GRAHAM JOYCE L'UOMO DIETRO IL VETRO (The Fats Of Life, 2002) A mia madre e mio padre, che hanno resistito al blitz di Co...
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GRAHAM JOYCE L'UOMO DIETRO IL VETRO (The Fats Of Life, 2002) A mia madre e mio padre, che hanno resistito al blitz di Coventry, e a tutti quelli che guardano le macerie e ricominciano. 1 Se lei non c'è? pensa Cassie. Se non viene? Se lei non c'è, che si fa? Che si fa? Non ancora ventun anni, ma gli occhi asciutti, Cassie Vine stringe il bimbo senza nome sotto il soprabito e socchiude le palpebre nel vento. È mezzogiorno, sono passate tre settimane dal Giorno della Vittoria in Europa, e lei sta sui gradini di pietra bianca, sotto il portico della National Provincial Bank, in attesa di fare la consegna. Di fronte a lei geme la città di Coventry, bombardata e a pezzi. Sul lato opposto, il guscio vuoto dei grandi magazzini Owen & Owen; sulla destra, la cattedrale medievale bruciata, le arcate gotiche distrutte e le guglie simili alle costole e al collo di una colossale creatura disseppellita; nel mezzo, deserti spianati e scavati e grandi magazzini lesionati in attesa della demolizione. Cassie abbraccia il suo bambino. L'ha già, fatto. Quattro anni or sono, su quegli stessi gradini, sotto la stessa tettoia neoclassica, ma prima che rimuovessero le macerie e le rotaie contorte del tram, coi tubi dell'acqua rotti che ancora gorgogliavano e sibilavano sotto i mattoni rovesciati. Prima che erigessero una fila di negozi temporanei e inadeguati lungo Broadgate. Quella volta era una bambina. Stavolta un maschietto. E se lei non viene, pensa Cassie, che si fa? Me lo tengo, porcaccia miseria, ecco che si fa. Possono dire quello che gli pare. Possono andare al diavolo, porcaccia miseria. Apre il soprabito, scosta la coperta dal viso del piccino che dorme e le si stringe il cuore. Perché sa che dovrebbe essere diverso. Perché, dopo l'ultima volta, il suo cuore di ragazza si sentiva come una cattedrale bombardata, cenere fumante, altare contorto, vetrate infrante, Signore, pietà. Le dodici e cinque e ancora nessun segno. Le do tempo fino alle dodici e un quarto, pensa Cassie. Tutto qui. Fino a un quarto.
Non ci si può fidare, sapete, non ci si può fidare di Cassie. Che razza di madre sarebbe? Così hanno detto le sue sorelle, così hanno mormorato con voci supplichevoli e gentili, ma con una durezza di cuore sotto le buone intenzioni. No, Cassie, non è giusto. Lo sai che non puoi farcela. Cosa farai, quando avrai una delle tue crisi, Cassie, cosa farai? Pensa al marmocchio. Povero piccolino, pensa a lui. Dagli una possibilità, Cassie, là dove ce n'è bisogno e c'è qualcuno che si vuole prendere cura di lui. Era stata Beatie, sua sorella, piantando rivetti nelle fusoliere dei bombardieri Lancaster, a trovarne una disposta. Con la penuria di uomini, di questi tempi, pare che ci sia sempre una donna disposta. Arriverà alle dodici in punto, Cassie, bada a non fare tardi. Non vorrai che ti vedano a ciondolare, e nemmeno lei lo vorrebbe. E l'altra volta era andata così, consegna precisa a mezzogiorno, senza una parola né una sillaba né un fiato. Niente domande, niente nomi, niente guai, consegna fatta e bimba andata. Ma stavolta è tardi. Mezzogiorno e dieci e ancora non arriva. Cassie bilancia il peso da un piede all'altro, fissando negli occhi ogni donna che si avvicina, congelandola nel mirino del suo sguardo, ma nessuna viene a reclamare il fagottino. Il bambino cui non ha ancora dato un nome. No, non dargli un nome, Cassie, servirà solo a rendere le cose più difficili quando arriverà il momento. Un nome te lo renderà reale. Come se quel fardello di gorgoglii e lamenti e vomito e infinita, paffuta dolcezza non fosse già reale, come se non facesse parte di lei, come se il suo fegato e le sue budella non fossero parte di lei, come se potesse darlo via senza sentire il rumore della pelle che si strappa e delle ossa che si spezzano. Questo è un posto dove stanno le prostitute, la sera, le ha detto sua sorella Una, alzando un sopracciglio. Sui gradini della banca. Le signore della notte. Baldracche. Profumo da quattro soldi e calze di nylon americane. Perché darla via gratis, quando puoi farci dei bei soldi? Cassie si domanda se quelle donne sono state nel punto esatto in cui sta lei ora. A spruzzare il loro odore come gatti randagi. Alza gli occhi. La guglia incenerita della cattedrale di St Michael fora le nuvole azzurre e il cuore le balza in gola, uno. La seconda guglia di Holy Trinity e il cuore balza di nuovo, due. E lei pensa alla torre slanciata di St John alle sue spalle, tre. E continua la conta in questa città delle tre guglie: uno, due, tre. Perché al tre si salta. E pensa che, da un momento all'altro, potrebbe farlo. Mezzogiorno e dodici, e Cassie sente un brivido, un'ondata di possibilità
al pensiero che la donna non verrà. Poi, attraverso la folla, vede una sagoma diritta in un soprabito blu marine e foulard nero che cammina in linea retta verso di lei, faccia tirata e mascella come maceria di cattedrale, bocca storta, occhi freddi. In quel momento (ma soltanto per Cassie, che vede ciò che gli altri rifiutano di vedere) una lancia di luce dorata si proietta da ciascuna delle tre guglie della città, intersecandosi in un punto di fuoco sul fagotto tra le sue braccia. No, pensa Cassie, stavolta non succederà, e conta uno, due, tre e salta attraverso il triangolo di luce nello spazio azzurro, portando con sé il bambino e lasciando la donna nel soprabito blu marine sui gradini della banca, con le braccia tese e la bocca aperta, atterrita. Cassie è imprevedibile, Cassie è stramba, Cassie è l'ultima ragazza al mondo adatta a crescere un figlio. Tutti d'accordo. Ma quando Cassie torna nella casa della sua famiglia, adiacente al negozio chiuso di macchine per cucire, la vedono col fagottino del neonato e smettono di parlare. Perché sono tutte lì, le sorelle. Riunite per dare sostegno. È questo che fanno le Vine nei momenti di crisi, nei momenti importanti. Si raggruppano, preparano le difese, si schierano in posizione. Tutt'e sei le sorelle di Cassie, più mamma Martha - grande e grossa sulla sua poltrona sotto l'orologio di mogano che ticchetta forte alla parete, accanto al fuoco di carbone - che fuma la pipa. Nel silenzio carico di tensione, i denti gialli di Martha schioccano sulla cannuccia della pipa. Sono gli occhi socchiusi di Martha che Cassie incontra per primi. Poi le donne si mettono a parlare tutte insieme. «Se l'è riportato indietro, se l'è», dichiara Aida, come se il momento richiedesse una simile, brillante ovvietà. «Be', la nostra Cassie!» fa Olive. Beatie dagli occhi umidi domanda: «Allora non si è fatta vedere?» «Non mi dire», aggiunge Ina. «Cos'è che succede?» s'informa Una. «Questo è un bel problema», afferma Evelyn. E Cassie sospira. Sta ferma lì e sospira, e il calore del focolare le riporta sul viso un bel colorito roseo. È come se non fosse lì, tra quelle rumorose, indiscrete, affettuose sorelle. Cassie, coi suoi ricci neri da zingara soffici e lucenti e coi limpidi occhi azzurri, sognante, stringe a sé il fagotto che si disfa mentre tutte gridano, discutono, gesticolano e si torcono le mani. È Martha a riportare all'ordine lei e tutte le altre figlie, battendo il bastone da passeggio sul fianco del secchio per il carbone. «Silenzio! Silenzio! Si può avere un po' di pace in questa casa? Cassie, togliti il soprabito. Olive, dalle un po' di tè, ti spiace? Cassie, tu dammi il bambino intanto che ti
sistemi. E tutte le altre, silenzio!» Martha prende il bimbo da Cassie e torna a sedersi. Olive versa il tè. Una aiuta Cassie a levarsi il cappotto e resta lì, a piedi uniti, col soprabito piegato sul braccio, come se Cassie potesse ricevere l'ordine di rimetterselo da un momento all'altro. Beatie tira fuori una sedia da sotto il tavolo a ribalta. Cassie si siede, grata. Sorseggia il tè, ricomponendosi, mentre le altre aspettano. «Dunque», dice Martha, vuotando la pipa in una ciotola sul bracciolo della poltrona. «Dicci cosa è successo.» «Non è venuto nessuno. Ecco. Tutto qui.» «Questo mi sorprende», fa Beatie. «Mi sorprende a dir poco.» «Dove sei stata tutto questo tempo?» vuol sapere Martha. Sono passate le quattro del pomeriggio. «Certo non ad aspettare, eh?» «In giro.» A sentir quello, le sorelle si scambiano alcune occhiate. Occhiate di conferma. È per questo, in fin dei conti, che non ci si può fidare di Cassie per allevare un bambino. Ha la tendenza ad andare in giro. Martha si volta per interrogare Beatie sul suo contatto alla fabbrica di bombardieri ArmstrongWhitworth. «Sei sicura che fosse tutto ben chiaro?» «Certo che sono sicura. Era la sorella di Joan Philpot. Non può avere bambini dal momento che...» «Dal momento che non ha un marito!» interviene Una. «Ce lo aveva, in marina, ma è affondato con la Hood. Ma non è questo, cioè, potrebbe sempre trovarsi un altro marinaio, no? No, le hanno tolto l'utero quando aveva solo vent'anni. E Joan ha detto che per questo aveva la testa confusa. Aveva ridipinto la stanza tutta da sola, aveva. Anche se a dire il vero voleva una bambina, comunque aveva una voglia pazza di prenderselo, aveva.» «Non le hai detto l'ora sbagliata?» «Mezzogiorno, oggi, gradini della banca! Non sono stupida, cavolo. Non riesco a credere che non sia venuta. Quanto hai aspettato, Cassie?» «Ho aspettato un pezzo.» «Quanto?» «Le ho dato fino a mezzogiorno e un quarto.» «E un quarto!» grida Beatie. «Forse ha avuto un contrattempo! Potevi aspettare almeno mezz'ora!» «Come minimo!» dice Olive. Questo le fa ricominciare tutte a urlare, a discutere su quanto sia ragio-
nevole che una donna aspetti prima di cedere suo figlio a un'estranea. Aida dichiara che per una cosa del genere lei aspetterebbe sino alla fine dell'ora. Anche Beatie. Ina dice che Cassie dev'essersi voltata proprio mentre l'altra arrivava. Soltanto Una ed Evelyn sembrano pensare che un quarto d'ora sia un'attesa sufficiente. Martha batte di nuovo il bastone sul secchio. «Dovremo combinare un'altra consegna. È l'unica cosa da fare.» «No», dice Cassie. «Be', non puoi tenerlo, ragazza mia, ne abbiamo già parlato.» «No.» Le sorelle rammentano a Cassie perché non può tenerlo. C'è stata quella volta che è sparita per una settimana e nessuno a tutt'oggi ha mai saputo dove o perché. E la volta che il poliziotto l'ha riportata a casa alle tre del mattino, quando l'avevano trovata a vagare nel guscio bombardato di Owen & Owen. C'era stato l'episodio coi soldati americani, e guarda dove l'aveva portata. E la volta che i vigili del fuoco avevano dovuto tirarla giù dal tetto. E la volta che aveva bevuto quel whisky che il marito di Olive aveva razziato dalla cantina di Watson. Per non parlare della spaventosa notte del blitz di Coventry. Per non parlarne. Eccetera, eccetera. Che razza di madre sarai, Cassie? Cassie piange. Mette la testa sul tavolo e piange. «Vedo se riesco a combinare un'altra consegna», dice piano Beatie. Martha stringe il bambino, di appena sette giorni, e osserva attentamente la sua figlia più giovane. Non si ha memoria di lacrime che abbiano fatto breccia in Martha. Ma, con sorpresa di tutte, dice: «No. Forse il momento è passato». «Cosa vuoi dire?» domanda Evelyn. «Voglio dire che qualche volta, quando la gente fa tardi, fa tardi per un motivo. Qualche volta le cose hanno un loro modo di dirti che così non va», dice Martha. «Ma lei non può tenerlo», fa Aida. Aida è la figlia maggiore, già sui trentacinque anni e dunque autorizzata a capeggiare l'opposizione alla volontà di Martha. «Non sarebbe giusto per il bambino. E sai che nessuna di noi è in condizione di tenerlo. E tu sei troppo vecchia, tra il bastone e tutto quanto.» «So che nessuna di voi lo vuole», ammette Martha. «Ne abbiamo già parlato. E non vedo perché una di voi dovrebbe addossarsi il fardello del bambino. Lei si è presa il miele, lei deve prendersi un po' del fiele. Ma a-
scoltatemi. Non ce n'è una tra voi che non si sia sentita spregevole per come abbiamo dato via l'altra. Non una. E pure io. Non passa giorno senza che mi torni in mente. Perciò forse possiamo riparare per metà.» «Come faremo?» domanda Aida. «E poi ci sono io, con la mia asma...» «Ce lo divideremo. A turno», dice Martha. «Dividere? Non possiamo dividercelo!» strilla Olive. «Possiamo e lo faremo», dichiara Martha. E stringe il piccolo e gli dà un buffetto sul mento. Le sorelle cominciano subito a discutere. La stanza è una voliera di voci che si levano a gara. Cassie alza gli occhi, mentre nel mezzo di quel pandemonio avanza Arthur Vine, il marito di Martha, il padre di tutte le ragazze. Cassie è sempre stata la sua preferita, ma stavolta non riesce a trovare un sorriso per lei. Le fa un breve cenno col capo e ignora le altre. È una sanzione. Cassie solleva il viso e muove le labbra in un «grazie» silenzioso al vecchio. Ma lui non sopporta la confusione. Agita un braccio e lascia la stanza. In fondo, quella è una cosa da donne. Martha batte il bastone contro il secchio, zittendo tutte una terza volta. «Ssst! Sentite! C'era qualcuno alla porta?» Martha «sente» spesso qualcuno alla porta. Le sorelle ci sono abituate. Fingono di aguzzare le orecchie per un momento. «Non c'è nessuno, ma'», dice Beatie. «Nessuno, ma'. Nessuno», conferma Una. Martha sprofonda di nuovo nella sua poltrona sotto l'orologio ticchettante. Infatti, con l'arrivo di nessuno alla porta, pare si sia raggiunta una decisione. 2 Non c'è nessuno. La domanda: E se mai ci fosse stato qualcuno? avrebbe assillato Frank per tutta la vita. Frank. Così infatti venne chiamato il bambino da Cassie, e molto in fretta dopo la mancata consegna, perché lei sapeva che, quando Frank avesse avuto un nome, l'avrebbero amato oppure odiato, ma non l'avrebbero dato via. Frank Arthur Vine, Frank per motivi che Cassie non rivelava, però Martha e tutte le sorelle potevano indovinare, dal momento che l'unico Frank che conoscessero era un acchiappatopi incontinente in pensione che ancora abitava nella casetta mezza bombardata in fondo alla strada; e Arthur come il padre di Cassie. «Arthur, dev'essere?» aveva chiesto Martha in tono sprezzante.
Sull'argomento nomi, Martha non avrebbe avuto diritto di essere sprezzante. Quando aveva cominciato il gioco di dare il nome alle figlie - Aida, le gemelle Evelyn e Ina, Olive e Una -, non le era mai venuto in mente che avrebbe potuto esaurire le vocali. Così, quand'era arrivata la successiva, aveva attaccato con le consonanti: Beatrice. Cassie era giunta in seguito, conseguenza di una notte di sfrenata e incauta passione dopo i festeggiamenti per l'elezione del primo governo laburista in assoluto, nel 1924. «Basta così», aveva detto Arthur Vine, scioccato dalla fecondità della moglie. «Non ho intenzione di arrivare sino alla fine del maledetto alfabeto.» Gli pareva che bastasse guardare Martha con una vaga intenzione perché lei restasse incinta. Sia come sia, dopo la nascita di Cassie non si era più avvicinato alla moglie. «Mi farò sigillare la punta a martellate», aveva detto ai suoi compagni di bevute giù al Salutation Inn. Naturalmente era uno scherzo, ma forse la battuta sull'alfabeto non lo era. Dopo la nascita di Cassie, Arthur, che era sempre stato taciturno, aveva rinunciato quasi del tutto alla parola. Diceva alla moglie il minimo indispensabile, alle figlie ancor meno, e soddisfaceva le sue eventuali esigenze di conversazione con una scappata al pub. Se Martha lo sfidava, lui ribatteva che una casa sommersa dagli schiamazzi di otto donne strepitanti era sufficiente a condannare al silenzio qualunque uomo. E, quando lei lo sfidava di nuovo, sosteneva che, con la casa tanto carica di stupidaggini, non voleva aprire bocca per aggiungerne altre. Se è questo che vuole, questo avrà, aveva deciso Martha. Con Arthur chiuso in quello che si sarebbe potuto definire un mutismo volontario, poteva passare un anno intero senza che tra i due venissero scambiate più di trenta o quaranta parole. Martha, con sette figlie cui badare, discorreva già a sufficienza. Mentre Arthur era fuori a lavorare nella fabbrica di automobili Daimler che tanto detestava, a lei toccava fare, riparare, pulire e nutrire... Tutte le cose necessarie per portare avanti una casa affollata. Sicché, quand'era arrivato Frank, e benché lei avesse cercato d'indurire il proprio cuore nei confronti del bambino, le era sembrato un risveglio della corrente, il rinnovato fluire della vita nella casa, un ritorno a quello che le era stato negato dall'allontanamento di Arthur. E, anche se le scricchiolavano le giunture ogni volta che prendeva in braccio il bambino, anche se l'artrite infuriava, anche se le era difficile alzarsi senza l'aiuto del bastone, guardava lui e i suoi sereni occhi azzurri che a loro volta la guardavano e... che poteva fare? Era, dopotutto, il figlio che non aveva mai avuto.
O il figlio che non era mai cresciuto. Cerano stati tre maschi. Uno era morto nella culla e due appena nati. A volte, a Martha sembrava proprio che nella sua casa, un tempo gremita, non ci fosse nessuno. Soltanto Beatrice e Cassie vivevano ancora lì; le altre sorelle si erano sposate o avevano traslocato prima della guerra. Beatie aveva il suo lavoro in fabbrica e la scuola serale. Cassie era stramba e con lei, certe volte, era impossibile fare un discorso sensato. Più la casa era vuota, più era sconcertante e, più sconcertava, più Martha sognava. Era sempre il sogno di qualcuno che bussava alla porta. Cinque anni prima della nascita di Frank, mentre la nazione affrontava il suo momento più buio, Martha stava seduta sulla sua poltrona, pensando a cosa avrebbe potuto fare se i tedeschi avessero invaso il Paese. All'epoca sembrava probabile. Avevano respinto l'esercito a Dunkerque e l'invasione pareva inevitabile. Il suo istinto da combattente le suggeriva di scappare in montagna e resistere, ma aveva anche figlie giovani cui pensare. Allora Cassie aveva quindici anni e Beatie diciassette. Entrambe abbastanza grandi per combattere, aveva concluso, scolando il suo bicchiere quotidiano di birra scura. Era stato allora che avevano bussato alla porta. Colpi smorzati. Tre volte. Quando aveva aperto, il marito di Olive, William, si era messo sull'attenti. Martha era rimasta allibita. La sua divisa da soldato era a brandelli, nera di fuliggine. Un dito sudicio spuntava da uno degli scarponi sdruciti. L'uomo sembrava esausto e aveva la testa bendata. Vicino alla tempia sinistra c'era una rosellina, un bocciolo di sangue fresco. Una volta ripresasi dallo shock, era impazzita di gioia. «Dovresti essere a Dunkerque!» aveva gridato. «Ti hanno tirato fuori, allora? Entra, entra, non startene lì.» La divisa - camicia strappata e pantaloni kaki - puzzava. Martha sentiva su di lui odore di acqua salata, sabbia, nafta e sudore rancido. E qualcos'altro. Un odore sporco che non riusciva a identificare, forse un effluvio spirituale. Le aveva dato una leggera nausea. Aveva fatto entrare William. «Olive non c'è. Ora mando la nostra Cassie a prenderla. Le verrà un colpo quando ti vede. Cassie! Cassie! Vieni a vedere chi c'è. Cassie! Ma dov'è quella ragazza? Quando la vuoi non c'è mai! Ti do qualcosa da bere? Stai tremando, William? Com'è che ti hanno lasciato andare? Non ce l'hanno mai detto! Che stai facendo, William?» William stava rovistando nei cassetti. Aveva aperto il primo cassetto della credenza, passando le mani tra le tovagliette da tè, i centrini e le to-
vaglie, frugando, frugando. Quindi aveva aperto il secondo cassetto, raspando con le dita sul retro. Non avendo trovato nulla, era andato al cassettone di rovere dall'altra parte della stanza, cominciando un'analoga perlustrazione dei cassetti. William non aveva ancora parlato. «Che diamine stai cercando?» aveva chiesto Martha. «Cassie? Dove sei?» William aveva aperto la bocca, ma non ne era uscito nessun suono. Non prima che avesse ripreso la sua meticolosa ricerca, Martha udì la parola: «Tedeschi». Martha aveva riso, ma era stata una risata spaventata. «Be', non ne troverai tra le mie tovaglie.» All'improvviso, Martha aveva sentito freddo. William era passato dal salotto alla cucina, dove il fuoco si era spento. La cenere nel caminetto sembrava umida. L'orologio sulla parete ticchettava troppo forte. Di Cassie non c'era traccia, sicché Martha era tornata in salotto. Da quella stanza, la porta si apriva direttamente sulla strada. William stava già andando via. «Dove vai, William? Voglio andare a prendere la nostra Olive!» William si era girato. Il viso era per metà oscurato dalla porta. Quindi era svanito, trotterellando lungo la strada, respirando a fatica, un respiro che sembrava farsi più sonoro a mano a mano che si allontanava. Martha lo aveva chiamato finché lui non era svanito in lontananza. Poi aveva guardato da un capo all'altro della strada. Era vuota. Non c'era traffico, né gente. Dopo aver chiuso silenziosamente la porta, Martha, sconcertata, aveva guardato i cassetti in cui William aveva frugato. Poi, lasciando i cassetti aperti, era tornata in cucina, crollando sulla sua poltrona sotto l'orologio. Aveva fissato la cenere fredda e umida nel focolare. Dopo un po', appoggiata la testa allo schienale, si era addormentata. Quando si era svegliata, qualcuno aveva riacceso il fuoco. Il carbone era sprofondato su un letto di braci luminose e ardenti e si spostava nel focolare. Martha aveva battuto le palpebre in direzione della quindicenne Cassie, la sua adorata, piccola testa matta, che stava asciugando i piatti all'acquaio della cucina. «William è appena stato qui.» «Ma'?» «Il William di Olive. È appena stato qui. L'hai visto?» «Ma'?» «Dove sei andata, Cassie? Ti ho chiamato forte.» «Non sono andata da nessuna parte. Ero qui. A lavare i piatti. E ad a-
sciugarli, ma', ad asciugarli.» Martha si era alzata - non aveva bisogno del bastone, allora - e aveva attraversato il salotto. Tutti i cassetti erano stati richiusi. Le era girata la testa. Aveva dovuto tornare al suo posto sotto l'orologio. «Prendimi una bottiglia di birra scura, Cassie. Mi ha messo proprio sottosopra, mi ha messo.» «Cosa, ma'?» «Vedere il William di Olive così, con la testa tutta fasciata. Devo essermelo sognato. Dov'è andato a finire quel bicchiere di birra scura?» «Eccolo qua, ma', questo ti tirerà su. Lo sai cosa sei? Sei stramba, ecco cosa!» Stramba. Era la parola che tutte le sorelle e la stessa Martha usavano per descrivere gli eccessi di Cassie. «Passamelo qua, ti spiace? Mi ha messo proprio sottosopra, mi ha messo.» Quella stessa settimana, William era tornato. Era uno degli ultimi della retroguardia tirata via dal fumante, disastroso massacro della spiaggia di Dunkerque. E, quand'era arrivato sul serio, indossava una sudicia, strappata e puzzolente divisa da soldato. A differenza del suo spettro, che aveva fatto visita a Martha sei giorni prima, era entrato dalla porta di servizio, interrompendo un tè con pane imburrato e marmellata di ribes. C'erano Martha, Cassie e Beatie, come sempre. E c'era anche Olive, sua moglie. Stavano ridendo di una battuta quando lui aveva varcato la soglia. Si erano voltate tutte, sorprese da quell'intruso, e nessuna lo aveva riconosciuto. Aveva la barba lunga e la pioggia gli aveva appiccicato alla testa i capelli cortissimi. La divisa puzzolente era annerita e macchiata d'olio. L'acqua salata gli aveva lasciato i segni della marea sui pantaloni; aveva trascorso ore in piedi nel mare. Gli scarponi erano screpolati e le impunture di pelle si erano dissolte. Sbucava fuori un dito annerito. Olive si era alzata, balbettando. Poi era svenuta. Alle truppe evacuate da Dunkerque non era permesso tornare a casa in simili condizioni. Era deleterio per il morale farsi vedere così dalla gente. Una volta sbarcati dalla flotta di soccorso, i soldati erano trasportati ai campi di transito, dove venivano ripuliti, dotati di nuove divise e istruiti su cosa dire della disastrosa spedizione. Ma il treno che portava William al suo campo di transito aveva rallentato passando per Rugby. Disobbedendo al suo sergente, William era saltato sulla banchina, deciso a trovarsi da solo la strada per Coventry. Da Rugby, un allevatore di maiali con un furgone gli aveva dato un passaggio fino alla porta di casa. Nel momento in cui Olive era svenuta, nello spettro scarmigliato alla
porta di servizio tutte avevano riconosciuto William. Martha aveva cercato subito una ferita e, anche se non c'erano più bende, aveva visto la lesione. Un ciuffo di capelli gli era stato tagliato sulla tempia e c'era un grumo di sangue rappreso, come un fiore pressato sulla pagina bianca di un libro. William era corso a sorreggere la moglie. Lei aveva ripreso i sensi, mormorando il suo nome. Le sorelle gli si erano fatte attorno, bombardandolo di domande. «Aria, lasciategli un po' d'aria», aveva ordinato Martha. «Dio mio, se puzza la tua divisa, William!» aveva esclamato Beatie. «Puzza di piscia», le aveva fatto eco Cassie, eccitata. Cullando Olive tra le braccia, William aveva detto: «Sì, be', in effetti mi sono pisciato addosso un paio di volte». Quella frase aveva suscitato una risata, ma poi le donne si erano rese conto che lui non stava scherzando. Olive lo aveva guardato, battendo le palpebre. Beatie aveva cercato di mettergli una tazza di tè sotto il naso. Martha aveva detto che, essendo tornato da Dunkerque in quel modo, William non voleva di certo del tè, ma del whisky. «Orca, puzzi davvero!» aveva poi aggiunto. «Togliamoci di dosso quella divisa. Beatie, metti a bollire quei calzoni. Questo ragazzo è pronto per il bagno.» «Posso avere il mio whisky, prima?» aveva chiesto William, piazzandosi su una sedia rigida. Olive non aveva ancora parlato. Continuava a fissare il marito come se potesse svanire sotto i suoi occhi. Cassie si era seduta ai piedi di William, turandosi il naso. Martha gli aveva messo una mano sul collo; Beatie gli aveva portato il whisky. Lui lo aveva trangugiato in un sorso e poi aveva teso il bicchiere per farselo riempire di nuovo. «Ma com'è che hai fatto ad arrivare qui?» aveva pensato di domandargli Beatie. William aveva raccontato la storia del treno che rallentava passando per Rugby. «Allora vedo che il treno si è quasi fermato, ecco, e dico questa è Rugby, scendo qua. Nossignore, fa il mio sergente, tu te ne stai col culo al caldo. No, faccio io, qui è casa mia, e mi alzo e quello urla siediti coglione altrimenti sei consegnato! Consegnato, faccio io, cosa fanno, mi rimandano a quella schifosa Dunkerque? E tutti i ragazzi si mettono a ridere, allora mi alzo e apro lo sportello del treno che comincia a riprendere velocità e sono giù sulla banchina e le mie gambe vanno e penso che sto per cadere faccia a terra e i ragazzi applaudono e il sergente impreca fuori dal finestrino e le mie gambe vanno e poi il treno è andato e sono a Rugby, e pen-
so, be', è finita allora.» «Be'», aveva detto Martha, asciugandosi le lacrime per il troppo ridere. «Be'», aveva detto Beatie. «Gliele hai cantate, a quel sergente!» aveva riso Cassie. William allora aveva imitato la faccia del sergente, gommosa e mobile, muovendo la bocca per mimare le parolacce che gli diceva mentre il treno si allontanava, e tutte avevano riso di nuovo. «Era brutto?» aveva chiesto Cassie. «A Dunkerque, era brutto?» «Brutto?» Allungando una mano, William aveva accarezzato i lucenti capelli neri di Cassie. «Brutto? Piccola dolce Cassie.» Poi William aveva sollevato la mano dai capelli di Cassie e si era coperto gli occhi. Gli tremavano le spalle. Poi aveva cominciato a respirare in brevi ansiti, come se non riuscisse a inspirare abbastanza aria e, anche se non emetteva nessun altro suono, calde lacrime gli bruciavano le dita e cadevano dalla mano sulla lurida uniforme kaki. Le donne si erano guardate. Tranne Martha, che guardava il fuoco. «Sto bene», aveva detto infine William. «È soltanto il sollievo. È soltanto il benedetto sollievo di essere tornato a casa.» Olive era uscita di botto dal suo silenzio. «Su, William. Tiriamoti fuori da questi stracci. Bolle quell'acqua? Badateci, eh?» Aveva cercato di sbottonargli la giubba, ma non ci era riuscita: era dura di sudiciume e la stoffa attorno alle asole era marcita sui bottoni. Cassie era andata fuori a prendere il catino di zinco e lo aveva sistemato davanti al fuoco. Beatie aveva afferrato le pentole di acqua bollente. Cassie era stata mandata a prendere un paio di cesoie per tranciare la giubba. Ma Olive non si fidava della sorella e le aveva preso le forbici. Non era stato semplice. Ci avevano provato tutte a turno, con gli occhi luccicanti, con William, che ormai si era ripreso, a dire: «Piano! Piano! Attenzione ai gioielli di famiglia!» Alla fine lo avevano spogliato, lasciandolo in mutande. Queste ultime se l'era levate da solo, vagamente imbarazzato, mentre Beatie e Martha si voltavano, mettendosi a sfaccendare. Cassie aveva continuato a fissare il cognato, un seme luccicante, nudo e bianco, spuntato fuori dal baccello della guerra. «Cassie», aveva abbaiato Martha. «Corri giù da Olive e prendi tutto quello che serve per vestire William..» Poi, quando Cassie era uscita, aveva aggiunto: «Quella ragazza...» Olive voleva togliergli la piastrina metallica, ma lui non glielo aveva permesso. «Ne avrò bisogno», aveva detto. «Non è ancora finita.» Era poi entrato a fatica nel catino. Olive gli aveva lavato i capelli, stri-
gliandolo da capo a piedi. Se Beatie e Martha erano sparite o si erano dedicate ad altre attività, non era solamente per pudore; l'improvvisa contiguità con guerra, invasione e morte induceva un altro genere di ritegno. Il cognato era tornato là dove molti non erano tornati, ed era quella la cosa più importante. Mentre William si asciugava, Olive aveva portato la divisa fuori, in cortile. Svuotando le tasche, aveva trovato una fascia nazista e una Croce di Ferro. C'erano un taccuino e un minuscolo portafoglio, che conservò. Poi aveva fatto una pila degli stracci militari, li aveva inzuppati di cherosene e gli aveva dato fuoco. Nel frattempo, Cassie era tornata con gli abiti civili che aveva preso a casa della sorella, nella strada accanto. William li aveva infilati. Le altre erano occupate a vuotare il catino e a mettere insieme qualcosa da mangiare per lui, quando Martha aveva detto: «Ho ricevuto un messaggio da te, la settimana scorsa». «Eh?» aveva detto William, picchiettando la punta della sigaretta sul pacchetto, prima di accenderla. «Sì. Sei venuto qui. Cercavi i tedeschi nell'altra stanza.» «Eh?» «Be', comunque sei a casa. È questo l'importante, no?» aveva concluso Martha. Più tardi, mentre William e le sorelle si rilassavano, bevendo whisky e birra scura, Cassie era sgattaiolata fuori, trovando il padre che osservava le braci morenti della divisa da soldato. «Pa', lo sapevi che William è tornato? È tornato da Dunkerque! Davvero!» Com'era sua abitudine, Arthur non aveva detto nulla. Aveva fatto un vago sorriso, quindi, passata una mano attraverso il fumo del falò, aveva alzato il capo al cielo, alle stelle. 3 Il problema di come, esattamente, la cura e l'assistenza di Frank sarebbero state suddivise tra le sorelle era ancora irrisolto. Martha aveva deciso, dichiarando altresì che nessuna di loro avrebbe dovuto accollarsi l'onere di quelli che lei chiamava «gli anni dei pannolini». Poteva pensarci lei stessa e, se le figlie avessero continuato a venirla a trovare come avevano sempre fatto, era comunque prevedibile che avrebbero dato una mano. «Dare una mano, sistemare, aggiustare e quel po' di roba da lavare e fare», come la metteva Martha.
C'era Cassie, dopotutto, almeno quand'era in forma, e Beatie viveva ancora a casa. Martha però stava attenta a non sovraccaricare Beatie, che aveva già un lavoro a tempo pieno più la scuola serale. Anche se la guerra era finita, la Armstrong-Whitworth era ancora sul piede di guerra. Beatie piantava rivetti - a migliaia - facendo buchi col trapano e modellando la testa a fungo. E, oltre a costruire bombardieri, Beatie, che secondo Martha «soffriva per il troppo cervello», studiava alla Workers Education Association. I sindacalisti alla fabbrica avevano notato la «sofferenza» di Beatie e l'avevano convinta a curarla frequentando corsi di scienza, storia e filosofia. Lei si era messa in coda come una cavia volontaria per la sperimentazione di un farmaco, ma sembrava che la terapia non facesse altro che amplificare i sintomi. Tornava a casa con la testa imbottita d'idee, e ciascuna di esse generava un altro buco che chiedeva a gran voce di essere colmato. «Non so chi ti stia infarcendo la testa con tutti quei concetti», disse Martha, rimescolando il carbone con un attizzatoio di ferro. «Non so cosa ne uscirà fuori.» «A me piace», intervenne Cassie. «Mi piace sentire Beatie che parla di quelle cose, anche se non capisco nemmeno una parola.» Cassie andava su e giù con Frank mollemente appeso alla spalla e col vestito sbottonato. Aveva appena allattato il piccolo e cercava di fargli fare il ruttino, tamburellandogli le dita sulla schiena. «Nessuno mi sta infarcendo la testa», protestò Beatie, accostando un fuscello al fuoco per accendersi la sigaretta. «Solo che tutto sarà diverso, ora che la guerra è finita. Sarà quello che ne faremo noi. E, se non ne facciamo niente, chi potremo incolpare?» Beatie parlava in generale, ma pensava in particolare; e il particolare, in quel caso, era la persona della WEA che le aveva svelato un argenteo calice di cultura. Era una coppa colma fino all'orlo di liquore, che pareva tornare a riempirsi subito dopo ogni sorso. Volendo, se ne poteva bere in eterno. Martha sprofondò nella sua poltrona sotto il ticchettante orologio di mogano. «Be', non vedo come può funzionare o come fai a trovare i mezzi necessari, non vedo.» «È un college speciale per sindacalisti, ma'. Operai. Gente come noi. Se negli esami si dimostra una certa predisposizione, si può ottenere una borsa di studio. Un college speciale per gli operai. A Oxford.» «Un altro di quei posti pieni di stranieri e di ladri.»
«Anche Coventry ha i suoi ladri», fece Cassie allegramente. Il piccolo Frank ruttò di cuore la sua approvazione. «E quando ti vedremmo?» domandò Martha. Là stava l'intoppo. Martha era più che favorevole al miglioramento della propria posizione... e un po' di più ci farebbe comodo, no? Ma non mi prendete le mie ragazze, le mie volpacchiotte, le mie leprotte, perché sono tutto quello che ho. «Ma tornerei a casa tutti i sabati, ma'. Tutti i sabati. Non è lontano. Non come Londra.» «Neanche come Timbuctù.» «Dov'è Timbuctù?» volle sapere Cassie. Non aveva importanza che Oxford fosse a un'ottantina di chilometri da Coventry. Era al di fuori della costellazione più prossima di Martha, e a lei piaceva che le sue figlie-satelliti si mantenessero entro un'orbita stretta. Tutte le altre abitavano, per scelta, a due passi dalla casa di famiglia, a eccezione di Una, che aveva sposato un fattore. E comunque, anche in quel caso, la fattoria si raggiungeva agevolmente in bicicletta. Beatie era la prima delle figlie a mostrare una qualche inclinazione a compiere il grande salto. C'era sotto dell'altro, e Martha sapeva sempre quando c'era sotto dell'altro. E dell'altro, stando all'esperienza di Martha, era invariabilmente un uomo. Martha poteva avvertire l'invisibile, sottaciuta presenza di un uomo con la stessa facilità con cui poteva conversare coi fantasmi alla porta. Essi si muovevano dietro le sue figlie come un'altra specie di spettri, rendendole capricciose, imprevedibili e inclini a fissare il fuoco. Lo aveva visto quando Aida era giovane, prima che sposasse il suo uomo; nelle cose che erano successe per confermare lo stato di zitelle di Evelyn e Ina; in Olive, con William, e in Una col suo fattore peloso; e naturalmente in Cassie, ogni volta che una divisa militare sfilava accanto alla casa. Ma la cosa straordinaria, rifletté Martha, era che gli uomini non lo vedevano mai. Si perdevano tutto quanto, troppo occupati a gonfiarsi come palloni e ad ascoltare la propria voce. Le donne, d'altro canto, vedevano rutto degli uomini. A un uomo in fregola cresceva all'improvviso un palco di corna maledettamente troppo grosse per la stanza; e lui se ne andava in giro con fare goffo, sbattendo le corna nell'uscio, impigliandole in quelle del giovanotto più vicino. Martha provava un po' di pena a vedere come un uomo dignitoso potesse trasformarsi in un buffone, quando gli arrivava l'aroma alle narici. Inoltre gli uomini non si accorgevano mai di come venivano manipolati.
Di quanto fosse facile per una donna farli girare in tondo, spruzzando nella stanza una parola qui o un gesto li. L'aveva visto fare anche alle sue figlie; sciocco, certo... Tuttavia, chissà come, gli uomini non notavano niente. Beatie, comunque, era stata la più riservata. Era una ragazza piuttosto graziosa, ma un tantino troppo stretta di fianchi per i gusti di Martha. Si era trattenuta, cercando la strada migliore. E il meglio andava bene, però era anche più difficile procurarselo. Forse Aida aveva fatto la scelta giusta, col suo scozzese semplice ma onesto. Oppure Olive, col suo William giocondo ma affidabile e la sua modesta ambizione di diventare fruttivendolo. O anche Una, con un marito che puzzava di mungitoio. Martha sapeva che il meglio tendeva a trascinarsi appresso un gran palco di corna, per un posto così piccolo. Quello che Martha avrebbe voluto dire a Beatie era: E che mi dici di quel giovanotto? Andrà al college del sindacato insieme con te, quel giovanotto? Ma non poteva chiederlo, perché ufficialmente non c'era nessun giovanotto. Non si era mai parlato di un giovanotto, e il modo più sicuro per ottenere la minor quantità d'informazioni su un giovanotto era chiedere qualcosa alla ragazza prima che fosse pronta a raccontare. Quindi ciò che Martha disse fu: «Odio pensarti tutta sola in un posto del genere, lo odio proprio». «Non sarò sola, ma'.» «Eh?» «Ci sarà un sacco di gente proprio come me.» «Eh?» «E c'è anche un paio di persone ai corsi della WEA, che parla di andarci.» Ci siamo, pensò Martha. «Un paio, dici?» «C'è Jennie. Di lei ti ho già parlato. È davvero in gamba, Jennie. E c'è uno che si chiama Bernard. Dovresti sentirlo, mamma. È veramente sveglio.» «Com'è che non ha combattuto in guerra?» «Si è offerto volontario due anni fa, ma'. Ma lo hanno riformato per via di un piede varo e della vista cattiva. Ma fa il corriere e il pompiere da quando aveva tredici anni e ha avuto un encomio quella notte che è bruciata Hertford Street. Si è bruciato tutto il braccio, si è.» «Mezzo cieco, bruciato e col piede varo? Sembra proprio un rottame!» «Ah!» fece Cassie. «Non è un rottame, e non ho mai conosciuto uno che sa parlare così be-
ne.» «Be', se parla tanto bene, dovremmo invitarlo a prendere il tè, se è questo che vuoi», disse Martha. Beatie alzò gli occhi, ma non replicò. Conosceva la madre abbastanza bene da sapere che l'altarino bruciato, col piede varo e mezzo cieco era stato scoperto. E non capiva proprio come fosse successo. «Cioè, un po' di compagnia maschile potrebbe farci piacere, da queste parti, vero, Cassie?» riprese Martha. «Oh, sì!» «Non voglio chiasso, ma'.» «Chiasso? Chi ha parlato di chiasso? Prenderà un sandwich col prosciutto in scatola, una tazza di tè e ci sarà grato. Non ci sarà chiasso. Non siamo tipi da far chiasso.» «Cioè... Non voglio che vengano tutte le ragazze. Sai...» implorò Beatie. «Ci saremo io e te, Cassie e naturalmente il piccolo Frank. E questo sarà tutto.» «Glielo chiederò», disse Beatie. «Iuuuuu!» Cassie, eccitata a quella prospettiva, saltò in aria. Il piccolo Frank, ancora appeso alla sua spalla, le scivolò via. Martha scattò in avanti per acchiapparlo e lo mancò. Beatie tese un braccio verso di lui, ma lo mancò anche lei. Frank cascò col naso sul tappetino. 4 Bernard Stokes era un po' rosso per l'imbarazzo, da principio. Inizialmente lento a far conversazione, si stava riscaldando. C'erano prosciutto in scatola, sandwich coi sottaceti e il tè, come aveva promesso Martha; c'erano lattuga e pomodori freschi dalla serra di Olive, per tacere di Olive in persona. Anche Aida aveva aggiunto una sedia al tavolo. Le zitelle, Evelyn e Ina, erano capitate lì per miracolosa coincidenza con un piatto di barbabietola affettata e inzuppata nell'aceto. Poi era arrivata Una, con mezza dozzina di uova dalla fattoria e Beatie, senza una parola, gliele aveva prese e le aveva messe a bollire, solo per poter ringhiare a Martha, che stava riempiendo il bollitore per un altro giro di tè: «Per l'amor di Dio, mamma!» «Non gliel'ho detto io!» aveva dichiarato Martha sottovoce, l'ampia schiena a far da scudo, in modo che il dialogo rimanesse nascosto alle altre
donne. «Dev'essere stata Cassie.» Cassie non aveva spifferato nulla. Non ce n'era bisogno. Olive aveva semplicemente notato che Beatie aveva inamidato una camicetta. Una aveva visto Martha spolverare il vasellame migliore. Tanto sarebbe valso spedire inviti su biglietti stampati in rilievo. Com'era naturale, Aida, Evelyn e Ina erano state informate. Dopotutto si trattava di vedere se il tizio sarebbe stato quello giusto per Beatie. Bernard era arrivato con le scarpe lustre e la faccia così strofinata da avere un color rosa intenso. I capelli castani erano pettinati con la riga da una parte con precisione maniacale, e lisciati con acqua e zelo di pettine. Era stato trascinato dentro casa e fatto passare rapidamente attraverso il salotto, senza il tempo di dare più di un'occhiata alla sagoma che leggeva il giornale sulla poltrona con lo schienale alto. Il vecchio signore aveva sollevato la mano in un cenno, senza alzare gli occhi dal giornale. Quindi, nella stanza sul retro, era stato messo a capotavola, ospite d'onore, servito da numerose paia di mani femminili. Era vero. Nessun giovane era entrato in casa dal giorno in cui William era tornato da Dunkerque coperto di stracci bruciacchiati e Olive era svenuta. Ma il bisogno era grande e i congedi erano brevi, quindi non era passato molto tempo che William era stato richiamato in servizio. Esattamente cinque anni dopo, William era ancora in Germania in veste di soldato del vittorioso esercito occupante. Tuttavia non era tornato nei ranghi senza lasciare a Olive un regalo da Dunkerque: una graziosa bimba di nome Joy, che ora aveva quattro anni e tre mesi. Mentre parlava, Bernard doveva abituarsi a otto paia d'occhi puntati su di lui. Quelli di Martha gentili ma indifferenti, quelli di Aida furtivi e critici, quelli di Evelyn e di Ina lacrimosi, quelli di Olive umidi di sincerità, quelli di Una spiritosi, persino beffardi, quelli di Cassie festosi e quelli di Beatie abbacchiati e contriti. Se la cavò parlando parecchio. «La ricostruzione, vedete, la ricostruzione. Dobbiamo considerarla un'opportunità. Cioè, è terribile quello che è successo a questa città, ma guardate quante catapecchie sono state eliminate. Ora dobbiamo pensare a costruire case decenti per i lavoratori.» «Ancora pane e burro, Bernard?» «Prendi un altro po' di lattuga, Bernard. Diceva Beatie che diventerai archi-tetto?» «Davvero delizioso, Mrs Vine. Sì, è la mia grande ambizione, diventare architetto. Abbiamo molto da costruire in questa città.»
«Quant'è vero», fece Aida. «Non ci sono molti esami da superare?» «Sicuro. E spero di mettermi sotto a studiare.» «Tutto qui, Bernard?» s'informò Aida. «Non sapevo che fosse così facile.» «Ancora un goccio di tè, Bernard?» «Grazie, sì. Ma ora ci saranno opportunità per la gente normale. Vedrete. Avrete sentito parlare tutti i soldati congedati. Eleggeranno un governo laburista. Dobbiamo costruire un Paese adatto non solo agli eroi, ma anche ai figli degli eroi.» «Prima dobbiamo mandar via questa banda qui», disse Una. «Non ci si può sbarazzare di Mr Churchill dopo tutto quello che ha fatto», intervenne Aida. «Lo faremo eccome, porca vacca!» gridò Beatie, con gli occhi luccicanti. «Staneremo il vecchio rospo dal mucchio del letame, come no!» «Lingua a posto!» disse Martha. «Bernard non è venuto qui per sentire male parole. Ma Beatie ha ragione. Abbiamo bisogno di gente nuova, sissignore.» «Va tutto bene, Mrs Vine. Mi piacciono le donne che sanno imprecare.» «A me no», disse Evelyn. «Nemmeno a me», fece Ina. «Be', fatto sta che davvero ci saranno opportunità per gente come noi. Guardate questa famiglia. Basta prosciutto, grazie, Mrs Vine. Il sale della terra. Se posso dir così. E le ragazze come Beatie meritano la loro occasione come chiunque altro. Lei è capace di grandi cose.» «Archi-tetto», ripeté Olive. «Mi sembra fantastico.» «Archi-tetto.» Cassie fremette di ammirazione. «Pensa un po' se lo sposassi, Beatie, e lui fosse un architetto!» Calò il silenzio. Di botto, Bernard smise di sgranocchiare la sua foglia di lattuga. Martha cavò d'impaccio tutti. «Cassie, stupidella, non è venuto qui per sposarsi; è qui per un sandwich. Ancora un po' di barbabietola, Bernard?» Ma Una lo ributtò dentro i guai: «Non ha bisogno di barbabietole, a giudicare dal colorito, ma'». Cassie rise come una iena, dando il via a tutte le altre; a tutte tranne Beatie, che strinse i denti e disse: «Cristo!» Ma nessuno la sentì. Le risate si fecero più isteriche, raggiungendo un picco lievemente pericoloso. Frattanto Bernard sorrideva e guardava a una a una le sei sorelle che ridevano. E Martha guardava lui, allargando le braccia come a dire: Questo ti tocche-
rebbe. Bernard tirò fuori un fazzoletto e si asciugò la fronte, infine sorridendo di quella situazione. Te la caverai bene, pensava Martha. Sì, te la caverai. Il tè e il resto furono sparecchiati, la tovaglia fu ripiegata. Forse le ragazze avevano percepito le conclusioni di Martha sulla faccenda; fatto sta che la compagnia delle sorelle si sciolse in modo deciso, quasi rituale, senza bisogno che nessuno dicesse una parola. Beatie sorrise a Bernard, il quale restituì il sorriso e seppe che era arrivato il momento adatto per congedarsi. Però, mentre Beatie lo stava aiutando a infilarsi la giacca e le altre sorelle si affaccendavano a sparecchiare la tavola, gli eventi presero una svolta inattesa. «Grazie del delizioso tè, Mrs Vine», disse Bernard. Nei suoi modi c'era una certa formalità che lui aveva imparato alle riunioni politiche. «Mi spiace soltanto non aver potuto salutare il signore in salotto.» Tutte le sorelle s'immobilizzarono e lo fissarono. «Immagino si tratti di Mr Vine», continuò Bernard, spolverandosi via dalle spalle la fastidiosa forfora. Le donne continuarono a tacere, finché Martha non disse: «Le sarà difficile cavare una parola da Mr Vine». «Mi ha fatto un cenno quando sono entrato, se non altro.» «Ah, sì, l'ha fatto?» «Quello era Mr Vine, presumo, no?» Martha Vine lo trapassò con uno sguardo tale che Bernard rabbrividì. «Visto?» gemette Cassie, infelice. «Visto?» Poi, impulsivamente, si precipitò da Bernard, gli prese la mano e gli schioccò un bacio sulla bocca. Beatie lo soccorse, tirandolo verso la porta. «Forza, Bernard, se vuoi prendere l'autobus!» dovette gridare. Era rimasto imbambolato. «Bernard!» Bernard fu spedito fuori in tutta fretta, lasciando Martha con sei delle sue sette figlie, le quali avrebbero riordinato, lavato e asciugato i piatti, spazzato il pavimento, rimesso le sedie nella giusta posizione e poi sarebbero andate via senza il benché minimo commento sull'accaduto. Non parlavano mai di quelle cose. Non potevano. L'unica osservazione venne da Una, mentre strofinava il tavolo di cucina. «E stava andando così bene», disse. 5
«Doveva andare meglio.» Cassie trasalì lievemente quando il piccolo Frank le tirò il capezzolo. «Adesso che è tutto finito. Dovevamo avere olio di fegato di merluzzo e succo d'arancia, ma non ne vedo.» Martha era china sull'acquaio e sbucciava le carote. «Ci terranno a razione per dieci anni, se gli gira. E potrebbe andare peggio prima che vada meglio.» «Dovremmo fare una festa quando William torna a casa, ma'. Pensi che farà un altro cuginetto per Frank? Come ha fatto Joy quand'è tornato da Dunkerque?» «Sei una stupidella, Cassie. Non spetta a me dirlo, ti pare?» «Ahia! Frank! Ma', ho i capezzoli screpolati e mi fanno male! Forse è ora che passi al biberon.» «Io non mi sono arresa così facilmente, con voi. Sette di voi. Avrei dovuto averceli di ferro, i capezzoli. E la mastite con le gemelle. Mai arresa. È per quello che Dio li ha fatti, non per far schizzare gli occhi degli uomini fuori della testa nelle sale da ballo, come sembrate pensare voialtre.» «Quel Bernard mi guardava il petto, ma'. Non riusciva a levargli gli occhi di dosso.» «Be', è la cosa più grossa che hai, visto che sei una cosina minuta.» «Non mi sarebbe dispiaciuto se ci avesse messo le mani.» «Sei una spudorata, Cassie. Spudorata.» «Oh, mamma! Non lo farei! Non a Beatie! Non alla mia adorata sorellina, lo sai. Ma non ti fa sentire bene, camminare per strada e sapere che puoi scegUere quello che vuoi, uno qualsiasi, solo con una strizzatina d'occhio, solo schioccando le dita, sapere che devono seguirti? Che sono così facili? Non ti fa sentire potente?» Martha si voltò e indicò Frank col coltello delle carote. «Ed ecco dove ti porta.» «Ne vale la pena, no, ma'? Voglio bene al mio piccolo Frank. Lui è speciale. Lo vedi, vero, ma'?» «Cassie, tu sei suonata. Sei proprio tonta. Sei strana.» «Vengo da una famiglia strana, ma'.» Strana famiglia davvero, a cominciare da Martha e dai suoi visitatori spettrali. Poi Aida, la maggiore, sposata a un uomo che, per consenso generale, pareva un cadavere ambulante; e poi le gemelle zitelle Evelyn e Ina, colonne della Chiesa spiritualista, perennemente impegnate a organizzare e documentare le visite di medium, sensitivi, chiaroveggenti,
spiritisti in deliquio con la sfera di cristallo; poi Olive, che piangeva per un nonnulla e Una che non si spremeva una lacrima per niente; e poi Beatie, che alzava il pugno per difendere la sacralità di un'idea; e Cassie che trovava sommamente strano che gli esseri umani non fossero dotati di ali per volare. Bernard - e tutti gli altri uomini allettati dai profumi e dai piacevoli richiami delle giovani Vine - avrebbe forse avuto ragione a fare un passo indietro e riflettere, prima di saltare il fosso. Perché davvero, sposandosi, sarebbe entrato in una ben strana famiglia. Martha però bandiva quei discorsi. Tutte le famiglie sono strane, asseriva, e certe sono più strane di altre. Se le guardi abbastanza da vicino, tutte hanno le loro storie bizzarre, le loro matte in solaio e gli scheletri in cantina. Ecco cosa sono, le famiglie: storie strampalate. Ma, se pure diceva così, tutte le ragazze Vine sentivano che, nella loro famiglia, c'era qualcosa che non quadrava, che non stava ben liscio e rassettato come succedeva coi Jackson, che abitavano dall'altra parte della strada e sembravano tranquilli e sereni, o con la famiglia Carpenter, che abitava di fianco e aveva modi gentili. Almeno finché non era arrivata la guerra, dovevano ammettere. Quella aveva mandato davvero tutti fuori fase e, per lungo tempo, persino i Vine erano sembrati normali, addirittura forti. Ma, ora che la pace stava riaffermando la propria posizione nei cieli e le ombre della guerra arretravano, l'angolo strano e il cancello sbilenco tornavano a dare nell'occhio. E, va detto, l'angolo più strano e il cancello più sbilenco era Cassie. «È un peccato che tu non ti sia segnata il suo nome e il suo numero», disse Martha, riferendosi al padre di Frank. Cassie l'aveva concepito in una tiepida sera di agosto, dopo una festa da ballo organizzata per i soldati americani che stavano andando a sostenere la Terza Armata del generale Patton e l'avanzata verso Parigi. «È morto, mamma. Te l'ho già detto. Ho sentito che se ne andava.» «Non puoi saperlo. Nessuno può saperlo.» «Io lo so.» Cassie aveva certamente sentito qualcosa. L'aveva colpita alla cintola, come un pugno di ferro, mentre lei stava stirando il suo grazioso vestito blu. Era il vestito che aveva indossato la sera in cui aveva conosciuto il padre di Frank e si era sdraiata in un campo con lui. L'impatto l'aveva costretta a piegarsi in due sopra l'asse da stiro e, pur non sapendo ancora di portare in grembo Frank junior, lei aveva avuto l'assoluta certezza che Frank senior si era preso un proiettile nelle viscere e aveva pensato a Cas-
sie, al suo vestito blu e a quell'unica, dolce notte in un prato inglese. L'aveva capito chiaramente, come l'avesse sentito alla radio o avesse ricevuto un telegramma dal ministero della Guerra. E, sebbene avesse girato le manopole della radio, cercando di raccogliere notizie, ovviamente le informazioni erano troppo imprecise: dicevano soltanto che la Senna era stata tagliata sopra e sotto Parigi simultaneamente, come un cordone ombelicale. E naturalmente non ci sarebbero stati telegrammi dal ministero della Guerra. I legami sentimentali non consacrati dal matrimonio non contavano, al ministero della Guerra: non mandava telegrammi alle fidanzate e di certo non spediva messaggi in seguito a storie di una notte con un GI che ruminava chewing-gum. Non che Cassie avesse bisogno di una conferma; piuttosto sentiva di meritarla. Frank senior, un po' brillo, aveva pianto dopo aver fatto l'amore con lei in un campo. Non era la sua prima volta; pur avendo più o meno l'età di Cassie, aveva già avuto delle ragazze a casa sua, a Brooklyn. Era un amante appassionato, succhiava e leccava il seno di Cassie proprio come faceva Frank junior, senza però il bruciore del capezzolo screpolato. Tuttavia, dopo essere venuto dentro di lei, aveva pianto perché pensava che non avrebbe mai più rivisto Cassie, o forse perché si era convinto che non avrebbe mai più fatto l'amore con una ragazza. Cassie non aveva mai smesso di domandarsi se anche Frank sapeva. Per via di quello che era successo con Frank, e più specificamente per quello che le era accaduto la notte del blitz, quattro anni prima, quando Coventry era stata distrutta dalla Luftwaffe, Cassie aveva finito per associare il sesso alla magia. Il fatto che il sesso portasse alla nascita dei bambini era, per lei, un esempio di magia meravigliosamente potente. Mentre gli altri levavano le mani al cielo di fronte a quella che consideravano soltanto un'altra gravidanza indesiderata, Cassie trovava in essa la conferma di poteri spettacolari, un raggio di luce in più in un universo oscuro. La necessità di provvedere al bambino e le conseguenze economiche della sua fertilità non la turbavano affatto. Ma, d'altronde, a differenza delle sorelle, Cassie sembrava vivere in un mondo libero da colpe e da ansie, in cui il passato e il futuro non erano che minuzie sospese fuori della bolla iridescente del presente. Sesso e magia erano legati, quello era certo. La domanda cui Cassie non era mai stata in grado di rispondere in maniera soddisfacente era se fosse lei a controllare la magia o viceversa. Non poteva parlare di quelle cose
con la madre o con le sorelle. Ci aveva provato, ma loro si limitavano a guardarla come se avesse due teste. La sua grande speranza era che il piccolo Frank, una volta cresciuto, diventasse così in gamba da spiegarglielo. Quando fosse stato grande abbastanza, lei gli avrebbe raccontato tutto quello che gli occorreva sapere su Frank senior. E gli avrebbe raccontato anche ciò che le era successo la notte del blitz. Lui le avrebbe creduto e glielo avrebbe spiegato. Avrebbe conosciuto la risposta a quelle domande tanto difficili perché lui era figlio della magia. Il suo spirito - e forse anche il suo concepimento - era migrato nel grembo di lei nell'istante esatto in cui suo padre si era preso un proiettile nella pancia da qualche parte vicino alla Senna, in Francia. E nello stesso modo l'altra sua bambina - la bimba che aveva dato via sui gradini della banca - era migrata nel suo grembo la notte del blitz. Era stato tutto così semplice... finché non l'avevano fatto diventare complicato. Il piccolo Frank aveva poteri speciali, per Cassie era già evidente. Lo guardava e lui la fissava di rimando come se sapesse qualcosa. Come se fosse un'anima vecchia. Cassie aveva studiato gli altri bambini per vedere se fossero immersi nella stessa luce dorata e viola. Non lo erano. Dissimulando le sue intenzioni con coccole, baci e grattini, li esaminava per capire se dimostravano di possedere le conoscenze fantasmatiche di Frank. Non le avevano. Li fissava intensamente negli occhi per vedere se vi brillava qualcosa di simile alla sua comprensione profonda. Neppure nei più belli la trovava. Naturalmente stava ben attenta a non farne mai parola con le altre madri, non volendo apparire superiore. Dopotutto quale madre non considera la sua prole eccezionalmente dotata o intelligente? Ma tutto ciò era molto diverso dal sapere. Frank aveva dei poteri. Lo aveva già dimostrato. Non c'era altro da dire. Quando accarezzava quei pensieri, Cassie lo faceva brevemente e con convinzione. Poi li allontanava. «Ma', come ti è sembrato Bernard? Come ti è sembrato, ma proprio davvero? Ho visto che lo guardavi mentre tutti gli altri parlavano. Ti ho visto che lo studiavi.» Martha si asciugò le mani su uno strofinaccio e si chinò prudentemente sulla sua poltrona accanto al fuoco e sotto l'orologio. «Hai finito? Dammi Frank per un po'. Lo tengo mentre tu mi porti un bicchiere di birra scura.» Martha beveva una sola bottiglietta di spumosa birra scura ogni giorno. Non beveva altri alcolici, a eccezione di quell'unica, salutare birra etichetta
oro. Cassie la stappò e versò la bevanda con molta cura per ottenere la giusta quantità di schiuma. Tenendo Frank - ormai appagato - col braccio destro, Martha prese la birra e la sorseggiò, schioccando le labbra con soddisfazione. «Mi è sembrato che se la caverà bene, anche se in effetti ho visto un'ombra. Anzitutto è veramente sveglio, e con Beatie, che ha la testa troppo piena, dev'essere in gamba, no? Non sopporterebbe mai uno tonto, lei. Non è neanche troppo male a guardarlo, ma non tanto bello da trovarsi tutte le sfacciatene come te che gli grattano la porta.» «Mamma!» «Ma è di quelli che corrono e si agitano sino alla fine del mondo, quando si fissano con un'idea. È troppo preciso. Troppo meticoloso. Sa quello che vuole e si è programmato talmente la vita da sapere pure quale lapide vuole sulla tomba.» «E che c'è di male in questo?» «La vita non ti lascia fare tutti questi progetti, Cassie, ecco che c'è di male. La vita ti s'infila tra i piedi e capovolge la tavola proprio quando l'hai appena apparecchiata. E le persone come Bernard, be', non lo capiscono. In loro c'è quasi troppo di buono.» «A me è sembrato un brav'uomo.» Martha scolò il bicchiere. «Sì. Spero che non sia troppo bravo per Beatie.» «Posso sedermi ai tuoi piedi, ma'?» «Quanti anni hai ormai, ragazzina? Su, su, vieni.» Cassie si accovacciò sul tappetino, appoggiandosi alle ginocchia di Martha. Accese due sigarette e ne passò una alla madre. Frank si era addormentato tra le braccia di Martha. Il fuoco nel focolare ardeva di un color arancio brillante. Le due donne fumavano in silenzio, gli occhi fissi sul fuoco, e le braci si mossero, ma leggermente. «Tu lo sai che il nostro Frank è speciale, vero, ma'?» «Tutti i bambini sono speciali, Cassie. Tutti. E tutte le madri lo pensano.» «Non parlo di questo, ma'. Sai cosa intendo. Voglio dire, è speciale.» «Cassie, non desiderare troppo che questo giovanotto sia speciale. Non farlo.» «Non lo farò, ma'.» Nel focolare, le braci si mossero di nuovo. 6
Cassie non era una cattiva madre. Vale a dire che non le mancava mai la pazienza, non era mai negligente di proposito, non metteva mai consapevolmente i propri interessi davanti a quelli del piccolo Frank. L'amore che fluiva da lei era gratuito come il latte materno e veniva bevuto avidamente. In realtà, Martha notava che Cassie era troppo impaziente di offrire il capezzolo a Frank, anche quando il bambino era evidentemente sazio. In un'epoca in cui lo spettacolo di una madre che allattava era considerato un disturbo alla quiete pubblica, Cassie era ben felice di offrire le sue mammelle stupendamente lattifere alle labbra ben fatte di Frank ovunque e in ogni momento. Nel parco, sull'autobus, nel bar pieno di soldati e avieri feriti. Fuori l'areola rosata e via con la bocca del bimbo che si serrava a succhiare. E, in tutto ciò, lei non smetteva neanche di parlare. Suscitava una bella agitazione. Mentre Cassie si godeva una tazza di tè con Beatie alla Lyons Corner House nel pieno centro della città, un signore anziano si era lamentato col proprietario. Non bisognava costringere i soldati di ritorno dal fronte a vedere cose simili, aveva affermato. Cassie non aveva capito cosa c'era di tanto sconvolgente e lo aveva detto: «Siamo qui, in una città spianata dalle bombe fino all'ultimo mattone, e lei si agita per una tetta». Torcendo una tovaglietta da tè, il proprietario aveva lanciato a Beatie un'occhiata supplichevole. Beatie aveva vuotato la sua tazza, balbettando: «Stavamo andando via». «Davvero?» aveva esclamato Cassie. Il problema di Cassie - ammesso che fosse un problema - era che non le importava di quello che la gente pensava di lei. Ma non nel senso che normalmente s'intende: non era priva di sentimenti o troppo sicura di sé oppure egoista. Il fatto era che Cassie non aveva nel cuore un briciolo di giudizio per condire la sua vita. Se qualcuno faceva qualcosa di scandaloso, lei lo osservava con interesse, ma senza giudicarlo. Le cose stavano semplicemente così. Il comportamento non era soggetto a regolamenti personali, ma era alla mercé di forze come il vento e la guerra. Non era sempre divertente. Magari faceva «un salto» a prendere le sigarette e, distratta da qualche conversazione, lasciava Frank incustodito per ore. Magari dimenticava di cambiargli il pannolino. O decideva di andare a ballare senza pensare a chi potesse occuparsi di Frank. E poteva essere sventata in altri modi.
«Cassie! Cassie, vieni qui!» le aveva detto una volta Martha, furibonda. «Cos'è questa bruciatura sulla gamba del bambino?» Cassie era scoppiata in lacrime. «Oh, ma'! Me ne stavo seduta con lui, tutto qui. E mi ha tenuto sveglia tutta la notte col fatto che sta mettendo i denti e tutto, ero tanto stanca e stavo fumando una sigaretta e mi sono appisolata e gliel'ho fatta cadere sulla gamba...» Aveva appoggiato la testa sul tavolo, singhiozzando. «Ti ci vuole una cinghiata, ragazza mia.» «Lo so, è vero.» E piangeva a dirotto. Non ci si poteva fidare di Cassie. Martha aveva avuto vent'anni per persuadersi che non c'era cattiveria in Cassie. Era soltanto imprevedibile e sprovveduta. Uno spirito libero, senza radici. Con sei sorelle che avevano la testa così ben piantata sulle spalle da indolenzirsi il collo, c'era da chiedersi da dove fosse saltata fuori. Pur non essendo la più delicata - quel primato spettava a Olive -, Martha aveva sempre pensato a Cassie come al cucciolo più piccolo e fragile. Un cervellino, pensava spesso, senza mai dirlo. Dunque i primi anni non furono privi di difficoltà. Non si poteva contare su Cassie per quella che Martha definiva un'«adeguata sorveglianza». Aveva la testa tra le nuvole e doveva essere sorvegliata lei stessa. Tutto qui: Cassie non aveva mai perduto certi tratti infantili. Sicché a Martha era affidata la cura di Frank più di quanto non le sarebbe piaciuto. Però era abbastanza saggia da consentire a Cassie le sue fughe, le sue sale da ballo, i suoi vagabondaggi. Sapeva che, placato un certo suo demone, Cassie sarebbe stata più affidabile... Fino alla volta seguente, almeno. Anche Beatie era stata un solido sostegno, finché non era venuto per lei il momento di partire. Benché fosse stata proprio lei a combinare la consegna di Frank sui gradini della Provincial Bank, Beatie si era innamorata del piccolo Frank e faceva più della sua parte, con lui. Durante il periodo del corteggiamento, Bernard e lei erano felici di trascorrere parecchio tempo facendo da baby-sitter. Nessuno dei due nuotava nell'oro e, se Cassie voleva andare a ballare e Martha al suo torneo di whist o, più raramente, nella saletta delle signore al Salutation Inn, erano felici di stare soli, mentre Frank dormiva di sopra. Bernard era stato una rivelazione. Cambiava i pannolini. Non sembrava gli dispiacesse o lo trovasse poco virile. «È meno virile fare gli schizzinosi per piccole cose come questa», diceva, grattando via merda color ocra dalle natiche da cherubino di Frank, picchiettandolo col borotalco e appun-
tando con fare esperto il pannolino pulito. «Comunque voglio sapere tutto, caso mai toccasse a noi. Tutto dovrà cambiare», aveva dichiarato. «Se avremo donne che lavorano - e dovremo averne, con questa carenza di manodopera - non potremo avere donne che vanno a lavorare e fanno tutti i lavori di casa, no? Noi uomini dobbiamo farci avanti e accollarci la nostra parte. Cambierà tutto. Tutto quanto.» Beatie era arrossita. Martha aveva alzato un sopracciglio: quella sì che era una cosa strampalata per un uomo. «È un comunista?» aveva chiesto una volta Una a Martha, dopo aver sentito uno dei discorsi di Bernard. «Non so che cosa sia», era stata la replica di Martha. «Ma non è né carne né pesce, questo qui.» Una, col suo marito fattore e con la sua vita rustica, aveva compreso l'osservazione. «È un ateo?» si erano informate le gemelle spiritualiste Evelyn e Ina. «La sua anima è molto forte, qualunque cosa sia», aveva detto Martha, per accontentarle. Aveva inoltre riferito a Olive che Bernard era giudizioso coi soldi, e alla seria Aida che era un entusiasta della cultura. A Cassie non aveva dovuto riferire nulla: a parte il fatto che lei non giudicava mai nessuno, aveva adorato Bernard fin dal primo istante. Cassie voleva che il piccolo Frank da grande diventasse come Bernard. Qualunque cosa fosse - carne, pesce, comunista, ateo - se ne andò al college del sindacato e Beatie lo seguì. Avevano entrambi studiato sodo durante gli anni in cui avevano fatto da baby-sitter ed entrambi si erano conquistati un posto al Ruskin College di Oxford. Bernard avrebbe seguito i suoi interessi architettonici, nei quali in parte era già qualificato; Beatie avrebbe studiato inglese. E a Martha sarebbero mancati moltissimo. All'epoca, Frank aveva quasi tre anni e, senza l'aiuto di Beatie, per Martha fu veramente dura. Con la sua artrite passava periodi buoni e cattivi; così, una volta che Cassie non era completamente in sé, Martha decise che era ora di reclamare quanto promesso e convocò una riunione. Quando lei convocava, tutti rispondevano. Per quella che Martha definiva appunto «la riunione», ogni altro appuntamento veniva cancellato. Una «riunione» non era molto diversa dal normale incontro domenicale delle sorelle - che comunque trascorrevano davvero troppo tempo nella casa di famiglia -, a parte il fatto che erano invitati anche i mariti (e aspiranti tali). Nessuno aveva mai ignorato o tentato di opporsi a una riunione.
Il problema degli approvvigionamenti per il gran tè della domenica della riunione fu facilmente risolto con l'espediente di far portare a ogni sorella un piatto. Aida avrebbe preparato due grandi sformati di manzo salato; Olive avrebbe portato patate bollite, lattuga fresca, pomodori, sedano e cipolline dal fiorente negozio di frutta e verdura che gestiva con William; Una avrebbe contribuito con uova sode, panna e formaggio dalla fattoria e le gemelle avrebbero fatto i dolci. Di Cassie, quanto all'arte culinaria, ci si fidava giusto per imburrare il pane. In quei tempi di razionamento, era un bel banchetto. Come per ogni riunione precedente, il problema stava nel far sedere tutti. Oltre che per le sorelle, occorreva trovare spazio per Gordon, il marito di Aida, per William, il marito di Olive, e per Tom, il marito di Una. Oltre a Joy, il regalo per Olive da Dunkerque, c'era una seconda figlia, Grace, di un anno più piccola di Frank, e la nuova arrivata, Hope. Donne ovunque, in un Paese che, si diceva, aveva bisogno di uomini. Poi c'erano Cassie e Frank. A Beatie, a Oxford, era stata concessa una dispensa speciale, ma lei arrivò ugualmente, con Bernard al seguito. Sedie con lo schienale rigido vennero prese in prestito dalla vicina, Mrs Carpenter. Il tavolo da pranzo fu spostato in cucina per essere caricato di vivande; ognuno poteva prendere un piatto, servirsi da sé e mangiare in salotto col piatto in grembo. Il treenne Frank vagava in mezzo al caos e al trambusto della riunione, come qualcuno la cui città fosse stata invasa, soggiogata e colonizzata nel giro di meno di cinque minuti. In particolare fissava gli uomini, e non lo faceva in modo acritico. Lo zio William aveva sopracciglia in levitazione permanente e batteva le palpebre di fronte agli avvenimenti domestici con sonnolenta incredulità. Qualunque orrore avesse sperimentato a Dunkerque, non era niente paragonato al trauma di trovarsi in casa con tre ragazzine nonché gestire un'attività di fruttivendolo e una moglie emotivamente dipendente da lui. Intanto Tom, il marito fattore di Una, strizzava l'occhio a Frank e si esibiva in un convincente repertorio di fischi di uccelli. Estraeva anche caramelle alla menta a strisce, oppure frizzanti al limone, dalla tasca o da dietro l'orecchio di Frank. Tom ci sapeva fare coi ragazzini, mentre Bernard ce la metteva tutta per trovare il modo di conquistarli, ma invano. Bernard prendeva Frank sulle ginocchia e faceva domande del tipo: «E cosa pensi che abbia in serbo il futuro per questa bella città, giovanotto?» Ma non aveva importanza che Bernard fosse inetto coi bambini, perché Frank era sempre affascinato ed esaltato dalla presenza di uomini in casa.
Le loro voci più sonore lo deliziavano senza spaventarlo. Lo incuriosiva che non sorridessero tanto spesso quanto le donne. Amava il modo in cui le loro voci crepitavano e si spezzavano quando ridevano. Anche il loro odore gli piaceva. Tranne lo zio Gordon, va detto. A Frank non piaceva affatto l'odore dello zìo Gordon. In realtà, Gordon rientrava in una categoria a parte. «Ogni volta che lo vedo, Gordon somiglia sempre di più a un cadavere», aveva confidato Martha a Cassie. Era vero. La pelle giallognola di Gordon sembrava incollata al cranio come carta di riso cinese: lasciava vedere ogni sporgenza e bitorzolo e sprofondava negli zigomi scavati. La somiglianza a un teschio era accentuata da una perdita quasi totale dei capelli. Frank, che all'epoca stava imparando a contare, aveva divertito tutti, cercando di fare pratica coi capelli sulla testa di Gordon. C'erano nove spessi ciuffi grigi appiccicati a partire da sotto l'orecchio destro e, dietro di esso, ciuffi che attraversavano il cocuzzolo e si esaurivano proprio vicino al sopracciglio sinistro. Durante il computo, Gordon aveva ostentato un sorriso, ma era stata un'idea infelice, dal momento che aveva scoperto una doppia fila di pioli ingialliti, dai quali le gengive rosse stavano decisamente arretrando. Quel sorriso nervoso aveva costretto Frank a tirarsi indietro e desistere. Gordon era propenso a esibire la sua mancanza di gengive ogni volta che parlava. Inoltre ogni sua parola era preceduta da un guaito prolungato, che lo faceva apparire ingaggiato in un'eroica, o semplicemente costipata, lotta con se stesso. «Ancora una fetta di sformato di manzo, Gordon?» «Iiiiiiiiiiiiiiiiii, be', no, non ci ho tutta 'sta voglia ma...» Aveva anche l'esasperante abitudine di non completare le frasi. «Un sandwich al formaggio e sottaceti, allora?» «Iiiiiiiiiiiiiii, be', sissignore, sarebbe proprio il...» Un nuovo arrivato in famiglia, come Bernard, o William prima di lui, si sarebbe forse chinato in attesa, aspettando educatamente che Gordon concludesse la sua enunciazione. E avrebbe aspettato. E aspettato. E Gordon l'avrebbe guardato, spalancando gli occhi in preda a una specie di terrore, ritraendo le labbra sulle gengive in disfacimento, come se la situazione in cui entrambi si trovavano (quella in cui Gordon non completava le frasi) fosse sorprendente per lui stesso come per chiunque altro. Martha e le sorelle, comunque, superavano con un salto il precipizio, gli cacciavano tra le fredde dita un piatto o una tazza e passavano oltre. «Tè, Gordon?»
«Iiiiiiiiiiiiiiiiiii, sissignore, be', non dico di no a...» «Ecco, tieni. Taglia ancora un paio di fette di quel pane integrale, Cassie.» Ma non erano il cranio, o le frasi strascicate, e nemmeno le gengive che arretravano dai denti di Gordon a turbare maggiormente Frank. Era l'odore. Gordon aveva uno strano odore. Era fluido per l'imbalsamazione, insieme con qualcosa di meno definito. Forse nel fluido era rimasta una zaffata di carogna. Gordon era stato chiamato a dare una mano in un'impresa di pompe funebri subito dopo il blitz di Coventry del novembre 1940, quando diverse centinaia di persone erano rimaste uccise e oltre mille ferite. Prima della guerra era un cucitore e, sgomberando macerie dopo il blitz, aveva trovato un'occupazione che gli piaceva abbastanza. Le donne chiamate a fare il suo lavoro erano sempre più numerose e, benché nella sua fabbrica rivestisse l'incarico di supervisore, lui divideva il suo tempo professionale tra quell'attività e l'altra - evidentemente più allegra - di preparare i morti per il crematorio cittadino. Martha aveva subito escluso Aida e Gordon dal compito di primi custodi di Frank. Forse alla fine avrebbero fatto la loro parte, ma lei non aveva cuore di consegnare Frank alla severa e un tantino inacidita Aida (non avere avuto figli era fonte per lei di una certa amarezza) e a quel cadavere fresco che era suo marito. No, la soluzione andava cercata altrove. Dopo che il pasto era stato spazzolato via, Martha, com'era sua abitudine, sedette sulla sua poltrona e attese che calasse il silenzio. Soltanto i bambini parvero meravigliati che ciò accadesse senza nessun segnale. «Sapete tutti perché vi ho riuniti», esordì Martha. Lo sapevano. Qualcuno guardò Martha. Altri, senza bisogno di avere una predizione, sbirciarono le foglie di tè in fondo alle loro tazze. Frank non aveva idea di quale fosse l'argomento della discussione. Cassie aveva l'aria avvilita. «Dunque, come vi ho detto qualche tempo fa riguardo al problema di Frank, dobbiamo essere tutti così bravi da fare la nostra parte a turno. È tutt'altro che ideale, ma siamo una famiglia piuttosto unita» - ci furono mormorii d'assenso - «e, se tutto resta com'è, continueremo a esserlo e a vederci molto spesso» - altri mormorii d'assenso -, «ma ora come ora le mie giunture mi fanno penare parecchio e, con Beatie che è via per studiare, be', ho bisogno di aiuto, la questione sta tutta qui. Il problema è: chi? E, prima che tutti mi diciate di essere troppo occupati con questo e quell'altro, lasciatemi parlare. Farete tutti la vostra parte, comunque sia la situazione, perché questa era la promessa. Ma, per come la vedo io, Frank dovrebbe
andare dove c'è un maschio. Lo vedete tutti com'è affascinato dagli uomini e ha passato più di tre anni tra le gonnelle, tra una storia e l'altra. Perciò comincerò col dire che le gemelle potranno forse essere prese in considerazione più avanti, ma non adesso.» Evelyn e Ina avevano un'aria colpevole e sollevata nel contempo. Bernard si alzò e si cacciò il pollice sotto il bavero, proprio come avrebbe fatto prendendo la parola a un comizio. «Ne ho parlato con Beatie, Mrs Vine», esordì con dialettica degna di un oratore che arringa una piccola folla da sopra una cassetta di legno. «E lei e io siamo pronti a prenderlo con noi in qualsiasi momento. In qualsiasi momento lei voglia.» «Ma è totalmente assurdo», replicò Martha. «Vivete in stanze separate, con una camera a testa.» Bernard arrossì. «Ci abbiamo pensato. C'è la possibilità che si trovi un altro posto per noi. In una comune appena fuori Oxford.» «In una comune?» ripeté Aida. «Non mi piace come suona.» «Cos'è una comune?» domandò Tom a Una, che a sua volta fece spallucce. «È piena di brave persone», spiegò Beatie, gli occhi luccicanti. «Ci sono anche altri bambini. Sarebbe l'ideale.» Martha sollevò la mano. «Siete molto buoni, tutti e due. Ma avete la vostra cultura cui pensare. Il vostro momento verrà se e quando vi sarete sistemati, potete contarci. Ma per adesso siete fuori discussione. William e Olive hanno il loro daffare con queste adorabili bambine. Restano Una e Tom e Aida e Gordon.» Aida e Gordon, Una e Tom fissarono il pavimento. «Ma, ma, ma...» Bernard non riuscì proprio a trattenersi, «Cassie non avrebbe il diritto di dire la sua?» Tutte le teste si voltarono verso Bernard. Martha, imperturbata, guardò la figlia minore. «Cassie?» Evidentemente Cassie aveva il diritto di dire la sua, ma non ne aveva intenzione. Gli occhi umidi, il labbro inferiore sporto in fuori, come facevano i bambini, Cassie scosse la testa. «Mi sembra che Una e Tom abbiano un grande carico sulle spalle alla fattoria, e non si può pretendere che trovino il supplemento di amore necessario per questo impegno», continuò Martha. «La fattoria deve rendere al meglio, e non c'è ancora spazio per l'amore di un bambino. Troppo da fare. E non si dovrebbe mai mettere un bambino dove non c'è amore, anche se non sarebbe colpa di Una né di Tom. Perciò è ad Aida che mi rivol-
go.» Aida si grattò il ginocchio. Gordon ritrasse le labbra e spalancò gli occhi in preda al panico, offrendo agli astanti il suo sorriso più cadaverico. Tom si schiarì la gola prima di parlare. «Calma, un momento, Martha. Cos'è questa storia che a casa nostra non c'è amore? Chi l'ha detto?» Una era rossa in viso. «Perché dici questo, ma'? L'amore non è mai mancato, alla fattoria.» «È il lavoro che avete, tutti e due. Mungere e nutrire e tutto quello che c'è da fare in una fattoria. Non ho intenzione di caricarvi di altro lavoro. È la fatica che mi spaventa.» Tom era indignato. «È soltanto una bocca in più fra tante.» «Il bambino non è un animale da cortile, Tom», intervenne Olive. «Tom lo sa», replicò Una, furiosa. «Sta dicendo che non sarebbe una fatica in più, ecco cosa sta dicendo. E alla fattoria ci sarebbe aria fresca per il ragazzo e acqua e sapone... Quanto poi alla mancanza d'amore, è un posto né migliore né peggiore di qualsiasi altro. E c'è spazio! E Cassie potrebbe venire a vivere con noi o stare qui, o venire alla fattoria nei fine settimana, come preferisce.» Martha scosse la testa e si rivolse ad Aida. «Be', Aida, col fatto che sei la maggiore, più o meno avevo deciso che fossi tu a fare il primo turno. Se adesso lo affido a Una, ti deluderò. Che cosa dici?» Aida non fu brava a nascondere il sollievo. «Be', se Una ci tiene tanto, dovremmo fare un passo indietro, non è vero, Gordon?» Gordon annuì giudiziosamente. «Sissiiiiiiiiiiiiii, sarebbeee...» «Be', non è quello che avevo in mente quando vi ho convocato, ma pare che tutti abbiano deciso. Passami quel bicchiere di birra, ti spiace, Cassie?» disse Martha. E, una volta stappata la bottiglia, fu tutto. Anche gli uomini e le donne più giovani presero una bottiglia di birra scura. Ora che era stata presa una decisione, il nervosismo aveva abbandonato la stanza. Il piccolo Frank sedeva sulle ginocchia di Tom ed entrambi parevano felici. Bernard si azzardò a sostenere che il risultato fosse quello giusto. «Già», replicò Tom sottovoce. «Siamo stati suonati come un dannato banjo.» Notevolmente rianimata, Cassie aiutò tutti a infilarsi il cappotto. Si concordò che Cassie avrebbe portato Frank alla fattoria nel fine settimana. Quando se ne andarono, a tener loro aperta la porta fu Arthur Vine. Cassie
sapeva che era stato in casa per tutta la durata della riunione, ma lui era rimasto nel salotto anteriore, nascosto alla vista. Uscendo, nessuno mostrò di accorgersi di lui. Dopo che l'ultimo della famiglia se ne fu andato, tuttavia, Cassie lanciò un bacio al vecchio. Era abbastanza contenta e sapeva che quel fatto avrebbe reso contento anche il padre. Dopotutto, per quanto riguardava l'assegnazione di Frank, aveva avuto esattamente ciò che Martha le aveva promesso. 7 Il mercoledì di quella stessa settimana, Cassie portò fuori Frank nel suo passeggino. La decisione di Martha di lasciare che una delle sorelle si assumesse parte del carico era giustificata. Lei era in difficoltà. Ogni anno aveva il fiato più corto e riusciva a fare sempre meno. Il freddo autunnale nell'aria metteva in agitazione le sue giunture artritiche. Mantenere Cassie sulla retta via era impegnativo quanto badare al piccolo Frank. Avere Cassie fuori di casa col bambino, di tanto in tanto, era un sollievo. Martha aveva bisogno di stare sola, fosse anche per qualche minuto, così da rimettersi in sesto. Era sprofondata nella sua poltrona e aveva acceso una sigaretta dal focolare, ma, dopo la prima boccata, udì bussare alla porta d'ingresso. Allora posò la sigaretta fumante nel portacenere, si issò dalla poltrona e si mosse lentamente verso la porta, appoggiata al bastone. Bussarono più forte. «Va bene, arrivo! Arrivo!» Scostò la tendina che velava la porta e levò il catenaccio. «Vuoi svegliare i morti?» domandò prima di aver schiuso la porta. Se ne pentì all'istante. Di fronte a lei stava un motociclista, fasciato di pelle nera e marrone chiaro. Portava stivali alti fino al ginocchio, una giacca marrone e guanti di pelle. Martha non riusciva a vedergli gli occhi né il resto della faccia perché l'uomo indossava casco e occhialoni. Una mascherina allacciata alle orecchie gli copriva la bocca. Martha sbirciò oltre le spalle dell'uomo. La moto era parcheggiata in strada. Non sul ciglio, come ci si poteva aspettare, ma proprio nel mezzo. La via era silenziosa. «Mi hai forse portato cattive notizie?» domandò Martha. Il motociclista non rispose. Armeggiò invece con la mascherina, cercando di toglierla. Pareva non riuscisse ad afferrare le cinghie sottili con le dita spesse e imbottite dei guanti di pelle, sicché si levò un guanto. Martha si
accorse che gli tremava la mano. Benché sembrasse incapace di togliersi la mascherina, alla fine, disperatamente e a tentoni, riuscì a strapparla via. Allora si chinò su Martha e le alitò piano sul viso. Martha sentì il fiato sulla guancia. «Cosa? Che cos'è?» gridò. Ma sembrava che il motociclista non potesse far altro che deglutire dolorosamente, toccandosi la gola. Infine, con gran difficoltà, riuscì a gracchiare una parola che somigliava molto a «Frank». Prima che Martha potesse dire altro, l'uomo si stava già ritirando lungo il vialetto, risistemandosi la mascherina di pelle sulla bocca. Poi, senza neppure uno sguardo verso la donna, montò sulla motocicletta, accese il motore, pigiando sul pedale di avviamento, e partì con un rombo. Martha zoppicò fino in strada per cercarlo, ma lui era già scomparso. La donna guardò in cima e in fondo alla strada. Non c'era nessuno che potesse confermare quello che aveva appena visto. Tornata in casa, dopo aver ben chiuso il catenaccio, raggiunse il soggiorno. La sigaretta che aveva lasciato accesa nel portacenere si era consumata. Guardò le braci rosse del focolare. Guardò il pendolo che oscillava avanti e indietro. Cassie tornò verso le quattro e mezzo, dopo essere andata a piedi fino in centro e ritorno. Broadgate era piena di negozietti provvisori e Cassie era tutta presa dal New Look. Da circa un anno, le donne a clessidra di Christian Dior dilagavano nel Paese. Busto, fianchi, cosce... Cassie era caduta in deliquio di fronte alle spalle morbide, ai vitini di vespa e alle gonne fluttuanti. Parlando alla radio, Harold Wilson, il ministro per il Commercio del nuovo governo, aveva definito la nuova moda «irresponsabile, frivola e sprecona» giacché usava metri di stoffa, ma, come aveva sottolineato la stessa Cassie, chi diavolo vorrebbe ballare col ministro per il Commercio del nuovo governo? Comunque le cose stavano cambiando e, se il governo era reazionario nei confronti delle gonne vorticanti, era progressista in altri ambiti. Il razionamento del pane era finito e il servizio sanitario nazionale era stato avviato. «Guarda, ma'!» Cassie era andata a ritirare il succo d'arancia e l'olio di fegato di merluzzo cui aveva diritto per via di Frank. Lo Stato faceva del suo meglio per i bimbi del dopoguerra a dieta razionata. Martha lanciò un'occhiata al succo e all'olio di fegato di merluzzo. «Molto bene», disse. «Molto bene.» «Tutto a posto, ma'?»
«Cassie, sai che abbiamo detto che saremmo andate a trovare la prozia Bertha? Be', voi non venite, tu e Frank.» «Perché? È successo qualcosa?» «Io ci andrò, ma tu resterai a casa.» «Ci tenevo, ma'. E forse per Frank è l'ultima occasione di vedere la zia Bertha prima che tiri le cuoia.» «Niente discussioni, Cassie. Sono stanca e non ho la testa. Non ci verrai, punto e basta.» Non ci furono discussioni. Slam! fece la bottiglia di olio di fegato di merluzzo sul tavolo. Slam! fece la bottiglia di succo d'arancia. Slam! fece la borsetta di Cassie sulla sedia e slam! fece la porta quando la ragazza salì di sopra, pestando i piedi. Un bel po' di tonfi e un bel po' di muso lungo, ma niente discussioni. La prozia Bertha aveva dispensato a Cassie molte piccole gentilezze nel corso degli anni e ora, vicina agli ottanta, si era ammalata. Giaceva a letto con un male non diagnosticato e, tra i parenti, era corsa la voce che forse era il caso di andarla a trovare, perché non si sapeva mai. E su quello non si discuteva: in effetti non si sapeva mai. E, proprio perché capiva che non si sapeva mai, Martha aveva stabilito di recarsi al capezzale di Bertha insieme con Cassie e Frank. La visita del motociclista vestito di pelle aveva cambiato tutto. Fu con una certa apprensione che Martha s'infilò il cappotto, il giorno dopo. Era in ansia al pensiero di lasciare Cassie da sola con Frank per qualche ora; era in ansia per lo stato in cui avrebbe trovato la zia Bertha; ed era in ansia per il viaggio attraverso la città fino alla casa di Bertha, a Foleshill. E, come se non bastasse, era pure in ansia per un'altra faccenda. Intanto doveva prendere un autobus fino in centro, poi un altro per Foleshill. Usciva sempre meno in quel periodo e, pur non essendo davvero agorafobica, viaggiare la rendeva nervosa. Sarebbe stato meglio andare in compagnia di Cassie, ma ormai non era possibile. Gli autobus avevano ripreso le corse regolari, e un giovane conducente gaio e gentile l'aiutò a salire su quello che andava in città, una città che stava risorgendo dalle macerie. Negli anni dell'immediato dopoguerra, tutti erano presi a sgomberare e demolire più che a costruire, ma ormai i segni della ricostruzione si scorgevano ovunque. A Martha interessava particolarmente vedere che cosa avevano fatto a Broadgate. Nel maggio di quell'anno, la giovane principessa Elizabeth era stata in città a posare una lapide commemorativa per ricordare la prima fase della ricostruzione del cen-
tro cittadino. Il rimodellamento della città era stato ispirato dall'architetto Donald Gibson, di cui Bernard era un discepolo. «Un genio, Mrs Vine. Quell'uomo è un genio. Deve proprio andare a vedere. Coventry diventerà la Città della Fenice.» «È un uccello che si alza in volo dalle proprie ceneri, ma'», aveva spiegato Beatie, premurosa. «Lo sapevi, vero, Martha?» l'aveva canzonata Tom. Dopo la visita della principessa, erano tutti andati a prendere il tè da Martha. Alcune delle sorelle si erano mescolate alla folla imponente, per dare un'occhiata, però Martha era rimasta a casa, sostenendo che, dopo il loro comportamento da vigliacchi durante la guerra, e le simpatie naziste di Edward, lei aveva poco tempo per i reali. Ma le ragazze erano andate tutte e Broadgate, appena rimessa a nuovo, era gremita di gente ansiosa di sventolare bandiere davanti alla principessa. «Io non lo sapevo», aveva detto Cassie. «Una febice. È bellissimo.» «Si dice 'fenice', Cassie», aveva precisato Bernard. Poi, continuando a rivolgersi a Martha, aveva aggiunto: «E Broadgate è tutta disposta su un prato e il progetto è di farne un giardino». «Negozi», era intervenuto William, in tono burbero. «Ecco cosa vuole la gente del centro di una città. Negozi. Non un dannato campo da bocce.» «E negozi avranno. Ma anche giardini e un'area pedonale in cui andare a far spese. Ve lo dico io, Donald Gibson è un uomo ispirato. Non avrete mai visto nulla di simile, quando avrà finito.» «E come faranno i negozi a farsi consegnare le merci, se dev'essere chiuso al traffico? Non ha pensato a tutto.» «Giusto, William non ha tutti i torti», aveva commentato Tom. «Progettazione!» aveva esclamato Bernard. «È tutto nella progettazione. Ho visto i disegni. Tutte le consegne saranno fatte sul retro dei negozi, così gli acquirenti potranno muoversi in pace nella zona.» «Resteranno intasati e litigheranno per il parcheggio. Non può funzionare.» «Non hai visto i disegni, William! Io li ho visti, come puoi vederli tu se vai alla Casa Comunale.» «Alla Casa Comunale!» «Be', se non puoi prenderti il disturbo...» Esisteva una vaga ostilità tra William il fruttivendolo e Bernard il probabile comunista-anarchico-sindacalista e, con quel suo sospetto entusiasmo per cambiare pannolini e fare il bucato, probabilmente anche dell'altra
sponda. Tom, che non prendeva le parti di nessuno, aveva commentato: «Spero solo che costruisca un paio di nuovi pub, nient'altro». «Iiiiiiiiiiiiiiiiiii, questo sarebbeee...» aveva approvato - forse - Gordon. «È un grand'uomo», aveva dichiarato Beatie, venendo in aiuto a Bernard. «E ha tutti gli occhi puntati su di lui.» «Ma... E quel suo strano segno?» aveva voluto sapere Cassie. «Strano segno?» aveva domandato Martha. Dietro la lapide commemorativa posata dalla principessa c'era un marchio strano, forse massonico, che era la firma di Gibson. Si trattava di un geroglifico con una croce egizia, preso da un faraone. «È il simbolo di Akenaton, che, nel XIV secolo avanti Cristo, si fece costruire una nuova capitale», aveva spiegato Bernard. «Questo architetto, Donald Gibson, porta il fez?» aveva chiesto Tom. La domanda aveva suscitato una risata generale; tuttavia Bernard e Beatie si erano scambiati un'occhiata perplessa. Risalendo Trinity Street verso il centro, Martha si meravigliò del lavoro fatto. Una volta liberata dai detriti e dal metallo contorto, Broadgate era stata lastricata e coperta da un ampio prato centrale. Ecco cosa intendeva Bernard, quando aveva parlato di un giardino. Dopo le stradine strette e affollate, i frontoni sporgenti e gli edifici compressi di prima delle incursioni aeree, era uno spazio stupefacente. A passo vispo, Martha attraversò la zona lastricata, dirigendosi verso la lapide commemorativa. Nel frattempo si guardò attorno e la stupì vedere tanta gente intenta ai propri affari. Vestite secondo la nuova moda, le donne correvano su e giù e quasi non si vedevano divise militari. Quel luogo, il cuore della città, ridotto a una distesa di acqua piovana e polvere, era tornato a essere nuovo. Un involontario sorriso le increspò le labbra al pensiero di quanto forte e intraprendente fosse la gente. Tutto tornava a essere nuovo. Che testimonianza, da parte di chi aveva visto così tanta sofferenza! Potevi battere le palpebre e quasi dimenticare che la gente aveva attraversato una guerra terribile. Martha si voltò a guardare le guglie gemelle della Holy Trinity e di St Michael e le venne in mente una frase, forse un versetto della Bibbia: Egli fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Pur non essendo affatto religiosa, ciò che vide la impressionò e sperò di poter annoverare se stessa e tutte le sue figlie tra i buoni e i giusti. Martha lesse l'iscrizione sulla lapide commemorativa. Poi andò dietro di essa per esaminare il simbolo dell'architetto. Era strano davvero. Sembrava
un pianeta, o forse il sole, da cui s'irradiavano sette linee, ma tutte da una parte sola. E sulla sesta linea c'era la croce egizia. Si domandò perché un architetto avesse scelto un simbolo così insolito. Comunque lei aveva altro per la testa, in quel periodo. Qualcosa di ben diverso dai simboli insoliti. Riguardava Frank. Dopo aver fatto visita alla zia Bertha, Martha prese un autobus per tornare in città e un secondo autobus diretto a casa. Durante il viaggio, guardò dal finestrino, pensando a Bertha, ad Arthur e alle proprie figlie. A un certo punto dovette prendere il fazzoletto dalla borsa per tamponarsi gli occhi. Quella visita l'aveva scombussolata. Bertha stava molto male, però Martha si era rifiutata di spingersi oltre la soglia della camera da letto, da dove aveva condotto un'insoddisfacente conversazione con l'anziana donna. L'autobus sobbalzava lungo il tragitto e un crepuscolo grigio-limone calava sulla ricostruzione di Coventry. Ma quello che la preoccupava sopra ogni altra cosa era Frank. E se Cassie per una volta avesse avuto ragione? E se Frank fosse stato davvero speciale? Martha pensò che i Vine non avevano più bisogno di quel tipo di originalità. Non ne avevano proprio bisogno. 8 «Bislacco, ecco com'è», disse Tom. «È bislacco.» Bislacco. Tom Tuffnall, il fattore, era uno di quei campagnoli che potevano usare la parola «bislacco» riferendola al fatto che una mucca ci mettesse del tempo a figliare o a un toro che si rompeva il collo mentre copriva la mucca. Poteva significare insolito, strano, difficile, pericoloso, oscuro o non ortodosso; ma il vero scopo della parola era porre fine a ogni infruttuosa indagine sull'inesplicabile. Spesso, nel pronunciarla, Tom alzava gli occhi verso il punto dell'orizzonte dove il grigio incontrava la terra bruno-rossastra del Warwickshire, restava in ascolto per non più di un istante, poi tornava al suo lavoro. In quel momento, tornò al suo trattore. Il perno di aggancio del rimorchio si era piegato e lui ne stava facendo uno nuovo con un enorme bullone e alcuni dei fastidiosi rottami metallici che sembravano infestare i suoi campi. Cassie e Una, in foulard e stivali di gomma, lo guardavano dal cortile. Frank entrava e usciva dal granaio, inseguendo i gattini tra i mucchi di fieno.
«Sei sicura?» domandò Una. «Difterite», fece Cassie, decisa. «Secondo il dottore, aveva l'influenza.» «Dottore? Un dannato segaossa per cavalli, piuttosto», commentò Una. «E adesso zia Megan se l'è presa, e brutta, e meno male che mamma non le è andata vicino. Adesso dice che è per questo che non ha portato me e Frank, anche se prima non aveva detto niente. E so che quel giorno hanno bussato alla porta perché gliel'ho visto in faccia.» «Toc-toc», fece Frank, appeso alla porta del granaio. Un esame necroscopico sulla zia Bertha aveva effettivamente accertato la difterite. Bertha era morta neppure un giorno dopo la riluttante visita di Martha e, sebbene non fosse stato detto nulla, Cassie e le sorelle avevano capito perché Martha si era opposta a portare con sé il bambino, quel giorno. Sapevano tutte che qualcuno aveva bussato alla porta e accettavano l'idea che quel fatto spesso portasse con sé una profezia o un avvertimento. Era un fatto, puro e semplice, che le sorelle non pensavano neppure a contestare. Anche Tom lo sapeva. Tutti gli uomini sapevano che, sposando un membro della famiglia Vine, accettavano anche di entrare a far parte di uno strano teatro delle ombre. E infatti... Megan era malata, mentre Martha, Frank e Cassie stavano bene. «Bislacco», ripeté Tom. «Su, allora, una di voi tenga fermo l'altro capo di questo, mentre io lo martello.» Una strinse e Tom calò il martello. Un tonfo possente trasmise una vibrazione al metallo, facendo cadere di mano alla donna la sbarra che stava reggendo. Si udì un risolino dall'alto. Frank era riuscito ad arrampicarsi fino in cima al mucchio di fieno, alto poco meno di tre metri. «Come diavolaccio hai fatto ad arrivare lassù?» gridò Tom. Cassie strillò. Frank ridacchiò di nuovo. Soltanto Una rise e fece il gesto di afferrare Frank. A Cassie era piaciuto stare alla fattoria... per un po'. All'inizio si era felicemente stabilita lì con Frank, nella stanza sopra la vecchia latteria. Insieme davano da mangiare alle anatre e alle galline. Cassie aveva svegliato Frank in piena notte per fargli vedere la mucca che figliava, benché, quando Tom aveva dovuto tirar fuori il vitellino con una corda, lei stessa non avesse avuto stomaco sufficiente per continuare ad assistere. Facevano il solletico dietro le orecchie ai maiali e davano un nome a ogni vacca della piccola mandria di frisone di Tom. Ma il tempo si era messo al peggio e, con l'accorciarsi dei giorni, Cassie si ritrovò confinata in salotto, dove, se il vento soffiava dalla parte sbaglia-
ta, il fumo del caminetto veniva sospinto dentro la stanza. Dopo cena, Tom fissava il focolare, intorpidito dalla lunga giornata di fatiche. Una sferruzzava o lavorava all'uncinetto oppure leggeva un libro. Cassie si dimenava o cincischiava con le mani oppure si torceva sulla sedia. «Che diamine hai, Cassie? Non riesci a star ferma un minuto?» disse Una. «Non possiamo andare al pub, Una? Non hai detto che c'è un pub? Il Leone Rosso o il Porcello Blu o qualcosa del genere?» «La Campana Blu. E chi baderà a Frank se andiamo tutti al pub?» «Non ci avevo pensato. Magari potremmo andare noi due, Tom? Che ne dici? Prendi il cappotto.» «No, non ci ho le gambe per andarci, stasera.» La Campana Blu era a cinque chilometri da lì, ma Cassie non voleva arrendersi. «Allora io e te, Una. Tom terrà le orecchie aperte, vero, Tom?» «Due donne che vanno al pub!» esclamò Una. «Per che genere di ragazze ci prenderebbero?» «Ah, non siete per niente divertenti. Nessuno dei due. Per niente!» «Esatto. Io sono un bastone piantato nel fango fradicio, ecco cosa sono.» Una rise. «Un bastone nel fango fetido, loffoso e appestato. Contento come un porcello nella merda.» Cassie si alzò e andò a guardare fuori della finestra. La propria immagine sul vetro scuro la fissò di rimando. Rimase alla finestra per un po', poi tornò di fianco a Tom, tuffandosi per afferrarlo alla cintola. «Salame!» gridò, tirandogli fuori la camicia. «Vediamo quanti puntini hai sulla pancia!» Tom la afferrò per il polso e la trattenne. «Sta' brava, sciocchina!» rise. Cassie tornò ad accostarsi alla finestra. Poi batté il piede. «Be', io vado al pub!» Prese il cappotto e la sciarpa e fu fuori prima che gli altri due avessero il tempo di replicare. La porta sbatté. «La lasciamo andare?» domandò Tom. Una scrollò le spalle. «Dobbiamo.» «È così che succede?» «Sì.» «Starà bene?» Una risucchiò l'aria tra i denti. «Sì.» «Povero, piccolo Frank», disse Tom. Il giorno dopo, Tom portò Cassie col furgone alla fermata dell'autobus,
da dove poteva partire per Coventry. A Frank venne detto che Cassie tornava dalla nonna per un po', e lui parve beatamente sereno di fronte alla prospettiva di restare alla fattoria. A Cassie furono dati uova, latte e una gallina da portare a casa di Martha. Il breve tragitto sino alla fermata dell'autobus fu silenzioso. Dopo essere scesa dal furgone, Cassie disse: «Non è che non voglia bene a te e Una». «Lo so», ribatté Tom timidamente. «È solo che mi sento un po' impazzire, in campagna. Mi viene voglia di urlare e pestare i piedi.» «Non a tutti piace.» «Ma non è che non vi voglia bene.» «Lo so, Cassie, lo so. Adesso devo andare. Roba da fare.» «So che avrete cura del mio piccolino. Lo so. Ciao, Tom, arrivederci!» Alla fattoria, Frank cominciò a vivere. Dire che si adattò lo farebbe sembrare più difficile di quanto in realtà non fu. Si comportava come se fosse sempre stato li. Si sporcava, si bagnava. Scivolava nella mota delle vacche e una volta Una dovette tirarlo via, gemente, dallo stagno delle anatre. Ma, come aveva detto, c'erano acqua e sapone a volontà. Acqua specialmente. La fattoria era un posto meravigliosamente acquoso. L'acqua cadeva dal cielo e gorgogliava dal terreno; veniva raccolta e distribuita da stagni, fonti, torrenti e ruscelli come mai faceva in città. Il suolo trasudava, sgorgava, inondava. La terra parlava a Frank con la lingua dell'acqua; il suo posto preferito era la passerella sul ruscello, anche se definirla «passerella» significava nobilitare le solide assi di legno che il padre di Tom aveva saldamente piantato nel fango anni prima, in modo da poter passare dal campo più elevato a quello più basso. Ma il rapido ruscello era profondo soltanto pochi centimetri, sicché Frank aveva il permesso di giocarci in tutta sicurezza. Le chiazze di rovi e cardi si erano raccolte in fitti grappoli al disotto della passerella e Frank scoprì di poter strisciare nell'incavo formato dalle assi e nascondersi al mondo. Frank poteva farsi tane e rifugi in tutta la fattoria. C'erano stalle mezze in rovina e granai sgangherati e pezzi arrugginiti e abbandonati di macchine agricole; inoltre, accanto al filare di confine del campo sotto il torrente, c'erano frammenti della carcassa ritorta di un bombardiere tedesco caduto la notte del blitz di Coventry. Un giorno, Una chiese a Frank se voleva assisterla a spiumare un pollo.
Il ragazzino era di grande aiuto, anche se si limitava a guardare. Il pollo era un premio speciale per lui, disse la zia, dato che era un bambino tanto bravo. La prospettiva sembrava interessante, e Frank seguì Una nella stia. La donna afferrò un pollastro, che chiocciò, scalciò e agitò le ali in modo tale da far credere che quegli uccelli incapaci di volare avrebbero potuto alzarsi in aria, dopotutto. Poi, tornando verso casa, Una se lo infilò sotto il braccio, torse il collo dell'animale con entrambe le mani e scelse quel momento per guardare Frank. Lui avrebbe ricordato per tutta la vita l'espressione di Una in quell'istante. La testa dell'animale penzolava. Frank sapeva che Una aveva appena ucciso a mani nude quella creatura, ma il suo sguardo sembrava in contrasto con le sue azioni. Nei suoi occhi non c'era violenza e neppure determinazione. Al contrario, la donna guardava Frank con grande tenerezza, perfino con pietà, come fosse stato il collo del bambino a essere spezzato. Sul suo volto c'era una parvenza di sorriso e nei suoi occhi una terribile lucentezza. La donna gli sembrò improvvisamente grande, minacciosa, potente, e il pollo morto era come un'offerta alla singolare forza di lei, qualcosa che Una avrebbe potuto portare appeso alla cintura. «Avanti, Frank», disse lei, spezzando l'incantesimo. «Diamoci da fare con queste piume.» Frank portò alcune di quelle piume alla passerella e le gettò nel torrente spumeggiante, dove galleggiarono. Poi decise di decorare il suo rifugio. S'insinuò sotto la passerella, là dov'era asciutto, e rimase sdraiato ad ascoltare il proprio respiro. Poi cominciò a piantare altre piume nel monticello di terra che sosteneva l'asse sopra la sua testa. Alcune entrarono senza sforzo, ma la punta aguzza di altre non riusciva a bucare il terreno. Allora Frank raschiò la terra con le dita e toccò un oggetto duro. Qualcosa luccicò. Frank aveva fatto una scoperta che avrebbe gettato un'ombra su tutta la sua vita. E che, per molti anni, lui riuscì a mantenere segreta. 9 Se Frank gradiva la fattoria, la fattoria gradiva lui. Fin troppo, a quanto pareva. A Una e Tom piaceva avere attorno il bambino. Tom diceva che le fattorie avevano bisogno di bambini come di un cane nel cortile e di un gallo sul pagliaio. Il bambino completava il quadro. Dopo sei mesi col ragazzino attorno, pigramente e senza discussioni smisero di prendere pre-
cauzioni per non avere figli. Ecco come Una annunciò gli sviluppi a suo marito: «Tom, che cosa diresti se ti dicessi che tua moglie è pregna?» In casa Vine, la notizia fu accolta con gioia e un pizzico di costernazione. Alla fattoria tutto andava bene, ma altrove la situazione era meno tranquilla. Frank non vedeva sua madre da qualche settimana perché lei si trovava in un posto chiamato Hatton. Hatton, quando si nominava, lo si faceva in una specie di bisbiglio, più un verso di disapprovazione che altro. Al limite lo si chiamava «quel posto» o «la collina». Era un altro genere di fattoria, la cosiddetta «fattoria degli anormali»: un ospedale psichiatrico, riparato in un'ampia distesa piena di cespugli fioriti di rododendri azzurri e rosa. Cassie stava lì su consiglio di un giovane medico. Martha si era tormentata, ma, quando le condizioni di Cassie si erano aggravate, infine aveva acconsentito. Una domenica, Tom e Una avevano portato Frank a Coventry ed erano passati a prendere Martha prima di recarsi in visita da Cassie in ospedale. Avevano portato uva nera dal negozio di Olive e una bottiglia di bibita Lucozade, proprio come se Cassie avesse sofferto d'itterizia o avesse avuto una tibia fratturata. Cassie aveva avuto il permesso di uscire per incontrarli, dal momento che nessuno pareva disposto a far entrare Frank nel reparto. In realtà, Frank era rimasto affascinato da un uomo che incedeva adottando posizioni statuarie, «congelandosi» per qualche istante prima di ripartire e assumere un'altra posa. Cassie era lacrimosa e loquace. «Non mi piace!» diceva, asciugandosi gli occhi con un minuscolo fazzoletto e guardando Frank, che intanto si rannicchiava in grembo a Una. «Non sapete com'è, qui! Non sapete come sono. Dovreste sentire i rumori che fanno di notte!» «Ssst, è solo per un po'. Finché non starai meglio», aveva detto Martha. «Sto meglio, porca di una miseriaccia bastarda, davvero! Davvero! Due notti fa c'era la luna piena. Sapete che significa in un posto come questo? Lo sai, Tom?» «Credo che tu stia per dirmelo.» «Non dovrei essere qui, ma'! Ci sono un sacco di ragazze che non dovrebbero essere qui! C'è una ragazza che è qui solo perché ha avuto un bambino, ecco tutto. Dice che le hanno tolto il bambino e l'hanno messa qui. Adesso ha un letto tra una vecchia che si leva la pelle delle mani a morsi e un'altra che se ne sta seduta nel suo piscio!» «Te lo stai inventando, Cassie, cara», aveva mormorato Una. «Dimmi
che te lo stai inventando.» Cassie era scoppiata di nuovo in lacrime. Il viaggio di ritorno era stato triste. Una volta a casa, prima che Una e Tom riportassero Frank alla fattoria, Martha aveva preparato un tè. «Quei dannati dottori hanno avuto la meglio su di me. Ho sbagliato a lasciarla andare là. Lo so.» Una non la pensava così. «Ma', il dottore ha detto che deve seguire la terapia. Come fai a metterti contro il dottore? Né tu né io sappiamo quello che sa il dottore, no?» «Sono sicura di aver sbagliato.» «Puoi sempre ritirarla fuori», aveva suggerito Tom, addentando una fetta di torta all'uvetta. «Però ricomincerebbe a scorrazzare in giro, giusto?» «Non so cosa sia peggio.» «Mamma!» aveva esclamato Una. Tornarono la settimana seguente. Stavolta Cassie venne portata fuori in sedia a rotelle. Li riconobbe... a stento. La loro visita suscitò in lei poco interesse. Una distolse lo sguardo e fece una smorfia. Martha rimase sconvolta. Lasciò Cassie con gli altri e andò a cercare un medico. La prima infermiera con cui parlò non fu di nessun aiuto e le disse che a quell'ora non c'era nessuno che potesse riceverla. «Ascolta, ragazzina», disse Martha all'infermiera. «Sei appena più grande della più giovane delle mie sette figlie e finora nessuna di loro mi ha mai contestato. E se vuoi tenerti ancora dritta in piedi quando avrai finito qui, stasera, adesso vai e mi trovi qualcuno che mi dia una risposta chiara.» L'infermiera arrossì, ma andò in cerca di un medico. Tornò con l'assistente, occhialuto e grassoccio, con una precoce pappagorgia e guance rosse come mele. Aveva il colletto sporco e la cravatta ruotata di quarantacinque gradi. Non era il medico di Cassie, disse, ma avrebbe portato Martha nel suo ufficio, così avrebbero potuto fare una chiacchierata. «Ha ventiquattro anni», esordì l'assistente, sfogliando la cartella di Cassie. «Ha partorito due figli sani.» «Questo lo so», fece Martha, brusca. L'assistente alzò gli occhi. «Già. È con noi da pochissimo tempo.» «So anche questo. Quello che voglio sapere è perché oggi ha quell'aspetto.» «E quale aspetto avrebbe, a suo parere, Mrs Vine?» «A mio parere? A mio parere ha l'aspetto di una cui sia stata risucchiata via l'anima. Ecco com'è. Come se le avessero levato l'anima.» L'assistente esaminò gli appunti. «A quanto pare le abbiamo sommini-
strato la ECT.» «Che, tradotto, sarebbe?» «Terapia elettroconvulsiva. Le facciamo passare una lieve corrente elettrica nel cervello. Per combattere la depressione.» «Depressione? Nessuno ha parlato di depressione!» «No», si corresse in fretta l'assistente. «Di tanto in tanto la utilizziamo per la schizofrenia.» «Nemmeno di quella si è parlato.» «Non sto dicendo...» «Che cosa sta dicendo, allora?» «Mrs Vine, non sono il medico di sua figlia, ma le stiamo offrendo le migliori cure possibili.» «Non mi sembra. Non sembra che far passare la corrente abbia fatto bene, no? L'ha guardata? Eh? Non c'è luce nei suoi occhi.» L'assistente levò una mano grassoccia per impedirle di aggiungere altro. «Voglio essere onesto con lei, Mrs Vine, e ho bisogno che lei sia onesta con me.» «Mai avuto problemi a essere onesta.» «Ne sono certo. Forse allora può rispondere a questa domanda. Ci sono mai stati casi di malattia mentale nella vostra famiglia?» Martha restò a lungo in silenzio prima di rispondere. «Non abbiamo mai avuto nessuno che sia stato rinchiuso, che io sappia.» «Non è quello che le ho domandato.» Martha rifletté ancora a lungo. «Dovrei sapere di che cosa stiamo parlando.» «Mrs Vine, sua figlia entra in un certo stato di... eccitazione. Non si riesce a fermarla e lei non riesce a fermarsi. Stiamo cercando di esserle d'aiuto, capisce? E poi c'è quest'altro fatto, che parla con suo padre. Sa, il mio collega è davvero entusiasta dei benefici della ECT.» «Entusiasta! Lo ammetta: non sapete quello che state facendo, vero?» «Mrs Vine...» «È così. Dannati diavoli! Imbecilli! State facendo dei maledetti esperimenti! So cosa state facendo!» Si alzò. «Mrs Vine...» «Dica al suo collega che, se lo trovo, mi faccio una giarrettiera con le sue budella! E lo faccio!» Martha lasciò come una furia l'ufficio dell'assistente, attraversò il corridoio, oltrepassò l'infermiera che aveva rampognato prima e uscì nel sole primaverile.
«Spingila su quell'affare!» ordinò a Tom. «Ci portiamo Cassie a casa!» «Possiamo farlo?» s'informò Una. «Lo facciamo, per la miseriaccia. Avanti, Frank, muoviti.» «E la sua roba?» domandò Tom, spingendo la carrozzella, con sopra Cassie, verso il furgone. Ma pareva che a Martha non importasse della sua roba. Fuggirono dalla curatissima Hatton, Cassie in vestaglia e neri capelli al vento, spinta da Tom. Frank, che trotterellava per tenersi al passo, mezzo trascinato dalla zia Una. Davanti, in vantaggio su tutti benché si reggesse col bastone, c'era Martha Vine. Era l'ultima volta che la «fattoria degli anormali» Hatton vedeva una delle sue figlie. 10 Frank notò che spesso, quando s'incrociavano in cortile, Tom fermava Una, le metteva una mano sulla pancia, e la baciava. La donna intanto faceva in modo che il mistero si svelasse a Frank grazie alla terra fremente, alla paglia ispida e all'acqua. Lo stagno fetido schiumava di uova di rana, i conigli facevano apparire d'incanto altri conigli dalla sera alla mattina, i pulcini spuntavano dai gusci a beccate, le vacche muggivano e figliavano. Perfino il letamaio dava vita a cardi e fiori dal capo giallo livido. Era inarrestabile. Ogni angolino fuligginoso e ogni crepa umida della fattoria brulicavano di fecondità. E la pancia di Una si gonfiava. Se l'eccessiva pressione sulla vescica la prendeva alla sprovvista, si accovacciava e pisciava sulla paglia nel granaio o vicino alla conigliera. Quando vedeva lo sguardo di Frank, lei gli sorrideva senza smettere, poi si tirava su le mutande e riprendeva le sue faccende. Frank cercava d'imitarla ogni volta che sentiva il bisogno di fare pipì. Si accovacciava sulla paglia. «Via di lì, giovanotto!» ridacchiò Tom quando lo vide. «Hai passato troppo tempo con le femminucce! Vieni qua!» Tom si sbottonò la patta e tirò fuori il pesante fagotto del suo grasso, pallido uccello e pisciò vigorosamente nella paglia. «Ti perderai tutto il gusto di una bella pisciata, dammi retta!» Tom pisciava come il toro. Frank osservava lo zampillo che spumeggiava e formava una pozzanghera in terra, e il vapore che saliva dalla paglia. Si alzò e, con andatura ondeggiante, si mise di fianco a Tom, si prese in
mano il pisellino e scoprì che riusciva ancora a fargli compagnia. «Così si fa, Frank! Dio ha dato ai maschi i giocattoli migliori. Non vorrai accovacciarti lì e prendere freddo al culo!» «Che stai dicendo al ragazzino?» fece Una. «Svelto, Frank, mettilo via adesso. Noi non lo lasciamo vedere alle ragazze, giusto?» Imitando scrupolosamente lo zio, Frank lo mise via. «Non sporca per terra, zio Tom?» «Che bellezza che sei! Cosa pensi che sia, la terra? Sporcizia e roba morta, figliolo, sporcizia e roba morta. E, se non ci fosse, sarebbe tutto pulito e niente crescerebbe e, se niente crescesse, bel fattore che sarei, no? E, se non posso fare il fattore, come faccio a regalarti la bici per Natale?» Tom aveva promesso a Frank un triciclo, che potevano permettersi a stento. Una aveva protestato, ma Tom aveva detto che voleva vedere facce sorridenti, il giorno di Natale. E comunque mancava qualche settimana e c'era altro per distrarre la gente. Come una signora nuda a cavallo. Quell'anno, sul finire di ottobre, Una e Tom portarono Frank ad assistere allo scoprimento della nuova statua di Lady Godiva, a Broadgate. Beatie e Bernard erano tornati in città per andare con loro. Si riteneva che lo stato mentale di Cassie fosse ancora eccitabile, quindi lei non fu invitata. Dato che la città aveva di recente goduto del privilegio di una visita della Famiglia Reale, i notabili cittadini dovettero guardarsi attorno alla ricerca di qualcuno di statura adeguata per espletare gli onori rituali. Chiesero all'Ambasciatore Americano, il quale, però, trovandosi impegnato quel certo giorno, aveva suggerito che sua moglie avrebbe potuto sostituirlo. Così una signora, conosciuta sempre e soltanto come la Moglie dell'Ambasciatore Americano dalle centinaia di scolari presenti all'evento, spogliò la statua equestre da Stelle e Strisce e Union Jack, offrendo ai giovani e ai vecchi di Coventry l'emozionante nudità. Il tè da Martha era previsto per dopo l'evento. Sebbene Olive e William non fossero stati invitati più della Moglie dell'Ambasciatore Americano, arrivarono anche loro. Come pure le gemelle che, per inciso, avevano della statua un'opinione assai critica, sulla base di quello che avevano sentito dire. Soltanto Aida e Gordon non vennero, a causa delle emorroidi di Gordon. Cassie, immusonita per non essere stata invitata allo spettacolo, era andata in salotto, chiudendosi la porta alle spalle. Martha consigliò di lasciarla stare; sarebbe tornata di lì a poco.
«Disgustoso», sentenziò Evelyn mentre Una le passava un sandwich al prosciutto. «Chi vuol vedere una cosa simile in un giorno lavorativo?» convenne Ina. «E nel bel mezzo della città!» La completa nudità del petto della statua aveva colto di sorpresa alcuni cittadini di Coventry. «La storia è quella, Ina», fece Beatie. «Lady Godiva si tolse i vestiti e cavalcò nuda per le strade. Cioè, che statua ti aspettavi?» «Non ce n'era bisogno», commentò Ève. «Non completamente nuda», insistette Ina. «A mostrare tutto quello che ha.» «Ah, fa vedere tutto quanto?» s'informò William. «Quanto costano i meloni nel tuo negozio, William?» domandò Tom. Una diede a Tom una gomitata nelle costole. «È una bellissima statua, però.» «Un monumento opportuno», dichiarò solennemente Bernard. «Disgustoso», sostenne Evelyn con evidente ripugnanza, inghiottendo un boccone di sandwich al prosciutto. Da quando si era stabilita al Ruskin, Beatie aveva sviluppato una certa insofferenza nei confronti delle sorelle maggiori. «Non si può fare una statua nuda coi vestiti addosso!» William cambiò argomento. «Ho visto che la tua dannata area pedonale si è dimostrata un pastrocchio», disse a Bernard, cercando di portare Tom dalla sua con una strizzata d'occhio. «Non è la mia area pedonale, William. E funzionerà benissimo. Sono stati gli assessori avidi, a creare problemi. Bustarelle e tangenti. Politici locali faccendieri, che imboccano i loro compagnucci del settore edilizio, ecco cos'è. Interessi economici illeciti.» «Tu non sai un fico secco di economia.» «Però sappiamo perché hanno piazzato quella maledetta strada in mezzo all'area pedonale, vero?» tuonò Beatie. «Sì, per fare in modo che i negozi non abbiano gli scaffali vuoti!» disse William, e diede un colpetto con la scarpa al piede di Tom, guardandosi attorno e sorridendo. «Niente a che vedere con chi si è intascato un milione», commentò Bernard, sorbendo rumorosamente il tè. In quel mentre, il suono della voce di Cassie nella stanza accanto si fece più forte. La porta che separava la cucina dal salotto era chiusa. «Ma', con
chi sta parlando la nostra Cassie?» domandò Una. «Con vostro padre», rispose Martha. Quell'affermazione interruppe ogni discorso su aree pedonali, interessi economici e politici corrotti. L'orologio sopra la testa di Martha ticchettava, solenne. Un ciocco si mosse nel focolare. «C'è da pensare che avrebbero potuto metterle una vestaglia sulle spalle. O anche uno scialle», fece Ina. Non c'è un ufficio, stava dicendo Cassie a suo padre, cui si può scrivere? Un posto a Coventry, dove si può andare e magari farsi vedere? Dovrebbe esserci. Dovrebbe esserci uno spazio. Magari a St Mary's Hall, o quello che ne rimane, dove tutte le ragazze porrebbero andare, levarsi i vestiti e sfilare. Un posto con le vetrate colorate e mobili antichi, splendenti e lucidati e profumati di cera d'api, e grandissime tende e drappeggi di velluto, rosso scarlatto, rosso vivo, capito, come il sangue; un posto dove tutte le ragazze non sposate della città possono andare in un certo giorno dell'anno, e quello sarebbe il giorno di Lady Godiva. E si camminerebbe su tappeti soffici, col pelo così lungo che sarebbe come attraversare l'acqua tiepida, e si verrebbe scelte. Ecco come dovrebbero fare. Un posto dove posso andare e dire: quest'anno vorrei essere io Lady Godiva. Ma chi sarebbe a scegliere? Sì, ci sarebbero dei giovani, sette giovani tutti appetitosi e dovrebbero sedersi tutti nudi anche loro, seduti sulle mani mentre le ragazze passano lentamente, e la prima che riesce a farlo drizzare a tutti e sette contemporaneamente, quello sarebbe il segnale, no? Così sarebbe scelta. Sarebbe Lady Godiva per quel giorno, per quell'anno, anche. E nel pomeriggio la processione attraverso la città, su un cavallo bianco, niente vestiti, niente sella, soltanto una coperta cremisi buttata sulla groppa del cavallo. Ma come si sceglierebbero i ragazzi, bella domanda, come si sceglierebbero i sette? Dovrebbero essere sette giovani che non l'hanno mai fatto, giusto? Magari sette apprendisti, o anche studenti, che ne dici? Ma come si saprebbe che non l'hanno fatto? Sono dei tali bugiardi in queste cose. Diranno di averlo fatto anche se non è vero e, se l'hanno fatto, fingeranno di no. Ma la ragazza scelta, Lady Godiva, be', lei non dovrebbe essere una vergine. Una Lady Godiva vergine non può essere, no, non con quello che dovrà fare, perché non sarebbe giusto. No, dev'essere una giovane con appena un po' di esperienza, e non dovrebbe necessariamente essere la più carina, no, ma sarebbe così appetitosa che, vedendola passare, a tutti quanti
scatterebbe in aria una guglia di St Michael. Camminerebbe sulla punta dei piedi e loro morirebbero dalla voglia di averla. Non credi che sia stato ingiusto da parte loro, andarsene in città senza di me? Mica li avrei delusi. Mica mi sarei arrampicata sulla statua o avrei messo in imbarazzo la Moglie dell'Ambasciatore Americano. Però avrei parlato al sindaco. Avrei detto: sono io la vostra Lady Godiva! E sceglierei il percorso attraverso la città. Dal cortile di St Mary's Hall partiremmo, poi giù per Bayley Lane e di nuovo su in Earl Street e a Broadgate, dove ci sarebbero migliaia di persone a guardarmi. Due volte attorno a Broadgate, e ogni centimetro della mia pelle accarezzato da migliaia e migliaia di paia d'occhi. E il dolce dondolio del cavallo tra le mie gambe, allora lo stringo sopra i garretti, e giù per Trinity Street e fuori dalla città, attraverso la porta medievale di Cook Street, e da lì galopperei via, lontano lontano, fino alle braccia del mio amore. E lui chi è? Chi è? Accadde due settimane dopo, in novembre, quando i frutti della rosa canina erano ormai ingrassati sul ramo e le prugnole di un color blu-nero e le bacche rosso sangue del biancospino erano dappertutto. Frank si nascondeva sotto la passerella, per andare a trovare l'Uomo Dietro il Vetro. Gli portava regolarmente piccoli doni: penne di galletto nano, una zampa di gallina, un pezzo di corno di vacca, una tettarella di gomma per dar da mangiare agli agnelli. Se l'Uomo Dietro il Vetro apprezzava il dono, dispensava degli oracoli. Quando impartiva la sua saggezza, l'Uomo Dietro il Vetro non produceva nessun suono. Muoveva soltanto la bocca. Frank doveva scrutare al di là del vetro appannato e indovinare le parole. Ma non era difficile. Le parole prendevano forma nella sua testa e poi lui le udiva come parole comuni. Quel giorno, Frank aveva portato un guscio di lumaca, incastonandolo nella terra umida insieme con tutti gli altri trofei. Accostò gli occhi al vetro e l'uomo lo guardò fisso, da sotto un berretto di cuoio. Poi mosse le labbra e Frank pensò di aver capito quello che diceva. Dopo un po', tuttavia, cominciò a sentire freddo, quindi salutò l'Uomo Dietro il Vetro e s'incamminò verso la fattoria. Trovò ad accoglierlo Una, che lo trascinò attraverso la stalla, come se volesse portare un vitello dalla madre. Dopo essersi chiusa rumorosamente alle spalle il cancello metallico, la donna si fermò di colpo. «Stai bene, zia Una? Stai bene?» Frank era già un bambino comprensi-
vo. «Era un calcio, Frank. Il bambino mi ha dato un calcio, dentro.» Il quattrenne Frank si avvicinò a Una, appoggiata contro il cancello, e allungò una mano per accarezzarle la pancia, proprio come aveva visto fare a Tom. Una gli prese la testa, la accostò al proprio ventre e passò una mano tra i capelli castani del piccolo. «Sei un tesoro, Frank, sei tanto dolce. Spero che il mio bambino sia dolce come te.» Frank si scostò un po' e premette dolcemente sullo stomaco di Una. «Due bambini, zia Una. Ci sono due bambini qui dentro.» «Eeh?» strillò lei, ridendo. «Miseriaccia, spero di no!» Frank non voleva dire a Una che l'Uomo Dietro il Vetro gli aveva garantito che Una avrebbe avuto due bambini, perciò disse: «Hanno parlato, davvero. Sì, davvero». Una rise di nuovo, ma con minore entusiasmo. Entrambi furono distratti da un grande uccello, forse un gheppio o un falco, che scese verso di loro in picchiata dai travetti del granaio, poi volò via sopra il campo. Più tardi, davanti a un fuoco di ciocchi vivace e scintillante, Una raccontò la storia a Tom. «Deve aver sentito qualcuno che lo diceva», disse Tom. «Gemelli... Vorrebbe dire imbroglio doppio, no, ragazza mia? Ma certo. Il giovanotto lo ha sentito dire da qualcuno, ci scommetto.» Una fissò il fuoco, massaggiandosi la pancia gonfia, dubbiosa. 11 «Gemelli?» disse Martha. «Gemelli!» fece Cassie. «Gemelli!» esclamarono le gemelle. «È quello che dice la levatrice», confermò Una. «Ne è sicura. E vi dirò che qualcun altro lo sapeva molto tempo prima di quella dannata levatrice.» «Chi?» domandò Evelyn. «Chi era?» Una accennò col capo a Frank. Era sotto il tavolo e spingeva la sua macchinina sul pavimento di linoleum. Provando uno strano orgoglio, Cassie arrossì. Non si trattava di una novità, per lei. Era la vigilia di Natale del 1949. Martha aveva infilato rametti di agrifoglio e vischio dietro i quadri e le anatre in volo sulla sua parete. Non aveva una gran passione per gli ornamenti, ma le piaceva lo spirito festoso evo-
cato dalle visite stagionali straordinarie delle sue figlie. Ci voleva un assessore donna, osservò qualcuno, per uscirsene con un'idea sensata che desse un calcio alla malinconia. L'assessore Pearl Hyde aveva provveduto affinché la città prendesse in prestito le luci dal lungomare di Blackpool, e Una aveva portato Frank a Coventry per vedere le luminarie natalizie. Evelyn lanciò un'occhiata a Ina, poi entrambe le teste si volsero con interesse verso il bambino. Martha si accorse di quell'improvvisa attenzione e rabbrividì. Fino ad allora il piccolo Frank era stato oggetto di mistero e di non poca contrarietà per le sorelle gemelle. Lo consideravano rumoroso e aggressivo, e aborrivano quel suo nasino perennemente gocciolante. Per di più era incline a esibirsi in sprizzi di eccitazione al testosterone, durante i quali era solito esprimere il proprio affetto per le zie nubili con dolorosi pugni o calci negli stinchi, o con pizzicotti alle cosce e schiaffetti in faccia. Frank era certamente un maschietto, non tutto zucchero e miele; benché le zie gemelle non avessero mai espresso l'idea a voce alta né mai dimostrato al nipote altro che gentilezza, una graziosa e docile bambina sarebbe stata per loro un'aggiunta al clan Vine molto più gradita. Ma quell'opinione stava per cambiare. Ci si stava convincendo che Frank avesse delle possibilità. Anche se lui non lo sapeva, due paia d'occhi di falco lo stavano già vagliando per fargli fare un giro sulla ruota spirituale. «Quando dici che sapeva...» disse Ina. «Sì», le fece eco Eve, «che cosa intendevi dire? Quando dici che sapeva.» «Se sono gemelli, faresti meglio a prepararti», intervenne Martha senza mezzi termini. «Non sai cosa ti aspetta.» «Sono sicura che non siamo state un problema per te», disse Eve, indignata, posando la tazza di tè. «Ah! Problema doppio, dicono, ma ogni gemello è già un doppio problema, risultato: problema quadruplo», ribatté Martha. «Ma hai sempre detto che ci tenevamo compagnia», obiettò Ina. «Sì, quando non facevate le testarde. Se l'una non voleva esattamente quello che aveva l'altra, voleva l'esatto contrario.» Ina non aveva intenzione di lasciarsi ulteriormente indisporre. «Allora, Una cara, cosa volevi dire quando hai detto che Frank sapeva che sarebbero stati gemelli?» «Avete una brava levatrice laggiù, vero, Una?» s'informò Martha. «Ve ne servirà una brava.» «Ha un'aria un po' strana», ammise Una. «Ma dicono che sia brava. An-
nie la Stracciona, la chiamano.» «Annie la Stracciona? Oh, sarai in buone mani.» «La conosci?» «Ti dirò... Ha fatto venire al mondo Ina ed Evelyn, e tua sorella Aida, quando abitavamo su a Withybrook. Era solo una ragazza, allora.» «Perché è stracciona?» domandò Cassie. «Perché si porta dietro un grosso fagotto di stracci», rispose Una. «Dovresti vederla. E una cosina minuscola, strabica e coi denti guasti, ma ha un buon tocco.» «Ce l'ha, sì. E che si fa col signorino qui, quando i gemelli arrivano? Non lo vorrai più tra i piedi.» «Oh, no, ma', non darà nessun fastidio. A Tom piace averlo attorno, nella fattoria. È un bravo piccolo aiutante, non è così, Frank? E Cassie viene più spesso, adesso che ha cominciato ad andare a cavallo... Vero, Cassie?» Un fattore vicino aveva dato a Tom un mansueto, robusto cavallo grigio che non poteva più tenere. Una volta tirava il carretto del carbone. Aveva un occhio bianco e al trotto s'infossava, ma si diceva fosse a prova di bomba. Tom lo aveva sellato pensando a Frank, ma Cassie aveva improvvisamente mostrato un grande interesse per l'equitazione. Arrivava e restava alla fattoria sempre più di frequente e in breve tempo era riuscita a trattare l'animale abbastanza da portarlo fuori da sola. A volte per alcune ore. «Dovremo aspettare di vedere come te la caverai con Frank dopo l'arrivo di questi gemelli», suggerì Martha. «Qualcuno lo terrà, suppongo», disse Ina, lucidandosi gli occhiali sull'orlo della gonna. Un mattino di primavera, mentre Frank stava giocando sul suo nuovo triciclo nel cortile, Tom uscì di casa infilandosi freneticamente un pullover. Cassie era in giro da qualche parte, a cavallo. Tom saltò sul furgone, accese il motore e fece marcia indietro a gran velocità. Quindi si fermò, scese dal furgone e corse da Frank, inginocchiandosi accanto al bambino e afferrandolo per le braccia. «Starò via soltanto dieci minuti», gli disse. «Vai giù al campo a cercare la tua mamma? E, se non c'è, vai in casa e aiuta tua zia Una.» Il bambino annuì. Tom tornò di corsa al furgone, montò, pigiò sull'acceleratore e sparì. Obbediente, Frank attraversò l'aia, diretto verso i campi in cerca di Cassie. Per strada trovò un bastoncino, che gettò nello stagno delle anatre. Il
bastoncino si conficcò nel fango sul bordo dello stagno. Frank era prudente con lo stagno, ma sapeva di poter recuperare il bastoncino con l'aiuto del paletto di sostegno della corda del bucato, dunque tornò alla fattoria e prese il paletto. Fu allora che udì un basso gemito dall'interno della casa. Stava per indagare quando si ricordò che doveva cercare la madre; quindi abbandonò il paletto e il bastoncino nel fango e si diresse verso il campo. Però, mentre passava davanti al granaio, Ruben, un'oca aggressiva, gli volò incontro. Ruben aveva beccato Frank altre volte e lui nutriva un sano rispetto per quell'animale. Comunque Tom gli aveva mostrato come spaventare Ruben: bastava agitare un bastoncino. Perciò Frank tornò verso casa a prendere il paletto della corda del bucato per poter recuperare il bastoncino dal fango. Fatto questo, andò al granaio, pronto a brandire il bastoncino contro Ruben, ma ormai l'oca se n'era andata. Perciò Frank montò sul cancelletto a cinque sbarre in fondo all'aia e guardò i campi in cerca della madre. Non c'era traccia di Cassie e lui rimase seduto sul cancello per un po', battendo il bastoncino sul pilastro della staccionata. La madre non arrivava. Allora ricordò che doveva tornare a casa e aiutare la zia Una. Ma Ruben era tornata a bloccargli il passo, allora Frank andò al cancello a riprendersi il bastoncino. Stavolta poté agitarlo davanti all'oca e l'animale, che conosceva il potere del bastone, continuò coi suoi rumorosi reclami, ma lasciò passare il bambino. Quando Frank raggiunse la casa, i gemiti all'interno si erano fatti più forti. Lasciando il bastone sulla porta, si levò le scarpe con un calcio e seguì il suono dei gemiti fino alla camera da letto della zia. Nel caminetto era stato acceso il fuoco. Sorretta dai cuscini e con l'enorme pancia gonfia scoperta, Una sudava nel letto. I suoi capelli sembravano bagnati. Partì un altro gemito. Cominciò come un lamento fondo e basso, come il rumore che faceva il vento attorno alla fattoria nel cuore dell'inverno, quasi una buffa canzone, ma in crescendo e più sonora, con un ritmo costante. «Stai bene, zia Una? Stai bene?» «Frank», gemette Una. «Uooooooooooo.» «Stai bene, zia Una?» «Dov'è tuo zio Tom? Uooooooooooooooooooooooooo.» «Ha preso il furgone. Sissignore. Ha detto Frank aiuta zia Una, così ha detto.» «Uoooooooooooooo. Cristo, sta arrivando, ne sono sicura. Frank, strin-
gimi la mano, eh, tesoro?» Frank si precipitò al fianco della zia. Afferrò la sua mano tesa e lei lo strinse sino a fargli male. Gocce di sudore grosse come piselli le scorrevano sul viso. «Uooooo! Parlami, Frank», disse Una. «Parlami. Raccontami una storia.» Così Frank raccontò a zia Una la storia del bastone. Di averlo gettato nello stagno, di Ruben, del cancello. Era una storia lunga da raccontare e, tra un gemito e l'altro, Una riusciva a guardare Frank negli occhi e ad annuire con rapita attenzione. Finalmente Frank terminò il suo racconto. «Vuoi vedere il bastone, zia Una?» Una rise forte. Rise a lungo e di gusto. Poi gemette di nuovo. «Cristo! Sta arrivando!» Si schiacciò contro il letto e alzò le ginocchia. Frank si trovò di fronte la vulva dilatata della zia e là, al centro del tessuto teso, c'era qualcosa di purpureo, grosso come una noce. Lui non lo sapeva, ma stava guardando la sommità della testa del primo bambino. Ma non vide altro. La porta della stanza si spalancò, rivelando zio Tom con la signora più strana che Frank avesse mai incontrato. Era Annie la Stracciona, la levatrice, ed era minuscola. Annie attraversò la stanza trotterellando, con una borsa di cuoio e una seconda borsa di riserva zeppa di brandelli di stoffa strappata. «Allora, cosa combina?» Portava una gonna lunga fino alle caviglie e un largo cardigan nero. I capelli corvini erano raccolti in una crocchia fuori moda. Aveva un occhio quasi chiuso, ma, quando guardò in giro per la stanza, registrando ogni cosa, l'altro sembrò brillare come un fuoco. Limitata dall'uso di quell'unico occhio buono, la testa della donna si muoveva a scatti come quella di un uccello. «Uooooooooooooooooooo», fece Una. Annie la Stracciona portò l'enorme occhio scintillante pericolosamente vicino al punto in cui si stava svolgendo l'azione. «Ci siamo quasi», disse. «Ma facciamo ancora in tempo a organizzarci. Dunque, gioia mia, strilli pure quanto le pare, perché aiuta, già, davvero.» «Uaaahhhhhhhhhhhhhhh!» fece Una. «Così va meglio, gioia mia!» Annie la Stracciona sgusciò fuori dal suo cardigan e aprì una finestra. Poi cacciò la borsa di brandelli di stoffa in mano a Tom. «Prenda questi e li faccia bollire in una grossa pentola. Velo-
ce, gioia mia!» Tom obbedì. Poi la levatrice si fermò di colpo, si chinò e posò l'acuto occhio di falco di fronte a quello di Frank. «E tu chi sei?» Frank tremava. Cercò di dire il proprio nome, ma non riusciva a parlare. Gli pareva che quella creatura fosse stata evocata da un altro mondo. Stava già tirando fuori dalla borsa di cuoio un flacone di Lysol, bottiglie e strumenti vari, disponendoli rapidamente sulla specchiera sgomberata. Frank sentiva sui suoi vestiti gli odori mescolati di fumo di legna, stufato di carne e lozione antisettica. Poi Annie tirò fuori un tappetino di gomma, fece un passo indietro e lo sventolò verso il bambino. «C'è chi dice che i bambini non dovrebbero vedere queste cose, ma io dico diverso. Che guardino. Così sapranno. Ma o stai o vai, gioietta mia. Se mi capiti fra i piedi ti mollo un ceffone, perciò fai come ti pare.» «Vai di sotto dallo zio Tom», riuscì a dire Una prima che un altro profondo, improvviso gemito s'impossessasse di lei. Annie la Stracciona aveva cominciato a fissare il tappetino di gomma sul letto. Fin troppo sollevato di liberarsi dalla presenza di quell'oscuro spirito della foresta, Frank scese le scale lentamente. Trovando lo zio in cucina che bolliva una pentola di stracci, scoppiò in lacrime. «Ehilà, giovanotto bello!» scherzò Tom. «Perché fai così? La zia Una starà bene, figliolo! Sta avendo un bambino! Tutte le donne fanno quel rumore quando stanno avendo un bambino. Li aiuta a venire al mondo. Vedrai.» Ma Frank non stava piangendo per quello che aveva visto o sentito dalla zia Una. A terrorizzarlo era stato l'incontro col crepuscolare spiritello maligno. Frattanto, lassù, Una stava aumentando il suo impegno nell'aiutare il bambino a venire al mondo, dal momento che i gemiti si erano tramutati in grida. Frank udì la levatrice che la incoraggiava a fare più rumore. Il bambino uscì per riprendere a giocare sul suo triciclo. Pedalò in giro per l'aia, sotto la finestra aperta attraverso cui sentiva le urla di dolore della zia. Pedalò fino allo stagno e ritornò. «Dite a quel bastardo che non mi si avvicinerà mai più!» la udì gridare. Poi alla finestra apparve la faccia di Annie la Stracciona, che gli lanciò un'occhiata strabica prima di chiudere brutalmente le imposte. Quindi regnò la calma. Qualche tempo dopo, al crepuscolo, la porta si aprì e Annie la Stracciona chiamò Frank. «Vieni pure, gioia mia, vieni a dare un'occhiata, sì.» Con cautela, Frank entrò. Gli stracci stavano ancora bollendo sommessamente sul fornello. La levatrice salì davanti a lui e aprì la porta della ca-
mera. Una sedeva nel letto, tenendo in braccio un bimbo in fasce. Tom era seduto accanto a lei, con un altro piccolo in braccio. «Cugine», disse con orgoglio Annie la Stracciona. «Due deliziose bambine. Bada a prenderti cura di loro e aiutarle sempre.» Frank guardò a bocca aperta le testoline rosa che spuntavano dalle fasce. Tom sorrideva stupidamente. Aveva gli occhi umidi. Anche Una sorrideva, esausta. «Bene, ora puoi venire ad aiutarmi a fare un certo lavoro», disse Annie la Stracciona a Frank. Stava avvolgendo qualcosa nella carta di giornale. Sembrava un pezzo di fegato tritato delle dimensioni di un piccolo pallone da calcio. Inzuppò il giornale, sicché Annie dovette prendere altri fogli e fare un pacchetto come quello del macellaio. «Vieni con me, gioia mia», disse, portando il pacchetto di fronte a sé. «Seguimi, sì.» Uscirono. Frank era nervoso ma sgambettava per stare al passo con la donnina. «Sai dove posso trovare una vanga? Bravo, giovanotto. Questa andrà bene.» Lui la seguì sul fondo dell'orticello, dove Tom coltivava porri, rabarbaro e ribes. «Dobbiamo dirlo alle api, dobbiamo. Sissignore, va fatto. Glielo diciamo? Gli diciamo delle tue due cugine?» «Sì», disse Frank. La levatrice trovò un punto sotto gli arbusti del ribes e posò il suo pacchetto. Quindi scavò una buca poco profonda. Dopo aver messo nella buca il pacchetto con la placenta e gli annessi, si voltò verso Frank, fissandolo con l'unico occhio buono. «'Dillo agli uccelli, dillo agli alberi, dillo al vento e dillo alle api.' Lo sai dire, gioia mia?» Annie la Stracciona lo aiutò a ripetere la filastrocca. «Fatto.» Quindi coprì di terra il pacchetto e, quando si raddrizzò, le scricchiolarono le giunture. Lei e Frank stavano ritornando verso casa quando un cavallo e il suo cavaliere arrivarono al trotto nell'aia. «E questa chi è?» domandò Annie la Stracciona a Frank. «Mamma!» esclamò Frank. «Due gemelle!» «Non è vero!» fece Cassie, saltando giù dal cavallo grigio. Lo schiaffeggiò sui fianchi e quello trottò obbediente dentro la stalla. «Sissignore», dichiarò Annie la Stracciona. «E tu togliti gli stivali e lavati bene le mani prima di entrare da lei.» Seguite le disposizioni di Annie, Cassie salì dalla sorella e Tom scese di sotto. Voleva pagare la levatrice per i suoi servigi. Era un accordo informale. Lei non lavorava, né avrebbe lavorato, per le autorità sanitarie, ma tutti dicevano che era la migliore nel suo campo. Comunque non avrebbe
accettato un solo penny da lui prima di aver finito. C'era ancora molta pulizia da fare, disse. «A che servivano quegli stracci?» domandò Tom, indicando il fornello. «Oh, niente. È solo per tenere voialtri occupati e fuori dai piedi. Però me li riprendo, col vostro permesso. E ora una tazza di tè, sì. Col vostro permesso.» Tom si accarezzò il mento e pensò a un banjo. Frank intanto correva nel campo. Non importavano il vento e gli alberi e gli uccelli e le api. Lui voleva dirlo all'Uomo Dietro il Vetro. 12 Mentre la fattoria era in preda a tutta quell'agitazione, Olive stava esprimendo a Martha certi timori a proposito della solidità del proprio nido. Il problema era William. Era un buon marito e un buon padre in tutti i sensi. Lavorava coscienziosamente per espandere la sua attività di fruttivendolo. Era gentile e premuroso con le figlie. Non era un gran bevitore, né un giocatore o un bighellone. Ma sembrava avere qualcosa per la testa. «Distratto», disse Olive. «Sembra sempre distratto. E, se gli parli, è come se gli facessi scoppiare un palloncino alle spalle. Per un momento mi guarda come se non sapesse chi sono. Sono sicura che qualcosa lo preoccupa.» «È il lavoro? Ha problemi di soldi di cui non ti parla?» «Tengo io la contabilità, no? Vedo dove va ogni penny, ma'. Ce la passiamo bene.» «Gliel'hai chiesto chiaramente?» «A parlare è buono quasi quanto nostro padre. Sai come sono gli uomini, per parlare.» Martha prese un sorso della sua birra, facendo gorgogliare lo scuro liquido cremoso mentre ci pensava su. Quando Arthur aveva deciso di chiudersi nel silenzio, lei si era domandata se la colpa fosse sua. Forse lo aveva ridotto così a forza di parlare, aveva messo in fuga la sua anima con la propria lingua affilata. Però Martha non era una megera. Aveva visto donne capaci di beccare un uomo fino ad annientarlo. Bastava scegliere il momento in cui era stanco e non fermarsi, piagnucolare e far moine e rimproverare e assillare e affliggere e gridare finché all'uomo non restavano che due cose da fare: andarsene o rimanere annientato. Quelli che rimanevano, in simili circostanze, erano pallidi gusci d'uomo oppure brucianti fasci di rabbia, che serravano i denti e guardavano di traverso piuttosto che dire la propria e ricominciare la battaglia daccapo. Aveva forse fatto quello ad Arthur? No, Arthur aveva altre difficoltà.
Non aveva dato la colpa a lei. Arthur sosteneva di essersi rifugiato in un mondo silenzioso per mettere a tacere il chiacchierio delle voci. E, dicendo così, Arthur sapeva di riferirsi ad altre voci, oltre a quelle che si levavano nella famiglia fisica. «Se tu smetti di parlarci, loro smettono di parlarti», aveva detto una volta. Martha sospettava, tuttavia, che Olive fosse una di quelle donne davvero capaci di spezzare un uomo con la loro agitazione incessante. Olive era incline alle lacrime e a una torrenziale loquela interrogativa che, dopo un po', cominciava a sembrare pioggia che cadeva dolcemente sul tetto di un rifugio antiaereo. Martha si domandava se William si sarebbe rivelato uno di quelli che se ne vanno. Sperava di no, ma lo temeva. «Comunque non è l'uomo che ho sposato», affermò Olive, afflitta. «Forse è la guerra», disse Martha. «Forse allora è successo qualcosa che adesso gli gira per la testa.» «Queste carote sono secche», si lamentò una cliente di William mentre lui le rovesciava sul piatto della bilancia in acciaio inossidabile. «Un po'. Che ne dice del navone, invece?» «Non sono venuta per il navone.» «Rape?» «Se avessi voluto le rape, le avrei chieste.» «Giusto, Mrs Stevenson, che ne dice di una pastinaca bella grossa? Può metterci la sella e cavalcarla fino a casa.» Mrs Stevenson lo guardò negli occhi. Non trovandoci traccia di humour, raccolse la sua verdura, pagò e uscì dal negozio senza un'altra parola. William sprangò la porta dietro di lei e voltò il cartellino appeso in maniera che si leggesse CHIUSO, ANCHE PER LE ARANCE JAFFA. Abbassò la saracinesca. Attraversò l'ombroso magazzino dietro il negozio. Là, tra le alte pile di scatoloni, c'era una vecchia poltrona, con molle e pelo di cavallo che esplodevano attraverso il rivestimento. Crollando sulla poltrona, tirò fuori il pacchetto di sigarette Senior Service e ne accese una. Quindi prese il portafogli, dove, tra la pelle e la fodera di seta, teneva una piccola fotografia. Era il ritratto di una donna che non aveva mai incontrato. Tutto quello che sapeva di lei era che si chiamava Rita Carson, e che suo marito era morto in guerra. Il suo indirizzo era stato scritto sul retro della fotografia dal marito. William aspirò un pizzico di fumo dalla sigaretta e studiò il ritratto. Rita teneva il capo inclinato da una parte. Aveva belle sopracciglia
arcuate, architettonicamente proporzionate. Un lungo sipario di capelli ondulati le ricadeva sulle spalle nude. «Santiddio! Non so che dire di Rita. Lo sai a chi assomiglia, no?» «Lo dicono tutti quando la vedono», aveva replicato Archie, strappando di mano a William la foto e ricacciandola nel portafogli. «Ha pure i capelli rossi. Cazzo, mi levo l'elmetto. Fa troppo caldo per starsene qui con un cappello di latta.» «Non farti vedere da quel caporale», lo aveva ammonito William, sfilando la foto di Olive dal portafogli. Aveva un grazioso abito estivo e stava in piedi nel giardinetto di casa Vine. «Non male, figliolo, davvero niente male», aveva commentato Archie. «Te la sei trovata proprio carina.» Ma William sapeva che Archie era soltanto generoso, dato che sua moglie era una tale sventola... Era l'agosto del 1944. L'avanzata degli Alleati si era impantanata in violenti scontri di fanteria. Con le divisioni corazzate tedesche a pochi chilometri, William (che era furiere) e Archie erano stati distaccati a guardia di un castello bombardato a nord di Falaise. Perché fossero stati mandati a fare quel lavoro non era stato chiaro fino a due ore dopo, quando un attendente era arrivato con un'auto per portar via mezza dozzina di casse di vino dalle enormi cantine del castello. «È così?» aveva sbraitato Archie. «Stiamo montando la guardia a questa roba soltanto perché qualche ufficiale possa trincare chiaretto con la carne in scatola? È così?» William aveva visto combattimenti a Dunkerque, in Nordafrica e sulle spiagge della Normandia, quando aveva sibilato: «Non sai quand'è il caso di chiudere il becco? Questa è la più riposante fine della guerra che abbia mai vissuto, e non ho nessuna fretta di cambiarla». Il giorno seguente si erano chiesti se non li avessero dimenticati. Archie era sceso nelle cantine, tornando con due bottiglie di vino. William non era convinto. Gli era stato detto che sarebbero finiti davanti alla corte marziale se avessero toccato qualcosa. Erano stati costretti a spingere i turaccioli giù per i colli delle bottiglie e a bere il vino dalle gavette, in caso qualcuno li osservasse. «Visto quella cantina? È una cazzo di caverna! Laggiù ti ci puoi perdere, cazzo. Migliaia di bottiglie e centinaia di botti.» Avevano bevuto il vino sotto il sole del pomeriggio. Per lunghi intervalli
non si udiva nient'altro che il ronzio degli insetti nell'erba secca o l'improvviso stridio di un grillo su un albero, ma poi il fragore dei fucili e una sporadica raffica di mitra ricordavano ai due il motivo per cui erano lì. Parlavano di quello che avrebbero fatto una volta a casa. William aveva raccontato ad Archie la storia di quand'era tornato da Dunkerque ed era saltato giù dal treno. Archie ne era stato colpito. Quindi si era allontanato in cerca di un altro paio di bottiglie. «Mi piacerebbe farlo», aveva detto, posando le bottiglie sul tavolo improvvisato che avevano allestito di fronte al portone di legno scolpito del castello. «Tornare e fare un bambino con Rita.» «Lo farai», aveva ribattuto William. «Starai nel nido per tre giorni.» Archie aveva scosso la testa. «Nah. Non tornerò.» «Che vuoi dire?» «Voglio dire che non è destino, giusto? Da questa guerra non torno.» Anche William aveva scosso la testa, senza capire. «Voglio dire che laggiù c'è un fottuto crucco e ha il mirino puntato qui.» Archie si era dato un colpetto nel mezzo della fronte con l'indice. «Il cannone del suo carro armato, la sua granata o la sua fottuta bomba volante... Non so cosa, so solo che non torno.» «Non puoi dirlo. Nessuno può saperlo.» Allora William gli aveva raccontato di certe tragedie sfiorate. Di quella volta sulla spiaggia di Dunkerque, quando una granata era esplosa a un metro da lui, facendogli mancare la sabbia sotto i piedi; della sabbia che gli era volata addosso come un milione di minuscoli insetti dorati, fino a seppellirlo, finché non aveva cominciato a ingoiare sabbia. Lo avevano tirato fuori in tre. «Pensavo di essere andato. È stato il momento peggiore della mia vita. Ma non si sa mai, ne sono uscito. Non si può proprio dire.» Poi aveva raccontato ad Archie di come Martha, chissà come, aveva saputo della sua traversia. E aveva aggiunto che le schegge dell'esplosione gli avevano portato via un pezzettino di cuoio capelluto e che Martha l'aveva visto. «Esistono donne così», era stato il commento di Archie. «Non voglio mancare di rispetto a tua suocera, Will, ma sono come streghe. Vedono e sanno.» «Forse è proprio una strega.» «Be', anch'io sono uno stregone. Vedo e so. Non ci arrivo, a casa.» Avevano continuato a sorseggiare il vino e a fumare sino a tarda notte... Un vino che forse sarebbe stato destinato al Savoy o al Ritz di Londra, se
non fosse scoppiata la guerra. Archie sceglieva, per caso, bottiglie che equivalevano a una settimana di paga. La loro chiacchierata fu insolitamente lunga e scoprirono di piacersi immensamente. Archie aveva fatto ridere William, ma, se uno diventava serio, l'altro lo ascoltava con attenzione. Più volte dissero che dovevano averli dimenticati. Oh, be', concludevano allegramente, possiamo aspettare qui sinché non finisce il vino... Nel retro del negozio, William fissò la fotografia di Rita Carson finché la sigaretta non cominciò a bruciargli le dita. Aveva un messaggio per Rita, da parte di Archie, e non lo aveva recapitato. Il messaggio era in ritardo di cinque anni e mezzo. Archie aveva avuto ragione: non era tornato. Forse lo aveva visto davvero. Ma loro due si erano fatti una promessa: se uno non fosse tornato, allora l'altro avrebbe consegnato un certo messaggio alla moglie dell'amico. Il messaggio di William a Olive non era molto fantasioso, però era sincero: Archie doveva dirle che William l'aveva sempre amata. Il messaggio di Archie a Rita era completamente diverso. Così diverso che, quando William era tornato a casa, si era sentito incapace di recapitarlo. Ma si stava preparando. Si stava disponendo a trovare Rita, a guardarla negli occhi e a ripetere quello che Archie gli aveva chiesto di dire. Tornando dalla guerra, l'idea di recapitare un messaggio simile gli era sembrata ridicola. Un gruppo di uomini costantemente sotto tiro poteva dirsi qualunque cosa... oppure non dirsi nulla e, orribilmente, sembrava lo stesso. Quando William era tornato a Coventry, indossando gli abiti civili forniti dall'esercito, e aveva visto lo sfacelo della città, aveva cominciato a camminare lentamente, mettendo insieme un elenco di chi ce l'aveva fatta e chi no. E gli era sembrato che tutto quello che era successo durante la guerra, benché vivido, esistesse su un'isola temporalmente lontana. Non si poteva collegare ciò che era successo su quell'isola col mondo al quale si era tornati, ed era meglio non provarci. Perfino la promessa fatta a un amico, un compagno soldato che era morto, non aveva più senso né appigli. Per un po'. Ma dopo cinque anni, quando i ricordi della guerra, i lunghi periodi di noia e inattività e i folli, terrificanti momenti di battaglia potevano essere assimilati, William aveva cominciato a pensarla diversamente. Era tornato a una famiglia, a una bellissima figlia che aveva già quattro anni e a una città che non voleva parlare - grazie a Dio! - della guerra, ma che voleva
gente capace di rimboccarsi le maniche e mettersi al lavoro. Lui aveva lavorato. Aveva messo su la sua attività e l'esperienza di furiere lo aveva aiutato, in quello. Ci aveva dedicato tempo e gli era andata bene. Prima ancora di alzare gli occhi dal lavoro, si era ritrovato con altre due figlie; poi, dopo tutto quel tempo, aveva cominciato a sognare. Per molto tempo, dopo la guerra, non c'erano stati sogni. Poi sempre lo stesso: era a Dunkerque, sulla spiaggia. Guardava il cielo e un gabbiano si trasformava in un Heinkel tedesco e poi di nuovo in un pallone rosso. Lui non poteva far altro che guardare il pallone cadere lentamente al suolo; quando toccava terra, esso esplodeva con un tonfo smorzato. Poi la sabbia diventava insetti dorati che gli giravano attorno alla testa, posandosi, seppellendolo sino a soffocarlo. E a quel punto si svegliava. Non aveva mai raccontato a Olive di quell'incubo ricorrente. Si alzava presto e attaccava a lavorare. William era un uomo intelligente. Sapeva perché faceva quei sogni. Sapeva altresì perché era un lavoratore così efficiente ed energico: se lavoravi sodo e tenevi la testa bassa, non dovevi pensare alla guerra. C'era troppo da fare. Ma, quando lo stress legato alla sua condizione di soldato era cominciato a calare, lui aveva iniziato a rilassarsi e persino a riflettere sul suo recente passato. Si era tuffato nel lavoro e nella vita domestica soltanto per fuggire dalle proprie esperienze, lo sapeva bene. La sua vita dopo la guerra, come marito, come padre, come operoso fruttivendolo - una vita non soppesata -, minacciava di seppellirlo. Gli ultimi cinque anni erano stati una specie di amnesia. Si era immerso fino al collo in qualcosa che lo aveva colto di sorpresa. Stava soffocando. E poi c'era la promessa fatta ad Archie riguardo a sua moglie Rita. La quarta mattina di guardia al castello presso Falaise il sole era sorto come un pallone rosso sangue e la giornata era subito sembrata troppo calda anche per i grilli nell'erba. Archie si era alzato, trascinandosi poi nel cortile a bagnarsi la testa con l'acqua della pompa meccanica. William stava già cucinando. Le galline che razzolavano dietro il castello avevano deciso di ricominciare a deporre le uova. I due soldati avevano trovato una dispensa piena di scatolame e consumavano pasti migliori di quelli che poteva fornire l'esercito inglese. «Oggi non mi vesto», aveva annunciato Archie. «Non mi va.» «Se ti beccano, ti fanno il culo.»
«Ascolta», aveva ordinato Archie. William aveva obbedito, ma, a parte lo sfrigolio delle uova che friggevano nella sua gavetta, non aveva sentito niente. «Esatto. Quand'è stata l'ultima volta che hai sentito un fucile? Eh? Te lo dico io, ci hanno dimenticati, amico. La guerra è passata oltre. Possiamo restare qui e vivere da signori finché qualcuno non ci dirà che è tutto finito. Stiamo da re, qui, amico!» «Siì... Campa cavallo.» «Lascia perdere. Non mi vesto e comincio come voglio continuare. Vale a dire seduto qui in mutande come un fottuto Lord Spocchioso a sbronzarmi. Dunque, Sua Signoria gradirebbe un bicchiere di chiaretto del 1932 con le sue uova?» «Sua Signoria gradirebbe», aveva risposto William. Sicché si erano dedicati al nettare e a mezzogiorno erano entrambi mezzi andati. William, che sudava nell'uniforme, si era levato la camicia. Archie sedeva, grondante, con addosso le mutande lunghe dell'esercito, bevendo a garganella. Aveva svuotato la bottiglia e se l'era lanciata alle spalle, facendola atterrare nell'erba con un tonfo smorzato. Il suo sguardo sfocato e vacuo si era posato su William. «Te lo dico io, amico, ci hanno dimenticati.» «Troppa fortuna. L'esercito non dimentica. Se gli devi un paio di stringhe, quelli lo sanno.» «Perché siamo qui, allora? Guardati attorno. Questo posto non è strategico. Non serve a nessuno. Ci hanno lasciati a sorvegliare queste fottute cantine per il fottuto ufficiale che le ha trovate. Adesso lui è da qualche altra parte con altri due tizi che gli sorvegliano qualche altra cantina. E altri due, e altri due ancora, fino a Berlino. O magari è morto. In ogni caso ci hanno mollati, amico. Potremmo disertare. Nessuno lo saprebbe.» «Mi sono fatto Dunkerque, Tobruk e Gold Beach. Non mi metto a disertare adesso che sta girando bene per noi. In effetti sto cominciando a godermela, la guerra. Salute!» «Buon per te. Tu tornerai a casa, alla fine.» «Non ricominciare con quella storia.» Archie si era rizzato a sedere di scatto. «Senti, William, farai una cosa per me quando tornerai? Porterai un messaggio alla mia Rita, eh?» «Certo», aveva mormorato William, cercando di assecondarlo. «Dico sul serio. Le riferirai il messaggio preciso?» «Ho detto di sì, no?» «Bene, allora. Pronto per il messaggio?»
«Avanti.» «Il messaggio è questo. Devi dire: 'Archie mi ha chiesto di venire a dirti che devi lasciargli fare una scopata'.» William aveva riso. Poi si era scolato un sorso di vino rosso e aveva riso ancora. Archie non stava ridendo. «Dico sul serio. Il messaggio è questo.» «Già. Splendido. Busso alla porta e glielo dico.» Ma Archie stava fissando William in modo strano. Nei suoi occhi era apparso un riflesso insolito. «Le piace, a Rita. Le piace parecchio. Le piace che le baci il collo. Le piace che le prenda il capezzolo tra i denti, come si può tenere tra i denti un chicco d'uva senza rompere la buccia. Le piace che la lecchi sulla pancia e in mezzo alle cosce. E il clito. La fa impazzire, la fa, quando le metto la lingua sul clito.» «Porca merda, Archie! Non voglio sentire queste cose.» William non aveva mai messo la lingua sul clito di Olive. Soprattutto perché non sapeva cosa fosse, un clito. «Devo dirti tutte queste cose, in caso avesse bisogno di essere convinta. Il messaggio. Le piace da dietro, alla pecorina. Quello le piace proprio, a Rita.» «Tappati la bocca, Archie!» «Ma ecco quello che la convincerà, se serve. Le piace che le lecchi la piegolina dietro il ginocchio. E l'unica donna che conosco che ci vada in delirio. E il nostro segreto, quello. E, se lo fai bene, a Rita ricorderà me, giusto? Sarò lì per lei, no? Allora, ti è chiaro il messaggio, vero?» William lo aveva guardato negli occhi. Archie era serissimo. «Non dire bubbole.» Dopo aver annuito, Archie si era alzato dalla sedia, ondeggiando malfermo, e aveva preso il suo fucile Lee-Enfield, che stava appoggiato alla parete. Poi aveva azionato l'otturatore girevole scorrevole e aveva puntato l'arma contro William. L'altro si era rabbuiato. «Non fare lo stronzo.» «Dimmi che lo farai.» «Metti giù quel cazzo di fucile. Non mi piace.» «Hai già promesso. Dimmi che lo farai o ti riempio di buchi. Sul serio.» William sapeva che Archie era ubriaco, tuttavia l'istinto gli diceva pure che non stava scherzando. Aveva battuto le palpebre per primo. «Ti ho detto che lo farò. Ora metti giù quello schifo di arma, per la miseria.» Riappoggiando al muro il Lee-Enfield, Archie aveva sorriso. Poi si era
spostato all'ombra del castello. William aveva bevuto a garganella da una bottiglia di chiaretto e, sebbene avesse le mani che tremavano, si era acceso un'altra sigaretta. In tutta la guerra, in tutti i feroci combattimenti che aveva visto, quella era la prima volta che un soldato gli puntava un'arma contro il petto. Dopo aver fumato la sigaretta, aveva deciso di andare da Archie a dirgliene quattro, così si era diretto verso il castello, ma un rumore proveniente dalle cantine lo aveva bloccato. Era Archie, e stava urlando. In modo incomprensibile. Urlava il nome di Rita e sbraitava cose che William non riusciva a capire. Tra una parola e l'altra, William aveva sentito un rumore di vetri rotti, di bottiglie di vino spaccate contro le pareti di mattoni della cantina. Era come se lì dentro si aggirasse un animale ferito. E gli ululati da ubriaco non cessavano. Tuttavia, prima di aver deciso cosa fare, William aveva sentito un altro rumore. Era un ronzio, piuttosto vicino. Aveva girato la testa verso il punto da cui era giunto il rumore e, dopo aver esclamato: «Cazzo!», era tornato di corsa al tavolo su cui giacevano le armi abbandonate. Si trattava di una jeep, che, alzando una nuvola di polvere, accelerava verso il castello. Afferrata la camicia appesa allo schienale della sedia, William l'aveva indossata, abbottonandola in fretta. Poi aveva preso il fucile. La jeep si era fermata a pochi metri di distanza. L'uomo al volante fissava mestamente William, mentre un ufficiale inglese scendeva dall'auto. «Buongiorno, caporale», aveva detto il capitano. «Signore!» aveva gridato William, sull'attenti. Il giovane capitano aveva lanciato un'occhiata al Lee-Enfield di Archie, appoggiato al muro imbiancato a calce, e poi ai piedi nudi di William. «Tutto in ordine, caporale?» «Sissignore!» «Riposo, caporale. Hai un aspetto schifoso. Buon per te che non sono in vena di denunciarti.» William si era messo in posizione di riposo e si era infilato rapidamente calzini e scarponi. «Sissignore.» «È ora di trasferirvi, caporale. Dov'è il tuo compagno?» «Un bisogno corporale, signore.» «Raccogli la tua roba. Prima di andare, però, voglio prendere un paio di casse. Per mantenere la guerra... oliata, eh, caporale?» «Giusto, signore!» William stava già scattando. «Vado a prenderle un paio di casse dalla cantina.» «Verrò con te, caporale. Non vorrei che per sbaglio ci capitasse la sciac-
quatura di piedi, giusto?» William aveva ignorato l'insulto implicito. «È molto in disordine, là sotto, signore. Un mucchio di vetri rotti, niente luce... È pericoloso, signore. Vado io.» «Non dire fesserie, caporale. Voglio scegliere un paio di casse personalmente. Su, fammi strada.» «Sissignore!» William aveva obbedito, senza riuscire a trovare un modo per tirar fuori dai guai Archie. Poi si era sentito il rumore di un'altra bottiglia rotta e altri urli e strepiti erano arrivati dalla cantina. «Che diavolo è?» William chinò il capo con aria confidenziale. Aveva visto più guerra lui in un pomeriggio di quanta ne avrebbe vista quel giovane capitano per il resto della sua vita, e lo sapevano entrambi. «Signore... Quando un uomo urla in una cantina, bisogna lasciare che finisca. Signore.» Tornando ad ascoltare i rumori animaleschi provenienti dall'interno, il capitano aveva guardato William, annuendo. Era come se quel caporale fosse provvisto di una saggezza che la sua istruzione in una costosa scuola privata non era riuscita a dargli. Come se ogni uomo, prima o poi, dovesse avere un momento per sé in una cantina francese; e forse persino a lui sarebbe toccato un momento simile, inducendolo ad apprezzare la discrezione altrui. «Caporale, vado a ispezionare il castello. Tra mezz'ora esatta sarete entrambi pronti a partire. Chiaro?» «Sissignore! Grazie, signore.» E dopo mezz'ora William e Archie erano in perfetta uniforme da combattimento, sbarbati, con l'elmetto in testa e il fucile in spalla, in attesa di montare sulla jeep. Ardue aveva gli occhi rossi di pianto e un taglietto da vetro sulla guancia, ma stava rigido sull'attenti. Frattanto l'ufficiale e il suo autista avevano caricato sulla jeep una mezza dozzina di casse di vino. «Splendido», aveva detto allora il capitano, facendo loro cenno di montare. «Si torna alla guerra.» Seduto tra gli scatoloni nel retro del suo negozio di frutta e verdura, mentre guardava la foto, William capì che doveva andare da Rita. Non c'era scampo. Dapprima aveva pensato che la faccenda fosse morta e sepolta. Dopo la sbornia al castello, Archie non ne aveva mai più parlato... almeno finché non era stato in punto di morte. Allora aveva rivelato a William altri segreti sessuali e gli aveva fatto rinnovare la promessa.
Quella, però, era una promessa che William aveva seppellito insieme con molte altre esperienze di guerra. Un mucchio di cose che avrebbe preferito dimenticare. Ma a risvegliarle era stata la cosa più strana di tutte: il piccolo Frank di quattro anni. Il figlioletto di Cassie. Un pomeriggio, William stava nel giardinetto a casa di Martha a farsi una fumatina e a prendersi una pausa dal trambusto, le risa e le chiacchiere litigiose delle sorelle Vine. Frank era uscito, stringendo un fucile giocattolo che Tom gli aveva intagliato da un pezzo di quercia, e aveva puntato il fucile contro di lui. William si era cacciato la sigaretta tra le labbra e aveva alzato le mani, nel gesto di resa. Poi il bambino aveva detto chiaramente: «Rita». La sigaretta, caduta dalle labbra di William, fumava sui ciottoli blu del giardinetto. William aveva guardato la sigaretta, poi il bambino. Quindi Frank era rientrato in casa. Come aveva fatto? Come aveva evocato quel nome dal nulla? William era profondamente scosso. Aveva allungato la mano e l'aveva tirato fuori, così, come un bambino che gioca sulla spiaggia e tira fuori dalla sabbia una granata o una mina. E, da quel momento, William non era più riuscito a cancellare il pensiero di Rita. 13 Una stava attraversando un brutto momento. Le prime settimane di quella doppia maternità - con le gemelle Judith e Megan - non furono facili per lei. Di notte, le gemelle dormivano poco però mangiavano con appetito e succhiavano forte al seno, in competizione istintiva per accaparrarsi almeno la metà della razione. I capezzoli di Una erano screpolati e dolenti. La nuova tendenza era servirsi di latte in polvere da sciogliere nel biberon, certamente più semplice per la madre. Ma Una era diventata una ragazza di campagna e un certo petulante buonsenso, assai più vecchio delle nuove tendenze, la avvertiva che in gioco c'era più del semplice spruzzare latte in quelle bocche dure come becchi. Perciò resisteva, risucchiava aria e imprecava sottovoce, sostenendo che il vero amore era un capezzolo screpolato. Alla fine, le sue estremità mammarie divennero dure come il ferro, tanto che lei disse a Tom che ci sarebbe voluto un maniscalco per piegarle. Tom sorrise debolmente, fece una smorfia tra sé e ammirò la moglie. Però, dopo essersi tanto indurita, Una contrasse una mastite al seno sini-
stro che la indebolì alquanto, proprio mentre gli ultimi, sensazionali ormoni materni andavano svanendo. La mastite le rubò le energie e, peggio ancora, la fece cadere in depressione. «È il pianto da latte», disse Olive. «Io avevo sempre voglia di piangere, con le mie.» «Anch'io», intervenne Cassie. Cassie amava unirsi al coro dell'opinione generale, un'opinione che, in casa Vine, veniva dispensata largamente quanto il tè. Le attribuiva un nuovo status, che escludeva le tre sorelle maggiori, Aida, Evelyn e Ina. Delle ultime due, alla discussione dei problemi di Una era presente anche Evelyn. Beveva il suo tè a grandi sorsi zitelleschi, mentre le sorelle discutevano quei crudi argomenti materni. Intanto Frank giocava sotto il tavolo della cucina col suo trenino. «Forse c'è dell'altro», disse Martha guardando Evelyn, per includerla nel discorso. «C'è stato qualcosa di molto diverso nell'aver avuto te e Ina insieme. Ero a terra.» «Davvero?» fece Evelyn. «Per diverse settimane. Non era affatto il pianto da latte. Tutto diverso da quell'inclinazione al pianto che ti viene quando il tuo fiore si stacca da te. E più come una mano pesante che ti piomba sulle spalle e ti tiene giù. Non riesci a vedere chiaramente. Quelle boccucce minuscole ti stanno addosso e tu non sai se disponi dei mezzi necessari per portarle sull'altra riva del fiume.» «Quale fiume?» domandò Cassie. «Non lo so, quale fiume», rispose Martha, irritata. «Era così che la vedevo. Per il primo anno pensi solo a portarle sull'altra riva del fiume e poi, quando si trovano sulla terraferma, be', puoi respirare un poco.» Le figlie di Martha tendevano a dimenticare che la loro madre aveva perduto tre maschi ancora in fasce. Evelyn disse: «Capisco quello che vuoi dire, mamma». «Tom è molto in pensiero», riferì Cassie. «La nostra Una non è tipo da deprimersi», intervenne Olive. «Lei è l'ultima a farsi trascinare giù.» Era stato proprio quello a far preoccupare Martha. Una aveva la tempra più forte ed era la più allegra di tutte loro. «Se è a terra, per lei sarà molto dura. Molto dura. So come mi sentivo io.» Stava guardando Cassie. Poi lanciò un'occhiata a Frank che giocava sotto il tavolo e Cassie seppe esattamente cosa significava quell'occhiata. «Dobbiamo darle una mano», dichiarò Martha. «Pensavo a Frank con
Beatie e Bernard.» A sentir quello, Evelyn posò la tazza, che tintinnò sul piattino. Olive succhiò l'aria tra i denti. Soltanto Cassie si rizzò a sedere, entusiasta all'idea, perché ciò significava che avrebbe potuto trascorrere del tempo con Beatie e Bernard nella loro grande «casa condivisa vicino a Oxford». Era stata la grande «casa condivisa vicino a Oxford» a provocare la reazione negativa di Evelyn e Olive. Quella grande «casa condivisa vicino a Oxford» puzzava un po' troppo di scandalo per i loro gusti. In realtà, tra le sorelle, soltanto Una e Cassie non avevano espresso preoccupazioni a Martha sulla questione della grande «casa condivisa vicino a Oxford». Era in quella casa, nota come Ravenscraig Lodge, che Beatie e Bernard si erano trasferiti mentre studiavano. All'epoca, comodità ed economia avevano risolto la faccenda. Un professore ordinario di uno dei college di Oxford ne era il proprietario e affittava camere agli studenti per un canone simbolico, in cambio della partecipazione a un esperimento di vita nella comune. Le implicazioni del concetto «vita nella comune» erano un mistero per i Vine, che afferravano soltanto l'idea della condivisione di cucina e pulizie. Sulle prime, insomma, la casa non aveva sollevato obiezioni. Soltanto dopo la fine degli studi, quando sia Beatie sia Bernard ne erano usciti con rispettabili lauree, quella sistemazione, che si presumeva dovesse interrompersi a studi conclusi, fu messa in discussione. A quanto pareva, Beatie e Bernard si trovavano benissimo a Ravenscraig. No, non avevano in progetto di cercare un'altra sistemazione a breve. L'esperimento di vita in comune procedeva bene, riferirono, e loro volevano continuare così ancora per un po'. E le sorelle cominciarono a rendersi conto che tutte quelle belle frasi - «vita in comune», «sistemazioni sperimentali» - celavano il fatto che Beatie e Bernard vivevano allegramente nel peccato. «Sembra meraviglioso», aveva sospirato Cassie, durante una visita di Beatie e Bernard. Alla maggior parte delle altre sorelle non sembrava affatto meraviglioso. Certo non ad Aida. «Hanno intenzione di sposarsi?» Alla domanda di Aida nessuno aveva saputo rispondere. Gordon, con un ghigno cadaverico, aveva cercato di fare una battuta, che però non aveva divertito nessuno. «Iiiiiiiiiiiii... una colonia del libero amore, forse la...» Aida lo aveva zittito con uno sguardo avvelenato. Allora Gordon si era alzato per raggiungere gli altri uomini in giardino.
«Sembra una strana soluzione», era stato il commento di Olive. «Scandalosa, piuttosto!» aveva detto Ina. Aveva usato la parola «scandalosa» perché Beatie, sbagliando, non aveva mostrato la minima condiscendenza nei confronti delle sorelle. Era stata un po' troppo prodiga di dettagli, rivelando che Peregrine Feek, l'attivista marxista e professore di filosofia proprietario di Ravenscraig, aveva all'epoca figli da due madri che vivevano in casa con lui; che entrambe le madri continuavano a vivere sotto lo stesso tetto; e che la prima di tali madri era in attesa di un altro figlio da un collega di Feek, il quale viveva a sua volta nella «comune». E per fortuna Beatie si era fermata lì. «Dunque, fatemi capire», era intervenuta Martha, cercando di farsi un quadro chiaro della vita a Ravenscraig. «E vi sedete a tavola tutti insieme, a cena?» aveva chiesto Aida. «Be'», era stato tutto ciò che aveva detto Olive. Fuori, gli uomini ne discutevano diversamente. «Sicché, Bernard, tutti sono sposati con tutti, pressappoco», aveva commentato maliziosamente Tom. «Non è così», aveva detto Bernard. Spesso non capiva quando lo prendevano in giro. «Niente affatto.» «Iiiiiiiiiiiiii... una ehmmm... colonia di libero... amore, sarebbe...» Neppure Gordon intendeva perdere l'occasione di canzonarlo. «No, non libero amore. Non è che si vada a letto coi compagni altrui. Non è così. È soltanto un atteggiamento aperto rispetto al matrimonio, ecco tutto.» «Un atteggiamento aperto?» aveva ripetuto William, soffiando via il fumo. «Meglio che Martha non ti senta, da là dentro. Ti scuoierebbe vivo!» «Sembra come per le bestie del cortile.» Tom aveva strizzato l'occhio a William. «Un solo buon toro per coprirle tutte quante.» Bernard aveva riso bonariamente. «Niente affatto, Tom. L'hai presa dal verso sbagliato.» «Iiiiiiiiiiiiiiii un'orgia... romana... si potrebbe dire...» «Con questi giovani non c'è che scuotere la testa», aveva concluso William. «Be', buona fortuna a voi, dico io.» Ed ecco perché, alcune settimane dopo quelle conversazioni, quando Martha accennò al fatto che Frank poteva essere affidato alle amorevoli cure di Beatie e Bernard a Ravenscraig, Evelyn fece tintinnare la tazza e Olive sibilò. «Dobbiamo dare un po' di sollievo a Una, tutto qua», affermò
Martha. «E dove dovrebbe andare il giovanotto? Ora, io non ho nulla contro Aida e Gordon, ma loro hanno abitudini molto radicate. Olive, tu sei già ben presa con le tue tre.» (Martha non fece cenno alle ansie di Olive riguardo al turbamento di William.) «E l'ultima cosa che Evelyn e Ina desiderano è un ragazzino che scorrazza per il salotto, per quanto dotato sia, eh, Cassie?» «Lui è dotato. Certo che lo è», dichiarò Cassie. Evelyn si schiarì la gola. Martha la guardò. Olive e Cassie guardarono Martha, il cui sguardo pareva inutilmente fisso su Evelyn. «Abbiamo avuto una discussione, Ina e io. Ne abbiamo discusso. Magari per un po'.» Martha permise a un sorriso furtivo di passarle sulle labbra, quasi come se lei stesse cercando di trattenerlo. «Come, tu e Ina? Non dire sciocchezze! Cosa ne sapete tu e Ina dell'amore per un bambino? Guardatelo!» Si voltarono tutte a contemplare Frank, che, accovacciato sotto il tavolo, si rese improvvisamente conto di essere l'argomento della loro discussione. Alzò su Martha i suoi grandi occhi, così diversi da quelli di tutti gli altri Vine che avevano finito per chiamarli «americani». «Be', hai detto che tutti dovremmo fare a turno, e noi siamo pronte. Ne abbiamo discusso. Ina e io», ribadì Evelyn. «No, Evelyn, avete abbastanza da fare con la Chiesa spiritualista, tra una cosa e l'altra. Non la vedo bene. Lasciate che se ne occupino i più giovani.» Gli occhi di Evelyn lampeggiarono. Non perdeva la calma facilmente, però aveva un bel caratterino. «Già, e preferiresti vederlo in quel nido di vipere a Oxford, non è vero? Così ti andrebbe bene, giusto? Bella cosa da volere per lui!» «Che cos'è un nido di vipere?» s'informò Frank. Cassie era turbata. «Non dovresti parlare così della nostra Beatie. Non dovresti.» «Lascia che lo dica», intervenne Olive. «Bisogna dirlo.» «Io non so niente di nessun nido», dichiarò Martha. «Ma, Evelyn, se sei davvero decisa, non cercherò di dissuaderti. Bada, però: il piccolino è di carne e ossa e ha bisogno di baci, abbracci e che gli si soffi il naso.» «Le sappiamo queste cose, mamma.» Martha atteggiò il viso così da suggerire che, in quella specie di votazione, l'avevano messa in minoranza. «Be', allora è deciso, a quanto pare. Anche se non vedo come possa funzionare.» «Funzionerà, semplice e chiaro», disse Evelyn, entusiasta per quella che
già considerava una vittoria. Quindi Martha disse: «Sentite! C'è qualcuno alla porta?» C'era davvero qualcuno alla porta. Tutti sentirono bussare. Era l'esattore dell'assicurazione della Società Cooperativa, che passava tutti i venerdì pomeriggio. Martha diede a Cassie il borsellino, per pagarlo, perché l'altra faccenda, ancora una volta, era stata sistemata. 14 «Questo significa che non posso più venire alla fattoria?» Frank era in lacrime all'idea della nuova sistemazione. Cassie era andata alla fattoria a prendere le sue cose. Tom aspettava pazientemente, con borse livide sotto gli occhi a causa delle notti insonni. Li avrebbe portati col suo furgone a casa di Evelyn e Ina. «Niente affatto, Frank», rispose Cassie, anche lei in lacrime. Il trasloco significava che pure lei sarebbe andata nella casa delle sorelle, ad Avon Street, insieme con Frank. Anche le sue visite alla fattoria e le sue cavalcate si sarebbero diradate. «Verrai a trovarci tutti i fine settimana, se vuoi. Mammina ti porterà. Non è vero, Cassie?» «Non ci vado!» gridò Frank. «No!» Cassie cercò di abbracciarlo, ma lui si divincolò. «Solo finché la zia Una non sta meglio, poi potrai tornare.» Frank scappò via, uscì di casa e attraversò l'aia. Tom sospirò. «Diamogli un minuto, poi vado a prenderlo.» «Una viene a salutarlo?» «No, Cassie. La fa stare troppo male. Filiamo via e basta, d'accordo?» Frank corse dietro il granaio, attraverso il campo e fino alla passerella sul canale. Si accovacciò nell'incavo sotto le assi di legno e tirò il fogliame dietro di sé, sapendo che non lo avrebbero trovato. Mise l'occhio sul vetro macchiato, coperto di ragnatele. L'Uomo Dietro il Vetro fece una smorfia. «Devo andare a vivere dalle mie zie», disse Frank. «Perciò non ti vedrò per un po'. Ma tornerò e ti parlerò presto. Non voglio vivere con le mie stupide zie. Sono stupide. Ma va tutto bene, perché non dirò a nessuno che ti nascondi qui. Non l'ho ancora detto a nessuno e non lo dirò. Tu non vuoi che lo dica, vero?» L'Uomo Dietro il Vetro sorrise.
«No. E non lo dirò. Puoi stare nascosto qui tutto il tempo che vuoi. Ma se vuoi qualcosa da mangiare, o qualche regalo, dovrai aspettare il fine settimana, va bene?» L'Uomo Dietro il Vetro continuò a sorridere. «Frank! Frankie! Dove sei, figliolo?» Era la voce di Tom. Frank lo sentì avvicinarsi dal campo. «Sta arrivando il bel tempo», disse Frank. «Starai bene.» Uscì dall'incavo, muovendosi lentamente all'indietro e rimettendo a posto con cura il fogliame, poi sgambettò lungo il canale in modo da spuntar fuori a diversi metri di distanza dal suo nascondiglio. Tom era andato dall'altra parte e Frank sopraggiunse alle sue spalle. «Allora, figliolo, sei pronto a montare sul furgone?» domandò Tom. «O devo portarti sulle spalle?» «No, va bene», rispose Frank. La casa di Avon Street era molto diversa dalla fattoria. Benché fosse soltanto a qualche centinaio di metri dalla casa di Martha, sembrava esistere su un piano completamente diverso. Per dirne una, le gemelle la tenevano in una condizione di ordine immacolato. Le superfici erano lustre fino allo scintillio militaresco e gli angoli rivelatori erano orgogliosamente incontaminati. Anche l'odore era diverso: cera d'api e pot-pourri, quello del corridoio. E c'erano piante in vaso, là dove le piante erano passate di moda da un pezzo: alte aspidistre, kenzie e felci così grandi da far sospettare che fossero carnivore. Ma Ina ed Evelyn si erano date molto da fare perché lo stanzino di Frank si conformasse alla loro idea di perfezione assoluta per il piccolo. Si erano fatte mandare i giocattoli di Frank, così che fossero piazzati nella stanza ad aspettarlo. Ina aveva preso una collezione di fumetti e libri a una vendita di beneficenza e li aveva messi in bella vista su un piccolo scaffale nell'angolo. Evelyn aveva recuperato da qualche parte una fotografia incorniciata di una squadra di calcio dell'anteguerra, in cui i calciatori esibivano tutti giganteschi baffoni a manubrio e indossavano «calzoncini» di lunghezza straordinaria. E, quando Frank arrivò, lo sospinsero dentro la stanza piene di eccitazione e immensamente soddisfatte di se stesse. «Sì», disse Tom, entrando dietro di lui insieme con Cassie. «Ben presto metterai tutto quanto ben bene in disordine, vero, Frank?» Voleva essere una battuta, ma, sentendo che non era andata a segno, Tom guardò la foto alla parete. «Accidempoli! Questa è bella! E che squadra sarebbe?»
Evelyn e Ina si guardarono. Quindi Ina disse: «Non essere sciocco, Tom. È una squadra di calcio». Tom si grattò la nuca e decise di levarsi di torno prima di fare altri danni coi suoi commenti, lasciando Cassie e Frank ad avvizzire sotto lo sguardo protervo delle due zitelle. Nessuno sembrava sapere quale doveva essere la mossa seguente. Tuttavia, essendo previsto che Cassie si fermasse, almeno per le prime notti, la giovane suggerì che, mentre lei e Frank disfacevano i bagagli, le sorelle mettessero su il bollitore per una bella tazza di tè. Sembrava un modo sensato di procedere, così le sorelle si misero in moto, come se il compito richiedesse gli sforzi di entrambe. Quel nervosismo in presenza del bambino e la perenne incapacità di determinare esattamente cosa fare con lui caratterizzarono la natura dei loro rapporti nel periodo che Frank trascorse con Ina ed Evelyn. Tuttavia, in quella stanza che le zie gemelle avevano messo a disposizione - una stanza oppressivamente pulita, scrupolosamente ordinata e ossessivamente suddivisa -, toccò a Cassie ricordare a Frank che tanto Ina quanto Evelyn erano enormemente gentili. «Sono tanto gentili, Frank. Vedrai. Tanto.» A Frank già mancava la selvaggia e puzzolente fertilità della fattoria. Sconcertato, guardò la meticolosa disposizione dei suoi giocattoli, l'esatta configurazione di fumetti e libri e la fotografia incorniciata della squadra di calcio sulla parete, e scoppiò in lacrime. Cassie strinse a sé il bambino. «Ma che succede?» disse. Quindi scoppiò in lacrime anche lei. Come le neonate nipotine della fattoria, anche Ina ed Evelyn erano gemelle non identiche. Evelyn era la più alta delle due e aveva una faccia lunga, angolosa e cavallina. Ina era di corporatura piuttosto tozza e, di tanto in tanto, portava occhiali con la montatura di tartaruga, frutto di una prescrizione così sballata da farle stringere gli occhi e corrugare la fronte ogni volta che li metteva. Entrambe erano inclini a indossare abiti informi a disegni floreali, simili a quelli dei pacchetti di semi, ed entrambe olezzavano di lavanda. Ma l'unico tratto che avevano in comune era di una dolcezza trascendente, ed era la bellezza dei loro occhi, simili a sfavillanti lustrini cuciti sui visi pallidi e piatti da bambole di pezza. In entrambe, gli occhi sembravano costantemente alla ricerca di qualcosa, non si posavano mai ed erano sempre all'erta, creando così un'impressione di brillantezza e vigore. Le sorelle erano sempre perfettamente sveglie. Cassie, cui non dispiaceva metter mano alle faccende quotidiane fintanto
che non la pigliavano le sue fantasticherie, si sentiva una sciattona. Le due gironzolavano per la casa, stringendo ciascuna uno strofinaccio per la polvere e nessuna conversazione si svolgeva mai a riposo, dato che c'era sempre una superficie o un montante o un angolo che poteva essere migliorato con buona lena e una generosa dose di olio di gomito. «E ci piacerebbe portare Frank ad Ansty Road, domenica sera», disse Ina sollevando un candeliere e lucidando il punto già scintillante su cui era appoggiato. «Ce l'ha un vestito per la domenica?» «No», rispose Cassie, che voleva opporsi all'idea di Ansty Road, ma non sapeva come. «Oh, be', la nostra Cassie.» Evelyn aveva trovato un granello di polvere sullo specchio dell'ingresso e lo stava esorcizzando con saliva e con gusto, almeno finché lo specchio non si era messo a cigolare in segno di protesta. «Pensavamo di portarlo in centro e comprargliene uno.» «Che bello», disse Cassie, prendendo mentalmente nota che doveva trovare il sistema di avere voce in capitolo sul modo in cui vestire Frank. Era il severo regime domestico delle gemelle a risultare pesante tanto per Cassie quanto per Frank. La colazione arrivava in tavola alle sette e quarantacinque e scompariva alle otto, e in genere consisteva di un uovo sodo o di due fette di pane tostato con marmellata di ribes oppure miele, ma non entrambi. Non c'era niente di grave nella cosa in sé, a parte il fatto che le sorelle, dato che finivano prima, arbitravano la colazione, sovrintendendo all'uovo sodo. L'uovo veniva scodellato nel portauovo di Frank, le sorelle si scostavano di un mezzo passo dal tavolo e sorvegliavano la lotta del bambino con l'uovo. Se Frank faceva cadere il cucchiaio, Ina felicemente lo recuperava. Se Frank lasciava scivolare sul tavolo la crosta del pane, Evelyn gliela rimetteva allegramente nel piatto. Le sorridenti custodi attendevano lo scoccare dell'ora, poi sparecchiavano con malcelato sollievo: nessuna grande calamità si era verificata durante il quarto d'ora della colazione. Non che le zie fossero rigide o aspre; al contrario, erano dolci e sollecite in ogni occasione. Cassie aveva voglia di urlare. Frank si sentiva troppo paralizzato per avere voglia di urlare. Più di tutto gli mancava la fattoria. Anche quello era un posto con le sue abitudini e i suoi orari, ma essi venivano rispettati in relazione a una serie di valori completamente diversa, governata dalla ricorrente esigenza di mungere le vacche o aprire i cancelli del pascolo. Nessuno ti studiava all'ora di colazione e, se schiacciavi l'uovo con la forchetta, la cosa passava inosservata.
Alla fattoria, i suoi giocattoli non venivano mai riordinati non appena lui voltava le spalle. A casa delle zie, la vita era un continuo pattugliamento per tenere sotto controllo le turbinose forze del disordine. Alla fattoria, nessuno cercava di mantenere l'ordine, perché non si poteva. La vita non lo consentiva. Se gli animali avevano cibo e acqua ed erano al loro posto, allora la vita prorompeva, incurante degli sforzi di tutti. La fattoria era piena di buche nel terreno, buche umide e buche asciutte da cui la vita si protendeva, infettando ogni cosa con sfarfallante confusione. C'erano rane e le loro uova, conigli, topi e ratti, uccelli e tassi; se scavavi nella terra, trovavi teschi di ermellini e metallo arrugginito di aeroplani. Quella era una fattoria, secondo Frank. Non giravi da un posto all'altro con uno straccio per la polvere; ti portavi appresso un bastone per punzecchiare le cose. Nella loro dimora di cera e pot-pourri, le zie non potevano competere con tutto ciò. In realtà avevano davvero poco da offrire a un bambino. C'era solo una cosa, un unico aspetto che lo affascinava. Una faccenda alla quale sua madre aveva accennato e che lui aveva creduto d'intuire. Le zie parlavano coi morti. Il suo primo sabato ad Avon Street, Frank fu trascinato in città e dal sarto e impacchettato in un «vestito della domenica» bell'e fatto. Cassie era presente, per controllare che non fossero commessi errori madornali, ma, anche così, a Frank non piaceva granché il completo verde bottiglia che le zie gli avevano comprato. Non gli piaceva la consistenza della stoffa e non gli piaceva l'odore che essa aveva. Non gli piacevano le calze bianche né le giarrettiere, che sembravano un complemento inevitabile. Non gli piaceva il modo meticoloso con cui Ina, sorvegliata da Evelyn, aveva estratto dal borsellino una frusciante banconota da cinque sterline e l'aveva posata sul bancone del negozio, quasi fosse una mappa del paradiso che tutti i presenti dovevano esaminare. Per lui fu un vero sollievo quando gli dissero di togliersi il vestito, giacché non gli era consentito indossarlo fino alla domenica. Domenica pomeriggio fu nuovamente impacchettato in quell'abito. Le calze bianche gli arrivavano alle ginocchia e all'orlo dei pantaloni corti, e le giarrettiere elasticizzate che tenevano su le calze gli pizzicavano la pelle. Cassie gli bagnò i capelli, spazzolandoli con vigore eccessivo nello sforzo di appiattirli. Così, con un vestito scomodo, le gambe che pizzicavano e lo scalpo dolorante, Frank fu portato per la prima volta alla Libera
Chiesa Evangelica Spiritualista di Ansty Road. Cassie sedette accanto a Frank, tenendogli la mano per tutta la funzione, mentre lui si rendeva conto che, in quella comunità, le zie Ina ed Evelyn erano «qualcuno». Accoglievano la gente che entrava e sembravano conoscere tutti. In realtà, la chiesa era un luogo molto semplice, con un tavolo sul davanti su cui erano posati un vaso di gigli e una croce di legno smaltato. Le file di sedie erano occupate soprattutto da anziane signore con larghi cappelli sormontati da frutta artificiale, perline, spilloni letali e altri oggetti; nessuna si tolse il cappello per l'intera funzione. Vi furono alcuni canti, cui Frank si unì muovendo le labbra; certi, tuttavia, erano così alti che non riusciva ad arrivarci. E ci furono preghiere, durante le quali Frank seguì l'esempio di Cassie e chiuse gli occhi. Poi giunse il grande momento: Evelyn si alzò e disse qualche parola per dare il benvenuto a Frank alla sua prima funzione. Diverse signore dai larghi cappelli allungarono il collo per guardarlo attentamente. Una donna che aveva appuntato al cappello quello che sembrava un uccello morto lo aveva salutato con un cenno del capo e un ampio sorriso. Quindi Evelyn presentò l'ospite d'onore della serata: Mrs Connie Humbert. Mrs Humbert era eccezionalmente grossa e sventolava nervosamente le mani all'altezza della gola. Aveva un grosso neo peloso sul collo e un'aria alquanto affannata. Esordì spiegando quanto fosse contenta di essere finalmente riuscita a tornare a Coventry (che lei chiamava la Città della Convenzione) dopo tanto tempo. Frank perse interesse, ma le orecchie gli si rizzarono di nuovo quando sentì una specie di dibattito a proposito di qualcuno di nome Harry. Mrs Humbert voleva sapere chi fosse, e una donna in seconda fila cominciò a piangere. Mrs Humbert sostenne che, a detta di Harry, non c'era bisogno di piangere, perché lui si trovava in un posto migliore di quello in cui si trovava lei, ma ciò fece piangere l'altra donna ancora di più, finché una signora della terza fila non le posò una mano sulla spalla. Mrs Humbert smise di parlare di Harry e disse altre cose che fecero piangere un'altra signora. Al termine della funzione, tre o quattro donne della congregazione avevano pianto e Frank non aveva ancora capito bene che cosa era stato detto per turbarle tanto. Poi la funzione si concluse e tutti si alzarono. Evelyn si avvicinò a Cassie e, con occhi scintillanti, chiese: «Non è stata meravigliosa Mrs Humbert?» «Davvero», convenne Cassie in tono animato. Frank notò un lampo ne-
gli occhi della madre. Quel lampo significava che lei aveva detto una cosa, ma ne pensava un'altra. Tutti sembravano convinti che Mrs Humbert fosse meravigliosa soltanto perché aveva fatto piangere la gente. «E la buona notizia è che ha accettato di venire a prendere il tè ad Avon Street!» sussurrò Evelyn a Cassie. «Viene a casa con noi?» fece Cassie. «Perbacco!» I bellissimi occhi-lustrini di Evelyn scintillarono. Insieme con Connie Humbert, ad Avon Street giunse un'atmosfera di nervosa eccitazione. Altre due donne della congregazione furono invitate al tè in onore di Mrs Humbert ed entrarono in casa con l'aria di chi sa di aver ottenuto un privilegio speciale. Ansiose e tremanti, Evelyn e Ina prepararono il tè e tagliarono i sandwich e, quando Cassie si offrì di portare Frank di sopra - quindi fuori dai piedi -, acconsentirono prontamente, ma soltanto per richiamare madre e figlio di sotto dopo breve tempo. «È mia salda opinione che, se facciamo qualcosa cui i bambini non possono assistere, dobbiamo desistere immediatamente dal farlo», dichiarò Mrs Humbert, inghiottendo con inutile sforzo le ultime briciole di un sandwich alla pasta di salmone. «E poiché sono fiera e orgogliosa della mia natura spirituale, non vedo nulla di cui vergognarsi.» «Assolutamente», confermò Evelyn, sparecchiando i piatti dei sandwich e il servizio da tè. «Sicuro», ribadì Ina, ripiegando la tovaglia bianca e sostituendola con quella decorativa ricamata. «Credete che potremmo tirare le tende? Non mi piace pensare che la gente ci guardi da fuori. Ha qualcosa in contrario a che il ragazzo si unisca a noi?» Una delle ospiti saltò in piedi e tirò le tende, ma soltanto dopo qualche istante Cassie si rese conto che Mrs Humbert si stava rivolgendo direttamente a lei. «No», rispose allora. Frank guardò la madre. Ormai riconosceva in lei tutti i segnali che indicavano la sua difficoltà di concentrazione. «Non che ci sia qualcosa d'innaturale», dichiarò Mrs Humbert, allargando sulla tovaglia le mani punteggiate da macchie di fegato. «Veniamo al dunque, allora?» I grandi occhi della donna si fissarono su Cassie, che colse l'invito a prendere una sedia per sé e per Frank. Prima di prendere posto, Ina coprì una lampada da tavolo con una sciarpa di seta e spense il lampadario. Frank guardava la madre. Cassie si premette un dito sulle labbra. Giunsero tutti le mani e, senza preamboli, Mrs Humbert entrò in trance.
Gli occhi si chiusero e la testa ciondolò a un'angolazione scomoda, scoprendo i rotoli di grasso del collo. Frank non riusciva a levarle gli occhi di dosso. Un'immobilità assoluta discese sul gruppo, un silenzio sostenuto dall'aspettativa. Frank sentì un fiato sul collo. Poi un suono sembrò giungere dalle viscere del silenzio stesso, qualcosa a metà tra un basso gemito e un sospiro. Era Mrs Humbert. La sua testa ruotò lentamente fino a ciondolare dall'altra parte e lei sospirò di nuovo. Le palpebre chiuse tremolavano, lasciando intravedere il bianco degli occhi. Quindi Mrs Humbert «si svegliò» e guardò con aria accusatoria tutti i membri del gruppo. «Qualcuno mi sta bloccando? Ebbene?» Nessuno confessò. Frank colse un'occhiata nervosa di Cassie. «Richiameremo alla mente i sette principi della nostra fede e riproveremo, va bene? Ora, avanti, per piacere, provate.» Mrs Humbert lasciò di nuovo ciondolare la testa. Da lei uscì un altro gemito basso e profondo, che ricordò sgradevolmente a Frank i rumori prodotti dalla zia Una nei primi momenti del travaglio. Quindi il suono si mutò in qualcosa che pareva un lungo, lento rilascio di gas. Mrs Humbert sollevò il capo lentamente e aprì gli occhi: sembrava intenta a cercare qualcosa giusto al di sopra del proprio orecchio. «Carissimo, ah, sì, a quello, benvenuto a te, no, no, non tu mio caro te l'ho già detto, vuoi, vuoi, no, capiamo tutti e siamo tra amici, ma devi aspettare il tuo turno, c'è un caro, no, caro non lo farò, certamente a tempo debito, ora eccolo qui e come ti chiami carissimo, Bert? No, Bertha, giusto? Sei giunta a noi?» Attorno al tavolo passò un fremito. Ina ed Evelyn s'irrigidirono. «Passata da così poco, lo so, Bertha, lo so, tesoro, così nuovo così nuovo e un tale, non tu caro, sto parlando con Bertha e no, non se ne parla. Sei giunta a noi, Bertha? Bene, e vuoi? Lo farò, e devo riferirglielo? Bertha ha speranza e desidera sappiate che c'è tanto amore, tanto amore e luce e lo splendore di una famiglia affettuosa è tenuto in conto più dell'oro e vuole che lo diciate a Martha e un messaggio speciale per Frank che è un bambino delizioso...» «Quale messaggio?» disse Cassie. «Ssst!» fece Ina. «Zitta!» fece Evelyn. «Bertha dice che sei circondato da amore e luce e sì, cara, lo sanno, sì carissima, questo Io sanno...» Frank guardò la madre e rimase turbato nel vedere che, anche se gli oc-
chi erano spalancati e splendevano, le labbra erano serrate, quasi stesse soffocando l'impulso a ridere forte. E in quel momento Frank udì la voce della madre, ma dentro la propria testa, che diceva: Se lo sta inventando, Mrs Humbert è un'impostora. «Sì, mia cara, riferirò alla Chiesa le tue benedizioni, Ina ed Evelyn saranno così contente di sentire...» Mrs Humbert s'interruppe bruscamente. Tossì, poi deglutì a fatica come se avesse avuto una lisca di pesce incastrata in gola. Quindi, con un tono gutturale per nulla simile alla sua voce di prima, gracchiò: «Wir, die wir einst herrlich waren. Wir fallen immernoch aus den Wolken». Il colore si dileguò dal suo volto e lei si rizzò a sedere di scatto, premendo le dita allargate sulla tovaglia. «Sembrava straniero», disse una delle signore della Chiesa. «Si sente bene, Mrs Humbert?» domandò Evelyn. «È pallidissima», fece Ina. «Gutturale e straniero», aggiunse la signora della Chiesa. «Un bicchier d'acqua, per piacere», chiese Mrs Humbert. «Si potrebbero riaprire le tende?» La seduta era palesemente finita. Mrs Humbert, massaggiandosi le tempie con gli indici, fu condotta in salotto, dove avrebbe potuto riprendersi. Nessuno sembrava preoccuparsi eccessivamente del fatto che Mrs Humbert apparisse sofferente: sembrava il normale sacrificio che la condizione di medium comportava. A ogni modo, e nonostante l'improvvisa interruzione, Evelyn, Ina e le altre parevano considerare la seduta un grande successo. Accarezzarono i capelli di Frank e si congratularono con lui per le parole rivoltegli dalla sua pro-prozia Bertha, che gli aveva portato un messaggio pieno d'ispirazione. E, benché non sapesse che cosa aveva fatto per guadagnarsi tanto favore, Frank non si mostrò riluttante a bearsi di quella circostanza. Durante quel coro di approvazione, Frank guardava Cassie, ma lei era altrove. Lui si mosse, a disagio. Anche se aveva soltanto cinque anni, sapeva che quello poteva essere l'inizio di qualcosa di brutto. Conosceva i primi segni: erano come gli istanti iniziali di un incubo ricorrente in cui il pavimento sprofondava, mettendo in moto un'inevitabile sequenza di eventi. Quelli erano soltanto i primi giorni, ma qualcosa in sua madre si stava nuovamente risvegliando e lui sapeva che avrebbero dovuto cavalcare la tigre ancora una volta. Ma non c'erano altri occhi puntati su Cassie quando Mrs Humbert lasciò la casa in uno stato di lieve sofferenza, che tuttavia non aveva suscitato il
minimo slancio di compassione da parte delle riconoscenti gemelle. Le gemelle, e le altre signore della Chiesa spiritualista, avrebbero dato il braccio destro per avere il «contatto», la capacità medianica di Mrs Humbert. Ma, a quanto sembrava, quella singolare facoltà non si poteva conseguire attraverso il duro lavoro o l'entusiasmo. Era conferita da poteri superiori e, se un'occasionale emicrania, un po' di debolezza o altre indisposizioni erano il prezzo per poter comunicare con l'aldilà, allora quelle erano soltanto le prove certe dell'immensità del privilegio, l'impronta del pollice di Dio. Evelyn e Ina erano credenti. Avevano avuto più volte conferma di quegli stessi poteri dalla loro madre, Martha. Era per loro motivo di una certa contrarietà che nessuna delle due avesse ereditato quella capacità speciale e che Martha rifiutasse di aprirsi di più con la Chiesa o in altri modi. Disporre di prove di prima mano sull'esistenza di quei poteri le aveva comunque condannate a trascorrere la vita ad analizzare il mistero che c'era dietro, e troppo spesso nel posto sbagliato. Martha aveva dichiarato che non sarebbe mai andata alla loro chiesa spiritualista. Ne aveva abbastanza di quella roba senza dover andarsela a cercare. Soltanto chi non sa quale grosso buco essa produce nel mondo può volerla cercare, aveva detto. «Non è stata splendida Mrs Humbert?» trillò Ina quella sera, mentre Cassie preparava Frank per andare a letto. «E anche tu, Frank, anche tu sei stato splendido.» «Ho la sensazione che Frank si dimostrerà più dotato di tutte noi, in quel senso», fece Evelyn, accorrendo nella stanza del bambino. «Cosa ne dici, Cassie?» «Dico che Frank dovrebbe filare a letto perché è molto, molto tardi!» rispose Cassie, in un'insolita esibizione di senso pratico materno. In seguito, dopo che le gemelle furono tornate di sotto, Cassie chiuse la porta e s'inginocchiò accanto al letto del figlio, accarezzandogli la testa. «Quello di stasera era solo una specie di gioco, Frank. Con Mrs Humbert. Un gioco, come il Gioco dell'Oca.» «Mrs Humbert può parlare con la gente morta?» domandò Frank. «No, non può.» «Come fai a saperlo?» «Nessuno può parlare coi morti. Loro non possono sentirti. Puoi sentire loro che parlano a te, Frank, ma tu non puoi parlare con loro. E Mrs Humbert stava fingendo che loro la sentissero. Ecco come ho fatto a saperlo. Si possono ascoltare i morti, hanno molte cose da dire; ma loro non ascoltano
noi.» «Perché no?» «Non possono e basta.» «Perché Mrs Humbert ha smesso di parlare?» Cassie non sapeva cosa dire. Un'idea ce l'aveva: era stata lei a bloccare Mrs Humbert non appena aveva avvertito che quella donna stava fingendo. E poi era successo qualcosa di strano. «Non lo so. Non ho sentito l'ultima cosa che ha detto. Era come una lingua straniera. Come il tedesco. Noi che un tempo fummo simili a Dio...» Frank si drizzò a sedere sul letto. «Ancora oggi noi cadiamo dalle nuvole. Così ha detto, mamma.» Cassie si sentì avvampare. «Come lo sai?» «Me l'hai detto tu, mamma.» «Davvero? Non lo ricordo.» «Sì, l'hai detto.» «Oh, Frank. Fai la nanna, adesso, tesoro mio.» Dovremo parlare di te a tua nonna, pensò Cassie, e di colpo, irrazionalmente, ebbe paura per il bambino. Mentre Frank si rannicchiava, Cassie lo baciò sulla fronte e, rialzandosi, aprì la finestra per far entrare un po' d'aria fresca in quella casa soffocante. «Tornerò tra un momento.» Cassie andò di sotto e saccheggiò la credenza in cucina in cerca di candele. Le gemelle tenevano una gran scorta di candele, dato che alcune delle loro ospiti medium preferivano una luce soffusa per invitare le ombre. Tornò in camera di Frank portandone una bracciata e le piazzò tutto attorno al bambino, lungo il davanzale della finestra, sul comodino, sull'ottomana ai piedi del letto e sullo scaffale sopra la sua testa. Poi spense la luce e si sistemò su una sedia per vegliare su di lui. «Sono qui, Frankie», mormorò. «Sono qui a vegliare su di te.» Il bambino, nel suo letto, con gli occhi che si chiudevano mentre si abbandonava al sonno, era così bello che Cassie dovette asciugarsi una lacrima, benché non sapesse perché fosse sgorgata. Forse perché Frank era troppo bello. Sentì la certezza che il mondo non avrebbe permesso a un bambino così bello di crescere, che forze oscure, intese a sopprimerlo, si sarebbero coalizzate, che il mondo non avrebbe permesso alla purezza e alla bellezza di seminare un germe di luce in un luogo buio. Poi anche lei si abbandonò al sonno e prese a sognare una splendida città con tre guglie aguzze e alte. La città era in fiamme. Il fuoco pioveva da un cielo pieno di demoni e qualcuno stava urlando il suo nome.
Si trattava di Evelyn, che era entrata nella stanza e si era messa a sventolare le tendine. «Cassie! Cassie! Cosa diamine ti è venuto in mente! Cassie!» Le tendine a rete stavano bruciando. Frank si alzò a sedere, strofinandosi gli occhi. La brezza aveva spinto la tendina su una fiammella scoperta. Continuando a sventolare i drappeggi, Evelyn riuscì finalmente a spegnere il fuoco. Quindi Ina apparve sulla soglia, il viso tra le mani, strillando contro Cassie. «Se non avessi guardato!» gridò Evelyn, premendosi la mano sul petto palpitante. «Pensa se non l'avessi fatto!» Cassie si ritrasse dietro la sedia, nascondendosi. Frank si mise a piangere. 15 «Meglio che entri, allora», disse Rita, lasciando che William si chiudesse la porta alle spalle, mentre lei si dirigeva in salotto. «Un tè va bene?» «No», fece William. Gli tremavano le mani, non voleva far tintinnare la tazza. «Metto su il bollitore, comunque», disse Rita. «Se mai cambiasse idea.» William sedette sul divano, a disagio. Le molle cigolarono. Sulla mensola del caminetto c'era una fotografia di Archie: era in divisa e sorrideva. Benché l'arredamento fosse un po' consunto, tutto era in ordine e immacolato. Non c'era nulla che suggerisse la presenza di un uomo o di un bambino. Anche se il naso glielo aveva già rivelato nel momento stesso in cui aveva varcato la soglia, William fu sollevato nel notare che non c'era un cappotto appeso al gancio o una pipa sulla mensola. Rita tornò dalla cucina e sedette sull'altro divano, di fronte a lui. Le calze di nylon frusciarono quando accavallò le gambe. William sedeva, rigido e dritto. Era proprio identica alla fotografia che Archie gli aveva mostrato a Falaise. I capelli rossi erano raccolti sulla nuca, ma in quel momento un ricciolo ribelle le cadde su un occhio e lei lo spinse dietro l'orecchio col mignolo. Sedeva con le gambe accavallate e le mani sui larghi fianchi. «Ci ha messo un bel po', no?» «Ho una famiglia. Ho cercato di dimenticare la guerra. È questo che si fa, si cerca di dimenticare.» «Non la sto criticando. Era solo per dire. Quasi cinque anni, giusto? Fuma?» William accettò una sigaretta. Le porse l'accendino acceso e si sforzò di
bloccare il tremito alle mani. Lei non gli aveva mai levato gli occhi di dosso. Aspirò dalla sigaretta una profonda boccata, espirò un pennacchio di fumo lungo e sottile e tornò a sprofondare nel divano. William celò un sospiro di sollievo dentro una nuvoletta di fumo. «Come le ho detto alla porta, ho promesso ad Archie che sarei venuto a cercarla. Il pensiero di non averlo fatto mi tormentava.» «Sono contenta che l'abbia fatto. Non ho mai saputo niente di com'è successo o com'è stato. Un'infezione, hanno detto soltanto.» «Ed è stata questa la cosa assurda», disse lui troppo in fretta. «La battaglia era finita, eccetera. Ma poi ci hanno fatto ripulire il campo. Un'ora sì, un'ora no, tanto era brutto. Quei poveri disgraziati erano pelle e ossa, nient'altro. Pelle e ossa. Bisognava portare una maschera. Abbiamo dovuto bruciare quasi tutto. I corpi. E la malattia, capisce. Be', un mucchio di ragazzi si sono presi la dissenteria, anche se non ne sono morti. Ma è questo che è successo ad Archie. Una cosa stupida, dopo tutte le battaglie che aveva visto. Dissenteria. Stupido.» Rita si alzò e andò alla credenza, dove si mise a frugare tra alcune carte. Gli porse la lettera che aveva ricevuto dal ministero della Guerra. La nota era breve. Diceva che Archie aveva fatalmente contratto una malattia infettiva a Belsen e che aveva servito il suo Paese con grande onore. William girò il foglio, come per cercare ulteriori informazioni sulla facciata bianca. «Non ti danno molto, eh?» disse lei, standogli vicinissima. «Vogliono che lei non sappia niente, Rita. Mi creda, non vorrebbe sapere.» William studiò il tappeto. Per un momento, fu solo vagamente consapevole di Rita. Ne avvertiva soltanto la vicinanza. Il suo avambraccio snello e bianco che pendeva lungo la coscia. Ne sentiva l'aroma. Sentiva l'aroma femminile del suo corpo. Il bollitore fischiò. «Credo che abbia bisogno di quella tazza di tè», disse lei. William le raccontò tutto ciò che poteva, ma lasciò cadere in fretta l'argomento del campo di concentramento di Belsen. Le raccontò dei giorni al castello di Falaise e lei rise quando le disse di tutto il vino che avevano bevuto. «Era proprio da Archie, proprio da lui», commentò. Le disse anche di quanto erano stati fortunati a non finire sotto corte marziale e di com'erano diventati buoni amici, prendendosi cura l'uno dell'altro. Per qualche motivo, tuttavia, decise di non rivelarle che Archie era convinto che non sarebbe tornato a casa. «Non si è più risposata, allora?» domandò William dopo una pausa.
Rita si toccò la nuca con le lunghe dita. «Il primo anno l'ho passato soprattutto a piangere. Agli uomini non ci pensavo nemmeno. Dopo tre anni ho ricominciato a pensarci. Non ho fatto altro: pensarci.» Rise debolmente. «Non riesco a immaginarla da sola. Una donna come lei...» Rita sostenne il suo sguardo. «Perché è venuto qui, William?» Lui arrossì. «Per mantenere una promessa, tutto qui. Ho detto ad Archie che l'avrei fatto. Se vuole me ne vado.» «Soffre, vero?» disse Rita. «Cosa?» «Lei sta soffrendo, non è vero, William? Non è felice. La preoccupa, vero?» William si sentiva innervosito, spiazzato. «Che cosa?» «Tutto questo.» Quella donna era capace di leggergli dentro. William capì perché Archie era tanto innamorato di lei. Sapeva tutto. Era una di quelle donne che sanno. Non occorreva che dicesse qualcosa per dimostrarlo. Era una di quelle donne che capiscono, e che sanno risolvere tutto con uno sguardo o una carezza, o a letto. Poteva sistemare le cose senza nemmeno rendersene conto. Niente di strano che Archie fosse pazzo di lei. Lei prendeva le cose complicate e le rendeva semplici. «Archie mi ha dato un messaggio per lei.» «Eh?» William prese fiato e glielo disse. Per un momento, Rita sembrò confusa e William temette che si fosse arrabbiata. Poi lei rise forte. Una specie di risatina stridula. Infine si batté la mano contro la coscia. «Sporco briccone!» «È quello che ha detto Archie!» protestò William. «Sì. Ci scommetto, ci scommetto. È proprio da lui, già.» Alzò lo sguardo alla fotografia sulla mensola del caminetto, annuendo. Vi fu silenzio. William si mise la mano sotto il colletto. «Devi essere pazzo, a venire qui», disse lei. «Devo esserlo. Un dannato pazzo furioso.» Ti prego, levami gli occhi di dosso, pensava. «Sposato, sì?» «Già. Tre ragazzine.» Rita prese un pacchetto di sigarette e l'aprì. Estratta delicatamente un'altra sigaretta, se la infilò tra le labbra, l'accese, aspirò e soffiò un sottile sbuffo di fumo dello stesso colore dei suoi occhi, senza mai staccare lo sguardo da lui. Quindi scosse il capo, lievissimamente, come divertita da
un qualche monologo interiore. Il ricciolo ribelle le cadde di nuovo sull'occhio e lei di nuovo lo prese col mignolo. «Sarebbe soltanto una volta», disse. «Soltanto una. Hai una famiglia cui pensare. Non potrei farti tornare.» William mosse le labbra per dire qualcosa, ma rimase in silenzio. «Pazzia. È una totale pazzia», disse lei. Si alzò e aprì una porta nell'angolo della stanza. William la guardò incamminarsi per le scale e non tentò di seguirla. S'infilò di nuovo la mano sotto il colletto. Si accese una seconda sigaretta e la fumò; durante quel periodo di tempo, Rita non accennò a tornare di sotto. Quindi William spense la sigaretta e sali. Rita era già nuda sotto le lenzuola. «Te la prendi calma in tutto, eh?» gli disse. «Affrettarsi non serve a niente», replicò lui, più disinvolto di quanto non si sentisse. Dopo essersi spogliato in fretta, s'infilò nel letto di fianco a Rita. La sua pelle era come seta orientale. «Sei un tipo timido», osservò Rita. «Sempre stato. Non ci sono abituato.» Rita rise. «Diavolo! Credi che io lo sia? Quello che ti ho detto è vero. Archie è stato l'ultimo uomo con cui sono andata a letto. Il primo e l'ultimo. Sono timida tale e quale a te, ma più brava a nasconderlo. E non ho paura di te. Ho avuto paura quando ti sei presentato alla porta. Avevi un'aria un po' feroce. Ma poi ti sei rilassato un tantino.» «Allora perché mi lasci fare questo?» «Zitto. Baciami.» William la baciò e, insieme col vago aroma di tabacco, la sua bocca morbida aveva un sapore lievemente salino, che gli piacque e lo infiammò del desiderio di baciarla ancora. Dopo che lui si fu scostato, lei strinse le labbra, come a esaminare il residuo del bacio. C'era qualcosa in Rita che viveva esclusivamente nel presente. Lei accolse il bacio. Guardò William negli occhi. Era immersa nel momento, mentre lui era al di fuori del tempo e il fondo del suo cervello turbinava di pensieri su Olive e Archie, sulle perdite del suo negozio di fruttivendolo chiuso e sui corpi ammucchiati a palate in una fossa aperta a Belsen. Sentì che quella donna poteva aiutarlo. Rita poteva aiutarlo a ritornare dentro il tempo. Tirò via le lenzuola e le guardò i seni. Grossi e morbidi, avevano areole insolitamente larghe, circondate dai minuscoli rilievi periferici. William si chinò a leccarle un capezzolo. Lei ansimò e reagì chiudendo le lunghe dita
attorno all'asta del suo uccello. Lui le leccò di nuovo il capezzolo e portò la bocca alla parte bassa del seno, dove si univa alle costole, mordicchiandola, prima di spostarsi all'addome. William stava cercando qualcosa di esotico. Era tutta colpa di Archie, di quella volta a Falaise. Una sera tardi, fradici di vino, Archie aveva chiesto a William quale fosse l'odore che preferiva al mondo; William aveva risposto il pompelmo. Archie l'aveva preso in giro, sostenendo che l'odore di donna era insuperabile e non c'era niente come il sano odore di fica quando suonavi il kazoo rosa. William non sapeva di che cosa stesse parlando. Non sapeva nemmeno cosa fosse un dito. Aveva sentito parlare del sesso orale, ma non l'aveva mai fatto con Olive né con nessun'altra. Archie gli aveva detto che poteva far impazzire una donna leccandole il clitoride, garantito. E, quando William aveva sostenuto che lo stava soltanto prendendo in giro, Archie lo aveva istruito. William non era riuscito a fermare i sussulti provocati dal riso all'idea che qualcuno potesse voler mettere la bocca sulle parti intime di una donna. Anche Archie rideva. Poi aveva aggiunto: «Pensa a come suoni il kazoo». L'educazione musicale di Archie e la promessa che aveva fatto all'amico quel giorno a Falaise ebbero come conseguenza che William aveva trascorso cinque anni sforzandosi di scacciare pensieri di fica, odore di donna, clitoride e concerti di kazoo rosa. Più di una volta avrebbe voluto provarci con Olive, ma non riusciva a decidersi. Era semplicemente troppo assurdo. Lei ne sarebbe stata disgustata, ne era sicuro. Se ci avesse provato, il loro matrimonio sarebbe finito, ne era convinto. «È la vibrazione, capisci», aveva detto Archie tra gli scoppi di risa ululanti, tenendosi le costole con una mano e una bottiglia di vino con l'altra. «Le fa impazzire. La dannata vibrazione.» Sicché, per cinque anni, William aveva pensato, di tanto in tanto, alla fica di Rita. Il pensiero lo coglieva mentre pesava le pastinache o accatastava i pompelmi, oppure quando leggeva i risultati delle partite, o di sera negli ultimi moménti prima di addormentarsi. E ogni volta il suo riflesso era stato quello di scacciare quei pensieri degenerati, poiché tali li considerava. Per cinque anni. E ora eccolo li a baciare la pancia di Rita, correndo verso sud. La sua pelle era così diversa da quella di Olive! La pelle di Rita aveva il colore della sabbia bianca nel deserto africano. E, quando le si fece più vicino, l'odore si rivelò non dissimile dall'aroma del mercato delle spezie al Cairo. Era complesso, ricco, esotico e minaccioso. Era così forte da fargli pensare
che avrebbe potuto farlo svenire. Spinse le dita all'interno e Rita gemette. Trovò il clitoride, proprio dove Archie aveva detto che era. Lo stuzzicò con l'indice e Rita spinse il monte di Venere verso di lui, verso la sua bocca. E, quando lui seppellì la faccia nella sua fica, il suo odore fu come un vento caldo. Spinse la lingua contro il clitoride e lei ebbe un guizzo. Quando lui la lambì dolcemente, lei lo chiamò col nome del marito. «Archie.» William sentì, ma non ne fu turbato. Poi glielo sentì ripetere ancora e divenne impaziente. Sollevò il capo e girò Rita sulla pancia e spinse dentro di lei, forte, da dietro. «Piano», disse lei. «Piano.» Quando eiaculò, William si sentì gelare il sudore sulla schiena; i peli sulle braccia rimasero ritti mentre si svuotava. Restarono distesi insieme, a fissare il soffitto. Dopo un po', Rita disse: «Dio mio, eri come uno che è appena uscito di prigione». «Mi spiace.» «Non dirlo. Andava bene.» Già, pensò William, ma chi andava bene? Stava per parlare quando si accorse che lei stava piangendo. Tese le braccia e la strinse e Rita singhiozzò a lungo nel suo abbraccio, passando dal pianto al sonno. Normalmente, dopo il sesso, anche William chiudeva gli occhi e si abbandonava al sonno, ma il cuore gli martellava. Gli occhi scrutarono gli angoli della stanza buia. Infine lui scivolò fuori dal letto. Aveva la stupida idea che qualcuno fosse nascosto nell'armadio. Si avvicinò lentamente all'armadio di rovere, girò la piccola chiave e aprì la porta. All'interno trovò i vestiti e le giacche di Archie ordinatamente appesi sulle grucce. Sugli abiti c'era il suo odore. Le scarpe di Archie giacevano ai piedi dell'armadio. Dopo averlo richiuso, si mise carponi e guardò sotto il letto. Poi si alzò e andò al cassettone. Il primo cassetto si aprì con un mormorio. Dentro c'erano le cose di Rita: calze, biancheria. Lo chiuse, aprì il secondo e fece scorrere la mano sui vestiti che vi trovò. «Che cosa stai cercando?» domandò piano Rita. William sussultò e, per la seconda volta, si sentì gelare il sudore sulla schiena. Chiuse il cassetto. «Non lo so», rispose. Si sentiva strano, scombussolato. «Torna qui da me.» «Devo andare», disse lui, afferrando la camicia. «Sì. Ti accompagno alla porta.» «No!» ribatté, troppo forte. Quindi aggiunse: «Stai qui tranquilla».
Si vestì in fretta, baciò Rita e scese rumorosamente le scale. In salotto si fermò a guardare la fotografia di Archie che gli sorrideva dalla mensola del caminetto. Borbottò qualcosa sottovoce prima di decidersi a uscire, sbattendosi la porta alle spalle. Si voltò a guardare la camera da letto che aveva appena lasciato. La tendina fremette. 16 Cassie dovette dire a Martha delle capacità del giovane Frank, anche se Martha non era del tutto propensa a discutere apertamente di simili stramberie. Martha notò che Cassie parlava senza arrivare in fondo alle frasi, si esprimeva rapidamente e sembrava prender fiato al momento sbagliato, certe volte a metà di una parola. Frankie ce l'aveva, le disse Cassie; Frankie era un'anima vecchia, Frankie era quello e quell'altro. Martha ascoltò Cassie con estrema attenzione. Non sapeva che cosa replicare ed era saggia abbastanza da sapere che quello era il momento migliore per non dire niente. La riluttanza di Martha a parlare non aveva nulla a che fare con lo scetticismo e tutto a che fare con la persuasione. Non aveva sperimentato lei stessa apparizioni e sogni, e ricevuto messaggi ispiratori, tutti non richiesti? Sperava ardentemente che nessuna delle sue figlie - e nessuno dei suoi nipoti - fossero toccati dalla maledizione di un qualche «dono» o della chiaroveggenza. Per la maggior parte di loro, le sue speranze erano state esaudite. Aida era senza pensieri come un palo della staccionata. Evelyn e Ina, sebbene non desiderassero altro nella vita, non avevano nessuna capacità spirituale del genere e si erano ridotte ad ascoltare le conchiglie portate dal mare. Olive era troppo agitata e tormentata dai piccoli commerci della vita, mentre Una era figlia della terra e perciò si era scelta un marito fattore. Quanto a Beatie, aveva troppo cervello per essere anche soltanto un po' sensibile. E, proprio quando Martha era arrivata alla fine della sua fertilità e pensava di avercela fatta, ecco arrivare Cassie, che ce l'aveva di sicuro, e adesso Frank, sul quale non aveva mai nutrito dubbi. E forse era stato quello il motivo per cui aveva cambiato idea, insistendo perché le due sorelle tenessero il bambino: Frank aveva avuto abbastanza problemi a portare quel fardello stando insieme con gente che non capiva. Nella riluttanza di Martha ad approfondire la cosa, però, c'era anche un
elemento di protezione. Era un istinto antico, radicato nella paura e nell'autoconservazione. Non faceva differenza se venivano a prenderti coi camici bianchi e ti facevano l'elettroshock o se ti portavano candele e pendolini. Prima o poi venivano comunque. Martha aveva sperato che, mandando Frank ad Avon Street, l'atmosfera tranquilla della casa avrebbe fatto del bene a Cassie. Stando all'esperienza di Martha, chi passa la giornata a bussare sul muro non ottiene risposte. Inoltre le gemelle erano di un'ottusità strepitosa, e lo stesso si poteva dire dei tipi eccentrici e degli spiritisti della loro Chiesa. Le era sembrata un'idea furba nascondere Cassie e Frank in un posto tutto chiacchiere e niente fatti... Però ora temeva di aver commesso un errore. Cassie avrebbe fatto un buco, in quel muro. «Forse passerà», aveva detto a Cassie a proposito di Frank. «Spesso succede, quando crescono.» «Ha scatenato un putiferio, su ad Avon Street.» Effettivamente era così. La crisi di Mrs Humbert nella casa di Avon Street non fu ascritta, come sarebbe accaduto altrove, a un normale mal di testa o un banale inizio di raffreddore. Le sue difficoltà dovevano essere considerate di origine paranormale. E, quando un altro spiritualista in visita ad Avon Street, un tale Mr Abrahams - che aveva la faccia mezza paralizzata da un colpo apoplettico -, dichiarò che la casa fremeva di un'energia psichica da lui non notata in una visita precedente, la presenza di Frank cominciò a suscitare commenti. Non che tutti fossero pronti a riconoscere Frank come dotato di poteri speciali; più che altro, la presenza di un bambino in casa era vista come un faro che attirava spiriti nuovi e positivi, come se il bambino fosse una fila di luci sulla pista d'atterraggio degli angeli. Cassie, che dal canto suo si sottraeva all'attenzione degli ospiti spiritualisti, incoraggiava quell'idea a ogni occasione. Martha domandò: «Dimmi una cosa, Cassie, hai visto tuo padre?» «Non sto parlando di questo, ti sto dicendo di Frankie...» «Rispondi e basta, ragazzina!» All'occorrenza, Martha sapeva essere brusca con la figlia. «L'hai visto oggi?» «È nell'altra stanza a leggere il giornale.» «Quando hai ricominciato a vederlo?» «La settimana scorsa.» Martha sospirò. «Cassie, tuo padre è morto. Da tanto tempo.» Le batté un dito sulla tempia. «Quand'è che te lo ficcherai qui dentro?» «Che posso farci se lo vedo?» fece Cassie imbronciata.
«Puoi farci qualcosa, ragazzina! E guardami quando ti parlo. Lo puoi fermare, se lo vuoi!» «Per l'amor di Dio, ma', che bene può fare al bambino crescere in quell'ambiente?» Beatie era arrivata da Oxford dopo aver ricevuto una lettera dalla madre. A quanto pareva, Beatie e Bernard continuavano a vivere insieme - non ufficialmente - e di matrimonio non si parlava. Beatie aveva già saputo dell'incidente con le candele e il fuoco nella stanza di Frank. Evelyn e Ina erano innocenti, ma, come al solito, tutti cercavano un modo per giustificare Cassie. «Aiutano Cassie a tenerlo pulito, nutrito e curato. Che altro si può volere?» «È molto amato, Beatie.» Cassie era leale con le sorelle, che mai avevano lesinato sforzi per il bene del bambino. «Davvero.» «Non ne dubito, ma cos'è questa storia di farlo partecipare alle sedute spiritiche? Di riempirgli la testa di astrusità?» «Loro non le chiamano sedute spiritiche», precisò Cassie. «Non ha importanza come le chiamano. Sono tutte fesserie.» «Fesserie? Già, sono fesserie.» Martha si accese la pipa e sospirò. Nel linguaggio di Beatie era entrata una certa durezza. Non era scortesia; piuttosto era un tono impaziente, come se lei la sapesse sempre più lunga. Martha prese il borsellino dalla mensola del caminetto e trovò qualche moneta. «Vai a farmi una commissione, Cassie. Comprami un'oncia di tabacco, ti spiace?» «Ne hai un pacchetto lì, mamma!» «Be', prendimene un altro pacchetto, ti spiace?» Cassie non era stupida. Sapeva che la stavano spedendo fuori perché Martha potesse parlare con Beatie alle sue spalle. Ma obbedì. «E torna prima che faccia buio!» le gridò dietro Martha. «È un ragazzino intelligente», disse Beatie dopo che Cassie fu uscita. «Ciò che gli occorre è una base scientifica, non farsi riempire la testa di porcherie. Una guida scientifica.» «Scientifico» era la parola preferita di Beatie. Anche Bernard aveva la tendenza a usarla parecchio, ogni volta che veniva a casa. Il socialismo, dicevano, era scientifico. L'argomentazione di Tizio o di Caio veniva scartata perché non era scientifica. Il futuro sarebbe stato scientifico. I bambini andrebbero allevati su basi scientifiche. Nessuno in famiglia aveva mai domandato che cosa significasse quel termine, per paura di una lunga spiegazione. Ma il pensiero che la sfera d'influenza di Frank ne fosse scarsa-
mente fornita causava a Beatie una forte agitazione. «Frank comincia la scuola tra poco», disse Martha a Beatie. «Eve e Ina hanno promesso di prendergli tutto l'occorrente.» «Assistenza», sbuffò Beatie. «Quella non è vera istruzione. È soltanto assistenza, perché le donne possano andare a lavorare.» «Credevo che fossimo tutte favorevoli», disse Martha seccamente. «Lo siamo!» esclamò Beatie. «Ma per una giusta paga e diritti uguali a quelli degli uomini. Non solo perché il capitalismo possa distruggere una generazione con le sue guerre e poi rimpiazzarla con le donne! Tutti a tirare la carretta, dicono, ma intendono noi a tirare la loro maledetta carretta!» Incrociò le braccia e raddrizzò le spalle, come faceva sempre dopo simili dichiarazioni. Martha non la pensava diversamente, ma quel discorso non era una novità, con Beatie. «Siamo sempre disposti a tenere Frankie a Oxford, sai. In qualsiasi momento. Potremmo insegnargli nella comune, tutti, a turno. Frankie potrebbe essere istruito da alcuni dei cervelli migliori del Paese.» Martha mordicchiò la pipa. «Se siete tanto ansiosi di avere il giovanotto, perché non vi date da fare per avere bambini vostri?» Vi fu un momento di silenzio ostile. Poi Beatie disse: «Cassie sta partendo per il suo paese delle nuvole, vero? È per questo che mi hai chiesto di venire?» «Sì, Beatie, sta ricominciando. E, più il ragazzino diventa grande, più mi preoccupo. Cassie potrebbe diventare una minaccia per lui.» «Basta dirlo, e ce lo portiamo a Oxford. È per questo che mi hai chiamata, vero?» «No, non è per questo», rispose Martha. Beatie non era soddisfatta della soluzione proposta da Martha. Non succedeva spesso che s'impuntasse e opponesse resistenza alla madre, ma l'indipendenza di pensiero e lo spirito vigorosamente polemico generati in lei dalla vita nella comune di Oxford l'avevano indotta a pensare che, forse, in certe faccende, la sapeva più lunga di Martha. E così in cuor suo cominciò una silenziosa battaglia per salvare Frank - e per Beatie quel bambino aveva bisogno di essere salvato - dalle forze antiscientifiche che si stringevano attorno a lui come uccelli scuri. Era una battaglia che rischiava di causare una frattura profonda nella famiglia, una frattura che Beatie non avrebbe mai voluto; d'altronde, non avrebbe mai potuto prevedere il potere delle
forze, tuttora indefinite ma dinamiche, in lotta per modellare l'anima del giovane Frank. Beatie era motivata esclusivamente da buone intenzioni, nonché da idee progressiste e di miglioramento di sé. La addolorava vedere Frank passare da un membro della famiglia all'altro come se ciò non avesse importanza. La indispettiva pensare che la sua istruzione e educazione fossero carenti in varie cose. Sapeva che tutto giaceva in uno stato di potenzialità, e che quel potenziale poteva concretizzarsi soltanto prendendo saldamente in mano gli avvenimenti e forzandoli a percorrere una strada adeguata. Lei lo aveva dimostrato con la propria vita: da operaia in fabbrica era passata a un nobile luogo di cultura, dove si era guadagnata una laurea di prim'ordine. Ora sapeva che era soltanto una questione di opportunità, e che le opportunità erano sempre state precluse alla gente come lei, alla sua famiglia e al piccolo Frank. Il pericolo stava nel fatto che le sorelle non sempre la pensavano come lei. Davano per scontato che la loro vita funzionasse nel migliore dei modi semplicemente perché così aveva funzionato. E non era la stessa cosa. Il fato. Le sorelle vivevano tra le fauci di quell'idea, piluccando qualche brandello di carne tra i denti monumentali. Ma Beatie, all'università, aveva studiato il fato. Gli aveva guardato sino in fondo alla gola. Sapeva che era una parola greca che significava «ciò che è stato detto». Ma qualcuno aveva poi scritto quelle parole e il destino era quindi stato determinato da chi controllava la penna. Nelle leggi. Nel trascrivere la storia. Nella diffusione delle idee e dei valori. E lei aveva deciso di appoggiare il suo pennino sul foglio bianco della vita di Frank. «Be', ma non vi aspettavamo qui, oggi!» disse Eve, sinceramente contenta di vedere Beatie e Cassie sulla soglia. «Niente Bernard?» Beatie e Cassie passarono nell'ingresso, dove Cassie fu abbracciata da Frank. Beatie fiutò la cera d'api e il pot-pourri. «Ha da lavorare a Oxford. Sono qui soltanto per il fine settimana. Cassie e io pensavamo di portare Frank in centro a vedere che c'è di nuovo.» «Non prendete una tazza di tè, prima?» Ina strinse dolorosamente le palpebre attraverso gli occhiali con la montatura di tartaruga. «Al nostro ritorno prenderemo il tè tutti insieme. Va bene se lo portiamo con noi?» Eve e Ina si guardarono. In realtà erano contente di togliersi dai piedi Frank per un paio d'ore. Poi fecero un gran chiasso, discutendo se fosse il caso di mettergli il cappotto.
Col cappotto addosso, Frank sentiva un caldo insopportabile, mentre Cassie e Beatie gli facevano percorrere a passo di marcia Trinity Street verso Broadgate. Beatie pareva camminare sempre a una velocità incredibile. Frank doveva fare due passi e un salto per reggere il suo ritmo. Anche la madre aveva difficoltà a tenersi al passo. E Frank notò un'altra cosa: Beatie parlava quasi sempre, mentre la madre perlopiù sorrideva e annuiva, ma in realtà non stava ascoltando affatto. Frank sapeva che sua madre amava e ammirava Beatie. In effetti, Beatie era la sua sorella preferita, proprio com'era la zia preferita dello stesso Frank, forse dopo zia Una. Però era difficile stare ad ascoltarla. Frank cercava di cogliere quello che diceva, ma non capiva quasi nulla. Beatie sembrava piuttosto arrabbiata per qualcosa; non così arrabbiata da rovinarsi la giornata o da irritarsi con qualcuno, e neanche da smettere di ridere o di esibire il suo bellissimo sorriso, simile a un fiammifero che prendeva fuoco. Era arrabbiata in maniera generica: col tempo, col cielo... «Ci credi, che hanno fatto rientrare il Vecchio Rospo? Riesci a crederci, Cassie? Non è stato peggio, che abbiamo preso la maggior percentuale di voti e loro la maggior parte dei seggi? E ci credi che Aida e Olive hanno votato proprio per il Vecchio Rospo?» Frank le aveva già sentite, quelle storie. Il Rospo era tornato al Rospicipio e due zie pensavano che fosse un bene. Sua madre, Beatie e la nonna, invece, pensavano che fosse un male. Una, Ina ed Evelyn pensavano che non facesse differenza. Frank aveva assistito ad appassionati dibattiti sul Rospo di Palazzo Rospo e una volta, se non fosse stato per zio Tom, era sembrato che zio William e zio Bernard fossero sul punto di menarsi. La nonna aveva battuto l'attizzatoio sul secchio per il carbone e nessuno ci aveva fatto caso. Tutto ciò per quanto riguardava il Rospo di Downing Street, a Londra, ma c'erano anche altri rospi, lì a Coventry, che sembravano inquietare zia Beatie. «Guarda qua! Son passati cinque anni, e da questa parte di Broadgate ancora ci ritroviamo negozi di cartapesta. Dopo cinque anni! E lo sai perché, no? Perché aspettano che si unga qualche ruota su al Municipio, ecco perché, Cassie.» Talvolta Beatie diceva Municipio e qualche volta Rospicipio: Frank non era sicuro che fossero lo stesso posto. «Il giardino è carino», osservò Cassie, riferendosi all'isola spartitraffico di Broadgate, rivestita di manto erboso e quasi sacra, fiorita e cinta da un
fossato di traffico scorrevole. «Sì, ma stanno facendo il possibile per mandarlo a puttane, scusa il linguaggio. Ancora mazzette. Ancora dannate stecche e bustarelle. Questa doveva essere una grande città nuova: prima che abbiano finito sarà un macello. Adesso dobbiamo avere un'enorme cattedrale, prima ancora di aver ricostruito le strutture pubbliche. Che senso ha?» «Che bellezza», fece Cassie, sognante. «Una nuova cattedrale.» «Bellezza? Non ci serve una nuova cattedrale! Ci servono abitazioni, fabbriche, biblioteche, scuole. Questo ci serve.» Ma Cassie non ascoltava. Si fermò di colpo e chiamò Frank. Lui si avvicinò e lei si chinò per abbracciarlo. Il profumo della madre gli fece quasi lacrimare gli occhi e parte del fard arancione sul viso di lei si trasferì sulla guancia di lui. Indicò il portico della banca alle sue spalle. «È qui che ho capito quanto eri speciale, Frankie. Proprio qui.» Poi lo lasciò andare e Frank corse su per le scale bianche e roteò attorno a una delle colonne del portico. Quindi vide Beatie che guardava Cassie, socchiudendo le palpebre. «Mi ricordo la notte che andava tutto a fuoco», sentì dire da sua madre. Se Frank avesse chiuso gli occhi e guardato dall'altra parte dell'isolagiardino di Broadgate, verso la guglia di Holy Trinity e il guscio di St Michael, avrebbe potuto facilmente immaginare le fiamme diaboliche e le scintille gialle che si riversavano a cascata sullo sfondo di un cielo fosco. «Un giorno», disse Beatie. «Un giorno, Cassie cara, mi racconterai tutto di quella notte.» «Non ancora», fece Cassie piano, quasi impercettibilmente. Frank strofinò la schiena contro la colonna, fingendo di non averle sentite. «Ti piacerebbe venire a Oxford per un po', Cassie? A vivere con me e Bernard nella comune?» «Oh, Beatie! Mi piacerebbe tantissimo! Eve e Ina sono buone con noi e io non me lo merito, ma sto diventando matta laggiù, proprio matta.» «Mamma vuole che lasci Frank con loro e che vieni a Oxford per conto tuo.» «Oh!» Gli occhi di Cassie si riempirono di lacrime. «Oh!» «Vieni con me, Cassie. Lavora con me. Se lavoriamo insieme, torneremo a prendere Frank. Torneremo prestissimo. Loro non approvano il modo di vivere mio e di Bernard. Ma, se lavori con me, torneremo a prendere Frank.»
«Non abbandonarmi, Beatie.» «Non lo farei mai. Mai. Sarò sincera con te, Cassie: stai ricominciando ad andare fuori giri. Per questo vogliono che stai lontana da Frank per un po'. Dovrai lavorare con me. Lasciarti aiutare. Ma non ti abbandonerò mai, mai e poi mai.» Frank ascoltava da dietro la colonna, abbracciando la pietra bianca. 17 Sicché Cassie fu subito spedita a Oxford dove, «fuori giri» com'era, poteva nuocere soltanto a intellettuali, socialisti e anarchici, e non a Frank. A Martha non piaceva separarla dal bambino, ma temeva un ritorno a Hatton, coi suoi camici bianchi svolazzanti e con la terapia elettroconvulsiva. Beatie aveva detto che, nella comune di Oxford, c'erano grandi menti che avrebbero potuto aiutarla: psicologi e consulenti di prim'ordine. Le altre sorelle, o almeno alcune, storsero il naso. Non faceva loro una buona impressione, quel posto dove coppie non sposate e perfino divorziate si mescolavano e si appaiavano sotto lo stesso tetto. Non avrebbero mai approvato l'idea di mandarci Frank, ma, in fin dei conti, era Cassie il peso più grande. Aida era troppo vecchia e troppo rigida, le gemelle non si erano ancora riprese da quando Cassie aveva quasi dato fuoco alla casa con loro dentro, Una era già esausta col suo doppio carico di bambine e Olive stava passando un brutto momento con William. Non si parlavano e nessuno sapeva perché. «Fate pace», disse Martha a Olive. «Altrimenti finirete come me e tuo padre, senza parlarvi per anni e anni.» «È sempre così inquieto», si affliggeva Olive. «È sempre acido e inquieto.» Frank cominciò a frequentare la scuola elementare di Stoke Aldermoor. Come promesso, le gemelle gli avevano preso tutto l'occorrente e, una mattina di settembre, insieme, lo portarono orgogliose a scuola e lo lasciarono, in un silenzio perplesso, nella sua classe. Intimorito e senza parole, Frank guardava l'insegnante, che teneva due bambini per i capelli mentre le gambe, sotto, si agitavano senza toccare il suolo. I bambini strillavano, piangevano, si dimenavano. L'insegnante li tenne pazientemente per lo scalpo finché non si furono calmati e, piangenti, li piazzò ciascuno dietro un minuscolo banco. C'era poco da stupirsi se Frank pensava che la scuola fosse la punizione per qualche malefatta. La sua frequenza a scuola coinci-
se con la scomparsa di Cassie. Nessuno gli aveva spiegato a che cosa servisse la scuola. Guardò i bambini piangenti, rossi in volto, e concluse che, qualunque cosa lui avesse fatto di male, doveva comunque essere molto grave se si era meritato un castigo del genere. Accettò virilmente la sua punizione. All'ora di pranzo, mentre stava da solo nel cortile, gli passò accanto un bambino terribilmente strabico, il quale si accorse dello sguardo che Frank gli aveva lanciato. «Che guardi?» disse il bambino. Frank cercò di restare zitto, ma una parola gli aprì la bocca e uscì a forza: «Strabico». Il bambino assestò a Frank un colpo violento sulla bocca, buttandolo a terra. Quando si rialzò, il bambino strabico se n'era andato e sembrava che nessuno si fosse accorto dell'aggressione. Frank si portò un dito al labbro insanguinato. Il secondo giorno di scuola, sempre in cortile, un altro bambino, grosso il doppio di lui, gli si avvicinò e disse: «Tua madre è una testa di rapa. È stata a Hatton. È una svitata». Frank arrossì di rabbia e strinse il pugno. La sua mano colpì involontariamente la crosta che gli si era formata sul labbro dopo l'alterco del giorno prima. Dopo qualche ulteriore sberleffo, il suo tormentatore passò oltre. Il terzo giorno, ancora in cortile, Frank notò un gruppetto di bambini e bambine che sbeffeggiavano un altro ragazzino. Uno dei persecutori gli dava dei colpetti in faccia con un dito teso e guidava una cantilena «Marmocchio del soldato, americano imbranato, americano imbranato...» ripetuta senza sosta. Frank si allontanò, quindi girò sui tacchi e si lanciò di gran carriera sul capo dei persecutori, dandogli uno spintone. Il bambino fece una brutta caduta, sbattendo la testa a terra, mentre gli altri tormentatori indietreggiavano. Poi si massaggiò la testa dolorante, si tirò su in fretta e furia e corse dall'altra parte del cortile. Frank vide molti occhi che lo squadravano da capo a piedi. Poco distante vide il bambino strabico, il suo aggressore del primo giorno, che lo valutava freddamente. «Perché l'hai fatto?» domandò il bambino che aveva soccorso. «Marmocchio americano... Anch'io», rispose Frank. «Tu?» Frank sorrise. «Già. Il mio papà era un soldato americano.» Si allontanò e sedette su un gradino. Il bambino lo seguì e gli si sedette accanto. Giocherellava con qualcosa che aveva in tasca. Poi lo tirò fuori per mostrarlo a
Frank. Era una figurina delle sigarette: un uomo in elmetto da guerra e pigiama che faceva roteare un lungo bastone. «Che cos'è?» domandò Frank. «Un americano», disse il bambino. «Gli americani non sono bravi nei veri sport, quindi devono giocare a questo. Quest'uomo si chiama Babe Ruth. Era piuttosto bravo.» Frank fece per restituire la figurina. «Puoi tenerla.» «Ehi, grazie. La metterò sullo scaffale in camera mia.» «Era un eroe, il tuo papà?» «Sì. È stato ucciso. Un eroe soldato.» «Anche il mio lo era. Un eroe.» Nel cortile suonò la campanella che li richiamava in classe. I due appartenevano a gruppi diversi, quindi si misero d'accordo per rivedersi. Il nuovo amico di Frank si chiamava Clayton. Dopo la scuola, ad aspettare Frank c'era la zia Ina, che gli sorrideva e strizzava le palpebre dietro gli occhiali. Mentre lui si dirigeva all'uscita, Clayton gli si accostò e disse: «Ce l'hai ancora la figurina?» Frank esibì un sorriso e la figurina insieme, poi qualcuno gliela strappò di mano. Era il bambino strabico. Frank si bloccò. Il bambino esaminò la figurina con l'occhio buono, quindi la restituì, con indifferenza. «Ti ho visto, oggi», disse l'intruso. «Ti ho visto buttarti addosso a quello. Sbam! Niente male, dico. Niente male.» Clayton era fermo accanto a lui. Frank non disse nulla, aspettandosi un altro ceffone sulla bocca. «Vuoi stare nella mia banda?» Frank guardò Clayton, poi di nuovo il bambino strabico. «Chi c'è, nella tua banda?» Il bambino gli fece un sorriso tutto denti. «Solo io e te. Per adesso.» Frank indicò Clayton. «E lui.» Il bambino scaracchiò una pallina bianca di saliva per terra. «Sì. Io, te e lui.» Poi sorrise di nuovo. «Bene», fece Frank. «Bene», fece il bambino. «Ci vediamo domani.» E se ne andò. Zia Ina lo aspettava all'uscita. «Un'altra bella giornata di scuola?» domandò. Il bambino strabico si chiamava Chaz, diminutivo di Charles: un nome troppo ridicolo nella sua versione estesa per essere sopportato senza il rischio di prenderle in cortile quotidianamente. Far parte della banda di
Chaz non comportava eventi di rilievo e consisteva soprattutto nello starsene appoggiati alla ringhiera del cortile, con le mani ficcate in tasca. Tuttavia, grazie all'aspetto così feroce di Chaz, aveva il vantaggio di scoraggiare tormentatori e detrattori. Nessuno subì aggressioni ingiustificate e la cantilena sugli americani imbranati non si sentì più per parecchio tempo. Clayton si era procurato una scorta di materiale americano pronto all'uso: figurine delle sigarette, figurine da scambiare, fumetti e gomma da masticare, che divideva prontamente con Frank e Chaz. Clayton aveva dei parenti negli Stati Uniti che gli mandavano dei pacchi tutti i mesi. Aveva conosciuto il nonno e la nonna, che erano venuti in Inghilterra soprattutto per vedere lui e avevano cercato di convincere sua madre ad andare con loro in Pennsylvania. Tutti avevano pianto, soprattutto la nonna, secondo la quale Clayton era il ritratto del figlio morto a Omaha Beach. Ma la madre di Clayton non sopportava di separarsi dalla propria famiglia. Frank accettava con gratitudine la munificenza di Clayton, ma si chiedeva se ci fossero parenti suoi da qualche parte in America che avrebbero potuto spedirgli gomma da masticare. Accettava con piacere le figurine di Clayton, però si sentiva defraudato. Chaz era allibito dalla generosità di Clayton. Non aveva mai conosciuto nessuno che desse via la propria roba così facilmente, soprattutto perché lui veniva da una famiglia che entrava in possesso di qualcosa soltanto se gli altri giravano le spalle. Portava indumenti smessi, di diverse taglie troppo grandi e, notando gli zoccoli improvvisati con cui si era presentato a scuola, il direttore aveva invocato un programma statale per munirlo di un paio di scarpe adeguate. Ma la fedeltà alla sua nuova «banda» era appassionata, eccezionale e feroce. «Che guardi?» diceva in tono di sfida a chiunque facesse tanto di gettare un'occhiata a Clayton o a Frank, in un modo che fosse, a suo parere, irrispettoso. Nessuno reagiva mai alla sfida. Un giorno, Chaz tirò fuori una figurina delle gomme da masticare e la restituì a Clayton. «Cos'è?» fece Clayton. «Te l'ho rubata dalla tasca», disse Chaz. «Non volevo prenderla. L'ho solo rubata.» «Non c'è problema, puoi tenerla.» «Ti spuntava fuori dalla tasca!» Chaz era agitatissimo. «Non si lascia spuntare la roba dalla tasca!» «Tienila.»
«Non volevo prenderla!» «Non me ne importa», fece Clayton, spensierato. «Non posso tenerla! Non volevo!» Frank vide che qualcosa stava andando storto e che Chaz era sul punto di perdere le staffe. Sembrava confuso, arrabbiato e ferito. «Fai cambio con una delle mie», disse Frank, strappando di mano a Chaz la figurina. «Ecco, prendi questa.» Chaz la prese, poi si allontanò e rimase da solo nell'angolo opposto del cortile. Quando la campanella li richiamò in classe, tornò dagli altri e disse: «Potete venire a raccogliere uova sabato. Coi miei fratelli. Andiamo per uova». All'uscita da scuola, Frank andò da Ina insieme con Chaz e le chiese se poteva andare per uova. Ma Ina rispose che Frank aveva da fare. Non disse che cosa, però sostenne che avevano altri programmi per quel giorno. La madre di Clayton disse la stessa cosa. Chaz, non troppo deluso, andò incontro alla sorella maggiore. «Dove andiamo domani? Dove?» volle sapere Frank quella sera. «Come dici?» fece Evelyn, in ginocchio con paletta e spazzola. «Zia Ina ha detto che domani andiamo da qualche parte.» Evelyn scrutò Ina con aria interrogativa e Ina rispose qualcosa muovendo silenziosamente le labbra. Evelyn posò la paletta e la spazzola e mise Frank seduto a tavola. Quindi anche le gemelle sedettero, Ina si tolse gli occhiali e guardò intensamente Frank. «Questo bambino...» disse. «Quello con cui giochi.» «A scuola. Quello con cui hai fatto amicizia.» Frank sapeva che parlavano di Chaz, sicché disse: «Clayton?» «No, non Clayton.» «Clayton è un caro giovanotto. No, l'altro.» Attesero, ma Frank non diede segno di aver capito. Poi Evelyn disse: «Tua zia Ina e io conosciamo la sua famiglia...» «Sappiamo della sua famiglia...» «E anche se il Signore dice che bisognerebbe amare tutti, be', a volte è difficile, e sappiamo che non è una famiglia molto bella...» «Non il genere di famiglia con cui si vorrebbe avere a che fare...» «O che si vorrebbe invitare per il tè...» «Già, invitare per il tè, e noi pensiamo che non dovresti giocare con quel bambino o essergli tanto amico...»
«Appena un po' meno amico.» Frank guardò una zia, poi l'altra. Lo fissavano dall'alto coi bellissimi occhi azzurri spalancati, lievemente umidi. Avendo ormai detto tutto ciò che occorreva dire, Ina si rimise gli occhiali. Frank abbassò gli occhi sul tavolo. Poi li alzò e, con le lacrime che cominciavano a traboccare, si sentì gridare: «Vecchie stupide! La fattorìa! Voglio andare alla fattoria!» Continuando a urlare, corse via e andò a nascondersi nella sua stanza. Forse un'ora più tardi, udì bussare alla porta e zia Evelyn apparve con un vassoio su cui c'erano un piatto di sandwich e un bicchiere di latte. Frank era sdraiato sul letto. Evelyn posò il vassoio sul comodino. «Pensiamo che tuo zio William vada alla fattoria, domani. Domattina gli chiederemo se può portarti con sé.» Frank si drizzò a sedere e indicò la figurina delle sigarette appoggiata sulla mensola: «Perché mia nonna e mio nonno in America non mi hanno mandato cose così? Perché?» Evelyn prese la figurina di Babe Ruth, guardò l'immagine e lesse la didascalia sul retro. «Non credo che sappiano di te, Frankie. Non glielo hanno detto.» «Perché no?» Evelyn rimise a posto con cura la figurina. «Tutto a tempo debito», rispose. «Tutto a tempo debito.» William aveva effettivamente deciso di andare alla fattoria il mattino dopo, sul presto, e acconsentì a portare Frank sul furgone. A Frank sembrò che lo zio fosse un po' freddo e preoccupato. Inoltre diceva cose che lui non capiva. «Non mi farai sorprese oggi, vero?» gli domandò William dopo un bel pezzo di strada. «Cosa?» «Eh.» Punto. Fu tutto ciò che lo zio William disse per l'intero viaggio. Tuttavia, al loro arrivo, Tom e Una colmarono Frank di attenzioni. Una stava molto meglio e le gemelle erano un fiore. Si diceva che avesse superato una cosa chiamata «pianto da latte». Una portò dentro Frank, mentre Tom aiutava William a caricare sul furgone un po' di verdure fresche. Poi William tornò in casa per salutare Una. «Torni subito a casa, allora?» gli domandò Una. «Devo prima passare a Rugby.» William mise le mani a coppa per ac-
cendere una sigaretta, anche se era al chiuso e al riparo dal vento. «Affari a Rugby?» fece Tom. «Eh.» Tom acconsentì a riportare a casa Frank più tardi e tutti salutarono William che partiva. Frank e Tom stavano in cortile, mentre Una, sulla soglia, strascicava i piedi, con le gemelle che le gattonavano accanto. «Non è troppo chiacchierone ultimamente, eh?» osservò Una. «Non troppo. Chissà che avrà da fare a Rugby?» Poi Tom ricordò di avere accanto Frank. «E allora, scolaretto, mi dai una mano a trasportare un po' di fieno, stamattina?» Frank aiutò lo zio Tom a spostare il fieno nel granaio. In fondo al granaio c'erano delle vecchie cassette, più una bicicletta arrugginita rimasta nello stesso posto tanto a lungo da ammantarsi di ragnatele, che si erano rapprese con la polvere nera. Dava l'impressione che, toccandola, si sarebbe disintegrata in una spettacolare cascata di ruggine e polvere. Dietro la bici c'era l'aletta di un bombardiere della Luftwaffe, caduta nel campo di Tom la notte del blitz di Coventry. Una svastica nera bordata di bianco ornava la verniciatura grigia dell'aletta. I rottami dell'aereo si erano sparsi per tre acri di terra e Tom si era preso l'aletta per ricordo, prima che il ministero facesse portar via le parti importanti del rottame. Quando Frank gli aveva chiesto dell'aereo, Tom gli aveva spiegato che un altro pezzo di metallo contorto era stato fuso e colato per fare una «campana della pace» e che quella campana si trovava in paese, sull'altare della chiesa di St Mary. Aveva anche promesso di mostrargliela, prima o poi. Dopo un po', Frank si stancò di aiutare Tom a spostare balle di fieno da un capo all'altro del granaio, e cominciò a inseguire le gallinelle nane. Poi, al momento buono, chiese se poteva giocare nel campo. Al torrente scoprì con sorpresa che la passerella di fortuna era stata invasa dalla vegetazione. L'incavo sottostante era nascosto dall'erba e dai fiori purpurei dei cardi. Attento a non smuovere troppo il terreno e a non attirare attenzione, gli ci volle un po' di tempo per crearsi un passaggio. Trovò più difficile strisciare dentro, non rendendosi conto di quanto fosse cresciuto negli ultimi mesi. Il suo rifugio nascosto era intatto. Il sole che filtrava attraverso la nuova vegetazione gettava una luce verde su ogni cosa e rendeva l'Uomo Dietro il Vetro difficile da vedere. Frank appoggiò l'occhio sul vetro macchiato e coperto di ragnatele e tirò un sospiro di sollievo. La mascella dell'Uomo Dietro il Vetro era aperta e gli occhi vuoti fissarono Frank di rimando. Do-
ve sei stato? sembrò dire. «Mi dispiace», sussurrò Frank. «Devo vivere con le mie zie. Stanno sempre a pulire. Spolverare. Spazzare.» «Solo.» «Mi dispiace. Non posso venire qui per conto mio. Ti ho portato una cosa.» Frank premette sul vetro una delle figurine americane di Clayton. Era la fotografia di una donna con un cappello da cowboy e un fucile. Si chiamava Annie Oakley. Dopo aver lasciato all'Uomo Dietro il Vetro un momento per guardarla, Frank posò la figurina insieme con le piume e coi ferri di cavallo che aveva portato lì in precedenza. «Rita. Rita. Ritaritaritaritarita brrrrrrrrrrrrr brrrrrrrr-pppppppbrrrrrrrrrrrr», disse l'Uomo Dietro il Vetro. Frank lo capiva. Sapeva che doveva essere stato difficile passare tutto quel tempo senza che nessuno venisse a trovarlo. Si avvicinò, scrutò di nuovo attraverso il vetro e, con sorpresa, vide che l'uomo aveva una lingua. Prima non c'era... Invece adesso la lingua vibrava e si contorceva tra le mascelle eternamente aperte. O forse era una falena bianca che sbatteva le ali là dove doveva esserci la lingua. Qualunque cosa fosse, parlava. «Brrrrrrrrrrrrrr brrrrrrrrrrr Frank portami portaportaportaportami la campana. La campana.» «Oh», fece Frank. Quella sera, mentre Tom lo stava riportando dalle zie, Frank chiese se potevano fermarsi alla chiesa a vedere la campana della pace. Tom arricciò il naso, ma acconsentì e parcheggiò il furgone davanti alla chiesa. St Mary era un edificio in pietra grigia del XIV secolo, con una torre campanaria e una guglia normanna, situata su un grande cimitero erboso digradante, coperto di lapidi vittoriane. Il cancello di ferro battuto cigolò. Tom batté gli stivali infangati contro il muro prima di entrare. La chiesa era vuota e silenziosa. Tom condusse Frank all'altare. C'erano una croce d'oro, una coppia di candelabri e una campana grigio-argento. «Eccola», disse Tom, con voce insolitamente sommessa. «La campana della pace.» «Puoi prenderla?» domandò Frank. «No.» «Perché no?» Tom non sapeva bene perché. Non frequentava la chiesa, ma sapeva che c'era qualcosa a proposito dell'avvicinarsi all'altare. «Non toccare.» Allun-
gò il collo al di sopra della campana per leggere l'incisione. «Ti dico io cosa c'è scritto: 'Questa campana della pace è stata colata da metallo asportato dai rottami di un bombardiere tedesco caduto in questa parrocchia'. Poi c'è la data di quand'è stata fatta.» «Cosa vuol dire 'asportato'?» Tom si strofinò la nuca. «Andiamo, altrimenti arriviamo a casa tardi.» Venne notata una perdita di vibrazione, e non soltanto da parte di Evelyn e Ina. Come mai, si domandavano, gli spiriti potevano trovare la loro casa accogliente un giorno e inospitale il giorno seguente? Che delusione! Proprio quando Ina ed Evelyn cominciavano a maturare una certa reputazione nella cerchia spiritualista, quali inquiline di uno splendido luogo di accesso! Naturalmente discussero la faccenda, domandandosi che cosa fosse cambiato, ma senza riuscire a capire. Un tempo brulicante dell'attività di spiriti invitati e no, la casa era tornata neutrale. Fu Ina a suggerire l'opportunità di porre la domanda all'Altra Parte. Fu Evelyn a decidere di porla. Avvenne così che, la domenica sera, dopo la funzione nella chiesa spiritualista e con altre due donne della comunità, a Frank fu consentito di assistere all'interrogazione. Lui conservava ancora una certa reputazione quale splendido candidato per la causa spiritualista e non gli veniva attribuita la minima colpa per qualsiasi diminuzione del contatto vitale. Al contrario, si riteneva che la sua presenza sarebbe stata di aiuto. Un Frank piuttosto riluttante fu chiamato di sotto dalla sua stanza, dove stava giocando con le figurine delle sigarette. La piccola compagnia si radunò attorno al tavolo del salotto. Ina tirò le tende, accese una candela e attenuò la luce della lampada elettrica con un foulard di seta. Quando prese posto al tavolo, Evelyn tese le braccia, prendendo per mano le persone alla sua destra e alla sua sinistra. Anche Frank venne incluso nel cerchio. Evelyn guidava, non in forza di una maggiore esperienza o autorità, bensì semplicemente perché qualcuno doveva assumersi il compito di rivolgersi all'Altra Parte. Frank aveva già notato un'ampia gamma di toni e stili tra gli ospiti spiritualisti, quando si rivolgevano ai morti. C'era chi appariva formale e lugubre, chi usava termini arcaici dando agli spiriti del «voi» e del «loro» e chi invece sembrava spiritoso, gergale e irriverente. Evelyn, col suo viso pesante dal largo naso, prediligeva sia il tono formale sia quello arcaico. Lasciò ciondolare il capo alla maniera di Mrs Connie Humbert. «Carissimo, veniamo a voi con spirito d'amore», annunciò con voce vagamente tremula. «Vi diamo il benvenuto. A voi noi ci a-
priamo. Vi chiediamo di rendervi manifesto in una condizione di luce e d'amore.» Non accadde nulla. Frank guardò zia Evelyn e poi zia Ina, ma quest'ultima aveva la fronte corrugata, mentre fissava la sorella socchiudendo le palpebre dietro gli occhiali con la montatura di tartaruga. Mrs Tull e Mrs Palin, della Chiesa spiritualista, avevano un'espressione che gli fece venire voglia di ridacchiare. Ma sapeva che non era il caso. «Venite costà, carissimo. Venite costà ammantato d'amore. Vorremmo domandarvi se alcunché vi allontani o vi sottragga al nostro amore. Ve lo domandiamo in buona fede.» Ancora nulla. Almeno zia Evelyn non è un'impostora che finge di fare conversazione, pensò Frank. Ricordò che la madre, in quella stessa casa, gli aveva detto che Mrs Humbert era un'impostora. La lampada elettrica vacillò e tornò ad accendersi. Le quattro donne attorno al tavolo s'irrigidirono visibilmente. Frank riusciva quasi a sentire l'odore della loro improvvisa eccitazione. Emanava da loro come un profumo. «Siete con noi?» domando Evelyn. «Chiediglielo ancora», sussurrò Ina. «C'è una presenza.» «Siete con noi, carissimo?» Nulla. Frank avrebbe desiderato che la madre fosse lì con lui. Lei non aveva paura di quelle sedute, eppure le donne presenti sembravano rannicchiate sopra il tavolo, con un misto di terrore e di estasi. Lui si sentiva molto meglio quando c'era lei a spiegargli quelle riunioni, o a riderne, in seguito. Pensò a Cassie che rideva. La luce elettrica lampeggiò di nuovo e lui percepì un brivido correre lungo il cerchio di mani. «Sento un nome», disse Evelyn, sicura. «Sta arrivando.» Le altre la fissarono con occhi traboccanti e bocche semiaperte; erano ansiose che Evelyn continuasse. «Il nome è Ruth. Qualcuno qui conosce una Ruth?» Mrs Tull scosse la testa, ma Mrs Palin disse che lei conosceva una Ruth, una giovane che abitava di fronte a lei. «Chiedi se c'è qualcosa che blocca gli spiriti», suggerì Ina. «Sento qualcos'altro. Qualcosa su... ecco. Un bimbo. Dovresti dire a questa Ruth che avrà un bimbo.» Frank arricciò il naso. «C'è dell'altro», mormorò Evelyn, eccitata. «Dice... dice... dice... 'Attenti alla mia polvere.'»
Frank si grattò un ginocchio. La luce della lampadina vacillò e si spense, stavolta del tutto. Le donne sussultarono, fissandosi intensamente nel chiarore della candela. 18 Cassie stava creando un «turbamento psichico» a Ravenscraig. Così disse l'eminente studioso - nonché famoso anarchico - Peregrine Feek a Beatie, poche settimane dopo l'arrivo di Cassie nella dimora comunitaria. Feek, compagno di lotta, rosso in volto, con spumeggianti sopracciglia bianche e una gran zazzera di capelli candidi, aveva invitato Beatie nella sua stanza per dirle due parole in privato. Era il proprietario di Ravenscraig; soltanto formalmente, però, giacché sapeva che la proprietà era un furto e aveva dichiarato che la casa doveva appartenere a tutti quelli che ci abitavano. Solamente il certificato di proprietà e le bollette restavano a suo nome, per via dell'incidente che, in origine, gli aveva permesso di ereditare Ravenscraig dai suoi ricchi genitori. Era un professore di filosofia e insegnava al Baliol College di Oxford, dove aveva stanze in cui soggiornare quando non stava a Ravenscraig. La reputazione di studioso di Feek era tale che spesso lui veniva richiesto a Parigi, dove teneva un appartamento per le sue visite primaverili, e a Firenze, dove la villa toscana di famiglia si rivelava spesso utile come ritiro estivo, ogni volta che lavorava a un nuovo libro. Tutte quelle proprietà extra servivano a sistemare i suoi figli e le loro madri, che avevano lasciato Ravenscraig a causa di una qualche disputa mai chiarita poco dopo l'arrivo di Cassie. «Cosa intendi per 'turbamento psichico'?» domandò Beatie. «Vuoi dire che tutti gli uomini vogliono andare a letto con lei?» Quando parlava di argomenti difficili con membri della comune, Feek fingeva sempre di esaminare uno dei pesanti volumi provenienti dai suoi scaffali stracolmi. «Tutti gli uomini e diverse donne, da quanto ho potuto inferire.» «E questo sarebbe il 'turbamento psichico'?» Il professore restituì il volume al suo scaffale. «Beatie! Qui nessuno sta lavorando!» «Ah! Allora non è cambiato niente», disse lei. Feek sorrise. Il commento di Beatie si riferiva a quello che lui definiva «motivo recondito». «Lavoro accademico, intendo.» «Sì, il più importante lavoro accademico.»
«È tua sorella. Chiedile soltanto di... di...» «Non ha fatto niente, Perry! Tutti continuano a provarci con lei, è questo il problema. In questa casa gli è presa la foia a tutti quanti, e questo molto prima dell'arrivo di Cassie. Non mi stupirei se ci avessi provato anche tu!» Feek arrossì leggermente. Sembrava ferito. «Beatie, tesoro, cos'è stato a renderti cinica, così aggressiva? Quando sei arrivata qui eri una delizia, fresca, aperta alle idee. Adesso c'è una tale reazione del tuo animo. Che cos'è successo?» «Una dialettica vigorosa non è reazionaria.» «Ah! Mi rinfacci le mie stesse parole, eh? Sei proprio un'adulatrice, Beatie.» «Sono soltanto infelici perché lei non vuole scopare con nessuno di loro. È mia sorella, lo so. Se vuole farlo, lo farà ben presto. Altrimenti non lo farà. Deciderà da sola. È una donna moderna.» «Proprio come te, eh, cara Beatie?» «Proprio come me, solo di più.» Feek guardò l'orologio. «Devo andare a Baliol», disse, avviandosi. «Tenere, giovani menti mi chiamano.» «Torni stasera per la riunione di casa?» «Purtroppo devo fermarmi a Baliol. So che ve la caverete senza di me.» Feek montò sulla sua Ford luccicante e scomparve. Lo sa, pensò Beatie. Sa che la riunione di stasera sarà una rogna. Cassie la raggiunse. Indossava pantaloncini corti e una camicetta legata in vita. L'ottobre di quell'anno aveva visto una fioritura tarda e alcune giornate erano assurdamente calde. Beatie le aveva consigliato di approfittarne: vivere a Ravenscraig poteva essere piacevole d'estate, ma era duro d'inverno. «Se n'è andato?» fece Cassie. «Gli sto fuori dai piedi perché continua a cercare di palpeggiarmi.» «È la politica migliore», disse Beatie, cupa. Al suo arrivo a Ravenscraig, anche Beatie aveva dovuto imparare a svicolare dai lascivi artigli di Peregrine Feek. E pure Bernard aveva svicolato. Per i primi sei mesi e più, Beatie aveva piroettato, girato, ruotato, scansato e schivato tutte le avance. Benché ne fosse stata lusingata, non era affatto un'ingenua, anzi era abbastanza dura da non lasciarsi turbare. Ne rideva perfino con Bernard. Ne parlavano. La libertà sessuale era strettamente legata all'anarchia filosofica e all'egualitarismo economico di Feek, perciò non si poteva dire che in quel campo professasse una cosa e ne praticasse un'altra. Poi, un giorno, Feek era arrivato alle spalle di Beatie - che era di un feroce umore pre-
mestruale - e lei gli aveva mostrato i denti, indirizzandogli alcuni epiteti saporiti. Feek era sgattaiolato via e da allora non l'aveva più disturbata, tranne nei momenti in cui sosteneva di aver bisogno di un abbraccio rassicurante, occasioni in cui Beatie seguiva la prassi della casa e lo accontentava. Era stato difficile capire quali fossero i valori a Ravenscraig. Non le regole stabilite - quelle erano appese in cucina -, ma le usanze occulte e i codici nascosti. C'era libertà sessuale, poco ma sicuro. Quando Beatie e Bernard si erano stabiliti li, c'erano altre tre coppie e due donne sole, e a Beatie era occorso un paio di settimane per capire chi stava con chi; e ulteriore confusione creava il fatto che chi e chi non erano necessariamente sposati; o che magari erano sposati, e tuttavia passavano la notte con partner diversi. E, una volta che eri riuscito a orientarti, ciò non impediva che qualcuno ti arrivasse alle spalle mentre ti stavi lavando o eri carponi a strofinare quel sudicio posto. E che quel qualcuno alle tue spalle potesse essere tanto una donna quanto un uomo. Bernard e Beatie erano riusciti a sopravvivere come coppia perché avevano stretto un patto per superare le prime settimane. Avevano deciso di raccontarsi ogni avance, ogni approccio e anche tutto ciò che si sarebbe potuto definire come non più di una strizzatina d'occhio. Si erano sbalorditi e fatti ridere a vicenda e il loro rapporto si era rafforzato nel calore degli inarrestabili assalti di Ravenscraig. In tal modo erano riusciti a rimanere fedeli. Tranne in un'occasione che Beatie avrebbe preferito dimenticare. Perché non erano tutte risate. Di tanto in tanto, le gelosie esplodevano e facevano vittime. L'organico di Ravenscraig cambiava di frequente, a causa di avanzamenti di carriera o dell'incapacità di risolvere le dispute, ma talvolta a causa della carneficina cui si assisteva in quel tempio di Eros. Nei due anni trascorsi nella comune, Beatie aveva visto un giovane vandalizzare la casa e una giovane donna sposata internata in una clinica psichiatrica. Se un turbamento psichico si era diffuso nella comune, non era stata sua sorella a portarlo. «Sono proprio squinternati, qui a Ravenscraig», aveva detto Cassie alla sorella più di una volta, laddove «squinternato» corrispondeva pressappoco al «bislacco» di Tom il fattore. E lo squinternamento era totale. Benché la casa fosse molto più imponente di qualunque posto in cui le sorelle avessero mai vissuto, e appartenesse a un gentiluomo con relazioni subaristocratiche che parlava con un accento mostruosamente impeccabile, era altresì alquanto primitiva. Nella
maggior parte delle stanze la tappezzeria era infestata dai funghi e si scrostava dalle pareti, il colore era spellato e sporco e gli impianti erano in cattivo stato. Però in casa c'erano un telefono e un gabinetto interno, lussi che le sorelle non avevano mai conosciuto. Quando Beatie aveva fatto un'osservazione sulla scarsa igiene e sulla mancanza di pulizia di quel luogo, qualcuno l'aveva chiamata con la parola che inizia per B. «Borghese?» aveva chiesto Beatie, confusa. Era nella comune soltanto da un paio di mesi. «Borghese? Come sarebbe a dire?» «Cara Beatie! Questa tua ossessione di precisione e pulizia è semplicemente borghese!» Era stata la prima volta che Beatie aveva affrontato un altro membro della comune. «E quindi, compagno, è da classe operaia, vero, voler vivere nello squallore? È proletario, giusto, compagno, non usare mai lo scopino del cesso, eh? Alla classe operaia piace vivere nella merda, è così? Lo preferisce, vero?» La compagnia era rimasta piuttosto spiazzata dall'esplosione di Beatie e ciò valeva soprattutto per il giovane che l'aveva trattata con superiorità soltanto cinque minuti prima. Era calato il silenzio finché una delle altre donne non aveva gridato: «Ben detto, Beatie!» Quel fatto era successo quasi due anni prima ed era stata la prima esplosione in un lento processo di apprendimento e disillusione, che però non aveva mai scosso la fede di Beatie nell'idea che una comune, con l'impegno, si poteva far funzionare. Quando Beatie e Bernard erano arrivati alla comune, avevano trovato un elenco di regole appeso alla parete della cucina: 1. Ciascuno è responsabile. 2. Chi ha un reddito ne mette a disposizione la metà per la casa. 3. Le riunioni della casa sono obbligatorie. Col tempo, da quand'era lì, Beatie e alcuni altri membri avevano aggiunto voci, ma era stata dura, dal momento che gli anarchici sono notoriamente refrattari alle regole. Ecco due aggiunte per cui aveva combattuto e di cui era orgogliosa: 4. Anche gli uomini partecipano alle pulizie. 5. L'urgenza del lavoro accademico non giustifica l'inosservanza della regola 1.
Ma di questa era particolarmente soddisfatta: 6. Lavate tutti i vostri piatti, più almeno un altro. Non era stato semplice far mettere in pratica quelle aggiunte. I costumi sessuali non erano infatti l'unica cosa cui non era facile adattarsi o che era quasi impossibile da capire. Nella comune, era come se tutti operassero secondo una serie di norme implicite, come se ci fossero nati, in quel luogo, mentre lei e Bernard dovevano impararle. Quando si discutevano questioni politiche, per esempio, lei e Bernard lo facevano nella maniera tradizionale dei sindacalisti, col fuoco nelle viscere e con la rabbia negli occhi. Lì tutti avevano un modo di parlare distaccato, intellettuale, come se fosse tutta accademia e non un'autentica faccenda di sterline, scellini e pence per la gente che faceva i conti. Prendersela troppo a cuore sembrava una specie di trasgressione. Un'altra cosa che alla gente della comune non piaceva era il confronto, nel senso di guardarsi dritto negli occhi. La vita in famiglia e il lavoro in fabbrica a piantare rivetti durante gli anni della guerra avevano inculcato in Beatie la convinzione che, se non ti piaceva qualcosa o qualcuno, allora dovevi dirlo, miseriaccia, e l'altro doveva risponderti. Lì c'erano divergenze, dispute e opinioni varie, ma non venivano mai risolte. Tutto pareva chiudersi in automatico, o per allusioni, accenni e sottintesi, come se il conflitto appassionato fosse volgare. «Sì, sono squinternati», disse Beatie, voltandosi verso Cassie. «Non è come pensavo. Non che non mi piaccia, solo pensavo che sarebbe stato diverso.» «Diverso come?» «Più... come una famiglia. Una grande famiglia, dove ciascuno si prende cura degli altri. Qui tutti vogliono solo palpeggiarsi o sparlare alle spalle. O bisticciare senza averne l'aria.» «Smettila, Cassie. A casa, noi e le altre bisticciavamo di continuo!» «Sì, ma non facevamo sul serio. Quasi mai, comunque. Invece qui tutti lo fanno alle spalle degli altri.» Beatie sospirò. Non era in grado di ribattere. Aveva in testa la riunione della sera, in cui avrebbe dovuto affrontare un paio d'individui che non avevano fegato per una bella baruffa. Le questioni tendevano a complicarsi quasi subito e non si riusciva mai a risolvere nulla.
«Oh!» fece Cassie, pestando un piede. «Vorrei che potessimo tenere Frank qui con noi! Se qui ci fossero dei bambini, gli altri dovrebbero essere un pochino più adulti!» Beatie guardò la sorella. «Cassie, sei un genio. Mi raccomando, sii puntuale alla riunione di questa sera.» Beatie aveva imparato abbastanza sull'opportunismo politico da sapere che la maggior parte delle decisioni viene presa prima di una riunione, e non durante. Raccolse tutto il sostegno che poteva prima di formulare la sua proposta. Senza contare se stessa, Bernard e Cassie - ciascuno dei quali aveva il diritto di voto, quale residente - c'erano soltanto altri quattro o cinque da convincere. Tutti gli altri avevano ottenuto dispensa dalla regola numero 3 con la scusa di «urgenza del lavoro accademico», che poteva significare qualunque cosa, dall'andare in barchetta sul fiume al corteggiare la figlia del preside. In casa, tutti appartenevano a una qualche lista politica, definitasi allorché erano stati costretti con la forza a candidarsi alle elezioni durante un convegno organizzato in fretta e furia. Beatie aveva una saggia amica in Lilly (Sindacato delle Artiste Lesbiche) e poteva generalmente contare su George (4a Internazionale Marxista-Leninista). Un nemico certo sarebbe stato Philip (maoista), al quale bruciava ancora il suo rimprovero sulla pulizia della classe operaia. Poi c'era Robin (Vegetariano radicale e Lega antivivisezione), che non si sarebbe deciso fino all'ultimo minuto. Anche Tara (Tendenza anarchica non allineata) l'aveva sostenuta insieme con Lilly sulle questioni femministe, ma ultimamente e misteriosamente si era schierata contro di lei. Tara dava una mano in una libreria di sinistra, in città, e aveva detto a Beatie, freddamente, che avrebbe cercato di tornare in tempo per la riunione. Prima che uscisse per andare a lavorare, però, Beatie aveva fatto la conta dei presenti e armeggiato con la valvola della ruota posteriore della bicicletta di Tara. Così andava la politica a Ravenscraig. Nella casa, le decisioni venivano prese all'unanimità, però a nessuno era consentito esercitare l'inebriante potere del veto. Così, per sancire il cambiamento, era necessaria l'unanimità meno un voto, e il risultato era spesso il mantenimento dello status quo. «Compagni», cominciò Beatie, alzandosi per prima. A Ravenscraig non c'era un presidente. «Questa casa ha urgente bisogno della presenza di bambini.» Gli uomini alzarono gli occhi. Fino a quel momento avevano fissato con
intensità il pavimento, sospettando che Beatie stesse per arringarli sull'importanza della responsabilità domestica, sostenendo che nessuno che trascurasse ripetutamente di pulire la tazza del gabinetto aveva il diritto di proporre soluzioni politiche per la linea economica e sociale della nazione. Era una premessa spinosa e non facile da chiudere una volta per tutte. In realtà erano nel giusto, giacché l'intenzione di Beatie era stata proprio quella di avviare un dibattito su quella rogna infinita. E quella nuova istanza li aveva colti di sorpresa. «Non è che questa casa sia stata esclusivamente adulta, nella sua storia recente», continuò Beatie. «Quando Bernard e io siamo arrivati, c'erano i tre bambini Spencer; e, per un breve periodo, Jessie Conrad è stata qui con suo nipote. Questo posto sarebbe più civile con dei ragazzini, e gli obiettivi educativi della comune si potrebbero realizzare in modo più informale.» Philip il Maoista si mise gli occhiali con la montatura metallica, per vedere meglio attraverso la cortina fumogena del tranello da lacché capitalista insito nella proposta. «Come?» disse con calma. «Suggerisci che dovremmo uscire in strada e rapire il primo neonato che passa?» Beatie strinse le labbra, ma Bernard si tuffò in suo soccorso. «No, questo sarebbe un pochino estremo anche per noi radicali, compagno», replicò, gioviale. «Comunque, prima di parlare dei particolari, abbiamo bisogno di capire se ai compagni in linea di massima piace l'idea di avere bambini in casa.» «È davvero un posto adatto per avere bambini tra i piedi?» domandò Philip. «Provate a chiedervelo. Conoscete tutti la risposta.» «Potrebbe portare un po' di allegria», disse Lilly. «E poi magari un paio di persone si comporterebbero da adulte.» «Esattamente quello che pensavo io», annuì Beatie. «C'è un assunto in psicologia secondo cui gli adulti non possono esplorare il proprio ruolo di adulti a meno che non definiscano se stessi in relazione al comportamento infantile.» «Come?» fece Philip. «Sta dicendo che un adulto può essere adulto soltanto in un rapporto dinamico», intervenne George, ammiccando allegramente a Cassie. Era rimasto folgorato dal suo arrivo. «Avere dei bambini attorno ti aiuta a essere grande. Come gli Stati comunisti della Russia o della Cina mantengono il popolo in una condizione infantile, in modo che i potenti riescano a conservare il loro status di unici adulti.» Philip il Maoista trasse un profondissimo sospiro. «Analizziamo un ar-
gomento alla volta», li esortò Robin il Vegetariano Antivivisezionista. Un paio d'ore più tardi, la questione non era ancora risolta. Lilly era a favore, George non ci vedeva nessun problema, Philip era appassionatamente contrario e Robin non riusciva a decidersi. A Ravenscraig, una astensione equivaleva a un voto per lo status quo. «Se ti piacciono tanto i bambini, perché non ne fai di tuoi?» chiese Philip in tono frivolo. Beatie, con sguardo furioso, strinse le labbra una seconda volta. «Questi sono affari di Beatie, compagno», ribatté Lilly. «Comunque, di chi sono i marmocchi di cui stiamo parlando?» domandò Robin. «È mio.» Era la prima volta che Cassie interveniva. «E non è un marmocchio. E si chiama Frank. E non c'entra col capitalismo o il comunismo o il sindacalismo o qualunque altro ismo. C'entra col fatto che lo voglio qui.» Mentre parlava, una sagoma indistinta scivolò nella stanza e si fermò sulla porta, in ascolto. Nessuno la notò. «C'entra l'amore. Lo voglio qui perché gli voglio bene. E gli vorreste bene anche voi, potreste imparare ad amarlo. È soltanto un ragazzino. Ma voi siete tutti così occupati con la roba che avete in testa, con questo ismo e quell'altro ismo e tutti gli altri ismi che nemmeno so dire, e prendersi cura di un bambino e far parte della sua vita conta più di tutti i vostri paroloni. Dovreste ricordarvi che è tutta questione di amore. E, se non lo è, dovrebbe esserlo.» «Ben detto, Cassie!» esclamò la sagoma in fondo alla stanza. Era Peregrine Feek. Venne avanti. «Un discorso da infiammare il sangue. Non credo che ci siano risposte possibili. Forse è il momento di mettere ai voti la questione, e io dico: che il piccino sia il benvenuto qui a Ravenscraig.» Bernard disse: «Bene, allora. Si vota. Chi è favorevole ad accogliere Frank nella nostra comune?» Tutti alzarono la mano, tranne Philip e Robin. Robin sembrava contorcersi in una prolungata agonia. Feek alzò la mano più in alto di qualche centimetro. Robin guardò Feek e decise di unirsi alla maggioranza. «Contrari?» Soltanto Philip il Maoista alzò la mano contro il piccolo Frank. «Bene, allora è deciso», dichiarò vivacemente Bernard. «Seduta aggiornata. Ah, quanto amo la democrazia.» Guardando fuori della finestra, Beatie vide che Tara, rossa in volto, sta-
va pedalando verso casa. La gomma posteriore della bicicletta era a terra. Beatie soffocò una risatina. 19 Alcuni giorni dopo, Martha sonnecchiava accanto al fuoco. L'orologio alla parete sopra la sua testa ticchettava forte e ogni scatto della lancetta dei minuti era anticipato da un minuscolo tonfo prolungato, capace di fermare il cuore. Il fuoco era basso nel focolare e le dense esalazioni sulfuree del carbone scadente avevano quasi saturato l'aria, quando Martha udì alla porta non alcuni colpi, bensì uno scalpiccio o una raschiata. Batté le palpebre, aprì gli occhi, guardò l'orologio e pensò fosse il postino, che faceva il secondo giro della mattinata. Martha attese il tintinnio dello sportello della posta e il frullio di una busta sul tappetino, ma non successe nulla. Quindi sentì un altro scalpiccio e una specie di raspata alla porta... però niente posta. Attese, ma invano. Batté di nuovo le palpebre, si alzò dalla sua poltrona troppo in fretta e, per un momento, la stanza ondeggiò. Sostenendosi allo schienale della poltrona, lasciò passare il capogiro e si diresse lentamente verso la porta, appoggiando la mano sulla credenza. «Stai invecchiando, ragazza mia», mormorò. «Stai invecchiando.» Alla porta, allungò la mano, tirò la tendina e sentì la fitta dei reumatismi nella spalla, fin troppo rapida a confermare la sua osservazione di poco prima. Tirò indietro il chiavistello che si mosse con un sussurro, poi le dita scivolarono leggermente sul saliscendi d'ottone. Quando finalmente ebbe aperto la porta, fuori non trovò nessuno. Almeno così credeva. Infatti, una volta uscita, si rese conto che, sulla sinistra, al margine del campo visivo, c'era una sagoma bruna. Martha si voltò ed ebbe un tuffo al cuore. Seduta sul davanzale c'era una vecchia, che stringeva sotto il braccio una cesta per la spesa e un ombrello. In testa aveva un cappello fuori moda trapassato da uno spillone, simile a quelli che Martha avrebbe potuto indossare da giovane. La sua pelle aveva una sfumatura gialla, itterica, e le labbra erano tinte da un rossetto color ribes. Martha fu colta alla sprovvista. La donna sedeva sul suo davanzale in una posa che sarebbe stata più appropriata per una bambina di otto anni che per una donna di ottanta. C'era qualcosa d'immaturo nel modo in cui la vecchia si agitava su quello scomodo sedile. «Che cosa fai sulla mia finestra?» domandò Martha.
«Dovresti deciderti ad andare alla Chiesa spiritualista, e dare una possibilità a quel bambino», disse la donna sul davanzale. Pur tremante e col cuore che ancora batteva forte, Martha puntò il dito contro la donna e le disse in tono bellicoso: «E tu dovresti levarti dai piedi! Mi hai sentito? Via dai piedi, sciò!» La sagoma bruna sul davanzale svanì come la fiammella di un fiammifero nel vento. Martha barcollò fino al cancello e si appoggiò al pilastro, premendosi le mani sul cuore. Guardò da un capo all'altro della strada vuota: c'era soltanto un foglio di giornale, rigido e dritto sul marciapiede, in equilibrio su un angolo. Martha tornò in casa, sbattendo la porta e richiudendo di scatto il chiavistello. «Non venite qui», borbottò Martha, agitata ma risoluta. «Non venite da me. Non vi ho chiesto di venire. Venite e vi darò il benservito. Vi conosco. Vi manderò al diavolo, sissignore, miseriaccia, e tutte le volte. Chi lo sa?» Era un vecchio trucco, che Martha aveva imparato quand'era bambina, dalla madre. «Digliene quattro», le aveva detto. «Mandali via, perché questo non gli piace per niente, oh, no, e ti lasceranno in pace. Mandali via. Digliene di tutti i colori, cose brutte quanto ti pare. Devono imparare a lasciarti in pace. Perciò affrontali.» «Mi avete sentito? Via, sciò!» ripeté Martha ad alta voce, nel caso qualcuno là fuori avesse ancora qualche dubbio. Era un vecchio trucco per liberarsi di spiriti, ombre e apparizioni; e Martha, nella sua lunga vita, aveva constatato che in genere funzionava. Si adagiò nella poltrona, prendendosi il viso tra le mani. Ma poi sentì girare il cancello di fuori e di nuovo una raspata alla porta. Allora si rialzò e in un paio di secondi aprì la porta. Era Eric, il postino. «Timbro postale di Oxford, Mrs Vine! Dev'essere Beatie, no? Timbro di Oxford?» Martha spinse il postino, gli passò davanti e guardò di nuovo su e giù per la strada. Il giornale ritto in piedi era sparito come la vecchia. «Si sente bene, Mrs Vine?» domandò il postino, che ancora cercava di porgerle la lettera. «Sembra veramente sottosopra!» «Ma è stabilito, mamma! È stabilito!» Evelyn era su tutte le furie. Non sarebbe successo senza uno scontro. Ina, d'altro canto, si era tolta gli occhiali e si tamponava gli occhi. Non che a Ina mancasse la combattività della gemella, ma valutava con maggiore accortezza il momento giusto per sparare i propri colpi. Ciò tuttavia
non le impedì di dire: «Proprio ora che sta andando così bene a scuola. E che sta andando così bene in chiesa...» Ina avrebbe fatto meglio a non menzionare la Chiesa spiritualista. Ina ed Evelyn non sapevano che, la mattina, Martha aveva ricevuto quello che loro chiamavano un «messaggio ispiratore», lo stesso messaggio che aveva scatenato un'esplosione d'ispirate imprecazioni. Anche se sapeva come liberarsi delle apparizioni, Martha non era mai troppo sicura di come reagire ai messaggi né di come interpretarli. Sapeva, indiscutibilmente, che il messaggio riguardava Frank. Aveva anche capito che il bambino stava attraversando un imprecisato pericolo. Però ignorava di cosa si trattasse e, dalle sue ripetute esperienze, sapeva che era facilissimo commettere un errore d'interpretazione. Non si curava del fatto che il messaggero fosse maligno, benigno o semplicemente neutrale. Ma non le piaceva che i messaggeri venissero sempre da lei, quale che fosse la loro intenzione. A ogni buon conto, certi avvertimenti a proposito di Frank andavano ascoltati e Martha aveva già deciso che essi avevano a che fare con la Chiesa. Con le zie gemelle - la cui possibilità di avere contatti col mondo degli spiriti era pari alla possibilità di un maiale di ballare la polka -, il bambino era al sicuro, lo sapeva. Però sentiva radunarsi uccelli scuri, e l'emissaria di quella mattina era venuta per avvertirla. E non importava che, a mo' di ricompensa, avesse subito gli strali della lingua tagliente di Martha. Bisognava agire per spezzare il flusso degli eventi, e il mezzo giunse sotto forma della lettera di Beatie. Secondo Beatie, se Martha pensava che fosse opportuno salvare Frank «dalle nebbie dello stomachevole spiritualismo» (la figlia aveva imparato certe espressioni stravaganti a Oxford, aveva notato Martha), allora a Ravenscraig tutti erano pronti ad accoglierlo. Cassie era «in salute perfetta e in buona disposizione mentale» (aveva sottolineato la parola «mentale», cosa del tutto superflua), ma si struggeva per il suo bambino. Frank avrebbe avuto una stanza per sé e la possibilità di stare a contatto con «alcune delle più eccelse menti del Paese» (Martha non poteva immaginare quanto Beatie si fosse morsa le labbra per scrivere ciò; Beatie si era consolata col pensiero che, se Feek e tutti gli altri della comune non erano menti eccelse, erano perlomeno di elevati ideali e lei, all'epoca, era ancora disposta a confondere le due cose). Assicurò che tutto quello avrebbe ampliato le prospettive del bambino, nonché le sue esperienze nel momento in cui lui era più ricettivo a coltivare le sue ambizioni. Beatie scriveva anche un mucchio di altra roba su gesuiti e psicologia: che il bambino è l'uomo a sette
anni, che perciò quella era l'ultima occasione per Frank «prima che le sue gambe siano intrappolate per sempre nel cemento dell'ordinarietà». Martha dovette leggere due volte, e con le sopracciglia alzate, quell'ultima infiorettatura. Tutto quel linguaggio immaginifico non aveva il minimo effetto su Martha. Guarda caso, però, la lettera coincideva con l'apparizione di quella mattina. Si era sempre sentita a disagio all'idea che Frank crescesse immerso nello spiritualismo zitellesco e stucchevole, nel pot-pourri e nella cera d'api delle gemeEe, e quel giorno l'apparizione aveva vestito la sua ansia di abiti bizzarri. Soprattutto sentiva che Frank aveva bisogno dell'esempio di un uomo, che doveva esserci una presenza maschile vicino a lui, mentre si faceva strada nel mondo; e che, pur essendo le gemelle irreprensibili e insuperabili per gentilezza e affetto, Frank aveva bisogno di sentire l'odore del maschio. «State dimenticando...» disse Martha a Ina ed Evelyn. «State dimenticando che è il figlio di Cassie, e che lei lo sta invitando. Avete fatto bene la vostra parte con quel ragazzo, nessuno potrebbe affermare il contrario. Ma sarebbe un'idea infausta tenerlo lontano dalla madre naturale.» Nei loro cuori teneri e col loro carattere incomparabilmente dolce, come avrebbero mai potuto Ina ed Evelyn obiettare a quell'affermazione? Sebbene i loro menti tremassero, e sebbene avessero sollevato la questione dell'incompetenza di Cassie, mettendo in dubbio l'opportunità di sovvertire contìnuamente il posto di Frank nel mondo, una volta che Martha ebbe pronunciato quelle parole - con un indiscutibile tono di autorità morale seppero che era finita e che Frank sarebbe partito per Ravenscraig. Bisognava soltanto decidere quando. Martha si lasciò facilmente persuadere che Frank doveva almeno terminare il primo trimestre di scuola; poi, giacché Beatie e Cassie sarebbero venute a casa per Natale, la cosa più logica sarebbe stata tornare a Ravenscraig tutti insieme. Convennero anche di non dire al bambino dell'imminente trasloco fino alle vacanze. Quel Natale fu un po' più inquieto del solito. Tra Olive e William c'era ancora tensione. Evelyn e Ina si sentivano ancora ferite. Avevano deciso d'interpretare la partenza di Frank come un mancato riconoscimento dei loro migliori sforzi, ma, nel frattempo, rendendosi conto che ogni momento era prezioso, lo soffocavano d'amore, inducendo il bambino - d'indole timida - ad allontanarsi da loro. Il marito di Aida, Gordon, aveva avuto l'influenza e sembrava più cadaverico che mai. Di buono c'era che i razionamenti del dopoguerra cominciavano ad allentarsi e che Una era tornata in
sé, sfoggiando due sane, energiche e rumorose bambine. Dopo Natale, quando Beatie e Cassie presero da parte Frank per comunicargli ciò che il prossimo futuro aveva in serbo per lui, il bimbo accolse la notizia in silenzio. Stava calcolando mentalmente profitti e perdite. Soprattutto sarebbe tornato con la madre. Anche Beatie e Bernard gli piacevano e lui capì che avrebbero abitato tutti insieme. Voleva bene alle zie nubili, ma ultimamente si era sentito soffocare dal loro affetto smodato e dalla loro cipria rosa. Però gli sarebbe anche mancata la compagnia dei suoi nuovi, eccitanti amici di scuola. Poi c'era la fattoria, con quello che ci stava nascosto. «Posso andare alla fattoria, prima?» sintetizzò. «Caspita, se possiamo!» fece Beatie. «Ho imparato a guidare da quando sto a Oxford. Chiederò a William se un giorno ci presta il suo furgone.» Era un nevoso sabato mattina di gennaio quando Beatie, Bernard, Cassie e Frank si strinsero sul sedile anteriore del furgone di William e partirono per la fattoria. Generalmente William non aveva bisogno del furgone il sabato, ma aveva chiesto a Beatie di riportarlo a metà pomeriggio, per poter fare qualche consegna. La neve fioccava a raffiche e si accumulava sulle siepi, ma non era tanto forte da fermarsi sulla strada. Una era entusiasta di vederli e, sebbene Tom fosse fuori a badare agli animali, preparò il tè, servì i sandwich e li intrattenne, raccontando com'era stata dura cavarsela all'arrivo delle gemelle. Per Frank fu facile allontanarsi dagli adulti che ridevano e chiacchieravano: disse che andava nei campi. Cassie gli fece mettere sciarpa e guanti e gli raccomandò di non allontanarsi troppo dall'aia. Non appena fuori, Frank cominciò subito a camminare. Vedeva la guglia della chiesa a poca distanza, sicché si cacciò semplicemente le mani in tasca e si diresse in paese. Non gli ci volle più di un quarto d'ora per trovarsi a fianco della chiesa medievale. Stava per passare sotto il portico d'ingresso quando una sagoma uscì in fretta dalla chiesa, stringendo borse, stracci e una scopa: una strana donnina dall'aria piuttosto familiare. Frank arretrò, ma, uscendo dal cancello, la donna lo vide. «Ehi, io ti conosco!» esclamò allegramente Annie la Stracciona. «Sei il cugino di quelle gemelle su alla fattoria Tuffnall, eh? Allora, che mi racconti? Un bel freddo stamattina, che dici? Ah, ma tu sei bello infagottato, è vero? Non mi racconti niente? Ti sei dimenticato di me, eh?» «'Dillo alle api'», disse Frank.
Annie starnazzò di gioia. «Non lo hai dimenticato! Che tesoro!» Lasciò cadere la borsa e allungò la mano per pizzicargli la guancia, forte. «No, che non ti sei dimenticato! Bene.» Si chinò a raccogliere la borsa. «Be', mi son fatta le mie pulizie in chiesa e mi son guadagnata un po' d'ossi per la pentola, sicché eccomi pronta per la giornata. Ora me ne vado a casa, che non posso starmene qui a gelare tutto il giorno.» Annie si stava già allontanando, mentre parlava quasi tra sé, lasciando Frank a badare alla sua guancia arrossata. Il piccolo attese finché lei non fu scomparsa alla vista, poi attraversò il cancello ed entrò nel portico. Controllando di non essere osservato, sollevò il gigantesco saliscendi di ferro del pesante portone di rovere ed entrò. La chiesa era molto diversa dalla sala - funzionale ma dispersiva - usata dagli spiritualisti. E, mentre gli spiritualisti dovevano evocare gli spettri, a Frank pareva che in quella chiesa non ci fosse altro. Stavano sospesi sopra i banchi e fluttuavano davanti ai finestroni ogivali; respiravano sulle vetrate e cercavano di bere senza bocca all'antico fonte battesimale di pietra. Pur essendo, per il resto, vuota, la chiesa era animata da quel traffico ultraterreno e per un momento il bambino pensò di non poter fare quello per cui era venuto. Rabbrividì. Il posto odorava di cera da pavimenti e lui ricordò, naturalmente, che Annie la Stracciona aveva appena finito il suo lavoro. Frank avanzò a passo lento tra i banchi e le figure umane, intagliate nel legno verniciato, che parevano guardarlo di sottecchi. Alla balaustra dell'altare si fermò. Guardò dietro di sé, con l'inquietante sospetto di essere osservato. Poi avanzò verso l'altare, allungò la mano e prese la campana della pace che Tom gli aveva mostrato. La campana entrava comodamente nella tasca del suo cappotto. Sull'altare c'era anche un piccolo piatto d'oro. Un raggio di luce dalla vetrata lo colpì e il pulviscolo sembrò danzare nel raggio luminoso. Visto che c'era, prese anche il piattino; siccome però non gli entrava in tasca, dovette nasconderlo sotto il cappotto. Poi Frank si voltò e passò veloce tra i banchi, uscì dal portone, superò il portico e riprese la strada per la fattoria. Una volta giunto lì, scavalcò la staccionata e si diresse alla passerella sul torrente. La neve del primo mattino si era accumulata tra i rovi intricati e l'erba invernale, color del fieno. Frank temeva d'inzaccherarsi il cappotto se si fosse infilato sotto la passerella, quindi si sdraiò sull'erba ghiacciata e spinse la testa sotto il ponte di legno. Anche se da quella posizione non riusciva a vedere l'Uomo Dietro il Vetro, sentì che stava battendo i denti.
«F-f-f-f-f-f-freddo.» «Fa freddo», disse Frank. «Un freddo cane. «S-s-s-s-s-solo.» «Lo so. Ma ti ho portato quello che mi hai chiesto. Guarda.» Frank tirò fuori la campana della pace e la spinse sopra il vetro perché l'altro potesse apprezzarla. «Oh-oh-oh-oh-oh», sospirò l'Uomo Dietro il Vetro con gratitudine. «Va meglio?» «Meglio meglio meglio mmmmmmmmmmmmmm campana cccccc...» «Oh... Ti ho portato anche questo», aggiunse Frank, tirando fuori il piattino d'oro. «Ho pensato che magari potevi usarlo per mangiarci la tua cena.» L'Uomo Dietro il Vetro smise di parlare e i suoi denti smisero di battere. «Non lo vuoi?» Frank era deluso. Forse l'altro voleva soltanto la campana... Rifletté per un momento e prese in considerazione l'idea di riportare in chiesa il piattino. «Be', comunque sono venuto a dirti che vado in un posto che si chiama Ravenscraig, dove la gente non se ne va in giro rigida come se fosse inamidata, dice la zia, e dove ci sono cervelli scientifici. Costruiremo una società migliore. Io li aiuterò. Ecco perché ti ho portato la campana. Se le cose ti vanno troppo male, tu suonala e io forse la sentirò. Anche se è lontana, Ravenscraig. Vicino a Oxford. Però credo che tu lo sappia già. Credo...» «Frank! Frank! Che diavolo stai combinando laggiù?» Era Cassie. Lo prese per il bavero e lo trascinò via da sotto il ponte. «Ti ho cercato dappertutto. Ma guardati! Sei fradicio! Che cosa stavi facendo lì sotto? Beatie deve riportare il furgone allo zio William oggi pomeriggio e ti stiamo aspettando tutti. Forza! Davvero, Frank, certe volte penso davvero che hai la testa tra le nuvole.» 20 La scuola a Ravenscraig non somigliava affatto alla scuola di Coventry. A Coventry c'erano tanti bambini seduti dietro pìccoli banchi, mentre l'insegnante stava in piedi di fronte alla classe e strillava. A Ravenscraig, c'erano soltanto altri due o tre bambini, portati lì da gente che non abitava nella casa. E tutti i giorni, anche sette volte al giorno, l'insegnante cambiava. Frank non aveva avuto voce in capitolo in una delibera approvata di re-
cente, secondo cui ogni adulto di Ravenscraig doveva assumersi uguali responsabilità pedagogiche per ogni bambino che gli veniva affidato. Ciò significava che Ravenscraig si era gettata a corpo morto nell'idea di offrire un'«istruzione alternativa» rispetto a quella statale, aperta a tutti. Visti i contatti di Feek e le innumerevoli qualifiche didattiche dei membri della comune, il progetto aveva ottenuto in un certo senso un'approvazione ufficiale, e un paio di genitori tendenzialmente anarchici si erano dichiarati pronti a offrire i loro teneri virgulti per il grande esperimento. Certi giorni, tuttavia, quei genitori tendenzialmente anarchici si liberavano dalla responsabilità di portare i loro figli, così Frank rischiava di trovarsi in una classe composta da un unico elemento e alla mercé del metodo d'insegnamento scientìfico preferito quel giorno. I suoi insegnanti preferiti erano Lilly, che parlava di sé come di una maschiaccia, ma non permetteva a nessuno di chiamarla così, e che gli insegnava a scrivere dipingendo enormi lettere sulla parete di una stalla in rovina, e George, il Marxista-Leninista (4a Internazionale). Frank non capiva una parola di ciò che diceva l'irrequieto aristocratico George, ma vedere che cosa aveva in serbo la lezione del giorno era affascinante e valeva sempre la pena di aspettare. Insieme, George e Frank andavano a caccia per i vasti e trascurati giardini di Ravenscraig, scoprendo lombrichi, radici di alberi, orme e concime organico. Anche Robin, Tara e altri facevano a turno, ma la loro idea di lezione scolastica consisteva nel portare Frank in un qualche caffè o in una libreria dove gli mostravano le monete contenute nella cassa a mo' di preludio alla comprensione delle iniquità del sistema capitalistico. In altri pomeriggi era Philip a fare lezione, benché, all'apparenza, non ne avesse davvero voglia. «Va' in giro a esplorare la casa», diceva a Frank. «Trova qualcosa d'interessante. Non tornare finché non avrai trovato qualcosa di molto interessante.» Quindi seppelliva il naso in un libro. Magari Frank tornava con un pezzo di spago e lui allora chiedeva: «È il meglio che sei riuscito a fare? Bene, allora, dimmi che cos'è». «È un pezzo di spago.» Philip fissava intensamente l'oggetto. «No, non lo è. È una merce. Che cos'è?» «È una merce.» «Bene. E qual è il valore di una merce?» Un pomeriggio, mentre fuori pioveva, Philip ricorse al solito trucco di mandare Frank a trovare «qualcosa d'interessante». «E non tornare con la
solita robaccia», gli gridò, prima d'infilare il naso nel solito, vecchio libro. Frank si mise a vagare per la casa, senza sapere bene se gli fosse permesso entrare nelle stanze degli altri. Quasi tutti i membri della comune erano fuori, a insegnare, a fare compere per la casa o altro. La stanza di Tara era sempre affascinante. La porta era socchiusa, così lui sporse la testa all'interno. Era vuota. Allora entrò e, sul pavimento accanto al letto, trovò un oggetto che sembrava un palloncino. Ma era un palloncino insolito: qualcuno ci aveva messo della roba lattiginosa sul fondo prima di fargli un nodo al collo. Philip alzò gli occhi dal suo libro e guardò l'oggetto che Frank aveva appoggiato con cura sul tavolo di fronte a lui. «Che cos'è quello?» Frank conosceva la tiritera. «È una merce.» «Dove l'hai trovato?» «Nella stanza di Tara.» Philip assunse un'aria strana. Posò lentamente il libro, si alzò e, guardando dritto davanti a sé, uscì dalla classe. Frank non lo vide mai più. Di tanto in tanto, con gran squilli di tromba e un'aria teatrale, Peregrine Feek in persona si assumeva l'onere. Le lezioni di Frank con Feek si svolgevano nello studio di quest'ultimo oppure nella classe improvvisata nella stalla. Feek chiamava quelle lezioni «seminari». Frank sedeva su una sedia, pronto a essere bombardato di domande da Feek, che, a un certo punto, si alzava e si metteva a passeggiare per la stanza, torcendosi le mani e parlando a lungo di certi minuti dettagli racchiusi nelle sussurrate risposte di Frank. Frank non era affatto sicuro che quelle lezioni gli piacessero. Feek aveva l'abitudine di stare in piedi alle sue spalle e talvolta ci posava anche sopra una mano, stringendo forte. Magari si chinava, al che Frank sentiva l'odore del tabacco sul completo di tweed dell'uomo o avvertiva un debole respiro sul collo. Una volta, Feek posò una mano sul ginocchio di Frank. Il respiro del vecchio si fece corto e gli occhi divennero vitrei... Poi un rumore proveniente da un altro punto della casa sembrò scuoterlo e farlo tornare in sé. Infine lui annunciò improvvisamente che il «seminario» era finito. Frank aveva saputo dalla madre e da Bernard che quelle lezioni personali erano un privilegio straordinario, quindi decise di non dire nulla dell'incidente. C'era un enorme ricompensa per tutto ciò: Frank stava vicino a Cassie. Avevano una stanza insieme. Certe notti, lei lo lasciava perfino dormire nel suo letto. «Ti aiuterò a sistemare una stanza a parte per Frank», aveva detto Geor-
ge a Cassie, con uno spasmo involontario delle sopracciglia. «Non sarebbe un problema», le aveva assicurato Robin. «C'è una bella stanza sul davanti della casa, può prenderla.» «Non ce n'è bisogno. Frank starà benissimo con me», aveva cinguettato allegramente Cassie, tralasciando di aggiungere: almeno farà smettere voi due di grattare alla mia porta tutte le notti. Nei primi tempi a Ravenscraig era stato divertente, ma a quegli uomini lei preferiva George, le cui dimostrazioni d'interesse erano sempre maldestre. «Potremo trovare a Frank una stanza tutta per sé», le aveva detto anche Feek. «Non è necessario», aveva cinguettato di nuovo Cassie. Feek non l'aveva mai seriamente importunata, a parte qualche affettuosa pacca sul sedere e, se le capitava di domandarsi perché avesse suggerito di far traslocare Frank... accantonava il pensiero. A Frank piaceva la libertà. Poteva andare a letto a orari irregolari, cosa impensabile nel severo regime impostogli dalle zie gemelle. Benché Ravenscraig fosse un luogo freddo e pieno di spifferi, lui poteva rannicchiarsi vicino alla madre, parlando e ridacchiando delle strane ridicolaggini degli altri membri della comune. Oppure arrivavano Beatie e Bernard: potevano capitare a qualunque ora e si fermavano a bere il tè e a chiacchierare fino a tarda notte, sinché Frank non si sentiva cascare le palpebre. Allora Bernard - o qualcun altro - lo tirava su, lo metteva nel suo letto e gli stampava un bacio sulla fronte; poi mentre il sonno s'impadroniva di lui, Frank sentiva svanire a poco a poco gli animati sussurri degli adulti. La cosa fantastica di Ravenscraig era che tutto poteva succedere, e ognuno dei membri della comune poteva esplodere come un fuoco d'artificio in qualsiasi momento. Di solito esplodevano tra loro, ma, la sera successiva alla partenza di Philip da Ravenscraig, Tara piombò in cucina, dove Frank si stava ingozzando di pane e marmellata, e accostò il proprio viso lentigginoso al suo. «Merdosetto!» gli gridò. La saliva della donna lo colpì sulla guancia. «Non entrare mai più in camera mia, mai, capito? Se scopro che sei di nuovo passato anche solo vicino alla mia stanza, ti stacco quella testaccia dal collo!» Quella sfuriata fu troppo per Lilly, che allontanò Tara dal bambino con uno spintone. «E tu, signorina, non parlare mai più così a quel bambino. Non è colpa sua, perciò piantala!» «Sì, che è colpa sua, miseriaccia! Ficcare il naso nelle stanze della gente!»
«Se vuoi dare la colpa a qualcuno perché Philip se n'è andato, allora incolpa te stessa. Philip se n'è andato per qualcosa che tu hai fatto con Robin, non per qualcosa che ha fatto Frank. Ora fuori di qui e va' a darti una calmata.» Tara strillò e pestò i piedi. Poi uscì come una furia dalla cucina e sbatté la porta dietro di sé con tale violenza da farla oscillare su uno dei cardini. Frank era rimasto con un pezzo di pane vicino alla bocca impiastricciata di marmellata. Lilly gli sorrise. «Le donne... Eh, Frank? Chi le capisce?» Peregrine Feek entrò tranquillamente in cucina per capire a cosa si dovesse quel trambusto. Ma, vedendo Frank, si limitò a fare segnali con gli occhi. Lilly fece lo stesso. Nessuno parlò. Poi Feek si grattò la nuca e si voltò a esaminare la porta ingobbita. Più tardi, Cassie e Frank si stavano rilassando con Beatie e Bernard. A Frank piaceva molto stare nella stanza della zia. Di solito Bernard teneva la radio accesa con musica jazz a basso volume, e prestava sempre più attenzione alla compagnia che al libro eternamente appoggiato sulle ginocchia. Beatie illuminava la stanza con candele infilate nel collo di bottiglie di vino e a Frank piaceva sminuzzare le cascate multicolori di cera che si formavano attorno e oscuravano l'interno della bottiglia. Le pareti erano ricoperte di slogan saccheggiati da poeti, filosofi e politici. Non sapendo leggerli, il bambino ne sceglieva uno a caso e chiedeva a Bernard o Beatie di dirgli che cosa c'era scritto. IL GRANDE APPARE GRANDE SOLTANTO PERCHÉ NOI SIAMO IN GINOCCHIO Oppure ATTENTI AL COMUNISTA RAVANELLO! Era sempre Cassie a domandare: «Cosa vuol dire la storia del ravanello?» «Rosso fuori, bianco dentro», spiegava Bernard. «Capisco», diceva Cassie, senza capire. Quella sera Beatie sospirò e disse: «Non so. Non so proprio per quanto ancora avrò voglia di sopportare tutto questo». «Ma... l'esperimento?» disse Bernard, costernato. «Al diavolo l'esperimento. Qui mi sento come il topolino bianco sulla ruota. La ruota sta girando senza scopo.» «Quale ruota?» domandò Cassie. «È una situazione in evoluzione, Beat», implorò Bernard. «Sarebbe reazionario arrendersi soltanto perché è diventata dura.» «Ma non sta cambiando nulla!» gridò Beatie. «Non è un vero esperimen-
to di vita in comune, perché la gente se ne va quando non regge più, soltanto per essere rimpiazzata da gente nuova, e poi ricominciano le solite discussioni su chi dovrà fare i lavori umili! Non c'è progresso! È un esperimento ravanello.» «Vuoi tornare alla vecchia vita con patate?» fece Bernard. «Cosa?» domandò Cassie. «Vuol dire come l'arrosto con patate, Cassie. Be', forse. Forse è questo che voglio. Una casa tutta mia e miei...» E qui Beatie si fermò. Ma Bernard sapeva perché non aveva finito la frase e, sebbene Cassie non avesse mai discusso la questione con la sorella, comunque la intuì. Beatie stava per aggiungere «miei figli», ma non lo fece, per rispetto ai sentimenti di Bernard. Era un po' che lei e Bernard cercavano di concepire. Ci avevano dato dentro. Si erano anche divertiti a darci dentro. Però non succedeva e non era successo per molto tempo. In parte erano intrappolati dalla loro stessa ideologia. Il matrimonio, avevano dichiarato in varie occasioni, era un'istituzione superata, voluta da una Chiesa oppressiva e da un apparato statale dediti a soggiogare l'individuo negli interessi prima del feudalesimo e poi del capitalismo. La fedeltà al proprio compagno era una scelta esistenzialista, non un precetto sociale o morale. Quella chiarezza era complicata soltanto dalla presenza dei bambini, laddove assicurare legami emotivi esclusivi aveva un valore utilitaristico. Di tal fatta era il linguaggio che usavano, un vero peccato per due giovani che si amavano profondamente. Ma erano riusciti a convincersi che ciò significava: niente figli, niente matrimonio. Cassie lo aveva indovinato. Una volta era stata sul punto di proporre di fare lei un bambino per loro. Era convinta che se Bernard glielo avesse messo dentro una volta sola (e poteva essere divertente) sarebbe rimasta incinta in un batter d'occhio. Lo sapeva e basta. Poi avrebbe felicemente partorito il bambino per consegnarlo a loro, sapendo di poter restare con lui quanto avrebbe voluto. Per una volta in vita sua, tuttavia, una qualche eco nelle dinamiche della sorellanza le aveva impedito di articolare ad alta voce quel pensiero. «Non mi pare che sia tanto male qui», disse Cassie. «Certo, tutti cercano di palpeggiarti - non tu, Bernard, tu sei l'unico che non lo fa -, ma almeno ogni giorno è diverso.» Frank aveva ascoltato, senza capirci troppo, ma intuendo che quelle cose erano importanti. I tre adulti si resero conto all'improvviso di quanto fosse
concentrato sui loro discorsi. Fu Bernard a voltarsi verso di lui e dire: «Allora, tu che ne dici, giovane Frank? Ti piace qui?» Frank ebbe la sensazione che gli fosse stata data una leva gigantesca. Tre paia d'occhi lo fissavano dall'alto e lui capiva vagamente che non lo stavano soltanto guardando, ma che stavano anche contando su di lui. Contando, cioè, sul suo permesso di prendere una decisione significativa per tutte le loro vite. «Bello.» «Bello, sì, ma ti piace?» domandò Bernard. Di nuovo tre paia d'occhi lo fissarono, ardenti. Lo stavano caricando di un fardello che lui sentiva troppo pesante. Così Frank scrollò le spalle. 21 Martha teneva un mazzetto di fuscelli accanto al parabrace, così da potersi allungare e usarne uno per accendersi la pipa col fuoco del camino. Soltanto dopo che la pipa cominciava a sbuffare per bene, era disposta a prendere in grembo una delle gemelle di Una. Era molto contenta di vedere che Una era tornata di buonumore; anche se le gemelle erano una peste doppia, Una se la cavava di nuovo. Le ansie di Martha erano sempre quelle delle sue figlie e dei figli delle sue figlie, mai le proprie. Aveva abbastanza malanni di cui lamentarsi, se avesse voluto: artrite, reumatismi, lombaggine, vene varicose e ipertiroidismo, tanto per cominciare; ma le sue preoccupazioni andavano sempre alla felicità di questo o quel figlio. Sembrava che ci fosse un pentolone limitato di benessere, al quale si attingeva in misura diseguale. Il suo istinto matriarcale le diceva di pareggiare, ogni volta che poteva, intervenendo, aiutando o manipolando. Una era tornata in carreggiata e, messa da parte quella preoccupazione, Martha poteva dedicarsi ad appuntire un altro giunco strappato al salice. Stavolta i suoi pensieri erano rivolti alla frattura sempre più profonda tra Olive e William, quindi prestava attenzione solo in parte alle chiacchiere di Una. «Vedi», stava dicendo Una, impegnata a combattere gli istinti poppatori di una figlia, mentre l'altra batteva le palpebre attraverso la nuvola azzurra del fumo della pipa, «è il servizio sanitario nazionale con tutte le sue regole. Igienizza di qua, sterilizza di là, disinfetta questo e quell'altro. Insomma, le hanno detto che non può ottenere il permesso o quello che è. Dicono che non è idonea. Be', non l'ho mai vista così sconvolta.» «Già, dev'essere stato un colpo, povera figlia. Lei è così, no? Cioè, non
ha mai fatto altro.» «Quarant'anni che fa la levatrice, Annie la Stracciona, e sai che non ne ha mai persi più di due all'anno, in tutto quel tempo. Due bambini in un qualsiasi anno. Scommetto che non ce n'è un'altra in tutto il Paese che possa dire lo stesso. E con me è stata tanto brava, ma'.» «Povera figlia. Si può fare qualcosa?» «Be', le cose stanno così: ha bisogno di un permesso. Non occorre essere assunti dallo Stato, però le serve la licenza.» «Ma cosa gliene importa a qualcuno se tu o la tua vicina volete di nuovo lei?» «È contro la legge, ma'. Andrebbe contro la legge.» Martha, pensosa, tirò una boccata dalla sua pipa, spostando la gemella dal braccio sinistro al destro. «È un donnino strambo, su questo non c'è dubbio. Ma sono d'accordo con te: dev'essere la levatrice migliore di tutto il Paese.» «E come se non bastasse ha appena perso quel po' di lavoro di pulizie che faceva in chiesa e al Municipio. In chiesa mancavano delle cose e, anche se nessuno l'ha detto chiaramente - quel nuovo parroco di St Mary è un verme, sai, mamma -, il dito è stato puntato e l'hanno fatta smettere di fare quel po' di pulizie.» «Annie la Stracciona? Non arrafferebbe niente!» «È quello che dico anch'io. Tuttavia pensano che si stia rimbambendo.» «Non è rimbambita! È sempre stata così. Ma come farà a vivere quella povera figlia?» La domanda rimase senza risposta mentre un'altra figlia compariva alla porta. «Ciao», disse Olive, cupa. «E allora! Cos'è quella faccia lunga?» domandò Martha. «Ti avevo detto di non tornare. Ti avevo detto che sarebbe stato quell'unica volta.» «Perché mi hai lasciato entrare, allora?» disse William, picchiettando una sigaretta sul pacchetto prima di accenderla e accomodarsi in poltrona, incrociando le gambe, cercando di apparire più rilassato di quanto in realtà non si sentisse. Rita, le spalle alla finestra, stava in piedi, a braccia conserte. «Mi sono detta che non l'avrei fatto. Non dopo il modo in cui sei corso via l'ultima volta.» «Mi dispiace. Solo...»
Rita batté le palpebre. «Dovresti andare. È meglio, sai.» «Non riesco a smettere di pensare a te, Rita.» «Non dirmi queste cose.» «Non ci riesco. Sei il mio ultimo pensiero la sera e la prima cosa che ho in testa quando mi sveglio. Penso a te quando sono al lavoro. Se fumo una sigaretta sento ancora il tuo odore sulla punta delle dita.» «Sei proprio uno sporco briccone.» «Per me è un inferno. Non è divertente, Rita, te lo dico io. Una volta pensavo che chi faceva queste cose se la spassasse. Ora so che non è così.» «Come pensi che sia per me, Signor Sposato Con Figli? Ti dirò una cosa che ti allontanerà da me. Credevo di aver superato il pensiero di Archie. Credevo che ce l'avrei fatta, che non avrei mai più dovuto pensare a un altro uomo. Avevo accantonato il pensiero, sissignore. Ma poi sei arrivato tu, tutto malinconico, a fissarmi con quegli occhioni da cocker - sì, lo so come fai - e mi hai risvegliato. Così una sera sono andata in città e mi sono detta, Rita, stasera, ti farai una sudata qualunque cosa succeda, e mi sono trovata un tipo dall'aria decente e sono andata in un vicolo con lui, un vicolo buio dietro la cattedrale bombardata, e tutto a causa tua. Ecco, non ti disgusta questo, Signor So Tutto? Allora non dirmi che non è divertente perché nemmeno per me è una passeggiata.» «Mi dispiace, Rita.» «Non puoi risvegliare una donna, sai. Non puoi farlo.» «Lo so.» «Lo sai? Lo sai davvero? Le donne non si accendono e poi si spengono come voialtri maschi. Ci palpate, risvegliate quello che c'è dentro di noi e poi scappate via o non tornate o vi fate ammazzare...» Rita cadde sul divano, singhiozzando, il viso tra le mani e le ginocchia strette l'una all'altra. William lanciò un'occhiata alla fotografia incorniciata di Archie che gli sorrideva dall'alto. Rita cessò bruscamente di piangere e si strofinò gli occhi col pollice. «Comunque non verrai qui per farmi stare male.» William si avvicinò per offrirle una sigaretta. Lei la accettò e lui le porse l'accendino acceso, quindi tornò a sedere. Rimasero seduti in silenzio, mentre lei fumava. «Sento il tuo odore dall'altra parte della stanza, Rita. Hai un odore delizioso.» «Oh, smettila! Non la smetti mai?» «Davvero. Credo di avere un senso dell'olfatto particolarmente sviluppa-
to. Lavoro tutti i giorni con la frutta e la verdura e sono arrivato al punto che non ho nemmeno bisogno di toccare i prodotti, quando vado al mercato. Basta che ce li abbia sotto il naso e so che cosa è pronto, cosa è troppo maturo e quanti giorni ha, o se è un cattivo raccolto. Forse è un talento che ho. Forse è il mio unico talento.» «No, non lo è», disse Rita guardandolo. «Comunque basta che ci stia sopra e senta un profumo, e lo so. E mi piace il tuo profumo, Rita. Non mi ha abbandonato dal giorno in cui sono stato qui.» «Che cosa stai dicendo, William?» «Sto soltanto dicendo che il tuo odore è addosso a me e non vuole andarsene. Mi rimane attaccato addosso come un... come uno... spirito. Continua a richiamarmi qui.» Rita si alzò. Incrociò le braccia e accavallò leggermente le gambe, mettendo un piede di fronte all'altro, in un modo che la faceva somigliare a una cariatide scolpita nel portico di pietra di un tempio antico. «Devi andare. Devi.» William scattò in piedi, le si accostò, infilò la mano nella folta massa di capelli rossi legati dietro la nuca, e premette le labbra su quelle di lei. Lei non oppose resistenza. Poi lui la spinse contro la parete di fianco alla mensola del caminetto, e lei fremette quando la baciò sul collo. «Non ci credo che sta succedendo di nuovo», disse Rita. Un momento dopo lui le aveva messo la mano fra le cosce e le staccava le mutandine dalla pelle spingendo profondamente le dita dentro di lei. Poi crollò in ginocchio, le tirò giù le mutandine fino alle caviglie e spinse la gonna in alto, sui fianchi. Lei gli afferrò i capelli sulla nuca, tirandogli indietro la testa in modo che la guardasse. Poi lo lasciò andare e lui immerse la testa nella sua fica, affondando il più possibile la lingua dentro di lei, ritirandosi soltanto per trovare il punto e, quando ci riuscì, lei fu colta da uno spasmo e slanciò le braccia all'indietro, facendo cadere un candelabro d'ottone dalla mensola. Il candelabro si rovesciò, sbilanciando l'orologio centrale che a sua volta spinse giù dallo scaffale la fotografia incorniciata di Archie. William udì il rumore e guardò la fotografia, constatando con sollievo che il vetro nella cornice non si era rotto. Archie si limitava a sorridergli dal basso, lieto di vedere quale virtuoso interprete era diventato William con lo strumento chiamato il kazoo rosa.
22 «Allora, giovane Frank, di che cosa parliamo oggi?» Feek era di umore esuberante, la malinconia della stagione fredda momentaneamente mitigata da un periodo di sole invernale. La luce si riversava dalla finestra esposta a nord del suo caotico studio. Si scorgevano soltanto membri della comune che andavano avanti e indietro per il giardino. Poco distante, Cassie e Lilly si erano fermate a chiacchierare. A Frank piacevano certe cose nello studio di Feek. Sulla scrivania di rovere c'era un enorme mappamondo, che l'eminente professore gli permetteva di far girare, un teschio che lui aveva il permesso di toccare e un giroscopio che talvolta il professore metteva in moto per lui. I libri erano accatastati contro le pareti dal pavimento al soffitto, lasciando scoperto soltanto il grande specchio decorato sopra la mensola del camino. Era un posto per mettersi seduti a far lezione... Eppure c'erano altre cose che rendevano lo studio non precisamente invitante. Forse era l'odore, che Frank trovava scoraggiante. Oppure, dal momento che non riusciva a separare i due elementi, poteva essere l'odore di Feek stesso. Il medesimo odore era penetrato nella stoffa della sedia su cui doveva sedere Frank, aleggiava su file e file di libri impolverati sugli scaffali, si annidava nella trama del tappeto e si attivava ogni volta che il tappeto veniva calpestato e pervadeva la giacca di tweed di Feek ogni volta che questi si alzava, avvicinandosi a Frank. «Ho la sensazione che oggi tu sia pronto ad affrontare un po' di quella che noi chiamiamo filosofia», disse Feek in quel pomeriggio assolato. «Sai che cos'è, Frank?» «No.» Feek aveva preso a nutrire un crescente interesse per l'istruzione di Frank. Parlando con Bernard, Beatie aveva osservato che, in effetti, dall'arrivo di Frank, il vecchio si vedeva più spesso a Ravenscraig e non meno, come si era temuto all'inizio. Si era domandata se la presenza del bambino lo avrebbe tenuto a distanza. Ma Feek sosteneva di essere rimasto impressionato dalla «mente avida di sapere» di Frank e stimolato dalla sua «freschezza di pensiero». Tanto che ora offriva generosamente al ragazzino due lezioni alla settimana. Come poteva un bambino ricevere un'istruzione migliore? Quello che Frank guadagnava, lo perdeva il Baliol College, poco ma sicuro. «La filosofia è la ricerca della saggezza», affermò Feek, ficcandosi i pol-
lici nella cintura dei pantaloni e rivolgendosi a Frank quasi fosse una sala gremita per una conferenza. «È una caccia al tesoro.» Quindi fece un sorriso radioso, sconcertante, compiaciuto di aver trovato la metafora giusta per rivolgersi a un bambino di cinque anni. «Non è, come sostengono alcuni, l'amore per Sofia.» Frank batté le palpebre. Imbarazzato per la debolezza di una battuta che normalmente racimolava un paio di risate servili, Feek si rifugiò nell'elaborazione. «Ebbene, sì, Frank, la filosofia è un'indagine sulla realtà essenziale delle cose, o sui principi generali delle cause delle cose, delle idee, della percezione umana, anche dell'etica.» Frank guardava fuori della finestra la madre che chiacchierava con Lilly. «Forse dovrei soltanto far girare di nuovo il mappamondo, Frank? Così tu potresti fermarlo col dito?» Feek si percosse la fronte. «No, suvvia, non ci arrendiamo così facilmente. No. Come ti pare questa: la filosofia è la caccia alla verità. Sai che cos'è la verità, Frank?» «È sempre nascosta.» Gli occhi di Feek si spalancarono, scintillando. Le bianche sopracciglia levitarono. «Bene! Molto astuto!» Ma Frank non si stava atteggiando ad astuto; stava semplicemente scimmiottando una delle frasi preferite della nonna: «La verità è sempre nascosta sinché non ti molla un ceffone». «E che cos'è che sta nascosto?» Frank batté le palpebre. «Avanti, Frank, scava a fondo, cerca il tesoro. Quali sono i segreti sepolti?» Frank guardò lo specchio sopra la mensola del camino, in cui si vedeva l'immagine riflessa di Cassie e Lilly che parlavano. «L'Uomo Dietro il Vetro.» Seguendo lo sguardo di Frank, Feek si girò a guardare lo specchio, vedendovi riflesso soltanto il bambino. «Sempre più bizzarro! Straordinario! Questo ragazzo è un metafisico. E come appare la vita attraverso il vetro che riflette?» Frank tornò a guardare Feek, improvvisamente imbarazzato dalla forza dell'interesse del professore, che si chinò, stringendosi il labbro inferiore fra pollice e indice. Frank batté ancora le palpebre. L'altro si schiarì la gola. «Voglio dire, che aspetto ha l'Uomo Dietro il Vetro?»
Frank si alzò dalla sedia e, avvicinatosi alla scrivania di Feek, indicò il teschio umano che ghignava dietro il portapenne. Le candide sopracciglia di Feek presero ad alzarsi e abbassarsi per l'eccitazione. «Buon Dio! Questo bambino è un genio!» Cassie aveva seguito Lilly dal giardino su per le scale e alla sua stanza, dove Lilly stava preparando il tè. Era l'unica ad avere una piccola cucina nella sua stanza, separata dal soggiorno grazie a una tenda. Da quando Cassie era arrivata a Ravenscraig, Lilly, psicologa clinica in attesa di occupazione, le aveva offerto qualche seduta gratuita di consulenza. Cassie si sforzava di partecipare attivamente, ma quegli interrogatori le sembravano un po' troppo intensi e trovava spesso una scusa per non mantenere l'impegno e la regolarità che Lilly esigeva da lei. Lilly le porse una fumante tazza di tè. «Sembra che tu abbia qualcosa per la testa, oggi, Cassie.» «Oh, è Frank. Ho dato un'occhiata alla finestra dello studio di Perry e non mi pare che fosse molto contento.» «Ti preoccupi per Frank?» «Sì! Sì! Sempre! Be', non sempre, ed è questo il problema. Cioè, quando ho uno dei miei periodi bui, come li chiama Beatie, mi dimentico perfino di essere sua madre; cioè, lo so che deve significare che non sono una buona madre... oh, accidenti, Lilly! Mi hai già fatto cominciare una delle tue sedute, vero, e stavo solo parlando!» «Non siamo altro, Cassie: due amiche che parlano.» «Lo so, ma questa è una seduta psichiatrica o un tè fra amiche?» «Posso mettermi il camice bianco, se vuoi.» «Non intendevo questo.» «Invece sì. Io cerco di esserti amica. Il compito di domandarti che cosa sei e perché agisci in un certo modo non si esaurisce quando scade l'ora. E poi sono dell'opinione che nessuno abbia un problema che non sia anche un problema di tutti gli altri. Parlare della vita fa parte della vita. E sembra la cosa migliore se parli di quello che fai quando non hai uno dei tuoi periodi bui, come li chiami.» «Oh, non riesco a ricordare cos'è che faccio quelle volte. È proprio questo il problema.» «Io penso che tu ci riesca, Cassie. Penso che tu ricordi. Penso che puoi andare laggiù, se lo vuoi, però ti rifiuti di farlo. E, se ricordassi, forse non dovrebbe succederti tanto spesso.»
«Che cosa?» «Quello che è.» «Pensi che Frank stia bene?» Lilly sospirò. «Pensavo che avremmo parlato di te.» «È solo che Perry... Be', certe volte dà un po' i brividi.» «Perry è... sotto controllo. Vogliamo parlare di te? L'ultima volta mi stavi dicendo dell'elettroshock che ti hanno fatto in ospedale.» «Ho ancora gli incubi. E l'odore della gomma, non lo sopporto. Mi hanno messo un bavaglio di gomma.» «Ti ricordi le scosse?» «Le scosse non erano dolorose. Almeno non nel modo che potresti pensare. Era quello che c'era dentro le scosse... Ti legavano con le cinghie e il bavaglio e sentivi un colpo e una ruota girava, una ruota grande come le stagioni dell'anno e questo liberava un vento che soffiava da dentro la tua anima, ma un vento coi denti, che strappava via una piccola parte di te e se ne andava, portando in bocca quel piccolo qualcosa; e dopo mi sentivo sempre male. Non voglio farlo mai più.» «Non dovrebbero farlo.» «Non dovrebbero. Non dovrebbero legare la gente con le cinghie e metterle il bavaglio e girare quella grossa ruota. Non dovrebbero.» «Resta con me, Cassie, e non permetterò che te lo facciano mai più.» Cassie guardò Lilly per capire se stesse scherzando. Comprese che era seria, ma decise di comportarsi come se avesse scherzato. «Caspita, bella rogna sarebbe per te!» «Dove vai, Cassie, in quei tuoi strani voli oscuri? Dove vai e che cosa vedi?» Quel pomeriggio, Bernard arrivò a casa esausto per l'insegnamento alla scuola superiore locale. Il suo entusiasmo iniziale e la passione per il lavoro si stavano stemperando per colpa di allievi riluttanti e colleghi testardi. Sprofondò su una sedia, cullando il suo vecchio sogno di diventare architetto, mentre Beatie lo aiutava a levarsi gli stivali. «Dove sono tutti?» «Tara sta scopando con Robin, Lilly è in seduta con Cassie, Perry sta insegnando a Frank», cantilenò Beatie. «Solo Tara e Robin stanno lavorando, allora», commentò Bernard. Beatie amava Bernard per il suo senso dell'umorismo. Lui sapeva sempre quello cui lei stava pensando. «Ho deciso di smettere di fare le pulizie, di cucinare, di fare la spesa e di pensare a tutto come una madre. Ho deciso
di smetterla di essere come la mamma.» «L'unica differenza fra te e Martha è che lei riesce a convincere tutti a fare la propria parte», disse Bernard. «Be', ho intenzione di smetterla. Vedremo cosa succede. Stasera. Come al solito, nessuno ha fatto niente.» «Oh, be', sarà divertente. E Frank? Perry trascorre parecchio tempo con lui negli ultimi tempi. Pensi che stia bene?» Frank non si sentiva troppo a suo agio. Peregrine Feek non desisteva dalla sconcertante abitudine di girare per la stanza con passo felpato. Continuava ad aggirarsi mentre parlava, a lungo, di cose che Frank non comprendeva neppure vagamente. Feek andava dietro la sedia di Frank e gli posava una mano su ciascuna spalla. «C'è un punto, sai, in cui la verità insiste a penetrare la superficie delle cose e a parlarci, spesso con voce contraddittoria, Frank. È una specie di alchimia, la pietra filosofale, se vogliamo, in cui si compie un'unione degli opposti, maschile e femminile, giovane e vecchio, finché...» A questo punto Feek portò la bocca vicinissima all'orecchio di Frank e mormorò: «Bang! Il mondo come lo conosciamo cade a pezzi, la superficie della Terra si scortica e perfino la razionalità - la razionalità stessa, Frank - si rivela come null'altro che un'invenzione, un utile strumento che può aiutarci fino a un certo punto e non oltre. Oh, Frank, perché dobbiamo trascorrere la nostra vita adeguandoci a uomini inferiori? Sai dirmi perché?» Frank scosse la testa. Non lo sapeva. Feek tornò alla sua sedia di fronte a Frank e la tirò più vicino, sedendosi in modo che le loro ginocchia quasi si toccavano. «Era una domanda retorica, Frank. Significa che non occorre rispondere. Sai, Frank, se tu restassi con noi qui a Ravenscraig, potremmo fare di te la mente più eccelsa del Paese. Non ho dubbi su questo. Che te ne pare, Frank, eh, ragazzo mio? Che ne diresti?» Feek afferrò il ginocchio nudo di Frank, appena sotto l'orlo dei pantaloni corti, e lo scosse leggermente. Frank guardò la mano pelosa, un po' umidiccia, macchiata, e desiderò che Feek la togliesse. Ma lui non lo fece. Il professore aveva gli occhi semichiusi e sbatteva lievemente le ciglia. Il suo respiro era corto e le sue dita facevano ginnastica sotto l'orlo dei pantaloncini di Frank. «Le scosse, capisci», disse Lilly. «Erano quelle a farti dimenticare. È così che funziona. Ma penso che tu abbia bisogno di ricordare.»
«È vero. Dopo che me lo avevano fatto, non riuscivo a ricordare nemmeno i nomi delle mie sorelle.» «Allora perché non vuoi ricordare? Perché sono convinta che tu stia mentendo a te stessa?» «E dai, Lilly!» «Non offenderti, Cassie. Lo facciamo tutti. Mentire è un emblema della nostra umanità. Mentiamo e fingiamo di non mentire. Guarda questo posto: non è una menzogna? Tutti condividono idee di progresso e di una società migliore, e questo è positivo se aiuta la gente ad andare avanti e a fare del bene, ma qui è soltanto uno scherzo.» «Allora perché resti, se è così brutto?» «Non ho detto che sia brutto o che la gente qui sia cattiva. Non tutti lo sono, almeno. Ma mi permettono di essere me stessa, cosa che altrove non posso essere.» «Oh! Vuoi dire essere una maschiaccia e tutto il resto?» Lilly sorrise, anche se non subito. «Senza offesa, Lilly. Ci ho pensato, ed è vero che certe ragazze sono belle da mozzare il fiato e ti verrebbe solo voglia di strappar loro la camicetta e metterti a succhiare le loro tettine, ma non c'è paragone con l'avere un uomo dentro di te, giusto? Cioè, quando hai le gambe e le braccia strette attorno a un uomo e lui è proprio come un bambino piccolo e gli vengono gli occhi di miele, be', Dio mio! Quanto mi piace! Davvero. E davvero tu non lo preferisci?» «Dovremmo parlare di te, non di me», fece Lilly tristemente. «Sai, sei così bella, Cassie. Posso capire perché gli uomini impazziscono per te. Credo che sia il tuo spirito selvaggio. Vogliono esserne toccati. Quello che hai potrebbe resuscitare un morto. Spero che non trovino mai una 'cura' per questo: se succedesse, nel mondo si spegnerebbe una luce.» «Ora mi prendi in giro», rise Cassie. «No. Dammi un po' di quella cosa, Cassie. Dimmi dov'è che vai. Dimmi cos'è successo la notte del blitz di Coventry. Non puoi dirmelo?» 23 Tutti sospettavano che la grande bufera fosse in arrivo, ma Cassie sembrava conoscere il momento esatto. C'erano già stati numerosi raid sulla città tra il giugno e l'ottobre del 1940, quando le bombe erano piovute su Coventry. Fabbriche, negozi e cinema ne erano usciti contorti e fumanti.
C'erano anche stati aerei tedeschi che, scesi a bassa quota, avevano mitragliato i civili per la strada. L'elenco dei civili feriti era lungo e quasi duecento persone erano rimaste uccise sul colpo in quei primi raid. Dopotutto Coventry era situata esattamente nel cuore del Paese e Adolf Hitler voleva sfoggiare la sua bravura di chirurgo, dimostrando che il cuore si poteva estirpare. Coventry era una bella città medievale e georgiana di rosoni, che vantava splendide cattedrali e pittoreschi edifici antichi: il fiore all'occhiello delle Midlands inglesi. E dopotutto, ancora, Coventry aveva prodotto il bombardiere Armstrong-Whitworth Whitley, il primo velivolo a penetrare lo spazio aereo tedesco e il principale artefice degli strazi di Monaco. No, non chirurgia. Il Führer voleva dimostrare che poteva calare il suo pugno sulla città e ridurla in polvere. La bufera sarebbe arrivata, ma, se la città avesse saputo quando, le vittime si sarebbero potute contenere. Cassie lo sapeva. Sedici anni - appena compiuti -, impossibile dire come facesse esattamente a saperlo, però sapeva coi fluidi vitali, con le viscere. Il suo sangue scorreva in modo diverso. Forse a parlarle era la luna che ingrassava nel cielo notturno; qualunque cosa fosse, lei sapeva che era meglio non dirlo. Aveva già capito che, se avesse cercato di dirlo, nessuno l'avrebbe creduta; prima non le avrebbero dato ascolto, poi le avrebbero dato della fanatica. Lo sapeva con certezza, ma non aveva parlato. Come i morti. «I morti possono sentirti», aveva detto Martha. «Ma non possono tirar fuori le parole.» Era cominciato una mattina presto, al risveglio, con una musica che le risuonava nella testa. Il suo ritmo del sonno, già alterato per via delle sirene e delle notti trascorse nel rifugio Anderson, in fondo al giardino sul retro, si era sconquassato come un tuorlo d'uovo, lasciando sfuggire qualcosa di lei. Si sentiva dentro un fluire leggero e si mise le mani tra le gambe. L'umidità che trovò l'aveva fatta pensare al residuo del sonno, una patina scivolosa lasciata dai suoi sogni. Mentre Beatie e Martha dormivano ancora, s'infilò la vestaglia e scese di sotto. La musica ossessionante le risuonava ancora nella testa. Era un brano che aveva sentito varie volte, familiare, confortante. Cassie accese la radio. Era sintonizzata sulla BBC Home Service e stava trasmettendo lo stesso brano, in perfetta corrispondenza con la versione che lei sentiva nella testa. Allora spense la radio ma continuò a sentire la musica, seppure smorzata, senza che perdesse un colpo o mancasse una nota. Dopo aver riacceso l'apparecchio, si sedette e lo fissò intensamente finché il brano non si con-
cluse. In quel momento, anche la musica dentro la sua testa cessò. Risalita nella sua stanza, Cassie si vestì in fretta e poi cercò sotto il letto un barattolo di tè dipinto in stile giapponese. Lì dentro teneva i suoi risparmi. Dopo aver svuotato il barattolo nella borsetta, scese di nuovo e si mise il cappotto, chiudendosi poi silenziosamente la porta alle spalle. La mattina era fredda e pungente e il terreno era coperto di brina. Si avviò, risalendo Trinity Street fino all'altro capo della città, diretta al negozio di musica Paynes. Troppo presto: era chiuso. Rimase sulla soglia, in attesa. Dopo un'ora e mezzo, arrivò il padrone del negozio. «È impaziente», le disse, tirando fuori un luccicante mazzo di chiavi. Poi scostò Cassie con un cenno della mano perché lo lasciasse passare. «Voglio un giradischi», dichiarò lei non appena ebbe messo piede nel negozio. «Uno nuovo.» Il padrone accese le luci. «Mi lasci togliere il cappotto. Va a fuoco qualcosa?» Non ancora, disse la voce nella testa di Cassie. L'uomo la portò verso i grammofoni più recenti. Cassie era ipnotizzata dalle piccole esplosioni di peli che uscivano dalle narici e dalle orecchie dell'uomo. «Questo è un HMV. Ha il braccio di bachelite e ha questo bel mobiletto di faggio...» «Sì.» «Sì?» «Sì. Lo prendo.» «Non mi ha chiesto quanto costa.» L'uomo scrutò con sospetto quello scricciolo di ragazza. «Quanto può spendere?» Cassie svuotò la borsetta e il negoziante sospirò. «Quaggiù ho qualche mobiletto di seconda mano. Vediamo che si può fare.» Cassie poteva a malapena permettersi uno degli apparecchi in offerta. Spese fino all'ultimo penny. Poi aggiunse: «Voglio un disco. Non so come si chiama. Ma lo conoscerà... Fa così». Canticchiò la musica che quella mattina era risuonata alla radio e nella sua testa. «Moonlight Serenade. Ce l'ho, ma come lo pagherà? Le ho appena fatto uno sconto di qualche scellino su quel mobiletto ed è rimasta a secco, no?» Cassie si limitò a fissarlo negli occhi, incrociando le gambe all'altezza delle caviglie. Poi si mise a dondolare leggerissimamente. Sulle prime il negoziante sembrò risentito, ma poi andò dietro il bancone a frugare tra i dischi finché non ebbe trovato l'incisione di Glenn Miller.
«Glielo darò, ma dovrà portarmi i soldi quando li avrà. Capito? Non so neanche perché lo sto facendo...» Perché ho potere su di te, pensò Cassie. Portò a casa il mobiletto del grammofono trascinandolo per il manico. Era pesante e lei doveva fermarsi continuamente per cambiare mano, però non mollava. Lungo la strada, un ufficiale dell'Air Raid Precautions, con l'elmetto e le mani sui fianchi, le si parò davanti. «Ehi, ragazzina, dov'è la tua maschera antigas?» gridò in tono prepotente. Lei si limitò a girargli attorno, lasciandolo lì a fissarla. Quand'era arrivata a casa, Martha e Beatie si erano alzate. Senza una parola, si precipitò in salotto, sgusciando in mezzo alle due donne. «Dove sei stata?» chiese Martha. «Vuoi fare colazione?» «Cos'è che hai lì?» domandò Beatie, sbirciando il giradischi. Sempre in silenzio, Cassie si diresse verso la sua camera. «Sta diventando veramente lunatica», si lamentò Beatie. «Non come qualcuno che so io», disse Martha. Beatie stava per ribattere, ma a fermarla arrivò la melodia di Moonlight Serenade, che si diffondeva dalla stanza di Cassie. Il suono riempì la casa come una bruma rugiadosa. Nei giorni seguenti, Cassie continuò a suonare e risuonare quel brano. Stava sdraiata sul letto, talvolta nuda, ad ascoltarlo. Sulle prime, Beatie e Martha erano soltanto irritate. Martha aveva già interrogato la figlia sul perché avesse dilapidato i suoi risparmi per un giradischi, ma senza ottenere risposte. In realtà, Beatie era andata a comprare per Cassie altri due successi di Glenn Miller, e aveva preso un mucchio di dischi da un'amica della fabbrica di bombardieri, dischi appartenuti al fratello della donna - in forza alla marina e morto appunto in mare - che lei riteneva troppo triste conservare. Però Cassie non li suonava mai. Se ne stava seduta in camera sua, a far girare Moonlight Serenade. E, se Martha o Beatie si lamentavano troppo energicamente, allora si limitava a uscire. E rimaneva fuori a lungo. Di notte, completamente sveglia per via di quel qualcosa che le aveva spezzato il sonno e consapevole che la madre e la sorella non avrebbero assolutamente tollerato suoni provenienti dalla sua stanza, si rannicchiava sul bordo del letto, sotto una coperta, e guardava la luna che ingrassava lentamente; maturava, nutrendola di ulteriore energia come da un cordone ombelicale d'argento. Se arrivavano le sirene, lei era pronta, e aiutava le al-
tre a mettere insieme un po' di cose prima di andare al rifugio Anderson; mentre loro stavano ancora a battere le palpebre e lamentarsi, metteva il bollitore sul fuoco per un thermos di tè. Era di grande aiuto specialmente a Beatie, che faceva turni di dieci ore alla fabbrica e, a differenza di lei, aveva bisogno di dormire. In quel periodo, la maggior parte delle sirene erano falsi allarmi, e Cassie lo sapeva. Sapeva che tanto sarebbe valso continuare a dormire, che quella notte sarebbe stata Birmingham, o qualche altra città delle Midlands a pigliarsele. Ma nemmeno nel rifugio riusciva ad assopirsi. Una notte, un po' prima dell'alba, Beatie si alzò per fare un bisogno nel secchio di stagno. Martha, sbattendo le palpebre, assonnata, disse: «Senti! È il cessato allarme?» «No, ma', è Beatie che piscia nel secchio. Rimettiti a dormire.» Beatie se la passava male, col sonno. Come molte donne di Coventry, era sotto pressione per via dei turni di dieci ore - e talvolta di dodici - richiesti dallo sforzo bellico. Muoversi, ragazze! Bombardiamo i crucchi! Lei lavorava volentieri e, dal momento che la paga era buona, non aveva mai avuto tanti soldi in tasca; ma le sirene che si mettevano a suonare così spesso la lasciavano esausta e irritabile. Una sera, Cassie udì la sorella gridare dal fondo delle scale: «Cassie, se suoni ancora una volta quell'accidenti, una volta sola, vengo e ti sistemo! Mi hai sentito, Cassie?» Lei non rispose. Era sdraiata sul letto in reggiseno e mutandine. Moonlight Serenade continuava a suonare. Quando finì, Cassie si allungò languidamente e la rimise daccapo. Dopo un momento, si udì un fragore di scarpe sulle scale. Beatie spalancò la porta, andò dritta al giradischi, sollevò la puntina, prese il disco dal piatto e se lo ruppe sul ginocchio. Quindi si voltò a guardare negli occhi Cassie. Lei non batté ciglio. Urlando, Beatie tornò di sotto, con lo stesso fragore di prima. A Cassie non importava. Aveva la musica in testa, perfetta, nota per nota. Poteva accenderla o spegnerla in qualsiasi momento. E poteva anche rifare a piacimento quel trucchetto con la radio. Erano tante le volte in cui aveva sentito la musica in testa e poi, quando accendeva la radio, trasmettevano forte e chiaro lo stesso motivo. Senza dire nulla, metteva alla prova scientificamente quella capacità. Le era chiaro che, in qualche modo, poteva «udire» le trasmissioni radio dal nulla. Non le occorreva un apparecchio. Era lei l'apparecchio. Però non era così stupida da raccontarlo a qualcuno.
Altre cose accadevano nel suo corpo. Il seno si era arrotondato leggermente e i capezzoli erano teneri e sensibili. Anche le labbra della vagina erano gonfie e lei sentiva un prurito o uno sgocciolio nel profondo di sé. Aveva bisogno di masturbarsi spesso e, prima che Beatie spezzasse il disco nero ardesia, se ne stava sdraiata sul letto sotto il lenzuolo, accarezzandosi il clitoride e strizzandosi i capezzoli mentre Moonlight Serenade continuava a stuzzicarla. E, quando andava per strada, le appariva evidente che quella cosa non era a senso unico. Benché fosse vergine, infatti, sapeva calcolare l'effetto che aveva sugli uomini. Soldati, marinai e aviatori fuori servizio ardevano per lei, era palese da come la studiavano. Inoltre poteva far girare la testa agli uomini... non nel consueto senso figurato, ma letteralmente: non doveva far altro che concentrare lo sguardo sulla nuca di un uomo lì vicino, magari sull'autobus o in coda con la tessera del razionamento e, dopo un momento, quell'uomo doveva voltarsi a guardarla. Funzionava immancabilmente. Stava aggregando in sé certi poteri, lo sapeva. Non aveva idea di quali poteri fossero, ma erano straordinari. Li aveva usati sul padrone del negozio di dischi, benché lui non lo sapesse. Loro non lo sapevano mai. Erano facili. Gli uomini erano facili. E quella era soltanto una parte della faccenda. Sapere della bufera in arrivo era la cosa che la eccitava di più. La atterriva e la eccitava. La sera del 12 novembre andò a un ballo con Beatie. Martha aveva smesso da molto tempo di preoccuparsi di quello che combinavano le ragazze. Benché Cassie avesse soltanto sedici anni, poteva facilmente passare per una ventenne e Martha aveva ormai rinunciato a tenerla chiusa in casa. Con le altre figlie era stata più severa, ma la diffusione della morte attorno a loro l'aveva in qualche modo resa più indulgente con lei. Inoltre aveva capito che Cassie sarebbe andata per la sua strada, qualunque ostacolo le si fosse posto di fronte. Ma una promessa a entrambe le figlie l'aveva strappata: se fossero state sorprese da un raid aereo, si sarebbero messe a cercare un rifugio adatto e non avrebbero provato a tornare a casa. Lungo la strada, Cassie era in uno stato di sovreccitazione. La luna si avviava alla pienezza, come un'argentea zucca autunnale. Pur essendo una notte limpida e piuttosto gelida, i fasci di luce che spazzavano il cielo stellato passarono sulle tre guglie della città, punzecchiando la notte. Beatie stava cercando di calmare la sorella. Fatica inutile. Non appena furono nella sala da ballo, Cassie sentì l'orchestra e si staccò da lei. Quando Beatie la raggiunse, stava già ballando il jive con un aviatore dai capelli impomatati e dagli occhi traboccanti di ar-
dore. «Non dar via tutto troppo in fretta», riuscì a sussurrare Beatie, ma Cassie roteava e agitava le mani in aria. Quel jitterbug. Nel giro di un'ora, Cassie si trovava fra le ombre della cattedrale, a Bayley Lane, la schiena contro il freddo e umido muro medievale e la gonna attorno alla vita. Non c'erano lampioni accesi per via dell'oscuramento. «Ehi, che fretta hai!» fece l'aviatore, mentre lei armeggiava con la sua cintura. «Potremmo non vederci mai più», disse Cassie, aggrappandosi al collo lanoso della sua giacca di pelle da pilota. «Pensa. E avremmo perso l'occasione di scopare.» E non perderei mai la verginità, pensò. «Ehi, pensi come un maschio», osservò lui. «Ti dà fastidio?» «No, no... è solo che... E, oh, hai un buon profumo.» «Smettila di parlare. Facciamolo.» Una sirena cominciò a gemere, vicinissima. «Cazzo.» «Ignorala», fece Cassie. «Non è stanotte.» «Cosa?» «Forse domani notte. O quella dopo. Ma non arriva stanotte.» «Ehi, dovrebbero prenderti giù a Bletchley, se sai tutte queste cose. Sai, ai servizi segreti. Mi spiace, non posso fare granché con quella sirena nelle orecchie. Quanti anni hai, eh?» Cassie infilò la mano nei pantaloni dell'aviatore, accarezzandogli la punta dell'uccello con l'unghia del pollice. Lui trasalì e tornò fra le sue braccia. «Non puoi fare cosa?» gridò Cassie. Doveva sgolarsi per farsi sentire sopra la sirena. Qualcuno passò di corsa davanti a loro, diretto a un rifugio. Lei mise la lingua nell'orecchio del giovane. «Cristo!» Cassie alzò gli occhi alla guglia della cattedrale e ai fasci di luce che s'incrociavano, rastrellando il cielo. Sapeva che l'aviatore voleva andarsene nel rifugio antiaereo più vicino, ma, con l'uccello che ingrassava nella mano di lei, non poteva sottrarsi. «Fallo», disse. Lui si tirò giù i pantaloni e, con un braccio, agganciò il dorso della gamba di Cassie. Dovette spingerle via le mutandine e raggiungerla dal fianco, sollevandola quasi da terra per entrare in lei, gli occhi fissi negli occhi in quel luogo antico, sotto la guglia che forava il cielo, sotto i raggi incrociati dei riflettori, dentro l'ululato diabolico e malinconico della sirena. L'uomo si ritirò. «Non serve a niente. Non posso... Non con quella cosa che mi
suona dritto nell'orecchio.» «Qual è il problema?» L'aviatore borbottò. Guardò i riflettori che rastrellavano le nuvole. Quindi abbassò di nuovo gli occhi. «Non funziona, per me, ecco. Possiamo andare al rifugio, per favore? Mi si sta gelando il culo.» Cassie gli tirò su i pantaloni. Mano nella mano, si avviarono lentamente verso il rifugio di Much Park Street. Fuori del rifugio, un uomo dell'ARP disse: «Voi non avete premura, eh?» «Tutto a posto», replicò l'aviatore, abbacchiato. «Non arriva stanotte.» «Un altro maledetto Signor So Tutto», fece l'uomo dell'ARP, acido. Mentre scendevano nel seminterrato di Draper's Hall, l'aviatore sussurrò: «Non gli badare. Ha solo bisogno di portarsi qualcuno a letto». Non è l'unico, disse la voce di Cassie. Trascorsero un'ora insieme nel rifugio prima che suonasse il cessato allarme. Lui si chiamava Peter e faceva l'ufficiale di rotta. Aveva vent'anni e a Cassie sembrava navigato e maturo. Cassie aveva freddo, sicché gli levò dalla tasca il casco di cuoio da pilota e se lo mise in testa. Poi lui la accompagnò a casa; si baciarono di nuovo nel vicolo che si snodava tra le abitazioni. «Hai la febbre», le disse, posandole una mano sulla fronte. «Sto benissimo, davvero», dichiarò Cassie. Ma il momento magico era passato. Quando capì che non sarebbe successo nulla, Cassie sospirò e fece per restituirgli il casco da pilota. «Tienilo tu», disse lui. «Non ti metterai nei guai per averlo perso?» «Già. Buonanotte, Cassie. Sei uno splendore, davvero. Uno splendore.» E se ne tornò alla sua guerra. Il giorno dopo, Cassie rimase a letto fino a tardi, a toccarsi, a pensare al suo aviatore e ad altri uomini prestanti, assopendosi a tratti. Oltre che di musica, la sua testa era adesso piena di altri suoni: fischi ad alta frequenza, segnali Morse intermittenti e brandelli di frasi in una lingua straniera. Quando si alzò, la casa era vuota. Beatie era andata a lavorare e Martha aveva lasciato un biglietto sul tavolo della cucina per avvisare che era uscita a fare un po' di spesa. Sbocconcellando i resti del pane tostato di Beatie, Cassie accese la radio, armeggiando con la manopola della sintonia. Il fischio di frequenza saliva e scendeva, pulsava e ronzava. Si sentiva il codice Morse. Si sentiva una
lingua gutturale. Lei non aveva bisogno dell'interprete. Sarebbe successo di sicuro la notte seguente. La notte prima, la luna era quasi completamente piena. La notte seguente sarebbe stata completa. Cassie tremava di eccitazione. Era chiaro. Adolf Hitler avrebbe mandato i suoi bombardieri a Coventry la notte seguente. Sì, proprio così. «Eccoti qui, a dormire come un sasso», disse Martha entrando e levandosi il cappello. «Non ti farà niente bene, stare così tanto a letto.» «Stanotte. Ci bombarderanno stanotte.» «Eh? Cosa dici?» «Più di prima. Più del mese scorso. Il grande raid. È stanotte. Lo so.» «Lo sai? Come fai a saperlo?» «C'è la luna piena, stanotte. Sta arrivando. Pioverà fuoco qui a Coventry, ma'.» Martha si avvicinò e appoggiò la mano sulla fronte di Cassie. «Hai i brividi. Scotti. Vuoi tornare a letto?» Cassie non sapeva nemmeno che cosa volesse dire l'aviatore riferendosi alla sede dei servizi segreti di Bletchley, il centro governativo per gli studi dei codici cifrati. La sua stessa esistenza avrebbe dovuto essere top secret. Il giorno prima che Cassie incontrasse il suo aviatore, però, a Bletchley erano riusciti a decodificare una recente trasmissione tedesca, che fissava le procedure di segnalazione per un'operazione il cui nome in codice era non Moonlight Serenade, bensì Moonlight Sonata, a significare che sarebbe stato lanciato un triplice attacco contro una città inglese nella notte di luna piena. Quello stesso giorno, il compagno di cella di un pilota tedesco catturato gli sentì dire che ci sarebbe stato un raid in tre fasi su Coventry o Birmingham, il 15 novembre o attorno a quella data. I tedeschi avevano inventato un sistema di navigazione radio chiamato X-Gerät, che guidava un aereo sul bersaglio e sganciava automaticamente la bomba. L'X-Gerät utilizzava quattro trasmettitori, che inviavano segnali radio da posizioni diverse. Era costituito da un radiosegnale principale allineato sul bersaglio e tre segnali intersecanti. I piloti esploratori tedeschi volavano paralleli al segnale principale fino a imbattersi nel primo segnale intersecante: ciò equivaleva all'ordine di cambiare rotta e volare direttamente lungo il segnale principale. A cinquanta chilometri dal bersaglio, attraversavano il secondo segnale intersecante e premevano un bottone, che faceva partire un cronometro. A dieci chilometri dal bersaglio, attraversavano il terzo segnale, l'ordine di premere un altro bottone che fermava la prima lancetta del cronometro e ne faceva partire un'altra. Il volo
sul bersaglio era cominciato. Quando le due lancette si sovrapponevano, il carico di bombe veniva sganciato automaticamente sulla gente di sotto. Era un efficiente metodo di annientamento. A Bletchley avevano scoperto anche segnali diretti a unità speciali di bombardieri, che iniziavano tutti con la parola in codice Korn. Avevano anche decrittato informazioni secondo cui i segnali speciali di calibrazione della Luftwaffe avrebbero avuto inizio alle ore 13.00 del 14 novembre. Tra i brillanti matematici, i linguisti, i logici, i giocatori di scacchi e gli enigmisti, c'era un brillante filosofo e filologo di Oxford di nome Peregrine Feek. Ma Feek non si può ritenere responsabile dell'errore più rozzo commesso dall'Air Intelligence, secondo i cui calcoli la luna piena sarebbe sorta la notte tra il 15 e il 16 novembre e non la notte precedente, alle ore 3.32. L'Air Intelligence riferì inoltre alle autorità che i raid si sarebbero probabilmente diretti su Londra. Alle ore 13.00 del 14 novembre fu intercettato il segnale di calibrazione tedesco. Due ore dopo, il Comando bombardieri inglese si convinse che i segnali X-Gerät erano allineati su Coventry. Il ministero dell'Aeronautica avverti i comandi nazionali della RAF che Coventry era diventata un bersaglio speciale. Avrebbero potuto avvertire anche Coventry. Le batterie contraeree e i palloni di sbarramento della città avrebbero apprezzato la soffiata; per non parlare dei vigili del fuoco, del comando di polizia e dell'ARP. Avrebbero potuto dare una dritta al sindaco o far girare la voce all'ospedale di Coventry e Warwickshire. Decisero di non farlo. Cassie era l'unica persona a Coventry a essere stata informata. Quel pomeriggio, all'una, Martha e Cassie stavano per mettersi a tavola per il pranzo. Martha accese la radio per sentire il notiziario. In quell'istante, Cassie sentì scattare qualcosa nella testa, come un interruttore. «È cominciato», disse. «Sì, sì», borbottò Martha, portando in tavola la teiera e pensando che Cassie si riferisse alla trasmissione della radio. «Non dico il notiziario. Pensi che dovremmo andare tutti alla fattoria? Sarebbe la cosa migliore. Dovremmo andare a Wolvey, dove stanno Tom e Una. È più sicuro, ma'.» «Non ho intenzione di partecipare a questo gioco», disse Martha. «Se Adolf mi vuole, dovrà venire a prendermi.» Quand'erano cominciate le
prime incursioni, a giugno, erano sfollate in campagna, come molti altri cittadini di Coventry. Ma, col piccolo aerodromo di Bramcote vicino alla fattoria, la concentrazione di bombe era maggiore e in un certo senso più immediata di quando se ne stavano tremanti sotto le scale prima che venisse costruito il rifugio Anderson. «Be', mi fa piacere. Non voglio andare alla fattoria. Voglio restare. Restare qui. Restare ad aiutare. Ecco. Voglio aiutare.» Cassie parlava rapidamente. Martha glielo aveva già visto fare. Un chiacchiericcio noioso ma allegro. «Ma tu e Beatie, mamma, voglio che tu e Beatie stiate nel rifugio. Mentre io sono fuori. Ad aiutare.» «Ti sono venute le tue cose?» domandò Martha. Quella sera, poco dopo le sei, Cassie si levò il vestito, s'infilò un paio di pantaloni comodi e gli scarponcini da lavoro di Beatie, indossò cappotto e sciarpa e uscì senza dirlo alla madre. Si fermò nei pressi del parco per accendersi una sigaretta e guardare il cielo notturno. La «luna del raccolto»: così la chiamavano prima della guerra... Se c'era un aspetto meraviglioso nell'oscuramento, pensò Cassie, era il ritorno delle stelle nel cielo. La serata era gelida e frizzante e il fumo della sigaretta si levava nell'aria dipingendo fuggevoli teste di cavalli bianchi. Se lei scuoteva la testa, la notte nera si ricopriva di minuscole goccioline di colore; si trattava di segnali radio che lei non soltanto udiva, ma anche vedeva, mentre attraversavano il cielo. Lo sapeva, come sapeva che era inutile fissare lo sguardo su quelle minuscole parabole iridescenti, perché comunque svanivano in un baleno. Per l'occhio umano, l'unico modo di afferrarle era apprezzare la brevità del balzo che compivano dentro lo spettro visibile e fuori di esso. Ma lo capivano davvero in pochi e quel fatto era sorprendente. Una bruciatura alla mano strappò Cassie dalle sue fantasticherie. La sigaretta incastrata fra indice e medio - non fumata - si era ridotta a un bastoncino di cenere. Il mozzicone mandò scintille quando cadde sul lastricato e lei lo spense, pestandolo sotto lo scarponcino. Quindi prese il portacipria dalla borsetta e si rimise il rossetto, alla cieca. Si pettinò e ripose il pettine nella borsa. «È la notte...» disse, ma non sapeva perché, dal momento che i suoi pensieri galoppavano. Si tirò su il colletto per difendersi dal freddo pungente della sera e si avviò lentamente in direzione del centro di Coventry. Verso le sette, cominciò a provare una strana sensazione allo stomaco o forse nelle viscere. Una vibrazione. Essa si diffuse attraverso il suo corpo
fino alle orecchie e alla fine Cassie comprese che non era dentro di lei, bensì fuori: erano le familiari sirene della contraerea. Chissà come, lei le aveva anticipate di diversi secondi. Quell'ululato aspro, quasi desolato, saliva a fatica dal luogo più basso della terra, gonfiandosi e levandosi in un gemito di disperazione, innalzandosi infine a un grido, lottando per vivere fino alla nota culminante per poi ricadere, inutile, sconfitto, e innalzarsi ancora, desideroso di diffondere il contagio del proprio panico. Cassie udì i fischi dei vicini uomini dell'ARP che seguivano la loro procedura. Ben presto, lo sapeva, l'urgenza sarebbe aumentata. E infatti ciò avvenne nel giro di dieci minuti. Il ronzio dei velivoli in arrivo si udiva come un grande bisbiglio in lontananza, sotto il gemito della sirena. Gli uomini dell'ARP cominciarono a fischiare più vivacemente e gridare per le strade. Alcuni di loro avevano un piglio scherzoso: «Correte, coniglietti! Correte, miei piccoli coniglietti!» In vari punti, nel centro cittadino, i riflettori vennero accesi e s'incrociarono nel cielo notturno. Cassie avanzava. Poi una cosa bellissima illuminò il cielo. Era il chiarore di un paracadute, bianco-argenteo come Io stronzio e risplendente, sospeso nell'aria. Poi altri, numerosi paracadute sospesi in formazione, sganciati sul lato est della città, trasportati a ovest dalla brezza leggera. Il fuoco della contraerea rispose dalle postazioni a terra dei villaggi vicini, scaricando inutilmente colpi nel cielo; poi entrarono in azione i cannoni Bofors, a poca distanza, più forti. A Swan Lane, una voce dal buio disse: «Avanti, ragazzina, vediamo di toglierci dalla strada». «Ciao, Derek», disse Cassie. «Dove sei stato in queste settimane?» Derek era un vecchio amico di Beatie. Era stato esonerato dal servizio attivo perché aveva la gamba destra otto centimetri più lunga della sinistra. «Cassie! Che stai facendo? Perché non vai a casa? Stavolta fanno sul serio.» «Lo vedo. Sono qui per aiutare. Come dire... ufficialmente.» «Ufficialmente?» Derek la guardò socchiudendo le palpebre. «Va' a fare i tuoi giri. Riposa un po'. Sarà una lunga notte.» Derek sbuffò, irritato da quella sedicenne che gli dava consigli. Ma lei si era già avviata e Derek, sebbene si fosse portato il fischietto alle labbra, rimase semplicemente a guardarla. Cassie prese per Thackall Street, fiancheggiando lo stadio. Dietro il campo di calcio c'era un vicolo trasversale e lei sperava che quella strada le avrebbe permesso di schivare la maggior parte degli uomini dell'ARP.
Mentre attraversava di soppiatto il vicolo verso Hillfields, vide alcune famiglie che entravano nei loro rifugi Anderson e le parve di sentire un ghigno. Poi un altro, e un altro ancora... Allora si rese conto che i ghigni arrivavano dall'alto. Erano bombe incendiarie, che, roteando nell'aria, producevano un suono sinistro. Toccavano terra senza esplodere, però, dove cadevano, scatenavano incendi. Cominciarono a piovere in gran numero. Alla luce di quelle fiamme, qualcuno, da un giardino, vide Cassie e si mise a urlare, facendole dei cenni. Ma Cassie non si lasciò turbare neanche quando cadde un tipo diverso di bomba, che produsse un bagliore divampante, fosforescente. Perché non ho paura? si domandò. Non è naturale. Non ne ho perché... Perché era previsto che mi trovassi qui. Piccoli incendi isolati scoppiarono attorno a lei, mentre Cassie si spostava lungo King William Street, ancora decisa ad arrivare al cuore della città. Allontanandosi da Hillfields, si lasciò alle spalle una parte della ghignante pioggia di bombe incendiarie. Ma poi udì un altro suono nell'aria, simile la uno sbattere d'ali di cuoio. Le fece venire la pelle d'oca, però non ebbe il tempo di pensare a che cosa l'avesse provocata: le bombe incendiarie furono infatti seguite dai fragorosi scoppi delle bombe ad alto potenziale che cadevano su tutta la città. Scampanellando, un'autopompa le sfrecciò vicino, su Primrose Hill, e lei svoltò in Cox Street, dirigendosi verso la cattedrale. Alcune bombe incendiarie bruciavano in mezzo alla strada; altre diffondevano gli incendi. Lingue di fuoco lambivano il montante di un cancello di Cox Street e Cassie cercò di allontanare le fiamme con la punta del piede, prima che un uomo uscisse di casa di corsa, soffocando il fuoco con una coperta. Poi l'uomo la prese per un braccio e cercò di trascinarla dentro, ma lei si liberò. Il ronzio degli aerei crebbe e Cassie si rese conto che dovevano esserci molti., moltissimi bombardieri nell'aria sopra la sua testa, altrimenti quel rumore vibrante si sarebbe esaurito. Guardò in su e li vide. A centinaia, in una bellissima formazione geometrica. Alcuni erano così vicini da riflettere la luce del proprio segnale; altri erano puntolini minuscoli, catturati dai raggi incrociati dei riflettori. Vedeva i traccianti e le brevi esplosioni della contraerea che sembravano vesce arancioni; attorno a lei udiva il ghigno e l'inesplicabile svolazzare d'ali di pipistrello. Riuscì anche a distinguere visibile un attimo e subito svanita - l'iridescenza delle onde radio, risplendenti ma costanti nella loro rotta attraverso il cielo. Lei sapeva che i bombardieri stavano in qualche modo seguendo quel ponte arcobaleno. Un altro paracadute stava atterrando alle sue spalle, nella zona di Swan Lane
dove lei si trovava poco prima. C'era appeso qualcosa. Cassie pensò che fosse un paracadutista, che i tedeschi avessero in realtà intenzione di atterrare. Il paracadute oscillava qua e là, perfettamente a tempo con Moonlight Serenade. Ma poi lei vide che portava una scatola cilindrica: dopo essere scomparso dietro le case, scosse la terra con una formidabile esplosione, che lasciò Cassie con le orecchie rintronate. Allora la giovane si frugò in tasca e trovò il casco di cuoio da pilota che le aveva dato il suo aviatore la notte prima; lo indossò, allacciando la cinghia sotto il mento. Ormai le era chiaro che ogni nuova cascata di bombe incendiarie ed esplosive veniva giù pressappoco a intervalli di trenta secondi. Doveva essere la distanza tra le file di aerei: mezzo minuto. Cominciò ad avanzare e a fermarsi di conseguenza. Quando arrivò alla cattedrale, piccoli incendi divampavano ovunque e squadre di pompieri li spegnevano. Ma non facevano in tempo a domare un incendio che, nel raggio di pochi metri, cadeva un altro grappolo di bombe incendiarie. Cassie scorse quattro uomini sul tetto della cattedrale che cercavano di spegnere le fiamme e si fermò dietro un poliziotto che stava fissando il tetto. Il poliziotto le lanciò un'occhiata e, vedendola col casco da pilota, la prese per un messaggero. «Figliolo, va' giù al comando e digli che quassù ci servono pompieri, se vogliamo salvarla.» Cassie si avviò. Sapeva che il Command Centre for Civil Defence si trovava nel seminterrato del palazzo comunale. Un soldato della milizia territoriale la fermò sulla porta e disse che avrebbe riferito il messaggio. «Non sperarci troppo. Le linee telefoniche sono già andate. Cerca di trovare tu una squadra.» Cassie corse su per Jordon Well. C'era un'altra autopompa in funzione a Little Park Street, dove ardeva una piccola fabbrica. Un pompiere stava avvitando la manichetta a un idrante. Quindi venne giù un'altra ondata di bombe e tre edifici si accesero come fiammiferi. Un autobus a due piani vuoto ruotò su se stesso e si schiantò, a pancia in su, con grandi gemiti e stridori di metallo. Il pompiere s'immobilizzò a contemplare la distruzione. Cassie dovette tirarlo per un braccio. «La cattedrale. C'è bisogno di te», disse. Il viso del pompiere era striato di fuliggine e solchi rosa risaltavano sulla sua fronte. «Non posso andare via», gridò, sopra il rumore sordo della contraerea. «Brucerà tutto il caseggiato. Digli che, se posso, verrò.» Cassie ripercorse Jordon Well. Nella strada si era aperto un cratere e u-
n'ambulanza ci era finita dentro. L'autista stava arrancando fuori della cabina. Alla cattedrale, il poliziotto se n'era andato. C'erano ancora uomini sul tetto, ma da lassù si levavano spire di fumo acre e giallo, come vermi in fuga dall'inferno di fuoco. Gli uomini spaccavano la copertura di piombo per arrivare alle bombe incendiarie cadute sulle travi sottostanti. Cassie sapeva che stavano perdendo tempo. Guardò di nuovo il cielo: era ancora pieno di aerei. Stanno viaggiando su un segnale segreto, pensò. Non possono andare da nessun'altra parte. Altre bombe incendiarie arrivarono ghignando, con un clangore metallico o un rumore sordo a seconda di dove cadevano, atterrando sul tetto sopra l'ingresso nord. Lì vicino ci fu una massiccia, vibrante esplosione. Gli uomini sul tetto si voltarono per vedere dove le bombe avevano colpito, poi cominciarono, alla cieca, a fare a pezzi il piombo. Ma il fuoco aveva preso. «Dove sono quei pompieri del cazzo?» gridò qualcuno. «A spegnere altri incendi», gridò Cassie di rimando. Gli uomini sul tetto la guardarono, poi uno disse: «Veniamo giù. Aiutaci a salvare quello che c'è dentro». L'interno era saturo di serpeggianti esalazioni gialle. Entrarono tutti e salvarono il possìbile. Tutto quello che c'era sull'altare, qualche dipinto, un paio di arazzi. Ma la cattedrale era un museo di opere d'arte medievali d'inestimabile valore. Nessuno sapeva da dove cominciare. Nel giro di mezz'ora, il fumo divenne insostenibile. Uno degli uomini tese il braccio per impedire a Cassie di entrare ancora. «È finita. Non vogliamo perdere anche te», disse. Uno degli altri, un giovane, scoppiò in lacrime. Rimasero fermi a guardare le fiamme. Fuori, altre esplosioni scuotevano la città. Dentro, la storia bruciava e il tesoro della città si liquefaceva. Verso le nove e mezzo, un gruppo di pompieri provenienti da Solihull avanzò a fatica nelle strade ingombre di macerie e montò le manichette. Quando diressero il getto d'acqua all'interno del tetto in fiamme, violenti e rigonfi geyser di vapore rimbalzarono verso di loro, rombando nel senso opposto. Ma il barlume di speranza svanì quando, senza preavviso, il getto d'acqua si ridusse a un filo. Le condutture erano state colpite. Una bomba incendiaria, esplodendo, ferì un poliziotto ancora impegnato nel recupero. «È andato», mormorò qualcuno. Un altro poliziotto posò una mano sulla spalla di Cassie. «Muoviti», disse deciso. «I telefoni sono fuori uso e hanno bisogno di più messaggeri alla centrale.» Poi la scrutò. Dal tetto della cattedrale, gigantesche fiamme rosse le illuminavano il viso.
«Sei una ragazza?» Sono un messaggero», replicò lei. «Sei un dannato angelo.» Cassie scappò. L'intera città era in fiamme. La squadra di pompieri su Little Park Street aveva rinunciato all'impresa e si era spostata, lasciando bruciare la strada: case a tre piani erano ridotte a mere facciate. Cassie vide che Broadgate, il cuore della città, divampava in modo spettacolare. Nel palazzo comunale, al Command Centre for Civil Defence, il soldato di turno la riconobbe e le fece cenno di passare. Lei scese le scale di pietra del seminterrato. Tre uomini e una mezza dozzina di donne scrivevano col gesso su lavagne o discutevano. Le linee telefoniche erano ancora fuori uso. Tutti lavoravano indefessamente sotto una livida luce d'emergenza gialla. «E tu chi diavolo sei?» fece un uomo sudato con gli occhiali, le maniche della camicia arrotolate. Aveva una sigaretta spenta schiacciata tra le dita. «Messaggero Vine», rispose Cassie. «Bene, allora, messaggero Vine, vai giù alla caserma dei pompieri - alla velocità della luce - e porta questo elenco d'idranti. Va'.» «Prima ho un messaggio per voi.» «Sentiamo.» «Il messaggio è: ce la faremo.» Tutti alzarono lo sguardo. L'uomo si tolse gli occhiali e fece una smorfia. Le labbra fremettero e la bocca si aprì per parlare, ma non ne uscì una parola. Poi disse: «Di chi è il messaggio?» «È mio. Del messaggero Vine.» L'uomo si portò la sigaretta alle labbra, ne aspirò una boccata e poi ricordò che si era spenta. Allora cominciò a ridere. Un momento dopo, tutti ridevano. L'uomo si fece avanti, la strinse in un rude abbraccio e la baciò sulla guancia. «Bellezza!» le gridò. «Sei una bellezza!» Quindi tutti la applaudirono. «Per favore, qualcuno le dia un elmetto!» Una delle donne le trovò un elmetto troppo grande dell'ARP e lo schiacciò sopra il casco da pilota. Cassie risalì le scale di corsa, stringendo il suo foglietto, rossa e imbarazzata per l'applauso. La gente è strana, pensò. Tuttavia, quando arrivò a Broadgate, quello che vide la paralizzò. La parte superiore della città era in fiamme. Le squadre di pompieri lottavano invano. Gli incendi e le bombe avevano spogliato i grandi magazzini. Genietti di vapore si levavano dall'acqua spruzzata dalle manichette. Fumo nerissimo, illuminato dal fuoco sottostante, eruttava, turbolento. Era troppo
caldo per passare da Broadgate. Cassie indietreggiò, guardando le fiamme, e l'orrido battito d'ali di cuoio le tornò alle orecchie. Menò colpi furiosi ai piccoli, tormentosi demoni nell'aria circostante. Poi vide il suo primo cadavere. Era appoggiato sulla soglia di un negozio. La vetrina era esplosa, inondando di cristalli la strada di fronte; ogni scheggia scintillante di vetro rifletteva le fiamme rosse. I rubini luccicanti le scricchiolavano sotto le scarpe mentre lei si avvicinava alla sagoma, che aveva la faccia e i vestiti bianchi di polvere d'intonaco, gli occhi spalancati, e vermi di sangue brillanti che scendevano dalle orecchie, dalle narici e dalla bocca. Era un uomo di mezza età, in divisa, però lei non capì che divisa fosse, incrostata com'era di polvere. Sembrava si fosse accovacciato vicino alla porta per riposare un istante. Cassie pensò che doveva chiudergli gli occhi, non per rispetto o per consuetudine religiosa, bensì perché era convinta che si dovesse fare. Ma le palpebre non volevano rimanere chiuse. Ci provò ancora e disse: «Ora puoi andare». Le palpebre si riaprirono di scatto. Cassie rabbrividì e si scostò, indietreggiando da quel cadavere dallo sguardo fisso; poi si voltò e si mise a correre, pronta a gettarsi tra il fuoco di Broadgate. Le fiamme salivano. Neppure un edificio sembrava intatto, le bombe continuavano a piovere... Per un istante Cassie si sentì smarrita e perse l'inattaccabile sicurezza che l'aveva guidata fino a quel momento. Si ritrasse sui bianchi scalini di pietra, sotto il colonnato della National Provincial Bank, e guardò dall'alto Broadgate in fiamme. Il ronzio dei bombardieri, il ghigno e l'urlo delle bombe, le ali di cuoio, il rombo e il crepitio delle fiamme non avevano intenzione di svanire. Gli aeroplani nel cielo notturno divennero demoni, che esultavano, spiegavano le ali, esibendo disinvolti la loro abilità aerea, gongolando, facendo baldoria. Grazie alle ali, soffiavano venti per far danzare più alte le fiamme. Era quello l'inferno, dunque? pensò Cassie. Era quello che intendevano? Se era così, lei sapeva di doverlo attraversare. Non era forse l'unico modo per muoversi nell'inferno, essere spavaldi? Un ghigno. Un altro grappolo di bombe incendiarie in arrivo. Cassie si girò a guardare il bellissimo globo di un paracadute, i riflessi perlacei e rosa della sua seta, luna e fuoco, che scendeva in un valzer tra le correnti dell'aria. Cadde su Broadgate; l'esplosione perforò le orecchie di Cassie e il vento nero che seguì la scagliò a terra. Poi sopraggiunse un suono strascicato, quasi d'acqua, simile al rumore che fa uno con la cacarella nel gabinetto esterno in cortile. Cassie alzò la testa e vide un edificio
di quattro piani che crollava, sgretolandosi. Si alzò e si allontanò dal turbine di polvere rovente. Si portò le mani alle orecchie. Non era assordata, ma tutti i suoni si erano attutiti. Il rombo del fuoco era diventato un basso frangente. Gli scoppi delle bombe successive erano diventati uno scoppiettio di ramoscelli sul fuoco. Qualcuno apparve alle sue spalle. Era suo padre. «Papà, sei qui?» La sua stessa voce era in sordina, confusa. L'uomo aprì la bocca e fece per parlare, ma riuscì soltanto a mostrare un vago sorriso. Vederlo non turbò Cassie, sebbene lui fosse morto due anni prima dell'inizio della guerra. Una volta lo aveva scorto due settimane dopo il funerale, quando portava ancora il lutto. «L'aria ha un sapore caldo e amaro, papà.» Lui indicò freneticamente un'altra sagoma, accucciata nell'angolo del colonnato della National Provincial Bank. Era un altro cadavere: un ragazzo dell'età di Cassie, sui sedici anni. Pure lui era un messaggero; Cassie vide il distintivo sulla sua spallina. I suoi occhi erano chiusi e il viso era spalmato di polvere bianca. Altri vermi rossi di sangue, che scendevano dalle orecchie e dalle narici, impregnavano la polvere. Cassie allungò la mano, lentissimamente, con l'indice e il medio tesi in una V esplorante, e toccò gli occhi chiusi del ragazzo. Le sue palpebre si aprirono di scatto e gli occhi vuoti, iniettati di sangue, la fissarono. Un ghigno nell'aria. Un altro grappolo che cadeva. Sfarfallio d'ali di cuoio. Cassie si chinò e accostò le labbra a quelle di lui, vicinissime. «Non puoi andare», gli disse. Poi esalò un bacio dentro di lui. Ancora vergine, come me. Le labbra umide le si coprirono di polvere e cenere. Il ragazzo rabbrividì. Adesso gli occhi del ragazzo erano spalancati e colmi di terrore. Lui si ritrasse dal contatto con Cassie. Lei lo scrutava intensamente. Gli battevano i denti. Cassie si mosse molto lentamente, si accovacciò accanto a lui e gli posò una mano sulla testa. Lui mosse le labbra dicendo qualcosa, ma Cassie, con le orecchie ancora rintronate dall'esplosione, non riusciva a capire. Si ricordò dell'elenco degli idranti che stringeva ancora in mano. «Vieni con me. Ci aiuteremo a vicenda», disse. Lui ebbe un leggero spasmo e fece una smorfia, sforzandosi di muoversi. Parlò di nuovo, ma Cassie non lo sentì. Dal movimento delle labbra intuì che aveva detto: «Non posso muovermi». «Papà!» gridò lei, guardandosi attorno in cerca d'aiuto. «Papà!» Ma lui
se n'era andato. Poi, al ragazzo, disse: «Sei ferito?» Ancora riusciva a stento a udire le proprie parole. Forse lui rispose qualcosa come: «No, non posso muovermi e basta». Cassie sentiva un suono nella testa quando lui tentava di parlare, però non era in sintonia coi movimenti delle labbra. «Se resti lì, morirai di vergogna. Devi vincere la paura e venire subito con me. Come ti chiami?» Qualcosa. Di nuovo lui mosse le labbra, ma non ne uscì un suono chiaro. «Non ci sento. Ho le orecchie fuori uso.» «Michael.» Forse aveva detto di chiamarsi Michael. Cassie gli mise le mani sulle guance e si chinò su di lui, baciandolo ancora una volta sulla bocca, risucchiandogli dalle labbra altra polvere e cenere. Lui tremava e continuava a battere i denti, così lei lo baciò più forte. «Ragazzo di Coventry», gli disse infine. «Ragazzo di Coventry. Vieni con me?» Il ragazzo si mise a piangere e cercò di nascondersi gli occhi. Lei si alzò, come per andarsene, e lui riuscì faticosamente a mettersi in piedi. «Da che parte è la caserma dei pompieri?» domandò Cassie. Lui indicò che avrebbero dovuto passare per Broadgate. «Tagliare per Pepper Lane?» chiese Cassie, rimettendo l'elmetto sulla testa del ragazzo. «No, non si arriva. Tienimi per mano e troveremo un passaggio.» Insieme s'infilarono nell'inferno di Broadgate. La cattedrale di St Michael era perduta, ma la chiesa di Holy Trinity era intatta. Corsero per Broadgate tra i negozi in fiamme fino a Trinity Street. Arrivati alla caserma dei pompieri, la trovarono abbandonata. Il tetto era completamente crollato. Oltrepassarono gli scheletri contorti di autobus a due piani e s'inerpicarono su mattoni, pezzi d'intonaco e travi fuse. I corpi di due donne dell'ARP penzolavano da un'ambulanza. Scavalcarono i cadaveri. I pneumatici delle ambulanze si erano liquefatti in pozzanghere nere. Anche le donne avevano sangue da esplosione che colava da occhi, naso e orecchie. Ovunque c'erano cadaveri che erano vermi o anguille di sangue. Riuscirono a trovare la nuova sede del quartier generale dei vigili del fuoco e a recapitare il messaggio. Tra gli uomini regnava un'aria d'intontita risolutezza. Lavoravano furiosamente, ma alla cieca. Il bisogno di messaggi stava passando in secondo piano. Tutti facevano qualcosa, però si aveva la sensazione che, in quel caos, fosse inutile progettare, definire strategie e coordinare. Le uniche esigenze erano combattere le fiamme e trasportare i
feriti. Quindi Cassie e il ragazzo tornarono al comando per vedere se potevano essere utili. Lungo la strada, Cassie sentì di nuovo lo sfarfallio d'ali di cuoio e uno dei suoi persecutori aerei le urtò l'elmetto. «Mi fanno venire la pelle d'oca», disse. «Cosa?» Sulle prime, Cassie credette che l'udito le stesse tornando; in realtà, riusciva semplicemente a intuire quello che Michael diceva. Lui parlava e lei sentiva le sue parole nel cervello prima che lui muovesse le labbra. «Questa specie di pipistrelli. Queste creature che svolazzano in giro. Ascolta.» Michael tese le orecchie. Le fiamme alte quasi dieci metri illuminavano il sudore sul suo viso. «Ecco! L'hai sentito?» Michael indicò un pezzo di metallo fumante in terra. «Schegge. Che cadono roteando. Dalla nostra contraerea. Cosa pensi che succeda ai proiettili dopo che sono esplosi?» Cassie si sentì stupida. Un uomo li oltrepassò correndo, velocissimo, coi capelli in fiamme e con le suole delle scarpe fumanti. Lo guardarono scomparire in una via laterale. Trascorsero insieme la notte a consegnare messaggi per il comando. Diedero loro tè e sigarette e li invitarono a riposare una decina di minuti. Uno degli uomini prese da parte Cassie. «Stai bene?» le domandò. Lei lo udiva più chiaramente di Michael. «Sì, stiamo benissimo.» «Stiamo?» «Sì.» «Credo che tu sia sotto shock.» «Be', siamo tutti sotto shock.» «Che mi venga un colpo se non è vero. Ma fatti dare un'occhiata da qualcuno, se ti capita.» Le notizie sulle perdite subite dalla città non potevano restare nascoste. Centinaia di morti. Un numero incalcolabile di feriti. La biblioteca distrutta, chiese bruciate, negozi cancellati, monumenti in frantumi. La storia era stata strappata alla città come una serie di molari posteriori. Sette ore dopo il suo inizio, il raid era ancora in corso. Gli aerei tedeschi, si calcolò, avevano avuto il tempo di tornare alle loro basi, ricaricarsi e ripartire. Quando uscirono di nuovo, era ovvio che non c'era nulla da fare. Le strade erano bloccate e le ambulanze non potevano passare. Le autopompe non avevano acqua. Autobus e automobili erano disseminati per le strade
come giocattoli. C'erano corpi di poliziotti a Cross Cheaping e un giovane messaggero morto in Pepper Lane. Dovettero lasciarli là. Incendi da entrambi i lati delle strade confluivano nel mezzo, come sipari teatrali che si chiudono su uno spettacolo orrendo. Il calore risucchiava via l'ossigeno dall'aria, lasciando in bocca un sapore di cenere, calcinacci e carbone. E poi c'era odore di fogna e marciume; i ratti correvano squittendo tra le macerie, gli edifici bruciavano ancora. Coventry stava per essere polverizzata. Anche la contraerea si stava arrendendo. «Perché i cannoni non sparano?» domandò Cassie a Michael. «Finito le munizioni», le parve che rispondesse. «Ne buttiamo giù uno, Michael? Un aereo nazista, cioè? Io e te? Possiamo farcela!» «Sei pazza, Cassie.» «Ti fidi di me?» «In un certo senso.» «Allora prendimi per mano e seguimi.» Lo condusse giù per Cuckoo Lane fino a Priory Row, pericolosamente vicino alla cattedrale in fiamme. Ogni tentativo di spegnere il fuoco era cessato e il tetto era completamente crollato. Restava soltanto il fumante guscio gotico, un rubino pulsante di calore orribile. Mezzo millennio di preghiere e auspici a sfrigolare, arrostire, fumare. Ma la torre e la guglia erano intatte. La porta della torre era bruciata. Cassie gli fece cenno di entrare. Michael rise amaramente. «Non lassù.» «È il posto più sicuro della città», affermò lei. «Per questo è ancora in piedi. Fidati di me, Michael. Più di tutto ho bisogno che ti fidi di me.» Lo prese per mano e lo trascinò verso la base della guglia. Benché fosse separata dal fumo denso e dalle braci ardenti sull'altro lato della cattedrale, sembrava di camminare dentro un forno. La guglia fungeva da camino e risucchiava il calore, ma, dopo i primi giri della scala a chiocciola, la corrente ascensionale fuoriusciva attraverso i lucernari aperti e faceva più fresco. Insieme, lei e il ragazzo salirono i centottanta echeggiami gradini di pietra a spirale. Quando uscirono sulla balaustra della torre, il vento frustò i capelli di Cassie, che si rese conto di quanto fosse fredda la sera e di come la furia del fuoco avesse reso la città una fornace. Il cielo mandava bagliori rosso ruggine. La ragazza infilò la testa tra le merlature della guglia gotica e guardò giù. Dal basso non udì nulla, e lassù c'era soltanto il vento, e anche quello in
sordina, come un triste mormorio all'orecchio, come il sussurro di un inconsolabile angelo sconfitto. La città era una scodella rotta che versava fuoco. Sembrava di guardare nel cuore di Satana. Fiumi di fiamme, scintille stridenti, rigurgitanti sbuffi di fumo nero. Chilometri e chilometri di terra incandescente in ogni direzione. Cassie corse dall'altra parte. Una sudicia striscia di fumo saliva, contorcendosi come un gigantesco serpente. Argentee lingue di fiamma. Instancabili mandibole cremisi. Chiarori improvvisi. Pozze di combustione. Un contorcimento, quasi le fiamme fossero un'infestazione verminosa nel ventre della città. Per un momento, a Cassie parve che anche la torre fosse crollata sotto di lei; si sentì rivoltare lo stomaco, ma fu sostenuta da correnti d'aria calda e passò volando sopra l'inferno, sopra una città di trecentomila anime ardenti. Poi si trovò di nuovo lì, coi piedi ben piantati sulla balaustra di pietra della torre medievale, col vento nelle orecchie. Udì un nuovo ronzio. Altri aerei tedeschi in arrivo da sud-est... Dieci, no, venti, no, venticinque circa, in perfetta formazione. Tese la mano dietro di sé e trovò la mano di Michael, che la tirò verso di sé. Era in preda a un tremito incontrollabile. «Dio mio, sei gelato», disse Cassie. I denti di Michael battevano freneticamente. Cassie si sbottonò il cappotto e lo avvolse. «Vieni qui, prendi un po' del mio calore.» Michael cercò di dire qualcosa, mosse le labbra, ma non era in grado di parlare. Aveva un freddo insopportabile, le dita di ghiaccio. Lei gli prese la mano e se la infilò sotto la camicetta, sul seno. Lui la fissò, angosciato. «Guardali, Michael», gli mormorò, indicando i bombardieri in arrivo. «Pensano di essere bellissimi. Pensano che i loro motori li stiano reggendo nel cielo. Noi sappiamo che non è così, vero? Vero? Lo senti questo odore? È benzina avio. Sono così vicini che si sente l'odore, eh? Guarda! Si riesce quasi a vedere i piloti in cabina, vero? Se te lo immagini un po' più vicino, ci puoi parlare, Michael. Quale? Scegline uno tu. Quale vuoi scegliere? Chi è che deve pagare? Quale decideremo di non far tornare a casa?» Michael non rispose. Cassie gli prese l'altra mano e se la mise sotto la gonna, tra le cosce, strofinandosi addosso le dita ghiacciate. «Nessuno dovrebbe morire vergine... Non lo pensi anche tu, Michael?» Il ragazzo rabbrividì, mentre lei gli sbottonava i pantaloni e massaggiava la sua erezione, accarezzandogli col pollice la testa dell'uccello, sussurrandogli, incoraggiandolo, come se fosse un'esperta. «Dovremo volare da lui, Michael. Spaventarlo. Volare da lui come un demone sbucato dalla notte.» Sollevò la gamba, appoggiandola sulla piega del gomito di lui, come le a-
veva insegnato l'aviatore. Michael aveva gli occhi spalancati, era scioccato, ma arrendevole. Mentre Cassie lo guidava dentro di sé, rimasero entrambi senza fiato, aggrappandosi l'uno all'altra per reggere al piacere insuperabile della penetrazione. Ogni parola era svanita. Erano paralizzati e il cielo si lacerava in un'eiaculazione fiammeggiante. Cassie piegò la testa all'indietro e cercò di guardare il cielo inondato di luna e intriso di benzina. E caddero, verso l'alto, librandosi, serrati insieme, il vento nei capelli, i ricci corvini di Cassie sferzati all'indietro a fare di lei un'infausta apparizione che piombava sull'aereo in arrivo. Oh, Michael. Scegliamone uno. Scegliamone uno per te. Per te e per la città. Non aver paura e non devi sentirti in colpa. In fondo, loro hanno scelto noi. Questo? Questo che arriva un po' più basso degli altri? Vogliamo punire la sua bellissima audacia? Vogliamo farlo? Non saprà mai com'è successo. Non ne avrà la più pallida idea. E si lanciarono su uno degli aerei tedeschi, tracciando un arco attraverso la notte, bagliori ardenti di luna nella loro scia, arrivando sopra la cabina, e si attaccarono al muso di vetro dell'aereo con dita e bocca a ventosa, e videro il puntatore alzare gli occhi dal pannello dei comandi, ne videro l'orrendo sorriso di paura e sconcerto, che allentava le viscere. È lui. È lui, Michael. Vola da lui. Guardalo in faccia. Guarda i suoi occhi. Fissa i tuoi occhi sui suoi. Saranno come colla. I nostri occhi. Saranno incollati. Iride su iride. Saremo angeli Nella sua cabina. O demoni. Guarda il suo terrore. Guarda il terrore nei suoi occhi. Eccolo. Eccolo. Eccolo. È fatta, Michael, oh, è fatta. Non tornerà a casa. Non ci sarà nessuna strada di casa per lui. È fatta. Puoi lasciarlo. Nuovamente sulla balaustra della guglia, Cassie guardava l'aereo che avevano puntato, lo vide inclinarsi, virare, riprendere quota e dirigersi a nord-est della città. Un'unica raffica della contraerea deflagrò nell'aria, non abbastanza vicina da danneggiare l'aereo. L'artiglieria difensiva era ormai esaurita ed esausta e sparava soltanto colpi simbolici. L'aereo svanì intatto nell'oscurità. Ma lei sapeva che non faceva differenza. L'aereo era condannato. Lo sapeva, proprio come sapeva quale canzone avrebbero trasmesso alla radio ancor prima di accenderla. L'aereo era bloccato nella sua rotta. Sarebbe caduto a una quindicina di chilometri dalla città. Soltanto Cassie sapeva che non sarebbe tornato a casa sano e salvo. Lo sapevano soltanto Cassie e Michael.
«Michael», sussurrò Cassie. «Michael? Dove sei?» Fece il giro della balaustra, due volte, chiamandolo piano. Se n'era andato. Cassie si sentì il vento nelle orecchie. Si abbottonò il cappotto e scese dalla torre, sentendo tornare il calore mentre ripercorreva la scalinata a spirale. Una volta a terra, l'aria rovente era come un pepe puzzolente e amaro. Sapeva dove trovare Michael. Ripercorse i propri passi, attraverso la pioggia di fuoco e l'acre nebbia di fumo, schivando le braci svolazzanti e le cascate di capricciose scintille, fino ai bianchi scalini di pietra sotto il colonnato della National Provincial Bank. Lo trovò accovacciato nell'angolo, la faccia bianca di polvere, sangue rappreso nel naso, nelle orecchie e nelle orbite. Gli mise una mano sul collo. Il suo corpo era freddo. Stavolta non gli toccò le palpebre, che restarono chiuse. «Puoi andare, ora», sussurrò. Altre squadre di pompieri e di soccorso si stavano facendo strada in città, ma era tutto finito. Le opere di salvataggio disperato erano al collasso. Gli uomini piangevano o consolavano i piangenti. Cassie oltrepassò una pila di manoscritti antichi che qualcuno aveva tirato fuori dalle rovine fumanti della biblioteca, ma poi aveva abbandonato sul marciapiede. Caratteri gotici e lettere miniate, scritte da un antico monaco, lasciate a carbonizzarsi e volare via. Cassie si trascinava per le strade con la sicurezza di una sonnambula, passando davanti a pompieri che gettavano acqua meccanicamente e senza speranza. Uno di essi le rivolse un cenno del capo, la faccia annerita e un sorriso folle che gli torceva la bocca, come se volesse farla ridere con lui di una battuta. Era tutto finito. Ogni cosa bruciava ed era sparita. Una pioggerella fine, fredda cominciò a cadere, mista alla cenere turbinante, alla fuliggine e alla polvere, creando un tiepido smog, che sfregava il viso come una ragnatela calda. Il tanfo era di sudiciume cotto, di tubi di scarico crepati e fogne rotte, le spezie della cucina dell'inferno. A Trinity Street riconobbe uno dei barellieri. Era Gordon. Quando la vide si fermò. «Cassie, tesoro, cosa stai facendo qui?» Il suo atroce balbettio era scomparso. Cercò di sistemare un telone perché lei non vedesse che cosa c'era sotto, sulla barella. «Do una mano», rispose lei. Gordon annuì, come se capisse perfettamente. Poi il suo compagno lo sollecitò a muoversi. «Dio ti benedica, Cassie. Ma dovresti tornare a casa, tesoro mio bello», disse Gordon. Non ci furono altre incursioni, ma soltanto alle 6.15 suonò il cessato al-
larme, luttuoso e cupo nella luce grigia. La pioggerella creava vapore e, dove le macerie non vomitavano fumo nero, il fumo bianco si sommava alla coltre densa e maligna che copriva la città. Cassie vagava senza meta, sentendosi lei stessa come fumo, che si dirada, vago, incapace di ricordare il proprio scopo. Quasi un fantasma. La città stessa era uno spettro. Il vapore, la nebbia e il fumo rendevano i muri rimasti e gli angoli di edifici distrutti simili a vaghi schizzi di matita o negativi fotografici. Forse erano soltanto immagini residue di edifici crollati. Gusci irriconoscibili si reggevano su strane palafitte. I punti di riferimento erano diventati macerie. Milioni di mattoni, scaglie di legno, travi contorte, calcinacci e schegge di vetro formavano enormi cumuli sulle strade. Cassie vagava per Cross Cheaping, di fianco ai resti di un grande magazzino e vide un manichino che penzolava da una vetrina. In mezzo a un mucchio di macerie, il palo di un lampione di ferro sfoggiava un segnale intatto che recava scritto FERMATA AUTOBUS PER KERESLEY. Sotto, c'era lo scheletro contorto e fuso di un autobus a due piani. E la gente cominciò a uscire. Avanzava circospetta sui mattoni e sulle macerie, e non parlava. Cassie la guardava, la vedeva fare un inventario interiore, cercando di orientarsi. Si muoveva in gruppi. La gente, avanzando nella desolazione, si toccava molto spesso la faccia, in silenzio. Arrivarono alcuni padroni di botteghe, decisi a cercare ciò che restava dei loro negozi. Si accesero brevi discussioni con la polizia e gli uomini dell'ARP. Un tabaccaio, trovando in piedi un unico muro, aveva recuperato qualche balla di tabacco. Trovò un pezzo di carta e ci scrisse sopra: SVENDITA TABACCO, LEGGERMENTE AFFUMICATO. METÀ PREZZO. Quindi si sedette su una trave di legno e attese i clienti. «Me ne fumerei una», gli disse Cassie. Il tabaccaio alzò gli occhi e la guardò. «Sei stata in ballo tutta la notte, vero?» fece lui allegramente. «Hai l'aria distrutta. Ecco, serviti. Offre la casa, miseriaccia.» «Le dispiace prepararmene una? Ho le dita intorpidite.» «Ti dico quello che farò. Ne preparo una per te e una per me. Poi ci sediamo qui insieme e ce le fumiamo, e diciamo che siamo contenti di essere vivi. Che ne dici?» «Sembra una buona idea.» «Bene, allora.» Il tabaccaio si agitò parecchio per far posto a Cassie sulla trave accanto a lui, arrivando persino a spolverare il legno prima che lei ci si sedesse. «Non dovrebbe essere un problema trovare del fuoco», disse
lui. Cassie sorrise. L'uomo arrotolò due belle sigarette e le accese entrambe prima di porgerne una a lei. Rimasero seduti a fumare, ciascuno in onore dell'altro, continuando a guardarsi finché le sigarette non furono finite. Nel frattempo, Cassie canticchiava piano un motivetto. «Moonlight Serenade», disse il tabaccaio. «Buffo. Quella canzone mi girava per la testa prima che ti sedessi.» Cassie sorrise come se sapesse qualcosa. La gente si fermava a guardarli e tutti accennavano un sorriso guardando il cartello. «Bisogna che tu vada a casa, tesoro», disse il tabaccaio. «Se hai una casa dove andare.» «A questo non ci avevo pensato», fece Cassie. Arrancò per le strade gremite di gente. Incredibilmente, sembrava che quasi tutti si fossero alzati, vestiti e poi diretti al proprio posto di lavoro, quasi pensassero che quel rituale mattutino potesse cambiare gli eventi del raid. Pedalavano in bici tra le macerie, portando gli zaini, le borse e le custodie con le maschere antigas. Un gran numero di edifici lontani dal centro della città era stato demolito o danneggiato, e Cassie, nell'avvicinarsi a casa, affrettò il passo. La casa era intatta. La porta d'ingresso era appena socchiusa. Martha era dentro con Beatie. Quando la videro entrare - con la faccia annerita, i vestiti sudici e l'elmetto - la scrutarono intensamente. Poi Martha gridò e le corse incontro, la abbracciò, ululò, batté i pugni sulla schiena e sulla testa della sua bambina, forte, così forte che Beatie dovette tirarla via. Poi lasciò che la donna stringesse Cassie in un abbraccio. «Cassie! Che cosa sei, Cassie? Che cosa dobbiamo fare con te? Dove diamine sei stata?» gemette Martha. «Ad aiutare i morti», rispose Cassie. «Beatie, puoi prenderti il mio giradischi.» Poi si sedette e si addormentò. 24 A Ravenscraig, la spazzatura si stava accumulando. Vassoi, piatti, tazze, piattini, pentole, padelle e utensili di cucina marcivano nel lavandino. Nessuno vuotava il bidone dei rifiuti o lavava i pavimenti. Le stanze comuni erano ingombre di libri, giornali, taccuini e altro materiale di consultazione, per non parlare dei boccali di birra, delle bottiglie di vino e dei portacenere traboccanti. Nessuno si occupava delle normali spese per la casa né dei gabinetti. E nessuno diceva niente. Tali precarie condizioni della casa erano da attribuire al comitato ristret-
to formato da Beatrice, Bernard, Lilly e Cassie, che si erano impegnati a non fare più nessun lavoro domestico, accampando la scusa dell'«urgente impegno accademico». Anche a Frank avevano fatto giurare di non riordinare, riparare né rimettere in ordine in altro modo il caos domestico. Frank si era convertito con entusiasmo alla campagna del non-far-niente. George, Robin, Tara, Feek e i molti visitatori casuali che Ravenscraig attirava all'epoca si comportavano come se quella campagna fosse rivolta a qualcun altro e non a loro. Naturalmente l'igiene era un problema. Quando Bernard trovò un ratto in cucina, lo uccise, ma lasciò lì la carcassa, perché se lo godesse qualcun altro. Nel frattempo, il comitato del non-far-niente fu segretamente ammesso ai servizi di cucina e bagno fino ad allora privilegio esclusivo di Lilly, scampando così alla depravazione delle aree comuni. Peregrine Feek decise di mettersi al di sopra di quella disdicevole baruffa ritirandosi nelle sue stanze al Baliol College, dove c'erano servitori, inservienti e cameriere in abbondanza per badare alle faccende domestiche. C'era già passato e sapeva che la questione, prima o poi, si sarebbe risolta. Feek era stato di parola e aveva trovato a Frank una stanza tutta per sé proprio di fronte a quella di Cassie. La stanza, originariamente, era piena zeppa di libri, ma Feek aveva fatto venire da Baliol due uomini in livrea a portarli via e a sostituirli con un letto e con qualche mobile del college. Frank non era proprio entusiasta della stanza, che aveva soltanto una piccola finestra. E neppure Cassie era contenta della nuova sistemazione, però Feek e altri l'avevano persuasa che non era sano per un ragazzo dormire con la madre. Robin, in particolare, le aveva spiegato che tra l'omosessualità e quel morboso, prolungato attaccamento al letto materno non c'era che un breve passo. Così Frank fissò al muro la sua figurina di Babe Ruth, sistemò nella stanza un paio di altre sue modeste proprietà e cercò di avere un'aria felice. Ma cominciò ad avere degli incubi e, di tanto in tanto, se ne tornava quatto quatto nella stanza di Cassie, dove lei lo accoglieva nel suo letto. Non molto tempo dopo la nuova sistemazione, Robin, col favore della notte, saggiò la maniglia della porta di Cassie, mormorando sommessamente dall'esterno. Quella sorprendente modalità di corteggiamento fece ridacchiare Cassie, che tuttavia ostentò uno sguardo severo e lo scacciò. Un'altra notte, fu George a presentarsi, ma lei sapeva che forse Frank l'avrebbe raggiunta, quindi baciò George e lo mandò via, con maggiore spe-
ranza di quanta ne avesse data a Robin. Neppure un'ora dopo, arrivò Lilly, piangendo e chiedendo scusa, ma non fece più progressi di Robin o George. Strano che non sbattano la testa l'uno contro l'altro al buio, rifletté Cassie. Non era un pensiero impudico. Di notte, il corridoio era un vero e proprio porto di mare. E una notte Frank si svegliò, scoprendo che qualcuno stava appollaiato sulla sponda del suo letto e gli accarezzava i capelli. Era troppo buio per vedere chi fosse, ma la figura gli posò un dito sulle labbra e Frank si riaddormentò, credendo di sognare. Intanto l'ammasso di rifiuti si faceva più alto e più rancido e, benché nessuno dicesse nulla, c'era parecchio malanimo. In effetti era quello il principale argomento di conversazione sia tra i nullafacenti sia tra i nulladicenti, fintanto che nessuno dell'opposta fazione era presente. I nullafacenti erano risoluti a non muovere un dito; i nulladicenti erano decisi a non lasciarsi manipolare. Nessuno dei due gruppi era pronto a convocare una riunione per discutere di quella situazione sempre più degradata, giacché ciò avrebbe dato all'altro gruppo il vantaggio di non partecipare. Erano a un punto morto. Sebbene fosse formalmente estraneo alla disputa, Frank notò che le conversazioni si esaurivano ogni volta che si avvicinava un membro della fazione opposta, quindi ricominciavano all'improvviso a una velocità troppo elevata e su remoti argomenti intellettuali. «Ehi, Beatie, hai visto l'ultima critica di Schulman al Punto di svolta della Storia?» azzardava Robin. «No, Robin. Vale la pena di leggerla?» «Direi di sì. È piena di quella presunzione autoreferenziale che è sempre associata a lui, ma in effetti fa osservazioni piuttosto pertinenti sul consenso dialettico.» Bernard, incapace di sopportare la frattura, magari cercava di trovare un terreno comune. «Be', Tara, vedo che i tuoi amici del PPR si stanno finalmente unendo ai sindacalisti superstiti, una mossa davvero intelligente. Ora, se solo si decidessero ad allinearsi con l'ampia alleanza di sinistra ITA, potremmo vedere qualche vero progresso.» «Non sarebbe bello? Ma non ce li vedo a salire a bordo ora che l'esecutivo è composto principalmente da membri dell'AMG.» «Vero. Verissimo.» A Frank sembrava piuttosto strano che sorridessero tutti così ferocemente nel dire quelle cose. Si domandò se si trattasse di un codice, ma, am-
messo che fosse così, quando parlavano la stanza sembrava riempirsi di un fiato che faceva il paio con gli odori rancidi e cagliati della cucina. L'acidità che pervadeva la casa cominciò a insinuarsi nei sogni di Frank. Sognava cadaveri in cucina e ratti nel suo letto. Una volta, un ratto con mani umane era seduto sul suo letto e Frank si era messo a gridare fino a svegliarsi. Divenne un sogno ricorrente. Due porte più in là, mentre il resto della casa dormiva, Cassie sentì aprire la sua porta. «Chi è stavolta?» sussurrò. «Sono io, George. Senti, Cassie, posso entrare?» «Che vuoi?» «Codice dell'amor cortese.» «Come?» Lui decise di entrare e si chiuse dolcemente la porta alle spalle. Cassie scese dal letto e s'infilò la vestaglia. Allora George, nel suo pigiama a righe, si gettò a terra e le baciò i piedi. «Via, pagliaccio!» ridacchiò Cassie. «Che intenzioni hai?» George alzò gli occhi. «Codice dell'amor cortese, Cassie. È l'unico modo, con questa stupida battaglia che va avanti. Puoi tenermi come tuo schiavo, qualunque cosa, ma in cambio devi darti a me. Devi aver pietà di me. È il codice dell'amor cortese.» «Sei diventato scemo?» «Io ti dimostrerò la mia assoluta devozione finché tu, mossa a pietà, non ti concederai a me. È così che funziona. Non puoi dire di no.» A Cassie parve di sentir scricchiolare un'asse del pavimento nel corridoio. Non voleva che Frank la trovasse con George. «Andiamo nella tua stanza a parlarne», gli disse. Ma Frank era già sveglio. Aveva avuto un altro terrificante incubo sui ratti con mani umane. Si rizzò a sedere sul letto, respirando affannosamente, madido di sudore. Una volta sceso dal letto, s'infilò la vestaglia e attraversò a passo felpato il corridoio per cercare conforto dalla madre. Ma, quando arrivò nella sua stanza, scoprì con sgomento che il letto era vuoto. Soffocò un singhiozzo. Troppo spaventato per tornare in camera sua, si diresse verso la stanza di Beatie e Bernard. Apri la porta ed entrò cautamente. I due dormivano. Lui si fermò vicino a Beatie, desiderando che aprisse gli occhi. «Chi è?» fece Beatie, svegliandosi con un sussulto. «Sono io», singhiozzò Frank. «Mamma non c'è. Ho fatto un brutto sogno.»
Bernard gemette, cercando di seppellire la testa sotto il cuscino. Doveva alzarsi presto per andare a scuola, la mattina. Odiava insegnare dopo aver dormito male. «Avanti, salta dentro con noi», disse Beatie. Frank si arrampicò sul letto tra i due e si rimisero tutti comodi. Ben presto, il ragazzino si assopì, ma poi cominciò a contorcersi nel sonno. Bernard lo spinse via, cercando altresì di recuperare il cuscino che Frank gli aveva in qualche modo rubato. Poi ci rinunciò e si assopì di nuovo, benché il suo sonno fosse leggero. Dopo un po', la mano di Frank si sollevò e mollò un solenne ceffone sull'orecchio di Bernard. Soddisfatto, Frank si voltò e sbruffò nel cuscino, in apparenza dormendo profondamente. Bernard era quasi riuscito a prender sonno per un momento, ma Frank si contorse di nuovo, quindi prese a russare. Infine sollevò il ginocchio in uno spasmo involontario, urtando Bernard su un fianco. «Dove vai?» sibilò Beatie a Bernard, vedendolo scendere dal letto. Bernard prese la torcia dal comodino e riuscì a sottrarre il cuscino a Frank. «È come cercare di dormire con una trebbiatrice che va su e giù per il dannato letto», grugnì. «Lui può restare qui con te, io mi prendo il suo letto.» Neppure dopo essersi sistemato nel lettino di Frank, Bernard riuscì facilmente a prender sonno. Da un'altra stanza arrivavano risatine che lo distraevano. Sembra Cassie, pensò lui. E forse c'è anche George. Ci fu anche il rumore di una porta che si apriva e si chiudeva e di qualcuno che ciabattava per il corridoio. Bernard si accorse che nella casa c'era più attività di notte che di giorno. Ripensò a tutte le permutazioni romantiche (solo quelle di cui era al corrente) che erano passate per Ravenscraig e le suddivise in categorie: confermato, probabile, possibile, negato ma confermato, negato e non confermato, dichiarato ma improbabile e così via. Quella classificazione lo aiutò a addormentarsi. Era trascorsa forse un'ora quando Bernard fu destato da una lieve pressione sulla testa. Qualcuno gli stava accarezzando i capelli. Era mezzo istupidito dal sonno e pensò che fosse Beatie. Fece un piccolo verso di piacere e cercò di riaddormentarsi. Poi, sempre annebbiato, rifletté che non si poteva trattare di Beatie, perché la pressione della mano era decisamente più lieve. Gli venne in mente che forse si trattava di Cassie. I suoi occhi erano mezzi incollati dal sonno e in ogni caso nella stanza era buio pesto. Fece per parlare, poi rifletté su quello che avrebbe potuto dire a Cassie
senza mancare di tatto. Una parte di lui non era del tutto sorpresa da quell'approccio; era deciso a respingerla con tenerezza ma anche con decisione. La mano fu ritirata e si udì un fruscio. Bernard si sentì tirar via la coperta e sentì gemere le molle, mentre l'altra persona saltava nel letto accanto a lui. «Senti, Cassie...» cominciò Bernard. La sagoma vicino a lui s'irrigidì. Qualcosa non andava. Se era Cassie, non aveva l'odore giusto. Bernard annaspò in cerca della torcia sul comodino e la accese. Poi la puntò sul volto sbigottito di Peregrine Feek. 25 Martha Vine sonnecchiava accanto al camino. Nel focolare si era formato un bel letto caldo di braci rosse. Un piccolo tizzone crepitò ed esalò un filo di sulfureo fumo giallo, che alterò l'aria. L'orologio sopra la testa di Martha ticchettò più forte e si sentì bussare alla porta. Martha si alzò per aprire. Era il postino, allegro, ciarliero, faccia rossa, denti guasti. «Timbro postale di Oxford, Mrs V. Allora è della cara Beatie, giusto?» «Ci vuole anche una tazza di tè con le sue inutili chiacchiere?» propose Martha, canzonandolo affabilmente. Fu sollevata nel vedere Olive dirigersi verso casa con le bambine a rimorchio. Era la conferma che non c'era nulla da temere da quella bussata alla porta. «No, grazie, Mrs V! Devo andare. E buongiorno a lei, Olive. Come sta il suo William? Sono settimane che non lo vedo.» Olive lo ignorò ed entrò in casa. «Che maleducata che sei!» esclamò Martha dopo che il postino se ne fu andato. «Non dire una parola... Proprio scortese!» «È un chiacchierone. Non ho tempo per cose simili», disse Olive, riempiendo il bollitore. «C'è chi darebbe della chiacchierona a te», replicò Martha. «Non c'è bisogno di essere scontrosa col postino soltanto perché ha nominato William.» La distanza tra Olive e William stava aumentando. Martha tremava al pensiero d'intromettersi, ma non sopportava l'idea che il matrimonio di Olive finisse come il proprio, nel silenzio e nell'ostilità. Olive strinse le labbra. Martha tornò a sprofondare nella sua poltrona e cercò a tentoni i suoi occhiali da lettura prima di strappare la busta. «È di Beatie!» esclamò. «Viene a casa! Vengono tutti! Beatie, Bernard, Cassie e
Frank. Tornano tutti a Coventry!» Quella stessa mattina, tornando dalla città, Rita girò la chiave nella serratura della sua porta d'ingresso. Mentre apriva, sentì qualcosa muoversi dietro di sé, come un paio di enormi ali, e una forza la sospinse dentro casa. La porta sbatté, mentre lei veniva scaraventata contro la ringhiera delle scale nell'ingresso. Ridacchiò. «Scemo di un briccone! Mi hai fatto prendere un accidenti! Dove ti nascondevi?» «Ero seduto nel furgone, aspettando che tornassi», rispose William. Poi si aggrappò ai lucenti riccioli rossi di lei. La luce che si riversava dal cerchio di vetro sulla porta d'ingresso giocava sui suoi capelli, e quello lo fece infuriare. Tirò verso di sé i capelli perché lei smettesse di muovere la testa e la baciò, schiacciando le labbra contro le sue finché entrambi non restarono senza fiato. «Smettila!» ridacchiò Rita. «Sono appena andata a pagare la bolletta del gas.» William le prese la testa fra le mani. Ansimava e la guardava in modo strano, nel fondo degli occhi. Lei smise di ridacchiare. «Che c'è? Cosa succede?» «Non lo so. È il tuo sapore quando ci baciamo. Il tuo odore. No, è qualcosa a metà strada tra il sapore e l'odore. Continuo a cercare di capire com'è.» «Com'è?» «È come il miele. Ma bruciato. Come qualcosa che sai non ci sarà per sempre.» «Vorrei che la smettessi di guardarmi così.» William la baciò di nuovo e le mise la mano sotto la gonna. «Smettila, sporco briccone!» Rita aveva ripreso a ridacchiare. «Chi si occupa del tuo negozio? Ti prenderanno in castagna, sai, e non sarà colpa mia.» Rita rabbrividì quando lui spinse un dito dentro di lei. William cadde in ginocchio e le strappò le calze. «Sporco briccone», ripeté Rita in tono più basso. William la fece venire molto in fretta. Poi si alzò e le sbottonò il resto dei vestiti finché lei non rimase completamente nuda. Ansimava ancora, ma lo fissava anche intensamente. Lui si slacciò i pantaloni e spinse l'uccello dentro di lei. Scoparono con violenza, addossati alla parete. Poi rimasero appoggiati l'uno all'altra, lui con la testa sulla spalla di lei, a scambiarsi il sudore, senza dire nulla.
Dopo un po', William disse: «Devo tornare al negozio». «Sei pazzo a venire qui.» «Bene.» William si abbottonò i pantaloni e passò una mano sui capelli di Rita, luccicanti di sudore. Poi le diede un rapido pizzicotto sulla guancia e se ne andò. La porta sbatté dietro di lui. Rita allungò una mano in cerca delle sigarette nella borsetta. Ne accese una e, soffiando un pennacchio di fumo, si guardò nello specchio dell'ingresso. «Cristo», disse alla propria immagine arrossata. «Ero solo uscita per pagare la bolletta del gas.» Il giorno seguente, Martha prese un autobus dalla città a Wolvey, per andare a trovare Una e Tom alla fattoria. Dalla fermata dell'autobus c'era un breve tratto a piedi. Vide Tom che guidava il suo trattore nel campo, mentre Una si trascinava appresso le sue bimbette non identiche per l'aia fangosa. Martha gridò e agitò le braccia, ma nessuno la sentì. Allora si alzò sulla punta dei piedi e, con un sospiro di soddisfazione, guardò la figlia e le nipoti muoversi per l'aia. Una aveva superato la sua depressione e Martha poteva dirigere altrove le sue energie. Ma non era stato quello a farla sospirare di piacere. Era stata la complessità. Martha aveva una mente matematica. Non faceva che sommare numeri in su e in giù, di qua e di là. Era perennemente impegnata nel compito di appianare e riconciliare le discrepanze. Se un'equazione era risolta, passava alla successiva. Il fatto che i problemi della vita in generale e le equazioni sue e delle sue figlie in particolare non avessero fine non la scoraggiava minimamente. Così era la vita: in quell'ombra confusa tra la perfezione e il caotico flusso e riflusso umano, che rendeva la perfezione impossibile. Aveva occhio per la perfezione, ma non si era mai aspettata di trovarla; in effetti non aveva mai voluto trovarla. Per Martha, la perfezione era qualcosa che si avvicinava alla morte. Il suo sospiro di piacere, quando lo esalò nell'aria frizzante del mattino alla fattoria, era semplicemente quello delle palline che tornano ad accostarsi sul bordo del pallottoliere. Per Martha, quella complessità non era soltanto sinonimo di difficoltà, ma era anche la vita stessa. E lei la accoglieva con piacere. Alzò la voce, producendo un curioso suono di saluto, acuto e cantilenante. «Uuu-uuu! Uuu-uuu!» Una e le piccole alzarono gli occhi. Martha riuscì a vedere il sorriso di Una, ampio e compiaciuto, dalla parte opposta dell'aia. Nella cucina della fattoria, Martha tenne in equilibrio la sua tazza di tè
mentre Una la riempiva, abilmente cullando con l'altro braccio una delle gemelle. Se c'era una cosa che aveva imparato nella vita, affermava spesso, era reggere un bambino e una tazza di tè senza versarne una goccia. Una e Martha si scambiarono pettegolezzi e Martha riferì a Una che Beatie, Bernard, Cassie e Frank sarebbero tornati a Coventry. «Come mai così all'improvviso?» s'informò Una, cercando d'impedire all'altra gemella di torcerle un sopracciglio. «Ahi! Mostriciattolo!» «Non sorridere quando lo dici, altrimenti non sanno come prenderlo. Non so perché così, all'improvviso. La lettera dice solo: arriviamo e preparatevi. Non so altro, e arrivano domani.» «E tu vuoi chiederci di riprendere qui Frank e Cassie», disse Una, credendo di aver compreso le vere ragioni della visita a sorpresa di Martha. Comprendere le vere ragioni di Martha era uno dei passatempi preferiti delle sue figlie. «Non ci avevo pensato affatto. È vuota, quella teiera? No, non è per questo che sono qui. Sono venuta per vedere Annie la Stracciona.» «Annie la Stracciona? E cosa vuoi da lei, ma'?» «Pensavo a quello che mi hai detto. Le hanno reso un brutto servizio e io ho raccolto qualcosa per lei. Ha fatto nascere Aida, Evelyn e Ina tanti anni fa, quand'ero quaggiù. E ha fatto nascere questi due tesorini. Be', sono andata un po' in giro a raccontare i suoi guai e abbiamo raccolto qualcosina.» «Be', non la vedrai. Si è chiusa in quella sua vecchia casetta e non vuole uscire, ho sentito.» Martha si alzò a fatica dalla sedia e appoggiò a terra la bimba. «Be', vedremo. Adesso vado, è una bella camminata.» «Pranzi qui? Ti riporterà Tom a Coventry, lo sai. E tieni, prima di andare.» Una si allungò per tirar giù una scatola di biscotti dallo scaffale. C'erano i suoi risparmi. Svitò il coperchio e c'infilò la mano. «Fammi mettere qualcosa per la vecchietta. Mi dispiace tanto per lei.» Martha bussò al batacchio d'ottone, a forma di testa di lepre, una seconda volta. Dall'interno, un cagnolino si esibì in un'abbaiata smorzata e patetica, ma non ci furono altre risposte. Martha allora fece un passo indietro per esaminare la casa. Era così fatiscente che definirla una catapecchia era già troppo. La vernice rossa sulla porta si era scrostata, scoprendo uno strato inattaccabile di spessa pittura verde scuro, schiaffata lì probabilmente tre generazioni prima. Le grondaie sopra la porta, sgocciolando, avevano ben striato di rug-
gine i muri grigi. Un barile d'acqua piovana era appoggiato sull'angolo ed era colmo fino all'orlo. I telai di legno delle finestre erano marci e spaccati. Benché i piccoli pannelli di vetro vecchissimo fossero puliti, le tende tirate impedivano di vedere all'interno. Martha bussò ancora, stavolta vigorosamente. «Avanti, giovane Annie, fatti vedere.» Lei aveva due anni più di Annie la Stracciona. «Lasciatemi in pace!» «Non ti lascerò in pace. Apri questa porta, deciditi.» «Chi è?» «Chi è? È Martha Vine che viene a trovarti, Annie, e, se avessi un po' di buonsenso, non lasceresti una donna anziana in piedi sulla tua soglia.» «Mai sentita nominare. Lasciami in pace.» «Hai fatto nascere tre delle mie figlie e le due di mia figlia Una, perciò ora non fingere di non avermi mai sentita nominare. E se perdo la pazienza per te non sarà un bene, quindi non insultarmi lasciandomi qui fuori, Annie, perché non penserò bene di te! Allora!» Il tono di Martha tradiva il fatto che lei aveva già perso la pazienza. Forse la vecchia all'interno lo avvertì e qualcosa in quel tono, o una velata minaccia nelle parole di Martha, la smosse. Un momento dopo si udì il tintinnio di un chiavistello tirato dall'altra parte dell'uscio, seguito da un secondo tintinnio. Infine la porta si aprì di uno spiraglio. La voce piccina, abbacchiata, di Annie affettò un tono di sfida. «Non sono in debito con te né con nessuno.» «Nessuno dice che tu lo sia.» «Perché sei qui, allora?» «Mi serve il tuo aiuto, Annie.» «A nessuno serve più il mio aiuto. È tutto finito. Hanno tutti chiuso con...» «Vuoi piantarla? Smettila subito di compatirti. Ti hanno reso un brutto servizio, ma sono qui per darti quello che ti spetta e chiederti un piccolo aiuto. Ti vuoi dare una mossa, incominciando col dirmi che sai chi sono?» Annie aprì un po' di più la porta e scrutò per bene Martha. Poi abbassò gli occhi. «Lo so chi è che sei.» «Allora saprai che non voglio farti niente e mi lascerai entrare.» Entrata, Martha si levò il cappello e si sedette senza essere invitata. Annie, più curva e accartocciata di quanto Martha la ricordasse, compì il rituale inconsapevole dell'ospitalità elementare, tirando fuori da una credenza tazze e piattini da tè scheggiati e trovando altresì una pagnotta e un ba-
rattolo di marmellata. Martha si guardò attorno. La casetta era in disordine e vi aleggiava un'aria depressa, ma lei si domandò se, prima delle disgrazie di Annie, fosse stata diversa. C'erano pile di stracci ammucchiati negli angoli, però il focolare era stato spazzato e le pentole erano state lavate e accatastate. Alle travi sul soffitto erano appese erbe e mazzetti di piante messe a seccare. Gli scaffali erano pieni di vecchi vasetti di pietra e di vetro. Non c'erano fornelli né forno; c'era soltanto una pentola di ferro su un supporto oscillante nel focolare e le braci basse di un fuoco di legna. Tutto quello rammentò a Martha la casa dov'era cresciuta. «Ti serve dell'acqua, Annie. La prendo io.» Senza aspettare la risposta, prese la pentola e la portò fuori, sul retro, dove sapeva che avrebbe trovato una pompa per l'acqua. Pompò l'acqua nella pentola e tornò ad appenderla al supporto, facendo oscillare il braccio in modo che la pentola si sistemasse comodamente sulle braci. Annie segava a fatica il pane raffermo e lo mise da parte finché non fu pronto il tè. Quindi si sedette di fronte a Martha. «Vuoi sapere quanti?» fece Annie con rabbia. «Parla», la esortò Martha. «Ho tenuto il conto, fin dal primo. Me li sono segnati tutti in un libro.» Si alzò, frugò in un cassetto, ne tirò fuori un quaderno sudicio, vecchissimo e ne mostrò le pagine alla sua ospite. «Visto che non so scrivere non ho mai potuto segnarmi i nomi, ma ho fatto tutti questi segni, vedi? Questo vuol dire 'bambino' e questo 'bambina'. E li ho contati tutti, sissignore. È il mio orgoglio, Martha Vine, anche se sarò punita per un po' d'orgoglio. Be', di miei non ho mai potuto averne, mai, sai, però tutti questi piccini li ho contati. Tutti questi uccellini. E guarda qua. Lo sai quanti sono?» «Mi piacerebbe saperlo.» «Sì. Questo è il mio primo, guarda, più di quarant'anni fa. C'era gente che mi chiamava anche da sessanta chilometri per quelli difficili. E questo è l'ultimo. Milleduecentoventinove anime. E qui, guarda, segnati in nero, ci sono i pochi che ho perso. Quei piccolini. Quei pochi segni nel mio libro. E ho pianto per loro, sissignore. Non con gli occhi, ma nel mio cuore, Martha Vine. Ed eccoli qua, che mi vengono a dire che non son buona.» «Mia cara...» A quelle parole, la rabbia e la baldanzosità di Annie si sciolsero in un accesso improvviso di pianto. Martha non si mosse, preferendo aspettare che finisse, però dovette portarsi lei stessa il fazzoletto agli occhi, pensando che era davvero peggio veder piangere una donna anziana che una gio-
vane. Poi, una volta quietati i singhiozzi, disse: «Lascia perdere quel dannato tè, Annie. Non hai niente di meglio?» Tirando su col naso, l'altra si alzò e si diresse a una credenza scricchiolante, dalla quale estrasse una bottiglia di un liquore scuro. Dopo aver trovato un paio di bicchieri polverosi, ne versò un po' per entrambe. «Gin di prugnole?» disse Martha, sorseggiando. «È buono. L'hai fatto tu?» «Sissì.» «Ti hanno reso un cattivo servizio, Annie, questo è sicuro. Ma non devi prenderla come un fatto personale. È cambiato tutto, tutto. Ci sei stata, a Coventry? Hai visto com'è cambiata?» «No, da quando l'hanno spianata le bombe non ci son stata.» «È tutto cambiato. Ogni cosa. Ci sono autobus e macchine dappertutto. C'è la televisione. E tutti i ragazzi hanno idee nuove, certe brutte e certe belle. Non c'entra niente con te e con me, Annie.» «A me mi sembra che c'entra quando mi portano via il mestiere. Dicono che lo Stato mi darà un sussidio, ma io non lo voglio il sussidio, voglio riempire il mio libro, Martha. È quello che so fare meglio.» «Cos'è questa storia della chiesa?» «Una roba assurda. Anche lì, ci ho fatto pulizia per quindici anni e adesso arriva 'sto nuovo parroco e mi piglia in antipatia. Be', non mi piace neanche a me, ma quello dice che ho sgraffignato roba dalla chiesa. Ma cosa ci faccio con la campana e un piatto d'oro? Be', tanto mi pagavano quasi niente, perciò non mi manca, o non mi mancherebbe se riavessi il mio vero lavoro, ma i regolamenti di qua, i regolamenti di là... Quali regolamenti? Son capace di lavarmi le mani, no?» Martha posò sul tavolo la busta coi soldi. «Questo può darti, una mano. Ho parlato con un po' di gente che hai aiutato in tutti questi anni e tutti sono stati contenti di dare qualcosa. Non è molto, ma ecco qua.» «Non voglio carità. Non li prendo.» «Non è carità, Annie, è un riconoscimento. La gente che ti ha apprezzato dice che ti hanno reso un cattivo servizio. E comunque c'è anche un pagamento da parte mia.» «Pagamento? Che pagamento?» Annie era contenta di cambiare argomento. «C'è una questioncina per cui mi serve una mano. In confidenza. E so che tu te lo terrai per te.» «E a chi lo posso dire, che non vedo nessuno? Che storia è?»
«Potevo rivolgermi soltanto a te, Annie. Dammi un altro bicchiere di quel gin e te lo racconto.» 26 Rita sonnecchiava accanto al caminetto. Le braci erano sprofondate e lei non era ancora del tutto addormentata quando sentì bussare alla porta. Dapprima le parve di non riuscire a muoversi e, per un momento, si sentì paralizzata, con un senso di oppressione al petto. Ma quando bussarono di nuovo, più forte, riuscì a scuotersi dall'apatia. Doveva essere William. Nessun altro veniva da lei senza preavviso. Vide la sagoma alla porta attraverso il cerchio di vetro smerigliato. Si guardò allo specchio dell'ingresso, incerta: aveva le guance arrossate e gli occhi lievemente gonfi per essersi assopita accanto al fuoco. Sapeva che cosa avrebbe fatto lui non appena entrato in casa, e quello la eccitava; sapeva che si sarebbe sentita vuota quando lui se ne fosse andato, e quello le faceva desiderare di non aprire la porta. Ma l'aprì. Non era William. Era una vecchia con un informe abito nero. Portava un cappello a tesa larga con uno spillone, una roba che forse andava di moda negli anni '30. La vecchia reggeva un vaso con una piantina. Rita si sentì presa da un momentaneo capogiro. La strada ondeggiava, come il mare. Pensò che forse era un sogno, poi si riprese. «Sì?» «Rita?» «Sì?» «Sono Martha Vine.» Quando Rita scosse la testa, perplessa, Martha aggiunse: «La suocera di William». Rita chiuse gli occhi e gemette piano. «Non sono venuta qui per crearle problemi, Rita. Voglio parlare.» Dopo una lunga pausa - le era sembrato di poter svenire sul serio -, Rita aprì gli occhi, guardò da un capo all'altro della strada e invitò Martha a entrare. In salotto, Martha sistemò la piantina sulla mensola del caminetto, accanto alla fotografia di Archie. «Le ho portato un regalino. Graziosa, vero? Profuma l'aria. È suo marito, in questa foto?» Rita guardò la pianta, non troppo sicura che fosse graziosa. Sembrava una roba sradicata da una siepe. «Sì. Perché non si siede, Mrs Vine? Le porto un po' di tè?» «No, grazie, posso fermarmi solo pochi minuti. Hanno combattuto in-
sieme in Francia, vero? William e suo marito?» Rita si sedette e si coprì la bocca con la punta delle dita prima di parlare: «Sì». «William ha parlato moltissimo di lui. Credo che gli manchi da pazzi, proprio come manca a lei.» «Sì.» «Lo vuole? William, dico. Lo vuole per sé?» Rita si alzò e andò alla finestra, voltando le spalle a Martha. «Non lo so. Certe volte penso di sì, poi penso di no. Non gli sono corsa dietro, sa. È stato lui a venire qui. Non gli sono corsa dietro neanche una volta.» «Senta, non la sto giudicando, Rita. L'ho fatto anch'io, ai miei tempi.» Rita si voltò a guardare Martha. «Sì. C'è stato un prezzo, però. Mio marito e io non ci siamo più parlati, dopo, per tanti anni. Sono stata così stupida. Ho lasciato che continuasse, poi lui è morto e a quel punto era troppo tardi, no? Non che lui non avesse le sue colpe, ma alle colpe non vale la pena di pensare, ora è così che la vedo. L'importante è come si agisce.» Rita tornò a sedere, stringendosi le braccia attorno al corpo. «Deve decidere se lo vuole per sé. Se non c'è modo di fermare la cosa, non resta altro da dire. Lui dovrà pagare il prezzo insieme con Olive e coi suoi figli. Ma, se lei non lo vuole, allora deve troncare.» «Gliel'ho detto, è lui a venire qui, io non l'ho mai invitato, non gli ho mai chiesto di tornare. Ma poi, quando torna, non posso fermarmi.» «Invece può. Siamo noi donne a stare alla porta, Rita. Noi donne. La controlliamo noi, la porta, la teniamo aperta oppure chiusa. Lei è una bella donna, gli uomini alla sua porta non mancheranno. Ma dev'essere cauta.» «Come sapeva dove abito?» «Santo cielo, Rita! Tutti conoscono il furgoncino di William: c'è il suo nome sulla fiancata.» «Non è così semplice come la sta dipingendo. Ho avuto la sensazione di morire dissanguata per questi cinque anni, poi arriva lui e smetto di sanguinare.» Martha si alzò per andarsene. «La sto dipingendo in un modo che è allo stesso tempo semplice e difficile. Ho soltanto detto che deve decidere lei. E le ho dato qualcosa per aiutarla.» «Aiutarmi? Che cosa mi aiuterà?» «Lo vedrà. Ora vuole farmi strada?» Di fronte alla porta aperta, Martha disse: «Spetta a lei decidere se dire
qualcosa a William della mia visita. Io certamente non glielo dirò. Ma, se lui vuole affrontare l'argomento, sono pronta. Altrimenti terrò la bocca chiusa. Ah, e c'è un'altra cosa». «Che cosa?» «Quella piantina che le ho dato... Se non le va a genio, può buttarla via, ma non prima che sia trascorsa una settimana. Porta sfortuna buttarle via prima della fine della settimana, se lo ricordi, molta sfortuna. Addio, Rita.» Rita chiuse la porta e ci appoggiò contro la schiena. Le sembrò di aver trattenuto il respiro fino a quel momento. Poi corse in salotto e schiacciò il naso contro il vetro, per guardare da un capo all'altro della strada in cerca della vecchia, ma lei era sparita. Quasi non fosse mai stata davvero li. Guardò il caminetto, poi la mensola, dove c'era la piantina nel vaso. Non sapeva identificare quella pianta piuttosto miserella, con le foglie di un verde brillante, come un'erba. La annusò. L'odore era insolito, penetrante, ma dolce e piuttosto piacevole. A Rita non piaceva l'idea di tenerla e pensò di gettarla via. Ma qualcosa nell'ultima stoccata di Martha le fece cambiare idea. Quindi decise di lasciarla dov'era. 27 Beatie, Bernard, Cassie e Frank arrivarono tutti insieme e si fece una grande festa. Pareva fossero tornati non da un luogo a cento chilometri da lì, ma da un'infernale guerra in Estremo Oriente. Tutte le sorelle intervennero: si tirarono fuori scatole di salmone, s'imburrarono e s'imbottirono panini, si affettarono prosciutto e lingua, si tagliarono barbabietole e cipolle rosse e si fecero girare bottiglie di birra scura e chiara. E, se Beatie era la figliola prodiga, nessuno si sentiva invidioso. Però Aida, la maggiore, in un certo senso si era sentita presa per il naso durante quei preparativi. Olive aveva assunto il controllo della situazione e, nel tentativo di rendere speciale la festa, aveva bistrattato tutte le altre. Una si era offerta di preparare una torta, ma Olive non l'aveva sentita ed era uscita a comprarne una. Evelyn e Ina si erano procurate una coscia di porco, ma Olive aveva chiesto a Una di portare il prosciutto. Aida si era impegnata a fornire una bottiglia di sherry, ma Olive aveva mandato William a comprare la birra. «Tutte le sante volte», protestò Aida con Martha, che cercava di difendere Olive, perché stava attraversando un periodo difficile. Ma Aida non voleva proprio saperne. «Non ascolta nessuno tranne se stessa, e tu prendi le
parti sue e dei suoi guai. Tutte le sante volte.» Martha fece per rispondere, ma erano arrivati i figlioli prodighi. William era andato a prenderli alla stazione degli autobus ed eccoli lì, alla porta, che schiumavano come l'alta marea e si riversavano dentro, tutti sorrisi. Ci furono baci, abbracci e qualche lacrimuccia. «Che diavolo hai fatto alla mano, Bernard?» domandò Martha. «Su, dammi il cappotto. Avanti, Frank, da' un bacio alla nonna, che mi sei mancato. Oh, guarda come sei cresciuto! È cresciuto, Cassie, è cresciuto!» «È proprio cresciuto», disse Tom. «Ormai sarai pronto a prendere a calci un pallone, eh?» «Ora abbiamo il prosciutto, la lingua, e...» azzardò Olive. «Per l'amor del cielo, Olive, lasciali almeno entrare!» disse Aida. «Abbiamo abbastanza sedie?» domandò Evelyn. «Da' una birra a Bernard», disse Una. «Cos'è quella benda che hai sulla mano, Bernard? Prendi quelle sedie dalla rimessa, Ina, sono sicura che ne avremo bisogno.» «C'è il salmone, c'è il formaggio...» «Che bella tavola», osservò Beatie. «Vieni qui, Tom, e dacci un bacio!» «Mettilo giù!» gridò Una. «Oh, guarda le gemelle!» esclamò Cassie. «Non sono una bellezza? Dammele qua, Dio mio, fammele baciare! Dammele tutt'e due! Le voglio tutt'e due.» «Ti sei... iiiiiiiiiiiiiiiiii... conciato male, Bernard?» fece Gordon, versando la birra color nocciola. «Eccoti...» «C'è barbabietola a volontà...» «Per l'amor di Dio, piantala, Olive!» sbottò Aida, rossa in faccia. Tutti i cappotti furono levati e messi via, tutti avevano trovato una sedia, tutti parlavano e bevevano e Martha sedette sulla sua poltrona sotto l'orologio con la sensazione che ogni cosa nel mondo potesse andar bene. Prese l'attizzatoio e punzecchiò il carbone ardente con fervido piacere. Trovarsi sotto lo stesso tetto... Quelli erano momenti che lei assaporava come si potrebbe sorseggiare un brandy d'annata. «Allora, raccontami tutto di questo posto, Frank», disse Tom. «Siediti qui e raccontami di Ravenscraig. C'erano animali?» Frank si sedette sul bracciolo della sedia di Tom e gli rispose: «Solo cani capitalisti e iene imperialiste». «Eh? Come?» «Ravenscraig era nata come un esperimento contro il Capitale. Eravamo
un'alternativa importante.» «Davvero? Non rovesciare la tua birra allo zenzero, Frank.» «Scusa. Sì. Sai, lì erano radunati tutti i cervelli migliori del Paese, compreso il mio, e dovevamo armarci contro l'assalto del gretto materialismo che comp... comp...» «Compromette», suggerì Beatie, inginocchiandosi vicino a lui per ascoltare. «Compromette le classi lavoratrici e svilisce i loro valori sociali.» «Perbacco! E cosa significa tutto ciò?» domandò Tom. «Non lo so, ma adesso sono tutti andati via da Ravenscraig per un po', per differenze logiche», spiegò Frank. «Differenze ideologiche», lo corresse Beatie, guardando Tom. «C'è stato un battibecco.» «Capisco», fece Tom, inghiottendo un gran sorso di birra, senza aver capito niente. «Hai imparato qualcos'altro, Frank?» «Sì. Si scopava troppo.» Beatie s'irrigidì. Tom si mise un dito nell'orecchio e ne tirò fuori un minuscolo pezzettino di cerume. Con tutto quel rumore, nessun altro aveva sentito quelle parole. Beatie disse: «Frank, non credo che qui potremo parlare delle cose così apertamente come a Ravenscraig». «Perché?» domandò Frank in tono pacato. «Posti diversi hanno regole diverse, tutto qui. Non è vero, Tom?» «Oh, sì, evidentemente. Quando torni alla fattoria, Frank?» In un altro punto della stanza, anche Cassie veniva interrogata sulle sognanti guglie di Oxford e sull'esotico mistero di Ravenscraig. Allora, che genere di posto era? volevano sapere Una e William. «Tutti tipi snob senza niente in dispensa», rispose Cassie. «Ah! Cavolo, proprio una roba di sinistra per te!» disse William. «Io sono di sinistra, ho deciso», dichiarò Cassie. «Sono una radicale convinta, proprio così. I vostri luridi valori capitalisti potete ficcarveli in quel posto, per quanto me ne importa.» «Che mi venga! L'hanno conquistata!» William rise. «Ma com'era?» esclamò Una. «Sesso a colazione, a pranzo e per il tè, se volevi. Con intervalli di letture da libroni grossi e grassi. Ma non conoscevano l'acqua e il sapone, perciò nessuno mi piaceva molto, tranne uno che si chiamava George. Prima di lasciarmi toccare, però, l'ho mandato a lavarsi e, proprio mentre lo faceva, è successo tutto.»
«È successo cosa?» «La ragione per cui siamo tornati a casa. C'è ancora qualcuno di quei sandwich con la lingua e coi sottaceti? Ce ne sono? Vado a prenderne qualcuno.» William e Una vennero lasciati lì, coi bicchieri di birra vuoti in mano, a guardarsi in faccia. «Be', non startene lì seduto come un lacchè capitalista, va' a prendere dell'altra birra.» In un altro angolo, Bernard stava pazientemente dando spiegazioni ad Aida, a Evelyn e a Ina. Teneva le mani a una distanza esatta di quarantacinque centimetri, come se stesse descrivendo la lunghezza di un pezzo di legno. «Ha le sue virtù e i suoi vizi. Nessun esperimento sociale è privo di difficoltà, ecco perché è un esperimento. A Ravenscraig avevamo la fortuna di avere alcuni intelletti penetranti, ma talvolta con quel tipo di genio può esserci una tendenza all'imprevedibilità, una tendenza complessa da contenere. Anche se abbiamo fatto progressi, stabilendo certe regole per la comunità...» «Le regole devono esserci», dichiarò Aida. «Non si può vivere senza regole.» «Proprio così, Aida, e Beatie sarebbe la prima a essere d'accordo con te, dato che è riuscita a fissare alcune di queste regole, e lasciami dire...» «Un altro sandwich, Bernard?» «Grazie, Olive.» «Ti prendo il bicchiere? Non puoi usare l'altra mano, tutta bendata com'è, vero?» «Stavamo parlando!» sbottò Aida. «Stavo solo notando...» «E noi stavamo parlando, perciò smettila di essere sempre tanto maleducata. Cosa stavi dicendo, Bernard?» Olive, bianca in volto, si ritirò col suo vassoio di sandwich. Si aprirono altre bottiglie di birra, si stappò lo sherry, si mangiarono i sandwich e si consumarono le torte. Ravenscraig continuava a essere oggetto d'indagine, ma, in un certo senso, dopo aver posto tutte le domande e soppesato tutte le risposte, nessuno dei presenti che non ci fosse stato ne sapeva di più sul luogo o sui suoi abitanti. Pareva che gli ex ravenscraighesi fossero tornati da un piano mistico, sovraterreno, dato che i loro racconti non erano più circostanziati di quelli fatti da chiunque aveva assistito a una delle sedute di Ina ed Evelyn.
Ma Ravenscraig apparteneva già alla storia. Era uno strano avvenimento, passato nella famiglia com'era passata la guerra. E il piacere della festa serviva a dimostrare che erano sopravvissuti a Ravenscraig proprio com'erano sopravvissuti al blitz di Coventry. Forse erano rimasti dei segni, delle cicatrici, ma tutti ne erano usciti più saggi e più forti. Ancora una volta si erano guadagnati il diritto di festeggiare con una birra scura e un sandwich al prosciutto. Frank giocò con le bambine di Olive e le gemelle di Una, e per tutti fu una gran festa notare che i bambini andavano tanto d'accordo. Per Cassie, in particolare, era un sollievo essere a casa e vedere Frank nuovamente in seno alla famiglia. Ravenscraig era stata divertente, talvolta emozionante, altre volte allarmante e solo di tanto in tanto una noia mortale. Qualche volta era stato perfino un sollievo trovarsi in mezzo a gente chiaramente più folle di lei, eppure - almeno in apparenza - capace di muoversi benissimo nel mondo. Nondimeno la spiacevole faccenda di Peregrine Feek aveva opportunamente messo fine all'avventura, e comunque Bernard gli aveva dato quello che meritava e il professore era ricorso alla filosofia per spiegare ai suoi studenti l'occhio nero. Si era infuriata quand'era successo e si era quasi rotta le mani e le dita dei piedi sulla schiena di Feek, che strisciava a quattro zampe per la comune. Adesso, però, quella faccenda la faceva sorridere. E, mentre sorrideva e alzava la testa, Cassie vide il padre sorriderle di rimando. Stava seduto a gambe incrociate sullo scolapiatti, di fianco al lavandino della cucina. Lei restò a bocca aperta e poi fece un sorriso ancora più ampio, perché era passato tanto tempo dall'ultima volta. Cassie si guardò bene attorno per capire se qualcun altro avesse visto il vecchio. Non poté fare a meno di lanciare un'occhiata a Martha; e Martha, pur impegnata in una conversazione con Ina, guardò Cassie perché niente, ma proprio niente, le sfuggiva. «Che c'è?» domandò Martha. «Cosa c'è, Cassie?» «Nulla», rispose Cassie. Però Martha non si lasciava sviare facilmente. E stava per rivolgersi di nuovo a Cassie quando scoppiò la tempesta. «Prendimi il cappotto!» strillò Aida. Dava dei colpetti col dito a Frank. «Va' là dentro e prendimi il cappotto!» «Dille di prenderselo da sola, il suo cappotto, se vuole!» strillò a sua volta Olive a Frank, guardando Aida con aria truce. Tutti smisero all'istante di parlare e si voltarono per assistere allo scontro.
«Va' a prendermi il cappotto! Non resterò un minuto di più con questa stupida intrigante. Nossignore!» «Non muoverti, Frank!» berciò Olive. «Stiamo calmi», disse Tom. «Calmi?» fece Aida, stizzita. «Come si fa a stare calmi se questa cretina lagnosa irrita tutti continuamente? Vuole una bella strapazzata? Be', eccola!» «Vacci piano», intervenne William. «Non parlare così di Olive. Non è più stupida o sciocca di te, Aida.» «Qualcuno vuole prendermi il cappotto? Gordon, hai intenzione di lasciare che William mi parli così?» «Sì, tieni a posto la lingua, William.» Gordon aveva smesso di balbettare. «Io dovrei tenere a posto la lingua? Non ho detto niente di diverso da quello che ha detto lei di Olive. E tu cosa vuoi fare?» «Vedremo», rispose Gordon. «Qui si sta esagerando», disse Bernard. «Vedremo cosa, porco cane?» gridò William. Gli era andato il sangue alla testa e aveva gli occhi umidi. «Come quando te ne sei stato imboscato qui mentre noialtri eravamo giù in Francia?» «Non cominciare con quella storia», fece Tom. «Nascosto! A giocare al soldatino nell'ARP, perché aveva troppa fottuta paura! E allora, cosa vuole fare adesso?» «Non aveva paura», cercò d'intervenire Cassie. «Perché l'ho visto la notte del blitz.» Ma nessuno la sentì: ormai stavano gridando tutti. Martha batteva il bastone sul secchio, però, mentre di solito quel gesto riportava l'ordine, stavolta non fece che aumentare il frastuono. Nella confusione, Aida riuscì a prendere il suo cappotto. Lei e Gordon uscirono dalla porta sul retro e svanirono prima che qualcuno potesse riportarli indietro. Dopo un ragionevole intervallo di silenzio, gli adulti cercarono di analizzare l'accaduto, mentre i bambini giocavano per terra, fingendo di non ascoltare. Olive, ora in preda a una crisi di pianto, veniva consolata da Evelyn; Bernard e Tom cercavano di convincere William a uscire dal silenzio dietro cui si era trincerato. Martha stava seduta sulla sua poltrona senza dire nulla. C'era già passata, e tante volte, quando le sorelle erano ragazze; e a sei anni, sedici o sessanta, c'era veramente differenza in una zuffa di
quel genere? Peccato soltanto che fosse scoppiata durante la festa per il ritorno a casa; d'altra parte, Martha aveva un'idea piuttosto precisa del perché era andata così. Non volendo partecipare all'inchiesta, Cassie uscì nel giardino sul retro a fumare una sigaretta. Dal giardino vedeva le tre guglie della città; la guglia di St Michael - quella dov'era salita (o aveva pensato di salire) la notte del blitz - era la più alta. Stava seduta su una panca che suo padre aveva costruito tanti anni prima e teneva gli occhi fissi sul giardino pieno di erbacce; mentre lo faceva, il padre prese forma sullo sfondo della terra bruna, delle erbacce verdi e delle guglie distanti. Guardò Cassie con affetto, ma il suo sorriso era svanito. Scosse il capo tristemente, quindi scomparve. Pur avendo assistito tante volte alle apparizioni del padre, stavolta Cassie pianse. Dopo un po', William uscì e vide Cassie seduta in giardino. «Fammi un po' di posto», le disse. Cassie si spostò. Lui fece per accendersi una sigaretta, poi disse: «Hai pianto, Cassie? Non preoccuparti. Non è niente. Non volevo dire quelle cose e mi dispiace». «Non piangevo per quello», disse Cassie. «Per cosa, allora?» «Per mio papà. Era così triste. Sempre tanto triste. Credo che sia triste ancora adesso.» William gonfiò le guance e si sollevò i pantaloni sopra le ginocchia. Si sentiva sempre in alto mare quando conversava con Cassie. «Non mi pare che il vecchio fosse sempre così triste, da quanto mi ricordo di lui.» «Sei felice, William?» «Dio mio, Cassie, che domanda!» «Lo sei?» «No, non lo sono. Però ci ho pensato ultimamente. Mi sto convincendo che non c'è da vergognarsi a non essere felici. Mi sto convincendo che questa vita non è fatta per essere sempre felici.» «Per cosa è fatta, allora?» William accennò un sorriso. «Non ci sono ancora arrivato, a quel punto. Anche a non sapere non c'è da vergognarsi, giusto?» «Giusto. William, sai quello che hai detto di Gordon? In guerra? Non è vero, sai. Io l'ho visto la notte del blitz. Ho visto quello che faceva.» William spense la sigaretta. «Mi è scappata la lingua. Mi sento confuso, ultimamente. Mi scuserò con Gordon quando lo vedo. Torniamo dentro?»
Cassie si alzò e seguì William in casa, ma, prima di entrare, si voltò in cerca del padre. Non c'era più. Dentro, Evelyn e Ina si stavano preparando ad andar via. Olive accatastava piatti, Una e Tom vestivano le gemelle. «Strana festa di ritorno a casa», disse Beatie a Martha. «Io sono contenta di riavervi con noi», replicò Martha. «E comunque, Beatie, una festa di bentornato non è sempre per quelli che tornano a casa.» 28 Frank e Cassie rimasero con Martha. Beatie e Bernard alloggiarono lì per le prime settimane, ma, prima di Natale, decisero di affittare un appartamento in Paynes Lane, più vicino al centro. Trovarono entrambi lavoro come insegnanti pressoi la Workers Education Association, dove s'impegnarono a ricreare le opportunità che erano state concesse loro. Pur non essendo inclini a imputare colpe a Ravenscraig, l'idea di un proletariato istruito era ben radicata in entrambi. Dopotutto, ci doveva pur essere qualcuno pronto a guidare la rivoluzione che sarebbe inevitabilmente seguita al crollo del capitalismo. Il capitalismo, comunque, non aveva ancora chiuso con Coventry. Le fabbriche del tempo di guerra non si erano convertite dalla spada al vomere, né dalla lancia al roncolo, ma all'aviazione civile e alle berline Standard Eight. La ricostruzione proseguiva senza sosta, anche se non sempre in linea con la visione del grande architetto. «Non è giusto, non stanno facendo quello che ha detto», disse Bernard. Si trovavano nella nuova area pedonale del centro, tremanti nei loro cappotti. Si era dovuti scendere a compromessi rispetto all'idea originaria di un giardino animato da negozi e riservato ai pedoni e una nuova strada era stata aperta in Smithford Street, attraverso quella che, in origine, era una zona chiusa al traffico. «Dovevamo restare qui», disse Beatie amaramente. «Entrare nel consiglio comunale e combattere come tigri. Invece abbiamo perso tempo a Ravenscraig, facendo stupidi giochetti.» «Ci voleva qualcuno in più di noi due soli per combattere come tigri», ribatté Bernard, cupo. «A me sembra che siano stati imbottiti un po' di portafogli.» «E si siano intascate un po' di bustarelle.»
«E si sia svuotata qualche tasca.» «E si sia leccata qualche faccia.» «Come? Questa non l'ho capita.» Beatie scrollò le spalle, poi rise. «Andiamo a prenderci una birra al Golden Cross.» E fu in quel vecchissimo pub, adiacente alla cattedrale bombardata, davanti a un paio di birre tiepide, sproloquiando del caos che architetti disposti al compromesso, uomini d'affari con interessi personali e consiglieri comunali corrotti stavano combinando con la ricostruzione di Coventry, che Beatie e Bernard decisero di candidarsi alle elezioni per il consiglio comunale. Pochi giorni dopo la festa di bentornato, William fece un'altra visita a Rita. «Non ho molto tempo», disse. Rita lo condusse in salotto. Quando William si avvicinò per abbracciarla, lei gli premette il palmo della mano sul petto e indietreggiò. «William, non mi piace quando arrivi d'improvviso e te ne vai di fretta.» Lui crollò sul divano e si grattò la nuca. Poi alzò gli occhi a guardarla e le sue narici fremettero. Gettò un'occhiata alla foto di Archie sulla mensola, sopra il camino acceso. «Non ti biasimo. Non ti biasimo affatto.» Rita sedette accanto a lui e gli posò una mano sul ginocchio. «Di notte piango.» «Davvero?» «Sì, piango perché mi manca ancora Archie e piango perché mi manchi anche tu. Sei con me, ma non sei con me. Siamo insieme, ma non siamo insieme. Hai fatto in modo che io continuassi a pensare a te, ma non posso stare con te.» Il naso di William fremette di nuovo. Guardò in giro per la stanza come in cerca di una soluzione, di un'ispirazione per dire qualcosa. «Rita, c'è qualcosa che ha odore di rancido.» «Però, come sei romantico!» «Sto solo dicendo che...» «Spero di non essere io!» rise Rita. «Certo che no. Qualcosa in casa.» Guardò di nuovo in giro per la stanza. Non c'era nulla di strano, soltanto i soliti soprammobili, la fotografia di Archie e una piantina sulla mensola del caminetto. «Vieni qui, avvicinati.» Stavolta Rita lasciò che William l'abbracciasse e gli si rannicchiò contro.
Lui affondò il naso nella camicetta di lei, inspirando l'inebriante aroma di Rita, il profumo naturale del suo corpo che lo incatenava a lei. Era per quello che era venuto. Aspirò una profonda boccata di lei. Era inebriante e spaventoso. Tramutava quella follia in una specie di logica. Era un'oasi, un'isola nel buio: si poteva cadere dentro quell'aroma e desiderare di non tornare mai più in superficie, a respirare. Ma William tornò a respirare. Si raddrizzò sul divano e le sue narici fremettero di nuovo. Qualcosa lo infastidiva. Tornò a guardarsi attorno. «Che cosa c'è?» «Devo andare», gemette. «Devo proprio andare. Ascolta, Rita, Natale si avvicina», disse, alzandosi. «Non potrò vederti per qualche giorno. Le vacanze, le ragazzine e tutto quanto. Starai bene, vero? A Natale, cioè.» «Starò bene», mormorò Rita. Sapeva che William le stava dicendo addio. Lui si chinò a baciarla. Lei gli porse la guancia. Poi William se ne andò, uscendo dalla porta d'ingresso, che scattò piano alle sue spalle. Pensierosa, Rita guardò la piantina sulla mensola. Quel Natale del 1951 fu difficile sotto altri aspetti. D'abitudine, tutte le sorelle - se possibile insieme - facevano una visita alla casa delle altre. Ma Aida e Olive «non si parlavano». Essendo il «non parlarsi» una condizione particolarmente ostica se le due donne coinvolte si trovavano nella stessa stanza, le manovre per far sì che ciò non avvenisse erano più delicate e precise di quelle necessarie a costruire una bomba, cosa che molte sorelle avevano imparato a fare durante la guerra. Se si recavano tutte a casa di una sorella, badavano di scoprire a che ora andasse via la prima, in modo che potesse arrivare la seconda. Le due sorelle in guerra si trovarono segretamente d'accordo su quel procedimento, senza tuttavia mai confessare apertamente che veniva messo in pratica. «Può fare quell'accidente che le pare», diceva la prima. «Può fare il cavolo che vuole», diceva la seconda. Le altre stavano ben attente a non prendere le parti né di Aida né di Olive, benché ognuna avesse le proprie simpatie. Evelyn e Ina avevano sempre considerato Aida dispotica, mentre Una e Beatie non avevano difficoltà ad ammettere che il carattere nevrotico e schizzinoso di Olive le irritava. Cassie si lasciava influenzare da chiunque discettasse sull'argomento. «Ma ha un cuore d'oro, Olive», diceva Cassie a Beatie.
«Sì, Cassie, però è solo un sistema per farti sentire in debito con lei», obiettava Una. «Credo che tu abbia ragione.» Poi Cassie diceva: «Ma Aida è sempre stata giusta con noi». «Sì, Cassie, però deve sempre fare tutto a modo suo...» replicava Ina. «Già, non hai torto.» Martha se ne tenne fuori e disse chiaro e tondo ad Aida e a Olive che si stavano comportando come due ragazzine. Qualunque cosa accadesse, la torta era sempre stata tagliata in otto parti uguali e avrebbe continuato a esserlo. «Nonna, perché zia Olive e zia Aida non si parlano?» domandò Frank a Martha. «Si sono mandate a Coventry.» Frank batté le palpebre. Martha aveva pulito la pipa e la stava caricando di tabacco fresco. «Si dice così quando la gente non si parla.» «È per qualcosa che è successo alla festa?» «Be', loro dicono così, ma non è vero. Quando la gente smette di parlarsi, non è per qualcosa che succede in un minuto.» «Perché la gente smette di parlarsi?» Martha si accese la pipa, spense il fuscello scuotendolo e lo gettò in fondo al caminetto. Soffiò una nuvola di fumo azzurro, dal profumo dolce. Frank la scrutava attraverso il fumo. Sembrava che la facesse lacrimare. La risposta si fece attendere per un po'. «Fantasmi», disse infine Martha. «Fantasmi?» «Sì. Puoi trasformare una persona in un fantasma, se non le parli. È un modo di uccidere, vedi, far diventare di pietra una persona continuando però ad averla vicina, così si può punirla. Perciò non farlo mai, hai capito, Frankie?» «Sì, nonna.» «Sì, nonna. Ora puoi andare nella tua stanza a giocare. Vorrei stare un pochino in pace.» 29 La faida tra Aida e Olive durò per tutto il 1952 e fino all'autunno del 1953. Fu una seccatura per tutti, che si trovarono costretti ad aggirare lo scontro senza prendere apertamente le parti di nessuna e senza trattare l'una meglio dell'altra. A Martha piaceva dire di essersi messa in ginocchio
per convincere le due sorelle a usare il buonsenso, ma le sue giunture artritiche non le avrebbero mai consentito un gesto simile e comunque lei non era tipo da scene teatrali. In realtà aveva supplicato e protestato per un po', ma con effetti controproducenti. Poi aveva smesso. Dopotutto, aveva una certa esperienza di silenzi prolungati e un'idea piuttosto precisa di ciò che poteva e non poteva interromperli. Cassie e Frank vivevano con lei, senza portare in casa grossi guai o vergogne. Frank era grande abbastanza per andare e tornare da scuola a piedi insieme con un branco di bambini del luogo; Cassie godeva di un periodo libero dalle sue crisi di buio. Qualunque altra cosa fosse accaduta a Ravenscraig, qualcosa del tempo trascorso laggiù le aveva dato una maggior sicurezza nel modo di comportarsi e una capacità di discutere invece di stizzirsi e mettere il broncio. Di tanto in tanto veniva anche a trovarla quel giovane di Ravenscraig di nome George. A Martha piaceva George. La faceva ridacchiare, benché sapesse bene che lui cercava di conquistarla per arrivare a Cassie. Anche a Frank piaceva George, e tutti e tre intrattenevano Martha con racconti - emendati - sulle persone che abitavano nel Castello Ravenscraig, come lo chiamavano ora. Talvolta George si fermava a dormire e gli veniva preparato un letto sul pavimento del soggiorno. Quelle notti, Martha sentiva spesso scricchiolare le assi del pavimento, o sussurrare, o passi leggeri per le scale, ma non diceva niente, anche se le altre figlie si sarebbero scandalizzate per la sua tolleranza. Quanto a Cassie, Martha era giunta alla conclusione che, a metterla nei guai, non era il sesso, bensì il vagare per le strade a cercarlo. Aveva rinunciato all'idea che Cassie trovasse un marito capace di restarle accanto nei periodi in cui lei diventava come una ninfa dei boschi o vedeva gli spiriti. Sarebbe stato aspettarsi troppo da chiunque. Perciò il rapporto tra Cassie e George andava incoraggiato, ammesso che l'interesse di lei non scemasse. E pazienza se non si trattava di un fidanzato vero e proprio. Bernard e Beatie avevano sempre mantenuto buoni rapporti con George ed erano contenti di vederlo. E quando, ogni tanto, Lilly veniva a Coventry a trovarli, di solito ospite di Beatie e Bernard a Paynes Lane, pareva che Ravenscraig, o almeno la sua ala radicale, confluisse a casa di Martha, offrendole una specie di seconda famiglia. «Tutti quelli cui non dispiace il semplice pane e burro e non sono contrari all'acqua e al sapone», aveva detto Martha più di una volta, quando le domandavano se le dispiacesse avere tutti quegli insoliti visitatori. «Anzi sono i benvenuti.»
Ma fu durante l'estate, quando Martha disse che Tom e Una volevano tenere Frank per un po' alla fattoria con loro, che Aida fece un'offerta inaspettata. Cassie ne fu atterrita. «Oh, no! Lì non ci andiamo! Non va proprio bene! Perché mai si è offerta proprio adesso, quando meno ne abbiamo bisogno?» «Non sembra opportuno», convennero Ina ed Evelyn. «Con quella sua terribile stanza sul retro!» «Puah!» fece Una. «Il capo e la coda della faccenda», fece Olive, che ultimamente si era appropriata dei più incisivi modi di dire della madre, «è che si è offerta per far dispetto a me.» «Com'è che ti fa dispetto? Non gira mica tutto attorno a te», disse Martha. Martha tuttavia sapeva che c'era del vero nelle parole di Olive. Olive e Aida erano le uniche due sorelle a non aver rispettato il patto originario, che prevedeva di occuparsi a turno di Frank. Olive e William avevano superato un periodo difficile e il loro matrimonio, misteriosamente, aveva ripreso vita. Un Natale era successo qualcosa che aveva dato a Olive un passo vispo e fanciullesco e una nuova consapevolezza negli occhi. Di conseguenza, la faida non l'aveva ferita quanto avrebbe potuto. Ma la indispettiva pensare che la proposta a sorpresa di Aida avrebbe fatto sembrare lei, Olive, l'unica sorella che si era sottratta a un importante dovere familiare. Beatie si era decisa a discuterne con Martha. «Dovresti lasciar fare ad Aida la sua parte, ma'. Quali che siano le sue motivazioni. Voglio dire, Frank è venuto da noi quando tutti pensavano che Ravenscraig fosse una sentina di vizi, e tu lo hai permesso. Che effetto farà se dici che per Frank va bene una sentina di vizi, ma non la sua casa? La prossima cui smetterà di rivolgere la parola sarai tu.» Martha sapeva che Beatie aveva ragione. Beatie parlava con più buonsenso di tutte loro messe insieme. Frank doveva trascorrere un breve periodo con Aida e Gordon. «Lasciamolo con Tom e Una sino alla fine dell'estate», suggerì Beatie. «Poi, quando ricomincerà la scuola, potrà andare con Aida. Cassie può stare qui, se non ce la fa, così può riportarlo qui tutti i fine settimana.» Malinconica e pensosa, Martha succhiava la sua pipa. «Sì. Dev'essere così.»
«Non che l'idea mi sorrida molto, per il ragazzo», disse Beatie. «Non con la stanza di Gordon e tutto quanto.» Così a Frank fu permesso di godere dell'estate alla fattoria. Cassie era contenta per la possibilità di rinverdire la sua passione per le cavalcate e Frank poteva controllare che l'Uomo Dietro il Vetro fosse esattamente dove lo aveva lasciato. Il ponte di assi sul torrente era un fitto intrico di ortiche e rovi, di digitale ed erbacce secche. Faticò a strisciare sotto il ponte per raggiungere il suo vecchio rifugio e, quando ci riuscì, comprese che l'Uomo Dietro il Vetro, benché immutato, non aveva niente da dire. «Mi hai mandato a Coventry?» gli domandò Frank. L'assenza di una reazione confermò soltanto che la risposta avrebbe potuto essere sì o no. Poi, uscendo dalla sua vecchia tana, Frank rimase con la testa incastrata, sperimentando alcuni momenti di orribile panico. Non mise mai più la testa là sotto per paura di ripetere l'esperienza, però cercava di salutare l'Uomo Dietro il Vetro da lontano, giusto per fargli sapere che c'era ancora. Il resto dell'estate trascorse in un'allucinazione di rigogliosi prati verdi e fienagione, campi d'orzo e raccolti, pomeriggi umidi e temporali improvvisi. Frank esercitava così poca influenza sull'ambiente circostante e il passaggio dal giorno alla notte e di nuovo al giorno faceva apparire la vita così effimera e indifferenziata, che lui avrebbe benissimo potuto essere una libellula blu brillante, che volava rasente l'acqua dello stagno in fondo ai campi di Tom. Tuttavia i giorni passarono davvero e, quando l'estate divenne autunno, quel fatto non successe in modo simile all'oscillazione lenta di un cardine o all'incedere calmo di un'enorme ruota. Fu come se la porta dell'estate si chiudesse bruscamente. D'improvviso, dai filari traboccò una provvista stagionale di prugnole blu e sambuco color rubino, biancospino scarlatto, more e belladonna. Inizialmente Frank venne riportato a casa della nonna, dove lo ammansirono con la storia che sarebbe andato a stare con zia Aida e zio Gordon «per una settimana o due», finché sua nonna non si fosse rimessa un poco in salute. In realtà non c'era nulla che non andasse nella salute di Martha, al di là del consueto assortimento di malanni dell'età avanzata. Gliel'avevano messa così perché Frank non discutesse, e Frank non discusse. Era arrivato ad accettare quell'incessante sballottamento tra le zie come una condizione naturale dell'infanzia, immaginando che la maggior parte della gente vivesse nello stesso modo. Non si domandò mai perché le tre bambine di zia
Olive o le gemelle di zia Una non passassero mai di mano. E aveva già imparato a mettere in valigia le cose che voleva tenere con sé, invece di lasciar decidere qualcun altro. Così, il giorno in cui Gordon sarebbe venuto a prenderlo, Frank scese le scale con la sua piccola valigia malconcia e Cassie si fece daccapo un gran pianto. «In alto quel mento!» disse William a Frank. William era arrivato in quel preciso istante con un carico di ortaggi. Si voltò verso Cassie e le disse: «Starà benone. Li spaventerà a morte, quegli spettri!» Al che, Cassie prese a singhiozzare ancora più forte. «Basta, adesso», le ingiunse Martha. «Va soltanto tre strade più in là.» Era un'affermazione un po' inadeguata, giacché, per Gordon, la casa era abbastanza lontano da imporgli di tirar fuori la sua Standard Eight, fabbricata a Coventry, e lasciarla a ronzare fuori del cancello, pronta per il ragazzo. La parsimonia di Gordon era tale che l'auto rimaneva sempre chiusa in garage, tranne che in occasioni specialissime e nei fine settimana di festa nazionale e Frank si godette il privilegio di essere scarrozzato verso la sua nuova casa, mentre Gordon guidava con la sua solita, ossessiva attenzione, procedendo in modo lento e prudente. Restava il fatto che, soltanto in materia di spazio, Gordon e Aida erano i meglio preparati ad accogliere Frank. Possedevano una casa relativamente signorile in Binley Road, una lugubre proprietà rivestita di ghiaietto e con le tegole di ardesia, arretrata rispetto alla strada e mezza nascosta dietro le conifere. Mentre Gordon rallentava nel vialetto, Aida era già in attesa sulla soglia, le mani strette sotto il mento, muovendo le labbra senza parlare, quasi stesse per chiedere le risposte a tre indovinelli prima di poter consentire all'ingresso in casa di Frank. Gordon fece aspettare Frank in macchina mentre faceva il giro e gli apriva la portiera, come se fosse un principino. Il rictus - il sorriso rossastro, a gengive scoperte - non abbandonò mai la bocca di Gordon mentre trasportava con delicatezza la valigia del ragazzo alla porta. «Ehilaaaaa, ebbene, signora», disse infine. «Ecco il nostro ragazzo!» Aida scosse leggermente il capo e, con inatteso orgoglio, si premette il palmo della mano destra sullo sterno, intonando: «Benvenuto, Frank, nella nostra casa». Quali che fossero i motivi che avevano spinto Aida a invitare Frank da lei (e la rabbiosa ipotesi di Olive non era del tutto campata in aria), la dorma era contenta e stranamente emozionata nell'accogliere Frank, e lo era anche Gordon. Affermare che non sapevano nulla di bambini, inoltre, non
era del tutto corretto. La giovinezza di Aida era stata infestata dall'arrivo di tante sorelle minori, però lei aveva perso la mano da un bel pezzo. Gordon era figlio unico e, in quanto tale, aveva ereditato denaro sufficiente per dare una buona base ad Aida e a se stesso in quell'elegante proprietà. Frank avrebbe imparato qualcosa sulla superiorità in Binley Road, a cominciare dal principio secondo cui Aida era decisa a dargli il meglio... o, almeno, il meglio rispetto a quello che le altre sorelle gli avevano dato. Per cominciare, gli fu mostrata la sua stanza, che era davvero molto bella. Come Evelyn e Ina prima di lei, Aida aveva fatto uno sforzo e, anche stavolta, tale sforzo comprendeva la fotografia di una squadra di calcio, appesa alla parete. Non si trattava di una foto così vecchia come quella tuttora appesa in casa delle zie gemelle: era una foto recente della squadra di Coventry, coi giocatori dai visi rubicondi che sorridevano a tutti denti all'obiettivo. Inoltre c'era una coccarda blu cielo appuntata al muro e, con quella, la promessa che Gordon lo avrebbe portato a vedere una partita, permettendogli così d'indossare la coccarda. C'era anche un pallone regolamentare nuovo fiammante, gonfiato, racchiuso nella sua reticella e appoggiato in equilibrio in cima all'armadio. Altri arnesi da ragazzino erano stati introdotti nella stanza per l'occasione: un modellino di aereo appeso al soffitto, una nave in una teca di vetro. Oggetti splendidi, per un ragazzo, ma Frank sospettava che non avrebbe avuto il permesso di toccare quelle cose, pallone compreso. Tale impressione fu rafforzata quando Aida attirò la sua attenzione su una libreria piena di opere di consultazione assolutamente intonse. Gli disse che quei libri erano stati messi lì per lui, per aiutarlo in quelli che definì «i tuoi studi»; e che Frank avrebbe potuto consultarli in qualunque momento, ma che forse sarebbe stato opportuno lavarsi le mani, prima. Tale disposizione era in diretto contrasto con le sue esperienze di Ravenscraig: Peregrine Feek gli aveva detto che un libro non era altro che una merce di basso valore contenente idee di alto valore, che a loro volta risiedevano altrove. Che le idee contenute in un libro e il libro stesso erano cose diverse. Glielo aveva anche dimostrato, accendendo un fuoco con alcune pagine strappate da Das Kapital, un libro che tutti, a Ravenscraig, parevano considerare il migliore mai scritto. Frank guardò i libri scintillanti disposti negli scaffali della sua nuova stanza e gli balenò l'idea che forse Aida non sarebbe andata d'accordo con Peregrine Feek su ogni argomento. Quando venne l'ora del tè, questo fu servito a un tavolo lucido, coperto di lino ben stirato e carico di posate d'argento e piattini di porcellana tanto
fine che Frank temeva potessero rompersi in tintinnanti frantumi, se ci avesse dato anche solo un colpetto con la forchetta d'argento. Il primo piatto era una minestra, e Aida gli mostrò come inclinare la scodella lontano da sé invece che verso di sé; il secondo era del pesce, e Frank si trovò di fronte un coltello da pesce per la prima volta in vita sua; il dessert arrivò sotto forma di una piccola pesca ed egli osservò che, pur non essendo necessario sbucciarla, era necessario tagliarla in quattro senza sollevarla dal piatto. Nuove regole si presentavano nei dettagli più infimi. Durante la cena, Aida si lamentò che un venditore si era presentato all'ingresso principale invece che alla porta di servizio. A quanto si diceva, quel terribile sovvertimento di ruoli era una conseguenza della guerra. La guerra aveva causato un declino dei costumi in generale e l'abitudine femminile d'indossare pantaloni in pubblico ne era un esempio. Frank si domandò che cosa sarebbe accaduto ad Aida se una venditrice in pantaloni si fosse presentata all'ingresso principale. Era lunga la strada, da Ravenscraig a Binley Road. «Allora, hai mangiato a sufficienza?» «Sì, zia.» «Sì, grazie, zia, Frank. Sì, grazie. Soltanto 'sì' non è educato. Non è vero, Gordon?» «Iiiiiii... se lo dici tu.» «Lo dico. Dove stai andando, Frank?» Frank stava per scendere dalla sedia, ma si bloccò. «In nessun posto.» «Be', prima di andare in nessun posto, noi di solito chiediamo il permesso di alzarci da tavola, non è vero, Gordon?» «Già... iiiiiiii... Aida, non tormentare il ragazzo!» «Non lo sto tormentando. Quando girerà il mondo, Frank ci sarà grato di avere appreso le buone maniere. Frank, non ti sto rimproverando, sto cercando di aiutarti dopo il disastro di... Come si chiama quell'orribile posto?» «Ravenscraig.» «Sì. Possiamo immaginare in quale modo si comportavano laggiù, è vero?» «Sì, zia Aida.» Quindi Aida sollevò il tovagliolo e si tamponò gli occhi. «Mi dispiace, Frank. Non sono molto gentile, eh? Quando faccio così, tuo zio Gordon mi chiama 'vecchia megera'. Sono una vecchia megera?» Gordon rise di cuore, poi rise anche Aida. Improvvisamente, tutti e due erano rossi in faccia dal ridere. Frank guardò l'uno e l'altra e poi s'inventò a sua volta un sorriso.
«Devi dirmelo, se sono una vecchia megera. Lo dirai, vero, Frank? No? Dimmi che lo dirai! Che cosa dirai? Che cosa dirai che sono?» Frank guardò disperatamente Gordon, che, esibendo ancora un altro tratto di gengive livide, scoprì i denti e annuì, incoraggiante. I due avevano smesso di ridere e aspettavano che Frank parlasse. «Una... vecchia megera.» Aida annuì con cupa soddisfazione e mise giù il tovagliolo. Anche Gordon sembrava soddisfatto. Il breve riso fragoroso era passato; era tempo che tutti si alzassero da tavola, con o senza permesso. Gordon si scusò, dicendo che aveva un paio di cose da sbrigare «là dietro». Frank lo osservò da sopra le spalle. Aveva sentito parlare non poco delle attività di Gordon «là dietro». La zona posteriore della casa era stata destinata alle attività funerarie di Gordon. Pur non essendo impresario delle pompe funebri (per la gente, il suo viso tirato era un po' troppo spaventosamente simile a quello di un cadavere di vecchia data per consentirgli d'indossare l'abito nero di sargia e il cilindro tipici dell'impresario, se non in caso di estrema carenza di personale), era un abile imbalsamatore, fin dai tempi della sua improvvisa iniziazione a quell'attività dopo i raid aerei su Coventry. All'epoca, quando la necessità era pressante e c'era da occuparsi con urgenza dell'enorme numero di cadaveri in città, aveva rapidamente appreso quell'arte. Aveva adibito i locali sul retro della sua casa - in precedenza usati come studio dentistico - a obitorio temporaneo, per stipare rapidamente le spoglie mortali delle vittime del blitz in attesa della loro affrettata sepoltura. Aveva scoperto che sapeva fare molto bene una cosa, e ben presto il temporaneo era diventato permanente. Aveva ottenuto la licenza e preso accordi con due imprese funebri vicine: gli portavano i cadaveri freschi per la preparazione, cadaveri che venivano poi ritirati dagli impresari per la presentazione ai congiunti afflitti nell'appropriata camera ardente. Frank sapeva tutto ciò, in astratto. Aveva sentito Evelyn e Ina opporsi alla sua venuta lì, a causa della sua speciale empatia con gli spiriti. «Con la sua sensibilità, non dovrebbe stare in un posto in cui stanno ancora passando gli spiriti», avevano obiettato. «Stupidaggini!» aveva reagito Martha. «Sarà impressionante per il ragazzo», aveva detto Olive. «È dove andiamo tutti. È una cosa naturale», aveva ribattuto Martha. «È troppo impressionante per descriverlo!» si era lamentata Cassie. «Oh, avanti, crescete!» aveva esclamato Martha. Dover difendere la sua
decisione aveva rischiato di farle perdere la pazienza. Sicché Frank guardò le spalle di Gordon mentre lo zio s'introduceva nella tenebrosa stanza sul retro della casa. Gordon chiuse la porta dietro di sé con un clic tanto sommesso ma così netto da suonare sinistro. L'incantesimo fu spezzato dal suono della voce di Aida. «Ora, per festeggiare, puoi andare in salotto a guardare la televisione.» La televisione! Frank aveva sentito parlare della televisione di Aida e Gordon! Avevano un televisore molto prima che chiunque altro in famiglia potesse anche soltanto pensarci, considerandolo un lusso favoloso. A Ravenscraig, Frank aveva assistito a una discussione sulla TV: erano stati tutti d'accordo che la televisione era una iena reazionaria, che sarebbe stata usata per sfruttare le debolezze di tutti a vantaggio dei meschini beni materiali e delle vili forme d'intrattenimento, distraendo così la gente dall'educazione politica. Si erano anche trovati d'accordo sul fatto che, alla fine, avrebbero dovuto impossessarsi di quella iena reazionaria e regolare il suo uso. Cosa più importante, Frank ricordava che la televisione poteva trasmettere anche avvenimenti dal vivo, come le partite di calcio. La iena reazionaria si trovava nell'angolo della stanza, presenza silenziosa, ma sinistra. Il suo unico occhio era chiuso. Sembrava un grande armadietto con dentro una finestra verde. Per un momento, Frank si chiese se fosse il caso di dire a Bernard e Beatie che si trovava lì, in casa di Aida, e che avrebbero potuto semplicemente entrare, prenderla e regolare il suo uso. Sprofondò in una poltrona di fronte all'apparecchio, accordandogli il genere di rispetto che si potrebbe nutrire per una bomba inesplosa. Gordon riapparve da «là dietro» con un largo sorriso. Andò dietro l'apparecchio e inserì la spina. «Iiiiiii, ci mette un pochino a riscaldarsi. Le valvole, sai.» Infine prese forma l'immagine di un uomo che, in uno studio televisivo, mostrava la bravura di diversi animaletti; dopo pochi istanti, però, il programma era finito e una signorina assai gradevole stava facendo un annuncio. Erano incappati negli ultimi minuti della TV dei Ragazzi della BBC. «Quella è Jennifer Gay», spiegò Aida con voce sospirosa di ammirazione. «Non parla meravigliosamente?» Frank la ascoltò. Aveva sentito altri parlare in quel modo. «Parla tale e quale a come facevano a Ravenscraig!» proruppe. «Tale e quale!» «Oh!» fece Aida, incerta alla prospettiva d'infangare l'immagine immacolata di Jennifer Gay coi pregiudizi che ormai associava a quell'anarchica comune.
«Sì», continuò Frank, ascoltando. «Dice 'piciuini' quando noi diciamo 'piccini'. E dice 'annunzio' quando noi diciamo 'annuncio'.» «Ah, sì?» fece Aida. «Sì, e dice 'giuocare' quando noi diciamo 'giocare'. Proprio come a Ravenscraig.» «Ah.» Frank aveva un buon orecchio per quelle cose. «E, quando noi diciamo 'ora', lei dice 'uura'.» «Ah.» «E dice 'scempre' quando noi diciamo 'sempre'.» «Credo che gli esempi siano sufficienti per darci un'idea di come si parla a Ravenscraig, Frank», disse Aida. Lui si trattenne e tornò a guardare la televisione. Ora c'era un intervallo. Una musica di flauto e archi faceva da sottofondo a un paio di mani che modellavano creta su una ruota da vasaio. Andò avanti per qualche minuto. Alla fine, disse: «Era bello». Un orologio con due ali da pipistrello segnò il conto alla rovescia per il programma successivo, insieme con un pizzicare di corde d'arpa. Cominciava con la scena di un trattore che erpicava un campo, e si chiamava Agricoltura. C'era anche un utile sottotitolo: PER CHI VIVE DELLA TERRA. Era un ottimo programma, pensò Frank, aggiungendo però tra sé che sarebbe stato bello se ci fossero stati Tom e Una a vederlo. Proprio quando a Frank pareva che ci fossero un sacco di cose buone da dire su quella iena reazionaria chiamata televisione, lui vide qualcosa che lo turbò. In una sezione del programma, un contadino parlava dei problemi che aveva avuto nell'arare un campo pieno di schegge arrugginite e frammenti di un aereo esploso durante la guerra. I rottami metallici continuavano a danneggiare i suoi attrezzi, benché il ministero della Guerra l'avesse aiutato, dandogli in prestito un apparecchio rivelatore di metallo. Il servizio rese Frank pensieroso. «Ha l'aria stanca», disse Aida a Gordon. «Ancora un pochino, magari», replicò Gordon. Frank notò che la sua terribile difficoltà di linguaggio non era affatto così pronunciata, quando lui si trovava nella tranquillità della propria casa. «Ti piace la televisione, non è vero, Frank?» «Non roviniamogli il suo primo giorno», dichiarò Aida con autorità. «Un bagno caldo, un bicchiere di latte e un biscotto allo zenzero. D'accordo, Frank?»
A Frank sembrava un tantino presto; nel corso degli anni, era andato a letto agli orari più strani e diversi, ma Cassie lo aveva istruito a non discutere. Gordon sospirò e spense l'apparecchio. Frank fece il bagno, bevve il latte, mangiò il croccante allo zenzero - tutte cose che sarebbero diventate una tradizione della sua vita a Binley Road - e s'infilò nel letto. Ma lo tennero sveglio per un po' i pensieri sull'attività di Gordon nella stanza sul retro, proprio sotto la sua stanza, e le immagini di gigantesche macchine aratrici che rivoltavano la terra dei campi bianchi e neri. 30 L'odore che Frank aveva sempre detestato, il tanfo che restava attaccato ai vestiti di Gordon, permeava la casa. Era il puzzo del liquido per l'imbalsamazione a base di formaldeide. Entrò nei suoi sogni fin dalla prima sera in quella casa. Era l'uomo ratto che sedeva sul suo letto nel cuore della notte; portava guanti di gomma su mani umane e, al posto della testa di ratto, c'era la testa dell'Uomo Dietro il Vetro, che blaterava in una lingua sconosciuta. I guanti puzzolenti di formaldeide venivano piazzati sopra il suo naso, impedendogli di respirare, finché non si svegliava. Il lunedì seguente fu riportato a scuola, dove si riunì con gioia ai suoi due amici, Chaz e Clayton. Chaz era più strabico che mai e Clayton era abbronzato: i suoi nonni americani avevano pagato a lui e alla madre un viaggio in America per fare una vacanza in un posto chiamato Cape Cod. Frank risentì la vecchia fitta d'invidia, lenita quando Clayton gli lanciò alcune figurine delle sigarette. Altri regali. «Che cosa sono?» «Stelle del cinema», rispose Clayton. «Perché hanno la faccia così storta?» s'informò Chaz. «Sorridono. È così che sorridono le stelle del cinema», spiegò Clayton. Chaz lo distrasse con una collezione di altro genere: parolacce. Aveva trascorso l'estate a rimpinguare e arricchire la sua riserva di parolacce, perlopiù spigolate dai fratelli maggiori, sparsi in diverse famiglie per tutta la città, e dagli altrettanto diffusi cugini. Chaz collezionava parolacce come Frank avrebbe potuto collezionare uova di uccelli. Le metteva in fila in ordine di grandezza e certe le teneva in gran conto per la loro rarità. Quel giorno, ne aveva alcune buone da esibire. Al ritorno da scuola, una routine fissa aspettava Frank: lavaggio mani, tè, televisione, letto. Aida aveva sentenziato che quel tipo di routine era i-
deale per un ragazzo in crescita. Non aveva ritenuto opportuno approfondire il perché di quella efficacia, ma anche in quel caso si trovava in disaccordo con la filosofia di Ravenscraig, dove a Frank era stato insegnato che la routine e le abitudini erano una specie di malattia che indebolisce la mente. Ma Frank non aveva nessuna intenzione di discutere con Aida le tovaglie di lino stirate e i sandwich con la pasta di salmone. E non gli dispiaceva una routine che comprendeva la televisione. Anche se la ruota del vasaio e gli altri intermezzi risultavano un po' noiosi dopo ripetute visioni, c'erano moltissimi altri programmi interessanti, che si trattasse di Muffin il Mulo della TV dei Ragazzi, presentato dall'affascinante voce di Jennifer Gay, o del più adulto Il mestiere del mistero. Gli sembrava però un tantino strano che zia Aida e zio Gordon s'interessassero molto meno ai programmi, tanto che spesso veniva lasciato solo per le visioni serali. Gordon s'insinuava nella sua misteriosa, fetida stanza sul retro, e spesso Aida lo raggiungeva, tornando poi all'ora in cui Frank doveva andare a letto e portando con sé sempre lo stesso puzzo di formaldeide per accompagnarlo nel sonno. Frank immaginò che Aida aiutasse Gordon nel suo lavoro. Una sera alla settimana, però, Aida si metteva il cappello e usciva per andare all'Istituto Femminile. In una di quelle occasioni, Gordon, ovviamente immerso nel suo lavoro, si dimenticò del ragazzo e lui dovette andare a letto da solo. Ma la settimana seguente, quando Aida si mise il cappello e lasciò Frank a godersi Il mestiere del mistero, accadde la stessa cosa. Così, quando arrivò l'intermezzo con la ruota del vasaio, Frank si alzò dalla sua poltrona e si avviò a passi lenti verso il retro della casa. La porta del laboratorio di Gordon era socchiusa, ma non abbastanza perché Frank riuscisse a vedere granché. Il ragazzo mise un piede davanti all'altro, in silenzio, timoroso di tradirsi. Poi infilò il piede nella fessura della porta e vide un grosso alluce. Era un alluce davvero enorme, e aveva un cartellino attaccato. Il genere di cartellino o di etichetta che si poteva trovare attaccato, con una cordicella simile, a un pacco nell'ufficio postale. Sull'etichetta c'era scritto qualcosa, ma Frank non riuscì a decifrarlo. Sentì Gordon canticchiare. Era la voce di un uomo che gode del proprio lavoro o piuttosto ne è totalmente assorbito. Era un canto a bocca chiusa, senza melodia, che di tanto in tanto si gonfiava in piccole esplosioni di entusiasmo incontenibile. Frank mise l'occhio più vicino alla fessura e il suo
naso spinse lievemente la porta. S'immobilizzò. Il canto proseguì indisturbato e Frank sospirò di sollievo, pur non avendo conquistato nessun vantaggio, giacché la porta era istantaneamente rimbalzata all'indietro. Fissò di nuovo l'occhio nello spiraglio, ma la porta si spalancò di colpo e Gordon piombò su di lui, gli occhi fissi in quelli di Frank. «Iiiiiiiiiiiiiiiiii, mascalzone! Che mascalzoncello! Mi stavi spiando, eh? Iiiiiiiiiiiiiiiiii!» Frank era come paralizzato. Nello sguardo di Gordon c'era un luccichio che lui non aveva mai scorto fino a quel momento. Evidentemente l'uomo era assai divertito. «Avanti, allora, mascalzoncello, vieni dentro. Ecco qua. Tanto vale che tu veda quello che c'è dietro la porta di Gordon. Niente di cui aver paura, figliolo. Ecco, siediti lì, al posto di tua zia Aida... Avanti, figliolo, siediti, ecco qua. A tua zia piace sistemarsi lì e non le darà fastidio. So che cosa vogliono sapere i ragazzi e tanto vale che tu lo sappia da Gordon piuttosto che da qualche altro ignorantello, hmm? Hmmmmm?» Frank fece scivolare il sedere sulla sedia diritta che Gordon aveva indicato come appartenente ad Aida, però non riusciva a staccare gli occhi da quello che c'era attaccato al grosso alluce, intravisto attraverso lo spiraglio della porta. Era una donna grossa, nuda, la pelle gonfia e chiazzata, di un bianco grigiastro, il colore di un fungo prataiolo, distesa su un tavolo di piastrelle di smalto bianco. Era circondata su tre lati dagli strumenti dell'arte di Gordon. Frank aveva una visuale completa delle carni frananti della morta, dei flosci rilievi dei seni e di un groviglio di scuri peli pubici che, inesplicabilmente, lo fecero pensare ai rovi, alle ortiche e alla belladonna che infestavano il ponte sul torrente alla fattoria di Tom. Gordon si rimise subito all'opera. «Iiiiiiiiiii, be', già, proprio prima di pescarti sulla porta ero qui che sistemavo i gioielli di questa signora. Guarda questi anelli d'oro e diamanti, figliolo.» Gordon sollevò la gonfia mano sinistra del cadavere per mostrarla a Frank, prima di tornare a posarla, con gran delicatezza, sul tavolo anatomico. «Già, ci sono dei disgraziati che glieli leverebbero prima che il coperchio venga inchiodato, ce ne sono, e allora io gli faccio una sorpresina. Glieli incollo addosso, figliolo. Colla. Non vanno da nessuna parte. Li incollo e pompo un po' di fluido in più nelle dita. Si gonfiano bene. Non che lei possa portarsi appresso quella dannata roba, ma sono le volontà della famiglia, capisci, figliolo, le volontà della famiglia. E noi non vogliamo che uno di quei mascalzoni giù al crematorio si metta in mezzo tra noi e le volontà della famiglia, giusto, figliolo? Eh? Eh?»
«Sì.» «Un po' di adesivo forte. Lo stesso che uso per tener chiusi gli occhi. È l'unico modo per tenerli chiusi. A meno di cucirli col filo, ma perché mettersi a pasticciare? Ecco, è fatta. Vuoi un bicchiere di limonata mentre te ne stai seduto lì, Frankie?» «No.» «Niente limonata? Latte? Vuoi un bicchiere di latte, figliolo?» «No, grazie.» «Come preferisci, figliolo. Adesso l'abbiamo pulita e devo prendere nota di questi anelli, vedi? Per la famiglia. Adesso dobbiamo chiudere la bocca, ed è altrettanto importante. Tua zia Aida mi consiglia sempre in questo, perché è una cosa delicata, Frank, una cosa delicata. Se dovessi chiuderle la bocca troppo molle, be', le darei un aspetto per niente piacevole.» Gordon si voltò verso Frank e mimò una sconcertante espressione a occhi chiusi e mascella molle. «E, se gliela chiudessi troppo stretta, questo po' di pelle sotto il naso si raggrinzirebbe, storcendo il labbro superiore; così lei si ritroverebbe a fare il broncio ai suoi parenti. Be', può ben fare il broncio, e tu magari pensi: cosa importa? Ma c'è la Veglia, capisci, figliolo, io sono qui per questo, in realtà, per prepararla alla Veglia. Perciò le allargherò un tantino le labbra con questo bisturi, ed ecco fatto. Quando le avrò pulito un po' la bocca, puoi venire qui e dirmi cosa ne pensi.» «Lei chi è?» «Eh? Come?» Gordon parve sorpreso. Lasciò cadere lungo il fianco la mano che reggeva il bisturi. «Nessuno, figliolo. Non è nessuno. Era qualcuno, ma adesso non lo è più. Chiunque sia stata, questo non è lei. Ha smesso di essere quello che era diverse ore fa, Frankie. Voglio che tu lo sappia, capito? Se c'è qualcosa dopo questo, be', lei se n'è andata da un pezzo; e, se non c'è niente, be', se n'è sempre andata da un pezzo. Questo è solo il pacco con cui è arrivata. Ma ora lei non è qui, capisci?» Di certo Frank aveva un'aria sorpresa, perché Gordon mise giù il bisturi e gli si avvicinò, chinandosi e portando il viso vicino al suo, in modo inquietante. Gli occhi di Gordon, normalmente privi di vita, scintillavano ancora; il rossore delle gengive che si ritraevano dai denti, esposte anche ora mentre sorrideva, sembrava brillare di vitalità e non della solita necrosi; e Frank notò che l'animata loquela di Gordon non era inframmezzata dai soliti balbettii, nitriti e stridii acuti. «Vedi, figliolo, anche se sei piccolino voglio dirti perché sto qui a fare queste cose. Sono una fatina, sì, sì, hi hi, una piccola fatina mandata qui ad
agitare una bacchetta magica sopra questi vecchi pacchi, per farli diventare graziosi. Perché? Perché neppure i grandi, gli adulti, possono sopportare di vedere quello che è vero; non ce la fanno. È la decomposizione. Siamo disposti a fare qualunque cosa per fingere che la fine non sia davvero arrivata in questo modo. Perciò io sono qui per prendere la mia bacchettina e agitarla sopra questo vecchio pacco di carne. E mi pagano, è il mio lavoro; ma lo faccio perché amo le persone, Frankie, chiunque siano. Lo faccio per amore di quelli che restano. Perché non voglio che soffrano quando vedono i loro cari. Così prendo la mia bacchetta e faccio il mio lavoro, capito?» Frank annuì. Annuì anche Gordon, quindi si rizzò per tornare al cadavere, la Fata della Morte che agitava la sua bacchetta miracolosa. Immerse una spugnetta in una soluzione contenuta in un piatto di latta e cominciò a strofinare vigorosamente il corpo. «Disinfettare e preservare, Frank, è questo che facciamo, disinfettare e preservare. Tra pochissimo tempo non vorresti guardarlo. Nessuno lo vorrebbe. Io devo renderlo presentabile, in modo che i suoi cari, durante la Veglia, possano venire a porgere l'estremo saluto. Perciò lo preparo. È questo che faccio. Ora qualcun altro l'ha già distesa e questo mi facilita il lavoro, ma se arrivano qui tutti contorti e straziati...» - sollevò un braccio del cadavere, passò la spugna sotto l'ascella e poi riabbassò il braccio dolcemente - «... allora devo massaggiarli e ridistenderli per bene. Ma adesso posso procedere con l'imbalsamazione.» Gordon posò la spugna e prese il bisturi, agitandolo in direzione di Frank. «Acqua e aria, Frank, acqua e aria. Sono queste a provocare la decomposizione; e bada che è coi loro opposti, fuoco e terra, che ci sbarazziamo dei morti. Ma, se riusciamo a tenere a distanza l'acqua e l'aria, guadagniamo un poco di tempo.» Si voltò verso il cadavere e praticò una rapida incisione sul lato destro del collo, in basso. «Sempre a destra, figliolo, sempre a destra. Carotide e giugulare. Adesso dreniamo tutto il sangue e lo sostituiamo con un liquido a base di formaldeide, giusto? Sì.» Frank si rese conto che Gordon stava parlando tanto a se stesso quanto a lui. Ciarliero, sempre vivace, Gordon sollevò un bidoncino cui erano collegati dei tubi e ne inserì uno in un'arteria. Inserì un secondo tubo nella giugulare e sistemò un tubo di drenaggio. Quindi si mise a pompare vigorosamente il liquido dal bidoncino all'arteria. Frank vedeva le vene contrarsi sul braccio di Gordon, ma lo zio alzò lo sguardo dalle sue fatiche per incoraggiare Frank con un lento sorriso. Frank non vedeva, ma sentiva il sangue affluire in un altro bidoncino sotto il tavolo.
«Tre galloni bastano», spiegò Gordon, come rispondendo a una domanda. «Suppergiù. Naturalmente, se te ne capita uno grosso, be', te ne servono di più. Ma in generale ne bastano tre. Ecco, questo è grasso.» Dopo un poco Frank riacquistò la facoltà di parlare e disse: «Sta diventando rosa». «Rosa? Sì, nel liquido c'è un tantinello di tintura, per darle un po' di colore. E mi permette di vedere a che punto siamo, capito? E se questa parte va bene e non ci sono grumi o lacerazioni, be', siamo a cavallo, non è vero, figliolo? A cavallo.» Frank sorrise per indicare che, con un po' di fortuna, sarebbero stati a cavallo con quel particolare soggetto così mostruosamente steso di fronte a lui. Era un processo lungo, e a un certo punto Aida tornò. Quando infilò la testa nella porta, Frank fu colto alla sprovvista e pensò che si sarebbe trovato nei guai per non essere andato a letto all'ora solita. «Un piccolo aiutante?» chiese Aida, che non sembrava affatto contrariata. «Ti sei trovato un piccolo aiutante?» «Proprio così», fece Gordon allegro, continuando a lavorare. «Ed è anche un fantastico piccolo aiutante.» Frank dondolò le gambe, contento di essere descritto in quel modo, ma senza capire come si fosse guadagnato quell'elogio. «Questa è andata a meraviglia», trillò Gordon. «A meraviglia. Arrivi giusto in tempo per l'imbalsamazione delle cavità.» «Oh, bene. Metto su il bollitore e poi guardiamo insieme», disse Aida. Aida uscì dalla stanza e vi tornò poco dopo con una teiera e un bicchiere di latte per Frank. Uscì nuovamente e tornò con un'altra sedia, che trascinò di fianco a quella del ragazzo. Gordon sistemò il suo tazzone di tè in maniera tale da poter sorseggiare la bevanda mentre lavorava; Aida e Frank bevvero rispettivamente il tè e il latte mentre assistevano alle operazioni. L'imbalsamazione delle cavità era un po' più complicata. Gordon praticò un altro taglio col bisturi proprio sopra l'ombelico e spinse un lungo ago all'interno dell'addome. Aveva una pompa aspirante ad acqua che usava per rimuovere il sangue e altri fluidi. Quindi usò quello stesso ago, il trequarti, per pompare a tutta forza i fluidi di conservazione negli organi. «Un disinfettante più forte, per gli organi», borbottò a Frank. «Bene, così. Poi suturiamo questi piccoli tagli e siamo a cavallo.» Mentre Gordon si dava da fare, Frank apprese che Aida in genere dava una mano in quello che lei chiamava «lavaggio, toeletta, vestizione e mes-
sa in bara». Normalmente, dissero, il procedimento veniva completato in una sola seduta, ma Aida, resasi conto dell'ora tarda, insistette perché Frank andasse finalmente a letto. Vedendo la delusione del bambino, gli promise che avrebbe potuto assistere al resto del procedimento su un altro corpo, dal momento che, sottolineò, ne arrivavano sempre di freschi. «Sì, sì, fila a letto, giovanotto», disse Gordon. Quindi aggiunse: «Sogni d'oro», e inghiottì l'ultimo sorso di tè. Riluttante, Frank diede la buonanotte e andò a letto, attraversando il salotto dove la iena reazionaria stava ancora trasmettendo fiaccamente. E, strascicando i piedi su per le scale, Frank concluse che nonostante lo spasso di Muffin il Mulo o la confortante ripetitività della ruota del vasaio, o perfino l'avvenenza e la bella dizione di Jennifer Gay, quello che aveva visto sul tavolo anatomico di Gordon superava di gran lunga qualsiasi programma televisivo. 31 Cassie fu destata in piena notte da un brutto sogno che riguardava Frank. Era circondato dai morti, e i morti lo chiamavano, ma lui non poteva sentirli perché non aveva orecchie: gliele avevano portate via certi funzionari del governo in bombetta. I morti cominciavano a sentirsi delusi, perfino arrabbiati con Frank, e Cassie avrebbe voluto dir loro che non era colpa di Frank, bensì di quelli del governo. Poi uno dei morti, una grossa donna dai capelli rossi, defunta di recente, aveva giustamente domandato perché Cassie poteva sentirli, dal momento che neppure lei aveva le orecchie. Cassie si portò le mani alle orecchie, che non c'erano più, e questo la destò. Quando scese di sotto, si stupì nel trovare Martha in vestaglia che preparava la cioccolata sul fornello. Qualche tempo prima, Martha aveva preso l'abitudine di dormire al pianterreno, nella stanza che dava sull'ingresso, per risparmiare alle sue ossa artritiche la salita delle scale. William e Tom le avevano portato giù il telaio di ferro del letto e glielo avevano preparato lì. «Fa freddo, quaggiù», gemette Cassie. «Prendi una coperta dal mio letto e mettitela sulle spalle. Ti preparo da bere.» Cassie raccontò a Martha il suo sogno. Martha annuì e non disse nulla. Era stata destata anche lei da un sogno pressoché identico, però decise di non rivelarlo. Mescolò la cioccolata prima di passarla alla figlia. «Pensi che Frank stia bene?» volle sapere Cassie.
«Con Aida e Gordon, dici? Non lasceranno che gli succeda nulla, Cassie.» «Mi chiedevo, ma'. Mi chiedevo solo. Pensi che starò mai abbastanza bene da avere un posto mio, sai, per dargli una casa stabile? Pensi che potrò?» «Tutto dipende dai tuoi mezzi, Cassie, no? Se vuoi una casa, dovrai conservare un lavoro o trovarti un marito, o tutt'e due le cose. Che mi dici di questo giovanotto di Oxford? È simpatico, ma a quanto vedo nemmeno lui ha un lavoro. È uno sconclusionato, no? Be', è un bravo ragazzo, tuttavia non puoi concludere niente con uno sconclusionato.» «È uno scrittore, ma'.» «Sì, uno sconclusionato.» «Ma ha detto che avrebbe trovato un lavoro per me. Dice che può insegnare, come Bernard.» «Bene, allora vai e dagli una bella strigliata. Non diventi più giovane, sai? Non rimarrai bella per sempre.» «Però non è giusto nei suoi confronti, vero, ma'? Che la mia testa sia così, cioè. Non è giusto. Vorrei solo che fosse diverso. Sembra strano, quando Aida, Ina, Evelyn, Olive e Una sono tutte così assennate e hanno tutte una loro casa.» Diglielo, una voce sembrò parlare nella testa di Martha. Dille che non può avere quello che hanno le altre. Ma lei non poteva. Non subito. Allora cambiò argomento. «Cassie, che cosa possiamo fare per Olive e Aida, secondo te? Lo sai che ho cercato di non interferire e di lasciare che la natura seguisse il suo corso, ma adesso sono preoccupata per quelle due.» «Non lo so di certo, ma'. Se non riesci a rimetterle insieme tu, non ci riesce nessuno.» «È proprio un peso che ho sul cuore. So come va quando la gente smette di parlarsi. So com'è andata con tuo padre. All'inizio è una posa e si potrebbe spezzare con poche parole, ma, prima che tu te ne renda conto, tutto si è irrigidito, il silenzio è diventato come un osso, e allora è molto più difficile spezzarlo. E mi addolora aver permesso che accadesse con tuo padre. Mi addolora ogni giorno.» Sconcertata, Cassie vide una lacrima sgorgare dall'occhio di Martha. Una vita intera di sopportazione, una vita intera a non far vedere, a dominarsi... e ora il vaso era traboccato. «Oh, mamma!» Forse per la prima volta, Cassie comprese che la madre era vecchia e fragile. Era così abituata alle sue attività - fare e aggiustare, scegliere e selezionare - da non pensare
mai che la madre potesse essere stanca. In quel momento, però, lo vide e provò un senso di vergogna per la propria debolezza, riuscendo però soltanto a mettere un altro peso sul fardello di Martha. «Io non ti servo a niente, mamma.» «Come? Come?» Martha si rincuorò. «Non permettere mai che si dica così. Per me sei stata una gioia, ogni giorno della tua vita, Cassie. Forse sei un cigno nero, però sei una gioia. E, anche se non ho mai trattato nessuna di voi diversamente dalle altre, in qualche modo sei sempre stata la mia preferita. Adesso vieni a sederti sul pavimento e bevi la tua cioccolata, mentre ti accarezzo i capelli.» Parlarono molto, quella notte. Parlarono di Aida e Olive, della possibilità di spezzare la faida del silenzio, il cuore indurito, l'antica arma di Coventry di ghiaccio e pietra. Parlarono anche di Frank e di quello che il futuro poteva avere in serbo per lui. Scherzando, Cassie disse che sarebbe stato un buon sensitivo, ma ciò indusse Martha a parlarle chiaro. Quando Frank era stato da Ina ed Evelyn, anche loro due avevano pensato la stessa cosa, trascurando però un elemento importante. «Quale, ma'?» «Chi c'era con lui, allora?» «Soltanto io, ma'.» «Esatto. Frank ne ha un po'. È un caro bambino, ma non ce l'ha come ce l'hai tu. Credi che l'avrei lasciato andare da Aida se potesse far alzare i morti come puoi fare tu? No, sei tu, Cassie. Le cose succedono quando ci sei tu. Ina ed Evelyn vorrebbero vederlo, ma non vedono nemmeno al di là del proprio naso. Sei tu, Cassie. Tu fai succedere le cose. L'hai sempre fatto.» Le due donne si chiusero nel silenzio, anche perché Cassie si era impressionata a sentir parlare Martha così apertamente. Era come se volesse mettere la figlia sull'avviso, dirle che lei - Martha - era ben consapevole del fatto che il suo tempo si stava esaurendo. Un pezzo di carbone si mosse nel caminetto e Cassie fissò intensamente il fuoco. Il giorno dopo, Cassie partì con la sua bicicletta per andare a trovare Aida, intenzionata a parlarle della faida, ma non poté farlo. Arrivata alla casa di Binley Road, le venne una forte emicrania. Più si avvicinava alla casa, più l'emicrania peggiorava, finché, sul vialetto d'ingresso, non le parve che almeno un centinaio di voci le gridasse nella testa per richiamare la sua attenzione. Quando si allontanò dalla casa, il disturbo si attenuò. Provò ad
avvicinarsi, ma esso riapparve. Allora batté in ritirata e si sentì meglio dopo aver messo una certa distanza tra sé e la casa. Andò invece a trovare Olive, che le preparò il tè col latte e le offrì una fetta di torta all'uvetta, ma parlò senza fermarsi, senza mai prender fiato. Chiacchierava con nevrotica eccitazione delle tante cose che aveva per la testa, del lavoro di William, delle bambine, della salute di Martha e di una dozzina d'altri argomenti, in definitiva riducendo Cassie al silenzio. Avvilita dal fallimento della sua spedizione, Cassie se ne tornò a casa in bici. Rientrata, disse: «Ma', penso che domani mi farò una pedalata fino alla fattoria. Starò con Una e Tom per un paio di giorni. L'aria fresca mi farà bene». «Cosa ti tormenta, figliola?» «Non so bene. Vado su in camera mia a dormire un po'. Sono stanca.» Martha la guardò salire le scale. Riusciva a leggere sua figlia come un barometro. Se proprio deve venirle una delle sue crisi, almeno alla fattoria farà meno danni, pensò. Frattanto, nella casa di Binley Road, la televisione era stata soppiantata da un altro rituale: Frank e zia Aida sedevano l'uno di fianco all'altra, magari con un bicchiere di latte e una tazza di tè, e osservavano Gordon al lavoro. Era la delicatezza, l'amorevole grazia con cui lavorava a far desiderare loro di assistere più volte al procedimento. A un certo punto, Aida posava tazza e piattino e si univa al marito nelle pratiche post-imbalsamazione. Stava in piedi accanto al cadavere, le mani giunte in un gesto d'infinita pazienza e, a un certo, piccolo segnale di Gordon, dava inizio alla toeletta di quelle che chiamava sempre «le spoglie». C'era parecchio da fare. I cadaveri - sia maschi sia femmine - andavano rasati o depilati e i capelli dovevano essere puliti e pettinati; i corpi, quindi, andavano rivestiti con gli abiti forniti dai familiari e poi collocati nella bara (operazione piuttosto complicata, se il cadavere era pesante). Infine c'era la parte cosmetica, il trucco da applicare, anche quello per entrambi i sessi. Soltanto una volta Frank mise a rischio la sua posizione privilegiata. Ogni giorno aveva riferito ciò che vedeva ai suoi due amiconi, a scuola. Una sera, sotto pressione, mentre Aida lavava i capelli blu-neri di un recente trapassato, si era lasciato sfuggire: «Ma i miei amici di scuola possono venire a vedere, una volta?»
Gordon lasciò cadere il bisturi e Aida si lasciò sfuggire dalle mani la testa insaponata, che batté contro le piastrelle di porcellana del tavolo da imbalsamazione. Entrambi guardarono Frank a bocca aperta, assolutamente esterrefatti. Frank abbassò gli occhi. Nulla venne detto, nemmeno una parola. Non lo chiese mai più. Alla fine di ogni lavoro, con le spoglie nella cassa in attesa di essere trasportate alla camera ardente o nel salotto di casa per la Veglia, Gordon e Aida facevano un passo indietro e contemplavano la loro opera. Quel momento si concludeva sempre con le parole di Aida: «Be', per conto mio, ha un aspetto incantevole». «Sissì», faceva Gordon. «Sissì.» Frank allora sapeva che era giunto il momento di scendere dalla sedia. Così era il primo della fila a uscire dalla stanza, sempre seguito da Aida e infine da Gordon, che spegneva le luci e si chiudeva la porta alle spalle col più delicato dei clic. 32 La fine di settembre di quell'anno, mentre le gigantesche foglie dorate cadevano fluttuando, segnò un momento di pienezza nella vita di Frank. Nel mezzo della morte c'era l'abbondanza. Per quanti cadaveri venissero riempiti con la formaldeide di Gordon, le stagioni non cessavano di avvicendarsi né i bambini smettevano di nascere. Alla fattoria, Una rimase di nuovo incinta; e lo stesso accadde a Beatie. La gioia fu sconfinata, ma tra i Vine i festeggiamenti non erano mai precipitosi. Tutte le sorelle sapevano quello che sapeva Martha: in politica, nei pagamenti e in gravidanza, nove mesi sono molti. Non contarli finché non esce dal guscio, insomma. Tuttavia la contentezza generale era difficile da nascondere, e Una e Beatie si scambiavano sguardi di speciale intimità. Pure le sorelle senza progenie, Aida, Evelyn e Ina, erano felicissime. «Beatie si calmerà un pochino», dicevano ridacchiando. «Vedrà!» profetizzavano. E aggiungevano: «È quello che voleva fin dal principio, sapete», intendendo che, se Beatie avesse concepito prima, non sarebbe stata così presa da quella sua balorda politica. Si sbagliavano. L'idea della prole non fece che infiammare le ambizioni di Beatie: se doveva mettere al mondo dei bambini, allora prima doveva rendere migliore il mondo, per la miseria! La salute, l'istruzione e il benessere della gente comune erano negletti. Beatie e Bernard erano entrati da
un pezzo nel partito laburista, con l'idea di candidarsi entrambi al consiglio comunale; la gravidanza cambiò la situazione. Ora si sarebbe candidato soltanto uno dei due. «Follia!» esclamò Aida. «Date i numeri!» fece Una. «Dovreste farvi dare un'occhiata alla testa, tutti e due!» aggiunse Olive. «Criminali!» fecero eco le gemelle. Bernard aveva infatti annunciato che soltanto Beatie si sarebbe candidata alle elezioni. Talvolta la famiglia Vine aveva l'impressione che Bernard e Beatie facessero di tutto, deliberatamente, per comportarsi da bastian contrari: dire «nero» quando tutti gli altri dicevano «bianco» o «scacchi» se dicevano «dama»; mettere i bastoni tra le ruote, creare trambusto. Non aveva senso che una madre nel periodo dell'allattamento entrasse in politica. «Ma chi baderà al bambino quando sarai nella sala del consiglio?» s'informò Martha. «Io, naturalmente», rispose orgogliosamente Bernard. All'avvio vero e proprio della campagna, tutte le sorelle e i loro uomini si dissero d'accordo che avrebbero votato per Beatie (anche se William, Olive e Aida erano conservatori stretti), ma non avrebbero aiutato a fare volantinaggio e non sarebbero andati di porta in porta a far propaganda. Non che quella fosse una gran perdita; sia Bernard sia Beatie godevano di una certa popolarità nella loro circoscrizione e il partito - la settimana prima delle elezioni - arruolava un bel po' di aiutanti. Dei Vine, soltanto Cassie diede il proprio contributo: tornata in bicicletta dalla fattoria, dichiarò con piglio da fanatica decisa a fare proseliti - di essere pronta a imbottire di volantini la cassetta della posta dell'inferno, se fosse servito a qualcosa. Bernard non era sicuro che la sua presenza non fosse controproducente; alla gente sulla soglia di casa, Beatie descriveva la sorella come se fosse stata Giovanna d'Arco e la sua balbettante, esaltata intensità turbava gli elettori. La persuasero a lasciar perdere la propaganda a porta a porta per concentrarsi sull'imbottitura delle cassette postali e, per tale incarico, portava Frank con sé. Anche a Frank piaceva lanciarsi su per i vialetti delle case a schiera per distribuire i volantini Vota Vine, benché, una volta, un cane avesse tentato di azzannarlo e, un'altra, un uomo con la barba non fatta e la canottiera ingiallita lo avesse guardato storto. Capiva che stava facendo qualcosa di molto adulto, utile ad aiutare zia Beatie a fare del mondo un posto miglio-
re. Ma non tutti pensavano che Beatie avesse intenzione di fare del mondo un posto migliore. Mentre era in giro in un quartiere con Bernard, Beatie, Cassie e un paio di altri membri del partito, Frank portò un volantino alla cassetta delle lettere di un pub, chiuso a quell'ora, chiamato Axe and Compass. La cassetta era collocata su una molla rigida e, mentre Frank cercava di superare col sottile volantino il difficile varco dell'aletta, la porta si aprì e il proprietario del pub gli strappò il foglietto di mano. L'uomo, uno scimmione tarchiato e calvo con minuscole ali di capelli grigio ferro annidate dietro le orecchie e cespuglietti di peli grigi nelle narici, diede un'occhiata al volantino, lo appallottolò, chiuse la mano a pugno e colpì Frank così forte sopra la tempia da farlo ruzzolare nel vicolo. Soltanto Beatie vide la scena e corse subito a tirare su Frank, troppo sbalordito anche solo per piangere. Beatie alzò gli occhi a guardare il padrone del pub. «Brutto vigliacco schifoso! Verme! Canaglia!» Avendo compreso l'accaduto, Bernard sopraggiunse in un attimo, mentre Beatie continuava a inveire contro l'uomo, e s'infilò tra Beatie e lui. «Sei candidata alle elezioni», le sussurrò. «Non puoi lasciarti trascinare.» Poi si rivolse all'uomo: «È bravo a colpire i ragazzini, lei. Ora provi a colpire me». L'altro sogghignò. Bernard era più basso di lui di una trentina di centimetri, ma aveva una corporatura solida e massiccia. Dopo un momento, l'uomo tornò dentro e sbatté la porta. «Avremo il suo voto?» domandò Cassie. Beatie fu eletta al consiglio comunale di Coventry con una consistente maggioranza. Pur non essendo affatto la prima donna assessore di Coventry, era certamente la più giovane in assoluto. Lei, Bernard e pochi, cari amici della circoscrizione organizzarono una prima riunione per decidere esattamente come Beatie avrebbe «fatto la differenza». Diedero una festa per la vittoria, naturalmente a casa di Martha. Era affollata di sorelle e attivisti del partito laburista locale, tutti invitati a bere birra e mangiare sandwich. Anche Lilly era venuta da Oxford per unirsi ai festeggiamenti. Tra l'allegria, i canti e gli schiamazzi, nessuno parve notare l'assenza di Cassie, che trascorse buona parte della festa di sopra, con lo sguardo fisso fuori dalla finestra. La melodia di Moonlight Serenade, proveniente da un nuovo disco suonato sul suo vecchio grammofono, fu percepita a stento.
Cassie aveva due motivi di delusione: anzitutto, una volta saputo della vittoria politica di Beatie, era andata a far visita ad Aida e poi a Olive, implorandole di cessare le ostilità e rompere il silenzio. Entrambe avevano rifiutato e, come al solito, venne studiata una tempistica tale per cui le due poterono partecipare alla festa senza causare imbarazzo né doversi confrontare. La seconda delusione stava nel fatto che George, atteso da Oxford insieme con Lilly, non si era presentato. Quando Una, Tom e le loro gemelle lasciarono la festa - relativamente presto -, Cassie andò con loro. Durante i festeggiamenti, Martha, che era stata messa al corrente dell'episodio avvenuto all'Axe and Compass, tirò fuori un articolo sull'Evening Telegraph di Coventry. Il proprietario del pub era stato costretto a chiudere il locale per problemi d'igiene. Durante un'ispezione ufficiale delle cantine, erano state scoperte diverse carogne di ratti in putrefazione. Le autorità avevano respinto le accanite obiezioni del proprietario, secondo il quale qualcuno era penetrato attraverso la botola per le consegne, che si trovava a livello del marciapiede, e le aveva messe lì la notte prima dell'ispezione. Martha si aprì un varco tra gli attivisti festeggianti e attirò l'attenzione di Bernard sull'articolo. «Be', non verseremo certo lacrime per lui, no?» commentò lui. «Certe volte sei un mistero, Bernard. Non so se tu sia un cavallo selvaggio o un pony pezzato», fece Martha. «Non capisco di cosa stia parlando, Mrs Vine.» «No, nemmeno io», replicò Martha, ripiegando il giornale. Il mattino seguente, alla fattoria, Tom si alzò presto e andò in cucina scalzo per fare il tè. Una bruma finissima, simile a zucchero a velo, era calata sui campi e il gallo della fattoria cantava, languido. Tom lanciò un'occhiata dalla finestra sull'aia e si accorse che mancava il suo camion. Con quel mezzo malandato, Tom riusciva a trasportare fino a una mezza dozzina di bestie avanti e indietro dal mercato. Non lo usava per altri scopi, di conseguenza il camion stava spesso ad ammuffire sull'aia. Ma Tom si accorse subito della sua scomparsa. Portò una tazza di tè a Una, di sopra, e le disse, brusco: «Vuoi alzarti? Qualcuno ha fregato il camion del bestiame». Poi, senza attendere risposta, tornò di sotto, s'infilò gli stivali e uscì per controllare se i ladri avevano portato via qualcos'altro. Non era raro sentire di ladri che, nel cuore della notte, rubavano attrezzature agricole o addirit-
tura animali. Tom teneva un fucile chiuso a chiave in un armadietto sotto le scale, caso mai avesse dovuto affrontare qualche malintenzionato. In quel momento, però, lo irritava di più il fatto che il suo pastore scozzese non avesse abbaiato per avvertirli. A una prima ispezione, gli parve che non mancasse nulla. A quanto pareva, non era scomparsa nessuna delle sue Bianche Inglesi, né delle sue Frisone, né dei suoi maiali; soltanto più tardi avrebbe saputo se erano venuti per le sue pecore. Quindi notò che mancava un'altra cosa. In casa, Una era scesa di sotto in camicia da notte. «Non ci crederai», le disse Tom. «Hanno preso il cavallino grigio.» «Sveglio Cassie», fece Una. «Le dico di andare con la bici giù alla stazione di polizia.» 33 In quella stradina acciottolata chiamata Bayley Lane - tra la medievale St Mary's Hall e gli archi incrinati delle vetrate gotiche della cattedrale colpita durante il blitz -, il guardiano notturno di una fabbrica stava tornando dal lavoro. Smontava regolarmente alle sei, passando le consegne al vice capo che, a sua volta, si preparava per la timbratura del cartellino degli operai alle otto. Il guardiano notturno, andando a casa sua, in Gosford Street, passava sempre tra Holy Trinity e il guscio bombardato della vecchia cattedrale, pregustando una colazione di pancetta fritta, funghi e un tè così forte da far stare dritto il cucchiaino. La mattina del 7 ottobre 1953 era avvolta da una coltre di nebbia così fitta da sembrare uscita da una leggenda. La foschia vorticante si era addensata in uno smog striato di giallo a causa dei fumi di carbone dei camini, giacché la temperatura - dopo alcuni giorni miti - era bruscamente calata. La foschia grigio ostrica e giallo zolfo intorbidava una delle poche viuzze medievali che ancora restavano a Coventry e si riversava nelle nude, annerite finestre di arenaria della cattedrale in rovina. Il guardiano notturno tossì e il latrato della sua tosse rimase come sospeso nella nebbia. Ma, quando il rumore della tosse svanì, lasciò il posto a un altro rumore, che al guardiano sembrò sia fuori posto sia familiare. Erano gli zoccoli di un cavallo, che procedeva, incerto, sull'acciottolato di fronte a lui. Si fermò, scrutando nella nebbia, in attesa che un cavallo spuntasse da quelle spire misteriose. L'avanzata del cavallo era lenta e malsicura. Qualche passo echeggiò attraverso la nebbia, poi più nulla. Qualunque cosa fosse, o-
vunque si trovasse, non emergeva dalla sempre più densa cortina grigia. Sforzandosi di ascoltare, quasi spaventato, il guardiano si scoprì restio a proseguire. Un istante dopo, il rumore di metallo sui ciottoli risuonò ancora, e stavolta la testa sussultante di un cavallo bianco affiorò dalla foschia; l'animale era diretto verso il guardiano da un cavaliere, il cui profilo rimaneva indistinto. Quando il cavaliere divenne visibile, passandogli accanto, le viscere del guardiano notturno si fecero di ghiaccio, gli venne la pelle d'oca e la lingua gli s'incollò al palato. Non aveva mai visto un fantasma prima d'allora, ma sapeva, nel sangue e nelle ossa, che ne stava vedendo uno. In realtà, il cavaliere era una donna. Era nuda. Nel passare accanto al guardiano, non diede segno di accorgersi della sua presenza. Teneva il capo basso e le redini molli tra le mani, lasciando che il cavallo bianco trovasse la sua strada attraverso la foschia vorticosa. Mentre avanzava, scuotendo la testa, sbruffando e aggredendo l'aria fredda del mattino con le nuvolette del suo fiato, il cavallo sembrava respirare fumo. Dopo qualche istante, l'apparizione fu inghiottita dal drago di nebbia. Al guardiano, come conferma di quello che aveva visto, rimase soltanto il lento, regolare tocco del ferro sulla pietra. «Madre santa», mormorò l'uomo tra sé. «Madre santa.» A Broadgate, un autobus a due piani che sfoggiava i colori comunali, rosso scuro e latticello sporco, ringhiava su per il pendio di Trinity Street verso Broadgate, raccogliendo autisti e bigliettai da riportare al deposito per l'inizio del turno mattutino. Gli autisti e i bigliettai, alcuni ancora assonnati, altri intenti a scambiarsi spiritosaggini, si scossero allorché un bigliettaio, che fino a quel momento aveva guardato mestamente dal finestrino mentre l'autobus sbandava verso Broadgate, si eccitò improvvisamente. «Ho appena visto una donna nuda!» Applausi, fischi, grida di: «Stai sognando!» e: «Qualcuno gli dia un pizzicotto!» «Laggiù! Entrava in Hertford Street! Era su un cavallo! Laggiù! Nuda!» Per via della statua equestre situata nel centro dell'isola spartitraffico di Broadgate, nessuno prese neppure lontanamente sul serio quella affermazione. Perché il loro collega non avrebbe dovuto vedere una donna nuda su un cavallo? Così, quando lui scattò in piedi, cercando di gettare un'altra occhiata attraverso il vetro imperlato di umidità, si limitarono a scuotere la
testa. Anche un poliziotto all'incrocio tra Market Way e Smithford Way vide l'apparizione. Aveva trovato socchiusa la porta di una tabaccheria e, sospettando un'effrazione, era entrato nel negozio, ma poi aveva sentito un rumore di zoccoli di cavallo. Aveva guardato dalla vetrina, al di là dei campioni di tabacco Red Burley, Marlin Flake e Rough Shag, e aveva scorso qualcosa che somigliava moltissimo a una donna nuda a cavallo. Giusto il tempo di uscire dal negozio, ed essa era sparita. Si sarebbe lanciato all'inseguimento se la tabaccheria non fosse rimasta aperta. Inoltre, una volta tornato in sé, non era neppure certo di ciò che aveva appena visto. Decise di non riferire l'episodio. Vi furono numerosi altri avvistamenti. In Ironmonger Row, un operaio dell'acquedotto municipale che approfittava del silenzio del primo mattino per individuare perdite sotterranee, vide passare il fantasma di Lady Godiva. Così pure una donna delle pulizie diretta al lavoro in Priory Lane. A mezzogiorno, il morbido sole di ottobre aveva consumato lo smog e, per tutta la città, correva voce che, quella mattina, Lady Godiva avesse sfilato per le strade. Sulla prima pagina dell'edizione mattutina dell'Evening Telegraph di Coventry c'era un articolo sulla ricomparsa della donna più popolare della città. Riportava le dichiarazioni di sette testimoni oculari e, benché non potessero esserci più di una trentina di persone in giro per il centro a quell'ora antelucana, riferiva che oltre cento individui sostenevano di averla vista. Era «bellissima». I capelli «le ricadevano sulla schiena come una cascata». Il suo destriero era «bianco come il latte». Aveva un aspetto «triste» e «abbattuto». Ma, soprattutto, nella foschia vorticosa, era «raggiante» e «dorata» e persino «rivestita da un'aura di luce». Nel pomeriggio dello stesso giorno, Beatie Vine doveva tenere il suo primo discorso al consiglio comunale di Earl Street. Quasi sembrò che le voci sempre più insistenti sull'apparizione spettrale di quella mattina le potessero rubare la scena. Ma Beatie non aveva nulla di cui preoccuparsi: la sua reputazione di bella agitatrice l'aveva preceduta, e la maestosa aula era gremita di consiglieri, soprattutto maschi, di un partito e dell'altro. All'ordine del giorno c'era la fissazione dell'aliquota di Coventry, il sistema di tassazione locale che avrebbe determinato su chi e dove dovesse ricadere il carico del finanziamento municipale. Secondo alcuni, tale carico spettava ai proprietari di case; altri dicevano che dovesse ricadere sulle at-
tività commerciali, che traevano i maggiori vantaggi dall'organizzazione municipale. La questione era stata dibattuta per moltissimo tempo e l'ordine del giorno prevedeva l'intervento di Beatie sull'argomento. Erano presenti tanto i suoi sostenitori naturali quanto i suoi ovvi nemici del partito di opposizione, e questi ultimi, se appena fosse stato possibile, erano determinati a umiliarla subito, fin dal primo giorno. Se avessero potuto confonderla, farla balbettare, inciampare o perdere il filo, senza dubbio l'avrebbero fatto. Dal momento che era una delle poche donne lì presenti, avevano una ragione in più per indulgere nella tradizione di punzecchiare l'oratore durante il suo discorso inaugurale. Per l'opposizione, il fatto che Beatie fosse giovane, attraente e chiaramente orientata verso una posizione marxista era poi uno stimolo ulteriore. Quando il presidente della giunta la chiamò a parlare, Beatie si alzò, un po' tremante. Si udirono mormorii e non pochi ululati, e un vergognoso grido: «Vai a casa a far da mangiare», opportunamente censurato dal bravo e imparziale presidente. Beatie si erse in tutta la sua altezza e attese che calasse un silenzio assoluto. Quindi cominciò. «Compagni», disse con voce ferma e chiara. Quell'unica parola fu immediatamente seguita da applausi, fischi e urla di derisione in ugual misura. Fischi da parte della Destra, giacché quel saluto di apertura escludeva e trascurava quasi metà dell'aula. Applausi da parte della Sinistra, giacché era una dichiarazione inequivocabile: discorso inaugurale o no, Beatie non aveva intenzione di soggiacere alla benevolenza paternalistica dei falsi amici né di corteggiare l'indulgenza di chicchessia. Meglio ancora, li stava punzecchiando a sua volta. La rumorosa reazione alla sua prima parola in veste di consigliere comunale durò alcuni minuti. Per tutto quel tempo, Beatie rimase fredda, paziente e incurante della confusione. Solo per un istante permise al proprio sguardo di vagare verso la tribuna del pubblico, dove Bernard stava in piedi, con le mani strette sopra la testa in un gesto di trionfo e di esortazione. Il presidente batté il maglietto, richiamando l'aula all'ordine, ma Beatie non continuò finché non ebbe il silenzio assoluto. Allora disse: «Uno spettro si aggira per Coventry». Applausi e grida furono ancora più sonori. Il riferimento alla famosa battuta iniziale del Manifesto del partito comunista ebbe il deliberato effetto di far infuriare gli oppositori e galvanizzare gli alleati. Il presidente batté il maglietta e protestò che il dibattito non sarebbe mai incominciato se i con-
siglieri di entrambe le parti avevano deciso di comportarsi come scolaretti sovreccitati a ogni parola del consigliere Vine. Ancora una volta, Beatie non proseguì finché la confusione non si fu placata e tutti si furono seduti. «Lo spettro di Lady Godiva...» riprese, facendo poi una pausa a effetto, in modo che tutti potessero cogliere l'allusione allo spettacolare avvenimento di cui si chiacchierava quel giorno, «... si aggira per le strade di Coventry. E tutti qui sanno perché. Lady Godiva cavalcò nuda in questa città per protestare contro una tassa ingiusta. E ora è apparsa di nuovo. Perché l'imposta locale stabilita dall'ultimo consiglio è iniqua e ingiuriosa, non soltanto per i più deboli e i meno capaci di difendersi, ma per tutti i membri della nostra comunità. Così come sono state concepite, le imposte locali sono qualcosa di raffazzonato, messo insieme da uomini corrotti, perniciosi e subdoli, che non hanno dato altro contributo alla città se non quello di disonorare questa scellerata assemblea.» Finimondo nell'aula. Un altro strano avvenimento ebbe luogo quello stesso pomeriggio in Binley Road. Frank tornò a casa da scuola e trovò Gordon, assistito da Aida, che si accingeva a lavorare su un cadavere fresco. Gordon preparò il corpo (un maschio robusto tra i 45 e i 50 anni), strofinandolo con la spugna nel solito modo; nel frattempo, Frank intratteneva Aida con le piccole storie che avevano caratterizzato la sua giornata scolastica. Frank era profondamente legato ai suoi compagni Clayton e Chaz e, pur essendo abbastanza intelligente da emendare i suoi racconti, spesso riferiva delle difficoltà che Chaz incontrava con gli insegnanti. «Non sono sicura che questo Chaz mi faccia proprio una buona impressione», disse Aida. «Che ne dici, Gordon?» Gordon era più preoccupato di ritoccare il sorriso sulla faccia del morto. Sollevò il bisturi e disse: «Sissì, be', in effetti sembra un tantino scapestrato». E incise l'angolo della bocca del cadavere col suo bisturi. «Ahi!» disse il cadavere, drizzandosi a sedere, stringendosi l'angolo della bocca appena tagliato. «Che diavolo stai facendo?» Aida svenne. Frank corse fuori dalla stanza, urlando. Gordon, tremante, alzò il bisturi in un gesto di difesa, come una croce di fronte a un vampiro. «Iiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!» Anche se si diceva che i morti cavalcassero per il centro di Coventry e che i cadaveri si alzassero di scatto a Binley Road, alla fattoria gli eventi
erano più discreti. Prima del provocatorio discorso di Beatie al consiglio comunale di Coventry, prima degli eventi sensazionali sul tavolo da imbalsamazione di Gordon, Tom aveva aperto il cancello della fattoria per permettere al suo camion di rientrare nell'aia. Quando si erano accorri dell'assenza del camion, Tom e Una non erano andati alla polizia. Una era corsa a chiamare Cassie, ma aveva scoperto che la sorella non era nel suo letto. Allora Tom aveva cercato le chiavi del camion che teneva appese a un gancio vicino alla porta della cucina. Mancavano anche quelle. Tom e Una decisero di aspettare. Prima di mezzogiorno, Cassie ritornò. Tom e Una non avevano idea delle voci che si erano diffuse in città. Tom domandò a Cassie dove fosse stata e perché avesse preso il camion, ma, non ottenendo risposte intelligibili, lasciò cadere la questione. Cassie era stata distante, perfino remota, negli ultimi giorni, e Tom e Una sapevano entrambi riconoscere i segnali. Dopo aver messo nella stalla il robusto cavallo grigio e aver appeso la sella e la briglia, Cassie tornò a letto dicendo di essere stanca. «Tua sorella è partita per una delle sue», disse Tom. «È evidente», aveva ribattuto Una. A metà pomeriggio, tuttavia, la notizia era arrivata fino a Wolvey e oltre. Un carrettiere che trasportava foraggio raccontò a Tom quello che aveva sentito, ma lui non mise insieme le due cose. La storia di un destriero bianco latte e una donna dai lucenti capelli che fluivano lungo la schiena non rientrava nel suo mondo. Dopotutto il suo cavallo era... grigio e a nessuna donna della sua famiglia i capelli arrivavano molto più giù delle scapole. Nel tardo pomeriggio, però, la storia a Coventry si era complicata, e un altro fattore - venuto lì per prestare a Tom un rullo da passare sul campo basso - gli riferì tale complicazione. Sembrava che la comparsa di Lady Godiva non fosse una cosa spettrale; due testimoni avevano notato una donna, stavolta completamente vestita, che caricava un cavallo su un camion in Priory Street, poco dopo gli ultimi avvistamenti. Stavolta Tom fece i collegamenti giusti, però non disse nulla all'altro. Dopo aver sganciato il rullo e atteso che l'amico se ne fosse andato, tornò in casa. «No, non può essere!» disse Una. «Dorme ancora?» «Sì. Ma, dico, no, Tom, onestamente, no. A che ora hanno detto che è successo?» «Meglio che la facciamo scendere.»
«No, Tom, per l'amor del cielo. Non lo farebbe. Non può averlo fatto. Dove hai detto? In città? Nel centro della città?» «Vai a prenderla, Una! Non importa se dorme. Vai e portala giù, per la miseria!» 34 Il pomeriggio seguente, Una fece due visite; la prima ad Aida e la seconda a Olive. A casa di Aida regnava ancora una certa agitazione per la storia del cadavere affidato alle cure di Gordon che aveva preso vita sul tavolo anatomico. C'era parecchio da fare: bisognava avvertire il coroner che un medico di famiglia del posto, un noto alcolizzato, aveva erroneamente dichiarato morta una persona che aveva avuto un colpo apoplettico. Gordon non era in nessun modo colpevole: dopotutto non spettava a lui accertare se una persona fosse realmente morta oppure no; lui doveva soltanto prepararla per la partenza quando lo era. Tuttavia lo sfortunato cittadino non era pienamente soddisfatto dello squarcio praticatogli sul labbro mentre giaceva privo di sensi sul tavolo anatomico. Gordon era stato occupato con le scartoffie e l'inchiesta era già in corso. Frank non sembrava troppo sconvolto dall'esperienza, ed era tornato a scuola con una storia da raccontare ai suoi compagni, benché, fin dai suoi primi commenti, fu chiaro che l'entusiasmo dimostrato nell'assistere ai doveri funebri di Gordon era piuttosto scemato. Aida era ancora vagamente tremebonda e ammaccata per via della caduta successiva allo svenimento. Disse a Una di aver completamente perso l'appetito e guardò la sorella in cerca di comprensione. Ma Una non la assecondò. Aveva altro di cui parlare; per la precisione, voleva discutere della cavalcata di Cassie. «Cassie dice che l'ha fatto perché tu e Olive non vi parlate.» «È assurdo!» «Non è assurdo, Aida cara. È proprio per questo che l'ha fatto. E dice che lo farà ancora, una volta alla settimana, a meno che tu e Olive non appianiate le vostre divergenze. E non ho dubbi che lo farà. Devi venire a casa di mamma stasera, e verrà anche Olive. Bisogna che questa stupidaggine sia messa da parte.» «Non ho niente da dire a Olive. Non starò nella stessa stanza con lei. Non m'importa se Cassie continua a rifarlo, io non...» «Non t'importa?» Una si alzò per andarsene. «No, stai seduta, Aida. Lo
prendo da sola, il cappotto. Stasera alle sette. Fa' come ti pare, perché non ho intenzione di discutere con te. Aida, spero che questa non sia l'ultima volta che ti vedo oggi. Ma, se stasera non vieni, e se non sei puntuale, dovrai sopportarne le conseguenze. Perciò è meglio che ci sia anche Frank.» A casa di Olive, Una incontrò un'analoga resistenza. Olive preparò dei sandwich e parlò senza interruzione dei malanni delle bambine, del negozio di William e delle cento piccole tribolazioni che, in un modo o nell'altro, aveva superato. Aveva anche premurosamente preparato per Una un bel pacco d'indumenti smessi. Ma, quando Una le espose la faccenda, raggelò. «Ascolta, Cassie sta male. Cassie sta soffrendo a causa di voi due. Questo è il suo modo di dirvi quanto soffre.» «Mi dispiace, Una. Voglio un bene dell'anima a Cassie come tutte voi, ma non intendo avere niente a che fare con Aida. Non è più mia sorella e... Dove stai andando?» Una si era nuovamente alzata a metà di un discorso. «Sono stata da Aida e le ho detto esattamente la stessa cosa. Non voglio sentire sciocchezze. Se non venite tutt'e due alle sette, il resto della famiglia ha deciso quello che dovrà fare e starà a voi accettare le conseguenze delle vostre azioni.» Poi se ne andò. Era stato saggio, da parte di Una, fare soltanto una minaccia velata, parlare oscuramente di «conseguenze» non meglio identificate. Sapeva bene che qualunque sanzione specifica avrebbe avuto soltanto l'effetto di far puntare i piedi alle sorelle. Una minaccia precisa avrebbe unicamente acuito la testardaggine tipica delle Vine. Molto meglio lasciare il dubbio, lasciare che Olive e Aida facessero congetture su quali fossero quelle oscure conseguenze; Una sapeva che i pensieri di ciascuna si sarebbero rivolti a ciò che entrambe temevano di più, cioè a quello stesso trattamento che ora si stavano infliggendo a vicenda. Il loro peggior timore era non sentirsi più rivolgere la parola non da una sorella, ma da tutt'e sei, e anche dalla loro madre. L'antica maledizione di Coventry, l'anatema delle sorelle: era quello lo scenario peggiore. Esiliate nella landa dell'inverno emotivo. Recise dalla radice della famiglia, si sarebbero raggrinzite, seccate, appassite. E sapevano entrambe che tutte le altre Vine erano assolutamente capaci di mantenere quella gelida promessa. Tom, Una e una Cassie mogia e arruffata cenarono a casa di Martha. Alle sei e mezzo apparvero Beatie e Bernard. Beatie era ancora euforica per il suo debutto nel consiglio comunale. Sembrava fosse cresciuta di quindi-
ci centimetri; se qualcuno era uscito ammaccato dall'esperienza, quel qualcuno non era lei. Ormai, tuttavia, sapeva ciò che non avrebbe assolutamente potuto sapere quando, nel suo discorso, aveva evocato lo spettro di Lady Godiva. Salutò con un cenno Tom e Una. «Ciao, Cassie», disse. «Ciao, Cassie», fece Bernard. Poco dopo, apparvero le gemelle. Per tutti ebbero soltanto un debole sorriso. Alla sorella imprevedibile, invece, si rivolsero direttamente. «Ciao, Cassie», disse Evelyn. «Ciao, Cassie», le fece eco Ina, ma a bassa voce. Alle sette, non era arrivato nessun altro. Martha prese l'attizzatoio di ferro e lo sbatté contro un grosso pezzo di carbone fumante nel caminetto, quindi tornò ad accomodarsi nella poltrona. L'orologio sopra la sua testa continuava a ticchettare. Alle sette e un quarto non fiatava più nessuno. Alle sette e venti udirono un'auto accostare in strada. Beatie uscì per vedere se era quella di Gordon. Non lo era. Il pendolo sopra la testa di Martha oscillava avanti e indietro, e lei sembrava rimpicciolire a ogni oscillazione. Una era avvilita. Beatie e le gemelle erano pensierose. Poi, alle sette e mezzo, la porta di servizio si spalancò ed entrò Frank. Tutti eccetto Martha e Cassie si alzarono, neanche fosse il principe ereditario. «Mamma!» urlò lui, e corse da Cassie, che si scosse dalla sua trance per abbracciarlo. «Dov'è la zia Aida?» s'informò Martha. «È seduta in macchina. Dice che arriva tra un minuto.» Aspetta che arrivi prima l'altra, pensò Martha. Nel giro di pochi istanti apparve Olive, seguita a ruota da William e dalle sue bambine con facce da luna piena. Olive andò dritta da Martha e la baciò, perdendo tempo con lei prima di rivolgersi a Cassie. «Ciao, Cassie», disse infine, rigida. «Ciao, Cassie», disse William. Trascorsero soltanto un paio di minuti prima dell'ingresso di Aida e Gordon. Il silenzio tornò a impadronirsi della casa. Qualcuno trovò una sedia con lo schienale rigido per Olive, e un'altra fu trascinata attraverso la stanza per Aida. Fu quest'ultima a rompere il silenzio. «Ciao, Cassie», disse. Quindi Gordon, con gli occhi spiritati e quel suo terrificante sorriso da vecchia carogna, andò dritto verso Cassie e le prese le guance tra le grandi, bianche mani ossute. «Iiiiiiiiiiiiiiiiiiii sì iiiiiiiiiiiiiiiiiiiii Cassie, sei un fiorellino selvatico, ecco
cosa sei. Un'orchidea selvaggia. Un bocciolo alle pendici della montagna.» «Lo pensi davvero?» domandò Cassie, fissandolo negli occhi, ora sereni. «Iiiiiiiiiiiiiiiiiii sì! Lo penso! Ehehehiiiiiiiiiiiii! Lasciati dare un bacio, fiorellino selvatico! Che io lo so perché l'hai fatto!» È bene che Gordon sia l'unico a poter rompere il ghiaccio, pensò Martha. Poi lui prese una sedia. Tutti gli adulti erano seduti. Tutti i nipoti di Martha erano in piedi, a spalle curve e attenti, sentendo l'imminenza, la prossimità di una frattura, e per quello rimanevano in silenzio. Gli adulti, invece, preferivano coprire quella sensazione con le chiacchiere. Martha afferrò l'attizzatoio e lo sbatté contro il secchio del carbone. «Martha alla presidenza!» esclamò Bernard. «Saresti stata utile nel consiglio comunale, Martha.» Il tentativo alleggerire la tensione fallì. «Aida, sei tu la maggiore. Parlerai tu per prima», dichiarò Martha. «Parlare?» disse Aida. «Parlare di cosa?» «Parlerai con Olive e lei parlerà con te.» «Parlare con Olive?» fece Aida, guardando Olive dritto negli occhi. «Io non ho più problemi con Olive.» «Allora lo dirai a lei, e non a noi. Giusto?» Il petto di Aida si sollevava e si abbassava. Infine lei alzò una mano, dicendo: «Olive, non ho più problemi con te. Fine della storia». Olive dovette asciugarsi una lacrima. «E io non ho problemi con te, Aida. Non ti ho mai considerato un problema.» «Però non devi essere così prepotente», aggiunse Aida. «Io non sarò così prepotente se tu non sarai così arrogante», ribatté Olive. Stava per ricominciare tutto daccapo, ma in quel momento Frank si ricordò delle caramelle frizzanti al limone. Aida aveva portato un pacchetto di caramelle frizzanti al limone per ognuna delle figlie di Olive e li aveva affidati a Frank, che scattò in avanti per darli alle cugine; quel gesto fece ricordare a William che aveva portato una grossa zucca e due libbre di pere Conference da dare ad Aida. Passò il sacchetto di frutta e verdura a Beatie, che lo passò a Una, che a sua volta lo passò ad Aida. «Bella grassottella», disse Aida della zucca. «Sarà meglio», commentò Tom. «Allora adesso, Aida», disse Martha quando il rigido rituale dello scambio di doni e della sepoltura dell'ascia di guerra fu concluso, «racconta a Olive di quel cadavere che si è alzato dal tavolo l'altra sera. Ci faremo due
risate.» «Che famiglia», disse Bernard sottovoce. Non abbastanza sottovoce per Martha, però. «Ehi! Smettiamola! E, Cassie, perché stai piangendo, adesso?» «Sono contenta, ma'.» «Bene. E possiamo dire che il cavallo resterà nella stalla?» «Sì, ma'.» «Benissimo. Allora, Aida, avanti, racconta.» 35 Il venerdì pomeriggio seguente, alla fattoria, Tom stava spianando il campo sotto il ruscello, cercando di livellare le fosse e i canali lasciati dalla fienagione. Mentre girava il trattore in cima al campo vicino al torrente, il rullo s'incagliò contro una flangia di metallo arrugginito che spuntava dal terreno. Tom fermò il trattore e scese a ispezionare. Tirò, ma il lembo di metallo non voleva liberarsi. Allora imprecò, perché sapeva che avrebbe dovuto scavare per tirarlo fuori. Spense il motore del trattore e fece per attraversare la passerella di legno sul ruscello, per prendere una vanga, ma un piede gli scivolò sul bordo di un'asse marcia. Tom imprecò di nuovo. Guardò verso la fattoria e vide Cassie, Frank, Una e le gemelle sull'aia. Cassie e Frank si fermavano da loro per il fine settimana. Si diresse verso casa. Gli ci volle un'ora per estrarre la grossa lastra di metallo arrugginito e, anche dopo averla tirata fuori dal terreno, non riuscì a identificarla. La trascinò nel fossato sul bordo del campo, rimontò sul trattore e finì di spianare la terra. A lavoro fatto, andò a prendere un grosso martello e qualche asse di legno nuova, con l'intento di riparare la passerella. Prima schiacciò gli avvizziti resti autunnali di rovi e ortiche ammassati attorno al ponte. Poi brandì il martello e lo abbatté su una delle assi marce. Vi fu un unico colpo alla porta. Un colpo così pesante che parve scuotere la casa. Martha stava davanti al fuoco ed era sola in casa, dal momento che Cassie aveva portato Frank alla fattoria per il fine settimana. Anche se tutti si erano divertiti ad ascoltare la storia di Aida sul cadavere che si alzava a sedere sul tavolo da imbalsamazione, quel racconto aveva consolidato in ognuno una certa paura della morbosità e l'idea che Frank potesse interessarsi un po' troppo all'imbalsamazione come passatempo serale.
Martha aveva già cominciato ad architettare modi per condurre a termine il periodo di Frank a Binley Road. E stava rimuginando su quel problema, fissando il fuoco, quando il colpo arrivò. Martha si alzò con fatica. Ultimamente il respiro le si era fatto più pesante. Inoltre, dopo aver tirato la tenda e aperto la porta, sentì un lieve capogiro. Dovette fare un passo indietro. Sulla soglia c'era un pilota. I tacchi erano uniti e lui teneva le braccia rigide lungo i fianchi, orgogliosamente eretto. Portava un casco da aviatore di cuoio imbottito e occhialoni, ma gli occhi erano chiaramente visibili, quasi ingranditi. Dal distintivo, Martha capì che si trattava di un pilota tedesco. L'uomo guardò intensamente Martha, quindi disse: «Wir, die wir einst herrlich waren. Wir fallen immernoch aus den Wolken». «Non ti ho capito», fece Martha. Il pilota sembrava confuso, smarrito, e prese a torcersi le mani guantate. Si diede una rapida occhiata alle spalle, poi, con un movimento improvviso, le fece il saluto militare, si voltò e percorse il vialetto. Martha ebbe paura. Sapeva che quello era un fantasma, perciò non fece nessun tentativo di seguirlo. Invece chiuse la porta, tirò il chiavistello, rimise a posto la tenda e tornò a sedere accanto al fuoco. Tom calò il martello una seconda volta e l'asse andò in pezzi. Lui la sollevò e la gettò sulla riva. Dal momento che le altre assi non sembravano in condizioni migliori, fece il giro e calò il martello da dietro. Due o tre colpi furono sufficienti a smuovere la seconda asse dalla terra in cui si era incuneata, e l'ultimo colpo la spedì verso il cielo. Scoprendo lì sotto un cumulo di piume di gallina e penne di uccello, Tom credette che una volpe avesse usato il ponte come rifugio; forse lì si trovava anche la sua tana. Oltre alle piume di gallina, infatti, c'erano penne di gheppio, piccione e corvo. Poi si rese conto che un gran numero di quelle penne era stato piantato dritto in terra, in file ordinate. E c'erano altre cose: castagne d'India, ghiande, gusci di nocciola, sassolini, pezzi di asfalto lucente e di roccia, schegge di vetro verde di bottiglia e di vasellame, frammenti di uno specchio, un corno di mucca, delle tettarelle di gomma per gli agnelli e altri pezzi mancanti degli attrezzi della fattoria. Tom calò ancora il martello, spezzando la terza e ultima asse, portando tutto alla luce. E vide palle di gomma, soldatini, automobiline, figurine delle sigarette, fumetti per bambini, ossi di gallina e teschi di coniglio. C'erano pure una campana e un piccolo piatto d'oro. E c'era un'altra cosa, di
vetro e metallo. Tom cercò di estrarla dalla terra, ma essa non voleva uscire. Allora lui si chinò, per guardare più da vicino. «Diavolo!» sussurrò. «Porco di un diavolaccio!» Forse mezz'ora dopo il suo incontro col pilota tedesco, Martha si svegliò sulla sua poltrona sotto l'orologio a muro e batté le palpebre davanti alle braci del camino. Si alzò, vuotò il secchio del carbone nel camino, poi riempì il bollitore e lo mise a scaldare. La visione del pilota - perché era convinta che fosse stata proprio una visione, benché talvolta la verosimiglianza di quelle apparizioni la lasciasse nel dubbio - l'aveva turbata più del solito. Mentre l'acqua bolliva, andò a controllare la porta d'ingresso. La tenda era tirata e lei la scostò. La porta era chiusa col chiavistello. Martha lo tolse e aprì. Era tardo pomeriggio e un sole annacquato, color ottone, sprofondava nei tetti d'ardesia, splendendo pigramente sulla schiera di case di mattoni rossi. Nell'udire il rumore insolito, acuto, di un motore, Martha guardò in fondo alla strada vuota. Uno strano trabiccolo a tre ruote spuntò da dietro l'angolo. Era minuscolo e non somigliava né a una motocicletta né a un'automobile, bensì a una specie di fusione tra le due; sembrava la cabina di pilotaggio di un aereo montata su tre ruote e guidata da una sagoma ingobbita. Accostò e si fermò davanti a casa di Martha. La sagoma ingobbita sollevò un tettuccio e uscì. Il guidatore del veicolo portava una giacca da aviatore e gli occhialoni. Teneva i denti stretti. «Oh, non un'altra volta», sussurrò Martha. Ma la sagoma rivolse a Martha un sorriso tanto radioso quanto ebete. Inoltre non indossava la divisa completa, come l'apparizione di poco prima, ma i blue-jeans. «La mirabile Mrs Vine!» gridò l'uomo in tono gioviale, sfoggiando un accento impeccabile. «Salve», fece Martha in tono piatto, restando in guardia. Sfilandosi il casco da pilota e gli occhialoni, l'uomo disse: «Non mi riconosce, Mrs Vine? Sono George. L'amico di Cassie, da Oxford». Riconoscendolo, Martha provò un gran sollievo. Quindi puntò un dito verso il trabiccolo con cui il giovane era arrivato: «Cos'è quella?» «Quella? Be', è una Messerschmitt Bubble, Mrs Vine. Grazioso gingillo, no? Senta, Mrs Vine, sono venuto qui di gran carriera. Voglio sposare sua figlia, se lei mi vorrà.» «Come?» «Cassie. Se mi vorrà. Che ne dice? È il suo bollitore che fischia, Mrs
Vine? Una tazza di tè, meraviglioso. Che tempismo, vero?» «Frank, vieni giù al campo con me. Anche tu, Cassie. C'è qualcosa che dovete vedere.» «Cosa?» domandò Una. «Tu resta qui con le gemelle, per il momento. Non so se è il caso che lo vedano.» «Che vedano cosa?» Tom non rispose. Frank guardò con nostalgia in direzione della passerella. Sapeva dove aveva lavorato lo zio tutto il pomeriggio e, quando Tom si voltò, tornando a incamminarsi in quella direzione, lui semplicemente gli andò dietro, imitato da Cassie, da Una e dalle gemelle, nonostante l'ingiunzione di Tom. Arrivati al ruscello, Tom disse a Frank: «È opera tua, questa?» Frank annuì. Il fatto che il suo nascondiglio fosse stato scoperto gli diede un senso di profondo sollievo. «Quello non ce l'ho messo io, però», disse, indicando la grande struttura simile a una bolla di vetro e acciaio. «Quello c'era già.» «Lo so», annuì Tom. Cassie s'inginocchiò, accostando l'occhio alla parte scoperta della bolla di vetro. «Buon Dio!» esclamò. Una voleva guardare. Così si mise anche lei in ginocchio e scrutò l'Uomo Dietro il Vetro. «Ohilà! Questo non mi piace.» Le gemelle allungarono il collo, perché desideravano vedere anche loro, ma Tom, con decisione, le rimandò a giocare sull'aia. Se ne andarono strascicando i piedi e guardandosi alle spalle. «Una volta gli parlavo, però non lo faccio più da tantissimo tempo», spiegò Frank. «Dunque è qui che è caduto», disse Cassie. «Come? Di che stai parlando, Cassie?» domandò Una. Cassie non rispose. Si limitò a fissare la bolla di vetro. «Questo spiega perché non sono mai stati trovati corpi», borbottò Tom. «Che cosa farai?» s'informò Una. «Bisogna tirarlo fuori. Dovrò dirlo a Snowie.» Snowie era il rubizzo e canuto poliziotto locale, che pattugliava la zona in bicicletta. Il mattino seguente alla caduta dell'aereo si era trovato da quelle parti e aveva detto a Tom di tenere il fucile carico, in caso l'equipaggio fosse sopravvissuto. «Tutto questo tempo...» mormorò Una.
Tom si allungò per tirare fuori qualcosa che stava in mezzo alle penne, alle monete, ai sassolini e al vetro. Era la campana. «E di questa che cosa diremo, giovane Frank?» Nella famiglia Vine, nessuno avrebbe saputo dire quale fosse l'evento più straordinario: che un bombardiere tedesco HE 111, abbattuto durante la notte del blitz di Coventry, fosse caduto nel campo di Tom, incendiandosi, per poi finire col muso di plexiglas sotto la passerella; che Frank avesse rubato dalla chiesa la campana della pace, o che George fosse arrivato da Oxford, determinato a sposare Cassie. «Non lo sai, cosa ti stai accollando», gli disse Martha. «Ma lo so, Mrs Vine, lo so!» gridò George. «Ho sentito tutta la storia di Cassie che va a cavallo per la città e...» «Zitto, salame! Vuoi che i vicini ti sentano?» «Me lo hanno detto», continuò George in tono più basso. «Ed è stato proprio quello che...» «È stato quello? A far cosa?» «È quello che voglio: Cassie! È la ragazza per me. Chiunque faccia una cosa del genere è straordinario! Darei un mese d'infelicità per un'ora dell'emozione che Cassie può dare a un ragazzo. È lei che voglio, e a ogni costo.» «Bisognerebbe rinchiuderti! E lei con te!» George tese le mani per farsele ammanettare. «Mi rinchiuda con lei! Mi conduca alla prigione del matrimonio!» Quindi si gettò lungo disteso per terra di fronte a Martha e cercò di afferrarle il piede per piazzarselo sulla testa. «Guardi, Mrs Vane! Mi sottometto! Il codice dell'amor cortese, Mrs Vine! Mi umilio! Ordini a sua figlia di sposarmi! Mi liberi da questa infelicità!» «Via dal mio piede, stupidone di uno snob! Cosa direbbe tua madre, se ti vedesse?» «Stupidone e snob come sono, devo avere Cassie!» Martha si chinò a prendere l'attizzatoio accanto al caminetto e somministrò a George una ben meritata botta sulle costole. Gemendo, George lasciò il piede di Martha e si rivoltò. «Adesso alzati e smettila di renderti ridicolo!» Martha stramazzò sulla sua poltrona, rossa in volto per lo sforzo. «Se davvero devi averla, allora, per l'amor di Dio, parliamone come si deve! Guarda in che stato mi hai ridotto!»
Mentre nel soggiorno di Martha si svolgeva quella scena teatrale, alla fattoria era in corso una discussione decisamente più seria. Snowie arrivò ansimando sulla sua bici, si grattò i pochi capelli bianchi che gli rimanevano in testa, dichiarò di non aver mai visto nulla di simile e ammise di non saper proprio che cosa fare. A chi dovevano dirlo? Non c'era più un ufficio locale del ministero della Guerra, che invece esisteva la notte in cui l'aereo era caduto nel campo. Non sapeva esattamente a chi doveva essere notificato, disse, però aveva la sensazione che bisognava dirlo a qualcuno. Lui e Tom decisero di scavare attorno al muso di vetro e acciaio dell'aereo per osservare bene i resti all'interno. La cabina di pilotaggio era in pezzi e, quando riuscirono a sollevare il muso di vetro, videro che il teschio, col suo casco da aviatore, era l'unica parte intatta del pilota. «Be'», disse Snowie, scavando delicatamente con la vanga, «non è uno scheletro intero.» «Guarda, porta ancora la sua piastrina», osservò Tom. «Sei sicuro che dovremmo fare questo?» «Non ne ho idea», rispose Snowie. «Normalmente non mi guadagno la vita disseppellendo scheletri di tedeschi morti, giusto? Guarda, c'è solo un pezzetto di gabbia toracica e nient'altro.» «Non possiamo lasciarlo qui», disse Tom. Snowie inspirò rumorosamente e rifletté per un momento. «Puoi tenerlo in casa o nel fienile sinché qualcuno non viene a vederlo?» «No, che non posso, per la miseria!» «Uno scheletro tedesco non può far male a nessuno, giusto?» «Va' all'inferno, Snowie.» Snowie si grattò di nuovo la testa. «Bene, allora, rimettiamo a posto il vetro finché non riesco a far venire qualcuno qui. Aiutami a sollevare questo.» I due uomini s'incamminarono decisi verso la fattoria. Tom versò a entrambi un dito di scotch e Snowie, dopo aver leccato un mozzicone di matita, prese laboriosi appunti sul suo taccuino. Ricordò a Tom che, quando l'aereo era stato abbattuto, le schegge di metallo erano state scagliate dappertutto, e alcune di esse erano atterrate a diversi chilometri di distanza dalla fusoliera principale. Conclusero che la cabina di pilotaggio era stata tagliata in due, insieme col torace del pilota, e si era conficcata nella riva fangosa del torrente. L'acqua, sollevandosi e abbassandosi, aveva portato alla luce una parte del muso sepolto, sinché Frank non l'aveva trovata.
Snowie chiuse di scatto il suo taccuino, concludendo che avrebbe dovuto avvertire sia il comune sia il ministero degli Interni. Poi spinse il bicchiere vuoto lungo il tavolo della cucina, in attesa del rifornimento. Snowie non venne informato del furto della campana della pace compiuto da Frank, il quale fu invece subito condotto da Cassie alla catapecchia di Annie la Stracciona e costretto a confessare e scusarsi con lei. La decisione di avvertire la polizia spettava a Annie. «Ma perché hai voluto mettere nei guai una vecchietta come me?» gli chiese Annie la Stracciona. «Ti ho mai fatto del male?» «Non volevo!» rispose Frank, in lacrime. «Non volevo metterla in nessun guaio!» «Può anche darsi, ma l'hai fatto. E loro hanno pensato che ero una ladra. Ma eri tu, il ladro.» «Una ha detto di dirle che tocca a lei decidere se chiamare la polizia», riferì Cassie, guardandosi attorno a occhi sgranati, affascinata dai flaconi, dai barattoli, dalle fiale e dalle erbe secche di Annie. «Come, e lasciare che quel buono a nulla del vecchio Snowie ficchi il suo grosso naso lucido negli affari nostri? A che servirebbe? No, lasciamici pensare.» E, mentre ci pensava, Annie lanciò un'occhiata a Frank, che stava tirando su col naso, e il suo sguardo era così feroce che lui dovette abbassare gli occhi e guardarsi le scarpe. «No», disse infine. «Non lo diremo alla polizia. Lo diremo alle api, giusto, figliolo?» Frank alzò gli occhi. «Che vuol dire?» chiese Cassie. Annie la guardò, battendosi un dito sul naso. «Il ragazzo lo sa. Una può dire che ha trovato la campana in un fosso e poi riportarla alla chiesa. Ma tu, Frank, per quello che mi hai fatto passare dovrai ripagarmi. Non ho legna spaccata per l'inverno. Puoi spaccarmi una catasta di legna per il mio camino. Che ne dici?» Frank non disse nulla. Si limitò a fissare Annie la Stracciona, quasi fosse un elfo dei boschi. «Se fossi in te, direi di sì, e in fretta», intervenne Cassie. «Sì», disse Frank. «Una catasta grande, bada», precisò Annie. «L'inverno sarà lungo. Ti ci vorranno parecchi sabati pomeriggio.» «Se fossi in te, direi ancora di sì», ribadì Cassie.
«Sì», disse Frank. «Bene, fine della storia. Sei capace di usare l'accetta, Frank?» «No.» «No? Un ragazzone grande e grosso come te? È ora che ti fai insegnare, allora, giusto?» 36 «Dove stiamo andando, mamma?» Frank aveva rivolto a Cassie la stessa domanda diverse volte, ma senza ottenere una risposta soddisfacente. Cassie gli aveva detto soltanto che andavano «in cima alla città» e che aveva qualcosa da mostrargli. Così avevano preso l'autobus per il centro e percorso a piedi Trinity Street fino a Broadgate. Frank pensò che c'era qualcosa di diverso nella madre. Tanto per cominciare, si era messa un profumo diverso, camminava con uno slancio nuovo e sembrava che non riuscisse a nascondere un sorriso. Attraversando Broadgate, Cassie tenne Frank per mano. Gli occhi del bambino spaziarono sulla graziosa isola d'erba, a forma di croce per richiamare il transetto della cattedrale colpita dal blitz, fino all'elettrizzante statua di Lady Godiva, divenuta espressione del sacrificio della città. La risoluta modernità del luogo (quella statua, quell'isola di verde all'estremità della zona pedonale) aveva finito per diventare lo stemma della città e, in quello stemma, si rispecchiava una sorta di patto dopo gli anni del disastro. Quindi Cassie condusse Frank su per i bianchi gradini di pietra del colonnato della banca. «Entriamo qui?» domandò Frank. «No», rispose Cassie. «Ti ho portato qui per dirti una cosa, Frank. E spero che capirai.» Frank la guardò, battendo le palpebre. «Neanche tredici anni fa, stavo su queste scale e avevo una bambina piccola in braccio. Vedi, tutti sapevano che non sarei stata la madre migliore del mondo per quella bambina. Così avevano trovato delle persone gentili che si sarebbero prese cura di lei, dandole una bella casa. Anche se mi ha spezzato il cuore. Anche se mi spezza il cuore ogni giorno.» Cassie dovette fermarsi per aprire la borsetta. Frugò in cerca di un fazzoletto e si soffiò il naso. Quindi richiuse la borsa e continuò la sua storia. «Poi, Frank, è successo di nuovo tutto daccapo, qualche anno dopo. Eccomi di nuovo qui con un altro bambino, stavolta un maschietto. E avrei dovuto darlo via. Ma la vedi quella guglia lassù? Quella di St Michael? Ho guardato lassù e mi
era sembrata un ago che pungeva il cielo. Credevo di sentire le nuvole che si strappavano su quella guglia. Be', era il mio cuore che si strappava, ecco quello che sentivo. E, lo sai, quel bambino eri tu e non potevo darti via. Non potevo proprio farlo un'altra volta. Così tua nonna ha trovato un modo perché potessi tenerti, che non è stato facile per nessuno, perché io sono tanto sventata e, come dicevo, non sono la madre migliore del mondo.» «Ma tu lo sei, mamma! Lo sei!» protestò Frank, più allarmato dallo stato emotivo della madre che dalla sua confessione. «No, sono una sciocca e una testa di legno e ho le crisi di buio... Ma la sai una cosa, Frankie? Ti voglio un bene dell'anima, tutto il bene che si può volere al mondo. Voglio bene a te e voglio bene alle mie sorelle e voglio bene alla mia mamma, tua nonna. Sul serio. E non farei mai niente che tu non volessi davvero. Perciò oggi ti ho portato qui per chiederti una cosa. Riguarda George, di Ravenscraig.» «Sì.» «Ti piace, vero?» «Sì.» «Be', Frank... Mi ha chiesto di sposarlo.» «Sì.» «George dice che vuole sposarmi e prendersi cura di noi due. Dice che non importa se sono una sciocca. Dice che avremmo una nostra casa qui a Coventry vicino al resto della famiglia e che sarebbe un bravo papà per te e ti vorrebbe bene anche lui, come se fossi suo.» «Sì, lo so. Le so, tutte queste cose.» «Che vuoi dire? Come sarebbe che sai tutte queste cose?» «George mi ha chiesto il permesso di sposarti.» «Davvero?» «Sì. Quand'eravamo a Ravenscraig. Doveva parlarmi di Karl Marx, e invece parlava continuamente dell'essere innamorati. Diceva che stava scrivendo un libro e diceva che, se lo vendeva, ti avrebbe chiesto di sposarlo, così avremmo potuto vivere tutti insieme e io ho detto sì, sarebbe bello, perciò deve aver venduto il suo libro.» «Allora non ti dispiace se sposo George?» «Mi piacerebbe. È una brava persona. Perciò gli ho già dato il mio permesso. Però mi ha chiesto di non parlarne. Va bene, mamma. Lui mi piace.» «Proprio davvero?» «Proprio davvero.»
Cassie si mise a piangere e gettò le braccia al collo di Frank. Avvertendo lo sguardo dei passanti, Frank si ritrasse leggermente. Non gli piaceva dare spettacolo, soprattutto lì, sui gradini della banca in cima alla città. «Mamma, ci stanno guardando tutti», si lamentò. Mentre Cassie piangeva e abbracciava Frank sulle scale della banca, a Broadgate, Martha si godeva il suo consueto bicchiere di birra scura, la sua razione quotidiana per gentile concessione del servizio sanitario nazionale. Non tutti i medici erano così saggi, ma quello di Martha lo era e, con tutto il suo breviario di malanni, ripeteva spesso quant'era straordinario che lei tirasse avanti così bene. Martha sorbì la birra scura e asciugò col dorso della mano la schiuma cremosa sul labbro superiore. La bevanda le sistemò lo stomaco e le calmò il batticuore. Le capitava di avere il fiato corto, ultimamente, e le giornate le erano diventate faticose. Posò il bicchiere sul tavolo basso accanto a sé e si rimise comoda in poltrona. La casa era silenziosa. Ora che Beatie se n'era andata e Cassie aveva accettato la proposta di quel tizio di Oxford - strano, sì, ma anche bravo e simpatico -, sapeva di doversi aspettare molto più silenzio. E non era sicura che il silenzio fosse ciò che voleva. Stava adagiata nella sua poltrona, col regolare mormorio del pendolo sopra la testa. Guardava assorta il bicchiere, le minuscole bollicine d'aria che ancora scoppiavano in superficie. Quindi bussarono alla porta. Non era un colpo forte, non di quelli che scuotono l'uscio. Erano colpetti leggeri, nocche ossute appoggiate sul legno, lievemente musicali: ticticchete-tic. Martha sospirò e si alzò con fatica. Fu lenta ad arrivare alla porta e, prima che avesse la possibilità di tirare la tenda, ecco un altro colpetto leggero. «Va bene, sto arrivando», disse. Benché fosse autunno inoltrato e nell'aria si avvertisse un gelo invernale, sulla soglia c'era un uomo in maniche di camicia. Non era una figura particolarmente impressionante: era basso di statura, trasandato e con la barba non fatta. Aveva la pelle abbronzata, quasi color cuoio. Martha lo prese per uno zingaro o un venditore ambulante. Aveva anche modi piuttosto cordiali. «Passavo da queste parti», disse con un sorriso. «Sono venuto a tagliare l'erba.» Aveva con sé una vecchia e arrugginita falciatrice a mano, in condizioni pietose. Martha pensò che l'uomo doveva essere proprio alle strette. Lui accennò col capo alla falciatrice.
In effetti Martha aveva un fazzolettino d'erba nel giardinetto sul retro, ma era quasi inverno e l'erba aveva comunque smesso di crescere. «Una falciatrice, eh? Non è la stagione giusta per le falciatrici. Ma lei da dov'è spuntato?» Era un omino triste, dagli occhi gentili. «Sto solo cercando lavoro.» E fece un sorriso che svanì troppo presto. «Non ho bisogno di lei», disse Martha. L'omino fece un piccolo passo in avanti. «Non la faccio pagare.» Martha rabbrividì. «Oh, no», disse, indietreggiando. «Oh, no. Come avrei voluto che non lo dicesse.» «Mi dispiace», replicò l'uomo. «Dovevo dirlo.» Fece un altro piccolissimo passo in avanti. «Mi dispiace.» Martha chiuse di scatto la porta. Le venne il fiatone e la stanza si mise a girare. Dovette faticare parecchio per raggiungere la sua poltrona, sulla quale crollò pesantemente, colpendo il tavolo e rovesciando il bicchiere. Lo spesso tappetino di fronte al caminetto s'inzuppò di spumosa birra scura. 37 Con sorpresa e gioia di tutti il matrimonio di Cassie e George fu duplicato dal matrimonio di Beatie con Bernard. Era un'idea sensata dal punto di vista sia economico sia emotivo: George sarebbe stato il testimone di Bernard e viceversa. Un solo abito nuovo a testa e un solo ricevimento, dal momento che l'elenco degli ospiti era quasi identico, con un'unica maratona di sandwich al burro e cetrioli e alla pasta di salmone. Vi fu qualche polemica nella scelta del luogo designato, cioè l'ufficio di stato civile. Aida, Ina, Evelyn e Olive erano tutte scandalizzate che le sorelle avessero deciso di rinunciare al matrimonio in chiesa. Una lo spiegò e rispiegò: «Sentite, sono tutti dannati comunisti, che ci farebbero in una chiesa?» «Scusa, Una», la corresse George. «Io non sono un dannato comunista, ma un sindacalista.» «E noi siamo socialdemocratici, grazie», aggiunse Beatie. «Be', Cassie, allora tu cosa sei?» volle sapere William. «Io sono uno spirito libero neoanarchico, dice George», rispose Cassie in tono allegro. «Capisco», annuì William, strizzando l'occhio a Tom. «Allora va bene.»
Ma la discussione continuò, specie perché tutti avevano la sensazione che - per il fatto stesso che Beatie e Bernard avevano deciso di fare il grande passo - si fosse scesi a patti con un qualche principio importante (seppur compreso solo vagamente dagli altri). Quei due erano stati così recisi sull'ipocrisia del matrimonio e sull'incertezza della monogamia che quell'improvvisa capitolazione ai valori borghesi aveva sorpreso la famiglia intera. D'altronde, la famiglia intera non aveva preso parte a una conversazione di Martha con Beatie. Accadde poco tempo dopo che Martha aveva avuto la «strana crisi», in cui era crollata sulla poltrona rovesciando il suo bicchiere di birra scura. Beatie era seduta con Martha e stava raccontando le pagliacciate di certi consiglieri comunali. «Maiali col muso nel trogolo, mamma, certi sono proprio questo. Per la metà del tempo non si tratta di politica, ma di come foderarsi le tasche.» «Sì», aveva detto Martha dando una tirata alla sua pipa. «È difficile tener separato il personale dal politico.» Quindi aveva aggiunto: «Hai un bel po' di attenzione puntata su di te, vero, Beatie?» «Troppa, miseriaccia.» Beatie era la beniamina della stampa. Con una giovane donna assessore, tanto attraente quanto incendiaria, si scrivevano pezzi strepitosi, e all'improvviso la cronaca politica locale era diventata sexy. L'avevano soprannominata la Bolsce-Beatie, la Beatie Boudica e la Valchiria Vine. I discorsi e gli interventi che faceva venivano trascritti sull'Evening Telegraph di Coventry da un giovane e devoto reporter. «Meno male che sta arrivando questo bambino», aveva detto Martha. «Farà calare la pressione.» «Perché dici così, mamma?» «Quando scopriranno che non sei sposata, dico. Con un bambino. Allora si scoperchierà la pentola. Ma stai facendo la cosa giusta. Di' la tua adesso, finché sei giovane. Nessuno vuole restare in politica a lungo termine. Mi aiuti ad alzarmi da questa poltrona, Beatie? Ho la schiena tutta scassata.» Mentre aiutava Martha ad alzarsi, Beatie si era fatta stranamente silenziosa e quella sera se n'era andata con un'aria parecchio turbata. Nel giro di un paio di giorni, Beatie e Bernard avevano fatto il loro annuncio. Il doppio matrimonio fu una gran giornata. Il ricevimento si tenne nel salone delle feste del dopolavoro operaio. Oltre alla famiglia, tra gli ospiti c'erano alcuni consiglieri comunali e altri amici dell'ambiente politico. Lilly venne da Oxford. Frank riuscì a sedersi al tavolo principale, tra Mar-
tha e Cassie. Ci furono lo sherry, il pranzo a buffet e i discorsi: Bernard e George si esibirono entrambi sia in una esilarante tirata da testimone sia in un umile saluto dello sposo. Bernard definì George «un futurista vestito da sindacalista», facendo ridere almeno due persone e inducendo William a fissare Tom con le palpebre socchiuse. Il discorso di George fu il più divertente. Disse agli ospiti di sapere quanto fossero curiosi a proposito di quello che succedeva ai tempi di Ravenscraig, ma confessò di essere stato così occupato a fare sesso con tutti da non riuscire a ricordarlo. Quella battuta suscitò una risata fragorosa, che però s'interruppe di colpo, come succede quando ci si rende conto che la frase detta probabilmente non era una battuta. Beatie naturalmente contravvenne alla tradizione e si mise faticosamente in piedi per pronunciare un breve discorso della sposa. Per non essere da meno, Cassie la imitò, ma soltanto per smentire George, sostenendo che non ricordava se avessero fatto sesso a Ravenscraig. George si disse sorpreso che lei riuscisse a ricordare qualcosa. Bernard intervenne, dichiarandosi molto lieto che avessero dato inizio alla loro vita matrimoniale con un diverbio; al che, George sollevò tra le braccia la moglie e la baciò, pubblicamente e appassionatamente, scatenando un frenetico applauso. Un'orchestrina di sei elementi - pagata da William, Tom e Gordon - suonò musica jazz. Ci furono danze e birra alla spina; gli ospiti s'impegnarono a prosciugare il bar. A un certo punto, mentre tutti gli altri ballavano, Tom portò un bicchiere di birra scura e uno di aranciata a Martha e Frank. «Ebbene, Martha, ecco i tuoi ultimi pulcini che si sono fatti un nido tutto loro.» «Già. E con Cassie non l'avrei mai pensato.» Tom si chinò in avanti. «No, è Beatie quella che ci ha sorpreso. Vuoi dirmi come sei riuscita a convincerla?» «Io non c'entro per niente, Tom.» Martha sollevò il bicchiere di birra verso Frank. «Cin cin.» «Cin cin», disse Frank. Tom non poté far altro che guardare Martha con ammirazione. «Tutti noi... Siamo stati suonati come un dannato banjo. Cin cin.» Dopo che Tom se ne fu andato, Martha lanciò un'occhiata a Frank che sorseggiava la sua aranciata e rimase attonita. «Calzoni lunghi», mormorò. «Nonna?» fece Frank. «Porti i calzoni lunghi.» «Sì, nonna. Me li ha portati George, per il matrimonio. Ora che ho nove
anni, be', quasi...» «Parola mia, ti abbiamo portato fino ai calzoni lunghi, Frank. In un batter d'occhio eccoti qua, quasi uomo, e con tutto davanti a te.» Martha si asciugò un baffo di schiuma dal labbro superiore e si appoggiò allo schienale, come a esaminare Frank sotto quella nuova luce. «Mio caro Frank! All'improvviso non ho più paura per te. Nessuna paura. E sei stato una tale preoccupazione per me, davvero, non per qualcosa che hai fatto, no, ma per noialtri. Ma eccoti qui con tutto davanti a te.» Frank vuotò il bicchiere, arrossendo per quell'inatteso esame di Martha. «Penso che te la caverai bene. Tu sei più in gamba di noi, Frank, vero? Perché? Perché sai che non devi ascoltarli se non vuoi, giusto, Frank? Sai di cosa sto parlando, vero?» Frank annuì. «Non come tua madre e me, che veniamo trascinate di qua e di là quando loro cercano di raggiungere le nostre orecchie. Tu no. Tu scegli a chi di loro dare ascolto, Frank, vero? È stata quella faccenda della campana? È stato quello a farti capire che non sempre ti guidano nella direzione giusta? È stato quello? È così, non è vero?» «Sì, nonna, è stato proprio quello.» «E tu sei più in gamba di noi! Adesso l'ho capito. Tu sai scegliere! Tu ce l'hai, Frank. Se sia una benedizione o una maledizione non lo so, ma ce l'hai, e te la caverai meglio di noi. E adesso non ho più paura per te, adesso che ti abbiamo portato fino ai calzoni lunghi.» Gli strinse la mano. «Ti prenderai cura di tua madre, vero, Frank?» «Sì, nonna. Non permetterò che le succeda niente di male.» Qualcuno arrivò alle spalle di Martha. «Stai facendo al nostro Frank una testa di chiacchiere, eh, mamma?» Era Una. «Voglio che venga a ballare con me, dato che è un giovanotto così bello. Vieni, Frank?» Lui guardò Martha. Sapeva che, con le sue parole, la nonna gli stava dando un qualche permesso straordinario, e non era sicuro che avesse finito. Però Martha aveva finito. «Va' a ballare», gli disse. «Su, va'.» La festa continuò fin quasi a sera. Quando si accorse che, fuori, la luce si stava affievolendo, Martha annunciò che era pronta. Informò Aida e Gordon, dal momento che quest'ultimo le aveva promesso di portarla a casa quando si fosse sentita stanca. Mentre Gordon prendeva la macchina, Martha, gravata da un eccesso di birra scura e appoggiandosi pesantemente al suo bastone, si diresse verso la toilette nel corridoio. Prima che ci arrivas-
se, l'orchestrina attaccò Moonlight Serenade. Allora lei si voltò a guardare le sue figlie appena sposate, che andavano ad abbracciare i loro mariti per quel ballo lento, sensuale. Tra la massa dei ballerini volteggianti, loro salutarono con la mano e le sorrisero pigramente. Un sospiro di piacere attraversò il corpo decrepito di Martha. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime, sicché roteò sul suo bastone e fece per varcare la soglia. Ma si arrestò, senza fiato. Laggiù nel corridoio c'era suo marito Arthur, con l'abito che aveva indossato nel giorno del matrimonio. Riprendendosi in fretta, Martha disse: «Adesso mi parli, allora?» «Non sono stato io a smettere di parlare con te. Sei stata tu a smettere di parlare con me.» «Comunque sia andata, non abbiamo tempo, vero, Arthur?» «No», mormorò lui. «Nemmeno te ne accorgi e se n'è già andato.» Martha udì un lieve rumore di passi dietro di sé. Era Cassie. «Stai bene, mamma? Con chi stavi parlando?» Lei si voltò verso la figlia. «Non lo vedi?» Cassie guardò oltre le spalle della madre. «Vedere cosa? Con chi stavi parlando?» «Aiutami ad arrivare al gabinetto, ti spiace? Quel Gordon ha preparato la macchina?» Beatie, Bernard, Cassie e George accompagnarono Martha alla macchina di Gordon e la salutarono con un bacio. Ben presto sarebbero partiti per le rispettive lune di miele. Beatie e Bernard andavano a passeggiare per il Lake District, mentre Cassie e George avevano deciso di trascorrere qualche giorno all'isola di Wight. In loro assenza, Frank sarebbe rimasto alla fattoria. «Dov'è il mio Frank?» gridò Martha prima di permettere a Gordon di portarla via. Frank venne avanti. Martha lo baciò e gli sussurrò all'orecchio due parole. Tutti salutarono l'auto in partenza e se ne tornarono allegramente alla festa. «Cosa ti ha detto?» domandò qualcuno a Frank. «'Calzoni lunghi.'» Tre giorni dopo il matrimonio, Martha fece per riempire d'acqua un bollitore quando, all'improvviso, si sentì oppressa dalla stanchezza. Invece di far bollire l'acqua, aprì una bottiglia di birra scura, se ne versò un bicchiere e sprofondò al suo posto, sotto il vecchio orologio. Accese la pipa e si mise a fumare pensierosa. Bevve la sua birra. Quando ebbe finito birra e pipa,
posò il bicchiere vuoto e tornò a scivolare in poltrona, ascoltando il gradevole mormorio del pendolo. Poi Martha chiuse gli occhi e si addormentò. E, dal sonno, scivolò nell'inevitabile. 38 Gordon si assunse l'impegno di occuparsi dei preparativi per il funerale di Martha. Una delle prime cose che fece fu chiedere a Frank se gli sarebbe piaciuto aiutarlo. Andò in auto sino alla fattoria per parlare col ragazzo e Una dovette indicargli la via per la catapecchia di Annie la Stracciona, dove Gordon trovò Frank che brandiva un'accetta. Gli avevano già detto della morte della nonna. Gordon gli chiese di assisterlo nell'imbalsamazione e nella preparazione del corpo. Se aiutiamo Martha ora, gli spiegò, aiuteremo gli altri in seguito. Frank comprese perfettamente. Disse che l'avrebbe aiutato e se ne tornò a casa di Gordon e Aida, al laboratorio d'imbalsamazione di Binley Road. Stavolta Aida non assistette alle procedure. Andò a stare dalle gemelle, mentre Gordon e Frank preparavano il corpo per la Veglia. Gordon disse: «Ora, ricordati, figliolo: questo non è Martha. Questo è solo il pacco con cui è arrivata». Frank fece tutto con solennità e diligenza. Insieme, lui e Gordon lavorarono sodo, perlopiù in silenzio. Gordon era contento di vedere quante cose avesse appreso il ragazzo durante il suo soggiorno lì. «Saresti un bravo imprenditore di pompe funebri», osservò. «No, non vorrei fare questo per sempre», replicò Frank. Gordon rifletté per un momento, poi annuì. «Già. Non è roba per tutti. Ascolta, giovanotto, io penso a tagliare. Vuoi cominciare con la spugnatura?» Frank non se lo fece chiedere due volte. Era un gesto d'amore. Lui era la Fata della Morte che agitava la bacchetta magica. Gordon dovette usare la bacchetta per incidere gli angoli della bocca di Martha, così da eliminare una piega dal labbro superiore. Quindi sollevò il bidonano di sostanze chimiche e i due procedettero all'imbalsamazione. Frank pompava vigorosamente; Gordon si occupava del drenaggio. «Tre galloni», disse Frank. «Ricordi bene, giovanotto. Ricordi bene.» Gordon pensò all'imbalsamazione delle cavità, mentre Frank spazzolava i capelli della nonna ed eseguiva alcuni dei compiti che normalmente spet-
tavano a zia Aida. Le applicò la vaselina sul viso e un filo di rossetto sulle labbra, le ritoccò gli occhi con l'eyeliner, le diede un po' di fard sulle guance. Gordon alzò lo sguardo dal proprio lavoro e annuì, in segno di approvazione. «Hai un tocco così delicato, Frank. È meglio di quello che avrei saputo fare io. E non dirlo a zia Aida, ma è anche meglio di quello che avrebbe saputo fare lei.» Insieme la vestirono con gli abiti puliti forniti da Aida. Frank le lucidò le scarpe, gliele infilò ai piedi e gliele allacciò. Infine sollevarono Martha per collocarla nella cassa. Frank pensò che era di una leggerezza sorprendente e Gordon intuì quel pensiero. «Da viva sembrava più grande, vero? Tutto quel potere in una donna così piccola... Non ne vedremo più una uguale.» Impiegarono parecchio tempo, ma Gordon concluse che avevano fatto un buon lavoro. Aveva un carrello su cui fecero scivolare la cassa. Poi trasportarono Martha in salotto, pronta per la Veglia. Gordon disse che avevano un po' di tempo prima dell'arrivo della famiglia e che Frank doveva correre a fare il bagno e mettersi i suoi vestiti migliori. Doveva trasformarsi da imbalsamatore di Martha a suo congiunto in lutto. Aida coprì gli specchi del salotto e tolse l'orologio dalla mensola del caminetto. I familiari cominciarono ad arrivare dalle sei di quella sera. Soltanto i parenti stretti erano invitati: le sette figlie coi loro mariti e i sei nipoti di Martha. Per il funerale del giorno dopo, gli inviti sarebbero stati più estesi, ma per i Vine la Veglia era un fatto riservato e privato. Ina ed Evelyn arrivarono per prime, subito seguite da Una e Tom con le bambine. Poi la casa si riempì in fretta. Appena tornate dalla luna di miele, Cassie e Beatie furono costrette ad affrontare la dipartita di Martha. Beatie l'aveva presa peggio di tutte e Cassie cercò di consolarla. «Era pronta, Beatie. Mamma era pronta.» «Lo so», disse Beatie, soffiandosi il naso in un fazzoletto offerto da Tom. «Ma io no.» Ognuno di loro s'impose di toccare il corpo freddo di Martha, perché lei aveva detto a ciascuna delle ragazze che, se toccavi un cadavere, quello non sarebbe mai venuto a tormentarti. Non che credessero a quella superstizione, ma lo fecero comunque, perché era ciò che Martha aveva sempre detto loro di fare. Quindi Ina si levò gli occhiali e chiese se potevano cantare Resta accanto a me, benché il momento più adatto per il canto sarebbe stato il funerale. Quindi cantarono.
Non temo nemici, se Tu sei al mio fianco: non hanno peso i mali, nelle lacrime non c'è amarezza. Dov'è il tuo dardo, morte? Dov'è la tua vittoria? Ancor trionfo, se Tu sei al mio fianco. Però non cantarono bene e certi non riuscirono a cantare affatto. Per il dolore, a Beatie morì la voce in gola; William sembrò crollare a metà strada e il canto di Frank si spezzò sulle note alte. La melodia era troppo difficile da sostenere, per loro. Quando ebbero finito, ciascuno circondò gli altri con le braccia e quel momento di tenerezza familiare fu quasi più insostenibile del lutto. EPILOGO Fu nella primavera del 1954, mentre Frank si trovava in visita a Wolvey con Cassie e George, che la fattoria ricevette una visita inconsueta. George aveva affittato una villetta per loro tre a Withybrook, da quelle parti, e Cassie andava spesso alla fattoria per cavalcare. A Natale, Annie la Stracciona aveva sciolto Frank dal suo obbligo riparatore, ma lui andava ancora a trovarla per darle una mano. Tra lui e la vecchietta era nata un'insolita amicizia, e non soltanto perché lui si sentiva ancora colpevole per il furto della campana della pace. Frank era appena tornato alla fattoria quando vide un'auto svoltare nel vialetto. Sopra c'erano un uomo alto, anziano e distinto, e una donna dai capelli bianchi. L'uomo scese, si avvicinò a Frank e, senza una parola, tirò fuori un pezzetto di carta su cui c'erano scritti un nome e un indirizzo. Il nome era quello di Tom e l'indirizzo era proprio quello della fattoria. «È questa. La fattoria Tufmall. Sì.» Dalla cucina, Una li vide. Uscì col bambino in braccio e trascinandosi appresso le gemelle come Mamma Oca. «Che succede?» «Io di Germania», disse infine l'uomo, con un pesante accento. Indicò la macchina. «Questa mia moglie. Noi vuole vedere dove cadere aereo.» Seguì un momento straordinario in cui nessuno parlò. L'uomo chinò il capo per un attimo, poi socchiuse le palpebre, alzando infine la testa verso la soffusa luce gialla del sole. Quindi tornò a guardare Frank. «Credo che sia il padre di quell'uomo», disse Frank. «Puoi andare a chiamare Tom?» fece Una, agitata. Frank corse alla stalla delle vacche e ritornò con Tom. Questi, in tuta da
lavoro e stivali di gomma, salutò il visitatore con un cenno del capo. «Vuole vedere dove cadere aereo», ripeté l'uomo. «Mio figlio era in aereo.» «Capisco.» Tom si strofinò il mento e guardò Una, che a mo' di risposta sollevò le sopracciglia. «Be'», fece Tom, voltandosi verso i campi più bassi. «Non c'è granché da guardare.» Il tedesco sorrise tristemente. «Lo porto io giù al campo», disse Frank. Tom disse all'uomo: «Questo giovanotto glielo mostrerà. Ha trovato lui la cabina di pilotaggio». «Grazie», disse il tedesco. «Prendo mia moglie.» Aprì lo sportello del passeggero per far scendere la donna. Era un po' gracile e rimase appoggiata al suo braccio mentre entrambi si avviavano dietro Frank. Senza farsi sentire dalla coppia, Tom disse a Frank: «Faglielo vedere, ma non entrare nei dettagli». «So quello che ha bisogno di sapere», rispose l'altro. Mentre Frank e la coppia tedesca s'incamminavano lentamente verso il campo, Una domandò a Tom: «Be', che ne pensi?» «Non so cosa pensare. Probabilmente le autorità si sono messe in contatto con lui.» «Un minuto ti bombardano, il minuto dopo vengono a trovarti.» «Strano, eh?» «Strano, sì. Abbiamo perso un mucchio di gente, quella notte, no? E adesso vengono qua.» «Ma cosa ci possiamo fare?» Una sospirò. «È passata, no? Metto su il bollitore. Gli daremo una tazza di tè e una fetta di torta. Ecco cosa faremo.» Nel giro di mezz'ora, Frank tornò con l'anziana coppia. Gli erano grati per aver mostrato loro il luogo in cui si era schiantato l'aereo. Erano impacciati, ma si lasciarono convincere a entrare nella cucina della fattoria, dove bevvero il tè e permisero alle gemelle di fissarli a occhi sgranati. Spiegarono di trovarsi in visita a Coventry nell'ambito di un programma di riconciliazione promosso dalla Chiesa, qualcosa che aveva a che fare con la costruzione della nuova cattedrale. Avevano sperato di dare uno sguardo al paesaggio in cui il loro figlio, bombardiere della Luftwaffe, era andato incontro al suo destino. Le autorità inglesi avevano restituito alle autorità tedesche la piastrina del pilota e fornito altre informazioni, così loro ave-
vano saputo dove cercare. Nella cucina della fattoria si rilassarono un po', ma rimasero formali e garbati. Traducendo per la moglie, l'uomo disse che pure lei era cresciuta in una fattoria così simile a quella da potersi dire identica. Quando se ne furono andati, Una disse: «Bene». «Che ne dici, allora, Frank?» fece Tom. «È strano», borbottò Frank. «Ma sono contento che gli abbiate offerto una tazza di tè. Non costa niente essere gentili, vero?» Tom sorrise alla moglie. Sembrava di sentir parlare Martha. RINGRAZIAMENTI Un grazie particolare come sempre a Sue, e a Simon Spanton, Luigi Bonomi, Chris Lotts, Vince Gerardis, George Lucas, Ilona Jasiewicz, Nicola Sinclair, Pete Crowther, Brig Eaton, Tigerlilly, Peter e Mary Owens, Paula Guran, Jonathan Strahan e Bill Sheehan. Grazie inoltre a Lue e Janet Russell per le informazioni e a Renata McKenzie per la traduzione tedesca. FINE