PATRICIA CORNWELL CROCE DEL SUD (Southern Cross, 1998) A Marcia H. Morey, grande sostenitrice di una riforma della legge...
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PATRICIA CORNWELL CROCE DEL SUD (Southern Cross, 1998) A Marcia H. Morey, grande sostenitrice di una riforma della legge sui minori, per tutto quello che ha fatto e che mi ha insegnato 1 L'ultimo lunedì di marzo incominciò ricco di promesse nella storica città di Richmond, in Virginia, dove i nomi delle famiglie più importanti erano sempre i medesimi dai tempi di una guerra mai dimenticata. Non c'era molto traffico, né per le strade né in Internet. Regnava la quiete: gli spacciatori dormivano, le prostitute erano stanche, quelli che di solito guidavano in stato di ebbrezza erano sobri, i pedofili si preparavano per andare al lavoro, gli antifurto tacevano e le liti domestiche erano temporaneamente sospese. Perfino all'obitorio era tutto tranquillo. Richmond, costruita su sette colli (oppure otto, a seconda di chi li conta), è una città orgogliosa che fa risalire le proprie origini a un manipolo di avventurieri inglesi che, nel 1607, si persero da quelle parti e rivendicarono quella regione piantando nel nome del loro re una croce sulle rive del fiume, che prevedibilmente chiamarono James. Nel corso degli anni la colonia affrontò le inevitabili traversie di una storia caratterizzata da un aspro risentimento contro gli inglesi, rivolte, malanimo, fustigazioni, scalpi, trattati non rispettati e vite stroncate nel fiore degli anni. I pellerossa del luogo scoprirono l'acqua di fuoco e il mal di testa che viene dopo una sbornia e scambiarono erbe, pietre e pellicce con asce, munizioni, stoffe, pentole e altra acqua di fuoco. Arrivarono gli schiavi dall'Africa. Thomas Jefferson fece costruire Monticello, il Campidoglio e il penitenziario di Stato, fondò la University of Virginia, partecipò alla stesura della Dichiarazione d'Indipendenza e fu accusato di aver generato un certo numero di figli mulatti. Fu realizzata la ferrovia e l'industria del tabacco cominciò a prosperare, senza nessuno che le facesse causa. Nel complesso, tutto procedette per il meglio fino al 1861, quando la Virginia decise di staccarsi dall'Unione e l'Unione non gradì. Richmond
uscì sconfitta dalla Guerra di Secessione e cercò di barcamenarsi senza schiavi e senza denaro. L'ex capitale della Confederazione rimase fieramente fedele alla sua causa e la sua bandiera, la Croce del Sud, continuò a sventolare anche nel secolo successivo, quando scoppiarono nuove e più terribili guerre che, essendo combattute altrove, coinvolsero solo marginalmente i suoi abitanti. Alla fine del Ventesimo secolo Richmond attraversava un brutto periodo. Era la seconda città del paese per criminalità, il turismo versava in crisi, i minorenni andavano a scuola armati, negozi e abitanti si trasferivano nelle contee vicine e la base tributaria si stava restringendo. Autorità ed enti locali erano in lite perpetua e la residenza d'anteguerra del governatore doveva essere ristrutturata con una certa urgenza. I delegati dell'Assemblea generale non facevano altro che battere i pugni sul tavolo e insultarsi a vicenda, mentre il presidente della Commissione trasporti girava armato. Nel corso delle loro migrazioni al Nord e al Sud zingari disonesti sostavano in città, diventata inoltre un passaggio obbligato per i narcotrafficanti che percorrevano la I-95. Era tempo che arrivasse una donna a mettere un po' d'ordine. O forse fu un attimo di disattenzione collettiva, fatto sta che a capo del dipartimento di polizia era stata nominata per la prima volta una donna, che in quel momento stava portando a passeggio la sua cagna. Crochi e giunchiglie erano in fiore e le prime luci di un mattino insolitamente caldo rischiaravano l'orizzonte. Gli uccellini cinguettavano sui rami pieni di gemme e il comandante Judy Hammer si sentiva in forma e di buon umore. «Brava, Popeye» disse alla cagna. Non era un nome molto carino, d'altra parte il terrier aveva gli occhi un po' sporgenti, e quando la cucciolotta era apparsa in televisione e Judy Hammer era corsa al telefono per adottarla, era già Popeye e rispondeva solo a chiamarla così. La Hammer e Popeye procedevano di buon passo per le strade di Church Hill, nucleo originario della città, poco distante dal punto in cui gli inglesi avevano piantato la loro croce. Recentemente ristrutturato, era un quartiere di vecchie case con grandi verande e cancellate di ferro battuto, tetti d'ardesia, architravi in pietra, rifiniture di legno intagliato, vetrate istoriate, porticati, timpani, grossi camini e pittoreschi seminterrati all'inglese. Arrivarono in fondo a East Grace Street, uno dei punti panoramici più frequentati della città, con la stazione radio WRVA da una parte e la casa della Hammer dall'altra, una costruzione in stile impero costruita dal pro-
prietario di una manifattura di tabacco alla fine della Guerra di Secessione. Le erano piaciuti il tetto piatto, il porticato di granito e i cornicioni ornamentali; inoltre, Judy Hammer sceglieva sempre di stare al centro della propria giurisdizione e preferiva le case che avevano una storia alle spalle. Aprì la porta, disinserì l'allarme, tolse il guinzaglio a Popeye e le fece fare un ripasso veloce di una serie di comandi che le aveva insegnato, ricompensandola con biscottini. Poi andò in cucina a fare il caffè, come prevedeva il rito mattutino: ogni giorno, dopo la passeggiata e il rapido corso di addestramento per il cane, si sedeva in salotto a leggere il giornale godendosi una vista che comprendeva il Campidoglio, il Medical College of Virginia e il Biotechnology Research Park della Virginia Commonwealth University. Si diceva che Richmond stesse diventando la "città della scienza", luogo di ricerca, cultura e benessere. Il comandante del dipartimento di polizia non poteva però ignorare le ciminiere cadenti, i binari arrugginiti, i viadotti inutilizzati, le fabbriche dismesse e i magazzini di tabacco abbandonati. Sapeva che vicino al centro c'erano cinque quartieri dormitorio, oltre ai due nel Southside che, per esprimersi in maniera non proprio politically correct, erano ricettacoli di delinquenza e di violenza, a testimonianza del fatto che il Sud stava ancora perdendo la sua guerra civile. Judy Hammer osservava la città che l'aveva chiamata a risolvere problemi apparentemente insolubili. Vide che il sole si stava alzando e sperò che il generale inverno non tornasse a farsi sentire da un momento all'altro. Succedeva fin troppo spesso che le poche cose belle in una vita carica di stress e di fatica venissero brutalmente cancellate... Parecchi dubbi cominciarono ad affollarle la mente. Quando aveva intrapreso la strada che l'aveva portata a Richmond, non l'aveva fatto per desiderio di fuga. I suoi due figli erano già grandi e si erano allontanati prima della malattia che la primavera precedente aveva stroncato il loro padre, Seth. Judy Hammer si era fatta coraggio, forte della propria missione nella vita, ed era andata avanti impavida. Aveva dato le dimissioni dal dipartimento di polizia di Charlotte, dove era stata prima osteggiata e poi ossequiata per i miracoli che aveva compiuto, e aveva deciso di andare a mettere un po' d'ordine al Sud. Così aveva proposto al National Institute of Justice di affidarle un dipartimento di polizia all'anno, con l'obiettivo di organizzare una rete di collaborazione fra le varie città, sulla base dell'uno per tutti, tutti per uno. La filosofia di Judy Hammer era molto semplice. Non credeva nei diritti
dei poliziotti e sapeva per esperienza che quando qualcuno, indipendentemente dalla carica, si metteva in testa di poter fare il bello e il cattivo tempo dissociandosi dal resto del dipartimento, i risultati erano catastrofici. La criminalità aumentava, la percentuale dei casi risolti calava e i dissapori erano all'ordine del giorno. I cittadini si barricavano in casa, armati, fregandosene di tutto e di tutti e se la prendevano con la polizia che avrebbe dovuto proteggerli. Per cambiare le cose, la Hammer si ispirava al Comstat, un modello per il controllo della criminalità elaborato su basi statistiche, già introdotto a New York. Dietro quella sigla c'era molto più di una semplice mappatura delle aree ad alto rischio: il principio su cui si basava il Comstat era che ognuno fosse tenuto a rispondere del proprio operato. Nessuno doveva più giocare allo scaricabarile, voltarsi dall'altra parte e far finta di niente, dire che non ne sapeva o che non poteva farci nulla, che non era stato informato o che si era dimenticato, che stava giusto per occuparsene ma poi era successo qualcosa, si era sentito poco bene, era suonato il telefono o finito il turno, perché ogni lunedì e ogni venerdì la Hammer si riuniva con i rappresentanti dei vari distretti e delle varie divisioni e non ammetteva scuse. Il suo piano di battaglia era tipicamente nordista, tuttavia il destino aveva voluto che, quando la sua proposta era arrivata al consiglio comunale di Richmond, la preoccupazione per i disordini, gli abusi e la violenza fosse più grave che mai. Lì per lì l'idea che arrivasse qualcuno a risolvere i problemi della città non era parsa cattiva e Judy Hammer era stata nominata comandante del dipartimento di polizia ad interim e autorizzata a portarsi dietro i due assistenti con cui aveva lavorato a Charlotte. Cominciando a occuparsi di Richmond, la Hammer si era ben presto scontrata con un'ostilità che si sarebbe poi trasformata in odio aperto. I patriarchi della città volevano rispedirla a casa insieme con la sua squadra dell'NIJ, perché lì non avevano nulla da imparare dai newyorchesi, e sarebbero morti piuttosto che seguire l'esempio di quei rinnegati approfittatori di Charlotte che avevano l'abitudine di portarsi via le banche di Richmond e i posti migliori nella classifica di "Fortune". Il vicecomandante Virginia West sbuffava e faceva smorfie mentre correva sulla pista del campo sportivo dell'università. Il sole si stava alzando sui tetti di ardesia dei superbi edifici gotici della University of Richmond e gli studenti erano ancora tutti a letto, tranne due ragazze che si allenavano. «Non ce la faccio più» borbottò all'agente Andy Brazil. Lui controllò l'ora. «Ancora sette minuti» rispose. «Dopo potrai andare
al passo.» Era l'unica occasione in cui lei prendeva ordini da Brazil. Era vicecomandante a Charlotte quando lui era ancora all'accademia di polizia e scriveva sul "Charlotte Observer". Poi la Hammer li aveva voluti con sé a Richmond, lei a capo dell'Investigativa e lui incaricato di seguire ricerca e informazione e di creare un sito web. Si sarebbe pertanto potuto arguire che avessero un ruolo paritario nella squadra della Hammer, ma Virginia West continuava a considerarsi superiore. Aveva più potere e più esperienza, era più brava nel tiro a segno e nel corpo a corpo e una volta aveva perfino ucciso un ricercato, sebbene non fosse una cosa di cui andava fiera. La loro relazione a Charlotte era cominciata quando lei lo accompagnava nelle ronde notturne: Andy si era preso una cotta e Virginia lo aveva assecondato finché a lui non era passata. Tutto lì. «Siamo gli unici, a parte quelle due, che devono far parte della squadra di atletica oppure sono anoressiche» protestò Virginia nonostante il fiato corto. «E lo sai perché? Perché è una stronzata: a quest'ora dovrei essere a casa, a leggermi il giornale davanti a una bella tazza di caffè invece che qui ad ammazzarmi di fatica.» «Se tu la piantassi di parlare, prenderesti il ritmo e soffriresti meno» ribatté lui, che correva senza sforzo con la tuta del dipartimento di polizia di Charlotte e un paio di scarpe Saucony che sibilavano ritmicamente sul tartan. «Dovresti smetterla di andare in giro con la roba di Charlotte» continuò lei. «I poliziotti di qui non ci vedono di buon occhio già così, che bisogno c'è di farsi addirittura odiare?» «Non credo che ci odino.» Brazil cercava di essere positivo nei confronti dei colleghi, nonostante il loro atteggiamento poco disponibile e scorbutico. «Invece sì.» «I cambiamenti non piacciono a nessuno» le ricordò lui. «Tranne che a te» ribatté Virginia. Era una velata allusione alle voci che avevano cominciato a circolare la settimana successiva al loro arrivo a Richmond, secondo cui fra Andy e la sua padrona di casa, una ricca signora che viveva sola a Church Hill, c'era del tenero. Virginia non aveva voluto approfondire l'argomento né controllare la fondatezza di quelle voci. Preferiva non sapere, si rifiutava di andarlo a trovare e arrivava perfino a evitare di passare davanti a casa sua.
«Se sono cambiamenti in meglio, perché no?» riprese Brazil. «Vedi?» «A te dispiace essere venuta via da Charlotte?» «Sì.» Andy allungò un poco il passo per non vederla in faccia. Lei non gli avrebbe mai perdonato di averla convinta ad andare a Richmond con lui dicendole che ci teneva molto e toccando i tasti giusti come solo lui sapeva fare. Così Virginia era partita sulla spinta di sentimenti che evidentemente lui non provava più. Andy si era lanciato in una splendida elegia, ma aveva finito per dedicarla a un'altra. «Non ho un cavolo qui» continuò lei, che usava le parole con il piglio con cui piantava i chiodi nel muro, «se vogliamo dire le cose come stanno.» Era una che non dava la vernice senza aver prima carteggiato come si deve. «Fa schifo.» Pane al pane, vino al vino. «Fortuna che è solo per un anno.» Per tutta risposta, Brazil allungò il passo. «Mi sembra di essere l'unità chirurgica mobile dell'esercito, hai presente?» aggiunse lei. «Ma chi vogliamo prendere in giro? È tempo sprecato. Non serve assolutamente a niente.» Andy controllò di nuovo l'ora. Sembrava che non la stesse nemmeno a sentire, il bel fisico atletico e il sole che gli brillava fra i capelli, e a Virginia venne voglia di superarlo. Ma in quel momento le due ragazze la passarono con un agile scatto, sudate, le gambe muscolose e asciutte, e Virginia si scoraggiò, sentendosi di colpo vecchia. Si fermò e si chinò, mani sulle ginocchia. «Basta» dichiarò senza fiato. «Ancora quarantasei secondi» la incitò Andy seguitando a correre sul posto e guardandola. «Continua tu, se vuoi.» «Sicura?» «Corri, corri!» Gli fece segno di andare. «Uffa!» esclamò poi, sentendo vibrare il cellulare che aveva alla cintura. Si spostò verso le gradinate, allontanandosi da quegli sportivi forti e vigorosi che la facevano sentire inadeguata. «West» rispose. «Virginia? Sono...» La voce di Judy Hammer si sentiva appena. La linea era disturbatissima. «Pronto?» gridò Virginia. «Comandante?»
«Virginia, mi senti?» Si tappò l'altro orecchio per ascoltare meglio. «Stronzate...» proruppe una voce maschile. La West si spostò alla ricerca di un punto in cui la ricezione fosse migliore. «Virginia?» disse fievolissima la voce della Hammer. «... quando vuoi si fa... le solite regole...» riprese la voce maschile. Aveva un accento del Sud. Virginia provò un'immediata antipatia. «... di questi tempi... ammazzarli... bisogna... così impara...» diceva a sprazzi la voce dell'uomo del Sud. «... brutta cagna... spariamo...» Un'altra voce maschile, sempre con l'accento del Sud, chiese: «Quanto?» «Dipende... Magari duecento...» «... resti fra noi...» «... se qualcuno... viene a sapere...» «... guai...» «Che cosa?» gridò la voce della Hammer prima di sparire subito dopo. «... canne... non la tua pistola... merda! Sì, blu, eh...» «Comandante Hammer?» La West stava per dire qualcosa, ma si bloccò pensando che forse anche i due uomini potevano sentirle. «... quegli animali... sporchi...» riprese il primo uomo. «... sono troppo scemi.... Dismal Swamp...» «Capito, Bubba... tra due guanciali...» «Okay, Macchia Nera... mattino presto?» Virginia West era ammutolita, scioccata, nell'ascoltare i due uomini che si mettevano d'accordo per commettere un omicidio, forse per motivi razziali, oppure un delitto passionale o un regolamento di conti. Presumibilmente avrebbero agito la mattina presto. Si chiese se avessero in mente di usare qualche arma particolare, magari un fucile a canne mozze o di colore blu. Forse pensavano di soffocare la vittima con dei cuscini e gettarne il cadavere in una palude a Dismal Swamp. La linea era sempre disturbatissima. «Loraine» disse a un certo punto la voce di quello che si chiamava Bubba «... al vecchio benzinaio... fari spenti... così non...» La voce si perse in una serie di fischi e di ronzii, poi migliorò notevolmente. «Comandante Hammer?» chiamò la West. «Pronto? Mi senti?» «Bubba...» disse l'altra voce maschile. «Qualcuno ci...»
Fischi, fruscii, scariche. «Maledizione» borbottò la West perdendo del tutto il segnale. Il vero nome di Bubba era Butner Fluck IV. A differenza di tanti altri appassionati di pick-up, armi, club per soli uomini e devoti alla Croce del Sud, era figlio di un teologo che abitava nel Northside, in Ginter Park, dove si ergevano case grandi e vecchie e nei giardini erano in bella mostra palle di cannone dei tempi della Guerra di Secessione. Da diverse generazioni i rampolli della famiglia Fluck venivano chiamati Butner e soprannominati But. L'erudito pacire di Bubba, l'esimio dottor But Fluck III, non capiva che per un bambino, al giorno d'oggi, chiamarsi But comportava una serie di problemi. Già in prima elementare il piccolo Bubba era stato bersaglio di scherzi e prese in giro, sussurrati in classe e gridati nel cortile e ai giardini, oltre che scritti su biglietti passati di banco in banco o infilati di nascosto negli stipetti. Lui si firmava But Fluck e sui registri compariva come Fluck But; tuttavia, comunque lo si rigirasse, era un nome ridicolo che si prestava a un numero infinito di storpiature ancora più ridicole. Per il suo nono compleanno But aveva chiesto una tuta mimetica e armi giocattolo. Mangiava moltissimo e passava il tempo a giocare nei boschi dando la caccia a prede immaginarie. Leggeva giornaletti e riviste che parlavano di soldati mercenari, anarchici, camionette o armi d'assalto, che illustravano le battaglie della Guerra di Secessione e mostravano donnine in abiti succinti. Collezionava manuali di sopravvivenza, pesca e caccia, meccanica ed elettricità, come riparare da soli la propria automobile e così via. Fumava di nascosto ed era maleducato. A dieci anni aveva cominciato a farsi chiamare Bubba e a essere temuto da tutti. Quel lunedì mattina presto, Bubba stava tornando a casa in macchina dopo aver finito il proprio turno di lavoro alla Philip Morris; aveva l'apparecchio CB e la ricetrasmittente accesi, il cellulare inserito nella presa dell'accendisigari, un cd di Eric Clapton in sottofondo e una Colt Anaconda calibro 44 in acciaio inossidabile, con canna da otto pollici e mirino Bushnell Holo, a portata di mano sotto il sedile. C'era una selva di antenne sulla sua Cherokee rossa del 1990 che, secondo la Guida all'acquisto dell'usato sicuro, non era consigliabile comprare di seconda mano, ma Bubba non lo sapeva. Del resto non sapeva nemmeno del contachilometri truccato, né degli incidenti che aveva avuto. Bubba non aveva motivo di dubitare del suo amico Joe Bruffy, detto Macchia Ne-
ra, che l'anno prima gli aveva venduto la jeep per soli tremila dollari in più rispetto alla valutazione indicata sulle riviste specializzate. Era proprio con lui che Bubba stava parlando al cellulare poco prima, quando c'era stata quell'interferenza. Non aveva capito che cosa dicevano le due voci femminili, ma aveva sentito nominare il comandante Hammer: non poteva essere un caso. Bubba aveva ricevuto un'educazione presbiteriana e per lui predestinazione, volontà divina, esegesi e stole colorate avevano un significato ben preciso. Sebbene da ragazzo si fosse ribellato e avesse studiato storia delle religioni orientali per fare dispetto al padre, l'indottrinamento precoce aveva sortito i suoi effetti: Bubba credeva che tutto avesse uno scopo e che, nonostante i suoi molti difetti e insuccessi, se avesse accumulato una buona dose di karma positivo o trovato un minimo di sintonia fra yin e yang, anche lui avrebbe potuto scoprire la propria ragione d'essere. Nel sentir nominare il comandante Hammer al telefono, perciò, si era sentito al tempo stesso ingiustamente perseguitato ed euforicamente pieno di energia. Mentre percorreva Midlothian Turnpike diretto all'officina di Volpone, questa volta perché gli entrava acqua dal parabrezza, si sentì di colpo trasformato in un guerriero con una missione da compiere. Afferrò il microfono della ricetrasmittente Kenwood. «Unità 1 a Unità 2» chiamò, provando a mettersi in contatto con la moglie Dolcezza mentre procedeva sulla superstrada a quattro corsie che, dalla contea di Chesterfield, portava alla periferia della città. Nessuna risposta. Notò nello specchietto retrovisore un'auto della polizia e rallentò. «Unità 1 a Unità 2» riprovò. Nessuna risposta. Quando una testa di cazzo su una Ford Explorer bianca fece per tagliargli la strada accelerò. «Unità 1 a Unità 2!» Lo irritava non poco che la moglie non rispondesse subito. Gli occhiali scuri del poliziotto lo fissavano nello specchietto retrovisore. Il balordo sull'Explorer aveva messo la freccia per rientrare nella corsia davanti a lui, ma Bubba premette sull'acceleratore. Intanto stava pensando a come chiamare la moglie. Prese il cellulare, però cambiò subito idea. Meditò se riprovare con la ricetrasmittente e infine decise di lasciar perdere: visto che non aveva risposto né alla prima né alla seconda, peggio per lei. Afferrò il microfono dell'apparecchio CB, sempre controllando sia il
poliziotto nello specchietto sia l'Explorer. «Macchia Nera» chiamò al CB. «Se ci sei batti un colpo.» «Unità 2» rispose affannata la voce di sua moglie. Nello stesso momento squillò il cellulare. «Scusa tanto, ma...» diceva ansante la voce di Dolcezza. «Ero... Oh, aspetta un momento che riprendo fiato... uuh... Stavo rincorrendo Half Shell... Quella cagnaccia non ne voleva sapere di...» Bubba la ignorò e rispose al telefono. «Bubba?» Era Gig Dan della Philip Morris, il suo capo. «Pronto!» rispose Macchia Nera al CB. «Unità 2 a Unità 1?» chiese ansiosa Dolcezza. «Ciao, Gig» fece Bubba al cellulare. «Che c'è?» «C'è che mi servi per la seconda metà del secondo turno» spiegò Gig. «Tiller è in malattia.» "Merda" pensò Bubba. Proprio quel giorno che aveva un sacco di cose da fare e i minuti contati. All'idea di entrare al lavoro alle otto di quella sera e starci dodici ore filate gli veniva da vomitare. «Affermativo» rispose a Gig. «Quando si va, allora?» insisteva Macchia Nera. A Bubba non piaceva granché andare a caccia di procioni: Half Shell non aveva quello che si può definire un fiuto imbattibile e mi aveva paura dei serpenti. A parte il fatto che vinceva sempre Macchia Nera e a Bubba toccava immancabilmente sborsare un sacco di soldi. «Prima che cominci la stagione dei biscioni» rispose Bubba facendo il duro. «Organizza tu.» «Tranquillo, amico» replicò Macchia Nera. «Puoi dormire fra due guanciali.» 2 Smoke era un ragazzo con dei problemi. I primi erano venuti fuori in seconda elementare, quando aveva rubato il portafoglio al maestro, preso a pugni una compagna di classe, portato a scuola un revolver, dato fuoco a un certo numero di gatti vivi e fatto a pezzi la station wagon della direttrice con una spranga di ferro. Durante la carriera scolastica a Durham, nel North Carolina, Smoke aveva collezionato cinquantadue sospensioni per cattiva condotta, abbigliamento sconveniente, possesso di pubblicazioni pornografiche, assenza
ingiustificata, falsificazione di firma, gioco d'azzardo, furto, estorsione, molestie e aggressione. Era stato arrestato sei volte per reati che andavano dalla violenza sessuale all'omicidio, era stato in libertà condizionata, sia semplice sia vigilata e con restrizioni speciali, in un centro di recupero alternativo al carcere, in un carcere minorile, in una comunità terapeutica e in un istituto di igiene mentale dove, fra l'altro, aveva seguito un corso per imparare a controllare la propria aggressività. A differenza della maggioranza dei minori che hanno problemi con la giustizia, Smoke aveva dei genitori che si presentavano in tribunale, lo andavano a trovare in carcere e gli pagavano avvocati che inevitabilmente finivano per ricusare perché Smoke non li gradiva. Lo iscrissero in quattro diverse scuole private, che vennero incolpate della mancanza di qualsiasi miglioramento nella condotta del figlio. Il padre, che lavorava in banca, era convinto che Smoke fosse particolarmente intelligente ma incompreso. La madre gli era molto affezionata e lo difendeva sempre e comunque, non riuscendo a credere che fosse colpevole. Entrambi i genitori pensavano che la polizia ce l'avesse con lui, fosse corrotta e lo usasse come capro espiatorio. Scrissero letteracce al procuratore distrettuale, al sindaco, al procuratore generale ai governatore e, quando Smoke fu rinchiuso nella C.A. Dillon Training School di Butner, perfino a un senatore. Smoke naturalmente non vi rimase a lungo, perché al compimento dei sedici anni, ai sensi della legge del North Carolina, non era più minorenne e andava quindi rilasciato. La sua fedina penale fu ripulita, le sue impronte e le foto segnaletiche distrutte, i suoi precedenti cancellati. A quel punto i genitori pensarono che fosse meglio trasferir si in un'altra città in cui la polizia, la cui memoria non si poteva cancellare per decreto, non conoscesse Smoke e non ce l'avesse con lui. Fu così che andarono a stare a Richmond, in Virginia, dove Smoke quella mattina si sentiva particolarmente in vena di trasgressione. «Abbiamo venti minuti» disse a Divinity. La ragazza gli teneva la testa appoggiata sulla spalla mentre lui guidava la Ford Escort che il padre gli aveva comprato appena aveva preso la patente in Virginia. Divinity lo sbaciucchiava sul collo, accarezzandolo con una mano in mezzo alle gambe per sincerarsi che tutto fosse a posto. «Abbiamo tempo a volontà, tesoro» gli sussurrò nell'orecchio. «'Fanculo la scuola 'Fanculo lo stronzetto che accompagni in macchina.»
«Abbiamo un piano, te lo sei scordato?» le disse. Indossava un paio di scarpe da ginnastica, una tuta, una bandana sulla testa e occhiali scuri. Stava guidando nel West End, non lontano dalla Crestar Bank di Patterson Avenue, quando notò una villa di mattoni rossi in Kensington Street senza macchine davanti né giornale sulla porta. Deducendo che in casa non ci fosse nessuno, parcheggiò lì di fronte. «Se qualcuno viene ad aprire, stiamo cercando la Community High School» ricordò a Divinity. «Non esiste» rispose lei scendendo. La ragazza suonò due volte alla porta, senza ottenere risposta. Smoke passò dalla parte del passeggero e Divinity lo portò alla Crestar Bank. Il cielo era limpido e chiaro e l'affluenza stava aumentando a mano a mano che la gente, dopo il fine settimana, cominciava a rendersi conto di essere rimasta senza contanti. Smoke constatò soddisfatto che in quel momento allo sportello automatico non c'era nessuno e scese dalla macchina. «Sai cosa devi fare» ricordò a Divinity. Si incamminò verso la banca mentre lei ripartiva e si appostò in posizione defilata. Poco dopo arrivò un giovane su una Honda Civic. Smoke si avvicinò cautamente, calcolando il tempo giusto. Il giovane, intento a prelevare, non notò la sagoma che si muoveva fuori del raggio d'azione della telecamera. Smoke agiva in modo così rapido che le sue vittime di solito rimanevano impietrite per lo shock. Mise del nastro adesivo sull'obiettivo della telecamera e quindi sugli occhi del giovane, poi gli piantò la canna della Glock nella schiena. «Fermo lì. Non ti muovere» disse a bassa voce. Il giovane restò immobile. «Passami i soldi. Piano piano.» Il giovane glieli passò. Smoke si diede un'occhiata intorno e vide una macchina proveniente da Patterson Avenue dirigersi verso di loro. Staccò il nastro adesivo dalla telecamera e corse via, prendendo Libbie Avenue e quindi Kensington Street fino alla villa di mattoni rossi dove lo stava aspettando la Escort. «Quanto hai fatto?» gli chiese Divinity mentre lui saliva in macchina con aria disinvolta. «Venti, quaranta, sessanta, ottanta, cento» contò Smoke. «Togliamoci di qua.»
Judy Hammer non riusciva a crederci: era senza dubbio una delle cose più strane che le fossero mai successe. Due balordi che si chiamavano Bubba e Macchia Nera avevano pianificato l'omicidio di una certa Loraine, che abitava vicino a un vecchio distributore di benzina, dove i due si erano dati appuntamento raccomandandosi a vicenda di spegnere i fari. C'erano in ballo dei soldi, centinaia di dollari. Judy Hammer si mise a camminare nervosamente avanti e indietro sotto lo sguardo ansioso di Popeye. Il telefono squillò. «Comandante?» Era Virginia West. «Virginia. Ma chi diavolo era?» domandò. «Pensi che si possa risalire a quei due?» «Non credo proprio» rispose la West. «Non vedo come.» «Abbiamo sentito tutte e due le stesse cose?» «Sono ancora al cellulare» la avvisò Virginia. «Meglio non parlarne ora. Ma ho l'impressione che sia una faccenda da prendere molto seriamente.» «Sono d'accordo. Ne parleremo dopo la presentazione. Grazie, Virginia.» La Hammer stava per riattaccare. «Che cosa volevi dirmi quando mi hai chiamata poco fa?» le domandò Judy. «Ah, già, scusa.» Fece mente locale cercando di ricordare come mai aveva telefonato a Virginia quando c'era stata l'interferenza. Intanto continuava a camminare, seguita da Popeye. «Ah, ecco, sì. Abbiamo ricevuto le prime risposte al nostro sito web» le comunicò soddisfatta. «Dopo l'articolo di Andy.» «La cosa mi preoccupa» rispose Virginia. «Secondo me, prima avremmo dovuto rifletterci su un po'.» «Forse non ce n'era bisogno.» «Che genere di risposte, comunque?» «Lamentele» rispose Judy. «Non ci posso credere!» «Non essere cinica.» «E a proposito della criminalità minorile in aumento e della cultura delle bande che a Richmond si manifesta con l'assenza di bande, o com'è che ha scritto? E sull'esigenza inderogabile di una riforma della giustizia per i minori?» A Judy Hammer non era sfuggito il tono tagliente con cui Virginia parlava di Andy. Era chiaro che aveva il dente avvelenato. E le pareva che anche lui non fosse più sereno come un tempo, che avesse perso un po' della
vivacità e dell'energia creativa che lo caratterizzavano. Non vedeva l'ora che si riconciliassero. «I telefoni sono impazziti appena i giornali del mattino sono usciti» rispose la Hammer. «Vuol dire che qualcosa si sta muovendo. In fondo è per questo che siamo venuti qui.» Chiuse la telefonata e riprese in mano l'articolo di Brazil per rileggerlo. ... La settimana scorsa a Richmond sono stati commessi diciassette reati (fra cui violenza carnale, rapina a mano armata e aggressione) da veri e propri bambini: undici di questi, che a quanto pare hanno agito senza alcun movente, non avevano ancora compiuto quindici anni. Ma dove imparano a odiare e a fare del male? Sotto accusa non ci sono solo film e videogame, ma l'intera cultura giovanile con le sue bande di ragazzi che, nel momento stesso in cui commettono reati da adulti, non possono più essere considerati tali... «Vedrai che la mia popolarità calerà ulteriormente» commentò Judy rivolgendosi a Popeye. «Dobbiamo fare il bagno e mettere un po' di quella cremina che ti fa così bene...» Popeye aveva il pelo bianco e nero lucido, molto corto, e la pelle secca e sensibile che si irritava di frequente. Era felice quando la sua padrona, ogni due o tre settimane, la metteva sotto l'acqua calda e la lavava con uno shampoo antiseborroico e curativo, dopodiché la massaggiava con una crema antiprurito all'avena e alla pramossina per sette minuti esatti, come raccomandato nelle istruzioni. Popeye adorava la sua padrona. Si accucciò sulle zampe didietro e le strofinò il muso contro un ginocchio. «Non adesso, però, altrimenti arrivo tardi» le disse con un sospiro, chinandosi per guardarla negli occhi. «Non avrei nemmeno dovuto dirtelo, eh?» Popeye le leccò la faccia e provò pena per lei. Sapeva che stava facendo di tutto per mettere da parte il dolore e i sensi di colpa che la morte del marito le aveva provocato. Non l'aveva mai conosciuto, ma ne aveva sentito parlare e aveva visto le foto e non riusciva a capire come avesse fatto la sua padrona a sposare un uomo ricco, pigro, ciccione e piagnucoloso, capace solo di ingozzarsi, curare il giardino e guardare la televisione. Popeye era ben contenta che non ci fosse Seth per casa, e adorava quella donna eroica che l'aveva salvata dal canile e dalla prospettiva di finire in
qualche casa piena di bambini scatenati e crudeli, e si rendeva conto di non riuscire a consolarla del tutto. «Meglio che mi sbrighi» disse Judy rialzandosi. Fece una doccia veloce, si infilò un accappatoio e spalancò l'armadio meditando su come vestirsi. Riconosceva il potere subliminale dei vestiti, delle automobili, dell'arredamento, dei gioielli e dei piatti che si ordinano a pranzi e cene di lavoro. In certe occasioni ci volevano gonna e filo di perle, in altre tailleur severi. Ormai si faceva caso a tutto: colori, modelli, tessuti, colletto o non colletto, fantasia o tinta unita, tasche, pieghe, orologio, orecchini, profumo, pollo o pesce. Spostò pensosa qualche attaccapanni, facendo previsioni e calcoli, e decise per un tailleur pantalone blu marine, scarpe basse e allacciate di pelle nera con cintura coordinata e camicia di cotone a righe con polsini doppi. Frugò nel portagioie alla ricerca di un paio di orecchini d'oro semplicissimi e come orologio scelse il Breitling in acciaio. Prese i gemelli d'oro e lapislazzuli di Seth e cercò di infilarseli da sola, ripensando a quando Seth la seguiva per casa come Popeye per chiederle una mano in qualche problema di bottoni, risvolti, abbinamenti o colore di calzini, le rare volte in cui si vestiva elegante. Avrebbe dovuto dividere i gioielli, le ventiquattrore di pelle e le altre cose di Seth tra i figli, invece di tenere tutto lei. A volte, quando si metteva qualcosa di suo, aveva la sensazione che Seth cercasse di farla diventare l'uomo che lui non era mai riuscito a essere, che la volesse forte e decisa. Forse l'avrebbe aiutata più da morto che da vivo perché, pur essendo sempre stato un brav'uomo, aveva passato la vita a combattere contro i retaggi di un passato da privilegiato e a deprimere il prossimo. Morendo, l'aveva lasciata ricca e sollevata, ma al tempo stesso addolorata, irrequieta e piena di ansie. «Popeye, vieni qui.» La cagna se ne stava spaparanzata sul pavimento della cucina a godersi il sole, senza la minima intenzione di spostarsi. «Su, andiamo a cuccia.» Popeye sbadigliò e la guardò diffidente. Non c'era motivo di usare la prima persona plurale, visto che la sua padrona non entrava nella cuccia, così come non inghiottiva le pillole contro i vermi né si faceva fare l'iniezione dal veterinario. Cosa credeva, che fosse deficiente? «Popeye» ripeté Judy con tono più fermo. «Ho fretta, su. Vieni qui. Vieni che ti do lo scoiattolino.»
Le gettò il suo animaletto di pezza preferito nella cuccia. Come se a lei importasse qualcosa... «Su, guarda che cosa ti do.» Le mise nella cuccia dei pulcini di lana sporchi da fare schifo, che Popeye si metteva in bocca e ogni tanto buttava nel gabinetto, ma la cagna rimase indifferente. La sua padrona allora piombò in cucina e la sollevò di peso mentre lei faceva la morta e si lasciava andare mollemente come un orologio in un quadro di Salvador Dalí. La padrona la infilò nella cuccia e chiuse la porticina con le sbarre. «Fai la brava, mi raccomando» le disse dandole qualche biscottino. «Torno presto.» Inserì l'allarme e uscì, dirigendosi verso la Crown Victoria blu scuro parcheggiata davanti a casa. Percorse East Grace Street passando dietro la chiesa di St John e svoltò in 25th Street, nei pressi dei condomini ora lussuosissimi di Tobacco Row, dove la Pholig Bros fabbricava da sempre "scatole di cartone di ogni forma e dimensione". Le scritte sui muri di un vecchio magazzino di tabacco attaccavano Anita Hill e proclamavano CHI MANGIA CARNE È UN ASSASSINO, raccomandando MANGIA MAIS fra scale antincendio arrugginite e rampicanti secchi avvinghiati a costruzioni di mattoni abbandonate. Cowboy Tire continuava comunque a vendere pneumatici usati a prezzi stracciati e la Strickland Foundry and Machine Company si rifiutava cocciutamente di chiudere. Sull'altro lato di Broad Street, oltre lo stadio, c'era il brutto edificio rivestito di mosaici rotti che ospitava il dipartimento di polizia di Richmond, dove Judy Hammer passava le sue giornate. Era cupo e angusto, con strutture contenenti amianto e corridoi senza finestre nei quali regnava l'odore stantio di gente sporca e di faccende altrettanto sporche. Il comandante Hammer salutò i poliziotti che incrociava, i quali rispondevano unicamente perché in soggezione. Capiva che cambiare è spesso traumatico e che è normale diffidare di un esterno, tanto più se arrivato per decreto federale; era abituata a essere accolta con ostilità e risentimento, ma non a quei livelli. Alle sette in punto entrò nella sala riunioni, dove incontrò gli sguardi freddi di una trentina di capi distretto, capitani, detective e agenti. Un megaschermo riproduceva la mappa della città con una serie di dati statistici sui cosiddetti sette reati capitali - omicidio, violenza carnale, rapina, aggressione, borseggio, furto in appartamento e furto d'auto - relativi agli ultimi ventotto giorni e all'ultimo anno. Apposite tabelle mostravano gli ora-
ri, i giorni della settimana, i distretti e i turni di lavoro in cui c'erano maggiori probabilità che quei reati si verificassero. La Hammer si sedette a capo del tavolo, fra la West e Brazil. «Un altro scippo allo sportello automatico di una banca» le bisbigliò in un orecchio Virginia. Il comandante si voltò dalla sua parte. «Ci hanno appena avvisati. Gli agenti sono sul posto.» «Maledizione» esclamò la Hammer, arrabbiata. «Vorrei avere i particolari al più presto.» La West si alzò e uscì. Judy Hammer si rivolse ai presenti. «Buongiorno a tutti» esordì. «Oggi abbiamo parecchi punti all'ordine del giorno.» Senza perdere tempo, si diede un'occhiata intorno e sorrise. «Cominciamo dal primo distretto. Maggiore Hanger? So che è presto.» «Come sempre» borbottò questi. «Ma a New York si usa così.» L'ufficiale fece un cenno all'agente Wally Fling, che aveva appena cominciato a occuparsi del software che tutti odiavano. Fling digitò un comando e sullo schermo comparve un grafico a torta. «Quello mi serve dopo, Fling» gli fece notare Hanger. L'agente digitò ancora sulla tastiera e dopo un attimo lo schermo mostrò un altro grafico a torta, relativo al quarto distretto. «Scusate» mormorò Fling sulle spine, riprovando. «Vuole quello del primo distretto, vero?» «Proprio così. E non a torta.» Invece ne apparve un altro, relativo al secondo distretto. Ormai completamente nel pallone, Fling richiamò sullo schermo lo stemma del dipartimento con il motto "Cortesia, Affidabilità e Tenacia", CAT, anche quello portato dalla Hammer direttamente da New York. Per la sala si diffuse un gran brusio, non privo di manifestazioni di disappunto. Brazil lanciò alla Hammer un'occhiata che significava "L'avevo detto, io". «Perché non ci possiamo tenere il nostro?» chiese il capitano Cloud, che quel giorno rappresentava il proprio distretto e quindi si sentiva in diritto di parlare. «Sì, è vero» gli fecero eco altri. «Che bisogno c'è di copiare il loro?» «Fra un po' ci passeranno anche le divise smesse.» «Questa è una delle cose che ci dà più fastidio.» Sullo schermo comparvero altri due grafici a torta.
«Fling» disse Judy Hammer. «Può ritornare sul logo, per favore? Parliamone.» Lo schermo mostrò una mappa della città con una serie di piccole pistole gialle che indicavano le zone più problematiche. «Dai, Fling!» «Perché non ti procuri il Manuale Comstat per incapaci?» «Merda» esclamò Fling ritornando chissà come al menu principale. «Torna a fare quello che hai sempre fatto, Fling.» Il poveretto premette vari tasti finché un messaggio di errore lo invitò a smettere. «Va bene, va bene» disse la Hammer per mettere a tacere le proteste. «Capitano Cloud, ci esponga la sua opinione.» «Be'» cominciò Cloud «è come il simbolo della città, con George Washington a cavallo. Che cosa c'entra George Washington con Richmond?» «Già.» «Sono d'accordo.» «Scommetto che non c'è venuto neanche una volta, a Richmond.» «È una vergogna.» «Prima Washington, adesso New York. Facciamo la figura di quelli che sono solo capaci di copiare gli altri» spiegò Cloud. «D'accordo» disse la Hammer a voce alta. «Mi dispiace, ma sul simbolo della città non possiamo intervenire, perciò direi di concentrarci sul motto. Capitano Cloud, vorrei una critica costruttiva, in cui non ci si limiti a sottolineare i problemi ma si proponga una soluzione. Lei ha in mente un'alternativa?» «Veramente, un po' ci ho pensato.» Cloud soffriva di ipertensione. Aveva il colletto della camicia bianca troppo stretto e la faccia paonazza. Era al centro dell'attenzione e sudava. «Volevo qualcosa di semplice e diretto e... cioè, non aspettatevi niente di poetico o creativo. Insomma, sono partito chiedendomi: che cosa facciamo? E credo che il nostro lavoro si possa riassumere in tre parole: "Contro La Criminalità".» Si guardò intorno. «CLC, in altre parole, che è di tre lettere come CAT, se lo vogliamo scrivere da qualche parte.» «A me non piace.» «Neanche a me.» «Niente da fare.» «Okay, okay» si affrettò a interromperli Cloud. «Ho pensato anche a una variante nel caso il primo non vi andasse: "Contro la Criminalità Per la
Giustizia".» «Peggio ancora.» «Non se ne parla nemmeno.» «Un momento» fece Cloud con convinzione. «Si lamentano tutti che non facciamo abbastanza e che la giustizia è lenta e non funziona. In questo modo mandiamo un messaggio positivo, una precisa dichiarazione d'intenti.» «A me invece sembra vago.» «È troppo lungo.» «E poi come concetto viene prima la giustizia della criminalità, secondo me.» «Non è accattivante, Cloud.» «Lasciamo perdere.» Cloud ci rimase malissimo. «Non importa» sussurrò. La Hammer era rimasta zitta perché voleva che fossero gli altri a esprimersi, ma si stava innervosendo. «Che ci serva da riflessione» disse. «Io comunque resto aperta a nuove proposte. Grazie, capitano Cloud.» «A dire la verità ci ho pensato anch'io» intervenne Brazil. Nessuno parlò. Tutti presero a sfogliare i propri appunti e a spostarsi sulla sedia, qualcuno si alzò per andarsi a prendere un altro caffè. Cloud aprì rumorosamente una confezione di caramelle e Fling riavviò il computer, che emise alcuni beep e una serie di rumori elettronici. Alla Hammer dispiaceva per Brazil, le dava fastidio che fosse vittima di una simile discriminazione senza avere nessuna colpa: in fondo che cosa poteva farci lui se tutte le donne e i gay rimanevano abbagliati dalla sua bellezza? Non era colpa sua se aveva solo venticinque anni ed era molto dotato e sensibile. Anche le voci secondo cui la Hammer se lo era portato a Richmond perché era il suo gigolò e lui l'aveva tradita con la padrona di casa erano del tutto infondate. «Dica pure» gli fece un po' brusca. «Ma sia breve perché abbiamo molte cose di cui parlare.» «Secondo me sarebbe meglio fare a meno del motto» dichiarò Brazil. Silenzio. «CAT, TAC... non vorrei che si confondesse con la tomografia assiale computerizzata» spiegò. Nessuno lo stava guardando in faccia. Si sentiva un gran frusciare di carte e scricchiolare di cinture d'ordinanza. «Che suggerisse in maniera subliminale che abbiamo bisogno di cure»
continuò. Silenzio. Dopo un po' Cloud disse la sua: «Sono d'accordo. Fortuna che qualcuno l'ha fatto notare prima che lo scrivessimo dappertutto». «Non rendiamoci più ridicoli del necessario» continuò Brazil. «Tanto più che il motto del Comstat è "Sicurezza". Ci pensate se qualcuno a un certo punto decidesse di aggiungerlo al nostro motto?» La sala rimase in silenzio mentre tutti riflettevano senza capire. La Hammer intuì dove voleva arrivare Brazil. «CATS» disse Fling. «Infatti, che suona come GAZ, e non mi sembra molto carino.» «Interessante» fece la Hammer interrompendo il coro di risatine. «Mi avete fatto vedere la questione sotto un'altra luce. Forse dovremmo davvero rinunciare al motto. Chi è per lasciar perdere, alzi la mano.» La alzarono tutti tranne Cloud, che bevve un sorso di caffè fissando con aria truce la brioche appena assaggiata. «Allora possiamo cancellare il motto dal computer» disse Fling, riprendendo a digitare sulla tastiera. «Lei per ora non cancelli nente» lo ammonì il comandante. 3 Nonostante il rap dei Puff Daddy & the Family a tutto volume, sulla Ford Escort si sentiva il rumore dell'aria che entrava dal finestrino posteriore bloccato. Smoke si era cambiato in macchina e Divinity se n'era andata, ma il suo profumo dolciastro si sentiva ancora. Smoke e Weed Gardener, quattordici anni, stavano andando verso la Mills E. Godwin High School. Smoke aveva i soldi in tasca, e sotto il sedile teneva nascosta la Glock calibro 9 avuta da un tizio in cambio di venti dosi di crack. Ripensare allo scippo davanti allo sportello automatico, una delle sue scene preferite in quel film che era la sua vita, lo eccitava. Stava diventando sempre più bravo, e ogni volta osava di più. Adesso pensava che entrare nell'aula di musica e fare secchi dodici o tredici studentelli e quel coglione del Drof di musica, Curry, che non lo aveva voluto nella banda della scuola con il pretesto che era stonato e non sapeva tenere il tempo con il tamburo, sarebbe stata una figata. Però quello stronzo di Curry aveva preso Weed, che pure non capiva un cazzo di piatti,
solo perché era bravo in disegno e non faceva casino. Ma gliel'avrebbe fatta vedere lui, a quella testa di cazzo. «... who you know do better...» canticchiava Smoke con il rap, fuori tono e sempre più arrabbiato. «Don't make an ass out of yourself... I'm gonna make you love me baby...» Weed batteva il tempo sulle cosce e sul cruscotto e saltellava sul sedile come se avesse un sintetizzatore al posto del sistema nervoso centrale. Smoke non ne poteva veramente più: il fatto che Weed vedesse qualcosa di bello da dipingere ovunque andasse lo mandava in bestia ed era stufo e arcistufo di trovare i suoi disegni appesi in biblioteca. Per fortuna Weed era stupido, talmente stupido da non capire che l'unico motivo per cui Smoke aveva fatto amicizia con lui e lo accompagnava a scuola in macchina era per fregarlo. «Ri-dicu-u-lous... you're in the danger zone you shonldn't be alone...» Smoke cantava stonato, a voce sempre più alta. Aumentò il volume e regolò i bassi al massimo. Provò ancora una volta a premere il pulsante che comandava il finestrino posteriore e imprecò quando questo si bloccò di nuovo. Weed intanto continuava a battere il tempo, mentre il cd vibrava e l'aria fischiava nella macchina. «Ehi, ritardato, piantala» esclamò Smoke afferrandolo per un braccio per impedirgli di continuare il suo assolo. Weed si bloccò di colpo e Smoke ebbe l'impressione di sentire l'odore della sua paura. «Stammi bene a sentire, ritardato» continuò. «Sto per offrirti quello che hai sempre sognato, sto per farti l'offerta migliore della tua vita del cazzo.» «Ah» fece Weed spaventato all'idea. «Vorresti fare il duro, eh? Ti piacerebbe essere come me?» «Be', penso di sì.» «Pensi di sì?» lo schernì Smoke. Gli mollò un pugno sul naso tanto forte che gli fece uscire il sangue. Weed aveva le lacrime agli occhi. «Come hai detto, ritardato?» chiese con voce piena d'odio. Weed aveva il sangue che gli gocciolava sui jeans Route 66, stonewashed. «Sporcami la macchina e ti faccio vedere io. Vuoi finire spiaccicato sull'asfalto?» gli fece Smoke. «No» rispose sottovoce Weed. «Io so che tu vorresti essere un Luccio e che non vedi l'ora che io ti
chieda di diventare uno di noi» continuò. «Ci ho pensato su e ho deciso di darti una possibilità, anche se veramente non sei all'altezza degli altri.» Weed non aveva nessuna voglia di diventare un Luccio. Non aveva nessuna voglia di entrare nella banda di Smoke, che andava in giro a picchiare, rubare, rompere i finestrini delle macchine, fregare bottiglie nei bar e fare chissà quante altre cose che non voleva nemmeno sapere. «Allora, che cosa dici?» Smoke aveva alzato la mano, pronto a menarlo di nuovo. «Okay.» «Grazie mi devi dire, ritardato. Sono talmente onorato che sto per cagarmi addosso, ecco cosa mi devi dire.» «Sarebbe una figata, cazzo» rispose Weed facendo lo spavaldo per mascherare la paura. «Mi sa che ci divertiremo un casino. Cosa fai, mi dai la divisa?» «Quella dei Chicago Bulls, manco fossi Michael Jordan. Magari sembri anche meno tappo e ti comincia a tirare quel pistolino che hai in mezzo alle gambe. Così inizi a farti qualche ragazza.» «Chi ti dice che non me ne sono già fatte un po'?» «Cosa cazzo ti vuoi essere fatto, tu? Delle gran seghe, ti sarai fatto.» «E tu cosa ne sai?» Smoke scoppiò in una delle sue risate crudeli. «Non lo sai mica» continuò Weed, sempre facendo il duro perché sapeva benissimo che con i deboli Smoke diventava ancora più cattivo. «Non riusciresti a infilarcelo manco se te la strusciassero contro» fece Smoke sghignazzando. «Ho visto quanto ce l'hai piccolo una volta che pisciavi!» «Pisciare è una cosa, scopare è un'altra» lo informò Weed mentre Smoke entrava nel parcheggio della Mills E. Godwin High School, intitolata a un ex governatore della Virginia nonché scuola degli Eagle. Fermò la macchina e aspettò che Weed scendesse. «Tu non vieni?» «Ho da fare» rispose Smoke. «Arriverai in ritardo.» «E allora?» ribatté Smoke ridendo. «Datti una mossa che sei tu il ritardato!» Weed si voltò a prendere lo zainetto nel quale teneva i libri e il panino che si era preparato prima che Smoke passasse a prenderlo «Dopo la scuola tatti trovare qui» ordinò Smoke. «Qui davanti, okay?
Così ti porto in sede e ti faccio l'iniziazione che volevi.» Weed sapeva della sede perché Smoke gliene aveva già parlato. «Devo fermarmi a suonare con la banda» rispose tremebondo. «Ti sbagli.» «Non mi sbaglio: la banda prova tutti i lunedì, i mercoledì e i venerdì.» Weed si sentiva le gambe molli. «Be', oggi niente prove. Fatti trovare qui alle tre o vedi!» Weed aveva di nuovo le lacrime agli occhi, quando Smoke ripartì sgommando. Gli piaceva da morire suonare nella banda, marciare nel campo sportivo con i grandi piatti di bronzo Sabian in mano e pensare alla divisa bianca e rossa con il cappello nero e il pennacchio che si sarebbe messo il sabato successivo alla Parata delle azalee. Il professor Curry diceva che i piatti Sabian erano i migliori e raccomandava a Weed di tenerli belli lucidi e di stare attento a non rovinare le maniglie di pelle. Davanti alla scuola, dove millenovecento adolescenti di estrazione medio-alta si stavano suddividendo nelle varie classi, sventolavano le bandiere. Weed si sentì rincuorato. Per fortuna suo padre abitava nel quartiere giusto. Weed teneva dei vestiti e altre cose in casa del padre e faceva finta di abitare lì. Se non fosse riuscito a entrare in quella scuola, nella sua vita non ci sarebbero state né arte né musica. Stava suonando la campanella delle otto e trentacinque quando Weed chiuse lo stipetto arancione e corse nel corridoio deserto passando davanti alle aule dove i ragazzi cominciavano ad aprire i libri chiacchierando e ridacchiando. Weed aveva sempre il terrore di arrivare in ritardo. Sua madre lavorava un sacco e raramente era a casa, oppure già in piedi, quando alla mattina lui doveva prepararsi per la scuola. Così a volte gli capitava di alzarsi all'ultimo momento e di dover poi fare tutto di corsa per non perdere l'autobus, tanto da dimenticare i libri o il pa nino e di non avere quasi il tempo di vestirsi. Perché per lui perdere l'autobus voleva dire perdere la vita, rimanere chiuso in una casa vuota in cui riecheggiavano ancora i litigi dei genitori, ormai separati, e la voce del fratello maggiore, Twister, morto l'estate prima. Weed stava correndo verso l'aula di scienze, dove aveva un compito in classe di biologia, quando il professor Pretty lo sorprese nel corridoio. «Ehi, tu» gli fece nel momento in cui l'ultima campanella smetteva di suonare e la porta dell'aula si chiudeva. «Ho lezione con la professoressa Fan» disse Weed senza fiato. «Dove?»
«Qui, professor Pretty» rispose indicando la porta rossa a meno di venti passi da loro, chiedendosi perché gli stesse facendo una domanda tanto stupida. «Sei in ritardo» dichiarò Pretty. «È suonata appena adesso» gli fece notare Weed. «Sei in ritardo comunque.» «Non l'ho fatto apposta.» «Immagino che tu non abbia la giustificazione» mormorò il professore, che insegnava storia delle civiltà occidentali. «No» rispose seccato Weed «anche perché non era previsto che arrivassi in ritardo. Mi hanno accompagnato in macchina e ho corso per arrivare in tempo. Se non mi avesse fermato lei, prof, forse ce l'avrei fatta.» Di solito Pretty strapazzava i ritardatari, ma non ricorreva a sanzioni disciplinari. Era giovane, bello e terribilmente egocentrico, oltre che famoso per trattenere gli allievi nel corridoio costringendoli a fissare impotenti l'aula nella quale sarebbero dovuti essere. «Non dare la colpa a me» replicò Pretty. «Non sto dando la colpa a lei. Sto solo dicendo le cose come stanno.» «Vuoi sempre avere l'ultima parola?» «Con lei sarà difficile.» Pretty era stato sul punto di lasciarlo andare a lezione, ma non poteva tollerare di essere trattato a quel modo e pertanto si impuntò. «Dunque dunque...» fece «oggi hai lezione con me alla terza ora, vero? Ti ricordi di che cosa abbiamo parlato venerdì?» Weed non ricordava niente di quello che era successo venerdì, a parte il fatto che era scocciato all'idea di dover passare il fine settimana con suo padre. «Vediamo di rinfrescarti un po' la memoria» insistette il professore. «Che cosa accadde nel 1556?» Weed aveva i nervi a fior di pelle. Sentiva la professoressa Fan che spiegava ai presenti il compito in classe e distribuiva i fogli con le domande. «Su che lo sai» continuava a stuzzicarlo Pretty. «Avanti, dimmelo.» «Una guerra» buttò lì Weed. «Hai tirato a indovinare, vero? Visto che ce ne sono state tante... Ma ti sbagli. Nel 1556 Akbar divenne imperatore dell'India.» «Posso andare a lezione di biologia, adesso?» «E poi?» continuò Pretty. «Cos'altro successe nel 1556?» «Cosa?»
«L'ho chiesto prima io.» «Cosa?» Weed stava perdendo la pazienza. «Cos'altro è successo nel 1556.» «Dipende» prese tempo Weed. «Dipende dal fatto che uno abbia o meno studiato il prospetto cronologico che ho distribuito venerdì» precisò Pretty stizzito. «Che tu evidentemente non hai nemmeno guardato.» «Sì, invece. Ma lei ha detto di studiare a memoria solo le cose in grassetto e l'India e quell'altra non erano in grassetto.» «Ah, davvero?» fece Pretty con sufficienza. «E come fai a ricordarti se erano o no in grassetto, visto che non ti ricordi neanche cos'erano?» «Perché se una cosa è in grassetto me la ricordo» rispose Weed alzando la voce, quasi stesse parlando in grassetto. «Figuriamoci.» «Sì, invece.» Pretty prese una biro dal taschino e cominciò a scrivere un elenco di parole. «Vediamo, saputello» riprese, sempre più arrabbiato. «Ho scritto dieci parole, alcune più calcate e altre meno. Ti do un minuto per leggerle.» Gli porse l'elenco: stornare, effigie, pogrom, Versailles, idromele, Fabergé, fabianismo, Waterloo, editto, concordato. Weed non ne conosceva neanche una. Pretty gli strappò il foglio di mano. «Allora, quali parole sono in grassetto?» gli chiese. «Non le so pronunciare.» «Versailles» suggerì Pretty. Weed ripensò all'elenco e all'unica parola che cominciava per V. «La quarta? No.» «Pogrom.» «La terza... No.» «Fabianismo» continuò Pretty. «La quartultima. Neanche quella.» «Effigie!» borbottò Pretty arrabbiatissimo. «Quella sì» replicò Weed. «E anche la quinta e la decima.» «Davvero?» fece Pretty. «Dimmele un po', visto che pensi di saperla tanto lunga.» Weed rilesse fra sé idromele e concordato e provò a ripeterle ad alta voce. «Dimmi che cosa vogliono dire.»
Pretty aveva alzato tanto la voce che la professoressa Fan aprì la porta per vedere che cosa stava succedendo. «Silenzio!» esclamò. «Allora, Weed, che cosa vogliono dire?» chiese Pretty a voce più bassa. «Le idromele sono dei frutti e il concordato è uno legato con la corda» tirò a indovinare Weed Anche l'agente Fling stava tirando a indovinare. Aveva provato con CONTROLLA FASCIA SUCCESSIVA e poi con F3, cioè DISPLAY TEMATICO, e selezionato RIMUOVI per togliersi di torno l'ultimo grafico a torta, poi aveva richiamato PRIORITÀ UNO, DUE E TRE per il quarto distretto, anche se in quel momento non interessava a nessuno. Judy Hammer accese la luce. La presentazione non doveva durare più di un'ora, e quel limite era già stato abbondantemente superato. Si sentiva scoraggiata e frustrata, ma decisa a non farsene accorgere. «Capisco che è una cosa nuova per tutti» disse in tono indulgente. «Mi rendo anche conto che non si può cambiare dall'oggi al domani. Perciò propongo di lasciar perdere il computer fino a venerdì. Sono certa che per allora saremo riusciti a raccapezzarci, vero?» Nessuno rispose. «Agente Fling?» L'uomo aveva le dita abbandonate sulla tastiera e l'aria desolata e sconfitta. «Pensa di poterne venire a capo per venerdì mattina alle sette?» «No, non credo» rispose lui sinceramente. La porta si aprì e Virginia West tornò al suo posto. «Va bene» incassò la Hammer cercando di essere positiva. «Chi vuole imparare il programma? Non è difficile, ve l'assicuro. È stato pensato appositamente per i poliziotti e non per programmatori e informatici.» Nessuno fiatò. «Brazil, mi aiuti lei.» «Certo» rispose lui titubante. «Forse per il momento è meglio così» spiegò la Hammer. «West? Visto che anche lei conosce il software, potrebbe affiancare Brazil. Confido che alla prossima presentazione non ci saranno intoppi.» «Non c'è nessuno che vuole imparare?» chiese Virginia guardandosi intorno. «Forza, gente, fate vedere chi siete.» Il tenente Audrey Ponzi alzò la mano. Seguirono quelle del capitano
Cloud e dell'agente Fling. «Molto bene» commentò la Hammer. «Maggiore Hanger, vuole riprendere la presentazione? Procederemo senza il computer. E dobbiamo anche cercare di fare in fretta.» Hanger scorse velocemente i propri appunti e bevve un sorso di caffè, con fare nervoso. «Non ci sono grosse novità rispetto all'ultima riunione» cominciò. «Come al solito un gran numero di furti, soprattutto di airbag, da fuoristrada.» «FABBRI» intervenne Fling. Tutti si voltarono verso il capitano Cloud, che aveva tirato fuori la sigla FABRI, che stava per "Furto di AirBag per Ricettazione Interna", cui la stampa locale aveva immediatamente aggiunto una B. «Dunque» riprese Hanger, «sospettiamo che gli airbag rubati finiscano in due autofficine aperte di recente da alcuni russi, che potrebbero appartenere allo stesso clan di quelli che hanno aperto un negozio di ferramenta in 17th Street, proprio di fronte a Havana '59. Tanto per aumentare la confusione tra FABRI e FABBRI» aggiunse fulminando Cloud con un'occhiata. «Pensate che si tratti di fabbri russi, perciò?» «Probabile» rispose Hanger. «Torniamo agli airbag, per favore» fece la Hammer. «Be', i furti avvengono tutti con le stesse modalità» spiegò Hanger evitando con cura di nominare i fabbri. «Il proprietario trova la propria auto con un finestrino sfondato e senza airbag, allora va a farseli rimettere in una delle officine dei russi, che presumibilmente gli installano gli stessi che gli hanno portato via. Così li paga due volte, convinto di comprarli nuovi a trecento dollari l'uno, mentre in realtà sono rubati. Pare che sia un racket abbastanza fruttuoso, diffuso in tutto il mondo.» «A rigore, se ti rimettono i tuoi, non li puoi definire di seconda mano, perché sono passati soltanto in mano tua» fece notare Fling. «Non so se questo...» «Che cosa pensiamo di fare?» lo interruppe la Hammer alzando lievemente la voce. «Stiamo cercando di infiltrare un investigatore in una delle officine» rispose Hanger. «Ma gli airbag non sono identificabili?» si informò la Hammer. «No, finché non li si dota di CANI» rispose Hanger riferendosi ai Codici AlfaNumerici di Identificazione. «Potremmo chiedere una sovvenzione all'NIJ.»
«Per cosa?» chiese la Hammer. «Per fare uno studio sugli IperAB.» «Ovvero?» «E la sigla che sta per "Identificativi per AirBag"» spiegò Hanger. «Così se ti installano un airbag che ha lo stesso IperAB di quello che avevi, hai la certezza matematica che è quello che ti hanno rubato.» «Giusto.» «Faciliterebbe parecchio le cose.» Hanger annuì. «E non solo qui, visto che alcuni airbag vengono spediti oltreoceano. Se mettessimo a punto un sistema di IperAB, ne potrebbe usufruire anche l'Interpol. Sarebbe una bella soddisfazione per noi.» «Già» fece la Hammer scoraggiata. «C'è altro?» «Ancora due Saturn rubate. E un vizio.» «A quante siamo arrivati?» «Siamo a dodici General Motors rubate in un mese.» «Abbiamo qualche indizio?» «Sembra che siano dei ragazzini che hanno comprato delle chiavi di Saturn da un certo Beeper nei pressi della scuola elementare di Swansboro, in Midlothian Turnpike.» «Una banda?» chiese la Hammer. «Non lo sappiamo con sicurezza» rispose Hanger. «Che cosa vuol dire?» «Che tutto quello che sappiamo ci è stato riferito da un informatore che in passato ci ha raccontato un sacco di palle.» La Hammer passò oltre. «C'è appena stato un altro scippo a uno sportello automatico, purtroppo. Vi dirà tutto il vicecomandante West.» «La vittima è un ventiduenne di origine asiatica» spiegò la West leggendo i suoi appunti. «Si è avvicinato in auto allo sportello della Crestar al numero 5802 di Patterson Avenue. Non ha visto nessuno e niente di anormale finché a un certo punto si è sentito mettere del nastro adesivo sugli occhi e puntare una pistola nella schiena. Una voce maschile senza inflessioni particolari gli ha chiesto i soldi. Quando è riuscito a togliersi il nastro adesivo dagli occhi, il ladro era già sparito.» «Questa del nastro adesivo è nuova» osservò la Hammer. «Infatti» confermò la West. «E con questo siamo a quota sei» disse il comandante. «Quattro nel Southside e due nel West End, con una media di uno scippo alla settimana dall'inizio di febbraio.»
«Devo dire che, sempre che si tratti della stessa mano, quest'ultimo mi preoccupa non poco» osservò la West. «Ricapitoliamo: i primi scippi davanti agli sportelli automatici sono avvenuti al mattino presto o alla sera tardi, cioè al buio. Gli autori erano due, un maschio e una femmina. Lei distrae la vittima chiedendole dov'è l'ufficio postale o la cabina del telefono; poi arriva lui, apre la giacca quel tanto che basta a far vedere alla vittima l'impugnatura di una pistola, non si sa se vera o finta, e dice: "Dammi quello che hai appena prelevato". Piglia i soldi e scappa. «Il quinto avviene a Church Hill. Anche questa volta è buio, però l'uomo estrae la pistola, sale sulla macchina della vittima e spegne la luce per non essere visto in faccia. Poi la minaccia, dicendole di non aiutare la polizia a identificarlo perché conosce il suo numero di targa e la andrà a cercare per ucciderla. Le ordina di accompagnarlo per un tratto di strada in macchina e scende con i soldi. Adesso abbiamo uno scippo nel West End, in pieno giorno. Temo un'escalation. Non vorrei che sfociasse in qualcosa di molto grave.» «Cos'altro abbiamo scoperto?» domandò Cloud. «Nulla di utile» rispose la West. «Alcune delle vittime pensano che la donna sia di colore, altri dicono che è lui ad avere pelle scura. Non conosciamo l'età, ma riteniamo che si tratti di minori. Nessun indizio sul mezzo che usano, sempre che ne usino uno. La verità è che sappiamo poco o niente.» «E i filmati della banca?» «Non servono a nulla.» «Perché?» domandò la Hammer. «Nel primo si vede solo la ragazza di schiena ed è buio pesto» spiegò il vicecomandante. «Negli altri quattro non si vede assolutamente niente.» «Non funzionavano le telecamere?» «Sì che funzionavano.» «E quella di stamattina?» «Anche.» «Sapete se è successo qualcosa anche di vagamente simile in altre parti della città?» chiese allora la Hammer. Nessuno rispose. «Nel terzo distretto? Capitano Webber, non ha ancora preso la parola stamattina» insistette il comandante. «Alcuni russi hanno aperto una bottega di antiquariato in Chamberlayne Street, vicino all'Azalea Mall» esordì Webber. «Finora non hanno fatto
niente di illegale.» «Perché dovrebbero?» si informò la Hammer. «Mah, è che con i russi di questi tempi...» «Come facciamo a sapere che non sono zingari?» si intromise il detective Linton Bean. «Ma esistono zingari russi?» «Penso che ne esistano di tutti i tipi. Basta che non abbiano fissa dimora e vivano di furti...» «Però quelli che bazzicano da queste parti sono soprattutto rumeni, irlandesi, inglesi e scozzesi. Nomadi, bisogna chiamarli. Pare che zingari non sia corretto.» «Chiamarli vagabondi e imbroglioni si può?» «Io non ho mai sentito parlare di zingari russi.» «Mia sorella l'anno scorso è stata in Italia e dice che anche lì ci sono gli zingari.» «So per certo che in Florida ce ne sono di ispanici.» «Vedete, vengono da tutte le parti» osservò il detective Bean. «Non hanno un paese d'origine preciso. Ci sono zingari di tutte le nazionalità e quindi anche russi...» «Stiamo facendo qualcosa per risolvere questo problema?» li interruppe la Hammer. «Bisognerebbe pattugliare i quartieri abitati da gente anziana e benestante come Windsor Farms» rispose Bean. «Si potrebbe istituire una task force.» «Facciamolo» disse Judy Hammer controllando l'ora, sulle spine per il ritardo. «A rappresentare il secondo distretto oggi c'è Noble. Che cosa ci dice, tenente?» «Questa settimana abbiamo arrestato un recidivo, reo di violenza fra le mura domestiche» rispose Noble, che aveva una certa proprietà di linguaggio ed era antipatico a tutti. «Molto bene» approvò la Hammer. «Abbiamo inoltre spiccato una serie di mandati, ma purtroppo non siamo ancora riusciti a identificare l'autore degli stupri nei portoni» aggiunse Noble. «Se mi consente, vorrei esprimere un'opinione personale.» «Dica pure.» «Non credo che irritare la cittadinanza con considerazioni idiote come quelle che Brazil ha fatto pubblicare sul giornale di domenica serva a qualcosa.»
«Non erano considerazioni idiote» si difese Brazil. «Mi faccia il nome di una banda. Una soltanto» lo sfidò Noble. «È una questione semantica» rispose Brazil. «Dipende da cosa si intende per banda.» La Hammer era d'accordo. «I reati peggiori sono commessi da minorenni. Si influenzano a vicenda, si raggruppano, si muovono in branco. Le bande esistono anche a Richmond e il nostro compito è identificarle.» «La maggioranza di quelli che vanno a scuola con la pistola e sparano sui compagni sono degli squilibrati che agiscono da soli, non in branco» fece notare Noble. «Prendiamo Jonesboro» controbatté la West. «Un ragazzo di quattordici anni ne recluta uno di undici perché faccia scattare l'allarme antincendio, giusto? Se ne avesse coinvolti quattro, cinque o sei? Magari i morti sarebbero stati venti, fra alunni e insegnanti.» «È vero.» «Bisogna ammettere che dà da pensare.» «Avrebbero dovuto chiamare la Guardia Nazionale.» «I ragazzi sono pericolosi: non hanno limiti, credono che uccidere sia un gioco» aggiunse la West. «È vero. Non si rendono conto delle conseguenze.» «Immaginiamo un po' che cosa succederebbe se ci fosse un leader veramente capace di organizzare i suoi compagni...» rincarò Brazil. La discussione continuò, mentre la Hammer rifletteva su come introdurre l'argomento successivo. «Siamo venuti a sapere che due uomini bianchi sono in procinto di rapinare e uccidere una certa Loraine, presumibilmente di colore. I loro nomi, o soprannomi, sono Bubba e Macchia Nera.» Per un attimo tutti rimasero zitti e perplessi. «Scusi se glielo chiedo, comandante, ma come lo è venuto a sapere?» Judy Hammer guardò Virginia in cerca di aiuto. «Per ora non siamo in condizione di rivelare la fonte» rispose questa. «Volevamo solo informarvi perché teneste occhi e orecchie bene aperte.» «C'è altro?» chiese la Hammer. Era tutto. «Allora è giunto il momento di consegnare un encomio a due di voi.» La Hammer sorrise. «Agente Patty Passman, della sala radio, e agente Otis Rhoad.» I due fecero un passo avanti e strinsero la mano al comandante, che por-
se loro un attestato. L'applauso fu fiacco. «Come tutti sapete, la settimana scorsa l'agente Patty Passman ha risposto con prontezza a una richiesta di soccorso pervenuta tramite il 911 contribuendo a salvare un uomo che rischiava di morire soffocato da un hotdog» spiegò il comandante Hammer. «E l'agente Otis Rhoad ha emesso trecentottantotto multe per divieto di sosta in un mese. Un record assoluto, per il nostro dipartimento.» «Buuh!» «Le ha fatte anche a noi, quelle multe!» La Passman lanciò un'occhiataccia a Rhoad. «È da record anche il tempo che passa alla radio!» La Passman si morse un labbro, paonazza. «Radiologo!» non riuscì a fare a meno di esclamare Fling, ma la battuta non fece ridere nessuno. «Basta così» dichiarò la Hammer. «Ci rivediamo venerdì.» La freccia della Ford Explorer lampeggiava al ritmo di un cuore impazzito quando il giovane alla guida, avendo mancato l'uscita, cercò di nuovo di cambiare corsia davanti a Bubba. Bubba accelerò e l'Explorer rientrò nella propria corsia. Siccome però continuava ad avere dietro la macchina della polizia, Bubba rallentò per far capire all'agente che non tollerava che nessuno gli si avvicinasse troppo. Si sentiva come un cowboy con una mandria a quattro ruote. «Unità 2 a Unità 1.» Dolcezza aveva la voce sempre più ansiosa. Bubba era troppo occupato per parlare alla moglie. «Macchia Nera» disse all'amico. «Ho l'Ape Regina che mi ronza nelle orecchie, la madama che mi fa vento sul groppone e un moccioso su una quattro volte quattro con le cesoie in mano.» Parlava in codice, per comunicare a Macchia Nera che la moglie gli voleva parlare, che aveva la polizia alle spalle e un ragazzo su una 4x4 che stava cercando di tagliargli la strada. «Ti lascio» replicò Macchia Nera. «Ci risentiamo, amico» salutò Bubba interrompendo la comunicazione. Il ragazzo sull'Explorer si era davvero irritato: se non fosse stato per la macchina della polizia, avrebbe reagito. Date le circostanze, decise di lasciar perdere, ma di avere comunque l'ultima parola: suonò il clacson, fece a Bubba un gestaccio e lo mandò a quel paese prima di mescolarsi alle altre macchine. Bubba rallentò ulteriormente perché la macchina della poli-
zia tenesse la distanza e per tutta risposta l'agente alla guida accese la sirena e i lampeggiatori sul tetto, costringendolo ad accostare davanti al Kmart. 4 L'agente Jack Budget prese con calma la cartellina in alluminio anodizzato con il blocchetto delle multe e scese dalla macchina bianca con le strisce rosse e blu; si rassettò la divisa e si avvicinò alla jeep rossa con la bandierina della Confederazione sul paraurti e la targa BUB-AH che teneva d'occhio da un pezzo. L'uomo alla guida abbassò il finestrino. «Devo dedurre dalla targa che lei si chiama Bub-ah?» chiese Budget. «No, Bubba» si sentì rispondere malamente. «Favorisca patente e libretto.» Anche Budget fu sgarbato, ma solo perché era stato l'altro a incominciare. Bubba tirò fuori il portafogli di nylon dalla tasca posteriore dei pantaloni e lo aprì per prendere la patente. Poi frugò nel vano portaoggetti alla ricerca del libretto e porse il tutto all'agente, che studiò a lungo i due documenti. «Lei sa perché l'ho fermata, Mr Fluck?» «Per l'adesivo, probabilmente» replicò lui. Budget fece un passo indietro e diede un'occhiata al paraurti della jeep, come notando solo allora la bandiera della Confederazione. «Bene, bene» disse pensando a croci infuocate e cappucci bianchi. «Spera ancora di poter vincere la guerra e rimandare i negri nelle piantagioni di cotone?» «La Croce del Sud è tutt'altra cosa» replicò Bubba indignato. «Scusi?» «La Croce del Sud.» Budget strinse i denti: era cresciuto in un ghetto di neri, insultato dai bianchi. Aveva visto i suoi compagni di colore lasciare la scuola uno dopo l'altro per finire in riformatorio o ammazzati in mezzo a una strada. Ancora adesso c'erano persone che, quando interveniva su loro chiamata, lo facevano entrare in casa dalla porta di servizio. «Lei deve averla presa per la bandiera della Confederazione» spiegava intanto quell'imbecille reazionario «in realtà la Croce del Sud era quella di battaglia, a differenza della Stars and Bars, della Stainkss Banner, della Naval Jack e della Pennant.»
Budget non conosceva le varie bandiere della Confederazione adottate a fasi alterne durante la guerra, ma detestava sia tatuaggi e adesivi sia magliette e teli da spiaggia che inneggiavano alla secessione, come pure le bandiere della Confederazione che sventolavano nei giardini e nei cimiteri. «Questo è razzismo, Mr Fluck» osservò gelido. «No, è politica.» «Stronzate.» «Conti le stelle. Una per ogni Stato della Confederazione, più Kentucky e Missouri. Undici» lo informò Bubba. «Non c'è un solo schiavo nella Croce del Sud, lo può constatare con i suoi occhi.» «Il Sud voleva la secessione per non abolire la schiavitù.» «Questo è solo uno dei motivi.» «Dunque lei ammette che uno dei motivi era quello.» «Io non ammetto niente» replicò Bubba. «La sua era guida pericolosa» tornò al dunque l'agente Budget, che avrebbe avuto voglia di far scendere quel grassone dalla macchina e prenderlo a botte. «Non è vero» protestò Bubba. «Sì che è vero.» «Ma mi faccia il piacere...» «Guardi che le stavo dietro: l'ho vista.» «Era il ragazzino sull'Explorer che cercava di tagliarmi la strada» spiegò Bubba. «Aveva la freccia.» «Non vuol dire.» «Ha bevuto?» chiese Budget. «Non ancora.» «Ha assunto farmaci?» «Oggi no.» «E gli altri giorni?» chiese Budget, sapendo che c'erano sostanze come la marijuana e l'arsenico che rimanevano nel sangue per un certo tempo. «Questo non la riguarda» rispose Bubba. «Se non le dispiace, decido io se mi riguarda o no.» Budget si avvicinò al finestrino sperando di sentire odore di alcol, ma purtroppo non sentì niente. Bubba prese una sigaretta. Fumava Merit Ultima invece di altre marche perché le Merit, come le Marlboro e le Virginia Slim, tanto per fare un e-
sempio, erano prodotte dalla Philip Morris e Bubba era fedele a chi gli dava da lavorare, oltre a comprare esclusivamente prodotti americani. Non aveva nessuna intenzione di raccontare all'agente Budget che prendeva il Librax per problemi d'intestino e a volte il Sudafed perché era allergico agli acari della polvere, alla muffa e ai gatti. Non erano affari suoi. «Prendo l'Advil» rispose. «E basta?» chiese grave Budget. «E il Tylenol.» «Lo vada a prendere nel...» «Ma come osa?» lo interruppe Bubba. «...vano portaoggetti, se lo ha con sé: vorrei leggere la composizione» spiegò Budget. «L'ho sentita, sa? Guardi che mi rivolgo ai suoi superiori!» esclamò Bubba arrabbiato. «Si rivolga pure ai miei superiori, Mr Fluck. Vada a f...» «Insiste?» «...fare reclamo. Spero proprio che glielo mettano ne...» «Insomma, adesso basta!» Nella mente di Bubba si agitavano decine e decine di bambini crudeli che lo prendevano in giro e ridacchiavano. Si rivide grasso, con i pantaloni mimetici, deriso da tutti. Era troppo: non ne poteva veramente più. «Scusi, ma basta lo dico io.» «La smetta di insultarmi!» «Vada a sporgere reclamo, Mr Fluck» sbottò Budget. «Glielo metteranno nero su bianco, che non ci sono gli estremi. Vada, vada!» «Non si permetta!» «Lei non è normale, Mr Fluck, se lo lasci dire» dichiarò Budget. Neanche Weed era normale quando finalmente entrò nell'aula di biologia. I suoi compagni stavano finendo il compito in classe e la professoressa si accingeva a correggere il compito a casa che lui non aveva fatto. Aveva i nervi a fior di pelle. Osservò scoraggiato i vermi, gli embrioni, gli insetti, le uova e gli organi conservati nella formaldeide, le farfalle e le pelli di rettile nelle bacheche. Si sentiva in trappola. Nell'ora di storia delle civiltà occidentali Pretty lo interrogò dal posto tre volte, e tutte e tre Weed fece scena muta. Era terrorizzato. La sua unica speranza era la lezione della professoressa Grannis, che in-
segnava disegno ed era giovane e carina, con i capelli biondi e gli occhi verdi. Teneva un corso avanzato, per i ragazzi più grandi, e in più di un'occasione aveva detto a Weed che era l'unico nella storia della scuola a esservi stato ammesso prima del tempo. Del resto Weed era speciale, davvero un gran talento. Il consiglio d'istituto aveva dibattuto a lungo sull'opportunità di lasciargli frequentare quel corso, visto che nelle altre materie era molto indietro, mettendo in dubbio la maturità e la condotta del ragazzo. Alla fine era stata coinvolta anche la preside, la professoressa Lilly, che aveva proposto di mandarlo piuttosto a un corso organizzato dalla Virginia Commonwealth University o dall'Accademia delle belle arti. Tuttavia c'era il problema delle distanze: la scuola non poteva accompagnarlo e Weed non disponeva di mezzi propri. Il consiglio, perciò, alla fine aveva deciso di ammetterlo al corso della professoressa Grannis. Dalle 11,40 alle 12,30 Weed non aveva lezione e quindi doveva nascondersi per non incontrare Smoke. Ridotto alla disperazione, escogitò un piano folle. Entrò nell'aula di disegno alle 11,40, depresso e spaventato, e dal modo in cui la Grannis lo guardò si accorse subito che aveva capito che c'era qualcosa che non andava. «Cos'hai, Weed?» gli chiese con un sorriso incerto. «Volevo chiederle se potevo stare qui durante l'ora buca» le disse. «Certo. Su che cosa vuoi lavorare?» Weed guardò i computer in fondo all'aula. «Volevo usare il programma di grafica.» «Bravo. Ci sono molte opportunità di lavoro nel campo della grafica computerizzata. Sai dove sono i cd, vero?» gli disse. «Ci vediamo dopo a lezione.» «Grazie, prof.» Prese una sedia e si sedette davanti a un monitor. Aprì il cassetto in cui erano ordinatamente riposti i programmi di grafica e cercò quello che gli interessava. Inserì Coreldraw nel drive e aspettò che la Grannis uscisse dall'aula prima di collegarsi con America OnLine. Dopo l'ora buca c'era la pausa per il pranzo, ma Weed non aveva fame. Corse nell'aula di musica, che era deserta a parte Jimbo Sleeth, detto Sticks, e il suo tamburo militare. «Ciao, Sticks» salutò. Sticks, con gli occhi chiusi e la fronte sudata, era concentratissimo per non perdere il tempo. Weed andò a prendere nell'armadietto la custodia di
plastica rigida dei Sabian, la aprì e tirò fuori i pesanti piatti di bronzo. Controllò le maniglie di cuoio e vi infilò le dita, toccandosi l'indice con il pollice. Bisognava tenere i piatti leggermente inclinati, il destro leggermente più basso del sinistro. Sticks aprì gli occhi e fece un cenno di saluto a Weed, che batté il piatto sinistro facendolo vibrare sul destro a tempo con il rullo del tamburo. «E vai!» esclamò Sticks. Sembrava una guerra musicale, quella fra il rombo pulsante del tamburo militare di Sticks e le esplosioni vibranti dei piatti di Weed. «Sì, sì!» Sticks era al settimo cielo. Weed marciava nella stanza provocando cascate di suoni ora secchi, ora prolungati e vibrati. Non sentì la campanella, ma alla fine notò l'orologio a muro. Mise a posto i piatti e arrivò nell'aula di disegno con due minuti di anticipo. Era il primo. La Grannis, che stava scrivendo alla lavagna, si voltò sentendolo entrare. «Ciao, Weed. Hai lavorato bene?» gli chiese. «Sì» rispose lui senza guardarla negli occhi. «Purtroppo il computer non piace a tutti.» Riprese a scrivere. «Qual è il software che preferisci?» «Quark XPress, Adobe Illustrator e Photoshop.» «Be', sei davvero portato» commentò la Grannis mentre Weed si sedeva in un banco e metteva lo zainetto sotto la sedia. «Non è difficile» borbottò. «Hai scritto il commento sul tuo pesce di cartapesta?» chiese la Grannis continuando a scrivere sulla lavagna con grafia tondeggiante. «Sì» rispose Weed aprendo il quaderno. «Mi piacerebbe che me lo leggessi» lo invitò. «Sei l'unico della classe ad aver fatto un pesce.» «Lo so» disse lui. Quindici giorni prima la Grannis aveva chiesto agli allievi di fare una composizione di cartapesta che avesse un particolare significato per loro. La maggior parte degli allievi aveva scelto una figura mitologica o popolare, come il drago, la tigre, il corvo o il serpente. Weed, invece, aveva creato un pesce azzurro dall'aria feroce, con i denti aguzzi e gli occhi scintillanti ricavati da frammenti di specchio. «Sono certa che anche i tuoi compagni sono curiosi di sentirlo» continuò la Grannis. «Poi usiamo gli acquerelli?» domandò Weed, interessato, leggendo quel-
lo che stava scrivendo alla lavagna. «Sì. Faremo una natura morta e vedremo come si può dare a una composizione bidimensionale l'illusione della tridimensionalità.» «La cartapesta è tridimensionale» osservò Weed. «Perché occupa uno spazio.» «Giusto. E quali sono le tre dimensioni?» «Lunghezza, larghezza e altezza» recitò. Se riguardavano l'arte, Weed ricordava le parole anche senza bisogno del grassetto. «Un oggetto tridimensionale è un solido» aggiunse. La professoressa posò il pennarello. «E come si può dare l'impressione che una figura bidimensionale abbia tre dimensioni?» «Con le luci e le ombre» rispose lui senza problemi. «Sì, con la tecnica del chiaroscuro.» «Infatti» fece Weed. «Con le ombre i disegni sembrano più veri. Il chiaroscuro funziona bene con i bicchieri, le lampadine, ma anche con i ghiaccioli o le nuvole in cielo.» Weed osservò i pastelli e la carta spessa che si usava solo per le copie finali, i barattoli di colla, colori e tempere che aveva usato per il suo pesce allineati sugli scaffali. I computer in fondo all'aula gli ricordarono il suo segreto. Intanto stavano arrivando gli altri ragazzi, che lo salutarono nel loro modo affettuoso e manesco. «Allora, Weed, che ci racconti?» «Com'è che tu arrivi sempre prima di tutti? Fai i compiti?» «L'hai finita la Gioconda?» «Ti sei macchiato di rosso.» «A me più che rosso pare sangue.» «Mi sono tagliato» mentì Weed. La Grannis si voltò a guardare Weed e i suoi jeans con aria perplessa. Weed pensò che, se fosse stata un personaggio dei fumetti, avrebbe avuto un punto interrogativo sopra la testa. Non disse niente. «Siete pronti a leggere il commento al vostro lavoro di cartapesta?» chiese agli allievi. «Uffa.» «Io non sapevo cosa scrivere.» «Nessuno ha detto che dovevate scrivere.» «Facciamo una piccola introduzione all'argomento» disse la prof. «Mat-
thew, che cos'è un simbolo?» «Una cosa che vuoi dire un'altra cosa.» «Joan, vuoi farmi un esempio?» «Le piramidi. Certi gioielli.» «Annie?» «I cristiani li facevano nelle catacombe, così gli altri non capivano.» «Weed, vuoi farmi un esempio anche tu?» chiese, guardandolo preoccupata. «Gli scarabocchi.» Brazil, alla sua scrivania, disegnava su un blocco per appunti cercando di cavarne un logo per il bollettino informativo, mentre la presidentessa della commissione anticrimine lo faceva ammattire al viva voce. «Secondo me è errore di calcolo molto grave» affermava con enfasi e arroganza Lelia Ehrhart. Brazil abbassò il volume. «Anche minima allusione di esistenza di bande giovanili può provocare costituzione» continuava la Ehrhart, che era cresciuta a Vienna e in Jugoslavia e non parlava bene l'inglese. Il logo doveva servire per il sito web e quindi era importante che fosse accattivante. Dato che la sigla CAT era stata esclusa, bisognava ricominciare daccapo. Brazil detestava i bollettini, ma Judy Hammer ci teneva molto. «Non tutti ragazzi uguale delinquenti. Molti fanno vite difficili, problemi in famiglia, abusi e maltrattamenti e bisognano di nostro aiuto. Parlare soltanto di pochi davvero pericolosi, di gruppi che lei chiama bande, vuol dire presentare visione distorta e molto falsa di realtà. Mia commissione anticrimine si batte contro crimine perché prevenire meglio che combattere. Per questo ci ha dato mandato nostro governatore.» «Ex governatore» le ricordò educatamente Brazil. «Sua precisazione irrilevante» replicò la Ehrhart. «Non mi sembra, visto che il governatore Feuer non ha ancora istituito una commissione anticrimine, e non credo che sia opportuno dare per scontate le sue politiche.» Seguì un silenzio molto teso. «Intende dire che governatore può sciogliere o disfare mia commissione? Che potrebbe avere problemi con me stessa?» domandò la Ehrhart. Secondo Brazil un buon logo doveva attirare l'attenzione senza strafare.
Visto che si parlava di bande giovanili, forse un'idea poteva essere scrivere Richmond P.D. stile graffiti. «Straordinario» mormorò. «Che cosa trova di straordinario?» sbottò arrabbiatissima la Ehrhart. «Mi scusi» fece Brazil. «Mi ero distratto.» «Vorrei sapere che cosa trova straordinario secondo lei» ripeté la donna. In quel momento sulla porta apparve Judy Hammer. Andy alzò gli occhi al cielo e le fece segno di non farsi sentire. «Lei è molto impertinente» continuò la Ehrhart. «Lungi da me, signora. Non mi riferivo alla nostra conversazione» rispose sinceramente Brazil. «Davvero? E a cosa si riferiva?» «A una cosa che stavo facendo mentre parlavo con lei.» «Capisco. Io spendo tempo e soldi per telefonare e lei fa altre cose mentre parla con me?» «Sì, ma questo non significa che non la ascolti.» Gli scappava da ridere, ma cercò di trattenersi perché il comandante Hammer non trovava la Ehrhart per nulla divertente. Entrò Virginia. «Che cosa...?» cominciò. Judy le fece segno di tacere. Brazil strinse una matita fra i denti e alzò di nuovo gli occhi al cielo. «Il fatto è che non voglio citare vanvere su mia commissione in suoi prossimi articoli di giornale. Lei è già su filo di rasoio!» Andy si tolse la matita dalla bocca e prese un appunto. Virginia aggrottò la fronte e Judy scosse la testa disgustata. «Noi di commissione anticrimine non scagliamo contro bambini, ma siamo a favore» continuò. «Che ragazzi si uniscono in gruppo è in verità normale e tutti facciamo in tempi di scuola. Se voi chiamate gruppi bande stravolgete realtà come sempre fa stampa. Allora tutti Babbi Natali e clown di circo diventano pedofili e Internet belva pericolosa. Così diventano veramente, perché stampa ha enorme potere. Loro scrivono cose e poi succedono. Io spero che lei farà impossibile.» Brazil si morse una mano, poi tossicchiò. «Mi rendo conto che...» Dovette interrompersi per non scoppiare a ridere. Si schiarì la voce. Aveva le lacrime agli occhi e la faccia rossa. Judy era accigliata, come sempre quando aveva a che fare con la Ehrhart, e Virginia sembrava altrettanto infastidita.
«Quindi non sento più parlare vanvere di bande. Corretto?» chiese la Ehrhart che, più si innervosiva, più diventava incomprensibile. Brazil non riuscì a rispondere. «Mi sente?» Brazil schiacciò due o tre pulsanti contemporaneamente fingendo di avere problemi di linea. Quindi riagganciò. «Parlare vanvere!» ripeté fra le risate. «Oh, santo cielo, Andy» brontolò Virginia. «Adesso vedrai che chiama noi. Possibile che tutte le volte finisca così? Grazie tante.» «Dobbiamo parlare» annunciò Judy Hammer. «Lasciamo stare Lelia, che ci fa già perdere abbastanza tempo.» «Non potresti far presente il problema al governatore Feuer?» chiese Andy prendendo fiato e asciugandosi gli occhi. «La prossima volta che lo sento, gliene accennerò» promise lei. «Adesso però parliamo del Comstat. Ci serve un manuale facile facile, per risolvere il problema del computer. Siamo qui da tre mesi, che equivalgono a un quarto del tempo a nostra disposizione, e questa gente non ha ancora imparato a usarlo. Ma vi rendete conto?» «Sì» rispose Andy tornando serio. «Se non riusciamo a insegnargli almeno questo, la prossima volta facciamo meglio a starcene a casa.» «Mi dispiace che dobbiate farvi carico anche di questo» disse Judy camminando avanti e indietro. «Ma ci serve un manuale il più presto possibile.» «Che cosa vuol dire il più presto possibile?» domandò sospettosa Virginia. «Quindici giorni?» «Oh, Signore» sospirò Virginia lasciandosi cadere sul divanetto. «Con tutto quello che ho da fare...» «Infatti» aggiunse Andy. «E io ho da pensare anche al sito.» «Lo so, lo so.» Judy si fermò a guardare fuori della finestra. «Ho un computer a casa, cercherò di fare qualcosa anch'io. Ce ne occuperemo tutti e tre. Andy, che si intende di programmazione, comandi eccetera, potrebbe buttar giù la parte tecnica e tu, Virginia, le istruzioni più semplici, in forma elementare.» Virginia non sapeva se offendersi o fare finta di niente. «Io cercherò di aggiungere le considerazioni generali, la teoria di fondo» spiegò Judy. «Poi Andy farà l'editing, visto che scrivere è il suo mestiere.» «Sono d'accordo che ci voglia un manuale» fece Virginia «ma secondo
me l'unica possibilità è che questa gente si metta a lavorare con il Comstat e veda come funziona.» «Il fatto è che se non sono capaci di farlo funzionare non possono vedere come funziona» replicò logica Judy. Appena il comandante fu uscito dall'ufficio, Andy e Virginia si scambiarono un'occhiata. «Merda!» esclamò lei. «Lo vedi cos'hai combinato?» «Io?!» «Sì, tu.» «È stata lei a tirare fuori l'idea del manuale, non io.» «Non le sarebbe neanche venuto in mente se tu non sapessi scrivere bene.» Si rendeva conto che quel ragionamento non era proprio stringente, ma non intendeva demordere. «Capisco. E sarebbe colpa mia se io so fare una cosa e a te in un certo senso è stato chiesto di aiutarmi a usare questa mia capacità in un progetto specifico?» Virginia dovette pensarci su. «Come sarebbe in un certo senso?» domandò. «Mi pare che anche a me sia stata fatta una richiesta specifica.» Squillò il telefono. «Pronto? Sì, sono io.» Il tono di Andy si addolcì nel riconoscere la voce dell'interlocutore all'altro capo del filo. «Ma che cara, certo!» esclamò. Dopo un attimo di silenzio aggiunse: «Sicuro, al solito posto». Rimase ancora un attimo in ascolto. «Adesso sono impegnato. Ci vediamo più tardi.» «Scusa» disse a Virginia. «Mi fa schifo l'idea di dover scrivere le istruzioni di un programma» sbottò lei con voce stridula. Stava pensando alla padrona di casa di Andy, che immaginava bella e ricca. «Non lo sai che le telefonate personali sono vietate?» «Non sono stato io a chiamare. E non sei tu che devi scrivere le istruzioni» rispose lui. «Mah, in fondo scrivere è la parte più facile.» Andy si stava arrabbiando veramente. «Perché dici questo?» «Così.» «Non è una risposta...» «Figurarsi!» «Be', allora scrivilo tu.»
«Col cavolo!» replicò Virginia. «Ho già fin troppo da fare.» «Pardon» li interruppe una voce. Fling era sulla porta, con l'agenda in mano, e non osava fare un altro passo. Virginia e Andy smisero di battibeccare e si voltarono dalla sua parte. «Io vado» dichiarò Virginia. «Scusate» disse Fling. «Volevo ricordarvi che alle due meno cinque c'è quella conferenza nell'aula magna della Godwin High School.» «Oh, porco cane» imprecò Brazil guardando l'ora. «Lei sa come ci si arriva?» «Non sono andato alla Godwin» rispose Fling. «Come, scusi?» «Sono andato all'Hermitage» spiegò Fling. «Un momento.» Brazil si alzò. «Virginia, torna qui un attimo.» «Hungary Springs Road» proseguì Fling. «Non c'è mica solo la Godwin a Richmond.» La West rientrò in ufficio con l'aria seccata. Il completo beige metteva in risalto il colore ramato dei capelli e gli occhi scuri. Aveva un fisico più snello e scattante di quanto meritasse, visto che non si curava affatto. «Che cosa c'è?» chiese spazientita. «Dovreste andare anche all'Hermitage» continuava imperterrito Fling. «Non si può fare una scuola sola e lasciar perdere tutte le altre...» «Casomai ti fossi dimenticata» disse Andy a Virginia stringendosi i lacci delle scarpe «dobbiamo andare insieme alla Godwin.» «Oh, merda!» fu il suo commento. 5 Bubba era di casa all'officina di Volpone e quel giorno se ne rallegrò in maniera particolare. Anche se l'agente Budget lo aveva lasciato andare senza fargli la multa, Bubba era rimasto traumatizzato. Quel poliziotto lo aveva insultato, facendogli tornare in mente le beffe e le umiliazioni subite ai tempi della scuola, e aveva avuto perfino il coraggio di dargli del razzista. Era un'ingiustizia insopportabile. Volpone aveva l'officina dietro la casa, in uno spiazzo pieno di rottami in una traversa di Clopton Street, fra Midlothian e Hull, recintato con vecchie traversine messe l'una sull'altra come i pezzi di un gioco di costruzioni. Per terra c'erano alberi di trasmissione con latte di olio vuote infilate
sulle estremità. Sparsi qua e là, automobili, pick-up, un rimorchio da trattore e un vecchio camion dei pompieri che veniva usato ogni anno nella Parata delle azalee. Bubba si fermò davanti alla saracinesca aperta del garage, spense il motore e scese. Entrò nel regno di Volpone, che sarebbe potuto passare per un deposito di auto rubate se le parti meccaniche lì intorno fossero state un po' meno arrugginite e non fossero risalite alla preistoria dell'automobile. Aggirò un vecchio martinetto e una pressa, fra vasi per fiori, tubi di gomma, paraurti, fari, capote, parafanghi, sedili, cataste di legna e fusti da duecentocinquanta litri pieni di rottami. Sebbene evitasse di parlarne, Bubba era convinto che esistesse una sorta di triangolo delle Bermuda per veicoli. Credeva che auto e camion scomparsi in tornado e alluvioni, spariti o presunti rubati finissero in posti come l'officina di Volpone, dove venivano riparati e utilizzati per aiutare gli esseri umani a continuare il loro viaggio in questo mondo. Bubba aveva voglia di scriverlo nella Click and Clack's Car Talk su Internet o magari alla rubrica della posta di Miss Pezzi Solitari, che in realtà era un uomo. «Ehi, Volpone!» chiamò. Si avvicinò a un vecchio forno in cui bruciava una mistura di olio lubrificante usato e legna. «Volpone? Dove cavolo sei?» riprovò. Volpone non era facile da localizzare in quell'ammasso di radiatori, batterie, parafanghi, pompe, catene, funi da traino, cinghie di trasmissione, tubi, manichette, cavi, frizioni, ruote, spingidischi infilati su pezzi di marmitta come ciambelle, mole, paranchi e centinaia di chiavi, cric, pinze, scalpelli, punteruoli, morse, presse, molle, punte per trapano, candele, mazzuoli e martelli. «Com'è che hai acceso il riscaldamento, Volpone?» «Ho male alle articolazioni» disse Volpone da sotto una Mercury Cougar. «Cos'hai cercato di aggiustare stavolta?» «Ah, sarei io quello che cerca di aggiustare?» fece Bubba in tono d'accusa. Volpone fece scivolare il carrello su cui era sdraiato, uscì da sotto la macchina e si tirò su. Era un uomo di settant'anni, con una tuta blu da meccanico, una camicia e un berretto della NAPA. «Cosa vuoi dire?» domandò. Aveva le mani ruvide e callose. «Mi entra di nuovo l'acqua dal parabrezza» spiegò Bubba. «E l'ultimo che l'ha toccato sei tu.»
«Mah» fece Volpone strappando un pezzo di carta da un rotolo e cominciando a pulirsi gli occhiali. «Portamela qui, che le do un'occhiata. Ma secondo me quel parabrezza è da cambiare, te l'ho già detto. Anzi, già che ci sei, butta via tutta la carretta e pigliatene una che non si rompa ogni mezzo minuto.» Bubba uscì dal garage senza prestargli ascolto. Salì sulla jeep e mise in moto, furibondo. Non poteva credere che Macchia Nera lo avesse fregato. Possibile che il suo amico gli avesse rifilato un bidone? Quell'eventualità gli fece tornare in mente una valanga di ingiustizie subite fin dall'infanzia. Portò la macchina vicino alla Cougar e scese. «Sai cosa ti dico? In questa città la polizia è veramente incarognita.» «Ah sì?» borbottò Volpone controllando il parabrezza. «Qualcosa mi dice che devo fare qualcosa.» «Bubba, non è la prima volta che qualcosa ti dice di fare qualcosa.» «Sarebbe lungo spiegarti perché, ma penso di dover dare una mano a quella donna, sai, il nuovo comandante della polizia.» «Non è neanche la prima volta che sarebbe troppo lungo spiegare perché, eh? Bubba, nei tuoi panni me ne starei alla larga.» Bubba non riusciva a togliersi dalla testa la Hammer. Se l'aveva sentita nominare quella mattina al telefono, ci doveva essere un motivo. Non poteva essere un caso. «È ora che ci mobilitiamo, sai?» «Chi è che si dovrebbe mobilitare?» «Noi cittadini. È ora che ci diamo da fare» rispose Bubba. «Io non vedo niente» disse Volpone. «L'acqua entra da qui» fece Bubba indicando la parte superiore del parabrezza, vicino allo specchietto. «Vuoi una sigaretta?» Tirò fuori il pacchetto. «Fumi troppo» lo rimproverò Volpone. «Mangia dei chewing-gum. Io, quando mi viene voglia di accendermene una e lavoro vicino alla benzina, faccio così.» «Ti sei dimenticato che ho un problema di masticazione. Ho le mascelle che mi fanno un male da morire» spiegò Bubba aprendo la bocca. «Te l'avevo detto di non farti incapsulare i denti» replicò Volpone prendendo un flacone di Windex pieno d'acqua e la manichetta dell'aria compressa. «Quasi quasi ti conviene farteli togliere tutti e metterti la dentiera come ho fatto io.» Volpone sorrise mostrando i denti finti.
«Io entro con il tubo. Quando te lo dico, comincia a spruzzare l'acqua» disse. «Ci abbiamo provato anche l'altra volta» ribatté Bubba. «E non è servito a niente.» «Come farti incapsulare i denti» insistette Volpone sedendosi dietro il volante. «Se fossi in te, me li farei mettere nuovi. Questi sembrano tasti di pianoforte. E cambierei il parabrezza. Questa Cherokee ha preso tanti di quei colpi...» Volpone glielo aveva già detto e ridetto. «Se ha sempre qualcosa che non va, un po' è perché ha fatto chissà quanti incidenti e un po' perché tu insisti a metterci le mani da solo.» «Non ha mai avuto incidenti» protestò Bubba. «E invece sì. Perché avrebbe tutti quei ritocchi, altrimenti?» «Non parlar male di Macchia Nera» lo avvertì Bubba. «Se non l'ho manco nominato...» «Guarda che siamo amici da quando eravamo bambini e andavamo in chiesa insieme alla domenica.» «A sentire tuo padre che predicava» continuò Volpone. «Me lo ricordo, sai, che eri il figlio del pastore.» A Bubba venne in mente di quando lo prendevano in giro perché era il figlio del pastore. Chissà perché, se n'era dimenticato. Rimase senza parole e sentì una fitta alla pancia. «Voglio solo dirti, nel tuo interesse, che a Macchia Nera faceva comodo essere amico del figlio del pastore. Non tutti lo stimano quanto te.» Volpone ne sentiva di tutti i colori da quelli che gli portavano a riparare la macchina, compresa Miss Prum, che aveva una Dodge Dart ed era catechista alla chiesa presbiteriana del dottor But Fluck. «Senti, sono già le sei e mezzo e stasera incomincio il turno prima, come se oggi non me ne fossero già capitate abbastanza. Sarà meglio che ci diamo una mossa» disse Bubba mentre una Escort si fermava davanti al garage. «Faccio quello che posso» ribatté Volpone togliendo il rivestimento interno per controllare lo stato del poliuretano nero. «Almeno qui non ci hai messo le mani.» «Non ho avuto tempo» rispose Bubba. «E meno male, perché di solito fai solo danni» replicò candidamente Volpone. Non avevano visto entrare il ragazzo, così quando se lo trovarono di colpo alle spalle, fecero un salto tutti e due.
«Salve» disse il nuovo arrivato. «Mi dispiace, non volevo spaventarvi.» «Quando si entra, si saluta» fece Volpone. «Ho un finestrino bloccato» spiegò il ragazzo. «Be', devi aspettare un momento» rispose il meccanico. «Appena ho finito qui, gli do un'occhiata.» Bubba insisteva. «Il collegamento per la roulotte me lo sono fatto da solo» si vantò. «E infatti hai invertito le frecce» commentò Volpone. «Oh, be', cosa vuoi che sia?» «E te la ricordi la cinghia?» continuò Volpone. «Dalle istruzioni non si capiva niente» si giustificò Bubba. «Be', ci hai trafficato cinque ore e continuavi a metterla sbagliata: ruvido contro liscio invece di ruvido contro ruvido e liscio contro liscio. Così partono alternatore, servosterzo e pompa dell'acqua. T'è andata bene che non hai dovuto cambiare il motore. Comincia a spruzzare.» «Scusi» chiese educatamente il ragazzo. «Quanto pensa che ci vorrà?» «Devi avere ancora un momento di pazienza» rispose Volpone. Bubba spruzzò l'acqua sulla parte superiore del parabrezza, all'altezza dello specchietto retrovisore, mentre il meccanico orientava un getto di aria compressa sulla guarnizione. «Anche quando hai cambiato l'interruttore a mercurio nel baule hai combinato un pasticcio» ricominciò Volpone «perché ti rimaneva la luce sempre accesa e ti si scaricava la batteria. Quando hai provato a cambiare i freni hai messo le pastiglie a rovescio, e prima ancora ti eri dimenticato di rimettere la molla al freno a mano così ti è rimasta in mano la leva.» Bubba fece l'occhiolino al ragazzo, come a dire che il meccanico esagerava. Volpone andò a prendere un flacone di sigillante ultrarapido vicino al calorifero e lo infilò nell'applicatore. «Ti ricordi di quanto ti sei scordato la copiglia sul mozzo e ti si sono staccate tutte e due le ruote?» insisteva Volpone. «È bravo a raccontarle, lui» fece Bubba al ragazzo. Sull'interno del parabrezza scorreva un rivolo d'acqua. Volpone applicò una spessa striscia di sigillante, si leccò un dito e la appiattì. Poi scese dalla jeep e applicò una striscia più sottile sull'esterno. «Fra un quarto d'ora riproviamo» disse. «Il fatto è che in questa macchina le guarnizioni non tengono. Scommetto che entra aria.» Bubba non l'avrebbe mai ammesso. Volpone andò a prendere del solvente e si pulì le mani.
«Di cos'avevi bisogno, tu?» chiese poi al ragazzo. «Il finestrino posteriore sinistro è bloccato» rispose quello educatamente, ma con lo sguardo freddo. «Avrai il motorino guasto» si intromise Bubba, fingendosi un grande esperto. «Ma devi aspettare perché ci sono prima io.» «Intanto che il sigillante secca, gli do un'occhiata» disse Volpone. Si asciugò le mani e andò verso la Escort. Aprì la portiera posteriore e staccò il pannello, mentre il ragazzo si guardava intorno. «Bubba, fammi un favore. Portami le pinze spelafilo» disse Volpone. «Sei fortunato» aggiunse poi rivolgendosi al ragazzo. «Non è né l'interruttore né il motorino: si è solo rotto un filo tra la portiera e il montante. Basta giuntarlo. A proposito, come ti chiami?» «Smoke.» «Mai sentito» commentò Volpone. «Mi chiamano tutti così» fece il ragazzo con un'alzata di spalle. «Auguri» disse poi a Bubba. «Mi sono appena trasferito da queste parti. La gente mi sembra simpatica.» «È il Sud» si vantò Bubba. «Lei è di qui?» «Certamente. E vado sempre più a sud.» «Come?» chiese Smoke con un sorrisetto che poteva anche essere interpretato come di sufficienza. «Sono nato nel Northside e adesso sto nel Southside.» «Ah, capisco. E dove, precisamente?» «Forest Hills. Clarence Road» rispose Bubba, lusingato dall'interesse e dal tono rispettoso del ragazzo. «Non ti puoi sbagliare. Abito nella casa con il cane da caccia che abbaia giorno e notte. Si chiama Half Shell. Non farebbe male a una mosca.» «Se abbaia giorno e notte, però, come cane da guardia non vale granché.» «Hai proprio ragione.» «Ci va a caccia?» «Altroché.» «Qui al Sud amate le armi.» «Verissimo.» Volpone attorcigliò i fili che aveva spelato e riparò il guasto. «Io ho cominciato ad aggiustare macchine quando avevo la tua età» fece Bubba a Smoke.
«Io non me ne intendo molto» rispose il ragazzo. «Ti ci devi mettere con impegno» spiegò Bubba. «Procurarti gli attrezzi giusti, un paio di manuali e poi provare e riprovare. In casa è uguale, sai? Ti puoi costruire di tutto, anche il tetto e la veranda. L'altro giorno mi sono comprato una porta del garage da Sears e me la sono installata da solo.» «Davvero?» fece Smoke. «Telecomando e tutto?» «Certamente. È una bella soddisfazione» aggiunse Bubba. «Chissà che bel laboratorio che ha» disse Smoke. «Grande e ben attrezzato. Ho tutto quello che mi serve, dalle pinze speciali a un compressore da 7,6 CFM a 40 PSI e 5,6 CFM a 90 PSI e tutte le apparecchiature diagnostiche tipo Sunpro Sensor Probe per controllare la pressione assoluta al collettore e sensori vari...» «Che non ho nemmeno io e che non ti servono a un accidente!» lo interruppe Volpone. «Io, almeno, quello che ho lo so usare.» Rimise a posto il pannello e andò alla guida, mise in moto e provò ad azionare il finestrino, che si abbassò e si richiuse senza problemi. «Liscio come l'olio» annunciò tutto fiero pulendosi le mani nei calzoni. «Grazie» disse Smoke. «Quanto le devo?» «Questa volta offro io» rispose Volpone. «Grazie mille. Lei è molto gentile.» «Ehi, fra quindici giorni c'è la fiera delle armi da fuoco e da taglio» ricordò improvvisamente Bubba. «Devo vedere se trovo dei caricatori da venti per la mia 92FS M9 Special Edition. È l'arma militare più bella che esiste al mondo. Te la devo far vedere, Volpone. Fodero, cintura, tasca per le munizioni. L'hanno usata in tutte le ultime operazioni militari, sai?» «Non mi dire» fece il meccanico. «Non so ancora se prendermi anche la custodia: in noce, con il coperchio di vetro satinato. E anche l'impugnatura è in noce.» Bubba era indeciso. «Se l'hai comprata per usarla, della custodia non te ne fai niente.» «Certo che l'ho comprata per usarla! Spara Winchester a 115 grani Silvertip high-power.» «Com'è che non sei a scuola?» chiese Volpone a Smoke. «Avevo un'ora buca. Anzi, ora bisogna che vada.» Volpone aspettò che Smoke fosse ripartito. «Hai visto che occhi?» disse poi a Bubba. «Secondo me aveva bevuto.» «Perché, tu alla sua età non bevevi?» replicò Bubba. «Cosa dici, sarà asciugato il sigillante?» «Penso di sì. Ma non so se terrà.»
Riprovarono con l'aria compressa e l'acqua continuava a entrare. Volpone studiò con calma il problema e capì qual era il vero guaio. «Hai una crepa nel tetto.» 6 Weed si rifiutò di leggere ad alta voce il compito e la Grannis pensò amareggiata che non l'avesse fatto. I compagni rimasero sconcertati di fronte all'atteggiamento chiuso e scontroso di Weed, che era diligente, uno dei più bravi della classe. Tuttavia, più la professoressa insisteva, più lui si intestardiva, al limite della maleducazione. «In fondo sono fatti miei perché ho scelto di fare un pesce» dichiarò alla fine, prendendo lo zainetto da sotto la sedia. «Era un compito» spiegò la professoressa in tono fermo. «Nessun altro ha fatto un pesce.» Weed guardò l'ora. «Ragione di più per sentire perché l'hai scelto» continuò lei. «Dai, Weed.» «Perché non ce lo vuoi leggere?» «Non è giusto. Noi i nostri li abbiamo letti.» Era l'una e quarantotto, e mancavano tre minuti alla fine della lezione. La Grannis era disperata: Weed era impassibile, rigido sulla sedia, con la testa bassa, come se avesse paura di prenderle. I suoi compagni, a disagio, aspettavano che suonasse la campanella «Bene» disse infine la professoressa rompendo il silenzio. «Domani cominceremo a usare gli acquerelli. Non dimenticatevi che la prossima ora abbiamo una conferenza.» Henry Hamilton, che era il lanciatore più bravo della squadra di baseball e detestava stare seduto oltre le due del pomeriggio, fece una smorfia e sospirò. Eva Grecci lo imitò perché aveva preso una cotta per lui. Anche Randy Weispfenning arricciò il naso. «Due poliziotti molto importanti mandati a Richmond dal National Institute of Justice hanno acconsentito a venire a fare una chiacchierata con noi» annunciò la Grannis. «Su che cosa?» «Sulla lotta alla criminalità, immagino» rispose lei. «Che barba!» «Uffa! Mia mamma si rifiuta di leggere i giornali.» «Mio papà dice che dovremmo venire a scuola con il giubbotto anti-
proiettile.» Hamilton rise e si scansò quando Weispfenning fece il gesto di ammanettarlo. «Non c'è niente da ridere» disse la Grannis. Suonò la campanella e tutti saltarono in piedi come se fosse scattato l'allarme antincendio. «Andiam, andiam...» canticchiò Hamilton fingendosi uno dei sette nani con la piccozza sulle spalle. Eva Grecci scoppiò in una risata troppo sonora. «Weed» chiamò la Grannis. «Vorrei parlarti un minuto.» Il ragazzo si avvicinò alla cattedra strascicando i piedi, mentre l'aula si svuotava. «È la prima volta che non fai il compito» gli disse con dolcezza. Weed alzò le spalle. «Perché?» «Così» rispose lui facendo di nuove spallucce. Aveva le lacrime agli occhi. «Non è una risposta.» Weed sbatté le palpebre e si voltò dall'altra parte. Era confuso e agitato: aveva appuntamento con Smoke un'ora più tardi. «Non ho avuto tempo» rispose pensando alle cinque facciate di tema che aveva nello zainetto. «Mi sorprende» replicò l'insegnante misurando le parole. Weed stette zitto. Il sabato precedente aveva passato mezza giornata a scrivere quattro brutte prima di ricopiare il compito in bella, curando la calligrafia perfino con l'aiuto di un manuale. Suonò la seconda campana. «Dobbiamo andare in aula magna» disse la Grannis. Lo scrutò, e lui si rese conto che la professoressa incominciava a temere che ammetterlo nel corso avanzato fosse stato un errore. «Io non ho voglia di sentire dei poliziotti» fece Weed. «Weed?» Il tono non ammetteva repliche. «Tu vieni e ti siedi vicino a me.» Brazil parcheggiò davanti all'entrata principale della scuola. Per strada non aveva fatto altro che lamentarsi, ma quando scese dalla macchina fra gli sguardi ammirati degli studenti si sentì più contento. Non pensava che uno dei motivi per cui attirava sempre l'attenzione era che la divisa lo faceva sembrare ancora più bello. Lui non si piaceva, non si era mai accettato veramente, anche perché era
figlio unico di una madre che era sempre stata troppo depressa o troppo ubriaca per vederlo come un essere autonomo. Guardando Andy vedeva solo un riflesso sfocato del marito, ucciso quando il figlio aveva dieci anni, e nella sua disperazione era il padre di Andy che lei picchiava, implorava e supplicava di non abbandonarla. «Tu sai dove dobbiamo andare?» domandò Virginia chiudendo la portiera. Brazil controllò gli appunti che gli aveva dato Fling. «Entrando a sinistra» lesse. «Entrando dove?» «Mah» fece Brazil continuando a leggere. «Qui non lo dice. "Prendere il corridoio verde fino a una porta azzurra vicino alla bacheca con le fotografie."» «Cazzo» esclamò lei. «Pare che non ci si possa sbagliare.» «Te lo dico io, Andy, questo è un complotto. Fling ha il preciso compito di rovinare tutto quello che facciamo.» «Ma dai!» replicò lui aprendo la porta per farla passare. «Il comandante precedente ha resistito ben tre anni.» «Prima di farsi cacciare per incompetenza.» «Ah» fece Brazil vedendo arrivare un'insegnante in compagnia di uno studente. «Mi scusi» le disse con un sorriso. «Stiamo cercando l'aula magna. Io sono l'agente Brazil e lei il vicecomandante West.» «Che combinazione!» rispose la professoressa con entusiasmo. «Stavamo proprio venendo a sentire voi. Io mi chiamo Grannis e questo è Weed. Se volete seguirci... È proprio qui davanti. Sono certa che gli studenti saranno già tutti seduti ad aspettarvi con ansia.» «Tu cosa dici?» fece Brazil a Weed. «Niente» replicò Weed. «Avanti» lo incoraggiò Virginia. «Sono sicura che qui vi insegnano a dare risposte più articolate di questa.» «Weed è il nostro artista» annunciò orgogliosa la Grannis dandogli una pacca sulla spalla. Weed si scostò con una smorfia. Non si capiva se era insofferente o se stava per piangere. «Bravo» commentò Brazil accorciando il passo. «Che cosa ti piace disegnare?» «Di tutto» rispose Weed.
«Davvero?» fece Brazil. «E fai anche sculture?» «Sì.» «E disegni a china?» «Già.» «Acquerelli?» «Cominciamo la prossima volta.» «Cartapesta?» «Sì, certo.» «Ti piacciono gli impressionisti? Cézanne? Le Château Noir?» «Eh?» Weed alzò gli occhi verso Brazil. «Cosa?» «Cézanne. È uno dei miei pittori preferiti. Guarda i suoi quadri e vedrai che ti piaceranno.» «Dove abita?» «È morto.» Weed aggrottò la fronte. Erano arrivati all'aula magna, che era gremita. Tutti si voltarono a osservare la Grannis e Weed, chiedendosi che cosa ci facessero insieme a due poliziotti tanto importanti. Weed camminava a testa alta, sicuro di sé nei vestiti extralarge di moda in quel periodo. Si sedette in seconda fila con la professoressa, vicino agli altri insegnanti, mentre Brazil e la West salirono sul palco e si sedettero sotto i riflettori. Virginia provò il microfono. Funzionava. «Ci sentite tutti?» chiese. «Sì» rispose un coro di voci. «Anche voi in fondo?» «Sììì.» «Ce l'avete la pistola?» domandò qualcuno. «Cominciamo proprio da questo» disse il vicecomandante West con voce tonante. «Perché vi sembra tanto importante? Sì, io ho la pistola.» «Che pistola ha?» «Una che non mi piace» replicò. «Perché non mi piacciono le pistole in generale. Non mi piace nemmeno fare il poliziotto. E sapete perché? Perché preferirei vivere in un mondo in cui non ci fosse bisogno né dei poliziotti né delle pistole.» La West e Brazil parlarono per una ventina di minuti, poi la preside andò davanti al palco fra gli applausi generali e Brazil si chinò a porgerle il microfono. Abbagliata dai riflettori, la professoressa Lilly strizzò gli occhi e chiese se qualcuno voleva fare domande.
Smoke era tornato a scuola dopo una puntatina da Sears, dove aveva rubato dieci telecomandi per garage, e si era seduto in decima fila, lateralmente. Si alzò in piedi. «Secondo voi, cattivi si nasce?» chiese ad alta voce. «Io credo di sì» rispose la poliziotta con fare deciso. «Mi piacerebbe pensare di no» si intromise la preside. «Piacerebbe a tutti» intervenne il poliziotto biondo. «Comunque sia, alla fine dei conti è una questione di scelte. Nessuno ci costringe a copiare durante il compito in classe, a rubare una macchina o a picchiare un compagno.» Smoke era rimasto in piedi e ascoltava attentamente, con espressione innocente e pensosa. Non aveva ancora finito. «Ma se uno è cattivo e niente riesce a cambiarlo, voi che cosa fate?» chiese in tono sicuro. «Lo mettiamo dentro» rispose la poliziotta, convinta. Risate. «L'unica cosa che si può fare è cercare di proteggere la società dalla gente così» spiegò il poliziotto biondo. «È vero che di solito chi è geneticamente cattivo è più in gamba e più difficile da catturare?» si informò Smoke. «Dipende da chi gli dà la caccia» replicò l'uomo con un sorrisetto. Tutti scoppiarono a ridere. Suonò la campanella e Smoke fu tra i primi a uscire da una porta laterale. Si diresse subito verso il parcheggio. Sorrideva, immaginando di combattere con il poliziotto biondo e la poliziotta con le tette grosse. A quel pensiero si eccitò. Arrivò alla Escort sentendosi potente e sicuro di sé. Salì in macchina, elettrizzato, e osservò gli scuolabus e le centinaia di ragazzi che uscivano contenti dalla scuola. Mise in moto e raggiunse il luogo dell'appuntamento costringendo i ragazzi a piedi a fermarsi per lasciarlo passare: lui non si faceva da parte per nessuno. Nella confusione generale aspettò Weed, il piccoletto che aveva intenzione di tormentare e che l'avrebbe reso famoso. Aveva voglia di masturbarsi, ma si trattenne. Quando era eccitato non lo fermava più nessuno, poteva fare qualsiasi cosa. In bocca sentiva un leggero sapore metallico mentre l'energia gli scorreva dal bassoventre fino alla testa. Sarebbe stato capace di tutto. Gli bastava ripensare alla stessa scena, frutto della sua fantasia: sporco e sudato sul tetto di un palazzo del centro con un AR-15 mentre faceva fuori
la metà dei poliziotti della città infilando un caricatore dietro l'altro nel mitragliatore, abbatteva elicotteri e massacrava le truppe della Guardia Nazionale. Smoke non arrivava più in là di così, perché la parte razionale del suo cervello gli diceva che quella fantasia non poteva che finire con la morte o la prigione. Tuttavia nessuna delle due prospettive riusciva a distoglierlo da quell'idea, consumato com'era da un desiderio tanto intenso e fremente da non concedergli tregua. Erano le tre e cinque quando Weed si avvicinò alla macchina con lo zainetto in mano. Salì, chiuse la portiera e si allacciò la cintura senza che Smoke gli rivolgesse la parola. Poi Smoke mise in moto e uscì lentamente dal parcheggio. Discese Pump Road e arrivò a Patterson Avenue, mentre Weed si agitava sempre di più, passandosi la lingua sulle labbra e guardando fuori del finestrino. «Come mai hai fatto tutte quelle domande alla conferenza?» riuscì finalmente a trovare il coraggio di chiedere. Smoke restò zitto. «Mi sono piaciute, come domande.» Senza rispondere, Smoke svoltò a sinistra in Patterson Avenue e accelerò. Percepiva la paura di Weed e si sentiva ribollire. «Secondo me erano due teste di cazzo» commentò Weed dandosi arie da duro. «Ehi, hai fame? Io non ho mangiato e ho ancora il mio panino. Lo vuoi?» Seguì un lungo silenzio. Smoke imboccò Parham Road verso sud. «Com'è che non mi parli, Smoke?» chiese Weed nervoso. «T'ho fatto qualcosa?» La mano si Smoke si mosse, come animata di vita propria, e colpì Weed con violenza in mezzo alle gambe. «A che ora ti avevo dato appuntamento?» gridò mentre Weed si piegava in due annichilito dal dolore. «A che ora ti avevo detto, brutto stronzetto schifoso?» «Alle tre» rispose Weed con le lacrime che gli rigavano la faccia. «Perché mi hai picchiato? Non ti ho fatto niente!» Aveva il singhiozzo. «Smoke, cosa ti ho fatto?» «E che ora era quando sei salito sulla mia macchina, eh, stronzetto?» Smoke lo prese per i capelli. «Le tre e cinque, ecco che ora era.» Gli tirò i capelli e Weed strillò di dolore. «Se dico alle tre, voglio che ti presenti alle tre. Capito, ritardato?»
«Non sono riuscito a sganciarmi dalla Grannis» rispose Weed senza fiato, con una smorfia di dolore, mentre Smoke continuava a tirargli i capelli tanto forte da strappargli qualche ciocca. «Scusa, Smoke. Adesso piantala, per favore. Ti ho chiesto scusa!» Smoke lo spintonò via e scoppiò a ridere. Poi accese lo stereo e mise un cd di 2 Pac che una parola sì e una no diceva "cazzo" e "sporco negro", infilò la mano sotto il sedile, tirò fuori la Glock e la puntò alle costole del compagno, godendo della sua paura. Weed si coprì la faccia con le mani, scoreggiò e fece un rutto. «Guarda che se mi pisci o mi caghi in macchina ti sparo nell'uccello» lo avvertì Smoke. «Ti prego, Smoke» lo implorò Weed con una vocina da far pietà. «Ti prego, smettila.» «La smetto se tu d'ora in avanti farai tutto quello che ti dico.» «Va bene, Smoke. Farò tutto quello che mi dici, te lo prometto.» Smoke rimise la pistola sotto il sedile, alzò il volume e cominciò a canticchiare. Non parlarono più. Smoke andò verso il fiume e Huguenot Road, tagliando per Forest Hill e svoltando qua e là per evitare le strade a pedaggio. Weed pareva essersi tranquillizzato. Si era asciugato gli occhi e teneva le gambe accavallate. Era talmente piccolo che quasi non toccava per terra con i piedi. Smoke sapeva calcolare bene i tempi per convincere la gente a fare tutto quello che voleva lui. «Stai meglio?» gli chiese, abbassando il volume. «Sì» rispose educatamente Weed. Erano in Midlothian Turnpike all'altezza di German School Road. «Sai cos'è un giuramento?» domandò Smoke. Adesso parlava in tono più dolce, più rilassato, come se stessero andando al ristorante o a fare un giro in macchina. «Più o meno» rispose Weed. «Parla più forte» gli fece Smoke. «Non ti sento.» «Più o meno» ripeté Weed a voce più alta. «Non sei mai stato nei boy scout?» «No.» «Be', quello che fanno loro è una specie di giuramento. "Prometto sul mio onore di fare del mio meglio per... eccetera eccetera." Capito adesso cos'è un giuramento? È un impegno che ti prendi e se poi non lo mantieni la paghi cara, capito?» I negozi in quel tratto di Midlothian Turnpike avevano tutti a che fare
con automezzi e autoaccessori, a parte un ristorante che aveva appena chiuso e una libreria porno con una sola auto nel parcheggio. Smoke imboccò una traversa sterrata e superò un camping per roulotte, circondate da sedie metalliche, vasi di fiori e nanetti di ceramica. Alcuni gatti smunti scapparono all'istante. Sui vetri brillava il sole e le tende di perline sulle porte tintinnavano nel vento. Svoltarono nel parcheggio sconnesso e pieno di erbacce del Southside Motel, chiuso ormai da anni. L'accesso al vialetto era impedito da una catena, i condizionatori esterni erano tutti arrugginiti e dietro le finestre rotte si muovevano in maniera sinistra tendine bianche. I cespugli di ginepro erano cresciuti selvaggiamente e nell'erba alta e secca si nascondevano pericolosi vetri rotti. Smoke fermò la macchina dietro il motel, vicino a un cassonetto. «Ti ricordi che ti ci ho portato anche la settimana scorsa?» domandò Smoke. «La regola numero uno è che qui dietro non parcheggia nessuno. Li vedi i cartelli di proprietà privata?» «Sì» rispose Weed guardandosi intorno spaventato. «Be', la polizia non viene da queste parti, ma io non voglio correre rischi comunque. Se vedono la macchina, ce l'hai nel culo.» Inserì la retromarcia e ritornò davanti al motel. Weed rimase zitto mentre Smoke parcheggiava in una stradina sterrata e piena di buche ai margini del camping per roulotte. «Io normalmente entro di là» spiegò spegnendo il motore e prendendo la Glock. «Ma tu devi andare dall'altra parte perché qui sono tutti bianchi e ti noterebbero subito. Non vorrei che chiamassero la polizia.» «E come faccio?» domandò Weed scendendo dalla macchina e lanciandosi attorno occhiate furtive. «Vai verso Fast Track, Jiffy Tune e la bottega di autoricambi sulla strada e poi tagli dal bosco dietro il motel» spiegò Smoke infilandosi la pistola nei pantaloni; poi tirò giù la felpa dei Chicago Bulls per nasconderla meglio. Si incamminò di buon passo e Weed gli trotterellò dietro zoppicando: evidentemente aveva ancora male. Smoke sapeva che la sua nuova vittima aveva paura di morire ammazzato dietro un motel abbandonato e deserto e non fece nulla per levargliela. Riconosceva la paura e godeva della sofferenza altrui. Aveva imparato da piccolo a provare piacere nel vedere il terrore negli occhi degli animali che torturava a morte. Veniva da una famiglia migliore di tante altre, con due genitori tranquilli
e aperti che non lo avevano mai ostacolato né limitato, incapaci di credere che il figlio potesse essere cattivo. Avevano sempre preferito assecondarlo piuttosto che costringerlo a fare le cose di nascosto, convinti che, dando loro fiducia e mantenendo un atteggiamento imparziale, i tre figli sarebbero diventati ragazzi responsabili. Con il fratello e la sorella più grandi la teoria aveva funzionato: erano bravi a scuola, frequentavano ragazzi perbene e avevano ambizioni normali. Smoke, però, era sempre stato diverso. Nel corso delle interminabili sedute di psicoterapia a Durham e a Butner, non si era mai lamentato della famiglia né di traumi particolari. Non dava la colpa a nessuno per quello che era, anzi, se ne attribuiva tutto il merito. Si era definito psicopatico e aveva fatto di tutto per diventarlo. Era sicuro che un giorno il suo nome sarebbe diventato famoso in tutto il mondo. Weed, contento che in quel momento Smoke non gli facesse niente di male, collaborava. Camminavano fra cocci e sassi, nel bosco che separava il retro del motel dalle strade e superstrade dei dintorni. Smoke andò diritto verso una grossa tavola di compensato appoggiata contro un muro, dietro un cespuglio di ginepro. Strinse gli occhi e si guardò intorno, tendendo bene le orecchie. Poi spostò la tavola da una parte e si appoggiò al montante di alluminio di ciò che restava di una vecchia porta scorrevole. «Chi fa servizio bar?» chiese alla ragazza e ai tre ragazzi dentro la stanza che puzzava di chiuso e di muffa. «Dobbiamo festeggiare. Weed, questa è la tua nuova famiglia. Lei è Divinity e questi tre coglionastri sono Dog, Sick e Beeper.» «Si chiamano davvero così?» non poté fare a meno di chiedere Weed. «No, è il loro nome da schiavi» rispose Smoke. 7 I Lucci stavano fumando e bevendo vodka in bicchieri di plastica, stravaccati su materassi sporchi e puzzolenti. Guardarono Weed con aria divertita, gli occhi che ridevano. Divinity aveva la pelle scura, ma a Weed non parve proprio nera, forse mulatta o ispanica. Non portava reggiseno, e la canottiera nera e aderente mostrava più di quanto Weed avesse mai visto dal vero. Teneva le gambe leggermente divaricate, indossava un paio di jeans logori ed era molto carina. Dog era grande e grosso e aveva la faccia da fesso, oltre che da cattivo.
Sick aveva l'acne, la testa rasata e cinque anellini all'orecchio destro. Beeper sembrava leggermente più simpatico, ma forse solo perché era piccoletto come Weed. Avevano tutti un numero tatuato sull'indice della mano destra e in quel lerciume sembravano di casa. Sulla moquette marrone e marcia c'erano sedie di legno che a Weed parevano da scuola, vassoi, tovaglioli di carta e bicchieri di plastica. I davanzali erano pieni di mozziconi di candele con tutta la cera intorno. I mobili del motel erano talmente deformati dall'umidità che i rivestimenti di formica si erano arricciati agli angoli. Ammucchiati qua e là c'erano scatole di gessetti, gomme, un proiettore per diapositive, libri della biblioteca, una tavola di sughero, cuscini, una dozzina di portafogli e borsette vuoti e altrettante scarpe da ginnastica di pelle di vari numeri. Le casse di liquore, accatastate una sull'altra, raggiungevano il soffitto. Smoke accese una candela mentre Divinity gli versava un bicchiere di vodka. «Cambi nome anche a me?» chiese Weed. «Versane un po' anche a lui» ordinò Smoke a Divinity. La ragazza gli porse un bicchiere e rise quando Weed esitò ad accettarlo. «Dai» gli fece Smoke. Il padre di Weed beveva spesso superalcolici, ma Weed non ne aveva mai assaggiati. Sapeva che suo padre dopo aver bevuto diventava cattivo e lo lasciava da solo: certe volte usciva e non tornava per tutto il fine settimana in cui Weed stava con lui. Ne bevve un sorsino, che gli bruciò la gola e lo fece tossire. Si sentì subito accaldato e con la testa chissà dove. «Vediamo» disse Smoke porgendo il bicchiere a Divinity perché glielo riempisse di nuovo e facendole cenno di versare ancora da bere anche a Weed. «Hai un nome talmente del cazzo che quasi quasi ti lascio quello. Secondo voi se ne trovano meglio di Weed?» domandò alla banda. «No» rispose sospirando Divinity, sdraiandosi sul materasso con le mani dietro la testa e i seni rivolti all'insù. Smoke si accorse che Weed la guardava. «Non hai mai visto un paio di tette, ritardato?» gli chiese. Weed era al secondo bicchiere di vodka e aveva la nausea. «Certo» balbettò. «Io non credo proprio» fece Smoke ridendo. «Le avrai viste in fotografia... Quelle che guardi quando cerchi di tirarti una sega.» Tutti scoppiarono a ridere, Weed compreso. Tentava di fare lo spavaldo perché non si accorgessero che aveva paura. «E che cazzo» riprese Weed. «Ne ho visto di più grosse delle sue.»
«Fagliele un po' vedere» ordinò Smoke a Divinity. Lei si tirò su la canottiera e gli sorrise. Weed la fissò a bocca aperta. Si sentiva scottare le guance, come quando aveva la febbre alta. Quella ragazza aveva dei tatuaggi in certi posti che... «Guarda quanto vuoi, ma se ti azzardi a toccare ti sparo nelle palle» lo avvertì Smoke minaccioso. «La sapete tutti la regola, vero?» Beeper, Sick e Dog annuirono stancamente, per nulla interessati alle grazie di Divinity. Smoke le andò vicino e cominciò ad accarezzarla e a baciarla. Weed non aveva mai visto nessuno fare quelle cose davanti alla gente. Secondo lui non si doveva, e aveva voglia di scappare più veloce che poteva e risvegliarsi in un'altra città. «Allora, piccola, accendiamo il fuoco?» le chiese Smoke leccandole un orecchio. «Certo, amore.» Con una mossa languida allungò il braccio e prese una scatola di siringhe e una biro. Sempre più terrorizzato Weed osservò Smoke passare un ago sulla fiamma della candela mentre Divinity rompeva la biro con il fondo della bottiglia di vodka e tirava fuori la cartuccia d'inchiostro per farsi un puntino sul polso, con lo stesso gesto con cui le madri controllano che il biberon non sia troppo caldo. «Sono pronta, amore» sussurrò. «Vieni qui» disse Smoke a Weed. Weed era impietrito, «Cosa vuoi fare, Smoke?» chiese con un filo di voce. «Ti tatuo il numero, ritardato.» «Non è il caso. Va bene così.» «Figuriamoci. Senti, se non sposti il culo da solo, ti faccio prendere di peso dai ragazzi, capito? Forza!» ripeté battendo la mano sul materasso dov'era seduto con Divinity. Weed si avvicinò e si sedette sul materasso che puzzava di muffa e di sporco, abbracciandosi le ginocchia e tenendo i pugni stretti, mentre Smoke rigirava lentamente l'ago sulla fiamma. «Dammi la mano destra» gli ordinò. «Perché non lasciamo perdere?» fece Weed cercando di non usare un tono troppo supplichevole. «Dammi la mano destra se no te la taglio.» Divinity versò altra vodka e porse il bicchiere a Weed. «Dai che così non senti niente. Ci siamo passati tutti, sai» gli spiegò mo-
strandogli il dito sottile con il numero 2. Weed ingollò la vodka e si sentì bruciare lo stomaco. Aveva la testa confusa e rimase sorpreso quando, dopo aver allungato la mano, si rese conto di poter sopportare le punture dell'ago incandescente. Non pianse. Fu come se avesse spento l'interruttore del dolore; quando Divinity versò l'inchiostro nelle ferite strofinando bene, non guardò. Siccome ciondolava, Smoke gli intimò di stare fermo. «Sei lo schiavo numero cinque, stronzetto» lo informò. «Contento? Vuol dire che sei nei primi dieci. Anzi, nei primi cinque. Sei un Luccio di prima categoria. E dai Lucci di prima categoria ci aspettiamo molto, vero gente?» «Eh sì, cazzo!» «Cazzo!» «Tranquillo. Continua così» disse Divinity. «Adesso ci vuole l'iniziazione, ritardato» annunciò Smoke infilandogli di nuovo l'ago nell'indice destro, appena sopra la falange. «Ci devi fare una piccola opera d'arte.» Weed stava per svenire e Divinity, ridendo, lo sostenne e gli passò la mano sulla schiena. «Facciamo vedere chi siamo a questa città del cazzo» dichiarò Smoke pieno di sé e di liquore. «Ce n'hai colori, stronzetto?» Le parole di Smoke ronzavano nella testa di Weed senza scalfirlo. «È andato» commentò Beeper. «Come cazzo facciamo adesso?» «Per ora niente» rispose Smoke. «Prima devo sbrigare una faccenda.» Erano quasi le otto di sera e Virginia West era contenta. Se lavorava fino a tardi, poi non aveva più la forza di arrabbiarsi per i piatti nel lavandino, i vestiti sporchi per terra e quelli puliti sulle sedie. Non doveva aspettarsi che Brazil le telefonasse per invitarla a mangiare una pizza o a fare una passeggiata, come a Charlotte. Non l'aveva più fatto, ma del resto perché avrebbe dovuto? Lei cercava di non essere mai a casa, così se gli fosse venuto in mente di telefonarle, non l'avrebbe trovata. Virginia aveva da fare, era in giro, non pensava a lui, aveva altro per la testa. In realtà le otto era più presto del solito. Virginia preferiva rientrare verso le dieci o le undici, quando era troppo tardi anche per chiamare i suoi, che andava a trovare raramente ora che abitava così lontano. Il tempo era diventato suo nemico. La minima pausa le faceva sentire un vuoto e una solitudine insopportabili, che la spingevano a uscire dalla vecchia casa presa in affitto in Park Avenue, un tempo Scuffelton Road, nel Fan District
di Richmond. Sebbene ai forestieri Fan non dicesse nulla (e nemmeno alla maggioranza degli abitanti di Richmond, che non erano interessati alla storia della città), guardando la cartina si capiva il perché di quello strano nome: le strade di quel quartiere, dai nomi stravaganti come Strawberry, Plum e Grove Street, si aprivano proprio come un ventaglio per parecchi chilometri a ovest del centro. Le case e le villette di mattoni avevano tetti d'ardesia, vetrate, colonnati, balaustre, cupole e complicate rifiniture in una grande varietà di stili architettonici. La casa di Virginia era a due piani: il pianterreno era rivestito di granito grigio e marrone, quelli disopra erano in mattoni rossi a vista. Le finestre del primo piano avevano i vetri colorati, con una veranda bianca che spiccava in corrispondenza del portone. Sebbene Park Avenue fosse stata in passato una delle vie più eleganti della città, con l'espansione della Virginia Commonwealth University era divenuta economicamente più accessibile. In realtà quel quartiere le piaceva sempre meno, perché il rumore la innervosiva. E forse innervosiva anche Niles, il suo gatto abissino. Stupidamente era andata ad abitare poco lontano dalla casa in cui era nato il governatore Jim Gilmore, meta turistica di un certo rilievo, e di fronte al Robin Inn, locale molto frequentato da studenti e poliziotti amanti di lasagne al forno e spaghetti. Trovare un parcheggio era un'impresa quasi disperata e Virginia West aveva incominciato a detestare gli studenti e le automobili. A dire il vero, non sopportava quasi più nemmeno le biciclette. Appena posò la ventiquattrore nell'ingresso, Niles uscì dallo studio e la guardò con gli occhi azzurri strabici. Gettò la giacca del completo sul divano del salotto e si tolse le scarpe. «Che cosa ci facevi nel mio studio?» gli chiese. «Lo sai che non voglio che ci entri. Come hai fatto, a proposito? Mi sembrava di aver chiuso la porta a chiave, brutto gattaccio pulcioso...» Niles non si offese: sapeva benissimo che la sua padrona non pensava veramente che fosse pulcioso. «Il mio studio è la stanza più brutta della casa» brontolò entrando in cucina, seguita da Niles. «Vorrei sapere perché ti piace tanto.» Aprì il frigo, prese una bottiglia di Miller Genuine Draft e la stappò. Niles saltò sul davanzale e la fissò. La sua padrona andava sempre di corsa e credeva di chiudere porte, sportelli, finestre e cassetti, nascondendogli le cose con cui gli piaceva giocare, come chiodi, viti, gomitoli e avanzi, ma
non era vero. La sua padrona bevve un sorso di birra e guardò il costosissimo videotelefono grigio, dotato di due linee, segreteria telefonica, servizio di identificazione delle chiamate in entrata e un lungo elenco di numeri in memoria. Vide che non c'erano messaggi e controllò se avesse chiamato qualcuno senza lasciare messaggi. Ma non risultavano chiamate in assoluto. Bevve un sorso di birra e sospirò. Niles rimase sul davanzale a fissare la ciotola vuota. «Ho capito» borbottò la sua padrona, bevendo un altro sorso. Prese dalla dispensa un sacchetto di Iams Less Active. «Te lo dico una volta per tutte» riprese riempiendogli la ciotola di ceramica fatta a mano. «Se mi sali ancora sulla tastiera o mi stacchi qualche spina, vedi.» Niles saltò giù in silenzio e mangiò un po' di quella robaccia dietetica senza grassi e senza sapore. Virginia andò nello studio temendo di trovare chissà quali disastri. I gatti abissini sono bestie molto intelligenti in generale e Niles lo era in particolare, il che era un problema, visto che era curioso e non aveva niente da fare tutto il giorno. «Ma roba da matti!» esclamò Virginia. «Come diavolo hai fatto?» Sullo schermo era visualizzata una mappa della città del Comstat. Non era possibile... Era sicurissima di aver spento il computer prima di uscire di casa, quella mattina. «Per la miseria!» mormorò sedendosi di fronte al terminale. «Niles! Vieni subito qui!» Non ricordava che la mappa fosse arancione, azzurra, verde e rosa. Non l'avevano programmata bianca e gialla? E che cosa ci facevano quei pesciolini azzurri ammucchiati nel settore duecentodiciannove del secondo distretto? Virginia controllò le icone selezionabili in fondo allo schermo. Gli omicidi erano rappresentati da crocette, le rapine da puntini, le aggressioni da stelle, i furti d'appartamento da triangoli, quelli d'auto da automobiline. Non c'erano pesci, né azzurri né di altro colore. Non erano proprio previsti dal Comstat e non c'era motivo per cui il settore duecentodiciannove ne fosse pieno e avesse il perimetro rosso e lampeggiante. Sollevò il ricevitore del telefono. 8
Andy Brazil viveva nello stesso quartiere di Virginia West, in Plum Street, in una villetta con il tetto piatto e semplici cornicioni di mattoni, impianti e tubature vecchi e pavimenti di legno scricchiolanti coperti qua e là da logori tappeti. Gliel'aveva affittata ammobiliata Miss Ruby Sink, abile amministratrice dei propri beni nonché grandissima ficcanaso, che era stata fra i primi a sapere che a Richmond stava per arrivare una squadra di poliziotti del National Institute of Justice che avrebbero avuto bisogno di alloggio. Siccome lei aveva una villetta sfitta da mesi, si era fatta avanti e Brazil l'aveva presa senza nemmeno vederla. Come Virginia, si era poi pentito di quella scelta. Era caduto in una vera e propria trappola: Miss Sink era ricca e sola, lunatica e chiacchierona. Si presentava a ore inconsulte, ufficialmente per controllare che il giardinetto fosse in ordine e che non occorresse niente, oppure per portargli torte o biscotti fatti in casa, ma in realtà per farsi raccontare del suo lavoro e della sua vita privata. Notò che sull'ultimo gradino davanti alla porta c'era un pacchetto, riconobbe la scrittura di Miss Sink sulla carta marrone e si incupì. Era stanco morto, non aveva mangiato e non aveva nemmeno fatto la spesa: l'ultima cosa di cui aveva voglia era un regalo di Miss Sink, inevitabilmente seguito da una visita o, nella migliore delle ipotesi, da una telefonata. «Sono tornato» annunciò sarcastico alla casa vuota entrando. «Cosa c'è per cena?» Gli rispose il rubinetto del bagno in fondo al corridoio, che gocciolava furiosamente. Brazil si sbottonò la giacca della divisa e andò nella sua camera, occupata quasi interamente dal letto matrimoniale e da un comò. Posò la Sig Sauer calibro 9 sul comodino. Poi si slacciò il cinturone, si tolse le scarpe, i calzoni e il giubbotto antiproiettile e passò in cucina in calzini, mutande e canottiera, massaggiandosi la schiena sudata. Davanti al soggiorno, vide con la coda dell'occhio il computer e rimase scioccato. «Ma che...» mormorò prendendo una sedia e avvicinandosi alla tastiera. Sullo schermo c'era una delle mappe della città della rete Comstat; il settore duecentodiciannove aveva il contorno rosso lampeggiante e una serie di pesciolini azzurri all'interno. Il settore duecentodiciannove confinava con Chippenham Parkway a ovest, Jahnke Road a nord, la ferrovia a est e Midlothian Turnpike a sud. Il suo primo pensiero fu che fosse successo qualcosa dopo che lui era uscito dall'ufficio, venti minuti prima. Poteva es-
sere scoppiata una rivolta, una bomba, essersi rovesciato un camion pieno di sostanze pericolose o essere in arrivo un uragano. Prese il telefono e chiamò la sala radio. Gli rispose Patty Passman. «Unità undici» disse Brazil. «È successo qualcosa nel Southside, e in particolare nel settore due-uno-nove?» «Mi risulta un tuo EOT alle ore 19,24» replicò la Passman. «Esatto» confermò Brazil. «Perché allora mi chiedi del settore due-uno-nove? Stai controllando lo scanner?» «Dieci-dieci» rispose Brazil per informarla che non lo stava facendo. «È in corso qualcosa nel due-uno-nove?» «Dieci-dieci» rispose la Passman mentre le radio gracchiavano in sottofondo. «Capisco. Quando mi hai chiesto se stavo controllando lo scanner ho pensato che fosse successo qualcosa davvero» spiegò Brazil, rendendosi conto che non era necessario usare i codici al telefono. «Dieci-dieci, Unità undici» replicò la Passman, che ormai sapeva parlare soltanto in codice. «Dieci-dodici, Unità undici» aggiunse quindi, per chiedergli di restare in linea. «Dieci-dieci» ripeté dopo un momento. «Niente dieci-diciotto» comunicò, intendendo che non risultavano chiamate urgenti. «E non urgenti?» insistette Brazil. «Quante volte te lo devo dieci-nove?» domandò la Passman spazientendosi. Non le piaceva ripetere la stessa cosa più di due volte. «Sicuri che non si sia rovesciato un carico di pesce?» «Che cosa?» «Non so, qualche problema di pesce. Magari azzurro.» «Dieci-dodici» disse lei perché restasse di nuovo in linea. «Mabie?» Siccome la Passman aveva inavvertitamente premuto il tasto sul microfono, tutti quelli che in quel momento avevano lo scanner acceso, poliziotti e non, potevano seguire la conversazione. «Hai sentito parlare di pesce?» stava chiedendo ad alta voce la Passman al collega Johnnie Mabie. «Pesce? Chi te l'ha chiesto?» «L'Unità undici.» «Che tipo di pesce?» «Azzurro. Non si è rovesciato un camion o è successo qualcosa al mercato del pesce?»
«Aspetta che chiamo un ispettore. Unità settecentonove?» Brazil era inorridito. «Settecentonove» tuonò l'ispettore nel suo salotto. «Avete problemi con i pesci nel secondo, in particolare nel due-unonove?» chiese Mabie. «Intendi la famiglia?» «La classe.» «Ti sto chiedendo se ti riferisci al clan dei Pesci o ai pesci pesci.» «Ai pesci pesci» si intromise la Passman. «Non se n'è rovesciato un carico da qualche parte?» «Dieci-dieci» rispose l'unità settecentonove dopo una lunga pausa. «Non potrebbe essere uno pseudonimo?» Pur non avendo mai interrotto la comunicazione, la Passman tornò al telefono e riferì la domanda a Brazil, che rispose di non avere altre informazioni al riguardo, ringraziò e riattaccò. Subito dopo, tutti quelli che avevano inavvertitamente ascoltato la comunicazione cominciarono a chiamare la sala radio facendo domande tendenziose e riferendo incidenti, circostanze, falsi allarmi, targhe, pazzoidi, prostitute e protettori che avevano a che fare con i pesci. Brazil spense lo scanner, furioso all'idea di aver dato ai poliziotti di Richmond un motivo in più per prenderlo in giro. Quella sera reporter e cameraman erano di vedetta davanti a La Petite France, in attesa che il governatore Mike Feuer e la moglie Ginny finissero la loro cena di rappresentanza a base di raffinata cucina francese e cordiali scambi di vedute. Ai giornalisti non interessavano particolarmente i politici intervenuti al banchetto organizzato dal direttore della rivista "Forbes" ma il governatore era apparso a "Meet the Press" durante il fine settimana e aveva rilasciato dichiarazioni controverse sui temi della criminalità e del tabacco, e Artis Roop, del "Richmond-Times Dispatch", era rimasto male per non essere riuscito a intervistarlo per primo. Erano settimane che lavorava a un servizio sull'impatto del mercato nero delle sigarette sulla criminalità e sul modo di vivere degli americani. Roop sosteneva che, se il prezzo di un pacchetto di Marlboro fosse davvero arrivato a tredici dollari e ventisei centesimi, come recentemente previsto dagli analisti finanziari, la gente avrebbe cominciato a coltivare tabacco nel giardino di casa, nelle serre e nei circoli privati, al riparo da occhi indiscreti e dalle indagini dell'ATF. E se i tabagisti avessero cominciato a rollarsi
le sigarette nessuno avrebbe potuto dirgli niente. Roop prevedeva che sarebbero sorti laboratori clandestini per la fabbricazione delle sigarette, proprio com'era successo per il whisky negli anni del proibizionismo. Sempre secondo Roop, in Virginia non se ne sarebbe mai accorto nessuno, visto che gli incendi erano la norma e un po' di fumo in più non avrebbe destato alcun sospetto. Roop era abbastanza in gamba da sapere che, se si fosse mescolato alla folla dei venti o trenta reporter che facevano la posta al governatore fuori del ristorante, non avrebbe ricevuto alcun trattamento preferenziale. Per questo aveva deciso di restare in macchina con lo scanner acceso come al solito. Era rimasto alquanto perplesso nel sentire la notizia del presunto rovesciamento di un carico di pesce nel settore duecentodiciannove del secondo distretto. Da uomo pratico, sulla base della propria esperienza aveva dedotto che doveva essersi trattato di una frase in codice, così si era riproposto di andare a dare un'occhiata appena finito con il governatore. Brazil stava guardando lo schermo e imprecando fra sé e sé. Si era accorto che quella che aveva davanti non era in realtà una mappa del Comstat, bensì un salvaschermo particolarmente originale e ben riuscito che qualcuno aveva introdotto nel nuovo sito web del dipartimento di polizia. «Ma guarda tu...» borbottò incredulo. Notò che la spia della segreteria telefonica lampeggiava e ascoltò i messaggi. Erano tre. Il primo era di sua madre, troppo ubriaca per parlare in maniera comprensibile, che protestava perché lui non si faceva mai sentire; il secondo era di Miss Sink, che voleva accertarsi che avesse trovato il suo tortino di patate, e il terzo di Virginia, che gli chiedeva di richiamare appena possibile. Andy sapeva il numero a memoria, per quanto non lo facesse mai. Con un lieve batticuore impostò il telefono sul viva voce e cominciò a digitare sulla tastiera. Quel maledetto salvaschermo sembrava inamovibile. «Virginia?» disse mettendosi le mani nei capelli. «Ho sentito il tuo messaggio.» «Mi è successa una strana cosa al computer» rispose lei senza perdersi in convenevoli. «Davvero?» Brazil non riusciva a crederci. «Anche tu hai i pesci?» «Sì, però la cosa più strana è che stamattina quando sono uscita il computer era spento. Adesso torno a casa e non solo lo trovo acceso ma anche con questa mappa del duecentodiciannove piena di pesci.»
«È venuto qualcuno in casa tua?» «Macché.» «Avevi inserito l'allarme?» «Sì. Lo faccio sempre.» «Sei proprio sicura che il computer fosse spento?» «Sicurissima no, ma non importa. Che cosa pensi che vogliano dire questi pesci? Forse è meglio se vieni a dare un'occhiata.» «Hai ragione» rispose Andy un po' titubante, con il cuore che gli batteva così forte da farsi quasi sentire. «Conviene cercare di risolvere il problema al più presto» spiegò Virginia. Judy Hammer combatteva con il proprio computer da un'ora, non riuscendo a capacitarsi di come fosse arrivata sul suo schermo la mappa del secondo distretto e che cosa significassero quei pesci. Aveva provato a cancellarla e riavviato due volte il sistema mentre Popeye le si aggirava intorno nervosa, grattandosi e saltando di qua e di là per approdarle poi in braccio. «Come faccio a concentrami?» le chiese per la decima volta. Popeye si limitò a guardarla, mentre lei puntava il mouse su una X cercando di uscire dalla cartina. Non era possibile: il computer era bloccato. Probabilmente era colpa di Fling, che doveva aver combinato l'ennesimo pasticcio. Era quello il rischio, quando tutti i computer erano collegati al server centrale. Bastava che un virus ne infettasse uno e se lo ritrovavano tutti. Popeye guardò lo schermo e vi posò sopra una zampa. «Smettila!» la rimproverò. Il cane toccò una serie di tasti che, chissà come, fecero scomparire la mappa e apparire una finestra sconosciuta su cui era scritto RPD LUCCI PUNT e una stringa di programmazione che non aveva nessun senso: IM to $im_on, available, AOL% findwindow("AOL Frame2.5", 0 &) e così via. «Popeye! Lo vedi cos'hai combinato? Adesso sono nel sistema operativo, dove non bisogna assolutamente entrare. Ti dico una cosa, io non sono un neurochirurgo e non voglio averci a che fare. Non tocco più niente. Non vorrei combinare qualche pasticcio e danneggiare tutta la rete. Ma ora come faccio a uscire? Cosa diavolo hai schiacciato?» Popeye premette degli altri tasti facendo ricomparire la mappa con i pesci. Poi saltò per terra, si stiracchiò e se ne andò in un'altra stanza. Dopo un
po' tornò con il suo scoiattolino di pezza e si mise a giocare. Judy ruotò la poltroncina girevole e si rivolse al cane. «Stammi bene a sentire, Popeye» disse. «Sei stata a casa tutto il giorno. Quando io sono uscita, stamattina, il computer era sul menu principale. Com'è possibile che quando torno alla sera mi ritrovo una mappa piena di pesci? Tu non hai visto niente? Magari il computer si è messo a rumoreggiare quando è apparsa la videata. Che io sappia nel Comstat non ci sono pesci...» Prese il telefono e chiamò Brazil. Lo trovò per un soffio, perché era già sulla porta di casa. «Andy? Ho un problema.» «Di pesci?» «Anche tu?» «E anche Virginia.» «Oddìo!» «Sto andando da lei.» «Ti raggiungo là.» 9 Alle venti e venti, quando Smoke parcheggiò fra una Chevrolet Blazer rialzata con pneumatici fuoriserie 39x18,5 e una Silverado 2500 bassissima, la libreria porno era discretamente affollata. Spense il motore e aspettò che si diradasse il viavai di uomini dall'espressione stordita che uscivano con l'aria circospetta di chi teme di essere sorpreso dalla moglie o dalla madre. Dall'ingresso spuntò un uomo zoppo con una tuta da lavoro, che si guardò in giro con la faccia spiritata e l'occhio spento del consumatore abituale di Viagra. Si infilò un fazzoletto nella tasca posteriore, controllò di avere la lampo tirata su e si tastò il collo per verificare lo stato delle pulsazioni, quindi si avviò verso la sua El Camino. Smoke attese che si fosse immesso in Midlothian Turnpike. Conosceva talmente bene la strada nel bosco che non aveva bisogno di accendere la torcia. Nella suite del motel le candele erano spente. Se ne erano andati tutti, tranne il nuovo adepto della banda, che era sdraiato su uno dei materassi, sporco di vomito e con le caviglie e i polsi legati. Tremava e piagnucolava. «Zitto!» gli intimò Smoke puntandogli la torcia negli occhi. «Non ho fatto niente» ripeteva Weed.
Smoke lo slegò cercando di non avvicinarsi troppo e trattenendo il respiro. «Dovrei scaricarti» borbottò disgustato. «Guarda se dovevi vomitare e metterti a frignare come una fighetta. Stammi bene a sentire, Picasso, prima di andartene lo pulisci tu questo casino.» Virginia West girava per casa raccogliendo tutto quello che trovava per terra, gettando via scatole di pizza e confezioni di cibo precotto, mettendo in ordine e nascondendo i piatti sporchi nella lavastoviglie, mentre Niles la seguiva come un'ombra. «Non starmi appiccicato!» lo rimproverò. «Va' a giocare con il tuo topino.» Niles non ne aveva voglia. Virginia entrò in camera da letto e si sedette dalla parte dove non dormiva, stropicciando il cuscino e il copriletto. Quindi tornò in cucina e tirò fuori due bicchieri da vino. Li spolverò, ci versò due dita di Mountain Dew e li andò a posare sui comodini. Poi gettò per terra un paio di calzini di spugna che le erano un po' grandi. A quel punto corse nello studio a cercare nei cassetti un biglietto d'auguri o una lettera dall'aria sospetta che non fosse di Brazil, che nel periodo in cui erano stati insieme le scriveva spesso. Trovò un biglietto completo di busta, arrivato con un mazzo di fiori, e lo lasciò in bella vista sul tavolino davanti alla porta d'ingresso. Bubba era in ritardo, e la notte senza luna, né stelle, né possibilità di redenzione. L'unica cosa che poteva fare era superare il limite di velocità in Commerce Road. Non aveva tempo per i ricordi quando passò davanti alla Spaghetti Warehouse, dove aveva portato Dolcezza in occasione della festa della mamma nonostante non avessero figli. Bubba non ne voleva, nella convinzione che fosse preferibile che la stirpe dei Fluck, e soprattutto dei Butner Fluck, si estinguesse al più presto. Con una sigaretta accesa superò Sieberts Towing, la caserma dei pompieri numero 13, la Cardinal Rubber & Seal, Estes Express, Crenshaw Truck Equipment Specialists, Gene's Supermarket, John's Seafood & Chicken e tutti gli altri negozi sulla I-95. Aveva cominciato a piovere e dal tetto della jeep gocciolava acqua sullo specchietto retrovisore e sul cruscotto. All'orizzonte, da qualunque parte si girasse, vedeva la torre della Lucky Strike e il logo della Marlboro a ricordargli che l'industria del tabacco, come la vita, andava avanti.
Bubba era arrabbiato con Volpone perché si era rifiutato di fare ulteriori riparazioni alla jeep. Era arrabbiato con Dolcezza perché lo aveva trattato male quando era rientrato, non si era scusata per il fatto che la pasta al gratin liofilizzata era gommosa e la pizza surgelata un po' bruciacchiata, oltre che della marca che a lui piaceva meno. Dolcezza non aveva nemmeno fatto caso che l'abituale bicchiere di Capri Sun del marito era tiepido e il budino ancora caldo. Quanto al caffè avanzato dalla mattina a colazione, era talmente nero che ci si sarebbe potuto asfaltare il vialetto di casa. Come se non bastasse, Dolcezza aveva osato criticare alcuni prodotti Philip Morris e si era lanciata in un'invettiva che Bubba non era riuscito a evitare perché lei gli aveva nascosto le chiavi della macchina. Chissà che cosa le era preso. Non era mai successo che Dolcezza gli facesse fare tardi, e quella sera non poteva averlo fatto apposta perché non sapeva che lui doveva arrivare in anticipo per sostituire Tiller. La Philip Morris, luccicante come un gioiellino, si stagliava splendida e perfetta oltre l'aria stagnante e il desolante traffico appesantito dal susseguirsi di lavori in corso lungo la I-95. Gli uffici e lo stabilimento erano immacolati e circondati da grandi prati verdi in cui atterravano gli elicotteri di alti dirigenti che Bubba non conosceva, ma rispettava enormemente. Piante e siepi erano curatissime e disposte con straordinaria eleganza. Nel corso degli anni Bubba si era convinto che la Philip Morris aveva una missione da compiere e che questa, come la volontà divina, si rivelava solo a sprazzi anche ai più devoti e fedeli. Bubba non aveva mai visto pavimenti più lucidi, vetrate più trasparenti o giardini più meravigliosi di quelli della Philip Morris; non c'era da stupirsi che all'inaugurazione fosse intervenuta addirittura Lady Bird Johnson. A ogni angolo c'erano grandi schermi, di una tecnologia talmente complicata che neppure Bubba poteva capirla. Era troppo, per questo mondo, e Bubba aveva messo a punto una teoria che aveva rivelato solo agli adepti della società segreta degli Sponsor Intergalattici della Grande Astronave, o SIGA. I SIGA credevano che le quattordicimila sigarette al minuto prodotte ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni la settimana, fossero le barre di combustibile indispensabili per azionare i grandiosi motori che spingevano la Grande Astronave verso dimensioni che andavano al di là dell'umana comprensione. Le barre rimanevano inerti finché non venivano accese e ciò rendeva necessario che milioni di fumatori si mettessero d'impegno per
mantenere in moto la Grande Astronave. Il pianeta non sarebbe sopravvissuto se l'uomo non avesse fatto appello al proprio senso di responsabilità, di questo Bubba era certo. Così come lo era del fatto che, coerentemente con la Terza legge di Newton secondo cui a ogni azione corrisponde una reazione eguale e contraria, alla Buona Coscienza doveva corrisponderne una Cattiva, contraria a qualsiasi sviluppo positivo. La Cattiva Coscienza protestava contro le barre di combustibile prodotte e accese sul pianeta, si era documentata e organizzava pericolose campagne per i diritti dei non fumatori generando discriminazione, odio e censura. Sotto la bandiera della lotta contro il fumo infuriavano azioni legali, tasse vessatone e discussioni al Senato, mentre truppe avide e sanguinarie combattevano una guerra senza senso, ripresa passo dopo passo dalle telecamere della CSPAN e della CNN. Soltanto i SIGA si rendevano conto che, se quella vile campagna denigratoria avesse portato la gente a smettere di fumare, ben presto solo le automobili sarebbero rimaste a bruciare combustibile, senza però alcun effetto. La produzione di barre sarebbe terminata, i potenti motori si sarebbero spenti e l'Astronave sarebbe andata alla deriva. Quando Bubba si fermò davanti alla guardiola stava riflettendo su tutto ciò, ed era piuttosto agitato. Fred, il custode, abbassò il finestrino. «Come ti va, Bubba?» «Sono in ritardo.» «A me sembri in anticipo, veramente. Sei di cattivo umore?» «Non ho nemmeno aperto il giornale oggi, Fred. Cos'è successo?» Fred si rabbuiò. Era anche lui un SIGA e complottava spesso con Bubba quando si fermava davanti alla guardiola sulla sua jeep scassata per mostrargli il passi. «Hai visto cosa diceva il megaschermo con l'indice Dow Jones davanti a Scott e Stringfellow?» «Non ci sono passato.» «Sempre peggio» sussurrò Fred a bassa voce. «Undici e novantatré il pacchetto. Che il Signore ci aiuti.» «Non è possibile!» esclamò Bubba. «Purtroppo sì. E vedrai che a furia di tasse e fissazioni il prezzo salirà ancora. Parlano di dodici dollari il pacchetto, Bubba.» «Ma dove andremo a finire?» sbottò questi arrabbiato. «Mercato nero, contrabbando, cassa integrazione. E la nostra causa?»
«Ne risentirà» riconobbe Fred scuotendo la testa, mentre dietro Bubba si stava formando una coda. «Certamente. La maggioranza delle barre, soprattutto le Marlboro, si sposterà oltreoceano. La Grande Astronave le seguirà, seguendo il fumo nell'Estremo Oriente. E l'America dove andrà a finire?» «Sempre più in basso, Bubba. Guarda, sono contento di aver superato i sessantacinque e di poter ormai andare in pensione quando mi gira. Mi sono già comprato un bel loculo nel nuovo mausoleo del cimitero di Hollywood, così se dovessi andarmene anche stanotte, saprei di aver vissuto dalla parte giusta della barricata.» Fred si accese una Parliament e scosse di nuovo la testa, mentre la coda dietro la jeep di Bubba si faceva sempre più lunga. «Di questi tempi la gente non vede più in là del suo naso, che magari si fa anche rifare a spese nostre, con tutto quello che intasca quando ci fa causa fingendo di avere chissà quale tosse. Ma io mi domando e dico: gliel'abbiamo detto noi di fumare? Li abbiamo bendati e messi al muro minacciandoli di chiamare il plotone di esecuzione se non se ne accendevano una e buttavano giù il fumo? Siamo stati noi a farli uscire di casa nel cuore della notte alla ricerca di un tabaccaio aperto perché avevano finito le sigarette? È colpa nostra se nei film Humphrey Bogart fuma sempre?» Di fronte a tanta ingiustizia e malafede Fred si indignava. La coda di macchine intanto stava quasi toccando Commerce Road: decine di dipendenti della Philip Morris sarebbero arrivati in ritardo perché Bubba era in anticipo. «Parole sante» fece Bubba, perfettamente d'accordo. «È come fare causa alle fogne dicendo che è colpa loro se caghiamo.» «Giustissimo.» «O portare la Kentucky Fried Chicken in tribunale perché abbiamo il colesterolo alto e rischiamo l'infarto» continuò Bubba ispirato. «Le hai più fatte le analisi, a proposito?» «Dolcezza vuole che le rifaccia, ma non ho mai tempo.» «Io penso che quando ti viene voglia di uova o di aggiungere un po' di sale, vuoi dire che il tuo organismo ne ha bisogno» teorizzò Fred spegnendo la sigaretta. «Certo che se mi si alza la pressione, la Morton Salt io la rovino!» Bubba sorrise e Fred scoppiò a ridere. Fece segno alle altre macchine di passare avanti e gli automobilisti in coda si affrettarono a superare la guardiola, già in ansia al pensiero di non trovare parcheggio.
Anche Andy era in ansia. Temeva che né lui né nessun altro sarebbe riuscito a sistemare il nuovo sito web. Eppure aveva fatto presente a Judy che sarebbe stato meglio aspettare che il dipartimento potesse contare su qualcuno meno imbranato di Fling... Andy era in gamba con i computer e, al contrario di Virginia, non perdeva subito la pazienza ma seguiva le istruzioni e i file guida. Però contro i virus non sapeva che cosa fare ed era convinto che quei pesciolini azzurri fossero il sintomo di un'affezione fulminante, probabilmente contratta per pura stupidità avendo dato per scontato che ormai tutti stessero attenti e usassero soltanto dischetti sicuri. Era stato un incosciente. E sapeva benissimo che i virus si trasmettevano anche attraverso Internet... Il suo sito aveva messo a repentaglio la salute di tutto il Comstat. Salì sulla sua BMW V6 Z3 con il batticuore. I sedili odoravano ancora di nuovo e la carrozzeria era perfetta, ma Andy non era ancora riuscito ad affezionarsi a quella macchina come alla vecchia 2002 di suo padre. L'aveva lasciata a Davidson insieme con la casa in cui era cresciuto, pensando che fosse giusto così, che fosse tempo di ricominciare. Dare un taglio al passato staccandosi una buona volta dalla madre alcolizzata. Si districò fra gli incroci e i sensi unici del quartiere, evitando biciclette, pedoni e la folla che cercava di entrare o uscire da Helen's, Joe's Inn, Soble's, Konsta's, Commercial Tap House, Southern Culture, supermercati e lavanderie varie. Andy aveva paura di dire al comandante la verità a proposito del Comstat e, peggio ancora, di non trovare parcheggio vicino alla casa di Virginia. Non era un tipo fortunato, e sospirò quando scorse Judy Hammer alla disperata ricerca di un posto. Vedendo una Mercedes V12 che stava uscendo da un posteggio e una Jeep Cherokee che stava per infilarcisi, lasciò la macchina davanti a un idrante e scese di corsa, si avvicinò al fuoristrada e alzò una mano per fermarlo. Alla guida c'era una donna, che fece una faccia arrabbiata e abbassò il finestrino. «Guardi che c'ero prima io.» «Non importa» ribatté Brazil. «Importa eccome.» «Polizia di Richmond.» «Ah, lei sarebbe la polizia di Richmond?» lo prese in giro la donna. «No, sono della polizia di Richmond.» «Ah, mi pareva.»
«Non c'è bisogno di usare questo tono, mi scusi.» «Quelli della polizia di Richmond non girano in BMW e nemmeno in jeans» replicò lei. «Sono stufa di farmi fregare i posteggi da uomini prepotenti, solo perché sono una donna!» Brazil le mostrò il distintivo e vide Judy che continuava a cercare un posto. «Abbiamo macchine di tutti i generi e non giriamo sempre in divisa» le spiegò Brazil, non desistendo dal tentativo di fregarle il posteggio. «Dipende da quello che stiamo facendo. E le assicuro che il fatto che lei sia una donna è irrilevante.» «Palle» ribatté lei. «Se io fossi un uomo, non mi avrebbe detto niente.» «Non creda.» «Cos'ha intenzione di fare, comunque? Vuole darmi la multa per qualcosa che non ho fatto? Lo sa quante multe mi becco solo perché sono una donna che gira con un fuoristrada?» Brazil non ne aveva la minima idea. «Un sacco» rispose lei. «Se avessi una Suburban o, Dio me ne scampi, una Ford F-350 Crew Cab 460, a quest'ora probabilmente sarei nel braccio della morte.» «Non voglio farle nessuna multa» disse Brazil. «Ma notificarle che questa è una ZIP e consigliarle, nel suo interesse, di posteggiare altrove.» «Una ZIP?» disse la donna abbassando istintivamente gli occhi per controllare di non avere la cerniera abbassata. «Una Zona Intrinsecamente Pericolosa» spiegò Brazil in tono da poliziotto. «Da queste parti ci sono stati molti furti recentemente, soprattutto ai danni delle jeep.» «Ah» fece lei riuscendo finalmente a capire. «Ne ho sentito parlare. Si riferisce ai FABBRI, vero?» «Io le sconsiglio nella maniera più assoluta di parcheggiare qui» insistette Brazil vedendo sfrecciare la Hammer nella direzione opposta. «Be', grazie» borbottò la donna, rendendosi conto solo in quel momento di quanto fosse carino e gentile quel poliziotto. «Per fortuna che mi ha avvertito. Lei è nuovo? Potrei eventualmente mettermi in contatto con lei per questa storia dei FABBRI o per avere ulteriori informazioni sulle ZIP?» Brazil le porse il biglietto da visita e la salutò. Poi fece segno alla Hammer, che stava attraversando l'incrocio, e le indicò il posteggio. Tornò in macchina e andò a cercare a sua volta un posto. Lo trovò a cinque isolati di distanza, nella parte più degradata di West Cary, dove la gente lo fissava
calcolando mentalmente quanto si poteva prendere da un rottamaio per la sua automobile. 10 Bubba, con la divisa blu, gli scarponi da lavoro e le cuffie di protezione, si affrettò tutto sudato a raggiungere la propria postazione. Passò attraverso le due sale filtro e corse sotto il piano di osservazione, inutilizzato da quando la Philip Morris aveva cominciato a far fare il giro ai visitatori a bordo di un trenino. Un po' di corsa e un po' al passo attraversò sale dai pavimenti lucidissimi che ospitavano splendidi macchinari Hauni Protos II e G.D. Balogna, computer e unità Oscar in un frastuono incessante, dove la produzione non si fermava mai e non esistevano né polvere né ozio. Vagoncini gialli automatizzati, colmi di casse di sigarette, ronzavano avanti e indietro fermandosi di tanto in tanto per ricaricarsi ai magneti, senza mai stancarsi, perdere tempo o organizzarsi in sindacati. Gli addetti alla manutenzione, vestiti di grigio, si spostavano su carrelli motorizzati, rispettando le precedenze a ogni angolo. Enormi bobine di cellulosa ruotavano velocissime mentre migliaia di sigarette bianche scorrevano lungo i nastri per essere raggruppate in file di sette-sei-sette per i pacchetti morbidi e sei-sette-sette per quelli rigidi e fatte scivolare in una tasca dove venivano avvolte in carta argentata, impacchettate, sigillate nel cellophane e avviate in una fila indiana di pacchetti in un imballatore che preparava le stecche da dieci con cui confezionare le casse da trasportare alle stazioni di uscita, dove sarebbero state caricate sui camion in attesa fuori dello stabilimento. Bubba era senza fiato quando raggiunse la Linea 8, dove lavorava come addetto di terzo livello alla produzione, che era anche il più alto. Infatti aveva un incarico di grande responsabilità: da solo comandava un modulo che doveva produrre esattamente 12.842.508 sigarette in ventiquattr'ore, ovvero 4.280.836 per ogni turno di otto ore. Siccome alla Philip Morris i moduli non potevano restare mai senza sorveglianza, il capo di Bubba era stato costretto a coprire la seconda metà del secondo turno e i primi sedici minuti del terzo. Quando Bubba arrivò, sudato e con il fiatone, Gig Dan era sollevato ma di pessimo umore. «Cosa cavolo mi combini, Bubba?» protestò a voce alta per farsi sentire nonostante le cuffie.
«Mi ha fermato la polizia» rispose con una mezza bugia. «E ti ha trattenuto quattro ore e mezza?» domandò Dan incredulo. «Mi hanno fatto una predica lunghissima e poi non gli funzionava la radio. Una rottura che non ti dico. La polizia si è incarognita veramente, Gig. Dovremmo fare qualcosa.» «Senti, te lo dico io che cosa devi fare: andare al tuo posto!» gridò Dan. «Oggi il target di produzione è quindici milioni ed eravamo già sotto di 719.164 prima che tu arrivassi in ritardo.» «Non è stata...» cominciò a protestare Bubba. «Pensa un po' che all'ultima verifica di questo turno eravamo a quota 3.822.563,11, cioè avevamo esattamente 458.272,0 unità meno di quelle che avremmo dovuto avere tenendo conto che eravamo già sotto la quota prefissata. E lo sai perché? Perché la carta si è strappata due volte e lo scarto è stato tre volte più del solito per colpa della circonferenza che è scesa sotto 24,5 e del peso che non arrivava nemmeno a 900. Per non parlare della diluizione, che era dell'8 per cento in meno, e di quella bolla che si è formata nel collante perché c'era aria nella linea. E lo sai perché? «Perché non c'eri tu a inserire manualmente quelle cinque merdose sigarette nel Sodimat, non c'eri tu a controllare la qualità e non c'eri tu a ispezionare i macchinari. Non c'eri tu perché eri troppo impegnato a farti fermare dalla polizia o cosa cazzo d'altro stavi facendo!» «Non preoccuparti» rispose Bubba. «Adesso recupero.» Anche Brazil era in ritardo, non per colpa sua. Aveva corso dalla macchina rischiosamente parcheggiata in Park Avenue e davanti alla casa di Virginia si era fermato un momento per riprendere fiato. Quando suonò il campanello lei aprì manifestando subito una certa freddezza. «Dove sei stato?» chiese restando davanti al tavolo dell'ingresso. «Cercavo una pizzeria» rispose lui in tono ironico. «Perché?» «Una pizzeria, un bar, una banca. Insomma, un locale che avesse un parcheggio in cui lasciare la macchina.» «L'hai trovato, a quanto pare.» «Basta che non me la portino via.» Virginia rimaneva stranamente appoggiata al tavolo, come se non volesse fargli vedere che cosa c'era sopra. «Siamo nello studio. Sulla sinistra, dopo la camera da letto.» Aspettò che si avviasse prima di spostarsi dal tavolo.
Brazil era a disagio: era evidente che Virginia gli stava nascondendo qualcosa. Passò davanti alla camera da letto senza lanciarvi occhiate curiose ed entrò nello studio senza guardarsi intorno. Judy era seduta alla scrivania, con gli occhiali da presbite e gli occhi fissi sulla strana cartina visualizzata sullo schermo. «Che cos'hai detto alla signora sulla jeep?» gli chiese subito. «Quella che mi ha ceduto il posto.» «Che era in uno spazio riservato alla Nettezza Urbana.» «Che cosa?» «Che aveva parcheggiato in uno spazio utilizzato dai camion della spazzatura nel loro giro notturno. Le ho mostrato il distintivo e lei mi ha dato retta.» «Non avresti dovuto» osservò Judy. «Non c'è niente da bere in questa casa, Virginia?» «Di buono?» «Sono venuta con la macchina della polizia.» Andv trovò una sedia e si sistemò vicino al comandante. «Ho dell'acqua minerale e della Sprite» rispose Virginia. «Perrier?» si informò la Hammer. «Da quando è saltata fuori la storia del benzene, non la compro più.» «Mi fai ridere, Virginia. Quando scoppiano le epidemie di difterite aviaria smetti di comprare pollo?» «Perché, è scoppiata un'epidemia di difterite aviaria? Dovrei avere anche della Diet-Coke.» «Va bene un bicchiere d'acqua del rubinetto» tagliò corto Judy. «Andy, finora abbiamo parlato di questa cosa senza arrivare da nessuna parte. Secondo te che cos'è successo? Come sono finiti nel Comstat tutti questi pesci?» «Non sono finiti nel Comstat» spiegò Andy. «Vorrei un bicchiere d'acqua anch'io» disse poi a Virginia. «Ma me lo posso andare a prendere. Anzi, già che ci sono ne prendo due.» «Lascia stare, faccio io. E non essere così formale, che mi dai sui nervi.» «Scusa» rispose lui, sempre formale. Era orribile essere in casa di Virginia e ricordarsi che lei non lo aveva mai invitato da quando erano a Richmond. Era la prima volta che la vedeva con qualcosa che non fosse la divisa o la tuta da ginnastica. Portava i jeans sbiaditi che gli erano sempre piaciuti da matti e una maglietta grigia di cotone sottile sotto la quale risaltava il suo bellissimo seno, che lui non
poteva più né vedere né toccare. Era una tortura. «Se guardate qui in alto» disse Andy indicando il monitor e rivolgendosi a Judy per non guardare Virginia «si vede che siamo nel nostro sito web, perché c'è l'indirizzo.» «Ma no!» esclamò Judy incredula. «Purtroppo sì» ribadì Andy. Le due donne si chinarono a guardare meglio, e scioccate lessero: http:/www.sen_orrin hatch_r_utah.gov/sen_bill_10/sen_ju dic_commit/dept_justice/nij/nypd_l_pol_plaza/comstat/comp_map_center _dc/interpol/scot_yrd/fbi/atf/ss/dea/cia/va_nat_guard/va_state_pol/va_corr _dept/va_crim_just_serv/juv_just_serv/va_att_gen/va_gov_off/va_dept_he alth/va_dept_safety/city_mang/gsa/city_hall/city_counc//rich_pol_dept/off _pub_info/qa/rich_times_disp/ap/upi/link_ntwk/al_rights_resrv/classifyd/a sneed/othrwyz/pub_domain.html «Andy, non ho mai visto una simile stronzata» esclamò Judy. «Per favore, non dirmi che questo è l'indirizzo con cui il pubblico accede al nostro sito.» «Temo proprio di sì» rispose lui. «E come ti aspetti che la gente si ricordi una sbrodolata del genere?» chiese Virginia guardando accigliata lo schermo. Lui la ignorò. «Quantomeno funziona» disse. «Visto che qualcosa è arrivato.» «Ma è proprio necessario che sia così complicato?» chiese Judy. «Quanti si metteranno in contatto con noi, con un indirizzo simile?» Si interruppe, rabbuiata. «Non dirmi che c'è di mezzo Fling.» Silenzio. «Non è possibile...» borbottò Judy. «Be', volevate che facessimo il più presto possibile, no?» rispose Andy. «Dovevamo trovare dei gateway attraverso cui passare per raggiungere il sito, un modo per smistare la posta prima che arrivi a destinazione. È un po' come quando si fa scalo in quattro aeroporti diversi prima di atterrare dove...» «Ma è roba da matti!» esclamò Virginia. «Fling fa tappa in cinquanta aeroporti per muoversi da un capo all'altro della città, è così? Spedisce una lettera in venti Stati diversi per farla arrivare a due isolati di distanza?» «Bisogna tenere conto che più gateway si attraversano più il sistema è
sicuro» fece notare Andy, obiettivo. «Ah, certo!» Virginia era allibita. «Meno male che è un sistema sicuro... Il sito è operativo da due giorni e già siamo bloccati e invasi dai pesci!» «Anch'io ho l'impressione che in fatto di sicurezza lasci un po' a desiderare» intervenne Judy cercando di seguire le poche briciole di logica rimaste nel fitto del bosco. «Forse quanto maggiore è il numero dei gateway tanto più alto è il rischio di intromissioni. È un po' come avere una casa con tante porte. Probabilmente meno ce ne sono, meglio è.» «Anche questo è vero» ammise Andy. «Sentite, a essere sinceri, quando mi sono reso conto che Fling aveva scelto questo indirizzo era troppo tardi.» Judy studiava lo schermo con crescente disgusto. «Vorrei essere sicura di aver capito giusto... Il primo gateway del nostro sito di Richmond è il senatore Orrin Hatch, presidente della Commissione giustizia nonché promotore della proposta di legge numero 10?» «Sì» rispose Andy, che se avesse avuto Fling per le mani lo avrebbe scaraventato giù da un cavalcavia. «E cosa c'entra la proposta di legge sulla violenza minorile del 1997 con il nostro sito, Andy?» chiese Judy. Brazil non ne aveva la più pallida idea. «Da lì passiamo per l'Interpol e Scotland Yard, giusto? E quindi per FBI, ATF, DEA, Servizi Segreti e CIA...» Judy si alzò in piedi e cominciò a camminare nervosamente avanti e indietro. «Poi per il Dipartimento di polizia di New York all'1 di Police Plaza, per l'ufficio del governatore della Virginia. E per il municipio e blabla e blabla?» Alzò le mani al cielo, disperata. «Ma bisogna proprio passare per tutti questi posti prima di arrivare al nostro sito?» domandò infine a voce pericolosamente alta. Niles scappò da sotto il tavolo, dove stava sonnecchiando su un piede di Virginia. «Sentite» rispose Andy esasperato. «Io con l'indirizzo non c'entro, okay? La programmazione principale è opera del Computer Mapping Center del National Institute of Justice e Fling aveva l'incarico di trovare un indirizzo semplice.» «E adesso ci ritroviamo in un mare di guai» esclamò Judy. «Anzi, in un mare di pesci.»
«Non sappiamo se i pesci abbiano davvero a che fare con l'indirizzo» replicò Andy, poco convinto. «Magari saremmo stati invasi comunque, anche se l'indirizzo fosse stato più corto.» Virginia si alzò per andare a prendere un'altra Miller. «Lasciamo perdere l'indirizzo per un momento» disse dalla cucina. «Il sito è una novità.» «E nuovo di zecca» ribadì Andy rivolgendosi a Judy anziché a Virginia. Tornando, Virginia lo guardò male. Odiava le frasi fatte e odiava ancor di più essere trattata alla stregua di un oggetto senza importanza. «Infatti» disse Judy, che ne aveva passate abbastanza da essere consapevole dei rischi che le novità spesso comportano. «Come facevano a conoscere questo sito così bene da scaricarci i pesci?» chiese Virginia. «Insomma, voglio dire, è evidente che a questo indirizzo del cazzo che ha tirato fuori Fling i pesci ci arrivano.» «Questo è ovvio» commentò Judy. «Se ben ricordate, l'articolo uscito sul giornale di domenica diceva che avevamo aperto un sito web in cui i cittadini potevano porci domande, esporre preoccupazioni, reclami eccetera, e specificava che l'indirizzo sarebbe stato pronto nel giro di qualche giorno e che per averlo bastava chiamare il dipartimento. Evidentemente Fling l'ha reso noto.» «Ecco come sono arrivati i pesci» ribadì Virginia bevendo un sorso di birra. «A meno che non sia stato uno del dipartimento a mandarceli.» «Un sabotaggio? Oppure un virus?» rifletté Andy ad alta voce. «È possibile» osservò Judy. «Ma supponendo che non si tratti né di un virus né di un tentativo deliberato di far saltare il sistema, il pesce potrebbe essere un simbolo, un modo per dirci qualcosa.» «Oppure per prenderci in giro» continuò Virginia. «Come dall'NIJ hanno tirato fuori ninja, adesso magari ci danno dei pesci fuor d'acqua. Un modo come un altro per dirci di tornarcene a casa.» «Secondo me non è rivolto a noi. Non credo che ci stiano dando dei pesci, fuori o dentro l'acqua» affermò Judy. «Forse pensano che possiamo abboccare all'amo» insistette Virginia. «Quale amo?» chiese Andy. «Se non ti dispiace, prenderei una birra anch'io.» «Fa' pure.» Andy si alzò e andò in cucina. «Vogliono farci abboccare proponendoci indizi fasulli» continuò imperterrita Virginia.
«È assurdo» replicò Judy continuando a passeggiare su e giù. Niles ritornò in salotto e Andy lo seguì, con una Heineken in mano. «Ho preso questa» informò Virginia. «Ti dispiace?» «Io bevo Miller. La Heineken è di Jim.» Andy si sedette e bevve mezza bottiglia in un sorso solo. «Agente Brazil» disse Judy riflettendo. «Pensi che si possa risalire alla fonte dei pesci?» Andy si schiarì la voce. Aveva le guance in fiamme e il cuore che batteva in maniera incontrollabile. «Ne dubito» rispose. «Cerchiamo di analizzare la cosa con calma» continuò il comandante fermandosi a controllare la mappa che brillava sullo schermo. «Il settore duecentodiciannove ha il perimetro colorato di rosso e lampeggiante, e uno, due, tre, quattro... undici pesciolini azzurri dentro. Per il resto le icone sono le solite.» Guardò prima Virginia, poi Andy. «Non potrebbe essere un avvertimento?» «Il pesce?» chiese lui. «Nel settore 219 qualche pescheria c'è. Non ci sono laghi, dighe o ristoranti di pesce. A parte il Red Lobster e il Captain D's.» «Che cosa si può fare di illegale con i pesci?» domandò Judy. «Non credo che esista un mercato nero, a meno che recentemente non sia stata presentata qualche strana proposta di legge di cui non siamo al corrente o introdotta una supertassa sul pesce.» «Mah...» Andy, a quel punto, avrebbe preso in considerazione qualsiasi ipotesi. «Proviamo a seguire questa pista. Supponiamo che al Senato sia arrivata una proposta di legge di cui nessuno sa ancora niente. Dal momento che uno dei gateway principali è la Commissione giustizia del Senato, se quella del pesce fosse una legge importante qualcuno potrebbe aver usato una sorta di codice per trasmettere dei dati...» «Mi sta venendo l'emicrania» annunciò Judy. «Virginia, puoi dire al tuo gatto di togliersi dai miei piedi? Non riesco a spostarlo di un millimetro. È morto o cosa?» «Niles, vieni qui.» 11 Weed cercò di alzarsi, ma non si reggeva in piedi. Strisciò sul pavimen-
to, con il dito tatuato che gli pulsava. Smoke accese una mezza dozzina di candele, poi andò a prendere diverse taniche d'acqua e un rotolo di panni di carta a strappo. Weed si mise a pulire; se gli fosse rimasto qualcosa nello stomaco, avFebbe vomitato di nuovo. «Adesso esci e spogliati» disse Smoke. «Perché?» chiese Weed con lo stomaco in subbuglio. «Perché non voglio farti salire sulla mia macchina in quello stato, ecco perché» rispose Smoke. «Se non vuoi tornare a piedi, devi darti una lavata.» Weed si avviò nella penombra a passi lenti, stando attento a non inciampare nel telaio della porta. Si tolse la maglia e i jeans, si versò una quindicina di litri d'acqua addosso e cominciò a tremare in maniera incontrollabile. Era in mutande e scarpe da ginnastica fradice, e la temperatura si era abbassata notevolmente. «Hai dei vestiti da prestarmi?» chiese a Smoke, che stava tracannando altra vodka. «Perché?» «Perché non posso andare in giro così!» fece Weed implorante. «Ho un mal di testa boia, lo stomaco a pezzi e un freddo cane.» Smoke gli porse un bicchiere di vodka e Weed lo guardò. «Bevi che ti fa bene» disse Smoke. Andò dietro alcune casse di liquore e tornò con un paio di jeans piegati e una maglietta nera, più felpa, giacca a vento e berretto tutti dei Chicago Bulls. «La tua divisa» dichiarò orgoglioso. Per un istante Weed dimenticò il mal di testa tanto era contento. Infilandosi i jeans, la maglietta e la felpa si sentì importante. Non avrebbe voluto bere ancora, ma Smoke lo costrinse. Senza quasi rendersi conto di quello che faceva, Weed lo seguì inciampando nella boscaglia fino alla libreria porno, dove si nascosero dietro le macchine aspettando che fosse tutto tranquillo, per poi saltare sulla Escort e partire sgommando. Weed stava cominciando a rilassarsi quando Smoke si fermò in un angolo buio di Westover Hills, frugò sul sedile posteriore e tirò fuori due federe blu scuro. Una era vuota, l'altra piena di oggetti che urtandosi producevano un suono metallico. «Esci e tieni la bocca chiusa» gli intimò. «Guai a te se fai rumore.» Weed lo seguì trattenendo il respiro lungo Clarence Street, fino a una semplice casa bianca in legno circondata da uno steccato sbilenco con i pa-
letti piantati a intervalli irregolari, con una veranda talmente inclinata da una parte che sembrava una zattera in un mare in tempesta. Il garage era sproporzionatamente grande, rispetto al resto della casa, e sul vialetto era parcheggiata una vecchia Chevy Cavalier. Le luci erano accese e un cane abbaiava dalla cuccia. «Fai tutto quello che faccio io» sussurrò Smoke. «E il cane?» domandò Weed. «Non ti preoccupare.» Smoke si guardò intorno, poi si chinò e corse fino al garage riparandosi dietro gli alberi. Weed lo seguì con il cuore che gli batteva all'impazzata e si acquattò anche lui vicino alla porta chiusa del garage. Smoke infilò una mano nella federa e tirò fuori un certo numero di telecomandi, che provò uno dopo l'altro. «Merda» mormorò, visto che nessuno stava funzionando. All'ottavo tentativo ottenne ciò che desiderava: la porta del garage, comprata da Sears e installata dal proprietario, cominciò a sollevarsi piano piano. In casa non si accesero altre luci nonostante il cane abbaiasse furiosamente. Weed pensò di scappare ma Smoke dovette accorgersene, perché lo afferrò per il colletto. «Non fare cazzate!» gli sussurrò minaccioso in un orecchio. Poi tirò fuori da una tasca una piccola torcia elettrica e guardandosi intorno si sincerò che le finestre illuminate fossero sempre le stesse e che niente si fosse mosso. «Seguimi.» Weed aveva la sensazione che il cervello gli ballasse nel cranio come un rosso d'uovo nel guscio, e aveva la vista annebbiata. Prese Smoke per un lembo della maglia e lo seguì nel garage. Una volta dentro, Smoke si fermò e si guardò in giro ansimando, le orecchie tese. Accese la torcia e passò il fascio luminoso su un'infinità di seghe, trapani, martelli e altri utensili che Weed non aveva mai visto prima. «È incredibile, cazzo» bisbigliò Smoke. «Quel coglione non sa piantare un chiodo e guarda che attrezzatura ha...» Illuminò un armadio chiuso con un lucchetto, che prometteva bene. Rinunciò a usare il tronchese che si era portato dietro, perché appeso al muro ce n'era uno ancora migliore. Smoke lo tolse dal gancio e provò ad aprirlo e chiuderlo. Soddisfatto, tagliò il lucchetto come fosse stato di burro e lo lasciò cadere a terra con un rumore metallico. Poi aprì piano le ante e illuminò ripiani colmi di tute mimetiche, bersa-
gli, scatole di munizioni, revolver, pistole, fucili e carabine. Prese tutto quello che poteva, riempiendo le federe che Weed gli teneva aperte e le tasche dei pantaloni; quindi si infilò le pistole nella cintura, prese una borsa di plastica nera e riempì anche quella, porgendola infine a Weed. Smoke si mise in spalla le federe, come un Babbo Natale con due sacchi pieni di regali. «Andiamo!» fece a Weed. Tornarono di corsa sulla strada, appesantiti dal bottino, sudando come muli. Stavano rallentando quando Smoke vide un cespuglio e vi nascose la refurtiva. Così alleggeriti, ricominciarono a correre verso la Escort. Saliti a bordo, tornarono velocemente in Clarence Street, dove accostarono vicino al cespuglio. Il bottino era dove lo avevano lasciato. Smoke si vuotò le tasche e chiuse l'intera refurtiva nel bagagliaio. Era tutto tranquillo e non passavano macchine. Il cane di Bubba abbaiava ancora, ma lo faceva sempre. Quando ripartirono, Smoke cominciò a ridere istericamente. Weed non sapeva dove stavano andando. Non aveva mai fatto niente di illecito, a parte quella volta che aveva disegnato la caricatura di un insegnante che gli stava antipatico e gli avevano dato due giorni di sospensione. «Io ti ho solo tenuto la borsa, vero, Smoke? Non ho rubato» precisò. «Cioè, non voglio tenermi niente. È tutta roba tua, okay?» Smoke rise ancora più sguaiatamente. «Dove stiamo andando?» osò chiedere Weed. Smoke cominciò a frugare fra i cd. «Posso andare a casa?» domandò Weed. «Sicuro» rispose Smoke. Mise Master P. «Non è questa la strada» fece Weed alzando la voce. Smoke gli intimò di tacere. Arrivati in West Cary Street, parecchio lontana dalla casa di Weed, Smoke fermò la macchina in mezzo alla strada. «Scendi» ordinò Smoke. «Qui?» si stupì Weed. «Perché mi fai scendere adesso?» «Perché così fai due passi e quando ti verrò a prendere più tardi sarai bello sveglio.» Weed non capiva, ma non osava chiedere chiarimenti. Smoke era in vena di crudeltà. «Vai, ritardato!» insistette. «Non so neanche dove sono.» «Continua di lì e vedrai che fra qualche chilometro sbuchi sulla tua via.»
Weed non si mosse e guardò la notte con occhi sgranati, mentre la testa continuava a fargli male. Smoke controllò nello specchietto. «Ci vediamo all'incrocio fra Schaaf e Broadmoor, a due isolati da casa tua, alle tre» disse Smoke. Weed continuava a non capire. Aveva di nuovo lo stomaco sottosopra. «Portati dietro i colori, mi raccomando. Quelli giusti per pitturare una statua di metallo a grandezza naturale in un cimitero.» Weed aprì la portiera, scosso da un conato di vomito. Scese con le gambe che gli tremavano. «Ricordati cosa ti è successo l'ultima volta che sei arrivato in ritardo» lo avvertì Smoke. «E non dire niente a nessuno, altrimenti ti faccio vedere io.» Weed arrivò barcollando sul marciapiede e si aggrappò a un cartello stradale per non cadere. Guardò i fari della Escort scomparire nell'oscurità, poi si sedette per terra e invocò l'aiuto di Dio. Quando si rialzò, aveva di nuovo perso l'orientamento. Tutte le volte che vedeva una macchina si nascondeva. Arrivò addirittura al punto di abbandonarsi a terra fingendosi morto. Anche Niles si stava fingendo morto. Aveva rinunciato a cercare di far capire alla sua padrona che i pesci erano comparsi sullo schermo mentre lui si trovava sulla sua scrivania, esattamente alle dodici e quarantasette. Non era stato lui a provocarne l'improvvisa apparizione; anzi, aveva pensato che quel salvaschermo fosse stato un pensiero carino per lui da parte della sua padrona, che conosceva la sua predilezione per il pesce. Judy Hammer spostò i piedi sotto il tavolo, ma Niles restò fermamente aggrappato alle sue caviglie, senza peraltro tirare fuori gli artigli per non smagliarle le calze. «Forse nascondono la cocaina nei camion di pesce» azzardò Virginia. «E un'idea geniale!» si complimentò Judy. «Per trasportare la droga dal Maine, da Miami o da chissà dove senza farsene accorgere» continuò Virginia. «Chiamiamo la Narcotici» propose il comandante. «E tu, Andy, domani mattina chiama il Crime Mapping Center dell'NIJ per vedere se loro ci capiscono qualcosa. Spero solo che questi pesci non siano sintomo di un virus e non si propaghino.» «Tenuto conto dell'indirizzo, ho paura che non abbiano infestato solo il nostro sito» riconobbe Andy.
«Fai presente al National Institute of Justice che è una faccenda urgente e che non riusciamo ad accedere al Comstat» raccomandò Judy. «Io adesso devo tornare a casa e portare fuori il cane. Virginia, se mi togli il gatto dai piedi, me ne vado.» «Niles, adesso basta!» Niles si trasferì sulle scarpe di Andy, che si chinò ad accarezzarlo sulla pancia, e la bestiola cominciò a fare le fusa. Gli piaceva molto Andy e il modo in cui gli passava le mani sulle costole come se suonasse il pianoforte. Quando abitavano a Charlotte e lui e la sua padrona giocavano a tennis, andavano al tiro a segno e al cinema insieme, cioè ai tempi in cui la sua padrona l'aveva convinto a lasciare il "Charlotte Observer" per entrare nella polizia, Niles l'aveva soprannominato il Pianista. Niles avrebbe voluto che la sua padrona e il Pianista facessero la pace, a costo di essere scacciato dal letto grosso tutte le sere. Gli dispiaceva che lei trattasse male il Pianista, e che adesso ce l'avesse anche con lui perché si era messo a fare le fusa. Gli saltò in grembo. «Scusa, bello, ma ora devo andare anch'io» gli disse il Pianista. «Grazie della birra» fece poi alla sua padrona, alzandosi. «Judy, ti accompagno alla macchina.» Virginia fece loro strada e si piazzò di nuovo davanti al tavolo dell'ingresso, ma questa volta Andy notò il bigliettino del fiorista. «Buonanotte» disse Virginia. 12 Brazil era nervoso e arrabbiato mentre percorreva di buon passo Mulberry Street illuminata dai lampioni, temendo di trovare la propria BMW scassata dai vandali, se non addirittura scoprire che era stata rubata. Era comunque tentato di fare dietrofront e tornare a casa di Virginia a chiederle una spiegazione. Durante la loro storia d'amore, a Charlotte, avevano vissuto alti e bassi a causa della loro diversità. Virginia aveva più anni, più esperienza e più potere di lui. Insomma, due caratteri totalmente opposti. Quando lui faceva il giornalista e il poliziotto volontario, erano usciti spesso di ronda insieme, ed era stato in quel periodo che Andy aveva scritto i suoi articoli migliori, che avevano vinto dei premi e cambiato il modo di pensare della gente. E avevano anche contribuito a cambiare il suo modo di pensare. Aveva deciso di entrare nella polizia, dove già aveva lavorato suo padre.
Era stata Virginia a fargli trovare il coraggio di compiere il grande passo. Lo aveva aiutato e amato anche nei momenti più burrascosi, quando i litigi erano così furiosi che pareva impossibile che tutto si sarebbe invece sistemato e sarebbero tornati a stare bene insieme. Andy non riusciva a pensare a lei senza ricordare il suo profumo e il sapore delle sue labbra. Non capiva che cosa le fosse poi successo, e quando aveva provato a chiederglielo lei aveva cambiato discorso. Si comportava come se non fossero mai stati amanti, o neppure amici. Lui aveva paura di insistere, sentendosi inadeguato. Era la sua paura da sempre, perché nessuno l'aveva mai fatto sentire all'altezza: suo padre era morto quando lui era piccolo e sua madre non era capace di amare né se stessa né gli altri. Per un po' Virginia aveva riempito quel suo grande vuoto, ma poi... Andy provò un moto di gelosia per Jim, chiunque egli fosse. Come osava mandarle dei fiori? Smoke ordinò a Sick, Beeper, Dog e Divinity di tenere d'occhio Weed e controllare che non combinasse niente che potesse mandare a monte i loro piani. Così i Lucci, sulla Pontiac Lemans del '69 di Dog, cominciarono a perlustrare le strade intorno a West Cary Street alla ricerca dello stronzetto ubriaco. «Ho sete» disse Divinity. «Cazzo!» fu la risposta di Beeper. «Da bravo, Dog, vacci a prendere da bere» fece Divinity. A Dog non piaceva sentirsi trattare come un cane, ma non protestava e faceva tutto quello che gli dicevano. «Cosa volete, stavolta?» chiese. «Mah...» rifletté Divinity. «Qualcosa di buono. Che ne dite di una Michelob Ice? Sono stufa di bere Bud e le altre porcherie che pigli sempre: sanno di piscio. E poi mi sa che la Michelob Ice fa sballare di più. Mi fa così girare la testa...» Credendo di essere molto divertente, si mise a ridere da sola. Dog entrò in un 7-Eleven e con i documenti falsi comprò una confezione di Michelob Ice, mentre Beeper e Sick distraevano il proprietario facendo finta di scivolare per terra il primo e di aiutarlo il secondo, in maniera che Divinity potesse infilarsi indisturbata nella borsa di jeans tutto quello che le veniva in mente. «Quando lo troviamo ci divertiamo un po'» disse Dog uscendo dal parcheggio e ricominciando le ricerche. «Quel Weed non mi piace.»
«Perché lui è bravo a disegnare e tu invece non sai fare un cazzo» commentò Divinity. Dog si incattivì. «Non sa vivere» decretò. «E fa troppo il furbo.» «Pensa a non fare il furbo tu, che poi vedi come ti riduce Smoke» replicò Divinity attaccandosi alla bottiglia. «Ma che vada a cagare.» Dog si immise di nuovo in West Cary Street. «Smoke non mi fa nessuna paura.» Non era vero. Era diventato Dog il Natale precedente, quando, a quindici anni appena compiuti, era in giro a cercare un po' di crack e si era imbattuto in Divinity e Smoke in un centro commerciale vicino a Chimborazo Boulevard. Smoke gliene aveva venduto un paio di dosi e poi aveva tirato fuori la pistola, se le era fatte restituire e si era tenuto i soldi. «Se ti ripigli il crack, almeno rendimi i soldi» aveva detto Dog. «Devi guadagnarteli, caro mio» aveva replicato Smoke. E l'aveva convinto a scippare una signora minacciandola con una pistola e a consegnargli i quarantasette dollari del bottino. Ma ciò che Dog non avrebbe più dimenticato erano le parole che gli aveva detto dopo. «Adesso tu sei mio. Ti ho in pugno.» Gli aveva puntato la Glock in mezzo agli occhi. «Sei il mio schiavo. E lo sai perché?» Dog non lo sapeva. «Perché non hai un cazzo a questo mondo. Non hai un cazzo a casa tua, non hai un cazzo nella testa e sei talmente coglione che esci a comprare del crack e poi scippi una vecchietta che magari muore di crepacuore subito dopo. Lo sai che se ci lascia le penne tu finisci dentro per omicidio? Ti posso denunciare, se voglio.» «No che non puoi» aveva ribattuto Dog, confuso. «Non mi puoi denunciare...» Smoke era scoppiato a ridergli in faccia, e Divinity anche. Così Dog era diventato un Luccio. Aveva cominciato a saltare le lezioni a scuola tanto spesso che dopo un po' il preside l'aveva sospeso, dandogli così la possibilità di continuare a non andare a scuola. Dog ne era rimasto molto confuso, e quando aveva detto a Smoke che non voleva scippare più nessuno né rapinare nei ristoranti o rubare macchine, Smoke l'aveva presa male. Aveva deciso di spaventarlo e aveva trovato subito il modo. A Smoke non faceva né caldo né freddo uccidere, e Dog l'aveva già visto investire apposta degli animali per strada: qualche giorno prima aveva messo sotto un gatto e un cane che non era nemmeno in mezzo a una strada ma davanti a una casa. Smoke diceva che era un gioco, lo Schiacciatutto, che consiste-
va nello schiacciare quante più bestie si poteva. Così usciva di strada per mettere sotto gli scoiattoli che vedeva nei prati e teneva il conto. Per spaventare Dog, si era vantato di aver ammazzato una persona nel North Carolina, dove abitava prima. Era entrato in casa di una signora paralitica e le aveva dato cinquanta pugnalate per farsi un giro sulla sua macchina con i comandi manuali. Poi era tornato a casa della morta, si era preso tutto quello che gli interessava e si era fatto un panino guardando il cadavere riverso in un lago di sangue. Aveva anche raccontato di averla spogliata, ma di averla trovata troppo brutta e di averla mutilata in certe parti... Diceva di aver menato anche sua nonna, che un tempo abitava con loro, finché si era trasferita perché lui l'aveva presa a pugni per avergli rotto le scatole una volta di troppo. Smoke sosteneva di essere finito dentro per l'omicidio della signora sulla sedia a rotelle, ma di essere uscito appena aveva compiuto sedici anni: per legge nessuno poteva sapere quello che aveva fatto, tranne lui e la sua famiglia. Dog si era reso conto che prima o poi Smoke avrebbe ucciso di nuovo. Aveva intuito che per Smoke uccidere era un bisogno e non voleva essere lui a farne le spese. «Oddìo oddìo oddìo» esclamò Divinity aprendosi un'altra birra. «Guarda là che meraviglia.» «Dobbiamo cercare Weed» le ricordò Beeper. «No, no» fece Divinity. «Fermati qui che io scendo.» In West Cary Street l'allarme che risuonava nella testa di Brazil aumentò d'intensità. Intorno alla sua macchina c'erano tre ragazzi e una ragazza conciata come una baldracca. Non parevano avere buone intenzioni. I maschi ridevano, girando intorno alla vettura con i pantaloni larghi arrotolati, scarpe da basket, felpa e berretto dei Chicago Bulls. La ragazza aveva una gonna corta nera e una canottiera. Sentendosi osservati, si girarono e lo guardarono con l'aria strafottente. Brazil andò dritto verso la macchina con le chiavi in mano. Alla caviglia destra, nascosta sotto i jeans scoloriti, aveva la Colt Mustang. Se il suo umore era già cattivo prima di vedere quei tre teppisti, adesso era pessimo. «È tua, bello?» gli chiese la ragazza. «Sì» rispose lui. «Dove l'hai presa?» «Da Crown, in West Broad» rispose Andy con un sorriso da furbetto. «È il concessionario migliore, per le BMW.» «Sul serio?» fece lei. «Peccato che a me non me ne frega niente dei con-
cessionari, perché me le piglio per strada.» Divinity aveva deciso di fare da portavoce della banda. Tanto per cominciare, era la meno ubriaca, e poi il proprietario della BMW era un figaccione e lei aveva voglia di divertirsi. «Senti, bello» gli fece avvicinandosi. «Perché non mi ci fai fare un giro?» Fece un passo avanti e il figaccione indietreggiò. I tre ragazzi si avvicinarono, inchiodandolo davanti alla portiera. «Cosa ti prende, bello?» gli chiese Divinity passandogli la mano sul petto. «Wow, che uomo!» Gli palpò i muscoli, impressionata. «Non mi toccare» le intimò Brazil. Beeper lo guardò minaccioso, a un palmo dal naso. «Cos'hai detto, brutto stronzo?» «Ho detto alla tua amica di non toccarmi. E adesso dico a te di non alitarmi sulla faccia» replicò senza alzare la voce. «Togliti di mezzo, tu» ordinò Divinity a Beeper. «Ci penso io.» Beeper si fece da parte. Divinity aveva voglia di toccare e di farsi toccare dal figaccione. Si chinò, sfiorandogli il braccio con il seno. «Ti piace?» chiese civettuola. «A me sì. Un casino.» «Cosa cazzo fai?» esclamò Dog prendendola per un braccio e tirandola via. «Ma sei fuori?» intervenne Sick. «Se ti vede Smoke ci fa il culo a tutti quanti!» gridò quasi. Beeper tenne per sé quello che pensava: era stufo dell'atteggiamento di Divinity, che si comportava come se fosse una V10 Viper su cui tutti avevano voglia di montare. «Non toccare l'uomo bianco» le consigliò Beeper. «Pigliamogli la macchina e togliamoci dai coglioni» propose Dog nervoso, guardandosi intorno e passando la lingua sulle labbra. «Voi la mia macchina la lasciate dov'è. Non ho nemmeno ancora finito di pagarla.» Divinity scoppiò a ridere e si avvicinò ulteriormente al figaccione. «Non hai ancora finito di pagarla?» lo stuzzicò. «Hai fatto proprio bene a dircelo, perché noi non portiamo mai via la macchina a chi non ha ancora finito di pagarla...» Sick, Dog e Beeper si unirono alla sua risata, starnazzando come galli in
un pollaio. Divinity si strusciò contro Brazil, il quale sentì che aveva l'alito cattivo e odorava d'incenso. Gli passò le dita sul torace, e quando gli premette il ventre contro la coscia lui la spinse via. «Non mi lascio toccare, se non voglio!» ripeté Brazil con il tono imperioso di un generale a quattro stelle. «Stronzo» sussurrò lei arrabbiata. «Divinity non la tratta così nessuno, capito?» Si infilò una mano nella gonna e tirò fuori un coltello a serramanico, facendolo scattare; la lama brillò alla luce dei lampioni. «È ora di andare, gente» disse il ragazzetto con la testa rasata. «Metti via quel cazzo di coltello» ordinò quello con la faccia da fesso. «Lasciatemi in pace!» sbottò Divinity. «Toglietevi dai coglioni, adesso, che io ho da fare.» «Se ce ne andiamo senza di te, poi Smoke ci ammazza» replicò quello con la faccia da fesso. «Se non ve ne andate, vi ammazzo io» minacciò Divinity. I tre se ne andarono e sparirono dietro l'angolo di Robinson Street. Divinity puntò il coltello alla gola di Brazil e fece un passo avanti. «L'avevo capito che volevi restare sola con me» disse lui, come se non avesse paura di niente. «È così che fai il filo agli uomini?» «Non mi prendere per il culo» gli sussurrò lei truce. «Spiegami come faccio a non prendertelo, se vuoi che scopiamo?» «Mi sa che quando avrò finito con te, bello, tu non scoperai più con nessuno.» Brazil puntò il telecomando verso la macchina e fece scattare le serrature. «Hai mai fatto un giro su una BMW?» le chiese, mentre la lama luccicava nel buio. Avrebbe potuto toglierle il coltello di mano in qualsiasi momento, ma non voleva rischiare di farsi del male. Aveva in mente qualcos'altro. Aprì la portiera. «Cosa ne pensi?» le domandò. Divinity non poté fare a meno di dare un'occhiata agli interni in pelle e ai folti tappetini. «Dai, salta su» la invitò Brazil. Divinity era titubante.
«Cosa ti prende? Hai paura di farti vedere con me?» le chiese. «Hai paura che il tuo ragazzo si arrabbi?» «Io non ho paura di niente» rispose secca lei. «Non ti piace come sono vestito?» continuò Brazil. Si sedette di traverso sul sedile e si tolse la polo, gettandola sul sedile posteriore. Divinity gli guardò il petto nudo e sudato. Brazil prese un berretto da baseball che aveva sul cruscotto e se lo mise con la visiera dietro. Divinity sorrise e abbassò il coltello. «Le scarpe da ginnastica le ho già» le disse alzando il piede destro per mostrargliele. «Adesso mi rimbocco l'orlo dei pantaloni così ho il look giusto per te e andiamo a farci un bel giro.» Divinity ridacchiò, e scoppiò in una risata sguaiata quando Brazil si chinò per arrotolarsi l'orlo della gamba destra. Quando si vide la Colt Mustang puntata in mezzo agli occhi, però, ammutolì di colpo. Mollò il coltello e scappò via. Una Lemans grigia spuntò rombando da dietro l'angolo e inchiodò. La portiera posteriore si aprì e Divinity saltò su. Brazil rimase in mezzo a West Cary Street con la pistola in pugno e il cuore che batteva all'impazzata. Per un attimo pensò di inseguirli, poi decise che era meglio lasciarli perdere. La Lemans si era dileguata prima che Brazil potesse prendere il numero della targa. Risalì in macchina e si avviò verso casa. La prima volta che Weed la vide passare, la Lemans aveva la marmitta che strisciava per terra facendo un rumore d'inferno e mandando scintille dappertutto. I bassi dello stereo erano talmente forti che la notte pulsava peggio della sua testa. Weed si gettò in un fosso appena in tempo, sbucciandosi tutte e due le mani. Sbirciando dal nascondiglio vide che a bordo c'erano quattro persone. Una si voltò dalla sua parte e bevve da una bottiglia. Weed si rese conto con terrore che era Divinity, che probabilmente lo stava cercando insieme con Beeper, Sick e Dog. La seconda volta che sentì quel fracasso incredibile di marmitta che strisciava sull'asfalto e musica ad altissimo volume erano le dieci passate. Saltò oltre un muretto e si accucciò dietro un abete nel giardino di qualche riccone che abitava in una villa con davanti le colonne bianche. I Lucci passarono oltre e scomparvero. Weed aspettò almeno cinque minuti buoni prima di uscire e scavalcare di nuovo il muretto. Stava scendendo dall'altra parte quando da dietro la curva spuntò una macchina sportiva
che lo sorprese nel fascio di luce dei fari come una mosca su un vetro. 13 Bubba aveva troppo da fare anche solo per bere un sorso di Tang, che era a temperatura ambiente quando Dolcezza gliel'aveva versata nel thermos e quindi a temperatura ambiente sarebbe rimasta. Non aveva tempo neppure per andare a scaldare nel forno a microonde il taco che Dolcezza non era riuscita a rovinargli in quanto precotto. Non ebbe un momento nemmeno per pensare alle Icehouse, alle Molson Golden e alle Forster's Lager che lo aspettavano nel frigo dell'anticamera, dove arrivava esausto alle sette e mezzo tutte le mattine alla fine del turno, tranne il martedì e il mercoledì che erano i suoi giorni di riposo. Bubba mangiava, beveva e fumava prodotti rigorosamente Philip Morris. Se non avesse speso tanto in quei prodotti, in attrezzi per il suo laboratorio e in accessori per la jeep, avrebbe comprato anche azioni Philip Morris. Bubba si sentiva frustrato e umiliato. Cercava come un disperato di accelerare la produzione alla Linea 8 e gli altri lo trattavano come una merda. Riconosceva che nei bidoni destinati ai macchinari che separavano la carta dal prezioso tabacco per riutilizzarlo erano finiti molti scarti, ma non voleva arrendersi. Se tre turni nell'arco di ventiquattr'ore sfornavano trenta milioni di pacchetti, al diavolo, lui in un turno avrebbe pure potuto arrivare a mezzo milione di sigarette extra, pari a venticinquemila pacchetti... Lavorava come un ossesso, correndo dal terminale alla macchina e dalla macchina al terminale. Quando la resistenza si avvicinava troppo alla linea rossa, lui era lì a ricalibrarla. Intuiva quando stava per finire la colla e si accertava che l'addetto fosse pronto con la ricarica. Quando la carta si strappò di nuovo, intervenne manualmente sul rotolo, ripristinando l'alimentazione e premendo il tasto di reset nel tempo record di trentuno secondi. E quando la carta si strappò un'altra volta, si rese conto che le lame non erano abbastanza affilate e chiamò subito il tecnico. Sulle spine per quella perdita di tempo, sudò e raddoppiò gli sforzi per recuperare. Tutto procedette bene e senza interruzioni nelle tre ore successive e alle quattro del mattino l'aggiornamento sullo schermo indicava che Bubba era indietro di 21.350 barre soltanto e due minuti scarsi rispetto alla Linea 5. Betty Council, responsabile della produzione, coordinava turni e interventi tecnici e controllava la qualità. Da qualche settimana teneva d'occhio
Bubba perché le risultava che avesse più problemi tecnici degli altri e Gig Dan le aveva confidato che non ne poteva più di lui. «Come andiamo?» chiese a Bubba mentre nella macchina le piccole barre di tabacco si formavano a una velocità tale che l'occhio non riusciva a stargli dietro. Bubba non aveva tempo per chiacchierare. «Non è il caso che ti ammazzi di fatica» gli disse la Council, che era in attesa dell'ennesima promozione in quanto era una donna in gamba, lavorava bene e alcuni mesi prima era riuscita a incrementare del tre per cento la produzione stimolando la competitività fra le varie linee. «Non c'è problema» replicò Bubba mentre le barrette venivano incollate, tagliate e trasferite alla macchina che le avrebbe unite al filtro. «È incredibile» gli gridò nel frastuono dei macchinari. «Tu e Bruffy siete quasi testa a testa.» Brazil accelerò per inseguire il ragazzino che era saltato giù dal muro e corso via. Un poliziotto normalmente dava per scontato che se un soggetto scappava doveva esserci sotto qualcosa. Abbassò il finestrino. «Cosa succede?» chiese rallentando al ragazzo che continuava a correre. «Niente» rispose quello con gli occhi sbarrati, senza fermarsi. «Perché allora corri in questo modo?» insistette Brazil. «Fermati un attimo, così me lo spieghi.» «Non posso.» «Come non puoi?» «Non posso.» Andy fermò la macchina poco più avanti e scese. Il ragazzo era stanco e aveva bevuto. Aveva una felpa dei Bulls e un'aria vagamente conosciuta, nonostante fosse buio. «Mi lasci in pace!» gridò quando Brazil lo afferrò per un lembo della felpa. «Non ho fatto niente!» «Va bene, va bene» replicò Andy. «Calmati. Aspetta un momento... Noi ci conosciamo. Ci siamo visti alla Godwin, sei quello bravo in disegno. Se non mi sbaglio hai un nome strano. Week? Wheeze?» «Io non so niente!» borbottò il ragazzo senza fiato e madido di sudore. Brazil si guardò intorno con le orecchie tese, riflettendo. Non vedeva nessun altro e non sentiva allarmi di sorta: la strada era vuota e silenziosa. «Weed» fece. «Ora mi ricordo.» «Si sbaglia» rispose Weed. «No, no. Sono sicuro. Io sono Andy Brazil.»
«Il poliziotto che ha parlato in aula magna» disse Weed in tono d'accusa. «Ho fatto qualcosa di male?» domandò Andy. «Com'è che va in giro da queste parti in BMW?» «Potrei chiederti com'è che tu vai in giro ubriaco correndo come un matto.» Weed alzò gli occhi al cielo. La luna era coperta dalle nuvole. «Adesso ti riaccompagno a casa» disse Brazil. «Non se ne parla neanche» ribatté Weed strafottente, con la voce impastata. «Come sarebbe a dire?» replicò Brazil sorridendo. «Sei un minorenne in stato di ebbrezza. Posso accompagnarti in centrale oppure a casa. Se fossi in te, mi farei portare a casa, prenderei un'aspirina e me ne andrei a letto.» Weed rifletté. Passò un camion e quindi una station wagon, e lui era ancora indeciso. Si asciugò la faccia nella manica. Passarono una Golf e una jeep, che a Brazil fece tornare in mente i FABBRI. Tornò verso la macchina con un'alzata di spalle e aprì la portiera. «Chiamo una pattuglia che ti porti in centrale» dichiarò. «Non faccio salire gli arrestati sulla mia auto privata.» «Prima dice che mi accompagna a casa e poi se lo rimangia» protestò Weed. «Io ho solo detto che non ti porto alla centrale.» Chiuse la portiera. Weed salì in macchina e si allacciò la cintura senza dire una parola. Brazil ripartì. «Qual è il tuo vero nome?» domandò al ragazzo. «Weed.» «Strano come nome, no?» «Dipende.» Weed si guardava le scarpe slacciate. «Da cosa?» «Mio padre lavora per il comune.» «Davvero?» lo incoraggiò Andy. «Fa il giardiniere. Mi ha chiamato Weed perché così sarei cresciuto come le erbacce.» Tutto a un tratto si sentì mortificato e spaventato. Era rimasto piccolo, invece di crescere come le erbacce, e stava dicendo troppe cose a quel poliziotto. Lo vide prendere nota del suo nome su un taccuino. Merda. Se scopriva che era un Luccio, Weed era morto. Smoke l'avrebbe ammazzato. «E di cognome come ti chiami?»
«Jones» mentì Weed. Andy lo scrisse. «Cosa vuol dire quel cinque?» «Quale cinque?» «Quello che hai tatuato sul dito.» La paura si tramutò in vero e proprio panico. Weed non sapeva cosa dire. «Io non ho nessun tatuaggio» rispose stupidamente. «E questo allora cos'è?» Weed si guardò le mani come se non se le fosse mai viste prima e fissò il cinque. Poi se lo strofinò con l'altra mano. «Ah, già» rispose. «Me lo sono appena fatto, sa?» «Perché proprio un cinque?» insistette Brazil. «Ci sarà bene un motivo.» Weed cominciò a tremare: se il poliziotto avesse scoperto che era il suo numero di schiavo, chissà che cosa sarebbe successo. «È il mio numero fortunato» rispose poi, con il sudore che gli scorreva sotto la felpa. Brazil armeggiò con lo stereo, passando da Mike & The Mechanics a Elton John prima di fermarsi su Enya. «Sente questa roba?» esclamò Weed. «Perché?» «Fa schifo. Non c'è batteria e le parole non dicono niente.» «A me non sembra» replicò Brazil. «E anche se non c'è batteria a me non importa.» «Non ci posso credere!» Weed si infuriò. «Lo dice solo perché io suono i piatti e voglio imparare a suonare la batteria.» «Dove devo andare?» chiese Brazil. «O non me lo vuoi dire?» «Secondo me, i piatti lei non sa nemmeno che cosa sono» fece Weed, che alternava momenti di confusione a brevi sprazzi di lucidità. «Suonerò anche alla Parata delle azalee.» «Devi abitare vicino alla Godwin, altrimenti non andresti a scuola lì» ipotizzò Andy frustrato. Weed si stava addormentando. Puzzava, e Brazil non aveva ancora capito che cosa stava facendo a quell'ora per strada, ubriaco e spaventato come se avesse Jack lo Squartatore alle calcagna. Allungò un braccio e lo scosse con dolcezza. Weed fece un salto. «No!» gridò il ragazzo. Brazil accese la luce e lo guardò attentamente. L'indice della destra, do-
ve aveva il cinque tatuato, era gonfio e rosso. «Dimmi dove abiti» gli disse in tono fermo. «Svegliati, Weed. Dimmelo.» «Henrico Doctor.» «L'ospedale?» «Eh.» «Abiti vicino all'ospedale?» «Ho mal di testa.» «Non è nel quartiere della Godwin.» «Mio padre abita nel quartiere della Godwin. Mia mamma no.» «E da chi vai a dormire, Weed? Da tua madre o da tuo padre?» «Da lui non ci vado mai. Una volta ogni tanto, un fine settimana ogni due mesi o giù di lì. Ma lui esce e mi lascia da solo. Non che me ne freghi, comunque.» «In che via abita tua madre?» «All'incrocio tra Forest e Skipwith; glielo faccio vedere io.» Weed non riusciva quasi a parlare. Brazil gli prese la mano destra. «Perché ti sei fatto fare un tatuaggio?» gli chiese. «Ti ha convinto qualcuno?» «Ce l'hanno tutti» rispose Weed ritraendo la mano. «Sembra fatto da poco» osservò Brazil. «È di oggi?» 14 A quanto pareva, il governatore Feuer e i suoi amici stavano ancora mangiando e chiacchierando, perché non accennavano a uscire dal ristorante. Roop, stufo di aspettare, decise che tanto valeva indagare un po' sulla faccenda del pesce e chiamò Judy Hammer a casa. Aveva il numero grazie a Fling, che stupidamente glielo aveva dato. «Hammer» rispose il comandante della polizia. «Sono Artis Roop.» «Buonasera.» «Immagino che si chiederà come mai ho il suo numero di casa...» «È sull'elenco» rispose lei. «Capisco. Senta, le telefono per sapere qualcosa sulla storia dei pesci che...» «Pesci?» esclamò la Hammer allarmata. «Chi le ha parlato dei pesci?»
«Non posso rivelarle le mie fonti. Ma se è vero che a seguito di un incidente un camion si è ribaltato rovesciando l'intero carico di pesce in mezzo a una strada, ritengo che sia meglio informare la cittadinanza, se non altro per evitare ingorghi e rallentamenti nel traffico.» «Che io sappia, non si è verificato niente del genere» rispose lei in tono fermo. «Ma allora a quali pesci si riferiva?» «Niente. Un problema interno.» «Non capisco.» Roop cominciava a insospettirsi. La porta del ristorante era sempre chiusa, ma gli venne in mente che il governatore poteva uscire dalla porta di servizio. Anzi, per quanto ne sapeva lui, poteva essersene già andato. Staccò il telefono dalla presa dell'accendisigari e scese dalla macchina, continuando la conversazione. «Come fanno dei pesci a costituire un problema interno, mi scusi?» insistette. «Be', si tratta solo di un piccolo inconveniente tecnico alla nostra rete informatica.» «Mi scusi, ma continuo a non capire» fece lui perplesso. «Avete un virus?» «Spero proprio di no» replicò la Hammer che, se non si trincerava dietro un no comment, diceva sempre la verità. «Dunque il Comstat non è operativo?» chiese Roop arrivando al dunque. Il comandante Hammer esitò prima di rispondere: «Temporaneamente». «Su tutta la rete?» «Non posso dirle altro.» Roop intuì che si trattava di un problema serio, ma non voleva lasciarsi sfuggire un pesce che da un bel po' stava aspettando di friggere: dalla Petite France stavano infatti uscendo gli uomini della scorta del governatore e si erano accesi riflettori e flash. Feuer e moglie, abituati a quel genere di imboscate, rimasero imperturbabili. Roop sentì i colleghi tempestare di domande il governatore e fu contento di sentirlo rispondere che non aveva niente da dichiarare. Si avvicinò a Jed, l'agente dell'Executive Protection Unit che gli faceva da autista. «Non mi va di rompergli le scatole» gli confidò. «Poveretto, non può muovere un passo senza trovarsi i giornalisti alle calcagna. Neanche a cena tranquillo lo lasciano andare...» «Se la pensassero tutti come lei, avrebbe una vita più facile» osservò
Jed. «Mi dica, come diavolo fa a parcheggiarla?» chiese Roop osservando l'enorme limousine nera. Jed rise, lusingato. «Davvero. Io non saprei da che parte cominciare» continuò Roop mentre il governatore e la moglie si avvicinavano. «Non potrei mai fare l'autista, prima di tutto perché mi perdo: sapesse i pasticci che combino quando devo andare in un posto che non conosco...» Roop aveva preso informazioni su Jed e aveva scoperto che tutti (tranne il governatore) sapevano che aveva un pessimo senso dell'orientamento. «Sul serio?» fece Jed aprendo le portiere per far accomodare Feuer e la moglie. «Buonasera, governatore. Signora» disse Roop ossequioso. «Buonasera» rispose il governatore, che era un uomo cordiale. «L'ho vista a "Meet the Press"» disse Roop. «Davvero?» «Sì. Ho apprezzato molto il suo intervento. Mi fa piacere che qualcuno sostenga l'industria del tabacco» spiegò Roop. «Basta avere un po' di buonsenso» commentò Feuer. «Io non fumo, tuttavia penso che stia a ognuno di noi decidere se farlo o meno. Nessuno ci costringe a fumare, ma lo spettro della disoccupazione e del mercato nero mi sembra spaventoso.» «Fra un po' proibiranno anche l'alcol» continuò Roop in tono indignato. «Io mi batterò perché non succeda.» «Andrà tutto in fumo.» Era il titolo con cui Roop sperava di vincere il premio Pulitzer. «Espressione davvero azzeccata» commentò Feuer. «Complimenti» aggiunse Mrs Feuer. «Andrà tutto in fumo» ripeté il governatore con un sorriso. «Come se l'ATF non avesse abbastanza da fare. A proposito» disse poi a Roop. «Ci conosciamo?» La casa dietro l'ospedale Henrico Doctor aveva le persiane dipinte in azzurro, un giardino ben curato e un vialetto d'accesso coperto di ghiaia senza macchine parcheggiate. Andy Brazil si fermò davanti alla porta meditando sul da farsi. «Quando rientra tua madre?» domandò a Weed. «È già tornata.» Weed adesso sembrava un po' più sveglio. «Non ha la macchina?»
«Sì che ce l'ha.» «Non c'è» disse Brazil. «Quindi non credo che sia a casa.» «Ah.» Weed si tirò su a sedere e guardò dal parabrezza, con la mano sulla maniglia. «Adesso vado a letto perché sono stanco. La saluto.» «Weed, dove lavora tua madre?» insistette Brazil. Anche lui aveva voglia di tornarsene a casa, ma non gli andava di lasciare da solo il ragazzo in quelle condizioni. «In ospedale» rispose Weed accingendosi a scendere. «In sala operatoria.» «Fa l'infermiera?» «No, non credo. Sarà qui verso mezzanotte.» «Di solito smonta a quell'ora?» «Più o meno. Lavora un sacco perché viviamo con quello che guadagna lei. Mio padre gioca e ha fatto un sacco di debiti. Grazie del passaggio, non ero mai stato su una macchina così bella.» Il poliziotto ripartì appena Weed ebbe chiuso il portone di casa. Si guardò intorno nel salotto vuoto, scontento e al tempo stesso sollevato che sua madre non ci fosse. In cucina trovò del polpettone avanzato e un po' di affettato e meditò se era il caso di mangiare. Alla fine decise di provare e si preparò un toast con prosciutto e formaggio, che gli calmò il bruciore allo stomaco. Andando in camera sua passò davanti alla stanza di Twister e osservò le coppe e i poster, il letto sfatto, la maglietta della University of Richmond sul tappeto, il computer con il salvaschermo di Bad Dog. Tutto era rimasto come l'aveva lasciato Twister l'ultima volta che era stato in camera sua, ovvero domenica 23 agosto. L'ultima volta che Weed l'aveva visto vivo. Entrò e gli parve di sentire il profumo di suo fratello, la sua risata comunicativa e le sue battute. Gli parve di vederlo seduto per terra mentre si metteva le scarpe, gli parve di sentirlo mentre lo chiamava "minutino". «Sessanta minutini fanno un'ora» gli diceva. «Tu di matematica non capisci un accidente, ma te lo dico io: presto sarai un'ora, poi un giorno e poi una settimana e poi un mese. E diventerai grande come me.» «Figurati se io divento come te» rispondeva Weed. «Alla mia età tu eri già il doppio di me.» Allora Twister si alzava e faceva finta di giocare a basket e che Weed fosse l'avversario da saltare. «Sta per scadere il tempo e mi resta solo un minutino!» diceva ridendo.
Poi lo sollevava di peso e lo gettava sul letto, facendolo ridere e saltare finché a Weed non girava la testa. Weed si avvicinò alla scrivania, si sedette e digitò un comando sulla tastiera. Il computer era l'unica cosa che toccava in quella stanza perché era stato Twister a insegnargli a usarlo e di sicuro avrebbe voluto che continuasse. Si collegò a America OnLine e mandò una e-mail all'indirizzo di Twister. Poi controllò se gli aveva scritto qualcun altro. A parte i messaggi che gli spediva lui tutti i giorni, non c'era posta. Ciao Twister, le leggi le mie lettere? Ho visto che non le apri, ma magari tu non hai bisogno di aprirle come facciamo noi. In camera tua non ho cambiato niente. La mamma non ci entra nemmeno. Tiene sempre la porta chiusa. Si fermò un attimo, casomai il fratello si mettesse in comunicazione diretta. Sperava sempre che lo facesse, che gli dicesse: "Allora, minutino? Mi fa piacere che mi scrivi. Guarda che ti controllo: comportati come si deve". Aspettò un po', poi spense tutto e fece per andarsene. Rimase un attimo sulla porta, troppo depresso per allontanarsi. Alla fine andò in camera sua e puntò la sveglia alle due e quarantacinque. «Perché non ci sei più?» chiese a Twister. La notte non gli diede risposta. «Perché non ci sei più, Twister? Io non so più cosa fare senza di te! La mamma non c'è mai, lavora come un'ossessa e quando non lavora dorme. Da quando te ne sei andato tu, non parla quasi. Papà la fa diventare matta e adesso ho anche questo problema di Smoke. Quello mi ammazza, Twister. Se c'eri tu, almeno mi salvavi.» Si addormentò pensando al fratello e dormì come un sasso, la testa piena di sogni crudeli. Stava scappando da un camion della spazzatura che faceva dei rumori terrificanti inseguendolo giù per una strada buia. Ovunque andasse, ce l'aveva dietro. Quando la sveglia suonò, si ritrovò sudato e con il cuore che batteva forte. Spense la sveglia e tese le orecchie per sentire se la madre dormiva nell'altra stanza. Poi accese la luce e si vestì di fretta. Si sedette al tavolo da gioco davanti alla finestra e pensò a cosa portarsi per dipingere una statua di metallo, rimpiangendo di non aver raccontato tutto al poliziotto che l'aveva accompagnato a casa e che gli aveva chiesto del tatuaggio. Non l'aveva fatto per-
ché sapeva che Smoke l'avrebbe scoperto e gliel'avrebbe fatta pagare. Il problema era se prendere i colori a olio o quelli acrilici. Guardò sullo scaffale e accarezzò la valigetta che gli aveva regalato sua madre a Natale. Aveva dovuto fare un sacco di straordinari per comprargliela: costava quasi ottanta dollari e comprendeva otto tubetti di colori a olio, quattro pennelli e una videocassetta illustrativa che la Grannis gli aveva lasciato guardare a scuola, visto che a casa Weed non aveva il videoregistratore. Stappò il verde smeraldo, il giallo cadmio e il vermiglio e rifletté su quanto ci avrebbero messo ad asciugare e quanta fatica avrebbe fatto a ripulire. Non aveva voglia di puzzare di acquaragia. Esaminò i tubetti di acrilico. Aveva una scelta di quarantasei tinte diverse, ma per ottenere un effetto come si deve avrebbe dovuto prima carteggiare il metallo e poi dare due mani di colore: troppo tempo. A parte il fatto che Weed avrebbe preferito lasciar stare le statue. Tanto per cominciare perché temeva l'ira di Dio: pitturare la statua di qualche uomo famoso era un po' come fare dei graffiti su una chiesa o mettere i baffi a Gesù. Fu seguendo questo ragionamento che gli venne l'idea di usare le tempere. Ne aveva un sacco, costavano poco e non sporcavano, anzi, venivano via con acqua e sapone. Smoke però non doveva saperlo. Weed non le aveva mai usate sul metallo, così fece un esperimento sul cestino della carta straccia. Soddisfatto nel vedere la pennellata spessa e coprente, prese tutte le tempere che aveva e ne infilò un po' nello zainetto e un po' in una borsa della spesa; poi frugò nella scatola dei pennelli puliti e ne scelse due larghi e due più sottili. Alla fine ne prese uno anche della misura 14, casomai potesse tornargli utile. 15 Il Dipartimento di polizia di New York City era fuori della portata di Artis Roop. Aveva incominciato con l'ufficio informazioni ed era rimbalzato dal Distretto Nord al numero verde per la segnalazione di reati sessuali, per arrivare al numero verde sul crack e al centro rimozione forzata del Queens e approdare finalmente a un impiegato che gli aveva dato il numero della sala radio. Da lì, con l'inganno, era riuscito a farsi passare il sergente Mazzonelli. «Sì, certo che conosco il Comstat. Chi crede che l'abbia messo a punto?» gli disse il sergente. «Lo so, lo so che siete stati voi» replicò Roop dalla sua scrivania nella
redazione del "Richmond-TimesDispatch". «Infatti.» «Abbiamo un problema al Mapping Center» spiegò Roop. «Quale Mapping Center?» «All'NIJ.» «New Jersey?» «No, non NJ. National Institute of Justice» lo corresse Roop. «Scusi, ma lei da dove chiama?» si informò Mazzonelli. Poi coprì la cornetta con la mano e chiamò un collega. «Landsberger? Di' un po', vai da Hop Shing?» «Perché?» «Ti ha chiamato tua madre.» «Davvero? E cosa vuole? Che le prenda il pesce?» Roop aguzzò le orecchie. «Non fate gli spiritosi» intervenne un altro poliziotto. «Stromboli, provolone e cipolle. Come al solito» elencò Mazzonelli. Poi tolse la mano dalla cornetta e riprese la comunicazione. «Stava dicendo?» «Che abbiamo un problema con la rete Comstat» rispose Roop. «Ma dove?» «Qui a Washington. Abbiamo un problema che va risolto con la massima urgenza.» Roop aveva sentito che nei film dicevano spesso così. «Potrebbe trattarsi di un virus che ha infettato il sistema. Vogliamo sapere di che portata è il problema.» Silenzio. «Si tratta di pesci» rivelò Roop. «Oh, merda» esclamò Mazzonelli. «Allora l'avete anche voi a Washington? Un banco di maledetti pesci azzurri nel settore duecentodiciannove di...» «Di Richmond, Virginia» lo informò Roop. «Crediamo che sia partito tutto da lì. Che Richmond sia l'untore, in altre parole.» «Richmond?» «E quello che riteniamo, sergente. È peggio di quanto pensassi. Se anche il vostro sistema di telecomunicazione Comstat è bloccato...» disse Roop scrivendo forsennatamente «allora siamo tutti bloccati.» «Porca puttana, questa è proprio la cosa più strana che mi sia mai capitata. Abbiamo qui tre esperti che stanno cercando di togliere di mezzo quei dannati pesci, ma finora non sono ci riusciti. Io personalmente di computer
non me ne intendo, però gli occhi e le orecchie li ho e quando scoppia un casino me ne accorgo. A quanto ho sentito, non ci capisce niente nessuno.» «Infatti» fece Roop girando pagina. «Neanche qui.» La caporedattrice, Clara Outlaw, si fermò davanti alla scrivania di Roop per chiedergli se pensava di farcela a uscire nell'ultima edizione. Lui le fece segno che era tutto okay. Lei aprì bocca per dire qualcosa, ma lui la fermò con un gesto. Lei gli indicò l'orologio. Lui annuì. Lei non gli credette e si toccò di nuovo l'orologio. Lui scosse la testa e le fece segno di aspettare un momento. «Nel primo pomeriggio, credo, improvvisamente su tutti gli schermi è apparsa la mappa con i pesci e nessuno è ancora riuscito a toglierla. Così, dal nulla» si dilungava Mazzonelli. Roop scrisse su un foglio IL VIRUS DEI PESCI. Poi lo porse alla Outlaw che aggrottò la fronte perplessa e scrisse accanto: PSEUDOMONAS? Roop scosse la testa. Come faceva a spiegarle che non si trattava di un agente patogeno responsabile di una moria di pesci, bensì di un virus informatico? Sottolineò quattro volte la parola virus. Alle tre meno dieci Weed scivolò fuori dalla sua camera e si fermò un istante davanti alla porta della madre, sperando di sentirla russare. Tirò un sospiro di sollievo. Uscì di casa e aspettò all'angolo che arrivasse Smoke. Poco dopo udì la Lemans in lontananza e ricordò il sogno del camion della spazzatura. Incominciò a tremare tanto forte che temette di non riuscire a tenere il pennello in mano. Gli venne di nuovo da vomitare e fu tentato di tornare a casa di corsa e chiamare la polizia, o almeno prendere anche gli acrilici, nel caso Smoke subodorasse l'inganno. La portiera posteriore della Lemans si aprì e Weed salì. Si mise lo zainetto e la borsa dei colori in grembo e guardò la nuca di Smoke. Divinity era seduta davanti e teneva la testa appoggiata sulla spalla di lui. «Gli altri non vengono?» chiese Weed cercando di non farsi accorgere che tremava. «Che bisogno c'è?» rispose Smoke. «Com'è che non hai preso la tua macchina?» domandò poi, con crescente terrore. «Perché non voglio che la trovino posteggiata dove non dovrebbe essere» rispose Smoke. «E a Dog non importa se vedono la sua?» «Cazzi suoi» replicò Smoke gelido. «Sta' zitto, ritardato. Le domande le
faccio io. Capito?» Divinity rise e gli infilò la lìngua nell'orecchio. «Sì» rispose Weed con le lacrime agli occhi. Se le asciugò nella manica prima che se ne accorgessero e non parlò più. Smoke si diresse verso il centro, superò la fila di vecchie case in Oregon Hills e lasciò la macchina vicino al fiume. La recinzione intorno al cimitero era alta tre metri e coperta di edera. A Weed pareva impossibile scavalcarla, non a Smoke. Weed ignorava che si potesse fare pubblicità sulle recinzioni dei cimiteri, ma evidentemente la lavanderia Victory Rug Cleaning aveva trovato che fosse una buona idea e aveva collocato un cartellone pubblicitario all'angolo fra South Cherry e Spring Street. Smoke mostrò a Weed e a Divinity come era facile salire aggrappandosi al cartellone per poi scendere dall'altra parte calandosi da un grosso ramo di una quercia di là del muro. In breve furono tutti e tre dentro il cimitero, buio e silenzioso. A Weed sembrava una città fantasma, percorsa da un labirinto di viottoli, fra lapidi e monumenti lugubri. Sperava solo che a Smoke e Divinity non venisse in mente di lasciarlo lì da solo. Che avessero in programma di fargli proprio quello scherzo? Al solo pensiero si sentì rabbrividire fin nelle ossa. Weed aveva sentito dire che, per punire le prostitute, i protettori le portavano nei cimiteri di notte e ce le lasciavano. Pareva che certe fossero impazzite e che qualcuna fosse morta di crepacuore o nel tentativo di uscire. Una si era tranciata di netto una mano mentre cercava di scappare e un'altra si era suicidata trattenendo il respiro. Weed si sforzò di smettere di battere i denti: non doveva assolutamente farsi accorgere che aveva paura. «Che figata» disse guardandosi intorno. «Ce n'è da pitturare, qui intorno.» Lui e Divinity seguivano Smoke, che sembrava sapere dove andare. «Bell'idea quella di usare le lapidi come tele. Potrei starci un mese, qui dentro» continuò Weed. «Magari quando ho finito la statua che dici tu, mi fermo a pitturarne un'altra.» «Taci» gli ordinò Smoke. Weed ubbidì. Aveva la pelle d'oca e sudava freddo. Si chiese quanti morti fossero sepolti in quel posto. Più di quanti potesse contarne lui di sicuro, anche perché in matematica non valeva niente. Si sorprese nel constatare quanti si chiamavano Pax. Era proprio strano, visto che lui non conosceva nessun Pax. Ma a scuola c'erano dei Paxtons e un Paxino che si era appena trasferito da New York ed era convinto di sapere tutto lui.
Quelli che gli facevano più paura erano i morti ricchi, che stavano dentro a quelle casette di marmo tutte arzigogolate, con i cancelli di ferro battuto e le finestre: al pensiero di guardarci dentro gli si rizzarono i capelli. Perseguitato da immagini paurosissime di corpi putrefatti, con le orbite vuote e una bibbia bianca fra le mani verdognole aperta alla pagina in cui era scritto che Weed sarebbe andato all'inferno, gli parve di vedere uno scheletro vestito di raso bianco, con una rosa secca fra le dita ossute, che si alzava per inseguirlo emettendo lugubri lamenti. Si sentì mancare, mollò lo zainetto, che gli cadde sui piedi, e inciampò nelle cinghie. Per non cadere si aggrappò a un albero, ma poi urtò con il piede contro una tomba e finì lungo disteso per terra. Per poco non aveva battuto la testa contro la lapide del tenente colonnello Peachy Boswell. Smoke e Divinity scoppiarono a ridere alle sue spalle; piegati in due, si tenevano una mano sulla bocca per non fare troppo rumore. Weed si rialzò con calma, controllando di non aver perso niente e di non essersi fatto male. Gli bruciava un po' un gomito e aveva il braccio sporco di sangue. Si chinò e rimise a posto le zolle che aveva sollevato, poi raccolse lo zaino e la borsa con i colori. Alzò le spalle come a dire che per lui profanare tombe non era niente, anche se immaginava che per una cosa del genere si andasse diritti all'inferno. Divinity frugò nella sua borsa di jeans e tirò fuori una bottiglietta di Wild Turkey. Lei e Smoke ne bevvero un sorso, poi porsero la bottiglia a Weed, che rifiutò. Smoke insistette, ma Weed non cedeva. «Mi fa star male» sussurrò. «Vuoi che ti faccia questo lavoro o no?» «Certo che sì» rispose Smoke mettendosi di nuovo a ridere. «La statua è laggiù, ritardato. Anzi, sai cosa ti dico? Te la pitturi da solo, perché noi due ce ne andiamo.» Weed cercò di mantenere la calma. «Okay» fece. «Ma a casa come ci torno?» «Cazzi tuoi» rispose Smoke prendendo Divinity per mano. Weed li vide correre via ridendo e sbevazzando, senza nemmeno guardare dove mettevano i piedi. Si guardò intorno per capire dov'era. Si trovava nella parte del cimitero più vicina al fiume, dov'era sepolta la gente ricca e famosa. Certi avevano un intero lotto riservato alla famiglia. Weed vide la sagoma della statua poco lontano e gli venne male: era un personaggio bello e imponente, con l'atteggiamento fiero dell'eroe. Avvicinandosi vide che la statua era in una piazzola in cui convergevano
sei viali e capì che doveva trattarsi di qualcuno molto famoso. Aveva una giacca lunga e stivali alti fino al ginocchio, il cappello in una mano e l'altra posata sul fianco. Era su un piedistallo di marmo circondato di edera e azalee e ai suoi piedi sventolavano due Croci del Sud. Weed non aveva mai sentito nominare Jefferson Davis. Non sapeva niente dell'uomo la cui statua stava per dipingere, a parte il fatto che era un "valoroso soldato e difensore della Costituzione", nato nel 1808 e morto nel 1889. Quel calcolo però gli richiedeva un po' di tempo, così cominciò a tirare fuori colori e pennelli. "Ottantanove meno zero uguale otto" cominciò fra sé e sé, calcolando. No, doveva farlo con calma. "Nove meno otto uguale uno. Otto meno zero uguale otto." Quindi Jefferson Davis aveva solo diciotto anni quando era morto. Weed provò una grande tristezza. Si voltò verso la statua di marmo di una donna dall'aria sconsolata che reggeva una bibbia aperta, con accanto un angelo dalle enormi ali. Sembravano guardarlo, in attesa. E Weed di colpo capì: Smoke non c'entrava, era solo un pretesto. Non lo aspettava una maledizione ma un dono inaspettato. Tutto a un tratto si sentì traboccare il cuore di gioia. Adesso che sapeva che cosa doveva fare, non si sentiva più né solo né spaventato. 16 Quella notte Brazil fu perseguitato dall'insonnia e continuò a girarsi e rigirarsi fra le lenzuola senza riuscire a prendere sonno. Si alzò a bere un bicchiere d'acqua, vagò al buio per un po', si sedette davanti al computer a guardare la mappa con i pesci, bevve un altro sorso d'acqua e pensò che anche Virginia doveva essere tormentata. Sperava che non riuscisse a prendere sonno neanche lei, oppure che facesse dei brutti sogni e si struggesse pensando a lui. Poi quella fantasia si scontrò con uno sconosciuto di nome Jim. Andy passò mentalmente in rassegna tutti i poliziotti che Virginia conosceva e non riuscì a farsene venire in mente nemmeno uno che si chiamasse Jim e che potesse interessarle. A lei piacevano gli uomini alti e ben messi, intelligenti, spiritosi e sensibili, uomini con cui andare al cinema, al pub o al poligono di tiro. Virginia non era una da rimorchiare, andava trattata con dolcezza e con pazienza. Anche l'indifferenza certe volte funzionava. Tornò in camera che erano quasi le cinque. Virginia gli aveva detto che quella mattina non sarebbe andata a correre con lui perché era stufa e ave-
va bisogno di riposo. Perciò si mise la tuta e uscì da solo. Corse lungo le strade del quartiere, aumentando la cadenza quanto più pensava a Jim. Di lui sapeva solo che beveva Heineken, o perlomeno che ne aveva portato delle bottiglie a casa di Virginia. In effetti poteva anche darsi che Jim credesse che lei bevesse Heineken; Jim poteva anche non bere affatto birra, ma solo scotch o vini d'annata, sebbene Andy non avesse visto né l'uno né gli altri nella cucina di Virginia. Però dentro la credenza non aveva guardato. Nemmeno in camera da letto aveva voluto sbirciare, quando ci era passato davanti, perché non avrebbe potuto sopportare di vedere dei vestiti da uomo per terra o il letto sfatto. Corse otto chilometri, poi fece pesi, flessioni e addominali finché non si sentì bruciare tutti i muscoli. A quel punto era pronto per la doccia, triste e depresso. Dopo essersi rasato e lavato i denti, decise che non poteva andare avanti così, maledizione. Ripensò all'ultima volta che l'aveva toccata, la vigilia di Natale, quando era andato a casa sua a portarle il regalo. Per mesi aveva messo i soldi da parte per comprarle un braccialetto di oro e platino che lei aveva smesso di portare appena si erano trasferiti a Richmond. Andy si sentiva usato, sfruttato e mortificato. Se l'avesse amato veramente quanto diceva, non si sarebbe messa con il primo Jim che le era capitato. E da quanto andava avanti quella storia? Magari da parecchio, magari già a Charlotte teneva il piede in due scarpe. Magari aveva un Jim ad aspettarla in ogni porto. Andy decise di chiamarla e chiederle spiegazioni. Si passò un asciugamano sui capelli e rifletté bene su cosa dirle. Poi si infilò la divisa. Il cimitero di Hollywood di solito si svegliava all'alba. Clay Kitchen, addetto alla manutenzione, era uno che prendeva molto sul serio il proprio lavoro e faceva volentieri un po' di straordinario. Aveva notato che, se si presentava alle sette del mattino, riusciva a fare dieci ore in più e a incrementare la sua paga quindicinale di duecentottantacinque dollari e ottanta centesimi. Arrivò lentamente a bordo del suo Ford Ranger blu nel campo riservato ai soldati della Confederazione, nel quale erano seppelliti diciotto valorosi militi insieme con la moglie del generale Pickett e dove tosare l'erba fra le semplici lapidi bianche bene allineate era un'impresa. Lasciò la vettura vicino al monumento dedicato alla Confederazione, una piramide alta ventisette metri eretta con il granito estratto dal fiume James nel 1868, quando
non si poteva contare su grossi macchinari ma solo sulle braccia possenti di impavidi scavatori e su qualche rudimentale gru. Kitchen aveva sentito dire che durante la costruzione c'erano stati numerosi incidenti e che i lavori si erano protratti oltre i tempi previsti suscitando malcontento fra gli operai. Quando non rimaneva ormai che salire in cima alla piramide per completarne la punta, si erano tirati tutti indietro, rifiutandosi di compiere quell'ultimo sforzo. Così si era offerto volontario un prigioniero del vicino penitenziario di Stato, che aveva effettuato quella pericolosa operazione il 6 novembre del 1869 fra gli applausi della folla festante. Kitchen vide che alla base della piramide l'erba era un po' alta e si ripromise di darle una tosatina appena terminato il suo giro d'ispezione. Proseguì lungo il viale dei confederati, quindi lungo Eastvale e Riverside, fino a Hillside e a Presidents Circle, per poi scendere verso Jeter e Ginter e arrivare a Davis Circle. Si accorse subito che c'era qualcosa che non andava. Jefferson Davis indossava una tenuta da basket bianca e rossa. Il cappello che teneva nella mano sinistra era diventato un pallone, sebbene di forma un po' irregolare. Inoltre aveva la pelle nera e il piedistallo di marmo si era trasformato in un campo da basket. Kitchen accelerò, scioccato, agitato, fuori di sé. Inchiodò e guardò meglio. Davis portava la maglia numero dodici. Kitchen era un appassionato di sport e riconobbe i colori degli Spiders, la squadra dell'università di Richmond. A indossare la maglia numero dodici era Bobby Feeley che, a suo parere, era una delle schiappe più patetiche della storia del basket. Prese la radio che portava alla cintura e chiamò il suo capo. «Jeff Davis è diventato un cestista di colore» annunciò. 17 Niles non voleva lasciare in pace Virginia. Era un gatto abbastanza dispettoso, ma se c'era una cosa che gli era assolutamente vietata era svegliare la padrona quando lei voleva dormire. E quella mattina Virginia avrebbe volentieri continuato a dormire. «Cosa diavolo ti prende?» brontolò girandosi e aggiustando il cuscino. Niles non dormiva, ma non si muoveva nemmeno. Era rimasto nella stessa posizione da quando, a mezzanotte, la sua padrona aveva finalmente deciso di posare un libro di insulse storie d'amore a lieto fine, Brodo caldo
per l'anima, che a Niles non diceva proprio niente. «Sta' zitto!» gli urlò girandosi dall'altra parte. La cassa toracica di Niles si sollevava e si abbassava al ritmo del suo respiro. Il gatto si chiese come mai la sua padrona diventava tanto irritabile quando c'era di mezzo il Pianista. «Adesso basta!» gli gridò. Si sedette sul letto, lo prese di peso e lo buttò per terra. Niles ritenne di aver già sopportato abbastanza in quelle ultime ore, perciò tornò sul letto e si grattò il mento con la zampa, senza tirare fuori gli artigli. «Sei proprio una carogna!» lo sgridò Virginia. Niles le saltò sulla pancia con tutta la sua forza, sapendo che la sua padrona non lo sopportava, soprattutto al mattino quando le scappava la pipì. Infatti lei lo gettò di nuovo per terra, ma lui risalì soffiando, le morse un dito e scappò a tutta velocità. Virginia scese dal letto per inseguirlo. «Torna subito qui, brutto bastardo che non sei altro!» urlò. Niles corse più veloce che poteva, entrò nello studio e balzò in cima alla libreria, dove rimase ad aspettarla muovendo la coda e fissandola con i suoi occhi strabici. La sua padrona si precipitò nella stanza con molta meno grazia di lui, sbattendo l'anca contro lo stipite e imprecando. Poi gli puntò l'indice contro, con aria accusatoria. Niles non si lasciò intimidire. Non era affatto stanco. Lei si avvicinò e allungò le braccia cercando di prenderlo. Niles saltò giù e atterrando sulla scrivania urtò il tasto del viva voce del telefono e il pulsante corrispondente a uno dei numeri in memoria. Aspettò fino all'ultimo e, quando lei stava per afferrarlo per la collottola, scappò via. In quel momento in un'altra stanza cominciò a suonare il telefono. «Pronto?» disse il Pianista. Virginia rimase di sasso. «Pronto?» ripeté Andy. Virginia prese in mano il telefono. «Non ti ho chiamato io» dichiarò leggendo il numero sul display. «Chi parla?» chiese Andy. «E stato Niles» disse Virginia. «Virginia, sei tu?» «Non ti ho chiamato io» ripeté fulminando con un'occhiata il gatto, che si stava stiracchiando a distanza di sicurezza. «Non è mica un reato chiamarmi» le fece notare Andy.
«Non c'entra.» «Facciamo colazione insieme o sei impegnata?» le domandò in tono cortese seppur distaccato, come a dire che la stava invitando per gentilezza ma che in realtà, per lui, vederla o non vederla era lo stesso. «Mah, non so» rispose lei riflettendo su cosa dire. «Che ore sono? Niles non mi ha lasciato chiudere occhio.» «Sono quasi le sette.» «A correre non vengo» aggiunse decisa, mentre il cuore le batteva sempre più forte. «Ci sono già andato» replicò lui. «Cosa ne dici del River City Diner? Ci sei mai stata?» «Non mi ricordo mai i nomi.» «È uno dei migliori. Mi vieni a prendere tu, visto che hai la macchina di servizio?» «Dunque conosci parecchi ristoranti» commentò Virginia. Anche Popeye non voleva dar requie a Judy Hammer, quella mattina. Le saltava addosso, le faceva le feste, saliva sulla poltroncina dello studio e guardava lo schermo pieno di pesci. Non la lasciò neppure sedere un attimo a bere il caffè o a dare un'occhiata al giornale. Era una cagna abbastanza cocciuta, e quando si metteva in testa di uscire non c'era verso di distrarla. Inutili perfino i biscottini: Popeye non stava ferma un momento. «Mi chiedo perché leggo tutti questi libri e consulto il veterinario» esclamò Judy esasperata. «Per favore, Popeye, non ne posso più. Ho cercato di spiegartelo con le buone, ti ho detto quanto è importante la collaborazione, la convivenza pacifica. Ti ho chiesto se hai subito dei traumi prima che ti adottassi, se c'è un motivo per cui tu salti addosso alle persone e cerchi di morderle, però non mi hai mai voluto rispondere. «Potresti dirmelo, Popeye, se c'è qualcosa. Tu sai che ti voglio bene, ma sai anche che faccio una vita dura e che sono già abbastanza stressata senza che ti ci metta pure tu. Sai che se mordi qualcuno, questo qualcuno mi può denunciare e chiedere un risarcimento per danni fisici e morali? E io non voglio né sborsare quattrini né rovinarmi la reputazione. Perciò adesso, per favore, stai a cuccia.» Judy si accovacciò mostrandole un biscottino. Popeye la guardò con aria di sfida. «A cuccia.» Popeye non si mosse.
«Giù.» Nessuna reazione. «Ma, insomma, che cosa ti prende?» L'ondata di shock travolse velocemente una serie di persone, con conseguenze preoccupanti. Il capo di Kitchen chiamò subito la presidentessa del consiglio di amministrazione del cimitero, Lelia Ehrhart, la quale a sua volta allertò tutti i consiglieri, compresa Ruby Sink, che faceva da segretaria alle assemblee ed era un'inguaribile pettegola. Miss Sink decise di uscire a prendere il giornale proprio nel momento in cui davanti a casa sua passavano Judy Hammer e Popeye. Il comandante della polizia allungò il passo, ma Ruby Sink si affrettò a scendere le scale per raggiungerla. «Venga qui!» le gridò dietro. Judy Hammer non amava ricevere ordini. «Buongiorno, Miss Sink» rispose senza rallentare. «Scusi, le devo parlare.» La Hammer si fermò, nonostante Popeye volesse continuare la passeggiata. «Meno male che l'ho vista» esclamò Miss Sink. «Buona, Popeye» fece la Hammer tirando il guinzaglio. Popeye non sentiva ragioni. «Popeye!» ammonì la padrona. «Che nome!» criticò Miss Sink. «Ha gli occhi fuori delle orbite?» «E la razza.» «Le ha tagliato la coda?» «No.» Miss Sink si avvicinò alla bestiola per esaminarne il codino. Popeye cominciò a leccarsi il sedere, poi si tirò su di colpo e diede una gran leccata in faccia a Miss Sink, la quale indietreggiò strillando e cercò di asciugarsi la bocca con aria schifata al pensiero di cosa aveva toccato quella lingua prima di arrivarle sulla faccia. Popeye le posò una zampa sulla vestaglia rosa e a momenti la fece cadere per terra. «Adesso basta!» la sgridò la sua padrona. «A cuccia!» Popeye ubbidì e Judy le diede un biscottino. Miss Sink era sgomenta e momentaneamente senza parole. Continuando a passarsi la mano sulla bocca, controllò l'orlo della vestaglia per verificare che non si fosse strappato.
«Che cosa mi voleva dire?» chiese la Hammer. «Non sa niente?» replicò Miss Sink alzando la voce. Poi si chinò a raccogliere il giornale e lanciò un'occhiataccia a Popeye. «Che cosa?» domandò la Hammer, irritata al pensiero che Ruby Sink fosse venuta a sapere qualcosa prima di lei. «Hanno profanato il cimitero di Hollywood» annunciò Miss Sink indignata. «I vandali hanno imbrattato la statua di Jefferson Davis!» «E lei come fa a saperlo?» domandò la Hammer pensando a torme di soldati confederati allo sbaraglio. «Che cosa sta facendo la polizia?» chiese Miss Sink. «L'avete chiamata?» Miss Sink ci pensò su. «Io non ne sapevo niente» spiegò il comandante Hammer mentre Popeye adocchiava pericolosamente le caviglie di Miss Sink. «A dire la verità, non so se qualcuno ha chiamato» rispose Miss Sink. «Non spetta a me farlo. Ho dato per scontato che l'avesse fatto chi ha scoperto l'atto vandalico. Vede, io l'ho saputo pochi minuti fa. Dicono che sia stato un giocatore di basket.» «Chi lo dice?» «Non lo so. Lo chieda a Lelia Ehrhart. È lei che me l'ha detto.» L'umore della Hammer peggiorò ulteriormente. «E Lelia Ehrhart come lo ha saputo?» «È la presidentessa del consiglio di amministrazione di Hollywood» rispose Miss Sink, come se di Hollywood ce ne fosse una sola. «È un'indecenza. E se la polizia facesse il suo lavoro, queste cose non succederebbero. Questo quartiere, che pure è sempre stato un quartiere come si deve, sta diventando invivibile!» Judy Hammer sentiva che prima o poi avrebbe mandato a quel paese quella bisbetica con la faccia da cavallo. «Si vede certa gente per strada!» continuava intanto Miss Sink. «Nemmeno fossimo in uno di quei quartieri malfamati pieni di squallidi fastfood!» Un tempo Miss Sink si sentiva al sicuro nel bel viale alberato in cui nel 1775 Patrick Henry, dal terzo banco a sinistra della chiesa episcopale di St John, aveva dichiarato: «Libertà o morte!». Qualche casa più in là si erano rappacificati, riprendendo la loro tormentata storia d'amore, Elmira Royster Shelton e Edgar Allan Poe, poco prima che lui morisse.
Sebbene Ruby Sink non frequentasse la chiesa episcopale, non avesse mai avuto grandi amori e non leggesse racconti dell'orrore, amava la storia e i personaggi famosi, ma soprattutto si indignava quando qualche estraneo mancava di rispetto al suo quartiere. Per questo ce l'aveva con Judy Hammer, che veniva dall'Arkansas, uno Stato che, oltre a tutto, agli occhi di Miss Sink non apparteneva al glorioso Sud. Popeye fece pipì in un cespuglio di forsizia splendidamente fiorito e cominciò ad annusare i tulipani e il lampione, pronta a segnare il proprio territorio. «In realtà il tasso di criminalità in questo quartiere è sceso del sei per cento» le fece notare il comandante, senza precisare che in tutti gli altri era invece aumentato. «Grazie anche all'impegno della circoscrizione e alla vigilanza di persone come lei, occhi e orecchie della strada.» «Sei per cento? Sciocchezze!» esclamò Miss Sink togliendo il giornale dal cellophane. «Chi è stato a rubare la fontana di Libby Hill Park?» «È stata recuperata e rimessa al suo posto.» «Non vuol dire. L'hanno comunque rubata. Ce l'hanno portata via da sotto il naso... Un'intera fontana di ferro, perdinci! E nessuno ha visto niente! Altro che occhi e orecchie...» Si infilò una mano in tasca e prese il fazzoletto. «Per non parlare delle pietre che lanciano continuamente contro i lampioni e contro le macchine. Sa che quasi tutti i miei amici e parenti sono seppelliti al cimitero di Hollywood?» Si soffiò il naso e lanciò un'occhiataccia al cane, poi aprì il giornale per vedere che cos'altro era successo. Il titolo di testa dichiarava a caratteri cubitali: ALLARME VIRUS! MISTERIOSO PESCE MANDA IN TILT 1 COMPUTER DELLA POLIZIA Il comandante Hammer le strappò il giornale di mano. «Che modi!» esclamò Ruby Sink indignata. La Hammer non la degnò di risposta e lesse l'articolo incredula. C'era perfino un disegno dell'icona azzurra che, secondo il giornalista, era il veicolo attraverso il quale si era diffuso il virus. «Oddìo! Ce l'hanno anche a New York!» esclamò il comandante leggendo. «Dappertutto. Maledetto Roop. È proprio vero che i mass media se ne fregano. Chissà com'è contento quel pirata di essere arrivato in prima pa-
gina. Non c'è un minimo di collaborazione... Quando ho incominciato a lavorare io, i giornalisti lavoravano fianco a fianco con la polizia... Adesso, se lo immagina? Ma a quelli come Roop, che pensano solo agli affari propri, non viene mai in mente che se noi non riusciamo a fare il nostro lavoro ci rimettono pure loro? Vorrei tanto che gli rubassero l'airbag.» «A proposito, perché li chiamate FABBRI?» «Cosa succederebbe se venisse derubato a uno sportello automatico?» continuava la Hammer. «Quella è davvero una cosa spaventosa» commentò Miss Sink rabbrividendo. «Ha visto che ieri è successo di nuovo? La mattina presto. Certo che andare a prelevare quando in giro non c'è nessuno...» Popeye si alzò sulle zampe posteriori e tese quelle davanti come se volesse abbracciare Miss Sink. Era assurdo. «Ma che cosa le è preso?» chiese Miss Sink. «Sembra quasi che stia cercando di dirmi qualcosa.» «E molto intelligente, intuitiva. Sa che a volte mi spaventa da quanto capisce?» «Per la cronaca» riprese Miss Sink «gli sportelli automatici e Internet sono il 666 dell'Apocalisse. La bestia che conduce ad Armageddon.» Popeye le saltò di nuovo addosso, ringhiando e cercando di abbracciarla. Miss Sink le diede un colpo sulla testa con il giornale e la cagnetta si rifugiò tremante dietro le gambe della sua padrona, attorcigliandole il guinzaglio intorno alle caviglie. «Non è niente, non è niente» la consolò Judy. Era furibonda. Si accucciò e abbracciò la cagna, poi le diede un altro biscotto. «Per favore, non si permetta» disse quindi rivolgendosi a Miss Sink in tono severo. «La prossima volta le darò una pacca sul sedere.» «Non si azzardi» replicò Judy Hammer in tono minaccioso. «Prima o poi vedrà che morde qualcuno» continuò Miss Sink. «Glielo dico io. E allora per lei saranno guai, sa? Di questi tempi la gente ha la denuncia facile.» Popeye uggiolava. «Senta, adesso devo chiamare gli altri consiglieri. Ora che l'ho detto a lei non c'è più bisogno di chiamare la polizia, immagino.» Mentre saliva le scale con passo pesante, il suo gatto fece capolino da dietro un cespuglio. 18
Nonostante lo sforzo sovrumano di Bubba, nonostante le sue otto ore di lavoro indefesso, la Linea 8 era sotto di 3901 sigarette. Bubba era disperato: per il secondo mese di fila la Linea 5 si era classificata prima. «Non prendertela» gli disse Macchia Nera. «Come faccio a non prendermela?» replicò tristemente Bubba. Si fermarono fuori della mensa e Bubba inserì il proprio tesserino nella macchina delle sigarette per ritirare il pacchetto che la Philip Morris regalava ogni giorno a tutti i suoi dipendenti; selezionò Merit Ultima. Anche Macchia Nera prese il pacchetto, che poi vendette a Bubba per otto dollari e venticinque centesimi, prezzo leggermente scontato rispetto a quello delle tabaccherie. Macchia Nera fumava Winston, che non erano prodotte dalla Philip Morris. Per la prima volta Bubba rimase male nel vedere che non gliele regalava, visto che a lui non costavano niente. Rimase male anche quando venne a sapere che giocava a golf con Gig Dan. «Gig deve aver avuto una giornataccia» commentò avviandosi verso l'uscita con Macchia Nera. «Quando è andato via aveva l'aria stanca» ammise l'amico. «Peccato che sei arrivato tardi.» «Non sarei arrivato tardi, se Tiller non si fosse di nuovo messo in malattia.» Macchia Nera non disse niente. «Guarda caso, deve sempre mettersi in malattia l'ultima sera della gara» protestò Bubba. «Forse gli scoccia perdere» ipotizzò Macchia Nera. «E poi l'ultima sera della gara non funziona mai un cazzo. Lo sai quante volte mi si è strappata la carta?» continuò Bubba. «Per non parlare delle bolle nel collante. E avevo anche una lama che non tagliava. Prima della fine del turno vado a controllare e trovo la macchina piena di polvere e un grumo di colla.» Macchia Nera si fermò davanti alla sua Suburban rosso fiammante e tirò fuori le chiavi. «Secondo me c'è sotto qualcosa. Non vorrei che si fossero messi d'accordo con Kennedy, quello del primo turno, che fa anche metà del secondo perché Tiller è a casa. Ma perché Tiller è a casa? Perché di starsene a casa gliel'ha detto qualcuno. Kennedy manomette i macchinari e quando arrivo io, che devo fare un turno e mezzo, mi ritrovo polvere, grumi di colla e tutte le merdate possibili e immaginabili.»
«Mi sembra una teoria un po' campata per aria, se devo dire la mia. Non farti prendere dalla paranoia, Bubba» gli disse Macchia Nera posandogli bonariamente la mano su una spalla. Ma lui non si faceva proprio prendere dalla paranoia. No, lui non era uno stupido e sapeva benissimo che c'era di mezzo anche Gig Dan, che avrebbe dovuto segnalare che i macchinari erano da pulire. E che erano da pulire non poteva non saperlo, dal momento che aveva dovuto coprire Bubba che era arrivato in ritardo nonostante fosse in anticipo, anzi in orario, per colpa di Fred che gli aveva attaccato bottone alla guardiola. Ma lasciò perdere, perché stava cominciando a capire che tipo era Macchia Nera: faceva l'amicone, ma non lo era per niente. «Mi devi due casse di birra. A me e agli altri della Linea 5» gli ricordò Macchia Nera mettendo in moto la Suburban. «Lo so» fece Bubba. «Che marca?» «Mah, fammi pensare...» disse l'altro. «Corona.» Per Bubba era un vero e proprio insulto, perché la Corona non era prodotta dalla Philip Morris e Macchia Nera sapeva benissimo che lui, piuttosto che comprare i prodotti della concorrenza, avrebbe ingoiato veleno. «Okay. Ma voglio la rivincita» replicò Bubba. Macchia Nera rise. «Come vuoi.» «Domani sera. Chi fa più punti vince. Aumentiamo il piatto di duecento dollari?» Macchia Nera si illuminò accendendosi una Winston. «D'accordo. Con qualunque tempo.» Bubba pensò alla sua jeep con la crepa nel tetto e a quello che gli aveva detto Volpone. Ancora una volta mise alla prova l'amico. «Vuoi che venga con la mia macchina?» «No, è meglio se prendiamo il mio camioncino» rispose Macchia Nera, come previsto. «Se mai tu paghi la benzina. Ci vediamo a casa mia.» Andy stava guardando dalla finestra in attesa di vedere la Caprice di Virginia. Corse un attimo nel bagno a inumidirsi le dita e passarsele fra i capelli, che aveva pettinato con un po' di gel per dargli l'effetto bagnato, e si fece ricadere una ciocca sulla fronte. Si era lavato i denti quattro volte e non riusciva a stare fermo. Quando Virginia si fermò davanti alla casa, però, prese tempo. Aspettò che andasse alla porta e bussasse cinque volte. «Andy? Ci sei?» la sentì gridare. Allora corse ad aprire, aggiustandosi la camicia nei pantaloni e stringen-
dosi la cintura, come se avesse avuto chissà cosa da fare e si fosse ridotto a prepararsi solo all'ultimo momento. «Scusa» le disse. «Ero al telefono.» Era una mezza verità: effettivamente era stato al telefono, circa mezz'ora prima. «Non ho molto tempo» rilanciò Virginia. «Conviene che ci sbrighiamo. Forse non è stata una buona idea» continuò scendendo i gradini. «Mi aspetta una giornata terribile e non ho nemmeno fame.» Andy chiuse la porta a chiave e la seguì in macchina, un po' impermalito. «Non importa» disse. «Se devi andare, vai. Non è che devi darmi un passaggio per forza. Posso andare per conto mio.» «Già che ci sono...» «A dire la verità, non ho tanta fame neanch'io» disse Andy. Virginia inserì la marcia e partì. «Non ti allacci la cintura?» le chiese Andy. «Non ci penso nemmeno.» «Senti, se succede qualcosa, è vero che bisogna poter uscire in fretta dall'abitacolo, ma uscire dal parabrezza non conviene comunque, ti pare? E poi quanto ci vuole a slacciarsi la cintura? Di' la verità.» «Chi fa il mio lavoro, è meglio che non la dica tanto spesso.» Ecco, così gli aveva ricordato che lei svolgeva mansioni di livello molto più alto del suo. «Sei mai stata a La Foresta?» domandò Andy. «Quale foresta?» «Il ristorante italiano in Forest Hill.» «Dall'altra parte del fiume?» «Il parcheggio è più grosso di quello del River City Diner in centro.» «Allora andiamo a fare colazione? Credevo avessimo deciso di lasciar perdere» fece Virginia. Accese la radio e si sintonizzò su WRVA. Andy aveva l'adrenalina alle stelle, mentre cercava le parole giuste. Aveva il diritto di sapere perché lo trattava in quel modo. Aveva diritto di sapere chi cavolo era quel Jim. «Se non metto qualcosa sotto i denti ora, poi chissà quando troverò il tempo di mangiare di nuovo» rispose Andy. «Il River City è più vicino.» «Sì, ma trovare parcheggio in Main Street a quest'ora è praticamente impossibile.» Virginia svoltò verso il Southside. «Com'è che conosci La Foresta?»
chiese mentre la radio parlava dell'allarme virus. «Ci sono stato un paio di volte» disse Andy sperando che lei abboccasse. "... pare che si tratti di un virus di ceppo sconosciuto, contro cui i più comuni software antivirus non possono assolutamente nulla" diceva Johnny al "Johnny in the Morning Show", una trasmissione molto seguita. «Io di solito resto in zona» rispose Virginia. «Ci sono tanti bei locali: ristoranti, bar... Mi piace il Vineyard, in Strawberry Street. Non c'è mica bisogno di andare così lontano.» «Il Vineyard è una bottiglieria» sentenziò Andy. «Ho forse detto che non lo è?» ribatté lei. «Hanno dell'ottimo vino e una grande scelta. La settimana scorsa ho comprato una bottiglia di pinot nero Ken Wright Cellars. Straordinario.» Andy era deciso a non lasciargliene passare una. "... un agente patogeno che può colpire anche l'uomo" spiegava l'ospite del "Johnny in the Morning Show", la dottoressa Edith Sandal-Viverette, biologa del Virginia Institute of Marine Science. "... spesso mortale per questo tipo di pesce. Purtroppo la popolazione ittica si sta decimando. È necessario porre rimedio a questa moria con la massima tempestività." "Secondo lei, esiste un nesso fra il virus che decima i pesci nei nostri mari e quello che li fa proliferare sui computer della polizia?" "Veramente non saprei." Andy cambiò idea e decise di non chiedere nessuna spiegazione a Virginia: in fondo non gli importava niente di quello che faceva della sua vita. «Ho imparato ad apprezzare anche il borgogna» aggiunse. «A me il vino rosso ha stufato» replicò Virginia. «Dovresti provare il borgogna bianco.» «Cosa ti fa pensare che non l'abbia mai provato?» "È una situazione alquanto preoccupante" continuò Johnny. Ma né Andy né Virginia lo stavano ascoltando. Bubba capì che cosa era successo a un isolato di distanza: la porta del garage era spalancata. Atterrito, lasciò la macchina nel vialetto e si precipitò in casa. «Dolcezza!» urlò salendo i gradini d'un balzo. «Dolcezza! O mio Dio! Dolcezza, dove sei?» Gli caddero di mano le chiavi tre volte prima di riuscire ad aprire la porta. Entrò nel salotto e sentì ciabattare nel corridoio. Corse dalla moglie e l'abbracciò.
«Cosa è successo?» gli domandò Dolcezza accarezzandogli la schiena. Bubba scoppiò in singhiozzi. «Ho avuto paura che ti fosse successo qualcosa» le sussurrò fra i capelli biondi con la permanente. «Cosa volevi che mi fosse successo?» sdrammatizzò lei. «Mi sono alzata adesso.» Bubba fece un passo indietro e cambiò improvvisamente umore, assalito da una rabbia feroce. «Mi scassinano il laboratorio e tu dormi?» urlò. «Ma cosa dici?» chiese lei perplessa. «Il laboratorio?» «La porta del garage è spalancata! L'hai lasciata aperta tu per qualche motivo? Te la sei dimenticata, come ti dimentichi di mettere il budino e la Tang nel frigo? O lo fai per farmi dispetto? È così?» «Lo sai che nel tuo laboratorio io non ci metto piede» rispose Dolcezza, che sapeva benissimo che era meglio non contrariare il marito. «Preferisco pronunciare il nome di Dio invano, diventare mormone, lesbica o femminista, piuttosto che entrare nel tuo laboratorio!» Dolcezza, che era battista, ripeteva spesso quella frase. «Ai tuoi preziosi attrezzi non mi ci avvicino nemmeno, figurati se te li tocco. Non oserei mai!» Bubba uscì di corsa, seguito da Dolcezza che si stringeva nella vestaglia. Entrando nel garage, trattenne il respiro e strinse i pugni di fronte alla sciagura più tremenda che gli fosse mai capitata. I suoi attrezzi erano sparsi dappertutto e le armi da fuoco erano sparite. Qualcuno aveva pisciato sul suo calibro elettronico, che non avrebbe mai più fatto rapide conversioni da piedi in centimetri. La smerigliatrice e il maglio ad aria compressa erano stati crudelmente annegati nella latta di olio usato che Bubba teneva per Volpone. Uscì barcollando alla luce del sole, e Dolcezza lo dovette sorreggere per un braccio perché non cadesse. «Bisogna chiamare la polizia» gli disse. Virginia e Andy erano vicino al ristorante La Foresta quando accaddero una serie di cose contemporaneamente. Il telefono di Andy suonò. La radio della polizia segnalò un probabile furto con scasso in Clarence Street e la WRVA trasmise uno spot sul nuovo mausoleo del cimitero di Hollywood, situato in una delle zone più antiche del camposanto, comodo, vicino alla strada e senza spese aggiuntive, tutto compreso, anche l'iscrizione.
«Pronto?» rispose Andy. «A tutte le auto in zona» annunciava l'operatore «probabile furto con scasso al civico 10946 di Clarence Street.» "... il nuovo mausoleo del cimitero di Hollywood unisce bellezza e dignità..." continuava lo spot con un motivetto jazz in sottofondo. «Andy? Sono Judy Hammer» disse il comandante della polizia al telefono. «Tre» rispose Virginia alla radio. «Il problema dei pesci è arrivato sui notiziari nazionali. Hai visto il giornale di stamattina?» «Tre, sono in ascolto» replicò Patty Passman dalla sala radio sorpresa che il capo della Investigativa avesse risposto alla chiamata. «Veramente no» rispose sinceramente Andy. «È in prima pagina» spiegò Judy. «Prendono in giro noi e il Comstat dicendo che siamo stati infettati da un virus che fa proliferare i pesci, al contrario dello pseudomonas che li decima.» «Capisco.» «È incredibile.» "... dalla sobria architettura classica, immersa nel verde delle colline di Hollywood..." continuava lo spot. «Ci troviamo a pochi isolati di distanza» spiegò Virginia a Patty Passman. «Andiamo noi.» «La notte scorsa dei vandali hanno profanato una statua al cimitero di Hollywood» proseguì la Hammer. «Dieci-quattro, tre. A sporgere denuncia è stato Mr Butner Fluck.» «Pare che abbiano dipinto la maglia degli Spiders addosso a Jefferson Davis» disse Judy. Andy, sorpreso, scoppiò a ridere. «E lo hanno fatto nero» aggiunse Judy. «Nel senso che l'hanno trasformato in Michael Jordan?» chiese Andy fra le risate. «Non c'è niente da ridere, Andy.» «Non resisto» mormorò lui piegato in due. Virginia fece inversione in Forest Hill e accelerò. «Lelia Ehrhart ha indetto un'assemblea straordinaria invitando le autorità cittadine domani mattina alle otto» comunicò Judy ad Andy. «Spero solo che non parli lei» replicò lui cercando di trattenere le risate. «Che cos'hai da ridere?» gli chiese Virginia guardandolo di sfuggita
mentre seguiva ad andatura sostenuta il percorso più breve che le veniva in mente. «Non so se mi fa più ridere la storia del virus dei pesci o Magic Jeff» stava dicendo Andy al comandante, con le lacrime agli occhi. «A me nessuna delle due» ribatté Judy. Quella di Clarence Street era una casa molto particolare, anche se a prima vista non se ne capiva il motivo. Dava un'impressione di precarietà, con un bizzarro senso di disarmonia. Aveva qualcosa di strano che il passante distratto intuiva senza però registrare, un po' come succede con certi file cancellati ma che esistono ancora in memoria. Tuttavia, chi aveva l'occhio allenato e si soffermava appena più di un istante, si rendeva conto di qual era il problema. «Santo Dio» esclamò Virginia fermando l'auto in mezzo alla strada, sbigottita. «Accipicchia» fece Andy. «Forse quando l'hanno ristrutturata erano ubriachi.» Le persiane verde scuro erano sbilenche e l'intonaco di un bianco diverso a sinistra e a destra del portone rosso. Lo steccato, poi, aveva dell'incredibile: chi l'aveva costruito, in un terreno chiaramente non molto compatto, non aveva piantato i paletti abbastanza in profondità, né si era preoccupato di gettare una fondazione in cemento, oltre a non conoscere l'utilità del filo a piombo. E neppure aveva smussato la punta dei paletti, dove l'acqua ristagnava facendo marcire il legno. Anche il cancelletto era malmesso, con i paletti, piantati a intervalli irregolari, che si inclinavano in senso opposto da una parte e dall'altra rispetto all'ingresso. Lo stesso volonteroso incapace aveva aggiunto al garage un capanno di legno che pendeva da un lato, presumibilmente perché i montanti non erano stati piantati sotto la linea del gelo e durante l'inverno si erano assestati. Non c'era niente che andasse bene. Le assicelle di copertura della facciata non erano bene allineate, le cassette per i fiori alle finestre erano di misure diverse, la fontana di pietra nel giardino senz'acqua e la panchina vicino al barbecue sbilenca. Presso gli alberi c'era una cuccia, cui era legato con una catena un cane da caccia che abbaiava appollaiato in cima a una botte. Appena Virginia svoltò nel vialetto, una campanella annunciò l'arrivo di un visitatore, una tenda alla finestra si spostò e dalla casa uscì un uomo. Era grasso e con pochi capelli, la testa rotonda e gli occhi piccoli. Aveva l'aria triste e sconsolata, come se la moglie fosse appena scappata con un
altro o appena tornata da lui, a seconda dei punti di vista. «Oh oh» fece Andy slacciandosi la cintura di sicurezza. «C'è poco da scherzare» aggiunse Virginia. Bubba si avviò lungo il vialetto sconnesso verso la Chevrolet Caprice bianca, con la mente piena di sogni infranti, destini crudeli e karma negativo. Suo padre, il reverendo Fluck, aveva sempre disapprovato la passione del figlio per le armi da fuoco, e Bubba temeva che avesse pregato a lungo perché gli succedesse qualcosa del genere. Era troppo strano che i ladri avessero portato via praticamente solo le armi, lasciando le attrezzature di valore e non provando neppure a introdursi in casa o nella station wagon di Dolcezza. Dall'automobile scesero un uomo biondo e ben piantato, in divisa, e una donna in abiti borghesi, che Bubba intuì essere una detective. Gli si fecero incontro con la radio accesa. «Mr Fluck?» chiese la donna. «Esattamente» rispose Bubba. «Grazie al cielo siete venuti. Questa è la cosa peggiore che mi sia mai capitata.» «Piacere. Sono il vicecomandante di polizia Virginia West e questo è l'agente Andy Brazil.» Bubba tirò un sospiro di sollievo nel constatare che la polizia gli aveva mandato un pezzo grosso: doveva essere stata Judy Hammer, che evidentemente aveva preso a cuore la faccenda. I loro destini si erano incrociati e il comandante aveva capito quale terribile ingiustizia era stata perpetrata ai suoi danni. «Sono contento che il comandante abbia chiamato voi» disse Bubba. I due rimasero perplessi. «Non vi ha chiamato lei?» domandò Bubba insicuro. «Adesso, quando ho telefonato al pronto intervento?» «Veramente sì, mi ha chiamato poco fa» disse Brazil. «Ma lei come fa a saperlo?» Bubba alzò gli occhi verso il cielo e sorrise, per quanto angosciato. Virginia e Andy lo seguirono verso il laboratorio. Rimasero sulla porta a guardare il caos che vi regnava. Andy prese nota della data del furto e delle generalità della vittima. «Che disastro» commentò poi. «Non ho parole» confermò Bubba. «Lei ha idea di quando possa essere avvenuto il furto?» chiese Virginia. «Fra le otto di ieri sera e le sette e mezzo di stamattina.»
«Ho bisogno del suo numero di telefono, casa e lavoro» chiese Andy. Bubba glieli fornì. «L'ho trovato così quando sono tornato a casa dal lavoro» spiegò Bubba quasi in lacrime. «Non ho toccato niente, non ho spostato niente: non so nemmeno che cosa manca esattamente.» Virginia passò in rassegna con occhio esperto trapano verticale, smerigliatrice, piallatrice, morse, scalpelli, punte universali Foerstner, mole, punte senza testa, fresa, accecatoio e utensili vari. C'erano protezioni di ogni tipo e più attrezzi di quanti ne avesse Bob Vila nella sua officina in tv. «È interessante che i ladri non abbiano rubato nessuna di queste attrezzature così costose» osservò Virginia. «Volevano le armi da fuoco» fece Bubba. «Quelle mancano tutte.» Indicò l'armadietto e il lucchetto tranciato per terra. «Ha un tronchese?» chiese Virginia. «Da diciotto pollici, marca Toolsmith.» «C'è ancora?» domandò Andy. «Sì, lo vedo da qui» rispose Bubba. «Con che tipo di lucchetto aveva chiuso l'armadietto delle armi?» chiese Virginia. «Un semplice Master.» «Di acciaio temprato?» Bubba assunse un'espressione mortificata. «Volevo comprarlo, ma mi passava sempre di mente.» «Dunque non era di acciaio temprato» concluse Andy prendendo appunti. Bubba scosse la testa. «Male» commentò Virginia. «Quelli di acciaio temprato non si tagliano con un tronchese. Considerato che cosa ci teneva dentro, avrebbe dovuto sceglierne uno più resistente.» «Lo so, lo so» ammise Bubba vergognandosi sempre di più. «Sono stato un idiota.» Virginia andò a controllare più da vicino e si accorse che Bubba aveva scritto le proprie iniziali su tutti i suoi attrezzi. Notò una serie di manuali di idraulica, falegnameria, imbiancatura, tappezzeria, giardinaggio e manutenzione della casa. Vide un metro Stanley in una custodia di pelle, un porta-attrezzi Makita, una cintura di cuoio McGuire-Nicholas, un portamartello di vacchetta
Longhorn, bretelle da lavoro rosse della Nicholas e una ginocchiera a doppia cinghia che, nella confusione, era rimasta scompagnata. Siccome se ne intendeva, sapeva che si trattava di materiale di prima qualità e molto costoso. Era curiosa, oltre che invidiosa. «Non ha un allarme?» chiese Andy. «All'ingresso del vialetto ci sono il cartello di proprietà privata e la campanella. Quando arriva qualcuno si sente.» «Non sapevo che si usassero ancora» commentò Andy. «Vedesse quante ce ne sono nell'autofficina di Volpone» disse Bubba. «E il cane?» domandò Virginia. «Half Shell abbaia giorno e notte, ormai non la sentiamo neanche più.» «Dunque contro i ladri lei contava solo sul cane e sulla campanella?» chiese Virginia con aria scettica. Bubba si accorse che era perplessa e vide anche che era molto bella. Si sentì brutto, grasso, sporco e inferiore, cioè come si sentiva da una vita. Il vicecomandante della polizia aveva sicuramente capito che il proprietario delle armi e di quel laboratorio tanto ben fornito era un pasticcione con un nome insulso, che tutti avevano preso in giro fin da quando era piccolo: glielo lesse negli occhi. Gli venne in mente che forse erano stati a scuola insieme. «Lei è di qui?» le chiese. «No» rispose Virginia. «Sicura?» «Certo che ne sono sicura.» Bubba era ossessionato, paranoico: doveva averne l'assoluta certezza. «Dunque non è di Richmond.» «No» ribadì lei, fredda. «È che mi ricorda una mia compagna di scuola che, guarda caso, si chiamava Virginia» mentì Bubba. «Non ero io» tagliò corto lei. «Ha notato se i ladri hanno urinato nel laboratorio?» domandò Andy. «Sì» rispose Bubba. «Perché? Vuol dire qualcosa?» «Succede spesso che i ladri urinino o defechino nei luoghi dove rubano» spiegò Virginia. «Non sempre significa qualcosa di specifico.» Andy continuò a scrivere. «Magari se i computer non fossero bloccati dal virus dei pesci vi segnalerebbero dove è già successo» osservò Bubba. «Ho sentito alla radio che la vostra rete è in tilt. Così non potrete controllare.»
«Non si preoccupi» replicò Andy cambiando discorso. «Ha un elenco completo delle armi da fuoco e dei relativi numeri di serie?» «Sì, alla Green Top. Mi servo solo da loro.» «Bene» rispose Andy. «Se intanto può anticiparmi i dati, li scrivo sul rapporto. Sa, per le indagini.» «Così senza computer non potete controllare se ci sono stati furti con le stesse modalità» insistette Bubba deluso. «Tutta colpa dei pesci.» «Lei non si preoccupi» ripeté Andy. «Favorisca l'elenco, per favore.» «Browning Buck Mark Bullseye .22» cominciò Bubba. «Taurus otto colpi M608 .357, Smith & Wesson modello 457 in lega .45 ACP con fodero Bianchi Avenger e kit di pulizia tascabile Pachmayr, mini Glock G26 nove millimetri con mirino a visione notturna, Sig P226 nove per diciannove millimetri. È quella che usano le Navy SEAL, sapete? Vediamo, cos'altro c'era?» «Gesù!» esclamò Virginia. Andy scriveva a tutta velocità. «Fucile ad aria compressa Daisy modello 91. Revolver Ruger Blackhawk .357 e un paio di carabine da competizione Ruger.» «Lei fa gare di tiro al bersaglio?» si informò Virginia. «Non ne ho il tempo» rispose Bubba. «Basta così?» chiese Andy. «Avevo appena comprato un M9 Special Edition da nove millimetri con caricatore da quindici colpi. Era ancora nella scatola. Mi viene male, se ci penso. Non avevo ancora avuto occasione di provarlo. E avevo dei caricatori superveloci e una ventina di scatole di munizioni. Winchester Silvertip, perlopiù.» «Nient'altro?» chiese Virginia. «Difficile dirlo» rispose Bubba. «Ma c'è una cosa che non vedo, la mia cintura da lavoro Stanley. Un gran bell'oggetto, sa? Di nylon, nera con l'imbottitura gialla, leggerissima e più fresca rispetto al cuoio. Ci sta un sacco di roba.» «Ne vorrei una anch'io» confessò Virginia. «Costano sessanta dollari, però.» «Come minimo» confermò Bubba. «Lei sa chi potrebbe essere stato?» chiese Andy. «Ha dei sospetti?» «Dev'essere stato qualcuno che sapeva che cosa tenevo qui nel laboratorio» rispose Bubba. «E che aveva il telecomando, visto che la porta non è stata forzata.»
«Interessante» fece Andy. «Li vendono da Sears» osservò Virginia notando la marca della porta del garage. «Mr Fluck, manderò un detective prima di sera perché verifichi l'eventuale presenza di prove, impronte o segni particolari.» «Ci saranno le mie, di impronte» disse Bubba preoccupato. «A proposito, se non le dispiace dovremo prendergliele. Così sapremo quali escludere.» Uscirono dal laboratorio, attenti a dove mettevano i piedi. Half Shell abbaiava e girava in tondo. «Ringraziate di nuovo il comandante Hammer da parte mia» disse Bubba accompagnandoli alla macchina. «Di nuovo?» domandò Andy con aria stupita. «Le ha già parlato?» «Non direttamente» rispose Bubba. 19 Judy Hammer era molto sensibile ai problemi razziali e aveva studiato con attenzione l'area metropolitana di Richmond. Sapeva che non era passato molto tempo da quando i neri erano completamente esclusi da certi circoli e da certi quartieri e non potevano mettere piede in campi da golf o da tennis e nelle piscine pubbliche. Le cose erano cambiate, ma molto lentamente e non fino in fondo. Associazioni e circoli avevano cominciato ad accettare membri di colore e in alcuni casi anche donne, ma spesso li tenevano a lungo in lista d'attesa o li mettevano a disagio. Quando colui che sarebbe diventato il primo governatore nero della Virginia aveva cercato casa in un quartiere esclusivo, non ci era riuscito, e l'inaugurazione della statua di Arthur Ashe in Monument Avenue aveva rischiato di scatenare un'altra guerra. Judy Hammer era preoccupata, mentre si recava con Fling al cimitero di Hollywood a controllare l'entità del danno. Quando parcheggiarono in Davis Circle e vide in lontananza la statua di bronzo colorata fra le magnolie, i sempreverdi e le bandiere della Confederazione che sventolavano sul piedistallo circondato dal nastro giallo della polizia, si rese conto che le notizie che le erano arrivate non erano affatto esagerate. «Sembra che si tenga stretta la palla per non passarla ai compagni» commentò Fling. «Come se fosse un po' in difficoltà.» «Infatti» osservò Judy Hammer. Le scappava da ridere in maniera quasi irrefrenabile. Vestito degli abiti
tipici del gentiluomo del Sud, Davis aveva sempre avuto un'aria altera prima che l'ignoto artista gli trasformasse la redingote in una maglia da basket con calzoncini al ginocchio, i pantaloni in gambe muscolose coperte da calzettoni di spugna e gli stivali in un paio di Nike. La Hammer e Fling scesero dalla Crown Victoria proprio mentre dietro di loro arrivava una Mercedes 420E nera con tettuccio apribile e interni in pelle, che li superò e si fermò poco più avanti. «Oh, merda» esclamò il comandante vedendo scendere Lelia Ehrhart. «Abbiamo un interprete?» Sebbene fosse nata a Richmond, Lelia Ehrhart era cresciuta a Vienna, dove il padre, il dottor Howell, facoltoso esperto di storia della musica, aveva lavorato per anni a una biografia di taglio psicologico del dolce e sensibile Mozart e della sua paura della tromba. In seguito la famiglia si era trasferita in Iugoslavia, dove il dottor Howell aveva condotto approfonditi studi sull'influenza subliminale della musica nella dinastia dei Nemanjic. La lingua che Lelia parlava meglio era il tedesco, poi il serbocroato, quindi l'inglese, ma in realtà non ne sapeva bene nessuna e pasticciava continuamente con tutte e tre. Per un attimo Lelia Ehrhart rimase immobile a guardare la statua, a bocca aperta. Indossava un paio di calzoni gialli di Escada, camicia a righe bianche e gialle con una E ricamata sul taschino, cintura con farfalle di ottone e scarpe coordinate. Judy Hammer di solito vestiva Ralph Lauren e Donna Karan, e seguiva la moda abbastanza da sapere che quelle farfalle erano di qualche stagione prima. Questo le procurò una certa soddisfazione, ma non abbastanza. «Ci sarà rivolta» esclamò Lelia Ehrhart avvicinandosi al luogo del misfatto armata di Canon. «Non è mai successa cosa simile prima di ora.» «Veramente qualche tempo fa spruzzarono vernice sulla statua di Robert E. Lee» la corresse Judy Hammer. «Non è stessa cosa.» «Non lo trasformarono in un giocatore di basket» riconobbe Fling. «Anche volendo, non ci sarebbero riusciti, visto che è a cavallo e ha la spada in mano. Per non parlare del fatto che, essendo in Monument Avenue, li avrebbero visti di sicuro. Sarebbe stato impossibile, così come sarebbe stato impossibile travestire da giocatori di basket le altre statue di Monument Avenue. Arthur Ashe ha in mano una racchetta da tennis e gli altri sono a cavallo. Casomai da giocatori di polo.» «Esigo sapere cosa fate» disse Lelia Ehrhart a Judy Hammer mentre una
folata di vento frusciava fra i rami agitando la Croce del Sud ai piedi di Davis. «Dove eravate quando vandali venivano qui come Michelangelo in Cappella Sistina?» «Il cimitero è proprietà privata» le ricordò Fling. «E se serial killer viene in mia proprietà privata, voi anche non fate niente?» replicò lei indignata. «Se appuriamo che si tratta di un serial killer, interveniamo» spiegò Fling. «Per la verità il cimitero viene sorvegliato regolarmente dalle pattuglie» disse la Hammer. «Peggio ancora» esclamò la Ehrhart. «Certamente eravate in altra parte ieri.» «La pattuglia copre un'area molto vasta, dalla Virginia Commonwealth University a Oregon Hills. Le chiamate sono tantissime» spiegò il comandante. «E quelle riguardanti le persone hanno la priorità rispetto a quelle riguardanti le cose.» «Come se non lo so!» esclamò la Ehrhart in tono insofferente. «Non è chiaro quale sia il limite della città» aggiunse Fling per nascondere la propria ignoranza in materia. «Quello che volevo dire prima, Mrs Ehrhart, è che lei non deve prenderla come un'offesa personale. Potrebbe essere stata una scelta casuale, dovuta al fatto che la statua di Jefferson Davis si trova in un luogo centrale e nel contempo al riparo da occhi indiscreti.» «Questo è facile a dirsi» replicò lei. Judy Hammer aveva l'impressione di assistere a un dialogo fra alieni. «Cosa riguardo a Bobby Feeley?» chiese Lelia Ehrhart in tono d'accusa. «Stiamo svolgendo le indagini del caso» rispose la Hammer. «E dodici» insistette la Ehrhart. «Vuole per sicuro dire qualche cosa.» «Abbiamo preso la cosa molto sul serio» disse il comandante, che pure l'avrebbe presa volentieri sul ridere. «Probabile che Feeley alibi di là invece che qui» si intestardì Lelia Ehrhart. «Pare che ieri sera non si sentisse bene e sia stato a casa» intervenne Fling. «E che abbia dei testimoni.» Judy Hammer lo fulminò con un'occhiata: si trattava di informazioni riservate che non andavano assolutamente divulgate. «Be', parleremo in assemblea, che devo anticipare a sette ore la mattina» concluse la Ehrhart cominciando a scattare foto. «Domani sala privata di
Commonwealth Club. Se non sapete dove, chiedete in entrata a guardarobisti di cappotti.» «Fa un po' caldo per il cappotto» osservò Fling. Da cento anni a quella parte i presunti antenati di Lelia Howell Ehrhart venivano seppelliti nella tomba di famiglia fra obelischi, urne, croci e ornamenti in ferro battuto, protetti da angeli in marmo di Carrara e perfino da un cane in ghisa. Era noto che fra loro c'era anche la moglie di Jefferson Davis, Varina Howell, sebbene i genealogisti non fossero ancora riusciti a far risalire nessun avo di Lelia Ehrhart alla regione del Mississippi, dove era nata Mrs Davis. Per la Ehrhart, quindi, quell'atto vandalico costituiva un trauma e un affronto intollerabile. Non poteva fare a meno di pensare che l'autore di quel gesto efferato ce l'avesse proprio con lei, cosicché si sentiva in diritto di arrestarlo personalmente e sbatterlo in galera per il resto dei suoi giorni. Non riteneva di aver bisogno delle forze dell'ordine, anche perché era convinta che, a lasciar fare a loro, non si risolveva niente. L'importante era avere le mani in pasta, e Lelia Ehrhart ce le aveva più di un pizzaiolo. Suo marito era il dottor Carter Ehrhart, detto Bull, un dentista miliardario che si diceva discendesse dal generale confederato Franklin Paxton, anch'egli detto Bull. Bull Ehrhart aveva frequentato la University of Richmond, era dirigente della squadra di basket, che sovvenzionava generosamente, e non si perdeva una partita del campionato. Quindi per Lelia Ehrhart non era stato un problema chiamare l'allenatore degli Spiders, Bo Raval, e farsi dire dove poteva trovare Bobby Feeley. «In palestra, suppongo» le aveva risposto lui. Lelia Ehrhart svoltò in Three Chopt Road, percorse Boatwright fino al campus, lasciò la Mercedes nel parcheggio riservato allo Spiders Club, occupando due posti macchina - a una certa distanza dalle auto più modeste per paura che gliela rigassero -, e salì decisa la scala del Robins Center. L'atrio era deserto e riecheggiava del ricordo delle molte partite vinte e perse a cui Lelia aveva assistito annoiandosi a morte. Per un po', infatti, aveva accompagnato il marito per fargli piacere, ma a un certo punto aveva smesso. Invece agli incontri di football non era mai andata. Lo sport non le interessava, né dal vivo né in tv. Che Bull si andasse pure a prendere la birra nel frigo e si facesse i pop-corn da solo, se ne aveva voglia, che saltasse pure da un canale all'altro facendo apparire e scomparire le cose co-
me Dio in terra, se gli andava: a lei non poteva importare di meno. Sentì il rumore di un palleggio solitario dietro la porta chiusa ed entrò nella Milhouser Gym, dove Bobby Feeley stava provando i tiri liberi. Come c'era da aspettarsi, era altissimo, con un paio di gambe che sembravano scolpite, la testa rasata e un orecchino d'oro, come tutti i giocatori di basket. Era sudato e sulla maglia grigia aveva un alone più scuro sia davanti sia dietro. Portava un paio di calzoncini lunghi fino al ginocchio. Non si accorse di lei. Tirò e colpì il ferro del canestro. «Merda» imprecò. Lelia Ehrhart non disse nulla e lo guardò poi palleggiare, fare una finta, correre, girarsi, fare un'altra finta, prendere fiato, saltare e schiacciare, sbagliando di nuovo. «'Fanculo.» «Mi scusi?» disse Lelia Ehrhart. Feeley si voltò, senza smettere di palleggiare. «Lei è Bobby Feeley?» La Ehrhart avanzò sul campo con le scarpe con il tacco e la farfallina di ottone sulla punta. «Non le conviene» disse lui. «Scusi?» «Con quelle scarpe.» «Cos'hanno che non va?» «Non sono da tennis.» «Neanche le sue.» Feeley continuò a palleggiare con la fronte aggrottata. «E queste cosa sono?» domandò. «Scarpe da basket.» «Ah, capisco. Lei è una purista» commentò lui, che studiava lettere. «Ma non le conviene comunque entrare in campo con quelle scarpe. Perciò le consiglio di togliersele, oppure di restare a bordocampo.» La Ehrhart si sfilò le scarpe e rimase con le calze di nylon. «Che cosa posso fare per lei?» le chiese Feeley agguantando la palla con i gomiti alzati, come di fronte a un avversario pericoloso. «Lei è numero dodici.» «La prego» esclamò il cestista. «Ma cosa pensate, che non abbia di meglio da fare? Che sia così goliardo da andare a imbrattare di vernice un cimitero?» Ricominciò a palleggiare e provò a tirare a canestro, mancandolo nuo-
vamente. «Non sono normali graffiti da treno o muro di palazzo. Non è come Strillo.» Feeley si fermò e si asciugò il sudore dalla fronte, guardandola perplesso. «Intende il Grido di Edvard Munch?» chiese cercando di interpretare le parole della donna. «Prossima volta va con vernice spray su monte Rushmore, magari?» esclamò lei indignata. «Ma chi?» «Così dipinge divisa di basket su mio antenato numero dodici?» «Perché? Jeff Davis è un suo antenato?» Feeley corse a canestro e colpì il tabellone. «No, è Vinny» dichiarò la Ehrhart. «Vinny Pooh?» «Varina.» «Varina? Poveretta, che razza di nome! Scommetto che a scuola la chiamavano tutti vagina.» «Lei è volgare maleducato, Mr Feeler.» «Feeley.» «Io indigno che voi di vostra generazione non rispettate generazioni passate, anche se senza non eravate neanche nati. Come io sono qui, è evidente.» Feeley aggrottò la fronte. «Vuole provare a richiamare? La linea è disturbata, non capisco.» «Non credo» replicò lei decisa. Feeley prese il pallone sottobraccio. «Che cosa le ho fatto?» «Lo sappiamo io e lei cos'ha fatto.» Feeley provò un tiro a distanza, che sfiorò la rete. «Guardi che la statua di Davis io non l'ho neanche toccata» replicò lui. «Per quanto, secondo me, era ora che qualcuno lo ridimensionasse un po'.» «Come osa!» Feeley le sorrise, palleggiando prima con la sinistra, poi con la destra. La palla gli finì su un piede. «Accusato di alto tradimento ma mai processato. Primo e ultimo presidente della Confederazione, giusto?» Sbagliò l'ennesimo tiro a canestro. «Mi dispiace per lui, a dire il vero. Ferrovie scadenti, niente marina, niente polveriere, cantieri navali, armi o equipaggiamenti.» La palla rimbalzò sul tabellone. «Liti furibonde al Congresso.» Colpì di nuovo la palla con il
piede. «Lee si arrende senza nemmeno chiedergli cosa ne pensa.» Corse a riprendere la palla. «Finisce ai ceppi e quando esce di galera va a fare il commesso viaggiatore a Memphis.» «Non è verità» replicò Lelia Ehrhart indignata. «Come non è la verità?» «Dov'era ieri sera?» «Qui. Mi allenavo.» Tirò a canestro da metà campo e non colpì neppure il tabellone. «Non ero in quel cimitero, dove del resto non sono mai entrato.» Feeley corse a riprendere la palla e la fece roteare sul medio. Lelia Ehrhart equivocò. «Fa gesto osceno?» La palla gli cadde di mano. Ci riprovò senza più riuscirci. «Maledizione» esclamò. «Niente rispetto» disse sdegnata la Ehrhart ad alta voce. «Se alibi è che era qui invece che là, alla fine viene fuori.» «Senta» concluse Feeley prendendo la palla sottobraccio. «Non sono stato io a pitturare quella statua, okay? Ma un'occhiata voglio proprio andare a dargliela.» Bobby Feeley non sarebbe stato l'unico. Clay Kitchen non aveva mai visto una fila tanto lunga di macchine. In ventisette anni di servizio non aveva mai assistito a una scena tanto disdicevole. La gente rideva, parlava forte e teneva la musica a tutto volume, con i finestrini abbassati per godersi quella bella giornata. Per eludere il traffico Kitchen e la West stavano percorrendo Lee Avenue sul camion della manutenzione. Virginia guardava dal finestrino, stupita da tanto interesse. Appena vide la statua, quasi le scappò un "Cazzo!" che sarebbe stato decisamente inopportuno per un vicecomandante della polizia. «Si fermi pure qui» disse a Kitchen. «Non voglio che mi vedano scendere dal suo camion.» Lui capì, perché, sebbene la West non gli avesse spiegato il motivo per cui era in borghese, Kitchen sapeva benissimo come funzionano certe cose: i criminali tornano spesso sul luogo del delitto, soprattutto se sono piromani, magari per chiedere scusa oppure per prendere un souvenir. Kitchen conosceva i poliziotti che andavano di pattuglia al cimitero quando non avevano cose più urgenti da fare e aveva sentito che cosa si raccontavano.
Una volta aveva letto di un tizio che aveva ammazzato la moglie con qualcosa come mille coltellate, poi ci aveva dormito insieme per giorni e giorni portandole la colazione a letto, guardando la tv con lei e parlandole dei bei tempi andati. Be', di quello non si poteva dire che fosse tornato sul luogo del delitto, visto che non se ne era mai allontanato. Ma era anche accaduto che una donna si fosse sbarazzata del marito ricorrendo a una sfibratrice e fosse tornata qualche giorno dopo a prendere i pezzi per bruciarli nel giardino dietro casa, il vicino, però, si era insospettito. La folla si era radunata intorno alla statua e minacciava di oltrepassare da un momento all'altro il nastro giallo teso dalla polizia. Virginia West prese la radio e chiese che mandassero rinforzi al cimitero: c'erano centinaia di persone, molte delle quali ubriache, e la situazione rischiava di degenerare. «Tre» rispose dalla sala radio Patty Passman. «Dieci-diciotto?» Virginia West cercò di non perdere la pazienza, spintonata qua e là dalla ressa. Patty Passman le faceva sempre un sacco di domande e adesso metteva addirittura in dubbio che fosse una cosa urgente. "Macché, venite quando vi fa comodo" le venne voglia di rispondere. "Se nel frattempo la folla mi calpesta, chi se ne frega." «Tre, dieci-dieci. In questo momento.» «Tre, qual è l'esatto dieci-venti?» «La statua» rispose la West senza parlare in codice. «Chi è la bellona con la radio?» urlò una voce maschile. «La madama!» «L'FBI!» «La CIA!» «Ehi!» «Perché non mi prendi le impronte, dolcezza?» Virginia era schiacciata in mezzo a una folla di persone che puzzavano di alcol. Non c'era spazio nemmeno per respirare. Erano uno addosso all'altro, sudati e allegretti. Stava per rimettersi a parlare, quando tutto a un tratto notò il pesciolino azzurro dipinto sul piedistallo, appena sotto la Nike sinistra di Jefferson Davis. In quel momento le si avvicinò alle spalle un ragazzino che finse di volerle rubare la pistola. Lei lo sollevò di peso e lo scaraventò da una parte, come un sacco di spazzatura. Quello corse via divertito. «Tre, dieci-diciotto!» esclamò alla radio, con gli occhi sempre fissi sul
pesce e la mente in subbuglio. «A tutte le unità in prossimità del cimitero di Hollywood, è richiesta assistenza» comunicò calma Patty Passman. «Indietro!» gridò Virginia alla folla. «State indietro!» Ormai era contro il nastro giallo, assediata da una folla impazzita. Prese in mano la bomboletta di spray urticante e la puntò contro i più vicini. «Basta!» urlò. «State indietro!» La gente indietreggiò indecisa, a pugni stretti. La tensione era palpabile. «Mi volete spiegare che cosa sta succedendo?» chiese ad alta voce. Un ragazzo, con una maglietta di Tommy Hilfinger, berretto e calzoni larghi con l'orlo arrotolato, parlò a nome di tutti. «Qui non ci vuole nessuno» spiegò. «A furia di mandar giù, alla fine scoppi.» «Basta che non scoppiate qui» replicò Virginia decisa. «Come ti chiami?» «Jerome.» «Senti, Jerome, forse a te daranno retta.» «Non li conosco, ma...» «Vorrei che mi aiutassi a mantenere la calma» disse Virginia. «Okay.» Jerome si girò e guardò la folla. «FRATELLI!» gridò. «FACCIAMO TUTTI UN PASSO INDIETRO E LASCIAMO ALLA SIGNORA UN QUALCHE CAZZO DI SPAZIO.» La folla indietreggiò. «Statemi a sentire» fece Jerome entrando con disinvoltura nella parte. «Il fatto è che voi non vi rendete conto di cosa passiamo noi» disse rivolgendosi a Virginia. «Diglielo!» gridò una donna. «Voi vi sentite accettati?» chiese alla folla. «CAZZO-NÒ!» risposero tutti in coro. «Secondo voi sono contenti che siamo qui?» «CAZZO-NO!» «A-Hollywood-non-ci-vogliono cazzo, Hollywood-non-è-per-noi cazzo non-è-per-noi» cominciò a cantare Jerome a ritmo di rap. «NON-È-PER-NOI!» ripeté in coro la folla. «Il monumento-il monumento-è freddo freddo-è freddo-freddo.» Jerome cominciò a ballare. «Cosa vuol dire-mangiare e bere-non c'è un-cazzo-non
c'è piacere-han preso tutto-ci han preso tutto-lo tengon stretto-ma stretto stretto.-Per noi ragazzi non c'è un-cazzo-non c'è un cazzo non c'è, a Hollywood.» «Per noi ragazze-non c'è un-cazzo-non c'è un-cazzo-a Hollywood!» «Per noi ragazzi-per voi ragazze-non c'è un-cazzo-a Hollywood» si corresse Jerome per essere politically correct. «NON CÈ UN-CAZZO-A HOLLYWOOD!» scandì la folla, sempre a ritmo di rap. «Grazie, Jerome» disse Virginia. «NON C'È UN-CAZZO-A HOLLYWOOD!» continuava la folla incontrollabile. «Basta, Jerome. Falli smettere.» «Di nuovo, fratelli!» incitò Jerome danzando, «NON C'È UN-CAZZOA HOLLYWOOD!» «NON C'È UN-CAZZO-A HOLLYWOOD!» In lontananza si sentirono delle sirene. 20 Il Robins Center, dove gli Spiders giocavano davanti a folle quasi oceaniche, si trovava fra il parcheggio privato in cui Lelia Ehrhart aveva lasciato la Mercedes e uno spiazzo dove posteggiavano i comuni mortali, a una cinquantina di metri dalla pista su cui stava correndo Brazil in quel momento. Era quasi sera, e Andy aveva passato ore e ore a cercare di risolvere il problema del Comstat mentre i giornalisti continuavano a scrivere assurdità sul virus dei pesci e sull'atto vandalico compiuto ai danni della statua di Jefferson Davis. Commenti idioti e di cattivo gusto riempivano le caselle della posta elettronica e circolavano di ufficio in ufficio, serpeggiando fra bar, ristoranti e palestre, arrivando anche alle orecchie della polizia. "Finalmente qualcuno è rimasto nella rete della polizia... Peccato che sia un pesce piccolo." "Toc toc. Chi è? Polizia. Polizia chi? Pulizia vasche pesci." "Jeff Davis colorato di colore." "È nero ma bianco; è immobile ma gioca a basket. Chi è? Jefferson Davis!" Brazil aveva bisogno di sfogarsi, di schiarirsi le idee e allentare lo stress. Invece, di vedere Lelia Ehrhart che usciva dal Robins Center diretta verso
la Mercedes nera che si trovava nel parcheggio riservato allo Spiders Club non aveva alcun bisogno. Capì immediatamente perché era lì e si infuriò. Corse verso il parcheggio e la raggiunse mentre stava facendo retromarcia. Le bussò sul vetro, ma la Ehrhart non si fermò subito. Quando poi frenò, controllò che le portiere fossero ben chiuse e abbassò il finestrino di due dita. «Sono Andy Brazil» le disse asciugandosi il sudore nella canottiera. «Non ho riconosciuto» rispose lei guardandolo ammirata. «Non vorrei essere indiscreto, ma posso chiederle perché è entrata in palestra?» «Per sbrigare faccende.» «Ha parlato con Bobby Feeley?» «Sì.» «Avrei preferito che non lo facesse, Mrs Ehrhart.» «Qualcuno bisognava e io ho interesse personale di farlo. Voi venite di Charlotte a dire che cittadinanza deve coinvolgere, no? Bene, io coinvolgo. Quanti anni hai?» gli chiese poi guardandogli le gambe. «Coinvolgere non significa interferire nelle indagini» precisò Brazil. «Tu molto atletico» civettò lei. «Io ho allenatore personale. Vuoi venire a fare ginnastica con me e mio allenatore?» «Molto gentile» rispose Andy in tono cortese. «Che palestra vai?» chiese la Ehrhart abbassando il finestrino e mangiandoselo con gli occhi. «Adesso mi scusi, ma devo andare» replicò Andy sentendosi osservato nelle sue parti più intime. «Quante volte vieni?» insistette lei squadrandolo. «Sei tutto sudato. Hai rivetti di sudore che corrono giù per spalle e aria molto caldata. Perché non spogli e bevi Gatorade?» Gli indicò il sedile al proprio fianco. «Vieni, Andy. Siediti un minuto per riposarsi. Io ho piscina privata. Andiamo a fare tuffo? Quando io caldata, faccio sempre tuffo in piscina.» «Grazie, ma adesso devo proprio andare» rispose Andy cercando di svincolarsi. Appena fu corso via, la Ehrhart alzò il finestrino e ripartì sgommando. Brazil corse nel Robins Center e si precipitò in palestra, dove Bobby Feeley si allenava in difesa, marcando un avversario immaginario. «Mr Feeley?» lo chiamò Andy dal bordo del campo. Feeley gli andò incontro palleggiando e scoppiò a ridere. «E cos'è questa, l'Inquisizione? Oppure si è perso?»
«Sono del Dipartimento di polizia di Richmond e sto indagando sull'atto vandalico avvenuto ieri sera nel cimitero di Hollywood» spiegò Andy. «Si veste sempre così quando è di servizio?» chiese Feeley provando un tiro che finì lontanissimo dal canestro. «Stavo correndo quando ho visto Lelia Ehrhart nel parcheggio» disse. «Un bel tipino» commentò Feeley. «Ma da dove viene?» «Senta, Mr Feeley...» «Mi chiami pure Bobby.» «Bobby, hai idea di chi possa essere stato a dipingere la tua maglia addosso a Davis?» gli chiese. «Supponendo che non sia stato tu.» «Non sono stato io» confermò Feeley, fingendo di passare la palla. «Per quanto possa trovare lusinghiero che ci sia una mia statua in un cimitero bianco.» Provò un tiro ravvicinato, ma sbagliò. «Purtroppo non sono un fenomeno e non credo di essere molto ben visto fra i tifosi.» «Come hai fatto a entrare in squadra?» domandò Andy assistendo a un altro errore. «Prima giocavo molto meglio» spiegò Feeley. «Alle superiori ero un asso, conteso fra tantissimi club. Ho scelto Richmond, ma appena sono arrivato ho cominciato ad andare in crisi. Ho perfino pensato di avere il lupus, la distrofia muscolare o il morbo di Parkinson.» Si sedette sul pallone e si prese il mento nel palmo della mano, sconsolato. «Portare la maglia di Twister Gardener non aiuta» mormorò in tono desolato. «Forse è proprio questo che mi toglie la concentrazione: mi sembra che, vedendo il numero dodici, tutti facciano i confronti fra me e lui, così mi agito.» «Io non sono di qui e mi interesso più di tennis che di basket» spiegò Andy sedendoglisi vicino. «Be'» riprese Feeley «Twister era il più bravo cestista che questa scuola avesse mai avuto. Se non fosse morto, a quest'ora giocherebbe nei Bulls.» «È morto?» chiese Andy, colto da uno strano presentimento. «Sì, in un incidente. Investito da uno stronzo ubriaco che andava contromano. L'agosto scorso.» Andy ci rimase male: era assurdo che una persona dalle doti tanto straordinarie potesse andarsene così, da un momento all'altro, per colpa di qualcuno che aveva bevuto una birra di troppo. «Sono solo contento di essere riuscito a vederlo giocare. Era il mio idolo» disse Feeley. Si alzò e fece un po' di stretching.
«Non dev'essere facile indossare la maglia del proprio idolo» commentò Andy alzandosi a sua volta. Feeley fece spallucce. «Sono cose che succedono, quando si corre con i più grandi.» «Forse dovresti cambiare numero» gli suggerì Andy. Feeley rimase di sasso e lo guardò di traverso. «Come ha detto?» «Che forse dovresti lasciare la maglia numero dodici e indossarne un'altra» spiegò Andy. Feeley si irrigidì. «Non ci penso nemmeno.» «Era solo un suggerimento» fece Andy. «Visto che prima dicevi che forse era per via della maglia che non riuscivi più a giocare come un tempo.» «No, non posso fare una cosa del genere.» «Provaci.» «Non se ne parla neanche.» «Secondo me varrebbe la pena di tentare» continuò Andy in tono ragionevole. «Ma non esiste!» «Perché no?» «Perché non gliene frega un cazzo a nessuno, a parte me.» «Come fai a saperlo?» Feeley tirò la palla più forte che poteva e mancò nuovamente il canestro. «Perché nessuno rispetterebbe Twister come lo rispetto io» rispose fissando Brazil. «Nessuno manterrebbe viva la sua memoria.» Corse a recuperare la palla, palleggiò con la destra e con la sinistra, infine tirò di nuovo. «Le dico una cosa: io la sua maglia la tratto bene!» Prese il rimbalzo e provò un gancio che ruotò sul ferro del canestro e uscì. «Se lo immagina qualche bastardino viziato che arriva qui e si mette la maglia di Twister?» Riprovò, prese il rimbalzo, si esibì in una schiacciata, riprese la palla a due mani, finse di liberarsi di un immaginario marcatore, saltò e la buttò dentro. «La famiglia di Twister abita qui?» chiese Andy. «Mi ricordo che quando giocava in casa si portava sempre un ragazzino alle partite e lo faceva sedere in panchina» disse Feeley provando una serie di tiri liberi. «Penso fosse suo fratello.» Ruby Sink stava conducendo una piccola indagine personale alla James River Monuments. Nel frastuono assordante dei martelli pneumatici qual-
cuno stava passando una modellatrice su un blocco di granito della Georgia. Erano in funzione anche la smerigliatrice e una gru che stava tenendo sollevato un monumento di oltre mezza tonnellata, tutto sbreccato e coperto di muschio. Il marmo bianco del Vermont era molto difficile da lavorare e non veniva più usato. Floyd Rumble aveva un bel lavoro per le mani ed era un po' stanco. Era stata una giornataccia, aveva mal di schiena e suo figlio era chiuso in ufficio perché la segretaria era in ferie. Il colonnello Bailey, che aveva l'Alzheimer, era venuto per la quarta volta in una settimana a dire che voleva essere seppellito con la divisa e una lapide in marmo grigio con una bella iscrizione patriottica. Nel timore di offendere qualcuno, aveva però continui ripensamenti riguardo l'epigrafe. Rumble prese uno scalpellino e ricominciò a incidere una foglia su una lastra di marmo nero, rimuginando sulla moglie di Ben Neaton. Il marito, agente di borsa, era morto improvvisamente d'infarto e lei era rimasta troppo sconvolta per pensare o per scegliere la lapide. Si era rivolta a lui e Rumble le aveva suggerito un elegante colore scuro, visto che Neaton viaggiava sempre su Lincoln nere e indossava abiti grigi. Poi aveva preparato l'iscrizione UN FRUTTUOSO RIPOSO DONA A LUI, O SIGNORE su un foglio gommato, lo aveva posato sulla lapide e aveva inciso a macchina le parole, quindi aveva cominciato a rifinire a mano tutti i dettagli e le decorazioni, come l'edera e i fiori. Era abbastanza comune che i parenti, sconvolti dal lutto, delegassero a Rumble la scelta della lapide e gli raccontassero tutti i particolari delle ultime ore di vita del loro congiunto, specificando che cosa aveva mangiato o indossato o progettato di fare il giorno seguente. E c'era sempre un qualcosa che aveva fatto loro presagire la tragedia. Rumble era abituato ad ascoltare interminabili racconti di mariti che non erano usciti a comprare il giornale come facevano sempre mentre la moglie preparava la colazione e vestiva i bambini che altrimenti avrebbero perso l'autobus e sarebbero arrivati tardi a scuola prima di friggergli le uova come piacevano a lui e chiedergli che cosa voleva per cena e a che ora pensava di tornare quella sera. Ruby Sink, però, aveva oltrepassato il limite. Erano undici anni, cioè da quando era mancata sua sorella, che pensava alla propria sepoltura e lo andava a trovare una volta al mese in cerca della giusta ispirazione. All'inizio voleva un angelo, poi un albero, quindi una semplice lapide di granito africano con gigli in rilievo, in seguito le era venuta la mania del marmo e a-
veva cominciato a prenderne in considerazione vari tipi, come una signora che sceglie la stoffa per un abito: prima verde acqua, poi screziato, quindi di Wausau, poi cremisi, rosso e così via. I Rumble si occupavano di tombe da tre generazioni e Floyd aveva abbastanza esperienza da capire con chi aveva a che fare, così aveva smesso di annotare gli ordini di Miss Sink dopo la terza volta che aveva cambiato idea. «Salve, Floyd» disse Ruby Sink ad alta voce per farsi sentire nonostante il frastuono dei macchinari, il ronzio delle ventole e il rombo dei compressori. «Salve» borbottò lui. «Come fa a sopportare tutta questa polvere lo sa solo lei» protestò come sempre. «Non fa mica male» replicò lui come al solito. «Sa che la mettono nei dentifrici, così i denti vengono più bianchi? Infatti noi abbiamo denti bellissimi perché è come se ce li lavassimo tutto il giorno.» In parte lo diceva per distrarla. A volte funzionava. Quel giorno, però, non servì. «Ha sentito?» gli domandò avvicinandosi con aria da cospiratrice. Il monumento da mezza tonnellata era pericolosamente sospeso a mezz'aria e Rumble stava pensando al lavoro che lo aspettava. Doveva fare tutto a mano e non aveva nessuna intenzione di cominciare finché Ruby Sink era lì, casomai le saltasse in mente di volerne una copia perfetta per la sua tomba. Non voleva assolutamente correre il rischio che si convincesse che quello che cercava era proprio marmo del Vermont da intagliare a mano. Cominciò a frugare tra alcune maschere preparandosi a incidere un'iscrizione in ebraico su una lapide di marmo bianco, mentre alcuni operai posavano su un carrello il monumento da restaurare. «Ha sentito come hanno ridotto Jefferson Davis?» proseguì Miss Sink. «Sì, ho sentito.» Rumble preparò le maschere, che erano di plastica trasparente e si rompevano continuamente. «Lei sa che io sono membro del consiglio, vero?» «Sì.» «Prima di tutto dovremo stabilire l'entità del danno, decidere come porvi rimedio e verificare quanto verrà a costare.» Rumble non era andato a vedere né pensava di farlo, a meno che non offrissero a lui il lavoro. «Hanno pitturato solo il piedistallo di marmo o an-
che la statua di bronzo?» si informò. «Soprattutto il bronzo» rispose lei. Il solo pensiero la faceva stare male. «Ma anche il marmo, che adesso sembra un campo da basket. Sì, c'è da ripulire anche il piedistallo.» «Capisco. In quanto l'hanno piazzato su un campo di basket... E poi?» «Gli hanno dipinto addosso una maglia, calzoncini, scarpe da basket e tutto il resto. E l'hanno fatto diventare negro.» «Mi pare di capire che i problemi siano due» ricapitolò Rumble gettando da una parte un'altra lettera rotta, mentre in un angolo la sega a diamante cominciava a tagliare la pietra. «Sul marmo bisognerà scalpellare e lisciare di nuovo. Per quanto riguarda il bronzo, invece, se la pittura è a olio...» «Ah, ecco» lo interruppe Miss Sink. «Volevo dirle che non è vernice spray. L'hanno applicata a pennello e con mani piuttosto spesse, sembra.» «Allora bisogna sverniciare tutto con un solvente e poi dare una mano di antiossidante.» «Dobbiamo pensarci bene» annunciò Miss Sink. «Infatti» confermò Rumble. «Penso che si dovrà portarlo qui: non posso certo lavorare in mezzo a un cimitero pubblico pieno di gente. Questo significa che bisognerà sollevarlo con una gru e caricarlo su un camion.» «Oppure chiudere il cimitero finché lei non avrà finito il lavoro» aggiunse Ruby Sink. «Di sicuro durante la rimozione. Ma io lo chiuderei comunque subito, casomai a qualcuno venisse in mente di pitturare altri monumenti. E le consiglio di far pattugliare il cimitero.» «Ne parlerò con Lelia.» «Nel frattempo non fate toccare la statua da nessun altro. Se volete affidare a me il lavoro, intendo dire.» «Ma certamente!» «Mi ci vorranno un paio di giorni per portarlo via dal cimitero, e non so quanto per rimetterlo a posto.» «Immagino che verrà a costare una bella cifra» dedusse Miss Sink, che era una donna parsimoniosa. «Vedrò di venirvi incontro.» Bubba, invece, non aveva alcuna intenzione di andare incontro a nessuno. Era troppo scioccato e sconvolto per andare a letto, e non appena il detective se ne fu andato dopo aver effettuato la sua ispezione e preso le impronte del caso, ritornò nel laboratorio. Pulì tutto velocemente, spinto da
una furia che lo riempiva di energia, mentre Half Shell abbaiava e correva in tondo e saltava su e giù dalla botte che si era rovesciata. Il karma di Bubba doveva essere decisamente negativo, quel giorno. Aveva comprato un sacchetto di biglie bianche, piuttosto grosse, e una bottiglia di vernice gialla iridescente, ma bucarle con il trapano si stava rivelando un'impresa praticamente impossibile. Continuavano a scivolargli via dalla morsa, e se provava a stringerla di più si rompevano. La punta del trapano tendeva a slittare, poi si ruppe. Per un po' Bubba si intestardì, finché gli venne un'idea. Erano le tre passate quando Dolcezza fece capolino dalla porta del laboratorio, con l'aria preoccupata. «Tesoro, non hai ancora mangiato niente» gli disse. «Non ho tempo.» «Ma il tempo per mangiare lo trovi sempre...» «Oggi no.» Notò quello che restava della sua collana di perle preferita sul tavolo da lavoro del marito. «Che cos'hai lì?» Fece un passo avanti. Bubba aveva sfilato le perle e stava allargando i fori con il trapano. «Bubba? Che cosa stai facendo alla mia collana? Me l'aveva regalata mio padre.» «Non sono perle vere, Dolcezza.» Bubba ne prese una, vi passò dentro un filo nero e lo annodò stretto. Ripeté l'operazione con un'altra perla e poi unì i due capi a una decina di centimetri dalle perle. Quindi se le fece roteare sopra la testa come un lazo. Soddisfatto, procedette a prepararne altri. «Dolcezza, torna in casa» disse Bubba. «Queste sono cose che non devi né vedere né raccontare a nessuno.» La donna era perplessa. «Non avrai in mente di fare qualcosa di male, vero?» osò chiedergli. Bubba non rispose. «Tesoro, non hai mai fatto del male a una mosca. Sei sempre stato l'uomo più onesto che io abbia mai conosciuto, talmente onesto che a volte gli altri se ne approfittano.» «Ho appuntamento con Macchia Nera alle sei. Andiamo a Suffolk.» Dolcezza capì al volo. «Non dirmi che vai alla Dismal Swamp...» «Può darsi.»
«Con tutti quei serpenti?» Rabbrividì. «I serpenti sono dappertutto, Dolcezza» replicò lui, che ne aveva una paura matta ma credeva che nessuno lo sapesse. «Non si può passare la vita ad avere paura.» Macchia Nera aveva un suo laboratorio, attrezzato con il minimo indispensabile e molto meglio organizzato di quello di Bubba. Aveva un banco da lavoro, una sega circolare montata su un braccio orientabile, una sega a nastro, squadra zoppa, piallatrice, tornio da legno e aspirapolvere industriale. Neanche a Macchia Nera piacevano i serpenti, ma aveva più buonsenso. Faceva particolarmente caldo per quella stagione, ed era probabile che nella palude ci fossero già i primi mocassini, velenosi, motivo per cui Macchia Nera non intendeva cacciare procioni laggiù. Sarebbe stato meglio andare nella contea di Southampton, anche se probabilmente non per Bubba. Nel suo laboratorio, Macchia Nera stava attaccando con la colla universale il sonaglio di un crotalo all'estremità di un serpente di gomma, a cui aveva fissato un semplice gancio legato a circa sette metri di filo di nylon. 21 Macchia Nera caricò la gabbia per il cane sul suo V10 Dodge Ram già pronto per la partita di caccia. «Vai, Tree Buster» ordinò. Il cane fu felice di saltare sul camioncino ed entrò subito nella gabbia. Tree Buster sembrava nato per la caccia ai procioni e viveva per questo, oltre che per mangiare. Era un campione e sapeva abbaiare al tono e al volume giusto per stanarli. Per i procioni di montagna sarebbe stato preferibile un timbro leggermente più alto, ma a quell'altitudine era perfetto. Macchia Nera andava fiero di Tree Buster e lo nutriva esclusivamente con cibo liofilizzato prodotto dalla Sexton, che faceva arrivare apposta dal Kentucky. Tree Buster aveva zampe forti e muscolose, le orecchie che gli arrivavano fino al naso, i denti sani e forti e una coda splendida, che teneva ritta come una spada. Niente a che vedere con il cane che aveva consigliato a Bubba di comprare per corrispondenza su "American Cooner". Bubba era certo di aver fatto un affare. Half Shell era già addestrata ed era figlia di Thunder Clap, che si era classificato in ottima posizione in una
serie di competizioni a livello mondiale. Bubba l'aveva pagata tremila dollari senza nemmeno vederla e senza sapere che era stata addestrata per la caccia al coyote, al cervo, all'orso e alla lincee. Era brava anche a fiutare l'armadillo, che da quelle parti veniva chiamato possum on the half shell, donde il suo nome. Bubba parcheggiò davanti a casa di Macchia Nera e scaricò dalla Cherokee la gabbia del cane per trasferirla sul suo camioncino. Half Shell smise di abbaiare e prese a scodinzolare furiosamente. «Brava» le disse Bubba. Caricò sul Dodge Ram anche gli stivaloni, la lampada da speleologo, la torcia, i guanti e un giaccone Barbour, telefonino, bussola, coltello multiuso a serramanico. Vicino al sedile anteriore posò lo zainetto con i panini, il kit del pronto soccorso, la Colf Anaconda e accessori vari. «Hai paura che ci sorprenda una bufera?» lo sfotté Macchia Nera mentre faceva retromarcia. «Non si sa mai, di questa stagione» commentò Bubba. «A me sembra che faccia un po' caldo per Dismal Swamp. Non vorrei che ci fossero troppi serpenti.» Bubba fece finta di niente, ma gli venne la pelle d'oca. «Ne parliamo da Loraine» rispose. Attraversarono la campagna, fra campi di arachidi e altri arati di fresco. Wakefield non era cambiata molto nel corso degli anni, a parte il nuovo radar WSR 88-D del servizio meteorologico nazionale, che sembrava un serbatoio piezometrico ad alta tecnologia e aveva suscitato le proteste degli abitanti della zona, i quali temevano avesse chissà quali effetti nefasti. Anche a Bubba faceva una certa impressione vedere la cupola del radar sopra gli alberi. Non dubitava che fosse utile per segnalare l'arrivo di temporali e tornado, oltre che la forza e la direzione del vento, ma era certo che avesse anche altre funzioni. Potevano addirittura esserci di mezzo gli alieni, che forse utilizzavano l'installazione per comunicare con la loro astronave ammiraglia, in qualsiasi dimensione spazio-temporale si trovasse. Una volta Bubba avrebbe confidato questa sua teoria a Macchia Nera, ma adesso non più. Lanciò un'occhiata all'amico e provò risentimento. Passando davanti alla chiesa del Bambino di Praga, non sentì alcun desiderio di porgere l'altra guancia, e quando superarono la Purviance Funeral Home meditò sinistramente sulla longevità del suo compagno di viaggio. Entrando nella contea di Southampton, dove le poiane arrivavano fin sulla
strada in cerca di cibo, pensò che Macchia Nera aveva mangiato a sbafo alle sue spalle fin dai tempi in cui avevano fatto amicizia in chiesa. Oltre la palude, il ristorante Loraine offriva un servizio cordiale e veloce, stando all'insegna accanto al neon a forma di freccia con la scritta SP CIAL T GA B RI OSTR C E E GR N HI $ 13,25. Il parcheggio era stato una volta un distributore di benzina, adesso era coperto di ghiaia e si vedeva ancora dove un tempo c'erano le pompe. Quando Bubba e Macchia Nera scesero dal camioncino e si incamminarono verso le vetrine piene di prosciutti, dietro l'edificio bianco e rosso passò fischiando un treno della linea Norfolk-Southern. Quasi tutti i cacciatori si fermavano a mangiare da Loraine e, soprattutto nella stagione in cui era permesso abbattere procioni, il ristorante era sempre molto affollato. Per Myrtle, la cassiera, andava comunque bene, sebbene non capisse che senso aveva cacciare procioni adesso che il prezzo di una pelle era sceso da venti dollari a otto. Tanto che molti cacciatori abbandonavano le carcasse nei boschi. Myrtle era sempre contenta di vedere Bubba e Macchia Nera che, secondo lei, andavano a caccia per il piacere di vedere all'opera i loro cani. I procioni li uccidevano solo per dar loro soddisfazione una volta ogni tanto, perché non si frustrassero a stanarli e basta. Myrtle aveva perso il conto delle volte in cui i cacciatori erano entrati nel suo ristorante con i vestiti imbrattati di sangue. Fumavano, masticavano tabacco, ordinavano dei gran piatti di ostriche e gamberi fritti, polpettone, piatti misti della casa e caffè. I tavoli erano coperti con tovaglie di plastica con i numeri del bingo. Bubba e Macchia Nera scelsero il B4, il cui messaggio augurale era: "Torna presto". Bubba cominciò a frugare nel cestino, fra bustine di zucchero e di salsa, per vedere se c'erano dei salatini. Il ventilatore ruotava piano. Lessero il menù del giorno sulla lavagna, vicino al cartello che avvertiva: "La direzione si riserva il diritto di non servire clienti indesiderati". «Mettiamo le carte in tavola, Bubba» fece Macchia Nera togliendosi il berretto. «Quanto?» «Tu cosa dici?» domandò Bubba facendo il duro, anche se dentro di sé tremava. «Cinquecento» rispose l'altro studiando attentamente la sua reazione. «Facciamo mille» rilanciò Bubba con lo stomaco stretto dall'ansia. «Non la starai facendo fuori del vaso, amico? Li hai?» «Li ho. In tasca» replicò Bubba. Macchia Nera scosse la testa. «La tua cagna non ha mai stanato nient'al-
tro che galline. L'unica volta che l'ho vista con un procione è stato quando ne ha fatto salire uno su un palo del telefono. Se trova un torrente si pianta e abbaia finché non la porti in braccio sull'altra sponda. Non vale una cicca.» «Questo lo vedremo» ribatté Bubba mentre Myrtle si avvicinava al tavolo con un blocchetto in mano. «Avete deciso?» «Io vorrei frittura di gamberi e ostriche, e tè freddo» ordinò Bubba. «Porzione normale o maxi?» «Per chi mi hai preso?» Myrtle rise, masticando una gomma. «Macchia Nera?» «Idem.» «Mi piacciono i clienti che hanno le idee chiare» osservò Myrtle togliendo le briciole dal tavolo e tornando in cucina. «Dove andiamo?» «Partiamo dall'incrocio fra la 620 e la 460» propose Macchia Nera. «E saliamo verso il bosco. I sentieri ci sono, anche se fangosi e pieni di pozzanghere. Ho dato un'occhiata a Dismal Swamp e secondo me è da escludere: pare che di giorno, quando fa caldo, per terra ci siano più serpenti che lombrichi. Di notte, che fa più freddo, vanno sulla strada. Sai quanti se ne vedono, schiacciati dalle macchine...» Bubba non riusciva quasi più a respirare. «Stai bene?» fece Macchia Nera. «Ho un po' d'allergia. Mi sono scordato il Sudafed.» «Io spero che dove andiamo noi ce ne siano di meno» continuò Macchia Nera. «Per carità, anche se ne troviamo qualcuno, pazienza. Tanto hanno più paura loro di noi che noi di loro.» «E chi lo dice?» sbottò Bubba. «Hai mai parlato con un serpente? E come dire che i cani non hanno la cognizione del tempo. Come si fa a sapere? L'hanno chiesto a Half Shell? Io ho sentito di gente a cui si è infilato un serpente su per i pantaloni. Te lo immagini?» «Mah» replicò Macchia Nera pensoso. «Anch'io l'ho sentito dire. Ho sentito anche di serpenti che ti inseguono e di cobra che ti sputano negli occhi. Però non so se è vero.» Divinity cercò di calmare Smoke e di fargli passare il malumore. Quando era così diventava pericoloso, ma calmarlo era un'impresa. «Non voglio che ti capiti niente di brutto, tutto lì» gli ripeté mentre cor-
reva lungo Midlothian Turnpike allontanandosi dal tugurio che lui chiamava motel e che aveva scelto come sede dei Lucci, dove teneva nascosto un vero e proprio arsenale. «Se lo trovo l'ammazzo» dichiarò Smoke. Wu-Tang stava suonando Severe Punishment. Smoke alzò il volume. «Che cosa gli avevo detto di fare?» chiese torvo. «Di pitturare la statua» rispose lei guardando le mani di Smoke per prepararsi a un eventuale schiaffone. «Sì, ma nel senso di rovinarla» precisò Smoke stringendo il volante. «Dovevo restare a controllare, cazzo. Merda! E poi ci ha disegnato anche il pesce, così adesso tutti pensano che c'entri con il virus. Si capirà che siamo stati noi?» «Non credo» rispose Divinity terrorizzata al pensiero di quello che poteva fare Smoke. «Ci penso io, adesso. Lo sai come?» «No» replicò lei posandogli la mano sulla spalla. «Non mi toccare quando sto pensando!» gridò lui. A quell'ora in redazione c'erano solo i giornalisti che dormivano di giorno e uscivano di notte a caccia di notizie. Artis Roop non aveva orari. Pieno di energia e sovreccitato, scriveva di tabacco, di virus e del pesce dipinto sul piedistallo della statua di Jefferson Davis. Non c'erano stati sviluppi nelle indagini e Roop stava riorganizzando informazioni vecchie perché non c'era niente di nuovo, a parte i soliti regolamenti di conti fra spacciatori e le solite polemiche in consiglio comunale. «Merda.» Si appoggiò allo schienale e si stirò, girando il collo a destra e a sinistra. «Hai qualcosa per l'ultima edizione?» gli chiese la caporedattrice Outlaw, che faceva il turno di notte. «Ci sto lavorando» rispose Roop. «Quanto è lungo?» «Quanto spazio mi date?» «Dipende dalle notizie dell'ultima ora» rispose lei. Roop stava per confessare di non avere niente di nuovo in mano quando squillò il telefono. «Roop» rispose. «Come faccio a esserne sicuro?» «Scusi?»
«Come faccio a essere sicuro di parlare proprio con Roop?» ripeté una voce maschile. «E io come faccio a essere sicuro che questo non è uno scherzo?» Roop stava per riattaccare. «Sono quello del pesce azzurro.» Roop ammutolì e aprì il taccuino. «Hai mai sentito parlare dei Lucci?» «No» confessò Roop. «Chi cazzo pensi che abbia pitturato quella cazzo di statua? Cosa cazzo pensavi che fosse il pesce?» «È un luccio?» chiese Roop incuriosito. «Il pesce è un luccio?» «Esatto.» «Dicevano che fosse una trota, veramente. Il pesce nazionale» spiegò Roop. «Be', non è vero. Stammi bene a sentire: i Lucci stanno facendo un sacco di cose in questa città.» «Si può dire che quella dei Lucci sia una banda?» domandò Roop. «Perché, come cazzo ci vorresti definire? Una squadriglia di boy scout?» «Dunque posso scrivere un articolo sulla banda dei Lucci. Lei chi è?» chiese cauto Roop. «Il tuo incubo peggiore.» «Sul serio.» «Il capo. Sono chi mi va di essere e faccio il cazzo che voglio. Questa città non ha ancora visto un cazzo, scrivilo pure sul tuo giornale. Ricordatevi dei Lucci, perché ci sentirete ancora.» «Posso chiederle perché proprio un cestista? E il pesce ha a che fare con il virus che ha blocca...» Ma la comunicazione si interruppe. Roop chiamò la polizia. A quel punto la conversazione fra Macchia Nera e Bubba aveva coinvolto anche i tavoli B3, B6, B2 e B1. «Sapete cosa mi è successo una volta?» raccontava un vecchio in tuta da lavoro. «Me ne sono trovato uno nel gabinetto. Ho tirato su il coperchio e me lo sono visto lì, con la bocca aperta e la lingua di fuori.» «Oh, Signore!» esclamò una donna al tavolo vicino. «E com'è possibile?» «Forse perché era estate e faceva caldo, e cercava un posto dove rinfrescarsi un po'.»
«I serpenti sono rettili, hanno il sangue freddo. Non hanno bisogno di rinfrescarsi.» «Magari era uscito dalla fogna.» «Pensate che io una mattina ero in barca a caccia di anatre, prima dell'alba, e dall'alto me ne cade uno sul piede. Non scherzo mica. Sarà stata una bestia grossa così.» Fece un cerchio enorme con le dita. «Ogni volta che la racconti quel mocassino diventa più lungo e più grosso, Ansel.» «E cos'ha fatto?» domandò Macchia Nera mentre Bubba non fiatava, bianco come un lenzuolo. «Ho cercato di scalciarlo più forte che potevo, e quando mi è passato sopra la testa, me lo sono sentito fra i capelli... uh! Poi è caduto in acqua.» «Una volta io ne ho trovato uno nel frigo» intervenne Myrtle, prendendo una sedia e unendosi alla conversazione. «Mi sono presa uno spavento che me lo ricorderò finché campo. Probabilmente era lì fuori al sole quando Beane è andato a prendere un vasetto di sottaceti nella cella frigorifera. Gli dev'essere passato vicino senza che lui se ne accorgesse, e quando ha aperto la porta, quello è entrato e ci è rimasto chiuso dentro. Così il mattino dopo io, bella tranquilla, vado a prendere il bacon e appena apro la porta sento un suono strano.» Si interruppe, scossa da un brivido, e chiuse gli occhi. Tutti la ascoltavano in silenzio, rapiti. «Sono rimasta lì, ferma immobile, e mi sono guardata in giro, perché avevo capito che era un serpente a sonagli: mica ti puoi sbagliare» riprese Myrtle. «Non vedevo niente e ho fatto per allungare il braccio, quando l'ho sentito di nuovo. Veniva da dietro i barattoli della maionese.» «Ma il serpente dov'era?» chiese l'uomo con la tuta, impaziente di sentire la fine. «Scommetto che si stava mangiando un topo.» «Non ci sono topi nella mia cella frigorifera!» protestò pronta Myrtle. «Che cosa ci faceva allora?» incalzò Macchia Nera. «Ce l'avevo a tanto così dai piedi» disse lei mostrando il palmo di una mano. Tutti rimasero senza fiato. «Era vicino alla scopa, con la coda all'insù, e faceva quel verso spaventoso.» «E poi?» chiesero in diversi. «Mi ha morso, qui sul polpaccio sinistro» spiegò Myrtle. «È successo
tanto in fretta che non ho sentito neanche niente. Poi è scappato via come un fulmine. Mi hanno tenuto in ospedale una settimana e la gamba si è gonfiata talmente che a un certo punto hanno pensato addirittura di dovermela tagliare.» Nessuno fiatò. Myrtle si alzò. «Vado a vedere se è pronto» disse dirigendosi verso la cucina. Ruby Sink provò per ore a chiamare Lelia Ehrhart al telefono, senza riuscire a trovarla. Quando si sentiva sola o agitata, si rifugiava in cucina, ma adesso non aveva più nessuno per cui cucinare, a parte quel poliziotto giovane che aveva preso in affitto una delle sue case. Le sarebbe piaciuto invitarlo a cena una sera, ma era sempre troppo occupata. Un conto era fare un po' di biscotti, ma pollo fritto e arrosto al tegame richiedevano tempo. A dire il vero, tutte quelle riunioni di consiglio e quelle associazioni la sfibravano: le portavano via talmente tanto tempo che era un miracolo se riusciva ancora a preparare qualcosa da mangiare a quel bel giovanotto. Lo chiamò sul cercapersone e lasciò il proprio numero, immaginando che fosse occupato sul luogo di qualche delitto. Il cercapersone suonò proprio mentre Brazil stava bussando alla porta di Weed. Non aveva dovuto faticare molto per scoprire che nella casa nei pressi dell'ospedale Henrico Doctor, dove lo aveva accompagnato la sera prima, abitava la famiglia Gardener, e non la famiglia Jones. Quando Roop aveva comunicato alla polizia che in città esisteva una sedicente banda dei Lucci, la quale aveva rivendicato l'atto vandalico al cimitero con una telefonata al suo giornale, Andy aveva subito capito che Weed si era ficcato in una situazione pericolosa. Bussò di nuovo, senza ottenere risposta. Era buio e non c'era la luna. Dalla casa non proveniva alcun rumore e nel vialetto non erano parcheggiate macchine. «C'è nessuno?» gridò, bussando con la torcia elettrica. Dopo qualche minuto di silenzio lo raggiunse Virginia, che era andata alla porta di servizio sul retro. «Sa che lo stiamo cercando» disse infilando la Sig calibro 9 nella fondina da spalla. «Non è detto» ribatté Andy. «Non può sapere che abbiamo scoperto la storia di suo fratello.» Tornando alla macchina, Andy controllò il numero sul cercapersone e
prese il telefono. Miss Sink rispose subito. «Mr Brazil?» «Buonasera» disse Andy con dolcezza, ripensando al bigliettino sul tavolo nell'ingresso di Virginia. «Il cimitero chiuderà al pubblico» lo informò. Per prendere tempo, Virginia aprì la portiera, silenziosamente, e Andy si rese conto che voleva capire con chi stava parlando. «Mi sembra un'ottima idea» dichiarò lui. «Bisognerà portare via la statua per farla ripulire, e non sarà facile, tenuto conto di quanto pesa. Quindi abbiamo deciso di tenerlo chiuso fino a che non sarà stata trasferita nel laboratorio. Aprirà solo per le sepolture.» «A che ora?» sussurrò Andy. «Scusi?» fece Miss Sink. «Non la sento!» «Adesso?» «Come dice?» domandò Miss Sink, confusa. «Vuole sapere se è già chiuso adesso?» «Sì.» «Sì, sì, è già chiuso. Le piace l'arrosto?» «Mmm. Certo che mi piace...» mormorò Andy. Virginia salì in macchina e sbatté la portiera. «Gliel'ho chiesto perché ai giovani d'oggi la carne non piace più. Neanche il pollo fritto va più di moda.» «Uh, a me piace da morire...» sussurrò lui aprendo la portiera e salendo a sua volta. «Sa come dev'essere la carne, perché l'arrosto venga bene?» domandò Ruby Sink, di umore molto migliorato. «Tenera...» Virginia partì di colpo, mandando su di giri il motore. «Infatti» replicò Miss Sink. «Lo sapeva anche lei?» «Ma sì, certo. Prima lo facevo spesso, ma adesso è tanto che non...» «Glielo faccio io, non si preoccupi» lo interruppe Miss Sink. «Un giorno di questi ci mettiamo d'accordo.» «D'accordo. A presto, allora.» Virginia era furibonda. «Perlomeno io quando sono di servizio non faccio chiamate personali» dichiarò. Andy rimase zitto e guardò fuori del finestrino. Prese fiato e sospirò, poi si voltò verso di lei, euforico e addolorato al tempo stesso: Virginia era gelosa. Dunque le importava ancora di lui. Rimpianse di averle fatto credere
di avere un'amante e fu sul punto di rivelarle con chi aveva appena parlato, quando gli venne in mente il bigliettino del fiorista sul tavolo di casa sua e lasciò perdere. Bubba non era di buonumore mentre Macchia Nera guidava sullo sterrato sconnesso e pieno di pozzanghere. Le stelle brillavano nel cielo buio. Bubba avrebbe voluto essere da un'altra parte. Si sentiva malissimo e temeva addirittura di vomitare. «Allora, ricapitoliamo?» suggerì Macchia Nera. «Le regole sono sempre le stesse, no?» fece Bubba. «Secondo me dovremmo aggiungerne una» propose l'altro. «Visto che la posta è alta e siamo uno contro uno.» «Cioè?» «Mettiamo che Half Shell, che abbaia facilmente e non ha poi quel gran fiuto, si piazzi sempre a un paio di alberi da quello del procione. Dopo la seconda o la terza volta che lo fa, invece di stare fuori tutta la notte a non combinare un corno puoi decidere di ritirarti. E io lo stesso.» «Se mi ritiro io, tu ti becchi i mille dollari, e se ti ritiri tu, li becco io. Se ci ritiriamo tutti e due non li becca nessuno» concluse Bubba. «Infatti. Altrimenti facciamo come al solito: centoventi minuti con cinque minuti di pausa fra un tempo e l'altro.» Quando Macchia Nera parcheggiò il camioncino in uno spiazzo fangoso e scese lasciando i fari accesi, Bubba aveva completamente perso l'orientamento. Si sedettero sulla ribalta del camioncino per mettersi gli stivaloni. «Ho lasciato dentro il coltellino multiuso» borbottò Bubba. Si allungò sul pianale e arrivò al sedile davanti, in modo che Macchia Nera non potesse vederlo, e infilò una mano nello zainetto per prendere le perle che aveva infilato a due a due nel filo nero e la Colf Anaconda .44. Non era proprio l'ideale, ma era l'unica arma che gli era rimasta. Se la infilò nel fodero di nylon alla cintura, sotto la giacca. «Ci sei?» domandò Macchia Nera. «Andiamo» replicò coraggiosamente Bubba. Liberarono dalle gabbie i cani, che cominciarono a ululare e a scodinzolare mentre mettevano loro il guinzaglio. «Brava» fece Bubba accarezzando Half Shell. Bubba le voleva molto bene, nonostante i suoi difetti e il fatto che assomigliasse a un cane da lepre con le zampe lunghe e il pelo morbidissimo, e si lasciava leccare le mani e la faccia. Non gli piaceva l'idea di farla corre-
re libera in quei boschi. Se fosse stata morsa da un serpente o da un procione, lui ne avrebbe fatto una malattia. Macchia Nera tirò fuori il cronometro e diede il via mentre Bubba stava ancora accarezzando la cagna, incoraggiandola a trovare tanti bei procioni. Weed corse lungo Cumberland Street fino all'imbocco del cavalcavia sulla I-195. Su entrambi i lati c'erano alberi e cespugli protetti da un'alta recinzione. Vi si avvicinò guardando furtivo a destra e a sinistra. Al di là non si vedeva niente perché la vegetazione era troppo fitta, ma a lui non importava: anche se fosse caduto nel vuoto o in mezzo a una strada piena di macchine, sarebbe comunque stato meglio che finire in mano a Smoke. Si arrampicò e scavalcò la recinzione, con i rami che gli battevano sulla faccia. Prima di posare i piedi per terra dall'altra parte trattenne il fiato. Poi si avviò alla cieca fra l'erba alta e i cespugli, proteggendosi il volto con le braccia. Si ritrovò quasi subito in una radura, dove intravide una sagoma scura e la punta incandescente di una sigaret ta. Si sentì mancare. «Chi è là!» gridò minacciosa una voce. «Fermo lì. Non ti muovere. Guarda che io ci vedo anche al buio e so benissimo che sei piccoletto e disarmato.» Weed non sapeva che cosa dire. Scappare non poteva e l'unica alternativa era ritornare alla recinzione o saltare giù dal cavalcavia. «Allora? Hai perso la lingua?» chiese l'uomo. «Mi scusi» rispose educatamente Weed. «Non credevo di trovare qualcuno. Tolgo subito il disturbo.» «Non hai un posto dove andare. È per questo che sei qui, eh?» «Sì, signore.» «Ma quale signore? Dammi del tu. Io sono Piccione.» «È un soprannome, vero?» domandò Weed facendo un passo avanti. «Il mio vero nome non me lo ricordo più.» «Perché proprio Piccione?» «Perché se me ne capita uno fra le mani, me lo mangio.» A Weed venne da vomitare. «E tu come ti chiami? Di', perché non vieni più vicino, così ti vedo in faccia?» «Weed.» «È un soprannome, vero?» domandò Piccione facendogli il verso. «No.» Weed aveva fame e sete, e il rumore del traffico lo spaventava. Di notte
la temperatura calava, e con i pantaloni larghi e la felpa dei Bulls aveva freddo. Piccione si accese un'altra sigaretta. «Sei vecchio» disse Weed intravedendogli parte del volto alla luce della fiammella. «Più di te sicuro» rispose Piccione facendo un tiro. Weed avanzò ancora. L'uomo puzzava in maniera insopportabile. «Dopo un po' che stai qui cominci a vederci di nuovo, te ne sei accorto? Secondo me è per via delle macchine che passano là sotto» fece Piccione. «Quanti anni hai, dieci?» «Quattordici» rispose Weed indignato. Piccione infilò una mano in un sacchetto e tirò fuori un pezzo di panino. A Weed vennero contemporaneamente l'acquolina in bocca e la nausea. Poi Piccione gli mostrò una bottiglia da due litri di Pepsi, mezza vuota, e buttò via il mozzicone. «Ne vuoi?» «Se vengono da un cassonetto della spazzatura, no» rispose Weed. «Come fai a sapere che vengono da un cassonetto?» «Perché ho visto gente come te che ci fruga dentro. Andate in giro con i carrelli del supermercato e dormite per strada.» «Io dormo qui» replicò Piccione. «Non per strada. Vieni, che ti faccio vedere una cosa.» Weed cercò di respirare con la bocca per non sentire la puzza e si avvicinò alla coperta su cui era seduto Piccione. Questi cercò qualcosa in una tasca del giubbotto militare, poi gli porse un pacchetto di cracker. «Sono con burro di arachidi e non vengono da un cassonetto» dichiarò tutto fiero. «Me li hanno dati alla mensa dei poveri.» «Me lo giuri?» chiese Weed, che aveva una fame terribile. Piccione fece di sì con la testa. «E mi hanno dato anche una bottiglia d'acqua sigillata. Mi sa che la dovrò stappare stasera per un povero bambino che si è perso nel bosco.» «Non mi sono perso» precisò Weed. Bubba invece sì. Appena lasciati liberi i cani, Half Shell era partita in una direzione, mentre Macchia Nera e Tree Buster erano andati in quella opposta. Dopo dieci minuti di cammino nel sottobosco, Half Shell abbaiò tre volte. «Half Shell ne ha fiutato uno!!» gridò Bubba. Macchia Nera si fermò e Bubba si mise a correre più forte che poteva,
facendosi luce con la torcia e spezzando dei rami per ritrovare la strada. Saltò oltre rivoli d'acqua e tronchi caduti, battendo forte i piedi per spaventare eventuali serpenti nei paraggi. Quando raggiunse il cane aveva il cuore in gola e il fiatone. Half Shell stava con le zampe anteriori appoggiate al tronco di un vecchio pino e abbaiava furiosamente, scodinzolando. Bubba non aveva dubbi sul fatto che Half Shell avesse seguito a ritroso le tracce del procione arrivando nel posto in cui la preda era già stata e non dove si trovava adesso. Cosicché quando puntò il fascio della torcia subacquea fra i rami senza vedere alcun procione, rimase deluso solo in parte. Prese una coppia di perle, a cui aveva applicato una mano di vernice iridescente, e la lanciò sull'albero, più in alto che poté. Fu soddisfatto nel vedere che erano rimaste appese a un ramo a metà altezza e che alla luce della torcia somigliavano proprio a due occhi di procione. Euforico, restò in attesa di Macchia Nera e Tree Buster accanto al cane che abbaiava senza motivo. «Half Shell ha stanato un procione!» annunciò appena l'amico fu in vista. «Non ci credo» replicò Macchia Nera senza fiato. «Vieni a vedere.» Bubba puntò la torcia verso gli occhietti gialli sul ramo del pino. «Come mai allora Tree Buster non abbaia, se lassù c'è un procione?» domandò Macchia Nera guardando il proprio cane tranquillamente seduto. «Questo non lo so» rispose Bubba. «Ma non puoi dirmi che non l'hai visto.» «Sì che l'ho visto» dovette ammettere Macchia Nera. «Certo che è in una strana posizione. Guarda com'è storto sul ramo.» Bubba tirò fuori il blocchetto del punteggio. «Cento punti per averlo stanato e centoventicinque per averlo bloccato» elencò scrivendo. Macchia Nera era abbattuto. Rimisero i cani al guinzaglio e camminarono cinque minuti nella boscaglia. Al nuovo via, li lasciarono liberi: Tree Buster scattò da una parte, come seguendo una pista, e Half Shell scomparve nel bosco. Dopo una trentina di metri trovò un torrentello e abbaiò tre volte. «Half Shell ha stanato!!» gridò Bubba. Anche Tree Buster abbaiò tre volte, molto più lontano. «Tree Buster ha stanato!!» gridò Macchia Nera. I due andarono ognuno verso il proprio cane. Bubba inciampò in una ra-
dice rischiando di cadere, poi mise un piede dentro un buco e cercò di non pensare ai serpenti. La sua paura era che Macchia Nera scoprisse il trucco e lo abbandonasse nel bosco, dove anni e anni dopo sarebbe stato ritrovato scheletrito da qualche cacciatore. Half Shell continuava ad abbaiare al torrente e Bubba dovette prenderla in braccio per farla passare dall'altra parte. La posò sotto una grande quercia. «Abbaia» le disse. Half Shell non gli ubbidì. «Dai, su» la implorò Bubba. Half Shell rimase lì con la lingua penzoloni e Bubba sospirò. Poi prese un'altra coppia di perle e un tramezzino. Appena glielo mise sotto il naso, Half Shell cominciò ad abbaiare come impazzita. Bubba si alzò in punta di piedi, allungò un braccio e nascose il tramezzino in un buco nel tronco. Mentre Half Shell saltava nel tentativo di raggiungerlo, abbaiando furiosamente, Bubba lanciò le perle fra i rami dell'albero. La cosa andò avanti finché non restarono che venti minuti allo scadere delle due ore previste e Bubba era a novecento punti. Macchia Nera, ancora a cento, stava zitto da quarantacinque minuti e aveva smesso di accarezzare Tree Buster. «Vogliamo finirla qui?» propose Bubba. «Tanto a questo punto non puoi più rimontare.» «No, continuiamo fino alla fine.» Per Macchia Nera l'ultima possibilità era che Bubba desse forfait e si ritirasse prima della fine della gara. Durante una pausa di cinque minuti, decise che non c'erano alternative. Quatto quatto infilò la mano dentro lo zaino e prese il serpente di gomma, tenendo fermo il sonaglio perché non facesse rumore. Poi svolse il filo di nylon e lanciò il finto serpente sopra la testa di Bubba, facendolo atterrare sei metri più avanti. «Cosa cavolo era?» strillò Bubba spaventato. «Che cosa?» chiese Macchia Nera tirando il filo per far suonare il sonaglio. «Oddìo!» esclamò Bubba impietrito, illuminando con la torcia l'enorme crotalo che gli andava incontro a gran velocità. «Aahhh!!!» strepitò barcollando dal terrore, mentre il serpente gli si avvicinava sempre di più.
«Corri, scappa!» gridò Macchia Nera spostandosi per poter muovere liberamente il serpente. Bubba si girò di scatto, prese il revolver e sparò con mano tremante, facendo a pezzi il crotalo di gomma, mentre Macchia Nera si gettava a terra e rotolava fra cespugli e pozze d'acqua. 22 Weed, intirizzito e indolenzito, guardava la città da sotto la coperta puzzolente che divideva con Piccione, il quale si era addormentato dopo essersi scolato un litro e mezzo di Colt 45 Si chiese che cosa stesse facendo Brazil e se la polizia lo stesse cercando. Forse avevano scoperto qualcosa e volevano interrogarlo; forse avrebbero usato la macchina della verità per fargli confessare che era stato lui a pitturare la statua di Davis. Piccione gli aveva offerto soltanto due cracker al burro di arachidi e quattro sorsi d'acqua perché voleva farseli durare. In quel nascondiglio che puzzava più della sede dei Lucci, a Weed venne nostalgia di casa, del frigorifero pieno e del suo letto pulito. Ma no, a casa non ci sarebbe tornato mai più, e non avrebbe mai più rivisto sua madre. Non avrebbe mai più passato un fine settimana con suo padre, anche se, a dire la verità, questo gli dispiaceva solo fino a un certo punto. Avrebbe dovuto restare tutta la vita con Piccione, perché i Lucci non avrebbero mai smesso di dargli la caccia. Non sarebbe mai più stato libero e, nel caso se ne fosse dimenticato, il tatuaggio sull'indice gli avrebbe ricordato in eterno che ormai era uno schiavo. Smaltita la sbornia di birra, Piccione si girò e aprì gli occhi, sistemò la montagnola di roba sporca che gli faceva da cuscino e sbadigliò. Weed gli sentì l'alito pestilenziale a due metri di distanza. «Sei sveglio?» «Preferirei non esserlo.» «Perché fai questa vita, Piccione?» chiese Weed. «Quando hai cominciato?» «Sono stato ragazzo anch'io, come te» rispose Piccione. «Poi sono andato in Vietnam, e una volta tornato a casa ho deciso che non volevo fare più niente.» «Come mai?» «Non mi andava. E continua a non andarmi.» «Neanche a me» fece Weed. «Pensavo di rimanere qui con te, d'ora in
poi.» «Non se ne parla neanche!» esclamò Piccione con un tono che lo fece trasalire. «Tu non hai fatto la guerra, non ti sei fatto maciullare un piede e un pezzo di mano, no? Non sei finito in manicomio finché non ti hanno scaricato in mezzo a una strada perché non ti potevano più tenere, no? Hai mai dormito sul marciapiede in pieno inverno, con un giornale per coperta? Hai mai mangiato un topo?» Weed era allibito. «Hai davvero un piede maciullato?» Piccione alzò la gamba destra e gli mostrò il moncherino. Weed non vide bene perché c'era sopra la calza ed era ancora buio. «E come mai sei stato in manicomio?» Era quella la domanda più importante per decidere se restare con lui o no. «Perché sono paaaazzo!» rispose Piccione roteando gli occhi e facendo finta di tremare. «Non è vero.» Weed calcolò quanto gli ci sarebbe voluto per saltare di nuovo di là della recinzione. «No, ma un po' tocco lo sono. Certe volte ho le allucinazioni, soprattutto di notte. Mi sembra di essere inseguito da persone con un coltello o una pistola in mano, che vogliono tagliarmi un braccio o una gamba e fanno schizzare sangue dappertutto. È una malattia, sai? Ha anche un nome. Ma alla fine dei conti chi se ne frega? Comunque si chiami, se ce l'hai, te la tieni.» Si accese un'altra sigaretta e Weed gli guardò la mano destra, della quale gli restavano solo un pezzo di indice e il pollice. «Da chi stai scappando?» domandò Piccione. «Chi ti dice che sto scappando?» «Lo dico io.» «E allora?» «Dalla polizia?» insistette Piccione. «Non ti preoccupare, ho avuto anch'io qualche problemino con gli sbirri.» «E anche se fosse?» «Be'» fece Piccione respirando con affanno. «Da qualcuno stai scappando di sicuro. Chi è, un tuo compagno? Uno a cui hai rubato una dose?» «Guarda che io non sono un tossico! Si è arrabbiato perché non ho fatto quello che mi aveva detto.» «Si è arrabbiato tanto? Pensi che voglia riempirti di botte?» A Weed vennero le lacrime agli occhi. Se le asciugò sperando che Piccione non se ne accorgesse.
«Ma allora è uno cattivo veramente. Di quelli che ammazzano la gente come se niente fosse?» continuò l'uomo. «Ce ne sono tanti. E il più delle volte non finiscono nemmeno dentro.» Weed bruciava dalla rabbia come il filtro tra le labbra di Piccione, che ora sembrava sgomento. «Sono peggio di quelli che c'erano in Vietnam. Armati fino ai denti. Piacere!... E ti fanno fuori» proseguì. «Almeno laggiù un motivo per ammazzare c'era. Non lo facevamo mica per sport.» «È da un po' che mi tormenta» spiegò Weed. «Mi ha fatto entrare nella sua banda e mi ha fatto un tatuaggio sul dito anche se io non volevo. Così adesso non posso più andare a scuola e perdo le lezioni di disegno e le prove musicali! Ma lui sa dove abito e se torno a casa mi uccide. È peggio del diavolo in persona.» «C'è solo una cosa da fare» meditò Piccione. «Hai detto che la polizia ti sta cercando?» «Forse.» «E perché ti cerca?» «Perché ho pitturato una statua al cimitero.» «Fatti prendere.» Weed rimase di sasso. «Sei matto?» «Così quando sei dentro il diavolo non ti può fare niente.» «Ma io non voglio finire dentro!» «Alla tua età mica ti sbattono in galera! Di fronte alla prigione c'è un altro palazzo, una specie di collegio dove ti danno da vestire e tre volte al giorno da mangiare, più una stanzetta tutta per te. Puoi giocare a basket, guardare la tv, andare a scuola. Se hai bisogno di un dottore o di uno psicologo, ci sono anche quelli. Niente male, no? Dovresti sentire certi balordi per strada: secondo loro è come andare in vacanza. Stronzi maledetti. Più sono giovani e più mi fanno paura. Mi hanno fregato quello che avevo, pestato, ferito e preso a calci nei coglioni. Una volta mi hanno perfino dato fuoco. Così, per scherzo. Tanto non gli fanno mai niente. Li mandano in vacanza due o tre settimane. E quando escono, con le tasche piene di soldi, ricominciano peggio di prima.» «Io non ci voglio andare lo stesso» dichiarò Weed. «Preferisci morire?» «No, no.» «E allora dammi retta: lascia che ti chiudano là dentro prima che il dia-
volo ti prenda» ripeté Piccione. «Magari per quando sarai uscito avrà già fatto una brutta fine. Non durano mica tanto, sai, quelli come lui.» Tre isolati più a sud, in Spring Street, Andy e Virginia stavano ispezionando la recinzione che proteggeva l'eterno riposo di presidenti, governatori, eroi della Guerra di Secessione, rampolli delle antiche casate di Richmond e, da qualche anno a quella parte, di normali cittadini che si erano comprati la tomba lì pur sapendo che, naturalmente, quelle con vista sul fiume erano già tutte occupate. Il sole del primo mattino sfiorava la parte del cimitero di Hollywood rivolta verso il fiume. Andy e Virginia avevano scoperto un buco nella recinzione abbastanza grande da permettere a un adulto di introdurvisi. Dalla ruggine che ne ricopriva i bordi, tuttavia, si deduceva che risaliva a mesi, se non anni addietro. «Ridotto così, non penso proprio che sia entrato da qui» dichiarò Andy continuando a guardarsi intorno. Virginia trovava irritante non esserci arrivata per prima. «Da quando in qua fai il detective? Credevo che fossi un pierre.» «Mai stato un pierre.» «D'accordo. Un giornalista, uno scrittore...» Andy ricordò che doveva consegnare un pezzo che non aveva nemmeno cominciato. Così come non aveva più lavorato al bollettino per il sito web, visto che i computer erano ancora bloccati da quei maledetti pesci. Al manuale, poi, non aveva neppure pensato; anche perché in quel momento non sarebbe comunque servito. «Io sono convinta che da qui sarebbe potuto entrare facilmente» disse Virginia. Andy si infilò nel buco, stando attento a non tagliarsi e a non strappare la divisa. «Hai ragione» replicò. «Vieni?» «No. Questa è stata un'idea tua, non mia. Tanto per cominciare io non sono affatto sicura che tornerà sul luogo del delitto, come dici tu. Cosa ti fa pensare che lo farà?» «Il significato personale, la forte carica emotiva del suo gesto» spiegò Andy. «Non credo che resisterà alla tentazione di venire ad ammirare di nuovo la sua opera. Per Weed non si tratta della statua di Jefferson Davis, ma di un monumento a Twister. Chissà cosa gli passa per la testa in questo momento, poveretto. Voglio assolutamente trovarlo prima che lo becchino
i Lucci.» «Forse l'hanno già beccato» aggiunse Virginia. Andy rifletté, osservando le vecchie lapidi su cui le iscrizioni non si leggevano più. Alberi più antichi della Guerra di Secessione gettavano lunghe ombre e si muovevano al soffio della brezza. «Virginia, io mi fermo qui per un po'. Casomai mi faccio venire a prendere da qualcuno.» Lei esitò, e Andy si rese conto che le dispiaceva sia lasciarlo lì da solo sia che lui non le avesse chiesto di restare. «Va bene» replicò titubante. Poi, in tono decisamente acido, aggiunse: «Con tutti i problemi che ci sono, questa cazzo di città spende una fortuna in un cazzo di cimitero». «A dire il vero è gestito da un'associazione non a fini di lucro formata dai proprietari dei vari lotti, non dal comune» la corresse Andy, che si era documentato. «È una stronzata comunque» ribadì lei andandosene. Lelia Ehrhart, che per l'ottava volta consecutiva era stata eletta presidentessa del consiglio di amministrazione del cimitero di Hollywood, non la pensava così. La sua non era una carica molto impegnativa, visto che la maggioranza dei proprietari dei lotti era morta e sepolta e alle riunioni del consiglio intervenivano quattro gatti che di solito non avevano un granché da dire. A Leila Ehrhart faceva piacere, dato che riteneva di non avere bisogno dei consigli di nessuno. Era stata una sua decisione personale, per esempio, vietare i picnic e il consumo di bevande alcoliche all'interno del cimitero e proibire l'accesso a camper, veicoli con rimorchio, cicli, motocicli, skateboard e pattini a rotelle. Per buona misura, aveva bandito anche jogging, radio e qualsivoglia impianto hi-fi. Per lei il cimitero andava valorizzato come attrazione turistica, come luogo di importanza storica che teneva viva la memoria di illustri personaggi, di molti dei quali si spacciava per discendente. «Questo è molto più di atto vandalico» dichiarò nella sala delle riunioni del Commonwealth Club in cui aveva convocato l'assemblea alle otto per poi anticiparla di un'ora. «Questo è affronto a nostri diritti di libertà e felicità e civiltà. Questi delinquenti giovanili che fanno di sé chiamare Lucci sono criminali offensibili di tutti noi cittadini seduti a questo tavolo.»
Judy Hammer esclusa, visto che era dell'Arkansas e soltanto in quel momento stava varcando la soglia decorata d'edera dirigendosi verso la scala che portava a quel club storico e aristocratico del quale le donne non potevano essere membri ma solo ospiti. In tale veste dovevano risultare accompagnate dal marito o da un altro socio, restando loro comunque inibito l'accesso al Victorian Bar, al Men's Grill, alla piscina, alla palestra, alla sauna e al bagno turco, ai campi di tennis e di squash e alle sale di lettura. Tali restrizioni non turbavano le signore impegnate nei vari comitati organizzatori di attività che andavano dal ballo delle debuttanti alle aste di vini, gioielli e altri articoli di lusso per finanziare le belle arti, dalle mostre di giardinaggio ai ricevimenti di nozze e alle cene della Virginia Federation of Garden Clubs, delle Daughters of the American Revolution, delle Daughters of the Confederacy e delle varie associazioni giovanili, nonché del club delle mogli dei legislatori o delle rappresentanti delle più antiche casate della Virginia. La Hammer era in ritardo di venti minuti. Attraversò di corsa l'ingresso di marmo senza prestare attenzione allo splendido tappeto, all'antico lampadario di cristallo, al divanetto di velluto, agli specchi dorati e al ritratto di George Washington che occupava un'intera parete. Non lasciò la giacca al guardaroba e non notò i quadri di Robert E. Lee e Lighthorse Harry. Il Commonwealth Club, fondato centottant'anni prima da ex ufficiali della Confederazione al fine di "promuovere la socialità e creare una biblioteca" come recitava lo statuto, non le interessava particolarmente. La porta della sala riunioni al primo piano era chiusa. La Hammer la aprì piano piano, mentre Lelia Ehrhart parlava davanti al reverendo Solomon Jackson, consigliere comunale, al sindaco Stuart Lamb, al vicegovernatore June Miller, al presidente della NationsBank Dick Albright, al direttore del "Richmond-Times Dispatch" James Eaton e al presidente del Metropolitan Richmond Convention & Visitors Bureau, Fred Ross. Tutti si voltarono e alcuni le fecero un cenno di saluto con il capo. Avevano l'aria inquieta e spazientita. Il comandante Hammer prese posto. «... Non si tratta solo di città di morti» stava proclamando la Ehrhart in tono autorevole «ma di Walhalla di valorosi portatori di Croce del Sud in cuore di combattenti, sbandieranti di diritti nazionali seppelliti in Hollywood con e senza nome.» Lelia Ehrhart sarebbe potuta essere una bella donna, ma purtroppo doveva fare i conti con alcuni particolari che non la rendevano troppo piacevo-
le. Tanto per cominciare non era bionda come faceva credere, con gli anni si stava scurendo sempre più e questo le comportava visite sempre più frequenti al salone Simon & Gregory. Gli sfibranti allenamenti con il suo allenatore personale, poi, nulla potevano contro il collo troppo lungo, le spalle troppo strette, il seno piatto e i fianchi larghi. Lei cercava di mascherare i suoi difetti meglio che poteva, per esempio coprendoli con abiti di Escada, e quella mattina indossava camicia e gonna arancioni, con orecchini, scarpe décolleté e borsetta coordinati. Judy Hammer, ansimante e accaldata in un tailleur gessato grigio, trovava che sembrasse un'addetta della manutenzione autostradale. «Riposano due presidenti e cinque governatori» continuava la Ehrhart. «Per non dimenticare generali di brigata Armistead, Gracie, Gregg, Morgan, Paxton, Stafford e Hill.» «Hill veramente era generale di divisione» precisò il vicegovernatore Miller. «E tutti i generali che ha menzionato sono stati sepolti a Hollywood solo temporaneamente. In altre parole, non ci sono più.» La Ehrhart, che aveva preso i nomi da un opuscolo, aveva tralasciato di leggere la precisazione fra parentesi, ritenendola priva di importanza. Fu solo in quel momento, perciò, che si rese conto che il suo presunto antenato, il generale Bull Paxton, era fra i sette eroi i cui resti erano stati seppelliti a Hollywood solo temporaneamente. «Non credo» replicò al vicegovernatore con un sorriso, non potendo ammettere un simile errore. «Che lei ci creda o no, è così» ribadì costui, uomo notoriamente dotato di una pazienza infinita. «A Hollywood sono sepolti venticinque generali, ma non i sette che ha specificato lei. Perché non controlla sul suo opuscolo?» «Quale opuscolo?» «Quello che evidentemente non ha letto con sufficiente attenzione» fu la risposta. 23 Bubba, Macchia Nera, Half Shell e Tree Buster avevano passato la notte nel bosco, ma non per scelta. Quando Bubba aveva sparato al serpente di gomma, il suo compagno era rotolato per terra e aveva battuto la testa. Confuso, disorientato e sanguinante, Macchia Nera aveva lasciato tutto nelle mani di Bubba, il quale avrebbe dovuto trovare la strada e tenere i
due cani al guinzaglio perché non si allontanassero in cerca di procioni. «Attento alla radice» avvertì Bubba mentre camminavano in una boscaglia talmente fitta che a lui sembrava la foresta pluviale. «Quanto ci vorrà ancora?» chiese Macchia Nera. «Ormai dovremmo esserci.» Erano otto ore che lo diceva. Macchia Nera era allo stremo delle forze. Meno male che Bubba aveva portato da mangiare, anche se adesso rimpiangeva di aver infilato un tramezzino in quel tronco d'albero per far abbaiare Half Shell. Che cosa non avrebbe dato in quel momento per riaverlo... Per fortuna acqua ce n'era in abbondanza. Fin troppa anzi, visto che tutte le volte che dovevano attraversare un ruscello Half Shell si impuntava e Bubba doveva portarla di peso sull'altra sponda. L'unica cosa che lo faceva andare avanti era la collera. «Non riesco proprio a convincermi che tu abbia potuto farmi una cosa simile» ripeté per l'ennesima volta. Macchia Nera era troppo esausto e disorientato per rispondergli. «Poteva venirmi un infarto. Ti va bene che non sono uno violento.» Arrivarono a un altro ruscelletto; era poco profondo, ma Half Shell non ne volle sapere di attraversarlo. «Adesso basta» dichiarò Bubba. «Non ce la faccio più. Ecco, vi tolgo il guinzaglio e andate avanti da soli.» Tree Buster corse via fra i cespugli e abbaiò tre volte nell'indifferenza generale. Half Shell andò verso sinistra; ogni due o tre passi si voltava verso il suo padrone e gli rivolgeva occhiate piene di affetto. «Cosa c'è?» le chiese Bubba. Half Shell corse avanti tre metri e si voltò di nuovo. «Dove mi vuoi portare?» le domandò. Half Shell abbaiò. I due la seguirono per tre quarti d'ora, mentre Tree Buster continuava a trovare procioni e si meravigliava che nessuno gli dicesse niente. Si stava alzando la nebbia e i primi raggi di sole cominciavano a filtrare fra le fronde. Quando finalmente giunsero in una radura e videro il camioncino di Macchia Nera sulla strada fangosa, parve loro un miraggio. Piccione si avventurava fuori alle prime luci dell'alba per evitare l'ora di punta e soprattutto per fare provviste prima che i camion della nettezza urbana svuotassero i cassonetti. Spesso scopriva tesori inaspettati, come soldi, gioielli e roba da mangiare che la gente, ubriaca, si dimenticava in giro. Una volta aveva addirittura
trovato un Rolex e lo aveva portato al banco dei pegni: con i soldi che gli avevano dato si era mantenuto comodamente per mesi. Anche cellulari, calcolatrici e cercapersone erano abbastanza frequenti, e una mattina aveva trovato perfino una pistola. «Resta qui, se vuoi» accennò a Weed. Weed era seduto sulla coperta e non sapeva cosa fare. Alla luce del giorno la situazione gli sembrava ancora più tragica, dato che era più difficile nascondersi. «Ci saranno pure dei posti dove il diavolo non va» disse Piccione. Weed ci pensò su. «Al cimitero» decise. A Piccione venne un'idea. «Non lasciano niente sulle tombe? Magari vino, qualcosa da mangiare, una bottiglia di whisky o una scatola di sigari della marca preferita dal morto? Sai, come facevano nelle piramidi.» «Quando ci sono andato io era buio» rispose Weed. «Non ho visto niente, a parte le bandiere. Ma è enorme.» Il mondo non era abbastanza grande per tutte le automobili che lo percorrevano e questa era una fortuna, per l'agente Otis Rhoad. Erano quasi le sette e mezzo e presto sarebbe stata l'ora di punta. Si sarebbero messe in moto migliaia di automobili, guidate da pendolari solitari, indifferenti al buco dell'ozono e gelosi del proprio diritto di andare e venire come e quando gli pareva, seguendo i percorsi che più preferivano. Rhoad svoltò, accendendosi una Carlton al mentolo, con un occhio sullo specchietto retrovisore e l'altro sul semaforo giallo. Il tizio sulla Camaro alla sua destra accelerò, certo di riuscire a passare prima del rosso. E ci riuscì veramente, con notevole disappunto di Rhoad. L'agente Otis Rhoad era alto, magrissimo, lievemente strabico e prossimo alla sessantina. Da giovane, quando abitava a sud del fiume, sognava di fare il disc-jockey o il cantante. Invece non c'era riuscito e, dopo le superiori, era entrato nella polizia di Richmond. Durante la prima settimana di accademia aveva imparato a usare correttamente la radio e a effettuare comunicazioni riservate, oltre a memorizzare i settori di intervento con relative frequenze, l'alfabeto fonetico e i codici dieci. Quando finalmente aveva cominciato a girare per le strade della città, aveva fatto un uso smodato, per quanto corretto, del microfono, immagi-
nando di essere il DJ che non era mai diventato. La sua voce tonante e il suo numero di unità venivano accolti con sgomento e raccapriccio dalla maggioranza degli agenti, dei centralinisti e degli operatori del 911, i quali mal sopportavano la sua abitudine di intromettersi sempre e comunque con comunicazioni spesso superflue e non vedevano l'ora che venisse trasferito in un ufficio, alla manutenzione o alla rimozione forzata: insomma, che si togliesse dalle strade e tacesse una volta per tutte. I comandanti che avevano preceduto Judy Hammer, tuttavia, erano molto attenti alle quote e Rhoad non si lasciava sfuggire nessuno che superasse il limite di velocità, andasse contromano, passasse con il rosso, non rispettasse gli stop, facesse inversione dove era vietato, guidasse pericolosamente o in stato di ebbrezza e fingesse di non sentirlo quando inseriva la sirena. Con la maturità Otis Rhoad si era ritrovato a un bivio e aveva deciso che la guerra che combatteva contro le violazioni al codice della strada non era nulla di fronte a quel male endemico e terrificante che era la penuria di posteggi. Si era pertanto dedicato alle vetture lasciate in sosta a parchimetro scaduto, negli spazi riservati ai portatori di handicap o sulle aiuole, in prossimità di cunette o dossi, passi carrabili, marciapiedi e piste ciclabili. Aveva cominciato a girare con il libretto delle contravvenzioni anche quando era fuori servizio, soprattutto dopo che il comune aveva abolito la sosta gratuita nei posteggi a pagamento durante le ore notturne e i festivi. Rhoad prese il microfono. Mancavano sei minuti e quaranta secondi alle sette e cinquanta, ora in cui sarebbe scattato il parchimetro davanti all'auto di Patty Passman, della sala radio. Era possibile che Macchia Nera avesse riportato una lieve commozione cerebrale, ma non volle farsi portare in ospedale e Bubba non lo lasciò guidare. Doveva ammettere che il suo camioncino si guidava benissimo e questo aumentò il risentimento che provava da tempo immemorabile: Macchia Nera era come tutti gli altri, che lo avevano deriso e ferito fin da quando era bambino. «Bell'amico sei» borbottò vedendo che l'altro dormicchiava. «Mi hai venduto quella bagnarola e hai boicottato la mia linea per vincere la gara di produzione tutti i mesi. Per non parlare del fatto che mi fai pagare le sigarette che tu prendi gratis.» «Scusa, hai detto qualcosa?» borbottò Macchia Nera mentre Bubba en-
trava nel vialetto di casa sua, dove aveva parcheggiato la Cherokee la sera prima. «Mi devi mille dollari.» Macchia Nera si svegliò di colpo. Si tirò su a sedere e sbatté gli occhi, guardandosi intorno. «Dove siamo?» chiese. «Davanti a casa tua» rispose Bubba. «Non cambiare discorso, Macchia Nera. Ho vinto io.» Stava per aggiungere "in modo più che regolare", ma evitò, pensando alle perle che aveva fatto passare per occhi di procione. «Come?» fece Macchia Nera. «Che cos'hai vinto?» «La scommessa.» «Quale scommessa?» «Lo sai benissimo!» «Oddìo» esclamò Macchia Nera. «Credo di avere un'amnesia. Non so nemmeno dove siamo. Non mi raccapezzo più. Dove siamo?» «Nella tua bella casa di Brandermill!» A Bubba venne voglia di dargli un'altra botta in testa. «Con tanto di piscina e Range Rover nuova di zecca nel garage. Perché a te non te ne frega niente di comprare prodotti americani o di sostenere la Philip Morris, che non ti paga uno stipendio sufficiente a permetterti tutte queste cose! Sei un bugiardo, un ladro, un imbroglione!» Macchia Nera aprì la portiera e per poco non cadde per terra. Bubba prese Half Shell e la fece salire sulla jeep. La moglie di Macchia Nera uscì di corsa per dare una mano al marito e lanciò un'occhiataccia a Bubba che stava facendo retromarcia. Lui non si fermò a dare spiegazioni e se ne andò a gran velocità dal quartiere elegante in cui viveva il suo ex amico. Prese Midlothian Turnpike e cominciò a superare tutte le automobili che trovava sulla sua strada. Faceva fatica a stare sveglio, ma questo non gli impediva di correre. Ce l'aveva con il mondo intero. Non si lasciava sorpassare e se le macchine dietro gli si avvicinavano troppo rallentava bruscamente. Spense l'apparecchio CB perché non aveva voglia di parlare con nessuno. Non chiamò neppure Dolcezza, tanto l'avrebbe vista poco dopo. Staccò perfino il telefono. All'altezza del Cloverleaf Mall la iella, o forse il karma negativo, colpì ancora. Cominciò quando fu sorpassato da una donna tatuata a bordo di una Harley-Davidson, con i capelli biondi tinti che uscivano dal casco ros-
so. «Ehi!» gridò Bubba come se quella potesse sentirlo. «Cosa cazzo credi di fare?» La donna sfrecciò avanti e Bubba premette il piede sull'acceleratore cambiando corsia per tenerle dietro, uscì come lei a Oak Glen e la seguì in Carnation e Hioaks, oltre la sede del Virginia Department of Corrections, e poi giù per Wyck Street verso Everglades Drive. Era troppo stanco e di cattivo umore per rendersi conto che quella donna lo stava prendendo in giro. Quando la moto riprese Midlothian Turnpike, Bubba si immise senza guardare e scatenò un coro di clacson e di imprecazioni. Una donna al volante di una Toyota Corolla gli fece un gestaccio. Un momento dopo si ritrovò alle spalle un'auto della polizia con i lampeggiatori accesi. Questa volta l'agente Budget azionò anche la sirena. Bubba accostò esattamente presso lo stesso Kmart dove avevano già fatto conoscenza. 24 Patty Passman era sovrappeso, con i capelli prematuramente grigi e una brutta pelle. Era single, scorbutica e soffriva di crisi ipoglicemiche, ma non era scema e sapeva benissimo che il suo parchimetro in 10th Street stava per scattare. Se non ci fosse arrivata prima di lui, Otis Rhoad le avrebbe fatto l'ennesima multa. Ormai ne prendeva in media due alla settimana, a sedici dollari l'una. Naturalmente le sarebbe costato meno lasciare la macchina nel nuovo parcheggio, anche se era un po' più lontano, ma quel giorno non aveva trovato posto ed era stata costretta a posteggiare lungo la strada, dove Rhoad passava la giornata a segnare con il gesso i pneumatici e a fare la posta ai parchimetri con il blocchetto delle multe in mano. Quando Budget riconobbe la Cherokee rossa, non riuscì a credere di aver fermato la stessa persona esattamente nello stesso punto. Gli venne il dubbio che fosse uno squilibrato, che lo facesse apposta, come quelli che si fanno venire tutti i malanni di questo mondo pur di andare dal dottore. La jeep si fermò nel parcheggio del Kmart, davanti alla First Union Bank, proprio come l'altra volta. Budget scese e si avvicinò. L'uomo alla guida indossava una maglietta e un paio di pantaloni mimetici, e aveva la faccia sporca e lo sguardo vitreo. Sul sedile posteriore c'era una gabbia con
dentro un cane. Budget bussò sul finestrino e Bubba lo abbassò. «Scenda, per favore» disse l'agente. «Guardi, se non le dispiace le do libretto e patente come l'altra volta e la facciamo finita. Sono stato a caccia tutta la notte e non mi reggo in piedi.» Incredibile: come si permetteva di trattarlo con una simile sufficienza? Si sarebbe rivolto così anche a un bianco? «A caccia, eh?» fece Budget gelido. «E di cosa?» Aprì la portiera e lo squadrò. Aveva voglia di mettergli le mani addosso e per un attimo meditò di farlo, sperando di cavarsela come Rodney King. Ma non erano in California. «Di procioni» rispose Bubba. «Li staniamo e li abbagliamo con una torcia, perché di questa stagione non gli si può sparare. Veramente fanno tutto i cani. Cioè, sono loro che li stanano.» Parlava in modo concitato, con i nervi a fior di pelle. Budget guardò Half Shell, che gli parve abbastanza docile. «Che cani usate? Bull terrier? Doberman?» Budget era incattivito. «No, no. Cani da caccia.» «Come questo?» chiese indicando Half Shell. «Proprio così.» Budget osservò di nuovo il cane, che lo guardava a sua volta. A un certo punto si mise ad abbaiare e ad agitarsi. Budget fece un passo indietro. «Stia fermo lì. E non faccia scendere quel cane dalla macchina.» Patty Passman stava per correre a mettere altri soldi nel parchimetro quando in cuffia le giunse la chiamata dell'unità duecentodiciotto. «Unità due-uno-otto. Servizio traffico» esordì Budget. «Sono in ascolto, due-uno-otto» fece lei, stressata, guardando l'orologio. «Sono in Midlothian Turnpike all'altezza del numero 6080, con un BoyUnion-Boy-trattino-Adam-Henry.» «Dieci-quattro, due-uno-otto, ore 07,48» replicò la Passman, disperata. Bubba premette il pulsante dell'accendisigari e notò la canna della sua Colt Anaconda .44 che spuntava da sotto il sedile. Gli vennero i sudori freddi: non aveva il permesso per portare armi nascoste. Diede un calcio al revolver, cercando di nasconderlo meglio, però non riuscì a muoverlo neanche di un millimetro: la canna d'acciaio continuava a brillare al sole, in piena vista. Allora allungò la mano destra, ma senza
chinarsi non ci arrivava e non voleva insospettire Budget. Riprovò con il piede e si rese conto che il revolver era incastrato. C'era solo da sperare che non si fosse agganciato o impigliato in qualcosa in corrispondenza del grilletto, magari un buco nel tappetino marcio, e che al minimo movimento non partisse un colpo. Andy si trovava in uno stato poco invidiabile. Stava scoppiando dal caldo, i moscerini lo innervosivano e si sentiva la vescica sul punto di esplodere. Per liberarsi si era infine appartato dietro un cespuglio di azalee, in prossimità di alcuni monumenti a forma di alberello che avevano a che fare con la compagnia di assicurazioni Woodmen of the World. Era stufo di aspettare Weed e non voleva ammettere che Virginia aveva ragione. Ma il peggio era dover chiedere un passaggio via radio. Al solo pensiero gli veniva il voltastomaco. Tutti i poliziotti e i cittadini provvisti di scanner avrebbero saputo che si trovava solo e appiedato al cimitero di Hollywood. Si immaginava già le battute e le prese in giro. "Ti hanno assegnato alla ronda eterna?" «Unità undici» disse alla radio. «Sono in ascolto, undici» rispose pronta la Passman. «Mi serve un dieci-venticinque dal cimitero di Hollywood.» «Dieci-quattro, undici, ore 07,49. Cinque-sei-due?» «Unità cinque-sei-due» rispose Rhoad. Andy riconobbe il numero del multatore folle e gli venne male. Non chiederai a lui di darmi un passaggio, vero? «Cinque-sei-due, urge dieci-venticinque dal cimitero di Hollywood» gli comunicò la Passman, tesa. Non era la prima volta che cercava di distrarre Rhoad perché non la multasse per divieto di sosta e Rhoad non intendeva cascarci più. «Cinque-sei-due, qual è il tuo dieci-venti?» chiese la Passman a Rhoad. «Unità cinque-sei-due. Broad, all'altezza di 14th Street» rispose. «Dieci-quattro, cinque-sei-due, ore 07,50» «Unità cinque-sei-due» ripeté Rhoad. «Sono in ascolto.» «Unità cinque-sei-due» disse. «Prima devo fare una cosa. Diciamo che potrei dieci-trenta l'unità undici con un dieci-ventisei intorno alle ore 08,30.» «Undici» intervenne Andy. «Potreste mandarmi un'altra unità? Preferirei non aspettare fino a quell'ora.»
Patty Passman era in preda al panico. Guardò l'orologio e diede un gran morso alla sua pasta al cioccolato. «Undici, dieci-dieci» disse. «Tutte le altre unità sono dieci-sei.» «Per favore, dieci-nove.» «Non è necessario: tutte le altre unità sono dieci-sei» ripeté. Era una bugia. Tutti quelli collegati sapevano che fino a quel momento il traffico radio era stato particolarmente scarso e nulla stava a indicare che tutte le altre unità fossero impegnate. «Dieci-dodici.» Era il segnale di restare in attesa. «Undici» fece Andy con voce irritata. «Dieci-cinque Unità cinque-seidue per avere il suo dieci-venti.» «Cinque-sei-due» intervenne Rhoad senza aspettare che gli venisse riferito il messaggio, dal momento che aveva capito che cosa voleva l'unità undici. «Dieci-venti Broad, all'altezza di 9th Street.» «E possibile un dieci-venticinque immediato o no?» «Dieci-dieci. Prima devo fare una cosa.» «Centrale, non mi potete mandare qualcun altro?» insistette Andy. «Dieci-dieci, undici. Cinque-sei-due è già per strada.» «Cinque-sei-due. Non è vero. Prima devo fare una cosa.» Patty Passman finì di mangiare la pasta. «Ho bisogno di un dieci-venticinque al più presto» ribadì Andy. «Cinque-sei-due. Ora non posso, undici.» Intervennero altri poliziotti con commenti divertiti e battutine. «Unità cinque-sei-due e Unità undici» concluse la Passman. «Dieci-tre.» All'ordine di interrompere la comunicazione seguì un breve silenzio. «Cinque-sei-due» riprese Rhoad, che non riusciva a trattenersi. «Diecinove.» «Dieci-tre» ordinò la Passman per l'ultima volta. «Undici?» disubbidì Rhoad. Nessuna risposta. «Undici?» ripeté Rhoad, che parlava velocemente per cercare di mettere a tacere la Passman, la quale non gli era certo da meno e non mancava di rispondergli male. «Tutto dieci-quattro?» «Negativo!» sbottò Patty Passman. «Assolutamente negativo, cinquesei-due. Tutto dieci-dieci!»
Le tremavano le mani e le girava la testa: era furibonda al pensiero che in quella dannata città non ci fosse un parcheggio riservato agli onesti lavoratori come lei, che passava otto ore al giorno in una stanzetta senza finestre a parlare con degli scimuniti come Otis Rhoad. Il tasso di glucosio nel sangue le salì di colpo. Poi entrò in gioco l'insulina e la glicemia scese più in basso di prima. Quando Patty Passman si alzò vide tutto nero e rischiò di svenire e di rovesciare il caffè. Corse fuori dalla sala radio lasciando che fossero gli altri operatori a rispondere alle chiamate. L'agente Budget aspettava da una decina di minuti che Patty Passman lo richiamasse. Finalmente trovò un altro operatore e chiese un dieciventisette e un dieci-ventotto sull'auto di Bubba. Rimase deluso, ma non sorpreso, nello scoprire che la patente rilasciata a Butner U. Fluck IV era valida fino al 2003 senza limitazioni di sorta e che la Cherokee rossa era intestata allo stesso, residente in Clarence Street, a Richmond. «Merda!» esclamò. Scese dall'auto e si avvicinò di nuovo alla jeep, lieto di vedere che l'uomo alla guida aveva l'aria spaventata. «La devo multare per guida pericolosa» dichiarò facendo del proprio meglio per mettere a disagio quel razzista strafottente. «E sono stato clemente, Mr Fluck. Quindi, per favore, non mi...» «No!» lo interruppe Bubba, alzando un braccio come se temesse di essere colpito. «... manchi più di rispetto» concluse Budget restituendogli i documenti. Patty Passman stava scendendo i gradini di metallo a passi pesanti, con il cuore in gola per la paura di non arrivare in tempo. Superò la doppia porta a vetri respirando affannosamente. Vide Rhoad che si fermava accanto alla sua Cadillac Fleetwood bianca del 1989 e inciampò, ma riuscì a non cadere e proseguì. «Un momento!» gridò al collega, ormai pronto con blocchetto e penna in mano. «Sono qui!» Il display sul parchimetro mostrava chiaramente che il tempo a sua disposizione era scaduto. «Mi dispiace» le disse Rhoad. «Cosa me lo dici a fare, stronzo che non sei altro?» sbottò lei con il poco
fiato che le restava. Lui, imperturbabile, segnò il numero del parchimetro, il tipo di veicolo in questo caso, A per autovettura - il modello e la targa. Poi infilò il foglietto debitamente compilato sotto il tergicristallo. Patty Passman gli si avvicinò, furibonda, sudata e ansante, e gli rivolse uno sguardo omicida. «Se tu avessi chiuso quella tua dannata boccaccia, sarei arrivata in tempo!» gridò. «È colpa tua! È sempre colpa tua, perché sei uno stupido imbecille, un coglione rotto in culo e per giunta strabico!» Si avvicinò a grandi passi alla Cadillac, prese la multa e gliela sbatté sul naso per poi ficcargliela nel colletto della camicia inamidata, staccandogli la cravatta allacciata con l'automatico. «Adesso esageri» la ammonì Rhoad. La Passman gli fece un gestaccio. «Sei in arresto!» esclamò lui. Il traffico intanto rallentava e la gente si fermava per non perdersi uno spettacolo un po' diverso in un mercoledì mattina come tutti gli altri. «Ficcatelo nel culo» gridò la Passman. «Brava, fatti rispettare!» la incitò una donna a bordo di una Acura. Rhoad cercò le manette, mentre la Passman continuava a ricoprirlo di improperi fra gli applausi della folla che si era raccolta tutto intorno, con l'ipoglicemia che la spingeva irrimediabilmente in un baratro di irrazionalità e violenza. Rhoad le afferrò i polsi, beccandosi per tutta risposta un calcio negli stinchi e uno sputo in faccia. Con una smorfia, le torse il braccio sinistro dietro la schiena mentre lei gli mollava un pugno nel collo con la destra. Erano anni che Rhoad non metteva le manette a qualcuno e aveva perso l'allenamento, perciò sbagliò mira e gliele chiuse sull'osso. La Passman lanciò un urlo di dolore, finché lui, a furia di trafficare, riuscì a fargliele scattare intorno al polso sinistro. «Forza!» gridò una voce da una Corvette nera. Patty Passman allungò la destra e afferrò Rhoad per lo scroto, stringendo più che poteva. 25 La nipotina di Ruby Sink, Loraine, aveva un anno. Era ancora tormentata da un gran febbrone, dopo aver costretto la madre a passare la notte in bianco.
«Povera bambina» disse Miss Sink al telefono. «La tieni in braccio? Le hai dato un'aspirina per bambini?» «Sì, sì, zia» rispose Frances, la madre. «Non so cos'altro fare. Se perdo un altro giorno di lavoro... Sai, non vorrei che mi licenziassero, con tutti i disoccupati che ci sono in giro.» Miss Sink sentiva Loraine strillare e la immaginò con la faccia rossa come un peperone. Mandarla al nido o chiamare una baby-sitter era fuori discussione: Ruby Sink non avrebbe permesso che una bambina in quelle condizioni rimanesse con un'estranea. E poi era meglio evitare che contagiasse qualcuno. «Se vuoi, la vengo a prendere io, così tu vai a lavorare» si offrì. «E sarà meglio che cominci a prepararti.» «Già» replicò Frances. «Non mi sono neanche fatta la doccia ancora.» «Vengo subito» disse Miss Sink. «Vedrai che io e Loraine ci divertiremo moltissimo insieme.» «Se la febbre non le passa, chiama il dottor Samson. Giusto per sicurezza.» «Certo.» «Grazie, zia Ruby.» «Tanto sarei uscita comunque» spiegò Miss Sink. «Sono rimasta con due dollari soltanto e devo saldare un sacco di conti in giro.» «Tu piangi sempre miseria, zia, ma la mamma sosteneva che eri la persona più ricca che conosceva.» Miss Sink si intristì al pensiero della sorella morta: non le restava più nessuno, a parte Frances e Loraine, e questo le dava una tristezza insopportabile. «Perché non ti fermi a cena da me intanto che vieni a prendere Loraine?» propose alla nipote. «Che cosa prepari di buono?» «Pensavo di invitare anche quel poliziotto di cui ti parlavo» disse. «È un gran bell'uomo ed è molto simpatico. Sai, quello che scrive sul giornale? Quel giovanotto a cui ho affittato la casa di Plum Street?» «Ah, è lui? L'ho visto in fotografia. Per l'amor del Cielo, zia, è troppo giovane per me!» «Sciocchezze» tagliò corto Miss Sink. «L'età non è più un problema, al giorno d'oggi.» «Cosa vuoi che ci trovi un uomo così in una come me?» «Sei una bella figliola anche tu.»
«Sono più vecchia di lui e ho una figlia, zia. Guarda in faccia la realtà.» «Pensavo di preparare il pollo fritto con il sesamo e insalata di pomodoro e formaggio condita con aceto balsamico.» «Dove pensi di trovare i pomodori in questa stagione?» «Non scordarti che li metto sott'olio» rispose zia Ruby. «Adesso ti saluto, altrimenti arrivo troppo tardi.» Divinity fu la prima a notare la Cherokee rossa ferma nel posteggio del Kmart, a una trentina di metri dalla First Union Bank. «Guarda un po'» disse. «Una bella jeep vuota e con il motore acceso. Sembra proprio che stia aspettando noi.» «Peccato che noi non la vogliamo» replicò Smoke. Smoke stava seguendo il filo dei propri pensieri, concentratissimo. Era andato a prendere Divinity al McDonald's di West Broad Street dove lei gli aveva dato appuntamento chiamandolo sul cercapersone. Adesso gli teneva la mano sulla coscia, ma in quel momento era un'altra la cosa che lo eccitava: aveva notato un'anziana signora al volante di una Chevy Celebrity antidiluviana parcheggiare davanti allo sportello automatico della banca. «Non mi dire che hai messo gli occhi su quella!» protestò Divinity. «La vecchiaccia sulla carretta?» «Quelli che vanno in giro sulle macchine nuove non hanno un soldo» sentenziò Smoke osservando la donna che frugava nella borsetta. Posteggiò la Escort in un punto nascosto dietro la banca. «Mettiti in coda dietro di lei» ordinò a Divinity. «Ma perché? Preleverà a dir tanto trenta dollari. Prendiamo la jeep, piuttosto.» La ragazza si stava mangiando con gli occhi il fuoristrada, chiedendosi come si facesse a essere tanto imbecilli da lasciare una macchina aperta e con il motore acceso. Smoke le infilò una mano fra le cosce. Divinity rise e gli restituì la carezza. «Okay, okay» gli disse. «Come vuoi tu, tesoro.» Miss Sink non presagì alcun pericolo e continuò a frugare nella borsetta. Pensava che quello fosse uno sportello sicuro perché era proprio davanti al parcheggio del Kmart, che apriva alle otto. C'erano già diverse persone che aspettavano di entrare per accaparrarsi le occasioni migliori. Loraine, sul seggiolino fissato al sedile posteriore, era stranamente silenziosa. Era ben coperta e non piangeva. Miss Sink scese dalla macchina,
continuando a cercare il portafoglio. Stava tentando di ricordare quando l'aveva usato l'ultima volta e dove poteva averlo dimenticato. Non aveva più la memoria di una volta, benché spesso si arrampicasse sugli specchi pur di negarlo. In un primo momento non prestò attenzione alla ragazza che le si era messa alle spalle e rovistava in una borsa di jeans. «Non riesco mai a trovarci niente» borbottava questa. «Divento matta!» Miss Sink si voltò e rimase un po' scioccata: la ragazza aveva una faccia truce, minigonna vertiginosa, canottiera aderentissima, giacca a vento dei Chicago Bulls e orecchini alle orecchie, al naso e perfino sul sopracciglio. Era di moda, d'accordo, ma Miss Sink continuava a pensare che non ci fosse molta differenza fra il piercing e certe mutilazioni che si vedevano sul "National Geographic". «Non capisco dove posso aver messo quel benedetto portafoglio» esclamò stizzita. Lanciò un'occhiata verso la macchina sperando che con l'aspirina Loraine stesse un po' meglio e si addormentasse. Quando la ragazza fece un passo verso di lei, si allarmò. Improvvisamente a disagio, tirò un sospiro di sollievo nel vedere un giovane con la faccia da bravo ragazzo spuntare da dietro la banca. «Che coda!» esclamò questi, in tono cordiale. Era vestito alla moda, ma pulito e in ordine, con un paio di pantaloni larghi e una maglietta dei Chicago Bulls. Miss Sink gli accennò un sorriso. «Buongiorno, signora» disse il ragazzo. L'anziana donna trovò quello sguardo inquietante, troppo intenso, un po' fisso. In quegli occhi lesse qualcosa cui non volle dare retta. Intanto la ragazza dietro di lei si era messa in una posizione strana, quasi volesse tenersi fuori della portata della telecamera, e Miss Sink incominciò a provare paura: aveva bisogno di credere che quel ragazzo potesse proteggerla. «Invenzione pericolosa, lo sportello automatico: sputa banconote come se fosse il Monopoli» commentò il ragazzo, anch'egli fuori del raggio d'azione della telecamera. «Non dirlo a me» fece la ragazza. «E qualche giorno che ci vengo in continuazione, manco fosse un distributore di caramelle. Certo che, se si sbrigassero...» Miss Sink pensò che il ragazzo fosse di buona famiglia e che magari avesse intenzione di prelevare qualcosa prima di andare a scuola. Probabilmente frequentava uno di quegli istituti privati come il Saint Christopher's
o il Collegiate. «Io avrei una certa fretta...» disse forte la ragazza, facendo un sacco di smorfie e alzando gli occhi al cielo. «Non posso mica stare qui tutto il santo giorno!» aggiunse con un'occhiataccia a Ruby Sink. «Mi scusi» balbettò Miss Sink continuando a frugare nervosamente nella borsetta. «Spero solo di non averlo perso. Oh, santo cielo!» «Se non lo trova, cara signora, mi lasci almeno passare avanti.» «Calmati, ragazzina» intervenne il giovanotto. Si avvicinò a Miss Sink, ma sempre senza farsi riprendere dalla telecamera. «Sbaglio o la signora è arrivata prima?» «Senti, io ho già la mia Visa in mano. Guarda che nessuno può permettersi di trattarmi così. Mica per niente mi chiamo Divinity! Sono più divina io di Cristo in croce.» «Ma che razza di discorsi!» esclamò Miss Sink indignata. «Preghi il Signore che la perdoni, perché quella che lei ha detto è una bestemmia.» «Preghi lei che non le stacchi la lingua a morsi» ribatté Divinity. «Ma come ti permetti?» le disse il giovanotto. «Vaffanculo, ragazzino.» Quando finalmente Miss Sink trovò il portafoglio, le tremavano a tal punto le mani che la carta di credito le cadde per terra. Si chinò a raccoglierla e nell'agitazione rischiò di cadere anche lei, facendosela sfuggire di mano un'altra volta. Nel frattempo quell'impertinente che si chiamava Divinity continuava a sbuffare e a dire parolacce. Miss Sink riuscì a infilare la carta nello sportello automatico e a digitare il codice segreto. Ritirò le banconote da venti dollari, nauseata dal profumo e dalla maleducazione di Divinity. «Con tutti quei soldi altro che il biglietto dell'autobus, ci si compra» la schernì la ragazza. «Per favore, mi lasci in pace» replicò Miss Sink con un filo di voce. «Non mi dire che cosa devo o non devo fare!» replicò Divinity con un tono da far accapponare la pelle. «Non la stia neanche a sentire» intervenne il giovanotto. «Venga, la accompagno alla macchina.» «Oh, grazie.» A momenti lo prendeva per mano. «Lei è così gentile, non so come ringraziarla.» Con la coda dell'occhio vide Divinity che strappava un pezzo di nastro adesivo e lo metteva sopra l'obiettivo della telecamera. «Forse dovremmo chiamare la polizia» sussurrò Miss Sink al suo ac-
compagnatore, mentre questi le apriva la portiera. Nel vedere che saliva in macchina anche lui, la donna si stupì non poco. «Faccio un pezzo di strada con lei, per sicurezza» le spiegò. Miss Sink notò che Divinity era rimasta davanti allo sportello e temette per il prossimo incauto che si fosse fermato a prelevare. Si voltò a controllare Loraine che, per fortuna, si era addormentata. Chiuse la portiera e mise in moto. «Quella ragazza ha una faccia che non mi piace» disse il giovanotto. «A volte i ladri lavorano in coppia, sa. Non vorrei che il suo compagno fosse qui intorno. C'è qualcosa che non mi quadra. Avrà sentito parlare anche lei di tutti questi scippi...» «Ma certo!» rispose Miss Sink. «Per fortuna c'era lei a farmi da angelo custode. Mi ha detto come si chiama?» «Tutti mi chiamano Smoke.» «Spero che non fumi, però. Sa, io un tempo fumavo. Le posso assicurare che smettere è molto difficile.» «Non mi chiamano Smoke perché fumo...» Miss Sink cominciò a fare retromarcia mentre la telecamera riprendeva il nulla. «... ma perché da bambino davo fuoco agli animali» continuò Smoke a denti stretti, tirando fuori la pistola dai pantaloni e colpendola con la canna fra le costole. «O mio Dio!» esclamò Ruby Sink. «Oh, no!» «Non mollare il volante» le ordinò lui. «Vai da quella parte. Dietro il Kmart.» «Oh, per favore...» implorò la donna. «Guardi che ho la bambina sul sedile dietro. Le do quello che vuole, ma non le faccia del male.» «Sta' zitta, vecchiaccia!» Smoke vide Divinity che andava a prendere la Escort dietro la banca, dove lui l'aveva lasciata, e si immetteva nel traffico che scorreva lentamente verso il centro. Sentendo cattivo odore, pensò che fosse la bambina sul sedile posteriore. «Cazzo!» esclamò poi, rendendosi conto che la sua vittima aveva perso il controllo degli sfinteri. «Ma che schifo!» «Mi scusi, non l'ho fatto apposta. Io...» «Sta' zitta, t'ho detto. Adesso guida normalmente e non provare a fare scherzi, altrimenti faccio saltare le cervella alla poppante qui dietro sotto i
tuoi occhi, capito?» «Prenda quello che vuole, ma lasci stare la bambina» lo implorò. «La prego. Le do tutto quello che...» «Sta' zitta!» sibilò Smoke. Miss Sink piangeva e batteva i denti per la paura. Portò la macchina dietro al Kmart e la lasciò in fondo, vicino agli alberi. Smoke le prese il portafoglio e tirò fuori le dieci banconote da venti che aveva appena prelevato. Le prese anche due dollari e sessantadue centesimi che aveva nel borsellino e le monete che teneva in macchina per pagare i pedaggi. Di strapparle orologio e collana non valeva la pena, anche perché andare al banco dei pegni era un rischio. La vecchia puzzava talmente che gli veniva da vomitare e la bambina si era svegliata e aveva cominciato a frignare. «Loraine, sta brava, tesoro. Su, bella, non piangere. Io mi chiamo Ruby Sink, e questa è mia nipote Loraine» si presentò. «Non ci faccia del male, la prego. Per l'amor del cielo, avrà anche lei una madre, una nonna...» «Sta' zitta! Smettila di rompermi i coglioni, vecchiaccia!» Smoke accese la radio e la bambina cominciò a gridare. «Sta' zitta!» gridò anche a lei. «Oh, santo Dio, non ci faccia del male, la prego! Oddìo, oddìo. Senta, pensi a quello che fa! Lei è un ragazzo intelligente, non si cacci nei guai!» «Io le vecchie brutte come te le odio, sai? Perciò chiudi quella cazzo di bocca e ringrazia che non ti faccio dell'altro, capito? E che puzzi da far schifo...» le disse gelido. «Adesso chinati sul volante, così non mi vedi quando esco. Okay?» «Okay» bisbigliò lei. Posò la testa sul volante e chiuse gli occhi, nascondendosi il viso fra le mani. Non si mosse e respirò appena. Annie Lennox cantava alla radio, mentre lui frugava nel vano portaoggetti e Loraine piangeva. Smoke rovesciò il contenuto della borsetta per terra e raccattò un pacchetto di gomme da masticare alla menta, il tagliaunghie e un flacone di Atavan. «Grazie mille, Miss Sink» le disse. «Mi raccomando, Loraine, cresci e fai la brava. Non dimenticatevi di me, okay?» Scoppiò a ridere. Si mise in bocca una gomma e si guardò in giro. Non c'era nessuno. «Mi hai visto in faccia» disse. «Mi riconosceresti, vecchiaccia.» «Macché, io non ci ho fatto neanche caso. Oh, la prego...» «E quella stronzetta lì dietro? Cosa dici, lei mi riconoscerebbe?» «Assolutamente no! È tanto piccola! Per favore, non ci faccia del male!» Ruby Sink tremava come una foglia.
«Ci devo pensare. Cosa devo fare, secondo te?» Fece una bolla con la gomma da masticare, poi armò la Glock con un rumore secco. Si sentì potente, e forte di quel potere piantò tre proiettili Winchester a punta cava nella nuca di Miss Sink. 26 Andy Brazil stava con le mani in tasca a osservare impaziente la distesa di terra argillosa attraversata dai binari della ferrovia e punteggiata da alberi e cespugli. Dalle ciminiere della Fort James Paper Company usciva un pennacchio di fumo e al placido sciacquio del fiume si aggiungeva il lieve fruscio del vento tra le foglie. La radio alla cintura trasmetteva una serie di brevi messaggi in codice, in realtà non stava succedendo niente. Un disabile era stato abbandonato su un marciapiede, c'era un ingorgo nel traffico per un guasto a un semaforo, un uomo era stato fermato davanti al Kmart per guida pericolosa. I messaggi elencavano numeri su numeri, ma stranamente non si sentivano né la voce della Passman né quella di Rhoad. Patty Passman non smistava le chiamate e Rhoad non rispondeva. Andy, furibondo, era certo di essere vittima di un complotto. «Unità undici» ripeté per l'ennesima volta. «Sono in ascolto, undici» rispose un operatore che Andy non conosceva. «Sono ancora nel cimitero» spiegò cercando di non far trapelare la collera. «Ho bisogno urgente di un dieci-venticinque.» «Hollywood.» «Dieci-quattro.» «A tutte le unità nei pressi di Hollywood. Urge dieci-venticinque per Unità undici.» «Unità centonovantanove.» «Sono in ascolto, uno-nove-nove.» «Sono a due isolati dal cimitero. Posso fermarmi e provvedere io al dieci-venticinque dell'Unità undici.» «Dieci-cinque, uno-nove-nove, ore 08,12.» Andy sentì un rumore e voltò le spalle al fiume. C'era qualcosa di rosso che si muoveva al di là della recinzione, all'incrocio fra Spring e South Cherry Street. L'edera era molto fitta, ma si intravedeva un cartellone pubblicitario dalla parte della strada, e una freccia che indicava la lavanderia
Victory Rug Cleaning. Spense la radio e rimase dov'era. La recinzione cominciò a vibrare mentre qualcuno si arrampicava sul cartellone. Andy, al riparo di un gruppo di agrifogli, vide Weed che si aggrappava al ramo di una quercia e si calava lentamente fino a terra. Il poliziotto si nascose dietro un monumento. «Dai, è facile» sentì che diceva. La recinzione vibrò più forte, e dopo qualche istante spuntò un barbone coperto di luridi stracci, al quale mancava un piede e parte di una mano. L'uomo si aggrappò a un ramo e rimase impigliato un paio di volte, prima scivolare finalmente a terra. «Non riesco a credere di esserci riuscito» commentò. «Erano anni che non facevo una cosa del genere.» Osservò le lapidi, che gli parevano mute lingue di pietra che bisbigliavano fra l'erba. «Merda!» esclamò. «A meno che non cominci a mangiare fiori, mi sa che qui resto a digiuno.» Weed, nervoso, si asciugò il sudore dalla fronte con la manica della felpa dei Chicago Bulls e si passò le mani sui pantaloni. «Tu vai» gli disse il barbone. «Io vedo se trovo qualcosa in giro. Ci vediamo dopo.» Weed si incamminò con le Nike slacciate, come se conoscesse la strada. Andy lo seguì, continuando a nascondersi dietro alberi e monumenti e tenendo d'occhio il barbone. Weed corse oltre Presidents Circle e le tombe di Jeb Stuart e John Tyler, oltre Jeter Avenue e Bellvue fino a Davis Circle, dove il primo e ultimo presidente della Confederazione teneva una palla da basket in mano, pronto per una partita. Weed gli si parò di fronte e lo guardò con rispetto. Di tanto in tanto lanciava un'occhiata qua e là, soffermandosi sul sarcofago di marmo dietro cui si era nascosto Andy. L'istamina combatteva contro gli acari della polvere nei polmoni e nei seni nasali di Bubba, mentre questi controllava con la torcia elettrica il tappetino della jeep. Cominciò a starnutire, gli occhi e la gola che gli bruciavano e il naso che colava. «Cazzo!» esclamò. Il mirino della Colt si era incastrato nella molla del meccanismo di posizionamento del sedile e il grilletto si era impigliato tra i fili dell'apparecchio CB che Bubba aveva installato da sé e coperto con un tappetino. La voce di Macchia Nera lo fece trasalire, poiché Bubba a un certo pun-
to non era più riuscito a sopportare il silenzio e aveva riacceso il telefono e l'apparecchio CB. Evidentemente stava meglio, pensò Bubba, che non aveva niente da dirgli. «Merda!» esclamò poi battendo il gomito contro la maniglia della portiera, sentendosi intorpidire il braccio. Allungò cautamente la mano sotto il sedile, il motore ancora in moto, e starnutì tre volte. «Bubba, mi senti? Fai finta di non esserci? Ho chiamato l'Ape Regina e mi ha detto che eri ancora latitante.» Bubba aveva le lacrime agli occhi e il naso tappato. La camicia continuava a impigliarglìsi nella leva del cambio e Macchia Nera non demordeva. Per di più anche il telefono si era messo a squillare. Bubba non rispose a nessuno e posò la testa sul tappetino per cercare di capire come liberare il revolver. Dopo un attimo starnutì con tanta violenza che gli uscì sangue dal naso. In quel momento sentì bussare forte al finestrino. Sobbalzò e batté la spalla contro la leva del cambio, innestando la retromarcia. Premette il pedale del freno con una mano e con l'altra mise il cambio automatico in posizione di parcheggio. Poi si tirò su, affannato e dolorante. Frastornato, vide l'agente Budget aprire la portiera. «Figlio di puttana! A momenti mi investivi!» inveì l'agente con lo sguardo feroce e la pistola in pugno. «Scendi subito, con le mani sopra la testa.» «Cos'ho fatto?» piagnucolò Bubba, starnutendo e asciugandosi il naso nella manica. «Scendi!» Bubba scese e la luce del sole lo abbagliò. Si sentiva sporco e sudato, con la testa come un pallone. «Appoggia le mani sulla macchina e divarica le gambe» ordinò truce Budget. Lo perquisì senza trovare niente. «Perché ti eri nascosto sotto il sedile?» gli domandò. «Non mi ero nascosto» mentì Bubba. «Palle!» fece l'agente. «Appena arrivi a destinazione, l'Ape Regina ti sistema» lo avvertì Macchia Nera. «Dove diamine ti nascondi, amico?» «Le spiace se gli dico che in questo momento non posso parlare?» domandò a Budget.
«Non muoverti!» Budget diede un'occhiata nell'abitacolo e vide brillare qualcosa sul fondo della jeep. Dalla sua reazione, Bubba capì che aveva scoperto il revolver e si irrigidì, paralizzato dal terrore e dalla disperazione. Come al rallentatore, vide il poliziotto che prendeva le manette dalla cintura e gliele metteva ai polsi, per poi chiamare rinforzi e un detective. Andy non sentì la chiamata perché aveva spento la radio. Stava osservando Weed, davanti alla statua come in trance. Aveva i crampi alle gambe per la posizione scomoda, oltre che per il manganello e la torcia piantati nelle costole. Il giubbotto antiproiettile gli teneva un caldo insopportabile e le ginocchia stavano per cedergli perché dopo anni di tennis intenso non riusciva più a stare accucciato tanto a lungo. Stava per intervenire, quando il ragazzo toccò la statua e, passando le dita sul numero disegnato sulla maglia, chinò il capo e cominciò a singhiozzare. Weed si asciugò gli occhi nella manica e sul dorso della mano, contento che non ci fosse nessuno a vederlo piangere. Non gli succedeva mai, neanche quando suo padre lo picchiava o quando Smoke faceva lo stronzo. Non ci pativa, se gli altri si dimenticavano il suo compleanno o se i compagni lo ignoravano e non lo invitavano alle feste. Quando era cominciato il torneo di basket e lui non era più andato a una partita, non aveva versato una lacrima. L'ultima volta che ricordava di aver pianto era stata in agosto, il giorno in cui Twister, facendo footing, era stato investito da una macchina che non si era nemmeno fermata. Trovava assurdo che gli venisse da piangere adesso... Ma forse stare in quel cimitero, da solo, gli aveva fatto tornare in mente il fratello sepolto a Forest Lawn, nella parte nord della città. Era stato Twister a incoraggiarlo a disegnare, a dirgli che le sue vignette e i suoi fumetti erano originali e davvero divertenti, perché Twister era in gamba e prendeva degli ottimi voti, ma non sapeva disegnare. Non aveva il senso del colore neanche quando si vestiva o pitturava le pareti di camera sua. Twister gli diceva sempre che era un genio. «Weed, cazzo, tu sei un genio» gli ripeteva. Testuali parole. Come sarebbe rimasto contento, se avesse visto la statua... Weed avrebbe tanto voluto che suo fratello fosse lì ad ammirarla. Magari già che c'era avrebbe anche dato una bella strigliata a Smoke e glielo avrebbe tolto dai piedi per sempre. Così lui non si sarebbe più dovuto nascondere e sarebbe potuto andare a scuola e alle prove della
banda... Riprese a piangere, ripensando a quando alla televisione avevano definito Twister "un tornado sui campi da basket". Twister era alto e bello e le ragazze appendevano i suoi poster in camera. Se avesse voluto, avrebbe potuto fare il modello o l'attore. Si tenevano compagnia, lui e Twister, andavano a nuotare, andavano al Regency Mall, a mangiare gli hamburger e naturalmente alla partita; Twister lo faceva sedere vicino a lui e gli faceva l'occhiolino davanti a migliaia di persone. Quanto gli mancava, adesso... Non poteva accettare che non l'avrebbe mai più rivisto. «Mi vedi?» singhiozzò rivolgendosi al fratello morto. «Hai visto cos'ho fatto? L'ho fatto tutto da solo, al buio. Perché non ci sei più, Twister?» Sentì una voce alle sue spalle e fece un salto, con gli occhi fuori dalle orbite. «Fermo» esclamò l'agente Brazil. Era talmente vicino che avrebbe potuto toccarlo. «Cosa, cosa, cosa?» balbettò Weed. «Cosa ci fai qui?» gli chiese Andy Brazil con tono da poliziotto. «Guardavo» rispose Weed. «È permesso, mi pare» aggiunse poi, sperando che fosse la verità. «E cosa guardavi?» «La statua. Avevo sentito che l'avevano pitturata e sono venuto a vedere» disse. «A chi stavi parlando?» «Non stavo mica parlando.» «Ti ho sentito benissimo.» Weed pensò a come svicolare. «Pregavo.» «Per chi?» Andy lo stava guardando con severità, ma Weed ebbe l'impressione che fosse una posa. «Per i defunti» rispose. «Come sei venuto qui? A piedi?» Weed annuì. «Sei da solo? Ti ha dato un passaggio qualcuno?» Weed scosse la testa. «No cosa?» «Se sono da solo» rispose Weed. «Nel senso che sei da solo o no?»
«Sì.» «Sì?» Andy voleva capire. «Sì sei qui da solo?» Weed assentì. «E sei entrato scavalcando la recinzione?» «Come?» «Ti ho visto. Sei salito sul cartellone della lavanderia Victory Rug Cleaning e hai scavalcato la recinzione.» «Perché fanno pubblicità sui recinti dei cimiteri? A chi li lavano i tappeti, ai morti?» fece Weed per cambiare discorso. «Perché sei entrato da lì?» domandò Andy. «Per fare prima.» Faceva il gradasso, in realtà tremava. «Perché non sei a scuola?» «È festa.» «Davvero?» si stupì Andy. «Che festa?» «Non mi ricordo.» «Non mi sembra proprio che oggi sia festa» disse Andy. «Allora come mai la scuola è chiusa?» ribatté Weed. Andy non lo trovava per niente minaccioso, ma controllò comunque che non avesse addosso niente di pericoloso. «Allora, che cosa sei venuto a fare qui?» gli domandò. Si avvicinò per guardare meglio la statua di Magic Jeff e non poté fare a meno di sorridere. «Forse mancava qualche prof» tentò Weed. «So solo che c'era qualcosa per cui non dovevamo andare a scuola. Siccome mia madre andava in ogni caso a lavorare, io sono venuto a fare due passi. Capito?» «Lo sai che non ci metto niente a verificare se mi stai dicendo la verità?» disse Andy preoccupato che Virginia lo avesse piantato lì e l'unità unonove-nove non si fosse ancora fatta viva. «Dovrei portarti alla Godwin e lasciare che ci pensino loro. Ma ti sospenderebbero e così continueresti a non andare a scuola. Farebbero il tuo gioco, no?» «No, perché a scuola io ci vorrei andare!» esclamò Weed. «Ci sarei andato anche stamattina, se non...» «Scusa, non avevi detto che era festa?» ribatté Andy. Weed si era tradito, e aveva una paura terribile. Che cosa poteva fare adesso? Si guardò intorno, meditando la fuga. «Ora basta, Weed» dichiarò Andy. «Siamo seri.» «In che senso?»
«Dimmi la verità» gli ordinò. In quel momento apparve in lontananza Piccione, che si avvicinava con la sua andatura zoppicante. «Tanto per cominciare non ti chiami Jones, vero?» disse Andy, che non aveva visto Piccione perché lo aveva alle spalle. «No» ammise Weed. «Ti chiami Gardener, e sei fratello di Twister.» Weed rimase senza parole. «Che cos'è il cinque?» «Come?» «Il cinque che hai tatuato sul dito. L'altra volta non me l'hai raccontata giusta.» La paura si tramutò in panico: non sapeva proprio che cosa rispondere. «Gliel'ho detto, non vuol dire niente.» «Non ci credo» insistette Andy. «Io penso che c'entrino i Lucci, quelli che hanno rivendicato l'atto vandalico sulla statua di Davis.» Weed cominciò a tremare. Nel frattempo Piccione si era avvicinato: Andy se ne accorse, forse dalla puzza, e si girò di scatto con la mano sull'impugnatura della pistola. «Non mi spari, non ne vale la pena» disse Piccione calmo, osservando la statua. «Un capolavoro.» «Chi è lei?» chiese Andy rilassando lievemente la mano. «Piccione. Ci siamo già incontrati» rispose il barbone. «La vedo spesso con un gran bel pezzo di figliola. Sa, quando si vive per strada si notano tante cose...» Piccione continuava a guardare la statua. Weed non ne era sicuro, ma nei suoi occhi credeva di leggere ammirazione, ed ebbe un moto d'orgoglio. «Allora» tornò al dunque Andy «secondo voi chi è stato a dipingere la statua di Jefferson Davis per farla sembrare il fratello di Weed?» Il ragazzo si irrigidì. Piccione rimase ad aspettare. «Non lo so» replicò Weed con un filo di voce. «Ma forse l'hanno fatto perché tutti e due sono morti a diciott'anni.» Piccione strizzò gli occhi per leggere l'iscrizione sul piedistallo. «Che cosa?» chiese Andy perplesso. «È scritto qui» indicò Weed. «Questo signore è morto a diciott'anni come Twister.» «Secondo me dovresti ripassare un po' di matematica» gli consigliò Piccione. «Jeff Davis ne aveva ottantuno.»
«Chi era, comunque?» domandò Weed. «Se ben ricordo è stato anche in prigione un paio di anni, ai ceppi» rispose Piccione. Weed guardò la statua e assunse un'espressione spaventata, pensando ai ceppi e alla prigione che forse aspettavano anche lui. Non voleva finire dentro un paio di anni. Si augurò che quel Davis avesse fatto qualcosa di più grave che pitturare una statua in un cimitero. «Cosa gli fate, se lo prendete?» si informò. «Chi?» chiese Andy. «Quello che ha pitturato la statua.» «Non lo so. Penso che prima di tutto gli parlerei per capire perché l'ha fatto» spiegò Andy. «Chiunque sia stato, doveva volere molto bene a tuo fratello.» «Io lo metterei dentro» si intromise Piccione. «Lo rinchiuderei all'istante.» «No» fece Andy. «Se l'unica cosa che ha fatto è pitturare una statua, direi che non è il caso di metterlo dentro. Meglio fargli fare qualcosa di socialmente utile.» «Tipo?» domandò il ragazzo. «Tipo ripulire la statua.» «Farla tornare come prima?» chiese Weed. «Anche se così è molto più bella?» Sapeva benissimo che il suo lavoro si sarebbe sciolto con la prima pioggia, ma non sopportava l'idea di dover disfare tutto lui. L'idea di cancellare Twister con le sue stesse mani lo faceva stare male da morire. «Bella o brutta, non importa» rispose Andy. A Weed invece importava e non riuscì a trattenersi dal chiedere: «Ma secondo lei è bella o brutta?». «Secondo me, è bellissima» rispose Piccione. «Quello che l'ha fatta potrebbe aprire una galleria d'arte a New York.» «Non è questo il punto» intervenne Andy. «Riconosco che l'autore dev'essere molto dotato, ma non è questo il modo di dimostrarlo.» «Cosa vuol dire dotato?» chiese Weed. «Bravo, molto bravo. Sei sicuro di non sapere chi è?» riprovò Andy. Il ragazzo si accorse che Andy aveva capito tutto. «Dai, Weed, diglielo» lo esortò Piccione. «Ricordati quello che mi hai raccontato. Ricordati del diavolo.» Weed corse via. Dallo zainetto che gli ballonzolava sulla schiena caddero due pennelli sulla tomba di Varina Davis.
27 Nella sala delle riunioni del Commonwealth Club, Judy Hammer stava perdendo l'abituale flemma. Aveva voglia di litigare. Non aveva fatto colazione e, stupidamente, con una tazza di caffè nero aveva preso una compressa di Multi-Max 1 multivitaminico, due Advil, due BuSpar e tre integratori di calcio aromatizzati ai frutti tropicali, per cui aveva i bruciori di stomaco. «Secondo me bisogna cercare di vedere le cose in prospettiva» dichiarò. «Questo è come stiamo facendo» fu la risposta di Lelia Ehrhart. «Non dobbiamo pensare all'importanza storica che noi attribuiamo al cimitero» aggiunse il comandante sapendo di avventurarsi su un terreno minato. «Però ha importanza storica» ribatté la Ehrhart. «Simbolo di progresso culturale che a metà di Diciannovesimo secolo catapulta nostra città a venticinquesimo posto di città più grandi di America.» «Qualcuno sa quante grandi città esistevano a quei tempi?» chiese il reverendo Jackson. «Qualcuno sa di che cosa stiamo parlando?» sussurrò il sindaco alla Hammer. «Trentacinque» tirò a indovinare Eaton. «Anche quaranta, tenuto conto dell'ingresso del South Dakota nel 1859» precisò il vicegovernatore Miller a bassa voce. «Se mi lasciate finire il discorso» insistette la Hammer «vorrei sottolineare che questo atto vandalico non è fra i crimini peggiori commessi in questa città negli ultimi tempi.» Guardò Lelia Ehrhart. «Io credo che sia opportuno concentrarci piuttosto sui reati commessi dai minori, sulle bande giovanili e sull'atteggiamento negativo e controproducente della comunità nei confronti delle forze dell'ordine. È per discutere questi problemi che sono intervenuta a questa riunione.» «Che cosa credeva di fare a questa riunione se non discutere?» chiese la Ehrhart con passione. «A parte fatto che non bisogna Charlotte per dirci come rovinare nostro dipartimento di polizia e nostra città.» «Nonostante a Charlotte si viva molto meglio che qui» commentò Albright, il presidente della NationsBank, che aveva lavorato nella sede di Charlotte prima di trasferirsi a Richmond. «Non siamo qui per parlare di Charlotte» intervenne irritato il sindaco.
«Non c'è nulla di male a cercare di imparare dagli altri» fece notare il vicegovernatore. «Io credo che la commissione anticrimine dovrebbe aprire la strada al cambiamento» disse il comandante Hammer rivolgendosi alla Ehrhart, che guardava con ansia il Rolex d'oro e brillantini che aveva al polso. «Perché la commissione è in condizione di sensibilizzare sia la cittadinanza sia le autorità e di far sentire la propria voce.» «Di criminalità è responsabile polizia, non cittadinanza. Lei conosce programma di commissione, no? Sono indispensabili altri cento uomini, più pattuglie in piedi e in macchine. Bisogna che poliziotti anche fuori servizio portano a casa macchine di polizia, così abitanti di quartiere vedono e comportano come si deve.» «E chi ci darà i fondi per assumere nuovo personale?» chiese il sindaco. «Questo il programma della commissione non lo specifica, Mrs Ehrhart.» La Hammer sentì squillare il proprio cellulare. Si scusò e uscì dalla sala. «Comandante?» Era Virginia West. «È un brutto momento» spiegò Judy. «Sono davanti al civico 6807 di Midlothian Turnpike» comunicò Virginia. «Penso che dovresti raggiungermi al più presto.» L'agente Budget aveva ammanettato con disprezzo Bubba, al quale ora facevano male i polsi e la pancia, per la tensione e perché l'aria condizionata sull'auto della polizia era regolata al massimo. Sapeva che nascondere l'Anaconda .44 sotto il sedile era rischioso, ma non aveva immaginato che potesse costargli tanto caro. C'erano poliziotti, detective e agenti dappertutto. Un momento prima erano passati due camion dei vigili del fuoco e un'ambulanza, diretti dietro il Kmart. Un elicottero stava sorvolando la zona e stavano arrivando perfino i giornalisti. Budget era fuori della macchina e parlava con il vicecomandante di polizia. Se ben ricordava, si chiamava Virginia West: era andata a casa sua quando aveva denunciato il furto nel laboratorio. Continuava a lanciargli occhiatacce con uno sguardo truce e rabbioso. Bubba non capiva perché ce l'avesse tanto con lui. Del resto non capiva neppure perché gli avessero chiesto di consegnare agli investigatori la maglietta impregnata di sudore. Non gli avevano dato alcuna spiegazione, a parte comunicargli che era colpevole di occultamento di arma da fuoco. Budget gli aveva sequestrato il revolver e aveva controllato quante cartucce c'erano nel tamburo. Con panico crescente, Bubba vide un carro attrezzi svoltare nello spiazzo e
fermarsi vicino alla sua Cherokee. Batté con le manette sul vetro e Budget lo fulminò con un'occhiata. La West smise di parlare. Bubba bussò di nuovo e Budget aprì la portiera dalla parte del passeggero per vedere che cosa voleva. «Cosa c'è?» chiese brusco. «Devo andare al gabinetto» spiegò Bubba sottovoce perché non voleva che Virginia lo sentisse. «Sì, sì» replicò Budget senza un minimo di compassione. «Non ce la faccio più» disse Bubba. «Mi dispiace, ma non posso farla scendere.» «È urgente» implorò Bubba stringendo i denti e le natiche. «Mi dispiace per lei» fece Budget, e richiuse la portiera. Judy Hammer arrivò con la sua Crown Victoria blu scura mentre un detective e due tecnici della Scientifica ispezionavano il luogo del delitto. Lo sportello automatico era stato cintato con nastro giallo e davanti a una Cherokee rossa stazionavano due agenti. Vicino a un'automobile della polizia, con un sospetto a bordo, Virginia stava parlando con un agente. Quando la Hammer scese dalla macchina, in fondo al parcheggio stava sopraggiungendo anche il furgone blu del medico legale. «Comandante» la salutò l'agente Budget. «Cosa succede?» chiese Judy a Virginia. «Alle 8,32, dietro il Kmart, è stato ritrovato il cadavere di una donna bianca a bordo della sua automobile, con una bambina piccola sul sedile posteriore. Le avevano sparato alla testa.» «Oddìo» esclamò Judy. «E la bambina?» «Piange e forse ha la febbre, però non è ferita» rispose Virginia. «Quanto ha?» domandò Judy fissando il sospetto sull'auto: un bianco con radi capelli castani e la faccia grassoccia. Aveva le guance rosse e l'aria di non stare molto bene. «Direi una decina di mesi» rispose Budget. «Il Child Protective Service l'ha appena trasferita al Chippenham Hospital, dove le verranno fatti gli esami del caso e verrà trattenuta in attesa che troviamo il suo parente più prossimo.» «Penso che non sarà difficile» spiegò Virginia. «Nella borsa della vittima c'era un biglietto, presumibilmente scritto dalla madre della bambina, con l'indirizzo di un pediatra in Pump Road. L'appunto fa riferimento a Loraine, che riteniamo sia il nome della bambina. Comunque, se rintracciare i
genitori si rivelasse più difficile del previsto, contatteremo una famiglia disposta a prenderla in affidamento temporaneo.» Il comandante Hammer osservò la Cherokee rossa con la bandierina della Confederazione sul paraurti e la targa BUB-AH. Poi guardò attentamente il sospetto, a torso nudo e con un paio di pantaloni mimetici. «Come si chiama la vittima?» domandò. Budget controllò sul taccuino. «Ruby Sink. Anni settantadue. Residente in Church Hill...» «Miss Sink?» lo interruppe Judy sbigottita. «Oh, mio Dio, la conosco! È una mia vicina!» «Era sua amica?» chiese Budget allibito. «No, ma la conoscevo. Era nel consiglio di amministrazione del cimitero di Hollywood. Le avevo parlato ieri.» «Oh, Cristo!» esclamò Virginia, guardando male Bubba. «L'hanno derubata dopo che aveva prelevato i soldi allo sportello automatico?» chiese Judy, cupa. «Sappiamo che alle 8,02 ha prelevato duecento dollari» rispose Budget. «Abbiamo trovato la ricevuta, ma non i contanti.» Quadrava tutto, anche se con qualche leggera forzatura. Judy ricordava la conversazione telefonica che lei e Virginia avevano involontariamente intercettato, in cui due uomini che si chiamavano Bubba e Macchia Nera progettavano un furto e un omicidio, e accennavano a una certa Loraine e a un benzinaio. Aveva dato per scontato che la loro vittima fosse di colore, ma forse li aveva fraintesi. Osservò di nuovo il sospetto. «Chi è?» chiese la Hammer. «Butner Fluck IV, detto Bubba» spiegò Virginia. «Stranamente, ieri ha denunciato un furto con scasso a casa sua. Siamo intervenuti io e Andy Brazil: pare gli abbiano rubato un sacco di armi da fuoco.» «Interessante» commentò Judy. «La sua auto era qui al momento dell'omicidio» aggiunse Budget. «Ha visto qualcosa?» domandò il comandante. «Dice di no. Io ho ritrovato una Magnum .44 che aveva nascosto sotto il sedile, con canna da otto millimetri e mirino. Ha sparato di recente e mancano quattro colpi. Pensi che l'avevo fermato mezz'ora prima, facendolo accostare esattamente dove è parcheggiata la jeep adesso.» «Un momento» disse la Hammer alzando una mano. «Ricominci daccapo.» «È vero, è strano» si intromise la West. «L'agente Budget ha fermato il
sospetto poco prima delle otto di questa mattina per guida pericolosa esattamente dove è parcheggiata la jeep in questo momento. Ha controllato che non avesse carichi pendenti e l'ha multato. Meno di mezz'ora dopo è stato ritrovato il cadavere dietro il Kmart.» «Ho sentito la chiamata via radio e ho risposto» spiegò Budget. «Ho visto che la jeep era lì dove l'avevo lasciata e ho trovato il sospetto accucciato sul sedile con una pistola in piena vista.» «Dunque la jeep è sempre rimasta qui» osservò la Hammer. «Sia quando la vittima è stata derubata davanti allo sportello automatico sia quando è stata uccisa dietro il Kmart.» «Pare di sì» disse la West. «Come si comporta?» chiese la Hammer fissando Bubba. «È agitato, suda copiosamente» rispose Budget. «Aveva la maglietta macchiata di sangue. Gli abbiamo chiesto di consegnarcela per condurre le analisi di laboratorio, spiegandogli che non aveva l'obbligo di farlo, e lui ha collaborato.» «Cos'altro lo lega all'omicidio?» domandò il comandante. «Niente, salvo accertare che i proiettili che hanno ucciso quella donna provengono dal suo revolver. Non credo, però. I bossoli ritrovati sull'auto della vittima sono da nove millimetri e sparati da una pistola.» «È tutto molto strano» commentò la Hammer. «Per il momento contro di lui non abbiamo nulla al di fuori della guida pericolosa.» «Già.» Judy Hammer guardò di nuovo l'uomo seduto sul sedile posteriore della macchina della polizia, che le restituì uno sguardo affranto. «Non possiamo nemmeno trattenerlo» borbottò delusa. «Infatti» disse la West. «Ma in un primo momento non ne eravamo certi.» «Non riesco a immaginarmi che fosse lì mentre portavano via i soldi a quella donna e non si sia accorto di niente» disse la Hammer rabbiosamente, ripensando agli stralci di conversazione fra Bubba e Macchia Nera. «Nessuno vede mai niente» commentò Virginia West. 28 Il governatore Mike Feuer era un uomo alto e smilzo sulla sessantina, con lo sguardo intenso e penetrante. I repubblicani dicevano che assomigliava ad Abramo Lincoln senza la barba. I democratici lo chiamavano
Führer. «Capisco perfettamente. Sono molto turbato anch'io.» Stava telefonando, su una linea protetta, a bordo della sua limousine nera con vetri antiproiettile che sfrecciava verso il centro della città. «Governatore, lei ha vista?» domandò la voce di Lelia Ehrhart, a sua volta su un canale a prova di intercettazione da parte di altri cellulari, scanner o apparecchi CB. «No.» «Deve vedere.» Feuer sospirò, guardando l'ora. Quel giorno aveva dieci appuntamenti e doveva chiamare almeno sei parlamentari che si stavano battendo per l'approvazione o l'affossamento di varie proposte di legge alla Camera e al Senato. Doveva inoltre prepararsi per un'intervista a "USA Today", firmare un decreto, partecipare a una riunione di gabinetto, dare udienza alla sottocommissione finanze e tenere due conferenze stampa. Per non parlare del fatto che era l'ottantaseiesimo compleanno di sua madre e non aveva ancora trovato il tempo di farle spedire un mazzo di fiori, e che aveva mal di schiena. «Se trova tempo, vada vedere in persona» gli consigliò la Ehrhart. «Io credo shock per lei, e se non va oggi rischio è che non vede più perché assolutamente bisogna restaurare. Guardare a seguito non serve perché torna normale.» «Dunque non si tratta di una cosa irrimediabile» replicò il governatore in tono ragionevole, osservando le due Chevrolet Caprice, una davanti e una dietro la sua limousine, con gli uomini della scorta a bordo. «È gesto che conta, governatore» continuò lei con la sua parlata inimitabile. Feuer se la immaginò bambina, impegnata a fare con dei blocchetti di legno una costruzione che non stava in piedi. «Il solo pensiero» insisteva la Ehrhart. «Se devo essere sincero, temevo maggiormente...» «Per favore, prenda un minuto di suo tempo. E scusi interruzione: non ho fatto apposta.» Non era vero, ma il governatore era un uomo paziente ed equanime, che credeva bisognasse sempre dare una seconda possibilità al prossimo. L'avrebbe concessa anche a Lelia Ehrhart, dopodiché le avrebbe buttato giù il telefono.
«Naturalmente cimitero è chiuso e non apre per pubblico di questi tempi» continuò la Ehrhart. «Ma se vuole, io farò aprire per lei.» Il governatore premette il pulsante dell'interfono. «Jed?» «Dica, governatore» rispose l'autista al di là del vetro, con gli occhi sullo specchietto retrovisore. «Dobbiamo fare una deviazione: passiamo dal cimitero di Hollywood» annunciò guardando l'ora angosciato. «Fai più in fretta che puoi.» «Come vuole, governatore.» «Va bene» disse Feuer al telefono. «Farò un salto a dare un'occhiata.» «Lei è straordinario, governatore!» «Non è vero» replicò lui, ripensando ai fiori per sua madre. Lelia Ehrhart ripose il telefono nel caricabatterie della palestra perfettamente attrezzata al secondo piano della sua casa di West Cary Street. Aveva la fronte imperlata di sudore e le braccia stanche dopo gli esercizi sulla panca inclinata per tonificare dorsali, trapezi, tricipiti, deltoidi e pettorali, nonché le diverse serie di flessioni che aveva esaurito appena prima che il governatore la richiamasse. «Dov'eravamo rimasti?» chiese allegra al suo allenatore personale, Lonnie Fort. «Al vogatore» rispose lui. «Basta. Io non posso più» dichiarò. Bevve un sorso di Evian e si deterse la faccia con un asciugamano. «Credo di avere quei muscoli, Lonnie. E poi troppo presto di mattina non riesco a lavorare perché mio organismo in stato di shock. E come scendere di letto e tuffare in Atlantico. Io non pinguino» disse per fare la spiritosa. «Io creatura di sangue caldo...» «Mi dispiace se è troppo presto, Mrs Ehrhart.» «Non è colpa tua, per carità. Io dimenticavo tuo appuntamento di dentista.» Lonnie controllò il circuito che Lelia Ehrhart avrebbe dovuto completare quella mattina, annotando numero di ripetizioni e i pesi da utilizzare. «Grazie per venire comunque» disse. «Però che Bull ti dà appuntamento proprio stessa ora nove di mattino quando tu in palestra con me, non tanto bello. Certo lui ha tanta gente che lavora e non ricorda perché altri fanno per lui e lui non ha abitudine.» «Ha senz'altro ragione, Mrs Ehrhart.» Quel bastardo, pensò Lelia Ehrhart riferendosi al proprio marito dentista
che faceva pubblicità alla radio, aveva studi dappertutto e un sacco di dipendenti leccapiedi. Che lei sapesse, aveva avuto una relazione con ben tre delle sue assistenti. In realtà erano molte di più, ma che differenza faceva? Fin dalla prima Lelia non gliel'aveva perdonata. «Dimmi, Lonnie, pensi che Bull incapsula tutti tuoi denti come fa sempre?» chiese al suo allenatore, che era talmente bello che le veniva voglia di abbracciarlo e baciarlo dappertutto. «Dice che mi darà un sorriso hollywoodiano» replicò Lonnie. «Dice sempre a tutti.» «Questo non lo so, ma le sue assistenti hanno un sorriso bellissimo. E i loro sono tutti denti incapsulati.» Il solo sentir nominare le assistenti del marito fece inviperire Lelia Ehrhart. «Ma non sono sicuro» continuò Lonnie. «Non lo fare!» gli consigliò lei. «Se fai, poi non disfi più perché permanente. Bull ha incapsulato denti a tutta città.» «Deve aver guadagnato parecchio» commentò l'allenatore sistemando la barra per i dorsali sull'attrezzo multiuso. Lelia gli osservò la schiena perfetta e muscolosa. «Finirai con piccoli denti come cannibali mangiatori di uomini. Poi vengono sindrome di brutta masticazione, difetti di pronuncia e finisci con denti da togliere vita» lo ammonì. «Tu hai denti tanto belli.» «Veramente ho questo spazio fra i due incisivi che non mi piace per niente» le disse. «Assolutamente. Molti pensano che è sensuale.» «Scherza?» Si guardò allo specchio. «Io? No, non scherzo.» Gli guardò la bocca con gelosia, rimpiangendo di essersi lasciata incapsulare tutti i suoi bei denti. Il marito l'aveva rovinata: il suo sorriso ormai non aveva più l'aria naturale di prima, lei soffriva di frequenti mali di testa e aveva tre molari che le davano fastidio e sentivano il caldo e il freddo. Invidiava le dentature naturali, anche se non perfette, così come invidiava chi aveva un bel fisico. Lei non avrebbe mai avuto né l'uno né l'altro. «Braccia» riprese Lonnie impugnando la barra con entrambe le mani per farle vedere. «Ho braccia che tremano» disse lei con il suo sorriso di porcellana. «Devi farmi vedere ancora una volta. Non capisco mai subito. Sento su schiena e so che non va bene.»
Lonnie regolò i pesi su sessantacinque chili e le diede una dimostrazione di come andava fatto l'esercizio, gonfiando i bicipiti con grande forza e potenza. La Ehrhart gli guardò i muscoli e pensò a come conquistare quelle montagne. «Deve impegnare solo le braccia» le spiegò. «Senza piegarsi in avanti. Se usa i muscoli della schiena non va bene.» Regolò la macchina su dieci chili. Lei prese la barra e la impugnò con i palmi rivolti all'insù e i gomiti aderenti alla vita, come le aveva fatto vedere Lonnie. Si guardò allo specchio e si chiese per l'ennesima volta se aveva fatto bene a mettere i pantacollant azzurri della Nike. Le righe rosse le facevano sembrare i fianchi più larghi. In realtà il colore che più le donava dalla vita in giù era il nero. I colori vivaci le stavano bene solo vicino al viso, come il top verde mela che aveva scelto quel giorno, per esempio. «Facciamo una serie da venti» le disse Lonnie. La conversazione con Führer le aveva dato la carica. Quanta gente telefonava al governatore della Virginia e veniva richiamata ventidue minuti dopo? Non molta, pensava. Anzi, pochissima. E questa volta il marito e la sua influenza non c'entravano. «Abbiamo tutti nostri complessi» disse a Lonnie nonostante fosse senza fiato. «Piccoli angoli buio di segreti che altri non vedono. Io anche. Ho perso conto.» «Sedici.» «Diciassette. Diciotto. Mamma, mi fa morire.» «Che complessi può avere lei? Quante donne della sua età fanno tanta ginnastica come lei? E pensi alla bella casa che ha, alla palestra privata...» Quel commento la colpì nel vivo, ferendola terribilmente. Sperava che Lonnie le dicesse che era bellissima, senza fare cenno alla sua età e ai soldi di suo marito. Avrebbe voluto che le dicesse che era la più bella al mondo, che aveva un viso incantevole e un corpo capace di stregare chiunque osasse posarvi lo sguardo. Avrebbe voluto farlo rodere da un desiderio tanto intenso da impedirgli di prendere sonno. Avrebbe voluto che fosse geloso, possessivo. «Immagino che mio complesso più grosso è non avere tempo per mio marito» mentì. «Per soddisfare suoi bisogni insoddisfatti. Mio ruolo in governo e politica dà troppe responsabilità che spesso trascuro famiglia e ho poco tempo da passare con tanti, tantissimi amici. E poi temo di diventare troppo muscolosa. Non voglio essere né sottosviluppata né soprasviluppata.»
Lonnie la guardò con attenzione. «Non deve preoccuparsi, signora» le disse. «Il suo non è un fisico che tende a diventare troppo muscoloso.» «Io più tipo tondeggiante, femminile?» «La prossima volta misuriamo di nuovo la percentuale di grasso.» «E poi bambini» continuò la Ehrhart, anche perché, più Lonnie parlava, più si moltiplicavano i suoi complessi. «Ieri sera ero troppo occupata e ho passato troppo misero tempo con loro perché avevo riunione di comitato e tante telefonate e ordini di giorno. Io sempre tanto poco tempo per cose. E poi...» gli sorrise, un po' civetta «venire con te un'ora prima...» «Ammiro il suo impegno» disse Lonnie guardando l'ora e posando la cartellina sulla panca. «È così che si fa. Senza fatica si ottiene poco.» «Non fare incapsulare tuoi denti!» esclamò lei con passione. «E non dire a Bull che io ho detto.» Gli fece l'occhiolino. «Prossimo?» «Addominali» rispose Lonnie. «Abbiamo quasi finito.» «Non so se vedo progressi» si lamentò lei posando le mani sulla pancia e guardandosi allo specchio. «Tanto patire per poco. Io odio addominali più di altri tutti insieme.» Lonnie, con la canottiera sudata e la pelle lucida, le osservò la pancia. «Perché tanta fatica?» «Forse si è dimenticata di com'era quando abbiamo cominciato» la consolò. «Siccome si guarda allo specchio tutti i giorni non si accorge del miglioramento. Invece è decisamente più piatta, signora.» «Dubito. Senti.» Gli prese le mani e se le posò sul ventre. «Allora?» Lonnie non replicò. «Forse quando hai mia età e fai vita come me non si cambia più. Natura non collabora e fa quello che vuole.» Lonnie non si mosse e lei gli spostò lievemente le mani verso l'alto. «A me sembra che sia in ottima forma» esagerò lui. «Bull incapsula tutti denti in Nordamerica» replicò lei, spostandogli ancora le mani. «Tu sai perché lui chiama Bull? Non per generale che pensa suo parente, Lonnie.» «Credevo avesse a che fare con la Borsa...» «No, motivo è che...» «Mi scusi, ma è ora di andare, Mrs Ehrhart.» Gli fece scivolare le mani sui seni minuscoli. «Quale è stata tua donna più matura?» gli sussurrò.
«Forse la mia insegnante delle medie.» «Quanti anni avevi?» «Facevo le medie.» «Dovevi essere più grande per tua età.» «Mi scusi, Mrs Ehrhart, ma stamattina ho fretta. Suo marito si arrabbia quando i pazienti arrivano in ritardo. Immagino che non mi avrebbe nemmeno dato un appuntamento, se non fosse stato per lei.» Lelia Ehrhart gli mollò le mani e prese un asciugamano, innervosita. «Allora dopo cosa faccio?» chiese in modo brusco, assalita da mille fobie e insicurezze. «Non ha ancora fatto i piegamenti» rispose Lonnie. 29 Il governatore Feuer piegò il "New York Times", il "Wall Street Journal", il "Washington Post", "USA Today" e il quotidiano locale, li posò sul tappeto nero e guardò fuori del finestrino dal vetro fumé. Tutti sapevano che la limousine nera con la targa numero 1 non era di Jimmy Dean, né di Ralph Sampson. Non era una macchina di ragazzi che andavano a ballare. «Cosa ne pensa se prendo 10th Street, taglio per Broad per evitare il traffico e passo davanti al tribunale verso Leigh e Belvidere» chiese jed. «Da lì al cimitero è questione di poco.» «Mmm.» «Sempre che per lei vada bene» aggiunse Jed, che era un ossessivocompulsivo e aveva bisogno di conferme. «Certo che va bene» rispose Feuer, che prima di diventare governatore era stato procuratore generale e vicegovernatore, quindi da oltre otto anni non guidava per le strade di Richmond ma guardava il panorama comodamente seduto sul sedile posteriore, protetto dalla scorta. «Okay» confermò Jed alla ricetrasmittente. «Svoltiamo in 10th Street.» «Perfetto» rispose l'autista dell'auto che lo precedeva. La lite fra l'agente Passman e l'agente Rhoad aveva superato i limiti della decenza, evolvendosi ben al di là del battibecco superabile, perdonabile o dimenticabile. In 10th Street c'erano automobili ferme in doppia fila, oltre i limiti segnati, davanti a idranti e passi carrabili, e un sacco di persone stava seguendo
con interesse la lite, mentre autopattuglie arrivavano a sirene spiegate da tutte le direzioni. Patty Passman aveva in pugno Rhoad, nel senso più letterale del termine. Questi, urlando di dolore e tentando di divincolarsi, aveva chiamato aiuto alla radio portatile. «Oddìo! Oddìo!» strillava mentre la Passman continuava a tenerlo per lo scroto. «Lasciami! Ahia! Ahiaaa!!!» La folla sembrava impazzita. «Fagliela vedere, compagna!» «Non mollare!» «Tienilo stretto!» «Spaccagli i coglioni!» «Cazzo, ma che uomo sei? Infilale due dita in un occhio!» «Girale la testa con uno schiaffone, così sente quanto le puzza il culo!» «Staccala dall'albero, quella banana!» «Mettilo in folle, figlia mia!» «Lascialo in pace, brutta cicciona!» «Strappaglielo!» «Vai!» Quando la limousine nera fra due Caprice con una selva di antenne sul tetto attraversò Broad Street e si fermò su un lato di 10th Street per far passare due auto della polizia con i lampeggiatori accesi e le sirene spiegate, la folla era in delirio. Altre volanti erano in arrivo da Marshall e Leigh, e lungo Clay si sentiva la sirena di un camion dei vigili del fuoco. Jed aveva una gran voglia di scendere per vedere che cosa stava succedendo. La polizia stava probabilmente dando la caccia a un evaso, magari molto pericoloso. Che fosse un serial killer? La cicciona era chiaramente una pazzoide e gli agenti non riuscivano a bloccarla. «Che cosa succede?» chiese all'interfono il governatore. «Una balorda impasticcata o fatta di crack. Accipicchia, se è scalmanata. Ha scaraventato per terra una mezza dozzina di poliziotti!» Il governatore si spostò dall'altra parte del sedile di pelle nera, su cui si stava comodamente in sei, e allungò il collo per vedere oltre il testone di Jed. Rimase sorpreso nello scorgere una donna obesa che se la prendeva con un ometto di una certa età, con le manette che le penzolavano a un polso e
l'altra mano stretta sullo scroto del poveretto. Lo stava massacrando, imprecando a gran voce e scalciando come una furia. Faceva roteare le manette che aveva al polso come fossero delle bolas, per scoraggiare chiunque dall'avvicinarsi troppo. «Per la miseria!» esclamò Jed. «Terribile» commentò il governatore. «Terrificante.» «Dobbiamo fare qualcosa!» Feuer era d'accordo: non trovava nulla di buffo in quella situazione. La violenza non era mai un bello spettacolo. Incollerito, scese dalla limousine e, prima che Jed o la scorta potessero fermarlo, aprì il bagagliaio e prese un estintore. Si gettò nella mischia e fra lo stupore di tutti investì Patty Passman con un getto di Halon 1301. Confusa, la donna mollò Rhoad e fu prontamente immobilizzata. Quattro uomini della scorta riaccompagnarono il governatore alla sua limousine. «Straordinario!» commentò Jed, orgoglioso del proprio capo. Feuer controllò di non essersi macchiato di schiuma il gessato in puro cachemire, poi alzò gli occhi sulla donna che veniva fatta salire, ammanettata, su una macchina della polizia. L'agente che era stato aggredito era in ginocchio in mezzo alla strada, con le lacrime agli occhi, mentre i giornalisti, armati di microfoni e telecamere, avanzavano minacciosi. «A Hollywood» ordinò Feuer. «Non c'è tempo, signore» osò dire Jed. «Non c'è mai tempo» ribatté il governatore, facendogli cenno di partire. Weed decise che era già stato fin troppo a lungo in quella buca profonda, con i tubi rotti sul fondo e l'acqua che gocciolava dappertutto. Intorno c'erano pale e zappe e nelle vicinanze era parcheggiata una scavatrice. Gli era venuto il dubbio che si trattasse in realtà di una fossa, per quanto di forma un po' strana, e che i becchini fossero andati a prendere il caffè. Gli venne anche paura che da un momento all'altro potesse crollargli tutto addosso, seppellendolo vivo. Sbirciò fuori e non vide l'ombra né di Andy Brazil né di nessun altro. Tese le orecchie e sentì solo il cinguettio degli uccelli. Uscì dalla buca e corse verso la recinzione. Era in cima quando vide la Lemans: Dog, Beeper e Sick lo stavano cercando per portarlo da Smoke, che l'avrebbe ammazzato e gettato nel fiume. Weed saltò di nuovo nel cimitero e si mise a correre a perdifiato, zigzagando fra le tombe e saltando fra i monumenti.
Anche Andy Brazil stava correndo, e a quel ritmo avrebbe potuto continuare per ore, nonostante le scarpe non fossero le più adatte e cominciassero a fargli male gli stinchi. Più aumentava la sua frustrazione, più forte correva. Tagliò verso Riverview, superando monumenti, targhe commemorative, sculture, urne e lapidi in un mare di bandiere della Confederazione. Un custode tagliava l'erba intorno alle pietre muovendo con la precisione di un chirurgo il decespugliatore con il filo rotante di nylon. «Ha visto un ragazzino con una felpa dei Chicago Bulls?» gli chiese Brazil avvicinandosi. «Come la statua?» «Sì, ma più piccolo» rispose Andy senza fermarsi. «Macché» replicò il custode continuando a lavorare. Andy guizzò fra un agnello in pietra e un mausoleo, saltò di là da un bosso e con suo enorme stupore finì praticamente addosso a Weed. Lo prese per la felpa, lo atterrò con uno sgambetto e lo immobilizzò tenendolo per le braccia. «Ho cambiato idea» fece Weed. «Mettetemi pure dentro.» Bubba aveva perso il controllo, e ciò risultava evidente. Quando l'agente Budget aprì la portiera ed esclamò: «Oh, merda!» Bubba lo interpretò come l'ennesimo affronto personale. «Mi scusi, ma glielo avevo detto che...» accennò Bubba. «Oh, Signore santo!» Fuori di sé e nauseato, Budget gli tolse le manette. Judy Hammer e Virginia West stavano a guardare. «E adesso chi è che pulisce? Oh, santo cielo! Non ci posso credere.» Bubba si vergognava come mai in vita sua. Era destino che incontrasse il comandante Hammer, di questo era sicuro, ma non così... Non avrebbe mai immaginato di incontrarla mezzo nudo, sporco, grasso e puzzolente. Non osava guardarla in faccia. «Agente Budget, vuole lasciarmi sola con lui per qualche minuto, per cortesia?» disse Judy Hammer. «Maggiore West, ci vediamo dietro il Kmart.» «Non vorrei che il medico legale nel frattempo decidesse di andare via» le disse Budget. «Se mai gli parlo io e poi le riferisco.» «E una donna» lo corresse la West.
Judy Hammer si voltò verso Bubba, il quale rimase strabiliato dal fatto che il comandante della polizia non sembrasse fare caso alla sua triste condizione. «Mi scusi, comandante» balbettò. «Io non volevo...» La Hammer alzò una mano per fargli segno di tacere. «Non si preoccupi.» «E come faccio?» piagnucolò. «Volevo solo aiutare!» «Chi?» Sembrava interessata e sincera. Bubba non aveva mai notato che era una bella donna, affascinante e sicura di sé nel tailleur pantaloni gessato. Si chiese se fosse armata; magari aveva una pistola nella borsa. Mille pensieri gli si agitavano nella testa mentre il vento soffiava nelle direzione di Judy Hammer, che si spostò sulla destra. «Chi voleva aiutare?» domandò di nuovo. «La donna che è rimasta uccisa? Lei ha visto qualcosa, Mr Fluck?» «Oh, mio Dio! È morta una donna? Qui vicino? E quando è successo?» «Mentre lei era qui, Mr Fluck.» Bubba si sentì torcere le budella e temette un'altra scarica incontrollabile. Pensò alla maglietta sporca di sangue che la polizia gli aveva chiesto di consegnare per le analisi di laboratorio. «È sicuro di non aver visto niente?» continuò la Hammer. «Mi si era incastrata l'Anaconda» rispose lui. La Hammer lo fissava. «Non riuscivo a tirarla fuori.» Nessun commento. «Mi sono chinato per cercare di spostarla e ho cominciato a tirare da una parte e dall'altra con delicatezza. Sa, avevo paura che partisse un colpo. Poi mi è uscito il sangue dal naso.» «Quando?» «Quando è successo il fattaccio, immagino. Dopo che se n'è andato l'agente Budget sono sempre rimasto sulla jeep. Glielo giuro. Ero lì che cercavo di togliere il revolver da sotto il sedile, finché l'agente mi ha bussato di nuovo sul vetro. Non ho visto niente perché ero accucciato, ecco perché.» Bubba non sapeva se il comandante gli credeva oppure no. Non aveva la faccia cattiva né sprezzante, ma era una donna intelligente e acuta e lui la temeva. Per un attimo aveva quasi dimenticato la triste situazione in cui si trovava, poi però vide un cameraman di Channel 8 che si avvicinava per
riprendere il comandante e faceva una smorfia, dava una rapida occhiata ai pantaloni mimetici di Bubba e scappava via. «Sembra che la vittima sia stata rapinata davanti allo sportello automatico» disse la Hammer. «Non le sto dando notizie riservate, perché penso che l'abbiano già detto anche al telegiornale. Lei era a meno di quindici metri dallo sportello, Mr Fluck. È sicuro di non aver sentito niente? Voci, macchine?» Bubba fece mente locale, mentre un reporter di Channel 6 si avvicinava per poi fare prontamente dietrofront. Bubba avrebbe voluto aiutare quella donna tanto coraggiosa ed era affranto al pensiero di essersela fatta sotto proprio in quell'occasione. «Merda» borbottò un giornalista di WRVA fermandosi e tornando indietro. «Al vostro posto non mi spingerei oltre» consigliò a una troupe di Channel 12. «Ma cos'è successo?» gridò uno dello "Style Magazine" a uno del "Richmond Magazine". «Si è rotta una fognatura?» «Non lo so. Ma c'è puzza di merda.» Bubba tese le orecchie, allarmato. «Proprio puzza di merda» confermò un reporter del "Richmond-Times Dispatch" sventolandosi una mano davanti al naso. Bubba non ascoltava più Judy Hammer: aveva il sangue alla testa, riusciva a pensare solo ai giornalisti, ai cameraman, ai fotografi e ai tecnici accalcati intorno alla sua jeep che, inquieti e rabbiosi, parlottavano alle sue spalle dandogli della merda. «Voi avete visto che cos'è successo qua dietro?» «Non lasciano avvicinare nessuno.» «Ce lo possiamo scordare. Oltre il Garden Center non fanno andare.» «Pensa che uno stronzo mi ha messo la mano sull'obiettivo.» «Che merda.» Bubba non poteva sopportare le risa e le voci che gli riecheggiavano nella testa, confondendosi con beffe e insulti antichi e riportandogli alla memoria sguardi maligni e sorrisi crudeli. «Il direttore mi dice di tutto, merda.» «Smettetela!» gridò Bubba ai giornalisti. Improvvisamente ritornò alla realtà e vide Judy Hammer che lo fissava sorpresa. I giornalisti non lo guardavano nemmeno. «Sarà il corpo in decomposizione» diceva uno. «Ma se è dietro il Kmart...»
«Magari era qui e l'hanno spostato.» «Figurati se lo spostano.» «Forse non volevano lasciarlo di fronte alla banca.» «Come ha fatto a rimanere qui così tanto da cominciare a decomporsi senza che nessuno lo vedesse?» «Sei diventato medico?» «Magari l'hanno portata qui dopo un po' che era morta. L'hanno ammazzata da un'altra parte e quando ha cominciato a puzzare l'hanno scaricata qui.» «È una donna?» «Credo.» «E l'hanno scaricata qui?» «Non lo so. Ho detto per dire.» «Sì, così noi lo scriviamo e facciamo una figura di merda.» «Ma cos'è questa puzza, allora?» «Comandante Hammer?» Invece di avvicinarsi, uno dei giornalisti alzò la voce. «Mi fa una dichiarazione?» «Non gli parli!» esclamò Bubba agitatissimo. «Non gli permetta di farmi questo, per favore!» «Secondo me è lui» disse uno. «Guardategli i pantaloni. Va bene che sono mimetici, però...» «Oh, merda!» «Lo vede?» sussurrò Bubba. «Ma come fa a sopportare la puzza? È già terribile a questa distanza.» «Lo dicevano che era una tosta.» «Mi interessa la sua targa» stava dicendo Judy Hammer. All'agente Horace Cutchins, invece, che guidava un furgone cellulare lungo Leigh Street, non interessava nulla a parte il Tetris Plus del suo Game Boy. Era in servizio da tre ore e aveva già trasportato due soggetti, due zingari sorpresi a rubare in una villa in stile Tudor a Windsor Farms. Cutchins pensava che certa gente non imparava mai. Gli zingari passavano dalla città due volte l'anno, nel corso delle loro migrazioni verso nord e verso sud, e lo sapevano tutti. La stampa ne parlava diffusamente. Il sergente Rink di "Crime Stoppers" aveva dato una serie di avvertimenti e di consigli su tutte le reti televisive e le radio locali. Sui muri della città erano affissi manifesti che avvertivano: SONO TORNATI
GLI ZINGARI. Tuttavia i ricconi di Windsor Farms, come li definiva Cutchins con invidia, continuavano a uscire a comprare il giornale, a lavorare in giardino, a sedersi sul bordo della piscina o a chiacchierare con i vicini lasciando la porta aperta e l'allarme spento. Che cosa si aspettavano? Cutchins stava svoltando nel parcheggio sul retro dell'Engine Company Number 5, dove non vedeva l'ora di riprendere il suo videogioco, quando lo chiamarono via radio. «Dieci-venticinque Unità uno-uno-due in 10th Street per dieci-trentuno» comunicò l'operatore. «Dieci-quattro» rispose. «Vaffanculo» borbottò fra sé. Aveva sentito una richiesta di soccorso poco prima e aveva capito che Rhoad era coinvolto in qualche battibecco con una donna impazzita, ma poi gli era parso che l'avessero arrestata e aveva dato per scontato che la trasferissero su un'auto blindata. Dopotutto era alquanto improbabile che una donna riuscisse a rompere a pedate un vetro di plexiglas, per quanto installato malamente da qualche imbecille della General Services, o a pisciare addosso all'autista dalla fessura. Cutchins fece inversione e ripercorse Leigh Street a tutta velocità, perché voleva darci una botta e poi fare una bella pausa. Svoltò in 10th Street e si imbatté nel detective Gloria De Souza che scendeva dalla propria auto. Rhoad e tre uomini in divisa lo stavano aspettando con una donna grassa dall'aria vagamente familiare. Era seduta sul marciapiede, con le mani legate dietro la schiena e i capelli scompigliati. Aveva il fiatone e l'aria di chi sta per dare in escandescenze da un momento all'altro. «Miss Passman, adesso la devo perquisire» disse il detective. «Perciò la prego di alzarsi.» Patty Passman rimase dov'era. «Dai, Patty» la incoraggiò uno degli agenti. Lei non si smosse. «Per favore, si alzi. Non renda le cose più complicate di quanto già non siano.» Patty Passman non stava cercando di complicare le cose: non riusciva ad alzarsi perché aveva le mani legate dietro la schiena. «Si alzi» le ordinò Gloria De Souza. «Non ci riesco» rispose la Passman.
«La aiutiamo noi.» «Okay.» La De Souza e un altro agente la presero sottobraccio e la aiutarono a tirarsi su, mentre Rhoad si teneva a distanza di sicurezza. Cutchins balzò giù dal suo furgone bianco e andò ad aprire il portellone posteriore. La De Souza si chinò e passò velocemente le mani sulle coscione di Patty Passman, lungo i collant cascanti e pieni di smagliature fino a posti in cui nessuna donna, tranne la ginecologa, aveva mai messo le mani. La Passman scalciò, rischiando di cadere. «Legatele le gambe!» ordinò la De Souza cercando di tenerla ferma. «Se ci riprova, la lego come un salame.» Il detective la bloccò mentre un agente le legava un cordoncino di nylon flessibile intorno alle caviglie. «Ahia!» «Stia ferma!» «Mi fate male!» urlò la Passman. «Ben ti sta» fu il commento di Rhoad. Il detective riprese la perquisizione scandagliando con mano esperta la topografia di Patty Passman, fra monti, valli e tratti pianeggianti, mentre quella imprecava e gridava, dandole della lesbica. Gli agenti la trattenevano. «Toglimi le mani di dosso, brutta porca!» urlava. «Lo sanno tutti che vai a letto con l'allenatrice della squadra di softball, che è una lesbica schifosa pure lei!» Cutchins dimenticò per un attimo il suo Tetris. Aveva sempre pensato che fosse un gran peccato che a una bella donna come Gloria De Souza piacessero le donne. Non che ce l'avesse con le lesbiche - anzi, quando aveva accesso a qualche pay-tv le guardava volentieri - ma era contrario alle discriminazioni, e secondo lui era profondamente ingiusto che Gloria De Souza non volesse aver niente a che fare con gli uomini. «Non ha armi, solo un pessimo carattere» commentò il detective. Sfortunatamente Cutchins aveva parcheggiato sul lato opposto di 10th Street e al Medical College of Virginia era appena finito il turno. Così, tutto a un tratto, sul marciapiede e per strada si era riversato un fiume di infermieri, dietologi, ausiliari, custodi, guardie giurate, amministratori, medici e cappellani, tutti stanchi, maldisposti e malpagati. Per lasciar passare la donna ammanettata e gli agenti che la accompagnavano sul furgone cellulare le auto si fermarono e i pedoni rallentarono controvoglia.
«Cosa cazzo avete da guardare?» li investì Patty Passman. «Saltella, saltella, che ti fa bene» rispose una segretaria. «Facci vedere come sei brava!» «Andate tutti a fare in culo!» strepitò la Passman, il cui livello di zucchero nel sangue non era mai stato così basso. «Hop, hop» gridò un impiegato. Patty Passman si divincolava come un pitone, sibilando e mostrando i denti ai suoi detrattori. Gli agenti fecero di tutto per farla andare avanti, mentre pedoni e automobilisti si agitavano ulteriormente e Rhoad si allontanava. Piccione si era stufato di stare nel cimitero e stava frugando in un cestino della spazzatura poco distante, dal quale aveva già recuperato mezzo pacchetto di cracker e una tazza di caffè mezza piena. Osservò la donna che attraversava la strada saltellando come a una corsa nei sacchi, e pensando al proprio moncherino si indignò per come la insultavano quei maleducati. «Non gli dia ascolto» le disse per consolarla, addentando un cracker. «La gente di questi tempi non ha il minimo rispetto.» «Ma taci, lurido zoppo!» gli rispose la cicciona. Costernato di fronte a tanta ingratitudine, Piccione continuò la sua caccia al tesoro: di solito, dove si raduna una folla si trova sempre qualcosa di interessante. Gloria De Souza strinse con forza il braccio di Patty Passman. «Ha cominciato lui!» gridò quella girandosi verso Rhoad. «È lui che dovete rinchiudere!» La spinsero sul furgone cellulare e chiusero il portellone. Il compito del comandante Hammer era applicare il modello per il controllo della criminalità di New York al Dipartimento di polizia di Richmond, come aveva fatto a Charlotte e avrebbe continuato a fare in altre città, salute, energia e finanziamenti pubblici permettendo. Il suo dilemma, pertanto, era più che comprensibile. Stare lì a parlare con Bubba metteva alla prova la sua resistenza fisica e mentale, oltre che la sua professionalità. Avrebbe preferito lasciarlo perdere, ma non poteva né voleva voltare le spalle al problema e lasciarlo a qualcun altro. Ormai era in ballo e doveva ballare. Quando un poliziotto fa
una domanda a un sospetto, deve stare a sentire la risposta, per quanto lunga e sconclusionata essa sia. Bubba le stava raccontando della targa, di quando era andato all'ufficio targhe personalizzate di Johnson Willis Drive, fra Whitten Brothers Jeep e Dick Straus Ford, dove aveva fatto una coda di cinquantasette minuti per sentirsi dire che BUBBA era già stata presa, come del resto BUBA, BUBBBA, BUUBBBA, BUBEH, BUBBEH, BUBBBEH, BG-BUBA, BHUBBA e BHUBA. Stanco e sconsolato, non era riuscito a farsi venire in mente un'altra possibilità che non superasse le sette lettere e alla fine si era rassegnato a lasciar perdere. «Poi l'impiegata mi ha proposto BUBAH» proseguì, come se quel resoconto particolareggiato gli avesse dato una nuova carica, «e io le ho chiesto se si poteva mettere il trattino, perché così mi sembrava più facile da pronunciare. Lei mi ha risposto che andava bene, e che il trattino non conta come lettera.» Convinta che Bubba avesse un complice che si chiamava Macchia Nera, mentre quello continuava a blaterare e i giornalisti a tenersi a distanza la Hammer stava cercando di ricostruire come potevano essere andate le cose. Bubba e Macchia Nera sapevano che Ruby Sink e Loraine si sarebbero fermate allo sportello automatico davanti al Kmart. Forse si erano appostati davanti alla casa della ricca signora con i fari spenti e, quando lei aveva preso la macchina, l'avevano seguita tenendosi in contatto tramite il cellulare e l'apparecchio CB. A quel punto, però, la ricostruzione si faceva meno chiara. Il comandante Hammer in realtà non sapeva che cosa era successo e non era il tipo da inventare le cose. Al tempo stesso non era nemmeno il tipo da scaricare le proprie responsabilità sulle spalle altrui e chiedere ai suoi sottoposti di risolvere il caso. Doveva assolutamente portare Bubba a parlarle di Macchia Nera, senza dargli a intendere che lei sapeva della sua esistenza. 30 Il governatore Mike Feuer era al telefono da un quarto d'ora e per Jed era una fortuna, visto che aveva sbagliato strada cinque volte perdendo entrambe le Caprice della scorta. Poi aveva finalmente trovato Cherry Street e superato il cimitero di Hollywood arrivando in Oregon Hill Park, dove aveva fatto inversione e ripreso Spring Street, arrivando in Pine Street al-
l'altezza di Mamma 'Zu, che si diceva essere il miglior ristorante italiano a sud di Washington. «Jed?» lo chiamò il governatore all'interfono. «Non è Mamma 'Zu, questo?» «Mi sembra di sì.» «Non avevi detto che aveva chiuso?» «Non mi pare proprio. Forse avevo detto che era chiuso il giorno del compleanno di sua moglie, quando voleva portarcela a cena» mentì Jed, il quale aveva l'abitudine di dire che un certo locale aveva chiuso o si era trasferito se lui non sapeva come raggiungerlo. «Be', bisogna che me lo ricordi» replicò il governatore. «A Ginny piacerebbe molto.» «Senz'altro, signore.» Jed temeva moltissimo la first lady. Mrs Feuer conosceva Richmond troppo bene per i suoi gusti. Chissà come avrebbe reagito nel sapere che Mamma 'Zu non aveva né chiuso né cambiato sede. Si era laureata a Yale e parlava correntemente otto lingue; Jed non sapeva se l'inglese fosse compreso o meno. Gli chiedeva spesso come mai prendeva una strada piuttosto che un'altra. Probabilmente aveva mangiato la foglia: avrebbe potuto farlo sostituire, retrocedere o addirittura licenziare con un gesto, una parola o una domanda in otto o nove lingue diverse. «Jed, non dovremmo essere già arrivati?» chiese il governatore. Jed guardò nello specchietto retrovisore e vide che Feuer sbirciava dal finestrino e poi controllava l'ora. «Due minuti» rispose con un filo di voce. Prese velocità percorrendo Pine Street nella direzione sbagliata, poi svoltò in Oregon Hill Parkway e sbucò in Cherry Street, dove la recinzione coperta d'edera del cimitero gli apparve come la Statua della Libertà a un emigrante che ha attraversato l'oceano. Seguì la recinzione, superando il buco e il cartellone della lavanderia Victory Rug Cleaning, varcò l'imponente cancello in ferro battuto che Lelia Ehrhart aveva fatto aprire apposta per loro, passò davanti alla guardiola del custode e percorse Hollywood Avenue. Se non avesse preso Confederate Avenue, anziché Eastvale, sarebbe arrivato davanti alla statua in meno di due minuti. Per Brazil era chiaro il motivo per cui i mass-media e tutti coloro che
non avevano un briciolo d'immaginazione o di sensibilità, che erano pieni di rancore o non erano nati a Richmond chiamavano il cimitero di Hollywood la Città dei Morti. Mentre camminava con Weed senza sapere dove si trovavano, sentì il proprio rispetto per la storia e per i defunti calare in misura proporzionale all'aumento della fatica e della frustrazione. Anche per lui il famoso cimitero altro non era che una metropoli senza cuore e senza compassione, percorsa dalle antiche strade tracciate dai primi colonizzatori, che evidentemente già sapevano dove sarebbero andati a finire. Trovare una tomba, un settore o l'uscita era impossibile, senza una cartina o una conoscenza approfondita o una fortuna sfacciata. Purtroppo, Andy stava andando verso ovest invece che verso est. «Ti fa male?» chiese al suo prigioniero. Weed si era tagliato sul mento quando era stato placcato e adesso gli usciva sangue. Per Andy la giornata non sarebbe potuta andare peggio. Il dipartimento dello sceriffo non avrebbe accettato un minore ferito e bisognoso di cure mediche, e questo significava che avrebbe dovuto portarlo prima di tutto al pronto soccorso, dove probabilmente sarebbero restati tutto il santo giorno. «No» rispose Weed alzando le spalle e tamponandosi il taglio con un calzino di Andy, in mancanza di sussidi medico-chirurgici più appropriati. «Mi dispiace» si scusò il poliziotto per l'ennesima volta. Stavano camminando lungo Waterview verso New Avenue, quando Weed si bloccò a bocca aperta davanti alla tomba in marmo e granito del grande industriale del tabacco Lewis Ginter. Non riusciva a capacitarsi della magnificenza delle porte di bronzo, delle colonne corinzie e delle artistiche vetrate. «Sembra una chiesa» si meravigliò. «Quanto vorrei che anche Twister ne avesse una così.» Rimasero zitti un momento, poi Andy si ricordò di riaccendere la radio. «A lei è mai morto nessuno?» «Mio padre.» «Io vorrei che il mio fosse morto.» «Lo dici, ma non è vero» replicò Andy. «Che cosa gli è successo?» chiese Weed guardandolo in faccia. «Era nella polizia. È rimasto ucciso sul lavoro.» Andy pensò alla tomba piccola e semplice del padre a Davidson. Il ricordo di quella domenica mattina di primavera, quando lui aveva dieci an-
ni e nella casetta di Main Street era squillato il telefono, era nitidissimo. Gli pareva ancora di sentire la madre che gridava e prendeva a calci la credenza scaraventando i piatti per terra, mentre lui si andava a nascondere in camera, consapevole di tutto senza che nessuno gli avesse detto niente. Alla televisione avevano fatto vedere un sacco di volte il corpo di suo padre mentre veniva caricato sull'ambulanza avvolto in un lenzuolo sporco di sangue. L'eco del corteo di auto e moto della polizia gli rimbombava ancora nella testa, e tutte le alte uniformi con la fascia nera sul braccio... «Mi sta a sentire?» insistette Weed. Andy tornò alla realtà. Il cimitero stava cominciando a dargli fastidio, con i suoi ronzii e quegli odori pungenti. La radio gli ricordò che doveva chiedere nuovamente un dieci-venticinque. Tuttavia non lo avrebbe fatto: non voleva che tutto il dipartimento di polizia, compresa Virginia West, venisse a sapere che si era perso dentro il cimitero di Hollywood in compagnia di un autore di graffiti quattordicenne. Ripresero New Avenue, che curvava lungo il perimetro occidentale del cimitero verso Midvale, e sullo sfondo videro un lungo carro funebre che avanzava a gran velocità nella loro direzione. Dai finestrini fumé della limousine si vedevano sfrecciare monumenti funebri, lapidi e cespugli di agrifoglio, quando il governatore chiuse l'ennesima telefonata, stufo di dare a tutti una seconda possibilità e più che mai spazientito. Jed stava andando troppo forte, e probabilmente per trovare la statua di Jefferson Davis stava impiegando più tempo di quanto ce n'era voluto per pitturarla. Inoltre le Caprice con la scorta erano scomparse. «Jed?» Questa volta Feuer bussò sul vetro. «Dov'è finita la nostra scorta?» «Penso sia andata avanti.» «Dove?» «A casa, forse. Non sono sicuro, ma credo che sua moglie dovesse fare qualche commissione.» «Mia moglie è in viaggio per Homestead.» «Ho sentito dire che è un posto magnifico, dove si mangia splendidamente, si scia, ci sono le terme e tante cose da fare. Sarà una vacanza alquanto rilassante, ritengo» replicò Jed cercando di cambiare discorso. «Dove diavolo siamo?» chiese Feuer sforzandosi di non alzare la voce. «Hanno chiuso alcune strade» rispose Jed. «Per i funerali, suppongo.»
«Non ho visto funerali.» «Infatti. Qui non ce ne sono.» «Non ho visto assolutamente nessuno, né qui né altrove» insistette il governatore. «Appunto. Perché ci hanno deviato su una strada alternativa.» «Ci hanno deviato? E dove? Non c'è nessuna deviazione! C'è una strada per entrare e una per uscire, punto e basta. A furia di deviare finiremo nel fiume.» «Intendevo dire che i cortei funebri percorrono strade diverse da questa» spiegò Jed rallentando. «Per l'amor di Dio, Jed!» esclamò il governatore perdendo definitivamente la pazienza. «In un cimitero non si possono riservare delle strade ai cortei funebri, perché bisogna comunque arrivare ai luoghi di sepoltura. Ammetti che ti sei perso.» «Non mi sono perso, signore.» «Gira. Torniamo indietro» ordinò Feuer, e in quel momento vide sulla destra un poliziotto con un ragazzo. Si voltò sul sedile e guardò dal lunotto posteriore l'agente in divisa e il ragazzino con la felpa dei Chicago Bulls che camminavano lentamente, come se fossero allo stremo delle forze. «Fermati!» gridò a Jed. L'autista inchiodò e la pila di giornali si sparpagliò per tutta la macchina. L'attività dietro il Kmart stava diminuendo. Il furgone del medico legale era partito per l'obitorio, dove Ruby Sink sarebbe stata sottoposta ad autopsia quel giorno stesso, e molti poliziotti erano già tornati alle normali attività di pattuglia. Gli investigatori stavano cercando testimoni e il parente più prossimo della vittima, mentre i giornalisti sgomitavano per arrivare prima di loro. I vigili del fuoco se ne erano andati da un pezzo, lasciando Virginia West e due tecnici della Scientifica a completare le indagini del caso. Fino a quel momento dentro la macchina erano state rilevate decine e decine di impronte e trovati tre bossoli, che presto sarebbero stati trasferiti nei laboratori per essere analizzati dagli esperti di balistica, i quali avrebbero poi inserito i dati nel sistema computerizzato dell'ATF per confrontarli con quelli di casi analoghi. Le impronte invece sarebbero state analizzate tramite l'AFIS, il sistema di identificazione automatica delle impronte digitali. Capelli, sangue e fibre sarebbero stati mandati ai laboratori specializzati per l'esame del DNA.
«Togliamo tutto dal sole prima che il sangue e gli altri campioni biologici comincino a deteriorarsi» suggerì la West ad Alice Bates, che stava scattando alcune fotografie all'interno della Chevy Celebrity. «Li abbiamo coperti» rispose il tecnico. L'altra esperta della Scientifica, Bonita Wills, stava controllando il contenuto del portafoglio della vittima sparpagliato sul fondo della macchina e sotto il sedile del passeggero. Virginia infilò la testa dalla portiera per dare un'occhiata e strisciò con la giacca contro il telaio. «Per la miseria...» sbottò accorgendosi che si era sporcata con la polvere nera usata per la rilevazione delle impronte. Osservò il sangue che era schizzato sullo specchietto retrovisore e sul tetto lì vicino, le gocce sul volante e la pozza rossastra sul sedile del passeggero. Quando era arrivata, Virginia aveva visto la vittima accasciata sul fianco destro, con la testa posata sul sedile accanto e gli avambracci e i gomiti insanguinati. C'era sangue anche sul tetto dietro il posto di guida: un quadro orrendo. Ruby Sink doveva essere seduta al volante, al momento dell'esecuzione, con i gomiti alzati e le mani coperte da qualcosa, forse dal suo volto. Dopo averla uccisa, l'assassino era sceso dall'auto e la donna era scivolata sul sedile accanto, dove aveva sanguinato brevemente prima di morire. «Quel bastardo» borbottò la West. «Davanti a una bambina, per duecento merdosissimi dollari... Bisogna proprio essere stronzi.» «Non toccare niente» le ricordò la Wills, come se Virginia fosse una che passava le sue giornate dietro una scrivania. Cercò di non perdere la calma: era stufa di sentirsi trattare come un'intrusa e per giunta idiota, quando solo poco tempo prima, in un dipartimento molto più grande e più efficiente di quello di Richmond, godeva di rispetto e stima e veniva trattata con un certo cameratismo. Fece un passo indietro e si guardò intorno, impaziente e accaldata nel tailleur macchiato. Il perimetro dietro il Kmart era stato cintato con il nastro giallo e Virginia non aveva alcuna intenzione di lasciar entrare chicchessia, neanche i fornitori del supermercato. «Dov'è il camion?» domandò. «Non mi piace questa storia: se ne sono andati tutti, ma la macchina è la prova più importante, dopo il corpo.» «Mah» borbottò la Wills scettica. «Le impronte sono talmente tante... Potrebbero essere di chiunque: non sappiamo quanta gente ci è salita o ci si è avvicinata. La maggior parte saranno della vittima.» «Sì, ma alcune saranno dell'assassino» ribatté Virginia. «Sappiamo che
non usa guanti e che non si preoccupa di lasciare impronte, capelli, sangue, saliva o liquido seminale, perché probabilmente è un pezzo di merda appena uscito da qualche riformatorio e i cui dossier sono stati appena distrutti per proteggere la sua preziosa privacy.» «Ehi, Alice» disse la Wills chiamando la sua collega, «controlla bene il bagagliaio, casomai ci abbia messo le mani.» «È proprio quello che sto facendo.» La West prese la radio e chiamò un agente perché stesse di guardia al luogo dell'omicidio, poi tornò in macchina e girò nel parcheggio davanti al Kmart, che era pieno di clienti a caccia di occasioni. Qualcuno sostava all'ingresso e guardava la First Union Bank formulando le ipotesi più strampalate in tono spaventato. Gli altri, all'interno, spingevano i loro carrelli ignari di tutto. Virginia si avvicinò alla banca e rimase sorpresa nel trovare Judy e Bubba ancora in piedi a parlare, in pieno sole. Scese dalla macchina e andò loro incontro. Quando l'odore la investì fece una smorfia e guardò i pantaloni mimetici di Bubba. «Io credo sia giusto che i cittadini partecipino alla vita pubblica» stava dicendo Judy. «Ma entro certi limiti. Non voglio pattuglie di vigilantes armati per le strade, Mr Fluck.» «Allora vedrà che non se ne fa niente» replicò lui. «Ci sono altri modi.» «Se non proprio armati, almeno con un manganello o uno spray urticante... Lei che cosa ne dice?» «No» replicò la Hammer. Il vicecomandante capì subito quello che Judy aveva in mente: era un'abile manipolatrice, che sapeva portare la conversazione dove voleva senza che l'interlocutore se ne rendesse conto. Virginia si intromise, assecondandola nel suo gioco. «Be', a Chesterfield li lasciano girare armati» le fece notare Bubba, schiacciando una mosca. «Io ne conosco qualcuno. Si fanno un gran mazzo, ma lo fanno volentieri.» La Hammer notò che la giacca di Virginia era sporca di polvere nera. «Che macchia nera...» disse, lasciando la frase in sospeso per vedere se Bubba abboccava. «No, Macchia Nera non c'entra» riprese Bubba. «Cioè, lui ci starebbe, ma dovremmo trasferirci a Chesterfield.» La Hammer si finse perplessa. «Come ha detto, scusi?»
«Il mio amico, Macchia Nera.» A quel punto fu lui a fare la faccia perplessa. «Ma lei come fa a conoscerlo?» «Senta, Mr Fluck, perché adesso non se ne va a casa a darsi una rinfrescata?» gli propose lei. «Scusi, vicecomandante West, dovrei parlarle un attimo.» Le due donne si allontanarono. «Abile mossa» fece Virginia ammirata. «Ti riferivi alla mia giacca, vero? Ma lui ha pensato subito al suo amico.» «Ho avuto fortuna» replicò Judy mentre una macchina entrava a velocità sostenuta nel parcheggio. «Tenetelo sotto controllo. Da subito.» Roop aveva talmente fretta che non si preoccupò neppure di spegnere il motore o chiudere la portiera. «Comandante!» esclamò. «Ho ricevuto ancora una telefonata dallo stesso tipo dell'altra volta.» «Sicuro?» chiese Judy Hammer. «Sicurissimo» fece Roop. «I Lucci hanno rivendicato l'omicidio dello sportello automatico!» 31 Brazil non conosceva di persona il governatore Feuer, così in Midvale Avenue non poté riconoscerlo in quell'uomo distinto, con un bel gessato scuro, che gli si faceva incontro di fretta, quasi agitato. L'agente si asciugò il sudore dalla fronte e si rese conto di avere la bocca talmente asciutta che pensò di non riuscire a parlare. «Tutto bene?» riuscì comunque a domandare. «Stavo per farle la stessa domanda» replicò l'altro. Andy ebbe la sensazione che quella voce gli fosse familiare, e cercò di abbinarla al viso. «Oh!» esclamò finalmente. «Io l'ho già vista in una foto» fece Weed. «Sembrate stanchissimi» osservò il governatore. «Che cosa ti sei fatto sul mento?» domandò poi a Weed. «Mi sono tagliato facendomi la barba.» Il governatore parve credergli. «Come mai siete qui? Vi siete fatti male? Siete soli? Non le funziona la radio?» chiese a Brazil. «No, no, la radio funziona.»
Andy parlava a fatica, come se in bocca avesse avuto la particola della Comunione. Gli si inceppava la lingua a ogni sillaba e sembrava ubriaco. A un certo punto temette perfino di avere le allucinazioni. «Dovreste bere un po' d'acqua e togliervi dal sole» suggerì il governatore. «Venite con me.» Brazil era troppo stanco e disidratato per manifestare una qualsiasi reazione. «Devo informarla che questo ragazzo è in arresto» borbottò. «Per me non è un problema. Se non lo è per lei...» replicò Feuer. «Il mio autista è della polizia di Stato.» Jed, sull'attenti accanto alla limousine, sorrise. Aprì la portiera posteriore per far salire il governatore, poi fece cenno a Brazil e a Weed di fare altrettanto. «Jed, abbiamo dell'acqua, vero?» chiese. «Certo. Fredda o temperatura ambiente?» «Fa lo stesso» rispose Andy. «Meglio fredda» disse Weed. Andy notò con sollievo che l'auto del governatore aveva l'aria condizionata. Dopo aver dato una rapida occhiata ai morbidi interni in pelle grigia, si sedette sul fondo moquettato dell'auto e fece cenno a Weed di fare lo stesso. Il governatore rimase stupito. «Perché vi siete messi lì?» chiese a Brazil. «Siamo tutti sudati» rispose lui. «Non vorremmo rovinarle i sedili.» «Non si preoccupi. Su, accomodatevi.» L'aria condizionata gli stava già asciugando i vestiti addosso. Jed passò una confezione da sei bottigliette di acqua minerale ghiacciata. Andy ne scolò due quasi d'un fiato, poi si piegò su se stesso e si massaggiò la fronte. «Cos'ha?» chiese il governatore allarmato. «Niente, niente. Ho bevuto troppo in fretta.» «Già, succede anche a me.» «Uhhh.» «Anche a me viene mal di testa, se bevo la Pepsi tutta d'un fiato» intervenne Weed. La voce di Jed chiese all'interfono: «Dove siamo diretti, signore?» «Dove posso accompagnarvi?» domandò il governatore a Brazil. «A casa? Al commissariato? In prigione?» Andy Brazil continuò a massaggiarsi la fronte. Poi versò un po' d'acqua su un fazzoletto e pulì con delicatezza il taglio di Weed.
«Mi dica» ripeté il governatore. «Sul serio, non è il caso. Non vogliamo disturbare» rispose Andy. Feuer sorrise. «Come si chiama?» «Andy Brazil.» «Ah, è lei l'autore dell'articolo sulla delinquenza giovanile?» «Sì.» Il governatore era favorevolmente impressionato. «E tu come ti chiami?» chiese poi a Weed. «Weed.» «Ma il tuo vero nome qual è?» «Ma perché mi fate tutti la stessa domanda?» Weed era stufo. «Se proprio insiste, ci accompagni al dipartimento» disse Andy. «Al dipartimento» ordinò il governatore a Jed. «Sarà meglio avvertire che farò tardi, ovunque siamo diretti.» Per Patty Passman il tempo si era fermato. Seduta sul fondo freddo del furgone cellulare che puzzava di urina, ammanettata, con le caviglie legate, aveva braccia e gambe indolenzite e un freddo cane. Immaginava già le estremità che si incancrenivano al punto da rendere necessaria l'amputazione: ma lei avrebbe fatto causa a tutti quanti, ecco che cosa avrebbe fatto. La glicemia si era assestata. Sebbene si sentisse ancora un po' debole e frastornata, adesso era più lucida, e aveva capito benissimo qual era il gioco di Rhoad. Senza almeno una denuncia non potevano sbatterla dentro. Quel maledetto l'avrebbe accusata di chissà quanti reati, e avrebbe riempito un modulo diverso per ogni denuncia al preciso scopo di farla stare il più a lungo possibile chiusa su quel cellulare al freddo e al gelo. Strisciò sul fondo di metallo fino ad appoggiarsi alla parete. Doveva cambiare posizione di frequente perché le manette le segavano i polsi e aveva la schiena indolenzita. «Oh, per favore, sbrigatevi» implorò nel buio, con le lacrime agli occhi. «Ho freddo, sto male... Oddìo, perché ce l'hanno tutti con me?» Scoppiò in singhiozzi che nessuno sentì e che comunque non avrebbero mosso a compassione anima viva... Non gliene fregava niente a nessuno. Nessuno le aveva mai voluto bene. Il suo primo errore era stato nascere femmina, con due genitori che dopo sei figlie avevano ancora disperatamente cercato un maschio. Patty aveva passato l'infanzia a cercare di farsi perdonare. Litigava con le sorelle, a cui diceva che erano brutte, imbecilli e senza
seno, rompeva i giocattoli, sventrava le bambole, faceva disegni osceni, scoreggiava, ruttava, sputava, non tirava la catena del gabinetto, era insensibile, mangiava troppe caramelle, si teneva le monetine dell'elemosina da dare in chiesa la domenica, perdeva la pazienza per un nonnulla, stuzzicava il cane, giocava ai soldati e al dottore con le altre bambine e si rifiutava di suonare il pianoforte. Insomma, faceva di tutto per sembrare un maschiaccio. Crescendo aveva smesso, ma ormai si era tanto abituata ad assumere atteggiamenti maschili che aveva perso ogni parvenza di femminilità. Nessuno la considerava, tranne Moses Pharaoh, che una sera l'aveva invitata a cena e le aveva confidato che gli piacevano le donne grasse e con i denti piccoli. L'aveva portata al Joe's Inn a mangiare bruschette, lasagne, insalata e cheesecake e prima di riaccompagnarla a casa a bordo della sua Chevelle del '69, si era fermato in East Grace Street a guardare il panorama. Quello che Patty Passman sapeva a proposito di baci lo aveva imparato al cinema, perciò era stata colta impreparata nel sentirsi in bocca una lingua enorme che sapeva d'aglio. Era rimasta scioccata quando Moses le aveva infilato le mani giù per la scollatura alla ricerca della Terra Promessa. E poi l'aveva percorsa e attraversata, infrangendo tutti e dieci i comandamenti, lasciandola infine con il suo bel vestito lungo di satin rosa sgualcito. E questo perché non era nata maschio. Quando il furgone si mise in moto e partì, Patty Passman aveva i brividi ed era confusa. A ogni curva veniva sbatacchiata di qua e di là; i minuti sembravano ore. Finalmente si fermò. «Ingresso uno, aprite, per favore» disse una voce maschile. Patty Passman udì uno stridore metallico, seguito da un rumore di cancello che si apriva. Il furgone ripartì, poi si fermò di nuovo e il cancello si richiuse. A quel punto il portellone si aprì e la Passman si trovò di fronte un uomo in divisa che masticava una gomma. Era scarmigliato e aveva un pancione che gli straripava dalla cintura, un occhio castano chiaro e uno più scuro, i capelli grigi pettinati all'indietro con la brillantina e i peli che gli uscivano dal naso e dalle orecchie. La Passman detestava gli autisti dei cellulari, che considerava il gradino più basso delle forze dell'ordine, la feccia della polizia, un branco di smidollati buoni a nulla. «Allora» le disse. «Alzati e cammina.» La Passman, sdraiata con la schiena sul fondo del furgone, strizzò gli
occhi. «Non posso» rispose. L'uomo fece schioccare la lingua. «Se non mi liberi almeno le caviglie, come faccio?» spiegò lei. Aveva la gonna tirata su e non poteva fare niente per coprirsi. L'uomo sbirciava. La Passman si impose di non perdere di nuovo il controllo, altrimenti sarebbe finita ancora peggio. «Se mi liberi le caviglie, forse ce la faccio» disse. «Me lo chiedi per favore?» Tutto d'un tratto Patty Passman riconobbe la voce. «Sei l'Unità quattrocinque-due!» «Sono famoso? Adesso ti libero, ma se provi a fare la furba te la faccio vedere io.» Non sapeva come si chiamava, ma in fatto di voci la Passman era imbattibile: quando si trattava di riconoscere centinaia di unità che non vedeva mai di persona, aveva una memoria di ferro. L'Unità 452 le liberò le caviglie e lei riacquistò di colpo la sensibilità ai piedi. Mentre strisciava verso il portellone, le si sollevò ulteriormente la gonna. Ormai ce l'aveva praticamente all'altezza della vita. L'uomo la guardava, continuando a masticare. Patty Passman arrivò lentamente sul bordo e saltò giù. L'Unità 452 premette un pulsante sul muro per aprire la porta che conduceva alle celle di detenzione, entrò, ripose la pistola nello stipo chiuso a chiave, quindi le aprì le manette. «Unità quattro-cinque-due» attaccò Patty facendogli il verso. «Sono in ascolto, quattro-cinque-due. Dieci-sette 2600 di Park. Dieci-quattro, quattro-cinque-due. È il ristorante Robin Inn. Dieci-quattro.» «Tu!» esclamò l'Unità 452. Era scioccato e offeso. «Sei quella stronza della radio?» «E tu sei il coglione che si nasconde alla Engine Company Number Nine a giocare con il tuo cazzo di Game Boy. Cosa fai, Tetris Plus, Q*Bert, Pac Man o Boggle?» lo accusò la Passman. «Che cosa?» balbettò l'Unità 452. Patty Passman l'aveva in pugno. «Lo sanno tutti» gli disse mentre il vicesceriffo Reflogle prendeva il fascio di carte che l'Unità 452 gli porgeva e cominciava a perquisire la donna. «Ti vedo male, ragazza mia» le disse Reflogle. «Devi passare un gran brutto periodo, per dare in escandescenze a questo modo.» Lei non lo sentì nemmeno. «Ti pigliano tutti in giro» continuò rivolgen-
dosi all'Unità 452. «B vuol dire bambino, non bravo, e H sta per Henry, non per hotel, testa di cazzo! Che cosa ti credevi di essere, un pilota?» «Adesso si calmi» le consigliò Reflogle trovandole otto monete nella tasca della camicia. Le premette le dita su un tampone inchiostrato, quindi sull'apposito cartoncino. Poi scattò le foto e le chiese se usava soprannomi o altri nomi. Infine la chiuse in una cella non più spaziosa di un ripostiglio, con una panca e una finestrella attraverso cui guardare fuori. Per pranzo le diedero bastoncini di pesce, formaggio fresco e gelatina di ciliegie. L'ufficio del giudice di pace era al pianterreno del dipartimento di polizia, oltre il banco delle informazioni, vicino all'ingresso numero uno e alla cella di detenzione. Non erano ancora le quattro del pomeriggio e Vince Tittle non era di buonumore. Se ripensava alla sua vita vedeva chiaramente il tragico momento in cui aveva mandato tutto a catafascio, per aver ceduto a una lusinga. Aveva venduto l'anima al diavolo per un ufficio poco più grande di una cabina telefonica. Tittle non era sempre stato così infelice. Fino a quattro anni prima era un fotografo realizzato. Lavorava all'obitorio e il suo compito era scattare fotografie nitide e precise. Era un mago della luce e dell'obiettivo e le sue opere finivano in tribunale sotto gli occhi di pubblici ministeri, avvocati difensori, giudici e giurie. Il capo dell'ufficio di medicina legale lo adorava, così come tutto il suo staff e i tecnici della Scientifica. Gli avvocati della difesa, invece, lo temevano. Era stato l'amore per la giustizia a fregarlo. La strada della sua perdizione era passata per la Banca del Tempo, un club a cui erano iscritte persone con qualifiche e professionalità molto diverse. Tittle si era messo a fare ritratti di famiglia, foto per biglietti di auguri, calendari, lauree e balli di debuttanti, vendendo il proprio talento di fotografo in cambio di denaro virtuale e versando una percentuale del dieci per cento al club. Da quando si era iscritto aveva perso i contatti con l'economia reale. Faceva un servizio per un matrimonio, per esempio, per mille dollari virtuali che, all'occorrenza, poteva spendere per farsi riparare il tetto. Grazie alla sua macchina fotografica e alla Banca del Tempo era diventato virtualmente ricco, e aveva incontrato il giudice Nicholas Endo, che era in lite con la moglie e rischiava di avere la peggio. Endo era convinto che la sua signora avesse una relazione con il denti-
sta, Bull Ehrhart, e voleva coglierla in flagrante. Tittle non avrebbe mai dimenticato ciò che il giudice gli aveva detto una sera al club, davanti a un bicchiere di bourbon. «Vince, tu puoi permetterti tutto ciò che il denaro virtuale può comprare» aveva incominciato il giudice, che aveva pagato cinque dollari virtuali per un bicchiere di vero whisky. «Ma c'è una cosa che non puoi avere, e io credo di sapere cos'è.» «Cioè?» «Tu ami i tribunali, ami la legge» aveva detto il giudice. «Fotografare cadaveri sta cominciando a venirti a noia. È inevitabile, del resto. Mi meraviglio che non ti sia già stufato del tutto, Vince.» Tittle aveva fatto roteare il ghiaccio nel bicchiere. Quelle parole l'avevano punto sul vivo. «È umano» aveva proseguito il giudice con un sospiro. «Quanto si può resistere a fare belle foto a fegati o cervelli sezionati, al contenuto di uno stomaco, a provette di bile e urina, segni di morsicature o asce piantate nella testa?» «Hai ragione» aveva mormorato Tittle facendo un cenno alla cameriera, Seunghoon. «Questo lo offro io.» «Che cosa prendete?» aveva domandato la cameriera. «Avete il Booker's?» «Macché. Ma sapete una cosa? Credo che Mr Mack nel suo ristorante l'abbia. Ha un bar molto ben fornito.» «Bisogna ordinarlo» aveva sentenziato il giudice. «È il bourbon migliore che ci sia sul mercato. Fortissimo, ti stende. Magari la prossima volta che girano un film qui a Richmond, Vince, riprendi Mack con qualche star, così si appende le foto nel suo ristorante. Gliele metti duecento dollari virtuali e ti ci compri il Booker's.» «Buona idea» aveva risposto Tittle. La conversazione era andata avanti ancora un po', prima che il giudice arrivasse al dunque. «Secondo me saresti un ottimo giudice di pace» gli aveva detto accendendosi un sigaro cubano di contrabbando. «L'ho sempre pensato» e aveva sbuffato il fumo. «Sarebbe un onore, per me» aveva replicato Tittle. «Avrei la possibilità di fare giustizia, come ho sempre desiderato.» «Perché non facciamo un affare?» «Perché no?» Endo aveva spiegato a Tittle che gli servivano delle foto che comprovas-
sero l'adulterio di sua moglie. Non gli interessava che fossero vere o truccate, o come se le fosse procurate, quello che gli interessava era tenersi la casa, l'automobile e il cane, e che i figli, ormai grandi, prendessero le sue parti. «Non sarà facile» aveva aggiunto il giudice, con le mascelle serrate. «Lo so perché ho già provato in tutti i modi. Ma se ce la farai, io poi ti restituirò il favore.» Tittle si era messo al lavoro il giorno successivo. Ben presto aveva scoperto che le abitudini di Mrs Endo erano talmente semplici da risultare complicatissime. Bull Ehrhart esercitava in quarantatré studi nella zona di Richmond e in altri ventidue più lontani, a Norfolk, Petersburg, Charlottesville, Fredericksburg e Bristol, nel Tennessee. Due volte alla settimana Mrs Endo prendeva appuntamento dal dentista, sotto falso nome, in studi sempre diversi. Quando li aveva finiti tutti, ricominciava daccapo. Cambiava accento, colore di capelli, pettinatura, trucco, occhiali e abbigliamento. Per settimane Tittle non era riuscito a cavare un ragno dal buco. I due erano troppo prudenti e troppo in gamba. Proprio quando stava per arrendersi, però, Tittle aveva trovato in cucina un corvo morto, che probabilmente era entrato dalla finestra e aveva sbattuto contro il vetro cercando di uscire. Così gli era venuta un'idea: aveva messo il corvo nel freezer e colorato di giallo una delle sue macchine fotografiche e un cavalietto. Quel pomeriggio aveva seguito Mrs Endo nello studio medico numero 17, in Staples Mills Road, vicino a Ukrops, e aveva sistemato la sua attrezzatura nel parcheggio, fingendosi un geometra addetto a rilevazioni topografiche. Erano le cinque e mezzo del pomeriggio e l'unica luce accesa era quella alla finestra sull'angolo con la veneziana abbassata. Tittle aveva dato quindici minuti al dottor Ehrhart e a Mrs Endo prima di puntare il teleobiettivo da 1200 millimetri. A quel punto aveva preso dalla tasca della giacca il corvo congelato e l'aveva tirato verso la finestra, contro la quale aveva sbattuto con un rumore secco, rompendo il vetro. La veneziana si era alzata all'istante ed era apparso il dentista, a torso nudo, che si era guardato intorno un bel po' prima di scoprire il povero volatile nell'erba. Mrs Endo, non più vestita del partner, si era messa una mano davanti alla bocca e aveva scosso la testa impietosita. Naturalmente non avevano fatto caso al geometra e alla sua attrezzatura gialla. Il giudice Endo aveva avuto la meglio nella causa di divorzio, e
successivamente aveva tenuto fede alla sua promessa. Tittle, tuttavia, si era ritrovato roso dai sensi di colpa e aveva cominciato a soffrire di crisi depressive, soprattutto quando il giudice Endo lo chiamava per rammentargli la necessità di portarsi il segreto nella tomba, presumibilmente situata nel cimitero di Hollywood. Tittle non l'aveva mai rivelato a nessuno. Aveva confessato a Dio il proprio peccato e promesso di pagare per le proprie colpe. Non aveva più fatto fotografie, era uscito dalla Banca del Tempo e denunciato i membri del club per evasione fiscale. Non l'avevano passata liscia neppure un vicino che si era collegato clandestinamente alla tv via cavo e una signora che cercava di usare ticket scaduti in una rosticceria. Tittle ammetteva sempre le proprie colpe e lavorava umilmente e indefessamente. Era diventato famoso per la sua assoluta intolleranza nei confronti di balordi, malviventi, ragazzacci e poliziotti imbecilli, oltre che per l'amore di giustizia e di verità che dimostrava di fronte a chi veniva accusato ingiustamente. Questo giocava sia a favore sia a sfavore di Otis Rhoad, che non spiccava un mandato d'arresto da vent'anni. Quando l'agente aveva controllato il codice della Virginia alla ricerca di tutti i possibili capi di imputazione, era sicuro che il giudice Tittle avrebbe condannato l'odiosa Passman all'ergastolo in una cella senza televisione, negandole la possibilità di ricorrere in appello. Tittle si stava versando un'altra tazza di caffè, la giacca sullo schienale della sedia, quando Rhoad apparve dietro il vetro antiproiettile della porta. «Ho una serie di mandati» spiegò l'agente. «Che cosa la fa pensare che possa riceverla adesso?» chiese Tittle. «Il fatto che non mi sembra occupato.» «Si sbaglia» lo corresse il giudice attraverso la piccola apertura nel vetro. «Dovrei farle fare un'ora o due di anticamera, ma visto che sto per andare a casa cercherò di sbrigarmi.» Spinse un cassetto di metallo dalla parte di Rhoad e questi vi mise un plico di moduli. Tittle li ritirò e cominciò a esaminarli in silenzio, sotto lo sguardo vigile dell'altro. «Vedo che è molto pignolo, agente Rhoad» commentò infine Tittle. Rhoad, che lo interpretò come un complimento, sorrise soddisfatto. «Utilizzo di frequenze radio nell'esecuzione di un reato» cominciò Tittle elencando le imputazioni. «Ostruzionismo. Il soggetto ha volontariamente ostacolato un agente
nell'esercizio delle sue funzioni.» Tittle passò oltre. «Turpiloquio.» «Avrebbe dovuto sentire che cosa non è uscito da quella bocca» fece Rhoad indignato. «Comportamento contrario alla decenza in luogo pubblico. Resistenza a pubblico ufficiale.» Tittle guardò Rhoad da sopra le lenti da presbite. «Crimini contro natura?» «Mi ha preso per...» balbettò Rhoad arrossendo. «L'ha sodomizzata?» «No.» «L'ha costretta a rapporti orali?» «No, ma mi ha messo in bocca cose che non ho mai detto.» «Non stiamo parlando di questo, agente Rhoad. L'ha costretta a pratiche bestiali?» «Sì! Era una bestia! Una bestia feroce!» «Agente Rhoad» disse Tittle in tono duro, «mi consenta di puntualizzare che per pratiche bestiali si intendono rapporti sessuali con animali. Non mi sembra questo il caso.» Gettò il modulo nel cestino della carta da passare nel tritadocumenti. «Vediamo il resto... Sequestro di corpo di reato. Vuole spiegarsi meglio?» «Mi ha trattenuto una parte del corpo contro la mia volontà.» Senza dire una parola, Tittle gettò nel cestino anche quel modulo. «Introduzione abusiva in proprietà privata allo scopo di recarvi danno.» «Ha abusato delle mie proprietà.» «Quali proprietà, agente?» «Le più private. E ha cercato di danneggiarle.» Anche quel foglio finì assieme agli altri. «Oltraggio.» «Me ne ha dette di tutti i colori.» «Molestie sessuali. In che senso?» «Mi ha afferrato per le parti intime» gli ricordò Rhoad. «Suppongo che tentato stupro si riferisca al medesimo atto.» «Vorrei vedere se l'avesse fatto a lei, con tutto il rispetto.» «Non mi sembra che ci siano gli estremi della violenza sessuale» replicò Tittle nervoso. «Proseguiamo. Oh, minacce contro autorità pubbliche?» «Ha detto testualmente: "Te la farò pagare! Andrò dal governatore o da sua moglie o dai suoi familiari!".» Rhoad abbassò gli occhi. A dire il vero, non ne era più tanto sicuro. C'erano parti che non ricordava troppo bene.
Tittle appallottolò il modulo e lo gettò per terra. «Lesioni. Lesioni aggravate. Aggressione. Maltrattamenti.» Tittle continuava a stracciare fogli. «Tentato omicidio. Disubbidienza civile. Alto tradimento. Alto tradimento?» «Il soggetto ha ostacolato il corso della giustizia aggredendo un pubblico ufficiale nell'espletamento delle sue funzioni» recitò Rhoad. «Aggredendo me, ha attaccato lo Stato che io rappresento.» «Secondo me, lei ha bisogno di un terapeuta.» «Non sono un rappresentante dello Stato, forse?» «Mi dica una cosa, agente Rhoad: perché questa donna l'ha afferrata per i testicoli?» domandò Tittle pensando che non aveva mai conosciuto un essere più imbecille in tutta la sua vita. «Avrà pure avuto un motivo, no? L'aveva provocata? L'aveva respinta?» «Cercava di impedirmi di farle una multa» spiegò Rhoad. «Scusi, ma non ci credo.» «Be'» fece Rhoad. «Non era la prima volta.» Brazil fu abbastanza saggio da chiedere al governatore Feuer di lasciarli a un isolato di distanza dal dipartimento di polizia, per evitare una situazione difficile, se non impossibile, da spiegare. «Adesso ti porto all'ospedale» disse a Weed quando furono scesi. «Da là chiameremo tua madre perché ti venga a prendere. Non vorrai restare dentro tutta la notte.» «Invece sì» rispose Weed. Andy notò che era agitatissimo e si guardava in giro nervosamente, come se temesse che qualcuno li seguisse. «Non ti capisco» continuò Andy. «E sai perché?» Aprì le porte a vetri del piano inferiore del dipartimento. «Perché tu non me la racconti giusta, Weed. Tu non mi stai dicendo tutta la verità.» Weed taceva. Andy prese un'auto e comunicò alla radio dove era diretto. Poi rimase con Weed al pronto soccorso del Medical College of Virginia dove, senza almeno uno dei genitori, Weed non sarebbe stato visitato. La madre non era al lavoro e a casa non rispondeva nessuno, il padre era fuori con la sua squadra; Andy lasciò detto al suo capo di richiamare, ma senza risultato. Inoltre la radio non funzionava all'interno dell'ospedale. Brazil si sentiva isolato, frustrato e di cattivo umore. Alla fine riuscì a ottenere da un giudice l'autorizzazione alla visita medi-
ca anche senza la presenza dei genitori. Questo avrebbe risolto tutto velocemente, se nel frattempo non ci fosse stato un incidente stradale che aveva coinvolto uno scuolabus. Quando infine Weed fu fatto entrare nella sala visite e un'infermiera gli pulì il taglietto e ci mise un cerotto, erano quasi le undici di sera. «Non capisco» gli disse Andy mentre tornavano al dipartimento. «Sei sicuro di avere una madre?» Weed ci rimase male e Andy se ne accorse. «Di solito non risponde al telefono, soprattutto se dorme, e di giorno dorme quasi sempre» spiegò il ragazzo. «E se non dorme perché non risponde?» «Perché ha paura che sia mio padre. Non so perché, ma lui le dice cose cattive.» Lasciarono la macchina nel parcheggio ed entrarono, passando davanti al banco delle informazioni. Pareva che a Weed non interessasse dove erano diretti. Era sempre più depresso. «Tu sai qualcosa che non mi vuoi dire» insistette Andy. «Qualcosa di grave. Di talmente grave che hai paura. Una paura terribile.» «Io non ho paura di niente» dichiarò Weed. «Tutti abbiamo paura di qualcosa» replicò Andy. C'era gente ammanettata che veniva accompagnata barcollando nelle celle di detenzione. Alcuni erano ben vestiti, con gli occhiali da sole, molti ubriachi o drogati. Si sentiva puzza di sudore, alcol e marijuana. Andy varcò altre doppie porte finché arrivarono in una saletta con qualche scrivania appoggiata al muro, sedie di plastica e orribili panche verdi tutte macchiate. Brazil andò a un telefono e chiamò il cercapersone dell'agente incaricato di formalizzare gli arresti. C'era anche una vecchia radio, e Andy la sintonizzò su 98.1. Poi si sedette su una scrivania e osservò Weed. «Puoi dirmelo» lo incoraggiò. «Non ho niente da dire» rispose il ragazzo sedendosi su una panca. «Perché hai pitturato la statua di Jefferson Davis?» «Così. M'è girato di farlo.» «Non te l'ha detto qualcuno? Magari uno dei Lucci?» «Non so niente dei Lucci.» «Palle» rispose Andy. «Chi ti ha tatuato quel cinque sul dito?» Alla radio stavano parlando dell'omicidio commesso davanti a uno sportello automatico della First Union Bank, ma Andy era talmente stanco che
sulle prime il nome della vittima non gli disse nulla. Poi realizzò. "... la sua identità è stata confermata. Si tratta di Ruby Sink, una donna di settantadue anni residente in Church Hill..." «Un momento!» esclamò Andy. "... dopo aver prelevato allo sportello automatico, è stata sequestrata e uccisa con più colpi di arma da fuoco alla nuca a bordo della sua vettura. L'omicidio è stato rivendicato dalla cosiddetta banda dei Lucci, la stessa che aveva rivendicato anche l'atto vandalico ai danni della statua di Jefferson Davis nel cimitero di Hollywood." Brazil era fuori di sé. Camminava avanti e indietro con i pugni stretti, confuso e incredulo. Ripensava all'ultimo colloquio che aveva avuto con Ruby Sink. «No!» esclamò. «Nooo!!!» Diede un pugno contro il muro e un calcio al bidoncino della spazzatura, che rotolò a terra perdendo cartacce, scatole di cartone bisunte e involucri di hamburger. «Come si può fare una cosa del genere a una povera vecchietta?» Non riusciva a non pensare alla loro ultima telefonata: gli pareva di risentire la sua voce. L'aveva usata per far ingelosire Virginia. Strinse i pugni tanto forte che si conficcò le unghie nei palmi. Poi afferrò Weed per le spalle. «Tu sai chi è stato! Io so che lo sai!» gridò furibondo. «Hanno appena ammazzato una donna, Weed! Una signora che io conoscevo. Una povera donna che non aveva mai fatto del male a nessuno! Adesso la sua famiglia passerà quello che hai passato tu quanto è morto Twister!» Weed lo guardò scioccato. «Vuoi proteggere dei simili mostri?» Brazil si allontanò e riprese a passeggiare nervosamente, cercando di controllarsi. Tremava e aveva il cuore che batteva tanto forte da sentirlo pulsare nel collo. «Ho cercato di dirvelo sul computer» sussurrò Weed tristemente. «Di dircelo? Di dirci cosa?» «La mappa con i pesci...» Per Andy fu come se avesse appena preso la scossa. «In rete. Con America OnLine. La mappa con i lucci...» accennò Weed. «Lucci?» ripeté Brazil. «Sì. Ne ho fatto anche uno di cartapesta a scuola, con la Grannis. Cercavo di farvi capire chi erano.»
«Aspetta un momento» disse Andy prendendo una sedia e sedendosi. «La mappa con i pesci era per indicare la sede dei Lucci?» Weed annuì. «Sul retro del Southside Motel. La porta è nascosta dietro una tavola di legno.» «Tu ci sei stato?» «Non volevo, glielo giuro. Mi ci ha fatto andare Smoke e mi ha anche picchiato.» Weed non osava alzare gli occhi. «Chi è Smoke?» chiese Andy. «È entrato in quel garage e si è portato via tutte le pistole. Mi ha fatto andare con lui a tenergli aperte le federe. Quindi mi arresterete anche per quello, ma non me ne importa niente, perché appena esco quello mi ammazza. Lo so, mi sta già cercando. Per questo le ho chiesto di tenermi dentro.» «Come si chiama veramente questo Smoke?» «Non lo so. Lo chiamano tutti Smoke e basta.» «Viene a scuola con te?» «Sì.» «E non sai come si chiama veramente?» «È più grande di me. Io dei ragazzi grandi conosco solo quelli che fanno disegno, ma lui non è mai venuto a lezione. E non suona neanche nella banda.» «Come si comporta a scuola?» domandò Andy. «Non lo so. Non l'avevo mai visto. Poi un giorno mi viene a cercare nell'aula di musica e mi dice che la mattina mi potrebbe accompagnare a scuola in macchina. Io non me la sono sentita di dirgli di no. Poi ha cominciato a parlare di pistole e di Lucci. Secondo lui a scuola nessuno merita di diventare un Luccio, se non lo dice lui. Diceva che aveva dei grandi progetti.» «E ti ha detto quali?» «Solo che un giorno sarebbe diventato famoso, addirittura più famoso di Twister. Perché a scuola ci sono ancora le coppe e le foto di Twister, quindi credo che Smoke lo conoscesse.» «Pensaci bene, Weed» Andy gli posò una mano sulla spalla. «Che cosa aveva in mente di fare per diventare famoso? Qualcosa di brutto?» «Secondo me voleva ammazzare della gente» rispose Weed. 32
Andy Brazil pensava a come fare. Era indispensabile agire con la massima rapidità, nell'eventualità in cui Smoke avesse avuto intenzione di presentarsi a scuola con una semiautomatica e fare una strage. Prese il telefono e chiamò Virginia, svegliandola. «Vieni subito» le disse. «Poi ti spiego tutto. Adesso vieni e basta.» «Qui dove?» chiese lei con voce assonnata. «Al dipartimento. Dobbiamo mobilitare più agenti che possiamo e presidiare domani la Godwin per assicurarci che Smoke non faccia gesti inconsulti. Bisogna che ci muoviamo al più presto.» Virginia cercò di svegliarsi del tutto. Andy sentì che si stava alzando. «Ci vediamo nella divisione investigativa fra un paio d'ore» le comunicò. «Okay» rispose lei. Weed aveva sempre più paura. Si tormentava la felpa e sospirava, quasi facesse fatica a respirare. «Io non volevo, ma lui mi ha puntato una pistola alla testa e mi ha detto che se non ci stavo mi ammazzava. Poi due settimane fa ha smesso di venire a scuola.» «E quindi di accompagnarti» dedusse Andy prendendo appunti. «No, mi ci portava e dopo se ne andava. Ma mi faceva arrivare in ritardo, mi portava in giro, mi costringeva a saltare le prove della banda. Sa, io dovrei suonare alla Parata delle azalee, sabato prossimo.» Gli si spense improvvisamente lo sguardo. «È tutto l'anno che faccio le prove e alla fine vedrà che non ci potrò andare.» Il telefono squillò, facendo trasalire entrambi. Andy rispose. Nervoso e impaziente spiegò al collega Charlie Yates i motivi per cui Weed doveva restare sotto custodia. Lo accusò di violazione degli articoli 18.2-125, Ingresso abusivo notturno in cimitero, 18.2-127, Atti vandalici ai danni di chiese, luoghi di culto, cimiteri, eccetera, e 182.2-138.1, Danneggiamento o deturpazione volontaria di proprietà pubbliche o private. «Circostanze aggravanti o attenuanti?» chiese Yates. «Per ora nessuna» rispose Brazil. «Vedremo quando sarà stabilita l'entità del danno. Se il preventivo del tecnico che ripulirà la statua dovesse superare i mille dollari, se ne parlerà in tribunale.» Weed lo guardava con gli occhi sbarrati. Evidentemente non capiva, ed era terrorizzato. «L'udienza è fissata per venerdì» disse Yates. «Pensi che...»
«Venerdì mattina?» chiese Andy. «Preferirei, se fosse di mattina.» «Okay, non c'è problema» rispose Yates. Per lui era lo stesso. Per Andy, invece, c'era una bella differenza. Infatti aveva visto sul calendario che venerdì mattina le udienze erano presiedute da Maggie Davis, la quale per principio processava a porte chiuse tutti i minori accusati di reati non gravi. Era molto importante che l'udienza di Weed si svolgesse a porte chiuse: Andy non voleva che capitasse lì per caso qualche giornalista. Così come era indispensabile che nessuno, a parte gli avvocati e il giudice, sentisse quello che lui e Weed avevano da dire. «Pensi che stasera verrà qualcuno a portarlo a casa?» «Non siamo riusciti a rintracciare la madre.» La madre di Weed era in sala operatoria e non poteva essere disturbata. Non che Andy avesse insistito molto: Weed non voleva tornare a casa e, tutto sommato, anche a lui sembrava meglio che non ci andasse. «Alla detenzione provvisoria non ci sono più brande. Ho appena controllato» fece Yates. «Non ce ne sono mai» replicò Andy. «Se non può tornare a casa, dovrà stare in cella fino a domani mattina.» «Va bene» rispose Andy senza togliere gli occhi di dosso a Weed. «Appena puoi, vieni con i moduli, così li firmo e lo accompagno. Cerca di fare in fretta, Charlie: abbiamo molto da fare.» La cella in cui lo avevano rinchiuso era appena sufficiente per farci stare il letto, tutto era in acciaio inossidabile. Ma Weed non riusciva a dormire. Attraverso una piccola grata riuscì a vedere altri ragazzi che venivano portati dentro: gli ricordavano Sick, Beeper, Divinity e Dog. Nessuno che assomigliasse a Smoke. Smoke non sembrava per niente il delinquente che era. Era buio quando l'agente Brazil lo aveva accompagnato in quel posto che chiamavano carcere minorile, e che in effetti sembrava in tutto e per tutto un carcere. La sua cella non aveva finestre che davano sull'esterno, ma Weed sapeva che si trovava in una brutta zona perché poco prima di arrivarci erano passati davanti al penitenziario, con il filo spinato che brillava minaccioso alla luce dei lampioni. A Weed si era chiuso lo stomaco dalla paura. Era ancora incavolato perché lo avevano fatto spogliare ed entrare nella doccia, e poi gli avevano dato una divisa schifosa che gli ricordava la tuta che si metteva suo padre per andare a lavorare, quando non si stava gio-
cando tutto quello che aveva guadagnato. «Ehi» gridò Weed battendo sulla porta. Qualcuno bestemmiava e una guardia elencava a un ragazzotto strafottente tutte le malefatte che doveva scontare. «Ehi!» ripeté Weed, tempestando nuovamente di pugni la porta metallica, in punta di piedi per vedere dalla finestrella. Tutto a un tratto si trovò una guardia a un palmo dal naso. Aveva l'alito che puzzava di sigaretta e di cipolla. «Cosa c'è?» gli chiese. «Voglio vedere l'agente che mi ha accompagnato qui» spiegò Weed. «Senti, senti» fece la guardia. «Vuole vedere l'agente... Nient'altro, ragazzo?» Seguì un coro di risate e di battutacce. «E com'è che vuoi vederlo?» continuò a prenderlo in giro. «Perché ho bisogno di parlargli.» «Gli parli in tribunale.» «E cioè quando?» «Venerdì mattina alle nove.» «Devo chiedergli se ha avvisato mia mamma» esclamò Weed. «A tua mamma ci dovevi pensare prima di infrangere la legge» replicò la guardia. 33 Poco dopo le tre del mattino una squadra speciale fece irruzione nella sede dei Lucci al Southside Motel, senza trovare nessuno. Non recuperarono né armi né munizioni: solo liquore e materassi puzzolenti. Alla divisione investigativa Andy Brazil era a un telefono, Virginia West a un altro. Andy aveva chiamato a casa la preside della Godwin, la professoressa Lilly, la quale, avendo immediatamente capito la gravità della situazione, aveva chiesto al segretario di raggiungerla a scuola per controllare gli archivi. Dopo una serie di ricerche dedussero che Smoke si chiamava in realtà Alex Bailey. L'indirizzo e il numero di telefono indicati sulla domanda di iscrizione risultavano però inesistenti e mancava la fotografia. Controllarono anche le varie foto di classe, senza risultato. Di Alex Bailey si sapeva soltanto a quali corsi era iscritto e che si era trasferito l'estate prima da una scuola privata di Durham, nel North Carolina, che si scoprì non essere mai esistita.
Brazil chiamò tutti i Bailey sull'elenco telefonico, svegliando un certo numero di persone che dichiararono di non essere imparentate con nessun Alex che frequentava la Godwin High School. «Ma come diavolo ha fatto?» chiese a Virginia. «Ha dato un indirizzo fasullo, un numero di telefono inventato, ha raccontato di provenire da una scuola che non esiste e chissà quante altre bugie, e nessuno se n'è accorto?» Virginia si era accesa una Carlton. Aveva smesso di fumare qualche mese prima, ma in momenti come quello sentiva il bisogno di un po' di conforto. «Chi vuoi che controlli?» replicò. «Ti ha mai chiamato a casa qualcuno della scuola?» «Che io ricordi, no.» «Non te lo ricordi perché non è mai successo. Se non capita niente di grave, le scuole non ti contattano a casa. E pare che fino a un paio di settimane fa Bailey fosse il tipico alunno taciturno che passa inosservato. Quando ha smesso di andare a lezione e la segreteria ha provato a chiamare i genitori, era troppo tardi.» «Mi chiedo che cosa sanno i suoi» disse Andy prendendo in mano la tazza di caffè ormai freddo. «Probabilmente non vogliono accettare la realtà. Magari lo proteggono, fanno finta di niente. Secondo me, quel ragazzo ha già avuto dei guai con la giustizia. Il fatto stesso che non abbia lasciato in giro foto significa che sta attento a non farsi riconoscere. Scommetto che ha dei precedenti nel North Carolina e che prima di trasferirsi era in riformatorio, non in una scuola privata» fece Virginia. «A sedici anni è tornato libero cittadino, così la sua bella famigliola ha pensato bene di cambiare città. Ed eccolo qui a Richmond, pulito come un boy scout e pronto per ricominciare.» Andy fece roteare il caffè ormai imbevibile nella tazza di plastica e sospirò. «Non vai nemmeno a dormire stanotte?» chiese Virginia. «Ormai...» rispose Andy. «Vuoi venire da me a fare colazione?» Andy la guardò tristemente. «Prima però devo fare un salto a casa a prendere una cosa.» L'Azalea Motel in Chamberlayne Road, nel Northside, era l'ultimo posto in cui la polizia sarebbe andata a cercarlo. A Smoke piaceva il nome, visto
che due giorni dopo si sarebbe tenuta la Parata delle azalee e lui aveva grandi progetti al riguardo. Era seduto sul letto di una camera singola poco più confortevole della sede dei Lucci. L'Azalea era il genere di motel in cui la gente si droga e si ammazza senza che nessuno si accorga di niente. Smoke aveva preso la stanza numero 7 per ventotto dollari a notte. Guardava la tv e beveva vodka in un bicchiere di plastica. Seguiva i notiziari. Poco dopo le sei del mattino il telefono squillò. «Sì» rispose Smoke. Era Divinity. «Sono andati nella sede, proprio come avevi detto tu!» gli comunicò tutta eccitata. Smoke sorrise, guardando i sacchi della spazzatura pieni di pistole e munizioni. «Sick e io abbiamo lasciato la macchina davanti alla libreria porno e siamo andati a guardare dal bosco. Ci scappava da ridere a vederli entrare tutti bardati e armati fino ai denti. Hai avuto proprio ragione a farci sbaraccare, tesoro. Quand'è che ci vediamo?» «Adesso non si può» rispose Smoke senza molto interesse, giocherellando con una Colt .357. «Perché non mi dici almeno che ti manco?» protestò Divinity, offesa e un po' arrabbiata. Smoke non la stava nemmeno a sentire. Pensava alla vecchia e alla paura che le aveva fatto. Non aveva mai spaventato nessuno così. Quella sensazione di potere lo inebriava più del liquore che stava bevendo. Troppo bello tirare il grilletto! Quando le aveva sparato, era talmente eccitato che non aveva quasi sentito il colpo. Bevve un altro sorso di vodka. «Agli altri cosa dici?» chiedeva Divinity. Smoke ritornò alla realtà. «A che proposito?» «Non mi stavi nemmeno a sentire» fece lei, sempre più irritata. Se c'era una cosa che Smoke cercava di evitare era litigare con Divinity. Non aveva voglia di scenate, tantomeno in quel momento. «Sono stanchissimo» disse lui sospirando. «Mi manchi da morire e sto male, se penso che non possiamo vederci fino a sabato sera. Ma bisogna aspettare che sia tutto finito.» «E come?» «Vedrai.» «E Dog e gli altri?» «Non li voglio vedere» rispose lui. «Mi raccomando, non venite alla Pa-
rata delle azalee.» «Non capisco tutto questo casino per una parata» protestò Divinity scocciata. «Bellezza, io sarò il re di quella parata» le promise Smoke. «Cosa fai, monti su un carro?» Smoke non la sopportava, quando faceva dell'ironia. Posò la bottiglia sul comodino e fece scattare il tamburo vuoto del revolver, poi sparò al televisore. «Smettila!» gridò con quel tono spaventoso che usava ogni tanto, quando diventava veramente cattivo. «Fai quello che ti dico, stronza.» «Lo faccio sempre» sussurrò Divinity, remissiva. «Non mi chiamare più e non venire, altrimenti gli altri scoprono dove sto. Okay?» «Non gli ho mica detto niente. Allora mi scarichi?» «Non ti scarico. Non ci vediamo per due giorni, tutto qui.» «Allora stiamo ancora insieme?» «Sta' tranquilla.» Andy entrò un momento in casa e tornò sulla macchina di Virginia con un sacchetto in mano e un'espressione strana. «Cosa sei andato a prendere?» gli domandò Virginia. «Vedrai» rispose. «Adesso non ho voglia di parlarne.» «Non sarà un cadavere fatto a pezzi, spero.» «No, ma ci sei andata vicino» rispose macabro Andy. Virginia sapeva di Ruby Sink, perché la voce si era sparsa molto rapidamente e tutti al dipartimento avevano saputo che la vittima dell'omicidio dietro il Kmart era la padrona di casa di Andy. Quando aveva scoperto la verità si era vergognata, si era sentita stupida, maleducata e terribilmente colpevole: aveva creduto che Andy avesse una relazione con una donna nubile di settantadue anni... Ci era rimasta malissimo, e aveva pensato invano a cosa dire. Nel quartiere tutti i locali erano chiusi, compreso il Robin Inn. Virginia parcheggiò davanti a casa propria e spense il motore senza accennare a scendere. Si voltò verso Andy, e nel vedere il suo bel profilo nella penombra si sentì quasi mancare. «L'ho saputo» disse. Lui rimase zitto. «Ho saputo di Ruby Sink, la tua padrona di casa, con cui girava voce che
tu avessi una storia.» Andy si girò di scatto, sbigottito. «Cosa?» esclamò. «E dove diavolo hai sentito una cosa del genere?» «Lo dicevano tutti, al dipartimento» spiegò Virginia. «E poi, quando ti ho sentito parlare con lei al telefono... Be', ho creduto che fosse vero, ecco.» «Ma perché? Perché ero gentile con lei quando mi cercava?» esclamò Andy commuovendosi. «Perché soffriva di solitudine e mi riempiva di biscotti, torte e pasticcini vari?» Gli tremava la voce. «E me li lasciava sulla porta perché io non ero mai in casa e non ero neppure capace di dedicarle almeno un minuto del mio tempo?» «Scusa, Andy» cercò di consolarlo. «Come con mia madre» continuò lui. «Non la chiamo mai. Quando le telefono è sempre ubriaca e io non lo sopporto. Non la posso sentire quando dice certe cose. Non lo so, non lo so...» Virginia si avvicinò e lo abbracciò, stringendolo forte perché si calmasse. Era scombussolata. «Su, Andy. Dai» sussurrò. Avrebbe voluto restare così per sempre, ma poi l'imbarazzo ebbe la meglio: le venne in mente che era molto più vecchia di lui, che lui era un ragazzo intelligente e capace e che probabilmente si era lasciato abbracciare solo perché era turbato. Pensò che non gli batteva certo il cuore come a lei, perché lui non provava niente nei suoi confronti. Così si staccò bruscamente. «Entriamo?» disse. Niles sentì arrivare la sua padrona con il Pianista molto prima che loro si accorgessero di lui. Li aspettava davanti alla porta. Il Pianista gli fece una carezza, la sua padrona non lo guardò nemmeno. Niles rimase dov'era, con la coda ritta, e li guardò con i suoi occhi strabici entrare in cucina. Appena si furono allontanati a sufficienza, balzò sul tavolo dell'ingresso e infilò un artiglio nel bigliettino del fiorista. Poi saltò per terra, atterrando senza far rumore su tre zampe soltanto. Virginia non pensava di poter mangiare il tortino di patate. Guardò con un groppo alla gola la fetta che Andy le aveva messo nel piatto. L'idea che Ruby Sink l'avesse cucinato poco prima di morire ammazzata era insop-
portabile. «Buttarlo via sarebbe peggio» le fece notare Andy. «Bisognerebbe essere proprio senza cuore. Io non ce la farei. E tu nemmeno, Virginia. Ruby Sink avrebbe voluto che lo mangiassimo.» «C'è qualcosa di morboso in tutto questo» disse lei sbattendo gli occhi. «Non credo di farcela.» Andy prese la forchetta e accennando una smorfia tagliò un pezzetto di torta. Poi se lo portò alla bocca, ma prima di addentarlo trasse un lungo respiro. Virginia lo guardò masticare e quindi inghiottire. Rimase sorpresa nel vedere che la tensione era scomparsa, che sembrava addirittura sollevato. Riconobbe nei suoi occhi azzurri una luce che aveva imparato a prendere molto sul serio. «È buono» dichiarò lui. «Credimi.» Le fece cenno di assaggiarlo. Virginia non era il tipo da tirarsi indietro, soprattutto di fronte a Andy, però mangiare quel tortino le costava moltissimo. Tuttavia si fece forza, e con sua sorpresa constatò che sapeva semplicemente di patate. Non aveva idea di cosa aveva pensato di aspettarsi. «Zucchero di canna, latte di cocco, cannella» elencò Andy, che cucinava più di quanto non facesse Virginia. Se ne mise in bocca un altro pezzo, questa volta senza esitazione. Virginia lo imitò. «Uvetta, vaniglia» continuò lui, assaporandolo come avrebbe fatto un sommelier con un vino pregiato. «Zenzero. Uhm. E un'idea di noce moscata.» «Un'idea di noce moscata?» Andy ne mangiò un altro boccone. Virginia anche. Quasi quasi se ne sarebbe tagliata addirittura un'altra fetta, giusto per fargli vedere. Non sentirono Niles, del resto non lo sentivano mai. Quando entrò in cucina aveva qualcosa di bianco sotto la zampa. «Niles?» lo chiamò Virginia un po' allarmata, pensando che si fosse ferito. «Che cosa ti sei fatto?» Non si rese conto di nulla finché Niles non saltò in braccio a Andy e questi gli staccò dall'artiglio il bigliettino che lei aveva messo a bella posta sul tavolo dell'ingresso. Andy aveva un'espressione confusa. «Schwan's Flowers and Gifts? Charlotte?» lesse stupefatto sulla busta. "Con affetto, Andy" vide scritto sul biglietto. Virginia cercò inutilmente di fare la disinvolta. Dentro di sé decise di fargliela pagare, a quell'intrigante di un gatto.
«Perché era sul tavolo dell'ingresso?» chiese Andy. «Come fai a sapere che era sul tavolo dell'ingresso?» ribatté lei. Alla prossima grandinata avrebbe chiuso Niles fuori di casa. «L'ho visto quando sono venuto a controllare il tuo computer!» «E perché hai guardato cos'avevo sul tavolo?» sbottò Virginia con tutta la rabbia e il dispiacere che aveva accumulato in quei mesi. «Ce lo avevi messo apposta perché io lo vedessi...» «Ma chi ti credi di essere, eh?» «E allora perché? Dimmelo» continuò lui. «E non dare la colpa a Niles...» Virginia spinse il piatto da una parte e distolse lo sguardo, cercando le parole per dirlo. Aprire il cuore le sembrava un'operazione pericolosa quanto aprire il portafoglio in un vicolo buio e mal frequentato. «Perché tu non mi consideravi più» ammise. «Non ti consideravo perché tu non consideravi me» replicò Andy. «Sì, perché appena siamo arrivati a Richmond mi hai piantata per metterti con un'altra senza nemmeno avere il buon gusto di dirmelo.» «Non è vero. Virginia, io non mi sono messo con nessun'altra» le sussurrò. Poi le prese una mano. Virginia aveva un groppo in gola. «Non ti ho piantato.» Si avvicinò e la baciò. In camera da letto scoprì i due bicchieri di Mountain Dew. Judy Hammer aveva voglia di piantare lì tutto. Mugugni e lamentele di gente scontenta le riecheggiavano nella testa impedendole di prendere sonno. Pensava a Bubba e agli ingiusti sospetti che aveva nutrito sul suo conto. Pensava a come aveva trattato Lelia Ehrhart e si sentiva in colpa. Uno dei suoi compiti era tenere le pubbliche relazioni, e lei non l'aveva assolto. Un altro era modernizzare il dipartimento di polizia, e la rete si era bloccata. Non era riuscita a fermare gli scippi davanti agli sportelli automatici e alla fine c'era pure scappato il morto. Le bande imperversavano per la città. Smoke era a piede libero. Judy aveva paura di non riuscire più a passare davanti alla casa di Ruby Sink. Era tutta la notte che ci rimuginava, che non faceva altro che struggersi con il ricordo di quella vecchietta in vestaglia rosa e pantofole, l'ultima volta che si erano parlate. Rievocava ogni dettaglio con una precisione che le spezzava il cuore.
«Ho fallito» confidò a Popeye. Popeye era sotto le coperte, accoccolata ai suoi piedi. «Non sarei mai dovuta venire qui. Ho combinato solo pasticci. Scommetto che anche tu rimpiangi di essere andata via da Charlotte. Là eri molto più libera, non è vero?» Aveva le lacrime agli occhi. Popeye risalì lungo il letto e le diede una leccatina sulla faccia. Judy non ricordava l'ultima volta che si era messa a piangere. Quando era morto Seth era stata stoica, perché credeva che fosse meglio così. Non aveva ceduto neppure quando aveva avuto l'impressione che i figli non volessero vederla. Era stata coraggiosa, innovativa, aveva pensato al bene comune più che al proprio. Aveva sperato che dedicarsi agli altri la facesse sentire meno sola, ma non aveva funzionato. Si alzò e si vestì. Dalla macchina chiamò Andy, senza avere risposta. Poi provò a casa di Virginia e fu sollevata nel sentire che erano lì tutti e due. «Ho una cosa importante da dirvi» annunciò. Al mattino parcheggiare nel Fan non era così problematico e Judy riuscì a trovare posto proprio di fronte alla casa di Virginia. Quando Andy le aprì, si sentiva intorpidita e assente, e senza nessuna voglia di darsi una scrollata. «Grazie» esordì entrando nel salotto. «Di niente» rispose lui. «Scusa il disordine.» Judy non ci badò. Non faceva caso a nulla di ciò che le stava intorno. Si sedette su una sedia con lo schienale rigido, mentre Andy e Virginia si accomodavano sul divano. «Ho deciso di dare le dimissioni» dichiarò di colpo. «Oddìo!» esclamò Andy scioccato. «Ma come?» chiese Virginia sbigottita. «Da quando sono arrivata ho combinato un pasticcio dietro l'altro» spiegò Judy. «Un tempo ero una brava poliziotta. Adesso invece ci odiano tutti.» «Proprio tutti no» precisò Andy. «La maggior parte» ribatté Virginia. «Non raccontiamoci storie.» «Secondo me, il fatto di venire da Charlotte non ci aiuta» disse Andy. «E neanche aver bloccato la rete Comstat in tutto il paese» continuò Judy. «O non essere riusciti a prendere il rapinatore degli sportelli automatici
prima che diventasse un assassino, né a evitare una rissa fra due agenti che pochi giorni prima avevano ricevuto entrambi un encomio» aggiunse Virginia. Judy si mise le mani in grembo e cercò di non interrompere. Si sforzò anche di restare seduta. «Judy» disse a un tratto Virginia. «Che cosa pensi di fare? Tornare a Charlotte?» Judy scosse la testa. «No» rispose. «Se non riesco a gestire il lavoro qui a Richmond, non penso di riuscirci da nessun'altra parte. Quando il cavallo non ce la fa più, bisogna andare a piedi. Io mi dimetto. Non so dove andrò a stare, non mi importa.» «A proposito» intervenne Virginia. «Dobbiamo parlare della Parata delle azalee.» «Perché ti viene in mente proprio adesso?» le chiese Andy. «Per via del cavallo. Non sfila la polizia a cavallo, nella parata?» domandò. «E non dovremmo esserci anche noi, su una decappottabile?» aggiunse poi rivolta a Judy. «Quale decappottabile?» chiese lei distratta. «Una Sebring blu» rispose Andy. «Sobria, elegante. Uno dei capoccia della Philip Morris voleva portarvi sulla sua Mercedes rossa V12.» «Non mi sembra il caso» borbottò Judy. «Secondo me, tu non dovresti sfilare per niente» disse Virginia con convinzione. «Smoke potrebbe colpire proprio alla parata. E comunque non è il caso che tu ti esponga così. Ci sono troppi balordi in giro.» Judy si alzò. Se anche le fosse successo qualcosa, non le sarebbe importato niente. «La parata è un'occasione per stare più a contatto con la gente. Non mi tirerò indietro.» «Avremo cinquanta unità in più, oltre a quelle del normale turno di servizio» comunicò Virginia. «Ufficialmente sarà per sveltire il traffico. Senza contare una ventina di agenti in borghese, nel caso in cui a Smoke o a qualcun altro venisse voglia di fare qualche stupidaggine.» Bubba stava pensando alla stessa cosa. Secondo lui il comandante Hammer non avrebbe dovuto sfilare nella parata su una macchina scoperta, e trovava molto imprudente che la notizia fosse su tutti i giornali. Forse era lì che le loro strade si sarebbero unite, forse la sua missione era proprio salvare Judy Hammer da un pericolo mortale. Probabilmente c'entravano i
Lucci. Alle otto del mattino era già davanti al Green Top Sporting Goods sulla U.S. Route 1, a venti minuti di strada da Richmond. Entrare in quel negozio, per lui, era come varcare la soglia del paradiso. L'impatto con migliaia di canne da pesca e relativi accessori gli faceva venire il batticuore. Vedere centinaia di fucili, carabine, pistole e revolver, poi, gli procurava un piacere fisico che Dolcezza non gli aveva mai fatto provare. «Oh, salve!» lo accolse entusiasta Fig Winnick, vicedirettore del negozio. A sensi della legge in vigore in Virginia, un cittadino poteva comprare come massimo una pistola ogni trenta giorni. A seguito di tale norma era nato il cosiddetto Club della Pistola del Mese, cui aderivano centottantanove uomini e sessantadue donne, i quali si avvertivano vicendevolmente della scadenza del periodo di trenta giorni passato il quale potevano acquistare una nuova arma. Era il 2 aprile. «Se fossi venuto due giorni fa, avrei potuto comprarne una allora e un'altra adesso» disse Bubba sbagliando, come spesso succedeva. «Non funziona così» lo corresse Winnick. «Purtroppo.» «Ma allora non è vero che se ne può comprare una al mese?» chiese Bubba perplesso. «Non proprio. Però se uno acquista il primo del mese, a tutti gli effetti può.» «Hanno rubato le mie pistole» lo informò Bubba. «L'ho sentito dire» fece Winnick comprensivo. «Mi è rimasta solo l'Anaconda e mi serve qualcosa di più maneggevole» spiegò Bubba. «Credo di avere quello che fa al caso suo.» Aprì con delicatezza una bacheca, prese una Browning 40 S&W High Power Mark III e gliela porse. «Che meraviglia» mormorò Bubba accarezzando la pistola cromata color argento. «Un vero gioiellino.» «L'impugnatura anatomica è di poliammide» spiegò Winnick. «Pesa meno di un chilo e ha la canna da quattro e tre quarti. Si tiene in mano che è una bellezza, eh?» «Davvero.» Bubba fece scattare l'otturatore scorrevole: quel clic era musica per le sue orecchie. «Mirino anteriore smontabile» continuò Winnick. «Sicura ambidestra,
caricatore da dieci colpi.» «Importata dal Belgio» osservò Bubba, attento. «Originale.» «Ma certo!» «E con la finitura opaca?» chiese Bubba. «Si nota meno.» «Mi dispiace, le ho finite» si scusò Winnick. «Fosse venuto ieri, ne avevo ancora undici.» «Va bene lo stesso» replicò Bubba. Patty Passman stava riflettendo. Erano dodici anni che non perdeva la Parata delle azalee e non aveva nessuna intenzione di mancare a quella del sabato successivo. Sebbene Rhoad l'avesse accusata ingiustamente di un'infinità di reati, alla fine l'unico che aveva retto era resistenza a pubblico ufficiale. Non vedeva l'ora che il garante per le cauzioni, Willy "Lucky" Loving, venisse a tirarla fuori. Nella cella in cui l'avevano messa era concesso tenere i propri vestiti tranne la cintura, per motivi di sicurezza. Patty era sudata e aveva i collant talmente smagliati che non aveva potuto fare altro che toglierseli davanti alla sua compagna di cella, Tinky Meaney, camionista della Dixie Motorfreight che era stata fermata per una rissa scoppiata nel parcheggio del Power Clean Grill di Hull Street. Patty non conosceva i particolari, ma di una cosa era certa: Tinky Meaney non era il genere di persona che avrebbe ospitato volentieri a casa sua. «Non vedo l'ora che arrivi» borbottò dalla sua branda di metallo. Lo ripeteva spesso affinché Tinky Meaney non si illudesse di esserle simpatica. Era uno di quei donnoni che sostenevano di non essere grasse ma di avere le ossa grosse. Tutte scuse. Tinky aveva coscioni spessi come prosciutti, che strusciavano uno contro l'altro a ogni passo, e mani enormi con le dita grassocce e le nocche piene di graffi e di lividi, presumibilmente riportati nel corso della rissa per cui era stata fermata. Pareva senza collo, e quando si sedeva sul bordo della branda a fissare la compagna di cella, i seni le sfioravano i passanti dei jeans. Fra l'orlo dei jeans e il bordo degli stivaletti da cowboy rossi e neri spuntava una striscia di pelle bianca e pelosa. «Che cazzo c'è da guardare?» disse Tinky, cogliendo Patty sul fatto. «Niente, niente» mentì la compagna di cella. Tinky si coricò su un fianco, con il gomito piegato, e appoggiò il mento sulla mano, squadrando Patty senza battere ciglio. Lei riconobbe all'istante quel tipo di sguardo. Nello stesso tempo, notò che quella donna aveva due
tette ancora più grosse di quanto le era parso in un primo momento. Una toccava quasi per terra e le ricordò un sacchetto di sabbia. Evidentemente Tinky Meaney non portava reggiseno sotto la felpa della Motor Mile Towing & Flatbed Service. Ancora una volta, Patty pensò che la vita le aveva servito una mano sbagliata. Nonostante la ciccia, lei si ritrovava piatta come una tavola, quasi il grasso le si fosse accumulato ovunque tranne che sul petto. Si era fatta perfino dei sensi di colpa, temendo di aver causato lei stessa quello scompenso a furia di desiderare di essere maschio. Si ricordava la vergogna che aveva provato quando a scuola proiettavano i filmini sull'educazione sessuale, in cui la femmina stilizzata cresceva a vista d'occhio arrotondandosi e ritrovandosi con due bei seni prosperosi e un utero a forma di pera da cui uscivano periodicamente macchioline rosse. Le sue compagne si bisbigliavano confidenze da cui Patty era esclusa: lei poteva fare a meno di mettere il reggiseno e aveva mestruazioni praticamente inesistenti, di cui quasi si accorgeva solo perché le aumentava l'ipoglicemia e diventava più irritabile del solito. Guardò la sua compagna di cella, torturata dai ricordi della pubertà. Tinky le rivolse un sorriso provocante. Patty se ne accorse e distolse lo sguardo. «Ma quando arriva?» ripeté, questa volta con maggior enfasi. «Non si sta mica male qui» fece Tinky con il suo accento strascicato. «Sai che ti ho riconosciuto dalla voce? Quando sono da queste parti ti sento sempre. I canali uno, due e tre li conosco a memoria. 460.100, 460.200, 460.325. Ho sempre pensato che avevi una bella voce.» «Grazie» disse Patty. «Come mai ti hanno sbattuto qui?» Patty ritenne prudente inviarle un avvertimento. «Ho pestato uno» rispose. «Ho perso le staffe e ho un po' esagerato. Uno stronzo che non ti dico. Se l'è voluta.» Tinky annuì. «Anche quello che ho menato io. Ero al bar che mi facevo gli affari miei, avevo viaggiato tutto il giorno, non so se mi spiego. Mi viene vicino questo coglione con un cappello da cowboy. Io l'ho riconosciuto subito.» Fece di sì con la testa. «E lui ha riconosciuto me.» Rifece sì con la testa. «Quella sera era in macchina. Una Chevy Dually del '92 con cerchioni in alluminio, vetri fumé e tutta accessoriata. «Mi chiede se mi piace e io gli dico di sì. Allora lui mi fa: "E te cosa
guidi?". "Un Mack." Mi chiede se ho mai guidato un Peterbilt e io gli dico che ho guidato di tutto. Allora mi domanda se sono mai andata a sbattere con un Peterbilt e io gli dico di no. "Ti ci porto io" mi fa, e si tira giù la cerniera della patta. A quel punto sono io che lo sbatto contro la sua Chevy Dually, altro che. «Mi sa che anch'io ho un po' esagerato, perché l'ho ridotto proprio male, quel porco. Non aveva manco più un dente in bocca, gli ho rotto un paio di ossa, gli ho strappato i capelli e un pezzo d'orecchio. Quello che mi dà sui nervi è che quando mi incazzo così, poi non mi ricordo più niente. Mi prende come un raptus.» «Pure a me» fece Patty. «Sei di qui?» «Stiamo vicino al Regency Mall.» «Con chi è che stai vicino al Regency Mall?» chiese Tinky socchiudendo gli occhi. «Con il mio ragazzo» mentì Patty per autodifesa. «Anch'io una volta avevo un ragazzo» ricordò Tinky. «Poi un giorno mi hanno arrestata, non mi ricordo più per cosa, e mi hanno messa in cella insieme a una.» Si sdraiò sulla schiena, con le mani dietro la testa. Patty stava per lasciarsi prendere dal panico. Ma perché Lucky Loving non si sbrigava? Non voleva dare il minimo incoraggiamento a quella donna, però era curiosa di sapere com'era andata a finire la storia. Saperne di più sul conto di Tinky Meaney poteva rivelarsi utile: in fondo, donna avvisata mezza salvata. «E allora?» chiese dopo un lungo silenzio. «Sapessi che cosa non abbiamo fatto...» Tinky sorrise al ricordo. «Sai cosa ti dico, ragazza mia? Gli uomini non hanno niente che non si possa trovare anche da questa parte del fosso. Mi capisci?» 34 Il palazzo di giustizia di Oliver Hill era moderno, luminoso e adorno di sculture in legno di Ayokunle Odeleye. Andy BraziI non aveva mai visto un tribunale così poco tribunalesco e, varcandone il portone con il fascicolo di Weed sottobraccio, si sentì un po' più ottimista. Mancavano cinque minuti alle nove e, a differenza di molti altri, quel tribunale minorile era noto per la puntualità. Se l'udienza era fissata per le nove, sarebbe cominciata alle nove. Infatti
alle nove in punto l'interfono annunciò che Weed Gardener era pregato di presentarsi nell'aula numero due. Maggie Davis era già seduta dietro lo scranno, tutta in nero. Per essere un giudice era giovane, e aveva introdotto diversi cambiamenti. Proteggeva la privacy dei minori imputati di reati non gravi, ma si dimostrava inflessibile nei confronti di chi si macchiava di crimini violenti. «Buongiorno, agente BraziI» disse quando Andy si sedette in prima fila e il cancelliere le porse il fascicolo. «Buongiorno, Vostro Onore» rispose Andy. Una guardia entrò nell'aula con Weed e lo accompagnò davanti al giudice. Con la tuta blu troppo larga e le scarpe nere che gli avevano dato pareva ancora più piccolo, comunque restò a testa alta. Non sembrava né imbarazzato né affranto; anzi, dava l'impressione di essere contento di trovarsi lì, a differenza del procuratore, Jay Michael, e del difensore d'ufficio, Sue Cheddar; per non parlare di Mrs Gardener, che stava cercando di spiegare all'agente sulla porta di essere la madre dell'imputato. «... sì, è mio figlio.» «Mrs Gardener?» intervenne il giudice. «Sì» rispose la donna sottovoce. Si era messa un bel vestito blu con le scarpe in tinta, ma aveva il volto tirato e gli occhi gonfi, come se avesse pianto tutta la notte. Le tremavano le mani. Quando Andy era finalmente riuscito a rintracciarla e a dirle di Weed, era scoppiata in lacrime e si era colpevolizzata, accusandosi di essersi disinteressata di tutto e di tutti dopo la morte di Twister. «Venga pure avanti» la invitò il giudice con dolcezza. Mrs Gardener si andò a sedere in fondo alla prima fila, il più lontano possibile da Andy Brazil. Weed non si voltò nemmeno. «Aspettiamo qualche altro familiare?» chiese il giudice. «Non credo» rispose la madre di Weed. «Va bene» disse allora Maggie Davis rivolgendosi al ragazzo. «Adesso ti leggo i tuoi diritti.» «Okay» rispose lui. «Hai diritto a un avvocato, a un'udienza, a non rispondere, a controinterrogare i testimoni, a presentare prove e a ricorrere in appello.» «Grazie» replicò Weed. «Hai capito?» «Veramente non tanto.»
«Cercherò di spiegartelo: hai diritto a un avvocato e a non dire niente che possa essere incriminante. Gli altri diritti ti interessano solo se ci sarà un processo. Hai capito, ora?» «Che cosa vuol dire incriminante?» «Che può essere usato contro di te.» «E io come faccio a sapere che cosa può essere usato contro di me?» «Facciamo così: se mi rendo conto che stai dicendo qualcosa che può essere incriminante, ti avverto. Va bene?» «E se me lo dice troppo tardi?» «Te lo dirò in tempo, stai tranquillo.» «Me lo promette?» «Certo» gli assicurò il giudice. «In questa udienza io devo stabilire se trattenerti in cella fino al processo o lasciarti libero.» «Io veramente preferirei stare in cella» disse Weed. «Di questo parleremo dopo» replicò il giudice. Guardò gli incartamenti presentati da Andy Brazil. «Sei accusato di aver violato gli articoli 18.2-125 del codice della Virginia, Ingresso abusivo notturno in cimitero, 18.2-127, Atti vandalici ai danni di chiese, luoghi di culto, cimiteri, eccetera, e 182.2-138.1, Danneggiamento o deturpazione volontaria di proprietà pubbliche o private.» Si protese in avanti. «Ti rendi conto della gravità di queste accuse?» «Io so solo quello che ho fatto e quello che non ho fatto» rispose Weed. «Ti dichiari colpevole o non colpevole?» «Dipende da quello che mi succede se dico una cosa o l'altra.» «Weed, non funziona così.» «Io però vorrei dire la mia.» «Allora dichiarati non colpevole, così potrai dire la tua al processo.» «Cioè quando?» «Dobbiamo fissare la data.» «Si potrebbe fare domani mattina molto presto?» «Devono passare ventuno giorni.» Weed aveva l'aria distrutta. «Ma domani c'è la Parata delle azalee» spiegò. «Non potrei dire la mia adesso, così ci posso andare? Io suono i piatti nella banda.» Il giudice Davis sembrava trovare Weed più interessante della maggior parte dei minori con cui aveva solitamente a che fare. Il procuratore Michael era sbigottito, l'avvocato Cheddar impassibile. «Se vuoi dire la tua, devi dichiararti non colpevole» ripeté il giudice.
«Se non mi fate andare alla parata, no» ribadì lui, cocciuto. «Vedi, Weed, se non ti dichiari non colpevole, vuol dire che ti dichiari colpevole. Ti rendi conto di che cosa significa?» gli chiese con straordinaria pazienza. «Che sono stato io.» «E che ti devo condannare. Posso concederti la libertà condizionata, ma posso anche decidere di non farlo. In questo caso dovresti tornare in cella e suonare alla parata sarebbe assolutamente fuori discussione.» «E sicura?» «Sicurissima.» «Allora mi dichiaro non colpevole» fece Weed. «Anche se sono stato io.» Il giudice Davis si rivolse a Mrs Gardener. «Ha un avvocato?» «No» rispose la donna. «Pensa di potersene permettere uno?» «Quanto mi verrà a costare?» «Potrebbe essere una spesa considerevole» rispose il giudice. «Non voglio un avvocato» si intromise Weed. «Non sto parlando con te» lo ammonì il giudice. «Mamma, non stare a prendere un avvocato» disse Weed. «Silenzio!» lo ammonì il giudice con fermezza. «Mi difendo da solo» insistette Weed. «Niente affatto» replicò il giudice. E nominò Sue Cheddar difensore d'ufficio. L'avvocato si avvicinò a Weed e gli sorrise. Era truccata pesantemente, aveva le ciglia coperte di mascara nero, che a Weed sembrava asfalto, e alcune stelline dorate sulle unghie lunghissime e laccate di rosso. A Weed non fece buona impressione. «Non la voglio» dichiarò. «Non ho bisogno di nessuno che parli per me.» «Io invece penso proprio di sì» replicò il giudice. «Signor procuratore, vuole dirci perché ritiene necessaria la custodia preventiva?» Michael guardò Andy Brazil. «Vostro Onore, penso che l'agente che ha spiccato il mandato d'arresto sia più qualificato a parlare» replicò. «Io non ho studiato bene l'incartamento.» A Weed non piaceva il modo di fare di Sue Cheddar. Ogni volta che lui cercava di aprire bocca, gli faceva segno di tacere. Ma com'è possibile
scoprire la verità se non si lascia parlare la gente per paura che si cacci nei pasticci? Tanto più che, se lui era lì, era già nei pasticci. Dopo un po', mentre l'agente Brazil descriveva il reato, Weed si stufò di sentirsi zittire continuamente dalla Cheddar. Gli sembrava inconcepibile che il suo avvocato, che avrebbe dovuto difenderlo, obiettasse tutte le volte che lui provava ad aprire bocca. Perciò decise di intervenire: in fondo Brazil stava parlando di Weed Gardener, quindi spettava a Weed Gardener obiettare, anche se era fondamentalmente d'accordo con quello che l'agente stava dicendo. «Intorno alle due del mattino di martedì, l'imputato si arrampicava oltre la recinzione del cimitero di Hollywood, introducendosi abusivamente in una proprietà privata» stava riassumendo Brazil. «Siamo arrivati che erano le tre passate» lo corresse Weed. «È irrilevante» disse il giudice per l'ennesima volta. «Ssst!» fece Sue Cheddar. «Si trovava in compagnia di una banda di ragazzi che lo costringevano...» «Non c'era tutta la banda» lo interruppe di nuovo Weed. «Solo Smoke e Divinity. Dog, Stick e Beeper non c'erano.» «Irrilevante» ripeté il giudice. «Il fatto che Weed Gardener avesse portato con sé i colori indica che l'atto vandalico ai danni della statua di Jefferson Davis era premeditato» continuò Brazil. «Io manco sapevo chi era» gli fece notare Weed. «Vostro Onore» intervenne Sue Cheddar con voce stridula. «Non credo che il mio cliente abbia capito il significato della parola incriminante.» «Ha detto di averlo capito, però» replicò la Davis. «Infatti l'ho capito» ribatté Weed. «La prego, continui» disse il giudice a Brazil. «L'imputato dipingeva la statua con i colori degli Spiders, quindi lasciava il cimitero intorno alle cinque, sempre scavalcando la recinzione.» «Era più tardi» protestò Weed. «C'era già il sole, che di solito spunta verso le sei. Lo so perché io mi alzo a quell'ora, dato che devo prepararmi il panino per pranzo. Mia madre al mattino dorme perché lavora di notte.» Mrs Gardener abbassò la testa e si asciugò le lacrime. «Irrilevante» decretò il giudice. «E comunque è tempera. Andate a controllare, se non ci credete. Se ne va con l'acqua. Vi siete scaldati tanto ma nessuno ha pensato di sputarsi su
un dito e passarcelo sopra per vedere se il colore andava via. Appena piove va via tutto» concluse con una punta di delusione. Per un attimo nessuno parlò. Si sentirono frusciare delle carte. Il procuratore guardava da un'altra parte. Andy Brazil era allibito. Sue Cheddar ci arrivò dopo un po'. «Dunque il fatto non sussiste» annunciò con voce sempre più stridula. «Cosa ne sa lei?» obiettò Weed. «Magari sussiste ancora. L'ha vista oggi?» Nessuno era andato a controllare. «E allora non dica...» cominciò, prima che Sue Cheddar gli tappasse la bocca con una mano. «Quante volte ti devo dire di non parlare e di lasciarmi fare il mio lavoro?» esclamò. Weed la morse. «Santo cielo!» esclamò la Cheddar. «Mi ha morso!» «Piano, però» sdrammatizzò Weed. «Ha cominciato lei. Poteva graffiarmi, con le unghie che si ritrova. Ma le avete viste?» Si pulì la bocca nella manica. «Ordine!» gridò il giudice. «Non potrei ripulire la statua e farla finita?» propose Weed. «Se volete ci vado subito.» Era un sacrificio, per lui, ma del resto sapeva fin dall'inizio che il monumento a Twister non sarebbe durato in eterno. «Basta che mi teniate dentro, a parte sabato che devo suonare con la banda.» «Una cosa per volta, Weed» gli disse il giudice con fermezza. «Non posso decidere niente senza aver visto le prove. E soprattutto, trattieniti dal mordere il tuo avvocato.» «E se metto a posto anche il computer della polizia, mi lasciate andare alla parata?» continuò Weed. «Si riferisce a quello che la stampa ha definito il virus dei pesci» spiegò Brazil. Sue Cheddar era allarmata. «È contagioso?» domandò impallidendo. «È stato lui a diffonderlo» precisò Brazil. «Vostro Onore, posso parlarle un istante in privato?» domandò l'avvocato. Si avvicinò allo scranno e si allungò in punta di piedi per sussurrare più piano che poteva.
«Vostro Onore» bisbigliò per non farsi sentire, nonostante fosse impossibile, «se è stato il mio cliente a diffondere il virus dei pesci, io devo sapere chi e come corre il pericolo di contagio!» Lanciò a Weed un'occhiata minacciosa. «E soprattutto se lo corro io!» proseguì. «Mi ha appena morsicato...» «Stiamo parlando di un virus elettronico» replicò Maggie Davis con un'ombra di irritazione. «Vostro Onore» continuò imperterrita la Cheddar gesticolando nervosamente, «come faccio a essere sicura che il mio cliente non sia portatore di qualche virus pericoloso? Tenga presente che la mia pelle è venuta a contatto con la sua saliva...» Aveva alzato il braccio assumendo una posa che la faceva sembrare la Statua della Libertà. «Non vedo lacerazioni» osservò il giudice. «Vuol dire che non gli farete fare le analisi?» strillò la Cheddar. «Proprio così.» «Allora io mi dimetto» esclamò l'avvocato alzando le mani dalle unghie scintillanti. «No che non ti dimetti. Sono io che ti licenzio!» urlò Weed mentre il suo ex difensore prendeva la ventiquattrore e usciva furibonda dall'aula facendo cadere un fascio di carte. «Vostro Onore» intervenne Brazil, «la verità è che a noi farebbe comodo se la rete Comstat venisse sbloccata.» Era fuori tema, ma non gli importava. «Quei pesci impediscono l'accesso alla rete non solo a noi, ma agli operatori di tutto il mondo.» «Mi scusi, ma questo esula dal caso in esame.» «Me ne rendo conto» mormorò Brazil. Poi, per provocazione, aggiunse: «E, comunque, con tutta probabilità l'imputato non sarebbe neanche capace di risolvere il problema». «Figurarsi» abboccò subito Weed. «E come lo risolveresti?» lo stuzzicò lui. «Basta rimuovere il programmino che ho fatto quando ho sostituito la routine manomettendo l'interprete HTML di America OnLine.» Il giudice Davis non riuscì a trattenersi perché, come tutti quanti al mondo, servendosi di America OnLine viveva nel terrore delle bombe colorate, delle bombe IM, dei blocchi HTML, degli errori HTMO e relative combinazioni. Temeva anche le bombe Blank IM, più innocue ma altrettanto fastidiose.
«Cosa intendi per sostituire la routine?» domandò il giudice. «Il virus è nell'autowrap del text handler» spiegò come se fosse chiaro per tutti. «Cioè, se si usa la sottoclasse VBMSG, no? Per tenere aperta la finestra e fare le altre cose che gli ho detto di fare. Come dicevo prima, c'è questo virus. Io gli ho detto di mettermi la mappa e tenercela, e il programma di protezione delle modifiche non funziona perché ho chiesto il replay del mio programma sull'IM.» Tutti erano stupefatti. Brazil prendeva appunti. Il procuratore era a bocca aperta. «Non volevo che i pesci bloccassero tutto» aggiunse Weed. «La colpa è di chi ha unito gli indirizzi, non mia.» «Qualcuno ha capito qualcosa?» domandò il giudice. «Qualcosa ho afferrato io» rispose Brazil. «A proposito degli indirizzi ha ragione.» «Ci metto un momento a fargli vedere come sbloccarlo. Poi mi potete riportare dentro» si offrì Weed. «Sto dentro fino alla parata, suono con la banda e poi torno in cella.» Guardò il giudice con una certa preoccupazione, rendendosi conto che aveva capito che lui aveva paura di tornare a casa. Si voltò e guardò la madre. «Non ti preoccupare, mamma» la rassicurò. «Tu non c'entri niente.» Mrs Gardener aveva le lacrime agli occhi. Anche a Weed venne da piangere. Intervenne il procuratore, il cui compito istituzionale era chiedere per qualsiasi reato il massimo della pena prevista. «Lasciarlo a piede libero costituisce un rischio per la proprietà privata» dichiarò. «Le prove dimostrano la necessità della custodia preventiva.» Il giudice, che aveva già deciso, si rivolse a Weed, che aspettava il verdetto con il batticuore. «Io credo che si renda necessario il rinvio a giudizio» dichiarò. «Il processo sarà celebrato fra ventuno giorni. L'accusa potrà convocare dei testimoni. La corte stabilisce inoltre che l'imputato resti in regime di custodia cautelare tranne che nella giornata di sabato prossimo, in cui verrà affidato all'agente Brazil.» Si rivolse a Weed. «A che ora è la parata?» «Comincia alle dieci e mezzo, ma io devo arrivare prima.» «E a che ora finisce?» «Alle undici e mezzo» rispose Weed. «Ma dopo io devo rimanere ancora un po'.»
«Dalle nove alle tredici» dichiarò il giudice. «L'imputato verrà quindi riaccompagnato in cella, dove resterà fino alla data del processo.» 35 La mattina della Parata delle azalee Weed si svegliò di ottimo umore. Mentre Andy Brazil lo accompagnava alla George Wythe High School, dove si stava radunando la banda della Godwin, pensava a quanto sarebbe stato bello poter disegnare la sua felicità e lo splendore di quella giornata. Era fiero della divisa bianca e rossa con i bottoni d'argento, per quanto, essendo di lana e poliestere, lo facesse sudare un po', e aveva le scarpe nere lucidissime che parevano nuove. I piatti Sabian erano nella custodia nera sul sedile posteriore. «Peccato che tu non abbia avuto più tempo per provare» disse Brazil. Weed sapeva che, dei centocinquantadue membri della banda, probabilmente era l'unico ad aver perso un'intera settimana di prove. Non aveva potuto ripassare gli spartiti e provare i vari passi di marcia, in particolare quello diagonale che solo le percussioni della banda della Godwin sapevano effettuare alla perfezione. «Andrà bene comunque» lo tranquillizzò Weed guardando fuori del finestrino, emozionatissimo. La folla si stava già raccogliendo: era prevista un'affluenza record, superiore a ogni altra edizione. Il tempo era splendido, la temperatura intorno a 18 gradi, soffiava una brezza leggera e non c'era una nuvola in cielo. Molte persone arrivavano con plaid e sedie pieghevoli, passeggini o carrozzine; alcuni dei residenti lungo il percorso della parata avevano deciso che poteva essere l'occasione buona per cercare di vendere la roba vecchia accumulata in cantina e l'avevano esposta nei giardinetti che davano sulla strada. Dappertutto c'erano poliziotti con il giubbotto antiproiettile. Brazil era preoccupato: nelle strade si stavano accalcando migliaia di persone e i partecipanti al corteo riempivano il parcheggio della scuola. Se Smoke aveva qualche piano sanguinario, come avrebbero fatto a individuarlo in mezzo a una folla del genere? Tanto più che nessuno, tranne Weed, sapeva che faccia avesse. «Voglio che mi prometti una cosa, okay?» chiese mentre Weed prendeva la custodia con i piatti. «Se ti dovessi accorgere che fra la gente c'è Smoke o un altro Luccio, prometti che mi avvertirai?»
«Okay.» Weed era impaziente di raggiungere il resto della banda, una macchia bianca e rossa in un mare di divise colorate, dove balenavano qua e là spade e strumenti musicali. In un turbinio di bacchette e bandiere, si vedevano i carri già allineati e animati da pagliacci, i poliziotti a cavallo che lasciavano accarezzare la criniera ai bambini e le automobili d'epoca. «Noi siamo fra i migliori» dichiarò Weed indicando la banda dei cadetti della marina che suonava più avanti. «Guardi quel pullman! Vengono fin da Chicago. Pensi che c'è una banda di New York!» «Weed, hai sentito che cosa ti ho detto?» chiese Brazil dal finestrino. Il sergente Santa vagava tra la folla con occhio vigile. Una majorette perse la mazza, che rotolò per terra. Uomini vestiti da cow-boy tenevano per le briglie i loro pony con boccioli di azalea nella criniera. Una rappresentanza di atleti disabili si stava preparando a sfilare. Weed era frastornato. «Weed» chiamò Brazil accennando a scendere dalla macchina. «Non si preoccupi, agente» rispose il ragazzo. «Se lo vedo la avverto.» «E come?» «Batto i piatti quando non dovrei» propose Weed. «E secondo te io me ne accorgo?» replicò Brazil. Weed rifletté, con la fronte aggrottata e le spalle curve. Con aria afflitta disse: «Se ne mollo uno, se ne accorge sicuro. Però poi glielo spiega lei al direttore, altrimenti non mi fa più suonare». «Come ne molli uno?» chiese Brazil, senza capire. «Lo faccio cadere. Ha mai visto un piatto da diciotto pollici rotolare lungo una strada?» «No» confessò Brazil. «Be', se lo vede, sa che sta per succedere qualcosa» replicò Weed. A Lelia Ehrhart era già successo qualcosa: le era venuto un mezzo colpo quando, controllando la decappottabile rossa della commissione anticrimine adorna di nastrini blu che sventolano graziosamente, si era accorta con orrore che non c'era neppure un'azalea. «Bisogna uniformizzare messaggi floreali di parata» spiegò a Ed Blackstone, anch'egli membro della commissione. «Credevo che i nastri bastassero» replicò questi, che aveva ottantadue anni ma sosteneva che l'età non conta. «Sapevo che la Parata delle azalee si chiamava così per via dei fiori, ma ho visto che ce ne sono dappertutto e
non mi pareva il caso di metterne anche in macchina. Inoltre c'è già poco posto così.» La Ehrhart non se ne convinse e ordinò che sul sedile anteriore, in pelle bianca, e su parte di quello posteriore venissero sistemati vasi di azalee bianche e rosa. A quel punto, però, non ci sarebbe più stato posto per tre membri della commissione. «Andrò sola» decretò. «Ti avverto, Lelia» borbottò Blackstone puntellandosi al bastone e strizzando gli occhi dietro le spesse lenti che era costretto a usare dopo l'ultima operazione di cataratta. «Tutti questi fiori attireranno le api, credi a me. E, come ho già detto e ripetuto, quei nastri sono troppo lunghi. Sei metri!» Su quel punto Blackstone era inflessibile. «E pericoloso: non vorrei che si impigliassero da qualche parte.» «Dov'è Jed?» chiese lei, imbronciata. «Laggiù» rispose Blackstone, indicando un albero. La Ehrhart scrutò la folla e individuò Jed vicino a un vecchio camion dei pompieri, mentre chiacchierava con Volpone, il meccanico che le aveva riparato la macchina un paio di volte. Era dispiaciuta che il governatore avesse preferito non partecipare alla sfilata nonostante lei si fosse offerta di accompagnarlo, ma perlomeno le aveva messo a disposizione il suo autista per la vettura della commissione, gentilmente prestata da uno dei pazienti di Bull. «Sarà meglio avvertire per prepararsi» disse la Ehrhart a Blackstone. Blackstone fece cenno all'albero di avvicinarsi. Né Virginia West né Andy Brazil amavano la folla, ma il comandante Hammer non voleva le luci della ribalta solo per sé, tanto più che odiava le parate e le celebrazioni pubbliche in genere. «Non ci posso credere» si lamentò Virginia dal sedile posteriore della Sebring blu. «Abbiamo un ragazzino impazzito che vuole diventare famoso facendo qualcosa di straordinariamente terribile e tu decidi di sfilare su una decappottabile!» esclamò passando davanti e cominciando a regolare gli specchietti. «Anche a me sembra un'imprudenza» disse Andy sedendosi dietro, vicino al comandante. «Non vuoi che guidi io? Sicura?» chiese a Virginia. «Sicurissima» fu la risposta. Andy tirò fuori delle carte. «Dobbiamo trovare il Mustang Club» disse «perché siamo davanti a lo-
ro.» Fece scorrere il dito su un elenco. «Dietro Miss Richmond.» «Oh, santo cielo!» esclamò Virginia. Piccione era all'incrocio fra Westover Hills e Bassett, a mezzo metro da un grassone che scrutava la folla con un binocolo, apparentemente sulle spine. Piccione stava cercando un mezzo hot-dog con senape che aveva visto buttare da un bambino nel cestino della spazzatura. Roba da matti, come se gli hot-dog crescessero sugli alberi... Piccione non si perdeva mai la Parata delle azalee, dove gli sprechi si sprecavano. Ormai i bambini non conoscevano più il valore dei soldi, neanche quelli che ne avevano pochi. Trovò un sacchetto di patatine mezzo pieno, che qualche moccioso viziato non aveva potuto fare a meno di sbriciolare prima di gettare nella spazzatura. «Ci vorrebbe un'altra guerra» confidò al grassone, sebbene non lo conoscesse. «È quello che dico anch'io» fece quello, entusiasmandosi subito. «La gente non sa più che cosa vuol dire.» «Ha proprio ragione» confermò Piccione frugando alla ricerca di qualche pezzo di patatina superstite. «Piacere, io sono Bubba» disse il grassone continuando a guardare con il binocolo. «Piccione.» «Molto lieto.» Piccione vide un bambino che sputava per terra un chewing-gum subito dopo esserselo messo in bocca, molto prima che potesse perdere il gusto. Purtroppo, però, una donna che faceva jogging lo calpestò. «Ma che schifo!» brontolò questa lanciando un'occhiataccia al bambino, che adesso si stava aprendo una lattina di aranciata. La donna alzò il piede e guardò irritata i fili appiccicosi di gomma rosa sotto la scarpa da ginnastica. «Ti odio!» gridò al bambino mentre la gente intorno a lei cercava il punto migliore da cui vedere la parata. «Odio i bambini! Odio la gente!» «Mi incazzerei anch'io, al suo posto» disse Piccione. «Ormai ognuno pensa solo a se stesso.» Bubba mise a fuoco Macchia Nera e sua moglie che si accomodavano su due sedie a sdraio in un giardino a non più di una ventina di metri alla sua destra.
«Magari non li conosce nemmeno» borbottò fra sé, arrabbiato. «Quello si approfitta di tutto e di tutti.» «Ormai così va il mondo» sentenziò Piccione. «E lo sa benissimo che io sono qui» continuò Bubba. «Come sa di dovermi mille dollari. Però quel figlio di puttana fa finta di avere l'amnesia, di non ricordarsi la scommessa, e non me li da.» «Dov'è finita l'onestà?» si chiese Piccione. Bubba guardò Macchia Nera che sistemava una tovaglia a quadretti sull'erba e apriva una borsa frigo. Piccione stava vanamente cercando un mozzicone. Si era ben accorto che il prezzo delle sigarette era salito: la gente ormai le fumava fino al filtro, e a lui non restava più niente. Il giorno prima era rimasto scioccato quando aveva visto sul tabellone elettronico con l'indice Dow Jones, vicino alla Scott & Stringfellow di Main Street, che il prezzo di un pacchetto di sigarette era aumentato di altri due dollari e undici centesimi. Aveva rimpianto di non averne comprato uno stock con i soldi del banco dei pegni, così adesso se le sarebbe vendute e avrebbe fatto una fortuna. Immerso in queste meditazioni vide Bubba che estraeva un pacchetto di sigarette da una tasca e ne faceva scivolare fuori una senza neanche abbassare il binocolo. «Sono buone queste Merit Ultima?» gli chiese mentre Bubba se l'accendeva. «Non le ho mai provate.» «Sono ottime» rispose Bubba. «La Philip Morris fa solo prodotti di qualità.» «Ne sono convinto. Sono tanto diverse dalle Merit normali?» chiese astutamente Piccione. «Vuole provarne una?» «Grazie, molto gentile» rispose Piccione servendosi dal pacchetto che Bubba gli porgeva. L'urlo delle sirene e il rombo delle moto della polizia in lontananza indicavano che la parata stava per cominciare. Weed era così eccitato che gli tremavano le ginocchia. Era a destra di Lou Jameson, che suonava il tamburo militare e aveva gli occhiali da sole come tutti gli altri tamburini. Non era mai stato molto cordiale con Weed e più di una volta gli aveva fatto notare che a suonare i
piatti erano capaci tutti e che in certe bande li facevano suonare alle ragazze. Davanti alla Godwin c'era la Western Guilford High School, con la divisa bianca e nera, e dietro la Lakeview Junior High, in verde e oro. La fila di belle divise colorate doveva essere lunga più di un chilometro, calcolò Weed. La parata iniziava a muoversi e la banda principale, che veniva dal New Jersey, attaccò God Bless America. Non era una scelta molto originale e le trombe stonavano leggermente. Weed, orgoglioso, provò un passo di marcia. «Sini-stro-avan-ti... pun-tafles-sa-gam-ba-te-sa...» recitava. Jameson lo guardava con disprezzo. «Tallo-ne-su... pun-ta-giù-e... marsch.» Weed marciò sul posto, alzando bene le ginocchia. «Adesso piantala» gli disse Jameson. «Perché?» domandò Weed. Un tempo Jameson lo metteva in soggezione, ma adesso che era stato arrestato e chiuso in una cella, che aveva bisticciato con il suo avvocato difensore e concluso un patto con il giudice, non aveva più paura di nessuno. «Tre-quattro-alt... sini-stra-de-stra... uno-due-tre-quattro.» Il passo diagonale gli veniva benissimo. «T'ho detto di piantarla, stronzo» sibilò Jameson. «E io me ne sbatto.» «Te la faccio vedere io, sai?» «Fammi piuttosto vedere come suoni quel tamburo» ribatté Weed. «Ai vostri posti!» gridò il tamburo principale, più avanti. Weed si mise sull'attenti. I piatti erano pesanti, su questo non c'era dubbio. «Pronti!» Weed allungò il collo per vedere che cosa succedeva davanti. Quando i fiati cominciarono a marciare, capì che era il suo turno. Non c'era stato nulla di casuale nella decisione di Smoke di rubare la cintura da lavoro Stanley dal laboratorio di Bubba. Aveva notato che i tasconi erano perfetti per quello che aveva in mente, perché aveva progettato tutto con congruo anticipo. Si era messo un paio di jeans logori e macchiati, una maglietta lurida, scarponi Red Wing piuttosto malconci e un berretto sporco di pittura ben calato sugli occhi. Portava Oakley scuri e non si radeva da diversi giorni.
In quella strada piena di gente nessuno gli faceva caso. Aveva effettuato un accurato sopralluogo nel parcheggio della George Wythe mentre si formava il corteo, così sapeva dove si trovavano Weed, il comandante della polizia e i due poliziotti che avevano tenuto la conferenza alla Godwin. Aveva i nervi a fior di pelle, l'adrenalina al massimo e gli scappava da ridere. Nella tasche della cintura di nylon aveva nascosto la Beretta rubata, quattro caricatori da dieci colpi e due da quindici, oltre alla Glock con tre caricatori da diciassette colpi. Questo significava che aveva con sé centoventuno proiettili Winchester Silvertip da 115 grani ad alto potenziale. Osservò le Jaguar e le Chrysler d'epoca, il Corvette Club e la folla festante che applaudiva e salutava. Il tempo era magnifico e tutti sembravano di buonumore. Vide un prato lievemente più alto e in discesa verso la strada, con un uomo e una donna che facevano un picnic su una tovaglia a quadretti bianchi e rossi. Ecco il posto ideale! Smoke si avvicinò alla coppia, incrociò le braccia e guardò sfilare i reduci di guerra e la Croce Rossa. Bubba riconobbe immediatamente la cintura di nylon Stanley. L'aveva addosso quel muratore. Non c'era dubbio, era proprio quella che gli avevano rubato. Mise ancora meglio a fuoco e guardò in faccia il ragazzo che la portava. Dimostrava quindici o sedici anni, era piccoletto e pallido. Si era stretto la cintura al massimo perché era un'extralarge e lui sarà stato sì e no cinquantacinque chili. I tasconi erano pieni di roba dall'aria pesante, ma Bubba non vedeva spuntare metri, attrezzi, chiodi, martelli o manici di nessun tipo. «Quella è la mia cintura» esclamò con il batticuore. «Sono sicuro!» Piccione guardò in quella direzione strizzando gli occhi, mentre fumava un'altra Merit Ultima gentilmente offertagli da Bubba. «Come fa a dirlo?» gli chiese. «Perché c'è un segno bianco sulla fibbia, proprio dove ho scritto le mie iniziali. Le metto su tutti i miei attrezzi per evitare che quando li presto a Macchia Nera poi quello non mi venga a dire che sono i suoi.» «Macchia Nera?» fece Piccione. Davanti a loro stavano marciando gli ultimi componenti di una banda in bianco e nero che suonava Take the A Train. Subito dopo c'era il tamburo principale della Godwin. Bubba inforcò il binocolo, arrabbiato e con il cuore che gli batteva più forte del tamburo. Vide la decappottabile blu con
Judy Hammer, Virginia West e Andy Brazil a poca distanza dalla Godwin. Il ragazzo con la sua cintura aveva l'aria tesa: gli tremava la mano destra e sembrava che stesse aspettando qualcuno o qualcosa. Scrutava fra la banda della Godwin, poi si voltava nervosamente verso Judy Hammer. Bubba ebbe un brutto presentimento. La banda della Godwin attaccò la colonna sonora di Titanic. Il muratore con la sua cintura si guardò intorno e infilò la mano destra in una tasca. Bubba pensò alle armi che gli erano state rubate insieme con la cintura e si mise a correre verso quella parte, proprio mentre stavano sfilando i fiati. Per un attimo pensò di tirare fuori la Browning, ma decise di soprassedere. «Fermate subito quel ragazzo!» urlò con tutta la voce che aveva. Smoke vide il grassone che aveva conosciuto all'officina di Volpone e che poi aveva derubato correre in mezzo alla strada gridando e gesticolando nella sua direzione. Mantenne il sangue freddo, girò la testa e alzò le spalle. «Che cretino» disse all'uomo che mangiava con la moglie lì vicino. Intanto erano intervenuti i poliziotti, uno addirittura a cavallo, cercando di calmare il grassone e di allontanarlo dalla parata. Smoke sorrise: le cose si stavano mettendo meglio di quanto avesse sperato. Si concentrò su Weed: quel ritardato stava suonando i piatti vicino a uno stupido che cercava di mettersi in mostra con il tamburo. Smoke decise di agire con calma, anche perché non voleva infilarsi di nuovo la mano nei tasconi finché il grassone non avesse smesso di indicare nella sua direzione. «Qualcuno faccia qualcosa!» urlava il grassone mentre due agenti lo afferravano per le braccia. «Prendete lui, non me! Quel ragazzo laggiù con la cintura Stanley!» Piccione, preoccupato, raggiunse Bubba che continuava a gridare, stretto fra due poliziotti. «È con me» disse al poliziotto a cavallo. «Indietro!» ribatté l'agente. «Ha visto uno con la sua cintura da lavoro. L'ha riconoscruta perché ci sono le sue iniziali. Ha il binocolo, capito?» spiegò Piccione. «Gliel'ha fregata.» Bubba perse il binocolo e la pistola, che cadde a terra con un gran rumore. I poliziotti, allarmati, tirarono fuori manette e spray urticante. Il ragazzo che suonava i piatti nella banda della Godwin ruppe le righe e fece cadere
a terra uno dei piatti. La banda smise di suonare. Piccione riconobbe Weed. Il comandante Hammer non aveva capito che cosa fosse successo. Sapeva solo che il corteo si era fermato. Scorse un disco di metallo che arrivava a gran velocità nella sua direzione. «Ma che cosa...?» domandò alzandosi per vedere meglio. Virginia frenò. «Giù!» gridò Andy spingendo Judy sul sedile, mentre la banda davanti a loro si sparpagliava e il piatto continuava a rotolare rumorosamente, facendo prima disperdere i pagliacci, poi correre via il sergente Santa e quindi sbandare la macchina del sindaco che rischiò di travolgere alcuni spettatori. Le mazze delle majorette finirono per terra. Jed si accorse del pericolo prima di Lelia Ehrhart e innestò la retromarcia: le decorazioni floreali sulla Cadillac rossa vennero sbalzate via dal sedile posteriore, i vasi si ruppero, le api si dispersero, volò terra dappertutto e i nastri blu finirono in faccia alla Ehrhart. Jed riconobbe il poliziotto biondo che era appena saltato giù dalla macchina del comandante della polizia e si era messo a correre come un disperato: era quello che aveva incontrato due giorni prima al cimitero. Inchiodò, mandando azalee da tutte le parti e facendo strillare Lelia Ehrhart. Il piatto di bronzo li superò rombando e luccicando nel sole come la ruota di un carro dorato. Anche Jed saltò giù dalla macchina, senza però metterla in folle, così che, mentre la Ehrhart annaspava fra i nastri blu che le si erano aggrovigliati intorno alla testa, l'auto cominciò a muoversi. Patty Passman, confusa tra la folla, trangugiò quello che restava del suo cono gelato e si fece avanti. «Largo! Largo!» gridava spintonando e strattonando, forte degli zuccheri appena ingeriti e inarrestabile. Corse verso la Cadillac rossa, si catapultò al posto di guida, atterrò sul sedile a gambe all'aria, afferrò la leva del freno a mano e la tirò. Smoke rimase momentaneamente turbato da tanta confusione. Era arrivato alla fase tre del suo piano e non sapeva come proseguire. Si diede un'occhiata in giro e fece un passo indietro, rischiando di scivolare sull'erba. Non si era ancora reso conto che il poliziotto biondo, Weed e un barbone
si erano messi a correre verso di lui alla velocità del fulmine. «Tutti a terra!!!» gridò a un certo punto il poliziotto. Il panico si sparse tra la folla e i poliziotti mollarono il grassone per mettersi a correre anche loro. «Bastardo!» urlò il grassone rivolto a Smoke. La coppia che mangiava lì accanto si alzò e scappò. Il grassone calpestò la tovaglia a quadretti bianchi e rossi. Smoke si spaventò e tirò fuori la Beretta, però nella confusione dimenticò di togliere la sicura. Lo stavano accerchiando. Weed correva tanto veloce che il pennacchio sul cappello nero si piegava all'indietro. Smoke mollò la Beretta e fece per impugnare la Glock, ma in quel momento Weed si tuffò e gli fu addosso sferrandogli un pugno sul naso e prendendolo per i capelli. Rotolarono a terra e Weed cercò di strappargli di mano la Glock. Smoke tenne duro, ma quando l'avversario gli piantò i denti nel polso non poté far altro che mollare la presa. «T'ammazzo, pezzo di merda!!» gridava Weed prendendolo a pugni. Andy stava cercando di ammanettare Smoke, che rotolava nell'erba gridando mentre dalle tasche della cintura rubata usciva una quantità spropositata di munizioni, quando il coinvolgimento di comuni cittadini peggiorò la situazione. Bubba era intervenuto nella colluttazione e, appena Weed gliene dava la possibilità, tirava un cazzotto a Smoke. Piccione, per terra, cercava di fermarlo per le caviglie. Alcuni poliziotti, nel tentativo di afferrare Smoke, intralciavano i movimenti di Brazil. Poi, malauguratamente, uno di loro ricorse allo spray urticante, con il risultato che pochi istanti dopo erano tutti per terra con le mani sugli occhi, lamentandosi. Smoke sferrò un calcio colpendo un poliziotto al basso-ventre e gli sfilò la Sig Sauer dalla fondina. Sporco di sangue, senza fiato e incattivito, agguantò la pistola con le mani tremanti. Siccome gli lacrimavano gli occhi, non vide le due donne che stavano accorrendo. Judy Hammer e Virginia West si stavano avvicinando a rotta di collo con le pistole in pugno. Sembrava che Smoke stesse pensando a chi sparare per primo. Puntava la pistola verso un uomo grasso che Judy riconobbe: era Bubba. Poi spostò la canna verso Brazil e gli altri agenti per terra, quindi verso la folla che si stava disperdendo e verso la parata. Judy non poteva sparare perché aveva davanti un ragazzino con la divisa della Godwin e un barbone. Lo spray nell'aria le faceva bruciare gli occhi e
la gola. Le due donne si divisero proprio nel momento in cui Smoke si girava, forse avendole intraviste con la coda dell'occhio. La canna della pistola diritta davanti agli occhi parve a Judy enorme e irreale. E lei non poteva sparare per prima perché c'era troppa gente in giro. Era parecchio tempo che non le capitava uno scontro corpo a corpo, ma non aveva dimenticato come si lotta. Lanciò la pistola contro Smoke con tutta la forza che aveva, facendola roteare come un boomerang. Appena il ragazzo alzò istintivamente le mani per parare il colpo, Judy si gettò a terra, lo afferrò per i piedi e lo fece cadere. Poi cercò di strappargli la pistola. «Arrenditi!» gli ordinò. Smoke cercò di puntarle la pistola contro, ma lei gli strinse un pollice e glielo piegò all'indietro. Era un vecchio trucco che insegnavano all'accademia, però funzionava sempre. Mentre il ragazzo urlava per il dolore, lei gli strappò di mano la pistola e gliela puntò sotto il mento. «Non ti muovere o ti faccio saltare le cervella!!» gridò. Aveva il dito sul grilletto. Se solo le avesse dato la scusa per farlo, avrebbe sparato. «Maledetto bastardo!» imprecò. «Quella povera vecchia che hai ammazzato era una mia vicina di casa!» Andy si era ripreso abbastanza da aiutare Virginia ad ammanettare Smoke e portarlo via. Bubba si tirò su a sedere, con le lacrime che gli scorrevano sulle guance. Piccione era steso per terra a faccia in giù e si copriva gli occhi con il moncherino. Weed si rialzò barcollando e guardò Judy Hammer, con gli occhi rossi e pieni di lacrime. Il comandante era in piedi, immobile, la pistola puntata verso terra. «Grazie» le disse Weed. «Meno male che è arrivata lei.» 36 Quella sera pioveva. Dal cielo cadevano cortine d'acqua che a Weed ricordavano certi dipinti del mare in tempesta. A un certo punto cominciò perfino a grandinare. Tirava un vento terribile e il ragazzo immaginò che potesse sospingere i chicchi di grandine contro le porte con tanta violenza da riuscire a far suonare i campanelli. «Chi è?» mormorò nel buio. «Avanti» disse fra sé e sé. «Oh, mi scusi, ho dimenticato come si fa ad aprire la porta.» Aveva le lacrime agli occhi. Le sue battute non facevano ridere nessuno, anche perché non c'era nessuno da far ridere. I lampi rischiaravano la cella
e i tuoni scoppiavano nella notte come bolle di chewing-gum. Immaginò un tornado e pensò a Twister. Aveva sentito dire che durante i temporali non bisognava tenere in mano mazze da golf, suonare i piatti o parlare al telefono. E lui era seduto su una branda di metallo... "Be', tanto, anche se muoio..." Smoke era rinchiuso in un'altra cella dello stesso carcere. Il solo pensiero fece rabbrividire Weed. Si grattò energicamente la testa e gli venne il batticuore. Gli mancava il fiato, tremava. Si tirò su le coperte e tornò a pensare alla branda di metallo, continuando a guardare i lampi che illuminavano la notte. Il comandante Hammer odiava i temporali e di solito si teneva lontana dalle finestre e da tutti gli oggetti che conducono elettricità. Quella sera, però, non riusciva a stare ferma. Passeggiava nervosamente nel salotto davanti alle finestre, alle lampade, all'attizzatoio del caminetto e al lampadario di ottone, sotto gli occhi di Andy e di Virginia che, seduti sul divano, ripercorrevano gli avvenimenti della giornata. «Non me ne importa niente» stava dicendo Andy, preoccupato, quando mancò la luce. «Weed non dovrebbe stare nello stesso istituto di Smoke. Anche se si trovano in due ali diverse, è troppo pericoloso. Smoke ha già dimostrato di avere un'intelligenza diabolica.» «Non abbastanza da sfuggirci» gli ricordò Virginia. «Comunque hai ragione.» «Ve lo dico io» continuò Andy. «Se Smoke vuole fare una cosa, prima o poi ci riesce.» «Sì, sì» borbottò Judy continuando a camminare, mentre Popeye russava sotto una poltrona e i tuoni rimbombavano nella notte. Andy era talmente preoccupato da essere disposto a prendere le decisioni più drastiche, anche se non sapeva bene quali. Evidentemente Smoke non aveva voluto che Divinity, Beeper, Dog e Sick restassero a piede libero mentre lui era dentro, quindi aveva detto alla polizia dove trovarli. Perciò adesso tutti i Lucci erano rinchiusi nello stesso istituto, magari a due o tre corridoi di distanza dalla cella singola di Weed con branda e toilette di metallo. «Weed dovrà testimoniare contro di loro» disse Andy. «Non mi interessa che dormano in ali diverse» aggiunse Virginia. «Potrebbero incontrarsi durante l'ora d'aria. E si sa che Divinity è una serpe.» «Penso che abbiate perfettamente ragione» decretò Judy accendendo alcune candele. «Bisogna trasferirlo stasera stessa.»
Per farlo ci voleva un piano decisamente poco ortodosso e Judy Hammer lo aveva. Alle otto e un quarto chiamò il giudice Davis a casa. «Per fortuna ti ho trovata» esordì. «E dove volevi che andassi con un tempo simile?» replicò Maggie Davis. «Sapessi come mi dispiace di aver perso la parata. Dev'essere stata uno spettacolo, eh? Peccato non averti visto all'opera.» «Non ti sei persa niente» rispose Judy minimizzando. «Senti, ti ho telefonato perché vorremmo liberare Weed Gardener il più presto possibile.» «Ma non voleva stare dentro?» «Prima che arrestassimo Smoke e gli altri della sua banda, sì» spiegò Judy. «Adesso però corre dei rischi, Maggie. Rischi seri.» Il giudice rifletté un momento. «Che cosa proponi?» chiese poi. Judy Hammer sapeva che stava per domandare l'impossibile, ma non era la prima volta che tentava un'impresa che agli occhi dei più sarebbe sembrata irrealizzabile. «Potresti contattare il procuratore e l'avvocato difensore?» «Sì, certo» rispose Maggie Davis. «Allora avverto il custode, così ci apre il cancello.» «Quale cancello?» Alle nove, quattro automobili si fermarono davanti al cancello del cimitero di Hollywood sotto una pioggia scrosciante. Le lapidi e i monumenti funebri, luccicanti d'acqua alla luce dei fari, avevano un'aria ancor più sinistra. Nella prima auto c'erano Judy Hammer, Andy Brazil e Virginia West. Seguivano la Volvo del giudice Davis, la Honda Accord del procuratore Michael e, un po' distaccata, la vecchia Mercury Cougar di Sue Cheddar che, nonostante si fosse dimessa dal proprio incarico e fosse stata licenziata dal proprio cliente, era stata poi riconfermata dal giudice. «Spero solo che Weed abbia detto la verità» mormorò Virginia. Nonostante i tergicristalli alla massima velocità, non si vedeva un accidente. Judy procedeva lentamente, china sul volante, strizzando gli occhi per non uscire di strada. «Io credo di sì» rispose come se conoscesse Weed molto bene. Avanzarono lungo Waterview Avenue, fra alberi grondanti acqua e angioletti di pietra. Nel vedere le cupe tombe con le vetrate colorate, Judy ripensò ai suoi terrori di bambina. Quando aveva dieci anni una sua vicina di casa, Mrs Wheat, era stata seppellita nel cimitero battista, e la sua lapide di
granito grigio poteva essere vista dalla strada. Andando a scuola la mattina, la piccola Judy passava di corsa davanti al cimitero perché Mrs Wheat non le era mai stata simpatica e, adesso che era in cielo, doveva sicuramente averlo scoperto. Judy continuava a non amare i cimiteri. Non ci trovava niente di bello, ne detestava l'odore pungente e gli insetti. In realtà aveva paura della morte. Ma non solo. Aveva paura di quello che provava per Seth. Aveva paura di stare sola, e di sbagliare. Aveva paura di avere paura. La paura le toglieva le forze e, francamente, in quel momento ne aveva già fin troppo poche. «È ridicolo» esclamò. «Non penso proprio che mi dimetterò, né che abbandonerò l'incarico.» «Be', sappi che se ti dimetti tu, me ne vado anch'io» disse Virginia. «E io pure» le fece eco Andy. Stavano arrivando a Davis Circle. «Ci seguono sempre?» chiese Judy guardando nello specchietto. «Non ti devi arrendere» disse Andy. «Soprattutto adesso. Non vorrai dare loro la soddisfazione di toglierti di torno, visto che ce l'hanno con te. Ti pare?» «Già» replicò Judy. «Come ragionamento mi piace.» Non tutti avevano apprezzato il modo in cui il comandante di polizia aveva fermato Smoke, tantomeno che gli avesse puntato la pistola alla testa imprecando. Al notiziario delle sei il sindaco aveva deplorato l'accaduto e definito l'azione del comandante Hammer una trovata pubblicitaria. Lelia Ehrhart aveva invece dichiarato a "Q94" che Judy Hammer «è una donna con pugno di ferro che non dà abbastanza spazio a prevenzione». Era stata addirittura aperta un'inchiesta. «Non ti devi scoraggiare» ribadì Andy immaginando che cosa lei stesse pensando. «Non dimenticare che Feuer è rimasto molto impressionato e ti ha chiamata per farti le congratulazioni. Conta più lui di tutti gli altri, no?» «Dove devo andare?» chiese Judy, che non riusciva più a vedere la strada. Fu Andy a scorgere per primo Jefferson Davis. «Mi sciolgo! Mi sciolgo!» disse facendo il verso alla strega del Mago di Oz. «Per la miseria!» esclamò Virginia quando la statua apparve chiaramente alla luce dei fari della macchina. Fermò la Crown Victoria e accese il lampeggiatore.
«Santo cielo!» esclamò Andy. «Peccato che non ci sia Weed a vedere.» «Mah» intervenne Judy. «Probabilmente a lui dispiacerebbe.» «Sì» ci ripensò Andy. «Hai ragione. Niente più Twister.» Jeff Davis stava rapidamente perdendo la pelle nera e la maglia numero dodici, ridotte ormai a pozze di colore attorno alle scarpe tornate d'epoca, sul piedistallo di marmo che non era più un campo di basket. Anche il pallone nella mano sinistra era tornato a essere un cappello. Si sentiva un grande sbattere di portiere e uno sguazzare di piedi nell'acqua. Maggie Davis, che era di New York, si avvicinò a guardare bene la statua, poi si chinò ed estrasse dal terreno una piccola Croce del Sud. La sbandierò, quasi per cercare di capire come funzionasse e come avesse potuto scatenare tanto scompiglio. «Mi sembra chiaro che non si può più parlare di atto vandalico» annunciò Judy Hammer. «Il fatto non sussiste.» Sue Cheddar parlò da sotto l'ombrello rosa antico, da cui spuntavano solo gli artigli scarlatti. «Come si può ben vedere.» Michael era bagnato fradicio e, nel suo completo grigio con la cravatta scura, assomigliava a un soldato della Confederazione sconfitto. Aveva i capelli appiccicati alla testa e la faccia tutta bagnata rivolta verso il vecchio presidente Davis, che stava perdendo lustro per l'ennesima volta. «Tuttavia l'intenzione era dolosa» fece notare poco convinto. «Maledizione, ma quando la smetterà di piovere a questo modo? Dovreste vedere com'è ridotto il mio giardino. La strada dove abito si allaga già con quattro gocce: il comune dovrebbe fare qualcosa.» «C'è altro?» chiese il giudice rivolgendosi a tutti i presenti. In quel momento cominciò a grandmare. «Non mi sembra» rispose Virginia. «No» fece Judy. «Abbiamo concluso» riassunse Andy. «Dichiaro quindi decaduta l'accusa e dispongo l'immediata scarcerazione dell'imputato Weed Gardener» dichiarò il giudice Maggie Davis guardando una statua di marmo con una bibbia aperta in mano. «Agente Brazil» aggiunse poi, «vogliamo firmare le carte necessarie affinché Gardener possa uscire stasera stessa?» «Prego» disse Judy. «Virginia, Andy? Andiamo a riportare Weed a casa.» Andy mise un braccio intorno alle spalle di Virginia, Judy cominciò ad applaudire e Virginia la imitò. Sue Cheddar ci provò, ma aveva le unghie
troppo lunghe e non ci riuscì. Il procuratore Michael alzò le spalle. Appena le carte furono pronte, i sei tornarono alle rispettive macchine. Jefferson Davis rimase solo, mentre il piccolo corteo di auto si allontanava lungo Waterview sotto una pioggia che sembrava un po' meno forte, accanto a monumenti che sembravano un po' meno lugubri. FINE