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Questa serie, dedicata alla Lingua italiana, è curata da Francesco Bruni e comprende i seguenti volumi: .1
" ,
GIUSEPPE PATOTA �
Francesco Bruni
L'italiano letterario nella storia
�
Paolo D'Achille
L'italiano contemporaneo
�
Carla Marcato
Dialetto, dialetti e italiano
�
Giuseppe Patota
Lineamenti di grammatica storica dell'italiano
�
Luca Serianni
Italiani scritti
·Lineamenti di grammatica storica· dèll'itaJià no . :-
il Mulino
I
9
Presentazione
Avvertenze e indicazioni di lettura
11
I.
13
L'italiano deriva dal latino?
1. Il fattore tempo, o variabile diacronica •
I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme del le attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet:
ISBN 88·15·08638·2
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Il.
14
2. li fattore spazio, o variabile diaropica
15
3. Il fattore stile, O variabile diafasica
21
4. li fattore socioculturale, o variabile diastratica
21
5. La modalità di trasmissione, o variabile diamesica
22-
6. Le fonti del latino parlato
22
•
www.mulino.it
La nuova epigrafe del Garigliano
14
L'«Appendix Probi»
23
7_ Il metodo ricostruttivo e comparativo
24
8. Latino classico e latino volgare
25
9. Dal latino volgare all'italiano
26
lO. Parole popolari e parole dotte
27
Foni e fonemi dell'italiano
1. I fonemi dell'italiano 2. L'alfabero fonetico
31 31 32
6
INDICE
INDICE
.
.3. 4.
.
Ponemi sordi e fonemi sonori Fonet1Ù orali efonemi nasali
5. Vocali 6. Dittonghi 7. Trittonghi
8. Iato 9. Consonanti
III.
34 36 36 36 37
lO. Come si scrivono le consonanti nella grafia corrente
40
11. Consonanti scempie e doppie
40
Dal latino all'italiano: i mutamenti fonetici
1. Vocali latine e vocali italiane 2. L'accento 3. Fenomeni del vocalismo
Dal latino all'italiano: alcuni mutamenti sintattici
1. Lordine delle parole nella frase. Dalla sequenza «SOV» alla sequenza «SVO»
163
49 51 64 70
•
VI.
Le lingue d'Italia nel Medioevo: una visione d'insieme
1. Il milanese antico
72
•
Bonvesin da la Riva
2. Il veneziano antIco
92
107
La «Cronica»
•
L'«Epistola napoletana» di Giovanni Boccaccio
107 108
5. Il siciliano antico
3. La scomparsa del sistema dei casi
109
•
4. La semplificazione del sistema delle declinazioni
113
5. Metaplasmi di genere e di numero
116
6. La derivazione dei nomi italiani dall'accusativo
117
7. La formazione degli articoli 8. Pronomi personali
120
9. Aggettivi e pronomi possessivi lO. Aggettivi e pronomi dimostrativi
172 174 175
4. Il napoletano antico
Il «Lamento di parte siciliana»
6. Le koinè extra-toscane
114
169
177
1. li numero del nome
Le declinazioni del latino
169
3. Il romanesco antico
2. li genere del nome. La scomparsa del neutro
•
165
II «Tristano veneto»
•
94
164
I fenomeni sintattici nella lingua di una novella del «Decameron» di G. Boccaccio
I fenomeni del consonantismo nella lingua di
Dal latino all'italiano: i mutamenti morfologici
159
43
•
IV.
159
162
Chiusura di e in protonia sintattica
5. Fenomeni generali
155
4. La legge Tobler·Mussafia 5. Funzioni di «che»: le proposizioni completive
I fenomeni deI vocalismo nella lingua di una
una novella del «Decameron» di G. Boccaccio
novella del «Decameron» di G. Boccaècio
3. L'enclisi del pronome atono
•
•
141
43
•
4. Fenomeni del consonantismo
V.
13. li verbo • I fenomeni morfologici nella lingua di una
161
53
novella del «Decameron» di G. Boccaccio
I
138 139
2. L'espressione e la posizione del pronome soggetto
La regola cosiddetta del «dittongo mobile"
•
11. Pronomi relativi 12. Aggettivi e pronomi indefiniti
33 34
7
•
La koinè settentrionale quattrocentesca
180 182 184 186 187 188 189
Bibliografia
193
Indice delle parole e delle forme
199
128 134 135
Presentazione
Questa breve grammatica storica dell'italiano è strutturata in sei capito
li. Il primo affronta alcune questioni generali relative ai rapporti genetici fra latino e italiano, mentre il secondo offre le nozioni di fonetica e fonologia indispensabili per la comprensione dei fenomeni illustrati nel terzo, nel quarto e nel quinto capitolo, dedicati, rispettivamente, alle più importanti trasformazioni fonetiche, morfologiche e sintattiche che hanno caratterizza· to il passaggio dal latino all'italiano. Il quadro è completato dal sesto capito lo, volto a fornire, cosÌ come recita il titolo, una visione d'insieme, inevitabil· mente sintetica, su alcuni volgari di grande tradizione colta: milanese, vene ziano, romanesco, napoletano, siciliano, koinè extra-toscane (peraltro, un volume di questa stessa serie è interamente dedicato ai dialetti d'Italia). Lontano da qualsiasi pretesa di esaustività, ho cercato di spiegare in modo facile una materia difficile, e di introdurre cosÌ lo studente del triennio allo studio della grammatica storica dell'italiano. Da questo punto di vista, l'opera si configura come il testo di riferimento di un modulo di Storia della
lingua italiana. Si vuole sottolineare che questi Lineamenti di grammatica storica del
l'ztaliano non prescindono, com'è owio, dal latino, ma non richiedono co noscenze pregresse di latino. Pensato anche per quegli studenti che non hanno studiato il latino, il volume non dà niente per scontato, niente per già noto, e fornisce tutte quelle spiegazioni relative alla lingua latina (a partire dalle più elementari: quantità delle sillabe, accento, funzione. dei casi, decli nazioni, ecc.) necessarie per ricostruire la storia dei fenomeni fonetici, gram maticali e sintattici della lingua italiana.
10
PRESENTAZlON&--
Una dedica e un augurio, in sintonia con la destinazione didattica di questo lavoro. La dedica è ai miei figli, Federico e Valeria, con tutto l'amore possibile; l'augurio è che non si annoino troppo quando mi sentono ripetere che studiare è importante.
Avvertenze e indicazioni di lettura
GIUSEPPE PATOTA
1. Le basi latine sono riportate in MAIUSCOLETrO, mentre le parole italia ne derivate dalle basi latine sono riportate in minuscolo corsivo. 2. li simbolo> significa 'passa a', mentre il simbolo < significa 'proviene da'. Ad esempio: pur troppo> purtroppo significa: 'pur + troppo passa a purtroppo' purtroppo < pur troppo significa: 'purtroppo proviene da pur + troppo' 3. L'asterisco * anteposto a una forma scritta in MAIUSCOLEITO indica che questa non è documentata nel latino scritto ma è stata ricostruita dagli stu diosi: è il caso, ad esempio, della base latino-volgare 'CARONIA (cap. I, § 7). 4. Nelle basi latine, le lettere poste tra parentesi tonde rappresentano altrettanti suoni. che scompaiono nel passaggio all'italiano. È il caso, ad esempio, della I e della M della base latina CAL(I)OU(M). 5. Una lettera fra due trattini indica un suono in posizione intervocali ca: per esempio, la -g- della parola u,go. 6. Una lettera seguita da un trattino indica un suono in posizione inizia le: per esempio, la! della parola foro. 7. Una lettera preceduta da un trattino indica un suono in posizione fi nale: per esempio, la -n della parola con. 8. La fottna dei singoli suoni e i suoni delle varie parole sono trascritti utilizzando i simboli dell'alfabeto fonetico riconosciuto dall' ApI (Associa tion Phonétique Internationale). Quando i suoni sono presi in considerazio ne come foni, cioè solo per il loro aspetto fisico, indipendentemente dai si-
I 1l I
I
12
AWERTENZE E INDICAZIONI DI lETTURA
gnificati che possono' produrre, allora sono stati trascritti tra parentesi qua dre (trascrizione fonetica; es.: pala ['pala]); quando invece i suoni sono stati presi in considerazione come fonemi (cioè come unità di suono capaci di individuare significati diversi), allora sono stati trascritti entro sbarrette oblique (trascrizione fonematica; es.: pala = l'pala!). Come risulta anche da questi esempi, l'accento è sempre indicato da un apice posto prima della sil laba accentata. =
L'itaUano deriva dal latino?
Si dice, comunemente, che l'italiano - cosi come le altre lingue roman ze o neolatine: il portoghese, lo spagnolo, il catalano, il francese, il provenzale, il franco-provenzale, il sardo, il ladino, il friulano e il rume no - "deriva dal latino». Quest'affermazione, così lineare da apparire quasi ovvia, merita di essere approfondita, precisata e, almeno in par te, corretta. A tale scopo, in questo capitolo prenderemo in considera zione alcuni aspetti dei rapporti genetici tra latino e italiano.
In primo luogo, l'uso di un verbo come derivare fa pensare a una «lingua madre» (il latino) da cui sarebbero nate le tante «lingue figlie» neolatine. Ma le lingue non sono organismi biologici: per loro non si può parlare di nascita, vita e morte in senso tradizionale. L'italiano non deriva (cioè non nasce) dal latino, ma continua il latino: una tradizione ininterrotta lega la lingua di Roma antica alla lingua di Roma moderna, dai tempi remoti della fondazio ne fino ai giorni nostri. Si può dire, in buona sostanza, che l'italiano è il loti no adoperato oggi in Italia, così come il portoghese, lo spagnolo e il francese sono i latini adoperati oggi in Portogallo, in Spagna e in Francia. In secondo luogo, l'uso della parola latino nuda e cruda, senza alcuna specificazione, è generico e fuorviante. Da quale latino deriva la nostra lin gua? Certo, la storia non ha registrato l'esistenza di più lingue latine. Dal punto di vista descrittivo, il latino è una lingua storico-naturale (per storico naturali si intendono le lingue di tutte le culture esistenti o esistite sulla ter ra, che si oppongono, in quanto tali, alle lingue artificiali) che fa parte deUa
14
L'rTAUANO DERIVA DAllAnNo?
CAPrroLO 1
famiglia linguistica indoeuropea, la stessa a cui appartengono le lingue del gruppo germanico (per esempio l'inglese, il tedesco, il neerlandese, ecc.), slavo (per esempio il russo, il polacco, il ceco, ecc.), baltico (il lituano e il lettone), ellenico (per esempio il greco moderno), albanese, armeno, iranico o indiano. Di fatto, tuttavia, anche il latino, non diversamente da ogni altra lingua, si presenta come un oggetto variegato e multifonne: se è vero che non sono esi:;titi molti latini, è vero però che sono esistite molte varietà di un'unica lingua chiamata latino. I fattori che le hanno prodotte sono diversi: il tempo,
lo spazio, il livello stilistico, la condizione sociocwturale degli utenti, la mo dalità di ttasmissione (scritta o parlata) della lingua.
15
È la scodella stessa che parla, e diffida chiunque dall'impadronirsi di un oggetto votivo appartenente a una divinità: «appartengo, assieme ai miei compagni [cioè gli altri oggetti votivi], a Trivia, la buona tra le divinità. Non impadronirti di me». Quest'iscrizione, risalente agli inizi del V secolo a.c., è in latino arcaico. Se fosse stata scritta cinque secoli dopo, nel pieno della cosiddetta età classi ca (quella di Cicerone o di Virgilio, che va, grosso modo, dalla seconda metà del I secolo a.c. alla prima metà del I secolo d.C.) essa, se avesse mantenuto lo stesso ordine delle parole, si sarebbe presentata così:
rum cum meir soeùs Triviae dearum bonae: ne parias me Nemmeno una parola di questo testo in latino arcaico avrebbe avuto la
1. IL FATTORE TEMPO, O VARIABILE DIACRONICA I linguisti chiamano diacronica (dal greco dià 'attraverso' e chronos 'tempo') la variabile legata al tempo. L'italiano di oggi (o il francese, o l'in
stessa forma nel latino dell'età classica, quello tradizionalmente studiato nel la scuola. Eppure, si tratta sempre della stessa lingua: per la precisione, si tratta di due sue varietà dette, rispettivamente, latino arcaico e latino classi co, molto distanziate sull'asse verticale del tempo.
glese di oggi: da questo punto di vista, una lingua storico-naturale vale l'al tra) non è uguale a quello adoperato dieci, venti o cento anni fa, e le differen ze si fanno più forti man mano che ci si allontana nel tempo. A questo fattore di cambiamento non sfuggì certo il latino, lingua di tradizione ultramille naria. __ __ r ____________________ __
La nuova epigrafe del Garigliano
A titolo d'esempio, si può allegare un' antichissima testimonianza sco perta di recente, la cosiddetta nuova epigrafe del Garigliano. Presso il san tuario della dea Marica, alle foci del Garigliano (dunque in posizione eccen trica rispetto all' area latina vera e propria), è stata ritrovata una scodella risa
In proposito, sarà utile aggiungere che gli storici d'ella lingua e della letteratura lati ne distinguono, in base al periodo in cui si sono sviluppate, almeno cinque varietà di lati no: - latino arcaico (dall'VIII secolo a.C, tradizionalmente indicato come quello della fondazione di Roma, alla fine del II secolo a.C: l'età di Plauto, Ennio, Terenzio, Catone e Luciliol; - larino preclassico (dalla fine del II secolo a.C alla prima metà del I secolo a.C: l'età di Lucrezio, Catullo e Cesare); - latino classico (dalla seconda metà del I secolo a.C alla morte di Augusto, awe nuta nel 14 d.C: l'età di Cicerone, Virgilio, Orazio, Ovidio e Tito Livio); - latino postclassico (dalla morte di Augusto alla fine del II secolo d.C: l'età di Se neca, Petronio, Marziale, Giovenale, Tacito, Plinio il Giovane, Svetonio e Apuleio); - latino tardo (dalla fine del II secolo d.C. al VII-VIII secolo d.C.: l'età di Ambro· gio, Damaso, Prudenzio, Girolamo, Agostino e Orosio),
lente al V secolo a.c. Essa contiene due brevi iscrizioni, la più lunga delle quali, graffita in Icriptio continua (le parole, cioè, sono scritte una di seguito
2. IL FATTORE SPAZIO, O VARIABILE DIATOPICA
all'altra e senza segni d'interpunzione), recita:
Diatopica (da dià e topos 'spazio') è la variabile legata allo spazio. L'ita
esom kom meois sokiois 'Trivoia deom duonai. nei pari med
liano che si parla a Milano è diverso da quello adoperato a Firenze o a Paler mo, e le differenze non investono solo l'intonazione, la pronuncia e il lessico,
16
CAPITOLO 1
L'ITAUANO DERIVA DAL LATINO?
17
ma anche la grammatica e la sintassi. Si pensi al diverso uso che nelle varie
la forma BELLUS (come dimostrano l'it. bello, il frane. beau e il provo bel), nel
regioni d'Italia si fa del passato prossimo e del passato remoto: nell'Italia set
le mne periferiche, a occidente e a oriente, si preferì FORMOSUS (come dimo
tentrionale il passato remoto attualmente non si usa ed è sempre sostituito
strano lo spagn. hermoso, il portogh. formoso e il rum. !rumos).
dal passato prossimo, per cui, indipendentemente dalla lontantanza o dalla
Secondo esempio. Accanto al latino classico in cui si adoperava EDERE, il
vicinanza al momento in cui è avvenuto il fatto, si dice <
latino parlato aveva due diversi verbi per indicare l'azione del mangiare:
ni>, e «Un anno fa ho visto Giovanni". In Toscana si tende a usare il passato
COMEDERE ('mangiare insieme) e MANDUCARE ('masticare dimenando le ma
prossimo per un fatto cronologicamente vicino al momento in cui si parla e
scelle'). Nell'area romanza occidentale i parlanti hanno adopemto soltanto il
il passato remoto per un fatto cronologicamente lontano dal momento in cui
primo verbo (come dimostrano lo spagn. e il port. comer), invece nelle aree
si parla, sicché si dice: <
centrale e orientale è stato privilegiato il secondo verbo (come dimostrano il
ni". In Sicilia, infine, si tende a usare solo il passato remoto e si dice, senza
frane. manger e l'it. ant. manicare, da cui il derivato manicaretto; l'it. modo
fare differenze, <
mangiare è un prestito dal francese). li fattore geografico si fuse col fattore etnico nel determinare altre diver sità, riconducibili al cosiddetto sostralo linguistico prelatlno.
li latino, lingua di diffusione intercontinentale, non sfuggì a suo tempo al fattore di differenziazione rappresentato dallo spazio. Nel momento di massima espansione del dominio romano, fra il II e il
Che cosa si intende col termine sostrato?
III secolo d.C., il latino era adoperato su un territorio vastissimo, che andava
Prima che i Romani estendessero il loro dominio a tutta l'Italia e a una
dalle coste atlantiche dell'Europa fmo al Reno e oltre il Danubio (al di là del
gran parte dell'Europa, il latino era semplicemente uno degli idiomi parlati
quale fu conquistata la Dacia, corrispondente all'attuale Romanìa), dalle co
da una deUe tante popolazioni che abitavano l'Italia.
ste meridionali dell'Inghilterra fino a quelle settentrionali dell'Africa. Le vi cende storiche successive determinarono la deromanizzazione e la conse guente delatinizzazione di alcuni di questi territori: l'Africa settentrionale fu conquistata dagli Arabi nel VII secolo d.C.; la BritaIfIlia, abbandonata nel
409 d.C., fu germanizzata, e la stessa sorte toccò all'area germanica renana e meridionale; la Pannonia (l'odierna Ungheria), invasa dagli Ungari nel X se colo, fu magia rizzata; la penisola balcanica, con l'eccezione della Dalmazia, fu occupata e colonizzata da popolazioni slave. Con tutto ciò, il latino fu per secoli la lingua di scambio di una zona va
stissima. Ovviamente, esso non era un blocco linguistico uniforme. Non è immaginabile che il latino adoperato nella penisola iberica fosse identico a quello adoperato in Italia o in Francia, a migliaia di chilometri di distanza, e infatti le testimonianze linguistiche documentano l'esistenza di più varietà di latino sull'asse orizzontale deUo spazio. Vediamo un paio di esempi.
Primo esempio. Accanto al latino classico in cui si adoperava PULCHER, il
latino
parlato aveva due diversi aggettivi per indicare la qualità del 'bello':
FORMOSUS e B�LlOS. Ebbene, mentre al centro dell'area romanza si privilegiò
Nel nord della penisola, procedendo da occidente a oriente, s'incontravano i Liguri, le tribù dei Celti, i Reti e infine i Carni; a sud di questi ultimi, nel Veneto meridionale, erano stanziati i Veneri. Nella fascia immediatamente inferiore vivevano a est i Piceni, al centro gli Umbri e a ovest gli Etruschi; a nord di Roma erano i Falischi; nell'Italia centro meridionale erano stanziati gli Oschi, nel Salento e nella Puglia i Messàpi, gli Iapìgi e i Dauni. Tutte queste popolazioni avevano una loro lingua: il ligure, il celtico, il retico, l'umbro, l'asco e così via. Alcuni idiomi (la maggior parte) avevano una comune origine indoeuropeaj altri (come per esempio l'etrusco) no. Quanto alla Sicilia, prima della con quista romana vi si parlavano almeno tre lingue: il sicàno, idioma mediterraneo, il siculo, vicino al latino, e l'èlimo, di origine e caratteristiche incerte. In Sardegna, infine, era dif fuso il paleosardo, parlata antichissima (anteriore alle migrazioni indoeuropee) e a noi del tutto sconosciuta. Fuori del territorip italiano, altre popolazioni stanziate nelle diverse regioni d'Euro pa parlavano lingue diverse dal latino: per esempio i Celti, oltre che nella Gallia cisalpina (= al di qua delle Alpi, l'Italia settentrionale), vivevano anche nella Gallia transalpina (= al di là delle Alpi, la futura Francia); e nella penisola iberica, oltre agli Iberi, c'erano i Baschi, il cui idioma il basco, tuttora adoperato nella regione nordorientale della peni sola iberica - non appartiene al gruppo linguis!ico indoeuropeo. A oriente, invece, era diffusa un po' dappertutto la prestigiosissima lingua greca. -
Nel giro di qualche secolo il latino, da lingua di una piccola comunità che occupava un territorio ristretto presso t'ultimo tratto del Tevere, diveno
L'ITALIANO DERIVA DAL LATINO?
19
ne la lingua di un popolo di conquistatori, padroni di gran parte dell'Europa e di vaste zone in Africa e in Asia. La prima guerra contro Cartagine (264-241 a.c.) terminò con l'istituzione della pri ma provincia, la Sicilia, cui tennero dietro l'istituzione delle province di Sardegna e Cor sica (238 a.C.l, Spagna {197 a.c. l, Illirico (la regione costiera adriatica fra la Dalmazia e la Macedonia, 167 a.c.), Africa e Grecia (146 a.c.), Asia Minore (129 a.c.), Gallia meridio nale (118 a.CI e settentrionale (50 a.CI, Egitto (30 a.CI, Rezia (una parte del Tirolo, 15 a.CI, Pannonia (10 d.CI, Cappadocia (la parte orientale della Turchia, 17 d.CI, Britan nia (l'Inghilterra e il Galles, 43 d.CI, Dacia (107 d.CI.
Dopo la conquista da parte di Roma, quasi tutti i popoli vinti abbando narono, nel giro di qualche generazione, la lingua d'origine e adottarono, come strumento di scambio, il latino. La nuova lingua, però, non fu imposta dai vincitori. I Romani non puntarono mai a un'assimilazione violenta delle genti soggette e non tentarono mai di imporre a forza l'uso del latino, consi derando anzi quest'uso un segno di distinzione. Una volta conquistato un territorio, la classe dirigente romana se ne assicurava il controllo militare e fiscale e lasciava larga autonomia ai vinti nella religione, nelle istituzioni civi·
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li e nella lingua. Furono i popoli assoggettati ad abbandonare, dopo un
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periodo più o meno lungo di bilinguismo, la loro lingua d'origine per il lati no. Intervenne, a determinare questo processo, un fattore fondamentale nel contatto fra due lingue: il prestigio. Quando due lingue entrano in concor
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renza, quella che gode di maggior prestigio finisce sempre col prevalere. .;
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Così, dopo essere stati conquistati da Roma, molti dei popoli vinti sentirono la loro lingua come un idiomaQ.i rango inferiore rispetto al latino, veicolo di una cultura più avanzata e raffinata della loro, e scelsero di parlare la lingua dei vincitori. In buona patte dell'Europa occidentale si avviò un gigantesco
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processo di latinizzazione: i popoli vinti passarono dalla fase iniziale di ap
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ne sia la lingua dei vincitori, e poi alla fase finale, in cui la lingua originaria fu
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prendimento del latino a una intermedia, in cui usavano sia la lingua d' origi completamente abbandonata.
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La prova più evideme di quanto abbiamo detto (cioè che nell'abbandono delle lin gue locali per il latino il fattore prestigio ebbe un ruolo fondamentale) è data dal fatto che l'abbandono della lingua d'origine non interessò l'Oriente. In Oriente, i popoli eli lingua e cuIrura greca furano anch'essi assoggettati a Roma, ma non abbandonarono affatto il greco per il latino, perché per tutti, Romani compresi, il primo godeva di un prestigio
20
l'ITALIANO DERIVA DAL LATINO?
CAPITOLO 1
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maggiore del secondo. La letteratura latina vera e propria comincia ne lI1 secolo con la traduzione di un�opera greca (l'Odissea) ad opera di un greco dI Taramo, LIVIO Andronico, venuto a Roma intorno al 272; ancora molti secoli dopo, un raffInato poeta latino come Orazio scriveva, in una delle sue Epistole, che la Grecia, dopo essere stata conquistata militarmente da Roma, a sua volta conquistò il suo rozzo vincitore con le armi delle lettere, e portò le arti nel Lazio mcolto.
21
era parlato sia in Francia sia nell'Italia nord-occidentale, dopo la romanizza zione di quelle regioni ha continuato a far sentire la sua presenza nel latino che vi si era diffuso.
3. IL FATIORE STILE, O VARIABILE DIAFASICA
Le lingue preesistenti al latino nelle varie region� dell'Europa occidenta le non scomparvero del tutto: ciascuna lasciò qualche traccia nella prosodia
Si dice diafasica (da dùì e -faszà 'parola', 'linguaggio') la variabile legata
(cioè nella cadenza), nella pronuncia, nella morfologia, nel lessico e nella
al livello stilisti co (o registro) di una produzione linguistica.
sintassi del latino acquisito dai vinti. Per questo motivo tali lingue vennero
Una lingua può cambiare di tono o di livello a seconda della situazione
dette «di sostrato>>: esse testimoniano, nel latino assunto dalle popolazioni
in cui si usa. L'italiano a cui ricorro durante rinterrogazione è diverso dal
vinte, l'esistenza di uno strato linguistico soggiacente.
l'italiano che uso mentre chiacchiero confidenzialmente con gli amici; l'ita
Qualche esempio che documenta l'esistenza delle lingue di sostrato.
liano che adotto quando parlo con la vicina di casa è più familiare e collo
Nei dialetti dell'Italia centromeridionale si registra una caratteristica
quiale dell'italiano con cui mi rivolgo a un signore appena conosciuto a un
tendenza a realizzare come nn il nesso consonantico latino -NO- posto tra
ricevimento. CosÌ è stato anche per il latino, come dimostra un'ampia docu
due vocali. Così, per esempio, la sequenza ND- presente nella parola latina
mentazione a nostra disposizione. Cicerone, il più illustre dei prosatori lati
-
MUNDUM si conserva intatta nell'italiano mondo, nel friulano mond e nel fran
ni, non adoperava la stessa lingua quando scriveva il testo delle sue orazioni,
cese monde, ma si trasforma in -nn- nei dialetti italiani centromeridionali
quando si cimentava in opere mosofiche e quando scriveva lettere ad amici e
(roman. manna, napol. munne). Ebbene, questa particolarità dei dialetti ita
familiari: nei primi due casi adoperava un latino di alto livello, ricercato e
liani centromeridionali ha un'origine antichissima: proviene dai dialetti itali
raffinato; nel terzo adoperava un latino meno sorvegliato sul piano gramma
ci di tipo asco-umbro (cioè l'asco, lingua degli antichi Sanniti, parlata nel
ticale, fatto anche di parole- familiari e colloquiali.
Sannio e nella Campania, in patte della Lucania e della Calabria, nonché dai Mamertini dell'antica colonia siciliana di Messana, l'attuale Messina; i dia
letti sabellici, adoperati dai popoli che abitavano fra il Sannio e l'Umbria; e
4. IL FATIORE SOCIOCULTURALE, O VARIABILE DIASTRATICA
infine l'umbro, parlato tra i fiumi Tevere e Nera nell'Umbria antica, meno estesa dell'Umbria moderna). Evidentemente questi dialetti, pur essendo stati abbandonati, sotto sotto sopravvissero, e influenzarono la pronuncia del latino, assunto dai popoli dell'Italia centromeridionale come nuova e unica lingua. Un altro esempio. In francese e in molti dialetti dell'Italia settentrionale
il nesso consonantico latino
-Cf-,
che in italiano si trasforma in tt -
-,
tende a
realizzarsi come -il-: così, per esempio, la sequenza -CT- della parola latina NÒCTEM si trasforma in -tt- nell'italiano notte, e invece si realizza come -/t
nel francese nuil e nel piemontese noil. Il passaggio -CT- > -il- proviene dal sostrato celtico: evidentemente il celtico, che prima della romanizzazione
I
La variabile legata alla condizione sociale e al livello culturale di chi ado pera la lingua è detta di.stratica (da dià e da un derivato di slrafo). Non tutti, all'interno della medesima comunità di parlanti, si esprimono allo stesso modo: sono avvantaggiati gli esponenti delle classi sociali alte, che hanno avuto maggiori opportunità di studio e quindi dispongono di un vocabola rio più ricco e conoscono bene le regole della lingua imparate a scuola.
In Roma antica e nei territori dell'impero, il latino dei dotti era diverso dal latino degli umili: il primo era una lingua colta, varia nelle parole e raffi nata, mentre il secondo era una lingua popolare, meno controllata sul piano grammaticale e s'intattico, piena di espressioni e di riferimenti mat�riali.
22
L'ITALIANO DERIVA DAL lATINO?
CAPITOLO 1
5. LA MODALITÀ DI TRASMISSIONE, O VARIABILE DIAMESICA Infine, si definisce diamesica (da diii e mesos 'mezzo') la variabile legata alla modalità m trasmissione di una lingua, che può essere scritta o parlata. L'esperienza di tutti i giorni dimostra che la lingua scritta è più sorvegliata, più organizzata e più precisa della lingua parlata. A questa regola implicita non sfuggì il latino: le differenze fra latino parlato e latino scritto non inve stirono soltanto il rapporto tra la grafia e la pronuncia delle parole, ma ri guardarono anche aspetti importanti della grammatica, della sintassi e del lessico.
6.
I
23
prehendant nos grammatici quam non intelligant populi» (Meglio che ci rimproverino i grammatici piuttosto che non ci capisca la gente). Applican do consapevolmente o inconsapevolmente quesro principio Egeria, una reli
giosa spagnola m condizione socioculturale elevata, vissuta qualche genera zione dopo Agostino, scrisse un mario del suo pellegrinaggio in Terrasanta (noto come Itinerarium Egerzae) in una lingua ricca di ìratti tipici del parlatO;
j) nei trattati tecnici di architettura o culinaria, farmacologia o medici na veterinaria, i cui autori si preoccupavano di dominare la materia specifica più che la lingua e lo stile. Vitruvio (I secolo a.c. - I secolo d.C.), autore di un celebre trattato di architettura, addirittura si scusa con i lettori per la sua lin gua non impeccabile: «Non architectus potest esse grammaticus» (L'archi tetto non può essere un grammatico); g) nelle opere di grammatici e insegnanti di latino. Costoro non si limi
LE FONTI DEL LATINO PARLATO
tavano a illustrare le regole della lingua, ma segnalavano a lettori e allievi gli La fisionomia del latino scritto è agevolmente ricostruibile attraverso
errori più frequenti e i modi per evitarli. Per questa via i grammatici e i mae
un 'enorme quantità di testimonianze letterarie; quella del latino parlato non
stri hanno offerto agli studiosi materiali preziosi per la ricostruzione del lati
è individuabile con altrettanta facilità. Tuttavia, mverse fonti agevolano que
no parlatO: molti degli errori che loro segnalano e illustrano non sono altro
sta operazione. Fotme tipiche del latino parlato (dette, con termine tecnico,
che interferenze del latino parlatO sul latino scritto.
volgarismi) s'incontrano, per esempio:
a) nelle iscriziorti murarie graffite o mpinte; b) nei glossari (si tratta m vocabolari elementari che spiegano con espressioni del latino parlato parole e costruzioni del latino classico diventa te rare o considerate difficili);
c) nelle testimonianze (lettere private o documenti) di scriventi popola ri, come potevano esserei soldati romani di stanza nei vari territori dell'inl pero: solo in Egitto ne sono state trovate circa 300;
ti)
nelle opere m autori che tentano m riprodurre nella lingua scritta i
tratti tipici della lingua parlata: esemplari, in proposito, i casi delle comme
L'«Appendix Probi>, La più famosa deUe testimonianze offerte da grammatici e insegnanti è l'Appendix Probi, opera di un maestro di scuola del III secolo d.C. rimastO anonimo, così chiamata (Appendice di Probo) perché trovata in fondo a un
manoscritto che conserva gli scritti di un autore che si suole inmcare come lo pseudo-Probo. Questa Appenmce è una lista di 227 parole riportate su due colonne. NeUa colonna di sinistra le parole si presentano secondo la norma
cui interno l'episomo della Cena di Trimalchione costituisce un'importante
del latino scritto, nella colonna di destra si presentano nella forma «errata», cioè così come le pronunciavano o le scrivevano gli scolari, secondo lo sche
testimonianza di latino parlato;
ma «A, non B»:
die di Plauto (III secolo a.c.) e del Satyricon di Petronio (I secolo d.C.), al
e) nella letteratura d'ispirazione cristiana. I traduttOri delle Sacre Scrit ture e molti autori cristiani si preoccuparono relativamente poco dell'elegan
speculum
za del loro stile. L'ideologia che ispirò il loro atteggiamento è ben rappresen tata da un'affermazione di sant'Agostino
(IV secolo d.C.):
«Melius est re-
non
speclum
columna
non
colomna
calida
non
calda
l
,
24
L'ITALIANO DERIVA DAL LATINO?
CAPITOLO 1
turma aurzs
non non
2S
Quando una forma non è documentata nel latino scritto ma è ricostruita
torma arida
nel latino parlato, la si fa precedere da un asterisco
*.
Nel nostro esempio; la base dell'italiano carogn a andrà indicata così:
Ai fini della ricostruzione dei fenomeni linguistici che dal latino hanno
*CARONlA.
portato all'italiano, contano le parole della colonna di destra (gli « errori» del latino parlato), non quelle della colonna di sinistra (le forme «corrette» del latino scritto). Le parole italiane corrispondenti (specchio, colonna, calda,
torma, orecchia) sono più vicine agli «errorÌ>? della colonna di destra che alle forme «corrette» della colonna di sinistta: il che conferma che la nostra lin gua continua il latino parlato, non quello scritto. -
8. LATINO CLASSICO E LATINO VOLGARE Fra le tante Tiriamo le somme. il latino non fu una realtà monolitica. spazio, nello varietà di latino che si sono incrociate e sovrapposte nel tempo, o, per importanza nei livelli d'uso, nelle modalità di realizzazione spiccan classico e la latino come storica, le due che convenzionalmente indichiamo
tino volgare.
no parlato (ben più importante delle registrazioni frammentarie che se ne
è il la il latino classico è una realtà linguistica facilmente individuabile: «età etta cosidd della tino scritto cosÌ come verme usato nelle opere letterarie ialmente lo stesso aurea» di Roma (50 a.c. - 50 d.C. ca), ed è rimasro sostanz dei ceti sociocul ione espress nel corso della storia. Esso è una lingua colta,
hanno nelle fonti scritte) è il confronto tra le varze lingue romanze.
turalmente più elevati.
7. IL METODO RICOSTRUTIIVO E COMPARATIVO Ad ogni modo, lo strumento più importante per la ricostruzione del lati
_
In che cosa consiste il metodo ricostruttivo e comparativo su cui tale con� fronto si fonda? Consiste nel ricostruire una forma non documentata (cioè non scritta, appunJ:Q1lsrché propria del latino parlato) sulla base dei risultati che se ne hanno nelle varie lingue romanze. Un esempio chiarirà utilmente il concetto. Consideriamo il termine italiano carogna. In tutto il dominio del latino scritto non si trova neppure una parola che possa esserne stata la base: quella che più gli si avvicina è caro, cioè 'carne' (per il significato di 'carogna' si adoperava Cildaver). Ma da caro a carogna la distanza è grande, sia sul pia no della forma fonica sia sul piano del significato. Confrontiamo ora l'italiano carogn a coi suoi corrispondenti in alcune lingue romanze, per esempio il francese charogne, il provenzale caronha e lo spagnolo carrona. Non è possibile che queste parole siano nate in modo in dipendente l'una dall'altra: esse presuppongono un antecedente comune CARONIA, derivato di CARO - di cui rappresentano la regolare evoluzione nelle
diverse aree romanze. Questo antecedente comune non è documentato nel latino scritto, ma è sicuramente esistito nel latino parlato: altrimenti carogn a,
charogne, caronha e carrona non si sarebbero prodotte.
Latino classico voleva dire «latino di classe», anzi «latino di prima classe». L'aggeui vo c/assicus fu applicato per la prima volta al latino leuerario da Aula Gellio, un � rudito del II secolo d.C., che estese alla letteratura la divisione della popolazione romana m clas si: come i cittadini più ricchi e potenti erano esponenti della prima classe sociale, cosÌ gli scrittori più eleganti furono detti clasrici, cioè «di classe», «di prima classe». . .n latino volgare, invece, è una realtà linguistica variegata e complessa: schematizzando e semplificando, possiamo descriverlo come il latino parla
to in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni circostanza e da ogni gruppo socia le della latinità: fu la lingua parlata nei tempi antichi della fondazione di Roma e nella tarda età imperiale; fu la lingua parlata nella capitale e nelle zone periferiche dell'immenso impero; fu la lingua parlata dai ricchi e dai poveri, dagli analfabeti e dagli intellettuali. Da questa realtà multiforme sorsero le varie lingue d'Europa indicate come romanze o neolatine, fra cui l'italiano.
26
CAPrroLO 1
L'ITALIANO DERIVA DAl LA.TINO?
imperiale, sottratte alle devastazioni e ai saccheggi degli eserciti invasori.
9. DAL.lATINO VOLGARE ALL'ITALIANO Perché questa varietà di lingua
(il latino classico)?
27
(il latino volgare) si è affermata sull' altra
Come e perché essa si è trasformata fino a diventare
un'altra e ben diversa lingua?
Questi due processi contigui (affermazione del latino volgare sul latino
classico; trasformazione dal latino volgare nell'italiano) sono stati accelerati da due fattori e determinati da un terzo: a) la perdita di potere della classe aristocratica, b) la diffusione del Cristianesimo, e soprattutto cl le invasioni barbariche.
a) La perdita di potere della classe aristocratica. Un primo fattore che favorì l'indebolimento del latino colto a vantaggio del latino volgare fu la perdita di potere da parte della classe aristocratica, conseguente all'instaura zione dell'impero. Insieme con la classe aristocratica, decadde il ceto d'intellettuali che ne era l'espressione culturale, e la lingua colta, che pure continuò ad essere usa ta per tutta l'età imperiale, vide diminuire, almeno in parte, il suo prestigio.
b) La diffusione del Cristianesimo. Il secondo fattore di indebolimento del latino classico fu la diffusione del Cristianesimo. Intanto, esso modificò il patrimonio lessicale del latino. La lingua delle prime comunità cristiane
-;;i ;;
era stata il greco; conseguentemente, il latino dei cristiani puU a a di greci smi: termini come battesimo, chiesa, crestma, eucarestia, parabola, vescovo
Nell'Europa occidentale e meridionale (penisola iberica, Francia, Italia) e in parte di quella orientale (Romania) si continuò a parlare quella che veniva chiamata la lingua romana, un latino variegato, parlato qui in un modo e lì in un altro, differente da quello classico nella pronuncia, nelle forme, nel lessi co, nell'organizzazione della frase. Queste differenze si fecero progressiva mente più forti. Il latino scritto tendeva (senza peraltro riuscirei) a mante nersi come una lingua fissa c cristallizzata, rispettosa del modello dei grandi scrittori e delle regole grammaticali; il latino volgare, evolvendosi in modi diversi nelle varie regioni dell'ex impero romano, diede origine alle parlate romanze o neolatine. Il processo di trasformazione che dal latino condusse ai vari volgari ro manzi si concluse nell'VIII secolo d.C.: ne nacquero lingue molto diverse da quella originaria, profondamente trasformate nella fonetica, nella morfolo gia, nel patrimonio lessicale, nell'organizzazione della frase e del periodo. Nelle pagine che seguono ricostruiremo la storia di alcune delle trasfor mazioni che dal latino volgare condussero all'italiano: nell'ordine, ci occu peremo di quelle che investirono l'aspetto fonico delle parole (fonetica sto rica), di quelle che interessarono le varie parti del discorso (morfologia stori ca), e infine di alcune di quelle che riguardarono l'organizzazione della frase e del periodo (sintassi storica).
provengono tutti dal greco. Particolarità lessicali a parte, fu sul piano ideo logico che il Cristianesimo inflisse un colpo mortale al latino classico e favorì la diffusione di quello volgare. La buona novella era stata annunziata a tutti,
colti e incolti, intellettuali e analfabeti; il latino in cui erano stati tradotti i Vangeli, che dovevano essere capiti da tutti, era lontano dalla lingua raffma ta degli scrittori e vicino a quella parlata dai poveri e dai semplici. li presti gio della lingua e della cultura classiche fu minato dalle fondamenta.
c) Le invasioni barbariche. Furono, comunque, le invasioni barbariche (a partire dal IV secolo d.C.) a far affermare il latino volgare in tutti i territori dell'impero romano, ormai moribondo. li latino classico finì nel dimentica toio. La Chiesa, che pure aveva contribuito alla sua decadenza, ne impedì il totale dissolvimento: nelle biblioteche dei monasteri medievali vennero cu stodite e trascritte le opere dei grandi scrittori della Roma repubblicana e
lO. PAROLE POPOLARI E PAROLE DOTTE Bisogna precisare che le trasformazioni fonetiche di cui si dirà non han no interessato tutte le parole di origine latina entrate a far parte del patrimo nio lessicale dell'italiano, ma soltanto quelle di tradizione popolare (dette anche, più semplicemente, parole popolari); invece, le parole di tradizione dotta (dette anche parole dotte o latinismi O cultismi) non sono state toccate da tali cambiamenti. Per capire la differenza che passa tra le parole popolari e le parole dotte, consideriamo i termini riportati in queste due serie di colonne:
I
t Q\P(roLO 1
L'ITALIANO DERIVA DAL LATINO?
29
rola come gloria: la prima indicava qualcosa di concreto e di comunissimo, la
'WRU(M) FLORE (M) GLAREA(M) NfVE(M)
seconda indicava un concetto astratto. Alla conservazione di una parola >
> > >
oro !zare ghiaia neve
AUREUS FLORA GLORIA NIVEUS
aureo flora gloria mveo
Nelle parole a sinistra ritroviamo tutte le trasformazioni fonetiche che, come si vedrà più avanti, hanno caratterizzato il passaggio dal latino all'ita
come gloria avrà poi contribuito la Chiesa: basti pensare alla frequenza con cui il termine compare nelle preghiere e nei testi sacri. CosÌ glarea
-
che ha
continuato ad essere usata ininterrottamente - ha subito la trafila delle paro le popolari ed è diventata ghiaia; gloria, invece, dopo essere uscita dall'uso nei primi secoli dell'era volgare, è stata presa così com'era dai testi scritti e introdotta nell'italiano. . Come vedremo anche in seguito (cap. III, § 4.7), in molti casi la medesi
liano: per esempio, la caduta della -M fmale, la monottongazione del ditton
ma base latina ha avuto due continuatori, uno popolare e uno dotto. Per
go AU, il passaggio da consonante + l a consonante +j, l'evoluzione di r toni
esemplO:
ca a [e]. Le parole a destra, che teoricamente avrebbero dovuto (o potuto) subi re le medesime trasformazioni, sono invece rimaste inalterate. Come si spiega questo differente trattamento? Le voci di sinistra sono parole di tradizione popolare, a differenza delle altre, che sono parole di tradizione dotta. Le prime sono passate dal latino parlato all'italiano senza soluzione di continuità: in altri termini, .sono state
usate ininterrottamente dai tempi di Roma antica fmo a che il processo di trasformazione che condusse all'italiano non fu concluso. Queste parole sono, per cosÌ dire, passate di bocca in bocca, di generazione in generazione, e perciò hanno subito tante trasformazioni. Le parole di destra, invece, non sono mai entrate nell'uso comune, op pure sono state abbandonate molto presto, e sono rimaste confinate nei testi
latini scritti. A partire dal XIII secolo, quando il processo di trasformazione dal latino all'italiano era ormai concluso, esse furono prese direttamente dai libri latini e inserite nei testi italiani allo scopo di renderne più elegante lo stile. Si badi bene: queste parole furono accolte cosÌ com'erano, e semplice mente adattate al sistema grammaticale dell'italiano, con qualche aggiusta
mento nelle desinenze.
Questi
come quella della penisola italiana fino al Medioevo, era normale che si usas.
se una parola come glarea; non era altrettanto normale che si usasse una pa-
Parola dotta
angustia
Parola popolare
angosCia
DfscU(M) >
disco desco
VfT'U(M) >
vizio vezzo
Due forme derivate dalla stessa base latina si chiamano, con un termine preso dalla chimica, allòtropi.
Attenti all'errore Attenzione a non commettere l'error� di prospettiva consistente nel considerare popolare non già la parola di trafila popolare, ma quella più co mune (cioè «popolare» in senso sociolinguistico) nell'italiano attuale e, spe· cularmente, l'errore di considerare dotta non già la parola di tradizione dot ta ma quella più rara o ricercata. Non è così, perché non sempre la storia delle trasformazioni fonetiche di una parola coincide con la storia della sua diffusione. Disco e vizio sono' parole comunissime nell'italiano d'oggi, eppu re sono latinismi; viceversa, desco 'tavola imbandita' (la provenienza da DIsCUM si spiega per la forma rotonda della tavola) e vezzo 'capriccio', 'smor fia' sono parole rare, di sapore antico e letterario, ma hanno una storia fone tica popolare. -=..-.0_ .... = -=" _ _ _ _ _ ...,. ... _ _ • • , P ....
..
'
1
. CAPITOW
Foni e fonemi dell'italiano
. " I
Per studiare in modo adeguato i fenomeni fonetici che si sono verifica,
ti nel passaggio dal latino all'italiano, è necessario conoscere, prelimi· narmente, alcune nozioni di fonetica e fonologia relative alla nostra lingua.
1 . I FONEMI DELL'ITALIANO I suoni articolati di una qualsiasi lingua vengono indicati col termine tecnico di foni. Alcuni foni hanno la capacità, alternandosi nella stessa posizione, di in dividuare parole diverse. Per esempio, se nella sequenza petto si sostituisce il fono p con altri foni (I, r, s) si ottengono altre parole con significati specifici:
letto, retto, sello. Lo stesso avviene sostituendo il secondo fono e con altri foni (per esempio, le vocali a e u): palio, putto. I foni che, alternandosi negli stessi contesti fonetici (cioè all'interno del· la stessa sequenza di suoni), distinguono parole con diversi significati si di· cono fonemi. Il fonema è, dunque, la più piccola unità di suono dotata di valore di stintivo (capace, cioè, d'individuare significati diversi alternandosi con altre unità di suono). Nell'uso scientifico, i fonemi che formano le parole si trascrivono entro sbarrette oblique, utilizzando simboli più analitici e particolari, e l'accento
,.
32
CAPrTOlO 2
viene indicato da un apice prima deUa sillaba accentata. Per esempio, la tra scrizione fonematica della parola pila è l'pila!, mentre la trascrizione fone matica deUa parola barone è /ba'rone!. Se invece i vari fonemi sono presi in considerazione solo per il loro aspetto fisico (cioè come semplici fatti di suono, indipendentemente dai si gnificati che possono produrre), allora si trascrivono tra parentesi quadre: ['pila], [p] , [al, ecc. I segni grafici adoperati per trascrivere i fonemi si dicopo lettere o grafe mi: il loro insieme costituisce l'alfabeto di una lingua (a, b, c, dJ. Negli esempi precedenti (l'pila!, /ba'rone/) i segni cbe rappresentano i fonemi coincidono con le lettere dell'alfabeto latino, ma non è sempre cosÌ: in altri casi, i segni che rappresentano i fonemi non coincidono con le lettere deU' alfabeto latino. Questi segni formano, nel loro insieme, l'alfabeto fone
Esaminiamo ora in dettaglio la natura dei fonemi deU'italiano.
tico usato per trascrivere i fonemi di quasi tutte le lingue del mondo, alfabe to riconosciuto dall' API (sigla della Association Phonétique Internationale,
3. FONEMI SORDI E FONEMI SONORI
Associazione Fonetica Internazionale).
Come accade in quasi tutte le lingue naturali, i fonemi dell'italiano si pronunciano utilizzando l'aria espiratoria che fuoriesce dai polmoni.
2. L'ALFABETO FONETICO
Dai bronchi, l'aria passa nella laringe e qui incontra due pIiche (cioè due pieghe) muscolari dette corde vocali. Esse, proprio come le corde di uno
Ecco i segni deU'alfabeto fonetico riconosciuto dall' API che rappresen-
tano i fonemi dell'italiano:
strumento musicale, possono assumere tre posizioni: l) possono restare inerti; 2) possono chiudersi, impedendo il passaggio deU'aria; 3) possono entrare in vibrazione, aprendosi e chiudendosi rapidamente.
a E e
Se",iconsn!Jan�
Quando le cordevocali rimangono inerti, si dice che producono un fo-
pale letto sera
nema sordo; quando invece entrano in vibrazione, si dice che producono un
vzno
cune sono sorde e altre sono sonore. Ciascuno di noi può sperimentare che
J
cotta
o
gola
u
buca
fonema sonoro. In italiano le vocali sono tutte sonore; delle consonanti, al l'unica differenza tra il fonema [pl di palla e il fonema [b] di balla è l'assenza di vibrazione nel caso di [p} e la presenza della vibrazione nel caso di [bl: I
r t
J
iena w
b uono
[p] è un fonema sordo (o, più semplicemente, una consonante sorda), [b] è un fonema sonoro (o, più semplicemente, una consonante sonora). Sono sonore le seguenti consonanti: Cb], C d] , [gl, [z], [v] , [d3], [dz], [m], [n], []l ], [r], [I], [l] . Infine, sono sonore le semiconsonanti (cioè la i e Ia
u non accentate, seguite da un'altra vocale:'§ 5).
34
CAPITOLO 2
FON1 E FONEMI DELL'ITALIANO
35
li suono delle varie vocali (e con esso, la loro collocazione nel triangolo
4. FONEMI ORALI E FONEMI NASALI
vocalico) cambia a seconda della posizione che la lingua assume all'interno Dalla laringe l'aria sale nella faringe e di qui esce all'estern� o diretta
della cavità orale nell' articolarle.
mente attraverso la bocca oppure, se il velo palatino (o palato molle, cioè la
Al vertice in basso si trova la a, che rappresenta il massimo grado di
parte posteriore del palato) non si solleva impedendo all'aria di entrare an
apertura della bocca.
che nelle fosse nasali, attraverso la bocca e il naso. Se �l'aria esce solo attraverso la bocca, si hanno fonemi orali; se invece
pèlle), la
Sul lato sinistro del triangolo collocheremo, nell'ordine, la e
e aperta
«(E]:
chiusa ([e]: pe10) e la i. Nell'articolare queste vocali, la bocca si
esce anche attraverso il naso, si hanno fonemi nasali, che nella fattispecie
restringe progressivamente, fin quasi a chiudersi con la i, e la lingua avanza
sono tre: [m], [n) e []l) .
sul palato duro: perciò, queste tre vocali si chiamano palatali o anteriori.
I:unica differenza che passa tra una [b] e una (m) e una [d] e una [n) riguarda l'opposizione oralità - nasalità: prova ne sia il fatto che, quando siamo raffreddati, l'aria non passa dal naso, e allora, pur volendo dire ['mamma) o [ 'n:mna], pronunciamo ['babba] o ['d�dda).
I
Sul lato destro del triangolo collocheremo, nell'ordine, la o aperta ([�]: pòrta), la o chiusa «(o): polli) e la u. Nell'articolare queste vocali, la bocca si restringe progressivamente, fin quasi a chiudersi con la u, e la lingua arretra in corrispondenza del velo palatino: perciò, queste tre vocali si chiamano velari o posteriori. Le vocali toniche in italiano sono dunque sette, anche se per rappresen
5 VOCALI
tarle disponiamo soltanto di cinque segni alfabetici. Per distinguere fra
Se l'aria non trova ostacoli nel suo percorso verso l'esterno e la cavità orale funziona da cassa di risonanza, amplificando il suono, allora si produ cono le vocali.
o
e chiusa, possiamo adoperare i due diversi ac� centi: grave - per le vocali aperte (pòrto, bèllo) e acuto ' per le vocali chiuse
aperta e o chiusa e e aperta e (ponte, bévo).
Questo vale per le vocali sotto accento; le vocali atone (cioè non accen
Le vocali toniche (cioè accentate) dell'italiano sono sette. Possiamo rappresentarle graficamente nel cosiddetto triangolo vocali co, un triangolo col vertice rovesciato rivolto verso il basso e il lato opposto aperto:
tate) sono solo cinque: [al, (e], [i), [o), [u] (non si hanno le due vocali aper te [E) e [�] ) . Completano i l quadro dei fonemi italiani l e due semiconsonanti: lo «iod» (trascrizione fonetica (j]) e il «vau» (trascrizione foneticUw)). [od e vau sono, in pratica, una i e una u non accentate e seguite da un'altra vocale, come per esempio la i di ieri e la u di uomo; esse si articolano come (i] e [ul,
u
o
e
Posteriori
Anteriori o
a
o velari
palatali Centrale
fig.2. fI triangolo vocalico.
Anche se [i] e tu] non accentate non sono seguite, ma precedute da una
,
E
ma hanno una durata più breve, e questo spiega l'impressione che siano un suono «a metà» tra le vocali e le consonanti. vocale, la loro durata è più breve: in questo caso si parla di semivocali. È una semivocale, ad esempio, la i di colui.
36
FONI E FONEMI DEu'rrALIANO
CAPITOLO 2
37
a) quando le due vocali vicine non sono né i né u: paese, leone, Boezio,
6. DITIONGHI
reale ecc.; b) quando una delle due vocali (non importa se la prima o la seconda) è
A differenza delle vocali, le semiconsonanti e le semivocali non possono
mai essere pronunciate da sole, ma necessitano di una vocale d'appoggio che le segua o le preceda. Questo gruppo di suoni prende il nome di ditton go: in pratica, è un insieme di due vocali che formano un'unica sillaba. Un dittongo è ascendente quando è formato, nell'ordine, da una semi consonante e da una vocale. Sono dittonghi ascendenti quelli contenuti in
una i o una u accentata e l'altra è a, e, o: aanonzà, de, mormorìo, cocaz'na, telna, moìne, tùa, sùe, sùo, paùra.
9. CONSONANTI
piatto, piede, Shiodo, piuma, quale, guerra, buono, guida: il termine «ascen denti" deriva dal fatto che, quando vengono pronunciati, la voce «sale>, da
Per identificare le consonanti dell'italiano bisogna tener conto di tre
un elemento atono a un elemento tonico. Un dittongo è discendente quando è formato, nell'ordine, da una vocale e da una semivocale. Sono dittonghi discendenti quelli contenuti in mai, fa rei, noi, colui, Palau, pneumatico. il termine «discendenti» deriva dal fatto che, quando vengono pronunciati, la voce «scende» da un elemento tonico a
fattori fondamentali: a) il modo in cui vengono articolate;
un elemento atono.
a) il modo di articolazione. Le consonanti si producono quando l'aria che esce dai polmoni incontra un ostacolo. La loro articolazione può avveni re in tre modi: se il canale espiratorio si chiude completamente (ovviamente,
b) il luogo in cui vengono articolate;
c) il tratto della sordità o della sonorità che può caratterizzarle.
7. TRITTONGHI
solo per un istante), si producono consonanti occlusive (dette anche mo� mentanee O esplosive); se il canale espiratorio si restringe soltanto, si produ
Esistono anche gruppi vocalici più complessi, i trittonghi, formati da una semi consonante, una vocale e la semivocale [il: miei, cambiai suoi, guai
([jl
+
([wl
vocale + semivocale)
+ vocale +
semivocale),
oppure da due semiconsonanti e da una vocale: aiuola inquiete
([jl + [wl ( [wl + [j]
+
vocale) + vocale).
8. lATO
Quando due vocali si pronunciano separatamente e appartengono a due sillabe diverse, si ha uno iato. l casi più importanti in cui si produce sono i seguenti:
cono consonanti costrittive (dette anche fricative o spirantiT.fnoltre, esisto no le consonanti affricate, che risultano dalla fusione di un' occlusiva e di
I
una costrittiva. Così, le consonanti [pl, [bl, [tl, [dl, [kl, [gl, [ml, [nl, [pl sono occlusi ve: quando le articoliamo, il canale espiratorio si chiude completamente. In· vece, le consonanti [f], [vl, [sl, [zl, [}l, [rl, [1], [hl sono costrittive: quando le articoliamo, il canale espiratorio si restringe soltanto. Infine, le consonanti [tsl, [dzl, [til [d31 sono affricate: infatti, le articoliamo unendo un'occlusiva e una costrittiva (basti, a dimostrarlo, il nome della mosca zè-zè, che può scriversi anche tsè-Isè). b) il luogo di articolazione. Se il blocco del canale respiratorio avviene a livello delle labbra, allora avremo delle consonanti labiali: sono tali la [pl, la [bl e la [ml; se avviene a livello dei denti antetiori (sui quali si appoggia la lingua nel momento dell'articolazione), allora avremo delle consonanti den tali: sono tali la [tl, la [dl e la [nJ; se il blocco avviene a livello del palato
38
FONI E FONEMI DELL'ITALIANO
CAPITOLO 2
Dea_inazione deIIè OOIlSO)I';"ti
anteriore (sul quale si appoggia la lingua nel momento dell'articolazione), allora avremo deUe consonanti palatali: è tale la
[]ll; se, infine, il blocco del
canale espiratorio si produce all'altezza del velo palatino, allora avremo del
p
occlusiva labiale sorda
le consonanti velari: sono tali la [kl e la [gl.
b
occlusiva labiale sonora
Se il restringimento del canale espiratorio avviene fra il labbro inferiore e gli incisivi superiori, allora avremo delle consonanti labiodentali: sono tali la Cf] e la [vl; se la lingua tocca gli alveoli degli incisivi superiori, allora avre
mo delle consonanti alveolari: sono tali la [s], la [zl, la
[Il e la [rl; se, infine,
nel momento del restringimento la lingua si appoggia sul palato anteriore, allora avremo delle consonanti palatali, non occlusive ma costrittive: sono tali la [fl e l a [A]. c) Il tratto della sordità o della sonorità. Abbiamo già visto che le varie
occlusiva dentale sorda d
occlusiva dentale sonora
k
occlusiva velare sorda
g
occlusiva velare sonora
m
occlusiva nasale labiale sonora (denominazione abbreviata: nasale labiale)
n
occ1usiva nasale dentale sonora (denominazione abbreviata: nasale dentale)
J1 ts
nasale palatale affricata alveolare (o dentale) sorda
dz
affricata alveolare (o dentale) sonora
consonanti sono sorde o sonore a seconda che nella loro articolazione le cor�
tJ
affricata palatale sorda
de vocali rimangano inerti o entrino in vibrazione.
d3
affricata palatale sonora
Tenendo conto di tutte queste variabili, potremo collocare le varie con
39
f
costrittiva labiodentale sorda (denominazione abbreviata: labiodentale sorda)
sonanti in uno schema, e denominarle in modo appropriato.
v
costriuiva labiodentale sonora (denominazione abbreviata: labiodentale sonora)
TRATTI DISTINTIVI
OCClUSNE
ORALI
Labiali
!
Labiodentali
Sorde Sonore Some 1Sollore S""', Sonore
P
NASALI
b
t
m
f OAAU
Alveolari So<do
I
v
"""'"
Velari
So"", Sorde
k
d p
-.
ts
dz
II
s
z
I
d3
Sono"
costrittiva alveolare sonora (denominazione abbreviata: sibilante sonora)
I
costrittiva palatale sorda (denominazione abbreviata: sibilante palatale)
r
9
costrittiva alveolare sorda (denominazione abbreviata: sibilante sorda)
z
costrittiva alveolare sonora (denominazione abbreviata: vibrante) costrittiva alveolare sonora (denominazione abbreviata: laterale)
/.
costrittiva palatale sorda (denominazione abbreviata: laterale palatale)
Le denominazioni abbreviate (che sostituiscono quelle complete) fanno riferimento a caratteristiche della pronuncia: la [s] è indicata col termine tradizionale di sibilante; la
[r] è detta vibrante perché, quando viene artico
lata, la lingua vibra sugli alveoli; la I è detta laterale perché, quando viene
,
articolata, ]'aria fuoriesce dai lati della lingua. I
fig. 3. Schema delle consonanti.
Palalali
5000"
n
AFFRICATE
COSTRITTIVE
5
Dentali
"
40
FONI E FONEMI OELL'ITAUANO
CAPITOLO 2
lO. COME SI SCRIVONO LE CONSONANTI
NELLA GRAFIA CORRENTE I fonemi consonantici dell'italiano sono in tutto 2 l . li nostro alfabeto non dispone di altrettanti segni per indicarli. Inoltre, in alcuni casi, lo stesso . grafema rinvia a due fonemi diversi: per esempio, il grafema c indica, in con testi diversi, sia l'occlusiva velare sorda (casa) sia l'affricata palatale sorda (cera). Per sopperire a questa mancanza e rappresentare alcuni fonemi dell'ita liano, si utilizzano i digrammi e i trigrammi: due o tre lettere dell' alfabeto che rappresentano un unico fonema. I casi in cui un fonema (tra sbarrette oblique) è rappresentato da un digramma o da un trigramma (in corsivo) sono i seguenti: /k/
=
eh davanti a i, e: china, che
1gl
=
gh davanti a i, e: ghiro, ghepardo
Ip! 11./
gn: legno =
1J1
se davanti a i, e: lascivo, scena ::::
ItJI Idy
gl davanti a i: egli gli davanti a a, e, o, u: paglia, famiglie, piglio, Pagliuca sci davanti a a, O, u: scialle, sciolto, sciupo ci davanti a a, 0, u: cialda, ciò, piaciuto gi davanti a a, 0, u: giacca, giostra, giusto
Attenzione: la h e i che in questi casi seguono la c e la g non vengono pronunciate autonomamente né individuano, da sole, suoni specifici: sono segni diacritici, cioè degli espedienti grafici che servono per distinguere una pronuncia da un'altra. Se nella parola cialda non ci fosse la i, anziché l'affri cata palatale sorda ItJI avremmo la velare sorda /k/, e la cialda diventerebbe calda: ma quando realizziamo la parola cialda ['tJaldal non pronunciamo nessuna i! I l . CONSONANTI SCEMPIE E DOPPIE
Alcune consonanti, in posizione intervocalica (cioè fra due vocali), pos sono essere pronunciate con una diversa energia articolatoria: possono esse-
re scempie o doppie (si dicono anche tenui o intense). Così, la
41
[l] di pala è
scempia o tenue, mentre la [l] di palla è doppia o intensa. Una consonante: la sibilante sonora [z), in posizione intervocalica, è sempre scempia; infine, cinque consonanti: la nasale palatale []lI, la laterale palatale [A), la sibilante palatale Ul e le due affricate dentali sorda [tsl e so nora [dzl in posizione intervocalica si realizzano sempre come doppie, an che se questo loro grado d'intensità non sempre è rappresentato nella grafia corrente. In azione, agnello efiglio, l'affricata dentalè sorda [ts), la nasale pa latale [J11 e la laterale palatale [A) vengono realizzate come doppie, ma ven gono scritte scempie: diciamo [at'tsjone), ma scriviamo azione!
CNITO� 3Dal latino all'italiano: i mutamenti fonetici
In questo capitolo studieremo le più importanti trasformazioni foneti che che si sono verificate nel passaggio dal latino all'italiano. Esamine remo le differenze tra i due sistemi vocalici e tra i tipi di accento, non ché i diversi fenomeni del vocalismo, del consonantismo e i loro muta menti.
_
J _ VOCAlI LATINE E VOCAlI ITAllANE Il latino aveva dieci vocali_ Ciascuna delle cinque che conosciamo
(A, E,
l, O, u) poteva essere realizzata in due modi, dipendenti dalla diversa durata
o quantità della pronuncia: una vocale poteva essere breve o lunga, cioè pro· nunciata in un tempo più breve o più lungo_ Come risulta dal prospetto che segue, le vocali latine in posizione tonica (cioè accentata) erano dieci (rifa cendoci al triangolo vocalico, disponiamo a sinistra le vocali palatali, a de· stra le vocali velari e al centro la A, vocale centrale; il segno - indica la durata o quantità breve della vocale, il segno - indica la durata o quantità lunga):
Y I E E A A o 6 u O Anche l'italiano conosce l'opposizione fra vocali brevi e vocali lunghe_ Una qualunque vocale, seguita da una consonante semplice, è lunga; la steso sa vocale, seguita da una consonante doppia, è breve_ Si presti attenzione,
44
I MUTAMENTI FONETICI
CAPITOLO 3
per esempio, alla diversa realizzazione della a nelle parole pala e palla, oppu re alla diversa realizzazione della o nelle parole mola e molla: di fatto, noi pronunciamo la a e la o di pala e di mola in un tempo più lungo rispetto a quello in cui pronunciamo la a e la o di palla e di molla. Nessuna differenza tra il latino e l'italiano, dunque, sotto questo aspet
confondeva la
o
4S
breve di OS ('osso') e la o lunga di OS ('bocca). Nel latino
volgare la differenza fra vocali brevi e vocali lunghe non sopravvisse; rimase attiva solo quella accessoria fra vocali aperte e vocali chiuse. li processo che si verificò è stato descritto con grande efficacia da Veikko Vaananen: «Im maginiamo un certo numero di bandiere da segnalazione, che si distinguano
to? Niente affattQ: le differenze fra i sistemi vocalici dell'una e dell'altra lin
fra loro per i colori, ma in seguito si scoloriscano al punto di non averne più
gua non potrebbero essere più vistose. In latino, diversamente che in italiano, l'opposizione fra vocali brevi e
strappi che esistevano da un certo tempo senza tuttavia esser notati (prima
vocali lunghe, ben percepita dai parlanti, consentiva di distinguere parole, forme e significati diversi. I Latini coglievano a orecchio la differenza fra la e
la durara vocalica; lo "strappo" è il timbro» .
breve di nNIT (terza persona del presente indicativo di nNIo: lui, lei viene) e la e lunga di VENIT (terza persona del perfetto indicativo dello stesso verbo:
lui, lei venne): nei due casi, l a diversa durata della E segnalava un'opposizio ne grammaticale e semantica fra un tempo presente e un tempo passato. Analogamente, i Latini percepivano con facilità la differenza fra la o breve di SOWM ('suolo', nome) e la o lunga di SOWM ('solo', aggettivo), e cosÌ distin guevano le due parole e i loro significati. In italiano, la distinzione tra vocale breve e vocale lunga non ha un'analoga capacità distintiva. Se qualcuno ci chiedesse che differenza c'è fra la pronuncia di pala e quella di palla e la pro nuncia di mola e quella di molla, nessuno di noi direbbe che essa consiste nella diversa durata o quantità della a e della o, lunghe in pala e in mola, bre vi in palla e in molla: piuttosto, individueremmo la differenza fra il primo e il secondo termine di ciascuna coppia nella diversa intensità della consonante l, scempi a in pala e in mola, doppia in palla e in malia. Da un certo momento in poi nel latino parlato le vocali l.mghe comin ciarono a essere pronuncIate come chiuse e le vocali brevi come aperte. Per tornare agli esempi di prima, immagineremo che i parlanti abbiano realizza to le coppie vENIT / VENIT e SOWM / SOWM nel modo che segue: uènit / uéénit e sòlum / s66lum (attenzione: nel latino classico la grafia del tipo nNIT con V corrispondeva a una pronuncia ['wtnit], con u semiconsonantica). Quando il latino si diffuse in Europa e in Africa, si sovrappose a lingue che non possedevano l'opposizione fra vocali brevi e vocali lunghe. Allora, il senso della quantità cominciò a perdersi. Per l'Africa in particolare, si può allegare la testimonianza di sant'Agostino, il quale awettiva che le «Afrae aures», cioè le «orecchie africane», non erano in grado di distinguere fra VO� cali brevi e vocali lunghe, e aggiungeva che chi in Africa parlava in latino
uno� che le differenzi; nondimeno, esse continuano a servire, grazie agli che sostituissero il colore) come segni distintivi: il "colore della bandiera" è La perdita della quantità rappresentò uno sconvolgimento fortissimo nel sistema vocalico del latino; dal latino volgare questa caratteristica si ri
versò in tutte le lingue romanze. La quantità si trasformò in timbro, secondo lo schema che segue: Vocalismo tonico latino volgare f
r E
l
'( e
J,
A
'( a
6
l
o O
'( o
o
l
u
Che cosa accadde, in dettaglio, nella pronuncia del latino volgare(A, breve o lunga che fosse, fu realizzata sempre allo stesso modo: a, senza diffe renze nel grado di apertura. � e 6 furono continuate come [E] e come [�], mentre E e O furono continuate come [e] e come [o]. r ebbe lo stesso tratta mento di E e divenne [e], mentre u ebbe lo stesso trattamento di O e divenne [o]. Queste due assimilazioni si spiegano tenendo conto del fatto che la pro nuncia di due vocali contigue come I ed E , 6 e O doveva essere molto simile, e quindi ha dato gli stessi risultati. Infine I, la più chiusa delle vocali palatali, fu pronunciata come [i]; 0, la più chiusa delle vocali velari, fu pronunciata come [u]. Dal latino volgare queste trasformazioni si sono riversate su tutte le lin gue romanze, compreso l'italiano. Valgano, a dimostrarlo, gli esempi che se guono, nei quali i nomi e gli aggettivi latini sono all'accusativo perché, come si spiegherà più avanti, i sostantivi e gli aggettivi italiani derivano dai nomi e dagli aggettivi latini in caso accusativo (sul sistema dei casi, cap. IV, § 3):
.. 46
I MUTAMENTI fONETICI
CAPITOLO 3
Vocalismo tonico italiano
per A: lat. ALA (M) > ita!. ala; lat. VALLE(M) > ita!. val/e per �: lat. S�PTE(M) > ita!. sètte; lat. FESTA(M) > ita! fèsta per il: lat. LECE(M) > ita!. /égge; lat. CERA(M) > i,a!. cba
.
per r: lat. LCGNU(M) > i,a!. /égno; lat. OfSCU(M) > ita!. disco per T: Jat. vfvo > itaL vivo; la t. MILLE > ita1. mille
.
per 6: lat F6sSA(M) > ita!.fòssa; la,. P6RCU(M) > i,a!. pòrco
j
l il
l
Y e
per o : lat. FLORE(M) > ita!.fiore; lat. MONSTRU(M) > ita!. mostro pe, o: lat. MUSCA(M) > i,a!. mosca; lat. PULlO(M) > ita!. pollo
.
pe, O : lat. MURU(M) > ita! muro; lat. PURU(M) > ita!. puro
Un tratto che interessa l'italiano in particolare è il trattamento specifico che, nel passaggio dal latino al volgare, hanno subito la E e la o toniche. Prima di illustrarlo, occorre chiarire la differenza tra una sillaba libera o
aperta e una sillaba chiusa o implicata. Una sillaba si dice libera o aperta
E
A A
Ae
Y
jl'.
in sillaba libera
cata o chiusa quando termina per consonante (come la sillaba ter di ter-so). Nel passaggio dal latino all'italiano, E tonica latina e o tonica latina, in sillaba libera o aperta hanno prodotto, rispettivamente, il dittongo iè [ie] e il dittongo uò [w�]; in sillaba implicata o chiusa si sono trasformate, rispettiva
[e]
e in o aperta
E (in sillaba libera) > iè [ie]
E (in sillaba implicata) > è o (in sillaba implicata) > ò
Y
u
l
o
in sillabi in sillaba _ implicata liberu
!� � t�j
t?fll.CO . d�l �
E E
.x. A
6 6
O li
Y
e
a
o
u
Y
[e] b]
[\V�l; invece, dalle basi latine PERDO e CORPUS, in cui la E e la o toniche
erano in sillaba implicata, in italiano si sono avuti perdo e corpo, con e aperta
[e] e o aperta bl. senza che si sia prodotto dittongo (si tratta del fenomeno indicato come «dittongamento toscano" , su cui ci si sofferma nel
O
j l
Per esempio, dalle basi Ialine PEOE(M) e sONU(M), in cui la E e la o toniche e
�
O U
VQcalismo tonico sardo
erano ci sillaba libera, in italiano si sono avuti piede e buono, coi d[tt�nghi
[ie]
A
w:>
�i �
(ru'
b], secondo lo schema che segue:
o (in sillaba libera) > uò
[\V�]
in sillaba implicata
a
6
nttU, ?on ��[ti i [�rri[ori �ella Ro�ània. Queste trasfonnazioni interessarono quasi SIficano il vocalismo toniCO del da l'area ,',aliana in particolare' si diver · . . Per qucl che nguar r dci ·ci il �ocalismo � l" azio innov alle � sardo l'idioma romanzo più refrattario e lon men lese pug to dialet � tino, c�oe quale vanno aggiunti il calabrese e il salen no .l e. r n nndls città del!e � parlato nel «tacco) dello stivale� a sud O > [o]; lo schepassaggt 11 sardo non conosce vocali aperte ne accog e : segue che modo nta nel ma del vocalismo tonico sardo si prese
quando termina per vocale (come la sillaba te di te-sol. mentre si dice impli
mente, in e apetta
47
§ 3.2).
li vocalismo tonico deU'italiano presenta dunque due trasformazioni in più rispetto al vocalismo del latino volgare, che riguardano la E e la o toni che: fig.4. Carta dialettale della Sardegna.
Y
Y
Y
48
CAPITOLO 3
I MUTAMENTI FONETICI
Qualche esempio mostrerà concretamente le differenze fra le trasfonnazioni vocali� che dell'italian? e quelle delle parlate sarde (le più importanti sono il logudorese, da cui provengono gli esempi qui addotti, il campidanese, il gallurese e il sassaresc); -
�
dalla base lat a STcCU(M) in italiano si ha sécco, memre in logudorese si ha sikku; dalla base lat�a PERTICA(M) in italiano si ha pèrtica, memre in logudorese si ha bértiga; dalla base lat�a P6RCU(M) in italiano si ha pòrco, mentre in logudorese si ha porco; dalla base launa MUSCA(M) in italiano si ha mosca, mentre in logudorese si ha muska.
In siciliano T, T e E toniche latine hanno tutte e tre lo stesso risultato: [i]; analogamen te, O, Ù e 5 toniche latine confluiscono nell'unico eSlco [u], secondo lo schema che segue:
Y
X A
E
Y a
!
per A: lat. AGNEllU(M) > it a . agnello
lat. S�PElfRE > i ta! seppellire per E: laL PENSARE> ital. pesare per�:
per
.
r: laL VrNDEMIA(M) > ital. vendemmia
per f: la L PR1VAru(M) > iraL privato per ò: at P6RCElLU(M) > i a !. porcello
l
t
.
per 6: lat. MONSTRARE > itaI. mostrare
l
per o: at MUGlRE > i ta muggire
ò
.
L
6 CI O
!
Y
2. L'ACCENTO
u
Qualche esempio: -
Qualche esempio:
per o: la t. GLANDOLA(M) > ita!. ghiandola
Vocalismo tonico siciliano T I �
Le parole latine avevano un accento di tipo musicale, consistente in
dalla base latina NfVE(M) in italiano si ha néve, mentre in siciliano si ha nivi; dalla base latina rtLA(M) in italiano si ha téla, mentre in siciliano si ha tila; dalla base latina V6c.t::{M) in italiano si ha voce, mentre in siciliano si ha vuci; dalla base latina CRtJCE(M) in italiano si ha croce, mentre in siciliano si ha cruci.
essarono le
Si è detto che le trasformazioni che abbiamo indicato inter
vocali toniche. Anche le vocali atone subitono delle trasformazioni, ma fu rono in parte diverse. In particolare, il vocalismo atono del latino volgare non conosce vocali aperte: E e O atone hanno dato é e 6, come le rispettive lunghe e come T e il. Il vocalismo atono dell'italiano coincide con quello del latino volgare, sicché è possibile presentarli nell'unico schema che segue:
la, era detenrninata dalla durata o quantità della penultima sillaba: se la pe nultima sillaba era lunga, l'accento veniva a trovarsi proprio su questa; se in vece era breve, l'accento veniva a trovarsi sulla sillaba che la precedeva, la terzultima. Owiamente, questa legge della penultima valeva per.le parole che avevano almeno tre sillabe; sulle parole bisillabiche l'accento si trovava sempre e comunque sulla penultima sillaba, breve o lunga che fosse. Occorre precisare, inoltre, che la quantità di una sillaba non coincideva necessariamente con la quantità della vocale che la componeva. Una vocale breve produceva una sillaba breve se era in sillaba lib"ra, ma produceva una sillaba lunga se era in sillaba implicata; una vocale lunga produceva sempre cata. Schematizzando:
!
T il �
r e
A A
y a
ò
6 D
r o
un
innalzamento della voce. La posizione dell'accento, all'interno di una paro
una sillaba lunga, sia che fosse in sillaba libera sia che fosse in sillaba impli
Vocalismo atono del latino volgare e dell'italiano
I
49
O
!
u
a)
vocale breve in sillaba libera
sillaba breve VENIS
b) vocale lunga in sillaba libera
sillaba lunga RESONARE
e) vocale breve in sillaba implicata
sillaba lunga APEKfUS
d)
sillaba lunga DlRÉCTUS
vocale lunga in sillaba implicata
50
I MUTAMENTI FONETICI
CAPITOLO 3
Parola latina
Qualche esempio relativo alla posizione dell'accento:
(in parole di più di due sillabe)
Pron';"cia l.tina
51
"Parula'itJil.ialta
SPAruLA(M}
SPA11JLA
rpàtola
SPECUW(M}
SPECULUM
spècchio
LACUNA
LACUNA
lagùna
lunga NATURA PUO[CUS VESTIRE PERFECTUM (vocale breve in sillaba implicata)
natùra pudìcus vestìre perfèctum
breve PORTfcus PLANGERE PERlCOLUM
pòrticus plàngere perìculum
(in parole di due sillabe) PEDEM
òpus HORA
Il mantenimento della posizione originaria dell'accento non si è avuto in alcuni ver bi composti, nei quali si è verificato il fenomeno della ricomposlzione. Molti verbi com posti latini ham;o avuto una storia fonetica parcicolare, risalente all'erà arcaica: nella for mazione del composto, la vocale tonica del verbo di base si era abbreviata o aveva cam biato timbro. Per esempio si avevaCONTINET (composto da <.:IJM + TÉNET), orsPLfcET (com posto da ois + PLACET), RENÒVAT (composto da RE + NU\'AT); nella pronuncia di questi ver bi,l'accento cadeva sulla vocale in grassetto. Nel passaggio dal latino classico al latino volgare, e da questo all'italiano, questi e altri verbi furono ricomposti: tutte le volte che il verbo di base era riconoscibile, i parlan ti lo ripristinarono nella forma e nell'accentazione originaria: cosÌ,
in CONTINET si riconobbe TÉNET, e in italiano si è avuto contiene (partendo dalla base CONTlNET avremmo dovuto avere contene); in DIspLfcET si è riconosciuto PLACET e si è avuto dispiace (partendo dalla base DISPLIcET avremmo dovuto avere dùpiece); in RENOVAT si è riconosciuto NOVAT e si è avuto rinnova (partendo dalla base RENOVAT avremmo dovuto avere rz'nnova). _
_
pèdem ·òpus ora
Questo modo di realizzare l'accento venne meno quando le vocali per sero la quantità, Allora 1'accento, da musicale che era, divenne intensivo. Intensivo è il tipo di accento che si ha nelle parole italiane e che consiste in
_
In alcune par.o.le del latino classico, le vocali i ed e in iato (cioè seguite da altra vocale con cui non formavano dittongo) erano regolarmente accentate in base alla legge della penultima: FIUOWM, LINTEÒLVM, AmTEM ecc. Nella pronuncia del latino tardo l'accento si spostò sulla vocale seguente che, più aperta, attirava l'accento su di sé. Dal latino tardo questa caratteristica passò alle lingue romanze; così, per esempio, da FIUOLU(M), UNTI::OW(M), AIUÉTE(M) in italiano si è avuto figliuolo (figliolo), lenzuolo, ariete.
una particolare forza articolatoria che si concentra sulla sillaba accentata:
cancello,fiducia, calibro, rpecchio Ognuno può sperimentare che, nella pronuncia di queste parole, la massima forza articolatoria si concentra sulla sillaba di cui fa parte la vocale accentata, indicata in neretto. Nel passaggio dal latino all'italiano è cambiata la natura, ma non la posi zione dell'accento: in generale le parole italiane hanno mantenuto l'accento che avevano le parole latine di provenienza. Qualche esempio:
3. FENOMENI DEL VOCALISMO 3.1. Monottongamento di AU, AE, OE Il latino classico aveva tre dittonghi: AU, AE e DE. Una tendenza tipica del latino parlato fu quella di monottongare questi dittonghi, cioè di pronun ciarli come un'unica vocale che, in quanto risultante da due vocali, avrebbe dovuto essere lunga, e perciò caratterizzata, nei successivi sviluppi del latino tardo, da un timbro chiuso.
l
S2
CAPITOLO 3
I MUTAMENTI FONETICI
Per quel che riguarda il dittongo AU, esso produsse una O con timbro chiuso soltanto in poche parole, come per esempio CAUDA (da cui si ebbe
CODA e quindi, in italiano, coda) e FAUCE(M) (da cui si ebbe FOCE(M) e quindi, in italiano, foce). Generalmente il dittongo latino AU si monottongò in una bl: da AURU(M) si ebbe òro, da CAUSA(M) si ebbe còsa, da LAUDO si ebbe lòdo, da PAUCU(M) si ebbe pòco, e così via.
q
ues�o fenomeno si produsse in Toscana nell'VIII secolo d.C.: infatti, il primo esempIO dI monottongamento di AU in [�] è documentato in una carta latina medievale pistoiese del 726, in cui si legge la parola gòra 'canale', proveniente da un prelatino *GAU. RA 'canaJe d'acqua'.
�
[·El' e la o aperta [�) derivata da o latina si dittonga in [w�): è il fenomeno er cui da P�-DE(M) abbiamo piède, da ff-RU(M) fièro, da L
e ancora, da BO-NU(M) abbiamo
trattamento deUa �, che in latino volgare era aperta. AE, infatti, monottonga tosi in una il aperta, in italiano ha dato il dittongo [jE) in sillaba libera e una [E) in sillaba implicata:
il dittongamento non si produce se E e o toniche sono ID sillaba unplica_
.
.
ta (cioè terminante per consonante), come per esempio in PER-DO e
.
ID
COR
pus, in P�C-TUS e in POR-CU(M), che in italiano hanno dato pèrdo, còrpo, pètto e pòrco: in questi casi la trasformazione si è fermata alla pronunCla aperta d. e e o toniche.
La
regola cosiddetta del «dittongo mobile»
Nella flessione di alcuni verbi con E o o nella radice si registra l'alternan za tra forme con dittongo e forme senza dittongo. Qualche esempio: nel ver bo dolere a duoli, duole si affiancano doleva, dolere, dolete ecc.; nel verbo po
tere a puoi, può si affiancano poteva, potere, potete ecc.; nel verbo tenere a tieni, tiene si affiancano teneva, tenere, tenete ecc.; nel verbo venire a vz�nz, viene si affiancano veniva, venire, venite ecc. Questa oscillazione obbedisce
LAE-TU(M) > lièto QUAE-RO> chièdo MAES-TU(M) > mèsto PRAES-TO> prèsto
alla regola detta del dittongo mobile: il dittongamento si ha solo nelle forme
rizotoniche (cioè accentate sulla radice, in greco rhiza), in cui E e o sono to niche non sulle forme rizoatone (cioè non accentate sulla radice), in cui E e
Infine, il raro dittongo OE si monottongò in una E che in italiano ha dato
�
o son atone
regolarmente [e): da POENA(M) si è avuto, ad esempio, pena.
3.2. Dittongamento toscano Il dittongamento di E e o toniche in sillaba libera è detto toscano perché tipico del fiorentino e degli altri dialetti di Toscana. Che tale dittongamento caratterizzi le parole dell'italiano è una delle prove del fatto che la nostra lin gua coincide, per una gran parte, col fiorentino letterario del Trecento.
e aperta [E) de AE) si dittonga in
In sillaba libera o aperta (cioè terminante per vocale), la rivata da E latina (e dal monottongamento del dittongo
, buòno, da LO-CU(M) luogo, da SO-CERU(M)
suòcero ecc.
il dittongo AE si monottongò in una E che tuttavia fu pronunciata subito aperta. Che questa E fosse aperta è dimostrato dal fatto che, nel passaggio dal latino all' italiano, il dittongo AE in posizione tonica ha avuto lo stesso
53
.
(il grassetto indica la vocale su cui cadeva l'accento in latino):
DÒ LES>
duoli DÒLET> duole DOLEBAT> doleva OOLERE> dolere DOLETIS> dolete
TENES> tieni TENET> tiene TENEBAT> teneva TENERE> tenere TENETIS> tenete
*PÒ(T)ES> puoi *PÒTET> puole> può *PÒTEBAT> poteva *PÒTERE > potere *PÒrtTlS> potete
VENIS> vieni VENIT> viene *v'ENIBAT> veniva vENIRE> venire VENITIS> venite
CAPITOLO 3
54
I MlJTAMEtfTl FONETICI
Naturalmente, non si ha dittongamento neanche in quelle forme verbali in cui É e ò sono sì in posizione tonica, ma in sillaha implicata:
dò/-go, tèn-go,
vèn-go ecc.
La regola del dittongo mobile non ha interessato solo le forme di uno
55
non dittongate hanno sentito l'influsso di quelle dittongate e hanno preso anch'esse il dittongo: oggi, infatti, si dice e si scrive comunemente
suonate,
suonava, suonare, non certo sonate, sonava e sonare).
stesso verbo, ma anche parole diverse (verbi, nomi o aggettivi) che fossero
corradicali, cioè che provenissero dalla stessa radice nominale o verbale: pie
de-pedata, ruota-rotaia, vuole-volontà ecc.
Anche in questi casi, il dittonga
mento di É e di ò si è avuto solo quando nei vari terminl della serie queste vocali erano toniche, non quando erano atone; e così, accanto a d,ttongo) si è avuto si è avuto
rotaia
pedata (senza
dittongo), accanto a
(senza dittongo), accanto a
vuole
ruota
piede
(con
(con dittongo)
(con d,ttongo) Sl è avuto
volontà (senza dittongo). In molti verbi la regola del dlttongo mobile è andata perdendosl pro gressivamente: in alcunl casi {al le forme rizotonlche con dittongo sono state abbandonate per l'influsso delle forme rlzoatone prlve di dittongo, e il dit tongo è scomparso dall'lntero paradigma verbale; in altrl casi
(b) è accaduto
esattamente il contrario: il dittongo propdo delle forme rlzotoniche si è este so per analogia alle forme rlzoatone che non lo avevano. Un esemplo dl ripo
(a)
è dato dalla coniugazlone del verbo
levare.
Al
presente indicativo, la base latina LEVO, LEVAS, LEVAT ln un prlmo tempo ha
ltroo, lièvi, lièva; successivamente queste forme hanno sentito l'influsso levate, leviamo, levare, levava ecc. e si sono rimonottongate in lèvo, lèvi, lèva. Nel caso di lèvo, lèvi, lèva la E originarla si è mantenuta aperta; in altri dato
delle forme rizoatone non dittongate
casi il processo di allineamento alle forme rizoatone, ln cui la E atona ha pro dotto una [el, è stato totale, e da E si è avuta una [e] ancge sotto accento. Per
nièga; successi vamente questo nièga, per influsso delle forme rizoatone negate, neghiamo, negare ecc., si è trasformato in nèga (con [E]) e infine in néga (con [e]). Un esempio di tipo (b) è dato dalla coniugazione del verbo suonare (o meglio sonare, stando alla regola del dittongo moblle). Nel paradigma di esempio, la base latina NEGAI in italiano antico ha prodotto
questo verbo, le forme rizotoniche erano dittongate (SONO, SONAS, SONAr con O tonica - hanno dato regolarmente suòno,
suòni, suòna), mentre le for
me rizoatone non erano dittongate (SONATlS, SèJNABAT, SONARE- con () atona hanno dato regolarmente
sonate, sonava, sonare).
Successivamente, le voci
li dittongamento di � e 6 toniche in sillaba libera non è presente in tutte le parole.
1) Come è ovvio, esso non è presente nelle parole dotte, che non hanno subito tra sformazioni fonetiche: per fare un esempio, il dittongamento di E in [je] si è prodotto nel numerale cardinale DECE(M), parola di trafila popolare che in italiano ha dato prima dièce e poi dièci, ma non si è prodotto nel numerale cardinale DEClMU(M), parola di tradizione dotta che si è mantenuta inalterata, dando dècimo. 2) Il dittongamento si produce nella maggior parte, ma non in tutte le parole propa rossitone (cioè accentate sulla tert:ultima sillaba): accanto a lièvito « L�VrTU(M) , chièdere « QUAERERE), tièpido « TEPIDU(M)) con dittongamento - abbiamo pècora « PECORA: si tratta del nominativo e accusativo plurale della parola latina PECUS 'bestia', 'bestiame', di genere neutro, la cui traduzione letterale avrebbe dovuto e�sere 'le bestie' . 'il bestiame'; i parlanti, però, hanno percepito l'uscita del neutro plurale IO -o come desl. ?cnza de fem minile singolare e quindi quel P�CORA è stato interpretato come 'la pecora , senza dmon gamento; accanto a uomini « HOMINES) e a suocero « SOCERU(M)) - con dittongamento abbiamo òpera « 6PERA(M) , senza dittongamento. 3} Il dittongarnento non si produce in tre parole parossitone (cio� accentate s�lla penultima sillaba): bène, proveniente dal latino BENE, nòve, provelllente dal !auno NOVE(M),lèi, proveniente dal latino volgare *(IL)LEl. Dall'avverbio BENE ed.al numerale NOVE(M) avremmo dovuto avere biène e nuòve. Il mancato dittongamento si spiega col fatto che, nella pratica concreta della lingua, parole come bene e nove generalmente non si trovano da sole, ma accompagnate da altre: -
�
BENE mcru(M) > bene detto, ben detto NOVE(M) CANES > nove cani Nel contesto della frase l'accento principale tende a cadere sulla parola vicina a bene e a nove (negli esempi la vocale su cui cade l'accento principale è in grassetto), e la � e la 6 di BENE e di N6VE(M) perdono la loro qualità di vocali accentate. Questo spiega il mancato dittongamcnto che, come si è detto, interessa solo E e 6 toniche. *(lL)UI è una forma latino-volgare di dativo femminile singolare ('a quella', 'a lei') proveniente dal pronome dimostrativo latino ILLE, rLlA, ILLUD, 'quello'. il latino classico, per dire «a quello», «a lui» e «a quella», «a lei» aveva l'unica forma di dativo singolare ll.ll,. che il latino volgare sostituÌ con la forma, attestata nel latino tar do, ILlUI per il maschile ('a lui') e con *ILlÈI per il femminile ('a lei'). Da Illur e da *lllEI si sono avuti, con aferesi della sillaba iniziale IL, i pronomi lui e lei. Non è facile spiegare perché la E tonica di (U.)lEI in Toscana non si sia dittongata in [je] producendo il tipo lièi: si può ipotizzare che essa sia e�trat� nell'uso l . quando il fenomeno del dittongamento spontaneo di E e dl 6 SI era ormaI ChIUSO, ClOe dopo il VII secolo.
56
l MUTAMENTI FONEllCl
CAPITOLO 3
4) Nell'italiano attuale il dittongamento non compare in era e erano, terza e sesta persona dell'imperfetto indicativo del verbo essere, provenienti dalle basi latine ERAT e �RANT, entrambe con � tonica originaria. In italiano antico da queste basi si sono avute regolarmente le forme dittongate ièra e ièrano; la successiva scomparsa del dittongo è ascrivibile alla stessa causa che ne spiega l'assenza in bene e in nove. Difficilmente due fanne verbali come era e erano potevano trovarsi da sole; generalmente erano (e sono tuttora) seguite da un'altra parola, all'interno della quale si colloca l'accento principale della frase (in grassetto negli esempi che seguono): era bello, era Marco, era stato ecc. Così,la E di ERAT e di ERANT ha perduto la sua qualità di vocale accentata,e il dittongo non si è più prodotto.
e anche oltre, l'italiano scritto ha privilegiato le forme col dittongo
uò, che
era il regolare sviluppo di una o tonica latina (o meglio latino-volgare: nelle basi latine delle parole citate la o è tonica perché l'accento si è spostato ri spetto alla pronuncia del latino classico, passando dalla terzultima alla pe nultima sillaba: § 2): da PHASEOW(M) si è avutofagiuolo, da FlLIOW(M) si è avutofigliuolo, da VARlOW(M) si è avuto
vaiuolo. uò alla vocale ò dopo palatale ha
Il processo di riduzione del dittongo
origini molto antiche: i primi esempi fiorentini risalgono addirittura al XIII secolo. Ma i tipi figliuolo,
Nell'italiano attuale il dittongamento non compare nelle parole in cui
57
libricciuolo, oriuolo
hanno resistito a lungo nel
pròvo « lat.
uò venne da Alessandro Manzoni, che nella revisione linguistica dei Promessi Sposi elimi nò quasi tutte le forme con uò dopo suono palatale, sostituendole con le for
PROBO), tròvo (lat. TROPO). In verità nell'italiano antico, almeno fino alla fine
me con Ò. Nonostante l'esempio illustre di Manzoni, le parole che presenta
[E] e [J] provenienti da E (o da consonante + R:
brève «
AE)
e o toniche latine seguono il gruppo di
lat. BREVE(M)),
trèmo «
lat. TREMo),
l'italiano scritto. Una forte spinta all'abbandono del tipo con
uò
del Trecento, il dittongamento era normale anche in contesti come quelli
vano
DeCllmeron o in un canto della Divina Commedia, anche dopo consonante + r, le fanne normali erano quelle dit tongate: si avevano brieve, triemo, pruovo e truovo; le forme ridotte (breve, tremo, provo e trovo) non esistevano ancora. A Firenze la riduzione del dit tongo dopo consonante + r si affermò a partire dal Quattrocento: essa fu de
può dire che siano completamente scomparse: ancor oggi, il divieto indicato
appena indicati. In una novella del
terminata dall'influsso dei dialetti toscani occidentali (pisano e lucchese), nei quali il mancato dittongamento di E e di O dopo consonante + rera origi nano.
iè in è; poi, a metà Cinquecento, si diffuse la riduzione di uò in ò: al posto di brieve, triemo, pruovo e truovo si disse (e si scrisse) breve, tremo, provo e trovo. A partire dalla seconda metà del Cinquecento, la riduzione di iè a è e di uò a ò dopo consonante + r si estese dal fiorentino all'italiano praticato dagli scrittori, anche non fiorentini. La scomparsa dei tipi più antichi con iè e con uò non Prima, a metà Quattrocento, si diffuse la riduzione di
fu, comunque, né generale né immediata: le forme dittongate soprawissero fino agli inizi dell'Ottocento, in particolare nella lingua degli scrittori più tradizionalisti.
uò pre ceduto da un suono palatale ([j], [d3], U], [j1]): voci comefagiuolo,figliuo lo, vaiuolo non si usano più, e al loro posto si preferisce dire e scrivere fagio10,figlzOlo, vaiolo. In passato, invece, non è stato così: fino a metà Ottocento Nell'italiano attuale sono in forte declino le forme col dittongo
dopo suono palatale sono sopravvissute ancora a lungo, e non si
sui cartelli comunali è quello di calpestare le che le
aiuole «
lat. AREOLAS) piuttosto
aiole; e i cronisti sportivi radiotelevisivi preferiscono parlare di giuoco
« lat. IOCU(M)) piuttosto che di gioco del calcio, privilegiando così la forma tradizionale rispetto a quella moderna. Nella lingua della poesia sono state frequenti, fino al secolo scorso, for
còre,fòco, lòco, nòvo,fèro ( = fiero), ecc., senza dittongo anche se provenienti da basi latine con O e E toniche: *CORE (* lat. classico COR,
me come
CORDIS), FOCU(M), LOCU(M), NOVU(M), FERU(M), ecc. Queste forme senza dittongo sono dovute all'influsso del siciliano anti co. La lingua poetica italiana ha un consistente fondo siciliano, perché sici liana fu la prima esperienza poetica praticata sul nostro territorio: il riferi mento è, naturalmente, ai poeti della cosiddetta «scuola siciliana», attivi alla corte di Federico II tra il 1220 e il 1250. Come abbiamo già visto, nel vocali smo siciliano la o e E toniche non producono i dittonghi [wo] e [jEl, ma una
[J] e una [E]: da basi latine (documentate o ricostruite) come *CORE, FOCU(M), NOVU(M), FERU(M), ecc. nella lingua dei poeti siciliani si sono avute forme come
còri,!òcu, nòvu,!èru. Successivamente queste e altre parole sen
za dittongo sono passate, con qualche aggiustamento, nella lingua dei poeti cosiddetti siculo-toscani (seconda metà del XIII sec.), in quella degli stilno visti bolognesi e toscani (fine del XIII - inizio del XIV sec.) e così via fino a
58
CAPITOLO 3
I MUTAMENTI FONETICI
59
Petrarca (XIV sec.), la cui lingua e il cui stile divennero un modello insupe
fonesi: la é chiusa seguita da I palatale (evoluzione del nesso latino LJ ) si è
rata per i poeti dei secoli successivi, dal Quattrocento all'Ottocento. Così,
ulteriormente chiusa in i dando luogo alla formajamiglia.
nella lingua della tradizione poetica le forme non dittongate (còre, jòco, nòvo,fèro, ecc.) hanno di fatto soppiantato le corrispondenti forme ditton
Dalla base latina GRAWNEA(M) si è avuta la forma GRAMINIA, con chiusura in i della E in iato (-NEA> -NIA). Questa chiusura ha determinato la formazio
gate, normali nella lingua della prosa dalle origini fino ai giorni nostri. Oltre
ne di un nesso NJ: occorre ricordare, infatti, che una i che precede un'altra
che all'influsso del modello siciliano, la fortuna poetica delle forme non dit
vocale è uno iod [j]. La presenza del nesso -NJ- ha poi determinato un conte
tongate è certamente dovuta all'influsso - fortissimo';'; poesia - del modello
sto anafonetico. l tonica, in una prima fase, ha dato é: gramégna, e in tutta
-
-
latino, al quale i dittonghi uo e ie, innovazione linguistica del volgare tosca
Italia la parola si è fermata a questo stadio evolutivo. A Firenze e in parte
no, erano naturalmente estranei: còre,/òco, nòvo,!èro erano ben più vicine
della Toscana, invece, si è avuto l'ulteriore passaggio dell'anafonesi: é tonica,
alle parole latine cor,focus, novus,ferus delle forme dittongate cuore,fuoco,
seguita da n palatale proveniente dal nesso latino ·NJ-, si è chiusa in i, dando
nuovo efiero.
luogo a gramigna. Altri esempi:
(per anafon';"i) ciglio (per anafonesi) consiglio TIuA(M) > téglio (co n uscita maschile) > tiglIO *POSTCENIU(M) > puségno > pusigno (in italiano antico, 'spuntino dopo cena). c!UU(M) > céglio >
3.3. Anafonesi
cONsfLIU(M) > conséglio >
L'anafonesi (dal greco anà 'sopra' ejonè 'suono' = innalzamento di suo· no) è una trasformazione che riguarda due vocali in posizione tonica: [e} (proveniente, lo ricordiamo, da il e da I latine) e [oJ (proveniente da 6 e da O latine). In determinati contesti fonetici queste due vocali passano, rispettiva
L'anafonesi non si produce se la n palatale []I} non proviene da un nesso
mente, a i e a u. Il termine anafonesi si spiega proprio col fatto che il passag gio é> i e 6> u costituisce un innalzamento articolatorio: nella realizzazione
-NJ-, ma da un nesso -GN- o�;g;';-ario; così, per esempio, dalla base latina LIGNu(M), in cui la n palatale continua il nesso -GN- e non il nesso ·NJ-, si è
di i in luogo di é e di u in luogo di 6la lingua e le labbra sono più in alto. L'anafonesi è tipica di un'area molto ristretta della penisola: in origine interessava soltanto le zone di Firenze, Prato, Pistoia, Lucca, Pisa e Volterra, lasciando fuori il territorio di Siena e Arezzo in Toscana nonché tutte le altre regioni d'Italia. L'anafonesi si verifica in due casi. .... Primo caso di anafonesi. Nel primo caso, é tonica proveniente da E e da l latine si chiude in i quando è seguita da I palatale [AJ o da n palatale []I), a loro volta provenienti dai nessi latini -LJ- e -NJ-. Facciamo qualche esempio. Dalla base latina FAMlLlA(M) si è avuta, in un primo tempo, la formajamé
glia, che si è diffusa in tutte le parlate d'Italia. A Firenze (e nelle altre zone di Toscana indicate sopra) la parola ha avuto un'ulteriore evoluzione nell'ana-
avuto légno, senza anafonesi (altrimenti avremmo avuto un ipotetico ligno; ;
I ,
I
l'aggettivo di materia lìgneo, da LIGNEU(M), è una parola dotta). � Secondo caso di anafonesi. Nel secondo caso, [e} tonica provenien
te da il e da I latine e [o} tonica proveniente da
6
e da O latine si chiudono,
rispettivamente, in [i} e in [u} se sono seguite da una nasale velare, cioè da una n seguita da velare sorda [k} o sonora [g), come nelle sequenze -énk-,
-éng- e -ong- (mentre l'anafonesi non si produce nella sequenza ·onk-l. Fac ciamo, anche per questo secondo caso, qualche esempio. Dalla base latina TINcA(M) si è avuta, in una prima fase, la forma ténca; a Firenze e nelle zone circostanti la é del gruppo -énk- si è ulteriormente chiu sa in i per anafonesi, mentre nel resto d'Italia i vari dialetti si sono fermati alla forma ténca.
60
I MUTAMENll FONEnCI
CAPlmLo 3
Ancora, dalla base latina LINGUA(M) in un primo tempo si è avuta la for ma léngua, con regolare evoluzione di I tonica in é, e in quasi tutte le parlate d'Italia ci si è fermati a questo stadio. A Firenze e in altre parti della Toscana, invece, la é di léngua, trovandosi in un contesto anafonetico (è seguita da una n velare), si è ulteriormente chiusa in i e ha dato la forma lingua. Infine, dalla base latina FÙNGU(M) in un primo tempo si è avuto fongo, e qui ci si è fermati nei vari dialetti d'Italia. Nella zona anafonetica della To scana, invece, la cl proveniente da u latina, seguita da n velare, si è ulterior mente chiusa in u, dando luogo afungo. Altri esempi;
I
vfNCO > vénco > (per anafonesi) vinco EXPINGO> spéngo> (per anafonesi) spingo T1NGO> téngo> (per anafonesi) tingo ONG(U)LA(M)> ònghia> (per anafonesi) unghia
I
Come si è accennato, l'anafonesi non si produce nella sequenza -onk-,
cioè nel caso in cui la ò e la nasale velare siano seguite da una velare sorda. Così, dalla base latina TRUNCU(M) dovremmo aspettarci prima tronco e poi, per anafonesi, trunco; invece, l'evoluzione si è fermata a tronco anche nel l'area in cui è attiva l'anafonesi, perché la o e la n velare sono seguite dalla velare sorda k. Con la sequenza -onk- l'anafonesi si ha solo con la parola
glunco: IUNCU(M) > gi6nco > giunco Abbiamo detto che l'anafonesi si produce con é e o in posizione tonica.
I
dNGO> céngo> per anafonesi> cingo
e per analogia su cingo, cingete, cingeva, cingevamo, cinto ecc. PONGO> pongo> per anafonesi> pungo
e per analogia su pungo, pungete, pungeva, pungevamo, punto ecc.
61
I
Attenti all'errore Attenzione a non commettere l'errore di saltare il passaggi? ctuciale dell'anafonesi, pensando che basi latine come cONslLIU(M), LINGUA(M), FÙNGU(M) abbiano dato ditettamente consiglio, lingua,/ungo; non è così, per ché una I e una U toniche non possono dare i e u in italiano. Anche a Firenze, Prato, Lucca, ecc. ci sarà stata una fase in cui da cONsluu(M), LINGUA(M), FÙNGU(M) si sono avuti conséglio, léngua e fongo, a cui ha fatto seguito l'evo luzione anafonetica in consiglio, lingua e / u ngo Vanafonesi è una delle prove più evidenti della fiorentinità dell'italiano. .
Sconosciuta ai dialetti del resto d'Italia, in cui sono normali forme come con
séglio, léngua,/ongo, ecc., essa è tipica, come abbiamo detto, solo della par lata di Firenze e di poche altre città toscane. li fatto che l'italiano abbia con siglio, lingua,fungo dimostra inequivocabilmente che esso coincide col fio rentino letterario del Trecento, assunto a modello da tutti o quasi tutti gli scrittori d'Italia a partite dal primo Cinquecento. Sicché, se ci capitasse d'in contrare, in un testo della tradizione letteraria, qualche forma non anafone tica come lengua o ponto, dovremmo per forza di cose considerarla un tratto di origine dialettale, una spia della provenienza non toscana dell'autore di quel testo.
In alcuni verbi la chiusura di queste vocali, dopo aver regolarmente investito le forme rizotoniche, con é e o accentate, si è estesa per analogia alle forme rizoatone, con é e 6 non accentate. Così, da vINCO si è avuto vénco e poi, per anafonesi, vinco; su vinco si sono rifatte forme come vincete (< '''VINCETIs),
vinceva « vINCEBAT), vincevamo « lat. vINCEBAMUS) ecc. in cui la l non è to nica, e dunque non produce un contesto anafonetico. Altri esempi;
3.4. Chlusura delle vocali toniche in iato La e aperta [E], la e chiusa [e], la o aperta [o] e la o chiusa [o] toniche, se precedono un'altra vocale diversa da i con cui formano non un dittongo ma uno iato, tendono a chiudersi progressivamente fino al grado estremo: e chiusa diventa i e o chiusa diventa u.
62
I MUTAMENTI FONrna
CAPllOLD 3
re) tende a chiudersi in
Qualche esempio.
63
i. Così, dalla base latina O�dMBRE(M), in italiano an
tico si è avuto dapprima decembre; in seguito, la e della prima sillaba (de) si è
Dalla base latina �(G)o la E tonica in iato, anziché produrre il dittongo iè
chiusa in i perché protonica, e si è avuto dicembre. Qualche altro esempio:
(dando luogo a ièo), si è progressivamente chiusa: 1'.0 > èo > éo > io. Lo stesso fenomeno si è verificato nella parola OW(M) e nel possessivo MEÙ(M), MEA(M), in cui anziché avere dièo, mièo e mièa abbiamo avuto déo e po� dio, méo e poi mio, méa e poi mia. La chiusura di � wnica in iato non si ha nel femminile di OW(M): da OEA(M) si è avuto dèa, che è un latinismo. Dalle basi latine TUA (M) e SÙA(M) si sono avute IDa e soa; successivamente la 6 in iato si è chiusa in u e si sono avute le forme tua e sua. Dalla base latina OUAS (o forse da OUAE, nominativo femminile plurale) si è avuto prima d6e e poi, con ulteriore chiusura in iato, due. Infine, dalla base latina B6(V)E(M) si è avuto, con caduta di -V-, prima boe e poi bue.
dCONIA(M) > cecogna > cicogna
DÉF�NDO > defendo > di/endo F�N�STRA(M) > fenestra > finestra FENOCÙLUM > fenocchio > finocchio M�DÙLLA > medolla > midolla ME.(N)SURA(M) > mesura > misura TrMORE(M) > lemore > timo re
li processo appena descritto non è stato né uniforme né generale. In alcune parole il passaggio di e protonica a i si è avuto più tardi che in
mièi, in cui E tonica, in iato con i, non si chiude, ma si dittonga regolarmente
altre. Per esempio megliore, nepote, segnore « MEUORE(M), NEPOTE(M), S�NIORl-:(M» hanno resistito fino a metà Trecento; pregione e serocchia 'sore! la' « PREHENSIONE(M), SORORCÙLA(M» sono passati a prigione e sirocchia solo
in iè; analogamente, dal plurale BO(V)ES abbiamo BaI (con palatalizzazione
agli
Come si è detto, la chiusura di e e di o non si produce se queste vocali sono in iato con i: così, se da Mi'.U(M) abbiamo mio, dal plurale MEl abbiamo
della E determinata dalla -s finale: è il fenomeno di cui si parla nel
§ 4.1)
Melano e melanese « M�DIOLANU(M), MEDIOLANE(N)SE(M» si sono trasfonnati in Milano e milanese a metà dello
e
inizi
del
Quattrocento;
quindi, con regolare dittongamento di O tonica, buòi.
stesso secolo.
li fenomeno della chit;sura in iato non si produce nella é tonica presente nelle forme di imperfetto senza la v dei verbi di seconda coniugazione (avea, temea, tenea, vedea), fonne frequenti soprattutto nella lingua della tradizione poetica. Come mai, pur essen docene le condizioni, con queste voci verbali non si è avuta la chiusura della e in iato? Perché forme simili si sarebbero confuse con le forme di imperfetto senza v dei verbi di terza coniugazione: untia, udia, venia, ecc. La chiusura in iato non si produce neppure, come è naturale, nei latinismi, che non subiscono mutamenti in generale. Sicché nomi propri come Andrea (da ANORl",S) o Barto lomeo (da BARTHOLOM�US), in cui non si è avuta chiusura della � tonica in iato, tradiscono la loro provenienza dotta: evidentemente essi non hanno avuto un'origine popolare (al trimenti oggi diremmo *Andria e *Bartolomio), ma hanno sentito l'influsso del latino eco clesiastico.
In altre parole il passaggio di e protonica a i non si è avuto affatto: C�REBEllU(M) ha dato cervello, non *cirvello, FEBRUARlU(M) ha dato febbrazo, non */ibbraio, vtNENU(M) ha dato veleno, non *vileno, ecc.
3.5. Chlusura della e protonica in i In posizione protonica (cioè prima della sillaba accentata) una e chiusa [el (che può provenire, come sappiamo, da E, E, T e AE atoni del latino volga-
I
In altre parole ancora, a una fase in cui la e protonica si è chiusa in i ne è seguita un'altra, in età rinascimentale, in cui al posto della i si è avuta nuova mente la e per un processo di rilatinizzazione:
DELlcATU(M)
forma rilatinizzata
forma antica
base latina >
dilicato
>
delicato
In alcuni derivati la mancata chiusura di e protonica in i si spiega per l'influsso della parola base, in cui la e non è protonica, e quindi non passa a i. Così, è probabile che i? fedele,festivo, peloso, telaio « FIDELE(M), FES'flVU(M). P!L6SU(M), TELARlU(M)) la e protonl· ca non sia passata a i per influsso delle parole base fede, fesla, pelo. tela « FToE(M), ffiSTA(M), pTLU(M), TELA(M», in cui la e è tonica. Allo stesso modo, in peggiore « p�16RE(M» la mancata chiusura in *piggiore si spiega per l'influsso di peggio « Pi!IUS).
64
CAPITOLO 3
I MUTAMENTI FONETICI
n meccanismo dell'analogia spiega anche la mancata chiusura di e protonica in i in alcune forme verbali, come per esempio beveva « BYsEBA(T». che avrebbe potuto dare *biveva, oppure fermare « FIRMARE), che avrebbe potuto dare */irmare, legare « LIGARE), che avrebbe potuto dare -/
65
Poiché hanno una scarsa consistenza fonica, questi monosillabi con e perdono la loro accentazione, che si concentra sulla parola che segue: così, nella realizzazione concreta della frase, la e che li caratterizza si presenta come una e protonica, e si chiude in i: de notte>di notte en casa>in casa me chiama>mi chiama. te vede>ti vede se lava>si lava
Questo tipo di proronia, che riguarda una vocale non all'interno di pa rola ma all'interno di frase, si chiama protonia sintattica. Essa ha riguardato molte altre parole monosillabiche.
Chiusura di e in pratania sin/attica
-------=---�-- �---�
li fenomeno della chiusura di e protonica è stato invece uniforme e ge nerale nei monosillabi con e, nei quali la e si è presentata in posizione proto nica non all'interno di parola, ma all'interno di frase. In parole come DE e IN (preposizioni), ME, TE, SE (accusativi dei pronomi personali latini di 1', 2' e 3' persona) la E o la l latina hanno dato regolarmente una
é:
DE>de IN>en ME>me TE>te SE>se
Queste parole monosillabiche normalmente non si usavano da sole, ma ne precedevano un'altra: DE N6cTE >de notte
IN CASA > en casa ME CLAMAT>me chiama
TE VIDET> te vede SE LAVAT > se lava
3.6. Chlusura della o protonica in u In posizione protonica una o chiusa [o] (che può provenire, come sap piamo, da 6, O, O e AU atoni del latino volgare) in qualche caso si è chiusa in u. Così, dalla base latina 6CCÌDO in italiano si è avuto occido e poi, per chiusu
ra della o protonica in u, uccido; dalla base latina AUDlRE si è avuto adire e poi, per chiusura della o protonica in u, udire.
A proposito del verbo udire: come si spiega l'alternanza fra o e u che ca ratterizza alcune voci del suo paradigma: odo, odi, ode, odono / udiamo, udi te?
Le voci elencate derivano dalle basi latine o latino-volgari AUDIO, AUDIS, AUDIT, AUDIUNT / AUDIAMUS, AUDlTlS. In esse il dittongo AU si è sempre monot
tongato in una o. Questa o è risultata tonica (e dunque aperta) in odo, odi, ode, odono; è risultata protonica in udiamo e udite: da AUDIAMUS e AUDITIS si
sono avute dapprima le forme odiamo e adite; successivamente in esse la o proronica si è chiusa in u, producendo udiamo e udite. Citiamo adesso qualche altro esempio di chiusura di o protonica in u:
66
I
I MUTAMENTI FONrncl
CAPITOLO 3
BOT�UU(M) > bodello > budello COCINA(M) > cocino > cucina PèiURE > polire > pulire UNCINU(M) > oncino > uncino
I
La chiusura della o protonica in u, ben lungi dall'essere sistematica, è ancor meno diffusa della chiusura della e protonica in i. In molte parole, infaui, il fenomeno llan si è prodotto (per esempio, dalla base latina AURl'c(U)LA(M) abbiamo avuto orecchia, non *urecchia); in altre parole la forma con chiusura della o protonica in u si è alternata e tal volta continua ad alternarsi con la forma senza chiusura (*MClLINT1(M) ha dato molino e mulino, 6BOEDIRE ha dato obbedire e ubbidire, CluvA(M) ha dalO oliva e uliva, OLIvO (M) ha dato olivo e ulivo), talvolta, infIDe, il dittongo AU in posizione protonica non ha prodo[[o una o (né, conseguentemente, una u), ma si è rido[[o ad A: così, per esempio, dal latino AUGÙSTO (M) in italiano abbiamo avuto agosto.
3.7. Chiusura di e postonica in sillaba non ftnale Anche la ti postonica (cioè successiva alla sillaba accentata), come la
Molte parole uscenti in -ine: (HI)RUND1NE(M) > rondene > rondine ORD1NE(M) > ordene > ordine Come si è detto, e come risulta dagli esempi addotti, la e postonica che subisce chiu sura in i proviene da l atooa latina. Quando la e postonica è-il risultato della trasformazio ne di � atona latina, allora tende a mantenersi: così, dalla base latina ilmRA(M) in italiano si è avuto lettera, non *lettira; da SUB�RE(M), con cambiamento di declinazione, si è avuto sughero, non *sughiro; e nei verbi italiani derivati da quelli uscenti in -�RE, appartenenti alla terza coniugazione latina, la e protonica si è mantenuta, senza chiudersi in i: da L�G�RE si è avuto leggere, non *legg,ire; da PERDERE si è avuto perdere, non *perdire; da vfvtRE si è avuto vivere, non *vivire, ecc. Contrasta con questa tendenza la fonna émpito, proveniente da IMPETU(M). Mette conto ricordare che una e chiusa [e], oltre che da I e da � atone, può anche provenire da una E atona latina. Ma una E postonica non in sillaba finale non potrebbe esistere in latino: in base alla «legge della penultima», la sua durata lunga la renderebbe automaticamente una vocale tonica, come in FIoELE(M) > ledéle, PINÈTU(M) > pinéto (con cambiamento di genere), SECRETU(M) > regréto, ecc.
e
i. A differenza della chiusura di e protonica, che rapo presenta soltanto una tendenza, la chiusura di e postonica è un fenomeno generale, con due importanti limitazioni:'la e postonica che subisce chiusura in i proviene da l (non da E), e non appartiene mai alla sillaba finale di una
atona ( = priva di accento), protonica
parola, ma sempre a una sillaba interna, sicché il fenomeno può verificarsi
postonica
soltanto in parole di almeno tre sillabe. Così, per esempio, dalla base latina
vocale (o sillaba) intertonica, cioè posta tra l 'accento secondario e l'accento
protonica, si chiude in
_
67
3.8. Passaggio di ar intertonico e protonico a er Finora abbiamo parlato di vocale (o sillaba) !onica ( = sotto accento),
(
=
(
=
che precede la sillaba accentata),
che segue la sillaba accentata). Introduciamo ora il concetto di
OOMlNIcA(M) si è avuta prima la forma domeneca e poi, con chiusura di e po·
principale. Le parole di quattro O più sillabe non hanno un solo accento, ma
stonica in i, domenica.
due: l accento principale (su cui si concentra il massimo dell'energia artico·
Altri esempi:
latoria) e l'accento secondario (su cui si concentra una parte dell'energia aro
'
ticolatoria). Per fare qualche esempio tratto dall'italiano, si faccia attenzione
CIMfcE(M) > cimece > cimice H6MYNES > uomeni > uomini FEMfNA(M) > femmena > femmina L�vrTU(M) > lieveto > lievito MASTrCE(M) > mastece > mastice uNfcu(M) > uneco > unico Molte parole uscenti in -ile: FAC1LE(M) > facele > facile GRAC1LE(M) > gracele > gracile
alla pronuncia delle parole che seguono (la sillaba su cui cade l'accento prin. cipale è sottolineata due volte, la sillaba su cui cade l'accento secondario è sottolineata una volta): J!ttenzigne prlncip�le r!!gguardtvole t!;.ntatj"vo
Lo stesso accadeva nelle parole latine di più di tre sillabe: Pi;.REGI\U'IUS,
Pi1.RMAN�RE, Stp�RE, ecc.
68
CAPITOLO 3
I MUTAMENTI FONETICI
In alcune di queste parole, determinate vocali o determinati gruppi fo nici posti tra l'accento secondario e l'accento principale (detti, per l'appun
69
intertonico, che in fiorentino (e dunque in italiano) hanno subito il caratteri stico passaggio ar > er.
to, intertonici) hanno subito deUe trasformazioni. QueUa di cui ci occupere mo ora riguarda il gruppo latino ar: nel fiorentino, in posizione intertonica,
CANTARE (H)A(BE)O > CANTARE *AO > cantarò > canterò
il gruppo ar è passato a ero Così, per esempio, dalla base latina COMPARARE si è
(con passaggio di ar intertonico a er)
avuto cgmparg,re e poi, in fiorentino, comperare; allo stesso modo, da
CANTARE *(H)E(BU)r > CANTARE *EI > cantarei > canterei
MARGARlTA(M) si è avuto prima m!!.rgaTita, poi ar intertonico è passato a er e
(con passaggio di ar intertonico a er)
ha dato margherita, Passa a er non solo ar intertonico, ma anche ar protonico, cioè prece
Il passaggio di ar intertonico e protonico a er ha interessato, di fatto, sol tanto il fiorentino antico; si è esteso ai dialetti toscani occidentali (pratese,
dente la sillaba accentata_ Il fenomeno si è verificato: nelle parole con la caratteristica uscita -erla: frutteria, macelleria, pe
pistoiese, lucchese e pisano) solo per alcune forme del futuro e del condizio
scheria ecc. TI suffisso -e'là è la trasformazione di -arla, proveniente dal suf
nale dei verbi di .prima coniugazione. Anche per la limitatezza deU' area in
fisso latino -ARIA, con spostamento deU'accento sulla i per influsso del suffis
cui si è prodotto, il fenomeno si è indebolito nel corso del tempo. Il gruppo or si è mantenuto in sigaretta e nel meridionalismo mOU!lrella; inoltre, nel l'italiano di oggi si sono imposte alcune forme con ar intertonico originarie delle parlate di Roma, Milano o altri centri: sono tali acquarello e casareccio
•
so greco -là (queUo che si registra in chirurgìa, dal gr. cheirurghìa; jantasìa, dal gr.jantasìa;/ilantropìa, dal gr. filanthropìa, ecc.). Daf r!:f.ttarf: à , macs:}larjp, .
p'l.scarf: à si sono avute, per passaggio di ar intertonico a er,/mttertà, macelle
(che si sono imposti su acquerello e casereccio), bustarella, pennarello e spo
da, pescherlà; •
con il suffisso -arello (derivato da -ARELLUS, incrocio fra -ARIus e
-ELLUS), che è passato a -erello:
gliarello (che non hanno conosciuto la concorrenza di busterella, pennerello e spoglierello).
fattarello > fatterello, vecchiarello > vecchierello 3.9. LabiaUzzazione della vocale protonica •
con il suffisso -areccio (derivato da -AJUCEUS, incrocio fra -AJUUS e
-TcEUS), che è passato a -ereccio: boscareccio > boschereccio, /estareccio > festereccio, vl/Iareccio > villereccio TI caso più importante di passaggio di ar protonico a er riguarda le fOrtOe del futuro e del condizionale dei verbi di prima coniugazione: canterò, cante
rai, canterà, ecc.; canterei, canteresti, canterebbe ecc. Nel cap. IV,
In alcune parole una [el e una [il protoniche seguite (e più raramente precedute) da una consonante labiale (le occlusive labiali sorda e sonora [pl
§§ 13.6 e
13.7 è illustrata in dett�glio la complessa formazione del futuro e del condi
zionale italiani. Qui basti dire che dall'unione deU'infinito con le forme ri dotte del presente del verbo HABERE per il futuro, e con le forme del perfetto deUo stesso verbo per il condizionale, si generano deUe voci verbali con ar
e [bl; le labiodentali sorda e sonora [E] e [vl; la nasale labiale [ml) sono state attratte nell'orbita articolatoria di questa consonante e si sono trasformate nelle vocali o oppure u . Si dice che si sono lahializzate perché le vocali o e u, oltre che velari, possono essere considerate anche labiali, in quanto vengono articolate con uno spostamento in avanti deUe labbra. Per esempio, daUa base latina DEBERE si è avuto prima devere (con spirantizzazione deU'occlusi va labiale intervocalica [bl: il fenomeno è descritto nel
§ 4.5);
successiva
mente la e protonica di devere, attratta neU'orbita articolatoria deUa labio dentale sonora [vl, si è labializzata in O. Di seguito si dà qualche altro esem pio di labializzazione di e e di i protoniche:
-
I MUTAMENTI FONETICI
CAPITOLO 3
70
DE MANE> demani> dimani> domani DEMANDARE> demandare> dimandare> domandare *SrMIUARE> semegliare > simigliare> somigliare AEQUALE(M)> eguale> uguale
[5] Di che donna Brunetta essendo turbata, gli disse: ,dn fé di Dio, se tu non la mi dai, tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia», e in brieve le parole furon molte; alla fine Chichibio, per non crucciar la sua donna, spiccata l'una delle cosce alla gru, gliele � (da G. Boccaccio, Decame ron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 1987, pp. 730-732),
EBIDACU(M)> ebriaco > ubriaco
òFFlcINA(M) > fecina> fucina
71
a.
In apertura [I] troviamo il nome proprio di persona Currado: esso
deriva da CONRADUS o CORRADUS, adattamento latino del nome proprio ger manico Kuonrat (dall'aggettivo *koni- 'audace', 'ardimentoso' e *radha
ID
----&��----�VAL PI٠LA PRATICA DELLA GRAMMATICA
Ifenomeni del vocalismo nella lingua di una novella del «Decameron» di G. Boccaccio Lo studio della grammatica storica rende più agevole e interessante la lettura dei testi italiani antichi. Prendiamo in considerazione, a titolo d'esempio, l'inizio di una famosa novella del Decameron, la quarta della se sta giornata, che ha per protagonista il giovane Chichibìo:
[1] Currado Gianfigliazzi, sì�9�e ciascuna di voi e udito e veduto � avere, sempre della nostra città è stato notabile cittadino, liberale e magnifico, e vita cavalleresca tenendo continuamente in cani e in uccelli ' s'è dilettato, le sue opere maggiori al presente lasciando stare. [2] Il quale con un suo falcone avendo un dì presso a Peretola una gru ammazzata, trovandola grassa e giovane, quella mandò a un suo buon cuoco, il quale era chiamato Chichibio e era vmiziano; e sì gli mandò dicendo che a cena l'arrostisse e governassela bene. Chichibio, il quale come nuovo bergolo [= chiacchiero ne,fatuo] era così pareva, acconcia la gru, la mise a fuoco e con sollecitudine a � la cominciò. [3] La quale essendo già presso che cotta e grandissimo odar venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la quale Brunetta era chiamata e di cui Chichibio era forte inna morato, entrÒ nella cucina, e sentendo l'odor della gru e veggendola pregò caramente Chichibio che ne le desse una coscia. [4] Chichibio le rispose cantando e disse: ,
'consiglio', 'assemble": Kuonrat significa, dunque, 'audace nel dare consi gli') . Dalla base latina CONRADUS o CORRADUS in italiano si è avuto Corrado. La forma Currado qui documentata, normale nel fiorentino antico, è dovuta alla chiusura di o protonica in u (§ 3.6), lo stesso fenomeno che si registra nel participio passato udito «
odito < AUDlTU(M) [1]) e nella parola cucina [3],
proveniente dal latino tardo CÒCINA(M).
b, Parallelo a quello della chiusura di o protonica in u è il fenomeno della chiusura di e protonica in i
(§ 3,5)
che si registra in vinizùmo [2]. Il
nome di Venezia è una parola dotta: continua la forma del latino classico
VENETIA senza trasformarla. Ma in molte parlate d'Italia (compresa, ovvia mente, quella di Venezia) la città è indicata con parole popolari, come per esempio Veniesa e Vegnesia, A Firenze e in Toscana si afferma il tipo Vinegia « VENETIA(M)), in cui la e della prima sillaba si chiude in i per protonia. Lo stesso fenomeno si verifica nell'aggettivo viniziano k VENETIANU(M)), carat teristic<;, del fiorentino antico: in questo caso le e protoniche sono due, e si chiudono in i entrambe. --c, Puote [I] è la forma più antica della terza persona singolare del pre sente indicativo di potere; rappresenta l'antecedente della forma moderna può. Dalla base latino-volgare *POTET (nella quale -T finale latina, come di consueto, è caduta, come si vedrà nel § 4.1) si è avuta la forma puote, con dittongamento di o tonica in sillaba libera (§ 3.2). In seguito la sillaba finale -te è caduta per il fenomeno dell'apocope, che sarà analizzato e descritto nel § 5 8. d. Il dittongamento toscano è rappresentato anche in buon « BÒNU(M) [2] ), in cuoco k COCU(M) [2] ) , in nuovo « NOVU(M) [2]), infuoco « FOCU(M) [2]) e in cuocere « " COCERE [2]): come si può vedere, in tutte queste basi
/
i l
;
72
CAPnolO 3
I MUTAMENTI FONETlCI
latine la o tonica è in sillaba libera. TI dittongamento manca, invece, in cotta
« COCTA(M) [3]), perché in questo caso o tonica non è in sillaba libera, ma in sillaba implicata; e manca in opere « OPERA(S) [I]), che è una patola propa Nssitona. e.
In brieve « BREVE(M) [5]) e in diede « D�DrT [5]) il dittongamento
73
.... Assimilazione consonantica L'assimilazione consonantica regressiva
0,
più semplicemente. assimi
lazione regressiva è il fenomeno per cui, in un nesso di due consonanti diffi cile da pronunciare, la seconda consonante assimila
( = rende uguale) a sé la
interessa la � tonica in sillaba libera; in particolare la forma bn'eve, che dopo
prima, trasformando la sequenza di due consonanti diverse in un'unica con
il Trecento sarebbe stata sostituita da breve, con riduzione del dittongo iè,
sonante doppia. Ecco una lista delle sequenze consonantiche latine in cui si
documenta una fase molto antica della lingua.
detennina un'assimilazione regressiva, ciascuna accompagnata da un paio di
j
Chiudiamo questa panoramica su alcuni aspetti del vocalismo ricor
dando che nelle forme dell' aggettivo possessivo suo, sua «
esempi:
SUU(M), SUA(M» è FlXARE > fissare, SAXU ( M) > sasso Drcru(M) > della, PACru(M) > palla -DV- ADVENfRE > avvenire, ADVlSARE > avvisare -MN- DAMNUM > danno, S6MNUM > sonno -ps- SCRlPSI > scrissi, fPSU(M) > esso -1'1'- APTU(M) > alla, SCRlPTU(M) > scritto
presentè la chiusura della vocale tonica in iato (§ 3.4).
-cs-
-CT-
4. FENOMENI DEL CONSONANTISMO .... Consonanti conservate
In alcune parole, la sequenza consonantica -cs- (resa graficamente con la x: si tenga conto del fatto che, per rendere il nesso [ks], scrivere x o scrive
Varie consonanti del latino si mantengono inalterate quando passano in italiano, sia in posizione iniziale sia all'interno di parola. In questo modo si
re es è assolutamente la stessa cosa) non ha prodotto una sibilante intensa, ma una sibilante palatale intensa: -cs- > un . Per esempio:
comportano, in particolare, la D, la M, la N, la L, la R e la F. Qualche esempio per ciascuno di questi fonemi, sia in posizione iniziale sia in posizione in
AJULLA > ascella MAXl'LLA > mascella CÒXA > coscia LAXA.RE > lasciare
terna:
per D: DARE > dare, CAUDA > coda; per M: MAN(l(M) > manum, TIMORE(M) > timore; per N: NrVE(M) > neve, PANE(M) > pane; per L: LfNTO(M) > lento, MULU(M) > mulo; per R: ROTA (M) > ruota, CARO (M) > caro; per F: liCTO(M) > fitto; BUFALO(M) > bufalo (si tenga presente, però, che [f] intervocalica non è originaria del larino, ma propria dei prestiti provenien ti da altre lingue).
Mentre il fiorentino (e dunque l'italiano) ha conosciuto solo l'assimila zione regressiva, nei dialetti dell'Italia centromeridionale si ha anche l' assi
milazione consonantica progressiva. In questo caso, è la prima consonante che assimila a sé la seconda: è il fenomeno (già segnalato in cap.
l , § 2)
per
cui, nei dialetti centromeridionali, il nesso latino -ND- viene realizzato come
nn , e il nesso latino -MB- viene realizzato come
-
I
-
MUNDU(M) > romanesco manna PLl1MBU(M) > romanesco piommo.
-mm<
74
I MUTAMENTI FONETICI
CAPIlOLO 3
4.1. Caduta di consonanti finali
Nelle parole latine, tre consonanti ricorrevano con particolare frequen· za in posizione ftnale: la 'M (che era, fra l'altro, la desinenza tipica dell'accu· sativo singolare: ANCILLAM, LUPUM, VALLEM, FIDEM, ecc.), la 'T (che era, fra l'al· tra, l'uscita caratteristica della terza persona verbale, singolare e plurale: LAUDA!, LAUDANI, DlCEBA!, DlCEBANI, VIVA!, VIVANI, ecc.) e la ·s (che era, tra l'altro, l'uscita caratteristica dell'accusativo plurale dei nomi: ANCILLA:;, HO· MINE:;, VALLE:;, ecc.). Ebbene, nel latino parlato sia la ·M sia la ·T finale caddero molto presto. La caduta di ·M è documentata in iscrizioni che risalgono a qualche secolo prima di Cristo, mentre la caduta di .T è documentata in alcuni graffiti ritro· vati a Pompei, distrurta, come è noto, nel 79 d.C. dalla terribile eruzione del Vesuvio. Poiché è impossibile che una scritta muraria si conservi a lungo, dobbiamo credere che tali graffiti risalgano a poco prima del 79 d.C.: sicché possiamo concludere che la caduta di ·1' risale almeno al I secolo d.C. La ·s finale, invece, o non è caduta O non è caduta immediatanlente, pro· ducendo invece varie trasformazioni. In particolare, a) nei monosillabi, cioè nelle parole di una sola sillaba, ·s finale: in alcu· ni casi si è palatalizzata, cioè si è trasformata nella vocale palatale i: es. NOS > noi, vos > voi (cap. IV, § 8); in altri casi si è assimilata alla consonante iniziale della parola successiva (è il fenomeno del raddoppiamento fonosintattico, analizzato e descritto più avanti nel § 5.9): TRES CAPRAS > Ire capre (pronuncia [trek'kapre]t; b) nei polisillabi, cioè nelle parole di più sillabe, ·s finale, prima di ca· dere, ha palatalizzato la vocale precedente, cioè l'ha trasformata aumentano done il grado di palatalità: per tornare all'esempio precedente, nella parola latina CAPRAS la ·S finale ha trasformato la A che la precedeva in una E: infatti, come risulta dal triangolo vocalico (cap. II, § 5), la E ha un coefficiente di palatalità maggiore rispetto alla A (il fenomeno della palatalizzazione dovuta a ·s finale è trattato anche nel cap. IV, §§ 6 e 8).
7S
4.2. Palatalizzazione dell'occlusiva velare
Il fenomeno che qui si descrive è molto antico, e interessò la pronuncia del latino fin dal V secolo d.C. Originariamente la pronuncia della velare sorda [kl e della velare sonora [gl era tale indipendentemente dalla vocale che seguiva: parole come CASA, CORDA, CURA, CALLUS, FICO, COLA (in cui [kl e [gl erano seguite da A, O e u) si pronunciavano ['kasa], ['brdal, ['kural, ['gallusl ['figol, ['guJal, esattamente come MAC�RARE, clLIÙM, CELU, LECIT (in cui [kl e [gl erano seguite da E e I) si pronunciavano [make'rarel, ['ki!juml, ['gelul, ['legitl Nel latino tardo, però, davanti alle vocali e e i, le velari [kl e [gl si sono palatalizzate in [tIl e in [d3l: attratte nell'orbita articolatoria della e e della i vocali palatali, si sono trasformate in affricate palatali, rispettivamente sord e sonora. Così, a partire dal V secolo d.C., la pronuncia di parole come MACERARE, CTUOM, CELU, CINCIVA si è modificata, ed è diventata [matIe'rarel, ['tJiljuml, ['d3elul, [d3in' d3ival Nel passaggio dal latino in italiano, il processo di palatalizzazione da· vanti a E e a I ha interessato la velare sorda [kl in posizione sia iniziale (CIglio) sia interna (macerare) e la velare sonora [gl in posizione iniziale (gelo). In posizione interna la velare sonora, dopo essersi palatalizzata; -ha subito un'ulteriore trasformazione, e in alcuni casi si è intensificata (come in LEGrr > legge), in altri si è dileguata perché assorbita da una I successiva, detta omorganica perché pronunciata con gli stessi organi articolatori della con. sonante precedente (in entrambi i casi si tratta di foni palatali). Per esempio, dalla base latina SACIITA(M), alla palatalizzazione della velare ( [sa'd3itta)) è seguito il suo dileguo, che ha prodorto SAlITA e poi saella, con regolare tra. sformazione della 1 tonica in e chiusa [el.
;
4.3. Trattamento di iod iniziale e interno
Quale che fosse la vocale successiva, lo iod [j) si è trasfornlato in un'af· fricata palatale sonora Idy' in posizione iniziale e in un'affricata palatale so nora intensa Iddy' in posizione intervocalica. Qualche esempio: lACERE >
76
(APrroLO 3
giacere, IO(H)ANNE(S) > Giovanni, lOCARE > giocare; MAIO(S) > maggio, PEIORE(M) > peggiore, *SCARAFAlU(M) > scarafaggio.
I MUTAMENTI FONEllCI
77
latino classico, ma si è formata nel passaggio dal latino volgare all'italiano: cuore deriva dal latino volgare *CORE, qui deriva dal latino tardo (i'.C)CU(M) (H)IC, qua deriva da (EC)CU(M) (H)AC, queslo e quello (come si spiega in detta
4.4. LabioveIare
Indichiamo con il termine labiovelare un fonema costituito da una vela re (sorda o sonora: [kl e [gl) seguita da una u semiconsonantica [wl . Questo secondo fono viene prodotto con una spinta in avanti delle labbra, e questo spiega perché il fonema di cui ci stiamo occupando si chiami Iabiovelare. Se la velare di cui si compone il nesso è sorda, allora si parla di labiovela re sorda (è il fonema [kwl che si registra in parole come cuore, quale, questo, quota, ecc.); se la velare di cui si compone il nesso è sonora, allora si parla di labiovelare sonora (è il fonema [gwl che si registra in parole come guardare, guerra, guida ecc.). Nel latino classico la labiovelare sorda poteva trovarsi sia aU'inizio (QUI, QUALIS) sia all'interno di parola (AEQUITAS, LIQUOR), mentre la labiovelare so
nora era solo interna (ANGUILLA, LINGUA). Una parola italiana che inizi per la biovelare sonora non è, infatti, di origine latina, ma germanica: è il caso, ad esempio, deHe-voci già citate guardare, guerra, guida, provenienti dalle basi germaniche wardon, *werra, *wtda. L a labiovelare sonora iniziale s i trova nei succedanei italiani d i due parole latine ini zianti per v: guado, proveniente da VADìJ(M), e guaìna, proveniente da VAGiNA(M). Questo particolare trattamento dclla v è detto germaniuazione secondaria: la V iniziale latina è stata trattata come la w iniziale germanica per analogia.
In una parola italiana, la labiovelare sorda può essere di due tipi: prima ria e secondaria. Si dice primaria la labiovelare che già esisteva in latino, e secondaria quella che, non esistendo in latino, si è prodotta nel passaggio dal latino volgare all'italiano. Per fare qualche esempio, la labiovelare sorda che s'incontra in parole come quale, quando, quattro, acqua è primaria, perché presente neUe basi latine da cui queste parole derivano (QUALE(M), QUANDO, QUATTUOR, AQUA(M)); viceversa, la labiovelare sorda che si registra in parole
come cuore, qui, qua, questo e quello è secondaria, perché non esisteva nel
glio nel cap. IV, § lO) derivano da (ilC)CO(M) ISTu(M) e (i'.C)CU(M) ILLO(M): come si può vedere, nelle forme di base non c'è labiovelare, formatasi in se guito all'incontro di ECCUM con altre parole. Qual è il trattamento deUa labiovelare primaria nel passaggio all'ita_ liano? Se è seguita da una A, la labiovelare in posizione iniziale si conserva, in posizione intervocalica si conserva e rafforza la componente velare: così, da QUALE(M), QUANDO, QUATTUOR abbiamo avuto quale, quando, quattro, mentre da AQUA(M) abbiamo avuto acqua. Se è seguita da una vocale diversa da A, la labiovelare perde la compo nente labiale [wl e si riduce alla velare semplice [k]: così, nelle basi latine QUID, QUOMO(DO) �T, QUAE�RE la labiovelare primaria si è ridotta a velare
semplice, dando luogo alle forme che, come, chiedere. · La labiovelare secondaria, invece, si mantiene intatta, quale che sia la vocale che la segue: [kwl secondaria presente nelle già citate forme qui, que slo e quello, pur essendo seguita da vocale diversa da A, non si è ridotta a velare (producendo chi, chesto e chello), ma si è conservata. Questo, petò, vale per il fiorentino, e dunque per l'italiano; in aree dialettali diverse anche la labiovelare secondaria si è ridotta talvolta a velare semplice, come dimo strano voci meridionali come chesla 'questa' e chilli 'quelli' o una voce mila nese come chi 'qui'. _
La labiovelare sonora interna si mantiene in tutti i contesti, come dimo
strano le voci già citate anguilla (in cui [gwl è seguita da
l) e lingua (in cui
[gwl è seguita da A). La [gwl interna può aversi anche per sonorizzazione della corrispondente sorda intervocalica [kwl (del fenomeno deUa sonoriz zazione delle consonanti intervocaliche si parla nel § 4.6): per esempio, dalla base latina AEQUA LE(M) si è avuto equale; in seguito la componente velare deUa labiovelare sorda si è sonorizzata, producendo la forma eguale / iguale, poi mutatasi in uguale per assimilazione vocalica regressiva.
78
I MUTAMENTI FONETICI
CAPITOLO 3
4.5. Spirantizzazione della Iabiale sonora intervocalica
rn posizione iniziale o dopo consonante la B latina si è conservata (BAStU(M) > bacio, CARBONE(M) > carbone); seguita da R è diventata intensa
79
La B intervocalica si è mantenuta nei latinisnll (come per esempio abile < (H)ABTLE(M). abito < (H) ABiru (M) , rubito < sOBfTO) e nei germanismi (come per esempio roba < germ. MUBA e rubare < germ. RAUOON): od primo caso il m� te��ento di -B- si spiega perché, come sappiamo, i Iatinismi ?o� subiscono t�asformazloru eli sorta; quanto . . germanica sono entrate nd launo al secondo, evidentemente quelle parole eli ongme vol gare quando il fenomeno della spirantizzazione della -B- non era più attivo.
(FABRU(M) > fabbro, F�BRE(M) > febbre); infine, in posizione intervocalica la B si è trasformata in una labiodentale sonora [vl , passando così dalla classe delle consonanti occlusive a quella delle costrittive o spiranti (donde il nome di spirantizzazione dato a questo processo): DEBERE > dovere (con labializza· zione della e protonica in a), FABA(M) >fava, FABULA(M) > favola. il passaggio della bilabiale sonora dalla classe delle ocelusive a quella delle costritti ve ha origini molto antiche; nei primi secoli dell'era volgare, però, la costrittiva prove nieme dall'ccelusiva bilabiale non fu la labiodentale v, ma una bilabiale, che nella trascri zione fonetica rendiamo come [P]. Questo fonema è sconosciuto all'italiano, ma è ben documentato altrove: è il suono costrittivo bilabiale che si registra in parole dello spagno lo come caballo, cabe1.t1, cabellor. È accaduto questo: dapprima, in tutta l'area romanza, l'ocelusiva bilabiale sonora latina B si è trasformata in una costrittiva bilabiale sonora [�]; successivamente, in alcune parti della Romània (compresa, per quel che ci riguarda, la Toscana), si è avuta un'uhe riore evoluzione: i parlanti hanno modificato il luogo di articolazione, trasformando la costrittiva bilabiale nella costrittiva labiodentale sonora v. n fenomeno può essere rap presentato attraverso i seguenti passaggi:
4.6. Sonorizzazione delle consonanti
Definiamo sonorizzazione il processo di indebolimento articolatorio per il quale una consonante sorda si trasforma nella sonora corrispondente: [p] > [bl, [kl > [gl, [tl > [dl. In tutta l'area romanza occidentale, compresa l'Italia settentrionale, le occlusive sorde latine P, C (seguita da A, o, U), T, in posizione intervocalica e intersonantica (cioè tra vocale e R), si sono trasformate nelle sonore corri spondenti: [bl, [gl, [dl. Per la labiale in particolare, alla sonorizzazione ha fatto seguito la spirantizzazione in [ vl (§ 4.5). Qualche esempio tratto da lingue e dialerti dell'area nord-occidentale indicata:
DEBERE > def3ere > devere > dovere FABA(M) > faf3a > fava FABDLA(M) > faf301a > favola
CAPrLLO(M), CAPrLLl > spagn. e p ort . cabella, fran e. cheveu, ligure cavèli, 10mb. cavèi , venez. cavéi AMICO(M) > spagn., porto e ligure amlgp R6TA(M) > 10mb. roda, venez. roda, spagn. rueda
In sostanza, si è avuto un progressivo indebolimento del suono origina. rio.· In qualche caso, tale indebolimento è arrivato fino al dileguo della v. Così, ad esempio, nell'imperfetto dei verbi di seconda e terza coniugazione, accanto aUe forme in -eva, -evano e in -iva, -ivano, in cui la spirantizzazione
Come si può vedere, in merito
a
questo fenomeno i dialetti dell'Italia
settentrionale si comportano come le lingue dell'Europa occidentale. La so· norizzazione dell' occlusiva intervocalica e intersonantica è invece scono
dell'occlusiva bilabiale sonora latina ha prodotto la labiodentale sonora [v] (p. es. vl'DEBAT, VIDEBANT >
senti
sciuta alle parlate dell'Italia mediana (cioè l'Italia centrale esclusa la Tosca·
va, sentivano), si sono avute le forme in -ea, �eano e in -ia. -iano (p. es. vedea, vedeano e sentia, sentiano), diventate poi caratteristiche della lingua della
« LACU(M» , spica « SpfCA(M), ma/re « MATRE(M» . La Toscana, infine, si colloca in una posizione intennedia fra le zone in cui la sonorizzazione è ge
tradizione poetica: in questi casi la labiodentale sonora intervocalica [vl si è indebolita fino a scomparire.
na)
c
meridionale, dove si registrano forme come aco «
ACU(M» , Iaea
nerale e le zone in cui essa non si produce: in Toscana, infatti, la sonorizza· zione della velare intervocalica e intersonantica [kl ha interessato grosso modo la metà degli esempi utili, la sonor�zzazione (e successiva spirantizza·
80
. CAPITOLO 3
I MUTAMENTI FONETICI
81
zione) della labiale [pl e la sonorizzazione della dentale [tl hanno interessa to un po' meno della metà degli esempi utili. Questo spiega perché in italia
sora, tosare, usignolo, uso, vaso, visitare, viso; nelle forme verbali divisi, divi so,fusi,/uso (e composti: confusi, infUSI) , misi (e composti: commisi, permisi,
no le parole con occlusiva sorda intervocalica e intersonantica si alternano
ecc.), persuasi, persuaso, uccisi, ucciso, ecc. Nell'area romanza occidentale il processo di sonorizzazione delle con sonanti intervocaliche ha interessato anche la labiodentale sorda F, che è di
con le parole con l'occlusiva (o, per il caso della labiale, con la costrittiva) sonora. Ecco qualche esempio per ciascuna delle tipologie indicate. al) Parole in cui la lab iale si è conservata sorda: APE(M) > ape; APRlLE(M) > aprzie, CAPILLu(M) > capello, CAPRA(M) > capra, SAPORE(M) > sapore, npIDu(M) > tiepIdo
a2) Parole in cui la labiale s i è sono rizzata e successivamente spirantizzata: RICUPERARE > ricoverare, RlPA(M) > riva, *EXSEPERARE > sceverare, EPlscoPu(M) > vescovo b 1 ) Parole in cui la velare s i è conservata sorda: AMIcu(M) > amico, DIco > dico, (DIES) DOMINICA (cioè 'giorno del Signore') > domenica, FOCU(M) > fuoco, SACRU(M) > sacro, SECURU(M) > sicuro b2) Parole in cui la velare s i è sono rizzata: LACU(M) > lago, LACTiJCA(M) > lattuga, MACRU(M) > magro, SpICA(M) > spiga cl) Parole in cui la dentale s i è conservata sorda: ACUTil(M) > acuto, MARITil(M) > marito, MERCATil(M) > mercato, NUTRIRE > nutrire, SPUTil(M) > sputo
c2) Parole in c ui la dentale s i è sonorizzata: BOTELLU(M) > budello, MATRE(M) > madre, QUATERNU(M) > qu aderno, STRATA(M) > strada. Nella grande maggioranza dei casi si è sonorizzata anche la sibilante sorda del latino. 1:elenco delle parole che conservano la sorda è limitato: [sl inteIVOCallCa resiste quasi soltanto in casa, naso, così e in qualche altra voce, nonché nei suffissati in -oso come curioso,famoso, noioso, ecc. Inoltre, si ha [sl nelle voci in cui la s latina non era intervocalica, come per esempio mese «
MENSE(M)) e nelle parole con suffisso -ese, proveniente dal suffisso latino
-ENSE(M): inglese, livornese, milanese (fa eccezione la parola francese, che ha [zl: [fran'tjezel). In tutti gli altri esempi utili la pronuncia della -s- intervocalica è sonora: così in accusare, avvisare, bisogno, caso, cesoie, chiesa, isola, misura, osare, te-
venuta [v]. La labiodentale sorda F in posizione intervocalica non esisteva nelle pa· role di origine latina; si incontrava solo nei prestiti provenienti dal greco (come per esempio il nome proprio Stephanus) o dai dialetti osco-umbri (come per esempio bufalus e scrofa). Essa si è conservata in fiorentino, men tre si è sonorizzata nei dialetti del Nord. Si possono citare, a titolo d'esem pio, p rop rio i continuatori dialettali settentrionali dell'antroponimo ( = nome di persona) Stephanus: padovano antico Stievano, ligure Stèva, pie montese Stèvu, lombardo Stèven, romagnolo Stèvan. Come mai in Toscana il fenomeno della sonorizzazione non è stato generale? Secondo alcW1i studiosi, anche in questa regione la sonorizzazione della sorda inrer vocaliea sarebbe stata generale, e i casi di conservazione della sorda andrebbero spiegati come latinismi. Secondo altri, invece, in Toscana la tendenza spontanea sarebbe stata quella del mantenimento della sorda, e i vari casi di sonorizzazione andrebbero spiegati come sin· goli prestiti provenienti dai dialetti dd Nord. La prima spiegazione è inaccettabile. C-he-i-casi di conservazione della sorda m i er vocalica siano dei latinismi è difficile, dato il iaco numero elevato. Inoltre, e soprattutto, la sorda intervocalica risulta conservata in parole legate alla vita quotidiana dei contadini (bieta, capra, lumaca, lupo, ortica, ecc.) che non sono né potrebbero essere latinismi . Che la sonorizzazione deUa sorda intervocallca non sia stata, in Toscana, una ten denza spontanea, ma un fenomeno importato lo dimostra in modo inequivocabile il fatto che i toponimi (cioè i nomi di luogo), in particolare i toponimi relativi a centri piccoli e piccolissimi presentano, in posizione intervocallca, non l'ocelusiva sonora, ma la sorda. Qualche esempio: Catignano (non *Cadignano), Paterno (non Paderno, che significativa mente è un toponimo settentrionale), Prato (non *Prado), ecc. Ora, il nome di un piccolo centro, abitato da una ristretta comunità di persone, è un documento fedele della pro nuncia indigena: il nome del borgo o del paesino in cui si vive è radicato in una comunità fin dalle sue origini; è impossibile che sia preso in prestito da una parlata straniera o che possa sentire l'influsso di una corrente linguistica esterna. Assodato il fatto che la sononzzazione dell'ocelusiva sorda intervocalica fu un feno meno d'importazione, resta da chiarirne l'origine: le parole con sonorizzazione sono mol te, sicché è difficile spiegarle come prestiti entrati a uno a uno in Toscana da questa o da quella parlata de1 Nord. Piuttosto, si dovrà pensare a una pronuncia sODorizzata dell'oç elusiva sorda che in Toscana si determinò per moda, a imitazione della pronuncia setten trionale. A favorirla furono i tanti commercianti, imprenditori e artigiani che, nei primi
82
I MlITAMENTI FONETICI
CAPITOLO 3
secoli del Medioevo, scesero dall'Italia settentrionale in Toscana e nelle regioni circostan ti, Qui la pronuncia con la sonora intervocalica fu sentita come più elegante, e fu fatta propria da vasti strati della popolazione, Significativamente, il tasso più alto di parole con la sonora intervocalica si ebbe nelle province occidentali della Toscana, attraverso le quali scorrevano le vie di collegamento con l'Italia del Nord: a Pisa e a Lucca si registrano forme con la sonora come cavestTo, duga, oga, pago, TegaTe del tutto sconosciute al fioren tino, che in questi casi ha capestTo, duca, oca, poco, recaTe, Fatte le debite differenze, il fenomeno della sonorizzazione per una spinta imitativa è testimoniato anche oggi dal successo ottenuto, nel linguaggio giovanile di tutta Italia, dalla parolafi'go nel significato di 'bello', 'piacevole', 'divertente': evidentemente, la pro nuncia settentrionale (figo in luogo dell'italiano Rco) ha fatto tendenza anche in questo caso recente,
83
Poiché all'interno di parola la v latina si è confusa con la B (nel latino volgare, entrambi i foni vennero realizzati come una costrittiva bilabiale so nora [\3]: § 4.5), il nesso V] ha subito lo stesso trattamento del nesso B], dando luogo a [bbj]: così, ad esempio, da CAVEA(M) si è avuto *CAV]A (con chiusura in i della E in iato e sua realizzazione come
[j]) e quindi gabbia.
� Velare + iod
Trattamento dei nessi -K/- e
Il processo di trasformazione ha cono
-G/-.
sciuto tre fasi: •
4.7. Nessi di consonante + iod
Ricordiamo rapidamente che lo iod [j] è una i seguita da un'altra vocale: oltre che da una l latina (come in BASru(M), SIWA(M), SENIORE(M)), esso può derivare dalla chiusura in iato di una E (come per esempio in AREA(M) > *AR]A(M)). Nel passaggio dal latino all'italiano, lo [i] ha costantemente tra· sformato la consonante che lo precedeva. La trasformazione più ricorrente è stata il raddoppio della consonante
nella prima fase [i] (fono palatale) ha intaccato la velare sorcla e sono·
ra, attirandole nella sua orbita articolatoria e trasformandole, rispettivamen· te, in un'affricata palatale sorda e sonora; • nella seconda fase lo iod ha prodotto il raddoppiamento dell'affricata precedente; •
nella terza fase [j] si è dileguato dinanzi al suono palatale omorga·
mCQ,
I
II
III
stessa. Il fenomeno è molto antico: in molte iscrizioni latine risalenti al I o al
FACtO
['fakio]
>
['fa'Iio]
>
['fattljo]
II secolo d.C. sono rappresentate grafie con consonante raddoppiata davano ti a una r che precede un'altra vocale. Perlopiù si tratta di nomi propri, come per esempio AURELLIUS (in luogo del canonico AURELillS ), illLLillS (invece di ru LlVS), LlcrNNrus (invece di LlCINWS).
REGIA(M)
['rEgia]
>
['rEcl3ja]
>
['rEdd3ia] > ['rEdd3a] règgia
Il raddoppio della consonante precedente lo [i], come si è detto, è stato il cambiamento più frequente, ma non l'unico. Esaminiamo in dettaglio le varie trasformazioni che ci sono state, distinguendo consonante per conso nante, � Labiale (e labiodentale)
+
iod
Trattamento dei neHi ·P/- e -B/- (e ·VJ·). Lojha prodotto il raddoppiamen to della labiale che la precedeva: SAPIA(T) > sappia, sEPrA(M) > seppia; (H)ABEA(T) > *AB]A > abbia; RABlA(M) > rabbia.
> ['fattlo]laccio
(la E avrebbe dovuto dare e chiusa [e]; la e aperta [E] è dovuta all'influsso di REG�RE, che ha dato reggere, con [E]). ___. . _ __ -=x =
Attenti all'errore Non ci si lasci ingannare dalla presenza della i in parole come faccio o
reggia: quella i non è la rappresentazione grafica dello iod, ma una i diacriti ca, cioè un semplice espediente grafico per rappresentare la pronuncia pala. tale (e non velare) di c e G (cap. I, §
lO).
84
I MUTAMENn FONETICI
CAPITOLO 3
*CUMIN(r)nARE > cominciare *EXQUARllARE > squarciare
� Dentale + iod
Trattamento del nesso T/ TI nesso 1J in Toscana ha avuto due esiti: a) in alcune parole si è trasformato nell'affricata dentale sorda [tsl, doppia se il nesso 1J era fra due vocali (ARETIU(M) > Arezzo, PLATEA(M) > *PLA TJA > piazza, vITIu(M) > vezzo), scempia se il nesso TJ era fra consonante e vo cale (FORTIA > forza); b) in altre parole si è trasformato in una sibilante palatale sonora [31. -
-
.
Questo fono, però, non esiste nell'inventario fonematico dell'italiano stan dard. La sibilante palatale sonora [31 rappresenta l'esito galloromanzo del nesso 1J (cioè quello che si è avuto, ad esempio, nel francese). In Italia, que sto fono si adopera solo a Firenze e in Toscana (si pensi alla tipica pronuncia fiorentina e toscana della g di ragione, stagione e sim.). Poiché nella grafia questo suono si rende con gi, nella pronuncia dell'italiano ufficiale esso è stato assimilato a un altro suono reso nella grafia con gi, cioè quello dell'af fricata palatale sonora [d31: RATIONE(M) > ragione, STATlONE(M) > stagione, SERvTTIO(M) > servigio (la r tonica diventa i anziché [el per l'influsso di SERvIRE, con I tonica) . In alcune parole l a medesima base latina h a avuto due continuatori, uno in [d31 e uno in [tts): PALATIU(M) ha dato palagio (forma propria dell'italiano antico) e palazzo, PRE110(Mlh<: dato pregio e prezzo.
Attenti all'errore
*EXTRACI1ARE > stracciare
*CAPTIARE > cacciare
*COMPTIARE >
conciare
*GUlTIARE > gocciare
Gli studiosi non sono ancora riusciti a spiegare il perché di questo diverso tratta mento del nesso 1). Non si può dire che esso sia determinato dalla consonante che prece de il nesso, perché in altre parole la medesima presenza non ha impedito lo sviluppo del l'affricata alveolare [ts]: *ABAl'ff1ARE > avanzare NUPTIAS > no:v.e *SCORTEA(M) > *SCOKJ}A > SCOTlJ1
Trattamento del nesso -DJ-. Come il nesso -n-, anche il nesso -D)- in To scana ha avuto due esiti paralleli: a) in alcune parole si è trasformato nell'affricata alveolare sonora [dz), doppia se il nesso DJ era fra due vocali (M�DIU(M) > mezzo, RODIU(M) > rozzo), scempia se il nesso DJ era fra consonante e vocale (*MANDIO(M) > manzo, PRANDIU(M) > pranzo); b) in altre parole (e sono la maggioranza) si è trasformato in una affrica ta palatale sonora [d31 intensa: MODIU(M) > moggio, (H)ODIE > oggi, forse *PADIU(M) (dal greco paidion, 'ragazzetto') > paggio. Dalla medesima base latina RADIU(M) nell'italiano attuale si hanno sia razzo (con [ddz)) sia raggio (con [dd31).
Attenzione a non confondere questi casi di allotropia, in cui dalla mede sima base latina si hanno due esiti, entrambi popolari, dai casi in cui la base latina produce un allotropo dotto e uno popolare: Parola dotta Parola popolare
8S
S�RVrTIO(M) >
servizio servigio
stazione
vizzo
STATIONE(M) > vITlìi(M) > stagione vezzo
In un gruppo di verbi della prima coniugazione, tutti di formazione tarda, il nesso -1)- preceduto da una consonante non ha prodotto né un'affricata alveolare sorda [ts] né una sibilante palatale sonora C3J (o, se si vuole, un'affricata palatale sonora [d3]), ma un'affricata palatale sorda [t]]. Questo è accaduto in:
Allenti all'errore Attenzione a distinguere questo caso di allotropia, in cui dalla medesi ma base latina si hanno due esiti popolari, dai casi in cui la base latina pro duce un allotropo dotto e uno popolare: Parola dotta Parola popolare
�DIIJ(M»
medio mezzo
podio roDIO(M) >
poggio
RADIU(M»
radio raggio. ralZO
CAPITOLO 3
86
I MUTAMENTI FONETICI
� Nasale + ;od
87
� Vibrante + iod
Trattamento del nesso
-MI-.
Lo [j] ha prodotto il raddoppiamento della
nasale labiale che la precedeva: SIMlA(M) > scimmia, VINDEMIA(M) > vendem
mza. Trattamento del nesso
-NI-.
Il processo di trasformazione ha conosciuto
due fasi: • nella prima fase [j] ha prodotto il raddoppiamento della nasale prece dente, e NJ è diventato NNJ; • nella seconda fase [j] ha intaccato la nasale velare intensa, attirandola nella sua orbita articolatoria e trasformandola in una nasale palatale intensa [P]1]. Qualche esempio:
Trattamento del nesso -RI-. Nel trattamento di questo nesso c'è una note vole differenza tra la Toscana e il resto d'Italia. In Toscana la • è caduta e il nesso RJ si è ridotto a j. Questo spiega la presenza in italiano di forme come aia, cuoio, ghiaia: ARF-A(M) > *ARJA > aia CORlO(M) > cuoio GLAREA(M) > ghiaia I due suffissi -aio e -(t)oio presenti in parole come fioraio, granaio, nota io e frantoio, lavatoio sono la continuazione dei suffissi latini -ARI0M e
-ORIUM. Anche in questi casi la R del nesso RJ è caduta: I IONIO(M) > TINEA(M) > *TIN)A >
II
*]UNNJUM > giugno '1.·T(NNJA
> tigna
(attenzione: a Firenze, dalla forma intermedia /égna si passa a tigna in se guito alla chiusura di [e] tonica in i per anafonesi!) vlNEA(M) > *VIN)A >
> vigna
*VINN]A
� Laterale + ;od
Trattamento del nesso
-LI-.
Il processo di trasformazione ha conosciuto
due fasi: • nella prima fase lo [j] ha prodotto il raddoppiamento della laterale precedente, e LI è diventato LLJ;
nella seconda fase [j] ha intaccato la laterale intensa, attirandola nella sua orbita articolatoria e trasformandola in laterale palatale intensa [.(A]. Qualche esempio: •
GRANARH1(M) > granaio NOTARlU(M) > notaio LAVATORlO(M) > lavatoio
In molti dei dialetti del resto d'Italia, invece, la R si è mantenuta, e a ca dere è stato loi Alcune parole provenienti da questi dialetti, con r da R, sono state accolte in italiano, accanto o al posto delle corrispondenti voci toscane conj. Per esempio, la forma mòro 'muoio', normale nella lingua della tradi zione poetica, è voce siciliana (il che spiega il suo radicamento nella lingua della poesia): dalla base latino-volgare *MORIO in Toscana si è avuto muoio (con dittongamento di O tonica in sillaba libera e riduzione del nesso RJ aJ), mentre altrove si è avuto mòro (senza dittongamento di Q JJ1a con riduzione del nesso RJ a r). A parte il caso di mòro, fra le parole di origine non toscana con r conser vata presenti in italiano spiccano i molti suffissati in -aro, di provenienza set tentrionale (paninarol, romana (benzinaro, borgataro, palazzinaro) e meri dionale (calamaro, palombaro) . Particolarmente interessante il caso di cala
maro, proveniente dal latino tardo CALAMARlO(M), a sua volta derivato da CA I
II
FfLlA(M)
>
*FILL]A
>
FOLIA(M) MOLlE(.)
>
,'rFOLL]A
>
>
* MOLL] E
>
figlia foglia moglie
LAMUS, 'canna per scrivere'. Dalla base latina CALAMARlO(M) in Toscana si è
avuto calamaio, il vasetto in cui si teneva l'inchiostro, mentre nel Sud si è avuto calamaro, il mollusco così chiamato perché in caso di pericolo emette un liquido nero che intorbida l'acqua; oggi le due parole convivono nell'ita liano con due significati distinti.
88
CAPITOLO 3
I MUTAMENTI FONETICI
Anticamente, il plurale delle parole in -aio, anche in Toscana, era -ari e non -ai: granaio ---7 granari, notaio
---7
notari, ecc. Questa evoluzione era del
tutto regolare, perché muoveva da un nominativo plurale latino in -ARII, con successiva riduzione a una sola I delle due I finali: GRANARII > *GRANARI, NOTARII > *NOTARI. Dopo il conguaglio delle due I finali, la R non cadde più, perché non c'era più lo j a determinarne la caduta. In un secondo tempo l'uscita in -ai Vornai, nolai) , rimodellata analogi camente sulla terminazione del singolare in -aio, ha sostituito l'uscita più an tica in -ari: così, si è avuto il paradigma granaio ---7 granai, notaio ---7 notai. L'analogia ha operato in direzione opposta (dal plurale al singolare) nel la parola denaro « DENARIU(M)), nella quale il mantenimento della R non di pende da una tendenza non toscana. Originariamente DENARIU(M) ha dato regolarmente denaio (o meglio danaio) al singolare (forma documentata nei testi antichi e soprawissuta nel composto ralvadanaio, con passaggio, tipico del toscano antico, en > an in protonia: denaio > danaio) e denari al plurale. In un secondo tempo denoto ha lasciato il posto a denaro, rifatto sul plurale
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La sihilante palatale sorda e la sibilante palatale sonora sono due foni propri della pronuncia toscana, non rappresentati nella pronuncia standard dell'italiano: in questa sono stati sostituiti dalle affricate prepalatali sorda [tJl e sonora [d3] :
I
PWII, " f l�=pronl J r�
Base lAlina
itJlWul "
BAsrO(M) > *BRUSlARE >
['bafol [b ru Jare] [ka'miJal
[ 'barfo] [bru'rfare] [ka'mitfal
bacio
[fa'3·nol [k·'3onel [se'gu301
[fa'd3·nol [ka'd30nel [se'gud30]
fagiano
'
CAMlslA(M) > PHASIANU(M) > (OC)CAsrONE(M) > SEcOsrU(M) >
bru,ùre camlaa
cagzone segugio
li doppio trattamento del nesso -SJ- si spiega tenendo presente il più am
denari. L'estensione analogica è dipesa dal fatto che, dato il sistema moneta rio medievale, il singolare denaio (o danaio) ricorreva raramente, perché la singola moneta valeva pochissimo: non si usava quasi mai un denaio (o dana io), ma sempre più denari (o danari), e quindi la forma del plurale ha finito
pio fenomeno della sonorizzazione delle consonanti intervocaliche: come la 5 intervoc.lica in Toscana in alcuni casi è rimasta sorda ( ['naso]) e in altri è
per influire su quella del singolare.
nora C3J. In alcune parole si è avuta prima la sonoriZzazione della 5 e poi
� Sibilante + iod
avuta prima l'evoluzione di SJ a sibilante palatale sorda [Jl e poi la sonorizza zione di quest'ultimo fono, in base a due processi rappresentabili nel modo
diventata sonora ( ['vizo]), così la 5 fra vocale e j in alcuni casi ha prodotto una sibilante palatale sorda Ul, in altri ha prodotto una sibilante palatale so l'evoluzione di [z]
Uattamento del ne550 -5J-. A Firenze e in Toscana il nesso SJ ha avuto due
+
[jl a sibilante palatale sonora [31; in altre parole, si sarà
che segue:
esiti paralleli: in alcuni casi ha prodotto una sibilante palatale sorda tenue U] , in altri ha prodotto una sibilante palatale sonora tenue [3]. Qualche esempio:
Primo processo:
SJ (sonorizzazione)
> [zjl (palatalizzazione) > [d31
Secondo processo: SJ (palatalizzazione) > [tJl (sonorizzazione) > [d31
BASrU(M) > ['bafol *BROSIARE > [bru'farel CAMISIA(M) > [ka'mifa] PHASrANu(M) > [fa'3anol (oc)CAsroNE(M) > [ka'30ne] SEGOSru(M) > [se'gu30]
4.8. Nessi di consonante + l
I nessi di consonante + [l] si trasformano in nessi di consonante + [j]" Se il nesso è all'inizio di parola o dopo una consonante, non ci sono altre tra sformazioni; se invece è in posizione intervocalica, lo [j] che si è prodotto
90
I MUTAMENll fONrno
CAPITOLO 3
determina il raddoppio deUa consonante precedente. Facciamo qualche esempio, caso per caso.
> piano una consonante: AMPLU(M) > ampio
normale evoluzione del nesso -GL-, come appunto ragghiare (che diventò ra gliare), tegghia (che diventò teglia), vegghiare (che ruventò vegliare). Insom
In posizione intervocalica: CAP(O )LO(M)> cappio
BL. In posizione iniziale: BLASIU(M)
ma, i parlanti corressero non solo là dove c'era effettivamente da correggere, ma anche là dove non si sarebbe dovuto correggere. Questo eccesso di cor
> Biagio
Dopo una consonante: nessun esempio utile.
rezione dettato da un meccanismo di estensione analogica prende il nome di
In posizione intervocalica: FlB(C)LA(M) > fibbia CL. In posizione iniziale:
lpercorrettismo.
CLAVE(M) > chiave
Dopo una consonante: cfRC(O)LC(M)
non si fece attendere, e dal primo Cinquecento furono ripristinate le forme con [,{A]: figlio, foglia, paglùz e simili. Sennonché, la sostituzione della se quenza [ggj] con la sequenza [U] non si limitò alle parole in cui [ggj] era la trasformazione dialettale ru [U], ma si estese alle parole in cui [ggj] era la
PL. In posizione iniziale: PLANU(M) Dopo
91
> cerchio
In posizione incervocalica: SP�c(O)LU(M) > specchio CL. In posizione iniziale: CLAREA> ghiaia
4_9_ Casi particolari di nessi di consonante + I
Dopo una consonante: CNG(O)LA(M)> unghia In posizione intervocalica; TEC(O)LAM > italiano antico tegghia, italiano
SL.
moderno teglia
L'evoluzione del nesso -GL- in posizione intervocalica rappresenta un caso particolare. Nel fiorentino antico questo nesso si è regolarmente tra sformato in
G],
con successivo raddoppiamento della velare che ha dato
(ggj]. Qualche esempio: *RAG(olLARE > ragghiare TEG(O)LA(M) > tegghia
VfG(OLARE> vegghiare
".
I
A Firenze, a panire dal primo Cinquecento, fOrme come quelle appena citate vengono modificate in raglùlre, teglia, vegliare, e come tali si afferma no nell'italiano. Come si spiega questo cambiamento? Nel fiorentino di campagna del Quattrocento la laterale palatale intensa [U] proveniente dal nesso -LJ- fu sostituita dalla sequenza [ggil, con velare sonora intensa: invece di dire figlio, foglia, paglia (regolare evoluzione di FYLlO(M), FOLIA(M), PALEA(M)), nel contado fiorentino si ruceva figghio, /og ghia, pagghia. A Firenze città la censura nei confronti ru forme come queste
Questo nesso era sconosciuto al latino classico. In posizione iniziale,
s'incontra solo in prestiti provenienti da lingue diverse dal latino o in parole del latino medievale: per esempio s!ahta e slaiten, germanismi che in italiano hanno dato schiatta e schiattare, oppure in SL,W O(M), voce latina medievale che in italiano ha dato schiavo. In posizione interna, questo stesso nesso si è formato in seguito a un fe nomeno proprio del latino volgare, e cioè la sincope di una ii postonica in terna alla sequenza -SOLo, come per esempio in I(N)S(O)LA(M), che in italiano ha dato Ischia. Proprio perché il nesso SL non era originario, per i parlanti era difficile pronunciarlo: per renderne più agevole la pronuncia, essi inserirono al suo interno una velare sorda [k] epentetica. Successivamente, il nesso CL così formato ha dato regolarmente kj: SL > -SKL- > skj
Slahta > 'SKLA(H)TA > schiatta S!aiten > *SKLAITEN > schiattare SLAvU(M) > *SKLAvU > schiavo I(N)S(U)LA(M) > *YSCLA(M) > Ischia
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CAPITOLO 3
I MUTAMENTI FONEnCI
Anche questo nesso era sconosciuto al latino classico, sia in posizio ne iniziale sia in posizione interna. In latino volgare si è formato (solo all'in terno di parola) in seguito alla sincope di una U postonica o intertonica inter n.
na alla sequenza -TUL- presente in parole come CAPrT(U)r.UM, CAT(U)LUM, V�T(il)Li)M. il nesso secondario TL , formatosi in seguito a tale sincope, si è confuso col nesso -CL-, e ha dato lo stesso risultato [kkil : -
-
cAPIT(il)LuM > *CAPrTLU (� cAPlcw) > capecchio 'materiale grezzo per imbottiture' CAT(U)LUM > *CATLU ( *CACW) > cacchio 'germoglio' VET((j)LUM > *vtTLU ( VECW) > vecchio. �
�
il fenomeno del conguaglio fra il nesso TL e il nesso -CL- ha origini mol to remote, tant'è che è registrato nell 'Appendix Prohi (cap. I , § 6) come un «errore» ricorrente: «vetulus non vecius [. . . ] vitulus non vic!us [. . . ] capi tulum non capic!um», scrive l'anommo estensore della lista di forme sbaglia -
-
te da correggere.
m ------VAL PIÙ LA PRATICA DELLA GRAMMATICA
lfenomeni del consonantismo nella lingua di una novella
del "Decameron» di G. Boccaccio Proseguiamo nella lettura della novella di Chichibìo iniziata nel § 3 . 9, prendendo in esame, questa volta, i fenomeni relativi al consonantismo.
[ I ] Essendo poi davanti a Currado e a alcun suo forestiere messa la gru senza �, e Currado, maravigliandosene, fece chiamare Chichibi oe domandollo � fosse divenuta l'altra coscia della gru. A1 Qlli!k il vinizian bugiardo subitamente rispose: «Signor mio, le gru non hanno se non una coscia e una gamba». [2] Currado aUora turbato disse: «Come diavol non hanno che una co scia e una gamba? Non vid'io mai più gru che questa?». [3] Chichibio �: «Egli è, messer, com'io vi dico; e � vi � . .ru!. IO il VI farò veder ne' vivÌ».
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[4] Currado per amore de' forestieri che seco avea non volle dietro alle parole andare, ma disse: «.Poi che tu di' di farmdo veder ne' vivi. cosa che io mai più non vidi né udi' dir che fosse, e io il voglio veder domattina e sarò contenro; ma io ti giuro in sul corpo di Cristo che, se altramenti sarà, che io ti farò conciare in maniera. che tu con tuo danno ti ricorderai, sem pre che tu ci viverai, del nome mio». [5] Finite adunque per quella sera le parole, la mattina seeuente, come il giorno apparve. Currado. a cui non era per lo donnire l'ira cessata, tutto ancor gonfiato si levò e comandò che i cavalli gli fossero menati; e fatto montar Chichibio sopra un ronzino, verso una fiumana, alla riva della quale sempre � in sul far del dì vedersi delle gru, nel menò dicendo: «Tosto vedremo dll avrà iersera mentito, o tu o io». [6] Chichibio, veggendo che ancora durava l'ira di Currado e che far gli conveniva pruova della sua bugia, non sappiendo come poterlasi fare cavalcava appresso a Currado con la maggior paura del mondo, e volentie ri, se potuto avesse, si sarebbe fuggito; ma non potendo, ora irutanzi e ora adietro e dallato si riguardava, e ciò che vedeva credeva che gru fossero che stessero in due piè (da G. Boccaccio, Decameron, cit., pp. 732-734). In che «
QUID [ I l ) , quale « QUALE(M) [ I ] ) , come « QUOMODO ET [2]), quando « QUANDO D ] ) e chi « QUIs, [5]) abbiamo la normale evoluzio ne della labiovelare sorda primaria [kw] (§ 4.4), che si mantiene intatta se seguita da A (come in QUALE(M) e in QUANDO) mentre perde l'elemento labiale se seguita da vocale diversa da A (come in QuID, QUOMODO e QUIs). Invece, in seguente « SEQU�NTE(M)) la componente velare della labiovelare sorda si è sono rizzata in posizione intervocalica: [kw] > [gw] (più sopra §§ 4.4 e 4.6). b. In coscia « CÒXA(M) [l}}si registra il passaggio del nesso [ks] in po sizione intervocalica a sibilante palatale intensa UJl (§ 4). Si tratta di uno dei due trattamenti possibili della sequenza [ks]; l'altro è, come si ricorderà, l'assimilazione regressiva (x > 55). li fenomeno dell'assimilazione regressiva si registra invece in danno « DAMNU(M) [4]). c. In chiamare « CLAMARE, [ 1 ] ) il nesso CL- in posizione iniziale si tra sforma in [kj] (§ 4.8). Allo stesso modo, in piaccia « PLACEAT ['plakeat] [3]) il nesso PL- in posizione iniziale si trasforma in [pi l . In questa voce verbale si registrano altri due fenomeni importanti, il secondo dei quali riguarda il consonantismo: la E in iato si chiude in l, producendo il nesso -KJ-, che attra verso le fasi descritte nel § 4.7 si è trasforriÌato in [ttJl. a.
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CAPITOLO 3
I
MUTAMENTI FONETICI
9S
d. mustrano il trattamento dei nessi di consonante + iod altre tre paro le. La prima è conciare « COMPTIARE [4]), in cui -1)- preceduto da consonan
ecc.), all'inizio di questa seconda parola il parlante inseriva una i che, evitano do la sequenza di tre consonanti, rendeva più agevole la pronuncia. Si è det·
te h a prodotto un'affricata prepalatale sorda [tIl: § 4.7. La seconda è veg vIDEO), variante di vedo normalmente atte stata nell'italiano antico, in cui il nesso -DJ- (prodottosi in seguito alla chiusu
prio in abbandono nell'italiano attuale, in cui si preferisce dire e scrivere in
gendo [6], gerundio di veggio «
ra in i deUa E in iato: vIDEO > *vIDJo) si è trasformato in una affricata palatale sonora [d3] inten sa: § 4.7. La terza è sappiendo [6], gerundio di sappio « SA PIO), variante di so normalmente attestata nell'italiano antico, in cui lo iod ha prodotto il raddoppiamento della labiale precedente (§ 4.7). e. Avea « (H)ABEBAT [4]) e soleva « SOLEBAT [5]) mostrano un diverso trattamento della -B· intervocalica: nel secondo caso questa si è trasformata in una labiodentale sonora [v]; nel primo caso il processo di indebolimento è proseguito fino al dileguo di [v]: § 4.5. f Infine, in giuro « IURO [4] ) è documentato il passaggio di iod iniziale ad affricata prepalatale sonora [d3l: § 4 . 3 .
to
che il fenomeno «si registrava» perché esso è in forte declino, se non pro
strada, per scritto e simili.
5.2. Epitesi L'epitesi consiste nell'aggiunta di un corpo fonico alla fine di una paro· la. Si tratta di un fenomeno diffuso sopraitutto nell'italiano antico, in parti· colare nelle parole che originariamente avevano una finale consonantica, e inoltre nelle parole tronche, cioè accentate sull'ultima sillaba. L'italiano, a differenza di altre lingue romanze (per esempio lo spagno lo), tende a rifiutare una finale consonantica: proprio per evitarla, può svi luppare l'epitesi di una vocale o di una sillaba. È quello che è successo anti· camente, quando l'italiano ha assunto particolari nomi propri non latini, ori·
5. FENOMENI GENERALI
ginariamente terminanti per consonante e accenrati sull'ultima sillaba, ag· giungendovi per epitesi una vocale o una sillaba: David ha dato Davidde,
Registriamo, in questa parte, sei fenomeni di carattere generale, che ri· guardano singoli foni o foni in sequenza: vocali, consonanti o anche gruppi di vocali e consonanti. I fenomeni in questione sono la prostesi, l'epitesi e l'epentesi (che consistono nell'aggiunta di un suono o una sequenza di suo ni) e poi l'aferesi, l'apocope e la sincope (che consistono nella perdita di un suono o una sequenza di suoni). Esaminiamoli uno per uno in dettaglio.
Hector ha dato Ettòrre, Minos ha dato Minasse, e cosÌ via. L'italiano antico tendeva a evitare anche le parole tronche (o ossÌtone) , aggiungendo alla vocale finale accentata un'altra vocale (generalmente una
e, qualche volta anche una o) o una sillaba (generalmente -ne): cosÌ, nei ma noscritti toscani medievali s'incontrano parole come piùe ( più), virtùe (= virtù), cosìe ( = così), sre ( = sì) e nòe ( no) ecc.; nel poeta duecentesco Guittone d'Arezzo si trovano sàe ( = sa), saròe (= sarò), giàe (= già); Dante =
=
adopera queste e altre forme; e ancora Luigi Pulci, poeta toscano del XV 5.1. Prostesi
La prostesi consiste nell' aggiunta di un corpo fonico all'inizio di parola.
È il fenomeno che si registra (o meglio si registrava) in sequenze del tipo in iscena, in istrada, per iscritto e simili: quando una parola terminante per con· sonante (come appunto le preposizioni in o per) era seguita da una parola iniziante per s + consonante (la cosiddetta «5 impura» di slitta, spesa, strada
secolo, accoglie parole come trovòe ( trovò) e rovinòe ( = rovinò). In questi =
stessi autori s'incontrano forme con epitesi deUa sillaba ne, come vane (= va, Dante) . !ane ( = fa, Dante), saline (= sali, Dante) !ormòne ( = formò, Pulci), .
ecc.: di fatto, è la stessa sillaba epitetica che troviamo in forme come sine
( = sì) e none ( no), tipiche dei dialetti centromeridionali antichi e moderni. =
La tendenza deU'italiano antico a rifiutare le parole tronche è dipesa dal fatto che esse erano (e tutto sommato continuano ad essere) rare: i parlanti,
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I MUTAMENTI FQNEna
CAPITOLO 3
poco abituati a sentirle, attraverso l'epitesi le trasformavano in parole piane, ben più familiari alle loro orecchie, visto che la gran parte delle parole del l'italiano antico (e anche moderno) è data da parole accentate sulla penulti ma sillaba. I casi di ossitonìa in italiano antico si limitavano alle voci di prima e terza persona del futuro semplice (p. es. parlerò, leggerà) , alla terza persona del perfetto dei verbi di prima coniugazione (p. es. parlò) e di alcuni verbi di seconda e di terza coniugazione (p. es. perdé e fim'). La diffusione di un certo numero di parole tronche si è avuta quando in parole piane come bontade, cittade, servitude e virtude, provenienti da basi latine uscenti in -ATEM e -UTEM « BON(I)TATE(M), CTv(I)TATE(M), SERvrrUTE(M), V1RTUTE(M)), si ebbe un'apocope aplologica (il fenomeno verrà descritto nel § 5.8) che le trasformò in parole accentate sull'ultima sillaba: bonta(de) > bontà, citta(de) > città, servitu(de) > servitù, vertu(de) > vertù > virtù, ecc. Infine, nel corso dei secoli l'italiano si è arricchito di un certo numero di parole tronche provenienti da lingue straniere. Solo qualche esempio: bam bù (entrato in italiano nel XVI sec.), biberòn (XIX sec.), bidè (XVIII sec.), caffè (XVII sec.), canapè (XVII sec.), caucciù (XIX sec.) , fumé (XX sec.), motèl (XX sec.), ragù (XVII sec.), rondò (XVIII sec.) ecc.
5.3- Epentesi L'epentesi consiS!e nell'aggiunta di un corpo fonico all'interno di una
parola. L'italiano ha conosciuto sia l'epentesi consonantica (consistente nel l'aggiunta di una consonante), sia l'epentesi vocalica (consistente nell'ag giunta di una vocale). L'epentesi consonantica si è prodotta in alcune parole in cui originaria mente c'era una sequenza di due vocali, che è stata in questo modo interrot ta. Così, da un originario MANUALE(M) si è avuto dapprima manoale e poi, con sviluppo di una v epentetica, manovale; allo stesso modo, da V!OUA(M), GENUA(M), MANTUA(M), IO(H)ANNE(S), si sono avute vedoa, Genoa, Mantoa, Gioanni e poi, con epentesi di v, vedova, Genova, Mantova, Giovanni.
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Oltre che della labiodentale sonora [vl, in italiano antico è ricorsa l'epentesi della velare sonora [g), attestata in forme come aghirone ( = airo ne) e Pagolo (= Paolo). Quanto all'epentesi vocalica, il caso più importante è quello dell'epen tesi di i in alcune parole che presentavano la sequenza consonantica -SM-. Poiché questo gruppo fonico era difficile da pronunciare, i parlanti lo han no interrotto inserendo una i fra la S e la M. Così, dalla base latina SPASMìj(M) > si è avuto spasimo (spasmo è l'allotropo dotto); dal provenzale blasmar si è avuto prima biasmare e poi, con epentesi di i, biasimare; dal latino ecclesia stico BAPT-fsMU(M) si è avuto prima battesmo e poi, con epentesi di i, battesi mo. Più in generale, il suffisso -lsMu(M) prima ha dato -ésmo e poi, con epen tesi di -i, ésimo (cristianesimo, monachesimo, protestantesimo ecc.), mentre il suffisso -ismo che si trova in buddismo, giornalismo, marxismo, ecc. è l'allo tropo dotto di -esmo I -esimo.
5.4. Aferesi L'aferesi consiste neUa caduta di un corpo fonico all'inizio di una paro la: è il fenomeno che possiamo registrare negli aggettivi dimostrativi ste,7tf&, sti, ste, provenienti dalle forme questo, questa, questi, queste con aferesi, ap punto, della sillaba iniziale que. Le forme sto, sta, sti, ste sono tipiche dell'italiano parlato, ma il femmi nile aferetico sta s'incontra fin dalle origini nella lingua scritta in parole come stamattina, stamani, stasera, stanotte, stavolta: nelle determinazioni di tempo questa mattina, questa mane, questa sera, questa notte, questa volta il dimostrativo questa si è ridotto a sta per aferesi della sillaba iniziale, forman. do una parola unica con il termine successivo:
(que)sta mattina > sta mattina > stamattina (que)sta mane > sta mane > stamane > stamani (que)sta sera > sta sera > stasera (que)sta notte > sta notte > stanotte (que)sta volta > sta volta > stavolta
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il fenomeno per cui due parole in sequenza si uniscono e ne formano
nella realizzazione della catena parlata parole grammaticalmente e semanti
una sola si chiama univerbazione. Esso si spiega tenendo conto del fatto che, nel parlato, non c'è lo stesso tipo d'interruzione fra le parole che si pre
la, in alcuni casi il parlante interpreta questi foni iniziali come l' o come la,
senta nello scritto: ad esempio, noi scriviamo la casa, con separazione fra la e casa, ma parlando articoliamo [la'kasal. Quando questo fenomeno, normale nel parlato, si riverbera sullo scritto, allora si ha univerbazione: quella che si registra, per l'appunto, in stamattina, stamane, stasera, stanotte, stavolta. In somma: l'univerbazione non è altro che la registrazione nella lingua scritta di un fenomeno del tutto normale nella lingua parlata. Lungi dall' essere soltan to un fenomeno grafico, l'univerbazione è prima di tutto un fenomeno fone tico: due parole diventano un solo termine del parlato, e in seguito questa loro unione si riverbera sullo scritto. il fenomeno deU' aferesi, trasparente e riconoscibile in pochi casi, ha contribuito alla formazione di diverse parole dell'italiano. Per fare qualche esempio, nelle basi latine o latino-volgari ILLAc, ILLIc, *lLLUI, *rLL�I l'aferesi della sillaba iniziale IL- ha determinato la formazione degli awerbi di luogo là, lì e dei pronomi personali lui, lei:
(IL)LAC > là (IL)LIc > lì *(IL)LUI > lui *(IL)L�I > lei Sono il risultato di un'aferesi (oltre che, owiamente, di altti_ �nomeni di trasformazione vocalica e consonantica) anche le forme dell'articolo deter minativo lo, la, i, gli, le e le forme dei pronomi e aggettivi dimostrativi questo e quello (cap. IV, §§ 7.2, 7.3 e 7 . 10).
5.5. Discrezione dell'articolo Collegabile al fenomeno dell'aleresi è quello della cosiddetta discrezio ne (cioè 'separazione', dal latino discerno 'separo', 'divido') dell'articolo. Per spiegarla, occorrerà ricordare quello che si è appena detto, e cioè che
camente separate si pronunciano unite. Data una parola iniziante per l o per cioè come forme dell'articolo determinativo, e per conseguenza li separa dal resto della parola. Ad esempio, nel parlato popolare il sostantivo lasagna vie ne spesso risegmentato in la (articolo) e sagna_ (nome): la sillaba iniziale deUa parola lasagna viene interpretata come l'articolo femminile e si separa dal resto della parola (ecco la discrezù:me), e il termine lasagna si riduce a sagna. La discrezione dell'articolo si registra nella storia di varie parole dell'ita liano. Dalla base latina LABELLlJ(M) 'bacino', 'vasca da bagno' si è avuto, in sieme con lavello, avello 'tomba', mentre da *LOScINIÒLO(M) si è avuto usi
gnolo. Ancora, la O iniziale di ÒBSCURO(M) è stata percepita come parte del l'articolo lo e si è distaccata dal corpo deUa parola: ÒBSCURO(M) > oscuro > (l)o scuro > scuro
Analogamente, in diverse parole inizianti per A questa vocale è stata in terpretata come la parte finale dell'articolo femminile ed è stata separata dal resto della parola. Così, da (H)ARENA(M), che in latino aveva i due significati di 'sabbia' e 'anfiteatro sparso di sabbia', in italiano si sono avute due parole distinte: arena e rena 'sabbia' . La seconda nasce daUa discrezione della A ini ziale, sentita come una parte dell'articolo femminile. Un esempio analogo si registra nella parola badessa: ABBATISSA(M) > abbadessa > (l)a badessa > badessa
Si dà anche il caso della discrezione di n iniziale, interpretata come la parte finale dell'articolo indeterminativo un. Ad esempio, la parola arancio è un prestito dal persiano narang, in cui la n iniziale, ritenuta parte dell'artico lo un, è stata separata dal corpo della parola.
I MUTAMENTI FONETICI 101
100 CAPrTOLO 3
si spiega nel § 3.8, in cui può aversi una vocale intertonica): per esempio, in
Ci(RÌlBJiLLO(M) la E della sillaba RÌl, posta tra accento secondario e accento
5.6. Concrezione dell'articolo Speculare al fenomeno della discrezione è quello della concrezione del·
principale, è caduta, dando luogo aUa forma cervello. Altri esempi:
l'articolo: poiché articolo e nome formano un tutt'uno nella segmentazione
S6N(r)TATE(M) > il. antico bontade > bontà
della catena parlata, talvolta l'articolo è diventato parte del nome.
VAN(r)TARE > vantare
È quanto
V�R(E)CONOIA(M) > vergogna
è avvenuto nella parola lastrico, proveniente dalla base latina medievale ASTRACU(M): l'articolo che precedeva il termine nella sequenza l'astrico è di· ventato parte integrante della parola per concrezione.
5.8. Apocope
5.7. Sincope La sincope è la caduta di un corpo fonico all'interno di parola. A cadere sono le vocali o le sillabe più deboli: la sincope non investe mai una sillaba accentata, ma sempre una sillaba non accentata; in particolare, in molte pa
L'apocope (o troncamento) è la caduta di un corpo fonico in fine di pa· rola. Si parla di apocope vocaliea se a cadere è una vocale (come in buono >
buon: buon anno, buon giorno, buon mercato) c di apocope sillabica se a ca· dere è una sillaba (come in grande > gran: gran caldo, gran cosa, gran sete). NeUa storia antica e meno antica dell'italiano l'apocope ha interessato varie parole. Per fare qualche esempio, dalla base latina FACI(T) in italiano
role italiane la sincope ha interessato le vocali postoniche e le vocali interto· niche. Il fenomeno della sincope vocalica è molto antico: come dimostrano malie forme dell'Appendix Probi (cap. I, § 6), ricorreva già nel latino vol·
puote e poi, per apocope deUa sillaba finale, può.
gare. La sincope della vocale postonica (che negli esempi che seguono è tra
stra qualche altro caso di apocope sillabica, documentata in forme come diè
parentesi tonde) si è avuta in molte parole proparossitone del latino parlato, e poi è passata all'italiano: per esempio, da CAL(Y)OO(M), OOM(r)NA(M),
FRJC(r)OO(M), sOL(I)OO(M), vIR(Y)oE(M) si sono avute le forme caldo, donna,
freddo (con assimilazione regressiva nella sequenza ·MN· presente in OOMNA e deUa sequenza ·CO· presente in FRlcoO: è il fenomeno di cui si parla all'inizio del § 4), soldo, verde. Lo stesso fenomeno ha interessato la prima O del suffisso ·OLUM, ·OLAM,
antico abbiamo avuto face e poi, per apocope della sillaba finale, fa; da
'POTET, come si è già visto nella finestra riportata a p. 7 1 , abbiamo avuto L'italiano deUa tradizione letteraria in prosa e soprattutto in versi regi·
(= die(de) «
e fé « fe(ce) e < fe(de) , me' «
me(glio) , piè « pie(de)), ve'
ve(d,) e vèr « ver(so) . Il caso più importante è quello dell'apocope per aplologia, prodortasi in
parole terminanti in -tà e in -tù come bontà, città, virtù e simili. L'aplologia è la cancellazione di suoni simili o identici vicini fra loro. In che modo essa ha interessato le parole elencate e altre parole analoghe?
una O costantemente postonica in base alla legge della penultima (§ 2): per
Le voci in questione provengono da basi latine terminanti in ·ATE(M) o in ·UTE(M): SON(I)TATE(M), CIV(I)TATE(M), VlRTUTE(M). Nelle prime due si è avuta
esempio, da LENTIC(O)LA(M), MAc(O)LA(M), OC(O)LO(M) si sono avute le forme
una sincope della vocale intertonica, che ha dato bontate e cittate; la terza si
lenticchia, macchia, occhio (il nesso ·CL· presente in LENTICLA, MACLA, OCLO è diventato prima [kj] e poi [kkj]: sono i fenomeni di cui si parla nel § 4.8). La sincope della vocale intertonica (che negli esempi che seguono è tra parentesi tonde) si è avuta in alcune parole di più di tre sillabe (le sole, come
t (è il fenomeno di cui si parla nel § 4 .6), che ha prodotto una sillaba finale de: bontade, cittade, . virtude.
è continuata come virtute. Successivamente, in tutte queste parole si è avuta sonorizzazione dell'occlusiva dentale sorda intervocalica
I MUTAMENTI FONETICI 103
102 CAPITOLO 3
(come moltissime altre, d'altronde), Era molto facile che queste parole fun ativi, fossero seguite da un elemento nel concreto degli scambi comunic at o, variante antica di di: bontade de Marc zionale come la preposizione de, vennero a determmarsl delle se lode de Roma ' virtude de Crislo, ecc. Cosi, consecutive, la prima finale di parola quenze in cui si avevano due sillabe de questa ripetizione è stata evitata con e la seconda preposizione_ Nel pa_rl�to, quella finale di parola: bonta de) d l'apocope aplologica della prima -de, , atta, a, virtu(de) de Crislo, e così si sono avute bonta
�
Marco, citta(de) de Rom virlù e simili.
,!
ica è presente in pochi casi: nel Nell'italiano moderno l'apocope sillab ), nel pronome un poco (un po' d già citato aggettivo grande (una gran fatica Giuseppe, san Carlo ). ssa e pane) e, in alcuni casi, nell'aggettivo santo (san obbligatoria nel terzo. Inoltre, l apo facoltativa nei primi due casi, mentre è (purché seguito da un nome pro cope sillabica s'incontra nella parola frate do è parte della locuzIone pre� prio: fra Martino) e nella parola modo (quan lare che po' e mo' sono ran casI dI posizionale a mo' di) . Mette conto segna apocope sillabica segnalati dall'apostrofo. . . aggetUvI bel e quel van : I casi delle preposizioni atticolate del e al e degl! pe sillabica, ma come esempI di no interpretati non come esempi di apoco tera sillaba -lo in dello, allo, bel apocope vocalica: anziché alla caduta dell'in vocale fmale e alla conse� lo e quello bisognerà pensare alla caduta della sola della consonante doppIa m fme dI guente riduzione a consonante semplice
�
!
.
parola, non ammessa in italiano:
ci, l'ingegner Bottazzi (le forme piene del tipo l'ingegnere Gargiulo, ti profes
sore Tripodo sono tipiche dell'italiano regionale meridionale); 3) con l'aggettivo buono, se precede il nome a cui si riferisce: del buon pane, un buon vino, un buon amico, ecc. In altri casi l'apocope vocalica è facoltativa: si può dire e scrivere, indifferentemen te, andar via e andare via,fi! di/erro e/ilo di/erro, parlar bene e parlare bene, ecc. L'apoco pe facoltativa è comunque sottoposta ad alcune imponanti restrizioni. Nella fattispecie: a) la vocale da apocopare deve essere preceduta da una laterale, da una vibrante o da una nasale (l, r, m, n): la sequenza vedere chiaro può ridursi a veder chiaro, ma la se quenza vedo chiaro non può ridursi a *ved chiaro; h) la vocale da apocopare deve essere atona: la sequenza sarà buono non può ridursi a sar buono; cl e e i atone non possono essere apocopate quando hanno valore morfologico, cioè quando servono a distinguere il plurale femminile o maschile: le due sequenze buone ma· dri e buonipadri non possono ridursi a *buon madri e *buon padri; cl) a atona non può essere apocopata, [ranoe che nell'avverbio ora e nei suoi compo sti a!!ora, ancora ecc., nonché nella parola suora seguita da un nome proprio: suor Angeli
na, suor Paola; c) non si dà apocope di una parola in fine di frase, tranne che in poesia: «mi balza
rono inconero e mi guardar» (G. Carducci). n fatto che vengano rispettate queste prescrizioni non rende automatica l'apocope: si può dire e scrivere/ar bene e veder chiaro, ma ciò non esclude che si possa dire � scrive re /are bene e vedere chiaro. L'apocope è ormai automatica, invece, in alcune locuzioni cristallizzat�Ale a parer mio, in cuor suo, amor proprio, quartier generale, timor di Dio e simili.
m
•
Attenti all'errore dello > deil > del allo > ali > al bello > beli > bel quello > quell > quel L'apocope vocalica, ben più frequente dell'apocope sillabica, è obbliga toria in tre casi:
È importante non confondere l'apocope con l'elisione. L'elisione è la ca duta della vocale finale atona di una parola davanti alla vocale iniziale della parola successiva: dallo alto > dall'alto, quello albero > quell'albero; una isola
> un'isola, ecc. Essa, a differenza dell'apocope, non può mai awenire prima di una parola cominciante per consonante. La norma ortografica coglie que sta differenza e richiede che l'elisione sia sempre segnalata dall'apostrofo.
1 ) negli infiniti seguiti da un pronome atono (vedere + lo > vederlo; dire
Invece, l'apocope è marcata dall'apostrofo, oltre che nel caso dei già citati
ci > dirCI); .. 2) in sostantivi usati come titoli di rispetto o di professione e segUIti da un nome proprio: il signor Barbieri, il dottor Franceschi, il professar Matuc-
po' e mo', solo quando la vocale apocopata è preceduta da un'altra vocale. Questo accade negli imperativi da' (da dat), fa' (dafal), sta' (da staI) e va' (da val) e in alcune forme ormai uscite dall'uso: le preposizioni articolate ma-
+
I MVTAMENTI FONETlCI 105
104 CAPITOlO 3
schili plurali a' (forma apocopata di az), de' (dez), co' (cOl), ne' (nez), pe' (pez) e il dimostrativo que' (quei).
5.9. Raddoppiamento fonosintattico li raddoppiamento fonosintatti co (o semplicemente sintattico) è un ti
pico fenomeno di fonetica sintattica: ciò vuoi dire che esso non si produce all'interno di una singola parola, ma nell'àmbito della frase. In particolare, il raddoppiamento fonosintartico è definibile come un 'assimilazione regressi va al/'interno di frase. L'assimilazione consonantica regressiva, che normal mente avviene all'interno di parola. (ADvENTUM > avvento, PIcrVRA > pittura, ecc.), può avvenire anche all'interno di frase, perché nella realizzazione della catena parlata parole grammaticalmente separate possono essere pronun ciate unite. Nel caso del raddoppiamento fonosintattico, a essere pronuncia te unite sono una parola terminante per consonante e una successiva inizian te per consonante, come per esempio nelle sequenze AD VALLE(M) e Dlc TU: in casi come questi la consonante finale della prima parola non cade, ma si assi mila alla consonante iniziale della parola successiva, determinandone la pro
nuncia intensa: a valle si pronuncia [av'vallel-:-c';me avvento [av'vEnto] , e di' tu si pronuncia [dit'tu] come pittura [pit'tura]. In sede grafica il fenomeno ' del raddoppiamento fonosintattico non è rappresentato, se non in alcuni casi di cui si dirà più avanti. Dopo quali parole si produce il raddoppiamento fonosintattico? a) dopo i monosillabi cosiddetti forti, cioè dotati di accento. In alcune di queste parole l'accento tonico non è rappresentato graficamente: a, blu, che. chi, da, do, e,ja,/ra ,/u, ha, ho, ma, me, qua, qui, re, sa, se, so, sta, sto, su, tra, tre, tu, va, ecc.; in altre è rappresentato anche graficamente: dà, è, là, Lì, né, sé, sì, ecc. Nell'un caso come nell'altro, la realizzazione parlata di enun ciati come a casa, ma guarda, dà tutto è [ak'kasa], [mag'gwarda], [dat'tutto]; b) dopo le parole tronche, indipendentemente dal numero delle sillabe: andò, portò, virtù, ecc. (la realizzazione parlata di enunciati come andò là, portò tutto, virtù somma è [an'd�l'la], [por'tot'tutto], [vir'tus'somma]); c) dopo quattro polisillabi piani: come, dove, sopra e qualche (la realiz-
zazione parlata di enunciati come come te, dove va, sopra me, qualche libro è ['komet'te], [' dovev'va], ['sopram'me], ['kwalkel'libto]). La grande maggioranza dei monosillabi del primo gruppo presenta, nel la base latma d, provenienza, una finale consonantica, che determina il feno meno di cui ci stiamo occupando: a « AD), che « QUID), da « DE AB) e « ÉT) , fa « *FAT),fu « FOlT), ha « *AT) , ma « MAGIS), qua « EcCUM
qui « ECCUM HIC), re «
REX), sa «
HA�) �
*SAT), sta « STAT), tre « TRES), v
« *VAT). Il raddoppiamento dopo blu, da,fra, ho, me, se, sé, so, sto, su, tra, tu, che . mvece non presentano una finale consonantica, si spiega col meccanismo dell'analogia: i parlanti, registrata la contiguità tra le forme con consonante finale e le forme senza consonante fmale, per abitudine hanno praticato il raddoppiamento fonosintattico anche dopo le seconde.
Infine, il raddoppiamento dopo come, dove, sopra e qualche si spiega col fatto che queste parole presentano un elemento finale che è (oppure è stato percepito come) un monosillabo richiedente il raddoppiamento sintattico:
come proviene effettivamente da QUOMÒ(OO) ET; invece, la -e finale di dove e la -a finale di sopra sono state percepite come la congiunzione e proveniente da ET e come la preposizione a proveniente da AD, pur non avendo alcun rap porto con queste forme: dove proviene da DE USI, e sopra proviene da SUPRA. Infine, in qualche è stata sentita la presenza della parola che, dopo la quale, . come si è visto, il raddoppiamento fonosintattico è normale. Come si è accennato, in sede grafica il fenomeno del raddoppiamento fonosintattico non è rappresentato: la consonante iniziale della seconda pa ro a SI pronuncia doppia ma si scrive-semplice, se non nei casi in cui le parole com volte nel raddoppiamento risultano univerbate: appena (= a pena), chec ché (= che che), chissà (= chi sa), dappoco (= da poco), davvero (= da vero), eccome (= e come), frattanto ( fra tanto), giammai ( già mai), lassù (là su), macché ( = ma che), seppure (= se pure), soprattutto (= sopra tutto), tressette ( = tre sette). Il fenomeno del raddoppiamento fonosintattico è generale nell'Italia centromeridionale, ed è sostanzialmente omogeneo: si realizza allo stesso modo a Bari come a Firenze, a Roma come a Napoli. Le rare differenze tra la
�
=
=
pronuncia fiorentina e quella romana riguardano il raddoppiamento dopo da e dove, accolto a Firenze ma non a Roma, e il raddoppiamento dopo
1 06 CAPITOLO 3
come. Come può avere due funzioni: comparativa (come me) e interrogativa (come va?). Nella pronuncia fiorentina si ha raddoppiamento in entrambi i casi ( ['komem'me] e ['komev'va]); nella pronuncia romana, invece, il rad doppiamento sintattico si ha solo se come ha valore comparativo (['ko mem'me] ma ['kome'va] ). Nell'Italia del Nord, invece, il raddoppiamento fonosintattico è scono
l
Dal latino all'italianò: i mutamenti -m orfologici ,
sciuto. Nei dialetti settentrionali le consonanti doppie intervocaliche tendo no a degeminarsi, cioè a essere realizzate come scempie: bello diventa belo, quello diventa quelo, penna diventa pena e così via. Ebbene, tale degemina zione interessa non solo le doppie intervocaliche all'interno di parola, ma anche le doppie intervocaliche tra parola e parola (appunto i casi di raddop piamento fonosintattico): così, un enunciato del tipo «A me non importa se vai a casa» da un italiano del centro-sud sarà realizzato «ammennonimporta
Dopo aver studiato le trasformazioni fonetiche, in questo capitolo pren
sevvaiaccasa», mentre da un italiano del nord sarà rea.li?zato «amenonimpor tasevaiacasa».
deremo in considerazione i mutamenti morfologici avvenuti nel pas
Fondandosi sul modello della lingua scritta, l'italiano del nord corregge
del numero dei nomi italiani, i cambiamenti delle funzioni logiche del
facilmente la pronuncia della consonante scempia all'interno di parola, ma
le parole, la formazione di articoli, aggettivi e-pronomi, e le trasforma
non può fare altrettanto con la consonante scempia all'interno di frase: in
zioni del sistema verbale.
saggio dal latino all'italiano,analizzando la genesi storica del genere e
altre parole, mentre può imparare a pronunciare bello, quello, penna perché trova queste parole scritte con la consgnaIlte doppia, non può imparare a pronunciare [ak'kasa], perché il raddoppiamento fonosintattico non è se gnalato dalla scrittura: in italiano si scrive «A me non importa se vai a casa» , non «A mme nnDn importa se vvai a ccasa»!
1 . IL NUMERO DEL NOME La lingua latina, come l'italiana, aveva due numeri, il singolare e il plura le, riconoscibili per le diverse uscite che li caratterizzavano:
Latino
rosa
TDsae
Italiano
rosa
rose
Latino
numerus numero
numeri numen
Italiano
Nel passaggio dal latino all'italiano non ci sono state trasformazioni di rilievo per quel che riguarda il sistema dei numeri: i passaggi dal singolare al plurale e viceversa si limitano alle poche eccezioni riportate e descritte nel § 5.
-
J MUTAMENTI MORFOlQGICI t 09
108 CAPnmo4
2. IL GENERE DEL NOME. lA SCOMPARSA DEL NEUfRO La lingua latina, a differenza dell'italiana, aveva tre generi: il maschile, il femminile e il neutro. Scbematizzando e semplificando, si può dire che gli esseri animati erano maschili o femminili (p. es. lupur 'lupo', maschile; puel la 'fanciulla', femminile) e gli elementi inanimati erano neutri (p. es. donum 'dono', neutro); ma le parole che si allontanavano
(-ur) sia con l'uscita del neutro (·um): è il caso di aevurlaevum ('età'), balneurlbalneum ('bagno'), careurlcareum ('formaggio'), collurlcol. lum ('collo'), uterurluterum ('utero'), ecc. Altre, che al singolare erano ma. schili (per esempio iocur 'gioco' e locur 'luogo'), al plurale presentavano sia un'uscita di genere maschile (ioei, !oei) sia un'uscita di genere neutro (ioea, Iaea). del maschile
Nel passaggio dal latino alle lingue romanze il neutro si perse, e le parole
latino, di genere neutro:
brachium, botellum, calconeum, cerebellum, cornu, corium, /ilum, /undamentum, genuculum, linteolum, membrum, murum, or rum, vestigium. La loro uscita, al plurale, era ·a: brachia, botella, calcanea, cerebella, cornua, caria, fila, /undamenta, genucula, linteola, membra, mura, ossa, ve$tigia. Nel passaggio dal latino all'italiano tutte queste parole sono diventate maschili e hanno avuto un regolare plurale maschile in
·i; i plurali in ·a sono (le braco
relitti del plurale neutro latino, e sono stati trattati come femminili
cia, le budella, le calcagna) perché la ·a è una desinenza tipica del femminile. Nell'italiano antico i casi di sopravvivenza del neutro nel plurale dei nomi erano molto più numerosi che nell'italiano attuale. In scrittori medie· vali e cinquecenteschi s'incontrano femminili plurali in ·elu" come le cartel·
u" le coltella, le martella; in testi medievali s'incontrano femminili plurali in -ora, come le corpora, le luogora, le pratora. Entrambe queste serie sono riconducibili al fenomeno generale della sopravvivenza del neutro plurale latino in
-a.
che appartenevano a questo genere furono trattate come maschili. Questo avvenne anche perché la gran parte dei termini neutri aveva un'uscita tale da fondersi e confondersi facilmente con quella del maschile. Parole di genere
3.
tempus ('tempo'), cornu ('corno') furono assi. milate a parole di genere maschile come/iliur e lupur ('figlio' e 'lupo', all'ac· cusativo /tlium e lupum) ed ebbero lo stesso trattamento: per quel che ri· guarda il genere, in italiano non facciamo differenza fra dono, tempo, corno e figlio e lupo, e li consideriamo tutti nomi maschili uscenti in ·0.
i tratti che più lo distinguono dall'italiano, risponderà che il latino, a diffe
neutro come donum ('dono'),
li neutro, ad ogni modo, non è scomparso del tutto dalla nostra lingua: ne rimangono vari relitti. In particolare, alcune parole maschili singolari in
I II
·i, l'altro femminile in ·a, ciascu· (i bracci I le braccia), il budello (i budelli / le budella), il calcagno (i calcagni I le calcagna), il cero vello (i cervelli / le cervella), il corno (i corni I le corna), il cuoio (i cuoi / le cuoia), il/t"lo (i/ili I lefila), ,l/andamento (l/andamenti I le/ondamenta), il ginocchio (i ginocchi I le ginocchia), il lenzuolo (i lenzuoli I le lenzuola), il membro (i membri I le membra), il muro (i muri I le mura), 1'0HO (gli ossi / le osra), il vestigio (i vestigi I le vestIgia), ecc. ·0
presentano due plurali: uno maschile in
no con significati e usi specifici. Per esempio: il braccio
Come si spiegano questi doppi plurali? Tutte le parole elencate erano, in
lA SCOMPARSA DEL SISTEMA DEI CASI Chiunque abbia una quakhe conoscenza del latino, invitato a indica me
renza dell'italiano, aveva i casi e le declinazioni. Casi e declinazioni erano gli strumenti attraverso i quali il latino distino gueva le funzioni logiche e i significati che una o più parole potevano avere all'interno della frase. I.:italiano affida questa funzione distintiva alla posi· zione che una parola o un gruppo di parole assumono all'interno della frase, nonché all'opposizione fra l'articolo e le varie preposizioni che possono pre· cedere un nome o un pronome. Per esempio: di a Ha comprato il libro
da con per
un amIco
1 1 0 CAPITOLO 4
I
La funzione della sequenza un amico (e, conseguentemente, il significa
MUTAMENTI MORFOlOGlCI
111
Un esempio. Nelle proposizioni che seguono, ciascuna deUe desinenze
to dell'intera frase) cambia a seconda della preposizione che la precede: di
della parola aneilla (= 'la serva') indica una diversa funzione logica e deter
un amico esprime quello che in analisi logica si chiama complemento di spe
mina frasi di diverso significato:
cificazione, a un amico esprime un complemento di termine, da un amico un complemento di provenienza; con un amico un complemento di compagnia,
per un amico un complemento di interesse. 5e poi, cambiando la posizione della parola amico e facendola precedere non dalle preposizioni ma solo dall'atticolo, dicessimo: Un amù:o ha compra to il libro, la funzione logica della sequenza un amico sarebbe quella del sog getto, e il significato della frase cambierebbe ancora. Tutto ciò conferma che posizione, uso dell'articolo e uso delle preposi zioni sono gli strumenti che in italiano consentono di distinguere le funzioni logiche di una parola o di un gruppo di parole all'interno di una frase. In latino, la funzione di distinguere le funzioni logiche di una parola non
Nominativo aru:il!.i (soggetto): Analla currit -> La serva corre ancillae (specif.): Filium ancillae video -> Vedo il figlio della serva Genitivo ancillae (termine): Praemium anallae do � Do una ricompensa Dativo alla serva
ancillam (oggetto): Ancillam saluto -> Saluto lo serva ancilla(vocativo): Ancilla, aquam funde! � Serva, versa l'acqua! ancilla (altri compI.): Cum ancilla ambulat -> Cammina con la ser
Accusativo Vocarivo Ablativo
va
era affidata né alla sua posizione (che era libera) né all'articolo (che non esi steva) né alle preposizioni: era affidata, invece, al caso, cioè alla diversa usci
. Plo(� ·
ta che una parola poteva assumere per esprimere funzioni sintattiche diver se. Nella fattispecie, i casi erano sei: nominativo, genitivo, dativo, accusati
vo, vocativo, ablativo, e ciascuno distingueva una o più funzioni logiche. 5chematizzando e semplificando al massimo, possiamo presentare il sistema dei casi nel modo che segue: Nominativo
indica la funzione logica del soggetto
Genitivo
indica la funzione logica del complemento di specificazione
Dativo
indicaTà funzione logica del complemento di termine
Accusativo
indica la funzione logica del complemento oggetto
Vocativo
si usa per un'invocazione
Ablativo
indica la funzione logica di vari complementi (mezzo, causa, provenienza, ecc.) e spesso è preceduto da una preposizione.
Nominativo Genitivo
ancillis (termine): Praemium ancillis do
La riconoscibilità di un caso rispetto a un altro era affidata alla diversa . infatti, era composto di una parte fissa (tradizionalmente indicata come radi
ce) e di una parte variabile, detta desinenza. La desinenza cambiava a secon da deUa funzione logica svolta.
�
Do una ricompensa
alle serve
Accusativo Vocatlvo Ablativo
ancillas (oggetto): Ancillas saluto -> Saluto le serve ancillae (vocativo): Ancillae, aquam fundite! -7 Serve, versate l'acqua! ancillis (altri comp!.): Cum ancillis ambulat -> Cammina con le serve
=
=
uscita che un nome o un aggettivo potevano avere. Ogni nome o aggettivo,
ancillae (soggetto): Ancillae currunt -7 Le serve corrono ancillarum (specif.): Filios ancillarum video -> Vedo i figli delle serve
Dativo
radice desinenza
Ancor prima dell'età classica, si affermò una forte tendenza a ridurre e a semplificare il complesso sistema di casi del latino.
I ,
Declinazione deUa parola ancilla (la serva'.
I MUTAMENTI MORFOLOGlCl 1 1 3
1 1 2 CAPITOLO 4
Ben presto, ad esempio, i parlanti confusero il nominativo e il vocadvo, che nella maggior parte dei nomi presentavano la stessa desinenza (ancilla ne è un esempio) ; inol· tre, alcuni complementi non furono espressi solo dalla desinenza della parola, ma anche da una preposizione che precedeva la parola stessa. Per esempio, il complemento di stato in luogo fu espresso non dall'ablativo semplice, ma dall'ablativo preceduto da in, e il complemento di moCO a luogo fu espresso non dall'accusativo semplice, ma dall'accusati vo preceduto dalla stessa preposizione in:
Vivo in urbe (in + ablativo) -) Vivo in città Eo in urbem (in + accusativo) � Vado in città
praemium una ncompensa
praemium una ricompensa
Le declinazioni - cioè i modelli di flessione dei nomi - erano cinque. •
Alla prima declinazione appartenevano:
- nomi maschili e femminili che al nominativo uscivano in -a e al geniti vo uscivano in -ae. Per esempio: poeta, poetae (maschile) 'il poeta', ancilla, •
Alla seconda declinazione appartenevano:
- nomi maschili e ferruninili che al nominativo uscivano in -us e al geni tivo uscivano in -i. Per esempio: lupus, lupi (maschile) 'il lupo' , fagus, fagi (femminile) 'il faggio' (maschile in italiano); - nomi neutri che al nominativo uscivano in -um e al genitivo uscivano - nomi maschili che al nominativo uscivano in -er e al genitivo uscivano
ad ancil/am al/a serva
in -i. Per esempio: puer, pueri (maschile) 'il fanciullo'. •
Alla terza declinazione appartenevano:
- nomi maschili, femminili e neutri che al nominativo uscivano in vario modo e al genitivo uscivano in -is. Per esempio: mons, montis (maschile) 'il monte', mater, matris (femminile) 'la madre', tempus, temporis (neutro) 'il tempo'.
Si trattava, peraltro, di una costruzione non sconosciuta al latino arcaico, visto che se ne incontrano esempi nella lingua dd commediografo Plauto, nei cui lavori teatrali possono leggersi frasi come «Ad carnificem dabo» ( 'Consegnerò al boia'), in cui il complemento di termine è reso con ad e l'accusativo. L'italiano e le lingue romanze hanno fatto propria la costruzione con la preposizione d, e non hanno raccolto l'eredità dd dativo latino. =
Divenuto il caso di tutti i complementi, l'accusativo ha finito col sosti tuirsi anche al nominativo, e si presenta, fatta salva qualche eccezione, come il caso da cui derivano tutte le parole dell'italiano (la trafila storico-fonetica che dall'accusativo latino conduce alle parole italiane è illustrata in dettaglio più avanti, nel § 6).
I nomi latini non avevano tutti le stesse uscite per distinguere i vari casi.
in -i. Per esempio: donum, doni (neutro) 'il dono';
ancillae alla serva
Nd latino tardo, però, si diffuse una costruzione che esprimeva la stessa funzione logica con l'accusativo preceduto dalla preposizione ad, originariamente adoperata per esprimere il movimento verso un luogo: Do Do
LA SEMPUFICAZIONE DEL SISTEMA DELLE DECUNAZIONI
ancillae (femminile) 'la serva'.
Col passare del tempo, presero piede due tendenze parallele: da una parte, i costrut ti con preposizione si sostituirono sempre di più ai casi semplici; dall'altra, molte funzio ni svolte da casi diversi (genitivo, dativo, ablativo) vennero trasferite all'accusativo che, da solo o preceduco da preposizione, divenne una sorta di «caso tunofare) . TI latino scolastico. ad esempio, prevedeva che la funzione logica che noi indichiamo come «complemento di termine» fosse espressa con il dativo: Do Do
4.
•
Alla quarta declinazione appartenevano:
- nomi maschili e femminili che al nominativo uscivano in -us e al geni tivo uscivano in -us. Per esempio: currus,
CU"US
(maschile) 'il carro', quercus,
quercus. !fernminile) 'la quercia'. - nomi neutri che al nominativo uscivano in -u e al genitivo uscivano in -uso Per esempio: comu, camus (neutro) 'il como'. •
Alla quinta declinazione appartenevano nomi quasi tutti femminili
che al nominativo uscivano in -es e al genitivo uscivano in -ei. Per esempio:
res, rei (ferruninile) 'la cosa'. Come mai, per presentare le varie declinazioni, non ci si limita a indica re l'uscita del nominativo, ma si aggiunge quella del genitivo? Perché la sola uscita del nominativo non consente di stabilire l'appartenenza di un sostan tivo a una declinazione piuttosto che a un'altra_
· 1
,
,
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1 14 CAPiTOL0 4
I MUTAMENTI MORFOLOGICI 1 1 5
!
Intanto, la desinenza del nominativo dei nomi di seconda e quarta decli
!
! I I
l '
partenevano all'una o all'altra declinazione? Inoltre, nei nomi di terza declinazione l'uscita del nominativo varia, e quindi non può essere stabilita a priori. L'unica desinenza che cambia in ciascuno dei cinque modelli flessionali
�r
I ,
I
I declinazione
nazione è identica: come stabilire, basandosi sul solo nominativo, se essi ap
è quella del genitivo: essa è l'unica che consente di determinare l'apparte
N G D
A
nenza di un nome a una declinazione piuttosto che a un'altra, e per questo
V
va sempre indicata.
A
La quarta e la quinta declinazione latine erano scarsamente consistenti ma e nella seconda declinazione: in particolare, i sostantivi di quarta decli mentre i sostantivi di quinta declinazione (uscenti in
-es al nominativo e
pressoché tutti femminili) confluirono nella prima declinazione, anch'essa composta in larga parte di nomi femminili. LUPUS, LUPI FRUCTUS, FRUCTUS
(IV declinazione)
ROSA, ROSAE
(I declinazione)
RABlES, RABIES
(V declinazione)
> nomi italiani in
N G D
A
(II declinazione)
-o
> nomi italiani in -Q
lupo
V
A
frutto rosa rabbia
li passaggio di un nome da una declinazione a un'altra viene definito metaplasmo.
Ancilla-ae, femminile, 'serva' SINGOLARE PLURALE ancilla ancillae ancillae ancillarum ancillae ancillis ancillam ancillas ancilla ancillae ancilla ancillis
II declinazione
sul piano numerico. I pochi nomi che le costituivano confluirono nella pri nazione (uscenti in -us o in -u al nominativo) confluirono nella seconda,
Poeta-ae, maschile, (poeta PLURALE SINGOLARE poetae poeta poetae poetarum poetae poetis poetam poetas poetae poeta poetis poeta
N G D
A V
A
Lupus-i, maschile, 'lupo' PLURALE SINGOLARE lupi lupus tuporum lupi lupo lupis lupum lupos lupe lupi lupo lupis , Donum4i, neutro, 'dono SINGOLARE PLURALE donum dona doni donorum dono donis dona donum donum dona donis dono
Pinus4i, ferruninile, 'pino' PLURALE SINGOLARE pmus pinI pIni pinorum pmo pinis pmum pinos pine pini pinO pinis Liber-bri, maschile, 'libro'
SINGOLARE liber libri libro librum liber'libro
PLURALE libri librorum libris libros libri libris
III declinazione
Di seguito si riporta, per consultazione, l a flessione completa di alcuni nomi appartenenti alle prime tre declinazioni (mentre si tralasciano i nomi della quarta e della quinta declinazione, confluiti, come si è detto, nella se conda e nella prima):
N
G D
A V
A
Consul-is. maschile, 'console' PLURALE SINGOLARE consul consules consulum consulis consulibus consuli consules consulem consules consui consule consulibus
Mater-tris, femminile, 'madre SINGOLARE matee matris matTi matrem mater matre
PLURALE matees matrwn matribus matees matres matribus
,
1 1 6 CAPITOLO 4
I MUTAMENTI MORFOLOGIO
Flumen-inis, neutro, 'fiume' N G D A
V A
SINGOLARE
PLURALE
flumen fluminis flumini flumen flumen flumine
flumina fluminum fluminibus flumina flumina fluminibus
•
117
il sostantivo acus, appartenente alla quarta declinazione, era di genere
femminile. In italiano è diventato maschile:
l'ago.
6. LA DERIVAZIONE DEI NOMI ITAIlANI DALL'ACCUSATIVO Che il caso da cui derivano i nomi dell'italiano sia l'accusativo è dimo strato non solo dalla sintassi storica, ma anche dalla fonetica storica. Tralasceremo i nomi della quarta e della quinta declinazione latina per ché, come si è detto, ben presto essi confluirono nella seconda e nella prima
5.
METAPLASMI DI GENERE E DI NUMERO Non esiste solo il metaplasmo di declinazione, ma anche il metaplasmo
di genere (quando un nome ha cambiato genere) o di numero (quando un nome ha cambiato numero). Esempi di metaplasmo di genere (oltre al caso generale dei nomi neutri passati al maschile, di cui si è già detto) si registrano nel passaggio dal latino
albero (maschile), oppure nel passaggio dal latino GLANDEM (maschile) all'italiano ghianda (femminile; il maschile glande ARBOREM
(femminile) all'italiano
'parte superiore del pene' è un tecnicismo medico). Altri cambiamenti che hanno interessato il genere o anche il numero dei nomi latini sono stati i seguenti: •
alcuni plurali neutri uscenti in
-a sono stati interpretati come femmi
nili singolari. Per esempio, dal latino F6uA (che era il neutro plurale di
F6uUM 'foglio', e dunque significava 'i fogli') in italiano si è avuto il femmini· le singolare foglia; da MllWlluA (che era il neutro plurale dell'aggettivo MIRABlLIS, -E 'ammirevole' e dunque significava 'cose ammirevoli') in italiano si è avuto il femminile singolare meraviglia; dal latino PECORA (che era il neu tro plurale di PECUS 'bestia', e dunque significava 'bestie', 'bestiame) in ita liano si è avuto il femminile singolare pecora (cap. III, § 3 .2). Per quel che riguarda il maschile e il femminile, •
i·
!, �
'If
i nomi degli alberi appartenenti alla seconda declinazione (fagus./ra
xinus, pinus, ecc.) in latino erano femminili. In italiano sono diventati ma schili: ilfaggio, ilfrassino, ilpino, ecc.;
declinazione. I nomi appartenenti a queste due declinazioni - la prima e la seconda non consentono di stabilire da quale caso derivino le parole italiane. Un nome italiano in
-a come rosa può derivare sia dal nominativo-vocativo
(ROSA) sia dall'accusativo (ROSAM: la caduta della -M finale è uno dei fenomeni più antichi del latino parIato) sia dall'ablativo (ROSA) dei nomi di prima de clinazione. Analogamente, un nome italiano in -o come lupo può derivare sia dal nominativo (LUPUS) sia dall'accusativo (LUPUM) sia dall'ablativo (LUPO) dei nomi di seconda declinazione. Invece, la flessione dei nomi maschili e femminili di terza declinazione consente di escludere che i nomi italiani derivino dal nominativo-vocativo: infatti, una parola come salule non può derivare dal nominativo-vocativo del termine latino corrispondente (SALus), appartenente appunto alla terza de clinazione; può derivare solo dall'accusativo (SALUTEM) o dall'ablativo
(SALUTE). L'ablativo, però, può essere escluso se si tiene conto della flessione dei nomi neutri di terza declinazione. Infatti, una parola come fiume non può derivare dall'ablativo del termine latino corrispondente (FLUMEN, FLUMINIS, neutro; da FLUMINE in italiano avremmo fiumene e poi fiumine) ma solo dal ,
l'accusativo (FLOMEN).
È vero che nei nomi neutri l'accusativo è uguale al
nominativo-vocativo, ma la possibilità di una derivazione dei nomi italiani
da questo caso è stata, come si è visto, esclusa . Ci sono alcune eccezioni alla norma che fa derivare le parole italiane dall'accusativo latino: - i pronomi
loro e coloro derivano, rispettivamente, da (IL)LORU(M) e
I MlITAMENTI MORFOLOGICI
1 1 8 CAPITOLO 4
(EC)cO(M) (fL)USRO(M), e illorum è il genitivo plurale del dimostrativo latino ille ( = 'quello'); - il nome della città di Firenze deriva da FLORENTIAE, genitivo locativo
119
d'età medievale, ricchi di tratti volgareggianti, sono presenti forme di accu· sativo plurale di nomi di prima declinazione del tipo capres, operes, tabules
di FLORENTIA (con il genitivo locativo i Latini indicavano lo stato in luogo
(in luogo di capras, operas, tabulas, regolari accusativi plurali di capra, opera, tabula). Queste forme di accusativo in -es sono dei volgarismi, e documenta
con alcuni nomi di città: FLORE NTlAE = 'in Firenze', 'a Firenze'; ROMAE = 'in
no la fase intermedia di una trasformazione in cui la -s finale della desinenza
Roma'. 'a Roma');
-AS
- sette parole (uomo, moglie, re, sarto, ladro, drago e fiasco) derivano
dell'accusativo plurale ha « palatalizzato» la A latina trasformandola in
una e (cap. ID, § 4.1):
non dall'accusativo, ma dal nominativo latino (o latino tardo). Uomo deriva da HÒMO; moglie da MULrER (invece, l'accusativo MULrERE(M) ha dato vita a mogliera. Si tenga anche conto del fatto che mulier nel latino classico signifi cava 'donna'; il significato di 'moglie' è proprio del latino volgare); re da RÉx; sarto da SARTOR (l'accusativo SARTORE(M) ha prodotto in italiano antico sarto re, da cui peraltro deriva sartor-ia); ladro deriva da LATRO, drago da DRACO e fiasco da FLASKO, una parola di origine gotica. La provenienza degli ultimi tre
CAPRAS > CAPRES La -s, che si pronuncia con la lingua appoggiata sul palato anteriore, ha attirato nella sua orbita articolatoria la A, trasformandola in una [e] che, ri spetto alla [al. si articola con la lingua più vicina al palato. Dopo aver palata lizzato la a in e, la -s finale è caduta (è il trattamento ricorrente delle conso
termini dal nominativo ha una spiegazione particolare. Le regolari continua
nanti in fine di parola), e cosÌ si è avuta la caratteristica desinenza -e per il
zioni degli accusativi LATRONE(M), DRACONE(M) e FLASKONE(M), cioè ladrone,
femminile plurale dei nomi in -a:
dragone e fiascone, data la caratteristica uscita in -one, furono sentite come gli accrescitivi di ladro, drago efiasco, e cosÌ queste ultime forme sostituirono ladrone, dragone efiascone. Mentre per il singolare, come si è visto, è assodato che il punto di par tenza sia stato l'accusativo, ricostruire la formazione del plurale è più com· plesso. •
I nomi maschili che al singolare escono in -o al plurale escono in -i
(tipo il lupo / i lupi). La desinenza del plurale di questi nomi (che provengo no dalla seconda declinazione) continuali desinenza -i del nominativo plu rale della seconda declinazione:
LUPUS, maschile, II declinazione Singolare
Plurale
LUPU(M) > lupo
LUPI > lupi
I nomi femminili che al singolare escono in -a al plurale escono in -e (tipo la rosa / le rose). La spiegazione più ovvia sarebbe che questa desinenza in -e derivi dall'uscita -ae del nominativo plurale, con monottongamento di •
Al!.
in E : ma questa ricostruzione contrasta col fatto che in documenti latini
CAPRES > capre ROSA, femminile, I declinazione Singolare
Plurale
ROSA(M) > rosa
ROSAS > ROSES > rose
•
I nomi maschili e femminili che al singolare escono in -e al plurale
escono in -i. La desinenza del plurale di questi nomi (che provengono dalla terza declinazione) continua la desinenza -ES dell'accusativo plurale della terza declinazione (ma potrebbe anche trattarsi della desinenza del nomina tivo, che è identica):
CANIS, maschile, III declinazione Singolare
Plurale
CANE(M) > cane
CANES > cani
CAPITOLO 4
120
PARS,
I MUTAMENTI MORFOlOGlCl 1 2 1
femminile, III declinazione
«Noster sermo - annota Quintiliano, studioso di grammatica e retorica latina vissuto nel I secolo d.C. - atticulos non desiderat»: la nostra lingua
Singolare
Plurale
PARTE(M) > parte
PARTES > parti
non vuole gli articoli. Talvolta, però, nel latino colloquiale (anche in quello dell'età arcaica o classica), unus fu adoperato con un valore non lontano da
Come si spiega il passaggio E S > 17
quello che in italiano attribuiamo all'articolo indeterminativo; inoltre, nel la tino tardo ille fu adoperato con un valore non lontano da quello che in italia
-
La 5 finale ha «palatalizzato» la il latina (che avrebbe dovuto dare una [e]) e l'ha trasformata in [i]. È un caso analogo a quello che ha prodotto la -e del plurale dei nomi in -a: la - 5 ha attirato nella sua orbita artteolatoria la -E ' trasformandola nella [il, vocale palatale per eccellènza (cap. III, § 4. 1). Occorre segnalare che nelle opere di molti scrittori fiorentini e toscani del Quattrocento e del Cinquecento s' incontrano spesso nomi femminili -
singolari in -e (tipo la parte) che al plurale non escono in -i, ma in -e (tipo le parte anziché le partI) . Evidentemente, i parlanti estesero ai nomi femminili in -e la desinenza che si adoperava per il plurale dei nomi femminili in -a, in forza di un meccanismo analogico così rappresentabile:
la casa : le case
=
la parte : le parte
7. LA FORMAZIONE DEGLI ARTICOLI
L'articolo determinativo (il, lo, la; Z gli, le) e quello indeterminativo (un, uno, una) rappresentano, rispetto al latino, una novità grammaticale che
no attribuiamo all'articolo determinativo, Cominciamo dall'accoglimento di unus con un significato vicino a quel lo dell'articolo indeterminativo italiano. Esso è documentato non solo nella lingua delle commedie di Plauto, ma anche in alcuni scritti di Cicerone (ov viamente soltanto in quelli in cui il padre del latino classico si concedeva qualche forma di tono colloquiale!). Così, in una commedia di Plauto tro viamo una frase come «Est huic unus servus indolentissimus» ( «Costui ha un servo molto indolente»), mentre in uno scritto di Cicerone leggiamo «Si cut unus pater familias his de rebus loquo!'» (= <<Parlo di queste cose così come [ne parlerebbe] un padre di famiglia»). In quest'ultimo caso è eviden te che unus non ha il valore di 'uno' di numero: nell'àmbito della famiglia, il =
padre non può che essere uno. Sicché quest'esempio in particolare fa pensa re a un unus con valore di indefinito (uno nel senso di 'un certo', 'un tale'), che in qualche misura prelude alla funzione dell'articolo indeterminativo dell'italiano.
l'italiano condivide con le altre lingue romanze: il latino, infatti, non li posse
E veniamo all'accoglimento di ille con un significato vicino a quello del l'articolo determinativo. Esso è documentato in vari testi latini medievali. Per esempio, in un trattato di dietetica del VI secolo d.C. si legge: «Fava in
Come vedremo tra breve, l'articolo determinativo italiano continua la forma latina ille, illa, illud, mentre l'articolo indeterminativo continua la for
tegra melius congrua est-quam illa fava fresa» ( = «La fava intera è più adatta della fava sgusciata»). il significato del termine illa, che precede la parola
deva.
ma unus, una, unum. Entrambe queste voci non erano articoli. Nella fattispecie, ille era un aggettivo o pronome dimostrativo che indicava qualcuno o qualcosa lonta
no, materialmente o psicologicamente, dall'emittente e dal ricevente (come il dimostrativo italiano quello: «Illa tempora recordoD> <
«
« Una sola legione combatté con coraggio»).
fava, più che coincidere col valore dimostrativo originario (= quella), sem bra avvicinarsi al valore del moderno articolo determinativo (confluito, nella traduzione italiana, nella preposizione articolata della). Le attestazioni più significative di questa forma intermedia fra il dimo strativo latino e l'articolo determinativo italiano (forma intermedia a cui gli studiosi hanno dato il nome di articoloide) si trovano, in particolare, nell'an tica traduzione latina del Vecchio e del Nuovo Testamento, nota col nome di
Itala O Vetus Latina (II sec. d.C.), che precede nel tempo la traduzione di san Girolamo, detta Vulgata (IV sec. d.C.).
t MUTAMENTI MORFOLOGICI 123
122 CAPITOLO 4
r;Itala fu redatta in un latino fortemente popolareggiante sulla base di una versione greca della Bibbia e dei Vangeli. I testi sacri del Cristianesimo erano originariamente redatti in ebraico (Vecchio Testamento), m aramaICO e in greco (Vangeli e Atti degli Apostoli), ma in Occidente il testo delle Sacre Scritture circolò in greco: fino al II secolo d.C. questa fu la lingua delle co
in Occidente, Roma compresa. munità cristiane Orbene il greco, come l'ebraico e a differenza del latino, aveva l'articolo determinativo. Ignorare questo dato grammaticale nella traduzione di un te sto sacro non era possibile: non si riportava la parola di chicchessia, si ripor tava la parola di Dio! E così, per rispettare il più possibile il testo di partenza (che, poiché era in greco, presentava gli articoli), nella traduzlOne m latmo della Bibbia e dei Vangeli talvolta l'aggettivo dimostrativo ille fu utilizzato per tradurre l'articolo determinativo greco. In proposito, l'esempio che molti studiosi ricordano è quello di un passo del Vangelo dI. GlOvanm. Nel testo greco, il passo in questione suona: <<Éleghen tbis d6deka mathetàis>:, cioè «Disse ai dodici discepoli». AI suo interno è presente l'articolo determI nativo tòis al caso dativo, da tradurre in italiano con la preposizione articola ta ai. Se dovessimo tradurre la frase dal greco in latino, non dovremmo tener conto dell'articolo: « Dixit duodecim discipulis». Nell'Itala, invece, la frase di cui ci stiamo occupando fu tradotta: « Dixit illis duodecim discipulis». Nel tentativo di attenersi il più possibile alla lettera del testo sacro, il traduttare non trascurò l'articolo greco tbis e lo fese con l'aggettivo dimostrativo latino illis. Col tempo, la forma intermedia dell'articoloide si fece sempre più fre quente, fino a trasformarsi nell' articolo vero e proprio. Il passaggio è ben documentato in una frase presente in una parodia della Lex Salica (una rac colta di leggi degli antichi Franchi Salii) risalente all'VIII secolo, nella quale un articoloide si alterna con un articolo: «ad iLIo botiliario frangant lo cabo» <<.al cantiniere rompano il capo». Esaminiamo ora la trafila fonetica che ha condotto ai vari atticoli ita liani. =
I
I
7.1. L'articolo indeterminativo
Per quel che riguarda le forme dell'articolo indeterminativo, il maschile uno continua l'accusativo maschile latino ONU(M) (un rappresenta la variante apocopata di uno), mentre il femminile una continua l'accusativo femminile latino ONA(M). Più complesso il discorso per quel che riguarda le forme dell' articolo determinativo.
7.2. L'articolo determinativo maschile
_
_
Prima di ricostruirne la storia e la formazione, ricordiamo che nell'ita liano attuale le forme dell'articolo determinativo maschile sono il e lo per il singolare e i e gli per il plurale. Com'è noto, la loro distribuzione dipende dal suono iniziale della parola che segue: tralasciando casi particolari, ricor diamo che il/i si adoperano davanti a una parola cominciante per una sola consonante che non sia né z né x (ti laccio, i dadi) e davanti a un gruppo for mato da una consonante (diversa da s) + l o r (il tratto, i blindati); lo/gli si adoperano davanti a una parola cominciante per la cosiddetta s impura (cioè seguita da altra consonante: lo spiedo, gli scacchi), per s palatale (lo scemo), per n palatale (lo gnocco), per Z (gli zii) e per x (gli xilofoni). Inoltre, lo (nella forma elisa l') e gli si adoperano davanti a una parola cominciante per vocale (l'albero, gli amici). Nell'italiano antico le forme dell'articolo determinativo maschile erano in parte diverse, ma soprattutto era diverso il loro uso. In primo luogo, nella lingua delle origini non esistevano due forme di articolo maschile singolare. L'unica adoperata era lo, proveniente dalla base latina ILLOM, con aferesi della sillaba iniziale IL, caduta deUa -M finale e nor male passaggio di O a [ol : (fL)LO(M) > lo
.i i
La forma il si è prodotta in un secondo tempo, e non autonomamente ma, per così dire, da una costola della forma lo.
1 MUTAMENTI MORFOl.OGlO 125
124 CAPITOLO 4
Originariamente, come si è appena detto, lo era l'unica forma di articolo
delle fonne dell'articolo maschile era detenninata dalla finale della parola
maschile. li suono iniziale della parola che lo seguiva era ininfluente, a diffe
che precedeva l'articolo stesso (a differenza di quanto accade nell'italiano
renza di quel che accade nell'italiano contemporaneo: non si diceva ilfrate,
contemporaneo, in cui, come si è ricordato, la scelta fra il e lo / l' dipende
ma lo frate, non si diceva il pane ma lo pane, ecc.
dall'iniziale della parola che segue) .
Molto presto, divenne importante il suono finale della parola cheprece
In particolare, nell'italiano antico s i aveva lo all'inizio di frase (a) e dopo
� l'articolo. Se la finale della parola che precedeva l'articolo era una con
parola tenninante per consonante (bl, mentre si aveva il dopo parola tenni
sonante, questa non ostacolava la piena realizzazione della forma lo. Se inve
nante per vocale (c). Valgano, in proposito, i seguenti esempi tratti dall'Infer
ce la finale della parola che precedeva l'articolo era una vocale, era facile che
no dantesco:
lo si riducesse alla sola l, secondo l'opposizione che segue: mirar /o sole � mirare l sole Bisogna ricordare che questo fenomeno, così come gli altri di cui ci stia
a) <
mo occupando, si produsse nella lingua parlata; ebbene, è facile che nel par
Questo meccanismo distributivo è indicato dai linguisti come norma
lato parole e frasi vengano realizzate in fonna rapida, affrettata. I linguisti
Grober, dal nome dello studioso tedesco che per primo lo individuò nel se
chiamano queste realizzazioni, in cui il parlante - come si dice - «si mangia»
colo scorso. Oggi questa norma non è più attiva, ma alcuni relitti dell'uso
sequenze di suoni, fenomeni di «allegro». Un dialogo come «Ti piace questo
antico si conservano in forme fossili come per lo più (o perlopiù) e per lo
disco? - Insomma» può presentarsi, in una realizzazione affrettata: «Piace
meno (o perlomeno), in cui, come si vede, l'articolo lo segue la parola per,
'sto disco? - 'nsomma».
terminante per consonante.
Ai tempi dell'italiano antico accadde la stessa cosa: se l'articolo lo era preceduto da una parola tenninante per vocale, i parlanti «si mangiavano» la o dell'articolo, e ne riducevano la pronuncia alla sola l:
bere lo vino > bere l vino dire lo vero > dire l vero fare /o Pane > fare l pane Successivamente, la l fu fatta precedere da una vocale, detta vocale d'ap
Si è detto che in Toscana la vocale d'appoggio fu [e] o (i] , e così si ebbe ro forme di articolo come el e il. Nel fiorentino due-trecentesco, però, l'articolo che convive con lo è sem pre il: anche ammesso che la vocale d'appoggio sia stata originariamente una [e], questa dovette chiudersi in [i] per protonia sintattica (cap. III, § 3 .5) : [I]
+ vocale
d'appoggio <
[e] [i]
=
=
eL> per protonia sintattica > il
il
poggio perché ne consentiva la pronuncia autonoma: era, appunto, la vocale
Questa situazione si mantenne inalterata fino alla fine del Trecento. In
su cui quella singola consonante poteva appoggiarsi per essere pronunciata
seguito, nel volgare parlato a Firenze prese piede una forma di articolo el
da sola, non in sequenza con altre parole. La vocale d'appoggio fu diversa nei vari dialetti medievali. In alcuni vol gari del nord fu [a] o [u], e così si ebbero fanne di articolo come al e ul; in
(plurale e) proveniente dai dialetti parlati nella Toscana occidentale (in par ticolare, a Pisa e a Lucca). Questa forma el/e, anche se non soppiantò quel la più antica il / i, si diffuse notevolmente nel fiorentino, tant'è che la si in
Toscana la vocale d'appoggio fu [e] o [i], e così si ebbero forme di articolo
contra nelle opere di molti scrittori fiorentini del Quattrocento e soprattutto
come el e il.
del Cinquecento che, anziché privilegiare il fiorentino della tradizione, pre
Da quanto si è detto, risulta chiaro che nell'italiano antico la selezione
ferivano adoperare quello in uso ai loro tempi. Esemplare, in proposito, il
I MUTAMENTI MORFOlOGlCI 127
126 CAPITOLO 4
caso di Niccolò Machiavelli, nei cui scritti la forma moderna dell'articolo (el / e) convive con quella tradizionale (il / i). Veniamo ora al plurale dell'articolo determinativo maschile. Le due for me che ricorrono nell'italiano contemporaneo, i (plurale eli il) e gli (plurale eli lo), hanno anch'esse una storia fonetica complessa. La forma originaria dell'arricolo maschile plurale, così nel fiorentino an tico come negli altri dialetti medievali, era li: li comandamenti, li offiai, li . onori, ecc. Si trattava del plurale di lo, regolarmente proveniente dalla base latina ILLI, con aferesi della sillaba iniziale IL e passaggio della l finale a i: (IL)LI > li Un relitto di quest'antica forma di articolo plurale può cogliersi in quel li che s'incontra (spesso erroneamente accentato: lì) nelle datazioni dei do cumenti burocratico-amministrativi (Roma, li 12 settembre 2000. . ), che ri propongono (a dire il vero, senza che ce ne sia necessità: perché conselVare una forma morta eli cui, eli fatto, si ignora il significato?) l'antica consuetueli ne di adoperare l'atticolo determinativo plurale (non singolare, come oggi) davanti ai numeri superiori a l . Torniamo all'italiano antico. Quando l'articolo li precedeva una parola iniziante per vocale, in fonetica sintattica (cioè nella realizzazione concreta della frase) si determinava una sequenza di L+J. il nesso LJ che veniva a pro dursi in una sequenza come li onori era identico a quello presente, ad esem pio, in FlLlA(M), FOLlA(M), MULIE(R) (cap. III, § 4.7). Sicché, anche in questo caso, il nesso LJ produsse laterale palatale [A]: .
li onori > gli onori La forma i nasce da una riduzione di gli alla semplice vocale palatale i: gli > i il fenomeno della riduzione di gli a i s'incontra anche in altre parole del toscario. Si possono ricordare due voci antiche come cavai e capei, forme ri dotte eli cavagli e capegli (anche queste normali nella lingua antica), e due voci moderne come bei e quei (bei colori, quei colon), forme ridotte di begli e quegli.
A loro volta, queste forme con -gli finale (cavagli, capegli, begli, quegli) derivano da un nesso LJ che si è venuto a determinare in fonetica sin tattica, in tutti quei casi in cui la i di una finale -lli, seguita da parola cominciante per vocale, è stata percepita come uno iod: cavalli alati = [ka'vallja'lati]
=
[ka'vaUa'latil
capelli al vento = [ka'pelljal'vEntol
=
=
cavar,!i alati cavagli > (per riduzione) cavai
[ka'pe,(Aal'vEntol =capegli al vento capegli > (per riduzione) capei
belli amici = ['bEllja'mitJiJ > ['bElia'mitJi] = begli amici begli > (per riduzione) bei quelli amzà = ['kwellja'mitJiJ > ['kweUa'mitJi] = quegli amici quegli > (per riduzione) quei
7.3. L'articolo determinativo femntinile
Molto più semplice la t�afila che ha condotto alla formazione dell'arti· colo femminile. Per il singolare, la base di partenza è l'accusativo femminile singolare del elimostrativo ille, cioè lLLAM, con consueta aferesi della sillaba iniziale IL e caduta della -M finale: (IL)LA(M) > la Per il plurale, la base di partenza è l'accusativo femminile plurale del di mostrativo ille, cioè jLLAS, con aferesi della sillaba iniziale IL e palatalizzazio ne della A in [el prodotta dalla -5 finale prima della caduta (è la consueta trafila della formazione del plurale dei femminili in -a, descritta nel § 6). (IL)LA5 > le
l l
I MUTAMENTI MORFOLOGICI
128 CAPITOLO 4
8. PRONOMI PERSONALI
il sistema dei pronomi personali dell'italiano è vicinissimo a quello lati no, da cui proviene. Le forme di prima e seconda persona singolare conser vano addirittura un residuo di declinazione, nel senso che, proprio come in latino, cambiano a seconda della funzione sintattica svolta: io e tu indicano un soggetto, me e te indicano un complemento.
lo deriva da *to, forma ridotta di �(G)o, nominativo del pronome di pri� ma persona.
Me, tu e te sono le regolari continuazioni delle fonne latine ME (accusati vo-ablativo del pronome di prima persona), TU (nominativo del pronome di seconda persona), TÈ (accusativo-ablativo del medesimo pronome). I. pronomi di prima e seconda persona plurale sono noi e voi, prove . menU dalle basi latine NOS e VOS: in queste, come di consueto nei monosilla bi, la -s finale si è palatalizzata (cap. III, § 4.0.
*EO > èo > éo > io
ME > me TU > tu TE > te NOS > noi vos > voi Più complesso il discorso per quel che riguarda i pronomi di terza per sona smgolare e plurale. il latino non possedeva forme autonome che aves sero questa funzione, e sopperiva alla mancanza adoper'!l1do alcuni dimo strativi: is, ille, ipse, ecc. L'italiano ha continuato proprio queste forme, attri buendo loro la specifica funzione di pronomi personali. Vediamo in dettaglio la storia di queste voci. il fiorentino antico (dall'inizio del Duecento ai primi del Quattrocento) presentava una gran varietà di forme del pronome soggetto di terza persona
3' persona singolare maschile: 3' persona singolare femminile: 3' persona plurale maschile: 3' persona plurale femminile:
I,
egli, elli, esso ella, essa essi, egli, elli, eglino elle, esse, elleno
Poi ce n'erano altre meno frequenti, come per esempio ei e la sua fonna apocopata e' (terza persona singolare e plurale maschile), la (terza persona singolare femminileJ, le (terza persona plurale femminile). Erano adoperate anche le forme lui (terza persona singolare maschile), lei (terza persona sin golare femminile) e loro (terza persona plurale maschile e femminile), quasi mai in funzione di soggetto, quasi sempre in funzione di complemento. La derivazione della maggior parte di questi pronomi dai dimostrativi
ille e ipse è evidente. Esaminiamo in dettaglio i passaggi che hanno condotto dalle basi latine alle forme italiane. Alla base di quasi tutte le forme del pronome soggetto di terza persona maschile c'è la forma latino-volgare ILLI, attestata nel latino medievale a par tire dal VI secolo. Essa è il risultato del rimodellamento di ILLE sul pronome relativo QUI: poiché la sequenza TLLE QUI ('colui che'; 'colui il quale) era mol to usata, la finale di ILLE ha sentito l'influsso della finale di QUI, e così si è passati da ILLE a ILLI. Da questa fonna si è avuto in primo luogo il tipo elli:
TLLI > elli Quando TLLI precedeva una parola cominciante per vocale, in fonetica sintattica (cioè nella concreta realizzazione della frase) la i finale di ILLI è sta ta percepita come uno J. Così, si è detenninato un nesso -LLJ- che ha prodot to una laterale palatale intensa (.(A) (cap. III, § 4.7):
Iu..! AMA(T) > elli ama > egli ama La forma 'egli' si è poi generalizzata anche davanti a consonante. Suc cessivamente, da egli si è avuto ei, per riduzione della laterale palatale inten sa (AA) a i. E' rappresenta, a sua volta, la variante apocopata di ei:
smgolare e plurale. Quelle più usate erano le seguenti: �
129
egli > ei ei> el
I MUTAMENTI MQRFOlOGICI 1 3 1
1 30 CAPITOLO 4
La provenienza di ella I elle, la I le e di eno I ena, essi I esse è la seguente:
corrente, sono stati a lungo condannati dai grammatici. Qualche insegnante d'italiano ne sconsiglia ancora l'uso in funzione di soggetto, considerando
ILLA(M) > ella ILLAS > elle (IL)LA{M) > la (IL)LAs > le
più corretti i tipi egli, ella, esso, ena. Istruttivamente, nell'italiano scritto del le prove scolastiche e in quello parlato delle interrogazioni gli studenti evita no di pronunciare frasi del tipo « Lui era persuaso che . .. del tipo «Egli era persuaso che . . .
».
»,
preferendo frasi
Si tratta, naturalmente, del residuo di
una tradizione purista che non ha ragione d'essere nell'insegnamento, nel
Ipsu(M) > esso IpsA(M) > essa IpsI > essi IpsAs > esse
al soggetto: «Gianni parla di
La forma di terza persona plurale eglino è il risultato di un rimodella
singolare e plurale.
mento analogico: essa fu costruita dai parlanti sul modello della forma di ter za persona singolare egli, alla quale fu aggiunta la desinenza -no, tipica della terza persona plurale dei verbi ( dicono , sentivano, gridino ecc.). Successiva mente, su eglino fu modellato il femminile elleno.
Lui, lei e loro hanno una storia in parte diversa. Lui proviene dalla base latino-volgare ILLur (modellata dai parlanti su CUI, pronome relativo al caso dativo: = a cui, al quale), con perdita della silla ba iniziale IL- per aferesi. Lei proviene dalla base latino-volgare iLLEI (rifatta sul maschile ILLUI), con perdita della sillaba iniziale IL- per aferesi (cap. III, § 5.4). Loro deriva da ILLORU(M), genitivo maschile plurale di ille (= di quell,) , con perdita della sillaba iniziale IL- per aferesi. Come si è detto, nel fiorentino antico le forme lui, lei e loro erano ado perate molto di rado in funzione di soggetto. Poiché, con tale valore, queste forme erano assenti o quasi dalla lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio, esse
l'apprendimento e nell'uso dell'italiano attuale. La lista dei pronomi di terza persona singolare e plurale è completata dalla forma sé, che ha la funzione di un complemento riflessivo, cioè riferito nua il latino SE, accusativo-ablativo del pronome riflessivo di terza persona Tutte le forme pronominali finora descritte sono toniche, cioè accenta te. La lingua italiana ha anche alcune forme pronominali atone, cioè prive di accento. Esse hanno funzione di complemento e, in quanto atone, per la pronuncia si appoggiano al verbo: «mi parla», «ti vede», «guardalo», «ascol taci», ecc. Proprio perché si appoggiano al verbo per essere pronunciati, questi pronomi atoni vengono chiamati anche clitici (dal verbo greco clino, 'mi..aIlPoggio'), e in particolare proclitici se precedono il verbo a cui si ap poggiano «<mi parla») e enclitici se seguono il verbo a cui si appoggiano
«
l ' persona singolare: mI 2' persona singolare: 3' persona singolare:
furono censurate dai grammatici ed evitate dagli scrittori attenti al modello del fiorentino letterario trecentesco. Nonostante questo, pian piano esse si affermarono nella lingua parlata e in quella scritta di tono colloquiale (per esempio la lingua delle commedie, che cercava di avvicinarsi al tono della conversazione familiare) . Fra Ottocento e Novecento, quanto più si è diffu so l'italiano colloquiale, tanto più si è perpetuata una situazione ambigua sul piano normativa: lui, lei e loro in funzione di soggetto, normali nella lingua
sé» , «Claudio e Maria parlano di sé». Sé conti
ti gli / le (complemento di termine maschile e fem minile) lo / la (complemento oggetto maschile e femminile); si (complemento riflessivo)
l' persona plurale:
Cl
2' persona plurale:
VI li / le (complemento oggetto maschile e femmi nile); si (complemento riflessivo)
3' persona plurale:
I MUTAMENTl MORfOlOGlCl 133
132 CAPITOLO 4
Mi, ti e si derivano dalla chiusura della e dei pronomi me, te e sé in pro tonia sintattica (me, te e sé, anche se tonici, hanno scarsa consistenza foneti
Vedi qui = Vedi noi = Ci vedi Vedo lì = Vedo voi = Vi vedo
ca; nella realizzazione concreta della frase si appoggiano al verbo cbe li se gue, e così il loro accento s'indebolisce Hno a perdersi. Conseguentemente, la e di me, te e sé diventa protonica e subisce la consueta chiusura in i): ME vIOÈT > me vede > mi vede
SE VIOET > se vede > si vede
Gli, lo, la, li e le derivano da varie forme declinate del pronome dimo strativo ille: (ILlLf > li > gli (fL)Lil(M) > lo (lL)LA(M) > la (lLlLf > li (IL)LAs > le
(l)NOE > *N(O)E > ne
("ci siamo», «vi andò»). Le basi latine da cui derivano
In particolare, ci proviene da (EC)cE mc (= 'ecco qui'), con aferesi della
sillaba iniziale e elisione della -E fmale in �CCE; vi deriva da (1M (= 'là'), con aferesi della vocale iniziale;-s'pirantizzazione B > v, passaggio di l a e chiusa [el e successiva chiusura di [el in (il in protonia sintatrica:
i
.,
ficava 'da questo luogo', 'da quel luogo'. L'italiano attuale ha conservato questa antica funzione: oltre che pronome personale, infatti, ne è un avver bio che indica il luogo da cui si viene (ne = da qui, da lì, ecc.). Da lNoE si sono avute l'aferesi della l iniziale e un'inconsueta riduzione
sono appunto forme avverbiali di luogo.
i
plemento indiretto formato dalle preposizioni di, da + un pronome di terza persona singolare e plurale: di lui, di lei, di loro (e, con valore «neutro», di ciò); da lui, da lei, da loro (e, con valore «neutro», da ciò). Questa forma pronominale continua l'avverbio lNoE, che in latino signi
del nesso -NO- alla sola nasale:
Ci e vi, oltre che pronomi di prima e seconda persona plurale, sono an
il
« (rLlLIs) è stato perlopiù sostituito da loro « (lL)LORU(M): «dico loro», «parlo loro», ecc.). Fra il'ronomi atoni c'è, infine, la forma ne, che ha il valore di un com
TÈ vloET > te vede > ti vede
che avverbi 'di luogo
Alla terza persona plurale, per il complemento di termine il pronome gli
La riduzione NO > N si registra anche all'interno di parola, nel verbo lati no volgare *MANDlCARE (cioè 'mangiare', in latino classico MANOUCARE), che ba dato l'italiano antico manù:are (da cui manicaretto, cap. I, § 2). Nel caso di (l)NOE, la riduzione si spiega col fatto che una parola come questa, in fonetica sintattica, tendeva ad assumere una posizione protonica, appoggiandosi, per la pronuncia, al verbo che la seguiva. Era facile, cioè, che in una sequenza del tipo *NOE VENIS la forma *NOE, protonica rispetto a vENlS, perdesse ulteriormente consistenza fonetica e si riducesse a ne:
(EC)cE H'ic > ci (!)NOE vENIS > *N(O)E vENIS > ne vieni
mBl > ve > vi li collegamento fra le due forme avverbiali (qui,
Hl e le due forme pro
nominali (ci = noi, a noi; vi voi, a voi) è avvenuto sul piano semantico, sulla =
base di equivalenze di significato del tipo di quelle cbe seguono:
I MUTAMENTI MORFOLOGICI 1 3 5
1 34 CAPITOLO 4
Loro, infme, deriva da (IL)LORO(M), genitivo plurale del dimostrativo la
9. AGGEITM E PRONOMI POSSESSM
tino ilIe (letteralmente 'di quelli', 'di loro'; § 6). La lista degli aggettivi e pronomi possessivi dell'italiano è la seguente:
Maschile · 1" persona singolare: 2" persona singolare: 3" persona singolare: l' persona plurale: 2' persona plurale: 3" persona plurale:
smg.
pL
mio tuo suo nostro vostro loro
mIe:
J
tuoi SUOI
nostri vostri loro
I
,
F.....,..ume sing. mIa tua sua nostra vostra loro
p}. mie tue sue
nostre vostre loro
Da dove vengono queste forme?
Mio, mia e mie derivano dalle basi latine MEO(M), MEA(M), MEAS: in tutti e tre i casi, la � tonica latina si è regolarmente chiusa in iato. Miei viene da MEl, con dittongamento di E tonica in [jEl.
_.
-
Tuo, tua e tue; fUO, sua e sue vengono dalle basi latine TUO(M), TUA(M), TUAS; SOO(M), SOA(M), SOAS. Queste forme hanno dato, in un primo tempo, t60, Ida, tDe; roo, s6a, soe; in un secondo tempo, la o chiusa [o] si è ulterior� mente chiusa in iato. Le forme maschili plurali tuoi e suoi non sono facilmente spiegabili, Le basi latine TOI e 501 avrebbero dovuto produrre toi e sai, con o chiusa [al, non tuoi e suoi, con un dittongo che presupporrebbe una base con 6 {-*T6I, *sOl > tuoi, SUOlI. Forse, tale dittongo è rimodellato sul dittongo ie presente nel maschile plurale di prima persona miei.
Nostro (nostra, nostri, nostre) deriva dal latino classico NOSTRU(M),
:1
r
�l �,"
(N6sTRA(M), N6sTRI, N6sTRAS).
Vostro (vostra, vostri, vostre) deriva da V6STRO(M) (V6STRA(M), v6sTRl, VOSTRAS).
Vostrum è l'accusativo singolare di voster, che è forma del latino collo quiale: il latino classico, infatti, aveva vester, con e. Voster, dovuto all'influsso di noster e documentato già nelle commedie di Plauto, si afferma definitiva mente nel latino tardo.
lO. AGGEITM E PRONOMI DIMOSTRATIVI TI latino classico aveva un'ampia gamma di aggettivi e pronomi dimo strativi (cioè di quelle fanne che servono a collocare qualcuno o qualcosa nello spazio o nel tempo:
I
=
(EC)c(E) HOC > ciò, per elisione della E finale di ECCE P�R HOC > però (si ricordi che la parola però, prima di sviluppare l'attuale significaro avversativo, significava 'perciò', 'per questo') 15 sopravvisse, nell'italiano antico, solo nel dimostrativo
desso (= 'proprio quello' ,
,
136 CAPITOLO 4
'proprio lui', riferito a persona), proveniente da id ('quello', 'quella cosa', neutro di is)
I MUTAMENTI MORFOlOGro 137
+
ipsum ('stesso'. accusativo di t'pse): (l)o !PSU(M) > desso
Ipse non fu più usato col valore rafforzativo di 'stesso', ma con altri valori: • di articoloide o senz'altro di articolo: nella parodla della Lex Salica già citata nel § 7 si legge la frase «Et ipso cuppa frangant la tota» := «E la coppa, la rompano tutta», in cui ipso ha chiaramente il valore di un articolo; il sardo, quasi unica tra le lingue romanze, fa derivare i suoi articoli determinativi so, sa da (IP)SO(M) e da (lp)sA(M); • di pronome personale: le forme pronominati di terza persona singolare e plurale :sso, essa, essi, esse derivano, rispettivamente, dagli accusativi di ipse IpsO(M), IpsA(M), IPSI, IPSAS.
Il sistema tripartito latino rappresentato da hic, iste e ille si conservò in italiano, ma si fondò su forme in buona parte diverse. Intanto, nel latino parlato i dimostrativi non furono usati da soli, ma vennero rafforzati dall'avverbio espressivo e attualizzante ECCUM ('ecco', con evidente riferimento al contesto situazionale). Peraltro, forme come ec cillu, eccista, composte da un dimostrativo preceduto dall'avverbio ECc(E) (identico a ECCUM per significato), sono attestate, nel latino popolare, fin dal I secolo a.c. Si ebbero, in particolare, tre forme di dimostrativo rafforzate da ECCUM: ECCU(M) ISTu(M) ECCU(M) TIBI lsTu(M) ECCU(M) ILLu(M)
Da EcCU(M) ISTU(M) si è avuto questo, da ì'.cCU(M) TIsI Isn1(M) (letteral mente: 'ecco a te codesto') si è avuto codesto e infine da ECCU(M) ILLu(M) si è avuto quello. Le trafIle di questo e quello sono molto simili, e quindi le illustreremo insieme. In ECCU(M) si sono avuti l'aferesi della sillaba iniziale ile, il passaggio di U a [o] e la caduta della -M finale; in Isn1(M) e in ILLO(M) si sono avuti il passag gio di l tonica a [e], il passaggio di O a [o] e la caduta della -M finale. La suc cessiva chiusura della o in iato in u ha determinato il prodursi della labiove lare [kw], resa col digramma qu:
(EC)cO(M) lsn1(M) > coesto > questo (EC)CO(M) ILLO(M) > coello > quello
Codesto, infine, si è formato nel modo che segue: (ilc)CU(M) TIsl lsn1(M) > cote(v)esto > cotesto
In italiano antico la forma cotesto è del tutto normale; codesto ne è la va -riante con l'occlusiva dentale intervocalica sonorizzata. Come si è detto, tradizionalmente le grammatiche attribuiscono a que sto la funzione di indicare qualcuno o qualcosa vicino a chi parla, a codesto la funzione di indicare qualcuno O qualcosa vicino a chi ascolta e a quello di indicare qualcuno o qualcosa lontano sia da chi parh sia da chi ascolta. Di fatto, codesto è sconosciuto all'uso italiano contemporaneo, che al sistema a tre dimostrativi (questo / codesto / quello) ha preferito un sistema ridotto a due dimostrativi (questo / quello), selezionati in base all'opposizione vicino / lontano. I! sistema tripartito tradizionale resiste bene in Toscana, dove codesto è usatissimo, e resiste nell'italiano burocratico, nel cui àmbito codesto ha una sua funzionalità: chi invia una lettera a un'istituzione pubblica, giustamente indica tale istituzione col dimostrativo codesto: «Si prega codesto ufficio... ». Di fatto, al momento della ricezione, l'ufficio sarà lontano da chi ha scritto la lettera, e vicino al funzionario che la leggerà: l'uso di codesto obbedisce, dunque, a quelle esigenze di precisione che il linguaggio burocratico da sempre (ma non sempre a ragione) rivendica. Oltre a questo, codesto e quello, l'italiano possiede aft�i aggettivi e pro nomi dimostrativi, fra j quali spiccano per importanza stesso e medesimo, che possono avere sia una funzione identificativa (cioè indicare un rapporto di identità o di corrispondenza: «Abbiamo la stessa insegnante d'inglese», «Gianni e Marco hanno il medesimo problema») sia una funzione rafforzati va (cioè mettere in rilievo qualcuno o qualcosa rispetto a qualcun altro O a qualcos'altro: «Il risultato è giusto. Lo hanno riconosciuto gli stessi tuosi
( = perfino i tifosi) della squadra sconfitta»). Stesso deriva dall'unione di due dimostrativi, iste e ipse: (I)ST(OM) IPSu(M) > stesso
---I
I MUTAMENTI MORFOlOGtO 139
1 38 CAPITOLO 4
In (r)ST(UM) si sono prodotte l'aferesi della l iniziale e la consueta caduta della -M finale. Inoltre, si è avuta elisione della O davanti alla I iniziale della parola successiva lpsO(M). In questa, la l tonica ha dato e chiusa [e], il nesso consonantico -PS- ha dato una sibilante intensa [ss] per assimilazione regres siva, la O ha dato o chiusa [o] e la -M fIDale è caduta. Medesimo, invece, deriva dall'unioI)e dell'elemento rafforzativo me!
(= 'proprio') con ipsissimum, superlativo di ipsum:
plemento oggetto: « sì ch'io veggia la porta di san Pietro / e color cui tu fai cotanto mesti» (Inferno I 134-135). Cui deriva direttamente dal dativo del pronome relativo latino qui, quae, quod, che è cOI. Che, invece, deriva dal pronome interrogativo e indefinito neutro latino Qulo ( = che cosa?, qualcosa), con riduzione della labiovelare a velare semplice (cap. III , § 4.4), passaggio di l tonica a e chiusa [e] e raddop piamento fonosintattico prodotto dalla -o finale (cap. III, § 5.9). Alcuni studiosi hanno ipotizzato cbe il che relativo non derivi da QUiD, ma da QUf(M), accusativo maschile del pronome relativo latino.
Nel latino classico -MET era un suffisso rafforzativo che significava 'pro prio'. In quanto suffisso, esso veniva normalmente aggiunto alla parola che rafforzava: Ego + mel = egomel 'proprio io'; nos + mel nosmel 'proprio noi'. Nel caso del latino volgare *METlp(SIS)sIMO(M), invece, MET è adoperato non come suffisso ma come prefisso: precede IpSISSIMO(M) anziché seguirlo. La sonorizzazione della dentale intervocalica (-T- > ti) fa pensare che l'ita liano medesimo sia un francesismo, un adattamento del francese antico me desme. =
I l . PRONOMI RELATIVI
Questa ipotesi, del tutto plausibile dal punto di vista della fonetica stori ca, è improbabile dal punto di vista della morfosintassi storica. Nel latino volgare, infatti, Qulo ha esteso fortemente la sfera d'uso che aveva nel latino classico, e ha preso il posto di molte altre parole, come per esempio la con giunzione causale QUlA, la congiunzione causale-dichiarativa QUOD e la con giunzione comparativa QUAM. In effetti, nell'italiano attuale il che proveniente da Qulo svolge, fra le al
tre, le funzioni che il latino affidava a QUIA, a QUOD e a QUAM: causale «<Sbri gati che è tardi» ), dichiarativa «
L'italiano ha due tipi di pronome relativo: uno variabile (il quale, la qua le; i quali, le quali) e uno invariabile (che / CUI) .
Qulo, che ha convogliato su di sé tante funzioni, abbia assunto anche quella
di pronome relativo.
Il tipo variabile continua le forme dell'aggettivo interrogativo qualis: dall'accusativo singolare QUALE(M) si è avuto quale e dal nominativo-accusa tivo plurale QUALES si è avuto quali, in entrambi i casi col mantenimento della labiovelare primaria [kw] davanti ad A (cap. III, § 4.4). Il tipo invariabile, ben più frequente e importante dell'altro, alterna la
forma che (usata in funzione di soggetto e complemento oggetto) alla forma cui (usata per gli altri complementi, con o senza preposizione). Due precisazioni: a) l'italiano antico e moderno accoglie che anche in funzione di comple mento indiretto: «Frequenta cattive compagnie, del che non mi meraviglio», <
1 2 . AGGEITM E PRONOMI INDEFINITI
Illustriamo ora la formazione di alcuni dei più importanti aggettivi e pronomi indefiniti dell'italiano: qualche (aggettivo), qualcuno, qualcosa (pro nome), alcuno (aggettivo e pronome), cerio (aggettivo e pronome), lale (ag gettivo e pronome), allro (aggettivo e pronome), ogni (aggettivo), ognuno (pronome), Iullo (aggettivo e pronome). Qualche non deriva direttamente dal latino, ma dalla riduzione della lo cuzione italiana qual che sia, con perdita di sia e univerbazione (cap. III, §
5.4) di qual e che.
l MUTAMENTI MORfOlOGlO 141
140 CAPITOLO 4
Analogamente, qualcuno e qualcosa derivano dalle forme italiane qual
intensa si deve alla variante TOrruS, diffusa nel latino tardo e documentata
che uno (con elisione della -e fmale in qualche e univerbazione) e qualche
dai grammatici; la u tonica si deve invece a un probabile incrocio con la for
cosa (con apocope di che e univerbazione). Alcuno deriva da *AL(I)cUNU(M), che a sua volta è l'evoluzione latino
non lutto.
ma NULLUS: infatti da TOTTU(M) con O tonica avreD1ffiO dovuto avere *lotto,
volgare del latino classico ALIQUEM UNUM: da notare, in *AL(I)cUNU(M), la sin cope della I intertonica, posta tra accento secondario e accento principale.
Certo deriva da cERTU(M), con un ampliamento del significato originario: in latino certUJ significava sÌ 'certo', ma solo nel senso di 'sicuro'. 'risoluto'. Tale deriva da TALE(M). Altro deriva da ALT(E)RU(M), con sincope della E postonica. Occorre ri cordare che il latino classico esprimeva il significato di 'altro' con due indefi niti distinti: alter (che significava 'altro' fra due) e alius (che significava 'al tro' fra più di due). li latino volgare ha conguagliato i due valori nella prima forma, e cosÌ la seconda non ha avuto continuatori. li latino classico utilizzava due indefiniti diversi anche per il significato
1 3 . ILVERBO Nel passaggio dal latino all'italiano, il sistema verbale ha subito modificazioni fortissime. Le più importanti sono state:
a) la riduzione delle coniugazioni verbali; b) la formazione dei tempi composti; c) la diversa formazione del futuro;
d)
la formazione del condizionale, che in latino non esisteva;
e) la formazione del passivo perifrastico.
di 'tutto': omnis (che significava 'tutto' in relazione al numero: « Omnes mili tes perierunt»
=
«Morirono tutti i soldati») e totus (che significava 'tutto' in
relazione alla quantità: <
=
<
13_1_
La riduzione delle coniugazioni verbali
sero tutto (cioè tutto quanto, tutto intero) l'accampamento»). L'italiano è l'unica lingua romanza che continua sia omnis sia lotus.
li latino aveva quattro coniugazioni verbali, distinguibili in base all'usci
Dall'accusativo di omnis OMNE(M) è derivato ogni, che ripropone il signi
ta dell'infinito: i verbi che all'infinito uscivano in -ARE (come ad esempio
ficato di 'tutto' in relazione al numero. Quanto alla trafila fonetica che da OMNE(M) ha portato a ogni, in prinlo luogo il nesso consonantico -MN- ha
vano in -ERE (come per esempio TTMERE) appartenevano alla seconda coniu
dato nn per assimilazione regressiva, e così da OMNE(M) si è passati a onne:
gazione; i verbi che all'infinito uscivano in -ERE (come ad esempio LEG�RE)
AMARE) appartenevano alla prima coniugazione; i verbi che all'infinito usci
appartenevano alla terza coniugazione e i verbi che all'infmito uscivano in
OMNE(M) > onne
-IRE (come ad esempio FINIRE) appartenevano alla quarta coniugazione.
In fonetica sintattica la -e di onne, se seguita da una parola cominciante
stinguibili in base all'uscita dell'infinito: -are (prima coniugazione), -ere (se
Rispetto al latino, l'italiano ha soltanto tre coniugazioni, anch'esse di per vocale, si è chiusa in iato, trasformandosi in una i, che in quanto seguita da un'altra vocale ha assunto il valore di iod [j]. li nesso [nj] che così si è venuto a determinare ha prodotto nasale palatale [p]:
conda coniugazione), -ire (terza coniugazione). La differenza si spiega col fatto che, nel passaggio all'italiano, i verbi la tini in -ERE e i verbi latini in
-ÉRE confluirono in
un'unica coniugazione, la
seconda, che infarti comprende sia verbi del tipo temere «
onne anno ['onne 'anno] > ['onnj 'anno] > ['oppi 'anno] ogni anno
stingue fra � ed E. Alla base della forma lutto c'è l'indefinito latino ToTO(M). La dentale
TlMERE) sia verbi
del tipo leggere « LEGERE): il conguaglio è ovvio, perché l'italiano non di
I MUTAMENTI MORFOlOGlCI 143
142 CAPITOL0 4
Nel latino parlato, la E di alcuni di questi verbi ha mutato quantità, il che ha prodot to uno spostamento di coniugazione in latino e uno spostamento d'accento in italiano. Per esempio, alcuni verbi di seconda coniugazione sono passati alla terza (MORDERE. RIDERE. RESPONOERE > MORD�RE. RIDlRE. RESPONOÌ!RE). e così l'accento è passato dalla pe nultima alla terzultima sillaba (mordére, ridére, respondére > mò,dere. rùiere, n'spimderel; speculannente, alcuni verbi di terza coniugazione sono passati alla seconda (CADERE, SAP�RE > CADERE, SAPERE) e cosÌ l'accento è passato dalla terzultirna alla penuIrima sillaba (càdere, sàpere > cadére. sapére).
ama), in -e nei verbi di seconda coniugazione (TIME(T) > teme e SCRlBI(T) > scrive) e anche nei verbi di terza coniugazione, per analogia (SENTI(T) > sente).
Delle tre coniugazioni italiane, solo la prima e la terza sono state e sono
niugazioni, -famo: amiamo, temiamo, sentiamo. Originariamente, però,
tuttora produttive. Ciò vuoi dire che, se si forma un nuovo verbo (o se entra
l'uscita era un'altra: dalle basi latine -AMOS, -EMUS, -IMUS si ebbero le desinen
attestata in italiano antico (tu ame, tu canle, tu gride, ecc.), successivamente chiusasi in -i. Alla terza persona singolare la caduta della -T finale latina ha prodotto una terminazione in -a nei verbi italiani di prima coniugazione (AMA(T) >
La desinenza della prima persona plurale è, nei verbi di tutte e tre te co
in italiano un verbo proveniente da un'altra lingua), esso assume le desinen
ze -amo, -emo, -imo. Forme come pariamo, tememo, sentimo erano normali
ze della prima o (oggi più raramente) della terza coniugazione, non quelle
nell'italiano antico e sono tuttora vive nei dialetti. il fatto che in italiano si
della seconda. Si possono citare, per l'italiano di oggi, verbi di recente atte
adoperi il tipo in -iamo è una prova evidente della fiorentinità della nostra
stazione come cliccare ('premere il tasto del mouse per inviare un comando
lingua: infatti solo a Firenze le desinenze -amo, -emo, -imo furono soppianta
al computer) o meilare ('inviare un messaggio di posta elettronica'), e per
te, a partire dalla seconda metà del Duecento, dall'unica uscita in -iamo, de
l'italiano di ieri verbi come geslire (derivato da geslione), attestato dalla fine
rivata dalla desinenza del congiuntivo presente dei verbi di seconda e quarta
dell'Ottocento, o guarire (adattamento del verbo germanico warjan 'difen
coniugazione latina (TIMEAMUS > lemiamo, SENTrAMOS > senliamo).
dere'), attestato dalla fine del Duecento.
Alla seconda persona plurale le tre uscite -ate, -ele, -ite sono la regolare continuazione delle terminazioni latine -ATl(s), -ETIS, -ITIs: AMATI(s) > amale,
TIMETI (s) > temete, SENTITI(s) > sentite. 13.2_ .laformazione del presente indicativo Le terminazioni del presente indicativo italiano continuano, con qual che modificazione, le terminazioni del presente indicativo latino. Alla prima persona singolare è generale la desinenza -o (amare -> amo,
leggere -> leggo, senlire -> senio), che caratterizzava i verbi di tutte e quattro le coniugazioni latine (AMARE -> AMO , TIMERE -> TIMEo, SCRlBERE -> SCRlBO, SENTIRE -> SENTIO). Alla seconda persona singolare è generale la desinenza -i (amare -> ami,
scrivere -> scrivi, senlire -> senti). In latino la desinenza di seconda persona era una -s (AMARE -> AMAS, TIMERE -> TlMEs, SCRlBERE -> SCRlBIs, SENTIRE -> SENTIS), che nei verbi provenienti dalla prima, seconda e terza coniugazione, prima di cadere, ha palatalizzato la vocale che la precedeva, fino a trasfor marla in una ·i, e nei verbi provenienti dalla quarta coniugazione è caduta:
AMAS > ami; TIMES > temi e sCRIBls > scrivi; SENTI(s) > senli. Nei verbi di prima coniugazione un primo grado di palatalizzazione ha prodotto un'uscita in -e,
L'uscita in -no caratteristica della terza persona plurale (amano, temono,
senlono) è il risultato di un'estensione analogica. Secondo un'accreditata ipotesi ricostruttiva, dalle basi latine di terza persona plurale del presente indicativo AMANT, l'iMENT, SENT(I)uNT si ebbero in un primo tempo, per cadu ta della -NT finale, le forme ama, teme, sento. Per evitare che la terza persona plurale si confondesse con la terza o con la prima persona singolare, i par lanti svilupparono una finale -no, che in seguito fu percepita come l'uscita caratteristica della terza persona plurale: amano, temeno (e poi, con assimi lazione della e in o dovuta alla contigua n, temono), sentono. Originariamente, l'aggiunta di una
-o
epitetica a una
-
n
finale interessò
la forma SUM (> *SUN 'sono', prima persona singolare del presente di ESSE es '
sere'), passata a san e poi a sono. Nella flessione del presente di ESSE, *SON (prima persona singolare) si confondeva con SUN(T) (terza persona plurale), che ebbe la medesima evoluzione: sono. Da questa voce verbale, sono, la caratteristica uscita -no si estese per analogia a tutte le terze persone plurali, del presente indicativo e non solo
144 CAPITOLO 4
I MUTAMENn MORFOl.OGlCI 145
del presente indicativo: amano, temono. sentono e anche amavano, temeva no, sentivano, amarono, temerono, sentirono, ecc.
oppure la quantirà o il timhro delle vocali: vENIT ..... vENIT --Tema del perfetto Tema del presente
13.3.
la
formazione del passato remoto
n passato ,emoto italiano deriva dal perfetto indicativo latino.
Nella lingua di Roma antica questo tempo verhale aveva due valori fon· damentali: poteva indicare un fatto compiutosi e conclusosi nel passato « AMA VIT
Tema del perfetto Tema del presente FINIT -> FlNIVIT Tema del perfetto Tema del presente --
--
In alcuni verhi di seconda e in molti verhi di terza coniugazione le diffe· renze tra presente e perfetto potevano riguardare le consonanti del tema: R10ET -> R1srT Tema del perfetto Tema del presente MITTIT -> MISIT
CAPIT ..... CEPIT
Infine, le differenze potevano consistere in un mutamento vocalico e in un'aggiunta iniziale detta raddoppiamento, in corsivo nell'esempio: CADIT ..... cEclon· Tema del perfetto Tema del presente
Nel passaggio dal perfetto latino al passato remoto italiano, molti tratti specifici del perfetto si mantennero, alcuni furono sostituiti, altri si persero. Data la grande varietà di forme del perfetto latino, è impossihile dar conto di tutti i tipi di passato remoto che ne sono derivati; ci limiteremo alla storia fonetica e grammaticale dei modelli più importanti. I verhi regolari di prima e di quarta coniugazione avevano, come si è detto, un perfetto uscente, rispettivamente, in -AVI e in ·IVI. Le trasformazio ni che le singole voci subirono sono le seguenti: • Prima persona singolare: AMA(v)I > amai; F1NI(v)f > finii. Nel perfetto dei verhi di quarta coniugazione, la caduta della ·v· intero vocalica (che, lo ricordiamo ancora, sul piano fonetico era una u semivocali· ca [w]) era già del latino classico; nel latino volgare essa si estese per analogia alla prima persona del perfetto dei verhi di prima coniugazione. • Seconda persona singolare: AMA(VI)STI > amasti; F1Nl(VI)STI > finisti:-· Le forme italiane presentano, rispetto alle hasi latine, sincope della silla· ha VI e ritrazione dell'accento (da amavisti ad amàsti). • Terza persona singolare: AMAv(rh > AMAUT > amò; FlNlv(rh> FlNIUT > fintò > finì. La caduta della r dell'uscita determina, nel perfetto dei verbi di prima coniugazione, la formazione di un dittongo secondario AU (si ricordi che la V sul piano grafico equivale a u sul piano fonetico) che si monottonga in [J], donde la caratteristica forma tronca amò. Nel perfetto dei verhi di quarta coniugazione, la medesima caduta della r e il passaggio della U atona a [o] producono una forma uscente in ·ìo, con successiva caduta della o finale per
146
WIlOLO 4
I MUTAMENTI MORFOLOG1Cl
analogia con la forma corrispondente di prima coniugazione. •
Prima persona plurale:
Queste forme in -etti si diffusero fin dal Duecento sul modello di stetti, passato remoto di stare derivato dalla base latino-volgare *S�TUI.
> amammo; FlNlv(I)MUS > finimmo. AMAV(I)MuS
La l cade per sincope; il nesso consonantico milazione regressiva. • Seconda persona plurale:
-VM- passa a
147
-mm- per assi
I passati remoti del tipo amai, temei,linii, accentati sulla desinenza, ven gono chiamati deboli; essi convivono coi passati remoti forti, che in tre per sone (prima e terza singolare, terza plurale) sono accentati sulla radice. An
AMA(VI)ST'1(S)
> amaste;
che i participi passati si distinguono in deboli se accentati sulla desinenza
FINI(VI)STf(S)
> finirte.
(amàto < AMAW(M)) e forti se accentati sulla radice (détto < Dlcru(M)). Que ste forme forti sono la regolare continuazione di perfetti latini (o latino-vol
Le forme italiane presentano, rispetto alle basi latine, sincope della silla ba VI e ritrazione dell'accento (da amavùtir ad amàste). • Terza persona plurale: AMA(VE)RU(NT) > amaro > amarono; FlNI(VE)RU(NT) > finiro > finirono. Alla pronuncia AMAVÈRUNT, FINIVÈRUNT del latino classico si affiancò ben presto, nel latino colloquiale, la pronuncia con accento ritratto AMAVERUNT, FINÌVERUNT. In queste forme con accento ritratto la sincope della sillaba VE e la caduta di -NT produssero i tipi amaro,finiro, che sono le forme originarie di terza persona plurale del passato remoto, attestate nell'italiano delle ori
glIU. Successivamente (per la precisione, dalla fine del XIII secolo in poi), queste forme in -aro e in -iro furono completate dalla sillaba -no, che i par lanti aggiunsero per analogia con altre voci di terza persona plurale (per esempio amano, sentono, ecc.). TI tipo più antico amaro,finiro continuò ad essere usato soprattutto nel la lingua della poesia: ancora nell'Ottocento nei versi di Giosue Carducci
s'incontrano parole come abbandonaro,fermaro, guardaro, addormiro, parti ro, evidente eredità dell'italiano antico. In alcuni verbi di seconda coniugazione (per esempio, cedere, temere, ecc.) si affermò una forma di passato remoto in -ei, -esti, -é, -emmo, -este, -erono. Tale modello si diffuse per analogia col passato remoto dei verbi di prima e di quarta coniugazione del tipo amai e finii, molto più numerosi dei rari verbi di seconda coniugazione (DEL�O, FLEo, COMPLEO e pochi altri) con un perfetto uscente in -E'VI, naturale presupposto di un passato remoto in -ei. Alcuni di questi verbi col passato remoto in -ei presentano, alla prima e terza persona singolare e alla terza persona plurale, una forma parallela in -etti, -ette, -ettero: così abbiamo assistei e assistetti, cedei e cedetti, credei e credetti, temei e temetti, vendei e vendetti, ecc.
gari) forti di prima, seconda e terza coniugazione, accentati anch'essi sulla radice. Eccone alcuni esempi: D�DI > diedi
DEDrT
> diede
(con acc. ritratto in luogo di DEOERUNT) > diedero
DEDERUNT
*surufT > stette (con ace. ritratto in luogo di *sT�TUERUNT) > stettero
-l'ST�TUI > stetti *sT�TUERUNT *HEBUI >
ebbi
*H�BUtRUNT
PLACU! > piacqui PLACUERUNT
V6LUERÙNT
oTxI >
> tacque
V6LUrT >
volle
FECrT > fece
(con acc. ritratto in luogo di FECERUNT) > fecero VIOrT > vide
VIDI > vidi
(con acc. ritratto in luogo di VIDERONT) > VIdero
dissi
DIXERUNT
TACUrT
(con acc. ritratto in luogo di V6LUERONT) > vollero
FECI > feci
VIOERONT
PLACUiT > piacque
(con acc. ritratto in luogo di TACUERUNT) > tacquero
V6LUI > volli
FECERUNT
> ebbe
(con ace. ritrauo in luogo di PLACUERUI\rr) > piacquero
TACU! > tacqui TACUERUNT
*HtBurT
(con acc. ritratto in luogo di 'H�BUERUNT) > ebbero
nIXrT >
disse
(con acc. ritratto in luogo di DIXERUNT) > dissero
SCRlPSI > scrissi SCruPSERONT
SCRlPSrT > scrisse
(con acc. ritratto in luogo di SCRlPSERUNT) > sm·ssero
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148 CAPITOLO 4
*ST�TU' è una forma latino-volgare: in latino classico, infatti, il perfetto
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del verbo STARE era STETI, *Sl'ETUI, a sua volta, ha prodotto per analogia *!iEBUI, perfetto latino volgare di HABERE (la forma del latino classico era HABUl); inoltre, sul modello di stetti in italiano si è avuto detti, forma analogica del passato remoto di dare che convive con la forma etimologica diedi, In *;"ffiTUI, *HEBuI e vowI la [w] ha prodotto il raddoppiamento della con�onante precedente (> stetti, ebbi, volli); in PLACUI e TACUI ha formato ' insieme alla velare precedente, una labiovelare sorda intensa_ Da DIx} e SCRlpsl si sono avuti i passati remoti dissi e scrissi. In entrambi i ' casi, la sibilante intensa [ss] è il risultato di un'assimilazione regressiva: si tenga conto del fatto che il grafema x indica il nesso consonantico [ks]; sia in questa sequenza, sia nella sequenza [ps] di SCRlPSI la sibilante ha assimilato a sé la consonante precedente, e cosÌ si è avuta una sibilante intensa [ss] , Dissi e scrissi appartengono alla classe dei cosiddetti passati remoti o perfetti sigmatici, cosÌ detti perché caratterizzati dall'uscita in -si (in greco, la lettera adoperata per indicare la sibilante si chiama sigma) , In alcuni dei passati remoti che fanno parte di questo gruppo, l'uscita in questione è etimologica (cioè deriva dalla base latina); in molti altri, invece, è analogica (cioè si è prodotta in latino volgare per influsso dei perfetti in -si originari), La lista dei perfetti sigmatici etimologici comprende, oltre che i già citati dissi e scrissi, passati remoti come arsi « ARSI), misi « MisI), risi « RIsI), giunsi « lìJNxf) , piansi « PlANXI), n'masi « REMANSI), trassi « TRAXI). La lista dei perfetti sigmatici analogici comprende passati.remoti come accesi, offesi, risposi, apersi, mossi e molti altri, Accesi, offesi e risposi non derivano dai perfetti del latino classico ACCEN· DI, OFFENDI, RESPONDI, ma dai perfetti del latino volgare *ACCENSI, *OFFENSI, *Rr:.SPONSI, rimodellati sui rispettivi supini ACCENSUM, OFFENSUM, RESPONSUM; apersi e mossi non derivano dai perfetti del latino classico AP�RUI e MOVf' ma sono rimodellati su passati remoti come arsi, misi, risi e simili.
I MUTAMENTI MORfOLOG1CI 149
13.4. La formazione dei tempi composti lo latino, la coniugazione attiva era costituita soltanto da forme verbali
semplici o sintetiche, cioè costituite da un unico elemento, nel quale al tema
del verbo si univa un'uscita distintiva del tempo, del modo e della persona. A titolo d'esempio, riportiamo (in modo del tutto casuale) alcune forme verbali della coniugazione attiva latina, con accanto il traducente italiano: Iodicativo imperfetto Congiuntivo presente Iodicativo piuccheperfetto Congiuntivo perfetto Indicativo presente Iodicativo futuro anteriore Congiuntivo piuccheperfetto
AMABAM AMEM AMAVERAM
amavo amI avevo amato
AMAVERIM
abbia amato
VENIa VENERO
vengo sarò venuto
VENISSEM
fossi venuto
Come si può vedere, il traducente italiano di alcune forme verbali che in latino sono sintetiche è un tempo composto, dato dall'unione di un verbo au siliare (avere o essere) e di un participio passato, Ricordiamo rapidamente che i tempi composti del sistema verbale italiano sono i seguenti: passato prossimo (ho amato), trapassato prossimo (ave vo amato), trapassato remoto (ebbi amato), futuro ante· riore (avrò amato), Congiuntivo passato (abbia amato), trapassato (avessi amato), Condizionale passato (avrei amato), passato (avere amato), Iofinito composto (avendo amato), Gerundio
Indicativo
Le forme verbali composte, sconosciute al sistema verbale attivo del la tino classico, erano invece diffuse nel latino parlato, Perifrasi verbali formate da una voce del verbo habere ( avere) e da un participio perfetto (l'equivalente latino del participio passato italiano), come per esempio cognitum habeo, deliberatum habeo, sono attestate fm dall'età preclassica. Esse, però, non avevano =
1 SO CAPITOLO 4
I MUTAMENTI MORFOlOGKI 1 Sl
il significato che oggi attribuiamo a un tempo composto: il verbo habere non era adopera to come un ausiliare, ma come un verbo autonomo, col suo significato specifico di posses so o mantenimento fisico o mentale, e il participio perfetto che lo seguiva aveva funzione predicativa (completava, cioè il significato del verbo). «Cognitum habeo Marcum», «De liberatum habeo pactuffi» non significavano «Ho conosciuto Marco», «Ho deciso un ac cordo», ma «Do per conosciuto Marco», «Mantengo come deciso un accordo». La frase che si legge in una commedia di Plauto: «Hasce aedes conductas habet» va tradotta «Tie ne affittata questa casa», e non, come potremmo pensare, <<.Ha affittato questa casa». Lo scivolamento di queste perifrasi verso un valore e un signÌficato paragonabili a quelli dei tempi composti italiani si registra per la prima volta nel l secolo a.c.: già in una lettera di Cicerone si legge «Si habes iam statutum quid tibi agendum putes», da tradurre senz'al tro con «Se hai già slabilito che cosa pensi di dover fare». Tale valore si fa via via più frequente nel latino medievale: in un passo di Gregorio di Tours (VI secolo d.C.) si legge «Episcopum invitatum haber», cioè «Hai invitato il vescovo». Dall'unione del presente indicativo del verbo habere col participio per fetto è nato l'indicativo passato prossimo italiano; gli altri tempi composti sono derivati dall'unione di altre forme del verbo avere con il participio pas sato.
Come risulta evidente dagli esempi, nel passaggio dal latino all'italiano le forme analitiche con l'ausiliare eHere e il participio passato hanno com pletamente sostituito le forme semplici con la desinenza propria del passivo che si univa al tema del verbo_ Nel passaggio dal latino all'italiano, le voci del verbo avere hanno con. corso alla formazione, oltre che dei tempi composti, di due tempi semplici; il futuro e il condizionale.
13.6. La formazione del futuro Nel latino classico, l'indicativo futuro aveva una formazione analoga a guella degli altri tempi verbali dell'indicativo. AI tema del verbo si aggiunge va un'uscita che variava a seconda della coniugazione, come risulta dal se guente specchio riassuntivo:
In base allo stesso meccanismo si formano i tempi composti con l'ausi
l I
l
liare essere (sono venuto, ero venuto, sarò venuto, ecc.), utilizzato anche per la forma passiva_
latino italiano
13.5. La formazione del passivo periIrastico In latino, la coniugazione passiva era costituita sia da forme verbali sem
plià o sintetiche (con una desinenza specifica del passivo), sia da forme ver bali perifrastiche (cioè costituite da una perifrasi, un 'insieme di più parole') o analitiche, date dall'unione di un participio perfetto con una voce del ver bo sum 'essere'. A titolo d'esempio, riportiamo alcune forme verbali della coniugazione passiva latina, con accanto il traducente italiano: Indicativo imperfetto
,l
ero amato
Congiuntivo presente
AMABAR AMER
sia amato
Indicativo piuccheperfetto
AMATUS ERAM
ero stato amato
Congiuntivo perfetto
AMATUS SIM
sia stato amato
LAUDABO loderò
LEGAM leggerò
TIMEBQ
temerò
FlNlAM
finirò
Questa forma verbale mancava di unità. Come si può vedere, il futuro dei verbi di prima e seconda coniugazione era molto diverso dal futuro dei verbi di terza e quarra coniugazione. Un scc011'ao fattore di debolezza era dato dalla possibile confusione con altri tempi e modi verbali: per esempio, il futuro dci verbi di prima e seconda coniugazione (amabo, amabis, amahit, ecc.; timebo, timebis, timebil, ecc.) poteva facilmente confondersi con l'imperfetto indicativo (amabam, aml1baJ, amabat, ecc.; limeham, timebas, timebat, ecc.), mentre iI futuro dei verbi di terza e quarta coniugazione (legam,jiniam) poteva ancor più facihnente confondersi col presente congiuntivo (legamJiniaml.
li latino aveva varie forme perifrastiche alternative al futuro sintetico. Fra gueste, ebbe fortuna una locuzione fonnata dall'infInito seguito dal pre sente del verbo HABEO. In guesta locuzione, il verbo HABEO assumeva il signi ficato di 'ho da', 'devo', guasi a indicare gualcosa di imposto dal destino che si proiettava automaticamente nel futuro;
_
t1 1 52 CAPITOlO 4
I MUTAMENTI MORFOLOGICI 153
FINIRE HABEO = ho da finire = finirò
13.7. La formazione del condizionale
Alla base del futuro italiano c'è, per l'appunro, questa perifrasi formata dall'infinito seguito dalle forme ridotte (normali nel latino volgare) del pre sente di HABEO: •AD, *AS, *AT, *(AB)EMUS, *(AB)ETIS, *A(BE)NT.
>
(arprotonico > er: cap. III, § 3 .8) loderai loderà loderemo loderete
>
loderanno
uso come HABERE).
LAUDAR(E) *AD
>
lodarò
>
LAUDAR(E) *AS
>
>
LAUDAR(E) * AT
>
LAUDAR(E) *(AB)EMUS LAUDAR(E) *(AB)ETIS LAUDAR(E) *A(BE)NT
>
lodarai lodarà lodaremo lodarete
>
lodaranno
>
> >
loderò
*HtBUI si è ridotto a -ei per sincope della sillaba centrale, e così si è avuta la desinenza della prima persona singolare.
II coniugazione
TIMER(E) * AD TIMER(E) *AS
bile (<<Se potessi, verrei») o irreale (<<Se avessi potuto, sarei venuto») e quella di esprimere il futuro in dipendenza da un passato «
I coniugazione
t
In italiano il condizionale ha, tra le altre, due funzioni fondamentali: quella di esprimere la conseguenza all'interno di un'ipotesi giudicata possi
> >
TIMER(E) *AS TIMER(E) *(AB)EMUS
>
TTMER(E) *(AB)EllS TTMER(E) * A(BE)NT
>
> >
temerò temerai temerà temeremo temerete temeranno
Le rimanenti cinque uscite del condizionale (-esti, -ebbe, -emmo, -este, -ebbero) derivano dalla riduzione o dalla trasformazione delle altre persone verbali ili *HtBUI (*HEBUlSTI, *I-ffi BUIT, *HEBUIMUS, *H�BUlSTIS, *HEBUERUNT).
I coniugazione LAUDAR(E) *(H)E(BU)r > lodarei > loderei § 3.8)
(ar protonico > er: cap. III,
III coniugazione
j.
n coniugazione
F1NIR(E) *AD F1NIR(E) * AS F1NIR(E) *AT
>
finirò finirai finirà
FINIR(E) *(AB)EMUS
>
finiremo
m coniugazione
F1NIR(E) *(AB)ETIS
> >
finirete finiranno
F1NIR(E) *(H)E(BU)1
F1NIR(E) *A(BE)NT
> >
TIMER(E) *(H)t(BU)1 > temerei
> finirei
Nei dialetti dell'Italia meridionale e della Sicilia si registra un'altra for ma di condizionale oggi molto rara, il tipo amàra
( amerei), cantàra (= can =
terei), che deriva direttamente dal piuccheperfetto indicativo latino:
1 S4
CAprrOlo 4
I MUTAMENTl MORFOLOGICI 1 SS
AMA(vt)RA(M) > amàra CANTA(vt)RA(M) > cantàra
VAL PIÙ LA PRATICA DELLA GRAMMATICA
I fenomeni mor/ologici nella lingua di una novella del «Decameron» di G. Boccaccio
Per questa stessa trafila si è avuta la forma fora (= sarebbe), proveniente da FO(E)RA(T), piuccheperfetto del verbo SUM 'sono'.
il tipo fora è molto frequente nei componimenti dei poeti della cosid detta «scuola siciliana» (quella che si formò nella prima metà del Duecento presso la corte di Federico II di Svevia, imperatore e re d'Italia). Per questo
Concludiamo la lettura della novella di Chichibìo prendendo in esame i fenomeni relativi alla morfologia:
tramite, essa si affermò nella lingua della tradizione poetica italiana. Nella lingua dei poeti siciliani s'incontra un'altra forma di condizionale,
( avret), crederla ( = crederetì, do vnà (= dovre,ì, penserìa ( pensere,ì, sanà ( sare,ì, ecc. in questo caso uscente in -io, del tipo avrìa =
[ I ] Ma già vicini al fiume pervenuti, gli == prima che a alcun ve dure sopra la riva di lll!.ciill ben dodici gru, le quali tutte in un piè dimora
=
vano, sÌ come quando dormono soglion fare; per che �, prestamente
=
ffiostratele a Currado, disse: «Assai bene potete, messer, vedere che ierse
Questo tipo non è originario del siciliano: probabilmente proviene dal provenzale, la lingua di quei trovatori a cui i poeti siciliani si ispiravano. An
ra vi dissi il vero, che le gru non h.rum2 se non una coscia e un piè, se voi riguardate a quelle che colà stanno».
[2] Currado vedendole Qiw:: «Aspettati, che io ti mostrerÒ che cl!!;
che questo condizionale, come quello proprio del fiorentino, è il risultato di una perifrasi, data dall'infinito seguito da HABEBAM, imperfetto di HABERE. Come si è passati da HABEBAM a -io, l'uscita di questo condizionale? La forma originaria HABi"BAM ha subito una forte riduzione: sono rimaste solo la vocale tonica e la vocale desinenziale dato i (cap. III, §
(i" e A EA); la i" tonica in siciliano ha
n'hanno due», e fattosi alquanto più a guelle vicino, gridò: «Ho, ho!», per
12 qual grido le gru, mandato !'altro piè giù, tutte dopo alquanti passi co minciarono a fuggire; laonde Currado rivolto a Chichibio disse: «Che ti par, ghiottone? parti che cl!!; n'abbian due?».
=
1 ) e così si è avuta la desinenza -io:
[3] Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo � = donde si ve
nisse, �: «Messer sÌ, ma voi non gridaste 'ho-;-huf a � d'iersera; ché se cosÌ gridaw aveste clh avrebbe cosÌ l'altra coscia e taltro piè fuor mandata, come hanno fatto �».
Attraverso il modello dell'antica poesia siciliana, questa forma di condi . Zlonale in -io si diffuse nella lingua della tradizione poetica italiana, e vi si mantenne stabilmente: da fine Duecento a fine Ottocento, non c'è stato poeta (da Dante a Carducci, da Petrarca a Leopardi) che non abbia usato
[4] A Currado piacque tanto � risposta, che tutta la sua ira si con
vertì in festa e riso, e disse: «Chichibio. tu hai ragione: ben lo � faro>.
[5] Così adunque con la sua pronta e sollazzevol risposta Chichibio cessÒ la mala ventura e paceficossi col suo signore (da G. Boccaccio, Deca
meron, cit., pp. 734-735).
nelle sue opere questi condizionali «siciliani» in -io.
7.2) è già adoperato come nell'italiano moderno (il vero [I]; l'altro piè [2 e 3]), ma un residuo dell'uso antico si registra in per /Q qual grido [2]. a.
L'articolo determinativo maschile singolare (§
b. I pronomi personali soggetto (§ 8) sono quelli normalmente accolti nel fiorentino trecentesco e successivamente imposti dalla tradizione nor mativa, come per esempio egli (3' persona singolare maschile
(3' persona plurale femminile
[2]).
[l e 3]) ed elle
156 CAPITOLO 4
I MUTAMENTI MORfOlOGIO 157
c. I dimostrativi quello [Il, quelle [2], quella [3] e queste [3], questa [41
verbale latina: come dall'imperfetto DEBEBA(M) si è avuto (io) doveva, cosi,
sono adoperati secondo i criteri illustrati nel § lO; l'altro dimostrativo stesso
per esempio, dall'imperfetto amabam si è avuto (io) amava, da VTVEBA(M) si è
[3] è usato come rafforzativo del pronome personale egli (funzione descritta anch'essa nel §
lO).
ti. Passando alla morfologia verbale, nei presenti indicativi dormono
cento in poi; ma fin dal Quattrocento, in Toscana come nelle altre regioni
*ANT [ 1 ]) , stanno « STANT [ I ] ) andrà ricordata
d'Italia, queste forme hanno subito la concorrenza di un nuovo tipo d'im
l'uscita analogica in -no tipica della 3 ' persona plurale, la cui storia è rico
perfetto, con la desinenza di prima persona singolare in - o {dovevo, amavo,
«
OORM(I)UNT [I]), hanno «
struita nel § 13 .2.
vivevo), dovuta all'influsso della prima persona del presente indicativo:
disse « DIJdT [ 1 e 2)) e rispose « RESPONSIT [3]) sono due esempi di passati remoti o perfetti sigmatici, descritti nel § 13 .3 .
come si diceva devQ, amQ, vivQ, cosÌ si è detto dovevQ, amavQ, vivevQ. La for
e.
f. Mette conto ricordare che disse e rispose, come pure piacque « PLAcuIT [4)) appartengono alla categoria dei passati remoti o perfetti forti,
cioè accentati sulla radice (§ 13.3). Della medesima serie fa parte il tipo ven
ner, variante apocopata (cap. III, § 5.8) di vennero, proveniente dal latino volgare *VENU�RUNT, con accento ritratto, in luogo del latino classico
vENERUNT. In *vENUERUNT si sono avuti: a) il raddoppiamento della nasale davanti a [w), con successiva caduta della semiconsonante; b) la caduta della dentale e della nasale finale. g. Invece cominciarono «
*CUMIN(I)nX(VE)RUNT, in cui andrà anche se
gnalata la presenza della sillaba finale analogica -no [2]) e cessò « cESSAVIT -
avuto (io) viveva e cosi via. Queste forme di imperfetto in -a, normali nel fio rentino del Trecento, sono state codificate da tutti i grammatici, dal Cinque
- [5)) appartengono alla categoria dei passati remoti O perfetti deboli, cioè ac centati sulla desinenza (§ 13.3). h. In mostrerò « MO(N)STRAR(E) *AO [2]) e in avrebbe « (H)ABER(E) *(H)E(BU)IT D ] ) troviamo due innovazioni del sistema verbale italiano ri spetto a quello latino: la prima riguarda la formazione del futuro (§ 13.6) , la seconda riguarda la formazione del condizionale ( § 13.7). i. avrebbe è anche l'ausiliare del tempo composto avrebbe mandata (condizionale passato di mandare D ] ) , e anche i tempi composti sono, come si ricorderà, una novità dell'italiano (§ 13.4). Nel nostro brano ci sono altre due forme verbali composte: gridato aveste (� aveste gridato, congiuntivo trapassato di grzdare (3) e hanno fatto, passato prossimo di fare D)). L Chiudiamo questa rassegna con l'analisi della forma doveva
« DEBEBA(M) [4]), l' persona singolare dell'imperfetto indicativo di dovere, in cui s'incontra la desinenza in -a. L'imperfetto indicativo in -a alla prima persona rappresenta la normale continuazione della corrispondente voce
ma moderna in -o si è imposta definitivamente su quella più antica in -a solo dalla seconda metà dell'Ottocento. .. ---------.. .. .. .. .. .. .. ' -------
Oa l l atino all'italiano: alcuni m uta menti sintattici
Per comprendere i rapporti genetici tra latino e italiano, è indispensa bile mettere a fuoco anche alcuni mutamenti sintattici. In questo capi tolo analizzeremo l'origine dell'abituale ordine delle parole nelle frasi italiane - la sequenza soggetto-verbo-oggetto -,la presenza del sog getto pronominale e l'uso dei pronomi personali nell'italiano antico e moderno, per poi esaminare le funzioni del «che» nelle proposizioni completive.
l . L'ORDINE DELLE PAROLE NELlA FRASE. DALlA SEQUENZA «SOV» ALlA SEQUENZA «SVO» Come si è detto (cap. IV, § 3 l, il latino distingueva le funzioni logiche e i significati delle parole in base al sistema dei casi, mentre l'italiano affida in parte questa funzione distintiva alla posizione che le parole hanno all'inter no della frase: si può dire che l'ordine delle parole era relativamente libero nella frase latina, mentre è sottoposto ad alcuni vincoli nella frase italiana. L'ordine abituale di una frase italiana composta da un soggetto (5l, un verbo (Vl e un complemento oggerto (Ol è rappresentato dalla sequenza SVO (soggetto-verbo-oggettol: Claudio saluta Marcello
160 (APrTOLO 5
. Nella maggior parte delle frasi italiane quest' ordine è obbligato, perché è quello che, in assenza di un'intonazione particolare o di altri elementi di riconoscimento, consente di distinguere il soggetto dal complemento ogget to. In una frase come la precedente, in cui il soggetto e il complemento og getto coincidono nella persona e nel numero, solo la posizione delle parole consente di distinguerli, e di capire che a salutare è Claudio e non Marcello. Nel latino classico, invece, la desinenza distingueva non solo il genere e il numero, ma anche la funzione che una parola svolgeva nella frase. In paro le come Claudius e Marcel/us, per esempio, una -s fmale distingueva la fun zione del soggetto, mentre una -m fmale distingueva la funzione del comple mento oggetto. Sicché, in latino, dire Claudius salutat Marcellum Marcellum Claudius salutat Marcellum salutat Claudius Claudius Marcellum salutat era, sul piano teorico, la stessa cosa. Di fatto, però, da una parte gli scrittori privilegiarono la sequenza SOV « ('lo veramente - dis se - intendo bene di che peso siano codeste cose che dici, e ho sempre consi derato Ortensio un grande oratore), nel latino tardo della Vulgata, vicino alle cadenze del parlato, spesso il soggetto precede il verbo e questo, a sua volta, precede i vari complementi, proprio come in italiano: «Homo quidarn descendebat ab Hierusalem in Hiericho et incidit in latrones, qui etiam de spoliaverunt eum et plagis inpositis abierunt, semivivo relicto» ('Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti, che lo spogliaro no e, fattegli delle ferite, se ne andarono, lasciatolo mezzo morto', Luca lO, 30).
Se è vero che il modello SVO ha rappresentato l'ordine naturale delle parole nell'italiano fin dalle origini, è anche vero che molti autori di testi let terari, da Giovanni Boccaccio a Vittorio Alfieri, da Pietro Bembo ad Ales-
ALCUNI MUTAMENTI SlNTATllCI 1 61
sandra Verri, applicarono spesso alla loro prosa la sequenza SOV, per imita re il modello latino: <
2. L'ESPRESSIONE E LA POSIZIONE DEL PRONOME SOGGE1TO
Riguardo a questo tratto morfosintattico, l'italiano ha avuto uno svilup. po autonomo e originale rispetto al latino. La lingua antica è stata caratteriz zata dalla forte tendenza (che in alcuni casi è diventata obbligatorietà) a esprimere il pronome personale soggetto e a collocarlo prima del verbo nella frase enunciativa «<Messere, io ho ancora alcun peccato che io non v'ho det to», Boccaccio) e dopo il verbo nella frase interrogativa «<Sapete voi qual è la più bella storia che sia nella Bibbia?», Sacchetti); la lingua contempora nea, invece, ha abbandonato quest'uso, e tende a omettere il soggetto pro-
ALCUNI MUTAMENTI SINTATTIO
162 CAPITOlo 5
nominale in ogni tipo di frase, sia enunciativa (<
163
4. LA LEGGE TOBLER-MUSSAFIA
rogativa «
3.
L'ENCLISI DEL PRONOME ATONO Un altro tratto sintattico che ha caratterizzato l'italiano antico ma non
caratterizza l'italiano moderno consiste nell' enclisi del pronome personale
dei pronomi atoni erano completamente diversi. Essi sono descritti dalla leg ge Tobler-Mussafia, così chiamata dal nome dei due studiosi (AdolfTobler e Adolfo Mussafia) che per primi hanno scoperto e descritto il fenomeno del l'enclisi, il primo nel francese e il secondo nell'italiano dei secoli passati. Nell'italiano antico (grosso modo, dalle origini al primo Quattrocento)
atono. Le seguenti forme di pronome personale: mi, ti, gli, lo, le, la, si, se, ci, ce,
v,', ve, li, le, si se sono atone, cioè prive d'accento. Per esempio: .
mi dice ti vedo gli regalo se la prende
l'enclisi era obbligatoria:
a) dopo pausa, all'inizio di un periodo: «Domandollo allora l'amiraglio che cosa a quello l'avesse condotto» (G. Boccaccio);
b) dopo la congiunzione e: «il re si volse al duca di Durazzo e dissegli» (G. Villani);
c) dopo la congiunzione ma: «né di ciò mi maraviglio nient.e, ma mara vigliomi forte» (G. Boccaccio);
di
Come si può notare, i pronomi mi, ti, gli e la sequenza di pronomi se la non hanno un loro accento, e si appoggiano, per la pronuncia, al verbo che li segue (la vocaJe tonica del verbo, su cui si concentra la massima forza arti colatoria dell'intera sequenza, è in grassetto). Come si è già detto nel cap. IV, § 8, quando si appoggiano al verbo che li segue, questi pronomi si dico no proclitici, e il fenomeno prende il nome di pròclisi. Nell'italiano contemporaneo, normalmente i pronomi atoni si appog giano al verbo che li segue. In quattro casi particolari, invece, si appoggiano per la pronuncia al verbo che li precede, al quale vengono uniti nella grafia. In questi casi, essi si dicono enclitici, e il fenomeno prende il nome di èncli si. L'enclisi del pronome atono si ha:
1) con un imperativo: Gianni, aiutami! 2) con un gerundio: Vedendo la, mi sono emozionato. 3 ) con un partiCipio isolato: Parlatole, se ne andò. 4) con un infinito: Incontrarti è stato un piacere.
all'inizio di una proposizione principale successiva a una ptoposizio
ne subordinata: «Giugnendo all'uscio per uscir fuori, e cominciando a pen sare su la ricchezza che gli parea avere perduta, e volendosi mettere la mano a grattare il capo, come spesso interviene a quelli che hanno malenconi!!, tro
vossi la cappellina in capo con la quale la notte avea dormito» (F. Sacchetti). Dell'enclisi di tipo (a), diversamente che da quella dei tipi (h) e (c) non si conoscono eccezioni; nel tipo
(cl)
l'enclisi si incontra, nei testi italiani anti·
chi, in circa metà degli esempi utili. Se in questi casi l'enclisi era del tutto o in parte obbligatoria, in tutti gli altri era libera: poteva aversi in qualunque contesto, a seconda del gusto e della disposizione di chi parlava O scriveva. Anche quando, dopo il Quattro cento, l'enclisi obbligatoria decadde, l'enclisi libera sopravvisse a lungo nel la lingua letteraria in prosa e in versi: «ma il cavallo più s'irritava e più impe tuosamente lanciavasi,> (u. Foscolo); <
volgemi» (G. Carducci) . Oggi, oltre che con l'imperativo, i l gerundio, il participio e l'infinito, l'enclisi sopravvive, come relitto dell'uso antico, in formule cristallizzate come dicesi, dicasi, volevasi «
164 CAPITOLO 5
ALCUNI MUTAMENTI SINTATTlCI 165
centralissimo», «Diplomato in ragioneria occuperebbesi») e quella dello stile telegrafico (<
Nel latino volgare, il pronome indefinito QUID (> che) ha esteso forte mente la sfera d'uso che aveva nel latino classico, e ha preso il posto di molte altre parole, come per esempio la corigiunzione causale QUIA, la congiunzio ne causale-dichiarativa QUOD e la congiunzione comparativa QUAM. Qui ci soffermeremo, in particolare, sul che introduttore di una proposi zione completiva, cioè una proposizione subordinata che fa da soggetto o da complemento oggetto diretto alla principale. In italiano le proposizioni completive sono formate dalla congiunzione che + l'indicativo o il congiuntivo nella forma esplicita e dalla preposizione di + l'infinito nella forma implicita: «Qualche volta capita che venga a trovar ci», «Tralascio il fatto che non sei venuto», «Mi capita di/ar questo», ecc. Rientrano nella categoria delle completive le proposizioni oggettive (<<So che Marco sta bene» / <
Mi'meraviglio che tu dica questo = < Miror te id dicere
Nella lingua di tutti i giorni, la costruzione con quod prevalse sulle altre. Questo processo avvenne precocemente, tant'è che è documentato già in Plauto: «Equidem scio iam, filius quod amet meus istanc meretricem» ('Evi dentemente so già che mio figlio ama questa meretrice', in luogo del latino classico 'Scio iam filium meum amare istam meretricem'). La parola quod (adoperata, in questi tipi di frasi, come congiuzione) era, . di fatto, la forma del pronome relativo neutro: significava che, proprio come il pronome relauvo. Nella costruzione della frase completiva dell'italiano, il succedaneo di quod (che è co, attestato nei dialetti meridionali antichi) è stato sostituito dal succedaneo del pronome interrogativo e indefmito neutro QUID, che è che. Nel passaggio all'italiano questa parola ha esteso fortemente l'àmbito delle sue funzioni, fino a diventare una sorta di elemento «tuttofare».
VAL pIù LA PRATICA DELLA GRAMMATICA Ifenomeni sintattici nella lingua di una novella del «Decameron» di G. Boccaccio
Quali sono le caratteristiche sintattiche dell'italiano antico? Proviamo a individuarle rileggendo alcuni punti della novella di Chichibìo: [1] Currado Gianfigliazzi, sÌ come ciascuna di voi e udito e veduto puote avere, sempre della nostra città è stato notabile cittadino, liberale e magnifico, e vita cavalleresca tenendo continuamente in cani e in uccelli s'è dilettato, le sue opere maggiori al presente lasciando stare. [2] Il quale con un suo falcone avendo un dì presso a Peretola una gru ammazzata, tcovandola grassa e giovane. quella mandò a un suo buon cuoco, il quale era chiamato Chichibio e era viniziano; e sl gli mandò dicendo che a cena l'arrostisse e govemasse1a bene. Chichibio, il quale come nuovo bergolo era cosÌ pareva, acconcia la gru, la mise a fuoco e con sollecitudine a cuo cer la cominciò, [3] La quale essendo già presso che cotta e grandissimo odor venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la quale Bru netta era chiamata e di cui Chichibio era forte innamorato, entrò nella cu-
166 CAPITOlO 5
cina, e sentendo l'odor della gru e veggendola pregò caramente Chichibio cbe ne le desse una coscia.
[4)
Chichibio le rispose cantando e disse: «Voi non l'avrì da mi, dOnna
Brunetta, voi non l'avrì da mD>.
[5)
Di che donna Brunetta essendo turbata, gli disse: « In fé di Dio, se
tu non la mi dai, tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia », e in brieve le parole furcn mohe; alla fine Chichibio, per non crucciar la sua donna, spiccata l'una delle cosce alla gru, gliele diede.
[6] «Essendo poi davanti a Currado e a alcun suo forestiere messa la gru senza coscia, e Currado, maravigliandosene, fece chiamare Chichibio e domandollo che fosse divenuta l'altra coscia della gru. Al quale il vini� zian bugiardo subitamente rispose: «Signor mio, le gru non hanno se non
ALCUNI MUTAMENTI SINTATnO 167
in «e vita cavalleresca tenendo continuamente [...] le sue opere mag giori al presente lasciando stare» entrambi i gerundi (tenendo e lasciando
sta· re) sono preceduti, e non seguiti, dai rispettivi complementi oggetti (vita ca valleresca e le sue opere maggiorz).
b, Il pronome personale soggetto è espresso molto di frequente (§ 2): «In fé di Dio, se ili non la mi dai, ili non avrai mai da me cosa che ti piaccia» [5]; «Poi che tu di' di farmelo veder ne' vivi, cosa che io mai più non vidi né
udi' dir che fosse, e io il voglio veder domattina e sarò contento; ma jQ ti giuro in sul corpo di Cristo che, se altramenti sarà, che jQ ti farò conciare in maniera, che tu con tuo danno ti ricorderai, sempre che tu ci viverai, del
nome mio» [9), ecc.
una coscia e una gamba».
[7] Currado allora turbato disse: «Come ciiavol non hanno che una coscia e una gamba? Non vici'io mai più gru che questa?».
[8)
Chichibio seguitò: «Egli è, messer, com'io vi dico; e quando vi
piaccia, io il vi farò veder ne' vivi».
[9]
Currado per amore de' forestieri che seco avea non volle dietro alle
parole andare, ma disse: <
Al ricorso all'ordine SOV per imitazione del modello latino (§ 1): « Il
� (S) con un suo falcone avendo un di presso a Peretola una gru ammaz zata, trovandola grassa e giovane, guella (O) mmdQ (V) a un suo buon cuo co» [2] si aggiungono molte altre forme di alterazione dell'ordine nonnale delle parole. Valgano, a titolo d'esempio, quelle che s'incontrano in ( 1 ) : _
in <<s[ come ciascuna d i voi e udito e veduto puote avere» l'ordine dei
costituenti frasali è particolare: anziché avere «puote avere udito e veduto» (verbo servile + infinito del verbo ausiliare + participi passati) abbiamo «udito e veduto puote avere» (participi passati + verbo servile + infinito del verbo ausiliare); _
in «sempre della nostra città è stato notabile cittadino» il complemen
to di specificazione della nostra città precede, anziché seguire, il termine da cui dipende (cittadino);
c.
L'enclisi del pronome atono ricorre nei casi previsti dalla legge To
bler-Mussafia (§ 2): e governassela [2]; e domandollo [6]; parti (7). d. A proposito di pronomi atoni, converrà ricordare in chiusura che in
italiano antico le combinazioni di pronomi atoni presentavano, in alcuni casi, un ordine diverso da quello che hanno nell'italiano moderno. Per esempio: - in [51 leggiamo <<se tu non la mi dai» (la = complemento oggetto; mi = complemento di termine), che in italiano contemporaneo sarebbe «se tu non me la dai» (me = complemento di termine; la = complemento oggetto); - in [7) leggiamo «io il vi farò» (il complemento oggetto; mi = com plemento di termine), che in italiano contemporaneo sarebbe «io ve lo farò» =
(ve
=
complemento di termine; lo = complemento oggetto).
l
Dopo aver analizzato alcuni aspetti generali del rapporto tra latino e italiano, in quest'ultimo capitolo passeremo brevemente in rassegna alcuni volgari che hanno avuto un'importante tradizione colta, per mostrarne - aiutandoci con qualche esempio letterario - i principali fenomeni linguistici.
1 . IL MILANESE ANTICO
il milanese appartiene ai dialetti detti gallo-italici. Si tratta dei dialetti settentrionali parlati nelle regioni che, prima della dominazione romana, fu· rono abitate dai Galli, una delle tante popolazioni indoeuropee dell'Europa antica, appartenente al gruppo celtico. r dialetti gallo·italici sono grosso modo tutti i dialetti settentrionali, ad eccezione di quelli veneti: il Veneto ri· mase infatti estraneo al dominio celtico, perché i Galli non riuscirono a con quistare la parte orientale della pianura padana, se non in misura marginale. Nonostante la diversità del sostrato (cioè delle condizioni linguistiche § 2), tutti i
originarie, sopraffatte dal successivo dominio del latino: cap. I,
dialetti settentrionali hanno però alcuni tratti in comune, che li distaccano in modo netto dai dialetti centro-meridionali, dal toscano al siciliano. I tre fe nomeni più importanti e caratteristici riguardano le consonanti: 1 . Scempiamento delle consonanti doppie in posizione intervocalica, vale a dire passaggio da una consonante di grado intenso a una consonante di grado tenue. Ad esempio, gata dal lari�o CATTA(M), mama dal latino
'70 CAPITOLO 6
LE LINGUE D'ITALIA NEL MEDIOEVQ _171
MAMMA(M) (di fronte ai toscani - e italiani
-
gatta e mamma, in cui la conso
nante doppia del latino si mantiene).
2. Sonorizzazione generalizzata delle consonanti sorde intervocaliche,
Un'altra osservazione relativa allo scempiamento e riferita questa volta all'italiano parlato oggi. Nel cap. III,
§ 5.9 si è trattato del raddoppiamento
fonosintattico. Esso è sconosciuto ai dialetti settentrionali, in cui le conso
che successivamente possono spirantizzarsi, cioè trasfonnarsi da occlusive
nanti in posizione intervocalica si pronunciano sempre come tenui. Ma
in costrittive (o spiranti) e poi anche cadere. Ad esempio, dal latino ÀMlTA
mentre un parlante italiano settentrionale non ha nessuna difficoltà ad ap
propriamente 'zia materna' (forma che soprarove nel francese tante 'zia') si è avuto il milanese àmetÙ, con semplice sonorizzazione della sorda intervo calica, ma il veneto àmia, in cui quella consonante sonora si è prima indebo lita spirantizzandosi e poi è caduta.
3 . Passaggio dalle affricate palatali alle affricate dentali, cioè dai fonemi [tJl e [d3] ai fonemi [ts] e [dz] (tranne nel lombardo occidentale, che tende a mantenere [tJl). il fenomeno si può descrivere come un «avanzamento» delle affricate; infatti la seconda componente dell'affricata palatale viene so stituita da un elemento articolato anteriormente, a livello non più del palato, ma degli alveoli. Successivamente, questa affricata dentale può perdere la sua componente occlusiva, riducendosi a semplice sibilante, sorda o sonora. Ad esempio, l'affricata palatale iniziale del latino clMICE(M) (accusativo di CIMEX\ conservatasi nell'italiano cimice, è rappresentata da un'affricata den tale nel bolognese zemza (con passaggio da [tn a [ts]) e da una sibilante nel veneto sìmeze (con ulteriore sviluppo da [ts] a [s]). Vediamo più da vicino i due primi fenomeni e chiediamoci prima di tut to in che successione si sono manifestati. Se nei dialetti settentrionali le con sonanti tenui intervocaliche si sonorizzano (cioè se da FRATELLU(M) si è avuto
fradelo o frade!), come mai gata non è diventato *gatÙ? Evidentemente per ché, all' epoca della sonorizzazione delle consonanti intervocaliche (fenome no 2), le consonanti intense non si erano anc
I); diversamente, anche la [t] intervocalica di
gata sarebbe passata a [d], proprio come avveniva per la [t] di FRATELLU(M), o meglio della forma già volgare /ratello. Da questa riflessione possiamo ri cavare dunque un indizio sulla cronologia relativa dei due fenomeni: non è facile risalire alla cronologia assoluta, cioè all' epoca storica in cui essi si sono manifestati; possiamo però dire quale dei due è avvenuto prima: la so norizzazione è anteriore allo scempiamento (infatti, se non fosse stato così, anche le consonanti scempie rappresentate in latino da una doppia avrebbe
ro p �rtecipato alla sonorizzazione).
prendere la ptol1uncia di mamma e gatta, perfettamente riflessa dalla scrittu ra, il raddoppiamento sintattico, fenomeno soltanto orale, gli resterà estra neo. Dirà quindi, anche parlando un italiano sorvegliato, [a'kasa] o, meglio, [a'kazal, dal momento che tende ad articolare la sibilante intervocalica sem pre come sonora. Accanto al mancato appoggio dell' ortografia, occorre te ner conto anche del limitato prestigio sociolinguistico, nell'Italia odierna, delle pronunce centro-meridionali (toscana compresa) per la sensibilità dei parlanti settentrionali, che non hanno dunque nessuno stimolo ad impadro nirsi attraverso l'imitazione orale di una pronuncia avvertita come regionale. I dialetti gallo-italici sono, in varia misura, interessati dai seguenti feno meni (che indichiamo continuando la numerazione già avviata):
4. Caduta delle vocali finali e debolezza delle vocali atone, tranne a, che resiste bene ovunque. Le vocali finali si mantengono però nel ligure.
5. Presenza di vocali tradizionalmente chiamate «miste» o ��turbate», cioè di vocali anteriori (come le vocali palatali italiane [e] o [i]) pronunciate con arrotondamento e spinta in avanti delle labbra (come avviene per le vo cali [o] o Eu]). Sono le vocali presenti nel francese lune Ilyn/ 'luna' e coeur !kceRi 'cuore. Come esempi dialettali si possono citare i lombardi l'lyna/ e /fcera/ 'fuori': la prima vocale mista continua una O latina, mentre la secon da rappresenta l'esito di un dittongamento di a latina, avvenuto molte volte in condizioni deI tutto diverse dal dittongamento toscano.
6. Esiti di -CT- difformi dal risultato toscano (in cui si ha assimilazione regressiva; cap. III, § 4:
FACTUM > fatto).
E precisamente: in Piemonte e Ligu
ria il nesso -CT- passa a -Ìl-, come in francese: LACTEM > làit (francese lait, oggi pronunciato [lE], ma fino all'XI secolo pronunciato ['lait], proprio come si scrive). In gran parte dei dialetti lombardi -CT- passa a [tn, come nello spagnolo:
LACTEM >
IlatJI (spagnolo leche 1'letJeI).
172 CAPfTQlO 6
LE LINGUE D'ITALIA NEL MEDIOEVO 173
Avvertenze per la lettura a) Sono stampate in corsivo le vocali che, pur essendo state scritte dal
Bonvesin da la Riva Illustriamo ora alcuni tratti settentrionali e specificamente gallo-italici attingendo all'esempio del milanese antico, rappresentato dall'opera di una delle figure più importanti tra i poeti medievali che abbiano scritto in una lingua diversa dal toscano: Bonvesin da la Riva (cioè Buonvicino residente nella Ripa di Porta Ticinese, a Milano, dove abitò nell!! maturità). Bonvesin, nato alla metà del Duecento e morto prima del 1 3 15, fu maestro di gramma tica latina e scrisse moltissimo, in latino ma soprattutto nel volgare nativo: una ventina di poemetti in milanese per un totale di circa 10.000 versi (vale a dire poco meno dei versi che costituiscono la Commedia di Dante). Leggia mo la terza strofa di un poemetto dal titolo latino (De quinquaginta curialita
tibus ad mensam, 'Le cinquanta regole di galateo per la tavola), in cui emer ge un carattere proprio di Bonvesin, insieme pedagogo e raffmato interprete della società del suo tempo:
con assimilazione regressiva, è arrivato a freddo, mentre nel milanese
GD-
è stato trattato in modo simile a -CT- (cioè alla più comune sequenza costituita -
da velare + dentale, quella in cui le due consonanti sono entrambe sorde), dando quindi l'affricata palatale Itfl (vedi sopra, tratto 6). In parolla la -ll- è solo grafica (la pronuncia reale era qui identica al toscano). Irifine, in de seaçao si noti la ç per indicare l'affricata dentale: un uso presente in molti volgari medievali, compreso il toscano (e mantenutosi in francese; per esem pio ça 'ciò', pronunciato oggi [sa], ma in origine [tsa]).
to) in vilan, asetar e assetao «
Assai ghe'n sporze, no tropo, quand è lo tempo dea stae;
�
l
(scempiamen
*ADSEDITARE 'sedere presso', corrispondente
all'italiano antico assettarsi 'sedersi'; con sincope della i protonica e succes
d'inverno. per lo fregio, im p ena quantitae.
siva assimilazione del gruppo -DT-) e anche in noze e deseaçao; accanto allo
La terza cortesia si è: no sii trop presto
scempiamento va posto il mancato raddoppiamento in aqua (lat . AQUA) e in tropo (dal germanico throp). Il tratto 2 (sonorizzazione e successivi sviluppi) si ritrova in segonda (SECONDA(M)), stae e quantitae (AESTATE(M), .
de corre senza parolla per assetar al desco; s' alcun t'invidha a naze, anze ke tu sii assetao, per ti no prende quel asio dond tu fizi descaçao
QUANTITATE(M) a�verso la spirantizzazione e poi il dileguo della -T- del suf
di G. Contini, Milano-Napoli, Ricciardi,
fisso -ATEM) , invidha (INV'fTAT; da notare la grafia dh, testimonio di una fase in cui la dentale sonora si è spirantizzata). Il tratto 3 (avanzamento delle affri
1960, voI. I, p. 703, con un diverso uso del corsivo). •
Traduzione: La seconda regola: se porgi acqua alle mani, porgil a con garbo, non essere villano. Porgila in giusta misura: non eccessivamente, quand'è estate; d'in� verna, per il freddo, in piccola quantità. La terza regola: non esser troppo lesto a sederti a tavola senza permesso; se qualcuno ti invita a nozze, prima che [li sia se duto, non fare i tuoi comodi così da farti cacciare.
b) Per la grafia si badi a fregio 'freddo', che va letto ['fretfo] e si spiega così: il lat. FRl'GIDU(M) si è ridotto, per sincope, a *FRlGDU(M); di qui il toscano,
Di quelli già passati in rassegna, riconosciamo il tratto
adornamente la sporze, guarda no su vilan.
cura
quindi a l-man, adornament, sporz, piena (cioè ['pitfna]) ecc.
Vediamo ora i tratti fonetici più rilevanti presenti nei versi di Bonvesin.
La cortesia segonda: ·se tu sparzi aqua a le man,
(Da Poeti del Duecento, a
copista, non dovevano essere pronlUlciate, come è richiesto dalla metrica (i versi sono alessandrini: ciascuno risulta da due settenari). Occorre leggere
cate) è presente in ·sporzi e sporze, voci del verbo spòrzer corrispondente al toscano porgere, da EXPORRIGERE). n tratto 4 (caduta delle vocali finali) è atte stato in quand, trop e dond e ricosuuibile (ammettendo la caduta della voca le finale per ragioni metriche) in adornamente, sporze, prende e anze; dopo liquida e nasale, in man, vilan e asetar, l'apocope sarebbe possibile anche in toscano (ma in man e vilan, posti in fine di verso, non sarebbe awenuta). Per il tratto 6 si veda /regio, del quale abbiamo già parlato. Un tratto specifico del milanese antico-sembra essere il rotacismo, cioè il
LE UNGUE O'ITAUA NEL MEDIOEVO 175
174 CAPITOlD 6
passaggio di -L- a oro, che si ha in dra 'della' (da DE ILLA > della > dela, per scempiamento > dera, per rotacismo > dra, per sincope della e venuta a tro· varsi in posizione protonica all'interno di frase). Due tratti morfologici degni di segnalazione sono l'imperativo negativo formato con la negazione del positivo (sii- no sii; invece in toscano: sii- non
esse!e) , così come avviene, parallelamente, in francese (parle' 'parla! ' ne parle pas' 'non parlare' 'l; e soprattutto il passivo costituito dal verbo latino FIERI 'diventare' + participio passato: fizi (congiuntivo presente) descaçao. -
2. IL VENEZIANO ANTICO
Come già sappiamo, i dialetti veneti costituiscono un gruppo autonomo dagli altri dialetti settentrionali, quelli gallo-italici. Tra i tratti specifici che li caratterizzano, se ne possono ricordare tre: l . Conservazione delle vocali finali, tranne dopo liquida e nasale (fruta
rol 'fruttivendolo', pan 'pane') e discreta resistenza delle vocali atone. Le vo cali finali tuttavia cadono in aree esposte a influssi del ladino, la lingua ro manza parlata nelle valli dolomitiche e nel Friuli, come a Belluno e a Treviso._
2. Assenza delle vocali «miste» (come nel lombardo ['fceral ecc.) . 3 . Presenza di dittonghi ie e uo in sillaba libera, come nel toscano. Que sti dittonghi non si trovano nel veneziano più antico e si diffondono solo ver so la metà del Trecento. Sono forme che coincidono solo in parte con quelle
illustre. Questa frase (un endecasillabo certo appartenente a una poesia di parodia dialettale) è «Per le piaghe de Dio tu no verras», cioè 'Per le piaghe di Dio, tu non ci verrai'. I due tratti sono: a) la conservazione del nesso pl-, dovuta non a latinismo (come nei toscani e italiani plebe < PLEBE(M), plurimo
< PLURIMU(M) ecc.) ma a un'antica sopravvivenza dei nessi di consonante + L in tutta l'area italiana nordorientale; b) la conservazione di -s finale nel futu ro verràr (oggi rimasta in veneziano solo nelle forme interrogative con pro nonie posposto come vastu? 'vai?' o gastu ) 'hai, �e l'hai?').
Il «Tristano veneto» Non solo per la fisionomia assunta dal Trecento in poi, ma anche per i suoi tratti costitutivi, presenti fin dalle origini, il veneziano presenta maggio re affinità col toscano rispetto agli altri dialetti settentrionali. Possiamo ren dercene conto leggendo un brano del Tristano veneto, una delle tante tradu zioni in prosa (in questo caso veneziana) del capolavoro delIa letteratura francese antica, risalente agli inizi del XIV secolo: Or dise l'auctor che tanto demorà lo re Apollo ala corte delo re Claudex che lo fio delo re Claudex, lo qual era troppo prodomo dela soa persona et era stado fato noveI chavalier, se inamorà tanto con la donna de re Appalo che infra sÌ ella diseva ch'eIo voleva megio murir, se morte li convigniva, qua ella non fesse la voluntadhe del so desiderio; et de ciò eia se 'maginà et
toscane: il dittongo può trovarsi anche in parole che nell'italiano letterario
sì se messe in cuor de tignir tal muodo ch'eia possa far la saa voTontade con
sono latinismi (come muodo, dal latino MODU(M)) o che presentano una E o
la donna secretamentre, conciosiaché altramentre non lo podeva far, inper
una O lunghe (come diebia 'debba' < DEBEAT o Michiel dal latino cristiano
MICliAELl. Si può pensare a un'estensione di primitivi dittonghi propri dei dialetti veneti di terraferma (in cui il fenomeno del dittongamento avveniva secondo meccanismi diversi rispetto al toscano) oppure a un'imitazione del toscano che sia andata oltre le condizioni originarie. li veneziano dell'epoca di Dante presentava alcuni tratti successivamen
ciò che s'ella avesse vogiudho parlar ala donna, ella dubitava qu'ella non li fese ama et vilania. (Dal Lzbro
di messer Tristano, a cura di A. Donadello,
Venezia, Marsilio, 1994, p. 58, con un paio di adattamenti grafici.)
Traduzione: Ora dice l'autore che il re Apollo si trattenne tanto alla corte del re Claudex che il figlio del re Claudex, che era molto coraggioso [prodomo, d al frano cese antico prodome 'uomo prode') nella sua persona [oggi si direbbe (aveva co
te scomparsi. Li ricaviamo entrambi dalla imprecazione blasfema che Dante
raggio fisico'] ed era stato Fano cavaliere novello, si innamorò a tal punto della
cita nel suo trattato De vulgari eloquentia per mostrare l'inadeguatezza del
donna del re Apollo che tra sé diceva che avrebbe preferito morire
veneziano, come degli altri dialetti italiani, a incarnare l'ideale del volgare
[voleva megio,
letteralmente (voleva meglio'], se la morte gli era destinata, piuttosto che non sod
-
176 UPITOL0 6
disfare il suo desiderio; e per questo immaginò e si mise in cuore di fare in modo di soddisfare il suo desiderio con la donna in segreto, dal momento che in altro modo non avrebbe potuto farlo, giacché, se avesse voluto parlare alla donna, du bitava che lei gli avrebbe rivolto parole ingiuriose. Il brano rivela la sua origine" settentrionale attraverso i fenomeni condi visi da tutti i dialetti nord-italiani, anùchi e moderni: a) scempiamento delle consonanti doppie intervocaliche (ala, de/o.lato, inamorà, elo, vilania efese corrispondente all'italiano anùcofesse cioè 'facesse' < FECISSET, con sincope della sillaba centrale); b) sonorizzazione delle consonanti sorde intervocali che, e successivi sviluppi (sonorizzazione in stado e podeva; successiva spi rantizzazione - anche qui, come in Bonvesin, espressa dal digramma dh -in vo/untadhe e vogiudho); c) avanzamento delle affricate e successiva perdita dell'elemento occlusivo in dise e diseva (seguiamo l'evoluzione di DICITO pri ma si è avuto dice, lo stadio a cui si è arrestato il toscano; poi l'affricata pala tale è avanzata, diventando dentale, da ['ditJe] a ['dilse]; poi l'affricata den tale ha perso l'elemento occlusivo iniziale, e si è giunti a ['dise]; in posizione intervocalica infine si è avuta un'ulteriore evoluzione perché la sibilante, come le altre consonanù sorde, si è sonorizzata, dando quindi ['dize]). Dei tratti tipicamente veneri notiamo prima di tutto la conservazione delle vocali finali (dise, tanto, corte, ecc.). Invece, dopo liquida e nasale: no vel, chavalie" murir, ecc.; ma attenzione: all'interno di frase l'apocope VQca lica dopo liquida e nasale sarebbe possibile anche in toscano (non sono indi cativi dunque casi come tignir tal muodo o far la soa volontade, che anche a Firenz�arebbero traducibili con tener tal modo O far la sua volontà). Due dittonghi, il primo anche toscano, si hanno in cuor e muodo. Altri fenomeni, benché profondamente radicaù in area veneta, sono condivisi da altri dialetti settentrionali. Vediamoli in particolare: a) Trattamento del nesso -LJ- . Rispetto al toscano, che si arresta al risul tato di laterale palatale [,,], i dialetti settentrionali procedono oltre, riducen do la consonante a iod (lombardo anùco foia 'foglia', genovese antico bataia 'battaglia', ecc.); in a lcuni casi - e compattamente nei dialetti veneti - questa iod passa ad affricata palatale. È il risultato rappresentato da megio 'meglio' (lat. MELIUS), nonché da vogiudho 'voluto', il cui tema è rifatto su vogio che, come l'italiano voglio, non discende dal latino classico VOLO bensì dal latino
Le LINGUE D'ITALIA NEL MEDIOEVO 1 7 7
volgare *VOLEO, modellato sui verbi della seconda coniugazione (da *VOLEO, con chiusura della vocale in iato, si è passati a *VOLJO e quindi si è avuto il consueto trattamento del nesso -q-l. Invece infio 'figlio' « FlLIUM) la i toni ca ha assorbito la palatale immediatamente successiva, bloccandone lo svi luppo. b) Estensione dei temi in palatale. In convegniva e tegnir la nasale pala tale non è etimologica (le basi sono, rispettivamente, il latino popolare CONVENIBAT in luogo del classico CONVENIEBAT e il lat. TENERE, con meta plasmo, qui dalla seconda alla quarta coniugazione). In entrambi i casi si ha un'estensione del tema del presente: si parte cioè da tegno e convegno (forme note anche al toscano antico), che continuano regolarmente le basi latine TE NEO (altraverso *TENjO) e CONVENIO. cl Epentesi di r nel suffisso avverbiale -mentre. La presenza di questa vibrante non etimologica (si vedano nel nostro brano gli avverbi secretamen tre e altramentre) potrebbe esser dovuta all'attrazione della serie degli avver bi Ialini in -ENTER (come LIBENTER 'volentieri'). dJ Desinenza della terza persona del passato remoto in -à (dimorà, ina morà, !maginà). È una desinenza molto diffusa in area settentrionale: mentre il toscano amò parte da una base *AMAUT (cap. IV, § 13.3), nel laùno volgare parlato in molte regioni dell'Italia settentrionale l'antico AMAvrr si era ridotto ad 'AMAT. e) Singole forme notevoli. Da segnalare il pronome riflessivo sì, che non continua il lat. SE, ma è forma analogica rifatta su una forma molto diffusa in area settentrionale anche come pronome soggetto di prima persona: mi « MI, già del latino classico accanto a MIHf). In qua (megio murir L . ] qua) sopravvive un'isolata attestazione del latino QUAM, qui adoperato per intro durre una proposizione comparativa. -
-
.
3. IL ROMANESCO ANTICO Fino al Cinquecento il dialetto parlato a Roma apparteneva in pieno al sislema dei dialetti meridionali. A quell' epoca il romanesco subì una profon da trasformazione, avvicinandosi più precocemente di qualsiasi altro dialet to italiano al toscano; una trasformazione che fu l'effetto di più cause: la pre-
LE LINGUE D'ITALIA NEL MEDIOEVO 179
178 CAPITOLO 6
senza di una colonia toscana già nel secolo precedente, i fiorentini discesi a
affidata alla vocale tonica (mentre si è persa la distinzione tra singolare e
Roma durante il pontificato dei papi medìcei, Leone X e Clemente VII, e
plurale).
gli abitanti originari dopo il saccheggio da
soprattutto lo spopolamento de
parte dei lanzichenecchi di Carlo V, il celebre Sacco di Roma del 1527 .
La metafonesi, presente anche nei dialetti settentrionali (dove può esse re provocata da -I), è però-ripica dei dialetti centro-meridionali a sud di una
Si può dire che tutti i fenomeni linguistici propri del romanesco medie
linea ideale che unisce Roma ad Ancona (e manca nei dialetti dell'estrema
vale siano presenti, con varia distribuzione, negli altri dialetti del Mezzogior
Italia meridionale che, come vedremo nel § 5, presentano un sistema vocali
no. Alcuni, meno significativi per una classificazione dialettale, sono addirit
co a cinque timbri, privo delle vocali medio-alte). In gran parte della stessa
tura panitaliani, con esclusione di Firenze e di una parte più o meno ampia
area, da Lazio, Umbria e Marche meridionali fino al Salento e alla Calabria
degli altri dialetti toscani. Rientrano in questo gruppo i seguenti tre feno
centro-meridionale, si ha anche il fenomeno del dittongamento metafoneti·
mem:
co, che colpisce la e e la o aperte (da E e da O toniche latine) nelle stesse con
1.
Mancanza di anafonesi (cap. III, § 3.3): lengua, fameglia, ponge 'pun
dizioni della metafonesi, cioè in presenza nella sillaba finale di una l o di una
ge'. li fenomeno, oltre che in gran parte della Toscana, non si ha negli estre
O. Quindi, da GROSSU(M), GROSSI, GROSSA(M), GROSSAS avremo rispettivamente:
mi dialetti meridionali, in cui non esistono le vocali medio-alte, e ed o (§ 5).
rUOHU (poi, con l'alterazione della vocale finale /' rwJss�/, l'rwoss�/), mOHi (poi, anche qui: /'rwJss�/, l'rwoss�/) di fronte a rOHa, rOHe (!' rJss�/). A dif
2.
Conservazione della e atona, specie protonica: entoma, medecina. li
fenomeno awiene naturalmente anche all'interno di frase (quindi de stare).
ferenza del dittongamento toscano, il dittongamento metafonetico non di
In quest'ultimo caso, esso soprawive bene anche nel dialetto contempora
pende dalla sillaba: colpisce tanto la sillaba libera come in muodo (lat.
neo: romano de Roma.
MOOU(M)) quanto quella implicata, come nell'esempio di ruOHU, appena ci
3 . Conservazione di ar postonico e intertonico: zuccaro. cavallaria. Come abbiamo già osservato (cap. III, § 3.8), l'area in cui si diceva zucchero
,
tato.
e cavalleria era, in origine, estremamente ristretta, riducendosi quasi al solo
I! romanesco medievale non coriosceva la metafonesi, ma presentava il dittongamento metafonetico. I! nome del tribuno che, nel 1347 tentò di re
fiorentino.
staurare l'antica gloria repubblicana è passato alla storia come Cola di Rien
Parleremo qui di un fenomeno molto significativo per la classificazione
zo, cioè «Nicola di Lorenzo»: il nome del padre, dal latino LAURENTIOM, pre
dei dialetti centro-meridionali: la metafonesi (sconosciuta al toscano; ed è
senta regolare dittongamento metafonetico di E, in presenza di -DM, anche se
per questo che non se ne è trattato descrivendo la grammatica storica del
la sillaba è implicata.
l'italiano). La metafonesi consiste nel passaggio di una e chiusa del l.tino vol
Dei fenomeni consonantici dell'antico romanesco ne ricorderemo tre: i
gare (originatasi da una il o da una I del latino classico) e di una o chiusa del
primi due sono largamente attestati in area centro-meridionale, mentre l'ul
latino volgare (da O o D del latino classico) rispettivamente a i e a u; la condi
timo è caratteristico del romanesco più antico. E precisamente:
zione per cui questo passaggio possa avvenire è che nella sillaba finale della
1 . Epentesi di una dentale sorda nel gruppo costituito da una liquida o
base latina ci fosse una l O una D. Così, da N1GRu(M), NIGRI, NIGRA(M), NIGRAS si
da una nasale dentale e da una sibilante: da PENSO si ha penzo, cioè ['pEntsol,
sono avuti niru (poi, con passaggio della vocale finale atona a vocale indistin
da PERSONA(M) penona cioè [per'tsona], da PULSU(M) polzo, cioè ['poltsoJ.
È
ta /�/: l'nito/), niri (e poi l'nir�/); mentre al femminile, in cui la sillaba finale
un fenomeno tuttora vivissimo in area centro-meridionale (compresa gran
non conteneva né I né O, si è mantenuta la e: quindi nera (!'ner�/) e nere
parte della Toscana), che si ritrova anche nell'italiano parlato da persone
(!'ner�). Come si vede, la metafonesi ha assunto, nei dialetti meridionali
colte.
moderni, un'importante funzione morfologica: con la perdita della vocale finale originaria, l'unica possibilità di distinguere tra maschile e femminile è
-
2. Assimilazione progressiva nei nessi -ND-, -MB-,
onna, da PLDMBU(M) piommo, da CAL(r)DU(M)
-lO-:
da ONDA(M) si ha
con sincope della vocale po-
,
-_I
180 CAPITOLO 6
stonica - callo.
LE UNGUE D'ITALIA NEL MEDIOEVO 1 8 1
È una tendenza molto antica, che è stata spiegata col sostrato
osco-umbro (cap. I, § 2) e che è ancora vivissima anche nel romanesco di
aiutarlo. Pensò a lungo di vendicare il sangue di suo fratello. Pensò a lungo di rad drizzare la città di Roma, mal governata.
città, almeno per -ND-: annà 'andare', mànnace 'màndaci'. ecc. L'ipotesi del sostrato è stata però messa in dubbio, dal momento che il fenomeno non
Dei fenomeni che abbiamo già menzionato, riconosciamo i seguenti:
sembra molto antico in siciliano (oggi è assente nella Calabria meridionale e
a) conservazione di e protonica (all'interno di frase nella preposizione semplice de, e in derizzare 'dirizzare, indirizzare'); b) dittongamento metafonetico in Rienzi e muodo (invece in omo la vo
in una parte del Messinese), nel napoletano di città e anche altrove.
3 . Nei più antichi documenti romaneschi una laterale preconsonantica si vocalizza: da MOLTIJ(M) si ha moito. Quasi altrettanto antica è la tendenza al rotacismo, cioè il passaggio di una l preconsonantica a r, che si è mantenuto dialettalmente fino ad oggi: morto.
cale tonica resta intatta perché nella base latina H6MO non c'è un'O finale);
c) epentesi di dentale nel gruppo -NS- in penzao (da PENSAVIT, con conservazione di ao, a differenza del toscano in cui si giunge a -ò: cap. III , § 3 . 1);
ti)
assimilazione progressiva nel nesso -ND- in vennetta e vennicare.
Vediamo ora alcuni tratti nuovi (continuando la serie):
La "Cromw» Scegliamo anche qui un brano in romanesco antico, dal testo più illustre della sua letteratura medievale: la Cronica in cui un cronista anonimo (forse da identificare con Bartolomeo di Iàcovo da Valmontone) illustra vicende specialmente romane della prima metà del Trecento. Ecco la presentazione di Cola di Rienzo:
Cola de Rienzi fu de vasso lenaio. Lo piace "fu tavernaro. abbe nome Rienzi. La matre abbe nome Matalena, la quale visse de lavare panni e ac qua portare. [. . .] Era bello orno e in soa vocca sempre riso appareva in qualche muodo fantastico. Questo fu notaro. Accadde che un sio frate fu acciso e non fu fatta vennetta de sia mortc. Non lo potéo aiutare. Penzao longamano vennicare lo sangue de sia frate. Penzao longamano derizzare la citate de Roma male guidata. (Da t\nonimo Romano, Cronica, ed. criti ca a cura di G. Porta, Milano, Adelphi, 1979, pp. 143-144.) Traduzione: Cola di Rienzo fu di basso lignaggio (è il francese antico lignage, adat rato alla fonetica romanesca]. li padre fu tavernaio, ebbe nome Rienzo. La madre ebbe nome Maddalena e visse lavando i panni e portando l'acqua. ( ... 1 Era un bel l'uomo e nella sua bocca appariva sempre il riso in qualche atteggiamento strava gante. Fu notaio [l'esplicitazione del soggetto querto non è ammessa nell'italiano moderno, in quanto il soggetto è identico a quello della frase precedente]. Accad de che un suo fratello fu ucciso e non fu fatta vendetta della sua morte. Non poté
e) In vano e vocca si ha un fenomeno caratteristico dell'intera area me ridionale, per il quale una labiale sonora si spirantizza in posizione intervo calica non solo all'interno di parola, come in toscano (HABERE > avere), ma anche all'interno di frase, cioè in posizione iniziale (BASSU(M) > vasso) e an che dopo R (BARBA(M) > varoa). Invece, in condizioni di raddoppiamento fo nosintattico si ha sempre bb (AD VOCE(M) > abboce, come si legge già nel l'Iscrizione della Catacomba di Commodilla, una delle più antiche testimo nianze di un volgare italiano, risalente alla prima metà del IX secolo).
j)
Rispetto al toscano, i casi di sonorizzazione di consonanti sorde inter
vocaliche sono più rari (patre, matre e anche citate, che nel toscano della stessa epoca sarebbe stato piuttosto cittade; in Matalena < MAGDALENA(M) si ha invece desonorizzazione). g) Il nesso -R)- si riduce alla semplice vibrante, com'è normale fuori di Toscana (cap. III, § 4.7), in tavernaro e notare (si ricordi che singole forme in
-aro, per esempio notaro, sono possibili anche in Toscana, come rifacimento sui rispettivi plurali).
h) Gli aggettivi possessivi sono soa (normale evoluzione del lat. SOAM, senza la chiusura in iato propria del toscano), accanto a sio e sia, forme ana logiche su mio < MEUM.
,}
Singole forme notevoli. Abbe continua il latino classico HABUIT, con
raddoppiamento della bilabiale provocato da [wl (il toscano ebbe deve la sua vocale tonica all'interferenza esercitata su HABUIT dal latino volgare 'srtTuIT, in luogo del classico STETIT). Potéo è una forma che si ritrova anche
182 CAPITOLO 6
LE UNGUE O'ITAUA NEL MEDIOEVO 183
nel fiorentino antico; è analogica sul tipo di quarta coniugazione finìo <
F1NIV(IlT pronunciato [fi'niwit] con la sincope della vocale di ·sillaba finale
consolari che partivano da Roma, suonava Accia nel romanesco antico). In un paio di casi l'esito [ttIl è riuscito ad affermarsi anche in italiano: piccione
che ha impedito alla [w] del latino classico di consonantizzarsi davanti a vo
« PIPIONE(M), voce di origine imitativa), che sostituisce il più antico fiorenti
cale (come in VITAM ['witamJ > vita ['vita]).
no pippione, e saccente < SAPIENTE(M), con peggioramento semantico (da 'co =
lui che sa' a 'colui che ostenta il proprio sapere').
7. Esito del nesso
4.
IL NAPOLETANO ANTICO
dizione letteraria dialettale in Italia, il napoletano è rappresentato da testi di ogni tipo dal XIV secolo ad oggi. La fisionomia dialettale del napoletano appare contrassegnata, a differenza di quel che è avvenuto a Roma, da una notevole continuità. Alcuni dei tratti più caratteristici (in generale diffusi nell'intero Mezzogiorno continentale) sono stati già indicati nel paragrafo
l) metafonesi e dittongamento
metafonetico; 2) sviluppo della vocale atona fmale in vocale indistinta (è un fenomeno già in atto da diversi secoli, alcune avvisaglie del quale sono state additate in un testo napoletano di fine Duecento - inizi Trecento, i Bagni di
POZ2uolt); 3 ) epentesi della dentale nei gruppi di nasale o liquida + sibilante;
4)
in affricata dentale sorda di grado intenso [tts]
denza settentrionale all'avanzamento delle affricate. Cognomi come Mari·
Espressione, col veneziano, di quella che è forse la più ricca e vivace tra
precedente e debbono essere solo richiamati:
-Cj-
(FACIO > fazzo). In molti casi questo sviluppo si trova a coincidere con la ten
spirantizzazione della labiale sonora intervocalica, anche all'interno di
frase e dopo r. Vediamone altri, sottolineando che i primi quattro tratti era no propri anche del romanesco prima del Cinquecento.
5. Conservazione di iod latina (IAM > ià) ; allo stesso esito giunge anche G davanti a vocale palatale (GENTE(M) > iente). In toscano la iod latina si con serva solo in pochi latinismi (iato < HIATU(M) o Iacopo < IACOBU(M)) e in due meridionalismi, entrati in italiano un paio di secoli fa: iettatore e iettatura, cioè 'gettatore' e 'getto' del malocchio, della sfortuna ai danni di una vitti ma. Nei cognomi italiani derivati dal nome IOHANNES compare una conso nante diversa a seconda dell' originaria area di provenienza: al tipo toscano
Gianni (Giannini ecc.), si contrappongono il meridionale Ianni, con iod conservato, e il settentrionale Zani, con avanzamento dell' affricata palatale. 6. Esito del nesso -PJ- in affricata palatale sorda di grado intenso [ttIl (SAPIO, sostituitosi nel latino volgare al classico SCIO 'so', > saccio) . La stessa evoluzione spiega il nome di Lecce < LUPIAE (anche la via APPIA, una delle vie
nuzzi (da Marino col suffisso diminutivale -uzzo < lat. ·OCEUS), Lanza (dal nome comune, che continua il latino LANCEA), Rizzo, Rizzi (dal latino EIUCIUS indicante prima l'animale e poi, per estensione, chi ha i capelli ricci) posso no provenire di volta in volta dal Nord o dal Sud ma non dalla Toscana, in cui le forme cognominali corrispondenti sono rispettivamente Marinucci, Lancia e Ricci; cioè forme in cui -Cj- ha dato affricata pala tale, non dentale. 8. Esito del nesso -5J- in sibilante sorda (BA5IU(M) > vaso, poi l'vas�/, CAMISIA(M) > cammisa) . 9 . Esito del nesso PL- i n occlusiva velare ( o meglio mediopalatale) + iod (PLOS > chiù, PLANGIT > chzognel. Anche qui, può essere utile ricordare alcuni nomi propri che presentano questo esito: toponimi come Chianche (Avelli no; < latino PLANCAE) o cognomi come Chiummo (corrispondente all'italiano Piombo) o Chianura (corrispondente all'italiano Pianura). l O. Raddoppiamento di m intervocalica: CAMISIA(M) > cammisa, TRl':MAT > tremma. È fenomeno assai esteso, ma caratteristico e sistematico nel napoleta� no antico e moderno.
1 1 . Tra i pronomi dimostrativi, presenza di un sistema tripartito, che comprende la forma per indicare vicinanza a chi parla (quistu, chistu; base latino volgare (EC)cO(M) TSTO(M), come il toscano e italiano questo), lontanan· za da chi parla e da chi ascolta (quillu, chillu; base latino volgare (EC)cO(M)
lLLO(M), come il toscano e italiano quello) , vicinanza a chi ascolta (quissu,
chissu; base latino volgare (EC)CO(M) IPSO(M); forma parallela al toscano code sto, che deriva però da (EC)cO(M) TI(BT) IsTO(M): cap. IV, § lO).
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LE LINGUE D'ITALlA NEL MEDIOEVO 185
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I:«Epistola napoletana» di Giovanni Boccaccio Come campione del napoletano antico sceglieremo un brano apparte nente a un testo scritto da Giovanni Boccaccio (che a Napoli passò gli anni della sua giovinezza) . Si tratta della cosiddetta Epistola napoletana (databile al 1339), una lettera scherzosa in cui lo scrivente finge di comunicare a un amico che una donna di nome Machinti ha partorito. Ecco come viene de scritto il lieto affollarsi delle visite alla puerpera: E s'apìssove beduto quanta bielle di Nido e di Capovana perzì e delle chiazze hénneno a bistrare la feta, pe' eierto t'àpperi maravigliato bien a tene quant'a mene. Chiù de dento creo ca fussono, colle zeppe encanel1a· te e caile macagnane chiene di peme e d'auro mediemo. Ca nde sia lauda to chilio Dio ca ile creao, accò stavano bielle! Uno paraviso pruoprio par· se chilia juorno la chiazza nuostra. Quant'a Machinti, buona sta e alletasi molto dellu figlio; nonperquanto anca jace allo !ietto, come feta cad è. (Da F. Sabatini, Italia linguistica delle origini, Lecce, Argo, 1996, val. II, pp. 438-439; anche la traduzione che segue è di Sabatini.)
Traduzione: E se avessi visto quante belle perfino di Nido e di Capuana e delle
(altre) piazze vennero a visitare la puerpera, per certo avrebbe meravigliato ben te quanto me. Più di cento credo che fossero, con le cuffie incannellate [' di tessuto a cannelli'] e con le macagnane [sono 'ornamenti' della testa] piene di perle e anche d'oro. Che ne sia lodato il Dio che le creò, com'erano belle! Un vero paradiso par· ve quel giorno la nostra piazza! Quanto a Machinti, sta bene e si rallegra molto del figlio; tuttavia giace ancora-a letto, essendo puerpera.
*METlpsIMU(M): cap. IV, § 10; la vocale tonica non avrebbe dovuto dittongar si), mentrejuorno, anch'esso irregolare (dal lat. DrURNU(M) ci saremmo aspet tati ['jurn�l ), è effettivamente la forma più diffusa in Campania e si spiegherà come un prestito. Nell'insieme, occorre riconoscere che il Boccaccio è stato assai scrupo loso nel riprodurre il napoletano antico. Entriamo nei particolari. Già cono sciamo tratti come l'epentesi di dentale in peni (cioè persi 'persino'); il trat tamento di PL- (chiazze < lat. PLATEAS, chiù < PLOS, chiene < PLENAS), la meta fonesi (chillo), il dittongamento metafonetico (eierto < CERTU(M), ciento < dNTU(M), pruoprio < PROPRJU(M), lietto < LECTU(M» , la conservazione di iod (face < lACET; anche da DJ- è normale iod:juorno) . Da notare, infine, un trat to grafico che esprime una precisa realtà fonetica: la confusione tra i grafemi
b e v (e in particolare l'uso di b anche per rappresentare una labiodentale: beduto, bénneno ecc.). Quest'abitudine grafica dipende dal fatto che, come già sappiamo, nei dialetti meridionali si confondono gli esiti di B e v latine (sempre v in posizione debole, tra due vocali o dopo r; sempre bb in posizio· ne forte, cioè come grado intenso); non si hanno dunque due fonemi distin ti, !bI e Ivl, come in toscano, ma un unico fonema che si realizza in modo diverso a seconda del contesto. Soffermiamoci ora su altri due fenomeni che non abbiamo ancora incontrato.
1. Morfologia verbale. Molto caratteristica la quinta persona che inglo ba il pronome soggetto come enclitica: apìssove 'aveste' (anche nel napoleta no odierno si dice cantàstevi (cantaste', vattìstevi 'batteste' ecc.) ; il fenomeno si spiegherà con l'esigenza di distinguere nettamente seconda persona singo lare e plurale, che rischiavano di confondersi una volta che la vocale atona
Anche se il Boccaccio si mostra molto attento ed espetto nella riprodu zione del napoletano parlato dell'epoca, vanno subito notate alcune appros simazioni linguistiche, probabilmente volontarie, cioè legate all'intenzione
finale fosse diventata indistinta: cantasti < CANTA(VI)STT e cantaste < CANTA
(VI)STTS sarebbero diventati indistinguibili nell'unica forma [kan'tast�]. 2. Labiovelare secondaria. In chillo < (�C)cU(M) fLLU(M) è documentato
non di creare un'imitazione perfetta, ma di giocare letterariamente con una
un esito caratteristico di molti dialetti italiani (ma estraneo al fiorentino, in
parlata che non era la sua. Nessun napoletano reale avrebbe detto o direbbe
cui la labiovelare secondaria si conserva sempre: cap. III,
bielle come femminile plurale (cioè in una forma che non ammette dittonga mento metafonetico), né bien (lat. B�NE), né nuostra (lat. NOSTRA(M)), né buo na (latino B()NA(M» ; assai sospetto è anche mediemo 'medesimo' (probabil mente dal francese antico medesme, a sua volta dal latino tardo
(kwl non risalente al latino classico, ma formatosi in seguito a sviluppi fone tici tardi, viene intaccato cosÌ come la labiovelare primaria, perdendo l'ap pendice labiale. In altri termini: mentre in toscano si distingue tra come (ri duzione della labiovelare primaria, da QUOMO(OO) ET) e quello (conservazio-
§ 4.4):
il nesso
186
CAPITOLO 6
ne della labiovelare secondaria), in napoletano si ha riduzione in entrambi i casi: como (forma antica, dal semplice QUOM6(DO); il napoletano moderno camme risente dell'italiano come) e cbillo.
5. IL SICILIANO ANTICO Unico tra i dialetti italiani, il siciliano ha avuto la ventura di lasciare un'impronta nella lingua poetica nazionale, grazie all'antico primato dei poe ti siciliani. Come si è già detto nel cap. III, § 3.2 e nel cap. IV, § 13.7, originari sicilianismi mantenutisi a lungo in poesia sono forme senza dittongo come loca, novo, more, sòle 'suole' o il condizionale in -io (avria 'avrebbe', sanà 'sa rebbe').
LE LINGUE D'ITALIA NEL MEDIOEVO 187
TI siciliano presenta molti tratti in comune con gli altri dialetti meridio nali, ma anche alcune differenze notevoli. Abbiamo visto quella più impor
tante: il diverso sistema vocalico. Ricordiamo anche l'assenza di metafonesi, che ne è ovvia conseguenza (dal momento che non esistono le vocali medio alte); la rarità del dittongamento (che tuttavia esiste oggi nel siciliano centro orientale; in area palermitana si ha addirittura un dittongamento non condi zionato dalle vocali finali, che avviene tanto in sIllaba libera quanto in sillaba implicata); l'assenza di �ocali indistinte; la mancanza di apocope sillabica negli infiniti (dal latino vrnERE pressoché tutti i dialetti centro-meridionali, tranne quelli toscani almeno in epoca antica, hanno il tipo véde, mentre il siciliano ha vidìrzì. I tratti condivisi, almeno in parte, con gli altri dialetti meridionali riguar dano soprattutto il consonantismo (si vedano per questo i §§ 3 e 4).
La differenza fondamentale tra il siciliano e gli altri dialetti italiani ri guarda il sistema vocalico (cap. III, § l ) . Mentre il toscano - come la maggior parte degli idiomi romanzi - prevede sotto accento un sistema a sette timbri, nell'estrema Italia meridionale (cioè in Sicilia, nella Calabria centro-meridio nale e nella penisola salentina, coincidente quasi completamente con la pro
Come campione di siciliano antico riproduciamo due strofe di un poe
vincia di Lecce) le vocali il, r e l confluiscono nell'unico esito i e le vocali 0, ii e O confluiscono nell'unico esito u; la E e la 6 danno rispettivamente e ed o
metto di contenuto ascetico-moraleggiante in alessandrini (lo stesso metro del testo di Bonvesin de la Riva analizzato in § l ) noto come Lamento di par
aperte e la A, come dovunque nella Romània, si continua sempre come a, sen�
te sicz1iana e databile al decennio 1350-1360:
za tener conto della quantità del latino classico. Rispetto al toscano manca no, dunque, la e e la o chiusa e non esistono i dittonghi ie e uo. Nel vocalismo atono le vocali si riducono a tre: a, i (punto d'arrivo, oltre che di E, r e1, l\11che di E) e
u
(punto d'arrivo, oltre che di 0, ii e O, anche di 6). C'è tuttavia la
possibilità che il latino, onnipresente nella cultura del Medioevo occidentale, condizioni la fonetica originaria siciliana. Da AMORE(M), ad esempio, accanto alla forma indigena amuri, poteva sussistere una forma latineggiante amore, pronunciata [a'm"rE], dal momento che in siciliano non esistono le e e le o chiuse). Da questi latinismi, presenti nei versi dei poeti siciliani duecente schi, discendeva la possibilità di far rimare due parole come care ['brE] e amore [a'm"re]; trasponendo una rima del genere nella poesia toscana si è creata Wla rima solo «per l'occhio» - non «per l'orecchio» - dal momento che in toscano alla stessa sequenza grafica -ore corrispondevano due pronun ce diverse, con o aperta in core e con o chiusa in amore.
Il «Lamento di parte siciliana»
o Furtuna fallenti, pirkì non si' [Uta una? Affacchiti luchenti, ct poi ti mustei bruna;
non riporti a la genti sicundo Icr pirsuna. ma mitwi in frangenti pir tua falza curuna, A ti mindi ritornu, oy nostru Criaruri! Quandu mi isguardu intornu, trarnutu li cuiuri, kì notti mi par iornu, tanti fai fatti duri! Fidi et spiranza morinu pi r li toi gesti scuri
(Da R. Casapulla, Il Medioevo, Bologna. li Mulino 1999, pp. 378-379; ao che la traduzione che segue è di Casapulla.) ,
Traduzione: Fortuna ingannatrice, perché non sei costante? Appari luminosa e poi ti mostri oscura; non rendi alle persone secondo i meriti di cias cuno , ma le ,
188 CAPITOLO 6
LE UNGUE D'ITAUA NEl MEDlor:vo 1 89
metti in pericolo attraverso il tuo dominio ingannevole. Mi rivolgo a te, o nostro Creatore! Quando mi guardo intorno mi sconvolgo in viso, perché la notte mi sembra giorno [cioè: l'ordine naturale mi appare stravolto] , tanti atti dolorosi tu compi! La fede e la speranza muoiono per le tue azioni incomprensibili.
Dal punto di vista grafico, è caratteristico l'uso del digramma eh per in dicare l'affricata palat;Ue [tJl: affàcchitl, luchenti. Si tratta di un'abitudine grafica che nel Medioevo era tipica delle aree meridionali (Sicilia, Calabria, Puglia), pur essendo diffusa anche al Nord; trova riscontri al di là delle Alpi, nella grafia del francese (per esempio da CANTARE si è avuto chanter, pronun ciato originariamente [tfan'ttrl e successivamente Ua'te)) e dello spagnolo (abbiamo ricordato ad altro proposito leche 'latte', § 1). li vocalismo siciliano è rappresentato in modo abbastanza adeguato, ma con qualche oscillazione (com'è normale, del resto, in qualsiasi testo mano scritto isolano dell'epoca). Con le vocali i ed u in corrispondenza di vocali medio-alte toscane notiamo, per le vocali toniche, pirkz� mustri, sicundo, pir suna, mlttill ecc.; per le vocali atonefurtuna, plrki, luchenti, genti, mittili, pir (dal lat. PER, con chiusura di E per protonia sintattica), ecc. D'altra parte si ha
sicundo (invece di sicundu). Nel consonantismo la forma genti (invece di ien ti) potrebbe rappresentare un effettivo esito in affricata palatale [d31 non ancora sviluppatosi in [j), che costituisce l'esito meridionale tipiro (§ 4); in
sicundo e mindi 'me ne' (ndi < INDE è forma parallela al toscano ne) va notata la conservazione del nesso -ND- che, come abbiamo già detto (§ 3 ) , nel sicilia
no antico non si assimila; i nessi di liquida e nasale + sibilante presentano la consueta epentesi di dentale (la grafia registra il fenomeno in falza <
FALSA(M) ma non in pirsuna, evidentemente influenzato dal latino PERSONA).
In riferimento alla storia linguistica italiana, il concetto di koinè è più controverso. Se ne può parlare solo in riferimento all'uso scritto così come andò sviluppandosi, specie nel Quattrocento, nelle cancellerie e nelle corri soprattutto delle città settentrionali, sedi delle signorie. Inoltre, occorre aver sempre presente il fatto che la koinè non si identifica con una determinata lingua, ma piuttosto con una serie di tendenze che si manifestano in modo simile in aree diverse, i cui confini non sono rigidamente determinabili. li volgare che si adoperava in queste situazioni (ma che ebbe anche buona vi talità nell'uso letterario) presentava essenzialmente tre ingredienti: 1. il fondo regionale locale, con eliminazione o attenuazione dei tratti linguistici troppo marcati o esclusivi di una sola zona;
2 . i latinismi, presenti in misura abbondante sia per la consuetudine col latino da parte degli scriventi impegnati in attività pubbliche, sia per l'ovvio prestigio legato al latino e alla sua natura di veicolo comunicativo adoperato dagli intellettuali di tutto il mondo occidentale; 3 . il toscano letterario, affermatosi già in pieno Trecento grazie allo straordinario successo di Dante, Petrarca e Boccaccio.
La koinè settentrionale quattrocentesca Un esempio di koinè settentrionale del Quattrocento è offerto da un'in
teressante iniziativa approntata a Mantova nel 1430 dal signore di quella cit tà, Gian Francesco Gonzaga. Gian Francesco promosse quello che oggi chiameremmo un sondaggio d'opinione sulla situazione economica di Man tova, sollecitando il parere dei cittadini più ragguardevoli. Ecco l'inizio di una di queste brevi relazioni, quella, particolarmente sorvegliata e linguisti camente elaborata, stesa dal notaio Alessandro Ramedelli:
6. LE KOINÈ EXTRA-TOSCANE Per koinè si intende una lingua sovraregionale che si affianca o si sostitui sce, nell'uso scritto
°
parlato, ai singoli idiomi in uso in una certa area geo
grafica. li termine riprende il greco koinè didlektos, cioè 'lingua parlata co
illustre et ExcellentissUno Principe e Signor Mio et cetera, intendendo che la Signoria Vostra quala è vaga e desiderosa del bene e utilitade d'i vo stri citadini e contadini ad honore e magnificencia de la vostra citade et merito, fece congregare uno certo dì già passato alcuni d'i vostri citadini in
la vostra corte e lì per lo vostro conselgio fue preposto per parte �e la Si·
mune', con cui si designò il tipo di greco affermatosi dopo l'impero di Ales
gooria Vostra che cadauno da per sì e insema dovesenno pensare sopra tal
sandro Magno (IV secolo a.c.) in Grecia e nelle regioni d'influenza greca.
utilitade et cetera et puoy refferire: adunqua io, minimo vermicello, af�
190 CAPITOLO 6
fectando tal vostra voluntade venire a 'secucione, sono mosso. anzi con strecto per utilitade e honore de la re publica a ruscriver sopra tal materia quello che pare al mio parvo intelecto bisognevole, particularmente ad ef fecto �andare quella vostra bramosa voluntà. (Da Mantova 1430. Pareri a · Gian Francesco Gonzaga per il governo, a cura di M.A. Grignani et al., Mantova, Arcari, 1990, p. 94.) La lingua del testo è assai vicina all'italiano letterario dell'epoca (è quin
di largamente rappresentato il terzo degli ingredienti che abbiamo appena indicato); ma se ·ne distacca per alcuni particolari. Piccole ma significative spie della provenienza lombarda dello scrivente sono la forma quala, che presenta una restituzione indebita della vocale finale (nei dialetti gallo-italici le vocali atone finali tendono a cadere:
§ 1); eonselgio (in cui 19i è una grafia
per indicare la laterale palatale), che tradisce la mancanza d'anafonesi (cap. III,
§ 3 .3 ) ; il pronome sl (sul quale § 1); insema 'insieme', forma caratteristi
ca delle parlate lombarde. Si noti anche la presenza di una t scempia in cita
de e eitadini e soprattutto l'errata distribuzione di scempie e doppie in dove senno 'dovesseno', che testimonia dell'incettezza di fondo dello scrivente in proposito. Anche puoy < P6ST presenta un dittongo estraneo al toscano (per ché, all'epoca del dittongamento, la
S era ancora pronunciata e quindi la sil
laba non era diventata libera). Nessuno dei latinismi offerti da questo brano è particolarmente marcato e tale da non poter figurare anche in un testo to
scano coevo; comunque si possono notare le u protoniche di valuntade, vo
luntà e partieularmente (fedeli ai latini VOLUNTATE(M), PARTICULARlS) e soprat tutto un latinismo lessicale: parvo 'piccolo' (latino
PARVUS). Era invece de/
tutto normale adoperare la grafia latineggiante et in forme come affeelando,
eonstreelo, inlelleelo (pronunciate automaticamente [inte/'IEttO] in Toscana e nell'Italia centro-meridionale e [inte/'IEto], con scempiamento della con sonante doppia, al Nord).
, Bibliog rafia
l'
CAPITOLO I 1. Prima dell'italiano c'è il latino: chi desideri conoscerne la storia in dettaglio, potrà consultare il volume di Paolo Poccetti, Diego Poli e Carlo Santini, Una storia della lingua latina, Formazione, USI; comunicazione, Roma, Carocci, 1999. 2.
Gli studenti che non hanno mai studiato il latino, dopo aver letto con
attenzione le pagine dedicate nel presente volume alle vocali e alle conso nanti del latino, al sistema dei casi, delle declinazioni e delle coniugazioni, potranno approfondire questi e altri argomenti su una qualsiasi grammatica latina per le scuole e soprattutto sul manuale di Antonio Traina e Giorgio Bernardi Perini, Propedeutica al latino universitario, Bologna, Pàtron, 1981'.
}. Per quel che riguarda il latino volgare, l'Introduzione al latino volgare di Veikko Viilinanen (Bologna, Pàtron, 1980') continua ad essere il primo testo di riferimento, A questo si potranno aggiungere le pagine che al latino volgare dedicano i seguenti manuali: Lorenzo Renzi, con la collaborazione di Giampaolo Salvi, Nuova introduzione alla filologia romanza, Bologna, TI Mulino, 1994'; Carlo Tagliavini, Le orzg,ini delle lingue neolatine, Bologna, Pàtron, 1972"; Alberto Zamboni, Alle origini dell'italiano, Roma, Carocci,
2000,
194 BIBUOGRAFIA
BIBUOGRAFIA 195
CAPITOLO 2
cultura, Torino, UTET, 1984; Claudio Marazzini, La lingua italzana. Profilo storico, Bologna, Il Mulino, 1998'; Alfredo Stussi, Nuovo avviamento agli studi difilologza italiana, Bologna, Il Mulino, 1994'.
Tra i libri dedicati (in tutto o in parte) alla fonetica e fonologia dell'ita liano, quelli che possono rivelarsi più utili a uno studente wllversitario sono i seguenti; Amerindo Camilli, Pronuncia e grafia dell'italiano, a cura di Piero Fiorelli, Firenze, Sansoni, 1965'; Luciano Canepari, Introduzione allafoneti ca, Torino, Einaudi, 1979; Id., Manuale di pronuncia italiana, Bologna, Zani chelli, 1992. CAPITOLI
3 , 4, 5
1. Attualmente, la più importante grammatica storica completa dell'ita
liano è quella di Gerhard Rohlfs ( Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino, Einaudi, 1966-1969), un lavoro che in tre densissimi volumi esamina in prospettiva diacronica la formazione delle strutture fone tiche, morfologiche e sintattiche dell'italiano e dei principali dialetti d'Italia. A quella di Rohlfs si affianca la Grammatica storica dell'italiano di Pavao Tekavèié (3 voll., Bologna, li Mulino, 1980'), ricca di numerosi spunti inte ressanti. Entrambe queste opere meritorie saranno probabilmente superate, �n.!o a puntualità e ricchezza di acquisizioni, dalla futura edizione com pleta della Grammatica storica della lingua italiana di Arrigo Castellani, di cui finora è uscito un prlino volume di Introduzione (Bologna, li Mulino, 2000), al quale seguiranno un secondo dedicato alla Fonologia e un terzo dedicato alla Morlologia eformazione delle parole. Su un piano diverso, meno elevato, si colloca la Storza linguistica dell'ita
liano di Martin Maiden (Bologna, Il Mulino, 1998). Hanno impianto e destinazione didattica le Levoni di grammatica stori ca italiana di Luca Serianni (Roma, Bulzoni, 1998') e la Breve grammatica storica dell'italiano di Paolo D'Achille (Roma, Carocci, 2001); entrambe
2. Talvolta sono stati illustrati tratti specifici della lingua poetica italia
na. Oggi questa lingua ha un suo dettagliato proftlo grammaticale; è il volu me - unico nel suo genere - di Luca Serianni, Introduzzone alla lingua poetzC
ca italiana, Roma, Carocci, 2001, in cui sono ricostruiti, raccoiù � ordinati i
molti tratti fonetici, morfologici e sintattici che nel corso di quasi sette secoli - dal Duecento all'Ottocento - hanno reso la lingua della poesia italiana un oggetto diverso dalla lingua della prosa. 3. I migliori vocabolari cosiddetti «generali» (quelli che si adoperano a scuola e che di solito non mancano nella biblioteca di famiglia) ricostruisco no l'etimologia delle varie parole, riportando la forma di base da cui queste derivano; per esempio, sia il Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zin garelli (Bologna, Zanichelli, 2000) sia Il Dizionario della lingua itdliana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli (Firenze, Le Monnier, 2000) riportano l'etimo delle varie voci. Ma per avere notizie più approfondite sull'origine, la storia e la fortuna delle parole dell'italiano occorrerà consultare i grandi vocabolari storici ed etimologici, come per esempio il Grande dizionano del
la lingua italzana fondato da Salvatore Battaglia (Torino, UTET, 1961 ss.l, giunto alla lettera T, o anche il Dizionario etimologico della lingua italiana di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli (Bologna, Zanichelli, 1979-1988, 5 volI.; una nuova versione è Il nuovo etimologico, a cura di Manlio Cortelazzo e Michele A. Cortelazzo, Bologna, Zanichelli, 1999). Due repertori preziosi per chiunque si occupi di storia della lingua italiana sono poi il Romanisches etymologisches Worterbuch di Wilhelm Meyer-Liibke (Heidelberg, Winter, 1935), che raccoglie e ordina tutte le basi latine e latino-volgari da cui deri vano le parole delle lingue romanze e il monumentale Lessico etimologico italiano, diretto da Max Pfister (Wiesbaden, Reichert, 1979 ss.). Quest'ope
queste opere ricostruiscono con chiarezza e compendiosità molte strutture
ra, alla quale collaborano molti studiosi, per ora è giunta solo alla lettera B,
della nostra lingua.
ma quando sarà completata sarà il più ricco e autorevole vocabolario eti mologico dell'italiano mai realizzato.
Completano il quadro alcuni manuali di storia della lingua italiana o di filologia italiana che contengono note di grammatica storica, e cioè; Eduar do Blasco Ferret E., Breve corso di linguistica italiana, Cagliari, CUEC Editri ce, 1996; Francesco Bruni, I.:italiano. Elementi di storza della lingua
e
della
4.
Un corso di grammatica storica dell'italiano potrebbe essere una
buona occasione per dedicarsi nuovamente (o anche - perché no) - per la prima volta) allo studio della grammatica dell'italiano contemporaneo. In
196 BIBUOGRAFIA
questo caso, un aiuto prezioso potrà venire dalla sintetica Grammatica ilalia· na di base di Pietro Traone e Massimo Palermo (Bologna, Zanichelli, 2000), ottima per gli studenti universitari, anche stranieri; oppure dalla Grammati ca italiana di Luca Serianni (Torino, UTET, 1988; dal 1997 anche in edizione economica nella serie delle «Garzantine», Milano, Garzanti), la più famosa e diffusa tra le grandi grammatiche del secolo XX; o ancora dalla Grande grammatica italiana di consultazione, curata da Lorenzo Renzi, Giampaolo Salvi e Anna Cardinaletti (3 voli., Bologna, Il Mulino, 2001'), un'amplissima descrizione dell'italiano contemporaneo frutto del lavoro pluriennale di quasi quaranta specialisti.
CAPITOLO 6 Consentono di approfondire lo studio dei volgari di tradizione colta vari manuali e varie opere generali dedicate in tutto o in patte all'argomento: per esempio, alcune sezioni (in lingua italiana) del Lexzkon der· romanistischen Linguistik. II, 2. Die einzelnen romanischen Sprachen und Sprachgebiete vom Mittelalter bis zur Renaissance, curato da Giinter Holtus, Michael Metzeltin e Christian Schmitt (Tiibingen, Niemeyer, 1995), sono dedicate dai migliori specialisti del settore agli antichi volgari di Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna; Liguria; Veneto; Marche, Umbria, Lazio; Abruzzi; Campania, Calabria settentrionale e centrale; Lucania; Puglia e Salento; Calabria meri dionale e Sicilia. Questa stessa materia è trattata in vari saggi che compaiono nella Storia della lingua italiana. III. Le altre lingue, a cura di Luca Serianni e Pietro Trifone (Torino, Einaudi, 1994). Un altro studio che descrive con ric chezza
e
competenza le varietà di lingua dell'Italia antica è Il Medioevo di
Rosa Casapulla (Bologna, Il Mulino, 1999), che ha anche un'antologia di te sti linguisticamente commentati. Infine, potranno adoperarsi con vantaggio il già citato studio di Francesco Bruni, I.:italiano e, curati dallo stesso studio
so, i due volumi collettivi I.:ttaliano nelle regioni. Lingua nazionale e identità
regionali e I.:italiano nelle regioni. Testi e documenti (Torino, UTET, 1992 e
1994), che illustrano il vario atteggiarsi dei rappotti tra lingua nazionale e dialetti nella storia d'Italia.
200 INDICE DEll.f PAROLE E DELLE FORME
1
INotCE DELLE PAROlE E DElLE FORME 201
,- -
ampio, 90 amuri (sicJ, 186 ancora, 103 andare: va', 103 Andr<,,62 angoscia, 29 anguilla, 77 angustia, 29 annà (rom.), 180 ape, 80 apìssove (nap.), 185 appena, 105 aprile,80 aprire: apersi, 148 'qu, (mi!.), 174 arancio, 99 ardere: arsi, 148 arena, 99 Are:zzo, 84 ariete, 51 armonia, n ascella, 73 asetar (mi!.), 173; assetao (miU , 173 assistere: assistei I assistetti, 146 ano, 73 aureo, 28 avanzare, 85 avello, 99 avere, 150, 1 5 1 ; avea, 62, 94; ebbe, 147, 181; abbia, 82; avrebbe, 156; avrìa, 154, 186 avvenire, 73 avvento, 104 avvisare, 73, 80 azione, 41 bacio, 78, 89 badessa, 99 bambù,96 barone, 32 Bartolomeo, 62 bataia (gen.), 176 battesimo I battesmo, 26, 97 beduto (napJ, 185 bellico, 63 beUo l bcl l begli I bei, 17, J5, I02, I06, I26, 127 bene, 55,56 bénneno (nap.), 185 benzinaro, 87
bere: bevo, 35, 64; beveva, 64 bertig, (logud.), 48 Biagio,9O biasimare I biasmare, 97 biberon, % bidè, % bieta, 81 bisogno, 80 Boezio, n bontà I bonrade, 96, 101, 102 borgataro, 87 boscareccio I boschereccio, 68 braccio, 107 breve I brieve, 56, 72 bruciare, 89 buddismo budeUo, 66, 80, 97, 107 bue, 62 bufalo buono, 36,46, 5J,71, IDI, 10J bustarella, 69 cacchio, 92 cacciare, 85 cadere, 142 caffè, 96 cagione, 89 calamaio, 87 calamaro, 87 calcagno, 107 caldo, 24, 100 calibro, 50 caUo (rom.), 180 camicia, 89 cammisa (napJ, 183 canapè, 96 cancello, 50 cane, 119 cantare: cantarò I canterò, 68, 69; cantarei I canterci 68, 69 cantàstevi (nap.), 185 capegli I capei I capelli 126, 127 capello, 80 capestro, 82 cappio, 90 capra, 80, 81 carbone. 78 caro, 72 carogna, 24, 25
casa, 80 casareccio I casereccio, 69 caso, 80 castella, 109 Catignano, 81 caucciù,96 cavagli I cavai I cavalli, 126, 127 cavallaria I cavalleria, 178 cavèi (10mb.), 79 cavéi (venez.), 79 cavèli (lig.), 79 cedere, 146; cedei I cedetti, 146 cera, 46 cecchio,90 ceno, 139, 140 cervello, 63, 101 cesoia, 80 cessare: cessò, 156 chavalier (venez.), 176 cbc, 77, 93, 138, 139, 164, 165 checché, 105 dti 'qui' (mil.), 77 chi, 93 chiagne (nap.), 183 chiamare, 93 Chianche (n,p.), 18J Chianura (nap.l, 183 chiave, 90 chiazze (nap.), 185 chiedere, 52, 55,77 chiene (nap.), 185 chiesa, 26, 80 chillol chillu (n,p.), 183, 185, 186 chiodo, 36 chirurgia, 68 chissà, 105 chissu (nap.), 183 chistu (nap.), 183 chiù (n,p.), 183, 185 Chiummo (n.p.), 183 ci, 1JI, 1J2, 162 cicogna, 63 ciento (nap.), 185 eieno (nap.l, 185 ciglio, 59, 75 cimice, 66, 170 cingere, 6 1 ciò, 135 citade (sett.), 190
citadlni (setL), I90 citate (rom.), 181 città I cittade, 96, 101, 102 cliccare, 142 co', I04 cocaina, 37 coda, 52,72 codesto, 135. 136, 137 colonna, 24 coloro, 1 1 7 coltella, 109 colui, 35, 36 come, 77, 93, 104 cominciare, 85; cominciarono, 156 commettere: colTlIl'lisi, 8 1 como (nap.), 186 comperare, 68 conciare, 85, 94 confondere: confusi, 81 conselgio (sete), 190 consiglio. 59 constrecto, 190 contiene, 5 1 convegniva (venez.), 177 còre I cuore, 57, 58, 76, 77, 176, 186 còri (slc.),57 corno, 107 corpo, 46, 53 corpora, 109 Corrado, 7 1 cosa, 52 coscia, 73, 93 così, 80, 95 cotta, 72 credere: credei I credetti, 146; crederìa, 154 cresima, 26 cristianesimo, 97 croce, 48 cruci Oogud.l, 48 cucina, 66, 7 1 cui, 138, 139 cuocere, 71 cuoco, 71 cuoio, 87, 107 curioso, 80 Currado,71 da', 103 danaio I danaro I denaro, 88
1 Indice deJle parole. e delle fOrme .
,
Le forme dei verbi italiani sono raccolte sotto i rispettivi infmiti, mentre le forme ver bali dialettali sono indicizzate autonomamente e singolarmente. Per esempio: cantare: cantarò / canterò, 68, 69; cantarei / canrerei 68. 69 cantàstevi (nap.). 185 I suffissi sono raccolti tutti insieme sotto la voce suffissi. Le abbreviazioni vanno sciolte nel modo che segue: boL
=
bolognese; gen.
=
genove
se; lig. :;::; ligure; logud. logudorese; 10mb. lombardo; merid. :;: meridionale; mil . milanese; nap. napoletanQ.;...pa.Q. padovano; piem. piemontese; rom. romanesco; rornagn. romagnolo; setto seuentrionale; 5ic. siciliano; venez. veneziano. =
=
=
=
=
a, 112 abbadessa, 99 abbandonare: abbandonaro, 146 abbe (rom.), 181 .bile, 79 abito, 79 accendere: accesi (passato remoto), 148 Accia (rom.), 18} accusare, 80 aco (merid.), 79 acqua, 76, 77 acquarello / acquerello, 69 acuto , 80 adornameme (mil.), 173 affàcchiti (sic.), 188 affectando, 190 aghirone,97 agnello, 41,49
=
=
=
=
=
=
ago, 117 agosto,66 aia, 87 aiola / aiuola. 36, 57 airone, 97
al, 102 ala, 46
albero, 116 a1cuno, 139, 140 allora, 103 a1tramentre (venez.), 177 a1tro, 139, 140 amare: amano, 146; amai, 146; amaro, 146; amarono, 146; amarìa, 154 àmeda (mLl.), 170 àmia (venez.), 170 amico, SO, 109 ""igo (lig.), 79
202 tNDICE DELLE PAROLE E DELLE FORME
danno, 73, 93 dappoco, 105 dare, 72; diè, 101; diede, 72, 101, 147 Davidde,95 davvero, 105 de- (prefisso), 64 de (rom.l, 181 de', 104 dea, 62
INDICE DEllE PAROLE E DELLE FORME 203
dovere, 69, 78, 156; doveva, 156; dovrìa, 154 dovesenno, 190 dra (mil.l, 174 drago, 1 18 dragone, 1 1 8 duca, 82 due, 62
fedele, 63, 67
femmina, 66 fermare, 64; fermaro, 146 fermo, 64 fero / nero, 53, 57,58 fèru (sic.), 57
freddo, 100, 173 fregio (mi!.), l7J frutarol (venez.), 174 fruttarìa / frutteria, 68 frutto, 114 fucina, 70 fungo, 60
e (congiunzione), 163
fese (venez.), 176 festa, 46, 63 festareccio / festereccio, 68
decembrc / dicembre, 63
eccome, 105
festivo, 63
gabbia, 83
decimo, 55
egli, 129, i55, 156 eglino, 129, 130 ei (pronome), 129 ella, 129, 130, 155 elle, 129, 130 elleno, 129, 130
fiasco, 1 1 8
gatta, 170 gelo, 75
defendo / difendo, 63 del, 102 delicato / dilicato, 63 delo (venez.), 176 demandare / dimandarc / domandare, 70 demani / dimani / domani, 70 denotare, 64 deprimere, 64 derizzare (rom.), 181
descaçao (mil.), 173 desco, 29, 46 designare, 64 desso, 135, 136 detto, 73 devere / dovere, 69 di,65, l64
dIi, 129 eIa (venez.), 176 émpico, 67 entomo (rom.), 178 essa, 129, 130 esse, 129, 130 essere, 56, 150, 151; era / iera, 56; ièrano / ièrano, 56; fu, 95; sarìa, 154, 186 essi, 129, 130 esso, 73, 129, 130 Enòrre , 95
dicasi, 163 dicesi, 163 diebia (venez.), 174 diece / dieci, 55
fabbro, 78 faccio, 83
difendo, 63 dimandare / domandare, 70
faggio, 1 1 6
dimani / domani, 70 dimorà (venez.), 177 dio, 62 dire: dissi, 148; disse, 147, 156 disco, 29
facile, 66 fagiano, 89
fagiolo I fagiuolo, 56, 57 fili.. (sic.), 188 fameglia (rom.), 178 famiglia, 58, 59
fibbia, 90 6co, 82 fiducia, 50
furtuna (sicJ, 188
figlio, 4 1 , 90,91, I07
Genoa / Genova, 96 genti (sic.), 188 gestione, 142
figliolo / figliuolo, 5 1 , 56, 57 figa, 82
gesti�, 142 ghirua, 28,29, 87, 90
ftlantropia,68 filo, IOJ, 107 fmestra, 63
ghianda, 1 16 ghiandola, 49
finocchio, 63
Gianni, 182 ginocchio, 107
fmire: finirò, 152; fmii, 147; fuù, 96; fmiro, 146; fmiro, 153 fio (venez.), 177 fioraio, 87 fiorè, 28, 46 Firenze, 1 1 8 fissare, 73 fino. 72 fiwne, 1 1 7
già,95 giacere, 76 giammai, 105
giocare, 76 gioco / giuoco, 57 giornalismo, 97 Giovanni, 76, % giugno, 86
flora, 28
giunco, 60 giungere: giunsi, 148
foce, 52
giuro, 94
fòco / fuoco, 57, 58, 7 1 , 80
glande, 1 16
fòcu (sK,l, 57 foglia, 86, 90, 9 1 , 116
gli / le, 1 3 1 , 132, 162 gloria, 28, 29
foia (lomb'), 176 fondamento, 107
gocciare, 85 gracile, 66
gòra, 52.
elise (venez.), diseva (venez.), 176
famoso, 80 famasia, 68
dispiace, 5 1
fare: fa', 103; fece, 147; fé, 101; farei, 36
dolere, 53; duole, 53; duoli, 53; dolete, 53; doleva,53
fora (sic.), 154 formare: formò, 95 fornai,88
falo (venez.), 176 fattarello / fatterello, 68
granaio, 87, 88
domeneca / domenica, 66, 80
fano, 171
forza, 84 fossa, 46
dond (mil.l, 17} donna, 100
guado,76
fava, 78
f...delo (sen.). 170 francese, 80
guai,36
dono, 107
fazzo (nap.), 183
frantoio, 87
dormire: dormono, 156
fé / fede, 6J, 101
frassino, 1 16
guaina, 76 guardare, 76; guardaro, 146
dottor, 102 dove, 104
frate, 102
guarire, 142
febbraio, 63
frateUo, 170
guerra, 36, 76
frattanto, 105
guida, 36. 76
favola, 78
febbre, 78
gramigna, 59 gran / grande, IDI, 102 gregario, 64
l 204.
iI
INOICE OELLE PAROLE E DelLE FORME
ià (nap.), 182 iente (nap.), 182 ieri,35 iettatore, 182 iettatura, 182 ili i, 120, 123, 124, 125, 126, 155 in, 65, 94, 1 1 2 inamorà (venez.), 176, 177 infusi, 8 1 ingegner, 103 insema, 190 n i cellecto, 190 invidha (miI.), 173 io, 128 Ischia, 9 1 isola, 80 jace (nap.), 185
levare, 54; levo / lièvo, 54; leva / lieva, 54 li I le, 1 3 1 , 132, 162 Il,9B libricciuolo, 57 lieto, 52, 53 !ietto (nap.), 185 lievito, 55, 66 ligneo, 59
me', 101 medecina (rom.), 178 medesimo, 137, 138
motel, 96 mozzarella, 69
medio, 85
meilare, 142 melanese / milanese, 63, 80
la I le (arricolo), 99, 120, 127
luogora, 109
la / le (pronome), 129, 130 là,9B
lupo, BI, 107, 114, 1 17, l l B
Iaea (sic.), 79 ladrone, 1 1 8
ma (congiunzione), 163 macché, 105
Iiit (piem., lig.), 171 lasagna,99 lasciare, 73 lassù, 105
me, 64, 65, 128, 132
lo I gli (articolo), 120, 123, 124, 125, 126, 155 lo / la (pronome), 131, 132, 162 Ioco (sic.), 186 lodare, 152; lodo, 52; loderò, 152; loderei, 153 loro (possessivo), 134 loro, 117, 129, 130, 133 luchenri (sic.), 188
macchia, 100
maceUarla / macelleria, 68 macerare, 75 madre, 80
morto (rom.), 180 mosca, 46, 48 mostrare, 49; mostrerò, 156
lingua, 60, 77 livomese,80
lui, 9B, 129, 130 Iwnaca, 8 1 luogo, 57
laguna, 5 1
Matalena (rom.), 181 matre (sic., rom.), 79, 181
medolla / midolla, 63 megio (venez-l, 176 meglio, 101
juomo (nap.), 185
lago, BO
INDICE DELLE PAROLE E DELLE FORME 205
megliore, 63
Melano I Milano, 63 membro, 107 memoria, 64 meraviglia, 1 1 6 mercato, 80 mese, 80 mesto, 52 mesura / misura, 63, 80 mettere: misi, 81, 148
mostro, 46
muggire,49 mulino, 66 munne (nap.l, 20 muodo (venez., rom.), 174, 176, 181 muovere: mossi, 148 murir (venez.), 176 muro, 46, 107 muska (logud.)" 48 mustri (sid, 188 naso, 80 ne, 133 ne', I04 negare, 54; nega / nièga, 54; neghiamo, 54; ne·
mezzo, 85
gate,54 negozio, 64 nepote,63
mi (venez.), 177 mi, 65, 162, 13 1, 132, 162
niveo, 28
mia, 62 Michicl (venez. ), 174 miei, 36, 62 ----nriHe ,46 mindi (sid, 188 Minasse, 95
lastrico, 100
maggio, 76 'maginà (venez.), 177 magro, 80
lattuga, 80
mai, 36
lava[Qio, 87 lavello,99
mama (seu.), 169 mamma, 170
mo', 102, 103 modo, 102
Lecce, IB2 legare, 64
man (mil.), 173 mandare, 156
moggio, 85 moglie / mogliera, 86, 1 1 8
mio, 62, 134 mialli (sic.), 188
neve, 28,48, 72 nivi (IogudJ, 4B no,95 noi, 74, 128 noioso, 80 noit (piem,), 20 nostro, 134 notaio, 87, 88 notaro (rom.), 181 notte, 20 nove, 55. 56 nove! (venez.), 176 novo (sic. l, 186 nòvo / nuo\'o, 57, 58, 7 1
legare: lego, 64; legherei, 64 legge, 46
mangiare / manicare, 17, l} 3 manicaretto, 17, 133
moine, 37 moito (rom.), 180
nòvu (sic.), 57
leggere, 67, 141, 142; legge, 75; leggerà, 96
mànnace (rom.), 180
mola, 44 molino, 66
nozze, 85
legno, 46, 59 lei, 55, 9B, 129, 130
manoale / manovale, 96 Mantoa / Mantova, 96
monachesimo,97
lengua (rom.), 178
manzo, 85 margarita / margherita, 68
mondo,20
lento, 72 lenzuolo, 5 1 , 107
marito, 80
mordere, 142
martella, 109
more (sid, 186
leone, 37
marxismo, 97
lettera, 67 letto, 3 1
mascella, 73 mastice, 66
morire: muoio, 87 mormorio, 37 mòro (sicJ, 87
lenticchia, 100
manna (rom.), 20, 73
noze (mil.), 173 numero, 107 nutrire, 80 obbedire, 66 oca,8,2 occhio, 100 occido: v. uccido occuperebbesi, 164
INDICE DEllE PAROLE E DEllE FORME 207
206 INDICE DELLE PAROLE E DEllE FORME
ode, oeli, adire, odono: v. udire
penna, 106
Prato, 8 1
offendere: offesi, 148
pennarello, 69
pratora, 109
oggi,85 ogni, 139, 140 ognWlo, 139 oliva, 66 olivo, 66 orno (rom.), 181 oncino, v. uncino 6ngrua, v. unghia
pensare: penso, 64; penserla, 154
pregio, 84 presto, 52 prezzo, 84
onna (rom.), 179 opera, 55, 72 ora, 103 ordine, 67 orecchia, 24, 66 oduoIo,57 oro, 28, 52 ortica, 8 1 osare, 80 oscuro, 99 osso, 107 Paderno, 81 paese, 37 paggio, 85 paglia, 90, 9 [ palagio I palazzo, 84 palazzinaro, 87 palombaro, 87 pan (venez.), 174 paninaro, 87 parabola,26 parlare, 103; parlerò, 96; parlò, 96 -parte, 120 particularmente, 190 parvo, 190 Patema, 81 parre (rom.), 181 patto, 31, 73 paura, 37 pe', 104 pecora, 55, 1 1 6 pedata, 54
penzo (rom.), 179; penzao (rom.), 181 per, 94 perdere, 67; perdo, 46, 53; perdé, 96 perlomeno, 125 perlopiù, 125
prigione, 63 privato,49
però, 135
professar, 102 protestantesimo,97
pertica, 48
prov
perzì (nap.), 185 perzona (rom.), 179 pesare, 49, 64 pescheria, 68 petardo, 64 petto, 3 1 , 53 piacere: piacque, 147, 156; piaccia, 93 piangere; piansi, 148 piano, 90 piatto, 36 piazza, 84 piccione, 183 piede / piè, 36, 46, 53, 54, 101 pineta, 67 pino, 116
pruoprio (nap.), 185 pulire, 66 pungere: pungo, 61; pungete, 61; pungeva, 61; pungevamo, 61; punto, 61 puoy, 190 puro, 46 pusigno , 5 9 putto, 3 1 qua, 76, 77 quaderno, 80 quala, 190 qualche, 104, 139 qualcosa, 139, 140 qualcuno, 139, 140
piommo (rom.), 73, 179
quale, 36, 76, 77, 93, l38
pir (sic.), 188 pirkì (sic.), 188
quando, 76, 77, 93
pirsuna (sic.l, 188 pittura, 104 più, 95 piuma, 36
quand (mii.), 173 quantitae, 173 quattro, 76, 77 quello 76, 77, W2, [04, W6, [20, [26, [27,
Rienzi (rom.), 181 rimanere: rimasi, 148 rispondere, 142; risposi, 148; rispose, 156 riva, 80 roba, 79 ,Oda ([omb.), 79 rondine, 67 rondò , 96 rosa, 107, 114, 117, 1 18 rotaia, 54 rovinare: rovinò, 95 rozzo, 85 rubare, 79 ruota, 54, 72 saccente, 183 saccio (nap.), 182 sacro, 80 saetta, 75 salute, 117 salvadanaio, 88 santo, 102 sapere, 142; sappia, 94; sappia, 82; sappiendo, 94 sapore, 80 sarìa: v. essere sano, 118
pneumatico, 36 poco I po', 52, 82, W2, lO3
qui, 76, 77
podeva (venez.), 176
quillu (nap.), 183
podio, 85 poggio, 85
quissu (nap.l, 183 quistu (nap.), 183
scarafaggio, 76 sceverare, 80 schiatta, 91
polzo (com.), [79
rabbia. 82, 114
schiavo, 9 1
ponge (rom.), 178 ponte, 35
radio, 85
porcello, 49
ragione, 84
pollo, 46
porco (logud.), 48
raggio, 85 ragliare, 90, 91
porco, 46, 48, 53
pelo, 3 5 , 63
potéo (rom.), 181
re, 118
potere, 53, 71; puoi, 53; può, 53, 71; puote, 71; potete, 53; poteva, 53 pranzo, 85
recare, 82
pena, 52
reno, 3 1 ricoverare, 80 ridere, 142; risi, 148
[35, l36, lJ7, [56 questo, 76, 77, 97, l35, l36, [J7, [56
peggio, 63 peggiore, 63, 76 pelle, 3 5 peloso, 63
reggia, 83 rena,99
portare: portò, 104
ragù, 96 razzo, 85
regalo, 64 reggere, 83
sartoria, 118 sasso, 73
schiattare, 91 scimmia, 86 scimpanzè,96 scorza, 85 scrivere, 142; scrissi, 73, 148; scrisse, 147; scritto, 73 scuro, 99 sé, 131, 132 secco, 48 secretamentre (venez.), 177 segnore / signore I signor, 63, 102
l I
208 INDtCE DElLE PAROLE E DELLE FORME
segonda, 173 segreto, 67 seguente, 93 segugio,89 semegliare / simigliare / somigliare, 70 sentire. 142, 144; sentono, 146; sentiva / senria, 62, 78; sentivano / semiana, 78 seppellire, 49 seppia, 82 seppure, 105 serocchia / sirocchia, b3 serva, 1 1 1 servigio / servizio, 84 servitù / servitude, 96 sette, 46 s;, 65, lJ 1, lJ2, 162 sì, 95 sicunda (sid, 188 sicuro, 80 sigaretta, 69 ,il
stamani, 97, 98 stamattina, 97, 98 stanotte, 97, 98 stare: Sta, 97; sta', 103; stette, 147; sto, 97 staser-d, 97,98 stavolta, 97, 98 stazione, 84 stesso, 137 Slèva (\ig.), 81 5lèvan (rornago.), 81 Stèven (10mb.), 81 Srèvu (piem.>, 81 Stievano (pad.), 81 stracciare, 85 strada, 80, 94 subito, 79 fui/issi: -aio, 87; -arecclo, 68; -ardlo, 68; {t)aio, 87; -erecdo, 68; -erello, 68; -eria, 68; -ese, 80; ·esimo, 97; -ile, 66; -me, 67; -ismo, 97; -mentre (venez.), 177; -oso, 80 sughero, 67 ,uo, 36, 37, 62,72, 134 suocero, 53, 55 suor / suora, 103
-
tacere: tacque, 147 ,ale, lJ9, 140 tavemaro (rom.), 181 'e, 128, lJ2 tegghia I teglia, 90, 91 tegnir (venez.), 177 teina, 37 tela, 48, 63 telaio, 63 temere, 141, 144, 146; temea, 62; temerò, 152; temei / temeru, 147; temerei, 153 tempo, 107 tenere, 53; tieni, 53; eiene, 53; tenete, 53; tenea / teneva 53, 62 (esoro, 81 d, 65, 131, 132, 162 tiepido, 55, 80 tiglio, 59 tigoa, 86 ,ila (logud.), 48 timore, 63, 72 tingo, 60 torma, 24 tosare, 8 1
INDICE DELLE PAROLE E OfLll FORME 209
trarre: trassi, 148 tremare: tremo I triemo, 56 trenuna (nap.), 18) tressene, 105 trop, 173 tropo, 174 trovare: trovo I truovo, 56; trovò, 95 tsè-tsè, 37 tuo,37, 62, 134 tutto, 139, 140 ubbidire, 66 ubriaco / ebriaco, 70 uccidere: uccido, 65; uccisi, 81; ucciso, 81 udire I adire, 65; odo, 65; odi, 65; ode, 65; udiamo, 65; udite, 65; odono, 65; udia, 62; udito, 7 1 uguale I eguale, 70, 77 uliva / ulivo, 66 un I uno I una (articolo), 120, 123 uncino, 66 unghia, 60, 90 unico, 66 uomol uomini, 35,55, 66, 1 1 8 uscire: uscì, 95 usignolo, 81, 99 uso, 8 1 va'; ti. andare vaiolo I vaiuolo, 56, 57 valle, 46 vantare, lO l vaso (nap.), 183 vasso (rom.), 181 vastu (vena.), 175 vatustevi (nap.), 185 ve', 101 vecchiarello I vecchierello, 68 vecchio, 92 vedere: vedo, 94; veggio, 94; vedeva I vedea, 62, 78; vedevano I vedeano, 78; vide, 147; veggendo,94 vedoa I vedova, 96 vegliare, 90, 91
Vegoesia, Venesia, Venezia, Vmegia, 7 1 veleno, 63 vendemmia, 49, 86 vendere: vendei / vendetti, 147 vendesi, 163 venire, 53; vieni, 53; viene, 44, 53; venite, 53; veniva / venia, 53, 62; venne, 44; vennero, 156 vennetta (rom.), 181 vennicare (rom.), 181 vèr, 101 verde, 100 vergogna, 101 verràs (venez.), 175 vescovo, 26, 80 vestigio, 107 vezzo, 29, 84 -n, 131, 132, 162 vidìri (sid, 187 vigna, 86 vilao, l73 vilania (venez.), 176 villareccio I villereccio, 68 vincere: vinco, 60; vincete, 60; vinceva, 60; vincevamo, 60 v!niziano, 7 I virtù I virtude, 95, 96, 101, 102, 104 vivere, 67; vivo, 46 vizio, 29, 84 vocca (rorn.l, 181 voce, 48 vogio (venez.), 176 vogiudho (veoez.), 176 voi, 74, 128 volere: vuole, 54, volle, 147 volevasi, 163 volontà I voluntà I voluntade, 54, 190 voluntadhe (venez.), 176 vostro, 134 vuci (logud'), 48 zernza (bol.), 170 zè-zè,37 zuccaro (rom.), 178 zucchero, 178
r
FinilO di stampare ndl'lprik 200<1 dalla lilosei, via rossini IO, raslignano, bologna
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