STEVE BERRY
L'OMBRA DEL LEONE (The Venetian Betrayal, 2008)
A Karen Elizabeth, un viaggio assoluto Fatica e rischio ...
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STEVE BERRY
L'OMBRA DEL LEONE (The Venetian Betrayal, 2008)
A Karen Elizabeth, un viaggio assoluto Fatica e rischio sono il prezzo della gloria, ma è bello vivere con coraggio e morire lasciandosi alle spalle una fama imperitura. ALESSANDRO MAGNO
È un diritto divino della follia non essere in grado di vedere il male che si ha di fronte. ANONIMO DRAMMATURGO DANESE
PROLOGO
Babilonia, maggio 323 a.C. Alessandro Magno aveva deciso di uccidere lui stesso quell'uomo. Di solito simili compiti li delegava, però non in quell'occasione. Suo padre gli aveva insegnato molte cose che gli erano state utili, ma una lezione in particolare non aveva mai dimenticato: le esecuzioni capitali servono ai vivi. Aveva riunito seicento delle sue guardie migliori, uomini senza paura che di battaglia in battaglia avevano superato scontri frontali o protetto disciplinatamente il suo fianco vulnerabile. Grazie a loro l'indistruttibile falange macedone aveva conquistato l'Asia. Ma oggi non ci sarebbero stati combattimenti. Nessuno portava armi o armatura, e, anche se stanchi, si erano radunati in abito leggero, copricapo in testa, sguardo attento. Anche Alessandro studiava la scena con occhi insolitamente affaticati. Era sovrano di Macedonia e Grecia, signore dell'Asia, governatore della Persia. Alcuni lo definivano re del mondo, altri un dio. Uno dei suoi generali, una volta, gli aveva detto che era l'unico filosofo mai visto con le armi in pugno. Ma era anche umano, e il suo amato Efestione giaceva morto. Quell'uomo era stato tutto per lui: confidente, comandante della cavalleria, gran visir, amante. Da bambino Aristotele gli aveva insegnato che un amico era un altro se stesso, e proprio quello era stato Efestione. Ricordava divertito come in un'occasione l'amico fosse stato scambiato per lui e, benché l'errore avesse provocato l'imbarazzo generale, Alessandro si era limitato a sorridere e a far notare che la confusione di persona non era per nulla importante, dato che anche lui, Efestione, era Alessandro. Scese da cavallo nella giornata calda e luminosa. Le piogge primaverili del giorno precedente erano cessate. Che fosse un presagio? Possibile. Per dodici anni aveva dilagato a oriente, conquistando Asia Minore, Persia, Egitto e parte dell'India. Ora il suo obiettivo era avanzare verso sud e reclamare per sé l'Arabia, quindi dirigersi a ovest in Nord Africa, Sicilia e penisola iberica. Navi e truppe si stavano già radunando e presto la marcia avrebbe avuto inizio. Non prima, però, che la questione della prematura morte di Efestione fosse stata risolta. Da lui in persona. Camminò sul terreno morbido, il fango fresco che gli risucchiava i sandali. Piccolo di statura, brusco nella parlata e nella camminata, il corpo robusto dalla carnagione chiara segnato da innumerevoli ferite, aveva ereditato dalla madre albanese il naso dritto, il mento sfuggente e una bocca che non riusciva a nascondere le emozioni. Come i suoi uomini, non portava la barba, aveva i capelli biondi in disordine e gli occhi, uno grigio blu e l'altro marrone, sempre attenti. Si vantava della sua pazienza, ma negli ultimi tempi trovava sempre più difficile tenere sotto controllo la rabbia.
Cominciava a piacergli essere temuto. «Medico, si dice che i migliori profeti sono quelli le cui previsioni trovano maggiore riscontro.» L'uomo non fiatò. Almeno sapeva stare al suo posto. «Lo dice Euripide. Ma da un profeta ci si aspetta di più, non ti pare?» Dubitava che Glaucias avrebbe replicato, dato che aveva gli occhi sgranati per il terrore. E aveva tutte le ragioni di avere paura. Il giorno precedente, mentre pioveva, il tronco di due alte palme era stato piegato portandolo a contatto col suolo, quindi le piante erano state legate assieme, la corda poi fermata attorno a un altro albero di grandi dimensioni. Adesso il medico era a propria volta legato al centro della V formata dalle palme, le braccia bloccate da una fune, e Alessandro impugnava una spada. «Era tuo dovere fare una previsione più corrispondente alla verità. Perché non l'hai salvato?» «Ho tentato...» rispose Glaucias senza riuscire a fermare il tremito che gli faceva battere i denti. «E come? Non gli hai dato la pozione!» Il medico scosse il capo terrorizzato. «Si era verificato un incidente alcuni giorni prima. La maggior parte delle scorte era stata rovesciata. Ho mandato a prenderne altra, ma l'emissario non è tornato in tempo per fermare... la malattia letale.» «Non ti era stato detto di tenerne sempre grandi dosi a disposizione?» «L'ho fatto, mio re, ma c'è stato l'incidente.» L'uomo cominciò a singhiozzare. Alessandro ignorò la manifestazione di sofferenza. «Avevamo concordato che non sarebbe mai più dovuto succedere un caso come quello dell'ultima volta.» Sapeva che il medico ricordava quando, due anni prima, Alessandro ed Efestione avevano sofferto entrambi di febbri. Anche allora si era verificata una scarsità di approvvigionamenti, ma si era riusciti a ottenere nuove scorte ed entrambi si erano ripresi. Gocce di paura scendevano dalla fronte di Glaucias. Occhi terrorizzati imploravano pietà. Ma Alessandro non vedeva altro che lo sguardo vitreo del suo amante. Da bambini, erano stati tutti e due discepoli di Aristotele: Alessandro il figlio di un re, Efestione l'erede di un guerriero. Si erano legati grazie al condiviso interesse per Omero e l'Iliade, con Efestione novello Patroclo di un Alessandro Achille. Viziato, dispettoso, prepotente e non poi tanto brillante, Efestione era comunque stato un portento. E adesso se ne era andato. «Perché hai lasciato che morisse?» Poteva udirlo soltanto Glaucias, perché aveva ordinato alle sue truppe di avvicinarsi appena quanto bastava per osservare, non per ascoltare. La maggior parte dei guerrieri greci andati con lui in Asia era morta o non combatteva più, e adesso il grosso del suo esercito era formato da reclute persiane arruolate dopo che lui aveva conquistato il loro mondo. Bravi uomini, tutti. «Tu sei il mio medico. La mia vita è nelle tue mani. La vita di tutti coloro che ho più cari è nelle tue mani. Tuttavia mi hai tradito.» L'autocontrollo cedette al dolore e dovette sforzarsi per non rimettersi a piangere. «Per un incidente.» Posò la spada di piatto sulle corde tese.
«Per favore, mio re. Non è stata colpa mia. Non merito questo.» Alessandro fissò il medico. «Non è stata colpa tua?» Il dolore si trasformò immediatamente in rabbia. «Come puoi affermare una cosa simile?» Sollevò la spada. «Era tuo dovere essere d'aiuto.» «Mio re, avete bisogno del mio aiuto. Oltre a voi, sono l'unico a sapere della medicina. Se si rendesse necessaria e voi foste inabile, come potreste riceverla?» L'uomo parlava in fretta, tentando qualunque cosa potesse avere esito positivo. «Si può insegnare ad altri.» «Ma servono capacità e conoscenza.» «La tua capacità non è servita a salvare Efestione, che non ha tratto beneficio dalla tua profonda conoscenza.» Le parole si formavano nella sua mente, ma faticava a pronunciarle. Infine, trovò il coraggio e disse, più a se stesso che alla sua vittima: «È morto». L'autunno precedente a Ecbatana doveva essere dedicato a grandi spettacoli, una festa in onore di Dioniso, con gare di atletica, musica e tremila attori e artisti, appena arrivati dalla Grecia, per intrattenere le truppe. Bevute e allegria avrebbero dovuto continuare per settimane, ma i bagordi terminarono quando Efestione si era sentito male. «Gli avevo detto di non mangiare, ma ha ignorato i miei consigli», riprese Glaucias. «Ha mangiato volatili e bevuto vino. Gli avevo detto di non farlo.» «E tu dov'eri?» Non attese risposta. «A teatro a guardare uno spettacolo. Mentre il mio Efestione moriva.» Eppure anche lui, Alessandro, si trovava allo stadio a guardare una corsa, e il senso di colpa ne amplificava la rabbia. «Le febbri, mio re. Ne conoscete la forza. Giungono rapide e inarrestabili. Niente cibo. Non si deve prendere cibo. Lo sappiamo dall'ultima volta. L'astinenza avrebbe concesso il tempo necessario per far arrivare altra pozione.» «Avresti dovuto essere presente», gridò lui, notando che i soldati l'avevano udito. Si calmò e riprese in un sussurro: «La pozione medicinale avrebbe dovuto essere disponibile». Notò una certa irrequietezza tra i suoi uomini. Doveva riprendere il controllo. Cos'aveva detto Aristotele? Un re parla solo coi fatti. Ed era per questo che aveva infranto la tradizione ordinando che il corpo di Efestione venisse imbalsamato. E, seguendo ancora la prosa di Omero, come Achille aveva fatto per il suo caduto Patroclo, aveva comandato che criniere e code dei cavalli fossero tagliate, quindi proibito che venisse suonato qualunque strumento musicale e inviato emissari dall'oracolo di Ammone per ricevere indicazioni su come meglio ricordare il suo amico prediletto. Poi, per alleviare la sofferenza, aveva attaccato i cossei e passato a fil di spada l'intera nazione come offerta all'ombra dell'amato Efestione che andava scomparendo. Era stata la rabbia a spingerlo, e continuava a essere così. Fece roteare in aria la spada, bloccandola vicino al volto barbuto di Glaucias. «Le febbri mi hanno colpito di nuovo.» «Allora, mio re, avrete bisogno di me. Posso aiutarvi.»
«Come hai aiutato Efestione?» Riusciva ancora a vedere la pira funebre dell'amico, accesa tre giorni prima. Alta cinque piani, un quadrato di oltre duecento metri come base, decorata con aquile dorate, prue di navi, leoni, tori e centauri. Erano giunti inviati da tutti i Paesi del Mediterraneo, per vederla ardere. E tutto questo a causa dell'incompetenza dell'uomo che aveva davanti. Spostò la spada alle spalle del medico. «Non mi serve il tuo aiuto.» «No, vi imploro!» gridò Glaucias. Alessandro recise le funi tese con la sua lama affilata, ogni colpo pareva liberarlo dalla rabbia. Tuffò la punta della spada tra le fronde, i pezzi di corda che schioccavano come ossa che si rompono. Ancora un colpo e la lama recise gli ultimi legacci. Le due palme, libere da ogni impedimento, schizzarono verso il cielo, una a sinistra, l'altra a destra, con Glaucias legato nel mezzo. L'uomo strillò quando il suo corpo fermò momentaneamente lo scatto delle piante, poi le braccia si staccarono e il petto esplose in una pioggia cremisi. Le fronde delle palme si scossero con un suono d'acqua battente e i tronchi gemettero riprendendo una posizione eretta. Il corpo di Glaucias colpì il terreno bagnato con un tonfo, braccia e petto penzolanti tra i rami. Quando gli alberi tornarono dritti, calò un silenzio assoluto. Nessuno dei soldati emise suono. Alessandro si portò di fronte ai suoi uomini e urlò: «Alalalalai!» I soldati ripeterono il grido di guerra macedone, le voci che rimbombavano sulla pianura umida ed echeggiavano dalle fortificazioni di Babilonia. La gente che osservava dall'alto delle mura della città rispose al grido. Alessandro attese che il rumore si placasse, quindi proclamò a gran voce: «Non dimenticatelo mai!» Sapeva che si sarebbero chiesti a chi si riferisse, se a Efestione o all'anima sventurata che aveva appena pagato il prezzo per avere deluso il suo re. Non aveva importanza. Non più. Conficcò la spada nel terreno e tornò al suo cavallo. Ciò che aveva detto al medico era vero. Le febbri erano di nuovo tornate a colpirlo. E ne era felice.
PARTE PRIMA Capitolo 1
Copenhagen, Danimarca, sabato 18 aprile, ore 23.55 L'odore fece riprendere i sensi a Cotton Malone. Acuto, acre, con una punta di zolfo. E qualcos'altro. Dolce e stucchevole. Come la morte. Aprì gli occhi. Si trovava sdraiato sul pavimento, braccia allargate, palmi sul legno duro, che subito notò essere appiccicoso. Cos'era successo? Era andato alla riunione di aprile della Società Librai Antiquari Danesi pochi isolati a ovest della sua libreria, vicino all'allegria del Tivoli. Gli piacevano quegli incontri mensili, e quest'ultimo non aveva fatto eccezione. Qualche drink e tante chiacchiere sui libri. La mattina successiva era d'accordo con Cassiopea Vitt d'incontrarsi al Museo di Cultura Greco Romana. L'aveva chiamato il giorno prima e lui si era stupito perché non la sentiva da Natale, quando lei aveva trascorso qualche giorno a Copenhagen. Mentre rientrava a casa in bicicletta, godendosi la piacevole serata primaverile, aveva deciso di dare un'occhiata all'insolito luogo scelto da Cassiopea per l'incontro: una vecchia abitudine che gli derivava dalla professione precedente. Era difficile che Cassiopea facesse qualcosa d'impulso, quindi un po' di preparazione preventiva poteva non essere una cattiva idea. Aveva trovato l'indirizzo, di fronte al canale Frederiksholms, e aveva notato la porta socchiusa che consentiva l'ingresso all'edificio buio, che di norma avrebbe dovuto essere sprangato e dotato di allarme. Parcheggiò la bici. Il minimo che poteva fare era chiudere la porta e telefonare alla polizia una volta tornato a casa. Ma l'ultima cosa che ricordava era la sua mano che afferrava la maniglia: adesso si ritrovava all'interno del museo. Nella luce che filtrava da due finestre vide uno spazio decorato in tipico stile danese: un elegante misto di acciaio, legno, vetro e alluminio. Il lato destro della testa pulsava e, tastando, trovò un bel bernoccolo, quindi si scosse per liberare il cervello dalla nebbia che l'avvolgeva e si alzò. Aveva già visitato quel museo e non era rimasto particolarmente impressionato dalla raccolta di manufatti greci e romani. Si trattava solo di una delle cento o più collezioni private che si trovavano a Copenhagen, dal contenuto vario quanto la popolazione della città. Si raddrizzò appoggiandosi a una vetrina e si ritrovò di nuovo le dita sporche di qualcosa di appiccicoso e dall'odore nauseabondo. Notò che aveva camicia e calzoni umidi e lo stesso valeva per capelli, viso e braccia. Qualunque sostanza coprisse l'interno del museo, aveva ricoperto pure lui.
Barcollò verso la porta d'ingresso e provò ad aprirla. Chiusa a doppia mandata: ci sarebbe voluta la chiave per aprirla dall'interno. Tornò a osservare la sala. Il soffitto era a circa nove metri e una scala di legno e metallo cromato portava a un primo piano che scompariva in un'oscurità ancora più fitta, mentre il pianterreno si estendeva al di sotto. Trovò un interruttore. Niente. Si trascinò a una scrivania in cerca di un telefono. Staccato. Un rumore disturbò il silenzio. Schiocchi e scricchiolii, come di un meccanismo che si mette in moto, provenienti dal piano superiore. Il suo addestramento di agente del dipartimento di Giustizia americano lo avvertiva di non muoversi, ma allo stesso tempo lo spingeva a indagare, quindi salì silenziosamente le scale. Il corrimano di metallo cromato era umido, così come i gradini laminati. Quindici scalini più su, altre vetrine punteggiavano il pavimento di legno, mentre bassorilievi in marmo e bronzetti su piedistalli incombevano come fantasmi. Colse un movimento a sei o sette metri di distanza; un oggetto roteava sul parquet: largo all'incirca sessanta centimetri, i bordi arrotondati, di colore chiaro, aderente al suolo, simile a quei tagliaerba robotizzati di cui aveva visto la pubblicità. Quando incontrava una vetrina o una statua, il marchingegno si fermava, arretrava, quindi scattava in un'altra direzione. Dalla parte superiore spuntava una protuberanza da cui ogni pochi secondi usciva uno spruzzo. Si avvicinò e ogni movimento si interruppe. Come avesse percepito la sua presenza, l'aggeggio nasuto si voltò verso di lui e una nuvola bagnaticcia gli inzuppò i calzoni. Ma che diavolo era? La macchina parve perdere interesse e si allontanò rapida nell'oscurità, spandendo una nebbiolina odorosa lungo la strada. Cotton guardò il piano inferiore e individuò un altro marchingegno parcheggiato accanto a una vetrina. La situazione non prometteva niente di buono. Doveva andarsene. La puzza cominciava a rivoltargli lo stomaco. L'aggeggio smise di gironzolare e Cotton udì un rumore nuovo. Due anni prima, quando viveva ad Atlanta, prima del divorzio, del pensionamento e del trasferimento a Copenhagen, aveva speso qualche centinaio di dollari per un barbecue in acciaio inossidabile. La griglia era dotata di un bottone rosso che premuto accendeva una fiamma a gas, e il rumore che faceva era lo stesso. Lo stesso clic che aveva appena udito. Vide delle scintille. Il pavimento prese vita, prima giallo sole, poi arancio bruciato, per stabilizzarsi su un azzurro pallido quando le fiamme si irradiarono verso l'esterno, consumando il legno. Il fuoco risalì simultaneamente le pareti e la temperatura divenne tale da costringere Malone a ripararsi il viso col braccio. Il soffitto si unì alla conflagrazione e in meno di quindici secondi il pavimento del primo piano era in fiamme. L'impianto antincendio a pioggia entrò in funzione e Cotton indietreggiò fino a metà della scala, in attesa che il fuoco si spegnesse. Ma si accorse di una cosa: l'acqua non faceva altro che alimentare le fiamme. Il marchingegno che aveva dato inizio al disastro si disintegrò all'improvviso in un
lampo silenzioso, con fiamme che si allungavano in tutte le direzioni, simili a onde in cerca di una spiaggia. Una sfera di fuoco salì verso il soffitto e parve essere benaccetta dagli spruzzi d'acqua. Del vapore infittì l'aria, non con del fumo, ma con una sostanza chimica che gli fece girare la testa. Scese gli ultimi gradini a due a due, mentre un violento soffio sibilante si propagava al piano superiore. Seguito da altri, più forti. Del vetro andò in frantumi. Qualcosa crollò fragorosamente. Si precipitò verso la parte anteriore dell'edificio e il secondo aggeggio, fino a quel momento immobile, cominciò a girare intorno alle vetrine del pianterreno, spargendo altro vapore nell'aria incandescente. Doveva uscire di lì, ma la porta si apriva verso l'interno. Telaio di metallo, legno spesso. Nessuna possibilità di scardinarla con un calcio. Osservò il fuoco scivolare lungo la scala, consumando ogni gradino, quasi il diavolo stesse scendendo a dargli il benvenuto. Persino il metallo cromato veniva divorato con avidità. Il respiro di Malone prese a farsi faticoso a causa della nebbia chimica e dell'ossigeno in rapida diminuzione. Di certo qualcuno avrebbe chiamato i pompieri, ma non gli sarebbero stati di nessun aiuto. Bastava che una scintilla sfiorasse i suoi calzoni zuppi... Le fiamme trovarono il fondo delle scale. A tre metri di distanza.
Capitolo 2
Venezia, Italia, domenica 19 aprile, ore 00.15 Enrico Vincenti fissò l'accusato e chiese: «Niente da riferire a questo Consiglio?» L'uomo di Firenze non parve affatto preoccupato dalla domanda. «Solo che tu e la tua Lega potete anche strozzarvi.» «A quanto pare ci sottovaluti.» «Ehi, grassone, io ho degli amici, sai?» Il fiorentino ne sembrava davvero orgoglioso. «Tanti.» «Le tue amicizie non ci riguardano», chiarì Vincenti. «Ma la tua slealtà è tutta un'altra faccenda.» L'accusato si era vestito per l'occasione, sfoggiando un costoso completo Zanetti, camicia Charvet, cravatta Prada e le indispensabili scarpe Gucci. Fatti due conti, l'insieme costava più di quanto la maggior parte della gente guadagna in un mese. «Dopotutto, una cosa te la dico. Ora io me ne vado e dimentichiamo questa spiacevole faccenda... e tu e i tuoi potete tornare a fare qualunque cosa facciate.» Nessuno dei nove seduti accanto a Vincenti parlò. Li aveva avvisati di aspettarsi un'ostentazione di arroganza. Il fiorentino era stato assunto per gestire una questione in Asia centrale, un lavoro che il Consiglio considerava di vitale importanza, ma aveva apportato variazioni all'incarico per soddisfare la sua avidità. Per fortuna era stato scoperto ed erano state prese le necessarie contromisure. «Sei convinto che i tuoi soci staranno davvero dalla tua parte?» chiese Vincenti. «Non sarai così ingenuo, vero, grassone? Sono stati loro a dirmi di farlo.» Vincenti ignorò di nuovo l'accenno alla sua stazza. «Non è quello che hanno detto.» I soci in questione erano in realtà membri di un'organizzazione criminale internazionale, dimostratasi utile in svariate occasioni. Il fiorentino era un collaboratore a contratto e il Consiglio aveva sorvolato sul raggiro dell'organizzazione per puntare l'indice contro l'imbroglione che si trovava davanti in quel momento. Cosa che avrebbe chiarito la faccenda anche con l'organizzazione, anzi già l'aveva fatto, dato che il prezzo convenuto per la collaborazione era stato dichiarato non dovuto e il cospicuo anticipo del Consiglio restituito. A differenza del fiorentino, i suoi soci capivano perfettamente con chi avevano a che fare. «Cosa sai di noi?» chiese Vincenti. «Siete un gruppo di ricconi cui piace giocare», gli fu risposto con un'alzata di spalle. L'aria spavalda divertiva Vincenti. Dietro il fiorentino c'erano quattro uomini armati, la cui presenza spiegava come mai l'uomo si sentisse tanto al sicuro: aveva acconsentito a essere presente solo a patto di poterli portare con sé.
«Settecento anni fa, il Consiglio dei Dieci controllava Venezia», spiegò Vincenti. «Si trattava di un gruppo di uomini considerati troppo maturi per lasciarsi condizionare da passioni o tentazioni, incaricato di mantenere la sicurezza pubblica e reprimere l'opposizione politica. Ed è quello che fecero per secoli, raccogliendo prove in segreto, emettendo sentenze ed eseguendo condanne, tutto in nome della Repubblica veneziana.» «Pensi che mi interessi la lezioncina di storia?» Vincenti portò le mani in grembo. «Dovrebbe.» «Questo mausoleo è deprimente. È tuo?» Era vero, il piccolo palazzo non aveva il fascino di un'abitazione familiare, ma zar, imperatori, arciduchi e teste coronate avevano alloggiato sotto il suo tetto. Persino Napoleone aveva occupato una delle molte stanze, quindi lui replicò con orgoglio: «È nostro». «Vi serve un arredatore. Abbiamo finito?» «Devo concludere la mia spiegazione.» «Allora fa' in fretta. Ho bisogno di dormire.» «Anche noi siamo un Consiglio dei Dieci, e come quello originale utilizziamo inquisitori per far rispettare le nostre decisioni.» Un cenno con la mano e tre uomini dall'altra parte del salone si fecero avanti. «Le nostre leggi sono assolute.» «Voi non siete il governo.» «No. Siamo tutt'altro.» Il fiorentino continuava a non sembrare impressionato. «Sono venuto qui nel cuore della notte perché mi è stato ordinato dai miei soci, non perché sono colpito da voi. E ho portato questi quattro a proteggermi, quindi i vostri inquisitori potrebbero trovare difficile far rispettare qualcosa.» Vincenti si alzò dalla sedia. «Credo sia necessario un chiarimento. Tu sei stato assunto per portare a termine un incarico, ma hai deciso di cambiare le carte in tavola per assecondare i tuoi scopi personali.» «A meno che voi tutti non intendiate andarvene da qui in una cassa, direi che è meglio dimenticarcene.» La pazienza di Vincenti si era quasi esaurita. Non gli piaceva affatto quell'aspetto dei suoi doveri ufficiali, ma fece un segno e i quattro che erano arrivati assieme al fiorentino afferrarono il presuntuoso idiota. L'espressione compiaciuta si mutò in sorpresa. Il fiorentino venne disarmato mentre tre uomini lo trattenevano, quindi si avvicinò un inquisitore e, con un rotolo di pesante nastro adesivo, legò le braccia dietro la schiena dell'accusato che si divincolava, poi le gambe e le ginocchia, dopodiché gli avvolse la faccia sigillando la bocca. I tre uomini lasciarono la presa e la robusta sagoma del fiorentino precipitò rumorosamente sul tappeto. «Questo Consiglio ti ha giudicato colpevole di tradimento nei confronti della nostra Lega», sentenziò Vincenti. Un altro gesto e una doppia porta si spalancò per lasciare passare un feretro di legno elegantemente laccato, col coperchio aperto sui cardini. L'uomo sgranò gli occhi, evidentemente consapevole del suo destino. Vincenti gli si avvicinò. «Cinquecento anni fa, i traditori dello Stato venivano
rinchiusi in celle nel palazzo ducale, esposte agli elementi, che divennero note come 'piombi' perché realizzate anche con quel materiale.» S'interruppe affinché venisse afferrato il concetto. «Posti orribili. La maggior parte di quelli che ci entravano moriva. Tu hai preso i nostri soldi mentre, allo stesso tempo, cercavi di farne ancora di più solo per te.» Scosse la testa. «Non si fa. E, per la cronaca, i tuoi soci hanno deciso che sei tu il prezzo da pagare per mantenere buoni rapporti con noi.» Il fiorentino tentò di divincolarsi con rinnovato vigore, le proteste soffocate dal nastro adesivo sulla bocca. Uno degli inquisitori accompagnò fuori della stanza i quattro uomini armati. Il loro lavoro era concluso. Gli altri due inquisitori sollevarono il recalcitrante problema e lo gettarono nella bara. Vincenti abbassò lo sguardo nella cassa e lesse con esattezza ciò che dicevano gli occhi del fiorentino: l'uomo non si era mai sognato di tradire il Consiglio, aveva semplicemente fatto quanto Vincenti, non i suoi soci, gli aveva ordinato di fare. Era stato Vincenti a cambiare l'incarico, e l'uomo nella bara si era presentato davanti al Consiglio perché in privato lui gli aveva detto di non preoccuparsi. Giusto un po' di teatrino. Nessun problema. Stai al gioco e si risolverà tutto in un'ora. «Grassone, eh?» commentò Vincenti. «Be', arrivederci.» E chiuse il coperchio con un colpo secco.
Capitolo 3
Copenhagen Malone osservava le fiamme che scendevano dalle scale, si fermavano a circa tre quarti e non mostravano l'intenzione di proseguire oltre. Stava in piedi davanti a una finestra cercando qualcosa da scagliare contro il vetro, ma le uniche sedie che riusciva a vedere erano troppo vicine al fuoco. Il secondo marchingegno continuava ad aggirarsi al pianterreno, spruzzando nebbiolina. Lui esitava a muoversi. Togliersi i vestiti era una possibilità, ma anche pelle e capelli erano intrisi della sostanza chimica. Tre colpi sordi al vetro della finestra lo fecero sobbalzare. Si girò e, a una trentina di centimetri di distanza, vide un volto familiare. Cassiopea Vitt. Cosa ci faceva lì? Di certo gli occhi di Malone tradirono la sorpresa. «Devo uscire di qui!» La donna indicò la porta e lui intrecciò le dita per spiegarle che era chiusa. A quel punto lei gli fece cenno di stare indietro. Mentre si spostava, dai lati del marchingegno girovago comparvero delle scintille, allora lui lo raggiunse e lo ribaltò con un calcio. Al di sotto, scorse piccole ruote e parti meccaniche. Udì un pop, poi un altro, e capì cosa stava facendo Cassiopea. Sparava alla finestra. Poi scorse qualcosa che prima non aveva notato: sopra le teche del museo c'erano dei sacchetti di plastica sigillati contenenti del liquido trasparente. La finestra s'incrinò. Non aveva scelta. Si arrischiò ad affrontare le fiamme, afferrò una sedia e la scagliò contro il vetro, che andò in frantumi. Il marchingegno si raddrizzò. Una scintilla attecchì e fiamme azzurrognole cominciarono a consumare il pianterreno avanzando in ogni direzione, inclusa quella di Malone, che schizzò fuori della finestra atterrando in piedi. A un metro da Cassiopea. Malone aveva percepito il cambio di pressione quando la finestra si era infranta e, sapendone un po' di incendi, non si stupì di vedere le fiamme alimentate dal nuovo afflusso di ossigeno. Ma la differenza di pressione aveva anche un altro effetto, quello che i vigili del fuoco chiamano flash over. E con quei sacchetti sopra le vetrine... sapeva cosa contenevano. Afferrò la mano di Cassiopea e la trascinò dall'altra parte della strada. «Che stai facendo?» chiese lei. «È il momento di farsi una nuotata.» Saltarono dal parapetto di mattoni proprio mentre una palla di fuoco si riversava fuori del museo.
Capitolo 4
Samarcanda, Federazione Centroasiatica, ore 05.45 Il primo ministro Irina Zovastina accarezzò il cavallo e si preparò alla partita. Amava giocare poco dopo l'alba, nella luce del primo mattino e su un campo erboso umido di rugiada. Amava anche i famosi stalloni di Fergana, apprezzati da oltre un millennio, quando erano stati dati ai cinesi in cambio della seta. Le sue scuderie ne alloggiavano un centinaio, allevati sia per piacere sia per politica, ed era felice dell'attuale utilizzo di quell'edificio che un tempo aveva ospitato l'harem, quando il suo palazzo, trenta stanze riccamente arredate con mobili uzbechi e porcellane orientali, era residenza dei khan che governavano la regione. Poi, alla fine del XIX secolo, c'era stata l'invasione russa. Per fortuna quei giorni erano finiti. «Gli altri cavalieri sono pronti?» chiese al domestico. «Sì, ministro. La stanno aspettando sul campo.» Indossava alti stivali di cuoio e una giacca di pelle imbottita sopra un lungo chapan. Sui corti capelli biondo argenteo portava un cappello realizzato con la pelliccia di un lupo orgogliosamente ucciso da lei stessa. «Allora non facciamoli attendere troppo.» Montò a cavallo. Lei e quell'animale avevano vinto il buzkashi in numerose occasioni. Si trattava di un gioco antico, praticato nella steppa da popolazioni che vivevano e morivano in sella. Gengis Khan in persona ne era appassionato, e ai suoi tempi alle donne non era consentito neppure guardare, figuriamoci partecipare. Lei, però, aveva cambiato quella regola. Il cavallo dalle zampe magre e l'ampio petto si irrigidì sotto le sue carezze. «Pazienza, Bucefalo.» Gli aveva dato il nome dell'animale che aveva portato Alessandro Magno in Asia, battaglia dopo battaglia, perché i cavalli da buzkashi erano speciali. Prima di partecipare a una partita, dovevano sottostare ad anni di addestramento per abituarsi al caos del gioco e, nella loro dieta, oltre a orzo e avena venivano introdotti uova e burro. Quando l'animale ingrassava, veniva sellato e imbrigliato e lasciato sotto il sole per settimane, non soltanto per eliminare i chili in eccesso, ma per insegnargli la pazienza. Poi si passava al galoppo ravvicinato, in cui veniva incoraggiata un'aggressività sempre tenuta sotto controllo, in modo che cavallo e cavaliere diventassero una squadra. «È pronta?» Il domestico era un tagico, nato tra i monti a oriente, ed era al suo servizio da quasi un decennio. Era l'unico cui consentisse di prepararla per la gara. «Ritengo di essere ben protetta», replicò lei battendosi la mano sul petto. La giacca di pelle foderata di pelliccia era aderente come i calzoni, e il fatto che il
suo fisico robusto non fosse particolarmente femminile era un vantaggio. La muscolatura di braccia e gambe era dovuta a meticolosi esercizi e a una dieta rigida, mentre il viso largo e i lineamenti marcati dai tratti mongoli come gli infossati occhi marroni le venivano dalla madre, la cui famiglia aveva radici nell'estremo nord. Anni di disciplina autoimposta l'avevano resa veloce ad ascoltare e lenta a parlare, e da tutta la sua persona irradiava un'aura di energia. Molti avevano sostenuto l'impossibilità di realizzare una federazione asiatica, ma lei aveva dimostrato che avevano torto. Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Tagikistan e Turkmenistan non esistevano più. Al loro posto, quindici anni prima e dopo qualche tentativo di indipendenza di breve durata, quelle ex repubbliche sovietiche si erano riunite nella Federazione Centroasiatica. Nove milioni e mezzo di chilometri quadrati, sessanta milioni di abitanti, un territorio imponente che rivaleggiava col Nord America e l'Europa per dimensioni, scopi e risorse. Il suo sogno. Ora una realtà. «Faccia attenzione, ministro. Non vedono l'ora di batterla.» «Allora faranno bene a giocare duro.» Conversavano in russo, anche se dari, kazaco, tagico, turkmeno e kirghiso erano tutte lingue ufficiali della Federazione. Ma, come concessione ai numerosi slavi, il russo continuava a essere la lingua delle comunicazioni interetniche. Le porte della scuderia si spalancarono e la donna scrutò il campo piatto che si estendeva per oltre un chilometro. Verso il centro, ventitré cavalieri erano radunati accanto a una fossa poco profonda in cui si trovava il boz: una carcassa di capra priva di testa, zampe e organi interni e lasciata immersa nell'acqua fredda per un giorno per conferirle la resistenza necessaria a quanto avrebbe dovuto sopportare. A ogni estremità del campo era posto un palo a righe. Gli altri cavalieri, chopenoz, giocatori come lei, erano pronti in sella. Il domestico le tese un frustino. Nei secoli precedenti venivano realizzati con strisce di cuoio legate a sfere di piombo e, anche se ormai erano diventati meno cattivi, continuavano comunque a essere usati non solo per spronare la cavalcatura, ma anche per attaccare gli altri giocatori. Quello di Irina Zovastina era munito di un'elegante impugnatura d'avorio. La donna si raddrizzò sulla sella, inspirando profondamente l'aria resa dolce dal profumo del nuovo giorno, mentre il sole, a oriente, superava appena la cima degli alberi. «Buona partita», disse il domestico. Lei accettò l'incoraggiamento con un cenno del capo e si preparò a scendere in campo. Ma non poteva non chiedersi cosa stesse accadendo in Danimarca.
Capitolo 5
Copenhagen Viktor Tomas stava nell'ombra, dall'altra parte del canale, e guardava bruciare il museo. Si voltò verso il suo compagno, ma non disse ciò che era ovvio. Problemi. Era stato Raffaele ad assalire l'intruso e a trascinarne poi il corpo privo di sensi all'interno dell'edificio. Chissà come, dopo il loro furtivo ingresso, la porta principale si era socchiusa e dalla balaustra del piano superiore aveva intravisto un'ombra che si avvicinava. Raffaele, che si occupava del pianterreno, aveva reagito all'istante, posizionandosi accanto allo stipite. In realtà avrebbe dovuto limitarsi ad aspettare per vedere che intenzioni avesse il visitatore, invece aveva spinto l'ombra all'interno, dopo averla colpita alla testa con una scultura. «La donna», disse Raffaele. «Era in attesa con una pistola. Non promette niente di buono.» Viktor annuì. Lunghi capelli neri, ben fatta, completo molto aderente, era spuntata da un vicolo quando il museo aveva preso fuoco ed era rimasta lì vicino al canale. Poi alla finestra era comparso l'uomo, lei aveva estratto un'arma e sparato contro il vetro, mandandolo in frantumi. E anche l'uomo era un problema. Biondo, alto e muscoloso, aveva scagliato una sedia oltre la finestra e l'aveva seguita con un balzo sorprendentemente agile, come non fosse stata la prima volta, quindi aveva afferrato la donna ed entrambi si erano tuffati nel canale. I vigili del fuoco erano arrivati in pochi minuti, giusto mentre i due emergevano dall'acqua, e li avevano avvolti in coperte asciutte. Era chiaro che le tartarughe avevano svolto il loro lavoro. Le aveva battezzate così Raffaele, dato che somigliavano a quegli animali sotto parecchi punti di vista, persino nella capacità di raddrizzarsi una volta rovesciate. Per fortuna di quei marchingegni non sarebbe rimasta traccia perché erano realizzati con materiale infiammabile che si vaporizzava nell'intenso calore. Senza dubbio chiunque avesse svolto le indagini avrebbe capito subito che si trattava di un incendio doloso, ma sarebbe risultato impossibile determinarne la causa. A meno che l'uomo non fosse sopravvissuto. «Ci darà dei guai?» chiese Raffaele. Viktor continuava a osservare i pompieri impegnati a spegnere l'incendio, mentre l'uomo e la donna se ne stavano seduti sul parapetto di mattoni avvolti nelle coperte. Sembrava si conoscessero, e questo lo preoccupò ulteriormente. Quindi rispose alla domanda di Raffaele nell'unico modo possibile: «Di sicuro». Malone si era ripreso completamente, Cassiopea se ne stava raggomitolata accanto
a lui in una coperta. Un poliziotto era già andato a interrogarli. Del museo rimaneva solo qualche pezzo dei muri esterni, e i vigili del fuoco erano impegnati unicamente a evitare che gli edifici adiacenti subissero danni. L'aria della notte puzzava di fuliggine e di un altro odore, pungente e allo stesso tempo dolce, simile a quello che lui aveva respirato nel museo distrutto. Il fumo continuava a salire verso il cielo velando le stelle. Un uomo robusto con la tenuta gialla da pompiere ingrigita li raggiunse per la seconda volta. Era uno dei comandanti delle squadre in azione. «Era proprio come aveva detto riguardo all'impianto antincendio. La nostra acqua sembrava non fare altro che peggiorare la situazione.» «E come siete riusciti a spegnerlo?» chiese Malone. «Quando nell'autobotte non c'era più niente da succhiare, abbiamo ficcato le manichette nel canale pompando direttamente da lì. Ha funzionato.» «Acqua salata?» Tutti i canali di Copenhagen erano collegati al mare. Il comandante annuì. «L'ha gelato.» «Trovato niente all'interno?» «Nessuna macchinetta, come ha detto alla polizia, ma c'era un tale caldo che si sono sciolte le statue di marmo.» Il capo dei vigili del fuoco si passò la mano tra i capelli bagnati. «Era un combustibile molto potente. Ci serviranno i suoi vestiti, forse è l'unico modo per stabilirne la composizione.» «Forse no, dato che anch'io mi sono fatto un bel tuffo nel canale», ribatté Malone. «Giusto.» Il comandante scosse la testa. «Gli esperti in incendi dolosi ci andranno a nozze.» Mentre l'uomo si allontanava, Malone affrontò Cassiopea con una sorta di interrogatorio. «Hai intenzione di spiegarmi cosa succede?» «Non era previsto che tu arrivassi qui prima di domani mattina.» «Non hai risposto alla mia domanda.» Ciocche bagnate e aggrovigliate dei folti capelli neri le scendevano sulle spalle, circondandole malamente il bel viso. Era una musulmana spagnola che viveva nel sud della Francia. Intelligente, ricca e sicura di sé, era laureata in ingegneria e in storia, e la sua presenza a Copenhagen un giorno prima di quanto non gli avesse detto doveva avere senz'altro delle implicazioni. Era anche arrivata armata e vestita per la battaglia, con calzoni e giacca aderente di pelle nera, e Malone si chiedeva se si sarebbe dimostrata reticente o collaborativa. «Sei fortunato che fossi qui a salvarti la pelle.» Malone non riusciva a decidere se fosse seria o se lo stesse mettendo alla prova. «E come sapevi che avevo bisogno di essere salvato?» «È una lunga storia, Cotton.» «Ho tutto il tempo. Sono in pensione.» «Io no.» Colse la sfumatura amara nella voce di lei e percepì qualcosa. «Sapevi che il museo sarebbe andato a fuoco, giusto?» Cassiopea non lo guardò, limitandosi a fissare l'altra riva del canale. «In realtà volevo che andasse a fuoco.» «Questa me la devi spiegare.»
Lei impiegò un istante prima di rispondere, assorbita nei pensieri. «Ero qui, prima. Ho visto i due uomini che entravano nel museo. Ho visto che ti prendevano. Volevo seguirli, ma non ho potuto farlo.» S'interruppe. «A causa tua.» «Chi erano?» «Quelli che hanno messo i marchingegni.» Cassiopea era rimasta in silenzio ad ascoltarlo mentre Malone forniva la dichiarazione alla polizia, ma per tutto il tempo lui aveva avuto l'impressione che fosse già al corrente della storia. «Che ne diresti se la piantassimo con le stronzate e mi dicessi cosa sta succedendo? Quasi mi ammazzavano e non so neanche perché.» «Faresti meglio a ignorare le porte lasciate aperte di notte.» «Le vecchie abitudini sono dure a morire. Allora, cosa succede?» «Hai visto le fiamme. Hai sentito il calore. Insolito, non ti pare?» Ricordò come il fuoco aveva iniziato a scendere la scala e si era fermato, quasi aspettasse un invito per proseguire. «Certo!» «Nel XV secolo, quando la flotta musulmana attaccò Costantinopoli, in teoria avrebbe dovuto conseguire una facile vittoria: armi migliori, forze molto più numerose. Ma i bizantini avevano in serbo una sorpresa, che chiamavano fuoco liquido, o fuoco selvaggio, che scatenarono contro le navi degli invasori, distruggendole completamente.» Cassiopea continuava a non guardarlo in faccia. «Quell'arma sopravvisse in varie forme fino al tempo dei crociati e alla fine venne chiamata fuoco greco. La formula originale era così segreta da essere conservata personalmente dagli imperatori bizantini, che la nascosero talmente bene che quando l'impero cadde andò perduta.» Prese un respiro profondo, stringendosi la coperta ancor più addosso. «A quanto pare è stata ritrovata.» «Mi stai dicendo che quello che ho appena visto non era altro che fuoco greco?» «Con una variante. Questo tipo è vulnerabile all'acqua salata.» «E perché non l'hai detto ai pompieri quando sono arrivati?» «Non voglio rispondere a più domande del necessario.» Lui, però, voleva sapere. «Perché lasciar andare in cenere questo museo? Non c'è dentro niente di importante.» Spostò lo sguardo in direzione dell'edificio bruciato e individuò i resti carbonizzati della sua bicicletta. Percepiva qualcosa di non detto nell'atteggiamento di Cassiopea, che si ostinava a evitare di guardarlo. Da quando la conosceva, non aveva mai visto in lei segni che indicassero dubbio, nervosismo o sconforto. Era tosta, entusiasta, disciplinata e intelligente. Ma in quel momento sembrava preoccupata. Un'auto comparve all'estremità della strada chiusa dalla polizia e Cotton riconobbe la costosa berlina inglese e la figura ingobbita che ne emerse dal sedile posteriore. Henrik Thorvaldsen. Cassiopea si alzò. «È venuto per parlare con noi.» «E come sapeva che eravamo qui?» «Cotton, c'è in ballo qualcosa di grosso.»
Capitolo 6
Venezia, ore 02.30 Vincenti era contento che il potenziale disastro col fiorentino fosse stato evitato. Aveva commesso un errore. C'era poco tempo e stava facendo un gioco pericoloso, ma a quanto pareva il destino gli aveva regalato un'altra occasione. «La situazione in Asia centrale è sotto controllo?» gli chiese un membro del Consiglio dei Dieci. «Abbiamo impedito ciò che quel pazzo cercava di fare, qualunque cosa fosse?» Tutti gli uomini e le donne del gruppo si erano trattenuti nella sala dopo che la cassa contenente il fiorentino che si dimenava era stata portata via. Ormai una pallottola in testa doveva avere messo fine a ogni ulteriore resistenza. «È tutto sistemato», rispose lui. «Me ne sono occupato personalmente, ma è il primo ministro Zovastina a fare la parte della star. Suppongo ci sarà un bello spettacolo.» «Di quella donna non ci si può fidare», intervenne un altro. Vincenti trovò che la veemenza di quell'affermazione desse da pensare, visto che la Zovastina era loro alleata, ma in realtà condivideva l'opinione. «I despoti sono sempre un problema. Ma bisogna ammettere che ha fatto grandi cose.» Si alzò per raggiungere una mappa appesa alla parete. «È riuscita a unire sei corrotti Stati asiatici in una federazione che potrebbe davvero avere un futuro. In pratica ha riscritto la geografia mondiale.» «E come c'è riuscita?» fu l'ovvia domanda. «Di certo non grazie alla diplomazia.»
Vincenti conosceva la versione ufficiale. Dopo la caduta dell'Unione Sovietica,
l'Asia centrale aveva vissuto un periodo di conflitti e guerre civili per il tentativo di ciascuna nazione di sopravvivere all'indipendenza. La cosiddetta Comunità di Stati Indipendenti succeduta all'URSS esisteva soltanto di nome, e corruzione e incompetenza dilagavano. Irina Zovastina aveva guidato le riforme locali sotto Gorbaciov, sostenendo la perestrojka e la glasnost e promuovendo azioni penali contro molti burocrati corrotti. Alla fine, però, aveva comandato la carica per cacciare i russi, ricordando alla popolazione che si era trattato di una conquista coloniale e sottolineando come migliaia di asiatici stessero morendo a causa dell'inquinamento provocato dalla Russia. Dopodiché, si era presentata davanti all'Assemblea dei Rappresentanti del Kazakistan e aveva contribuito alla proclamazione della repubblica. Un anno dopo, era stata eletta presidente. Dato che sembrava una riformatrice in una regione che di riforme ne aveva viste ben poche, l'occidente le aveva spalancato le porte, ma poi lei aveva stupito il mondo annunciando la creazione della Federazione Centroasiatica. Cinque nazioni, diventate una sola da ormai quindici anni. Tuttavia il collega di Vincenti aveva ragione. Non si trattava di un miracolo, piuttosto di una manipolazione. Quindi la risposta alla domanda era scontata: «C'è riuscita con la forza». «E l'opportuna scomparsa degli avversari politici.» «Che è da sempre la strada per raggiungere il potere. Lo facciamo anche noi, quindi non possiamo certo biasimarla per questo.» Vincenti spostò lo sguardo su un altro membro del Consiglio. «Tutto a posto coi fondi?» Il tesoriere annuì. «Tre miliardi e sei, sparsi in diverse banche del globo, accesso senza restrizioni, direttamente a Samarcanda.» «Posso presumere che i nostri soci siano pronti?» «Si verificherà immediatamente un nuovo afflusso di denaro e la maggior parte dei soci ha in progetto una grande espansione. Fino a oggi sono stati cauti, secondo le nostre istruzioni.» C'era poco tempo. Proprio come nell'originale Consiglio dei Dieci, anche in quello attuale metà degli esponenti ne sarebbe presto uscita per il previsto avvicendamento di prammatica. Il regolamento interno della Lega prevedeva infatti che ogni due anni cambiassero cinque componenti, e il mandato di Vincenti si sarebbe concluso in meno di un mese. Una benedizione e un problema. Seicento anni prima, Venezia era una repubblica oligarchica governata da mercanti attraverso un complesso sistema politico ideato al fine di prevenire casi di dispotismo. Si tentava di eliminare dissenso e intrighi con metodi che facevano forte affidamento sul caso. Nessuno godeva di un'autorità assoluta ed erano sempre gruppi a decidere e agire. Gruppi che cambiavano a intervalli regolari. Nonostante questo, la corruzione si insinuò comunque, intrighi e complotti prosperavano e si intessevano trame di cospirazione. Gli uomini un modo lo trovano sempre. Proprio come aveva fatto lui.
Trenta giorni. Un tempo più che sufficiente. «Cosa mi dici del primo ministro Zovastina?» gli chiese un rappresentante del Consiglio, strappandolo ai suoi pensieri. «Sta bene?» «Quanto a questo, potrebbe essere l'argomento principe del giorno.»
Capitolo 7
Samarcanda, Federazione Centroasiatica, ore 06.20 Irina Zovastina spronò il cavallo e anche gli altri chopenoz frustarono le loro cavalcature. Il movimento degli zoccoli sul terreno bagnato la schizzò di fango mentre, il frustino tra i denti, afferrava le redini con entrambe le mani. Nessuno aveva ancora fatto una mossa in direzione della carcassa di capra. «Forza, Bucefalo. È ora di fargliela vedere.» Uno strattone, e l'animale scattò verso destra. Il gioco era semplice: afferrare il boz, cavalcare fino all'estremità più lontana del campo tenendolo in mano, girare attorno al palo, quindi tornare indietro e depositare la capra morta nel cerchio di giustizia, evidenziato in calce sull'erba. Facile a dirsi, ma il problema veniva dal fatto che non c'era praticamente limite a ciò che era consentito fare agli chopenoz per rubare il boz. Essere invitati a giocare a buzkashi con lei era considerato un onore, e Irina sceglieva i partecipanti con grande cura. Quel giorno c'era un misto di elementi della sua guardia personale più nove ospiti, che andavano a formare due squadre di dodici. Lei era l'unica donna. E questo le piaceva. Bucefalo sembrava percepire ciò che si aspettava da lui e strinse sul boz. Un altro giocatore andò a sbattere contro il fianco destro del cavallo, la Zovastina prese in mano il frustino che stringeva ancora tra i denti e assestò un colpo al cavaliere, sferzandogli il viso con tentacoli di cuoio. L'uomo ignorò il suo attacco e continuò l'assalto, cui si unirono altri tre cavalieri intenzionati a fermarla. Due appartenenti alla sua squadra fecero quadrato per contrastare i quattro avversari, di modo che attorno al boz prese a orbitare un ciclone di cavalli e cavalieri. Aveva preavvertito quelli della sua squadra di voler fare il primo giro attorno al palo e loro sembravano impegnati ad accontentarla. Un quinto giocatore della squadra avversaria fece avvicinare il cavallo e, quando tutti i ventiquattro chopenoz si misero a girare in cerchio, il mondo parve ruotare attorno a lei. Il frustino di un avversario la colpì al petto, senza causare danni grazie alla pesante giacca di pelle. Di norma, colpire il primo ministro rappresentava un delitto capitale, ma durante il buzkashi quella regola non valeva. Voleva che i giocatori non trattenessero il proprio ardore. Un cavaliere scivolò di sella e cadde pesantemente a terra. Nessuno si fermò ad aiutarlo. Non era permesso. Arti spezzati, tagli e frustate erano cose assai comuni, e negli ultimi due anni proprio su quel campo erano morti in cinque. La morte aveva sempre fatto parte del buzkashi e persino il codice penale della Federazione prevedeva la non punibilità di
un omicidio durante la partita. Irina girò attorno alla bassa fossa contenente il boz, che un altro cavaliere si stava allungando ad afferrare. Lei lo colpì con forza alla mano col frustino, quindi tirò le redini e fece rallentare Bucefalo. Il cavallo girò su se stesso e lei attaccò la carcassa prima che gli altri riuscissero a raggiungerla di nuovo. Altri due cavalieri caddero a terra. La donna inalava erba e fango, quindi sputò con forza, godendosi però l'odore di cavallo sudato. Si ricacciò il frustino tra i denti e si chinò, una mano che manteneva la presa sulla sella e l'altra che strattonava la carcassa. Il sangue schizzò dai punti in cui zoccoli e testa della capra erano stati mozzati. Lei trascinò in alto l'animale morto e lo tenne stretto, quindi indicò a Bucefalo di correre verso sinistra. A quel punto, vigevano soltanto tre regole: era vietato legare la carcassa, colpire la mano di chi l'aveva conquistata e fare incespicare i cavalli. Era il momento di una corsa verso il palo. Spronò Bucefalo e l'altra squadra si portò a stretto contatto, mentre i suoi compagni galoppavano in sua difesa. La carcassa era pesante, circa trenta chili, ma le sue braccia forti erano in grado di sostenerla: il sangue continuava a inzupparle mano e manica. Un colpo alla schiena attirò la sua attenzione. Si voltò. Due cavalieri avversari e altri che sciamavano verso l'interno. Gli zoccoli martellavano il terreno umido come rombi di tuono inframmezzati dai frenetici sbuffi e nitriti dei cavalli. I suoi chopenoz andarono in sua difesa. Ci fu uno scambio di colpi, ma lei continuò a trattenere saldamente il boz, gli avambracci doloranti. Il palo si trovava a cinquanta metri di distanza. Il campo si estendeva dietro il palazzo estivo su una pianura erbosa che terminava in una fitta foresta. I sovietici avevano utilizzato il complesso come rifugio per l'élite del partito, fatto che spiegava come fosse sopravvissuto. Lei aveva cambiato la disposizione, ma alcune tracce dell'occupazione russa erano state saggiamente mantenute. Alla contesa si unirono altri giocatori, mentre le squadre lottavano con foga. Frustini schioccavano, uomini grugnivano di dolore e si scambiavano insulti. Bucefalo balzò in testa al gruppo, ma di poco. Avrebbe dovuto rallentare per effettuare il giro attorno al palo e cominciare il ritorno verso il cerchio di giustizia, fatto che avrebbe offerto agli altri contendenti un'opportunità di piombare sulla preda. Anche se fino ad allora i compagni di squadra della Zovastina l'avevano assistita, a quel punto le regole del gioco consentivano a chiunque di rubare il boz e fare corsa a sé. Il primo ministro decise di cogliere tutti alla sprovvista e, con un colpo di talloni, indirizzò Bucefalo verso destra. Non c'erano linee di demarcazione da non superare e i cavalieri potevano spingersi ovunque, quindi portò la traiettoria arcuata verso l'esterno, col gruppo di chopenoz al galoppo ammassato alla sua sinistra, ed estese la sua avanzata fino alla parte più lontana del campo dove file di alti alberi delimitavano il perimetro. Avrebbe potuto infilarcisi in mezzo, l'aveva già fatto in altre occasioni, ma quel giorno preferì un
percorso diverso. Prima che qualcuno potesse reagire al suo scatto improvviso, girò sulla sinistra e attraversò il campo in diagonale, tagliando la strada al grosso dei cavalieri e costringendoli tutti a rallentare. L'istante di esitazione da parte degli avversari le consentì di spingersi avanti e girare attorno al palo. Gli altri la seguivano, ma lei concentrò l'attenzione davanti a sé: un cavaliere l'aspettava cinquanta metri dentro il campo. Era di carnagione scura, con la barba e il viso impassibile. Sedeva dritto in sella e quando una mano spuntò di sotto la cappa di pelle, vide che impugnava una pistola. L'uomo teneva l'arma vicino al corpo, aspettando che lei si avvicinasse. «Forza, Bucefalo, facciamogli vedere che non abbiamo paura.» Il cavallo balzò in avanti. L'uomo con la pistola non si mosse, ma la Zovastina gli fece abbassare lo sguardo. Nessuno sarebbe mai riuscito a farla indietreggiare. La pistola venne sollevata, parallela al terreno, e un colpo echeggiò sul campo di gioco. L'uomo armato barcollò, quindi crollò sul terreno bagnato. Il suo cavallo, spaventato, corse via. Irina Zovastina passò sopra il cadavere, gli zoccoli di Bucefalo che affondavano nella carne ancora calda. La donna continuò a galoppare finché non divenne visibile il cerchio di giustizia, lo superò e vi scaricò al centro il boz, quindi fece fermare il suo animale. Gli altri cavalieri si erano tutti bloccati nel punto in cui giaceva il morto. Sparare a un giocatore era assolutamente contrario al regolamento, ma questo non faceva parte del gioco. Oppure sì? Si trattava solo di un diverso contesto, con giocatori diversi e regole diverse. Nessuno dei presenti in quel momento avrebbe potuto capire o approvare. Il primo ministro tirò le redini e si raddrizzò sulla sella, lanciando un'occhiata in direzione del tetto del palazzo. All'interno di una delle vecchie postazioni sovietiche, il suo cecchino segnalò il successo sollevando il fucile. Rispose al gesto facendo impennare Bucefalo sulle zampe posteriori e il cavallo lanciò un nitrito di approvazione per l'ottima mira.
Capitolo 8
Copenhagen, ore 03.10 Cassiopea seguì Henrik Thorvaldsen nella libreria di Malone. Era stanca. Anche se aveva previsto che la notte sarebbe stata lunga, gli ultimi mesi erano stati pesanti, in particolare le settimane appena trascorse, e non pareva proprio che fosse finita. Malone accese le luci. Le avevano riferito i fatti dell'autunno precedente, di quando si era presentata l'ex moglie di Cotton... e dell'ordigno incendiario,, tuttavia i restauratori avevano fatto un lavoro magnifico. Osservò il risultato: era tutto nuovo, ma fatto in modo che sembrasse antico. «Complimenti.» Thorvaldsen assentì. «Volevo che avesse lo stesso aspetto di prima. In questo edificio c'è troppa storia per lasciare che venga cancellata da dei fanatici.» «Vuoi toglierti quei vestiti bagnati?» le chiese Malone. «Non dovremmo mandare prima a casa Henrik?» «Mi sa che è uno cui piace guardare», sogghignò Cotton. «Sembrerebbe interessante, ma stanotte non sono dell'umore giusto», commentò Thorvaldsen. Non lo era neanche lei. «Sto bene così. La pelle si asciuga in fretta. È uno dei motivi per cui l'indosso quando lavoro.» «E a cosa stavi lavorando stasera?» «Sicuro di volerlo sapere? Come continui a ripetere, sei un libraio adesso, non un agente operativo. In pensione e tutto il resto.» «Mi hai mandato un'e@mail perché ci incontrassimo al museo in mattinata, ma, visto quello che è successo, direi che non era previsto che domani là ci fosse ancora un museo.» Cassiopea si sedette su una delle eleganti poltroncine. «È proprio per questo che ci saremmo dovuti incontrare lì. Diglielo, Henrik.» Le piaceva Malone. Era intelligente, sicuro di sé e anche bello: l'aveva pensato subito, la prima volta che si erano incontrati in Francia l'anno precedente. Avvocato di grandissima esperienza, aveva lavorato dodici anni per il dipartimento di Giustizia americano in una unità segreta nota come Sezione Magellano, poi, due anni prima, aveva deciso di lasciare e aveva acquistato da Thorvaldsen una libreria a Copenhagen. Non aveva peli sulla lingua e a volte era di modi un po' bruschi, proprio come lei, quindi non poteva lamentarsene. Le piaceva l'espressione vivace del viso, il malizioso scintillio dei luminosi occhi verdi, i capelli color sabbia e la perenne abbronzatura. Sapeva che era sui quarantacinque ed era consapevole che, grazie alla non ancora svanita freschezza della gioventù, l'uomo era allo zenit del suo fascino. Lo invidiava. Gli invidiava il tempo, dato che per lei la scorta pareva essere
davvero limitata. «Vedi, Cotton, negli ultimi tre mesi in Europa si sono verificati altri incendi», intervenne Thorvaldsen. «Prima in Francia, poi in Spagna, Belgio e Svizzera. Tutti simili a quello che hai appena visto. In ciascun caso la polizia ha stabilito che erano dolosi ma, fino a ora, non sono stati messi in relazione. Due edifici sono stati rasi al suolo, ma dato che si trovavano in campagna, nessuno si è preoccupato troppo. In tutti e quattro i casi si trattava di abitazioni private disabitate e quello di stanotte è stato il primo immobile a uso pubblico.» «E voi come avete unito tutti i puntini?» chiese Malone. «Sappiamo a cosa mirano», rispose Cassiopea. «Le monete dell'elefante.» «Ah, be', chiaro», replicò Cotton. «Cinque incendi dolosi in giro per l'Europa. Non poteva che trattarsi delle monete dell'elefante, giusto?» «Esistono davvero.» «Sono felice di saperlo, ma cosa diavolo è una moneta dell'elefante?» «Duemila e trecento anni fa», iniziò Thorvaldsen, «dopo avere conquistato Asia minore e Persia, Alessandro Magno mise gli occhi sull'India, ma l'esercito l'abbandonò prima che potesse impossessarsi di una parte considerevole di territorio. Nonostante ciò, combatté comunque diverse battaglie e incontrò gli elefanti per la prima volta. Gli animali distrussero le linee macedoni, terrorizzando i soldati e provocando scompiglio e una vera strage, motivo per cui in seguito furono realizzate delle monete per commemorare l'evento, con sopra ritratto Alessandro che affronta gli elefanti.» «Quelle monete vennero coniate dopo la morte di Alessandro», continuò Cassiopea. «Non abbiamo idea del numero di esemplari, ma a tutt'oggi se ne conoscono solo otto. I quattro già rubati, quello preso stasera, altri due in collezioni private e uno in mostra al museo di Storia Culturale di Samarcanda.» «La capitale della Federazione Centroasiatica?» commentò Malone. «Fa parte della regione conquistata da Alessandro.» Thorvaldsen si sedette scompostamente su un'altra poltroncina, a causa della colonna vertebrale incurvata che gli faceva inclinare il collo in avanti, mandando il mento grassoccio contro il petto esile. Cassiopea si accorse che il suo vecchio amico aveva l'aria esausta. Indossava il solito maglione sformato e calzoni di velluto a coste troppo grandi, una tenuta adatta a nascondere la deformità. Le dispiaceva di averlo coinvolto, ma lui aveva insistito. Era un buon amico. Era arrivato il momento di scoprire quanto fosse buono come amico Malone. «Cosa sai della morte di Alessandro Magno?» «Ho letto qualcosa. Tante leggende mescolate a fatti discordanti.» «È la tua famosa memoria eidetica?» «Cosa vuoi, è un dono di natura», ribatté lui, facendo spallucce. Cassiopea sorrise. «Quanto accadde nel giugno del 323 a.C. ha avuto grandi conseguenze sul mondo.» Thorvaldsen gesticolò. «Dai, continua. Diglielo. Deve sapere.» «L'ultimo giorno di maggio, entro le mura di Babilonia, Alessandro presenziò a una cena data da uno dei suoi fedeli compagni. Propose un brindisi, bevve una grande
coppa di vino puro, quindi lanciò uno strillo come fosse stato colpito con violenza. Fu subito condotto a letto dove lo colsero le febbri, ma continuò a giocare a dadi, a fare piani coi suoi generali e a rendere gli appropriati sacrifici. Il quarto giorno lamentò spossatezza e alcuni suoi Compagni notarono un'insolita mancanza di energia. Giacque tranquillo per qualche altro giorno, dormendo nelle sale per la balneazione perché più fresche. Nonostante la debolezza fisica, Alessandro comunicò alla fanteria di tenersi pronta a mettersi in marcia da lì a quattro giorni e alla flotta di prepararsi a salpare entro cinque. I suoi progetti di muovere a ovest e conquistare l'Arabia stavano per realizzarsi. Il 6 giugno, sentendosi più debole, passò il suo anello a Perdicca in modo che la corretta amministrazione del governo potesse continuare. Ciò provocò panico. Le sue truppe temettero fosse morto e, per placare la loro ansia, Alessandro consentì che sfilassero davanti al suo letto. Salutò ciascuno con un sorriso. Quando l'ultimo soldato se ne fu andato, mormorò: 'Quando sarò morto, dove troverete un re che meriti uomini simili?' Ordinò che dopo la morte il suo corpo venisse portato in Egitto, nel tempio di Ammone, ma nessuno dei Compagni voleva credere a tale fatalismo. Le sue condizioni peggiorarono finché, il 9 giugno, i suoi Compagni non gli domandarono: 'A chi lasci il tuo regno?' Secondo Tolomeo, le sue parole furono: 'Al più intelligente'. Seleuco sostenne che disse: 'Al più virtuoso'. Peitone udì: 'Al più forte'. Nacque un'intensa disputa riguardo chi fosse nel giusto. Il mattino successivo, molto presto, nel trentatreesimo anno di vita, dopo dodici anni e otto mesi di regno, Alessandro III di Macedonia morì. Ancora si discute sulle sue ultime parole.» «E perché è così importante?» domandò Malone. «Per ciò che si è lasciato alle spalle», rispose Thorvaldsen. «Un regno senza un erede legittimo.» «E questo ha a che fare con le monete dell'elefante?» «Vedi, Cotton, il museo bruciato stanotte... l'avevo comprato io sei mesi fa sapendo che qualcuno l'avrebbe distrutto. Cassiopea e io aspettavamo che accadesse.» «Dovevamo stare un passo avanti a chiunque fosse interessato alle monete», aggiunse la donna. «Si direbbe abbiano vinto loro, dato che l'hanno presa.» Thorvaldsen fissò Malone e disse: «Non proprio».
Capitolo 9
Viktor si rilassò solo quando la porta della stanza d'albergo fu chiusa a chiave. Erano dall'altra parte di Copenhagen, vicino a Nyhavn, dove vivaci caffè sul canale fornivano da mangiare e da bere a chiassosi avventori. Si sedette alla scrivania e accese una lampada, mentre Raffaele si sistemava vicino alla finestra che dava sulla strada quattro piani più sotto. Adesso possedeva la quinta moneta. Le prime quattro erano state una delusione. Una era un falso, le altre tre in pessime condizioni. Fino a sei mesi prima sapeva assai poco delle monete dell'elefante, ma ormai si considerava piuttosto esperto in materia. «Siamo al sicuro, Raffaele. Calmati, non ci ha seguiti nessuno.» «Sto di guardia per non correre rischi.» Sapeva che stava cercando di farsi perdonare la reazione esagerata al museo, quindi lasciò perdere. «Sarebbe dovuto morire.» «Meglio che non sia successo. Almeno sappiamo chi abbiamo di fronte.» Aprì una borsa di cuoio e ne trasse uno stereomicroscopio e una bilancia digitale, quindi posò la moneta sulla scrivania. L'avevano trovata esposta in una delle vetrine del museo, correttamente etichettata come Moneta dell'Elefante (Alessandro Magno), decadracma, II secolo a.C. Per prima cosa ne misurò lo spessore. Trentacinque millimetri. Accettabile. Accese la bilancia elettronica e controllò il peso. Quaranta grammi virgola settantaquattro. Giusto anche quello.
Con una lente d'ingrandimento esaminò l'immagine su una faccia: un guerriero sontuosamente regale, con elmo piumato, protezione al collo, mezza corazza e un mantello da cavalleria che gli arrivava al ginocchio. Era compiaciuto. Un errore evidente nei falsi era il mantello, che in quei casi scendeva fino alla caviglia. Il mercato di false monete greche aveva prosperato per secoli, e abili falsari erano diventati esperti nell'imbrogliare impazienti e creduloni. Per fortuna, lui non era né l'uno né l'altro. La prima moneta dell'elefante di cui si avesse notizia era comparsa quando era stata donata al British Museum nel 1887, scoperta da qualche parte nell'Asia centrale. Una seconda era stata trovata in Iran nel 1926; una terza nel 1959; una quarta nel
1964. Poi, nel 1973, altre quattro erano state rinvenute presso le rovine di Babilonia. Otto in tutto, che avevano fatto il giro del mondo tra musei e collezioni private. Non di grande valore, considerando la varietà dell'arte ellenistica e le migliaia di monete disponibili, ma comunque oggetti di un certo interesse. Quella che Viktor aveva sotto la lente mostrava il giovane guerriero privo di barba con nella mano sinistra una sarissa dalla punta a forma di foglia e, nella destra, un fulmine, mentre sopra di lui volava Nike, la dea alata della vittoria. A sinistra del guerriero, l'incisore aveva lasciato un curioso monogramma. Se fosse BA oppure BAB, e cosa significassero quelle lettere, Viktor non lo sapeva, ma per essere autentica una moneta doveva presentare quello strano simbolo.
Sembrava tutto in ordine. Niente di più e niente di meno del previsto. Girò il disco metallico. I bordi erano molto deformati, la patina color peltro resa liscia come dallo scorrere dell'acqua. Il tempo stava lentamente facendo scomparire le delicate incisioni su entrambe le facce, e in realtà c'era da stupirsi che fossero riuscite a durare tanto. «Tutto tranquillo?» chiese a Raffaele, sempre in piedi vicino alla finestra. «Non prendermi in giro.» Alzò lo sguardo. «Volevo saperlo sul serio.» «Sembra proprio che non ne faccia mai una giusta...» Cogliendo nel tono un certo disfattismo, Viktor lo rassicurò. «Hai visto qualcuno raggiungere la porta del museo e hai reagito. Tutto qui.» «È stato stupido. Gli omicidi attirano troppa attenzione.» «Non sarebbe stato possibile recuperare nessun cadavere, smettila di preoccuparti. Tra l'altro, ho approvato l'idea di lasciarlo lì.» Tornò a dedicarsi alla moneta. Il rovescio mostrava il guerriero, stavolta a cavallo, che attaccava un elefante che batteva in ritirata. In sella all'elefante c'erano due persone, una che brandiva una sarissa, l'altra che cercava di togliersi una picca dal petto. I numismatici convenivano che quel guerriero in vesti regali su entrambi i lati del decadracma rappresentava Alessandro, e che la moneta commemorava una battaglia con elefanti da guerra. Ma la prova regina per accertare l'autenticità dell'oggetto veniva dal microscopio. Ne accese la luce e fece scivolare il decadracma sul vassoietto per l'esame. Le monete autentiche presentavano un'anomalia: minuscole microlettere nascoste nell'incisione, aggiunte dagli antichi artigiani usando lenti primitive. Gli esperti ritenevano che la scritturazione rappresentasse qualcosa di simile alla filigrana sulle banconote moderne. Nei tempi antichi, le lenti non erano d'uso comune, quindi all'epoca individuare quei segni sarebbe stato quasi impossibile. Le lettere erano state scoperte alla comparsa della prima moneta, ma delle quattro che avevano già rubato, soltanto una presentava quella particolarità. Se quella moneta era autentica, tra le pieghe degli abiti del cavaliere ci sarebbero state due lettere
greche: ZH. Mise a fuoco il microscopio e vide una grafia minuscola. Ma non si trattava di lettere. Erano numeri. 36 44 77 55. Alzò gli occhi dall'oculare e vide che Raffaele lo stava osservando. «Cosa c'è?» Il loro dilemma si era appena infittito. In precedenza aveva usato il telefono nella camera per fare diverse chiamate e il suo sguardo si spostò sull'apparecchio, su cui spiccavano quattro coppie di numeri, la prima delle quali era un trentasei. Non erano le stesse che aveva letto al microscopio, ma intuì subito cosa indicavano le cifre sulla presunta moneta antica: un numero di telefono danese.
Capitolo 10
Venezia, ore 06.30 Vincenti si studiò allo specchio, mentre il suo cameriere personale gli sistemava la giacca del completo di Gucci che gli avvolgeva l'enorme figura. Con una spazzola di pelo di cammello vennero tolti dalla lana scura tutti i pelucchi, quindi lui si aggiustò la cravatta e infilò con cura nel taschino il fazzoletto di seta bordeaux che gli tendeva il cameriere. I suoi centotrentasei chili stavano bene nel completo su misura. Il fashion consultant che aveva assunto a Milano gli aveva raccomandato i colori scuri, che non solo davano un'aria autorevole, ma distoglievano anche l'attenzione dalla sua mole. Cosa non facile. In lui tutto era grande: guance cascanti, fronte sporgente, naso a melanzana. Ma adorava i cibi sostanziosi e seguire una dieta pareva davvero un peccato mortale. Un cenno e il cameriere gli lucidò le scarpe coi lacci di Lorenzo Banfi. Diede un'ultima occhiata allo specchio, quindi guardò l'orologio. «Signore, lei ha chiamato mentre faceva la doccia», disse il cameriere. «Sulla linea privata?» L'uomo annuì. «Ha lasciato un numero?» Il cameriere si frugò in tasca e trovò un foglietto. Vincenti era riuscito a riposare prima e dopo la riunione del Consiglio. A differenza delle diete, il sonno non era una perdita di tempo. Sapeva che c'erano persone che l'aspettavano e detestava arrivare in ritardo, ma decise comunque di telefonare nella riservatezza della sua camera. Non aveva senso spifferare tutto ai quattro venti usando un cellulare. Il cameriere lasciò la stanza, poi lui raggiunse l'apparecchio sul comodino e compose il numero. «A quanto sento, primo ministro, è ancora tra i vivi.» «È stato un bene che le sue informazioni fossero accurate.» «Non l'avrei disturbata per delle fantasie.» «Ma non mi ha ancora detto come faceva a sapere che oggi qualcuno avrebbe tentato di uccidermi.» Tre giorni prima, aveva svelato a Irina Zovastina il piano del fiorentino. «La Lega veglia sui suoi esponenti e lei, primo ministro, è uno dei più importanti.» La donna ridacchiò. «Enrico, quant'è pomposo!» «Ha vinto a buzkashi?» «Certo. Per due volte nel cerchio. Abbiamo lasciato il corpo dell'assassino sul campo e l'abbiamo fatto a pezzi calpestandolo coi cavalli. Adesso cani e uccelli si stanno godendo quel che ne resta.» Vincenti trasalì. Era quello il problema con l'Asia centrale: pur volendo
disperatamente far parte del XXI secolo, la sua cultura rimaneva arroccata nel XV. La Lega avrebbe dovuto fare tutto il possibile per cambiare le cose, anche se sarebbe stato come convincere un animale carnivoro a diventare vegetariano. «Conosce l'Iliade?» chiese la donna. Lui sapeva che voleva essere assecondata. «Certo.» «Molte anzi tempo all'Orco generose travolse alme d'eroi, e di cani e d'augelli orrido pasto lor salme abbandonò.» Sorrise. «Si vede come Achille?» «In lui c'è molto da ammirare.» «Non era un uomo orgoglioso? In modo eccessivo, se ben ricordo.» «Ma un combattente. Sempre un combattente. Mi dica, Enrico, che ne è del suo traditore? Problema risolto?» «Il fiorentino avrà un bel funerale poco più a nord di qui, nella zona dei laghi. Manderemo dei fiori.» Decise di provare a vedere se fosse dell'umore giusto. «Dobbiamo parlare.» «Di quello che le devo per avermi salvato la vita?» «Della parte finale del nostro accordo, come originariamente stabilito tanto tempo fa.» «Potrò incontrare il Consiglio tra qualche giorno. Prima ho altre questioni da risolvere.» «Sono più interessato all'incontro che avremo noi due da soli.» Lei ridacchiò ancora. «Ne sono certa. In verità, vale anche per me. Ma ci sono delle faccende che devo concludere.» «Il mio tempo al Consiglio finirà presto, dopodiché dovrà trattare con altri. Che potrebbero non essere altrettanto accomodanti.» «Mi piace questa parola. Accomodante. È un piacere avere a che fare con lei, Enrico. Ci capiamo così bene!» «Dobbiamo parlare.» «Presto. Prima lei ha quell'altro problema di cui abbiamo discusso: gli americani.» Era vero. «Non si preoccupi, ho intenzione di occuparmene oggi stesso.»
Capitolo 11
Copenhagen «Cosa intendi con 'non proprio'?» chiese Malone a Thorvaldsen. «Ho commissionato una falsa moneta dell'elefante. In realtà è piuttosto facile da realizzare. Sul mercato ce ne sono molte.» «E perché l'avresti fatto?» «Cotton, quelle monete sono importanti», intervenne Cassiopea. «Ma guarda! Chi l'avrebbe mai detto? Quello che non ho ancora sentito è il come e il perché.» «Cosa sai di quanto è accaduto ad Alessandro Magno dopo la sua morte?» chiese Thorvaldsen. «Di quello che è successo al suo cadavere.» «Ho letto qualcosa.» «Dubito che tu sappia ciò che sappiamo noi», replicò Cassiopea, alzandosi per avvicinarsi a uno degli scaffali pieni di libri. «L'autunno scorso, ho ricevuto una telefonata da un amico che lavorava al museo di Storia Culturale di Samarcanda. Aveva trovato qualcosa che pensava potesse interessarmi: un antico manoscritto.» «Antico quanto?» «I o II secolo d.C. Mai sentito parlare di fluorescenza da raggi X?» Malone scosse la testa. «È un procedimento relativamente nuovo», spiegò Thorvaldsen. «All'inizio del Medioevo, la pergamena scarseggiava al punto che i monaci svilupparono una tecnica per riciclarla grattando via l'inchiostro preesistente, riutilizzando quindi i fogli puliti per i libri di preghiera. Con la fluorescenza, i raggi X si formano da un acceleratore di particelle e vengono poi usati per bombardare la pergamena riciclata. La fortuna è che l'inchiostro usato secoli fa conteneva molto ferro e quando i raggi X lo colpiscono, le molecole penetrate in profondità brillano, e quelle immagini possono essere trascritte. Decisamente sbalorditivo: è come ricevere un fax dal passato. Parole un tempo cancellate e su cui è stato riscritto con del nuovo inchiostro ricompaiono grazie alla loro impronta molecolare.» «Ciò che sappiamo di prima mano riguardo ad Alessandro si limita agli scritti di quattro uomini vissuti circa cinquecento anni dopo di lui», riprese Cassiopea. «L'Effemeride, il cosiddetto diario regio di Alessandro che si presume contemporaneo, è inutile, perché si tratta della storia riscritta dal vincitore, mentre la Vita di Alessandro, che molti citano come fonte autorevole, in verità è un'opera di fantasia con ben pochi agganci con la realtà dei fatti. Gli altri due testi, invece, erano stati scritti da Arriano e da Plutarco, entrambi storici attendibili.» «Ho letto la Vita di Alessandro. Gran bella storia.» «Ma non è niente di più. Alessandro è come Artù, un uomo la cui vera esistenza è stata rimpiazzata da una leggenda romantica. Al giorno d'oggi è visto come un grande
conquistatore benevolo, una sorta di statista, ma in realtà perpetrò stermini senza precedenti e dissipò completamente le risorse dei territori di cui si impadronì. A causa della paranoia uccise degli amici e condusse gran parte delle sue truppe verso una morte prematura. Era un giocatore d'azzardo, che aveva rischiato la vita sua e di chi gli stava attorno fidando unicamente nella fortuna. Non c'è niente di magico nella sua figura.» «Non sono d'accordo», ribatté Malone. «È stato un grande capo militare, la prima persona a unire il mondo, e se le sue vittorie sono state sanguinose e brutali è perché la guerra è fatta così. Certo, aveva una smania di conquista, ma il suo mondo sembrava essere pronto a essere conquistato. Politicamente era molto scaltro: un greco che alla fine diventa persiano. Da tutto quello che ho letto in proposito, sembrava non badare affatto a grette questioni di nazionalismo: non posso certo biasimarlo per questo. Dopo la sua morte i suoi generali, i Compagni, si divisero il regno, fatto che per secoli assicurò il predominio della cultura greca. L'epoca ellenistica ha cambiato la civiltà occidentale, e tutto ha avuto inizio con lui.» «È quell'eredità che viene messa in discussione nell'antico manoscritto», ribatté Cassiopea. «Quello che accadde davvero dopo la morte di Alessandro.» «Sappiamo cosa accadde. Il suo impero divenne preda dei generali che giocarono a 'chi lo trova se lo tiene' col suo cadavere. Ci sono parecchi racconti di come ciascuno di loro abbia tentato di depredare il corteo funebre. Tutti volevano il corpo come simbolo del loro potere. Per questo è stato mummificato, quando invece era abitudine greca cremare i morti. Non poteva essere così per Alessandro, perché il suo corpo doveva continuare a esistere.» «Il manoscritto si riferiva a quanto accaduto tra il momento in cui Alessandro moriva a Babilonia e quando il suo cadavere veniva finalmente riportato in occidente», spiegò Cassiopea. «Era passato un anno. Un anno decisivo per le monete dell'elefante.» Uno squillo delicato spezzò il silenzio sceso nella stanza. Malone osservò Henrik togliersi di tasca il cellulare e rispondere. Insolito. Thorvaldsen odiava i telefonini e, in particolare, detestava le persone che li usavano davanti a lui. «Così importante?» chiese Cotton a Cassiopea. L'espressione della donna rimase cupa. «È quello che stavamo aspettando.» «Perché sei così allegra?» «Ti sembrerà strano, ma anch'io ho dei sentimenti.» Rifletté sul commento caustico. Quando era stata a Copenhagen per Natale, avevano trascorso delle piacevoli serate a Christiangade, dove Thorvaldsen aveva una casa sul mare. Le aveva fatto un regalo, una rara edizione del XVII secolo sull'ingegneria medievale. Era un argomento che le interessava, dato il suo progetto in Francia, dove stava ricostruendo un castello pietra su pietra usando utensili e materiali grezzi come quelli utilizzati settecento anni prima, e si erano persino accordati che in primavera lui sarebbe andato a dare un'occhiata ai progressi. Thorvaldsen concluse la telefonata. «Era il ladro del museo.» «E come sapeva dove chiamarti?» chiese Malone.
«Ho fatto incidere questo numero sulla moneta. Volevo fosse del tutto chiaro che lo stavamo aspettando. Gli ho detto che se vuole il decadracma originale dovrà comprarlo.» «Sapendolo, probabilmente preferirà ucciderti.» «Ce lo auguriamo.» «E come pensate di evitare che succeda?» Cassiopea si fece avanti, l'espressione tesa. «È qui che entri in ballo tu.»
Capitolo 12
Viktor rimise a posto la cornetta del telefono. Raffaele era restato ad ascoltare la conversazione accanto alla finestra. «Vuole incontrarci fra tre ore, in una casa nella zona nord, sulla superstrada della costa.» Sollevò la moneta. «Sapevano che stavamo arrivando, e da un po' di tempo, se hanno potuto far realizzare questa. È molto buona. Il falsario conosceva il fatto suo.» «Questa è una cosa che dovremmo segnalare.» Viktor non era d'accordo. Il ministro Zovastina aveva mandato lui perché non c'era nessuno di cui si fidasse di più. Era quotidianamente difesa da trenta uomini, il suo battaglione sacro, ispirato alla più valorosa unità combattente dell'antica Grecia, che lottò strenuamente finché Filippo di Macedonia e suo figlio, Alessandro Magno, non la sterminarono. Aveva udito la Zovastina parlare dell'argomento, apprendendo che i macedoni erano rimasti talmente colpiti dal coraggio del battaglione sacro da erigere un monumento alla memoria, ancora visibile in Grecia. Quando Irina Zovastina era salita al potere, aveva riproposto il concetto con grande entusiasmo. Viktor era stato il primo a venire reclutato e aveva poi individuato gli altri ventinove, incluso Raffaele, un italiano che aveva scovato in Bulgaria, al lavoro per le forze di sicurezza di quel Paese. «Non dovremmo chiamare Samarcanda?» chiese di nuovo Raffaele. Lui fissò il compagno: era un tipo sveglio e dinamico che aveva finito per piacergli, fatto che spiegava perché Viktor tollerasse errori che non avrebbe mai consentito ad altri. Come l'aver tirato quell'uomo dentro al museo, anche se forse, in realtà, non si era trattato di un errore. «Non possiamo chiamare.» «Se si viene a sapere, lei ci ucciderà.» «Allora facciamo in modo che non si venga a sapere. Fino a ora ci siamo mossi bene.» Ed era stato davvero così. Quattro furti. Tutti a collezionisti privati che per fortuna tenevano i loro oggetti in casseforti da poco o esposti con noncuranza. Avevano coperto ciascun crimine con un incendio e tenuta ben nascosta la loro presenza. O forse no. L'uomo al telefono sembrava al corrente dei loro affari. «Dovremo cavarcela da soli.» «Hai paura che dia la colpa a me.» Un groppo gli serrò la gola. «A dire il vero, ho paura che dia la colpa a entrambi.» «Viktor, sono preoccupato. Mi copri troppo.» Lo guardò con aria autocritica. «Il casino l'abbiamo combinato insieme.» Prese a giocherellare con la moneta. «Questi maledetti cosi non portano altro che guai.» «Perché li vuole?» «Non è tipo da dare spiegazioni. Di sicuro c'è sotto qualcosa di importante.»
«Io ho sentito per caso delle voci.» Viktor alzò lo sguardo per fissarlo in un paio di occhi accesi di curiosità. «E dove le avresti sentite, queste voci?» «Quando sono stato destinato al suo servizio personale la settimana scorsa, appena prima che partissimo.» Partecipavano tutti a rotazione ai turni di guardia quotidiani della Zovastina e soltanto una regola era ben chiara: niente di quanto veniva ascoltato o detto contava, solo la sicurezza del primo ministro. Ma questo era diverso. Doveva sapere. «Raccontami.» «Ha dei piani in mente.» «E cos'hanno a che vedere con le monete?» «Ha detto che era così. A qualcuno al telefono. Quello che stiamo facendo eviterà un problema.» Raffaele si interruppe. «La sua ambizione è senza fine.» «Ma ha fatto tantissimo. Quello che nessuno era mai stato in grado di fare. Finalmente adesso in Asia centrale si vive bene.» «Gliel'ho letto nello sguardo, Viktor. Non è ancora abbastanza. Lei vuole di più.» L'altro nascose l'ansia che provava con un'espressione stupita. «Stavo leggendo una biografia di Alessandro che mi aveva suggerito di leggere», riprese Raffaele. «Le piace consigliare libri, soprattutto su di lui. Conosci la storia del cavallo di Alessandro, Bucefalo?» Aveva sentito la Zovastina che ne parlava. Una volta, quando Alessandro era bambino, suo padre comprò un bellissimo cavallo che nessuno riusciva a domare. Alessandro criticò aspramente sia il padre sia gli addestratori reali, sostenendo di essere in grado di addomesticare l'animale. Filippo dubitava della veridicità dell'affermazione, ma il giovane promise di pagare il cavallo coi propri fondi in caso avesse fallito, quindi il re gli consentì di tentare. Vedendo che l'animale pareva spaventato dalla sua ombra, Alessandro lo girò verso il sole e, con un po' di lusinghe, riuscì a montarlo. «E sai anche cosa disse Filippo ad Alessandro dopo che ebbe domato il cavallo?» Viktor scosse la testa. «Disse: 'Trovati un regno che sia alla tua altezza, perché la Macedonia non è abbastanza grande per te'. Ecco, Viktor, questo è il suo problema. La sua Federazione è più vasta dell'Europa, ma non è grande abbastanza. Lei vuole di più.» «Non è una cosa di cui dobbiamo preoccuparci noi.» «Quello che stiamo facendo in qualche modo fa parte del suo piano.» Raffaele parve percepire la sua incertezza. «All'uomo al telefono hai detto che avremmo portato cinquantamila euro. Ma noi non abbiamo soldi.» «Non ci servono. Prenderemo la moneta senza spendere un centesimo.» «Dobbiamo eliminare chiunque stia facendo questo gioco.» Raffaele aveva ragione. Il primo ministro Zovastina non avrebbe tollerato errori. «Giusto. Li uccideremo tutti.»
Capitolo 13
Samarcanda, ore 11.30 L'uomo che entrò nello studio di Irina Zovastina era basso e tarchiato, col viso piatto e una mascella che indicava cocciutaggine. Era terzo in grado nelle Forze Aeree Confederate, ma era anche il leader segreto di un partito politico minore, la cui voce, negli ultimi tempi, aveva raggiunto un volume preoccupante. Un kazaco che aveva nascostamente resistito all'influenza slava, amava parlare dei tempi in cui il suo popolo era nomade, molto prima che i russi cambiassero ogni cosa. Fissando il ribelle, la Zovastina si domandò come il cranio calvo e gli occhi inespressivi potessero affascinare qualcuno, tuttavia i rapporti lo descrivevano come intelligente, eloquente e persuasivo. Era stato condotto a palazzo due giorni prima, dopo un crollo improvviso dovuto a un accesso di febbre, grande perdita di sangue dal naso e attacchi di tosse che l'avevano lasciato spossato, oltre a un martellio ai fianchi che aveva descritto come colpi di maglio. Il medico gli aveva diagnosticato un'infezione virale con possibile polmonite, ma nessuna cura tradizionale aveva funzionato. In quel momento, però, sembrava stare bene. A piedi nudi, indossava uno degli accappatoi di palazzo color castagna. «Hai un bell'aspetto, Enver. Molto migliore.» «Perché sono qui?» chiese lui con un tono piatto che non mostrava traccia di gratitudine. In precedenza, aveva posto domande al personale che, su ordine del ministro, aveva lasciato cadere insinuazioni riguardo al suo tradimento. Fatto interessante, il colonnello non aveva dato segno di provare paura e insisteva addirittura con l'atteggiamento di sfida evitando il russo e rivolgendosi a lei in kazaco. La Zovastina decise di assecondarlo replicando nella vecchia lingua. «Eri mortalmente malato. Ti ho fatto portare qui perché i miei medici potessero occuparsi di te.» «Non ricordo niente di ieri.» Gli fece cenno di sedersi e versò il tè da una teiera d'argento. «Eri in cattive condizioni. Ero preoccupata, quindi ho deciso di fare qualcosa per aiutarti.» La fissò con evidente sospetto. Lei gli tese tazza e piattino. «Tè verde aromatizzato alla mela. Mi hanno detto che ti piace.» L'uomo non accettò l'offerta. «Cosa vuoi, ministro?» «Sei un traditore mio e della Federazione. Il tuo partito incita il popolo alla disobbedienza civile.» «Dici continuamente che abbiamo il diritto di esprimere la nostra opinione.» «E tu mi credi?» Posò la tazza e smise di giocare a fare l'ospite educata. «Tre
giorni fa, sei stato esposto a un agente virale che uccide nell'arco di ventiquattro quarantotto ore. La morte è provocata da febbre violenta, liquido nei polmoni e indebolimento delle pareti delle arterie con conseguente massiccia emorragia interna. La tua infezione non è progredita fino a quel punto, anche se a quest'ora avrebbe dovuto.» «E come sono stato curato?» «L'ho fermata io.» «Tu?» «Volevo sperimentassi quello che sono capace di infliggere.» L'uomo non disse niente, in apparenza impegnato a digerire la realtà dei fatti. «Sei un colonnello della nostra aeronautica, un uomo che ha giurato di difendere la Federazione con la propria vita.» «E lo farei.» «Però si direbbe che non ti faccia problemi a istigare al tradimento.» «Te lo chiedo di nuovo. Cosa vuoi?» Il tono aveva perso ogni parvenza di cortesia. «La tua lealtà.» Non replicò. Il ministro prese dal tavolo un telecomando, e un monitor a schermo piatto appoggiato sull'angolo della scrivania prese vita con l'immagine di cinque uomini che si aggiravano tra la folla esaminando banchi pieni di prodotti freschi sotto tende colorate. Il suo ospite schizzò in piedi. «Questo video di sorveglianza proviene da una delle telecamere al mercato Navoi. Sono piuttosto utili per mantenere l'ordine e combattere il crimine. Ma ci consentono anche di seguire i nemici.» Vide che lui aveva riconosciuto i volti. «Proprio così, Enver, sono i tuoi amici. Impegnati a opporsi a questa Federazione. Sono al corrente dei vostri piani.» Conosceva bene la filosofia del partito di quell'uomo. Prima della dominazione comunista, quando i kazachi vivevano quasi solo nelle yurte, le donne erano state componenti essenziali della società, occupando oltre un terzo dei ruoli politici, ma tra i sovietici e gli islamici avevano finito per essere messe da parte. L'indipendenza degli anni '90 non aveva portato solo una depressione economica, ma aveva anche consentito alle donne di tornare in posizioni preminenti, da dove avevano solidamente riacquistato un'influenza politica. La Federazione aveva rafforzato quella rinascita. «Tu, Enver, non vuoi tornare davvero ai vecchi tempi, a quando vagavamo per le steppe. Perché allora erano le donne a capo della società. Oh, no? Quello che vuoi è il potere politico. E se riesci a infiammare le folle con ricordi di un glorioso passato, le userai a tuo vantaggio. Non sei migliore di me.» Lui sputò ai piedi della donna. «Ecco cosa penso di te.» Lei si strinse nelle spalle. «Non cambia una virgola.» Indicò lo schermo. «Prima che tramonti il sole, ciascuno di quegli uomini sarà infettato, proprio come è successo a te. Non se ne accorgeranno finché il naso che cola, la gola dolorante o il mal di testa non indicherà che forse si sono presi un raffreddore. Te li ricordi quei sintomi, vero,
Enver?» «Sei malvagia come ho sempre pensato.» «Se fossi malvagia, ti avrei lasciato morire.» «E perché non l'hai fatto?» Puntò il telecomando e cambiò canale. Comparve una mappa. «Questo è ciò che abbiamo ottenuto. Uno Stato asiatico unificato concordato da tutti i leader.» «Non avete chiesto alla gente.» «Sul serio? Sono quindici anni che abbiamo realizzato questa unione e l'economia di tutte le ex nazioni indipendenti si è sviluppata in modo esponenziale. Abbiamo costruito scuole, case, strade. Le cure mediche sono notevolmente migliorate, le infrastrutture modernizzate. Elettricità, acqua, rete fognaria, adesso funziona tutto, non come al tempo dei russi. Le violenze sovietiche sulla nostra terra e sulle nostre risorse sono finite e ci sono investimenti internazionali per molti miliardi. Il turismo è in crescita, il prodotto interno lordo è raddoppiato. La gente è felice, Enver.»
«Non tutti.» «Rendere tutti felici non è possibile. Il massimo che possiamo fare è accontentare la maggioranza. È questo che predica in continuazione l'Occidente.» «A quanti altri hai fatto pressioni come a me?» «Non a molti. La maggior parte capisce da sé i benefici di quello che stiamo facendo. Io con gli amici divido ricchezza e potere. E lascia che ti dica che se qualcuno di voi ha idee migliori, sono pronta ad ascoltare. Fino a oggi, però, nessuno ha proposto di meglio. La piccola opposizione che abbiamo affrontato, tu incluso, semplicemente vuole raggiungere un posto di potere, niente di più.» «È facile per te essere generosa quando i tuoi germi possono spazzarci via tutti.» «Avrei potuto lasciarti morire e risolvere i miei problemi. Ma ucciderti, Enver, sarebbe stupido. Hitler, Stalin, gli imperatori romani, gli zar russi e praticamente ogni monarca europeo hanno commesso tutti lo stesso errore: hanno eliminato proprio le persone che avrebbero potuto sostenerli quando davvero avevano bisogno di aiuto.» «Magari avevano ragione loro. Tenere in vita i propri nemici può essere pericoloso.» La Zovastina percepì un lieve addolcimento nella rigidezza del tono, quindi chiese:
«Conosci Alessandro Magno?» «Un altro invasore occidentale.» «Che in una decina di anni ci aveva conquistati, prendendo tutta la Persia e l'Asia minore. Un territorio più vasto di quello acquisito dall'Impero romano dopo secoli di battaglie. E come governava? Non con la forza. Quando si impossessava di un regno, consentiva sempre al governante sconfitto di tenere il potere. In questo modo si faceva degli amici che in caso di necessità gli inviavano uomini e rifornimenti che gli permettevano di realizzare altre conquiste. Poi, condivideva le ricchezze. Ebbe successo perché aveva capito come usare il potere.» Era difficile dire se aveva fatto progressi nell'opera di convincimento, di certo l'osservazione del kazaco era valida: era davvero circondata da nemici, e il recente tentativo di assassinarla aveva lasciato nella sua mente un segno ancora fresco. Cercava sempre di eliminare o reclutare l'opposizione, ma nuove fazioni sembravano spuntare come funghi. Alla fine lo stesso Alessandro era caduto vittima di un'irragionevole paranoia, ma lei non avrebbe commesso il medesimo errore. «Cosa ne dici, Enver? Unisciti a noi.» Lo osservò riflettere sulla richiesta. Poteva non amarla, ma i rapporti su quel guerriero, un aviatore addestrato dai sovietici che con loro aveva combattuto in molte folli battaglie, riferivano che c'era qualcosa che odiava molto di più. Era il momento di vedere se fosse vero. Rivolta allo schermo, indicò Pakistan, Afghanistan e Iran. «Ecco il nostro problema.» «Cosa intendi fare?» «Eliminarli.»
Capitolo 14
Copenhagen, ore 08.30 Malone fissava la casa. Lui, Thorvaldsen e Cassiopea avevano lasciato la libreria mezz'ora prima e si erano diretti a nord lungo una strada che costeggiava il mare. Dieci minuti a sud della sontuosa tenuta di Thorvaldsen, avevano abbandonato la superstrada e parcheggiato davanti a una modesta abitazione a un piano annidata in mezzo a un boschetto di faggi contorti. Narcisi e giacinti ne circondavano i muri di mattone e legno coperti da un asimmetrico tetto a due spioventi. Le acque marrone grigiastro dell'Øresund lambivano una spiaggia rocciosa a meno di cinquanta metri dal retro. «Non credo di dover chiedere a chi appartiene questo posto.» «Cade a pezzi», replicò Henrik. «Confina col mio terreno. L'ho pagato una miseria, ma la posizione fronte mare è splendida.» Malone concordava. Ottimo affare. «E chi dovrebbe abitarci?» «Il proprietario del museo, chi altri?» replicò sorridendo Cassiopea. Notò che l'umore della donna era migliorato, ma era evidente che i suoi due amici fossero tesi. Si era cambiato, prima di lasciare la città, e aveva recuperato da sotto il letto la Beretta assegnatagli dalla Sezione Magellano. Per ben due volte la polizia locale gli aveva ordinato di consegnarla, ma Thorvaldsen aveva usato i propri contatti col primo ministro danese per bloccare entrambi i tentativi. Pur non essendo più operativo, nel corso dell'anno precedente aveva avuto modo di usare spesso quella pistola. E questo era preoccupante. Uno dei motivi per cui aveva lasciato l'agenzia governativa era stato proprio smettere di portare armi. Entrarono in casa. I raggi del sole penetravano da finestre velate di salmastro, mostrando interni decorati con un assortimento di vecchio e nuovo, in una combinazione di stili che risultava abbastanza gradevole. Notò le condizioni dell'immobile: c'era bisogno di un restauro. Mentre Cassiopea ispezionava la casa, Henrik si sedette su un polveroso divano ricoperto in tweed. «Tutto quello che si trovava al museo la scorsa notte era falso. Ho tolto gli originali appena l'ho acquistato. Non c'era niente di particolare valore, ma non potevo lasciare comunque che andasse distrutto.» «Ti sei preso un bel po' di disturbo», commentò Malone. «C'è un bel po' in ballo», replicò Cassiopea, di ritorno dalla ricognizione. «Intanto che aspettiamo che arrivi qualcuno intenzionato a farci fuori, potreste almeno spiegarmi perché abbiamo dato a quel tizio al telefono tutto questo tempo per prepararsi?» «So benissimo quello che ho fatto», disse Thorvaldsen. «E come mai quelle monete sono tanto importanti?»
«Cosa sai di Efestione?» chiese a sua volta Thorvaldsen. «So che era il compagno più intimo di Alessandro, probabilmente il suo amante. È morto qualche mese prima di lui.» «Il manoscritto, quello scoperto a Samarcanda, offre nuove informazioni al riguardo», intervenne Cassiopea. «Adesso sappiamo che Alessandro si sentiva talmente in colpa per la morte di Efestione da ordinare l'esecuzione del suo medico personale, che si chiamava Glaucias. Lo fece fare a pezzi legandolo a due alberi tenuti piegati fino a terra.» «E cos'aveva fatto il medico per meritarselo?» «Non era riuscito a salvare Efestione», spiegò Henrik. «Pare che Alessandro possedesse una cura. Qualcosa che, almeno in un'occasione, aveva fermato le stesse febbri che avevano ucciso Efestione. Nel manoscritto è definita semplicemente 'pozione', ma ci sono anche delle precisazioni interessanti.» Cassiopea si tolse di tasca un foglio piegato. «Leggi da te.» Quale vergogna per il re emettere sentenza di morte nei confronti del povero Glaucias. Il medico non aveva colpa. Aveva detto a Efestione di non mangiare né bere, tuttavia egli fece entrambe le cose. Se se ne fosse astenuto, si sarebbe forse conquistato il tempo necessario a guarirlo. È vero che Glaucias non aveva sottomano la pozione, dato che il contenitore era stato casualmente rotto qualche giorno prima, ma ne attendeva altra in arrivo da oriente. Anni prima, durante l'inseguimento degli sciti, Alessandro soffrì di forti dolori allo stomaco. In cambio di una tregua, gli sciti gli fornirono la pozione, che da tempo usavano come cura. Soltanto Alessandro, Efestione e Glaucias erano al corrente della cosa, ma una volta Glaucias aveva somministrato quel liquido miracoloso al suo assistente. Il collo dell'uomo si era gonfiato e presentava protuberanze tanto gravi da impedirgli quasi di deglutire, come avesse la gola piena di ciottoli, e ogni volta che espirava scaturivano fluidi. Aveva il corpo coperto da lesioni, le forze avevano abbandonato i suoi muscoli e ogni respiro era un'immane fatica. Glaucias gli diede la pozione e il giorno dopo era guarito. Glaucias gli rivelò anche di avere somministrato quella cura al re in parecchie occasioni, una volta persino quando era vicino alla morte, ed egli si era sempre ripreso. L'assistente doveva a Glaucias la vita, ma non c'era niente che potesse fare per strapparlo all'ira di Alessandro e dovette stare a guardare dalle mura di Babilonia mentre il suo salvatore veniva dilaniato. Quando Alessandro tornò dall'esecuzione, ordinò che l'assistente venisse condotto alla sua presenza e gli chiese se fosse a conoscenza dell'esistenza della pozione. Avendo visto Glaucias morire in modo tanto orribile, la paura lo spinse a dire la verità, quindi il re gli ordinò di non parlare a nessuno di quel liquido. Dieci giorni dopo, Alessandro giaceva sul letto di morte, il corpo squassato dalla febbre, le forze quasi esaurite, proprio come Efestione. L'ultimo giorno della sua vita, mentre i suoi Compagni e i suoi generali pregavano per avere consiglio, Alessandro mormorò di volere il medicamento. L'assistente del medico fece appello a tutto il suo coraggio e, ricordando Glaucias, disse di no ad Alessandro. Sulle labbra del re comparve un sorriso. L'assistente provò piacere nel veder morire Alessandro, sapendo che
avrebbe potuto salvarlo. «È stato lo storiografo di corte ad annotare questo racconto», aggiunse Cassiopea. «Quattro anni prima, anche lui aveva perso qualcuno che amava, quando Alessandro aveva fatto uccidere Callistene, il nipote di Aristotele, che aveva servito come storiografo di corte fino alla primavera del 327 a.C. Proprio allora era rimasto coinvolto in una congiura intesa ad assassinare il re, la cui paranoia aveva ormai raggiunto livelli pericolosi, e difatti Callistene fu condannato a morte, e si dice che Aristotele non perdonò mai Alessandro per quella decisione.» Malone annuì. «Alcuni sostengono che sia stato Aristotele a mandare il veleno che uccise Alessandro.» Quell'affermazione provocò un commento sprezzante da parte di Thorvaldsen. «Il re non fu avvelenato. Il manoscritto lo dimostra. Alessandro morì per un'infezione, probabilmente malaria, dato che aveva arrancato in mezzo alle paludi per diverse settimane, ma è difficile esserne certi. E quel liquido, la pozione, l'aveva già guarito in precedenza, proprio com'era accaduto all'assistente medico.» «Hai fatto caso ai sintomi?» chiese Cassiopea. «Febbre, ingrossamento del collo, muco, spossatezza, lesioni. Sembrerebbe virale. Tuttavia la medicina curò alla perfezione l'assistente.» Malone non era particolarmente colpito. «Non potete fidarvi più di tanto di un manoscritto vecchio di oltre duemila anni. Non siete neanche sicuri che sia autentico.» «Lo è», ribatté Cassiopea, e, vedendo che lui aspettava una spiegazione, aggiunse: «Il mio amico era un esperto. La tecnica che ha usato per scoprire quello scritto è la più recente e sofisticata che ci sia, e non è applicabile a un falso. Stiamo parlando di leggere parole a livello molecolare». «Alessandro sapeva che ci sarebbe stata battaglia per il suo corpo», riprese Henrik. «È noto che nei suoi ultimi giorni disse che quando lui fosse morto 'i suoi amici importanti si sarebbero sfidati in uno smisurato gioco funebre'. Un commento curioso, che ora forse cominciamo a capire.» Malone, però, aveva colto qualcos'altro nelle parole di Cassiopea. «Hai detto che il tuo amico del museo era un esperto? Al passato?» «È morto.» «Eravate molto uniti?» Adesso conosceva la fonte del suo dolore. Cassiopea non rispose. «Avresti potuto dirmelo.» «No, non potevo.» Le sue parole ferivano. «È sufficiente sapere che tutto questo intrigo ha a che fare con l'individuazione del corpo di Alessandro», intervenne Thorvaldsen. «Buona fortuna. Non lo si vede in giro da millenni.» «Questo è il punto», replicò gelida Cassiopea. «Potremmo sapere dove si trova, mentre l'uomo che sta venendo qui a ucciderci non lo sa.»
Capitolo 15
Samarcanda, ore 12.20 Irina Zovastina studiò i volti entusiasti degli studenti e chiese alla classe: «Quanti di voi hanno letto Omero?» In pochi alzarono la mano. «Frequentavo l'università, proprio come voi, quando ho letto per la prima volta i suoi poemi epici.» Si era recata al Centro Popolare di Insegnamento Superiore per una delle sue numerose apparizioni settimanali. Cercava di programmarne almeno cinque, perché erano occasioni per la stampa e per la gente di vederla e ascoltarla. Un tempo istituto russo dai pochi fondi, ora il centro era un rinomato luogo di studi accademici. Aveva provveduto al cambiamento perché era convinta che i greci avessero ragione e che uno Stato di illetterati ignoranti portasse a non avere più uno Stato. Lesse un passo dalla copia dell'Iliade aperta davanti a lei. «Color cangia il codardo, e il cor mal fermo non gli permette di tenersi immoto un solo istante; mancagli il ginocchio, sul calcagno s'accascia, e immaginando vicino il suo morir, l'alma nel seno palpita e trema dibattendo i denti. Ma collocato nell'insidia il forte né cor cangia né volto, e della zuffa il momento sospira.» Gli studenti parvero apprezzare la sua lettura. «Le parole di Omero, anche dopo tremila anni, hanno ancora valore e significato.» Dal fondo dell'aula, obiettivi e microfoni erano puntati verso di lei, e trovarsi in quel luogo la fece tornare con la mente a ventotto anni prima. Nel nord del Kazakistan. Un'altra classe. E il suo insegnante. «È giusto piangere», le disse Sergej. Le parole l'avevano commossa. Più di quanto avesse creduto possibile. Fissò l'ucraino, che comprendeva il mondo in modo unico. «Hai solo diciannove anni», le disse. «Mi ricordo quando ho letto Omero per la prima volta. Mi sono emozionato anch'io.» «Achille è uno spirito così tormentato.» «Siamo tutti spiriti tormentati, Irina.» Le piaceva quando pronunciava il suo nome. Quell'uomo sapeva cose a lei sconosciute. Comprendeva cose che lei doveva ancora sperimentare. Voleva conoscere tutte quelle cose. «Non ho mai conosciuto i miei genitori. Non ho mai conosciuto nessuno della mia famiglia.» «Loro non sono importanti.» Rimase sorpresa. «Come può dire una cosa simile?»
Lui le indicò il libro. «Il destino dell'uomo è soffrire e morire. Ciò che è stato non conta.» Per anni si era chiesta perché sembrasse condannata a un'esistenza di solitudine. Pochi amici, relazioni inesistenti, la vita per lei una sfida infinita tra desideri e mancanze. Come Achille. «Irina, tu arriverai a conoscere la gioia della sfida. Perché la vita non è altro che una sfida dopo l'altra, una battaglia dopo l'altra. Sempre, come Achille, alla ricerca dell'eccellenza.» «E il fallimento?» Si strinse nelle spalle. «La conseguenza di un mancato successo. Ricorda ciò che diceva Omero: è il fato a guidare l'uomo, non il contrario.» Lei pensò a un altro verso del poema. «Sopporta in pace, o figlia, il tuo dolor; ché molti degl'Immortali con alterno danno molte soffrimmo dai mortali offese.» L'insegnante annuì. «Non dimenticarlo mai.» «Che storia, l'Iliade», disse alla classe. «Una guerra che infuria per nove lunghi anni. Poi, il decimo anno, una disputa spinge Achille a smettere di combattere. Un eroe greco, pieno d'orgoglio, un lottatore la cui umanità nasce dalla grande passione, invulnerabile tranne che sul tallone.» Colse un sorriso su alcuni volti. «Tutti hanno un punto debole.» «Ministro, il suo qual è?» chiese uno studente. Aveva detto ai ragazzi di non fare i timidi, e le domande erano buone. «Perché mi insegna queste cose?» chiese a Sergej. «Solo se conosci le tue radici puoi comprenderle. Ti rendi conto che potresti benissimo essere una discendente dei greci?» Gli lanciò un'occhiata perplessa. «Com'è possibile?» «Tanto tempo fa, prima dell'Islam, quando Alessandro e i greci conquistarono queste terre, molti dei suoi uomini restarono dopo che lui tornò in patria. Si stabilirono nelle nostre vallate e presero in moglie le donne del luogo. Alcune nostre parole, la nostra musica, le nostre danze, erano loro.» Non ci aveva mai pensato. «L'affetto che provo per la gente di questa Federazione», rispose Irina. «Siete voi il mio punto debole.» Gli studenti approvarono applaudendo. Ripensò all'Iliade; e al suo insegnamento. La gloria della guerra. Il trionfo dei valori militari sulla vita di famiglia. Onore personale. Vendetta. Coraggio. La caducità della vita umana. Il forte né cor cangia né volto. Era forse sbiancata lei, quando si era trovata di fronte l'assassino mancato? «Dici che ti interessa la politica», fece Sergej. «Allora non dimenticarti mai di
Omero. I nostri padroni russi non sanno niente dell'onore, mentre i nostri progenitori greci sapevano tutto in proposito. Non comportarti mai come i russi, Irina. Omero aveva ragione: trascurare la propria comunità è il peggiore dei fallimenti.» «Quanti di voi conoscono Alessandro Magno?» Si alzarono poche mani. «Vi rendete conto che qualcuno di voi potrebbe essere greco?» Raccontò loro ciò che Sergej le aveva detto tanti anni prima riguardo alla permanenza in Asia dei greci. «L'eredità di Alessandro è parte della nostra storia. Coraggio, cavalleria, resistenza. È stato lui a unire oriente e occidente per la prima volta. La sua leggenda ha raggiunto ogni angolo del mondo. Si trova nella Bibbia e nel Corano; i greci ortodossi l'hanno fatto santo; gli ebrei lo considerano un eroe popolare. C'è una sua versione nelle saghe di Germania, Islanda ed Etiopia. Per secoli sono stati scritti poemi su di lui, e la sua storia è una nostra storia.» Poteva facilmente capire perché Alessandro fosse tanto appassionato di Omero, perché visse l'Iliade in prima persona. L'immortalità poteva essere ottenuta soltanto grazie a gesta eroiche. Uomini come Enrico Vincenti non capivano l'onore. Achille aveva ragione: Nessuna pace tra l'eterna guerra dell'agnello e del lupo. Vincenti era un agnello. Lei era un lupo. E non c'era possibilità d'incontro. Quegli appuntamenti con gli studenti risultavano utili sotto molteplici punti di vista, non ultimo il fatto di ricordarle cos'era accaduto prima di lei. Duemilatrecento anni prima, Alessandro Magno aveva marciato per trentaduemila chilometri e conquistato tutto il mondo conosciuto. Aveva creato una lingua comune, incoraggiato la tolleranza religiosa, sollecitato la diversità razziale, fondato settanta città, aperto nuove vie commerciali, e dato inizio a un rinascimento durato duecentocinquant'anni. Aspirava all'arete, l'ideale greco di eccellenza. Adesso era venuto il suo turno di dimostrare la stessa cosa. Finì la lezione e se ne andò. Mentre lasciava l'edificio, una delle sue guardie le consegnò un foglietto. L'aprì e lesse il messaggio: trenta minuti prima era arrivata un'e@mail, che si faceva notare per il criptico indirizzo del mittente e la brevità della comunicazione: venga qui entro il tramonto. Seccante, ma non aveva scelta. «Fate preparare un elicottero.»
Capitolo 16
Venezia, ore 08.35 Vincenti considerava Venezia un'opera d'arte. Innumerevoli tracce di bizantino splendore, riflessi islamici e allusioni a India e Cina: una città per metà orientale e per metà occidentale, un piede in Europa e l'altro in Asia. Una creazione dell'uomo davvero unica, nata su una serie di isolette che erano riuscite a unirsi realizzando uno Stato basato sul commercio, una potenza navale di prim'ordine, una repubblica antica milleduecento anni i cui nobili ideali avevano addirittura attirato l'attenzione dei Padri Fondatori americani. Invidiata, guardata con diffidenza, persino temuta, commerciava indiscriminatamente con chiunque, amico o nemico; un'affarista priva di scrupoli e consacrata al profitto, che considerava investimenti promettenti persino le guerre. Ecco cos'era stata Venezia nel corso dei secoli. E lui stesso negli ultimi due decenni. Con i primi profitti della sua neonata azienda farmaceutica aveva acquistato il palazzetto sul Canal Grande, ed era più che appropriato che lui e la sua società, ormai valutata in miliardi di euro, avessero installato proprio lì il loro quartier generale. Amava Venezia soprattutto di primo mattino, quando non si udiva altro suono che quello delle voci umane. Una passeggiata mattutina dal palazzo al ristorante preferito in Campo dei Carmini rappresentava il suo unico tentativo di esercizio fisico, e solo perché non poteva essere evitato, dato che a Venezia si circola soltanto a piedi o in barca. Quel giorno camminava con rinnovato vigore. Il problema col fiorentino era stato fonte di preoccupazione, ma avendolo risolto poteva concentrarsi sugli ultimi ostacoli che si trovava davanti. Niente gli dava maggiore soddisfazione di un piano ben eseguito. Purtroppo, erano pochi quelli che rispondevano alla definizione. Soprattutto quando era necessario qualche sotterfugio. L'aria del mattino non trasportava più lo sgradevole freddo dell'inverno, ed era evidente che nel Nord Italia era tornata la primavera. Anche il vento pareva più dolce, il cielo di uno splendido color salmone, illuminato dal sole che sorgeva dal mare. Percorse le callette tortuose, tanto strette che camminare con un ombrello aperto poteva rappresentare un problema, e attraversò parecchi dei ponti che cucivano assieme la città. Superò negozi di abbigliamento, di calzature e cartoleria, un'enoteca e un paio di drogherie ben fornite, tutti chiusi a quell'ora. Raggiunse la fine della calle ed entrò nel campiello. A un'estremità si trovava un'antica torre, un tempo appartenente a una chiesa ora divenuta un teatro; all'altra svettava il campanile della chiesa dei Carmini. Non gli piacevano molto i campi, piccole distese racchiuse tra case e negozi che risplendevano per antichità e autocompiacimento. Tendevano ad avere un'aria asciutta, vecchia e cittadina, molto
diversa dalle rive dei canali su cui si affacciavano i palazzi, simili a gente tra la folla che sgomita per farsi largo. Studiò lo spiazzo vuoto. Tutto a posto e in ordine. Proprio come piaceva a lui. Era un uomo che aveva ricchezza, potere e un futuro. Abitava in una delle città più famose del mondo, con uno stile di vita adatto a una persona di prestigio e tradizione. Suo padre, un uomo ordinario che gli aveva instillato l'amore per la scienza, da bambino gli diceva sempre di prendere la vita come viene. Ottimo consiglio. La vita consiste in reazione e ripresa, e ci si ritrova sempre alternativamente nei guai, appena fuori o sul punto di ripiombarci. Il trucco consiste nel sapere in quale di questi stadi si è e agire di conseguenza. Lui ne era appena uscito. Ed era anche sul punto di affrontarne altri. Negli ultimi due anni era stato a capo del Consiglio dei Dieci, l'organo di governo della Lega Veneziana, composta da quattrocentotrentadue uomini e donne le cui ambizioni erano frustrate da leggi di mercato restrittive e da politici che intaccavano le fondamenta delle varie società. Gli Stati Uniti e l'Unione Europea erano di gran lunga le peggiori in proposito. Ogni giorno spuntava qualche nuovo ostacolo che riduceva i profitti, e gli appartenenti alla Lega spendevano milioni nel tentativo di evitare altre disposizioni di legge. Ma se un gruppo di politici veniva silenziosamente influenzato in modo da risultare d'aiuto, ce n'era sempre un altro intenzionato a farsi un nome perseguendo i colleghi di più ampie vedute. Un ciclo frustrante e senza fine. Ecco perché la Lega Veneziana aveva deciso di creare un luogo in cui gli affari potessero non soltanto prosperare, ma dominare. Un luogo simile all'originaria Repubblica veneziana che, per secoli, era stata governata da uomini che avevano l'abilità mercantile dei greci e l'audacia dei romani: imprenditori che erano allo stesso tempo uomini d'affari, soldati, governatori e statisti, e avevano creato una città stato che alla fine era diventata un impero. Di quando in quando, la Repubblica veneziana aveva stretto accordi con altre città stato, e l'idea aveva funzionato bene. La moderna incarnazione di tutto ciò, rappresentata dalla Lega, metteva in atto una filosofia simile. Aveva lavorato duro per accumulare la sua fortuna, e concordava con quanto gli aveva detto una volta Irina Zovastina: Tutti apprezzano di più una cosa costata fatica. Attraversò il campo e raggiunse il caffè, che apriva ogni giorno alle sei appositamente per lui. La mattina era il suo momento preferito della giornata, la sua mente pareva più vivace, prima di mezzogiorno. Entrò nel locale e salutò il proprietario. «Emilio, posso chiederle un favore? Dica ai miei ospiti che torno subito. Devo fare una cosa, ma non mi ci vorrà molto.» L'uomo sorrise e annuì. Evitò i dirigenti della sua società che l'aspettavano nella sala da pranzo adiacente e si diresse in cucina, dove il profumo di pesce arrosto e uova fritte gli stuzzicò le narici. Si fermò un attimo ad ammirare quanto stava sobbollendo sul fuoco, quindi uscì sul retro e si ritrovò in un altro degli innumerevoli vicoli di Venezia, in questo
caso buio a causa degli alti edifici di mattone costellati di escrementi di uccelli. A qualche metro di distanza l'attendevano tre inquisitori, che a un suo cenno si misero in marcia in fila indiana. A un incrocio svoltarono a destra e seguirono un'altra calle, dove notò una puzza familiare, in parte fogna, in parte pietra ammuffita: la cappa di Venezia. Si fermarono all'ingresso posteriore di un palazzo che al pianterreno ospitava un negozio di abbigliamento e appartamenti sui tre piani superiori. Sapeva che si trovavano dall'altra parte del campo, in diagonale rispetto al caffè. Un quarto inquisitore li aspettava sulla soglia. «È qui?» chiese Vincenti. L'uomo annuì. Fece un gesto e i suoi tre accompagnatori entrarono con lui nell'edificio mentre l'altro attendeva fuori. Vincenti li seguì su una scala di metallo e al terzo piano si fermarono davanti a uno degli appartamenti, dove estrassero le pistole. Uno degli uomini si preparò a sferrare un calcio contro la porta e a un suo cenno di assenso la scarpa incontrò il legno con forza, spalancando l'uscio verso l'interno. Gli inquisitori si precipitarono dentro e, quando qualche secondo dopo gli venne dato il via libera, entrò anche lui e richiuse la porta. Due dei suoi uomini tenevano ferma una donna snella, bionda e di certo non brutta. Aveva una mano stretta sulla bocca e la canna di una pistola premuta sulla tempia sinistra. Era spaventata, ma lucida. C'era da aspettarselo, dato che era una professionista. «Sorpresa di vedermi? Ci ha sorvegliati per quasi un mese.» Lo sguardo di lei non mostrò reazione. «Non sono uno stupido, anche se il suo governo deve considerarmi tale.» Sapeva che lavorava per il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e apparteneva a un'unità speciale chiamata Sezione Magellano. La Lega Veneziana aveva avuto a che fare con quel gruppo alcuni anni prima, all'inizio degli investimenti in Asia centrale. C'era da aspettarsi anche quello, dato che l'America continuava a mostrarsi sospettosa. Da quelle indagini non era venuto fuori niente, ma adesso pareva che Washington si fosse fissata di nuovo sulla sua organizzazione. Osservò l'equipaggiamento dell'agente: macchina fotografica con teleobiettivo posta su cavalletto, telefono cellulare, blocco per appunti. Sapeva che interrogarla sarebbe stato inutile. Avrebbe potuto dirgli ben poco che lui non sapesse già, e forse neppure quello. «Ha interferito con la mia colazione.» Un suo gesto e uno degli uomini le confiscò l'attrezzatura. Vincenti si avvicinò alla finestra e scrutò in basso il campo ancora deserto. La sua prossima mossa avrebbe potuto decidere il suo futuro. Stava per fare il doppio gioco in una partita molto pericolosa che né la Lega Veneziana né Irina Zovastina avrebbero apprezzato. E neppure gli americani, per quel che valeva. Aveva programmato quell'azione spavalda da molto, molto tempo. Come gli aveva detto spesso suo padre, i deboli non meritano niente. Continuando a fissare fuori della finestra, sollevò il braccio destro e fece scattare il polso. Uno schiocco indicò che il collo della donna si era spezzato in modo netto.
Non gli importava che venissero commessi omicidi, ma guardare era tutt'altra cosa. I suoi uomini sapevano cosa fare. Un'imbarcazione attendeva poco distante di portare il corpo della donna dall'altra parte di Venezia, dove si trovava la cassa della sera prima. All'interno c'era spazio più che sufficiente per un altro cadavere.
Capitolo 17
Danimarca Malone studiò l'uomo appena arrivato, da solo, a bordo di un'Audi con un vistoso adesivo di un'agenzia di noleggio appiccicato sul parabrezza. Era basso e tarchiato, con una massa di capelli spettinati, abiti sformati e braccia e spalle che suggerivano fosse avvezzo al lavoro duro. Probabilmente aveva da poco passato i quaranta e i suoi lineamenti, naso largo e occhi infossati, indicavano origini slave. Lo sconosciuto raggiunse la veranda davanti alla casa. «Non sono armato, ma potete accomodarvi a controllare.» «È un piacere avere a che fare con un professionista», replicò Malone senza abbassare la pistola. «Tu sei quello del museo.» «E tu sei quello che mi ci ha fatto entrare.» «Non sono stato io, ma ho approvato la decisione.» «Quanta sincerità da un uno che ha un'arma puntata contro.» «Le armi non mi preoccupano.» E c'era da credergli. «Non vedo i soldi.» «Io non ho visto la moneta.» Malone si fece da parte e lasciò entrare lo sconosciuto. «Hai anche un nome?» Il suo ospite si fermò sulla soglia e lo squadrò con occhi di ghiaccio. «Viktor.» Cassiopea osservava dagli alberi Malone e l'uomo entrare in casa. Che fosse venuto solo o no, non era un problema. Quella messa in scena stava per giungere a conclusione e, per il bene di Malone, si augurava che lei e Thorvaldsen avessero fatto bene i conti. Malone si tenne in disparte mentre Thorvaldsen e l'uomo di nome Viktor parlavano. Era vigile e osservava la scena con l'intensità di chi aveva trascorso una decina d'anni come agente governativo. Anche lui aveva affrontato spesso un avversario sconosciuto armato soltanto d'intelligenza e prontezza di spirito, sperando con tutto se stesso che niente andasse storto. «Siete andati in giro per tutto il continente per rubare quelle monete», disse Thorvaldsen. «Perché? Non sono poi così preziose.» «Non saprei. Lei per la sua vuole cinquantamila euro. Cinque volte più di quanto vale.» «E, sorprendentemente, lei è pronto a pagarli. Il che significa che non è il collezionismo a interessarle. Per chi lavora?» «Per me stesso.» Thorvaldsen emise una raffinata risatina. «Ha senso dell'umorismo. Mi piace. Nel
suo inglese colgo un accento dell'est europeo. Ex Jugoslavia? Croazia?» Viktor rimase in silenzio e Malone notò che il loro ospite non aveva toccato assolutamente niente all'interno della casa. «Supponevo che non avrebbe risposto alla mia domanda», riprese Thorvaldsen. «Come intende concludere il nostro affare?» «Vorrei esaminare la moneta. Se sarò soddisfatto, farò in modo di avere il denaro disponibile per domani. È impossibile oggi, visto che è domenica.» «Dipende da dove si trova la banca», ribatté Malone. «La mia è chiusa.» E, detto questo, l'espressione imperscrutabile di Viktor indicò che non avrebbe aggiunto altro. «Dov'è venuto a conoscenza del fuoco greco?» chiese Thorvaldsen. «È piuttosto perspicace.» «Dopotutto possiedo un museo greco romano.» Un brivido corse lungo la schiena di Malone: quelli poco chiacchieroni come Viktor facevano ammissioni soltanto quando sapevano che chi li ascoltava non sarebbe vissuto abbastanza a lungo da ripetere ciò che aveva scoperto. «So che date la caccia alle monete dell'elefante e che, oltre alla mia, ve ne mancano altre tre. Se devo tirare a indovinare, direi che ha accettato questo incarico senza avere un'idea del perché siano tanto importanti, e comunque non le importa. È un servitore fedele.» «E lei chi sarebbe? Di certo non il proprietario di un museo greco romano come afferma.» «Si sbaglia. Quel museo è davvero mio e voglio essere pagato per quanto avete distrutto. Ecco il motivo del prezzo tanto alto.» Thorvaldsen si frugò in tasca e ne trasse una scatolina di plastica trasparente che lanciò a Viktor. Malone osservò il loro ospite farsi scivolare sul palmo il decadracma. Grande circa quanto una moneta da cinquanta centesimi, color peltro, con simboli incisi su entrambe le facce. Viktor si tolse di tasca un lentino da gioielliere. «Sei un esperto?» domandò Malone. «Me la cavo.» «Le microincisioni ci sono», intervenne Thorvaldsen. «Lettere greche. ZH. Zeta. Eta. È incredibile che gli antichi fossero in grado di realizzarle.» Viktor continuò il suo esame. «Soddisfatto?» chiese Malone. Viktor studiò la moneta e, pur non avendo microscopio e bilancino, gli sembrò autentica. A dire il vero, era l'esemplare migliore fino a quel momento. Si era presentato disarmato perché voleva che quegli uomini pensassero di avere il controllo della situazione. Ciò che serviva in quel caso era l'astuzia, non la forza. Però c'era una cosa che lo preoccupava: dov'era la donna? Alzò lo sguardo e si lasciò scivolare il lentino nella mano destra. «Posso esaminarla vicino alla finestra? Ho bisogno di una luce migliore.» «Ma certo», replicò l'uomo più anziano. «Come si chiama?» gli chiese Viktor.
«Che ne dice di Tolomeo?» Viktor sogghignò. «Ce ne sono stati tanti. Lei qual è?» «Il primo. Il più opportunista dei generali di Alessandro, che dopo la sua morte reclamò per sé l'Egitto. Uomo intelligente. I suoi eredi hanno retto il Paese per secoli.» Viktor scosse il capo. «Alla fine sono stati sconfitti dai romani.» «Come il mio museo, niente dura in eterno.» Viktor si avvicinò al vetro scuro. L'uomo con la pistola stava di guardia alla porta. Gli bastava un istante. Mentre si sistemava tra due raggi di sole, dando loro momentaneamente le spalle, fece la sua mossa. Cassiopea vide un uomo comparire da dietro gli alberi dall'altra parte della casa. Era giovane, magro e agile. Anche se la sera precedente non lo aveva visto in volto, riconobbe la camminata sciolta e l'atteggiamento cauto. Era uno dei ladri. E si stava dirigendo verso l'auto di Thorvaldsen. Scrupolosi, questo glielo concedeva, ma non necessariamente prudenti, soprattutto dato che sapevano che qualcuno era almeno qualche passo avanti a loro. Osservò l'uomo conficcare un coltello in entrambe le gomme posteriori, quindi tornare indietro. Malone si accorse dello scambio. Viktor aveva lasciato cadere il lentino nella mano destra mentre con la sinistra teneva la moneta. Ma quando riposizionò il lentino sull'occhio e riprese l'esame, la moneta era nella mano destra, mentre indice e pollice della sinistra erano piegati all'ingiù per tenere il vero decadracma contro il palmo. Non male. Combinato abilmente con l'atto di spostarsi verso la finestra per trovare la luce giusta. Diversione perfetta. Il suo sguardo incrociò quello di Thorvaldsen, ma con un rapido cenno del capo il danese gli confermò di avere visto anche lui. Viktor teneva la moneta alla luce, studiandola attraverso la lente d'ingrandimento, e Thorvaldsen segnalò in modo impercettibile a Malone di fare finta di niente. «Soddisfatto?» chiese di nuovo Malone. Questa volta Viktor lasciò cadere il lentino nella mano sinistra e se lo infilò in tasca assieme alla moneta autentica, quindi sollevò quella che aveva scambiato, senza dubbio il falso rubato al museo e ora restituito. «È originale.» «Vale cinquantamila euro?» domandò Thorvaldsen. Viktor annuì. «Farò il bonifico domani. Mi dica dove.» «Chiami domattina al numero sulla moneta e ci metteremo d'accordo.» «Adesso però rimettila nella sua scatola», intervenne Malone. Viktor raggiunse il tavolo. «Bel giochino quello che state facendo voi due.» «Non si tratta di un gioco», replicò Thorvaldsen. «Per cinquantamila euro?» «Come ho detto prima, mi avete distrutto il museo.» Malone notò la sicurezza negli occhi attenti di Viktor. Quell'uomo aveva affrontato la situazione senza conoscere il suo nemico e ritenendosi più intelligente, cosa
sempre molto pericolosa. Malone, però, aveva commesso un errore assai peggiore: si era lasciato coinvolgere, confidando solo sul fatto che i suoi due amici sapessero cosa stavano facendo.
Capitolo 18
Provincia di Xinjiang, Cina, ore 15.00 Irina Zovastina teneva lo sguardo fisso fuori del finestrino dell'elicottero, mentre lasciavano lo spazio aereo della Federazione ed entravano nella zona più occidentale della Cina. Un tempo quell'area era stata un ingresso segreto per l'Unione Sovietica controllato da ingenti truppe, ma ormai le frontiere erano aperte e si poteva transitare senza limitazioni. La Cina era stata uno dei primi Paesi a riconoscere ufficialmente la Federazione e trattati bilaterali assicuravano piena libertà a viaggi e scambi commerciali. La provincia di Xinjiang costituiva il sedici per cento della Cina. In massima parte montuosa e desertica, ricca di risorse naturali, differiva completamente dal resto della nazione. Meno comunismo, un islamismo più rigoroso. Un tempo chiamata Turkestan orientale, la sua identità si legava molto più all'Asia Centrale che alle altre diciassette province interne cinesi. La Lega Veneziana era stata determinante nella formalizzazione di relazioni amichevoli coi cinesi, altra ragione che aveva spinto il primo ministro a entrare a far parte del gruppo. La Grande Espansione Economica Occidentale era cominciata cinque anni prima, quando Pechino aveva iniziato a riversare miliardi sulla provincia di Xinjiang per la realizzazione di infrastrutture e di piani di rinnovamento, ed esponenti della Lega avevano avuto molti contratti per la petrolchimica, le miniere, i macchinari, il rinnovamento delle strade e l'edilizia. Nella capitale cinese, gli amici dell'associazione veneziana erano numerosi, dato che i soldi avevano la stessa attrattiva nel mondo comunista come in quello capitalista, e Irina Zovastina aveva sfruttato quei contatti per trarne il massimo vantaggio politico. Il volo da Samarcanda durava poco più di un'ora con l'elicottero ad alta velocità. Aveva compiuto quel tragitto molte volte e, come sempre, fissava in basso l'aspro terreno, immaginando le antiche carovane che un tempo si spostavano da est a ovest e viceversa lungo la famosa Via della Seta. Commerciavano di tutto: giada, corallo, lini, vetro, oro, ferro, aglio, tè, persino nani, donne nubili e cavalli tanto feroci che si diceva sudassero sangue. Alessandro Magno non era mai arrivato così lontano, ma Marco Polo era senza dubbio passato per quelle terre. Di fronte a lei, intravide Kashgar. La città era situata al margine del deserto Taklimakan, circa centoventi chilometri a est del confine della Federazione, all'ombra dell'innevato Pamir, uno dei gruppi montuosi più alti e spogli del pianeta. Vera oasi ornata di gioielli, la metropoli più occidentale della Cina esisteva da oltre duemila anni, come Samarcanda. Un tempo sede di frenetici mercati all'aperto e di affollati bazar, nel presente era consumata da polvere, lamenti e grida in falsetto dei muezzin che richiamavano gli uomini alla
preghiera nelle sue quattromila moschee. In mezzo ad alberghi, magazzini, affari e templi, vivevano trecentocinquantamila persone, e se le antiche mura erano scomparse da tempo, adesso una modernissima autostrada circondava la città consentendo ai taxi verdi di sfrecciare in tutte le direzioni. L'elicottero virò verso nord dove il panorama cambiava. Il deserto non era lontano, a oriente, e il nome Taklimakan significava letteralmente: se ci entri, non ne esci più. Ottima descrizione per un luogo in cui soffiavano venti talmente caldi da uccidere intere carovane in pochi minuti. Individuò la loro destinazione: un edificio di vetro nero posto al centro di un campo cosparso di rocce e alle spalle, a circa mezzo chilometro, le propaggini di una foresta. Niente identificava la struttura a due piani, proprietà della Philogen Pharmaceutique, una società lussemburghese con sede in Italia e il cui maggiore azionista era un americano dall'italianissimo nome di Enrico Vincenti. Il primo ministro si era premurata fin dall'inizio di indagare nella storia personale di Vincenti. Era un virologo, assunto dagli iracheni negli anni '70 per partecipare a un programma sulle armi batteriologiche che l'allora nuovo leader, Saddam Hussein, voleva realizzare. Saddam aveva visto la Convenzione sulle armi biologiche del 1972, che bandiva a livello mondiale la guerra batteriologica, come nient'altro che un'opportunità. Vincenti aveva lavorato con gli iracheni fino a poco prima che scoppiasse la guerra del Golfo, quando Saddam aveva abbandonato le ricerche in tutta fretta. Con la pace, erano arrivati gli ispettori dell'ONU che avevano reso quasi permanente quella smobilitazione e Vincenti aveva progredito nella carriera dando vita a una società farmaceutica che negli anni '90 aveva avuto un'espansione da record. Adesso era la più grande d'Europa, con una serie impressionante di brevetti, un'immensa conglomerata multinazionale che rappresentava un bel risultato per un assai poco noto scienziato mercenario. Fatto che le dava molto da pensare. L'elicottero atterrò e Irina Zovastina si affrettò a entrare nel complesso. Le pareti esterne di vetro erano solo una facciata, e all'interno si ergeva un'altra struttura simile a tavole accostate le une alle altre. L'edificio centrale era circondato da un vialetto di beole a sua volta fiancheggiato su entrambi i lati da piante a cespuglio, e i muri di pietra erano interrotti da tre serie di doppie porte. Quell'insolita disposizione era un modo poco appariscente per garantire la massima sicurezza: nessun filo spinato spuntava al di sopra delle siepi perimetrali, non c'erano guardie visibili né videocamere, niente che indicasse che quell'edificio aveva qualcosa di speciale. Percorse il vialetto e raggiunse uno degli ingressi, bloccato da un cancello di metallo controllato da uno scanner palmare supervisionato da una guardia in piedi dietro un bancone di marmo. A lei non venne chiesto di fermarsi per l'identificazione. Dall'altra parte si trovava un cinquantenne dall'aria sbarazzina con radi capelli grigi e un viso incolore, gli occhiali dalla montatura metallica che proteggevano gli occhi privi di espressione. Indossava il camice da laboratorio nero e oro tenendolo sbottonato, col badge della sicurezza, che lo indicava come Grant Lyndsey, attaccato al bavero. «Benvenuta, ministro.»
La donna rispose al saluto con un'occhiata intesa a mostrare irritazione. L'e@mail che le aveva mandato implicava urgenza e, anche se non amava essere convocata a quel modo, aveva cancellato gli impegni del pomeriggio ed era andata. Entrarono nell'edificio centrale. Dopo l'ingresso principale, c'era una biforcazione: Lyndsey prese verso sinistra e la condusse per un labirinto di corridoi privi di finestre. L'ambiente aveva un'aria ospedaliera e odore di cloro, e tutte le porte erano dotate di chiusura elettronica. Arrivato a quella con la scritta CAPOREPARTO SCIENTIFICO, Lyndsey si tolse dal bavero il tesserino d'identificazione e lo passò in una fessura. L'ufficio senza finestre era arredato in stile moderno e, ogni volta che Irina Zovastina vi era entrata, era stata colpita da quella che considerava una stranezza: non c'erano foto di famiglia né diplomi appesi alla parete, nessun ricordo, quasi quell'uomo non avesse una vita. Cosa che probabilmente non si distaccava molto dalla realtà. «Devo mostrarle una cosa», disse Lyndsey. Le parlava come fosse suo pari, fatto che l'infastidiva. Dal tono sottolineava sempre che lui viveva in Cina e non era un suo sottoposto. Lo scienziato accese un monitor che, da una videocamera a soffitto, mostrava una donna di mezza età accoccolata su una sedia a guardare la televisione. La Zovastina sapeva che la stanza ripresa si trovava al secondo piano, nel reparto riservato ai pazienti. «La settimana scorsa, ne ho requisiti una decina dalla prigione», spiegò Lyndsey. «Come avevamo già fatto.» Irina non era al corrente dell'inizio di un'altra sperimentazione clinica. «Perché non sono stata avvertita?» «Non sapevo di doverla avvisare.» Il ministro udì forte e chiaro ciò che non era stato detto. Il capo è Vincenti. È il suo laboratorio. In precedenza aveva mentito a Enver. Non era stata lei a curarlo, ma Vincenti. Un tecnico del suo laboratorio gli aveva somministrato l'antidoto. Anche se il ministro era in possesso degli agenti patogeni, Vincenti controllava le cure, in un gioco di equilibri dettato dalla sfiducia e stabilito fin dall'inizio per far sì che la loro forza contrattuale restasse paritaria. Lyndsey puntò un telecomando e l'immagine sullo schermo cambiò in quella di altre stanze, otto in tutto, ciascuna occupata da un uomo o da una donna. A differenza della prima, quei pazienti giacevano supini, collegati ad apparecchi per fleboclisi. Erano immobili. Lyndsey si tolse gli occhiali. «Ne ho usati soltanto dodici, visto che erano disponibili subito. Avevo bisogno di uno studio veloce sull'antidoto per il nuovo virus, quello di cui le ho parlato un mese fa. Una cosetta davvero aggressiva.» «E dove l'ha trovato?» «In una specie di roditori presente nella provincia di Heilongjiang. Avevamo sentito dire che la gente si ammalava dopo averli mangiati, ed è così di sicuro, dato che nel sangue di quei ratti circola un virus complesso. Una piccola modifica e l'efficacia è molto aumentata. Uccide in meno di un giorno.» Indicò lo schermo.
«Questa è la prova.» In realtà lei aveva richiesto un agente più violento, qualcosa che agisse in modo più rapido dei ventotto che già erano in suo possesso. «Sono tenuti tutti in vita artificialmente, clinicamente morti da giorni. Ho bisogno dell'autopsia per verificare i parametri d'infezione, ma volevo mostrarglieli prima di aprirli.» «E l'antidoto?» «Una dose ed erano di nuovo in buona salute, con una ripresa totale nel giro di qualche ora. Quindi ho somministrato placebo a tutti tranne che alla prima donna che ha visto. Lei è il controllo. Come previsto, gli altri sono peggiorati rapidamente e sono morti.» Riportò l'immagine dello schermo sulla prima donna. «Invece in lei il virus è assente, risulta del tutto normale.» «Perché è stata necessaria questa sperimentazione?» «Voleva un nuovo virus, giusto? Avevo bisogno di vedere se le correzioni apportate funzionavano.» Lyndsey le rivolse un sorriso. «E, come ho detto, dovevo testare l'antidoto.» «Quando avrò il nuovo virus?» «Può prenderlo anche subito. È per questo che l'ho chiamata.» Non le era mai piaciuto trasportare virus, ma era l'unica a conoscenza dell'ubicazione di quel laboratorio. Il suo accordo con Vincenti era un'intesa personale tra loro due e non poteva affidare a nessuno il frutto di quel patto. Inoltre i cinesi non avrebbero mai fermato il suo elicottero. «Faccia preparare il virus.» «È già congelato e impacchettato.» Irina Zovastina indicò lo schermo. «Che ne sarà di lei?» Lo scienziato si strinse nelle spalle. «Verrà reinfettata. Per domani sarà morta.» Era ancora nervosa. Calpestare il sicario mandato a ucciderla l'aveva liberata in parte dalla frustrazione, ma riguardo a quel fallito tentativo di assassinarla rimanevano ancora molte domande senza risposta. Come aveva fatto Vincenti a scoprirlo? Ne era forse a conoscenza perché era stato lui a dare l'ordine? Difficile a dirsi. Ma si era fatta cogliere alla sprovvista. Vincenti si era trovato un passo avanti a lei, e questo non le piaceva. Peraltro, non le piaceva nemmeno Lyndsey. Puntò di nuovo il dito verso lo schermo. «Faccia preparare al viaggio anche lei. Immediatamente.» «Le pare saggio?» «Questo è un problema mio.» L'uomo sorrise. «Vuole divertirsi un po'?» «Vuole venire a vedere di persona?» «No, grazie. Mi piace stare qui, sul lato cinese del confine.» Irina Zovastina si alzò. «E se fossi in lei, ci resterei.»
Capitolo 19
Danimarca Malone tenne pronta la pistola, mentre Thorvaldsen concludeva il suo affare con Viktor. «Possiamo trovarci ancora qui per fare lo scambio. Domani.» «Non mi sembra uno che ha bisogno di soldi», replicò Viktor. «In realtà, più ne ho più sono contento.» Malone trattenne un sorriso. La verità era che il suo amico danese distribuiva milioni di euro in giro per il mondo a favore di buone cause, e si era spesso chiesto se non fosse stato anche lui una di quelle cause, dato che due anni prima Henrik si era preso la briga di andare fino ad Atlanta per offrirgli la possibilità di cambiare vita trasferendosi a Copenhagen. Aveva colto l'occasione e non se ne era pentito. «Sono curioso», riprese Viktor. «La qualità del falso era notevole. Chi l'ha realizzato?» «Una persona di talento, che si impegna molto nel suo lavoro.» «Gli faccia i miei complimenti.» «Parte dei suoi euro serviranno allo scopo.» Thorvaldsen indugiò un istante. «Ora ho io una domanda. Andrete in cerca delle ultime due monete qui in Europa?» «Lei cosa pensa?» «E la terza a Samarcanda?» Viktor non replicò, ma non c'era dubbio che il messaggio di Thorvaldsen fosse stato ricevuto: Sono al corrente dei vostri traffici. Viktor si preparò ad andarsene. «Chiamo domani.» Mentre l'uomo lasciava la stanza, Thorvaldsen rimase seduto. «Aspetterò con ansia sue notizie.» La porta d'ingresso si aprì e si richiuse. «Cotton», disse Thorvaldsen togliendosi di tasca un sacchetto di carta. «Abbiamo poco tempo. Infila qui dentro la scatolina con la moneta, con cautela.» «Impronte digitali? Ecco perché gli hai dato la moneta.» «Hai visto che non ha toccato niente? Ma per fare lo scambio doveva per forza prendere in mano il decadracma.» Malone usò la canna della pistola per far scivolare la scatolina di plastica nel sacchetto, facendo attenzione che scendesse di piatto, quindi arrotolò i bordi per chiuderlo, lasciando uno spazio per l'aria. Conosceva la procedura. A differenza di quanto si vede in televisione, è la carta e non la plastica il posto migliore per conservare oggetti da cui rilevare le impronte digitali, perché è molto meno probabile che si verifichino sbavature. «Andiamo adesso, dobbiamo spicciarci», disse Thorvaldsen alzandosi e dirigendosi verso il retro della casa strascicando i piedi, la testa piegata in avanti.
«Dove stai andando?» «Fuori di qui.» Malone si affrettò a seguire l'amico e uscirono dalla porta della cucina che dava su una terrazza affacciata sul mare. A meno di cinquanta metri, un pontile si allungava dalla costa rocciosa con accanto un motoscafo in attesa. Il cielo del mattino si era coperto, con basse nuvole grigio ferro, e un frizzante vento dal nord sferzava lo stretto facendo mulinare l'acqua scura e spumeggiante. «Ce ne andiamo?» chiese Malone, mentre Henrik scendeva dalla terrazza, muovendosi con una rapidità sorprendente per un uomo con una deviazione della colonna vertebrale. «Dov'è Cassiopea?» «Nei guai», replicò Thorvaldsen. «Ma questa è la nostra unica via di fuga.» Cassiopea osservò l'uomo che era entrato in casa salire nell'auto a noleggio e partire a gran velocità sul vialetto alberato che portava alla superstrada. Accese un monitor LCD palmare collegato via radio a due videocamere che aveva installato la settimana precedente: una all'ingresso della superstrada, l'altra in alto su un albero a cinquanta metri dalla casa. Sul minuscolo schermo, l'auto si fermò. Taglia Gomme balzò fuori del bosco e il guidatore uscì dall'auto, quindi entrambi tornarono di corsa verso la casa per qualche metro. Sapeva esattamente cosa stavano facendo, quindi spense il monitor e lasciò in fretta il suo nascondiglio. Viktor aspettava di vedere se aveva ragione. Aveva parcheggiato la macchina dopo una curva della stradina e osservava la casa da dietro un albero. «Non andranno da nessuna parte», esordì Raffaele. «Due gomme a terra.» Viktor sapeva che la donna doveva essere da qualche parte a controllare. «Non ho abbassato la guardia», riprese Raffaele. «Ho fatto la sentinella e non ho notato nulla di strano.» Esattamente come gli aveva detto Viktor. Si tolse di tasca la moneta che era riuscito a rubare. Gli ordini del ministro Zovastina erano chiari: recuperarle e riportarle tutte intatte. «Com'erano?» chiese Raffaele. «Sconcertanti.» Diceva sul serio. Aveva anticipato le loro mosse anche troppo bene, e questo lo preoccupava. La donna snella con movenze da pantera uscì dal bosco. Senza dubbio aveva visto tagliare le gomme e si precipitava a riferirlo ai suoi amici. Gli faceva piacere vedere di avere avuto ragione, ma perché lei non aveva impedito quella mossa? Che il suo compito fosse semplicemente di stare a guardare? Si accorse che teneva in mano qualcosa di piccolo e rettangolare, e desiderò di essersi portato il binocolo. Raffaele si frugò in tasca ed estrasse il comando a distanza. «Non ancora», disse Viktor, appoggiando con gentilezza la mano sul braccio del compagno. La donna si fermò a esaminare le gomme, quindi raggiunse la porta d'ingresso.
«Dalle tempo.» Tre ore prima, dopo aver concordato l'incontro, si erano subito diretti in quel luogo. Un'accurata ricognizione aveva confermato che la casa era vuota, quindi avevano nascosto pacchi di fuoco greco sotto alle fondamenta sopraelevate e all'interno della soffitta. Al posto di una tartaruga, per dare fuoco al composto avevano piazzato un detonatore radiocomandato. La donna scomparve dentro la casa. Viktor contò silenziosamente fino a dieci e si preparò a togliere la mano dal braccio di Raffaele. Malone era in piedi nella barca, con accanto Thorvaldsen. «Cosa significa che Cassiopea è nei guai?» «La casa è piena di fuoco greco. Sono venuti qui prima di noi a preparare tutto e, adesso che ha la moneta, Viktor non ha motivo di lasciarci in vita.» «E stanno aspettando di essere certi che sia in casa anche Cassiopea,» «Questa è la mia idea, ma tra poco vedremo se l'hanno avuta anche loro.» Cassiopea lasciò che la porta si chiudesse, quindi attraversò la casa di corsa. Era un azzardo. Poteva soltanto sperare che i ladri le dessero qualche secondo prima di fare esplodere il composto. Aveva i nervi tesi, la mente sovreccitata, la malinconia coperta da una scarica di adrenalina. Al museo, Malone aveva percepito la sua ansia, come avesse capito che qualcosa non andava. Ed era proprio così. Ma non era quello il momento di preoccuparsene. Aveva già sprecato abbastanza emozioni su fatti che non poteva cambiare. Nel presente, l'unica cosa che contava era raggiungere la porta sul retro. Si precipitò fuori nella grigia luce del giorno stringendo ancora in mano il piccolo monitor LCD. Malone e Thorvaldsen l'aspettavano sul motoscafo. Dalla stradina sul davanti, la casa impediva la visuale della loro via di fuga. Sessanta metri all'acqua. Saltò giù dal terrazzo di legno. Malone vide Cassiopea uscire dalla casa e correre dritto verso di loro. Quindici metri. Dieci. Un gigantesco sibilo e all'improvviso la casa prese fuoco. Un istante prima era intatta, quello successivo dalle finestre e dal basamento uscivano fiamme che si tendevano verso il cielo oltre il tetto. Come un gioco di prestigio. Nessuna esplosione. Combustione istantanea. Totale. Assoluta. E, in mancanza di acqua salata, inarrestabile. Cassiopea raggiunse il pontile e saltò in barca. «Ce l'hai fatta per un pelo», commentò Malone.
«State giù», fu la replica pressante. Si accovacciarono sul fondo del motoscafo, poi Cassiopea sistemò la ricezione del video e comparve l'immagine di un'auto, su cui salirono due uomini. Uno era Viktor. L'Audi si allontanò, sparendo dallo schermo, ma Cassiopea premette un pulsante e videro la stessa auto imboccare la superstrada. Thorvaldsen sembrava compiaciuto. «A quanto pare il nostro trucco ha funzionato.» «Non credete che avreste potuto dirmi cosa stava succedendo?» chiese Malone. Cassiopea gli rivolse un sorriso malizioso. «Ma così ci saremmo persi tutto il divertimento.» «Ha la moneta.» «Esattamente come volevamo», intervenne Henrik. La casa continuava a consumarsi e il fumo disegnava spirali nel cielo. Cassiopea avviò il fuoribordo e diresse il motoscafo lontano dalla costa. La tenuta di Thorvaldsen si trovava solo un paio di chilometri più a nord. «Ho fatto portare la barca appena dopo il nostro arrivo», spiegò Henrik, afferrando Malone per un braccio e spingendolo a poppa. A prua, la gelida acqua salata formava una sorta di pungente nebbiolina. «Sono felice che tu sia qui. Avremmo chiesto la tua collaborazione oggi, dopo la distruzione del museo. È per questo che Cassiopea voleva incontrarti. Le serve il tuo aiuto, ma dubito che adesso te lo chiederà.» Lui avrebbe voluto saperne di più, ma non era il momento di fare domande. In ogni caso, sulla sua risposta non c'erano dubbi. «L'avrà...» Esitò un attimo. «L'avrete tutti e due.» Thorvaldsen gli strinse il braccio in un gesto che esprimeva apprezzamento, mentre Cassiopea rimaneva concentrata alla guida del motoscafo. «Sono guai grossi?» chiese Malone. Il rombo del motore e del vento coprì la sua domanda, che venne udita soltanto da Thorvaldsen. «Abbastanza. Ma adesso abbiamo una speranza.»
Capitolo 20
Ore 15.30 Irina Zovastina sedeva sul sedile posteriore dell'elicottero. Di solito viaggiava su un mezzo più lussuoso, ma quel giorno aveva preferito il veloce chopper militare, pilotato da un esponente del suo battaglione sacro. Metà della sua guardia personale, incluso Viktor, era formata da piloti esperti. Sedeva di fronte alla prigioniera del laboratorio, che aveva accanto un'altra delle sue guardie. Era stata portata a bordo in manette, ma il ministro aveva ordinato che le venissero tolte. «Come ti chiami?» «Ha importanza?» Parlavano attraverso i microfoni delle cuffie e usavano il khask, lingua che nessuno degli stranieri a bordo era in grado di capire. «Come ti senti?» La donna esitò prima di rispondere, come in dubbio se mentire o no. «Meglio di quanto mi sia sentita da anni.» «Ne sono felice. Il fine è migliorare la vita di tutti i nostri cittadini. Forse quando uscirai di prigione apprezzerai maggiormente la nostra nuova società.» Sul volto butterato della donna comparve un'espressione sprezzante. In lei non c'era niente di attraente e Irina Zovastina si chiese quanti fallimenti c'erano voluti per spogliarla di ogni traccia di rispetto per se stessa. «Dubito che farò parte della sua nuova società, ministro. La mia condanna è lunga.» «Mi hanno detto che eri coinvolta in un traffico di cocaina. Se ci fossero ancora i sovietici, la condanna sarebbe stata a morte.» «I russi? Ma se erano loro a comprare la droga!» Irina non ne era sorpresa. «Così va il mondo.» «Cos'è successo agli altri che sono venuti con me?» «Sono morti.» Anche se non c'era dubbio che quella donna fosse avvezza alle difficoltà, notò un senso di disagio. Più che comprensibile, in verità. Si trovava a bordo di un elicottero assieme al primo ministro della Federazione Centroasiatica, dopo essere stata fatta uscire di prigione e sottoposta a un misterioso test medico di cui era l'unica sopravvissuta. «Farò in modo che ti venga ridotta la condanna. Tu puoi anche non apprezzarci, ma la Federazione ha apprezzato la tua collaborazione.» «Dovrei essere grata?» «Ti sei offerta volontaria.» «Non ricordo di aver avuto scelta.» La Zovastina guardò fuori del finestrino le silenziose vette del Pamir, che
segnavano il confine e l'ingresso in territorio amico. Incrociò lo sguardo della prigioniera. «Non vuoi fare parte di quanto sta per succedere?» «Voglio essere libera.» Le tornò alla mente il periodo all'università, qualcosa che le aveva detto Sergej tanto tempo prima: La rabbia sembra sempre diretta verso gli individui, mentre l'odio preferisce le classi. Il tempo cura la rabbia, mai l'odio. Perciò chiese: «Come mai tanto odio?» La donna la studiò con espressione assente. «Avrei dovuto essere una di quelli che sono morti.» «Perché?» «Le sue prigioni sono posti orribili da cui escono in pochi.» «Ed è così che devono essere, per scoraggiare chiunque dal volerci entrare.» «Molti non hanno scelta.» La donna esitò. «A differenza di lei, primo ministro.» Il bastione dei monti si allargò nel finestrino. «Secoli fa, i greci sono giunti in oriente e hanno cambiato il mondo. Lo sapevi? Hanno conquistato l'Asia, cambiato la nostra cultura. Adesso noi asiatici stiamo per andare in Occidente e fare lo stesso. Intendi contribuire a rendere questo possibile?» «Non me ne importa niente dei vostri progetti.» «Il mio nome, Irina, Eirene in greco,, significa 'pace'. È questo che voglio.» «E uccidere prigionieri porterà questa pace?» A quella donna non importava del destino. L'intera vita di Irina Zovastina era sembrata dominata dal fato. Fino a quel momento, aveva costruito un nuovo ordine politico, proprio come Alessandro, e quello le rammentò un'altra lezione di Sergej: Ricorda, Irina, ciò che Arriano disse di Alessandro. È sempre stato rivale di se stesso. Soltanto negli ultimi anni aveva cominciato a comprendere quella malattia. Fissò la donna che si era rovinata la vita per poche migliaia di rubli. «Mai sentito parlare di Menandro?» «Perché non me ne parla lei?» «Era un autore greco del IV secolo a.C. Scriveva commedie.» «Preferisco le tragedie.» Cominciava a stancarsi di tanto disfattismo. Non tutti potevano cambiare. A differenza del colonnello Enver, che aveva capito le possibilità che gli offriva ed era stato pronto a convertirsi. Uomini come lui sarebbero stati utili negli anni a venire, ma quell'essere patetico che aveva davanti non rappresentava altro che un fallimento. «Menandro scrisse una cosa che ho sempre trovato vera: Se vuoi vivere tutta la vita libero dal dolore, devi essere un dio o un cadavere.» Allungò la mano e slacciò la cintura di sicurezza della donna mentre la guardia che le sedeva accanto apriva il portellone. La prigioniera parve momentaneamente stordita dall'aria pungente e dal rombo del motore che si riversarono all'interno dell'abitacolo. «Io sono un dio», concluse Irina Zovastina. «Tu sei un cadavere.» La guardia strappò via le cuffie alla donna, che parve rendersi conto di quanto stava per succedere e tentò di opporsi. Ma l'uomo la scaraventò fuori.
La Zovastina guardò il corpo cadere nell'aria cristallina per scomparire tra le vette sottostanti. La guardia richiuse il portello e l'elicottero continuò a volare verso ovest per fare ritorno a Samarcanda. Per la prima volta da quel mattino, il primo ministro si sentiva soddisfatta. Adesso era tutto a posto.
PARTE SECONDA Capitolo 21
Amsterdam, Olanda, ore 19.30 Stephanie Nelle schizzò fuori del taxi calcandosi in fretta in testa il cappuccio del soprabito. Erano caduti a catinelle tipici scrosci d'aprile e l'acqua, che aveva formato pozzanghere sul selciato di ciottoli, scendeva in rivoli furiosi verso i canali. La causa, un brutto temporale proveniente dal mare del Nord, si nascondeva dietro nuvole color indaco, ma nella penombra dei lampioni era ancora visibile una fitta pioggerella. Avanzò con le mani prive di guanti nelle tasche, attraversò un ponte pedonale ad arco, entrò nella Rembrandtplein e notò che l'orribile serata non aveva ridotto il numero di persone che si affollavano davanti a peep show, club privé, gay bar e locali di spogliarello. Proseguendo nella zona a luci rosse, superò bordelli dalle cui vetrine ragazze promettevano appagamento tra pizzi e pelle nera. In una, una donna asiatica vestita con attillatissima tenuta da bondage stava seduta su uno sgabello imbottito sfogliando una rivista. A Stephanie avevano detto che la notte non era il momento più pericoloso per una visita in quel quartiere, visto che di solito la disperazione mattutina dei tossici di passaggio e il nervosismo pomeridiano dei magnaccia in attesa degli affari serali erano più problematici. Ma l'avevano anche avvertita che nella parte più a nord, vicino a Nieuwmarkt, una zona appena dietro quella molto frequentata, i guai erano sempre dietro l'angolo. Quindi nell'attraversare quella linea invisibile stette particolarmente in guardia, gli occhi che si muovevano rapidi in qua e in là come quelli di un gatto che si aggira furtivo, procedendo dritta verso il caffè alla fine della strada. Il Jan Heuval occupava il pianterreno di un magazzino di tre piani, un locale come le centinaia che punteggiavano la Rembrandtplein, in cui aleggiava l'aroma di cannabis e si notava l'assenza di cartelli indicanti NO DRUGS PLEASE. Il caffè era strapieno, l'aria calda satura di una nebbia allucinogena che sapeva di marijuana bruciata. L'odore di pesce fritto e caldarroste si mischiò agli effluvi inebrianti, facendole bruciare gli occhi. Tirò indietro il cappuccio e sparse gocce di pioggia sulle piastrelle già bagnate del pavimento dell'ingresso. Poi scorse Klaus Dyhr. Sui trentacinque, capelli biondi, pallido, aria vissuta: proprio come le era stato descritto. Non per la prima volta, ricordò a se stessa il motivo per cui si trovava lì. Restituiva un favore. Cassiopea Vitt le aveva chiesto di contattare Dyhr e, dato che doveva all'amica ben più di un favore, non aveva proprio potuto rifiutarsi. Prima di mettersi
in comunicazione con lui aveva fatto qualche controllo, scoprendo che Dyhr era olandese di nascita, ma aveva studiato in Germania e lavorato come chimico per una ditta produttrice di materie plastiche. La sua ossessione era il collezionismo di monete, di cui si presumeva possedesse una notevole varietà, e un esemplare in particolare aveva attirato l'attenzione della sua amica musulmana. L'olandese stava in piedi da solo vicino a un tavolino alto tenendo in mano un bicchiere di birra scura e sgranocchiando pesce fritto. Nel portacenere si consumava una sigaretta fatta a mano e il denso fumo verdognolo che ne usciva non proveniva da tabacco. «Sono Stephanie Nelle», esordì lei in inglese. «La donna che le ha telefonato.» «Ha detto che era interessata a comprare.» Il significato del tono brusco era chiaro: Dimmi cosa vuoi, pagami e me ne vado per la mia strada. Notò anche lo sguardo vitreo, praticamente impossibile da evitare in quel posto. Persino lei cominciava a sballare un po'. «Come le ho detto al telefono, voglio la moneta dell'elefante.» L'uomo bevve una sorsata di birra. «Perché? È roba da poco. Ho tante altre monete che valgono molto di più. Prezzi buoni.» «Ne sono sicura, ma io voglio quella moneta. Ha detto che era in vendita.» «Ho detto che dipende da quanto è disposta a pagare.» «Posso vederla?» Klaus si frugò in tasca e le tese una busta di plastica contenente una moneta oblunga. Su un lato c'era un guerriero, sull'altro un uomo in groppa a un elefante che sfidava un cavaliere. Grande circa quanto una moneta da cinquanta centesimi, le incisioni quasi consumate. «Non ne sa niente, vero?» domandò Klaus. «Lo faccio per un'altra persona», replicò lei, decidendo di essere sincera. «Voglio seimila euro.» Cassiopea le aveva detto di pagare qualunque cifra. Il prezzo era irrilevante, ma osservando quel pezzo imbustato si domandò per quale motivo un oggetto così poco appariscente potesse essere tanto importante. «Se ne conoscono solo otto esemplari», aggiunse Dyhr. «Seimila euro è un affare.» Soltanto otto? «Perché la vende?» L'uomo prese tra le dita il mozzicone, fece un gran tiro e trattenne il fumo denso, che poi rilasciò lentamente. «Mi servono i soldi.» Gli occhi acquosi tornarono a guardare in basso, in direzione della birra. «Le cose vanno così male?» «Sembrerebbe che gliene importi.» Due uomini si avvicinarono a Klaus, uno pallido, l'altro abbronzato. Volti e lineamenti erano un conflittuale miscuglio di arabo e asiatico. Fuori continuava a piovere, ma i cappotti dei due erano asciutti. Pallido afferrò il braccio di Klaus e gli appoggiò di piatto la lama di un coltello sullo stomaco. Abbronzato mise un braccio intorno alle spalle di lei in un gesto apparentemente amichevole e portò la punta di un altro coltello contro le sue costole, premendo la lama sul soprabito. «La moneta», disse Pallido con un cenno del capo. «Sul tavolo.»
Stephanie decise di non discutere e con calma fece ciò che le era stato detto. «Noi adesso ce ne andiamo», disse Abbronzato, infilandosi in tasca il decadracma. Il suo alito puzzava di birra. «Restate qui.» Stephanie non aveva intenzione di sfidarli. Sapeva portare rispetto per un'arma puntata contro di lei. Gli uomini raggiunsero l'ingresso e lasciarono il caffè. «Ma che diavolo... Hanno preso la mia moneta!» sbottò Klaus. «Gli vado dietro.» Non riusciva a decidere se il collezionista avesse parlato per stupidità o per effetto della droga. «Che ne direbbe di lasciare gestire a me la questione?» Il giovane la squadrò con aria sospettosa. «Le assicuro che sono venuta preparata.»
Capitolo 22
Copenhagen, ore 19.45 Malone finì di cenare. Era seduto al Café Norden, un ristorante su due piani nel cuore di Højbro Plads. Il tempo era peggiorato e un acquazzone stava infradiciando la piazza semivuota, ma lui se ne stava all'asciutto seduto accanto a una finestra aperta del piano superiore, a godersi la pioggia. «Ho apprezzato molto il tuo aiuto, oggi», disse Thorvaldsen, a tavola di fronte a lui. «Perché sono quasi saltato in aria? Due volte? In fondo a che servono gli amici?» Finì la zuppa di pomodoro e crostacei, una delle migliori che avesse mai gustato. Aveva una quantità di domande, ma sapeva che le risposte, come sempre capitava con Henrik, sarebbero state fornite con parsimonia. «Quando eravamo in quella casa, tu e Cassiopea avete parlato del corpo di Alessandro Magno. Che sapevate dove si trova. Com'è possibile?» «Siamo riusciti a imparare molto sull'argomento.» «Dall'amico di Cassiopea al museo di Samarcanda?» «Cotton, era più di un amico.» A quello c'era arrivato. «Chi era?» «Ely Lund. Era cresciuto qui a Copenhagen. Lui e mio figlio Cai erano amici.» Malone colse la tristezza quando Thorvaldsen menzionò il figlio morto e provò una stretta allo stomaco pensando a quel giorno di due anni prima, quando il giovane era stato ammazzato a Città del Messico. Malone era presente per un incarico della Sezione Magellano e aveva ucciso quelli che avevano sparato, ma era stato colpito anche lui da un proiettile. Perdere un figlio. Non riusciva neppure a immaginare che il suo, Gary, di quindici anni, potesse morire. «Mentre Cai voleva lavorare per il governo, a Ely piaceva la storia. Ha concluso un dottorato ed è diventato un esperto della Grecia antica. Ha lavorato in parecchi musei europei prima di finire a Samarcanda, dove è conservata una splendida collezione. Inoltre la Federazione Centroasiatica offriva incentivi per le scienze e l'arte.» «Cassiopea come l'ha conosciuto?» «Li ho presentati io, tre anni fa. Pensavo sarebbe stato un bene per entrambi.» «Cos'è successo?» «È morto, da poco meno di due mesi. Lei l'ha presa male.» «Lo amava?» Thorvaldsen si strinse nelle spalle. «Difficile dirlo. Non fa mai trapelare le emozioni.» Prima però era accaduto. La tristezza che aveva mostrato vedendo bruciare il museo. Lo sguardo distante, perso oltre il canale. Il rifiuto di incrociare i suoi occhi.
Niente parole, solo sensazioni. Quando avevano ormeggiato il motoscafo a Christiangade, Malone aveva chiesto spiegazioni, ma Thorvaldsen aveva promesso di chiarirgli tutto a cena, perciò era tornato a Copenhagen, aveva dormito un po' e poi aveva lavorato in libreria per il resto della giornata. Un paio di volte si era infilato nella sezione storica e aveva trovato dei volumi su Alessandro e la Grecia, ma il pensiero dominante era stato scoprire il significato delle parole di Henrik: A Cassiopea serve il tuo aiuto. Adesso cominciava a capire. Fuori della finestra aperta, dall'altra parte della piazza, vide l'amica lasciare la sua libreria correndo nella pioggia, con sotto il braccio qualcosa infilato in un sacchetto di plastica. Trenta minuti prima le aveva dato la chiave del negozio in modo che potesse usare computer e telefono. «Il ritrovamento del corpo di Alessandro è incentrato su Ely e sulle pagine manoscritte che ha scoperto», riprese Thorvaldsen. «Inizialmente Ely ha chiesto a Cassiopea di ritrovare le monete dell'elefante, ma quando abbiamo cominciato a rintracciarle ci siamo accorti che qualcun altro le stava già cercando.» «E lui come ha fatto a collegare le monete al manoscritto?» «Ha esaminato quella di Samarcanda e ha scoperto le microlettere ZH, che hanno un legame col manoscritto. Dopo la sua morte, Cassiopea voleva sapere cosa stava succedendo.» «Perciò è venuta a chiedere aiuto a te.» Thorvaldsen annuì. «Non potevo rifiutare.» Cotton sorrise. Quanti amici avrebbero acquistato un intero museo e duplicato ogni oggetto al suo interno solo perché potesse essere incendiato e distrutto? Cassiopea scomparve sotto il davanzale. Udì la porta del ristorante al piano di sotto aprirsi e chiudersi, quindi dei passi che risalivano la scala di metallo che portava al primo piano. «Ti sei bagnata un bel po', oggi», esordì Malone vedendola spuntare. Aveva i capelli legati a coda di cavallo e jeans e maglione erano punteggiati di gocce di pioggia. «È difficile per una ragazza avere un bell'aspetto.» «Proprio non direi.» Lei gli lanciò un'occhiata. «Che seduttore, stasera!» «Ho anch'io i miei momenti.» Tolse il computer portatile dal sacchetto di plastica e disse a Henrik: «Ho scaricato tutto». «Se avessi saputo che intendevi portarlo in giro sotto la pioggia, avrei insistito per farmi lasciare una cauzione», commentò Cotton. «Devi vedere una cosa.» «Gli ho detto di Ely», intervenne Thorvaldsen. La sala da pranzo era scarsamente illuminata e deserta. Malone mangiava lì tre o quattro volte a settimana, sempre allo stesso tavolo, all'incirca alla stessa ora. Gli piaceva la solitudine. «Mi dispiace.» «Ti ringrazio.» «Ti ringrazio io di avermi salvato il fondoschiena.»
«Avresti trovato comunque il modo di cavartela. Ho solo accelerato i tempi.» Ricordava benissimo la spiacevole situazione in cui si era trovato e non era affatto certo di condividere le sue conclusioni. Avrebbe voluto sapere di più di Ely Lund, curioso di scoprire come avesse fatto quell'uomo ad aprirsi un varco nella corazza emotiva di Cassiopea. Come in quella che indossava lui, c'era una grande quantità di blocchi e di allarmi. Ma rimase in silenzio, come sempre quando i sentimenti non potevano essere evitati. La donna accese il portatile e sullo schermo comparvero diverse immagini scannerizzate. Parole. Di un grigio evanescente, in qualche punto indistinte, e tutte in greco. «Circa una settimana dopo la morte di Alessandro Magno, nel 323 a.C, a Babilonia arrivarono gli imbalsamatori egiziani e, anche se era estate e faceva caldo come all'inferno, trovarono il cadavere intatto, il colorito ancora come quando era in vita, e questo fu preso come un segno degli dei a indicare la grandezza di Alessandro.» «Un segno per modo di dire. Con ogni probabilità era ancora vivo, in coma irreversibile.» «Questa è l'opinione moderna, ma allora quello stato medico era sconosciuto, perciò si misero al lavoro e mummificarono il corpo.» Cotton scosse la testa. «Incredibile. Il più grande conquistatore di tutti i tempi ucciso dagli imbalsamatori.» Cassiopea convenne con un sorriso. «Di solito la mummificazione durava diversi giorni, perché il concetto di fondo consisteva nell'asciugare il corpo per prevenire la decomposizione. Con Alessandro, però, usarono un metodo diverso: venne immerso nel miele bianco.» Cotton sapeva che il miele è una sostanza che non marcisce. Col tempo si cristallizza ma i componenti di base non si distruggono e lo stato iniziale può essere facilmente ripristinato col calore. «Il miele avrebbe conservato Alessandro all'interno e all'esterno meglio della mummificazione», continuò Cassiopea. «Alla fine il corpo venne avvolto in cartapesta dorata e quindi posto in un sarcofago, sempre dorato, con indosso abiti regali e corona, circondato da altro miele. Ed è così che rimase, a Babilonia, per un anno, mentre veniva costruito un carro tempestato di pietre preziose. Quando fu completato, il corteo funebre lasciò la città.» «Ed è allora che sono cominciati i giochi per impossessarsi della salma», aggiunse Malone. Cassiopea annuì. «In un certo senso. Perdicca, uno dei generali macedoni, il giorno successivo alla morte di Alessandro indisse una riunione di emergenza dei Compagni. Dato che Rossane, la moglie persiana di Alessandro, era incinta di sei mesi, voleva aspettare che nascesse il figlio per decidere il da farsi. Fosse stato maschio, infatti, il bambino sarebbe stato l'erede legittimo. Altri, però, ostacolavano i suoi piani perché non intendevano avere per monarca un mezzo barbaro e preferivano come re Filippo, fratellastro di Alessandro, nonostante a detta di tutti fosse malato di mente.» Malone ricordava i particolari di quanto aveva letto in proposito. Attorno al capezzale di Alessandro era scoppiata una vera e propria lotta, motivo per cui
Perdicca aveva radunato un'assemblea di macedoni e, per mantenere l'ordine, aveva posto nel mezzo il corpo di Alessandro. L'assemblea aveva votato di abbandonare la prevista campagna d'Arabia e approvato la divisione dell'impero. I governatorati erano stati ripartiti tra i Compagni e dato che i generali lottavano tra loro, ben presto era esplosa la ribellione. Alla fine dell'estate, Rossane aveva partorito un maschietto, battezzato Alessandro IV, e per mantenere la pace venne ideata una soluzione che prevedeva che Filippo e il bambino fossero considerati re anche se i Compagni governavano ciascuno la sua parte di impero senza badare a loro. «E sei anni dopo», riprese Malone, «il fratellastro venne ucciso da Olimpiade, la madre di Alessandro, che aveva odiato quel bambino fin dalla nascita, dato che Filippo II di Macedonia aveva divorziato da lei per sposarne la madre. Poi, dopo qualche altro anno, Rossane e Alessandro IV furono entrambi avvelenati. Nessuno di loro ha mai governato un bel niente.» «Alla fine, venne assassinata anche la sorella di Alessandro», disse Henrik. «Tutta la sua linea di discendenza fu cancellata, non sopravvisse nessun erede legittimo. E il più grande impero del mondo andò in pezzi.» «Ma tutto questo cos'ha a che fare con le monete dell'elefante? E che importanza possono avere oggi?» «Ely credeva ne avessero molta», rispose Cassiopea. Malone capì che c'era qualcosa di più. «E tu cosa credi?» La donna sedeva in silenzio, come non fosse certa, ma non volesse esprimere ad alta voce le sue riserve. «Non c'è problema», intervenne Malone. «Me lo dirai quando sarai pronta.» Poi gli venne in mente un'altra cosa. «Scusa, Henrik, cosa sai delle ultime monete qui in Europa? Ti ho sentito chiederne notizie a Viktor, che con ogni probabilità si starà mettendo sulle loro tracce.» «In questo siamo due passi avanti a lui.» «Qualcuno le ha già prese?» Thorvaldsen controllò l'orologio. «A quest'ora almeno una sì, mi auguro.»
Capitolo 23
Amsterdam Stephanie uscì dal caffè di nuovo sotto la pioggia. Mentre si calcava il cappuccio in testa trovò l'auricolare e parlò nel microfono nascosto sotto la giacca. «Due uomini sono appena usciti. Hanno quello che voglio.» «Cinquanta metri più avanti, diretti al ponte.» «Fermateli.» Prese a correre nella notte. Aveva portato con sé due agenti dei servizi segreti, requisendoli al distaccamento estero del presidente Danny Daniels. Un mese prima proprio lui aveva richiesto che lo accompagnasse all'annuale summit economico europeo. I leader delle varie nazioni erano riuniti settanta chilometri a sud di Amsterdam e quella sera Daniels presenziava a una cena ufficiale, al sicuro nei confini dell'Aja, perciò era riuscita a farsi assegnare un paio di uomini. Solo per protezione, aveva detto loro, promettendo una cena in qualunque locale avessero scelto. «Sono armati», affermò uno degli agenti. «Nel caffè avevano coltelli», replicò lei. «Qui fuori, pistole.» La cosa si faceva seria. «Dove sono?» «Al ponte pedonale.» Udì degli spari ed estrasse dalla giacca una Beretta fornita dalla Sezione Magellano. Altri spari. Girò un angolo e vide gente che si sparpagliava, mentre Pallido e Abbronzato, che si erano rannicchiati su un ponte dietro il parapetto di ferro, sparavano contro i due uomini dei servizi segreti, posizionati ciascuno su una riva del canale. Vetri infranti: una pallottola aveva incontrato la vetrina di un bordello. Una donna gridò. Altre persone impaurite passarono di corsa accanto a Stephanie, che abbassò la pistola nascondendola lungo il fianco. «Non facciamoci notare troppo...» «Lo dica a loro», ribatté uno degli agenti. La settimana precedente, quando aveva accettato di dare una mano a Cassiopea, non pensava di dover affrontare grossi pericoli, ma il giorno prima qualcosa le aveva suggerito di andare preparata, soprattutto perché si era ricordata che l'amica le aveva detto che lei e Henrik Thorvaldsen apprezzavano il gesto. Quando era coinvolto Thorvaldsen, erano guai sicuri. Altri spari dal ponte. «Non potete andare da nessuna parte!» strillò. Pallido ruotò sui tacchi e puntò la pistola. Stephanie si tuffò in un gazebo in muratura e una pallottola scheggiò i mattoni a
pochi centimetri da lei. Si aggrappò alla scala per rialzarsi, mentre la pioggia scendeva copiosa a infradiciarle i vestiti. Sparò due colpi. Adesso i due uomini si trovavano al centro di un triangolo, senza via di scampo. Abbronzato si spostò, cercando di ridurre la parte di corpo che offriva come bersaglio ai tiratori, ma uno degli agenti lo colpì. Barcollò finché un'altra pallottola non lo mandò contro il parapetto, la sagoma che si ripiegava all'esterno finendo nel canale. Splendido. Adesso c'erano pure dei cadaveri. Pallido saltellò fino al parapetto e cercò di guardare oltre. Pareva sul punto di buttarsi, ma venne bloccato da altri colpi. Si raddrizzò, quindi corse avanti caricando verso l'estremità più lontana del ponte, sparando all'impazzata. L'agente dei servizi segreti che stava davanti a lui rispose al fuoco, mentre quello sulla stessa riva di Stephanie avanzò e l'uccise con tre colpi alla schiena. Si udirono delle sirene. Stephanie balzò in piedi di scatto e raggiunse il ponte. Pallido giaceva sui ciottoli, il sangue lavato via dalla pioggia incessante. Fece cenno agli agenti di avvicinarsi. Entrambi arrivarono di corsa. Abbronzato galleggiava a faccia in giù nel canale, mentre a una cinquantina di metri comparivano lampeggianti rossi e blu. Tre auto della polizia. Stephanie si rivolse a uno degli agenti. «Vai a recuperare una moneta dalla tasca dell'uomo nel canale. È in una busta di plastica e ha sopra inciso un elefante. Una volta presa, nuota lontano da qui e non farti beccare.» L'uomo mise la pistola nella fondina e saltò nel canale. Era uno degli aspetti che le piacevano dei servizi segreti: nessuna domanda, soltanto azioni. Le auto della polizia si fermarono slittando. Stephanie si scosse via l'acqua dal viso e lanciò un'occhiata all'altro agente. «Allontanati da qui e avvisa l'ambasciatore.» «Lei dove sarà?» La mente della donna tornò per un attimo all'estate precedente. Roskilde. Lei e Malone. «In arresto.»
Capitolo 24
Copenhagen Cassiopea sorseggiava un bicchiere di vino osservando Malone digerire ciò che lei e Henrik gli stavano dicendo. «Cotton, lascia che ti spieghi del collegamento che ha suscitato il nostro interesse. Ti abbiamo già detto della fluorescenza da raggi X. Un ricercatore presso il museo di Samarcanda è stato il pioniere di questa tecnica, ma è stato Ely ad avere l'idea di esaminare testi medievali bizantini, dove ha scoperto gli scritti a livello molecolare.» «La pergamena riutilizzata viene chiamata palinsesto», intervenne Thorvaldsen. «Si ottiene con un procedimento davvero ingegnoso. Dopo aver raschiato via l'inchiostro originale per riscrivere sulle pagine ripulite, i monaci tagliavano e giravano i fogli, realizzando quelli che oggi definiamo libri.» «Ovviamente, con questo sistema è andato perso moltissimo degli scritti originali, perché di rado i fogli di pergamena di uno stesso testo venivano tenuti assieme, ma Ely ne aveva trovati parecchi relativamente intatti. In uno ha scoperto degli sconosciuti teoremi di Archimede, fatto notevole considerando che al giorno d'oggi di scritti di Archimede non ne esistono.» Cassiopea fece una pausa e lo fissò. «In un altro ha trovato la formula del fuoco greco.» «E a chi l'ha riferito?» chiese Malone. «A Irina Zovastina», rispose Thorvaldsen. «Il primo ministro della Federazione Centroasiatica gli ha chiesto di tenere segrete quelle scoperte almeno per un po'. Dato che era lei a metterci i soldi, rifiutare era difficile. Lo ha anche spinto ad analizzare altri manoscritti appartenenti al museo.» «Ely capiva la necessità di segretezza», commentò Cassiopea. «Si trattava di una tecnica nuova e dovevano essere sicuri che quello che stavano trovando fosse autentico. Non vedeva che male ci fosse ad aspettare e, in realtà, preferiva esaminare il maggior numero di manoscritti possibile prima di rendere pubblica la notizia.» «Però a te l'ha raccontato», replicò Cotton. «Era eccitato e voleva condividere con qualcuno la sua gioia. Sapeva che non avrei detto niente.» «Quattro mesi fa, Ely è inciampato in qualcosa di straordinario», intervenne Thorvaldsen. «La Storia di Ieronimo di Cardia. Quest'ultimo era amico e connazionale di Eumene, uno dei grandi generali di Alessandro. Delle opere di Ieronimo sono sopravvissuti soltanto dei frammenti, considerati però molto attendibili, ed Ely ha scoperto un resoconto completo dell'epoca di Alessandro, fatto da un osservatore credibile. È una storia magnifica, Cotton. Ne hai già letta una parte, riguardo alla morte di Alessandro e alla pozione medicinale.» Cassiopea sapeva che Malone era interessato. A volte quell'uomo le ricordava Ely. Entrambi usavano l'umorismo per farsi beffe della realtà, sottrarsi a una discussione,
girare le carte in tavola o, cosa più irritante, evitare un coinvolgimento emotivo. Ma, se Malone trasmetteva una sicurezza fisica, il controllo dell'ambiente che lo circondava, Ely dominava la scena grazie all'intelligenza riflessiva e alla gentilezza di sentimenti. Insieme, erano stati una coppia davvero notevole, lei una musulmana spagnola di pelle olivastra e capelli scuri, lui un pallido scandinavo protestante. Ma le era sempre piaciuto moltissimo averlo intorno. Era la prima volta per lei, da tanto tempo. «Vedi, Cotton, circa un anno dopo la morte di Alessandro, nell'inverno del 321 a.C, finalmente il suo corteo funebre partì da Babilonia. A quel punto, Perdicca aveva deciso di seppellirlo in Macedonia, anche se ciò contrastava il desiderio di Alessandro in punto di morte di venire inumato in Egitto. Tolomeo, un altro dei suoi generali, aveva reclamato quel Paese come la porzione dell'impero a lui spettante e vi operava già come governatore. Perdicca, invece, agiva in funzione di reggente per il bambino, Alessandro IV, e secondo la costituzione macedone, il nuovo capo del governo aveva per compito di dare adeguata sepoltura al suo predecessore...» «E, se Perdicca avesse consentito a Tolomeo di seppellire Alessandro in Egitto, questi avrebbe avuto maggiori possibilità di rivendicare il trono», concluse Malone. Cassiopea assentì. «Inoltre all'epoca era nota a tutti una profezia secondo cui se i re non venivano più sepolti in terra macedone, la dinastia reale avrebbe avuto fine. E, a conti fatti, Alessandro Magno non venne sepolto in Macedonia e la dinastia reale si esaurì per davvero.» «Ho letto quello che è accaduto poi», riprese Malone. «Tolomeo assalì il corteo funebre in quello che adesso è il nord della Siria e portò il corpo in Egitto. Perdicca tentò per due volte un'invasione attraversando il Nilo, ma alla fine i suoi ufficiali si ribellarono e lo uccisero a pugnalate.» «Dopodiché, Tolomeo fece qualcosa di inaspettato», disse Thorvaldsen. «Rifiutò la reggenza che gli veniva offerta dall'esercito. Sarebbe potuto diventare re di tutto l'impero, invece si dedicò completamente all'Egitto. Strano, ti pare?» «Magari non voleva fare il re. Da quanto ho letto, tradimenti e cinismo erano all'ordine del giorno e nessuno sopravviveva a lungo. L'assassinio faceva semplicemente parte del processo politico.» «Ma forse, invece, Tolomeo era al corrente di qualcosa che nessun altro sapeva.» Cassiopea vide che Cotton aspettava con ansia la sua spiegazione. «Il corpo sepolto in Egitto non era quello di Alessandro.» L'americano sorrise. «Queste storie le ho sentite anch'io. Si ipotizza che dopo aver assalito il corteo, Tolomeo abbia realizzato una copia di Alessandro sostituendola al vero cadavere e offrendo a Perdicca e ad altri l'occasione di impossessarsene. Ma sono solo leggende. Non esistono prove a sostegno.» Cassiopea scosse la testa. «Parlo di tutt'altra cosa. Il manoscritto scoperto da Ely ci dice con esattezza come sono andati i fatti. Il corpo inviato a oriente per la sepoltura non apparteneva ad Alessandro. C'era stato uno scambio a Babilonia l'anno precedente, e il vero cadavere di Alessandro era stato collocato in un luogo noto soltanto a pochissime persone. Che mantennero bene il segreto, dato che per duemilatrecento anni nessuno ne ha saputo niente.»
Erano trascorsi due giorni da quando Alessandro aveva giustiziato Glaucias. Ciò che restava del corpo del medico era stato lasciato fuori delle mura di Babilonia, sul terreno e sugli alberi, dove gli animali ancora strappavano la carne dalle ossa. L'ira del re persisteva incontrollata. Egli era rabbioso, sospettoso e infelice. Eumene fu chiamato alla presenza del re e Alessandro disse al suo segretario che sarebbe morto presto. L'affermazione sconvolse Eumene, dato che non riusciva a immaginare un mondo senza Alessandro. Il re replicò che gli dei erano impazienti e che il suo tempo tra i vivi stava per terminare. Eumene ascoltava, ma dava poco credito alla predizione, poiché da tempo Alessandro riteneva di non essere figlio di Filippo ma piuttosto il discendente mortale di Zeus. Asserzione senza dubbio fantastica, ma che dopo tutte le sue grandi conquiste in molti erano giunti a condividere. Alessandro parlò di Rossane e del figlio che portava in grembo. Se fosse stato maschio, avrebbe avuto fondate pretese di salire al trono, ma Alessandro era conscio del risentimento che avrebbero provato i greci verso un sovrano per metà straniero. Disse che i suoi Compagni avrebbero combattuto tra loro per il suo impero ed egli non voleva essere parte di quella lotta. «Lascia che rivendichino il loro destino», disse. Il suo era già segnato. Quindi disse a Eumene che voleva venire sepolto con Efestione. Come Achille, che desiderava che le sue ceneri fossero mischiate a quelle del suo amante, così anche Alessandro voleva la stessa cosa. «Mi accerterò che le vostre ceneri e le sue vengano unite», disse Eumene, ma Alessandro scosse il capo. «No. Seppelliscici assieme.» Poiché appena qualche giorno prima Eumene era stato presente all'accensione della grande pira funeraria di Efestione, gli domandò come questo fosse possibile. Alessandro gli spiegò che il corpo bruciato a Babilonia non era quello di Efestione, che invece era stato imbalsamato l'autunno precedente in modo da poter venire trasportato in un luogo in cui avrebbe potuto riposare in pace per sempre. Alessandro aveva deciso per sé la stessa sorte. «Fammi mummificare, poi portami laddove anch'io possa giacere nell'aria limpida.» Costrinse Eumene a promettere di realizzare il suo desiderio in segreto, coinvolgendo soltanto altre due persone, nominate dallo stesso re. Malone alzò gli occhi dallo schermo. Fuori, la pioggia si era intensificata. «Dove l'hanno portato?» «La cosa si fa più confusa», rispose Cassiopea. «Ely aveva datato il manoscritto all'incirca quarant'anni dopo la morte di Alessandro.» Allungò la mano verso il computer e fece scorrere le pagine. «Leggi questo. Un altro passo di Ieronimo di Cardia.» Quant'è sbagliato che il più grande dei re, Alessandro di Macedonia, debba giacere per sempre in un luogo sconosciuto. Benché cercasse un rifugio tranquillo, da lui stesso predisposto, un simile destino silenzioso non pare adatto. Alessandro aveva ragione riguardo ai suoi Compagni. I generali combatterono tra loro, uccidendosi l'un l'altro ed eliminando chiunque rappresentasse una minaccia alle loro rivendicazioni. Tolomeo potrebbe essere stato il più fortunato, dato che regnò
sull'Egitto per trentotto anni. Nel corso del suo ultimo anno di regno, udì dei miei sforzi tesi a redigere questo resoconto e dalla biblioteca di Alessandria mi mandò a chiamare a palazzo. Sapeva della mia amicizia con Eumene e lesse con interesse quanto avevo scritto fino a quel momento. Confermò quindi che il corpo sepolto a Menfi non era quello di Alessandro e chiarì che ne era a conoscenza anche quando aveva attaccato il corteo funebre. Anni dopo, cominciò a diventare curioso e inviò degli investigatori. Eumene venne condotto in Egitto e disse a Tolomeo che i veri resti di Alessandro erano celati in un luogo che soltanto lui conosceva. Ormai la tomba di Menfi, in cui si riteneva fosse stato deposto Alessandro, era diventata un luogo sacro. «Abbiamo combattuto entrambi al suo fianco, ed entrambi saremmo stati felici di morire per lui», disse Tolomeo a Eumene. «Non dovrebbe restare sepolto in segreto per sempre.» Sopraffatto dal rimorso e avendo percezione della sincerità di Tolomeo, Eumene gli rivelò quale fosse il luogo della sepoltura, tra le montagne, dove gli sciti avevano insegnato ad Alessandro i segreti della vita, e dopo poco tempo morì. Tolomeo ricordava che quando gli era stato domandato a chi lasciasse il suo regno, Alessandro aveva risposto: «Al più intelligente». Quindi Tolomeo mi disse queste parole: «E tu, avventuroso, le cui orecchie sono ricolme della mia voce immortale, benché lontana, ascolta le mie parole. Fa' rotta verso la capitale fondata dal padre di Alessandro, dove i saggi stanno di guardia. Sfiora la parte più recondita della dorata illusione. Dividi la fenice. La vita offre la misura della vera tomba. Ma sii cauto, perché c'è soltanto una possibilità di successo. Sali le mura costruite dagli dei. Quando raggiungi il limite dell'attico, fissa lo sguardo nell'occhio fulvo, e avventurati nel distante rifugio».
Dopodiché Tolomeo mi tese un decadracma d'argento che mostrava Alessandro in India intento a combattere contro gli elefanti. Mi disse che, in onore di quelle battaglie, aveva fatto coniare molte di quelle monete. Mi disse anche di tornare una volta risolto l'enigma, ma, un mese dopo, Tolomeo era morto.
Capitolo 25
Samarcanda, ore 23.50 Irina Zovastina bussò a una porta bianca laccata, che venne aperta da una donna imponente dai capelli neri striati di grigio. Come sempre, il primo ministro non attese di venire invitata a entrare. «È sveglia?» La donna annuì e Irina Zovastina attraversò l'ingresso a grandi passi. La casa dominava una zona boscosa nella periferia orientale della città, oltre la distesa di edifici bassi e le colorate moschee, in un'area collinosa un tempo costellata di torri di guardia dell'era sovietica e dove ora erano spuntati molti dei nuovi complessi abitativi. La prosperità della Federazione aveva generato il ceto medio, e chi aveva mezzi aveva cominciato a ostentarli. Quella casa, costruita circa dieci anni prima, apparteneva a Irina Zovastina, anche se in realtà lei non ci aveva mai abitato. L'aveva data invece alla sua amante. Abbracciò con lo sguardo i lussuosi interni. Su una console Luigi XV dagli elaborati intagli, faceva bella mostra una serie di figurine in porcellana bianca dono del presidente francese, mentre nella stanza accanto il soffitto a cassettoni sovrastava il pavimento in parquet intarsiato protetto da un tappeto ucraino. Un altro regalo. Uno specchio tedesco chiudeva un'estremità della lunga stanza e tendoni di taffettà decoravano tre finestre altissime. Ogni volta che percorreva quell'ingresso lastricato di marmo, tornava con la mente a sei anni prima, al pomeriggio in cui si era avvicinata a quella stessa porta chiusa. Nella stanza da letto aveva trovato Karyn nuda, e sopra di lei un uomo dal petto esile, con capelli ricci e braccia muscolose. Poteva ancora udire i loro gemiti, la feroce esplorazione reciproca sorprendentemente eccitante. Era rimasta immobile a guardare per un lungo minuto, finché non si erano separati. «Irina, lui è Michele.» Karyn era scesa dal letto e aveva scostato i lunghi capelli ondulati, mostrando i seni da cui tante volte Irina aveva tratto piacere. Snella come uno sciacallo, morbida pelle color cannella che scintillava, labbra sottili dalla curva sprezzante, naso piccolo ma volitivo, guance lisce come porcellana. Irina aveva sospettato il tradimento, ma averne una conferma così diretta era cosa ben diversa. «Sei fortunata se non ti faccio uccidere.» Karyn non era parsa minimamente preoccupata. «Guardalo. A lui importa quello che provo, dà senza discussioni. Tu sai soltanto prendere. Dai ordini e ti aspetti di essere obbedita.» «Non ricordo lamentele da parte tua.» «Essere la tua puttana non è senza conseguenze. Ho rinunciato a cose più preziose dei soldi.» Lo sguardo di Irina si era involontariamente spostato sul corpo nudo di Michele.
«Ti piace, vero?» aveva chiesto Karyn. Lei non aveva risposto, limitandosi invece a ordinare: «Ti voglio fuori di qui prima di notte». Karyn si era avvicinata, preannunciata dall'odore dolce di un profumo costoso. «Vuoi davvero che me ne vada?» La sua mano si era portata sulla coscia di Irina. «Magari potresti levarti questi vestiti e unirti a noi.» Aveva colpito la sua amante col dorso della mano. Non era stata la prima volta, ma per la prima volta l'aveva fatto per rabbia. Un rivoletto di sangue era uscito dal labbro spaccato di Karyn che l'aveva fissata con odio. «Vattene, prima di notte, altrimenti ti assicuro che non sarai viva per vedere il prossimo mattino.» Sei anni prima. Tanto tempo. O almeno così sembrava. Girò la maniglia ed entrò. La stanza era rimasta arredata con raffinati mobili provenzali, e una parete era decorata da un camino in marmo e bronzo dorato protetto da una coppia di leoni di porfido egiziani. Le aggiunte parevano davvero fuori luogo: il respiratore accanto al letto a baldacchino, la bombola dell'ossigeno sull'altro lato e un sacchetto per endovenosa appeso a un supporto di acciaio da cui partivano sinuosi tubicini trasparenti collegati a un braccio. Karyn giaceva appoggiata su dei cuscini al centro del letto a una piazza e mezzo, con coperte di seta color corallo fino alla vita. La sua pelle era color cenere marroncina, sottile come carta incerata; i capelli biondi un tempo folti scendevano arruffati e radi come una foschia. Gli occhi, una volta di un azzurro intenso, adesso fissavano fuori da buchi profondi, simili ad animali nascosti in caverne. Gli zigomi orgogliosi erano scomparsi, sostituiti da una macilenza cadaverica che aveva trasformato in aquilino il naso camuso. Una camicia da notte di pizzo abbelliva il suo corpo emaciato, come una bandiera che penda floscia dal pennone. «Cosa vuoi stasera?» mormorò Karyn, la voce secca e tesa. Dei tubicini alle narici le fornivano ossigeno a ogni respiro. «Sei venuta a vedere se sono morta?» Irina si avvicinò al letto. L'odore della stanza si fece più intenso, in uno stomachevole misto di disinfettante, malattia e decomposizione. «Niente da dire?» riuscì a chiedere Karyn, la voce poco più di un soffio. Lei fissò la donna sdraiata. Diversamente dal suo tipico modo di agire, la loro relazione era stata assai poco pianificata. Inizialmente Karyn aveva fatto parte del suo staff, quindi era diventata segretaria personale e infine concubina. Cinque anni assieme. Altri cinque separate, finché l'anno precedente Karyn non era inaspettatamente tornata a Samarcanda, malata. «A dire il vero sono venuta a vedere come stai.» «No, Irina, sei venuta a vedere quando muoio.» Avrebbe voluto dirle che era l'ultima cosa che desiderava, ma il pensiero di Michele e del tradimento la trattenevano dal fare concessioni sentimentali. «Ne valeva la pena?» Irina sapeva che gli anni di sesso non sicuro, passando di uomo in uomo e di donna in donna, correndo rischi, alla fine avevano chiesto un prezzo a Karyn, perché
durante il percorso qualcuno le aveva trasmesso l'HIV. Sola, impaurita e completamente al verde, l'anno prima Karyn aveva ingoiato l'orgoglio ed era tornata nell'unico posto che pensava potesse offrirle un po' di conforto. «È per questo che continui a venire qui?» replicò Karyn. «Per avere conferma che avevo torto?» «Tu avevi torto.» «Quest'amarezza ti consumerà.» «Detto da una che è stata letteralmente consumata dalla sua...» «Attenta, Irina, non hai idea di quando io sia stata infettata. Magari condividerò questa sofferenza.» «Ho fatto il test.» «E quale medico è stato tanto folle?» Un colpo di tosse strozzò le parole di Karyn. «È ancora vivo per spifferare quello che sa?» «Non hai risposto alla mia domanda. Ne valeva la pena?» Un sorriso increspò il viso incartapecorito. «Non puoi più darmi ordini.» «Sei tornata. Volevi aiuto. Ti sto aiutando.» «Sono prigioniera.» «Puoi andartene in qualsiasi momento.» Esitò un istante. «Perché non puoi condividere la verità?» «E qual è la verità, Irina? Che sei lesbica? Il tuo caro marito lo sapeva. Doveva saperlo. Non parli mai di lui.» «È morto.» «Un opportuno incidente d'auto. Quante volte hai usato quel biglietto di condoglianze per quanti stavano dalla tua parte?» Quella donna sapeva decisamente troppo dei suoi affari, e questo aveva un effetto allo stesso tempo di attrazione e di repulsione. Il senso di intimità, di condivisione, era stato parte del loro legame. Era lì che, ogni tanto, poteva essere davvero se stessa. «Sapeva cosa comportava sposarmi. Ma era ambizioso, come te. Voleva il potere, ma tra gli annessi e connessi c'ero anch'io.» «Quanto dev'essere difficile vivere una menzogna.» «È quello che fai tu.» Karyn scosse la testa. «No, Irina, io so cosa sono.» Quelle parole parvero succhiarle via le forze e la donna si fermò per prendere fiato prima di aggiungere: «Perché non mi uccidi e la facciamo finita?» Parte della Karyn di un tempo trapelò dall'amarezza del tono. Ucciderla non era tra le opzioni. Salvarla... ecco lo scopo. Il fato aveva negato ad Achille la possibilità di salvare il suo Patroclo. L'incompetenza era costata ad Alessandro Magno il suo amore, quando Efestione era morto. Lei non sarebbe caduta vittima degli stessi errori. «Riesci davvero a credere che qualcuno possa meritarsi questo?» Karyn diede uno strattone alla camicia da notte e minuscoli bottoni di madreperla esplosero sulle lenzuola. «Guarda i miei seni!» Guardare faceva male. Da quando Karyn era tornata, Irina aveva studiato l'AIDS e sapeva che la malattia colpisce le persone in modo diverso. Alcuni soffrono internamente: cecità, colite, diarrea con esito anche fatale, infiammazione del
cervello, tubercolosi e, peggiore di tutto, polmonite. Altri vengono segnati esternamente, la pelle coperta dagli effetti del sarcoma di Kaposi, o deturpata dall'herpes simplex, oppure devastata dalla macilenza, con l'epidermide inevitabilmente tesa sulle ossa. Quella di Karyn sembrava essere la combinazione più comune. «Ti ricordi com'ero bella? Che pelle morbida avevo? Adoravi il mio corpo.» «Copriti.» «Non sopporti neanche la vista?» Non replicò. «Be', Irina, il punto è che caghi fino a che ti fa male il culo; non riesci a dormire e hai lo stomaco che sembra un groviglio di nodi. Ogni giorno aspetto di vedere quale nuova infezione si svilupperà dentro di me. È l'inferno.» Aveva ucciso una donna gettandola dall'elicottero. Aveva ordinato l'eliminazione di innumerevoli avversari politici. Aveva creato la Federazione grazie a una nascosta campagna di omicidi su base batteriologica che aveva mietuto migliaia di vittime. Nessuna di quelle morti contava, ma con Karyn era diverso. Era per quel motivo che le aveva consentito di rimanere. Che le aveva fornito i medicinali necessari a tenerla in vita. Aveva mentito a quegli studenti: quella donna era il suo punto debole. Forse l'unico. Karyn fece un debole sorriso. «Ogni volta che vieni qui te lo leggo negli occhi. Ti importa.» Le afferrò il braccio con la mano solcata da vene blu. «Mi puoi aiutare, vero? Quei germi con cui giocavi anni fa... Dovevi arrivare a scoprire qualcosa. Irina, io non voglio morire.» Lei si sforzò di mantenere un certo distacco emotivo. Achille e Alessandro avevano entrambi fallito proprio perché troppo coinvolti. «Pregherò gli dei per te.» Karyn si mise a ridere. Una risata gutturale che si mischiava al rantolo della respirazione e che la stupì e la ferì. La donna continuò a ridere e Irina lasciò la stanza e si affrettò a raggiungere la porta d'ingresso. Quelle visite erano un errore. Non ne avrebbe più fatte. Non adesso. Erano sul punto di accadere troppe cose. L'ultimo suono che udì prima di andarsene fu il disgustoso tossire di Karyn che si strozzava con la sua stessa saliva.
Capitolo 26
Venezia, ore 20.45 Vincenti pagò il motoscafo con licenza di taxi, quindi salì in strada ed entrò a grandi passi al San Silva, uno dei migliori alberghi di Venezia. Lì, in quella che un tempo era stata l'abitazione di un doge, non si applicavano tariffe speciali per il fine settimana né promozioni a prezzo ridotto: c'erano unicamente quarantadue lussuose suite con vista sul Canal Grande. Il grande atrio rifletteva la decadenza del vecchio mondo. Colonne romane, marmo venato, soprammobili degni di un museo, gli ampi ambienti affollati e pieni di attività e rumore. Peter O'Conner aspettava pazientemente in un séparé appartato. Non era un ex esponente dell'intelligence militare o governativa, ma semplicemente un talento nel raccogliere informazioni associato a una quasi totale mancanza di coscienza. Ogni anno la Philogen Pharmaceutique spendeva milioni per un esteso servizio di sicurezza interno al fine di proteggere segreti commerciali e brevetti, ma O'Conner faceva capo direttamente a Vincenti: un secondo paio di occhi e di orecchie a uso personale che gli fornivano l'indispensabile lusso di essere in grado di adottare qualunque sistema necessario a salvaguardare i propri interessi. Ed era felice di avere lui come collaboratore. Cinque anni prima, era stato proprio O'Conner a fermare le manovre di un gruppo consistente di azionisti della Philogen riguardo alla decisione di Vincenti di espandere ulteriormente la compagnia in Asia. Tre anni prima, quando un gigante americano dell'industria farmaceutica aveva tentato un'Opa ostile, O'Conner aveva terrorizzato gli altri soci quanto bastava a evitare qualunque vendita di azioni su vasta scala. E, più di recente, quando Vincenti aveva dovuto affrontare un attacco da parte del consiglio direttivo, O'Conner aveva scoperto abbastanza scheletri negli armadi da ricattare un numero sufficiente di persone in modo che Vincenti riuscisse non solo a mantenere il suo incarico di amministratore delegato, ma anche a venire rieletto presidente. Vincenti si sistemò in una poltroncina di pelle decorata. Un rapido sguardo all'orologio incassato nel marmo dietro il banco della reception confermò che poteva essere al ristorante per le ventuno e quindici. Quando si fu messo comodo, O'Conner gli tese dei fogli graffati dicendo che quello era quanto aveva scoperto fino a quel momento. Lui diede una scorsa alla trascrizione di telefonate e discussioni faccia a faccia, tutte ottenute grazie a dispositivi d'intercettazione che tenevano sotto controllo Irina Zovastina. «Sta dietro a quelle monete dell'elefante?» «La nostra sorveglianza è stata sufficiente a scoprire che ha mandato parte della sua guardia personale a cercarle», rispose O'Conner. «Il capo del gruppo, Viktor
Tomas, dirige una squadra, mentre un'altra adesso è ad Amsterdam. Per mascherare i furti sono andati in giro per mezza Europa a provocare incendi.» Vincenti sapeva del battaglione sacro della Zovastina, parte della sua ossessione per tutto quello che era greco. «E le hanno trovate?» «Almeno quattro. Stavano per prenderne due ieri ma non ho ancora saputo con quale risultato.» «Dobbiamo capire cosa sta facendo.» «Ci sto lavorando. Sono riuscito a corrompere qualcuno dello staff di palazzo, ma purtroppo la sorveglianza elettronica, funziona soltanto quando sta ferma, e lei si sposta in continuazione. È appena volata al laboratorio in Cina.» Gli era già stato riferito della visita da Grant Lyndsey, il capo dei suoi scienziati. «Avrebbe dovuto vederla durante il tentativo di assassinio», riprese O'Conner. «Ha cavalcato dritto verso l'uomo armato, sfidandolo a sparare. Abbiamo guardato col teleobiettivo. Ovviamente aveva piazzato un cecchino sul tetto del palazzo che era pronto a far fuori quel tizio, ma comunque si è diretta verso di lui. È sicuro che in mezzo alle gambe non abbia un bel paio di palle?» Vincenti ridacchiò. «Non ho intenzione di controllare.» «Quella donna è pazza.» Motivo per cui Vincenti aveva cambiato idea riguardo al fiorentino. Il Consiglio dei Dieci aveva ordinato qualche indagine preliminare in previsione della possibilità che la Zovastina dovesse venire eliminata, e quell'uomo era stato pagato per andare in avanscoperta. All'inizio Vincenti aveva pensato di utilizzarlo per portare fino in fondo anche il suo piano personale e gli aveva promesso grandi profitti se fosse riuscito a farla uccidere. Poi era nata un'altra idea. Se avesse rivelato il progetto di assassinarla, avrebbe potuto spegnere qualunque timore la Zovastina avesse riguardo all'affidabilità della Lega, e questo gli avrebbe consentito di organizzare qualcosa di meglio, qualcosa che aveva cominciato ad architettare nelle ultime settimane. Un piano più astuto. Più pulito. «È anche tornata in quella casa», riprese O'Conner. «Qualche giorno fa. È sgattaiolata da sola fuori del palazzo, in auto. Le telecamere sugli alberi hanno ripreso tutto. È rimasta mezz'ora.» «Conosciamo le attuali condizioni della sua ex amante?» «Tira avanti. Con un ricevitore parabolico abbiamo ascoltato la loro conversazione da una casa vicina. Strana coppia. C'è un rapporto di amore e odio.» Vincenti aveva trovato interessante che una donna in grado di governare con una spietatezza senza limiti nutrisse una simile ossessione. Era stata sposata per qualche anno con un diplomatico di medio livello degli ex affari esteri kazachi. Senza dubbio un matrimonio per salvare le apparenze e nascondere le sue discutibili tendenze sessuali, tuttavia i rapporti avuti in proposito riferivano di un legame amichevole tra moglie e marito. Lui era morto all'improvviso diciassette anni prima, poco dopo che lei era diventata presidente del Kazakistan, e un paio d'anni prima che riuscisse a creare la Federazione. Karyn Walde era comparsa in seguito ed era rimasta l'unico duraturo rapporto interpersonale del primo ministro, finito poi male. Ma quando,
l'anno precedente, era tornata, la Zovastina l'aveva immediatamente accolta in casa e aveva organizzato, grazie a Vincenti, le cure necessarie contro l'HIV. «Dobbiamo agire?» O'Conner annuì. «Attenda ancora e potrebbe essere troppo tardi.» «Organizzi. Sarò nella Federazione per la fine della settimana.» «Potrebbe essere una cosa sporca.» «Non importa. Basta non lasciare tracce. Niente che possa condurre a me.»
Capitolo 27
Amsterdam, ore 21.20 L'estate precedente, Stephanie aveva fatto la conoscenza delle prigioni danesi, quando lei è Malone erano stati arrestati, e adesso visitava una cella olandese. Non molto diversa. Saggiamente, aveva tenuto la bocca chiusa quando la polizia era arrivata al ponte e aveva scoperto il morto. Entrambi gli agenti dei servizi segreti erano riusciti a squagliarsela e sperava che quello entrato in acqua avesse recuperato la moneta. I suoi sospetti, comunque, venivano confermati: Cassiopea e Thorvaldsen erano coinvolti in qualcosa di importante, che senz'altro non era il collezionismo di monete antiche. La porta della cella si aprì ed entrò un omino sui sessanta, col viso lungo e appuntito e folti capelli d'argento. Edwin Davis, viceconsigliere del presidente per la sicurezza nazionale. L'uomo che sostituiva il defunto Larry Daley. E che cambiamento era stato. Davis era stato fatto venire dal dipartimento di Stato, un uomo di carriera in possesso di due dottorati, uno in Storia americana, l'altro in Relazioni internazionali, oltre che di eccellenti capacità organizzative e di un innato talento diplomatico. Usava modi cortesi e informali, molto simili a quelli dello stesso presidente Daniels, che la gente tendeva a sottovalutare. Tre segretari di Stato l'avevano usato per rimettere in riga i loro dipartimenti in crisi e ora lavorava per la Casa Bianca, aiutando l'amministrazione a portare a termine gli ultimi tre anni del secondo mandato. «Stavo cenando col presidente, all'Aja. Che posto, tra l'altro. Mi godevo la serata. Il cibo era eccellente, e di solito io non bado molto ai piatti da buongustai. Mi hanno portato un biglietto che diceva dove si trovava e mi sono detto che doveva esserci una spiegazione logica se Stephanie Nelle era in arresto perché beccata sotto la pioggia dalla polizia olandese con in mano una pistola accanto a un morto,» Lei aprì la bocca per replicare, ma lui sollevò la mano per zittirla. «Meglio di no. Mentre stavo decidendo come lasciarla qui, dato che ero più che certo di non voler sapere il motivo per cui lei è venuta ad Amsterdam, il presidente in persona mi ha preso da parte e mi ha detto di venire. Sembra fossero coinvolti anche due agenti dei servizi segreti, ma loro non sono in arresto. Uno dei due era zuppo per aver nuotato in un canale per recuperare questa.» L'uomo le lanciò la busta di plastica con dentro la moneta. «Il presidente ha parlato con gli olandesi. È libera.» «Prima, però, devo sapere dei due morti.» «Immaginando che me l'avrebbe chiesto, ho scoperto che entrambi avevano un passaporto della Federazione Centroasiatica. Abbiamo controllato. Facevano parte delle forze di sicurezza personali del primo ministro Irina Zovastina.» Stephanie colse qualcosa nello sguardo dell'uomo. Interpretare l'espressione di
Davis era molto più facile di quanto non fosse stato con Daley. «Vedo che questo non la stupisce.» «Ormai ben poche cose ci riescono.» La voce del diplomatico era ridotta a un sospiro. «Abbiamo un problema e, adesso, purtroppo o per fortuna, a seconda di come la vede, lei ne fa parte.» Stephanie seguì Davis nella suite dell'albergo. Il presidente Danny Daniels sedeva semisdraiato sul divano con indosso l'accappatoio, i piedi nudi appoggiati su un tavolino di cristallo. Era un pezzo d'uomo, alto, con un ammasso di capelli biondi, voce tonante e modi disarmanti. Anche se lei lavorava per lui da cinque anni, aveva cominciato a conoscerlo davvero soltanto l'autunno precedente, a causa degli intrighi che circondavano la biblioteca perduta di Alessandria. Allora l'aveva licenziata e poi riassunta. Adesso teneva un bicchiere con qualcosa in una mano e un telecomando nell'altra. «Non c'è un cavolo da vedere in questa TV che non abbia sottotitoli o che sia in una lingua che non capisco. E non riuscirei a sopportare per altri cinque minuti BBC News o CNN International. Non fanno altro che ripetere in continuazione le stesse cose.» Daniels spense il televisore, gettò il telecomando accanto a sé sul divano e sorseggiò il suo drink. «Ho sentito che hai avuto un'altra seratina di quelle in grado di mettere fine a una carriera.» Stephanie colse una strizzatina d'occhi. «Sembra sia il mio modo per avere successo.» Le fece un cenno e lei si sedette, mentre Davis si teneva a distanza. «Ho altre brutte notizie. La tua agente a Venezia è scomparsa. Non si fa sentire da dodici ore. I vicini della casa in cui stava hanno riferito di rumori e confusione stamattina presto. Quattro uomini. Una porta buttata giù a calci. Naturalmente a livello ufficiale nessuno ha visto niente. Tipico degli italiani.» Agitò la mano nell'aria. «Per amor di Dio, non mi coinvolgete!» Il presidente si interruppe, scuro in volto. «Non c'è niente di buono in tutto questo.» Stephanie aveva prestato Naomi Johns alla Casa Bianca, che aveva bisogno di una ricognizione sul campo su una persona in particolare: Enrico Vincenti, finanziere internazionale legato a un'organizzazione chiamata Lega Veneziana. Conosceva quel gruppo. Un altro degli innumerevoli cartelli presenti nel mondo. Naomi lavorava per Stephanie da molti anni ed era stata lei a svolgere indagini su Larry Daley. Aveva lasciato la Sezione l'anno prima, ma era tornata, cosa di cui Stephanie era stata molto contenta. Naomi era brava. Il lavoro di ricognizione era considerato a basso rischio, giusto un elenco di incontri e riunioni. Stephanie le aveva persino detto di prendersi un paio di giorni di vacanza in Italia, una volta finito. Adesso poteva essere morta. «Mi avevate detto che si trattava solo di raccogliere informazioni.» Nessuno rispose e il suo sguardo passò da un uomo all'altro. «Dov'è la moneta?» chiese infine Daniels. Lei gliela tese. «Hai qualcosa da dirmi in proposito?» Si sentiva sporca. Quello che voleva era farsi una doccia e andare a dormire, ma si
rendeva conto che non sarebbe successo. Le seccava venire interrogata, ma era il presidente degli Stati Uniti e le aveva evitato la prigione, quindi gli parlò di Cassiopea, di Thorvaldsen e del favore che le avevano chiesto. Daniels ascoltò con insolita attenzione, quindi sbottò: «Diglielo, Edwin». «Quanto sa del primo ministro Zovastina?» «Abbastanza da essere certa che non è nostra amica.» Pur essendo stanca, richiamò alla mente la storia di Irina Zovastina. Nata in una famiglia proletaria del Kazakistan settentrionale, suo padre era morto combattendo i nazisti per Stalin, poi, appena finita la guerra, un terremoto aveva ucciso sua madre e tutti i parenti più prossimi. Era cresciuta in un orfanotrofio, finché una lontana cugina della madre non l'aveva presa con sé e, alla fine, era diventata un'economista studiando all'università di Leningrado. Raggiunti i vent'anni era entrata a fare parte del partito comunista e si era fatta strada venendo nominata capo del locale comitato dei Rappresentanti dei Lavoratori, quindi era riuscita a entrare nel comitato centrale del Kazakistan e da lì era rapidamente arrivata al Soviet supremo. All'inizio aveva promosso riforme sociali ed economiche, poi era diventata un'oppositrice di Mosca. Ottenuta l'indipendenza dalla Russia, era stata uno dei sei membri del partito a correre per la presidenza del Kazakistan e, quando i due candidati più accreditati non avevano ottenuto la maggioranza e secondo la costituzione nazionale erano quindi stati esclusi entrambi dal secondo turno di voto, a vincere era stata lei. «Ho imparato tanto tempo fa che, se devi dire a qualcuno che sei suo amico, la relazione ha grossi problemi», disse Daniels. «Quella donna pensa che siamo un branco di idioti. Amici come lei non ci servono proprio.» «Ma deve comunque tenersela buona.» Daniels bevve un altro sorso. «Purtroppo.» «La Federazione Centroasiatica non può essere presa sottogamba», sentenziò Davis. «È una terra di gente dura e dalla memoria lunga. Ventotto milioni di uomini e donne disponibili per la leva militare, ventidue milioni dei quali già addestrati e pronti al servizio; all'incirca un milione e mezzo di nuove reclute ogni anno. Si tratta di una forza da combattimento davvero notevole. Al momento la Federazione spende un miliardo e duecento milioni di dollari l'anno per la difesa, senza contare quanto ci mettiamo noi, che è circa il doppio.» «E il vero problema è che la gente la ama», riprese Daniels. «Lo stile di vita è migliorato in modo esponenziale. Basta pensare che, prima di lei, il sessanta per cento della popolazione viveva in povertà mentre ora sono a meno del quindici per cento. Si è mossa benissimo. Fa investimenti ovunque. E quanto a energia idroelettrica, cotone e oro... non sa più dove mettere le eccedenze! La Federazione si trova in un'ottima posizione geoeconomica. Russia, Cina, India: li ha tutti intorno. Ed è anche una donna intelligente. Sta seduta su una delle maggiori riserve mondiali di greggio e gas naturale, un tempo controllata completamente dai russi, che sono ancora incazzati per l'indipendenza ottenuta. E allora cos'ha fatto? Un accordo con cui vende a loro petrolio e gas sottocosto, togliendosi così Mosca dai piedi.» Stephanie era colpita dalla conoscenza della regione da parte di Daniels. «Poi», continuò il presidente, «qualche anno fa ha fatto un contratto di affitto a
lungo termine coi russi per il Cosmodromo di Baikonur, lo spazioporto sovietico situato in mezzo al vecchio Kazakistan. Quasi diecimila chilometri quadrati, che adesso la Russia ha in uso esclusivo fino al 2050. In cambio, naturalmente, si è vista cancellare qualche debito. Dopodiché, ha dato il contentino ai cinesi dirimendo una disputa di confine che durava da secoli. Non male per un'economista cresciuta in un orfanotrofio.» «Abbiamo problemi con la Zovastina?» chiese Stephanie. Di nuovo nessuna risposta, quindi cambiò rotta. «Cos'ha a che fare con tutto questo Enrico Vincenti?» «La Zovastina e Vincenti sono collegati tramite la Lega Veneziana», rispose Daniels. «Ne fanno parte entrambi, assieme ad altre quattrocento persone circa. Un sacco di soldi, tempo e ambizione, ma alla Lega non interessa cambiare il mondo, solo essere lasciata in pace. Odiano i governi, le leggi restrittive, le tariffe, le tasse, me, qualunque cosa li faccia rigare dritto. Hanno le mani in moltissimi Paesi...» Notò che Daniels le aveva letto nel pensiero. Il presidente scosse la testa. «No, non qui. Non come l'ultima volta. Abbiamo controllato. Niente. La Federazione Centroasiatica è la loro principale preoccupazione.» «Tutte le nazioni che la formano avevano pesanti debiti con l'estero a causa della dominazione sovietica e dei tentativi di ottenere l'indipendenza», aggiunse Davis. «La Zovastina è riuscita a rinegoziare il debito coi vari governi creditori e larga parte di quel passivo è stata cancellata. Ma un nuovo afflusso di capitale sarebbe d'aiuto. Niente dà maggiore impulso al progresso di un debito a lungo termine.» Si fermò un istante. «In svariate banche del globo ci sono depositati otto miliardi di dollari riconducibili a esponenti della Lega Veneziana.» «Un'apertura in una partita a poker», commentò Daniels. Stephanie comprese l'importanza della questione, dato che i presidenti non sono soliti suonare l'allarme basandosi su lievi sospetti. «Che si sta per giocare?» Daniels annuì. «Finora, società organizzate sotto le leggi della Federazione Centroasiatica hanno acquisito, o rilevato, quasi ottanta ditte in tutto il mondo. L'area di interesse varia da compagnie farmaceutiche e di informatica a quelle automobilistiche e di telecomunicazioni, tanto per fare qualche esempio. Pensa che hanno assorbito persino il maggiore produttore mondiale di bustine da tè! La Goldman Sachs prevede che, continuando di questo passo, la Federazione potrà diventare la terza o quarta economia mondiale dopo noi, Cina e India.» «È preoccupante», fece notare Davis. «Soprattutto dato che sta accadendo con poca o nessuna fanfara, quando di solito alle aziende piace enfatizzare le proprie acquisizioni. Non in questo caso. Hanno fatto passare tutto sotto silenzio.» Daniels agitò una mano. «Alla Zovastina serve un costante flusso di capitali per far girare gli ingranaggi del suo governo. Noi abbiamo le tasse, lei ha la Lega. La Federazione è ricca di cotone, oro, uranio, argento, rame, piombo, zinco...» «E oppio», concluse Stephanie. «E la Zovastina ha persino collaborato in questo campo», commentò Davis. «Adesso la Federazione è terza al mondo per sequestro di oppiacei. Ha bloccato i traffici da quella zona, e gli europei l'amano molto per questo. Non si sente parlare
male di lei da nessuna parte nel vecchio continente, anche perché, ovviamente, spaccia petrolio e gas a buon mercato pure a molti dei Paesi membri dell'Unione Europea.» «Immagino vi rendiate conto che con ogni probabilità Naomi è morta a causa di tutto ciò», commentò Stephanie, lo stomaco che le si torceva al solo pensiero. Perdere un agente era la cosa peggiore che potesse immaginare. Per fortuna, accadeva di rado, ma quando succedeva si trovava sempre a combattere con uno sgradevole misto di rabbia e rassegnazione. «Ce ne rendiamo conto», replicò Davis. «La sua morte non resterà impunita.» «Lei e Cotton Malone erano molto legati. Hanno lavorato spesso insieme per la Sezione. Ottima squadra. Rimarrà turbato dalla notizia.» «E questo è un altro motivo per cui ti trovi qui», ribatté il presidente. «Poche ore fa, Malone è stato coinvolto in un incendio al museo greco romano di Copenhagen, di proprietà di Henrik Thorvaldsen. Non è finito bruciato solo perché gli ha dato una mano Cassiopea Vitt.» «Sembra informatissimo.» «Fa parte del mio lavoro, anche se comincia a piacermi sempre meno.» Daniels indicò la moneta. «Nel museo c'era una di queste.» Stephanie ripensò a quanto le aveva detto Klaus Dyhr: Ne esistono soltanto otto. «Vengono chiamate monete dell'elefante», aggiunse Davis. «Sono importanti?» chiese Stephanie. «Si direbbe di sì», replicò Daniels. «Ma ci serve il tuo aiuto per saperne di più.»
Capitolo 28
Copenhagen, lunedì 20 aprile, ore 00.40 Malone prese una coperta e si diresse verso il divano nell'altra stanza. Dopo l'incendio dell'autunno precedente, nella ricostruzione dell'appartamento aveva eliminato numerose pareti e cambiato la disposizione delle stanze, di modo che il terzo piano della sua libreria si era trasformato in uno spazio abitativo molto più pratico. «Belli i mobili», commentò Cassiopea. «Sono adatti a te.» Non aveva optato per la semplicità danese, preferendo ordinare tutto a Londra. Un divano, sedie e poltroncine, tavoli e lampade. Tanto legno e pelle, caldo e comodo. Si era reso conto di quanto poco cambiasse nel tempo l'arredamento a meno che un altro libro salisse dal pianterreno per installarsi lì oppure arrivasse per e@mail un'altra foto di Gary che andava ad aggiungersi alla collezione. Aveva proposto a Cassiopea di fermarsi a dormire in città invece di mettersi al volante per tornare a Christiangade con Thorvaldsen e lei non aveva fatto discussioni. Durante la cena, aveva ascoltato le spiegazioni dei due amici, tenendo sempre a mente che Cassiopea aveva sulla questione un punto di vista influenzato da fattori personali. E non era una buona cosa. Lo sapeva per esperienza diretta, da quando, di recente, Gary era stato rapito. Adesso era seduta sul bordo del letto, nella stanza dalle pareti color senape scarsamente illuminate da lampade di grande fascino ma pochi watt. «Secondo Henrik potrei avere bisogno del tuo aiuto.» «E tu non sei d'accordo?» «Non sono sicura che sia d'accordo tu.» «Amavi Ely?» Si stupì di se stesso per averglielo chiesto e lei non rispose subito. «Difficile a dirsi.» Non era una risposta. «Doveva essere davvero speciale.» «Ely era straordinario. Intelligente, vitale, divertente. Avresti dovuto vederlo quando ha scoperto quei testi scomparsi. Si sarebbe detto che avesse trovato un nuovo continente.» «Vi frequentavate da tanto?» «Saltuariamente, da tre anni.» Lo sguardo di Cassiopea si staccò di nuovo dal suo, come aveva fatto mentre andava a fuoco il museo. Erano così simili! Entrambi nascondevano i propri sentimenti, ma tutto ha un limite. Lui stava ancora elaborando il fatto che Gary non fosse suo figlio naturale, ma il risultato di una relazione extraconiugale avuta tanto tempo prima dalla sua ex moglie. Una foto del ragazzo era appoggiata su un
comodino e i suoi occhi vi indugiarono con la determinazione che l'aveva fatto decidere che non sono i geni a contare. Quello era sempre e comunque suo figlio, e lui e l'ex moglie si erano rappacificati. Cassiopea, invece, pareva ancora in lotta coi suoi demoni e la franchezza sembrava la via migliore. «Cosa stai cercando di fare?» «Vivere la mia vita», replicò lei, collo e mani che si irrigidivano. «Si tratta di Ely o di te?» «Ha importanza?» Aveva ragione, in parte. Non avrebbe dovuto avere importanza perché era la sua battaglia, non quella di lui, ma si sentiva attratto da quella donna, anche se era più che ovvio che lei pensava a un altro. Perciò allontanò dalla mente le emozioni e le chiese: «Cos'hanno rivelato le impronte digitali di Viktor? Nessuno ne ha fatto parola a cena». «Lavora per il primo ministro Irina Zovastina. È a capo della sua guardia personale.» «Avevate intenzione di dirmelo?» Cassiopea si strinse nelle spalle. «Alla fine. Se proprio avessi voluto saperlo.» Frenò la rabbia, consapevole del fatto che lo stava punzecchiando. «Pensi che la Federazione Centroasiatica sia coinvolta direttamente?» «La moneta dell'elefante del museo di Samarcanda non è stata toccata.» Ottimo punto a favore. «Ely ha trovato la prima prova tangibile dell'esistenza della tomba di Alessandro Magno perduta da molti secoli. So che ha comunicato la scoperta alla Zovastina perché mi ha descritto la sua reazione. Lei è ossessionata dalla storia greca e da Alessandro, e il museo di Samarcanda è ben finanziato proprio grazie al suo interesse per l'epoca ellenistica: quando Ely ha scoperto l'enigma di Tolomeo relativo alla tomba di Alessandro, ne è rimasta affascinata.» Un attimo di indugio. «È morto meno di una settimana dopo averglielo detto.» «Pensi sia stato ucciso?» «La sua casa è stata rasa al suolo da un incendio. Non ne è rimasto molto, neppure di lui.» I pezzi del mosaico si incastravano. Fuoco greco. «E che ne è dei manoscritti che aveva scoperto?» «Abbiamo fatto chiedere notizie in proposito da alcuni accademici, ma al museo nessuno sapeva niente.» «E adesso vengono incendiati edifici e rubate monete antiche.» «Già.» «Cosa facciamo?» «Non ho ancora deciso se mi serve il tuo aiuto.» «Ti serve.» Lei lo squadrò sospettosa. «Cosa sai dei documenti storici riguardanti la tomba di Alessandro?» «Inizialmente era stato sepolto a Menfi, nel sud dell'Egitto, da Tolomeo, a un anno circa dalla morte. Poi il figlio di Tolomeo ha fatto spostare il corpo a nord di Alessandria.»
«Giusto. Più o meno tra il 283 a.C, quando morì Tolomeo I, e il 274. Venne costruito un mausoleo in un nuovo quartiere della città, all'incrocio delle due strade principali che fiancheggiavano il palazzo reale, e dopo un po' fu chiamato Soma, il termine greco per 'corpo'. La tomba più grande nella città più grande dell'epoca.» «Tolomeo era furbo», commentò Cotton. «Ha aspettato che tutti gli eredi di Alessandro fossero morti e poi si è autoproclamato faraone. Ed erano furbi anche i suoi discendenti, che hanno trasformato l'Egitto in un regno greco. Mentre gli altri Compagni gestirono male o persero la loro parte dell'impero, i Tolomei l'hanno mantenuta per trecento anni. E utilizzarono quel Soma per ottenere grandi vantaggi politici.» Cassiopea annuì. «In effetti è una storia strabiliante. La tomba di Alessandro divenne meta di pellegrinaggio e persino Cesare, Ottaviano, Adriano, Caligola e altri imperatori vi andarono a rendere omaggio. Doveva essere un posto incredibile. Una mummia ricoperta d'oro, con una corona d'oro, racchiusa in un sarcofago d'oro, circondata da miele d'oro. Per un secolo e mezzo Alessandro ha riposato in pace, ma poi Tolomeo IX ha avuto bisogno di soldi, quindi ha spogliato il corpo di tutto l'oro e ha fatto fondere la bara, sostituendola con una di vetro. Quanto al Soma, è rimasto in piedi per seicento anni e se ne hanno le ultime notizie nel 391 d.C.» Il resto della storia Malone lo conosceva: sia l'edificio sia i resti di Alessandro Magno erano scomparsi. Per milleseicento anni erano state fatte ricerche, ma del più grande conquistatore del mondo antico, un uomo venerato come un dio vivente, si era persa ogni traccia. «Sai dove si trova il corpo?» «Ely pensava di saperlo.» Le sue parole suonavano distanti, come stesse parlando al fantasma del suo innamorato. «Credi avesse ragione?» «Dobbiamo andare a vedere.» «Dove?» Finalmente tornò a guardarlo, gli occhi stanchi. «Venezia. Prima però dobbiamo avere l'ultima moneta, quella verso cui sta senza dubbio puntando Viktor in questo momento.» «E dove si trova?» «Guarda caso, è a Venezia anche quella.»
Capitolo 29
Samarcanda, ore 02.50 Irina Zovastina sorrise al nunzio pontificio, un americano dai capelli rossicci striati di grigio e occhi acuti e penetranti: monsignor Colin Michener. Faceva parte della nuova curia guidata dal primo papa africano della storia. Per due volte quell'emissario era andato da lei a informarsi se la Federazione avrebbe consentito la presenza della Chiesa cattolica sul suo suolo, ma lei aveva rintuzzato entrambi i tentativi. Benché l'Islam fosse la religione predominante nel Paese, i popoli nomadi che da tempo immemorabile abitavano l'Asia centrale avevano sempre messo la loro legge al di sopra persino della shari'a islamica. L'isolamento geografico aveva portato all'indipendenza sociale, anche da Dio, perciò il primo ministro dubitava fortemente che i cattolici sarebbero stati i benvenuti. Tuttavia aveva bisogno di qualcosa da quell'inviato ed era arrivato il momento di fare uno scambio. «Lei non è un nottambulo, vero?» chiese, notando l'aria stanca che Michener tentava assai poco di nascondere. «Queste ore di solito non sono dedicate al sonno?» «Non sarebbe positivo per nessuno di noi essere visti assieme in pieno giorno. La Chiesa non è poi tanto popolare qui.» «Situazione che vorremmo cambiare.» Lei si strinse nelle spalle. «Chiedete alle persone di abbandonare tradizioni secolari. Neppure i musulmani, con tutta la loro disciplina e i loro precetti, sono riusciti a farlo. Scoprirete che qui l'uso organizzativo e politico della religione attrae molto più dei benefici spirituali.» «Il santo padre non vuole trasformare la Federazione. Chiede solo che chiunque desideri seguire il credo della nostra Chiesa sia libero di farlo.» Irina sorrise. «Ha mai visitato uno dei nostri luoghi santi?» Il monsignore scosse la testa. «La incoraggio a farlo. Noterà alcune cose interessanti: gli uomini baciano e strofinano gli oggetti di venerazione e gli camminano intorno; le donne strisciano sotto pietre sacre per accrescere la fertilità. E non trascuri gli alberi degli auspici e i pali mongoli con nappe di crine di cavallo posti sopra le tombe. Amuleti e portafortuna sono molto popolari. La gente pone la sua fede in cose che non hanno niente a che fare col Dio cristiano.» «Ma tra quella gente c'è un crescente numero di cattolici, battisti e luterani, e persino alcuni buddisti. A quanto pare qualcuno desidera pregare in modo diverso. Non ne ha forse diritto?» Un altro motivo per cui si era finalmente decisa a ricevere il nunzio era il partito per la Rinascita islamica. Anche se dichiarato fuorilegge da anni, continuava a
prosperare in silenzio, soprattutto nella valle Fergana dell'ex Uzbekistan. Lei aveva segretamente infettato i sobillatori più facinorosi, credendo di avere eliminato definitivamente i capi, ma il partito rifiutava di estinguersi. Consentire una grande competizione religiosa, soprattutto derivante da un'organizzazione come quella della Chiesa cattolica romana, avrebbe costretto gli islamici a concentrare la loro rabbia su un nemico ancora più pericoloso di lei. «Ho deciso di garantire alla Chiesa accesso alla Federazione.» «Sono felice di sentirglielo dire.» «A certe condizioni.» Il bel viso del religioso perse luminosità. «Non sono così terribili», rimarcò la Zovastina. «A dire il vero ho soltanto un'unica e semplice richiesta. Domani sera, a Venezia, verrà aperta la tomba di san Marco all'interno della basilica.» Un'espressione perplessa s'impossessò degli occhi del prelato. «Senza dubbio ne è al corrente.» Michener annuì. «Ne ho parlato con un amico che lavora in basilica.» Irina Zovastina conosceva benissimo la storia di Marco, uno dei dodici apostoli di Cristo, che, ordinato da Pietro vescovo di Alessandria, era stato martirizzato dai pagani di quella città nel 67 d.C. Quando avevano cercato di bruciarne il corpo, un temporale aveva spento le fiamme e dato ai cristiani il tempo di impadronirsene. Marco era stato mummificato e sepolto segretamente fino al IV secolo, quando i cristiani avevano assunto il controllo di Alessandria e avevano quindi costruito un elaborato sepolcro divenuto in breve il luogo in cui i nuovi patriarchi della città ricevevano l'investitura. La tomba sopravvisse anche alle invasioni persiane e arabe del VII secolo, ma nell'828, un gruppo di mercanti veneziani rubò il corpo. Venezia voleva un'affermazione simbolica della sua indipendenza politica e teologica e, se Roma aveva Pietro, Venezia avrebbe avuto Marco. Inoltre in quel periodo il clero alessandrino era molto preoccupato per le sacre reliquie presenti nella città, dato che la regola islamica si era fatta sempre più ostile. Luoghi sacri e chiese venivano smantellati, perciò, con l'aiuto dei guardiani della tomba, il corpo di san Marco venne trafugato. A Irina Zovastina piacevano i dettagli. Per nascondere il furto, venne messo al suo posto il corpo di san Claudiano, sepolto lì accanto. A quanto si diceva, l'odore dei liquidi per l'imbalsamazione era così forte che, per evitare che le autorità esaminassero il carico della nave in partenza, sopra al corpo erano stati messi strati di foglie di cavolo e di carne di suino. Trucco che aveva funzionato, perché gli ispettori musulmani si allontanarono disgustati alla vista del maiale. Dopodiché il corpo era stato avvolto in teli di lino e issato sulla varea del pennone. Si diceva anche che, durante il viaggio verso l'Italia, la comparsa dello spirito dell'evangelista avesse salvato la nave dall'affondamento durante una tempesta. «Storia interessante quella del corpo del santo, le pare?» riprese Irina Zovastina. «Per quanto ne so, il 31 gennaio 828 Marco venne portato al doge di Venezia, che ne ospitò i resti a palazzo, da cui però scomparvero per riapparire nel 1094, quando la
basilica appena terminata era stata formalmente dedicata al santo. I resti allora collocati nella cripta sotto la chiesa, nel XIX secolo sono stati portati sotto l'altare maggiore, dove ancora si trovano. Certo che le lacune non mancano.» «È quasi sempre così con le reliquie.» «Per quattrocento anni ad Alessandria e poi di nuovo per quasi trecento a Venezia era risultato impossibile trovare il corpo di san Marco.» Il nunzio si strinse nelle spalle. «Questa è la fede, ministro.» «Alessandria ha sempre provato risentimento per quel furto», continuò la Zovastina. «Soprattutto dato il modo in cui per secoli Venezia ha venerato quel gesto, quasi i ladri avessero compiuto una missione santa, mentre sappiamo entrambi che si è trattato solo di politica. I veneziani hanno rubato in tutto il mondo. Erano furfanti su larga scala, che prendevano tutto ciò su cui riuscivano a mettere le mani per poi usarlo a proprio vantaggio. Probabilmente san Marco è stato il loro bottino più produttivo. Ancora oggi l'intera città ruota intorno a lui. Adesso aprono la tomba perché vescovi e nobili delle Chiese copte ed etiopi vogliono che il corpo venga restituito. Nel 1968, papa Paolo VI ha dato qualche reliquia al patriarca di Alessandria per tenerlo tranquillo, ma provenivano dal Vaticano, non da Venezia, e la cosa non ha funzionato. Rivogliono san Marco, e ne hanno discusso a lungo con Roma.» «Sono stato segretario di Clemente XV. Conosco benissimo queste dispute.» Da tempo sospettava che l'uomo che aveva di fronte fosse più di un nunzio. Il nuovo papa pareva scegliere con cura i suoi inviati. «Allora saprà meglio di me che la Chiesa non restituirà mai quel corpo. Ma a quanto pare il patriarca di Venezia, con l'approvazione di Roma, ha accettato un compromesso, parte del processo di riconciliazione col mondo portato avanti dal vostro papa africano. Alcune delle reliquie tratte dalla tomba verranno restituite. In questo modo, sono soddisfatte entrambe le parti. Ma si tratta di una questione delicata, soprattutto per i veneziani. Disturbare il loro santo!» Scosse la testa. «Per questo la tomba verrà aperta domani sera, in segreto, e, una volta rimossa parte dei resti, il sepolcro verrà richiuso. Nessuno ne saprà niente finché tra qualche giorno non verrà fatto un annuncio ufficiale del dono.» «È molto bene informata.» «Si tratta di un argomento che mi interessa. Il corpo nella tomba non appartiene a san Marco.» «No? E allora di chi sarebbe?» «Diciamo solo che il corpo di Alessandro Magno scomparve da Alessandria nel IV secolo, quasi nello stesso momento in cui ricomparve quello dell'evangelista. Marco era stato collocato in uno splendido sepolcro, che veniva venerato proprio come era accaduto a quello del condottiero macedone seicento anni prima. I miei esperti hanno studiato una grande quantità di testi antichi, alcuni dei quali sconosciuti...» «Quindi lei pensa che il corpo nella basilica di San Marco in realtà appartenga ad Alessandro Magno?» «Non sto affermando niente. Solo che oggi le analisi del DNA possono stabilire la razza. Marco era nato in Libia da genitori arabi; Alessandro era greco. Dovrebbero
esserci nette differenze cromosomiche. Mi hanno assicurato che anche studi sugli isotopi della dentina, tomografia e datazione con carbonio potrebbero dirci molto. Alessandro morì nel 323 a.C., Marco nel I secolo d.C. Anche per questo motivo, nei resti dovrebbero essere identificabili differenze scientifiche.» «Sta progettando di profanare il corpo?» «Non più di voi. Mi dica, cosa toglieranno?» Il prelato americano considerò la sua affermazione. Irina Zovastina aveva avuto la sensazione che fosse tornato a Samarcanda con molta più autorità delle occasioni precedenti. Era il momento di vedere se la sua intuizione era giusta. «Tutto quello che voglio è qualche minuto da sola col sarcofago aperto. Se ne toglierò qualcosa, nessuno se ne accorgerà. In cambio, la Chiesa potrà muoversi liberamente nella Federazione e vedere quanti cristiani trovano rifugio nel suo messaggio salvifico. Ma la costruzione di qualunque edificio dovrà essere approvata dal governo, e questo a protezione vostra oltre che nostra. Potrebbero scoppiare violenze se l'edificazione di una chiesa non fosse gestita con le dovute precauzioni.» «Ha intenzione di andare a Venezia di persona?» La donna annuì. «Gradirei una visita di basso profilo, approvata dal santo padre. Non è certo un segreto che la Chiesa ha stretti rapporti col governo italiano.» «Spero comprenda, ministro, che ciò che potrà trovare là potrà essere al massimo come la Sindone di Torino o le visioni mariane: una questione di fede.» Ma lei sapeva che poteva benissimo esserci anche qualcosa di conclusivo. Cos'aveva scritto Tolomeo nel suo enigma? Sfiora la parte più recondita della dorata illusione. «Qualche minuto da sola. Non chiedo altro.» Il nunzio pontificio rimase qualche istante in silenzio. «Darò istruzioni al patriarca di Venezia.» Aveva colto nel segno: non era tornato a mani vuote. «Quanta autorità per un semplice nunzio...» «Trenta minuti. Mercoledì, a partire dall'una di notte. Informeremo le autorità italiane che viene per presenziare a una funzione privata, su invito della Chiesa.» Lei annuì. «Organizzerò in modo che possa entrare nella basilica dalla Porta dei Fiori, nell'atrio occidentale. A quell'ora, in piazza non ci sarà quasi nessuno. Verrà sola?» Era stanca di quel prete invadente. «Se è un problema, forse dovremmo dimenticare la questione.» Michener aveva notato la sua irritazione. «Ministro, porti pure chi crede. Il santo padre vuole semplicemente renderla felice.»
Capitolo 30
Amburgo, Germania, ore 01.15 Viktor era seduto al bar dell'albergo, mentre Raffaele si trovava al piano di sopra a dormire. Avevano attraversato in auto la Danimarca ed erano arrivati in Germania. Amburgo era il luogo d'incontro prestabilito coi due esponenti del battaglione sacro che la Zovastina aveva mandato ad Amsterdam a recuperare la sesta moneta e che dovevano arrivare nella notte. Gli altri furti erano stati effettuati da lui e Raffaele, ma si stava avvicinando una scadenza e il primo ministro aveva ordinato che scendesse in campo una seconda squadra. Teneva in mano una birra e si godeva la pace, dato che i clienti che occupavano i séparé scarsamente illuminati erano davvero pochi. La Zovastina amava la tensione. Le piaceva tenere le persone sulla corda con pochi complimenti e molte critiche. Lo staff di palazzo, il battaglione sacro, i suoi ministri... nessuno voleva deluderla, ma aveva sentito che le parlavano dietro le spalle. Era interessante come una donna tanto sensibile al potere potesse diventare così incurante del risentimento che ne derivava. La lealtà era una pericolosa illusione. Raffaele aveva ragione, stava per succedere qualcosa. In quanto capo del battaglione sacro, Viktor aveva accompagnato parecchie volte il primo ministro al laboratorio tra i monti, a est di Samarcanda, quello dal suo lato del confine con la Cina, in cui lavoravano i suoi dipendenti, dove teneva i suoi batteri. Aveva visto i soggetti sottoposti ai test, presi dalle prigioni, e l'orribile fine che facevano. Era rimasto anche fuori della sala riunioni mentre complottava coi generali. La Federazione possedeva un esercito notevole, una discreta aviazione e un limitato potenziale di missili a corto raggio. Il tutto fornito e sovvenzionato a scopo difensivo in massima parte dall'Occidente, dato che Iran, Cina e Afghanistan confinavano tutti con la Federazione. Non l'aveva detto a Raffaele, ma lui sapeva cosa bolliva in pentola. L'aveva sentita parlare della confusione in Afghanistan, dove i talebani ancora si aggrappavano a un effimero potere; o dell'Iran, il cui presidente radicale agitava continuamente le sciabole; e del Pakistan, un Paese che esportava violenza senza il minimo controllo. Quelle nazioni erano il suo bersaglio iniziale. Sarebbero morti a milioni. Una vibrazione nella tasca lo fece sobbalzare. Prese il cellulare, osservò il display e rispose, lo stomaco stretto in un nodo ormai familiare. «Viktor, sono felice di averti trovato», esordì Irina Zovastina. «C'è un problema.» La ascoltò mentre gli raccontava di un incidente ad Amsterdam, dove due esponenti del battaglione sacro erano stati uccisi nel tentativo di prendere una moneta. «Gli americani hanno aperto un'inchiesta ufficiale. Vogliono sapere perché alcuni miei uomini sparavano ad agenti dei servizi segreti. Peraltro, è una buona
domanda.» Avrebbe voluto dire che con ogni probabilità l'avevano fatto per il terrore di deluderla, che aveva oscurato le capacità di giudizio facendoli agire in modo avventato. Ma sapeva che non era il caso, quindi si limitò a replicare che avrebbe preferito gestire lui stesso la faccenda. «D'accordo, Viktor, stanotte questa te la concedo. Ti eri detto contrario a una seconda squadra e io mi sono imposta.» Sapeva che non era il caso neppure di sottolineare quella concessione: era già incredibile che fosse arrivata a tanto. «Ma, ministro, vuole sapere cosa ci facevano là gli americani?» «Mi è venuto in mente.» «È possibile che siamo stati scoperti.» «Dubito che a loro importi di quello che facciamo. Mi preoccupano di più i nostri amici della Lega Veneziana. Soprattutto il ciccione.» «Già, però gli americani erano lì.» «Può essere stato un caso.» «Loro cosa dicono?» «I loro portavoce si rifiutano di fornire particolari.» «Ministro, abbiamo finalmente scoperto cosa stiamo davvero cercando?» «Ci ho lavorato molto. È stato lento, ma adesso so che la chiave per decifrare l'enigma di Tolomeo è trovare il corpo che un tempo occupava il Soma di Alessandria. Sono convinta che quello che stiamo cercando siano i resti di san Marco conservati a Venezia.» Quella era la prima volta che lo sentiva. «Ecco perché sto andando lì. Domani sera.» Ancora più stupefacente. «Sarà saggio?» «È necessario. Ti voglio con me nella basilica. Devi prendere l'altra moneta e farti trovare sul posto per l'una di notte.» «Sì, ministro.» Era l'unica risposta possibile. «E, Viktor, non mi hai ancora detto se abbiamo quella della Danimarca.» «Ce l'abbiamo.» «Dovremo fare a meno di quella di Amsterdam.» Notò che non era arrabbiata. Strano, considerando il fiasco. «Viktor, ho dato ordine che la moneta di Venezia fosse l'ultima per una ragione.» Che adesso conosceva anche lui. La basilica. E il corpo di san Marco. Ma era sempre preoccupato per gli americani. Per fortuna aveva controllato la situazione in Danimarca: tutti e tre i problemi che avevano cercato di ostacolarlo erano morti, e non c'era bisogno che la Zovastina fosse messa al corrente. «È da un po' che progetto la cosa», stava dicendo il ministro. «A Venezia troverete l'attrezzatura necessaria, quindi non andateci in auto ma in aereo. L'indirizzo è questo.» Gli comunicò nome e indirizzo di un magazzino, oltre al codice di accesso per una serratura elettronica. «Ciò che è accaduto ad Amsterdam non ha importanza. Quello che succederà a Venezia... è vitale. Voglio quell'ultima moneta.»
Capitolo 31
L'Aja, ore 01.10 Stephanie ascoltava con grande interesse Edwin Davis e il presidente Daniels che spiegavano cosa stava succedendo. «Cosa sa della zoonosi?» le chiese Davis. «È una malattia che può essere trasmessa dagli animali agli umani.» «È ancora più specifica», puntualizzò Daniels. «Si tratta di una malattia che normalmente esiste negli ammali in modo inoffensivo, ma che è in grado di infettare gli esseri umani con risultati devastanti. I più noti esempi del genere sono peste bubbonica, ebola, rabbia, influenza aviaria, persino la comunissima tigna.» «Non sapevo che la biologia fosse il suo forte, presidente.» Daniels rise. «In realtà non ne so niente, ma conosco molti esperti. Diglielo, Edwin.» «Sono noti circa millecinquecento germi patogeni di zoonosi. Metà se ne stanno tranquilli negli animali vivendo alle spalle dell'esemplare che li ospita, senza mai diventare aggressivi, ma, quando vengono trasmessi a un altro animale, uno per cui il germe patogeno non nutre istinti parentali, impazziscono. È esattamente così che ha avuto inizio la peste bubbonica. I ratti erano portatori della malattia, le pulci si alimentavano del sangue dei ratti e poi trasmettevano il virus agli esseri umani...» «Finché non abbiamo sviluppato una sorta di immunità nei confronti di quella maledetta roba», riprese Daniels. «Purtroppo era il XIV secolo e ci vollero alcuni decenni, durante i quali morì un terzo degli abitanti dell'Europa.» «L'epidemia di spagnola del 1918 era una zoonosi, vero?» domandò Stephanie. Davis annuì. «Si trasmise dagli uccelli agli umani, poi mutò e riuscì a passare da uomo a uomo, colpendo il venti per cento della popolazione mondiale e causando la morte del cinque per cento circa. Venticinque milioni di persone nei primi sei mesi. Tanto per dare un'idea, l'AIDS ha ucciso venticinque milioni di persone nei primi venticinque anni.» «E i numeri relativi al 1918 sono inattendibili, perché la Cina e il resto dell'Asia soffrirono terribilmente, ma non venne tenuto un conto accurato dei decessi», commentò Daniels. «Alcuni storici ritengono che nel mondo possano essersi verificate almeno cento milioni di morti.» «Un germe patogeno zoonotico rappresenta l'arma biologica perfetta», aggiunse Davis. «Non si deve fare altro che trovarne uno, poco importa che sia un virus, un batterio, un protozoo o un parassita. Basta isolarlo e quello infetterà a piacimento. Se si è intelligenti, se ne creano due versioni: una che passi soltanto da animale a umano, in modo da poter infettare direttamente la vittima; un'altra, mutata, che si trasmetta da uomo a uomo. La prima può venire usata per azioni mirate su bersagli specifici, con
un pericolo minimo che l'infezione possa espandersi oltre il soggetto prescelto; la seconda sarebbe un'arma di distruzione di massa: infetti un po' di persone e la moria diventa inarrestabile.» Stephanie si rese conto che quanto stava dicendo Edwin Davis era anche troppo reale. «Fermare queste cose è possibile», riprese Daniels. «Ma ci vuole tempo per isolare, studiare e sviluppare contromisure. Per fortuna, la maggior parte delle zoonosi conosciute ha un antidoto, per alcune esiste addirittura un vaccino che previene infezioni su vasta scala. Ma per sviluppare questo genere di contromisure serve davvero tanto tempo, e nel frattempo molte persone morirebbero.» Stephanie si chiedeva dove volessero andare a parare. «Che importanza ha tutto questo?» Davis prese una cartelletta dal tavolino di cristallo, accanto ai piedi nudi di Daniels. «Nove anni fa una coppia di oche a rischio venne rubata da uno zoo privato in Belgio. Più o meno nello stesso periodo, dei roditori a rischio e una rara specie di serpenti vennero sottratti a degli zoo in Australia e in Spagna. Di solito, fatti di questo tipo non sono significativi, ma abbiamo cominciato a fare ricerche e abbiamo scoperto che era successo almeno quaranta volte, in tutto il mondo. L'occasione per capirci qualcosa è venuta lo scorso anno in Sudafrica. I ladri sono stati catturati e ne abbiamo coperto l'arresto con delle finte morti. Considerando che le prigioni sudafricane non sono il posto migliore dove trascorrere qualche annetto, quelli hanno cooperato ed è così che abbiamo saputo che dietro i furti c'era Irina Zovastina.» «Chi ha svolto le indagini?» «Painter Crowe della Sigma», le rispose Daniels. «Loro si occupano del lato scientifico, ma adesso la questione è passata nelle tue mani.» Non le piaceva quell'affermazione. «Non sbaglio mai Painter non può continuare a occuparsene?» Daniels sorrise. «Dopo stasera? No, Stephanie, adesso è tutta tua.» «E quella moneta cosa c'entra?» «La Zovastina le sta collezionando, ed è questo il vero problema. Sappiamo che ha ammassato una bella scorta di zoonosi. Circa una ventina, all'ultimo conteggio. E tanto per chiarire, è stata intelligente e ne ha realizzato versioni multiple. Come ha detto Edwin, un tipo per eliminazioni mirate, l'altro per la trasmissione da uomo a uomo. Ha un laboratorio vicino a Samarcanda, ma quello che è interessante è che anche Enrico Vincenti possiede un laboratorio di studi biologici da quelle parti, per essere precisi in suolo cinese, appena oltre il confine. E alla Zovastina non dispiace andarci ogni tanto.» «Allora è per questo che volevate una raccolta di dati sul campo riguardo a Vincenti.» Davis annuì. «Conoscere il proprio nemico paga sempre.» «La CIA ha cercato di allargare qualche falla all'interno della Federazione», riprese Daniels scuotendo la testa. «Difficile. E un gran casino. Ma abbiamo fatto piccoli progressi.» «Avete un informatore?»
«Se vuoi chiamarlo così», replicò il presidente. «Io ho i miei dubbi. La Zovastina è un problema a molti livelli.» Stephanie capiva il suo dilemma. In una zona del mondo in cui l'America aveva pochi amici, Irina Zovastina si era apertamente definita tale. Parecchie volte si era dimostrata utile per qualche informazione di minore importanza che però aveva consentito di ostacolare l'attività terroristica in Afghanistan e in Iraq. Per pura necessità, gli Stati Uniti le avevano fornito denaro, sostegno militare ed equipaggiamenti sofisticati, il che era rischioso. «Mai sentito quella del tizio che sta guidando e vede un serpente in mezzo alla strada?» Stephanie sogghignò. Un'altra delle famose storielle di Daniels. «Il tizio si ferma e vede che il serpente è ferito, perciò se lo porta a casa e lo cura finché quello non si ristabilisce. Quando il serpente è guarito, apre la porta per lasciarlo andare, ma mentre sta uscendo la bestiaccia gli morde una gamba. Prima che il veleno gli faccia perdere i sensi, guarda il serpente e gli dice: 'Ti ho portato a casa, ti ho dato da mangiare, ti ho curato le ferite e tu mi ripaghi mordendo?' Il serpente si ferma e gli fa: 'Tutto vero. Ma quando l'hai fatto sapevi benissimo che ero un serpente'.» Lei recepì il messaggio. «La Zovastina sta tramando qualcosa in cui è coinvolto Enrico Vincenti. La guerra batteriologica non mi piace. Il mondo l'ha dichiarata illegale oltre trent'anni fa, e questa forma è la peggiore. Sta progettando qualcosa di terribile e la Lega Veneziana, di cui sono membri sia lei sia Vincenti, è al suo fianco a darle una mano. Per fortuna non si è ancora mossa, ma ho motivo di credere che potrebbe farlo presto. E gli imbecilli che le stanno intorno, in quelle che con leggerezza chiamano 'nazioni', non hanno idea di cosa stia succedendo, impegnati come sono a preoccuparsi di Israele e di noi. Sta usando a suo vantaggio quella stupidità, e pensa che sia stupido anch'io. È ora che sappia che l'abbiamo scoperta.» «Avremmo preferito rimanere nell'ombra ancora un po'», precisò Davis. «Ma l'uccisione delle sue guardie da parte di agenti dei servizi segreti l'ha di certo messa in allarme.» «Cosa volete che faccia?» Daniels fece un grosso sbadiglio, mentre lei soffocava il suo. Il presidente fece un gesto con la mano. «Non ti fare problemi. Che cavolo, è notte fonda. Non badare a me e sbadiglia quanto vuoi. Potrai dormire in aereo.» «Dove sono diretta?» «A Venezia. Se Maometto non va alla montagna, allora, per Dio, gliela portiamo noi la montagna!»
Capitolo 32
Venezia, ore 08.50 Vincenti entrò nel salone principale del suo palazzo e si preparò. Di solito non si disturbava ad assistere a quel genere di presentazioni, dato che la Philogen Pharmaceutique aveva reparti marketing e vendita con centinaia di impiegati, ma quella era speciale e richiedeva la sua presenza, quindi aveva organizzato un incontro privato in casa sua. Notò che l'agenzia pubblicitaria esterna, con sede a Milano, non aveva voluto correre rischi e aveva mandato quattro rappresentanti, tre donne e un uomo, di cui uno era il vicepresidente anziano. «Damaris Corrigan», si presentò una bella donna sulla cinquantina vestita in gessato blu. In un bollitore d'argento, fumava del caffè. Lui raggiunse il tavolino e se ne versò una tazza. «Non potevamo non chiederci se stesse per succedere qualcosa», disse la signora Corrigan. Vincenti si sbottonò la giacca e si sistemò in una poltrona. «Cosa intende?» «Quando sei mesi fa siamo stati ingaggiati, ci avete chiesto consigli sul marketing di un'eventuale cura per l'HIV, perciò abbiamo pensato che la Philogen fosse sul punto di realizzare qualcosa e, adesso che ci ha convocati per vedere il risultato dei nostri studi, abbiamo ritenuto possibile che ci fosse stata una svolta.» «Credo che lei abbia pronunciato la parola chiave: 'possibile'. Di certo la nostra speranza è di essere i primi a trovare una cura, dopotutto stiamo spendendo milioni nella ricerca, ma, se dovesse verificarsi una svolta, e non si può mai sapere quando possa verificarsi una cosa del genere, non voglio essere costretto ad attendere mesi per avere un efficace piano di promozione.» Fece una pausa. «No, non c'è ancora niente di definitivo, ma è sempre meglio essere pronti in anticipo.» La sua ospite accettò la spiegazione con un cenno del capo, quindi si diresse verso un cavalletto. Vincenti lanciò un'occhiata a una delle donne seduta accanto a lui, una snella brunetta di non più di trenta o trentacinque anni stretta in un'attillata gonna di lana. Si chiese se fosse un direttore dell'ufficio clienti o avesse solo un ruolo decorativo. «Nelle ultime settimane mi sono dedicata a letture davvero affascinanti», iniziò la Corrigan. «A quanto pare, l'HIV sembra avere una personalità multipla, a seconda della parte del globo in cui si diffonde.» «C'è del vero nella sua osservazione», replicò Vincenti. «Qui e in luoghi come gli Stati Uniti la malattia è relativamente controllabile. Non è più una delle maggiori cause di morte, dato che farmaci sintomatici hanno più che dimezzato il tasso di
mortalità e la gente semplicemente ci convive. In Africa e in Asia, però, la questione è del tutto diversa, e in tutto il mondo lo scorso anno le vittime dell'HIV sono state tre milioni.» «E questa è stata la nostra prima mossa: identificare il mercato potenziale.» La pubblicitaria ripiegò all'indietro il primo foglio, bianco, del grande blocco posto sul cavalletto, mostrando un grafico. «Queste cifre rappresentano la stima più recente di casi di infezione da HIV a livello mondiale.» REGIONI
MALATI
Nord America
1.011.000
Europa Occidentale
988.000
Australia-Area del Pacifico
22.000
America Latina
1.599.000
Africa Subsahariana
20.778.000
Caraibi
536.000
Europa Orientale
2.000
Mediterraneo Sudorientale
893.000
Nordest Asiatico
6.000
Sudest Asiatico
11.277.000
Totale
37.112.000
«Qual è la fonte dei dati?» chiese Vincenti. «L'Organizzazione Mondiale della Sanità. E questo rappresenta il mercato totale attualmente interessato a una cura.» La donna passò alla pagina successiva. «Questo grafico rende più preciso il mercato disponibile. Come può vedere, i dati mostrano come approssimativamente un quarto del totale delle infezioni da HIV abbia già esitato in una manifestazione di sindrome da immunodeficienza acquisita. Nove milioni di individui infettati dall'HIV in questo momento hanno un AIDS conclamato.» REGIONI
MALATI
Nord America
555.000
Europa Occidentale
320.500
Australia-Area del Pacifico 14.000 America Latina
573.500
Africa Subsahariana
6.300.000
Caraibi
160.500
Europa Orientale
10.800
Mediterraneo Sudorientale 15.000 Nordest Asiatico
17.600
Sudest Asiatico
1.340.000
Totale
9.306.900
La Corrigan passò al terzo grafico. «Questo mostra le proiezioni per i prossimi cinque anni. I dati provengono sempre dall'Organizzazione Mondiale della Sanità.» REGIONI
PROIEZIONI
Nord America
8.150.000
Europa Occidentale
2.331.000
Australia-Area del Pacifico
45.000
America Latina
8.554.000
Africa Subsahariana
33.609.000
Caraibi
6.962.000
Europa Orientale
20.000
Mediterraneo Sudorientale
3.532.000
Nordest Asiatico
486.000
Sudest Asiatico
45.059.000
Totale
108.748.000
«Stupefacente. Presto nel mondo potremmo avere centodieci milioni di persone colpite dall'HIV. Le statistiche attuali indicano che il cinquanta per cento di quei soggetti alla fine svilupperà l'AIDS e che il quaranta per cento dei malati sarà morto entro due anni. Ovviamente la maggior parte dei decessi si verificherà in Africa e in Asia.» La Corrigan scosse la testa. «Mercato promettente, non le pare?» Vincenti metabolizzò le cifre. Considerando una media di settanta milioni di casi di HIV, anche a un cauto cinquemila euro l'anno per le cure, qualunque trattamento avrebbe generato inizialmente trecentocinquanta miliardi di euro. È vero, una volta curata la popolazione infetta il mercato si sarebbe ridotto. E allora? Si sarebbero già fatti i soldi, più di quanto chiunque potrebbe mai riuscire a spendere in una vita. In seguito ci sarebbero senz'altro state nuove epidemie con conseguenti vendite, certo, non in termini di miliardi come nella campagna iniziale, ma comunque con un guadagno continuo. «La nostra analisi successiva riguarda la concorrenza. Da quanto siamo riusciti a scoprire dall'OMS, al momento per la cura sintomatica dell'AIDS vengono usati all'incirca sedici farmaci prodotti da una dozzina di case farmaceutiche. Le vendite dei vostri medicinali lo scorso anno hanno di poco superato il miliardo di euro.» La Philogen possedeva il brevetto di sei farmaci che, usati in combinazione con altri, si erano dimostrati efficaci nell'arrestare il virus. Anche se, in media, ci volevano circa cinquanta pillole al giorno della cosiddetta terapia cocktail perché la
cura funzionasse davvero. E non si trattava di una vera cura, perché in realtà la valanga di medicine si limitava a confondere il virus, ed era solo una questione di tempo perché la natura riuscisse a battere i microbiologi. Ceppi di HIV resistenti ai farmaci erano già comparsi in Asia e in Cina. «Abbiamo dato un'occhiata alla combinazione di terapie», riprese la pubblicitaria. «Un regime di tre farmaci costa mediamente circa ventimila euro all'anno, ma questa forma rappresenta sostanzialmente un lusso occidentale. Non esiste in Africa e in Asia. La Philogen offre farmaci a prezzo ridotto ad alcuni governi interessati, ma per trattare quei pazienti allo stesso modo ci vorrebbero miliardi di euro all'anno, e si tratta di cifre che nessun governo africano è in grado di stanziare.» Il suo staff del marketing gli aveva già detto la stessa cosa. Le cure non erano un'opzione realistica per il Terzo Mondo e l'unico sistema per limitare la crisi a un costo accettabile consisteva nel fermare il propagarsi dell'HIV. I preservativi erano la prima arma a disposizione e una delle consociate della Philogen non riusciva neppure a produrne con sufficiente rapidità. Nel corso degli ultimi due decenni, le vendite erano cresciute del mille per cento, ma ultimamente l'uso dei profilattici aveva visto un calo costante. La gente stava diventando distratta. «Secondo la sua stessa propaganda», stava dicendo la Corrigan, «uno dei vostri avversari, la Kellwood Lafarge, soltanto lo scorso anno ha speso oltre cento milioni di euro in ricerche per una cura per l'AIDS. Voi ne impiegate circa un terzo.» Vincenti sorrise. «Competere con la Kellwood Lafarge è un po' come andare a pesca di balene con canna e mulinello. È la maggiore conglomerata farmaceutica del pianeta. Difficile rispondere dollaro su dollaro quando chi hai contro fattura oltre cento miliardi di euro l'anno.» Sorseggiò il caffè mentre la pubblicitaria passava a un grafico privo di scritte. «Staccandoci da tutto questo, diamo uno sguardo ad alcune idee per il prodotto. Il nome, per esempio, è fondamentale per qualunque farmaco. Al momento, per i sedici farmaci sintomatici in commercio le denominazioni sono molto diverse: Bactrim, Diflucan, Intron, Pentam, Videx, Crixivan, Hivid, Retrovir. Dato che l'eventuale cura verrebbe utilizzata in tutto il mondo, riteniamo che una designazione più semplice e più universale, come AZT, potrebbe essere migliore da un punto di vista di marketing. Da quanto ci è stato detto, la Philogen sta sviluppando otto possibili terapie.» La donna passò al foglio successivo, che mostrava esempi di packaging. «Non abbiamo modo di sapere se la cura sarà in forma solida o liquida, da assumere oralmente o per iniezione, perciò abbiamo creato vari tipi di confezione mantenendo i colori del vostro logo nero e oro.» Vincenti studiò le proposte. La Corrigan indicò il cavalletto. «Abbiamo lasciato vuoto lo spazio per il nome, da inserire in lettere d'oro. Al riguardo stiamo ancora lavorando, ma la cosa importante rispetto a questo schema è che anche se il nome non viene tradotto nelle varie lingue, la confezione sia sufficientemente originale da poter essere riconosciuta in modo immediato.» Era soddisfatto, ma ritenne fosse meglio evitare un sorriso. «Io ho un possibile nome. Qualcosa che ho in mente da un po'.»
La Corrigan pareva interessata. Vincenti si alzò, raggiunse il cavalletto, aprì un pennarello e scrisse ZH. Notò l'espressione perplessa sul volto dei presenti. «Zeta. Eta. Greco antico. Significa 'vita'» La Corrigan assentì. «Molto appropriato.» Ne era convinto anche lui.
Capitolo 33
Isola di Vozroždenija, Federazione Centroasiatica, ore 13.00 Irina Zovastina era eccitata. Il suo staff aveva assicurato che si sarebbero presentati in cinquemila, ma mentre erano in volo in elicottero diretti a nordovest di Samarcanda, il suo segretario le aveva riferito che erano più di ventimila ad aspettare il suo arrivo. Ulteriore dimostrazione della sua popolarità, le aveva detto. E, adesso, vedendo il pandemonio di calorosità, perfetto per le telecamere della televisione puntate sul palco, lei non poté non sentirsi compiaciuta. «Guardatevi intorno. Guardate quello che possiamo ottenere quando cuore e cervello lavorano all'unisono.» Pausa a effetto. «Kantubek è rinata.» La folla gridò la propria approvazione con un entusiasmo che cominciava a esserle familiare. L'isola di Vozroždenija si trovava nel lago d'Aral, una zona remota che un tempo aveva ospitato il gruppo per la Microbiologia Bellica dell'Unione Sovietica, e forniva un tragico esempio dello sfruttamento del continente asiatico da parte dei precedenti padroni. Era lì che venivano sviluppati e conservati le spore di antrace e i bacilli della peste. Dopo la caduta del governo comunista, nel 1991, i tecnici del laboratorio avevano abbandonato l'isola e i contenitori che custodivano i germi mortali da cui, nel decennio successivo, si erano verificate delle perdite. Il potenziale disastro biologico era stato accresciuto dal fatto che il grande lago si ritirava. Alimentato dal possente Amu Darya, l'Aral un tempo era condiviso da Kazakistan e Uzbekistan, ma quando i sovietici avevano cambiato il corso del Darya, deviandone il flusso in un canale lungo milleduecento chilometri per utilizzarne le acque per la coltivazione del cotone, il mare interno che un tempo era stato uno dei maggiori bacini mondiali d'acqua dolce aveva cominciato a scomparire, sostituito da un deserto incapace di sostenere la vita. Ma lei aveva cambiato tutto quello. Adesso il canale non esisteva più e il fiume era tornato come all'origine. La maggior parte dei suoi omologhi era condannata a imitare i predecessori, ma il suo cervello non era mai stato atrofizzato dalla vodka e aveva sempre tenuto gli occhi fissi sul premio finale, imparando sia a conquistare sia a mantenere il potere. «In questo luogo sono state neutralizzate duecento tonnellate di antrace comunista», riferì alla folla. «Ogni grammo del loro veleno è scomparso, e abbiamo fatto in modo che fossero i sovietici a pagare per questo.» La gente ruggì la sua approvazione. «Lasciate che vi dica una cosa. Una volta liberi dal giogo mortale di Mosca, hanno avuto la faccia tosta di affermare che dovevamo loro del denaro.» Sollevò in alto le
braccia. «Ve lo immaginate? Hanno violentato la nostra terra. Distrutto il nostro lago. Inquinato il suolo coi loro germi. Ed eravamo noi a dovere dei soldi?» Vide migliaia di teste scuotersi all'unisono. «È proprio quello che ho detto io: no!» Scrutò le facce che la fissavano, illuminate dal forte sole del mezzogiorno. «Perciò abbiamo fatto in modo che fossero i sovietici a pagare per ripulire il disastro che avevano fatto. E abbiamo chiuso il loro canale, che risucchiava la vita dal nostro antico lago. Sono certa che molti di voi, come me, ricordano le tigri, i cinghiali selvatici, e gli uccelli acquatici che prosperavano nel delta dell'Amu Darya. I milioni di pesci che nuotavano nel lago d'Aral. I nostri scienziati sanno che un tempo lì vivevano centosettantotto specie, ma oggi ne rimangono soltanto trentotto. Il progresso sovietico... I pregi del comunismo...» Fece un ghigno. «Criminali, ecco cos'erano. Puri e semplici criminali.» Il canale era stato un fallimento non solo dal punto di vista ambientale, ma anche strutturale. Infiltrazioni e inondazioni erano frequenti e, al pari degli stessi sovietici, che badavano poco all'efficienza, il canale perdeva più acqua di quanta non portasse a destinazione. E il lago d'Aral si era prosciugato. Alla fine, l'isola di Vozroždenija era diventata una penisola collegata alla riva, e aveva cominciato a crescere la paura che mammiferi e rettili terrestri potessero portare in giro le letali tossine biologiche. Non più. Ora il suolo era pulito, dichiarato tale da una squadra di ispettori delle Nazioni Unite che aveva giudicato il risultato eccellente, Irina sollevò in aria il pugno chiuso. «E abbiamo detto a quei criminali sovietici che se avessimo potuto li avremmo condannati tutti a marcire nelle nostre prigioni.» Nuovo ruggito di approvazione della folla. «La città di Kantubek, nella cui piazza principale ci troviamo, è risorta dalle ceneri. I sovietici l'avevano ridotta a macerie, ma ora qui vivranno i liberi cittadini della Federazione, in pace e armonia, su quest'isola rinata anch'essa a nuova vita. E lo stesso Aral sta tornando com'era, il livello delle acque che cresce ogni anno, il deserto creato dall'azione dell'uomo che riprende a essere il fondale del lago. Questo è un esempio di ciò che possiamo realizzare. La nostra terra. La nostra acqua.» Una pausa. «La nostra storia!» La folla esplose in un boato. Il suo sguardo passò in rassegna i volti pieni dell'aspettativa che le sue parole parevano generare. Amava stare tra la gente, e la gente amava lei. Raggiungere il potere era una cosa. Mantenerlo era tutt'altra faccenda. E lei aveva intenzione di mantenerlo. «Concittadini, sappiate che possiamo fare qualunque cosa se lo vogliamo. Quanti in tutto il mondo avevano affermato che non saremmo riusciti a formare un'unione? Quanti dicevano che ci saremmo divisi e sarebbe scoppiata una guerra civile? Quanti sostenevano che eravamo incapaci di governarci? Per due volte abbiamo avuto delle elezioni nazionali, aperte e libere, con molti candidati. Nessuno può contestare la correttezza di entrambe le competizioni elettorali.» Fece una pausa. «Abbiamo una costituzione che garantisce i diritti umani, oltre alla libertà personale, politica e intellettuale.» Si stava godendo quel momento. La riapertura dell'isola di Vozroždenija era senza
dubbio un evento che richiedeva la sua presenza. La televisione della Federazione, oltre a tre nuove emittenti indipendenti riconducibili a esponenti della Lega Veneziana cui lei aveva concesso l'autorizzazione, stava divulgando il suo messaggio in tutta la nazione. Quei nuovi proprietari di canali televisivi avevano privatamente promesso il controllo sulla loro produzione, il tutto in base al cameratismo offerto dall'appartenenza alla Lega Veneziana, e lei era contenta della loro presenza. Era difficile sostenere che controllasse i media quando le apparenze dicevano il contrario. Spostò lo sguardo sulla città ricostruita, sugli edifici di pietra e mattoni realizzati nello stile di un secolo prima. Kantubek sarebbe stata di nuovo popolata. Il suo ministro degli Interni le aveva riferito che in diecimila avevano già fatto richiesta per le assegnazioni di terra sull'isola, ulteriore indizio della fiducia che la gente aveva in lei dato che in quel luogo soltanto vent'anni prima non sarebbe potuto sopravvivere niente. «La stabilità è la base di tutto!» Il suo slogan, usato ripetutamente nel corso degli ultimi quindici anni. «Oggi, battezziamo quest'isola in nome del popolo della Federazione Centroasiatica. Che la nostra unione possa durare per sempre.» Scese dal podio tra le grida festanti della folla. Tre sue guardie le si avvicinarono subito per scortarla lontano dal palco. L'elicottero era pronto a partire, così come l'aereo che l'avrebbe portata a Venezia, dove l'attendeva la risposta a tante domande.
Capitolo 34
Venezia, ore 14.15 Malone rimase accanto a Cassiopea mentre l'amica pilotava il motoscafo in laguna. Erano arrivati da Copenhagen con un volo diretto, atterrato all'aeroporto Marco Polo un'ora prima. Aveva già visitato Venezia molte volte durante lo svolgimento di incarichi per la Sezione Magellano, quindi si trattava di un territorio familiare, con un nucleo compatto lungo all'incirca tre chilometri e largo uno e mezzo. La prua dell'imbarcazione era puntata a nordest, lontano dal centro, per condurli oltre Murano, l'isola dei vetrai, fino a Torcello, una di quelle strisce di terra che punteggiano la laguna veneziana. Avevano affittato la lancia vicino all'aeroporto: un'agile imbarcazione di legno con cabine a poppa e a prua, i cui vivaci motori fuoribordo facevano rimbalzare lo scafo sulle onde corte, agitando le acque verdi in una schiuma chiara. Mentre facevano colazione, Cassiopea lo aveva aggiornato sull'ultima moneta. Lei e Thorvaldsen avevano seguito i movimenti dei ladri per tutta l'Europa, notando ben presto che il decadracma di Venezia e quello di Samarcanda erano stati ignorati. Per quel motivo erano stati ragionevolmente certi che la moneta di Copenhagen sarebbe stata la successiva e, dopo il furto della quinta a un collezionista privato francese tre settimane prima, avevano aspettato con pazienza. «Tenevano per ultima la moneta di Venezia per un motivo», strillò Cassiopea per superare il rumore dei motori. Un vaporetto che procedeva nella direzione opposta li superò scoppiettando. «Suppongo che tu voglia sapere il perché.» «Mi è passato per la mente.» «Ely riteneva che i resti di Alessandro Magno si trovino nella tomba di san Marco.» Idea interessante. Insolita. Folle. «È una lunga storia, ma potrebbe avere ragione», riprese lei. «Il corpo nella basilica di San Marco è presumibilmente una mummia vecchia di duemila anni. San Marco era stato mummificato ad Alessandria nel I secolo d.C, mentre Alessandro è più vecchio di trecento anni. Ma nel IV secolo, quando Alessandro sparì dalla sua tomba, ad Alessandria comparvero all'improvviso i resti di san Marco.» «Voglio sperare che abbiate qualche prova in più.» «Irina Zovastina è ossessionata da Alessandro Magno. Ely mi ha raccontato tutto in proposito. Ha una collezione privata di arte greca, una costosa biblioteca, si vanta di essere un'esperta di Omero e dell'Iliade e adesso manda in giro le sue guardie a rubare monete dell'elefante senza lasciare tracce. Inoltre la moneta di Samarcanda non è stata toccata.» Scosse la testa. «Hanno lasciato questo furto per ultimo per poter essere vicini a san Marco.»
«Sono stato all'interno della basilica», insistette Cotton. «Il sarcofago del santo si trova sotto l'altare maggiore. Pesa tonnellate. Servono sollevatori idraulici e un sacco di tempo per entrarci, ed è impossibile considerando che la basilica è la principale attrazione turistica.» «Non so come intenda farlo, ma sono convinta che tenterà di arrivare a quella tomba.» Prima però, rifletté Malone, a quanto pareva avevano bisogno della settima moneta. Si allontanò dal timone e scese tre gradini per entrare nella cabina di prua, dotata di tende con le nappe, sedili ricamati e lucido mogano. All'aeroporto aveva acquistato una guida di Venezia e decise di imparare quanto più poteva su Torcello. I romani erano stati i primi a risiedere sulla minuscola isola nel V secolo, poi, nell'VIII, gli abitanti della terraferma in fuga dall'invasione di longobardi e unni l'avevano rioccupata. Nel XVI secolo vivevano ventimila persone su quel lembo di terra, a formare una fiorente colonia tra chiese, conventi, palazzi, mercati e un attivo centro di trasporti marittimi. Entrambi i mercanti che nell'828 avevano trafugato da Alessandria il corpo di san Marco erano cittadini di Torcello. La guida l'indicava come il luogo in cui «per la prima volta Roma incontrò Bisanzio». Uno spartiacque. A ovest c'erano le Houses of Parliament. A est il Taj Mahal. Poi, febbri pestilenziali, malaria e limo che ostruiva i canali portarono al declino. I suoi abitanti più intraprendenti si trasferirono a Venezia, le attività mercantili cessarono e tutti i palazzi vennero dimenticati. Alla fine costruttori di altre isole andarono a scavare tra le macerie in cerca della pietra giusta o della cornice scolpita, e piano piano tutto scomparve. La palude reclamò la terra asciutta e ormai meno di sessanta persone vivevano in una manciata di case. Malone guardò fuori del finestrino e vide una torre di mattoni rossi, alta, orgogliosa e solitaria, che puntava verso il cielo, proprio quella riprodotta in una foto sulla guida. Lesse il relativo paragrafo e scoprì che il campanile si ergeva accanto all'ultimo vero motivo di fama artistica di Torcello: la cattedrale di Santa Maria Assunta, costruita nel VII secolo e più antico luogo di culto presente in laguna. Vicino a essa, stando alla guida, c'era una chiesa tozza dalla pianta a croce greca, eretta oltre seicento anni dopo: Santa Fosca. Il rombo dei motori diminuì mentre Cassiopea rallentava e il motoscafo si abbassò sull'acqua. Malone tornò accanto a lei al timone e dritto avanti a sé vide sottili strisce color ocra di banchi di sabbia avvolti da canne, giunchi e cipressi contorti. L'imbarcazione rallentò ulteriormente e si infilarono in un canale fangoso coi moli fiancheggiati da un lato da campi incolti e dall'altro da una stradina lastricata. Alla loro sinistra, un vaporetto portava i passeggeri all'unico approdo dei mezzi di trasporto pubblici. «Torcello», sentenziò Cassiopea. «Speriamo solo di essere arrivati per primi.» Viktor, seguito da Raffaele, scese dal vaporetto che li aveva portati da piazza San Marco a Torcello dopo un laborioso e scoppiettante giro della laguna. Aveva scelto i mezzi pubblici perché erano il modo meno appariscente per raggiungere l'obiettivo di
quella sera. Seguirono un gruppo di turisti armati di macchina fotografica diretto verso le due famose chiese dell'isola su una sorta di marciapiede che correva lungo un languido canale. Il viottolo terminava nei pressi di un gruppo di bassi edifici in pietra che ospitavano un paio di ristoranti, qualche venditore di souvenir e un alberghetto. Viktor aveva studiato per tempo la struttura dell'isola e sapeva che si trattava di una minuscola striscia di terra con fattorie con produzione di carciofi e qualche lussuosa abitazione. Le principali attrazioni erano due antiche chiese e un ristorante. Erano arrivati in aereo da Amburgo, con scalo a Monaco, e, dopo aver portato a termine l'incarico, sarebbero tornati alla Federazione e a casa, ormai concluse le razzie in Europa. Per ordine del primo ministro, Viktor doveva riuscire ad avere in mano la settima moneta prima di mezzanotte, dato che era atteso nella basilica di San Marco per l'una. La visita della Zovastina a Venezia era molto insolita. Qualunque cosa avesse previsto, a quanto pareva doveva avere avuto inizio. Ma perlomeno quel furto prometteva di essere una bazzecola. Malone guardò dall'alto l'eleganza architettonica del campanile, un ammasso di marmo e mattoni ingegnosamente tenuto insieme da archi e pilastri. Raggiungeva i quarantacinque metri e la salita su rampe che si avvitavano lungo le mura esterne gli aveva ricordato la Torre Rotonda di Copenhagen. Avevano pagato i sei euro del biglietto per studiare l'isola dal punto più elevato. Si appoggiò al muretto che gli arrivava al petto tra gli archi aperti e osservò la terra e l'acqua che parevano inseguirsi in uno stretto abbraccio. Aironi bianchi si alzarono in volo da una palude erbosa mentre frutteti e campi di carciofi si estendevano tranquilli. Una scena cupa che pareva ambientata in una città fantasma del west americano. Al di sotto c'era la cattedrale, per nulla calda o accogliente, con una struttura quasi simile a quella di un granaio che la faceva sembrare incompiuta. Malone aveva letto sulla guida che era stata costruita in fretta da uomini che pensavano che il mondo sarebbe finito nell'anno mille. «È una grande allegoria. Una cattedrale bizantina accanto a una chiesa greca. Oriente e occidente fianco a fianco, proprio come a Venezia.» Davanti alle due chiese si apriva una piazzetta infestata dalle erbacce, un tempo centro della vita cittadina. Viottoli polverosi si dipartivano verso l'esterno, un paio che portavano a un secondo canale, altri che giungevano tortuosi fino a lontane fattorie. Altri due edifici davano sulla piazzetta, entrambi piccoli, a due piani e col tetto a due spioventi, che assieme formavano il Museo dell'Estuario. La guida riferiva che secoli prima erano stati dei palazzi occupati da ricchi mercanti ma che ora erano di proprietà dello Stato. Cassiopea indicò l'edificio sulla sinistra. «La moneta è lì, al piano superiore. Non è granché come museo: frammenti di mosaico, capitelli, qualche quadro, qualche libro e appunto delle monete. Manufatti greci, romani ed egizi.» Malone si voltò a osservarla mentre lei continuava a fissare lo sguardo in
lontananza. A sud si stagliava il profilo di Venezia, i campanili tesi verso il cielo che scuriva coi colori di un temporale in arrivo. «Cosa ci facciamo qui?» Cassiopea non rispose subito. Cotton allungò la mano e le sfiorò il braccio, e al contatto lei si chiuse in se stessa ma non si ritrasse. Gli occhi le si riempirono di lacrime, e Malone si chiese se la triste atmosfera di Torcello non le avesse risvegliato memorie che sarebbe stato meglio lasciare sopite. «Questo posto ormai è andato», mormorò Cassiopea. Erano soli in cima al campanile, il pigro silenzio disturbato unicamente dal rumore dei piedi, delle voci e delle risa di altri al di sotto che iniziavano a salire. «Lo stesso vale per Ely», replicò lui. «Mi manca.» La donna si morse il labbro. Chissà se quel lampo di sincerità implicava una crescente fiducia. «Non puoi farci niente.» «Non direi.» Non gli piaceva il suono delle sue parole. «Cos'hai in mente?» Cassiopea non rispose e lui non insistette, mettendosi invece a guardare con lei oltre il tetto della chiesa. Qualche bancarella che vendeva pizzi, oggetti in vetro e souvenir fiancheggiava una stradina che portava dal paese alla piazzetta coperta d'erba. Un gruppo di turisti si dirigeva verso le chiese e tra loro Malone individuò una faccia familiare. Viktor. «Lo vedo anch'io», disse Cassiopea. Intanto altre persone avevano raggiunto la cima della torre campanaria. «L'uomo accanto a lui è quello che ha tagliato le gomme della macchina.» Osservarono i due andare dritti al museo. «Dobbiamo scendere da qui», disse Cotton. «Potrebbero decidere anche loro di fare una ricognizione dall'alto. Ricordati che sono convinti che siamo morti.» «Proprio come questo posto.»
Capitolo 35
Venezia, ore 15.20 Stephanie saltò giù dal taxi e percorse il dedalo di strette calli. Aveva chiesto informazioni in albergo e le stava seguendo meglio che poteva, ma Venezia era un immenso labirinto. Si trovava a Dorsoduro, un quartiere tranquillo e pittoresco, percorrendo affollati vicoli pieni di fiorenti attività commerciali. In fondo, individuò il palazzo. Rigidamente simmetrico, con un'aria di perduta signorilità, la sua bellezza derivava dal piacevole contrasto dei muri di mattoni rossi venati di rampicanti color smeraldo e illuminati da trine di marmo. Superò un cancello di ferro battuto e annunciò la sua presenza bussando al portone. Aprì una donna più anziana dall'espressione vaga che indossava un'uniforme da domestica. «Vorrei vedere il signor Vincenti», esordì Stephanie. «Gli dica che gli porto i saluti del presidente Daniels.» La donna la squadrò con aria strana e lei si chiese se avesse riconosciuto il nome del presidente degli Stati Uniti, quindi, per non correre rischi, le consegnò un foglietto piegato. «Glielo dia, per piacere.» La cameriera esitò, poi chiuse la porta e Stephanie rimase ad aspettare. Due minuti dopo, la porta si riaprì. Fu quasi spalancata, questa volta, e lei venne invitata a entrare. «Presentazione affascinante», l'accolse Vincenti. Si sedettero in una stanza rettangolare sotto un soffitto dorato e l'eleganza dell'ambiente era evidenziata dalla pacata lucentezza della vernice a lacca che senza dubbio aveva coperto i mobili per secoli. Annusò l'umido profumo e le parve di cogliere odore di gatti misto a sentore di cera al limone. Il padrone di casa sventolò il suo bigliettino. «'Mi manda il presidente degli Stati Uniti.' Notevole come affermazione.» Sembrava compiaciuto dell'importanza che di riflesso ricadeva su di lui. «Lei è un uomo interessante, signor Vincenti. Nato nello Stato di New York, cittadino americano di nome August Rothman.» Scosse la testa. «Sono curiosa. Come mai ha cambiato nome in Enrico Vincenti?» L'uomo si strinse nelle spalle. «Questione d'immagine.» «Solo perché ha un'aria più... europea?» «In realtà quel nome è frutto di lunghe riflessioni. Enrico viene da Enrico Dandolo, quarantunesimo doge di Venezia alla fine del XII secolo: organizzò la quarta Crociata che conquistò Costantinopoli e mise fine all'impero bizantino. Un uomo notevole. Leggendario, direi. Il cognome, invece, l'ho preso da un altro veneziano del XII secolo, un nobile e monaco benedettino. Quando tutta la sua famiglia perse la vita nel mar Egeo, chiese e ottenne la dispensa dai voti monastici, si sposò e coi suoi figli creò cinque nuove linee di discendenza. Tipo pieno di risorse. Ne ammiravo la
flessibilità.» «E così è diventato Enrico Vincenti, aristocratico veneziano.» «Suona bene, no?» «Vuole che continui con quello che so?» Lui diede l'assenso con un cenno del capo. «Ha sessant'anni, è laureato in biologia alla North Carolina, ha fatto un master alla Duke e il dottorato in virologia al Johns Innes Institute della University of East Anglia, in Inghilterra. Lì è stato ingaggiato da un'azienda farmaceutica pakistana legata al governo iracheno. Ha lavorato con gli iracheni al primo programma di armi batteriologiche, appena Saddam era arrivato al potere nel 1979: a Salman Pak, a nord di Baghdad, coordinato dal Centro Ricerche Tecnologiche che supervisionava gli studi sui germi. Anche se nel 1972 l'Iraq aveva firmato la Convenzione sulle armi biologiche, Saddam non l'ha mai ratificata. Lei è rimasto con loro fino al 1990, appena prima della guerra del Golfo. A quel punto hanno chiuso tutto e lei ha levato le tende.» «Tutto giusto, signora Nelle, o posso chiamarla Stephanie?» «Faccia come vuole.» «D'accordo, allora, Stephanie, come mai il presidente degli Stati Uniti mi trova tanto interessante?» «Non ho finito.» Con un gesto della mano l'invitò a continuare. «Antrace, botulino, colera, peste, ricina, salmonella, persino vaiolo: lei e i suoi colleghi vi siete dilettati con tutto questo.» «Ma alla fine i vostri a Washington non hanno stabilito che era tutta un'invenzione?» «Possibile che lo fosse nel 2003, quando Bush ha ordinato l'invasione, ma è sicuro come l'oro che nel 1990 le cose non stavano così. Allora, era tutto vero. Quello che mi piaceva di più era l'esantema del cammello. Voi criminali pensavate fosse l'arma perfetta: più sicura da maneggiare in laboratorio rispetto al vaiolo, ma perfetta arma di pulizia etnica, dato che in generale gli iracheni ne erano immuni grazie al contatto quotidiano coi cammelli da secoli. Tutt'altra questione per occidentali e israeliani. Una zoonosi letale.» «Altra invenzione», replicò Vincenti. Stephanie si chiese quante volte avesse pronunciato la stessa menzogna con la medesima convinzione. «Troppi documenti, foto e testimoni per poter nascondere la verità. È per questo che lei ha lasciato l'Iraq dopo il 1990.» «Sia obiettiva, Stephanie, negli anni '80 nessuno pensava che la guerra batteriologica fosse un'arma di distruzione di massa. A Washington neanche interessava. Bisogna ammettere che Saddam ne aveva visto il potenziale.» «Be', adesso sappiamo come stanno le cose. È un pericolo notevole. In realtà, molti ritengono che la prima guerra batteriologica non sarà un evento catastrofico, ma piuttosto un conflitto regionale di scarsa portata. Uno Stato canaglia contro il suo vicino, odio locale e uccisioni indiscriminate su cui la morale globale non avrà il mimmo peso. Qualcosa di simile alla guerra Iran Iraq degli anni '80, in cui alcuni dei
vostri virus vennero usati sulle persone.» «Teoria interessante, ma non è un problema del suo presidente? Perché dovrei preoccuparmene?» Stephanie decise di cambiare tattica. «La sua compagnia, la Philogen Pharmaceutique, è un capitolo della sua vita di grande successo. Lei personalmente possiede due milioni e quattrocentomila azioni, che rappresentano all'incirca il quarantadue per cento della società, la maggiore partecipazione azionaria singola. Una conglomerata considerevole. Patrimonio di poco al di sotto dei dieci miliardi di euro, che include il cento per cento della proprietà di aziende che producono cosmetici, sapone, surgelati e una catena europea di grandi magazzini. Ha acquistato la compagnia quindici anni fa praticamente per niente...» «Sono certo che le sue ricerche avranno mostrato che all'epoca era sull'orlo della bancarotta.» «Fatto che fa sorgere la domanda su come e perché sia riuscito ad acquistarla prima e a salvarla poi.» «Mai sentito parlare di offerta pubblica? La gente ha investito.» «Non proprio. È stato lei a versare la maggior parte del capitale iniziale. Circa quaranta milioni di dollari, secondo la nostra stima. Lavorando per un governo canaglia aveva risparmiato un bel gruzzolo.» «Gli iracheni erano generosi. Avevano anche un eccellente servizio sanitario e uno splendido sistema pensionistico.» «E molti di voi ne hanno approfittato. All'epoca tenevamo sotto controllo parecchi dei microbiologi più importanti, lei incluso.» A Vincenti parve di cogliere una certa tensione nella voce della donna che aveva di fronte. «La sua visita ha una ragione?» «Lei è più di un uomo d'affari. Un ottimo imprenditore, a detta di tutti. Ma la sua compagnia è sovraesposta; la sua gestione del debito sta mettendo sotto pressione tutte le sue risorse, e tuttavia lei continua a crescere.» Edwin Davis l'aveva istruita bene. «Daniels sta cercando buoni investimenti? Quanto gli resta? Tre anni alla fine del mandato? Gli dica che posso trovargli un posto nel mio consiglio di amministrazione.» Stephanie si infilò la mano in tasca e gli lanciò la busta con la moneta dell'elefante. L'uomo l'afferrò con rapidità sorprendente. «Sa cos'è?» Vincenti studiò il decadracma. «Si direbbe un uomo che combatte contro un elefante, e qui un uomo in piedi con una lancia. Mi spiace, la numismatica non è il mio forte.» «Già, la sua specialità sono i batteri. Quando dopo la prima guerra del Golfo gli ispettori dell'ONU l'hanno interrogata sul programma iracheno di sviluppo di armi batteriologiche, lei ha detto che non era stato sviluppato niente. Tanta ricerca, ma l'impresa aveva pochi fondi ed era gestita male.» «Sa tutte le tossine che ha menzionato? Sono ingombranti, difficili da conservare e quasi impossibili da controllare. Per niente pratiche come armi. Avevo ragione.»
«Tipini intelligenti come lei possono risolvere quei problemi.» «Non sono così bravo.» «Ha detto anche questo, ma erano in molti a non condividere la sua affermazione.» «Non dovrebbe ascoltarli.» «Tre anni dopo aver lasciato l'Iraq, la Philogen Pharmaceutique si era rimessa in piedi e lei faceva parte della Lega Veneziana.» Lo osservò per vedere se le sue parole provocavano una reazione. «Quell'affiliazione aveva un prezzo, e piuttosto alto a quanto si dice.» «Non credo sia illegale per uomini e donne godere della reciproca compagnia.» «Non siete il Rotary.» «Abbiamo uno scopo, esponenti di un certo livello, e ci impegniamo a portare avanti la nostra missione. A me pare sia lo stesso in tutti gli altri circoli assistenziali che conosco.» «Non ha ancora risposto alla mia domanda. Mai visto prima una moneta come questa?» Lui gliela restituì. «No.» Cercò di interpretare quell'uomo dalla stazza imponente il cui volto era ingannevole quanto la voce. Da ciò che le era stato riferito, si trattava di un virologo mediocre con una cultura normale che aveva fiuto per gli affari. Ma poteva anche essere il responsabile della morte di Naomi Johns. Era il momento di scoprirlo. «Lei non è intelligente neanche la metà di quanto crede.» Vincenti si tirò indietro un ricciolo ribelle dei capelli radi. «La cosa si sta facendo noiosa.» «Se è morta, lo è anche lei.» Lo osservò di nuovo in cerca di una reazione. Lui parve mettere sui piatti della bilancia il minimo di verità che avrebbe potuto ammettere e una menzogna che la donna non avrebbe tollerato. «Abbiamo finito?» Stephanie si alzò. «A dire il vero, abbiamo appena cominciato.» Sollevò la moneta. «Su una faccia di questa moneta, nascoste tra le pieghe del mantello del guerriero, ci sono delle lettere. Incredibile come gli antichi potessero incidere una cosa simile, ma ho controllato con degli esperti e mi hanno assicurato che ci riuscivano. Le lettere funzionavano come la filigrana. Strumenti di sicurezza. Questa moneta ne ha due: ZH. Zeta Eta. Hanno un significato per lei?» «Nessuno.» Ma Stephanie colse negli occhi dell'uomo un lampo d'interesse, o forse di sorpresa. Forse addirittura un nanosecondo di shock. «Ho chiesto a degli esperti di greco antico e dicono che ZH significa 'vita'. Interessante, no? Che qualcuno si sia preso la briga di incidere delle minuscole lettere con un simile messaggio, considerando che all'epoca avrebbero potuto leggerle in pochissimi, visto che le lenti erano praticamente sconosciute.» L'uomo si strinse nelle spalle. «La cosa non mi riguarda.» Vincenti aspettò cinque minuti buoni dopo che il portone del suo palazzo si fu chiuso. Era seduto nel salone e lasciò che il silenzio placasse la sua ansia, soltanto un
frullo di ali in gabbia e il ticchettio dei becchi dei suoi canarini a increspare l'immobilità del momento. Un tempo il palazzo era stato proprietà di un bon vivant dai gusti intellettuali che, secoli prima, ne aveva fatto un centro della società letteraria veneziana. Un altro proprietario aveva sfruttato la posizione sul Canal Grande fornendo assistenza alle molte processioni dei funerali, utilizzando la stanza in cui si trovava in quel momento come teatro per le autopsie e punto di sosta dei cadaveri. In seguito, dei contrabbandieri avevano scelto la casa come centro di smistamento e tenuto lontani i curiosi mettendo in giro sinistre leggende sull'edificio. Gli sarebbe piaciuto moltissimo vivere in quei giorni. Stephanie Nelle, impiegata del dipartimento di Giustizia, presumibilmente inviata dal presidente degli Stati Uniti, l'aveva turbato. Non per qualcosa che gli americani sapevano del suo passato, visto che questo ben presto sarebbe diventato irrilevante, e neppure per ciò che era accaduto all'agente che avevano mandato a spiarlo, dato che era morta e sepolta e non sarebbe mai stata ritrovata. No, gli faceva male lo stomaco a causa delle lettere sulla moneta. ZH. Zeta. Eta. Vita. «Può entrare, adesso.» Peter O'Conner comparve nella stanza dopo aver ascoltato l'intera conversazione dal salottino adiacente, e assieme a lui si intrufolò nel salone anche uno dei molti gatti di Vincenti. «Cosa ne pensa?» «È una messaggera che sceglie con cura le sue parole.» «La moneta che mi ha mostrato è proprio quella che cerca la Zovastina. Si adatta perfettamente alla descrizione che ho letto ieri nella relazione che lei mi ha consegnato all'albergo.» E tuttavia ancora non sapeva perché quelle monete fossero tanto importanti. «Ci sono novità. Irina Zovastina sta venendo a Venezia. Oggi.» «In visita ufficiale? Non ho sentito niente in proposito.» «Non ufficiale. Arriva e riparte stasera. Volo privato. Accordi speciali del Vaticano con la dogana italiana. Ha chiamato un informatore per dirmelo.» Adesso sapeva. Non c'era dubbio che stesse per succedere qualcosa, e Irina Zovastina era molti passi avanti a lui. «Dobbiamo scoprire quando arriva e dove va.» «Ci sto già lavorando. Saremo pronti.» Ed era ora che si muovesse anche lui. «Tutto a posto a Samarcanda?» «Basta che lei dia il via.» Decise di sfruttare l'assenza della sua nemica; non aveva senso aspettare il fine settimana. «Faccia preparare il jet, partiamo entro un'ora. Ma mentre non ci siamo, si assicuri di scoprire con esattezza cosa ci fa qui il primo ministro.» O'Conner assentì. «Un'ultima cosa. Devo mandare un messaggio a Washington, di quelli che si capiscono alla perfezione. Faccia uccidere Stephanie Nelle. E si impossessi della moneta.» In fondo, era quella la cosa che lo preoccupava di più.
Capitolo 36
Ore 17.50 Malone si gustò il suo piatto di linguine. Viktor e il suo socio avevano lasciato l'isola un'ora prima, dopo aver trascorso venti minuti nel museo e poi ispezionato l'area circostante la cattedrale, in particolare il giardino che separava la chiesa dal canale dei Borgognoni, una via d'acqua simile a un fiume che si estendeva tra Torcello e la successiva isoletta. Lui e Cassiopea li avevano osservati da punti diversi, e Viktor non era parso accorgersi di niente, concentrato com'era sull'incarico da svolgere e sicuro del proprio anonimato. Dopo che i due se ne erano andati col vaporetto, Cotton e Cassiopea erano tornati verso le case e uno dei venditori di souvenir li aveva informati che la Locanda Cipriani era considerata da decenni uno dei più famosi ristoranti di Venezia e dintorni. Ogni sera, erano in molti ad arrivare lì in barca per godere dell'ambiente, e all'interno, tra soffitti di legno, pavimenti in cotto e bassorilievi, era appesa una serie di fotografie autografate che immortalavano personaggi come Hemingway, Picasso, Carlo e Diana, la regina Elisabetta, Churchill. Avevano preso posto in giardino, sotto una pergola di rose profumate all'ombra delle due chiese e del campanile, un'oasi di pace incastonata tra alberi di melograno sul punto di fiorire. Doveva ammetterlo: il cibo era eccellente. E anche Cassiopea sembrava affamata. Dopotutto, nessuno dei due aveva mangiato dopo la colazione a Copenhagen. «Tornerà quando farà buio», disse la donna, tranquilla. «Un altro falò?» «Sembrerebbe il loro sistema, anche se non è necessario. Nessuno sentirà la mancanza di quella moneta,» Dopo che Viktor se ne era andato, si erano avventurati nel museo. Cassiopea aveva ragione: non c'era molto lì dentro, giusto frammenti di colonne, capitelli, mosaici e qualche quadro. Al piano superiore, due traballanti vetrine mostravano pezzi di vasellame, gioielli e antichi oggetti di uso domestico, tutti presumibilmente ritrovati a Torcello e dintorni. La moneta dell'elefante era custodita in una teca in mezzo a diverse altre. Malone aveva notato che l'edificio era privo di sistema di allarme o di guardie, e l'unico inserviente, una donna robusta con camice bianco, pareva preoccuparsi soltanto che nessuno scattasse fotografie. «Ammazzerò quel figlio di puttana», mormorò Cassiopea. La dichiarazione non lo sorprese. Aveva percepito una rabbia crescente mentre si trovavano sul campanile. «Sei proprio convinta che Irina Zovastina abbia fatto uccidere Ely.» La donna smise di mangiare. «Qualche prova oltre al fatto che la sua casa è stata incendiata?»
«È stata lei. Lo so.» «A dire il vero non sai un accidente.» La donna rimase immobile. Oltre il giardino, il crepuscolo cominciava ad avere la meglio. «So quanto basta.» «Cassiopea, stai saltando alle conclusioni. Concordo con te che l'uso del fuoco sia sospetto, ma se è stata lei, devi scoprirne il motivo.» «Quando Gary era in pericolo, tu cos'hai fatto?» «L'ho riportato a casa. Sano e salvo.» Prima regola di una missione: mai perdere di vista lo scopo. «Non mi servono i tuoi consigli.» «Quello che ti serve è fermarti a pensare.» «Cotton, sta succedendo qualcosa di grosso, più di quanto credi.» «Che notizia!» «Vattene a casa e lasciami in pace.» «Non posso.» Una vibrazione nella tasca dei calzoni lo fece sobbalzare. Estrasse il telefonino, guardò il numero e prima di rispondere le disse che era Henrik. «Cotton, il presidente Daniels ha appena chiamato.» «Sono certo che aveva qualcosa di interessante da dire.» «Stephanie è a Venezia. L'hanno mandata a incontrare un certo Enrico Vincenti. Il presidente è preoccupato perché hanno perso i contatti.» «Perché ha chiamato te?» «Ti cercava, ma ho avuto la sensazione che sapesse che ti trovavi già lì.» «Non è una cosa difficile da verificare, dato il controllo elettronico dei passaporti che fanno in aeroporto. Basta sapere in quale nazione cercare.» «A quanto sembra aveva qualche idea in proposito.» «Perché hanno mandato qui Stephanie?» «Ha detto che Vincenti è collegato a Irina Zovastina. Conosco Vincenti. È un problema. Daniels mi ha detto anche che è scomparsa un'altra agente, di cui non hanno notizie da più di un giorno e ritengono sia morta. Ha detto che la conoscevi. Si chiamava Naomi Johns.» Malone chiuse gli occhi. Erano entrati nella Sezione Magellano nello stesso periodo e avevano lavorato insieme parecchie volte. Una brava agente. Anche migliore come amica. Era quello il problema della sua vecchia professione: succedeva di rado che qualcuno venisse licenziato. Si poteva abbandonare, andare in pensione o morire. Aveva presenziato anche a troppi funerali. «Vincenti è implicato nella faccenda?» «Daniels pensa di sì.» «Dimmi di Stephanie.» «È scesa al Montecarlo in calle degli Specchieri, dietro piazza San Marco.» «Perché Daniels non ha usato uno dei suoi?» «Ha detto che Naomi Johns era il loro agente sul posto, non c'era nessun altro. Sperava potessi contattarti e chiederti di dare una controllata a Stephanie. È possibile?» «Me ne occuperò senz'altro.»
«Come vanno le cose?» Malone squadrò Cassiopea dall'altra parte del tavolo. «Non bene.» «Di' a Cassiopea che il pacco che ha ordinato arriverà presto.» Riattaccò e le chiese se aveva chiamato Henrik. La donna annuì. «Tre ore fa, dopo avere individuato i nostri ladri.» «Stephanie è a Venezia e potrebbe essere nei guai. Devo andare a vedere cosa succede.» «Qui posso cavarmela da sola. Aspetteranno che sia buio prima di tornare. Ho chiesto. Di notte quest'isola è deserta, tranne che per chi viene a cenare qui. L'ultimo vaporetto salpa alle ventidue. Per quell'ora, se ne vanno tutti.» Un cameriere consegnò una scatola d'argento legata con un nastro rosso, oltre a una sacca di tela lunga circa un metro, anche quella chiusa da un bel fiocco. Spiegò che un taxi aveva consegnato entrambi qualche istante prima. Cotton gli diede due euro di mancia. Cassiopea aprì la scatola, sbirciò dentro e gliela passò. C'erano due pistole automatiche e delle riviste. Lui indicò la sacca. «E quella?» «Una sorpresina per i nostri ladri.» Non gli piacque affatto il tono della donna. «Tu vai a controllare Stephanie. È ora che Viktor veda un fantasma.»
Capitolo 37
Ore 21.40 Malone trovò l'hotel Montecarlo dove gli aveva detto Thorvaldsen, nascosto in una calle simile a un corridoio, una cinquantina di metri a nord della basilica. Si fece strada tra la folla fino a una porta a vetri ed entrò in un atrio dove un uomo mediorientale in camicia bianca, cravatta e calzoni neri aspettava dietro un bancone. «Parla inglese?» esordì Malone. L'uomo sorrise. «Certo.» «Sto cercando Stephanie Nelle. Americana. È scesa da voi.» Dall'espressione dell'uomo, capì che l'aveva individuata subito, quindi gli chiese il numero della stanza. L'uomo studiò la rastrelliera delle chiavi alle proprie spalle. «Duecentodieci.» Malone si diresse verso la scala di marmo. «Ma non c'è. È andata in piazza pochi minuti fa per un gelato. Ha appena lasciato la chiave.» Il portiere sollevò un pesante portachiavi d'ottone con inciso il numero 210. Com'era diversa l'Europa. In America quell'informazione gli sarebbe costata almeno cento dollari. Tuttavia sembrava esserci qualcosa di strano: Thorvaldsen aveva detto che Washington aveva perso i contatti con Stephanie, ma evidentemente era passata in albergo e, come tutti gli agenti della Sezione Magellano, aveva senz'altro un telefono satellitare. Eppure era uscita come niente fosse stato solo per andare a mangiare un gelato? «Ha idea di dove fosse diretta?» «Le ho consigliato di andare sotto i portici di fronte alla basilica. Lo fanno buono, lì.» Anche a lui piaceva il gelato, quindi, perché no? Cassiopea si appostò vicino al punto in cui il canale defluiva in mare, non distante dalla fermata dei vaporetti. Se il suo istinto si fosse dimostrato giusto, Viktor e il suo socio sarebbero tornati nelle due ore successive. L'oscurità avvolse l'isola. Rimaneva aperto soltanto il ristorante in cui avevano mangiato lei e Malone, ma sapeva che entro mezz'ora avrebbe chiuso anche quello. Aveva controllato le due chiese e il museo: tutto era stato sprangato e gli impiegati se ne erano andati da un'ora col vaporetto. Nella nebbia sempre più fitta riusciva comunque a individuare delle imbarcazioni che solcavano la laguna in tutte le direzioni, obbligate a seguire canali bene indicati che fungevano da strade sulle acque basse. Ciò che stava per fare avrebbe superato una linea morale che non aveva mai oltrepassato prima: aveva ucciso, certo, ma solo
se costretta. Quella volta era diverso. Era fredda e distaccata, e ciò le metteva paura. Ma lo doveva a Ely. Pensava a lui ogni giorno. Soprattutto al periodo trascorso in montagna. Cassiopea fissò lo sguardo sulla massa rocciosa che digradava in ripide colline, burroni, gole e precipizi. Aveva imparato che il Pamir era un luogo di violente tempeste e terremoti, di nebbie costanti e aquile che si libravano nel cielo. Desolato e solitario. Soltanto un abbaiare selvaggio spezzava il silenzio. «Ti piace, vero?» chiese Ely. «Mi piaci tu.» Il giovane sorrise. Trentenne, spalle ampie, viso tondo e occhi maliziosi, era uno dei pochi uomini che aveva incontrato in grado di farla sentire intellettualmente inadeguata, e amava quella sensazione. Le aveva insegnato tante cose. «Venire qui è uno dei compensi extra del mio lavoro.» Le aveva raccontato del suo rifugio tra i monti, a est di Samarcanda, vicino al confine cinese, ma era la prima volta che lo raggiungeva li. Lo chalet di tre stanze era costruito con solido legno e nascosto tra gli alberi a poca distanza dalla strada principale, a circa duemila metri di altitudine. Una breve camminata nel bosco li aveva portati a quello spuntone di roccia e alla spettacolare vista delle montagne. «È tuo lo chalet?» chiese lei. «È della vedova di un negoziante del paese. Me l'ha proposto l'anno scorso quando sono venuto in gita. I soldi dell'affitto l'aiutano a vivere e a me questo posto piace molto.» Amava i suoi modi pacati. Non alzava mai la voce né diceva parolacce. Era un uomo semplice innamorato del passato. «Hai trovato quello che cercavi?» «Qui?» chiese lui di rimando, indicando il terreno roccioso e il suolo color magenta. Lei scosse la testa. «No, in Asia.» Parve valutare seriamente la domanda e lei gli concesse il lusso di riflettere mentre osservava la neve rotolare giù da uno dei fianchi più lontani. «Credo di sì.» A quell'affermazione lei sorrise. «E cos'avresti ottenuto?» «Ho incontrato te.» Le lusinghe non avevano mai funzionato con lei. Gli uomini ci provavano sempre. Ma con Ely era diverso. «Oltre a questo.» «Ho imparato che il passato non muore mai.» «Ne puoi parlare?» L'abbaiare cessò e poterono udire il debole ticchettio di un ruscello in lontananza. «Non ora.» Lo abbracciò, lo strinse a sé e gli disse: «Quando sarai pronto». Al ricordo le si inumidirono gli occhi. Ely era stato speciale in tanti modi. La sua morte era stata un vero colpo, simile a quando le avevano detto che suo padre era deceduto e che sua madre si era arresa a un cancro che nessuno aveva mai diagnosticato. Troppo dolore. Troppe volte il cuore a pezzi.
Intravide un paio di luci gialle che si muovevano nella sua direzione, un'imbarcazione che puntava dritta su Torcello. Due taxi erano già arrivati e ripartiti, trasportando avventori per e dal ristorante. Poteva essere un terzo. Intendeva davvero quello che aveva detto a Malone. Ely era stato ucciso e lei non aveva prove, soltanto la sua pistola. Ma l'istinto non l'aveva mai tradita e Thorvaldsen aveva capito che aveva bisogno di una soluzione: era per quello che le aveva mandato, senza fare domande, la sacca di tela e la pistola. Odiava Irina Zovastina, e Viktor, e chiunque altro l'avesse fatta arrivare a tanto. Il motoscafo rallentò. L'imbarcazione a basso pescaggio era simile a quella che avevano noleggiato lei e Malone e si dirigeva all'ingresso del canale. Mentre il motoscafo si avvicinava, alla luce ambrata proveniente dal timone vide Viktor. Prima del previsto. Andava benissimo, perché voleva gestire la faccenda senza Malone. Stephanie attraversava tranquilla piazza San Marco, le alte cupole dorate della basilica illuminate nella sera. Sedie e tavolini si allungavano in file simmetriche dai portici, dove un paio di piccoli complessi musicali strimpellavano in allegra disarmonia. Il solito confuso ammasso di turisti, guide, venditori, accattoni e abusivi pareva ridotto dal tempo che volgeva al brutto. Superò i famosi pennoni di bronzo e l'imponente campanile, chiuso per la notte. Un odore di pesce, con pepe e un pizzico di chiodo di garofano, attirò la sua attenzione. Deboli chiazze di luce davano alla piazza una tonalità dorata e i piccioni, che di giorno la facevano da padroni, erano scomparsi. In un altro momento la scena sarebbe stata romantica, ma ora stava in guardia, pronta ad agire. Malone scrutò tra la folla in cerca di Stephanie, mentre le campane battevano le ventidue. Da sud soffiava una brezza che agitava l'aria ovattata di foschia. Sotto la giacca aveva nascosto una delle pistole che Thorvaldsen aveva fornito a Cassiopea. La basilica illuminata dominava un'estremità della vecchia piazza, un museo l'altra, il tutto addolcito da anni di gloria e splendore. Turisti si aggiravano tra i portici e guardavano le vetrine in cerca di possibili tesori. Trattorie, caffè e chioschi di gelato, protetti dalle intemperie, facevano parecchi affari. Osservò la piazza: lunga più o meno duecento metri per cento di larghezza e chiusa su tre lati da una serie di edifici che parevano formare un unico immenso palazzo di marmo. In mezzo a ombrelli ondeggianti individuò Stephanie che camminava in fretta per raggiungere i portici a sud. Lui rimase sotto quelli a nord e, tra la folla, uh uomo attirò la sua attenzione. Era solo, vestito con un soprabito verde oliva, le mani in tasca. Qualcosa nel modo in cui si era fermato e si era messo a correre sotto il portico, indugiando a ogni colonna, lo sguardo fisso avanti, mise in allerta Malone, che decise di approfittare del fatto di non essere stato visto per andare ad affrontare il problema. Teneva un occhio su Stephanie e uno sull'uomo dal soprabito verde. Gli ci volle appena un istante per
capire che lo sconosciuto stava seguendo la sua ex collega. Poi individuò un impermeabile beige alla fine dei portici: Stephanie aveva due corteggiatori. Malone continuò a camminare, assorbendo voci, risate, l'odore di un profumo. I due uomini si riunirono, quindi abbandonarono la posizione per svoltare a sinistra, affrettandosi verso il portico a sud sotto cui si era appena infilata Stephanie. Malone virò a sinistra, nella foschia, e attraversò rapido la piazza. I due procedevano paralleli a lui, le sagome illuminate sotto gli archi, con la flebile melodia prodotta dall'orchestra di un caffè che copriva tutti i suoni. Malone rallentò e passò in un labirinto di tavolini, vuoti a causa del maltempo, mentre sotto i portici Stephanie si era fermata davanti a una vetrina e studiava i gusti dei gelati esposti. I due inseguitori girarono l'angolo a circa tre metri da lei. Malone si avvicinò alla donna e le disse: «Quello con le scaglie di cioccolato è ottimo». Sul viso di lei si dipinse un profondo stupore. «Cotton, cosa...» «Non ora, abbiamo compagnia. Dietro di me, vengono da questa parte.» Stephanie guardò oltre la sua spalla e lui si voltò. Apparvero delle pistole. Spinse Stephanie lontano dal bancone e insieme lasciarono i portici per correre in piazza. Afferrò la pistola e si preparò allo scontro. Ma erano in trappola. Davanti a loro si estendeva una piazza grande come un campo da calcio. Non potevano andare da nessuna parte. «Cotton, ho tutto sotto controllo.» Lui sperò con tutto il cuore che avesse ragione. Viktor spinse lentamente il motoscafo lungo lo stretto canale e passò sotto un traballante ponte ad arco. Non aveva intenzione di ormeggiare alla fine del corso d'acqua, vicino al ristorante, ma voleva assicurarsi che il paesino si fosse svuotato per la notte. Era contento che il tempo fosse piovoso, con scrosci tipici dei temporali italiani provenienti dal mare, perché forniva loro maggiore protezione. Raffaele teneva d'occhio le rive buie. L'alta marea era arrivata due ore prima e questo avrebbe reso molto più accessibile il loro punto di sbarco. Aveva individuato il posto durante la ricognizione del pomeriggio: un molo di cemento adiacente la cattedrale, dove un pigro canale intagliava un ampio varco per tutta la larghezza dell'isola. Davanti a loro vide il paesino, buio e silenzioso. Nessuna imbarcazione. Provenivano direttamente dal magazzino che gli aveva indicato la Zovastina che, fedele alla propria parola, aveva organizzato tutto, facendogli trovare fuoco greco, armi e munizioni. In realtà non riteneva necessario dare alle fiamme il museo, ma il primo ministro aveva chiarito che non voleva lasciare tracce. «Sembra a posto», disse Raffaele. Pareva anche a lui. Perciò mise in folle il motore e invertì il senso di marcia.
Cassiopea sorrise. La sua ipotesi si stava dimostrando giusta. Non erano tanto pazzi da ormeggiare in paese ed era evidente che si sarebbero diretti all'altro canale, quello che scorreva vicino alla cattedrale. Osservò la sagoma dell'imbarcazione piegare di centottanta gradi e lasciare il canale, quindi allungò la mano alle sue spalle e trovò la pistola che le aveva mandato Thorvaldsen. Afferrò pistola e sacca di tela e lasciò il suo nascondiglio, gli occhi puntati sull'acqua. Viktor e il suo complice rientrarono in laguna. I motori aumentarono i giri e il motoscafo virò a destra, cominciando la circumnavigazione dell'isola. Cassiopea percorse a passo veloce la notte umida in direzione della chiesa, con un'unica fermata da fare lungo il tragitto.
Capitolo 38
Stephanie era stupita della presenza di Malone, che avrebbe potuto rintracciarla soltanto in un modo. In quel momento, però, non c'era il tempo di chiedere spiegazioni. «Adesso», disse nel microfono sul bavero. Tre schiocchi echeggiarono nella piazza e uno degli uomini armati si accartocciò sul selciato. Lei e Malone si gettarono a terra mentre l'altro aggressore cercava rifugio. Cotton reagì con l'abilità dell'agente che un tempo era stato: rotolò fino sotto i portici e sparò due colpi per stanare il secondo uomo, facendolo uscire allo scoperto nella piazza. La folla si sparpagliò con scatti frenetici e il panico si impadronì di piazza San Marco. Malone balzò in piedi e abbracciò un pilastro. L'aggressore si trovava a una quindicina di metri, preso tra i due fuochi della sua pistola e del fucile del cecchino che Stephanie aveva piazzato in cima a un edificio sul lato nord. «Ti spiacerebbe spiegarmi cosa succede?» chiese Malone senza togliere gli occhi di dosso allo sconosciuto. «Mai sentito parlare di esca?» «Certo, e su quell'amo c'è una donna impossibile.» «Ho degli uomini appostati.» Si azzardò a dare un'occhiata intorno, ma non vide niente. «Sono invisibili?» Si guardò intorno anche lei. Nessuno andava nella loro direzione: scappavano tutti verso la basilica. Le montò dentro una rabbia familiare. «La polizia sarà qui a secondi», affermò Malone. Stephanie si rese conto che questo poteva rappresentare un problema. Le regole della Sezione Magellano prevedevano che, se possibile, gli agenti non coinvolgessero i locali, perché di solito non solo non erano utili, ma si dimostravano assolutamente ostili, e ne aveva avuto prova diretta ad Amsterdam. «Si muove», avvertì Malone mentre si precipitava all'inseguimento. Lei lo seguì e disse a chi l'ascoltava al microfono di andarsene. Malone stava correndo verso un'uscita che dai portici conduceva lontano dalla piazza, nel dedalo buio delle calli veneziane, e sbucava su un piccolo ponte ad arco. Malone continuò a correre, tra la doppia fila di negozi chiusi che fiancheggiava la calle incredibilmente stretta e che, giusto davanti a lui, svoltava a destra. Alcuni passanti girarono l'angolo, quindi rallentò e nascose la pistola sotto la giacca, tenendo il dito saldo sul grilletto. Si fermò alla svolta successiva alla luce proveniente da una vetrina bagnata e prese bruschi respiri d'aria calda, per poi sbirciare con cautela dietro l'angolo.
Venne superato da una pallottola che, fischiando, andò a rimbalzare sulla pietra. «Ti sembra saggio?» chiese Stephanie, che nel frattempo l'aveva raggiunto. «Ah, non lo so. È un'operazione tua.» Provò a dare un'altra occhiata. Niente. Abbandonò la posizione e avanzò di corsa per un'altra decina di metri fino a dove la strada piegava ancora. Da lì in poi, c'erano altri negozi chiusi e una nebbiosa oscurità che poteva nascondere praticamente di tutto. Notò che Stephanie impugnava una pistola. «Sei diventata un piccolo agente operativo? Da quando giri armata?» «Pare che di recente mi sia diventato indispensabile.» Lo stesso valeva per lui. «Credo tu abbia ragione: tutto questo non è affatto saggio. Se va avanti così finiremo per farci sparare o arrestare. Cosa ci fai qui?» «Veramente volevo chiederlo io a te. Questo è il mio lavoro. Tu invece fai il libraio. Perché Daniels ti ha mandato qui?» «Ha detto di avere perso i contatti con te.» «Nessuno ha cercato di contattarmi.» «Si direbbe che il nostro presidente voglia coinvolgermi, ma non abbia la cortesia di chiederlo.» Dalla piazza alle loro spalle si udirono strilli e grida, ma lui aveva altre preoccupazioni in mente: Torcello. «Ho un motoscafo al molo dietro San Marco. Dovremmo riuscire ad arrivarci passando da lì.» Indicò una minuscola calle sulla destra. «E dove andiamo?» «A dare una mano a qualcuno che ha bisogno di aiuto persino più di te.» Viktor spense il motore e lasciò che l'imbarcazione toccasse delicatamente il molo di pietra. Erano avvolti da una silenziosa atmosfera di grigi ardesia, verdi fangosi e pallidi azzurri. La sagoma della chiesa si stagliava a trenta metri da loro, poco oltre una frastagliata serie di ispide ombre che delineava un giardino e un frutteto. Raffaele emerse dalla cabina di poppa con due zaini. «Otto pacchi e una tartaruga dovrebbero bastare. Se appicchiamo il fuoco al piano di sotto, il resto brucerà in fretta.» Raffaele era un esperto dell'antico miscuglio incendiario e Viktor ormai si fidava del suo giudizio. Lo osservò appoggiare a terra con cautela gli zaini e rientrare in cabina a prendere una delle tartarughe robot. «È pronto e carico.» «Come mai è un 'lui'?» «Non so. Mi pareva appropriato.» Viktor sorrise. «Ci serve una vacanza.» «Qualche giorno di libertà andrebbe proprio bene. Magari il ministro ce li darà, come premio.» «Il ministro non è tipo da premi.» «Qualche giorno alle Maldive sarebbe una meraviglia. Spiaggia su cui sdraiarsi, acqua calda...» «Puoi smettere di sognare, tanto non succederà.»
Raffaele si mise in spalla uno dei pesanti zaini. «Non c'è niente di male a sognare. Soprattutto qua fuori con questa pioggia.» Viktor afferrò la tartaruga. «Dentro e fuori. Preciso e veloce. Okay?» Il suo compagno annuì. «Dovrebbe essere una cosa facile.» Lo pensava anche lui. Cassiopea si trovava sotto il porticato anteriore della cattedrale, sfruttando l'ombra e le sei colonne per nascondersi. La nebbiolina era diventata una pioggia leggera, ma per fortuna la sera, pur umida, era calda. Un vento costante agitava acqua e rami, mascherando i suoni che aveva disperatamente bisogno di udire. Il motore della barca, per esempio, appena oltre il giardino alla sua destra, che ormai doveva avere già attraccato. C'erano due sentieri di ciottoli, uno dei quali portava a un molo di pietra che doveva senz'altro essere il punto di arrivo di Viktor, l'altro direttamente all'acqua. Doveva avere pazienza, lasciare che entrassero nel museo e raggiungessero il piano superiore. Dopodiché gli avrebbe somministrato una dose della loro stessa medicina.
Capitolo 39
Stephanie era in piedi accanto a Malone mentre lui spingeva l'imbarcazione lontano dal molo. Stavano arrivando lance della polizia che ormeggiavano agli appositi pali in fondo a piazzetta San Marco, i lampeggianti che striavano l'oscurità. «Sarà un bel putiferio», commentò Malone. «Daniels avrebbe dovuto pensarci prima di interferire.» Lui seguì i segnavia luminosi verso nord, parallelo alla riva, mentre arrivavano velocissime altre imbarcazioni della polizia, le sirene urlanti. Stephanie prese il telefonino satellitare, fece un numero, quindi si avvicinò a Malone e passò in viva voce. «Edwin, è fortunato a non essere qui perché la prenderei a calci in culo.» «Non lavora per me?» chiese Davis. «Avevo tre uomini in quella piazza. Perché non c'erano quando ho avuto bisogno di loro?» «Abbiamo mandato Malone. Ho sentito dire che vale quanto tre uomini.» «Chiunque lei sia, sappia che se di solito le sviolinate funzionano, in questa occasione sto dalla parte di Stephanie», intervenne Cotton. «Avete richiamato la squadra d'appoggio?» «Aveva lei e un cecchino sul tetto. Era sufficiente.» «Allora la prendo davvero a calci nel culo.» «Prima risolviamo la faccenda, poi potrà avere l'occasione di farlo.» «Ma cosa sta succedendo?» sbottò Stephanie. «Perché Cotton è qui?» «Aggiornatemi.» Stephanie mandò giù la rabbia e fornì un breve riassunto. «In questo momento in piazza c'è un gran casino.» «Non è necessariamente un male», commentò Davis. Il piano originale era vedere se Vincenti avrebbe agito. Degli uomini avevano fatto la posta davanti all'albergo di Stephanie tutta la sera e, quando era uscita, si erano precipitati nella sua stanza, di certo con l'intento di recuperare la moneta. Si chiedeva il motivo del cambio di strategia, che coinvolgeva Malone, ma si trattenne dal domandare, limitandosi a far notare a Davis che non le aveva ancora spiegato come mai Cotton fosse lì. «Cosa state facendo in questo momento?» chiese Davis evitando di nuovo di fornire spiegazioni. «Ci andiamo a cacciare in un altro guaio», replicò Malone, virando a sinistra in direzione nordest. «Ma non le ha ancora risposto.» «Vogliamo che piazza San Marco sia in subbuglio stanotte. Abbiamo scoperto che Irina Zovastina è in arrivo a Venezia. Dovrebbe atterrare entro le prossime due ore. Insolito, a dir poco, che un capo di Stato faccia una visita inaspettata a un altro Paese
senza motivo apparente. Dobbiamo capire cosa ci fa lì.» «Perché non glielo chiedete?» chiese Malone. «È sempre così collaborativo?» «È uno dei miei pregi.» «Signor Malone, sappiamo dell'incendio a Copenhagen e delle monete. Stephanie ne ha una con sé. Può darmi un attimo di tregua e aiutarci a risolvere la faccenda?» «Siamo messi così male?» intervenne Stephanie. «Più o meno.» «Dov'è diretta la Zovastina?» «Nella basilica, intorno all'una di notte.» «A quanto pare è ben informato.» «Merito di un informatore impeccabile. Talmente impeccabile da far nascere dubbi.» Ci fu un attimo di silenzio. «Non sono entusiasta di come stanno andando le cose», concluse infine Davis. «Ma, credetemi, non abbiamo scelta.» Viktor raggiunse lo spiazzo davanti alla chiesa e posò lo zaino su un pezzo di marmo intagliato a mo' di trono che veniva chiamato Sedia di Attila. Si presumeva che il re degli unni ci si fosse seduto, ma lui ne dubitava fortemente. Studiò il loro obiettivo finale. Il museo era un tozzo edificio rettangolare, all'incirca venti metri per dieci, con una serie di doppie finestre munite di grate su entrambi i piani. La piazzetta intorno a lui era punteggiata di alberi e oltre l'erba rasata mostrava resti di colonne di marmo e pietra intagliata. Il doppio portone di legno al centro del pianterreno del museo rappresentava l'unica entrata, si apriva verso l'esterno ed era sbarrato con una grossa trave annerita posta al centro e trattenuta da fermi di ferro, oltre a dei lucchetti alle due estremità. «Dagli fuoco», disse indicando il portone. Raffaele tolse una bottiglia di plastica da uno zaino e bagnò abbondantemente i lucchetti, quindi prese l'accendino e li avvolse in una brillante fiamma bluastra. Sostanza stupefacente. Persino il metallo soccombeva alla sua furia: non fino a fondere, ma quanto bastava a indebolirsi. Viktor osservò le fiamme ardere per circa due minuti prima di spegnersi. Cassiopea rimaneva di guardia a una trentina di metri dai due intensi punti di luce azzurrognola che simili a stelle lontane splendettero e si esaurirono. Due spinte con un palanchino e i ladri poterono aprire il portone del museo, portando all'interno il loro equipaggiamento. Vide che avevano uno dei marchingegni robot, il che significava che ben presto il museo dell'Estuario sarebbe andato in cenere. Uno dei due richiuse il portone, e il sagrato tornò a essere buio, umido e sinistro. Soltanto il ticchettio della pioggia sulle pozzanghere disturbava il silenzio. Rimase sotto il portico a contemplare quanto stava per fare, poi si accorse che la sbarra di legno che aveva tenuto chiuso il portone era rimasta all'esterno.
Viktor salì al primo piano con la scala a chiocciola, la vista che si adeguava alle tenebre. Si fece strada tra i radi oggetti esposti e raggiunse la vetrina centrale, dove si trovava la moneta dell'elefante. Raffaele era al pianterreno a sistemare i pacchetti di fuoco greco per provocare la massima distruzione possibile, mentre lui ne aveva portati due al primo piano. Con un rapido colpo del palanchino mandò in frantumi il vetro e, facendo attenzione alle schegge, recuperò la moneta. Dopodiché, gettò uno dei pacchetti nella vetrina mentre l'altro rimaneva sul pavimento. Difficile dire se la moneta fosse autentica, ma dal precedente esame a distanza gli era parso di sì. Guardò l'orologio. Erano le ventidue e quaranta, in anticipo sul previsto, quindi aveva tutto il tempo d'incontrare il primo ministro. Magari la Zovastina li avrebbe davvero premiati con qualche giorno di riposo. Scese al pianterreno. Nel pomeriggio avevano notato che il pavimento di entrambi i piani era di legno perciò, una volta che le fiamme avessero cominciato a svilupparsi da basso, dopo pochi minuti l'incendio avrebbe innescato anche i pacchetti al primo piano. Nell'oscurità, vide Raffaele chino sulla tartaruga, udì un clic e il marchingegno cominciò ad andarsene in giro. Il robot si fermò alla fine della stanza e iniziò a bagnare il muro esterno spargendo odoroso fuoco greco. «Tutto pronto», disse Raffaele. La tartaruga continuava a fare il suo dovere, indifferente al fatto che di lì a poco si sarebbe disintegrata. Era solo una macchina. Nessun sentimento. Nessun rimorso. Proprio quello che Irina Zovastina si aspettava da lui, rifletté. Raffaele spinse il portone. Che non si aprì. Spinse di nuovo. Niente. Viktor si avvicinò e appoggiò i palmi di piatto sul legno. La doppia porta era sbarrata dall'esterno. Venne preso da un accesso di rabbia e si scagliò contro il legno, senza altro risultato che farsi male alla spalla. Le spesse assi, tenute ritte da cardini di ferro, si rifiutavano di cedere. Il suo sguardo scrutò l'oscurità. Nella precedente ricognizione dell'edificio, aveva notato le sbarre alle finestre. Non rappresentavano un ostacolo, dato che progettavano di entrare e uscire dal portone, ma ora assumevano un significato molto diverso. Fissò Raffaele. Pur non riuscendo a vedere il viso del suo compagno, sapeva esattamente cosa stava pensando. Erano in trappola.
PARTE TERZA Capitolo 40
Samarcanda, martedì 21 aprile, ore 01.40 Vincenti scese con cautela la scaletta dell'aereo. Il viaggio da Venezia era durato quasi sei ore, ma non era la prima volta e aveva imparato a godersi le comodità del jet privato e a riposare durante il lungo volo. Peter O'Conner lo seguì nella notte tiepida. «Adoro Venezia, ma sarò felice di vivere qui», commentò Vincenti. «Tutta quella pioggia non mi mancherà di certo.» A lato della pista c'era un'auto in attesa verso cui Vincenti si diresse senza indugi, stendendo le gambe irrigidite per mettere in moto i muscoli stanchi. L'autista aprì la portiera posteriore. Vincenti salì mentre O'Conner prendeva posto sul sedile del passeggero, rimanendo separati da un divisorio in plexiglas che assicurava riservatezza. Sul sedile posteriore si trovava già un uomo dai capelli neri e la carnagione olivastra, i cui occhi scuri parevano trovare comica la vita in qualunque situazione. Aveva la mascella squadrata e il collo sottile coperti da una fitta barba corta e ispida, e anche a quell'ora della notte il suo giovane viso si mostrava attento e vivace. Kamil Karimovič Revin era il ministro degli Esteri della Federazione. Appena quarantenne, con credenziali scarse se non inesistenti, era generalmente considerato il leccapiedi del primo ministro e faceva esattamente quello che lei gli ordinava. Diversi anni prima, però, Vincenti aveva notato anche qualcos'altro. «Ben tornato», lo salutò Kamil. «Erano mesi che non passava di qui.» «Avevo parecchie cose da fare, amico mio. La Lega assorbe molto del mio tempo.» «Ho avuto contatti con altri esponenti del gruppo e molti stanno cominciando a scegliere il luogo in cui costruire la loro casa.» Uno degli accordi con la Zovastina prevedeva la possibilità per gli appartenenti alla Lega di trasferirsi nella Federazione. Un buon accordo per entrambe le parti: le case sarebbero state esentasse e, allo stesso tempo, l'afflusso di capitali sotto forma di beni, servizi e investimenti diretti avrebbe più che compensato la Federazione del mancato introito delle imposte fiscali. E per di più si sarebbe creato immediatamente un intero ceto ricco, senza gli effetti di ricaduta che le democrazie occidentali amavano imporre, in cui, ingiustamente, aveva sempre pensato Vincenti, pochi pagavano per molti. Gli esponenti della Lega erano stati incoraggiati ad acquistare lotti di terreno e parecchi, incluso lui, l'avevano fatto, pagando il governo, dato che grazie ai sovietici la maggior parte delle terre della Federazione era in mani pubbliche.
Vincenti in persona aveva fatto parte del comitato inteso a negoziare quell'aspetto del patto con la Zovastina, ed era stato uno dei primi acquirenti, con duecento acri di vallate e montagne in quello che un tempo era stato il Tagikistan orientale. «In quanti hanno concluso?» «Centodieci, finora. Gusti assai diversi nella scelta dell'ubicazione, anche se Samarcanda e dintorni sono stati i più gettonati.» «Vicino alla sede del potere. Ben presto questa città e Taskent diventeranno dei centri economici di livello mondiale.» L'auto lasciò il terminal e cominciò il tragitto di quattro chilometri verso la città. Già si pensava a costruire un nuovo aeroporto, e tre esponenti della Lega avevano approntato dei progetti per un impianto più moderno. «Come mai è venuto?» si informò Kamil. «Il signor O'Conner non è stato molto esauriente quando gli ho parlato.» «Abbiamo saputo del viaggio della Zovastina. Ha idea del perché sia andata a Venezia?» «Non ha lasciato detto niente, solo che sarebbe tornata presto.» «Dunque è a Venezia a fare non si sa cosa.» «E se scopre che lei è qui a complottare, siamo tutti morti. Si ricordi, non ci si può difendere dai suoi piccoli germi.» «Sono in grado di contrastare i suoi microbi.» Un sorriso si accese sui lineamenti asiatici. «Ed è in grado di ucciderla e farla franca?» Vincenti apprezzava la schietta ambizione dell'uomo. «Sarebbe stupido.» «Cos'ha in mente?» «Qualcosa di meglio.» «La Lega l'appoggerà?» «Il Consiglio dei Dieci ha autorizzato tutto quello che sto facendo.» Kamil sorrise. «Non tutto, amico mio. So come stanno le cose. Quell'attentato, per esempio. È stato lei, ne sono sicuro. E ha venduto la pelle del sicario. Come avrebbe potuto essere preparata, altrimenti?» Si interruppe. «Mi chiedo se verrò venduto anch'io allo stesso modo.» «Vuole succederle?» «Preferisco vivere.» Vincenti guardò fuori del finestrino i tetti piatti, le cupole azzurre e i minareti lunghi e sottili. Samarcanda sorgeva in una conca naturale, circondata dalle montagne. La notte mascherava la coltre di smog che copriva perennemente quell'antico territorio e, in lontananza, le luci delle fabbriche creavano un alone indistinto. Quello che un tempo forniva manufatti all'Unione Sovietica adesso sfornava il prodotto nazionale lordo della Federazione, e la Lega aveva già investito miliardi per la modernizzazione. Stavano per arrivarne altri, perciò aveva bisogno di sapere. «Quanto desidera diventare il nuovo primo ministro?» «Dipende. La Lega può fare in modo che accada?» «I germi della Zovastina non mi spaventano. E non dovrebbero spaventare neanche lei.»
«Ho visto tanti nemici morire all'improvviso. C'è da stupirsi che non se ne sia mai accorto nessuno. Ma le malattie della Zovastina fanno un buon lavoro. Giusto un raffreddore o un'influenza con esiti particolarmente nefasti.» Anche se i burocrati della Federazione, Zovastina inclusa, detestavano tutto quello che era sovietico, avevano imparato bene dai loro corrotti predecessori. Per questo Vincenti era sempre attento con le parole ma generoso con le promesse. «Non si ottiene niente senza rischiare.» Kamil si strinse nelle spalle. «Vero. A volte, però, i rischi sono eccessivi.» Vincenti spostò di nuovo lo sguardo su Samarcanda, un luogo così antico, risalente al V secolo a.C. La Città delle Ombre, Giardino dell'Anima, Gioiello dell'Islam, Capitale del mondo. Una diocesi cristiana prima dell'Islam e della conquista russa. Grazie ai sovietici, Taskent, duecento chilometri a nordest, era diventata molto più ampia e prospera, ma Samarcanda rimaneva l'anima della regione. «Personalmente, sto per fare un passo pericoloso. Il mio mandato in qualità di capo del Consiglio dei Dieci terminerà presto, quindi se vogliamo farlo, dobbiamo agire subito. Per lei è arrivato il momento di decidere. Ci sta o no?» «Dubito che vivrei abbastanza per vedere l'alba di domani, se dicessi di no. Ci sto.» «Sono felice che ci capiamo.» «E cos'è che starebbe per fare?» chiese il ministro degli Esteri. Gli occhi una volta di più sulla città che scorreva dietro il finestrino, vide una delle centinaia di moschee che dominavano il panorama, su cui spiccavano lettere in lingua araba vividamente illuminate e alte almeno un metro che proclamavano: Dio è immortale. Nonostante il passato storico, Samarcanda mostrava ancora una blanda solennità istituzionale, derivante da una cultura che da molto tempo aveva perso ogni traccia di immaginazione. La Zovastina pareva intenzionata a curare quel male. La sua visione era grandiosa e limpida. Dicendo a Stephanie Nelle che la storia non era il suo forte, Vincenti aveva mentito. In realtà, era il suo fine. Ma sperava di non commettere un errore ridando la vita al passato. Non importava. Era troppo tardi per tornare indietro. Perciò si rivolse al suo collaboratore nella cospirazione e rispose con franchezza alla domanda. «Cambiare il mondo.»
Capitolo 41
Torcello Viktor cercava di pensare in fretta, mentre la tartaruga continuava a lasciare una scia odorosa di fuoco greco. Pensò di forzare il portone con Raffaele, ma sapeva che lo spessore del legno e dell'asse all'esterno rendeva folle il tentativo. Le finestre parevano l'unica via d'uscita. «Raffaele, prendi uno dei pacchetti sottovuoto.» Decise per le finestre alla sua sinistra. Il compagno recuperò dal pavimento una delle buste di plastica. Il fuoco greco doveva poter indebolire il vecchio ferro delle sbarre e dei fermi che le tenevano contro il muro esterno, quanto bastava a consentire loro di forzarle. Prese una delle pistole che avevano avuto al magazzino e stava per sparare al vetro quando, dall'altra parte della stanza, una finestra andò in frantumi. Qualcuno aveva sparato dall'esterno. Come Raffaele, si accucciò per proteggersi, in attesa di vedere cosa sarebbe accaduto. La tartaruga continuava il suo ritmico spostamento, fermandosi e ripartendo ogni volta che incontrava un ostacolo. Non sapeva quanti fossero là fuori, né se lui e Raffaele fossero esposti al tiro dalle altre finestre. Era consapevole del pericolo che correvano e una cosa era chiara: dovevano fermare la tartaruga. Quello avrebbe concesso loro un po' di tempo, anche se in ogni caso non avevano idea del guaio in cui si erano cacciati. Cassiopea s'infilò la pistola nella cintura e prese l'arco di vetroresina che aveva tolto dalla sacca di stoffa. Thorvaldsen non aveva sindacato sul motivo per cui le servivano arco e frecce ad alta velocità e, quando glieli aveva chiesti, neanche lei sapeva se sarebbero davvero stati utili. Ora sì. Era a trenta metri dal museo, all'asciutto sotto il portico. Arrivando dall'altra parte dell'isola, si era fermata in paese e aveva preso una delle lampade a olio che illuminavano la banchina vicino al ristorante. Le aveva notate quando era arrivata assieme a Malone, ed era stata una delle ragioni della richiesta dell'arco. In un bidone della spazzatura nei pressi di una bancarella aveva trovato degli stracci e, mentre i ladri si occupavano della loro missione all'interno del museo, aveva preparato quattro frecce, avvolgendo strisce di stoffa attorno alla punta di metallo e inzuppandole con l'olio della lampada. I fiammiferi li aveva ottenuti durante la cena e la carta proveniva da riviste su un vassoio nel bagno. Diede fuoco alla stoffa infiammabile di due frecce e con molta attenzione ne incoccò una. Il suo bersaglio era la finestra al pianterreno che aveva appena mandato in frantumi con le pallottole. Se Viktor voleva un incendio, era proprio quello che
avrebbe avuto. Aveva imparato da bambina a tirare con l'arco. Non era mai andata a caccia, dato che detestava anche solo l'idea, ma si divertiva a fare pratica con regolarità sui bersagli nella sua tenuta in Francia. Era brava, soprattutto da lontano, perciò i trenta metri della piazzetta non rappresentavano un problema. E neppure le sbarre erano un deterrente: c'era molta più aria che ferro. Tese la corda. «Per Ely.» Viktor vide le fiamme sfrecciare attraverso la finestra rotta e finire contro l'alta lastra di vetro che proteggeva parte dei reperti in mostra. Qualunque cosa fosse a trasportare il fuoco, infranse il vetro che, andando in frantumi, portò con sé le fiamme sul pavimento. Come confermò un boato, la tartaruga era già passata da quella parte del museo a spargere fuoco greco. Le fiamme cambiarono subito da arancio e giallo a un blu intenso e il pavimento venne consumato. Ma non i pacchi sottovuoto. Notò che Raffaele aveva pensato la stessa cosa. Ce n'erano quattro, due sopra a delle vetrine e due per terra, uno dei quali comunicava la sua presenza con un'improvvisa cascata di fiamme. Viktor si tuffò sotto una teca, cercando rifugio dal calore. «Vieni qui!» Raffaele arretrò verso di lui. Ormai metà del pianterreno era in fiamme. Pavimento, pareti, soffitto e infissi, bruciava tutto. Fortunatamente il punto in cui si erano rifugiati non aveva ancora preso, ma sapeva che non ci sarebbe voluto molto. Vicino a lui, sulla destra, iniziava la scala che portava al primo piano e nel mezzo l'incendio non si era sviluppato, ma sapeva che salendo non avrebbero trovato un rifugio sicuro, dato che entro poco il fuoco avrebbe inghiottito ogni cosa. «La tartaruga... La vedi?» chiese Raffaele, avvicinandosi. Il marchingegno era sensibile al calore e programmato per esplodere quando la temperatura raggiungeva un livello predeterminato. «L'hai regolato sull'alto?» «No, basso. Volevo che questo posto bruciasse in fretta.» Viktor scrutò tra le fiamme e vide la tartaruga che continuava ad aggirarsi sul pavimento esalando fumi roventi come un drago dal respiro di fuoco. Dall'altra parte della stanza si ruppero altri vetri. Era difficile dire se fosse per il calore o per una pallottola. La tartaruga si diresse dritta verso di loro, emergendo dal fuoco e trovando una parte di legno che non aveva ancora attecchito. Raffaele si alzò e, prima che Viktor potesse fermarlo, si precipitò verso l'apparecchio. Disattivarlo era l'unico modo per interrompere il programma. Una freccia fiammeggiante trafisse il petto di Raffaele. I suoi abiti presero fuoco e Viktor schizzò in piedi, pronto a correre in aiuto del compagno, quando vide che la proboscide della tartaruga si ritirava e il marchingegno si fermava. Sapeva cosa stava per succedere. Si tuffò verso la scala, lanciandosi in avanti e arrampicandosi quasi carponi in una fuga disperata.
La tartaruga si accese. Cassiopea non intendeva colpire uno dei ladri, ma l'uomo era comparso proprio appena aveva scoccato la freccia, che andò a centrarlo in pieno petto incendiandogli i vestiti. Poi un'enorme sfera di fuoco prese a consumare l'interno del museo, il calore che montava fuori delle finestre rotte e faceva esplodere quelle ancora intere. Si gettò sul terreno bagnato, mentre il fuoco lambiva la notte attraverso le aperture mandate in frantumi. Lasciò il porticato della cattedrale e si sistemò di fronte alla torre campanaria. Almeno uno degli uomini era morto. Difficile stabilire quale, ma non aveva importanza. Si alzò in piedi e si spostò di fronte all'edificio a contemplare l'incendio nella prigione che aveva creato. Pronta a scagliare un'ultima freccia di fuoco.
Capitolo 42
Venezia Irina Zovastina era in piedi accanto al nunzio pontificio. Era atterrata un'ora prima e aveva trovato ad aspettarla sulla pista monsignor Michener, che aveva accompagnato lei e due delle sue guardie personali dall'aeroporto fino in centro città a bordo di un taxi privato. Non avevano potuto usare l'ingresso nord della basilica, che dava sulla piazzetta dei Leoncini, come inizialmente previsto, perché gran parte di piazza San Marco era stata chiusa a causa di una sparatoria, perciò si erano infilati in una calletta laterale ed erano entrati in basilica dagli uffici diocesani. Il nunzio pontificio aveva un aspetto diverso dal giorno precedente, tonaca e collarino da sacerdote rimpiazzati da abiti civili. A quanto pareva il papa si era davvero messo d'impegno per rendere quella visita molto discreta. Adesso si ritrovava all'interno della basilica, con soffitti e pareti illuminati dai mosaici in oro. Era più che evidente la natura bizantina dell'edificio, come fosse stata eretta a Costantinopoli e non in Italia. Sopra la sua testa c'erano cinque cupole semisferiche: della Pentecoste, di san Giovanni, di san Leonardo, dei Profeti, e quella sotto cui si trovava in quel momento, dedicata all'Ascensione. Grazie alla calda luminosità derivante da luci a incandescenza collocate in punti strategici, convenne tra sé che la chiesa si era giustamente guadagnata la definizione di «basilica d'oro». «Luogo rimarchevole», commentò Michener. «Non le pare?» «È quello che religione e affari possono realizzare quando si associano. I mercanti veneziani erano gli spazzini del mondo, e questa è la migliore testimonianza dei loro furtarelli.» «È sempre così cinica?» «I sovietici mi hanno insegnato che il mondo è un posto duro.» «E ai suoi dei porge mai dei ringraziamenti?» Lei sorrise. L'americano l'aveva studiata. Mai nelle loro conversazioni precedenti avevano parlato di quello in cui credeva. «I miei dei mi sono devoti quanto il vostro lo è a voi.» «Speravamo potesse riconsiderare il suo paganesimo.» Quella definizione la irritò, perché il termine implicava che in qualche maniera credere in molte divinità valesse meno che credere in una soltanto, e lei non la vedeva a quel modo. «Il mio credo mi è sempre andato benissimo.» «Non intendevo sottintendere che ci fosse qualcosa di male, solo che potremmo essere in grado di offrire nuove possibilità.» Dopo quella sera, la Chiesa cattolica le sarebbe stata ben poco utile. Avrebbe consentito contatti limitati all'interno della Federazione, quel tanto che bastava per mettere i bastoni tra le ruote ai musulmani radicali, ma non avrebbe mai permesso a un'organizzazione in grado di salvaguardare tutto ciò che la circondava in quel
momento di porre delle basi nel suo regno. Si mosse verso l'altare maggiore, dietro un decorato jubé multicolore che somigliava molto a un'iconostasi. Dall'estremità illuminata, poteva udire rumori che indicavano qualche attività in corso. «Si stanno preparando ad aprire il sarcofago. Abbiamo deciso di restituire una mano, un braccio o qualche altra significativa reliquia che possa venire estratta con facilità.» «Non coglie il ridicolo in tutto questo?» Michener si strinse nelle spalle. «Se accontenterà gli egiziani, che male c'è?» «Che mi dice della santità dei morti? La vostra religione lo predica di continuo, eppure si direbbe non ci sia niente di sbagliato nel disturbare la tomba di un uomo, rimuovere parte dei suoi resti e distribuirli in giro.» «È una cosa deplorevole, ma necessaria.» Disprezzava la scialba innocenza del prelato. «È questo che mi piace nella vostra Chiesa: flessibilità, quando è necessario.» Si guardò intorno nella navata deserta, con la maggior parte delle cappelle, degli altari e delle nicchie nascosti da fitte ombre. Le sue due guardie si tenevano a pochi metri di distanza mentre studiava il pavimento di marmo, di fattura squisita come i mosaici delle pareti. Molte colorate figure geometriche, animali e motivi floreali, oltre alle evidenti ondulazioni che alcuni ritenevano intenzionali, al fine di imitare il movimento del mare, ma che con maggiore probabilità erano l'effetto di fondazioni deboli. Pensò alle parole di Tolomeo: E tu, avventuroso, le cui orecchie sono ricolme della mia voce immortale, benché lontana, ascolta le mie parole. Fa' rotta verso la capitale fondata dal padre di Alessandro, dove i saggi stanno di guardia. Benché senza dubbio Tolomeo si ritenesse intelligente, il tempo aveva risolto parte dell'enigma. Nectanebo aveva governato l'Egitto come faraone durante il regno di Alessandro Magno. Mentre Alessandro era ragazzino, Nectanebo venne costretto all'esilio dagli invasori persiani. All'epoca gli egizi erano fermamente convinti che un giorno sarebbe tornato per cacciare i persiani, e circa dieci anni dopo la sua sconfitta, quella convinzione si dimostrò quasi vera quando arrivò Alessandro e i persiani prontamente si arresero e se ne andarono. Per innalzare il loro liberatore e rendere più accettabile la sua presenza, gli egizi narravano storie di quando, all'inizio della sua dominazione, Nectanebo aveva raggiunto la Macedonia sotto mentite spoglie di mago, e si era accoppiato con Olimpiade, madre di Alessandro, che era quindi figlio suo e non di Filippo. Il racconto era un'assoluta stupidaggine, ma tanto diffuso da far sì che cinquecento anni dopo trovasse spazio nella Vita di Alessandro, un testo di fantasiosa narrativa storica che molti storici citavano erroneamente come fonte autorevole. Gli annali riferivano che durante il suo regno di ultimo faraone egizio, Nectanebo stabilì a Menfi la capitale, fatto che risolveva il quesito posto dalla frase: Fa' rotta verso la capitale fondata dal padre di Alessandro. La parte successiva, dove i saggi stanno di guardia, rafforzava quella deduzione. Presso il tempio di Nectanebo, a Menfi, si trovava infatti un semicerchio costituito da undici statue di pietra calcarea raffiguranti saggi e poeti greci. Omero, che
Alessandro venerava, era una figura centrale, accanto a Platone, maestro di Aristotele, a sua volta presente e maestro di Alessandro, oltre ad altri greci famosi in stretti rapporti con Alessandro. Di quelle sculture rimanevano solo pochi frammenti, sufficienti però a testimoniarne l'esistenza. Tolomeo aveva seppellito il corpo che riteneva appartenere ad Alessandro nel tempio di Nectanebo, e lì era rimasto fino alla morte di Tolomeo, quando suo figlio l'aveva spostato a nord, ad Alessandria. Fa' rotta verso la capitale fondata dal padre di Alessandro, dove i saggi stanno di guardia. Va' a sud fino a Menfi e al tempio di Nectanebo. Pensò alla frase successiva dell'indovinello, Sfiora la parte più recondita della dorata illusione, e sorrise.
Capitolo 43
Torcello Viktor si appiattì sulla scala, sollevando un braccio per difendere il viso dal tremendo calore che saliva dal pianterreno. La tartaruga aveva reagito all'aumento di temperatura disintegrandosi, facendo insomma quello per cui era stata ideata. Non era possibile che Raffaele fosse sopravvissuto. La temperatura iniziale del fuoco greco era già altissima, sufficiente ad ammorbidire il metallo e bruciare la pietra, ma il livello successivo che raggiungeva era persino più elevato, e la carne umana non poteva opporvisi. Come doveva essere accaduto con l'uomo di Copenhagen, ben presto Raffaele sarebbe stato soltanto cenere. Si voltò. Il fuoco infuriava a poco più di tre metri da lui e il calore stava diventando insopportabile. Si affrettò a raggiungere il piano superiore. Il vecchio edificio era stato costruito in modo che il soffitto del pianterreno fosse il pavimento del primo piano e, a quel punto, il soffitto era in fiamme. Una delle ragioni per far esplodere la tartaruga era di spingere la distruzione verso l'esterno, e gemiti e scricchiolii dalle assi del pavimento del piano superiore confermavano la rapida devastazione in atto. Il peso delle tre vetrine e di altri voluminosi reperti non era certo d'aiuto e, anche se l'incendio non si era ancora propagato a quel piano, si rese conto che attraversare il pavimento sarebbe stata una follia. Per fortuna, la scala su cui si trovava era di solida pietra. La parete a pochi metri di distanza da lui era intervallata da una serie di doppie finestre che davano sulla piazzetta. Decise di rischiare e, tenendosi lungo il perimetro della stanza, guardò fuori. Cassiopea era di fronte alla finestra. Lasciò cadere l'arco all'istante, afferrò la pistola e sparò due colpi. Mentre i vetri andavano in frantumi, Viktor tornò con un balzo alla scala. Prese la pistola e si preparò a rispondere al fuoco. Aveva visto abbastanza della sagoma di chi l'attaccava da sapere che era una donna. Prima che potesse trarre vantaggio dalla sua posizione più elevata, una freccia oltrepassò le sbarre di ferro conficcandosi nell'intonaco della parete opposta. Per fortuna, lì nessuna tartaruga aveva saturato l'ambiente e il problema erano i due pacchi lasciati in precedenza, uno sul pavimento, l'altro all'interno della teca da cui aveva sottratto la moneta. Doveva fare qualcosa, perciò prese spunto dalle azioni della donna all'esterno e sparò alle finestre che davano sul retro dell'edificio. Cassiopea udì delle voci alla sua sinistra, in direzione del ristorante e della locanda.
Di certo gli spari avevano attirato l'attenzione degli ospiti del piccolo albergo, e vedendo delle sagome scure prendere per il viottolo che proveniva dal paese, si affrettò ad abbandonare la sua posizione nella piazzetta per rifugiarsi di nuovo sotto il porticato della cattedrale. Aveva scagliato l'ultima freccia incendiaria sperando che avrebbe preso fuoco anche il pavimento del primo piano e, alla luce della fiamma, aveva riconosciuto senza ombra di dubbio il volto di Viktor. Comparvero delle persone. Un uomo teneva un telefonino all'orecchio. Sull'isola non c'erano forze di polizia e questo le avrebbe dato il tempo che le serviva, dato che dubitava che Viktor avrebbe chiesto aiuto a qualcuno dei presenti. Troppe domande cui rispondere riguardo al cadavere a pianterreno. Quindi decise di andarsene. Viktor fissava i pacchetti di fuoco greco sul pavimento e decise che un attacco rapido era la tattica migliore, quindi si spostò con passi leggeri, afferrò la busta e saltò direttamente verso la finestra contro cui aveva appena sparato. Le assi del pavimento ressero. Posò il pacchetto all'esterno al di là delle sbarre di ferro a forma di C. Il pavimento al centro della stanza gemette. Ricordava le travi sottostanti, che di certo si stavano indebolendo sempre più. Qualche altro passo verso la freccia conficcata nel muro e la estrasse, gli stracci attorno alla punta che ancora bruciavano. A quel punto raggiunse la scala di corsa e con un tiro arcuato scagliò la freccia nella cornice della finestra rotta. Atterrò sul pacchetto, le fiamme che guizzavano a pochi centimetri dalla protezione di plastica. Sapeva che ci volevano solo pochi minuti perché la busta si sciogliesse, quindi cercò rifugio nella tromba delle scale. Un sibilo rombante ed ecco infuriare un secondo incendio. Sbirciò da lontano e vide che il ferro stava bruciando. Per fortuna, la maggior parte del fuoco era rimasta all'esterno e la struttura della finestra non era stata coinvolta nella conflagrazione. Il pavimento del primo piano crollò, inghiottendo la vetrina contenente altro combustibile che si accese provocando una nuvola di calore verso l'alto. Il museo di Torcello non sarebbe durato ancora molto. Saltò fino alla finestra rotta, afferrò la cornice che correva sulla parte superiore dello stipite e cercò un appiglio, il corpo che si tendeva, i piedi spinti con forza all'esterno che impattavano contro le sbarre infuocate. Non accadde nulla. Un altro sollevamento delle braccia e un altro calcio, l'adrenalina che dava forza ai tentativi mentre il calore cominciava a complicargli la respirazione. Le sbarre iniziarono a cedere. Altri calci e un angolo fu liberato dal fermo all'esterno; altri due colpi e l'intera protezione di metallo volò fuori, mentre precipitavano altri pezzi di pavimento. Una seconda vetrina e dei frammenti di colonna si infransero al pianterreno, turbinando nel fuoco come fiocchi di neve nel vento. Guardò fuori della finestra. Il salto era di tre o quattro metri. Le fiamme uscivano
dalle finestre del pianterreno. Si buttò. Malone teneva il motoscafo puntato verso nordest, diretto a Torcello a tutta la velocità che le acque agitate gli consentivano. Individuò una luce all'orizzonte che guizzava in modo regolare. Un incendio. Volute di fumo salivano nel cielo, dissolte dall'aria umida in fili grigi. Erano ad almeno dieci o quindici minuti di barca. «Stephanie, si direbbe che siamo in ritardo.» Viktor si tenne sul retro del museo. Udiva voci e grida da dietro la siepe che separava il cortile dal giardino e dal frutteto che si trovavano tra lui e il canale, dov'era ormeggiata la sua imbarcazione. Attraversò a fatica la siepe ed entrò nel giardino. Per fortuna primavera significava vegetazione non eccessiva, quindi riuscì a trovare un sentiero e a raggiungere senza problemi il molo di cemento. Arrivato lì, saltò nel motoscafo, sciolse le cime d'ormeggio e si spinse via. Nessuno l'aveva visto né seguito. L'imbarcazione scivolò nel canale e la corrente la portò oltre il museo e la cattedrale, verso l'ingresso a nord della laguna. Aspettò di essere ben oltre il pontile prima di accendere il motore, che tenne comunque basso di giri, navigando piano a luci spente. Le rive si trovavano entrambe a una cinquantina di metri, in gran parte fango e canne. Controllò l'orologio: le 23.20. Alla bocca del canale diede gas e si spinse nelle acque agitate, infine accese le luci di posizione del motoscafo e girò intorno a Torcello per prendere il canale principale che l'avrebbe portato a Venezia e a San Marco. Udì un rumore e si voltò. Dalla cabina di poppa usciva una donna. Aveva una pistola in mano.
Capitolo 44
Samarcanda, ore 0230 Vincenti avvicinò la sedia al tavolo mentre il cameriere gli posava davanti il piatto. La maggior parte degli alberghi della città erano tetre tombe dove funzionava poco o niente, ma l'Intercontinental si distingueva offrendo servizi da hotel europeo a cinque stelle uniti a quella che veniva pubblicizzata come ospitalità asiatica. Dopo il lungo viaggio dall'Italia, era affamato, perciò ordinò che gli venisse portato in camera un pasto per sé e un ospite. «Di' a Ormand che non mi piace aspettare mezz'ora perché siano pronte queste entrées, soprattutto dopo che avevo chiamato per tempo», disse al cameriere. «Anzi è meglio che quando abbiamo finito Ormand venga qui di persona, così glielo dico direttamente.» Il cameriere assentì e se ne andò. Arthur Benoit, seduto di fronte a lui, si allargò il tovagliolo sulle ginocchia. «Dovevi proprio essere così duro con lui?» «È il tuo albergo. Perché non l'hai preso a calci in culo tu?» «Perché io non sono arrabbiato. Hanno preparato la cena più in fretta che potevano.» Vincenti non aveva voglia di replicare. Stava per succedere un gran casino ed era irascibile. O'Conner era andato avanti ad accertarsi che fosse tutto pronto, così lui aveva deciso di mangiare, riposarsi un po' e portare a termine qualche affare durante la cena nel cuore della notte. Benoit prese una forchetta. «Immagino che l'invito a unirmi a te non sia dovuto al fatto che desideri avere il piacere della mia compagnia. Quindi, Enrico, perché non la facciamo breve e mi dici cosa vuoi?» «Ho bisogno di soldi, Arthur. O forse farei meglio a dire che la Philogen Pharmaceutique ha bisogno di soldi.» Benoit posò la forchetta e sorseggiò il vino. «Prima che mi vengano dolori di stomaco, quanto ti serve?» «Un miliardo di euro. Magari un miliardo e mezzo.» «Soltanto?» Vincenti sorrise al sarcasmo. Benoit era un banchiere multimiliardario, da lungo tempo membro della Lega Veneziana. Gli alberghi erano un passatempo e di recente aveva costruito l'Intercontinental per soddisfare le necessità degli esponenti della Lega e di altri turisti di lusso. Era stato anche uno dei primi rappresentanti del gruppo a trasferirsi nella Federazione. Nel corso degli anni, Benoit aveva spesso fornito il denaro necessario alla fulminea ascesa della Philogen. «Suppongo vorrai il finanziamento con un tasso d'interesse inferiore a quello
standard.» «Sicuro.» Prese una forchettata di fagiano ripieno e se la ficcò in bocca, assaporando il gusto intenso. «Quanto al di sotto?» «Due punti.» «Be', potrei anche regalartelo.» «Arthur, mi hai prestato milioni, e io ti ho sempre restituito ogni centesimo con gli interessi. Perciò, sì, certo, mi aspetto un trattamento preferenziale.» «Al momento, per quanto ne so, hai diversi finanziamenti attivi con le mie banche. Per una discreta somma.» «E sono tutti a breve termine.» «Quale sarebbe il vantaggio di questo accordo?» Adesso stavano arrivando al punto. «Quante azioni della Philogen possiedi?» «Centomila. Acquistate su tuo consiglio.» Vincenti infilzò un altro pezzo di selvaggina fumante. «Hai controllato le quotazioni di ieri?» «Non lo faccio mai.» «Sessantuno e un quarto, salite di mezzo. Si tratta davvero di un investimento solido. Settimana scorsa mi sono comprato circa cinquecentomila nuove azioni.» Avvolse un pezzo di fagiano nel ripieno di mozzarella affumicata. «In segreto, è ovvio.» L'espressione di Benoit indicava che aveva colto il messaggio. «Qualcosa di grosso?» Il suo collega della Lega Veneziana poteva anche dilettarsi con gli alberghi, ma fare soldi gli piaceva sempre, perciò scosse la testa fingendo di fargli la ramanzina. «Ma come, Arthur, le leggi sull'insider trading mi proibiscono di darti questo tipo di informazioni. Mi stupisce che tu me l'abbia chiesto.» Benoit sorrise. «Qui non esistono leggi sull'insider trading. Ricordati, stiamo riscrivendo le regole. Perciò, dimmi cosa stai progettando.» «Non mi sogno neanche.» E rimase fermo sulle sue posizioni, in attesa di vedere se l'avidità, come al solito, avrebbe fatto dimenticare atteggiamenti più saggi. «Entro quando ti servirebbe il miliardo?» «Sessanta giorni al massimo.» Benoit parve considerare la richiesta. «E la lunghezza del prestito? Sempre ammesso che sia fattibile.» «Ventiquattro mesi.» «Un miliardo di euro, con gli interessi, restituito in due anni?» Lui non replicò, limitandosi a masticare. «Come ho detto, la tua società ha molti debiti e questo finanziamento non sarebbe considerato in modo favorevole dai miei amministratori.» Infine, Vincenti annunciò quello che l'uomo voleva sentire. «Mi succederai a capo del Consiglio dei Dieci.» Il viso di Benoit si tinse di stupore. «E come fai a saperlo? È una scelta casuale tra tutti i soci.»
«Prima o poi capirai, Arthur, che niente è casuale. Il mio mandato sta per scadere. I tuoi due anni inizieranno presto.» Sapeva che Benoit desiderava disperatamente far parte del Consiglio, e lì aveva bisogno di amici. Amici in debito con lui. Fino a quel momento, quattro dei cinque membri che non sarebbero usciti per la rotazione erano amici. Adesso, se ne era appena comprato un altro. «D'accordo», disse Benoit. «Ma mi servirà qualche giorno per suddividere il rischio tra le mie banche.» «Fallo, Arthur, ma fidati di me e non dimenticare di chiamare il tuo broker.»
Capitolo 45
Irina Zovastina controllò il suo orologio, dono del ministro degli Esteri svedese in occasione di una visita ufficiale qualche anno prima: un uomo affascinante che aveva anche flirtato con lei. Lo stesso valeva per il nunzio pontificio Colin Michener, che sembrava divertirsi a farla indispettire. Negli ultimi minuti, lei e il monsignore si erano aggirati per la navata, in attesa, suppose, che i preparativi dell'altare fossero completati. «Cosa la spinge a lavorare per il papa? Segretario personale dell'ultimo pontefice e ora semplice nunzio.» «Il santo padre ama fare ricorso a me per progetti speciali.» «Come me?» «Lei è molto speciale.» «E come mai?» «È un capo di Stato. Quale altro motivo potrebbe esserci?» Quell'uomo era in gamba: rapido di pensiero e parole, ma parco di risposte. Il primo ministro indicò uno dei massicci pilastri di marmo con la base circondata da una panca di pietra e delimitata da un cordone. «Cosa sono quei segni neri?» Li aveva notati su tutte le colonne. «Me lo sono domandato anch'io», rispose Michener. «Mi hanno spiegato che sono stati causati dai fedeli che per secoli si sono seduti appoggiando la testa contro il marmo. Provi a immaginare quante teste devono esserci volute per lasciare segni simili.» Invidiava all'Occidente quelle tradizioni storiche. Purtroppo, la sua terra era stata afflitta da invasori che si erano tutti premurati di distruggere le vestigia di chi era arrivato prima di loro. Inizialmente i persiani, poi i greci, i mongoli, i turchi e, alla fine, peggiori di tutti, i russi. Qui e là qualche edificio era rimasto in piedi, ma niente a che vedere con quella costruzione dorata. Si trovavano a sinistra dell'altare maggiore, fuori dell'iconostasi, con le due guardie del corpo a portata di voce. Michener indicò il pavimento a mosaico. «Ha visto la pietra a forma di cuore?» L'aveva vista. Piccola e poco appariscente, cercava di mischiarsi agli esuberanti decori che le vorticavano intorno. «Nessuno sapeva cosa fosse, poi circa cinquant'anni fa, durante un restauro del pavimento, la pietra venne sollevata e sotto trovarono una scatolina contenente un cuore umano raggrinzito. Apparteneva al doge Francesco Erizzo, morto nel 1646. Mi hanno detto che il suo corpo giace nella chiesa di San Martino, ma come ultime volontà ha chiesto che la sua parte più recondita venisse sepolta vicino al santo patrono dei veneziani.» «Sa della parte più recondita?»
«Il cuore umano? E chi non lo sa? Gli antichi vedevano il cuore come la sede della saggezza, dell'intelligenza, dell'essenza della persona.» E proprio per quel motivo Tolomeo aveva usato quella definizione: Sfiora la parte più recondita della dorata illusione. «Le mostro un'altra cosa», riprese Michener. Passarono davanti all'elaborato jubé dal ricco disegno a quadri, rombi e quadrilobi di marmo colorato. Dietro il divisorio, c'erano degli uomini in ginocchio che lavoravano sotto il piano dell'altare, dove si trovava un sarcofago di pietra illuminato a giorno. La grata di ferro alta circa un metro e lunga due che ne proteggeva la parte frontale stava venendo rimossa. Michener notò il suo interesse e si fermò. «Nel 1835 l'altare venne spostato per realizzare un ampio spazio per il santo, che da allora ha riposato qui. Stanotte il sarcofago verrà aperto per la prima volta.» Il prelato consultò l'orologio: «È quasi l'una. Saranno pronti tra breve.» Proseguirono verso l'altro lato della basilica, fino al male illuminato transetto sud, dove Michener si fermò davanti a un'altra torreggiante colonna di marmo. «La basilica venne distrutta da un incendio nel 976, per poi essere ricostruita e consacrata nel 1094. Come lei ha detto quando ero a Samarcanda, in quei centodiciotto anni si persero le tracce del corpo di san Marco, ma poi, durante la messa del 26 giugno 1094 per la dedicazione della nuova basilica, da questo pilastro si udì un rumore, come di qualcosa che si sgretola. Una pioggia di pietra. Una scossa. Prima una mano, un braccio, poi l'intero corpo del santo riapparve. Sacerdoti e fedeli si affollarono intorno, persino il doge, e fu opinione comune che, con la ricomparsa di san Marco, le cose nel mondo fossero tornate a posto.» Irina era più divertita che impressionata. «Avevo già sentito questa storia. Stupefacente come il corpo sia ricomparso all'improvviso proprio quando la nuova chiesa e il doge avevano bisogno del sostegno politico ed economico dei veneziani. Il loro santo patrono svelato da un miracolo. Dev'essere stato uno spettacolo notevole. Suppongo che il doge o qualche astuto ministro abbia orchestrato abilmente l'intera faccenda. Davvero una brillante trovata politica, dato che se ne parla ancora dopo più di novecento anni.» Michener scosse la testa divertito. «Ah, che poca fede!» «Mi concentro su ciò che è reale.» «Come il fatto che in quella tomba ci sia Alessandro Magno?» replicò lui puntando il dito. La mancanza di immaginazione di quell'uomo l'annoiava. «E come fa a sapere che non sia così? La Chiesa non ha idea di chi fosse il corpo sottratto ad Alessandria oltre mille anni fa.» «Dunque mi dica, ministro, cosa rende lei tanto sicura?» Fissò il pilastro di marmo che sosteneva il grandioso soffitto e non poté resistere dal carezzarne il fianco, chiedendosi se la leggenda del corpo che ne usciva fosse vera. Amava quel tipo di storie, quindi ne raccontò lei una al nunzio. «Eumene doveva affrontare un compito formidabile. In quanto segretario personale di Alessandro, gli era stato affidato l'incarico di assicurarsi che il re venisse sepolto
accanto a Efestione. Dalla morte del re erano trascorsi tre mesi, e il suo corpo mummificato si trovava ancora a palazzo. La maggior parte degli altri Compagni aveva da tempo lasciato Babilonia per assumere il controllo della loro parte di impero. Trovare un corpo adatto per effettuare lo scambio si dimostrò difficile, ma alla fine in un villaggio non distante dalla città venne individuato un uomo con altezza, corporatura ed età simili a quelle di Alessandro. Eumene avvelenò quell'uomo e uno degli imbalsamatori egizi, rimasto per la promessa di un'ingente ricompensa, mummificò l'impostore. Eseguito il lavoro, l'egizio lasciò Babilonia, ma uno dei due complici di Eumene lo uccise. Lo scambio dei corpi avvenne durante un temporale estivo che sferzò la città, e dopo che anche la nuova mummia fu avvolta nella cartapesta d'oro, vestita con abiti d'oro e con una corona in testa, nessuno fu più in grado di distinguere i due cadaveri. Eumene tenne Alessandro nascosto per parecchi mesi fin dopo che il corteo funebre reale ebbe lasciato Babilonia, diretto in Grecia con l'impostore. Da quel momento la città scivolò in un letargo da cui non è più emersa ed Eumene e i suoi due aiutanti riuscirono ad andarsene senza incidenti portando Alessandro a nord ed esaudendo così l'ultimo desiderio del re.» «Perciò, dopotutto, il corpo sepolto qui potrebbe non appartenere ad Alessandro», commentò Michener. «Non ricordo di aver promesso di dare spiegazioni.» Il nunzio sorrise. «No, ministro, non l'ha fatto. Mi lasci solo dire che ho apprezzato il suo racconto.» «Piacevole quanto la sua favola della colonna.» «Probabilmente sono sullo stesso piano quanto a credibilità.» Su questo, però, Irina Zovastina non era d'accordo. La sua storia veniva da un testo scoperto grazie alle analisi a raggi X, immagini che avevano resistito per secoli oltre le capacità visive dell'occhio umano e che solo la tecnologia moderna era riuscita a svelare. La sua non era una favola. Alessandro Magno non era mai stato sepolto in Egitto, ma era stato portato da qualche altra parte, in un luogo che Tolomeo, il primo faraone greco, alla fine aveva scoperto. Un luogo cui la mummia nella tomba a dieci metri da lei poteva condurla. «Siamo pronti», disse un uomo dietro l'iconostasi. Il prelato annuì, quindi le fece cenno di precederlo. «A quanto pare, ministro, è arrivato il momento di scoprire quale delle favole è vera.»
Capitolo 46
Viktor osservò la donna raggiungere il ponte dell'imbarcazione tenendo la pistola puntata su di lui. «Ti è piaciuto l'incendio?» Viktor mise in folle il motore e andò verso di lei. «Stupida puttana, te la faccio vedere...» Lei sollevò la pistola. «Sì, dai, vieni avanti.» Gli occhi che rispondevano al suo sguardo erano pieni di odio. «A quanto pare non hai problemi a uccidere.» «Nemmeno tu.» «E chi avrei ammazzato?» «Forse sei stato tu. Forse qualcun altro del tuo battaglione sacro. Tre mesi fa, a Samarcanda. Ely Lund. La sua casa è bruciata fino alle fondamenta, grazie al tuo fuoco greco.» Lui ricordava quell'incarico. L'aveva portato a termine personalmente. «Sei la donna di Copenhagen. Ti ho vista al museo, e poi alla casa.» «Quando hai cercato di ucciderci.» «Era come se tu e i tuoi due amici ci aveste invitati a farlo.» «Cosa sai della morte di Ely? Sei il capo del battaglione sacro della Zovastina.» «E questo come fai a saperlo?» Poi gli venne in mente. «La moneta che ho esaminato in quella casa... Impronte digitali.» «Ragazzo astuto.» La donna sembrava in lotta con qualche dolorosa convinzione, quindi decise di far leva sui suoi sentimenti. «Ely è stato assassinato.» «Sei stato tu?» Lui notò l'arco e la faretra chiusa da una cerniera che portava sulla schiena. Aveva dimostrato quanto era freddo il sangue che le scorreva nelle vene quando aveva sbarrato il portone del museo e usato le frecce per dare fuoco all'edificio, quindi decise di non tirare troppo la corda. «Ero presente.» «Perché la Zovastina lo voleva morto?» Il motoscafo ondeggiava sulle onde invisibili. L'unica fonte di luce era il debole chiarore del pannello della strumentazione. «Tu, i tuoi amici, quell'Ely, vi siete tutti immischiati in cose che non vi riguardano.» «Preoccupati per te. Sono venuta per uccidervi entrambi. Uno è andato, con l'altro ci siamo quasi.» «E cosa ci guadagnerai?» «Il piacere di vederti crepare.» Cassiopea puntò la pistola. E sparò.
Malone mise in folle il motore. «Hai sentito?» Anche Stephanie era in allerta. «Sembrava un colpo d'arma da fuoco. Vicino.» Cotton sporse la testa oltre il parabrezza e notò che l'incendio a Torcello ardeva con rinnovato vigore. La foschia si era alzata e la visibilità era abbastanza ragionevole. A quanto pareva, lì il tempo cambiava rapidamente. Luci di imbarcazioni si intersecavano in tutte le direzioni. Le sue orecchie cercarono di cogliere un suono. Niente. Ridiede gas ai motori. Cassiopea aveva mirato alla paratia, mandando la pallottola a pochi centimetri dalla gamba di Viktor. «Ely non ha mai fatto male a una mosca. Perché ucciderlo?» Continuava a tenerlo sotto tiro. «Dimmelo! Perché?» La domanda le uscì dalle labbra strette una parola alla volta, più supplichevole che rabbiosa. «La Zovastina ha una missione. Il tuo Ely interferiva.» «Era uno storico, come poteva rappresentare una minaccia?» Si odiava per aver parlato di lui al passato. L'acqua lambiva lo scafo a basso pescaggio e il vento continuava ad agitare l'imbarcazione. «Ti stupirebbe scoprire con quanta facilità uccide le persone.» Quel modo di evitare di rispondere alle domande non faceva che accrescere la rabbia di Cassiopea. «Muovi quel maledetto timone. Portaci via di qui, calmo e tranquillo.» «Per andare dove?» «San Marco.» Viktor si voltò e inserì la marcia, poi all'improvviso fece virare di scatto il motoscafo. Sfruttando quell'attimo di sorpresa, si lanciò contro di lei. Viktor sapeva di dover uccidere quella donna. Rappresentava un fallimento sufficiente a fargli perdere la fiducia della Zovastina, se ne fosse venuta al corrente. Per non parlare di quanto era successo a Raffaele. Con la mano sinistra afferrò la parte superiore della porta della cabina di poppa e usò l'uscio di legno per far ruotare il corpo staccandolo dal ponte e andando a colpire con gli scarponcini il braccio di Cassiopea, che parò il colpo e cadde in avanti. Il pozzetto misurava all'incirca un paio di metri quadrati e aveva due aperture alle estremità che consentivano di lasciare l'imbarcazione. I motori gemettero mentre il motoscafo, privo di pilota, lottava contro le onde e spruzzi candidi si infrangevano sul parabrezza. La donna stringeva ancora la pistola, ma aveva problemi a riprendere l'equilibrio. Viktor le sferrò un colpo alla mandibola col palmo aperto e il collo di Cassiopea si piegò all'indietro, facendole sbattere la testa da qualche parte. Viktor ne approfittò per girare nuovamente la ruota del timone e diminuire la velocità. Era preoccupato dai banchi di sabbia e dalle erbe palustri. Torcello incombeva alla sua sinistra, il museo in fiamme che illuminava la notte. Il motoscafo piroettò sull'acqua agitata e la donna si afferrò la testa con le mani. Viktor decise che fosse la natura a risolvere la faccenda, e con un calcio gettò in mare Cassiopea.
Capitolo 47
Irina Zovastina superò l'iconostasi e raggiunse il presbiterio, fermandosi un istante a osservare il magnifico baldacchino. Quattro colonne di alabastro, ciascuna decorata con elaborati rilievi, sostenevano un massiccio blocco di marmo verde scolpito a volte intersecanti. Dietro, splendeva la famosa Pala d'oro, l'ancona abbellita da oro, pietre preziose e smalti. Sotto l'altare, studiò le due parti distinte del sarcofago di pietra. Quella superiore era poco più che una lastra; su quella inferiore spiccava un rettangolo liscio su cui era inciso CORPVS DIVI MARCI EVANGELISTAE: Corpo del divino evangelista Marco. Dalla parte superiore spuntavano due grossi anelli di ferro che, a quanto pareva, erano serviti in origine a calare in quel punto le pesanti pietre. Adesso, spesse sbarre di ferro trapassavano quegli anelli, fissate alle estremità a quattro martinetti idraulici. «È una vera sfida», commentò Michener. «Non c'è molto spazio sotto l'altare. Ovviamente con attrezzature pesanti si potrebbe entrare facilmente, ma date le circostanze non possiamo usarle.» Irina osservò gli uomini che preparavano i martinetti. «Preti?» «Esatto. Per mantenere il riserbo.» «Sa cosa c'è dentro?» «Lei mi sta domandando se i resti sono mummificati, giusto?» Il prelato si strinse nelle spalle. «Sono passati più di centosettant'anni dall'ultima volta che la tomba è stata aperta. Nessuno sa realmente cosa contenga.» L'eccessivo compiacimento di quell'uomo infastidiva il primo ministro. Tolomeo aveva tratto vantaggio dallo scambio effettuato da Eumene, sfruttando al massimo quello che il mondo credeva essere il corpo di Alessandro. Lei non aveva modo di sapere se quanto stava per vedere avrebbe fornito una risposta, ma le era indispensabile scoprirlo. Michener fece un cenno a uno dei sacerdoti e vennero girate le manovelle di avviamento dei martinetti idraulici. Gli anelli di ferro in cima al sarcofago si tesero in verticale, poi, con lentezza esasperante, un millimetro alla volta, i martinetti sollevarono il pesante coperchio. «Meccanismi potenti», commentò Michener. «Piccoli, ma in grado di sollevare una casa.» Adesso il coperchio era alzato di due centimetri, ma l'interno della tomba restava in ombra. Irina Zovastina portò lo sguardo oltre il baldacchino, nel semicatino bene illuminato dell'abside, verso un mosaico del Cristo in oro. I quattro uomini bloccarono i martinetti. Il coperchio di pietra stava sospeso per quattro centimetri, le sbarre di ferro a livello della parte inferiore del piano dell'altare.
Non era possibile salire oltre. Michener le indicò di allontanarsi con lui verso l'iconostasi, dove mormorò: «Il santo padre sta cercando di soddisfare la sua richiesta nella speranza che lei intenda restituirgli la cortesia. Ma, siamo sinceri, lei non onorerà le promesse fatte». «Non sono abituata a essere insultata.» «E il santo padre non è abituato a essere imbrogliato.» Il diplomatico aveva abbandonato ogni dissimulazione. «Vi sarà assicurato l'accesso alla Federazione, come vi ho garantito.» «Vogliamo di più.» Adesso capiva. Quell'uomo aveva aspettato che venisse sollevato il coperchio. Si odiava, ma a causa di Karyn, di Alessandro Magno e di quello che poteva essere ritrovato là sotto, non aveva scelta. «Cosa volete?» Il nunzio infilò la mano sotto la giacca e ne trasse dei fogli piegati. «Abbiamo preparato un concordato tra la Federazione e la Chiesa. Assicurazioni scritte che ci verrà consentito l'accesso. Quanto alla sua richiesta di ieri, abbiamo riservato alla Federazione il diritto di approvare la costruzione di luoghi di culto.» Irina sfogliò le pagine e vide che il testo era stato persino preparato in kazaco. «Ritenevamo che fosse più semplice averlo nella sua lingua.» «Ritenevate che sarebbe più semplice fare proselitismo nella mia lingua. La mia firma è la vostra assicurazione. In questo modo non potrei più smentirvi.» Diede una rapida occhiata al concordato, che indicava uno sforzo congiunto tra la Chiesa romana e la Federazione Centroasiatica al fine di promuovere e incoraggiare la libera pratica religiosa attraverso l'esercizio senza limitazioni dell'opera missionaria. I vari paragrafi proseguivano assicurando che la violenza contro la Chiesa non sarebbe stata tollerata e che i trasgressori sarebbero stati puniti. Altre clausole assicuravano che visti d'ingresso sarebbero stati garantiti al personale ecclesiastico e che non sarebbero state tollerate ritorsioni contro i convertiti. Spostò lo sguardo sull'altare. La metà inferiore del sarcofago rimaneva in ombra, e anche a dieci metri di distanza non riusciva a vedere niente dell'interno. «Lei sarebbe un buon elemento per la mia squadra.» «Mi piace servire la Chiesa.» Il primo ministro guardò l'orologio: le 00.20. Viktor sarebbe dovuto essere già lì. Non era mai in ritardo. Osservò la navata, arrivando alle porzioni superiori dell'atrio occidentale dove erano illuminati soltanto i soffitti d'oro. C'erano tante zone buie in cui nascondersi, e si chiese se quando fosse arrivata l'una e le avessero concesso la sua mezz'ora, sarebbe stata davvero sola. «Se firmare il concordato è un problema, possiamo semplicemente dimenticare tutta la faccenda», sentenziò Michener. Le parole che aveva usato lei il giorno precedente, quando l'aveva sfidato. Andò a scoprire il suo gioco. «Ha una penna?»
Capitolo 48
Malone scorse delle luci di posizione rosse a un quarto di miglio di distanza: baluginavano irregolari sull'acqua scura, come se un'imbarcazione fosse priva di pilota. «Vedi quello laggiù?» chiese a Stephanie, puntando il dito. «È oltre il canale contrassegnato.» Anche lui aveva pensato la stessa cosa. Continuò ad avanzare. Ormai erano abbastanza vicini al motoscafo alla deriva, più o meno uguale al suo, che senza dubbio stava andando verso le secche. Poi, nella flebile luce del timone, vide qualcuno cadere in acqua. Apparve un'altra figura e tre spari risuonarono nella notte. «Cotton!» urlò Stephanie. «Lo sto già facendo.» Girò la ruota del timone e puntò dritto verso le luci, mentre l'altra imbarcazione pareva prendere vita, allontanandosi a tutto gas. Tagliò una striscia nell'acqua e mandò delle onde a infrangersi contro l'altro motoscafo. Malone era ancora a una quindicina di metri quando l'altra barca li superò. La sagoma scura del pilota comparve al timone, una pistola in fondo al braccio teso. «Giù!» Stephanie però aveva già visto il pericolo e si stava gettando sul ponte bagnato. Si tuffò con lei mentre due pallottole passavano sibilando, mandando in frantumi il finestrino della cabina di poppa. Malone balzò in piedi e riprese il controllo del timone, mentre l'altra imbarcazione si dirigeva a tutta velocità verso Venezia. Avrebbe voluto inseguirla, ma pensò alla persona in acqua. «Trova una torcia elettrica.» Stephanie raggiunse la cabina di prua e, dopo un po' di rumorose ricerche nei vari stipetti, riapparve con in mano la torcia. Lui mise in folle e Stephanie illuminò a ventaglio lo specchio d'acqua. Udì delle sirene e vide tre imbarcazioni con le luci d'emergenza intermittenti che giravano attorno alla riva di un'isoletta e puntavano su Torcello. Seratina impegnativa per la polizia italiana. «Vedi niente? Qualcuno è finito in acqua.» Malone doveva stare attento a non passarci sopra col motoscafo, ma in quel buio pesto cominciava a essere complicato. «Là!» esclamò Stefanie. Lui corse al suo fianco e vide una figura che si dibatteva. Gli ci volle solo un secondo per capire che era Cassiopea. Prima che potesse reagire, Stephanie si tuffò in acqua. Lui tornò come un fulmine al timone e manovrò la barca. Raggiunse l'altra estremità del ponte proprio mentre Stephanie e Cassiopea si avvicinavano lentamente. Si allungò fuori bordo e afferrò Cassiopea, trascinandola fuori dell'acqua. Sdraiò il corpo privo di forze sul ponte. Era cosciente. Legati alle spalle aveva un
arco e una faretra. Bella storia anche quella, pensò. Fece girare Cassiopea sul fianco. «Tossisci. Sputa fuori tutto.» La giovane parve ignorarlo, perciò lui le assestò delle pacche sulla schiena. «Tossisci.» Cassiopea cominciò a sputare acqua, con conati a ogni espirazione, ma perlomeno respirava. Stephanie si arrampicò fuori della laguna. «È stordita, ma non è ferita.» Malone continuò ad assestarle lievi colpetti alla schiena e dai polmoni uscì altra acqua. «Stai bene?» Gli occhi della donna parvero mettersi a fuoco. «Cotton?» «Suppongo sia inutile chiederti perché hai arco e frecce, giusto?» Lei si massaggiò la testa. «Quel pezzo di...» «Chi era?» intervenne Stephanie. «Che ci fai qui?» Cassiopea allungò la mano e toccò i vestiti bagnati dell'amica. «Mi hai tirata fuori tu?» «Te lo dovevo.» A Malone era stata riferita solo parte di quanto accaduto l'autunno precedente a Washington, mentre lui era assediato nel Sinai, ma a quanto pareva le due donne avevano legato. Al momento, però, c'era altro che doveva sapere. «Quanti morti ci sono nel museo di Torcello?» Cassiopea ignorò la domanda e piegò il braccio all'indietro, in cerca di qualcosa. La sua mano ricomparve con una Glock. Ne tolse l'acqua, asciugando la canna. Una caratteristica delle Glock era proprio l'impermeabilità. «Dobbiamo andare.» «C'era Viktor assieme a te sulla barca?» chiese Malone, l'irritazione che gli affiorava nella voce. Ma Cassiopea aveva recuperato la lucidità e i suoi occhi esprimevano un'intensa rabbia. «Te l'ho detto prima che è una cosa che non ti riguarda. Non è la tua battaglia.» «Sì, d'accordo. Ma stanno succedendo un casino di cose da queste parti di cui tu non sai proprio niente.» «So che quei bastardi in Asia hanno ucciso Ely per ordine di Irina Zovastina.» «Chi è Ely?» chiese Stephanie. «Lunga storia», replicò Malone. «È uno che al momento ci sta dando un sacco di problemi.» Cassiopea continuava a pulire la pistola. «Dobbiamo andare.» «Hai ucciso qualcuno?» chiese lui. «Ne ho arrostito uno come uno spiedino.» «Te ne dispiacerai, tra un po'.» «Grazie della consulenza psicologica. Adesso andiamo.» Si tolse l'arco dalle spalle. «Te l'ha mandato Henrik?» «Come ho già detto, Cotton, non sono affari tuoi.» «Cassiopea, non so neanche la metà di quello che sta succedendo qui, ma ne so abbastanza da capire che non stai ragionando», intervenne Stephanie. «Come mi hai
detto tu l'autunno scorso, usa la testa. Lascia che ti aiutiamo. Cos'è successo?» «Anche tu, Stephanie, non ti immischiare. Ho aspettato per mesi di trovare quegli uomini e finalmente stasera li avevo a portata. Ne ho preso uno. Ora voglio l'altro. E, per la cronaca, sì, è Viktor. Era presente quando è morto Ely. L'hanno ammazzato.» Il tono di voce era salito notevolmente. «Voglio sapere perché è morto.» «Allora scopriamolo», ribatté Malone. Cassiopea si mosse con passo incerto. Al momento era in trappola, non poteva andare da nessuna parte, ed era abbastanza intelligente da sapere che nessuno dei due si sarebbe tirato indietro. Appoggiò il palmo delle mani sulla battagliola e prese fiato. «Okay, okay. Avete ragione.» Malone si chiese se non stessero avendo un contentino. «Questa è una faccenda personale», riprese Cassiopea, immobile. «Più di quanto voi due possiate capire.» Esitò un istante. «Non si tratta solo di Ely.» Era la seconda volta che faceva un'insinuazione del genere. «Che ne diresti di raccontarci cosa c'è in ballo?» «Che ne diresti se non lo facessi?» Malone voleva disperatamente aiutarla e mettersi a discutere sembrava inutile, perciò lanciò un'occhiata a Stephanie, che sapeva cosa stavano chiedendo i suoi occhi e diede l'approvazione con un cenno del capo. Raggiunse il timone e accese i motori. Mentre venivano superati da altre lance della polizia dirette a Torcello, puntò l'imbarcazione verso Venezia e le luci ormai lontane del motoscafo di Viktor. «Non preoccuparti del cadavere», disse Cassiopea. «Non ne resterà niente, e neanche del museo.» Malone aveva anche un'altra preoccupazione. «Stephanie, ci sono notizie di Naomi?» «Niente da ieri. È per questo che sono qui.» «Chi è Naomi?» chiese Cassiopea. «Questa è una mia faccenda personale», replicò Malone. Cassiopea non ribatté, limitandosi a chiedere dove stessero andando. Malone guardò l'orologio. Il quadrante luminoso segnava le 00.45. «Come ti ho già detto, stanno succedendo cose grosse, e sappiamo esattamente dov'è diretto Viktor.»
Capitolo 49
Samarcanda, ore 04.50 Un brivido corse lungo la schiena di Vincenti. Certo, aveva ordinato l'uccisione di diverse persone, una solo il giorno precedente, ma quello era diverso. Stava per imbarcarsi in un'avventura molto audace, che non soltanto l'avrebbe reso l'uomo più ricco del pianeta, ma che gli avrebbe anche assicurato un posto nella storia. Mancava ancora poco più di un'ora all'alba. Era rimasto sul sedile posteriore dell'auto mentre O'Conner e altri due uomini si avvicinavano a una casa nascosta dietro un boschetto di castagni e un'alta recinzione di ferro, tutto di proprietà di Irina Zovastina. O'Conner lo raggiunse e Vincenti abbassò il finestrino. «Due guardie sono morte. Le abbiamo tolte di mezzo senza problemi.» «Altre misure di sicurezza?» «Tutto qui.» La Zovastina pensava che quel posto non importasse a nessuno. «Siamo pronti?» «Dentro c'è solo la donna che si occupa di lei.» «Allora scopriamo quanto sono socievoli.» Vincenti entrò dalla porta principale. I due uomini che aveva assoldato per quella notte trattenevano l'infermiera di Karyn Walde, una donna anziana dal viso severo in vestaglia e pantofole. Sui lineamenti asiatici era disegnata la paura. «Da quanto capisco, lei tiene molto alla signorina Walde.» La donna annuì. «E le dispiace per come la tratta il primo ministro.» «Si comporta malissimo con lei.» Era soddisfatto che le loro informazioni fossero accurate. «So che Karyn sta soffrendo, e che la sua malattia progredisce.» «E il ministro non la lascia tranquilla.» Un cenno e i due uomini lasciarono la presa, quindi Vincenti si avvicinò di più all'infermiera. «Sono qui per alleviare le sue sofferenze. Ma ho bisogno che lei mi aiuti.» L'espressione della donna era di sospetto. «Dove sono le guardie?» «Morte. Aspetti qui mentre vado da lei. In fondo al corridoio?» L'infermiera annuì di nuovo. Vincenti accese una delle lampade sul comodino e fissò la patetica figura sotto un piumino rosa pallido. Karyn Walde respirava con l'aiuto di bombole a ossigeno e respiratore. Aveva una sacca per alimentazione endovenosa attaccata al braccio. Vincenti prese una siringa
ipodermica e la collegò al rubinetto del catetere venoso, lasciandola penzolare. La donna aprì gli occhi. «Si deve svegliare.» Lei sbatté le palpebre più volte, cercando di capire cosa stesse succedendo, quindi si diede una spinta per sollevarsi dai cuscini. «Chi è lei?» «Sono un amico.» «La conosco?» «Non ce ne sarebbe motivo. Ma io conosco lei. Mi dica, cosa vuol dire amare Irina Zovastina?» Senza dubbio una domanda insolita da parte di uno sconosciuto nel cuore della notte, ma lei si limitò a stringersi nelle spalle. «Perché dovrebbe interessarle?» «Ho a che fare con quella donna da molti anni, e non ho mai percepito la minima traccia di affetto né da parte mia né da parte sua. Come ha fatto?» «È una domanda che mi sono posta molte volte.» Vincenti si guardò intorno, osservando l'arredamento elegante e costoso, come il resto della casa. «Vive bene.» «Piccola consolazione.» «Tuttavia quando si è ammalata, sapendo di essere HIV positiva, è tornata da lei. Anche dopo parecchi anni di separazione.» «Sa molte cose di me.» «Per tornare doveva provare qualcosa per lei.» Karyn si sdraiò di nuovo sui cuscini. «Sotto alcuni aspetti, è una sciocca.» Vincenti ascoltava con attenzione. «Si sente Achille e considera me Patroclo. O peggio, lei è Alessandro e mi vede come Efestione. Ho ascoltato queste storie migliaia di volte. Conosce l'Iliade? Achille si sentiva responsabile per la morte di Patroclo, perché aveva lasciato che il suo amante conducesse gli uomini in battaglia al posto suo. Alessandro Magno provava un forte senso di colpa per la fine di Efestione.» «È ben preparata sulla storia e sulla letteratura classica.» «Ah, io non so un bel niente. Ho solo ascoltato le sue farneticazioni.» «E in che senso è una sciocca?» «Vuole salvarmi, ma non riesce neanche a dirlo. Viene qui, mi fissa, mi rimprovera, a volte addirittura mi attacca, eppure cerca sempre di salvarmi. Sapevo di essere il suo punto debole, perciò sono tornata dove ero certa che si sarebbero occupati di me.» «Però è evidente che la odia.» «Chiunque lei sia, le assicuro che una persona nelle mie condizioni ha poca scelta.» «Parla senza peli sulla lingua a uno sconosciuto.» «Non ho niente da nascondere o da temere. La mia vita è quasi al capolinea.» «Si è arresa?» «Come se la mia volontà contasse...» «In questo momento Irina Zovastina è a Venezia. Lo sapeva?» «Non mi stupisce affatto. Lei è il grande eroe, dedita a una ricerca da grande eroe.
Io sono il debole amante. Non si può fare domande o contestare l'eroe, solo accettare ciò che viene offerto.» «Deve avere ascoltato un sacco di stupidaggini.» «Si crede il mio salvatore, e io glielo lascio credere. Perché no? Inoltre tormentarla è il mio unico piacere. Le scelte della vita e tutte quelle stronzate.» «A volte la vita è capricciosa.» Vincenti notò subito che era incuriosita. «Dove sono le guardie?» «Morte.» «E la mia infermiera?» «Sta bene. Credo che le sia davvero affezionata.» Un lieve cenno del capo. «È così.» Nei suoi giorni migliori quella donna doveva essere stata formidabile, in grado di sedurre uomini e donne, ed era facile capire come Irina Zovastina potesse esserne rimasta affascinata. Ma era anche facile capire come le due potessero scontrarsi: entrambe abituate ad averla sempre vinta. «L'ho osservata per un po' di tempo.» «Non c'è molto da vedere.» «Mi dica, se potesse avere qualunque cosa al mondo, cosa vorrebbe?» La malata sdraiata davanti a lui parve prendere seriamente in considerazione la domanda. Lui aveva già visto quel tipo di determinazione, in altre persone tanto tempo prima, di fronte a simili spaventose situazioni. Quell'aggrapparsi a una speranza infinitesima o nulla, dato che né la scienza né la religione erano in grado di salvarla. Soltanto un miracolo. Perciò, quando la donna trasse un respiro e formulò la sua risposta, non fu deluso. «Vivere.»
Capitolo 50
Venezia Viktor passò rapido davanti alla facciata illuminata della basilica. Dall'alto, san Marco stava di guardia nella notte nera sopra a un leone dorato con le ali aperte. Il cuore della piazza si estendeva alla sua sinistra, chiuso al passaggio e invaso da una moltitudine di poliziotti. Si era radunata una folla e, da frammenti di conversazione, capì che c'era stata una sparatoria. Si diresse all'entrata nord della chiesa, quella che la Zovastina gli aveva detto di usare. Era innervosito dalla comparsa della donna con l'arco. Avrebbe dovuto essere morta in Danimarca. E se lei non era morta, di certo continuavano a respirare anche gli altri due problemi. La situazione stava sfuggendo al controllo. Avrebbe dovuto rimanere e assicurarsi che affogasse in laguna, ma la Zovastina lo stava aspettando e non poteva arrivare in ritardo. Continuava a veder morire Raffaele. Alla Zovastina non sarebbe importato, a patto che la sua morte non sollevasse sospetti. E come avrebbe potuto? Non ci sarebbe stato nessun cadavere da trovare, giusto qualche frammento di ossa e cenere. Come quando era bruciata la casa di Ely Lund. «Avete intenzione di uccidermi?» chiese Ely. «Cos'ho fatto?» L'intruso brandiva una pistola. «Come posso essere una minaccia per qualcuno?» Viktor rimase nascosto, nella stanza accanto, ad ascoltare. «Perché non mi risponde?» chiese Ely, alzando la voce. «Non sono qui per parlare», replicò l'uomo. «È qui solo per spararmi?» «Faccio quello che mi è stato ordinato.» «E non ha idea del motivo?» «Non me ne importa.» Netta stanza scese il silenzio. «Avrei voluto fare qualche altra cosa», disse infine Ely. Il tono era malinconico, pieno di rassegnazione, sorprendentemente calmo. «Ho sempre pensato che sarebbe stata la mia malattia a uccidermi.» Viktor ascoltava con rinnovato interesse. «È infetto?» chiese lo sconosciuto, sospettoso. «Non sembra malato.» «Il male c'è comunque.» Viktor udì il caratteristico clic dell'otturatore di una pistola. Era rimasto all'esterno e aveva guardato la casa bruciare. Il corpo dei pompieri di Samarcanda aveva fatto ben poco. Alla fine, i muri erano crollati e il fuoco greco
aveva consumato ogni cosa. Adesso sapeva qualcos'altro: la donna di Copenhagen era sufficientemente affezionata a Ely Lund da volerne vendicare la morte. Girò intorno alla basilica e vide un uomo che aspettava all'interno delle porte di bronzo. Viktor raddrizzò la schiena e accelerò il passo. Il primo ministro lo voleva concentrato e lucido. Irina Zovastina restituì a Michener il concordato firmato. «Adesso mi conceda i miei trenta minuti.» Il nunzio pontificio fece un cenno e tutti i sacerdoti si allontanarono dal presbiterio. «Vi pentirete di avermi fatto pressioni», disse lei. «Potrebbe scoprire che il santo padre è un avversario tenace.» «Quanti eserciti ha il suo papa?» «Molti hanno posto la stessa domanda. Ma gli eserciti non sono stati necessari per mettere in ginocchio il comunismo: Giovanni Paolo II c'è riuscito benissimo, e tutto da solo.» «E il suo papa è altrettanto abile?» «Lo contrasti e lo scoprirà.» Michener si allontanò, attraversando l'iconostasi per raggiungere la navata e sparire verso l'ingresso principale della basilica. «Tornerò tra mezz'ora.» Il primo ministro vide farsi avanti Viktor, che superò Michener ricevendone un cenno di saluto. Le altre guardie del corpo si erano sistemate di lato. Viktor entrò nel presbiterio, i vestiti bagnati e anneriti, il viso striato di fumo. «Ce l'hai?» Le tese la moneta dell'elefante. «Cosa ne pensi?» «Sembra autentica, ma non ho avuto modo di controllare.» Lei si mise in tasca la moneta. I controlli potevano aspettare. Il sarcofago aperto l'attendeva a dieci metri di distanza. Era quello che contava adesso. Malone fu l'ultimo a scendere dal motoscafo. Erano tornati in centro città, a San Marco, dove la famosa piazza finiva nella laguna. Piccole onde lambivano i pali di approdo, facendo cozzare le gondole ormeggiate. C'era ancora tanta polizia e molti più spettatori di un'ora prima. Stephanie seguì Cassiopea, che si stava già facendo largo tra una folta fila di venditori ambulanti, in direzione della basilica, arco e frecce ancora in spalla. «Pocahontas ha bisogno del guinzaglio...» «Signor Malone!» Cotton scorse un uomo sui quarant'anni con calzoni di velluto a coste, camicia a maniche lunghe e giacca primaverile che si dirigeva verso di loro. Anche Cassiopea sembrava avere sentito il saluto e aveva invertito la marcia per raggiungere Malone e Stephanie.
«Sono monsignor Colin Michener», si presentò lo sconosciuto. «Non sembra un prete.» «Non stanotte. Ma mi hanno detto di aspettarla e devo dire che la descrizione che mi hanno fatto era perfetta. Alto, capelli chiari, con al seguito una donna più anziana.» «Grazie tante...» commentò Stephanie. Michener fece un gran sorriso. «Mi hanno detto che è sensibile riguardo all'età.» «E chi gliel'ha detto?» Malone voleva saperlo. «Edwin Davis», rispose Stephanie. «Il presidente ha accennato a una fonte. Presumo che sia lei.» «Conosco Edwin da molto tempo.» Cassiopea indicò la chiesa. «Per caso un altro uomo è entrato in basilica? Basso, robusto, vestito in jeans?» Il prelato annuì. «È lì. Con Irina Zovastina. Si chiama Viktor Tomas ed è il capo della guardia personale della Zovastina.» «È bene informato», commentò Malone. «Direi che è Edwin quello che sa tutto, ma c'è una cosa che non mi ha saputo spiegare. Da dove viene il suo nome? Cotton.» «Storia lunga. In questo momento dobbiamo entrare nella basilica, e sono certo che sa perché.» Michener fece un cenno e si spostarono dietro una delle bancarelle, fuori del flusso di pedoni. «Ieri siamo venuti in possesso di alcune informazioni sul ministro Zovastina che abbiamo passato a Washington. Voleva dare un'occhiata alla tomba di san Marco, perciò il santo padre ha pensato che anche il governo americano fosse interessato alla faccenda.» «Possiamo andare?» chiese Cassiopea. «È sempre così nervosa?» replicò Michener. «Voglio solo andare.» «Porta arco e frecce.» «Non le si può nascondere niente!» Michener ignorò la battuta e si rivolse a Malone. «La situazione prenderà una brutta piega?» «Non più di quanto abbia già fatto.» Michener indicò la piazza. «Come l'uomo ucciso qui poco fa...» «E a Torcello c'è un museo in fiamme», aggiunse Malone, che intanto sentì vibrare il cellulare. Ripescò il telefonino dalla tasca e controllò il display, di nuovo Henrik,, quindi rispose. «Mandarle arco e frecce non è stata una mossa tanto intelligente.» «Non avevo scelta», replicò Thorvaldsen. «Devo parlarle. È lì con te?» «Oh, sì.» Passò il cellulare a Cassiopea, che si allontanò. Cassiopea teneva il telefono premuto sull'orecchio, la mano tremante. «Ascoltami bene», le disse Thorvaldsen. «Ci sono delle cose che devi sapere.»
«È il caos», sentenziò Malone, rivolto a Stephanie. «E peggiora ogni minuto che passa.» Lui guardò Cassiopea, che dava loro le spalle, aggrappata al telefono. «È bella incasinata.» «Esperienza che credo non ci manchi», commentò Stephanie. Malone sorrise a quella pura e semplice verità. Cassiopea concluse la telefonata e tornò da loro, restituendogli il cellulare. «Hai avuto i tuoi ordini?» «Qualcosa del genere.» Cotton si rivolse a Michener. «Ha visto come mi tocca lavorare, perciò spero che almeno lei mi dica qualcosa di utile.» «La Zovastina e Viktor sono nel presbiterio della basilica.» «È il lavoro per me.» «Ma a lei devo parlare in privato», disse Michener a Stephanie. «Informazioni che Edwin mi ha chiesto di passarle.» «Preferirei andare con loro.» «Ha detto che sono di fondamentale importanza.» «Resta», affermò Malone. «Dentro ce la caviamo noi.» Irina Zovastina si avvicinò all'altare e si chinò. Uno dei sacerdoti aveva lasciato una barra luminosa sul pavimento. Fece cenno a Viktor di inginocchiarsi accanto a lei. «Manda gli altri due in giro per la chiesa, soprattutto in alto. Voglio essere certa che non ci siano occhi indiscreti.» Viktor riferì gli ordini alle guardie e tornò da lei. Irina sollevò la barra luminosa e, trattenendo il fiato, fece luce all'interno del sarcofago di pietra. Aveva immaginato il momento sin dalla prima volta in cui Ely Lund le aveva parlato di quella possibilità. Si trattava dell'impostore? Tolomeo aveva davvero lasciato un indizio che portava al luogo in cui riposava Alessandro Magno? Quel posto lontano, tra le montagne, dove gli sciti avevano insegnato ad Alessandro i segreti della vita. La vita sotto forma di pozione. Ricordava ciò che aveva scritto lo storico di corte di Alessandro in uno dei manoscritti scoperti da Ely. Il collo dell'uomo si era gonfiato al punto che faticava a deglutire, quasi avesse la gola piena di ciottoli, e a ogni espirazione dalla sua bocca usciva del fluido. Aveva il corpo coperto di lesioni e nei muscoli non rimaneva traccia di forza. Ogni respiro era uno sforzo immane. Eppure la pozione l'aveva curato in un giorno. Gli scienziati del suo laboratorio ritenevano che quei sintomi indicassero una malattia virale. Era possibile che la natura, che creava così tanti aggressori, avesse generato anche un modo per fermarli? Ma nel sarcofago non c'erano resti mummificati. Vide una scatola di legno quadrata lunga circa mezzo metro, riccamente decorata e con due maniglie di bronzo. La delusione le arpionò lo stomaco. «Prendila.» Viktor sollevò il prezioso contenitore e lo posò sul pavimento di marmo. Cosa si era aspettata? Una mummia sarebbe stata comunque vecchia almeno duemila anni e, anche se gli imbalsamatori egizi erano i migliori ed esistevano mummie persino più antiche in ottimo stato, si trattava di spoglie rimaste indisturbate
per secoli nelle loro tombe. Ely Lund era convinto che l'enigma di Tolomeo fosse autentico, ed era altrettanto convinto che nell'828 i veneziani avessero lasciato Alessandria non col corpo di san Marco, ma coi resti di qualcun altro, magari il corpo che aveva riposato nel Soma per seicento anni, riverito e venerato da tutti come Alessandro Magno. «Aprila.» Viktor sbloccò le cerniere e tolse il coperchio. L'interno era foderato con dello sbiadito velluto rosso. Altri pezzi del delicato tessuto coprivano qualcosa. Li sollevò con estrema cautela e vide dei denti, una scapola, un femore, parte di un teschio e cenere. Chiuse gli occhi. «Cosa si aspettava di trovare?» chiese una voce.
Capitolo 51
Samarcanda Vincenti considerò la risposta di Karyn Walde e chiese ancora: «Cosa sarebbe pronta a fare per riavere la sua vita?» «Posso fare ben poco. Mi guardi. E, poi, non so neanche come si chiama.» Quella donna aveva passato l'esistenza a manipolare le persone, e ne era ancora capace, persino in quelle condizioni. «Enrico Vincenti.» «Italiano? Non si direbbe.» «Mi piaceva il nome.» «Ho la sensazione, Enrico Vincenti, che lei e io siamo molto simili.» Lo pensava anche lui. Aveva due nomi, molti interessi, ma una sola ambizione. «Cosa sa dell'HIV?» «Solo che mi sta uccidendo.» «Sapeva che esiste da milioni di anni? Fatto incredibile, considerando che non è nemmeno vivo. Nient'altro che acido ribonucleico, RNA, circondato da un rivestimento di proteine.» «È uno scienziato?» «A dire il vero, sì. Sapeva che l'HIV non ha una struttura cellulare? Non è in grado di produrre nemmeno una briciola di energia. L'unica caratteristica tipica di un organismo vivente che mostra è la capacità di riprodursi. E anche per quella ha bisogno del materiale genetico di un organismo ospitante.» «Come me?» «Temo di sì. Conosciamo l'esistenza all'incirca di un migliaio di virus, ma se ne scoprono di nuovi tutti i giorni. Una metà risiede nelle piante, il resto negli animali. L'HIV risiede negli animali, ma è davvero unico.» Notò l'espressione perplessa sul viso avvizzito. «Non vuole sapere cos'è che la sta uccidendo?» «Ha importanza?» «In verità, può averne molta.» «Allora, mio nuovo amico che chissà perché si trova qui, la prego di continuare.» «L'HIV è speciale perché può trascrivere il suo genoma all'interno del DNA di un'altra cellula. È per questo che si chiama retrovirus. Aderisce alla cellula che lo ospita e la trasforma in un duplicato di se stesso. È un ladro che deruba la cellula della sua identità.» S'interruppe, lasciando che la metafora fosse compresa. «Duecentomila cellule di HIV raggruppate assieme sarebbero a malapena visibili a occhio nudo. È super resistente, quasi indistruttibile, ma per vivere ha bisogno di un misto ben preciso di proteine, sali, zuccheri e, più importante di tutti, dell'esatto pH. Troppo dell'uno, troppo poco dell'altro e... muore.» «Suppongo sia qui che entro in ballo io.»
«Oh, sì. Mammiferi a sangue caldo. I loro corpi sono perfetti per l'HIV. Tessuto cerebrale, fluido cerebrospinale, midollo osseo, latte materno, cellule della cervice uterina, liquido seminale, membrane mucose, secrezioni vaginali: tutti possono ospitarlo. Sangue e linfa, però, sono i suoi rifugi preferiti. Il virus, signorina Walde, vuole soltanto sopravvivere. Proprio come lei.» Guardò l'orologio sul comodino. O'Conner e gli altri due erano di guardia all'esterno. Aveva deciso di parlare in quel luogo perché nessuno li avrebbe disturbati: Kamil Revin gli aveva detto che le guardie addette alla casa cambiavano tutte le settimane e che quel compito non era affidato a esponenti del battaglione sacro, perciò nessuno badava molto a quella abitazione, a meno che non fosse di turno lì. Un'altra delle molte ossessioni della Zovastina. «E la cosa interessante è che l'HIV non dovrebbe neanche essere in grado di vivere dentro di lei, date tutte le cellule che combattono le infezioni presenti nel sangue. Ma ha adottato una raffinata forma di guerriglia microscopica, giocando a nascondino coi globuli bianchi. Ha imparato a rintanarsi in un posto in cui non andrebbero mai a guardare.» Fece una pausa drammatica. «Nei linfonodi. Noduli grandi come piselli sparsi in tutto il corpo che agiscono come filtri, intrappolando ignari intrusi in modo che i globuli bianchi possano distruggerli. I linfonodi sono la tana del lupo del sistema immunitario, l'ultimo posto che un retrovirus dovrebbe usare come nascondiglio, ma si sono dimostrati la collocazione perfetta. Davvero stupefacente, sa? L'HIV ha imparato a duplicare il rivestimento proteico che il sistema immunitario produce naturalmente all'interno dei linfonodi e perciò vive pazientemente, ignorato, proprio sotto il naso del sistema immunitario, trasformando le cellule linfonodali da nemici oppositori delle infezioni a duplicati di se stesso. Lo fa per anni, finché i nodi non si gonfiano, si deteriorano e il flusso sanguigno viene invaso dal virus. Fatto che spiega come mai dopo l'infezione ci vuole tanto per scoprire la presenza del virus nel sangue.» La sua mente correva veloce col pensiero analitico dello scienziato che era stato per molti anni, ma ormai era un imprenditore e un manipolatore, molto simile a Karyn Walde, sul punto di realizzare il più grande raggiro in assoluto. «E sa cos'è ancora più incredibile? Ogni replicazione del virus è individuale, perciò quando i linfonodi cedono, invece di un solo invasore ce ne sono miliardi tutti diversi, un esercito di ceppi virali che scorrazzano nel sangue senza controllo. Il sistema immunitario reagisce, come è predisposto a fare, ma è costretto a generare globuli bianchi nuovi e differenti per combattere ogni ceppo, cosa del tutto impossibile. E a peggiorare ulteriormente le cose, ciascuna delle varianti del retrovirus è in grado di distruggere qualunque tipo di globulo bianco, rendendo così le probabilità di successo miliardi contro una, con risultati inevitabili, di cui lei è la prova vivente.» «Sono sicura che non è venuto qui solo per farmi una lezione.» «Sono venuto a vedere se vuole vivere.» «Questo è impossibile, a meno che lei non sia un angelo o Dio in persona.» «Be', vede, le cose stanno così: l'HIV non uccide nessuno. Ma rende l'organismo privo di difese quando un altro virus, batterio, fungo o parassita entra nel flusso sanguigno in cerca di una casa. Non ci sono globuli bianchi sufficienti a ripulire il sangue. Perciò l'unico interrogativo è quale infezione sarà la causa della sua morte.»
«Che ne direbbe di levarsi dai piedi e lasciarmi crepare in pace?» Karyn Walde era davvero una donna distrutta, ma parlare con lei gli aveva infiammato la mente. Si immaginava le conferenze stampa, coi reporter che pendevano dalle sue labbra, diventando dall'oggi al domani un'autorità riconosciuta a livello mondiale. Sognava contratti per libri, diritti cinematografici, special in televisione, convegni, premi. Senza dubbio il premio Albert Lasker. Il National Medal for Science. Magari persino il Nobel. Perché no? Ma tutto questo dipendeva dalla decisione che stava per prendere. Fissò quel guscio di essere umano, in cui solo gli occhi parevano ancora vivi, quindi allungò la mano verso la siringa collegata all'uscita del catetere. «Cos'è?» Non le rispose. «Cosa sta facendo?» Vincenti premette lo stantuffo e iniettò il liquido trasparente nel flusso dell'endovena. La donna cercò di sollevarsi, ma lo sforzo si dimostrò inutile. Crollò sul letto, gli occhi sgranati. Vincenti guardò le palpebre che si facevano pesanti e ascoltò il respiro rallentare. Karyn Walde si afflosciò, gli occhi che si chiudevano. Per non riaprirsi.
Capitolo 52
Venezia Irina Zovastina si alzò e affrontò l'intruso. Era basso, con la schiena storta, sopracciglia e capelli cespugliosi, e si esprimeva col tono freddo della maturità. I lineamenti grinzosi, le guance smunte, i capelli assottigliati e le mani solcate da vene, tutto in lui parlava di età avanzata. «Chi è lei?» «Henrik Thorvaldsen.» Conosceva quel nome. Uno degli uomini più ricchi d'Europa. Un danese. Ma cosa ci faceva lì? Viktor reagì immediatamente, puntando la pistola, ma lei allungò la mano a fermarlo, gli occhi che dicevano: Vediamo cosa vuole. «So chi è lei.» «E io so chi è lei. Passata da burocrate sovietico a creatrice di nazioni. Risultato notevole.» Non era in vena di complimenti. «Cosa vuole?» Il danese si avvicinò alla scatola di legno. «Pensava davvero che dentro ci fosse Alessandro Magno?» Quell'uomo sapeva troppo. «E tu, avventuroso, le cui orecchie sono ricolme della mia voce immortale, benché lontana, ascolta le mie parole. Fa' rotta verso la capitale fondata dal padre di Alessandro, dove i saggi stanno di guardia. Sfiora la parte più recondita della dorata illusione. Dividi la fenice. La vita offre la misura della vera tomba. Ma sii cauto, perché c'è soltanto una possibilità di successo.» Irina si sforzò di nascondere lo stupore davanti alla declamazione di Thorvaldsen. Quell'uomo sapeva tutto. «Crede di essere l'unica a conoscere l'enigma? È presuntuosa fino a questo punto?» Lei afferrò la pistola di Viktor e la puntò contro Thorvaldsen. «Quanto basta per spararle.» Malone e Cassiopea erano a più di sessanta metri di distanza da dove Thorvaldsen stava sfidando Irina Zovastina sotto gli occhi di Viktor. Michener li aveva fatti entrare in basilica dall'atrio occidentale e li aveva condotti a una scala ripida. In cima, le pareti, gli archi e le cupole riflettevano l'architettura sottostante, ma invece di una stupefacente facciata di marmo e di mosaici scintillanti, il museo con annesso negozio di souvenir al piano superiore era racchiuso soltanto da pareti di mattoni. «Cosa diavolo sta succedendo?» mormorò Malone. «Ti ha appena telefonato.» Erano accovacciati dietro una balaustra di pietra, oltre la quale si godeva una vista panoramica delle torreggianti cupole emisferiche, ciascuna appoggiata su massicce colonne di marmo. I mosaici dorati del soffitto splendevano sotto la luce di lampade a
incandescenza, mentre il pavimento di marmo e le cappelle laterali rimanevano oscurati da ombre di diverse sfumature di nero e grigio. Il presbiterio, dove si trovava Thorvaldsen, spiccava come un palcoscenico illuminato in un teatro buio. «Non hai intenzione di rispondermi?» Cassiopea rimase in silenzio. «Voi due state cominciando a farmi incazzare.» «Ti avevo detto di tornartene a casa.» «Henrik potrebbe trovare pane troppo duro per i suoi denti.» «Non gli sparerà. Almeno finché non scoprirà perché si trova qui anche lui.» «E perché si trova qui anche lui?» Silenzio. «Che ne diresti di andare là?» Malone indicò la parte sinistra del transetto nord e un'altra galleria che dava sul presbiterio. «Questo museo fa il giro da quella parte. Saremo più vicini e potremo ascoltare.» Lei indicò la destra. «Io vado di lì. C'è senz'altro un passaggio al transetto sud, e in questo modo ci troveremo su entrambi i lati.» Irina Zovastina continuava a tenere Thorvaldsen sotto tiro. «Mi rendo conto che lei è una pagana», disse calmo il danese. «Ma mi sparerebbe qui, sull'altare di una chiesa cristiana?» «Come fa a conoscere l'enigma di Tolomeo?» «Me l'ha detto Ely.» Irina abbassò l'arma e valutò l'intruso. «Come faceva a conoscerlo?» «Lui e mio figlio erano amici d'infanzia.» «Perché è qui?» «Perché è importante trovare la tomba di Alessandro Magno?» «C'è qualche ragione per cui dovrei discuterne con lei?» «Vediamo se posso fornirgliene una. Attualmente lei è in possesso di circa trenta zoonosi che ha raccolto da una varietà di animali esotici, molti dei quali fatti rubare da zoo e altre collezioni private. Ha a disposizione almeno due laboratori per la creazione di armi batteriologiche, uno gestito dal suo governo, l'altro dalla Philogen Pharmaceutique, una società controllata da un uomo che si chiama Enrico Vincenti. Siete anche entrambi membri della Lega Veneziana. Come sto andando?» «Respira ancora, giusto?» Thorvaldsen sorrise. «Cosa di cui sono grato. Ha anche formidabili forze armate: circa un milione di soldati, centotrenta jet da combattimento, svariati mezzi di trasporto e aerei di appoggio, basi adeguate e un'eccellente rete di comunicazioni: tutto quello che può servire a un despota ambizioso.» A Irina non faceva piacere che Viktor ascoltasse, ma aveva un disperato bisogno di saperne di più, quindi si voltò verso la sua guardia e gli disse di andare a vedere cosa stessero facendo gli altri due. Gli altri due? Malone udì quelle parole mentre si sistemava dietro la balaustra di pietra sopra il
presbiterio, a meno di cinquanta metri dalla testa di Thorvaldsen e della Zovastina. Cassiopea si trovava dall'altro lato della navata, alla stessa sua altezza. Non riusciva a vederla, ma sperava avesse sentito. Irina Zovastina aspettò che Viktor se ne fosse andato, poi guardò Henrik con aria di sfida. «È un problema che io voglia difendere la mia nazione?» «Non divenghiate del crudel nemico cattura e preda, e ch'ei tra poco al suol la vostr'alma cittade non adegui.» «Ciò che Sarpedonte dice a Ettore nell'Iliade. Mi ha studiata bene. Lasci che le proponga io una citazione: Ma verrà chi ponga vostro malgrado a furor tanto il freno.» «Ma lei non si sta preparando a difendere qualcosa: lei organizza un attacco. Quelle zoonosi sono un'arma di offesa. Iran, Afghanistan, Pakistan, India. Soltanto un uomo è riuscito a conquistarle: Alessandro Magno. E anche lui ha potuto governarle appena per una manciata di anni. Da allora, i conquistatori hanno tentato e fallito. Persino gli americani ci hanno provato con l'Iraq, ma lei, primo ministro, ha intenzione di superarli tutti.» C'era una falla nei suoi sistemi di sicurezza, e anche molto grande. Doveva rientrare e risolvere il problema di quelle fughe di notizie. «Vuole fare quello che ha fatto Alessandro, ma al contrario: non più l'Occidente che conquista l'Oriente. E questa volta, l'Oriente dominerà. Vuole sottomettere tutti i suoi vicini, ed è davvero convinta che l'Occidente glielo consentirà, considerandola un'amica. Ma non ha intenzione di fermarsi lì, vero? Vuole anche il Medio Oriente e l'Arabia. Lei ha già il petrolio, dato che l'ex Kazakistan ne è ricco, ma la maggior parte la vende a poco prezzo a Russia ed Europa, perciò vuole acquisire nuove fonti di approvvigionamento, che le darebbero ancora più potere a livello mondiale. Le sue zoonosi potrebbero rendere possibile la cosa, visto che è in grado di mettere in ginocchio e devastare una nazione nel giro di giorni. Tanto per cominciare, nessuno dei suoi potenziali Paesi vittime è particolarmente esperto di guerra, e quando i suoi germi avranno portato a termine il loro lavoro, si ritroveranno privi di difese.» Lei impugnava ancora la pistola. «L'Occidente dovrebbe essere felice del cambiamento.» «Preferiamo le canaglie che conosciamo. E, contrariamente a ciò che pensano tutti quegli Stati arabi, il loro nemico non è l'Occidente, ma lei.» Malone ascoltava con attenzione. Thorvaldsen non era uno sciocco, quindi se sfidava così apertamente Irina Zovastina doveva esserci una ragione. Già solo il fatto che il danese si trovasse lì era molto insolito. L'ultimo viaggio che aveva fatto era stato in Austria l'autunno precedente, eppure eccolo all'interno di una basilica italiana nel cuore della notte, a mettere i bastoni tra le ruote di una despota armata. Aveva visto Viktor lasciare il presbiterio e svoltare nel transetto sud, sotto la posizione di Cassiopea. La preoccupazione più immediata di Malone era una scala a cinque o sei metri da lui, che conduceva alla navata. Se su quel lato c'era un'apertura, di certo doveva essercene un'altra nel transetto opposto, dato che i costruttori
medievali amavano molto la simmetria. Era circondato da altre pareti di mattoni oltre a oggetti d'arte, arazzi, pizzi e dipinti, in massima parte in mostra in vetrine o su tavoli. Un'ombra apparve sulla scala illuminata, danzando sui muri di marmo e crescendo di dimensioni. Una delle guardie della Zovastina, che saliva al piano superiore. Puntando dritto verso di lui.
Capitolo 53
Stephanie seguì monsignor Michener lungo i corridoi della diocesi, fino a un'ordinaria stanzetta in cui Edwin Davis sedeva sotto il ritratto del papa. «Vuole ancora prendermi a calci?» chiese Davis. Lei era troppo stanca per discutere. «Cosa ci fa qui?» «Cerco di fermare una guerra.» «Si rende conto che nella chiesa potrebbe succedere qualcosa di grave?» «È proprio per questo che lei non è presente.» Stephanie cominciava a capire. «Cotton e Cassiopea possono essere scaricati dal governo.» «Una cosa del genere. Non abbiamo idea di cosa possa fare la Zovastina, ma non voglio che il capo della Sezione Magellano sia coinvolto.» Stephanie si voltò per andarsene. «Se fossi in lei, rimarrei qui», disse Davis. «Si levi dai piedi, Edwin.» Michener le bloccò la strada sulla porta. «Monsignore, è parte anche lei di questa follia?» «Come ho detto prima, siamo incappati in qualcosa di sospetto e abbiamo passato la notizia a qualcuno che pensavamo potesse essere interessato. Irina Zovastina è una minaccia per il mondo.» «Sta progettando una guerra», precisò Davis. «Moriranno a milioni, ed è quasi pronta a dare il via al suo piano.» Stephanie si voltò. «Perciò ha messo tutto a rischio per venire a Venezia a dare un'occhiata a una mummia? Cosa diavolo ci fa qui?» «Probabilmente si sta arrabbiando», rispose Michener. Lei notò un lampo negli occhi del prelato. «È stato lei a provocarla?» «Oh, no. Ha fatto tutto da sola.» «Qualcuno si farà sparare là dentro. Cassiopea è un fascio di nervi e non reggerà molto. Non credete che una sparatoria attirerebbe l'attenzione dei poliziotti disseminati per la piazza?» «I muri della basilica sono molto spessi», replicò il monsignore. «Insonorizzazione totale. Non li disturberà nessuno.» «Stephanie, non siamo certi del motivo per cui la Zovastina è venuta qui, ma è ovvio che è importante», intervenne Davis. «Pensavamo che dato che era così interessata, avremmo fatto meglio ad accontentarla.» «Capito il concetto. Fuori del suo recinto, dentro nel nostro. Ma non ha il diritto di mettere in pericolo Malone e Cassiopea.» «Ma andiamo! Non ho fatto niente del genere. Cassiopea era già coinvolta, insieme con Henrik Thorvaldsen che, tanto per essere chiari, ha coinvolto lei. E Malone? È
grande abbastanza per fare quello che gli va. È qui di sua volontà.» «Sta cercando di ottenere informazioni, sperando di scoprire qualcosa.» «E uso l'unica esca che abbiamo. Era la Zovastina a voler guardare dentro a quella tomba.» Stephanie era sconcertata. «Si direbbe che conosciate il suo piano. Allora cosa state aspettando? Attaccatela. Bombardate le sue installazioni. Impeditele di agire. Fatele pressioni politiche.» «Non è così semplice. Le nostre informazioni sono incomplete e non abbiamo prove concrete. Di certo niente che non possa semplicemente negare. Non si possono bombardare siti di stoccaggio di armi batteriologiche. Purtroppo non sappiamo tutto quello che c'è da sapere ed è per questo che abbiamo bisogno che Malone e gli altri si muovano per noi.» «Edwin, lei non conosce Cotton. Non gli piace essere manovrato.» «Sappiamo che Naomi Johns è morta.» Aveva tenuto per ultima quella notizia, aspettando il momento giusto, e quelle parole furono un pugno nello stomaco per Stephanie. «Era in una bara assieme a un uomo, un criminale di bassa lega di Firenze. Lei aveva il collo spezzato e lui una pallottola in testa.» «Vincenti?» Davis annuì. «Che sta facendo anche lui le sue mosse. È partito da poco per la Federazione Centroasiatica. Una visita non programmata. Ha appena rapito una donna con cui un tempo Irina Zovastina era coinvolta sentimentalmente.» «La Zovastina è lesbica?» «Sarebbe un vero shock per la sua Assemblea del Popolo, no? Lei e quella donna hanno avuto rapporti per molto tempo, ma ora l'ex amante sta morendo di AIDS e, a quanto pare, Vincenti ha intenzione di usarla in qualche modo.» «C'è un motivo per permettere a Vincenti di fare quello che sta facendo, qualunque cosa sia?» «Anche lui ha in ballo qualcosa. Ed è più che rifornire la Zovastina di germi e antidoti. Vogliamo scoprire di cosa si tratta.» Stephanie doveva andarsene. Un sacerdote apparve sulla soglia. «Abbiamo appena sentito uno sparo, dall'interno della basilica.» Malone si tuffò dietro una teca mentre la guardia sparava. Aveva cercato di nascondersi prima che l'uomo arrivasse in cima alle scale, ma a scatenare l'attacco era bastato che quello cogliesse per un istante il suo movimento. La pallottola colpì rumorosamente un tavolo su cui erano esposti tessuti medievali. Il legno laminato deviò il proiettile, offrendo a Malone l'attimo che gli serviva per ritirarsi in tutta fretta nell'ombra. Lo sparo echeggiò nella basilica, attirando senza dubbio l'attenzione di tutti. Avanzò carponi sul legno scivoloso, trovando rifugio dietro una lunga serie di dipinti e di pagine di manoscritti in esposizione. Aveva la pistola pronta, ma doveva far avvicinare di più la guardia della Zovastina. Non sarebbe stato difficile, dato che il rumore di passi andava nella sua direzione.
Irina Zovastina udì lo sparo proveniente dalla parte superiore del transetto nord, intravide un movimento alla sua destra, dietro la balaustra di pietra, quindi scorse la testa di una delle sue guardie. «Non sono venuto da solo», spiegò Thorvaldsen, sempre tenuto sotto tiro. «Piazza San Marco è piena di poliziotti. Non le sarà facile andarsene. È un capo di Stato in un Paese straniero. Ha davvero intenzione di spararmi?» Una pausa. «Cosa farebbe Alessandro?» Irina non riusciva a decidere se fosse serio o se la trattasse con sufficienza, ma conosceva la risposta. «La ucciderebbe.» Thorvaldsen cambiò posizione, spostandosi un poco alla sua sinistra. «Non sono d'accordo. Era un grande tattico e un uomo molto intelligente. Basta pensare al nodo gordiano, per fare un esempio.» «Che succede là sopra?» gridò il primo ministro. La sua guardia non rispose. «Nel paese di Gordio», continuò Thorvaldsen, «c'era un nodo che legava il giogo al timone di un carro, talmente complicato che nessuno riusciva a scioglierlo. Difficoltà che Alessandro risolse recidendo la corda con la spada. Una soluzione semplice per un problema complesso.» «Lei parla troppo.» «Alessandro non permetteva che la confusione gli annebbiasse i pensieri.» «Viktor!» gridò di nuovo lei. «Naturalmente, riguardo a quel nodo, i racconti sono moltissimi», continuò imperterrito Thorvaldsen. «Uno afferma che Alessandro spostò il timone attaccato al giogo, trovò le estremità della fune e la slegò. Perciò, chi può dirlo?» Era stufa delle farneticazioni di quell'uomo. Capo di Stato o no, premette il grilletto.
Capitolo 54
Samarcanda Vincenti conosceva i sintomi. All'inizio, la malattia mostrava tutte le caratteristiche di un raffreddore, poi di un'influenza, ma ben presto gli effetti devastanti di un'invasione virale furono evidenti. Contaminazione. «Sto per morire?» gridò Charlie Easton dal lettino. «Voglio saperlo, accidenti. Dimmelo.» Tamponò la fronte madida di Easton con una pezzuola umida, come aveva fatto nell'ora precedente, e con tono gentile disse: «Ti devi calmare». «Piantala con le stronzate. È finita, vero?» Avevano lavorato fianco a fianco per tre anni. Non aveva senso essere evasivo. «Non c'è niente che io possa fare.» «Oh, merdai Lo sapevo. Devi chiedere aiuto.» «Lo sai che non è possibile.» La remota collocazione del laboratorio era stata scelta dagli iracheni e dai sovietici con grande cura. La segretezza era fondamentale. E il prezzo di quella segretezza risultava fatale quando si verificava un errore, e un errore era esattamente quanto era accaduto. Easton diede strattoni ai legacci che lo bloccavano al lettino. «Taglia queste cazzo di corde. Fammi uscire di qui!» Vincenti aveva legato quell'idiota sapendo che le loro alternative erano limitate. «Non possiamo andarcene.» «Fanculo le direttive. Fanculo tu. Taglia queste corde!» Easton s'irrigidì, la respirazione che si faceva difficoltosa, poi fu vinto dalla febbre e si rilassò nell'incoscienza. Finalmente. Vincenti si allontanò dal lettino e prese il blocco per appunti su cui aveva iniziato a scrivere tre settimane prima, sulla copertina un'etichetta col nome del suo collega. All'interno, aveva annotato i progressivi cambiamenti del colorito. Da normale a itterico fino a un pallore tale da farlo sembrare morto. C'era stata un'incredibile perdita di peso, quasi venti chili in tutto, di cui cinque in soli due giorni, l'assorbimento intestinale che diminuiva limitandosi a qualche sorso di acqua tiepida con gocce di liquore. E la febbre. Un furioso torrente di 39 40 gradi costanti e a volte picchi più alti, i liquidi che se ne andavano col sudore più in fretta di quanto non potessero venire rimpiazzati, il corpo che letteralmente evaporava sotto i suoi occhi. Per anni nelle loro ricerche avevano usato gli animali, con Baghdad che garantiva inesauribili forniture di
gibboni, babbuini, scimmie verdi, roditori e rettili, ma ora per la prima volta potevano essere osservati in modo preciso gli effetti su un essere umano. Il petto di Easton si alzava e abbassava nella faticosa respirazione caratterizzata da rantoli catarrosi, il sudore che gli imperlava la pelle come pioggia. Annotò ogni considerazione sul diario della malattia, quindi si rimise in tasca la penna. Si alzò dal lettino e cercò di riportare la sensibilità nelle gambe intorpidite, poi si trascinò fuori nel fresco della sera. Chissà quanto ancora avrebbero resistito i disastrati tessuti di Easton? La domanda implicava il problema di cosa fare del corpo. Non esisteva un protocollo per la gestione di emergenze di quel genere, dunque avrebbe dovuto improvvisare. Per fortuna chi aveva costruito il laboratorio l'aveva dotato di un inceneritore per l'eliminazione delle carcasse degli animali usati nella sperimentazione, ma per far funzionare il forno su qualcosa di grande quanto un corpo umano ci voleva un po' d'inventiva. «Ci sono gli angeli. Sono qui, intorno a me», gridò Easton dal lettino. Vincenti rientrò. Adesso Easton era cieco. Non era certo se a distruggere la retina fosse stata la febbre o un'infezione secondaria. «Dio è qui. Lo vedo.» «Sì, Charlie, sono certo che è così.» Vincenti prese il polso del collega. Il sangue si agitava rabbioso nell'arteria carotidea. Ascoltò il cuore, che batteva come un tamburo. Sul punto di scoppiare. La temperatura corporea era fissa sui 40 gradi. «Cosa dico a Dio?» chiese Easton. «Digli ciao.» Avvicinò una sedia e osservò la morie prendere il sopravvento. La fine giunse trenta minuti dopo e non sembrò violenta né dolorosa. Giusto un ultimo respiro. Profondo. Lungo. Senza espirazione. Annotò ora e data sul diario, poi prese un campione di sangue e di tessuti, quindi arrotolò il materasso sottile e le lenzuola sporche intorno al corpo e trasportò il puzzolente fagotto fuori dell'edificio fino a un capanno adiacente. Lì era già pronto un bisturi, affilato come una scheggia di vetro, oltre a una sega da chirurgo. Si infilò un paio di pesanti guanti di gomma e segò via le gambe dal busto. La carne macilenta risultava molle e cedevole, le ossa friabili, i muscoli che opponevano la stessa resistenza di un pollo lessato. Amputò entrambe le braccia e ficcò i quattro arti nell'inceneritore, osservando senza emozione le fiamme che li consumavano. Privi delle estremità, busto e testa passavano benissimo dallo sportello di ferro. Dopodiché tagliò in quattro il materasso sporco di sangue e lo infilò velocemente nel fuoco assieme alle lenzuola e ai guanti. Chiuse il portello sbattendolo e barcollò fuori. Era finita. Finalmente. Si lasciò cadere sul terreno roccioso e guardò la notte. Contro lo sfondo indaco del cielo di montagna, che si stagliava come un'ombra ancora più scura, la canna fumaria di mattoni dell'inceneritore si allungava verso le stelle. Ne usciva un fumo che aveva puzzo di carne umana.
Si sdraiò e si addormentò con piacere. Vincenti ricordava quel sonno di oltre venticinque anni prima. E l'Iraq. Un inferno. Un posto desolato e solitario. Cos'aveva concluso la commissione ONU dopo la guerra del Golfo? Considerato l'utilizzo, gli impianti risultano arcaici, ma nella frenetica atmosfera dell'epoca erano stati ritenuti all'avanguardia. Giusto. Quegli ispettori non c'erano. Lui sì. Giovane e con la testa piena di idee e di capelli. Un valente virologo. Alla fine lui e Easton erano stati distaccati in un laboratorio isolato nel Tagikistan, per lavorare assieme ai sovietici che controllavano la regione in un centro nascosto tra le colline ai piedi del Pamir. Quanti virus e batteri avevano studiato? Organismi naturali che potevano venire usati come armi finalmente efficaci. Non c'era bisogno di bombardare la popolazione, sprecare munizioni, rischiare la contaminazione nucleare o mettere in pericolo le truppe. Un organismo microscopico era in grado di fare tutto il lavoro pesante. I protocolli operativi erano semplici: azione rapida, biologicamente identificabile, contenibile e, più importante di tutto, curabile. Centinaia di ceppi erano stati scartati soltanto perché non si riusciva a trovare un sistema pratico per neutralizzarli. Quale vantaggio si sarebbe avuto a iniettare il nemico se poi non si era in grado di proteggere la propria gente? Perché un esemplare venisse catalogato, doveva rispondere a tutti e quattro i criteri: ne avevano trovati quasi venti che risultavano idonei. Non aveva mai creduto a quanto riportato dalla stampa dopo la Convenzione sulle Tossine e le Armi Batteriologiche del 1972, cioè che gli Stati Uniti avessero abbandonato l'affare della guerra chimica distruggendo tutti gli arsenali. I militari non avrebbero buttato al vento decenni di ricerche solo perché alcuni politici avevano deciso unilateralmente che era la cosa giusta da fare. A suo parere, almeno parte di quegli organismi era nascosta in qualche anonima base militare. Lui personalmente aveva scoperto sei agenti patogeni che soddisfacevano tutti i criteri, ma il campione sperimentale 65-G era stato un fallimento su tutti i fronti. L'aveva individuato la prima volta nel 1979, nel sangue delle scimmie verdi. All'epoca, la scienza convenzionale non l'avrebbe notato, ma grazie alla sua eccellente preparazione e alle attrezzature speciali fornite dagli iracheni, l'aveva trovato. Un'entità sferica, piena di RNA e di enzimi. Esposta all'aria, evaporava, mentre in acqua la membrana cellulare cedeva. Ma nel plasma caldo si trovava perfettamente a suo agio e sembrava diffusa in tutte le scimmie verdi che aveva analizzato per la sperimentazione. Eppure, nessuno degli animali era malato. Charlie Easton, però, era un imbecille. Era stato morso da una scimmia due anni prima, ma non l'aveva detto a nessuno fino a tre settimane dalla morte, quando erano comparsi i primi sintomi. Le analisi avevano confermato che nel suo sangue scorreva il 65-G. Alla fine, aveva usato l'infezione di Easton per studiare gli effetti del virus sugli umani, concludendo che il germe non era un'arma batteriologica efficiente. Troppo imprevedibile, sporadico e decisamente lento per essere un buon agente di offesa.
Scosse la testa. Incredibile quanto fosse ignorante allora. Era un miracolo che fosse sopravvissuto. Era tornato nella sua stanza all'Intercontinental mentre piano piano l'alba illuminava Samarcanda. Aveva bisogno di riposare, ma era ancora rinvigorito dall'incontro con Karyn Walde. Ripensò al vecchio guaritore. Che anno era? 1980 o 1981? Nel Pamir, circa due settimane prima che Easton morisse, era tornato per l'ennesima volta al villaggio, cercando di imparare più che poteva. L'uomo doveva essere morto, ormai. Era già abbastanza anziano allora. Tuttavia... Il vecchio sgattaiolò scalzo sul pendio color fegato con l'agilità di un felino, la pianta dei piedi simile a cuoio. Vincenti lo seguì, e anche con gli scarponi pesanti gli facevano male caviglie e dita. Neanche un tratto pianeggiante. Rocce spuntavano ovunque a rallentare l'avanzata, aguzze e implacabili. Il paese si trovava circa un chilometro e mezzo più indietro, a quasi mille metri di altitudine, e la camminata li stava portando ancora più in alto. L'uomo era un guaritore, un misto tra medico di famiglia, prete, indovino e stregone. Conosceva poco l'inglese, ma parlava cinese e turco in modo accettabile. Nanoide, con lineamenti europei e una forcuta barba mongola, portava indumenti imbottiti di un tessuto con fili d'oro e un vivace zucchetto. Al villaggio, Vincenti l'aveva osservato curare i compaesani con un intruglio di radici e piante, somministrato in modo meticoloso grazie a un sapere derivante da decenni di tentativi ed errori. «Dove stiamo andando?» chiese Vincenti. «A rispondere alla sua domanda e a trovare quello che fermerà la febbre nel suo amico.» Intorno a lui, un anfiteatro di vette candide formava una balconata di cime inviolate, con nuvole temporalesche che indugiavano nei punti più alti. Strisce d'argento e rossi autunnali, oltre a fitti boschetti di noci, aggiungevano colore alla scena per il resto immobile. Da qualche parte in lontananza si udiva rumore d'acqua che scorre. Raggiunsero una cengia e seguì il vecchio sotto una roccia segnata da una vena violacea. Sapeva dai suoi studi che le montagne che lo circondavano erano ancora vive, e spingevano lentamente verso l'alto crescendo di circa sei centimetri l'anno. Uscirono in un teatro naturale di forma ovale racchiuso tra pareti di pietra. Non c'era molta luce all'interno, perciò prese la torcia che il guaritore gli aveva detto di portare. Il pavimento roccioso era punteggiato da due vasche, ciascuna con un diametro di circa tre metri, una ribollente di schiuma per l'energia termale. Avvicinò la luce e notò la diversità di colore: quella attiva era di un marrone rossiccio, quella calma verde come il mare. «La febbre che mi ha descritto non è cosa nuova», spiegò l'uomo. «Da molte generazioni si sa che la portano gli animali.»
«Come fate a saperlo?» «Osserviamo. Ma soltanto qualche volta trasmettono la febbre. Se il suo amico ha quella febbre, questo l'aiuterà.» Indicò la vasca verde, la superficie immobile increspata soltanto da una serie di piante che somigliavano a gigli d'acqua ma più folte, il fiore centrale che si allungava nella penombra in cerca di preziose gocce di sole. «Le foglie lo salveranno. Le deve masticare.» Vincenti sfiorò l'acqua e si portò due dita umide alle labbra. Nessun sapore. Si era quasi aspettato qualche traccia di carbonato come nelle altre sorgenti della zona. L'uomo si inginocchiò e bevve dalla mano a coppa. «È buona.» Bevve anche lui. Calda, come una tazza di tè, e pura. Quindi ne prese ancora. «Le foglie lo guariranno.» «Questa pianta è comune?» «Sì, ma funziona solo quella di questa pozza.» «Come mai?» «Non lo so. Forse per volere divino.» Ne dubitava. «La conoscono anche in altri villaggi? Altri guaritori?» «Sono l'unico che la usa.» Vincenti studiò da vicino uno dei ciuffi. Si trattava di una tracheofita, dalle foglie peltate e dall'elaborato sistema di nervature. Otto spesse stipole carnose circondavano la base e formavano una piattaforma galleggiante. Il tessuto epidermico era di un verde scuro, le facce fogliari ricche di glucosio. Dal centro partiva un corto stelo che probabilmente agiva da superficie fotosintetica a causa della limitata ampiezza fogliare. I morbidi petali bianchi del fiore erano disposti a spirale e non avevano profumo. Guardò sotto. Una sorta di coda di procione formata da filamentose radici marroni si allungava nell'acqua in cerca di elementi nutritivi. A quanto pareva, era una specie molto bene adattata. «Come ha scoperto che funzionava?» «Me l'ha insegnato mio padre.» Sollevò la pianta dall'acqua e prese in mano la parte tondeggiante, mentre il tiepido liquido trasparente gli scorreva tra le dita. «Le foglie vanno masticate completamente e il succo inghiottito.» Staccò una foglia e l'avvicinò alla bocca, osservando il vecchio che gli rispose con uno sguardo tranquillo e sicuro, quindi prese a masticare. Il sapore era amaro, pungente, simile all'allume: e anche orribile, come il tabacco. Estratto il succo, l'inghiottì, quasi soffocando.
Capitolo 55
Venezia L'attenzione di Cassiopea venne attirata dall'altra parte della navata, dove qualcuno stava sparando a Malone. Dietro la balaustra aveva notato testa e busto di una guardia della Zovastina, ma non Cotton. Poi aveva visto il primo ministro fare fuoco, la pallottola che rimbalzava sul marmo a pochi centimetri da Thorvaldsen. Il danese era rimasto immobile, senza muovere un muscolo. Un movimento sulla destra la fece voltare. Un uomo era comparso in cima alle scale, pistola in mano: la vide e mirò, ma non ebbe la possibilità di sparare. Perché lei lo colpì al petto. Fu scagliato all'indietro, le braccia che si agitavano inutilmente. Lo finì con un altro colpo ben piazzato. Dall'altro lato della basilica, a quaranta metri di distanza, la guardia avanzava tra gli oggetti esposti nel museo. Si tolse l'arco dalle spalle e prese una freccia, ma si tenne lontana dalla balaustra per non fornire un bersaglio alla Zovastina. Inoltre, poco prima che comparisse l'assalitore, Viktor era svanito nel transetto sotto di lei. Dov'era andato? Incoccò la freccia e impugnò l'arco. Mentre la guardia entrava e usciva dalle zone d'ombra, tese la corda. Malone aspettava. Aveva estratto la pistola e tutto ciò che gli serviva era che la guardia si avvicinasse ancora un po'. Era riuscito ad arretrare sfruttando le ombre per nascondersi: il rumore di tre spari dalla navata aveva mascherato i suoi movimenti. Impossibile dire da dove provenissero, perché gli echi impedivano di orientarsi. In realtà non voleva sparare alla guardia del corpo della Zovastina. Di solito i librai non ammazzano la gente, ma dubitava di avere molta scelta. Trasse un profondo respiro e fece la sua mossa. Irina Zovastina fissava Henrik Thorvaldsen mentre, sopra di lei, si udivano altri spari. I suoi trenta minuti da sola nella basilica si erano trasformati in caos. Thorvaldsen indicò la scatola di legno sul pavimento. «Non è quello che si aspettava, vero?» «Valeva la pena tentare.» «L'enigma di Tolomeo potrebbe essere una beffa. I resti di Alessandro Magno sono stati cercati per millecinquecento anni senza successo.» «E c'è qualcuno che crede davvero che in quella scatola ci sia san Marco?» «Un bel po' di veneziani, per esempio.» Irina doveva andarsene, perciò chiamò Viktor. «Qualche problema, ministro?» chiese una voce dall'oscurità.
Michener. Il prelato raggiunse il presbiterio illuminato e lei gli puntò contro la pistola. «Mi ha ingannata.» Malone scivolò sulla sinistra mentre la guardia del corpo si teneva vicina alla balaustra e si spostava a destra. Schivò un leone di legno attaccato a un trono ducale e si accovacciò dietro un'esposizione di arazzi. Sgattaiolò avanti, intenzionato a prendere l'uomo alle spalle prima che avesse il tempo di reagire. Arrivato all'ultimo arazzo, si voltò e si preparò ad agire. Una freccia trafisse il petto della guardia, risucchiandogli il fiato. Vide un'espressione stupita disegnarsi sul volto dell'uomo che cercava a tastoni l'asta conficcata nel suo corpo. La vita l'abbandonò mentre crollava a terra. Malone aveva ruotato sulla sinistra. Dall'altra parte della navata c'era Cassiopea, arco in mano, volto di pietra che non esprimeva emozioni. Dietro di lei, alto sulla parete esterna, incombeva un finestrone buio, da cui emerse la figura di Viktor. Irina Zovastina era furibonda. «Sapeva che in quella tomba non c'era niente.» «E come potevo? Non veniva aperta da quasi due secoli.» «Può dire al papa che la Chiesa cattolica non avrà mai accesso nella Federazione, che gli piaccia o no.» «Riferirò il messaggio.» La donna si voltò verso Thorvaldsen. «Qual è il suo interesse in tutto questo?» «Fermarla.» «Lo troverà piuttosto difficile.» «Non saprei. Deve lasciare la basilica e l'aeroporto è a una discreta distanza, in barca.» La Zovastina cominciava a rendersi conto che avevano preparato con cura la loro trappola. O, per meglio dire, le avevano consentito di prepararsela da sola. Venezia. Niente auto né autobus. Solo un'infinità di lente imbarcazioni. Andarsene poteva davvero rappresentare un problema. Quanto ci voleva? Un'ora per arrivare all'aeroporto? E l'aria sicura dei due uomini che la fissavano non le era di nessun conforto. Viktor si avvicinava alla donna con l'arco. L'assassina di Raffaele. Quella che aveva appena ucciso un altro dei suoi uomini. Doveva morire, ma si rese conto che era una follia. Aveva ascoltato la Zovastina e sapeva che le cose non si stavano mettendo bene. Per andarsene, avevano bisogno di un'assicurazione. Perciò le premette la canna della pistola contro la nuca. La donna non si mosse. «Dovrei spararti.» «Che divertimento ci sarebbe?» «Sufficiente a pareggiare i conti.» «Io direi che sono già pari. Ely per il tuo socio.» Viktor frenò una rabbia crescente e si costrinse a pensare. Poi gli venne un'idea, un
modo per riportare la situazione sotto controllo. «Vai verso la balaustra. Lentamente.» Fece tre passi avanti. «Ministro!» Guardò oltre la sua prigioniera e vide la Zovastina alzare lo sguardo, la pistola sempre puntata sui due uomini. «Questo sarà il nostro lasciapassare. Un ostaggio.» «Eccellente, Viktor.» «Non sa che casino hai combinato, vero?» disse sottovoce Cassiopea. «Morirai prima di pronunciare anche una sola parola.» «Non preoccuparti. Non ho intenzione di dirle nulla.» Malone raggiunse la balaustra con un balzo e puntò l'arma dall'altra parte della navata. «Buttala giù!» gridò Viktor. Lui ignorò l'ordine. «Io farei come dice», intervenne Irina Zovastina, che teneva sempre sotto tiro Michener e Thorvaldsen. «Altrimenti sparo a questi due.» «Il primo ministro della Federazione Centroasiatica che commette un omicidio in Italia? Ne dubito.» «Vero», replicò la Zovastina. «Ma Viktor può tranquillamente uccidere la donna, e questo per me non sarebbe un problema.» «Buttala!» esclamò Cassiopea. Malone si rendeva conto che obbedire era idiota. Meglio arretrare nell'ombra e rimanere una potenziale minaccia. «Cotton, fa' come dice Cassiopea», intervenne Thorvaldsen. Doveva confidare nel fatto che entrambi i suoi amici sapessero cosa stavano facendo. Sbagliava? Probabile. Ma non era la prima volta che faceva una cosa stupida. Lasciò cadere la pistola oltre la balaustra. «Portala qui», disse Irina Zovastina a Viktor. «Tu», ordinò all'uomo che aveva appena gettato la pistola. «Scendi.» Malone non si mosse di un millimetro. «Per favore, Cotton...» lo sollecitò Thorvaldsen. Un'esitazione e l'uomo scomparve dalla balaustra. «È sotto il suo controllo?» chiese la Zovastina. «Non è sotto il controllo di nessuno.» Viktor e la sua prigioniera entrarono nel presbiterio. L'altro uomo, quello agli ordini di Thorvaldsen, li seguì dopo un istante. «Chi sei? Thorvaldsen ti ha chiamato Cotton.» «Il cognome è Malone.» «E tu?» domandò Irina squadrando la donna armata di arco. «Un'amica di Ely Lund.» Cosa stava succedendo? Aveva un disperato bisogno di sapere, perciò cercò di pensare in fretta e fece un cenno verso Cassiopea. «Lei viene con me. Come salvacondotto.»
«Ministro», intervenne Viktor. «Credo sarebbe meglio se la donna rimanesse qui con me. Posso trattenerla finché lei non se ne sarà andata.» Lei scosse la testa e indicò Thorvaldsen. «Prendi lui e portalo in un posto sicuro. Quando sarò in volo, ti chiamerò e potrai lasciarlo andare. Se ci sono problemi, uccidilo e fai in modo che il cadavere non venga mai ritrovato.» «Aspetti», si intromise Michener. «Dato che sono io la causa di tutto questo caos, perché non prende me come ostaggio e lascia fuori della faccenda questo signore?» «E già che ci siamo, perché non porta me con lei invece di Cassiopea?» chiese Malone. «Non sono mai stato nella Federazione Centroasiatica.» Scrutò l'americano. Alto e sicuro di sé. Probabilmente un agente. Ma voleva sapere di più del legame tra la donna ed Ely Lund. Chiunque conoscesse Lund abbastanza bene da rischiare la vita per vendicarlo meritava ulteriori indagini. Michener, però... poteva solo augurarsi che Viktor avesse l'occasione di uccidere quell'essere schifoso. «D'accordo, prete, tu vai con Viktor. Quanto a te, Malone, magari sarà per un'altra volta.»
Capitolo 56
Samarcanda Vincenti si svegliò. Era semisdraiato sul comodo sedile reclinabile dell'elicottero, in volo verso est, lontano dalla città. Il telefonino che aveva in grembo vibrava. Era Grant Lyndsey, capo dell'équipe del laboratorio cinese. «Abbiamo finito. Il primo ministro ha tutti i batteri e il laboratorio è stato riconvertito. Pulito e in ordine.» Del progetto si erano occupati soltanto otto scienziati, coordinati da Lyndsey. E adesso ogni traccia del loro lavoro era sparita. «Paghi tutti e li congedi. O'Conner farà loro visita e provvederà per il pensionamento.» Udì un silenzio pesante dall'altro lato del ricevitore. «Non si preoccupi, Grant. Prenda i dati e vada nella mia casa oltre il confine. Prima di agire, dobbiamo aspettare e vedere come il primo ministro ha intenzione di usare il suo arsenale.» «Parto subito.» Era quello che voleva sentirgli dire. «Ci vedremo prima di notte, abbiamo del lavoro da fare. Si muova.» Interruppe la chiamata e si sdraiò di nuovo. Ripensò al vecchio nano sui monti del Pamir. A quei tempi, il Tagikistan era primitivo e ostile. Laggiù erano state fatte ben poche ricerche mediche e gli stranieri che lo visitavano erano ancora meno. Per questo gli iracheni avevano ritenuto che la regione fosse un luogo promettente per andare in cerca di zoonosi sconosciute. Due pozze d'acqua in alta montagna. Una verde, l'altra marrone. E le piante di cui aveva masticato le foglie. Ricordava l'acqua, tiepida e limpida, ma quando aveva puntato la torcia sul basso fondale, aveva notato una cosa ancora più strana. Due lettere di pietra. Una in ogni vasca. Z e H. Incise in blocchi di roccia e sistemate sul fondo. Pensò alla moneta che Stephanie Nelle si era presa la briga di mostrargli, una delle molte che Irina Zovastina pareva decisa ad avere, e alle microlettere sulla faccia: ZH. Coincidenza? Ne dubitava. Conosceva il significato delle lettere. Aveva pensato che la sua idea di chiamare in quel modo la cura per l'HIV fosse brillante, ma adesso non ne era più tanto sicuro. Si sentiva come se il suo mondo fosse sul punto di crollare e l'anonimato di cui si era sempre avvalso stesse svanendo in fretta. Gli americani gli stavano addosso. Irina Zovastina gli stava addosso. E presto avrebbe potuto unirsi al gruppo anche la Lega Veneziana. Ma ormai aveva tratto il suo dado.
Tornare indietro non era più possibile. Lo sguardo di Malone passava da Thorvaldsen a Cassiopea. Nessuno dei due amici mostrava il minimo segno di preoccupazione. Assieme, lui e Cassiopea avrebbero potuto avere la meglio su Viktor e la Zovastina. Cercò di far passare il messaggio con gli occhi, ma nessuno sembrava interessato. «Il papa non mi mette paura», disse la Zovastina. «Non è nostra intenzione mettere paura a nessuno», ribatté Michener. «Sei un bacchettone ipocrita.» Il prelato non replicò. «Niente da dire?» «Pregherò per lei, ministro.» «Non so cosa farmene delle tue preghiere, prete.» Fece un cenno a Cassiopea. «È ora di andare. Lascia qui arco e frecce. Non ti serviranno.» Cassiopea obbedì. «Questa è la sua pistola», disse Viktor, tendendo l'arma al primo ministro. «Quando saremo in volo, chiamerò. Se non mi senti entro tre ore, uccidi il prete. E, mi raccomando, assicurati che soffra.» Viktor e Michener lasciarono il presbiterio e proseguirono lungo la navata buia. «Andiamo?» disse la Zovastina a Cassiopea. «Voglio sperare che ti comporterai bene.» «Come se avessi scelta.» «Il prete ne sarà contento.» Lasciarono il presbiterio. Malone si voltò verso Thorvaldsen. «E noi?» «Andava fatto.» Stephanie uscì dall'ombra del transetto assieme a un uomo magro che presentò come Edwin Davis, viceconsigliere per la sicurezza nazionale. Tutto in lui era preciso e sobrio, dagli stiratissimi calzoni sportivi alla rigida camicia di cotone, fino alle splendenti scarpe di vitello. Malone lo ignorò e si rivolse a Stephanie. «Cos'è che andava fatto?» Fu Thorvaldsen a rispondere. «Non sapevamo per certo cosa sarebbe successo, stavamo solo cercando di far accadere qualcosa.» «Volevi che prendessero Cassiopea?» «No, io no, ma a quanto pare lei sì. Glielo potevo leggere negli occhi, perciò ho colto l'occasione per accontentarla. È per questo che ti ho chiesto di buttare la pistola.» «Sei impazzito?» «Cotton, sono stato io a presentare Ely a Cassiopea, tre anni fa.» «E questo cosa c'entra?» «Da giovane, Ely ha fatto delle stupidaggini, provando varie droghe, senza fare attenzione agli aghi che usava. Purtroppo ha contratto l'HIV. Gestiva bene la malattia, prendendo vari cocktail di farmaci, ma le probabilità non erano certo a suo favore. La maggior parte delle persone infettate alla fine sviluppa l'AIDS e muore. Era fortunato.»
Malone aspettava che gli dicesse di più. «Anche Cassiopea è malata.» Cosa... «Una trasfusione, dieci anni fa. Assume medicine sintomatiche e anche lei gestisce bene il problema.» Malone era sconvolto, ma adesso molti dei commenti dell'amica acquistavano significato. «Ma com'è possibile? È così attiva, forte.» «Se prendi i farmaci ogni giorno puoi esserlo, a patto che il virus collabori.» Lui fissò Stephanie. «Lo sapevi?» «Edwin me l'ha detto prima di venire qui. Lui e Henrik aspettavano il nostro arrivo. È per questo che Michener mi ha presa da parte.» «Perciò cos'eravamo io e Cassiopea? Sacrificabili?» «Qualcosa del genere», rispose Davis. «Non avevamo idea di cosa potesse fare la Zovastina.» «Brutto figlio di puttana!» «Cotton», intervenne Thorvaldsen. «Io ho approvato l'operazione. Prenditela con me.» «Cosa ti ha dato il diritto di farlo?» «Quando tu e Cassiopea avete lasciato Copenhagen, mi ha chiamato il presidente Daniels. Mi ha raccontato cos'era successo ad Amsterdam e mi ha chiesto cosa sapevamo. Gliel'ho detto e lui ha pensato che potessi essere utile qui.» «E io pure? È per questo che hai mentito dicendo che Stephanie era nei guai?» Thorvaldsen lanciò un'occhiata a Davis. «A dire il vero, riguardo a quello sono un po' seccato anch'io. Ti ho riferito solo quanto avevano detto a me. Si direbbe che il presidente volesse coinvolgerci tutti.» Malone tornò a squadrare Davis. «Non mi piace il suo modo di agire.» «Benissimo. Ma devo fare quello che è necessario fare.» «Cotton, c'era poco tempo per pensare a un piano», riprese Thorvaldsen. «Ho improvvisato secondo quello che succedeva.» «Perché, tu pensi?» «Non credevo che la Zovastina avrebbe fatto delle sciocchezze qui in basilica. Non poteva. Ed è stata colta del tutto di sorpresa. È per questo che ho accettato di sfidarla. Certo, Cassiopea è stata un'altra cosa. Ha ucciso due persone.» «E una terza a Torcello.» Malone si costrinse a rimanere concentrato. «Qual è lo scopo di tutto questo?» «In parte, fermare la Zovastina», rispose Stephanie. «Sta progettando una guerra sporca.» «Ha contattato la Chiesa e loro ci hanno avvertiti», spiegò Davis. «È per questo che siamo qui.» «Potevate dircelo.» «No, Malone, non potevamo. Ho letto il suo stato di servizio: era un ottimo agente. Un lungo elenco di missioni riuscite e di encomi. Non mi sembra un ingenuo. Lei più di chiunque altro dovrebbe capire come si gioca la partita.» «È questo il punto: io non gioco più.» Si allontanò a grandi passi e si concesse un
momento per calmarsi, quindi si avvicinò alla scatola di legno rimasta aperta sul pavimento. «La Zovastina ha rischiato tutto solo per dare un'occhiata a queste ossa?» «Questa è l'altra parte della faccenda», intervenne Thorvaldsen. «Il pezzo più complicato. Hai letto anche tu qualche pagina del manoscritto trovato da Ely, riguardante Alessandro Magno e la sua pozione. Ely era arrivato alla convinzione, forse assurda, che dati i sintomi descritti quella medicina potesse avere qualche effetto sui virus patogeni.» «Come l'HIV?» Thorvaldsen annuì. «In natura esistono sostanze rintracciabili nella corteccia degli alberi, nelle foglie o in radici, in grado di combattere virus e batteri, forse anche qualche forma di cancro. Sperava che potesse trattarsi di una di queste.» Malone si ricordò di un brano del manoscritto: Sopraffatto dal rimorso e avendo percezione della sincerità di Tolomeo, Eumene gli rivelò quale fosse il luogo della sepoltura, tra le montagne, dove gli sciti avevano insegnato ad Alessandro i segreti della vita. «Gli sciti sono quelli che hanno fatto conoscere ad Alessandro la pozione. Eumene aveva detto che Alessandro era stato sepolto dove loro gli avevano insegnato i segreti della vita.» A un tratto gli venne in mente una cosa, quindi chiese a Stephanie se avesse con sé una delle monete. «È quella di Amsterdam», spiegò Stephanie, tendendogli la moneta. «Ci hanno detto che è autentica. Nascoste tra le pieghe del mantello del guerriero sono incise due minuscole lettere: ZH, cioè 'vita' in greco antico.» Un altro brano della Storia di Ieronimo di Cardia: Dopodiché Tolomeo mi tese un decadracma d'argento che mostrava Alessandro in India intento a combattere contro gli elefanti. Mi disse che, in onore di quelle battaglie, aveva fatto coniare molte di quelle monete. Mi disse anche di tornare una volta risolto l'enigma, ma, un mese dopo, Tolomeo era morto. Finalmente aveva capito. «Perciò le monete hanno a che fare con l'enigma.» «Questo è certo», replicò Thorvaldsen. «Il punto è come.» Malone non era pronto a dare spiegazioni. «Non mi avete ancora risposto: perché li avete lasciati andare via senza intervenire?» «Era evidente che Cassiopea voleva agire così», disse Thorvaldsen. «Inoltre abbiamo incuriosito la Zovastina su Ely.» «È per questo che l'hai chiamata al telefono?» Thorvaldsen annuì. «Le servivano informazioni. Non avevo idea di cosa avrebbe fatto. Cotton, devi capire che Cassiopea vuole scoprire cos'è successo a Ely, e la risposta si trova in Asia.»» Quell'ossessione infastidiva Malone. Non era certo del perché, ma era chiaro che fosse così. E lo stesso valeva per il dolore provato da Cassiopea. E per la sua malattia. Troppe emozioni per un uomo che faceva il possibile per escludere i sentimenti dalla sua vita. «Cos'ha intenzione di fare una volta arrivata nella Federazione?» Thorvaldsen si strinse nelle spalle. «E chi può dirlo. La Zovastina sa che sono al corrente del suo piano, questo gliel'ho chiarito senza ombra di dubbio. E sa che Cassiopea è legata a me, quindi sfrutterà l'occasione che le abbiamo fornito per cercare di scoprire da lei quanto può...»
«Prima di ucciderla.» «Cotton, è un rischio che Cassiopea ha accettato liberamente», intervenne Stephanie. «Nessuno le ha chiesto di andare.» «Già. Ci siamo accontentati di lasciarglielo fare. Quel prete è coinvolto?» «Ha un lavoro da svolgere», rispose Davis. «Per questo si è fatto avanti come ostaggio.» «Ma c'è di più», riprese Thorvaldsen. «Ciò che ha trovato Ely, l'enigma di Tolomeo, è reale. E adesso abbiamo tutti i pezzi che servono a scoprire la soluzione.» Malone indicò la scatola di legno. «Là dentro non c'è niente. È un vicolo cieco.» Thorvaldsen scosse la testa. «Non è vero. Quelle ossa sono rimaste per secoli sotto di noi, nella cripta, prima di essere traslate qui sopra.» Si diresse verso il sarcofago aperto. «La prima volta che sono state spostate, nel 1835, assieme a loro è stato trovato qualcos'altro. Soltanto pochi ne sono a conoscenza. Si trova nella collezione della basilica, e da parecchio tempo.» «E dovevi aspettare che la Zovastina se ne fosse andata prima di darci un'occhiata?» «Esatto.» Il danese mostrò una chiave. «Il nostro biglietto d'ingresso.» «Ti rendi conto che Cassiopea potrebbe aver fatto il passo molto più lungo della gamba?» «Pienamente.» Doveva riflettere, quindi puntò lo sguardo verso il transetto. «Sai cosa fare di ciò che si trova là dentro?» «Io no, ma abbiamo qualcuno che potrebbe esserne in grado.» Stephanie notò la perplessità sul volto di Malone. «Henrik ritiene, e Edwin sembra essere d'accordo...» «Si tratta di Ely», spiegò Thorvaldsen. «Pensiamo sia ancora vivo.»
PARTE QUARTA Capitolo 57
Federazione Centroasiatica, ore 06.50 Vincenti scese dall'elicottero. Il viaggio da Samarcanda era durato circa un'ora. Anche se c'erano nuove strade che portavano alla valle di Fergana, la sua tenuta si trovava più a sud, nell'ex Tagikistan, e arrivarci in volo era ancora il modo più rapido e sicuro. Aveva scelto con cura le sue terre, in alto, tra montagne cinte di nubi. Nessuno aveva indagato sulla sua decisione, neppure la Zovastina. Si era limitato a spiegare di essere stanco della piatta e umida laguna, perciò aveva acquistato duecento acri di vallata boscosa e roccioso altopiano del Pamir. Quello sarebbe stato il suo mondo, in cui non poteva essere visto né sentito, circondato di domestici, a un'altitudine strategica, in uno scenario un tempo selvaggio, ma ora diboscato e lisciato con tocchi italiani, bizantini e cinesi. Aveva battezzato la tenuta Attico e, mentre era in volo, aveva notato che l'ingresso principale era abbellito da un elaborato arco di pietra su cui era posta la targa col nome. Aveva visto anche che intorno alla casa erano stati montati degli altri ponteggi e che l'esterno stava per essere completato. La costruzione era stata lenta ma costante, ed era stato molto soddisfatto quando finalmente aveva visto i muri finiti. Attraversò un giardino creato sul fianco della montagna in modo che la tenuta assumesse caratteristiche da campagna inglese. Peter O'Conner aspettava sulle pietre irregolari del terrazzo sul retro. «Tutto bene?» «Qui nessun problema.» Vincenti indugiò all'esterno, riprendendo fiato. Nuvole scure di temporale inghirlandavano le lontane vette orientali, mentre i corvi pattugliavano la vallata. Aveva fatto costruire la sua reggia in modo da godere al massimo della vista spettacolare. Era così diverso da Venezia. Nessuno sgradevole miasma, solo aria cristallina. Gli avevano riferito che quella primavera in Asia era insolitamente calda e asciutta, ed era felice della tregua dall'umidità. «Cosa mi dice della Zovastina?» «In questo momento sta lasciando l'Italia, con un'altra donna. Pelle olivastra, attraente. Alla dogana ha dato il nome di Cassiopea Vitt.» Aspettò ulteriori dettagli, ben sapendo che O'Conner aveva senz'altro fatto un controllo approfondito. «La Vitt vive nel sud della Francia e sta ricostruendo un castello medievale. Progetto notevole, molto costoso. Suo padre era proprietario di parecchie aziende manifatturiere in Spagna. Ha ereditato tutto lei.»
«E che tipo è? Come persona, intendo.» «Musulmana, ma non devota. Cultura superiore. Laurea in Ingegneria e in Storia. Trentotto anni, non sposata. È praticamente tutto quello che sono riuscito a scoprire in così breve tempo. Vuole saperne di più?» «Non ora. Indizi riguardo a perché sia con la Zovastina?» «I miei non lo sanno. La Zovastina ha lasciato la basilica con lei e sono andate dritte all'aeroporto.» «Sta tornando qui?» O'Conner annuì. «Dovrebbe arrivare tra quattro o cinque ore.» Una pausa, poi riprese: «I nostri uomini che avevano seguito la Nelle... Uno è stato centrato da un cecchino su un tetto, l'altro è riuscito a fuggire. A quanto pare era preparata ad affrontarci». Non gli piaceva il sottinteso di quel commento, ma il problema doveva aspettare. Avevano appena fatto un salto nel buio ed era troppo tardi per tornare indietro. Entrò in casa. L'anno prima aveva finito l'arredamento, spendendo milioni per quadri, pannelli, mobili laccati e oggetti d'arte, ma aveva preteso che la comodità non venisse sacrificata per l'opulenza, quindi aveva incluso un teatro, accoglienti salottini, stanze da letto per gli ospiti, bagni e il giardino. Purtroppo era riuscito a trascorrere solo poche settimane in quel luogo, pieno di domestici esaminati e scelti personalmente da O'Conner. Ben presto, però, Attico sarebbe diventato il suo rifugio, un posto dove poter vivere e pensare in pace e tranquillità, fine cui aveva provveduto anche installando sofisticati sistemi d'allarme, mezzi di comunicazione di ultima generazione e un'intricata rete di passaggi segreti. Attraversò le stanze al pianterreno, che confluivano l'una nell'altra in stile francese. Un bell'atrio in tono classico ospitava un'ampia scala a chiocciola di marmo che portava al piano superiore. Salì. Affreschi rappresentanti la marcia delle scienze liberali gli facevano ricordare il meglio di Venezia, anche se le torreggianti finestre gotiche inquadravano un panorama montano invece del Canal Grande. La sua destinazione era la stanza chiusa sulla sinistra in cima alle scale, una delle diverse spaziose camere per gli ospiti. Entrò senza far rumore. Karyn Walde era sdraiata immobile sul letto. O'Conner l'aveva portata da Samarcanda con un altro elicottero. Si avvicinò e prese una delle siringhe appoggiate sul tavolino di acciaio, quindi ne iniettò il contenuto in una delle uscite della flebo attaccata al braccio destro. Qualche secondo e lo stimolante fece riaprire gli occhi alla donna. A Samarcanda, le aveva fatto perdere i sensi, ma ora gli serviva ben desta. «Forza, si svegli.» Karyn Walde sbatté le palpebre, ma dopo un istante richiuse gli occhi. Vincenti prese una brocca d'acqua gelata dal comodino e gliela gettò in faccia. La malata si svegliò di colpo, sputando e asciugandosi gli occhi. «Figlio di puttana...»
«Le avevo detto di svegliarsi.» La donna non era legata: non ce n'era bisogno. Si guardò intorno. «Dove sono?» «Le piace? Dovrebbe essere abbastanza elegante.» Karyn si accorse del sole che entrava dalle finestre e dalle porte aperte sulla terrazza. «Quanto sono stata priva di sensi?» «Un po'. È mattina.» Mentre cominciava a capire la realtà dei fatti, sul suo viso ricomparve un'espressione disorientata. «Cosa sta succedendo?» «Voglio leggerle una cosa. Me lo consente?» «Ho scelta?» Era ricomparsa l'ironia. «Veramente no, ma penso che sarà tempo speso bene.» Nutrivo dubbi riguardo alla Sperimentazione Clinica W 12-23 fin dall'inizio, quando Vincenti assegnò soltanto lui e me alla supervisione. Era insolito perché di rado Vincenti prende parte personalmente a queste cose, in particolare a una sperimentazione con solo dodici partecipanti, altro fatto che mi aveva reso sospettoso. La maggior parte dei trial che conduciamo ha dai cento ai mille o più partecipanti. Un campione di dodici pazienti di norma non basta a rivelare l'efficacia di una sostanza, soprattutto riguardo il criterio fondamentale della tossicità, perché c'è il pericolo che le conclusioni possano risultare semplicemente casuali. Quando ho espresso queste preoccupazioni a Vincenti, mi ha spiegato che in questa occasione lo scopo non era stabilire la tossicità, e anche questo mi è parso strano. Ho chiesto informazioni sull'agente testato e mi ha detto che si trattava di qualcosa che aveva sviluppato lui personalmente e che era curioso di vedere se i risultati di laboratorio potevano essere replicati negli esseri umani. Sapevo che Vincenti lavorava a progetti classificati a uso interno (il che significava che soltanto ad alcune persone era consentito di accedere ai dati), ma in passato io ero sempre stato fatto partecipe della cosa. In questo trial, Vincenti ha chiarito subito che soltanto lui poteva maneggiare la sostanza da testare, nota come Zeta Eta. Usando specifici parametri forniti da Vincenti, ho procurato una dozzina di volontari rintracciati in varie cliniche di tutto il Paese. Non un compito facile, dato che l'HIV non è un argomento di cui gli iracheni parlano apertamente e la malattia è rara, ma alla fine, offrendo del denaro, si sono trovati i soggetti. Tre nello stadio iniziale dell'infezione arrivarono con una conta dei globuli bianchi pari all'incirca a mille e solo una minima percentuale di virus. Nessuna di quelle persone mostrava sintomi visibili di AIDS. Altre cinque erano già passate dall'HIV all'AIDS e avevano il sangue pieno di virus, con bassa conta dei leucociti, e stavano già affrontando un'ampia serie di sintomi specifici. Quattro erano quasi moribondi, la conta dei leucociti inferiore a duecento, una varietà di infezioni secondarie già manifeste, la fine solo una questione di tempo. Una volta al giorno raggiungevo la clinica di Baghdad e somministravo per endovena le dosi specificate da Vincenti e allo stesso tempo ritiravo campioni di
sangue e di tessuti. Fin dalla prima iniezione tutte e dodici mostrarono un marcato miglioramento. La conta dei leucociti saliva in modo significativo e, con una ripresa del sistema immunitario, le infezioni secondarie svanivano e l'organismo ricominciava a combattere le varie malattie. Alcune, come il sarcoma di Kaposi sviluppato da cinque delle dodici, non erano più curabili, ma le infezioni cui il sistema immunitario è in grado di opporsi in modo efficace cominciarono a diminuire già dal secondo giorno. Il terzo giorno il sistema immunitario era ricostruito in tutti e dodici, con linfociti rigenerati, ritorno dell'appetito, acquisto di peso, carica virale dell'HIV ridotta quasi a zero. Non c'era dubbio che se le iniezioni fossero continuate sarebbero guarite tutte, quantomeno da HIV e AIDS. Ma le somministrazioni cessarono. Il quarto giorno, quando Vincenti fu convinto dell'efficacia della sostanza, cambiò il contenuto delle iniezioni con soluzione salina. I dodici pazienti ebbero un crollo molto rapido. La conta delle cellule T precipitò e l'HIV riprese il controllo del loro organismo. In cosa consistesse esattamente la sostanza testata rimane un mistero. I pochi test chimici che svolsi rivelarono solo una lieve presenza di un composto alcalino a base acquosa. Più per curiosità che per altro, ne esaminai al microscopio un campione e rimasi esterrefatto scoprendo la presenza di organismi viventi nella soluzione. Notò che Karyn Walde ascoltava con attenzione. «È il resoconto di un uomo che un tempo lavorava per me. Voleva sottoporlo ai miei superiori, ma io l'ho fatto uccidere. In Iraq, negli anni '80, quando Saddam regnava supremo, non c'erano grossi problemi a farlo.» «E perché l'ha fatto ammazzare?» «Era un ficcanaso. S'impicciava troppo di questioni che non lo riguardavano.» «Questa non è una risposta. Per quale motivo doveva morire?» Vincenti brandì una siringa piena di un liquido trasparente. «Altro farmaco per dormire?» «No. In realtà si tratta del suo più grande desiderio.» Una pausa. «La vita.»
Capitolo 58
Venezia, ore 02.55 Malone scosse la testa. «Ely Lund è vivo?» «Non lo sappiamo», rispose Edwin Davis. «Ma sospettiamo che la Zovastina sia stata frenata da qualcuno. Grazie a Henrik, ieri abbiamo scoperto che Lund era la sua iniziale fonte di informazioni, e le circostanze della morte sono senza dubbio sospette.» «Perché Cassiopea lo crede morto?» «Perché è quello che deve credere», replicò Thorvaldsen. «Non c'è modo di provare che le cose non stiano così, ma suppongo che una parte di lei dubiti che sia stato davvero ucciso.» «Henrik pensa, e io concordo con lui, che la Zovastina cercherà di sfruttare a proprio vantaggio il legame tra Ely e Cassiopea», intervenne Stephanie. «Quanto è successo qui non può che aver alimentato la paranoia del primo ministro, quindi Cassiopea può approfittare di questa debolezza.» «Quella donna sta preparando una guerra, non si preoccuperà certo di Cassiopea. Le serviva per arrivare all'aeroporto, dopodiché Cassiopea non è altro che zavorra. È una follia.» «Cotton, non è tutto», riprese Stephanie. «Naomi è morta.» Malone si passò le dita tra i capelli. «Sono stanco e disgustato di vedere gli amici morire.» «Voglio Enrico Vincenti», fu la replica di Stephanie, e valeva lo stesso per lui. Aveva ripreso a pensare come un agente operativo, lottando contro il desiderio di una vendetta rapida. «Hai detto che nel tesoro della basilica c'è qualcosa. Okay, andiamo a vedere.» Irina Zovastina osservava la donna seduta di fronte a lei nella lussuosa cabina del jet. Persona coraggiosa, senza dubbio, ma, come la prigioniera del laboratorio in Cina, conosceva anche la paura. Tuttavia sapeva come controllarla. Da quando avevano lasciato la basilica, non avevano detto una parola e aveva usato il tempo per soppesare il suo ostaggio. Ancora non era certa se la presenza di quella donna fosse stata pianificata o se si trattasse di un caso fortuito. Erano accadute troppe cose troppo in fretta. E le ossa. Era certa di trovare qualcosa, al punto di intraprendere il rischioso viaggio a Venezia. Tutto sembrava indicare un successo, ma in fondo erano passati oltre duemila anni e poteva avere ragione Thorvaldsen. Realisticamente, cosa mai poteva essere rimasto? «Cosa ci faceva nella basilica?»
«Mi ha portata per scambiare quattro chiacchiere?» «No, per scoprire cosa sa.» Quella donna le ricordava troppo Karyn, la detestabile sicurezza di sé esibita come un distintivo. E un'insolita aria stanca, che stranamente la interessava e la sconcertava. «I suoi vestiti, i suoi capelli... Si direbbe che abbia fatto una nuotata.» «La sua guardia mi ha buttata nella laguna.» Era una novità. «La mia guardia?» «Viktor. Non l'ha informata? Ho ucciso il suo compagno nel museo a Torcello. Volevo uccidere anche lui.» «Potrebbe non essere tanto facile.» «Non credo.» Il tono era gelido, acido, e mostrava senso di superiorità. «Conosceva Ely Lund?» Cassiopea non disse nulla. «Pensa che io l'abbia ucciso?» «So che è stata lei. Le ha detto dell'enigma di Tolomeo, le ha parlato di Alessandro e del fatto che il corpo nel Soma non fosse il suo. Ha collegato quel corpo al trafugamento di san Marco da parte dei veneziani ed è così che ha saputo di dover venire a Venezia. L'ha ucciso per essere certa che non lo dicesse ad altri, ma a qualcuno l'aveva già detto. A me.» «E lei l'ha riferito a Henrik Thorvaldsen.» «Non solo.» Quello era un problema, e Irina Zovastina cominciò a chiedersi se per caso ci fosse un rapporto tra la donna che aveva di fronte e il fallito tentativo di assassinarla. Henrik Thorvaldsen avrebbe di certo potuto appartenere alla Lega Veneziana, ma dato che l'elenco dei soci era altamente confidenziale, non aveva modo di controllare. «Ely non l'ha mai menzionata.» «Ma ha menzionato lei.» Quella donna somigliava davvero a Karyn. Stessi modi schietti e fascino ammaliante. L'atteggiamento di sfida attirava la Zovastina. Una caratteristica che per essere domata richiedeva pazienza e determinazione. Ma ci si poteva riuscire. «E se Ely non fosse morto?»
Capitolo 59
Venezia Malone seguì gli altri nel transetto sud della basilica, fermandosi davanti a una porta di bronzo scarsamente illuminata e sormontata da un elaborato arco in stile moresco. Thorvaldsen prese la chiave e aprì. All'interno, un vestibolo a volta conduceva in un santuario. A sinistra, le nicchie sulla parete ospitavano icone e reliquiari; a destra, c'era il tesoro, dove i simboli più fragili e preziosi di una repubblica estinta riposavano contro le pareti o erano esposti in teche. «La maggior parte di ciò che si trova qui proviene da Costantinopoli, quando Venezia saccheggiò la città nel 1204», spiegò Thorvaldsen. «Ma restauri, incendi e furti hanno richiesto un pesante tributo. Quando la Repubblica veneziana cadde, gran parte della collezione venne fusa per usare l'oro, l'argento e le pietre preziose. Soltanto duecentottantatré oggetti sono riusciti a sopravvivere.» Malone ammirò calici lucenti, reliquiari, cofanetti, croci, ciotole e icone, realizzati in pietra, legno, cristallo, vetro, argento e oro. Notò anche anfore, ampolle, copertine di manoscritti ed elaborati turiboli, tutti antichi trofei portati dall'Egitto, da Roma o da Bisanzio. «Che collezione...» «Una delle più belle al mondo», dichiarò Thorvaldsen. «Cosa stiamo cercando?» «Michener ha detto che era qui», disse Stephanie, indicando una vetrina in cui erano esposti una spada, il pastorale di un vescovo, alcune ciotole esagonali e parecchie scatole dorate contenenti reliquie. Thorvaldsen usò un'altra chiave e aprì la teca, quindi scostò il coperchio di una delle scatoline. «Lo tengono qui dentro, non visibile al pubblico.» Malone riconobbe l'oggetto: uno scarabeo. Durante il processo di mummificazione, gli imbalsamatori egizi erano soliti decorare il corpo purificato con centinaia di amuleti. Molti erano semplici abbellimenti, altri venivano posizionati in modo da rinforzare gli arti del morto. Quello che stava osservando prendeva il nome dall'insetto che adornava la parte superiore, uno scarabeo stercorario. Aveva sempre trovato strana quell'associazione, ma gli antichi egizi avevano notato che quel coleottero sembrava uscire dagli escrementi, perciò l'avevano identificato con Khepri, il creatore di tutte le cose, padre degli dei, che si era creato dalla materia da lui stesso prodotta. «Questo è un amuleto del cuore.» «Già, è quello che ha detto Michener», convenne Stephanie. Malone sapeva che durante la mummificazione venivano rimossi tutti gli organi tranne il cuore, su cui veniva sempre posto uno scarabeo a simbolizzare la vita eterna. Quello che avevano davanti era molto tipico, realizzato con una pietra verde, ma notò
un particolare: niente oro. «Strano, di solito sono fatti in oro o almeno decorati.» «Probabilmente è per questo che è sopravvissuto», spiegò Thorvaldsen. «La storia riferisce che il Soma di Alessandria fu depredato dagli ultimi Tolomei. Tutto l'oro e gli oggetti di valore furono portati via e il sarcofago venne fuso. Quel pezzetto di pietra per loro non valeva niente.» Malone allungò la mano e prese l'amuleto, lungo dieci centimetri e largo cinque. «È di dimensioni maggiori del normale. Di solito questi affari sono grandi circa la metà.» «È molto ben informato», commentò Davis. Stephanie sogghignò. «Il ragazzo legge. Dopotutto, è un libraio.» Malone sorrise, ma continuò ad ammirare l'amuleto, notando tre geroglifici incisi sulle ali del coleottero.
«Cosa sono questi?» «Michener ha detto che significano vita, stabilità e protezione», rispose Thorvaldsen. Girò l'amuleto, e la parte inferiore risultò dominata dall'immagine di un uccello.
«È stato trovato assieme alle ossa di san Marco quando furono traslate dalla cripta e portate all'altare, nel 1835», riprese Thorvaldsen. «San Marco era stato martirizzato e mummificato ad Alessandria, perciò hanno pensato che l'amuleto facesse semplicemente parte del processo. Ma dato che è un simbolo pagano, i padri della Chiesa decisero fosse meglio non rimetterlo coi resti, quindi, riconoscendone comunque il valore storico, lo collocarono qui, nel tesoro. Quando la Chiesa ha saputo dell'interesse della Zovastina per l'evangelista, l'amuleto ha assunto un'importanza maggiore. Ma quando Daniels me ne ha parlato, mi è tornato in mente ciò che aveva detto Tolomeo: Sfiora la parte più recondita della dorata illusione.» Se ne ricordava anche Malone, e i pezzi del mosaico cominciarono a ricomporsi. «La dorata illusione era il corpo di Menfi, dato che era avvolto nell'oro. E la parte più recondita? Il cuore.» Sollevò l'amuleto, mostrandolo agli altri. «Questo.» «Il che significa che i resti nella basilica non sono di san Marco», intervenne Davis. Malone assentì. «Sono qualcosa di completamente diverso. Qualcosa che non ha niente a che fare con la cristianità.» Thorvaldsen indicò la parte inferiore. «Questo è il geroglifico egizio che rappresenta la fenice, il simbolo della rinascita.»
Malone ripensò a un altro brano dell'enigma: Dividi la fenice. E seppe con precisione cosa fare. Cassiopea si rese conto che era rimasta spiazzata dalla domanda della Zovastina. E se Ely non fosse morto? Perciò controllò le emozioni e ribatté con calma: «Ma è morto, da mesi». «Ne è sicura?» Cassiopea si era fatta mille domande in proposito, non poteva essere altrimenti, ma allontanò il dolore della speranza. «Ely è morto.» Irina Zovastina si allungò a prendere il telefono e premette un tasto. Qualche secondo di attesa, poi: «Viktor, ho bisogno che tu dica a una persona cos'è successo la sera in cui è morto Ely Lund». Il primo ministro le passò il telefono. Cassiopea non si mosse. Ricordava ciò che l'uomo le aveva detto sulla barca, che equivaleva a niente. «Può permettersi di non ascoltare quanto ha da dire?» chiese la Zovastina, con una nauseante espressione soddisfatta negli occhi scuri. Quella donna conosceva il suo punto debole e, in qualche modo, quella consapevolezza spaventò Cassiopea più di quanto avrebbe potuto rivelarle Viktor. Voleva sapere. Gli ultimi mesi erano stati una tortura. Tuttavia... «Immagino che lei abbia un'idea di dove può ficcarsi questo affare.» Irina Zovastina esitò, poi sorrise. Infine parlò di nuovo al telefono. «Forse più tardi, Viktor. Puoi lasciare andare il prete adesso.» Interruppe la comunicazione, mentre l'aereo continuava la scalata tra le nuvole, diretto in Asia. «Viktor teneva sotto controllo la casa di Ely. Su mio ordine.» Cassiopea non voleva ascoltare. «È entrato dal retro e l'ha trovato legato a una sedia con l'assassino pronto a sparargli. Viktor ha eliminato il sicario, quindi ha portato Ely da me e ha dato fuoco alla casa con dentro il corpo del killer.» «Non si aspetterà che ci creda.» «Ci sono persone all'interno del mio governo che vorrebbero vedermi sparire. Purtroppo, la slealtà è parte del nostro modo di fare politica. Mi temono e sapevano che Ely mi stava aiutando, perciò hanno ordinato che venisse ucciso, come avevano già fatto con altri miei alleati.» Cassiopea continuava a essere scettica. «Ely è HIV positivo.» Quella verità gelò Cassiopea. «Come fa a saperlo?» «Me l'ha detto lui. Gli ho fornito le medicine in questi ultimi due mesi. A differenza di lei, si fida di me.» Cassiopea era sicura che Ely non avrebbe mai detto a nessuno di essere infetto. Soltanto Henrik ed Ely sapevano che era malata. E adesso era anche confusa. Ma più possibilista. Che fosse stato quello l'obiettivo del primo ministro?
Malone accarezzò la liscia superficie dell'amuleto, seguendo con le dita il disegno che rappresentava la fenice egizia. «Tolomeo dice di dividere la fenice.» Agitò lo scarabeo, restando in ascolto, ma all'interno non si mosse niente. Thorvaldsen sembrò capire cosa stava per fare. «Guarda che quell'oggetto ha più di duemila anni.» A Malone non importava. Cassiopea era nei guai e il mondo era sull'orlo di una devastante guerra batteriologica. Tolomeo aveva redatto un enigma che ovviamente conduceva al luogo in cui Alessandro Magno aveva voluto essere sepolto. A quanto pareva il guerriero greco diventato faraone era al corrente di informazioni precise. E se aveva detto dividi la fenice, be', era proprio quello che avrebbe fatto, senza pensarci due volte. Scagliò l'amuleto sul pavimento di marmo, a faccia in su. L'oggetto rimbalzò e circa un terzo si ruppe, come una noce. Quando Malone esaminò i pezzi, vide che dai lati usciva qualcosa. Gli altri si inginocchiarono con lui. «L'interno era tagliato, pronto a rompersi, e pieno di sabbia.» Sollevò il pezzo più grande e fece uscire i minuscoli granellini. «Guardate!» esclamò Edwin Davis. Lo aveva visto anche Malone. Spostò la sabbia con delicatezza e liberò un oggetto cilindrico, del diametro di circa un centimetro e mezzo, poi si accorse che non era affatto un cilindro. Una striscia d'oro. Arrotolata. Con estrema attenzione spinse il piccolo involto mettendolo sul lato e vide delle lettere. «Greco.» Stephanie si avvicinò di più. «E guarda com'è sottile questa foglia d'oro!» «Cos'è?» chiese Davis. Il cervello di Malone stava inserendo al loro posto gli ultimi pezzi del mosaico. Adesso diventava importante la parte successiva dell'enigma di Tolomeo: La vita offre la misura della vera tomba. Ma sii cauto, perché c'è soltanto una possibilità di successo. Mise la mano in tasca e trovò la moneta che gli aveva dato Stephanie. «Su questo decadracma sono nascoste le microlettere ZH. E sappiamo che è stato Tolomeo a farlo coniare, quando ha creato l'indovinello.» Notò un minuscolo simbolo su un lato, e capì subito la connessione. «Questo stesso simbolo si trovava sul manoscritto che mi avete fatto vedere. In fondo, sotto l'enigma.» «Che relazione hanno le monete dell'elefante e questa strisciolina d'oro?» domandò Davis. «Bisogna prima sapere cos'è questa strisciolina», replicò Malone. Vide che Stephanie gli leggeva nel pensiero. «E tu lo sai?» «Oh, sì, so esattamente cos'è.» Viktor spense il motore e lasciò che il motoscafo scivolasse piano piano verso il
molo di San Marco. Aveva portato Michener dalla basilica al punto in cui aveva attraccato, pensando che il posto più sicuro dove aspettare che la Zovastina fosse partita fosse sull'acqua. E lì erano rimasti, a guardare cupole e pinnacoli illuminati, il palazzo rosa e bianco dei dogi, il campanile e le file di edifici antichi, alti e solidi, punteggiati di balconi e finestre, tutti resi opachi dal nero sbadiglio della notte. Sarebbe stato felice di lasciare l'Italia. Lì era andato tutto storto. «È ora che lei e io parliamo un po'», disse Michener. Aveva tenuto il prelato nella cabina di prua, da solo, mentre lui aspettava la chiamata della Zovastina. «E di cosa potremmo mai parlare?» «Magari del fatto che lei è una spia americana.»
Capitolo 60
Federazione Centroasiatica Vincenti lasciò a Karyn Walde il tempo di metabolizzare ciò che aveva detto. Si ricordava del momento in cui lui si era reso conto per la prima volta di avere scoperto la cura per l'HIV. «Le ho raccontato del vecchio sulla montagna...» «È lì che ha trovato la cura?» «Credo che ritrovato sia più esatto.» Non ne aveva mai parlato con nessuno. Come avrebbe potuto? Perciò si scoprì desideroso di spiegare. «È ironico come le cose più semplici possano risolvere i problemi più complessi. Nei primi anni del Novecento, in Cina dilagò il beri beri, che uccise centinaia di migliaia di persone. E lo sa perché? Per rendere il riso più appetibile, i mercanti avevano cominciato a brillare i chicchi, togliendo la pula e rimuovendo così la tiamina, ossia la vitamina B1. Senza tiamina nella dieta, il beri beri si trasmise in modo incontrollato tra la popolazione, ma una volta proibita la brillatura, la vitamina B1 ha risolto il problema. Dalla corteccia del tasso del Pacifico si ottiene un'utile terapia per il cancro. Non lo sconfigge, ma lo rallenta in modo notevole. La semplice muffa del pane ha portato ad antibiotici altamente efficaci in grado di eliminare le infezioni batteriche. E in alcuni bambini, una cosa banale come una dieta chetogenica ad alto contenuto di grassi può bloccare l'epilessia. Roba semplice. E ho scoperto che lo stesso principio è vero anche per l'AIDS.» «Era quello che c'era nella foglia che aveva masticato a funzionare come cura?» «Non quello. Quelli.» Vide che la paura della donna diminuiva, perché ciò che sarebbe potuto essere un pericolo stava rapidamente trasformandosi in salvezza. «Trent'anni fa, abbiamo individuato un virus nel sangue delle scimmie verdi. All'epoca le nostre conoscenze in materia erano rudimentali, considerando quanto sappiamo oggi, e pensavamo si trattasse di una forma di rabbia, ma struttura, dimensioni e biologia dell'organismo erano diverse. Alla fine fu etichettato come SIV, virus da immunodeficienza delle scimmie. Adesso sappiamo che il SIV può vivere nelle scimmie per un tempo illimitato senza provocare danni e, se inizialmente pensavamo che le scimmie avessero sviluppato qualche tipo di resistenza, in seguito abbiamo scoperto che tale resistenza derivava dal virus stesso, che aveva chimicamente capito di non poter distruggere ogni organismo biologico con cui entrava in contatto. Il virus aveva imparato a esistere nelle scimmie, senza che quelle avessero la minima idea che ci fosse.» «Questo l'avevo già sentito», intervenne Karyn. «E l'epidemia di AIDS è cominciata per un morso di scimmia.» «Chi può dirlo? Potrebbe essere stato un morso o un graffio, potrebbe essere stato per ingestione, dato che la carne di scimmia fa regolarmente parte di parecchi regimi alimentari. Ma, comunque sia andata, il virus ha lasciato le scimmie e si è trasferito
negli esseri umani. Ho assistito personalmente alla mutazione del virus da SIV a HIV in un uomo che si chiamava Charlie Easton.» Le raccontò cos'era successo decenni prima, neanche molto lontano da dove si trovava ora, quando Easton era morto. «L'HIV non mostra istinto parentale per gli uomini, come invece faceva il SIV nei confronti delle scimmie, quindi si mette all'opera in fretta, clonando le cellule dei linfonodi in duplicati di se stesso. Charlie morì nell'arco di qualche settimana. Ma non era stato il primo. Il primo caso diagnosticato con certezza riguardava un inglese, nel 1959. Un campione congelato di siero testato all'inizio degli anni '90 evidenziò la presenza nel sangue dell'HIV, e i rapporti medici confermarono i sintomi dell'AIDS. Con ogni probabilità, SIV e AIDS circolavano entrambi da secoli. Gente che moriva in villaggi isolati e nessuno che ci badava, anche perché in realtà erano infezioni secondarie come la polmonite a uccidere, quindi di norma i medici scambiavano l'AIDS per altro. All'inizio, negli Stati Uniti, era stato definito 'la polmonite dei gay'. Adesso l'ipotesi più realistica è che la malattia si sia diffusa negli anni '50 e '60, quando l'Africa ha cominciato a modernizzarsi e la gente a vivere nelle città. Poi qualcuno ha portato il virus fuori di quel continente e negli anni '80 l'HIV si è esteso in tutto il globo.» «Una delle vostre armi batteriologiche naturali ha avuto successo.» «In realtà lo consideravamo scadente per quello scopo. Troppo difficile da contrarre, troppo lento a uccidere. Il che non è un male, perché se le cose stessero diversamente ci troveremmo di fronte a una versione moderna della Morte Nera.» «Ma è così», replicò la donna. «Solo che non sta ancora uccidendo le persone giuste.» Lui sapeva cosa intendeva. Al momento c'erano due ceppi principali: l'HIV-1, prevalente in Africa, e l'HIV-2, tipico di consumatori di droga e di omosessuali, anche se negli ultimi tempi avevano cominciato a comparire nuove varianti, come quella terribile del Sudest Asiatico, che di recente era stata indicata come HIV-3. «Quanto a Easton, pensa di essere stato infettato da lui?» «All'epoca sapevamo talmente poco sulla trasmissione del virus... Si ricordi che qualunque arma batteriologica è inutile senza una cura, perciò quando il vecchio guaritore si offrì di portarmi tra i monti, ci andai. Mi mostrò la pianta e mi disse che il succo che si estraeva dalle foglie poteva fermare quella che lui chiamava malattia della febbre. Perciò ne ho mangiato un po'.» «E non ne ha dato a Easton? L'ha lasciato morire?» «Gli ho dato il succo della pianta, ma non gli fece niente.» Karyn aveva un'aria perplessa e Vincenti la lasciò nell'incertezza per qualche istante. «Dopo che Charlie morì, catalogai il virus come inadatto. Gli iracheni volevano essere messi al corrente soltanto dei successi e ci era stato detto di lasciar perdere il resto, ma quando a metà degli anni '80 l'HIV venne isolato in Francia e negli USA, lo riconobbi. All'inizio non mi diedi molto pensiero. Che diavolo, fuori della comunità gay nessuno era preoccupato più di tanto, poi però, nel 1985, cominciò a essere oggetto di discussione tra le case farmaceutiche: chiunque avesse trovato una cura, avrebbe fatto un sacco di soldi. Quindi decisi di provarci, dato che a quel punto ne sapevo molto di più. Tornai in Asia centrale, ingaggiai una guida che mi accompagnasse sull'altopiano, e ritrovai
la pianta. Ne presi dei campioni, li testai e non ci furono dubbi sul fatto che cancellasse l'HIV quasi solo al contatto.» «Ma ha detto che per Easton non aveva funzionato.» «La pianta è inutile. Quando la diedi a Charlie, ormai le foglie erano asciutte. Non sono le foglie, ma l'acqua ad avere effetto. È lì che li ho trovati.» Sollevò la siringa. «Batteri.»
Capitolo 61
Venezia «Mai sentito parlare delle scitale?» chiese Malone. Scossero tutti la testa. «Prendete un bastoncino, ci avvolgete intorno una striscia di cuoio, scrivete il vostro messaggio in verticale sul cuoio, quindi svolgete la striscia e aggiungete un po' di altre lettere a caso. La persona che volete legga il messaggio ha un bastoncino dello stesso diametro, perciò quando ci avvolge intorno la striscia, il messaggio diventa comprensibile. Usate un bastone di diametro diverso e otterrete solo un mucchio di lettere prive di senso. Gli antichi greci usavano le scitale per comunicare di nascosto.» «E come diamine fa a sapere queste cose?» chiese Davis. Malone si strinse nelle spalle. «Le scitale erano un sistema di comunicazione rapido, efficace e che non dava adito a errori, cosa importantissima su un campo di battaglia. Gran modo per mandare messaggi segreti. E, per rispondere alla sua domanda, io leggo davvero.» «Non abbiamo il bastoncino giusto», riprese Davis. «Come facciamo a decifrare quel coso?» «Ricorda l'enigma? La vita offre la misura della vera tomba.» Mostrò la moneta. «ZH. Vita. Questa moneta è la misura.» «Ma sii cauto, perché c'è soltanto una possibilità di successo», citò Stephanie. «Quel foglio d'oro è sottilissimo. Non si può srotolarlo e poi arrotolarlo ancora. A quanto pare, hai a disposizione un solo tentativo.» Malone annuì. «È quello che pensavo anch'io.» Coordinò le ricerche non appena lasciarono la basilica e si diressero nuovamente verso gli uffici diocesani con la lamina d'oro e la moneta dell'elefante. Il decadracma doveva avere un diametro di circa due centimetri e mezzo, quindi si diedero da fare per trovare qualcosa che potesse andare bene. Un paio di manici di scopa scoperti in un ripostiglio risultarono troppo grandi, altri oggetti troppo piccoli. «Le luci sono tutte accese, ma in giro non c'è nessuno», fece notare Malone. «Michener ha svuotato l'edificio quando la Zovastina è rimasta sola in basilica», replicò Davis. «Volevamo ridurre al minimo il numero di testimoni.» Vicino a una macchina per le fotocopie, su una mensola, Malone notò delle candele. Prese la scatola e scoprì che avevano un diametro di poco più largo della moneta. «Ci faremo la nostra scitale.» Stephanie capì al volo. «C'è una cucina in fondo al corridoio. Vado a prendere un coltello.» Malone teneva la striscia d'oro sul palmo della mano, protetta da un foglio di carta spiegazzato che avevano trovato nella cassetta dei biglietti del tesoro. «Qualcuno
conosce il greco antico?» Davis e Thorvaldsen scossero la testa. «Allora ci servirà un computer. Qualunque parola salti fuori da questa strisciolina sarà in quella lingua.» «Ce n'è uno nell'ufficio in cui eravamo prima», disse Davis. «In fondo al corridoio.» Intanto Stephanie tornò col coltello. «Sono preoccupato per Michener», affermò Malone. «Cosa impedisce a Viktor di ucciderlo, anche se la Zovastina è partita sana e salva?» «Quello non è un problema», rispose Davis. «Volevo che Michener andasse con Viktor.» «E perché?» Edwin Davis lo squadrò, come stesse decidendo se era uno di cui potersi fidare. Fatto che irritò Malone. «Che c'è?» Un cenno di Stephanie e Davis rispose: «Viktor lavora per noi». Viktor era stupefatto. «Ma chi è lei?» «Un sacerdote della Chiesa cattolica, proprio come ho sempre detto. Lei, invece, è molto più di quello che sembra. Il presidente degli Stati Uniti vuole che le parli.» La barca stava ancora scivolando lentamente verso il molo. Qualche altro istante e Michener se ne sarebbe andato. Aveva scelto il momento per una simile rivelazione con grande tempismo. «Mi è stato detto che la Zovastina l'ha ingaggiata dalle forze di sicurezza croate, dove in precedenza era stato reclutato dagli americani. Quando hanno saputo che lavorava per la Zovastina, hanno riallacciato i contatti.» Viktor capiva benissimo che quelle informazioni, tutte vere, gli venivano offerte per convincerlo che quell'uomo era affidabile. «Come ci riesce?» gli chiese Michener. «Come fa a vivere nella menzogna?» Decise di essere sincero. «Diciamo che preferisco non essere portato davanti a un tribunale per crimini di guerra. In Bosnia combattevo per l'altra parte. Tutti abbiamo fatto cose di cui ci pentiamo. Io ho messo a tacere la coscienza cambiando bandiera e aiutando gli americani a catturare i criminali peggiori.» «Il che significa che anche gli altri ce l'avrebbero a morte con lei, se lo sapessero.» «Esatto.» «Gli americani hanno ancora il coltello dalla parte del manico?» «Gli omicidi non vanno in prescrizione e la mia famiglia è in Bosnia. E là la vendetta colpisce tutti quelli che ti sono vicini. Me ne sono andato per non correre rischi, ma quando gli americani hanno saputo che lavoravo per Irina Zovastina mi hanno offerto la possibilità di scegliere se preferivo essere venduto ai bosniaci o al primo ministro. Ho deciso che era più facile collaborare con loro.» «Sta facendo un gioco pericoloso.» «La Zovastina non sapeva niente di me. È uno dei suoi punti deboli: è convinta che chiunque le stia intorno abbia troppa paura o troppo rispetto per mettersi in competizione con lei. Ma, senta, la donna che era nella basilica, Cassiopea Vitt, che
poi è andata via con la Zovastina...» «È coinvolta anche lei.» Adesso Viktor si rendeva conto del grosso errore che aveva fatto. Poteva davvero venire compromesso, perciò decise fosse meglio chiarire le cose. «Lei e io ci siamo scontrati in Danimarca. Ho cercato di ucciderla, insieme con gli altri due che erano nella basilica. Non avevo idea di chi fossero, ma se dice alla Zovastina quello che è successo, io sono morto.» «Non lo farà. Le è stato detto chi è lei stasera prima di entrare in basilica. Conta sul suo aiuto a Samarcanda.» E così cominciavano ad avere senso le strane parole mormorate nella galleria del transetto, e il fatto che nessuno di quelli presenti in Danimarca avesse aperto bocca in proposito davanti alla Zovastina. L'imbarcazione si appoggiò al molo e Michener saltò giù. «La aiuti. È una donna piena di risorse.» E che uccideva senza la minima emozione. «Che Dio sia con lei, Viktor. Direi proprio che ne avrà bisogno.» «Non serve a niente.» Sul volto del prelato si disegnò un sorriso. «Lo pensavo anch'io, una volta, ma mi sbagliavo.» Viktor era come la Zovastina. Un pagano. Anche se non per motivi religiosi o morali. Semplicemente non gli importava di quanto gli sarebbe accaduto dopo morto. «Un'ultima cosa», disse Michener prima di andarsene. «In basilica, Cassiopea ha nominato un uomo, Ely Lund. Gli americani vogliono sapere se è ancora vivo.» Di nuovo quel nome. Prima dalla donna, ora da Washington. «Lo era, ma non ne sono più certo.» Malone scosse la testa. «Avete qualcuno all'interno? E allora a cosa vi serviamo?» «Non possiamo comprometterlo», rispose Davis. «E tu lo sapevi?» «Non fino a poco fa», ammise Stephanie. «Michener è diventato il canale perfetto», riprese Davis. «Non eravamo sicuri di come sarebbero andate le cose qui, ma quando la Zovastina ha ordinato a Viktor di prendere lui, ha funzionato tutto alla perfezione. Abbiamo bisogno che Viktor aiuti Cassiopea.» «Chi è Viktor?» «Diciamo un collaboratore occasionale della CIA.» «Collaborazione amichevole o forzata?» Davis esitò. «Forzata.» «Allora è un problema.» «Abbiamo ripreso i contatti l'anno scorso. È piuttosto utile.» «È un tipo ambiguo, non ci si può certo fidare. Non sto a dirle quante volte ho visto collaboratori occasionali fare il doppio gioco. Sono delle puttane.» «Come ho appena detto, si è dimostrato utile.» Malone non era affatto impressionato. «A quanto pare lei non è della partita da
molto tempo.» «Da un tempo sufficiente per sapere che bisogna correre dei rischi.» «Il passo tra un rischio e una pazzia è breve.» «Cotton, è stato Viktor a indicarci Vincenti», intervenne Stephanie. «Motivo per cui Naomi è morta. Una ragione di più per non fidarsi di lui.» Posò sulla fotocopiatrice l'involucro che teneva in mano e prese il coltello, quindi appoggiò il fondo di una candela sulla moneta dell'elefante. Era rovinata, consumata dai secoli, ma il diametro era quasi perfetto. Bastarono pochi tagli per eliminare la cera in eccesso. Passò la candela a Stephanie e, con estrema cautela, aprì l'involucro. Aveva le mani umide, cosa che lo stupì. Afferrò il margine della striscia d'oro tenendolo delicatamente tra pollice e indice, quindi ne liberò l'estremità e cominciò ad avvolgerla sulla candela, tenuta saldamente da Stephanie. Piano piano, mentre srotolava la crepitante striscia d'oro, le lettere prive di significato riacquistarono la collocazione originale. Gli tornò alla mente un particolare che aveva letto riguardo alle scitale: Ciò che segue è unito a ciò che precede. Il messaggio divenne chiaro. Sei lettere greche. КАІМАΞ «Un ottimo sistema per mandare un messaggio cifrato, oggi come allora. Questo è stato consegnato duemilatrecento anni dopo essere stato scritto.» L'oro aveva preso la forma della candela e lui ebbe la prova che l'avvertimento di Tolomeo, Sii cauto, perché c'è soltanto una possibilità di successo, era davvero un buon consiglio: non sarebbe stato possibile svolgere la striscia, perché sarebbe andata in mille pezzi. «E adesso andiamo a cercare quel computer.»
Capitolo 62
A Vincenti piaceva avere il controllo della situazione. «Lei è una donna intelligente, ed è chiaro che vuole vivere. Ma quanto sa della vita?» Non aspettò la risposta di Karyn Walde. «Da sempre la scienza c'insegna che di base esistono due generi di esseri viventi: i batteri e tutto il resto. La differenza? I batteri hanno un DNA libero di fluttuare, mentre tutto il resto ha il DNA racchiuso in un nucleo. Poi, negli anni '70, un microbiologo di nome Carl Woese scoprì un terzo tipo di organismi viventi, che chiamò archeobatteri: sono una via di mezzo tra i batteri e il resto. All'inizio, sembrava che vivessero solo in ambienti particolarmente difficili, nel mar Morto, in sorgenti calde, a chilometri di profondità nell'oceano, in Antartide, in paludi prive di ossigeno, e si riteneva che la loro esistenza fosse limitata a quei luoghi. Negli ultimi vent'anni, invece, gli archeobatteri sono stati ritrovati praticamente ovunque.» «E quei batteri che ha trovato distruggono il virus?» «Con grande energia! E sto parlando di HIV-1, HIV-2, SIV e ogni ceppo ibrido che sono riuscito a testare, inclusi quelli provenienti dal Sudest Asiatico. I batteri hanno un rivestimento proteico che distrugge le proteine che tengono assieme l'HIV. Devastano il virus come quello devasta le cellule ospitanti, e lo fanno in fretta. L'unico accorgimento consiste nell'evitare che il sistema immunitario dell'organismo distrugga gli archeobatteri prima che quelli abbiano consumato il virus. In persone come lei, il cui sistema immunitario è virtualmente scomparso, questo non è un problema, visto che semplicemente non c'è un numero di globuli bianchi sufficiente a uccidere i batteri invasori. Ma nei casi in cui l'HIV si è insediato da poco e il sistema immunitario è ancora relativamente forte, i leucociti uccidono i batteri prima che colpiscano il virus.» «E lei ha trovato un modo per evitarlo?» Vincenti annuì. «I batteri riescono a sopravvivere al processo digestivo. È così che il vecchio guaritore riusciva a farli entrare in circolo, anche se lui riteneva che fosse la pianta a risultare efficace. Io non solo avevo masticato la foglia, quel giorno avevo anche bevuto l'acqua, perciò qualunque virus di quel tipo potessi avere in me, scomparve. Da allora ho sperimentato che è comunque meglio somministrare la dose per via endovenosa, in modo da controllare con precisione la quantità. All'inizio dell'infezione da HIV, quando il sistema immunitario è ancora forte, serve un numero maggiore di batteri; in stadi successivi, come il suo, quando il conteggio dei leucociti è quasi pari a zero, ne bastano pochi.» «Dunque è per questo che in quella sperimentazione clinica le servivano malati a stadi diversi. Doveva scoprire la dose giusta per i vari casi.» «Proprio così.» «Perciò chiunque abbia scritto il rapporto che mi ha letto, pensando che lei non si
preoccupasse della tossicità, si sbagliava di grosso.» «Ero ossessionato dalla tossicità. Avevo bisogno di sapere quanti archeobatteri fossero necessari per curare i vari stadi di infezione da HIV. La cosa notevole è che quei batteri, in sé, sono innocui. Se ne possono ingerire miliardi senza la minima conseguenza.» «Quindi lei ha usato quegli iracheni come animali da laboratorio.» «Dovevo farlo per scoprire se gli archeobatteri funzionavano. Alla fine ho modificato una membrana per prolungare l'efficacia dei batteri, in modo da offrire loro più tempo per divorare il virus. La cosa stupefacente è che poi la membrana si distrugge e il sistema immunitario assorbe gli archeobatteri, al pari di qualunque altro invasore, e se ne libera. Il virus è scomparso, e anche gli archeobatteri. Non è bene avere in circolo troppi batteri, perché fanno andare in superlavoro il sistema immunitario. Nel complesso, si tratta di una terapia semplice ed efficace in grado di sconfiggere uno dei virus più letali al mondo. E senza effetti collaterali, per quanto mi risulta.» Sapeva che la donna aveva sperimentato in prima persona il caos provocato dalle cure sintomatiche per l'HIV. Eruzioni cutanee, ulcere, febbre, affaticamento, nausea, pressione bassa, cefalea, vomito, danni al sistema nervoso, insonnia: tutte conseguenze comuni. Le mostrò di nuovo la siringa. «Questo la guarirà.» «Me lo dia», implorò Karyn in tono disperato. «Avrebbe già potuto farlo la Zovastina.» Vide che la menzogna aveva avuto l'effetto desiderato. «È al corrente di tutto.» «Sapevo che era così. Lei e i suoi germi... Ne è ossessionata da anni.» «Il ministro e io abbiamo lavorato assieme, eppure non le ha offerto niente.» «Mai. Si limitava a venire a guardarmi morire.» «Aveva il controllo totale, non c'era niente che lei potesse fare. Da quanto ho capito, la rottura del vostro rapporto, anni fa, non è stata facile. Si è sentita tradita. E quando lei è tornata chiedendole aiuto, le ha dato l'opportunità di vendicarsi. L'avrebbe lasciata morire. Non vorrebbe restituirle il favore?» Osservò la donna mentre nella sua mente prendeva in considerazione il momento della verità, ma, come sospettava, la coscienza l'aveva abbandonata da tempo. «Io voglio solo respirare. Se il prezzo è quello, lo pagherò.» «Sarà la prima persona a guarire dall'AIDS.» «E a poterlo raccontare.» «Già. Stiamo per fare la storia.» Karyn non sembrava particolarmente colpita. «Se la sua cura è tanto semplice, perché qualcuno non potrebbe rubarla o copiarla?» «Soltanto io so dov'è possibile reperire quegli archeobatteri in natura. Mi creda, ne esistono tanti, ma soltanto quelli funzionano.» Gli occhi umidi di Karyn si strinsero in una fessura. «Sappiamo perché io voglio farlo, ma lei?» «Quante domande da una donna che sta per morire.» «Lei mi sembra uomo da fornire risposte.» «Irina Zovastina è d'impedimento ai miei piani.»
«Mi faccia guarire e l'aiuterò a eliminare quel problema.» Aveva dubbi riguardo al suo appoggio incondizionato, ma tenere in vita quella donna era importante. La sua rabbia poteva essere incanalata e sfruttata. Inizialmente aveva pensato che assassinare la Zovastina fosse la soluzione, ed era per quel motivo che aveva dato mano libera al fiorentino, ma poi aveva cambiato idea e abbandonato al suo destino il sicario. Un omicidio l'avrebbe trasformata in una martire, mentre screditarla... quello era il modo migliore. Irina Zovastina aveva dei nemici, ma avevano tutti paura. Magari poteva dare loro coraggio per mezzo della donna amareggiata che lo fissava in quel momento. Né lui né la Lega Veneziana erano interessati a conquistare il mondo. Le guerre sono costose sotto un'infinità di punti di vista, il più preoccupante dei quali è la dilapidazione di ricchezze e risorse nazionali. La Lega voleva la sua nuova utopia così com'era, non come l'immaginava la Zovastina. Quanto a lui, desiderava miliardi di profitti e potersi godere lo status riservato all'uomo che aveva sconfitto l'HIV. Louis Pasteur, Linus Pauling, Jonas Salk, e, adesso, Enrico Vincenti. Perciò svuotò il contenuto della siringa nell'uscita del catetere venoso. «Quanto ci vuole?» chiese Karyn, con voce piena di aspettative, il viso stanco acceso di una nuova luce. «Entro qualche ora si sentirà molto meglio.» Malone selezionò i siti che trattavano di greco antico e alla fine entrò in quello che offriva traduzioni. Digitò le sei lettere, KAIMAΞ, e si stupì sia della pronuncia sia del significato. «In greco è klimax, cioè 'apice'.» Trovò un altro sito dotato di traduttore automatico e ottenne la medesima risposta. «Tolomeo ha faticato molto per lasciare questo messaggio», rifletté Thorvaldsen, indicando la candela avvolta nella striscia d'oro che Stephanie teneva ancora in mano. «Quindi quella parola deve avere grande importanza.» «E che succede quando lo scopriamo?» chiese Malone. «Qual è il grande affare?» «Il grande affare è che la Zovastina sta progettando di uccidere milioni di persone», disse una voce alle loro spalle. Si voltarono e videro Michener sulla soglia. «Ho appena lasciato Viktor in laguna. Era sconvolto che sapessi la verità su di lui.» «Non stento a crederlo», commentò Thorvaldsen. «La Zovastina è partita?» chiese Malone. Michener annuì. «Ho controllato. È decollata poco fa.» «Come fa Cassiopea a sapere di Viktor?» domandò Malone, ma si rispose da solo. «Già, certo, Henrik. La tua telefonata sul molo, appena abbiamo attraccato.» Il danese assentì. «Era un'informazione che le serviva. Siamo stati fortunati che non l'abbia ucciso a Torcello. Ma, ovviamente, in quel momento io non sapevo niente di niente.» «Ancora il sistema da 'decidiamo in corso d'opera'», disse Malone, rivolgendo il commento ironico a Davis. «Per questa parte mi prendo la colpa. Comunque ha funzionato.» «E tre uomini sono morti.»
A quello, Davis non replicò. «E se la Zovastina non avesse insistito per avere un ostaggio come lasciapassare per l'aeroporto?» «Per fortuna non è successo.» «Per i miei gusti lei è uno sconsiderato irresponsabile.» Malone cominciava a innervosirsi. «Se avete Viktor che opera all'interno, come mai non sapete neanche se Ely Lund è vivo?» «Fino a ieri, prima che veniste coinvolti voi, il fatto non era importante. Sapevamo che la Zovastina aveva una fonte d'informazioni storiche, ma non sapevamo chi fosse. Una volta scoperto che si trattava di Lund, dovevamo metterci in contatto con Viktor.» «Viktor ha detto che era vivo», intervenne Michener. «Probabilmente, però, non lo è più.» «Cassiopea non ha idea di quello che l'aspetta», sbottò Malone. «Sta operando alla cieca.» «Ha organizzato tutto lei», spiegò Stephanie. «Forse nella segreta speranza che Ely non fosse morto.» «Vedi, Cotton, hai chiesto perché la questione è così importante», riprese Thorvaldsen. «A prescindere dall'ovvio disastro che provocherebbe una guerra batteriologica, se quella pozione fosse una sorta di cura naturale? Gli antichi lo pensavano. Alessandro lo pensava. I cronisti che hanno redatto quei manoscritti lo pensavano. E se ci fosse davvero qualcosa? Non so perché, ma la Zovastina la vuole. Ely la voleva. E anche Cassiopea la vuole.» Malone continuava a essere scettico. «In realtà non sappiamo un accidente di niente.» Stephanie gli mostrò la candela. «Sappiamo che questo enigma è reale.» Aveva ragione al riguardo, doveva ammetterlo, e adesso lui era anche curioso. Quella stramaledetta curiosità che l'aveva sempre cacciato nei guai. «E sappiamo che Naomi è morta», concluse Stephanie. Non se ne era certo dimenticato. Fissò di nuovo la scitale. Apice. Che fosse un luogo? In quel caso, si trattava di un'indicazione che all'epoca di Tolomeo doveva aver avuto più senso. Sapeva che Alessandro Magno aveva insistito che il suo impero fosse accuratamente mappato e, anche se all'epoca la cartografia muoveva giusto i primi passi, aveva visto riproduzioni di quelle carte antiche, perciò decise di vedere cosa si trovava sul web. Venti minuti di ricerche non offrirono niente che desse la minima idea di cosa KAIMAΞ, klimax, apice, potesse essere. «Potrebbe esserci un'altra possibilità», disse Thorvaldsen. «Ely aveva un rifugio sui monti del Pamir, una sorta di chalet dove andava a lavorare e a pensare. Me ne ha parlato Cassiopea, che ha detto che teneva lì i suoi libri e le sue carte, con un grande assortimento su Alessandro. Ha detto che c'erano parecchie mappe dell'epoca.» «Ma si trova nella Federazione», puntualizzò Malone. «Dubito che la Zovastina ci darà il visto d'ingresso.» «Quanto dista il confine?» s'informò Davis. «Venti chilometri.»
«Allora possiamo entrare passando dalla Cina. In questo collaborano con noi.» «E cosa sarebbe questo?» domandò Malone. «E perché noi siamo coinvolti? Non avete la CIA e una marea di altri servizi di intelligence?» «In verità, Malone, lei si è coinvolto da solo, proprio come Thorvaldsen e Stephanie. Ufficialmente, la Zovastina è l'unico alleato che abbiamo in quella regione, quindi a livello politico non possiamo sfidarla. Usare agenti ufficiali implica il rischio di venire smascherati. Avendo Viktor che opera all'interno e che ci tiene informati, conosciamo quasi tutte le sue mosse. Ma la situazione si sta aggravando. Capisco il dilemma riguardo a Cassiopea...» «In verità lei non capisce, ma è per questo che rimango con voi. Ho intenzione di seguirla.» «Preferirei che andasse allo chalet a vedere cosa c'è.» «Questo è il bello dell'essere in pensione: posso fare quello che voglio.» Si rivolse a Thorvaldsen. «Allo chalet ci andate tu e Stephanie.» «Va bene», concordò l'amico. «Occupati di lei.» Malone fissò Thorvaldsen. Il danese aveva aiutato Cassiopea e collaborato col presidente, coinvolgendo tutti loro, ma anche a lui non andava l'idea che Cassiopea fosse là da sola. «Hai un piano, vero?» chiese Henrik. «Credo di sì.»
Capitolo 63
Ore 04.30 Irina Zovastina bevve da una bottiglietta d'acqua e concesse alla sua passeggera il lusso di sofferte riflessioni. Nell'ultima ora avevano volato in silenzio, dopo che aveva tormentato Cassiopea Vitt con la possibilità che Ely Lund fosse ancora vivo. Era evidente che la donna aveva una missione, ma era personale o professionale? Quello era ancora da vedersi. «Com'è che lei e il danese siete al corrente dei miei affari?» «Sono in molti a essere al corrente dei suoi affari.» «Se sanno così tante cose, perché nessuno mi ha ancora fermata?» «Magari lo stiamo facendo adesso.» «Lei, il vecchio e Malone? Tra l'altro, questo Malone è un suo amico?» «Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti.» Irina supponeva che quanto era accaduto ad Amsterdam avesse generato un interesse a livello governativo, ma la situazione non aveva molto senso. Come avrebbero potuto gli americani muoversi tanto in fretta e sapere che lei si sarebbe trovata a Venezia? Michener? Forse. Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. Gli americani. Un altro problema le passò per la mente: Vincenti. «Lei non ha idea di cosa sappiamo», disse Cassiopea. «Non mi serve un'idea. Ho lei.» «Io sono sacrificabile.» Dubitava di quell'affermazione. «Ely mi ha insegnato molto. Più di quanto avevo mai pensato ci fosse da imparare. Mi ha aperto gli occhi sul passato. Immagino abbia aperto anche i suoi.» «Non funzionerà. Non può usare lui per arrivare a me.» Doveva riuscire a spezzare quella donna. Tutto il suo piano si era basato sul fatto di agire in segreto. La pubblicità l'avrebbe portata non solo al fallimento, ma anche a subire ritorsioni. Al momento, Cassiopea Vitt rappresentava il sistema più facile e veloce per scoprire la reale entità del suo problema. «Sono andata a Venezia per trovare delle risposte. È stato Ely a darmi indicazioni in proposito. Riteneva che il corpo nella basilica potesse portare alla vera tomba di Alessandro Magno. Pensava che quel luogo nascondesse il segreto di un'antica cura. Qualcosa forse in grado di aiutare persino lui.» «Sono sogni.» «Ma sono sogni che ha condiviso con lei, vero?» «È vivo?» Finalmente una domanda diretta. «Non mi crederebbe qualunque cosa rispondessi.» «Ci provi lo stesso.»
«Non è morto nell'incendio della casa.» «Questa non è una risposta.» «Non avrà altro.» L'aereo perse quota a causa di un vuoto d'aria. In cabina c'erano soltanto loro. Entrambe le guardie del corpo che l'avevano accompagnata a Venezia erano morte. Soltanto Viktor aveva tenuto fede al suo impegno e svolto il compito che lei gli aveva affidato, come sempre. Lei e la sua prigioniera si somigliavano molto. A entrambe importava di qualcuno contagiato dall'HIV. A Cassiopea Vitt fino al punto di rischiare la vita; a Irina Zovastina fino a commettere l'azzardo di andare a Venezia, correndo grandi rischi a livello fisico e politico. Follia? Forse. Ma gli eroi, a volte, devono essere folli.
Capitolo 64
Federazione Centroasiatica, ore 08.50 Vincenti si era rintanato nel laboratorio costruito sotto la tenuta assieme a Grant Lyndsey, arrivato lì subito dopo aver portato a termine i suoi compiti in Cina. Due anni prima, aveva deciso di confidarsi con Lyndsey perché gli serviva un supervisore per tutti i test su virus e antigeni. E anche qualcuno che tenesse buona la Zovastina. «Com'è la temperatura?» Lyndsey controllò il visore digitale. «Stabile.» Quel laboratorio era il regno di Vincenti. Uno spazio sterile, racchiuso tra muri color crema su un pavimento di piastrelle nere. Al centro erano disposte due file di tavoli d'acciaio, mentre beute, becher e burette torreggiavano su supporti di metallo al di sopra di un'autoclave, attrezzature per distillazione, una centrifuga, bilance analitiche e due terminali di computer. Nella loro sperimentazione, la simulazione digitale giocava un ruolo fondamentale. Era così diverso dai giorni con gli iracheni, quando tentativi ed errori costavano tempo, denaro e sbagli clamorosi. Adesso, programmi sofisticati erano in grado di replicare praticamente qualsiasi effetto chimico o biologico, a condizione che esistessero i parametri. E, nell'anno precedente, Lyndsey aveva fatto un lavoro notevole stabilendo parametri per la sperimentazione virtuale dello ZH. «La soluzione è a temperatura ambiente», disse Lyndsey. «E nuotano come matti. Incredibile.» La pozza in cui aveva trovato gli archeobatteri era alimentata da una sorgente termale che si avvicinava ai 38 gradi, ma produrre i milioni di miliardi di batteri necessari e poi trasportarli in condizioni ottimali in tutto il mondo a quella temperatura sarebbe stato impossibile. Perciò l'avevano cambiata, adattando lentamente gli archeobatteri ad ambienti sempre meno caldi. Curiosamente, a una temperatura inferiore la loro attività rallentava soltanto, raggiungendo quasi uno stato di quiescenza, ma una volta immessi nei 36 gradi del flusso sanguigno, si riattivavano molto velocemente. «La sperimentazione clinica che ho concluso qualche giorno fa ha confermato che possono venire conservati a temperatura ambiente per un periodo di tempo prolungato», riprese Lyndsey. «Questi li ho tenuti per oltre quattro mesi. Hanno un'adattabilità incredibile.» «Motivo per cui sono sopravvissuti per miliardi di anni, in attesa che noi li trovassimo.» Vincenti si avvicinò a un tavolo, le mani grassocce infilate nei guanti di gomma che gli consentivano di raggiungere l'interno di un contenitore sigillato ermeticamente. L'aria proveniva dall'alto, passando nei microfiltri laminari che la ripulivano dalle impurità e producendo un ronzio quasi ipnotico. Osservò attraverso il
plexiglas e maneggiò abilmente la capsula di Petri. Mise un campione della coltura di HIV attivo su un vetrino, mosse la goccia con un secondo vetrino, quindi inserì il primo sotto un microscopio interno al contenitore ermetico. Liberò le mani dai guanti e mise a fuoco l'obiettivo. Due regolazioni e trovò il giusto ingrandimento. Una sola occhiata e vide tutto quello che voleva vedere. «Il virus è scomparso. Quasi all'istante. È come se stessero aspettando di divorarlo.» Sapeva che la chiave del successo consisteva nelle loro modificazioni biologiche. Qualche anno prima, uno studio legale cui si era rivolto l'aveva avvertito che scoperte come un nuovo minerale grezzo o una nuova pianta selvatica non potevano venire brevettate. Einstein non aveva potuto brevettare la sua famosa formula E=mc 2, né Newton la sua legge di gravitazione universale, perché si trattava di manifestazioni della natura, libere a tutti. Ma piante geneticamente modificate, animali multicellulari creati dall'uomo e archeobatteri alterati rispetto allo stato naturale, quelli sì che erano brevettabili. Di recente aveva fatto una telefonata a quello stesso studio legale e iniziato le procedure per il brevetto. Era necessario anche ottenere l'approvazione dell'FDA, e di norma dodici anni erano il tempo medio perché una sostanza sperimentale passasse dal laboratorio all'armadietto dei medicinali, visto che il sistema americano per l'approvazione dei farmaci era il più rigoroso al mondo. E conosceva le percentuali: soltanto cinque composti su quattromila sottoposti a screening nelle sperimentazioni precliniche dell'FDA arrivavano fino alle sperimentazioni su umani, e soltanto uno di quei cinque riceveva la definitiva approvazione finale. Sette anni prima, era stata avviata una nuova procedura rapida per composti intesi a curare malattie mortali, e le terapie contro l'AIDS rientravano ovviamente nel novero. Ma per l'FDA rapido significava comunque un periodo di sperimentazione dai sei ai nove mesi. I processi di approvazione europei erano rigorosi, ma non quanto quelli americani, mentre nelle nazioni africane e asiatiche, dove il problema era maggiore, non serviva l'approvazione del governo. Perciò era lì che avrebbero cominciato a vendere. Che il mondo vedesse che in quei Paesi i malati venivano guariti mentre i pazienti americani ed europei morivano. A quel punto l'approvazione sarebbe arrivata senza che lui neanche dovesse chiederla. «Non gliel'ho mai domandato e lei non l'ha mai detto», disse Lyndsey. «Ma dove ha trovato questi batteri?» Il tempo del silenzio era finito. Aveva bisogno che Lyndsey salisse a bordo completamente, ma rispondere alla domanda sul dove significava discutere anche del quando. «Ha mai considerato il valore di una ditta produttrice di preservativi prima dell'HIV? Certo, c'era un mercato, ma di quanto? Diversi milioni l'anno? Ma dopo la recrudescenza dell'AIDS, ne sono stati prodotti miliardi, venduti in tutto il mondo. E cosa mi dice delle terapie sintomatiche? Curare l'AIDS è una perfetta macchina da soldi. Una terapia con cocktail di tre farmaci costa da dodici a diciottomila dollari l'anno. Moltiplichi quella cifra per i milioni di persone infette e starà parlando di miliardi spesi in cure che non guariscono. Pensi alle forniture correlate, cose come guanti di lattice, camici, aghi sterili. Ha idea di quante siringhe monouso vengono
acquistate e distribuite nel tentativo di fermare il propagarsi dell'HIV tra chi fa uso di droga? E, come per i profilattici, il prezzo è andato alle stelle. Qui la gamma è infinita. Per case farmaceutiche e produttrici di forniture mediche come la Philogen, l'HIV ha rappresentato una fonte di entrate davvero grandiosa. Negli ultimi diciotto anni, i nostri affari sono aumentati vertiginosamente, il nostro impianto per la produzione di preservativi è triplicato e le vendite sono cresciute in modo esponenziale per tutti i nostri prodotti. Abbiamo sviluppato persino un paio di farmaci sintomatici che si vendono piuttosto bene. Dieci anni fa ho trasformato l'impresa in società per azioni, procurato capitale e usato le divisioni in espansione relative a forniture mediche e farmaci per espanderci ancora di più. Ho acquisito una ditta di cosmetici, una di saponi, una catena di grandi magazzini e una società di alimenti surgelati, sapendo che un giorno la Philogen avrebbe potuto ripagare con facilità tutti i debiti contratti.» «E come faceva a saperlo?» «Ho trovato i batteri circa trent'anni fa e mi sono reso conto del loro potenziale vent'anni fa. Poi ho tenuto in serbo la cura per l'HIV, consapevole di poterla mettere sul mercato in qualunque momento.» «E non l'ha detto a nessuno?» «Non ad anima viva.» Doveva scoprire se Lyndsey era amorale come riteneva che fosse. «È un problema? Ho semplicemente aspettato che il mercato diventasse consistente.» «Sapendo di non avere in mano un rimedio parziale, ma la vera cura. L'unico modo per distruggere completamente l'HIV. Anche se qualcuno avesse trovato un farmaco per contenere il virus, il suo agiva meglio, più in fretta e in modo più sicuro, oltre ad avere un costo di produzione di qualche centesimo.» «L'idea era proprio quella.» «Non le importava che morissero milioni di persone?» «E pensa che al mondo interessi dell'AIDS? Sia realistico. Tante parole, pochi fatti. È una malattia particolare, che uccide soprattutto neri, gay e drogati. L'epidemia ha fatto rotolare un tronco marcio, rivelando tutti i miseri esserini che ci si agitavano sotto, cioè i punti principali della nostra esistenza: sesso, morte, potere, soldi, amore, odio, panico. Per come l'AIDS è stato quasi sempre percepito, concettualizzato, immaginato, studiato e finanziato, è diventato la più politica delle malattie.» Gli tornò alla mente quello che gli aveva detto prima Karyn Walde: Non sta ancora uccidendo le persone giuste. «E non aveva paura che le altre case farmaceutiche potessero trovare una cura?» «È stato un rischio, ma ho sempre tenuto d'occhio i nostri concorrenti. Diciamo solo che le loro ricerche hanno portato a poco più che tentativi falliti.» Si sentiva bene. Dopo tutto quel tempo, era bello poterne parlare. «Le piacerebbe vedere dove vivono i batteri?» Lo sguardo dell'uomo s'illuminò. «Qui?» «Poco lontano.»
Capitolo 65
Samarcanda, ore 09.15 Cassiopea venne scortata fuori dell'aereo da due guardie della Zovastina. Le avevano detto che sarebbe stata portata a palazzo, dove sarebbe stata trattenuta. Prima di entrare in auto, si rivolse alla Zovastina. «Immagino si renda conto che è andata in cerca di guai.» Senza dubbio il primo ministro non avrebbe voluto affrontare quella conversazione lì, sulla pista di atterraggio, con nelle vicinanze un addetto dell'aeroporto e le sue guardie. Da sole in aereo sarebbe stato diverso, ma Cassiopea era rimasta intenzionalmente zitta per le ultime due ore di volo. «Qui i guai sono uno stile di vita.» Mentre veniva spinta sul sedile posteriore, le mani legate dietro la schiena, Cassiopea decise di sferrare una coltellata. «Si sbagliava riguardo alle ossa.» Irina Zovastina accettò la sfida. Venezia aveva rappresentato un fallimento su tutti i fronti, perciò non ci fu da stupirsi quando la donna si avvicinò all'auto per chiederle: «In che senso?» Il sibilo dei motori del jet e una tesa brezza primaverile agitavano l'aria piena di fumi di scarico. Cassiopea rimase seduta tranquilla e fissò l'esterno dal parabrezza anteriore. «C'era qualcosa da trovare.» Spostò lo sguardo sul primo ministro. «E lei ha perso l'occasione.» «Stuzzicarmi non le sarà d'aiuto.» «Se vuole risolvere l'enigma, dovrà scendere a patti.» Quel demone era facilmente interpretabile. Di certo la Zovastina aveva sospettato che lei sapesse qualcosa, altrimenti, perché portarla fin lì? E Cassiopea era stata attenta, ben sapendo di non poter rivelare troppo. Dopotutto, la sua vita dipendeva letteralmente dalla quantità di informazioni che riusciva a tenere per sé. Una delle guardie fece un passo avanti e bisbigliò qualcosa all'orecchio della Zovastina. Il ministro ascoltò e per un istante Cassiopea vide un'espressione sconvolta disegnarsi sul suo viso. Poi il primo ministro annuì e la guardia si allontanò. «Problemi?» chiese Cassiopea. «Rischi del mestiere. Lei e io parleremo dopo.» La porta d'ingresso della casa era aperta. Nessun segno che indicasse che era stata forzata. All'interno, l'aspettavano due del suo battaglione sacro. Irina Zovastina li guardò torva. «Cos'è successo?» «Entrambi i nostri uomini sono stati uccisi con un colpo alla testa, durante la scorsa notte. L'infermiera e Karyn Walde sono scomparse. I vestiti sono ancora qui. La
sveglia dell'infermiera è puntata sulle sei del mattino. Niente mostra che se ne siano andate volontariamente.» Irina raggiunse la camera padronale. Il respiratore era silenzioso, la flebo abbandonata. Che Karyn fosse fuggita? E per andare dove? Tornò all'ingresso e si rivolse alle due guardie. «Ci sono testimoni?» «Abbiamo chiesto agli altri residenti, ma nessuno ha visto o sentito niente.» Era successo tutto mentre lei era via. Non poteva trattarsi di una coincidenza. Decise di seguire l'intuito, quindi andò a uno dei telefoni della casa e chiamò la sua segretaria personale. Le disse cosa voleva e, dopo tre minuti di attesa, la donna tornò all'apparecchio. «Vincenti è entrato nella Federazione ieri notte alle 02.40. Volo privato grazie al visto aperto.» Era ancora convinta che ci fosse Vincenti dietro il fallito tentativo di assassinarla. Doveva aver scoperto che lei aveva lasciato la Federazione. Era più che evidente che nel suo governo c'era una moltitudine di falle, Henrik Thorvaldsen e Cassiopea Vitt ne erano la prova,, ma cosa poteva fare per risolvere la situazione? «Ministro, ha visite», disse ancora la segretaria al telefono. «Vincenti?» «Un altro americano.» «L'ambasciatore?» «Edwin Davis, viceconsigliere per la sicurezza nazionale del presidente degli Stati Uniti. È entrato nel Paese qualche ora fa con passaporto diplomatico.» «Senza farsi annunciare?» «È semplicemente comparso a palazzo, chiedendo di vederla. Non intende discutere con altri del motivo della sua visita.» Neppure quella era una coincidenza. «Arrivo tra poco.»
Capitolo 66
Samarcanda, ore 10.30 Malone bevve una Coca-Cola light e guardò il jet Lear 36A avvicinarsi al terminal. L'aeroporto di Samarcanda si trovava a nord della città, un'unica pista che ospitava non solo il traffico commerciale, ma anche quello militare e privato. Nel viaggio dall'Italia aveva battuto sia Viktor sia la Zovastina, grazie a un F-16-E che il presidente Daniels aveva messo a sua disposizione. Per raggiungere la base aerea di Aviano, a un'ottantina di chilometri da Venezia, era bastato un veloce passaggio in elicottero, mentre il volo in direzione est era poi durato soltanto due ore. La Zovastina e il jet Lear in fase di rullaggio che stava osservando ne avevano impiegate quasi cinque. Due F-16 erano arrivati senza problemi a Samarcanda, dato che gli Stati Uniti godevano di diritti di atterraggio illimitati in tutti gli aeroporti e le basi della Federazione. In apparenza, gli USA erano un alleato, ma sapeva che in quella parte del mondo quel privilegio era a dir poco effimero. L'altro caccia aveva trasportato Edwin Davis, che ormai doveva trovarsi a palazzo. Il presidente Daniels non era stato molto contento di coinvolgere Davis, che avrebbe preferito tenere a una certa distanza, ma aveva saggiamente capito che Malone non avrebbe accettato un no come risposta. Per di più, aveva aggiunto il presidente con una risatina, quel piano aveva quantomeno un dieci per cento di possibilità di riuscita, perciò... Trangugiò l'ultimo goccio di bibita, annacquata per gli standard americani, ma comunque sufficientemente gustosa. In volo aveva dormito un'oretta, anche se era la prima volta in vent'anni che saliva su un caccia. Era stato addestrato al volo su quegli aerei all'inizio della carriera in marina, prima di diventare avvocato ed entrare nel JAG, il corpo di magistratura militare, sollecitato da amici del padre che facevano anch'essi parte della marina. Suo padre. Un ottimo capitano di fregata. Fino al giorno d'agosto in cui il sottomarino che comandava affondò. All'epoca Malone aveva dieci anni, ma il ricordo gli aveva sempre provocato una stretta dolorosa al cuore. Quando si era arruolato in marina, i coetanei di suo padre avevano raggiunto gradi molto alti e avevano dei progetti per il figlio di Forrest Malone. Perciò, in segno di rispetto, aveva fatto come gli avevano chiesto ed era finito a lavorare come agente della Sezione Magellano. Non si era mai pentito della scelta, e la sua carriera al dipartimento di Giustizia era stata memorabile. Anche il pensionamento non era stato noioso. I templari. La biblioteca di Alessandria. E ora la tomba di Alessandro Magno. Scosse la testa. Scelte. Tutti devono farne. Come l'uomo che adesso stava scendendo dal Lear. Viktor. Informatore del
governo. Collaboratore occasionale. Problema. Buttò la bottiglia nel contenitore dell'immondizia e aspettò che Viktor mettesse piede nell'atrio. Un AWACS E3 Sentry, sempre in orbita sopra il Medio Oriente, aveva seguito col radar l'aereo fin da Venezia, consentendo a Malone di sapere con precisione quando sarebbe arrivato. Viktor apparve come nella basilica, il volto screpolato, i vestiti sporchi di fuliggine. Camminava con la rigidità di chi ha passato una lunga notte. Malone arretrò dietro un muretto e attese che l'uomo fosse all'interno, diretto verso il terminal, quindi uscì e gli si mise dietro. «Ci hai messo un sacco di tempo.» Viktor si fermò e si girò. Neanche una minima traccia di sorpresa sul viso. «Pensavo di dover aiutare la Vitt.» «Sono qui per aiutare te.» «Tu e i tuoi amici mi avete incastrato a Copenhagen. Non mi piace essere messo in mezzo.» «E a chi piace?» «Torna da dove sei venuto, Malone, e lascia fare a me.» Cotton estrasse una pistola. Uno dei vantaggi di viaggiare su un jet militare era stata la mancanza di controlli doganali per il personale americano e i suoi passeggeri. «Mi è stato detto di aiutarti, ed è quello che farò, che ti piaccia o no.» «Hai intenzione di spararmi?» Viktor scosse la testa. «A Venezia Cassiopea Vitt ha ucciso il mio compagno e ha cercato di fare fuori anche me.» «Allora non sapeva che stavi dalla parte dei buoni.» «L'hai detto come se lo considerassi un male.» «Non ho ancora deciso se sei un problema oppure no.» «Il problema è quella donna», replicò Viktor. «Dubito che si lascerà aiutare da noi.» «Probabilmente è vero, ma l'aiuteremo comunque.» Decise di osare una pacca sulla spalla. «Mi hanno detto che sei stato un buon collaboratore. Andiamo a darle una mano.» «Avevo già in programma di farlo. Solo che non contavo di avere un assistente.» Malone si infilò la pistola sotto la giacca. «Fammi entrare nel palazzo.» Viktor sembrò stupito dalla richiesta. «Tutto qui?» «Non dovrebbe essere difficile per il capo del battaglione sacro. Nessuno ti farà domande.» Viktor scosse di nuovo la testa. «Voi siete tutti pazzi. Ma volete proprio farvi ammazzare? È già abbastanza grave che ci sia lei là dentro. Adesso anche tu? Non posso essere responsabile di questa follia. E, tra l'altro, è stupido anche stare qui a parlare. La Zovastina conosce la tua faccia.» Malone aveva già controllato. L'atrio non era provvisto di telecamere, che si trovavano solo nel terminal. In giro non c'era nessuno, ed era per questo che aveva stabilito che fosse un buon posto per una chiacchierata. «Tu fammi entrare nel palazzo. Se mi indichi la direzione giusta, il lavoro pesante lo faccio io. Questo ti darà una copertura. Non devi fare altro che guardarmi le spalle. Washington vuole
proteggere la tua identità a ogni costo. È per questo che sono qui.» Viktor era sempre più sconcertato. «E a chi sarebbe venuto in mente un piano tanto ridicolo?» «A me.»
Capitolo 67
Vincenti condusse Lyndsey oltre i giardini della casa, su un sentiero roccioso che saliva verso l'altopiano. Aveva ordinato che l'antica via venisse spianata dove possibile, fossero intagliati dei gradini nella roccia e venisse portata l'elettricità, sapendo che avrebbe fatto quel percorso parecchie volte. Sentiero e montagna si trovavano entrambi entro i confini della sua tenuta e, ogni volta che tornava in quel luogo, pensava al vecchio guaritore che saliva la parete del monte con l'agilità di un gatto, procedendo a mani e piedi nudi. Vincenti l'aveva seguito, arrampicandosi con grande aspettativa, come un bambino che segue il genitore sulle scale che portano alla soffitta, curioso di scoprire cosa ci sia lassù. E non era rimasto deluso. La roccia grigia striata di vene di lucenti cristalli screziati li circondava in quella che pareva una cattedrale naturale. Gli facevano male le gambe per lo sforzo e il respiro affrettato gli lacerava i polmoni. Si trascinò per un altro pezzo di sentiero, le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte. Lyndsey, magro e asciutto, pareva del tutto a suo agio. Quando raggiunse l'ultima cengia, Vincenti emise un sospiro. «A ovest, la Federazione. A est, la Cina. Noi ci troviamo al crocevia.» Lyndsey ammirò il panorama. Il sole illuminava una lontana distesa di imponenti scarpate e piramidi naturali, mentre un branco di cavalli correva silenzioso nella vallata oltre la casa. Vincenti era contento di condividere lo spettacolo. La rivelazione fatta a Karyn Walde aveva acceso in lui il bisogno di riconoscimento. Aveva scoperto qualcosa di importante ed era riuscito a ottenerne il controllo esclusivo, fatto non da poco, considerando che l'intera regione un tempo era dominio sovietico. Ma la Federazione aveva cambiato le cose e, attraverso la Lega Veneziana, lui aveva contribuito a indirizzare quei cambiamenti a suo vantaggio. «Da questa parte.» Trent'anni prima, era facile superare la stretta apertura nella roccia, ma allora lui pesava quasi settanta chili di meno. Adesso ci passava a fatica. Il crepaccio dava su una breve galleria che introduceva a una camera di pietra grigia sovrastata da una volta irregolare di rocce acuminate. Vincenti raggiunse un interruttore e accese la lampada a incandescenza che pendeva dal soffitto. Il pavimento era caratterizzato da due vasche illuminate, ciascuna del diametro approssimativo di tre metri, una di colore marrone rossiccio, l'altra verde. «Le sorgenti calde sono comuni su queste montagne. Fin dai tempi antichi, i locali ritenevano che avessero proprietà curative. Per quanto riguarda questa, avevano ragione.» «Perché le ha illuminate?» «Avevo bisogno di studiare l'acqua e, come può vedere, la diversità di colore è
impressionante.» «E gli archeobatteri vivono qui?» Indicò la vasca verde. «Quella è la loro casa.» Lyndsey si chinò ad accarezzare la superficie trasparente, che si increspò in una serie di brividi concatenati. Non c'erano più le piante che crescevano nell'acqua la prima volta che Vincenti aveva visitato quel luogo. Dovevano essere morte da tempo, ma non erano importanti. «Di poco superiore ai 38 gradi, ma, come sa meglio di me, non siamo più legati a queste temperature.» Uno dei compiti di Lyndsey era stato preparare un piano d'azione, cosa poteva fare la società una volta che la Zovastina avesse messo in atto i suoi progetti, per il momento in cui sarebbero state necessarie massicce quantità di antigeni, perciò Vincenti gli pose una domanda cruciale: «Siamo pronti a muoverci?» «Sviluppare le piccole quantità che abbiamo utilizzato sulle zoonosi è stato facile. Una produzione su vasta scala sarà una cosa diversa.» Ne era convinto anche lui, ed era per quel motivo che si era assicurato il prestito da Arthur Benoit. Sarebbe stato necessario costruire infrastrutture, assumere personale, creare reti distributive, completare ulteriori ricerche. E tutto quello richiedeva un capitale ingente. «I nostri stabilimenti in Francia e Spagna possono essere convertiti in siti produttivi efficienti», continuò Lyndsey. «Alla fine, però, consiglierei uno stabilimento separato, perché ci serviranno milioni di litri. Per fortuna i batteri si riproducono con facilità.» Era il momento di vedere se quell'uomo era davvero interessato. «Ha mai sognato di passare alla storia?» Lyndsey rise. «Chi non l'ha mai fatto?» «Sto parlando di lasciare un segno importante, come qualcuno che ha dato un notevolissimo contributo scientifico. Se io le concedessi questo onore, sarebbe interessato?» «Come ho già detto, chi non lo sarebbe?» «Immagini i bambini a scuola che tra qualche decennio, cercando HIV e AIDS in un'enciclopedia, troveranno il suo nome come quello dell'uomo che ha contribuito a sconfiggere la piaga della fine del XX secolo.» Ricordava il piacere provato la prima volta che aveva avuto quella visione. Non dissimile dall'espressione curiosa e stupita che aveva Lyndsey in quel momento. «Vorrebbe fare parte di tutto questo?» Nessuna esitazione. «Certo.» «Io posso offrirle la gloria, ma ci sono delle condizioni. Non c'è bisogno che le dica che non posso occuparmene io. Mi serve qualcuno che sovrintenda alla produzione, qualcuno che conosca la biologia. E ovviamente la sicurezza è la nostra priorità. Quando i brevetti saranno registrati, mi sentirò meglio, ma è comunque necessario che qualcuno segua il processo quotidianamente. Lei, Grant, è la scelta più logica. In cambio, le verranno riconosciuti dei meriti nella scoperta e compensi generosi. E con generosi sto parlando di milioni.» Lyndsey aprì la bocca per parlare, ma Vincenti lo zittì sollevando un dito. «Questi sono i lati positivi. Ora le spiego quelli negativi. Se diventasse un problema o si mostrasse troppo avido, ordinerò a
O'Conner di piantarle una pallottola in testa. Quando eravamo a casa, le ho detto di come abbiamo tenuto sotto controllo la concorrenza. Lasci che entri nei dettagli.» Gli disse di un microbiologo danese ritrovato nel 1997 in stato comatoso nella via accanto al suo laboratorio. Di un altro, in California, che era sparito, l'auto a noleggio parcheggiata vicino a un ponte, il corpo mai recuperato. E di un terzo nel 2001, trovato a lato di una strada nella campagna inglese, apparentemente vittima di un'auto pirata. Di un quarto assassinato in una fattoria francese. Di un altro ancora, morto in modo singolare, il cadavere ritrovato dieci anni prima chiuso nella camera di equilibrio della stanza frigorifera del suo laboratorio. Di cinque morti contemporaneamente nel 1999, quando un aereo privato era precipitato nel mar Nero. «Lavoravano tutti per la concorrenza e stavano facendo progressi. Troppi. Perciò, Grant, faccia come le dico: sia grato dell'opportunità che le ho dato, ed entrambi diventeremo molto ricchi e molto vecchi.» «Da me non avrà problemi.» Aveva scelto bene puntando su quell'uomo. Lyndsey si era occupato della Zovastina in modo eccellente, non compromettendo mai gli antigeni. Aveva anche assicurato la sicurezza al laboratorio e, se tutto era andato alla perfezione, lo doveva anche a lui, e non in piccola parte. «Sono curioso su una cosa», aggiunse Lyndsey. «Perché ora? Ha in mano la cura. Perché non aspettare ancora?» «I piani di guerra della Zovastina rendono questo il momento giusto. Tramite lei, abbiamo avuto modo di completare le ricerche senza che nessuno ne sapesse niente. Non vedo motivo di aspettare ancora. Devo soltanto fermare il primo ministro prima che vada troppo oltre. E quanto a lei, Grant? Adesso che sa tutto, la cosa la disturba?» «Ha mantenuto il segreto per vent'anni. Io l'ho scoperto solo un'ora fa. Non è un mio problema.» Ottimo atteggiamento. «Ci sarà un'ondata di pubblicità, e lei ne sarà parte. Ma controllerò tutto ciò che dice, quindi misuri le parole. Dovrebbe farsi vedere molto più che ascoltare. Presto il suo nome sarà scritto tra quello dei grandi.» Fece scorrere le mani su una targa invisibile. «Grant Lyndsey, uno degli sterminatori dell'HIV.» «Suona proprio bene.» «Daremo l'annuncio entro i prossimi trenta giorni. Nel frattempo, voglio che lei lavori coi legali che si occupano del brevetto. Ho intenzione di informarli del successo domani mattina e, quando sarà fatto l'annuncio vero e proprio, voglio che a prendere la parola sia lei. Voglio anche dei campioni e diapositive dei batteri. I pubblicitari faranno foto e riprese. Verrà un bello spettacolo.» «Sono al corrente anche altri?» «Non un'anima, a parte la donna ospitata in casa, che al momento ne sta sperimentando i benefici. Ci serve qualcuno da far vedere in giro, e lei andrà benissimo.» Lyndsey si spostò vicino all'altra vasca. Interessante il fatto che non avesse notato quello che si trovava sul fondo delle due pozze, ulteriore ragione che gli aveva fatto scegliere quell'uomo. «Le ho detto che questo è un luogo molto antico. Vede le lettere sul fondo delle vasche?»
Lyndsey annuì. «In greco antico significano 'vita'. Non ho idea di come siano arrivate qui, ma il vecchio guaritore mi ha raccontato che un tempo i greci veneravano questa zona. Chiamavano questa montagna Klimax, cioè 'apice'. Perché? Probabilmente aveva a che fare col nome dato a questo posto dagli asiatici: Arima. Ho deciso di usarlo per la tenuta.» «Ho visto la targa all'ingresso quando sono arrivato. Attico. Cosa significa?» «È la traduzione italiana di arima.»
Capitolo 68
Samarcanda Irina Zovastina entrò a passo di marcia nella sala delle udienze e affrontò un omino magro con folti capelli grigi. Era presente anche il suo ministro degli Esteri, Kamil Revin, seduto in disparte, come richiedeva il protocollo. L'americano si presentò come Edwin Davis e mostrò una lettera del presidente degli Stati Uniti che attestava le sue credenziali. «Posso chiederle, ministro, di parlarle in privato?» «Qualunque cosa mi dirà, la riferirò comunque a Kamil.» «Dubito che gli riferirà quello di cui dobbiamo discutere.» Le parole avevano un'aria di sfida, ma l'inviato del presidente restò impassibile, quindi decise di essere cauta. «Lasciaci soli, Kamil.» Il giovane esitò, ma dopo Venezia e Karyn non era dell'umore adatto a sopportare altro, quindi aggiunse: «Subito!» Il ministro degli Esteri si alzò e se ne andò. «Tratta sempre così i suoi collaboratori?» «Questa non è una democrazia. Le persone come Kamil fanno ciò che viene loro detto, altrimenti...» «Uno dei suoi germi potrebbe fare visita al loro organismo.» Avrebbe dovuto sapere che gli americani non erano tanto ingenui. «Non ricordo che il suo presidente si sia mai lamentato della pace che la Federazione ha portato in questa regione del mondo. Un tempo quest'area rappresentava un problema, adesso l'America gode di benefici da Stato amico. E per governare qui non serve la persuasione, ma la forza.» «Non fraintenda, ministro, i suoi metodi non sono affare nostro. Siamo d'accordo con lei. Avere amici può meritare l'occasionale...» Davis esitò, come in cerca del termine giusto. «Sostituzione dell'organico.» I suoi occhi gelidi comunicavano un riluttante rispetto. «Ministro, sono venuto perché il presidente non riteneva appropriato usare i soliti canali diplomatici. Questa conversazione deve rimanere tra noi, da amici.» Che scelta aveva? «D'accordo.» «Conosce una donna che si chiama Karyn Walde?» I muscoli delle gambe le si irrigidirono, mentre dentro di lei si rincorrevano le emozioni, ma mantenne il contegno e decise di essere sincera. «Sì, la conosco. Perché?» «È stata rapita ieri sera qui, a Samarcanda. Un tempo è stata la sua amante e attualmente è malata di AIDS.» Irina s'impose di restare impassibile. «Sembra conoscere molti aspetti della mia vita.»
«Ci piace sapere il più possibile degli amici. A differenza di voi, viviamo in una società aperta in cui tutti i nostri segreti vengono sbandierati ai quattro venti.» «E cosa vi ha spinti a scavare nei miei?» «Ha importanza? È stata una circostanza fortuita.» «Cosa sapete della scomparsa di Karyn?» «L'ha presa un uomo che si chiama Enrico Vincenti, ed è trattenuta in casa sua, qui nella Federazione. Su terreni acquistati come parte dell'accordo con la Lega Veneziana.» Il messaggio era chiaro. Quell'uomo sapeva molte cose. «Sono qui per dirle anche che il suo problema non è Cassiopea Vitt, ma Enrico Vincenti.» «Davvero?» chiese lei, cercando di nascondere la sorpresa. «Ammetto che si tratta unicamente di un'ipotesi da parte nostra, dato che in gran parte del mondo nessuno baderebbe alle sue tendenze sessuali. È vero che è stata sposata, ma da quanto abbiamo saputo era solo per le apparenze. Suo marito è morto tragicamente...» «Lui e io non abbiamo mai litigato. Capiva benissimo qual era il suo ruolo e, a dire il vero, mi piaceva.» «Questi non sono affari che ci riguardano, e non intendevo certo offenderla. Ma non si è più risposata. Per un po' Karyn Walde ha lavorato per lei, come segretaria, perciò posso supporre che avere una relazione personale fosse semplice. Nessuno ci badava, a patto che faceste attenzione. Ma l'Asia centrale non è l'Occidentale.» Si tolse di tasca un piccolo registratore. «Lasci che le faccia ascoltare una cosa.» Accese l'apparecchio e lo posò sul tavolo in mezzo a loro. «È stato un bene che le sue informazioni fossero accurate.» «Non l'avrei disturbata per delle fantasie.» «Ma non mi ha ancora detto come faceva a sapere che oggi qualcuno avrebbe tentato di uccidermi.» «La Lega veglia sui suoi esponenti e lei, primo ministro, è uno dei più importanti.» «Enrico, quant'è pomposo!» Davis spense il registratore. «Lei e Vincenti che parlate al telefono due giorni fa. Una chiamata internazionale. Facile da monitorare.» Pigiò di nuovo il pulsante PLAY. «Dobbiamo parlare.» «Di quello che le devo per avermi salvato la vita?» «Della parte finale del nostro accordo, come originariamente stabilito tanto tempo fa.» «Potrò incontrare il Consiglio tra qualche giorno. Prima ho altre questioni da risolvere.» «Sono più interessato all'incontro che avremo noi due da soli.» «Ne sono certa. In verità, vale anche per me. Ma ci sono delle cose che devo
concludere.» «Il mio tempo al Consiglio finirà presto, dopodiché dovrà trattare con altri. Che potrebbero non essere altrettanto accomodanti.» «Mi piace questa parola. Accomodante. È un piacere avere a che fare con lei, Enrico. Ci capiamo così bene!» «Dobbiamo parlare.» «Presto. Prima lei ha quell'altro problema di cui abbiamo discusso: gli americani.» «Non si preoccupi. Ho intenzione di occuparmene oggi stesso.» Davis spense definitivamente l'apparecchio. «Vincenti si è occupato del problema. Ha ucciso una nostra agente. Abbiamo trovato il cadavere, assieme a quello di un uomo. Colui che aveva organizzato il suo assassinio.» «L'avete lasciata morire? Sebbene foste al corrente di questa conversazione?» «Purtroppo abbiamo avuto la registrazione soltanto dopo che era scomparsa.» Non le piaceva il modo in cui lo sguardo di Davis passava da lei al registratore: e neppure lo strano disagio che accompagnava la sua crescente rabbia. «A quanto pare, lei e Vincenti siete impegnati in una sorta di joint venture. Sono qui, lo ribadisco, in veste di amico, a dirle che lui non intende rispettare i patti. Ecco cosa pensiamo: Vincenti ha bisogno che lei non sia più al potere. Con Karyn Walde, può svergognarla facendole perdere l'incarico o, quantomeno, causarle enormi problemi politici. Qui l'omosessualità non è ammessa e i fondamentalisti religiosi, che tiene sotto stretto controllo, avrebbero finalmente un'arma per metterla in difficoltà. La situazione sarebbe così compromessa che nemmeno i suoi germi riuscirebbero a risolverla.» Irina non aveva mai considerato quella possibilità, ma quanto stava dicendo l'americano aveva senso. Per quale altro motivo Vincenti avrebbe rapito Karyn? Tuttavia c'era ancora qualcosa d'aggiungere. «È malata. A quest'ora potrebbe essere già morta.» «Vincenti non è uno sciocco. Magari pensa che una dichiarazione in punto di morte possa avere maggior peso. Lei sarebbe costretta a rispondere a molte domande: riguardo alla casa, al perché la signorina Walde si trovava lì, all'infermiera. Vincenti ha preso anche lei, ma non sappiamo dove la tenga. Sono parecchie persone da tenere confinate.» «Qui non siamo in America. La televisione può essere controllata.» «Anche il fondamentalismo? Oltre ai numerosi nemici che sarebbero ben contenti di prendere il suo posto. Credo che il ministro degli Esteri rientri nella categoria. Tra l'altro, ieri sera si è anche incontrato con Vincenti. È andato a prenderlo all'aeroporto e l'ha accompagnato in città.» Quell'uomo era informatissimo. «Ministro, noi non vogliamo che Vincenti abbia successo. È per questo che sono a Samarcanda, a offrirle assistenza. Sappiamo del suo viaggio a Venezia e che Cassiopea Vitt è tornata qui con lei. Le ripeto, quella donna non è un problema. In realtà, sa molte cose su quello che lei cercava a Venezia. Ci sono informazioni non
ancora in suo possesso.» «Me le dica.» «Se le conoscessi, lo farei, ma deve chiedere alla Vitt. Lei e i suoi due soci, Henrik Thorvaldsen e Cotton Malone, sono al corrente dell'esistenza di qualcosa chiamato 'enigma di Tolomeo' e di oggetti noti come monete dell'elefante.» Davis alzò le mani in un ironico segno di resa. «Non ne so niente e non me ne importa. Questi sono affari suoi. Tutto quello che so è che a Venezia c'era da trovare qualcosa, ma che a quanto sembra lei non c'è riuscita. Se già lo sapeva, mi scuso per averle fatto perdere tempo. Ma il presidente Daniels voleva renderle noto che, come la Lega Veneziana, anche lui si preoccupa dei suoi amici.» Era troppo. Quell'uomo andava messo al suo posto. «Deve prendermi per un'idiota.» Si scambiarono un'occhiata, ma niente parole. «Dica al presidente che non mi serve il suo aiuto.» Davis parve offeso. «Se fossi in lei, lascerei la Federazione in fretta com'è arrivato.» «È una minaccia, ministro?» «Solo un'opinione.» «Strano modo di parlare a un amico.» «Lei non è mio amico.» La porta si chiuse non appena Edwin Davis lasciò la stanza. Nella mente di Irina Zovastina turbinavano idee e possibilità. Kamil Revin rientrò e raggiunse la scrivania del primo ministro. Vincenti si credeva furbo e lo usava come spia, ma quell'asiatico educato in Russia, che si dichiarava musulmano ma non entrava mai in una moschea, aveva spesso agito come perfetto strumento di disinformazione. «Hai dimenticato di dirmi che Vincenti era nella Federazione.» Kamil si strinse nelle spalle. «È arrivato ieri notte per affari. Sta all'Intercontinental, come sempre.» «Sta nella sua tenuta in montagna.» Notò lo stupore negli occhi del giovane. Vero o simulato? Difficile a dirsi. Ma lui sembrò percepire i suoi sospetti. «Ministro, sono sempre stato suo alleato. Ho mentito per lei. Le ho consegnato dei nemici. Ho tenuto d'occhio Vincenti per anni e ho sempre agito secondo i suoi ordini.» Non aveva tempo di discutere. «Allora dimostrami la tua lealtà. Ho un incarico speciale che puoi svolgere soltanto tu.»
Capitolo 69
Stephanie provava un certo gusto a vedere Henrik Thorvaldsen ridotto a uno straccio. Avevano volato dalla base di Aviano a bordo di due diversi F-16, seguendo per un po' quelli di Malone e di Edwin Davis, che erano atterrati a Samarcanda, mentre loro avevano proseguito verso est, raggiungendo Kashgar, in Cina, appena oltre il confine con la Federazione. Thorvaldsen non amava volare e, prima di salire a bordo, l'aveva definito un male necessario. Ma viaggiare su un caccia supersonico non è come fare un viaggio normale. Lei si era sistemata dietro il pilota, dove di solito prende posto il mitragliere. Eccitante e terrificante, i sobbalzi e le rotazioni a oltre milletrecento miglia all'ora l'avevano tenuta in tensione per tutte le due ore di volo. «Non posso credere di aver fatto una cosa simile», disse Thorvaldsen. Lei notò che l'uomo stava ancora tremando. All'aeroporto li aspettava un'auto, dato che il governo cinese aveva collaborato esaudendo le richieste di Daniels. Evidentemente era piuttosto preoccupato per quel pericoloso vicino e disponibile persino a cooperare con Washington per scoprire se si trattava di timori reali o immaginari. «Non è stato poi così male», replicò Stephanie. «Annotazione da archiviare: mai e poi mai volare su uno di quei cosi.» Stavano attraversando il Pamir, in territorio della Federazione, dopo avere passato una frontiera che consisteva appena in un cartello di benvenuto. Erano arrivati a una discreta altitudine, superando una serie di aride sporgenze arrotondate e valli altrettanto aride, luoghi in cui l'inverno indugiava impietoso e le piogge erano scarse. Molte sterpaglie, ruvidi cespugli di assenzio, pini nani e ogni tanto qualche macchia di pascolo. Un territorio in gran parte disabitato, giusto qualche villaggio e delle yurte, che distinguevano con chiarezza il paesaggio da quelli delle Alpi o dei Pirenei, dove lei e Thorvaldsen erano andati l'ultima volta. «Avevo letto di questa zona, ma non c'ero mai stata. Stupefacente.» «A Ely il Pamir piaceva moltissimo. Ne parlava in tono quasi religioso. E posso capire perché.» «Lo conoscevi bene?» «Oh, sì. Conoscevo i suoi genitori. Lui e mio figlio Cai erano molto amici e lui praticamente viveva a Christiangade quando erano ragazzini.» Sul sedile del passeggero, Thorvaldsen aveva l'aria stanca, ma non a causa del volo, lei lo sapeva benissimo. «Cotton baderà a Cassiopea.» «Ne dubito, se la Zovastina ha Ely.» All'improvviso sembrava rassegnato. «Viktor ha ragione. Probabilmente è morto.» La strada si appiattì mentre superavano l'ennesimo passo e scendevano in un'altra vallata. L'aria all'esterno era sorprendentemente calda e le cime più basse erano prive
di neve. Senza dubbio, la Federazione Centroasiatica possedeva delle vere meraviglie naturali, ma aveva letto i fascicoli della CIA e sapeva che l'intera area era stata scelta per un forte sviluppo economico. La fornitura di elettricità, telefono, acqua e fognature veniva estesa, assieme al potenziamento delle strade. Quella su cui stavano viaggiando ne era. un buon esempio, dato l'asfalto fresco. In un contenitore d'acciaio messo sul sedile posteriore si trovava la candela con sopra avvolto il foglio d'oro. Una scitale moderna che portava un'unica parola in greco antico: KAIMAΞ. Dove conduceva? Non ne avevano idea, ma forse nel rifugio montano di Ely Lund avrebbero trovato un indizio utile. Erano andati armati, due 9mm e parecchi caricatori. Gentile omaggio dell'esercito degli Stati Uniti, tollerato dai cinesi. «Il piano di Malone potrebbe funzionare.» Ma Stephanie era d'accordo con Cotton: i collaboratori occasionali come Viktor non erano affidabili. Preferiva di gran lunga un agente operativo, uno che si preoccupava della pensione. «Malone tiene a Cassiopea», replicò Thorvaldsen. «Non lo ammetterebbe, ma è così. Glielo leggo negli occhi.» «Ho visto l'espressione di dolore quando gli hai detto che è malata.» «Era uno dei motivi per cui pensavo che lei ed Ely potessero stabilire un legame. La loro sofferenza comune in qualche modo era diventata parte dell'attrazione reciproca.» Attraversarono altri due minuscoli paesini e continuarono a viaggiare verso ovest. A un certo punto, proprio come Cassiopea aveva detto a Thorvaldsen, la strada si biforcava e svoltarono in direzione nord. Dieci chilometri dopo, il paesaggio divenne più boscoso e, vicino a un viottolo sterrato che scompariva tra gli alberi, Stephanie vide una sarissa conficcata nel terreno, cui era stato appeso un piccolo cartello con sopra scritto Soma. «Molto appropriato. L'ha chiamato come la tomba di Alessandro in Egitto.» Svoltò e l'auto sobbalzò sul terreno sconnesso che si inerpicava tra gli alberi per quattrocento metri, e terminava in uno chalet di legno. Un porticato coperto proteggeva la porta d'ingresso. «Sembrerebbe portato via di peso dalla Danimarca», commentò Thorvaldsen. «Non mi sorprende affatto. Sono certo che per lui fosse un po' come stare a casa.» Stephanie parcheggiò e uscì. Tra le piante che incombevano silenziose, s'intravedevano delle alte montagne, mentre un'aquila volteggiava regale. La porta dello chalet si aprì. Si voltarono entrambi. Uscì un uomo. Era alto e di bell'aspetto, con capelli biondi e ondulati. Indossava stivali, jeans e camicia a maniche lunghe. Thorvaldsen si era irrigidito, ma lo sguardo gli si intenerì immediatamente. Era Ely Lund.
Capitolo 70
Samarcanda, ore 11.40 Cassiopea sentì odore di fieno umido e di cavalli e capì che la tenevano prigioniera vicino a una scuderia. La stanza sembrava quella di una pensione, dignitosa ma spartana, probabilmente riservata al personale. Imposte a listelli chiudevano la finestra, la porta era chiusa a chiave e, suppose, controllata da una guardia. Nel tragitto dal palazzo, aveva notato uomini armati sui tetti. Fuggire da quella prigione poteva rivelarsi rischioso. La stanza aveva un telefono che non funzionava e un televisore non collegato all'antenna, perciò se ne stava seduta sul letto a chiedersi cos'altro sarebbe accaduto. Era riuscita ad arrivare in Asia, ma adesso? Aveva cercato di punzecchiare la Zovastina, facendo leva sulle sue ossessioni, ma era difficile dire quanto successo avesse avuto. All'aeroporto qualcosa aveva innervosito il primo ministro, qualcosa di sufficientemente importante da far sì che di colpo Cassiopea non fosse più una priorità. Però, quantomeno, era ancora viva. Una chiave girò nella toppa e la porta si aprì, lasciando entrare Viktor seguito da due uomini armati. «Alzati.» Lei restò immobile. «Faresti meglio a obbedirmi.» Si allungò verso di lei e la schiaffeggiò in pieno viso col dorso della mano, facendola cadere sul tappeto. Cassiopea si riprese e scattò in piedi, pronta a lottare. Entrambi gli uomini a fianco di Viktor sollevarono le armi tenendola sotto tiro. «Quello era per Raffaele.» Gli occhi le si riempirono di rabbia, ma sapeva che l'uomo stava facendo esattamente quanto ci si aspettava da lui. Thorvaldsen le aveva detto che era un alleato, anche se segreto, quindi stette al gioco. «Sai che fatica fare il duro con due uomini armati che ti proteggono.» Viktor ridacchiò. «Stai insinuando che avrei paura di te?» Lei si tamponò il labbro inferiore spaccato. Viktor balzò su di lei e le torse un braccio dietro la schiena, piegandole il polso verso la spalla. Era forte, ma Cassiopea sperava sapesse cosa stava facendo, quindi si arrese e lasciò che l'ammanettassero. Poi le vennero legate allo stesso modo anche le caviglie, mentre Viktor la teneva giù e la faceva girare sulla schiena. «Prendetela.» I due l'afferrarono per i piedi e per le spalle e la portarono fuori, lungo un sentiero di ghiaia che arrivava alle scuderie. Lì venne buttata a pancia in giù sul dorso di un cavallo e Viktor la legò con una corda per poi condurre fuori l'animale, mentre il sangue le andava alla testa e penzolava con la faccia verso il terreno. Viktor e altri tre s'incamminarono accanto al cavallo, in silenzio, attraversando la
distesa erbosa grande all'incirca quanto due campi da calcio in cui brucavano delle capre. Il terreno era circondato da piante ad alto fusto, e il gruppetto entrò nella foresta fino a raggiungere una radura. Venne slegata e fatta scendere da cavallo. Mettendosi in piedi, le ci volle qualche istante prima che il sangue riprendesse una circolazione normale. Quando la vista smise di essere a lampi intermittenti, notò che due alti pioppi erano stati piegati fino a terra e legati a un terzo albero. Dalla cima di ciascun albero partivano delle funi arrotolate sull'erba. Venne trascinata in quella direzione, le mani furono liberate dalle manette e i polsi legati alle funi. Poi le tolsero anche i legacci alle caviglie. Era in piedi a braccia larghe e si rese conto di quello che sarebbe successo se gli alberi fossero stati liberati dalle costrizioni che li trattenevano a terra. Dal bosco arrivò un altro cavallo, un animale alto e dinoccolato su cui montava Irina Zovastina. Il primo ministro aveva stivali di cuoio e una giacca di pelle imbottita, osservò la scena, fece allontanare Viktor e gli altri, quindi scese da cavallo. «Soltanto lei e io.» Viktor diede di sprone al cavallo e tornò alle scuderie a gran velocità. Non appena era arrivato a palazzo, la Zovastina gli aveva ordinato di preparare gli alberi. Non era la prima volta. Tre anni prima aveva giustiziato a quel modo un uomo che preparava una rivoluzione. Non essendoci modo di convertirlo alla sua causa, il primo ministro l'aveva fatto legare ai tronchi e aveva tagliato lei stessa le funi, davanti agli altri cospiratori. Il corpo era stato straziato dagli alberi che riassumevano la posizione naturale. Dopo quello spettacolo, i compagni del traditore avevano cambiato bandiera molto rapidamente. Il cavallo entrò galoppando nel recinto. Malone aspettava nella stanza dei finimenti. Viktor l'aveva fatto entrare di nascosto a palazzo dentro al bagagliaio di un'auto. Nessuno aveva fatto domande o perquisito il capo delle guardie e, una volta che la macchina era stata parcheggiata nel garage, era scivolato fuori. Viktor gli aveva fornito le credenziali necessarie. Soltanto la Zovastina poteva riconoscerlo, così aveva raggiunto le scuderie senza nessun problema, scortato da Viktor che gli aveva assicurato che lì poteva attendere in tutta sicurezza. La situazione non gli piaceva affatto. Sia lui sia Cassiopea erano alla mercé di un uomo di cui sapevano solo che Edwin Davis lo riteneva, fino a quel momento, affidabile. Poteva unicamente sperare che Davis avesse confuso la Zovastina a sufficienza da concedere loro un po' di tempo. Portava sempre la pistola ed era rimasto seduto pazientemente per un'ora, mentre da dietro la porta chiusa non proveniva nessun suono. Le scuderie erano magnifiche, adatte al capo supremo di una grande Potenza. Quando era entrato con Viktor, aveva contato quaranta cavalli bai, e la stanza dei finimenti era piena di selle di ottima qualità e attrezzature costose. Non era un cavaliere esperto, ma sapeva montare. L'unica finestra della stanza dava sul retro e non offriva una visuale utile.
Basta. Era ora di agire. Estrasse la pistola e aprì la porta. Nessuno in vista. Girò a destra e si diresse verso il fienile aperto sul fondo, passando davanti a box che ospitavano cavalli davvero notevoli. Vide un cavaliere che puntava dritto verso la scuderia, quindi si spostò contro il muro avvicinandosi all'uscita, pistola pronta. Il rumore degli zoccoli s'interruppe di colpo e udì il rapido sbuffare del cavallo, esausto per la galoppata. Il cavaliere smontò e dei passi riverberarono sul terreno. Era pronto. Un uomo corse dentro, si fermò di botto e si voltò. Viktor. «Non stai seguendo le istruzioni. Ti avevo detto di stare nella stanza dei finimenti.» «Avevo bisogno di un po' d'aria.» «Ho ordinato che qui venisse sgomberato, ma poteva comunque uscire qualcuno.» Non era dell'umore adatto a una predica. «Cosa succede?» «La Vitt. È nei guai.»
Capitolo 71
Stephanie osservò Thorvaldsen stringere Ely Lund in un caloroso abbraccio, con l'affetto di un padre che ritrova il figlio perduto. «È così bello vederti, ormai pensavo te ne fossi andato!» «Ma cosa ci fa qui?» chiese Ely, stupefatto. Thorvaldsen parve riprendere il controllo e gli presentò Stephanie. «Scusi Ely, ma abbiamo pochissimo tempo. Stanno succedendo molte cose. Possiamo parlare?» L'uomo li condusse dentro lo chalet, un luogo cupo con pochi mobili e molti libri, giornali e fogli. Stephanie non vide niente di elettrico. «Non c'è energia elettrica, qui», spiegò lui. «Cucino col gas e mi scaldo con la legna. Ma c'è acqua pura e molta tranquillità.» «Come ci sei arrivato?» chiese Thorvaldsen. «La Zovastina ti tiene prigioniero?» «Assolutamente no», rispose perplesso il giovane. «Mi ha salvato la vita. Mi sta proteggendo.» Ascoltarono il racconto di Ely, di come un uomo aveva fatto irruzione nella sua casa di Samarcanda minacciandolo con una pistola. Prima che potesse succedergli qualcosa, però, un altro uomo l'aveva salvato uccidendo il sicario. Poi l'abitazione era stata incendiata con dentro il cadavere dell'assalitore ed Ely era stato portato dalla Zovastina, che gli aveva detto che i suoi nemici politici l'avevano scelto come bersaglio. Quindi era stato accompagnato in segreto allo chalet, dov'era rimasto negli ultimi mesi. Soltanto una guardia che abitava al villaggio, andava due volte al giorno a controllare che andasse tutto bene e a portargli i viveri. «La guardia ha un telefono cellulare. È così che la Zovastina e io comunichiamo.» «Le ha detto dell'enigma di Tolomeo?» chiese Stephanie. «Delle monete dell'elefante e della tomba perduta di Alessandro?» Ely fece un gran sorriso. «Le interessa moltissimo l'argomento. Ha una passione per l'Iliade. Anzi per tutto ciò che è greco, a dire il vero. Mi ha fatto tante domande, e continua a farmene, quasi ogni giorno. E, sì, le ho detto tutto delle monete e della tomba perduta.» Capiva che Ely non aveva idea di cosa stesse succedendo, del pericolo in cui si trovavano tutti loro, lui incluso. «Cassiopea è prigioniera della Zovastina. Potrebbe rischiare la vita.» «Cassiopea è qui? Nella Federazione? Perché il primo ministro dovrebbe farle del male?» «Ely, diciamo solo che la Zovastina non ti ha salvato», intervenne Thorvaldsen. «Ti tiene prigioniero, anche se ha costruito una prigione particolare, in grado di trattenerti senza molto sforzo.» «Non sa quante volte avrei voluto chiamare Cassiopea, ma il primo ministro ha
detto che in questo momento era indispensabile la segretezza e che avrei potuto mettere nei guai altre persone. Mi ha assicurato che sarebbe durato poco e che poi avrei potuto tornare al lavoro e chiamare chiunque volessi.» Stephanie decise di andare al punto. «Abbiamo risolto l'enigma di Tolomeo. Abbiamo trovato una scitale che conteneva una parola. La può tradurre?» Gli tese un foglietto con scritto KAIMAΞ. «Klimax. È greco antico e significa 'apice'.» «Cosa potrebbe indicare?» «Com'è inserita nel contesto dell'enigma?» «Dovrebbe trattarsi del luogo in cui si trova la tomba. Sfiora la parte più recondita della dorata illusione. Dividi la fenice. La vita offre la misura della vera tomba. L'abbiamo fatto, e quello è il risultato.» Ely parve cogliere la grandezza della scoperta senza bisogno di sollecitazioni, quindi andò a un tavolo e prese un libro. Lo sfogliò, trovò quello che stava cercando, poi appiattì il volume sul tavolo. Stephanie e Thorvaldsen si avvicinarono e videro una mappa indicata come Conquiste Battriane di Alessandro.
«Alessandro si mosse verso oriente e conquistò quello che oggi sono l'Afghanistan e la Federazione, ossia Turkmenistan, Tagikistan e Kirgizistan. Non superò mai il Pamir e non giunse in Cina, ma puntò a sud verso l'India, dove le sue conquiste ebbero fine per la rivolta dell'esercito. Quest'area, tra i fiumi Jassarte e Osso, Alessandro la conquistò nel 330 a.C. A sud c'era la Battriana, a nord la Scizia.» Stephanie collegò immediatamente i tasselli. «Ed è dagli sciti che Alessandro imparò l'uso della pozione.» Ely pareva colpito. «Esatto. Allora Samarcanda sorgeva in una regione chiamata Sogdiana, e la città si chiamava Marcanda. Poco più in là, Alessandro fondò una delle
sue molte Alessandrie, chiamata Eschate, la Più Lontana, perché era la città più orientale dell'impero e una delle ultime da lui realizzate.» Seguì qualcosa col dito sulla mappa, quindi prese una penna e segnò una X. «Klimax era una montagna, proprio in questo punto, in quello che un tempo era il Tagikistan e ora è parte della Federazione. Un luogo venerato dagli sciti e in seguito anche da Alessandro, dopo che ebbe negoziato la pace con loro. Si diceva che i loro re venissero sepolti su queste montagne, anche se non si sono mai trovate tracce che lo provino. Il museo di Samarcanda ha inviato un paio di spedizioni a fare ricerche, ma senza risultato. È un posto decisamente arido e brullo, a dire il vero.» «È esattamente lì che indica la scitale», intervenne Thorvaldsen. «Ci sei mai stato?» Ely annuì. «Due anni fa, con una spedizione. Mi hanno detto che adesso buona parte dell'area è proprietà privata. Uno dei miei colleghi al museo mi ha raccontato che ai piedi della montagna è in fase di realizzazione una tenuta enorme.» A Stephanie tornò in mente ciò che le aveva detto Davis riguardo alla Lega Veneziana e al fatto che molti suoi esponenti acquistavano terreni, perciò provò a chiedere: «Sa chi sia il proprietario?» «Non ne ho idea.» «Ci dobbiamo andare», sentenziò Thorvaldsen. «Ely, puoi accompagnarci?» «Certo, si trova più a sud, a circa tre ore da qui.» «Come ti senti?» Stephanie capì benissimo cosa intendeva il danese. «Ne è al corrente anche lei», spiegò Thorvaldsen. «Normalmente non avrei aperto bocca, ma questo momento è tutt'altro che normale.» «La Zovastina mi fornisce le medicine. Gliel'ho detto che è gentile con me. E Cassiopea come sta?» Thorvaldsen scosse la testa. «Purtroppo temo che la malattia potrebbe essere l'ultimo dei suoi problemi.» Udirono il rombo del motore di un'auto che si avvicinava. Stephanie s'irrigidì e si precipitò alla finestra. Un uomo scese da un'Audi con un fucile automatico. «È la mia guardia, quella che viene dal villaggio», spiegò Ely guardando da sopra la sua spalla. L'uomo all'esterno sparò alle gomme della loro auto.
Capitolo 72
Samarcanda Cassiopea non riusciva a valutare Irina Zovastina. «Mi è appena venuto a trovare il viceconsigliere per la sicurezza nazionale del presidente americano. Mi ha detto che a Venezia mi sono persa qualcosa e che lei sa di che cosa si tratta.» «E pensa di riuscire a convincermi a dirglielo?» La Zovastina osservò i due robusti alberi dal tronco trattenuto a terra da una grossa fune. «Ho fatto realizzare questa radura anni fa: sono stati parecchi a provare l'agonia di venire dilaniati. A dire il vero, un paio sono addirittura sopravvissuti dopo che erano state strappate loro le braccia. Hanno impiegato alcuni minuti a morire dissanguati.» Scosse la testa. «Una maniera orribile di lasciare questo mondo.» Cassiopea era impotente. Per provare a cavarsela non poteva fare altro che tentare un bluff. Viktor, che in teoria era lì per aiutarla, non aveva fatto che peggiorare le cose. «Dopo che Efestione morì, Alessandro uccise il suo medico personale con questo stesso sistema. L'ho trovato ingegnoso, perciò ne ho reintrodotto l'uso.» «Sono tutto quello che ha», replicò Cassiopea in tono piatto. «Davvero?» «A quanto pare, Ely non ha condiviso con lei quello che ha detto a me.» Irina Zovastina si avvicinò. Era muscolosa, il viso giallastro, e la cosa più preoccupante era il lampo di follia che ogni tanto traspariva nei suoi inquieti occhi scuri. Soprattutto in quel momento, in cui il suo animo era agitato da un misto di curiosità e di rabbia. «Conosce l'Iliade? Quando Achille dà finalmente sfogo alla sua ira e uccide Ettore, dice una cosa interessante: Potessi io preso dal mio furore minuzzar le tue carni, ed io stesso, per l'immensa offesa che mi facesti, divorarle crude. No, nessun la tua testa al fero morso de cani involerà: né s'anco dieci e venti volte mi s'addoppii il prezzo del tuo riscatto. Mi dica, perché è qui?» «Mi ci ha portata lei.» «Non si è opposta.» «Ha rischiato molto andando a Venezia. Perché? Non può essere solo una questione politica.» Notò che lo sguardo della Zovastina pareva leggermente meno bellicoso. «A volte siamo chiamati ad agire per gli altri. A correre rischi. Nessuna ricerca che valga la pena fare è priva di rischi. Cercavo la tomba di Alessandro Magno, sperando potesse esserci risposta ad alcuni misteri sconcertanti. Di certo Ely le avrà detto della pozione di Alessandro. Chissà, forse potrebbe contenere qualcosa di utile. Ma bisognerebbe trovare quel posto. Sarebbe un'azione davvero gloriosa.» Irina Zovastina parlava più con stupore che con rabbia, e sembrava davvero
commossa all'idea di raggiungere il suo obiettivo. Da una parte, si lanciava in folli avventure romantiche, alla ricerca di gloria eterna; dall'altra, secondo Thorvaldsen, preparava la morte di milioni di persone. La Zovastina afferrò il mento di Cassiopea come in una morsa. «Devi dirmi subito quello che sai.» «Il prete le ha mentito. Nel tesoro della basilica è custodito un amuleto ritrovato fra i resti di san Marco. Uno scarabeo con sopra incisa una fenice. Ricorda l'enigma? Sfiora la parte più recondita della dorata illusione. Dividi la fenice.» Irina Zovastina sembrò non ascoltare. «Sei bella.» Il suo alito puzzava di cipolla. «Ma sei una bugiarda, venuta qui a imbrogliarmi.» Il primo ministro lasciò la presa e si allontanò. Cassiopea udì un belare di capre. Malone era a cavallo. «Le guardie sul tetto non baderanno a noi. Sei con me.» Viktor rimontò in sella. «Sono oltre il campo da gioco, nel bosco. Ha intenzione di ucciderla.» «Cosa stiamo aspettando?» Viktor diede un colpo di tallone al cavallo e Malone lo seguì. Galopparono dal recinto verso un campo aperto, dove notò dei pali rigati alle estremità e un cerchio di terra al centro e capì che lì si giocava a buzkashi. Aveva letto di quel gioco, della violenza, di come la morte era una routine, la barbarie e la bellezza che esprimeva simultaneamente. A quanto sembrava la Zovastina era un'esperta e i cavalli nei box erano senza dubbio stati allevati allo scopo, come quello che montava in quel momento, che correva con velocità e abilità straordinarie. Sparpagliate sul campo erboso c'erano delle capre che sembravano fornire un ottimo servizio di rasatura. Un centinaio, forse di più, e grosse anche, che si scostavano veloci al rumoroso passaggio dei cavalli. Si voltò indietro e vide delle postazioni di sparo in cima al palazzo ma, come aveva predetto Viktor, nessuno pareva preoccupato, avendo di certo ormai fatto l'abitudine alle imprese del primo ministro. In fondo, alla fine del campo, c'era un fitto gruppo di alberi, tagliato da due sentieri. Viktor fermò il cavallo e Malone fece lo stesso, le gambe penzoloni che strisciavano sui fianchi sudati dell'animale. «Sono a un centinaio di metri lungo il sentiero, in un'altra radura. È affar tuo adesso.» Malone smontò, pistola in mano. «C'è un'altra via di uscita?» chiese Stephanie. Ely indicò la cucina. La donna e Thorvaldsen corsero via proprio mentre la porta dello chalet esplodeva all'interno. Intanto che lei apriva la porta della cucina, l'uomo abbaiò ordini in una lingua che non conosceva ed Ely gli rispose nello stesso idioma incomprensibile. Scivolò fuori, seguita da Thorvaldsen. Da dentro lo chalet si udirono dei colpi d'arma da fuoco e le pallottole trapassarono lo spesso legno dietro di loro.
Si buttarono a terra mentre scoppiava una finestra e i vetri schizzavano verso l'esterno. Pallottole centrarono gli alberi. Udì Ely strillare qualcosa al loro assalitore e sfruttò quell'attimo per saltare in piedi e girare intorno allo chalet per raggiungere l'auto. Thorvaldsen rimase lì, faticando a rialzarsi, e lei poté soltanto sperare che Ely trattenesse la guardia abbastanza a lungo. Raggiunse la macchina, aprì la portiera posteriore e afferrò un'automatica. Thorvaldsen girò intorno allo chalet. Stephanie assunse una posizione di difesa con l'auto come protezione, mirando oltre il cofano, e con la pistola fece cenno a Henrik di andare sotto il portico. Lui si tolse dalla sua linea di tiro proprio mentre spuntava la guardia che, col fucile all'altezza dei fianchi, lo vide e quindi ruotò per aggiustare la mira. Stephanie sparò due volte. Entrambi i proiettili raggiunsero l'uomo al petto. Sparò ancora, altri due colpi. La guardia crollò a terra. Scese un silenzio che l'avvolse in una stretta dolorosa. Non si mosse finché non vide comparire Ely dietro il cadavere della guardia. Thorvaldsen lasciò il portico, ma lei aveva ancora la pistola puntata, entrambe le mani bloccate sul calcio dell'arma. Tremava. Aveva ucciso un uomo. Per la prima volta. Thorvaldsen la raggiunse. «Stai bene?» «Ho ascoltato altri che ne parlavano e ho sempre detto che era il loro lavoro. Ma adesso capisco. Uccidere una persona è una cosa orribile.» «Non avevi scelta.» Arrivò anche Ely. «Non voleva capire. Gli ho detto che non eravate un pericolo.» «Invece lo siamo», replicò Thorvaldsen. «Sono certo che i suoi ordini erano che nessuno prendesse contatto con te. È l'ultima cosa che vuole Irina Zovastina.» Il cervello di Stephanie cominciava a schiarirsi. «Dobbiamo andare.»
Capitolo 73
Malone avanzava nel bosco, silenzioso e in apparenza pieno di insidie. Scorse una radura davanti a sé, dove il sole splendeva libero dalla fitta chioma degli alberi. Si voltò e non vide Viktor, ma capì benissimo perché l'uomo se ne era andato. Udì delle voci, quindi accelerò il passo, fermandosi dietro un grosso tronco vicino alla fine del sentiero. Cassiopea era legata a due alberi, le braccia larghe, e, in piedi accanto a lei, c'era Irina Zovastina. Viktor aveva ragione. Guai grossi. Irina Zovastina provava allo stesso tempo interesse e irritazione per Cassiopea Vitt. «Non sembra le importi di essere sul punto di morire.» «Me ne fosse importato, non sarei venuta fin qui.» Decise che era il momento di dare alla donna un motivo per vivere. «In aereo mi ha chiesto se Ely fosse vivo. Non le ho risposto. Vuole saperlo?» «Non crederei a una parola di quello che dice.» «Mi sembra giusto. Non lo farei nemmeno io.» Cercò in tasca un telefonino e premette un tasto. Stephanie udì un trillo e il suo sguardo si spostò sul morto steso a terra. Aveva sentito anche Thorvaldsen. «È la Zovastina», chiarì Ely. «Mi chiama al suo telefono.» Stephanie corse al cadavere, trovò il cellulare e lo passò a Ely. «Risponda.» Cassiopea ascoltò la Zovastina che diceva: «C'è qui qualcuno che vuole parlare con lei». Il primo ministro portò il telefono vicino al suo orecchio. Non aveva intenzione di dire niente, ma la voce proveniente dal cellulare le mandò una sorta di elettroshock lungo la colonna vertebrale. «Cosa c'è, ministro?» Una pausa. «Ministro?» Non riuscì a trattenersi. «Ely, sono Cassiopea.» Silenzio. «Ely? Ci sei?» Le bruciavano gli occhi. «Ci sono. È che non me l'aspettavo. È bello sentire la tua voce.» «Anche la tua.» Fu travolta dall'emozione. Era cambiato tutto. «Cosa ci fai lì?» «Ti stavo cercando. Io sapevo... speravo che non fossi morto.» Cercò di tenere a bada i sentimenti. «Stai bene?»
«Sto bene, ma sono preoccupato per te. Henrik è qui assieme a una donna che si chiama Stephanie Nelle.» Quella era una novità. Cassiopea cercò di mettere da parte l'apprensione e concentrarsi. A quanto sembrava, la Zovastina non sapeva cosa stesse succedendo. «Di' al ministro quello che hai appena detto a me.» Irina Zovastina ascoltò. Stephanie sentì Ely ripetere quanto aveva appena detto. Capiva che Cassiopea fosse sconvolta, ma perché voleva che Ely dicesse al primo ministro che loro erano lì? «Quando sono arrivati Thorvaldsen e quella donna?» chiese al telefono Irina Zovastina. «Da poco. La sua guardia ha cercato di ucciderli e adesso è morta.» «Ministro.» Un'altra voce, che riconobbe subito: Thorvaldsen. «Abbiamo Ely.» «E io ho Cassiopea Vitt. A occhio direi che le restano ancora una decina di minuti da vivere.» «Abbiamo risolto l'enigma.» «Tutte chiacchiere. Le sue e quelle della Vitt. Ho bisogno di prove.» «Saremo alla tomba prima di notte. Ma lei non lo saprà mai.» «Siete nella mia Federazione.» «Eppure siamo riusciti a entrare, a prendere il suo prigioniero e ad andarcene con lui senza che lei lo sapesse.» «Però vi siete presi la briga di dirmelo.» «L'unica cosa in suo possesso che io voglio è Cassiopea. Richiami se intende trattare.» E la conversazione s'interruppe. «Pensi sia stata una buona mossa?» chiese Stephanie. «Non dobbiamo farle prendere il controllo.» «Ma non abbiamo idea di cosa stia succedendo a Cassiopea.» «Dimmi qualcosa che non so.» Si capiva benissimo che Thorvaldsen era preoccupato. «Dobbiamo avere fiducia in Cotton, sperando che gestisca la situazione.» Irina Zovastina lottò contro la sensazione di disagio che si era impadronita di lei. Quella gente era tosta, doveva ammetterlo. Si tolse il coltello dalla manica di pelle. «I tuoi amici sono qui. E hanno Ely. Sfortunatamente, a differenza di quello che può pensare Thorvaldsen, lui non ha niente che voglio.» Si avvicinò alle funi. «Preferisco vederti morire.» Malone aveva sentito tutto. Ely Lund aveva risposto al telefono. Aveva visto com'era rimasta colpita Cassiopea, ma poi era intervenuto qualcun altro. Henrik? Stephanie? A quell'ora dovevano senz'altro essere con Lund. Non poteva aspettare
oltre, quindi corse fuori del nascondiglio. «Adesso basta.» Irina Zovastina gli dava le spalle, ma alle sue parole si bloccò. «Butti il coltello.» Cassiopea non sembrava stupita. Era quasi come se fosse stato atteso e questo lo preoccupò. Dagli alberi spuntarono due uomini. «Malone», esordì la Zovastina, voltandosi con un ghigno soddisfatto. «Non può ucciderci tutti.»
PARTE QUINTA Capitolo 74
Vincenti entrò nella biblioteca, chiuse la porta e si versò da bere: kumis, una specialità locale che aveva cominciato ad apprezzare, ottenuta da latte di cavalla fermentato. Non molto alcolico, ma dava alla testa. Inghiottì tutto in un sorso e assaporò il retrogusto di mandorla. Se ne versò dell'altro. Era affamato e gli brontolava lo stomaco. Doveva ancora dire allo chef cosa voleva per cena. Una bistecca di cavallo teriyaki bella alta sarebbe andata bene. Gli piaceva anche quella, di specialità locale. Il suo progetto si sarebbe realizzato, l'intuizione di tanti anni prima stava per dare i suoi frutti. L'unico ostacolo era Irina Zovastina. Andò alla scrivania. La casa era attrezzata con un sofisticato sistema di comunicazioni satellitari, collegato direttamente con Samarcanda e la sede principale della società a Venezia. Bicchiere in mano, vide che circa mezz'ora prima era arrivata un'e@mail da Kamil Revin. Insolito. Malgrado la sua giovialità, Kamil diffidava di qualunque forma di comunicazione che non fosse faccia a faccia, con momento e luogo sotto il suo controllo. Aprì il messaggio e lesse: Gli americani sono stati qui. Il suo cervello stanco scattò al segnale di allarme. Americani? Stava per cliccare su RISPONDI quando la porta venne spalancata e Peter O'Conner si precipitò all'interno. «Quattro elicotteri da combattimento puntano su di noi. Sono della Federazione.» Vincenti schizzò alla finestra e guardò verso ovest. All'inizio della valle, quattro puntini ferivano il cielo limpido, facendosi sempre più grandi. «Sono appena comparsi», spiegò O'Conner. «Presumo non si tratti di una visita di cortesia. Aspettava qualcuno?» Proprio nessuno. Tornò al computer e cancellò l'e@mail. «Dovrebbero atterrare tra meno di dieci minuti.» Qualcosa era andato storto. «Che la Zovastina stia venendo a riprendersi la donna?» chiese ancora O'Conner. «Possibile. Ma come ha fatto a saperlo così in fretta?» La Zovastina non avrebbe mai immaginato cosa stava progettando. Certo, non si fidava di lui, come lui non si fidava di lei, ma non c'era motivo per una prova di forza. Non in quel momento, almeno. Poi c'era Venezia, e quello che era successo quando aveva affrontato Stephanie Nelle. E gli americani? Di cosa non era al corrente?
«Stanno virando per atterrare», riprese O'Conner, che guardava dalla finestra. «Vada a prenderla.» O'Conner si precipitò fuori della stanza. Vincenti aprì un cassetto della scrivania e prese una pistola. Doveva ancora assumere gli uomini della sicurezza: aveva previsto di farlo nelle settimane successive, mentre la Zovastina sarebbe stata impegnata a preparare una guerra. Aveva progettato di sfruttare al massimo quella diversione. Seguita da O'Conner, Karyn Walde entrò in accappatoio e pantofole. Si reggeva in piedi, da sola. «Come si sente?» chiese Vincenti. «Non stavo così bene da mesi. Riesco a camminare.» Era già in viaggio un medico di Venezia che le avrebbe curato le infezioni secondarie. «Ci vorrà qualche giorno perché il suo corpo si riprenda completamente, ma il virus è già stato assalito da un predatore contro cui non ha difese. E, tra l'altro, lo stesso può dirsi per noi.» O'Conner tornò alla finestra. «Sono atterrati. Militari. Asiatici. Sembrerebbero del ministro.» Lui guardò Karyn. «Pare che Irina la rivoglia indietro. Comunque non siamo certi di cosa stia accadendo.» Attraversò la stanza e raggiunse una libreria a muro con antine in vetro decorato. Il legno era arrivato dalla Cina, come gli artigiani che avevano realizzato il pezzo, ma O'Conner aveva fatto un'aggiunta extra. Premette un bottone su un comando a distanza tascabile e un meccanismo a molla sopra e sotto la libreria scattò, facendo ruotare il mobile. Dietro, si rivelò un corridoio illuminato. Karyn Walde era colpita. «Come in un film dell'orrore!» «E potrebbe diventarlo davvero», replicò Vincenti. «Peter, vada a vedere cosa vogliono ed esprima il mio rammarico per non essere qui ad accoglierli.» Fece cenno a Karyn. «Mi segua.» Le mani di Stephanie ancora tremavano mentre lei guardava Ely trascinare il cadavere dietro lo chalet. L'idea che la Zovastina sapesse che si trovavano nella Federazione continuava a non piacerle. Non era una mossa molto intelligente quella di mettere in allarme una persona con a disposizione le risorse di un dittatore. Poteva solo confidare che Thorvaldsen sapesse quello che stava facendo. Ely spuntò dalla porta seguito da Thorvaldsen, con una bracciata di libri e carte. «Mi serviranno.» Lei teneva d'occhio il viottolo che conduceva alla strada principale: sembrava tutto tranquillo. Thorvaldsen la raggiunse, notò il tremito alle mani e gliele strinse. Nessuno dei due disse una parola. Lei teneva ancora la pistola contro il palmo sudato. La sua mente aveva bisogno di concentrarsi su qualcosa, quindi chiese: «Cosa dobbiamo fare, esattamente?» «Conosciamo il posto», rispose Ely. «Klimax. Perciò andiamoci e vediamo cosa c'è. Direi che vale la pena provare.» Stephanie si sforzò di ricordare le esatte parole dell'enigma di Tolomeo. «Sali le
mura costruite dagli dei. Quando raggiungi il limite dell'attico, fissa lo sguardo nell'occhio fulvo, e avventurati nel distante rifugio.» «Conosco l'enigma», commentò Ely. «Devo controllare alcune informazioni e spremermi un po' le meningi, ma posso farlo durante il viaggio.» «Perché la Zovastina vuole a tutti i costi le monete dell'elefante?» «Ho evidenziato una relazione tra un segno sulle monete e l'enigma. Si tratta di un simbolo, come due B attaccate a una A, e si trova sia su una faccia della moneta sia nell'indovinello. Deve significare qualcosa. Dato che ce ne sono soltanto otto, voleva averle per fare un confronto, ma mi aveva assicurato che le avrebbe acquistate.» «Certo... Comunque tutto questo risale a oltre duemila anni fa. Non pensate che, se esistesse qualcosa, a quest'ora sarebbe stata trovata?» Ely si strinse nelle spalle. «Difficile dirlo. Bisogna ammettere che gli indizi non erano certo evidenti: c'è voluta la fluorescenza da raggi X per trovare quelli più importanti.» «Ma la Zovastina la vuole. Di qualunque cosa si tratti.» «Nella sua testa, che ho sempre pensato fosse un po' bizzarra, lei è Alessandro, o Achille, o qualche altro eroe epico. È una visione romantica che sembra piacerle molto. Una ricerca. È convinta che lì possa esserci un qualche genere di cura. Ne parlava molto e credo che per lei rivesta una grandissima importanza, anche se non so perché.» Ely s'interruppe. «Non posso negare che fosse importante anche per me. Il suo entusiasmo era contagioso e, alla fine, ho cominciato a credere anch'io che potrebbe esserci qualcosa.» «Forse», disse Stephanie, quasi per consolarlo. «Sarebbe stupefacente, non vi pare?» «Ma qual è la tua opinione sul legame tra san Marco e Alessandro Magno?» chiese Thorvaldsen. «Sappiamo che il corpo di Alessandro era ad Alessandria fino al 391 d.C, quando infine il paganesimo venne considerato fuorilegge, ma dopo di allora non se ne parla più, da nessuna parte. Il corpo di san Marco riappare ad Alessandria intorno al 400 d.C, e bisogna ricordare che reliquie pagane venivano spesso usate per scopi cristiani. Gli esempi che ho letto in proposito sono moltissimi. Ad Alessandria, una statua di bronzo di Saturno nel Caesareum venne fusa per realizzare una croce per il patriarca della città. Lo stesso Caesareum divenne una cattedrale cristiana. La mia teoria, dopo aver letto tutto il possibile su san Marco e Alessandro, è che qualche patriarca del IV secolo ideò un modo non solo per conservare il cadavere del fondatore della città, ma per dare anche alla cristianità una grandiosa reliquia. Un sistema per ottenere un doppio risultato. Perciò Alessandro è semplicemente diventato san Marco. Chi avrebbe potuto vedere la differenza?» «A me sembra comunque un'ipotesi azzardata», replicò Stephanie. «Non lo so. Me l'avete detto voi che Tolomeo lasciò nella mummia un oggetto che vi ha portati qui. Direi che a questo punto la teoria è suffragata da prove concrete.» «Ha ragione lui», intervenne Thorvaldsen. «Vale la pena di fare un salto a sud a dare un'occhiata.» Lei non era del tutto d'accordo, ma qualunque posto era preferibile a quello in cui
si trovavano, però le venne in mente una cosa. «Ha detto che la zona in cui si trova il Klimax adesso è proprietà privata. Potremmo avere delle difficoltà a entrare.» Ely sorrise. «Magari il nuovo padrone di casa ci lascerà dare uno sguardo in giro.»
Capitolo 75
Malone era in trappola. Avrebbe dovuto saperlo: Viktor l'aveva portato dritto dalla Zovastina. «È venuto a salvare la sua amichetta?» Irina Zovastina indicò la sua pistola. «Chi ha intenzione di uccidere? Deve scegliere tra noi tre.» Spostò lo sguardo sulle sue guardie. «Una di loro la ucciderà prima che lei possa sparare all'altra. Dopodiché io taglierò queste funi.» Era vero. Le sue opzioni erano limitate. «Prendetelo», ordinò il ministro. Uno degli uomini corse verso Malone, ma un nuovo rumore aveva catturato la sua attenzione. Belati. Sempre più forti. La guardia era a tre metri da lui, quando le capre si riversarono lungo il sentiero che portava al campo di buzkashi. Poche, all'inizio, poi l'intero gregge invase la radura in un gran tambureggiare di zoccoli. Malone scorse Viktor in sella al cavallo: teneva radunati i grossi animali in modo da non frenarne l'avanzata, dapprima lenta, poi precipitosa, mentre il gruppo in coda premeva su quello di testa, spingendo avanti le capre confuse. La loro inattesa comparsa sembrò generare l'effetto desiderato. Le guardie rimasero sorprese per un istante e Malone sfruttò l'attimo per sparare a quella che si trovava davanti. Un altro schiocco e la seconda guardia crollò a terra. Era stato Viktor a sparare. Le capre si ammassarono nella radura, perplesse, rendendosi lentamente conto che l'unica via d'uscita era tra gli alberi. L'aria era un vorticare di polvere e, quando Malone individuò la Zovastina, si fece largo tra gli animali puzzolenti per raggiungere il primo ministro e Cassiopea. Intanto, il gregge prese a ritirarsi nel bosco. Malone arrivò proprio mentre Viktor scivolava giù di sella, pistola in pugno. La Zovastina brandiva il coltello, ma Viktor la teneva a bada, a qualche metro dalle funi che bloccavano a terra i due alberi piegati. «Getti il coltello», disse Viktor. Irina Zovastina sembrò sconvolta. «Cosa stai facendo?» «La fermo.» Fece un cenno con la testa. «Malone, liberala.» «Facciamo così», replicò Malone. «Tu liberi Cassiopea e io tengo d'occhio il ministro.» «Ancora non ti fidi?» «Diciamo che preferisco fare le cose a modo mio.» Sollevò la pistola. «Come ha già detto lui, getti il coltello.» «Altrimenti?» chiese la Zovastina. «Mi spara?» Malone lasciò partire un colpo che si conficcò nel terreno in mezzo ai piedi del primo ministro. «Il prossimo sarà nella sua testa.»
Il coltello cadde a terra. «Lo mandi verso di me con un calcio.» Lei obbedì. «Cosa ci fai qui?» chiese Cassiopea. «Sono in debito con te.» Invece di risponderle, Cotton si era rivolto a Viktor. «Ma... le capre?» «Si usa quello che si ha», replicò l'uomo, intento a slegare Cassiopea. «Mi pareva una buona diversione.» «Viktor, lavori per gli americani?» chiese la Zovastina. «Proprio così.» Negli occhi della donna ardeva un fuoco di rabbia. Cassiopea si liberò delle corde e si gettò verso la Zovastina, agitando il pugno e colpendo il primo ministro in pieno viso. Un calcio alle ginocchia e la donna barcollò all'indietro, con Cassiopea che continuava l'attacco piantandole un piede nello stomaco e facendole sbattere la testa contro il tronco di un albero. Irina Zovastina si accartocciò a terra e rimase immobile. Malone aveva osservato l'azione in tutta calma. «Ti sei sfogata?» «Avrei anche potuto continuare», replicò Cassiopea, il fiato corto, massaggiandosi i polsi segnati dalle corde. «Ely è vivo, gli ho parlato al telefono. Stephanie e Henrik sono con lui. Dobbiamo andare.» Malone affrontò Viktor. «Pensavo che la CIA volesse mantenere la tua copertura.» «Non avevo scelta.» «Mi hai mandato tu in questa trappola.» «Te l'ho detto io di affrontarla? Non mi hai dato modo di fare diversamente.» «Cosa facciamo adesso?» «Ce ne andiamo. Abbiamo un po' di tempo. Quaggiù nessuno la disturberà.» «E per gli spari?» chiese Malone. «Non ci avranno fatto caso», spiegò Viktor, indicando la radura con un gesto della mano. «Qui è dove uccide la gente. In questo posto ha eliminato molti nemici.» Cassiopea stava sollevando da terra il corpo privo di sensi di Irina Zovastina. «Cosa stai facendo?» chiese Malone. «Lego questa stronza alle sue corde, così può provare come ci si sente.» Stephanie guidava con Henrik sul sedile del passeggero ed Ely su quello posteriore. Non avevano potuto fare altro che prendere l'auto della guardia, visto che la loro aveva le gomme a terra. Avevano lasciato in fretta lo chalet, trovato la strada e iniziato il viaggio in direzione sud, paralleli alle colline pedemontane del Pamir, verso quello che oltre duemila anni prima era noto come monte Klimax. «È incredibile», commentò Ely. Nello specchietto retrovisore Stephanie vide che stava ammirando la scitale. «Quando ho letto l'enigma di Tolomeo, mi sono chiesto in che modo avrebbe potuto trasmettere un messaggio. Molto intelligente. Come ci siete arrivati?» «È stato un nostro amico, Cotton Malone. Quello che adesso è con Cassiopea.» «Non dovremmo andare a cercarla?»
«Dobbiamo affidarci a Malone, perché porti avanti la sua parte del piano. Il nostro problema è qui.» Lei parlava di nuovo da distaccato capo dei servizi segreti, fredda e indifferente, ma era ancora scossa da quanto accaduto allo chalet. «Cotton è bravo. Andrà tutto bene.» «E Cassiopea non è una sprovveduta», aggiunse Thorvaldsen, percependo l'incertezza di Ely. «Sa badare a se stessa. Perché non ci dici quello che dobbiamo sapere per capirci qualcosa? Nel manoscritto abbiamo letto della pozione degli sciti. Cosa sai di loro?» «Erano un popolo nomade immigrato dall'Asia centrale verso il sud della Russia nell'VIII e VII secolo a.C. Ne parla Erodoto. Erano sanguinari e organizzati in tribù. Molto temuti. Tagliavano la testa ai nemici e coi teschi realizzavano coppe per bere.» «Be', immagino che con un'abitudine del genere ci si faccia una certa reputazione», commentò Thorvaldsen. «E il loro rapporto con Alessandro?» «Nel IV e III secolo a.C, si stabilirono in quello che divenne il Kazakistan e riuscirono a resistere ad Alessandro, bloccando la sua espansione a oriente sul fiume Syr Darya. Lui li combatté con ferocia e venne ferito parecchie volte, ma alla fine negoziò una tregua. Non arriverei a dire che Alessandro temesse gli sciti, ma li rispettava.» «E la pozione? Era proprio loro?» «La mostrarono ad Alessandro, come parte degli accordi di pace. Pare l'abbia usata per curarsi. Da quanto ho letto, doveva essere una sorta di rimedio naturale. Alessandro, Efestione e quell'assistente del medico citato in uno dei manoscritti hanno tratto molto giovamento dalla cura. Sempre ammesso che il resoconto sia veritiero. Gli sciti erano gente strana. Per esempio, nel bel mezzo di uno scontro coi persiani, abbandonarono il campo di battaglia per dare la caccia a un coniglio. Nessuno sa perché, ma è riferito in un resoconto ufficiale. Amavano e conoscevano l'oro, che usavano e indossavano in grande quantità. Ornamenti, cinture, vasellame, persino le armi erano decorate in oro, difatti i loro tumuli funebri erano pieni di manufatti preziosi. Ma il loro problema principale era la lingua. Erano analfabeti, quindi non è sopravvissuto nessun testo scritto, soltanto disegni, favole e racconti fatti da altri, e se si conosce almeno qualcuna delle parole che usavano, è grazie a Erodoto.» Vedendo la sua espressione nello specchietto retrovisore, Stephanie capì che c'era dell'altro. «E poi?» «Come ho detto, sono sopravvissute solo pochissime delle loro parole. Pata significava uccisione; spou, occhio; oior, uomo. E poi c'è arima.» Scartabellò tra i fogli che aveva portato con sé. «Non significava molto, fino a oggi. Ricordatevi l'enigma: Quando raggiungi il limite dell'attico. Tolomeo aveva combattuto gli sciti assieme ad Alessandro, li conosceva. Arima significa approssimativamente 'luogo alto, sulla cima'.» «Come un attico.» «Ma c'è un particolare ancora più importante. Il luogo in cui stiamo andando, che i greci chiamavano Klimax, i locali l'hanno sempre chiamato Arima. Me ne ricordo
dall'ultima volta che ci sono stato.» «Troppe coincidenze?» chiese Thorvaldsen. «Si direbbe che tutti gli indizi puntino lì.» «E cosa speriamo di trovare?» domandò Stephanie. «Gli sciti usavano i tumuli per coprire le tombe dei loro re, ma ho letto che per alcuni dei capi più importanti venivano scelti dei luoghi di montagna. Quello era il punto più orientale dell'impero di Alessandro, il confine più lontano. Lì nessuno l'avrebbe disturbato.» «Magari è per questo che l'ha scelto.» «Non lo so. Questa storia sembra piuttosto strana.» Stephanie non poteva che convenire con lui. Irina Zovastina aprì gli occhi. Era sdraiata a terra e immediatamente ricordò l'attacco di Cassiopea Vitt. Cercò di liberare la mente dalla confusione che l'annebbiava e si accorse che qualcosa le stringeva con forza i polsi. Poi capì. Era stata legata agli alberi. Era umiliante. Si raddrizzò e si guardò intorno. Le capre, Malone, la Vitt e Viktor se ne erano andati. Una delle guardie giaceva morta, ma l'altra era ancora viva, appoggiata a un albero, e sanguinava da una ferita alla spalla. «Ti puoi muovere?» L'uomo annuì, ma era chiaro che soffriva moltissimo. Tutti i membri del suo battaglione sacro erano coriacei e disciplinati. La guardia si mise faticosamente in piedi, la mano destra stretta al braccio sinistro. «Prendi il coltello, lì, nell'erba.» Dalla bocca dell'uomo non sfuggì il minimo lamento. Cercò di ricordarne il nome, ma non le riuscì. Era stato Viktor a formare il battaglione sacro e lei si era ripromessa di non affezionarsi a nessuno di loro. Erano oggetti, strumenti da usare. Niente di più. L'uomo barcollò fino al coltello e riuscì a prenderlo, quindi si avvicinò alle funi, perse l'equilibrio e cadde sulle ginocchia. «Ce la puoi fare. Combatti il dolore e concentrati sul tuo compito.» La guardia parve diventare d'acciaio, il sudore che scendeva sulla fronte mentre la ferita sanguinava di fresco. Era incredibile che non fosse in stato di shock, ma quell'uomo robusto sembrava davvero in ottima forma fisica. Sollevò il coltello, prese qualche respiro, poi tagliò la corda che le bloccava il polso destro. Il ministro gli strinse il braccio tremante mentre lui le passava il coltello, quindi si liberò da sé dall'altra fune. «Ti sei comportato bene.» L'uomo sorrise per il complimento, il respiro affannoso, ancora in ginocchio. «Sdraiati, riposa.» Mentre perlustrava la foresta, lo udì sdraiarsi sull'erba. Accanto al cadavere trovò una pistola. Tornò dalla guardia ferita. L'aveva vista vulnerabile e, per la prima volta da tanto tempo, lei si era sentita vulnerabile. L'uomo giaceva sulla schiena, sempre stringendosi la spalla. Si fermò vicino a lui e, negli occhi neri che si fissarono nei suoi, lesse che lui sapeva. Sorrise del suo coraggio, poi gli puntò la pistola alla testa e sparò.
Capitolo 76
Malone osservò il terreno irregolare, un misto di terra arida, prati, basse colline e alberi. Viktor pilotava l'elicottero, un Hind Conosceva quel modello: di produzione russa, due motori gemelli a turbina che muovevano il rotore principale e quello anticoppia. I sovietici lo definivano carro armato volante, mentre la NATO aveva ribattezzato quell'aeromobile, piuttosto brutto a vedersi, Coccodrillo, a causa del colore mimetico e della fusoliera separata. Nel complesso, un formidabile mezzo da combattimento: quell'esemplare in particolare era modificato con un ampio comparto posteriore per il trasporto di truppe. Grazie al cielo, erano riusciti a lasciare il palazzo e Samarcanda senza problemi. «Dove hai imparato a pilotare?» «Bosnia, Croazia... È questo che facevo nell'esercito. Cerca e distruggi.» «Ottimo posto per farsi nervi d'acciaio.» «E per farsi ammazzare.» Malone non poteva che essere d'accordo. «Quanto manca?» domandò Cassiopea attraverso il microfono delle cuffie. Stavano volando in direzione est, a circa trecento chilometri l'ora, verso lo chalet di Ely. Ci sarebbe voluto poco perché la Zovastina venisse liberata, ammesso che non I fosse già successo, perciò decise di informarsi. «E se ci seguisse qualcuno?» Viktor indicò davanti a sé. «Quelle montagne ci daranno una buona copertura. E siamo anche a pochi minuti dalla frontiera cinese. Possiamo sempre scappare là.» «Non fate finta di non avermi sentita. Quanto ci vuole?» Malone aveva evitato di proposito di rispondere. Lei era preoccupata, e lui avrebbe voluto dirle che sapeva che era malata, dimostrarle che a qualcuno importava e che capiva la sua frustrazione. Ma non era il momento giusto, quindi evitò la questione. «Stiamo andando il più veloce possibile.» Pausa. «Ma è sempre meglio che starsene legata a due alberi, o no?» «Immagino che continuerai a rinfacciarmi questa storia...» «Credo proprio di sì.» «Okay, Cotton, sono un po' scossa. Ma devi capire che pensavo che Ely fosse morto. Volevo che fosse vivo, ma sapevo... pensavo...» Riprese il controllo. «E adesso...» Malone si voltò e nei suoi occhi lesse eccitazione, una cosa che da una parte gli fece piacere e dall'altra lo rattristò. Riuscì a non mostrare la sua emozione e finì la frase per lei. «E adesso è con Stephanie e Henrik, perciò calmati.» Cassiopea sedeva da sola nel comparto posteriore. «Viktor, sapevi che Ely era vivo?» «Quando sul motoscafo a Venezia ti ho detto che era morto, ti stavo solo punzecchiando. Dovevo dire qualcosa. La verità è che sono stato io a salvarlo. La
Zovastina pensava che qualcuno potesse fargli del male, perché era un suo consulente e nella Federazione gli omicidi politici sono all'ordine del giorno. Voleva che Ely fosse protetto e, dopo l'attentato alla sua vita, l'ha nascosto. Da allora non ho più avuto a che fare con lui. Anche se ero il capo delle guardie, chi comandava era lei. Quindi non so davvero cosa gli sia successo. Ho imparato a non fare domande e a obbedire agli ordini.» Malone notò che aveva usato il passato, riferendosi al suo lavoro. «Se ti trova ti uccide.» «Conoscevo le regole prima di cominciare.» Continuarono a volare tranquilli. Era la prima volta di Malone su un Hind, perciò non poté non notare quanto era impressionante la potenza di fuoco: missili anticarro teleguidati, mitragliera da 12,7mm, lanciarazzi sganciabili. «Cotton, hai la possibilità di comunicare con Stephanie?» intervenne Cassiopea. Non era una domanda cui avrebbe voluto rispondere in quel momento, ma non aveva scelta. «Sì.» «Fallo.» Trovò il telefono satellitare, gentilmente offerto dalla Sezione Magellano, e digitò il numero, levandosi le cuffie. Ci volle qualche secondo prima che un ronzio pulsante confermasse il collegamento e la voce di Stephanie lo salutasse. «Ci stiamo dirigendo verso di voi.» «Abbiamo lasciato lo chalet e andiamo a sud, lungo la M45, verso quello che una volta era il monte Klimax. Ely sa dove si trova e dice che i locali chiamano quel posto Arima.» «Dimmi qualcosa di più.» Ascoltò e ripeté le informazioni a Viktor. L'uomo annuì e virò in direzione sudest. «Non siamo lontani, e stiamo tutti bene», aggiunse Stephanie. Malone notò che Cassiopea voleva il telefono, ma lui scosse la testa, sperando che capisse che non era il momento. Tuttavia chiese a Stephanie se anche Ely stesse bene. «Sì, ma è sulle spine.» «So cosa intendi. Saremo sul posto prima di voi. Richiamo. Possiamo fare una ricognizione aerea intanto che arrivate.» «Viktor è utile?» «Non saremmo qui se non fosse stato per lui.» Interruppe la comunicazione e disse a Cassiopea dov'era diretto Ely. In cabina suonò un allarme. Il display del radar indicava due bersagli in avvicinamento da ovest. «Black Sharks», spiegò Viktor. «Vengono dritti verso di noi.» Malone conosceva anche quei chopper, che la NATO chiamava Hokum. KA-50. Veloci, efficienti, dotati di missili teleguidati e cannoncini da 30mm. «Ci hanno trovati in fretta», commentò. «C'è una base qui vicino.» «Cos'hai intenzione di fare?» Iniziarono a salire, cambiando rotta. Seimila piedi. Sette. Nove. Quota di crociera a
dieci. «Sai usare quelle armi?» chiese Viktor. Malone era seduto al posto del mitragliere, quindi studiò il pannello della strumentazione. Per fortuna, conosceva il russo. «Dovrei riuscirci.» «Allora preparati a combattere.»
Capitolo 77
Irina Zovastina osservava i suoi generali che studiavano il piano di guerra. Gli uomini seduti attorno al tavolo erano i suoi collaboratori più fidati, anche se temperava quella fiducia con la consapevolezza che qualcuno di loro poteva essere un traditore. Dopo le ventiquattro ore appena trascorse, non poteva più essere sicura di niente. Quegli uomini erano con lei fin dall'inizio, saliti di grado mentre lei costruiva passo passo le forze armate della Federazione e le preparava a quanto stava per accadere. «Prenderemo per primo l'Iran.» Il primo ministro conosceva bene i numeri: l'attuale popolazione del Pakistan era di centosettanta milioni; quella dell'Afghanistan, trentadue milioni; dell'Iran, sessantotto. Tutti e tre erano dei bersagli. Inizialmente aveva ipotizzato attacchi simultanei, ma ora riteneva meglio un'azione strategica. Se i punti d'infezione venivano scelti con cura, in luoghi di densità massima, e i virus venivano piazzati con abilità, i modelli al computer prevedevano che in quattordici giorni si sarebbe verificata una riduzione della popolazione del settanta per cento o più. Illustrò ai suoi uomini quello che in realtà già sapevano, poi aggiunse: «Ci serve il panico totale, una crisi di proporzioni immense. Gli iraniani devono volere il nostro aiuto. Cos'avete pensato?» «Cominceremo dalle forze armate e dal governo», rispose uno dei generali. «La maggior parte degli agenti virali agisce in meno di quarantotto ore. Ma ne useremo diversi, perché li identificheranno in fretta, perciò dovranno continuare a trovarsene di fronte di nuovi. Questo dovrebbe prenderli alla sprovvista e impedire una risposta medica efficace.» All'inizio quel punto l'aveva preoccupata, ma ormai era superato. «Gli scienziati mi dicono che i virus sono stati tutti modificati in modo da renderne ancora più difficile l'identificazione e la cura.» Erano in otto attorno al tavolo, oltre a lei: tutti appartenenti all'esercito e all'aeronautica. L'Asia centrale aveva languito a lungo tra Cina, URSS, India e Medio Oriente, legata a nessuno ma desiderata da tutti. La grande partita si era giocata due secoli prima, quando Russia e Gran Bretagna avevano combattuto per il dominio di quell'area, senza badare alle necessità della popolazione. Non era più così. Adesso L'Asia centrale parlava in modo unitario tramite un parlamento eletto democraticamente, con ministri, votazioni, tribunali, e l'autorità della legge. Una voce. La sua. «E per quanto riguarda europei e americani?» chiese un altro. «Come reagiranno alla nostra aggressione?» «È proprio quello che non deve essere. Nessuna aggressione. Ci limiteremo a
un'occupazione, portando aiuto e sollievo alle popolazioni in difficoltà. Saranno troppo impegnati a seppellire i morti per preoccuparsi di noi.» Aveva imparato dalla storia. I conquistatori di maggiore successo, greci, mongoli, unni, romani e ottomani, si mostravano tolleranti nei territori che invadevano. Hitler avrebbe potuto cambiare l'esito della seconda guerra mondiale semplicemente se si fosse assicurato l'aiuto degli ucraini, che odiavano i sovietici, invece di sterminarli. Le forze di Irina Zovastina sarebbero entrate in Iran come salvatori, non da oppressori, sapendo che una volta che il virus avesse fatto il suo dovere non ci sarebbe stata un'opposizione in grado di sfidarne il potere. A quel punto avrebbe annesso quei territori, ripopolandoli, trasferendo gli abitanti delle aree della sua Federazione distrutte dai sovietici. Avrebbe mischiato le razze, proprio come aveva fatto Alessandro Magno con la sua rivoluzione ellenistica. «Possiamo essere certi che gli americani non interverranno?» «Gli americani non diranno né faranno niente. Dopo la batosta in Iraq, non si sogneranno d'interferire, soprattutto se faremo noi del lavoro sporco. In realtà, saranno entusiasti all'idea di eliminare l'Iran.» «Quando muoveremo sull'Afghanistan, però, ci saranno perdite tra gli statunitensi», fece notare un altro generale. «I loro militari sono ancora presenti sul territorio.» «Quando verrà il momento, cercheremo di ridurle al minimo. Vogliamo che il risultato finale sia il ritiro degli americani dal Paese quando assumeremo noi il controllo. Suppongo che sarà una decisione popolare negli Stati Uniti. Lì useremo un virus contenibile, con infezioni strategiche e mirate su specifici gruppi etnici. La maggioranza delle morti deve verificarsi tra i locali, in particolare talebani. Fate in modo che il personale statunitense sia solo un danno collaterale.» Incrociò lo sguardo di tutti i presenti. Nessuno aveva commentato il livido che aveva sul viso, ricordo dello scontro con Cassiopea. Era lì la talpa? Come avevano fatto gli americani a conoscere così bene le sue intenzioni? «Moriranno a milioni», sussurrò un generale. «Milioni di problemi. L'Iran è una fucina di terroristi, un posto governato da pazzi. È questo che continua a ripetere l'Occidente. È ora di mettere fine a tutto ciò e noi abbiamo il modo per farlo. Le persone che sopravviveranno staranno molto meglio. E noi pure. Avremo il loro petrolio e la loro gratitudine. Sarà quello che ne faremo a determinare il nostro successo.» La Zovastina ascoltò mentre discutevano di potenza militare, piani contro gli imprevisti e strategie. Delle squadre erano state addestrate a spargere i virus ed erano pronte a dirigersi a sud. Era soddisfatta. Gli anni di attesa e preparazione erano finalmente finiti. Immaginava come doveva essersi sentito Alessandro Magno quando era passato dalla Grecia all'Asia, dando inizio alle sue conquiste. Anche lei prevedeva un successo totale. Una volta sotto controllo Iran, Pakistan e Afghanistan, avrebbe attaccato il resto del Medio Oriente. Quell'azione, però, avrebbe dovuto essere molto più sottile, i focolai di virus fatti sembrare semplicemente un'espansione delle infezioni iniziali. Se aveva interpretato correttamente l'atteggiamento dei Paesi occidentali, Europa, America, Russia e anche Cina si sarebbero chiusi entro le loro
frontiere, riducendo al minimo i viaggi, sperando che quel disastro per la salute pubblica fosse limitato a zone di cui, tutto sommato, a loro importava ben poco. Quell'inerzia le avrebbe dato il tempo di aggiungere altri anelli alla catena di nazioni che stavano tra la Federazione e l'Africa, e, giocandosela bene, nell'arco di qualche mese avrebbe potuto conquistare il Medio Oriente senza sparare nemmeno un colpo. «Abbiamo il controllo degli antigeni?» chiese infine il capo del suo staff. «L'avremo.» L'accordo che legava lei e Vincenti stava per essere infranto. «La Philogen non ha fornito le scorte per curare la nostra gente», fece notare uno degli uomini al tavolo. «E non ne abbiamo neanche la quantità necessaria a fermare la diffusione del virus nelle nazioni bersaglio, una volta assicurata la vittoria.» «Sono consapevole del problema.» Un elicottero la stava aspettando, quindi si alzò. «Signori, stiamo per dare inizio alla più grande conquista dai tempi antichi. I greci vennero fin qui e ci sconfissero, facendoci entrare nell'età ellenistica, che ha poi plasmato la civiltà occidentale. Ora noi daremo vita a una nuova alba dello sviluppo umano: l'età asiatica.»
Capitolo 78
Cassiopea si allacciò la cintura di sicurezza: l'elicottero sbandava e s'inclinava per le manovre evasive di Viktor, che cercava di eludere gli inseguitori. Era consapevole che Malone sapeva benissimo che lei avrebbe voluto parlare con Ely, ma si rendeva conto che quello non era il momento giusto. Apprezzava molto il fatto che Cotton avesse rischiato la vita per lei. Come avrebbe fatto a sfuggire alla Zovastina senza di lui? «Sparano», disse Viktor in cuffia. La cintura la teneva ferma contro la paratia, le mani strette alla panca. Lottava contro un attacco di nausea dato che, a dire la verità, tendeva a soffrire di cinetosi. In generale evitava le navi, mentre gli aerei, finché volavano dritto, non erano un gran problema. Adesso le sembrava che lo stomaco le si fosse raggomitolato in gola a causa di tutti quei cambi di altitudine, come fossero in un ascensore impazzito. Non poteva fare altro che tenere duro e sperare con tutta se stessa che Viktor sapesse quello che stava facendo. Malone armeggiava sui comandi e lei udì colpi di lanciarazzi da entrambi i lati della fusoliera. Guardò nella cabina di comando, oltre il vetro, e vide che erano circondati da vette che spuntavano tra le nuvole. «Sono ancora lì?» s'informò Malone. «Accelerano», rispose Viktor. «E cercano di sparare.» «Direi che dei missili possiamo proprio fare a meno.» «Condivido. Lanciarli qui potrebbe essere pericoloso per noi e per loro.» Emersero in cieli più limpidi: l'elicottero puntò verso destra e scese a candela. «È proprio necessario?» chiese Cassiopea cercando di tenere lo stomaco sotto controllo. «Mi dispiace», replicò Malone. «Ma dobbiamo sfruttare queste valli per evitarli.» Cassiopea sapeva che un tempo Cotton aveva volato sui caccia della marina e che aveva ancora il brevetto da pilota. «Al mondo esistono persone cui queste cose non piacciono.» «Libera di rivedere il tuo cappuccino con brioche quando credi.» «Non ti darò questa soddisfazione.» Grazie al cielo non mangiava dal pranzo del giorno prima, a Torcello. Altre virate secche mentre rombavano nel cielo del pomeriggio, il rumore dei motori assordante. Aveva volato poche volte in elicottero e mai in situazioni di combattimento: le sembrava di stare su montagne russe tridimensionali. «Altri due chopper sul radar», comunicò Viktor. «Ma si allontanano verso nord.» «Noi dove siamo diretti?» chiese Malone. «A sud», rispose Viktor con l'ennesima brusca virata.
Malone fissava lo schermo radar. Le montagne rappresentavano sia una protezione sia un ostacolo che accentuava la difficoltà di rintracciare gli inseguitori, dato che i bersagli continuavano a sparire e ricomparire. L'esercito americano faceva affidamento su satelliti e aerei AWACS per avere informazioni più precise. Per fortuna, la Federazione Centroasiatica non era dotata di simili gioielli high tech. Lo schermo radar era vuoto. «Nessuno dietro», disse Malone. Doveva ammetterlo: Viktor ci sapeva fare. Avanzavano nel Pamir con le pale del rotore pericolosamente vicine a ripidi precipizi grigi. Non aveva mai imparato a portare gli elicotteri, anche se gli sarebbe piaciuto, e non sedeva ai comandi di un caccia supersonico da dieci anni. Si era addestrato sui jet ancora per un paio d'anni dopo essere entrato a far parte della Sezione, ma poi aveva lasciato perdere. Allora non gli era sembrato importante, ma adesso avrebbe tanto voluto aver continuato a esercitarsi. Viktor portò l'elicottero a seimila piedi e stabilizzò l'altitudine, quindi chiese: «Colpito qualcosa?» «Difficile a dirsi. Credo che li abbiamo solo obbligati a tenere le distanze.» «Il posto in cui siamo diretti si trova circa centocinquanta chilometri a sud. Conosco Arima. Ci sono già stato, ma parecchio tempo fa.» «Tutte montagne da qui a là?» Viktor annuì. «Anche qualche valle. Penso di riuscire a tenermi al di sotto del radar. Questa non è una zona di sicurezza. Il confine con la Cina è aperto da anni e la maggior parte dei commerci della Zovastina è diretta a ovest, verso Afghanistan e Pakistan.» Cassiopea spuntò alle loro spalle. «È finita?» «Sembrerebbe», rispose Malone. «Prendo una via meno diretta, in modo da evitare altri incontri», spiegò Viktor. «Ci metteremo un po' di più, ma è meglio andare a est.» «Di quanto ci rallenterà questo giro?» chiese Cassiopea. «Forse mezz'ora.» Malone assentì e Cassiopea non fece obiezioni. Schivare pallottole era una cosa, ma coi missili aria aria era tutto più complicato. L'equipaggiamento offensivo sovietico, come i missili, era di prim'ordine. Il suggerimento di Viktor era buono. Malone si mise più comodo e guardò scorrere i nudi speroni di roccia arrotondati. In lontananza, la foschia celava un anfiteatro di cime candide, mentre un fiume incideva vene violacee ai piedi delle colline, dividendosi in torrenti limacciosi. Sia Alessandro Magno sia Marco Polo avevano camminato per quelle terre color fuliggine e l'intera regione era stata un tempo un campo di battaglia. A sud colonie britanniche, a nord russe, con cinesi e afghani a est e a ovest. Per la maggior parte del XX secolo, Mosca e Pechino avevano lottato per il controllo del territorio, ma alla fine solo il Pamir era uscito vincitore. Alessandro Magno aveva scelto con saggezza il posto del suo ultimo riposo. Ma il dubbio rimaneva: era davvero laggiù? In attesa?
Capitolo 79
Ore 14.00 Irina Zovastina era arrivata in volo da Samarcanda alla tenuta di Vincenti a bordo dell'elicottero più veloce della sua aeronautica. La villa si estendeva sotto di lei. Eccessiva, costosa e, come il suo proprietario, inutile. Consentire al capitalismo di svilupparsi entro i confini della Federazione poteva non essere un'idea intelligente. Sarebbero stati necessari dei cambiamenti. La Lega Veneziana avrebbe dovuto essere tenuta a bada. Ma prima le cose essenziali. L'elicottero atterrò. Dopo che Edwin Davis aveva lasciato il palazzo, lei aveva ordinato a Kamil Revin di contattare Vincenti e avvertirlo della visita. Con un certo ritardo, però, in modo da dare ai suoi soldati il tempo di arrivare. Le avevano detto che adesso la villa era sicura, perciò aveva ordinato che rimanessero soltanto nove soldati, mentre gli altri potevano andarsene con gli elicotteri. Anche il personale della casa era stato allontanato. Scese dall'elicottero e attraversò a grandi passi il prato curatissimo, raggiungendo la terrazza in pietra che dava accesso alla villa. Anche se Vincenti credeva che lei non si fosse minimamente interessata alla tenuta, in realtà ne aveva seguito la costruzione molto da vicino. Cinquantatré stanze, undici camere da letto, sedici bagni. Gli architetti le avevano prontamente fornito una copia del progetto, quindi sapeva della sala da pranzo regale, dei raffinati salottini, della cucina da gourmet e della cantina dei vini. Osservando di persona gli arredi, era facile capire perché si parlasse di somme a otto cifre. Due suoi soldati tenevano d'occhio l'ingresso principale, altri due stavano ai lati di una scala di marmo. Tutto in quel luogo le ricordava Venezia: non le era mai piaciuto ricordare un fallimento. Attirò l'attenzione di una guardia, che le fece segno a destra col fucile, quindi percorse un breve corridoio ed entrò in quella che pareva una biblioteca, occupata da tre uomini armati, oltre a un quarto di cui conosceva nome e curriculum nonostante non l'avesse mai incontrato. «Signor O'Conner, lei deve prendere una decisione.» L'uomo si alzò dal divano di pelle. «Ha lavorato per Vincenti per parecchio tempo. Dipende da lei e, francamente, credo che senza il suo aiuto non sarebbe arrivato a tanto.» Irina lasciò che il complimento venisse assimilato e si mise a studiare la stanza opulenta. «Vincenti se la passa proprio bene. Sono curiosa: condivide le sue ricchezze con lei?» O'Conner non rispose. «Lasci che le dica qualcosa che forse non sa. L'anno scorso Vincenti ha incassato
un utile netto di oltre quaranta milioni di euro. Possiede azioni che valgono più di un miliardo di euro. Quanto la paga?» Silenzio. «Centocinquantamila euro.» Dall'espressione sul viso dell'uomo capì di avere fatto centro. «Vede, signor O'Conner, io so parecchie cose. Ha intimidito persone, usato metodi coercitivi, persino ucciso. Lui guadagna decine di milioni e lei riceve centocinquantamila euro. Lui vive in questo modo e lei... be', lei vive e basta.» «Non mi sono mai lamentato.» Irina si fermò dietro la scrivania di Vincenti. «No, non l'ha mai fatto. E questo è ammirevole.» «Cosa vuole?» «Dov'è Vincenti?» «Se ne è andato prima che arrivassero i suoi uomini.» «Ah, ecco un'altra cosa che sa fare proprio bene: mentire.» L'uomo si strinse nelle spalle. «Può credere ciò che vuole. I suoi uomini hanno senz'altro perquisito la casa.» «Certo, e lei ha ragione: Vincenti non si trova. Ma entrambi sappiamo il perché.» Notò le delicate statuine in alabastro che costellavano la scrivania. Figurine cinesi. Non era mai stata particolarmente amante dell'arte orientale. Ne prese in mano una che raffigurava un uomo grasso e chino, seminudo. «Durante la costruzione di questa oscena mostruosità, Vincenti ha fatto realizzare dei passaggi nascosti, ufficialmente per i domestici, ma lei e io sappiamo per cosa vengono usati in realtà. Ha anche fatto scavare nella roccia sotto di noi una grande stanza e, con ogni probabilità, in questo momento si trova proprio lì.» O'Conner non batté ciglio. «Quindi, come ho detto, lei può scegliere. Io troverò Vincenti con o senza il suo aiuto, anche se le sue indicazioni potrebbero essermi utili e, devo ammetterlo, il tempo è fondamentale. Per questo sono pronta a trattare. Potrei usare un uomo come lei, così pieno di risorse, così privo di avidità... Dunque, a lei la scelta: cambia bandiera o rimane con Vincenti?» Aveva già offerto ad altri la stessa alternativa, in gran parte esponenti dell'assemblea nazionale. Alcuni non meritavano neanche di essere reclutati, molto più semplice ucciderli e chiudere la questione. La maggioranza, però, si era rivelata un buon acquisto. Erano tutti asiatici o russi, o una via di mezzo, mentre in questo caso stava agitando la carota davanti al naso di un americano, ed era curiosa di vedere come sarebbe stata accolta l'esca. «Scelgo lei», rispose O'Conner. «Come posso aiutarla?» «Risponda alla mia domanda.» O'Conner infilò la mano in tasca e istantaneamente una delle guardie gli puntò contro il fucile. L'americano si premurò di mostrare subito le mani vuote. «Per rispondere alla sua domanda devo prendere una cosa.» «Faccia pure.» Prese un telecomando d'argento con tre pulsanti. «Nella camera sotterranea si entra soltanto da qui.» Mostrò l'apparecchietto che teneva in mano. «Un pulsante apre tutte
le entrate in caso d'incendio, l'altro le chiude e attiva l'allarme, mentre il terzo apre questa.» Puntò il telecomando verso la parete opposta. Un elegante armadietto cinese ruotò su se stesso mostrando un passaggio scarsamente illuminato. Irina si sentì avvolgere dal calore della vittoria. Si avvicinò a uno dei suoi soldati e gli prese dalla fondina una Makarov 9mm, quindi si voltò e sparò a O'Conner alla testa. «Di una lealtà tanto fragile non so che farmene.»
Capitolo 80
Le cose andavano male e Vincenti lo sapeva, ma se manteneva la calma e stava attento, la situazione poteva risolversi da sé. O'Conner avrebbe gestito tutto, come sempre, ma Karyn Walde e Grant Lyndsey erano tutta un'altra storia. Karyn si aggirava nel laboratorio come un animale in gabbia. «Deve rilassarsi», disse Vincenti. «La Zovastina ha bisogno di me. Non farà mosse stupide.» Sapeva che gli antigeni l'avrebbero tenuta tranquilla, ed era proprio per quel motivo che non le aveva mai consentito di saperne troppo. «Grant, renda sicuro il suo computer. La password proteggerà tutti i file, come abbiamo stabilito.» Lyndsey era addirittura più agitato di Karyn, ma se lei sembrava spinta dalla rabbia, lui era preda della paura. Vincenti aveva bisogno che l'uomo pensasse con lucidità, quindi lo rassicurò dicendo che lì sotto non correvano pericoli. «Il primo ministro non mi ha mai potuto soffrire», piagnucolò Lyndsey. «Ha sempre detestato avere a che fare con me.» «Forse è così, ma ha ancora bisogno di lei. Sfrutti la cosa a suo vantaggio.» Lyndsey non lo ascoltava neanche, preso com'era a picchiare sulla tastiera brontolando tra sé in una frenesia data dal panico. «Calmatevi, tutti e due!» sbottò Vincenti. «Non sappiamo neanche se è arrivata.» Lyndsey alzò gli occhi dal computer. «È passato un sacco di tempo. Cosa stanno facendo quei soldati? Cosa diavolo sta succedendo?» Ottime domande, ma doveva fidarsi di O'Conner. «Quella donna che si è portata via dal laboratorio l'altro giorno...» riprese Lyndsey. «Sono sicuro che non è mai tornata nella Federazione. Gliel'ho letto negli occhi. La Zovastina aveva intenzione di ucciderla. Per divertirsi. È pronta a massacrare milioni di persone: noi cosa siamo per lei?» «La sua salvezza.» O almeno era quello che sperava. Stephanie lasciò la strada principale e svoltò su un viottolo lastricato protetto da alti pioppi allineati come sentinelle. Avevano tenuto una buona velocità, coprendo i centocinquanta chilometri in meno di due ore. «Questo posto è diverso da quando sono stato qui due anni fa», commentò Ely. «Questa strada era tutta sassi.» Una fertile vallata, segnata dalla quadrettatura di ricchi pascoli, si estendeva dietro gli alberi terminando ai piedi delle prime colline, che salivano in modo regolare diventando altipiani e poi montagne. Stephanie scorse alcuni pastori con greggi di pecore e capre, mentre dei cavalli girovagavano liberi. La strada si allungava dritta tra le due file di alberi, che in lontananza parevano un tunnel d'argento. «Eravamo venuti qui in missione esplorativa», spiegò Ely. «C'erano molte chids, le
tipiche abitazioni del Pamir, costruite in pietra e gesso e col tetto piatto. Abbiamo dormito in un piccolo villaggio che c'era laggiù, in quella valle. Ma adesso è scomparso.» Stephanie non aveva più avuto notizie da Malone, ma non osava chiamarlo perché non aveva idea della situazione in cui poteva trovarsi. L'unica cosa che sapeva era che era riuscito a liberare Cassiopea e a far saltare la copertura di Viktor. Edwin Davis e il presidente Daniels non ne sarebbero stati contenti, ma era raro che le cose andassero secondo i piani. «Come mai è tutto così verde?» chiese Henrik. «Avevo sempre creduto che il Pamir fosse arido e brullo.» «In effetti la maggior parte delle vallate è brulla, ma dove c'è acqua possono essere bellissime. Come un angolo di Svizzera. Di recente qui il tempo è stato secco, con temperature piuttosto alte rispetto alla media.» Più oltre, fra gli alberi, Stephanie vide una massiccia struttura di pietra appollaiata su un promontorio erboso, con alle spalle cime di montagne prive di neve. La casa si innalzava in brusche verticali, interrotte da scoscesi tetti spioventi coperti di ardesia, mentre i muri esterni erano un mosaico di pietre piatte di diverse sfumature di marrone, argento e oro. Finestre con piantoni e circondate da spesse cornici spezzavano in modo simmetrico l'elegante facciata, riflettendo la luce del sole del pomeriggio. Due piani; quattro comignoli in pietra. Un lato era coperto da ponteggi. L'edificio le ricordava le case signorili che caratterizzavano la zona nord di Atlanta. «Due anni fa quella casa non c'era», chiarì Ely. L'edificio incombeva a una distanza di meno di un chilometro, al termine di una verde vallata che saliva verso il promontorio erboso. Poco più avanti rispetto a dove si trovavano, un cancello di ferro bloccava l'accesso. Due colonne di pietra, simili a piccoli minareti, sostenevano un arco in ferro battuto su cui spiccava la parola Attico. «È italiano», spiegò Thorvaldsen. «A quanto pare il nuovo proprietario conosce la designazione originaria del posto, visto che ha lo stesso significato di arima.» «Il nome dei luoghi è sacro in questa parte del mondo», intervenne Ely. «È una delle ragioni per cui gli asiatici odiavano i sovietici e oggi invece amano la Zovastina.» Stephanie si guardò intorno in cerca di un modo per mettersi in contatto con la casa dal cancello, un pulsante o un citofono, ma non vide nulla. In compenso, da dietro i minareti comparvero due uomini, giovani, magri, in tuta mimetica e muniti di AK-74. Uno puntò l'arma mentre l'altro apriva il cancello. «Benvenuto interessante», commentò Thorvaldsen. Uno dei due si avvicinò all'auto e fece dei segni, strillando qualcosa in una lingua che lei non capiva. Non ce n'era bisogno. Stephanie sapeva esattamente cosa voleva. Irina Zovastina entrò nel passaggio dietro il mobile. Aveva recuperato il comando a distanza dalla stretta mortale di O'Conner e l'aveva usato per chiudere l'ingresso. Una serie di lampadine pendeva da bracci di ferro posti a intervalli regolari, e lo
stretto corridoio terminava dieci metri più avanti di fronte a una porta di metallo. Si avvicinò e rimase in ascolto. Dall'altra parte, nessun suono. Provò la maniglia e la porta si aprì in cima a una ripida scala intagliata nella roccia viva. Notevole. Il suo avversario non era tipo da farsi cogliere impreparato. Vincenti controllò l'orologio. Ormai avrebbe dovuto avere notizie da O'Conner. Il telefono a muro era una linea diretta col piano superiore, ma aveva resistito al desiderio di chiamare per timore che il suo nascondiglio venisse scoperto. Ormai era lì sotto da quasi tre ore e stava morendo di fame, anche se lo stomaco gli si torceva più per la preoccupazione che per la mancanza di cibo. Aveva occupato il tempo proteggendo i dati custoditi nei due computer del laboratorio. Aveva anche portato a termine un paio di esperimenti che lui e Lyndsey avevano eseguito per verificare che gli archeobatteri potessero venire conservati senza problemi a temperatura ambiente almeno per i pochi mesi che sarebbero necessariamente intercorsi tra la produzione e la vendita. Concentrarsi sugli esperimenti era stato utile per ridurre l'apprensione di Lyndsey, ma Karyn Walde continuava a essere agitata. «Grant, butti via tutto. I liquidi, le soluzioni per la conservazione, i campioni. Non lasci niente.» «Cosa state facendo?» chiese la donna. Non aveva la minima voglia di mettersi a discutere. «Non ci servono.» «E la mia cura? Me ne ha data a sufficienza? Sono guarita?» «Quante pretese per una donna che stava morendo.» «Mi risponda. Sono guarita?» Vincenti ignorò la domanda e si concentrò sullo schermo del computer. Qualche clic del mouse e copiò tutti i dati su una flash drive, quindi autorizzò la codifica dell'hard disk. Karyn lo afferrò per la camicia. «È stato lei a venirmi a cercare. Voleva il mio aiuto. Voleva Irina. Mi ha dato una speranza, ora non mi lasci nel dubbio!» Quella donna cominciava a innervosirlo, ma decise di mostrarsi accondiscendente. «Possiamo farne ancora. È facile e, se fosse necessario, potrei portarla direttamente nel luogo in cui vivono i batteri e lasciarglieli bere. Funziona anche così.» «Bugiardo figlio di puttana! Non posso credere di essere in questo casino.» Nemmeno lui. Ma ormai era troppo tardi. «Tutto fatto?» chiese a Lyndsey. L'uomo annuì, ma un rumore di vetri infranti attirò l'attenzione di Vincenti. Karyn, con in mano i pezzi seghettati di una beuta, si gettò contro di lui, portando il pugnale improvvisato vicino alla sua pancia per bloccarsi di colpo, gli occhi infuocati. «Devo saperlo. Sono guarita?» «Le risponda», disse una voce. Si voltò verso la porta del laboratorio. Sulla soglia c'era Irina Zovastina, pistola in pugno. «È guarita, Enrico?»
Capitolo 81
Malone individuò la villa a circa tre chilometri di distanza. Viktor li aveva fatti arrivare da nord, dopo aver costeggiato il confine cinese. L'abitazione era stata costruita su una piccola altura piatta con vista panoramica sull'ampia vallata. Su un lato si vedevano dei ponteggi su cui sembrava avessero lavorato fino a poco prima, dato il mucchio di sabbia e la molazza per la malta, mentre dietro il promontorio stavano realizzando un'inferriata. In quel momento non c'erano operai, non c'erano agenti di sicurezza, non c'era nessuno in vista. Su un lato c'era un garage per sei auto, con le porte chiuse, mentre un giardino tenuto con grande cura si estendeva tra la terrazza a pianterreno e l'inizio di un boschetto che terminava alla base di uno dei picchi svettanti, i rami coperti di tenere foglioline primaverili color dell'ottone. «Di chi è quella casa?» «Non ne ho idea», rispose Viktor. «L'ultima volta che sono stato qui, più o meno due o tre anni fa, non c'era.» «È questo il posto?» chiese Cassiopea. «Questo è Arima.» «Accidenti se è tranquillo là sotto», commentò Malone. «Le montagne hanno nascosto il nostro arrivo. Il radar è pulito. Siamo soli.» Malone notò un sentiero ben tracciato che passava in mezzo a un fitto boschetto, quindi saliva la parete di roccia e scompariva in una fenditura ombreggiata. Vide anche quello che sembrava un condotto per l'energia elettrica correre sul terreno parallelo al sentiero. «Si direbbe che qualcuno sia molto interessato a quella montagna.» «L'ho visto anch'io», intervenne Cassiopea. «Dobbiamo scoprire chi è il proprietario di questo posto.» Aveva ancora la pistola che si era portato con sé, ma aveva usato un po' di munizioni. «Abbiamo armi a bordo?» Viktor annuì. «Lo scomparto in fondo.» Malone guardò Cassiopea. «Prendine una per ciascuno.» Irina Zovastina provò un vero piacere vedendo l'espressione sconvolta che comparve sul viso di Lyndsey e di Vincenti. «Pensavate fossi così stupida?» «Accidenti a te, Irina», sbottò Karyn. «Adesso piantala!» Irina Zovastina puntò la pistola. Di fronte a quella minaccia, Karyn esitò, quindi si allontanò mettendosi dietro un tavolo. Il primo ministro riportò l'attenzione su Vincenti. «L'avevo avvertita riguardo agli americani. Le avevo detto che ci controllavano. Ed è così che dimostra la sua
gratitudine?» «E si aspetta che le creda? Non fosse stato per gli antigeni, mi avrebbe ucciso tanto tempo fa.» «Lei e la sua Lega volevate un rifugio sicuro e io ve l'ho dato. Volevate la libertà economica. L'avete. Volevate terra, mercati, sistemi per ripulire il vostro denaro sporco. Vi ho dato tutto questo. Ma non bastava, vero?» Vincenti rispose al suo sguardo, sforzandosi di tenere sotto stretto controllo la propria espressione. «A quanto pare, lei aveva programmi diversi, qualcosa di cui immagino neppure la Lega sia a conoscenza. Qualcosa che ha a che fare con Karyn.» Capì che Vincenti non avrebbe mai ammesso niente, ma con Lyndsey sarebbe stata un'altra storia, quindi si concentrò su di lui. «E anche lei fa parte del piano.» Lo scienziato la fissava con terrore. «Vattene da qui, Irina», intervenne Karyn. «Lasciali in pace, tutti e due. Stanno facendo grandi cose.» «Grandi cose?» «Lui mi ha guarita. Non tu, lui.» Rendendosi conto che Karyn poteva fornirle le informazioni che le mancavano, divenne curiosa. «L'HIV non è curabile.» Karyn si mise a ridere. «È questo il tuo problema, Irina. Pensi che niente sia possibile senza di te. Il grande Achille che intraprende un eroico viaggio per salvare il suo amato. Quella sei tu, e ti sei creata un mondo fantastico che esiste solo nella tua mente.» Il collo le si irrigidì e la mano si strinse ulteriormente attorno al calcio della pistola. «Io non faccio parte di un poema epico», continuò Karyn. «La realtà è questa. Non stiamo parlando di Omero o dei greci o di Alessandro. Stiamo parlando di vita e di morte. Della mia vita e della mia morte. E quest'uomo mi ha guarita.» «Che sciocchezze ti ha raccontato?» «Sciocchezze?» ribatté Karyn. «L'ha trovata! Ha trovato la cura. Una dose e mi sono sentita di nuovo bene.» Ma cos'aveva scoperto Vincenti? «Non vedi, Irina?» rincarò la dose Karyn. «Tu non hai fatto niente. È stato lui a riuscirci. Lui ha la cura.» La Zovastina fissò Karyn: un fascio di nuova energia, un groviglio di emozioni. «Hai idea di cos'ho fatto per cercare di salvarti? I rischi che ho corso? Sei tornata da me in cerca di aiuto e io te l'ho dato.» «Tu non hai fatto niente per me, l'hai fatto solo per te stessa. Mi hai guardata soffrire, volevi che morissi...» «La medicina moderna non aveva niente da offrire. Cercavo di trovare qualcosa che potesse aiutarti, ingrata puttana che non sei altro!» «Non ci arrivi, vero?» disse Karyn, un velo di tristezza sul volto. «Non hai mai capito che io per te non ero altro che una proprietà, qualcosa che potevi controllare. È per questo che ti ho tradita, che ho cercato altre donne e altri uomini: per dimostrarti che non mi potevi dominare. Non l'hai mai capito e continui a non capirlo.»
Il primo ministro affrontò Vincenti. «Ha trovato una cura per l'AIDS?» Lui si limitò a guardarla in cagnesco, senza rispondere. «Me lo dica!» gli gridò in faccia, lacerata dal bisogno di saperlo. «Ha trovato la pozione di Alessandro? Il luogo degli sciti?» «Non ho idea di cosa stia parlando. Non so niente di Alessandro né degli sciti, e neppure di una pozione. Però è vero, anni fa ho trovato una cura sulla montagna dietro questa casa. Un guaritore locale mi ha mostrato questo posto, che nella sua lingua chiamava Arima. Si tratta di una sostanza naturale che può renderci tutti ricchi.» «Allora è di questo che si tratta? Di un modo per fare soldi?» «La sua ambizione sarà la rovina di tutti noi.» «È per questo che ha cercato di farmi uccidere, per fermarmi? Però poi mi ha avvertita. Le hanno ceduto i nervi?» «Ho deciso per un sistema migliore.» Irina ripensò alle parole di Edwin Davis e si rese conto che era la verità, quindi indicò Karyn. «Aveva intenzione di usare lei per screditarmi, per far sì che la gente mi si rivoltasse contro. Prima la guarisce, poi la usa. E alla fine? La uccide?» «Ma non hai sentito quello che ho detto?» intervenne Karyn. «Mi ha salvata.» A Irina Zovastina ormai non importava più di niente. Riprendere con sé Karyn era stato un errore. Aveva corso dei rischi idioti a causa sua. E tutto per niente. «Se la gente di questa maledetta Federazione sapesse chi sei in realtà, nessuno ti seguirebbe», sentenziò Karyn. «Sei un'imbrogliona e un'assassina. Conosci soltanto il dolore, ed è questo che ti dà piacere. Il dolore. Sì, volevo distruggerti. Volevo che ti sentissi piccola come mi sento io.» Karyn era l'unica cui lei aveva svelato il suo animo, con cui aveva sperimentato una vicinanza mai provata con nessun altro. Omero aveva ragione: Il fatto rende accorto, ma tardi, anche lo stolto. Perciò le sparò al petto. E poi ancora, alla testa. Vincenti aveva aspettato che la Zovastina agisse. Aveva ancora la flash drive stretta nella mano sinistra che teneva appoggiata sul tavolo, mentre la destra apriva lentamente il cassetto più alto. Che conteneva l'arma che si era portato dal piano superiore. Irina Zovastina sparò un terzo colpo a Karyn Walde, e lui afferrò la pistola. La rabbia di Irina Zovastina aumentava a ogni scatto del grilletto. I proiettili straziarono la figura emaciata di Karyn, per rimbalzare poi tintinnando dalla parete alle sue spalle. La sua ex amante non si era resa conto di quello che succedeva ed era morta in fretta, il corpo accartocciato sul pavimento in una pozza di sangue. Durante la discussione, Grant Lyndsey era rimasto seduto in silenzio. Lui non era niente, un animo debole, inutile. Vincenti, invece, era diverso. Non si sarebbe arreso senza lottare e, di certo, aveva capito di stare per morire.
Perciò puntò la pistola nella sua direzione. La mano destra dell'uomo comparve rapidamente nel suo campo visivo, stringendo una pistola. Gli sparò quattro volte, vuotando il caricatore. Sulla camicia di Vincenti spuntarono delle rose di sangue. I suoi occhi ruotarono all'indietro e la stretta sul calcio dell'arma si allentò, lasciando che la pistola cadesse rumorosamente mentre la sua enorme mole precipitava a terra. Due problemi risolti. Si avvicinò a Lyndsey e gli puntò in faccia la pistola scarica, incontrando un'espressione di orrore. Non aveva importanza che il caricatore fosse vuoto. Per chiarire il suo punto di vista, l'arma in sé era più che sufficiente. «Ti avevo avvertito di restartene in Cina.»
Capitolo 82
Stephanie, Henrik ed Ely erano stati accompagnati dal cancello alla casa, l'auto era stata parcheggiata in garage e ora si trovavano all'interno dell'edificio, controllato da nove soldati. Stephanie non aveva visto domestici. Erano in piedi in quella che doveva essere la biblioteca, una stanza spaziosa ed elegante con alte finestre panoramiche che davano sulla rigogliosa vallata antistante. Tre uomini armati di AK74, coi capelli neri tagliati a spazzola, erano pronti a fare fuoco, appostati uno alla finestra, un altro vicino alla porta e il terzo accanto a un armadietto orientale. Sul pavimento c'era un cadavere. Bianco, mezza età, forse americano, con una pallottola in testa. «Henrik, non va affatto bene...» «Già, la situazione non mi piace per niente.» Ely sembrava calmo, ma negli ultimi mesi lui aveva vissuto nel pericolo e, probabilmente, era ancora confuso riguardo a quello che stava succedendo, ma voleva fidarsi di Henrik. O, più realisticamente, pensava a Cassiopea, che sapeva essere vicina. Era evidente che il giovane tenesse a lei, ma l'incontro non si sarebbe realizzato presto. Stephanie sperava che Malone sarebbe stato più cauto di quanto fosse stata lei. Aveva ancora il cellulare in tasca perché, stranamente, quando l'avevano perquisita le avevano consentito di tenerlo. Un clic attirò la sua attenzione. Si voltò e vide il mobile orientale ruotare verso l'interno, fermandosi a metà e svelando un corridoio. Ne uscì un omino buffo coi capelli radi e l'espressione preoccupata, seguito da Irina Zovastina, che stringeva in pugno una pistola. La guardia lasciò il passo al suo primo ministro, spostandosi alla finestra, e lei premette un pulsante su un controllo a distanza facendo richiudere l'armadietto, dopodiché gettò il telecomando sul cadavere. La Zovastina diede la pistola a uno dei soldati e gli prese l'AK-74, quindi puntò dritta verso Thorvaldsen e lo colpì con forza allo stomaco col calcio del fucile mitragliatore. Il fiato lasciò di botto i polmoni del danese, che si piegò in due portandosi le mani al ventre. Stephanie ed Ely si mossero per aiutarlo, ma le altre guardie furono rapidissime a puntare le armi contro di loro. «Ho deciso che, invece di richiamarla come mi aveva suggerito, era meglio venire di persona.» Thorvaldsen riprese faticosamente fiato e si raddrizzò, nonostante il dolore. «Sono contento di sapere... di avere fatto... colpo...» «E lei chi è?» chiese la Zovastina a Stephanie, che si presentò aggiungendo di lavorare per il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. «Malone lavora per lei?» «Sì.»
Irina Zovastina passò a Ely. «Cosa le hanno detto queste spie?» «Che lei è una bugiarda. Che mi teneva segregato contro il mio volere, senza che neppure lo sapessi.» Fece una pausa, come a trovare coraggio. «E che sta progettando una guerra.» Irina Zovastina era arrabbiata con se stessa. Si era lasciata dominare dalle emozioni. Eliminare Vincenti era stato necessario, ma Karyn? Le dispiaceva averla uccisa, anche se non c'erano alternative. Doveva essere fatto e basta. La cura per l'AIDS... Com'era possibile? Che la stessero prendendo in giro? O soltanto sviando? Sapeva da tempo che Vincenti macchinava qualcosa, ed era per questo che aveva reclutato delle spie, come Kamil Revin, che la tenessero informata. Squadrò i suoi tre prigionieri e si rivolse a Thorvaldsen. «A Venezia lei può anche essere stato un passo avanti a me, ma come vede le cose non stanno più così. Lyndsey, venga qui.» L'omino sembrava avere messo radici, lo sguardo fisso sul fucile. Un gesto della Zovastina e fu spinto da un soldato. Lo scienziato inciampò e cadde, poi, quando cercò di rialzarsi, lei lo bloccò mentre era ancora solo con un ginocchio sollevato, appoggiandogli l'AK-74 sul dorso del naso. «Mi dica esattamente cosa sta succedendo. Conto fino a tre. Uno.» Silenzio. «Due.» Ancora silenzio. «Tre.» Il brutto presentimento di Malone stava peggiorando. Volavano a punto fisso a un paio di chilometri dalla casa, usando le montagne come protezione, e continuavano a non vedersi segni di attività né dentro né fuori l'edificio. Senza dubbio la tenuta che stava guardando dall'alto valeva decine di milioni di dollari, e si trovava in una regione in cui non erano esattamente in molti a potersi permettere un lusso simile, a parte forse la Zovastina. «Quel posto va controllato.» Vide di nuovo il sentiero che saliva in montagna, fiancheggiato dal condotto elettrico. Il calore del pomeriggio danzava in onde lievi sulla superficie rocciosa. Ripensò all'enigma di Tolomeo: Sali le mura costruite dagli dei. Quando raggiungi il limite dell'attico, fissa lo sguardo nell'occhio fulvo, e avventurati nel distante rifugio. Mura costruite dagli dei. Le montagne. Decise che non potevano continuare a starsene in aria, quindi si tolse le cuffie e prese il telefono. Stephanie guardava l'uomo in ginocchio in preda a singhiozzi irrefrenabili, mentre la Zovastina contava fino a tre. «Oddio, per favore, non mi uccida!» «Mi dica quello che voglio sapere.» «Quello che Vincenti ha detto nel laboratorio è la verità. Si trovano sulla montagna qui dietro, in fondo al sentiero. In una pozza verde. Ci ha fatto portare luce ed elettricità. Li ha trovati tanto tempo fa.» Parlava in fretta, le parole che uscivano in un fiume confuso nella frenesia della confessione. «Mi ha detto tutto. L'ho aiutato a trasformarli. So come agiscono.»
«Di cosa si tratta?» «Di batteri. Archeobatteri. Una forma di vita eccezionale.» Stephanie udì un cambiamento nella voce, come se l'uomo avesse percepito la presenza di un nuovo alleato. «Mangiano i virus, li distruggono, ma senza provocarci danni. È per questo che abbiamo fatto tutte quelle sperimentazioni cliniche, per vedere come si comportavano coi suoi virus.» La Zovastina parve valutare quanto aveva sentito e Stephanie si chiese se la villa appartenesse a Vincenti. «Sta dicendo un sacco di sciocchezze», riprese infine il primo ministro. «Non ho tempo per...» «Vincenti le ha mentito riguardo agli antigeni.» Questo le interessava. «Le ha fatto credere che ce ne fosse uno diverso per ogni zoonosi, ma non è vero. Ce n'è soltanto uno.» Indicò la direzione opposta alle finestre, verso il retro della casa. «Sono laggiù. I batteri nella vasca verde. Sono l'antigene a qualunque virus abbiamo trovato. Le ha mentito. Non ci sono tanti antidoti, ma uno, uno solo.» Irina Zovastina premette con più forza la canna del mitra sul viso di Lyndsey. «Se Vincenti mi ha mentito, lo stesso vale per lei.» Dalla tasca di Stephanie, il cellulare prese a squillare. «Ah, Malone, finalmente!» Il primo ministro alzò gli occhi e spostò l'arma in direzione di Stephanie. «Risponda.» Stephanie esitava. La Zovastina puntò l'AK-74 su Thorvaldsen. «A me lui non serve, se non a fare in modo che risponda a quel telefono.» Stephanie aprì di scatto il cellulare e il ministro si avvicinò per ascoltare. «Dove siete?» chiese Malone. La Zovastina scosse la testa. «Non ci siamo ancora», rispose Stephanie. «Quanto vi manca?» «Un'altra mezz'ora. È più lontano di quanto pensassi.» La Zovastina approvò con un cenno la menzogna. «Noi ci siamo», riprese Malone. «Sto guardando una delle case più grandi che abbia mai visto, soprattutto perché è in mezzo al niente. Il posto sembra deserto. C'è un viottolo lastricato lungo circa un chilometro e mezzo che porta dalla strada principale all'edificio. Noi stiamo volando a punto fisso a circa tre chilometri da lì. Ely può darci ulteriori informazioni? C'è un sentiero dietro la casa che arriva a una fenditura nella montagna. Diamo un'occhiata a quello?» «Aspetta che chiedo.» La Zovastina annuì di nuovo. «Dice che è una buona idea.» «Allora andiamo. Chiama quando arrivate.» Stephanie interruppe la comunicazione e la Zovastina le prese il cellulare. «Adesso vedremo quanto sanno in realtà Cotton Malone e Cassiopea Vitt.»
Capitolo 83
Cassiopea trovò tre pistole. Conosceva la marca: Makarov. Un po' più tozze delle Beretta cui era abituata, ma comunque delle ottime armi. L'elicottero si abbassò e vide i fianchi della montagna salire rapidi fuori del finestrino. Malone aveva parlato al telefono con Stephanie e, a quanto sembrava, gli altri non erano ancora arrivati. Voleva vedere Ely. Sapere come stava. Aveva fatto bene a continuare la ricerca delle monete dell'elefante, a puntare l'attenzione su Irina Zovastina e anche a uccidere quegli uomini a Venezia. Anche se si era sbagliata riguardo a Viktor, non provava rimorso per il suo compagno. Era stata la Zovastina a iniziare quella battaglia, non lei. L'elicottero toccò terra e la turbina si spense gradatamente. Il rombo del motore venne sostituito da un silenzio innaturale. Lei aprì il portello del compartimento posteriore mentre Malone e Viktor cominciavano a uscire. Il pomeriggio era limpido, l'aria tiepida. Controllò l'orologio: le 15.25. Era stata una lunga giornata e la fine era ancora lontana. Aveva dormito appena un paio d'ore in volo da Venezia con la Zovastina, ma era stato un sonno agitato. Tese una pistola a ciascuno dei due uomini. Malone buttò l'altra che aveva nell'elicottero e si infilò la Makarov nella cintura, imitato da Viktor. Si trovavano a circa centocinquanta metri dal retro della casa, proprio oltre il boschetto, e il sentiero per la montagna correva alla loro destra. Malone si chinò a toccare il grosso condotto elettrico. «Ronza. A qualcuno serve l'elettricità proprio là sopra.» «E cosa c'è là sopra?» chiese Viktor. «Forse quello che cercava il tuo ex capo.» Stephanie si accertò delle condizioni di Thorvaldsen, mentre la Zovastina ordinava a due soldati di scendere nel laboratorio. «Stai bene?» «Ne ho passate di peggio.» Però era preoccupata, dato che l'uomo aveva sessant'anni suonati e non era nelle migliori condizioni fisiche. La Zovastina si rivolse a Ely. «Non dovrebbe ascoltare queste persone.» «Perché no? È lei che va in giro puntando armi contro chiunque, colpendo uomini anziani. Perché non prova con me?» «Un accademico cui piace la lotta? No, mio intelligente amico, lei e io non dobbiamo combattere. Mi serve il suo aiuto.» «Allora la smetta e li lasci andare, e io l'aiuterò.» «Vorrei che fosse così semplice.»
«Ha ragione», intervenne Thorvaldsen. «Non può essere così semplice, non quando si sta preparando una guerra batteriologica. Un Alessandro Magno dell'era moderna, che ucciderà milioni di persone per riconquistare tutto quello che un tempo era appartenuto al re macedone, e anche di più.» «Non mi prenda in giro.» «Io dico quello che voglio.» La Zovastina sollevò l'AK-74, ma Ely si mise davanti a Thorvaldsen. «Se vuole quella tomba, abbassi il fucile.» Stephanie si chiese se il primo ministro desiderasse ritrovare quell'antico tesoro fino al punto di lasciarsi sfidare apertamente di fronte a uno dei suoi uomini. «Ely, la sua utilità sta diminuendo a vista d'occhio», replicò senza giri di parole la donna. «Quella tomba potrebbe realmente trovarsi a poca distanza da qui», ribatté lui. Stephanie ne ammirò la determinazione: stava agitando un pezzo di carne davanti a un leone libero di saltargli al collo, con la speranza che la gran fame superasse l'istinto di attaccare. A quanto pareva, aveva compreso benissimo la Zovastina, perché lei abbassò il mitra. I due soldati tornarono con dei computer. «È tutto lì», disse Lyndsey. «Gli esperimenti, i dati, la metodologia per trattare gli archeobatteri. Tutto codificato, criptato. Ma io posso rendere di nuovo leggibili i file. Soltanto Vincenti e io conoscevamo le password. Lui si fidava di me. Mi diceva tutto.» «Ci sono esperti in grado di decodificare qualunque cosa. Non ho bisogno di lei.» «Ma ad altri servirà tempo per duplicare le proprietà chimiche necessarie al mantenimento dei batteri. Vincenti e io ci abbiamo lavorato negli ultimi tre anni. Se non avete quel tempo, non avrete l'antigene.» Stephanie comprese che quel pazzo, debole e senza spina dorsale, stava offrendo l'unica merce di scambio che possedeva. E che peraltro aveva un grandissimo valore. La Zovastina abbaiò qualcosa in una lingua che Stephanie non capiva e i due uomini coi computer lasciarono la stanza, quindi fece cenno a loro di seguirli. Uscirono in corridoio e raggiunsero l'ingresso principale, poi si diressero sul retro. Quando comparve un altro soldato, il primo ministro gli parlò in quello che le parve russo. L'uomo annuì e indicò una porta chiusa. Si fermarono davanti all'uscio e, quando venne aperto, lei, Thorvaldsen, Ely e Lyndsey furono spinti dentro. La porta venne richiusa. Esaminò quella piccola prigione. Si trattava di un ripostiglio vuoto, di circa due metri e mezzo per tre, perlinato con legno grezzo e odoroso di disinfettante. Lyndsey si precipitò alla porta e iniziò a picchiare coi pugni. «Posso aiutarvi! Fatemi uscire di qui!» «Stia zitto», lo rimbeccò Stephanie. L'uomo tacque. Cercò di studiare la situazione in cui si trovavano, il cervello in iperattività. La Zovastina sembrava avere fretta ed essere preoccupata. La porta si riaprì.
«Grazie a Dio», esclamò Lyndsey. La Zovastina stringeva ancora l'AK-74. «Perché sta facendo...» ricominciò Lyndsey. «Sono d'accordo», replicò la Zovastina. «Stia zitto.» Spostò lo sguardo su Ely. «Devo saperlo. È questo il posto dell'enigma?» Ely non rispose subito e Stephanie si chiese se fosse coraggio o follia ad alimentare la sua ostinazione. Alla fine, però, si decise. «E come faccio a saperlo? Sono rimasto chiuso in quello chalet!» «Ma è da quello chalet che è arrivato qui.» «Come lo sa?» Stephanie conosceva la risposta. I pezzi del mosaico andarono a posto e si rese conto che la situazione era grave. Erano stati giocati. «Ha ordinato lei che la guardia sparasse alle gomme della nostra auto. Voleva che prendessimo la sua, perché ha un rilevatore.» «Era il modo più semplice che mi è venuto in mente per scoprire cosa sapevate. Sono stata avvisata della vostra presenza allo chalet dalla sorveglianza elettronica che avevo fatto installare tutt'intorno.» Ma Stephanie aveva ucciso la guardia. «Quell'uomo non ne aveva idea.» La Zovastina si strinse nelle spalle. «Ha fatto il suo lavoro. Se avete avuto la meglio su di lui, è stata colpa sua.» «Ma l'ho ucciso!» «Si preoccupa troppo di cose che non hanno la minima importanza.» «Non era necessario che morisse.» «Questo è un suo problema.» Stephanie capì subito che le cose andavano molto peggio del previsto, e questo valeva anche per Malone e Cassiopea. Uno sguardo a Thorvaldsen e comprese che l'uomo condivideva i suoi pensieri cupi. Dietro la Zovastina si vedevano passare diversi soldati che portavano strani marchingegni, uno dei quali venne piazzato sul pavimento vicino al primo ministro. Dalla parte superiore spuntava una sorta di proboscide, e al di sotto intravide delle piccole ruote. «La villa è grande. Ci vorrà un po' per prepararla.» «Per cosa?» chiese Stephanie. «Per l'incendio», rispose Thorvaldsen. «Giusto», confermò la Zovastina. «E nel frattempo andrò a fare visita a Malone e alla Vitt. Non andate via, mi raccomando.» Detto ciò, il primo ministro sbatté la porta.
Capitolo 84
Malone si mise in testa al gruppo sul sentiero e notò che in alcuni punti i gradini erano stati intagliati nella roccia di recente. Cassiopea e Viktor badavano anche a guardarsi le spalle, controllando che la casa in lontananza fosse sempre tranquilla. Nella mente di Cotton continuavano a indugiare le parole dell'enigma di Tolomeo: Sali le mura costruite dagli dei. Senza dubbio quella montagna rispondeva alla descrizione, anche se ai tempi di Tolomeo la salita doveva essere stata molto diversa. Il sentiero si appiattiva su una cengia, ma il condotto elettrico proseguiva in una buia fessura nella parete di roccia. Stretta, ma ci si poteva passare. Quando raggiungi il limite dell'attico. Andò per primo. Gli occhi ebbero bisogno di qualche secondo per adeguarsi al calo di luminosità, ma presto vide che il sentiero era breve, circa sei metri, e usò il condotto come guida. Il corridoio terminava in un'ampia camera e la debole luce dell'ambiente mostrava che la linea elettrica piegava a sinistra e finiva in una scatola di derivazione. Si avvicinò e trovò quattro torce elettriche, quindi ne accese una ed esaminò la stanza. Doveva essere lunga nove o dieci metri, e larga almeno altrettanto, col soffitto alto all'incirca sei. Poi vide le due vasche, distanti l'una dall'altra approssimativamente tre metri. Udì un clic e la camera si illuminò di luce a incandescenza. Viktor era vicino alla scatola con gli interruttori. Lui spense la torcia. «Mi piace controllare la situazione prima di agire.» «Da quando?» ironizzò Cassiopea. «Date un'occhiata», disse Viktor, indicando le vasche. Erano dotate di illuminazione subacquea alimentata da cavi a terra. Quella sulla destra era oblunga e di colore marroncino; quella a sinistra splendeva di una fosforescenza verdastra. «Fissa lo sguardo nell'occhio fulvo», citò Malone. Si avvicinò alla pozza marrone rossiccio e si accorse che l'acqua era limpida e trasparente come quella di una piscina e che il colore era dato dalle rocce sotto la superficie. Si accovacciò e Cassiopea lo raggiunse. Assaggiò l'acqua. «Calda ma non troppo cattiva. Dev'esserci una fonte termale.» «Non sa di niente», commentò Cassiopea, portandosi le dita bagnate alle labbra. «Guarda sul fondo.» A circa tre metri di profondità, nell'acqua cristallina, c'era un pezzo di roccia intagliata a forma di lettera Z. Raggiunse la pozza verde, sempre seguito da Cassiopea. Altra acqua trasparente come l'aria, resa colorata dalle pietre. Sul fondo spiccava la lettera H. «Come sulla moneta. ZH. Vita.» «Sembrerebbe che il posto sia proprio questo.»
Malone notò che Viktor era rimasto vicino alla scatola di derivazione, per nulla interessato alla loro scoperta. Ma c'era qualcos'altro. Adesso sapeva cosa voleva dire l'ultimo verso dell'enigma. E avventurati nel distante rifugio. Tornò alla vasca marrone. «Ricordi quello strano simbolo sulla moneta e in fondo al manoscritto trovato da Ely?» Ne tracciò il contorno col dito sullo strato superficiale del suolo leggermente sabbioso.
«Non riuscivo a capire cosa fosse. Sembravano due B attaccate a una A. Adesso so esattamente cos'è: eccolo lì.» Indicò la parete a meno di due metri sotto la superficie della vasca rossiccia. «Guarda quell'apertura. Non ti sembra familiare?» «Sì.» «Quando raggiungi il limite dell'attico, fissa lo sguardo nell'occhio fulvo, e avventurati nel distante rifugio. Sai cosa significa?» «No, Malone, ce lo dica lei cosa significa.» Si voltò. Irina Zovastina. Stephanie si accovacciò contro la porta cercando di ascoltare i suoni provenienti dall'esterno. Sentiva il gemito di un motore elettrico che partiva, poi si fermava, infine un colpo contro la porta. «Sta saggiando il terreno», spiegò Thorvaldsen. «I robot vaporizzano in giro l'intruglio prima di esplodere e far saltare tutto in aria.» Lei percepì un odore stucchevolmente dolce. Più intenso in fondo alla porta. «Fuoco greco?» Thorvaldsen annuì, quindi disse a Ely: «La tua scoperta». «Quella cagna rabbiosa ci friggerà tutti», intervenne Lyndsey. «Qui dentro siamo in trappola.» «Dicci qualcosa che non sappiamo già», bofonchiò Stephanie. «Ha ucciso qualcuno con questa roba?» chiese Ely. «Non che io sappia», gli rispose Thorvaldsen. «Potremmo avere l'onore di essere i primi. Anche se di certo Cassiopea l'ha usata a suo vantaggio, a Venezia.» Esitò un istante. «Ha ucciso tre uomini.» Ely sembrò sconvolto. «Perché?» «Per vendicarti.» Il volto gentile del giovane s'indurì. «Era ferita, arrabbiata. Quando ha scoperto che dietro a tutto c'era la Zovastina, non c'è stato modo di fermarla.» Intanto Stephanie esaminava la porta. Cardini in acciaio sopra e sotto, serrature solide e nessun cacciavite a portata di mano. Picchiò i palmi contro il legno. «È Vincenti il proprietario di questa mostruosità?»
«Sì», rispose Lyndsey. «E lei gli ha sparato.» «Sembra stia consolidando il suo potere», commentò Thorvaldsen. «È una pazza», replicò lo scienziato. «Qui stanno succedendo così tante altre cose. Avrei potuto avere tutto. Denaro, gloria. Me li aveva offerti.» «Vincenti?» Lyndsey annuì. «Ma proprio non ci arriva?» sbottò Stephanie. «La Zovastina ha i computer coi dati, ha i suoi virus, lei le ha persino detto che c'è un solo antigene e dove può trovare i batteri! Ormai non ha più bisogno di lei.» «Sì, invece, perché lo sa.» «Sa cosa?» «Quei batteri. Sono la cura per l'AIDS.»
Capitolo 85
Viktor udì l'inconfondibile voce di Irina Zovastina. Quante volte gli aveva dato ordini con quello stesso tono gelido? Si era fermato vicino all'uscita, a una certa distanza da Malone e dalla Vitt, in ascolto. Era anche fuori portata visiva della Zovastina, che non era ancora entrata nella camera illuminata, preferendo restare nel corridoio, in ombra. Lentamente si avvicinò alla fenditura nella roccia, la pistola stretta in pugno, in attesa che il primo ministro facesse un passo avanti per puntarle l'arma alla testa. La dorma si fermò. «Il mio traditore. Mi chiedevo dove fossi.» Lui notò che era disarmata. «Hai intenzione di spararmi?» «Se sarà necessario.» «Non ho armi.» Non era un buon segno. Un rapido sguardo a Malone lo convinse che non era tranquillo neanche lui. «Vado a dare un'occhiata», disse Cassiopea, dirigendosi verso l'uscita. «Ti pentirai di avermi aggredita», ringhiò la Zovastina. «Sempre felice di dare la rivincita in qualunque momento.» Irina Zovastina sorrise. «Dubito che Malone o il mio traditore mi lascerebbero questo piacere.» Cassiopea scomparve nello stretto corridoio roccioso, per ricomparire dopo qualche secondo. «Qui fuori non c'è nessuno, e intorno alla villa non si muove foglia.» «E allora lei da dove è arrivata?» chiese Malone. «E come faceva a sapere che eravamo qui?» «Quando avete seminato i miei emissari tra le montagne, abbiamo deciso di scoprire dov'eravate diretti.» «Chi è il proprietario di questo posto?» «Enrico Vincenti. O almeno lo era, dato che l'ho appena ucciso.» «Ottima mossa», commentò Malone. «Se non l'avesse fatto lei ci avrei pensato io.» «E la ragione di tanto odio?» «Ha ucciso una mia amica.» «Ed è venuto anche qui per salvare la Vitt?» «A dire il vero, sono venuto qui per fermare lei.» «Questo potrebbe rivelarsi difficile.» L'atteggiamento sprezzante della donna lo preoccupava. «Posso esaminare le vasche?» chiese la Zovastina. «Vada pure.» Viktor spostò la pistola, ma la tenne sempre puntata. Malone non sapeva bene cosa stesse succedendo, ma senza dubbio la loro posizione non era sicura. Soltanto una via d'entrata e d'uscita. E quella non era mai una bella situazione. Irina Zovastina raggiunse la pozza marrone e guardò nell'acqua, quindi andò a
quella verde. «ZH. Come sulle monete. Mi chiedevo come mai Tolomeo avesse fatto aggiungere quelle lettere. Probabilmente è stato lui a far mettere le pietre incise sul fondo delle vasche. Chi altri avrebbe potuto farlo? Ingegnoso. C'è voluto molto per decifrare l'enigma. Chi dobbiamo ringraziare? Lei, Malone?» «Diciamo che è stato un lavoro di squadra.» «Che modestia. Peccato non esserci incontrati prima e in altre circostanze. Mi sarebbe piaciuto moltissimo arruolarla.» «Ce l'ho già un lavoro.» «Agente americano.» «A dire il vero, faccio il libraio.» «E ha anche senso dell'umorismo.» Viktor stava attentissimo, alle spalle della Zovastina, mentre Cassiopea controllava l'uscita. «Mi dica, Malone, ha risolto tutto l'enigma? Alessandro Magno si trova qui? Stava giusto per spiegare qualcosa alla Vitt e io l'ho interrotta.» Cotton aveva ancora in mano la torcia. Pesante, da lavoro. Sembrava impermeabile. «Vincenti ha fatto portare la luce in questa grotta. Ha persino illuminato le vasche. Non è curiosa di scoprire perché fossero così importanti per lui?» «Si direbbe che in questo posto non ci sia niente.» «È qui che si sbaglia.» Malone posò a terra la torcia e si tolse giacca e camicia. «Cosa fai?» gli chiese Cassiopea. Si levò scarpe e calze e svuotò le tasche dei calzoni, in cui teneva cellulare e portafogli. «Quel simbolo inciso sul lato della vasca porta al distante rifugio.» Scese in acqua. Molto calda, di primo acchito, ma poi quella temperatura alleviò la stanchezza delle gambe. «Tenetela d'occhio.» Prese un bel respiro e si tuffò. «La cura per l'AIDS?» chiese Stephanie a Lyndsey. «Un guaritore locale mostrò a Vincenti le pozze sulla montagna tanti anni fa, quando lui ancora lavorava per gli iracheni. È stato allora che ha scoperto che quei batteri neutralizzano l'HIV.» Stephanie notò che Ely ascoltava con molta attenzione. «Ma non l'ha detto a nessuno», continuò Lyndsey. «L'ha tenuto segreto.» «Perché?» chiese Ely. «Per aspettare il momento giusto. Ha lasciato che il mercato crescesse, che la malattia si propagasse.» «Non può parlare sul serio.» «Stava per fare il grande annuncio.» Finalmente Stephanie capiva. «E lei avrebbe partecipato ai profitti?» «Non mi guardi come se fossi un gran bastardo. Io non sapevo niente della cura. Ha fatto tutto Vincenti. Me l'ha detto solo oggi.» «E lei cos'avrebbe fatto?» «Avrei aiutato a produrla. Cosa c'era di male?» «Con la Zovastina che uccide milioni di persone? Lei e Vincenti l'avete aiutata a
rendere la cosa possibile.» Lyndsey scosse la testa. «Vincenti diceva che l'avrebbe fermata prima che facesse un solo passo. Aveva lui l'antigene, e senza quello lei non poteva muoversi.» «Ma adesso la situazione si è capovolta. Siete entrambi degli idioti.» «Renditi conto, Stephanie, che Vincenti non aveva idea che quassù potesse esserci qualcos'altro», intervenne Thorvaldsen. «Ha comprato questo posto per preservare la sua fonte di batteri e l'ha chiamato con l'antico nome asiatico. In apparenza, non sapeva niente della tomba di Alessandro.» «Questo l'ho capito: la pozione e la tomba vanno a braccetto. Peccato che noi siamo bloccati in questo ripostiglio.» Perlomeno la Zovastina aveva lasciato la luce accesa. Esaminò ogni centimetro delle pareti non finite e del pavimento di pietra. Nessuna via d'uscita. E da sotto la porta continuava a entrare quell'odore nauseante. «In quei due computer ci sono tutti i dati relativi alla cura?» chiese Ely. «Che importanza ha?» replicò Stephanie. «Quello che conta è uscire di qui. Prima che inizi il falò.» «Eccome se ha importanza! Non possiamo lasciarli in mano a lei.» «Ely, guardati intorno. Cosa possiamo fare?» «Fuori ci sono Cassiopea e Malone.» «Vero», replicò Thorvaldsen. «Ma temo che la Zovastina sia un passo avanti a loro.» Lo pensava anche Stephanie, ma quello era un problema di Malone. «C'è una cosa che la Zovastina non sa», disse Lyndsey. «Non cerchi di scendere a patti con me», replicò Stephanie, che aveva colto il senso della frase più dall'intonazione che dalle parole. «Vincenti aveva copiato tutto su una flash drive un attimo prima che la Zovastina facesse la sua comparsa. Teneva la chiavetta in mano quando lei gli ha sparato. È ancora nel laboratorio. Con quella chiavetta e me, avete l'antigene per i germi e la cura.» «Mi creda, anche se è un viscido figlio di puttana, se potessi tirarla fuori da qui, lo farei.» Riprese a picchiare contro la porta. «Ma non è possibile.» Cassiopea teneva un occhio sulla Zovastina e uno sulla vasca. Malone era scomparso da circa tre minuti. Non era possibile che trattenesse il fiato tanto a lungo. Poi però sott'acqua apparve un'ombra. Cotton emerse dall'apertura dalla forma insolita e infranse la superficie, appoggiando le braccia sul bordo di pietra, la torcia stretta in pugno. «Devi venire a vedere.»«Lasciando loro qui? Neanche per sogno.» «Viktor ha la pistola. Può gestire la situazione.» Qualcosa non quadrava. La sua mente poteva anche essere focalizzata su Ely, ma non era inconsapevole della realtà. Viktor era ancora uno sconosciuto, anche se nelle ultime ore si era reso utile. In quel momento brandelli del suo corpo sarebbero stati appesi a due alberi, se non fosse stato per lui. Tuttavia aveva ancora delle riserve. «Devi venire a vedere», ripeté Malone. «È lì?» chiese la Zovastina. «Non vuoi scoprirlo?»
Cassiopea indossava ancora l'aderente completo in pelle di Venezia. Tolse la parte superiore e tenne quella di sotto. Posò a terra la pistola, lontano dalla Zovastina e vicino all'arma di Malone. Indossava un reggiseno sportivo nero e notò lo sguardo di Viktor. «Tieni gli occhi su di lei.» «Non andrà da nessuna parte.» Scese in acqua. «Prendi un bel respiro e seguimi.» Malone si immerse e si infilò nell'apertura. Lei lo seguì a poco più di un metro di distanza, nuotando attraverso una delle fessure a forma di B ed entrando in un tunnel di roccia, largo circa un metro e mezzo. Il raggio di luce della torcia di Malone danzava sulle pareti e si chiese quanto ci volesse ancora. Poi vide l'amico risalire e uscì dall'acqua proprio accanto a lui. La torcia rivelò un'altra camera chiusa, in questo caso a forma di cupola, la pietra calcarea striata di ombre blu. Nicchie scavate nella roccia ospitavano quelli che sembravano vasi di alabastro dai coperchi finemente scolpiti. Sopra di loro, la pietra calcarea era punteggiata di aperture, rozze e di forma irregolare, da cui scendevano argentee lame di luce, i raggi polverosi che si dissolvevano nella roccia. «Quelle aperture lasciano passare la luce ma non l'umidità. Qui dentro è asciutto come all'inferno. E c'è anche una ventilazione naturale.» «Sono state realizzate dall'uomo?» «Ne dubito. Secondo me hanno scelto questo posto proprio perché c'erano già le aperture.» Uscì dall'acqua, i calzoni grondanti. «Dobbiamo sbrigarci.» Uscì anche lei. «Il tunnel è l'unica via che collega questa camera all'altra. Ho dato un'occhiata in giro per esserne sicuro.» «Questo giustifica il fatto che non sia mai stata trovata.» Malone usò il fascio luminoso per mostrarle le pareti e lei notò dei dipinti sbiaditi. Un guerriero sul suo carro, scettro e redini in una mano, mentre stringeva a sé una donna con l'altra. Un cervo trafitto da un giavellotto. Un albero senza foglie. Un uomo a piedi con la lancia. Un altro uomo che andava incontro a quello che sembrava un cinghiale. I pochi colori rimasti erano stupefacenti. Il viola del mantello del cacciatore, il marrone scuro del carro, il giallo degli animali. Notò altre scene sulla parete di fronte. Un giovane cavaliere con la lancia e un serto tra i capelli, sul punto di attaccare un leone già assalito dai cani. Uno sfondo bianco quasi del tutto scrostato, con sfumature giallo arancio, rosso chiaro e marrone mischiati a più fresche tonalità del verde e dell'azzurro. «Direi di influenza asiatica e greca», commentò Malone. «Ma non sono un esperto.» Spostò la luce su delle pietre quadrate che formavano quello che sembrava un pavimento. Dall'oscurità apparve un vano d'ingresso d'indubbia connotazione greca, con colonnine scanalate e basi decorate. Cassiopea, studiosa di costruzioni antiche, riconobbe subito lo stile ellenistico. Al di sopra, si estendeva un'iscrizione a bassorilievo. Lettere greche. «Per di qua», disse Malone.
Capitolo 86
Vincenti si costrinse ad aprire gli occhi. Il dolore al petto gli torturava il cervello e ogni respiro pareva uno sforzo improbo. Da quante pallottole era stato colpito? Tre? Quattro? Non riusciva a ricordarselo. Ma il suo cuore batteva ancora. Forse essere grasso aveva dei lati positivi. Ricordava di essere caduto, poi una fitta oscurità si era impadronita di lui. Non aveva sparato neanche un colpo, dato che la Zovastina aveva anticipato la sua mossa. Si obbligò a rotolare sul fianco e afferrò una gamba del tavolo, il sangue che gli usciva dal petto e una nuova ondata di dolore che si propagava lungo la colonna vertebrale come una sfilza di aghi elettrici. Faceva ancora più fatica a respirare. La pistola non c'era più, ma si rese conto di stringere qualcosa in pugno. Avvicinò la mano agli occhi e vide che si trattava della flash drive. Tutto quello per cui aveva lavorato negli ultimi dieci anni ora si trovava nel suo palmo insanguinato. Come aveva fatto a trovarlo la Zovastina? Chi era stato a tradirlo? O'Conner? E lui era ancora vivo? E dove? O'Conner era l'unica persona in grado di aprire il passaggio segreto dietro il mobiletto nello studio. Due comandi a distanza. Dov'era il suo? Provò a concentrarsi e alla fine scorse il piccolo apparecchio sul pavimento. Tutto sembrava perduto. Ma forse non era così. Era ancora vivo e magari la Zovastina se n'era andata. Raccolse le forze e prese il telecomando. Avrebbe dovuto dotare la casa di tutti i sistemi di sicurezza, prima di rapire Karyn Walde, ma non aveva pensato che la Zovastina l'avrebbe collegato alla sparizione della donna, almeno non così in fretta, e non avrebbe mai creduto che se la sarebbe presa con lui. Non con quello che aveva progettato di fare. Aveva bisogno di lui. Oppure no? Il sangue gli si era fermato in gola e sputò con forza per cancellarne il sapore. Doveva essere stato colpito a un polmone. Altro sangue lo fece tossire e lo spasmo gli provocò nuove fitte dolorose in tutto il corpo. Chissà se O'Conner poteva aiutarlo. Armeggiò col telecomando, indeciso su quale dei tre pulsanti premere. Uno apriva la porta nello studio, l'altro sbloccava tutte le porte nascoste della casa, il terzo attivava l'allarme. Non c'era il tempo di scegliere, quindi li premette tutti e tre. Irina Zovastina fissava il fondo della vasca marroncina. Malone e la Vitt erano spariti da diversi minuti. «Dev'esserci un'altra camera.»
Viktor rimase zitto. «E abbassa quella pistola!» L'uomo fece come ordinato. «Ti sei divertito a legarmi a quegli alberi e a minacciarmi?» «Voleva che sembrasse che sto dalla loro parte.» Viktor era riuscito anche meglio di quanto si fosse aspettata, portandoli dritti all'obiettivo. «C'è altro che devo sapere?» «A quanto pare, sanno cosa stanno cercando.» Viktor aveva fatto il doppio gioco per lei fin da quando gli americani l'avevano ricontattato. Era andato da lei e le aveva spiegato la situazione, così nell'ultimo anno l'aveva usato per far sapere all'Occidente quello che lei voleva si sapesse. Pericolosa mossa da equilibristi, che però era stata costretta a portare avanti a causa del rinnovato interesse di Washington nei suoi confronti. Ed era andato tutto bene. Fino ad Amsterdam. E fino a quando Vincenti aveva deciso di uccidere il suo cane da guardia americano. Era stata lei a incoraggiarlo a eliminare la spia, sperando che Washington avrebbe spostato l'attenzione su di lui, ma il sotterfugio non aveva funzionato. Per fortuna, gli inganni di quell'ultima giornata avevano avuto successo. Viktor aveva prontamente comunicato la presenza di Malone nel palazzo e lei aveva subito concepito un piano per sfruttare l'occasione con una preorchestrata fuga da palazzo. Edwin Davis era stato il tentativo degli altri di distrarla, ma sapendo che Malone era lì, non era caduta nel tranello. «Dev'esserci un'altra camera», ripeté, togliendosi le scarpe e la giacca. «Prendi due torce e andiamo a vedere.» Stephanie udì una sirena echeggiare in tutta la casa, il suono attutito dalle spesse pareti che li tenevano rinchiusi, poi con la coda dell'occhio vide un movimento e sul lato opposto del ripostiglio si aprì un pannello. Ely si scostò in fretta. «Cavolo, una porta!» esclamò Lyndsey. Lei si mosse verso quell'uscita con un po' di sospetto e ne esaminò la parte superiore. Cavi elettrici, di certo collegati al sistema d'allarme. Dietro c'era un corridoio illuminato. L'allarme smise di urlare e si ritrovarono immersi nel silenzio. «Cosa stiamo aspettando?» chiese Thorvaldsen. Stephanie s'infilò nel corridoio.
Capitolo 87
Malone fece strada a Cassiopea e l'osservò guardarsi in giro incredula. Delle incisioni nella roccia prendevano vita sotto il raggio della torcia, in massima parte immagini di un guerriero nel fiore degli anni: giovane, vigoroso, una lancia in mano e un serto nei capelli. Un fregio mostrava quelli che sembravano dei re che rendevano omaggio, un altro una caccia al leone, e ancora una fiera battaglia. In tutti, l'elemento umano, muscoli, mani, volto, gambe, piedi, dita, era descritto con cura meticolosa. Nessun colore, solo un monocromatico grigio argento. Puntò la luce al centro della stanza a forma di tenda indiana dove due plinti di pietra reggevano un sarcofago ciascuno, sempre di pietra. La parte esterna di entrambi era decorata con motivi di loto, rosette, viticci, fiori e foglie. Indicò i coperchi. «Su tutti e due c'è una stella macedone.» Cassiopea si chinò davanti alle tombe ed esaminò le scritte, seguendo le lettere con le dita. AΛEΞANΔPOΣ. HΦAIΣTIΩN. «Non lo so leggere, ma credo siano Alessandro ed Efestione.» Nella voce della donna, Malone notò un tono reverente, ma c'era una faccenda più pressante. «Dovranno aspettare. Abbiamo un problema più grosso.» «Cosa?» «Togliti i vestiti bagnati e te lo spiego.» Irina Zovastina scese nella vasca, seguita da Viktor, e nuotò attraverso l'apertura tanto simile al simbolo sulle monete dell'elefante, l'acqua gradevole come quella delle terme del suo palazzo. Emerse oltre la parete di roccia. Aveva indovinato, c'era un'altra camera. Più piccola della precedente. Si tolse l'acqua dagli occhi e vide che l'alto soffitto sembrava illuminato da dietro e che la luce penetrava da fessure nella roccia. Viktor emerse accanto a lei e uscirono entrambi a esaminare la stanza decorata da dipinti murali sbiaditi. Due portali si aprivano su un'oscurità ancora più profonda. Non si vedeva nessuno, nessun altro raggio di luce. A quanto sembrava, Cotton Malone non era ingenuo come aveva pensato. «D'accordo, Malone. Siete in vantaggio voi, ma potrei almeno dare un'occhiata?» Silenzio. «Lo prenderò per un sì.» Alla luce della torcia studiò il pavimento sabbioso, luccicante di mica, e notò una serie di impronte umide che portavano al vano sulla destra. Entrò nella camera successiva e vide due plinti funerari, decorati con disegni e lettere, ma non era esperta di greco antico. Era quello il motivo per cui aveva assoldato Ely Lund. Un'immagine la colpì, quindi si avvicinò e soffiò via delicatamente la sabbia che
ne confondeva i contorni. Un pezzetto alla volta, comparve un cavallo, lungo all'incirca cinque centimetri, con la criniera dritta e la coda alzata. «Bucefalo...» Voleva vedere anche il resto, quindi si rivolse all'oscurità: «Malone, sono venuta disarmata perché non avevo bisogno di pistola, dato che la mia arma era Viktor, come a quanto sembra sa anche lei. Ma ho i vostri tre amici. Ero presente quando ha telefonato. Adesso sono chiusi nella villa, che sta per essere distrutta dal fuoco greco. Pensavo le facesse piacere saperlo». Ancora silenzio. «Tieni d'occhio l'uscita», sussurrò a Viktor. Era arrivata fino a lì, ci aveva sperato troppo, aveva lottato troppo per non guardare. Posò la torcia sul coperchio di un sarcofago, quello col cavallo, e spinse. Dopo parecchi strattoni, la spessa lastra di pietra si mosse. Ancora qualche sforzo e l'apertura fu sufficiente, quindi prese la torcia e si augurò di non rimanere delusa, come invece era successo a Venezia. All'interno c'era una mummia, ricoperta d'oro e con una maschera sempre d'oro. Avrebbe voluto toccarla, rimuovere la maschera, ma pensò fosse meglio evitare. Non voleva fare qualcosa che potesse danneggiare i resti. Era la prima in oltre duemilatrecento anni a vedere le spoglie di Alessandro Magno? Aveva trovato non solo il grande conquistatore ma anche la sua pozione? Sembrava di sì. E la cosa più importante era che sapeva benissimo cosa fare con entrambi. La pozione sarebbe stata utilizzata per compiere le sue conquiste e, da quanto aveva scoperto, le avrebbe regalato anche un'inattesa pioggia di profitti. La mummia, da cui non riusciva a staccare gli occhi, sarebbe stata il simbolo di tutto ciò che aveva realizzato. Le possibilità sembravano infinite, ma il pericolo che la circondava riportò i suoi pensieri alla realtà. Malone stava giocando la sua mano con molta cautela. Avrebbe fatto lo stesso anche lei. Malone lesse la preoccupazione sul volto di Cassiopea. Ely, Stephanie e Henrik erano nei guai. Avevano osservato la scena dall'altro ingresso, quello evitato dalla Zovastina quando lei e Viktor avevano seguito le gocce d'acqua ed erano entrati nella camera funeraria. «Come sapevi che Viktor ci stava mentendo?» «Ho avuto a che fare con collaboratori occasionali per dodici anni. Tutta quella faccenda di te al palazzo... Troppo facile. E poi c'era una cosa che mi aveva detto Stephanie, cioè che era stato Viktor a mettere in mezzo Vincenti. Perché? Non aveva senso, a meno che non stesse facendo il doppio gioco.» «Avrei dovuto capirlo.» «E come? Tu non hai sentito quello che mi ha detto Stephanie a Venezia.» Stavano in piedi, le spalle nude contro le pareti oblique. Si erano tolti i calzoni e li avevano strizzati in modo da non lasciare altre tracce bagnate. Una volta attraversate le altre due camere della tomba, piene di oggetti, si erano rivestiti in fretta ed erano rimasti ad aspettare. La tomba consisteva in quattro stanze interconnesse, tutte piuttosto piccole, due delle quali si aprivano sulla vasca. Con ogni probabilità, la
Zovastina si stava godendo il momento di trionfo, ma le informazioni su Stephanie, Ely e Henrik avevano cambiato le cose. Che fosse la verità o no, la possibilità di successo aveva conquistato la sua attenzione. Malone guardò verso la piscina. La luce danzava nella camera funeraria. Sperò che la vista della tomba di Alessandro Magno potesse regalare loro qualche istante. «Pronta?» Andò per primo, e Viktor uscì dall'ombra dell'altro ingresso.
Capitolo 88
Stephanie notò che lo stomachevole odore dolciastro era meno intenso nel corridoio segreto, ma che era arrivato comunque fino a lì. Perlomeno non erano più in trappola, ma dopo le molte svolte che li avevano portati nei meandri sotterranei della villa, non avevano ancora trovato un'uscita aperta. «Ho visto come funziona quell'intruglio», spiegò Thorvaldsen. «Quando il fuoco greco si accenderà, questi muri bruceranno in fretta. Dobbiamo essere fuori di qui prima che succeda.» Lei era consapevole del problema, ma le alternative erano limitate. Lyndsey era ancora agitato, Ely incredibilmente calmo. Aveva un atteggiamento da agente operativo, non da accademico, una freddezza che ammirava, vista la situazione in cui si trovavano. Avrebbe voluto avere nervi altrettanto saldi. «Cosa intende con 'in fretta'?» chiese Lyndsey. «Quanto ci metterà questo posto a prendere fuoco?» «Tanto poco da non permetterci di uscire.» «E allora cosa ci facciamo qui?» «Se crede può tornare al ripostiglio», replicò Stephanie. Svoltarono un altro angolo: il passaggio scuro le ricordava il corridoio di un treno e terminava alla base di una scala. Non potevano fare altro che salire. Malone si fermò. «Siete diretti da qualche parte?» chiese Viktor. Cassiopea era dietro di lui. Si chiese dove fosse la Zovastina. Che la luce oscillante fosse stata solo un trucco per farli uscire dal nascondiglio? «Pensavamo di andarcene.» «Non posso lasciarvelo fare.» «Se pensi di potermi fermare, sei il benvenuto...» Viktor balzò in avanti. Malone schivò l'attacco e afferrò il suo assalitore in una stretta possente. Caddero a terra e presero a rotolare. Malone si trovò sopra, con Viktor che si divincolava. Appoggiò con forza una mano sulla gola di Viktor e gli assestò una ginocchiata al petto, poi, con mossa rapida, lo sollevò con entrambe le mani e gli fece sbattere la testa sul pavimento. Cassiopea si preparò a tuffarsi in acqua non appena Malone fosse stato libero. Mentre il corpo di Viktor si afflosciava a terra, con la coda dell'occhio colse un movimento sulla soglia dell'ingresso in cui si erano nascosti. «Cotton!» Irina Zovastina corse verso di lei.
Malone si allontanò di scatto da Viktor e si buttò in acqua, seguito da Cassiopea che prese a nuotare con forza verso il tunnel sommerso. Stephanie raggiunse la cima delle scale: si aprivano due vie, una a destra, l'altra a sinistra. Girò a sinistra. Ely si diresse a destra. «Di qui!» Corsero tutti da quella parte e videro una porta aperta. «Fate attenzione», avvertì Thorvaldsen. «Non lasciatevi spruzzare da quei cosi.» Ely annuì e si rivolse a Lyndsey. «Lei e io andiamo a cercare quella flash drive.» «Non mi sogno neanche.» Anche Stephanie non era d'accordo. «Non è una buona idea.» «Lei non è malata.» «Quei robot sono programmati per esplodere», cercò di convincerlo Thorvaldsen. «E non sappiamo quando.» «Non me ne frega niente», replicò Ely, il tono alterato. «Quest'uomo sa come curare l'AIDS. Il suo capo lo sapeva da anni, ma ha lasciato che morissero a milioni. Adesso è la Zovastina ad avere la cura, e non permetterò che abbia il controllo anche su quello.» Afferrò Lyndsey per la camicia. «Lei e io andiamo a prendere quella chiavetta!» «Lei è pazzo», ribatté Lyndsey. «Pazzo furioso. Vada su alla vasca verde e si beva un po' d'acqua. Vincenti ha detto che funziona anche così. Non ha bisogno di me.» Thorvaldsen fissava con attenzione il giovane e Stephanie capì che probabilmente gli sembrava di avere davanti il proprio figlio, in quella rappresentazione della gioventù allo stesso tempo spavalda, coraggiosa e folle. Anche il figlio di Stephanie, Mark, era così. «Si muova», ringhiò Ely. «Perché viene con me nel laboratorio.» Stephanie capì anche un'altra cosa. «La Zovastina è andata a cercare Cotton e Cassiopea. C'è un motivo se ci ha lasciati nella villa. L'avete sentita, ci ha detto intenzionalmente che quelle macchine avrebbero impiegato un po' di tempo.» «Siamo un'assicurazione», disse Thorvaldsen. «Più un'esca, direi, probabilmente per Cotton e Cassiopea. Ma questo tizio...» Indicò Lyndsey. «Lei lo vuole. Le sue chiacchiere avevano un senso: non ha tempo di verificare che l'antigene funzioni o che lui abbia detto la verità. Può anche non volerlo ammettere, ma le serve. Tornerà a prenderlo prima che questo posto bruci, potete scommetterci.» Irina Zovastina entrò in acqua. Malone aveva sopraffatto Viktor e Cassiopea Vitt era riuscita a sfuggirle. Se nuotava veloce poteva raggiungere la Vitt nel tunnel. Malone appoggiò il palmo delle mani sul bordo e uscì dalla vasca. Udì uno sciacquio dietro di lui e vide emergere Cassiopea, che con grande agilità saltò fuori dall'acqua tiepida e, grondante, afferrò una delle pistole che avevano lasciato poco lontano.
«Andiamo», disse lui, recuperando scarpe e camicia. Cassiopea si mosse verso l'uscita camminando all'indietro, occhi e pistola puntati sulla vasca. Un'ombra offuscò l'acqua e Irina Zovastina uscì per respirare. Cassiopea sparò. La prima esplosione stupì Irina Zovastina più che spaventarla. Tolte le gocce dagli occhi vide la Vitt puntare una pistola contro di lei. Poi un altro sparo, rumoroso in modo insopportabile. Si tuffò sott'acqua. Cassiopea sparò due volte alla vasca illuminata. La pistola si inceppò, quindi lei fece scorrere il carrello, tolse un bossolo e inserì un nuovo proiettile. Notò qualcosa e guardò Malone. «Ti senti meglio?» «A salve?» «Certo. Proiettili pieni di ovatta, suppongo, in modo che ci sia abbastanza pressione e rinculo da far scorrere almeno in parte il carrello. Non del tutto, ovviamente. Pensavi che Viktor ci avrebbe dato pallottole vere?» «In realtà non ci avevo pensato.» «È questo il problema: non stai pensando. Possiamo andare adesso?» Lei gettò via la pistola. «È una tale gioia lavorare con te.» Se ne andarono dalla grotta. Viktor si massaggiò la testa e attese. Ancora qualche secondo e sarebbe sceso in acqua, ma la Zovastina tornò, il fiato corto mentre usciva con la testa dalla vasca e appoggiava le braccia sul bordo. «Avevo dimenticato le pistole. Ci hanno messi in trappola. Adesso l'unica via di uscita è bloccata.» A Viktor faceva male la testa per la botta ed era preda di fastidiosi capogiri. «Ministro, le pistole sono caricate a salve. Ho cambiato tutte le munizioni prima di scappare da palazzo. Non mi sembrava saggio dare loro armi cariche.» «Non se ne sono accorti?» «Chi controlla i proiettili? Hanno semplicemente dato per scontato che le armi a bordo di un elicottero militare fossero cariche.» «Ottima idea, però avresti potuto dirmelo.» «È successo tutto in fretta. Non c'è stato tempo e purtroppo Malone mi ha messo KO.» «E la pistola che Malone aveva a palazzo? Quella era carica. Dov'è?» «Sull'elicottero. L'ha scambiata con una delle nostre.» «Va bene. Adesso dobbiamo recuperare Lyndsey.» «E Malone e la Vitt?» «Ho degli uomini appostati. E le loro pallottole sono vere.»
Capitolo 89
Stephanie guardò oltre il pannello aperto che dava su una stanza da letto. Era arredata con eleganti mobili in stile italiano e molto silenziosa, eccezion fatta per il ronzio meccanico proveniente da dietro una porta che si apriva sul corridoio del primo piano. Uscirono dal passaggio segreto, mentre uno dei marchingegni passava sibilando in corridoio, spargendo una nebbiolina odorosa. Nella camera aleggiava un velo di fumo, segno che i robot c'erano già stati. «Stanno inumidendo tutta la casa e anche piuttosto in fretta», commentò Thorvaldsen, avviandosi fuori della stanza. Stava per avvertirlo di non farlo, ma, quando il danese mise un piede sulla soglia, una sconosciuta voce maschile prese a strillare. Thorvaldsen si fermò e alzò le mani. «Un soldato», spiegò Ely, avvicinandosi a Stephanie per parlarle all'orecchio. Thorvaldsen stava con la testa voltata verso la guardia, che a quanto sembrava si trovava sulla destra e non aveva modo di vedere l'interno della stanza. Stephanie si era chiesta dove fossero finiti i militari, ma aveva sperato che se ne fossero andati quando gli aggeggi avevano cominciato a girare per casa. Altre parole urlate e sconosciute. «Ely, cosa dice?» «Vuole sapere se è solo.» Malone e Cassiopea scesero lungo il sentiero. «Avresti anche potuto avvertirmi che le pistole erano inutili», brontolò la donna. «E quando avrei dovuto farlo?» replicò lui, saltando sulle rocce e affrettandosi lungo la ripida discesa. Aveva il fiato un po' corto. Non c'era dubbio che non avesse più trent'anni, ma le sue vecchie ossa quarantottenni non erano poi del tutto fuori forma. «Non volevo che Viktor potesse avere la sensazione che sapessimo qualcosa.» «E non sapevamo niente. Perché hai lasciato la tua pistola?» «Dovevo stare al suo gioco.» «Certo che sei strano.» «Lo prendo per un complimento, detto da una che se ne andava in giro per Venezia con arco e frecce.» La villa si trovava a un centinaio di metri di distanza. Continuava a non esserci nessuno all'esterno e dalle finestre non si scorgevano movimenti neanche all'interno. «Dobbiamo controllare una cosa.» Malone corse all'elicottero e saltò nel comparto posteriore, dove trovò l'armadietto delle armi. C'erano quattro AK-74, con sotto i caricatori di munizioni bene impilati. «Tutte a salve.» Nella canna erano stati inseriti dei riduttori per alloggiare le pallottole finte e consentire l'espulsione dei bossoli.
«Coscienzioso, quel piccolo verme, devo ammetterlo.» Trovò la pistola che si era portato dall'Italia e controllò il caricatore. Quattro proiettili non ancora esplosi. Cassiopea afferrò uno dei fucili d'assalto e inserì un caricatore. «Gli altri non sanno che sono inutili. Per il momento possono fare scena.» «Hai ragione. L'immagine è tutto.» Prese anche lui un AK-74. Irina Zovastina e Viktor uscirono dalla vasca. Malone e la Vitt erano scomparsi. Le pistole giacevano abbandonate a terra. «Malone è un problema», chiarì il primo ministro. «Non si preoccupi», replicò Viktor. «Ho un conto in sospeso con lui.» Stephanie restò ad ascoltare mentre il soldato in corridoio continuava ad abbaiare ordini a Thorvaldsen, la voce che si avvicinava alla porta. Il viso di Lyndsey si pietrificò nel panico ed Ely fu rapidissimo a mettergli una mano sulla bocca e a trascinarlo dall'altro lato di un letto a pilastrini. Con una freddezza che la stupì, Stephanie posò gli occhi su una statuina di porcellana cinese sulla toeletta, l'afferrò e scivolò dietro la porta. Dalla fessura dei cardini vide la guardia entrare nella stanza. Quando l'uomo ebbe oltrepassato del tutto l'uscio, gli scaraventò la statuina sulla nuca. Il militare barcollò e lei lo finì con un altro colpo alla testa, quindi prese il fucile. Thorvaldsen rientrò di corsa e s'impossessò dell'arma che l'uomo portava al fianco. «Speravo che avresti improvvisato.» «Speravo che questi uomini se ne fossero andati.» Ely riportò Lyndsey dagli altri. Stephanie si complimentò col giovane. «Ottimo lavoro.» «Quest'uomo ha la spina dorsale di una banana.» Lei studiò l'AK-74. Aveva una certa pratica di pistole, ma un fucile d'assalto era una cosa ben diversa. Non ne aveva mai usati. Thorvaldsen parve cogliere la sua esitazione e le offrì la sua arma. «Vuoi fare a cambio?» «Sai maneggiare questo coso?» «Abbastanza.» Stephanie annotò mentalmente di indagare più a fondo sulla questione, quindi raggiunse la soglia e sbirciò in corridoio. Nessuno in vista. Fece strada fino alla scala che scendeva all'ingresso principale. Dietro di loro comparve un altro marchingegno sputa fuoco greco, che passava da una stanza all'altra, e l'improvvisa apparizione la distrasse un istante da ciò che avevano davanti. Alla sua sinistra, la parete terminava, rimpiazzata da una pesante balaustra di pietra: con la coda dell'occhio vide un movimento. Due soldati. Che reagirono immediatamente puntando i fucili e facendo fuoco. Cassiopea udì lo scoppiettio di un'arma automatica provenire dall'interno. Il suo primo pensiero fu per Ely. «Ricordati che abbiamo solo quattro pallottole vere», disse Cotton, saltando
assieme a lei giù dall'elicottero. La Zovastina e Viktor uscirono dalla fenditura e studiarono la scena cento metri più in basso. Malone e la Vitt lasciavano l'elicottero correndo e imbracciando un fucile d'assalto. «Quelli sono carichi?» «No, ministro. A salve.» «Cosa che ormai Malone sa, quindi li portano solo per fare scena.» I colpi dall'interno della casa erano preoccupanti. «Le tartarughe esploderanno, se danneggiate», spiegò Viktor. Irina Zovastina aveva bisogno di recuperare Lyndsey. «A bordo ho nascosto dei proiettili per le pistole e dei caricatori per i fucili», riprese Viktor. «Nel caso ne avessimo avuto bisogno.» «Hai fatto un ottimo lavoro. Credo che dovrò premiarti.» «Prima dobbiamo finire il lavoro.» «Lo facciamo subito.»
Capitolo 90
Pallottole rimbalzarono sulla spessa balaustra di marmo e uno specchio alla parete andò in frantumi, quindi precipitò a terra. Stephanie cercò riparo all'inizio della balaustra e gli altri si strinsero dietro di lei. Altri proiettili distrussero l'intonaco alla sua destra. Per fortuna l'angolo offriva loro una minima protezione e, per poter avere una mira migliore, i soldati avrebbero dovuto salire la scala, offrendosi in questo modo come bersagli. Thorvaldsen le si avvicinò. «Faccio io.» Lei arretrò un po' e con l'AK-74 il danese mandò una sventagliata al piano di sotto, che sortì il risultato sperato. Niente più spari nella loro direzione. Alle loro spalle comparve un altro robot. Stephanie non ci badò finché il gemito del motore elettrico non aumentò di volume. Voltandosi, vide che il marchingegno stava per raggiungere Ely e Lyndsey. «Fermi quell'affare...» mimò al giovane. Lui allungò il piede e impedì all'aggeggio di andare oltre, ma quello, percepito l'ostacolo, prima esitò, poi gli schizzò della nebbiolina sui calzoni. Infine il robot si voltò e procedette nella direzione opposta. Da sotto partirono altri colpi e il primo piano fu tempestato di pallottole. Dovevano battere in ritirata e usare i passaggi nascosti, ma prima che potesse dare quell'ordine, davanti a loro, dall'altra parte della balaustra, uno dei soldati girò un angolo. Anche Thorvaldsen lo vide e, prima che lei potesse sollevare la pistola, lo abbatté con una raffica dell'AK-74. Malone si avvicinò alla casa con cautela. Teneva la pistola in una mano e il fucile d'assalto in spalla. Entrarono dalla terrazza sul retro, in un salone opulento. Fuoco greco. Anche Cassiopea riconobbe l'odore. Altri spari, da qualche parte al pianterreno. Andò dritto verso la battaglia. Viktor seguì la Zovastina. Erano rimasti nascosti a guardare Malone e la Vitt che entravano. Dentro, erano stati sparati parecchi colpi. «Ci sono nove soldati», spiegò il primo ministro. «Avevo detto loro di non usare le armi, perché ci sono sei robot in giro, programmati per esplodere quando premo questo.» Gli mostrò uno dei comandi a distanza che lui aveva usato tante volte per far detonare le tartarughe. «Un proiettile in una delle macchine la farebbe esplodere con o senza comando a
distanza.» «Allora dobbiamo solo fare attenzione.» «Non è di noi che mi preoccupo.» Cassiopea era agitata. Ely era da qualche parte in quella casa, probabilmente in trappola, con tutto quel fuoco greco in giro. Ne aveva già visto di persona la forza distruttiva. La disposizione dei locali era un problema. Il pianterreno si sviluppava come un labirinto. Udì delle voci, dritto davanti a lei, oltre l'ennesimo salottino pieno di opere d'arte in cornici dorate. Era Malone a fare strada. Lei ne ammirava il coraggio. Per essere uno che continuava a lamentarsi di non voler essere della partita, giocava proprio bene. In un'altra stanza piena di fascino barocco, Malone si accovacciò dietro una poltrona dallo schienale alto e le fece cenno di andare a sinistra. Oltre un ampio passaggio ad arco, a cinque o sei metri da lei, vide delle ombre danzare sulla parete. Altre voci, in una lingua che non conosceva. «Mi serve un diversivo», bisbigliò Malone. Lui aveva pallottole vere, lei no. «Basta che non spari a me.» Cassiopea si appostò vicino all'arco. Malone passò rapidamente dietro una sedia che offriva una visuale migliore. Lei prese un bel respiro e contò fino a tre. Era una follia, ma doveva avere un paio di secondi di vantaggio. Alzò il fucile, ruotò su se stessa e si piantò a piedi larghi sotto l'arco. Dito sul grilletto, scatenò una grandinata di proiettili a salve. I due soldati erano dall'altra parte dell'ingresso, i fucili puntati verso la balaustra del piano superiore, ma i suoi colpi produssero l'effetto desiderato. Due facce stupefatte la squadrarono. Smise di sparare e si gettò a terra. Poi altri due colpi, e Malone centrò entrambi i soldati. Stephanie udì gli spari di una pistola. Una novità. Henrik era accovacciato accanto a lei, il dito pronto sul grilletto del fucile. Al primo piano comparvero altri due soldati, proprio dietro a dove il loro compagno giaceva morto. Thorvaldsen sparò. Lei doveva rivedere la sua opinione su quel danese. Lo conosceva per un avventuriero dalla coscienza evanescente, ma aveva anche nervi saldi ed era chiaramente preparato a fare tutto ciò che era necessario. I corpi dei soldati volarono indietro, mentre le potenti pallottole ne squarciavano la carne. Stephanie notò il robot e allo stesso tempo udì il suono di metallo su metallo. Uno dei marchingegni aveva girato l'angolo e delle pallottole ne avevano perforato il rivestimento. Il robot vacillò e sobbalzò, come un animale ferito, poi la proboscide si ritrasse. E prese fuoco.
Capitolo 91
Malone udì gli spari da sopra, poi un fortissimo sibilo seguito da un'intensa folata di calore innaturale. Si rese conto di cos'era accaduto e abbandonò di corsa la protezione della sedia, fiondandosi verso il passaggio ad arco, mentre Cassiopea si alzava di scatto. Si guardò intorno. Dal primo piano venivano delle gran fiammate, che avviluppavano la balaustra di marmo e distruggevano le pareti mentre il vetro delle alte finestre andava in frantumi per il calore. Il pavimento s'incendiò. Stephanie cercò di proteggersi dalle ondate di calore che le ruggivano accanto. In verità, il robot non era esploso, piuttosto si era vaporizzato in un bagliore da bomba atomica. Abbassò il braccio per vedere il fuoco che si estendeva in tutte le direzioni, come uno tsunami: pareti, soffitto, persino il pavimento cedeva. A una quindicina di metri e in avvicinamento. «Via!» Scapparono dalla tempesta di fuoco che stava per raggiungerli, correndo veloci, ma le fiamme guadagnavano terreno. Lei era ben consapevole del pericolo. Ely era stato spruzzato. Si guardò alle spalle. Il fuoco era a tre metri e in avvicinamento. La porta della stanza in cui erano sbucati dal passaggio segreto era ancora aperta proprio di fronte a loro. Fu Lyndsey ad arrivarci per primo, seguito da Ely. Lei e Thorvaldsen si precipitarono dentro proprio mentre il fuoco li raggiungeva. «È di sopra», disse Cassiopea vedendo il primo piano in fiamme, quindi si mise a gridare: «Ely!» Malone le mise un braccio attorno al collo e una mano sulla bocca. «Non siamo soli. Rifletti. Altri soldati, oltre alla Zovastina e a Viktor. Sono qui anche loro, ci puoi scommettere.» Levò la mano. «Io gli vado dietro», sentenziò Cassiopea. «Quelle guardie devono avergli sparato contro. Chi altro poteva essere?» «Non abbiamo modo di saperlo.» «Ma dove sono?» Lui le fece un cenno e tornarono nel salottino, mentre da sopra si udiva lo schianto dei mobili e dei vetri che andavano in pezzi. Per fortuna, le fiamme non avevano sceso le scale, come nel museo greco romano, ma uno dei marchingegni, quasi avesse percepito il calore, comparve nell'ingresso.
Se ne era esploso uno, potevano farlo anche gli altri. Irina Zovastina sentì qualcuno gridare il nome di Ely, ma percepì anche il calore e l'odore del fuoco greco che bruciava. «I soldati sono degli idioti...» «Era la Vitt, quella che gridava», disse Viktor. «Trova i nostri uomini, io troverò lei e Malone.» La porta segreta era ancora aperta e Stephanie vi entrò per prima, chiudendola poi alle spalle del piccolo gruppo. «Grazie a Dio», sbottò Lyndsey. Nel passaggio non c'era ancora fumo, ma il fuoco cercava di farsi strada attraverso le pareti. Scesero la scala e raggiunsero il pianterreno. Stephanie si guardava intorno in cerca della prima uscita disponibile e vide una porta aperta proprio di fronte. Si ritrovarono nella grande sala da pranzo. Malone non era in grado di dare una risposta a Cassiopea riguardo a dove fossero Stephanie, Henrik ed Ely, e anche lui era preoccupato. «È ora che tu ti faccia da parte», disse Cassiopea. Era tornato l'atteggiamento scostante di Copenhagen. «Abbiamo solo tre proiettili.» «Non è vero.» Lo scostò e andò a recuperare i fucili automatici delle due guardie morte e controllò il caricatore. «Pallottole a volontà.» Gliene diede uno. «Cotton, ti ringrazio di avermi fatta arrivare qui, ma questo devo farlo io. Da sola.» Discutere sarebbe stato inutile. «Sicuramente c'è un altro modo per arrivare al primo piano. Lo troverò.» Malone stava per rassegnarsi a seguirla, quando un movimento alla sua sinistra fece scattare un segnale d'allarme, quindi si voltò, armi in pugno. Sulla soglia comparve Viktor. Malone sparò una raffica con l'AK-74 e cercò immediatamente rifugio nell'ingresso. Non riusciva a vedere se aveva colpito l'uomo ma, guardandosi attorno, una cosa fu certa: Cassiopea se n'era andata. Stephanie udì degli spari provenire da un punto non meglio identificato del pianterreno. La sala da pranzo si estendeva davanti a lei in un elaborato rettangolo con pareti altissime, soffitto a volta e vetri cattedrali, dominata al centro da un lungo tavolo con una dozzina di sedie per lato. «Dobbiamo andarcene», disse Thorvaldsen. Lyndsey schizzò via, ma Ely lo bloccò sbattendolo sul tavolo. «Le ho già detto che noi due andiamo al laboratorio.» «Puoi andare al diavolo, altro che!» Sulla soglia, a una decina di metri da loro, comparve Cassiopea. Era bagnata e aveva l'aria stanca. Poi vide Ely. Aveva corso un grosso rischio a lasciare Venezia
con la Zovastina, ma in quel momento l'azzardo veniva ampiamente ripagato. Ely lasciò andare Lyndsey. Dietro Cassiopea si materializzò Irina Zovastina, che le puntò la canna del fucile alla schiena. Ely era impietrito. Anche gli abiti e i capelli del primo ministro erano bagnati e Stephanie stava per sfidarla apertamente quando la situazione mutò: comparvero Viktor e tre militari coi fucili spianati. «Mettete giù le armi», intimò la Zovastina. «Lentamente.» Stephanie incrociò lo sguardo di Cassiopea e scosse la testa, a indicare che quella era una battaglia che non potevano vincere. Thorvaldsen diede il buon esempio e appoggiò il fucile sul tavolo, quindi lei decise di comportarsi allo stesso modo. «Lyndsey», riprese la Zovastina. «È ora che venga con me.» «Assolutamente no», replicò l'omino, arretrando verso Stephanie. «Io con lei non vado da nessuna parte.» «Non abbiamo tempo per queste stupidaggini.» Il primo ministro fece cenno a un soldato, che corse verso Lyndsey, in ritirata dietro il pannello segreto rimasto aperto. Ely si mosse come a voler afferrare lo scienziato, ma quando il soldato arrivò, gli lanciò contro Lyndsey e scivolò nel passaggio nascosto, chiudendosi la porta alle spalle. I fucili degli altri militari erano pronti a sparare. «No!» gridò la Zovastina. «Lasciatelo andare. Non mi serve e questo posto verrà bruciato sino alle fondamenta.» Malone si aggirava nel dedalo di stanze, l'una dopo l'altra. Non aveva incontrato nessuno, ma continuava a sentire odore di bruciato dal piano superiore. La maggior parte del fumo pareva essere salita al secondo piano, ma non ci sarebbe voluto molto perché l'aria diventasse irrespirabile. Doveva trovare Cassiopea. Dove poteva essere finita? Superò una porta che si apriva su quella che sembrava un'immensa dispensa. Un'occhiata all'interno e notò qualcosa d'insolito. Parte di un pannello non ancora finito era aperta e rivelava la presenza di un passaggio segreto, debolmente illuminato da lampadine che creavano stagnanti pozze di luce. Udì dei passi dietro l'apertura. Si avvicinavano. Impugnò il fucile e si appiattì contro la parete puzzolente appena fuori del ripostiglio. I passi, rapidi, continuavano ad avvicinarsi e sulla soglia spuntò qualcuno. Con una mano sbatté il nuovo venuto contro il muro, ficcandogli il fucile sotto il mento, dito sul grilletto. Due intensi occhi azzurri risposero al suo sguardo, il volto più giovane del suo, bello e senza paura. «Chi sei?» «Ely Lund.»
Capitolo 92
Irina Zovastina era soddisfatta. Aveva il controllo su Lyndsey, su tutti i dati di Vincenti, sulla tomba di Alessandro, sulla pozione e adesso anche su Thorvaldsen, Cassiopea Vitt e Stephanie Nelle. Le mancavano solo Cotton Malone ed Ely Lund, nessuno dei quali aveva una reale importanza per lei. Erano fuori, diretti all'elicottero, con due soldati che facevano sfilare i prigionieri sotto la minaccia dei fucili. Viktor aveva preso con sé gli altri due militari per recuperare i computer di Vincenti e due robot inutilizzati. Doveva tornare a Samarcanda e supervisionare personalmente l'offensiva militare segreta che avrebbe avuto inizio presto. La sua azione in quel luogo si era conclusa con un successo totale. Aveva sperato che, se mai la tomba di Alessandro Magno fosse stata trovata, il sito fosse sotto la sua giurisdizione, e grazie agli dei era stato così. Viktor le si avvicinò coi computer. «Caricali sul chopper.» Lo guardò sistemarli nel comparto posteriore assieme ai due robot, meraviglie della tecnologia asiatica, sviluppate dai suoi ingegneri. Le bombe programmabili funzionavano quasi alla perfezione, spargendo fuoco greco con precisione per poi esplodere a comando. Erano anche costose, però, quindi non le sprecava ed era contenta che quelle due fossero state salvate per riutilizzarle in un'altra occasione. Tese a Viktor il telecomando per i marchingegni ancora all'interno dell'edificio. «Occupati della casa non appena me ne sarò andata.» I piani superiori erano in fiamme ed era solo questione di minuti perché l'intera costruzione diventasse un inferno. «Uccidili tutti.» L'uomo assentì. «Ma, prima di andarmene, ho un debito da ripagare.» Consegnò a Viktor il fucile e si diresse verso Cassiopea Vitt. «Mi hai fatto un'offerta quando eravamo su alle vasche. Voglio la rivincita.» «Con infinito piacere.» «Ci speravo.» «Dove sono gli altri?» chiese Malone. «Li ha presi la Zovastina.» «E tu cosa stai facendo?» «Sono scappato. Io... devo fare una cosa.» Malone aspettò una spiegazione. «In questa casa c'è la cura per l'AIDS. Devo prenderla.» Non male. Capiva perfettamente l'urgenza della questione, per Ely e per Cassiopea. Alla sua sinistra, all'intersezione di due corridoi, passò uno dei draghi sputa fuoco
greco. Sapeva di correre un grande rischio, girando per quella casa, ma doveva sapere. «Gli altri dove sono andati?» «Non lo so. Erano in sala da pranzo, poi la Zovastina e i suoi li hanno presi. Io sono riuscito a infilarmi nel passaggio nel muro prima che potessero bloccarmi.» «E dov'è la cura?» «Nel laboratorio sotto la villa. C'è un ingresso in biblioteca.» Una pazzia, non c'era dubbio, ma quella era la storia della sua vita. «Fammi strada.» Cassiopea girava intorno alla Zovastina, mentre Stephanie, Henrik e Lyndsey stavano a guardare in disparte, sempre sotto minaccia dei fucili. A quanto pareva il primo ministro voleva un po' di spettacolo, un'esibizione di abilità davanti ai suoi uomini. Benissimo. Lei le avrebbe regalato un bello scontro. La Zovastina colpì per prima, stringendo le braccia attorno al collo di Cassiopea e facendole piegare in avanti la colonna vertebrale. Quella donna era forte, più del previsto, e Cassiopea venne scagliata in aria. Cadde pesantemente. Scacciando il dolore, si rialzò con un balzo e piazzò il piede destro sul petto della Zovastina, facendola barcollare. Sfruttò l'attimo per sciogliere i muscoli indolenziti, quindi scattò in avanti. Le sue spalle cozzarono contro delle cosce dure come roccia, e le due donne caddero a terra insieme. Malone entrò in biblioteca. Non avevano incontrato soldati durante il tragitto a pianterreno, dove fumo e calore stavano aumentando. Ely corse dritto verso un cadavere sul pavimento. «Gli ha sparato la Zovastina. È l'uomo di Vincenti. Per aprire il pannello ha usato questo.» Puntò il controllo a distanza e premette un pulsante. Il mobiletto cinese ruotò. «Questo posto è meglio di un luna park», commentò Malone, seguendo Ely nel passaggio buio. Irina Zovastina ribolliva di rabbia. Era abituata a vincere. A buzkashi, in politica, nella vita. Aveva sfidato la Vitt perché voleva che quella donna sapesse chi era la migliore, e voleva anche che i suoi uomini verificassero che il loro capo non aveva paura di nessuno. È vero che erano presenti in pochi, ma da sempre erano i racconti di pochi a dare vita alle leggende. Adesso quel posto era tutto suo. La villa di Vincenti sarebbe stata rasa al suolo e sarebbe invece stato eretto un memoriale in onore del grande conquistatore che aveva scelto quel luogo per il suo ultimo riposo. Poteva anche essere stato greco di nascita, ma era asiatico nell'animo, ed era quello che contava. Ruotò le gambe e riuscì di nuovo a staccare da sé Cassiopea Vitt, mantenendo però una stretta feroce a un braccio, che utilizzò per strattonare verso l'alto l'avversaria. Il ginocchio incontrò il mento della Vitt, in un colpo che sapeva mandava ondate di
dolore al cervello, avendolo provato anche lei. Scaraventò con forza un pugno in faccia alla Vitt. Quante volte aveva attaccato gli altri chopenoz sul campo da gioco? Per quanto tempo riusciva a reggere un pesante boz? Aveva braccia e mani forti, abituate al dolore. Cassiopea Vitt si accasciò sulle ginocchia, stordita. Come osava quella nullità paragonarsi a lei? La Vitt era finita, perciò Irina Zovastina appoggiò delicatamente il tacco della scarpa sulla fronte dell'avversaria e con un'unica spinta la fece cadere di schianto a terra. La donna non si mosse. La Zovastina, il fiato corto ma ormai non più furiosa, si raddrizzò e si tolse la polvere dal viso, quindi si voltò, soddisfatta del combattimento. Nei suoi occhi non si leggeva arguzia né compassione. Viktor fece un cenno di apprezzamento e sul volto dei soldati si disegnò una profonda ammirazione. Era bello essere una combattente. Malone entrò nel laboratorio sotterraneo. Si trovavano circa una decina di metri sotto una casa in fiamme, circondati da roccia viva. L'aria puzzava di fuoco greco e i gradini erano appiccicosi in modo tristemente familiare. A quanto sembrava, in quella stanza venivano svolte delle ricerche batteriologiche, considerati i contenitori muniti di guanti e il refrigeratore su cui spiccava un colorato adesivo di avvertimento di rischio biologico. Lui ed Ely esitarono un attimo sulla soglia. La sua riluttanza era aumentata dai pacchetti di liquido trasparente sparsi sui tavoli. Li aveva già visti, al museo la notte dell'incendio. Sul pavimento c'erano due corpi. Uno era di una donna emaciata in accappatoio, l'altro di un omone enorme vestito di scuro. Avevano sparato a entrambi. «Secondo Lyndsey, Vincenti stringeva in mano la flash drive quando la Zovastina l'ha ucciso.» Malone girò cauto attorno ai tavoli e fissò dall'alto in basso il morto. Almeno centoquaranta chili. Il corpo era sdraiato sul fianco, un braccio teso, come avesse tentato di rialzarsi. Tre fori al petto. La mano vicino alla gamba del tavolo era aperta, l'altra stretta a pugno, quindi usò la canna del fucile per aprire le dita. «Eccola», commentò entusiasta Ely, inginocchiandosi a prendere la chiavetta. Quel giovane ricordava a Malone Cai Thorvaldsen, anche se l'aveva visto soltanto una volta, a Città del Messico, quando la sua vita si era intrecciata con quella di Henrik Thorvaldsen. I due ragazzi dovevano avere la stessa età e non ci voleva molto a capire perché Henrik fosse tanto affezionato a Ely. «Questo posto è preparato per andare a fuoco.» «Ho fatto un grosso errore fidandomi della Zovastina», ammise Ely, alzandosi. «Ma era così entusiasta. Sembrava apprezzare davvero il passato.» «Eccome se lo apprezza! Per tutto quello che può imparare.» Ely indicò i propri vestiti. «Sono pieno di quella roba. La Zovastina è una pazza, un'assassina.» Malone era più che d'accordo. «Va bene, è ora di andarsene. Cassiopea non mi perdonerebbe mai se ti succedesse qualcosa.»
Capitolo 93
Irina Zovastina salì a bordo dell'elicottero. Lyndsey era già ben legato con le cinture di sicurezza e ammanettato alla paratia. «Ministro, glielo giuro, non le darò problemi. Farò tutto quello che le serve, glielo assicuro, non c'è bisogno di legarmi. La prego, ministro...» «Se non sta zitto, le sparo subito.» Nel compartimento scese il silenzio. «E non riapra più la bocca.» Il primo ministro ispezionò lo spazioso compartimento che di solito ospitava una dozzina di uomini armati. I computer di Vincenti e i due robot avanzati erano stati legati saldamente. Cassiopea Vitt giaceva immobile a terra e i prigionieri erano controllati dai quattro soldati. Viktor era in piedi all'esterno. «Hai fatto un ottimo lavoro. Dopo che sarò partita, fa' esplodere la casa e uccidili tutti. Confido in te perché questo posto sia reso sicuro e ti manderò i rinforzi non appena sarò a Samarcanda. Da ora questo luogo appartiene alla Federazione.» Spostò lo sguardo sull'edificio, che entro poco sarebbe stato un ammasso di macerie. Aveva già in mente il palazzo in stile asiatico che avrebbe fatto costruire. Non aveva ancora deciso se rivelare o meno al mondo l'esistenza della tomba di Alessandro, perché doveva valutare tutte le alternative e, dato che lei sola aveva il controllo del sito, la decisione sarebbe stata unicamente sua. Fissò Viktor, lo guardò dritto negli occhi e disse: «Grazie, amico mio». Notò l'attimo di stupore sul volto dell'uomo mentre prendeva coscienza delle parole di apprezzamento. «Già, non lo dico mai. Perché mi aspetto che tu faccia il tuo dovere, ma oggi ti sei comportato davvero in modo eccellente.» Lanciò un'ultima occhiata a Cassiopea Vitt, Stephanie Nelle e Henrik Thorvaldsen, problemi che ben presto sarebbero stati solo un ricordo del passato. Cotton Malone ed Ely Lund erano ancora in casa, ma, se non erano già morti, lo sarebbero stati entro pochi minuti. «Ci vediamo a palazzo, Viktor.» Viktor restò ad ascoltare la turbina che si metteva in moto e il rotore che cominciava a girare. Il motore andò su di giri raggiungendo il pieno regime, dal terreno secco si sollevò un polverone e l'elicottero partì nell'azzurro del tardo pomeriggio. Raggiunse in fretta i suoi uomini. A due ordinò di andare all'ingresso principale della tenuta a controllare che nessuno entrasse o uscisse, e agli altri di tenere d'occhio Thorvaldsen e la Nelle. Lui, invece, andò da Cassiopea, il volto tumefatto, il naso sanguinante, il sudore che incideva strisce nella patina di sporco. La donna spalancò gli occhi e gli afferrò il braccio con forza. «Sei venuto a farla
finita?» Nella mano sinistra lui teneva una pistola, nella destra il telecomando per le tartarughe, che con tutta calma appoggiò per terra accanto a lei. «È esattamente quello che ho intenzione di fare.» L'elicottero con a bordo Irina Zovastina si mise in assetto di volo orizzontale e si diresse a est, in direzione della vallata. «Mentre lottavi con lei, ho attivato le tartarughe nel chopper. Sono programmate per esplodere assieme a quelle nella villa. Quel telecomando farà detonare tutto.» Cassiopea lo prese, ma lui fu rapido a puntarle il fucile alla testa. «Attenta.» Cassiopea guardò Viktor in cagnesco, le dita sul pulsante del comando a distanza. Sarebbe riuscita a premerlo prima che le sparasse? «Devi decidere», disse lui. «Il tuo Ely e Malone potrebbero essere ancora in casa. Potresti uccidere anche loro.» Cassiopea doveva avere fiducia e credere che Malone avesse la situazione in pugno, ma nella sua mente aleggiava un altro dubbio. «Come si fa a sapere quando ci si può fidare di te? Hai fatto il doppio gioco con tutti.» «Il mio compito era mettere fine a tutto questo. È quello cui noi stavamo lavorando.» «Uccidere la Zovastina potrebbe non essere la soluzione giusta.» «È l'unica soluzione. Non è possibile fermarla in altro modo.» Cassiopea valutò quell'osservazione. Aveva ragione lui. «Stavo per farlo io, ma pensavo avresti gradito l'onore.» «Il fucile in faccia me lo tieni giusto per fare scena?» «Le guardie non possono vedere la tua mano.» «Come faccio a sapere che quando avrò premuto il pulsante non mi sparerai?» «Non puoi.» Il chopper aveva superato la villa e si trovava sopra il prato erboso, a circa trecento metri di altezza. «Se aspetti ancora, il segnale non arriverà.» «Be', non avevo comunque mai pensato che sarei diventata vecchia.» E premette il pulsante. Stephanie osservò Viktor che a meno di dieci metri di distanza da lei puntava il fucile contro Cassiopea. L'aveva visto posare a terra qualcosa, ma Cassiopea guardava dall'altra parte ed era impossibile capire cosa stesse succedendo. L'elicottero divenne una palla di fuoco volante. Nessuna esplosione, soltanto una luce brillante che eruttava da tutti i lati, come una supernova. Poi il kerosene prese fuoco e un tuono echeggiò in tutta la valle. Pezzi di detriti fiammeggianti schizzarono all'esterno per poi precipitare in una cascata di fiamme. Nello stesso istante, le finestre al pianterreno dell'edificio andarono in frantumi mandando schegge di vetro ovunque, mentre dalle aperture infuriava l'incendio.
Cassiopea si alzò con l'aiuto di Viktor. «Pare sia dalla nostra», commentò Thorvaldsen. Viktor fece cenno alle due guardie e abbaiò ordini in quello che a Stephanie sembrò russo. Gli uomini fuggirono via e Cassiopea si precipitò verso la casa, seguita dagli altri. Malone raggiunse la cima della scala dietro a Ely e rientrò in biblioteca. Da qualche parte nell'edificio si udivano dei tonfi e notò un cambiamento nella temperatura. «Quei maledetti cosi sono stati attivati.» Oltre la porta della biblioteca comparvero delle fiamme. Altri tonfi. Più vicini. Molto caldo. In aumento. Si fiondò alla porta e guardò da entrambi i lati, ma il corridoio era impraticabile ovunque, le fiamme che distruggevano il pavimento e puntavano dritte verso di lui. Si ricordò che Ely aveva detto di avere schizzi di fuoco greco sui pantaloni. Si voltò e studiò le finestre altissime, circa tre metri per due e mezzo. Al di là della casa, nella valle, vide qualcosa bruciare in lontananza. Avevano ancora pochi secondi prima che il fuoco li raggiungesse. «Dammi una mano.» Ely si mise in tasca la flash drive e afferrò un'estremità di un divanetto mentre Malone prendeva l'altra, e insieme lo scagliarono dalla finestra. Il vetro si ruppe e il sofà schizzò fuori, aprendo un varco, ma erano rimaste troppe schegge perché potessero passare. «Usa le sedie», suggerì Ely. Il fuoco si srotolò oltre la soglia e cominciò a dare l'assalto alle pareti della biblioteca. Libri e scaffali esplosero. Malone afferrò una sedia e colpì con forza quello che restava della finestra mentre Ely ne adoperava un'altra per togliere di mezzo le schegge. Il pavimento cominciò a bruciare. Tutto quello che era stato inzuppato di fuoco greco s'incendiò in un istante. Non c'era più tempo. Saltarono entrambi dalla finestra. Cassiopea sentì rumore di vetri infranti mentre lei, Viktor, Thorvaldsen e Stephanie correvano verso quella fiammeggiante distruzione. Vide un divano volare fuori e fracassarsi per terra. Aveva corso un rischio decidendo di uccidere la Zovastina con Ely e Malone ancora dentro, ma, come avrebbe detto Malone: Giusto o sbagliato che sia, fa' qualcosa. Una sedia seguì il volo del divano. Poi Malone ed Ely saltarono fuori mentre la stanza alle loro spalle si riempiva di ondate color arancio acceso. L'uscita di Malone non fu aggraziata come quella a Copenhagen e lui batté con forza la spalla destra sul prato, ruzzolando. Anche Ely atterrò con violenza e rotolò più volte, le braccia alzate a proteggere la testa. Cassiopea li raggiunse di corsa. «Ely, ti stai divertendo?» «Come te. Cos'hai fatto alla faccia?»
«Mi sono fatta pestare a sangue. Ma l'ultima risata è stata mia.» Lo aiutò ad alzarsi e si abbracciarono. «Puzzi.» «Fuoco greco. L'ultima moda in fatto di profumi.» «E io?» brontolò Malone, alzandosi e togliendosi la polvere dai vestiti. «Niente 'Come stai'? 'Che bello vedere che non sei abbrustolito come una caldarrosta'?» Lei scosse la testa e abbracciò anche lui. «Quanti camion ti hanno investita?» chiese Malone, notando la sua faccia. «Uno soltanto.» «Voi due vi conoscete?» chiese Ely. «Siamo vecchi amici.» L'espressione di Malone s'indurì alla vista di Viktor. «E quello che ci fa qui?» «Che tu ci creda o no, è dalla nostra parte. Penso...» Stephanie indicò le fiamme in lontananza e gli uomini che correvano in quella direzione. «Irina Zovastina è morta.» «Una cosa terribile», commentò Viktor. «Un tragico incidente in elicottero, sotto gli occhi di quattro suoi soldati. Le verrà riservato un funerale glorioso.» «E Daniels dovrà fare in modo che il prossimo primo ministro della Federazione Centroasiatica sia più amichevole», aggiunse Stephanie. Cassiopea scorse dei punti in cielo che diventavano sempre più grandi. «Abbiamo compagnia.» Restarono a guardare e dopo poco Malone esclamò: «Sono nostri! Apache AH-64 e un Blackhawk». Gli elicotteri da combattimento americani atterrarono maestosi e dal portellone di uno degli Apache spuntò un viso familiare. Edwin Davis. «Truppe dall'Afghanistan», spiegò Viktor. «Davis mi aveva detto che erano vicine a tenere sotto controllo la situazione, pronte a intervenire se necessario.» «Sapete, uccidere la Zovastina in quel modo potrebbe non essere stata una mossa intelligente», commentò Stephanie. Cassiopea percepì un tono rassegnato nella voce dell'amica. «Perché?» «Lyndsey e i computer di Vincenti erano sull'elicottero», spiegò Thorvaldsen. «Tu non lo sai, ma Vincenti aveva trovato una cura per l'AIDS. L'avevano sviluppata lui e Lyndsey e i dati erano tutti in quei computer. C'era una flash drive, che Vincenti teneva in mano quando è morto, ma ormai è andata senz'altro distrutta, purtroppo.» Cassiopea vide un'espressione birichina formarsi sul viso sporco di Malone e notò che pure Ely sorrideva. Quei due avevano l'aria esausta, ma la loro sensazione di trionfo pareva contagiosa. Ely si frugò in tasca e tese il palmo aperto. Una flash drive. «Cos'è?» chiese lei, speranzosa. «Vita», rispose Malone.
Capitolo 94
Malone ammirava la tomba di Alessandro Magno. Dopo l'arrivo di Edwin Davis, un'unità delle forze speciali aveva rapidamente assunto il controllo della tenuta, disarmando i quattro soldati rimasti senza incontrare resistenza. Il presidente Daniels aveva autorizzato l'operazione e Davis dubitava che ci sarebbero state rimostranze ufficiali da parte della Federazione. Irina Zovastina era morta. Si avvicinava l'alba di una nuova epoca. Una volta resa sicura la tenuta, quando l'oscurità cominciava a far valere i suoi diritti sulla montagna, salirono tutti fino alle vasche e si tuffarono nell'occhio fulvo. Anche Thorvaldsen, che moriva dalla voglia di vedere la tomba. Malone l'aveva aiutato ad attraversare il tunnel e, a dispetto di età e deformità, il danese si era dimostrato un eccellente nuotatore. Avevano portato delle torce e altre luci prese sugli Apache, perciò la tomba sembrava illuminata a giorno. Malone fissava sbalordito una parete di mattonelle vetrificate che non aveva notato in precedenza: gli azzurri, i gialli e le sfumature di arancio e nero ancora brillanti dopo due millenni. Ely stava esaminando dei motivi con tre leoni realizzati con grande maestria. «C'era qualcosa di simile lungo la via processionale dell'antica Babilonia. Ne sono rimasti dei frammenti, ma questo è completo e intatto.» Edwin Davis era arrivato a nuoto con loro, perché anche lui era curioso di scoprire cos'avesse desiderato tanto la Zovastina. Malone si sentiva meglio sapendo che dall'altra parte della vasca c'erano di guardia un sergente della squadra operativa e tre militari dell'esercito degli Stati Uniti armati di carabine M-4. Lui e Stephanie avevano ragguagliato Davis su quanto era successo e adesso lui cominciava a provare simpatia per il viceconsigliere alla sicurezza nazionale, soprattutto dopo che aveva organizzato un'operazione di salvataggio. Ely si spostò accanto a uno dei sarcofagi. Su un lato era incisa un'unica parola: ΑΛΕΞΑΝΔΡΟΣ. L'altro, invece, era decorato da una sequenza più lunga. AIEN ΑΡΙΣΤΕΥΕΙΝ ΚΑΙ ΥΠΕΙΡΟΧΟΝ EMMENAI ΑΛΛΩΝ «Questa è di Alessandro», spiegò lo studioso. «L'iscrizione più lunga è una parafrasi di un verso dell'Iliade e recita più o meno così: Sempre essere al meglio e superiori agli altri. L'espressione omerica dell'ideale eroico. Alessandro aveva vissuto seguendolo e anche la Zovastina la citava spesso. Chi l'ha deposto qui ha scelto bene il suo epitaffio.» Poi passò all'altro sarcofago, la cui iscrizione era molto più semplice.
ΗΦΑΙΣΤΙΩΝ ΦΙΛΟΣ ΑΛΕΞΑΝΔΡΟΥ «Efestione, amico di Alessandro. Il termine amante non avrebbe reso giustizia al loro rapporto. Essere chiamato 'amico', per un greco, era il massimo complimento, riservato solo alle persone più care.» Malone notò che dall'immagine di un cavallo sulla tomba di Alessandro erano state rimosse polvere e sabbia. «L'ha pulita la Zovastina», spiegò Viktor. «Era come ipnotizzata.» «È Bucefalo», disse Ely. «Non può essere altrimenti. Il cavallo di Alessandro. Lui venerava quell'animale, che è morto durante la campagna d'Asia ed è stato seppellito da qualche parte tra i monti, non lontano da qui.» «La Zovastina aveva chiamato così anche il suo cavallo preferito», riferì Viktor. Malone osservò la stanza con attenzione, mentre Ely indicava contenitori rituali, un vasetto d'argento per il profumo, un corno per bere a forma di testa di cervo, schinieri in bronzo dorato con ancora qualche pezzo di cuoio, che un tempo avevano protetto i polpacci di un guerriero. «Toglie il fiato», commentò Stephanie. Cassiopea si era fermata accanto a uno dei sarcofagi, quello col coperchio scostato. «La Zovastina ci ha dato un'occhiata», chiarì Viktor. Le luci mostrarono la mummia all'interno. Il corpo era coperto dalla testa ai piedi di sottili lamine d'oro, grandi ciascuna come un foglio di carta, e all'interno della bara ce n'erano altre sparpagliate. Il gomito destro era piegato, col braccio poggiato sullo stomaco, mentre il braccio sinistro era dritto, con l'avambraccio staccato dalla parte superiore. Bende avvolgevano gran parte del corpo, stringendolo in un abbraccio, e sul petto parzialmente esposto spiccavano tre dischi d'oro. «La stella macedone», disse Ely. «Lo stemma di Alessandro. E sono anche degli esemplari notevoli, davvero bellissimi.» «Come hanno fatto a portare qui dentro tutta questa roba?» chiese Stephanie. «I sarcofagi sono enormi.» «Duemila anni fa la topografia doveva essere senz'altro diversa, e scommetterei che c'era un altro ingresso. O magari le pozze non erano così profonde, il tunnel più accessibile e non sommerso.» «Ma le lettere nelle vasche?» domandò Malone. «Quelle come ci sono arrivate lì? Non le ha realizzate di certo chi ha creato questa tomba. Sono peggio di un'insegna al neon per mettere in allerta la gente.» «La mia ipotesi è che sia stato Tolomeo, come parte dell'enigma. Due lettere greche sul fondo di due piscine scure. Immagino fosse il suo modo di contrassegnare il posto.» Il viso di Alessandro era coperto da una maschera d'oro che nessuno aveva ancora toccato. «Perché non la togli tu, Ely?» propose Malone. «Così vediamo un po' che faccia ha
un re del mondo.» Il giovane, che aveva studiato Alessandro Magno per una vita, era eccitato all'idea di essere il primo in duemila anni a toccarlo per davvero. Lentamente, Ely rimosse la maschera. La poca pelle rimasta era di colore nerastro, tesa sulle ossa all'inverosimile e fragilissima. La morte sembrava confarsi alle caratteristiche di Alessandro, che a occhi semichiusi mostrava una strana espressione di curiosità. La bocca era aperta, come per gridare; la testa era priva di capelli. Il tempo aveva congelato ogni cosa. Rimasero tutti a guardare in silenzio. Infine Cassiopea spostò il raggio della sua torcia per tutta la camera, oltre una figura equestre in cui il cavaliere indossava soltanto un lungo mantello gettato su una spalla, per soffermarsi su uno splendido busto di bronzo. Il viso ovale dall'aria autorevole mostrava grande fiducia in se stesso e occhi stretti a guardare lontano. I capelli erano discosti dalla fronte in stile classico e scendevano in ricci irregolari. Il collo era lungo e dritto, il portamento e l'espressione di un uomo che controllava totalmente il suo mondo. Alessandro Magno. Che contrasto col volto nel sarcofago. «In tutti i busti di Alessandro che ho visto, naso, labbra, fronte e capelli erano ricostruiti col gesso», intervenne Ely. «Pochi sono sopravvissuti al tempo, ma quest'immagine è in condizioni perfette.» «E lì c'è anche lui», aggiunse Malone. «In poca carne e qualche osso.» Cassiopea andò al secondo sarcofago e con molta fatica ne aprì in parte il coperchio, in modo da poter sbirciare all'interno. Un'altra mummia, non tutta adorna d'oro ma con la maschera, giaceva nelle condizioni della prima. «Alessandro ed Efestione», mormorò Thorvaldsen. «Che hanno riposato qui insieme per tanto, tanto tempo.» «E ci resteranno?» chiese Malone. Ely si strinse nelle spalle. «Si tratta di una scoperta archeologica strepitosa. Sarebbe una tragedia non imparare da quanto è arrivato fino a noi.» Malone si accorse che l'attenzione di Viktor si era spostata su uno scrigno d'oro sistemato vicino alla parete. La roccia al di sopra era decorata con un intrico di incisioni rappresentanti battaglie, carri, cavalli e uomini armati. Sulla parte superiore dello scrigno era stata realizzata una stella macedone d'oro, con rosette dai petali di vetro azzurro a punteggiarne la zona centrale. Rosette simili contrassegnavano anche una fascia tutt'intorno allo scrigno. Viktor ne afferrò i lati e, prima che Ely potesse fermarlo, sollevò il coperchio. Edwin Davis puntò un fascio di luce all'interno. Un serto d'oro fatto di foglie di quercia e ghiande comparve davanti ai loro occhi in tutta la sua stupefacente bellezza. «Una corona regale», spiegò Ely. Viktor sogghignò. «È questo che voleva la Zovastina. Sarebbe diventata la sua corona. Avrebbe usato tutto questo per promuovere se stessa.» Malone si strinse nelle spalle. «Una vera disgrazia che quell'elicottero sia
precipitato!» Erano tutti lì in quella camera, bagnati fradici per la nuotata ma sollevati che fosse finita. Il resto era una questione politica, che non riguardava Malone. «Viktor, se mai volessi un posto fisso, fammelo sapere», disse Stephanie, cambiando argomento. «Terrò a mente l'offerta.» «Hai lasciato che ti battessi quando ci siamo scontrati qui sotto, vero?» chiese Malone. Viktor annuì. «Pensavo fosse meglio che ve ne andaste, perciò ve ne ho dato l'opportunità. Non sono un avversario così facile, Malone.» «E io terrò questo a mente.» Indicò le tombe. «E di loro che si fa?» «Hanno aspettato tanto», rispose Ely. «Possono restare qui in santa pace ancora un po'. Al momento, c'è qualcos'altro che dobbiamo fare.» Cassiopea fu l'ultima a uscire dalla piscina marrone nella prima camera. «Lyndsey ha detto che i batteri nella vasca verde sono la cura», spiegò Ely. «Per noi sono innocui, ma distruggono l'HIV.» «Non sappiamo se sia vero», intervenne Stephanie. Ely, però, sembrava convinto. «È vero senz'altro. Quell'uomo era disperato e stava usando tutto quello che aveva per salvarsi la pelle.» «Abbiamo i file», intervenne Thorvaldsen. «Posso contattare i migliori scienziati al mondo perché ci diano una risposta immediata.» Ely scosse la testa. «Alessandro Magno non aveva scienziati.» Cassiopea ammirava il suo coraggio. Si era infettata oltre dieci anni prima, anni che aveva passato a chiedersi quando la malattia si sarebbe manifestata. Era come avere una bomba a orologeria dentro il proprio organismo. Sapeva che Ely provava la stessa angoscia, che si aggrappava a ogni speranza. E loro erano tra i fortunati, dato che potevano permettersi i farmaci che tenevano a bada il virus. Milioni di altre persone non erano in grado di farlo. Fissò la vasca fulva, la lettera H sul fondo, e si ricordò di quello che aveva letto in uno dei manoscritti: Eumene gli rivelò quale fosse il luogo della sepoltura, tra le montagne, dove gli sciti avevano insegnato ad Alessandro i segreti della vita. Andò alla vasca verde e guardò la Z sul fondale. Vita. Che splendida promessa. Ely le prese la mano. «Pronta?» Assentì. S'inginocchiarono e bevvero.
Capitolo 95
Copenhagen, sabato 6 giugno, ore 19.45 Malone era seduto al primo piano del Café Norden a godersi ancora un po' di zuppa di pomodoro e crostacei. Sempre la migliore che avesse mai mangiato. Thorvaldsen era seduto di fronte a lui. Le finestre erano spalancate sulla piacevole serata di fine primavera. In quel periodo dell'anno il tempo a Copenhagen era praticamente perfetto, una delle molte ragioni per cui amava tanto viverci. «Ho sentito Ely, oggi», disse Thorvaldsen. Malone si era chiesto cosa stesse succedendo in Asia centrale, dato che da quando erano tornati, sei settimane prima, era stato impegnato a vendere libri. Essere un agente operativo era così: fai il tuo lavoro, poi te ne vai. Niente analisi delle eventuali conseguenze. Quello era compito di altri. «Sta scavando la tomba di Alessandro. Il nuovo governo della Federazione collabora coi greci.» Sapeva che, grazie a Thorvaldsen, Ely ricopriva un incarico ad Atene presso il Museo archeologico nazionale. Senza dubbio il fatto di conoscere il luogo in cui si trovava la tomba di Alessandro Magno doveva avere acceso non poco l'interesse degli esperti locali. A Irina Zovastina era succeduto un viceministro moderato che, come da costituzione della Federazione, aveva assunto il potere fino a quando non fosse stato possibile indire le elezioni. Washington si era accertata con grande riserbo che tutte le scorte di batteri della Federazione venissero distrutte e a Samarcanda era stata data la possibilità di scegliere: collaborate o i vicini della Federazione saranno messi a conoscenza del piano preparato dalla Zovastina e dai suoi generali. Per fortuna, era prevalso un atteggiamento misurato e gli Stati Uniti avevano inviato una squadra di esperti a sovrintendere all'eliminazione dei virus. Era anche vero che, dato che l'antigene era in mano all'Occidente, la scelta era stata obbligata. La Federazione avrebbe potuto iniziare lo sterminio, ma non sarebbe stata in grado di fermarlo. La precaria alleanza tra Irina Zovastina e Vincenti era stata sostituita da quella tra due nazioni che si fidavano poco l'una dell'altra. «Ely ha il pieno controllo della tomba e può lavorarci in tutta tranquillità», continuò Thorvaldsen. «Dice che potrebbero dover essere riscritte parecchie pagine di storia. All'interno ha trovato molte iscrizioni. Oggetti. Persino un paio di mappe. Cose incredibili.» «E come stanno Edwin Davis e il presidente Daniels? Soddisfatti?» Thorvaldsen sorrise. «Ho parlato con Edwin un paio di giorni fa. Daniels ci è grato per quello che abbiamo fatto. In particolare gli è piaciuta Cassiopea quando ha fatto esplodere l'elicottero. Non si ottiene molta compassione da quell'uomo. È un tipo
tosto.» «Siamo felici di aver potuto aiutare ancora una volta il presidente. E cosa mi dici della Lega Veneziana?» Thorvaldsen si strinse nelle spalle. «Sparita nel nulla. Non aveva fatto niente che potesse essere dimostrato.» «A parte uccidere Naomi Johns.» «Quella era stata opera di Vincenti, e credo che l'abbia pagata.» Era vero. «Sai, sarebbe carino se, tanto per cambiare, Daniels potesse chiedermi aiuto direttamente.» «Non succederà.» «Come con te?» «Esatto.» Malone finì la zuppa e guardò in basso Højbro Plads. La piazza era piena di gente che si godeva la serata tiepida. La sua libreria sull'altro lato era chiusa. Negli ultimi tempi gli affari erano andati benissimo e la settimana successiva aveva intenzione di fare un salto a Londra, prima che Gary arrivasse per la solita visita estiva. Aspettava con ansia di vedere il suo ragazzo ormai quindicenne. Ma era anche un po' malinconico, e si sentiva così da quando era tornato. Lui e Thorvaldsen cenavano assieme almeno una volta alla settimana, ma non avevano mai parlato di quello che gli passava realmente per la testa. Alcuni argomenti non andavano affrontati. Tranne quando era proprio necessario. «Come sta Cassiopea?» «Mi chiedevo quando me l'avresti domandato.» «Sei stato tu a cacciarmi in questa situazione.» «Io ti ho soltanto detto che aveva bisogno d'aiuto.» «Mi piace pensare che lei aiuterebbe me, se ce ne fosse bisogno.» «Lo farebbe senz'altro. Ma per rispondere alla tua domanda, sia lei sia Ely sono sani. Edwin mi ha detto anche che gli scienziati hanno verificato l'efficacia dei batteri e a breve Daniels annuncerà la scoperta della cura, la cui distribuzione verrà controllata dal governo degli Stati Uniti. Il presidente ha ordinato che venga resa disponibile a tutti a costo minimo.» «Sarà grandioso per molte persone.» «Grazie a te. Sei tu che hai risolto l'enigma e scoperto la tomba.» «Abbiamo fatto tutti il nostro lavoro. E, tra l'altro, mi hanno detto che sei un tiratore folle. Stephanie mi ha raccontato che in quella casa hai fatto il diavolo a quattro.» «Non sono inerme, tutto qui.» «Stephanie si è resa conto che è dura agire sul campo.» «Già, le ho parlato anch'io qualche giorno fa.» «Cos'è, siete diventati amici?» Thorvaldsen sorrise. «Ci somigliamo molto, anche se nessuno dei due l'ammetterebbe di fronte all'altro.» «Uccidere non è mai facile, quale che sia il motivo.»
«In quella casa ho ucciso tre uomini anch'io, e hai proprio ragione. Non è mai facile.» Non aveva ancora avuto risposta alla domanda iniziale, ma Thorvaldsen aveva capito benissimo cosa voleva sapere davvero. «Non ho parlato molto con Cassiopea dopo che abbiamo lasciato la Federazione. È tornata a casa in Francia. Non so niente di lei ed Ely... di loro due. Non si sbottona molto.» Thorvaldsen scosse la testa. «Glielo dovrai chiedere tu.» Malone decise di fare due passi. Gli piaceva gironzolare lungo lo Strøget e chiese all'amico se voleva andare con lui, ma Thorvaldsen declinò l'invito. Si alzò. Thorvaldsen buttò dei fogli sul tavolo. «Gli atti di proprietà del terreno sullo stretto, dov'è bruciata la casa. Io non so che farmene.» Malone diede una scorsa ai documenti e vide il suo nome sulla riga del beneficiario. «Voglio che sia tua.» «Quel terreno vale un sacco di soldi. Non posso accettare.» «Ricostruisci la casa e goditela. Chiamala compensazione per averti cacciato in quel pasticcio.» «Sapevi che non mi sarei tirato indietro.» «In questo modo la mia coscienza, o almeno quel poco che ne resta, dormirà tranquilla.» Nei due anni di amicizia, aveva imparato che quando Henrik Thorvaldsen si metteva in testa qualcosa non c'era verso di fargli cambiare idea. Perciò si ficcò i fogli in tasca e scese le scale. Spinse la porta e uscì, accolto dalle conversazioni delle persone sedute ai tavolini all'aperto. «Malone.» Si voltò. A uno dei tavoli c'era Cassiopea, che si alzò e lo raggiunse. Portava una giacca di tela verde militare con pantaloni uguali, una borsa di pelle a tracolla e sandali ai piedi. I folti capelli neri e ricci erano sciolti sulle spalle. Poteva ancora vederla su quella montagna, pantaloni aderenti di pelle e reggiseno sportivo, mentre nuotava con lui nella tomba. E in quei pochi minuti in cui entrambi erano rimasti spogliati. «Che ci fai qui?» «Be', mi dici sempre che in questo ristorante il cibo è così buono, quindi sono venuta a provarlo.» «È un viaggio un po' lungo per una cena.» «Non se non sai cucinare.» «Ho saputo che sei guarita. Ne sono felice.» «Già. Chiedersi continuamente se domani sarà il giorno in cui comincerai a morire ti distoglie da un sacco di cose.» Lui ricordava benissimo com'era preoccupata quella prima sera a Copenhagen, quando l'aveva aiutato a fuggire dal museo. Tutta la malinconia sembrava scomparsa.
«Dov'eri diretto?» «In nessun posto in particolare, facevo due passi.» «Vuoi compagnia?» Malone si girò a guardare il primo piano del ristorante, il tavolo vicino alla finestra dove fino a poco prima erano seduti lui e Thorvaldsen. L'amico guardava giù, sorridendo. Era chiaro che sapesse della visita. Spostò lo sguardo su Cassiopea. «Voi due tramate sempre qualcosa?» «Non hai ancora risposto alla mia domanda sulla passeggiata.» «Certo, mi farebbe molto piacere un po' di compagnia.» Lei lo prese sottobraccio e lo trascinò via. «E riguardo a te ed Ely? Io pensavo...» «Malone.» Sapeva cosa stava per dirgli, quindi le risparmiò la fatica. «Lo so. Sta' zitto e cammina.»
Fine
NOTA DELL'AUTORE
È il momento di separare la realtà storica dalla fantasia. Il tipo di esecuzione presentato nel prologo veniva realmente utilizzato al tempo di Alessandro Magno, ma il medico che aveva curato Efestione non venne condannato a morte nella maniera descritta. La maggior parte delle cronache parla di impiccagione. Il rapporto tra Alessandro ed Efestione era complesso. Amico, confidente, amante: tutte queste definizioni sarebbero adatte. Il grande dolore di Alessandro per la prematura scomparsa di Efestione è documentato, al pari della sua elaborata cerimonia funebre, che alcuni ritengono possa essere stata la più costosa della storia. Ovviamente l'imbalsamazione e l'occultamento del corpo di Efestione in un luogo segreto (capitolo 24) sono una mia invenzione. Il fuoco greco (capitolo 5) è realmente esistito e la formula, che veniva conservata personalmente dagli imperatori bizantini, è andata perduta quando quell'impero cadde. A tutt'oggi la sua composizione chimica rimane un mistero. La vulnerabilità all'acqua salata, invece, è immaginaria, dato che storicamente il fuoco greco veniva usato come arma offensiva contro le navi in mare. Il gioco del buzkashi (capitolo 7) è antico e violento, e continua a essere praticato nell'Asia centrale. Regole, abbigliamento ed equipaggiamento descritti sono veri, com'è vero che i giocatori possono morire. La Federazione Centroasiatica è un'invenzione, ma i dettagli politici ed economici di questa zona del mondo, sintetizzati al capitolo 27, sono veritieri. Purtroppo, quel territorio è stato sempre un comodo campo di battaglia, e i governi della regione continuano a essere piagati dalla corruzione. Il libro di Frank Holt, Alexander the Great and the Mystery of the Elephant Medallions (Alessandro Magno e il mistero delle monete dell'elefante), mi ha svelato l'esistenza di questi insoliti oggetti, qui ridotti al numero di otto benché in realtà ne esistano molti di più. La loro descrizione (capitoli 8 e 9) è fedele, tranne che nella presenza delle microlettere ZH che sono una mia aggiunta. Per quanto incredibile possa sembrare, però, gli antichi artigiani avevano realmente la capacità di eseguire incisioni microscopiche, utilizzando semplici lenti. Il battaglione sacro che protegge Irina Zovastina (capitolo 12) è un adattamento del più valoroso gruppo di combattenti dell'antica Grecia: trecento uomini, in coppie legate da forte vincolo di amicizia, provenienti dalla città di Tebe, che vennero sterminati da Filippo II di Macedonia e da suo figlio Alessandro Magno nel 338 a.C. A Cheronea, in Beozia, luogo della battaglia, si trova ancora un monumento che commemora il loro coraggio. La pozione medicinale che compare ripetutamente nel racconto è frutto di fantasia, come il resoconto della sua scoperta al capitolo 14. Gli archeobatteri (capitolo 62), però, esistono, e anche se il tipo di utilizzo nel testo è del tutto inventato, è vero che
alcuni batteri e virus vivono a scapito di altri. Quanto a Venezia, l'ambientazione è corretta. L'interno della basilica di San Marco è magnifico e la tomba dell'evangelista (capitolo 42) e la sua storia sono descritte in modo accurato. A Torcello, il museo, le due chiese, il campanile e il ristorante ci sono davvero, e geografia e storia dell'isola sono riportate fedelmente (capitolo 34). La Lega Veneziana è un'invenzione. Tuttavia, nel corso della sua lunga storia, la Repubblica veneziana ha periodicamente creato alleanze con altre città stato formando quelle che venivano chiamate «leghe». La fluorescenza da raggi X (capitolo 11) è una recente scoperta scientifica utilizzata per studiare le pergamene antiche. Al riguardo sono in debito col talentuoso romanziere Christopher Reich, che mi ha inviato un articolo sull'argomento. La Storia di Ieronimo di Cardia (capitolo 24) è opera di fantasia come l'enigma di Tolomeo, anche se tutti i riferimenti alle azioni di Tolomeo I in relazione al corteo funebre di Alessandro e al suo dominio sull'Egitto sono storicamente corretti. Il trafugamento del corpo di san Marco da parte di mercanti veneziani ad Alessandria nell'828 d.C. (capitoli 29 e 45) avvenne come descritto, e il corpo scomparve davvero, a Venezia, per un lungo periodo. Il resoconto della sua ricomparsa nel 1094 (capitolo 45) viene narrato ancora oggi con orgoglio dai veneziani. Sfortunatamente, le zoonosi esistono e periodicamente sono causa di stragi tra gli esseri umani. La ricerca di quelle tossine naturali e il loro adattamento a scopo di offesa (capitolo 54) non è niente di nuovo. Da secoli gli uomini si trastullano con la guerra batteriologica e il personaggio di Irina Zovastina ne è soltanto un ulteriore esempio. Le statistiche presentate al capitolo 32 riflettono in maniera accurata il crescente problema dell'HIV, che affligge in particolare Africa e Sudest Asiatico. La biologia del virus descritta al capitolo 51 e il modo in cui l'HIV può essersi trasmesso dalle scimmie agli umani (capitolo 60) sono scientificamente corretti. L'idea che qualcuno possa aver scoperto una cura per l'HIV, tenendola nascosta al fine di trovare un più ampio mercato (capitolo 64), fa unicamente parte di questo romanzo. Ma l'ottusa politica, oltre all'insufficiente reazione globale, riguardo a questa preoccupante pandemia, sono anche troppo reali. L'isola di Vozroždenija è il sito in cui i sovietici hanno prodotto numerose armi biologiche e il dilemma provocato dal suo abbandono (capitolo 33) si è verificato davvero. La repentina semiscomparsa del lago Aral (capitolo 33), provocata dalla folle deviazione della principale sorgente idrica, è unanimamente considerata uno dei peggiori disastri ecologici della storia. Purtroppo nella vita reale non si è trovata nessuna felice soluzione a questa catastrofe. Quella dell'amuleto sul cuore (capitolo 59) era un'abitudine autentica, anche se la mia aggiunta di una spirale in foglia d'oro all'interno è inventata. Le scitale (capitolo 61) erano utilizzate al tempo di Alessandro Magno per inviare messaggi in codice. Una è in mostra presso l'International Spy Museum di Washington, DC, e non ho saputo resistere alla tentazione di includerla nel romanzo. La storia degli sciti (capitolo 75) è riferita correttamente, tranne per il fatto che non esistono indicazioni riguardo all'inumazione dei loro re in qualcosa di diverso dai tumuli.
E ora passiamo ad Alessandro Magno. La descrizione della sua morte (capitolo 8) è una mescolanza di svariate fonti in cui sono presenti parecchie contraddizioni. Le tre versioni di ciò che Alessandro avrebbe risposto alla domanda: «A chi lascerete il vostro regno?» sono mie. La versione generalmente accettata è: «Al più forte», ma nel mio caso si adattava meglio una risposta diversa. Gli storici hanno riflettuto a lungo sulla morte di Alessandro, sulla sua rapidità e sulla natura inspiegabile, insinuando la possibilità di un omicidio (capitolo 14), ma non esistono prove. Il fatto che Alessandro sia stato imbalsamato col miele, quanto accadde al suo corteo funebre e la sua definitiva tomba egizia ad Alessandria sono tutti particolari tratti da resoconti storici. La possibilità che i resti di san Marco a Venezia appartengano in realtà ad Alessandro Magno non è un'idea mia ma di Andrew Michael Chugg, che nel suo eccellente The Lost Tomb of Alexander the Great (La tomba perduta di Alessandro Magno) ha postulato questa teoria. È un fatto, comunque, che i primi cristiani fossero soliti appropriarsi di manufatti pagani (capitolo 74) e che il corpo di Alessandro Magno scomparve da Alessandria approssimativamente nello stesso periodo in cui ricomparve il corpo di san Marco (capitolo 29). Inoltre il dibattito politico sulla restituzione all'Egitto di tutti o di parte dei resti che si trovano nella basilica di San Marco continua: nel 1968 il Vaticano ha realmente rimandato ad Alessandria alcune piccole reliquie. La collocazione centroasiatica della tomba di Alessandro è pura fantasia, ma gli oggetti descritti all'interno (capitolo 94) sono come quelli ritrovati nella presunta tomba di Filippo II, padre di Alessandro, scoperta dagli archeologi nel 1977. Di recente, però, tale attribuzione ha suscitato dei dubbi. Il retaggio politico e storico di Alessandro continua a essere materia di intensi dibattiti. Era un saggio visionario o un conquistatore impulsivo e sanguinario? La discussione tra Malone e Cassiopea al capitolo 11 rispecchia le due ipotesi. Sull'argomento sono stati scritti parecchi libri, ma a mio parere il migliore in lingua inglese è Alexander of Macedon: A Historical Biography (Alessandro il Macedone, una biografia storica), di Peter Green, in cui l'attento studio dell'autore chiarisce come Alessandro abbia trascorso l'intera vita, con leggendario successo, alla ricerca di nient'altro che la gloria personale. E anche se l'impero che tanto duramente si era impegnato a creare crollò nel momento in cui lui scomparve, il suo mito continua a vivere. Prova della sua immortalità si riscontra nelle convinzioni che per molto tempo ha ispirato nei posteri, in alcuni casi positive, in altri (come per Irina Zovastina), dannose. Per Peter Green, Alessandro rimane un enigma, la cui grandezza semplicemente sfida qualunque giudizio definitivo. Personifica un archetipo, costantemente inquieto e insoddisfatto, l'incarnazione di un'eterna ricerca, una personalità che è diventata assai più grande della somma misurabile delle sue notevoli opere. Alla fine, fu lo stesso Alessandro a esprimere tutto questo nel modo migliore: «Fatica e rischio sono il prezzo della gloria, ma è bello vivere con coraggio e morire lasciandosi alle spalle una fama imperitura».
CRONOLOGIA STORICA 20 luglio 356 a.C.
Nasce Alessandro il Macedone
336 a.C.
Viene assassinato Filippo II Alessandro diventa re
334 a.C.
Alessandro raggiunge l'Asia Minore e inizia le sue conquiste
settembre 326 a.C.
La campagna d'Asia termina in India per la rivolta dell'esercito di Alessandro
ottobre 324 a.C.
Muore Efestione
10 giugno 323 a.C.
Alessandro muore a Babilonia I suoi generali dividono l'impero Tolomeo reclama per sé l'Egitto
321 a.C.
Il corteo funebre di Alessandro si dirige verso la Macedonia Tolomeo attacca la processione Il corpo viene portato in Egitto
305 a.C.
Tolomeo è incoronato faraone
283 a.C.
Muore Tolomeo I
215 a.C.
Tolomeo IV fa erigere il Soma per ospitare le spoglie di Alessandro
200 d.C.
San Marco viene martirizzato ad Alessandria e il suo corpo nascosto
391 d.C.
Il Soma viene distrutto e il corpo di Alessandro Magno scompare
828 d.C.
Le spoglie di san Marco vengono riportate a Venezia da mercanti locali e conservate nel palazzo del doge, ma col tempo se ne dimentica la collocazione
giugno 1094 d.C.
Il corpo di san Marco ricompare a Venezia
1835 d.C.
San Marco viene traslato dalla cripta sotto l'altare principale della basilica che porta il suo nome
RINGRAZIAMENTI Prima di tutto, un grazie a Pam Ahearn; e state in guardia: un agente con un nuovo BlackBerry può essere molto pericoloso. Poi, come sempre, alle meravigliose persone della Random House: Gina Centrello, il mio editore (cosa che dico con grande orgoglio); Libby McGuire, che c'è sempre per un sostegno incrollabile; Mark Tavani, con le solite preziosissime osservazioni editoriali; Cindy Murray, che si diverte un sacco a mandarmi via; Kim Hovey, che, non so come, fa sì che la gente mi apprezzi; Rachel Kind, che dissemina i libri per tutto il globo; Beck Stvan, eccelso realizzatore di copertine; Carole Lowenstein e il suo innovativo gruppo di arredatori d'interni; e infine tutti i responsabili del reparto Promozione e Vendita, senza il cui ottimo lavoro non ci sarebbero stati i risultati che abbiamo ottenuto. Ci sono anche altre persone da citare: Vicki Satlow, la nostra agente letteraria italiana che ha reso produttivo il viaggio in Italia; Michele Benzoni e sua moglie, Leslie, che ci hanno fatto sentire i benvenuti a Venezia; Cristina Cortese, che ci ha mostrato la basilica di San Marco fornendo informazioni di grande importanza; tutta l'impareggiabile squadra della Nord: davvero fantastici; e Damaris Corrigan, una splendida signora che, una sera a cena, ha stimolato la mia immaginazione. I miei sinceri ringraziamenti a tutti voi. A mio fratello Bob e a sua moglie Kim, oltre ai figli Lyndsey e Grant, una menzione dovuta da molto tempo. Anche se non lo dico spesso e qui certo non basta, tutti voi siete davvero speciali per me. Infine, questo libro è dedicato alla donna che è mia moglie da qualche mese, che ha visto questa storia crescere passando da un'idea approssimativa a delle parole sulla pagina. Per tutto il tempo mi ha regalato consigli, critiche e incoraggiamenti.