... cosa saresti disposta a fare per quell'oggetto? Mica ti aspetterai che io... lo faccia gratis.» La ragazza vide che Iras le fissava le gambe con occhi sognanti per l'avidità, e ciò la irritò. Dopo un momento, però, la sfacciataggine di lui la costrinse a sorridere suo malgrado. «Non ti sembra d'essere un pò giovane, per queste cose?»
«Senti, rossa: è da un anno che non tocco una donna, perché in Solaire non c'è un cane che si ricordi cos'è il sesso. Il Grande Ozo ogni tanto fa accoppiare la gente, tiene i bambini che riesce a stregare e fa ammazzare quelli che non rispondono ai suoi poteri. In questo modo, un uomo che rimane uomo lo sai come deve andare avanti?» «Non entrare in particolari,» bofonchiò lei. «Questo è il mio prezzo, amazzone. Io ti do il giubbotto, e tu mi dai due clessidre del tuo tempo. Possiamo stendere in terra quelle pelli laggiù. E non fare quella faccia... un tipo ben messo come te non può odiare i maschi. Dico bene?» «Farei prima a legarti come un salame, marmocchio. Questa è l'idea che mi è venuta, invece,» lo minacciò lei. «Guarda di non fare il furbo, Iras il Carjota, o domattina Ermolao ti troverà dentro il cassetto degli attrezzi.» «Se mi tocchi mi metto a gridare!» fece lui, indietreggiando. «E se gridi saremo in due a finire davanti al Grande Ozo. Ai solariani non farà piacere sapere cosa stavi combinando qui.» Iras sbuffò, stizzito. «Questo non si chiama comportarsi da persone oneste. E non è nel tuo interesse trattare così la sola persona che può aiutarti.» «Ma se non sai neanche cosa intendo fare! Avanti, signorino, tira fuori questo giubbotto che non ho tempo da gettar via!» si spazientì Goccia di Fiamma. Dopo aver protestato e recalcitrato ancora un pò Iras si decise a condurla di nuovo nel locale attiguo. Fissato a due supporti di legno che sporgevano dal muro c'era il giubbotto volante, un indumento rigonfio e senza maniche, rinforzato da strisce di cuoio spesso, che numerose cinghie e fibbie di ottone dovevano rendere difficile da indossare ed ingombrante da portare. La ragazza dovette farsi aiutare da Iras per metterselo addosso, perché l'oggetto sembrava animato da una satanica energia e faceva di tutto per sfuggire loro di mano. Il ragazzetto sudava freddo, e disse che se il giubbotto fosse andato a sbattere nel soffitto il tonfo avrebbe svegliato l'intero caseggiato. Quando Goccia l'ebbe indossato, allacciandosi la robusta cintura e le fibbie pettorali, scoprì che se Iras non l'avesse trattenuta a tempo, sul soffitto ci sarebbe andata lei. Le sembrava di essere appesa a qualcosa, e sotto le ascelle lo strano indumento le segava la carne, tirandola all'insù con forza. «Lasciami,» disse. «Vediamo come mi muovo.» Malvolentieri Iras le tolse le mani di dosso, e la ragazza si trovò a tocca-
re il suolo soltanto con la punta dei piedi. Con grande cautela mosse l'alluce, e poi trattenne il fiato vedendo che quel movimento era bastato per sollevarla da terra come una foglia in preda al vento. Lentamente si innalzò fino alle travi nere di ragnatele, incapace di arrestare l'ascensione e con gli occhi sbarrati sul volto pallido di Iras. «Giusto sopra di te c'è il letto di Ermolao,» singhiozzò quasi il ragazzetto. «Cosa... cosa hai detto?» Goccia di Fiamma riprese il controllo dei propri nervi appena in tempo per comprendere il pericolo, ed alzò le braccia, evitando così di sbattere la testa nel soffitto. Dosando poi la forza del movimento, si diede una spintarella verso il basso. Con suo enorme sollievo si accorse di scendere, seppure con estrema lentezza, e appena toccò il pavimento s'affrettò ad aggrapparsi ad Iras. «Merda!» imprecò, preoccupata. «Questo affare può andar bene per qualcuno più pesante di me. Se lo indosso all'esterno, un falso movimento è sufficiente per farmi andare fino alle stelle.» Iras annuì. «Credo che sia stato dosato per uno dei sacerdoti. Ma non rischi molto, se stai attenta. Forse potrai balzare troppo in alto e metterci una giornata per tornare giù, però tornerai sempre a terra. Se vai cauta, ho visto che pesi un tantino di più di quanto il giubbotto possa sollevare. Dovrai camminare sfiorando appena il terreno.» «Dovrai aiutarmi tu,» decise Goccia. «Mi accompagnerai. Non mi fido a camminare in queste condizioni.» L'altro corrugò le sopracciglia. «Accompagnarti? E dove?» Quando Goccia glielo disse, lui si sbiancò in viso e la respinse. L'amazzone si staccò dal pavimento e volò obliquamente verso uno degli scaffali, rovesciando nel tragitto una scatola piena di chiodi con un calcio. Si contorse e si diede una spinta verso il pavimento, riuscendo a non rimbalzare via per miracolo. «Brutto deficiente!» ringhiò. «Adesso hai fatto la frittata. Prega il tuo dio che Ermolao dia la colpa ai topi... Vieni qui!» «Lasciami!» gemette Iras, trascinandosela dietro verso la porta. Goccia lo aveva afferrato saldamente per la collottola. «Lasciami, e vattene per conto tuo. Se sei così cretina da buttarti in bocca al Grande Ozo, ci vai da sola.» «Fila, moccioso! Trasportami avanti di corsa. Io ti starò attaccata a questo modo,» ordinò lei, spegnendo al volo la candela e tenendosi aggrappata alla tunica del ragazzetto. «Fuori, presto, prima che il tuo padrone si affac-
ci!» Imprecando, Iras uscì nel cortile posteriore della bottega e corse allo steccato. Malgrado il buio pesto, fu svelto a trovare il chiavistello ed aprì il cancelletto, quindi aumentò l'andatura per quanto glielo permetteva la presenza di Goccia di Fiamma, che dietro di lui sfiorava appena il terreno con gli stivaletti. «Vai così. Gira a sinistra verso il tempio. Una volta che saremo lì mi arrangerò da sola.» «Tu devi essere matta, ragazza!» si lamentò Iras, ma su adattò a seguirla con rassegnazione. Quasi sempre alle sue spalle, Goccia cominciò a familiarizzarsi con l'assenza di peso e l'idea di poter praticamente volare. Procedere a piedi, rifletté tuttavia, era a dir poco problematico, a meno che non si fosse fornita di un grosso sasso che la tenesse più aderente al suolo. Stava ancora considerando quell'intuizione, allorché giunsero sotto l'enorme mole oscura del tempio, e lì non vi erano pietre se non quelle troppo piccole del selciato. L'amazzone alzò gli occhi alla nera rotondità del cupolone stagliato contro le stelle. Una volta penetrata in quel luogo avrebbe dovuto disfarsi del giubbotto, che in caso di colluttazione rischiava d'esserle più d'impaccio che altro. «Che intenzioni hai?» sussurrò Iras con voce tesa. «Solo mettere un pò di spada nella pancia dell'Ozo.» «Vuoi usare la spada contro il Grande Ozo? Ma i Sette Servi... i sacerdoti, ti impediranno di avvicinarti all'altare. E non credo proprio che la tua lama sia abbastanza dura da ucciderlo.» Obbiettò il ragazzetto. «Credo anch'io che i sacerdoti non saranno felici di vedermi, specialmente quando capiranno che questa spada è l'ultima cosa che vedranno da vivi. Dici che il Grande Ozo è un osso duro? Allora lo conosci!» «L'ho visto, sì. E tu no? Se è così, quando sarai dentro avrai una bella sorpresa.» Bofocchiò Iras. Goccia So afferrò per le spalle e lo scosse rabbiosamente, ottenendo il solo risultato di staccarsi da terra di un paio di palmi. Gli impose di spiegarsi meglio, e rimase letteralmente a bocca aperta quando lui sbottò che tutti a Solaire conoscevano quel semplice dato di fatto: l'Ozo non era un essere umano. «Sta sull'altare principale,» aggiunse il ragazzo. «E non si muove mai da lì. Accanto c'è sempre uno dei Sette Servi che lo veglia, con la corona d'oro in capo, e costui dovrai ucciderlo sicuramente perché ti sentirà arrivare.
Ma il Grande Ozo non può essere infilzato da una spada. Forse col fuoco...» «Che aspetto hai?» «Ha esattamente la forma dell'Ozo, il leggendario smeraldo che Gilgamesh vide nel bosco dei cedri e poi fu rubato da Enkidu. Non conosci le favole antiche? Una volta ho visto un dipinto che raffigurava Marduk con lo smeraldo Ozo in mano, solo che il Grande Ozo ha le dimensioni di un porcello e pesa altrettanto. Si racconta che sia caduto dal cielo cent'anni fa, gettato sul mondo da un Dio. Ma secondo me è soltanto un oggetto stregato, demoniaco e nemico degli uomini.» «Uno smeraldo venuto dal cielo...» mormorò Goccia, impensierita. «Grosso come un porcello, e capace di comunicare con gli uomini! Ci crederò quando lo vedrò; per me, la cosa assomiglia molto a uno dei soliti sporchi trucchi dei sacerdoti. Comunque sia... adesso puoi andartene, Iras. Sparisci, e grazie dell'aiuto.» «Stai attentai» le sussurrò lui, ritraendosi nell'ombra del vicolo. L'amazzone fece un profondo respiro, poi si abbassò pian piano sulle ginocchia e cercò di prendere la mira verso la cupola, infine fece scattare le gambe e balzò in alto nell'aria fredda e priva di vento. Se fosse stata una pulce, la potenza di quel salto non l'avrebbe altrettanto sbigottita: il suo cuore non aveva battuto tre volte che già il giubbotto volante l'aveva portata oltre i terrazzi e le balconate più alte dei tempio, ed ella si vide quasi precipitare incontro l'imponente cupola chiara. Vi urtò con le mani e con le ginocchia, con tale forza che rimbalzò dritta verso il cielo e continuò a salire alla stessa velocità iniziale. Dalla bocca le uscì un gemito di incredulo orrore, vedendo le pochissime e deboli luci di Solaire allontanarsi sotto di lei rapidamente. Goccia di Fiamma si afferrò al giubbotto, soccombendo per qualche terribile momento al terrore del vuoto e dell'ignoto. Era circondata del buio, sospesa nel buio e diretta verso un buio ancora peggiore, e non aveva la minima idea di cosa fare per arrestare quella imprevista e spaventosa ascensione. «Dea, aiutami tu!» balbettò, maledicendosi per essere stata così folle e scriteriata. Aveva fatto male i suoi calcoli, ed ora ne pagava le conseguenze: ecco quanto le stava capitando! Trascorse circa mezza clessidra, che impiegò raccomandandosi l'anima, prima che l'istinto le dicesse che la sua velocità di salita era ormai ridotta a zero. C'era un vento leggero, che probabilmente la stava spostando late-
ralmente, ed ella rammentò quel che Iras aveva affermato, cioè che il suo peso era un tantino superiore alla forza con cui quel maledetto giubbotto poteva sollevarla. A rigor di logica, ben presto avrebbe iniziato una traiettoria di discesa. Ma dove sarebbe andata a toccare il suolo? Cominciò a farsene un'idea allorché le luci di Solaire ripresero ad ingrandire: giusto sotto di lei c'era una macchia luminosa di forma circolare, circondata da un alone chiaro, e con suo stupore la ragazza la identificò dritta sul tempio, e ad un primo calcolo comprese che il destino la portava a discendere proprio nel foro posto alla sua sommità. Constatarlo non la rese per nulla felice. Allorché fu tornata a livello della cupola, tese un braccio e si aggrappò all'orlo di quell'apertura, rimanendo con tutto il corpo penzoloni nell'interno. Centocinquanta braccia sotto ai suoi piedi c'era la navata centrale, debolmente illuminata da alcune torce, ed ella scorse l'altare. Il Grande Ozo, decise, doveva essere l'oggetto dai riflessi verdastri posto al centro di esso, e le parve in effetti che si trattasse di una specie di gemma smeraldina. Seduta lì accanto stava una figuretta in tonaca gialla, il sacerdote che faceva la veglia alla misteriosa entità. Goccia di Fiamma cercò di pensare al da farsi. La sua idea iniziale era di cercare Tangri, piantando la spada nella pancia a chiunque si fosse messo di mezzo, dopodiché avrebbe potuto occuparsi del Grande Ozo. Ma come sarebbe stato possibile uccidere uno smeraldo? Aguzzò gli occhi in basso, cercando di capire qualcosa. Iras aveva intanto esagerato, nel descriverle le dimensioni dell'Ozo; doveva essere grosso appena il doppio della testa calva di quel suo sacerdote, e sulla sua superficie cristallina c'erano molte sfaccettature. Un cordone, che dall'alto le pareva sottile come un filo, univa la strana gemma alla nuca dell'uomo. Se costui aveva in capo la corona doveva essere di scarse dimensioni. Nella grande navata non si vedeva nessun altro. La ragazza stabilì che un'azione diretta contro il Grande Ozo era prematura. Le sarebbe convenuto assai di più sorprendere l'uno dopo l'altro i sacerdoti, i Setti Servi, e se fosse riuscita a coglierli indifesi nelle loro camere da letto, ne avrebbe fatto sette cadaveri senza esitare. Si trasse sull'orlo dell'apertura e si diede una spintarella verso il basso, con estrema cautela. Fu soddisfatta nell'accorgersi che scivolava bellamente lungo la curva esterna della cupola, e dopo pochi secondi toccava la stretta balconata circolare. Sul lato destro del tempio c'erano balconi e finestre, tetti degradanti di tegole scure e qualche lume acceso, il che indica-
va la presenza di piccoli appartamenti o camere singole. Scavalcò la ringhiera d'ottone e fece un dosatissimo saltello verso il basso; stavolta non commise errori. Dopo un breve ed esilarante volo di trenta braccia si posò lieve come una farfalla su un terrazzino di pietra. Giunta qui, estrasse la spada. La maggior parte delle abitazioni della città avevano finestre di trasparente carta oleata, essendo le lastre di vetro piuttosto rare e costose, ma quel terrazzo era dotato di una porticina con lastre di alabastro sottilissimo e traforato, e per sbirciare nell'interna ella dovette poggiare un occhio ad uno dei forellini. Vide un letto, e su di esso un tizio più largo che alto completamente nudo, seduto sul bordo ed intento a soffiare in una lanterna a becco d'anatra. Era calvo, e sembrava unto d'olio da capo a piedi. Goccia saggiò la porta e la sentì cedere, allora puntò uno stivaletto contro la ringhiera e fece un respirone. Un attimo dopo spalancò la porta e volò letteralmente attraverso il piccolo locale, leggera come un'ape ma dotata di un pungiglione terribilmente più micidiale. Il sacerdote si alzò e si voltò a mezzo con insospettata agilità, ma non fece in tempo a gridare, e la spada di lei lo passò da parte a parte, emergendo sanguinolenta sotto la sua ascella sinistra. Un attimo dopo Goccia di Fiamma sbatteva a terra e contro la parete opposta per la violenza dell'impulso, rovesciando un piccolo tavolino con due vasi da fiori di cristallo. Il sacerdote era finito a terra, e la punta della spada che gli stava fissa nel corpo s'era piantata in una delle sue ciabatte; perdeva sangue più che una vescica scoppiata. Tossì bava rossa e scalciò un paio di volte, grugnendo penosamente, poi giacque morto. La ragazza recuperò la spada, ben conscia che il rumore fatto avrebbe attirato l'attenzione. Doveva muoversi in fretta attenta a non volare nel soffitto per colpa del giubbotto, e scoprì subito che era più facile a dirsi che a farsi: ogni tocco dei suoi piedi a terra la faceva balzare all'insù o contro una parete. Stava pensando seriamente a liberarsi del suo insolito mezzo di sostentamento, quando udì dei passi nel corridoio. Aprì la porta ed uscì con l'arma in pugno. Due sacerdoti in tunica gialla erano usciti dalle loro stanze e s'erano diretti verso quella del collega, pigramente, dopo essersi scambiata un'occhiata più seccata che allarmata, e costoro rimasero immobili per la sorpresa nel vederne saltar fuori un'amazzone dai rossi capelli svolazzanti. Il primo di essi mugolò qualcosa e cadde in ginocchio con gli occhi sbarrati, portandosi le mani ad un oggetto che gli sporgeva a lato dello sterno: il
manico del pesante pugnale che la ragazza gli aveva immediatamente scagliato dritto nel cuore. Il secondo fece dietro front e corse verso l'estremità del corridoio, lontana una trentina di passi. Quando si voltò, rimase esterrefatto nel vedere l'amazzone arrivargli addosso in volo, sfiorando il soffitto. Il suo stupore durò appena un attimo, perché la spada di lei gli spaccò in due parti nette la testa calva con un fendente pauroso. Sangue e cervella imbrattarono il cadavere rotolato al suolo. La ragazza arrestò il suo slancio puntando un piede nel muro, e senza neppure toccare il pavimento si spinse di nuovo indietro. Il giubbotto la sostenne all'altezza di un braccio dal suolo per tutta la lunghezza del corridoio. Dalla parte opposta c'era una scala, ed ella si aggrappò alla sbarra del corrimano, deviando abilmente il suo percorso volante verso il basso. Era eccitata, fremente per la voglia di agire, e cominciava a prender gusto a quei suoi sbalzi da uccello. Al piano inferiore c'erano dei vani privi di porta, e stanze che sembravano salottini o alcove. Tre dei Setti Servi erano andati a raggiungere il loro Dio, ma l'esistenza di una sala da pranzo ingombra di stoviglie e avanzi di cibo la avvertì che nel tempio dovevano esserci anche dei servitori, oltre ai sacerdoti. Scese di un piano ancora, e si trovò all'ingresso di un colonnato aperto, immerso nel buio. C'era il cielo sopra di lei, e comprese di trovarsi in un chiostro fra le cui aiuole fiorite i sacerdoti presumibilmente si dedicavano alla meditazione. Iras le aveva detto che il Grande Ozo era disceso misteriosamente dal cielo cent'anni addietro, ma ella trovava difficile concepire che lo si potesse adorare come un Dio e costruirvi attorno una vera organizzazione religiosa. Lo si teneva in un tempio e lo si ossequiava, o ci si lasciava dominare dal suo potere indefinibile, rifletté la ragazza, ma che bisogno aveva l'Ozo di sacerdoti e di altari? L'idiozia della situazione la irritava e le dava ancor più voglia di mettervi lo scompiglio. Stava spingendosi via da una colonna all'altra, per raggiungere un'uscita sul fondo, quando alzò gli occhi e si accorse che nel chiostro c'era un terrazzo, giusto sopra il porticato, e che immobile oltre la balaustra una figuretta silenziosa dai capelli biondi stava guardando malinconicamente le stelle. «Tangri!» esclamò. La fanciulla abbassò gli occhi e la vide. Subito dopo, però, scomparve in una camera, svelta e senza una parola. Goccia di Fiamma evitò di chiamarla una seconda volta, si accertò che dalle altre finestre del chiostro non si fosse affacciato nessuno, poi prese lo slancio e balzò obliquamente in alto
verso il piccolo terrazzo. All'interno della sua camera, Tangri la accolse sbarrandole in viso due occhi colmi di paura, e indietreggiò fin quasi a rovesciare il candelabro. Era sola e appariva fisicamente sana, ma altrettanto chiaro fu all'amazzone che ella non l'aveva affatto riconosciuta. «Tangri... sono io, Goccia. Oh, Dea! Ombra aveva ragione: non rammenti più nulla, né il tuo passato né le persone care, povera bambina.» «Non uccidermi... no, ti supplico!» gemette lei, fissando la sua spada lorda di sangue. «Chiunque tu sia, non ti macchiare di un crimine tanto terribile, recando la morte a una donna indifesa!» Goccia gettò la spada sul letto, poi le si avvicinò con un saltello che le fece attraversare l'intera stanza. La prese fra le braccia e la baciò sulle guance, commossa. «Per fortuna sei sana, anche se l'incidente ti ha sconvolto la memoria. Non immagini quanto sono stata in pena per te. Ma ora sono qui, cara.» «Lasciami... non osare toccarmi, tu!» La fanciulla si divincolò dalle sue mani e fece qualche passo di lato, ansimando. «Chi sei, dunque, tu che non temi di violare le stanze d'una principessa e rechi un'arma orrendamente insanguinata? Io ti ammonisco di non commettere altri misfatti, altrimenti ordinerò alle mie guardie di punirti!» «Non ricordi proprio niente?» si addolorò Goccia di Fiamma, vedendola così sconvolta. «Neppure il mio viso, il mio nome? Stai calma, ora. Da qui dobbiamo andarcene, bambina. Lo capisci questo?» Tangri si portò una mano alla bocca, implidendo. «Oh, dei!... No, che non ti seguirò! Vattene via, poiché io sono la Principessa Aloya e vi è qui chi ti impedirà di rapirmi. Sappi che io ti proibisco di compiere un'azione tanto ignobile!» L'amazzone fece per parlare, ma rinunciò. Capiva che era inutile cercar di convincere la fanciulla coi discorsi suadenti, e non le rimaneva che trascinarla fuori dal tempio con maniere più persuasive. Fece un sospiro, domandandosi come avrebbe fatto per sgombrare la strada dagli ostacoli che le si sarebbero frapposti. Tangri si fece avanti impulsivamente e le prese una mano in atteggiamento supplichevole. «Ti prego... Mostrati pietosa e abbandona i tuoi propositi. Se te ne andrai senza nuocermi, io saprò esserti riconoscente e ti premierà. Ecco... accetta questo bracciale. Me lo donò il Re d'una terra lontana, quando io sedevo sull'aureo trono di Gondar.» «Già, Gondar,» brontolò Goccia, sospirando. La fanciulla s'era tolta un braccialetto che le parve di pessimo rame, forse donatole da uno dei sacer-
doti. «Tienilo tu, tesoro. Dimmi, questa gente ti ha fatto del male? Voglio dire... ti hanno costretta a far cose spiacevoli? Come ti hanno convinta a restare buona in questo posto infame?» «Io non comprendo ciò che tu dici,» rispose lei. «Questo è il palazzo di un signore che ha nome Grande Ozo, ed egli mi ospita. I suoi servi sanno che io dovrò presto fare ritorno in Gondar, dove tutto il mio popolo mi attende con impazienza. Essi hanno promesso di condurmi laggiù, un giorno, e si mostrano rispettosi del mio rango. Per dire il vero, ogni tanto...» «Ogni tanto uno di loro ti fa una visitina, di notte. È così?» «Ebbene, sì. Ma allorché io regnavo nella risplendente città di Monastjr caddi vittima di un incantamento, e per sconfiggere la magia che mi minaccia devo vagare in terre straniere affrontando il Fato. Ma finché il cuore mi regge io sopporterò ogni sventura di buon animo, poiché sono la Principessa Aloya...» la voce della fanciulla s'era fatta debole, e si spezzò all'ultima frase. Ella chinò il capo, scossa da un tremito. Goccia le fece una carezza, impietosita, e stavolta Tangri non si scostò, anzi ebbe l'impressione che fosse sul punto di stringersi a lei. Quando le sollevò il viso, vide che aveva gli occhi lucidi di lacrime. D'improvviso, l'amazzone fu colta da una voglia inarrestabile di scovare gli altri sacerdoti e di vedere chi irretiva la Valle di Solaire con il suo sovrumano potere. «Tu aspettami qui, bambina. Non muoverti, e vedrai che tutto andrà per il meglio,» disse. La baciò sulla fronte, e la vide annuire. Pochi momenti dopo l'amazzone lasciò Tangri seduta sul suo lettino ed uscì, decisa a scoprire se la sua spada aveva abbastanza filo per spaccare in due il Grande Ozo. Sotto la spaziosa cupola, l'altare su cui riposava la gemma verde era immerso nel silenzio. Sei torce traevano riflessi rossicci dai marmi variegati, bruciando lente e senza fumo nei loro supporti di rame intarsiato. Le ombre delle colonne si allungavano ai lati della navata, mentre i soffitti erano immersi nell'oscurità fino al tondo foro centrale. Non c'erano banchi o sedie per i fedeli, ma solo pavimenti ben lucidati e spogli d'ogni arredamento, mentre le finestre di sottilissimo alabastro dipinto erano poste a grande altezza. Sugli scalini dell'altare, seduto su un grosso cuscino di seta, c'era il sacerdote che Goccia aveva visto poco prima dall'alto, e la ragazza lo osservava ora stando al riparo di una delle colonne. L'uomo aveva in capo un monile che non sembrava affatto una corona, e che gli aderiva alle tempie con due rotondità simili a monete d'oro. Un cordone bizzarramente arric-
ciolato univa l'oggetto al corpo cristallino del Grande Ozo, e l'uomo stava immobile con lo sguardo un pò vacuo come se esser collegato così alla grossa gemma verde gli desse una specie di blando appagamento. L'amazzone seguitò a spiarlo, nel tentativo di capire cosa significasse quell'attività, o quell'assenza di attività. Prima di passare all'azione intendeva conoscere il meglio possibile l'entità che si trovava a dover affrontare. Non dovette aspettare molto, per farsene un'idea. Era nascosta lì da appena mezza clessidra allorché udì dei passi, ed un sacerdote comparve in fondo al tempio camminando svelto. L'uomo si avvicinò al collega seduto e gli batté su una spalla. Solo in quel momento costui parve tornare in sé ed accorgersi del nuovo arrivato. «Trovato niente di interessante?» gli chiese l'altro. «Cosa? No, niente. I soliti Ginn, qualche lega a sud delle colline del Talkabau. Una tribù di pastori nomadi nel Tharros, e un accampamento di cacciatori sulla riva destra del Pantano Riffel.» «Questi potrebbero essere interessanti.» L'uomo col monile in capo accennò di no. «Sono fuori portata. Ho tentato di raggiungerli, ma sapevo che sarebbe stato inutile. Sono gli stessi che Shaul cercò di catturare ieri.» L'altro borbottò qualcosa in tono scontento, poi aggiunse: «È vero. Quei figli di cani devono aver capito che oltre il Riffel l'Onda di Potenza non arriva, e stanno lontani. Si stanno facendo sospettosi. Anch'io mi sono trovato nell'impossibilità di prenderli, quando passano nel Tharros, e ho dovuto limitarmi a guardarli di lontano.» «Di che ti lamenti? Abbiamo avuto la fortuna di trovare quattrocentonovantasei amazzoni, e se questi idioti selvaggi hanno imparato a non entrare nel raggio dell'Onda di Potenza possiamo fregarcene, ormai. Ho detto a Thelos che potremmo metterne almeno duecento a lavorare nei campì fin da domani. Dobbiamo parlarne un pò.» Goccia vide il sacerdote togliersi il monile dalle tempie e consegnarlo al collega, e capì che costui era venuto a dargli il cambio. Nessuno dei due pareva occuparsi dell'Ozo, tuttavia ella intuì che la massiccia gemma forniva tramite il cordone un potere sovrumano a chi si collegava con lei. Il nuovo venuto sedette sul cuscino, mettendosi in capo l'oggetto, poi parlò ancora: «Hai dato un'occhiata alla città?» «Stavo facendo un giro, quando sei arrivato tu. Niente da segnalare. L'Onda Secondaria di Controllo è stabile, finché non arriva qualche tempo-
rale, e stanotte il cielo sembra sereno. Però ho l'impressione d'aver visto una cosa strana...» «Gli Uomini Angelo, forse. Ce ne sono sei, in città, refrattari al controllo. Ma sono innocui. Soltanto loro si muovono di notte.» «Forse era proprio un Uomo Angelo, ma non di quelli a cui abbiamo tolto le ali. Quello volava, in alto, circa cento braccia sopra il tempio. O forse era solo un grosso uccello.» «Darò un'occhiata io. Tu hai sempre il maledetto vizio di fare esplorazioni a largo raggio, e trascuri la città. Ma io dico: di notte chi vuoi mai vedere fra le colline? E ora abbiamo queste amazzoni, ci pensano loro a tener lontani i refrattari, notte e giorno.» «Ognuno ha il suo metodo,» commentò il primo, allontanandosi verso un'uscita laterale. «Io vado a letto. Buon lavoro.» L'uomo scomparve, e Goccia di Fiamma rifletté che se costui era diretto nell'ala dove aveva lasciato i cadaveri ben presto nel tempio sarebbero risuonate le sue grida. Osservò attentamente il sacerdote rimasto, ed ebbe la sensazione che l'individuo fosse lì soltanto con il corpo: la sua mente, dotata del potere di vagare libera sulle campagne e di impadronirsi di chi transitasse nel suo raggio di azione, era in quel momento volata via nel buio della notte. Che cos'erano l'Onda di Potenza e l'Onda Secondaria di Controllo? L'amazzone non riusciva a figurarselo neppure lontanamente, e tuttavia doveva trattarsi delle forze stregonesche che gravavano sulla Valle di Solaire rimbecillendo a quel modo la popolazione. Tutto aveva origine nello smeraldino corpo del Grande Ozo, e la natura fisica di quell'entità inumana lasciava Goccia di Fiamma nella più completa perplessità. Da dove veniva, e cosa voleva dagli uomini? L'amazzone decise che non aveva più molto tempo per agire, ed uscì allo scoperto. Impugnò salda la spada e si diede una spintarella. Un momento dopo era in volo, con un balzo silenzioso che la portò addosso al sacerdote, e la sua lama saettò in un violentissimo fendente: l'uomo si piegò tutto da una parte, la strana coroncina penzolò alla base dell'altare non più sorretta da niente, e la testa decapitata del disgraziato rotolò a venti passi di distanza in mezzo al pavimento. Nello stesso momento, un urlo inorridito ed allarmato provenne da una direzione imprecisata, smorzato per la distanza, quindi la stessa voce chiamò aiuto più volte, stridula per l'ira e lo spavento. Goccia di Fiamma guardò la grossa massa cristallina. Afferrandosi con una mano all'altare per non volar via, le sferrò un colpo di spada con tutta
la sua forza giusto nel mezzo. Con un rumore che squillò nel tempio come una campana, la lama rimbalzò via senza aver provocato alcun danno visibile. Il Grande Ozo rimase immobile dove stava, ed ella imprecò. Lo colpì ancora un paio di volte e le parve di prendere a mazzate un'incudine: l'Ozo ignorava i suoi sforzi per distruggerlo. Insensibile, duro come il diamante, se pure era vivo di una sua vita misteriosa era chiaro che considerava quelle botte non più del morso di una zanzara. Il cordone col monile da collegarsi alle tempie si rivelò altrettanto robusto ed inseparabile dalla gemma, nella quale entrava attraverso un forellino dai bordo metallico, e Goccia rinunciò subito al tentativo di strapparlo via. Le voci che gridavano divennero due, poi tre, ed ella udì un confuso tramestio di passi. Bestemmiò sottovoce, ansimando, e incurante del clangore lasciò andare altri due o tre fendenti sulla superficie sfaccettata del Grande Ozo. Lo smeraldo oscillò appena sull'altare. La ragazza sbuffò di frustrazione, guardandosi attorno. Fra poco sarebbero giunti uomini armati, ed avrebbe dovuto battersi oppure saltare fino al soffitto in cerca di un'apertura da cui volar via. Alzò gli occhi: l'apertura c'era, dritto sopra l'altare, e non vedeva alcuna difficoltà a filarsela per quella via fuori dalla cupola. Poi avrebbe dovuto andare a prendere Tangri, certo... «Maledizione a tutti gli Dei!» bestemmiò. Non aveva concluso nulla, e l'Ozo era stato davvero troppo duro per la sua spada come aveva pronosticato Iras: una creatura indistruttibile. Lo fissò, domandandosi se la sua incursione doveva finire così stupidamente e senza effetti, a parte quattro sacerdoti morti ed un pò di confusione notturna nel tempio. Poi corrugò le sopracciglia, colpita da un'idea improvvisa. Con un saltello fu sopra l'altare, si mise la massiccia gemma fra le ginocchia e cominciò svelta a slacciarsi il giubbotto. Le fibbie le diedero da fare, specialmente quando furono sganciate le principali e l'indumento prese a fare sforzi pertinaci per sfuggirle di mano. Lo tolse del tutto, sudando di fatica, perché la forza ascensionale dei frammenti d'ali con cui era imbottita equivaleva al peso di un uomo che tirasse in alto invece che in basso, e dovette reggersi coi piedi al bordo dell'altare. Poi infilò il tessuto rigonfio sotto il grosso smeraldo verde, e allacciò subito le fibbie nella parte superiore, vestendo l'Ozo del giubbotto e fissandoglielo saldamente tutto intorno. Aveva appena terminato la difficile operazione, che una dozzina di individui urlanti arrivarono di corsa nel tempio, e nel vederla emisero grida di rabbia feroce. Erano tutti armati, e fra loro c'erano i tre superstiti dei Sette
Servi che uggiolavano come impazziti. Goccia non esitò. Afferrò l'involto che aveva fatto e lo scaraventó all'insù, in direzione del soffitto: avvolto nel giubbotto volante, il Grande Ozo partì velocissimo dritto verso il foro centrale della cupola, vi passò attraverso e scomparve nei cielo buio. Nella navata, gli uomini girarono in alto le facce e dalle loro gole stridettero fuori gemiti di incredulità. «Sacrilegio!...» rantolò uno dei sacerdoti, pallido come un morto, gli occhi fissi al soffitto. Lo sbigottimento per aver assistito a quella scena imprevista, rendeva i solariani simili a statue di sale. «Femmina del demonio... che hai fatto!» gracidò un altro, tremando verga a verga. Goccia s'era alzata in piedi sull'altare, e con la spada in pugno li fronteggiò sprezzantemente. «Ho rimandato il Grande Ozo là dove stava cent'anni fa: nella bocca nera del demonio! E così come l'ho conciato, continuerà a salire in eterno, senza fermarsi mai. Potete anche mettervi l'animo in pace, razza di porci schifosi!» «Ma non potevi farlo! La pagherai! Brutta cagna!» la insultarono gli individui, facendosi sotto minacciosamente. «Attenti a quel che fate!» li avvertì Goccia. «Prima di domattina l'Ozo sarà così lontano che il suo potere non avrà più alcun effetto sulle menti degli uomini. E in questa città ci sono cinquecento amazzoni bene armate e pronte a vendicarsi! Misurate i vostri passi, razza di idioti, o domattina Solaire vedrà il sangue scorrere a fiumi nelle strade. Mi avete inteso?» Uno degli uomini la assalì agitando una spada, e Goccia di Fiamma contrastò il fendente con la sua lama, poi si spostò e gli lasciò andare una pedata in faccia, girandosi ad affrontarne un altro. «Fermi!...Basta!» ordinò un sacerdote. «Smettete di combattere. Non serve a niente,» intervenne un altro, facendosi avanti a placare gli animi. «L'amazzone ha ragione, purtroppo. Il Grande Ozo è tornato nelle sedi degli Dei, e non lo vedremo mai più.» «Ma questa baldracca dev'essere punita! Uccidiamola!» «Date retta al vostro sacerdote,» esclamò lei. «E pensate a cosa accadrà domani. Le mie compagne metteranno a fuoco la città, se non vi mostrate capaci di ragionare! Vi avverto che saranno inferocite, dopo quello che avete fatto.» I tre sacerdoti, imprevedibilmente, furono quelli tra i presenti che si mostrarono più disposti alla rassegnazione, e costoro spinsero indietro gli altri solariani.
«Basta!» ordinò uno di essi. «Per adesso il Grande Ozo è ancora nelle nostre anime, benché egli sia in alto nel cielo. Ma domani il suo potere benigno ci avrà abbandonato, lasciatelo dire a me che lo so per certo. La cattiveria tornerà a dominare i cuori degli uomini, non vi saranno più ordine né pace, e tutti noi dovremo vivere senza la sua benedetta protezione. L'amazzone dice il vero: domani le sue compagne si sveglieranno in preda allo voglia di vendicarsi, ed occorre che nella Valle di Solaire non vi siano stragi dolorose.» Goccia di Fiamma saltò giù dall'altare, nel silenzio che s'era fatto dopo quelle frasi, e si guardò attorno. «Penserò io a spiegare la situazione alla nostra Comandante. Ovviamente dovrete pagare un prezzo per la vostra idiozia criminale, ma posso promettervi che se starete calmi non ci saranno violenze contro le vostre famiglie.» «E quale prezzo? Ori e cose preziose?» gridò uno dei solariani. «Dopo averci tolto la protezione dei Grande Ozo, vuoi anche vederci chinare il capo mentre ci depredate?» «Intendevo viveri e mezzi di trasporto, per riprendere la nostra marcia,» sbottò l'amazzone. «Ma non vi garantisco che qualcuno di voi non si prenderà una buona razione di pugni nel grugno. Farete bene a tenere la popolazione alla larga dallo stadio, domani. Capito?» La ragazza si fece largo fra i solariani e si avviò verso una delle uscite, diretta alla stanza dove aveva lasciato Tangri. Si sentiva stanca, ed il pensiero delle quattro persone che aveva ucciso a colpi di spada cominciava a rimorderle la coscienza. Com'era solita fare, si domandava se con un poco di astuzia non ci sarebbe stata la possibilità di risolvere la situazione meno cruentemente. Quei pensieri le uscirono del tutto dalla testa quando si trovò davanti la fanciulla, che aveva udito la confusione ed attendeva pallida di spaventa il suo destino, seduta sul tetto. «Non tremare così, Principessa Alaya,» le disse dolcemente, circondandole le spalle con un braccio. «Domani ci metteremo in viaggio, e se saremo fortunate arriveremo prima o poi a Gondar, Ti fidi di me?» «Mi fido, poiché nei tuoi occhi leggo la sincerità,» mormorò lei. «E a dire il vero attendevo cor, impazienza la possibilità di lasciare questo luogo. Sai... anche nel passato ebbi a fidarmi di una giovane donna dai capelli rossi come i tuoi, ed ella fu gentile con me. Com'è strano che io non ne rammenti neppure il nome!» «Fai uno sforzo, tesoro. Cerca di ricordarselo,» disse Sei, con tono affet-
tuoso. «Era... era forse Ombra. Ecco: Ombra di Fiamma!» esclamò Tangri con un sorriso. «Ci sei andata vicina, molto vicina,» disse l'amazzone, baciandola su una guancia. Dalla parte del tempio non si udiva alcun rumore. CAPITOLO NONO Era pomeriggio, e distesa su un carro colmo di sacchi di cereali Goccia di Fiamma stava pagando l'attività fisica del giorno precedente. La mano sinistra le si era di nuovo gonfiata, al punto che stentava a muovere le dita, e il dolore alla gamba ferita non Se permetteva di camminare bene. La strada che attraversava la Valle di Solaire diretta a settentrione era piena di buche, ed il veicolo non aveva smesso di sobbalzare un momento da quando avevano lasciato la città. «Hai la febbre,» disse Tangri, toccandole la fronte. L'amazzone scosse il capo. «Non credo. Ho solo bisogno di riposarmi un pò.» Sanja, una delle due miliziane sedute a cassetta, si voltò a commentare che ben sessantadue ragazze della truppa avevano dichiarato di avere la febbre, quando s'era visto che i carri erano solo ventisei ed i cavalli appena trenta. «Ti curerò io,» affermò Tangri. «Non permetterò a quelle smorfiose Sacerdotesse di toccarti!» «Ah! Così stanno le cose, dunque?» esclamò ancora Sanja, voltandosi. «Ora capisco perché la Comandante Ombra sembra come morsa da una vipera. Ma non avete un pò di contegno, voi due?» Goccia di Fiamma e la fanciulla non si presero la briga di risponderle. Davanti a loro il terreno saliva verso gli altipiani, e alle spalle della lunga colonna in marcia la città di Solaire era ormai lontana circa dodici leghe. Quel mattino, dopo essersi resa conto che le miliziane accampate nello stadio erano finalmente tornate normali, Goccia di Fiamma aveva spiegato Sa situazione ad Ombra e alle altre ufficialesse, riuscendo a far si che le amazzoni stessero calme e pensassero al da farsi. Ilsabet e Maani avevano gridato e recalcitrato» quando Ombra s'era dichiarata contraria a giustiziare i sacerdoti e i cittadini più in vista, e solo l'autorità inflessibile della bruna aveva tenuto a freno le soldatesse che volevano uscire armate nelle strade. Più tardi, sbollita l'ira delle più scalmanate, Ombra aveva mandato
fuori numerose squadre di ventidue miliziane a requisire una lunga lista di materiali e rifornimenti di cibo. A mezzodì, non essendoci stata alcuna resistenza da parte della popolazione, sulla piazza antistante lo stadio le amazzoni avevano caricato i ventisei carri trovati in città con tutto ciò che s'era potuto prelevare dalle botteghe e dai magazzini agricoli. Nei campi si erano trovati trenta cavalli adibiti al traino degli aratri, animali piccoli e solidi che fra le stanghe dei carri s'erano rivelati docili quanto robusti. Sui veicoli viaggiavano ora nove Sacerdotesse e un centinaio di miliziane, mentre le rimanenti seguivano la colonna a piedi. I quattro cavalli rimasti erano stati affidati ad altrettante ragazze della cavalleria, che Ombra di Lancia aveva spedito avanti lungo la strada per dare un'occhiata alla zona. Più tardi Ombra di Lancia raggiunse il carro e vi saltò sopra, afferrando il braccio di Goccia e rigirandoselo fra le mani per sentire il gonfiore. «Ti ha fasciata Tangri?» chiese. «No, l'ho fasciata io, signora,» disse la fanciulla. Ombra ridacchiò. «Bene, Sei stata brava, Aloya.» Poi si volse alla compagna: «Quelle che abbiamo alla sinistra sono le Montagne di Lurgwat, e terminano un poco più avanti. Stanotte ci accamperemo sull'altopiano. Abbiamo a dir poco sei giorni di ritardo sulle altre, e forse dovremo lasciare questa comoda strada.» «Mohenjdar è a non meno di trecento leghe a oriente da qui.» «Lo so, Goccia. Io calcolo che fra sei o sette giorni avvisteremo i Monti Grigi, oltre i quali dovrebbe trovarsi la valle del Lago Van. Ma ci troviamo in una terra completamente sconosciuta. E comincia a far freddo.» La rossa si accigliò. «A quanto pare, non ce la faremo a riunirci al resto della truppa. Aquila di Guerra arriverà a Mohenjdar assai prima di noi.» «Già. Ti confesso che non so proprio cosa pensare, di Aquila. Ilsabet mi ha detto che il Grande Ozo si è impadronito delle ragazze in piena notte, mentre erano accampate. Tutte e cinquecento hanno preso le armi e se ne sono andate in silenzio, evitando le sentinelle e scomparendo dal campo nel buio. Ma è chiaro come la luce del sole the Aquila non si è preoccupata di seguire le loro tracce, il mattino successivo, e questo suo comportamento è inspiegabile. Ilsabet mi ha anche raccontato che Brezza dell'Est ha avuto una lite tremenda con Aquila, dopo il nostro incidente, ed è stata destituita. Aquila aveva troppa fretta di dichiararci morte e di assumere il comando. Rhylla invece ci ha cercate per tre giorni, mentre le altre proseguivano, poi quando s'è riunita a loro ha scoperto d'esser stata degradata a semplice miliziana per punizione. Al momento in cui quell'Ozo le ha irreti-
te col suo potere, stava per scoppiare una rivolta. Hay Varena e Rhylla erano state messe ai ceppi la sera prima, mentre Brezza, Ilsabet e Maani avevano già cominciato a riunire le caposquadra per togliere l'autorità ad Aquila con un atto di forza.» Goccia di Fiamma annuì pensosamente. «Così, Aquila può ringraziare i sacerdoti del Grande Ozo se la rivolta non è scoppiata.» «Sì. Però Aquila di Guerra è stata abile: dopo appena due clessidre dal momento in cui eravamo finite nel torrente, ha tenuto un discorso alla truppa dichiarando che la nostra missione di soccorso doveva proseguire, dicendo che io stessa avrei fatto così, ed ha galvanizzato le miliziane con parole nobili e infuocate.» «Non c'è dubbio che già si vede tornare vittoriosa alla Capitale,» grugnì Goccia di Fiamma. «E per chissà quanti anni non permetterà a nessuno di dimenticare quanto sia splendente la sua aureola di gloria e di coraggio! Ma lascia che le metta le mani addosso...» «Aquila di Guerra è crudele,» disse all'improvviso Tangri. Quando le altre due la fissarono interrogativamente, continuò: «Io... io ricordo una donna con quel nome, anche se non so dire dove la incontrai. Forse fu colei che mi scagliò addosso un perverso incanto, allorché regnavo nell'aurea città di Monastjr... è tutto così confuso!» Goccia le fece una carezza. «Non preoccuparti, tesoro. Vedrai che prima o poi rammenterai tutto. Almeno spero. Sai, Ombra, anche Maani una volta mi raccontò tutto il suo passato, e ha detto che gli avvenimenti le tornavano a pezzi e a bocconi, non tutti insieme.» «Forse. Ma non credo che Maani in quel periodo fu convinta di essere la Principessa di Gondar,» bofonchiò l'altra. Stava per aggiungere qualcosa, quando vide che le quattro esploratrici tornavano verso la colonna, e le fece accostare al carro. Le ragazze riferirono che una decina di leghe più avanti la strada scendeva nuovamente dall'altipiano, e che c'era una vallata erbosa molto più vasta di quella di Solaire. All'apparenza era incolta, almeno nel tratto che avevano potuto osservare, ma si trattava di un luogo punteggiato da voluminosi affioramenti di rocce lisce, che impedivano la vista di eventuali piccoli insediamenti umani. A detta delle esploratrici la grande vallata sembrava troppo fertile per essere del tutto disabitata, e ciò nonostante vi regnava un silenzio assoluto. «Ci sono in giro orme di grossi felini,» aggiunse una di esse con aria preoccupata. «E quella valle ha qualcosa che non mi piace. Secondo me è
meglio fare il campo prima di scendervi, e attraversarla poi in pieno giorno.» Ombra di Lancia seguì il suggerimento, e prima che scendessero le tenebre fece montare il campo in una zona liscia e ventosa dell'altipiano. Il terreno era duro, secco, e non vi cresceva nulla. Quella sera accesero fuochi che non durarono molto, a causa della scarsità di legna da ardere, e tutte le miliziane ebbero vesti supplementari da indossare sotto la robusta uniforme. Sotto le tende si tremava per il freddo, e le Sacerdotesse correvano dall'una all'altra distribuendo rimedi contro il raffreddore e giare di terracotta piena d'acqua calda. «Queste tende fanno schifo,» si lamentò Goccia di Fiamma, dopo essersi rannicchiata accanto a Tangri sotto uno strato di tre coperte. «Da sotto entra il vento, e sono troppo sottili. Se si mette a piovere staremo meglio all'aperto!» Ombra di Lancia non disse nulla. Era materiale fabbricato a Solaire, e non avevano altro. Quella in cui stavano era a venti posti, e intorno a loro le miliziane parlavano sottovoce nel buio e si agitavano. Poco più tardi ebbe l'impressione che almeno un paio di esse stessero facendo all'amore, e questo la innervosì. Goccia e Tangri s'erano addormentate, ed ella rimase con gli occhi fissi nell'oscurità ascoltando il vento che spazzava quella terra così arida. Preoccupazioni e problemi le sfilavano nel cervello in un flusso continuo, impedendole di prender sonno. Oltre a ciò, non poteva fare a meno di rammentare tutte le notti trascorse con la compagna sotto una tenda o all'aperto, occasioni durante le quali Goccia di Fiamma le stava stretta al fianco ed era solita dormire con un braccio di traverso sopra di lei. Adesso, la ragazza dedicava tutta la sua tenerezza a Tangri. Ombra cercò di dirsi che fra le due c'era soltanto una dolce amicizia, di questo era certa, e tuttavia come poteva pretendere Goccia che lei non si seccasse? Tangri era una cara fanciulla bisognosa di calore e di conforto umano, e va bene, mentre lei era una soldataccia. Però, quanto prima l'avessero riportata a Mohenjdar tanto meglio sarebbe stato, bofonchiò fra sé. Il giorno dopo, a metà della mattinata, discesero nella Valle di Baa. Era stata Maani a suggerire quel nome, perché uno dei colossali spunzoni di roccia lavica che emergevano dovunque dal terreno aveva le fattezze dell'idolo omonimo, adorato in Akkad. Ombra lo trovò particolarmente azzeccato, visto che Baa era il Dio della solitudine e delle lande prive di vita oltre i confini del mondo; infatti il luogo appariva dei tutto deserto. L'erba rada e gialliccia si stendeva per molte leghe come un tappeto ondu-
lato, rotta solo dagli affioramenti di liscia pietra. «Dovremo abbandonare la strada,» disse Ombra durante la fermata per il pasto di mezzodì. «Sembra che vada dritta a settentrione, ed è tempo di dirigerci a oriente o finiremo chissà dove,» «Poco male,» fu il commento di Ilsabet, «Il terreno è regolare, duro, e i carri ce la faranno.» Appoggiate alle stanghe o alle ruote di un paio di veicoli, c'erano Maani, Goccia di Fiamma, Tangri e una Sacerdotessa di nome Rouzilla, mentre Ombra era seduta a terra vicino alle stoviglie sporche e stava ripassando il filo della sua spada con una lima di ottima ghisa, requisita in Solaire con altri attrezzi. Ilsabet si controllava l'aspetto del viso in uno specchietto di ottone lucido, dopo aver finito di rifarsi le trecce. «Mi domando perché qui non c'è nessuno,» disse ancora. «Il suolo è fertile, e ci sono dei fiumiciattoli.» «È per colpa del Grande Ozo,» la informò Goccia. «I suoi sacerdoti tenevano sotto controllo i dintorni di Solaire per un raggio di ottanta leghe circa, col loro potere. L'Onda dei Potere, la chiamavano. È chiaro che contadini, pastori e cacciatori nomadi hanno imparato a stare alla larga, Tellur, il Ginn, diceva che più oltre ci sono posti chiamati Sangrayoah, Fiorgelize e le Paludi Yantraghe, ma non credo fosse mai stato da queste parti in vita sua.» L'accenno ai Ginn risvegliò la curiosità delle amazzoni, e Goccia raccontò con abbondanza di particolari il loro incontro con la tribù Yonga, concludendo che sperava di rivedere quegli esseri duraste il ritorno. Stava poi ripetendo la narrazione delle sue peripezie all'interno del tempio, che il giorno addietro aveva riferito in forma succinta, quando Ombra di Lancia Sa interruppe dicendo che era ora di rimettersi in movimento. Per due giorni le cinquecento amazzoni marciarono in un percorso a zig zag nella valle di Baa, coprendo circa sessanta leghe verso est. Le Montagne di Lurgwat scomparvero alla vista, mentre a settentrione si delineò il bastione di un altro altipiano. Assai lontane, nella loro direzione di marcia, c'erano colline sfumate nella foschia che sembravano chiazzate di vegetazione. La temperatura salì di qualche grado, e dal sud prese a soffiare un vento leggero e continuo. Secondo i calcoli di Ombra si trovavano a un'altitudine di quattromila piedi sul livello del mare, e dal momento del loro sbarco avevano percorso almeno duecentocinquanta leghe in direzione nord est. Due miliziane furono incaricate di disegnare mappe di quel territorio, e le esploratrici a cavallo ebbero l'ordine di cercare innanzitutto l'ac-
qua. Il terzo giorno scorsero il cono fumante di un vulcano, a nord, che a Goccia parve fin troppo attivo, e si trovarono in una zona nella quale erano frequenti i soffioni di vapore bollente. Le amazzoni furono costrette ad avanzare sui bordi di larghe distese fangose, piene di bolle che esplodevano fumando, ed ebbero dei guai coi carri sul terreno molle. Quasi tutte le miliziane dovettero alleggerirsi delle armi ed occuparsi dei veicoli, che continuavano ad impantanarsi. Quando la grande vallata terminò in una zona collinosa, tutte tirarono un sospiro di sollievo e cominciarono e guardarsi attorno in cerca di un fiumiciattolo nel quale lavarsi i vestiti e gli stivaletti pieni di fango. Il mattino del quarto giorno, Ombra di Lancia fece portare al pascolo i cavalli e li lasciò riposare, decidendo che avrebbero fatto una sosta. Le Sacerdotesse ebbero l'occasione di costruire un altare improvvisato, il che le rese euforiche e cicalanti, e le miliziane si sentirono dire una volta tanto che facessero ciò che volevano. Due squadre furono lasciate di guardia, ed oltre quattrocento ragazze inquinarono l'acqua di un vicino torrente sguazzandovi dentro nude, sciacquando i loro panni, divertendosi coi soliti scherzi e gridando, o litigando, ed arrivando tutte in ritardo alla funzione religiosa. Il pasto fu allegro, e Goccia di Fiamma ebbe la soddisfazione di vedere Tangri abbandonare il mesto atteggiamento che ne offuscava l'umore da quando era convinta d'essere una Principessa fasulla. Per due volte, al torrente, l'aveva chiamata Aloya ed ella non s'era neppure girata. Prima di immergersi nell'acqua la fanciulla aveva mostrato un casto pudore verginale, ma l'immediata vicinanza di tutte quelle ragazze nude che si schizzavano addosso l'acqua ridendo e berciando l'aveva sciolta rapidamente, ed ella non era stata meno scherzosa delle altre. Dopo il pasto, Maani, che non era capace di star ferma, si fece dare uno dei cavalli e partì da sola per dare un'occhiata alle colline. Goccia di Fiamma ed Ombra andarono con Tangri a fare una passeggiata lungo il torrente, e qui ebbero l'enorme sorpresa di trovare Ilsabet in tenero colloquio con una miliziana amica sua. La bruna Comandante di Squadrone era nota per i suoi continui piccoli intrallazzi con gli uomini, e pur non essendo molto attraente la si sapeva sempre accoppiata con maschi di ogni genere per lo più provenienti da Mitanni. Goccia di Fiamma non le risparmiò qualche battuta pungente, mentre le passavano accanto, e si ebbe la rispostaccia di rito.
«Le ragazze sono di ottimo umore,» constatò Ombra, soddisfatta. «È logico, cara. Molte si sono offerte volontarie solo perché avevano sentito dire che la spedizione la comandavi tu, ed il pensiero di portare soccorso alle nostre consanguinee di Mohenjdar le rende euforiche. Inoltre, finora non abbiamo avuto nessuna perdita e il viaggio non va poi tanto male,» disse Goccia di Fiamma. «Stasera riorganizzerò un pò i quadri. Ho intenzione di dividere la truppa in due Squadroni da duecentoquarantadue unità, cioè di undici squadre ognuno, con al comando Ilsabet e Maani. Poi bisognerà promuovere alcune ragazze al grado di caposquadra, ed affidare ad altre incarichi vari.» «Prevedi difficoltà?» «Diciamo piuttosto che le annuso. Ieri sera ho visto di lontano quella che sembrava un cava di marmo, e questo significa che troveremo ben presto qualche grosso centro abitato. A occhio e croce, direi che Aquila di Guerra è transitata a non più di trenta leghe a sud est di qui, e ciò dev'essere accaduto sei giorni fa. Se più avanti vive gente abbastanza civile e progredita da far uso del marmo, mi domando quale sia stata la loro reazione nel vedere millecinquecento miliziane sulla loro terra.» Goccia annuì, riflettendo ai vari aspetti della loro situazione. Poi mise un braccio attorno alle spalle di Tangri, e tutte e tre tornarono lentamente verso le tende. Poco più tardi, Ombra di Lancia si accomiatò dalle amiche e fece un giro fra le tende. Presso uno dei carri trovò Babeeri, la caposquadra a cui aveva affidato provvisoriamente le mansioni di magazziniere, indaffarata ad aggiornare la lista dei rifornimenti. Babeeri aveva disteso su una pietra liscia un rotolo di pergamena fitto di voci e cifre scritte nel tondeggiante corsivo usato nelle Terre Basse, e con una penna d'oca stava ricopiandovi sopra le sue correzioni, in inchiostro rosso. Ombra lesse da sopra una spalla di lei, e scoprì che nell'elenco figurava materiale di cui non era al corrente. «Come mai abbiamo quattrocentosessanta maschere da guerra?» volle sapere. «Aquila le aveva fatte distribuire alle ragazze, la sera prima che lasciassimo il campo,» rispose la caposquadra. «Disse che a portarle in combattimento contro i selvaggi fanno il loro effetto e che le miliziane non devono disabituarsi ad usarle.» «Be', non aveva torto,» ammise Ombra. «Toglile dal carro ventuno, e stasera falle dare alle ragazze insieme al rancio, così resterà posto sul veicolo per eventuali malate. E quel riso?»
«Questi due sacchi? Li abbiamo presi a Solaire, insieme alla farina.» «Ma laggiù non avevano risaie. Come se l'erano procurato?» Babeeri rispose che non aveva idea. Facendo scorrere gli occhi sulla lista Ombra scoprì che vi figuravano duecento pettini d'osso, e si irritò. «Questa mattina le ragazze si lamentavano che non c'è un pettine in tutto il campo, e qui ne hai duecento. Distribuisci anche questi.» «Ma Comandante, da sola non posso far tutto. Stamattina mi hanno fatto diventare matta: chi voleva un paio di stivaletti nuovi, chi ago e filo, chi il sapone, o una cintura, o mille altre cose. Non ho potuto neanche andare a fare il bagno. E poi tutte protestano che non abbiamo la roba più necessaria. L'alcole di legno, per esempio, e la muffa medicinale per le ferite. Sono viziate: lo sai qual è l'articolo che mi viene più richiesto? I nastrini per legarsi le trecce. E non ce n'è neanche uno. E i bastoncini di lacca rossa per le labbra... Oh, Dea! Ma dico io, credono d'essere a una festa campestre?» Ombra borbottò qualcosa, seguitando a leggere l'elenco, ma il buon umore le era passato. Babeeri non aveva torto: se presto non avessero trovato da combattere, la disciplina correva il rischio di rilassarsi troppo e lo spirito della truppa ci avrebbe rimesso. La ragazza decise che dal giorno seguente avrebbero proceduto a marce forzate e in complete assetto da battaglia. E avrebbe fatto circolare la voce che in quella terra abitava un popolo bellicoso. Il giorno dopo Ombra di Lancia uscì dalla tenda all'alba, e si accorse che nella zona stagnava una nebbiolina immobile e fredda. Il sole era ancora nascosto dietro le colline tra le quali avrebbero dovuto dirigersi, e l'unico rumore era il fruscio del vicino torrente. Le uniche già in piedi, oltre a lei, erano due Sacerdotesse che stavano trascinando al campo un pentolone pieno d'acqua. La ragazza diede loro una mano, e poi andò a cercare le sentinelle. Da loro seppe che Maani era stata fuori a cavallo tutta la notte, e che era tornata solo da poco. Dopo aver cercato in tre o quattro tende la trovò avvolta in una coperta, che stava bevendo vino e rabbrividiva per il freddo. Maani aveva la faccia tirata di chi non ha dormito, e sembrava di pessimo umore. «Ah, stavo per venirti a svegliare,» la accolse. «Stanotte ho azzoppato il cavallo, e mi sono persa due volte. Oltre quelle colline il terreno è molto irregolare.» «Ma dove accidenti sei andata?» Maani la fece tacere con un gesto. «Avremo dei guai, Ombra. Almeno, se procederemo in questa direzione. Ieri sono andata avanti per circa dieci
leghe, e mi sono trovata in una zona piena di alberi e di boschi. Ci sono lunghi burroni e piccole valli erbose, e poi un territorio pianeggiante. È stato lì che ho cominciato a vedere dei sentieri. Ne ho seguito uno e ho scoperto una strada, solcata da tracce di veicoli a ruote. Da qualche parte dev'esserci una città. Stavo per tornare indietro, quando mi sono accorta che lungo la strada arrivava gente a cavallo, e mi sono nascosta. Erano soldati.» «Soldati?» Ombra soffocò un'imprecazione. «Descrivili. Li hai potuti riconoscere?» Maani scosse il capo. «Gente mai vista. Avevano in testa elmi di ottone lucido a forma di teschio, che gli coprivano a metà la faccia, un pò come le nostre maschere di cuoio. Anche le loro armi erano in ottone, spade pesanti e ricurve e lance di legno nero con punta a tridente. Avevano uniformi di stoffa gialla e nera, e cavalcavano verso settentrione. Una trentina in tutto. I loro cavalli sono piccoli come questi che abbiamo preso a Solaire, con gualdrappe sui fianchi. A mio parere si tratta di soldati piuttosto bellicosi e mollo bene organizzati. Li ho seguiti per circa quindici leghe, prima di rinunciare a scoprire dove stessero andando. Dovevo tornare qui prima che tu levassi il campo.» Ombra rimuginò cupamente quelle notizie, mentre un paio di miliziane sdraiate lì vicino e già sveglie si scambiavano commenti a bassa voce, preoccupate. «Tu cosa consigli?» disse infine. «Mandiamo avanti una squadra. Posso vedere due soluzioni: una è l'attraversamento rapido di quella zona, tenendoci nascoste, e allora bisognerà cercare un percorso adatto. L'altra è annunciarci apertamente e chiedere il diritto di passaggio. Io sceglierei la seconda.» «Per quale ragione?» «Secondo me il territorio e abitato abbastanza fittamente. Ho visto dei fili di fumo, molto lontano, e questo fa pensare a villaggi o a fattorie. Il terreno si fa fertile, del resto. Direi che troveremo agricoltori sparsi dappertutto. E quei soldati avevano l'aria di chi tiene saldamente in pugno una vasta regione. Non è nel nostro interesse combattere contro di loro.» «Li hai sentiti parlare?» «Uno di essi ha esclamato qualcosa, ma non ho capito la parola. Poteva essere dialetto di Hissarlik, o colchiso. Ho visto anche un fiume di notevoli dimensioni, e se non sbaglio credo che si tratti dei corso superiore dell'Aladag. In tal caso, questa gente deve avere qualche contatto coi Sumerici e
gli Akkadi.» Ombra annuì. Si era aspettata di trovare prima o poi l'Aladag sul loro percorso di marcia, avendole Tangri riferito che le sorgenti di quel fiume erano ad occidente del Lago Van. Una delle ragazze che avevano seguito la conversazione uscì da sotto la sua coperta e si avvicinò. «Quei soldati erano uomini di Tebron,» disse. «Mia sorella presta servizio nella flotta mercantile, e ha sentito parlare di loro in un porto di Hissarlik. Si dice che portino elmetti a forma di teschio per spaventare i nemici.» «E che altro sai?» domandò Ombra. «L'uomo che ne parlò con mia sorella disse che sono gente pacifica, se non vengono minacciati. In passato hanno fatto una guerra con un popolo confinante, chiamato Aramak, e li hanno ricacciati.» Ombra fece un sospiro. Non aveva mai sentito parlare di Tebron, e non sapeva praticamente niente neppure degli Aramak. La sua scelta di arrivare al Lago Van per un percorso occidentale era stata dettata dalla necessità di evitare gli altipiani in mano ai Sumerici, e tuttavia ora si trovava di fronte ad un popolo potenzialmente altrettanto pericoloso. Decise che Maani aveva ragione: finché possibile, era necessario conservare intatte le loro forze. «Va bene,» le disse. «Tu e Ilsabet prendete il comando. Io andrò avanti con una squadra e cercherò di ottenere il diritto di passaggio. Nel caso che io non ritorni. ..be', l'ordine della Regina è di raggiungere Mohenjdar.» «Non sono certo venuta fin qui per poi tornare indietro.» brontolò Maani, annuendo. Ombra tornò nella sua tenda e svegliò Goccia di Fiamma per informarla della sua decisione. Fu poi costretta quasi a litigare con lei, perché insisteva per unirsi alla squadra malgrado le sue condizioni fisiche, e cercò di interrogare Tangri su Tebron e sugli Aramak, scoprendo che la fanciulla aveva la mente più confusa che mai: a momenti insisteva d'essere ancora la Principessa Aloya, ed a momenti tirava fuori ricordi che riguardavano la sua vita in Mohenjdar, sovrapponendo il suo passato reale ad uno del tutto immaginario. Dopo aver buttato giù un boccone fece preparare ventidue cavalli e passò brevemente in rassegna le miliziane che Ilsabet aveva fatto armare fino ai denti. Quattro di loro avevano arco e frecce, le altre solo spada, scudo e due pugnali, oltre a un'accetta da lancio fissata sulla schiena dell'uniforme borchiata in rame. In tutto il campo non c'era una sola lancia, né una sella. Ombra saltò in groppa alla sua cavalcatura, prese alcuni brevi accordi con Ilsabet e poi fece mettere la squadra al trotto verso le colline.
A mezzodì avevano oltrepassato le alture e s'erano addentrate per una decina di leghe in un territorio fitto di cespugli, tenendosi sul bordo di un lunghissimo burrone simile all'orlo di un canjon. Più avanti il terreno scendeva verso una pianura boscosa, al di là della quale si intuiva l'esistenza di un lungo fiume e di zone piatte, forse coltivate. La selvaggina era abbondante, e la temperatura molto più mite che nella Valle di Baa. Ben presto trovarono numerosi sentieri, del tipo usato dai cacciatori e dai contadini che vanno a cercar funghi, e ne seguirono uno per un paio di clessidre. «Facciamo sosta,» ordinò Ombra, quando scorse un fiumiciattolo. «Jeribel, guarda se l'acqua è potabile. Mangiamo qualcosa.» Le miliziane legarono i cavalli nel sottobosco e si rinfrescarono un pò, quindi disfecero gli involti in cui ciascuna aveva cibo sufficiente per due pasti e sedettero sull'erba. «Sei preoccupata, Comandante?» domandò Diletta della Dea. La ragazza, appena diciottenne, ad onta del nome era del tutto agnostica. Portava i capelli cortissimi, essendo affiliata ad un gruppo d'estremiste che predicavano l'assoluta rinuncia alla femminilità, e l'odio fanatico per il sesso maschile. Sua nonna, cinquant'anni addietro, aveva fatto parte della Guardia di Aristea, le oltranziste che si amputavano il seno destro sulla piazza della capitale. «Non aver paura, cocca. Vedrai che presto potrai usarla, la tua spaduccia!» intervenne Luce, una veterana sui trentacinque anni. Il tono di Diletta della Dea aveva seccato anche Ombra, che sbuffò. «Sono preoccupata, ma non per l'eventualità di dover combattere.» «Non lo dicevo in questo senso, Comandante. In quanto a me, sono felice di esser qui. Quei cani che assediano Mohenjdar devono imparare a conoscerci... Teste Nere, peuh! Quando li schiacceremo, sarà un gran giorno!» «Bada a restar viva fino ad allora,» le consigliò ironicamente Luce, sbocconcellando un pezzo di carne secca. «Oh, non temere, tu. Quando sono partita, mia madre mi ha detto di tornare con dieci spade sumeriche, ognuna tolta a un nemico ucciso. E io ho giurato che farò proprio questo, sangue della Dea!» «Non si bestemmia,» la avvertì una delle compagne. «E questi signori di Tebron dovranno darci il passo, con le buone o con le cattive!» proseguì la miliziana. «Il tempo stringe. Se stesse a me, non farei tanti complimenti. Dopotutto, si tratta di uomini!».
«A cavallo,» ordinò Ombra, alzandosi. «E niente pazzie: il primo contadino che vediamo, lo voglio vivo e non troppo spaventato. Ho bisogno di informazioni.» Uscite dalla boscaglia, le amazzoni furono in vista del fiume. Serpeggiava da nord ad est, con una larghissima curva, e al di là di esso si vedevano due o tre lontanissime case coloniche. Poco dopo trovarono la strada, larga e dal fondo duro, e Ombra stabilì di prendere a sinistra. Avevano percorso appena una lega allorché si trovarono di fronte all'improvviso una quarantina di soldati. Erano radunati intorno a un fuoco semispento, ed era evidente che s'erano fermati lì solo per mangiare. Tutti i loro cavalli erano sulla strada, legati in fila ai rami dei cespugli, e presso il fuoco c'era una piramide di lance a tre punte, messe dritte. Quasi tutti avevano ancora in capo gli elmi, gialli e foggiati ad imitare un teschio dalle grandi occhiaie. Ombra tirò le redini e alzò subito un braccio, ordinando di fermarsi. «Calma! Nessuna si muova!» esclamò. Ma fu subito evidente che gli sconosciuti soldati non avevano l'intenzione di restarsene immobili a guardarle, infatti al solo vederle cominciarono a gridare e presero le armi, correndo a schierarsi intorno a quello che sembrava il loro comandante, il quale urlava più di tutti e distribuiva spinte e calci ai più lenti. Prima che il cuore di Ombra avesse battuto venti volte, gli uomini di Tebron erano una muraglia di scudi neri dalla quale spuntavano le cime delle lance d'ottone e le lame delle sciabole ricurve. Da una cinquantina di passi di distanza, i due piccoli schieramenti si osservarono con sospetto e diffidenza, e Ombra dovette bestemmiare per trattenere le miliziane, che avevano già sguainato le spade. «State ferme. Cercherò di parlamentare!» La ragazza spronò il cavallo, tenendo sempre un braccio levato in alto, e si rivolse agli uomini dapprima in sumerico, quindi in dialetto colchiso, dichiarando che non voleva combattere e sperando d'essere capita. Il comandante dei militi le rispose immediatamente, in perfetto sumerico ma con tono estremamente ostile: «Non volete battervi? Allora morirete dalla prima all'ultima! Ai cavalli, uomini. In nome di Ishtar, schiacciamo i serpenti che hanno invaso il sacro suolo di Tebron!» «Che tu possa scoppiare!» ringhiò Ombra di Lancia, vedendo i quaranta soldati correre alle cavalcature. Estrasse la spada e la alzò subito sopra la testa, voltandosi.
«Squadra, formazione d'attacco! Non fateli salire in sella!» gridò, piantando i calcagni nei fianchi del suo animale. Le ventidue amazzoni misero istantaneamente i cavalli al galoppo sulla strada e sul tratto erboso laterale, attaccando senza esitare i militi nemici, ed un momento più tardi erano già loro addosso. Il comandante degli uomini aveva commesso un'imperdonabile ingenuità, credendo d'avere il tempo di far montare a cavallo la sua truppa, perché così facendo aveva scomposto la formazione chiusa. Tuttavia le lance dei suoi soldati furono un ostacolo contro cui la carica delle miliziane dovette smorzarsi drasticamente. Nella piccola radura risuonarono i clangori delle armi e le grida feroci, mentre fin dal primo istante del contatto il sangue aveva preso a scorrere da ambo le parti. Ombra parò con lo scudo la triplice punta d'una lancia che le era stata girata verso il petto, e il colpo la fece piegare tutta da un lato intanto che il suo cavallo proseguiva sullo slancio travolgendo sotto di sé un altro avversario. Agitando la spada colpì sonoramente l'elmetto di un terzo, senza ferirlo, poi si raddrizzò e si protese dalla parte opposta, abbattendo la lama sul milite più vicino. Gli squarciò fino all'osso una spalla; e tirò le redini per deviare a destra il suo assalto. Con la coda dell'occhio s'accorse che un paio di amazzoni venivano gettale giù di sella, mentre quelle che avevano attaccato tenendosi sulla strada falciavano i soldati di Tebron sfruttando al massimo il fatto che costoro erano appiedati. Girò intorno ad un paio d'alberi e tornò indietro, incitando il cavallo. «Per la Dea! Per la Dea!» gridavano le voci acute delle miliziane. «Tebron! Tebron! Tebron!» era la feroce risposta degli avversari, mista a grida pronunciate in un dialetto incomprensibile. Lance e spade, cavalli e uomini che si agitavano nella mischia. Ombra fu di nuovo in mezzo ai nemici. Una lancia maldiretta le urtò trasversalmente sulla schiena, senza quasi che ella se ne accorgesse, e la sua lama contrastò il fendente di un'altra che le stava piombando alle gambe come un lampo giallo. Poi fu la sua volta a colpire, e ancora centrò in pieno un elmo d'ottone. Proseguendo, però, le parve di aver spezzalo una delle orbite cave di quel teschio facendo zampillare il sangue dietro di essa. Urlò rabbiosamente, chinandosi a sbattere l'orlo dello scudo sul capo di un uomo che stava dando il colpo di grazia ad una miliziana caduta. La ragazza era Diletta della Dea, che si rialzò con uno scatto e piantò il pugnale nel ventre dell'avversario. Ombra la vide raccogliere un tridente e saltare oltre il corpo del suo cavallo, steso fra i cespugli. Girandosi, fece appena in tempo a
tirare le briglie per evitare che la sua cavalcatura si infognasse in un folto di rami spinosi, e la riportò sulla strada. Tornata lì, vide che a terra giacevano all'incirca una dozzina di uomini e cinque o sei miliziane, mentre lo scontro armato era più confuso che mai. Si gettò avanti con impeto, senza smettere un momento di cercare con lo sguardo il comandante nemico. Non lo vide, ma non poté dedicarsi a cercarlo, perché i soldati erano in soprannumero rispetto alle amazzoni e si battevano con molto più ardore di quanto non le avrebbe fatto piacere. Colpì a destra ed a sinistra, maledicendolo a gran voce e bestemmiando lutti gli Dei quando il suo cavallo stava fermo troppo a lungo. Erano animali più piccoli di quelli a cui le amazzoni affidavano solitamente le proprie vite nelle battaglie di quel tipo, e sembravano inadatti alla mischia ed eccessivamente nervosi. La ragazza bruna si sentì portare via di mano lo scudo proprio nel momento in cui riusciva ad affondare la spada nel petto di un nemico, e girandosi scoprì che a strapparglielo era stata una delle sue ragazze. Era Luce, che disarmata stava affrontando due avversari, dopo essere uscita incolume da una caduta rovinosa del suo cavallo. Ombra la fiancheggiò, e poi interpose il proprio animale fra la ragazza e gli assalitori, facendolo impennare perché scalciasse. Per sua buona sorte uno di costoro fu colpito da una zoccolata e rotolò svenuto in mezzo agli sterpi. Luce balzò verso di lei e le strappò via la scure che aveva fissata sulla schiena, insieme ai lacci dell'uniforme, quindi corse nel mezzo della mischia agitandola furiosamente. Ombra imprecò, seguitando a battersi senza più la protezione dello scudo. Poco dopo qualcosa la colpì molto forte al capo, ed ella giacque piegata tutta in avanti sul collo del cavallo, mentre questo la portava a destra ed a sinistra nitrendo lamentosamente, ma si riprese a tempo per evitare l'attacco di un milite nemico e per la seconda volta girò fra gli alberi finché fu sulla strada. Qui trasse alcuni profondi respiri, domandandosi se fosse stata ferita o meno, e quando si tastò l'elmetto sentì che il cuoio era stato intaccato, forse da una lancia. Appena le parve d'essere tornata in grado di combattere, spronò nuovamente l'animale nella direzione in cui lo scontro era più cruento. Prima che il suo cavallo venisse sgozzato da un fendente, la ragazza riuscì a colpire mortalmente altri due uomini. Poi si avvide che dalla parte del bosco almeno dieci avversari avevano deciso di ritirarsi e stavano filandosela fra i cespugli. Una ventina di loro erano a terra, e contro i restanti erano non meno di quindici le amazzoni che adesso battagliavano. Raccolse uno scudo nero, con l'aiuto del quale sostenne un assalto, e dopo uno
scambio di violentissimi colpi trovò il modo di affondare la spada in corpo all'avversario. Dalla bocca le uscì un ansito di sanguinosa soddisfazione. «Ombra! Comandante!» si sentì chiamare. Una dozzina di passi dietro di lei c'era una miliziana, appiedata, che teneva un tridente puntato alla gola di un individuo steso al suolo. Col capo schiacciato contro la radice di un albero, l'uomo ansimava, e nelle occhiaie del suo teschio giallo le pupille, gli bruciavano d'odio e di frustrazione. «È il loro capo! Lo devo ammazzare?» «No. Tienilo lì fermo,» ordinò lei. Ombra corse a dar man forte alle colleghe, che ormai avevano decisamente preso il sopravvento. Si batté prima con un soldato e poi con un altro, senza riuscire a colpirli ma incalzandoli con impeto. Gli uomini ora indietreggiavano verso la strada e la mischia si spostò fra i loro cavalli, che scalciarono e si impennarono. Otto o dieci avversari riuscirono a balzare in sella e presero la fuga, e dietro di loro altri tre corsero via a piedi, inseguiti dalle grida furibonde e derisorie delle miliziane ansanti. «Basta!» urlò Ombra. «Questi figli di cani ce la danno vinta. Che nessuno li insegua. Scendete di sella, Voialtre!» La ragazza tornò verso il sottobosco, dove te ceneri del fuoco acceso dagli uomini di Tebron ardevano e fumavano ancora. Si accertò che da quella parte non vi fosse pericolo di un ritorno degli avversari, e cercò di capire se quelli che se l'erano squagliata nel folto degli alberi fossero ancora nei pressi. Le parve di no, e solo allora si volse per controllare l'entità delle perdite subite. In piedi c'erano tredici amazzoni tre delle quali perdevano sangue da ferite non gravi, e delle otto stese sul terreno dello scontro sei sembravano morte o moribonde, mentre due si allontanavano chiamando le compagne. Come ogni volta al termine di una battaglia, Ombra sentì che l'eccitazione e la fredda insensibilità con cui cercava la morte in sé, e negli avversari lasciava il posto lentamente ad emozioni più umane, meno bestiali. Si avviò fra i corpi dei caduti, cominciando ad avvertire un dolore forte al capo proprio sotto l'elmo ed una fitta in un polpaccio. Distrattamente si avvide di essere stata colpita leggermente, e si passò una mano sulla ferita. Era un breve taglio sopra la caviglia sinistra, poco profondo. Lo ignorò, e si chinò sul corpo immobile di una miliziana. «È Faradea,» borbottò Luce, dietro di lei. «È morta.» Ombra annuì. Vide che Luce aveva tutto il braccio destro rosso di sangue e se lo teneva con l'altra mano. Le disse di fasciarsi, poi si accostò a
una delle due ferite più gravemente, che un paio di compagne stavano cercando di curare, e si accorse che la ragazza stava morendo. A terra c'erano gocce e chiazze di sangue. Ordinò che si coprissero i volti delle sei amazzoni prive di vita, tre delle quali avevano ferite molto spiacevoli a vedersi, e prestò scarsa attenzione a Diletta della Dea quando la miliziana venne a riferirle che gli uomini di Tebron avevano lasciato sul terreno ventuno cadaveri. «A sei di loro ho già dato il colpo di grazia. Erano più di là che di qua.» «Già. Hai fatto bene.» «E di quello là, che ne facciamo?» Sotto un albero, il Comandante avversario aveva sempre la punta triplice di un tridente ficcata contro la gola. L'uomo girò gli occhi verso di lei, quando la vide arrivare. Appariva illeso. «Leghiamolo,» decise Ombra. «Magari questo bel signorino ci spiegherà perché aveva tanta voglia di farcì fuori.» La ragazza aveva parlato in lingua sumerica, per farsi capire dall'individuo, ma lui non si degnò di risponderle. Poco dopo, sotto la minaccia di due spade puntate, si lasciò legare le mani dietro la schiena con una striscia di tessuto del suo stesso vestito. Ombra lo lasciò sotto sorveglianza per andare ad occuparsi delle ragazze ferite. «Caltris e Aladora non vedranno il tramonto,» la informò ancora Diletta della Dea. «Non si riesce a fermare il sangue. Altre sei sono già morte. Ma le vendicheremo! Per il ventre della Dea, giuro che saranno vendicate! Tu sei ferita, Comandante!...» «Non è nulla. Raduna i cavalli, non possiamo stare ferme qui troppo a lungo.» Con un senso di sconforto, la ragazza si rese conto che ogni loro possibilità di attraversare indisturbate quelle terre si rivelava ormai ridotta a zero. I soldati di Tebron le avevano accusate d'aver invaso la loro patria, e non erano stati a domandarsene il motivo. O erano estremamente aggressivi per natura, o i loro ordini erano di proteggere i confini da chiunque li oltrepassasse armato. In ogni caso, il rifiuto di parlamentare era stato idiota ed irritante. Poco più tardi, le due amazzoni di nome Caltris ed Aladora si spensero lentamente e la vita sgocciolò via dai loro corpi insieme al sangue. Luce recitò una breve preghiera, e le altre si domandarono se ci fosse o meno il tempo di seppellirle. «Senza una vanga, ci vorrebbero almeno tre clessidre. Niente da fare,»
fu la decisione di Ombra. Poi si volse al prigioniero. «Tu, uomo: vuoi venire con noi oppure preferisci essere ucciso? Lascio a te la scelta.» «Avete già assassinato mio fratello e mio padre, sulla riva dell'Aladag!» esclamò lui. «Terminate pure l'opera, così potrete illudervi di regnare in Tebron indisturbate, figlie del demonio!» «Che stai dicendo? Non ti capisco,» ribatté lei, sorpresa. «Ah, no? Allora sappi che io sono Saure di Fiorgelize, l'ultimo rimasto nelle cui vene scorra il sangue reale. Ti si offre una buona occasione di spegnere del tutto la mia stirpe, Coraggio, straniera: affondami un pugnale nel cuore, o un giorno sarò io a tagliarti la gola!» «Spiegati meglio. Sulla riva dell'Aladag non siamo mai state e perciò cosa ti fa credere che abbiamo ammazzato laggiù i tuoi parenti?» L'uomo la fissò un poco, poi emise una risata rauca. «Cosa vuoi da me? Informazioni sui soldati che stavo riorganizzando? Il contrattacco ci sarà, non dubitarne, e più presto di quanto credete. E quel giorno vi pentirete amaramente di avere calpestato il selciato di Fiorgelize. Cagne schifose! Pezzi di sterco!» Ombra era rimasta a bocca aperta, mentre un pensiero quasi inverosimile le si faceva strada nella mente, e non udì neanche gli insulti. Si volse a guardare le altre, e le vide altrettanto perplesse di lei. «Fiorgelize è la tua città? E dici che noi vi abbiamo messo piede, dopo una battaglia avvenuta sull'Aladag?» domandò, tendendosi verso di lui. «Forse che non lo sai?» sbottò Saure. «Ma già... può essere che voi non foste insieme alle altre, visto che venivate da sud. E in questo caso ti ho dato una bella notizia, razza di serpente. Quella battaglia l'avete vinta, sì, gloriati pure finché hai fiato in corpo. Seppure solo Ishtar sa come abbiano fatto delle donne a sconfiggere sul campo i nostri guerrieri.» «Aquila di Guerra!» esclamarono Luce e le altre due o tre ragazze. «Aquila ha dato battaglia, e ha sconfitto costoro!» «Per la Dea!» gridò esultante Diletta della Dea alzando i pugni. «Aquila di Guerra non si ferma a parlamentare con gli uomini, vedete? Lei sì che ha sangue nelle vene!» Ombra di Lancia era così sorpresa che non le badò neanche. Accanto a lei, Luce sputò a terra disgustata. «Aquila! Ecco chi dobbiamo ringraziare di questa accoglienza, che il demonio se la porti via!» ringhiò. «Silenzio, voi due! Tu, Saure, dimmi che cosa è accaduto.» Ordinò seccamente Ombra.
«Vattelo a far raccontare dalle tue commilitone. Non eri forse diretta a Fiorgelize? Oh, certo... può essere anche che tu non ci arrivi viva. Chi può saperlo?» «Non ho intenzione di farti ammazzare, tranquillizzati. In cambio parlami di questa battaglia.» «Non c'è molto da dire. Le tue compagne sono giunte da sud est, sei giorni or sono. Per nostra sventura, proprio questa primavera abbiamo stretto alleanza con i nostri vicini, gli Aramak, e tutta la milizia di cui disponevamo era raccolta in un campo di addestramento a una ventina di leghe da qui, dove intendevamo licenziare gli anziani e attrezzare un esercito meno numeroso. Tutto ci potevamo aspettare meno che essere attaccati in questo periodo, ed invece è proprio quanto è successo. Siete state molto abili, e fortunate. L'attacco è avvenuto di notte, e di sorpresa. Il giorno successivo appena novanta guerrieri sono arrivati a Fiorgelize e ci hanno dato la notizia: erano gli unici sopravvissuti di oltre tremila! Colti nel sonno vigliaccamente... neppure gli Aramak si sono mai abbassati a strisciare come sciacalli nella notte, per tagliar la gola a un nemico ignaro e addormentato. Forse siete forti e combattive, e per essere soltanto delle donne questo mi fa meraviglia, ma il senso dell'onore che avete è quello delle bestie. La vostra stirpe è la vergogna di ogni terra. Che siate maledette!» Saure aveva parlato con tale indignazione che Ombra non stentò a credergli, e tuttavia faticava ancora a raccapezzarsi. «E la città di Forgelize è caduta? volle sapere. «Forse è caduta, ma sottomessa ancora no. Mi hanno detto che i cittadini non si sono ribellati, però questo non durerà per molto. Oh, no di certo... specialmente dopo la morte di mio padre e di mio fratello. Il popolo non tarderà ad insorgere!» «Com'è morto tuo padre?» «È morto come deve morire un Re. È morto guidando contro le tue commilitone i soldati rimasti e un pugno di volontari, il giorno stesso che si seppe della sconfitta subita. E poi, ai tramonto, quella cagna bionda che vi comanda è entrata in città, portando il cadavere di quel coraggioso su un carro per mostrarlo ai cittadini. Mi hanno detto che si è istallata sul Trono, ora. Forse si illude di restarvi a lungo... pazza!» La ragazza bruna annuì pensosamente. L'imbecillità di Aquila di Guerra non la stupiva affatto, e già stava cercando di immaginarsi quante miliziane fossero cadute in battaglia inutilmente. «Be'... mormorò poi.» Immagino che io non potrò far molto per rimedia-
re a questa situazione. Aquila di Guerra ha già rotto le uova, e la frittata che ha fatto puzza troppo di sangue, ormai. Mi dispiace per te, Saure; ma il destino ha decretato che dovessimo essere nemici.» L'altro sogghignò. «Belle parole, peccato che vengano dalla bocca di chi ha invaso una terra pacifica. Hai uno strano concetto del destino, tu.» «Avremo tempo più tardi per filosofare, uomo. Luce, caricalo su un cavallo e andiamocene da qui. Forse ce la facciamo ad essere al campo prima che annotti.» Poco più tardi, le amazzoni presero la via del ritorno e misero i cavalli al trotto verso le colline, conducendo con loro il prigioniero. CAPITOLO DECIMO «E così tu saresti il Re di quella città,» osservò Goccia di Fiamma, usando il termine sumerico che definiva il monarca assoluto. «Ora lo sono, sì.» rispose Saure. L'uomo la fissava senza nessuna simpatia, stando seduto su una pietra piatta nel bel mezzo dell'accampamento. Tutto intorno a lui ferveva Fattività delle miliziane, che stavano smontando Se tende. Il sole era basso, l'atmosfera fredda e serena, e le notizie portate da Ombra la sera prima avevano molto eccitato le ragazze, che trovavano tutte le scuse possibili per passare vicino all'uomo di Tebron. Da parte sua, Saure le ricambiava con una fredda curiosità sprezzante, studiandole apertamente. Goccia di Fiamma indicò l'elmetto di lui, deposto a terra. «Voi fate un grande uso dell'ottone, a Fiorgelize, e vedo che dovete aver artigiani assai abili. Ma perché non adoperate il bronzo o addirittura il ferro, per le armi?» «Il ferro?» Saure le diede un'occhiata irritata. «Se proprio vuoi saperlo, amazzone, usiamo il ferro solo per le monete. Da noi è un metallo raro, più prezioso dell'ore.» «Capisco.» Goccia gli sorrise ampiamente. «Dimmi: voi di Tebron detestate molto noi amazzoni?» Alla domanda, gli occhi dell'uomo si riempirono per un momento di diffidenza, e la ragazza ebbe l'impressione che frenasse a stento l'impulso di dare una rispostaccia. La voce di lui restò acrimoniosa. «Noi non vi conosciamo,» disse. «Pochi giorni fa siete comparse suite nostre terre come se foste sbucate dall'inferno, e oggi Fiorgelize è una città conquistata. Chi siete? Da dove venite? Io non lo so. Ma stai certa che i
popolani di Tebron non potranno mai amarvi.» Dopo una pausa, Saure riprese: «Quella femmina bruna, la vostra Comandante, ha ordinato di togliermi i ceppi. Cosa vuole da me? Non ha paura che io possa fuggire?» «Non cedo che ad Ombra di Lancia importi, se te la squagli. Lei ha altri pensieri per il capo. Comunque, mi ha detto che un tipo come te non fugge se prima non si è procurato un bel pò di informazioni sul nemico che vuole combattere. Anch'io credo che starai con noi finché non avrai saputo quello che ti interessa.» L'uomo annuì lentamente, guardandola con durezza. «Voi siete donne molto strane e singolari di quello che m'era parso. Fisicamente, siete le più alte e robuste che io abbia mai visto, e gli scampati alla battaglia dissero che sapete combattere meglio degli uomini e avete l'aspetto di lamie folli e fanatiche. Ieri, durante il combattimento, ho avuto anch'io questa impressione.» «E oggi, che pensi di noi?» insisté Goccia. «La stessa cosa, amazzone. Certo, vedendovi da vicino mi sembrate più umane, e quindi più deboli e vulnerabili. Ora sono certo che i miei uomini un giorno riusciranno a riorganizzarsi e a cacciarvi dalla nostra terra.» Con sorpresa di Saure, Goccia di Fiamma rise divertita e non si mostrò per nulla preoccupata da quella previsione. «Ti confiderò una cosa, uomo, e cioè il segreto per scacciarci dalla tua patria. Vuoi saperlo? Ebbene, per far questo non hai altro che da andare da Ombra e dirle che rivuoi il tuo trono. E lei te lo riconsegnerà, così come io potrei regalarti una nocciolina.» «Certo!» disse Saure. «Guarda che non sto scherzando. Ombra di Lancia non ti ha detto ancora che noi siamo solo di passaggio, da queste parti? Infatti siamo dierette a oriente, verso i Monti Grigi, e non è affatto nei nostri programmi fermarci qui anche brevemente.» «Tu devi essere pazza,» constatò l'altro. «La vostra Regina, la donna bionda che si è impadronita di Fiorgelize, sembra che non la pensi a questo modo. E devo dire che capisco meglio lei di te. O mi vuoi prendere in giro, o stai vaneggiando, ragazza. Vattene, e lasciami stare. Non sono dell'umore adatto per consentirti di deridermi.» Goccia non smise di sorridere. «Stammi a sentire, Saure: ti sarai accorto che noi viaggiamo separatamente dalle miliziane che vi hanno assalito. Non te ne sei chiesto il motivo?»
L'uomo alzò le spalle, con una smorfia. La ragazza continuò allora a parlare, raccontandogli brevemente da dove venivano, il motivo per cui s'erano messe in viaggio e gli avvenimenti accaduti durante la loro marcia dal momento dello sbarco sulla costa di Hyktos. Finalmente Saure parve abbandonare il contegno scostante e mostrare un certo interesse, perfino un pò di eccitazione. «Non mi stai mentendo?» le domandò più volte. Goccia di Fiamma lo sfidò a trovare una buona ragione per cui dovesse raccontargli una storia fasulla. Infine gli mise una mano su una spalla, facendosi seria. «Credi almeno una cosa, Saure: noi amazzoni non abbiamo alcuna voglia di farci nuovi nemici. Già gli Akkadi e i sumerici, che tu certo conosci, meditano la guerra contro di noi da anni. Siamo bellicose e forti in battaglia perché dobbiamo esserlo, altrimenti verremmo schiacciate, e purtroppo alcune di noi si spingono agli estremi. Fra i nostri due popoli c'è stato un incontro sanguinoso e doloroso, e ciò significa che non saremo mai più amici né alleati. Ma non devi temere per la libertà della tua terra: fra pochi giorni noi tutte ci saremo allontanate per sempre da Tebron, e cioè non appena Ombra avrà ripreso il comando dell'intero corpo di spedizione.» «Dunque quella guerriera bionda è soltanto una subordinata, ed a comandarvi è quella che ieri ci ha assaliti oltre le colline?» «Assaliti un corno! Ombra mi ha detto che ha cercato di parlamentare, e che tu non l'hai nemmeno ascoltata,» protestò Goccia. «Ho creduto che volesse intimarmi la resa, e la sua sfacciataggine mi è parsa degna di quanto sapevo di voi. Eravate solo in venti, e già credevate che noi fossimo pecore capaci ormai solo di fuggire, Dovevo attaccarla per forza.» Borbottò lui. «Già, va bene, va bene. Però sei stato un ingenuo. Ombra mi ha detto che forse non avrebbe ordinato la carica, se tu non avessi fatto lo sciocco errore di mandare i tuoi uomini ai cavalli. Eravate il doppio e potevate vincere restando in formazione chiusa, sfruttando le vostre lance. Invece li sei scoperto a un attacco della cavalleria. Ombra è stata costretta a sfruttare il tuo errore.» «Vuoi insegnare a un soldato di Tebron come ci si batte? Per più di duecento anni noi abbiamo tenuto in rispetto gli Aramak, che sono dieci volte più numerosi di noi!» scattò Saure. «Ieri i miei uomini erano demoralizzati, venivano da una sconfitta appena subita e avevano l'assillo delle loro
famiglie rimaste in Fiorgelize a partire i soprusi di una nuova tirannia. Se avessi avuto più tempo, per radunarne abbastanza...» «D'accordo. Però l'errore lo hai fatto!» esclamò lei. «Ero sorpreso. Credevamo che voi donne guerriere foste tutte in Fiorgelize.» «Un buon comandante deve essere preparato a tutte le sorprese. Pensa un momento ad Aquila di Guerra: anche lei non si aspettava di trovare qui un popolo civile e abbastanza militarizzato da poter divenire minaccioso. Aquila sarà una pazza, ma volendo sconfiggervi doveva agire come ha agito, e si è dimostrata ben pronta a cogliervi impreparati giungendo inavvertita con un unico e definitivo attacco.» Saure fissò attentamente la ragazza, stringendo le palpebre. Poi cambiò discorso: «Vuoi saperlo? Credo ad ogni parola che mi hai detto. E ora sono convinto che la vostra Comandante mi farà assassinare, forse oggi stesso.» «E perché dovrebbe?» «Perché» improvvisamente Saure sogghignò. «Perché ho capito che non è certo una sciocca. E solo una sciocca mi permetterebbe di restare in vita. Ogni popolo di Tebron mi sputerebbe addosso, se io non facessi di tutto per vendicare mio padre, e i soldati morti. Sarei obbligato a farlo.» Goccia di Fiamma si mise Se mani sui fianchi, restituendogli uno sguardo altrettanto duro. Poi disse: «È chiaro. La vendetta è un tuo diritto, non lo nego. E se la pensi così, puoi prendere un cavallo e andartene. Seguimi, e sarò io stessa a consegnartene uno!» In quel momento Ombra di Lancia sbucò fra due dei carri, scansando le miliziane che stavano gettando sul pianale una grossa tenda arrotolata, e li guardò entrambi accigliata. «Chi è che vuol prendere un cavallo e andarsene?» sbottò. «Sua Maestà Saure, il Re di Tebron!» esclamò Goccia. «Avanti, diglielo tu che può filarsela se vuole! Diglielo, che non te ne importa niente!» «Me ne importa, invece. Che diavolo vai dicendo?» «Ma stanotte mi hai..» Ombra la interruppe con un gesto seccato. «E invece stamane ho cambiato idea. Ha pur sempre dei soldati ai suoi ordini. Magari riuscirebbe a raggiungerli, e a darci delle noie mentre ci dirigiamo verso Fiorgelize. Dico bene, uomo?» «Forse, e forse no,» fece Saure, cautamente. «Ma finché io resterò in vita, la terra di Tebron non sarà sicura per voi. Ciò che avete fatto, lo pagherete.»
Ombra accennò di sì, cupa in volto. «Va bene, Goccia: dagli un cavallo, e che se ne vada! Non credo che metterà assieme tanti uomini da osare un attacco; almeno, non prima che noi siamo già fuori dalla sua terra. Conto di arrivare ai Monti Grigi in undici giorni al massimo.» La ragazza bruna aveva voltato le spalle per allontanarsi, quando Saure la afferrò per un braccio. «Aspetta un momento! Hai davvero intenzione di portare via il tuo esercito da Tebron?» «Sicuro. E senza perdere più di mezza giornata di tempo.» «E quell'amazzone che s'è impadronita della città non avrà nulla in contrario? Alcuni popolani fuggiti nelle campagne mi hanno detto che si è seduta sul trono di mio padre, dopo aver dichiarato che intende regnare per sempre su Fiorgelize, e le sue guerriere pattugliano le strade.» «Io non posso farle niente, se non toglierla da quella posizione. Aquila di Guerra è la nipote della nostra Regina, perciò togliti dalla testa che io possa consegnartela per farle scontare i suoi misfatti. Soltanto la Regina potrà giudicare il suo comportamento, quando faremo ritorno in patria,» affermò Ombra. «E se io vi seguissi, entrando con voi in Fiorgelize?» propose Saure. «Cosa mediti? Di assassinare Aquila di Guerra, per riacquistare credito agli occhi della tua gente? In questo caso, sappi che sarei obbligata a farti giustiziare pubblicamente, e che sul trono salirebbero i tuoi eredi. E questo che vuoi?» Saure emise una risata secca. «Sì. Ti chiedo proprio questo. Io ho una sposa e due figli giovani. Consentimi di dare la morte a quella cagna bionda, e il mio primogenito sarà incoronato Re senza che vi siano macchie sul mio nome. Non m'importa di morire, se mi prometti che Tebron sarà libera e vendicata!» «Nemmeno per idea. Goccia, accompagnalo ai cavalli, dagliene uno e di alle sentinelle che lo lascino allontanare!» Saure rimase in silenzio a fissare la schiena di Ombra che se ne andava. La colonna di carri era pronta per mettersi in cammino, ed a poca distanza Ilsabet e Maani stavano disponendo in fila le loro squadre di miliziane berciando ordini a voce altissima. I cavalli non adibiti al traino dei veicoli erano più di trenta, avendo Ombra riportato indietro quelli presi agli uomini di Tebron il giorno prima. Goccia di Fiamma chiamò una delle cavallerizze e le disse di smontare. «Prendi pure questo, Saure. Vuoi del cibo? Una spada?» L'uomo scosse il capo, come ruminando le sue riflessioni poco piacevoli.
«No, amazzone. Dì alla tua Comandante che verrò con voi, e vi farò da guida fino in città. Sono curioso di vedere se vi comporterete veramente come tu mi hai detto.» Pochi momenti dopo la colonna si mise in movimento. Goccia di Fiamma andò a parlare un poco con Tangri, che sedeva su un carro, e quindi si unì alla squadra di miliziane di cui aveva il comando. Ilsabet spedì avanti tutte le ragazze a cavallo, con l'ordine di comunicare eventuali pericoli tramite i corni da segnalazione e di tenersi costantemente cinque o sei leghe in anticipo su di loro, segnando con paletti il percorso più facile per i carri. A mezzodì avevano del tutto oltrepassato la catena di colline e scesero verso i burroni. A nord e ad est la vastissima vallata in cui scorreva l'Aladag era un panorama gradevole all'occhio, leggermente velato di bruma. Poco più tardi un vento che spirava in quota trascinò nel cielo nubi grigie e pesanti, ed il tempo si guastò rapidamente. Ad oriente l'atmosfera si fece scura, mentre sulla valle avanzavano cortine di pioggia che viste da lontano sembravano nebbiolina. Le esploratrici attesero la colonna sulla strada sterrata dove il giorno prima si era combattuto, ed Ombra di Lancia ordinò una sosta. Sull'erba giacevano ancora armi, oggetti di vario genere e le salme dei caduti. «Goccia, prendi una squadra e seppellisci i corpi,» ordinò Ilsabet. Poi si voltò a guardarla. «Se te la senti di scavare, voglio dire.» La ragazza annuì. Le miliziane si erano sedute a terra in lunghe file ordinate e mantenevano un completo silenzio, fissando i cadaveri delle otto compagne. Le sacerdotesse stavano già componendoli per la brevissima cerimonia funebre che si sarebbe tenuta, e due di esse tirarono giù da un carro il piccolo altare di assi ed i paramenti. Saure osservava con aria cupa. Parve stupito, quando sentì Ombra di Lancia dare istruzioni per sotterrare anche i soldati uccisi. La fossa per i caduti non era neppure stata scavata a metà, quando cominciò a cadere una fitta pioggia, e Ombra fece spostare le miliziane nel sottobosco. Il rimedio servì a poco, perché l'acquazzone si fece ancora più pesante e le ragazze imprecarono, mentre le loro divise si inzuppavano d'acqua. Le uniche a non bagnarsi furono Tangri e nove miliziane che per un motivo o per l'altro, non erano in grado di reggersi in piedi, che rimasero sui carri al riparo del tessuto delle tende. Coi cappucci dei loro mantelli azzurri tirati sul capo, le sacerdotesse recitarono le preghiere di rito e gettarono manciate di terra sui corpi deposti in una lunga fossa poco profonda. Quando Goccia terminò di ricoprirli, molte ragazze che avevano cercato
fiori selvatici sfilarono a deporli sul tumolo, e qualcuna pianse. Diletta della Dea ed altre cinque o sei fra le più fanatiche sostarono lì accanto con le spade avvolte in improvvisati drappi rossi, in segno di lutto, fissando Saure con occhi che scintillavano per l'odio. L'uomo le ignorò completamente. Si accostò ad Ombra e la ringraziò in tono formale per aver sepolto anche i suoi, poi aggiunse: «La città di Fiorgelize si trova tremiladuecento catene a settentrione di questo luogo. C'è un ponte di legno, più avanti, e subito dopo un posto buono per montare il campo.» «Poco meno di trenta leghe dunque. Già, non ce la faremo ad arrivare prima del tramonto. Dimmi, Saure, i soldati che stavi radunando si trovano in questa zona?» «Perché dovrei rivelartelo?» «Non vorrei che fossero così decisi a combattei e come lo eri tu ieri. Per essere franca, intendo evitare ad ogni costo uno scontro coi tuoi seguaci.» Saure esitò. «Potremmo incontrare una pattuglia, forse. Ma il campo che stavo preparando è lontano da qui. Gli unici soldati di cui disponevo erano quelli radunati dalle postazioni sui confini. Comunque, cavalcherò in testa alla vostra colonna. Non vi saranno scontri armati.» Al tramonto le amazzoni attraversarono l'Aladag su un ponte di assi straordinariamente lungo, sostenuto da enormi tronchi conficcati nella melma, che cigolò minacciosamente al passaggio dei carri. Al di là di esso c'era una grossa e vetusta casa colonica, orti e campi nei quali le messi si spiegavano a terra sotto le raffiche di vento e di pioggia. La colonna si arrestò dall'altra parte della strada, e cinquecento miliziane bagnate fino all'osso ignorarono del tutto gli spaventatissimi contadini e si diedero a montare le grosse tende. Era già buio pesto quando Saure andò a bussare energicamente alla porta stinta della fattoria, seguito da Maani. Trovarono una ventina di adulti e un numero doppio di bambinetti cenciosi, che si stringevano l'uno all'altro in un'enorme cucina fuligginosa. Alla vista dell'uomo, le contadine piansero di gioia e innalzarono lodi ad Ishtar, chiamandolo Re e padre di tutti loro. Maani lo lasciò lì, dopo essersi informata se avevano un pozzo. Il mattino successivo il tempo si era rimesso al bello, e le miliziane si allontanarono due clessidre dopo l'alba, mentre dalle finestre della scalcinata casa colonica decine di facce pallide e timorose le spiavano. Maani riferì ad Ombra che i contadini parlavano un dialetto non molto dissimile da quello in uso a Solaire, anch'esso di chiara matrice sumerica, lingua que-
st'ultima che Saure usava con l'accento corretto. Conversando con l'uomo Ombra di Lancia venne a sapere che fra Tebron e la Terra dei Due Fiumi non c'erano contatti di alcun genere. Ad est, lungo il corso dell'Aladag, abitavano i bellicosi Aramak, e alcune loro tribù orientali piuttosto selvagge a volte si spingevano fino agli altipiani di Akkad per fare incursioni e razzie. Malgrado lo stato di guerriglia permanente, gli Aramak commerciavano a volte con viaggiatori e venditori ambulanti provenienti da Sumer, da Hus Nur e dalla fredda Terra di Baba Velvjna. Saure la informò che da secoli si sapeva dell'esistenza di un piccolo popolo di sole donne, abitante oltre i lontani Monti Grigi. «Davvero?» La ragazza lo guardò con stupore. «E per quale motivo non avete mai preso contatto con loro?» Saure scosse il capo. «Fra Tebron e i Monti Grigi ci sono circa duecento leghe di burroni e crepacci dove non cresce neppure l'erba. E quella terra è maledetta: nessuno che vi si sia spinto è mai tornato indietro. Alcune tribù di Aramak addomesticano i cammelli, però, e a volte sono arrivate fino alle pendici di quei monti, passando molto più a sud est di qui. È zona praticamente inesplorata, deserta, dove la natura uccide i viandanti.» Ombra gli avrebbe fatto dire tutto ciò che sapeva, su quello che sarebbe stato il futuro percorso del corpo di spedizione, ma ne fu distratta da una miliziana che arrivava a cavallo. La ragazza riferì che mezza lega più avanti, oltre un boschetto, c'era una fattoria, e che le esploratrici avevano incontrato lì una decina di miliziane venute quel mattino da Fiorgelize. A suo dire, si trattava di amazzoni che Aquila di Guerra aveva spedito nelle campagne per fare incetta di viveri. Ombra di Lancia spronò il cavallo, seguita da Saure e dalle altre che disponevano di cavalcatura, e lasciò indietro la colonna. Arrivò al galoppo nell'aia fangosa della casa colonica, e quando smontò di sella fu accolta da un coro di esclamazioni stupefatte da parte delle miliziane che le esploratrici avevano incontrato lì. Otto di esse erano schierate davanti alla casa e tenevano sotto il tiro degli archi alcuni contadini, immobili a lato della porta, mentre dall'interno si sentivano pargoletti frignare e facevano capolino alcune donne scarmigliate e vestite miseramente. Altre due ragazze sovrintendevano al sequestro dei viveri, che due o tre contadinelli stavano caricando su un carretto. Su un secondo carro dalle alte sponde erano stati messi polli, conigli e un grosso maiale peloso. Ombra lasciò il cavallo a una delle esploratrici. «Che state facendo?» domandò, avvicinandosi ai carretti.
«Comandante!» la caposquadra era sbigottita. «Tu... sei viva!» «Come vedi, sì. È stata Aquila a ordinare di taglieggiare i contadini?» «In città non ci sono viveri a sufficienza, Comandante. Cioè... per la verità ci sono i granai, con ancora centinaia di staia di grano avanzate dall'ultimo raccolto. Mancano la carne e la verdura fresca» riferì l'amazzone, e la fissò come se ancora stentasse a credere ai suoi occhi. Ombra annuì, girò attorno uno sguardo accigliato e si accorse che Saure la fissava interrogativamente. «Bene... tu ti chiami Rosalde, mi pare.» Le disse. «Sì, Comandante. Caposquadra Rosalde, della Cavalleria.» «Allora, Rosalde, porta via le ragazze. Fai un giro delle fattorie e informa le squadre spedite in cerca di viveri. L'ordine è di fare rientro in città prima del tramonto, senza procedere alla raccolta di rifornimenti. I contadini non dovranno essere derubati, né infastiditi.» «Agli ordini, Comandante!» esclamò lei. Poi si voltò e con un gesto fece tornare ai cavalli le miliziane armate d'arco. «Un'altra cosa,» la fermò Ombra prima che salisse in sella anche lei. «Dove sono Rhylla, Brezza dell'Est e Hay Varena?» «Ecco Comandante... credo che Aquila di Guerra le abbia fatte mettere ai ceppi, nella prigione che c'è sotto il palazzo reale di Fiorgelize. Sono colpevoli di ammutinamento.» «Lo immaginavo.» Ombra la licenziò con un cenno, quindi si volse a Saure. «Andiamo. Voglio essere in città prima del mezzodì.» L'uomo le fece una specie di sorriso, per la prima volta da quando la conosceva. Non aveva capito una sola parola di quanto lei e Rosalde si erano dette, ma il senso della conversazione non gli era certo sfuggito. Fece un gesto di saluto ai contadini e seguì l'amazzone fuori dall'aia verso la strada. Nel mezzo della lunga vallata, l'Aladag compiva una curva ad esse, ed all'interno di una delle vaste anse sorgeva Fiorgelize, un fitto agglomerato di case la cui popolazione non sembrava dover superare le sette od ottomila anime. La parte bassa della città era distesa a semicerchio lungo il fiume, con le facciate posteriori degli edifici che strapiombavano su una lunga scarpata, e fra le costruzioni di legno erano stretti i piccoli orti e i cortili assolati. Nel centro il terreno saliva, mettendo in rilievo la presenza di edifici a due e tre piani costruiti in pietra con finiture di marmo bianco. Interamente in marmo era il palazzo centrale, non più grande degli altri ma fornito di una bella torre. Qua e la si vedevano edifici di legno che potevano essere granai o magazzini. Malgrado le sue viuzze strette e la sua natura
di centro prevalentemente agricolo, la città era bella ed osservata da oltre il fiume faceva un piacevole effetto. Il ponte che la colonna delle amazzoni attraversò era solidamente sostenuto da arcate di pietra e lunghe travi a sezione quadrata, e al di là di esso iniziava la strada principale. C'erano dovunque miliziane a cavallo, armate di lancia, e lo scarsissimo movimento di pedoni e di carri confermò ad Ombra di Lancia che gli abitanti di Fiorgelize se ne stavano quasi tutti chiusi in casa per evitare guai. C'era silenzio, e l'atmosfera era pesante. La ragazza bruna cavalcava in testa a tutte, con a fianco Saure, e si limitò a rispondere con cenni del capo ai saluti entusiasti delle amazzoni che stanziavano sulla via. Molte delle ragazze lasciarono i loro cavalli e si mescolarono alle colleghe appena arrivate, facendo un pò di baccano per la gioia di rivedere questa o quella amica. Quando la strada prese a salire verso la città alta Ombra di Lancia si fermò, chiamò Maani e le ordinò di far posteggiare i carri lungo le case, poi proseguì per la salita seguita soltanto da Saure. Davanti al palazzo reale c'era un piazzale pavimentato in pietra, con al centro una fontanella. Due squadre di miliziane appiedate oziavano presso l'ingresso, e nell'interno ce n'erano altre, tutte armate fino ai denti. Ombra lasciò il cavallo e salì la breve scalinata marmorea. «Caposquadra Marizia a rapporto, Comandante. Felice di rivederti. La notizia del vostro arrivo è giunta appena una clessidra fa.» Disse una miliziana, facendolesi subito incontro. «Salve, Marizia. Aquila di Guerra è qui? Conducimi subito da lei.» La caposquadra non si mosse. «Comandante... credevo che tu l'avessi vista. Poco fa lei e Dunia hanno preso i cavalli.» «Non l'ho incontrata.» Ombra si accigliò. «Dov'è andata?» «Ma... ha detto a tutte che ti veniva incontro, appena si è saputo che eri diretta qui. Lei e Dunia stavano tenendo una riunione, con i notabili della città. L'ha interrotta, ed è subito partita.» «Capisco,» disse Ombra. «Ha scelto la via d'uscita peggiore che potesse immaginare. Peggio per lei.» Marizia e qualche altra miliziana annuirono, sogghignando, e una delle presenti disse che le pareva infatti di aver visto Aquila stranamente agitata. «Avevano una fretta dannata di sparire, Comandante, lei e la sua amica. Questa è la verità!» «I cittadini di Fiorgelize sono ancora nella sala del trono,» aggiunse la caposquadra. «Sono una ventina. Aquila li aveva convocati per imporre le
tasse, a quanto ho capito io.» «Vai a cercare Brezza dell'Est, Rhylla e Hay Varena. Voglio parlare con loro. Tu, Saure, seguimi.» Quando Ombra di Lancia entrò nella sala del trono, preceduta da due miliziane, vi aleggiava un mormorio di conversazioni che al suo apparire si spense subito. Addossate alle due pareti laterali c'erano file di seggi molto semplici, di marmo, occupati da uomini per lo più anziani che portavano vesti lunghe e copricapi di panno scuro. Nel vedere Saure tutti si alzarono in piedi e si portarono la mano sinistra all'altezza del cuore, chinando leggermente la testa. La bruna amazzone camminò a passi lunghi fino a lato del trono, in fondo alla sala, e giunta qui si chinò appoggiando un ginocchio sul più basso dei due gradini. Poi tese un braccio in gesto plateale. «Nobile Re della Terra di Tebron,» disse in sumerico e a voce molto alta, «Saure di Fiorgelize, io, Ombra di Lancia, Comandante dell'Esercito delle Terre Basse di Afra, ti rendo omaggio a nome della nostra grande Regina, Theba la Saggia. Per la mia bocca ella ti saluta e ti domanda alleanza, supplicandoti di dimenticare i gravi fatti di sangue che divisero i nostri due popoli, e riconoscendo la tua maestà e la tua potenza.» Un silenzio stupefatto accolse quelle parole, ma Saure riuscì a cancellarsi dalla faccia l'espressione stupita con prontezza maggiore dei suoi concittadini, e si fece avanti. Dopo qualche passo si erse maggiormente e camminò fino al trono con gravità. Si girò a guardare i presenti con espressione seria, quindi sedette sul seggio di marmo in atteggiamento composto. Mentre si appoggiava allo schienale abbassò gli occhi e vide l'amazzone col capo chino davanti a lui. Ombra però si rialzò subito e andò al centro della sala, volgendosi ai notabili. «Cittadini di Fiorgelize, io vi saluto. Vi auguro prosperità, salute e ricchezza. È un onore per me essere ricevuta in questo consesso, e confido che mi ascoltiate in amicizia e con spirito aperto. La persona che voi credevate a capo di noi amazzoni ora non è più in città, e mi si è detto che è fuggita. Dimenticatela, perchè non la rivedrete mai più. Tra noi vi è stata battaglia, ma la sconfitta è stata reciproca, funesta per entrambi e dolorosa. Ora io sono qui davanti al vostro Re per domandargli di essere generoso e nobile nel giudicarci, così come è stato valoroso e possente sul campo di battaglia.» Uno dei presenti si fece avanti, volgendosi a Saure. «Mio Re, erede legittimo del tuo compianto padre Ledros, cosa è accaduto? Hai dunque combattuto contro l'esercito di queste donne guerriere?»
«Sì, due giorni fa,» cominciò a dire Saure. «Tuttavia non mi aspettavo di trovare un forte contingente di amazzoni presso il confine. Stavo riunendo quanti più soldati potevo, sulla piana di Neufer.» «Ho avuto l'onore di incontrare il vostro Re a due giorni di marcia da qui,» lo interruppe Ombra. «E tra noi vi è stata battaglia. Ma ben presto mi sono resa conto di trovarmi di fronte ad un nemico troppo forte e valoroso per le nostre forze, ed ho chiesto tregua. Sua Maestà il Re Saure si è mostrato benigno, ritraendo le sue truppe e trattenendo l'impeto dei suoi coraggiosi soldati dal giallo elmo. A questo modo egli ci concesse salva la vita. Subito dopo, ho appreso dei gravi fatti di sangue accaduti per intera responsabilità dell'altra parte del nostro esercito, da cui viaggiavo separata. Sua Maestà il Re mi ha ammonita di abbandonare immediatamente la vostra terra, pena il nostro completo sterminio, ed io mi inchino al suo regale volere. Coi miei occhi ho visto la forza dei soldati di Tebron, che da lui radunati si apprestavano a riconquistare la città di Fiorgelize; e mi sono impegnata a pagare un riscatto che il Re stabilirà per compensare almeno in parte i danni da voi tutti subiti. Una sola cosa ora ti domando...» L'amazzone si girò di nuovo verso il trono, allargando le mani in atteggiamento supplichevole. «Concedi di abbandonare la tua terra, o Re, trattenendo la furia del tuo popolo prima che esso insorga a sterminarci, e senza inviare contro di noi le tue invincibili truppe!» Saure si alzò in piedi, schiarendosi la voce. «Mmh! Accetto gli omaggi che mi porgi da parte della tua Regina, o amazzone. In quanto alla tua richiesta di alleanza, sarà il Consiglio a decidere. Ti confermo intanto il mio ordine di lasciare Tebron all'istante... diciamo entro domani. Nel frattempo farai accampare le tue soldatesse fuori città, al di là del ponte, tossiche la vita civile di Fiorgelize possa riprendere indisturbata.» «Sei magnanimo!» esclamò Ombra. «E te ne sono grata.» «Per ciò che riguarda il risarcimento dei danni da voi commessi,» continuò Saure, impassibile. «A mio insindacabile giudizio io ti impongo di consegnare alla città di Fiorgelize una quantità di lingotti di buon ferro pari al peso di cento uomini adulti, con parte dei quali si compenseranno delle loro dolorose perdite le famiglie dei soldati di Tebron eroicamente caduti in battaglia.» «Non meno di questa cifra, per Ishtar!» borbottarono annuendo alcuni dei presenti. «Mi inchino alla tua decisione,» disse Ombra. «E mi impegno a far si che quanto prima tale prezzo venga inviato a voi, sul mio onore ed in no-
me della mia Regina.» «Assieme al risarcimento pattuito, tu comunicherai alla Regina Theba che mandi presso la mia corte un'ambasciatrice. Ad essa il Consiglio riferirà se un'alleanza con voi sia da accettarsi o meno, ed a quali condizioni,» stabilì Saure. «Così farò, o Re,» promise Ombra. «Ed aggiungo che nel caso la decisione del Consiglio sia favorevole a un trattato di amicizia, insieme all'ambasciatore la nostra Regina ti farà inviare, in segno di personale omaggio, mille lame da spada di ferro, millecinquecento pugnali e cinquecento teste di scuri dello stesso metallo, e ventimila punte di freccia. Sappi che è nostro uso far sì, con i popoli nostri alleati, che essi dispongano di attrezzature belliche ed armi di prima qualità, affinché corrano meno il rischio di essere soggiogati da eventuali vicini minacciosi. Se fra noi dovesse esservi commercio, un giorno, i prezzi per le armi di ferro saranno tenuti bassi a questo scopo.» Ombra si inchinò nuovamente, notando che al sentir parlare del ferro i volti dei presenti si erano rianimati alquanto. Lo stupore generale si era mutato in sollievo, e questo ora stava lasciando il posto all'avidità. «Consentimi di ritirarmi dalla tua presenza, o Re,» disse la ragazza. «Dovrò mettere ordine nelle mie truppe e prepararle alla partenza, come tu hai comandato. Domani, se me lo permetterai, tornerò a renderti omaggio. Addio, nobili signori.» La ragazza uscì in fretta, facendo segno alle miliziane rimaste sulla porta di seguirla. Appena fu giunta fuori dal palazzo, vide che sul piazzale fra le altre ragazze c'erano Brezza dell'Est e Hay Varena. Le due apparivano malconce, spettinate, e non avevano più i gradi di Comandante cuciti sull'uniforme. Le loro espressioni cupe si schiarirono però alla vista di Ombra, e corsero ad abbracciarla con affetto. «Ti credevamo nel grembo della Dea, ragazza!» gridò Hay Varena, dandole grandi manate sulle spalle. «Per le Sacre Chiappe di Ishtar, Mamma Zita non mi avrebbe mai perdonato, se non ti avessi riportato a far baldoria nel suo lercio locale!» «Ma come avete fatto a salvarvi da quel volo, tu e Goccia? E dov'è quella pellaccia?» esclamò Brezza. «La vedrai fin troppo presto, cara. Ma adesso diamoci da fare. Bisogna montare il campo oltre il fiume, e tocca a voi far muovere gli Squadroni. Che fine ha fatto Rhylla? Perché non è qui» Brezza dell'Est ritornò seria. «Ah, Rhylla... be', tu la conosci.
Voglio dire, quella ragazza ha dovuto mandarne giù troppe. Come noi, del resto.» Ombra la afferrò per un braccio. «Paria chiaro, Brezza! Dov'è?» «Appena ha saputo che Aquila e Dunia se l'erano filata, si è fatta dare un cavallo e gli è corsa dietro. Ha giurato che le ucciderà entrambe, e se quelle due non hanno già un buon vantaggio è facile che le raggiunga.» «Merda!» imprecò Ombra, irritatissima. «Quando torna la metterà in servizio permanente di pulizia!» «Oh! Rhylla si è meritata il grado di Comandante appunto scavando latrine per punizione,» commentò gaiamente Hay Varena. «Ma se torna portando la notizia che spero, dovrai metterci nella lista delle punite tutte e due, perché intendo sbronzarmi insieme a lei.» Goccia di Fiamma comparve in quel momento sul piccolo piazzale, dopo essere venuta su per la salita a braccetto con Tangri. «Chi è che vuole sbronzarsi, qui?» gridò. «Nessuna è autorizzata a far cose simili, senza il permesso e la personale collaborazione della caposquadra addetta alle bisbocce!» CAPITOLO UNDICESIMO «Perché ti hanno dato una scorta?» Domandò Goccia di Fiamma. Ombra le passò accanto e la prese per mano, conducendola con sé verso il campo. «Vieni. La situazione in città e poco tranquilla. Ieri gli abitanti sembravano come rimbecilliti, ma stamattina si sono svegliati in loro gli istinti bellicosi. Alcuni di loro mi hanno tirato dietro dei sassi, e strillavano insulti dalle finestre.» «C'era da aspettarselo.» Goccia si voltò un momento. I due soldati di Tebron dall'elmo a forma di teschio erano rimasti all'altra estremità del ponte, dopo aver accompagnato Ombra di Lancia attraverso la città bassa, e ora stavano guardando in direzione delle tende delle amazzoni con facce ostili. Vista da lì, Fiorgelize sembrava però abbastanza tranquilla. «Saure mi ha consigliato di partire subito,» proseguì la bruna. «Ha avuto delle noie con il Consiglio. I cittadini vogliono vendicarsi, e non gli importa di altro. C'è il rischio che entro stasera si radunino due o tremila uomini, con armi improvvisate ma decisi a farci pagare i loro morti. Saure teme che la situazione gli sfuggirà di mano.» «Posso anche capirli, Ombra, Dopotutto Aquila di Guerra ha sterminato circa tremila dei loro concittadini. È un peccato che sia andata così.»
«Non è tanto semplice,» bofonchiò l'altra, camminando a passo svelto.«Sono venuta a sapere che Aquila non aveva tutti i torli, quando li ha assaliti. Brezza mi ha detto che ventidue nostre esploratrici erano già state uccise dai soldati, prima che Aquila decidesse di dare battaglia. Erano penetrate in avanscoperta in queste campagne, e sono state attaccate senza preavviso. La notte stessa, le nostre miliziane hanno effettuato l'azione di sorpresa contro il campo militare dei soldati. Può darsi che Aquila sia stata sleale come un serpente, ma bisogna ben ammettere che era stata provocata gravemente. In tutto abbiamo avuto appena una trentina di perdite e quarantasei ferite.» Goccia aveva un'espressione perplessa. «Ma perché mai Aquila è fuggita, allora? Di cosa temeva?» «Non certo di dover giustificare il suo attacco a questa gente. Avrei dovuto darle tutte le attenuanti del caso. No, Aquila nasconde qualcosa di poco pulito, e la notizia che io e te eravamo vive deve averle fatto perdere momentaneamente la testa. Comincio a pensare che tu avessi ragione, Goccia. Il nostro arrivo l'ha sconvolta.» «Questo significa che è stata lei a spingerti giù nel burrone.» Ombra di Lancia non rispose. Con aria accigliata si addentrò fra le tende in cerca delle Comandanti di Squadrone, e ordinò alle Sacerdotesse di smontare subito l'altare, dicendo che entro una clessidra il materiale doveva essere tutto caricato sui carri. Da lì a poco, il corpo di spedizione iniziò le operazioni di partenza. Goccia di Fiamma non ebbe neppure il tempo di parlare con Tangri, perché Brezza dell'Est la fece andare ad occuparsi dei cavalli e dovette riprendere le sue mansioni di caposquadra. Mentre le miliziane dell'esercito smontavano le tende, Goccia e Maani vennero mandate con le loro squadre a cercare foraggio per gli animali in una fattoria poco distante, e ne sequestrarono tre carri colmi. Quando fecero ritorno, videro che la Cavalleria era già in movimento per aggirare la città in direzione est, seguita dai due Squadroni di Ilsabet e di Rhylla, quest'ultimo privo della sua Comandante. Le quattrocentottanta ragazze di Hay Varena attendevano che i carri si mettessero in strada per porsi alla retroguardia. Il sole non era ancora giunto a metà del suo cammino celeste, che le amazzoni lasciavano alle loro spalle la città di Fiorgelize, sfilando fra i campi e le fattorie della vallata. A metà del pomeriggio, le esploratrici tornarono indietro per riferire che la strada terminava subito oltre una catena di bassissime colline, e che da là in poi il terreno saliva rapidamente. Una delegazione di miliziane dell'e-
sercito venne per portare ad Ombra una lamentela, riguardo al fatto che quel giorno si era saltato il pasto di mezzodì, e la bruna dovette spiegar loro che intendeva allontanarsi quanto più possibile da Fiorgelize, per evitare guai. Ombra s'era sistemata sullo stesso carro su cui viaggiava Tangri, l'ultimo della fila, e ingannava il tempo chiacchierando con la fanciulla e le due miliziane sedute a cassetta. Al tramonto fu chiaro che la terra di Tebron confinava piuttosto bruscamente con un altipiano sul quale le caratteristiche climatiche tornavano ad essere quelle tipiche di Hyktos: aria secca e gelida, scarsissima vegetazione, e niente acqua. Il percorso per i carri si fece difficoltoso, e parecchie squadre di miliziane si videro costrette a precederli per sgombrare alla meglio il terreno dai sassi. Non fu possibile trovare un buon posto per montare il campo, quella sera, e la colonna dovette arrestarsi in un luogo estremamente frastagliato dove nessuna tenda poté essere raddrizzata e tesa pulitamente. «Posso aiutarti, Goccia?» domandò Tangri. La fanciulla era avvolta in una coperta e sedeva su un sasso, mentre tutto intorno risuonavano i colpi di martello e le voci delle amazzoni. Goccia di Fiamma stava piantando a terra un piolo di bronzo, ai quale era fissata una corda, e la tenda che lei ed altre cinque ragazze andavano tirando su conteneva nel suo interno uno spunzone di roccia alto quasi dieci piedi. Poco più in là qualcuna aveva acceso un grosso falò, che mandava all'insù turbini di scintille infuocate. Un calderone nero montato su un treppiede venne sistemato sulla fiamma, e due miliziane arrivarono con il necessario per fare la polenta e pile di scodelle. «No, grazie, cara,» rispose la rossa. «Più tardi potrai dare una mano a curare le ragazze ferite, se vuoi. Appena avremo terminato di sistemarle qui dentro.» «Fa freddo,» si lamentò la fanciulla. Prima che il cielo si fosse scurito del tutto, il vento che scendeva dall'altipiano si fece ancor più rigido. Gli oltre trecento cavalli vennero impastoiati in un posto riparato, alla base di una scarpata, ed il primo turno di guardia composto da una ventina di miliziane prese posto intorno al campo. Battendo i denti ed imprecando, le sentinelle furono costrette a muoversi incessantemente nel buio più assoluto, mentre il cielo sopra di loro era gremito di stelle nitidissime e la temperatura scendeva quasi al punto di congelamento dell'acqua. Come avveniva di solito nei luoghi poco ameni, le amazzoni cenarono al coperto e andarono a letto presto. Due delle tende
più grandi erano state adibite ad infermeria, e le braci dei pochi falò su cui si era cucinata la cena furono portate dentro di esse dalle Sacerdotesse. Ombra di Lancia e le tre Comandanti di Squadrone si trattennero a chiacchierare con le ragazze ferite; un gruppetto di volontarie venne poi a rallegrare l'atmosfera cantando canzoncine, e Tangri si addormentò su un giaciglio libero dell'infermeria prima che avessero terminato. Goccia di Fiamma le rimboccò sotto il mento una coperta e la lasciò lì, per andare a dormire nella tenda di Ombra. «Come va la gamba? Ti fa male?» le domandò la bruna. Goccia le scivolò a fianco, rabbrividendo. «No. Oggi sono stata quasi tutto il giorno a cavallo.» «Non immaginavano che sarebbe stato così. Finiranno per ammalarsi.» «Chi?» «I cavalli,» mormorò Ombra. «Qui si gela, di notte.» L'altra si strinse contro di lei e le passò un braccio addosso, appoggiandole la testa su una spalla. «Non pensarci, ti scaldo io.» «Le tue mani sembrano di ghiaccio.» Goccia ridacchiò, cominciando a slacciarle l'uniforme. «Però il mio cuore è caldo.. tanto caldo. Non scordartene mai!» Il giorno successivo il vento si placò, ed al termine della mattina cominciò a tirare dal sud una brezzolina tiepida grazie alla quale le condizioni climatiche sembrarono mutare del tutto. Il corpo di spedizione percorse soltanto quindici leghe, prima che il cielo si infuocasse dei bagliori del tramonto, e ciò a causa del terreno estremamente accidentato, ma l'umore delle amazzoni migliorò sensibilmente quando si accorsero che si prospettava una notte calda. Per la prima volta da molti giorni a quella parte, nel campo ci furono canti e musiche fino a notte inoltrata. L'estrema scarsità di legna da ardere contribuì a rendere più allegra l'atmosfera, perché si poté tenere acceso solo un grande falò centrale ed intorno ad esso si radunarono a stretto contatto centinaia e centinaia di ragazze vogliose di svagarsi un pò. La burbera Ilsabet destò sensazione cantando una canzoncina sentimentale, accompagnata da quattro Sacerdotesse, e un tentativo di Goccia di Fiamma di ballare una danza acrobatica in voga a Mitanni provocò grande ilarità. La stessa danza fu poi magistralmente eseguita da due delle ragazze più simpatiche e popolari del campo, due gemelle identiche dalle lunghe trecce nere di nome Brina e Nebbia, che nel ballare compivano gesti assolutamente uguali e speculari, quasi che i loro corpi fossero comandati da un'unica mente. Tangri, che aveva fatto amicizia con una delle
amazzoni ferite, rimase nella tenda dell'infermeria ad accudire a lei e alle altre bisognose di cure; poi rischiò di smarrirsi nel buio allorché fu il momento di andare a letto, e dovette essere accompagnata da una delle sentinelle fino alla tenda in cui Goccia ed Ombra dormivano già. Per due giorni la colonna procedette in una zona arida, fra brulle colline rossastre abitate da colonie di serpenti, scorpioni velenosi, lucertole gialle e piccoli roditori che sopravvivevano fra la vegetazione scarsa e stenta. L'acqua cominciò a scarseggiare negli otri, e Goccia di Fiamma fu spedita da Brezza dell'Est in avanscoperta, con una squadra di esploratrici, col compito di cercare una sorgente. «Non dovrebbe essere difficile, da queste parti,» commentò la ragazza, un paio di clessidre dopo la partenza. «In una vallata di questo genere, devono per forza esserci dei torrenti.»/ Brina e Nebbia, che cavalcavano accanto a lei, si dissero dello stesso parere. Il luogo in cui si erano addentrate era infatti una lunghissima valle, stretta fra due catene parallele di alte colline terrose, e i loro fianchi mostravano in più punti l'azione erosiva provocata dai torrenti stagionali. I primi che trovarono erano tuttavia completamente in secca, e la squadra dovette proseguire al trotto sostenuto fino al mezzodì, ora in cui Goccia ordinò una fermata. «Regalo il mio pugnale a chi mi arrostisce a dovere un serpente,» brontolò la ragazza, togliendo dal suo involto una striscia di carne affumicata e facendo una smorfia di disgusto. Idris, una miliziana bionda che si era portata l'arco nella speranza di trovare un pò di cacciagione, disse che aveva visto alcuni piccoli sciacalli sul fianco di una collina. «Se mi dai qualche clessidra di tempo, ne posso prendere uno. Così stasera mangeremo decentemente,» propose. «Ingenua fanciulla,» la derise Brina. «Se hai fame, ti conviene rovesciare le pietre in cerca di serpenti e vermi. Dopo il babbuino, lo sciacallo è la bestiaccia più furba che tu possa trovare. Per ficcargli una freccia in corpo devi stargli dietro giorni interi, e intanto quello ti gira intorno e ti sfotte standosene a distanza di sicurezza.» «Forse dovremo dividerci,» cambiò discorso Nebbia. «Che ne pensi, Goccia? Così avremo maggiori probabilità di trovare l'acqua.» «No. Finiremo col perderci. Questa valle dà l'impressione di essere stretta perché l'aria è tersa come non ho mai visto, ma le cime alla nostra destra sono distanti da noi almeno sei leghe, e quelle a sinistra non meno di quattro. Andiamo avanti tenendoci sul fondo; tanto è qui che viene a depositar-
si l'acqua.» Le ragazze risalirono a cavallo e continuarono ad avanzare. Poco più tardi Idris arrestò il cavallo, con un'esclamazione: «Guarda, Goccia: impronte di zoccoli!» Brina e Nebbia scesero ad esaminare il terreno. «Tre cavalli sono passati di qui,» conclusero. «E non c'è dubbio che fossero quelli di Aquila di Guerra e di Dunia, seguiti dappresso da quello di Rhylla. Hanno due giorni di vantaggio su di noi, se non quasi tre.» Goccia emise un fischio. «Tre giorni? Come fate ad esserne certe?» «È evidente, no?» Nebbia indicò il terreno. «Due giorni fa ha piovuto su tutta la zona, e le impronte sono antecedenti a quel momento.» «Andavano di sicuro molto veloci, allora. Va bene, seguiamole.» Le ragazze proseguirono, mettendo i cavalli al trotto e discutendo fra loro sulle probabilità che aveva Rhylla di raggiungere le altre due. Nessuna capiva quali motivi avessero spinto Aquila e la sua amica a fuggire, e Goccia non espose la sua opinione, essendo anch'ella piuttosto incerta. Idris commentò che Aquila di Guerra era ancora fortunata, perché se al inseguimento si fosse messa Ilay Varena, a quell'ora lei e Dunia sarebbero già state uccise, essendo quell'amazzone la più forte cavallerizza che vi fosse e la più spietatamente decisa a conseguire una vendetta personale. Goccia venne quindi a sapere che fra Hay Varena e Rhylla c'era stato un litigio, subito dopo che le due erano state tolte dalla prigione sotto il palazzo reale di Fiorgelize, l'oggetto del quale era chi delle due avesse più diritto a mettersi alla caccia delle fuggiasche. Rhylla aveva prevalso, ed Idris ne spiegò il motivo: a quanto si raccontava, l'anno precedente Aquila di Guerra aveva sollevato un gran baccano allorché Ira Marea era stata nominata Comandante di una nave della Flotta da Guerra, e in una seduta tenuta a palazzo aveva inventato ogni genere di accuse e di pettegolezzi per dimostrare alla Regina che l'amazzone non meritava quella carica. Sentendosi calunniata, Ira Marea s'era alzata in piedi per ribattere, e Aquila l'aveva colpita a un braccio con una pugnalata, probabilmente credendo che l'altra stesse per assalirla. Dopo una scena movimentata c'erano state scuse reciproche, ed Ira Marea aveva perdonato l'impulsività della bionda, che dal canto suo aveva pubblicamente ritrattato le accuse. Ma in seguito la ferita aveva fatto suppurazione, e Rhylla era stata quindici giorni al capezzale della compagna temendo che morisse. In quell'occasione, la ragazza aveva solennemente giurato che un giorno si sarebbe vendicata. Chiacchierando di quello e di altri argomenti, le miliziane percorsero
circa cinque leghe, finché si avvidero che le impronte dei tre cavalli deviavano bruscamente a destra. Fra le colline c'era una sella, e più oltre si prospettava un territorio pianeggiante. «Non possiamo seguirle per di qua,» obiettò Nebbia. «Si allontanano troppo dal nostro percorso di marcia. E non abbiamo ancora trovato l'acqua.» Goccia di Fiamma stava per darle ragione, quando nel cielo sopra di loro si udì un poderoso sbattere d'ali, e con un gracidio formidabile una creatura alata venti volte più grande di un'aquila piombò ad attaccarle. Il cavallo della ragazza si impennò, nitrendo, ed ella vide soltanto una massa scura passare velocissima sulla sua testa, per poi innalzarsi e scomparire dietro a un'altura. «Cosa accidenti era?» gridò, quando fu riuscita a calmare la sua cavalcatura. «Un mostro! Un Rack! Un rettile volante!» strillarono le ragazze. Idris aveva impugnato l'arco e si guardava attorno tenendo pronta una freccia. «Era un Rack.. non poteva essere altro!» ripeté anch'ella. «E sopra la schiena portava un uomo. L'ho visto io!» esclamò un'altra delle miliziane. «Un uomo?» Goccia di Fiamma guardò nella direzione in cui la misteriosa creatura era scomparsa, poi si girò verso il cielo, ma non vide niente. Da quella parte c'erano numerose collinette piuttosto basse, di roccia scabra, e il volatile sembrava essersi allontanato stando rasente al terreno. Un gemito alla sua sinistra la fece voltare: Brina stava scivolando giù dalla sella, e una corta freccia piumata le sporgeva verticalmente da una coscia. La gemella si precipitò a soccorrerla, la fece stendere a terra e imprecò, impallidendo nel vedere che l'asticella aveva passato la gamba di lei da parte a parte. Idris e un'altra scesero da cavallo per aiutare Sa ragazza ferita, e Goccia cercò di capire che cosa fosse successo in realtà. La miliziana che aveva visto un individuo a cavalcioni dello straordinario essere alato insisté nella sua versione, che per quanto incredibile era avallata dalla presenza della freccia che aveva colpito Brina, e un'altra asserì che quello non era un uccello, poiché non aveva piume, ma un Rack, e cioè uno dei rettili volanti dalle ali membranose che si credevano estinti da secoli. Un animale da leggenda. «Bisogna mettersi al riparo,» suggerì Idris. «Può darsi che quello ritorni, e dove ce n'è uno possono essercene altri cento.» «Ma con un uomo in groppa... è incredibile!» mormorò Goccia. «Credo
che sia meglio indagare. Nebbia, è seria la ferita di tua sorella?» La miliziana si voltò verso di lei. Aveva le lacrime agli occhi. «Sì, penso di sì. Bisogna portarla indietro, per farla curare. Quel maledetto porco... lascia che gli metta le mani addosso e vedrai!» «Allora voi rientrate subito. Idris, prendi il comando della squadra, e riferisci a Ombra che siamo state attaccate. Io andrò a dare un'occhiata oltre le colline.» «E perché tu da sola?» «Darò meno nell'occhio di una squadra intera. E non intendo allontanarmi molto. Quell'uccello è sparito nella stessa direzione che hanno preso Rhylla e le altre due, verso la sella. Al di là mi sembra che ci sia un territorio pianeggiante. Dì a Ombra che rientrerò comunque al tramonto.» Stabilì la ragazza. Poco dopo Goccia di Fiamma spronò il suo cavallo sul terreno in salita, allontanandosi dal fondovalle e tenendosi sulle orme dei tre quadrupedi che l'avevano preceduta. Dal suolo sporgevano enormi spunzoni di roccia rossastra, molto friabile, che le piogge avevano scavato e lisciato nel corso dei millenni, ed il terreno era composto da polvere dello stesso colore. Qua e là crescevano minuscoli cactus e piante grasse. Quando fu giunta sulla dirupata convessità della sella, la ragazza si voltò e poté scorgere le sue compagne, assai lontane e più in basso, dirette a ricongiungersi alla colonna che si trovava a una ventina di leghe più ad ovest. Proseguì con cautela, tenendosi pronta a saltar giù dal cavallo se uno dei misteriosi assalitori volanti avesse fatto la sua comparsa, e in breve giunse in un posto dal quale era possibile spaziare lo sguardo sul territorio oltre la catena collinosa. Ai suoi occhi si presentò una pianura secca e arida come la superficie di una patata fritta, il cui suolo era ovunque cosparso da sassi fra i quali persino i cactus sembravano stentare. A oriente, sfumata di brume alla base, c'era una montagna alta non meno di cinquemila piedi la cui forma era quella di un cono tronco, e che a Goccia parve l'archetipo di tutti i vulcani. Il suo colore variava dal giallo al marroncino, e se pure un tempo aveva funto da sbocco per i miasmi roventi del sottosuolo adesso non mostrava alcun segno di attività. La ragazza fece arrestare il cavallo, ed esaminò il terreno: le orme di zoccoli che aveva seguito fin lì proseguivano lungo la discesa pietrosa e si perdevano in direzione del lontano vulcano. Alzando lo sguardo, si accorse che il cielo della vallata era pieno di rondini, e non c'era traccia dei fiabeschi uccelli che le leggende descrivevano come rettili dotati di ali artigliate e di denti, chiamati Rack. Neppure nei
pressi della sella c'erano torrenti; quella zona, dal clima appena sopportabile durante la bella stagione, in inveì no doveva trasformarsi in un inferno gelido spazzato dai venti del nord, ed era meno ospitale dei caldi deserti sassosi del centro di Afra. Da dove era venuto il volatile gigantesco che le aveva assalite? Con quella ed altre domande che le ronzavano nella mente, la ragazza esitò, indecisa su quel che le convenisse fare. Infine pensò di esplorare un poco la vallata, calcolando che le restava un pò di tempo da sprecare prima che il buio la sorprendesse lontana dal campo e dalle compagne. Quando fu sul terreno, piano mise il cavallo al passo, osservando il desolato panorama che le stava davanti. Se in quei luoghi c'era acqua, rifletté, sarebbe stato possibile trovarla solo scavando un pozzo. Ad un tratto stabilì che continuare in quella direzione era una cosa priva di senso. Aquila di Guerra, Dunia e Rhylla si erano avventurate lì senz'acqua né viveri, evidentemente incuranti di cacciarsi in una situazione pericolosa, ma seguirle avrebbe significato dimenticare il buon senso. Con un sospiro fece girare il cavallo, rinunciando a scoprire quale poteva esser stato il loro destino ed augurandosi che Rhylla ritrovasse l'intelligenza sufficiente per dimenticare le sue vendette personali, finché era ancora viva e sana. S'era appena voltata che scorse qualcosa muoversi sullo sfondo delle colline da cui era discesa, e trattenne l'animale. Quando però vide di cosa si trattava, dalla bocca le uscì un'imprecazione oscena: venti o trenta volatili dalle grandi ali color del cuoio stavano planando nella sua direzione, velocissimi e silenziosi, ciascuno con una figuretta accovacciata sul dorso. Solo in quel momento Goccia comprese la portata del proprio errore: gli uccelli che lei aveva scambiato per rondini erano tali solo in apparenza, e l'altezza a cui li aveva visti volare doveva essere cento volte maggiore di quella che aveva distrattamente giudicato. La ragazza si infilò lo scudo sul braccio sinistro, sguainò la spada ed affondò i talloni nei fianchi del cavallo, spronandolo dritto verso gli assalitori. Non aveva la minima intenzione di attaccarli, ma s'era già resa conto che fuggendo o allontanandosi trasversalmente avrebbe fornito un bersaglio troppo facile. I Rack volavano molto bassi, senza quasi muovere le grandi ali, ed ella poté udire le grida acute degli individui che li montavano. Lo stormo dei rettili volanti parve ondeggiare, alcuni si alzarono di quota ed altri si allargarono ai lati, ma nessuno fece in tempo a virare quando l'amazzone arrivò al galoppo sotto di loro. Dall'alto piovvero le frecce; una impattò con un tonfo nel mezzo del suo scudo, ed un'altra
strappò al cavallo un nitrito conficcandosi verticalmente nella sua groppa, dietro la sella. Goccia di Fiamma si voltò e gliela svelse dalla carne, e l'animale prese a scartare a sinistra e ruppe il passo, rallentando. «Vai! Vai!» lo incitò. I Rack le erano passati sopra con una ventata, ed ora stavano alzandosi, sbattendo appena le ali larghe quanto la vela di una barca. Goccia li vide compiere ampie virate nell'aria, e comprese che non sarebbe giunta al riparo delle rocce alla base delle colline, troppo distanti. Strappò le redini di lato e costrinse il cavallo a tornare indietro. Stavolta oltrepassò lo stormo dei volatili senza rischiare molto, perché nel compiere le loro inversioni ad U s'erano sollevati di molte decine di braccia rispetto al suolo. Alcuni dei loro conduttori tirarono strali che finirono lontani dal bersaglio, ed ella ebbe modo di osservarli meglio. Erano uomini barbuti, vestiti piuttosto come ricchi cortigiani che come soldati, e adorni di collane e bracciali vistosi. Tuttavia gridavano come selvaggi e si comportavano con una barbara ferocia che non si adeguava al loro abbigliamento sofisticato. I Rack erano più rettili che uccelli, e se non avessero posseduto quelle ali membranose avrebbero somigliato a lucertole molto snelle fornite di becco. Quando videro che Goccia di Fiamma aveva di nuovo mutato direzione, emisero versi rauchi e striduli. La loro formazione s'era scomposta ed allargata, e furono costretti a virare ancora per metterlesi in coda. L'amazzone imprecò. Giostrando avanti e indietro riusciva a far sì che i Rack perdessero tempo in virate lente, mentre se fosse fuggita in linea retta essi l'avrebbero raggiunta alle spalle ed affiancata troppo pericolosamente. Ma non poteva sostenere quel gioco a lungo. Il suo cavallo era già stanco e non avrebbe retto. Doveva raggiungere le colline, o per lei sarebbe stata la fine. Fece voltare di nuovo l'animale, e lo spronò al galoppo. Quando passò per la terza volta sotto le creature volanti, una di esse si abbassò al punto che ella se la vide venire dritta addosso. Sollevò lo scudo e un'ala glielo colpì con forza tale che ella fu quasi sbalzata giù dalla sella. Si trovò a pendere tutta da una parte, stordita; la spada le era volata via di mano, e un piede le era uscito dalla staffa. Prima di cadere, gettò lo scudo e usò tutte e due le mani per tenersi alla sella. L'animale galoppava ora verso le colline, e quello era l'ultimo tentativo di raggiungerle che le sarebbe rimasto. Lo incitò, piegandosi sul suo collo fremente e rigido. Le rocce erano distanti ancora circa una lega, ed il cavallo non avrebbe potuto tenere il galoppo tanto a lungo. Goccia si girò e vide che i Rack convergevano dietro di lei, gracidando e abbassandosi fino a sfiorare il
suolo. Sopra di essi, i bellicosi individui avevano gli archi già tesi. La ragazza ringhiò una maledizione. Fra le sue gambe, il cavallo era una macchina di nervi e muscoli che stava funzionando al massimo delle sue possibilità, capace di galoppare con cieca energia fino a che il cuore non gli fosse scoppiato, ma i rettili volanti guadagnavano terreno. L'amazzone si lasciò scivolare sul suo fianco destro, e reggendosi alle due cinghie della sella con tutta la sua forza gli si portò sotto il ventre. Fra tutte le ragazze che conosceva, soltanto Hay Varena era capace di esibirsi in quel difficilissimo esercizio in piena corsa, mentre i sobbalzi e le scosse della cavalcatura mettevano alla prova ogni muscolo del corpo, e Goccia sapeva che il prezzo da pagare sarebbe stato una rovinosa caduta. Infilò un piede in una delle cinghie e strinse i denti, mentre pietre e sassi filavano via veloci a un palmo sotto la sua testa. A destra ed a sinistra due grosse ombre affiancarono il cavallo e lo sorpassarono, ed una freccia si spezzò al suolo sotto la schiena della ragazza. Un'altra si conficcò fra le costole del cavallo, che reagì con un nitrito sfiatato; il sangue colò in un rivolo che arrossò subito un braccio di lei, ma nonostante il tormento la povera bestia tenne l'andatura. Gli strali fioccarono ancora, passando fra le zampe del cavallo, ed a Goccia di Fiamma parve che questi fosse stato di nuovo colpito. Rovesciando la testa tutta all'indietro, vide un panorama di rocce e scarpate che le ballavano follemente davanti agli occhi. Un attimo prima che le forze le mancassero, si accorse che il cavallo era giunto al limite della resistenza. La sua velocità rallentò di colpo, e sbandò da un lato piegando le gambe anteriori; Goccia fece appena in tempo a lasciarsi cadere che la bestia si abbatté al suolo con un debole nitrito. Impolverata e distrutta dalla fatica ella rotolò via, mentre un paio di frecce finivano a rimbalzare fra i sassi e sopra di lei roteavano le grandi figure alate dei Rack. Ma le rocce erano ormai vicine. Goccia di Fiamma corse avanti in cerca di un riparo, ansimando. C'era una parete terrosa, poco distante da lei, e scarpate che le piogge invernali avevano scavato profondamente facendo rotolare il pietrisco più pesante alla loro base. Soltanto a tratti la roccia affiorava, da quel lato delle colline, ed ella si accorse che sotto uno spunzone di arenaria rossastra si apriva l'imbocco oscuro di una caverna. Corse da quella parte, senza badare alle manovre degli assalitori ed incapace di provare alcun sollievo tanto la fatica le annebbiava la mente. Una freccia scagliata con più precisione le arrivò dritta nella nuca, tonfando però in una delle fasce di rame che le rinforzavano l'elmetto di cuoio, e il colpo le strappò un singhiozzo di dolo-
re. Con la vista confusa barcollò verso l'anfratto e ne oltrepassò l'ingresso, lasciandosi cadere bocconi una decina di passi più in là, nel buio. All'esterno i Rack emettevano strida che suonavano in tono di delusione, e i loro cavalieri gridavano parole che le giunsero attutite e incomprensibili. «Possiate crepare!...» rantolò, col fiato mozzo. Dalla gamba sinistra le saliva fino al cervello una fitta di dolore, ed il braccio ancora non perfettamente guarito le faceva male più che mai. L'amazzone rimase a terra finché non le fu passato il fiatone. Decine di strali le erano stati indirizzati addosso senza che neppure uno l'avesse ferita, ma il corpo le doleva dappertutto e si sentiva più debole di un gattino. Si voltò a guardare l'imboccatura della caverna e non vide nessun movimento all'esterno; anche le voci dei suoi assalitori non si udivano più, ed ella capì che s'erano allontanati. Il fatto la lasciò perplessa, perché avrebbe giurato che, feroci com'erano, non avrebbero esitato a scendere dai loro volatili per venire a stanarla. Chi erano? Da dove venivano? Per quale motivo s'erano dimostrati tanto decisi ad eliminarla? Goccia di Fiamma non ne aveva la minima idea, tuttavia poteva star certa che una volta uscita da lì se li sarebbe di nuovo visti arrivare addosso. Maledicendoli e mugolando per il dolore si tirò in piedi. Era armata solo del suo pugnale, una lama di ottimo ferro lunga due palmi abbondanti che le era stata regalata da Sballa, e sulla quale era inciso il suo nome, ma del suo equipaggiamento le restava soltanto la maschera di guerra, allacciata alla cintura. La spada e lo scudo avrebbe potuto recuperarli dopo il tramonto, calcolò, sempre che nessuno fosse venuto a darle la caccia fino ad allora. Sedette su un sasso e si esaminò la gamba, osservando che la cicatrice ed i segni dei punti con cui Ombra gliela aveva ricucita erano circondati da un alone rossastro. Tutto il muscolo fino al ginocchio le si era gonfiato, e questo la preoccupò. Vi sputò un paio di volte e si fece un cauto massaggio, sperando di non avere l'infezione. Tutto ciò che si sapeva sul modo di curare le ferite era che il rossore maligno e la cancrena potevano essere evitati unicamente agendo subito con l'alcole di legno e un paio di tipi di muffe estratte dai funghi. Impacchi di erbe e decotti potevano far calare la febbre che accompagnava il decorso della malattia, ma generalmente un'infezione significava la morte. La ragazza stava riflettendo cupamente sulle sue condizioni fisiche, quando nel profondo della caverna ci fu un rumore di sassi spostati ed ella trasalì, impugnando il pugnale. C'era qualcuno, si accorse, e non doveva trattarsi di un animale perché ora sentiva nettamente lo scalpiccio di passi
umani. Nell'oscurità vide ondeggiare un mantello, ed un istante più tardi una figura alta dal volto pallido come l'alabastro apparve sbucando da dietro una svolta e si fermò a fissarla. «Chi sei?» domandò Goccia, tenendosi pronta a colpire lo sconosciuto. «E cosa ci fai qui? Capisci la mia lingua?» L'individuo avanzò ancora, tenendosi il mantello raccolto davanti al petto, e quando la luce lo illuminò meglio la ragazza vide che era un tipo segaligno, con un naso adunco e occhi neri stretti come fessure. La sua faccia magra era contratta in una smorfia ostile, e quando parlò lo fece in lingua sumerica, con chiaro accento di disprezzo: «Come osi farmi domande, tu, miserabile femmina? Chinati in ginocchio davanti allo Zebuloj di tutti gli Alazoj, o spazzatura, e baciami i piedi in segno di rispetto. Chinati, ho detto!» «Cosa?» domandò lei, perplessa. «Non ti capisco bene. Hai uno strano accento. Sei un sumerico dell'est? È certo una sorpresa trovarti qui in questa grotta.» L'altro si scurì in faccia, e ringhiò: «Modera il tuo parlare, o creatura sozza e insignificante! Per l'ultima volta te ne avverto: piegati a terra davanti a me o ti getterò sul capo una maledizione tale da fulminarti all'istante. Tu stai posando gli occhi su Conjelo Casterol, un onore che certo non ti aspettavi, o pezzo di sterco!» «Ehi!» la ragazza era rimasta a bocca aperta. «Ma che diavolo stai dicendo? Ti sei fottuto il cervello, per caso?» Goccia lo osservò meglio, più incuriosita che offesa dal suo incomprensibile atteggiamento, e lo vide farsi pallido come il gesso per l'ira. Dal mantello scuro spuntò una mano ossuta, ammonitrice. «La tua sfacciataggine è così abominevole che stento a capacitarmene! Chi ti ha insegnato a parlare come un uomo? Basterebbe questa indegnità a meritarti d'essere gettata in pasto agli Artigli dell'Alazoj, razza di disgustosa impudente. Inginocchiati a rendermi il dovuto omaggio, prima che la rabbia mi si gonfi nel petto!» Goccia annuì, accorgendosi che la sua prima impressione era esatta. «Vedo che sei un povero pazzo, signor mio. Meglio che ti calmi un pò; non sono in vena di sopportarti, in questo momento.» «Ah, è così? E allora io ti condanno a subire il mio anatema: che la tua impudica carne di femmina possa ammarcire fra mille tormenti, e le ginocchia diventarti fango, e le ossa sciogliersi in putredine, e gli occhi caderti al suolo come frutti bacati. Che il tuo cranio rotoli nella polvere del deserto
per mille anni! Ora giaci a terra e perisci come ti ho ordinato, o misera donna. Hai udito la mia condanna?» Goccia di Fiamma stava cercando di capire se quel tipo fosse solo, e se sotto il mantello non nascondesse qualche lama. Decise di stargli alla larga, per quanto poteva, altrimenti non le sarebbe rimasto che ucciderlo o ferirlo seriamente per renderlo inoffensivo. Andò a sedersi a qualche passo dall'ingresso della grotta e sbirciò fuori. Non vide nessuno, ma il cielo brulicava di Rack che roteavano lenti a grande altezza. Girandosi si accorse che l'individuo la osservava con evidente astio. «Senti un pò, tu,» lo apostrofò. «Chi sono quegli uomini che mi hanno assalita? Dove vivono?» L'altro non disse verbo, e Goccia gli mostrò il coltello. «Bada a non fare il furbo, se no divento cattiva. Intesi?» «Attendo che tu muoia,» fece l'altro. «Questa è la pena minima prescritta per le donne che osano parlare come gli uomini. E fin ora nessuna femmina è mai sopravvissuta a una maledizione dello Zebuloj di tutti gli Alazoj. Sappilo.» «Ah, davvero? Sarebbe come dire che le donne dalle tue parti non hanno il diritto di parlare, se ho ben capito, signor Zebuloj.» L'uomo annuì trucemente. «Il compito degli animali è di ubbidire tacendo, e la donna è un animale simile al verme, come tu ben sai. Talora può esserle permesso di dire 'sì padrone!' 'oppure come tu mi ordini, signor padrone!,' ma ciò solo alle più meritevoli. La parola è un dono concesso solo agli esseri umani. Ora comprendi quanto grande sia la tua colpa?» «Capisco, sì. Allora, egregio Zebuloj, vuoi rispondere alla mia domanda? Ti ho chiesto chi sono quei guerrieri che cavalcano i rettili volanti.» «Sono gli Alazoj, o biasimevole creatura. E quelli che tu hai insultato atrocemente chiamandoli rettili sono gli Artigli, i nobili destrieri del cielo che solo un Purissimo può ambire a cavalcare. La tua ignoranza è seconda solo alla tua criminale efferatezza.» «E tu fai parte della loro tribù?» L'uomo emise un verso stridulo, alzando gli occhi nell'atteggiamento di chi si vede sfuggire gli ultimi sgoccioli di pazienza. «Tribù? Ma da dove arrivi tu, che chiami tribù il popolo dei Purissimi? Io, Conjelo Casterol, non credo alle mie orecchie; mai avrei pensato di poter udire tante eresie uscire da una sola bocca! Quasi mi pento di averti già condannata a morte con un anatema. Tu meriteresti anche una dose di tortura; ed il tuo rifiuto di riverirmi è intollerabile!» Goccia di Fiamma si avvide solo allora che il mantello di lui era di otti-
ma stoffa ricamata, ed anche le scarpe che portava erano senza dubbio lussuose. Non poteva essere un eremita, dunque, ed anzi pareva uscito poco da qualche dimora, assai ricca. Gli domandò cosa stesse facendo in quel luogo, ma l'altro non si degnò di rispondere. «D'accordo, Conjelo, taci pure. Però spariscimi dagli occhi, eh? Torna in fondo alla caverna, e fai la cuccia,» brontolò, seccata. Dopo averla squadrata con espressione indecifrabile, l'altro si rinchiuse fino al mento nel lungo mantello e avanzò a lunghi passi verso lo sbocco dell'antro roccioso. Per un poco tenne il capo girato all'insù, quasi che studiasse attentamente il volo dei lontani Rack, quindi si girò di scatto. «È chiaro che sei una barbara straniera, venuta da qualche terra incivile e selvaggia,» la accusò. «Con quale perverso stratagemma sei riuscita ad evitare che i Purissimi ti attaccassero e ti portassero verso il tuo destino nelle viscere dell'Alazoj?» «Per la verità quei bastardi ci hanno provato. Tuttavia ho avuto l'impressione che mirassero semplicemente a farmi fuori.» Goccia fu illuminata da un'intuizione, e domandò: «L'Alazoj è per caso quel vulcano estinto al limite della vallata?» «Così è, infatti, o eretica. Ma tu mi stai mentendo spudoratamente: i Purissimi non si abbassano a uccidere una laida femmina. La sorte delle bestie pari tuo è di essere adibite ai mestieri più immondi e stomachevoli, nelle caverne più basse dell'Alazoj. Non vi è dubbio che questo è quanto ti accadrà ben presto. Tuo compito è di adeguarti a una vita di schiavitù, e perciò disponi la tua mente alla sottomissione se vorrai sopravvivere.» La informò lui. Goccia di Fiamma ridacchiò. «Temo che i miei progetti personali ti deluderanno, Conjelo. Ho intenzione di andarmene appena sarà buio, con buona pace tua e dei tuoi amici. Nel frattempo avrai modo di osservare che l'anatema da te gentilmente offertomi ha un difetto di funzionamento: la magia e la suggestione ipnotica funzionano solo con gli idioti.» «Parla, parla pure senza alcuna vergogna, se ti compiaci di atteggiarti ad essere umano!» sbottò l'uomo. «Se tu avessi almeno il pudore di tacere, come si conviene a una femmina, forse potrei perfino considerare l'idea di prenderti al mio servizio come schiava. La vita che conduco in questa grotta è infatti disagevole. Malgrado il tuo aspetto sciatto, tu sembri robusta, e potresti accudirmi senza perire di stenti troppo facilmente.» «Troppo onore, o signor Zebuloj. Non me ne sento degna. Piuttosto dimmi, per quale avventura un dignitario di tanto nobile aspetto come te si
è ridotto a razzolare in una lurida caverna piena di correnti d'aria? Immagino che questa sistemazione offra servizi igienici scadenti e inadatti al tuo rango. Dove ti procuri il cibo e l'acqua?» Conjelo Casterol la fissò insospettito. «In effetti tu hai ragione di stupirti, vedendo qui colui che fu lo Zebuloj di tutti gli Alazoj. Sappi che il mio posto dovrebbe essere nella Sala del Trono dell'Alazoj, e che se a tutt'oggi non ricopro la carica più alta fra i Purissimi ciò accadde a causa di una vile congiura. Comunque, in fondo a questa grata c'è una grande falla d'acqua dove abbondano certi pescetti, dal sapore disgustoso. Più tardi t'insegnerò a pescarli, così d'ora innanzi sarai tu a sporcarti le mani.» Goccia di Fiamma stava per dargli una risposta sfottente, quando l'altro si chinò d'improvviso ad esaminarle la coscia sinistra, che il suo corto vestito lasciava scoperta, e le sfiorò con un dito la cicatrice arrossata. «Vedo che hai una ferita mal guarita. Aspettami qui, e ti darò un unguento infallibile e miracoloso contro le infezioni.» Detto ciò, Conjelo Casterol si diresse svelto verso il fondo dell'antro e scomparve nell'oscurità. Tornò subito dopo, e porse alla ragazza un minuscolo vaso di terracotta. «Cospargine la parte lesa, e in breve sarai guarita. Ciò dimostrerà che io so trattare paternamente i miei servitori.» Goccia annusò il prodotto, e all'odore le parve simile alla muffa medicinale estratta dai funghi. Ne tolse una ditata che si spalmò sul rossore, e con sua sorpresa una fresca sensazione di benessere le pervase subito la coscia. «Mi sembra ottimo,» disse. «Ti ringrazio, Conjelo. Forse ti avevo mal giudicato. In fondo non devi essere un tipo tanto malvagio. E così, sei stato esiliato da qualche tuo nemico e costui ti ha rubato il trono. Di un po': chi è questo usurpatore, e perché ti ha giocato uno scherzo così sporco?» «Usurpatore!» L'uomo annuì gravemente. «Hai usato la parola adatta a definire quell'infame. Già da tempo sospettavo che Camelus Batimao mirasse a sedere sul trono dell'Alazoj, ma la sua congiura mi ha colto di sorpresa. Tre giorni or sono egli ha ordito il misfatto , con la complicità di Najarn Polopas e di Vionne Tordaloy, il Comandante dei Purissimi ed il Capo Magazziniere. Ancora non so capacitarmi di come quella trama nefasta sia loro riuscita, ma ecco che per salvarmi la vita sono stato costretto a fuggire dalle grotte inferiori come un ladro, e a rifugiarmi qui.» «E non temi che vengano a darti la caccia?» volle sapere lei. «E come potrebbero? I Purissimi non si degnano di toccare il terreno della pianura coi loro piedi. Essi comandano orgogliosi nel cielo immenso, cavalcando i nobili Artigli di razza antica e leggiadra, ed è quello il loro
regno. Oltre a ciò, vi è il fatto che gli Artigli sarebbero destinati a mai più risollevarsi, se si posassero al suolo; essi s'involano nell'aria dai loro posatoi, all'interno del cratere, e non possono atterrare in altro luogo che quello.» «Capisco,» osservò lei. «Essendo creature pesanti, riescono a prendere il volo soltanto gettandosi da un punto elevato. Un pò come succede agli avvoltoi quando hanno la pancia troppo piena. E nidificano all'interno del vulcano?» CAPITOLO DODICESIMO Quando le ombre della sera invasero la vallata, Goccia di Fiamma era uscita dalla caverna e spiava il cielo dal lato orientale. Sopra il cono scuro del vulcano estinto l'azzurro era sfumato nel viola e poi nel blu cupo, ed ella non riusciva più a distinguere le minuscole forme volanti dei Rack. Ad occidente c'erano ancora bagliori gialli e arancio, e nubi striate di rosso, ma neppure lì erano visibili i grandi rettili alati. La cosa la rassicurò. «I Purissimi hanno condotto i loro Artigli nel cratere, o donna,» la informò Conjelo Casterol, avvicinandosi. «Ma la loro assenza non ti sarà di alcun giovamento, se sarai così folle da mettere in atto i tuoi propositi. Come tutte le femmine, manchi di chiarezza intellettuale e sai agire solo in modo confuso. Difficilmente l'alba di domani ti troverà ancora viva.» «Guarda che non ti obbligo, Conjelo. Puoi venire con me oppure no, come preferisci,» disse lei alzando le spalle. «Io ti ho offerto una possibilità, tu scegli.» «Verrò con te,» decise l'altro, dopo un'esitazione. «Purché tu prometta di ubbidirmi senza discutere. Forse il tuo piano ha buone possibilità di riuscita, con la mia supervisione e guida. Inoltre, ammetto che l'idea di strangolare con le mie mani Camelus Batimao mi affascina e mi riempie d'impazienza.» «Allora andiamo, muoviamoci. L'Alazoj dista almeno cinque leghe, il che significa che arriveremo alle sue pendici in piena notte anche camminando svelti.» Senza dir altro la ragazza si avviò, e l'uomo la seguì avvolgendosi nelle pieghe del suo mantello. La notte si prospettava chiara, e la vallata era pianeggiante e priva di ostacoli. Goccia di Fiamma era giunta alla risoluzione di dirigersi verso l'Alazoj dopo non poche incertezze e ripensamenti; ma le era parso decisivo il fatto che di notte non era possibile attraversare le col-
line per raggiungere il corpo di spedizione, visto che si sarebbe trattato di marciare per venticinque leghe nel buio su un terreno impervio. Per bene che le fosse andata, avrebbe potuto riprendere contatto con le altre solo nel pomeriggio successivo, e nulla le garantiva che i padroni dei rettili volanti avrebbero atteso fino ad allora per attaccare le miliziane. Aveva dovuto scegliere fra due possibilità: o avvertire Ombra di Lancia del pericolo imminente, cosa che peraltro avrebbe solo minimizzato i danni di una battaglia di quel genere, oppure tentare con la guida di Conjelo Casterol un colpo di mano ai danni di chi ora comandava i Purissimi. Aveva optato per questa soluzione, essendosi l'uomo detto certo che in piena notte un'incursione era fattibile, a patto di eliminare in silenzio e pulitamente un certo numero di sentinelle. I due camminavano a passo molto svelto, e un po' di tempo dopo che ebbero oltrepassato la carogna del cavallo di Goccia ella cercò di capire in quale punto esatto fosse stata assalita dai Rack, nella speranza di ritrovare la sua spada. Non riuscì a vedere neppure lo scudo, malgrado che la luna e le stelle illuminassero abbastanza il terreno chiaro, e vi rinunciò borbottando qualche imprecazione. «I cavalli delle tre amazzoni catturate sono stati portati nelle caverne dell'Alazoj?» domandò. «Senza dubbio no, o femmina,» fu la risposta. «Un Artiglio può sollevare nell'aria un essere umano, se lo abbranca saldamente, ma non un cavallo. Quegli animali vagano abbandonati da queste parti.» La ragazza annuì, di malumore. L'aveva immaginato, anche se per un momento s'era baloccata con l'ipotesi di andarsene a cavallo, nel caso che la loro iniziativa si fosse rivelata impossibile. Era di vitale importanza mettere Ombra di Lancia al correrne degli avvenimenti, ma non vedeva alcun modo di farlo. Irritata ed ancora indecisa, accelerò l'andatura spronando Conjelo Casterol a fare altrettanto, poi continuò a guardarsi intorno alla ricerca dei tre cavalli. Ma gli animali dovevano essere andati a finire chissà dove. La pianura sembrava un catino, nel buio, circondata com'era da un nero orlo di colline. L'Alazoj si stagliava scuro contro le stelle, una mole minacciosa che a detta di Casterol era traforata da caverne e cunicoli di tutte le forme e dimensioni. Durante il cammino Goccia lo interrogò sul suo popolo, ed egli la informò che il vulcano estinto era una vera e propria città, in parte scavata artificialmente nella roccia morbida ed in parte formata da caverne naturali. A suo dire, gli Artigli vi avevano vissuto sin da prima dell'arrivo degli uomini, nidificando sui cornicioni e nei buchi che
costellavano la parete interna del grande cratere. Ancor oggi gli uccelli preistorici dimoravano lì, ed i Purissimi avevano costruito un'enorme quantità di scale e impalcature per salire o scendere fra il fondo piatto del cratere ed i loro nidi. Goccia volle sapere dove quella gente si procurasse il legno, la stoffa ed il cibo, e l'altro le rivelò che per buona parte le materie prime venivano acquistate a oriente, da una tribù di guerrieri Aramak, pagando col rame che abbondava nelle colline dietro l'Alazoj. In quanto al cibo, Conjelo Casterol disse che nelle caverne inferiori del vulcano c'erano coltivazioni di funghi e allevamenti di piccoli animali. La popolazione superava le ventimila anime, per metà composta da donne, per un quarto da schiavi addetti alle miniere, e per l'altro quarto di Purissimi, gli unici questi ultimi autorizzati a montare i rettili alati. Prima di diventare Zebuloj, affermò con orgoglio l'uomo, egli era stato per dieci anni il Comandante dei Purissimi, carica che in seguito era passata a Camelus Batimao e da qualche giorno veniva ricoperta da Najarn Polopas. C'era poi un individuo di nome Cajolis Castrabaj, il quale a quanto Goccia capì doveva essere una via di mezzo fra sacerdote, stregone, medico, consigliere e addetto alle torture. Costui era un suo alleato, affermò Conjelo Casterol, ma al momento era in viaggio verso la terra degli Aramak. Quando furono alle pendici del vulcano, il terreno cominciò a salire rapidamente. C'erano scarpate lunghe e ripide seguite da tratti brevi e pianeggianti, e dovunque si alzavano spuntoni di roccia nuda. Per oltre mezza lega Goccia di Fiamma fu costretta ad arrampicarsi o a seguire l'uomo lungo sentieri stretti. Conjelo Casterol procedeva ansimando ma con sicurezza, e la facilità con cui egli si sapeva orizzontare rassicurò la ragazza. La mole dell'Aldzoj incombeva su di lei, ma se avesse dovuto cercare da sola gli ingressi non avrebbe saputo da dove cominciare, perché non le riusciva di scorgere neppure una caverna sulle pareti del grande vulcano. L'uomo affermò che da quel lato ce n'erano almeno una ventina, tuttavia quell'immenso cono di roccia aveva un diametro tale che per girarvi intorno non sarebbe bastato un giorno intero. «Fermati», sussurrò a un certo punto Goccia. «Non hai detto che agli ingressi ci sono sentinelle?» «Proprio così, o donna. A cinquanta passi davanti a noi ne troveremo una, ma non sarà necessario affrontarla. Poco più oltre si apre un cunicolo che porta nelle caverne dei funghi, e noi seguiremo quella via. Dovremo aggirare la sentinella nel più perfetto silenzio.»
La ragazza gli tenne dietro. Per quanto l'individuo le parlasse in tono costantemente poco amichevole, aveva l'aria di sapere quel che faceva. Fra le rocce il buio era quasi assoluto. Dopo un poco, Conjelo Casterol si fermò, ed ella gli andò ad urtare nella schiena. «Stai attenta, sciocca femmina!» ringhiò lui sottovoce. «Girati a sinistra. La sentinella è seduta là, e tiene l'arco pronto. La vedi?». «Sì,» mormorò lei. Vedeva infatti una chiazza nera, che doveva essere l'imbocco di una caverna, e un'ombra stagliata contro lo sfondo più chiaro della roccia, a lato. «Ma cosa se ne fa di un arco, al buio?» «Le frecce hanno la punta in osso umano, o ignorante creatura. Servono per colpire i fantasmi e i demoni,» bofonchiò l'altro. Senza dir altro l'uomo sgattaiolò avanti fra due macigni, e lei fece del suo meglio per seguirlo senza far rumore. Per un poco lo perse di vista, ma ad un tratto trasalì, udendo un improvviso tramestio e dei gemiti. Corse avanti e inciampò addosso a due corpi umani che rotolavano al suolo avvinghiati in una colluttazione furibonda. La ragazza afferrò a caso uno di essi per il collo e lo sollevò da terra con forza, senza riuscire a distinguere se fosse il suo compagno o una sentinella. «Demonio maledetto!...» ansimò l'altro. Goccia di Fiamma gli affondò il pugnale nello stomaco, con un movimento svelto, e il disgraziato cadde in ginocchio con un rantolo. Al suo fianco Conjelo Casterol si rialzò, barcollando nell'oscurità. «Andiamo, presto!» incitò. E dopo pochi passi scomparve in un cunicolo così stretto che sembrò insinuarvisi a stento. Goccia gli tenne dietro senza esitare, ma si trovò subito in una oscurità così fitta che imprecò, domandandosi se avrebbe dovuto procedere come una talpa del sottosuolo. A braccia protese camminò tentoni per non meno di duecento passi, combattendo la sensazione di claustrofobia che le provocava l'estrema ristrettezza del passaggio. Ad un tratto si accorse d'essere sbucata in una caverna enormemente più ampia, nella quale stagnava un puzzo disgustoso, e si fermò. Alla sua destra ci fu uno scalpiccio, ed ella vide balenare le scintille di un acciarino a pietra focaia. Conjelo Casterol aveva trovato il necessario per fare un po' di luce: un paio di torce impregnate di una sostanza nera e bituminosa ed una piccola pietra focaia che pendeva dalla parete legata con una cordicella. Quando una delle torce fu accesa, la ragazza poté accorgersi che si trovavano in un anfratto colmo di stalattiti, così lungo che non se ne scorgeva il fondo. Dappertutto c'erano piccoli recinti e muretti che racchiudevano animali da allevamento delle
specie più diverse. Con un gesto impaziente, l'uomo le accennò di seguirlo. Alla luce della torcia Goccia vide che c'erano migliaia di polli, anatre, porcellini, fagiani, pernici, galli selvatici e uccelli dalle ali mozzate in quantità. Più oltre c'erano altri recinti contenenti grassi cagnolini silenziosi e lucertoloni lunghi più di un braccio dalle movenze sonnolente. L'uomo la informò che anch'essi venivano allevati come cibo, e che c'erano altre grandi caverne colme di serpenti non velenosi a milioni, destinati alla mensa delle donne e degli schiavi. A quell'ora, disse, tutti gli addetti agli allevamenti dormivano in una serie di corridoi adibiti ad alloggi e situati assai più in alto. Prima di giungere al termine della caverna, Conjelo Casterol girò a sinistra e imboccò una scala scavata nella roccia. La salita era piuttosto ripida e resa scivolosa da un'infiltrazione d'acqua, che dall'odore sembrava lo scarico di una fogna. Più in alto Goccia di Fiamma vide che c'era un secondo interminabile antro fitto di stalattiti e stalagmiti gessose, la cui parte inferiore era evidentemente coltivata a funghi. L'umidità era così densa che ella se la sentì penetrare sotto il vestito. «Dove si trovano la Sala del Trono e gli alloggi dei Purissimi?» gli domandò. «Dall'altra parte del cratere,» bofonchiò l'uomo. «Ma sono sorvegliati. Quel cane di Batimao sarà certamente in compagnia di una femmina. Lo conosco bene. Intendo piombargli addosso di sorpresa.» «Come si arriva alla prigione?» «Perchè vuoi saperlo?» «Devo liberale Rhylla. Col suo aiuto sarà più facile affrontare le altre due amazzoni.» Conjelo Casterol fece un gesto di stizza. «A loro penseremo in seguito. Prima voglio strangolare con le mie mani Camelus Batimao, e strappare il cuore agli altri congiurati. Poi riprenderò il comando dei Purissimi. Tu dovrai soltanto eseguire i miei ordini.» La ragazza non insisté, avendo ancora troppo bisogno del suo aiuto, ma dovette fare uno sforzo per trattenere l'irritazione. Sul fondo della caverna si apriva una minuscola uscita, ed ella seguì il compagno lungo un corridoio così liscio e ben fatto che sembrava far parte dello scantinato di un palazzo nobiliare. In fondo c'era un uomo di guardia, seduto su un panchetto. Nel vederli l'individuo si alzò in piedi di scatto e mandò un grido rauco, quindi raccolse da terra un arco e una faretra piena di frecce. Prima che riuscisse ad incoccarne una, Goccia di Fiamma era già corsa avanti e da
una dozzina di passi di distanza gli aveva scagliato il pugnale con tutta la sua forza. La pesante lama si conficcò in una spalla della sentinella, che emise un ringhio. Se la svelse dalla carne rabbiosamente, ma Conjelo Casterol gli fu addosso e lo afferrò per la gola. I due rotolarono sul pavimento del corridoio, mugolando come animali inferociti, tuttavia l'esito della lotta era scontato: l'amazzone fece volar via il proprio coltello dalle mani dell'uomo con un calcio preciso, e andò a raccoglierlo, lasciando a Conjelo Casterol il compito di strozzare il compatriota. «Mi spiace averlo dovuto fare,» commentò l'ex Zebuloj esibendo un'espressione nobile e severa che infastidì Goccia. «Ma costui era un traditore. Camelus Batimao ha sostituito le sentinelle a me fedeli con i suoi accoliti, e perciò ogni Purissimo che troveremo sulla nostra strada dovrà essere eliminato senza esitazioni.» Dopo un momento aggiunse: «Ho notato che sai usare le armi con singolare destrezza, tu. Sei certo una sconcertante creatura: parli come un uomo senza provarne vergogna, e ti batti con la perizia di un Purissimo. Tuttavia sappi che non posso approvarti.» «Andiamo avanti, Conjelo,» fece lei, seccata. Al termine del corridoio l'uomo spense la torcia a terra, calpestandola, e i due rimasero nel buio. Più avanti c'era uno spiazzo aperto, e lì l'amazzone si accorse che dall'alto spioveva debolissima la luce delle stelle. «Siamo sul fondo del cratere dell'Alazoj,» la informò Conjelo Casterol sottovoce. «Ora dovremo girare tutto intorno tenendoci sotto la parete rocciosa. Non fare rumore, o sveglierai gli Artigli.» Il cratere doveva essere alto non meno di duemila piedi, calcolò Goccia di Fiamma, ed era così largo che sul suo fondo livellato avrebbe potuto far manovra un esercito. Le pareti erano estremamente scabre ed irregolari, ma anche in quella scarsa luminosità ella poté vedere fittissimi tralicci di pali e assi che dal terreno salivano fino alla lontana cima del vulcano spento. Era un'impalcatura di dimensioni impressionanti, che si reggeva verticalmente grazie ai cornicioni rocciosi ed a una quantità di sporgenze. Non aveva la possibilità di vedere i Rack, ma immaginò che i grossi rettili alati fossero nei buchi e negli anfratti di cui l'uomo le aveva parlato. Seguendo Conjelo Casterol sotto le impalcature più basse, s'accorse che il compagno aveva un buon motivo per non attraversare il fondo del cratere in linea retta, infatti questo era occupato praticamente per intero da un lago. «Attenta a non scivolare, o donna,» la avvertì lui, procedendo sul bordo
di una scarpata terrosa. L'amazzone aguzzò gli occhi verso l'acqua più in basso, e la vide liscia e nera come quella di uno stagno. Alle narici le giungeva un odore putrido assai intenso, e d'un tratto ella comprese che quel liquido non era affatto acqua. Toccò l'uomo su una spalla. «Questo lago è un affioramento di Olio di Pietra, non è vero? L'Olio ha un odore di marcio inconfondibile.» disse. «Ora capisco perchè hai spento la torcia; è una sostanza altamente infiammabile.» «Taci!» sibilò lui. «Solo nominare le torce nelle vicinanze del Lago Nero è un sacrilegio. La parola stessa dovrebbe bruciare la tua bocca indegna. Chi reca una torcia all'interno del cratere è punito con la morte immediata. Ricordatelo.» La terra, fin sotto i robustissimi pali delle impalcature, era impregnata di bitume nero ed oleoso, e la ragazza cercò di badare a dove metteva i piedi. Da molto in alto le giungevano ora alle orecchie fruscii e versi sommessi, che ella attribuì ai Rack accovacciati nei loro nidi. La presenza di un intero lago d'Olio di Pietra in quel cratere non la stupiva molto, poiché ne aveva visto larghissime polle ed affioramenti anche fra le colline nel sud di Mitanni. Sapeva che in Akkad quel liquido veniva adoperato per le lampade, e coi depositi bituminosi si potevano impregnare le torce per farle ardere più a lungo. Se ci fosse scivolata dentro, ne sarebbe uscita in condizioni pietose. La voce di Conjelo Casterol la chiamò con impazienza, ed ella lo vide entrare in una piccola caverna. Dopo una cinquantina di passi lo sentì inciampare imprecando in un mucchio di oggetti accatastati. Poi l'uomo armeggiò ancora con un acciarino e accese una torcia. «Queste sono le scale che portano agli alloggiamenti dei Purissimi, molto più in alto,» disse. «Di là invece si va alla prigione. Ho ripensato alla tua proposta, o femmina, e ho stabilito che libereremo dai ceppi la tua compagna. Sei certa che quell'amazzone sarà disposta a battersi al nostro fianco?» «Ci puoi scommettere, signor mio. Troveremo delle altre sentinelle?» «I due Purissimi di turno. Dovremo assalirli col massimo impeto, e impedir loro di dare l'allarme. Andiamo!» La stretta caverna che percorsero era in ripida discesa, e sui lati si aprivano cunicoli privi di porla che, come l'uomo spiegò brevemente, conducevano ai magazzini e alle cantine dove veniva tenuto il vino. Alla prigione si scendeva con una scala lunghissima, dal fondo della quale spirava
una forte corrente d'aria calda, particolare che fece intuire all'amazzone come il vecchio vulcano avesse ancora nelle viscere il suo alito infernale. Più in basso c'erano piccole caverne dal fondo terroso, contenenti tavoli e panche e scaffali a muro colmi di fasci di frecce nuove. Sulla sinistra dell'ultimo locale c'era una porta di legno, semiaperta. «Il posto di guardia,» sussurrò Conjelo Casterol. «Vai avanti tu, e combatti con tutta la ferocia di cui sei capace. Mi aspetto che tu dia prova di coraggio ed estremo sprezzo del pericolo!» «Non hai intenzione di aiutarmi?» L'altro sbuffò. «Contro due Purissimi armati fino ai denti? Sarei sciocco a rischiare la vita, quando tu puoi farlo per me. Agisci senza esitare, è lo Zebuloj che te lo comanda!» La ragazza gli fece cenno di abbassare il tono, innervosita dal suo atteggiamento, poi sbirciò con cautela oltre la porta. Il locale che vide era illuminato debolmente da un paio di lampade ad olio e del tutto deserto, ma sul fondo, dietro un basso paravento di pelle, le parve di scorgere un movimento: c'erano dei giacigli simili a materassi di crine stesi al suolo, e qualcuno si agitava sopra di essi. Goccia di Fiamma si mosse in punta di piedi, tenendo pronto il coltello. Il suo intuito le diceva che si sarebbe trovata davanti a una scenetta erotica, fatto che le avrebbe reso assai più facile l'impresa, e ciò le venne confermato quando udì l'ansimare simile a un gemito di una ragazza. Stava per balzare addosso alla coppietta ed era tesa come una pantera, allorché rimase come gelata dalla sorpresa: al di là del paravento c'erano due individui che giacevano a pancia sotto, e dalla schiena di quello di destra sporgevano le asticelle di cinque frecce profondamente conficcate nei suoi polmoni. Una ragazza bruna era seduta a cavalcioni dell'altro, e gli stava infierendo sul dorso nel tentativo di affondargli con le mani uno strale fra le costole. Il sangue era schizzato perfino sulla parete, ed insozzava le braccia della sconosciuta fino al gomito. Con un rauco ansito di soddisfazione la ragazza riuscì a piantare lo strale nella schiena dell'individuo, il quale non ebbe nemmeno un sussulto, quasi che fosse già morto o profondamente drogato, quindi afferrò una seconda freccia e cominciò ad adoperarsi per infilare anche quella nel dorso lordo di sangue del disgraziato Purissimo. «Ehi, tu!» esclamò Goccia, sbalordita. L'altra si voltò con un sussulto ed emise un gridolino di spavento. L'amazzone accennò verso i due cadaveri. «Ma che stai facendo? Perchè hai ucciso le guardie?»
Invece di rispondere, la ragazza si alzò di scatto e corse verso la porta. Nello stesso momento Conjelo Casterol stava entrando, ed ella gli finì addosso con violenza, rotolando poi a terra. «Per tutti gli Artigli dell'Alazoj!» gridò l'uomo. «Callidora! Chi ti ha dato il permesso di uscire dagli alloggi delle femmine a quest'ora di notte. Alzati, e smettila di strisciare a terra come una larva, stupidissima creatura!» Goccia di Fiamma lo informò che la giovane donna aveva appena terminato di ammazzare le due guardie, notizia che Conjelo Casterol ascoltò con aria irritatissima, ed intanto la brunetta l'aveva riconosciuto e s'era gettata in ginocchio davanti a lui a baciargli i piedi con un misto di timore e devozione morbosa che l'amazzone osservò più perplessa che mai. «Questa è la Callidora di cui mi hai parlato?» gli domandò. «Bene, sembra che abbia fatto fuori quei due senza alcun aiuto.» «È lei,» confermò l'uomo. Abbassò due occhi colmi di disprezzo, ritraendo un piede che l'altra gli stava leccando, e la colpì con un calcetto. «Ti ho detto di alzarti, bestia idiota!» Callidora levò verso di lui uno sguardo adorante e supplichevole, poi gli si strinse alle ginocchia. «Sì, padrone,» ansimò. «Perchè ti trovavi qui? Cos'è successo?» «Sì, padrone,» disse lei, annuendo con energia. Conjelo Casterol emise un ringhio. «Rispondi alle mie domande. Ti do il permesso di parlare come un essere umano, razza di animale senza cervello! Non farmi perdere tempo!» «Sissignore, padrone,» mormorò Callidora. Stava di nuovo piegandosi a sbaciucchiargli devotamente le caviglie, quando un altro calcio dell'uomo la fece raddrizzare. «Padrone Zebuloj, la tua schiava osa parlare per risponderti con ubbidienza. È una grande gioia per me rivederti vivo, per servirti e riverirti umilmente.» Una pedata nell'addome la fece piegare a terra, mentre l'impaziente Conjelo Casterol le ripeteva la domanda in tono feroce. Quando la ragazza trovò di nuovo il fiato per parlare, la voce le uscì in tono implorante e lamentoso. «Signor padrone Zebuloj, una grande disgrazia si è abbattuta sulla tua indegna serva Callidora, allorché tu andasti via cacciato dalle persone cattive e malvagie che ti erano nemiche. Io mi trovavo nei tuoi regali alloggi e speravo ancora nel tuo ritorno, ma invece vidi giungere il perverso Camelus Batimao, accompagnato dalla sua schiava personale, la crudelissima
Zhojné, che mi percosse e mi strappò le vesti e mi tolse le collane e i bracciali. Inutilmente piansi e invocai il tuo nome, o nobilissimo mio signore: Zhojné mi prese a calci e mi bastonò, ed io fui cacciata, e ora è lei che abita nelle tue camere insieme a quel traditore.» «Questo lo avevo immaginato, sciocca miserabile. Ciò che voglio sapere è quello che è successo dopo,» sbottò l'altro. «Sissignore, o Eccelso. Il giorno dopo io persi il mio privilegiato rango di schiava, e venni messa con gli animali che servono per cibo per i nobilissimi Artigli. Ma prima di essere mandata al macello venni vista dal Purissimo Bonne Piumagre...» la ragazza si voltò un momento a indicare verso il paravento, «ed egli ebbe la bontà di prendermi per sé, allo scopo di rendergli meno noiosi i turni di guardia alla prigione. Ma io...» «Tu l'hai ucciso! Hai ucciso un Purissimo, razza di ripugnante peccatrice!» sbraitò Conjelo Casterol. «Come hai osato commettere un simile odioso crimine? Parla, spazzatura!» Goccia di Fiamma era così disgustata dal comportamento prepotente ed assurdo dell'individuo che se tacque fu solo perchè il suo aiuto le sarebbe stato indispensabile nell'arrestare i propositi bellicosi dei congiurati. Guardò verso la porta che conduceva in una caverna di maggiori dimensioni, del tutto buia, e andò a prendere una delle lampade ad olio. Nel frattempo Callidora stava raccontando con accento lacrimevole il seguito della sua storia. A quanto disse, dopo esser stata ripetutamente violentata da Bonne Piumagre e dall'altro Purissimo, era stata presa dal desiderio di fuggire nella vallata per cercare Conjelo Casterol, e s'era servita di una droga estratta dai funghi per avvelenare il vino dei due uomini. Tanto Piumagre che il collega erano già morti, quando ella aveva deciso di completare l'opera del veleno pugnalandoli con le frecce, tanto per sicurezza. «Scellerata!» gridò lui, stringendo i pugni e mandando lampi dagli occhi. La colpì con un calcio ed ella strisciò via gemendo. Mormorò imprecazioni fra i denti. Goccia di Fiamma andò ad illuminare la caverna oltre il posto di guardia. Vide subito che in vari anfratti giacevano dozzine di uomini giovani e vecchi, tutti piuttosto malconci e legati mani e piedi. Il locale puzzava di escrementi e di corpi umani in modo tale che ella storse il naso. Non c'erano catene, né sbarre, né celle separate, e all'apparenza i prigionieri venivano tenuti lì come animali, impastoiati e destinati a crepare fra i loro stessi rifiuti organici. «Rhylla, sei qui?» gridò, alzando la lampada e sbirciando qua e là. Subito la voce emozionata dell'amazzone le rispose, da dietro una colos-
sale stalagmite calcarea. Un momento più tardi ella era impegnata a tagliare i ceppi dell'amica, che per il sollievo e la sorpresa si mise quasi a piangere, salutandola con voce spezzata. «Ti hanno frustata?» disse, aiutandola a rialzarsi. Rhylla la abbracciò con forza, tremando. Era una ragazzona alta quanto lei, con due trecce nere lunghe fino ai fianchi, e la sua robusta uniforme di pelle era stracciata sulla schiena, rivelando una decina di strisce sanguigne sulla pelle candida. «Oh, Dea che sei nei cieli!» ansimò. «È incredibile vederti qui, Goccia! Temevo che tu fossi un'allucinazione. Sì, quella sgualdrina di Dunia è venuta qui oggi a divertirsi un po', con una frusta. Se tu sapessi cosa stanno combinando lei e Aquila... Pensa che proprio quando stavo per raggiungerle...» «Sì, lo so,» la interruppe lei. In fretta le spiegò quale fosse la situazione, rispondendo alle domande concitate e meravigliate di lei. Poi Rhylla la abbracciò nuovamente, ancora emozionata. «Come ti senti? Forse è meglio che tu stia qui finché non ti sarai ripresa un poco,» disse Goccia di Fiamma. Rhylla strinse i denti, mentre il suo volto si contraeva in una smorfia decisa. «Sto benissimo. Andiamo fuori di qui, presto. Devo trovare un'arma!» La ragazza bruna si avviò a passo svelto, e Goccia di Fiamma le tenne dietro. Arrivate nel locale attiguo, le due videro che Conjelo Casterol era scomparso. Accovacciata in un angolo, la ragazza di nome Callidora stava piangendo, e aveva un paio di ecchimosi sul volto. Tremando come una foglia rispose alla domanda di Goccia, informandola che l'uomo s'era diretto alle caverne superiori. «Pensi che possiamo fidarci di quel tipo?» disse Rhylla, buttando all'aria sugli scaffali dove erano accatastate le frecce in cerca di qualcosa di meglio. La ragazza trovò un pugnale dalla lama di selce lunga un palmo, e se lo infilò nella cintura. Goccia aveva trovato delle torce e ne accese due usando la piccola lampada. Ne diede una alla compagna, commentando che l'uomo era imprevedibile e capace di tutto, oltreché decisamente odioso, ma nonostante ciò era necessario tenerselo buono. Domandò poi se Aquila di Guerra e Dunia si fossero fatte assegnare un appartamento, e dove fosse ubicato. «Gli alloggi migliori sono molto in alto,» rispose Rhylla, «e così la Sala del Trono. Sullo stesso livello c'è anche l'appartamento riservato allo Zebuloj, e lì abita questo Camelus Batimao. Non credo che Aquila e Dunia
siano alloggiate molto distanti da lui. Se la Dea ci assiste, quelle cagne non hanno più di mezza clessidra di vita!» Le due ragazze uscirono, lasciando lì Callidora, e salirono di corsa la ripida scala d'accesso. Nella lunga caverna superiore non c'era nessuno, e Goccia di Fiamma borbottò che Conjelo Casterol doveva essersi rimbecillito. Perchè se ne era andato da solo, invece di attendere il loro aiuto? Per fortuna Rhylla ricordava la strada, tuttavia il nervosismo di Goccia aumentò. «Cerchiamo di raggiungerlo. Se quel fesso si fa ammazzare, siamo fregate noi!» disse in un ringhio, irritata dall'imprevista iniziativa dell'individuo. Le cavità naturali del vulcano estinto si distinguevano da quelle di origine artificiale principalmente per la loro inclinazione, obliqua, spesso estremamente irregolare e tortuosa, mentre quelle scavate dagli uomini erano in genere perfettamente orizzontali e dal fondo piatto. Non c'erano più stalattiti, ai livelli superiori, ma nella roccia morbida erano incastonati cristalli di quarzo e grosse ametiste poco preziose, oltre a cristalli di roccia celestini e variegati occhi di tigre. Le gallerie principali terminavano tutte nel cratere interno, e avevano buie diramazioni laterali che a detta di Rhylla erano dormitori. Le due amazzoni salirono interminabili rampe di scale, e giunsero col fiato mozzo a un'altezza che Goccia stimò pari alla metà dell'immenso cono di roccia. Qui si fermarono a riposare per qualche momento, ansimando, assillate dalla possibilità che qualcuno le avesse viste o sentite passare. Secondo Rhylla, fra non molto avrebbero trovato qualche sentinella, sempre che Conjelo Casterol non avesse già ripulito la strada. «L'idiota è disarmato, a quanto ne so,» disse Goccia. «Mi sembra più probabile che sia salito per qualche passaggio secondario e non sorvegliato.» «Credo anch'io,» mormorò l'altra. «Questo vulcano è traforato come un termitaio. Devono esserci chissà quanti cunicoli e passaggi segreti, e la sorveglianza sarà certo limitata ai percorsi principali.» Goccia di Fiamma la fece tacere con un gesto, girandosi verso l'estremità della lunga galleria orizzontale che sfociava nel centro del vulcano. Tendendo le orecchie, le due sentirono un verso stridulo e lontano, che si ripeteva ad intervalli. «Uno degli Artigli,» commentò Rhylla. Poi si accigliò. Quello è il grido che emettono quando rientrano, prima di abbassarsi dentro il cratere. Ma
non credevo che si alzassero in volo anche di notte.» Incuriosite si diressero verso lo sbocco della caverna; lasciarono le torce un po' indietro e sbirciarono al di fuori. Anche lì c'erano impalcature di legno e scalette, e il fondo del cratere era un'immensa pentola piena di buio che amplificava lo stridulo richiamo del rettile volante. Da una profondità di oltre millecinquecento piedi saliva il fetore del nero lago d'olio minerale, e Goccia di Fiamma avanzò fin sulle assi orizzontali che robusti pali conficcati nella roccia sorreggevano lungo tutta la parete. Alzando gli occhi, vide che giusto sopra di lei c'erano alcune torce accese. Rhylla la trasse subito indietro. «Non farti vedere! È uno degli Artigli che rientra. Probabilmente atterrerà proprio qui, e qualcuno lo sta aspettando per fargli luce.» «L'avevo capito.» La ragazza si sporse nuovamente, mettendo un piede sull'impalcatura. «Ma voglio vedere cosa succede.» L'orifizio illuminato di una caverna si apriva una ventina di braccia più in alto e a destra, e sbirciando fra le travi ed i sostegni Goccia scorse alcune ombre umane che si muovevano, parlottando sottovoce. Il rettile volante sceso nella bocca del cratere era ormai molto vicino, e le sue grandi ali sbattevano nel buio, schioccando e frusciando rapidamente. Alla ragazza sembrò di sentire una voce di donna, e subito dopo dall'alto venne un grido imperioso: «Scostatevi, voi laggiù! Fate posto!» «Corpo d'un serpente!» sibilò Rhylla, allibita, afferrando un braccio della compagna. «Su quel dannato volatile c'è Aquila di Guerra!» Goccia pensò che non era possibile. Cosa mai stava facendo la bionda in groppa ad un Artiglio e in piena notte? Ad attenderla, comunque, c'era di sicuro Dunia in compagnia di qualcuno dei Purissimi, e la ragazza fu certa che le due amazzoni stavano traducendo in pratica una delle loro sempre più contorte e subdole manovre. L'aria smossa dal rettile alato le accarezzò la faccia, ed il suo corpaccione si abbassò lentamente sulle impalcature sovrastanti. Tra le zampe artigliate il Rack teneva strettamente una massa scura, e mentre esso si infilava nella caverna ed Aquila gridava ancora che le dessero spazio, Goccia di Fiamma la identificò per un corpo umano inerte e privo di sensi. La ragazza indietreggiò e inciampò addosso a Rhylla, aggrappandosi a lei e fissandola con espressione tale che l'altra si allarmò. «Goccia! Ma che accidenti hai? Che ti succede?» «Oh, Dea! Quella cagna d'inferno...» ansimò lei. «Quella maledetta
sgualdrina ha preso Tangri! Tangri, capisci? Ecco cos'è andata a fare!» Rhylla sbatté le palpebre, incredula. «Vuoi dire che Aquila ha preso il rettile votante per andare al nostro accampamento di notte? Ed è riuscita a rapire quella poverina?» «Già. E solo il demonio sa come può esserne stata capace. Ma lo ha fatto, E non chiedermi perchè.» L'amazzone si accorse di tremare per la rabbia e la voglia di uccidere, ma non fece alcuno sforzo per calmarsi. «Vieni Rhylla. Tienti pronta, perchè ora scorrerà il sangue in questa tana schifosa!» Goccia di Fiamma corse lungo la caverna finché trovò un passaggio laterale sulla sinistra; c'erano ancora delle scale, strette, tortuose e assai ripide, e le salì a quattro gradini per volta seguita dall'altra amazzone. Quando furono in cima si accorsero che le gallerie ed i passaggi trasversali erano tutti ben illuminati da torce fissate alle pareti, e gettarono via le loro. «Di qua!» esclamò Goccia, imboccando un cunicolo basso di roccia perfettamente levigata. Ma subito si fermò. Alle sue spalle Rhylla aveva emesso un ringhio da lupa. Voltandosi la ragazza vide che un paio di uomini armati di corte spade erano sbucati da una diramazione dietro di loro, e la sua compagna non aveva esitato neppure un attimo ad assalirli. Il più vicino dei due riuscì a fermare il pugnale di Rhylla afferrandola per un polso, ma la violenza con cui ella gli si era precipitata contro lo fece rotolare al suolo. L'altro affrontò Goccia di Fiamma agitando la spada e bestemmiando, ma il coltello dell'amazzone volava già verso di lui, ed un rauco grugnito gli uscì di bocca quando la lama di ferro affilato gli si conficcò fino all'elsa nel fianco destro. Per tentare di estrarsela dalla carne l'uomo lasciò cadere la spada, che si spezzò in due tronconi con un tintinnio secco, e mentre correva a raccoglierla Goccia s'accorse che era di quarzite affilatissima. Si gettò contro le gambe di lui e impugnò il moncone, poi un violento pugno in una tempia la fece cadere di lato. Rialzandosi si trovò quasi sotto l'individuo, che barcollava nel tentativo di colpirla col pugnale lordo di sangue. I suoi occhi erano però già velati. L'amazzone gli squarciò la gola con la lama spezzata della fragilissima e tagliente spada, e non attese neppure che fosse piombato morto a terra per voltarsi a dar man forte a Rhylla. Nel corpo a corpo con l'altro Pulissimo, la ragazza bruna si trovava a mal partito, perchè la sua capacità di uccidere e la sua innata ferocia di combattente non potevano servire a molto contro un avversario dotato di forza fisica superiore. Goccia di Fiamma lo colpì con un calcio in piena faccia, e poi gli
afferrò con tutta la sua energia il braccio armato di spada. Questo fu sufficiente a Rhylla, che gli piantò nel cuore il pugnale di selce con un ansito di soddisfazione. «Svelta, togliamoci da qui!» la incitò Goccia. Armata anche con la spada di quarzite tolta al cadavere, l'altra le tenne dietro in fretta. Correndo in quelle caverne calde e prive di echi, Goccia di Fiamma sentiva soltanto il pulsare del proprio cuore e i fremiti dei suoi muscoli tesi nell'azione; senza accorgersene, senza desiderarlo affatto, si trovava di nuovo immersa nello stordimento dei propri impulsi fisici e nella logica aberrante della morte. Come già nel grande tempio di Solaire e in molte altre occasioni precedenti, ella non provava orrore né rimorso, ed era conscia tuttavia che in quel momento lasciava alle cellule del suo corpo il compito di pensare di esistere, rinunciando ad una parte della propria personalità e a tutta la sua umanità. Le era stato insegnato che per sopravvivere ai momenti di crisi e ai brevi periodi di cecità intellettuale causati dall'imminenza del pericolo ella doveva affidarsi agli istinti ed ai riflessi, e comportarsi quindi entro gli schemi impressi in lei da anni di allenamento e d'indottrinamento. Vivere significava uccidere, e fermarsi a riflettere voleva dire troncare pericolosamente i collegamenti fra i riflessi ed il suo corpo, e rischiare che questo non le rispondesse più. Il cuore pompava sangue caldo nei muscoli, le pareti della galleria scorrevano ai lati del suo campo visivo, ed il coltello era una cosa affilata e mortale nella sua mano destra. Davanti a lei, in qualche posto, c'era un bersaglio. Non un nemico da colpire, non una manovra nel mezzo della quale piombare come una furia per sventarla, non una fanciulla indifesa da liberare dalle mani di chi l'aveva rapita, ma soltanto un oggetto da raggiungere ed un momento di lotta da portare a termine. Al suo fianco Rhylla ansimava e teneva gli occhi fissi in avanti, anch'ella ridotta ad un animale-macchina mosso dagli identici stimoli, ansiosa di sfogare sugli avvenimenti la sua rabbia di esistere. Un Purissimo che usciva da un passaggio laterale con aria assonnata fu investito da una spallata nel petto, e mentre cadeva contro il muro un lampo metallico gli strappò uno zampillo rosso dalla gola. Altri due uomini armati furono colti meno all'improvviso e si batterono gridando, ma le loro reazioni non furono abbastanza pronte: Rhylla urlò di rabbia nel sentirsi sfregiare il braccio sinistro da una lama, ed un attimo più tardi rise selvaggiamente quando la sua spada trovò il ventre dell'avversario. Goccia di Fiamma ebbe una ciocca di capelli strappata dall'elsa del pugnale dell'altro
uomo, mentre si chinava e si ritraeva. Il colpo di questi fu l'estremo tentativo di vendicarsi fatto nello stesso momento in cui moriva, perché la coltellata della ragazza gli era giunta al cuore con precisione. Le due amazzoni corsero ad un'altra rampa di scale, adesso sicure d'esser state sentite da molti degli abitanti dell'Alazoj. La lunga e rettilinea caverna in cui irruppero era in tutto simile ad un imponente corridoio di qualche grande palazzo cittadino, liscia, ornata di vasi e statue a grandezza naturale, con arazzi alle pareti e capaci lampade ad olio sorrette da decine di bassi tripodi di cristallo. «Guarda!» Goccia ne indicò una delle estremità, quella che dava direttamente nel cratere vulcanico. «È qui che Aquila di Guerra è discesa.» Sul fondo, infatti, un enorme volatile marrone come il cuoio era accovacciato a terra e muoveva pesantemente le ali semiaperte. Dalla parte opposta numerose porte dagli stipiti intarsiati costellavano le pareti. Le prime quattro o cinque davanti alle quali passarono davano tutte in una sala buia molto vasta, ma più oltre Goccia si fermò nel vedere una lussuosa camera da letto. Subito dietro la porta, completamente spalancata, c'era un Purissimo steso al suolo con la faccia bluastra e la lingua di fuori. «Conjelo Casterol è passato di qui,» commentò Goccia di Fiamma. «Ci sono ancora, o donna!» esclamò una voce dall'interno. Dall'altra parte del letto alto e bene imbottito, comparve la testa dell'ex Zebuloj. Il suo volto era contratto in un'espressione fra disgustata e sprezzante, e quando si alzò in piedi le due amazzoni videro che sanguinava da una ferita leggera a una mano. L'uomo fissò lo sguardo al suolo e sputò sul corpo che giaceva fra il letto ed il muro, e Goccia non si prese la briga di andare a vedere chi fosse steso là. «E così Najarn Polopas ha concluso la sua sciocca vita,» disse Conjelo Casterol, annuendo tragicamente. «Ma che altro destino potava attendersi, dopo il suo tradimento, se non quello di trovarsi intorno al collo le mie mani vendicatrici? Ora tocca a Batimao, l'artefice della congiura. I suoi respiri sono contati.» «Dove sono tutti gli altri?» domandò Rhylla, strappando via una striscia del copriletto e dandola alla compagna per farsi fasciare. «Sono nei miei alloggi, più in alto. Li ho visti poco fa salire accompagnati dalle due amazzoni, insieme ad una fanciulla bionda che non conosco e che avrei detto svenuta o morta. Qualunque cosa stiano complottando, conto che non stiano uniti ancora per molto. Mi propongo infatti di agire con astuzia e assalirli separatamente.»
Goccia di Fiamma bendò alla meglio il braccio sinistro di Rhylla, poi sbirciò nel corridoio e domandò all'uomo se c'erano ancora Purissimi di guardia, al piano superiore. Lui rispose che aveva potuto vedere solo Camelus Batimao e Vionne Tordaloy; ignorava se di sopra vi fossero altri Purissimi di rango inferiore. Da lì a poco, i tre salivano l'ultima rampa di scale diretti alla più alta delle gallerie, più stretta di quella immediatamente interiore ma non meno bella e ben arredata. Conjelo Casterol, che vi giunse per primo, appena ebbe salito l'ultimo scalino emise un grido di furore ed alzò le braccia. «Camelus Batimao!» strillò istericamente. «Mostra il tuo viso di traditore, serpente! Dove ti sei nascosto?» «Che gli Dei ti maledicano, brutto deficiente!» sibilò Rhylla sbalordita. «Ecco che li hai messi sull'avviso. Se volevi soltanto suicidarti potevi dirlo a me, e ti avrei tagliato la gola con gioia!» Il suo commento andò sprecato, perché l'individuo era corso avanti verso una delle stanze prive di porta che si aprivano nella galleria. Scomparve dentro di essa, senza più badare alle due amazzoni. Nello stesso momento una testa bruna si affacciò su una soglia a una cinquantina di passi dalla parte opposta. Era Dunia, che nel vedere lì Goccia di Fiamma e Rhylla emise un'imprecazione stupefatta. Le due si scambiarono un'occhiata e corsero in quella direzione. Il locale sulla cui porta arrivarono era un'altra camera da letto, molto vasta e contenente mobili di lusso, e ad aspettarle in essa c'erano Aquila di Guerra e Dunia con le spade sguainate. Goccia afferrò subito una seggiola di legno intarsiato da usare come scudo, e Rhylla la affiancò fissando le due avversarie con occhi scintillanti. Sul letto, in apparenza ancora priva di sensi, era sdraiata Tangri, pallida come un cencio lavato e malconcia quasi che avesse sostenuto una colluttazione. «Così, siamo arrivate alla resa dei conti!» esclamò Aquila di Guerra. «Molto bene. Da un pezzo aspettavo questo momento!» «Io pure,» disse Rhylla, scostandosi leggermente dalla compagna. «Goccia, tu pensa a Dunia. Aquila la voglio per me!» Dunia rise raucamente, per nulla impressionata. «Avrete una lama in corpo entrambe, invece. Speravate di coglierci nel sonno, vero? Ma non vi è andata dritta, brutte puttane!» La bruna non poté dir altro, perché Goccia di Fiamma era già balzata avanti, e nella camera risuonarono i tonfi delle armi e gli ansiti delle quattro amazzoni impegnate nella lotta. La sedia con cui Goccia si proteggeva
dalla spada di bronzo di Dunia si scheggiò e perse due delle gambe sotto i colpi violenti, mentre ella dal canto suo cercava di accorciare la distanza per far uso del pugnale. Abilmente incalzata, l'altra combatteva però con foga e perizia tali che per un poco parve avere buon gioco, e Goccia di Fiamma fu costretta a scaraventarle un vaso di lucido zinco fra le gambe per farla indietreggiare. Poi dovette abbassarsi svelta perché Aquila di Guerra pur duellando contro Rhylla aveva trovato il modo di indirizzarle un fendente di passaggio. Subito dopo la spada di Rhylla si schiantò in due nel contrastare quella della bionda, ed ella rimase con un moncone lungo un paio di palmi nella mano destra ed il coltello di selce nella sinistra. Aquila menava colpi violenti, e l'altra dovette pensare a difendersi. Poi, per la ristrettezza del luogo, le due duellanti si incrociarono e Goccia di Fiamma si trovò a fronteggiare Aquila di Guerra. La seggiola le servì per fermare un fendente, ed un istante dopo riuscì a scattare in basso e a colpire l'avversaria ad un polpaccio. Aquila parve non accorgersene neppure, e le sferrò un calcio; per qualche momento le due si trovarono l'una stretta all'altra, con ciò che rimaneva della sedia fra i loro corpi, ma nessuno dei colpi che si diedero giunse a segno, e si separarono con un saltello, fissandosi con odio. «Brutta cagna!» disse la bionda sputando quasi le parole. In quell'istante un uomo entrò di corsa nella stanza e inciampò addosso a Goccia di Fiamma, che stava spostandosi lateralmente e venne colta di sorpresa, finendo a terra. La ragazza bestemmiò e scalciò, colpendolo in faccia, e con una contorsione riuscì a tirare la sedia verso Aquila di Guerra che s'era fatta avanti per colpirla. La bionda ignorò il dolore del colpo, ma si fermò, poi improvvisamente scattò verso la porta e scomparve all'esterno. Quando Goccia si poté rialzare sentì un gemito di dolore alle sue spalle, e vide che Rhylla indietreggiava; il moncone della sua lucida spada di quarzite era rosso di sangue fino all'impugnatura. Davanti a lei, Dunia era ferma e ansante, ma aveva gli occhi sbarrati. «Sporca... sporca vipera!...» gorgogliò, poi fece due o tre passi in direzione di Rhylla alzando la spada con uno sforzo. «Ma crepa, traditrice!» ringhiò lei, e la colpì ancora con la stessa arma, che sebbene priva di punta le affondò in petto attraverso la dura pelle dell'uniforme. Dunia cadde, si contorse un poco e poi l'anima le sfuggì con un ultimo rantolo penoso. L'uomo che era arrivato di corsa nel locale stava intanto uscendone di nuovo. All'apparenza era disarmato, e se non s'era accorto d'essere entrato
a cercare aiuto nel posto sbaglialo la cosa doveva essere attribuita al suo evidente stato confusionale. Barcollava infatti come se fosse ubriaco o rimbecillito dallo spavento. Goccia di Fiamma distolse gli occhi dal cadavere di Dunia e gli si avvicinò; poi, senza la minima esitazione, gli affondò il coltello due volte in un fianco. Uscì, e vide Aquila di Guerra che si allontanava rapidamente lungo la galleria. La tentazione di inseguirla era forte, ma altrettanto impellente era in lei il bisogno di accertarsi delle condizioni di Tangri, ed ella corse a chinarsi sulla fanciulla. «È viva,» la informò Rhylla. «Almeno, la vedo respirare. Tu resta con lei, che io vado a prendere quella carogna.» «Non andrà lontano,» mormorò distrattamente Goccia, spiando il volto esangue della fanciulla svenuta. «Senza un cavallo, tutt'al più potrà cercare di rimpiattarsi in qualche caverna.» «Dammi il tuo coltello, che quella dannata ha una spada.» «No, Rhylla. Tocca a me pensarci. Tu sei ferita, e poi hai già dato il fatto suo a quella lì. Sorveglia Tangri, cerca di farla rinvenire, e poi:..» «Che cosa hai fatto!» tuonò in quel momento la voce di Conjelo Casterol dalla porta. L'uomo era bianco per la rabbia. «Tu hai ucciso il mascalzone che io avevo giurato di strangolare con le mie mani! Tu hai osato privare me, lo Zebuloj di tutti gli Alazoj, di una vendetta giusta e sacrosanta a cui avevo solennemente diritto, e perciò ti maledico, o donna!» «Che cosa vai farneticando?» sbottò Rhylla. L'uomo ignorò la sua frase acida e continuò a rivolgersi a Goccia di Fiamma: «Colui che tu hai stupidamente pugnalato era Camelus Batimao, l'usurpatore, il quale mi era sfuggito mentre io ero intento a somministrare la meritata punizione all'infame Vionne Tordaloy, ora anch'egli cadavere. La tua imbecillità non conosce confini, o indegna femmina straniera. Forse che non rammentavi i miei ordini?» La ragazza stava per dargli una risposta a tono, quando un pensiero improvviso la fece irrigidire. Scostò Conjelo Casterol, che berciava ancora qualcosa in tono irritato e corse fuori: Aquila di Guerra non s'era diretta dalla parte delle scale, ma verso il lato opposto, dove il grande corridoio sboccava direttamente nel buio cratere, e con estremo stupore di Goccia di Fiamma stava adesso sistemandosi in arcioni allo stesso Rack col quale aveva compiuto la sua missione notturna. Il volatile emise uno stridulo gracidio, quando là bionda amazzone tirò con forza una specie di briglia che gli pendeva dal lungo collo, poi si voltò e con pochi passi rigidi uscì
sull'impalcatura oltre il bordo di roccia. Un saltello goffo, e davanti agli occhi sbalorditi di Goccia il rettile volante scomparve verso il basso con Aquila di Guerra che lo montava come un deforme e ossuto cavallo alato. Con un'imprecazione l'amazzone corse avanti, staccò una torcia accesa da una parete e si sporse all'infuori nell'oscurità. Non vide nulla, ma sentì lo schiocco poderoso delle ali del Rack che dopo esser piombato verso il fondo ora lavorava energicamente per risalire di quota. Il rettile stridette, e al suo verso risposero numerosi altri gracidii; quindi si innalzò veloce e per un attimo la sua ombra si stagliò contro lo sfondo più chiaro del cielo notturno. Da lì a poco era sparito nell'oscurità portando con sé Aquila di Guerra oltre la bocca rocciosa del vulcano spento. L'audacia e la freddezza della bionda avevano lasciato Goccia di Fiamma come incapace di reagire. L'interno dell'Alazoj adesso risuonava dei richiami rauchi dei Rack, disturbati nel loro sonno, che a centinaia si agitavano e gracidavano nei nidi di roccia. Dove intendeva andare Aquila, ora che la sua complice Dunia era morta? Quali erano i suoi propositi, e per quale motivo s'era accollata la pericolosa impresa di rapire Tangri? Erano tutte domande alle quali ella non riusciva ad immaginare neppure lontanamente la risposta Stava per tornare indietro, quando un urlo la fece trasalire: «Tieni lontana dal cratere quella fiamma, brutta femmina senza cervello! Vieni via da lì, immonda peccatrice!» La ragazza si spostò proprio mentre Conjelo Casterol le arrivava addosso di corsa, e si sentì strappare via di mano la torcia. L'uomo non riuscì ad afferrarla per allontanarla dal bordo, com'era sua intenzione, e barcollò sbilanciato in avanti. Un attimo più tardi Goccia di Fiamma lo vide vacillare in precario equilibrio sull'orlo esterno dell'impalcatura. «Aiuto... aiutami!» vagì l'uomo, agitando le braccia. L'amazzone non ne ebbe il tempo: con un'espressione d'orrore dipinta sul volto ed un ultimo grido, Conjelo Casterol cadde nel buio e sparì verso il lontano fondo dell'Alazoj, stringendo sempre in pugno la torcia accesa. Quando ella si sporse all'infuori, sentì a malapena il tonfo che lo sventurato fece quasi duemila piedi più in basso nella distesa densa e profonda di bitume. «Cos'è successo?» grido Rhylla, dietro di lei. «Quel fesso...» Goccia di Fiamma scosse il capo, ancor troppo sorpresa dall'avvenimento per poterlo commentare. Tornò a guardare fuori, e mentre la bruna amazzone le veniva accanto indicò in basso. Sul fondo del
vulcano stava accadendo qualcosa. «La torcia... Conjelo Casterol è finito dritto nel Lago Nero; e l'aveva in mano, accesa!» «E allora?» «Ma non vedi?» gridò lei. «Quello è un lago d'Olio di Pietra, maledizione a tutti gli Dei! E adesso ha preso fuoco!» Le pareti interne del vulcano non erano più immerse nel buio, infatti, e dal basso saliva un lucore che si faceva di momento in momento più vivido. Da lì a poco le fiamme pervasero l'intera superficie del piccolo lago, dapprima danzando esili e bluastre, poi assumendo qua e là toni gialli e levandosi in lingue arancione, ed infine cominciando ad ardere alte e rosse con sempre maggiore intensità. «Dea che mi proteggi!» sussurrò Rhylla, stupita. «Ma laggiù brucia tutto!» «Te l'ho detto, quell'olio nero è un'esca per la fiamma. Fra non molto qui soffocheremo, se non ci affrettiamo ad andarcene.» Le due ragazze tornarono nella stanza in cui avevano lasciato Tangri, e la trovarono che si stava guardando intorno con espressione smarrita, seduta sul letto. Nel vedere Goccia di Fiamma la fanciulla diede un grido e si alzò per correrle incontro, vacillando per la debolezza e l'emozione. L'amazzone la strinse fra le braccia e le accarezzò il viso, commossa nel sentirla tremare, e le mormorò qualche parola per consolarla e rassicurarla. «Dobbiamo scappare, tesoro, e non c'è tempo per le spiegazioni. Ma non aver paura, vedrai che tutto andrà bene da ora in poi.» «Oh, Goccia!» balbettò lei. «Oh, Dea! Ma cos'è successo? Perchè mi hanno portata qui? E Lura... sei stata tu ad uccidere Lura?» «Cosa? Ma che dici?» «Lura!» Tangri indicò con un brivido il corpo senza vita di Dunia, che giaceva presso i piedi del letto. Rhylla intervenne per informarla che si trattava della complice di Aquila di Guerra, ma ella scosse il capo e ansimò. «Oh, no!... Lei è Lura, la ragazza che aiutò me e le mie compagne a fuggire da Mohenjdar; credi che non la riconosca, dopo che ho viaggiato con lei fino al mare? Ora ricordo... ricordo molte cose, Goccia. Tutto il mio passato...» «Ma sei certa di ciò che dici?» L'amazzone la afferrò per le spalle, senza capire, e Tangri annuì ripetutamente. Solo in quel momento ella rammentò che per tutta la prima parte del viaggio, dopo la partenza dalle Terre Basse, Dunia s'era celata il viso dietro una fasciatura. Si avvicinò al cadavere, e constatò che in faccia non aveva traccia di ferite di alcun genere, neppure
di vecchia data, e si voltò perplessa. «Vogliamo filarcela, prima che tutti i Purissimi si sveglino?» esclamò spazientita Rhylla. «Aspetta. Tangri sta dicendo che Dunia è in realtà la donna che andò a Mohenjdar insieme ai Sumerici, e che poi la aiutò a fuggire dalla città assediata per cercare aiuto nelle Terre Basse. Vorrei essere uccisa se so capire cosa significa questo, ma Aquila e Dunia avevano studiato il loro piano fin dallo scorso anno, e si proponevano un obiettivo ben preciso già a quel tempo. Capisci, Rhylla?» E con ciò?»*sbottò l'altra. «Fin da quando hanno tentato di assassinare te ed Ombra, io ero certa che lei e Aquila stavano macchinando qualcosa. Secondo me, se vuoi proprio saperlo, il loro progetto era di impadronirsi di quella città, di Mohenjdar.» Tangri si era portata una mano alla bocca, e fissava il cadavere con spavento e stupore insieme. «Sul precipizio... io la vidi, ed era insieme ad Aquila di Guerra, quel giorno! La riconobbi, e le domandai com'era potuta giungere lì. Stavo per abbracciarla, perchè l'avevo creduta morta, e lei... lei mi spinse!» Goccia di Fiamma scosse la testa, faticando a raccapezzarsi, poi si alzò e prese la fanciulla per un braccio. «Te la senti di camminare, cara? Dovremo fare un bel pezzo di strada a piedi, se pure riusciremo a levare la buccia da questo posto dannato. Mi sembra che la temperatura sia già salila molto. Andiamo!» Le tre ragazze uscirono nella vasta galleria, e si accorsero subito che dalla parte del cratere arrivavano ondate di fumo scuro. La notte era rossa di bagliori sanguigni che salivano ad illuminare le pareti interne del vulcano. Con un sussulto Goccia di Fiamma comprese che l'imponente serie di impalcature e di sostegni stava bruciando con violenza, e che il Lago Nero mandava all'insù lingue di fiamma lunghe centinaia di piedi. Ancora poco tempo e le gallerie ed i passaggi interni sarebbero divenuti una trappola mortale a causa del denso fumo puzzolente, e l'Alazoj si sarebbe trasformato in una fornace. Giunte nella caverna sottostante udirono mormorii e grida provenire dai passaggi laterali. Gli abitanti della città di cunicoli si stavano svegliando, mentre nel cratere cresceva di tono il boato delle fiamme ed un vento rovente si insinuava nelle gallerie principali. «Affrettiamoci. Qui ci sarà l'inferno quando la gente comincerà a scappare!» esclamò Goccia, tirandosi dietro Tangri. Percorsero più svelte che potevano le anguste e lunghissime scale scava-
te nella pietra, facendosi luce con una lampada ad olio che Rhylla era riuscita ad accendere usando una delle pietre focaie appese un po' dappertutto, ma ben presto si accorsero che ai livelli inferiori stava dilagando il panico. Si trovarono in una caverna nella quale uomini e donne correvano qua e là come impazziti, e Tangri gemette. «Dove diavolo sono le altre scale?» imprecò Rhylla, scostando con uno spintone un paio di ragazzini che le erano inciampati addosso. «Laggiù,» gridò Goccia di Fiamma. Esseri umani dei due sessi stavano accalcandosi agli ingressi di tre o quattro cunicoli laterali, urlando e spingendo per farsi posto. Dall'imbocco che sfociava nel cratere, lontano circa duecento passi, entravano volute di fumo nerastro, che saturavano l'aria. Tossendo e strillando la gente cercava di raggiungere le scale. «Da questa parte!» gridò una donna, aggrappandosi alle braccia di Goccia di Fiamma. L'amazzone la riconobbe: era Callidora, l'amante-schiava di Casterol. Spaventata e pallida per l'eccitazione, la ragazza le invitò a seguirla. Dopo alcuni momenti di sbandamento dovuti agli urti continui dei fuggiaschi in preda al terrore, le quattro donne imboccarono un corridoio orizzontale in leggera salita e del tutto deserto. Callidora si attaccò con entrambe le mani a una corda che pendeva da un foro del soffitto, e le altre videro spalancarsi una piccola porta di pietra ben squadrata. Entrando si trovarono in un locale del tutto spoglio, senza alcuno sbocco visibile. «Ma dove ci hai portate, eh?» domandò Rhylla, allarmata. Callidora spinse con tutta la sua forza quello che sembrava un manone sporgente da una parete, e con uno scatto silenzioso una seconda porticina si aprì sul muro opposto. «Dammi la lampada. Vi faccio strada!» disse. Poco dopo stavano scendendo lungo un cunicolo dal fondo liscio, così ripido che sarebbero scivolate continuamente se alle pareti non fosse stato saldamente fissato un lungo corrimano di corda. Molto più in basso trovarono una scala, che tra decine di curve a destra ed a sinistra le portò alfine in una delle enormi caverne inferiori dove venivano coltivati i funghi. L'aria s'era fatta assai più respirabile, tuttavia il rombo possente dell'incendio si udiva anche attraverso la roccia, e l'intero vulcano pareva vibrare. Il nero lago d'olio ardeva con una violenza insospettabile, che pareva aumentare man mano che cresceva il calore da esso generato. Stanche ed ansimanti seguirono Callidora lungo una serie di grotte, fin-
ché di nuovo incontrarono uomini e donne di tutte le età che arrivavano a gruppetti dalle gallerie superiori, diretti alle uscite sulla pianura. Erano spaventati, alcuni piangevano, altri non avevano fatto in tempo a mettersi addosso neppure un cencio e camminavano o correvano completamente nudi. Dietro di loro ne scendevano a dozzine, e nessuno sembrò notare le tre straniere, ansiosi com'erano di mettersi definitivamente in salvo. «Ecco: lì c'è un'uscita,» disse Callidora con sollievo. La ragazza si zittì subito, notando che un paio di Purissimi non molto distanti l'avevano sentita parlare e le lanciavano occhiate fosche. Subito dopo però decise di infischiarsene, ed esclamò: «Ma per tutti gli Artigli dell'inferno, che cosa è successo?» «Temo che Conjelo Casterol sia morto,» la informò Goccia di Fiamma. «E qualcosa mi dice che anche i vostri uccellacci non attraversano un momento affascinante.» «Speriamo che quelle orribili bestie muoiano tutte,» si augurò Callidora. «E in quanto allo Zebuloj, sapete cosa vi dico? Possa raggiungere tutti i suoi antenati nelle fauci del Demonio, e marcirvi per l'eternità!» «Chiudi la tua bocca malefica, razza di vergognosa peccatrice!» abbaio uno dei Purissimi che camminavano presso di loro. «Come osi pronunciare parole come se tu fossi un uomo, o verme della melma?» Rhylla, che era la più vicina a lui, si girò con uno scatto rabbioso e lo colpì alla mandibola con un pugno preciso e violento, facendolo ruzzolare a terra; poi estrasse il pugnale, fissando alcuni compagni dell'uomo così minacciosamente che essi si allontanarono. Pochi momenti più tardi si trovarono fra le ombre delle rocce che spuntavano come denti enormi e smussati alla base dell'Alazoj Dovunque c'era gente che si allontanava nel buio, reggendo fiaccole e lampade ad olio. Quando furono lontane qualche centinaia di passi dall'uscita, si fermarono a guardare la poderosa mole del vulcano. In alto, dallo sbocco dirupato della montagna conica, scaturiva lenta una colonna di fumo sulla quale si riverberavano le fiamme interne. «Bene, sembra quasi che il buon vecchio Alazoj abbia ritrovato la vitalità della sua giovinezza,» commentò Goccia di Fiamma, riassumendo le impressioni delle altre. Poi strinse a sé Tangri, con un sorriso. «Sapete una cosa, ragazze? Scommetto che Ombra di Lancia mi prenderà per matta, quando le racconterò di aver provocato un'eruzione vulcanica.» «Niente affatto,» ridacchiò Rhylla. «Ormai lo sanno tutte che dove arrivi tu succedono sempre dei cataclismi!»
CAPITOLO TREDICESIMO «E così la piccola ha ritrovato la memoria?» domandò Brezza dell'Est, avvicinandosi alle altre. Seduta su una coperta distesa a terra, Ombra di Lancia stava consultando una mappa della regione frettolosamente disegnata dalle esploratrici. Accanto a lei c'erano le altre Comandanti di Squadrone Hay Varena, Rhylla ed Ilsabet, con un paio di Sacerdotesse, e fino a poco prima si era discusso sul percorso migliore da seguire. Ombra si voltò ad annuire. «Sembra proprio di sì,» disse. «Adesso si è rimessa a dormire, ma questa mattina io e Goccia l'abbiamo interrogata a lungo. Da quanto ho capito, Aquila di Guerra si è resa colpevole di alcuni reati tutti molto gravi.» Brezza dell'Est si accoccolò sui talloni al suo fianco, con un borbottio. «Cosa intendi fare nei suoi riguardi?» «Sai bene che è scomparsa.» «E sarà meglio per lei non farsi vedere mai più!» sbottò Hay Varena. «Tradimento e omicidio sono colpe punibili con la pena di morte. La legge parla chiaro!» «Certo, la testimonianza di Tangri è pesantemente accusatrice circa le malversazioni di Aquila, e ciò spiega il suo duplice tentativo di eliminarla. Io posso solo presentare alla Regina un rapporto completo sui fatti.» Ombra di Lancia fece un sospiro, girandosi a controllare l'attività delle indiziane che avevano cominciato a smontare le tende Il luogo in cui erano accampate si trovava circa dodici leghe ad occidente dell'Alazoj, e fin da lì era visibile la cima del vulcano dal quale usavano ancora dense volute di fumo nero. Nei due giorni precedenti, il corpo di spedizione aveva attraversato la brulla vallata, girando a settentrione dell'Alazoj e del massiccio montuoso alle sue spalle L'interno del cratere e le sue caverne erano state abbandonate dagli abitanti, e nulla faceva pensare che il Lago Nero avrebbe smesso di bruciare tanto presto. Le amazzoni erano state avvicinate da una quantità di donne e di ex schiavi, da molti bambini dei due sessi ed anche da numerosi Purissimi, tutti malridotti e affamati, e costoro avevano chiesto cibo ed acqua. Ombra di Lancia non s'era rifiutata di aiutarli, benché sapesse che le caverne inferiori del vulcano spento erano piene di animali da allevamento e di funghi mangerecci, e le amazzoni avevano perduto un pomeriggio a sfamare i più bisognosi. A detta dei profughi, quasi tutti i rettili alati erano periti fra le fiamme e i rimanenti erano volati via,
ma un buon numero di Purissimi erano venuti a sapere che alcune amazzoni avevano avuto una parte di rilievo nel disastro, e questi s'erano riuniti fra le colline forse per meditare una vendetta. Goccia di Fiamma ci aveva riso sopra, dichiarando che quei guerrieri non valevano molto senza i loro Artigli, ed aveva poi invitato i superstiti dell'Alazoj a dirigersi verso sud per domandare ospitalità alle tribù Aramak. «Ma sei riuscita a far luce sugli avvenimenti?» domandò ancora Brezza dell'Est. «Sì, anche se molti particolari non potremo saperli che interrogando Aquila di Guerra stessa,» rispose Ombra. «Le sue manovre con i Sumerici restano avvolte nel mistero, e così le premesse che l'hanno condotta alla scoperta di Mohenjdar. Sembra tuttavia certo che Aquila e Dunia seppero dell'esistenza di quella città durante il viaggio che fecero lo scorso anno oltre i confini di Nedda, nel settentrione di Akkad. In seguito si presentarono, probabilmente sotto falsa identità, a qualche alto personaggio presso la Corte del Triarca, e lo convinsero ad armare una spedizione verso il Lago Van. Non c'è dubbio che fecero di tutto perchè questo esercito non superasse le mille unità.» «Ma questo a che scopo?» «Nei loro progetti questo esercito doveva essere esiguo, benché abbastanza agguerrito da portare a Mohenjdar una minaccia seria. Aquila e Dunia volevano impadronirsi della città, ma non giungendovi da conquistatrici o da alleate dei Sumerici, bensì guidando una successiva spedizione di soccorso che avrebbe dovuto eliminare le Teste Nere. In questo modo sarebbero entrate in Mohenjdar aureolate di gloria, come salvatrici. Aquila fu molto abile a predisporre gli avvenimenti affinché si creassero queste premesse.» «Riuscì ad ingannare le Teste Nere, va bene,» disse Hay Varena. «Ma costoro non chiedevano di meglio che attaccare Mohenjdar.» «Non credo, cara. A mio avviso, quelle due dovettero sudare per convincerli che una città così isolata e indifesa costituiva un pericolo, tanto più che i Triarchi di Akkad e di Sumer non potevano essere lieti di distogliere truppe dai confini di Mitanni per spedirle a nord. Comunque sia, finirono per persuaderli che Mohenjdar avrebbe potuto diventare una spina nel loro fianco. A questo punto, toccò a Dunia mettere in atto la seconda parte del progetto: dopo che fu posto l'assedio alla città, ella trovò il modo d'entrare e si presentò a Tangri sotto il falso nome di Lura, dichiarandosi disposta a condurla fino nelle Terre Basse per cercare
aiuto da noi. La cosa le riuscì senza difficoltà, ma le sue manovre rischiarono d'andare a monte quando sulla costa a sud di Nedda furono fermate dai commercianti di schiavi. Come sapete, Tangri arrivò ugualmente nelle Terre Basse per una fortunata coincidenza, quando i pirati che l'avevano rapita vennero intercettati dalla nave da guerra di Ira Marea. Ma a questo punto, Aquila e Dunia certo ormai pensavano che il loro piano era fallito.» «Già,» intervenne Hay Varena. «Ricordo benissimo il giorno in cui tornarono alla Capitale: erano nere di rabbia. Raccontarono una quantità di frottole su quello che avevano fatto nei mesi precedenti, ma bastava guardarle in faccia per capire che qualcosa gli era andato storto.» «Infatti. E quando dopo pochi giorni arrivò anche Tangri, Aquila e Dunia dovettero credere in un miracolo: il piano da loro architettato poteva proseguire meglio che mai. Dunia inventò una ferita alla fronte per bendarsi la faccia, evitando così che Tangri la riconoscesse, e Aquila di Guerra come ricorderete si offrì energicamente per comandare la spedizione verso Mohenjdar.» «Quella cagna sapeva che Shalla era incinta, e che non avrebbe potuto occuparsene lei,» brontolò Ilsabet. «Mi domando se non avrebbe cercato di assassinare anche la figlia di Theba, come ha fatto con te, per averne il comando.» «Be', vedere le responsabilità dell'impresa affidata a me non la fece felice,» disse Ombra di Lancia. «E fin dall'inizio doveva aver progettato di eliminarmi. Tangri poi le era diventata non solo inutile, ma addirittura pericolosa, essendo la legittima Regina di Mohenjdar. Inoltre sapeva troppe cose. Il giorno che riuscì a scaraventarci in un burrone tutte quante, sembrò che nulla avrebbe potuto più ostacolarla. In quell'occasione la fanciulla aveva scoperto Dunia senza il bendaggio, e l'aveva subito riconosciuta come la misteriosa Lura.» «È un segno della Dea che siate sopravvissute,» esclamò una delle Sacerdotesse. «La sua santa mano vi ha protette, impedendo che la traditrice trionfasse.» «Infatti è stato un miracolo,» sorrise Ombra, annuendo. «Ma Aquila era sicura di averci tolte di mezzo, e finché non arrivò a Tebron tutto le andò liscio. Una volta arrivata qui, commise però un grave errore.» «E cioè?» domandò Brezza dell'Est. «Dopo che vi ebbe destituite, e quando ebbe capito che poteva ugualmente tenere in mano la truppa, si accorse che la città di Fiorgelize era un ghiotto boccone, e la sua golosità prevalse. Non ho alcun dubbio che in-
tendesse proclamarsi Regina di Tebron, lasciando poi lì una guarnigione che tenesse in soggezione la città intanto che lei proseguiva per occuparsi anche di Mohenjdar. In realtà questo era fattibile, dato che Fiorgelize era ormai priva di un esercito e che i Sumerici attestati sul Lago Van sarebbero stati colti di sorpresa da un attacco ben condotto. Aquila non poteva sapere che quei pochi giorni perduti a Tebron mi avrebbero permesso di raggiungerla, insieme alle miliziane rimaste a Solaire. Quando ciò accadde, lei e Dunia ne restarono così sconvolte che parve loro di vedersi precipitare il cielo in capo. E non poterono far altro che fuggire.» Brezza dell'Est e le altre Comandanti ridacchiarono. «Certo che ebbero una bella sorpresa! Non solo eri ancora viva, ma ne sapevi ormai abbastanza per metterle ai ceppi tutte e due.» «Questo però non spiega cosa sperassero di guadagnare facendoci assalire dalla gente dell'Alazoj,» obiettò Hay Varena. Ombra di Lancia alzò le spalle. «Non sono ancora in grado di darti una risposta precisa. Tuttavia non dimenticate che Aquila ha cercato nuovamente di uccidere Tangri, e questo significa che intendeva ancora togliere di mezzo una possibile rivale. In quel momento doveva essere convinta di avere ancora buone carte in mano, e malgrado tutto vedeva qualche probabilità d'essere eletta Regina di Mohenjdar. Quando il mostro alato con cui era volata fino al nostro campo strappò via la mia tenda, vi confesso che rimasi paralizzata dallo spavento. Tangri era lì che dormiva accanto a me, e un attimo dopo il Rack l'aveva afferrata fra gli artigli portandosela via. Finché Goccia e Rhylla non tornarono dal vulcano insieme alla fanciulla, né io né altre avremmo immaginato che su quel maledetto rettile c'era a cavalcioni Aquila di Guerra. Fu svelta e abile, e devo riconoscere che ebbe anche del fegato.» «Va bene,» ammise Brezza dell'Est. «Può darsi che un attacco improvviso da parte di alcune migliaia di quei Rack avrebbe annientato la nostra spedizione. Ma senza un esercito dietro di sé come poteva Aquila credere che Mohenjdar era ancora a sua disposizione? Le Teste Nere sono intorno alla città, a meno che non siano già riusciti ad espugnarla.» «Secondo me Tangri le serviva viva,» esclamò Hay Varena. «Altrimenti l'avrebbe lasciata esposta alla morie insieme a tutte noi, quando gli uomini dell'Alazoj ci avessero assalite.» «Forse hai ragione,» concesse Ombra. «Non dimentichiamo che Aquila conosce bene il comandante delle Teste Nere, e che costui la considerava un'alleata al tempo in cui lei e Dunia lo accompagnarono fino al Lago Van.
D'altra parte, riportando Tangri alla sua città e raggirandola con la dovuta astuzia, forse Aquila di Guerra avrebbe potuto condurre avanti un gioco di tranelli e intrighi, tenendo il piede in due staffe. Eliminata la fanciulla prima che lei potesse muoverle delle accuse, e allontanati in qualche modo i Sumerici...» «Be', queste sono solo supposizioni. Solo Aquila di Guerra potrebbe dirci che cosa stava escogitando. Adesso lei è fuggita, e Dunia è morta.» Osservò Brezza dell'Est. «A proposito, Ombra, come intendi punire Rhylla per aver abbandonato il suo posto? Un tale comportamento è inammissibile, per una Comandante di Squadrone!» Le amazzoni presenti si girarono a fissare Rhylla, che dal canto suo ostentò la più inespressiva faccia di bronzo e le ignorò del tutto. «Io suggerirei di lasciarla senza vino per due settimane!» esclamò Hay Varena. «Troppo buona,» ridacchiò Ilsabet. «Perchè invece non la condanniamo a cantare nel coro delle Sacerdotesse tutte le sere? Sappiamo bene quanto detesta le canzoni sacre.» «Dopotutto non è riuscita a uccidere Aquila di Guerra come aveva promesso,» rincarò Hay Varena. «E perciò io dico che la si deve punire con estrema severità. Brezza, cosa prevede il regolamento per le fanfarone come lei?» «Fanfarona sarai tu!» brontolò Rhylla. acidamente. Le altre risero, e Ombra di Lancia arrotolò la mappa, alzandosi in piedi. Poi si allontanò, lasciando le colleghe intente a decidere una penitenza per l'amazzone dalla trecce brune, e avvertì alcune miliziane di smontare per ultima la sua tenda, nella quale Tangri dormiva ancora. Goccia di Fiamma era andata verso occidente con una squadra a cavallo per cercare acqua, e non si sarebbe ricongiunta alla colonna prima del tramonto. La ragazza lasciò vagare pensosamente lo sguardo oltre le cime delle colline pietrose, dalle quali sporgeva la lontana bocca dell'Alazoj impennacchiata di fumo. Dov'era fuggita Aquila di Guerra, in sella al suo grande volatile preistorico? Perduto l'appoggio di Dunia e visti sventati i suoi progetti, non le sarebbe rimasto altro che scomparire per sempre, eppure Ombra presentiva che non sarebbe stato così. Per puro spirito di vendetta, la bionda sarebbe stata capace di metter loro i bastoni fra le ruote, precedendole al Lago Van per avvisare i Sumerici del loro prossimo arrivo. Con queste riflessioni a innervosirla si avviò a passo svelto in cerca della magazziniera, per sapere come stavano a provviste.
Quel giorno le amazzoni si misero in marcia solo a mezzodì. Tangri salì come al solito sul carro di testa assieme ad Ombra, e per tutto il pomeriggio non fece altro che guardare avanti nella speranza di veder tornare Goccia di Fiamma, dalla quale sembrava ormai incapace di star lontana senza sentirsi a disagio. Per distrarla Ombra si fece disegnare una mappa del Lago Van e delle montagne circostanti, e la interrogò lungamente sui particolari topografici della località. A quanto apprese, le dimensioni del lago variavano piuttosto rapidamente nel corso degli anni, e mentre vi erano stati periodi in cui la sua ampiezza aveva raggiunto le sessanta leghe di diametro, da ormai un paio di decenni si era ridotto a meno di un terzo, lasciando allo scoperto terreni fertilissimi. Mohenjdar sorgeva a poche leghe dalla sponda orientale, mentre le Teste Nere di Sumer avevano posto il campo dalla parte sud. Tula, la città in cui abitavano gli uomini, si trovava invece a nord ovest, ora ridotta a macerie. Il lago era chiuso ad est e a sud dalle Montagne della Disperazione, mentre per l'altra metà della circonferenza a separarlo dagli altipiani circostanti c'erano i Monti Grigi. Tangri disse che l'accesso più facile era dal settentrione, dove esisteva un passo transitabile anche per i carri, ed Ombra cominciò a studiare un piano d'avvicinamento il più elastico possibile, dotato di varianti tattiche adatte a più di una eventualità. Da quando Tangri aveva lasciato Mohenjdar erano trascorsi più di tre mesi, ed ormai si era in estate. La fanciulla era certa che la città non fosse ancora caduta, e rivelò ad Ombra che fin dal loro arrivo i Sumerici avevano mostrato l'intenzione di curare i campi già arati, probabilmente in previsione di doverne utilizzare il raccolto. Quella sera l'atmosfera all'accampamento fu allegra. Le miliziane accesero molti falò e si radunarono attorno ad essi, ballando alla musica di due orchestrine ed altrove limitandosi a chiacchierare o ad organizzare giochetti di gruppo per passare il tempo. Ombra di Lancia fece distribuire parecchie otri di un vinello dolce sequestrato a Solaire, e birra piena di semi della quale la magazziniera s'era provvista a Tebron. Rhylla fu costretta a viva forza a recitare la parte della sciocca in una breve commedia, nella quale Ilsabet faceva la parte della Regina, una Sacerdotessa quella della Sacerdotessa Anziana e una miliziana con un paio di baffi finti quella di un nobile di Olman Vuh venuto per le Cerimonie dell'Accoppiamento. Goccia di Fiamma, tornata giusto all'ora del rancio serale, si addormentò sdraiata sull'erba subito dopo aver dichiarato di essere sfinita, e Tangri si rifiutò di ballare perchè la vicinanza della sua città e i discorsi di Ombra di Lancia
l'avevano resa triste e preoccupata. Il mattino successivo il tempo cambiò bruscamente e iniziò a piovere fin dall'alba, e le miliziane marciarono sotto un violento acquazzone per tutta la mattina. Al tramonto piovigginava ancora, e prima che il campo venisse montato in una zona fangosa, una Sacerdotessa venne a riferire che tre ragazze erano morte. Due erano state ferite a Tebron, e un'infezione inarrestabile le aveva uccise lentamente; altrettanto lunga era stata l'agonia della terza, colpita da un male ai polmoni quindici giorni addietro, e la poveretta aveva sputato sangue e delirato fino ad allora. Per ben tre giorni la colonna procedette sotto un cielo fosco e tempestoso, dal quale pioveva spesso acqua mista a chicchi di grandine, ed il terreno spoglio si trasformò in fanghiglia nella quale le ruote dei carri scavavano profondi solchi. La sera del secondo e del terzo giorno, non essendovi legna da ardere, Ombra fu costretta a far bruciare tre dei veicoli adibiti al trasporto viveri, ormai vuoti. Di notte tuonava senza interruzione, e il cielo nero era incrinato da continue saette e strani fulmini globulari, che si levavano rapidissimi dalle cime delle alture e sparivano senza rumore fra le nubi. Sei giorni dopo aver lasciato l'Alazoj, Ombra di Lancia cominciò a pensare seriamente d'essere fuori strada: i Monti Grigi, che pure erano a detta di Tangri alti fino a dodicimila piedi sul livello del mare, ancora non si vedevano. L'orizzonte era velato di nebbia dal mattino alla sera, e l'amazzone cercava di dirsi che con l'aria limpida forse li avrebbero avvistati già da tempo, ma quando la colonna si trovò davanti un largo fiume ella fu sicura di trovarsi molte leghe più a meridione del suo obiettivo. «Credi che sia di nuovo l'Aladag?» disse Goccia di Fiamma smontando da cavallo presso la riva, mentre la compagna osservava cupamente la corrente rapida e fangosa. «Non ne ho la minima idea,» disse Ombra. «Sappiamo che sia il Chan Bahar sia l'Aladag nascono a nord ovest rispetto alla Terra dei Due Fiumi, e vi è chi dice che le sorgenti di entrambi siano in questa zona di Hyktos. Questo è forse uno dei loro affluenti.» «Brezza è impaziente di iniziare ad attraversarlo. Mi ha mandato da te a sentire perchè stiamo perdendo tempo qui. Guarda che bisogna darsi da fare, cara, altrimenti annotta proprio mentre siamo al lavoro.» «Lo so. Stavo pensando se non fosse il caso di seguirlo invece verso settentrione.» Brontolò Ombra di Lancia.
Goccia sbuffò. «E perchè? Io dico di andare sull'altra sponda e di mettere il campo là. Il tempo va migliorando. Senza più nebbia, forse domani vedremo le montagne, e non credo che saremo costrette a ripassare il fiume una seconda volta. Se le avvisteremo a nord potremo seguire il fiume stando sull'altra sponda senza difficoltà.» «Hai ragione,» convenne Ombra. «Monta in sella, e vai a dire a Ilsabet che faccia portare le corde che sono sull'ultimo carro. Useremo il solito sistema.» Oltrepassare coi cavalli e coi carri un fiume di quelle dimensioni era un lavoro che avrebbe impegnato duramente le miliziano, ma quasi tutte erano già tanto bagnate e stanche di marciare nel fango che si misero all'opera in silenzio, desiderose solo di terminare quel compito più alla svelta possibile. Una ventina di forti nuotatrici spinsero un galleggiante di legno costituito da un carro senza ruote nella corrente, e ad esso fu legata una cima da portarsi sulla sponda opposta. Le ragazze furono subito trascinate verso valle, e fu necessario filare dietro di loro duemila braccia di corda prima che ce la facessero a prendere terra, una clessidra più tardi. Distrutte dalla fatica tornarono poi a monte in cerca di un posto adatto. La corda fu legata saldamente a una roccia, e tesa fin le due sponde dopo esser stata raddoppiata. I carri vennero mandati nel fiume nello spazio fra le due corde, con a bordo di ciascuno quattro miliziane che li tirarono avanti a forza di braccia. Poi toccò ai cavalli, e ogni singola bestia dovette essere assicurata ai cavi con un anello scorrevole di corda e seguita da due ragazze. La corrente era tale che fra una riva e l'altra le due funi parallele potevano sopportare solo un carico leggero ad ogni passaggio, altrimenti si sarebbero spezzate. Vanella, la magazziniere, era in lacrime, accorgendosi che tutti i rifornimenti e buona parte dei viveri avevano raggiunto l'altra riva inzuppati d'acqua, e volle essere fra le prime a compiere la traversata per occuparsene subito. Tangri arrivò sana e salva, ma nuda, perchè Goccia di Fiamma aveva ficcato i vestiti di entrambe dentro una delle tende arrotolate per mantenerli il più asciutti possibile. Ombra di Lancia scoprì che quattro ragazze della truppa avevano deciso di fare una gara di nuoto per scommessa, e le vide scomparire trascinate via dalla corrente. Più tardi, quando le quattro ardimentose raggiunsero il campo già in fase di montaggio sulla riva est, scoprirono che ad attenderle c'era una caposquadra con la frusta in mano ed ebbero due vergate ciascuna. Le sopportarono in silenzio, ma quando Ombra le mandò a scavare una latrina una di esse dichiarò che avrebbe preferi-
to le cinque vergate stabilite dal regolamento per i casi di indisciplina grave. «Scavare una latrina è più importante del combattere,» ridacchiò Rhylla, rivolgendosi a Goccia di Fiamma dopo aver assistito alla scena. «Ricordi cosa diceva la vecchia Assia ai recinti-scuola? Un esercito efficiente dev'essere costituito da gente che scava, costruisce palizzate e ponti, tiene pulito nei campi e bada al vitto e alle cure mediche, mentre la Comandante studia il modo di evitare quanto più possibile gli scontri armati inutili.» «Mirina è dello stesso avviso, e così anche Ala di Luce e Zare,» disse Goccia. «Secondo loro devono esserci più ragazze addette alle salmerie che combattenti vere e proprie.» «La tua compagna sta dando loro torlo. Con noi ci saranno si e no una cinquantina di non combattenti.» «No, Rhylla. Ombra ha potuto prendere il meglio dalle due caserme della Capitale, non scordarlo. Tutte miliziane che sanno fare ogni mestiere, negli accampamenti. Le serviva un corpo di spedizione veloce e agguerrito, più che un esercito da campagna bellica.» All'alba del mattino dopo, la previsione di Goccia di Fiamma si rivelò indovinata: una miliziana del turno di guardia notturno s'affacciò nella tenda dove lei Tangri ed Ombra stavano ancora dormendo e le svegliò, annunciando che a nord si vedeva una lunga catena montuosa, molto vicina. La bruna uscì subito, eccitata, e mentre si vestiva osservò la grigia e nebulosa parete dei monti che chiudevano il panorama a settentrione. Un paio di essi erano assai elevati, ma sulla destra c'erano selle facilmente raggiungibili e versanti dal pendio non troppo ripido. Al contrario del territorio che stavano percorrendo, le alture apparivano fitte di vegetazione, fiori e cespugli dello stesso genere di quelli che proliferavano nei bassipiani di Tebron e di Solaire. Goccia di Fiamma la raggiunse, insonnolita, allacciandosi l'uniforme. «Bene, l'aria si è schiarita. Credi che quelli siano i Monti Grigi?» «Sì. Guarda al di là di essi, verso ovest: ci sono le cime di un'altra catena molto più lontana, bianche di neve. Quelle devono essere le Montagne della Disperazione. Il Lago Van è là in mezzo, e se attraversiamo da quella sella laggiù dovremmo venire a trovarci sulla sua riva meridionale, dove hanno il campo le Teste Nere.» «Se hanno messo delle vedette, ci vedranno arrivare di certo.» Mormorò Goccia, studiando la lunga serie di alture. «I comandanti sumerici non sono degli idioti, lo sai.»
«Non intendo sottovalutare le Teste Nere. Ma Tangri mi ha detto che sul lato settentrionale del lago c'è una comoda via d'accesso, pianeggiante. I carri e la cavalleria possono raggiungerla in due giorni, aggirando i Monti Grigi da occidente. Gli Squadroni appiedati valicheranno invece questi versanti. Attaccheremo su due fronti.» «Dunque sei decisa a dar battaglia?» «No. Voglio parlamentare, te l'ho già detto. Però è chiaro che lo farò da una posizione di forza. La nostra azione sarà tutta concentrata sulla sponda sud del Lago Van: millecinquecento miliziane scenderanno dalle alture della zona fra il campo sumerico e la città di Mohenjdar, e le duecentocinquanta della cavalleria più quelle sui carri arriveranno dal nord per chiudere le Teste Nere fra due fuochi. Tu starai con me; voglio una squadra a cavallo. Brezza dovrà muoversi immediatamente, invece. Arriveremo addosso alle Teste Nere nel primo pomeriggio di dopodomani, e i movimenti della Cavalleria dovranno essere ben coordinati coi nostri.» Poco più tardi fu data la sveglia, e le miliziane uscirono dalle tende incitate dalle voci brusche delle caposquadra. Dopo che tutte ebbero avuto qualcosa da mangiare, le tende furono smontate e i carri furono messi in fila, ma la colonna non si mosse che una clessidra più tardi, quando Ombra di Lancia ebbe terminato di istruire Brezza dell'Est sul suo progetto di strategia. Brezza ascoltò in silenzio e si disse d'accordo, osservando solo che i particolari tattici non si sarebbero potuti decidere che una volta giunte sul lago. «Nel caso che lo scontro armato si riveli inevitabile, comunicheremo coi corni da segnalazione,» disse Ombra. «Tu comunque dovrai avanzare allo scoperto, in modo che io ti possa vedere dall'alto della sella montuosa, e ti attesterai circa due leghe a ovest del campo sumerico. In quel momento noi saremo scese alla stessa distanza da loro, ma dalla parte est. Subito dopo saprò se una trattativa con quegli uomini sarà possibile o meno.» «Se qui ci fosse Mirina, sai bene cosa ti direbbe,» obiettò Hay Varena, mentre anche Rhylla ed Ilsabet annuivano gravemente. «Direbbe che sono una stupida perché non li attacco in piena notte, cogliendoli nel sonno come Aquila ha fatto coi soldati di Tebron. Ma i miei scopi sono diversi. Io non voglio far si che fra un anno o due i Sumerici mandino qui un altro esercito, trasformando il Lago Van in un campo di battaglia o in un obiettivo militare. Per Mohenjdar sarebbe la fine. No, sono disposta a rischiare molto pur di non fare della città un oggetto conteso fra due opposti eserciti.»
«Io dico sterminiamoli!» sbottò Hay Varena. «Li conosco bene i Sumerici, sono una razza barbara. Le Teste Nere sono soldati ignoranti e selvaggi, feroci come cani idrofobi. Non si può ragionare con simili carogne: quando mai è stato possibile? Ombra fissò a lungo la collega, prima di rispondere. «Lo so,» mormorò poi. «Quando una banda di tagliagole da strada ti assale, tu non stai a trattare. E le Teste Nere sono una via di mezzo fra i predoni e una tribù di selvaggi, che i loro comandanti tengono a freno con la frusta. Non mi faccio illusioni: forse scorrerà il sangue. Ciò malgrado, si agirà come ho stabilito.» Poco dopo, Brezza dell'Est partì verso nord ovest con la Cavalleria e i tre quarti dei carri, ed i tre Squadroni appiedati si mossero a nord est sull'altipiano arido, in direzione di quello che sembrava il valico più basso dei Monti Grigi. Il terreno era sassoso e molle per le recenti piogge, ma abbastanza regolare. A mezzodì, quando ancora distavano una quindicina di leghe dalle pendici dei monti, la vegetazione cominciò ad infittirsi e insieme ai cactus ed ai cespugli spinosi comparvero molte varietà di pianticelle: glicini, biancospini, rosmarino ed altri arbusti simili a quelli che crescevano sulla riva del Mare Interno. Ma non si vedeva traccia di piante d'alto fusto: come Tangri aveva detto, presso il Lago Van non esistevano alberi veri e propri. Goccia di Fiamma aveva fatto affiancare al carro di testa le ventuno ragazze della sua squadra, e legato il cavallo dietro al veicolo s'era messa a sedere accanto a Tangri. «Fra un paio di giorni sarai a casa, Principessa Aloya. Ormai l'aurea terra di Gondar è vicina,» le disse sorridendo. Il suo tentativo di scherzare riuscì a cancellare dal grazioso volto della fanciulla l'espressione preoccupata, e sulle guance le comparve un pò di rossore. «Tu mi prendi sempre in giro,» mormorò. «Sai, Goccia? Mi sembra così strano di aver creduto per molti giorni d'essere un'altra persona, e di tutto quel periodo ho solo ricordi confusi. Ero come stordita e al centro di una nebbia, e spesso piangevo senza sapere il perché.» «Parlavi anche con una voce diversa, tesoro, quasi che tu fossi ritornata ad essere bambina. Da piccola dovevi essere una signorina molto capricciosa.» «Oh, no,» si schermì Tangri. «Però è vero che a quei tempi giocavo con le mie amiche, e con loro fingevo d'essere Aloya, una Principessa delle favole. Lo facevo per gioco. Ma dopo esser caduta nel burrone credo che
restai tanto sconvolta da voler come fuggire dalla realtà, e immaginai d'essere la protagonista di una fiaba.» Goccia di Fiamma la strinse al suo fianco, guardandola con affetto. «Povera cara! Dopo tutto quello che hai passato, è un vero miracolo se non ti sei rifugiata per sempre nella follia. Dal giorno in cui tua madre è morta, devi aver vissuto in un incubo continuo.» «Ma poi arrivai nelle Terre Basse, e conobbi te,» disse la fanciulla. «E quando ti vidi compresi che saresti diventata mia sorella. Mia sorella per sempre. Anche Ombra mi è molto cara. Ma... adesso cosa succederà? Ci sarà da combattere, e... e forse verrete uccise. Ho paura, Goccia!» «Be', anch'io ho sempre un pò di paura prima di battermi. Non mi piace uccidere, e sto male per le mie compagne. Spesso penso che se Ombra perdesse la vita non mi resterebbe più molto, e magari diventerei acida e brontolona come mia zia Hallimar. Non sorriderei mai più. Che ne dici, Ombra?» L'ultima frase era stata rivolta alla bruna, che s'era messa alla guida del carro, ed ella si voltò appena a farle una smorfia. «Balle! Andresti a prenderti una sbronza formidabile, poi cominceresti a fare gli occhi dolci a questa e a quella. Credi che non ti conosca, rossaccia? Ma non farti illusioni: ho intenzione di tenerti sott'occhio ancora per un pezzo, e guai se non fili dritta!» «Sempre la solita sentimentale,» commentò l'altra. Poi strizzò l'occhio a Tangri. «Lo sai cosa fece questo bel tipo, la prima volta che le volli dare un bacetto? Mi diede un pugno sul naso e sanguinai per due giorni. Sballa disse che un uomo sarebbe stato più gentile, con me. Avrei dovuto darle ascolto; molti giovanotti di Mitanni che ho conosciuto erano davvero bravi e simpatici con le donne.» La frase fece ridere Ombra di Lancia, che rispose senza voltarsi: «E così avresti fatto la fine di Valicia, che lasciò la caserma per andarsene in Mitanni dietro a un commerciante morto di fame che le aveva fatto perdere la testa. La ritrovammo a Ebla tre anni dopo, che faceva la serva in casa di un nobile per mantenere due gemelli, mentre il suo uomo andava con le prostitute. Ridotta un rottame a soli ventidue anni!» Fra una chiacchiera e l'altra trascorse il pomeriggio. Il cielo si rasserenò del tutto, e al tramonto si infuocò di porpora e oro. La colonna delle miliziane procedette fino alla pendice dei monti lenendosi dove la vegetazione era più folta, e quella sera non si accesero fuochi. Calcolando che il giorno successivo non si sarebbero mosse, Ombra di Lancia fece montare le tende
al riparo di un'altura e ordinò il silenzio assoluto, per evitare il più possibile d'essere avvistate da eventuali osservatoli sumerici posti di guardia sulle colline. Le miliziane si accontentarono di una cena fredda, ma questo non guastò affatto il loro umore, e quando Tangri si stupì della calma generale che regnava al campo Goccia di Fiamma ridacchiò. «Non è indifferenza, tesoro. Quasi tutte le ragazze sono ansiose di battersi. Stanotte dormiranno come sassi.» La fanciulla precedette l'amica nella tenda, voltandosi appena un momento a guardare Ombra di Lancia e le Comandanti di Squadrone che confabulavano sedute in cerchio poco più in là. «Capisco,» disse. «Voi siete educate per amare la guerra. Le amazzoni come Hay Varena e Ilsabet mi intimoriscono, e ce ne sono altre ancor più dure e fanatiche. Tu sei diversa...» «Sciocchezze!» Goccia le sorrise, nell'oscurità quasi completa che regnava sotto la tenda, e si distese sulla sua coperta. «Quella Diletta della Dea,» continuò Tangri. «Delle volte mi sembra come pazza. Lo sai che lei e molte altre di sera si riuniscono e fanno uno strano rito, gridando in coro delle frasi di odio contro gli uomini?» «Quelle lì esagerano un pò, è vero. Ma Hay Varena e Ilsabet sono delle professioniste, come Brezza dell'Est e Ombra. E anch'io. Per noi la guerra è parte della vita. L'hanno fatta le nostre madri e le nostre nonne, da generazioni, perché abbiamo avuto sempre dei nemici molto minacciosi. Alla fine ci siamo adattate, e molte di noi non saprebbero far altro lavoro che questo.» «Sai,» mormorò Tangri dopo un poco, distesa al suo fianco. «La più strana di voi amazzoni è proprio Ombra di Lancia.» «Forse perché lei non è del nostro popolo. Arrivò nelle Terre Basse che aveva quasi quindici anni, benché fosse già un tipetto che sapeva farsi valere.» «Non volevo dir questo, Goccia. Lei... lei è sempre così tranquilla, non alza mai la voce, è difficile perfino capire che è lei la Comandante. E permette che le Comandanti di Squadrone le diano torto o discutano i suoi ordini. Eppure si capisce che tutte la rispettano molto.» «Se fosse autoritaria e non ascoltasse le subordinate, la rispetterebbero di meno, questo è certo. Ma nelle Terre Basse tutti sanno che Ombra è una delle guerriere più forti che ci siano, ed è intelligente, astuta e fredda anche quando le altre perdono la calma. Le miliziane si sentono sicure perché
sanno di avere una brava Comandante. Capisci?» «E domani, che cosa succederà?» domandò Tangri, preoccupata. Il bordo della tenda si scostò e nell'apertura comparve Ombra di Lancia, che stava già slacciandosi l'uniforme sul petto. «Come diceva Assia, se pioveranno frecce noi alzeremo gli scudi!» esclamò la bruna. «Ma non domani, cara mia. Domani io e testarossa andremo a dare un'occhiata al lago, tanto per farci un'idea della situazione. Dobbiamo dar tempo a Brezza dell'Est di aggirare le montagne con la Cavalleria. E posdomani sarai di nuovo sul trono di Mohenjdar. Ce l'hai un trono, vero?» Con stupore delle amazzoni Tangri rivelò che la sala del trono nel palazzo reale della sua città era lunga quasi cento passi, ma circa un secolo addietro una Regina di nome Yunalù l'aveva fatta trasformare in un teatro. A questo modo, quando raramente vi si tenevano le riunioni, la Regina ne occupava il palcoscenico e dava la strana impressione di essere un'attrice. La cosa fece ridere di gusto Goccia di Fiamma. CAPITOLO QUATTORDICESIMO «Con quella coperta addosso sei ridicola,» brontolò Ombra di Lancia. «Se volevi restare a letto, non avevi che da dirlo!» «Ne riparleremo quando comincerà a piovere,» disse Goccia cocciutamente, spronando il cavallo sul ripido pendio. La ragazza era ancora insonnolita, malgrado che avessero lasciato il campo da ormai due clessidre, ed aveva freddo. Ad est il sole era sempre così basso che i suoi raggi non scaldavano minimamente i versanti delle montagne. C'era nebbia, e nel cielo si rincorrevano nuvole gravide di pioggia. Dalle narici dei cavalli uscivano lunghi sbuffi di respiro vaporizzato, mentre i loro zoccoli erano costretti a lottare coi ciottoli delle scarpate non meno che col friabile terreno fangoso dei tratti meno impervi. «Non pioverà,» stabilì Ombra. «Passate via queste nuvole, avremo una giornata calda anche quassù. L'aria è chiara. Secondo te a che altezza siamo?» «Rispetto all'accampamento, almeno duemila piedi. Tienti più a destra! Non vedi che di là andiamo a finire in un burrone? Se stai col naso per aria, invece di guardare dove vai...» Ombra di Lancia, che stava osservando la sella verso cui erano dirette, tirò a destra le redini del cavallo e poi gli diede un colpetto coi talloni. L'a-
nimale di Goccia seguì il suo docilmente, senza bisogno di incitamenti e ordini di alcun genere; era una cavalcatura così bene addestrata che in pianura la ragazza avrebbe potuto addormentarglisi sopra. Il loro obiettivo era a meno di una lega, e da quel punto Tangri aveva detto che era possibile vedere per intero il Lago Van. Se si fossero voltate, le due avrebbero potuto scorgere il lontano tronco di cono dell'Alazoj, ma in quel momento erano assai più preoccupate di trovarsi di fronte all'improvviso un posto di vedetta sumerico, seminascosto fra le rocce ed i cespugli. Giunsero tuttavia sul terreno molle della sella senza aver scoperto alcun segno di presenza umana, e dopo aver aggirato numerosi macigni e dossi erbosi si videro davanti il panorama di una vallata ovale larga non meno di trenta leghe e lunga forse il doppio. Quando furono più avanti scorsero il luccicare del lago, e proseguirono alla ricerca di un luogo da cui fosse possibile avere una visuale completa delle sue sponde. Goccia di Fiamma fece un fischio d'ammirazione, piacevolmente colpita dal contrasto fra il rosa delle cime nevose sulla destra ed il verde smeraldo della pianura. «È bellissimo, qui. Guarda il lago, sembra che il cielo si sia specchiato nell'acqua per tanti secoli da averle lasciato un po' d'azzurro da riflettere anche nei giorni nuvolosi.» «Sicuro: come la luna che era rimasta nel pozzo!» bofonchiò la compagna. Fermò il cavallo e tolse la lunga lancia dal supporto della sella, asciugandone il manico dall'umidità prima di impugnarla. «Andiamo caute, tesoro, che da qui in avanti saremo esposte a incontri non troppo poetici.» Goccia le passò accanto e proseguì al trotto. «Non essere prosaica; se non ci fossero i poeti a cantare le loro gesta, a che scopo i soldati dovrebbero compiere... Santissima Dea!» La ragazza si sollevò in piedi sulle staffe, con un grido: «Guarda laggiù, Ombra!» L'altra le si fermò accanto, ed esse rimasero mute a fissare con occhi sbarrati lo spettacolo che si era presentato loro sulla riva destra del lago: lontana circa cinque leghe dalla sponda sorgeva una città interamente circondata da una bianca cinta di mura marmoree, alte e lisce, così bella e perfetta che da quella distanza sembrava un modellino di gesso. Ma intorno ad essa nulla si muoveva, e dal suo interno salivano in più punti spirali di fumo. La grande porta che costituiva in apparenza l'unico ingresso era un vano nero e spalancato nei bastioni, ed il silenzio che gravava sulla zona era come un sudario steso a coprire ciò che restava di una tragedia. Il macabro festino della morte era ormai compiuto, ed il fumo parlava di rovina, di strage, di cadaveri carbonizzati e di case abbattute.
«Non è possibile!...» mormorò Ombra, pallidissima. «Mohenjdar saccheggiata e distrutta... Oh, cielo! Tante fatiche e tormenti e speranze per poi vedere questo!» «È caduta, e i Sumerici sono entrati a far massacro!» ansimò Goccia di Fiamma. Un groppo alla gola le strozzò la voce, e gli occhi le si inumidirono di lacrime. «Oh, Dea, dimmi che è un incubo. Ventimila donne innocenti...» Non fu capace di continuare. Per un poco le due ragazze fissarono mestamente quello spettacolo. Anche da quasi dieci leghe di distanza non era possibile avere dubbi sull'accaduto, tanto l'aria tersa e trasparente consentiva di scorgere nitidi i particolari della città in riva al lago. Il posto in cui era sorto fino a poco tempo addietro, l'accampamento delle Teste Nere era giusto davanti a loro, circa due leghe più in basso, riconoscibile per le chiazze nere e vaste dei falò e per l'argine di terra che lo circondava. Ovunque regnava l'immobilità dei luoghi deserti e abbandonati. Goccia di Fiamma pensò a Tangri, e si morse le labbra. Amiche e parenti della fanciulla giacevano là fra quelle macerie; come avrebbe potuto darle una notizia simile e sperare ancora che il dolore non devastasse il suo equilibrio già tanto duramente provato? «Dev'essere accaduto ieri; al più tardi due giorni fa,» disse sottovoce Ombra. «Molte case stanno ancora bruciando.» L'altra scosse il capo. «Le rovine possono ardere per cinque o sei giorni, e continuare a fumare anche dopo che è piovuto. I Sumerici hanno avuto tutto il tempo di entrare, di fare il saccheggio e poi di mettersi in marcia per tornare a oriente. Dovevamo arrivare almeno con dieci giorni di anticipo, credo.» «Che facciamo, Goccia? Vuoi andare giù a vedere? Può darsi che qualche superstite ci sia.» «Sì. Non ho nessuna fretta di far ritorno al campo,» disse lei, cupamente. Misero i cavalli al passo, incapaci di distogliere lo sguardo dalla candida Mohenjdar immersa nel silenzio. Le mura erano un capolavoro d'ingegneria e di estetica, ed univano la purezza del marmo a una linea architettonica severa, dando l'impressione d'essere l'intoccabile rifugio di una razza di artisti e di guerrieri. Ma era solo un'apparenza, come le amazzoni ben sapevano, perchè quella città aveva considerato abominevole la guerra; e tuttavia le amazzoni del nord discendenti della leggendaria Regina Merope non erano riuscite a tenerla lontana per sempre. Intoccabile secoli addietro, Mohenjdar s'era rivelata una conquista non impossibile per i Sumerici. Il tempo l'aveva travolta, e la morte aveva chiuso nel modo più crudele e
drammatico la sua storia. Prima di arrivare sul terreno piano, le due ragazze dovettero faticare molto per far superare ai cavalli un tratto cespuglioso estremamente ripido e irregolare, e l'animale di Ombra fu costretto a prendere il galoppo per non inciampare. Bestemmiando l'amazzone cercò di trattenerlo sulla sinistra, ma non vi riuscì a causa della pericolosa conformazione del suolo ed il cavallo seguitò a cercare di non perdere l'equilibrio deviando a destra, fra i cespugli fitti. «Gettati di sella! Gettati a terra!» gridò Goccia, spaventata. L'altra non la udì neppure; il suo animale piombò a rotta di collo in un burroncello e rovinò al suolo con un nitrito di spavento. Quando Goccia di Fiamma vi arrivò, per ritrovare la compagna dovette scendere di sella e farsi largo a colpi di spada fra i cespugli spinosi. «Sono qui,» la chiamò Ombra. «Come stai? Ti sei fatta male?» «No, per fortuna.» La voce della bruna era calmissima, e Goccia la vide seduta a terra che si stava osservando un gomito escoriato. «Niente di rotto, cara, stai tranquilla. Ma il cavallo si è spezzato il collo.» Una dozzina di braccia più in basso c'erano le rocce, e Goccia vide la povera bestia distesa fra i sassi. Ombra si guardò attorno e disse che la lancia le era volata via di mano, ma per quanto le due cercassero fra i cespugli non la videro. «Non importa. Dev'essere finita laggiù, insieme al cavallo. E per scendere lì ci vorrebbe una corda. Andiamocene,» disse la bruna. Entrambe in sella alla cavalcatura di Goccia proseguirono fino al vecchio campo delle Teste Nere, e lo costeggiarono osservando ciò che i guerrieri sumerici avevano lasciato lì. C'erano due carri senza ruote, molti vasi di cocci rotti, stracci e rami tagliati. Dalla destra proveniva l'odore di una latrina scoperta, e presso di essa c'era un mucchio malsano di avanzi marci di cibo. Poco dopo costeggiarono il lago e si inoltrarono nei campi, che mostravano d'essere stati mietuti una ventina di giorni addietro. Più vicino alle mura c'erano orti, e anche di essi i Sumerici dovevano essersi serviti durante i quattro mesi dell'assedio. I bastioni, osservati da vicino, erano più alti di quanto le due amazzoni avevano dapprima calcolato, e dovevano raggiungere le trentacinque braccia. Erano a pianta decagonale assai irregolare, e ad ogni angolo si levava una torre bianca orlata da merli. Il portone ciclopico era in legno, sovrastato da un architrave massiccia, e i Su-
merici avevano lasciato al suolo davanti ad esso l'ariete di cui s'erano serviti per sfondarlo. «Un albero!» esclamò Ombra di Lancia. «E che albero! Devono averlo mandato a prendere molto lontano da qui, e gli hanno fatto fare una testa in bronzo massiccio. È tanto grosso che per manovrarlo saranno stati necessari almeno cento uomini.» «È un tronco d'abete, il più grosso che abbia mai visto,» disse Goccia. «Con venticinque pioli per lato. A due uomini per piolo, fanno cento uomini. Se ricordo bene, Saure mi disse che nella terra degli Aramak ci sono abeti. Lo avranno fatto portare da là.» Le due amazzoni non dissero altro, perchè oltrepassata la grande porta ed i resti dei battenti si videro davanti una strada lastricata in pietra, ingombra d'oggetti sfondati e distrutti. La metà delle case erano state incendiate, ed il fuoco aveva bruciato i tetti pur lasciando intatte le mura laterali; sulla parte superiore delle finestre il fumo, uscendone, aveva annerito l'intonaco, ma anche in quelle condizioni Goccia di Fiamma ed Ombra dovettero ammirarle. Erano tutte a due o a tre piani, ed un tempo dovevano essere state splendide abitazioni, quasi che a Mohenjdar non fosse esistita la miseria e vi abitasse solo gente assai civile e ricca. Dalle case soltanto saccheggiate erano stati gettati fuori perfino i mobili, e suppellettili di ogni genere ingombravano il selciato. Dappertutto giacevano i cadaveri. «Dea!» mormorò Ombra, incapace di dir altro. Le due amazzoni erano assuefatte alla vista del sangue e dei corpi umani orrendamente feriti o mutilati dalle armi da taglio, ma lì ce n'erano troppi. Donne di ogni età, dalle bambine inermi alle ragazze e alle vecchie, erano state trucidate spietatamente, con un'esplosione di ferocia i cui risultati allucinanti lasciavano senza parole. Qua e là c'erano anche degli uomini, ma non di razza sumerica, ed esse capirono che si trattava degli scampati alla distruzione di Tula, la città dei maschi al di là del lago. Erano esseri umani distesi ovunque, era sangue in strisce disseccate e in chiazze che costellava le soglie delle case, erano i resti delle persone e degli oggetti che fino a poco tempo prima erano stati una società civile, era l'ecatombe, il genocidio, l'orrore della falce appena vibrata dalla Nera Parca su un'intera popolazione. Avanzando al passo fra le case in cui le due amazzoni non osarono entrare, il cavallo le condusse fino al centro della città, in una piazza all'altro capo della quale si levava l'edificio più grande e bello. Scesero dalla sella, chiedendosi se anche nell'interno di esso avrebbero trovato corpi fatti a pezzi dalle spade sumeriche.
«Forse ce ne sono più lì che altrove,» disse Goccia. «Quello è il Tempio della Dea, la costruzione che la Regina Merope fece edificare prima ancora delle stesse mura.» Ombra annuì. «È antico, molto. Né tu né io siamo mai state tanto religiose, ma se vuoi entrare un momento a pregare...» L'altra tenne gli occhi bassi, ma si portò la destra all'elsa della spada, mormorando: «Sì, entriamo, Ombra. Ma ti giuro che un giorno saprò il nome di quel Comandante sumerico, e in questo Tempio non riuscirò a far altro che pregare la Dea di farlo arrivare alla portata di questa spada. Un cane idrofobo non mi farebbe tanto ribrezzo!» La ragazza aveva previsto esattamente ciò che avrebbero trovato nell'interno delle spesse mura di marmo: la navata centrale era un carnaio di corpi stesi al suolo; almeno cinquecento donne s'erano rifugiate in quel luogo, e le lame dei Sumerici le avevano raggiunte mentre si affidavano alla Dea. Presso l'altare, nudo e privo di ogni immagine sacra come voleva la religione, giacevano ventisei Sacerdotesse i cui mantelli azzurri erano lordi di sangue. Le due amazzoni lo raggiunsero dopo esser state costrette a scavalcare decine di corpi umani, e si fermarono a guardarlo mute. Dopo un poco, Ombra alzò gli occhi verso la liscia parete dietro il blocco marmoreo rettangolare. Ad un lato, in basso, c'era una lapide, l'unica cosa che incrinasse il candore di quell'antichissimo muro, e la ragazza girò intorno all'altare per andare a leggerla. I caratteri erano lievemente diversi, ma perfettamente comprensibili, ed ella li percorse con lo sguardo due volte prima di intenderne il senso; poi chiamò Goccia di Fiamma con un gesto, stupita. «Guarda,» mormorò. «Cosa può voler dire questo? Tangri te ne aveva parlato?» L'altra scosse il capo, poi lesse, lentamente: «Le vie del tempo sono d'ombra e di fiamma. Cerca la lancia e l'ombra, cerca la fiamma.» La ragazza corrugò le sopracciglia. «Ma... sembra quasi che chi l'ha scritta si sia divertito a giocare coi nostri due nomi. Non ti pare? E il significato è incomprensibile. Che strana scritta da mettete in un tempio!» «Ha tutta l'aria d'essere stata scolpita molti secoli fa. Forse addirittura al tempo della Regina Merope. Evidentemente è un messaggio sacro, che va saputo interpretare. Un'esortazione per le credenti.» «Cerca la lancia...» disse Goccia, pensosamente. «Non essere sciocca!» esclamò l'altra. «Certo, la mia l'ho perduta proprio poco fa. Ma questo che vuol dire?»
«L'ombra e la fiamma. Be'.. naturalmente è una sciocchezza. Una coincidenza. Non può certo riguardare noi; sarebbe assurdo.» «E poi cosa me ne farei di ritrovare quella lancia, anche se fossi così cretina da lasciarmi suggestionare da una vecchia lapide e da cercare dov'è finita?» sbottò Ombra. «Ne ho altre, di lance E adopererò quelle, contro le Teste Nere. Dico, non crederai mica alla magia e alle superstizioni?» Goccia fece la faccia offesa. «Ho forse detto qualcosa?» «Mi hai appena detto di andare a cercarla.» «Io non ho detto proprio niente, invece. Stavo leggendo quelle parole, e basta.» «Allora andiamocene. È tardi e non voglio far stare in pensiero le altre. Domani sarà una giornata dura.» La ragazza bruna si voltò e tornò rapidamente all'uscita del tempio, seguita da Goccia. Sulla porta si fermò un momento. «Dovremo seppellirle tutte, queste poverette. E sono migliaia!» Poco più tardi, mentre sedevano l'una dietro l'altra sulla groppa del cavallo, Ombra si girò nervosamente. «Senti, smettila di borbottarmi all'orecchio, fammi il favore. Mi sembri sciocca, oggi.» «Stavo solo domandandomi quale può essere il senso di quella frase: le vie del tempo sono di ombra e di fiamma. È un messaggio condizionato al rispetto dell'esortazione che lo segue, cioè quella di cercare la lancia. La lapide se ne sta lì da secoli, circa settecento anni, se le cronache antiche sono precise circa la Grande Migrazione.» «E con ciò? A me pare che lo si possa interpretare in dieci modi diversi almeno.» La ragazza spronò il cavallo fuori dall'imponente porta della città, e dopo avergli fatto aggirare il pesantissimo ariete rimasto a testimoniare il cruento episodio, lo mise al trotto per i campi. Da lì a non molto oltrepassarono l'accampamento sumerico, al di là del quale iniziava la macchia che copriva i fianchi delle alture. «Perchè vai così piano?» disse Goccia di Fiamma, quando furono un poco più in alto. Il terreno era facilmente percorribile in quel tratto. «Se azzoppo il cavallo, saltiamo il pasto di mezzodì. E poi, già che passiamo da questa parte, non vedo perchè dovrei dare per persa una buona lancia. Crysalén me ne ha fatte dieci soltanto, di quel tipo, su disegno mio. La cercherò.» Goccia di Fiamma si tenne aggrappata a lei, e non replicò. Ma né lei né la compagna riuscirono a individuare subito il posto in cui era avvenuto l'incidente. Allorché videro la scarpata lungo la quale Ombra aveva perico-
losamente galoppato, dovettero girare a sinistra e percorrere un lungo tratto di macchia fitta per avvicinarsi al luogo dove giaceva il cavallo. Scese di sella, si mossero a piedi esplorando intorno con gli occhi. Il tempo s'era volto al bello e il sole, quasi alla sommità del suo arco celeste, scaldava molto le rocce. Le due compagne scalarono un assembramento di macigni e discesero dalla parte opposta. «Ecco là quella povera bestia,» disse Goccia. «Più avanti sembra che ci sia un anfratto. Qui hanno scavato per tagliare pietre. Ci sono i segni degli scalpelli e dei picconi. È una piccola cava.» «Che intendi fare? Li inseguiamo?» «I Sumerici? Non lo so; dovrò consultarmi con le altre. Spingimi un pò... ecco! Ora vieni su, ti aiuto io. Per andare dietro alle Teste Nere bisognerà accertare intanto da dove sono passati, e poi da quanto tempo sono partiti. Attenta ai rami, graffiano.» Le due ragazze scesero in un ristretto burroncello ingombro di cespugli, chiuso da alte pareti di roccia liscia, e scostate le frasche scopersero infine la lancia. Era conficcata dalla parte del manico nel terreno molle, obliquamente, e quando Ombra fece per afferrarla Goccia di Fiamma si interpose all'improvviso. «Aspetta! Guarda lì, sulla roccia!» «Che cosa? Non vedo nulla.» «L'ombra, santo cielo! Apri gli occhi! Adesso credi ancora che quella scritta fosse un inspiegabile gioco di parole coi nostri due nomi? Il messaggio aveva un significato.» La ragazza indicava l'ombra proiettata dalla punta dell'arma sulla parete di arenaria rossiccia: giusto in corrispondenza di essa c'era un foro rotondo largo appena un pollice, che la bruna osservò con aria scettica. «Parli di quello? È un buco nella roccia, no?» L'altra si chinò a guardarvi dentro. «Cerca la lancia e l'ombra, cerca la fiamma,» ripeté. «Le prime due le abbiamo trovate. E la terza... dai un'occhiata qui dentro!» Quando anche Ombra ebbe sbirciato nel foro, si accigliò per lo stupore. Nell'interno della parete massiccia, ad una distanza imprecisabile, c'era qualcosa che risplendeva debolmente; un fioco baluginare rossastro simile al riflesso di un cristallo misteriosamente sepolto nella solida roccia. «Quella è la fiamma!» L'amazzone dai capelli corvini si rialzò, con un borbottio. «Può anche darsi. Ma una cosa è certa: questa è una delle coincidenze più strane e pri-
ve di senso che mi siano mai capitate. E adesso che cosa stai facendo?» Goccia aveva preso la lancia e l'aveva infilata dalla parte del manico nel piccolo foro. Ve la spinse dentro fino a metà della lunghezza, e poi si fermò con un'esclamazione. «Ebbene, cos'hai sentito?» la interrogò l'altra. «Mi è sembrato di toccare un ostacolo, ma adesso non lo avverto più. Ho spostato un oggetto, all'altra estremità del buco.» La ragazza non aveva ancora finito la frase che sul levigato tratto roccioso davanti a lei ci fu un movimento; a terra piovve il pulviscolo, e comparve una fessura a forma di rettangolo. Un attimo più tardi la lancia le fu strappata dalle mani, perchè una sezione intera della parete si rovesciò all'interno con un tonfo, e davanti agli occhi sbalorditi delle due amazzoni si aprì un ingresso buio e stretto, di origine chiaramente artificiale. Per la sorpresa, entrambe fecero un salto indietro. «Dio degli Dei! Una porta!» esclamò Goccia di Fiamma. «Il meccanismo nascosto che ho spostato l'ha fatta spalancare. Ed è collegata all'iscrizione del tempio: qualcuno ci ha mandate qui, Ombra. Qualcuno che sapeva che tu avresti perduto la tua lancia proprio qui!» «Tu vaneggi o credi nelle favole!» ringhiò quasi la compagna, zittendola con un gesto irritato. Ma quando guardò nell'oscurità oltre la cornice di pietra fu percorsa da un brivido. L'ingresso era esiguo, tuttavia permetteva di accedere ad una caverna naturale che si prospettava molto ampia, ed in essa era soffusa una lievissima luce rossa che sembrava originata da una lampada lontana. «Forse è una tomba, o un tempietto nascosto,» mormorò Goccia dietro di lei. «Entriamo a vedere?» Ombra di Lancia calpestò il terriccio che col trascorrere del tempo s'era accumulato al di fuori, e poi si chinò per passare sopra la lastra di pietra caduta all'interno. Il manico di legno della sua arma s'era spezzato: lo tolse dal foro e avanzò nel silenzio della grotta. Alle sue spalle Goccia le disse di aspettare un momento, il tempo di abituare gli occhi al lucore debolissimo che nasceva da qualche parte dietro le masse scure delle stalattiti, e lei annuì. «Questo posto è molto antico. Senti che odore di chiuso ha l'aria,» disse. Dopo un poco, quando la loro vista si fu adattata alla semioscurità, si mossero sul fondo terroso della grotta. Le pareti sembravano scabre, ed il solo tratto che mostrava d'essere stato lavorato da mani umane era quello attorno all'ingresso, dove la roccia era liscia e qualcuno aveva costruito un
semplice sistema a contrappesi per fungere da serratura. Quando le due ragazze girarono intorno alla base di una voluminosa stalagmite calcarea, poterono però vedere che alla loro destra c'era un massiccio sarcofago di marmo. Dietro quel pesante parallelepipedo era stata eretta una statua, che infiltrazioni d'acqua dall'alto avevano rovinata e consumata fino a toglierle quasi ogni parvenza umana. L'unica parte intatta di essa era il braccio destro, che stava teso orizzontalmente in avanti, ed appesa sul palmo di quella mano marmorea c'era una straordinaria cintura di borchie d'oro ingemmato, che la statua sembrava porgere per l'eternità a chi avesse visitato quel sepolcro. Le due ragazze ansimarono per la meraviglia: il diadema era lavorato splendidamente, e la luminosità che permeava il locale era originata dalle pietre rosse incastonate in esso, che baluginavano come se nel loro interno fosse contenuto un misterioso fuoco stregato. «La Cintura di Merope! Oh, Dea! Ricordi la favola, Goccia? Questa è la leggendaria Cintura di Merope, la Regina del vecchio popolo!» esclamò Ombra di Lancia. «E quella è la sua tomba,» disse la compagna, con un fil di voce. «Forse la statua rappresentava lei.» «È certamente così.» Ombra si avvicinò, fissando incantata l'oggetto deposto sul palmo di quell'effigie corrosa e antichissima. «La Cintura... quella che il mitico Arracle tentò invano di rubare perchè aveva in sé un incantesimo che la faceva tornare ogni volta dalla sua proprietaria. Ed a rubarla ci provarono i Titani, gli Orchi, gli Gnomi e gli stessi Dei, oltre ad Arracle; ma sempre essi la persero, grazie all'incantesimo che la riportava ancora attorno alla vita di Merope. Ed è questa, ci scommetterei gli occhi. Noi l'abbiamo trovata!» «Ma per quale motivo l'iscrizione ci ha guidate qui? E quale mistero è racchiuso in questa caverna?» Goccia di Fiamma scosse il capo, incapace di comprendere. La ragazza si accostò alla statua, ammirando muta il monile, e alzò una mano per sfiorarlo. All'istante la ritrasse perchè, come se il tocco delle sue dita l'avesse svegliata da una sua misteriosa vita, la cintura s'era sollevata leggermente dalla mano di marmo, ed il rosso lucore delle sue pietre s'era intensificato di colpo. Subito dopo prese a ruotare in circolo attorno al polso della statua, magicamente sospesa nella sua luce di rubino, e girando sempre più velocemente su se stessa da destra a sinistra, fino ad assumere l'aspetto di una straordinaria ruota luminosa.
Goccia di Fiamma aveva il fiato mozzo. Dopo qualche momento s'accorse che l'incredibile diadema ruotante sembrava palpitare, generando un effetto ipnotico che le confuse la vista e la stordì, e cercò di distoglierne lo sguardo; ma non ne fu capace. Si portò una mano al petto, come per placare i battiti del suo cuore che s'erano accelerati violentemente, e le forze le mancarono di colpo. «Ombra!...» gemette. «Cosa sta succedendo? Mi sento male!» Le rispose soltanto un grido di spavento, perchè il soffitto e le pareti della caverna avevano preso a contorcersi in modo allucinante, e qualcosa stridette lacerando l'aria e stracciando la roccia in immagini che vibrarono tutto intorno. Ci fu un lampo accecante, un tuono secco, e le due ragazze vennero scaraventate al suolo prive di sensi. Quando Goccia di Fiamma trovò la forza di riaprire gli occhi, l'incomprensibile e terrorizzante effetto magico era cessato del tutto, ed ella scoprì d'essere ancor viva e sana come se mente fosse accaduto. Il buio che la circondava non era totale, perchè dall'ingresso della caverna filtrava la luce esterna, ma non c'era più alcuna traccia del sarcofago marmoreo, né della statua, ed anche la cintura dalle rosse gemme incantate era scomparsa. Accanto a lei, Ombra le si aggrappò ad un braccio e si tirò su a sedere, con un mugolio di dolore. «Come ti senti?» le domandò. «Bene, ma...» Ombra sbirciò nell'oscurità. «Ma cosa accidenti è successo? E dov'è finita la tomba di Merope? Non la vedo più!» «Che mi colga un male se ne capisco qualcosa!» disse Goccia di Fiamma con voce rauca. «Si direbbe che questa grotta è la stessa di prima, però è cambiata. Forse siamo state svenute molto tempo, e... Oh, no, non è possibile! Io sto sognando, o sono impazzita!» Le due amazzoni s'alzarono, e s'affrettarono ad uscire. Videro subito che l'ingresso della caverna era rozzo e non recava alcuna traccia di lavorazione, e quando l'ebbero oltrepassato esaminarono stupefatte il burroncello in cui si trovavano. Nelle sue linee generali il luogo era immutato, ma dove fino a poco tempo addietro c'erano state pareti lisce e scavate dai picconi, adesso la roccia era scabra e irregolare, quasi che l'opera di quegli scalpellini del passato fosse stata cancellata da un irritato Dio della Natura, o non fosse mai avvenuta. Anche i cespugli erano assai diversi e meno folti, e il terreno sotto gli stivaletti delle due ragazze si presentava asciutto, secco, non più molle di pioggia come lo avevano trovato arrivando lì. «La cintura e la tomba sono scomparse,» constatò Goccia con voce asso-
lutamente inespressiva. «Forse anche noi siamo scomparse dal mondo reale, e ci troviamo ora nei Giardini della Dea. Qualcosa ci è franato addosso e ci ha uccise.» «Nossignora. Io non sono morta,» la contraddisse la compagna, afferrandola energicamente per le spalle. «E neppure tu. È accaduto un fatto incomprensibile, e forse è vero che in quella Cintura c'è all'opera una forza magica, superiore alla comprensione umana. Io non ho mai creduto alla magia, lo sai. Ma... osserva il sole: poco fa era quasi al mezzodì, e adesso si direbbe che sia tornato indietro di cinque o sei clessidre!» «Le vie del tempo...» mormorò Goccia. «Credi che la Cintura sia tornata nel lontano passato, dalla Regina Merope, così come dice la favola? Se così fosse, io dico che quelle pietre rosse ci hanno trascinato assieme a loro per un bel pezzo di strada. L'incantesimo ha funzionato anche su di noi!» «Usciamo da questo buco!» esclamò Ombra con decisione. «Voglio dare uno sguardo attorno.» Una volta tornate sul versante cespuglioso dell'ai tura, si accorsero che il cavallo non c'era; ma l'assenza dell'animale non occupò che in minima parte la loro attenzione, perchè nello stesso momento erano rimaste colpite dagli eccezionali ed inspiegabili mutamenti che l'intera vallata sembrava aver subito: il Lago Van era due volte più esteso di come lo ricordavano, e sulla sponda destra un nudo terreno erboso si stendeva al posto della bianca città di Mohenjdar. Tutto intorno allo specchio d'acqua vasto e limpido la natura era verdeggiante e selvaggia, intatta come se mai prima di allora vi si fossero posati piedi umani. «Sparita! Mohenjdar non esiste più!» sussurrò Goccia, incredula. La bruna aveva le palpebre socchiuse e l'espressione attenta, ed annuì. «Non esiste ancora, vorrai dire. Questo è il termine esatto: non ancora. O forse non hai capito quello che è accaduto?» La ragazza dalle chiome fulve rabbrividì, pallida in viso. «Il passato, sì. Un passato nel quale la città è ancora lontana dall'essere fondata. La Cintura ci ha giocato uno scherzo maledetto, Ombra. Siamo peggio che morte, se la magia è stata questa!» La compagna si limitò a fissarla, poi le passò un braccio attorno alle spalle e la strinse a sé. «Forse è così, Non lo so,» disse. «Ma siamo ancora insieme. Qualunque sia il nostro destino da ora in poi, è questo ciò che conta, cara.» Per un poco le due amazzoni rimasero a fissare il panorama del Lago Van. Sulla destra, oltre il breve tratto di pianura dove un giorno sarebbe
sorta la città delle seguaci di Merope, le Montagne della Disperazione erano esattamente uguali a come le ricordavano, bianche di neve sulla cima e dirupate. Il cielo era limpidissimo, di un azzurro tenue e senza una nube. «Fa freddo,» disse Goccia di Fiamma. «Quando siamo giunte qui era estate, ma adesso sembra ancora inverno. Cosa possiamo fare?» Ombra le accarezzò distrattamente il collo, mordendosi le labbra; i suoi occhi erano fissi sul panorama. «Si direbbe l'inizio della primavera, a giudicare dalla vegetazione. L'erba è chiara e tenera. Una primavera di settecento anni fa o forse più, se le cronache della Grande Migrazione sono esatte.» «Allora non rimane che andarcene da qui.» La compagna accennò di sì. Poi il suo sguardo si fece attento: più o meno nel luogo in cui avrebbe dovuto esserci Mohenjdar si scorgevano degli impercettibili movimenti, sul terreno ondulato e fra i cespugli. «Guarda laggiù, Goccia! Si direbbe che ci sia una tribù di cacciatori o di pastori nomadi. Tangri disse che ve n'erano alcuni a est del lago, nei tempi immediatamente successivi alla fondazione della sua città; quelli con cui in seguito le esploratrici di Merope si misero in contatto.» «Li vedo,» confermò lei. «Questa è una fortuna per noi! Se non sono gente ostile potrebbero darci dei viveri, e forse hanno dei cavalli. Che ne pensi? Li raggiungiamo?» Ombra di Lancia disse che non potevano far altro, e le due ragazze si avviarono a piedi lungo il terreno in discesa. L'attività fisica le rinfrancò e diede loro l'impressione di essere solide e vive malgrado lo sconfortante senso di vuoto che avevano provato e che ancora le faceva a tratti ansimare con aria stordita. Giunte sulla pianura si diressero a destra, nello spazio fra gli acquitrini e le pendici delle montagne, e camminarono di buon passo per le cinque o sei leghe che le separavano dal gruppo di esseri umani. Non passò molto che si accorsero di vedere delle tende, riccamente adornate, e notarono che quella gente stava giusto allora montando un accampamento fra i cespugli non distante dalla riva del lago. Dovevano essere in molti, e ciò che sorprese le due compagne fu il vederne arrivare altri, di lontano. «Sono parecchie migliaia!» esclamò Goccia. «E devono essere appena giunti attraverso un valico fra le montagne. Vengono a piedi, a gruppi, e i primi stanno alzando le tende. Ma non hanno animali con sé. Sono pastori.» Ombra rimase zitta e accelerò il passo. Poco dopo, però, si fermò con u-
n'esclamazione: «Goccia! Sono donne... sono tutte donne!» A circa duecento passi davanti a loro, tra gli arbusti, ve n'era un gruppetto. Quasi tutte stavano sedute o sdraiate in terra, e due di esse avevano indosso mantelli azzurri la cui vista paralizzò le due amazzoni. «Sacerdotesse della Dea!» si sbalordì Goccia. «Ma allora queste sono... Oh, cielo che stai sopra di me! Sono le donne del vecchio popolo, quelle guidate dalla Regina Merope, e la Cintura Magica ci ha portate nel passato giusto al momento del loro arrivo in questa valle!» Ombra la trattenne per un braccio. Appariva stordita come quando aveva ripreso i sensi nella caverna. «Aspetta!» sussurrò. Una ragazza coperta da un mantello di seta ricamata si era separata dalle altre, e stava adesso muovendosi verso la riva del lago a passi lenti. Sembrava sfinita, o malata, e a tratti barcollava leggermente come se le gambe la reggessero a stento. Quando fu a poca distanza dall'acqua si guardò attorno, si coprì il volto con le mani e cadde in ginocchio di colpo. Poi si piegò a baciare la terra, ed i lisci capelli biondi le nascosero i lineamenti, ma Goccia di Fiamma ed Ombra di Lancia avevano già visto quanto bastava per farle trasalire. «È Tangri!» gridò Goccia. «Dea! che visione è mai questa? È Tangri, è lei!» «Non è possibile. No, non è lei, ti sbagli,» ansimò Ombra. «È identica, ma non è altrettanto giovane. Guardala meglio: potrebbe essere sua madre; non ha certo meno di quaranta anni!» La sconosciuta dal ricco mantello le aveva udite, e s'era subito voltata nella loro direzione con un gesto di spavento. Quando si rialzò fece due o tre passi indietro, così evidentemente intimorita alla loro vista, che inciampò goffamente. Goccia di Fiamma s'era già mossa verso di lei, ed Ombra la seguì in fretta, eccitata. «È vero,» disse la rossa con voce tremante. «Assomiglia a Tangri come una goccia d'acqua, però è più anziana.» Non fu capace di parlare ancora, tanto era emozionata. Allorché lei ed Ombra furono a pochi passi dalla bionda sconosciuta si arrestarono, comprendendo che il loro aspetto la allarmava. Aveva gli occhi spalancati dal timore e dalla sorpresa, ed era pallida, stanca. «Non aver paura. Non abbiamo intenzioni ostili,» si affrettò a rassicurarla Goccia, e di nuovo la guardò da capo a piedi sconcertata dalla sua straordinaria somiglianza con Tangri. «Vogliamo esservi amiche.» «Oh... tu parli la nostra lingua, straniera? Chi siete, e che terra è mai
questa? Forse vi appartiene? Se è così, sappiate che noi vi giungiamo come pellegrine, e vi domandiamo ospitalità,» disse la donna, in tono emozionato. «Siamo...» Goccia stava per dirlo, quando una gomitata della compagna la fece rinunciare all'idea. Fece un sorriso che le venne fuori simile a una smorfia. «No, non abitiamo qui. Questa terra è vostra, tranquillizzati. Voi l'avete scoperta, e voi siete destinate a vivere qui in pace.» «In pace!» esclamò lei. «Eppure voi avete l'aspetto di guerriere, e siete armate di spada. Dici davvero? Noi siamo esuli indifese, e molte di noi non hanno neppure la forza di muovere un passo, dopo il terribile viaggio che ci ha portate qui. Non chiediamo altro che di vivere in pace in qualche luogo.» Ombra le si accostò. «Ti assicuro che vi siamo amiche. E se mi conduci dalla vostra Regina le spiegherò chi siamo e come siamo giunte qui. Questo è il Lago Van, e non appartiene a nessuno. Avete raggiunto la vostra meta, e non credo che dovrete più temere per il futuro.» La donna la fissò a bocca aperta, e quando ritrovò la voce mormorò: «Se è così come dici, io ti ringrazio, o guerriera. La Regina delle donne che tu vedi sono io. Il mio nome è Merope, e noi tutte veniamo dal lontano oriente, dove guerre e catastrofi hanno distrutto le nostre città costringendoci a migrare altrove.» «Non l'avevi capito?» disse Goccia alla compagna. «Merope non poteva essere altri che lei, col suo aspetto. E scommetto che sotto al suo mantello ha la Cintura fatata. Noi sappiamo tutto di le, Merope. e non c'è bisogno che tu tema di nulla da ora in poi. Vieni, sediamoci e parliamo. Più tardi le Sacerdotesse terranno certo una funzione religiosa, e allora credo che anche tu parlerai al popolo. Ma prima è meglio far quattro chiacchiere, già che siamo qui.» Merope non si mosse. S'era portata una mano alla bocca in gesto di grande meraviglia. «Siete due inviate della Dea, ora ne sono certa! Oh, che prodigio... È stata Lei a mandarvi a noi, è così? Sia Ella benedetta per la Sua bontà. Desiderate la Cintura Sacra? È per riaverla che la Dea vi ha inviate, ora che siamo giunte nel luogo da Lei destinatoci?» «Non precisamente.» Goccia fu costretta a ridacchiare, colpita dall'aspetto strano della situazione non meno che dal mistero di cui si sentiva vittima. L'eloquio ed i modi di Merope erano tanto simili a quelli di Tangri che aveva voglia di abbracciarla, e si sentiva ora più a suo agio. «Non guardarci a questo modo, Regina. Noi siamo di carne ed ossa quanto te.»
«E se qualcuno ha fatto sì che giungessimo qui,» continuò Ombra di Lancia. «Ho il sospetto che quella sia proprio tu, grazie alla Cintura Magica.» La donna dai capelli biondi ebbe un'espressione stranita, poi si aprì il mantello e abbassò gli occhi sul diadema. Come Goccia aveva quasi presentito, lo portava addosso, e la vista delle gemme nel cui cuore vivevano rossi bagliori fece trasalire un attimo le due amazzoni. «Io... io non capisco bene ciò che dite,» mormorò Merope. «Ma crederò alle vostre parole. Siete alte e forti, e nobili d'aspetto, e la vostra comparsa è di certo un avvenimento divino e benigno.» Si interruppe, sentendo voci concitate provenire da poca distanza: molte altre donne s'erano accorte della presenza di due straniere e stavano gridando in toni stupiti ed allarmati. «Lasciate che io vi prenda le mani, per mostrare alle mie compagne che fra noi vi è amicizia. Al vedervi si sono intimorite. Venite, e sediamoci, così potrete parlarmi in tranquillità e riferirmi il vostro santo messaggio,» disse ancora. Merope si incamminò in mezzo a loro, tenendole per mano, e le condusse verso una delle poche tende che erano state già montate. Sulla soglia si voltò, e rassicurò le compagne con poche parole, esortandole alla calma. Ordinò a un paio di Sacerdotesse di provvedere alle donne che ancora stavano arrivando dalle montagne, e chiamò un'altra di esse. «Questa è Hara, la nostra nuova Sacerdotessa Anziana. L'altra, il cui nome era Rosalence, si separò da noi molti mesi or sono,» la presentò. «Felice di conoscerti, Hara,»sorrise Ombra. «Sono lieta di annunciarti che Rosalence, della quale hai assunto la carica, è giunta salva in un paese lontano; ed il suo nome è stato dato ad una città.» La Regina Merope emise un grido, più stupefatta che mai. «Tu dunque hai notizie dell'altra parte del nostro popolo? Non sono esse morte nei deserti di Afra che volevano attraversare? Oh, ti prego... dimmi cos'è accaduto loro!» Le due ragazze si scambiarono un'occhiata, poi Ombra si schiarì la voce. «Vedo che sarà una lunga storia questa che ti dovremo raccontare, Merope. Mettiamoci pure comode, ma chiudi la tenda: nessuno a parte te ed Hara, dovrà udire le nostre parole. Credo che sarà meglio a questo modo.» Come Ombra aveva intuito, in ciò che stavano per dire e per fare c'era un sapore di controsenso così strano e paradossale da dare le vertigini, poiché non avrebbero potuto fare a meno di rivelare a Merope ed alla Sacer-
dotessa Anziana quello che sarebbe stato il loro futuro. Anche Goccia di Fiamma comprese che era necessario tenere all'oscuro le altre esuli, e ripeté che la loro conversazione avrebbe dovuto restare segreta. La Regina Merope ed Hara annuirono gravemente, e sedute su un tappetino nella bella tenda di pelle ricamata ascoltarono con espressioni attonite e rapite. Ombra di Lancia narrò ciò che era accaduto alla loro metà del vecchio popolo, da quando si erano stabilite nelle attuali Terre Basse fino alla serie di guerre e di contrasti che avevano indotto le amazzoni a mutare moltissimo la loro organizzazione sociale, e ciò la costrinse a parlare per tre clessidre buone. Nell'apprendere che venivano dal tempo futuro, Merope si mostrò molto meno stupita che nel sentirsi rivelare che anch'esse erano amazzoni, e scoppiò in lacrime, abbracciandole e chiamandole sorelle. Quando poi Goccia sostituì la compagna nella narrazione e parlò di Tangri e di ciò che sarebbe divenuta la valle del Lago Van, Hara e la Regina allibirono ancor di più. «Dunque tu dici che dovremo mandare le esploratrici a settentrione, e che esse non troveranno uomini per darci figli e figlie? E che soltanto l'anno dopo altre esploratrici inviate a meridione scopriranno una tribù amica?» «Sì, o Regina. Non chiedermi perchè, ma dovrete condurvi così ed avere fiducia. Tutto dovrà accadere come ti ho raccontato.» «Sì, ti ubbidirò, e ti assicuro che sapremo sopportare ogni traversia con animo sereno,» balbettò lei, annuendo più volte. «I sentieri del tempo sono stati scritti dalla Dea,» asserì Hara, convinta. «E io sento che Ella ci parla per la tua bocca, o sorella che vieni dai giorni del divenire.» «La costruzione del Tempio Grande sarà iniziata appena troveremo le cave di marmo,» promise Merope. «Poiché tu hai detto che gran parte della città e tutte le mura saranno fatte col marmo. Ma questa mia lontana discendente, la giovanetta di nome Tangri...» «Be', questa è la seconda parte della storia,» la interruppe Ombra. «E ci conduce al modo, per me ancora incomprensibile, in cui siamo arrivate fino a voi.» Non fu facile spiegare alle due donne gli avvenimenti in modo ad esse comprensibile. Per Goccia di Fiamma ed Ombra, Mohenjdar era una cosa solida, una città il cui selciato avevano calpestato, una tragedia che avevano vissuto; mentre per Merope ed Hara erano immagini di sogno, una fantasia che esse credevano ciecamente vera ma non potevano vedere né figu-
rarsi. Venne portato il pasto, molto misero, di cui Merope si scusò mormorando che i loro viveri erano ridotti a zero. Poi le due amazzoni raccontarono nei più minuti particolari il loro arrivo sul lago, la visita alla città saccheggiata, il ritrovamento della tomba e il misterioso avvenimento magico che le aveva proiettate nel passato. Le domande della Regina e della Sacerdotessa furono numerosissime, e trascorse metà del pomeriggio senza che le spiegazioni e la narrazione avessero un momento di pausa. La conquista di Mohenjdar e la strage compiuta dai Sumerici fecero comparire lacrime negli occhi delle due donne, malgrado avessero ben compreso che quei fatti si sarebbero verificati a secoli di distanza nel futuro, ma erano eccitate, e Merope aveva ripreso colore sulle guance e sembrava più vitale di quando le due compagne l'avevano vista baciare la terra in riva al lago. Si mise a ridere, nell'apprendere ciò che nei tempi a venire si sarebbe favoleggiato intorno alla sua cintura. «Né Titani, né Orchi, né questo Arracle che voi dite, hanno mai tentato di rubarmela. Ma la leggenda è vera, credetemi, per ciò che riguarda il suo potere divino. Essa torna nelle mie mani ogni volta che me ne separo per più di pochi giorni, ed è sempre stata la Cintura delle Regine della nostra gente, fin dai tempi più remoti. Allorché mia madre morì divenne mia, e solo una mia statua potrebbe tenerla sulla mano, poiché la statua sarebbe come una seconda me stessa. Così non esito a credere che sia a questo modo che l'avete trovata.» «Un momento!» esclamò Goccia. «Dopo che noi venimmo gettate nel fiume del tempo, la Cintura dove andò? Quella che tu tieni attorno alla vita non può essere la stessa, perchè se fosse tornata nel passato con noi ora tu ne avresti due, una delle quali sarebbe un simulacro proveniente dal futuro! È vero o no, Ombra?» Fu Merope a risponderle: «Ciò che dici è giusto, Goccia. Ma di certo la Cintura non è venuta indietro nel tempo. Una volta tolta dalla mano della mia statua, può essere andata solo in un altro posto.» «E dove?» «Ebbene, dalla sua legittima proprietaria: da colei che è eletta Regina della mia gente. Se la Dea vorrà che voi ritroviate la strada del futuro, sono certa che rivedrete il monile addosso alla mia lontana discendente. Con sua sorpresa, ella l'avrà vista comparire nelle sue mani, e le apparterrà fino alla morte. È stato grazie al tuo tocco, cara Goccia di Fiamma, che le gemme fatate lasciarono la mano della mia effigie per trovarne un'altra in cui andare a deporsi. Ed in quella mano saranno racchiuse secondo il volere di chi le donò alla prima Regina delle Amazzoni, cento e cento generazioni or
sono.» Ombra era rimasta a guardarla con aria sciocca. «Ma... perchè dici che potremmo tornare nel nostro tempo? Forse credi che una cosa simile accadrà davvero?» «Spiegati meglio, Merope!» esclamò la rossa. «Stai dicendo che la Cintura ha il potere di far questo, forse?» «Io credo di sì. Hara, tu che sai questa storia nei particolari, che puoi dire sull'incantesimo divino di queste gemme?» domandò Merope all'altra. «Cosa so dirti, Regina?» La Sacerdotessa Anziana corrugò le sopracciglia, e dopo aver riflettuto brevemente mormorò: «Ebbene, vi è una cosa sconcertante, innanzitutto. La leggenda narra che la Cintura avrebbe avuto la funzione di vegliare sulla città di Mohenjdar, e nessuno ha mai capito il significato di ciò, perchè come tu ben sai Mohenjdar è una vallata ampia presso il fiume Iljnd, non una città. Solo ora, sapendo che noi fonderemo un centro abitato cinto da mura e che lo battezzeremo con questo nome, la storia assume un senso straordinario e meraviglioso. Sarà su questa città che l'incantesimo della Cintura gemmata avrà potere di protezione. Quanto è accaduto conferma che le nostre sorelle Goccia di Fiamma e Ombra di Lancia sono tornate a noi per merito dell'incantesimo.» «Ma a questo modo, si deve intendere che il loro salto attraverso i secoli salverà in qualche modo la città e le vite delle nostre discendenti,» osservò sconcertata Merope. «Tutto ciò che è collegato alla Cintura serve e servirà a questo scopo,» ripeté la Sacerdotessa Anziana. «Né tu né io ne conosciamo i suoi poteri reali a fondo. Ma ora sono certa che essa agisce per vie strane più di quanto credessimo. E non vi è dubbio che se l'incantesimo contenuto nelle pietre preziose ha condotto le nostre due sorelle oltre le barriere del tempo, questo era necessario ad uno scopo. O era premessa necessaria al suo avversario. Qualora sia scritto che lo stesso potere le riporterà al futuro... ebbene, anche tale avvenimento potrà verificarsi. Io non so dirti altro.» Goccia si girò a guardare la compagna, e si grattò pensosamente una tempia. Mentre le due riflettevano su quelle frasi, la Regina Merope si portò le mani alla vita e sganciò la borchia frontale della cintura, togliendosela. «Ecco!» esclamò, nel porgerla alle due amazzoni. «Prendetela e fatene ciò che volete. Io ve la cedo, ed essa compirà quanto è necessario per ricondurvi tra le vostre compagne, se così è scritto nel suo incantesimo.» «Aspetta un momento!» Ombra fermò la mano di Goccia di Fiamma che
già s'era tesa a prendere il monile. «Che la cosa accada oppure no, io non ho ancora chiarito bene la situazione. Voglio riflettere, e intendo capire a fondo come potremmo salvare Mohenjdar. Andarcene prima mi sembra prematuro.» «Sempre che andare nel futuro sia possibile,» sentenziò Hara alzando un dito. «Ma credo che Ombra di Lancia parli bene. Come riuscirete a sventare la sorte futura della città? E inoltre, pensate che il tempo e gli avvenimenti si mostreranno docili, lasciandosi cambiare facilmente? Dietro a tutto questo vi sono misteri e significati che mi restano oscuri, ve lo confesso francamente.» «La Dea provvederà!» disse convinta Merope. «Oh, sorelle!... è stata Lei a farci incontrare, ed io la ringrazio con gioia!» Ombra scostò il bordo della tenda e gettò un'occhiata all'esterno. Vide moltissime donne, assai più di quante ve n'erano quel mattino, e una certa quantità di tende erano state alzate dappertutto, perfino sul bordo del lago. Merope trasalì, ricordando i suoi doveri, e chiese il permesso di assentarsi qualche momento per controllare le condizioni fisiche delle sue compagne. Con ogni evidenza le cose non stavano andando bene, da quel lato, perchè le Sacerdotesse che Ombra vide erano indaffaratissime. Anche Hara pareva volersi distrarre dai suoi pensieri, e riferì succintamente alle due le vicende del viaggio, che era stato più penoso e lungo di quanto aveva raccontato Tangri. La scissione del vecchio popolo era avvenuta nei deserti settentrionali di Akkad, a quanto Goccia ed Ombra capirono, ed era stata causata dai racconti contraddittori di piccole tribù locali, secondo i quali molti popoli erano passati da lì diretti al nord ed altri diretti verso un continente chiamato Afra, ad ovest. Indecise, stremate da mesi di traversie, le amazzoni s'erano divise in due fazioni convinte di trovare terre fertili in direzioni diverse. In precedenza esse avevano vissuto nelle valli di Mohenjdar, migliaia di leghe più ad oriente, ma nel corso di appena dieci anni ben cinque successive ondate migratorie avevano attraversato quella zona, e i popoli che transitavano verso ovest s'erano comportati orrendamente, razziando e sterminando. Una pestilenza, e la notizia dell'avvicinarsi di genti dalla pelle gialla, erano stati i motivi che avevano convinto la Regina Merope a portar via da là il suo popolo, ormai ridotto all'estremo. «Due mesi or sono eravamo circa ventiduemila e seicento,» proseguì la sacerdotessa. «Ma solo in quindicimila siamo arrivate a queste montagne, venti giorni fa. Nell'attraversarle abbiamo camminato giorni e giorni fra la neve, e moltissime di noi sono morte: oltre tremila, temo. Io e altre abbia-
mo dovuto legare Merope con una corda, per salvarla suo malgrado, perchè dieci giorni or sono voleva tornare indietro a prendere quelle di noi che cadevano continuamente moribonde nel gelo. Pianse e ci maledisse, perchè voleva morire con loro, e io temevo che si ammalasse. Solo questa mattina ha trovato la forza di fare qualche passo, perchè ieri era sfinita. È stato terribile. Grazie a voi due ha però trovato nuova linfa vitale, e ora ho fiducia che saprà rimettersi in salute. Merope è molto amata; se dovesse morire non so che ne sarebbe di noi.» Scese la sera che Ombra e Goccia erano ancora in tenda a chiacchierare con Hara, e solo dopo che ebbero avuto carne secca e farina come cena videro tornare la Regina. Ombra le domandò quale fosse la situazione delle scampate, ed ella sorrise, poi le abbracciò entrambe. «Molte hanno ancora i geloni, sebbene le avessimo lasciate a curarsi con impacchi di neve sul versante che abbiamo disceso. E sono tutte stanchissime. Ma io ho parlato con le ammalate, e credo che guariranno presto. Ho potuto mostrarmi loro fiduciosa e serena, ho raccontato storie allegre, ho scherzato e riso con quelle che stavano meglio. E quando ho detto loro il motivo per cui mi sentivo leggera di cuore, amiche mie e sorelle mie, anch'esse hanno ripreso forza. Ho detto che due sante inviate della Dea sono fra noi. Siete state viste, e dovevo spiegare la vostra presenza.» Goccia sorrise e la baciò su una guancia. «Hai mentito indecentemente, allora vergognati!» «No. Ho detto la verità, anche se tu sei una ragazza troppo ridanciana e irriverente per meritare l'incarico che la Dea ti ha affidato!» esclamò lei con vivacità. «Non avrai parlato di ciò che è stato detto qui?» si preoccupò Hara. «Forse, in forma di profezia, potrò rivelare al popolo alcune delle vicende che ci aspettano. Ma è necessario non far sapere altro e tenere il segreto, Merope. Io temo che vi sarebbero gravi conseguenze, altrimenti, ed i sentieri del tempo ne resterebbero stravolti. Comportiamoci come Ombra di Lancia ha suggerito, e fidiamo nella Dea.» «Così sia,» stabilì Merope, sedendosi. «Dunque ora ditemi come io dovrò far costruire la mia tomba, sorelle, perchè un giorno vi sia possibile trovarla. Avete detto che c'è una lapide?» Goccia di Fiamma le diede i particolari necessari, incredula nel rendersi conto solo allora che sia la caverna che la scritta scolpita nel Tempio sarebbero state costruite su sue indicazioni. Dopo un poco la stranezza della cosa la colpì a tal punto che prese a ridacchiare scioccamente, ed Ombra
intervenne per far capire meglio alle altre due il meccanismo del ritrovamento di quel sepolcro. Solo l'allegria della rossa amazzone impedì però a Merope di intristirsi troppo, nel discutere di quell'argomento macabro, e le quattro donne parlarono fino a tardi. Poi si distesero a dormire, rimandando al mattino successivo ogni decisione su ciò che avrebbero dovuto fare. Quando andarono a lavarsi al lago, un paio di clessidre dopo l'alba, le due amazzoni erano però accigliate e silenziose. Ombra di lancia sembrava tanto assorta nelle sue preoccupazioni che anche l'umore di Goccia ne fu guastato. «Sai, c'è qualcosa che non mi piace affatto,» confidò la bruna mentre si rimetteva il casco e riallacciava la spada alla cintura. Emise un sospiro, innervosita, e continuò: «Quanto ci sta accadendo avrà delle conseguenze gravi.» «Intendi che tu ed io dovremo finire i nostri giorni qui o in un'altra terra, condannate a restare per sempre nel passato?» «No, Goccia. Parlo dei riflessi che il nostro arrivo fra queste donne avrà sui tempi futuri. Hara è troppo intelligente; ha capito meglio di noi i risvolti di questo avvenimento, e io temo che le abbiamo dato ormai troppe informazioni.» L'amazzone dai capelli rossi alzò le spalle. «Non so che dirti. Credi che abbia dei progetti di cui non ci ha parlato?» «Hara si rende conto che i sentieri del tempo hanno già subito una mutazione, per il semplice fatto che noi siamo qui. Sfrutterà le notizie che le abbiamo dato. Guardati attorno: ci sono migliaia di donne ridotte all'estremo, che hanno davanti a sé una dura lotta per la sopravvivenza. Sono senza cibo, e prima che arino i campi per avere un raccolto se la vedranno brutta. Inoltre dovranno pensare alla loro sicurezza, ai loro interessi.» Ombra di Lancia scosse il capo, fissando la tenda in cui Merope dormiva ancora. «Prendi ad esempio il fatto delle esploratrici spedite a settentrione per cercare uomini: credi davvero che vi si adegueranno, ora che abbiamo rivelato loro i risultati di quella ricerca? O il timore di estinguersi non le costringerà invece a mandare le esploratrici subito a sud-est? Non mi piace, ti dico.» Le due ragazze fecero qualche passo sulla riva, mentre l'accampamento cominciava a destarsi e molte donne uscivano dalle tende per mettersi al lavoro. In vari posti furono accesi dei fuochi, un paio di Sacerdotesse comparvero trascinando un mastello di legno e andarono a riempirlo d'acqua, salutando le amazzoni amichevolmente.
«Merope è degna di fiducia,» proseguì Ombra. «E in un certo senso anche Hara, ma quest'ultima non terrà a freno la voglia di far qualcosa per migliorare le loro possibilità di vita. Spero solo che quanto ho progettato riesca ad accontentarla, e forse così desisterà dall'assumersi progetti e iniziative che contrastino la logica degli avvenimenti futuri. Poco più tardi, Ombra di Lancia decise di spiegare subito a Merope e alla Sacerdotessa Anziana il modo in cui si proponeva di salvare Mohenjdar dalle Teste Nere. Seduta nella tenda, tracciò una mappa del Lago Van su un pezzo di tessuto, con un gesso, e vi disegnò l'ubicazione di quella che sarebbe stata la città, del campo sumerico e della tomba nascosta fra le rocce. «Qui c'è il grande portale d'ingresso,» disse. «Ed a parte una o due porticine secondarie è l'unico accesso alla città. A quanto ho visto era di solidissimo legno, ma ha ceduto, perchè i Sumerici si sono serviti di un enorme ariete fatto venire da qualche centinaio di leghe di distanza. Senza questa loro macchina bellica, Mohenjdar non sarebbe caduta e noi saremmo giunte a tempo per scacciare il corpo di spedizione avversario.» «Il problema si accentra dunque su tale avvenimento,» commentò Hara. «Credo di aver capito che tu conti di far fallire l'attacco degli uomini, predisponendo fin da ora gli eventi in modo opportuno.» «Infatti,» affermò l'amazzone. «Lo sfondamento del portale non dovrà avvenire, o dovrà essere ritardato di molto. A questo scopo, è già stabilito, fino al momento in cui verrà portato l'attacco. Perciò adesso voi, o chi altri si occuperà al vostro posto della costruzione delle mura, introdurrete una variante, destinata a render vana la mossa delle Teste Nere.» «Tutto ciò mi sconcerta, sorella Ombra di Lancia,» mormorò Merope, fissandola con aria confusa. «Lasciala parlare, Regina,» la interruppe Hara. «Quale sarà il modo in cui tu muterai la storia ed eviterai quella tragedia?» «Semplicemente con una seconda porta di sbarramento posta dietro la prima,» stabilì la bruna. «Una porta interamente fusa nel bronzo, pesante e munita di rinforzi posteriori tali che nessuna forza umana la possa scardinare. Questa sarà la sorpresa che fermerà i Sumerici, e che renderà possibile al mio piccolo esercito di giungere sulla scena a tempo per agire. Avete secoli di tempo per prepararla, ma dovrete curare in ogni modo che questa difesa sia messa in atto. Capite?» «Io farò ciò che tu dici, perchè la Dea parla attraverso la tua bocca,» esclamò Merope con convinzione.
Ombra fissò Hara, e la Sacerdotessa annuì, dichiarandosi d'accordo. Poi fu Merope a parlare: «Ci attendono giorni assai duri e difficili, sorelle. Qui in riva al lago noi siamo giunte solo con pochi utensili e scarse sementi, e sebbene la terra sia meravigliosamente fertile e adatta all'aratro dovremo campare con bacche e radici, e pesci, prima che vi sia un raccolto. Ma sopporteremo ogni stento a cuor sereno, e sapremo lavorare con tenacia e volontà, fidando nei voleri della Dea. Mohenjdar sarà la città che fonderemo nel Suo Nome, e non ho dubbi che voi siate venute in un tempo che non è il vostro per portare nelle mani la nostra futura salvezza. Ma se è stata la Dea ad inviarvi fra noi, ora è giunto il momento di vedere se Lei vorrà concedervi di tornare indietro.» Goccia di Fiamma fece un sorriso, ma all'idea si sentì percorrere da un brivido. «Pensi che l'incantesimo della tua Cintura ci sarà favorevole?» Merope si alzò in piedi, sganciò il monile che portava alla vita e poi rinchiuse la fibbia. Dalla sua mano la Cintura pendette scintillando di rosso rubino, quando la protese verso le due amazzoni in un gesto che ricordò loro l'atteggiamento della statua nella tomba. La sua voce suonò ferma e cristallina: «Nessuno ha mai saputo quale sia l'origine delle gemme dal cuore di fiamma, o care sorelle, ma la leggenda narra che esse vennero donate in tempi remoti alla prima Regina di noi amazzoni, quando ancora le terre a settentrione del fiume Hjnd erano di ghiaccio e nelle vallate di Mohenjdar non c'erano città di pietra operose e civili. Secondo la favola accadde che un inviato celeste scese dai muri di stelle del firmamento su una nave fatata, dopo avere a lungo navigato sperduto fra le costellazioni, ed egli incontrò Dejanira e se ne innamorò. Ma quella mia lontana antenata non poteva per legge unirsi in matrimonio con un uomo, e con suo gran dolore l'inviato divino dovette ripartire nei cieli immensi. Prima di lasciarla, però, egli donò a Dejanira questa Cintura in pegno del suo amore, dopo avervi incastonate tante pietre quanti baci elle gli aveva dato, e le promise che nessuno avrebbe mai saputo privarla di quel pegno, perchè l'incanto delle gemme le avrebbe rese inseparabili da lei e da chi fosse disceso dalla sua stirpe. Io non so se ciò sia veramente accaduto, ma i secoli sono trascorsi e il potere della Cintura non è mai venuto meno, perciò ora tu toccala con la mano, cara Goccia di Fiamma. Sfiorala, abbi fede, e saprai cosa le gemme decideranno di fare.» L'amazzone non si mosse. «Cosa accadrà? Già una volta l'ho toccata, e ti dico francamente che ho avuto una paura maledetta, Merope.»
La Regina le sorrise. «Suvvia, provala, qualunque cosa accada sappi che il mio affetto per te ti seguirà, in ogni tempo ed in ogni luogo. Non aver timore; già una volta il potere delle gemme si è dimostrato benigno, anche se oscuro e incomprensibile per gli esseri umani. «Faccio io!» decise bruscamente Ombra, e allungò una mano a toccare il monile. Merope diede in un'esclamazione di sorpresa, perchè la cintura s'era mossa perfino prima che l'amazzone arrivasse a sfiorarla, sollevandosi leggermente dal suo palmo. Goccia di Fiamma la vide cominciare subito a girare su se stessa, e malgrado il batticuore s'accorse che mentre la volta precedente essa ruotava da destra a sinistra adesso lo faceva in direzione opposta. Il movimento la ipnotizzò quasi, tanto i suoi occhi sembravano attratti da quella sfolgorante ruota di luce rossa, e non fu capace di far altro che fissare il turbinio delle magiche gemme. Dietro di esse la figura di Merope e quella di Hara si trasformarono in chiazze indistinte, si confusero, parvero svanire in un alone purpureo. «Regina, ricordati: il portale di bronzo!» sentì Ombra gridare. Poi i suoi sensi furono sommersi da un lampo di luce ultraterrena, un'esplosione le martellò nel cranio facendola gemere, e cadde a terra. Pochi momenti più tardi si rese conto che nulla restava più di Merope, della Sacerdotessa Anziana e del campo di tende: la forza sconosciuta le aveva scaraventate via senza alcuna gentilezza, e le amazzoni del vecchio popolo erano tornate ad essere sogno e leggenda, una favola che Goccia di Fiamma aveva sognato di vivere. Stordita si guardò attorno, e comprese che la sua avventura con la remota antenata di Tangri faceva adesso parte del passato. Un passato nuovamente tornato al suo posto, sette secoli addietro. «Lo sapevo!» esclamò la compagna, seduta a terra al suo fianco. «Guarda laggiù, Goccia! Maledizione... lo sentivo che qualcosa sarebbe andato storto, come se ci fossimo baloccate con forze più grandi di noi!» CAPITOLO QUINDICESIMO Le due amazzoni si trovavano all'apparenza in un luogo che era lo stesso nel quale era sorta la tenda della Regina Merope, almeno rispetto alle montagne che circondavano la vallata, e a giudicare dalla posizione del sole era da poco trascorso il mezzodì. Tuttavia il Lago Van aveva ripreso le sue dimensioni ridotte, e la riva distava da loro circa tre leghe. A destra ed a sinistra c'erano vaste estensioni di campi coltivati, nei quali le messi di
grano dorato venivano mietute ad opera di centinaia e centinaia di contadini di due sessi, pacificamente al lavoro in quella che era senza ombra di dubbio una tranquilla e soleggiata giornata estiva. Il posto in cui Goccia ed Ombra erano comparse era appunto un grande campo, costellato da covoni affastellati in più punti, e nei pressi correva una strada di terra battuta. Sul lato meridionale del lago non c'era traccia di accampamenti sumerici, ed anzi il terreno era tenuto ad orti verdi di file e file di verdure. Ma il particolare che aveva sconvolto Ombra di Lancia fin dal primo istante riguardava la città di Mohenjdar. Lungi dall'essere assediata o in stato di guerra, aveva tutto l'aspetto di uno splendido centro abitato al vertice della sua pacifica evoluzione, ed era assai più estesa e turrita di quanto la ricordavano. Le bianche mura inespugnabili non avevano mutato di altezza, però erano più lunghe di quasi una lega, e la loro sommità invece che stendersi liscia era guarnita da una cornice di merli simili a denti triangolati. C'era un numero almeno doppio di turni di guardia, e al di là di essi si scorgeva un grandioso edificio di candido marmo. «Le porte!...» rantolò quasi Goccia di Fiamma. «Ce ne sono tre! E fuori di esse... per il Ventre della Dea, uomini e donne armati di lancia! Sentinelle con un'armatura mai vista! Cosa accidenti significa tutto questo, Ombra? Tre portali d'ingresso... niente Sumerici, né incendi e devastazioni. È forse un miraggio?» Prima di rispondere Ombra girò gli occhi sul lago, al di là della riva opposta e sulle colline massicce a sud; poi studiò di nuovo l'aspetto inatteso e stupefacente che aveva preso la città. «Mohenjdar non è più la stessa,» constatò, quasi che avesse bisogno di esprimere a parole l'accaduto per convincersene meglio. «E qualunque cosa sia successa tu ed io ne siamo responsabili. Osserva la riva orientale: la città di Tula non esiste, e a settentrione vedo invece un porticciolo pieno di barche da pesca.» «Oh, no!» balbettò la compagna. «È più facile che tu ed io siamo impazzite, invece! Questo si, che posso crederlo!» «A me pare piuttosto che le cose siano andate come avevo sospettato. Portando alla Regina Merope notizie dei tempi a venire, l'abbiamo indotta a comportarsi diversamente. Il futuro della città è cambiato del tutto, e ti dirò che secondo ogni logica non c'era da aspettarsi altro. Dapprima avevo temuto che quella di modificare la storia già accaduta fosse una pia speranza, ma ora... ora possiamo vedere che l'abbiamo addirittura stravolta.» Disse la bruna con aria cupa.
«Ma i Sumerici, dove sono? Credi che non siamo arrivate agli stessi giorni dai quali l'incantesimo della Cintura ci aveva portate via? Se è così, il nostro corpo di spedizione...» «Siamo state viste,» la zittì Ombra. «Vieni, andiamo sulla strada. Ho idea che fra poco dovremo rispondere a non poche domande. In quanto al corpo di spedizione e alle Teste Nere di Sumer, non mi chiedere nulla perché ho le idee ancora confuse. Ma qualcosa mi dice che questo è esattamente il giorno a cui dovevamo fare ritorno, o quello successivo al nostro primo viaggio nella vallata, visto che abbiamo trascorso poi una notte nella tenda di Merope.» Goccia di Fiamma stava ormai facendo l'abitudine alla sensazione di irrealtà ed al sospetto che tutto quanto la circondava fosse frutto di una magia o di un miraggio. Seguì la compagna fuori dal campo, e si accorse intanto che a tre o quattrocento passi da loro c'erano contadini e contadine che le guardavano e commentavano a voce alta; parecchi gridavano, e comunque tutti avevano interrotto la mietitura. Ombra si avviò in direzione delle mura, ma Goccia di Fiamma non stette a domandarle cosa intendesse fare: la notizia della loro presenza si stava spargendo a macchia d'olio, destando fra i villici un'agitazione che ella non gradiva affatto. Molti correvano verso la strada, dopo aver gettato via i loro attrezzi, e le loro grida distoglievano gli altri dal lavoro sempre in maggior numero. «Ma che hanno, quelli?» esclamò, stupita e contrariata. «Meglio tener pronte le spade; ho idea che siamo in un guaio!» «È chiaro che non sono abituati a vedere estranei, qui. Il nostro aspetto ci identifica come straniere. Però sono disarmati. Ti suggerisco di mostrarti calma.» «Non mi piace,» bofonchiò lei. «Non capisco cos'è successo, ma non mi piace per niente. Maledetta quella Cintura!» Le due ragazze proseguirono a passo svelto, e non rallentarono neppure quando fu evidente che sarebbero state bloccate da una folla di contadini dei due sessi arrivati più avanti sulla strada. Dinnanzi a tutti c'era una donna di mezza età robusta e dalie scarpe infangate, coi capelli raccolti in un fazzolettone rosso, e costei stava tenendo fermi con ampi gesti quelli che si agitavano alle sue spalle. «Calma! Calma! Smettetela di berciare, accidenti a voi!» La udirono gridare più volte. Il suo atteggiamento mutò però bruscamente quando Ombra di Lancia e Goccia furono a pochi passi, ed anche gli altri contadini si azzittirono. Sul-
le loro facce le due amazzoni lessero con sorpresa lo spavento, l'emozione, e un misto di sentimenti confusi, ma l'espressione della donna dal fazzoletto rosso era senz'altro timore superstizioso e reverenza allo stato puro. D'un tratto essa si gettò in ginocchio. «Eccellenze!... Nobilissime Guerriere dalle Spade di Ferro, io sono indegna! Lasciate che vi faccia umilmente omaggio!» esclamò. «Dici a me?» si stupì Goccia. «Perdonate il nostro ardire, Signore. Noi vogliamo soltanto riverirvi e salutare il vostro avvento,» disse ancora la contadina. «Sono loro, sono proprio loro!» stavano intanto mormorando o balbettando gli altri. «La profezia s'è avverata! L'Ombra e la Fiamma sono qui! Le Guerriere del Cielo! Le Sante inviate della Dea! Sono giunte dal lago, guardate! Inginocchiatevi, rendiamo omaggio all'Ombra e alla Fiamma!» Goccia si girò a guardare la compagna con espressione vacua, ed esclamò: «Ma che diavolo gli prende, a questi?» «Non domandarlo a me,» fece lei, non meno esterrefatta. Tutti coloro che erano già arrivati sulla strada s'inginocchiarono, e intanto decine di altri si avvicinavano mandando esclamazioni e gesticolando. La donna che aveva parlato per prima strisciò carponi fino ai piedi delle due amazzoni e baciò loro le mani, piangendo. «Io sono una buona credente,» singhiozzò. «Siano grazie alla Dea... la profezia s'è compiuta oggi sotto i miei occhi!» «Calmati,» borbottò Ombra. «Di che profezia parli? E cosa significa il vostro atteggiamento?» «Il Tempio... l'Ombra e la Fiamma!» seppe soltanto balbettare lei. L'assembramento di contadini venne aperto da quattro donne e da quattro uomini provenienti da una delle porte della città e vestiti di belle uniformi militari bianche, i quali fecero alzare i presenti e li scostarono. Dal loro aspetto, mentre avanzavano, Goccia comprese che Mohenjdar aveva ora un esercito o un bene organizzato corpo di guardia, seppure di un insolito carattere misto. Fra costoro la più alta in grado sembrava essere una ragazza dall'elmetto argenteo e riccamente impennacchiato, e quando le due amazzoni poterono vederla in viso rimasero di sasso. «Tangri!» rantolò Goccia. «Madre mia... è lei! Questo è troppo, Ombra!» La fanciulla si fece avanti a passo di marcia, e poi batté i piedi a terra facendo scattare all'insù un braccio in un rigido e perfetto saluto militaresco. «Onore a voi, Eccellenze!» esclamò. «Io sono la caposquadra Tangri
della Guardia delle Mura, al vostro servizio nel Nome della Dea.» Le due la fissarono sbigottite, incapaci di dire una sola parola. Dall'atteggiamento di lei era chiaro che non le aveva affatto riconosciute, e Goccia comprese che pur essendo indiscutibilmente la stessa Tangri con la quale aveva passato tante traversie, adesso, in questa nuova Mohenjdar, la sua vita era del tutto diversa. Non più Regina, ma soldatessa, in quella realtà mutata e stravolta la giovanetta bionda vedeva le due amazzoni per la prima volta da quando era nata. «Tangri,» mormorò, incredula. «Vuoi dire che... insomma, non sai chi siamo?» «Sissignora, Eccellenza, lo so. Non vi è alcuno che ignori che l'Ombra e la Fiamma comandano le invincibili schiere delle guerriere che dimorano nel lontano regno del Vecchio Popolo. La profezia del tempio dice che un giorno voi sareste giunte sul lago Van. Con fiducia e gratitudine la città vi ha atteso per settecento anni, ed ora il miracolo si è finalmente compiuto.» «Eravamo attese, dici?» «Sissignora, Signora Fiamma. Ciò è scritto sull'altare del Tempio ormai da secoli. Fu la Regina Merope a tramandare la storia di quei giorni lontani, allorché voi scendeste dal cielo per indicarle il luogo in cui avrebbe dovuto costruire la città, e Hara in persona scolpì con le sue mani i vostri nomi sull'altare. Esse lasciarono detto che un di voi sareste tornate, per benedire e proteggere Mohenjdar.» «Capisco,» disse Ombra pensosamente. Strinse un polso della compagna per indicarle di star calma, poi sorrise alla fanciulla. «Va bene, Tangri. Vuoi scortarci dentro le mura, adesso?» «Subito, Signora Ombra!» esclamò lei, mettendosi sull'attenti. Fece un gesto secco ed il suo plotoncino compì un perfetto dietro front, quindi con un inchino invitò le due amazzoni a procedere alla testa di esso. «Tutto ha una spiegazione, Goccia, non fare quella faccia,» la rincuorò Ombra di Lancia mentre camminavano verso le mura seguite dagli sguardi di centinaia di contadini. «Per quanto sorprendente sia la cosa, devi capire che secondo ogni logica Tangri non può conoscerci. Nel futuro che Merope e Hara hanno costruito, la sua esistenza è stata diversa.» «Merope e Hara hanno fatto una gran confusione,» disse Goccia. «Quelle due sciocche avevano promesso di comportarsi saggiamente, ma poi sa il cielo cos'hanno combinato. Una profezia e una scritta sull'altare... bah!» «Merope sapeva che saremmo ricomparse qui, a settecento anni di distanza,» spiegò la bruna. «Ti sarai accorta che era una donna molto sensi-
bile, e scommetto che abbiamo colpito la sua fantasia più di quanto potevamo immaginare. Del resto si deve ammettere che aveva buoni motivi per ricordarci con emozione. Il fatto davvero grave è che lei e la Sacerdotessa hanno sbalestrato tutto il loro futuro, fino al punto che la sua discendente non è altro che una soldatessa. E non oso immaginare cos'altro sia accaduto, qui.» Goccia gettò un'occhiata alla porla verso cui si stavano dirigendo, la più meridionale delle tre. Era alta appena dieci braccia, quindi assai meno dell'unica che aveva avuto la Mohenjdar di un tempo che ella non sapeva più se fosse il presente, il passato, o cos'altro. Sulle mura c'erano uomini e donne armati, che assistevano al loro ingresso con estremo interesse. Diede di gomito ad Ombra. «In una cosa Merope è stata ben attenta a non sgarrare: dietro i battenti di legno ce ne sono altri due di bronzo. Ma cosa mi stavi dicendo su ciò che immagini?» «Cerca di non spaventarti, Goccia. Il fatto è che se Mohenjdar non è stata assediata dai Sumerici, come tutto fa pensare, allora Tangri non è mai fuggita da essa per chiederci aiuto. Ti sembra? Di conseguenza dalle Terre Basse, in questa realtà modificata, non è partito mai alcun corpo di spedizione con me al comando. Le miliziane con cui abbiamo compiuto il viaggio devono essere rimaste nelle caserme o a casa loro, alla Capitale. Capisci cosa sta succedendo? La Dea ci aiuti, ma temo che questo pasticcio sia ormai peggiore di qualsiasi tremenda previsione!» L'amazzone dai capelli rossi rifletté un istante su quelle frasi e poi impallidì spaventosamente; per un poco le parve di camminare come dentro a una nebbia. Quando fu di nuovo capace di mettere l'uno dietro l'altro due pensieri che avessero un senso, si accorse che la scorta le stava conducendo lungo la via principale della città. C'erano casette modeste e basse, in legno e mattoni, ed altre più ricche in mattoni e marmo. Dalle finestre gli abitanti si sporgevano per osservare il loro passaggio, ed esse compresero che gli uomini e le donne vivevano insieme. Alcuni edifici sembravano uguali a quelli che ricordavano, ma non tutti; in special modo il colossale Tempio che sorgeva dritto in fondo alla strada. Nella Mohenjdar assediata e poi messa a sacco dai Sumerici era stato di dimensioni modeste e severo d'aspetto, mentre ora lasciava meravigliati per l'imponenza. La notizia del loro arrivo doveva esser stata portata entro le mura da qualcuno che aveva frettolosamente messo in moto un comitato di ricevimento, perché videro subito sbucare dal Tempio una frotta di novizie vesti-
te di bianco. Dietro di esse corsero fuori numerose Sacerdotesse. «Siete attese al Tempio, Eccellenze!» esclamò giuliva Tangri. «La vostra venuta è stata improvvisa, ma certo domani vi sarà una grande festa.» «Ho bisogno di bere qualcosa,» sospirò Goccia di Fiamma. «Sissignora!» scattò Tangri. Prima che l'amazzone potesse impedirglielo, la solerte caposquadra della Guardia delle Mura corse dentro la porta della casa più vicina. Ne uscì dopo un intervallo brevissimo portando una giara di terracotta, dalla quale versò più vino sul selciato che nel boccale di ceramica mentre camminava e correva allo stesso tempo. Goccia bevve, e quando il liquido le fu sceso nello stomaco si sentì meglio preparata ad affrontare gli avvenimenti. Le novizie vestite di candido lino presero a spargere fiori al suolo davanti a loro, cantando in coro, e l'amazzone si scoprì capace di distribuire sorrisi e saluti a destra ed a sinistra, perché parecchia gente faceva già ala alla piccola processione. Da ogni parte giungevano grida di benvenuto ed esclamazioni. Lontano si alzò nell'aria un suono di trombe, squillanti e melodiose. «Dimmi, Ombra, non credi anche tu che in fondo questa faccenda abbia un risvolto simpatico? Dopotutto mi ero figurata proprio a questo modo il nostro ingresso in Mohenjdar, coi fiori, i canti e tutto il resto. E per meritarcelo non abbiamo dovuto neppure prenderci il disturbo di far fuori le Teste Nere,» disse, tentando un tono spensierato. «Augurati che non ci accorgiamo d'aver pagato un prezzo molto più allo, per tutto questo,» mugolò l'altra senza guardarla. Sul portale del Tempio le donne avvolte nei mantelli azzurri della Casa Sacerdotale le attendevano, ed una di esse si fece avanti tendendo loro le mani. «L'Ombra e la Fiamma!» esclamò. «Le guerriere del Vecchio Popolo i cui capelli sono per l'una scuri come la notte, e per l'altra rossi come il fuoco. Benvenute, benvenute! Quale prodigio la Dea vi manda a compiere? Ci portate dunque la salvezza di cui parla la profezia? Ditemi, Nobilissime Signore, è forse così?» «La nostra stessa venuta non è un prodigio sufficiente ad accontentarti? sbottò Goccia, nuovamente innervosita. «Certo, Signora Fiamma naturalmente è così. Vi prego, entrate nel Tempio. La Sacerdotessa Anziana è andata a vestirsi dei paramenti sacri per ricevervi più degnamente,» fece l'altra. Nell'incamminarsi lungo la vasta navata le due si scambiarono un'oc-
chiata, e Goccia capì che anche la compagna si stava domandando che razza di prodigi fossero quelli a cui la Sacerdotessa aveva alluso. Rifletté che su una cosa non c'erano dubbi: la città di Mohenjdar sarebbe rimasta delusa, se aspettava da loro eventi magici e miracolosi. Dietro il massiccio altare la parete del Tempio era lavorata in tutta la sua altezza, a bassorilievi che rappresentavano varie scene successive, mentre la scritta menzionata da Tangri era scolpita sul pannello frontale dell'altare. Sapendo che non c'erano riti formali di alcun genere da compiere, le due ragazze si fermarono in attesa della Sacerdotessa Anziana. Dietro di loro il Tempio si andava riempiendo di uomini e di donne, che si tenevano però distanti e ai lati. Due novizie ansanti e intimidite corsero fuori da una porticina laterale per annunciare di aver pazienza, che la Sacerdotessa Anziana sarebbe arrivata subito. «Guarda laggiù, Ombra: sul bassorilievo centrale della fila inferiore ci siamo anche noi, tu ed io. Merope ha fatto scolpire la storia della sua gente fino alla fondazione di Mohenjdar.» L'altra annuì. L'immagine che raffigurava loro due era ben eseguita, e narrava del momento in cui Merope, di fronte ad esse, aveva offerto sul palmo della mano la sua magica cintura. I quadri precedenti traducevano in immagini le traversie della Grande Migrazione, e l'ultimo mostrava la città in fase di avanzata costruzione. La bruna andò avanti all'altare e lesse l'iscrizione sul pannello: «Sulla riva di Van trovai l'Ombra e la Fiamma. Le Sante messaggere della Dea. Mohenjdar fondai col loro auspicio. E nel dì del bisogno torneranno, pietose e forti inviate dalla Dea. Salvezza eterna recheranno in dono. Pregate.» «E così sia,» commentò Goccia sottovoce. «Se è stata Hara a scolpire questa scritta cretina, vorrei poter tornare ancora nel passato per farle una faccia piena di ceffoni. Adesso si aspetteranno che noi tramutiamo i sassi in oro e facciamo guarire i malati.» «Nobile Signora Fiamma,» intervenne Tangri, che le stava alle spalle ed aveva ascoltato. «Di certo voi sventerete la sciagura ed il malefizio che ieri si sono abbattuti su di noi. Da ieri mattina la città è sconvolta per l'avvenimento che...» La fanciulla s'interruppe, perché in quel momento aveva fatto la sua comparsa una vecchissima Sacerdotessa scortata da due uomini armati e numerose novizie. «Salute a voi, o Celesti Inviate,» le salutò la donna con voce esile ma
ferma. «La vostra venuta è un lieto evento, ed io vi accolgo commossa e grata insieme a tutto il popolo. La Dea sia benedetta. Il mio nome è Melize, e sovrintendo i Sacri Riti del Tempio. Con gioia vivo questo momento, perché da secoli tutti lo attendevamo.» Le due amazzoni alzarono una mano in segno di rispettoso saluto, ma Goccia di Fiamma seguitò a fissare perplessa Tangri, quasi sperasse di leggerle sul viso il resto della frase. Diede uno sguardo ad Ombra e la vide rigida e seria, con l'espressione che assumeva quando aveva l'irritante certezza che la situazione le stava sfuggendo di mano. Melize aveva intanto levato le braccia sopra la testa e si rivolgeva ai presenti. Li esortò ad essere fiduciosi e a pregare, in un breve discorsetto che probabilmente i più lontani non udirono neppure, ma dalle parole di lei Goccia s'insospettì ancor di più, intuendo che alla città stava succedendo qualcosa. Come conclusione, la Sacerdotessa Anziana proclamò che con l'avvento dell'Ombra e della Fiamma ogni dubbio sarebbe stato risolto, i torti avrebbero trovato riparazione e i malvagi la giusta punizione. Ombra di Lancia l'aveva ascoltata con attenzione, e brontolò fra sé alcune parole in tono scontento. I cittadini furono invitati a uscire dal Tempio, ed a presentarsi l'indomani per la grande cerimonia religiosa che si sarebbe tenuta in onore delle nuove arrivate. Quando tutti ebbero sgombrato la navata, eccetto Tangri e le molte addette ai lavori nel Tempio, Melize si rivolse alle due: «Care sorelle,» disse gravemente. «Io non dubitavo che sareste giunte, per dirimere ogni controversia. Eventi inattesi sono accaduti, e ciascuna di noi aspetta il vostro saggio consiglio. Ditemi, cosa possiamo fare?» Goccia avrebbe più volentieri domandato dov'erano i cessi, e sperò che quel ricevimento avesse presto termine. Radunare un poco le idee e mangiare un boccone dopo essersi riposata erano le uniche cose che desiderasse in quel momento. «A cosa ti riferisci, Sacerdotessa?» chiese invece Ombra. L'anziana donna ebbe un moto di stupore. «Non è dunque per rivelarci tramite vostro la Sua Volontà che la Dea vi ha mandate? Eppure ieri io pregai a lungo perché Ella ci desse un segno, sebbene tutto faccia credere che la legittima Regina sia proprio lei.» «Non lo è!» gridò improvvisamente Tangri. «Quella donna crudele non può essere la nostra nuova Regina!» «Taci, tu!» la rimproverò Melize. «Non è compito tuo parlare in questo tempio. E ricordati che dopotutto ella è scesa dal cielo ed ha la Sacra Cin-
tura di Merope, che da ben sette secoli si credeva perduta.» «Ma di chi parli?» Ombra tratteneva a stento l'impazienza. «Cosa sta succedendo, e chi è costei che sarebbe venuta dal cielo con la Cintura?» «Ebbene, Nobile Signora, tu certo sai che da ormai tre mesi la città di Mohenjdar attende che sia eletta la nuova Regina, essendo la povera Jèzilhan deceduta questa primavera di malattia. E per eleggere colei che è destinata a succederle occorrono consultazioni e molto tempo. Tuttavia nei tempi antichi il trono della nostra genie si trasmetteva per ereditarietà, di madre in figlia, e ciascuno sa che la Cintura Incantata delle Regine non poteva essere portata che dalle donne di indiscusso sangue reale. Dalle mani indegne essa rifuggiva magicamente, tornando ogni volta ad allacciarsi alla vita di colei che unica aveva il diritto di portarla.» «Lo so,» disse Ombra. «Ma la Cintura è nella tomba della Regina Merope. Almeno, fu lì che lei la mise a quei tempi.» La Sacerdotessa Anziana la fissò, incerta. «Se così tu dici, così deve essere, o Santa Inviata. Ma Merope fu l'ultima a portare il diadema dalle gemme incantate, e dopo la sua morte nessuno lo vide mai più. La Cintura scomparve misteriosamente. Forse essa restò davvero nella sua tomba segreta, perduta e sconosciuta per ben sette secoli; ma senza di essa le nostre usanze mutarono, e da molto tempo ormai la Regina di Mohenjdar viene eletta dal Consiglio della città. Tuttavia ieri lei scese dal firmamento sul suo grande uccello, e tutti videro che intorno alla vita portava quel leggendario gioiello. Quando perciò si proclamò Regina e sedette sul trono, nessuno poté far altro che inchinarsi alla sua autorità suprema. Se nelle sue vene non scorresse il sangue di cento e cento generazioni di Regine, mai la Cintura consentirebbe a cingerle i fianchi, poiché il suo incanto è ben noto e costituisce un chiarissimo segno. Così domani ella verrà incoronata.» «Sarà un triste giorno, quello in cui il Tempio si inginocchierà a una donna tanto perversa!» esclamò ancora Tangri, tremando. «Ti supplico, Melize, ascolta il popolo! Ella si è già fatta odiare, destituendo i Consiglieri e cacciandoli via dal palazzo! Che ne sarà della nostra libertà?» Vedendo che Ombra di Lancia era rimasta a bocca aperta per lo stupore, Goccia capì che lo stesso incredibile sospetto era venuto anche a lei. Fece un passo avanti, scostando Tangri. «Dimmi il nome di quella donna, Sacerdotessa!» esclamò. Ma non vi fu il tempo di rispondere, perché proprio allora dall'ingresso principale corsero nel Tempio venticinque o trenta uomini armati di lancia, e un'altra dozzina fecero irruzione dalle due porte ai lati della navata. Tan-
gri si portò una mano alla bocca, con un grido, e Melize indietreggiò fra le novizie. Una donna dall'elmetto dorato avanzò fino all'altare e puntò un dito accusatore verso le due amazzoni, esclamando: «Voi, mentitrici, false inviate della Dea, eretiche ingannatrici! Non fate un gesto, o i miei uomini vi trafiggeranno. Il vostro tradimento è stato svelato: in nome della Regina Aquila di Guerra, la Grande, siete condannate alle prigioni. Prendetele!» «No!» gridò Tangri. «Tu non hai l'autorità per farlo, Axilana. Non puoi sfiorare le Messaggere Celesti con le tue sudice mani, razza di cagna!» L'altra la scostò con uno spintone brutale, mentre le guardie avanzavano con le lance puntate. «Taci, tu, o seguirai la loro sorte. Per queste simulatrici è finita. Avanti, uomini, disarmate costoro!» Ombra e Goccia avevano già impugnato le spade, ma l'incursione delle guardie era stata ben organizzata e una barriera di armi affilate chiudeva loro ogni via di scampo. Le due ragazze bestemmiarono, ma dovettero gettare le spade al suolo in segno di resa. Subito un paio di uomini e una soldatessa vennero ad afferrarle per le braccia. «Va in caserma,» ordinò Axilana a Tangri. «Io sono la Comandante delle Mura; ubbidisci o sarà peggio per te.» La ragazza bionda corse invece dalla Sacerdotessa Anziana, supplicandola di fare qualcosa. Ma Melize s'era coperta il volto con un lembo del mantello, voltandole le spalle in atteggiamento tragico e teatrale, e non disse parola. Le guardie spintonarono le due amazzoni verso una delle uscite secondarie del tempio, e pochi momenti più tardi le costrinsero a scendere in un corridoio sotterraneo. «Merda!» ringhiò Goccia di Fiamma, cupamente, come tutto commento a quell'imprevista conclusione della loro avventura. Sotto il grande edificio si stendeva un dedalo di passaggi pavimentati in terra battuta, con svolte continue e numerose diramazioni. Alla luce di alcune torce Goccia di Fiamma ed Ombra di Lancia furono condotte avanti per un bel tratto, finché sbucarono in quelle che erano evidentemente le prigioni. C'era una sola grande cella, separata dal corridoio principale da una grata di robustissime sbarre di legno, e un pesante lucchetto di bronzo ne chiudeva la porta. Le guardie le gettarono dentro e richiusero, e quando le due ragazze si volsero videro Axilana sogghignare trucemente, soddisfatta. «Godetevi il soggiorno qui, carogne,» le apostrofò la donna. «Ma sappiate che sarà breve. La Regina ha già deciso di farvi giustiziare domani.
Questa è la pena prevista per le spie straniere!» Goccia fece un passo avanti e le sputò in faccia attraverso la grata. «Prendi questo, scimunita, e vallo a portare alla tua padrona!» disse rabbiosamente. «Schifosa!...» berciò l'altra, ripulendosi. E se ne andò dopo averle gratificate di un'occhiata feroce. «E così eccoci sistemate,» filosofeggiò Ombra incrociando le braccia sul petto. «Non c'è dubbio che Aquila di Guerra abbia in mano la città, se davvero possiede la Cintura di Merope. Ma come avrà fatto a capitare qui insieme a noi? Non riesco proprio a capirlo.» «Era fuggita dall'Alazoj in groppa a un Artiglio,» le ricordò la compagna. «Ah!... vuoi dire che la sua presenza non si spiega più, vista la situazione? Capisco.» «Già. A meno che io non abbia fatto altro che ragionare a vuoto fin ora, anche Aquila non avrebbe nessun motivo per essere da queste parti. Dovrebbe esser rimasta nelle Terre Basse, insieme ad un corpo di spedizione che nell'attuale presente non si è mai mosso di là.» Goccia sedette su un mucchio di paglia e si appoggiò con la schiena al muro scabro. Osservò i tre uomini rimasti nel locale oltre le sbarre, in fondo al breve corridoio. Cinque grosse lampade ad olio lo illuminavano, ma nella vasta cella giungeva scarsa luce. Sul pavimento umido c'erano scarafaggi, e il soffitto pieno di ragnatele aveva l'aria d'essere in legno dipinto di nero. In un angolo, un foro da cui usciva un fetore disgustoso doveva essere il cesso. La ragazza lo osservò, sapendo che avrebbe dovuto decidersi ad utilizzarlo. «Ho visto delle prigioni peggiori di questa,» mormorò infine, alzandosi. «Credo che la civiltà di un popolo si veda molto dagli impianti igienici delle celle, sai? A Coralyne, per esempio, i cessi della Diaconessa Lugunda facevano schifo. E io e Shalla dovemmo trascorrere un pomeriggio in una prigione davvero ripugnante. Ti ho mai raccontato di come ci parlavamo, fra la mia cella e la sua?» «Me lo raccontò Shalla,» disse la bruna distrattamente, e si sedette contro il muro con un borbottio. Per circa tra clessidre chiacchierarono, quindi ebbero l'occasione di conoscere personalmente uno dei tre guardiani, quando l'uomo venne a mettere due scodelle di zuppa di verdura sotto la porta e le invitò a mangiare. Si chiamava Zoaur, e non pareva affatto avercela con loro, anzi i suoi modi erano amichevoli.
«È triste vedervi condannate a morte,» disse. «Siete le prime straniere che arrivano in città da non so da quanti anni. Di cosa vi si accusa?» «Tradimenti, imbrogli, spionaggio e malversazioni varie,» rispose Goccia. Rimestò con un dito nella scodella. «Senti un pò, Zoaur: state cercando di avvelenarci? Qui c'è un pezzo di torsolo di cavolo, che a colpo d'occhio oserei definire marcio. Infatti puzza.» «Sono lieto di vedere che la prigionia non vi abbatte lo spirito,» commentò lui. «Pregherò per voi, stasera.» «Dimmi una cosa, uomo,» chiese Ombra, accostandosi alle sbarre. «È mai capitato che altri stranieri siano giunti a Mohenjdar, in passato? Esploratori o Sumerici, per esempio.» «Certo, e ben tre volte nel corso di un centinaio d'anni. Ma noi facciamo buona guardia: fin dal tempo in cui fu fondata la città esiste l'ordine di vegliare i passi fra le montagne, e chi proviene dal sud o da levante dev'essere immediatamente ucciso. Si dice che a stabilire questa misura protettiva fu la stessa Regina Merope.» «Ah, ora si spiega almeno una cosa,» mormorò la ragazza. Si voltò verso Goccia di Fiamma. «Tu hai detto a Merope che i futuri guai di Mohenjdar sarebbero stati causati dagli esploratori Sumerici o Akkadi, che per primi avrebbero scoperto l'esistenza della città. Ricordi? Anche Tangri riferì di un vecchio che capitò qui mentre cercava le sorgenti dell'Aladag. È chiaro che Merope, o più probabilmente quell'intelligentona di Hara, ha concluso di mettersi meglio al riparo dalla futura invasione provvedendo in anticipo con buone misure precauzionali. Te l'ho detto che il pensiero della loro sicurezza avrebbe fatto dimenticare a quelle due ogni altra cosa!» «Ma è vero che voi due siete messaggere della Dea?» domandò Zoaur. Ombra fece una smorfia. Prima che potesse dargli una risposta la porta in fondo al corridoio si aprì e ne entrò Axilana. Dietro di lei c'era Aquila di Guerra, riccamente vestita, e le due amazzoni videro che portava bene in evidenza la splendida cintura gemmata a loro ormai familiare. Con un ghigno ironico dipinto sul viso la bionda venne avanti, e le squadrò con occhi scintillanti. «Lo sapevo che si trattava di voi due!» esclamò. «L'Ombra e la Fiamma dei miei stivali, puah! Dal risultato che avete ottenuto, si direbbe proprio che le vostre sconce manovre per danneggiarmi siano finite maluccio. Ora avrete ciò che vi meritate!» «Prega il cielo che io non esca viva di qui, serpente, altrimenti...» ringhiò Goccia di Fiamma.
«Calmati!» Ombra la fece scostare, spingendola indietro; poi osservò Aquila di Guerra con espressione pensierosa. «Dimmi un pò, Aquila: come hai fatto a venire in possesso di quella cintura?» L'altra la guardò con improvvisa ira. «Mi appartiene di diritto! È mia, capisci? La leggenda è vera, come potete vedere a vostro scorno, sgualdrine! Io sono di sangue reale, e la Cintura di Merope lo proclama senza errori. Per diritto divino io, Aquila di Guerra, regno sovrana su questa città!» «Certo, certo, lo sappiamo che tua madre era dello stesso sangue di Theba, e questo significa che discendi direttamente dalle stesse antenate di Tangri. Ma io ti ho chiesto come hai avuto la Cintura.» «Grazie a un miracolo della Dea, naturalmente. Lo sapevo che il destino mi avrebbe reso ciò che voi due eravate quasi riuscite a togliermi, coi vostri inganni! Ma io potei fuggire da quel maledetto vulcano, malgrado il vostro assalto di sorpresa e a tradimento, e volai in sella a un Artiglio verso settentrione. E proprio quando avevo oltrepassato i Monti Grigi, dopo giorni trascorsi in cerca del Lago Van più a oriente, la Dea mi diede il segno. Ero giunta in vista di Mohenjdar, e stavo dirigendo l'Artiglio sui versanti a meridione del lago, quando l'aria esplose in un tuono e scoppiò un fulmine accecante a ciel sereno. Subito dopo mi accorsi che la Cintura volava verso di me. È stato un miracolo, e tutta la città ora lo sa!» «E per caso era quasi il mezzodì, quando è accaduto?» domandò ancora Ombra. «Infatti,» sbottò acremente l'altra, «che t'importa?» «Ma non ti sei accorta che Mohenjdar non era più la stessa? Che non c'erano Sumerici ad assediarla, come tu avevi provveduto a far si che avvenisse? E non ti sei domandata il motivo di questo straordinario avvenimento?» «Non sono venuta qui per rispondere alle tue domande, traditrice! Sicuro, sono accadute cose straordinarie grazie a me; e queste gemme sacre ora lo dichiarano alla plebe senza bisogno di tante ciance. Io, Aquila di Guerra la Grande, sono finalmente sul trono della mia città.» «Tua, eh? E Tangri invece chi sarebbe, secondo te?» gridò Goccia, arrossendo di rabbia. Aquila la fissò sprezzantemente. «So benissimo che è caposquadra della Guardia delle Mura, anche se ci sono lati incomprensibili di questa faccenda che non starò a discutere con te. Prima o poi penserò anche a quella stupidella rompiscatole; intanto preparatevi a mettere la testa sul ceppo, voi due. Sulla piazza si sta lavorando a un palco di legno. E domattina,
dopo che io sarò stata incoronata, ci sarà una cerimonia ancor più divertente in vostro onore!» La bionda volse loro le spalle e si diresse all'uscita a passi lunghi, seguita da Axilana. Sulla porta si girò così bruscamente che la Comandante delle Mura quasi le urtò addosso, e fissando le due prigioniere emise una risata sarcastica. Poi si allontanò svelta, tallonata dalle sue guardie. Goccia di Fiamma aveva i pugni stretti e il volto contratto dall'ira e tenne gli occhi puntati sul battente in fondo al corridoio per qualche momento ancora, dando quasi l'impressione che volesse bruciarlo con lo sguardo. A stento si accorse che il sorvegliante chiamato Zoaur s'era appoggiato alle sbarre e la osservava stranamente. «Che hai da guardarmi tu?» sbottò. «Niente, rossa, niente. Solo... mi stavo domandando perché hai parlato della caposquadra Tangri. Che significa ciò che hai detto?» «La conosci?» Zoaur annuì. «Sicuro. Tangri è una delle ragazze più graziose che ci siano in città, e siamo amici. E non mi piace per niente quello che ha detto la strega dagli occhi gialli. Che intenzioni ha?» Goccia di Fiamma si rilassò, fece un sospiro e sporse una mano attraverso la grata per dargli un pugnetto su una spalla. «Aquila di Guerra non la lascerà campare molto, uomo. Puoi starne certo, anche se sarebbe troppo lungo spiegartene il motivo. Dunque, la vostra nuova Regina non riscuote il tuo apprezzamento?» L'altro fece un ghigno, girandosi un momento a controllare che i suoi colleghi non stessero ascoltando. «Può anche darsi che abbia la Cintura Magica delle Regine, e non dico che questo sia poco, ma per conto mio sarei pronto ad affogarla nel lago con queste mani.» «Ah! E ci sono altri che la pensano come te?» «Forse. Ma è arrivata soltanto ieri, e in un modo spettacolare che ha incantato il popolo. Purtroppo quella jena di Axilana sta dalla sua parte, e lei ha in mano quasi tutta la milizia, oltre alle Guardie delle Mura. Mi spiace per voi. Siete in un brutto pasticcio.» Senza dir altro Zoaur scosse la testa e se ne andò. Goccia si distese sulla paglia al fianco della compagna, rimuginando cupamente i suoi pensieri, e con una rabbiosa manata spiaccicò uno scarafaggio che correva sul pavimento sudicio. «Così Aquila ha raggiunto il suo scopo, malgrado tutto,» brontolò. «A quanto ho capito, è stata aiutata da una fortuna sfacciata,» mormorò
tristemente Ombra di Lancia. «Quando è fuggita dall'Alazoj si è diretta a est in cerca del Lago Van, e deve aver fatto volare il suo Artiglio chissà dove, perdendo il vantaggio che aveva preso su di noi. Ma ha trovato i Monti Grigi giusto nello stesso mattino in cui tu ed io li abbiamo valicati, ed il caso l'ha portata a passare in volo sul versante interno, quando noi eravamo nella tomba di Merope. Secondo me, stava giusto transitando sulla verticale della tomba allorché l'incantesimo ci scaraventò nel passato. Ha detto di aver sentito anche lei un tuono, accompagnato da un lampo folgorante, e ciò significa che si trovava molto vicina a noi, in sella al suo rettile alato.» «Certo, avevo capito anch'io che Aquila di Guerra ha subito in qualche modo l'effetto magico delle gemme rosse. Ma non è strano che noi siamo state gettate nel lontano passato, mentre invece lei finiva qui?» Ombra alzò le spalle. «Credo che tutto sia dipeso dalla Cintura. Ricordi quando ne abbiamo parlato con Merope? Lei disse che la cintura da noi trovata nella sua tomba non poteva essere trasportata lungo il fiume del tempo, e si disse certa che essa era volata fino da Tangri, sua legittima proprietaria Ma anche Aquila di Guerra discende dalla stessa stirpe, lo si deve riconoscere, e in quel momento lei era vicina; molto più vicina di quanto non lo fosse Tangri. La Cintura ha tenuto fede al suo incantesimo, andando a finire in mano alla più prossima discendente di Merope che vi fosse nella zona.» «Quand'è così, si tratta di un incantesimo cretino. E non ho mai dubitato che lo fosse. A giocare con forze arcane e sconosciute, gli esseri umani trovano sempre di che rimetterci!» Quando scese la sera, le due amazzoni se ne accorsero solo perché Zoaur e gli altri secondini se ne andarono e vennero sostituiti da un individuo anziano e ringhioso. L'uomo spense metà delle lampade ad olio e consegnò di malagrazia una grossa ciotola di verdure cotte alle prigioniere, quindi andò a sedersi su un panchetto e da quel momento in poi le ignorò completamente. «Se avessimo una lama potremmo attaccare le sbarre,» disse Goccia, che aveva esaminato e scartato l'una dopo l'altra tutte le possibilità di fuga da una cella di quel genere. «Naturalmente faccia di caprone, laggiù, dovrebbe essere tanto compiacente da farsi un pisolino.» «Magari il pisolino lo farà,» commentò Ombra. «Ma dubito che la sua compiacenza si spingerà fino a metterti in possesso di una sega da falegname.»
Goccia di Fiamma rimase distesa dov'era, fissando le travi nere e le ragnatele del soffitto. Sentiva che Ombra stava cercando di studiare una soluzione, uno stratagemma che risolvesse la loro situazione immediata, ma lei non era capace di far altro che riflettere sugli avvenimenti insoliti e stupefacenti che le avevano condotte lì. La lancia smarrita, la città piena di cadaveri, la tomba di Merope, la cintura degli straordinari poteri, erano tutte immagini che le sfilavano davanti agli occhi e che doveva riconoscere come reali, veramente accadute. Ma che ne era successo della Mohenjdar assediata dai Sumerici? Lei ne aveva oltrepassato il portone sfondato, ed aveva rabbrividito alla vista dei cadaveri nelle sue strade; era forse scivolata nel limbo delle cose mai esistite? Come aveva potuto un incantesimo trascinare un'intera valle al di là della parete di nebbia del tempo e dei sogni, per sostituirla con una realtà diversa? Anche Tangri era sottilmente cambiata, dovette riconoscere; non le era apparsa più tanto timida, né incerta e spaurita. Forse la vita diversa che aveva condotto fin lì, come caposquadra della Guardia delle Mura, aveva contribuito a renderla più decisa e matura negli atteggiamenti, si disse. E magari non immaginava neppure lontanamente di portare nelle cellule del suo corpo l'eredità di sangue della Regina Merope. Goccia di Fiamma concluse che quella situazione la spaventava. Non riusciva a capirla. Avrebbe di gran lunga preferito dover affrontare le Teste Nere con una solida spada in mano, come s'era preparata a fare al loro arrivo in quella valle stregata, e vedersela contro avversari di un genere che poteva comprendere. Ma i Sumerici erano svaniti, una cintura di gemme fiammeggianti aveva roteato nell'oscurità di una tomba perduta, ed essi erano stati cancellati. Chi mai avrebbe potuto credere a una storia simile, quando lei non era capace di raccontarla neppure a se stessa senza sentirsi incredula? Con quella domanda nella mente, scivolò nel sonno senza accorgersene. Dormì pesantemente fino al mattino successivo. La destò un debole grido, e aprì di scatto gli occhi. Attraverso le sbarre di legno della cella vide cinque o sei figure muoversi nel corridoio, e uno degli sconosciuti stava legando ed imbavagliando faccia di caprone, il secondino. Un altro, che riconobbe emozionata come Zoaur, corse alla porta e fece girare la grossa chiave nel lucchetto. Goccia diede una gomitata ad Ombra di Lancia per svegliarla e balzò in piedi, col batticuore. «Presto!» esclamò Zoaur. «Di sopra la cerimonia è già cominciata, e dobbiamo muoverci. Stanotte non ho chiuso occhio.» La porta venne aperta, e l'uomo afferrò per un braccio Ombra, che lo fis-
sava con gli occhi gonfi di sonno. La spinse fuori senza complimenti. «Che cerimonia?» domandò Goccia. «Oh, Dea! Ti sei dato da fare per riunire un pò di compari? Lasciati dare un bacio, ragazzo; non ho mai abbracciato un maschio più volentieri!» Zoaur era troppo agitato per sopportare le sue affettuosità, e si sciolse subito dalle sue braccia. «Aquila di Guerra si farà incoronare questa mattina nel Tempio. È dall'alba che si stanno facendo i preparativi, e subito dopo c'è in programma la vostra esecuzione. Ma non siamo in pochi come puoi credere: questa notte ho lavorato sodo, e ora giocheremo il tutto per tutto. Dove s'è cacciata quella sciocca?» Dalla porta corse dentro Tangri, trafelata e ansimante, con un grosso fagotto fra le mani. «Sono qui! Questi sono i mantelli, e ho anche le spade. Melize mi ha scoperta mentre li prendevo, e ho perso tempo.» La fanciulla abbracciò brevemente Goccia di Fiamma ed Ombra, ma Zoaur la fece girare verso di sé con un'imprecazione. «Ti ha scoperta? E cos'è successo?» «Niente. È diventata bianca di spavento, quando ha capito cosa stava succedendo, ma non ha detto parola. Ha paura di Aquila di Guerra, e non ci aiuterà, però non si opporrà neppure.» «Non perdiamo tempo, allora.» L'uomo consegnò alle amazzoni le spade e due mantelli azzurri da Sacerdotessa, e le spronò ad indossarli, mentre i suoi compagni tenevano d'occhio il corridoio esterno. «Tiratevi il cappuccio sulla faccia. Nel Tempio ci sono decine di Sacerdotesse, e dovremo camminare fra la folla senza che nessuno vi riconosca. Agiremo prima che quella vipera bionda sia legalmente incoronata, ad un mio segnale.» Goccia e Ombra seguirono il gruppetto di congiurati lungo i corridoi sotterranei, e dopo un poco cominciarono a udire i canti e le sonanti risposte corali che echeggiavano nel grande tempio. Tangri spiegò loro frettolosamente che alla cerimonia dell'incoronazione assisteva soltanto una rappresentanza del popolo, costituita dai cittadini di maggiore spicco, e che la navata era colma di militi dei due sessi ordinatamente disposti in fila davanti all'altare. Circa un terzo di essi, a quanto disse Zoaur, erano pronti a gettarsi sui colleghi e a disarmarli, ma si sperava che pochi avrebbero offerto una vera resistenza. Sul piazzale esterno c'era poi una vera folla di gente, le cui reazioni erano pura ipotesi. L'uomo contava che l'alone mistico di cui erano circondate le due amazzoni si dimostrasse efficace a in-
fluenzare il popolo, che era ancora all'oscuro dell'esecuzione capitale a cui Aquila le avrebbe volute sottoporre. Uscite nel vastissimo locale, Goccia e la compagna si accorsero di trovarsi sul lato sinistro dell'altare, dietro un folto gruppo di Sacerdotesse avvolte nei loro mantelli azzurri. Zoaur e Tangri scivolarono via lungo una parete, ed esse avanzarono fra le donne che stavano intonando in coro un inno sacro. Si fermarono alle spalle della fila di novizie biancovestite. Aquila di Guerra era immobile davanti all'altare di marmo, e intorno a lei il pavimento era ricoperto da un tappeto di petali rossi. Indossava una ricca uniforme militaresca, ed aveva un braccio alzato con la mano chiusa a pugno. Teneva il capo chino, e i biondi capelli sciolti le ricadevano sulle spalle. Accanto a lei la Sacerdotessa Anziana si limitava a dirigere i canti, e a tratti nel silenzio si alzava solo la sua voce esile e lamentosa, alla quale facevano seguito antifone corali di bell'effetto. Le Guardie delle Mura e altri armati in uniforme verde erano disposti in file alternate di uomini e di donne, e fra il portale d'ingresso e l'altare c'era un largo corridoio lasciato libero, anch'esso cosparso di petali di fiori. Sul fondo c'erano poco più di cento cittadini tutti vestiti a festa. «Dove sono finiti gli altri?» mormorò Goccia, cercando con gli occhi Tangri e Zoaur. «Taci!» sussurrò l'amazzone bruna, tirandosi meglio il cappuccio azzurro ai lati del viso. «Vieni dietro di me, faremo una sorpresa ad Aquila.» Due Sacerdotesse attendevano in disparte il momento di intervenire, reggendo ognuna un prezioso cuscino di seta, e Goccia vide che su di essi c'erano uno scettro d'argento intarsiato e una liscia corona d'oro d'aspetto semplice, simile a un grosso anello. Seguendo Ombra si spostò alle spalle delle due donne, e giusto in quel momento venti ragazze armate di lunghe trombe suonarono tre note squillanti. I canti cessarono, e Melize allargò le braccia chiamando a testimone la Dea dell'evento che lì si compiva. Ombra tolse il cuscino con lo scettro dalle mani di una delle Sacerdotesse, e Goccia di Fiamma si appropriò con la stessa fermezza e decisione di quello che sosteneva la corona. «Faccio io cara,» disse con un sorrisetto melenso. Ammutolite le due non reagirono e si scostarono. Dopo pochi momenti la Sacerdotessa Anziana fece un gesto imperioso nella loro direzione, indicando che fossero portati presso l'altare i preziosi simboli regali. Aquila di Guerra s'era girata di scatto verso la parete di fondo del tempio e fissava i bassorilievi con maestosa umiltà, allargando le braccia in un gesto teatrale
che indicava come la storia di Mohenjdar lì scolpita ora si compenetrasse in lei e le appartenesse. Goccia si mosse a fianco di Ombra di Lancia reggendo con solenne dignità il suo cuscino ricamato, e le trombe mandarono ancora tre note melodiose. Quando si arrestarono davanti a Melize, la vecchia donna sollevò in alto la corona con entrambe le mani; ma i suoi occhi non seguirono il movimento dell'aureo monile, perché erano restati inchiodati con fissità ebete in quelli scintillanti della rossa amazzone. «Nel Sacro Nome della Dea...» cominciò a dire, e qui si interruppe con un ansito catarroso. Tossì, e poi sembrò vacillare. «Nel Suo Nome, io...» Non disse altro. La corona le sfuggì dalle dita e batté sonoramente sul pavimento, rimbalzando di lato e rotolando fino ai piedi delle novizie. Nella navata si levò un mormorio di commenti stupefatti, e Aquila di Guerra si voltò, accigliandosi. «Ma che diavolo fai, vecchia rimbecillita!» sibilò sottovoce. Ombra di Lancia gettò via il cuscino con lo scettro e si scoprì la testa dal cappuccio, imitata dalla compagna, e le due amazzoni snudarono le spade estraendole da sotto i mantelli. «Chiamiamola una variante della cerimonia protocollare, brutta serpe velenosa!» esclamò Goccia di Fiamma, bellicosamente. Aquila di guerra mandò un grido acuto, come fosse stata colpita da una scudisciata, e indietreggiò fino all'altare fissandole ad occhi sbarrati, pallida in viso. Nello stesso momento Zoaur dovette aver dato un segnale di qualche genere, perchè alle spalle di Goccia e di Ombra ci fu un tramestio improvviso, immediatamente seguito da grida e dal clangore delle armi. Il colpo di mano fu di brevissima durata e non costò neppure una stilla di sangue, e quando Goccia si volse a controllare la situazione con un'occhiata, vide che oltre la meta dei militi si lasciava spingere verso le pareti dagli altri, con una docilità che rivelava non solo lo stupore ma anche un certo sollievo. L'unica a reagire con furia fu Axilana, la Comandante della Guardia delle Mura, e fu anche l'unica dei presenti a restare sul terreno, perchè un pugno ben assestato di Zoaur la mandò nel mondo dei sogni mentre berciava e strillava ordini. Ombra s'era avvicinata ad Aquila di Guerra, che pareva instupidita dalla rabbia e ansimava pesantemente. «Come osi! Come osi, tu!» urlò la bionda, inferocita. «A me, Guardie! Uccidete queste traditrici sacrileghe! Massacratele!...»
Ombra non la colpì, cosa questa che irritò Goccia di Fiamma al punto di farla fremere. Si limitò invece a dire con voce gelida: «Togliti quella Cintura, Aquila. Toglitela, o mi costringerai a spiegare a Theba che ho dovuto giustiziarti per alto tradimento!» «Che la Dea mi spacchi, Ombra!» gridò Goccia. «Lascia che usi la spada. Voglio battermi con lei. Avanti, dalle questa possibilità!» «La Cintura,» ripeté Ombra senza badarle. «Mai, non l'avrai mai!» strillò invece l'altra, «Sporca arrivista ambiziosa, tu hai sempre congiurato contro di me. Intrigante maledetta. Ma la Cintura delle mie antenate non l'avrai, né tu né nessun altro!» Aquila di Guerra si sganciò il monile costellato di rosse pietre e lo gettò sul piano dell'altare, quindi tolse con un gesto furibondo la sua spada di bronzo dal fodero e la alzò a due mani. Ma un istante prima che la abbattesse violentemente per polverizzare le gemme e fracassare la montatura aurea, la cintura si mosse come animata da vita propria e l'arma della bionda amazzone si spezzò sul marmo dell'altare senza trovare il bersaglio. Il cinto fatato si sollevò nell'aria e roteò fino a dieci braccia sopra la testa di Aquila di Guerra, sostenuto da una forza ignota e scintillando di una luce sanguigna sempre più viva. I cittadini, le Sacerdotesse e gli armati mandarono un grido di meraviglia che risuonò da una parete all'altra del Tempio, mentre anche le amazzoni fissavano sbalordite l'inaspettato fenomeno. Al centro della navata Tangri s'era stretta ad un fianco di Zoaur, emozionata e spaventata. «L'Incantesimo! L'Incantesimo Sacro!» gridarono alcuni. «La Cintura di Merope vola! Un miracolo della Dea!» Per alcuni magici momenti la Cintura roteò baluginando senza sollevarsi maggiormente, quindi sembrò scivolare in avanti e in basso come un uccello da preda che piombasse verso il suolo con micidiale sicurezza, e seguita dagli sguardi dei presenti andò ad avvinghiarsi intorno alla vita di Tangri, che emise un grido. Un istante dopo, con uno scatto metallico che si udì nello stupefatto silenzio del Tempio, la fibbia si allacciò da sola e la Cintura incantata spense la luce delle sue gemme, restando inerte nella posizione che s'era scelta. «La Regina!» urlò entusiasta Zoaur, levando i pugni al cielo. «Merope vive nel sangue della sua legittima discendente Tangri, nel Nome Benedetto della Dea!» Prima che il clamore della folla si quietasse, Ombra fece avvicinare un paio di uomini e di ragazze della Guardia delle Mura, e ordinò loro di af-
ferrare Aquila di Guerra. La bionda aveva l'aria intontita e non oppose alcuna resistenza. Sembrò non udire neppure le parole dell'altra, quando essa comandò di trasferirla seduta stante nella prigione, ed il suo allontanamento sotto scorta dalla scena venne seguito da fischi e grida di soddisfazione. Anche Tangri aveva l'espressione di chi non capisce assolutamente cosa gli sta accadendo, ma la fanciulla si lasciò condurre verso l'altare con docilità da uno Zoaur che sorrideva felice e la guardava con una luce di adorazione negli occhi. Goccia di Fiamma e Ombra la baciarono, e solo nel vedersi strizzare l'occhio dall'amazzone dai capelli rossi ella trovò un sorriso timido col quale sostenere la sua situazione. «Ma non è... insomma, non è possibile che io...» balbettò. «È possibilissimo, tesoro,» la rassicurò Goccia. «Più tardi ti spiegherò, ma stai certa che la Corona di Merope ti spetta di diritto non meno della sua Cintura. A proposito, dov'è finita la Corona?» Melize avanzò con andatura grave, portandola sulle mani, e nel Tempio si levò un alto coro di acclamazioni rumorose. Qualcuno mise ordine fra i presenti, le Guardie delle Mura si schierarono impettite ignorando il disordine e le armi che ancora giacevano sul pavimento, e le suonatrici di tromba corsero ai loro precedenti posti sollevando gli strumenti. La Sacerdotessa alla quale Ombra di Lancia aveva tolto lo scettro prima del colpo di mano si avvicinò reggendolo sul suo cuscino di seta, e guardò storto le due amazzoni, quasi sfidandole a derubarla una seconda volta. Zoaur le chiamò da una parte con gesti seccati, ma ridacchiando, ed esse si tolsero di mezzo mentre Melize si schiariva la voce. Poco più tardi, al termine di una litania d'invocazioni e di benedizioni rituali, Tangri assumeva un'espressione sciocca nel sentirsi calcare il cerchio dorato sui capelli biondi. Le trombe suonarono e continuarono a suonare, le novizie corsero avanti cantando e spargendo altri petali di fiori, e quindi sciamarono fuori dal Tempio annunciando alla folla sul piazzale che Mohenjdar aveva una nuova Regina. Goccia di Fiamma si guardava attorno annuendo e sorridendo, emozionata, ed anche Ombra aveva quasi le lacrime agli occhi nell'osservare come Tangri sembrasse di nuovo la ragazzina incerta che un giorno, in un tempo che forse non era mai esistito, aveva narrato timidamente la sua storia nella sala del trono delle Terre Basse, domandando aiuto. In un modo o nell'altro quell'aiuto glielo avevano dato, disse a se stessa la bruna. Quando la cerimonia era ormai conclusa, e le Sacerdotesse ai lati dell'al-
tare stavano intonando un canto festoso, all'esterno del grande edificio sembrò nascere una certa confusione. Tra la gente che si accalcava presso l'ingresso ci fu agitazione, e due militi della Guardia delle Mura corsero dentro fin davanti all'altare. «Le guerriere del Vecchio Popolo! Regina, è una magia! Un miracolo!» gridò uno di essi. «Sono arrivate!» strillò l'altro. «Alle porte della città ce n'è un intero esercito!» «Che cosa?» esclamò Ombra, facendosi avanti. «Ma di che parli, uomo?» «Le guerriere, o Inviata! Le invincibili schiere che tu comandi stanno giungendo lungo la valle!» ansimò lui. Le due amazzoni si scambiarono un'occhiata stupefatta, poi corsero fuori. Quando oltrepassarono la porta meridionale di Mohenjdar, quella da cui erano entrate il giorno prima, dovettero farsi largo fra la folla che s'era radunata lungo le murali. «Lasciate passare! Lasciate passare!» ordinò la voce di Zoaur dietro di loro. Tangri le aveva seguite, accompagnata da alcune guardie che stentavano ad aprirle la strada, e una volta che la fanciulla ebbe affiancato Goccia di Fiamma le si aggrappò a un braccio. «Cosa succede? Chi sono quelle guerriere laggiù?» balbettò. L'amazzone non fu capace di risponderle, perchè faticava a convincersi di non esser preda di un'allucinazione: lungo la riva del Lago Van stava avanzando al trotto la Cavalleria della Dea, al comando di Brezza dell'Est, mentre sulla sinistra gli Squadroni appiedati delle miliziane che avevano varcato i Monti Grigi procedevano tra i campi gialli di grano, in formazione di combattimento. «Sono le nostre compagne, cara. Non aver timore,» spiegò Ombra, emozionata. «Anche se avrei giurato che... Oh, Dea!» L'amazzone bruna si azzittì, con un gesto che esprimeva la sua incapacità di afferrare la logica di quell'avvenimento. Goccia di Fiamma invece accennò verso la cintura di Tangri, commentando: «È un altro scherzo di queste gemme dei miei stivali, ecco cos'è. E speriamo che sia l'ultimo, perchè un'altra sorpresa di questo genere giuro che non la reggerei!» Da lì a poco gli Squadroni conversero in direzione delle mura, la Cavalleria li oltrepassò tenendosi sulla strada, e le Comandanti ordinarono l'alt
alla truppa. Brezza dell'Est arrivò a cavallo insieme a Maani e le due smontarono di sella. Dai campi giunsero di corsa Ilsabet, Rhylla e Hay Varena, tallonate da una dozzina di caposquadra, e nel vedersi venire incontro Ombra di Lancia esibirono facce stupite. «Comandante, temevamo per la tua sorte!» esclamò Ilsabet. «Ieri, non vedendovi tornare al campo... Ma dove sono le Teste Nere?» «Sì, che fine hanno fatto?» sbottò Hay Varena per nulla tranquillizzata da quella novità. «Hanno già rinunciato all'assedio? Stamattina eravamo tutte convinte di dover vendicare la tua morte, e le ragazze hanno una gran voglia di battersi.» «Calma,» disse Ombra di Lancia. «Ilsabet, tieni indietro gli Squadroni. Non voglio che succedano stupidi incidenti. Come vedete, i Sumerici non sono più qui.» Le domande fioccarono, e la bruna dovette placare la curiosità delle colleghe inventando sui due piedi alcune brevi spiegazioni preliminari che esse poterono capire. Se la cavò ignorando le richieste meno facili da soddisfarsi, e cominciò a dare ordini per far sistemare le miliziane nei campi già mietuti. La vista di Tangri, incoronata e circondata da guardie armate, diede a Brezza dell'Est motivo per altre domande ancora, e Ombra fu infine costretta a prendere sotto braccio la Comandante della Cavalleria ed a portarla in disparte per farle un resoconto degli avvenimenti. Dalla città usciva intanto sempre più gente, e le amazzoni vennero circondate da una folla di curiosi. Rhylla e Hay Varena baciarono Tangri sulle guance, Maani scambiò con Goccia di Fiamma allegre manate sulle spalle e battute scherzose, e quando i cittadini di Mohenjdar ebbero capito che la loro Regina accoglieva in grande amicizia le nuove venute, l'atmosfera si fece allegra e confusa. Zoaur si trovò improvvisamente promosso a Comandante della Guardia delle Mura, ma non poté dare alcun ordine perchè le amazzoni che arrivavano ad abbracciare Tangri subito dopo si trattenevano anche con lui e con altri militi di Mohenjdar, complimentandosi per aver saputo la città resistere alle Teste Nere e scampare a un pericolo terribile, frasi queste che lasciavano esterrefatti e confusi chi le ascoltava. «Certo è accaduto un fausto evento,» fu soltanto capace di ripetere l'uomo. «Certo, oggi è un lieto giorno per la nostra città.» «E vi abbiamo riportato la vostra Regina!» gridò Rhylla, stringendo a sé Tangri affettuosamente. «Bene, gente, oggi stesso dovremo festeggiare l'avvenimento. E spero che a Mohenjdar ci siano abbastanza taverne, perchè le ragazze del mio Squadrone devono rifarsi dalle fatiche del viaggio e
hanno sete.» «Naturalmente faremo una grande festa,» annuì Tangri, stordita e sorridente. «Le guerriere del Vecchio Popolo sono nostre sorelle, unite per sempre a noi dalla benedizione della Dea!» Le Comandanti e le ufficialesse vennero circondate da uomini e donne che le salutarono con effusione e le condussero fra grida e acclamazioni dentro la città. Goccia di Fiamma fu presa sottobraccio da Rhylla e da Hay Varena, e si accorse che poco più in là Ombra era riuscita a piantare in asso Brezza dell'Est consegnandola a Zoaur. A sua volta venne però attorniata da un gruppetto di cittadini festosi e trasportata oltre la porta. Quasi tutte le caposquadra delle miliziane che si erano avvicinate al seguito delle Comandanti di Squadrone stavano subendo la stessa sorte, e Goccia fu certa che quella sera la disorganizzazione fra le amazzoni arrivate sul Lago Van sarebbe stata enorme. «Se qualcuno non torna a occuparsi delle ragazze, stasera non monteranno neppure il campo,» disse. «E domani fioccheranno le punizioni.» «A me non importa proprio nulla,» proclamò Hay Varena. «Sono stanca di marciare nel tango, e se quella piantagrane della tua compagna vorrà ritrovarmi, dovrà fare il giro di tutte le taverne della città!» «Mi associo,» rise Rhylla. «E giuro odio eterno a tutte le miliziane che stanotte non si faranno ripescare dalle loro caposquadra dal fondo di una botte. Domani poi voglio fare il giro di tutte le botteghe; ho visto che questa gente ha dei vestiti eleganti, e io non ne posso più di indossare uniformi rozze e puzzolenti. E mi intreccerò fiori fra i capelli e sarò bella!» «Quand'è così,» si rassegnò Goccia di Fiamma, «mi vedo costretta a tenervi sotto sorveglianza come al solito, unicamente allo scopo di controllare che non vi servano birra scadente e vino acido. E questa sera andremo con Maani e Ilsabet ad allietare l'umore dei carcerati con qualche canzoncina. Nella prigione sotto il Tempio c'è una persona che certo gradirà di vedersi visitare da un gruppo di ragazze amanti della musica e ben intonate di voce.» L'amazzone si rifiutò fermamente di rivelare alle altre di chi si trattava, e sottobraccio alle amiche proseguì nella via principale di Mohenjdar, mentre la gente si stringeva attorno a loro e dalle finestre delle case gli abitanti si sporgevano a salutarle allegramente. FINE