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JONATHAN CARROLL ZUPPA DI VETRO (Glass Soup, 2005) A Jeffrey Capshew Martina Darnell Alice Kricheli i miei bellissimi amici Prologo: La Casa del Rossetto di Simon Haden era di nuovo nei guai. Che sorpresa, eh? Fin qui niente di nuovo, direte voi. A uno così viene una lieve accelerazione del battito cardiaco solo se si ritrova l'IRA che gli alita sul collo, la casa circondata dall'ex moglie e da uno stuolo di avvocati divorzisti, o l'uccello tra le zanne di un cane rabbioso. Quando aprì gli occhi quella mattina, il suo primo pensiero fu che non aveva i soldi per pagare le bollette che erano lì sulla scrivania. La sua macchina era affetta da tre tipi diversi di cancro automobilistico, tutti allo stadio terminale. E lui oggi doveva fare da guida a un gruppo di turisti e, se non filava tutto liscio, questa era la volta buona che lo licenziavano. In passato non aveva mai fatto tragedie se gli capitava di perdere il lavoro, perché in un modo o nell'altro trovava sempre qualcos'altro da fare. Ma adesso, era come avere un unico paio di calze nel cassetto: rotte quelle, non ne restavano altre. O le metteva, con tanto di buco nel ditone, oppure se ne andava in giro scalzo, il che significava nuovi guai. Scostò con un sospiro la sottile coperta viola che aveva comperato a un hard discount cinese dopo che sua moglie se n'era andata portandosi via tutto, coperte comprese. Ma aveva fatto bene a lasciarlo, perché Haden era un cane sotto tutti gli aspetti, fedeltà esclusa. No, non è giusto. Dire che era un cane sarebbe un insulto alla razza canina. Un topo di fogna, un serpente, un pericolo ambulante. Simon Haden non era quel che si dice un tipo piacevole, per quanto fosse indubbiamente attraente. La sua faccia era stata la rovina non solo di innumerevoli donne non abbastanza prudenti, ma anche di ex amici, venditori di auto usate che gli accordavano condizioni più convenienti di quanto non avrebbero dovuto e vecchi datori di lavori che per qualche tempo erano stati orgogliosi di ave-
re alle proprie dipendenze un tipo dotato di tanto fascino. Perché ci lasciamo sempre, dico sempre, ingannare da un bell'aspetto? Perché proprio non ce la facciamo a non lasciarci influenzare? È ottimismo o stupidità? Forse, chissà, soltanto speranza: vediamo un bel viso e ci diciamo che, se esiste qualcuno così, vuol dire che il mondo sta ancora andando per il verso giusto. Già, e come no?!? Haden diceva spesso che le donne non volevano fare sesso con lui ma con la sua faccia, e aveva ragione. Ma era acqua passata. Ora erano rimaste in poche disposte a fare sesso con qualsiasi parte di lui. Oh, certo, qualche volta ce n'era una, seduta all'altra estremità del bancone, che aveva bevuto troppo e cominciava a vedere doppio e, ritrovandosi davanti due Haden, gli diceva che assomigliava a un certo attore di cui in quel momento non riusciva a ricordare il nome. Ma capitava di rado ormai. Era da un pezzo che Haden beveva da solo e tornava a casa da solo. Era un uomo di mezza età, egoista, superficiale, con una faccia sempre più sbiadita e un conto in banca in rosso, che faceva la guida turistica in una città che non gli era più amica. Perché proprio la guida? Perché è un lavoro facile, una volta che ci prendi la mano. E i turisti sono così interessati a tutto quello che racconti. Haden non riusciva ancora a credere che gli fossero tanto grati. Come se lui gli regalasse la città invece di mostrarne semplicemente i luoghi e i monumenti. Di tanto in tanto nel gruppo c'era una bella ragazza. Era come ricevere una mancia insperata. Che guida meravigliosa diventava Haden in quelle occasioni! Brillante, informatissimo, sapeva tutto quello che gli chiedevano. E quel che non sapeva, se lo inventava. Cosa che gli riusciva estremamente facile, essendo una vita che ricorreva a quel trucchetto. Non se ne accorgevano mai. E poi raccontava delle storie talmente originali e curiose! A distanza di anni, guardando le foto di quel viaggio, avrebbero detto: «Lo vedi quel cane nel dipinto? Aveva ventotto anni quando è morto e il duca gli era così affezionato che lo ha sepolto in una tomba grande quanto la sua». Una balla, naturalmente, però interessante. Magari oggi ci sarà una bella ragazza. Appoggiandosi al lavandino con entrambe le mani, Haden si guardò nello specchio e recitò una piccola preghiera: «Fa' che ci sia un bel volto femminile oggi in quell'oceano di capelli azzurrognoli, apparecchi acustici e occhiali da sole grandi come televiso-
ri». Era come se li avesse davanti... vedeva le loro scarpe larghe come due piccoli aliscafi e con la suola sottile come un velo, quei loro completi sportivi in tessuto ingualcibile fuori moda da almeno un migliaio d'anni. Sentiva le loro voci troppo alte chiedere, incessanti e lamentose, dov'è il castello, la toilette, il ristorante, il pullman. Un bel viso era forse chiedere troppo? Una ragazza in viaggio con i genitori, una nipotina nubile, l'infermiera di qualcuno, qualsiasi cosa potesse evitargli una giornata tra le grinfie della Casa del Rossetto. Ripeté lentamente quelle parole allo specchio, come un attore che sta imparando una battuta. Era il nome del gruppo di oggi. Che cos'era, un negozio che vendeva solo rossetti? O una ditta di cosmetici? Ne avrebbe saputo di più aprendo la lettera che gli avevano dato in ufficio, con tutte le informazioni necessarie. Sorrise immaginandosi venti vecchiette con le labbra imbrattate di rossetto, tutte intente ad ascoltare quel che diceva. Labbra lucide e rosse come il naso di un clown o la pallina di gomma di un cane. Sospirò, prese lo spazzolino e si accinse a organizzare la giornata. Dal momento che Simon Haden teneva al suo aspetto più che a ogni altra cosa, il piccolo armadio traboccava degli abiti più belli in circolazione... maglioni di cachemire di Avon Celli, uno-due-tre-quattro abiti di Richard James, cinture da quasi duecento euro. Aveva classe e buon gusto da vendere, non c'è dubbio, ma a conti fatti né l'una né l'altro gli avevano mai fatto fare tanta strada. Sì, gli avevano permesso di illudere qualcuno per qualche tempo. Ma tutti, prima o poi, anche i più coglioni, finivano per capire con chi avevano a che fare, e allora, invariabilmente, si ritrovava senza lavoro, senza moglie, senza più una chance. La cosa più interessante della gente come Haden, più ancora della loro bella faccia, è che non riescono mai a capire perché, alla fine, nessuno li vuole più avere intorno. Aveva fatto carognate di ogni genere nella sua vita, ma non riusciva proprio a comprendere perché si ritrovava col culo per terra: solo come un cane in un pidocchioso appartamentino, con un lavoro senza futuro, ridotto a passare più tempo libero di quanto desiderasse davanti alla tivù, a guardare qualunque cosa gli passasse davanti agli occhi. Sapeva tutto delle rivalità tra i vari campioni di wrestling. Aveva seriamente pensato di comprarsi un paio di coltelli da bistecca giapponesi in offerta sul canale delle televendite. Registrava le sue soap opera preferite se gli capitava di perdersi un episodio. Come ho fatto a cadere così in basso? Se qualcuno avesse detto a Simon Haden che era un gran testa di cazzo e
perché, non avrebbe capito. Non avrebbe negato nulla, ma non avrebbe capito. Perché chi ha una bella faccia crede che il mondo gli debba perdonare qualunque cosa soltanto per il fatto di esistere. Quando ebbe finito in bagno, tornò in camera da letto. La busta con le istruzioni per la giornata era sul comò. In mutande e calzettoni neri di filo di Scozia, la prese e la aprì. Un ometto grande come una barretta di cioccolato saltò fuori dalla busta. «Haden, come va?». «Broximon! È un pezzo che non ci si vede? Come stai?». Broximon, che indossava un elegante abito gessato blu, si passò una mano su entrambe le braccia, come se, stando dentro quella busta, le maniche si fossero impolverate. «Non mi lamento, non mi lamento. E tu?». Haden lo posò con cura sulla scrivania e accostò una sedia. «Ehi, Simon, mettiti un paio di pantaloni almeno. Non mi va di chiacchierare con uno in mutande». Haden sorrise e si allontanò per decidere cosa mettere. Mentre lo aspettava, Broximon tirò fuori un minuscolo lettore CD portatile per sentirsi un po' di Luther Vandross. Con la musica che gli cuoceva le orecchie, Broximon si avvicinò al bordo della scrivania e si sedette con le gambe a penzoloni. Haden faceva una vita davvero squallida. Non c'era un grammo di creatività in tutto l'appartamento, un briciolo di brio, di anima, nulla che ti facesse venir voglia di dire wow, che fico. «A ciascuno il suo» era il credo di Broximon, ma quando sei in casa di qualcuno non puoi fare a meno di darti un'occhiata intorno, no? E se ti accorgi che in un appartamento non c'è nient'altro che un gran caldo - e quella era la situazione pura e semplice - non si tratta di dare giudizi, ma soltanto di riferire quello che vedi. Che, nel caso specifico, non era gran che. Questo era poco ma sicuro. «Così oggi devo portare in giro la Casa del Rossetto, giusto?». Haden si presentò con un'elegante camicia bianca con il collo aperto e un paio di ricercati pantaloni sportivi neri che avevano tutta l'aria di essergli costati un occhio della testa. «Esatto». Broximon infilò una mano in tasca e tirò fuori un foglietto piegato in due. «Dodici persone. E sarai felice di sapere che sono quasi tutte donne, età media trent'anni». Il volto di Haden si illuminò. La sua preghiera era stata esaudita! Non riusciva a credere di avere avuto tanta fortuna. «Dimmi tutto».
«Hai mai sentito parlare di Mallvelous, a Secaucus, in New Jersey?». «No». Haden guardò Broximon per capire se lo stava prendendo in giro con quel nome così cretino. «Il più grande centro commerciale della zona del Tri-State1. Poi qualcuno gli ha dato fuoco ed è diventato il più grande incendio in un centro commerciale nella zona del Tri-State». Haden mise le mani in tasca per controllare se aveva tutto: chiavi, portafogli. Dopo di che gli domandò, senza particolare interesse: «Quanti morti?». «Ventuno, più della metà della Casa del Rossetto. L'incendio è scoppiato proprio accanto al loro negozio. Non hanno avuto il tempo di scappare». «Che cos'era, una specie di profumeria?». «Già. Il proprietario - lo incontrerai oggi - si era fatto un nome perché non vendeva altro: solo rossetti, di tutte le marche esistenti al mondo. Sai quanto sono di moda i negozi specializzati, ultimamente. Aveva le marche più impensabili, tipo rossetti del Paraguay. Chi avrebbe mai detto che le donne si mettono il rossetto in Paraguay!?». Haden smise di passeggiare su e giù per fissarlo. «E perché non dovrebbero?». L'ometto rispose tutto imbarazzato: «Non lo so. Perché... non so, perché è il Paraguay, cazzo». «E allora?». Avendo finito gli argomenti, Broximon si alzò e si spolverò di nuovo entrambe le maniche con la mano. Poi domandò stizzito: «Sei pronto per uscire, o no?». Haden lo fissò ancora un istante, con un'espressione che diceva chiaramente che lo considerava un idiota fatto e finito. Poi annuì. «Bene! Allora andiamo». Haden prese su Broximon, se lo posò sulla spalla destra e uscì di casa. Incontrava sempre il pullman con i turisti davanti al bar in cui faceva colazione. L'autista era uno di quelli che si erano lasciati infinocchiare dal suo aspetto e dal fascino d'un tempo, ed era più che felice di fare una piccola deviazione dal tragitto prefissato per passare a prenderlo. Le porte del pullman si aprirono con un sibilo. Simon Haden salì i gradini a passo di marcia, riscaldato da due tazze di buon cappuccino e dall'ottimismo originato dalla prospettiva di trascorrere la giornata circondato da un drappello di giovani donne.
Fleam Sule, l'autista, agitò un tentacolo in cenno di saluto. Poi con un secondo tentacolo premette il tasto di chiusura delle porte. A Haden erano sempre piaciute le piovre. Ma come si chiama una piovra maschio, piovro? Doveva chiederlo a Fleam Sule uno di questi giorni, ma non ora. Donne a babordo, ragazzi! Haden fece l'occhiolino all'autista-piovra, e con il suo sorriso più radioso e suadente si voltò verso i passeggeri. Fuori, Broximon osservò il pullman scostarsi dal marciapiede e ripartire. Una foglia d'acero sospinta dal vento gli finì addosso facendolo scomparire per un attimo. La scostò bruscamente e la foglia riprese a correre lungo la strada. Broximon scrollò la testa, infilò una mano in tasca e tirò fuori un cellulare grande come una gomma da cancellare. Chiamò un numero in memoria e attese che squillasse. «Ehilà, sono Brox. Sì, sono stato con lui fino a un momento fa». Ascoltò la voce all'altro capo iniziare un discorso lungo e appassionato. Il semaforo all'angolo divenne verde. L'autobus girò a sinistra e scomparve verso il centro. Broximon iniziò a fare su e giù lungo il marciapiede in punta di piedi e a guardare in su mentre l'altro continuava a parlare come una macchinetta. Alla fine riuscì a dire: «Senti, è molto semplice, Haden non ha ancora afferrato il concetto. Tutto qua. Non ne ha la più pallida idea. È chiaro o no? È ancora lontano anni luce». Broximon vide la carta rossa e lucida di una caramella svolazzare verso di lui e iniziò a spostarsi dalla sua traiettoria con notevole anticipo. Mentre la osservava passare, gli venne in mente che non aveva ancora fatto colazione. Il che lo rese ancor più impaziente di chiudere la telefonata e trovare un posto dove poter mangiare qualcosa. «Senti, Bob, non so come dirtelo: non-lo-capisce. Non c'è nulla che lasci sperare che Simon Haden si stia facendo un'idea di cosa gli sta succedendo intorno». Dopo avere ascoltato ancora un po' il suo interlocutore, Broximon smise di prestare attenzione. Per ingannare il tempo, tirò fuori la lingua e strabuzzò gli occhi. Dopo essere rimasto con quella faccia per qualche istante, decise che ne aveva avuto abbastanza di quella diarrea verbale e disse: «Come? Eh? Cosa? Non ti sento più. Ti sto perdendo...». E premette il tasto di fine chiamata, dopo di che spense il telefono. «Basta così. È ora di fare colazione». Ci vollero alcuni secondi prima che Haden riuscisse ad abituare gli occhi
alla penombra azzurrina che regnava all'interno del pullman. Era cosi curioso di dare un'occhiata alle donne di fronte a lui che strizzò gli occhi impaziente. Per prima cosa scorse un casuario vestito di verde. Sapete cos'è un casuario? Be', non lo sapeva neanche Haden, né si ricordava di averne visto un giorno uno a Vienna, allo zoo. Si era fermato a guardarlo pensando, non per la prima volta, che la natura crea talvolta degli esseri davvero bizzarri. Vedendo quell'uccello gigante che lo fissava, chiuse gli occhi avvilito. Oh, no, non un'altra volta! Ricordava un gruppo un giorno... «Scusi?». Mentre cercava di localizzare chi aveva parlato, Simon si sforzò di vincere lo sconforto che lo stava assalendo. «Sì?», esclamò sperando di riuscire a conferire alla sua voce un tono allegro e disponibile. «C'è una ritirata su questo pullman?». Ritirata. Quand'è che aveva sentito quel termine ridicolo l'ultima volta? In quarta elementare? Con una leggera smorfia sulle labbra guardò la persona che aveva fatto la domanda. Quando la vide, la smorfia scomparve e quasi lanciò un grido, perché era una ragazza bellissima, da mozzare il fiato. E cieca. Sì, anche in quella penombra era evidente che quegli occhi così infossati non potevano vedere. «Eh, sì, c'è... ecco, una ritirata, in fondo al pullman, sulla sinistra», disse rivolgendole senza rendersene conto il suo sorriso esageratamente più luminoso e accattivante. Come un cucciolo che inizia a tirare al guinzaglio, impazzito, Haden avrebbe voluto correrle dietro e farle un milione di domande. Come si chiamava, perché era lì, da dove veniva... Ma si trattenne e cercò di lottare contro quel desiderio imperioso. Ripeté a se stesso: calma, calma... fai le cose con calma. Per la prima volta da quando aveva cominciato a fare quel lavoro deprimente, Simon Haden fu felice di essere una guida turistica, felice che il tour in programma sarebbe durato diverse ore. Era il giro completo, quello che costava di più, quindici soste e fate attenzione all'ultimo gradino quando scendete dal pullman. Di solito era un inferno. Oggi, con quell'angelo cieco al seguito, sarebbe stato un incanto. Non che gli importasse più ormai, ma diede lo stesso un'occhiata agli altri passeggeri. Qualche persona, qualche animale, due personaggi dei cartoni animati e un sacchetto di caramelle mou alto un metro e ottanta. Nien-
te di nuovo, niente di speciale. Se ci fossero stati solo loro, Haden avrebbe fatto davvero fatica a dimostrarsi all'altezza della situazione, ma con quell'angelo seduto in settima fila lungo il corridoio, li avrebbe estasiati. Prese il microfono e lo accese. Vi soffiò dentro e sentì il suo alito echeggiare negli altoparlanti, a dimostrazione che quell'aggeggio funzionava. Qualche volta non era altrettanto fortunato e, tanto per aggiungere al danno la beffa, a fine giornata si ritrovava senza voce. «Buon giorno e benvenuti a bordo!». Esseri umani, animali e personaggi dei cartoni animati gli sorrisero in coro. Ma il sacchetto gigante pieno di caramelle dorate si agitò sul sedile con una certa impazienza. Allora, partiamo, sembrava voler dire. Quando inizia lo show? A Haden non piacevano le caramelle mou. Mangiava caramelle di tutti i tipi, perché gli piacevano tutte le cose dolci, ma trovava le mou troppo impegnative e difficoltose. Gli si incollavano invariabilmente ai denti e non ne volevano più sapere di staccarsi: una volta, a casa dei suoi, una di quelle caramelle si era portata via una costosa otturazione. Ma facevano parte dei suoi ricordi d'infanzia, perché suo padre le adorava e ne aveva sempre una in bocca. Sua madre aveva sparso per tutta la casa una serie di ciotole piene di quegli scacchettini dorati per il suo maritino. «Oggi cercheremo di offrirvi una bella visione panoramica della città. Inizieremo dal centro per poi spostarci verso...». «Mi scusi?». Haden riconobbe immediatamente la voce e, con un fulgido sorriso che avrebbe potuto illuminare il pullman come una lampadina da mille watt, si voltò verso la bellissima ragazza cieca, pronto a esaudire ogni suo desiderio. «Sì?». «C'è una ritirata su questo pullman?». L'unico modo per imbruttire una persona bella è dimostrare che è pazza. Come quando apri un barattolo con qualcosa di davvero appetitoso dentro e, non appena sollevi il coperchio, ti assale un terribile odore di cibo andato a male. Anche la persona più affamata sulla terra butterebbe nella spazzatura tutto, barattolo compreso, senza pensarci un secondo. Gli si strozzò per un attimo il respiro in gola, come se gli avessero rifilato un pugno nello stomaco. Gli aveva fatto la stessa domanda neanche un minuto prima. Era matta? Tanta bellezza sprecata perché al posto del cervello aveva due uova strapazzate? Forse prima non aveva sentito la sua risposta. Forse era distratta, o pensava a qualcos'altro quando le aveva det-
to chiaramente che... La fissò, non sapendo bene cosa dire. E a un tratto si rese conto di conoscerla. Sì, la conosceva, quella ragazza. Si dimentica raramente una bellezza simile, ma a volte capita. Rimase lì per un po', senza rispondere, mentre qualcosa dentro di sé gli diceva io quella faccia me la ricordo. Ma dove l'aveva vista? L'autobus si arrestò così bruscamente che Haden rischiò di perdere l'equilibrio. Si voltò per vedere cosa avesse spinto l'autista a frenare in quel modo e vide davanti al pullman una scolaresca che attraversava la strada, in testa una donna di mezza età, di colore, con un dashiki2 vivacemente colorato e una pettinatura afro che ricordava un bel cespuglio rotondo potato con cura. Quando tutti i bambini ebbero attraversato la strada e furono al sicuro sul marciapiede opposto, la donna sollevò una mano agitando le dita in cenno di ringraziamento all'autista per essersi fermato. All'inizio Haden non aveva riconosciuto quella donna, né la sua pettinatura o il suo dashiki, ma dopo quel gesto sì. Quello lo ricordava, l'aveva visto fare per un anno intero della sua vita. Ne era assolutamente certo. Conosceva quel gesto e, di conseguenza, chi l'aveva fatto. Girandosi di scatto, guardò la bella ragazza cieca. Conosceva anche lei. Che cosa diavolo stava succedendo? Perché tutto d'un tratto il mondo intero gli era così familiare? Alcune file più indietro Paperino lanciò un'occhiata al casuario seduto dalla parte opposta del corridoio sollevando un sopracciglio. Il casuario lo vide e si strinse nelle spalle. «Mrs Dugdale!». Quel nome gli piombò sulla testa come un mattone caduto dal cielo. «La mia maestra!». L'autista-piovra lo guardò. «Chi?». Tutto eccitato, Haden gli indicò la direzione in cui si erano avviati i bambini. «Lei... la donna di colore che è appena passata con quella scolaresca. È stata la mia maestra in terza elementare!». L'autista lanciò un'occhiata nello specchietto retrovisore per vedere cosa stava succedendo alle loro spalle. Almeno la metà dei passeggeri si erano drizzati a sedere, come se fossero in trepidante attesa di qualche evento importante. Fleam Sule finse indifferenza: «Sì? Era la tua maestra. E allora? Mi dispiace, è troppo tardi, non posso più investirla». «Fammi scendere. Devo parlarle». «Non puoi, Simon. Il tour è appena cominciato».
«Apri, devo scendere. Apri!». «Ti licenzieranno, amico. Se sparisci così, sei finito. Puoi starne certo». «Fleam, non è il momento di discutere, d'accordo? Apri queste maledette porte e falla finita». Haden era un uomo massiccio con dei bei muscoli sulle braccia. Fleam Sule era soltanto una povera piovra e non aveva nessuna intenzione di mettersi a litigare con lui. Ma non riuscì a resistere alla tentazione di urlargli dietro, mentre scendeva dal pullman: «Sei nei guai, Simon. Non appena lo sapranno, in ufficio, un bel calcio nel culo non te lo toglie nessuno». Haden non lo ascoltava. Non sentì neppure il sibilo delle porte che si chiudevano alle sue spalle, né il rumore del pullman che si allontanava dalle strisce pedonali. E non vide i passeggeri ammassarsi tutti dalla sua parte per non perdersi cosa avrebbe fatto adesso. C'era anche la bella ragazza cieca che, con la guancia premuta contro il vetro freddo, ascoltava rapita la descrizione della scena che qualcuno al suo fianco le stava facendo. Haden si mise a correre dietro a Mrs Dugdale e ai bambini. Era lui il primo ad essere sbalordito di avere abbandonato in quel modo il gruppo che gli era stato affidato e, cosa ancor più stupefacente, le sue chance con quella bellissima ragazza cieca. Ma nel momento stesso in cui aveva compreso chi era alla guida della scolaresca, non aveva avuto dubbi: doveva parlarle a tutti i costi. Era stata così importante per lui la terza elementare? No, per diamine. Se, minacciato di morte, avesse dovuto farsi venire in mente qualcosa di piacevole di quell'anno con Mrs Dugdale, non avrebbe ricordato altro che il pesce rosso che la maestra teneva in una ciotola sulla scrivania ed era rilassante guardare durante le lezioni. Allora Mrs Dugdale era forse stata uno di quegli insegnanti indimenticabili che ci cambiano la vita con la forza del loro esempio? No. Aveva sgridato i suoi alunni, gli aveva scagliato contro pezzetti di gesso ogni volta che li scopriva distratti, il che, quando lei spiegava la lezione, accadeva terribilmente spesso. La sua idea d'insegnamento consisteva nell'assegnare una ricerca su cosa viene coltivato in Suriman. E se la ricerca non andava bene (ed erano poche le cose che andavano bene a Mrs Dugdale), ti faceva rimanere in piedi per un tempo indeterminato in un angolino
che chiamava "il muro della vergogna". Insomma, era come sin troppe maestre di scuola elementare. Haden aveva sopportato le sue lune e la sua mediocrità e le magre briciole di conoscenza per un anno, dopo di che era passato in quarta. Ma c'era una cosa di lei che non aveva mai dimenticato, ed era questo il motivo per cui le stava correndo dietro. Una cosa che aveva avuto un ruolo essenziale nella sua crescita. Uno di quei rari momenti della nostra infanzia a proposito dei quali, guardando indietro, possiamo dire senza esitazione, sì, quella X segna il punto preciso in cui è accaduto qualcosa dentro di me che mi ha cambiato per sempre. Quand'era un ragazzino, Haden aveva un grande amico che aveva la sfortuna di chiamarsi Clifford Snatzke. Per tutto il resto, Cliff era talmente normale che nella sua vita si sarebbe difficilmente trovato qualcos'altro che potesse distinguerlo da un miliardo di altri ragazzini. Per un po', finché le ragazze non divennero sempre più presenti e deliziose, lui e Haden furono inseparabili. In classe, con Mrs Dugdale, erano seduti vicini, il che rendeva quelle ore un poco più piacevoli. Poco prima della fine dell'anno e della consegna delle pagelle, Cliff cominciò ad essere molto teso: temeva di non essere promosso perché andava male in ortografia. Era così in ansia e dava sfogo alla sua preoccupazione con tale veemenza verbale che Haden, esasperato, alla fine gli aveva detto di andare dalla maestra dopo le lezioni per chiederle che voto aveva intenzione di dargli in ortografia. Dopo aver tentennato a lungo, Snatzke si decise a farlo... se il suo amico lo aspettava fuori dalla scuola. Haden aveva almeno altre dieci cose più interessanti da fare, ma alla fine accettò. Che ci stanno a fare gli amici, altrimenti? Clifford Snatzke in genere non era tipo da angustiarsi tanto, e si vedeva. Aveva quasi sempre un leggero sorriso sulle labbra, o uno sguardo gradevolmente impassibile che diceva che non stava pensando a nulla in particolare e tutto andava bene. Ma quando mezz'ora dopo uscì di scuola, aveva le guance in fiamme come quando si riceve una pesante umiliazione o si è appena singhiozzato. Vedendolo arrivare con quella faccia, Haden gli chiese che cosa fosse mai successo. All'inizio Cliff evitò persino di guardarlo, non parliamo di raccontargli cos'era accaduto. Ma alla fine glielo disse. Mrs Dugdale era seduta alla sua scrivania e guardava di fuori, quando lui era entrato in classe. Educato come sempre, Cliff aveva aspettato che lei si accorgesse della sua presenza prima di dire qualcosa. Quando la maestra
gli chiese infine cosa voleva, glielo spiegò rapidamente, perché tutti gli alunni di Mrs Dugdale sapevano che lei non amava le persone che la facevano troppo lunga. Ma invece di guardare nel registro o di fargli una ramanzina sull'importanza dell'ortografia, Mrs Dugdale gli aveva chiesto che razza di nome fosse Snatzke. Senza capire che cosa significasse quella domanda, Cliff rispose che non lo sapeva. Lei gli chiese se pensava che fosse un vero nome americano. Lui disse che non capiva cosa intendeva. Lei guardò di nuovo fuori dalla finestra e per un bel po' non disse più nulla. Dopo qualche minuto Cliff ripeté la sua domanda riguardo al voto in ortografia. Chissà perché, e chissà come le passò per la testa una cosa del genere, fatto sta che Mrs Dugdale a quel punto si voltò verso il ragazzo e disse: «Mettiti in ginocchio se vuoi saperlo, Clifford. Mettiti in ginocchio e chiedimi che voto ti darò». I bambini sono sciocchi. Si fidano delle parole degli adulti, credono a quello che dicono perché sono le uniche persone autorevoli che conoscono. Ma sentendo quella richiesta, anche Clifford Snatzke, per quanto sciocco potesse essere, capì che quello che Mrs Dugdale gli stava chiedendo di fare non era giusto, e per di più era fuori dalla norma. Ciononostante, lo fece. Si inginocchiò e le chiese che voto aveva intenzione di dargli. La maestra lo fissò per qualche secondo e poi gli disse di sparire. Questa era la storia. Se Haden non avesse conosciuto il suo amico tanto bene, avrebbe creduto che Snatzke si fosse inventato tutto. Ma era la verità. Prima che Simon potesse dire o fare alcunché, la porta della scuola si aprì e comparve Mrs Dugdale con la sua cartella di pelle marrone in mano. Vide i due ragazzi, rivolse loro una specie di sorriso e continuò per la sua strada. Rimasero entrambi con gli occhi fissi a terra per un po'. Sapendo quello che Mrs Dugdale aveva appena fatto, non sarebbero riusciti a guardarsi in faccia finché non se ne fosse andata. Simon sapeva di dover fare qualcosa. Mrs Dugdale si era comportata molto male con Cliff. Ma sapeva che l'altro avrebbe fatto finta di niente perché gli mancava il coraggio di reagire. Haden invece quel coraggio ce l'aveva, e per la prima e unica volta in tutta la sua vita decise di fare una cosa veramente altruistica e riparare il torto che era stato appena compiuto nei confronti dell'amico. Lanciando un'occhiata rassicurante in direzione di Cliff, s'incamminò verso il parcheggio dello staff della scuola.
Quando vi giunse, Mrs Dugdale era già seduta sulla sua piccola Volkswagen beige con il motore acceso. Vedendolo avvicinarsi, abbassò il finestrino. A metà. Haden non avrebbe mai dimenticato quel particolare: il vetro abbassato soltanto a metà, come se qualunque cosa Simon avesse da dirle non fosse abbastanza importante da farle fare la fatica di abbassarlo tutto. Mentre si dirigeva verso la macchina, Haden si sentiva sicuro come un dio che sta per lanciare strali alla volta di un mortale che si è appena macchiato di un grave misfatto. Gliel'avrebbe fatta vedere lui, perché, accidenti, se lo meritava. «Sì, Simon? Cosa vuoi?». Lui la guardò e fu preso dal panico. Tutta l'audacia da dio sceso in terra che aveva provato sino a quel momento lo abbandonò. Era come se potesse vederlo, il suo coraggio, correre via a zig zag attraverso il parcheggio a gambe levate, con il sedere in fiamme come Wyle E. Coyote. Haden adorava i cartoni animati. «Perché...», riuscì appena a dire prima che i suoi polmoni terrorizzati cominciassero a iperventilare. «Sì, Simon? Perché cosa?». Le prime due parole erano state gentili, le altre due una trappola di acciaio scattata all'improvviso come una morsa. «Perché...». Non riusciva più a respirare. La lingua gli si era trasformata in un pezzo di legno. «Sì, Simon?». Vide Mrs Dugdale abbassare il freno a mano con la mano destra. Aveva le labbra tirate e gli occhi che mandavano lampi, avendo ormai compreso che lui non ce l'avrebbe fatta a dire altro e dunque le stava facendo perdere del tempo inutilmente. Disperato e atterrito, Simon fece l'unica cosa che in quel momento gli fu possibile indurre il proprio corpo a fare: scrollò le spalle. Mrs Dugdale avrebbe senza dubbio fatto qualche commento poco gradevole se non avesse scorto Clifford Snatzke che si avvicinava. Non si preoccupò nemmeno di tirare su il finestrino. Inserì la marcia, scrollò la testa e accelerò, allontanandosi. Per tutta la vita Haden avrebbe ripensato a quella scena e a cosa avrebbe dovuto dire o fare. Quel ricordo lo tormentava, come succede spesso nel caso di certi episodi dell'infanzia. Qualche volta se lo sognava persino di notte. Ma sempre, anche in quei sogni, quando arrivava il grande momento in dolby e cinerama di dimostrare il proprio valore, Simon abbassava la
testa con la coda tra le gambe. Ma non questa volta, per Dio! Le cose non gli stavano andando molto bene ultimamente. Magari incontrare per caso per strada Mrs Dugdale per la prima volta in trent'anni era una prova. Se la superava, le cose avrebbero potuto cambiare. Chissà? La vita a volte è subdola. Quando ti vuole insegnare qualcosa non lo fa in maniera diretta. E poi, comunque, non c'era niente che lui desiderasse di più che dire a quella stronza cosa pensava di lei dopo tutti quegli anni. Mentre le correva dietro, un pensiero gli saettò nella mente come un lampo che rischiara all'improvviso l'oscurità più totale: forse molti insuccessi nella sua vita erano dovuti a lei e a quell'episodio malefico. Se Mrs Dugdale non lo avesse spaventato tanto, il coraggio che Simon aveva quel pomeriggio sarebbe affiorato dal suo animo. E lui, per tutto il resto della sua vita, avrebbe saputo di averlo dentro di sé e di poterlo usare quando fosse stato necessario. Invece di un'esistenza senza futuro, rabberciata alla bell'e meglio tra bollette da pagare e cene riscaldate nel forno al microonde, in una casa appestata da odori molesti, sarebbe potuto essere un vincitore... se non fosse stato per Mrs Dugdale. Affrettò il passo. L'aveva appena vista, quando un'automobile, passando di lì, montò sul marciapiede e decollò. Fece un paio di giri in aria sopra la testa di Haden e infine virò scomparendo dietro un complesso direzionale. Due grossi scimpanzé vestiti come gangster degli anni Trenta, con tanto di giacca a doppio petto e borsalino nero in testa, uscirono a testa in giù da un negozio con un sigaro in bocca, chiacchierando in italiano e camminando sulle mani. Haden vide tutte queste cose, ma non se ne curò. Perché la Dugdale era ormai a pochi passi. Mentre le si avvicinava, Simon sfiorò con la mano il capo dei suoi alunni. Malgrado la preoccupazione di raggiungere la sua vecchia maestra, non poté fare a meno di notare come fossero calde quelle piccole teste. Come tante caffettiere, si disse, borbottanti sul fuoco. «Mi scusi, Mrs Dugdale?». La donna, che gli dava le spalle, si voltò lentamente. Quando vide a mezzo metro di distanza Simon Haden adulto, i suoi occhi non domandarono chi sei?, ma dissero invece so chi sei, e allora? «Sì, Simon? Cosa vuoi?». Cazzo! Le stesse, precise parole che gli aveva rivolto trent'anni prima nel parcheggio della scuola. La stessa espressione scostante negli occhi.
Non era cambiato niente. Nemmeno una virgola. Haden era ormai un uomo di mezza età e lei lo guardava ancora come se fosse un frutto marcio al mercato. Vaffanculo. Era arrivato il suo momento. Il momento di agire con risolutezza. Il momento di trovare le parole giuste e farle finalmente vedere chi portava i pantaloni. Haden era talmente sbalordito da quelle parole di Mrs Dugdale, che non si era accorto che tutti i suoi alunni si erano bloccati a guardarlo elettrizzati. Né aveva fatto caso che praticamente il mondo intero si era fermato in attesa di vedere quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Oh, certo, c'erano ancora delle macchine che passavano e delle mosche che ronzavano furiosamente per aria. Ma tutti, mosche e automobilisti compresi, nonché le molecole dei loro polmoni, tutto e tutti insomma avevano gli occhi puntati su di lui per non perdersi la scena. Haden fece per parlare. Questo almeno bisogna concederglielo. Aveva sulla punta della lingua frasi incendiarie, perfettamente adatte alla situazione. Le parole giuste, un tono di voce impeccabile. Era pronto. Fece per parlare, ma scoprì di non avere più la bocca. Mosse le labbra su e giù, o meglio, la pelle dove un tempo era stata la bocca. La sua faccia si mosse, si stiracchiò, ma solamente perché si muovevano i muscoli sotto la pelle, i muscoli che avrebbero dovuto controllare le labbra, solo che Haden le labbra non ce le aveva più. Sotto il naso aveva una distesa di pelle, liscia e piatta come una guancia. Si portò entrambe le mani al viso, ma ebbe soltanto la conferma di quanto temeva: la bocca era scomparsa. Incapaci di credere a quel che stavano toccando, le dita continuarono a brancolare sulla faccia come quando si cerca un interruttore al buio. Haden guardò Mrs Dugdale. La sua espressione rese quel momento terribile ancora più spaventoso. Disprezzo. L'unica cosa che vide sul viso della sua vecchia maestra fu un'espressione di disprezzo. Per lui, per la sua viltà e per l'uomo che era diventato ai suoi occhi. Simon Haden stava rivivendo il momento della verità nel parcheggio della scuola trent'anni prima. E questa volta avrebbe avuto la meglio... se solo avesse avuto la bocca per parlare. Ma non ce l'aveva. In preda al panico schiaffeggiò il punto in cui avrebbe dovuto trovarsi la sua bocca. Nel frattempo fissò uno sguardo di fuoco su quell'arpia, quella stronza in abito africano che stava vincendo un'altra volta. L'unica arma che gli era rimasta erano le pupille. Ma non sono fatte
per questo genere di contesa: uno sguardo cattivo non deflagra con la stessa potenza di una frase al veleno da un megaton. In un angolino della sua testa, Haden sapeva di avere già vissuto quel momento, di essersi già trovato in quel preciso istante e in quella situazione, senza bocca. Ma la rabbia e l'esasperazione spazzarono via quel senso di déjà vu. Anche se si stava ripetendo una scena già accaduta, doveva trovare un modo per cavarsi da quell'impiccio. Un modo per sbaragliare Mrs Dugdale e dimostrarle che non era quel deficiente impedito che scorgeva nei suoi occhi. Si guardò intorno disperatamente, in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa che potesse essergli d'aiuto. Gli occhi gli caddero su una bambina. Si chiamava Nelly Weston ed era un'alunna di Mrs Dugdale. Anche lei veniva spesso umiliata dalla maestra, che la trovava troppo lenta, distratta e sognante per i suoi gusti. Haden la sollevò e le infilò una mano nella schiena, sotto il maglione, talmente in fretta che lei non ebbe il tempo di protestare. Ma non appena le toccò la schiena nuda, Nelly comprese il perché e sorrise come non aveva mai fatto in presenza della maestra. Nelly guardò Mrs Dugdale e aprì la bocca come la bambola di un ventriloquo, perché si era appena trasformata proprio in quello. Non le dispiaceva, però, perché sapeva cosa stava per accadere. Dalla bocca le uscì la voce profonda di un uomo, calma ma minacciosa, la voce di Simon Haden. «Vecchia strega, stronza che non sei altro! Non sei cambiata di una briciola in trent'anni. Sono sicuro che tormenti ancora i tuoi alunni quando nessuno ti vede. Dietro a una porta chiusa, quando pensi che nessuno verrà mai a saperlo. Ti ricordi Clifford Snatzke, vero? Ricordi come l'hai trattato? Be', sorpresa! Qualcuno è venuto a saperlo, qualcuno sa esattamente cos'hai fatto, brutta carogna. Pezzo di merda». Nelly diede voce a quelle parole alla perfezione. Sentiva la mano di Haden sulla schiena che la manovrava, ma non sarebbe stato necessario, perché lei e Simon erano in perfetta sintonia. Quello che voleva dire lui voleva dirlo anche lei, e lo fece. Quando Haden ebbe finito e guardò con aria di trionfo la faccia sbalordita di Mrs Dugdale, sentì una vocina accanto a lui che diceva: «Be', era ora. Complimenti». Si guardò intorno e con sua grande sorpresa scorse il piccolo Broximon, elegantissimo come sempre, che lo osservava con le mani sui fianchi e un gran sorriso sulle labbra. Da dove cavolo era sbucato Broximon, adesso?
Un milione, o un miliardo forse, di sinapsi e connessioni e quant'altro si rincorsero all'improvviso nella testa di Haden. Quel che stava cominciando a intravedere, quel che stava lentamente facendosi sempre più chiaro nella sua mente era qualcosa di grosso. Simon Haden volse lo sguardo intorno a sé, alla strada, alle macchine, alla gente, al cielo, al mondo intero. E un istante dopo capì. Spalancò la bocca sbalordito - la bocca riapparsa sulla sua faccia nel momento stesso in cui aveva scoperto come stavano le cose. Posò Nelly Weston per terra. Quella città, quel pianeta, tutto quello che lo circondava era frutto della sua immaginazione. L'aveva creato lui. Ne era certo. Quando, in che modo? Nei sogni che faceva ogni notte. Guardò Mrs Dugdale e fu quasi sorpreso di vedere che sorrideva e annuiva. Broximon pure. E anche tutte le altre persone intorno. Persino un cagnolino al guinzaglio lo fissava e sorrideva. Haden sapeva come si chiamava quel cane: Kevin. Lo sapeva perché l'aveva creato lui una notte. Aveva dato vita lui a ogni cosa. Simon Haden comprese infine di essere circondato da una città, una vita, un mondo che aveva costruito pian piano, notte dopo notte, nei suoi sogni. Ogni cosa in quel luogo era stata inventata da lui oppure tratta dalla sua vita cosciente e trasportata nel mondo dei sogni per giocarci, affrontarla o cercare di risolverla in un terreno conosciuto. A quarant'anni compiuti Simon Haden aveva fatto più di quattordicimila sogni. A sufficienza per fabbricare un mondo intero. «Sono morto», disse, senza nessun punto interrogativo. Guardò Broximon. Pur continuando a sorridere, l'ometto annuì. «La morte è così: ognuno se la crea nel corso della propria vita. È per questo che sogniamo. Quando moriamo, tutti i nostri sogni danno forma a un luogo, un universo: ed è lì che andiamo». Questa volta Haden guardò la sua vecchia maestra di terza elementare in cerca di conferma, e lei annuì. «E poi si vive nel paese immaginario che si è creato finché non lo si riconosce per quello che è veramente, Simon», proseguì Broximon con lo stesso tono allegro con cui si potrebbe dire ma che bella giornata. Pensieri, immagini e ricordi sfrecciavano ormai davanti agli occhi di Haden come proiettili traccianti in una sparatoria notturna. Piovre alla guida di pullman, macchine volanti, belle ragazze cieche... «Quella ragazza cieca, ora me la ricordo. M'è tornato in mente il sogno in cui l'ho vista. Continuava a ripetere la stessa frase senza mai smettere.
Mi stava facendo diventare pazzo. È un sogno che ho fatto poco dopo essermi sposato. C'era...». Broximon gli fece cenno di lasciar perdere. «Non importa, Simon. Dal momento che hai capito dove ti trovi, adesso hai tutto il tempo che vuoi per rimettere insieme le tessere che lo compongono». «Ma sono proprio morto?». Per qualche strana ragione, questa volta Haden guardò la piccola Nelly Weston in attesa di una risposta. La bimba annuì scuotendo la testa su e giù con convinzione per non lasciargli alcun dubbio. Simon indicò il mondo che li circondava con entrambe le mani. «E questa è la morte?». «Sì, la tua morte», rispose Broximon. «Hai creato tu tutto quello che c'è qui quando eri ancora vivo. Tutto, fatta eccezione per Mrs Dugdale e cose tipo quel sacchetto gigante di caramelle sul pullman. Ricordi quanto piacevano le caramelle mou a tuo padre?». Haden aveva paura di fare la prossima domanda, ma sapeva di doverla fare. A voce bassa, quasi con un filo di voce, chiese: «Da quanto tempo sono qui?». Broximon guardò la Dugdale che guardò Nelly che guardò Broximon. L'ometto sospirò, gonfiò le guance e disse: «Diciamo che hai incontrato Mrs Dugdale un bel numero di volte. Ma fino ad ora, ha sempre vinto lei. Devi essere fiero di te, Simon». «Rispondimi, Broximon. Da quanto tempo sono qui?». «Molto tempo, amico. Molto, molto tempo». Haden rabbrividì. «E ho capito soltanto adesso che razza di posto è questo?». «Che importa quanto tempo ci hai messo, Simon? Adesso lo sai». Sia la donna che la bambina annuirono vigorosamente. Haden si accorse che anche tutte le altre persone che lo circondavano stavano facendo lo stesso. Persino il cagnolino Kevin stava scuotendo la testa su e giù: erano chiaramente tutti d'accordo su quel punto. «Be', e adesso che lo so? Cosa faccio adesso?». Mrs Dugdale incrociò le braccia con un'espressione sin troppo familiare. Haden se la ricordava bene da quell'anno in terza elementare. «Oggi hai superato il primo livello Simon. Adesso passi al secondo». Un brivido gelido si arrampicò in punta di piedi su per la spina dorsale di Simon Haden. «Quando si muore è come tornare a scuola?». Ancora una volta, tutto e tutti fecero un gran sorriso e parvero molto
soddisfatti dei suoi progressi. Un caldo forte sì «Se fossi sposato con una donna che si concia così, farei a pezzi i suoi vestiti e li seppellirei a notte fonda in mezzo a un bosco in una buca molto molto profonda», esclamò Flora Vaughn con un tono di voce un po' troppo alto quando una donna vestita in maniera alquanto appariscente passò accanto al loro tavolo. Poi lanciò un'occhiata eloquente a Leni Salomon. Avevano entrambe le unghie dipinte con uno smalto marrone opaco. Isabelle Neukor guardò prima una poi l'altra e sorrise. Erano le sue migliori amiche: avevano tutte e tre trentadue anni ed erano cresciute insieme. Ma le sue amiche non potevano aiutarla. Nessuno poteva. Leni teneva il suo bastone appoggiato alla coscia come un cane devoto e silenzioso. Camminava zoppicando visibilmente: la gamba sinistra era più corta della destra. Era anche la più graziosa delle tre ma, come tutte le persone belle, non ci faceva caso più di tanto. Leni Salomon e Flora Vaughn erano sposate, Isabelle no. Leni e Flora non erano più innamorate dei loro compagni, Isabelle sì. Le erano successe delle cose strane negli ultimi tempi, così strane che stentava a crederci. Anche dopo tutto quello che era accaduto negli ultimi mesi, non riusciva a credere che queste ultime esperienze fossero vere. Non ne aveva parlato con nessuno, nemmeno con Vincent. «Sapete chi è morto, circa un anno fa, per quanto io sia venuta a saperlo soltanto adesso?». Flora si appoggiò allo schienale della sedia e lasciò cadere con un ampio gesto melodrammatico il grande tovagliolo rosa sul piatto in cui aveva lasciato almeno metà porzione di asparagi. Ricorreva spesso a gesti teatrali, era fatta così. Aveva una risata fragorosa. Accompagnava le parole con un'intera gamma di atteggiamenti e di mosse, quasi fosse circondata da sordomuti. Non tutti la trovavano bella: c'era chi diceva che era uno schianto, mentre ad altri invece facevano orrore quei lunghissimi capelli ramati e il taglio orientale degli occhi. A Vincent piaceva molto. Aveva cominciato a chiamarla la "Gran Rossa" sin dal loro primo incontro e da allora lei firmava spesso i suoi bigliettini con l'appellativo "Rossa". Leni faceva denti artificiali: denti d'oro, ponti, dentiere. Era tecnico dentista: uno dei migliori in circolazione. Il suo lavoro la appassionava, con le sue complessità e complicazioni. Lei la definiva architettura utile. Quando
qualcuno le faceva una domanda, Leni la sollevava davanti a sé e la girava e rigirava per guardarla da ogni angolatura come se fosse una delle sue protesi. «Qualcuno che conosciamo o un personaggio famoso?». Flora guardò Leni e le fece l'occhiolino. Poi i suoi occhi si volsero verso Isabelle e disse con tono insinuante: «Qualcuno che tu e io abbiamo conosciuto, Leni, ma che avrebbe voluto più di ogni altra cosa conoscere Isabelle». Da un «eh?» di perplessità, Isabelle passò a un'espressione accigliata. Ci volle qualche istante prima che i suoi occhi cominciassero a spalancarsi e, sbalordita, si portasse una mano davanti alla bocca. «Simon?». Flora annuì. «È morto da più di un anno». Leni rimase per un attimo senza fiato. «Simon Haden è morto?». Flora congiunse le mani e levò lo sguardo al cielo come un santo in un'immaginetta religiosa un po' kitsch. E tutte e tre scoppiarono a ridere all'idea che Simon Haden fosse morto. In un prato immenso, con accanto un brutto cane nero dal pelo lungo di nome Hietzl, Vincent Ettrich stava osservando un aeroplanino sollevarsi a poco più di due metri sulle loro teste per andare a schiantarsi pochi passi più avanti. Ettrich sospirò. Anche Hietzl avrebbe sospirato se avesse saputo quanto tempo e quanta fatica il suo amico aveva impiegato a costruirlo. Ma il cane era tanto felice di essere all'aria aperta con Vincent che quel sospiro non sarebbe comunque durato a lungo. Scuotendo la testa, Ettrich si avvicinò all'aeroplanino distrutto e gli si accovacciò accanto appoggiandosi le mani sulle ginocchia. Come al solito, era vestito da teenager: vecchi jeans scoloriti, scarpe da skateboard grigie e bianche e una T-shirt nera con la foto di John Lennon davanti. Ad ogni modo Ettrich aveva un'aria giovane, e vedendolo per la prima volta gli avreste dato trent'anni, invece che quaranta. Hietzl sentì qualcosa e voltò bruscamente la testa a sinistra. Ettrich continuò a fissare il modellino in pezzi chiedendosi cosa avesse fatto di sbagliato. Il cane si mise ad abbaiare furiosamente, distraendolo da quel suo ipnotico avvilimento e inducendolo a guardare nella stessa direzione. Alle loro spalle c'era una vasta distesa di alberi altissimi, tra le cui foglie giocava una mite brezza. Ma Hietzl era girato dall'altra parte, verso il prato. Confuso, Ettrich guardò Hietzl e domandò: «Cosa? Cosa c'è?». Il cane lo ignorò e continuò ad abbaiare. Non esisteva altro intorno a loro se non l'irritante schiamazzo di quei la-
trati e il fruscio del vento tra gli alberi. Era piena estate, il cielo era dello stesso indefinibile colore di un cartoncino grezzo e l'aria carica di umidità. Non c'era anima viva in giro. Ettrich veniva spesso a passeggiare qui con il cane, o semplicemente a stendersi sull'erba a guardare le nuvole. Da quando era venuto a vivere a Vienna, si era limitato a rimettersi in forze e a pensare al bambino che Isabelle avrebbe presto partorito. Ettrich era morto, ma era stato riportato in vita da Isabelle. Aveva attraversato la grande frontiera e poi era tornato indietro. Nel corso del suo breve soggiorno nella Morte ne aveva imparato la lingua e qualche altro requisito necessario. Una volta tornato in vita, pensava che quanto aveva appreso in quel periodo sarebbe stato cancellato dalla sua mente. Si sbagliava. In esso era ancora custodito tutto quello che aveva sperimentato nell'aldilà, ma per entrare nella stanza in cui erano conservati quei ricordi doveva prima aprire la porta che era chiusa a chiave. E al momento la chiave lui non ce l'aveva. Non appena era stato in condizione di viaggiare, era partito per Vienna. Aveva lasciato l'America, sua moglie, due figli e un'esistenza che un tempo aveva vissuto con passione e di cui era stato profondamente soddisfatto. L'aveva fatto perché voleva stare con Isabelle Neukor. Era disposto a lasciar perdere qualunque cosa pur di trascorrere il resto della sua esistenza con lei e il loro bambino. Non avevano più dubbi, nessuno dei due. Avevano fatto il grande passo. I latrati di Hietzl avevano assunto una tonalità nuova. Si erano fatti più pressanti, come se ci fosse un vero pericolo poco lontano e stesse per accadere qualcosa da un minuto all'altro. Ettrich guardò ancora nella direzione verso cui il cane puntava, ma non vide nulla. Eppure l'agitazione di Hietzl lo metteva a disagio. Chissà perché - difficile immaginare il motivo - si voltò di scatto e guardò il punto in cui era precipitato il suo modellino pochi minuti prima. Era sparito. Non parve sorpreso. I suoi occhi scrutarono la zona per vedere se fosse davvero scomparso. Sì, l'aeroplanino non c'era. Fu soltanto a quel punto che il suo volto tradì un certo allarme. Hietzl aveva ragione: erano nei guai, seri. «Hietzl». Il cane smise un istante di abbaiare, poi riprese. «Basta! Vieni, dobbiamo andarcene». Ettrich toccò la testa del cane e si avviò verso la macchina camminando più in fretta che poteva. Non si era
ancora ripreso del tutto, non ce la faceva ancora a correre. Altrimenti l'avrebbe fatto. Dietro di loro, a duecento metri di distanza, nel folto degli alberi, c'era un altro uomo col suo cane. Un uomo di nome John Flannery, robusto, non molto alto. Con una barba sale e pepe ben curata. La gente gli ricordava spesso la sua somiglianza con Ernest Hemingway. A Flannery faceva sempre piacere sentirselo dire. Non aveva mai letto niente di Hemingway, ma gli piaceva il personaggio. Quel giorno aveva una T-shirt blu nuova sopra un paio di bermuda beige pieni di tasche, anche quelli nuovi. Stranamente era scalzo, malgrado nel sottobosco ci fossero mille cose che potevano pungere e ferire. Il cane, un alano con grandi chiazze nere sparse sul manto bianco, simili a macchie d'inchiostro su un foglio di carta assorbente, si chiamava Luba. Aveva occhi azzurri ed era fermo immobile accanto a Flannery. Erano loro ad aver provocato i latrati del cane di Ettrich. Curiosamente Hietzl aveva intuito la loro presenza ma non la loro posizione. Vincent non aveva visto nulla quando aveva guardato nella direzione verso cui abbaiava il cane, perché da quella parte non c'era niente. Flannery e Luba erano fermi alle loro spalle e avevano continuato a osservarli impassibili finché loro non si erano allontanati ed erano scomparsi. Flannery teneva sollevato davanti a sé l'aeroplanino di Ettrich. Era di nuovo intatto, come se fosse stato appena montato. Quando Ettrich e Hietzl se ne furono andati, Flannery si voltò verso il bosco e sollevò un braccio sopra la testa. Con un rapido movimento del polso lanciò il modellino tra gli alberi. Sfidando tutte le leggi di gravità e della logica, l'aeroplanino rimase in aria per venti minuti. Anche quando la brezza calò del tutto, continuò a volare attraverso il bosco, tra i tronchi, sopra e sotto e in cerchio tra lunghi rami contorti e tentacolari che avrebbero dovuto creare un intreccio impenetrabile. L'aeroplanino continuò a sfiorare i rami, provocandoli con una serie di acrobazie e virate improvvise, in modo da evitare ogni sorta di possibili collisioni in cui sarebbe dovuto incappare ma a cui continuava a sottrarsi. Dopo un po' Flannery e Luba si sedettero per terra a osservare lo spettacolo. Di tanto in tanto l'uomo si rivolgeva al cane con tono amichevole e rilassato. Il cane lo guardava come se comprendesse ogni parola. A un certo punto Flannery sollevò la mano sinistra. L'aeroplanino di le-
gno si arrestò all'improvviso e rimase sospeso a quasi cinque metri da terra accanto a un imponente castagno ammantato di foglie verdi-gialle svolazzanti. A più di due chilometri di distanza, Ettrich aveva messo in moto la macchina e stava ripartendo. Flannery annuì e per la prima volta sorrise, essendo già da un po' in attesa di sentire il rumore degli pneumatici sulla ghiaia del parcheggio. Lasciò cadere la mano e l'aeroplanino sfrecciò via di nuovo. «Le cose sembrano andare per il verso giusto, ma non lasciamoci prendere dall'eccitazione. "Altro è correre, altro è arrivare"», disse Flannery ad alta voce. Andava matto per i proverbi. Ne conosceva interi volumi a memoria e ne aveva pronto uno per ogni situazione. All'improvviso gliene venne in mente un altro: «Tanto fumo e niente arrosto». Ci pensò su qualche secondo e il suo viso s'illuminò di piacere. Era splendido. Cazzo, davvero perfetto! Poteva metterlo in pratica in quel momento stesso per trasformare la vita di Vincent Ettrich in qualcosa di molto, molto spiacevole. Sollevò appena il mento in direzione dell'aeroplanino. Quello virò di centottanta gradi e si diresse verso di lui. Come se fosse in attesa di istruzioni, rimase fermo un paio di secondi e poi volò via. Uscì dal bosco, e si allontanò dagli alberi e da Flannery e dal cane Luba per dirigersi verso Ettrich e il suo cane e Isabelle Neukor e il loro bambino e tutta l'infelicità che avrebbe presto devastato la loro vita. Era il primo giorno della fine della loro esistenza. Persino John Flannery provò compassione per quei poveri disgraziati, ammesso che una cosa simile sia possibile. «E allora, com'è morto Haden?». Rilassandosi contro lo schienale della sedia, Flora Vaughn incrociò le braccia. «Com'è che non sento nessun rammarico nelle tue parole, Leni?». Leni levò gli occhi al cielo e si accinse a rispondere per tutte e tre. «Perché Simon era uno che ti raccontava che stava per morire e che il suo ultimo desiderio era di venire a letto con te, così tu accettavi per compassione. Io l'ho fatto, e tu pure. Non m'importa niente se è morto». Flora annuì e sorrise. «Non è meraviglioso il modo in cui Leni riesce ad essere diplomatica? Dovrebbe fare l'ambasciatrice in un paese a rischio: farebbe scoppiare la terza guerra mondiale in meno di un'ora. "Signor presidente, la sua politica estera fa venire il voltastomaco. È evidente che o siete un incompetente o avete l'uccello corto e cercate di compensare"». «Non parliamo di me, com'è morto Simon?». Flora sorseggiò un po' d'acqua e poi indicò il bicchiere. «In un autola-
vaggio». La sua risposta fu così inaspettata che spontaneamente tutte e tre scoppiarono a ridere di nuovo. «No, dai... come?». «È la verità. Me l'ha detto Sabine Baar-Baarensfeld. È morto in un lavaggio auto a Los Angeles. Gli è venuto un infarto mentre gli lavavano la macchina». Ci sono risposte, nella vita, così strane, che alla nostra testa non resta che registrarle e dare una scrollatina di spalle. Simon Haden aveva fatto una corte spietata a Isabelle per anni, provando ogni strategia immaginabile per portarsela a letto. Di solito era un vero incantatore, un vero professionista della seduzione. Usava la morte prossima, l'amore, l'inganno in mille modi, spesso molto originali. Con suo grande dispiacere nessuno di questi aveva mai funzionato con lei. Quando erano insieme, Isabelle era carina, divertente e piacevolissima, ma sempre, ma proprio sempre, consapevole di quello che Haden aveva in mente. Sorridendo, lo stoppava sempre un bel pezzo prima di avvicinarsi a qualunque camera da letto. Tutto questo le tornò in mente mentre osservava Flora Vaughn e metabolizzava la notizia della morte di Simon. «Cosa ci faceva a Los Angeles?», la domanda di Leni spezzò il ghiaccio che per qualche secondo si era creato tra loro. «E chi lo sa? Ma lo sapete cosa mi scoccia? Cosa mi rompe sul serio? Che adesso che quel bastardo è morto, mi vengono in mente soltanto cose carine di lui. Come quella volta che mi ha regalato un mazzo di gigli, o quando siamo rimasti a letto una mattina intera a mangiare cioccolatini. Non è giusto, cazzo. Simon non si merita questi pensieri dolci, vivo o morto che sia. Era un porco egoista a cui la sorte aveva regalato un aspetto irresistibile. Ma una volta che ti eri lasciata tentare, ti trattava come un pezzo di gomma da masticare appiccicato sotto la suola delle scarpe». Leni chiuse gli occhi e annuì, perfettamente d'accordo. «Io mi sono sentita più una scatola di pasticcini vuota quando mi ha lasciato. Ma concordo. Chi ha detto che non si deve parlare male di chi è morto?». Isabelle non stava più prestando attenzione a quello che dicevano le amiche. Le era tornata la nausea e stava aspettando di vedere se il suo stomaco avesse intenzione di accettare il pasto appena consumato o decidesse di liberarsene. Era una delle poche cose della gravidanza che la disturbavano: le capitava di sentirsi malissimo all'improvviso, o di essere travolta da una valanga incontenibile di diarrea. Non appena succedeva qualcosa
del genere, doveva abbandonare qualsiasi cosa stesse facendo e correre in bagno come una scheggia. L'idea di non poter controllare il proprio corpo e le sue funzioni più elementari era quanto mai imbarazzante e a volte la atterriva. Dopo qualche secondo in ascolto del proprio corpo, Isabelle comprese che le cose stavano degenerando e si alzò di scatto. Le sue amiche la guardarono. «Sto per vomitare». Preoccupata, Flora fece per alzarsi mentre le indicava la toilette. La sala era grande: Isabelle aveva un bel po' di strada da fare. «Vuoi che ti accompagni?». Isabelle fece cenno di no e si allontanò in fretta, con una mano sulla bocca. Flora tornò lentamente a sedersi senza distogliere lo sguardo dall'amica che attraversava il ristorante. «Pensi che dovrei andare lo stesso? Forse ha bisogno di qualcuno che le tenga la fronte». Leni spostò il bastone un poco più a destra. «Non ci pensare neanche. Lo sai quant'è imbarazzante. A chi vuoi che faccia piacere essere visto vomitare? Non riesco ancora a credere che Simon sia morto». Due belle ragazze in un ristorante chic, che parlavano di un uomo che era stato l'amante di entrambe. E ciascuna aveva delle storie da raccontare che l'altra non aveva ancora sentito. E adesso che era morto, potevano farlo. Passò un po' di tempo mentre chiacchieravano e ridevano. Isabelle non riapparve. Sia Flora che Leni ne erano consapevoli, ma all'inizio non ci fecero troppo caso. Isabelle ci teneva ad essere sempre perfetta e non era la prima volta che si faceva aspettare. Ma a un certo punto Leni disse a Flora che le sembrava fosse passato troppo tempo. Flora si alzò immediatamente alla volta dei bagni delle signore. Aprì la porta, convinta in cuor suo che avrebbe trovato Isabelle davanti a uno specchio sopra la fila di lavandini che si aggiustava il trucco e controllava che fosse tutto a posto. Ma non c'era. «Isabelle?». Flora guardò le due toilette. Erano chiuse entrambe. Sentì tirare l'acqua in una delle due e quello scroscio fragoroso per un attimo le fece tirare un respiro di sollievo. Era certa che la sua amica fosse lì dentro. Ma si sbagliava. Ne uscì invece una banalissima signora di mezza età che le rivolse un'occhiataccia come se lei stesse facendo chissà che. Flora la ignorò e si avvicinò all'altra toilette mentre la donna andava al lavandino a
lavarsi le mani con aria circospetta, decisa a non perdere d'occhio quella ragazza slanciata dai capelli rossi che aveva cominciato a bussare alla porta della toilette con il palmo della mano. «Isabelle?». «Mi scusi... ma cosa sta facendo?». Flora le lanciò un'occhiata lunga un paio di secondi, dopo di che si voltò di nuovo verso la toilette. «Isabelle, sei lì?». «La smetta. Cosa vuole fare?». Flora si girò e le rivolse uno sguardo gelido. «Ha finito? Si faccia gli affari suoi, e se ne vada, per favore». Da perfetta viennese, la donna sbuffò, ma uscì. Quando se ne fu andata, Flora sbatacchiò con forza la porta della toilette finché non si aprì. Dentro, non c'era nessuno. Si voltò e si avviò verso il loro tavolo. Nella luce soffusa che regnava nella sala vide che Leni stava chiacchierando con qualcuno. Un uomo... Vincent Ettrich. Come le capitava ogni volta che vedeva Vincent, rimase per un attimo impietrita. Prima che lui e Isabelle si incontrassero, Vincent e Flora avevano avuto un breve, delizioso flirt che aveva lasciato Flora fremente di sorpresa, desiderio e rimpianto. Le cose non erano andate come aveva pensato. Per due anni, dopo che tutto era ormai finito (per volontà di Flora), non aveva mai smesso di chiedersi se Vincent non fosse l'uomo che aspettava da sempre d'incontrare. In quel breve periodo insieme, entrambi avevano trattato la loro relazione come qualcosa d'incantevole ma senza consistenza: la classica scappatella. Due persone sposate che si vedevano per due o tre giorni di tanto in tanto, lontano da tutto e da tutti, tra le lenzuola di una stanza d'albergo, coccolati dal servizio in camera. Quando la loro storia finì, Flora da principio fu contenta, poi triste e, col tempo, sconvolta da quanto quella relazione fosse stata importante per lei. Un mese dopo averlo mollato, aveva incontrato Vincent a New York. Ma era così terrorizzata da quello che provava per lui che prima di pranzo gli aveva a malapena permesso di darle un bacio sulla guancia. Con suo grande dispiacere, quel distacco non aveva affatto disturbato Vincent. Prima di rivederlo, Flora si era fatta molte fantasie e in cuor suo sperava che anche Ettrich fosse giunto alla sua stessa conclusione e che, quando l'avrebbe rivista, le sarebbe corso incontro traboccante di speranza e di gratitudine. Invece l'aveva guardata con affetto, come si fa con una vecchia compagna di scuola che si ha un gran piacere di rivedere per poter chiacchierare in-
sieme dei vecchi tempi... nient'altro. Sei mesi dopo Ettrich era venuto a Vienna per lavoro e, a una festa a cui si erano incontrati per caso, Flora gli aveva presentato Isabelle. In seguito Flora giurò a Leni che, nel momento stesso in cui quei due si erano stretti la mano, lei aveva capito che era fatta: il destino era apparso in scena in tutto il suo splendore. Ma la verità è che Flora aveva presentato Vincent a Isabelle per sentire cosa le avrebbe detto la sua amica. Voleva che lei lo conoscesse e gli parlasse un po' per poterle dare qualche dritta su come riuscire a riconquistarlo. Ma quello che aveva detto a Leni era in parte vero: un quarto d'ora dopo avere presentato Vincent a Isabelle, Flora Vaughn aveva visto abbastanza per ritirarsi dietro le quinte. E quando aveva visto che se n'erano andati dalla festa insieme, si era girata con un groppo alla gola e le labbra tirate. «Ciao, Vincent». Era sempre preoccupata del tono della sua voce quando c'era Ettrich in giro. Aveva paura di essere tradita da una vocina troppo acuta o troppo bassa, o soffocata, che gli facesse capire quanto la agitava vederlo. «Era lì?». Quella domanda brusca la spiazzò. Flora si mise a sedere. «No. Io non l'ho vista andarsene, e voi?». Leni tirò fuori il cellulare e fece il numero di Isabelle. «No, e lo sai che ce l'avrebbe detto se avesse avuto intenzione di tornare a casa». Gli occhi di Flora facevano la spola tra Leni ed Ettrich. Guardandosi intorno, Vincent cominciò a scuotere lentamente la testa. «Ci risiamo», disse come se si stesse rivolgendo a qualcuno, ma di certo non a Leni o a Flora. Con il cellulare all'orecchio, Leni guardò l'amica per capire se aveva idea di cosa stesse parlando Vincent. Flora incrociò il suo sguardo e si strinse nelle spalle. Poi chiese gentilmente a Vincent che cosa intendeva. Anche se Ettrich avesse voluto risponderle, non ne ebbe il tempo. Udirono uno schianto assordante provenire dalla parte del ristorante più vicina alla strada. Tutta la gente seduta in quella zona della sala si alzò urlando mentre schegge e frammenti di vetro fendevano l'aria. La grande finestra che dava sul marciapiede era andata in pezzi. Metà, tutta scheggiata, era ancora pericolosamente in piedi. L'altra metà, quella della parte superiore, era volata tra i tavoli e i clienti. Sembrava che fosse esplosa una bomba. Le grida, il fuggi fuggi generale e il pandemonio scoppiato nel ristorante impedirono a chiunque di capire cosa fosse realmente successo. Un istante
prima la finestra era lì, al suo posto, illuminata dal sole pomeridiano, un istante dopo era saltata per aria, lanciando una miriade di affilate schegge di vetro per tutta la sala. Una donna era rimasta impietrita al suo posto, con un piccolo taccuino rotondo sollevato davanti a sé come un minuscolo scudo per ripararsi da quel che poteva ancora succedere. Trasalì quando, qualche istante dopo, si udì un altro schianto: un cameriere aveva lasciato cadere un grosso vassoio di metallo quando aveva cominciato a realizzare che un pezzo di vetro gli si era infilato nella guancia. Aveva un angolo dipinto di nero: era un frammento di una lettera del nome del ristorante scritto sulla vetrina. Leni aveva qualche conoscenza di pronto soccorso e si alzò subito. Flora, non sapendo cosa fare, la seguì. Gli occhi di Ettrich, velati di diffidenza e di sospetto, si misero a correre da un lato all'altro della sala cercando di cogliere ogni dettaglio della scena. Nel ristorante regnava il caos. Nessun altro sapeva quel che sapeva lui. Cos'era peggio, quel che era appena accaduto o sapere quel che sapeva Vincent? Avrebbe voluto fermare il mondo per un istante, giusto il tempo per decidere cosa fare. Malgrado tutto quello che stava accadendo intorno a lui, reclinò la testa all'indietro e chiuse gli occhi. No, non funzionava, quei pochi secondi di oscurità non gli furono d'alcun aiuto. Sapeva soltanto che doveva trovare Isabelle al più presto. Con la testa ancora piegata all'indietro, riaprì gli occhi. Proprio sopra il tavolo era sospeso il suo aeroplanino. Immobile, per aria, come se fosse sostenuto da fili invisibili. Era più grande di prima, almeno il doppio del modellino che aveva costruito Ettrich. Ma anche a quella distanza non c'era dubbio che fosse lo stesso, la forma era identica, le decorazioni anche. Solo che adesso era più lungo di mezzo metro e abbastanza solido da infrangere un vetro bello robusto se vi si fosse scagliato contro con sufficiente velocità e violenza. Non appena Vincent se ne rese conto, il modellino iniziò a scendere verso di lui. Pian piano, come una foglia che svolazza giù da un albero in una giornata senza vento. Un tuffo qua, una giravolta là, calò giù come se avesse a disposizione tutto il tempo del mondo. Atterrando delicatamente sul tavolo, rovesciò un mezzo bicchiere di vino rosso. Ettrich poté scorgere la cabina dell'aeroplanino, quando gli si fu posato davanti. Vi aveva dipinto con un pennarello nero la testa di Isabelle, come se fosse lei a pilotarlo. Gliel'aveva fatto vedere mentre lei stava uscendo
per andare a pranzo con le sue amiche. Si era fermata, l'aveva osservato e aveva sorriso. Senza guardare Ettrich, aveva chiesto: «Allora sono io il pilota del tuo aeroplano?». Lui, da dietro, aveva cinto con entrambe le braccia il suo pancione e aveva risposto con voce roca: «Un caldo forte sì, mio capitano». Tunica molesta Isabelle Neukor stava volando. A pancia in su, per di più. Era un'esperienza incredibile. Continuava a girare la testa di qua e di là per guardare il marciapiede, sicura che da un momento all'altro sarebbe caduta e si sarebbe fatta male, soprattutto a quella velocità. Eppure le cose sembravano andare diversamente: continuava a rimanere in aria, a circa mezzo metro dal marciapiede, dirigendosi rapidamente chissà dove. Era distesa a pancia in su e stava agitando le braccia, come se fosse in barca, con due remi invisibili in mano. Giù giù, sino alle ginocchia, poi su fino al petto, e ancora giù, verso le ginocchia... e più remava in fretta, più veloce volava. Nessuno intorno a lei sembrava sorpreso di vederla volare. Passò accanto a una vecchietta con due cagnolini. Poi a una mamma con una carrozzina che le rivolse una rapida occhiata indifferente. Non una parola, né un battito di ciglia. Poi fu la volta di un ragazzino che filava sul suo skateboard nella sua stessa direzione. Quindi di un uomo distinto con un raffinato cappotto dal colletto di velluto, fermo in mezzo al marciapiede a leggere il giornale, che guardò Isabelle passare e poi tornò al suo giornale con aria impassibile. Nessuno sembrava prestarle particolare attenzione, indirizzando tutt'al più verso di lei uno sguardo sbrigativo mentre volava loro accanto, agitando le braccia in aria. Se Isabelle doveva evitare qualcosa, bastava che smettesse di muovere un braccio e remasse con più forza con l'altro, ed ecco che virava a destra o a sinistra. Proprio come in una barca a remi. E non c'era nulla di strano in quello che vedeva intorno a sé: alberi che ondeggiavano al vento, pedoni, un chiosco blu e arancione che vendeva hot-dog, con diversi operai seduti davanti che bevevano birra. Niente di diverso dal solito, se non quel suo modo di locomozione che, per quanto strano, stava cominciando a piacerle. Non aveva la più pallida idea di dove stesse andando, ma non importava. Perché quella bizzarra situazione era diventata l'esperienza fisica più spassosa ed eccitante che avesse mai provato.
Era la terza volta che le capitava ormai, perciò incominciava ad essere un po' meno scioccata di quando si era trattato di un fenomeno del tutto nuovo e tremendamente inquietante. La prima volta che era finita lì, era seduta sul divano, nel suo appartamento, e sfogliava una rivista. E proprio mentre stava girando pagina, all'improvviso... puff! si era ritrovata lì, in quello strano paese, o qualunque cosa fosse. Aveva vagato qua e là per un paio d'ore, terrorizzata. Ma non era successo nulla. Aveva gironzolato, visto delle cose, chiedendosi di continuo angustiata: Che posto è questo? Dove sono? Perché sono finita qui? poi, all'improvviso... puff! si era ritrovata sul divano. La seconda volta era in cucina che cucinava un uovo quando... puff! eccola di nuovo lì. Le era parsa la stessa città, ma non aveva avuto modo di accertarsene, perché quella volta era rimasta soltanto qualche minuto. Anzi, stava avvicinandosi a un tizio per chiedergli che posto fosse mai quello, quando... puff! Questa volta l'ultima cosa che aveva visto era stata la sua mano sul pomello argenteo della porta grigia della toilette. E un istante dopo era lì che volava a pancia in su sopra il marciapiede. Era successo così, in un attimo. Ricordandosi una cosa all'improvviso, abbassò angosciata entrambe le mani sulla pancia. Sentendo che il bambino era ancora lì, fece un sospirone di sollievo, fiuuuu! Adesso era contenta. Aveva portato il bambino con sé le altre due volte, ma era impossibile dire come funzionavano le cose in quel posto misterioso. E per lei la cosa più importante era essere certa di avere ancora Anjo nella pancia. Per la prima volta da quando era arrivata lì, Isabelle si guardò e vide che era vestita come al ristorante qualche minuto prima, sì, aveva gli stessi abiti. Era consapevole di quello che le stava accadendo, aveva ancora il suo bambino nella pancia, era vestita come prima... era come se fosse semplicemente passata da una stanza all'altra. Ma in questa stanza poteva volare, a pancia in su. Era semplice come un batter di ciglia. Era proprio quella la sensazione che aveva ogni volta che le succedeva quella strana cosa: un istante prima era qui, e in un batter d'occhi eccola lì. Era la terza volta che le capitava in un mese. Non ne aveva parlato con nessuno perché non sapeva bene cosa dire. Se avesse dovuto descrivere quell'esperienza, avrebbe detto: Da un momento all'altro lascio un posto e mi ritrovo in un altro. Non ho alcun controllo su come e quando succede. Qualche volta mi trovo davanti delle
cose strane, surreali. Vedo delle cose impossibili da immaginare, o da spiegare, perché non esistono parole che possano descriverle. Altre volte le differenze col mondo reale sono minime. Non mi è mai successo niente di spiacevole. Vengo soltanto trasportata lì per un po' e poi ritorno alla mia vita. «Salve!». Isabelle era talmente assorta in quello che stava vedendo intorno a sé e presa dal pensiero di essere tornata di nuovo in quel posto, che non aveva notato quell'ometto che le era apparso all'improvviso sulla pancia. Era grande più o meno come uno spargisale, ma indossava un raffinato completo nero con una camicia bianca inamidata e una cravatta di seta nera tanto lucida che rifletteva. Fu soltanto quel suo gran salve a riportarla al presente. A un metro dalla sua faccia, l'ometto la salutò con la mano. Aveva un'espressione talmente felice e speranzosa che Isabelle si sentì in dovere di dire qualcosa, qualsiasi cosa. «Salve. Chi sei?». Tirandosi su la gamba dei pantaloni, l'ometto si sedette sul monte creato dal pancione di Isabelle. Ma lo fece con tale attenzione che lei a malapena lo sentì. «Piacere. Mi chiamo Broximon». E fece un altro cenno di saluto con la mano. «Come, scusa? Com'hai detto che ti chiami?». L'ometto sorrise, come se non fosse la prima volta che qualcuno gli faceva quella domanda. «Broximon». «Broximon», ripeté Isabelle tra sé. Quel nome aveva qualcosa di familiare, ma lei aveva troppi pensieri al momento per cercare di capire perché. Provò a pronunciarlo, come se fosse un gusto nuovo che la sua lingua non aveva mai sentito. Lui incrociò le braccia. «Esatto. Benvenuta, Isabelle. Era ora che ci conoscessimo». Poiché non aveva più mosso le braccia da quando aveva visto Broximon, Isabelle aveva cominciato a rallentare sino a fermarsi a mezz'aria. Dopo di che aveva iniziato a scendere pian piano verso terra, fino ad atterrare sul marciapiede. Sporgendosi in avanti, Broximon allungò il collo e guardò a terra dall'alto della pancia di Isabelle. «Non ti preoccupare: quando vuoi riprendere a muoverti, basta che ti metti a remare con le braccia come facevi prima». «Come fai a sapere chi sono?». «Sappiamo tutti chi sei, Isabelle».
«Tutti chi? In che senso, tutti?». Broximon fece lentamente con il braccio un movimento a centottanta gradi. «Tutti quelli che sono qui». Prima che lei avesse la possibilità di chiedergli cosa intendesse con qui, Broximon vide qualcosa alla sua sinistra ed esclamò: «Jelden! Jelden, vieni qui!». Si girò verso Isabelle e disse: «Devi conoscerlo. È un tale personaggio!». Assurdo. Le succedevano tutte queste cose insieme, che per lei erano soltanto nuove domande, mentre aveva bisogno di risposte. Sollevò Broximon dalla propria pancia e, dopo averlo posato per terra, si alzò in piedi. Quando fu finalmente diritta, guardò nella direzione che le era stata indicata. A un metro e mezzo di distanza c'era un uomo fatto di burro. «Isabelle, vorrei presentarti Burro Jelden». Era di un giallo brillante. Indossava dei jeans in tinta e una camicia di jeans. Aveva in testa un vecchio cappello di paglia con un buco in cima e un dente di leone infilato sotto il fazzoletto rosso avvolto intorno. Dall'angolo sinistro della bocca gli penzolava una spiga di fieno. «Ohilà, Isabelle», esclamò porgendole la mano con un gesto deciso. Ma proprio mentre Isabelle stava per stringergliela, lui la scostò e con il pollice sollevato la fece scomparire dietro la spalla. Al che si mise a ridacchiare tutto soddisfatto. «Fregata! Ci cascano tutti». Broximon levò gli occhi al cielo e diede un colpetto rassicurante sulla scarpa di Isabelle. «Non fargli caso. Vive ancora negli anni Cinquanta. Tutte le sue battute, no... tutta la sua vita viene da lì. Giusto, Jelden?». Burro li guardò con un sorrisetto compiaciuto. «L'hai mangiato il burro Jelden quand'eri piccola, Isabelle?». Lei stava fissando con tale attenzione quell'uomo giallo come un uovo che non sentì cosa le chiedeva. Era proprio vero, più lo guardava e più era evidente che era fatto di burro. «Cosa?». «Ti ho chiesto se hai mangiato il burro Jelden quando eri piccola». «Cos'è il burro Jelden?». Burro Jelden si mise una mano sul cuore e rispose amareggiato: «Sono io. Non eravamo stati presentati?». Isabelle guardò Burro, poi Broximon e di nuovo Burro. Vedendo la sua espressione sempre più sconcertata, Broximon spiegò: «La Jelden era una marca di burro californiana famosa negli anni Sessanta e Settanta. Lui è stato il protagonista di una lunga campagna televisiva»,
disse indicando quell'uomo tutto giallo. Jelden si infilò le mani sotto le ascelle con i pollici all'insù e cominciò a cantare a squarciagola: Burro Jelden a sazietà e più felice il tuo mattin sarà! Broximon si coprì le orecchie con le mani. «No, Jelden! Giuro su Dio che se ricominci...». Troppo tardi. L'uomo di burro stava già cantando la terza canzoncina quando Broximon si mise a rovistare nelle tasche, tirò fuori un accendino usa e getta e lo accese. Con il braccio teso davanti a sé si avvicinò al burro canterino. Vedendo la fiammella, e il fuoco che poteva scioglierlo, Jelden si azzittì all'istante. Isabelle non poté fare a meno di domandarsi perché non avesse semplicemente soffiato sopra la fiamma. Ma poi le tornò in mente dov'era. Le cose funzionavano in maniera diversa lì. Forse in quel mondo gli uomini di burro non erano in grado di spegnere una fiamma. Facendo qualche passo indietro, Jelden disse a Broximon: «D'accordo, d'accordo, smetto. Mettilo via. Sono soltanto venuto a dirvi che il vostro amico vi sta cercando». Isabelle non aveva la più pallida idea di cosa stesse parlando. Quale amico? Guardò Broximon, immaginando che lui si stesse raccapezzando un po' più di lei in tutta quella storia. Broximon domandò a Jelden: «Come fai a saperlo? Quando l'hai visto?». Lui rispose con voce petulante: «Qualche ora fa». Guardò Isabelle. «Non sai di chi sto parlando, vero?». Lei scosse la testa. «No». «Simon. Simon Haden. Lo conosci, vero? È un nome che hai già sentito, ne sono certo». «Simon è qui?». «Questo è il suo mondo. Benvenuta nel paese di Simon Haden». Quando era ancora vivo, se gli aveste chiesto quante volte aveva sognato Isabelle Neukor da quando si erano conosciuti, Haden sarebbe stato alquanto imbarazzato di dover confessare che l'aveva sognata almeno una volta a settimana. Le donne di solito gli dicevano di sì, incantate dal suo
bell'aspetto. Se gli dicevano di no, lui le dimenticava in un lampo, oppure cominciava a escogitare un modo per intrufolarsi nel loro cuore. Isabelle gli aveva detto di no diverse volte, ma sempre con tale dolcezza, simpatia e sex appeal, che il suo interesse si era pian piano trasformato in una specie di ossessione. E dire che Haden non era certo il tipo da farsi venire un'ossessione per qualcuno. Fino a un paio d'anni prima di morire, gli erano andate sempre tutte dritte. Non aveva avuto nessun chiodo fisso semplicemente perché la vita gli aveva dato tutto quello che voleva. Spesso persino senza neanche bisogno di chiedere. Ma non Isabelle. Dopo un po' Haden non avrebbe neanche più saputo dire quanto gl'importasse di lei: voleva agguantarla, sbatterla su un letto e farsela. Lei nuda sotto di lui con il suo uccello tra le gambe, solo quello contava. Haden aveva bruciato ogni chance portando Ettrich alla festa in cui lei e Vincent si erano visti per la prima volta. Simon aveva conosciuto Vincent Ettrich a Los Angeles, una volta che era stato lì qualche tempo per lavoro, e gli era subito piaciuto. Soprattutto perché erano entrambi due inguaribili donnaioli ed era piacevole inseguire insieme quella loro passione. Ettrich conosceva bene Los Angeles e gli aveva presentato diverse persone interessanti. Si erano divertiti. Un paio d'anni dopo, quando si erano incontrati di nuovo per caso al Loos Bar a Vienna, Haden aveva ricambiato il favore. Avendo sentito che Vincent conosceva Flora Vaughn, l'aveva portato a una festa in cui sapeva che ci sarebbero state anche Flora e Isabelle... e aveva finito per pentirsene per il resto della sua breve vita. In meno di una settimana Ettrich aveva conquistato il cuore, il corpo, la mente e l'anima di Isabelle. Haden era sconcertato, ma cosa poteva farci? E quel che è peggio, Vincent gli era così grato di avergli presentato quella ragazza straordinaria, così felice della magica storia che era nata tra loro, che sembrava non riuscire a fare altro che tesserne le lodi come un uccello canterino ogni volta che si vedevano. Senza peraltro svelare nessun dettaglio, perché la rispettava troppo. E invece Haden solo a quello era interessato, a conoscere i dettagli. Quanti nei aveva? Dove? Gridava, a letto? C'era qualcosa che si rifiutava di fare, oppure non aveva remore? Dalle velate allusioni di Ettrich e dai suoi silenzi radiosi, si sarebbe detto che Isabelle Neukor fosse una tigre, un vortice senza fine, uno sballo. Haden si sarebbe mangiato le mani. Quello fu l'inizio della fine per lui, anche se ancora non poteva saperlo. La vita, che sino a quel momento lo aveva assecondato così misteriosa-
mente, e ingiustamente, gli voltò le spalle indispettita e non gli fu mai più amica. Fino al giorno del suo infarto meno di due anni più tardi, continuò a girargli il culo, e Haden non riuscì mai più a vederla in faccia. Fortunatamente Simon era dovuto andare in America per lavoro, il che almeno gli aveva permesso di fuggire da Vienna e da quell'idillio che aveva contribuito a far nascere. Non gli permise però di smettere di pensare, e spesso sognare, Isabelle. A volte gli sembrava che la sua testa fosse una stanza piena di spifferi e Isabelle il vento che si infilava nelle crepe sui muri. Per quanto tentasse di impedirlo, lei trovava sempre il modo di intrufolarsi. Perché Isabelle? Perché proprio lei e non una delle innumerevoli altre donne che aveva conosciuto? Chissà... ma sono i nostri fantasmi a scegliere noi e non viceversa... Due notti prima della sua morte Haden aveva sognato Isabelle per l'ultima volta. Un giorno, mentre erano a pranzo insieme, Isabelle gli aveva parlato di una cosa che aveva letto in un libro e che le era rimasta terribilmente impressa. Al tempo dell'impero romano una delle forme di esecuzione capitale più utilizzate era una tortura chiamata la "tunica molesta". Una lunga veste imbevuta di nafta, pece o altro materiale infiammabile veniva fatta indossare al condannato e le si dava fuoco. Nerone aveva una passione particolare per l'applicazione della tunica molesta ai cristiani. Haden aveva una vaga idea di chi fosse Nerone, è vero, ma la cosa che l'aveva colpito di più era che Isabelle leggesse dei libri che parlavano di cose simili. In uno degli ultimi sogni della sua vita, Simon Haden aveva sognato la tunica molesta. Solo che la vittima era lui e la "tunica" Isabelle Neukor. Aveva creduto che poter indossare Isabelle, in sonno o da sveglio, dovesse essere una splendida esperienza, ma il sogno gli aveva dimostrato che non era così. Haden si era svegliato nel bel mezzo della notte raggomitolato in posizione fetale stringendo tra le mani bollenti e sudaticce un cuscino tutto appallottolato. Nel sogno Isabelle l'aveva avvolto come le corrosive vampate di fuoco di un rogo al napalm. Isabelle, sibilante e crepitante, era quelle fiamme. Il dolore era stato tanto intenso e reale che le grida di Haden avrebbero svegliato chiunque gli dormisse accanto in quel momento. E mentre bruciava, Isabelle gli aveva parlato. Haden aveva chiaramente sentito la sua voce continuare a sussurrargli qualcosa all'orecchio, malgrado le sue grida. Mentre lo uccideva, gli parlava, dicendo chissà cosa. Come
facevano quelle fiamme, o quella tunica, o qualunque tortura fosse, ad essere una donna? Ma non ci sono regole nei sogni, se non quelle che essi stessi costruiscono nel proprio corso. Quando si svegliò da quell'incubo e comprese di essere finalmente tornato al sicuro nel suo mondo, la realtà, Haden tremava come una foglia. Quello che aveva appena vissuto era puro terrore. Uno di quei sogni che si ricordano a lungo e si prega di non dover fare mai più. Aveva cercato di chiamare Isabelle a casa sua a Vienna per parlarle e vomitarle addosso quel sogno, ma non gli aveva risposto nessuno. Haden non aveva più avuto nessun contatto con lei dalla sera in cui lei e Vincent si erano conosciuti. Al terzo tentativo, aveva compreso che probabilmente Isabelle non rispondeva al telefono perché era fuori da qualche parte con Ettrich. A quel pensiero le sue mandibole si erano serrate e non aveva più provato a chiamarla. Il giorno dopo era morto. «Ti va di vederlo?». «Chi? Simon?». Istintivamente Isabelle si portò entrambe le mani sul ventre come per proteggere il bambino non ancora nato anche solo dall'idea di incontrare un morto. Burro Jelden le fece l'occhiolino e si tirò fuori la spiga di bocca. «Non sarebbe difficile trovarlo». Broximon aveva le mani in tasca e guardava per terra. «Non è una buona idea». «Perché no?». «Perché non credo sia pronta, Jelden». «Perché non lasciamo che provi, Brox? Cosa vuoi che succeda?». Broximon fece una faccia scura che diceva chiaramente che la trovava un'idea ridicola. «Cosa vuoi che succeda? Non essere sciocco, lo sai esattamente cosa succederebbe». Sentire quei due parlare in quel modo di lei rese Isabelle terribilmente confusa. «Di cosa state parlando?». Jelden la guardò. «Vuoi vederlo, Isabelle?». «No, non particolarmente». Broximon batté le mani. «Bene, questo pone fine alla discussione». Con tono sincero e pacato, Jelden le disse: «Dovresti vedere Simon». «Smettila, Jelden. Lasciala in pace». «No, davvero, se non per te, per il tuo bambino». E quell'uomo tutto giallo indicò col mento il pancione di Isabelle.
A quelle parole Isabelle si irrigidì. Stava per chiedere: «In che senso?», quando, in un batter di ciglia, si trovò di nuovo nel bagno delle signore, a Vienna. Davanti a una fila di lavandini bianchi sormontati da specchiere d'argento. Riflessa in tutti quegli specchi, Isabelle vide se stessa e le porte grigie delle due toilette alle sue spalle. Era successo tutto troppo in fretta. La sua testa era ancora là, con Broximon e l'Uomo di Burro, ovunque fossero. Guardando la sua immagine allo specchio, ripensò a quanto le aveva detto Jelden... «Se non altro per il tuo bambino». Cosa intendeva? Perché vedere Simon Haden poteva essere importante per il bambino che aveva nella pancia? Continuò a guardare lo specchio senza vedere più se stessa, ma quello che le era appena accaduto. «Ehilà». Isabelle si voltò lentamente al suono di quella voce che conosceva così bene. Vincent Ettrich era in piedi davanti a lei con la mano sinistra sulla maniglia della porta del bagno. Anche se era l'unica persona che desiderava vedere in quel momento, non le fu facile tornare del tutto al presente. «Ciao». «Cosa sta succedendo, Fizz?». Isabelle sentì i rumori alle spalle di Vincent, lo schiamazzo, il caos. Come se fosse appena successo qualcosa di grave e la gente fosse ancora sconvolta. Quel baccano la distrasse. Esitò, ma sapeva che prima o poi doveva raccontare tutto a Vincent. «Lo sapevi che Simon Haden è morto?». Lui scrollò il capo. «Non m'importa. Voglio sapere cosa sta succedendo a te». Lei si avvicinò all'uomo che amava. «Mi sa che ti deve importare di Simon se vuoi sapere cosa mi sta succedendo». Burro Jelden e Broximon stavano litigando a proposito di Haden quando lo videro. Jelden voleva raccontargli che avevano incontrato Isabelle, Broximon no. Entrambi avevano buone ragioni dalla loro parte e sarebbe stato interessante vedere chi avrebbe prevalso. A Haden non stava particolarmente simpatico nessuno dei due, ma dopo l'episodio con Mrs Dugdale aveva imparato ad ascoltare tutti, perché qualche volta gli serviva per capire qualcosa di più di quel posto. Era seduto a un tavolino in un bar all'aperto e si stava mangiando un grosso budino al cioccolato con le noci (il suo dolce preferito, proprio come glielo faceva sua madre). Entrambi lo salutarono da lontano e poi si fissarono in tralice, immaginando ognuno quel che stava passando per la
testa dell'altro. «So cosa vorresti fare, Jelden, ma non devi». «Perché diavolo non dovrei?». «Quante volte te lo devo ripetere? Perché deve scoprire queste cose da solo. È per questo che si trova qui». «Vabbè, d'accordo, ma Isabelle se n'è andata. Come fa a scoprire che è stata qui, se non c'è più? Eh?». Jelden era alto un metro e ottanta. Broximon quindici centimetri. Eppure entrambi sentirono una mano sulla spalla esattamente nello stesso momento. Si voltarono e si trovarono davanti Flannery. Dietro di lui c'era Luba, quel gigantesco cane bianco e nero. Che stava fissando Broximon con profondo interesse. «Signori». Flannery aveva le braccia conserte. Entrambi ebbero lo stesso pensiero: un istante fa aveva una mano sulla mia spalla. Com'è possibile, se adesso ha le braccia conserte? Flannery vide che Haden stava guardando dalla loro parte e gli fece un cenno di saluto. Haden rispose e tornò al suo budino. «Stavate discutendo cosa sia meglio raccontare a Simon?». Chi diavolo era quel tipo? Come faceva a sapere di cosa stavano parlando? Nessuno dei due lo aveva mai visto. Ma emanava padronanza di sé, come onde di calore su un'autostrada in un giorno d'estate, e una cosa simile in quel posto contava non poco. Al momento Broximon, però, era più preoccupato dell'alano che di Flannery. «È buono quel cane? Non sarebbe meglio tenerlo al guinzaglio, per caso?». «Buono? No, Broximon, Luba non è affatto buona. Ti divorerebbe in meno di un secondo se le ordinassi di farlo. È stupida, ma molto obbediente. Una combinazione perfetta». Avendo rivolto queste parole al bassetto, Flannery squadrò l'altro, quel tipo tutto giallo, dalla testa ai piedi, con uno sguardo simile a quello che avrebbe potuto riservare a una donna molto attraente. «"Burro Jelden a sazietà e più felice il tuo mattin sarà". Solo che puzzi, Jelden. Lo sapevi? Se si mette un pezzo di burro in frigorifero, assorbe tutti gli odori. E senti tu come ti sei ridotto, con tutti questi odori addosso... appesti. Non è gradevole. E non aprirai bocca con Haden, mio caro signor Burro. Capito? Non una parola riguardo a Isabelle, e basta». «E tu chi diavolo sei?». Flannery fece un sorrisetto. «Non credo che tu voglia davvero sapere chi
sono. Capisci cosa voglio dire?». «No, invece. Voglio proprio sapere chi sei», replicò Jelden in tono minaccioso e antipatico. Malgrado l'atteggiamento di Jelden, Flannery si illuminò come se avesse sentito esattamente quanto desiderava sentire. «D'accordo, sono il Re del Parco». Jelden attese che aggiungesse qualcos'altro. Poi ridacchiò. «Che cosa sei?». «Sono il nuovo Re del Parco. Ti basta? Sai cosa significa?». «No. Perché, dovrei?». «Be', se non lo sai, vuol dire che sei più tonto di Luba, e questo la dice lunga, perché lei è una deficiente totale. D'accordo, però, OK. Broximon, tu lo sai?». Brox sollevò entrambe le mani in segno di resa. Non aveva idea di chi fosse il Re del Parco, e non gli interessava neanche saperlo. Il modo in cui Flannery l'aveva detto, quel suo tono grave e divertito-di-terrorizzare significava che era uno che non scherzava. Broximon fece per rispondere, ma era così spaventato che le parole gli uscirono di bocca tanto in fretta che fu quasi impossibile capire cosa dicesse. «No, ma non c'è problema. Voglio dire, a me va bene tutto. Davvero. Vivi e lascia vivere. Re, regina o suddito, io sono contento uguale, no, perché...». Flannery si portò un dito alle labbra per farlo smettere. Broximon si azzittì immediatamente. Jelden rivolse un'occhiata carica di disprezzo a quel piccolo codardo. Broximon se ne accorse e gli disse senza farsi sentire: «Vaffanculo». «Non credo di potermi fidare di te, Jelden. E la fiducia sta alla base di qualsiasi rapporto. Perciò è ora che tiri le cuoia, caro». «Ma davvero? Be', ecco, il fatto è che qua non si può morire, reuccio. Perché questa è la Morte, nel caso tu non lo sapessi». «È vero, ma le cose possono sparire, Jelden. E tu sei una cosa. Nel tuo caso tutto è possibile. Guarda». Portò una mano accanto alla bocca e chiamò Haden seduto a cinque o sei metri di distanza. «Ehi, Simon, niente più burro, OK? Chiuso». Haden non alzò neanche la testa dal suo dolce. Si limitò ad annuire e sollevò il cucchiaino per dimostrare che aveva sentito. Burro Jelden scomparve. Broximon non avrebbe saputo dire come, ma da un momento all'altro non c'era più, tutto qua. «Merda saaaanta...».
«Il piccolo Simon Haden spalmava il burro Jelden sul pane tostato ogni mattina quando era piccolo, perché gli piacevano le pubblicità alla tivù. Voleva a tutti i costi che sua madre comprasse solo quella marca al supermercato. Canticchiava le canzoncine delle pubblicità quand'era da solo. Ma adesso tutto questo non esiste più. Adesso Haden ricorda soltanto la margarina, che sua madre usava su tutto perché aveva letto da qualche parte che era più sana. Col burro Jelden, chiuso», disse Flannery. Dalla sua faccia si sarebbe detto che Broximon fosse sul punto di darsela a gambe o di farsela addosso da un istante all'altro. «Puoi fare una cosa simile? Anche qui puoi cancellare i ricordi? Anche adesso che Simon è morto?». «Te l'ho detto. Sono il Re del Parco». «Merda santa». «L'hai già detto. Sai cosa dicono in Russia? "Non c'è bastardo che non incontri qualcuno più bastardo di lui". Bye-bye, Jelden. Forza, andiamo a fare una chiacchierata con il nostro signor Haden». Prese su Broximon e lo posò sulla schiena di Luba. Flannery s'incamminò verso il bar e l'alano lo seguì con una lenta andatura ondeggiante. Impietrito, Broximon riuscì soltanto a mormorare «Merda merda merda» con un fil di voce mentre cercava di aggrapparsi da qualche parte per non cadere. Come al solito Hietzl era seduto sul sedile posteriore della macchina. Osservava i due esseri umani davanti a lui. La Range Rover era parcheggiata in cima al Wienerwald, su una stradina laterale poco lontano dal Cobenzl. Era uno dei loro posti preferiti, perché offriva una spettacolare vista panoramica di Vienna e delle pianure che si estendevano fino all'Ungheria. La amavano soprattutto nelle limpide sere d'estate quando si portavano l'occorrente per un picnic e si sedevano lassù, sul morbido declivio di uno di quei prati sconfinati e, mangiando e chiacchierando, guardavano farsi buio e le luci della città scintillare lontane ai loro piedi. Ora entrambi guardavano fisso davanti a sé, in silenzio. Isabelle aveva parlato a lungo. Aveva raccontato tutto a Vincent dei suoi tre viaggi in quello strano posto. Aveva descritto quello che aveva visto e le sue emozioni. E soprattutto gli aveva raccontato dell'incontro con Broximon e Burro Jelden. E che Jelden aveva chiamato quel posto il «paese di Simon Haden» e aveva detto quant'era importante per loro figlio che lei incontrasse Simon. Quando ebbe finito, il suo racconto fu seguito da un silenzio colmo di
tensione, cosa rara per loro. Vincent era seduto accanto al posto di guida, con le dita intrecciate dietro la nuca e un piede appoggiato sul cruscotto. Quando erano insieme, guidava sempre Isabelle, perché lui adorava vederla al volante. Dopo un po' si voltò verso Isabelle e le chiese: «Perché pensavi che non ti avrei creduto?». Lei fece un respiro profondo ed emise un lento, lentissimo sospiro. Le vennero le lacrime agli occhi, ma si sforzò di non piangere. «Voglio solo vivere con te e allevare nostro figlio insieme». «D'accordo, ma c'è anche qualcos'altro». «Sì, certo, perché hanno scelto proprio nostro figlio? Perché proprio Anjo, Vincent?». «Be', innanzi tutto io sarei ancora morto se non lo avessero scelto, tesoro». Malgrado tutto Isabelle sorrise. «È vero». «Spiegami di nuovo quello che ti hanno detto riguardo al fatto che era il paese di Simon Haden». Mentre Isabelle gli ripeteva quella parte della sua esperienza, Ettrich teneva lo sguardo fisso davanti a sé con gli occhi socchiusi. Era il suo modo di concentrarsi, ma Isabelle aveva da poco ripreso a parlare che Vincent iniziò a scrollare la testa come se ci fosse qualcosa che non andava. La interruppe bruscamente. «D'accordo, d'accordo, ho capito. Hai visto qualcos'altro mentre eri lì? Qualsiasi cosa che possa avere importanza. Non solo questa volta, anche le altre, dopo quel "batter di ciglia". Raccontami quali sono le cose più strane che hai visto». Lei esitò un attimo mentre ripensava a quei suoi viaggi in cerca di qualcosa d'interessante. Ma alla fine si sorprese a dire: «Sai cos'è più strano di tutto? Che tutto mi sembra così normale quando sono lì. Oggi, ad esempio, ho incontrato un uomo di burro. Ma dopo il primo attimo di shock, mi sono messa a discutere con lui. Non mi ricordavo neanche più che era fatto di burro. Pensavo solo che era un cretino». Ettrich era morto solo come un cane, in un'anonima stanza d'ospedale. Nessuno che lui amasse o che anche soltanto conoscesse era lì per dirgli addio, o per stargli accanto e tenergli la mano durante quell'ultima prova. Non aveva avuto altra compagnia che medici e infermiere e il vecchio che era in stanza con lui. Avevano entrambi un cancro che gli stava spietatamente divorando le budella come uno strato di sale su una lastra di ghiaccio. La donna che per molti anni era stata sua moglie sapeva che Ettrich
stava morendo, ma provava un tale rancore nei suoi confronti che si era rifiutata di andare in ospedale. E non aveva neppure permesso ai suoi figli di andarlo a trovare. Questo perché, poco prima che gli fosse diagnosticato il tumore, Vincent Ettrich aveva abbandonato la sua famiglia per Isabelle Neukor. Ma, ironia della sorte, lei se n'era andata, lasciandolo con un pugno di mosche in mano. Dopo di che Ettrich si era ammalato. «Vincent?». «Sì?». «Era così anche quando sei morto tu? Ti sembrava tutto così normale?». «Sssh». Ettrich alzò una mano per farla tacere. Isabelle non aveva idea di quale fosse il motivo, tuttavia obbedì a quel brusco comando. La mano di Ettrich rimase sollevata per aria, mentre lui ascoltava qualcosa con la testa inclinata leggermente da una parte. Isabelle aprì la portiera il più silenziosamente possibile e scese dalla macchina. Pensava che fuori forse avrebbe potuto sentire meglio. Era estate e si udivano soltanto i normali rumori di una giornata estiva: il frinire delle cicale, il brontolio di un lontano falciaerba, un bambino che strillava chissà dove, un camion che rallentava scalando le marce. Poi, dopo una pausa, sentì qualcosa sbattere contro la carrozzeria. Si voltò e vide che il cane stava saltando goffamente giù dalla macchina. Dopo essersi stiracchiato, Hietzl si avvicinò a Isabelle, le si sedette accanto e guardò Ettrich. «Lo senti anche tu?», le chiese Vincent senza voltarsi. «Cosa, Vincent? Cos'è che dovrei sentire?». «Ascolta bene. Potresti non sentirlo perché è un suono molto lontano». Isabelle rivolse la propria attenzione ai rumori intorno a lei con tutta la concentrazione di cui era capace. Cercò di immergersi totalmente in quei suoni, trasformandosi in puro ascolto, senza lasciarsi distrarre da pensieri né domande né qualsiasi altro tipo di preoccupazioni. Ma con suo rammarico, non udì altro che le cicale e il falciaerba che si arrestò all'improvviso, lasciando dietro di sé soltanto quel gran ronzio. «Fizz, non senti niente? Non lo senti questo brusio?». «Certo che lo sento! Era questo che volevi che sentissi... il ronzio di questi insetti?». L'espressione di Vincent mutò drasticamente. «Lo senti?». «Certo. E allora?». Isabelle pensò per un attimo che Vincent scherzasse: come faceva a non sentire quel frastuono?
«Dimmi cosa senti». «Le cicale. Sì, il rumore che fanno quando friniscono». Vincent la fissava con un'espressione incredula. «Ed è molto lontano?». «No, è qui, tutt'intorno. È molto forte». «Forte?». «Sì». Non le piaceva il tono della voce di Vincent. «Che cosa c'è, Vincent? Cosa sta succedendo?». «Non sono cicale quelle che senti, sono... morti. Quelli che hai portato con te quando hai fatto ritorno qui». «Come fai a saperlo?». Lui la guardò con un'aria molto triste. «Perché ricordo questo rumore. È una delle poche cose che ricordo di quando sono morto». La luna nell'uomo Era stata la prima cosa che Vincent Ettrich aveva sentito dire da Isabelle Neukor. «La luna nell'uomo, eh?», aveva esclamato Isabelle mentre chiacchierava con una donna, dopo di che aveva reclinato la testa all'indietro ridendo a bocca aperta. Vincent si stava avvicinando insieme a Flora Vaughn e Simon Haden, che volevano fargliela conoscere. Questa Isabelle doveva essere stata molto bella tre o quattro anni prima. Fu il suo primo pensiero quando la vide. Dopo che le fu presentato, indicò il mantello che indossava e la prima cosa che le disse fu: «Lo sai come si chiama una cappa come quella in Francia?». Lei si volse con un lieve sorriso verso Simon e Flora per vedere se per caso si trattasse di uno scherzo o di qualcosa del genere. Alla fine guardò di nuovo Vincent. «No, come si chiama?». «Houppelande». Quella parola saltellò fuori dalle sue labbra come un cavallino danzante. «Non è una parola bellissima? HOP-e-LAND». Isabelle non indossava cappotti pesanti di solito, ma quella sera faceva un freddo glaciale fuori. Era appena arrivata alla festa e non si era ancora tolta la mantella di loden grigio che la avvolgeva fino alle caviglie. Il cappuccio era così lungo che le arrivava a metà schiena. Con quella mantella, i capelli biondi e le guance rosse sembrava la principessa di una fiaba o una ballerina delle Follie sul Ghiaccio. «E cosa sarebbe un houppelande?». «Una cappa come la tua, ampia e melodrammatica». «Il mantello di Dracula, insomma?».
«Avevo più in mente una scena del Dottor Zivago, devo dire». Gli piaceva già. Vincent aveva un debole per le donne brillanti, autoironiche, divertenti. Isabelle iniziò a sbottonarsi la mantella. «D'accordo, allora adesso ne ho una io per te». Aveva le mani intirizzite dal freddo. Se le portò alla bocca e ci soffiò sopra per riscaldarle prima di continuare. «Hai mai sentito parlare della "tunica molesta"?». «Lo strumento di tortura? Certo. Sei mai stata al Museo della Tortura nel sesto distretto? Ci sono delle cose incredibili: vale la pena di andarci una volta». Isabelle lanciò un'occhiata a Simon Haden, chiedendogli con gli occhi: Ma dove l'hai pescato questo? Isabelle non aveva mai incontrato nessuno che avesse sentito parlare della tunica molesta. Mentre chiacchieravano tutti e quattro insieme, fu subito evidente che c'era una forte elettricità tra Isabelle e Vincent. Flora e Simon se ne accorsero e si spaventarono. Ma non c'era più nulla che potessero fare ormai. Ettrich raccontò una storia divertente e straordinariamente dolce a proposito della preziosa collezione di fisarmoniche di suo padre. Da piccolo, Vincent aveva imparato a suonare la fisarmonica soltanto perché si era innamorato di un modello che si chiamava "Everest". «Davvero sai suonare la fisarmonica?», domandò Isabelle. «Sì, anche il Volo del calabrone». Isabelle era deliziata, si vedeva dalla sua espressione e dal suo atteggiamento nei confronti di Vincent. Le piaceva un sacco la gente che sapeva fare cose strane e inutili: come il pattinaggio artistico o il ventriloquio, suonare la fisarmonica o riparare vecchi orologi. Una volta si era innamorata di un ragazzo solo perché le aveva insegnato a ballare il tango. Su un tavolino in soggiorno Isabelle aveva diversi oggetti che adorava, tutti trovati per caso o comprati in qualche mercatino. Non erano oggetti di valore, ma per lei erano preziosi perché erano buffi, unici, oppure personificazioni di ricordi. C'era, per esempio, un omino rosso di gomma degli anni Venti che assomigliava moltissimo a uno dei personaggi di Bruno Schulz che lei amava. Poi c'era un dente enorme di un cane che Isabelle aveva amato moltissimo, morto da anni ormai. Un cartello municipale di Vienna tutto ammaccato con su scritto «Tolstoj Gasse», una rana in tutù da ballerina e, in una cornice di legno intarsiato, un pezzo di carta assorbente di quando era bambina, tutto coperto di disegnini, scarabocchi, messaggi in codice che
lei sola poteva decifrare... parole e immagini che racchiudevano l'universo di una ragazzina di nove anni. Guardando Vincent, quell'uomo così interessante che sapeva suonare la fisarmonica, desiderò mostrargli quegli oggetti e sentire cosa pensava. Ma fu la musica a dare sul serio il via a tutto. Qualche minuto dopo, mentre chiacchieravano, una canzone inondò all'improvviso la sala. Il vocio scemò per qualche istante, mentre la gente si abituava alla presenza della musica, per poi tornare alla conversazione. Era These Foolish Things, cantata da Peggy Lee. Vincent alzò la testa e sorrise come se avesse riconosciuto un vecchio amico. Ed era proprio così, perché quella era una delle sue canzoni preferite. Senza un attimo di esitazione chiese a Isabelle se voleva ballare. Lei pensò che scherzasse, ma si sbagliava. La pista era vuota, ma Ettrich desiderava ballare quella canzone con lei. Isabelle danzava divinamente, ma non era mai stata sola in una pista, mai. Guardò la sua amica per vedere cosa ne pensava, ma era già molto se Flora Vaughn riusciva a rimanere impassibile e a non scappare via in lacrime. Haden sapeva della relazione tra Flora ed Ettrich e avrebbe goduto del disagio della sua ex, se non fosse stato per la propria clamorosa impasse con Isabelle Neukor. Sapeva che se le avesse chiesto lui di ballare, Isabelle gli avrebbe risposto di no senza esitazione. Ettrich aprì le braccia in un'impeccabile posa da ballerino, invitandola a raggiungerlo. A Isabelle sembrava di essere tornata una ragazzina, così nervosa e indecisa, ma anche eccitata. Anzi no, emozionata... quella era la parola giusta. Era da molto tempo che non si sentiva così emozionata, quell'invito l'aveva conquistata. Fece un passo verso Vincent, posò le mani sulle sue e cominciarono a ballare. Flora e Simon si fecero da parte per far loro più spazio. Le persone che avevano accanto li guardarono e sorrisero. Che splendida idea, ballare! Ma finché la canzone non fu quasi terminata, nessuno si unì a loro. Così quella coppia, quei due sconosciuti ebbero la pista tutta per loro. Ettrich fece attenzione a non stringerla troppo a sé e Isabelle non mancò di notarlo. Per metterlo alla prova, o forse per stuzzicarlo, si accostò lentamente al corpo di Vincent. E lui altrettanto lentamente si scostò, lasciando che si toccassero soltanto le loro mani e le loro braccia. A Isabelle tornarono in mente le lezioni di danza prese prima di partecipare al suo primo ballo insieme a un ragazzo che aveva un gran terrore di lei. A metà canzone, la bocca di Vincent si avvicinò all'orecchio di Isabelle
e lui le disse con voce limpida e sommessa, non sensuale, ma intima, solo per lei: «I miei genitori erano la coppia più romantica che io abbia mai conosciuto. Ogni volta che sento questa canzone penso a loro, perché l'amavano moltissimo. La conoscevano tutti e due a memoria, dall'inizio alla fine». Lei si scostò per guardarlo. «Davvero? Adoro la gente così. Sono ancora vivi?». «No, sono morti in un incidente d'auto anni fa». Il modo in cui lo disse la fece rabbrividire più del fatto stesso, per quanto spaventoso. C'era una tale tristezza e un tale senso di vuoto nella sua voce. Senza esitare Isabelle chiese: «Che genere di persone erano?». A quel punto fu Ettrich a scostarsi e a guardare Isabelle sorpreso. «I miei genitori? Davvero lo vuoi sapere?». Fu di nuovo il tono della sua voce a commuoverla: così ansioso e al tempo stesso diffidente. Era chiaro che avrebbe voluto risponderle, ma aveva paura di come lei avrebbe accolto la sua risposta. Quel tono così ambivalente diceva: posso fidarmi di te, posso dirtelo? Vorrei tanto. In un certo senso spendiamo la nostra vita alla ricerca della persona che potrà comprendere la nostra storia. Ma spesso scegliamo male. Così, nel corso degli anni, la persona che credevamo fosse in grado di capirci meglio di chiunque altro finisce per guardarci con pietà, indifferenza, se non vera e propria antipatia. Quelli che ci amano possono essere divisi in due categorie: chi ci capisce e chi ci perdona i nostri peggiori peccati. Raramente riusciamo a trovare una persona capace di entrambe le cose. Ettrich non conosceva la donna con cui stava ballando, ma la sua mano era ferma e tutto di lei sembrava dire sono qui, raccontami qualunque cosa vuoi. Nel frattempo Flora e Simon si erano avvicinati al bar, dove si erano presi due bicchieri di qualcosa di forte, e stavano chiacchierando distrattamente, controvoglia. Haden fu il primo a vedere cosa stava succedendo. Non riusciva a credere ai suoi occhi. «Guardali, Flora. Devi guardarli, subito!». Flora aveva appena scolato quello che era rimasto nel suo bicchiere e non aveva nessuna voglia di guardarli, proprio nessuna. Aveva già visto più che abbastanza. Simon era il solito stronzo e voleva solo farla stare peggio. Ci mancava solo che tra un attimo le dicesse di andare da qualche parte per una sveltina per rendere la delusione un po' meno cocente.
«Per favore, Flora, guarda». Lei lo fissò esasperata, sbatté il bicchiere sul banco e si voltò a guardare. Vincent e Isabelle erano abbastanza vicini perché Flora vedesse chiaramente le guance di Ettrich lucide di lacrime. Non stava cercando di asciugarle. Continuava a ballare e guardare Isabelle negli occhi come se lei gli avesse appena detto una cosa di straordinaria importanza. «Che cosa diavolo sta succedendo tra quei due?». Flora continuò a guardare la coppia che ballava, mentre diceva a labbra tese: «E guardali, Simon. Tu cosa dici che sta succedendo?». Ma lui non riusciva proprio a capacitarsene. «Dai, si sono incontrati mezz'ora fa, e lui adesso è lì coi lacrimoni. Cos'è, non gli avrà mica pestato un piede, per caso?». Isabelle rapì Vincent per il resto della serata. Continuarono a danzare, dimentichi di tutto e di tutti. Flora e Haden smisero di guardarli e tornarono ai loro bicchieri. Poi cominciarono a discutere per una stupidaggine ma, dal momento che in cuor loro erano entrambi furibondi, non si tirarono indietro davanti alla prospettiva di un battibecco. Dopo un po', mentre Flora parlava, Simon sollevò deliberatamente il polso per guardare l'ora e farle capire il più indelicatamente e chiaramente possibile che quella discussione lo stava annoiando in maniera spaventosa. Flora volse lo sguardo intorno per rintracciare i due ballerini, ma erano scomparsi. Informò Haden, facendogli notare che, se lui avesse evitato di portare Ettrich a quella festa, tutto quel casino almeno non sarebbe successo. Che cazzo gli era venuto in mente, eh? Dong! Fu come sentir suonare il gong del secondo round. Entrambi tornarono al centro del ring con passo vacillante. Quando si tratta di dover placare in qualche modo i bollenti spiriti, non c'è nulla di meglio del sesso, ma anche la rabbia non è malaccio, tutto sommato. C'era stata una storia tra Haden e Flora qualche anno prima, il che non fece altro che renderli due avversari ancor più pericolosi. Non c'era più in loro alcuna ritrosia o esitazione, nessuna mira o progetto sessuale nascosto: avevano già sperimentato tutto prima di finire tra le lenzuola, e dopo. Di conseguenza, a quel punto si rotolarono nel fango senza nessuna remora, scagliandosi addosso le verità più sgradevoli e odiose. In men che non si dica toccarono il fondo, e di tacito accordo si accinsero a farlo precipitare a un livello infimo.
A tre chilometri dal luogo della festa, Isabelle stava guidando velocemente lungo la Linke Wienzeile. Il chiarore azzurrognolo del cruscotto era in costante contrasto con le luci alogene e al neon della città che lampeggiavano fuori dei finestrini. Nello stereo, a basso volume, una vecchia canzone dei Rolling Stones. Isabelle voleva far vedere a Vincent una cosa speciale: il suo Kyselak. Mancava ancora una decina di minuti. Nessuno dei due disse niente per un po'. Era sufficiente essere lì soli, in fuga insieme attraverso la città scintillante, alla volta di un'avventura che entrambi aspettavano con una certa tensione, ma anche con gioia e grande curiosità. Vincent si guardò attorno, cercando di non farsi notare troppo. Era convinto di poter riuscire a capire molto di una persona dagli oggetti intorno a sé: in macchina, sulla scrivania, nelle tasche o nella borsa. Sei quel che porti con te. Con suo piacere e segreto sollievo, la macchina di Isabelle quel giorno era piacevolmente incasinata. Una gran quantità di lettere e volantini pubblicitari colorati - giallo! turchese! arancione! - era disseminata per terra. Compreso un numero piuttosto recente del settimanale «Time» e un quotidiano viennese. Ettrich aveva dovuto spostare un paio di cassette dal sedile prima di sedersi: Boris Bukowski e Nighthawks at the Diner di Tom Waits. Si immaginò Isabelle prendere la posta prima di salire in macchina qualche giorno prima e, troppo di fretta per gettare nel bidone tutti quei volantini, lasciarli lì in macchina, per poi dimenticarsene. Sul cruscotto c'era una piccola torcia nera e una bella stilografica d'oro tutta ammaccata accanto a un Elvis Presley di gomma, alto una trentina di centimetri, attaccato lì con due piccole ventose. Ettrich gli diede una spintarella con un dito e Elvis si mise a ballare oscillando su e giù. «La mia macchina è un casino, lo so. Non è sempre così. Ti ho visto che sbirciavi». Isabelle non si era voltata verso di lui, ma sorrideva. «Questo un casino? Questo è niente. Ti racconterò una storia, vera al cento per cento. Una volta una troupe cinematografica ha visto la mia macchina per strada. Mi hanno telefonato perché volevano noleggiarla per un film che stavano girando. E sai perché? Perché nel film c'era un vagabondo che viveva in macchina. Hanno visto la mia e mi hanno dato cinquecento dollari al giorno per averla così com'era, perché era esattamente come l'avevano immaginata». «Non ci credo». «Ti giuro su Dio che è vero. Giuro». Alzò una mano come se stesse giu-
rando davanti a una Bibbia in tribunale. «Che film era?». «Angeli al bar». «L'ho visto! Con Arlen Ford3!». «Esatto. Allora hai visto anche la mia macchina». Isabelle spalancò la bocca sbalordita. Se la coprì lentamente con una mano mentre le veniva in mente la scena. «Quando la polizia si avvicina alla macchina di quel tipo e lo trascina fuori...». «Era la mia macchina». Vincent allungò un dito e diede un altro buffetto a Elvis che tremolò tutto. «...E poi hanno trovato tutti quei gatti che vivevano con lui». Isabelle scoppiò a ridere. «Mio Dio, era davvero la tua macchina?». Ettrich annuì. «Senza i gatti, sì. Li detesto, e dopo le riprese è rimasta la puzza per settimane. L'ho persino portata a lavare un paio di volte e ho passato l'aspirapolvere ovunque, ma non è servito a niente». «Per essere uno che possiede una macchina tanto disgustosa, non mi sembri messo troppo male. E mi piace il tuo profumo. Un'acqua di colonia buonissima. Ma forse neanche tu ti lavi mai?». Senza fare una piega, Vincent rispose: «No, solo la mia macchina è così sporca. Ho sempre trattato le auto come un cassetto in cui infili ogni genere di cose e da cui non tiri fuori mai niente. Sai, roba tipo vecchi biglietti, calzettoni spaiati, ghiaccioli squagliati...». «Ghiaccioli squagliati?». Aveva sentito bene, ma le sembrava una cosa talmente assurda e surreale che voleva esserne certa. «Esatto». Per un po' tornò il silenzio tra loro, ma erano entrambi perfettamente a loro agio. Non era un silenzio minaccioso o imbarazzante, avevano soltanto messo su lo screen saver per qualche istante. Alla fine Ettrich domandò: «Posso sapere dove stiamo andando?». Non che gli importasse più di tanto, ma voleva sentire la voce di Isabelle. «Vuoi proprio che te lo dica, o preferisci che sia una sorpresa? Ti voglio portare in due posti diversi, a dire il vero». Lui ci pensò un po' su e alla fine rispose: «D'accordo, vada per la sorpresa. Ma mi piacerebbe che tu mi raccontassi almeno qualcosa di te. Non mi hai ancora detto quasi nulla. Volutamente?». Lei si strinse nelle spalle. Vincent non aveva nessuna intenzione di accontentarsi di così poco. «Dai... mi devi dire qualcosa».
«Mio padre è medico». Lui aspettò un po' finché, dopo un altro silenzio, lei lo guardò sollevando le sopracciglia. «Era qualcosa». «Sì, cosa fa tuo padre. Ma io voglio sapere di te». «Va bene, allora, eccoti qualcosa. Quand'ero piccola, volevo fare la ballerina. Danzavo molto bene e sono stata accettata nella scuola di danza dell'Opera di Vienna. È lì che ho conosciuto Flora. Andavamo a lezione insieme. Ma non ero abbastanza brava, e nella danza lo si scopre quando si hanno quattordici o quindici anni. Ballavo bene, ma non abbastanza. Così ho smesso e mi sono iscritta all'American International School perché i miei genitori volevano che imparassi l'inglese. È stato così per tante cose nella mia vita. Le faccio bene, ma mai abbastanza. Mai niente di speciale». Lo disse senza rabbia, né rammarico. Stava semplicemente spiegando come stavano le cose. Vincent fu colpito dal suo candore e dalla luce così poco lusinghiera in cui vedeva se stessa. Conosceva diverse donne così, ma nessuna di loro avrebbe mai ammesso quel che aveva appena detto Isabelle. Perché anche le altre erano delle belle ragazze e la gente era sempre disposta a riconoscere loro maggiori qualità di quanto avessero effettivamente dimostrato. Oh, una donna così attraente, danza, dipinge, scrive? Be', allora deve senz'altro farlo bene, non c'è alcun dubbio. Ma non era così. A dire il vero, succedeva più spesso il contrario. Il più delle volte non erano altro che dilettanti che tentavano di essere o di creare qualcosa d'interessante, senza riuscirci. Isabelle riprese a parlare, ma lui stava ancora riflettendo su quel che gli aveva appena detto e non la sentì. «Scusa, cos'hai detto?». Lei scalò le marce e l'auto rallentò dolcemente. Guidava benissimo. «Ti ho chiesto se sai cos'è un autografista». «Un autografista? Strana parola. No, mai sentito». «In realtà, ne è esistito soltanto uno. Ha creato lui stesso questo nome. È una delle due cose che ti voglio far vedere». Ettrich aspettò che Isabelle proseguisse. Aveva già notato che tendeva a fare delle pause quando raccontava qualcosa. «All'inizio del diciannovesimo secolo c'era un uomo di nome Joseph Kyselak che lavorava come impiegato all'ufficio dello stato civile, presso il tribunale o qualcosa del genere. Avrebbe voluto fare il poeta o l'attore, ma non essendo in grado di fare né l'uno né l'altro, per diventare famoso decise
di scrivere il proprio nome dappertutto. Su qualsiasi cosa immaginabile: edifici, ponti, mobili... Centinaia di Kyselak ovunque. Ho sentito che aveva una specie di mascherina, uno stampo. Per scrivere il nome abbastanza in fretta e scappare in tempo. Kyselak si definì un "autografista". Scrisse persino un libro che è ancora in commercio in cui racconta il suo viaggio attraverso le Alpi scrivendo il suo nome in cima a ogni vetta che scalava. Ne ho una copia, è intitolato Zu Fuss Durch Oesterreich. Il suo nome divenne talmente famoso o meglio, famigerato, che fu convocato dall'imperatore per un monito ufficiale. Te lo immagini, Vincent? L'uomo che comandava l'intero impero asburgico che chiama questo svitato per dirgli di smettere di scrivere il suo nome dappertutto! Si narra che l'autografista si presentò, ascoltò umilmente i rimproveri dell'imperatore e si dimostrò debitamente pentito. Ma non appena ebbe lasciato l'ufficio, l'imperatore scoprì che era riuscito a scrivere "J. Kyselak" su uno dei fascicoli sul suo tavolo». Isabelle muoveva moltissimo le mani mentre parlava. Tracciavano dei gran cerchi, si tuffavano giù e si libravano in aria come gabbiani all'inseguimento di una preda a pelo d'acqua. Nessuna delle due riusciva a star ferma un momento. Anche la sua faccia si animava, piena di vivacità. Osservandola, era facile capire quali erano le parti che amava di più e quali invece soltanto dei brevi passaggi per raggiungere il prossimo episodio avvincente. Ettrich trovava adorabile quel suo modo di raccontare e tanto entusiasmo, e non riusciva a saziarsi di guardarla. «Com'è finita?». «È morto molto giovane, credo avesse soltanto una trentina d'anni. E naturalmente la maggior parte dei suoi autografi sono scomparsi col passare degli anni, ma ne sono rimasti alcuni, soprattutto su nel Wienerwald, sui tronchi e sulle rocce. Sono la cosa più strana che puoi immaginarti di vedere in mezzo al bosco. Ho sentito che ci sono dei fan di Kyselak che si scambiano le piantine con le indicazioni per riuscire a trovare le sue firme. E quello che ti voglio mostrare adesso è proprio un Kyselak. Originale. L'ho scoperto qualche anno fa». «Com'è che sei venuta a sapere di lui?». «Petras Urbsys». «Come, scusa?». Isabelle gli strizzò l'occhio. «È la seconda cosa che voglio farti vedere». Il Kyselak di Isabelle era in basso, un po' storto, sul muro di una chiesa
barocca nel quinto distretto. Isabelle e Vincent erano in piedi sul marciapiede, uno accanto all'altra, e lei gli indicava il muro con la torcia, mostrandogli la firma di Kyselak. Alla fine spense la luce e rimasero lì fermi, al freddo, a guardare la parete buia. Ettrich disse: «Ti immagini come sarebbe felice Kyselak di sapere che due secoli dopo una bella ragazza avrebbe mostrato a qualcuno la sua firma come se fosse un vero tesoro? È proprio una gran figata». «Un tesoro? Sì, hai ragione. È proprio così, Vincent. Non ci avevo mai pensato in questi termini, ma per me è un vero tesoro». «A chi altri l'hai fatto vedere?». Lei esitò un attimo prima di rispondere. «A nessuno. Solo a te». Ettrich fu sorpreso dal fiotto di felicità che provò a quella notizia. A lui. E basta. «Vieni, ti voglio mostrare qualcos'altro». Infilò la mano guantata nella piega del braccio di Vincent per condurlo con sé. Era la prima volta che lo toccava da quando avevano ballato alla festa. Lo guidò nella direzione opposta rispetto al posto in cui avevano lasciato la macchina. Ettrich lanciò un'occhiata alle sue spalle. Lei se ne accorse e disse: «Non ti preoccupare, non ci mettiamo molto». «Non sono preoccupato. È solo che ho lasciato i guanti in macchina e mi stavo chiedendo se non fosse il caso di andare a prenderli». Senza esitare, lei fece scivolare la mano lungo il suo braccio e gli strinse la mano tra le sue dita calde. La cosa più bella di quel gesto fu l'assoluta naturalezza con cui lo fece. Isabelle desiderava soltanto scaldargli la mano, nient'altro. Era un gesto gentile, raro nella sua purezza. Con un'altra donna, in un'altra situazione, avrebbe significato QUALCOSA, un momento decisivo di quel loro incontro. Ma Ettrich comprese istintivamente che in quel caso non era così. Tanta dolcezza lo conquistò. Guardò un istante le loro mani e poi si volse verso Isabelle. «Dove stiamo andando?». «Te l'ho detto, da Petras Urbsys». «Non saprei dire se sia il nome di una persona o di una macchina da guerra dell'esercito russo. Una specie di carrarmato anfibio». Lei gli diede una leggera stretta alla mano. «È una persona, ed è russo, o almeno lo era: viene dalla Lituania». «Petras...». «...Urbsys». «Urbsys». Ettrich rimase un istante in silenzio e poi azzardò: «Sei sicura
che non sia una macchina da guerra e anche un uomo che viene dalla Lituania?». Lei gli strinse di nuovo la mano per un attimo, ma sembrava che non avesse più voglia di parlare. Camminarono attraverso quel grigio quartiere operaio in cui la notte odorava di carbone e di legna, di pietra umida e di inverno. Le auto che passavano lasciavano dietro l'odore acre e pungente dei fumi di scappamento. Ma era tardi, perciò non ce n'erano molte. Di tanto in tanto compariva qualcuno dietro un angolo, o camminava verso di loro, ma quei passanti tenevano tutti gli occhi bassi. Sembravano avere fretta di arrivare dov'erano diretti, a casa o semplicemente in un posto dove non facesse tanto freddo. Non era una zona particolarmente interessante per fare una passeggiata. Non c'era altro da vedere se non una fila interminabile di condomini e un paio di Gasthaus4 e ristoranti scalcinati. Ettrich si domandò dove fossero diretti. A metà dell'isolato seguente, Vincent rallentò perché aveva visto qualcosa. Quando vi giunsero davanti, fece cenno a Isabelle di fermarsi un attimo. Una vetrina illuminata. Quasi tutte le altre davanti alle quali erano passati erano buie o illuminate da luci talmente fioche che non era possibile vedere gran che dentro. Era tardi, a quell'ora chi ci poteva essere in giro che volesse comprare qualcosa? Ma quella era illuminata, come se Vienna avesse necessità di quanto quel negozio aveva da offrire giorno e notte. Era stato quello sfolgorio a catturare l'attenzione di Ettrich. «Guarda un po' questa vetrina... Che cosa pensi possano vendere qui dentro?». Si mise a fissare gli oggetti in mostra, incantato. Vincent lavorava in un'agenzia di pubblicità e passava gran parte del tempo a cercare di convincere la gente a comprare prodotti che non conosceva o di cui non aveva bisogno. Di conseguenza, era sempre interessato a vedere cosa ideavano gli altri per vendere. In vetrina c'erano dieci boccette d'acqua di colonia "Old Spice" una accanto all'altra, come strani birilli. Accanto a quelle, sei sottili cravatte da uomo in vistose fantasie geometriche e in quegli sgargianti colori retrò che negli ultimi tempi erano tornati di moda: cravatte di un'altra epoca in perfetto stato. Era evidente che erano originali. Erano pulite e stirate, forse non erano mai state usate. Avanzi di magazzino. A Ettrich tornò in mente quel termine sentito da ragazzo, quando aveva lavorato per qualche tempo in una cartoleria. Prodotti invenduti conservati nella speranza di poterli ritirare fuori un giorno e magari trovare un compratore.
Dietro le cravatte, aperto, c'era un cofanetto con due 33 giri dei discorsi del generale Douglas MacArthur. Lì accanto, anche quello spalancato, un grosso libro illustrato dedicato allo scultore William Edmondson. Davanti al volume, otto saponette quadrate con la scritta "Candida schiuma". A una spanna di distanza, una vecchia borsetta di coccodrillo verde in perfette condizioni. Vincent era certo che non fosse nuova a causa della forma: assomigliava a una di quelle borsette che avrebbe potuto tenere sotto braccio Lauren Bacall in un film degli anni Quaranta. Sparse qua e là tra gli oggetti in vetrina, diverse foto in bianco e nero della stessa epoca. Chinandosi per vederle meglio, Ettrich notò che nella maggior parte di quelle immagini compariva lo stesso uomo. In una metà, più o meno, era in divisa, ma si trattava di un'uniforme che Ettrich non conosceva. A quale esercito poteva appartenere? In un'altra istantanea era seduto con tre infermiere dalle complicate pettinature. Un'altra ancora era stata scattata in un bar, insieme a una donna: erano seduti su due sgabelli cromati e tenevano i bicchieri sollevati come se stessero facendo un brindisi. In una terza foto era con la stessa donna e l'abbracciava: erano accanto a una piccola automobile, alle loro spalle maestose montagne innevate. «Vincent». Ettrich non riusciva a staccarsi da quella vetrina, voleva riuscire a capire cosa fosse quella roba, anche se chi lo stava chiamando era Isabelle Neukor. C'era qualcosa in quegli oggetti e nel modo in cui erano stati disposti. Era forse quello strano assortimento di cose a colpirlo? O l'evidente cura con cui erano state collocate? Guardando la vetrina, a Ettrich sembrava quasi di sfogliare un vecchio album di fotografie, o di contemplare uno scaffale in un salotto in cui sono allineati i ricordi e i talismani più importanti e amati di una vita. «Alza la testa». «Come?». Gli indicò con la mano qualcosa in alto. «Guarda lassù. Sopra la porta». Senza capirne il motivo, Ettrich fece come gli diceva Isabelle. Alzò la testa e vide una grande insegna bianca e nera sopra la soglia con su scritto semplicemente «PETRAS URBSYS». Non credeva ai propri occhi. «È qui? È questo il posto che volevi farmi vedere, Isabelle?». «Già. Adesso guarda pure la vetrina tutto il tempo che vuoi. È meravigliosa, no? La cambia una volta a settimana».
«Vende la sua vita», disse Isabelle leccando il cucchiaino. Ettrich stava fissando la sua tazza di caffè mentre l'ascoltava parlare. Altrimenti, se la guardava, avrebbe finito per distrarsi. «Come, scusa?». Erano seduti in un tavolino in fondo al fumoso Café Alt Wien, uno dei pochi posti in città che rimane aperto fino a molto tardi. Erano andati lì dopo che Vincent aveva contemplato a lungo la vetrina di Petras Urbsys. Isabelle lo colpì delicatamente sul dorso della mano col cucchiaino. «È questo che vende: gli oggetti della sua vita. O almeno, buona parte. Le cose che sono state per lui abbastanza importanti perché le conservasse. E adesso le vende tutte». «Come si fa a vendere la propria vita? E perché qualcuno dovrebbe farlo?». «Perché ormai è vecchio e vuole che i suoi tesori finiscano in buone mani prima della sua morte. Non è una follia come potrebbe sembrare. In negozio ci sono soprattutto vecchi dischi e CD. Petras è un grande appassionato di musica, di tutti i generi. Credo abbia qualcosa come cinquemila dischi». «Sì, ma Isabelle, c'erano anche delle vecchie saponette in vetrina! Non dirmi che vende delle saponette che ha tenuto per così tanti anni». «Perché no? Non mi sorprenderebbe. Pensaci un attimo. Sei vecchio e solo. Non gliene importa più niente a nessuno di te. Le tue storie, i tuoi dispiaceri, i sogni e le speranze che ti sono rimaste: a nes-su-no importa più niente. Capita sempre così alle persone anziane. Ma hai un po' di risparmi, tempo da buttare e un milione di ricordi da condividere. Credi ci sia qualcosa di meglio che aprire un negozio e vendere tutto quello che per te è stato importante a qualcuno che sarà altrettanto felice di avere quelle cose quanto lo sei stato tu? E poi Petras vuole chiacchierare un po' con i suoi clienti prima di vendergli qualcosa. Perché se non gli piaci, non ti vende niente. L'ho visto rifiutarsi più di una volta. Dice che la maggior parte di quelli che entrano nel suo negozio sono vecchi e soli come lui e vogliono soltanto fare due chiacchiere, oppure sono dei fanatici di musica con i suoi stessi gusti, o soltanto qualcuno che ha visto la sua vetrina per caso, è rimasto affascinato e non ha resistito alla tentazione di entrare». Ettrich si grattò la fronte, perché non gli venne in mente nient'altro da fare. «E ne ha di clienti?». «Oh, sì, quasi tutte le volte che vado è lì che parla con qualcuno. Molti
hanno un'aria misera e derelitta, oppure sembrano appena scesi da un UFO, ma a lui non dispiace. Hai presente l'Elvis Presley che ho in macchina sul cruscotto? Me l'ha dato uno dei suoi clienti, un fan di Elvis. Ero nel negozio di Petras il giorno che gli ha venduto un disco molto raro in cui canta l'Ave Maria a Las Vegas». Anche se in quel momento Vincent e Isabelle stavano guardando ciascuno le proprie mani appoggiate sul tavolo, ridacchiarono entrambi all'idea del re del rock'n'roll che cantava l'Ave Maria. A Las Vegas. Quando Vincent parlò, era eccitato come un bambino. «Devi presentarmelo. Devo assolutamente conoscerlo». Isabelle annuì. «Possiamo andarci domani se vuoi». «Promesso?». Era così buffa quella domanda, eppure Isabelle ne fu estremamente felice, chissà perché. «Promesso, Vincent». Petras «A cosa pensi?». Vincent rispose strofinandosi lentamente gli occhi con il palmo delle mani: «Che dovremmo parlarne con Petras». Erano ancora seduti in macchina nel Wienerwald. Hieztl aveva appoggiato il muso sulla spalla di Ettrich. I finestrini erano abbassati. Isabelle incrociò le braccia e si voltò dall'altra parte, ascoltando i rumori del mondo fuori. «Com'è che sei arrivato a questa conclusione?». Sporgendosi in avanti, Vincent diede una spintarella a Elvis sul cruscotto. «Pensavo alla sera che ci siamo conosciuti e a come hai avuto questo». Quando infine parlò di nuovo, la voce di Isabelle era completamente diversa. Stridula, precipitosa, querula, come quella di un bambino stizzito. «Non voglio, Vincent. Proprio non voglio andare a parlare con Petras». «Ti capisco. Anch'io mi sentirei così se fossi nei tuoi panni. Ma credo che non ci resti altro da fare, a meno che a te non venga in mente qualcosa di meglio». Isabelle sapeva che Vincent aveva ragione, il che, tuttavia, non rendeva affatto le cose più semplici. Era almeno mezz'ora che sapeva che non avevano altra scelta. Nel momento stesso in cui Vincent le aveva detto che cos'erano quelle cicale, le era improvvisamente apparso davanti agli occhi il nome "Petras". E l'idea le aveva fatto orrore. Isabelle guardò di nuovo Vincent con occhi supplichevoli.
Lui vide la sua disperazione e le prese la mano. «Tesoro, fai quello che ritieni giusto. Lo sai che a me va bene tutto quello che decidi tu. Se non vuoi, è lo stesso. È solo che non so proprio cos'altro potremmo fare». «Non mi hai ancora detto cosa credi che mi stia succedendo, Vincent. Non hai ancora detto una sola parola. A parte il fatto che sembra che io riporti qualche morto con me ogni volta che torno qua». Isabelle stava cercando di fare la furba. Lo faceva talvolta, quando tentava di nascondere la verità a se stessa. Non era una bella cosa, e dimostrava tutta la sua debolezza, ma Ettrich questa volta non gliel'avrebbe permesso, perché quello che stava succedendo era troppo grosso, troppo pericoloso. Isabelle doveva guardare in faccia la realtà e affrontarla. E così le rispose in tono severo, più di quanto non avesse voluto: «Cosa posso dirti che tu non sappia già, Fizz? Mi hai riportato qui dalla Morte. Per farlo, hai dovuto imparare a penetrare nell'aldilà, ed è stato Petras che te l'ha insegnato. Ma se ti ricordi, già allora ti aveva detto quali avrebbero potuto essere le conseguenze. Tu sai come attraversare il confine della morte, ma adesso c'è qualcuno che sta usando questa possibilità contro di te. Ti ci attirano dentro a tua insaputa attraverso la porta che tu hai già aperto una volta. Per qualche ragione ti hanno trasportato nella morte di Simon Haden. Perché, non lo so. Penso che vogliano nostro figlio, perché Anjo è un pericolo per loro. Lo sappiamo da molto tempo». «E perché pensi che dovrei parlare con Petras?». Irritato, Ettrich strinse lentamente il pugno e abbassò il mento contro il torace. «Vuoi davvero che risponda a questa domanda?». La mascella di Isabelle si serrò. «Non mi parlare così, Vincent. Non è il momento. Mi devi aiutare, non rimproverare. Sì, voglio che tu mi dica perché dovrei cercare di parlare con Petras». Il primo impulso di Vincent fu di sbatterle in faccia una risposta dettata dall'emotività, ma poi si trattenne e allungò una mano verso il muso del cane e lo accarezzò per un po' prima di parlare. «Quando io sono morto, sei andata da Petras e lui ti ha dato le istruzioni per entrare nella Morte e riportarmi indietro. Aveva ragione: ha funzionato. Credo onestamente che dovremmo parlare con lui di questa storia per sentire cosa ne dice. Non esiste nessun altro a cui possiamo chiedere un consiglio, Isabelle. Se c'è qualcuno che ci può aiutare, è lui».
Il Zentralfriedhof di Vienna è uno dei più grandi cimiteri d'Europa. È un luogo gigantesco, molto bello, e antisemita. Varcando il maestoso cancello principale si ha l'impressione di accedere a un luogo non meno eroico e grandioso dei Campi Elisi, in cui riposano gli uomini più potenti e famosi. Non ci si sorprenderebbe di scorgervi un bianco unicorno, o il fantasma di Franz Schubert passeggiare beato, con le mani dietro la schiena, immerso nei suoi pensieri e nella creazione della sua prossima opera di genio. La tomba di Mozart è vicina all'entrata e quella di Beethoven altrettanto. Spingendosi un po' più in là, si incontrano le dimore dei grandi e di chi giunse quasi ad esserlo: eminenti scrittori, medici, architetti e fautori di riforme sociali che rivoluzionarono l'epoca in cui vissero. Più oltre, ci sono le grandi tombe di famiglia, gli imponenti monumenti di panna montata in stile barocco o Jugendstil5, riservati ai ricchi, e le infinitamente più dignitose lapidi nere con le epigrafi dorate dei gut Burgerlich6. Ma lo sgradevole segreto del più grande cimitero di Vienna è il settore ebraico. Molte tombe sono state vandalizzate e scoperchiate, e lasciate così. È un'area del cimitero di cui nessuno si cura, malgrado il gran numero di operai che lavorano al Zentralfriedhof. Isabelle ed Ettrich avevano camminato tra le lapidi per almeno un quarto d'ora prima di raggiungere quella zona. L'unico suono che li aveva accompagnati era stato quello dei loro passi sul marciapiede o sulla ghiaia. Un denso muro d'incomprensione e risentimento si era andato creando tra loro da quando in macchina, nel Wienerwald, avevano cercato di capire cos'era accaduto quel giorno. Isabelle sapeva dov'erano diretti, Ettrich no. Aveva visitato il cimitero diverse volte, ma mai quel settore, mai a quello scopo. Camminando qualche passo dietro di lei gli sembrava di essere un bambino che accompagna i genitori a portare una corona di fiori sulla tomba del nonno la domenica. Isabelle si arrestò, esitò un attimo come per cercare di raccapezzarsi e poi girò a sinistra in mezzo a una fila di tombe. «Fizz?». Isabelle continuò a camminare, ignorandolo. Ettrich affrettò il passo e le posò una mano sulla spalla per un attimo sperando che si fermasse. Isabelle smise di camminare. Ma Ettrich scoprì di non sapere cosa dire. L'aveva chiamata perché si fermasse un momento e volgesse lo sguardo su di lui. L'amava così tanto, e sapeva che durante l'ora appena trascorsa aveva sbagliato tutto. Voleva disperatamente rimettere le cose a posto, soprattutto ora che avevano tanto
bisogno l'uno dell'altra. «Sì?». La voce e l'atteggiamento di Isabelle trasudavano impazienza. Il cervello di Vincent si mise a correre come un pazzo di qua e di là in cerca delle parole giuste, ma alla fine se ne uscì con un misero: «Cosa... cosa stiamo cercando?». «L'arca. È qui da qualche parte. Qui vicino, ricordo di aver visto questo posto quando sono venuta l'altra volta». E ripartì senza degnarlo di uno sguardo. Il suo tono era stato perfettamente neutro, puramente informativo. «Quale arca?». «La pietra tombale è una copia della scultura di William Edmondson nota come "l'Arca di Noè": questa è soltanto un po' più grande dell'originale. Eccola! Laggiù... l'ho vista». Lui guardò nella direzione indicata da Isabelle. Non sapendo nulla né delle sculture di Edmondson né della tomba che stavano cercando, cercò tra le lapidi una che potesse assomigliare a una nave di pietra, a un'arca. Non ne vide nessuna, ma accorgendosi che Isabelle aveva ripreso a camminare con grande risolutezza, si limitò a seguirla. Qualche minuto dopo Isabelle si fermò davanti a una pietra sepolcrale grigio-bruna che aveva la forma di una strana casa. Anzi di due case, a dire il vero, una sopra l'altra. Quella in alto era più piccolina e aveva la stessa forma delle casette di plastica del Monopoli. Aveva quattro lati, sei finestre e un tetto a punta a due spioventi. Non aveva assolutamente niente di speciale. Era appoggiata su un piccolo incavo nel tetto piatto della casa più grande che aveva quattro finestre e, su un lato, una porta doppia, sembrava. Erano entrambe appoggiate su due grosse lastre di pietra squadrate di dimensioni identiche. Su una di esse era stato inciso a mano il nome PETRAS URBSYS in maniera piuttosto grossolana, insieme alla data di nascita e di morte. «Pensavo che parlassi dell'arca di Noè». Ettrich non aveva nessuna intenzione di litigare ancora, ma guardando quell'arcano monumento funebre era troppo curioso per non chiederle qualcosa. Isabelle si avvicinò alla lapide e la accarezzò. «È una sorta di arca. Rappresenta una chiesa. Io l'ho sempre immaginata come una chiesa che galleggia su una zattera sulle acque di un fiume, o di un oceano. Edmondson era un uomo molto religioso. Da giovane, aveva avuto una visione in cui Dio gli aveva detto che doveva fare lo scultore. Per quasi tutta la sua vita non ha fatto altro che scolpire lapidi e figure religiose. Per
lui una chiesa era come un'arca: un rifugio dal mondo esterno e dal male che vi dimora». Ettrich fu commosso da quell'immagine e dall'idea che rappresentava. Malgrado la mestizia del momento, sorrise. «Così la chiesa è l'arca e il mondo in cui viviamo il diluvio?». «Già. Petras amava profondamente le sculture di Edmondson. Diceva che possedevano una semplicità che le rendeva quasi divine. Trascorreva ore e ore a osservarne le foto. Sorridendo». Isabelle non aggiunse che Petras stava sfogliando proprio un libro di Edmondson il giorno in cui era andata a chiedergli come fare per riportare in vita Vincent. Vedendo Isabelle accarezzare la lapide con tanta tenerezza, Ettrich non poté resistere alla tentazione di toccarla anche lui. Nello stesso istante in cui la sua mano si posò sulla pietra, si ritrovò trasportato nel negozio di Petras Urbsys, ormai chiuso da mesi, in seguito alla morte del proprietario. La prima cosa che sentì fu il profumo di legno di sandalo emanato da un incenso. Petras aveva una passione per gli incensi e ce n'era sempre qualche bastoncino acceso nelle ciotole piene di sabbia sparse per il negozio. Ettrich era su un divanetto di velluto verde in mezzo alla stanza. Si era spesso seduto lì quando era andato a trovare il vecchio Petras. Davanti a lui, in piedi dietro al bancone, c'era Petras, vivo e vegeto, che sfogliava un grosso volume illustrato. Aveva un paio di spessi occhiali da vista che continuava ad aggiustarsi sul naso mentre voltava lentamente le pagine. Quando il campanellino sulla porta del negozio suonò, Petras alzò la testa. Isabelle entrò, vestita in modo diverso rispetto a un momento prima al cimitero e con i capelli molto più corti. «Ciao, Isabelle! È da tanto che non ti vedo». «Dobbiamo parlare. Vincent è morto». Il viso del vecchio non mostrò nessuna reazione. Si limitò a chiudere il libro posandovi sopra il palmo delle mani. Isabelle si avvicinò al bancone e gli si fermò davanti. «Devi aiutarmi, Petras». «Mi dispiace per te, Isabelle». Lei annuì, ma il suo sguardo fisso su di lui era impassibile. «Cosa farai adesso?». Isabelle non rispose. Non ce n'era bisogno. Lui sapeva perché era venuta. Alla fine Isabelle abbassò lo sguardo sul libro che Petras stava leggendo. «Edmondson. Ami molto le sue sculture, vero?». «Sì, parlava con Dio attraverso le sue mani». «Petras, lo sai perché sono venuta».
«Sì». Il vecchio spostò il libro in fondo al bancone, ma continuò a guardarlo come se potesse offrirgli un aiuto. «Me lo dici adesso? Avevi promesso che l'avresti fatto se Vincent fosse morto». «Sì, te l'avevo promesso». Petras si tolse gli occhiali e li infilò nel taschino. Sembrava rassegnato, sconfitto. «In Lituania, quand'ero ragazzo, ho visto molti prodigi. Nessuno mi crederebbe se raccontassi tutto quello che ho visto, ma non fa nulla, non importa, perché io quelle cose le ho viste, e so che sono vere, reali. Capitava spesso, quando qualcuno moriva, che fosse rimasto qualcosa di vago, in sospeso...». S'interruppe, come se fosse in cerca della parola giusta. «Non risolto?». Petras puntò un dito verso Isabelle con un gesto deciso, repentino. «Sì, ecco... non risolto. Come quando un uomo non aveva detto alla sua famiglia dove aveva nascosto i risparmi o a chi spettava un certo pezzo di terra. Cose così... qualche volta grosse, altre volte più piccole. Nessuno vuole accettare il fatto che un giorno morirà e così cerchiamo di ignorare l'idea. Per questo qualche volta è necessario andare a parlare ai defunti se si desiderano determinate risposte. Non è molto difficile farlo, basta sapere alcune cose...». «Non voglio parlare con Vincent, Petras. Voglio riportarlo indietro. Voglio andare a prenderlo e riportarlo qui, dalla Morte». Petras annuì, come a dire che sapeva benissimo cosa voleva Isabelle. Puntò di nuovo il dito verso di lei. «Ti posso insegnare entrambe le cose, Isabelle. Lo farò, per te. Ma perché? Perché devi riportarlo qui?». «Perché Anjo mi ha detto che è necessario. Me l'ha detto quando mi ha riferito della morte di Vincent». Petras indicò il pancione di Isabelle. «Ti parla ancora?». «Sì. Dal giorno in cui è stato concepito continua a parlarmi». «Dimostramelo, Isabelle». Isabelle gliel'aveva già fatto vedere altre due volte in passato, ma quel giorno era diverso, perché lei aveva un disperato bisogno dell'aiuto di Petras. Si mise in ascolto. Petras ed Ettrich continuarono a osservarla per un po' in cerca di un segnale, l'indicazione di un contatto, un cenno di riconoscimento. Ma non accadde nulla e pian piano la tensione si fece quasi palpabile. Isabelle continuò a rimanere in attesa, imperturbabile. Alla fine raddrizzò le spalle e si passò il dorso della mano sinistra sulla bocca.
Guardò Petras e disse: Ho visto nel mondo d'oriente Ho visto nel mondo d'occidente Ho visto il diluvio. Non aveva idea di cosa significassero quelle parole, così domandò a Petras: «Che cosa vuol dire? Lo sai?». Il vecchio annuì e additò il libro di Edmondson in fondo al bancone. «È così che descrive il suo incontro con Dio e quello che gli ha detto di fare. Stavo leggendo proprio quello quando sei entrata. Proprio quelle parole. Te l'ha detto tuo figlio? Anjo?». Isabelle replicò in tono un po' brusco, impaziente: «Certo, Petras. Chi altri poteva sapere una cosa simile?». «Sì, d'accordo. Certo, hai ragione, nessun altro. Ti farò vedere cosa devi fare. Ma prima è necessario che tu sappia una cosa. C'è un pericolo quando si parla con un defunto. Chiunque lo faccia, una volta che ha imparato a entrare nella Morte, non dimentica più la strada. Mai più. Per certe persone è una catastrofe. Come la bomba atomica, Isabelle Quando hanno scoperto come costruirla e l'hanno usata, non hanno potuto dire: oh, è stato un errore, adesso smontiamola e facciamo finta di niente. È per questo che in genere venivano scelte delle persone anziane quand'ero ragazzo. Non è così rischioso che conoscano la strada, perché comunque moriranno presto». «Tu l'hai mai fatto?». Lui agitò una mano davanti a sé come per respingere l'idea. «No, io sono un codardo. Gli unici gesti coraggiosi della mia vita sono frutto del caso. Non ho mai avuto bisogno di parlare con nessun morto». «Ma sai come si fa?». «Sì». «Allora insegnamelo, Petras», disse Isabelle senza alcuna esitazione. I due uomini si accorsero della sua risolutezza e a loro modo l'amarono entrambi per il suo coraggio. Ettrich soprattutto, perché conosceva Isabelle profondamente e sapeva che non era coraggiosa. «È qui, nella pancia... proprio in questo punto». Petras si appoggiò una mano in fondo allo stomaco, più o meno all'altezza della cintura. Isabelle lo imitò.
«Sì, esatto, proprio dove c'è il Bauchnabel. Come si chiama, già?». «Ombelico. Cos'è che c'è lì, Petras?». «La tua morte... la tua vita e la tua morte, nello stesso punto. Qui. È qui che eri attaccata a tua madre. Con quel cordone ti ha mantenuto in vita finché sei stata dentro di lei. Ma quando sei nata, l'hanno tagliato perché tu potessi vivere in questo mondo. Quando morirai, lo riavrai». Isabelle esclamò incredula: «Ritornerò ad essere attaccata a mia madre quando muoio?». «No, sarà un legame diverso, con tutti, ogni cosa, non solo tua madre». Petras vide la confusione comparire sul viso di Isabelle improvvisamente solcato da una serie di rughe. «Ma tutto questo non importa ora, Isabelle. Non è questo che vuoi sapere. Lascia che ti mostri come si fa. Metti tutt'e due le mani sulla pancia. Ognuno, nel corso della sua vita, sogna di morire una volta». Isabelle sorrise. «Io sogno sempre di morire». «No, parlo di qualcosa di diverso. Una notte sogniamo esattamente come moriremo, tutta la verità riguardo alla propria morte. Ogni cosa, ogni dettaglio, con estrema chiarezza: dove, come, quando... tutto. Succede a ognuno di noi. Nessuno escluso. Ma poiché facciamo talmente tanti sogni nella nostra vita, dimentichiamo anche questo altrettanto rapidamente degli altri. Non ci ricordiamo nemmeno cos'abbiamo sognato la scorsa notte, è vero o no? Quanti sono i sogni che ricordiamo?». Petras sollevò l'indice in aria. «Ma una volta vediamo in sogno la verità riguardo al momento più importante della nostra vita. Una volta sola. Sogniamo esattamente come moriremo. Per alcune persone è un incubo, per altre no, è un sogno tranquillo e sereno. Così, se si deve andare nella Morte a cercare un defunto quando si è ancora vivi, si deve andare a pescare quel sogno ed entrare da lì». Sentendo queste parole, scetticismo e stupore iniziarono a combattere nel cuore e nella mente di Isabelle. Era mai possibile? «Come facciamo a sapere di avere fatto questo sogno? E se non l'avessimo ancora fatto? Non credi sia possibile? Se certe persone lo facessero molto avanti nella loro vita?». Petras scrollò la testa. «Lo fanno tutti prima di compiere undici anni». «Undici anni? Perché undici?». «Pubertas». «La pubertà?». «Sì, lo fanno tutti prima di diventare adulti».
«Perché? Perché prima?». Petras stava per rispondere, ma fu interrotto dal suono del campanellino sopra la porta. Si voltarono entrambi, infastiditi dall'interruzione. Ettrich osservò la scena dal suo posto sul divano. Era evidente che non erano consapevoli della sua presenza. Isabelle non gli aveva mai raccontato nulla di tutto ciò. Aveva detto che non poteva. Ma ora lui stava scoprendo come aveva fatto ritorno dalla morte e la cosa lo affascinava. Era come vedere un film sulla propria vita, con l'enorme vantaggio di essere in grado di osservare cosa sta succedendo in più posti contemporaneamente e di leggere nella testa della gente. Ricordò la frase di un qualche personaggio famoso che diceva che non potremo mai sapere davvero chi siamo finché non scopriremo cosa pensano gli altri di noi. «Guten tag», un uomo calvo, dall'aspetto piuttosto ordinario, con due grossi occhiali marroni e una misera valigetta di plastica dello stesso colore, fece qualche passo nel negozio con aria esitante, come se avesse percepito di non essere il benvenuto. Petras gli disse in tedesco: «Mi spiace, ma il negozio è chiuso. Torni in un altro momento, per favore». L'uomo a tutta prima parve confuso, poi si indignò. Sollevò la valigetta davanti a sé tenendola stretta al petto con le mani incrociate sopra. «In che senso "chiuso"? La porta è aperta e in vetrina c'è un cartello con su scritto "aperto"». «Il negozio è chiuso. Io sono il proprietario. Quando dico che è chiuso, è chiuso. Se la porta è aperta e io dico che è chiuso, è chiuso. Se la porta è aperta, e io dico che è aperto, allora è aperto. Vuole che prosegua, o ha capito l'antifona?». «Non ne ha il diritto. Ci sono delle leggi municipali che...». «Chi è lei? Kifnitz o Mangold?». Proprio mentre sembrava sul punto di dirgliene quattro, sentendo quella domanda il tipo rimase senza parole. Chiuse la bocca, si passò la lingua sulle labbra e si guardò ansiosamente a destra e a sinistra come se i muri avessero orecchie. «Mangold. Ma come fa a sapere chi sono?». «Non ha importanza. Riferisca soltanto che è necessario che lei lo sappia. Dica che è stato il bambino a dire che deve essere informata». Mangold abbassò lentamente la valigetta e domandò incredulo: «Il bambino ha detto una cosa simile? Davvero?». «Sì, è stato il bambino. Perciò vada a riferire come stanno le cose e dica che ci lascino in pace».
«D'accordo. Sì, d'accordo». Mangold sgattaiolò fuori senza una parola di più. Isabelle guardò la porta chiudersi alle sue spalle. Poi si voltò di nuovo verso Petras. «Chi era? Cosa gli hai detto?». «Ti avevo avvisato che stai per fare una cosa pericolosa, Isabelle. È molto tempo che nessuno fa più nulla del genere e sono in molti a credere che non dovrebbe accadere mai più». «Ma mi hai appena detto che succedeva così spesso quand'eri ragazzo». Invece di risponderle, Petras attraversò la stanza verso una libreria che saliva sino al soffitto. Rimase lì davanti per un po', chiaramente in cerca di qualcosa. Alla fine tirò giù un libro da uno scaffale in alto e lo portò con sé al bancone, dove lo posò davanti a Isabelle. Era un grosso volume di uno sbiadito color ocra che, a giudicare dall'odore di muffa e dalle pagine tagliate rozzamente e alquanto malridotte, doveva essere molto vecchio. «È un libro raro, prezioso, non so nemmeno se ne esistano altre copie. Non credo ne siano rimaste molte. È stato scritto da un mio lontano parente, che insegnava all'università di Vilnius. È stato il più grande studioso del suo tempo di folklore e miti popolari del nostro paese. Ha trascorso tutta la vita viaggiando in cerca di storie. Poi tornava a casa e le aggiungeva alle altre che aveva raccolto. Questo libro è il risultato di trent'anni di lavoro». Diede un colpetto sul libro e mentre dava tempo a quell'informazione di sedimentarsi nel cervello di Isabelle, lasciò che lei guardasse quel tesoro con occhi nuovi. «L'ho letto diverse volte. Alcune storie sono affascinanti, altre, com'è naturale, meno. Ma sai cos'è che ha questo libro più di ogni altra cosa? È triste. E sai perché? Perché tutto quello che vi è raccontato non esiste più. In Lituania, Lettonia, Finlandia, persino qui in Austria... in nessuno di questi paesi esiste più la magia. Sono rimaste le storie, ma la loro verità è scomparsa per sempre. Sono come rovine di una civiltà vissuta migliaia di anni fa. Non ci sono più maiali che esaudiscono desideri, né nuvole che parlano lingue dimenticate. Niente più alberi che narrano cosa accadrà alla fine del mondo... tutto finito, Isabelle. Scomparso». «C'erano davvero? Erano veri tutti questi racconti?». Petras tuonò: «Certo che erano veri! Chi vuoi che possa inventarsi delle storie simili? Sono troppo profonde e suggestive. Semplici agricoltori, manovali, contadini per lo più, gente di campagna. Pensi che potessero avere tanta immaginazione da essere in grado di creare centinaia, migliaia
di storie come queste? No, non se le sono inventate, le hanno viste. Le hanno viste loro, o i loro padri, o i padri dei loro padri, e sono diventate storie di famiglia. Perché erano successe veramente». «Ma cos'è accaduto? Perché è tutto scomparso?». «Perché gli uomini ne hanno fatto uso nel modo sbagliato e per le ragioni sbagliate. Pensa alla storia di questo secolo, Isabelle. Pensa a come si è comportata l'umanità, a come ha dimostrato che nel cuore dell'uomo c'è un pozzo di egoismo, un mostro pericoloso capace di distruggere molto più di quanto abbia mai creato e di compiere malvagità di ogni genere in cambio di pochi, striminziti gesti di bontà. Pensi davvero che alla gente, in questo mondo di oggi, possa essere concesso il dono della magia e del potere che essa comporta? No, assolutamente no. Non siamo in grado di difenderci da qualcosa di simile. Non siamo in grado di proteggere noi stessi da quel che potremmo fare! Per questo la magia è stata fatta scomparire dal nostro mondo. Ed è molto triste, perché in questo modo è diventato un luogo molto più ristretto e banale». Petras distolse lo sguardo da Isabelle e abbassò la testa, e si mise a spolverare la copertina del suo librone. «Da qualche parte qui dentro c'è la storia di come accedere alla Morte attraverso quel sogno che ognuno di noi ha fatto. Esattamente come ti ho detto io. Quel che non c'è qui, sono le conoscenze necessarie per farlo davvero. E non le troverai da nessuna parte, perché sono state cancellate. Era troppo pericoloso. Sarebbe stato come mettere un serpente tra le mani di un bambino perché ci giochi. È tutto scomparso ormai, Isabelle. L'unica cosa rimasta è la pelle di quel serpente, vale a dire quelle piccole e dolci storielle magiche, quelle favole che leggiamo ai bambini per farli addormentare. La pelle è ancora molto bella, ma non è il serpente». «Chi è stato? Chi ha cancellato la magia dal nostro mondo?». Isabelle indicò la porta. «Mangold? Altri come lui?». Petras scrollò la testa. «Lui è solo un messaggero. Ma questa è una domanda a cui non posso rispondere. Puoi soltanto scoprirlo da sola». «D'accordo, va bene. Ma mi devi dire almeno questo: è stato Dio? È stato Dio a portarci via la magia?». Petras esitò, come se stesse decidendo se poteva o no rispondere. «Dio non è una cosa sola». Isabelle non sapeva come reagire. Non capiva cosa Petras volesse dire, ma sapeva che, se gli avesse chiesto di spiegarsi, si sarebbe rifiutato. Fece
l'unica cosa che le venne in mente di fare. Si posò entrambe le mani sulla pancia e disse: «Allora fammi vedere come si fa. Fammi vedere come posso ritrovare Vincent». «Vincent?». Ettrich vide la propria mano sulla lapide, ma la sua mente era ancora nel negozio con il vecchio Petras e Isabelle. Cercare di collegare quelle due realtà era difficile. Era come guardare davanti a sé mentre si fanno lentamente convergere due linee di visione laterali verso il centro. «Vincent, non è successo nulla. Non ha funzionato!». Si trovava di nuovo nel cimitero accanto a Isabelle, davanti alla tomba di Petras. Senza aprire bocca, continuò a sforzarsi di capire dove si trovava e quanto tempo fosse trascorso. Isabelle credette che la stesse ascoltando e che attendesse che lei proseguisse. In realtà, era sconcertato. «Ho fatto esattamente quello che mi ha detto Petras e questa volta non ha funzionato. Perché? Cosa vuol dire, Vincent? Perché non ha funzionato? Perché non sono riuscita a entrare nella Morte?». Ettrich vide una panchina non molto lontano e vi condusse Isabelle. Quando si furono seduti, le descrisse lentamente e con ogni dettaglio quel che gli era successo non appena aveva appoggiato la mano sulla lapide di Petras. Isabelle non lo interruppe. Rimase seduta a capo chino, con le braccia strette al petto. Ettrich non sapeva cosa significasse quell'atteggiamento, ma non si preoccupò di decifrarlo. In quel momento era più importante raccontarle la sua esperienza in modo che lei potesse sapere ogni cosa e giungere alle proprie conclusioni. Isabelle non parve sorpresa da quel racconto. Quando Ettrich ebbe finito, non disse nulla. Fu sul punto di farlo diverse volte, ma si trattenne. Non sapeva bene cosa dire. Così la sua unica reazione fu quella di dondolare su e giù un piede. Finirono tutti e due per fissare il suo piede come se potesse sapere qualcosa di cui loro non erano a conoscenza. «Quando sei morto, Vincent, Petras mi ha insegnato a entrare nella Morte per riportarti qui. Ma questa volta non sono stata in grado di farlo. È una porta chiusa. Forse mi era permesso di entrarvi una sola volta. Qualunque sia il motivo, comunque, non sono stata in grado di andare a chiedere a Petras di spiegarmi cosa mi sta succedendo», disse Isabelle al suo piede ballonzolante. Soltanto quando ebbe finito alzò gli occhi su Vincent. Continuando a guardare davanti a sé, lui disse: «È vero, ma in quello
stesso momento io sono andato nel tuo passato e ti ho visto mentre stavi imparando. O meglio stavo per vederti: Petras era sul punto di dirtelo quando tu mi hai chiamato riportandomi qui». «Cos'hai imparato quando sei morto, Vincent? È questo che dobbiamo riuscire a scoprire. Cosa hai imparato che adesso può aiutarci a proteggere nostro figlio?». Il bagno del bufalo Leni Salomon era innamorata e questa volta era una cosa seria. Dopo quel bizzarro pranzo con Isabelle e Flora, non desiderava altro che trovarlo e passare qualche ora a letto con lui. Un mese prima non si sarebbe mai immaginata che un giorno avrebbe avuto fantasie simili riguardo a quell'uomo. Si chiamava John Flannery. Diverse volte durante la giornata Leni si era ritrovata a ripetere il suo nome, JOHN FLANNERY, giusto per sentirlo sulla lingua mentre continuava a pensare a lui. Passava molto tempo a pensare a lui negli ultimi tempi. A prima vista avrebbe detto che era assolutamente improbabile che lei potesse perdere la testa per un uomo così. Fisicamente era lontano anni luce dal suo tipo. Per quanto fosse lei la prima a dispiacersene, aveva un debole per gli uomini che si conformavano a un cliché piuttosto banale: distinti ed eleganti, che parlavano tre lingue, si pettinavano i capelli col gel e avevano nel taschino della giacca raffinati portafogli con lo spazio per almeno dodici carte di credito. Questo John Flannery, invece, era bassetto e rotondo, e indossava dei vestiti che sembravano appena usciti da una centrifuga senza essere passati neanche un attimo a salutare il ferro da stiro. Aveva una barba sale e pepe, cinquantaquattro anni e una vaga somiglianza con Ernest Hemingway. Figurarsi, Leni li detestava, i libri di Hemingway. E aveva cinquantaquattro anni. Ventidue più di lei. Quando pensava alla loro differenza di età, si sentiva quasi arrossire. Insomma, lui era così, e basta. Leni Salomon era una donna pratica. Zoppicava, Era carina. Qualche anno prima aveva sposato l'uomo sbagliato, ma non aveva il coraggio di lasciarlo, anche se sapeva che sarebbe stata molto più felice se l'avesse fatto. Sapeva tutte queste cose di sé e le accettava. Adesso era innamorata di un uomo che era già maggiorenne il giorno in cui lei era nata. Si erano incontrati sul tram. Lui le aveva chiesto le indicazioni per la casa di Freud, ma quando erano arrivati alla fermata davanti al municipio
stavano già ridendo. Le aveva chiesto se le andava di bere un caffè insieme e lei aveva accettato. Non era solita farlo, anche se le capitava spesso che qualcuno cercasse di abbordarla. Non era per niente il suo stile, ma dopo avergli parlato per appena cinque minuti, Leni sapeva che non poteva interrompere quella conversazione così. Quattro anni prima lui aveva avuto una folgorazione. O meglio, un pomeriggio, mentre era seduto davanti alla sua scrivania nella Silicon Valley, aveva realizzato che stava soltanto guadagnando un sacco di soldi per poter essere un giorno un vecchio con un sacco di soldi. Una settimana dopo aveva lasciato il suo lavoro, si era messo in tasca tutto quello che aveva in banca e aveva cominciato a viaggiare. Aveva fatto il giro del mondo due volte da allora e non aveva nessuna intenzione di fermarsi. Aveva visto il fantasma di un monaco buddhista a Salyan, in Nepal. Era andato a lezione di cucina a Roma da uno chef a tre stelle, aveva addestrato cavalli nella tenuta di un milionario nel nord della Germania e aiutato una donna che aveva incontrato durante il corso di cucina a costruire una casa in pietra sull'isola di Sifnos, in Grecia. Queste erano le esperienze che voleva ricordare quando sarebbe stato vecchio. Una delle ragioni per cui aveva lasciato il suo lavoro era stata la consapevolezza che, malgrado avesse vissuto mezzo secolo, aveva ben pochi bei ricordi. Alcuni sì, una manciata, forse, ma non certo abbastanza per giustificare cinquant'anni di vita. Quando aveva visto che Leni zoppicava, John aveva sorriso. Nessuno aveva mai avuto una reazione simile. La cosa la stupì e la incuriosì, finché non venne fuori che la madre di Flannery aveva avuto la poliomielite da piccola e camminava con la stessa difficoltà di Leni. Lui era cresciuto imparando a camminarle accanto. I bambini non sono abituati a camminare piano. Ma a lui quella necessità aveva insegnato presto ad essere paziente e a fare più attenzione a quello che lo circondava. Il suo spirito di osservazione si era intensificato e lui aveva imparato a godere di piccoli dettagli che la maggior parte della gente non vedeva neppure. Leni parlava raramente di sé, perché era timida, riservata, e in cuor suo pensava di non essere una persona interessante. Ma quel giorno aveva parlato a lungo. Al bar prima e al Volksgarten, dov'erano andati insieme, poi. Lui le aveva fatto diverse domande personali, ma senza mai essere indiscreto né invadente. Domande importanti che l'avevano costretta a riflettere prima di rispondere, per quanto fossero su di lei e sul suo modo di vedere o sentire le cose. Era come se avesse dovuto guardarsi in uno specchio
speciale, che le mostrava degli angoli di sé che non aveva mai visto prima. Quel giorno disse delle cose a John Flannery che avrebbe fatto meglio a non dire, ma poi non si era sentita a disagio pensando a quel che gli aveva rivelato, e aveva soltanto sperato di rivederlo e parlare di nuovo con lui. Al termine di quel loro primo incontro, Leni gli aveva dato il proprio numero di cellulare, non quello di casa. Mentre glielo scriveva su un foglietto, sapeva che era perché non voleva che per caso lui chiamasse e parlasse con suo marito. «Brutta birbantella», si disse mentre porgeva il foglietto a Ernest Hemingway. Per un bel po' non le fu ben chiaro dove li avrebbe portati quell'incontro. Flannery era estremamente piacevole, brillante e acuto. Straordinariamente vivo, con gli occhi aperti sulla vita e su tutte le sue possibilità, malgrado l'età. Così, molte cose che le diceva la colpivano profondamente. Si ritrovava a pensarci spesso durante la giornata. Soprattutto dopo avere ascoltato suo marito sbraitare o frignare riguardo al suo ultimo lavoro e bla bla bla... Il contrasto tra i due era enorme. Uno aveva trentaquattro anni, era un uomo affascinante, di successo, e chiuso a qualsiasi cosa che non facesse parte della sua sfera di esperienza. L'altro no, no, no e poi no. Al marito di Leni non erano mai piaciuti i cani. Un giorno John Flannery si era presentato a uno dei loro appuntamenti con Luba, il suo alano, che sembrava un Jackson Pollock in bianco e nero in movimento. Vedendo quel cane enorme, Leni aveva battuto le mani per la gioia. Era tranquillo come le acque di un lago. Ti guardava con interesse e se eri fortunato veniva a posare il suo testone sulle tue gambe e chiudeva gli occhi. La prima volta che lo fece con Leni, lei rise e disse che era come avere un cocomero sulle ginocchia. «Lo dico sempre che mi porto a spasso un jumbo jet». «Sì, sì, è proprio così! E te la porti anche nei tuoi viaggi, questa montagna?». Flannery sorrise e accarezzò la schiena di Luba. «Certo, perché no? Nessuno dice niente se viene in treno con me, purché si comporti bene e io paghi il biglietto anche per lei». «Te la sei portata in giro per il mondo?». «No, soltanto in Europa. Ce l'ho da quando sono tornato dalla Grecia. È con me da allora. Non ti ho ancora raccontato la sua storia?». Leni scosse la testa e fu quasi sul punto di fare le fusa. Aveva sempre pensato che Flannery fosse irlandese a causa del suo cognome e perché le
sue storie, come quelle di un perfetto irlandese, erano sempre così incantevoli, divertenti e autoironiche. Non vedeva l'ora che le raccontasse qualcosa. «Ricordi che ti ho detto che sono andato in Grecia per aiutare un'amica a costruire una casa? Si chiamava Helen Varcoe. Ci siamo incontrati a Roma a lezione di cucina e siamo diventati amici. Non me l'aveva detto, ma le restava poco da vivere. C'erano due cose che voleva fare prima di morire: imparare a cucinare qualche piatto sopraffino da un grande chef e iniziare a costruire la casa che aveva in progetto da anni su un terreno di sua proprietà a Sifnos. Luba era sua». Come faceva spesso, Flannery s'interruppe all'improvviso e puntò lo sguardo in lontananza. Col tempo Leni aveva imparato ad aspettare senza dire nulla. Immaginava che fosse perso in qualche ricordo, o che avesse bisogno di chiarire qualcosa nella sua mente prima di proseguire. Non gli aveva mai chiesto cosa significassero quelle pause così brusche, ma alla fine avevano cominciato a piacerle: erano una delle sfaccettature dell'interessante e spesso imprevedibile personalità di John. La verità era che si trattava puramente di pause a effetto. Flannery ne aveva fatta una il giorno in cui si erano incontrati e aveva visto Leni pendere dalle sue labbra in attesa che proseguisse. Così erano entrate a far parte del suo repertorio. «Dove ci sta portando?». Presa alla sprovvista, Leni non capì cosa intendesse dire con quella domanda. Per un attimo non rispose nulla e, sbattendo le ciglia un paio di volte, cercò di indovinare quale fosse il contesto di quelle parole. «Dove ci sta portando cosa, John?». Lui indicò lei e poi se stesso, e poi di nuovo lei e quindi se stesso. La guardò negli occhi con uno sguardo imperturbabile. «Questa storia. Io e te, Leni. Questa cosa tra noi, dove ci sta portando?». Anni di esperienza e di perfezionamento le permettevano di avere una storia, una scusa, una balla, una giustificazione, una divagazione pronta sulla punta della lingua prima ancora di avere metabolizzato la domanda. Leni Salomon era bravissima a mentire, a evitare la verità, l'aveva fatto talmente tante volte. Le persone riservate in genere sono così. Sapeva già che avrebbe dato il via alla manovra prendendo tempo, chiedendogli: «Cosa intendi, John? Non so di cosa stai parlando. Quale cosa tra noi?». Dopo di che, avrebbe replicato... No.
Il suo cuore si fece sentire con un bel NO sonoro: questa volta no, non con un uomo sincero come John, no. Niente balle, niente furbizie. Al che esplose una gran baraonda dentro di lei: il suo cuore gridava «Digli la verità!», mentre tutto il resto di lei, in preda al terrore, strillava: «Sei diventata pazza?». Leni era sul punto d'innamorarsi di Flannery. Lo trovava adorabile. Quella era la verità. Non c'era alcun dubbio: qualche altro incontro, qualche altra chiacchierata, e Leni era avrebbe fatto i salti mortali per lui. Era questo che doveva rispondergli? Sì, precisamente. Lui la guardava, immobile come un barbagianni. Di tanto in tanto sbatteva le ciglia, ma non così spesso quanto Leni avrebbe desiderato. Sembrava davvero un barbagianni lì seduto davanti a lei, che aspettava che gli dicesse una verità che avrebbe fatto scoppiare un gran casino. La sua gamba sinistra iniziò a dolerle. La cosa la fece quasi sorridere perché le faceva sempre male ogni volta che stava per cacciarsi in un guaio. Non sapeva perché, ma le era capitato molto spesso, come se anche la sua gamba a quel punto le stesse dicendo: non cercare di negarlo, sei nei pasticci. «Tu cosa dici, John?». Lui rispose senza esitazione. «Sono stato sposato. Non te l'avevo ancora detto, ma è così. Avevo paura di dirtelo, perché è una cosa che a certe donne non piace sentire. Pensano che un divorzio sia una macchia nel passato di un uomo. Ma se ci penso, è stato un bel matrimonio, e non cambierei una virgola, anche se potessi». Leni non sapeva dove lui volesse andare a parare con quel discorso, ma preferì non interromperlo. Aveva sempre immaginato che fosse stato sposato, forse anche più di una volta. «È finita dopo dodici anni perché siamo semplicemente andati in direzioni diverse: sono cose che capitano. Da allora, non sono più stato molto... socievole, in quel senso. Per questo mi è stato facile andarmene dall'America, così su due piedi Non avevo nessun vero legame né obbligo nei confronti di nessuno. Ma in Grecia, con Helen, mentre costruivamo la sua casa, è stato come essere di nuovo sposato, e mi è piaciuto. Quell'intimità e quel genere di rapporto che si ha con qualcuno a cui si è realmente affezionati è una cosa meravigliosa. Mi ha fatto comprendere quanto mi stavo perdendo, in tutti quegli anni da solo». Leni non poté evitare di chiedergli: «Eravate amanti tu e Helen?». Lui scosse la testa lentamente. «No. Nessuno dei due lo desiderava. Sa-
pevamo che eravamo fatti per essere amici ed eravamo felici così. Era più che abbastanza. Mi sarei dovuto fermare soltanto qualche giorno a Vienna. Giusto per andare a vedere Klimt, magari passare una sera all'Opera, mangiarmi qualche fetta di Sacher Torte... Ma poi ti ho incontrato e questa cosa ha preso il via. E adesso non so più cosa fare». Sorrise per la prima volta dopo diversi minuti, poi accarezzò di nuovo il cane. «Ho chiesto a Luba cosa dovevo fare, ma non mi è stata di grande aiuto». Dentro di sé Leni stava tremando, ma non sapeva se di gioia o di paura. Non sapeva cosa dire. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma nella sua testa non c'era nulla, niente di niente, se non la grande speranza che lui continuasse a parlarle dei propri sentimenti. «Sai perché ho portato Luba con me oggi per la prima volta? Per due ragioni: una è che temevo che i cani potessero non piacerti. Non è assurdo? E anche se fosse stato così? Ma per quanto possa apparire strano, per me era importante. L'altra è che quando mi sono svegliato stamattina, mentre ero lì a letto che pensavo, mi sono detto che l'avrei portata con me oggi. E se vanno d'accordo, dirò a Leni che sono divorziato e anche se ci rimane male, be', è ora che lo sappia. Perciò è tutta colpa tua e di Luba. Se non vi foste piaciute, non sarei qui a raccontarti tutte queste cose». Leni era senza parole. No, non è vero. Le sembrava che i suoi pensieri, le sue parole, il suo desiderio di dire a John quello che provava zoppicassero come la sua gamba più corta. In un momento di lucidità comprese che quel senso di impotenza era dovuto in parte alla sua inesperienza. Sì, proprio così, Leni non era abituata ad essere sincera riguardo ai propri sentimenti. Persino con suo marito, che la conosceva bene, e quel che è peggio, non se ne curava. «Hai intenzione di rispondermi?», le chiese lui con voce dolce ed esitante, delicata. Adesso era tutto nelle sue mani. Ne erano consapevoli entrambi. Lui le aveva detto la sua verità, ed era arrivato il momento di quella di Leni. Lei sapeva che qualunque cosa avesse detto sarebbe stata accettata come verità. Poteva raccontare una balla grossa come una mongolfiera e lui ci avrebbe creduto, perché in un momento simile c'era posto solo per la verità tra loro. Qualche giorno prima John le aveva citato una frase che amava e se n'era subito innamorata anche lei. «Apri le braccia se vuoi essere abbraccia-
to». Non aveva parole ora, ma aveva mani e braccia, e poteva usarle per rispondergli. Perché all'improvviso aveva capito cosa voleva fare e il suo viso si era rilassato per la prima volta da quando era iniziata quella conversazione. Leni sollevò le mani dal tavolo e iniziò ad aprire le braccia, come se dovesse mostrargli le dimensioni di un pesce che aveva pescato. Ma poi superarono di gran lunga le dimensioni di un pesce e si spalancarono il più possibile. Stava aprendo le braccia perché voleva essere abbracciata. Flannery comprese immediatamente il significato di quel gesto e sorrise, annuendo felice. Vedendo che John aveva capito così in fretta cosa intendeva, Leni comprese di non avere più nessuna resistenza nei confronti di quell'uomo. Qualunque cosa potesse succedere da quel momento in poi, l'avrebbe semplicemente lasciata accadere. Anche lei, come lui, desiderava avere dei ricordi luminosi, straordinari. E in tutta la sua vita non aveva mai conosciuto... Una strana espressione apparve sul volto di Leni. Flannery la vide e fu sul punto di chiederle se c'era qualcosa che non andava, ma alla fine rimase in silenzio. Comprese che lei aveva intuito qualcosa, qualcosa di fondamentale. Leni sollevò una mano e si coprì la bocca. Aveva creduto di non avere mai conosciuto in tutta la sua vita un grande amore. Ma mentre la sua mente stava componendo quella frase, per dar voce a quella sensazione, due parole diverse avevano preso il posto di quelle che aveva pensato a tutta prima: «grande fiducia» aveva sostituito «grande amore». Con un brivido comprese che prima di quel momento non aveva mai saputo cosa significasse avere fiducia in qualcuno. Fu una vera illuminazione, ma anche una cosa spaventosa da scoprire. Più che un grande amore, quello che Leni Salomon riconobbe fu che era la prima volta che concedeva piena fiducia a qualcuno. Se si era fidata di qualcuno, l'aveva sempre fatto con qualche riserva, sia che fossero i suoi genitori, suo marito o le sue migliori amiche, Isabelle e Flora. Aveva fiducia nella sua professione solo perché era un lavoro di precisione e lei non doveva fare affidamento su nessun altro all'infuori di sé. Ma gli altri, una persona? Si era mai fidata al cento per cento di qualcuno? No. Con la mano immobile davanti alla bocca, guardò Flannery senza realmente vederlo. I suoi occhi si riempirono di lacrime e cominciò a piangere. Era una scena bizzarra: una bella ragazza seduta con una mano davanti
alla bocca, gli occhi colmi di stupore più che di tristezza, le lacrime che le scorrevano lungo le guance. Un uomo di mezza età seduto davanti a lei vede tutto ma non dice nulla. Non allunga una mano, non la sfiora, non parla, non cerca in alcun modo di confortarla. Né si alza e si allontana, perché non stanno discutendo. Un enorme alano sta dormendo al suo fianco, ignaro di tutto. A vedere quella coppia da lontano vi sareste chiesti: ma cosa sta succedendo tra quei due? Cos'è mai accaduto? A causa di quella scena così curiosa, avreste finito per fissarli un po' troppo a lungo. A un certo punto gli occhi dell'uomo avrebbero colto il vostro sguardo. Imbarazzati, vi sareste girati in fretta, ma per un istante brevissimo, come un lampo, i vostri occhi avrebbero incontrato i suoi. E quegli occhi, il suo atteggiamento, o semplicemente qualcosa che non avreste saputo definire, vi avrebbero spaventati a morte. Una sensazione così forte che vi sareste alzati, estremamente a disagio, lasciando più spiccioli del necessario sul tavolo per pagare il vostro bicchiere di vino e correre via senza guardarvi indietro. E se l'aveste fatto, se aveste lanciato uno sguardo alle vostre spalle, la cosa vi avrebbe turbato ancor di più, perché avreste visto quel tipo con gli occhi ancora fissi su di voi, sulla vostra schiena, ma con la stessa perforante attenzione di prima. Come se stesse trascrivendo il vostro numero di targa per il momento in cui ve lo sareste ritrovato di nuovo davanti, ma non per caso. Diverse settimane più tardi, dopo quel bizzarro pranzo con le sue amiche, Leni si fermò in mezzo al marciapiede e compose il numero di John sul cellulare. Sorridendo, chiuse gli occhi immaginando dove potesse essere. Lo vide nel suo appartamento, quelle due piccole stanze piene di sole nel secondo distretto, vicino al parco di Augarten. Gliel'aveva prestato un amico che era andato a lavorare negli Stati Uniti per sei mesi. Aveva così tanti amici, Flannery. Parlava sempre di loro con grande affetto e a giudicare dal fatto che il suo amico gli aveva offerto l'appartamento senza chiedergli nulla, anche loro dovevano volergli bene. Se lo immaginò in piedi in mezzo a quel soggiorno luminoso, che infilava una mano in tasca in cerca del cellulare blu che lei gli aveva regalato un po' per gioco, un po' no. Oppure era al parco con Luba, seduto su una di quelle panchine verdi della Hundezone7 a leggere il giornale, con il cane seduto ai suoi piedi che osservava tutto quello che succedeva intorno a loro. Leni amava andare al parco insieme a John e Luba e guardare le reazioni di chi passava, cani o esseri umani che fossero, alla vista del gigante di John.
«Pronto?». Le bastò udire la sua voce per tranquillizzarsi e sentire tutte le porte che sbattevano dentro di lei chiudersi. Era esattamente dove voleva essere. «John, sono io, Leni». «Ciao, capo». La chiamava in modo diverso ogni volta che si parlavano, un nomignolo nuovo ogni volta: capo, dolcezza, carissima. Una lista che non finiva più. Era la prima volta che qualcuno lo faceva e la cosa la faceva sorridere perché era così tipica di lui. «Dove sei?». La risposta fu immediata. «Sulla tua lingua. Nella tua mano». Quelle parole cosi intime e inattese la fecero quasi svenire. «John, ci possiamo vedere oggi?». La sua voce cambiò tenore. Smise di essere giocosa e provocante per farsi preoccupata. «Certo. Cosa c'è? È successo qualcosa, Leni?». «No, no. Sì. Non so. È solo che ho voglia di vederti». Fu assalita da un improvviso desiderio di piangere. Perché? «Certo. Dove sei? Io sono al parco con Luba». Leni aveva ancora voglia di piangere, ma sulle sue labbra apparve un gran sorriso. Era contenta di avere indovinato. Le dava una profonda gioia scoprire che aveva avuto ragione riguardo a John. Era come scoprire che erano sintonizzati sulla stessa lunghezza d'onda. «Dov'è Luba? Stai leggendo il giornale?». «È ai miei piedi che guarda un cocker che sta pisciando su un cespuglio, e io, sì, sto leggendo il giornale. Sono davvero così prevedibile? Che noia. Cosa succede, amica mia? Non hai una bella voce». «È che sono appena uscita da un pranzo davvero strano e, non so, mi farebbe davvero piacere vederti oggi, se ti va». «Certo, come no? Vuoi venire da me o preferisci che ci incontriamo da qualche parte?». Voglio fare sesso con te, avrebbe voluto dirgli, ma non ne sarebbe mai stata capace. Leni aveva detto e fatto cose con Flannery che non avrebbe mai creduto di avere il coraggio di fare. Ma una cosa così, proprio non riusciva a dirla. Non aveva ancora la spudoratezza necessaria. «Ci possiamo vedere da te? Sono nel primo distretto. Posso prendere un taxi ed essere lì tra dieci minuti». «Ti va bene un'oretta? Devo fare due giri e arrivo. D'accordo?». «Sì... un'ora, d'accordo». La tensione che le gravava sulle spalle final-
mente scomparve, mentre pensava alle chiavi dell'appartamento di John nella tasca interna della sua borsetta: la loro casetta. Il proprietario gli aveva dato due mazzi di chiavi quando gli aveva consegnato la casa. Il primo giorno che John l'aveva invitata lì, la prima volta che erano stati a letto insieme, lui ne aveva dato un mazzo a Leni, dicendo «Adesso, se perdo le chiavi, devi venire tu ad aprirmi». Qualche volta, quando si sentiva sola o triste, tirava fuori le chiavi e le teneva in mano per un po'. Nient'altro. E tutto tornava a posto. Chiuse lo sportellino del telefono e riprese in mano il bastone che aveva appoggiato alla gamba. Decise di proseguire a piedi lungo la Kartnerstrasse per chiarirsi un po' le idee prima di prendere un taxi e andare da lui. Adesso era tutto a posto. A una trentina di metri di distanza, nascosto in un androne, Flannery osservò Leni allontanarsi zoppicando nella direzione opposta. Premette il tasto di fine chiamata sul suo cellulare blu che si lasciò cadere in tasca. Ma il telefono aveva appena toccato il fondo della tasca che riprese a suonare. Come sono ricercato oggi! Ritirò fuori il telefono. «Pronto?». «Dove sei?». Fece una smorfia sentendo quel tono imperioso. Lei non era il tipo da far domande, i suoi erano ordini, anche se avevano un punto interrogativo in fondo. «Sulla tua lingua, nelle tue orecchie». Con uno scatto d'impazienza, lei ribatté: «Non fare l'idiota, dove sei?». «Sto facendo il bagno a un bufalo». Quella risposta bizzarra la fece esitare un momento. «Stai facendo cosa?». «Sono a Calcutta che lavo un bufalo indiano. Sono diventato giainista. È una delle nostre pratiche». «Un che?», domandò lei passandosi con impazienza una mano tra i lunghi capelli rossi. «Giainista. La religione, hai presente? Fondata sugli insegnamenti di Mahavira, che è vissuto nel sesto secolo avanti Cristo...». «Di cosa diavolo stai parlando?». Ma stava ridendo, era riuscito ancora una volta a colpirla. Era una delle cose che le piacevano di più di lui. Lei poteva dare ordini al mondo intero, ma non a lui. Fingeva di trovarlo estremamente frustrante, ma in realtà le piaceva la sua indipendenza e imprevedibilità in tutto, lei inclusa. «Niente. Assolutamente niente. Sono lungo il Danubio che sto passeg-
giando col cane», disse guardando la gente che gli passava davanti sulla via pedonale più affollata di Vienna. Il Danubio era a quasi dieci chilometri di distanza. «Vediamoci. Ho una voglia matta di trombare». Lui osservò passare una bella donna con un gran culo. Ursula. Si domandò se aveva voglia di fare la fatica di entrare nella sua vita. Le piaceva il color pervinca e fare sesso in posti impensati, sul tavolo della cucina o sul cofano di una macchina. Flannery non poteva vedere il futuro, ma tutto quello che c'era da sapere di lei ora era un libro aperto per lui. «Ehi, Romeo, mi hai sentito? Vuoi venire a letto con me o no?». «Ehi, calma, d'accordo? Stavo cercando di capire se era possibile vederci oggi, ma credo proprio di non farcela. Appena torno in città, ho una riunione importante che con ogni probabilità non durerà poco. Altrimenti sarei stato felice di trascorrere il pomeriggio sbucciando un acino d'uva dopo l'altro per lei, signora Vaughn. Cosa ne dici di domani? Porto un po' di Viagra, così sarà una luuuuunga festa». Sapeva che gli avrebbe detto di sì, ma soltanto dopo aver fatto finta di rifletterci un po'. Perché non voleva che lui pensasse che lei fosse sempre lì a sua disposizione. Le donne sono così prevedibili. «Possiamo vederci in un albergo? Adoro incontrarti in una stanza d'albergo. Ha un sapore così equivoco». Decise di chiudere la telefonata in fretta e correre dietro a Ursula. Com'è che in Austria una donna sì e una no si chiama Ursula? Come poteva venire anche solo in mente di dare un nome simile a una figlia? Aveva un'oretta prima dell'appuntamento con Leni. Più che abbastanza per un primo approccio con la sua Urrrsula. Aveva un culo troppo perfetto per lasciarselo scappare. Un istante dopo, la sua voce al telefono era una miscela perfetta di sesso, allegria e buon umore: «Flora Vaughn, possiamo andare in qualsiasi albergo tu voglia». Dammi in pasto a tua sorella «Solo perché non sto parlando, non significa che non abbia nulla da dire». «Certo. Riprendi pure quando ti fa più comodo». «Volevo solo assicurarmi che su questo fossimo d'accordo». «Siamo d'accordo. Non ti preoccupare». Simon Haden guardò il suo diciassettesimo budino al cioccolato e lo al-
lontanò con un gesto brusco. Broximon attese educatamente, ma inutilmente, che lui proseguisse. Erano seduti insieme a Volin Poiter, Seaburg Rasnic, Tyree Meza, Duryee Grenko, Mescue Rell e Sneekab. O meglio, Haden era con Broximon sul bracciolo della sua sedia e gli altri erano sul tavolo, perché erano un gruppetto di mosche. Una volta, per divertire una donna stravagante che stava cercando di sedurre, Haden aveva dato un nome a ogni mosca che era atterrata sul tavolo mentre mangiavano in un ristorante all'aperto. Adesso quelle mosche erano tornate a salutarlo. «Che vada al diavolo!», esclamò una di loro nella lingua delle mosche. Ma poiché erano nella Morte, Haden fu in grado di capirla. «Hai ragione», ribadì l'altra entusiasta, divertita dall'idea. «Chi ha bisogno di lei!?!». Haden manifestò il suo dissenso agitando il cucchiaino in aria. «È più facile a dirsi che a farsi. Senza contare che tanto io non posso fare molto in ogni caso, dal momento che sono morto». Le mosche sapevano più di quanto lui non s'immaginasse, ma non avevano nessuna intenzione di dirgli niente. Assolutamente no. Avevano già abbastanza guai così, col fatto che erano morte e tutto. Perciò, preferirono appuntare i loro sguardi su Broximon che era a conoscenza di quel segreto tanto quanto loro. Volevano vedere se avrebbe vuotato il sacco o no. Haden lo aveva chiamato per dirgli che era in una situazione di stallo. L'ometto non sapeva di cosa stesse parlando, ma quel suo disagio gli parve comunque un buon segno. Almeno significava che Haden stava riflettendo, ed era già un gran passo avanti. Brox non riusciva a credere che, dopo aver fatto una scoperta simile, qualcuno potesse essere tanto letargico e demotivato. Era come se si stesse riposando sugli allori e non avesse alcun desiderio di mettere a frutto le sue nuove conoscenze e intuizioni. Ma quali allori? Era soltanto all'inizio e aveva ancora talmente tanta strada da fare. «Sono ossessionato da lei, Broximon. Com'è possibile? Come si fa ad essere ossessionati da morti? Eh? Persino di più di quando ero vivo. Penso a lei in continuazione. Non capisco. Non ha senso». Broximon fissò le sue scarpe bicolori di nappa finissima. Il massimo dell'eleganza, acciderboli. Le mosche iniziarono a ronzare tutte eccitate. Le cose si stavano facendo interessanti. Haden era talmente immerso nei suoi pensieri, che non udì la domanda del piccoletto. «Cosa?».
«Hai mai visto Isabelle da quando sei qui?». Qualcosa in quella domanda gli fece rizzare le orecchie. «No, perché?». Broximon allungò una mano e spolverò un inesistente granello di polvere dalla punta della sua scarpa. «Be', devi averla sognata spesso quando eri vivo, no?». Haden borbottò: «Oh, sì, almeno cinquemila volte, cazzo». «Ecco, allora, Simon, deve essere qui da qualche parte se l'hai sognata tanto spesso. Siamo nel tuo mondo: te lo devi mettere in testa». «Non l'ho mai vista qua», disse Haden, sulla difensiva, come se fosse troppo tonto o troppo distratto per comprendere quanto avrebbe dovuto essere ormai ovvio. Però Broximon aveva ragione: ci doveva essere una copia di Isabelle da qualche parte, perché era proprio così, questo era il mondo di Haden. E Isabelle Neukor occupava senza dubbio uno spazio notevole nella sua mente. «Magari dovresti cercarla, Simon». Quasi all'unisono le mosche smisero di ronzare per un istante a quelle parole. Non si era lasciato scappare troppo? Riluttante, Haden replicò: «Sì... be', ma questo è un posto maledettamente grande, Brox. E anche se tu avessi ragione, dove vuoi che mi metta a cercarla, sulle Pagine Gialle?». Broximon avrebbe voluto dirgli: «Sei un idiota, Simon», ma sarebbe stato controproducente. Eppure, più tempo passava con lui, più si convinceva che Haden era davvero un idiota. Gli fu comunque risparmiata la necessità di dover dire qualcosa perché in quell'istante apparve Mrs Dugdale che si dirigeva verso di loro a passo di marcia. Indossava un altro dashiki dai colori assolutamente sorprendenti che sembravano scaturiti da un'esplosione di una fabbrica di matite colorate. «Oh, Simon, eccoti qui!». Malgrado l'età e il fatto che era morto, Haden si sedette subito più diritto alla vista della sua vecchia maestra elementare. E le mosche, come se sapessero chi era quella donna, volarono via tutte in men che non si dica. «Salve, Mrs Dugdale». Invece di rispondere, lei fissò il budino al cioccolato lasciato a metà. Si sedette davanti alla coppetta, fece una smorfia e la scostò spingendola con un dito sul bordo del tavolino. «Sei un bel goloso, eh, Simon?». Il tono era quello di un rimprovero velato da una sottilissima patina di dolcezza. Haden respirò a fondo un paio di volte. «Non è più necessario che mi
preoccupi dei brufoli, Mrs Dugdale». Lei lo guardò severamente. «Non rispondere così, caro signore. Era una semplice osservazione». Haden fu tentato di afferrarsi l'uccello e di dirle di osservare quello, se proprio voleva. Ma evitò. «Salve, Broximon». «Salve, Mrs Dugdale». «Hai un paio di scarpe davvero speciali, oggi». Tutti e tre fissarono le scarpe bicolori di Brox, panna e marroni. «Be', sì, grazie mille. Cosa c'è, signora? Siamo piuttosto impegnati, sa? Siamo nel bel mezzo di... ecco, di una riunione». Le capitava così di rado che qualcuno le si rivolgesse con tanta impudenza che Mrs Dugdale si limitò a fissare quell'ometto insolente seduto sul bracciolo della sedia con quelle scarpe così pacchiane. Facevano entrambi parte dei ricordi di Haden, ma questo non significava che dovessero per forza piacersi. Mrs Dugdale incrociò le braccia e gli lanciò un'occhiataccia. «Mi dispiace immensamente interrompere la vostra riunione, Broximon. Sono qui perché ho un messaggio per Simon». I due uomini rimasero in attesa. Quando lei decise che l'avevano fissata abbastanza a lungo, disse con voce leggermente rattristata. «Devo riferire a Simon che Dio lo vuole vedere». L'ufficio di Dio non era niente di speciale. Anzi, da com'era arredato, sembrava piuttosto l'anticamera di un dentista del Nord Dakota o di un piccolo dirigente dei quadri intermedi di una grande società. La segretaria era una banale quarantenne che con tono distaccato invitò Haden a sedersi. «Sarà da lei in un attimo». Dopo di che riprese a battere a macchina. Su una macchina da scrivere. La segretaria di Dio usava una vecchia macchina da scrivere. Haden si sedette su una sedia verde e si guardò intorno con attenzione, cercando di registrare ogni dettaglio in modo da poterselo ricordare in seguito. L'ufficio di Dio. Più in alto di così non si poteva andare. Era seduto nell'ufficio di Dio in attesa di essere ricevuto da Lui in persona. Lo aveva mandato a chiamare. Ma per quale motivo? Mentre aspettava di incontrarlo, Haden cominciò a presentire qualcosa che non gli fece molto piacere. E se fosse giunto il Giorno del Giudizio? Se invece che da tuoni e fulmini, rulli di tamburi e
squilli di cimbali fosse annunciato da una vecchia maestra che gli comunicava che Dio voleva vederlo? E se tra un'ora Haden si fosse ritrovato immerso dalla vita in giù in un calderone di merda bollente mentre una schiera di diavoli rossi lo punzecchiavano coi loro forconi ardenti... «Il prossimo». Preso dal panico, Simon guardò la porta per vedere se poteva scappare. L'avrebbe fatto, ma la segretaria di Dio lo stava osservando e lui era certo che poteva fermarlo, se ci avesse provato. «Sì, posso. Si comporti come si deve e vada dentro», gli disse la donna con voce brusca, straordinariamente simile, in quell'istante, a quella di Mrs Dugdale. Era giunto il momento della resa dei conti. Haden aveva avuto sempre la sensazione che quel mieloso mondo immaginario, quell'aldilà della memoria fosse troppo comodo, troppo bello per essere vero. Adesso arrivavano le fiamme dell'inferno. La pece bollente e i sudori freddi che aveva sempre immaginato lo avrebbero atteso dopo la morte. Avrebbe voluto mettersi a piangere. Oppure correre via, ma era troppo tardi ormai, e poi dove poteva andare? La festa era finita. Per lui era finita. Sconfitto, temendo ormai il peggio, si alzò e si avviò lentamente verso la porta dell'ufficio. Vide davanti agli occhi il suo ultimo, squisito budino al cioccolato e l'idea di non averlo neanche finito lo tormentò. Proprio come glielo faceva sua madre, e lui l'aveva messo via... «Non è giusto! Avreste potuto avvisarmi almeno», sbottò. La segretaria non alzò neanche la testa. Con un dito gli indicò l'ufficio e disse: «Si sbrighi». Haden arrivò davanti alla porta. Posò una mano sulla maniglia, la lasciò cadere, poi la sollevò di nuovo. Raccogliendo quel poco di coraggio che aveva, premette la maniglia e la porta si spalancò. Un enorme orso polare bianco era seduto dietro un'immensa scrivania nera in una stanza non troppo grande. Per quanto, certo, la taglia dell'animale e della scrivania facessero apparire la stanza molto più piccola di quanto non fosse in realtà. L'orso stava guardando un foglio sulla scrivania. Un paio di occhiali da vista con una montatura rettangolare nera erano appollaiati sulla punta del suo grosso nasone nero. La scrivania era vuota, fatta eccezione per quell'unico foglio e una targhetta di rame nell'angolo destro, con inciso sopra BOB. Dio era un orso polare di nome Bob? A quel punto Haden si rese conto che non c'era nessun'altra sedia lì den-
tro. Solo la scrivania e la poltrona dell'orso polare, e basta. Così rimase lì in piedi a disagio, in attesa di quel che lo aspettava. Dio era davvero un orso polare? Alzando la testa, l'animale lo vide e il suo viso si illuminò. «Simon! Wow, wow e ri-wow! Quaaaaaaanto tempo, eh?». «Scusi?». "Bob" si levò gli occhiali e li posò sulla scrivania con grande delicatezza. «Non dirmi che non ti ricordi?!?». Adesso era tutto chiaro: era una trappola. Lo sbattevano lì dentro con quell'orso polare e alla prima risposta sbagliata sotto i suoi piedi si apriva una botola e... bum! Piombava dritto dritto all'inferno. Per forza non c'erano sedie: non ci sarebbe voluto molto. Una domanda, una risposta sbagliata e, voilà, un bel volo in fondo all'inferno. Non sapeva cosa dire. L'orso sembrava aspettare che dicesse qualcosa, ma quale risposta poteva evitargli quella sorte fatale? «Mah...». «Cristo santo, Simon, mi spezzi il cuore. Non ti ricordi proprio?». Haden lo guardò meglio: non notò niente di speciale. Ma proprio quando gli venne in mente che un orso normale avrebbe dovuto ruggire o divorarselo, quello si mise a fischiettare Raindrops Keep fallin' on My Head. E non fischiettava niente male. A metà canzone si fermò e guardò Haden. Totalmente confuso, ma in qualche modo incoraggiato dal fatto di non essere ancora stato spedito all'inferno, Simon Haden ricambiò lo sguardo e si sforzò di usare ogni singola cellula del suo cervello per... «Oh-mio-Dio, BOB!». L'orso fece un gran sorriso e si diede una pacca sulle ginocchia. «Finalmente! Dai, vieni qui e abbraccia il tuo vecchio amico». Non era necessario che glielo chiedesse, perché Haden stava già attraversando la stanza di corsa per abbracciare quell'enorme bestione bianco che nel frattempo si era alzato ed era passato davanti alla scrivania. Haden lo strinse più forte che poteva. Aveva le lacrime agli occhi. Mentre era tra le sue braccia, Bob ricominciò a fischiettare quella canzone e Simon lo strinse ancora più forte. Bob l'orso polare era stato il primo e forse il più bel regalo che Simon avesse mai ricevuto dai genitori. Aveva tre anni quando glielo avevano regalato. Suo padre e sua madre erano due tipi strani. Basti dire che erano convinti entrambi che un bambino, finché non ha almeno tre anni, non può certo capire né tanto meno apprezzare il Natale. Di conseguenza, non ave-
vano ritenuto che avesse molto senso celebrarlo finché Simon era stato più piccolo. E dal momento che erano anche due sonore Testedicazzo, due taccagni, due spilorci con la S maiuscola, per il primo Natale festeggiato da loro figlio comprarono: 1) un alberello che decorarono soltanto con del pop-corn fatto in casa, perché consideravano le decorazioni gingilli inutili, 2) un grosso peluche che per qualche strano motivo era in vendita in una pompa di benzina che frequentavano molto di rado. Quell'anno il signor Haden era tornato a casa un pomeriggio di dicembre con un orso polare tutto bianco e peloso sotto il braccio. Attorno al collo aveva un collare di cartone con su scritto BOB in grossi caratteri neri. La segaligna signora Haden era rimasta sulla soglia bloccandogli l'entrata finché il marito non le aveva spiegato che cosa aveva sotto il braccio. Disse che era un pupazzo, un orso polare, e che pensava sarebbe stato perfetto come regalo di Natale per il piccolo Simon. E poi l'aveva comprato a un prezzo davvero conveniente. «Quanto?», aveva chiesto la signora Haden strangolando il panno che aveva in mano. «Undici dollari, giù alla Shell». Non sapeva se essere più colpita dal prezzo o dal fatto che suo marito, di solito così poco attento, aveva trovato un regalo di Natale per loro figlio in una stazione di servizio. Fu mole a prima vista. Il bambino entrò in soggiorno la mattina di Natale e vide l'alberello, che non gli fece nessuna impressione. Un albero dentro casa con un po' di popcorn sopra, e allora? Poi vide l'orso bianco seduto su una sedia accanto all'albero. Simon gli trotterellò incontro e rimase fermo davanti alla sedia, ammaliato da quella bianca apparizione, quella meravigliosa creatura comparsa dal nulla che ora era seduta in casa sua e sembrava lo stesse aspettando. «Ciao». L'orso non rispose, ma Simon era contento lo stesso. Non sapeva bene cosa aspettarsi da quell'animale ma, purché non si muovesse e non se ne andasse, il bambino sarebbe stato felice anche del suo silenzio. «Mole mio». Persino quel cuoredipietra della signora Haden si sciolse sentendo suo figlio chiamare amore il suo nuovo pupazzo. In piedi accanto al marito, gli prese la mano e la strinse. Qualche minuto dopo, mentre Simon e Bob stavano ancora facendo conoscenza, il signor Haden mise su un disco. La stanza fu sommersa dalle note della canzone preferita degli Haden: Rain-
drops Keep Fallin' on My Head. Per nove anni quella fu la canzone di Simon e dell'orso Bob. A volte, quando fantasticava, o era spaventato, o semplicemente felice, il ragazzino abbracciava il suo orso e cantava quella canzone al suo amico più fedele. Raccontava a Bob tutti i suoi segreti, le cose che lo spaventavano e quelle che detestava, e qualunque altra cosa importante del suo piccolo mondo. Raccontava al suo animale di peluche del suo amico Clifford Snatzke, di una graziosa ragazzina nuova in terza e, tra le lacrime, di come, in quinta, il più prepotente della classe continuava a picchiarlo. Anche quando fu ormai troppo grande per avere un animale di peluche, continuò a tenere Bob con sé, relegandolo in un angolo della sua stanza, dove l'orso continuò a vivere in una sorta di isolamento, finché non si scucì e si sfaldò letteralmente sotto i suoi occhi. Per tutti quegli anni era stato per lui un confidente, un confessore, un talismano, un paladino immaginario e un morbido cuscino. Senza mai lamentarsi, era sempre stato pronto a fare tutto quel che poteva per fargli sentire che esisteva almeno una creatura al mondo su cui poteva contare. Molti anni più tardi, in un altro mondo, l'orso Bob si sciolse dall'abbraccio di Haden e fece un passo indietro per guardare il suo vecchio compagno. Haden lo lasciò fare. Asciugandosi gli occhi col dorso della mano, lasciò che Bob lo guardasse ben bene, dalla testa ai piedi. Gli era venuta in mente una cosa. «Bob? Mi avevano detto che dovevo parlare con Dio». Si diede una rapida occhiata intorno per assicurarsi che Dio non fosse presente. «Mmmm...», esclamò Bob mentre lo squadrava. Una risposta non particolarmente illuminante, com'è evidente. «Ma cosa...». L'orso sollevò una zampa per chiedergli di stare zitto un momento mentre lo osservava. Quando ebbe terminato l'esame, annuì come se fosse finalmente in possesso di tutte le informazioni di cui aveva bisogno. «Io ero Dio per te, Simon. Sono stato l'unico Dio in cui tu abbia mai creduto in tutta la tua vita. Pensaci: chi hai amato tanto quanto me? Di chi ti sei fidato ciecamente, a chi hai confessato i tuoi errori con piena fiducia, a chi ti sei rivolto in cerca di aiuto quando ti sei trovato in difficoltà? A me. I tuoi genitori erano due scombinati, le donne che hai avuto ti hanno regalato qualche momento di gioia, ma mai abbastanza per pacificare il tuo
cuore. E non ti saresti mai sognato di confidarti con uno dei tuoi amici. Pensaci, e fa' un po' i tuoi conti». Bob aveva esattamente la voce che Haden aveva immaginato quando avevano "chiacchierato" in passato. Dolce e profonda, una voce che ti mette amichevolmente un braccio su una spalla e ti attira a sé, dicendoti: Dimmi tutto. Ti puoi fidare di me. E il piccolo Simon si era fidato del suo orso di peluche. Ripensandoci, per quanto la nuova versione fosse molto più grande dell'originale, mille ricordi d'infanzia si affollarono nella sua mente. Comprese che l'animale aveva ragione: l'orso Bob era stato il suo Dio. Aveva posseduto tutte le meravigliose qualità di una divinità benevola, e non solo. Soprattutto, era stato un Dio sempre presente, affidabile, a portata di sguardo e di mano, un Dio da abbracciare, da cercare quando i tuoni o le voci acute dei suoi genitori che discutevano, o i mostri che spuntavano da sotto il letto, lo terrorizzavano. Quando, assalito da qualcosa, Simon Haden era scappato in cerca di rifugio, aveva sempre trovato Bob ad aspettarlo. Grazie a Dio, c'era Bob. Grazie a Dio, c'era il suo Dio. «Devo proprio dirtelo, Simon. Non hai un gran bell'aspetto». «Be', forse perché sono morto, Bob». «No, non è questo». L'orso gli si mise a girare lentamente intorno. «Stanco, ecco cos'è... Hai una faccia stanca. Come mai?». Haden alzò una spalla. «Non dormo bene qua». «Ah, sì? E perché?». Haden s'infilò le mani in tasca e si strinse nelle spalle. «Non lo so. Senti, potresti dirmi per favore cosa sono venuto a fare qui? Questa storia mi sta stressando un casino: non sapere nulla. Penso che mi sentirei molto meglio se sapessi cosa c'è sotto». «Isabelle Neukor». Haden trasalì, raddrizzandosi subito. «Chi?». «La tua Isabelle. Non fare il finto tonto adesso». «Isabelle». Haden ripeté quel nome come se fosse la prima volta che lo sentiva sulla lingua, come se pronunciarlo potesse farlo sentire meglio. «Cosa c'entra, Isabelle?». «È nei guai e tu la devi aiutare. È per questo che sono qui. È per questo che dobbiamo parlare». Haden provò una sensazione di sollievo mista a un senso di allarme. Non era nei guai. Non aveva commesso nessuno sbaglio, come capitava immancabilmente quando era vivo. Ma era nei guai Isabelle. Cosa poteva fare per aiutarla, da morto?
«Sono morto, cosa posso fare per lei?». «È qui, nel tuo mondo, Simon. Devi trovarla». Haden sentì una fitta al cuore. «È qui? È morta? Isabelle è morta?». Bob scosse il suo bianco testone. «No, è ancora viva, ma il Caos continua a portarla qui, e adesso pensa di aver trovato un modo per farla rimanere». «Non ti seguo. Non ci ho capito niente». «OK, Simon, siediti». Haden gli fece cenno che non c'erano sedie davanti alla scrivania. Bob gli indicò la sua. «Siediti lì, prendi la mia». Haden si sedette e Bob cominciò. «Sono stato inviato qui perché questa cosa è troppo grossa per te. Si pensava che se te l'avesse spiegata qualcuno che conoscevi bene...». «Bob, sono già abbastanza confuso. Non perderti in dettagli inutili». «D'accordo, mi sembra giusto. Sapevi che Isabelle è incinta?». Qualcosa dentro Simon Haden morì una seconda volta in quel momento. No, non sapeva che Isabelle era incinta. Non era una notizia che aveva sperato di sentire, né da vivo, né da morto. Non solo aveva perso Isabelle in vita, ma ora, da morto, veniva a sapere che un altro l'aveva conquistata, e lei gli si era data in tutto e per tutto, totalmente, per sempre. Tanto che stava aspettando un figlio da lui. Era un pensiero che proprio non gli andava giù. Un pensiero che in quel momento gli andava giù meno ancora dell'idea di essere morto. «No, non lo sapevo. Di chi è il bambino... di Vincent Ettrich?». «Sì, ma non è finita qui». Bob continuò, ma Haden non lo stava più ascoltando. Si stava torturando immaginandosi Isabelle ed Ettrich avvinghiati a letto, in macchina, per terra, in piedi... Gli strappava il cuore immaginare Isabelle che si rotolava, gemeva, si muoveva, godeva, amava la persona che stringeva tra le sue belle gambe così lunghe, tenendola vicina al suo cuore: Vincent Ettrich, quel figlio di puttana. Un'altra ragione per cui quell'immagine lo tormentava era sapere che anche Ettrich era stato un donnaiolo impenitente. Isabelle Neukor non aveva dato il suo cuore a un virtuoso Galaad che le si era inginocchiato davanti e non aveva mai avuto un solo pensiero volgare in tutta la sua vita. No, si era innamorata di Vincent Ettrich, che aveva visto più culi di un water. «Simon, non mi stai ascoltando». Haden volse uno sguardo inebetito al suo più vecchio amico. Aveva dimenticato dove si trovava. Quando gli tornò in mente, si sentì come uno scolaretto colto a sonnecchiare durante la lezione.
«Scusami, Bob, mi dispiace. Scusami, ti prego. Cosa stavi dicendo?». L'orso polare gli domandò bruscamente: «Vuoi conoscere il segreto dell'universo?». Haden sentì quella domanda e il suo cervello la registrò in un angolino remoto e sconosciuto in un'ala del tutto inesplorata della sua mente. «Cosa? Cos'hai detto?». «Ti ho chiesto se vuoi conoscere il segreto dell'universo». «No!», esclamò Simon Haden. Bob lo guardò sorpreso. «Perché no?». Haden sollevò una mano come un agente del traffico per bloccare qualsiasi ulteriore discussione riguardo all'argomento. «E poi che cosa ci faccio? Eh? Lo vendo su eBay? Senti, sono già abbastanza confuso così, Bob. Non mi sto ancora raccapezzando con le nozioni più elementari. Capisci cosa voglio dire? Addizioni e sottrazioni. Non so ancora fare due più due. Non so nemmeno cos'è questo posto. Broximon e gli altri continuano a parlarmi di cose che a loro sembrano un giochetto da ragazzi e per me è arabo. Nossignore, vado a casa e mi metto a fissare il muro, cercando di mettere a fuoco la situazione e orientarmi. E sai cosa ottengo? Sai qual è l'unica conclusione cui sono giunto, eh? Non-ci-capisco-un-tubo. Niente di niente. Ti rendi conto di quanto sia deprimente? Hai un'idea di quanto mi senta stupido? Perciò, grazie, ma no, grazie, Bob. Puoi tenertelo il tuo segreto dell'universo. Sono già incasinato abbastanza così». Si passò una mano sulla bocca, e poi, frustrato, su tutta la faccia, fino alla testa che si strofinò con furia, come se vi volesse spegnere un piccolo fuoco. L'orso lo osservò per tutto il tempo con perfetta calma Quando Haden ebbe finito, disse: «Peccato. Perché devi saperlo per salvare Isabelle». E con un piccolo gesto della zampa, Bob mostrò a Haden il segreto dell'universo. Ci volle il tempo del battito d'ali di un colibrì per mostrare a Haden il segreto dell'universo. Il segreto dell'universo non è niente di grosso, né di particolarmente complesso. £ l'Uomo che crede che lo sia, e di conseguenza continua a cercare nei posti sbagliati. Haden riaffiorò da quella nuova conoscenza come un minatore dall'ascensore che lo ha appena riportato in superficie sbattendo le palpebre per la luce troppo abbagliante, colto da una lieve vertigine, cercando di recuperare il proprio baricentro fisico e mentale. Perché il luogo da cui viene non assomiglia affatto a quello in cui si trova ora. Ed è una sensazione che di-
sorienta e mozza il fiato. Quel che Haden non sapeva era che Bob aveva appena fatto qualcosa che andava contro la regola più importante dell'Aldilà. Era la prima volta. Letteralmente. Dopo la morte si deve dedurre, scoprire, decifrare, decodificare o decostruire ogni cosa da soli. A nessuno erano mai stati insegnati i segreti della morte da qualcun altro. Regola numero uno. Era sempre stato così. Fino a quel momento. Haden "vide" infine Bob e disse senza pensarci: «Karya buryamp». Bob annuì e rispose: «Skeena haloop». «Clapunda la me». L'orso polare sospirò e disse in tono compassionevole: «Gorpop». «Basta parlare questa lingua, Bob. Non ci sono ancora abituato». «Come preferisci». «Come posso fare? Dove devo cominciare?». Per la prima volta da quando era iniziata la loro conversazione, l'orso esitò e guardò altrove. Haden se ne accorse, e la osa non gli fece piacere. Conoscere il segreto dell'universo l'aveva reso un poco più sensibile a certi piccoli gesti. «Cosa?». Bob non poteva ancora guardarlo negli occhi. «Niente». «Cosa, Bob? Guardami, per favore. Non mi stai guardando. Me ne sono accorto». «Il Caos vuole tenere Isabelle qui. È per questo che continua a portarla in questo mondo. Vuole che partorisca suo figlio qui. Se ciò accadesse, nessuno dei due potrà mai più fare ritorno al loro mondo». Poiché era una persona irrimediabilmente egoista, malgrado fosse a conoscenza del segreto dell'universo, a Haden non dispiacque troppo l'idea, no, niente affatto. D'accordo, il bambino non era suo, ma l'idea di avere Isabelle lì (e dunque un'altra possibilità di conquistarla) fece balzare tutti i suoi pensieri sull'attenti, felici e contenti. «Non deve succedere, Simon. Suo figlio deve nascere là e vivere la sua vita là». «Perché?». L'orso polare ruggì. Non come un orso polare da accarezzare e da portare a letto con sé, ma con un vero, profondo ruggito da animale selvaggio, da farsela-addosso e darsela-a-gambe. Un ruggito sconfinato, assordante, che fece impietrire ogni singola cellula di Haden. «Smettila di pensare come se fossi ancora vivo, Simon. Pensa da morto, perché tu con la vita hai chiuso. Vivi in un luogo diverso ora. E qui ci sono
cose enormemente più importanti di cui preoccuparsi. Basta pensare a trombare, Simon. Capito? Basta doppie vodke al bancone di un bar davanti a una tivù a tutto schermo e qualche salatino. Tempo scaduto per tutto questo, brutto bastardo». «Cosa...», Haden riuscì a malapena a pronunciare quella parolina con una voce stridula. Aveva la gola serrata dalla paura e ne aveva tutte le ragioni: l'orso sembrava sul punto di ucciderlo, se non peggio. Sembrava volerlo agguantare con un'enorme zampona bianca e sgranocchiarselo come una foglia di lattuga. «Cosa vuoi che faccia, Bob? Farò qualsiasi cosa». «Devi andare a Ropenfeld». «No», disse Haden senza la minima esitazione. L'orso ruggì di nuovo, con maggiore furia. Ma Simon Haden non batté ciglio. «Non se ne parla neanche. A Ropenfeld mai e poi mai», ripeté con tono deciso. Non c'era la minima incertezza nella sua voce. Orso polare o non orso polare, era un discorso chiuso. Vedendo la determinazione di Simon, Bob decise di abbandonare i ruggiti e provare ad essere più diplomatico. «Isabelle è lì, Simon. È lì che continuano a portarla, anche se non ha ancora mai incontrato nessuno dei tuoi incubi». Al solo pensiero di Ropenfeld, Haden sentì una lucertola fredda arrampicarsi su per la spina dorsale. Guardando Bob, ricordò vividamente la notte in cui, tanti anni prima, aveva fatto un sogno, o meglio un incubo, in cui era stato costretto a fare a pezzi il suo orso di peluche per darlo in pasto alla sua insopportabile sorella piccola. Schizzi di sangue vischioso sgorgavano dai brandelli che Simon strappava, e due rivoletti di sangue scorrevano ai lati della bocca di sua sorella che divorava famelica e felice ogni singolo pezzetto dell'adorato compagno di Simon. Persino gli occhi. Tutto questo era accaduto a Ropenfeld. Cose simili accadevano a Ropenfeld. Era iniziato tutto quando Haden era piccolo. Il principale di suo padre si chiamava Ropenfeld, un uomo e un nome profondamente disprezzati a casa Haden per tutto il tempo che Simon vi aveva vissuto. A sentire i suoi genitori, Ropenfeld era il Male in persona e faceva di tutto per rendere la vita del povero signor Haden la più miseranda possibile. Una notte il piccolo Simon aveva avuto un incubo che si era svolto in una città che a detta di uno dei suoi cittadini si chiamava Ropenfeld. Un nome maledetto a giudicare da come quell'uomo l'aveva pronunciato. Roooooooopenfeld! Il seguito fu un sogno orrendo e raccapricciante da cui
Haden si svegliò gemendo come un agnellino che stava per essere squartato. Quando alla fine i suoi genitori si erano affacciati alla porta della sua stanza per vedere cosa stava succedendo e il bambino, ancora in lacrime, aveva raccontato il suo sogno, entrambi sorrisero. Il signor Haden trovò alquanto appropriato e campanilistico da parte di suo figlio che il suo primo incubo si svolgesse in una città chiamata Ropenfeld. La sua signora pensò semplicemente che Simon aveva un'immaginazione molto fervida. Stranamente, per una persona mediocre e non troppo creativa come Simon Haden, la cosa non finì lì. Per il resto della sua vita, i suoi incubi si svolsero spesso a Ropenfeld. Non ne comprese mai il motivo, ma alla fine accettò il fatto come qualcosa che faceva parte di lui. Una volta sognava di annegare nel lago Ropenfeld. Un'altra l'aeroplano su cui stava volando si schiantava prima dell'atterraggio in città. Il pilota aveva appena annunciato: «Stiamo iniziando la nostra discesa verso l'aeroporto di Ropenfeld», che si sentiva il suono terrificante di qualche gigantesco elemento metallico che andava in pezzi, e tutt'un tratto l'aeroplano s'inclinava di lato e iniziava a precipitare, in picchiata, verso il suolo. Haden sognava spesso di morire in un incidente aereo e aveva creduto che fosse un'indicazione riguardo alla fine che avrebbe fatto: in un aereo in fiamme che si avvitava cadendo in picchiata da venticinquemila piedi d'altezza. Come ci sarebbe rimasto male sapendo che, in realtà, sarebbe morto mentre la sua macchina stava passando attraverso l'ultimo ciclo di risciacquo in un autolavaggio di Los Angeles. Nei suoi incubi, quindicenne, si era trovato spesso a passeggiare nudo per i corridoi del liceo di Ropenfeld con nient'altro che i libri in mano. I suoi compagni, vestiti di tutto punto, lo indicavano ridendo a crepa pelle. Una volta erano scoppiati a ridere, un'altra avevano estratto i loro coltelli a serramanico e l'avevano assalito. In un altro sogno, un'auto piena di mamme Haden aveva inchiodato davanti a lui mentre passeggiava lungo Ropenfeld Street. Ne erano scese una mamma Haden dopo l'altra, una schiera infinita, come un drappello di pagliacci da un'automobile da circo. E si erano messe tutte a gridare che Simon non aveva fatto questo, questo e quest'altro, e le aveva deluse in quello, quello e quell'altro. L'orso esitò ancora, incerto se dire o no quel che aveva in mente. Era ormai entrato in un territorio sconosciuto, Bob. Un territorio sconosciuto a tutti. «Non dovrei dirtelo». «Cosa?», domandò Haden irritato. Era convinto che l'orso stesse soltanto
escogitando qualche altro modo per convincerlo. «Prima o poi ci dovrai andare comunque, Simon. È così che funziona qui. Tutti, una volta morti, devono tornare al loro Ropenfeld e affrontare quello che vi è successo. Scoprire perché hanno fatto quei sogni. È un elemento essenziale del processo di scoperta di sé attraverso l'esplorazione del proprio passato. Tornando ai propri incubi e riattraversandoli passo passo, si imparano molte cose importanti riguardo alla propria vita. È uno dei motivi per cui si è qua». «Ah, sì? E chi se ne frega, Bob! Aspetterò un altro migliaio d'anni prima di affrontare quell'aspetto della mia vita. Essere qui già mi basta come incubo. Ne ho in abbondanza, grazie, non ho bisogno di altro per il momento». «Non puoi aspettare, devi andarci ora». Prima che avesse la possibilità di dire no un'altra volta (e poi ancora no, no, e poi no), Haden sentì che si sollevava da terra come un pallone aerostatico. Comprese immediatamente cosa stava succedendo. «No! Non puoi farmi questo!». «Mi dispiace, devi andare. Devi provare a salvare Isabelle». Haden stava salendo sempre più in alto. Cercò di agitare le braccia nel tentativo di bloccare o controllare quello che gli stava accadendo. Invano. «Non è giusto. È scorretto da parte tua». «Lo so, Simon, ma è necessario». Haden avrebbe voluto rispondere, ma la collera gli soffocò le parole in gola. Quando fu a un metro e mezzo da terra, smise di salire e iniziò a muoversi in avanti. Come se fosse spinto da un'elica. La finestra dell'ufficio era abbastanza grande perché lui vi potesse passare. Sarebbe stata una sensazione deliziosa se non avesse saputo dov'era diretto, ovvero verso tutte quelle cose orrende, orrende, orrende: i mostri che aveva visto con l'immaginazione a tre dimensioni di un bambino spaventato. Terrori, spietati fallimenti, umiliazioni, turbamenti e tutto il peggio che aveva sperimentato nei tanti incubi che l'avevano tormentato nel corso degli anni. Haden stava volando verso tutto ciò, verso Ropenfeld. E non c'era nulla che potesse fare per impedirlo. E per che cosa, poi? Per salvare Isabelle Neukor? Salvarla da cosa? Sì, conosceva il segreto dell'universo, d'accordo, ma cosa c'entrava con tutta quella storia? Celadon
John Flannery era in ritardo al suo appuntamento con Leni perché era stato investito da un'auto. Una Porsche Cayenne nuova di zecca, niente meno. Una di quelle jeep superturbo 4x4 al testosterone da centomila euro che si comprano i ricchi per mostrare al mondo intero quanto sono spensierati, avventurosi e, soprattutto, non dimentichiamocene, ricchi. Una macchina da perfetto "Rambo del weekend". Quella era nuova e tirata a lucido, con solo duecentotrentanove chilometri sul tachimetro quando attraversò Schwedenplatz col rosso travolgendo in pieno Flannery che stava passando sulle strisce pedonali. Il colpo lo scagliò sul marciapiede, tra i cespugli. Molte persone videro la scena. Alcune gridarono. Altre spalancarono la bocca incantate da quell'evento tanto inatteso che gli si offriva nel corso della giornata. Una madre con due bambini si voltò e s'allontanò in fretta nella direzione opposta, mentre i figli continuavano a girarsi per cercare di capire se quell'uomo era morto. Be', a vederlo, si sarebbe detto proprio di sì. Buttato lì tra i cespugli, simile a un telone arrotolato alla meno peggio. L'autista della Porsche fu preso dal panico. Per un millesimo di secondo pensò di schiacciare l'acceleratore e sparire più veloce del vento, dannazione. Ma alla fine prevalse il buon senso. Respirò a fondo un paio di volte e scese con esagerata lentezza e prudenza dalla sua elegante macchina nuova che si era appena trasformata in un'arma letale. Atterrito, si avvicinò al cadavere. Gli sembrava che gli si stessero liquefacendo le budella e che da un momento all'altro rischiasse di cagarsi nei pantaloni. Fino a quel momento la vita era stata una specie di gallina dalle uova d'oro. Era un uomo d'affari di successo. Aveva una moglie bella e simpatica. Attraversava sempre col semaforo giallo a un soffio dal diventare rosso. E perché no? Se non lo faceva uno come lui... la vita sino a quel momento aveva sempre fatto un passo indietro per lasciarlo passare. Con orrore e incredulità mista a sollievo, vide il corpo tra i cespugli muoversi. Qualcuno disse con voce soffocata: «È vivo!». Una donna esclamò «Oh mio Dio» tutto d'un fiato, così che venne fuori come una parola sola. Poi il corpo si mosse, un braccio si sollevò, si abbassò, si sollevò di nuovo. Vedendo quell'orrenda scena al rallentatore di cui era stato la causa, l'automobilista ebbe ancora una volta il folle istinto di darsela a gambe: scomparire, lasciarsi alle spalle tutto e tutti, la sua esistenza, sua moglie, la sua macchina e fuggire il più lontano possibile. Dimenticando che aveva lasciato il portafogli con tutti i documenti d'identità sul sedile accanto alla
guida, insieme al cellulare con ben cinquantaquattro numeri in memoria. Dimenticando che la macchina aveva un numero di targa, dal quale a un computer sarebbero bastati due secondi per risalire a lui. Dimenticando tutto quello che soltanto qualche minuto prima aveva fatto parte della sua vita. Nella sua testa in quel momento non c'era altro che terrore e il desiderio di scappare, mettersi in salvo. Perché, se anche quell'uomo fosse sopravvissuto, quell'incidente sarebbe stato il primo atto di un dramma che sarebbe andato avanti per anni: l'ospedale, la convalescenza, esose richieste di risarcimento danni, cause in tribunale, pubblicità negativa e, soprattutto, soldi, tanti soldi, una montagna di soldi. Benché frastornato dalle grida indiavolate del panico, non poteva fare a meno di pensare a tutto quel denaro. Questi i pensieri che vorticavano nella sua testa mentre osservava quel corpo muoversi pian pianino come un'aragosta, o un granchio che è stato troppo tempo fuori dall'acqua. Era tutta colpa sua, al cento per cento... Buon Dio, chissà quanti milioni gli avrebbero spillato. I suoi milioni avrebbero preso il volo perché... L'uomo tra i cespugli si girò lentamente su se stesso. Si girò, al che fu finalmente visibile il suo viso. Qualcuno ripeté: «È vivo!», come se quel che stavano vedendo avesse bisogno di una conferma orale. Ma per quanto tempo sarebbe rimasto vivo? E in quali condizioni? L'automobilista doveva sapere come stavano le cose. Non poteva starsene lì così, con le mani in mano. Con l'ultima goccia di coraggio rimastogli, si avvicinò all'uomo che giaceva a pancia in su, ora, lo sguardo verso il cielo. Stranamente, non c'erano tracce di sangue. Com'era possibile? Come poteva una persona colpita in pieno da una grossa automobile essere scaraventata così lontano senza perdere neanche un filo di sangue? La vittima dell'incidente spostò lo sguardo su di lui e disse: «Voglio la tua macchina». Il proprietario della Porsche trasalì per la sorpresa. Quell'uomo non gli aveva solo parlato con voce chiara, ma in fiammingo. Come faceva a sapere che lui era belga e parlava fiammingo? Nessun altro dei presenti parlava quella lingua vischiosa e arcana. Pensarono che il poveretto fosse fuori di testa dal dolore e stesse proferendo parole inventate, senza senso. «Ascoltami, perché te lo dirò una volta sola. Tra un minuto parlerò tedesco e tutti mi capiranno. Ti chiederò di caricarmi in macchina e portarmi in ospedale. In fretta, perché tra qualche minuto arriverà la polizia e a quel
punto le cose si complicheranno. E non c'è niente di peggio che ti possa capitare». L'automobilista non poteva credere alle proprie orecchie. Non poteva credere che tutto ciò stesse accadendo proprio a lui. Ma era così, e lui non poteva fare niente per uscire da quell'incubo. «D'accordo, allora? Farai come ti dico?». Flannery pronunciò quelle due domande come se, in realtà, fossero affermazioni. L'automobilista farfugliò un sì. Quando Flannery aprì di nuovo la bocca per parlare, lo fece a voce molto più alta e in perfetto tedesco. «Che male! Che male! Voglio andare in ospedale, subito. Subito. Adesso». Continuò a ripetere quelle parole come una prefica durante un lamento funebre. La gente intorno gli disse di aspettare, sarebbe presto arrivata un'ambulanza. L'unico errore di Flannery fu quello di alzarsi in piedi un po' troppo rapidamente per uno che avrebbe dovuto essere ridotto così male. Ma sapeva che mancavano soltanto otto minuti all'arrivo della polizia. Non c'era un istante da perdere. Si avviò verso la Porsche zoppicando, aprì la portiera e gridò: «Mi porti adesso. Mi porti in ospedale! Non voglio aspettare! Ho male! Ho male!». L'automobilista era rimasto a guardare insieme alla gente che si era raccolta intorno a loro, come se fosse uno spettatore come gli altri, finché qualcuno gli disse: «Vada, vada. Glielo diremo noi alla polizia quando arriva. Lei vada. Lo porti in ospedale. Lo diremo noi alla polizia». Smarrito, salì in macchina e inserì lentamente la marcia. Flannery era appoggiato alla portiera con il volto cereo e un'aria malconcia e dolorante. Non appena si allontanarono, gli si rivolse di nuovo in fiammingo. «Ti dirò io dove devi andare. Quando arriviamo, mi dai tutti i documenti della macchina e poi te ne vai. Non denunciare il furto. Non chiedere il risarcimento all'assicurazione e continua a pagare la polizza per due anni. Dopo, puoi smettere. È chiaro? Questa è la tua giornata fortunata, se sei abbastanza furbo da fare esattamente quello che ti dirò». «Ma come...». «Sta' zitto. Non fare domande. Se avrò bisogno dei documenti d'acquisto dell'auto, ti contatterò. Ma probabilmente non mi serviranno. La macchina non verrà usata per nessun crimine, perciò non c'è ragione che ti preoccupi. Dammi le chiavi e i documenti, scendi quando te lo dico io, e sparisci. Oppure mi porti in ospedale. Dopo di che si metteranno in mezzo la polizia e compagnia bella, e tu perderai tutto. Garantito. Ma se mi dai la mac-
china e te ne vai senza fare storie, non ti succederà nient'altro: finisce tutto qui. Sta a te decidere. Puoi fidarti di quello che ti sto dicendo, non temere». Il proprietario della Porsche stava cercando di pensare in fretta, vedere la questione sotto tutti i punti di vista possibili per capire cosa fare. Ma cosa poteva fare? Era tutta colpa sua. Quello stupido semaforo rosso, quella stupida macchina nuova che lo faceva sentire invincibile, a prova di proiettile. Che l'aveva fatto sentire invincibile, sino a quel momento, almeno. E c'erano talmente tanti testimoni. Qualcuno avrebbe senz'altro deposto contro di lui. Era tutto contro di lui. Si trovava nella merda fino al collo, non c'era niente da fare. John Flannery lo stava osservando con la coda dell'occhio, felice di vedere quel deficiente andare in mille pezzi. Era una scena stupenda. Flannery adorava quel genere di momenti. Avrebbe potuto semplicemente rubare una macchina parcheggiata per strada e risparmiarsi tutta quella scena. Ma non sarebbe stato altrettanto divertente che osservare il Caos disintegrare a morsi la vita di una persona in un paio di istanti. Soprattutto perché, non essendo la prima volta che Flannery si divertiva a fare quel giochetto a qualcuno, sapeva qualcosa che quell'uomo ancora ignorava, il che rendeva tutto ancora più piacevole. Il fatto era che per quell'uomo era soltanto l'inizio. Flannery avrebbe potuto fornirgli un resoconto di un paio di pagine di quanto sarebbe presto successo, e quando, mese più mese meno. Oggi, per esempio, si sarebbe allontanato dalla sua macchina nuova terrorizzato, insicuro, schiacciato dalla vergogna per quello che aveva fatto, turbato, sopraffatto da tutto quello che era accaduto. Per quanto tentasse, non sarebbe riuscito a pensare con un minimo di lucidità a quanto era successo, e quella confusione sarebbe rimasta dentro di lui per molto tempo. Soltanto il suo istinto di sopravvivenza gli avrebbe permesso di non fermarsi, di allontanarsi il più possibile dalla scena dell'incidente. Poi sarebbe passato attraverso fasi alterne di risentimento e preoccupazione, collera, impotenza, persino gratitudine per essere stato risparmiato, come se fossero piccole stazioncine di passaggio di un treno espresso in corsa verso la capitale: Paranoia. Era già paranoico di suo, del resto, come tutti gli uomini di successo. Ma dopo quello che gli era successo oggi, nel suo cuore e nella sua mente l'ansia sarebbe cresciuta all'ennesima potenza, per la felicità di Flannery. Da quel momento in poi, molte volte al giorno si sarebbe domandato: che fine
ha fatto la mia macchina? Che fine ha fatto quell'uomo? Devo preoccuparmi? Oppure vergognarmi di me? E se la polizia si presentasse uno di questi giorni alla mia porta e mi dicesse: «Deve venire con noi. C'è un problema?». E se? E se? E se? Per anni le cose, gli oggetti, gli eventi più innocenti un telefono che squilla, qualcuno che bussa alla porta, nella buchetta delle lettere una busta dallo strano colore con tutta l'aria di contenere una comunicazione ufficiale - si sarebbero trasformati in possibili pericoli, minacce, occasioni di turbamento, nemici. La sua vita non sarebbe stata rovinata, ma avrebbe senz'altro ricevuto un brutto colpo e avrebbe proceduto zoppicando per anni, dopo quello che era successo. Flannery era immensamente soddisfatto. A quattro isolati di distanza dal suo appartamento, disse all'automobilista di accostare al marciapiede e fermarsi. Erano sulla Obere Donaustrasse, accanto al canale del Danubio. Da dov'erano, si vedeva l'acqua del fiume scorrere rapida. Indicando il ponte, Flannery disse al proprietario della Porsche: «Attraversa quel ponte. Dall'altra parte ci sono dei taxi. Oppure puoi prendere la metro per tornare a casa. Dammi le chiavi e i documenti adesso». L'automobilista fece per spegnere il motore, ma poi si bloccò. «Come faccio a sapere...». Flannery scosse la testa. «Non lo puoi sapere. Devi credermi se ti dico che la cosa finisce qui. Per tua fortuna». «Ma io non so chi è lei. Non conosco nemmeno il suo nome», disse l'uomo con voce dolente, come un'anima afflitta che chiede di essere rassicurata. Flannery alzò gli occhi in alto e guardò il tetto della macchina per qualche secondo. Pensò per un istante di dire a quell'idiota chi era e poi dargliene una dimostrazione. Sì che sarebbe stato eccitante! Ma sarebbe finita lì. Flannery non avrebbe ottenuto l'effetto che voleva: una sofferenza lenta e senza fine. «Ti piacciono i proverbi?», domandò continuando a guardare in alto. Ma con la coda dell'occhio vide l'altro fissarlo con uno sguardo diffidente, come se stesse aspettando da un momento all'altro una battuta velenosa. «I proverbi? Non saprei. Che cosa c'entrano i proverbi adesso?». La voce lo tradì, quel tono petulante e impaziente fece capire a Flannery che tipo di persona aveva di fronte. Era la voce di un ragazzino viziato, che appena poteva faceva il prepotente, una mezzacalzetta piena di sé che aveva scambiato la fortuna che l'aveva sempre accompagnato nella vita per scal-
trezza e talento. Era convinto che le sue priorità avessero la precedenza su quelle di chiunque altro. L'unica cosa in lui che avesse una certa solidità in quel momento erano le monetine che aveva nella tasca dei pantaloni. «Senti un po' questo, è quanto mai appropriato: "Chi si è imbarcato col diavolo, deve stare in sua compagnia". Non è splendido?». Il viso di Flannery si illuminò come quello di un bambino nel momento in cui sta per cominciare il suo spettacolo preferito alla tivù. L'uomo non disse nulla. I suoi occhi neppure. Non importava. Flannery aveva appuntamento con Leni: era ora di finirla. Infilò una mano sotto il sedere e recuperò il portafogli e il cellulare del proprietario della macchina, che allungò una mano per riaverli. «No, non ancora». Flannery avvicinò il cellulare e cominciò a digitare un numero. «Cosa sta facendo?». «Sto chiamando la polizia. Lo sai come si divertiranno a sentire questa storia? Sei passato col rosso, hai investito un passante sulle strisce pedonali, dopo di che sei fuggito con la vittima, la vittima dell'incidente di cui sei responsabile. Gli dirò dove siamo e di venire qua. CHE DOLORE! VOGLIO ANDARE ALL'OSPEDALE. CHE DOLORE!». Le grida di Flannery furono seguite da un silenzio sconcertato. Il telefono era abbastanza vicino perché anche il proprietario della Porsche sentisse una voce all'altro capo del filo rispondere «Polizei». Gli strappò il telefono di mano e iniziò a premere goffamente i tasti nel tentativo di chiudere la telefonata. «Mi dia il mio portafogli», disse non appena vi fu riuscito. Quando ebbe in mano il portafogli, sfilò una busta trasparente da una tasca interna. C'erano i documenti della Porsche. Voleva fare altre domande. Voleva altre assicurazioni che tanto orrore sarebbe finito lì, alla fine di quella giornata, alla fine di quella conversazione. Voleva un mucchio di cose, ma sapeva che non le avrebbe potute avere perché... passando col rosso, si era imbarcato col diavolo. Aveva causato quell'incidente. Cosa gli rimaneva da fare? Adesso capiva perché quel grassone aveva recitato quel proverbio: perché era davvero appropriato. Gli diede i documenti e le chiavi della macchina. Flannery li prese senza guardare. «E adesso me ne vado, e basta?». «Apri la portiera e vattene. C'est tout». L'automobilista fece scattare la maniglia e la portiera si socchiuse. Quella macchina gli era costata quasi centomila euro. L'aveva avuta soltanto
per sei giorni. Gli giunsero i rumori della città. Guardò fuori. Era una limpida giornata di sole. Una meravigliosa brezza fresca entrò dalla portiera socchiusa soffiandogli sul viso. Riuscì quasi a sentirne la freschezza. L'acqua verdastra del canale del Danubio scorreva libera, veloce. Non c'era nulla che desiderasse di più che essere là fuori, lontano da quella macchina, da tutto quanto era successo in quell'ultima mezz'ora. Immaginò di attraversare il ponte e dirigersi di nuovo verso il centro. Avrebbe fatto qualche giro. Era una buona idea, si sarebbe distratto un po'. Avrebbe camminato un po'. E alla fine avrebbe chiamato sua moglie. No, quella non era una buona idea. Cosa poteva dirle? Doveva inventarsi qualcosa prima, per spiegare la scomparsa della macchina, un alibi perfetto, cui lei potesse credere e che avrebbe accettato senza la minima esitazione. Quando squillò il suo telefono, tutti quei pensieri si dissolsero. Guardò lo schermo per vedere se conosceva il numero, ma diceva soltanto "ID nascosto". «Pronto?». «È la polizia. Ci ha chiamato poco fa e poi ha riattaccato». Rispose con voce tranquilla e professionale. Ne era più che capace. Era nel suo elemento. «Mi spiace, ma è stato un errore. Pensavamo di aver subito un furto, ma poi mia moglie ha visto che aveva semplicemente lasciato le sue cose in un altro posto. Mi scuso per il disturbo». Il poliziotto all'altro capo del filo fece un altro paio di domande senza troppa convinzione e lo salutò. «Complimenti. Te la cavi bene a raccontar balle. Non avrai difficoltà a spiegare cos'è successo alla tua macchina». L'automobilista fissò Flannery, che in effetti non aveva un gran bell'aspetto. «Si è fatto davvero molto male? Oppure è tutta...». Invece di rispondere, Flannery sollevò lentamente la gamba sinistra del pantalone. L'osso era chiaramente spezzato in due punti, e si vedeva una raccapricciante frattura scomposta. «Le devo mostrare qualcos'altro?». Gli bastò un'occhiata a quella gamba. Scese dalla vettura indietreggiando e inciampò rischiando di cadere. «Ehi», lo chiamò Flannery mentre stava per chiudere la portiera. L'uomo lo guardò allarmato. Dio onnipotente, cosa c'era ancora? «Sì?». «Chi teme il cane, si assicura dal morso». Non essendo certo di aver sentito bene, si protese di nuovo verso di lui. «Come ha detto?». «Chi teme il cane si assicura dal morso». «Come? Che cosa vuol dire?». Tutti quei proverbi, perché non la finiva e
gli diceva chiaramente quello che aveva in mente? Flannery lasciò andare la gamba dei pantaloni. La stoffa scivolò giù per metà, coprendo soltanto in parte la lesione. Si leccò le labbra e sorrise. «Bau!». L'automobilista annuì in fretta, ripetutamente: sì, aveva capito perfettamente cosa intendeva. Flannery lo osservò attraversare la strada e camminare in fretta verso il ponte. L'interno dell'auto era nero e argento, curato in ogni dettaglio. «Perfettamente accessoriata», disse Flannery con voce simile a quella di un annunciatore radio, come se stesse cercando di vendere l'auto a se stesso. Accarezzò il volante, la leva del cambio. Poi inspirò quell'indescrivibile odore agrodolce di macchina nuova e pelle. Un gran bel profumo. Una gran bella macchina. Aveva scelto bene. Ma di che colore era di preciso? Si era dimenticato di chiederglielo. Era una specie di grigio giallo-verde. No, non esattamente. Chiuse gli occhi un momento in cerca della parola giusta e la trovò: celadon, verde celadon. Era un termine che non aveva mai sentito prima, ma la macchina era di quel colore: una Porsche verde celadon. «Bene bene». Si passò lentamente entrambe le mani sulla gamba sinistra fratturata, come se fosse tutta bagnata e lui la stesse strizzando. Quando ebbe raggiunto la caviglia, si tirò su i pantaloni per dare un'occhiata. La gamba era a posto: senza neanche un graffio. Aveva un appuntamento galante entro pochi minuti. Doveva essere presentabile e non avere l'aspetto di uno che è appena stato investito da un'auto. Si passò le mani su tutto il corpo, i vestiti strappati e sporchi scomparvero e si trasformarono in quello che aveva indosso un'ora prima: una Tshirt bianca nuova e un paio di bermuda beige. Sollevò le mani verso il collo e la faccia. Tutti i lividi e le abrasioni dell'incidente sparirono non appena le sue mani vi passarono sopra. La barba aveva di nuovo un'aria curata e la fragranza di "Gray Flannel" riempì la macchina. Flannery allungò una mano e voltò verso di sé lo specchietto retrovisore. Si guardò e vide che era tutto a posto. Era ora di raggiungere Leni. «Celadon». Ettrich si sorprese a pronunciare quella parola a lui così poco familiare. Se l'era trovata sulla punta della lingua così, come un uovo caduto dal cielo. Isabelle lo guardò, aspettando che aggiungesse qualcos'altro. Erano seduti sul tram e si tenevano per mano: stavano tornando a casa dal cimitero.
Non erano riusciti a combinare nulla con quella visita alla tomba di Petras Urbsys. Erano entrambi depressi e non avevano idea di cosa fare a quel punto. Ettrich scosse la testa. «Non ho idea di cosa significhi, questa parola». «E allora perché l'hai detta?». «Non lo so. È spuntata fuori così, dal nulla». Lei lo guardò come per dire: E allora? Ma Ettrich scosse la testa perché c'era dell'altro. «No, non hai capito». «Spiegati, Vincent». Lui ci pensò su un attimo e poi guardò la mano di Isabelle che stava stringendo. La aprì e vi appoggiò il proprio palmo sopra. Lei sentì qualcosa, un leggero solletico, un lieve ma persistente calore. Lui scostò la mano. Sul palmo di Isabelle c'era scritto "celadon" in chiare lettere maiuscole di quello stesso, preciso colore. Isabelle rimase un istante senza fiato, poi chiuse il pugno. Ettrich sorrise. «Ecco. È quel colore lì». «Cosa?». «Celadon è il nome del colore di quelle lettere», rispose indicando la mano di Isabelle con un sorriso sempre più largo. «Come fai a saperlo, Vincent? Hai appena detto...». «Lo so, lo so. Aspetta un momento, Fizz. Devo pensarci un secondo». Frustrata da tutto quello che era successo quel giorno, Isabelle stava per arrabbiarsi: prima Vincent le faceva quel giochetto, poi si rifiutava di spiegarglielo. Infastidita, non riuscì a pensare a niente di meglio da fare se non guardarsi di nuovo il palmo della mano e quella strana parola verde che vi era comparsa sopra. Avrebbe voluto strofinarsi la mano sui pantaloni e cancellarla. Vincent rimase a lungo in silenzio. Lei continuò ad aspettare e a lanciargli qualche Occhiatina in tralice per vedere se aveva finito di riflettere. La sua irritazione stava crescendo insieme alla curiosità. Cosa stava succedendo? Guardò la parola sul palmo della sua mano, guardò Vincent, guardò fuori dal finestrino. Non aveva la minima idea di cosa fosse tutta quella storia. Né di come se la sarebbero cavata questa volta. Forse Vincent lo sapeva, o l'avrebbe saputo quando fosse finalmente uscito da quel suo silenzio. Forse aveva davvero scoperto qualcosa che poteva aiutarli. Ettrich s'infilò una mano in tasca e tirò fuori il portafogli. Estrasse un fogliettino: Isabelle vide che c'era scritta una lista di parole. «Che cos'è?».
«Dammi di nuovo la tua mano». Lei si accigliò, ma gliela porse. Lui la guardò, diede un'occhiata al foglietto e domandò: «Sai cosa significa la parola "ermeneutico"?». «Hai detto Herman...?». «Perfetto». Posò il palmo su quello di Isabelle. Lei sentì di nuovo quel calore e quel leggero brivido, o quel che era. Niente da farti trasalire o metterti paura, comunque una sensazione chiara, precisa. Ettrich sorrise e disse: «Significa interpretativo, esplicativo». «Eh?». «Guardati la mano». Dove un istante prima c'era scritto "celadon", ora c'era scritto "ermeneutico" in lettere maiuscole verde celadon. Isabelle ritirò la mano e se la premette contro il petto. Ettrich indicò il foglietto. «Quando mi capita d'incontrare una parola che non conosco in qualcosa che sto leggendo, me la segno. Quando ho un minuto, la cerco nel dizionario. A volte ho delle liste lunghissime». Isabelle guardò quell'elenco di parole e vide che "ermeneutico" era la prima in alto. «Non sapevi cosa significava finché non hai fatto questo trucchetto con la mano?». «Esattamente», disse Ettrich con tono incoraggiante, sperando che lei capisse senza bisogno che le spiegasse quello che gli stava diventando sempre più chiaro. «E non sapevi neanche cosa voleva dire "celadon"?». Questa volta Ettrich non disse nulla, lasciando che fosse lei a dare la risposta da sola, riflettendo ad alta voce. «Siamo noi, Vincent? Noi due insieme, non solo tu né solo io. Le risposte arrivano quando siamo insieme, quando siamo uniti?». «Sì, credo sia proprio così, Fizz». «Riprova. Di' un'altra parola». Isabelle gli prese il foglietto di mano e lesse lentamente la seconda, buffa parola della lista. «Borborigmo». Gli porse la mano e agitò le dita per sollecitarlo ad appoggiarvi sopra la sua. «Dai, dammela. Proviamo». Ettrich lo fece e ripeté quella parola. Poi scoppiò a ridere. «Significa gorgoglio addominale. Quando lo stomaco borbotta perché non hai mangiato, o c'è troppo gas, perché non stai bene». «Gorgoglio addominale?». Si coprì la bocca con la mano ridendo come una bambina. Quando si calmò un pochino, allontanò la mano dalle labbra e la guardò. Nel mezzo del palmo c'era scritto in caratteri verde celadon
"borborigmo". «Fammi provare. Fammi provare». Isabelle prese la mano di Vincent e disse «hudna». Lo fissò a occhi spalancati. Lui non esitò: «Viene dall'arabo. Significa cessate il fuoco, tregua temporanea. Dov'è che l'hai pescato?». «In un articolo su Israele e sulla Palestina che ho letto ieri. È una parola che mi piace un sacco, mi piace il suono che ha. Ho continuato a ripeterlo, hudna, hudna». «Ma allora tu sapevi già cosa voleva dire?». «Sì, Vincent, ma tu no. Fammi provare ancora. Questa la adoro. Anak». Ettrich rise di nuovo. «Merda. Significa merda in eschimese». «Giusto!». Lei si guardò la mano e vi vide quella parola che in eschimese voleva dire merda. «No, basta. Questa la voglio tenere». Gli mostrò il palmo affinché vedesse anche lui anak. Vincent le prese la mano e gliela baciò. «Comincio ad avere le idee più chiare adesso. Ti ricordi che al cimitero ti ho visto con Petras nel negozio il giorno in cui lui ti ha insegnato come venire a prendermi nella Morte? Ti ricordi com'è successo?». Isabelle disse: «Ho messo una mano sulla lapide...». «No, tesoro, abbiamo messo una mano sulla lapide tutti e due, insieme. Ti ricordi? Insieme. È questo il punto. Insieme, nello stesso momento. Noi due, io e te, e non uno di noi separatamente». «Ma io non ho fatto nulla, Vincent. Non ho fatto nulla perché accadesse. E tu? Non è come dare un colpo di bacchetta magica e far accadere qualcosa. Non avevamo il controllo di quello che è successo». Isabelle aveva ragione e l'entusiasmo di Vincent si sgonfiò un poco. «È vero, è vero... Ma lascia perdere quest'aspetto per un attimo e pensa soltanto a questo: insieme, in qualche modo, facciamo accadere delle cose. Ho vissuto per un po' nel tuo passato oggi, ero lì, sul serio. Ho visto ogni cosa e sentito ogni parola della tua conversazione con Petras. Poi ci sono le definizioni di queste sciocche parole che nessuno di noi due conosceva prima. Ho saputo cosa significavano nel momento stesso in cui ho toccato la tua mano, non appena siamo stati uniti. Capisci? Quando noi due diventiamo uno, succedono delle cose. Delle cose che da soli non siamo capaci di fare. Scommetto - ne sono sicuro - che non è finita qui». E infatti non era finita lì, ma avrebbero dovuto attendere ancora un poco prima di scoprirlo. Quando Isabelle aprì la porta del loro appartamento,
Hietzl li guardò dalla sua sedia nell'angolo opposto della stanza ma non andò a salutarli come al solito. Era rimasto male per essere stato lasciato a casa quando Vincent e Isabelle erano andati al cimitero. Ettrich gli aveva spiegato che i cani non possono entrare nei cimiteri perché pisciano sulle lapidi e fanno la cacca dove non dovrebbero. Chi vorrebbe uno stronzo fumante dove sta godendosi l'eterno riposo? Malgrado la spiegazione, il cane, accovacciato per terra, l'aveva fissato con occhi tristi. Mentre uscivano, Isabelle si era messa la borsa in spalla dicendo: «È colpa mia, Hietzl. Non ho voglia di guidare, perciò non ci puoi aspettare in macchina. Andiamo in tram». Così adesso Hietzl li accoglieva con ostentata indifferenza, anche se, va detto, Isabelle e Vincent non ci fecero caso più di tanto perché erano tutti presi dalla nuova teoria di Vincent. Non riuscivano a smettere di parlarne. Isabelle si sedette in cucina mentre Vincent preparava il caffè e le posava davanti, sul tavolo, la tazza e la panna. «Da dove viene "celadon"? Perché hai detto questa parola così, tutto d'un tratto?». Ettrich, che stava cercando lo zucchero in un armadietto, si voltò e agitò un dito in aria verso di lei. «Buona domanda Ci stavo pensando prima. Ma sai una cosa? È scappata fuori dal nulla». «Ma devi averla vista: magari l'hai letta da qualche parte. Altrimenti come ha fatto a venirti in mente?». «Non lo so, Fizz. Per quel che ne so, è la prima volta che la sento. L'idea che io e te insieme creiamo un terzo... qualcosa che sa molto più di noi separati mi è venuta insieme a quella parola. Senti, quando abbiamo toccato la lapide nello stesso momento, io sono entrato all'improvviso nel tuo passato. Poi è arrivata celadon. Che cosa diavolo sarà? Nell'istante in cui ti ho preso per mano l'ho saputo. E contemporaneamente mi è saltata in mente questa teoria di io-e-te-facciamotre. Non è la prima volta che ci penso. E non sto parlando soltanto di nostro figlio. Cos'è? Cos'è questa terza cosa? Non lo so. Ma oggi ho avuto la prova che esiste». Rimasero un po' in silenzio finché Ettrich non portò il caffè in tavola e ne versò una tazza a entrambi. «C'è anche un'altra cosa. Per favore, non incazzarti». «Di cosa mi dovrei incazzare?». Isabelle aveva la tazza accanto alle labbra, così quando gli fece quella domanda il suo fiato sul caffè bollente creò un velo di fumo davanti alla sua bocca. «Della cosa che sto per chiederti. Parlami di Frank Obermars».
Lei abbassò la tazza senza averne bevuto neanche un sorso. Quando erano tornati a vivere insieme qualche mese prima, una delle prime cose che avevano giurato di fare era stato di dirsi sempre la verità su tutto, qualsiasi cosa. Da allora avevano avuto anche discussioni accese e pesanti litigi, ma Isabelle aveva sempre mantenuto la parola e gli aveva sempre detto la verità. In quel momento ebbe voglia di mentire. Fu tentata di chiedere: «Chi è Frank Obermars?», perché non contava nulla. Anzi, contava, ma non per loro, non in quel momento, non più. Isabelle l'aveva dimenticato, faceva parte del passato. Era comparso quando aveva lasciato Ettrich e aveva giurato a se stessa di non rivederlo mai più anche se sapeva già di aspettare un bambino da lui. Lasciare Vincent era stata la causa, Obermars l'effetto. Era olandese, bello, brillante, lavorava a Vienna per la Philips Electronics. In un altro momento avrebbero potuto stare bene insieme. Ma a volte incontriamo certe persone nella nostra vita che per questione di istanti, di giorni, di pochi centimetri non diventano importanti come avrebbero potuto. In un altro luogo, in un altro momento, in un'altra condizione emotiva, saremmo caduti tra le loro braccia, accettando con piacere il loro invito, la loro sfida. Invece le incontriamo quando siamo insoddisfatti, oppure sono loro ad esserlo. La scintilla che avrebbe potuto scoccare non scocca. Isabelle si era detta che una scappatella con un uomo sexy e intelligente avrebbe in qualche modo attenuato il dolore di aver perso Vincent. Così accettò l'invito di Frank e partì con lui per un lungo weekend in un delizioso villaggio sul lago, vicino a Salisburgo. Un luogo incantevole, perfetto, evidentemente scelto con cura. Al termine della loro prima giornata lì, avevano fatto l'amore per tre ore. Neanche per un istante dal viso di Isabelle era scomparsa una cupa espressione di distacco. L'olandese aveva provato ogni trucchetto, ogni stratagemma, per soddisfarla. E ne conosceva un bel po'. Di solito riusciva a rendere felici le sue amanti, perché conosceva i gusti delle donne e fare sesso era una cosa che lo entusiasmava. Ma neanche per un minuto, per un istante sentì Isabelle partecipare, né tanto meno condividere il suo piacere. Avrebbe ricordato quell'esperienza come un incontro con una prostituta consumata. Una donna che sa come muoversi ma se la guardi in faccia quando non sa di essere osservata, vi scorgi un'impassibilità che ti gela il cuore. Aveva continuato finché Isabelle non era diventata una statua di sale. Appena lui aveva smesso, si era girata dall'altra parte. Obermars aveva
creduto che si sarebbe messa a piangere, ma era rimasta in silenzio, il che fu anche peggio. Le aveva chiesto se fosse tutto a posto. Lei aveva risposto di sì. Con una voce glaciale. Le aveva chiesto se poteva fare qualcosa per lei. Aveva risposto di no, dicendo che voleva solo tornare a Vienna la mattina dopo. Non riuscendo neanche a immaginarsi di trascorrere tutta la notte insieme a Isabelle e a quel suo silenzio, lui si era offerto di riportarla subito a casa. A quel punto lei si era voltata verso di lui e lo aveva guardato. «Sì, sarebbe meglio. Sei un bravo ragazzo, Frank». Gliel'aveva detto in inglese, chissà perché. Era la prima volta che gli parlava in quella lingua, anche se sapeva che lui la parlava bene. Forse perché erano entrati in un'altra regione del cuore. Durante il loro Prima avevano parlato tedesco, nel loro Dopo inglese. Obermars aveva accennato un sorriso e si era chinato a raccogliere i propri vestiti. Non voleva guardarla, perché in quel momento era più bella che mai. Non sapeva se fosse perché era nuda o perché ormai sapeva di non avere nessuna chance con lei. Il desiderio era pari soltanto al senso di sconfitta. Il viso di Isabelle era illuminato da una luce soffusa e il candore delle lenzuola sgualcite contrastava con la sua pelle abbronzata. «Sembri un toast», le aveva detto cercando un calzino. Ormai non aveva più niente da perdere. Poteva dirle quel che voleva. «Cosa sembro?». Isabelle si era lentamente tirata su a sedere senza fare nulla per coprirsi. Lui si era immaginato che avrebbe voluto nascondere la propria nudità dopo quello che c'era stato tra loro e quello che lei gli aveva detto. «Un toast. La tua pelle tra le lenzuola. Sembri un toast dorato su un piatto bianco». Isabelle ricordava ancora quelle parole e l'espressione sul viso di Frank quando gliele aveva dette. Aveva visto la sua infelicità, lo aveva visto già allontanarsi da lei, uscire da quella stanza d'albergo così graziosa, salire in auto, mettersi in viaggio e rientrare a Vienna dove le loro vite non si sarebbero intersecate mai più. Quel pensiero non l'aveva rattristata. Voleva soltanto andare a casa e pensare a come avrebbe potuto continuare a vivere così. «Fizz?». La voce di Ettrich richiamò Isabelle dal tunnel della memoria. Sbatté le ciglia e, dopo qualche secondo di silenzio, gli domandò: «Cosa vuoi sape-
re, Vincent? Come fai a sapere di Frank?». Vincent le avvicinò lo zucchero. «Prima, quando mi hai chiesto il significato di anak, vi ho visto. Mi si è presentata un'immagine di voi due, insieme alla definizione di quella parola». «Ah, quale immagine di noi due?». Si guardò la mano, ma sul palmo non c'era più scritto nulla. «Alla stazione di servizio sull'autostrada... quando gli hai chiesto di fermarsi perché dovevi vomitare». Lei posò la mano sulla tazza e sentì subito una lingua di calore lambirle la pelle. Immaginò, dal tono della voce, che Vincent sapesse tutto di lei e Obermars. «Gli ho chiesto se si poteva fermare perché dovevo andare in bagno. Ma in realtà dovevo vomitare». La voce di Isabelle si tinse di collera. «Dovevo allontanarmi da te, Vincent. La mia mente, il mio corpo, ne avevano bisogno. Tu non c'eri più. Noi due, io e te, non esistevamo più. Dovevo scacciarti dal mio organismo, se volevo sopravvivere. E così c'è stato Frank. Ci ho provato, ma è stato un disastro. Riesci a capirlo? Eh, Vincent?». «Sì. Bevi il tuo caffè». Lei lo guardò con una certa diffidenza, non riuscendo a credere al tono calmo e pacato della sua voce. «Dobbiamo parlare di Frank, o possiamo parlare di qualcos'altro? Perché devi sapere una cosa, Vincent: per due volte oggi sei entrato nella mia vita come se non ci fosse niente di più semplice come si entra in una stanza con la porta aperta. Come hai fatto? Hai girato la maniglia e sei entrato. Com'è possibile?». Lui allontanò lo sguardo per qualche istante, poi tornò a guardarla. «Parlando al tempo». «Ripeti». «Si può parlare al tempo. È un organismo vivente, è in grado di capire. Senti, Fizz, prima mi hai chiesto cos'ho imparato quando ero morto. Ti ho detto che non lo sapevo. Non ricordo molto, mi sono rimasti nella memoria solo dei brandelli, frammenti sfuocati di immagini misteriose, che non hanno alcun senso per me. Ma oggi ho scoperto una cosa al cimitero. Mi sono reso conto di una cosa, ho capito una cosa, come preferisci, e ha funzionato, diavolo. Hai mai sentito parlare della tecnica fotografica "Lomo"?». «"Lomo"? No, cos'è?». «Una cosa molto interessante. L'abbiamo usata con successo per una campagna pubblicitaria nella nostra agenzia, una volta. Anni fa in Russia,
prima della caduta della cortina di ferro, vendevano una macchinetta fotografica che si chiamava "Lomo". Credo fosse il nome della ditta che la produceva. Costava pochissimo ed era stra-rudimentale. Dovevi far avanzare la pellicola manualmente, e non credo ci fosse nemmeno la possibilità di mettere a fuoco l'immagine. Del resto, cosa si poteva pretendere in Russia allora? Ma così almeno tutti quelli che volevano potevano comprarsi una macchina fotografica. Alla fine qualcuno abbastanza sveglio ha capito che i limiti di quella macchina potevano diventare dei vantaggi. Ha cominciato a fare foto con una Lomo senza far caso a cosa inquadrava. Senza cercare di fotografare niente in particolare. Senza neanche guardare nell'obiettivo. Abbassando la macchina all'altezza dei fianchi, oppure sopra le spalle, o dietro la schiena, scattava così, senza curarsi di cosa c'era nella foto o cosa rimaneva fuori... non aveva importanza. Fotografia spontanea, casuale... chiamala come vuoi. Bastava scattare, a destra, a sinistra, sopra, sotto, dove capitava. In quel modo era il caso a decidere se le foto sarebbero state belle o brutte. E la sai una cosa? Alcune erano bellissime. Alcune erano davvero fantastiche. Oggi lo fa un sacco di gente, ci sono esibizioni Lomo in tutto il mondo, esposizioni, club, website... È diventata una moda perché funziona. Il novantanove virgola nove per cento delle foto sono orrende, sfuocate, banalissime. Ma una su un milione è fantastica. I miei ricordi da morto sono come una pila di fotografie Lomo accatastate su un tavolo. Il novantanove virgola nove per cento sono venute male, indistinte, delle vere e proprie schifezze. Non si riesce neanche a capire cosa sono. Ma oggi, quando abbiamo toccato la lapide di Petras, ho trovato in quel mucchio una foto che non è soltanto chiara, ma anche bella». «Descrivimela». Gli occhi di Vincent si posarono sulla mano che Isabelle teneva sulla sua tazza di caffè. «No, te la faccio vedere». Isabelle non sapeva dove rivolgere lo sguardo perché Vincent non la guardava. Continuava invece a fissare la sua tazza di caffè, così alla fine guardò quella anche lei. Sulla tazza di Isabelle c'era la mano di una bambina. Al dito aveva un semplice anellino di plastica a forma di girasole. Isabelle aveva un anello identico a quello quando aveva otto anni. L'aveva trovato per terra nello Stadtpark mentre era a passeggio con la sua famiglia una domenica mattina. Siccome i girasoli erano i suoi fiori preferiti, si era convinta che si trattasse di un anello magico e che le avrebbe portato fortuna. Così l'aveva
tenuto al dito religiosamente per due anni, senza toglierselo quasi mai. Dal polso di Isabelle, sulla tazza di caffè, spuntava la mano di una bambina di otto anni con quell'anello. Era una mano minuta, con le unghie rosicchiate da piccoli denti nervosi: a otto anni, Isabelle era intimorita da ogni piccola cosa. Le sue unghie, la sua mano, il suo anello. Isabelle era non meno sorpresa dalla calma con cui stava accettando quell'idea che dal fatto di guardare la propria mano di quando aveva otto anni. Poi la mano cambiò. Divenne più grande, le unghie cominciarono a crescere e... si tinsero di verde. Uno smalto assurdo, bruttissimo, che Isabelle ricordava di avere usato una volta quando aveva vent'anni. Flora aveva comperato una boccetta di smalto verde psichedelico per regalarla a Leni e farle uno scherzo. Alla fine, durante il pomeriggio, annoiate, non sapendo cosa fare, si erano date tutte e tre quello smalto sulle unghie delle mani e dei piedi. La madre di Flora le aveva fotografate insieme che mostravano mani e piedi dipinti di verde. Isabelle aveva incorniciato la fotografia e la teneva ancora sul tavolino. «Cosa stai facendo, Vincent? Perché sta succedendo tutto questo?», gli chiese senza distogliere gli occhi dalla propria mano. «Ho parlato al tempo. Gli ho chiesto di fare qualcosa. Capisce cosa gli si chiede se gli si pone la domanda correttamente». «Che cosa gli hai chiesto di fare?». «Di farti vedere la tua mano passata, presente e futura. Le riconosci? Sono le tue mani?». Lei lo guardò con un'espressione disorientata. Ettrich disse: «Durante la nostra vita pensiamo che il tempo sia quello che indicano gli orologi: ore, minuti, giorni. Ma non è così. È questo che ho imparato quando sono morto. Il tempo è anche...». In quel momento, mentre lui parlava, la mano di Isabelle riprese a cambiare. Dopo un istante, quel che Vincent vide lo fece ammutolire. Lo smalto verde era scomparso, sostituito da un delicato anello d'argento con una pietra di diaspro che Ettrich aveva regalato a Isabelle la settimana prima. Una piccola cicatrice turgida comparve sul pollice dove Isabelle aveva raschiato la mano contro il muro dopo il loro ritorno dall'America. Era evidente che si trattava della mano di Isabelle oggi, se non fosse stato per il fatto che le mancava un dito.
Fino alle ginocchia in Abiti Delladomenica «Ti lascio qui». «Come?». Haden non aveva sentito cosa aveva detto l'orso polare Bob, perché era molto più avanti di lui. Camminavano così da chilometri ormai. Avevano attraversato la città, la città dei sogni di Haden, durante quasi tutta la mattina. Ma dal momento che l'orso non rispondeva alle sue domande, lui non aveva la più pallida idea di dove fossero diretti, se non verso i suoi incubi. «Ho detto che ti lascio qui, Simon». «In che senso? Ti vorresti fermare un minuto, per favore? Fermati un cazzo di minuto almeno». Bob si fermò senza voltarsi. Haden guardò quella schiena bianca immensa davanti a sé e aspettò. Dal momento che non succedeva nulla, usò quel breve intervallo per tirare il fiato. Quando si fu ripreso, siccome l'orso continuava a dargli le spalle, Haden si mise a guardarsi in giro. Non era mai stato in quella zona della città. O se c'era stato, non gli era per niente familiare. Sapeva che quel posto, e tutto quello che c'era, veniva dai suoi ricordi o dalla sua immaginazione, ma una delle cose che aveva imparato da quando era lì era che la maggior parte di quello che uno fa, pensa e crea durante la propria vita se lo dimentica. Quel che resta nella nostra memoria, o nel cuore degli altri, o sulla terra dopo che ce ne siamo andati, è spesso una sorpresa. In quel momento passò una donna col volto coperto da una spettacolare maschera funeraria blu, un "Bobo roteante" del Buriana Faso, che gli lanciò un allegro: «Ciao, Simon!» Haden era abituato a simili assurdità e si limitò a risponderle con la mano. «Seguila, Simon». Siccome stava pensando ad altro, la sua testa non registrò l'esortazione di Bob. «Come?». «Seguila... quella con la maschera». «No, Bob, non la seguo proprio per niente». L'orso non si era ancora voltato, e sinceramente, a quel punto, a Haden non gliene poteva fregare di meno se si girava o rimaneva così per sempre. Quell'orso del cacchio. Chi si credeva di essere, a trattarlo così, dando ordini a destra e a manca? «Cosa sta succedendo, eh? Dove siamo finiti? Che cos'è 'sto posto?». La donna mascherata scomparve in un edificio in fondo all'isolato. Per un attimo Haden si domandò chi fosse e dove stesse andando.
Poi gli venne in mente qualcosa... qualcosa di grosso. Senza perdere un solo istante, corse dietro a quella donna che era appena scomparsa. Bob incrociò le sue immense zampone e sbuffò come una vecchia zia indispettita. Era ora! Avendo vissuto con Simon tutti gli anni della sua infanzia, Bob sapeva che era un po' tonto, ma che da adulto non fosse migliorato di una virgola era tanto avvilente quanto straordinario. Le esperienze della vita, invece di essere state assorbite come acqua da una pietra porosa, rendendola più solida e pesante, sembravano piuttosto essere scivolate su una lastra di vetro su cui non era rimasto nulla. Be', forse giusto qualche accenno, in un remoto angolino, ma niente di che. La donna con la maschera blu era l'ultimo coniglio uscito dal cilindro di Bob. Se Simon non l'avesse inseguita, l'orso avrebbe avuto difficoltà a immaginare cosa poteva inventarsi ancora. Aveva portato Simon attraverso la sua città, in mezzo a segnali e indizi che chiunque avesse anche soltanto un po' di cervello sarebbe stato in grado di riconoscere all'istante. Senza ottenere il benché minimo risultato. Cinque, dieci volte, mentre camminavano, Bob avrebbe voluto fermarsi, indicargli qualcosa e dirgli GUARDA LÌ, SIMON! Oppure LÌ... NON LO RICONOSCI QUELLO? Ma gli avevano detto di evitare di fare qualcosa del genere, così si era trattenuto. Ma alla fine Haden aveva reagito, grazie a Dio. «Credo che ti sbagli riguardo a Simon. Anch'io la pensavo come te, ma oggi ho capito una cosa: non è imbranato come sembra. Il problema è che ha l'atteggiamento sbagliato. Ha la faccia incazzata anche quando mangia un cono gelato». Bob sentì quella voce ma, guardandosi intorno, non riuscì a localizzarla. Poi abbassò la testa abbastanza da vedere Broximon in piedi accanto a lui, vestito di tutto punto come sempre. Indossava un maglione a rombi scozzese e sembrava un giocatore di golf degli anni Trenta. «Ah, ciao Broximon». «Ehilà, grande Bob. Hai un po' di tempo che ci andiamo a bere qualcosa?». «Ti dirò, mi ha messo addosso una tale agitazione fare il giro dell'oca con Simon Haden, che l'unica cosa che posso mandar giù in questo momento è un bicchiere di latte freddo». «Vada per il latte freddo, amico mio. Ci deve pur essere un posto da qualche parte dove possiamo trovarlo». Bob si guardò in giro. «Sai dove siamo almeno? Ti confesso che credo di essermi perso. Non la conosco, questa zona della città».
«Neanch'io. Ma c'è senz'altro uno snack bar qui vicino. A Simon piacciono un sacco e ne deve avere messo uno anche qui, non molto lontano. Ce ne sono a migliaia in questa città. Servono tutti quel disgustoso budino al cioccolato con le noci che piace a lui. Vieni, che lo troviamo un posto». Si avviarono, con Broximon che camminava a passettini rapidi rapidi per cercare di non rimanere indietro. «Senti, Bob, ti devo chiedere una cosa. Hai mai sentito parlare di un certo John Flannery? Lo conosci?». «Chi?». «John Flannery. Un tipo un po' robusto con la barba, grassoccio». Broximon si accarezzò una barba immaginaria sul mento. «Che va in giro con un gigantesco alano chiamato Luba». «No, mai sentito. E l'unico alano che conosco si chiama Spot. Mi sa che me lo faccio un drink, tutto sommato». Suzy Nichols. Ecco come si chiamava. Suzy Nichols era la ragazza dietro la maschera blu che lo aveva salutato per strada qualche minuto prima. Haden era stato profondamente innamorato di lei. Forse come delle altre donne della sua vita, ma a quel tempo aveva tredici anni e tutti sanno che il primo amore sprizza scintille come un temporale estivo illuminato da tuoni e fulmini. Che cosa ci faceva Suzy per strada con una maschera funeraria Bobo davanti alla faccia, nella città dei sogni di Simon Haden? Ma stava andando alla festa, è ovvio, la festa di Halloween di seconda e terza media. Ve le ricordate le feste delle medie? Con le ragazze che passavano la maggior parte del tempo a fare dentro e fuori dai bagni per raccontarsi gli ultimi sviluppi della serata. E i ragazzi con la schiena appoggiata contro il muro che cercavano di fare la faccia da duri per dimostrare alle ragazze la propria indifferenza a tutto, e in particolar modo nei loro confronti. E c'era sempre una ragazzina che piangeva in un angolo, inconsolabile, a causa di qualcosa che era appena successo, circondata dalle amiche che cercavano di starle vicino e consolarla, parlottando tra loro. A un certo punto, poi, compariva il più imbranato della classe e si univa agli altri impacciati come lui che rimanevano lì a fare da tappezzeria e a guardarsi intorno intimiditi. E infine, all'ultimo gradino della scala gerarchica, c'erano un paio di sfigati, che quando li vedevi arrivare alla festa, ti veniva da chiederti: che cosa cavolo sono venuti a fare? L'imprevisto, ecco cosa li aveva attirati. A dodici anni si ha una sconfi-
nata fiducia nel fatto che a una festa scolastica può accadere di tutto. E, per qualche magica alchimia, è proprio così: quella sera si formano le coppie più strane, con quella musica martellante nelle orecchie si dicono cose che cambiano tutto, e nella travolgente speranza che si crea in quei momenti si condividono segreti fino ad allora inconfessati. Per una sera può accadere qualunque cosa, e a volte accade. Haden aprì la porta dell'edificio in cui era entrata la ragazza con la maschera e si ritrovò alla festa di Halloween di seconda e terza media, tra una folla di ragazzini in maschera e l'immediata nostalgia che ti avvolge insieme alle note di una canzone di Barry White. Comprese immediatamente dove si trovava, e non esitò. Suzy doveva essere all'altro capo della sala, vicino al tavolo con la caraffa del punch, insieme alle altre ragazze, oppure a un summit, in bagno, con la sua migliore amica, Melinda Szep. Simon ricordava bene quella serata, ma non di averla sognata. Il che non è sorprendente se si pensa che aveva fatto più di quattordicimila sogni nella sua vita. Si tolse le scarpe e si accinse ad attraversare la pista. Era un ballo a piedi nudi: le scarpe bisognava lasciarle all'entrata per non rigare il parquet della palestra. A un certo punto cominciò a rendersi conto che diversi suoi compagni impegnati a ballare si voltavano a guardarlo. Era imbarazzante, ma lui in quel momento aveva altre cose cui pensare. E poi chi se ne fregava se qualche dodicenne lo fissava? Ecco Suzy, la sua maschera blu era appoggiata a faccia ingiù sul tavolo dei rinfreschi. Stava parlando animatamente con Melinda con un bicchiere di carta in mano. Era così bella, alta, davvero carina. Ecco perché non l'aveva riconosciuta quando l'aveva vista per strada. L'aveva scambiata per una donna. Anche in seconda media Suzy Nichols era abbastanza alta e formosa per essere scambiata per una ragazza molto più grande, soprattutto se aveva il viso coperto da una maschera In quel momento a Haden venne in mente che la maschera era di suo fratello maggiore che era stato in Buriana Faso con i volontari dei Peace Corps. L'aveva trovata là, e Suzy se l'era messa per la festa di Halloween, sbalordendo tutti quelli che la conoscevano. Di solito non le piaceva attirare l'attenzione. Eppure, per qualche inspiegabile ragione, quella sera si era presentata alla festa (cosa che faceva di rado di per sé) con il "Bobo roteante". Melinda Szep fu la prima a scorgere Haden. Gli occhi le si spalancarono in modo assurdo, dopo di che abbassò in fretta la testa e si coprì la faccia con una mano. Disse qualcosa a Suzy, probabilmente, perché quest'ultima smise subito di parlare e guardò Simon.
Il suo viso mostrò in ugual misura sconcerto e sorpresa, come se si fosse trovata davanti un marziano alto tre metri, o due gattopardi che copulavano. Haden ricordò quanto aveva desiderato piacerle. Ma ora il volto di Suzy diceva che l'unico motivo per cui lo stava guardando era senza dubbio la ragione sbagliata. Gli tornò in mente che anche altri si erano voltati a guardarlo mentre attraversava la pista. Così abbassò gli occhi. È la patta dei pantaloni che gli uomini guardano immediatamente quando vedono che qualcuno li sta fissando. Perché sono sicuri che sia rimasta aperta e sia quello il motivo per cui la gente li guarda. Oppure ci dev'essere una macchia di bagnato che desta qualche sospetto. O... qualcosa del genere. Per un ragazzo, per un uomo ancora giovane, quel che si nasconde lì dietro è tutto quanto possiede di vitale, di magico e, talvolta, di spaventosamente imbarazzante per sé e la propria immagine agli occhi del mondo. Ormai erano poche le cose che imbarazzavano Haden, soprattutto ora che era morto. Ma quando guardò la patta dei pantaloni e vide cosa c'era, non fu soltanto imbarazzato, ma sbigottito. Il suo pene, o quello di qualcun altro (era supersicuro che quello non era il suo, accidenti: era più lungo di qualsiasi uccello avesse mai visto), gli spuntava fuori dai pantaloni come un bastone. Doveva essere lungo quasi quaranta centimetri. Sembrava il naso di Pinocchio. Porno Pinocchio. E appollaiato sopra, su quella lunga verga, c'era un grosso pappagallo. «Ehilà, compare!», gracchiò l'uccello numero due. Sollevò le ali e le sbatté con forza per qualche istante prima di rimettersi sul suo trespolo. Haden sentì le unghie del pappagallo stringersi intorno al pene: non esattamente una sensazione dolorosa, ma neanche piacevole, questo è certo. Con la bocca spalancata per lo stupore, sollevò lentamente la testa e vide Suzy Nichols che lo stava fissando. «Che-cazzo...?». Udendolo, lei alzò lo sguardo su di lui, ma fu come se non lo vedesse. Haden voleva parlarle, dirle delle cose, tante cose. Era per quello che le era corso dietro. «Aspetta, è un sogno! È soltanto un sogno! È un incubo che devo aver fatto quando ero un ragazzino». Fu come se l'avesse punto una vespa. Ma certo! L'orso Bob gliel'aveva detto: doveva affrontare i suoi incubi. Ecco dov'era finito, anche se non ricordava quell'incubo. Del resto, quanti anni erano passati, per Dio, ventisette? Gli elementi classici dell'incubo c'erano tutti: l'interesse per Suzy, la festa della scuola e, al momento della verità, il suo cazzo in bella vista da-
vanti a tutti. Voilà! Non c'era bisogno di un libro delle ricette per mescolare tutti quegli ingredienti per benino e tirarne fuori un bell'incubo coi fiocchi, specialmente per un ragazzino di tredici anni. Che cosa c'è di peggio di una morte spaventosa, quando si ha quell'età? Un imbarazzo spaventoso, di gran lunga. Perché i ragazzi non credono davvero di poter morire. Mentre l'imbarazzo, per loro, è in agguato dietro ogni angolo. Di conseguenza hanno le antenne dritte nei confronti di qualsiasi situazione possa crearlo. C'è chi sogna di camminare per strada senza vestiti. Haden aveva sognato (a quanto pareva) di avere un'erezione di più di trenta centimetri con un pappagallo appollaiato sopra quella mega-verga davanti a Suzy Nichols e a tutti i compagni di scuola. Scoprì di non potersi muovere. Era impietrito, assolutamente impotente e furibondo per non poter semplicemente allungare una mano e sbattere giù quel volatile e rinfilare nei pantaloni quel suo uccello da Pinocchio. Ma le leggi del sogno a quanto pareva non glielo permettevano. Cercò di alzare le braccia, prima la destra, poi la sinistra. Non riusciva a staccarle dal corpo. Era come se fosse sott'acqua, anzi no, come se fosse tutto appiccicato di resina o di colla, immerso in qualcosa di claustrofobicamente denso e vischioso che non gli permetteva di spostare un dito né di fare altro. Cercò invano di divincolarsi. Suzy continuava a guardarlo, mentre sul viso le passava l'intera gamma delle emozioni. Quando Haden comprese che non sarebbe riuscito a muoversi, cercò di dirle qualcosa, non sapeva neanche lui cosa. Qualsiasi cosa, purché gli permettesse di mettersi in qualche modo in contatto con lei. Voleva dirle che gli dispiaceva, voleva dirle di aspettare che uscisse da quella situazione e poi avrebbero potuto parlare, era una scena pietosa ma... Niente. Non poteva neanche parlare. Di nuovo. Si ricordò di quando aveva perso la bocca davanti a Mrs Dugdale. Adesso non poteva nemmeno sapere se ce l'aveva o no, perché non era in grado di sollevare un braccio e toccarsi la faccia per controllare. Gli altri stavano cominciando a raccogliersi intorno a lui, pian piano, da dietro, sempre più vicino, ma non troppo. Volevano vedere. Haden era come un vulcano di cui volevano osservare l'eruzione senza rischiare di cadere nel cratere né farsi travolgere dalla lava bollente. Aveva tirato fuori il pisello a una festa della scuola. Wow! Cosa sarebbe stato capace di fare adesso? Con la coda dell'occhio vide avvicinarsi Mr Nabisco. Mr Nabisco? E chi era? E lui come faceva a sapere il suo nome? Non l'aveva mai visto in vita
sua. Ma non era la sua vita, quella era il mondo dei suoi sogni. «Nabisco» era il nome della marca di biscotti che gli piacevano di più da piccolo: OREO, FIG NEWTONS e TRISCUIT... Adesso si ricordava! Era l'insegnante di spagnolo della medie! «Che cosa diavolo pensi di fare, bello mio?». Mr Nabisco, un uomo piuttosto grassoccio, con una camicia bianca da cerimonia di tessuto lucido ingualcibile dal cui taschino spuntavano quattro penne a sfera identiche e un ciuffo alla Beatles del periodo Mersey Beat8 che non gli donava neanche un po'. «Ti ho chiesto cosa stai facendo», ripeté indicando il pene di Haden ancora in erezione. «Tu adesso vieni con me, signorino». «No, lui non viene da nessuna parte, signore. E tu chi saresti, il quinto Beatles del mio cazzo?». Haden sentì quelle parole ma, non riuscendo a muoversi, non si poté voltare e vedere chi le aveva pronunciate. La voce proveniva dalle sue spalle. Mr Nabisco guardò chi aveva parlato, al che la sua mandibola si serrò. «Ti conosco? Sei un nostro studente anche tu?». E attese, con le mani sui fianchi, una risposta che non venne. Nella palestra della scuola, quell'enorme stanzone in parquet rimbombante e gremito dei fantasmi di migliaia di partite, tra quei ragazzini scalzi, era sceso il silenzio. La musica si era spenta e si sentivano pochissime voci. Qualcosa sfiorò il corpo paralizzato di Haden. Vedendo cos'era, il suo sangue, bollente sino a un istante prima, si trasformò in ghiaccio, ma almeno il suo corpo fu di nuovo in grado di muoversi. A quel tocco, la sostanza che lo aveva imprigionato sino a quel momento si sciolse e Simon fu di nuovo padrone dei propri movimenti. La prima cosa che fece fu guardarsi intorno in cerca dell'uscita più vicina. Perché era Abiti Delladomenica. Era lui che aveva dato quella rispostaccia a Mr Nabisco e ora si stava dirigendo verso di lui. Haden non era più stato tanto terrorizzato da quando era morto. Non ricordava i suoi sogni, né i suoi incubi, ma non aveva dimenticato Abiti Delladomenica. Ironia vuole che fosse stato il protagonista di uno degli ultimi incubi che aveva fatto. Truce, agghiacciante, mostruosamente credibile, Haden ce l'aveva ancora lì, davanti agli occhi, quel sogno inesorabile e cruento che l'aveva fatto svegliare alle tre e trentasette del mattino con la bocca spalancata in un urlo silenzioso. Al centro di quel terrificante ultimo incubo c'era Abiti Delladomenica.
Haden non aveva idea da dove venisse quel nome, ma eccolo lì, quel mostro, che gli passava accanto per avvicinarsi a Mr Nabisco. «Che mi dici, Haden? Ho una cosetta da fare, prima», sussurrò con voce suadente, pacata. «Ma non sparire, voglio fare due chiacchiere con te appena ho fatto». «Voglio fare due chiacchiere con te...»: quella frase era come un dito in un occhio. L'orripilante creatura si diresse verso Mr Nabisco e immediatamente lo avvinghiò e cominciò a stringerlo tra le sue spire. Mr Nabisco non aveva avuto la possibilità di scappare e ora si trovava nella morsa di quel serpente. Anzi, peggio, di Abiti Delladomenica, l'ultimo mostro sognato da Haden, decisamente peggio di qualsiasi serpente. Il ciuffo alla Beatles di Nabisco svolazzava di qua e di là mentre lui si dimenava cercando di liberarsi e di riuscire a respirare e inalare un po' di ossigeno nei polmoni. Un roco grido soffocato, più simile allo strillo di un uccello che a una voce umana, emerse dalla sua gola. In risposta a quell'urlo graffiante, tutti gli studenti si scagliarono all'attacco di Abiti Delladomenica. Giunsero correndo dai quattro angoli della palestra. Quelli che gli erano più vicini saltarono addosso al mostro che li scagliò via come moscerini. Ma loro, senza la minima paura, si rialzarono per tornare di nuovo alla carica. Gli altri arrivarono correndo. Accadde tutto così in fretta che Haden si dimenticò di fuggire e rimase a guardare la scena stupefatto. I ragazzi più robusti, così come i più mingherlini, tutti sciamarono su quell'orrenda creatura cercando di dilaniarla a morsi, pugni, graffi. Alcuni gridavano come pazzi mentre si lanciavano all'assalto. Una ragazza continuava a strillare «Mammina!» con voce acuta e lamentosa mentre lottava sprofondata fino alle ginocchia in Abiti Delladomenica, cercando come gli altri di ucciderlo. Alcuni combattevano muti con frenetica veemenza nel tentativo di fermarlo, di annientarlo. Quando il mostro comprese che quei ragazzini non avevano paura di lui, che non avevano nessuna intenzione di arrendersi e che continuavano ad arrivarne altri, lasciò andare il povero insegnante, che cadde a terra esanime, e concentrò tutte le forze contro i suoi assalitori. C'erano sessantadue studenti alla festa. Per quanto la creatura sognata da Haden fosse spaventosa, non è facile affrontare sessantadue dodicenni e tredicenni infuriati, impavidi, pieni di energia e carichi di adrenalina. Fu una lotta violenta e, sorprendentemente, ad armi pari. Erano così tanti
i ragazzi che si scagliavano simultaneamente contro Abiti Delladomenica che lui, preso alla sprovvista, non riusciva a focalizzare i suoi colpi contro nessuno in particolare. Era come trovarsi circondato da un nugolo di api alte un metro e mezzo. L'unica cosa che riusciva a fare per difendersi era dimenarsi, agitare e sbattere le sue spire di qua e di là cercando di scrollarseli di dosso. Il problema era che per ognuno che cadeva ce n'erano altri quattro pronti a scagliarsi di nuovo addosso a lui. L'aria era colma di grida e di sangue. Quelli che venivano presi di mira e ghermiti non avevano scampo, ma gli assalitori erano così tanti che aveva ben poca importanza. Sessantadue ragazzi decisi a massacrarlo. Sessantadue ragazzi decisi a tutto. Haden era rimasto a guardare, di sasso, come quando un terribile incidente accade proprio davanti ai nostri occhi. Poi vide la maschera blu, in mezzo a quel turbinio di colori, perché la maggior parte dei ragazzi erano mascherati, e c'erano lampi di verde brillante, di giallo zafferano, d'argento... una girandola di tinte. Ma la maschera africana era di un blu talmente scintillante che quando cadde Simon se ne accorse immediatamente. Dopo di che vide Suzy Nichols sollevata e sventolata in aria come una bandierina al traguardo. L'Haden tredicenne che venerava Suzy Nichols e non aveva nessuna paura di quella creatura mostruosa si ridestò in lui e scattò in avanti per correre a salvarla. L'Haden quarantenne, terrorizzato da Abiti Delladomenica e da così tante altre cose, rimase impietrito. Sentiva quelle due identità lottare dentro di sé e tirarlo in due direzioni opposte. L'uomo sapeva tante cose. Il ragazzo non aveva paura. Sentendo la resistenza dell'adulto atterrito, il ragazzo uscì dall'uomo che sarebbe diventato un giorno e corse a salvare Suzy Nichols da solo. Ma naturalmente non era possibile. Aveva fatto soltanto un paio di passi che ogni energia si riversò fuori di lui come un fiotto di sangue da un'arteria recisa. Fu a malapena in grado di voltarsi verso Haden adulto e chiedergli con un filo di voce: «Aiutami!». L'uomo vide quel ragazzino coraggioso, stupendo e sciocco, correre in avanti. Ma quel ragazzino non era più lui, quelle qualità lo avevano abbandonato da tanto tempo ormai. Quanti anni erano passati da quando aveva mostrato una briciola di coraggio? Poi lo vide inciampare e chiedere il suo aiuto. Sapeva che doveva tentare
di salvarlo. Doveva provare a salvare quel cuore coraggioso e pieno di fiducia e speranza. Mentre cercava di immaginare come poteva, trasalì. Si era reso conto all'improvviso che quel ragazzino e Abiti Delladomenica erano lì, tutti e due, nello stesso momento. Aveva davanti a sé il proprio passato e l'incubo più recente. Haden si trovava, a quarant'anni, a un metro da una Suzy di tredici anni, dai suoi compagni di seconda media, e tutto il resto. Erano lì tutti insieme nello stesso momento. Haden adulto aveva sognato Abiti Delladomenica. Haden ragazzo aveva sognato quella scena imbarazzante davanti a Suzy Nichols. Ognuno dei due trovava l'incubo dell'altro ridicolo. Il ragazzo non aveva paura di Abiti Delladomenica, perché era un essere che spaventava solo gli adulti. E l'uomo pensava che sognare di trovarsi con l'uccello di fuori, con tanto di pappagallo appollaiato sopra, alla festa della scuola, era più assurdo che imbarazzante. «Il tempo non esiste. Sta accadendo tutto insieme nello stesso momento». Simon Haden aveva capito, alla fine, che nella Morte il tempo come lui l'aveva sempre conosciuto e vissuto non esisteva. Niente più inizio e fine e tutto quello che stava nel mezzo. C'era solo il momento presente, un presente che comprendeva ogni singolo secondo della sua vita passata. Tutti gli Haden che avevano vissuto da quando lui era nato - le loro esperienze, le loro conoscenze, i loro punti di forza e le loro debolezze - coesistevano. Senza esitare offrì al ragazzo tutto se stesso. Accettò di non esser più lui in possesso del momento presente e lo porse spontaneamente al ragazzo di tredici anni. Di colpo l'energia che l'aveva abbandonato rifluì in lui e il ragazzo si rialzò da terra, e dopo essersi voltato indietro per una frazione di secondo, corse a unirsi agli altri nella lotta contro Abiti Delladomenica. Quei ragazzini che non avevano nessun timore dell'incubo di Haden adulto non ci misero molto a finirlo. I grandi dimenticano cosa significhi non avere paura. Un mostro non è un mostro se non ti spaventa. Broximon e l'orso polare Bob erano seduti in uno snack bar con davanti due frappè alla fragola quando videro passare Haden. Fu Broximon il primo a vederlo e si sfilò lentamente la cannuccia di bocca. Bob vide lo sguardo di sorpresa sulla faccia del piccoletto (Brox era in piedi sul tavolo per riuscire a bere da quel bicchiere più grande di lui e guardare l'orso in faccia mentre parlavano).
«Cosa c'è?». «Guarda fuori», gli disse Broximon indicando la strada con la testa. Bob guardò e vide passare Haden con l'espressione di uno che ha appena vinto alla lotteria. Entrambi lo osservarono senza dire una parola. «Che rapidità». «Te l'avevo detto che non è poi così tonto». «Sì, ma dai, Brox, una velocità simile... Non è che...». «A volte succede, Bob», disse Broximon, e aggiunse, facendo schioccare le dita: «... Così, in un attimo!». «Da quel che ne so io di Simon Haden, bambino e adulto, non è uno da "un attimo". È più facile che abbia bisogno di una cartina per trovarsi i lacci delle scarpe. Quanti anni aveva adesso? Non saprei proprio». Broximon sorrise: «Neanch'io, ma non mi sorprende. Starà probabilmente provando tutte le diverse età, come se fossero dei vestiti in un armadio. Scegli e indossa». Guardarono entrambi la strada deserta. Passò una macchina tondeggiante, da cartone animato, con delle gomme nere grosse grosse, avrebbe potuto disegnarla Robert Crumb. Era piena di palme che uscivano da tutti i finestrini. Bob scrollò la testa. «Devono averlo aiutato. Simon non può averlo scoperto da solo così rapidamente: è troppo difficile. Hanno bisogno di lui e perciò hanno organizzato le cose in modo che capisse. È l'unica spiegazione, non avrebbe potuto mai farcela così in fretta, altrimenti». Broximon conosceva Bob da anni. Erano comparsi insieme in un sogno di Haden quando aveva trentotto anni. Erano sempre andati d'accordo. Broximon sentiva che si poteva fidare di quell'orso. «Bob, so che non si dovrebbero fare queste domande, ma io te lo chiedo lo stesso perché sono stufo marcio di rimanere all'oscuro di tutto. Tu lo sai cosa sta succedendo? Perché io non ne ho idea. So a malapena tanto così», e gli indicò uno spazio di non più di un paio di centimetri. Bob rispose senza alcuna esitazione. «Il Caos è diventato cosciente. Ha imparato a pensare e sa quello che vuole. Adesso sta cercando di prendere in mano la situazione». Sollevò il bicchiere e ci guardò dentro, pensando a quello che stava per dire. «Prima, il Caos esisteva soltanto, come una pietra o un'onda. Ma a un certo punto si è ritrovato con un cervello e ha imparato a usarlo. E adesso vuole comandare lui». «E questo?». Broximon indicò il mondo che avevano intorno. «Non è il Caos, questo? Io e te che beviamo un frappè alla fragola e facciamo questi
discorsi e una macchina piena zeppa di palme». «No, questa è l'immaginazione, non il Caos. L'immaginazione umana può essere caotica, ma l'uomo è, per lo più, l'unica prova costante dell'esistenza di Dio. Se il Caos vince e ottiene il comando, io e te scompariremo. Questo è garantito. Simon e la sua immaginazione, che ci ha creato, saranno risucchiati in un gorgo e triturati insieme a tutto il resto che vi finirà dentro. Hai visto cosa rimane di una città dopo il passaggio di un tornado, vero?». Broximon era sconcertato ma non troppo sorpreso. Aveva afferrato qualche segnale e collegato alcune cose che aveva sentito, eventi recenti che puntavano tutti in quella direzione, ma la spiegazione di Bob gli permise di mettere brutalmente a fuoco quella faccenda entro una spessa cornice scura di terrore. «Cosa si sta facendo per fermarlo? Ma è possibile fermarlo poi?». Mentre pronunciava quelle parole, Broximon sentì che la sua voce si era fatta lamentosa. Sembrava quella di un bambino spaventato che chiede ai genitori di rassicurarlo. «C'è una donna di nome Isabelle Neukor...». «Conosco Isabelle. L'ho incontrata. Mi hanno detto di tenerla lontana da Haden perché deve essere lui a trovarla. Tutto qua. Mi hanno detto solo questo». «Allora sai anche che è incinta. Pensano che il suo bambino possa essere in grado di combattere il Caos se verrà educato nel modo giusto». «È figlio di Haden? Questo non me l'avevano detto». «No, è il figlio di un altro. Il padre è morto, ma è stato riportato in vita per aiutare il bambino». Broximon si portò una mano sulla bocca incredulo. «Cosa? Ma questo va contro tutte le regole». Bob sorrise un istante. «Non esistono più regole. Soltanto la sopravvivenza del più forte, niente più regole, di nessun genere. Il Caos ha provocato ciò. Ecco perché ti dico queste cose, non avrei mai potuto farlo, prima. Sai come funzionavano le cose. Ma adesso è saltato tutto, perciò qualsiasi genere di aiuto ben venga». Broximon agitò l'indice come un tergicristallo. «D'accordo, da una parte abbiamo Haden e dall'altra Isabelle, incinta. Ma qual è il loro rapporto?». «Simon ha sognato spesso Isabelle quando era vivo, perciò il Caos continua a portarla qui, nel mondo dei suoi sogni. E sta cercando di trovare un modo per farla rimanere a partorire qui».
«Bob, questo non è possibile. Non può nascere nessuno qui, questa è la Morte. Il bambino nascerebbe morto». «È esattamente quel che vuole il Caos». «Ah! E Haden cosa c'entra in tutto questo?». «Questo mondo l'ha creato lui. È l'unico che può tenerla lontana». Una tromba di carta Nessuno di quelli che lo conoscevano adesso sapeva che John Flannery era stato fino a poco tempo prima uno degli uomini più ricchi d'America. Era necessario fare molta attenzione se si volevano scorgere le tracce di quella ricchezza, ma alcune c'erano. Portava al polso un orologio George Daniels dall'aspetto piuttosto ordinario, che era costato centoventottomila euro a un'asta di Christie's. Un libretto della Creditanstalt, fissato con del nastro autoadesivo sul fondo del cassetto di un armadio, indicava un saldo di 839.133 euro. Il suo cane aveva un occhio di vetro, o meglio, il prodotto di un'impresa di bioingegneria americana di grande precisione, assolutamente unico nel suo genere. Flannery era un cuoco eccezionale che una volta aveva preparato una cena molto semplice per Flora usando ingredienti assurdamente costosi. Flora non l'aveva capito: si era limitata a commentare che era tutto buono quasi quanto una bella scopata. Flannery aveva servito gli avanzi freddi a Leni il giorno seguente. Si divertiva a fare cose del genere, a solleticare il naso della gente con una piuma segreta della cui esistenza era l'unico ad essere al corrente. Una volta, dopo aver fatto l'amore, Leni aveva preso il suo orologio dal comodino e l'aveva osservato bene per la prima volta. Lui aveva visto l'ammirazione crescere nei suoi occhi: ne era stato felice. Non era una totale perdita di tempo, in fondo. «È un bellissimo orologio, John. Davvero molto bello». «Grazie. Era di mio padre». Gliel'aveva preso gentilmente di mano. Non voleva che notasse e si ricordasse la marca. Se si fosse incuriosita, le bastava andare a vedere il nome della marca su Internet e avrebbe scoperto un paio di cosette che le avrebbero fatto aprire gli occhi riguardo agli orologi Daniels, e non da ultimo su quanto costavano. E allora Flannery avrebbe avuto delle serie difficoltà a spiegarle come potesse possedere uno degli orologi più preziosi al mondo. Per quanto gli esseri umani possano essere stupidi, dettagli simili dovevano essere trattati con la massima attenzione. Se l'era rimesso al polso e l'aveva guardato con affetto. Sapeva
cosa dirle per distrarla. «Ti ho mai parlato di mio padre?». Gli occhi di lei erano immediatamente risaliti dal polso al suo viso. Non le aveva mai detto nulla della sua famiglia. Era la prima volta. Più che incuriosita, rispose: «No, mai. Raccontami». Aprendo quel giorno la porta del proprio appartamento, Flannery la chiamò e rimase un po' stupito di non sentirla rispondere. Non c'era? Guardò l'orologio: erano passate due ore da quando avevano parlato al telefono e deciso di vedersi lì dopo un'ora. Mah. Leni non era mai in ritardo. Doveva essere successo qualcosa. Leni era la classica brava ragazza. Sarebbe senz'altro apparsa alla porta con una scusa tra le mani come un tremante bouquet, o lo avrebbe chiamato appena poteva per spiegargli il motivo del ritardo. Nel frattempo decise di festeggiare la sua macchina nuova con due dita di whiskey. Aveva ordinato una Porsche Cayenne proprio poco tempo prima che dal Caos gli fosse affidato il compito di occuparsi di Vincent e Isabelle. Era una delle poche cose per cui gli era dispiaciuto lasciare l'incarico precedente. L'immensa quantità di denaro e di potere che aveva abbandonato non contava gran che per lui. Ma gli sarebbe piaciuto vedere come la Porsche se la sarebbe cavata con la sua prima 4x4 prodotta e si era rammaricato un po' di aver perso quell'occasione. Ma adesso l'avrebbe scoperto. Il colore non era stato una gran bella scelta, quel verde celadon lo faceva rabbrividire, se ci ripensava. Ma la macchina era nuova e non l'avrebbe usata per molto, comunque. Stava pensando alla sua Porsche e a un buon bicchiere di whiskey quando vide Leni seduta in cucina. Lo stava fissando. Luba, l'alano di Flannery, dormiva ai suoi piedi. «Ehi, ciao. Com'è che non mi hai risposto quando ti ho chiamato?». Flannery si diresse verso il mobile bar dove lo aspettava una bottiglia di Glenlivet del 1967 ancora da aprire. Era quasi arrivato quando si rese conto che Leni non aveva ancora aperto bocca. «Cosa c'è?». Leni sollevò una mano dal tavolo. Sotto, c'era un modellino giocattolo della macchina che John Flannery aveva appena rubato. Di una decina di centimetri, verde celadon. Quel colore, più della macchinina, gli fece comprendere cosa stava succedendo. Il Caos era lì, in una nuova forma. Senza accorgersene, chissà quando, chissà come, Flannery aveva commesso un grave errore e il Caos era venuto a risistemare le cose. O peggio. Cadde in ginocchio e distese le braccia davanti a sé, prostrandosi di fronte a quella copia perfetta di Leni Salomon.
Non aveva paura, perché la paura è una combinazione di ciò che è e ciò che potrebbe essere. Il Caos invece non è una combinazione di nulla: semplicemente è. Flannery era soltanto in collera con se stesso per aver fatto inconsciamente un passo falso. Di solito era così in gamba, nel suo lavoro, come dimostravano le lodi che aveva spesso ricevuto. Quando Leni, quella vera, pensò di avere aspettato abbastanza, aprì la porta del bagno il più silenziosamente possibile, tutta eccitata di essere riuscita a fargli una sorpresa. Aveva sentito John entrare e chiamarla. Si era coperta la bocca con entrambe le mani e aveva ridacchiato come una bimba. Indossava una candida sottoveste di cotone appena comprata, con niente sotto. John aveva spesso scherzato, dicendo che magari un giorno gli avrebbe aperto la porta con nient'altro che un drink in mano. Be', oggi quella sua fantasia stava per realizzarsi. Aveva impiegato più tempo di quanto non avesse pensato per comprare quella sottoveste, perché la commessa di Hanro continuava a mostrargliene una più bella e più sexy dell'altra, ed era stato così difficile decidere. Alla fine il bianco aveva avuto la meglio sul nero, ma era un bianco erotico, quasi del tutto trasparente. Se si fosse voluto dare un nome a quel colore, si sarebbe dovuto chiamarlo «Bianco a-chivuoi-darla-a-bere». A Leni stavano per venire le mestruazioni e il suo seno, così gonfio e pieno, era bellissimo sotto il velo bianco della sottoveste. Era rimasta male all'inizio, quando era arrivata e non aveva trovato John in casa. Ma poi aveva pensato che era meglio, perché così avrebbe avuto il tempo di prepararsi. Se Flannery arrivava prima, be', voleva dire che avrebbe aspettato un po'. Ne sarebbe valsa la pena. Leni aveva voglia di divorarselo, oggi. Era andata in bagno e si era spogliata. Si era guardata allo specchio, nuda, fingendo di fare un fischio di apprezzamento alla sua immagine. Dopo di che aveva passato una mano sulle boccette d'acqua di colonia di John sulla mensola sopra il lavandino, chiedendosi se doveva usarne una. Ma lui gli aveva detto spesso che amava l'odore del suo corpo, che lo eccitava. Le aveva chiesto di non usare nessun deodorante e di non fare il bagno prima di andare da lui. Voglio sentire te, la tua pelle, non Éstée Lauder. Da principio Leni si era sentita a disagio, imbarazzata, ma poi, col tempo, quel pensiero era diventato straordinariamente seducente. L'aveva fatta sentire segretamente perversa, ed estremamente più femminile e sensuale. Qualche volta, quando erano a letto insieme, lui la leccava dal fianco fino all'a-
scella. Lì si fermava e lei lo sentiva riempirsi le narici del suo odore. In quel momento, sulla soglia della cucina, pronta a darsi totalmente a lui, Leni vide John, di spalle, con il volto a terra, in posizione adorante davanti a... lei. Un'altra Leni Salomon, identica, era seduta al tavolo della cucina con gli stessi vestiti che aveva avuto indosso lei sino a qualche minuto prima. Adesso che era capace di pensiero, al Caos piaceva sentirsi brillante e spiritoso. Di solito visitava John Flannery nella forma che gli era propria, ma quel giorno aveva deciso di fare qualcosa di diverso e divertente. Flannery si sbatteva quella zoppa? Be', oggi la zoppa l'avrebbe sbattuto un po'. Così era andato in cerca di Leni e l'aveva trovata nel negozio di biancheria intima. Aveva osservato la sua confusione mentre cercava di decidere quale sottoveste comprare. Con quell'impressione fresca in mente, era andato nell'appartamento di Flannery e aveva ricreato la Leni Salomon che aveva spiato. Entrando in cucina John aveva visto il Caos vivere nel corpo della sua amante e senza esitare era caduto in ginocchio davanti al suo creatore. Ma aveva commesso un errore, il Caos: negli esseri umani riconosceva solo se stesso, trascurava tutte le altre qualità perché gli sembravano inutili o imperfette. Comprendeva il caos dell'amore, ma non il legame che quel sentimento era capace di creare; l'anarchia dell'arte, ma non l'armonia o la comunicazione che potevano scaturire da un'opera. Sapeva di essere cieco di fronte ad alcune qualità umane, ma non se ne preoccupava. Non le poteva vedere perché erano fuori dalle sue capacità di percezione. Come certi fischi acuti che soltanto i cani sono in grado di udire. Ecco perché, di tanto in tanto, creava qualcuno come John Flannery e lo inviava nel mondo per un po'. C'erano, è vero, delle missioni, dei compiti che dovevano essere affidati ad esseri umani reali, viventi. "Cose umane" che potevano essere eseguite soltanto da creature umane. Ecco l'ironia: Leni, nelle situazioni di crisi, era grandiosa. Flora diceva spesso scherzando che l'avrebbe voluta vicina se fosse scoppiata la terza guerra mondiale. Perché Leni sarebbe rimasta calmissima e avrebbe saputo esattamente cosa fare mentre la terra le si squagliava sotto i piedi. Guardando in cucina e vedendo Flannery inginocchiato davanti a una perfetta copia di se stessa, si disse: è uno scherzo, John ha messo in scena tutto per farmi schizzare di testa. L'altra Leni iniziò a parlare. Quella donna, quella truffatrice che indossava gli stessi vestiti che lei si era tolta e aveva appeso alla porta del bagno
poco prima si rivolse a Flannery. Era impossibile capire cosa stesse dicendo. Leni non aveva mai sentito nulla di simile alla lingua di quella sua sosia: un flusso rapido e arcano di suoni stridenti e dissonanti, ma anche acuti e melodiosi che assomigliavano al canto di un uccello, in cui era racchiusa una musica, ma una musica cacofonica. Piacevole, ma stonata, come se fosse prodotta da strumenti falsi, come una tromba di carta o un violino di stoffa. John replicò nella stessa lingua. Dopo la sua risposta, prolungata, prese il via un rapido botta e risposta tra i due. Stavano discutendo. Nel bel mezzo di quella loro conversazione, l'altra donna s'interruppe bruscamente e guardò dritto verso Leni. Ma non la vide, perché a differenza di quando l'aveva incontrata poche ore prima, non c'era un solo granello di Caos in lei in quel momento. Era immobile, composta. Aveva davanti una scena bizzarra che coinvolgeva John. Nient'altro. Come al solito, in qualsiasi situazione di difficoltà, non permetteva alla mente di andare oltre i fatti. La sua sosia smise di guardarla e riprese a parlare con John in quel loro folle linguaggio. Leni fece lentamente due passi all'indietro con una mano dietro la schiena per non inciampare in qualcosa. Era nuda sotto la sottoveste e aveva ai piedi un paio di semplici ciabatte rosse di gomma che teneva nell'appartamento di John. Che felicità il giorno che aveva comprato quelle ciabattine pensando a cosa le sarebbero servite! Com'era stato eccitante, più tardi, dire a John che le lasciava da lui perché sarebbe stato più comodo. Ma sapevano entrambi che non era quello il punto. Quelle ciabatte di gomma erano il suo modo di dirgli che voleva entrare in qualche modo nella sua casa e nella sua vita, e John non aveva trovato nulla da ridire. Ora le stava voltando le spalle, rivolgendo tutta la sua attenzione a quell'altra donna. Leni sapeva che se John si fosse accorto della sua presenza, lei era perduta. Doveva arrivare alla porta, aprirla senza fare rumore e correre via. Arretrò pian piano, con grande attenzione e il più silenziosamente possibile. Ma la sua gamba più corta continuava a farle rischiare di perdere l'equilibrio. Era la sua peggiore nemica in quel momento, confondeva ogni suo passo. Per anni l'aveva considerata una sorella più lenta, che le stava sempre appiccicata dietro e rovinava o rompeva tutto quello che toccava. Una compagna di cui non poteva liberarsi e che esigeva di continuo la sua attenzione dandole in cambio soltanto fastidi e occasioni d'imbarazzo. La odiava, e odiava se stessa per non essere mai riuscita a crescere abbastanza da ignorare quel freno alla sua anima.
Se John e l'altra donna parlavano, era più facile avvicinarsi alla porta. Leni non poteva muoversi in perfetto silenzio: sarebbe stato impossibile a chiunque. Ma il rumore della loro conversazione poteva coprire un po' il suo. Lanciò un'occhiata alle sue spalle ed esultò vedendo quanto fosse vicina la porta. Qualcosa che John aveva detto parve irritare la donna, la cui voce assunse toni aspri di rimprovero mentre volavano parole dallo strano suono. Flannery alzò la testa per la prima volta, ma la donna strillò e lui la riabbassò immediatamente. Cosa gli stava dicendo? E come faceva, John, a capirla? Chi era quella truffatrice? E chi era l'uomo davanti a lei? A un passo dalla porta, a un passo ormai dalla libertà, il cuore e la mente di Leni inciamparono in quel pensiero, in quella domanda: chi è John? Che cosa sta succedendo, perché è tutto così diverso dal solito? Amore, passione, ma in quel momento anche la confusione che provava pensando a Flannery affiorarono dentro di lei e traboccarono da ogni argine. Non c'era nulla che potesse fare per impedirlo, anche se sapeva che avrebbe dovuto soltanto scappare. Il cane aprì gli occhi. Sollevò il testone e non si volse verso la donna seduta lì accanto. Né verso John Flannery. Aprì gli occhi e puntò lo sguardo su Leni. Nella sua borsetta rimasta per terra, in bagno, c'erano dei bocconcini per Luba. Quando andava lì, Leni le portava sempre qualcosa da mangiare, o un giochino. Una delle cose che le piaceva di più fare insieme a John era accompagnarlo quando portava a passeggio il suo cane lungo il canale del Danubio. A causa della gamba di Leni, non potevano mai fare molta strada, ma l'alano sembrava più che felice di mettersi giù tranquillo ai loro piedi quando si sedevano su una panchina, e tutti e tre si mettevano a osservare il fiume e il mondo che passava loro accanto. «Ti fa ancora male la gamba?». Leni si bloccò impietrita. Non riconobbe subito quella voce, anche se era chiaro che si stava rivolgendo a lei. Non era la voce di John né quella dell'altra donna. Le era tuttavia molto familiare, quella voce aveva un posto nella sua memoria, anche se non la sentiva più da tanto tempo. Si voltò nello stesso istante in cui una mano le toccò la spalla, facendola trasalire. E vide suo padre, con l'amato berretto da baseball dei Brooklyn Dodgers, la camicia da lavoro e un paio di pantaloni militari sbiaditi. Erano i vestiti che indossava appena tornava dall'ufficio, gli stessi in cui era stato sepolto quattro anni prima, quando era morto.
«Papà?». Era così reale, così vero, lì accanto a lei, che Leni dimenticò dov'era e la situazione critica in cui si trovava. Ma in quel momento Leni era già morta da due minuti. L'incontro con suo padre aveva segnato l'inizio della sua vita nell'aldilà. Com'era successo? Era stata uccisa da Flannery, o dall'alano, o dall'altra Leni Salomon? Chi fosse responsabile dell'atto pratico non ha in fondo molta importanza. Nel momento stesso in cui il cane aveva aperto gli occhi e l'aveva vista, confusa dal suo grande amore per John, Leni era stata assassinata prima ancora di avere la possibilità di spaventarsi. Fu ritrovata esanime su una panchina lungo il Danubio. Secondo la polizia, aveva avuto un aneurisma cerebrale ed era morta sul colpo. Le era scoppiato il cervello. L'orologio di Isabelle si fermò nel bel mezzo del funerale di Leni. Aveva abbassato lo sguardo sul proprio polso perché non poteva guardare davanti a sé un istante di più. Lì davanti a lei c'era la bara di Leni Salomon, pronta ad essere calata nella fossa in cui sarebbe stata sepolta per sempre. Era un pensiero già intollerabile di per sé, la sua conferma visiva, poi, era davvero troppo. Isabelle non ce la faceva proprio a guardare quella cassa di legno ambrato e pensare cosa conteneva. Al suo fianco, da una parte c'era Vincent e dall'altra Flora, che non aveva mai smesso di tenerle la mano per tutta la cerimonia. Stranamente nessuna delle due aveva pianto. Vincent se n'era accorto, ma non aveva nessuna intenzione di chiedere perché. Sapeva quanto adoravano la loro amica. Se il dolore che provavano era muto, lui non aveva certo nulla da ridire. Vincent sapeva che, ovunque fosse Leni in quel momento, non stava soffrendo. Come quando si viene colpiti da amnesia e lentamente si riacquista la memoria dopo una traumatica botta in testa, anche Ettrich stava cominciando a ricordare frammenti della sua esperienza dopo la morte. Come aveva detto a Isabelle, la maggior parte di quei ricordi gli si presentavano come brutte fotografie, indistinte e sfuocate, che lui si limitava a osservare rigirandole da una parte e dall'altra sconcertato, chiedendosi cosa fossero, cosa significassero, dove fossero state scattate. Ma alcune erano nitide e chiare. Ettrich aveva cominciato a tenere un piccolo taccuino in tasca, in cui annotava tutto quello che gli sembrava importante di quei ricordi, accanto alle associazioni tra quei brandelli di memoria e le sue sensazioni e intuizioni. Non si era ancora reso conto che una frazione della sua mente ora fun-
zionava anni luce più velocemente del resto, accelerata ancora di più dal contatto fisico con Isabelle. Quella parte di lui aveva riconosciuto alcuni dettagli importanti in quelle "foto" e aveva fatto i collegamenti necessari. Era una facoltà di percezione superiore che viaggiava molto più veloce della sua mente cosciente, vedeva, analizzava e schedava tutta una serie di cose che lui aveva inconsapevolmente portato con sé dalla Morte. Ma in quel momento non era ancora in grado di aiutarlo, perché lui stava appena cominciando a riconoscerla e a decifrare i suoi messaggi. Sulla prima pagina del taccuino, ad esempio, in mezzo a un'accozzaglia di schegge di ricordi, liste di parole e scarabocchi nati da chissà quali associazioni mentali, aveva scritto "Flannery", un nome spuntato dal nulla. Ma aveva creduto che si riferisse a Flannery O'Connor, un'autrice di racconti che aveva amato molto quand'era studente. Sulla settima pagina del taccuino, in un angolo, aveva disegnato una splendida vignetta di un alano. Quel settore superpotenziato della sua mente sapeva che lui e Isabelle erano in pericolo, e anche da dove proveniva quel pericolo, ma malgrado la sua perspicacia e la sua gamma di conoscenze, non aveva alcun modo di avvisarlo. Ettrich non era nella Morte, dove Broximon o l'orso Bob avrebbero potuto infrangere qualche regola per venire in suo aiuto. Ettrich era di nuovo vivo e doveva fare le sue scoperte da solo. Fu comunque il primo a vedere John Flannery al funerale quel giorno, nel cimitero di Weidling, un paesino a circa otto chilometri da Vienna. Il cimitero, immerso nel verde e gremito di tombe, si trovava al limitare del villaggio, lungo una stradina tortuosa che portava al Wienerwald. La famiglia di Leni vi possedeva un piccolo lotto. Le auto erano parcheggiate alla rinfusa su e giù lungo la strada, perché il cimitero non aveva parcheggio. Di conseguenza, Ettrich aveva trovato posto piuttosto lontano. Lui e Isabelle avevano dovuto farsi un bel pezzo a piedi prima di raggiungere il cimitero ed erano arrivati giusto in tempo per l'inizio della cerimonia. Lungo la strada erano passati accanto a una Porsche Cayenne verde celadon. Vincent aveva riconosciuto il colore e aveva sorriso. Stava per mostrarla a Isabelle ma poi, ricordando la solennità del momento, non aveva detto nulla. Si era girato due volte per guardare la macchina, però, mentre proseguivano, pronunciando «celadon» tra sé. A Ettrich non era mai piaciuta Leni Salomon, e viceversa. Perciò si sentiva vagamente in colpa per il fatto di recarsi al suo funerale senza provare nulla di più della tristezza convenzionale che si sente per qualcuno che muore all'improvviso e troppo presto. Leni era sempre stata brusca e di-
staccata con lui, sin da quando si erano conosciuti. La prima volta che si erano incontrati, l'aveva sentita emanare folate di disapprovazione, come quelle gelide che qualcuno appena rientrato da una fredda giornata di febbraio diffonde intorno a sé. Tra loro le cose non erano mai migliorate. Sapeva che lei era al corrente della sua relazione con Flora e che Flora l'aveva presentato a Isabelle. Trovava sgradevole quel suo passare da una all'altra delle sue migliori amiche? Oppure Flora le aveva parlato male di lui quando la loro storia era finita? O c'era qualche altra ragione per cui Leni non aveva mai cercato di nascondere la propria avversione per lui? Mentre scendeva giù per la collinetta che portava al cimitero in compagnia di Isabelle, Ettrich ricordò una sera d'estate in cui erano andati con un gruppo di amici in un Heurigen9 di Sievering a bere vino novello e mangiare del delizioso pollo fritto. Era stata una bella serata e il vino aveva regalato a tutti allegria a piene mani. A un certo punto Ettrich si era trovato seduto accanto a Leni. Era nata una vivace e interessante conversazione sui loro libri preferiti. Era la prima volta che lei gli mostrava qualcosa di più di un educato accenno d'interesse. A un tratto Vincent le aveva sfiorato il gomito con due dita per sottolineare quello che stava dicendo. Quel contatto aveva spinto Leni a ritirare il braccio di scatto, con una tale espressione di ostilità che Vincent era rimasto attonito e profondamente ferito. Da allora non avevano più avuto occasione di chiacchierare. Ettrich aveva spesso sentito Isabelle parlare di Leni e della sua vita con grande amore e rispetto, aveva sempre ascoltato quei racconti e aneddoti con la massima neutralità possibile, pur continuando a non avere una grande opinione di quella donna zoppa tanto graziosa. Attraversarono il cimitero in direzione di un gruppetto piuttosto folto di gente che si era raccolto sulla soglia di una piccola cappella con la porta aperta. Flora emerse dalla folla e venne incontro a Isabelle per stringerla in un lungo abbraccio a occhi chiusi. Ettrich si sentì in imbarazzo, quasi di troppo in quel momento così emotivamente intenso per entrambe. Non sapeva bene cosa fare né cosa dire. Lui e Flora si erano rappacificati da molto tempo ormai, per quanto gli fosse capitato spesso di vedere il viso di lei irrigidirsi e adottare un sorriso ipocrita da politicante quando si incontravano. Così preferì lasciarle sole affinché potessero parlare e consolarsi a vicenda. Si allontanò lentamente, tenendo d'occhio Isabelle per assicurarsi che non preferisse che lui le restasse vicino. Si scostò un po' dal gruppo, rimanendo pur sempre abbastanza vicino da mostrare di essere venuto per
la cerimonia. Vide Isabelle e Flora avvicinarsi alla bara tenendosi per mano e chinarsi a baciarla una dopo l'altra. Per quanto fossero circondate di gente, Ettrich ebbe la sensazione che in quel momento ci fossero soltanto le tre amiche che chiacchieravano per l'ultima volta. Persino da quella distanza aveva la sensazione di starsene a origliare. Si voltò a guardare il cimitero. Mentre il suo sguardo correva tra le lapidi, una lo spinse a strizzare gli occhi e protendersi in avanti per vedere meglio. Quando fu sicuro di avere letto bene, si avvicinò alla tomba e la guardò con un misto di tristezza e ammirazione. Era la tomba di Arlen Ford, l'attrice americana. Quando erano ancora in macchina, Isabelle gli aveva accennato che era stata sepolta lì. Ettrich non sapeva che fosse morta. Lo assalì un'ondata di nostalgia mentre passava rapidamente in rassegna i suoi film e ricordava quanto gli erano piaciuti. Avevano persino usato la sua macchina in uno dei film di Arlen Ford, una volta. Sulla lapide, sotto la data di nascita e di morte, c'era una frase in inglese. Ettrich la lesse una paio di volte, gli piaceva, anche se non aveva idea di cosa significasse. Ti preparerò una zuppa e ti terrò la mano Immaginò che fosse una citazione da uno dei suoi film. Con un sospiro alzò lo sguardo verso il sentiero e la strada. C'era un uomo fermo fuori del cimitero, un uomo con la barba, piuttosto grosso. No, più che grosso, grasso. No, neanche grasso. Era difficile dire da quella distanza. Sembrava che lo stesse guardando e sorridesse. Che strano. Indossava un abito nero e una camicia bianca da cerimonia, senza cravatta. Si sarebbe detto che era venuto anche lui per il funerale, ma non si stava avvicinando: continuava a rimanere fermo e sorridere. Sembrava che stesse aspettando qualcosa. Forse era l'autista di qualcuno. Sì, già, proprio così. Forse era un autista. Comunque, non era educato rimanere lì a fissarlo, e per di più non ce n'era ragione. Ettrich si girò e tornò al funerale. Vedendolo voltarsi, John Flannery si adombrò. Era sinceramente deluso che Vincent Ettrich non avesse fatto qualcosa, qualsiasi cosa, per segnalare un certo disagio, o di averlo riconosciuto. Sperava in un brivido più concreto e delizioso da quel loro primo faccia a faccia. Invece si era tutto risolto con un paio di lunghe occhiate, dopo di che Ettrich s'era semplicemente allontanato. Che razza di confronto del cavolo era mai quello? Alzò le spalle e, infilando una mano in tasca, tirò fuori un panino con della car-
ne di cavallo, che addentò con soddisfazione mentre assisteva all'inizio del funerale della donna che era stata la sua amante. Gli piaceva il sapore della carne equina, un gusto che aveva imparato a conoscere da quando era a Vienna. Era dolciastra, pungente e vagamente nauseante. Sapendo quanto Leni amasse i cavalli, una volta per cena le aveva preparato un piatto che aveva come ingrediente principale un grosso filetto di carne equina. Lei aveva mangiato a quattro palmenti e si era persino servita una seconda porzione senza che le passasse neanche per la testa di chiedergli che carne fosse. Flannery si era divertito spesso in quel modo con lei. La induceva a raccontargli i suoi segreti, i suoi sogni, le sue paure. E poi, a sua insaputa, prendeva quelle confidenze intime e fragili che lei gli aveva donato e gliele infilava su per il culo nei modi più originali e furtivi. L'avrebbe fatto anche con Flora, se avesse potuto, ma quella vacca sembrava non avere altro desiderio che di scopare. Gli piaceva una punta di senape dolce Kremser sul suo Pferde Leberka10 se : un buon panino fresco, un po' di senape saporita e una bella fetta di fegato di cavallo. Quando ebbe finito il panino, dopo essersi leccato le dita lucide, entrò nel cimitero e si diresse verso il funerale. Sapeva che ci sarebbe stato anche il marito di Flora. Ma voleva lo stesso che lei vedesse che era venuto anche lui, o meglio Kyle Pegg, perché fosse commossa dal sostegno che le offriva in quel momento di difficoltà e di dolore. Gliel'aveva detto Leni: Flora Vaughn non dava il meglio di sé nelle situazioni di crisi emotiva. Rischiava di crollare, di perdere la testa. Era stata un'informazione utile. E viceversa, naturalmente: da Flora aveva scoperto diverse cosette interessanti riguardo a Leni. E soprattutto entrambe gli avevano parlato di Isabelle Neukor e Vincent Ettrich, che era l'unica cosa che importava davvero, in fondo. Flannery amava i cimiteri. Gli piacevano l'ordine e la bellezza artificiale che vi regnavano, perché sapeva che nascevano dal timore, dalla paura. Non certo dall'amore della gente per i propri defunti. Per lui i cimiteri non erano altro che inutili e patetici reliquiari che gli esseri umani cercavano di erigere per allontanare lo spauracchio della morte. Come se fosse possibile. Viene anche per te, bello mio, ci puoi mettere tutte le calle che vuoi sulla tomba della tua mammina questa volta, la prossima, e tutte quelle che verranno. Non era esattamente della morte che la gente aveva paura, tuttavia, ma piuttosto dell'inimmaginabile caos che essa portava con sé. Flannery percepiva quella paura, quel desiderio di ordine inviolato e soprattutto la di-
sperazione che la gente portava con sé ogni volta che entrava in un cimitero: era come se riuscisse a sentirne l'odore. Ogni volta la stessa scena: prima posavano le loro ghirlande o mazzi di fiori sulla tomba, pensavano un po' al paparino morto, versavano qualche lacrimuccia, e poi aveva inizio la parte più interessante. Un giorno finirò anch'io in un posto come questo. Si guardavano intorno, osservando il luogo tranquillo che li circondava come se fosse la prima volta che lo vedevano, cercando d'immaginarsi quel giorno funesto, sapendo perfettamente che l'unica cosa di cui potevano essere certi era che da morti non era in un cimitero che si sarebbero ritrovati. Dopo di che arrivavano inevitabili e prevedibilissime domande del genere: come sarà la morte? E se finiremo preda di un caos agghiacciante? E se esistesse davvero l'inferno? Tutti quei deliziosi cliché senza fine che li mettevano in fibrillazione o li facevano piombare in una tale depressione che, anche se erano arrivati da pochissimo, scappavano via a gambe levate per rifugiarsi a casa. Soprattutto i vecchi. Erano loro i più spassosi. Mentre si avvicinava alla cappella, Flannery cercò di vedere se ci fossero delle vecchiette, perché offrivano invariabilmente lo spettacolo più bello di ogni funerale. Non manca molto, eh, nonnina? Stai davvero piangendo per il povero defunto o per la tua misera esistenza sprecata, passata così tristemente inosservata, alla cui conclusione mancano ormai neanche cinque minuti? Hai la prova davanti agli occhi, bellezza. C'è poco da carpe diem quando fai fatica a sapere se domani sarai ancora su questa terra oppure no. I vecchi di solito piangevano amaramente o mantenevano un'espressione assolutamente impassibile mentre il sacerdote parlava del mondo a venire. E lui poi, che cosa ne sapeva? Era forse morto e tornato in vita per offrire alla folla il racconto di quello che aveva veduto nell'aldilà? Mentre la sua mente formulava quel pensiero, scorse Ettrich e Flora al fianco di Isabelle. Erano entrambe particolarmente belle quel giorno. Era proprio vero che il nero dona alla figura femminile. Flannery le squadrò dalla testa ai piedi con lasciva concupiscenza. Flora aveva il seno più bello, ma Isabelle aveva quelle gambe lunghe e affusolate che lui adorava in una donna. Si domandò come fosse Isabelle a letto. Sarebbe stato tutto facile se avesse potuto semplicemente ammazzare lei e il suo compagno e tornarsene a casa. Purtroppo, però, lei aspettava un bambino, un bambino spaventosamente pericoloso, ed Ettrich era il padre. E in più, a differenza di quel prete che continuava a blaterare dell'aldilà, Ettrich aveva davvero fatto ritorno dalla Morte, il che bastava a renderlo alquanto temibile.
No, Flannery non li poteva ammazzare. Ma poteva travolgerne la vita con una tale valanga di disperazione che Isabelle sarebbe uscita di testa. E per abbandonare quell'esistenza miserabile, sarebbe fuggita nell'altro mondo senza alcuna esitazione. Questo era il suo piano: il pensiero lo rallegrò. Gonfiò il petto e si diresse verso la cappella. Guardando Flora, pensò alla loro relazione e a come si erano incontrati la prima volta. O meglio, al modo in cui aveva fatto in modo che si incontrassero. Come molte donne ricche che non hanno niente di meglio da fare, Flora Vaughn si considerava dotata di grande spiritualità. Da principio aveva cercato di leggere Thomas Merton, P.D. Ouspensky e Krishnamurti, ma la sua ridotta capacità di attenzione, distratta com'era da qualsiasi cosa, glieli aveva fatti trovare troppo densi e complessi. Così era passata a libri e pensieri più accessibili, blandamente ispiratori e allo stesso tempo più appaganti: tipica spazzatura New Age, quei libri di autoperfezionamento che ti raccontano che sei comunque una persona meravigliosa, non importa se pensi di essere una merdaccia. E la sai una cosa? Puoi persino migliorare, se farai quello che ti dico. Si erano conosciuti a un incontro con Rick Chaeff, l'autore del bestseller Al largo, che era venuto in Europa per un tour promozionale del suo libro. Flora era arrivata con un po' di anticipo, perché voleva trovare un buon posto per assistere all'incontro. Amava il libro di Chaeff e ne portava spesso una copia con sé nella borsetta. La grande sala si era riempita in fretta. A un certo punto un tipo barbuto piuttosto grosso e robusto le si era seduto accanto. Aveva in mano una copia del libro. Quando lei gli lanciò un'occhiata, vide che il suo libro era pieno zeppo di post-it gialli. Flora sorrise, perché la copia che aveva lei a casa era identica, con l'unica differenza che i suoi post-it erano blu invece che gialli. «Vedo che ha studiato, eh?», gli disse indicando il libro, in inglese, perché l'uomo che le si era seduto accanto aveva tutta l'aria di essere inglese, o meglio, americano, con uno di quei volti aperti e amichevoli che da un momento all'altro ti aspetti di sentir esclamare: «Grande! Dammi il cinque!». Lui la guardò per un istante, perplesso, poi abbassò gli occhi sul libro e iniziò lentamente a sorridere. «Sa che ho scoperto proprio oggi da dove viene il titolo di questo libro? Non lo sapevo, e dire che l'avrò letto almeno quattro volte». Flora non se ne accorse, ma quel tipo parlava con un accento australiano. Incuriosita, sorrise. Indossava un abito di seta color antracite piuttosto
aderente e accollato che la fasciava dandole un'aria sexy e seria allo stesso tempo. «Davvero? Da dove viene?». Quel tipo corpulento diede un paio di colpetti sulla copertina del libro dicendo: «Dalla Bibbia, è una citazione dei Salmi: "Mi portò al largo, mi liberò perché mi vuol bene"»11. Flora si appoggiò allo schienale della sedia e incrociò le braccia, colpita. «Wow! È esattamente il messaggio del libro». «Proprio così. Ma perché Chaeff non lo dice da nessuna parte? E ho scoperto anche un'altra cosa...». Fu interrotto da una donna che si era presentata davanti al pubblico e stava dando qualche colpetto sul microfono con una matita per attirare l'attenzione. Era chiaro che l'incontro stava per cominciare, ma Flora era ormai distratta e avrebbe voluto sentire cos'altro aveva da dire il suo vicino. Si protese verso di lui e bisbigliò: «Cos'altro ha scoperto?». «Come leggere al buio». Lei rimase di stucco e la sua espressione lo dimostrò. «Leggere al buio» era una metafora centrale del libro. Aveva a che fare con la capacità d'infondere ai cinque sensi i poteri dello spirito, in modo tale da potenziarli incommensurabilmente. Chaeff sottolineava ripetutamente che si trattava di un traguardo essenziale per la crescita spirituale di ogni individuo, per quanto lui stesso, pur avendo lavorato a lungo in tale direzione, non l'avesse ancora raggiunto. «No! Davvero? È in grado di farlo sul serio?». Flannery annuì e sollevò lentamente la mano destra col palmo rivolto in avanti, come un testimone che giura di dire la verità in un'aula di tribunale. Si presentò come Kyle Pegg. Le sembrò un nome ben strano ma, quando lui le disse che era australiano, le parve più accettabile. E adesso era proprio curiosa. «Davvero sa leggere al buio?». «Sì, ho imparato. E sa una cosa? Non è per niente difficile». Quel che Flora e il resto del mondo non sapevano era che Rick Chaeff e la maggior parte dei guru dell'autoperfezionamento che si aggiravano tra ingenui e sprovveduti di tutto il mondo erano creazioni del Caos esattamente come Kyle Pegg/John Flannery. Era un modo non particolarmente incisivo e radicale, ma comunque interessante, di metterlo nel culo a un sacco di gente, che funzionava sorprendentemente bene. Bastava rendere la gente consapevole dei propri limiti, cosa di per sé non troppo difficile in un'età di dubbio e sensi di colpa, dopo di che li si convinceva che non erano troppo lontani dalla "risposta ultima", la chiave della felicità, la fine
dell'arcobaleno, il nirvana... quello che vuoi. Ancora un paio di passettini e la troverai, devi solo seguire le mie istruzioni. Il problema era che una cosa simile non esiste, perché noi cambiamo continuamente e altrettanto fanno i nostri bisogni e i nostri desideri. Non è possibile raggiungere un luogo e rimanervi credendo di essersi assicurati la felicità eterna. Perché l'umanità ha la capacità di concentrazione di una mosca. Quante mosche avete mai incontrato che hanno conosciuto la vera gioia e rimangono a casa la sera tranquille e contente? Era naturale che Kyle Pegg sapesse «leggere al buio». Era uno scherzo da ragazzi, un giochetto da niente. Poteva insegnarlo a chiunque in quindici secondi. Flora finì per trovare l'incontro con Chaeff abbastanza interessante ma niente di speciale. Forse le sarebbe piaciuto di più se non l'avesse elettrizzata tanto fare la conoscenza di Kyle Pegg. La parte dedicata alle domande fu interminabile. Flora aveva le mani intrecciate davanti a sé, e non si era accorta che stava sbatacchiando i suoi occhiali da sole di qua e di là, finché Kyle non si era girato, distratto da tutto quel movimento. Aveva guardato prima gli occhiali, poi lei, sollevando le sopracciglia come per chiedere se c'era qualcosa che non andava. Lei aveva sussurrato con una faccia esasperata: «Sono così stupide tutte queste domande. Se avessero letto il libro, se le sarebbero evitate». «Preferisce che andiamo a bere un caffè?». Flora fu sorpresa dalla disponibilità di Kyle Pegg ad alzarsi e andarsene così su due piedi. Le piacquero il coraggio e la spontaneità che aveva dimostrato. Per quanto fosse tentata di accettare, scosse la testa. «Non possiamo andarcene ancora: sarebbe maleducato, davanti a tutta questa gente. Più tardi». Lui non disse nulla. Immaginava che avrebbe rifiutato, ma voleva farle sapere che era pronto a tutto per soddisfarla. Più tardi, eccoli al Café Schwarzenberg davanti a delle fette di torta al cioccolato e pasta di mandorle grosse come piccoli pianoforti a coda. Kyle ne aveva prese due. Quella sua golosità e l'evidente entusiasmo che provava per lei avevano divertito Flora, che adorava gli effetti drammatici ed era una perfetta primadonna. Se si accettavano quelle sue due caratteristiche, diventava la vostra migliore amica per la vita, e non ve ne sareste pentiti. Suo marito e i suoi figli l'adoravano ma, come tutti quelli che le stavano
intorno, facevano quel che voleva lei e sapevano quand'era il caso di sparire per evitarne i malumori. Era difficile che fosse soddisfatta di un solo amante, così preferiva averne due: due uomini estremamente diversi l'uno dall'altro. Flora diceva apertamente che la monogamia non faceva per lei, neanche nel caso degli amanti. Prendere o lasciare. E ogni tanto c'era qualcuno che preferiva abbandonare il campo: qualche innamorato si eclissava, qualche amico si stufava delle sue frivolezze e assurdità, e non si faceva più vedere. Flora Vaughn ci rimaneva male, ma mai troppo a lungo. Era focosa come un'italiana. Era impaziente. La vita è come l'opera. Troppo interessante perché lei rimanesse per sempre legata a una cosa o una persona sola. Sapeva che c'erano molti altri uomini che avrebbe potuto amare, trovare divertenti, gradevoli e perciò non era mai troppo grave se qualcuno le diceva c'est tout. La cosa che Flannery/Pegg trovava più interessante in lei era una prodigiosa abilità a scoprire nelle persone qualità che non avevano mai saputo di possedere. Fin dall'inizio, per esempio, aveva visto in lui un uomo sexy e aveva cercato di portarselo a letto subito e il più spesso possibile. Grosso e grasso com'era. John Flannery l'aveva trovato divertente perché sconvolgeva tutti i suoi progetti su come conquistarla. Ma doveva riconoscere che Flora era un'amante talmente appassionata e irrefrenabile che se la spassava davvero con lei. E gli aveva insegnato tutta una serie di trucchetti che lui aveva subito messo a profitto con la sua amica Leni. Quando Flora aveva incontrato l'uomo che sarebbe diventato suo marito, lui era un industriale brillante, dolce e banale, felice di stirarsi le sue camicie da trecentocinquanta euro ascoltando arcane sinfonie di Sibelius. Lei si era rimboccata le maniche e aveva scavato con tenacia, finché non aveva raggiunto un angolo sconosciuto della sua anima in cui esisteva un Rambo del weekend represso che, incoraggiato da lei, aveva iniziato a praticare tiro con l'arco e bungee jumping, e si era lanciato due volte dalla Donauturm, ovvero da un'altezza di duecentoquaranta metri. Flora Vaughn era un'interessante contraddizione in termini, soprattutto per una donna tanto egotista. Ma sapeva anche essere sinceramente coinvolta e comprensiva. E questa era una delle ragioni per cui i suoi amici le volevano bene. Sino a un certo punto, però. Leni non si era mai fidata di lei abbastanza da parlarle di John Flannery. Non l'aveva mai detto neanche a Isabelle, se è per questo, anche se aveva deciso di farlo presto. Il problema di Flora era che se le capitava di venire a sapere qualche novità, troppo spesso partiva come un treno, senza pensarci, e raccontava tutto alla gente sbagliata, o si
lasciava scappare quel "segreto" con chissà quanti. Lo faceva solo perché era felice ed eccitata, ma quel suo entusiasmo aveva scatenato più di una volta guai seri. Oppure si metteva a fare domande troppo intime e imbarazzanti, impicciandosi di cose che non erano affari suoi, o che non si era ancora pronti a rivelare. Poco dopo il loro incontro, Kyle Pegg aveva chiesto a Flora di non parlare di lui o della loro relazione con nessuno. Quando lei, indignata, gli aveva chiesto perché, lui aveva detto la cosa migliore per sigillarle la bocca: «Perché ho l'INTERPOL alle calcagna. Se mi beccano, sono finito». Nient'altro Quella sua confessione era stata così inaspettata ed eccitante che Flora l'aveva chiusa a chiave nel suo cuore e non aveva proferito parola con anima viva. Dopo di che, in seguito, Kyle aveva aggiunto ben poco al riguardo. Le aveva soltanto detto una volta, che il suo "problema" aveva a che fare con la fabbricazione di dollari falsi in Siria, nient'altro. Flora avrebbe voluto conoscere ogni dettaglio, ma lui si era limitato a dirle che il suo vero nome non era Kyle Pegg, il che peraltro, in un certo senso, era vero. Quando lei gli aveva chiesto quale fosse il suo nome, lui aveva esitato, l'aveva squadrata e le aveva detto, serio: «Te lo dirò quando riterrò di potermi fidare di te». Era elettrizzante. Non era mai stata l'amante di un criminale. E un falsario in fondo non era un assassino, né niente del genere. Qual era il termine esatto... crimine senza vittime? Aveva una relazione con un uomo ricercato dalla polizia che leggeva i libri di Rick Chaeff e la trattava come una regina. Flannery le preparava dei pranzetti prelibati. Le raccontava imprese ed episodi della sua vita in luoghi come Samarcanda e Aleppo. Sapeva un mucchio di cose: spuntava sempre fuori qualche piccolo dettaglio bizzarro e prodigioso da quell'affascinante flusso inarrestabile che era la sua conversazione. «Sapevi che la beccaccia caga sempre prima di volare, così quando la cucini puoi usare tutto, interiora comprese?». «Gli storici dicono che il primo tipo di pane fu probabilmente prodotto per caso ottomila anni fa». E infarciva i suoi discorsi di proverbi miracolosamente calzanti che la facevano spesso scoppiare a ridere. «Quando la fortuna è giù di corda, si siede anche su una mucca balorda». E talvolta le sue osservazioni le facevano guardare la vita con occhi nuovi. Una mattina, mentre preparava la lista della spesa, Flora si era sorpresa a pensare a Kyle Pegg e aveva scritto senza pensarci la parola "caminetto" sul foglio che aveva davanti. Sì, quel suo nuovo amante era proprio così, una sorta di grosso caminetto acceso davanti a cui stare seduta per ore.
Emanava calore e conforto, ma non si doveva dimenticare che dentro divampava il fuoco. Il fatto che Kyle fosse un ricercato lo rendeva ancora più affascinante. Il ricercato di Flora si fermò in fondo alla cappella per osservare i volti e gli atteggiamenti delle persone che si erano riunite per porgere l'estremo saluto a Leni Salomon. Ecco suo marito. Flannery conosceva Michael Salomon, perché l'aveva seguito per un po' di tempo per vedere se poteva tornargli utile in qualche modo. Era un bell'uomo, ma le sue qualità si limitavano a quello. Assomigliava vagamente a Simon Haden. Non era un caso che Leni Salomon fosse andata a letto con entrambi. Michael era chirurgo dentista. Leni faceva denti artificiali. Si erano incontrati quando lui era andato nel laboratorio di Leni un giorno per controllare come procedevano i lavori per un ponte assai complicato, che doveva essere fissato in bocca a un bambino che aveva perso quasi tutti i denti in un tremendo incidente. Il ponte era pronto, ed era perfetto, assolutamente perfetto. Seduta davanti al suo banco di lavoro, Leni l'aveva mostrato all'affascinante dentista tenendolo sul palmo della mano e dicendo: «Ecco qua, denti come nuovi». Avevano cominciato a frequentarsi. Lui era riuscito a farle credere di essere più interessante di quanto non fosse realmente. Dopo qualche mese, quando le aveva proposto di sposarlo, lei aveva detto di sì perché qualcosa in lui la faceva sentire al sicuro, protetta. Lui era innamorato del fatto che lei era bella, e zoppa. Lo trovava commovente e toccante, come se fosse la dimostrazione di una sorta di equilibrio cosmico. Lui conosceva bene l'inglese e lei adorava parlare in quella lingua. Michael Salomon aveva posseduto per un po' una motocicletta Laverda e in sella sembrava un vero eroe. A Leni piaceva andare in moto con lui, con la guancia posata contro la schiena e le braccia strette intorno ai suoi fianchi. E poi lui la trattava come una signora e avevano un rapporto assolutamente alla pari. Facevano una bella vita. Leni aveva due cavalli. Lui guadagnava molto, anche se era un dentista come tanti altri. Ma si era specializzato in America e a Vienna questo bastava a conferirgli un certo prestigio. A entrambi piacevano il salmone alla griglia, la musica ambient e i romanzi contemporanei. Lui era noioso, lei un po' bisbetica e a volte insofferente. Andavano d'accordo, se non stavano troppo tempo insieme. La morte di Leni l'aveva sconvolto. Come poteva essere successo? I dentisti fanno progetti. Programmano tutto prima ancora di iniziare. Lui aveva pianificato il loro futuro. L'anno prossimo avrebbe provato a convincerla
ad avere un bambino. Voleva costruire una casa sul lago e andare a pescare con suo figlio. Flannery osservò tutto quel caos, quel senso di abbandono e di confusione turbinare negli occhi di Michael Salomon come una macchina che slitta su una pericolosa lastra di ghiaccio, in uno di quegli insidiosi tratti di strada ghiacciata che prendono alla sprovvista gli automobilisti d'inverno e da un secondo all'altro li scagliano in micidiali testacoda. Il dottor Salomon si trovava su una lastra di ghiaccio da quando aveva saputo che la moglie era morta. La cosa più orribile non era tanto la totale perdita di controllo, ma proprio il fatto che quella lastra di ghiaccio sembrava non avere fine. Ovunque si girasse, era assalito da disordine e scompiglio e nuovi aspetti della sofferenza legata alla perdita. L'aveva amata sinceramente, profondamente, ma l'aveva sempre trattata come uno dei tanti elementi che facevano parte della sua vita di successo e piena di impegni. Soltanto adesso che non c'era più, si rendeva conto dell'importanza di Leni. Michael Salomon spostò lo sguardo dalla bara verso la fossa, all'umida terra scura che avrebbe abbracciato prima il corpo minuto di sua moglie, poi le sue ossa e infine quel poco che sarebbe rimasto di lei: qualche dente, una scarpa fradicia e arricciata come una patatina dall'umidità e qualche brandello di stoffa sbiadita, sopravvissuto chissà come a quel lungo viaggio sotto terra. Fu in quell'istante, in quel turpe momento a metà tra consapevolezza e percezione della fine, che il fantasma di Leni apparve a Michael Salomon e a tutti i presenti al funerale, incluso John Flannery. C'erano quarantuno persone. Qualcuno conosceva bene Leni, altri meno. Alcuni erano stati invitati a partecipare alla cerimonia e altri avevano sentito del funerale da qualcuno, o avevano letto l'annuncio sui giornali. C'erano due suoi ex amanti. Uno era ancora vagamente innamorato di lei. Una vecchia compagna di università che la detestava, ricambiata, e che era venuta soltanto per provare un maligno senso di rivincita. Un paio di bambini: uno era suo nipote, l'altro la figlia di una coppia che non era riuscita a trovare una baby-sitter in tempo. C'era un pensionato di settantanove anni che non conosceva Leni, ma aveva fatto una pausa durante la sua passeggiata mattutina per assistere alla cerimonia, perché amava il senso di comunione emotiva che si prova ai funerali. Una metà dei presenti aveva fatto colazione, altri no, altri ancora non erano riusciti a mandare giù niente al pensiero di dovere presto assistere a una cerimonia funebre. Alle undici e diciassette esatte la stessa immagine apparve davanti agli
occhi di ogni singola persona presente: Leni seduta al tavolo della cucina del suo appartamento come un'annunciatrice televisiva davanti alla telecamera. Indossava l'abito nero con cui era stata sepolta. Aveva un'espressione calma e risoluta, nient'altro. Reggeva davanti a sé un foglio bianco, su cui era stato scritto, a mano, in grossi caratteri neri: «ZUPPA DI VETRO». Guardando dritto davanti a sé, Leni aveva sollevato il foglio davanti al viso per farlo vedere. Un istante dopo l'aveva riabbassato e aveva pronunciato quelle parole. ZUPPA DI VETRO. Poi aveva annuito, come a dire: sì, avete sentito bene: ZUPPA DI VETRO. I bambini furono i primi a reagire a quella visione. La bambina, quella che era lì perché i genitori non avevano trovato una baby-sitter, chiuse immediatamente gli occhi ed espresse un desiderio. Stava pensando alle fate in quel momento, perciò immaginò che quella che aveva visto doveva essere una fata vestita di nero che aveva risposto al suo appello. La bambina desiderava un elefante: un piccolo elefante blu da portare a letto con sé la notte per tenerle compagnia. Il bambino sapeva che quella donna era sua zia Leni. Ma non sapeva ancora bene cosa volesse dire morta, perciò aveva ridacchiato, vedendola. Aveva appena cominciato a imparare a leggere e non era ancora abbastanza veloce per riuscire a leggere "ZUPPA DI VETRO" su quel cartello. Per questo aveva ridacchiato vedendo sua zia e quelle stupide parole che non aveva avuto il tempo di decifrare. Avrebbe chiesto cosa c'era scritto a zia Leni la prossima volta che la vedeva. Gli adulti ebbero una serie di reazioni diverse. I loro volti espressero sorpresa, costernazione, profondo turbamento, persino gioia, perché credevano in vari dèi e la visione di Leni Salomon viva al suo funerale era senza dubbio un segnale dall'alto. Ma nessuno, non uno solo di loro, neppure John Flannery, pensò che anche altri avessero avuto la stessa visione. Questa è la cosa davvero prodigiosa. Qualcuno si guardò intorno con aria colpevole, come se le altre persone presenti al funerale potessero leggergli in testa e scorgervi quell'enigmatica visione. Malgrado tutto, però, ognuno era profondamente convinto di essere stato l'unico testimone. Così abbassarono la testa, o volsero lo sguardo in giro imbarazzati, al cielo, per nascondere le lacrime, o verso la bara, come per assicurarsi che fosse ancora lì. Ma cosa voleva dire ZUPPA DI VETRO, poi? La preghiera del dinosauro
John Flannery sapeva cosa significava "ZUPPA DI VETRO". Nel momento stesso in cui aveva visto Leni con quel cartello in mano, si era girato ed era corso via. Sembrava uno che ha un urgente bisogno di trovare un bagno. Aveva gli occhi sbarrati e continuava a stringere i pugni. Quando raggiunse la macchina, non riuscì a infilare la chiave nella serratura. Alla fine si ricordò che si apriva a distanza con un bottone sulla chiave di accensione. La prima cosa che fece dopo che fu salito e si fu seduto fu scoreggiare. Non gli era mai capitato di fare una scoreggia e quella fu una vera bomba a mano. Aveva fagocitato troppa aria mentre correva allarmato verso la macchina e il suo corpo aveva dovuto trovare un modo per sbarazzarsene. Si girò sbigottito e si guardò il sedere come qualche volta fanno i cani dopo avere scoreggiato, come se non avessero niente a che fare con quello che è appena successo, altrettanto sorpresi di chiunque altro da quel rumore. L'odore della scoreggia, della macchina nuova e del costoso rivestimento in pelle della Porsche riempirono l'abitacolo. Flannery si risedette guardando dritto davanti a sé, sapendo che avrebbe dovuto andarsene subito, ma ancora troppo sconcertato da quel che era successo. Tutte le regole erano state infrante: era stata appena innescata una dinamica nuova di immani proporzioni. Se Flannery avesse soltanto saputo che tutti al cimitero, proprio tutti, avevano visto quello che aveva visto lui, si sarebbe spaventato a morte. John Flannery non aveva mai scoreggiato e non si era mai spaventato. Spaventato di che cosa? Cosa c'era nella vita che potesse far paura a una creatura come lui? Non mangiava se non quando voleva far credere a qualcuno di essere umano. Il suo cuore non batteva a meno che non fosse necessario per qualche ragione. Respirava soltanto perché se qualcuno si fosse accorto che non respirava sarebbero stati casini. Era lì per compiere un lavoro e il suo corpo era l'uniforme necessaria per farlo. Fino a quel momento se l'era cavata davvero bene. Ma in tutte le sue incarnazioni in un corpo umano, non gli era mai successo niente del genere. Era frastornato e smarrito. I vivi abitano il loro mondo, i morti un altro, separato da confini nettamente definiti che per nessun motivo devono essere oltrepassati. Una volta questa era una regola sacrosanta che nessuno, eccezion fatta per il Caos, che non riconosce regole né confini e non ne ha mai avuti, poteva violare.
Il Caos fa ciò che vuole, ed è per questo che Flannery poteva viaggiare tra la vita e la morte come e quando più gli pareva. Ma poi Isabelle Neukor e Vincent Ettrich avevano attraversato quella barriera invalicabile. E adesso, peggio ancora, anche Leni Salomon l'aveva fatto per inviare un messaggio da un mondo all'altro. A chi fosse in grado di decifrarlo avrebbe rivelato qualcosa che l'umanità cercava di scoprire dalla notte dei tempi. Dal momento che Flannery non sapeva che anche altri avevano visto Leni rivelare il suo messaggio, non sapeva neanche che per loro si era trattato semplicemente delle parole "ZUPPA DI VETRO" e niente più. Leni aveva parlato ai vivi nel linguaggio della Morte, a loro incomprensibile. Di conseguenza, i vivi avevano visto una frase che conoscevano ma non aveva più senso di qualcosa di surreale senza alcun vero significato. Ecco perché non c'era stata nessuna palese reazione tra i presenti. La maggior parte di loro aveva creduto che si trattasse di un'assurdità, da farti rizzare i capelli, questo è certo, ma che non voleva dire nulla. Una donna morta che mostra un cartello con su scritto "ZUPPA DI VETRO". E allora? Cosa dovevano fare, girarsi verso il proprio marito o il proprio vicino nel bel mezzo del funerale ed esclamare: «Ho appena visto Leni! Mi ha mostrato un cartello incomprensibile». Quella sì che sarebbe stata una bella scena, avrebbe senz'altro conferito maggiore rilevanza e solennità all'intero evento. Persino le sue migliori amiche, Flora e Isabelle, non dissero nulla anche se entrambe erano convinte che si trattasse di un messaggio importante. In realtà Isabelle fu talmente presa da quel pensiero che ci volle un bel po' di tempo prima che si rendesse conto che Vincent non era più al suo fianco. Ma non rimase particolarmente sorpresa di scoprire la sua assenza. Lui era così, sempre sulle spine, non riusciva a stare fermo due minuti. Si era soprannominato da solo REDA, il Re del Deficit d'Attenzione. Era senz'altro da qualche parte poco lontano. Ma Vincent non era poco lontano. Perché come John Flannery, anche lui conosceva il significato di "ZUPPA DI VETRO". Quando Leni aveva sollevato il cartello e lui aveva letto quelle parole, gli occhi gli si erano spalancati. Non aveva provato né panico né gioia. Non aveva avuto l'istinto di fuggire come un pazzo. Nella lingua della Morte "ZUPPA DI VETRO" era la spiegazione del Mosaico e il Mosaico era Dio. Era una delle prime lezioni che si imparano da morti, cos'era e cosa significava. Allontanandosi dal funerale, Ettrich ormai vagava con la mente nell'aldilà, attento a non perdersi nulla di quel che scorgeva intorno a sé. Mentre
oltrepassava il cancello del cimitero, si rese conto che ora sapeva come fare molte cose: assai più di prima. «Merda». Sia Simon Haden che Leni Salomon guardarono l'orso Bob. «Cosa c'è?». «Non ha funzionato». «Cosa?». «Come fai a saperlo?». L'orso si grattò la testa e sbottò: «Merda merda merda. Non ha funzionato, capito? Fa parte del mio lavoro sapere queste cose. Non ha funzionato!». Haden e Leni si guardarono con la stessa domanda negli occhi: come fa a esserne così sicuro? Haden volse lo sguardo altrove, bestemmiando tra i denti. Era stato così difficile scovare Leni. Prima aveva dovuto trovare il suo mondo immaginario negli spazi sconfinati della Morte. Dopo di che, una volta capito come entrarvi, aveva dovuto rintracciare lei. Ma c'era riuscito. E aveva fatto tutto da solo. Senza alcun aiuto da parte di Bob o di nessun altro. Era stata una ricerca lunga, terribile e quanto mai faticosa. Era incappato in una quantità di vicoli ciechi e false speranze, ma alla fine ce l'aveva fatta. Non aveva idea di quanto ci avesse impiegato, in termini di tempo-nella-vita: mille anni o dieci minuti? Quella era la morte e lì gli orologi funzionavano in maniera diversa. Haden era orgoglioso di quel suo successo, più di qualunque altra cosa avesse mai fatto. Più orgoglioso persino di essere riuscito a dimostrare coraggio davanti a Mrs Dugdale e contro Abiti Delladomenica, nella vecchia palestra della scuola. Non avrebbe mai dimenticato l'espressione sul volto di Leni quando l'aveva scorta su una panchina mentre dava da mangiare al suo dinosauro. Non sapeva che da ragazzina Leni aveva sognato dinosauri tutte, tutte le notti. Forse a causa del contrasto tra lei, una bambina minuta con una gamba più corta dell'altra, e i dinosauri, così grossi e possenti. O forse soltanto perché le piacevano e basta. Anche da piccolina era stata capace di pronunciare alla perfezione quei loro nomi così difficili e lunghi lunghi come se fossero stati i giocatori della sua squadra del cuore o le parole di un'amata preghiera da bambini. Quando Haden l'aveva finalmente scovata, Leni, adulta, era seduta su una panchina verde lungo il Danubio a circa sei chilometri dal luogo in cui
era stata sepolta. Era uno dei posti che aveva amato di più quando era viva, e di conseguenza l'aveva portato con sé nella Morte. Ai suoi piedi c'era un grosso cesto scuro di vimini pieno di hamburger. Seduto ossequiosamente sulle zampe posteriori, accanto a lei, un troodon di quasi tre metri, noto anche col nome di stenonychosaurus, un piccolo dinosauro che afferrava con estrema cura e grande delicatezza e attenzione gli hamburger che Leni gli offriva e se li metteva in bocca con una zampa e degli artigli che avrebbero potuto aprire una voragine nel cemento, se tanto tanto s'incazzava. «Ehilà», esclamò Haden da una certa distanza, non essendo per niente sicuro di volersi avvicinare di più a quell'essere hamburghivoro, immaginario o reale che fosse. Leni si era girata e, riconoscendo il suo ex amante, gli aveva sorriso, ma non troppo calorosamente. «Ciao, Simon», aveva detto con voce piatta. Non sembrava né particolarmente felice né troppo sorpresa di vederlo. Lui incrociò le braccia cercando di adottare una posizione comoda, lì in piedi dov'era. Ma ogni volta che guardava il dinosauro amico di Leni, si irrigidiva, pronto a schizzare via al minimo guizzo o scatto improvviso da parte della bestia. Lei allungò una mano nel cesto, tirò fuori un altro hamburger e glielo porse. Il mostro l'agguantò gentilmente con un artiglio e se lo portò alla bocca. «Ti do un hamburger, se mi dici come si chiama». Haden si limitò a sorridere scrollando le spalle. Non ne aveva la più pallida idea e non gli interessava neanche. «Donald?». «È un troodon. Significa 'dente affilato'. Era il mio dinosauro preferito da bambina, perché è abbastanza piccolino. Una volta siamo andati a Londra e ho costretto tutta la famiglia a portarmi al Victoria and Albert Museum per vedere lo scheletro di un dinosauro. Il regalo più bello che abbia mai ricevuto è stato quando Isabelle ha trovato un dente di troodon nel catalogo di una vendita all'asta e me l'ha comprato». Haden cercava di mostrarsi interessato, ma non lo era affatto. Voleva solo essere sicuro che quel megalucertolone del cazzo non avesse intenzione di divorarselo. «Cosa ci fai qui, Simon?». «Sono venuto a parlarti». «Questo l'avevo capito, ma perché?». A quel punto Haden non seppe più cosa rispondere, schiacciato da una
grande incertezza. Gli era stato severamente proibito di dirle cosa avesse imparato nella Morte: qualunque informazione al riguardo era tabù, top secret, off limits. Doveva venire tutto da lei. Haden doveva scoprire quanto sapeva e partire da lì. «Dici che a Mr Jurassic Park non dispiace se mi siedo un minuto?», le chiese indicando il dinosauro che lo stava osservando con gelido interesse, e cercando, invano, di conferire un tono divertente e spensierato alla domanda. «I troodon sono carnivori. Mangiano solo carne», disse Leni mentre allungava una mano per prendere un altro hamburger. Haden decise che tutto sommato sarebbe stato meglio continuare a rimanere dov'era. Avevano avuto una relazione, loro due. Erano stati bene per quel poco che era durata ed era proprio questa la cosa che ancora adesso faceva infuriare Leni, se ci ripensava. Aveva saputo sin dall'inizio che Simon era un gran casanova e che non le sarebbe rimasto intorno troppo a lungo, ma le era andato bene lo stesso, perché una scappatella era esattamente quello di cui aveva bisogno in quel momento. Il problema era che Simon Haden aveva una qualità che possiedono pochi uomini, una cosa talmente istintiva che chi ce l'ha non si rende neppure conto di averla. Eppure è l'arma più micidiale del loro arsenale: sanno come farti sentire perfettamente a tuo agio. Per strada, a letto, a pranzo, mentre scopate, ridete, passeggiate o state facendo qualsiasi altra cosa. Puoi respirare tranquillamente quando sei con uno di loro. Non senti la necessità di darti delle arie o di raddrizzare le spalle o fingerti diversa. Sì, quell'uomo voleva infilarsi nelle tue mutande, questo è vero, però voleva anche entrare nella tua testa e passare un po' di tempo insieme a te. Lo sentivi, quand'eri con lui. Sentivi che quando stava con te non esisteva altro posto al mondo in cui avrebbe desiderato essere. Era sinceramente interessato a quello che dicevi e facevi. Ecco perché Leni provava una tale antipatia per Vincent Ettrich: perché possedeva la stessa qualità così poco comune. Ogni volta che Leni vedeva Vincent, le veniva in mente com'era andata a finire con Simon, riaprendo una ferita ancora dolente. Perché lui se n'era andato proprio nel momento in cui lei aveva cominciato a sentirsi soddisfatta e a suo agio nello spazio che avevano creato. E adesso era lì davanti a lei per la prima volta da quando l'aveva mollata. «Non mi hai ancora risposto: perché sei venuto?». Lui pensò: eccoci qui, tutti e due morti, lei sta dando da mangiare a un
dinosauro e io ho appena attraversato l'universo per vederla, e non so da dove cominciare a dirle perché sono qui. «Com'è stato per te?». Lui la guardò senza capire il contesto della domanda. «Eh? Come, scusa?». «...Quando sei morto, Simon. Com'è stato? Io sono stata uccisa», dichiarò Leni con voce tranquilla, senza tradire nulla della rabbia, la confusione e il senso d'impotenza che avevano costantemente turbinato dentro di lei dal momento in cui aveva compreso di essere morta. In quel preciso istante avrebbe voluto prendere Haden per il collo e sbatterlo contro un muro e gridare: Non è giusto! Non è giusto! Qualcuno deve fare qualcosa. Non è possibile. Non può esserlo. Ma Haden non comprese niente di tutto ciò, perché mostrare le proprie emozioni non era mai stato nello stile di Leni, né prima, né adesso. Il suo dinosauro fece una specie di nitrito, come se fosse un cavallo. Voleva mangiare ancora. A quel punto Haden, stordito, non poté più evitare di avvicinarsi alla panchina e sedersi pesantemente in un angolo, il più lontano possibile da quel mostro. «Sai di essere morta?». Lei indicò il troodon con il suo piccolo dito indice. «Non si dà da mangiare ai dinosauri nel mondo reale, Simon. Sì, è un po' che lo so». «L'hai scoperto subito?». Lei non disse nulla, ma un accenno di sorriso comparve sulle sue labbra. Lui se ne accorse e non riuscì a lasciar cadere l'argomento. «Leni, l'hai davvero intuito così in fretta?». «Ci ho messo una mezza giornata. Quando ho visto il secondo troodon, ho capito. Quando ero piccola li sognavo sempre». Non aveva resistito: aveva dovuto dirglielo. «Maledizione!». Haden lanciò un braccio in aria e sbuffò spazientito. Tutto l'orgoglio e il grande senso di trionfo che aveva provato quand'era riuscito a rintracciare Leni scomparvero come un cubetto di ghiaccio in un forno a microonde. Quanto ci aveva messo lui a capire che era morto? Un'eternità? Mezza? «Non ho più voglia di vederti, Simon. Voglio che te ne vada». Leni chiuse gli occhi e chinò la testa. A Haden non venne in mente niente di meglio da fare che fissare il troodon. Quando lei riaprì gli occhi un istante dopo e lo vide, lo guardò sorpresa. «Sei ancora qui. Perché sei ancora qui?», chiese con tono severo.
«Leni, dobbiamo parlare di alcune cose... importanti». «Non ho voglia di parlare con te, Simon. Voglio che te ne vada. Perché non sei scomparso?». La bestia parve infelice di sentire quel suo tono così stridulo. Haden si domandò se si poteva addestrare un dinosauro ad attaccare, come un cane. «Perché sei ancora qui?». A quel punto rispose stizzito: «Perché voglio stare qui, Leni». La voce di lei si fece ancora più irritata. «Non è così che funziona qui. Questo è il mio mondo, il mondo dei miei sogni. Se non voglio qualcosa intorno, basta una mia parola e quello scompare». Per dimostrare quello che diceva, si voltò verso il dinosauro ed esclamò: «Vattene». Il mostrò sparì, evaporando letteralmente nell'aria. Senza dargli il tempo di digerire quella visione prodigiosa, Leni guardò Haden e ripeté, esattamente con lo stesso tono di voce: «Vattene». «Dimenticatelo, Leni. Io sono reale, non faccio parte dei tuoi sogni». «Non puoi essere reale, Simon, sei morto». «Lo siamo tutti e due, ed è per questo che sono qui, non perché mi hai sognato». Entrambi cercarono di elaborare le diverse informazioni che avevano appena ricevuto. Ma era come mangiare un'intera pagnotta in un boccone solo. Per quanto cerchi di masticare, continui ad avere la bocca piena, le guance gonfie, la gola sempre più secca e le mascelle affaticate. E la pagnotta non è ancora finita. La mente razionale di Leni, che l'aveva accompagnata anche nella Morte, non le permetteva di accettare le parole di Haden: non poteva credere che lui non facesse parte del mondo creato dalla sua immaginazione. Avendo imparato a far apparire quello che voleva, provò a far comparire il Simon Haden che ricordava e con cui era stata quand'era viva. L'amante che l'aveva trattata bene per un po', ma anche lo stronzo che era diventato dopo, quando aveva preso il volo. L'Haden fatto apparire da Leni si materializzò esattamente nello stesso punto in cui qualche minuto prima era stato seduto il troodon. Era vestito con grande eleganza: la sua camicia era del bianco lucido e spumoso del latte appena munto, le unghie ben curate con una recente manicure ma, quando sorrise, apparvero dei denti che assomigliavano a delle vecchie rape o una fila di lapidi scoperchiate. Come se non se li fosse mai lavati in vita sua, o non fosse mai andato dal dentista da quando era stato inventato il trapano.
«Maledizione!», disse il vero Haden per la seconda volta. Aveva capito cosa aveva appena fatto Leni e vedere la propria faccia addosso a un altro non gli aveva fatto battere ciglio, ma quel cimitero nella "sua" bocca, sì. «Cos'è successo ai miei denti? Non sono mica così». Avrebbe voluto avere uno specchio in mano per guardarseli e controllare. Ma così brutti non erano di sicuro. Haden numero 2 non disse nulla e continuò a sorridere, sfortunatamente. S'infilò le mani in tasca e inclinò la testa da una parte con un'hollywoodiana e spensierata disinvoltura alla Gene Kelly, che diceva: posso anche aspettare tutto il giorno, sono tranquillo. «Hai dei denti orribili, Simon. Te l'ho detto un sacco di volte». «Sì, d'accordo, ma non così brutti. Cristo, Leni, mi ricordi davvero così?». Lei continuava a non volerlo guardare, preferendo rivolgersi al proprio Haden immaginario. Il suo cervello stava lavorando. In quel posto si potevano avere doppioni di qualsiasi cosa, bastava volerlo. Avrebbe potuto creare cinque Simon Haden in cinque colori diversi se lo desiderava. Perciò averne due davanti agli occhi non era poi così strano. Ma non riusciva a capire perché il numero 1 non fosse scomparso quando gli aveva detto di andarsene. Era come se uno dei suoi sogni avesse sviluppato un cervello proprio. E la cosa era alquanto seccante. Fino a quel momento non era stato difficile per Leni capire come funzionava quel luogo. Questa era la prima volta che incappava in un rallentatore di velocità e saltando su quel dosso sbatteva la testa contro il tetto dell'auto. Era forse una prova da superare? Il vero Haden si avvicinò al numero 2 e lo squadrò dalla testa ai piedi. «Che acqua di colonia hai?». «Legno di sandalo», rispose il numero 2 con una voce un po' più profonda dell'originale. «Legno di sandalo? Io non ho mai usato niente del genere in vita mia». Leni appoggiò la schiena alla panchina, con i gomiti lungo i fianchi per sostenersi. «A me piace il profumo di legno di sandalo per un uomo, se non ti dispiace. Non ti disturba se ha l'acqua di colonia che preferisco, no?». In un altro momento il vero Haden avrebbe protestato. Per lui il profumo che uno aveva addosso era come la propria firma, uno dei modi di dire al mondo chi sei. Una disgustosa acqua di colonia al legno di sandalo era come firmare con la mano sbagliata.
Numero 2 era anche diversi centimetri più basso di lui, ma Haden non lo fece notare a Leni. Si limitò a continuare a fissare quel suo clone, che non era un vero clone, ma pur sempre abbastanza simile perché la maggior parte della gente facesse fatica a distinguerli. Ma non Haden. Quei denti schifosi, quell'acqua di colonia da far rabbrividire, l'altezza sbagliata... Vedeva sempre più errori, e lo stavano facendo imbestialire. La versione creata da Leni semplicemente non era lui. La goccia che fece traboccare il vaso fu quando numero 2 chiese se c'era qualcosa da mangiare, un avocado, magari? Haden detestava gli avocado. Quegli strani frutti verdi gli ricordavano delle rane senza gambe... «Li odio io, gli avocado! Non ne mangerei mai uno!». A quelle parole Leni gli rivolse uno sguardo irato e profondamente ferito, e scoppiò a piangere. Perché? Che cosa aveva detto? Leni nascose la testa tra le mani piangendo. Il clone di Haden guardò Simon con aria di disapprovazione. «Perché? Cos'ho detto?». «Hai fatto un bel casino, amico. Guardala, poverina». «Ho detto soltanto che non mi piacciono gli avocado». Leni alzò la testa dalle mani bagnate di lacrime. Aveva gli occhi lucidi. «Bastardo. Mi avevi detto che ti piacevano da matti. Era stato uno dei pomeriggi più belli che ricordo di aver passato con te. E adesso viene fuori che mentivi. Grazie mille, Simon. Sei un vero bastardo». «Di cosa diavolo parli, Leni?». Lei non rispose, così glielo disse l'altro Haden. «Ti ricordi quel giorno che siete andati a fare la spesa insieme e tu hai rubato gli avocado dalla sua borsa?». Haden guardò per terra confuso cercando di scovare nella sua memoria qualcosa che rispondesse a quella descrizione. La spesa? E lui aveva rubato gli avocado? Quando fu sicura che lui non la guardava, Leni sollevò la testa un momento per vedere se si ricordava. Haden andò a rovistare in ogni angolo della memoria, ma non riuscì a tirar fuori nulla. Dopo di che fece un secondo tentativo e iniziò ad apparire qualcosa, un'immagine vaga e amorfa, ancora soltanto il fantasma di un ricordo, niente più di un ectoplasma. Leni lo osservò mentre si sforzava di ricordare. I suoi occhi si gonfiarono di nuovo di lacrime. È una delle lezioni più spiacevoli della vita (e della morte): ciò che è importante per noi non lo è necessariamente anche per gli altri, per quanto possano esserci vicini. Quel che noi amiamo o detestiamo non sempre so-
no le stesse cose che amano e detestano le altre persone che fanno parte della nostra vita. Quel che è vero per noi, non sempre è anche la loro verità. Come aveva potuto dimenticarsene? Come poteva una giornata tanto bella essergli scivolata addosso e scomparire per sempre? Il marito di Leni era fuori città per il weekend a causa di un congresso. Lei si era incontrata con Haden in un caffè. Lui aveva bisogno di fare un po' di spesa, così erano andati insieme in un mercato all'aperto lì vicino. Era la prima giornata di sole dopo una settimana, c'era un cielo azzurro come la stanza di un neonato. Mentre lui comprava un po' di cose, lei lo aveva seguito beata. La divertiva il pensiero che la gente li scambiasse per una coppia, quel bell'uomo e la moglie, zoppa. Quando Leni vide in una bancarella due grossi avocado, decise di comperarli, così. Ma tornando a casa, più tardi, non li aveva più trovati nella borsa. Al loro posto c'era un biglietto su cui c'era scritto che se voleva rivedere i suoi avocado vivi, doveva recarsi al tale indirizzo alla tale ora. Era l'indirizzo di Simon. Quando era arrivata a casa sua, sul tavolo in soggiorno c'era una mal riuscita guacamole12 circondata da patatine fritte e altri stuzzichini che Haden aveva comperato poco prima al mercato. Avevano bevuto due bottiglie di barolo senza neppure sfiorarsi. Leni era rimasta con lui quasi tutto il pomeriggio. Il cielo fuori cominciò a tingersi di viola, sempre più scuro. Non era ancora andata a letto con lui, ma quella giornata la convinse. Non era abituata alle sorprese. Quell'esperienza le rammentò quanto le amava. Nel frattempo, numero 2 aveva dovuto aggiungere due o tre dettagli riguardo alla giornata degli avocado per ravvivare la memoria di Haden. «Ohhhh, sì, adesso me lo ricordo quel giorno», esclamò sorridendo. «Ti sei mezzo strozzata con una carota». Lei si alzò in piedi. «Bastardo. Figlio di puttana». «Come? Perché sei così arrabbiata, Leni? Qual è il problema?». Lei si batté una mano sul petto, tanto forte che entrambi gli Haden sentirono i colpi echeggiare sordi nel suo torace. «Perché era il mio ricordo, la mia vita. E adesso l'hai rovinato, e io non ci posso più fare niente, bastardo! Adesso rimarrà per sempre il giorno che mi sono mezzo strozzata con una carota. E tu detesti gli avocado. E non più il giorno in cui me li hai rubati dalla borsa e mi hai preparato la guacamole. Grazie, hai completamente rovinato quel ricordo, ed era uno di quelli a cui ero più affezionata. Hai chiuso male la nostra storia, Simon. Ma per me eri comunque rimasto il ladro di avocado, e quel pensiero aveva continuato a farmi sorridere
quando pensavo a te, anche dopo. Quel giorno, quel ricordo, erano importanti per me. Eri stato dolce e premuroso e ci eravamo divertiti così tanto Quando la nostra relazione è finita, dopo che sei scomparso di punto in bianco, qualcosa dentro di me, qui dentro, non ha smesso di pensare con piacere a quella giornata. Era stata bella, quasi da valere tutto il resto». Leni non aveva detto che quell'esperienza era anche uno dei motivi principali per cui in seguito si era innamorata di John Flannery. Con una serie di domande apparentemente innocenti, la prima volta che si erano incontrati, Flannery aveva scoperto quanto Leni amasse essere sorpresa da un uomo, presa tra le braccia e sollevata dalla sua fantasia e dal suo slancio. Una volta scoperto quello, conquistarla era stato semplicissimo. «D'accordo, Leni, va bene. Adesso tocca a me: Petras. Eh? Allora? Te lo ripeto se vuoi: Petras», disse Haden con voce petulante, in tono di sfida. Lei tacque, corrugando la fronte. «Di cosa stai parlando?». «Petras Urbsys». Malgrado fosse un nome tanto strano, aveva qualcosa di familiare. Come se avesse potuto aiutarla, Leni si voltò per un attimo verso il suo Haden immaginario rivolgendogli uno sguardo interrogativo. Lui alzò entrambe le braccia come a dire: «Non lo so proprio. Sono venuto fuori dalla tua testa, non dimenticare». Non le piaceva quel trucchetto. Non le piaceva come Haden stava rigirando la frittata. Voleva solo scaricare la colpa su di lei. Gli avrebbe dato corda per altri trenta secondi e poi sarebbe tornata agli avocado. «Non so di cosa stai parlando. Dovrei?». «Petras Urbsys era il proprietario di quello strano, grandioso negozio in cui ti ho portato un giorno a Vienna. Non ti ricordi? Il tipo che vendeva la sua vita? Aveva messo in vendita tutto quello che possedeva. Adoravo quel negozio. Tanto che ti ci ho portato un giorno insieme a Isabelle e ti ho presentata a Petras. Ma tu non te lo ricordi, eh, Leni?». «No». «Precisamente. Così siamo pari. Io non ricordo i tuoi avocado e tu non ricordi Petras Urbsys». Non era esattamente così: Simon stava facendo il furbo. Quel che aveva detto non era del tutto vero, lo era solo in parte. Le aveva dato scacco matto imitando le sue mosse e strappandole la strategia vincente. E Leni si ritrovava all'improvviso con un pugno di mosche in mano. «Posso permettermi di aggiungere una cosa?», domandò con dolcezza Haden numero 2.
Simon e Leni si erano per un attimo dimenticati di lui nel fervore del diverbio. Si voltarono entrambi verso di lui, seccati da quell'interruzione. «No!». «Vattene», disse Leni e, come il troodon prima, numero 2 evaporò nell'aria. «Leni, qualunque cosa tu pensi di me, non è di me che ti devo parlare. Non è per questo che sono qui. È a causa di Isabelle Neukor». Leni aveva il cuore traboccante di risentimento e la testa piena di domande, ma svanirono tutte non appena sentì il nome della sua amica. Chiese immediatamente: «Isabelle è morta?». «Peggio». «Cosa c'è, Simon?». «Vieni con me, ti faccio vedere». «E questo cosa sarebbe?». In quel momento Haden era troppo impegnato per risponderle. Girava la testa di qua e di là come un pazzo, nel tentativo di scorgere un buco in cui infilarsi tra le macchine che sfrecciavano su e giù davanti a loro, senza interruzione. Non aveva mai visto niente del genere. Quel fiume di macchine non rallentava e non s'interrompeva mai, letteralmente. Gli sembrava uno di quei documentari in cui fanno vedere alla tivù il flusso dei globuli rossi nelle vene. Le auto andavano così forte che non si riusciva nemmeno a distinguerne la forma, sembravano solo tante chiazze colorate dai contorni sfuocati. «Che cosa ci facciamo qui?». Leni era ferma alle sue spalle, le mani sui fianchi. Aveva capito cosa aveva in mente Haden, ma non aveva nessuna intenzione di attraversare quel fiotto di macchine a tutta velocità. Con la gamba che si ritrovava? Era matto, per caso? E per quale motivo, poi? Simon non le aveva ancora spiegato un bel niente. Avevano preso una ferrovia sopraelevata per uscire di città e adesso erano lì, in periferia, davanti a quell'autostrada piena di macchine. A Leni pareva la strada che portava all'aeroporto. Ma durante tutto il tragitto, Haden si era rifiutato di dirle la benché minima cosa riguardo a dov'erano diretti e perché. Per la sola ragione che temeva che lei si voltasse indietro e se ne andasse, se solo l'avesse saputo. Perciò aveva chiacchierato del più e del meno annoiando entrambi, finché non erano scesi dal treno e, uscendo dalla stazione, si erano trovati lì. Zoom zoom zoom, quel traffico forsennato non dava segno di diminuire
o di interrompersi nemmeno un istante. «Simon, ti ho seguito fin qui, ma ti giuro che se non mi dici immediatamente perché siamo venuti, me ne vado». Rassegnato al peggio, Haden sospirò e le chiese: «Qual era la tua canzone preferita quand'eri una ragazzina?». Leni fece un passo indietro a quella domanda così strana. «Cosa?». Haden alzò la voce. «Sto rispondendo alla tua domanda. Quale canzone ascoltavate sempre tu, Isabelle e Flora quando eravate adolescenti, soprattutto quando eravate insieme?». Esasperata, sbottò: «Cos'ha a che fare con tutto questo?», e indicò il traffico. In quel momento esplose con fragore nelle loro orecchie il ruggito dei clacson. Haden aspettò che si affievolisse per rispondere. «Leni, mi hai fatto una domanda. Ti sto rispondendo. Quante volte te lo devo dire? Qual era la tua canzone preferita quando avevi quindici anni?» D'accordo, d'accordo, l'avrebbe accontentato per vedere dove voleva andare a parare. Leni strizzò gli occhi mentre cercava la risposta tra ricordi da tempo relegati in soffitta. La sua canzone preferita? Che classe faceva a quindici anni? La seconda liceo? Haden non aspettò. «Se non ti ricordi la canzone, qual era il tuo gruppo rock preferito, allora?». Leni vide tutte e tre, adolescenti, in piedi nel soggiorno di Flora. Con delle pettinature enormi, orribili, a mo' di casco, e tre T-shirt identiche con su scritto, in giallo, AC/DC, il gruppo heavy metal. Fece una smorfia, ripensando a quella scena e ricordando quella giornata e come si erano sentite fiche con quella pettinatura e quelle T-shirt. «Gli AC/DC. Andavamo tutte pazze per gli AC/DC». «Esatto. E qual era la loro canzone più famosa?». A quel punto Leni non ebbe un attimo di esitazione. «Highway to Hell». Autostrada per l'inferno. Haden indicò la strada alle sue spalle con il pollice. Lei guardò prima le macchine, poi lui. «Eccola, Leni, la tua autostrada per l'inferno». «Non capisco, Simon». Turbata, lanciò un'altra occhiata davanti a sé. A quel che vedeva, era una strada come tante altre, una strada con tante macchine. «Questo è il tuo mondo, Leni. Sei tu che l'hai creato. Ti piaceva quella canzone quand'eri ragazzina e così nei tuoi sogni hai creato una vera auto-
strada per l'inferno, ed eccola qui. Il problema è che noi adesso la dobbiamo attraversare, perché ti devo far vedere una cosa dall'altra parte». «Vuoi dire che tutte queste macchine stanno andando all'inferno?». Mentre pronunciava quella parola, la paura andò crescendo dentro di lei. «Vuoi dire che l'inferno esiste per davvero?». Haden avrebbe potuto rispondere a quella domanda, e l'avrebbe anche fatto, se fosse stato per lui, ma sapeva che non doveva. Si trattenne e disse soltanto: «Dobbiamo attraversare». «Aspetta un momento, Simon. Quelle macchine stanno viaggiando in entrambe le direzioni. Come fanno ad andare tutte all'inferno se vanno in direzioni opposte?». Lui guardò per terra, cercando di evitare d'incrociare lo sguardo di Leni. «Simon?». Un bicchiere di carta della Coca-Cola ancora mezzo pieno volò fuori dal finestrino di una macchina in corsa. Cadde vicino ai loro piedi schizzandoli sulle gambe. Leni strillò e stava per gridare dietro a quella macchina quando vide qualcosa che la trattenne. Il bicchiere, a meno di un metro da lei, stava dondolando rovesciato su un fianco. Leni vide che dentro c'erano tre pezzetti di qualcosa di giallo. Avvicinandosi, capì che si trattava di tre fettine di limone. Alzò la testa e cercò di scorgere la macchina, poi abbassò di nuovo lo sguardo sul bicchiere. Stava pian piano comprendendo qualcosa, un poco alla volta. Guardò Simon Haden, e la strada, e il bicchiere, e ancora la strada. Facendo qualche cauto passo in avanti cercò di guardare meglio le macchine, per scorgere i passeggeri. Era difficile, perché sfrecciavano a una tale velocità. Ma aveva un sospetto e non aveva intenzione di lasciarsi scoraggiare. Intanto Highway to Hell le risuonava in testa per la prima volta da chissà quanti anni. Era stato il sottofondo musicale della loro adolescenza, il loro grido di protesta. Con quelle teste piene di capelli e con i sogni di un futuro spettacolare, avevano ascoltato quella canzone di continuo, soprattutto quand'erano insieme. Leni capì che la sua intuizione era giusta quando vide la mano. Era passata una macchina a tutta velocità con un braccio nudo e una mano per aria, le dita che giocavano col vento, fuori dal finestrino dalla parte del passeggero. Aveva intravisto per un attimo le unghie di quella mano: erano dipinte di verde. Non le fu possibile vedere a chi apparteneva la mano, ma quelle unghie le bastarono. Un giorno, quando avevano vent'anni, Flora le aveva regalato per scher-
zo una boccetta di smalto verde. Siccome si stavano annoiando, si erano dipinte tutte e tre le unghie delle mani e dei piedi di verde. Si erano persino fatte una fotografia così. Ma Leni voleva essere certa, prima di domandare conferma a Haden, e continuò a fissare le automobili. Dopo un po' vide qualcos'altro che la convinse. Passavano sempre le stesse macchine: continuavano a sfrecciare in entrambe le direzioni sette modelli di sette marche diverse. Solo quelle, senza mai cambiare, una dopo l'altra, quelle sette macchine e basta. Sempre dello stesso colore. L'Opel era sempre blu, il pulmino della Volkswagen beige e la Mercedes station-wagon bianca. Quando Leni si rese conto che le passavano davanti sempre ed esclusivamente quelle sette macchine, comprese anche perché i colori non cambiavano. Controllò tutte le Mercedes che passavano per accertarsene. Sul vetro posteriore, nello stesso punto, c'era una decalcomania di Asterix e del suo amico Obelix. Leni la riconobbe perché l'aveva appiccicata lì lei quando aveva dodici anni, dopo essersi letta tutti gli albi di Asterix un numero infinito di volte. Le automobili che viaggiavano su quell'autostrada per l'inferno erano le macchine che Leni aveva avuto nel corso della vita. La Opel Kadett, la Volkswagen e la Mercedes erano state le auto dei suoi genitori, quelle con cui era cresciuta, finché non era stata abbastanza grande da averne una propria. E c'erano anche quelle: il maggiolone giallo che le avevano regalato per il diploma, la BMW 320 nera con la decalcomania del Rapid Vienna su uno dei finestrini posteriori. Aveva fatto sesso con Simon Haden sul sedile posteriore di quella macchina. Chissà se lui se lo ricordava. Una Lancia grigia che aveva avuto nel periodo in cui era troppo spericolata, e che aveva sfasciato in quattro e quattr'otto, e la sua Honda Civic rossa quella che aveva quando era morta. «Ci sono io dentro, vero? In tutte quelle macchine, ci sono sempre io. Bevevo sempre la Coca-Cola con tre fettine di limone. E le unghie dipinte di verde...». «Fuochino». «In che senso "fuochino", Simon? Ci sono io, sì o no?». «Fuochino, ci sei quasi. Dai, va' avanti». «Ci sono quasi? Non è un gioco questo». Più a se stesso che a Leni, Haden disse: «No, è il tuo Ropenfeld». «Cosa? Cos'hai detto?». Un altro clacson si mise a strombazzare poco lontano. «Niente, Leni. Te l'ho detto, ci sei quasi. Guarda meglio. Vedrai che ci
arrivi». Avrebbe voluto chiedergli cosa voleva dire "Ropenfeld", ma era più importante capire cosa stava succedendo dentro quelle macchine. Adesso che si era fatta un'idea più precisa, si mise a osservare la scena con occhi diversi. Ma per quanto aguzzasse la vista e si concentrasse, non riusciva a vedere niente dentro quelle auto, soltanto delle sagome sfuocate. E malgrado cercasse in tutti i modi di riconoscere una persona, o un viso, non ce la faceva. Quel mondo, anche se era stato creato da lei, non le rispondeva. Anche quando invocò aiuto dal più profondo del cuore, non ottenne nulla. Intanto un odore stava facendosi largo, schiacciando tutto il resto, presentandosi con prepotenza alla sua attenzione. Riusciva a concentrarsi solo su uno o tutt'al più un paio di sensi alla volta. Se fissava qualcosa, dimenticava gli odori e i suoni che la circondavano, dimenticava di avere i piedi freddi, o un gusto acre e metallico in bocca. Ma quell'odore era così forte che non era possibile ignorarlo. La avvolse finché lei non ne fu pienamente consapevole. Un cane bagnato, era l'odore di un cane bagnato. Un odore animale, denso, non esattamente spiacevole, ma neanche buono. Quando se ne accorse e focalizzò l'attenzione su quello, lo riconobbe. Conosceva quell'odore. Ne fu sorpresa e imbarazzata. Si trattava dell'odore che aveva emanato il suo corpo ogni volta che, nel corso della sua vita, aveva avuto paura. E l'aveva seguita fin lì. Per quanto la cosa la infastidisse, il suo corpo aveva emesso quell'odore in maniera più o meno forte ogni volta che era stata sinceramente spaventata. Un medico che aveva consultato al riguardo le aveva detto che si trattava di un lieve squilibrio ormonale su cui non si poteva intervenire. E poi era un semplice odore corporeo che scompariva non appena il pericolo svaniva. Le aveva detto che un'enorme quantità di persone soffriva dello stesso problema. Insoddisfatta, si era fatta visitare da due esimi endocrinologi che le avevano ripetuto essenzialmente la stessa cosa. L'ironia era che in qualsiasi situazione difficile Leni era la persona più calma e affidabile che esistesse. Ma se la sua pelle cominciava a sprigionare quell'odore, il suo corpo le stava dicendo SCAPPA! Era proprio quell'odore, ne era certa, ma c'era una cosa che non capiva: non era spaventata. Incuriosita, sì. In tensione, attenta a non fare passi falsi... ma non spaventata com'era le altre volte, in passato, quando era comparso quell'odore. Si fece ancora più intenso, ora che ne era consapevole. Le macchine le
sfrecciavano davanti, a un metro di distanza. Accanto a lei, Simon Haden attendeva in silenzio. La risposta arrivò quando quelle fette di limone nel bicchiere di carta le fecero all'improvviso ricordare un nome: Henry County. Henry era un ragazzo americano, scaltro sino al limite della perfidia, con cui Leni era uscita di quando in quando ai tempi del liceo. Soffriva di un disturbo maniacodepressivo e lei non aveva mai capito se le piaceva davvero o se fosse quel suo comportamento imponderabile ad affascinarla. Ma aveva un certo innegabile carisma che continuava ad attirarla a lui. Una volta, poco prima che smettessero di vedersi, si era arrabbiato mentre tornavano dal cinema con la macchina di Leni. Lei stava bevendo una Coca-Cola da un bicchiere di carta. Lui, mentre guidava, le aveva strappato il bicchiere di mano e l'aveva lanciato dal finestrino. La rapidità e la violenza di quel gesto l'avevano terrorizzata e l'odore era immediatamente comparso. Il giorno in cui si era dipinta le unghie di verde con Flora e Isabelle, un uomo l'aveva seguita sino a casa, più tardi. Era seduto dalla parte opposta del corridoio sull'autobus 35, ma si era spostato e si era accomodato accanto a lei. Aveva cominciato a farle un mucchio di domande su quelle sue unghie tanto "interessanti". Lei aveva smesso di rispondere alla quarta, facendo finta di guardare fuori dal finestrino e cercando di ignorarlo. Ma lui aveva continuato. Fortunatamente era arrivata la sua fermata ed era scesa. Ma lui l'aveva seguita e le si era messo dietro. Lei aveva fatto finta di nulla, al che lui aveva allungato una mano toccandole un braccio. «Se ne vada! Non mi tocchi!», aveva esclamato Leni con voce decisa, furente. Lui aveva esitato, credendo che lei stesse bluffando. Quando aveva capito che non era affatto così e che Leni poteva metterlo nei guai, aveva fatto due grandi passi indietro, sorridendo. Leni non si era più girata mentre percorreva zoppicando i due isolati che la separavano da casa. Temendo che quel tipo potesse essere ancora nelle vicinanze, aveva continuato a sentire quell'odore. Detestava quell'uomo che l'aveva spaventata e detestava il proprio corpo che la tradiva così. «Ci sono io in quelle macchine, tutte», disse Leni, sicura, mentre osservava la strada. Malgrado il rumore del traffico, Haden sapeva di aver capito bene. Voleva sentire come aveva fatto ad arrivarci. «Ma è la paura alla guida di quelle macchine, non io. Non sono io al volante. Fanno su e giù, ma non sono dirette da nessuna parte. Nessuna. Ecco perché c'è questa puzza, in ogni singola macchina ci sono io in compagnia
delle mie paure», disse indicando con la mano la scena davanti a loro. Dopo aver tracciato quel grande arco da destra a sinistra, il braccio rimase sospeso in aria per qualche secondo, teso in avanti. Poi lo lasciò cadere lentamente lungo il fianco, riscossa da quella triste intuizione. Dopo di che, con una certa sorpresa di Haden, iniziò a sorridere. «Avevi ragione, Simon: è davvero un'autostrada per l'inferno. La mia autostrada per l'inferno». Voltandogli le spalle, serrò gli occhi e risucchiò le labbra in dentro, come se stesse lottando contro le lacrime. Forse era proprio così. «È andato a Harvard. È l'unica persona che conosco ad esserci andato. Non ho più avuto notizie di lui da quando è partito». Stava parlando di Henry County, ma Haden non lo sapeva. Considerò comunque prudente rimanere in silenzio e lasciarla continuare. Ma Leni non aveva più nulla da dire. Fece invece un profondo respiro e si avviò dritta verso la strada e quel traffico mostruoso. Le macchine sfrecciavano di qua e di là in un flusso incessante. Lei e Haden erano abbastanza vicini da sentire le folate di vento create dalle auto in corsa. La osservò allontanarsi dal ciglio della strada, curioso di vedere cosa sarebbe successo. Sembrava che stesse per infilarsi nel traffico senza badare alle macchine. Era mai possibile? Stava davvero per fare una cosa simile? Quando fu sulla strada, Leni distese entrambe le braccia in avanti per poi spalancarle bruscamente, come se stesse aprendo un sipario. In un silenzio assoluto, la scena che avevano davanti si aprì in due come un tessuto strappato nel mezzo, rivelando l'oscurità più assoluta. Era come se tutto quello che avevano visto sino a quel momento fosse davvero un'immagine proiettata su un gigantesco schermo cinematografico. La strada, le macchine, il cielo, l'orizzonte... Leni si trovava sull'orlo di un grande squarcio al centro del mondo, che saliva su su fino al cielo e scendeva giù giù sino a terra. Dietro la crepa, buio assoluto. Senza la minima esitazione, Leni fece un passo dentro quel taglio e scomparve. «Come ha fatto? Come ha fatto a capirlo così in fretta?», disse Haden guardandosi intorno in cerca di qualcuno che potesse rispondergli. Ma era solo, sul ciglio di quella strada piena di macchine. Solo e frustrato. «Mi sembra di essere un ritardato del cazzo! Maledizione!». Si diresse rapidamente verso quello squarcio nel mondo immaginario di Leni, scostò i due lembi e la seguì nell'oscurità. «Maledizione!». «Siamo noi a creare le paure più terribili della nostra vita. Ci tengono
occupati, ci danno qualcosa di cui preoccuparci a ogni minuto. Ma da morti, non c'è più ragione di temerle», disse Leni, e guardò Bob per vedere se aveva ragione. L'orso rimase in silenzio, ma annuì muovendo pian piano la grossa testona pelosa, perfettamente d'accordo. Simon Haden non disse nulla. Continuava a vederci rosso per la rabbia. Di tanto in tanto sollevava triste gli occhi verso l'orso che guardava Leni con affetto e approvazione assoluta. Erano seduti su tre sgabelli cromati in mezzo a un palcoscenico vuoto. Haden era così risentito per come stavano andando le cose, che iniziò persino a sperare che il suo vecchio amico Bob cascasse per terra: l'orso non la smetteva di pencolare di qua e di là su quel suo sgabello, che da parte sua continuava a vacillare e traballare. Era così dannatamente grosso, come faceva, con quel sedere enorme, a rimanere in equilibro su un sedile così piccolo? Doveva essere come stare seduti su una monetina da venticinque cent. «Continua», disse Bob senza distogliere gli occhi da Leni. Lei si strofinò le mani come per riscaldarsele. «Ho visto tre fette di limone in quel bicchiere di carta e poi quella mano con le unghie smaltate di verde. Due immagini che mi hanno riportato a due momenti in cui sono stata impietrita dalla paura. Tutt'un tratto ho capito che mi ero portata dietro quelle paure per tutta la vita. Ma è ridicolo: perché mai facciamo una cosa del genere? Una volta morti, poi, le esperienze della vita sono ormai acqua passata. O per lo meno dovrebbero. Non rivedrò mai più Henry County, a meno che non sia io a farmelo materializzare davanti. E non farò di certo riapparire mai più quel tipo losco che ho incontrato sull'autobus. Perciò, perché dovevo lasciare che quelle paure continuassero a fare su e giù sulla mia autostrada?». Scrollò la testa per sottolineare che era una vera idiozia. «È come andare a vivere in Brasile dalla Finlandia e insistere a volersi portare il piumino più caldo che si ha. Perché? Fa caldo in Brasile, i piumini non servono. Quando ero viva, la paura peggiore che avevo era quella di morire. Be', adesso sono morta. Tutte quelle stronzate che mi hanno tanto terrorizzato sono finite. Chiuso. Perché adesso sono qui». Sia Bob che Haden sollevarono la testa quando disse "stronzate" con tanta veemenza. «Simon, grazie», disse Leni rivolgendosi a Haden, e sorrise. Preso alla sprovvista, il cervello di Simon ci mise qualche secondo a passare da una gelosia verde fosforescente alla sorpresa, e infine a fare un paio di passi indietro verso un pizzico di scetticismo. «Grazie per cosa?».
«Non ne sono ancora sicura, non so ancora bene, ma grazie lo stesso». «Bob, dove siamo? Che posto è questo?». «Un teatro». Aspettarono entrambi che aggiungesse qualcosa, ma Bob non sembrava averne intenzione. «Bob, quello l'avevamo capito». L'orso riprese a dimenarsi sullo sgabello. «Non avevo dubbi, Simon. Ma stavo rispondendo alla domanda di Leni». «I morti allestiscono delle rappresentazioni teatrali?». «No, si fanno solo le prove qui. Niente rappresentazioni solo prove». «Le prove di che?». «Di determinati sogni che si faranno da vivi. Questo era il teatro di Leni. Anche tu ne avevi uno, Simon. Certi sogni cruciali vengono progettati con cura qui e vengono allestite delle belle fotografe. Su questo palcoscenico particolari elementi dei sogni di Leni provavano i propri ruoli». Fu Haden a fare per primo la domanda che si presentò simultaneamente a entrambi. «Tutti i sogni che abbiamo fatto avevano un significato? Proprio tutti? Anche quando ho sognato che andavo in cucina e mi facevo un toast al formaggio con un banjo invece che con un tostapane? Anche quello significava qualcosa?». «No, soltanto alcuni, una dozzina di sogni in tutta la vita, più o meno. Per farvi un esempio, avete entrambi sognato questo incontro quando eravate vivi, anche se in momenti diversi. Leni quando aveva venticinque anni e tu, Simon, quando ne avevi nove. Avete sognato tutti e due ogni cosa esattamente com'è adesso: questo palcoscenico, noi tre che parliamo, tutto, dalla A alla Z». A quel punto fu Haden ad agitarsi sullo sgabello. «Ho sognato Leni quando avevo nove anni?», domandò incredulo. «Sì, ma la mattina dopo te n'eri già dimenticato. Ti ricordavi soltanto di aver visto me così grande», lo rimproverò Bob. «Perché facciamo sogni del genere? Che senso ha vedere il futuro se non abbiamo gli strumenti per contestualizzarlo?». Per l'orso Bob era un sollievo parlare con Leni. Essendo molto più razionale di Haden era tanto più semplice parlare con lei. Non andava in collera e non esplodeva in quelle irritanti invettive cariche di autocommiserazione cui si lasciava così spesso andare Simon. Leni era concreta, pragmatica, faceva domande pertinenti e, una volta ricevute le risposte, che le piacessero o no, andava avanti.
«Ricordate quei test in cui vengono mostrate molto rapidamente una decina o una ventina di fotografie e poi si deve rispondere a una serie di domande?». «Riguardo alle foto?». «Esatto». Sia Haden che Leni annuirono. Bob proseguì. «C'è stato un tempo in cui avreste rammentato ogni minimo particolare. Avreste potuto dire quanti fili d'erba c'erano in un prato. O quante nuvole in cielo, e descriverne le forme, tutto, ogni cosa. Ma non sto parlando di fotografie adesso, sto parlando dei vostri sogni. Un tempo l'umanità aveva due cervelli. Potete chiamare uno il cervello diurno e l'altro quello notturno. Si completavano a vicenda ed erano fatti per funzionare insieme. Quando nella vita quotidiana sorgeva un problema che non si era in grado di risolvere, il più delle volte bastava andare a dormire. Al che interveniva il cervello notturno che, con la sua diversa modalità di percezione delle cose, trovava una soluzione. Non sempre, ma di solito sì. La possibilità di utilizzare entrambi rendeva gli uomini più equilibrati, aperti a opportunità e orientamenti diversi». «Assomiglia alla teoria dell'emisfero destro e sinistro del cervello. Sai, gli scienziati dicono che i due emisferi hanno funzioni diverse. Uno è creativo, l'altro analitico...». Bob respinse l'idea agitando la grossa zampa bianca davanti a sé. «No, Leni, è tutta un'altra cosa. La ragione per cui la gente fa tanta fatica a comprendere la vita è che questa è fatta per essere affrontata sia a livello conscio che inconscio. Immagina che la tua vita sia un pezzo di carne che può essere masticato bene soltanto se hai una buona dentatura, sia sopra che sotto». A dimostrazione di quel che diceva, l'orso piazzò le due zampe una sopra l'altra, dopo di che le spalancò e le richiuse come se fossero un paio di mascelle. Haden non era convinto. «I miei sogni sono quasi tutti ridicoli. E gli altri sono insignificanti». «Hai ragione, adesso è così, ma non in passato». «Com'è che non funzionano più tutti e due, i nostri cervelli?». «Il Caos», rispose Bob con voce pacata, sommessa. «Spiegati». Haden guardò Leni per vedere se stava ascoltando. Poi arricciò lentamente il naso, chiuse gli occhi e alzò un dito per chiedere agli altri di aspettare un momento mentre il suo corpo decideva se voleva o no starnutire. Decise di sì. Fu uno di quegli starnuti fragorosi che coprono ogni
altro suono se vengono lasciati sfogare liberamente. Leni lo vide arrivare e si girò in fretta dall'altra parte: aveva già sperimentato quelle esplosioni da parte di Simon quando erano vivi. Voltandosi, le capitò di posare gli occhi su un angolino del palco in cui c'era qualcosa che attirò la sua attenzione. Haden starnutì una seconda volta. Incuriosita, Leni scese dallo sgabello e si avvicinò zoppicando a quello che aveva visto. Si chinò e sollevò da terra una torcia elettrica di un giallo brillante. Una di quelle con la maniglia sopra, che emanano un grosso fascio di luce. Era tutta ricoperta di decalcomanie di Walt Disney. «Mio Dio, è lei». Cullandola con entrambe le mani, la guardò come se fosse sacra. Era così sopraffatta dall'emozione che se la portò alle labbra e la baciò. «Che cos'è? Cos'hai trovato?», le chiese Simon tirando su col naso. Lei gli mostrò la torcia e disse tutta felice: «Sono venticinque anni che non la vedevo. Mi ha salvato la vita quand'ero piccola. È davvero lei, Bob, quella vera?». «Sì». «Che bello! Sono così contenta». Ritornò sul suo sgabello, appoggiò la torcia sulle gambe e vi posò entrambe le mani sopra. «Cos'ha di tanto speciale quella torcia, Leni?». «Da piccola avevo paura del buio. I miei genitori lasciavano la luce accesa in camera mia, tenevano la porta del corridoio aperta, mi portavano a dormire nel loro letto quando ero davvero spaventata, ma non c'era nulla che funzionasse sul serio. Un'estate sono andata in campeggio. Mentre ero via, mio padre ha dipinto il soffitto di un turchese brillante e l'ha coperto di centinaia di stelle dorate grandi così». E indicò delle stelle grandi più o meno come una moneta. «Ma soprattutto mi ha dato questa». Accarezzò la torcia come se fosse un cucciolo. «Mi ha detto che se di notte avevo paura, dovevo accendere la torcia e puntarla verso quel cielo azzurro sopra di me. E avrei visto che nel buio non c'erano altro che quelle stelle dorate, e amiche. E sai quante volte ho acceso questa torcia per guardare quelle stelle quando ero piccola? Probabilmente ogni notte, per anni, e funzionava quasi sempre. Quelle stelle così perfette erano mie amiche e mi proteggevano dal buio. Mi giravo e mi riaddormentavo». «Riprova». Leni guardò Bob emozionata. «Posso?». «Certo, accendila e puntala in alto». La voce e il tono di Bob non dice-
vano niente di più di quello: prova. «Okay». Il pollice di Leni scivolò verso il bottone sulla torcia. «E il Caos, Bob? Pensavo che tu stessi per spiegarci del Caos». «Lo farò tra un attimo. Forza, Leni, dai». Leni accese la torcia. Il raggio di luce attraversò il palcoscenico e disegnò un vivido cerchio bianco sul muro. Leni lo sollevò verso il soffitto. «Mio Dio!». La prima cosa che le venne in mente quando vide quella scena furono quelle cupolette di plastica che si scuotono per creare una piccola tempesta di neve dentro. I fiocchi di neve di solito sono bianchi, ma di tanto in tanto capita che siano dorati o argentei. A Leni parve di essere finita dentro una di quelle cupole, perché la torcia illuminò una tempesta di milioni di fiocchi e granelli colorati che scendevano lentamente tutt'intorno a loro. Stupefatta, agitò il fascio di luce di qua e di là, da destra a sinistra, sopra le loro teste. Il cielo era pieno di fulgidi fiocchi scintillanti. Guardando meglio, tuttavia, Leni scorse qualcosa addirittura di meraviglioso: per quanto fossero delle dimensioni di fiocchi di neve, erano in realtà minuscole decorazioni vittoriane per l'albero di Natale. Le riconobbe subito, perché ne aveva fatto collezione per anni, e alcune stavano passandole accanto. Istintivamente Leni guardò Bob. L'orso la fissava, incurante della tempesta. Quella bufera colorata di fiocchi di neve/decorazioni natalizie iniziò a scendere pian piano intorno a loro. Leni e Haden continuavano a guardare quello splendore, e poi Bob, e poi di nuovo in alto. Ma l'orso non diceva nulla, limitandosi a osservare le loro reazioni. «Aprite le mani». Non appena sollevarono il palmo della mano in aria, Leni e Simon videro che nessun fiocco di neve rimaneva su di loro. Li toccavano, ma poi attraversavano le loro mani, le ginocchia, le spalle... e continuavano a scendere finché non si posavano a terra. Rimasero a osservarli arrivare e attraversare i loro corpi come se questi fossero fatti d'aria. Leni era estasiata. Sorrise guardando la sua mano, e agitando le dita in aria, disse: «Be', in fondo siamo dei fantasmi, no?». Per un po', dopo quelle parole, il teatro fu immerso nel silenzio, come una strada deserta alle tre del mattino quando fuori infuria una tempesta di neve. Alla fine Bob disse: «È così che è cominciato tutto. Non chiedetemi quando perché non lo so. Otto miliardi di anni fa. Cinque bilioni di millen-
ni. Fate voi. C'è stata una grande esplosione. Anzi più d'una, ma a questo arriverò tra un attimo. Prima dell'esplosione, era Dio». «Cosa era Dio?». «Tutto ancora integro a comporre un unico grande disegno. Quello era Dio. Ma poi Dio è saltato in aria, disseminando pezzettini di sé in ogni angolo dell'universo. Anzi, quei pezzettini hanno creato l'universo». L'orso fece una pausa perché Simon e Leni digerissero quell'informazione. Leni iniziò a guardare i fiocchi di neve con maggiore attenzione, come se fossero ancora più importanti ora che sapeva quale ruolo avevano in tutta la storia. «Adesso immaginate che ognuno di questi fiocchi di neve corrisponda a un'esistenza. Quello là è un albero, quell'altro un insetto, questo una persona... ogni singolo fiocco rappresenta una vita individuale. Alcune di queste creature viventi sono intelligenti, altre no. L'insetto ha più consapevolezza di sé dell'albero. Ma non ha mai avuto molta importanza sino ad ora. Ogni cosa vive la propria vita, fa le proprie esperienze e muore». «E poi?», sbottò Leni. Haden fu sorpreso da quella domanda così brusca da parte di Leni. «Poi veniamo tutti qui, è chiaro». «Tu sta' zitto. E poi, Bob?». Offeso da come Leni gli aveva chiuso la bocca, Haden ribatté: «Guarda per terra». Fino a quel momento era stata talmente incantata da quella bufera di fiocchi e dalle parole dell'orso polare, che non aveva pensato di abbassare lo sguardo ai suoi piedi. Quando lo fece, quel che vide sul pavimento la sbalordì. I fiocchi di neve cadendo avevano cominciato a formare un meraviglioso disegno astratto. Leni non aveva mai visto nulla di simile, ma la grazia e l'armonia di quel disegno erano straordinari, commoventi. Era come trovarsi davanti a un quadro fantastico mentre si passeggia in un museo ed essere talmente colpiti da quella combinazione di equilibri e di colori, di forme e di cariche emotive da esserne catturati e non poter fare altro che rimanere a fissarlo in trance. Altrettanto sbalorditivo era pensare che ogni fiocco di neve fosse dotato di vita e sapesse esattamente dove andare quando cadeva. I fiocchi bianchi si posavano accanto agli altri dello stesso colore, i blu ai blu, e così via. Mentre Leni e Simon guardavano lo strato di neve farsi sempre più fitto, i
colori si facevano man mano più vividi e complessi. «Che cos'è?», domandò Leni sottovoce, in tono reverente. «Il mosaico». «E cos'è il mosaico?», chiese a Haden, visto che era stato lui a dirle di guardare per terra e a dare un nome a quella cosa miracolosa ai loro piedi. Era chiaro che sapeva la risposta. «E tu come fai a saperlo, Simon?». «Bob me l'ha spiegato prima che io e te ci incontrassimo. Ecco perché sono venuto a cercarti». «Cos'è il mosaico?». «Dio ricostituito», rispose Haden lanciando un'occhiata a Bob per vedere se era il modo giusto di esprimere il concetto. L'orso annuì. Tenendosi allo sgabello con entrambe le mani, Leni indicò il mosaico col piede. «Quello è Dio?». Haden stava per rispondere, ma Bob lo precedette. «La teoria del Big Bang dice che l'universo non continuerà a espandersi in eterno. A un certo punto rallenterà, si fermerà e inizierà a fare ritorno alla sua origine. Alla fine tutto si ricongiungerà di nuovo. Lo stesso vale in questo caso. Ci sono due mosaici in realtà, Leni: uno è la tua vita e l'altro, più grande, è Dio. Ma il principio è lo stesso. Quando sei nata, sei volata in tutte le direzioni, dando così origine alla tua nuova vita. Tutte le esperienze che hai fatto, tutte le tue scelte, tutto ciò che è servito a fare di te la persona che eri prima di morire...». «Sono stata uccisa». Leni rimase per un attimo in silenzio e poi, non riuscendo a trattenersi, sibilò a denti stretti: «Sono stata uccisa!». Bob guardò altrove. Per un attimo anche lui non poté sostenere l'intensità di quello sguardo. «Sì, mi dispiace... prima che tu fossi uccisa. Qualsiasi sia la durata della vita di una persona, ognuno con la propria esistenza crea un mosaico come questo sul pavimento. Un disegno unico che soltanto lui poteva far nascere. Quando si muore, l'aldilà serve a imparare a indurre il proprio mosaico, quello della propria vita, a ricongiungersi con l'altro, più grande, che è Dio. Tira su di nuovo una mano e guarda». Leni obbedì e aspettò. Dopo un po' una decorazione natalizia color verde bosco si posò sul suo palmo aperto e vi rimase. Tutti gli altri che la toccavano continuarono ad attraversare il suo corpo e scendere a terra, ma quello rimase sulla sua mano. «Quello sei tu», disse Bob. Leni, incredibilmente felice, si ritrovò a sorridere a quel corpuscolo verde tutto sfaccettato che si era posato sulla sua mano. Poi guardò di nuovo il
disegno sul pavimento e, pensando a quello che aveva appena detto Bob, si domandò quale fosse il proprio posto lì dentro. «Guarda meglio il mosaico adesso. Li vedi quei vuoti, quei buchi neri sparsi un po' dappertutto?». Sì, li vedeva. E per di più, una volta che la sua attenzione si concentrò su di essi, notò anche qualcosa di estremamente curioso riguardo a quei piccoli spazi neri disseminati qua e là per il mosaico: ogni fiocco di neve che vi si posasse sopra si scioglieva e scompariva non appena li toccava. Per questo rimanevano vuoti malgrado tutta la neve che continuava a cadere. Bob ripeté il concetto per assicurarsi che Leni avesse capito. «Di quando in quando c'è una grande esplosione, un nuovo Big Bang, e tutti i pezzetti volano via, ma alla fine ritornano. E compongono un mosaico nuovo». «Creano un Dio nuovo?». «Esatto. Le distanze che hanno percorso, quel che è loro accaduto durante i loro percorsi, li trasforma. Quando fanno ritorno al mosaico, sono diversi. Il tuo fiocco verde forse era bianco all'inizio del suo itinerario, chissà. Come te, Leni: non eri la stessa che eri stata da bambina quando sei morta. Così la tua nuova forma e il tuo nuovo colore modificano il disegno finale del tuo mosaico e, insieme, del mosaico più grande». «Dio è in continuo mutamento? Dio?». Leni trovava quel concetto inquietante ed emozionante al tempo stesso. «Sì, poiché tu ti trasformi, Dio si trasforma». «Cosa succede quando tutti i pezzi hanno fatto ritorno e un nuovo mosaico è completato?». «Ci sarà un'altra grande esplosione, un altro Big Bang, e ricomincerà tutto daccapo». Era così complicato, eppure così semplice. Leni non riusciva a staccare gli occhi da quello splendido disegno ai suoi piedi, pensando a quello che aveva udito. «Ma c'è ancora una cosa. Che cambia tutto». Lei fece uno sforzo per distogliere lo sguardo dal mosaico e rivolgersi verso Bob. Non aveva ancora metabolizzato bene tutto. Una serie di pensieri rimbalzavano senza freni dal suo passato al presente. La sua mente continuava ad applicare quelle nuove idee a questo, quello e quell'altro, tutte cose che erano state importanti per lei quando era viva. Misteri che l'avevano sopraffatta e sbigottita, eventi significativi, esperienze che, ora che le poteva inserire nel giusto contesto, cominciavano ad acquistare un nuovo valore ai suoi occhi.
«Per la prima volta, in questo mosaico il Caos è diventato cosciente, capace di pensare. Ha sempre fatto parte di ogni mosaico, ma si trattava di una forza cieca, come le condizioni atmosferiche. Ma immagina come sarebbe diversa la vita se il tempo meteorologico potesse pensare». «In che senso il Caos è capace di pensare? E questo cos'ha a che fare con noi?». Reclinando la testa all'indietro, Haden spalancò la bocca. Per qualche secondo cercò di acchiappare i fiocchi di neve con la lingua. Dopo di che si voltò verso Leni e disse: «Immagina cosa succederebbe se i fulmini ti detestassero». «Come sarebbe a dire?». «Be', ti inseguirebbero per folgorarti tutte le volte che possono. Come quei poveretti che vengono per davvero colpiti da un fulmine diverse volte nella loro vita. Perché? Perché proprio loro? Forse perché i tuoni li trovano antipatici e continuano a rincorrerli». Leni si girò verso Bob per vedere se confermava. L'orso ricambiò il suo sguardo senza dire nulla. Voleva che ci arrivasse da sola. Se faceva le domande giuste, trovava i collegamenti e le conclusioni appropriate da sola, tutto sarebbe proceduto molto più in fretta. «D'accordo, lasciamo perdere tuoni e fulmini. Il Caos, invece?». «Il Caos non vuole che si formi un nuovo mosaico perché gli piace questo, gli piace poter pensare. Perciò sta facendo di tutto per evitare che il mosaico venga portato a termine. Per questo ci sono così tanti spazi vuoti nel disegno qua sotto, perché ha già trovato diversi modi di ostacolare il processo di completamento». «Come?». Haden ridacchiò perché era esattamente la stessa domanda che aveva fatto lui, con lo stesso tono belligerante, quando aveva sentito quella spiegazione. E Bob le ripeté la stessa cosa che aveva detto a lui. «La risposta è semplice. Utilizzando le persone. Ogni individuo ha un posto preciso nel mosaico. Ma se il Caos si impadronisce di loro, allora abbandonano il loro posto, che rimarrà vuoto per sempre, perché niente può sostituirli». «È stato John Flannery a uccidermi?». «È stato il Caos a ucciderti, e John Flannery è una manifestazione del Caos». «Se è così potente, perché il Caos non cambia tutto come vuole?». «Un po' perché non ne ha la forza, un po' perché non è ancora pienamen-
te consapevole delle proprie possibilità. Ma man mano che diventa più abile e scaltro, rende la gente più caotica, il mondo più caotico. Tra poco gli equilibri cambieranno». «E io, in tutto questo, che ruolo ho?». «Tu sei una delle prime persone nella cui esistenza il Caos ha interferito attivamente modificandone il destino. Fino ad ora aveva sempre agito in maniera indiretta, convincendo la gente a fare il suo gioco, ma senza provocare mai niente del genere in prima persona». «Perché ha scelto me?». Haden disse: «Perché sei la migliore amica di Isabelle Neukor». «E Isabelle cos'ha a che fare con tutta questa storia?». «È suo figlio il motivo. Il bambino che Isabelle sta per avere potrebbe essere in grado di fermare il Caos. Dobbiamo dirglielo e spiegarle cosa fare prima che sia troppo tardi». «Come facciamo a raggiungerla?». Bob disse: «Tu sei l'unica che può farlo. Sei tu che devi parlarle». «Io? Io sono morta». «È vero, ma un modo c'è». Zi Cong Baby Palace Isabelle non sapeva se essere preoccupata o infastidita. Lei e Flora stavano uscendo dal cimitero insieme. Ettrich non si vedeva. «Sai dov'è Vincent?». «No». «Neanch'io. È scomparso a metà funerale. Non ho idea di dove sia andato a finire». A Flora non interessava sapere dove fosse andato Vincent. L'unica cosa che desiderava era stare un po' di tempo con Isabelle per raccontarle la visione di Leni con quel cartello con su scritto ZUPPA DI VETRO. Doveva avere un significato. «È così strano. Non è da lui sparire così, non in una giornata come questa, soprattutto». Flora aveva detto al marito che sarebbe tornata in città con Isabelle e che si sarebbero fermate dà qualche parte a mangiare qualcosa e chiacchierare un po'. Lui le aveva posato le mani sulle spalle dicendo che l'avrebbe aspettata a casa. Non preoccuparti dei bambini, ci penserò io. Era un uomo così buono. In momenti simili, Flora ricordava che la sua qualità migliore
era di farla sentire amata. Avrebbe soltanto voluto essere un po' più innamorata di lui. Uscirono dal cimitero e s'incamminarono lungo la strada verso la macchina di Isabelle. Dov'era Vincent? Isabelle si era dimenticata il cellulare a casa ed era ancora talmente scombussolata dal funerale e dalla scomparsa di Vincent che non pensò di chiedere a Flora di prestarle il suo. Avrebbe voluto chiamarlo e strillargli nelle orecchie: Dove cavolo sei? Flora stava pensando se fosse meglio parlare a Isabelle della sua visione in macchina, dove avrebbe avuto la sua incontrastata attenzione, o aspettare di essere al ristorante, dove un paio di bicchieri di vino le avrebbero fatte sentire meglio. Magari oggi era il momento giusto per confessarle del suo nuovo amante, Kyle Pegg. Sì, avrebbe raccontato tutto alla sua migliore amica e avrebbe sentito cosa le diceva. La morte di Leni le faceva all'improvviso sentire la vita così incalzante, così spaventosamente adesso-o-mai-più. Com'era stato commovente e carino da parte di Kyle venire al funerale. L'aveva visto subito, anche se aveva fatto finta di nulla perché c'era suo marito poco lontano. Ma Flora gli era profondamente grata di essersi dimostrato così premuroso. Le aveva sollevato un po' di peso dal cuore. Non si sarebbe mai aspettata di vederlo. Si era sentita stringere nell'abbraccio del suo conforto e delle sue attenzioni. Com'era fortunata ad avere due uomini così nella sua vita. Erano ormai arrivate alla macchina di Isabelle, ma Flora non aveva ancora deciso se dirle di Kyle o no. Non riusciva a decifrare l'espressione tesa e remota di Isabelle. Sapeva che Isabelle era più legata a Leni che a lei. Sapeva anche che, per quanto le volessero bene entrambe, la consideravano eccessiva, esagerata, troppo spesso priva di qualsiasi idea e della benché minima chiarezza riguardo a troppe cose. Isabelle girò intorno alla macchina e si fermò davanti alla portiera, guardando le chiavi senza realmente vederle. E adesso? Dov'era Vincent, maledizione? Lei non aveva certo voglia di andare da nessuna parte e men che meno in una Gasthaüs ad ascoltare Flora parlare di Leni o della sua ultima crisi personale. Flora era stupenda, ma c'erano dei momenti, come questo, in cui Isabelle avrebbe voluto trovarsi a chilometri e chilometri di distanza. Mentre infilava la chiave nella serratura della macchina, Isabelle diede un'occhiata dentro. C'era Broximon seduto sull'orlo del sedile posteriore. Aveva subito alzato gli occhi da quello che stava leggendo e la stava salutando con la mano. Chiuse la rivista e se la infilò in una tasca interna, per-
ché era una pubblicazione sado-maso. Meglio che Isabelle non la vedesse. Stava esaminando alcune foto in un articolo intitolato «Mangia, bevi e sculaccia Mary». «Grüss gott, meine Damen13», disse. Isabelle disse con voce tranquilla: «Sei più grande dell'ultima volta che ti ho visto». Flora la guardò da sopra la macchina, accigliata. «Cos'hai detto? In che senso più grande?». Broximon accavallò le gambe. «È vero. Mi hanno fatto crescere un po' per questo viaggio». «E sei qui. Come fai ad essere qui, Broximon? Com'è possibile?». Ignorando la domanda, Broximon replicò: «Come stai Isabelle? Com'è andata la cerimonia?». «Non c'è male. Come sei arrivato qui?». «In aereo». «In aereo? Davvero?». «Sì, c'è un volo alla settimana». «Isabelle, di cosa stai parlando? Con chi stai parlando?», domandò Flora con voce acuta e preoccupata. Non sapeva cosa pensare. «Flora, puoi scusarci solo un istante?». Flora incrociò le braccia e le sciolse di nuovo. Guardò per terra, alla sua sinistra, si mise a picchiettare un piede sull'asfalto. Che cosa diavolo stava succedendo? Perché Isabelle tutt'un tratto s'era messa a parlare da sola? Si allontanò pian piano di un paio di metri facendo finta di guardare verso il cimitero. «Non sei venuto qui in aereo». «Sì, e tu tornerai con me...», Broximon sollevò il polsino della camicia e guardò l'orologio, «... tra due ore». «Ah, sì, due ore? Devo prendere l'aereo e venire là con te?» «Sì, Isabelle devi farlo». «Devo abbandonare tutto e partire così?». «Sì, devi». «Perché?». «Per Anjo. Devi venire con me per salvare tuo figlio Anjo». L'aeroporto di Vienna è a mezz'ora di macchina dalla città. Isabelle stava viaggiando sull'autostrada appena sotto il limite di velocità, entrambe le mani posate sul volante. Guardava dritto davanti a sé e non aveva detto
una parola per tutto il tragitto. Flora era seduta accanto a lei, impietrita dal terrore. L'unica cosa che avrebbe voluto fare era tirare fuori il telefono, chiamare Vincent Ettrich e dirgli di venire a prendere Isabelle prima che fosse troppo tardi. E se non riusciva a raggiungerlo in tempo? Isabelle era stata così tranquilla fino a quel momento. Si erano avviate alla macchina dopo il funerale, e fin lì nessun problema. Ma quando aveva aperto la macchina, si era messa di colpo a parlare con qualcuno che non c'era. All'inizio Flora aveva pensato che le volesse fare uno scherzo, per quanto non fosse certo il momento migliore di scherzare, quello. Un modo stravagante di dimenticare per un attimo il funerale appena concluso e il peso soffocante della morte di Leni. Ma quando Flora aveva capito che non si trattava affatto di uno scherzo e che Isabelle stava davvero parlando con un fantasma, si era spaventata. Non aveva mai sentito quel nome, "Broximon", che Isabelle continuava a pronunciare, ma conosceva molto bene il non meno bislacco "Anjo", il nome che Isabelle e Vincent avevano deciso di dare a loro figlio. Le cose erano andate peggiorando quando Isabelle le aveva chiesto di poter parlare un momento da sola con quel tale, quel Broximon. Flora si era allontanata qualche metro dalla macchina e poi si era girata a guardare il cimitero, cercando di escogitare un modo di contattare Vincent senza che Isabelle se ne accorgesse. Poco dopo Isabelle le aveva fatto cenno di avvicinarsi, annunciandole che doveva recarsi immediatamente all'aeroporto a prendere un aereo. Le dispiaceva accompagnarla e poi riportare l'auto in città, dal momento che lei non sapeva quando sarebbe tornata? Una delle migliori amiche di Flora era morta e l'altra stava impazzendo davanti ai suoi occhi. Erano ormai davanti alla raffineria Schwechat, il che significava che mancavano solo sei o sette minuti all'aeroporto, e poi? Buon viaggio, Isabelle. Ci vediamo quando torni dalla follia? La domanda e adesso cosa succede continuava a turbinare in testa a Flora come una pallina lanciata a tutta velocità nella roulette. Sì, d'accordo, Isabelle si era comportata in maniera un po' strana nelle ultime settimane, prima dell'orrore inatteso della morte di Leni. E con ciò? Flora conosceva Isabelle Neukor da venticinque anni e sapeva quanto fosse stravagante. Delle tre, Leni era sempre stata la roccia a cui si appoggiavano le altre due: Flora, la diva, e Isabelle, la più creativa ma anche la più instabile di loro. Non che fosse particolarmente fragile, e di certo cercava
di presentare agli altri l'immagine di una donna forte, ma in realtà lo era soltanto quando andava tutto bene e non c'erano pericoli in vista. Quando si trovava ad affrontare qualche vero problema, infatti, Isabelle crollava subito, o se la dava a gambe. Leni e Flora avevano spesso cercato di proteggerla da situazioni e persone che avrebbero potuto metterla in difficoltà. E questa era un'altra delle ragioni per cui Flora non era tanto felice che Isabelle e Vincent stessero insieme. Per esperienza sapeva che Ettrich non era un uomo particolarmente costante, anche se doveva ammettere che, da quando era tornato a vivere a Vienna, era stato un compagno modello. Comunque sia, e qualunque fossero i sentimenti di Flora nei confronti di Vincent, in quel momento lei aveva bisogno del suo aiuto. Isabelle disse con un filo di voce: «Non riesco a credere che ci sia un volo da qui». Invece di sbottare e chiederle: «Ma di che cazzo stai parlando?», Flora si guardò lo smalto scheggiato sull'unghia del pollice e contò mentalmente fino a dieci prima di rispondere a quell'impenetrabile non sequitur. Tuttavia, prima che avesse la possibilità di aprir bocca, il suo cellulare si mise a suonare. Infilò una mano nella borsa e rovistò dentro finché non lo trovò e lo tirò fuori. «Pronto? Oh, mio Dio, Vincent! Ciao!». «È Vincent? Passamelo», Isabelle staccò una mano dal volante e le fece cenno di darle il telefono. «Dai, fammici parlare». Allungò il braccio verso di lei con impazienza e cercò di afferrare il telefono alla cieca. Aveva gli occhi puntati sulla strada e riuscì soltanto a far volare il telefono di mano a Flora: cadde per terra, rimbalzò e finì sotto il suo sedile. «Merda! Tu guida, Isabelle, per favore! Cerca di evitare di farci fare un incidente, OK? Te lo do tra un secondo se non si è rotto». Flora si chinò e allungò una mano sotto il sedile, cercando di recuperarlo. Alle loro spalle, sul sedile posteriore, Broximon era rimasto seduto in silenzio per tutto il viaggio senza perdere mai d'occhio Isabelle. Quando aveva sentito chi era al telefono si era proteso in avanti, ma non aveva fatto in tempo a raggiungere il telefono che quello era volato sotto il sedile di Flora. Brox era più o meno grande come un cagnolino adesso. Si lanciò a piè pari giù dal sedile, ma il volo si rivelò più alto di quel che avesse creduto e, atterrando, ebbe una smorfia di dolore sentendo le vibrazioni del contraccolpo salirgli lungo le gambe. Ma doveva a tutti i costi prendere quel
telefono prima di Flora. Mettendosi in ginocchio, s'infilò sotto il sedile in cerca del Nokia color argento. Guardò la mano di Flora volteggiare lì sotto e le sue lunghe dita cercare il cellulare. Era così vicino che Broximon sentì la voce di Ettrich dire qualcosa. Cosa? Anche Isabelle e Flora riuscivano a sentirlo? I due ragazzini si erano appena comperati una pizza ciascuno e stavano andando a casa a mangiarsela. Le due scatole bianche di cartone che avevano in mano erano belle calde. Una delle due pizze aveva sopra uno spesso strato di fette d'ananas, formaggio di capra e cipolla. Il ristorante la chiamava "Sorpresa hawaiana": era la loro pizza numero 7. Aveva un aspetto disgustoso e un odore che ricordava un deodorante per ambiente, soprattutto quando si fu raffreddata un po'. Ma il ragazzino che l'aveva comperata andava matto per la numero 7, era la sua pizza preferita in assoluto. Stavano attraversando il ponte pedonale sopra l'autostrada. Uno dei due, che faceva sempre l'idiota, sollevò un braccio sopra la testa tenendo la scatola sulla punta delle dita come un cameriere che porta un vassoio facendo un po' di scena. Aveva intenzione di fare un paio di giochetti con quella pizza per impressionare l'amico. Sfortunatamente perse il controllo della scatola e in un attimo quella gli scivolò di mano e lui la vide volare giù dal ponte, sul traffico che sfrecciava sotto. Ammaliato dall'audacia di quel gesto, senza un attimo di esitazione il suo amico gettò anche la sua pizza giù di sotto, sollevando il braccio in aria come per fare il lancio del peso. Dopo di che i due si guardarono estasiati per una frazione di secondo e poi si misero a correre più velocemente che potevano, ridendo come pazzi alla sublime gratuità di quel che avevano appena fatto. Ma non per questo avevano intenzione di farsi beccare. Non si domandarono, se non per un fuggevolissimo istante, che cosa sarebbe successo quando le loro grosse pizze sarebbero finite sulle vetture che sfrecciavano sotto il ponte. Non appena la prima scatola ebbe superato il parapetto, una vivace folata di vento la aprì con violenza e la rovesciò come se fosse impaziente di agguantare il cibo. Ma una pizza che cade da un'altezza simile non rimane intera per molto, per quanto il formaggio possa essere colloso. I gialli scacchettini di ananas sparsi sulla numero 7 furono i primi a volare via e piombare giù: erano belli grossi e precipitarono in fretta. Qualche secondo dopo, quattro proiettili gialli si abbattevano sul para-
brezza della Range Rover di Isabelle con un grande splash, esplodendo in una serie di viscidi filamenti e granuli sul vetro. Il resto scivolò giù tranquillamente verso la culla dei tergicristalli. Un'altra, più fragorosa esplosione seguì pochi istanti dopo sulla testa di Isabelle e di Flora quando cinquanta centimetri di pizza atterrarono sul tetto dell'auto. Isabelle guidava in modo splendido, sempre tranquilla, sicura, concentrata. Ma come si fa a rimanere tranquilli quando si viene assaliti da una pizza e da una serie di pezzi d'ananas in caduta libera? Fortunatamente non stavano viaggiando nella corsia di sorpasso e quando Isabelle sterzò bruscamente verso destra, dopo la prima raffica di colpi, non avevano nessun veicolo vicino. Anche se aveva la cintura di sicurezza allacciata, la testa di Flora fu scagliata violentemente prima da una parte e poi all'indietro, contro il poggiatesta. Strillò di paura e di rabbia quando subirono la prima, misteriosa aggressione. Ma il grido fu cancellato dal tonfo della pizza sul tetto. Scivolando sul tappetino, il cellulare andò a sbattere contro uno dei montanti metallici del sedile, rimbalzò e, come per miracolo, slittò di nuovo in avanti finché non si fermò proprio davanti al piede destro di Flora. Lei non lo vide. Broximon, però, sì. Si era appena rimesso a quattro zampe dopo essere stato scaraventato in malo modo contro il sedile anteriore quando la macchina aveva sterzato. Era tutto indolenzito, ma doveva a tutti i costi raggiungere quel telefono. Ce l'aveva quasi fatta, quando Isabelle inchiodò e l'auto si arrestò bruscamente stridendo. E il telefono schizzò via di nuovo. Flora scese dalla macchina come una furia. Non appena sentì Isabelle fermarsi, si slacciò la cintura, spalancò la portiera, si girò e con un balzo fu fuori, spingendo nel frattempo con un piede il telefono in un angolo. Con tutti i sensi in allarme a causa dell'incidente evitato per un pelo, Isabelle sentì quel rumore e guardò giù. Ecco il telefono! C'era Vincent in linea. Si chinò e afferrò il cellulare prima di Broximon, ormai dimenticato, con tutto il caos che era appena successo. Ma avere quel telefono in mano, avere Vincent lì, la fece subito sentire meglio. «Vincent? Vincent, ci sei ancora?». Col telefono premuto contro l'orecchio, Isabelle aprì la portiera e scese dalla macchina. «Sì, Iz, ci sono. Cosa sta succedendo? Cosa c'è, stai bene?». «Non lo so», rispose Isabelle guardando quei pezzi di ananas spiaccicati sul parabrezza. Li riconobbe e allungò una mano per toccarli e accertarsi che quelle chiazze gelatinose fossero proprio quel che pensava, ma poi
cambiò idea e riabbassò il braccio. Guardò il tetto e vide il casino che aveva combinato la pizza. «Mio Dio». «Cosa succede?». La voce di Ettrich si era fatta stridula. «Qualcosa ha appena colpito la mia macchina. Credo che fosse un ananas», disse soffocando una risatina sconcertata. «Isabelle, ascoltami. Chi c'è in macchina con te?». «Flora». «Oltre a Flora, c'è qualcun altro?». Isabelle esitò. «C'è Broximon lì con te?». «Sì, credo che sia ancora qui. Ma tu come fai a saperlo, Vincent?». «Non è Broximon. Mi hai sentito? Allontanati, Isabelle. Allontanati subito dalla macchina». A tre metri di distanza, Flora stava camminando su e giù, guardando un po' Isabelle, un po' il traffico. La loro auto era ferma tutta storta sulla corsia d'emergenza. Sembrava una macchina rubata, o la vettura di qualcuno che per qualche strana ragione avesse accostato in tutta fretta, fosse saltato giù sparito. «Cosa devo fare, Vincent?». «Dove sei? Dov'è Broximon?». «Sono scesa dalla macchina. Sono sulla strada. Lui è ancora dentro, credo. Stavo andando all'aeroporto. Me l'aveva detto lui. Broximon ha detto...». Ettrich la interruppe bruscamente. «Lascia perdere. Ti dirò io cosa devi fare». Quando Isabelle scomparve, Flora le stava voltando le spalle. Chissà come avrebbe reagito, isterica com'era, se avesse visto la sua amica fare qualche passo col telefono accostato all'orecchio e poi svanire nel nulla, così, da un istante all'altro. Quando Flora si volse di nuovo verso Isabelle, aveva intenzione di dirle: d'accordo, adesso però basta, voglio andare a casa. Possiamo parlare domani o al telefono o in qualunque altro momento. Adesso, però... Ma Isabelle non c'era più. Quando Flora vide e assimilò quel nuovo elemento, prima provò a chiamarla con incertezza, poi a voce più alta. Per un po' fu certa che Isabelle dovesse essere da qualche parte, non molto lontano, solo che lei non riusciva a vederla. Come quando si porta un cane a fare una passeggiata, e lui scompare oltre una collinetta o dietro un ango-
lo e bisogna chiamarlo per farlo tornare indietro. Ma loro erano in mezzo a un'autostrada, piatta, senza collinette né angoli di nessun genere dietro cui scomparire. Per quanto continuasse testardamente a rifiutarsi di credere che potesse essere vero, Flora alla fine dovette accettare che Isabelle non c'era più. Quando il taxi accostò dietro la Range Rover otto minuti più tardi, anche Flora ormai non c'era più. Con i suoi tacchi alti, le sue calze di seta e il suo abito elegante era riuscita a scavalcare una barriera di cemento che le arrivava all'altezza della vita, scendere in un fosso melmoso e dirigersi alla volta della civiltà. Vincent Ettrich uscì dal taxi e si diresse verso la macchina di Labelle, mentre l'autista ripartiva e si allontanava in mezzo al traffico. Aprendo la portiera della Range Rover, Vincent trovò Broximon seduto sul cruscotto, con la schiena appoggiata al parabrezza, che gli rivolse un saluto sconsolato portandosi due dita alla fronte. «Ehilà, Vincent. Lo sai chi sono?». Ettrich annuì. Aveva sentito parlare a lungo di lui. «Sei arrivato tardi». «Se n'è andata?». Brox mosse un po' il sedere di qua e di là per cercare una posizione più comoda. «Sì, se n'è andata. Se ne sono andate tutte e due. Non pensavo che Flora ne fosse capace, ma per Dio, ha scavalcato il muretto e si è messa in marcia. Immagino che fosse diretta a casa». Ettrich colpì il tetto della macchina, a mano aperta, furibondo. «Dannazione! Bastavano pochi minuti... se arrivavo, tutto questo non sarebbe successo. L'avrei fermata». «Non credo, Vincent. È successo tutto troppo in fretta. Sono stati in gamba. Appena è squillato il telefono di Flora, ho capito che erano loro. E sapevo che si sarebbero inventati una storia di qualche genere, ma non avrei mai pensato che potessero usare la tua voce come esca. È stata un'idea geniale. E quando ha sentito che eri tu, Isabelle non ha avuto dubbi. È scesa dalla macchina col telefono in mano, ha fatto un paio di passi e puff... è sparita. L'hanno convinta ad andare là di sua spontanea volontà. Non avrebbe potuto farlo da sola, perché non ne è più in grado. Le hanno detto che era in pericolo e che l'unico posto in cui sarebbe stata al sicuro era là. Così lei ha detto: "d'accordo", e via; è stata una sua scelta. Pensava che la stessi consigliando tu. E io sono stato un cretino a pensare che allontanarla da Vienna bastasse a proteggerla». Ettrich sospirò e fissò lo sguardo in lontananza. «Forse Forse hai ragio-
ne, ma avrei voluto almeno tentare, dannazione. Cosa possono averle detto per convincerla ad andare così in fretta?». «Non lo so». «E adesso a te cosa succede, Broximon?». L'ometto si spazzolò con cura il ginocchio immacolato. «A me cosa succede? Niente. Rimango qui. Non posso più tornare indietro. Me l'avevano detto quando mi sono offerto di venire. Rimarrò bloccato qui per sempre. Vivrò nel tuo mondo, che mi piaccia o no. Sai per caso di un appartamento carino in affitto?». Brox cercò di non far sentire a Vincent, nella voce, l'ironia e la grande malinconia di quelle parole, ma Ettrich vi riconobbe entrambe. Sapeva quale sacrificio fosse stato per Broximon venire per cercare di salvare Isabelle. Doveva essere ancora più triste sapere che non sarebbe mai più tornato a casa, adesso che aveva fallito. Ettrich si sedette al posto di guida e tirò la portiera verso di sé. Quando quella si chiuse con un gran colpo, fece un lungo respiro ed espirò a fondo. Broximon osservò la sua espressione e indovinò cosa stava pensando. «Non puoi seguirla, Vincent, non ci pensare neanche. È lei che ha scelto di andare. I vivi possono visitare la Morte tutte le volte che vogliono, se conoscono il modo di farlo. I morti no, e tu lo sai». Ettrich mise due dita nel taschino, tirò fuori un paio di occhiali da sole neri e se li infilò. Allungando una mano verso le chiavi ancora inserite nel motore, accese la macchina. «Non posso starmene qui seduto ad aspettare che ritorni, a sperare che riesca a trovare il modo di tornare. Non posso, Broximon. Rischio di diventare matto». «Se vai là anche tu, Vincent, non potrai mai più tornare. Isabelle ti ha riportato qua una volta. Ma se adesso vai nel mondo dei morti, sarai costretto a rimanerci. E non servirà a niente: né a te, né a lei, né al vostro bambino». «Cosa devo fare, allora?». Era già qualcosa che Vincent gli avesse fatto quella domanda, almeno. «Adesso? Adesso aspetti, e basta. Aspetti di vedere cosa succede. C'erano tre persone al funerale che hanno capito cosa significava ZUPPA DI VETRO: tu, Isabelle e quel tipo che si fa chiamare John Flannery o Kyle Pegg. Lo sai chi è Flannery, vero?». Ettrich annuì. «Sì, l'ho scoperto laggiù», e indicò con un dito la direzione da cui era arrivato. «Bene, perché è importante che tu lo sappia». «Avete tutti e tre esperienza della vita dopo la morte. Ma tu e Flannery
ne sapete più di Isabelle. Ci vorrà un po' di tempo prima che si faccia un'idea più precisa anche lei». «Sa del mosaico, Broximon. Ne abbiamo parlato a lungo. E ha conosciuto la morte. La mia, almeno». «Sì, ma non la sua, e fa una grossa differenza. È tutta un'altra cosa. Adesso è nel mondo della Morte di Simon Haden. Prima è stata nel tuo. È come andare in casa di qualcuno e non sapere dove si trova nulla, né il bagno, né la cucina...». Broximon guardò Ettrich e comprese che tutto quel che aveva detto sino a quel momento non era servito gran che. «Ma c'è una cosa buona, Vincent. Una cosa estremamente importante. Isabelle mi ha visto. Flora no. Nessun altro al funerale avrebbe potuto vedermi, anche se tutti hanno visto Leni con quel cartello in mano. Ma Isabelle mi ha visto e mi ha parlato, il che significa...». Ettrich concluse la frase lasciata a metà da Broximon: «... che può vedere entrambi i mondi e che per lei adesso in qualche modo coincidono». «Esatto. E questo è un enorme vantaggio. E il Caos non ne è certo felice, perché questo rende la situazione più bilanciata: si trova a dover giocare alla pari con lei adesso. Isabelle può anche non esserne ancora consapevole, ma è diventata un avversario temibile, Vincent. Puoi essere sicuro che sono alquanto preoccupati». Ettrich si grattò un orecchio. «Temibile, in che senso?». «Nel senso che gli darà del filo da torcere e li farà finire col culo per terra, amico mio». «Si spogli. Si stenda sul lettino». Mentre Isabelle si spogliava, si accorse di quella musichetta leziosa, piuttosto sgradevole e vagamente kitsch che fa immancabilmente da sottofondo in ogni ristorante cinese. Acuta, come di una corda vibrata e pizzicata. «Tutto? Anche la biancheria?». «No, no... tenga le mutande. Mutande e reggiseno», disse la dottoressa con tono impaziente, senza alzare mai la testa dagli appunti che stava trascrivendo sulla cartella che aveva in mano. Quella donna esile e piccolina parlava con un tono perentorio di comando. Isabelle era intimidita e incuriosita al tempo stesso. Quando si fu spogliata, si distese pian piano sul lettino. Anche se era ricoperto da un lenzuolo di cotone, era gelido e la fece rabbrividire. La dottoressa finì di scrivere e ripose la cartella sulla scrivania, in silen-
zio. Era un'altra cosa che Isabelle aveva notato di quella donna: quando parlava dava ordini, ma tutto il resto lo faceva in maniera sommessa. Il contrasto tra quei due tratti era sconcertante. «Adesso diamo una gualdatina a questo Zi Cong Baby Palace, eh?». Isabelle sollevò la testa e guardò la dottoressa. «Come, scusi?». Con sua sorpresa, la dottoressa si avvicinò e le posò una piccola mano calda sullo stomaco. «È questo il tuo Zi Cong Baby Palace, il palazzo del tuo bimbo. Si chiama così nella medicina cinese. Voi lo chiamate glembo». «Glembo?». Isabelle iniziò inconsciamente a sorridere. Era più forte di lei. Cos'era mai un glembo? La dottoressa non parve altrettanto divertita e le toccò di nuovo lo stomaco. «Glembo. U-te-lo». «Utero. Ah, sì, grembo!». «Sì, glembo». Quel ricordo della prima volta che era andata dalla dottoressa cinese a Vienna rallegrò Isabelle e la fece sentire meglio per la prima volta da quando era arrivata lì. "Arrivata" non era la parola giusta. Apparsa era più appropriata, o materializzata. Come tutte le altre volte, era passata da un mondo all'altro con la stessa facilità con cui si gira la testa da una parte all'altra. Un istante prima era sull'autostrada vicino alla Schwechat, che parlava al telefono con Vincent, e poi, in un batter di ciglia, eccola lì seduta al tavolino di quel grande caffè all'aperto davanti a un orribile budino al cioccolato con delle noci sparse sopra, che pensava al suo Baby Palace, al palazzo del suo bimbo. Guardò davanti a sé e vide sul lato opposto della strada un cartello con su scritto MEDICINA TRADIZIONALE CINESE. Era stato quel cartello a regalarle quel delizioso mazzolino di ricordi dei primi tempi della sua gravidanza. Isabelle adorava ripensare a quei giorni. Ripeté "glembo" sottovoce e mangiò un'altra cucchiaiata di budino. Non amava il budino al cioccolato e quello era particolarmente cattivo. Troppo liquido, viscoso, con la consistenza di un frappè venuto male e l'insulto delle noci sopra. D'altro canto, da quando era incinta, Isabelle era diventata golosa di dolci come non era mai stata e divorava qualsiasi cosa che avesse dello zucchero dentro. Infilato tra spargisale e spargipepe, al centro del tavolo c'era un menù. Isabelle allungò una mano per dargli un'occhiata. Forse c'era qualcosa di meglio da mangiare in quel posto. Per quanto, almeno a giudicare da quell'insulso budino, non doveva essere un posto molto affidabile. Gli ele-
ganti caratteri bianchi in cui era stato stampato il menù spiccavano su uno sfondo nero. Aprendolo, Isabelle rimase più che sorpresa di vedere che in quel posto si potevano mangiare soltanto due cose: budino di cioccolato e zuppa di fagioli. Zuppa di fagioli? Isabelle ripose il menù e guardò di nuovo l'edificio di fronte con l'ambulatorio di medicina cinese. Non aveva molto altro da fare in quel posto, così si lasciò di nuovo andare al ricordo di quella prima visita dalla dottoressa cinese. Era stato Petras Urbsys a consigliarle di fare l'agopuntura. Le aveva dato lui il nome di quella dottoressa quando Isabelle gli aveva detto che era un po' che si sentiva quasi sempre stanca e debole. Isabelle non si allarmava di solito, ma aveva cominciato a domandarsi se quella svogliatezza non fosse dovuta alla gravidanza. Non aveva mai fatto agopuntura e all'inizio aveva avuto qualche esitazione, ma poi pian piano aveva cominciato ad apprezzarla. Dopo il trattamento, ogni volta, per tre o quattro giorni si sentiva rinvigorita e vibrante d'energia. La dottoressa era una donna pragmatica e severa che chiaramente conosceva il suo lavoro e Isabelle si sentiva in buone mani. Aveva lo sguardo fisso in quella direzione, quando la porta dell'edificio di fronte si spalancò e uscì una donna dall'aspetto ordinario, di mezza età, vestita di beige. Non aveva proprio nulla che potesse attirare l'attenzione. Isabelle continuò a pensare ai suoi trattamenti di agopuntura per qualche secondo, finché in un angolino del cervello qualcosa le disse: «Guarda un po' chi c'è». Si raddrizzò e focalizzò la sua attenzione su quella donna scialba che aveva già percorso mezzo isolato. La riconobbe, si alzò e le corse dietro: voleva assolutamente parlarle. Era la prima volta che vedeva qualcuno che conosceva nel mondo immaginario di Simon Haden! Era sorprendente, e ancor più se Isabelle pensava chi era quella donna. Mentre stava per scendere dal marciapiede, un bull terrier bianco con un orecchio nero arrivò pedalando su un piccolo triciclo rosso. Isabelle indovinò chi era perché una volta Simon non l'aveva finita più di raccontarle di Floyd, l'amato bull terrier che aveva da piccolo. In un altro momento l'avrebbe chiamato per cercare di fermarlo. Magari in quello strano posto i cani parlavano e Floyd poteva raccontarle qualcosa d'importante. Ma in quell'istante Isabelle non poteva lasciarsi scappare quella donna. Il cane passò e Isabelle attraversò la strada.
Simon Haden era indubbiamente un uomo egoista e immorale. Eppure una volta aveva fatto una cosa che Isabelle non si sarebbe mai aspettata da lui e che gliel'aveva fatto vedere in una luce nuova. Diversi anni prima, un sabato mattina, Isabelle aveva sentito squillare il telefono. Non se lo sarebbe mai immaginata, ma era Simon. Si trovava in città per un paio di giorni con sua madre. Isabelle pensò che stesse scherzando, ma era proprio così. Voleva farle incontrare sua madre e le aveva chiesto se aveva voglia di raggiungerli a prendere un caffè e una fetta di torta al Café Demel, sul Kohlmarkt. Un'ora dopo, quando Isabelle era arrivata, aveva trovato Simon che parlava animatamente con una donna ombrosa e immusonita che indossava degli abiti così uniformemente beige e ordinari da scomparire quasi tra le sfarzose decorazioni del caffè. Quando Simon l'aveva vista arrivare, si era alzato e le aveva presentato sua madre con grande trasporto ed entusiasmo. Beth Haden le aveva stretto la mano e l'aveva guardata con lo stesso sguardo indifferente che si può riservare a un mazzo di scope in un supermercato. Dopo di che Isabelle aveva trascorso con madre e figlio un'ora tediosissima, che era stata tuttavia una sorprendente dimostrazione d'amore filiale. Beth Haden era vedova da cinque mesi. Era andata a vivere in una comunità di pensionati nel Nord Carolina. Non c'era nulla che le piacesse. Non aveva amici, né hobby, né ambizioni. Nella sua vita non vedeva altro che limiti, noia, motivi di diffidenza o cose troppo irrilevanti per valere qualunque genere di sforzo da parte sua. Aveva ereditato del denaro alla morte del marito, ma non aveva intenzione di spenderlo. Per che cosa? Non le serviva nulla e non c'era nulla che desiderasse. Al che Simon l'aveva interrotta dicendole dolcemente: «Questo non è vero, mamma. C'era una cosa che volevi, e adesso che sei qui, ce l'hai: l'Europa». Per tutta la vita la signora Haden aveva sognato di vedere l'Europa, dopo avere letto da ragazza i libri di Upton Sinclair con Lanny Budd. Nel corso del suo matrimonio aveva periodicamente e stizzosamente ricordato quel suo desiderio al marito che l'aveva ignorato, o che le aveva detto di non essere ridicola. Al funerale di suo padre Simon le aveva messo un braccio intorno alla vita e aveva detto: «Mamma, andiamo in Europa insieme per qualche settimana, io e te da soli. Non c'è più niente che te lo impedisca ormai. Andremo dove vuoi tu. Ti farò da accompagnatore». Sua madre l'aveva guardato come se fosse lui ad essere ridicolo, ma alla
fine aveva accettato. Quando Isabelle li aveva incontrati, erano in Europa da due settimane e la signora Haden detestava ogni cosa. Era tutto così costoso. Il cibo troppo caldo o troppo freddo, insipido, insapore o inaffidabile. In Grecia aveva visto delle cose appese nelle vetrine delle macellerie che da sole sarebbero state sufficienti a farle venire gli incubi per tutta la vita. I letti europei erano troppo scomodi, pieni di bozzi com'erano, gli automobilisti tutti dei pazzi scatenati, la carta igienica ruvida come corteccia d'albero, e tutti fumavano, dappertutto. Non c'era scampo. Disse tutto questo con un tono tale, così dolente, monotono e severo, che Isabelle riuscì a stento a trattenersi dal ridere. Era la prima volta nella sua vita che incontrava una persona simile, un caso di misantropia tanto esemplare. Sotto sotto anche i più incontentabili nascondono qualche piccolo interesse e passione segreta, ma, a quanto pareva, non la madre di Simon. Presa da un impeto di malizioso ardire, Isabelle aveva chiesto a Beth se le era piaciuto il Louvre (troppa gente), Piazza di Spagna (con tutti quegli hippy drogati seduti sugli scalini!), il Partenone (non è che ci sia rimasto un gran che), e l'Opera a Vienna. Una noia. Come esperimento finale, Isabelle aveva ordinato una fetta della sua torta preferita, che per una piacevole coincidenza era una specialità esclusiva del Demel e veniva servita solo lì. Isabelle la conosceva da quando era bambina e se non era un dolce assolutamente divino quello, degno di essere servito in paradiso, allora non esisteva nulla che potesse esserlo. Sì, era davvero sublime. Quando la torta arrivò, Isabelle avvicinò il piattino alla signora Haden dicendole di assaggiarla. Beth non esitò e allungò la forchetta prendendosene un bel pezzo. Isabelle incontrò lo sguardo di Simon e gli mostrò il pollice alzato in segno di sicuro trionfo. Dopo avere inghiottito il dolce più squisito dell'universo, la signora Haden aveva posato la forchetta accanto al piattino. «È appetitoso. Ma le nocciole non mi fanno impazzire». E per di più camminava come una papera frettolosa. Allungando il passo per raggiungerla, Isabelle osservò Beth Haden avanzare a passi rapidi e dondolanti. Forse non proprio da papera, ma con le punte dei piedi all'infuori e ondeggiando in maniera evidente. Quando fu abbastanza vicina, Isabelle chiamò: «Signora Haden? Beth? Aspetti, signora Haden, la prego». Beth Haden si fermò senza voltarsi. Isabelle la raggiunse e la superò di
un paio di passi in modo da farsi vedere anche senza che l'altra si girasse. «Signora Haden, si ricorda di me? Sono Isabelle Neukor. Ci siamo incontrate qualche anno fa a Vienna insieme a suo figlio. Sono un'amica di Simon». Beth Haden non disse nulla. Era in attesa di qualche altro dettaglio. «Abbiamo preso un caffè insieme al Café Demel quando voi due stavate visitando l'Europa». Il volto della signora Haden si distese. «Oh, sì, Isabelle! Sei la ragazza che aveva preso quel dolce delizioso. Adesso mi ricordo di te. E se ricordo quel dolce! Mmmm! Com'è che si chiamava, già?». «Intende la Nusstorte, la torta di mandorle e nocciole?». «Sì, la Nusstorte. Esatto. È il dolce più squisito che abbia mai assaggiato in vita mia. Sono così contenta che me l'abbia fatto conoscere. Lo ricorderò sempre». Isabelle era a bocca aperta. Tutto di lei, persino la parola "squisito", la disorientava. Una persona cronicamente scontenta non trova mai niente squisito. E a giudicare dal loro incontro, Beth Haden era scontenta e insoddisfatta otto giorni su sette. «Come mai sei qui, Isabelle? Stai cercando Simon? Lo aspetto a pranzo, oggi. Gli preparo la zuppa di fagioli: è il suo piatto preferito. Zuppa di fagioli e budino al cioccolato come dessert», esclamò la signora Haden ridacchiando: una risatina deliziosa, felice e spensierata. Isabelle era sbalordita. Aveva la tentazione di avvicinarsi per guardarla meglio e assicurarsi di non avere davanti qualcun altro, una copia fasulla di Beth Haden, che rideva allegramente come una ragazzina e ricordava di avere assaggiato quel suo dolce "squisito" dopo anni. «Dai, vieni, che mi dai una mano a preparare la zuppa di fagioli. L'hai mai assaggiata, Isabelle? È buonissima, te l'assicuro». Non dovettero camminare a lungo. Quattro isolati più avanti, poi una traversa a sinistra e una a destra, ed eccole davanti a una bella casetta a livelli sfalsati con intorno un ampio terreno. Incuriosita, Isabelle domandò: «È qui che è cresciuto Simon?». Ricordava che la signora Haden aveva venduto la sua casa per trasferirsi in un residence per pensionati in Nord Carolina. Beth si passò la borsetta da una mano all'altra per aprire la porta di casa. «Sì. Ti va di vedere la sua camera?». Simon non si fece vedere per pranzo, ma la cosa non parve preoccupare
troppo sua madre. Sospirò e disse che ci era abituata: non era poi così grave. Lei e Isabelle prepararono la zuppa di fagioli insieme, apparecchiarono e si sedettero a chiacchierare mentre lo aspettavano. A differenza della prima volta che si erano incontrate, quando si era lanciata in quella invettiva contro l'Europa per poi non aprire più bocca, ora Beth Haden parve a Isabelle piacevolmente loquace: le parlò della sua vita, dei suoi trattamenti di agopuntura, del suo giardino, del nuovo droghiere al mercato che le faceva gli occhi dolci, ne era certa. Quel flusso ininterrotto di parole era in assoluto contrasto con quanto era successo la volta precedente che si erano incontrate. E quello che raccontava era anche divertente, anche se per il novantanove per cento ruotava intorno a se stessa. Di tanto in tanto Isabelle interveniva con un commento o una domanda, ma non era necessario, perché la madre di Simon aveva così tanto di cui chiacchierare che le bastava avere qualcuno disposto ad ascoltarla. Alla fine le chiese: «Perché sei qui, Isabelle? Non vivi a Vienna?». «Sì, ma sto cercando suo figlio. Ho bisogno di parlargli». Beth diede un'occhiata all'orologio e scosse la testa. «Non credo che verrà più ormai. E sono proprio sicura che fossimo d'accordo per oggi. Ma non è la prima volta che Simon fa così. Lo sai come sono i ragazzi, qualche volta si dimenticano, oppure trovano qualcos'altro da fare...». Per quanto fosse un rimprovero, nella sua voce c'era molto più amore e indulgenza che non disapprovazione. Adorava suo figlio, era evidente. Eppure c'era qualcosa che non le tornava, e dopo aver udito quelle parole, Isabelle comprese finalmente di cosa si trattava. A Vienna, quel giorno al caffè, finito l'ultimo pezzettino di torta, Simon le aveva detto in un tono un po' amaro: «Guarda, mamma, ho pulito il piatto». La signora Haden aveva scrollato una spalla con un'espressione imbronciata e l'aria di non curarsene. Simon aveva fatto un sorrisetto e si era rivolto a Isabelle dicendo: «È una cosa tra noi. Quand'ero piccolo, dovevo presentarmi a tavola appena venivo chiamato e dovevo finire tutto quello che avevo nel piatto altrimenti mi beccavo un ceffone». «Un ceffone?», Isabelle non aveva mai sentito una cosa simile. «Già. Mia madre mi concedeva esattamente sette minuti per arrivare a tavola. Li cronometrava. Potevo essere a giocare a pallone a un chilometro di distanza, ma se non arrivavo entro sette minuti, pam! E poi dovevo finire tutto quello che avevo nel piatto, senza scuse. Poteva essere pieno di cavolini di Bruxelles affogati nell'aceto tiepido, ma se non li mangiavo...». La signora Haden aveva concluso con un leggero sorriso: «Ti prendevi
un ceffone». «Proprio così, mamma, ed è successo più di una volta, ricordi? Siete sempre stati piuttosto rigidi con me», aveva detto lui posandole una mano su un braccio. Isabelle, indignata, era esplosa: «Ma è una follia!». «No, è così che si insegna a un bambino a rispettare quello che gli si dice». «No, signora Haden, è una follia. Si dovrebbe vergognare. Mi scusi», e Isabelle si era alzata ed era andata in bagno senza essere scusata. Oggi quella stessa donna sgradevole che picchiava suo figlio era soffice e dolce come zucchero filato e un po' triste che il figlio fosse stato tanto sgarbato da dimenticarsi di venire a pranzo. Ma Isabelle sapeva dalle sue visite precedenti che in quel posto non c'erano regole e che provare a cercarne o a trovarvi una logica era inutile. Non sapendo più cosa dire, Isabelle, soprappensiero, grattò col dito indice una macchiolina nera sul tavolo di cucina, bianco. Sembrava un vecchio avanzo di cibo. La macchia venne via subito, come se si trattasse di un sottile strato di rivestimento, lasciando intravedere sotto qualcosa di un altro colore, verde, verde erba. Isabelle grattò un altro po' e scoprì dell'altro verde. Cos'era? Perché quella pellicola veniva via così facilmente? Incuriosita, scoprì un'area sempre più grande prima con l'indice e poi con il pollice, più alacremente. Tutto verde. A mano aperta, strofinò vigorosamente il palmo sul tavolo tracciando un ampio cerchio. In pochi secondi il bianco scomparve e rimase soltanto il verde sotto. Guardando Beth in cerca di una spiegazione, Isabelle fu sorpresa di vedere le lacrime che le scorrevano lungo le guance. «Era verde, il tavolo, in realtà, non bianco. Non è mai stato bianco. La nostra cucina non è mai stata bianca. Simon ha cambiato praticamente tutta la casa. È rimasto così poco di com'era prima, che è quasi irriconoscibile». «Non capisco», disse Isabelle appoggiandosi allo schienale della sedia. «Io, suo padre, persino il colore di questo tavolo... Simon ha cambiato tutto quando ha ripensato alla sua vita dopo che è morto: noi, i colori, i mobili. È tutto diverso adesso. Deve avere detestato tutto, è rimasto così poco di quello che eravamo e della vita che abbiamo vissuto insieme. Dopo la sua morte, Simon ha cambiato tutto e ha creato questo mondo dai suoi ricordi. Qui siamo come lui avrebbe voluto che fossimo, non come eravamo. Proprio come questo tavolo: non era mai stato bianco, era verde. Il tavolo
della nostra cucina era verde. Ricordo quando l'abbiamo comperato, un giorno, in una svendita». «Come mai può raccontarmi queste cose?». Beth scrollò una spalla, una sola, esattamente come aveva fatto quel giorno a Vienna. «Perché non sei Simon. Qui tutte le sue creature conoscono la verità. Lui è l'unico a non saperlo. Questo posto è pieno di bugie, illusioni, inganni e miraggi... ma sono tutte illusioni di Simon. Finché non se ne renderà conto, rimarrà intrappolato qua». Isabelle non aveva nulla da perdere, così disse a Beth esattamente quello che pensava. «È stata una madre terribile, signora Haden, e Simon aveva tutto il diritto di trasformarla. È come se le avesse fatto un complimento: la vuole ancora nei suoi pensieri, ma non la donna che lo prendeva a schiaffi se non arrivava a tavola in tempo. Anch'io l'avrei trasformata se fossi stata al posto suo. Talvolta le bugie ci permettono di sopravvivere». Invece di rispondere o di difendersi, la madre di Simon guardò Isabelle per qualche istante, poi annuì lentamente. Quando Vincent Ettrich suonò al campanello di Flora due ore dopo il funerale, la trovò sola in casa, seduta sul divano del soggiorno con indosso il nuovo completo di biancheria intima di seta della Perla che ascoltava Otis Redding cantare I've Been Loving You Too Long. Flora aveva diverse strategie per scaricare la tensione e quelle facevano tutte e due parte del suo repertorio. Adorava la biancheria chic, la sensazione che le dava sulla pelle, il brivido che provava comperandola al pensiero delle occhiate che le avrebbe rivolto il suo nuovo amante quando l'avrebbe vista, la peccaminosa indulgenza di spendere un'assurda quantità di denaro in qualcosa che pesava meno di un passerotto e occupava più o meno la stessa quantità di spazio nell'universo. In altri aspetti della sua vita era incredibilmente pratica e misurata, ma non quando si trattava di biancheria intima, e soprattutto della sua "biancheria da stress", come la chiamava lei. Qualche volta, quando era di buon umore, andava a comperarsi qualcosa di nuovo e lo metteva da parte per risollevare qualche giornata storta. Esattamente come quella: per prima cosa, tornando a casa e trovandola deserta, Flora si era spogliata e aveva indossato quel nuovo completo acquistato a Roma tre mesi prima. «Ogni volta che sento che sta per venirmi una crisi di nervi, compro della biancheria intima», aveva più volte ripetuto. Quella terapia sembrava funzionare, perché Flora aveva una gran sfilza di reggiseni e mutandine, questo è certo, ma ancora non aveva mai avuto nessuna crisi di
nervi. E ascoltare la musica di Otis Redding era un antibiotico per la sua anima. Le sembrava all'improvviso che i suoi problemi fossero quisquilie in confronto alla tristezza che stillava da quelle canzoni. Dopo avere ascoltato un paio di album sentiva immancabilmente che il suo cuore si era liberato del peso che lo opprimeva. Flora era il genere di donna disinibita che non ha nessun problema ad aprire la porta a chiunque in déshabillé e quindi fu così che si presentò alla porta. Quando vide chi aveva davanti fece una smorfia, ma non perché fosse in imbarazzo di esibire il proprio corpo. Per Dio, Ettrich l'aveva vista anche più svestita. «Vincent». «Ciao, bel completo intimo. Conoscevo una ragazza14 una volta che aveva un negozio di biancheria. Posso entrare?». «Non è una gran giornata per fare due chiacchiere, Vincent. Sono certa che mi capisci, tra il funerale e tutto il resto». Lui la guardò con aria impassibile e, spingendola con delicatezza da una parte, entrò in casa. «Dobbiamo parlare del tuo amico Kyle Pegg». Quando Ettrich aveva lasciato il cimitero quella mattina, sapeva cosa significava ZUPPA DI VETRO, ma non dove fosse diretto. Insistette su quel punto quando si trovò a raccontare cos'era successo. Aveva visto Leni con quel cartello in mano e aveva sentito che doveva immediatamente lasciare il cimitero. Non sapeva perché, sapeva solo che doveva farlo. E Isabelle? Che cosa poteva pensare del fatto di essere abbandonata così nel bel mezzo del funerale? Per quanto potesse essere effettivamente un problema, ce n'erano altri più urgenti da risolvere. Doveva semplicemente fidarsi di lui, ed essere certa che se ne fosse andato per una buona ragione. Arrivato alla macchina, Vincent tirò fuori di tasca le chiavi, ma poi si bloccò, accigliato, e sollevò la testa. Si sarebbe detto che avesse sentito qualcuno chiamarlo, se non avesse avuto gli occhi chiusi. In realtà, aveva sentito una voce dentro di sé dirgli distintamente: «Vai nel bosco». Nient'altro. Quando riaprì gli occhi, si ritrovò a fissare gli alberi davanti a sé. Il villaggio di Weidling è al limitare del Wienerwald, ancora oggi un bosco fiabesco: scuro, fittissimo e sconfinato. Occupa una superficie cinque volte più grande di quella di tutta Manhattan. È facile perdervisi, anche se si trova soltanto a mezz'ora di macchina dal centro di Vienna. Sia Vincent che Isabelle amavano moltissimo passeggiare insieme tra quegli alberi e vi
andavano spesso. La severità dell'ombra e del silenzio del bosco era in perfetto contrasto con la sensazione che si prova a camminare accanto a qualcuno che si ama. Ettrich non si domandò perché avesse udito quella voce, né discusse l'ordine che gli aveva dato. Lasciò di nuovo cadere le chiavi in tasca e s'incamminò verso il bosco. Era ormai abituato a fidarsi della sua voce interiore, dei suoi istinti e delle sue sensazioni. Era stato riportato alla vita da Isabelle. Per quale motivo? A causa del loro bambino, Anjo. Forse era lui che gli stava parlando in quel momento, dicendogli cosa fare. Forse c'era Anjo dietro tutte quelle stranezze che lui stava sperimentando di recente, tra cui il messaggio di Leni Salomon dalla Morte. ZUPPA DI VETRO. Vincent entrò nel bosco e immediatamente sentì intorno a sé un fresco autunnale. L'aria che soltanto un istante prima odorava di terra polverosa e di estate adesso era umida, densa e feconda. Posò le mani sui fianchi e fece quel che amava fare ogni volta che entrava in un bosco: reclinò la testa all'indietro e guardò in su. Gli piaceva osservare i raggi di sole filtrare attraverso le toglie degli alberi. Quello che era venuto a rare poteva aspettare un minuto mentre lui guardava quei giochi di luce e le chiazze di colore sopra di sé. Cominciò a camminare. Non aveva idea di dove stesse andando, né di cosa dovesse fare in quel posto, ma ebbe la sensazione che camminare fosse per il momento la cosa giusta. Anche se ancora non lo sapeva, mentre lui si inoltrava nella foresta, il funerale di Leni Salomon giungeva al termine e Isabelle e Flora si incamminavano verso la macchina in cui Broximon le stava aspettando. Ettrich camminò per circa un'ora senza fermarsi a guardarsi intorno. Non aveva ancora idea del perché gli fosse stato suggerito di entrare nel bosco, ma non era preoccupato. Ci doveva essere una ragione, e gli sarebbe stata rivelata. Un uccello si mise a cantare in lontananza mentre il sole, accarezzando gli alberi, illuminava il terreno qua e là. Aveva incontrato un'unica persona addentrandosi nel bosco, un vecchio che, incrociandolo, gli aveva fatto un sorriso cordiale sollevando con due dita il cappello tirolese. Ettrich non aveva idea di chi fosse. Su alcuni alberi il Club Alpino Austriaco aveva fissato dei cartelli con informazioni del tipo: tre ore di cammino per l'Almhütte15. Che non erano, però, del minimo aiuto per Vincent, visto che non aveva idea di dove fosse l'Almhütte, né nessun altro dei luo-
ghi citati, in relazione a Weidling e a Vienna. Per cui, anche se ci fosse stato scritto tre ore per Zanzibar, sarebbe cambiato poco. Un paio di volte fu assalito da bruschi pensieri del genere cosa cazzo ci faccio qui? Ma li allontanò sempre rammentando a se stesso la voce che aveva sentito. A un certo punto vide davanti a sé, a circa un metro di distanza, un albero con su scritto KYSELAK. Tutti i suoi pensieri erano rivolti al paesaggio e ci mise un po' a capire di cosa si trattava. Al che, la prima cosa che gli passò per la testa fu: chi è quel matto che viene a incidere il suo nome su un tronco in mezzo al bosco? Chi vuole che lo veda? Quelle furono le parole della sua mente cosciente. La sua parte inconscia, invece destata dal cartello con ZUPPA DI VETRO, dichiarò senza alcuna esitazione: lo conosco questo nome. Dove l'ho visto? Si avvicinò all'albero e vi si fermò davanti, cercando di farsi venire in mente da dove venisse quello strano nome, KYSELAK. Scritto a stampatello, in maniera piuttosto rozza, quasi infantile nella sua severa semplicità, doveva essere stato inciso molti anni prima, perché le lettere erano ormai sbiadite e affondate nella corteccia. Ancora un po' di tempo e sarebbero state assorbite dall'albero: quella cicatrice imposta dall'uomo sarebbe guarita diventando quasi invisibile. KYSELAK. L'autografista! La firma sul muro a Vienna che Isabelle era stata così contenta di fargli vedere la prima sera che si erano incontrati. Quell'eccentrico personaggio che scriveva il proprio nome dappertutto ed era persino finito nei guai col kaiser a causa della sua mania. Ettrich aveva trovato per caso un Kyselak originale! Si guardò intorno, tutto eccitato e con un gran sorriso sulle labbra, nella speranza di poter condividere quella scoperta con qualcuno. Ma c'erano soltanto gli alberi, il sole e l'ombra, e a loro non importava nulla. Come sarebbe stata felice Isabelle di fare quel meraviglioso ritrovamento insieme a lui: sentì immensamente la sua mancanza. Per compensare la solitudine, allungò la mano sinistra e toccò prima l'albero, poi il nome. Accarezzò con le dita la corteccia intorno alla scritta e all'incisione, e come un cieco che sta leggendo in Braille sentì le sette lettere del nome di quell'uomo sotto i polpastrelli. Gli venne in mente una pubblicità televisiva di quando era bambino: «Fai passeggiare le tue dita attraverso le Pagine Gialle». Fece passeggiare le dita sopra l'autografo di Kyselak. Gli dissero: «Piacere di conoscerti». Per puro divertimento e per riempire il silenzio che lo circondava, Vin-
cent rispose ad alta voce: «Piacere mio». «Molto, molto bene», esclamò Joseph Kyselak. Era seduto sulla stessa roccia cui si era avvicinato qualche istante prima Ettrich per riposarsi. Indossava abiti d'un altro tempo e portava le lunghe, curiose basette che erano di moda nel diciannovesimo secolo a Vienna. «Eravamo preoccupati che non ci avresti trovati, Vincent». «È stato lei prima a dirmi di entrare nel bosco?». Kyselak sorrise. «No. È un sacco di tempo che stanno cercando di darti ogni sorta di istruzioni, ma tu non le hai mai sentite. Oggi è stata la prima volta. Congratulazioni». «È stato grazie a Leni, probabilmente. Grazie al suo messaggio», disse Ettrich indicando il cimitero. «Da quando sei tornato in vita, erano tutti messaggi, Vincent. Il cibo che mangiavi, il colore delle nuvole, il mio autografo su quell'albero... la lista è molto lunga». «Non lo sapevo». «Non fa nulla, dal momento che ora lo sai». Il tono di Kyselak era gioviale e spensierato. Ettrich indicò con il mento il nome sull'albero. «Sono io che l'ho trovato, o è lui ad aver trovato me? Voglio dire, sono stato guidato qui, o l'ho trovato da solo?». Kyselak incrociò le gambe. «Hai fatto tutto da solo. È questo che volevano scoprire, se hai finalmente aperto gli occhi. A questo punto è chiaro di sì». A Vincent cominciò a prudere il naso. Staccò la mano dall'albero per grattarselo. E Kyselak scomparve. Così, puff. La reazione di Vincent non fu diversa da quella di Flora sull'autostrada quando si era accorta che Isabelle non c'era più. Lui, tuttavia, a differenza di Flora, sapeva cosa fare. Appoggiò di nuovo la mano sull'albero e Kyselak ricomparve prontamente, seduto sulla sua roccia. «Molto bene, Vincent. Molto, molto bene». Ettrich guardò la propria mano appoggiata sul tronco. Comprese che in quel modo poteva mettersi in contatto con la storia di quell'albero, e farla materializzare davanti a sé, incluso Kyselak che vi aveva inciso il proprio nome così tanto tempo prima. Ettrich aveva tentato di fare qualcosa di simile quando aveva mostrato a Isabelle la sua mano passata, presente e futura Ma ora che aveva compreso come funzionavano le cose, sapeva anche che non si può mostrare il futu-
ro, perché ancora non esiste, nemmeno nel tempo. Il dito mancante di Isabelle era soltanto una delle tante eventualità future possibili. Quel che si poteva fare, invece, era vedere passato e presente contemporaneamente, se solo si impara a percepire il tempo nel modo giusto. Ecco cosa stava facendo Ettrich in quel momento, ed ecco perché poteva parlare con un uomo che aveva inciso il proprio nome su quell'albero quasi due secoli prima. «Puoi farlo anche con te stesso?». «Non capisco». Kyselak distese le braccia dietro di sé e vi si appoggiò. «Quel che stai facendo con quell'albero, conoscere la sua storia, vedere ogni singolo elemento che la costituisce. Puoi farlo con te stesso?». Quella domandò lo terrorizzò. «Penso di poterlo fare, ma a dire il vero, mi cago sotto al solo pensiero». «Non vuoi vedere cos'è che ha fatto di te ciò che sei ora? Non vuoi vedere la tua vita come realmente è stata, o è?». Nonostante il timore, Ettrich ebbe un lieve sorriso, perché gli era venuta in mente una cosa. «Lo specchio della verità». «Cosa sarebbe?». «Avevo un'insegnante al liceo che ci parlò dello specchio della verità. Ci disse di immaginare uno specchio che riflettesse l'assoluta verità: tutto il bene e tutto il male che c'erano dentro di noi. Un po' come Dio, che sa tutto di noi e non mente. Ne parlammo a lungo in classe. Poi chiese chi avrebbe voluto provare a dare una sbirciatina in quello specchio. Non furono in molti ad alzare la mano». «E tu, Vincent?». «Non la alzai». «Ramsete, il grande faraone egizio, aveva un leone addomesticato che aveva chiamato Sterminatore dei suoi nemici. Lo sapevi?». Preso alla sprovvista, Ettrich non capì di cosa si fosse messo a parlare Kyselak. Ramsete? Un leone addomesticato? «No. Eh, no, non lo sapevo». «Già, esattamente come te ora. Anche tu hai un leone che può sterminare i tuoi nemici. E molto potente, anche». Ettrich replicò, pensieroso: «Non riesco a capire. Non ce la faccio proprio». «Anche tu possiedi un leone, Vincent: è dentro di te, fa parte di te. Lo sterminatore dei tuoi nemici. È quel leone che ti ha condotto qui, che ti ha
detto di toccare il mio autografo sull'albero, e come farmi apparire. Può compiere prodigi se impari a conoscere cosa è in grado di fare. Farmi parlare con te è solo un esempio. Ma il tuo leone non viene quando lo chiami. Non è ancora addomesticato. Per quello, devi guardare nel tuo specchio della verità e vedere cosa sei realmente. Non c'è altro modo, Vincent. Non saprai mai cosa sei in grado di fare se non sai chi sei. Sai cos'è la vita e sai cos'è la morte. Sai persino cosa significa ZUPPA DI VETRO. È ora che impari cos'altro sa Vincent Ettrich in ogni angolino della sua anima. Va al di là del bene e del male che sono in te. Quelle sono bazzecole. Trova le tue parti immortali». Non ci volle molto. Non ci volle proprio nulla a fare quello che Kyselak gli aveva suggerito. Poco dopo Vincent Ettrich stava uscendo dal bosco, non molto lontano dal punto in cui vi era entrato. Vide che la macchina non c'era più, ma la cosa non lo preoccupò. Sapeva che Isabelle era con Broximon, il che significava che per il momento era al sicuro. S'incamminò lungo la strada e girò in direzione di Weidling. Ci avrebbe messo circa un quarto d'ora a raggiungere il paese, ma almeno così avrebbe avuto il tempo di riorganizzare i pensieri e forse persino chiarire un paio di cosette, adesso che vedeva il mondo e la propria vita con occhi nuovi. Procedeva sul ciglio della strada a capo chino mentre di tanto in tanto qualche macchina lo superava. Non notò le graziose villette in Jugendstil disseminate tra gli alberi, né quelle secolari fattorie in pietra e grosse travi di legno, che erano una traccia del tempo lontano in cui li intorno non c'era altro che campagna e Vienna era ancora a più di un giorno di viaggio. Se avesse voluto, Ettrich avrebbe potuto fermarsi accanto a uno qualsiasi di quegli edifici e, appoggiandovi una mano sopra, vedere com'era stata la vita lì a quel tempo. Nel cortile di una piccola fattoria avrebbe potuto assistere a quel che era accaduto un giorno d'inverno del 1945, quando le truppe d'invasione russe avevano sparato allo smilzo cavallo della fattoria e banchettato con la sua carne fumante. Oppure, diverse case più avanti, avrebbe potuto vedere Franz Schubert seduto in un rigoglioso giardino in una giornata d'estate, sereno e in pace con se stesso per la prima volta da mesi. Ettrich poteva vedere tutto ciò, ma sapeva che era meglio concentrarsi su come salvare Isabelle e Anjo dal Caos. Un tassista che viveva lungo la strada stava partendo in quel momento
per andare in città a cominciare il suo turno di lavoro. Gli abitanti del villaggio non andavano spesso in giro in giacca e cravatta, né usavano il taxi. Avevano le loro auto, oppure andavano in bici, o a piedi. Il tassista, perciò, fu felice quando quell'uomo dall'accento americano gli disse in un buon tedesco che voleva andare all'aeroporto. Era un viaggio lungo, voleva dire un bel po' di soldi. Un modo splendido d'iniziare la giornata. Il tassista, un tipo di nome Roman Palmsting, a metà strada, però, cominciò a rimpiangere di aver caricato quel passeggero. Mentre passavano davanti all'Urania Theater, in centro, sulla strada per l'aeroporto, infatti, lo aveva sentito parlare da solo. Palmsting non ci sentiva bene, perché passava il suo tempo ad ascoltare vecchia musica heavy metal da un walkman da due soldi. Quando l'aveva sentito mormorare qualcosa, perciò, aveva pensato che gli volesse indicare il percorso migliore. Si offendeva sempre, se un cliente lo faceva. Perché andava orgoglioso della propria onestà. Non una sola volta in quindici anni aveva scelto il tragitto più lungo o una strada sbagliata per guadagnare qualche soldo in più. «Scusi?», aveva chiesto lanciando un'occhiata nello specchietto retrovisore. L'aveva visto borbottare qualcosa guardando fuori dal finestrino. Al che aveva sollevato le sopracciglia ed era tornato a guardare davanti. Se voleva davvero attirare la sua attenzione, gli avrebbe senz'altro ripetuto quello che aveva detto. Sino a un paio di minuti prima Ettrich non aveva pensato alla copia delle chiavi della macchina e dell'appartamento di Isabelle, che aveva con sé. Erano le uniche cose di lei che avesse in tasca, così le tirò fuori e le strinse come un talismano mentre guardava fuori dal finestrino. Immediatamente gli era arrivata un'ondata di informazioni simile a un flusso di segnali radio su un apparecchio tanto potente da ricevere chissà quante stazioni tutte insieme. Sembrava una specie di gergo incomprensibile finché non ci si sintonizzava. Ettrich si rese conto che quando aveva preso le chiavi in mano, si stava chiedendo dove fosse Isabelle e se stesse andando tutto bene. Ora lo stava scoprendo, ma erano talmente tante le notizie che si accavallavano nella sua mente, che riusciva a decifrarne soltanto una minima parte. Era tutto così nuovo per lui. Aveva bisogno di tempo per imparare cos'era in grado di fare. Avrebbe voluto dire stop, o almeno fare rallentare le cose un attimo, per orientarsi un po'. Ma tutto lasciava intendere che la velocità era quella, e se non riusciva a tenere il passo, peggio per lui.
Gli arrivò una cosa tanto strana che dovette ripeterla ad alta voce. «Zi Cong Baby Palace». Ettrich pronunciò ogni singola parola con estrema lentezza e chiarezza. Poi le ripeté ancora, con il punto di domanda in fondo. «Zi Cong Baby Palace? E che diavolo è?». Il tassista lo guardò a lungo nello specchietto retrovisore Nel giro di pochi secondi un gran torrente di immagini attraversò la mente di Ettrich: una piccola mano su uno stomaco nudo. Una donna orientale con un camice bianco. Un'altra donna, caucasica, vestita di beige. Una mano su un tavolo bianco. Un verde luminoso. Una fotografia di Simon Haden. Ancora la donna in beige, in lacrime questa volta. «Non ci capisco niente. Non ci capisco niente». Disorientato, sollevò una mano verso il finestrino, come a indicare a qualcuno dall'altra parte di aspettare un momento. Roman Palmsting guardò di nuovo nello specchietto retrovisore e arricciò le labbra. Cominciò a pensare cosa avrebbe potuto fare se quel tipo era matto e si metteva a fare cose strane o pericolose o peggio ancora. Un semaforo giallo richiamò la sua attenzione sulla strada. Così non poté vedere Ettrich che si lasciava andare contro il sedile, sconfitto, con un'espressione incredula. Ma lo sentì esclamare sgomento: «No! Non è andata, non è possibile». Diversi minuti più tardi, in autostrada, Ettrich disse all'autista di accostare dietro a una Range Rover parcheggiata tutta storta nella corsia d'emergenza. Palmsting ne fu ben felice e, una volta che Vincent gli ebbe pagato la corsa, fu più che sollevato di ripartire e lasciarlo lì. L'ultima immagine di quello strano tipo in giacca e cravatta fu di lui, appoggiato alla portiera aperta della Range Rover, che parlava con qualcuno dentro. Ma a quel che poteva vedere Palmsting, dentro la macchina non c'era nessuno. Quel pazzoide stava parlando da solo un'altra volta. Naturalmente il tassista non poteva scorgere quell'ometto seduto sul cruscotto, intento ad ascoltare Vincent Ettrich. John Flannery stava scrivendo il suo diario quando il campanello suonò. S'interruppe, chiuse la stilografica d'argento e lesse quel che aveva appena scritto: «Da vicino la figa assomiglia quasi sempre a un pezzo di gomma da masticare biascicata». Flannery aveva scoperto il gusto di tenere un diario giornaliero e lo faceva da anni ormai. Si considerava un flâneur, un bon vivant, un acuto osservatore e ammiratore della vita sulla terra e dell'umanità in senso lato. Gli piaceva la gente, sul serio. Non esitava certo ad ammazzare qualcuno o
a rendere infelice la vita di chiunque, ma in genere era un piacere per lui avere a che fare con gli esseri umani e non si lamentava affatto di dover lavorare con loro. Sentì l'alano alle sue spalle avvicinarsi alla porta e aspettare lì davanti, come al solito. Flannery odiava quel cane ogni giorno di più, ma non ci poteva fare nulla. Quando gli era stata assegnata quella missione, Luba era stata incaricata di accompagnarlo, come sua "partner". Il che significava che ancora non si fidavano in pieno di lui, per quanto non avesse mai fatto nessun passo falso che giustificasse tale sfiducia. Era un buon soldato: obbediva agli ordini e non si lamentava mai. E come veniva ricompensato? Con un cane grande come una portaerei che controllava ogni sua mossa e almeno una volta al mese andava a spiattellare tutto nelle alte sfere. Fortunatamente Flora Vaughn detestava i cani, così almeno non era tra i piedi quando lei arrivava. John Flannery aveva due appartamenti a Vienna: quello più piccolo vicino al canale del Danubio, dove lo andava a trovare Leni. E un altro, in un distretto diverso, a quasi cinque chilometri di distanza, di cui era inquilino Kyle Pegg. L'appartamento di Pegg era più gradevole e Flannery vi trascorreva la maggior parte del suo tempo. Era all'ultimo piano di un edificio del diciannovesimo secolo, con un'ampia vista sulla zona orientale della città. Aveva disposto la scrivania in modo da potersi godere il panorama. Stava spesso seduto lì con un bicchiere di whiskey a guardare fuori della finestra, pienamente soddisfatto. Alzandosi per andare ad aprire la porta, si domandò chi potesse essere. Non ne aveva idea. Leni non sapeva di quell'appartamento, e poi era morta. Flora era a casa. Era troppo tardi perché potesse essere il postino. Forse era uno di quegli invasati appartenenti a qualche setta religiosa che vanno di porta in porta a vendere la loro affascinante versione di Dio. Gli erano sempre piaciuti i fanatici. Il cane bloccava la porta e se non si spostava Flannery non sarebbe mai riuscito ad aprire. Era capitato altre volte. Era come se quell'animale si prendesse gioco di lui con la propria stazza. Avrebbe voluto allungargli un bel calcio, a quella dannata bestiaccia, per farla spostare di lì, ma sapeva che, se l'avesse fatto, un'informazione succulenta come quella sarebbe giunta immediatamente al suo capo e gli avrebbe soltanto causato dei guai. «Ti puoi spostare?». Si fissarono, ma il cane non si mosse. «Per favore?».
Luba si spostò di qualche centimetro, giusto per dargli modo di arrivare alla porta. «Grazie», e aprì. In corridoio c'era Vincent Ettrich. Ancora in giacca e cravatta, con gli stessi vestiti che aveva al funerale, avrebbe potuto essere facilmente scambiato per uno di quegli invasati appartenenti a qualche nuova setta. Flannery era sinceramente sbalordito. «Signor Flannery, o signor Pegg, come preferisce che la chiami?», la voce di Vincent era rilassata e sicura, senza la minima traccia di paura. Un gran sorriso comparve sul volto di John Flannery. Quale formidabile battuta d'esordio! Non aveva mai creduto che Vincent Ettrich sarebbe stato tanto padrone di sé quando si sarebbero incontrati, complimenti. Era molto più interessante che avere di fronte un coniglio con le orecchie basse. «Preferisco Flannery, se non le spiace. Vuole entrare?». Ettrich entrò, diede un'occhiata a quel grosso cane bianco e nero e si diresse in soggiorno. Flannery fu ulteriormente sorpreso. La maggior parte della gente quando vedeva Luba per la prima volta esitava, oppure sorrideva perplessa davanti a quel bestione. Ettrich non fece né l'una né l'altra cosa. La guardò come se fosse un innocuo tavolino da tè e proseguì. In soggiorno si avvicinò a una finestra a guardare quella stupenda veduta. Flannery lo seguì e si fermò alle sue spalle senza dire nulla. Aspettava affascinato di vedere quale sarebbe stata la prossima mossa di Ettrich. Se sapeva che John Flannery e Kyle Pegg erano la stessa persona, era a conoscenza di un discreto numero di cose, eppure non mostrava la minima paura. «Ha avuto il mio indirizzo da Flora?». «Sì, sono appena stato da lei», rispose Ettrich senza voltarsi. Questa era maleducazione bell'e buona. Il sorriso di Flannery scomparve. La cosa non gli piacque per niente. Ettrich avrebbe dovuto girarsi, guardarlo, rispondere alla sua domanda e poi tornare a contemplare il panorama. Quella in fondo era casa sua e Vincent Ettrich si era invitato da solo. «Leni è mai venuta qui, signor Flannery?». «No». «Soltanto Flora?». «Sì». Ettrich allungò una mano e toccò con due dita la maniglia d'ottone della finestra. Per un attimo Flannery pensò che stesse per aprirla.
«È stato lei a uccidere Leni». Era un'affermazione, non una domanda. Non c'era ragione perché Flannery dovesse mentire o essere evasivo. «Sì. Suppongo che si possa dire così». «Aveva intenzione di uccidere anche Flora per convincere Isabelle a seguirle?». Flannery rispose allegramente: «Forse, anche se non ci avevo pensato». Luba entrò e si sistemò su un grosso materassino di gommapiuma posizionato per lei sotto una finestra del soggiorno «Le spiace se mi siedo?», la voce di Ettrich era ancora tranquilla e cordiale. Senza traccia alcuna di angoscia, né di disperazione. «Affatto. Qualcosa da bere? Un caffè?». «No, grazie. Mi è sufficiente sedermi». Vincent si allontanò dalla finestra dirigendosi verso il soffice divano in pelle nera che Flannery adorava. Era uno dei pochi mobili che arredavano la stanza. L'aveva cercato per mesi e alla fine aveva trovato quel che voleva in uno showroom in Italia, a Udine. Gli era costato ottomilacinquecento euro. Era bellissimo, sexy, comodo, perfetto. Era quasi stato sul punto di bastonare Luba il giorno che l'aveva trovata che dormiva distesa lunga lì sopra. Quando l'aveva spinta via, c'erano delle macchie chiare sul divano, di urina ormai asciutta (immaginò), che aveva dovuto pulire con cura. Sedendosi, Ettrich disse: «Vorrei sapere qualcosa a proposito del cancro». Quella dichiarazione apparve a Flannery così bizzarra e fuori contesto, che si fermò di colpo e restò immobile, sbalordito. Quella storia stava facendosi più interessante di momento in momento. Flannery si sedette all'altro capo del divano. Ettrich proseguì: «Me ne parli. Dovrebbe essere ferrato in materia, è un campo di vostra competenza». Il loro primo incontro non stava andando secondo i piani di Flannery, ma era innegabilmente originale, quanto mai singolare. «Non me lo spiego, il cancro». Flannery guardò Ettrich per vedere se stesse facendo il furbo: c'era qualcosa nella sua voce o un sorrisino negli occhi che indicava che lo stava prendendo per il culo? «Che cosa c'è da spiegare?». Flannery cercò di modulare la voce in modo tale da sembrare serio, ma non troppo, non si sapeva mai. «Quando un tumore distrugge un corpo, distrugge anche se stesso». Flannery annuì. «Il che significa che o è attratto dalla morte, o è mortalmente stupido.
Perché il risultato è quello: muore, quando muore il corpo che ha attaccato». Ettrich, irritato, aveva alzato la voce. «Non ci avevo mai pensato in questi termini, ma è così, Vincent». Luba si avvicinò ai due uomini e posò il suo testone sulle gambe di Ettrich, il quale non parve preoccuparsene. Ma lo sapeva che quel cane era in grado di capire? Che comprendeva tutto quello che stava dicendo? Flannery guardò Ettrich e si domandò quanto sapesse e perché fosse lì. «Il Caos è come il cancro, vero, John?». Con la testa ancora posata sulle gambe di Ettrich, gli occhi di Luba si spostarono su Flannery. «In che senso?», replicò questi con voce neutrale. «Perché ogni volta che il Caos arriva, distrugge e scompare. Non ha lunga vita, se ci si pensa. Malattie, asteroidi che entrano in collisione con la Terra, incidenti aerei... uccidete e poi anche per voi arriva la morte, o qualsiasi sia la fine che attende il Caos. Come il cancro». Flannery scosse la testa. «Questo succedeva ai vecchi tempi, Vincent. Le cose sono cambiate adesso. Ormai siamo consapevoli di quel che facciamo. Il Caos non arriva più a caso, c'è sempre una ragione. Usando la tua analogia, è come se il cancro scegliesse le sue vittime con cura». Ettrich accarezzò il cane. «Ma hai dimenticato una cosa importante». «Sarebbe?». «La vostra storia, quel che è successo finora. Quando, in passato, non avevate un cervello e distruggevate e basta. Tutto ciò è ancora dentro di voi, John. Non potete sbarazzarvene, così come io non posso cancellare il mio DNA. Per quanto siate coscienti ora, il problema è che vi portate comunque dentro il vostro passato. Prendi un cane: se lo metti in difficoltà e si spaventa, ritorna ad essere un lupo e ti attacca». Ettrich tirò fuori di tasca un coltello a serramanico e lo aprì. Con un guizzo brutale, lo infilò nell'elegante divano in pelle di Flannery. Di sasso, Flannery gridò: «Ehi! Cosa fai?». Dallo squarcio affiorò una sostanza chiara, traslucida e gelatinosa, simile a gel per capelli: un fiotto di una ventina di centimetri che salì in fretta su per la gamba di Ettrich, lungo il braccio, la mano, fino al muso dell'alano, che scostò subito la testa, ma non abbastanza in fretta, perché quella sostanza gli era già entrata in un occhio. Luba non sentì nulla. Il Caos era entrato dentro di lei. Il Caos primordiale delle sue origini: pura espressione di quanto Luba era stata una volta e di quanto era tuttora, ineluttabilmente, parte di lei.
Quando Ettrich aveva toccato il punto in cui un giorno il cane si era sdraiato, aveva stabilito un contatto con Luba come era successo con Kyselak nel bosco. Solo che questa volta Ettrich era risalito consapevolmente al tempo in cui Luba era puro Caos primigenio. Ecco cos'era appena sgorgato fuori dal divano penetrando dentro di lei: Caos privo di pensiero e di complessità. Come il cancro, quella forma primitiva del Caos sapeva fare soltanto una cosa, moltiplicarsi. E il Caos nella sua forma più evoluta non poteva competere con la sua espressione originaria più autentica. Ettrich non vide l'effetto che aveva provocato su Luba, perché preferì osservare Flannery. Il cane perse la vita nel momento stesso in cui quella sostanza gli penetrò nell'occhio: un corpo vivente è un organismo regolato dal principio dell'ordine, tutte le sue cellule e strutture più complesse funzionano armonicamente in funzione di una causa comune. Lascia cadere una goccia di delirio e sgomento al suo centro e quella macchina tanto fragile quanto sofisticata andrà subito in mille pezzi. Flannery vide Luba morire. Poiché avevano la stessa origine, comprese all'istante, con precisione, cosa sarebbe successo. Il Caos che era stato risvegliato in lei avrebbe continuato a espandersi. Alla morte del cane, avrebbe assalito la sua forma precedente per distruggerla. Tutto ciò che Luba era mai stata fu infestato e spazzato via. Una vita dopo l'altra, un'incarnazione dopo l'altra venne disintegrata sotto gli occhi di Flannery, che non riusciva a distogliere lo sguardo da quello spettacolo. In tutte le sue molte vite sulla terra non aveva mai visto nulla di simile. Era una scena talmente ipnotica che non si avvide che Ettrich si era proteso verso di lui e gli stava toccando delicatamente un ginocchio. Non lo vide chiudere gli occhi, girare la testa un momento e poi voltarsi di nuovo verso di lui. Non vide la sicurezza nei suoi occhi quando li riaprì, come dopo una decisione importante e definitiva. Riusciva soltanto a osservare a bocca aperta come ogni traccia di Luba veniva cancellata dalla faccia della terra. «John». Ettrich aspettò un po' e poi ripeté a voce più alta: «John». L'espressione sul volto di Flannery era quella di un bambino davanti a un pitone di sei metri che sta divorando una preda: inorridito e stregato al contempo. «Hai visto, John? Sono stato io. Hai sentito? Sono stato io a farla fuori». Stupefatto, Flannery non poté fare altro che annuire lentamente. Sì, aveva sentito. Aveva capito. «E adesso faccio fuori anche te. Per quello che hai fatto a Leni, per tutto
quello che hai fatto. Tutti quelli cui hai fatto del male e che avete annientato, tu e il tuo cane. Tu e tutti i tuoi cani». Ettrich parlò con voce tranquilla, ma Flannery vi riconobbe una rabbia gelida, e non poté resistere alla tentazione di replicare: «Be', puoi andare a farti fottere, Vince. La tua Isabelle è finita dove volevamo noi. E tu non puoi farci niente, mio caro». «No. Ma posso mandarle un messaggio, John. E il mio messaggio sarai tu». Ettrich si alzò e, senza più voltarsi indietro, si avviò verso la porta. Flannery lo guardò andarsene, lanciando qualche occhiata furtiva allo squarcio nel divano, aspettandosi di vedere affiorare qualcosa da un istante all'altro. Ma si sbagliava, perché Vincent aveva rintracciato e liberato il Caos primigenio di Flannery quando gli aveva toccato il ginocchio. La porta si richiuse e dopo qualche secondo John Flannery sentì un lieve formicolio in tutto il corpo, simile alla sensazione che si prova quando si ha una gamba intorpidita. O quando si beve un ginger ale e le bollicine ti vanno su per il naso. È una sensazione buffa, strana, quasi piacevole. Per un po'. Drownstairs «Dove cavolo siamo?». Stavano correndo, era evidente. Stavano tutti e tre correndo a gambe levate, perché erano inseguiti da un alieno spaziale, un varano di Komodo e George W. Bush. Fino a quel momento era andato tutto così bene. Splendidamente. Avevano trovato Isabelle. Due teste funzionano sempre meglio di una e Simon e Leni avevano escogitato insieme un ottimo piano per trovarla nel mondo dell'aldilà di Haden. Non aveva funzionato. Ma poi, per pura coincidenza, si erano imbattuti nel cane che aveva avuto Simon quand'era piccolo, il bull terrier Floyd, che aveva detto loro di aver visto Isabelle e sua madre insieme, per strada. Erano corsi a casa di Simon e le avevano trovate sedute sotto il portico intente a parlare di medicina cinese. Per celebrare l'incontro avevano portato Isabelle a mangiare in un'Heurigen, un'enoteca ristorante che conoscevano e che piaceva a tutti e tre. Quand'era vivo, Haden c'era andato spesso in occasione dei suoi viaggi a Vienna, così l'aveva sognata quattro volte. Ecco perché era anche lì. Si trovava a Salmannsdorf, al limitare di un pittoresco vigneto in collina. Quando vi arrivarono, quel pomeriggio, sentirono l'aroma del pollo alla
griglia e il profumo di uva matura. Allettati da quella splendida giornata di tarda estate, si sedettero in un tavolino all'aperto. La campagna era tranquilla, immersa in un silenzio quasi totale. Erano soli in giardino, fatta eccezione per un uomo che Haden conosceva quand'era vivo e che era seduto da solo in un angolo a leggere il giornale. Ordinarono vino e pollo per tutti, perché il profumo era irresistibile. Si rilassarono per qualche minuto in quell'atmosfera di pura felicità, prima di parlare di qualsiasi cosa. Isabelle era impaziente di sentire com'avevano fatto a trovarla, ma Leni e Simon avevano un'aria talmente fiera e giubilante che decise di aspettare e lasciarli godere un po' del loro trionfo prima di fare qualsiasi domanda. Non si poterono crogiolare a lungo. Con loro grande fastidio e costernazione una radio iniziò a strepitare chissà dove, mandando in frantumi la pace e il silenzio con una sconclusionata e melensa canzonetta pop. Leni guardò Isabelle e fece una smorfia. Haden si voltò di qua e di là cercando di localizzare l'origine di quella musica molesta per cercare almeno di farla abbassare. Niente. Quell'indisponente lamento continuò a echeggiare tingendo la loro euforia di un giallino itterico e malaticcio. Per di più, terminato quel motivo, ne seguì un altro ancor più terribile, una canzone del gruppo rap Drownstairs, che aveva avuto un successo spaventoso un paio d'anni prima. L'estate che era uscita, bastava accendere la radio per sentirla. Immancabilmente. Un vero tormentone. «Dio santo, lo detesto, questo pezzo», disse Leni agitando una mano davanti a sé. Non perché fosse caldo, ma perché voleva allontanare quel suono dalle sue orecchie come se fosse una zanzara che le ronzava intorno. Haden disse: «La detesto, questa canzone del cazzo». Leni gli rivolse uno sguardo sprezzante. «Simon, l'ho appena detto io». Lui la ignorò. «Ricordo che era alla radio, quel giorno in macchina, quando sono morto». «Wow. Ricordi davvero questo particolare?». «Sì, ricordo sempre più dettagli negli ultimi tempi. E alcuni non sono affatto piacevoli». Quella frase fece calare il silenzio tra loro per un po'. Inconsapevolmente, Isabelle cominciò a canticchiare quel motivo. Era più forte di lei. Haden fece trasalire tutti mettendosi tutt'un tratto a gridare: «Qualcuno spenga 'sta musica del cazzo, per favore!».
Che fosse perché qualcuno l'aveva sentito o perché quello era il mondo di Haden e lui lì era il boss assoluto, comunque fosse, la musica s'interruppe bruscamente. Simon ringraziò e disse: «Non solo è così stupida, ma l'avete mai visto il video? I componenti del gruppo vengono inseguiti attraverso il deserto da una lucertola gigantesca e da un tipo con una tuta spaziale d'argento». «E da George Bush, non dimenticare». «È vero, quei rapper hanno anche George Bush alle calcagna. E vi ricordate cosa succede alla fine del video? Bush li becca e se li mangia». «Se li mangia?». Isabelle non guardava la televisione, perciò non aveva mai visto quel video. «Sì, il presidente Bush se li pappa in un solo boccone a quei rapper del cappero». La cameriera portò da bere e disse che per il pollo mancava ancora qualche minuto. Quando se ne fu andata, Isabelle chiese: «E poi cosa succede?». «Dove?». «Nel video. Se Bush se li mangia, la canzone finisce, no?». Al che Leni commentò in tono sprezzante: «Sarebbe logico, invece no, va avanti!». Lei e Isabelle si misero a chiacchierare, ma Haden si estraniò per pensare a quella canzone e al video. O meglio, all'ultima volta che l'aveva sentita, qualche istante prima di morire. Era seduto in macchina nell'autolavaggio su Cienega Boulevard a Los Angeles. Tre giorni prima era stato licenziato. Un mese prima la donna con cui viveva gli aveva detto di andarsene da casa sua. Ricordava tutte quelle cose ora, in ogni dettaglio. Quand'era arrivato qui, all'inizio, non sapeva neanche di essere morto. «Simon». La voce di Leni lo raggiunse da lontano. Lui cercò d'ignorarla. Era da poco che aveva cominciato a vedere con chiarezza e a comprendere gli eventi della sua vita ormai conclusa. Questa era la prima volta che quell'istante prima della fine gli si era ripresentato alla mente e voleva analizzarlo per vedere se... «Simon!». «Cosa, Leni?». «Cosa stai facendo?». «Perché?». «Guardati intorno! Cosa stai facendo?».
Quando Haden riportò la sua attenzione sul momento presente, vide che era tutto scomparso, il ristorante, i vigneti: erano rimasti solo loro, senza più nulla intorno. «Cos'è successo?». Leni lo afferrò per una spalla. «È quello che ti sto chiedendo. Che cosa stavi facendo?». «Pensavo a quando sono morto». «E che altro?». «Nient'altro, Leni. Solo quello». «E allora cos'è successo?». Haden scosse la testa. «Non lo so». Sarebbero andati avanti e probabilmente avrebbero finito per litigare se i quattro componenti dei Drownstairs, vestiti con una tuta bianca da jogging e berretti da baseball bianchi messi di traverso, non fossero apparsi dal nulla, correndo, e non li avessero superati senza dire una parola. Non sentirono altro che il fruscio delle loro tute, i loro passi pesanti e il respiro affannato di quattro uomini spaventati che corrono a più non posso. Un metro circa dietro di loro, un altro, con la stessa tuta bianca, il più lento del gruppo, si fermò e disse a Haden. «È meglio che ti dai una mossa, fratello. La tua ragazza qui ha combinato un bel casino mettendosi a canticchiare la nostra canzone». Indicò Isabelle. «Il Caos l'ha sentita. Le sta addosso, e stava ascoltando. Ma è te che si vuole pappare. Noi siamo solo l'antipasto. Hai capito?». Haden diede una rapida occhiata a Leni e Isabelle, poi si voltò di nuovo verso quel tipo vestito di bianco. «Perché proprio io?». «Perché in questo mondo viene tutto dalla tua memoria. E il Caos vuole fare sparire ogni cosa». Senza più esitare, Haden esclamò: «Isabelle, Leni, correte». Non gli chiesero perché, il suo viso era abbastanza eloquente. Diceva: fidatevi di me, siamo in pericolo, sono terrorizzato e dovreste esserlo anche voi. Si misero a correre. Il tipo in bianco davanti e loro tre dietro. Ma tutt'intorno non esisteva più niente. Stavano correndo nel nulla verso il nulla. «Dove cavolo siamo?». Haden non lo sapeva, ma aveva capito cosa stava succedendo. Il Caos li stava inseguendo. Se fosse riuscito nel suo intento, avrebbe cancellato il mondo che, attraverso i suoi ricordi, Simon Haden aveva creato dagli eventi della sua vita. Noi siamo i giorni della nostra vita, le esperienze che
abbiamo fatto e quel che ricordiamo. Se scompare tutto ciò, cosa resta di noi? Se il Caos distruggeva il suo mondo, avrebbe fatto sparire anche il mondo in cui Isabelle aveva cercato rifugio per sé e per il bambino che stava per nascere. Lo sentivano adesso. Sembrava un temporale estivo che si sta avvicinando. Era il Caos, ed era poco lontano ormai. Haden allungò una mano e afferrò il braccio di Leni senza smettere di correre. «Ti ricordi quando hai fatto apparire quell'altro Simon Haden? Quel tipo nato dai tuoi ricordi?». «Sì, Simon». Le chiese di fermarsi. «Rifallo, Leni. Adesso. Fa' apparire tutte le copie di me che riesci a immaginare, tutti i Simon Haden che ricordi». Lei non chiese perché. Non c'era tempo. In qualche secondo furono circondati da una schiera di doppioni, decine di Simon Haden, che divennero presto un centinaio, richiamati dai ricordi di Leni Salomon di quando erano stati insieme da vivi. Gentile, ben vestito, divertente, carino. Scarmigliato, intorpidito dai postumi della sbornia, egoista e irascibile. Intimidito e vulnerabile, sorpreso e infantile, meschino e calcolatore. Capelli corti, capelli lunghi, mani sporche, mani di manicure, in giacca e cravatta, in pigiama... Uno dopo l'altro sgorgarono dalla sua memoria accalcandosi intorno a loro come la folla in attesa di un treno in una grande città all'ora di punta. Spuntarono dal nulla, pienamente compiuti. Tuttavia, poiché erano versioni dello stesso uomo, cominciarono immediatamente a chiacchierare e a scambiarsi le proprie impressioni. Leni, Isabelle e Simon osservarono la scena. «Perché mi hai chiesto di farlo, Simon?», domandò Leni. «Perché il Caos sta cercando di distruggere i miei ricordi. Se ci riesce, distrugge il mio mondo, questo». Guardò Isabelle. «E lei come farà a sopravvivere? Ecco perché l'hanno convinta a venire qui. Rimarrà bloccata in quello che rimane. Non so neanche cosa potrà essere, una sorta di limbo, immagino». «Ma perché tutti questi doppioni?», e Isabelle indicò quell'orda di Haden che li circondava. «Perché ognuno di loro ha dei ricordi, per quanto diversi. Quando sono incazzato rammento cose diverse da quando sono di buon umore. Quando il Caos li incontrerà, dovrà passarli in rassegna tutti, capire cos'è vero e cosa no, prima di riuscire a cancellare qualcosa. Questo ci darà il tempo di scappare. Voi due andate adesso. Forza».
«Dove? E tu, cos'hai intenzione di fare?». Haden sorrise. Nessuna delle due aveva mai visto quell'espressione sul suo viso. «Adesso tocca a me. Rimango qui e uso questo...», e si toccò la tempia, «... per creare altre copie di me. Molti, moltissimi altri Haden. Più che posso, prima che il Caos arrivi. Poi mi confonderò nella folla, e spero che non mi trovi subito. Ma voi adesso dovete andarvene. Basta parlare». «Dove, Simon? Dove possiamo andare?». Haden annuì, sentendo quella domanda. Se l'aspettava, ci aveva riflettuto e aveva la risposta. «Se faccio le cose come si deve, il Caos dovrà fermarsi qui un bel po' di tempo con tutti questi Haden e i loro ricordi. Dovrà distinguere quelli di Leni dai miei. E poi, quali ricordi sono reali e quali no. Il che vi dovrebbe dare il tempo di raggiungere qualche posto che ancora esiste in questo mondo. Dopo di che, non so, Leni. Dovete pensarci voi due, dopo. Adesso porta Isabelle via di qua». Commossa, Isabelle protestò: «E tu?». Lui fece un ampio gesto intorno a sé con entrambe le mani. «Non preoccupatevi. Sono in buona compagnia. Sono tutti amici miei». Prese la mano di Isabelle, la strinse forte e poi la lasciò andare. «Partite adesso. Non preoccupatevi. Ci vediamo». «Wow, Simon. Grazie. Davvero». «Di niente. E buona fortuna per il tuo bimbo». «Simon». Leni indicò la marea di Haden che li accerchiava. «Ho appena pensato a un nuovo Haden da aggiungere al gruppo. È un bravo ragazzo, sotto sotto. E dire che non me lo sarei mai aspettato». Sentendosi fare quel complimento, il volto teso di Haden si rilassò un attimo. Le salutò, quindi si avviò verso la folla che prese rapidamente a crescere mentre lui avanzava, finché Leni e Isabelle non furono più in grado di dire quale fosse il vero Simon. «Andiamo». Con loro grande sollievo, Leni e Isabelle non dovettero camminare a lungo per uscire da quel nulla. All'inizio non sapevano bene cosa aspettarsi, diffidenti com'erano di tutto. Non c'era ancora gran che intorno a loro, come se il mondo di Simon fosse stato spazzato via e loro si trovassero al margine di qualcosa di nuovo. A Leni pareva di essere in un aeroplano in fase di atterraggio in una giornata coperta: erano circondate da infinite tonalità di grigio, simili alle nuvole che si addensano fuori dall'aereo in una situazione simile.
Continuò per qualche chilometro. Ma man mano che avanzavano, il grigio andò evaporando e davanti a loro apparve qualcosa che assomigliava a una frontiera. Videro che stavano camminando su una rozza strada che conduceva a un gabbiotto e a uno di quei cancelli con la sbarra che si vedono nei passaggi a livello in campagna. La cosa più assurda era che bastava uscire dalla strada di qualche passo, aggirare il gabbiotto e la sbarra per attraversare il confine senza problemi. Non c'erano steccati né barriere di alcun genere a impedirlo. Il paesaggio tutt'intorno era brunastro, spoglio e pietroso. Ma in lontananza iniziava a profilarsi un'alta catena rocciosa con maestose cime coperte di neve. Il blu metallico e il candore di quelle montagne contrastava drammaticamente con il colore uniforme del resto del paesaggio. Sbalordite da quella visione tanto imprevista dopo quei grigi soffocanti, Leni e Isabelle si fermarono qualche secondo per guardarsi intorno. Prima che potessero dire nulla, il dindin di un campanellino risuonò alle loro spalle. Si voltarono e videro un uomo rosso in volto che pedalava su una bicicletta stracarica di roba. Sembrava che vi avesse caricato tutta la sua vita. Passò lentamente, ansimando, senza degnarle di uno sguardo. Lo videro avvicinarsi al confine. A circa cinque metri dalla sbarra, scese dalla bicicletta e si avvicinò spingendola a mano. Due uomini in divisa, un'uniforme militare mimetica grigia, uscirono dal gabbiotto e gli si fecero incontro. I tre sembravano conoscersi. La loro conversazione fu breve e piena di sorrisi. Una guardia diede una pacca sulla spalla all'uomo in bicicletta, mentre l'altro si avvicinava alla sbarra per sollevarla. Quel tipo rivolse un saluto alle guardie con la mano e spinse la bicicletta al di là della frontiera. «Dove siamo?». «Non ne ho idea. Andiamo a chiederglielo». «Pensi che parleranno tedesco o inglese?». «Lo scopriremo subito». Isabelle si avviò verso il confine. Leni si guardò alle spalle per assicurarsi che non avessero nessuno alle calcagna. Mentre si avvicinava, Isabelle si domandò cosa fosse quell'aroma nell'aria. C'era odore di polvere, di aridità e di terra, ma anche di qualcos'altro. Una spezia: cumino? Salvia? Decisamente qualcosa di commestibile. Nel bel mezzo di quel paesaggio così desolato e lunare, c'era un profumino delizioso e speziato di cibo. Le due guardie la guardarono avvicinarsi impassibili. Isabelle fece un profondo respiro e si preparò a gesticolare in caso non le fosse possibile
comunicare a parole. Decise di provare prima in inglese, comunque. «Salve! Parlate inglese? Oder Deutsch?». «Entrambi, signora. Inglese o tedesco, quel che preferisce», rispose la guardia con voce profonda e autoritaria e un lieve accento che Isabelle non riuscì a riconoscere. «Splendido. Mi può dire dove ci troviamo?». La guardia indicò per terra. «Qui siamo nella Morte. Laggiù c'è la Vita». E indicò oltre il confine. Arrivò anche Leni e si fermò accanto a Isabelle. «Possiamo andarci? È permesso?». «Sì, signora, naturalmente». Leni guardò la sua amica e aprì la bocca come per dire qualcosa, ma Isabelle alzò una mano per fermarla. «Possiamo andare tutte e due?». «Sì, signora». «Ma io sono ancora viva e lei è morta». «Lo sappiamo. Vediamo il vostro cuore. Il suo batte, quello della sua amica no». «E possiamo andare lo stesso tutte e due?». «Sì, non è un problema», disse la guardia. Leni e Isabelle si scambiarono un'occhiata. Erano confuse da quel semplice sì: come poteva non esserci nessun problema? «Chi è quell'uomo che è passato poco fa?», chiese Leni indicando la terra al di là del confine. «Un altro morto, come lei. Sta andando a trovare sua madre, che è ancora viva. Passa di qui due volte alla settimana». «E cos'erano tutte quelle cose sulla sua bicicletta?». «Gli servono per provare a comunicare con lei. È un tipo dalla fervida immaginazione, ma nessuna delle sue idee ha mai funzionato. No, non è giusto... qualche volta funzionano, ma molto di rado». Al che la guardia si girò con un gran sorriso verso il collega, che fece una risatina e tossicchiò coprendosi la bocca con una mano. «Là c'è il mondo della Vita, e potete andarci entrambe, ma ciò non significa che sarete nella Vita, capite?». Dal momento che nessuna delle due diceva nulla, l'altra guardia aggiunse: «Sarà un po' come essere in un acquario. Vi troverete accanto ai pesci, ma ci sarà sempre un bel vetro spesso a separarvi da loro». Portò le mani a una trentina di centimetri l'una dall'altra, come a voler dimostrare lo spessore del vetro. Isabelle era troppo eccitata dall'idea di essere così vicina alla vita per re-
gistrare l'importanza di quelle parole. Riuscì a mantenere un'espressione tranquilla, ascoltò il paragone con l'acquario e il riferimento al vetro, ma fu come se gli scivolassero addosso. Stava fremendo d'impazienza. Laggiù c'era la vita, il che significava Vincent, la sua casa, la sua esistenza. Non sapeva quanto tempo fosse stata nel mondo dei sogni di Simon Haden da quando vi era stata attirata con l'inganno. Ma non importava più, perché la Vita era soltanto a una decina di passi da lei ormai. «Dai, Leni, andiamo». Una guardia si avvicinò alla sbarra e la sollevò per lasciarle passare. Leni e Isabelle attraversarono il confine e si avviarono verso quelle montagne lontane. Le due guardie si scambiarono un lungo sguardo, uno dei due fece un gesto con una mano come a indicare che non gli sarebbe affatto dispiaciuto divertirsi un po' con quelle due belle pollastrelle. Il collega annuì, concorde, ma tutto finì lì. Era una frontiera trafficata, quella. C'era gente che transitava di continuo. Le due guardie ne avevano viste passare di cose strane. E poi, nel gabbiotto, li aspettava un bello stufato di lenticchie sul fuoco ed erano entrambi affamati. La ricetta prevedeva una quantità di spezie e un aroma penetrante profumava l'aria, araldo di un buon piatto appetitoso. Le due guardie preferirono pensare al loro pranzetto. Leni e Isabelle continuarono a camminare aspettandosi tutto e niente. Il paesaggio desolato intorno a loro non mutò. La Vita sembrava identica alla Morte. Attraversando il confine, avevano pensato entrambe che sarebbe presto avvenuto qualcosa di spettacolare, come essere magicamente trasportate in un luogo familiare, o incontrare persone che conoscevano nella vita, invece non accadde nulla di simile. Passarono sotto la sbarra varcando il confine della Vita e continuarono a procedere lungo una strada piena di buche e grossi sassi. Il delizioso profumino di spezie che le aveva accompagnate per un po' pian piano svanì. Isabelle ne fu dispiaciuta. Dopo più di un'ora di cammino esclamò: «Non capisco». Leni comprese cosa intendeva e disse: «Neanch'io». «Pensavo...». «Anch'io». Leni provava la stessa profonda delusione di Isabelle per quella situazione di stallo e le dispiaceva per lei. Allungò un braccio verso la sua amica e la prese per mano. Isabelle non se l'aspettava, ma quel gesto le fece un immenso piacere. Si erano tenute spesso per mano, loro due e Flora, da quando erano ragazzine. Quando Isabelle si girò a guardarla, vide che Leni stava piangendo.
«Ehi, cosa c'è?». Con un moto d'impazienza, Leni si passò la mano libera sugli occhi per asciugarsi le lacrime. «Niente. Speravo soltanto che saresti potuta tornare a casa. Tutto qua». Lasciò andare la mano di Isabelle. Cosi, per fare qualcosa, si chinò e raccolse un sasso dalla strada. Lo soppesò un po' e lo fece saltare su e giù sulla mano, mentre parlava. «Voglio che tu riesca a tornare a casa e avere il tuo bimbo e vivere felice». Lanciò il sasso lontano con tutta la sua forza, rabbiosamente. «Parlami del tuo ricordo più bello con Vincent. Quando l'hai amato di più». Isabelle non esitò. Ripresero a camminare e lei le raccontò della notte trascorsa insieme dopo essersi incontrati alla festa, quando erano andati a vedere la firma di Kyselak e il negozio di Petras Urbsys. Tenevano entrambe gli occhi bassi mentre Isabelle raccontava. Era una bella storia e volevano concentrare tutta la loro attenzione su quelle parole. Leni fu la prima a sollevare la testa, e lo fece perché aveva udito un suono impossibile per ben tre volte e la terza volta non poté più resistere. Doveva dare un'occhiata, perché, cavolo, era certa di aver sentito un gabbiano. Nel bel mezzo di quell'infinita distesa di campagna così brulla e desolata, Leni aveva sentito il grido di un gabbiano. Lo conosceva bene, perché il suo appartamento a Vienna era vicino al fiume. Era cresciuta sentendo i gabbiani gridare tra loro. Quando alzò il capo, vide che stavano passando davanti alla panchina lungo il canale del Danubio dove era stata trovata morta. Erano a Vienna. Un grosso gabbiano stava volando sopra di loro. Disse a bassa voce: «Isabelle, guarda». Isabelle obbedì e la sua prima reazione fu quella di afferrare la mano di Leni. «Cos'è successo?». «Non lo so, ma siamo qui». «Voglio andare a casa mia. Voglio vedere Vincent». «D'accordo, ma penso sia meglio andarci a piedi. Non sappiamo ancora come funzionano le cose per noi qui, e detesto l'idea di rimanere bloccata nella metropolitana per l'eternità». La città era più bella che mai. Un tardo sole estivo inondava le facciate degli edifici, illuminando i mostri gotici, i busti e le ghirlande di pietra che li adornavano. Uno dei tanti dettagli, dei tanti tesori per gli occhi che di solito non si notano, ma che in una sublime e limpida giornata di sole come quella non si poteva mancare di ammirare e che fece loro rammentare ancora una volta la generosa sontuosità di Vienna, una città che offriva
così tanto da vedere e godere. Nei caffè all'aperto videro braccia e volti abbronzati, straordinari dolci mit Schlag16 e una distesa di occhiali da sole. Alcune carrozze procedevano lentamente lungo la Ringstrasse, indifferenti alle macchine che sfrecciavano loro accanto. Nel Burggarten le famiglie passeggiavano leccando un gelato. Coppiette di innamorati erano distese sull'erba, abbracciate. A una bancarella lungo il marciapiede si vendevano pesche grosse come pompelmi. Leni e Isabelle incontrarono la prima persona defunta che conoscevano all'angolo tra Getreidemarkt e Mariahilferstrasse: era una delle loro compagne di liceo, Uschi Stein, morta in un incidente aereo l'anno in cui si erano diplomate. Erano arrivate a un incrocio pieno di macchine a pochi isolati dal Museo della Secessione, quando la videro camminare verso di loro e sorridere. «Uschi?». «Ehilà, tutt'e due. Dov'è Flora?». Era identica a quando facevano il liceo, aveva ancora l'aspetto del giorno in cui era morta. Cercando di controllare la voce, Isabelle le domandò: «Cosa ci fai qui?». «Sto cercando quella scema di mia madre: non è mai puntuale, mai una volta. Avevamo appuntamento per pranzo. Non dovrebbe essere troppo difficile incontrare la propria madre quando si ha un appuntamento, ma non oggi, a quanto pare». Uschi era morta da quindici anni. «Sentite, devo andare a cercarla. Ci vediamo, eh? Ci prendiamo un caffè o qualcosa uno di questi giorni, magari». Si avviò verso Mariahilferstrasse senza voltarsi indietro. Quando si fu allontanata, Isabelle mormorò: «Non lo sa! Non sa di essere morta». Leni annuì, impassibile: «No, e non lo saprà mai. È un fantasma, i fantasmi non sanno di essere morti. Rimangono in uno stato di disorientamento perenne. Ecco perché è ancora qui che cerca sua madre». «E tu e Simon, allora? Voi non siete come lei, perché?». «Perché il Caos si è impadronito di lei quando è morta. Noi siamo stati più fortunati. È il Caos che genera i fantasmi, è così che nascono. Si tratta di una delle sue invenzioni più recenti e fortunate, è soltanto qualche migliaio di anni che esistono. Se un'anima viene turbata e irrimediabilmente confusa, non troverà mai più il suo posto nel Mosaico». Mentre attraversavano il Naschmarkt in direzione dell'appartamento di
Isabelle, incontrarono altri undici fantasmi, tra cui un travestito, una vecchia signora seduta alla finestra di una casa che dava sul grande mercato all'aperto, un vagabondo che era riuscito chissà come a rimanere sbronzo anche da morto, un bambino turco fulminato da un'encefalite una settimana prima. Erano tutti morti, ma erano mescolati alla folla. Leni li distingueva dai vivi, Isabelle no. Le uniche parti della città che le due amiche potevano vedere erano quelle che avevano visitato insieme, da vive. Stavano parlando di quanti caffè avevano bevuto una sera, quando ci fu un brutto incidente, praticamente davanti a loro. Erano appena passate davanti al Café Odeon e a Leni era tornata in mente quella sera in cui erano finite lì tutte e tre molto tardi, dopo una festa. Avevano bevuto un Irish coffee dopo l'altro e parlato parlato parlato finché l'Odeon aveva chiuso. «Avevo talmente tanta caffeina in corpo che non credo di essere riuscita a dormire per una settimana». Ci fu un gran stridore di freni e poi quel suono raccapricciante, riconoscibile all'istante, di una vettura che va a sbattere contro qualcosa. Il rumore veniva dalla Linke Wienzeile, sempre piena di traffico, davanti a loro. Un uomo che stava andando di corsa parlando al cellulare era sbucato fuori da due macchine parcheggiate ed era stato investito da un enorme camion dei traslochi giallo, olandese. Fu colpito di striscio e sarebbe sopravvissuto se non fosse stato scagliato verso un grosso albero piantato tra il marciapiede e la strada. Andò a sbattere contro il tronco con la nuca e non ci fu più nulla da fare. Morì prima che il suo corpo toccasse l'asfalto. Leni e Isabelle stavano correndo verso di lui quando scorsero la sua anima sollevarsi come una sottile colonna di fumo sopra la sua testa. La videro entrambe: Leni perché era morta, Isabelle perché si trovava in quella terra di nessuno tra la vita e la morte in cui è possibile vedere un'anima quando si separa dal corpo. Era bianca. L'anima di quell'uomo appena morto era bianca, come tutte le anime, a differenza di quanto si possa credere. Anche i corvi la videro. Al Caos piacciono gli uccelli, il loro nervosismo, la loro ansietà, i gridi incessanti, la loro vanità e il modo in cui cagano su ogni cosa. Poiché ce ne sono ovunque sulla terra, fatta eccezione per le distese oceaniche e i grandi deserti, il Caos usa spesso gli uccelli per qualche piccola missione. Quale, ad esempio, ghermire le anime dei morti prima che si ricongiungano al Mosaico. Qualche volta l'anima non abbandona il corpo per molto tempo, perché si è perduta e non riesce a trovare il modo di uscire. In casi del genere gli avvoltoi si rivelano estremamente preziosi. Sono gli unici uccelli
che sanno pazientare, e aspettare. I corvi di Vienna sono originari della Russia. Di solito giungono in città verso la fine di ottobre, vi trascorrono l'inverno e poi fanno ritorno a casa all'inizio della primavera. Ma ce ne sono alcuni, più pigri degli altri, che non hanno voglia di fare quel lungo viaggio verso oriente. O che trovano particolarmente allettante il clima temperato dell'Austria. Così ogni anno ce n'è qualcuno che rimane. Si notano perché, quando la temperatura si fa più calda, il colore delle loro penne da nero lucido si trasforma in un miscuglio di nero opaco e grigio sporco, e cominciano a sembrare strani pinguini errabondi. Subito dopo l'incidente, ne arrivarono tre in volo e atterrarono su un cavo del telefono poco lontano. I corvi non sono uccelli tranquilli. Fanno sempre un gran casino, amano far sapere a tutti che ci sono. Ma quei tre rimasero a osservare quell'uomo senza vita in silenzio. Dopo qualche istante Leni li notò e capì cos'erano venuti a fare. Non poteva impedirglielo, purtroppo, perché i morti non hanno possibilità di interferire in alcun modo. Pensò per un attimo di provare a chiedere a Isabelle di farlo, ma era troppo rischioso, chissà cosa avrebbe potuto scatenare. Per il momento Isabelle doveva solo, e il più in fretta possibile, trovare un modo di fare ritorno alla sua vita. L'anima di quell'uomo morto si era quasi del tutto separata dal corpo e aleggiava immobile nell'aria sopra di lui. Era la fase cruciale, il momento in cui è più vulnerabile. Un corvo sventolò le ali diverse volte, ma non si mosse dal cavo su cui era appollaiato. Aspettavano tutti e tre di vedere cosa sarebbe successo. Erano ansiosi di attaccare, ma anche prudenti, non era la prima volta che si trovavano alle prese con un compito del genere. La gente, i vivi, chi desiderava aiutare, chi voleva solo curiosare e chi osservava la scena smarrito, iniziò a muoversi verso il corpo per vedere se c'era qualcosa che potessero fare o solo per dare un'occhiata. L'autista del camion aveva accostato e spalancato la portiera, ma non si era mosso. Era terrorizzato, e il bambino che viveva ancora da qualche parte dentro di lui stava pensando: se non mi muovo, tutto questo scomparirà. Se rimango qui, al sicuro, tutto questo finirà. Il primo corvo saltò giù dal cavo e si tuffò verso l'anima sospesa in aria. Inaspettatamente, quando le era già molto vicino, si arrestò e gracchiando virò e volò via. «Hai visto? Hai visto quel grosso corvo? Cosa aveva intenzione di fare?».
«Controllava. Voleva vedere se aveva via libera». «Via libera? Di cosa stai parlando Leni?». Sentirono in lontananza una sirena che si stava avvicinando. Lentamente l'anima riprese a salire. Leni e Isabelle la guardarono. I corvi la guardarono. La gente si era raccolta intorno al cadavere, più vicino, ma non troppo. Alcuni si erano accovacciati, altri rimanevano in piedi con un'espressione severa e le braccia conserte. Una giovane madre strinse con violenza l'impugnatura blu e marrone della carrozzina che stava spingendo. Un'altra aveva trovato il cellulare della vittima dell'incidente e glielo aveva posato gentilmente accanto. Dopo un po' il telefono si mise a squillare. Qualcuno trasalì, come se il cadavere avesse tutt'un tratto ripreso vita. Altri rabbrividirono a quel suono così familiare e così fuori luogo in quel momento. «È la sua anima, quella per aria, Leni?». «Sì». Il secondo corvo saltò dal cavo telefonico e scese in picchiata verso l'anima. Il bambino nella carrozzina scoppiò a piangere e si mise a strillare. Le sue grida furono così improvvise, violente e sconvolte che si sarebbe detto che qualcuno gli avesse fatto male. Il corvo gracchiò indispettito, ma volò via. «Bene!», esclamò Leni stringendo un pugno contro il fianco in segno di trionfo. «Il Caos ha mandato i corvi a ghermire l'anima di quell'uomo. Però, hai visto, le grida di quel bambino l'hanno allontanato». «Perché? Come?». I pensieri di Isabelle andarono a suo figlio, che presto sarebbe nato. Leni si strinse nelle spalle. «Non lo so esattamente, forse perché i bambini sono innocenti e la vita è ancora così nuova per loro. La loro purezza ricorda all'anima qual è il suo vero scopo sulla terra e dove deve fare ritorno alla fine. Ma non so se sia davvero così, la mia è solo un'ipotesi». La madre sollevò il bambino, se lo posò contro una spalla e gli accarezzò la schiena come fanno spesso le mamme. Da dove erano Isabelle e Leni, il piccolo non era altro che un fagottino rosa, per quanto i suoi strilli fossero sorprendentemente acuti. L'ultimo corvo zampettava su e giù lungo il cavo protendendo la testa e ritraendola, aprendo e chiudendo il becco di continuo, ma senza che ne uscisse alcun suono. «Quanto tempo deve passare prima che un'anima sia al sicuro?». Leni rispose senza guardare Isabelle: «Dipende dalla vita che quella persona ha condotto». Tranquillizzato, il neonato aveva smesso di piangere. L'anima riprese la
sua ascesa. E cominciò a disperdersi pian piano come vapore. Il corvo numero 1, o il numero 2, chissà, spuntò dal nulla, agguantò quella delicata anima bianca e, stringendola nel becco come un cencio, volò via. Il corvo che era rimasto sul cavo telefonico iniziò a dondolare il capo su e giù, di continuo, gracchiando come un pazzo. Poiché Isabelle e Leni erano intente a osservare quella scena ipnotizzate, non videro l'ometto vestito a pennello che emergeva dalla carrozzina e, scavalcandola, si lanciava sul marciapiede. Nessuno lo vide, perché chi lo poteva vedere stava osservando il corvo che ghermiva l'anima e chi non poteva aveva lo sguardo rivolto al cadavere addossato all'albero. L'ometto si accomodò le pieghe dell'abito beige di sartoria che indossava, se lo spazzolò un po' con le mani e quando fu finalmente soddisfatto si avviò verso Isabelle e Leni. «Salve, signore!». «Broximon!». Leni guardò prima lui e poi Isabelle. «Conosci questo tipo?». «Sì. Cosa ci fai qui?». Broximon puntò un pollice alle sue spalle. «Ho dato un pizzicotto a quel bambino. Ma non è servito a gran che. Il corvo se l'è pappata lo stesso, quell'anima, eh? Non sono riuscito a vedere da lì dentro». «Sei stato tu a far scoppiare a piangere quel bambino?». «Già. Qualche volta un pizzicotto ben assestato li fa frignare per mezz'ora. E mezz'ora di solito basta. Il Caos non ha la pazienza di aspettare di più. Ma qualche volta smettono subito anche se gli hai rifilato un pizzico coi fiocchi. Dopo di che non rimane molto da fare. Lo conoscevate, il morto?». Isabelle guardò Leni. «No. Ma tu cosa ci fai qui?». «Sono venuto ad aiutarti a uscire da questo pasticcio». «Dando pizzicotti ai bambini?». Broximon non fece una piega. «Se è necessario, anche. I bambini si riprendono in fretta, le anime no». La sirena che avevano sentito era quella di un'auto della polizia che si fermò dietro al camion, con il lampeggiante blu acceso. Scesero due agenti, un uomo e una donna. La donna si diresse verso il corpo e lo osservò impassibile, valutando la situazione. Il suo collega iniziò a fare domande tra la folla, e tutti furono più che felici di mettere al corrente la polizia di quanto era accaduto. «C'è anche Vincent, lo sai?».
Isabelle s'irrigidì. «Vincent? Com'è possibile?». «Ci sono tutti. Il problema è raggiungerli dalla loro parte». «Dov'è?». «Nel tuo appartamento. Era lì che stavi andando, comunque, giusto?». Isabelle stava per dire: «Sì», ma con sua grande sorpresa Leni la interruppe con un «No» deciso. «No?». «No». «E allora dove stavate andando?». «Non sono affari tuoi». «Leni!». «Isabelle, non è reale. È il Caos. È il tuo Caos». Quelle parole furono così inaspettate che la fecero impietrire. «In che senso?». «Viene dal mondo di Simon, giusto? È lì che l'hai conosciuto?». «Sì», rispose Isabelle, esitante, come se fosse piuttosto una domanda, con tanto di punto interrogativo in fondo. Leni scosse la testa. «L'hai ripescato dai tuoi ricordi del mondo di Simon perché ti venisse a salvare. Non può funzionare». «Ma io l'ho visto anche qua, Leni, nel mondo reale. Dopo il tuo funerale, a Weidling». «Sì, me l'hai detto. Ma è riuscito a fermarti, a convincerti a non venire?». «No». «Esattamente. E non ti può salvare neanche adesso. Puoi ricrearlo e farlo apparire reale quanto vuoi, ma è soltanto un'illusione. Siamo noi a generare il Caos che abbiamo intorno durante la nostra vita, Isabelle. Non abbiamo bisogno che venga da chissà dove, siamo perfettamente capaci di crearlo da soli. Lo facciamo perché crediamo sinceramente che ci salverà, che ci tirerà fuori dai guai... Ma in realtà, di solito, è soltanto la causa della nostra rovina. Nessuno può aiutarti a uscire di qui, solo tu puoi farlo. Né Vincent, né il tuo omettino magico fasullo, né un paio di scarpette di rubino17. Né io né Simon... soltanto tu. Nessun altro». «Ma... e la scena dell'anima che abbiamo appena visto, il corvo che l'ha afferrata e il bimbo che piangeva. Era vera?». «Sì, ma questo ometto no. Non una specie di folletto che rifila pizzichi
ai neonati. È una tua creazione. Sei tu che l'hai scovato nei tuoi ricordi perché speravi che potesse aiutarti a uscire di qui. Ma non può. Anche se volesse, non ne è capace». A complicare le cose, quel falso Broximon non volle sentire ragione quando gli dissero di andarsene e, mentre loro si avviavano di nuovo verso l'appartamento di Isabelle, le seguì senza chiedere il permesso. Dopo una decina di passi Leni sbuffò, seccata, e si fermò. Voltandosi, disse in tono severo: «Che cosa stai facendo?». «Sto camminando». «Verso dove?». «Non sono affarucci tuoi», rispose lui con noncuranza. «Ah, davvero? Interessante», commentò Leni, ma non sapendo più cosa dire, riprese a camminare, per quanto con passo più rapido. A circa un metro di distanza, alle loro spalle, Broximon camminava continuando a interrompere la conversazione di Leni e Isabelle per chiedere cos'era questo e cos'era quello, quasi fossero due guide turistiche. Divenne presto esasperante e quanto mai fastidioso. E quando non faceva domande, fischiettava quella stupida canzone dei Drownstairs che entrambe detestavano. «Broximon, vuoi darci un taglio, per favore? Se ci devi proprio seguire, per lo meno sta' zitto. Finiscila con tutte queste domande e smetti di fischiettare». «Perché?». Isabelle gli mostrò il pugno, se non stava zitto... «Leni, perché è ancora qui, se è vero quello che hai detto?». «Non lo so, chiediglielo». Isabelle glielo domandò. Con loro sorpresa, Broximon rispose: «Perché sei tu che mi hai portato qui, Isabelle, e perciò solo tu puoi farmi sparire». «Come?». «Non lo so. Non sono io che mi sono creato. Chiedilo a te stessa». Isabelle se lo domandò, ma non trovò nessuna risposta dentro di sé. Né Leni le fu di maggiore aiuto. Brogsma Erano ferme davanti alla vetrina di un negozio vuoto, con quel falso Broximon alle loro spalle, un po' spostato da una parte. Aveva continuato a
parlare, a far domande inutili e a fischiettare il motivo dei Drownstairs per tutto il tempo. Avrebbero voluto strangolarlo. Era come un fratello piccolo che da bambino ti sta appiccicato dietro di continuo e il cui unico scopo nella vita sembra essere quello di farti infuriare. «Perché guardiamo una vetrina vuota?». Lo ignorarono stizzite, per quanto anche Leni, in verità, sarebbe stata felice di saperlo. Isabelle continuò a fissare il negozio in silenzio. Era lei che era voluta venire. Si stavano dirigendo verso il suo appartamento quando, tutt'un tratto, aveva girato in una viuzza senza spiegare il perché. E per una decina di minuti, finché non erano arrivati lì davanti, non aveva aperto bocca. Quella vetrina vuota aveva qualcosa di familiare, pensò Leni. Ma avendo vissuto a Vienna tutta la vita, erano talmente tanti i posti che avevano un'aria familiare per lei, in ogni angolo della città. «Perché guardiamo una vetrina vuota?». «Ti avevamo sentito anche prima». La voce di Broximon salì di una mezza ottava. «Sì, ma prima non mi avete risposto, perciò lo sto chiedendo di nuovo». Isabelle ignorò anche la seconda domanda e continuò a osservare la vetrina come se vi trovasse qualcosa di interessante. «Isabelle, perché siamo qui?». «Era il negozio di Petras Urbsys, non te lo ricordi?». «È vero!». Leni rammentò che Simon Haden l'aveva rimproverata di non ricordarsi che una volta l'aveva portata lì insieme a Isabelle e le aveva presentato Petras Urbsys. «Voglio entrare. Posso?». «Certo, perché no?». «Voglio soltanto entrare, nient'altro. Come faccio, Leni?». «Apri la porta e va' dentro», disse Broximon. Isabelle guardò Leni, che annuì. Quando Isabelle provò ad aprire la porta, quella non si mosse di un centimetro. Isabelle si disse: non me lo permetteranno, non mi lasceranno entrare. Ma dopo un istante la maniglia iniziò a cedere alla pressione della sua mano e la porta si aprì. Isabelle entrò. Leni rimase fuori con Broximon, immaginando che la sua amica non sarebbe rimasta dentro a lungo. E poi, a dirla tutta, non aveva nessuna voglia di entrare. L'unica cosa che ricordava di Petras era che parlava troppo e puzzava. E adesso lei doveva entrare in quel fetido negozio vuoto? No,
grazie. Anche Broximon non si mosse. Rimase lì fuori a fischiettare. Leni ci avrebbe scommesso che lo faceva per irritarla. «Petras? Ci sei?». Nel negozio deserto regnava un assoluto silenzio. Credeva davvero che Petras sarebbe stato lì? Sì, una parte di lei ci sperava con tutto l'ottimismo di cui era capace. Ripeté ancora una volta il nome, questa volta senza punto interrogativo. C'era odore di muffa, di chiuso, di polvere e di legno. Di vuoto e di abbandono. Era stato un posto così originale e pieno di vita. Un uomo affascinante vi aveva trascorso gli ultimi giorni della sua esistenza. Il vecchio Petras sapeva che non gli restava molto da vivere e, finché aveva potuto, aveva cercato di rendere partecipi gli altri dei racconti della sua vita e di dividere con loro la gioia che gli avevano dato gli oggetti di cui era stata popolata. Isabelle vagò per il negozio, quel grande stanzone vuoto immerso nella penombra, in cerca di una traccia di Petras Urbsys. Per terra, in un angolo, vide un vecchio telefono scollegato. Grigio opaco, con uno di quei vecchi dischi per comporre i numeri che Isabelle non vedeva più da anni. Si accovacciò lì davanti, infilò un dito in un foro e iniziò a comporre lentamente il numero di casa senza sollevare il ricevitore. Per qualche istante pensò al telefono nero che si sarebbe messo a squillare nel suo appartamento, sul tavolino di sequoia accanto al divano. Poi immaginò Vincent che entrava in soggiorno e si avvicinava per rispondere. Dopo aver composto il settimo e ultimo numero della sequenza, Isabelle non sfilò il dito dal foro e lo lasciò tornare indietro insieme al disco. Sentendo bussare al vetro, trasalì allarmata, perché era tutta presa da quella scena di Vincent a casa. Le sembrava quasi di essere lì anche lei e che, se avesse voluto, avrebbe potuto allungare una mano e toccare quel telefono nero. Leni bussò di nuovo alla vetrina, un poco più forte, con due nocche. Quando ottenne l'attenzione di Isabelle, alzò le spalle come a dire: hai fatto? Isabelle non riusciva a vedere Broximon da dov'era, ma immaginò fosse poco lontano. Il suo Broximon, non quello reale, un impostore che lei aveva inconsapevolmente creato dai propri ricordi e dall'ansia di essere aiutata a uscire da quel guaio. Forse fu pensare a quel falso Broximon, o associarlo al ricordo di quella moltitudine di Simon Haden riuniti tutti insieme per confondere il Caos. O forse fu semplicemente quel disco telefonico con i numeri e le lettere da
selezionare. Qualsiasi cosa avesse fatto nascere in lei quell'idea, come una nuvola che attraversa un brillante sole mattutino e per qualche istante trasforma il mondo in maniera drammatica, Isabelle comprese all'improvviso una cosa, e tutta la confusione e l'incertezza che aveva provato sino a quel momento si trasformarono in una chiarezza cristallina. Senza esitare, chiuse gli occhi e pensò a Petras Urbsys. Ricreò nella sua mente la migliore immagine possibile di quell'uomo che aveva conosciuto tanto bene e ammirato sinceramente. Pensò soprattutto alla sua joie de vivre, alle sue conoscenze enciclopediche, alla sua curiosità sconfinata. Continuò a pensare a lui, a quello che ricordava di lui, per un po', finché non udì la voce di Petras accanto a sé. «Ti ho mai parlato della farfalla Morfo blu?». Anche se la prima reazione al sentire quella voce familiare fu di gridare di gioia, Isabelle riuscì a tenere gli occhi chiusi e a rispondere sottovoce: «No». Non aveva mai sentito parlare di quella farfalla. Sperò e pregò il cielo che Petras riprendesse a parlare, dimostrando che l'ispirazione che aveva avuto era corretta. «Ho tenuto un esemplare di Morfo blu in negozio per anni, ma poi l'ho venduto. Un'apertura alare di quasi venti centimetri, Isabelle. Riesci a immaginartelo? Incredibile!». Incapace di aspettare ancora, Isabelle aprì gli occhi e vide Petras seduto per terra davanti a lei. Aveva i gomiti posati sulle ginocchia aperte e le sorrideva, con quel suo dente mancante. Aveva persino gli scarponi marroni che le piacevano tanto. «Le ali della Morfo blu, sopra, sono di un meraviglioso blu elettrico. Un azzurro che non ti puoi neanche immaginare se non lo vedi. Ma non è questa la sola ragione per cui è una delle mie farfalle preferite. L'altra ti può essere d'aiuto, credo». Dal momento che era così basso, il falso Broximon dovette alzarsi in punta di piedi per guardare dentro. Così fu il primo a vedere una delle tre grandi farfalle che svolazzavano nel negozio di Petras Urbsys. Dopo di che ne comparve un'altra, dal nulla, e poi un'altra ancora. Broximon le guardò per un po' con infantile stupore. Era uno spettacolo prodigioso, ma aveva qualcosa di strano. Sì, perché quelle farfalle continuavano a scomparire e riapparire. Un istante prima eccole lì, quello dopo niente... svanite! E poi rieccole di nuovo. Com'era possibile? Quando lo fece notare a Leni, lei non sembrò particolarmente colpita. La
sua attenzione era presa da altre cose in quel momento. Quando, poco prima, aveva guardato dentro per un istante, aveva visto Isabelle accovacciata in un angolo che giocherellava con un apparecchio telefonico. Poi aveva guardato di nuovo e Isabelle era ancora lì, nella stessa posizione, che parlava con Petras Urbsys. «Perché ci sono delle farfalle blu dentro questo negozio?». Leni si stava sforzando talmente di vedere cos'altro stesse succedendo dentro quel "negozio" che riuscì a malapena a rispondere: «Non lo so». Sapeva soltanto che Isabelle e Petras stavano osservando quelle farfalle con grande concentrazione. Il vecchio Petras le indicava con tutte e due le mani, come se stesse rivelando a Isabelle qualcosa che le riguardava. Era proprio così. Prima dell'apparizione delle Morfo blu, Petras aveva spiegato a Isabelle la differenza tra mimetismo e camuffamento nel regno animale. Isabelle aveva pensato: e questo cosa c'entra con quello che sta succedendo, ma era rimasta ad ascoltare. La sua curiosità si era trasformata in fretta in sincero piacere, come era successo tutte le volte che era andata a trovare Petras nel suo negozio. Era un insegnante meraviglioso. Il suo entusiasmo era contagioso e rendeva affascinante qualsiasi argomento che a Isabelle non sarebbe mai interessato se non gliene avesse parlato lui. Se Petras trovava qualcosa che lo appassionava, si lasciava prendere e faceva di tutto per trasmettere agli altri il suo ardore. Quando le farfalle apparvero dal nulla, Isabelle rimase stupefatta, come Petras aveva previsto. Avrebbe voluto subito chiedergli un sacco di cose, ma lui la fermò e le disse di guardarle per un po' prima di dire altro. Lei obbedì e notò la stessa cosa che aveva visto anche Broximon: le farfalle svanivano per un attimo e poi ricomparivano all'improvviso mentre svolazzavano tra i fasci di luce che filtravano dentro al negozio. Sembravano dileguarsi per poi riaffiorare qua e là, senza uno schema preciso, e Isabelle, per quanto non riuscisse proprio a immaginare per quale motivo, era incantata e incuriosita da quello spettacolo arcano. Petras la osservava contemplare quelle farfalle. Sperava che arrivasse da sola alla conclusione, altrimenti le avrebbe dato lui le informazioni necessarie. Ma era meglio se lo scopriva da sola. Più cose riusciva a elaborare senza bisogno di aiuto, più le sarebbe stato facile ritrovare e usare quelle importanti risorse quando se ne fosse presentata la necessità. Una volta Isabelle era arrivata in negozio mentre Petras stava mangiando una grossa fetta di torta al cioccolato che aveva comperato nel forno di fronte. Era un po' appiccicosa e, goloso com'era, Petras aveva tutta la boc-
ca sporca di cioccolato e di briciole. Senza dire nulla, Isabelle aveva preso un fazzolettino di carta dalla borsa e gliel'aveva offerto. Petras l'aveva preso, ma l'aveva posato sul bancone finché non aveva finito di divorare la sua torta, sporcandosi ancor di più. Soltanto quando ebbe finito, dopo un lungo sospiro di soddisfazione, aveva usato il fazzolettino. «Questa è la differenza tra noi, Isabelle. Tu vedi una briciola e la vuoi pulire. Io invece credo che la gente dovrebbe vivere come un vecchio che mangia una fetta di torta. Come se non esistesse altro nella vita che quel delizioso gusto in bocca. Se lo gode più di quanto tu non potrai mai, perché non si preoccupa delle briciole». Isabelle ricordò quel fatto a Petras, dicendo che stava cercando di guardare quelle farfalle come lui aveva mangiato la sua torta. Petras sorrise, ma non commentò. Lei si alzò in piedi e si diresse verso l'angolo della stanza che le farfalle avevano scelto per la loro danza aerea. Leni guardava quello che stava succedendo dentro, attraverso la vetrina, ma quella scena le confuse ancor più le idee. Anche Petras continuava a osservare Isabelle in silenzio. Broximon, indifferente, si era girato e contemplava le macchine che passavano. Le tre farfalle non sembravano affatto disturbate dalla presenza di Isabelle, anche quando lei si avvicinò e iniziò a muoversi tra loro per osservarle da angolazioni diverse. «Le loro ali sono schizofreniche». Petras cambiò posizione. «In che senso?». «Sopra sono azzurre, ma sotto sono nere. O almeno sembrano». «Perché, secondo te?». Isabelle continuò a fissare le farfalle. «Non lo so». «Guarda cosa succede quando entrano ed escono da un raggio di luce. Ma è meglio che tu ti sieda e le guardi da sotto». Le farfalle si tuffavano e danzavano in quei fasci di luce, volteggiando e rincorrendosi. «Scompaiono. Scompaiono ogni volta che escono dalla luce». «No, ma dalla posizione in cui le guardi sembrano davvero scomparire. La verità è che ci sono ancora, ma tu per qualche istante non le vedi più. È il loro modo di camuffarsi, Isabelle. Ti ho parlato di mimetismo e camuffamento, ricordi? È così che sopravvivono». Isabelle guardò Petras. «È per questo che le loro ali sotto sono nere? Da sotto non si possono vedere». Lui corresse il tiro. «Soltanto per un attimo, però. Il tempo di fuggire. E
ricordati, soltanto la parte inferiore delle loro ali è nera. Quella superiore è azzurra, di un azzurro meraviglioso. Nero per i tuoi nemici, azzurro per tutti gli altri». Guardando quel vecchio telefono Isabelle aveva compreso che poteva far apparire Petras allo stesso modo in cui aveva fatto materializzare Broximon, ma con un'enorme differenza. Broximon era sorto inconsciamente da paura, debolezza e bisogno d'aiuto. Petras, invece, era stato creato consapevolmente, dall'amore e dalla fiducia di Isabelle nei suoi ricordi migliori dell'amico. Da quelli, era venuto fuori l'uomo che lei aveva evocato per farsi aiutare. Nello strano mondo al confine tra la Vita e la Morte in cui si trovava, Isabelle aveva ormai capito di essere in grado di fare cose prodigiose. Ancor più di Leni, poiché lei era viva, mentre Leni no. Ma si rese conto che doveva anche essere estremamente attenta e precisa riguardo alle sue scelte. Poteva far saltar fuori dei "folletti" o far materializzare i defunti, ma in quale forma, e se poi fossero in grado di aiutarla o meno, dipendeva unicamente da lei, dalle sue intuizioni, dai suoi sentimenti e dalla sua forza di volontà. Dopo un po', mentre Isabelle se ne stava andando, Petras disse un'ultima cosa. «Il cuore e la mente mentono di rado insieme, Isabelle». Lei si fermò sulla soglia e aspettò che lui proseguisse, ma Petras non aggiunse altro. «Non capisco». «Qualunque cosa farai, d'ora in avanti, ascolta te stessa con attenzione, prima di agire. Cerca di riconoscere quale parte di te sta dicendo la verità e quale sta mentendo perché vuole seguire la strada più semplice o più sicura». «Conosci te stesso?», domandò Isabelle con un sorriso. «Conosci tutti i tuoi te, Issssabelle», rispose Petras, pronunciando il nome come se fosse diventato un'ape che le ronzava nelle orecchie. Quando Isabelle uscì dal negozio e si chiuse la porta dietro, sia Leni che quel falso Broximon la accolsero con il muso lungo. Avevano aspettato un sacco di tempo. «Allora?». «Voglio un Mohr im Hemd18. Sto cercando di farmi venire in mente un posto qui intorno dove possa trovarlo». La risposta di Isabelle fu così imprevista che, senza neanche pensarci, Leni domandò automaticamente: «Cos'è che vuoi?».
Isabelle ripeté: «Un Mohr im Hemd». Broximon le guardò e domandò: «Cos'è un Mohr im Hemd?». Leni guardò Isabelle, poi Broximon, poi Isabelle di nuovo, confusa. «Un dolce al cioccolato». Vincent Ettrich stava pensando a mangiare qualcosa quando il telefono squillò. Attraversò il soggiorno per andare a rispondere, con un bel piatto di zuppa calda al centro dei suoi pensieri. Un piatto bianco pieno di gulash, bello denso e cosparso di pezzettini di pane. Pane nero, zuppa scura, piatto bianco. Sollevò la cornetta e disse distrattamente: «Pronto?». «ZUPPA DI VETRO». Quelle parole si discostavano così poco dai suoi pensieri, che gli ci volle qualche istante per focalizzare. Dopo di che ci mise un attimo ancora per ricordare e comprendere il significato e la portata di quell'esordio. Zuppa di vetro. «Chi parla?». «Una persona che conosce Isabelle e sa cosa significa zuppa di vetro». Broximon uscì dalla stanza degli ospiti, dove Ettrich gli aveva sistemato un sacco a pelo da bambino sul divano. «Che c'è?». Stava facendo un sonnellino. Pronunciò quella domanda a metà tra uno sbadiglio e una frase inintelligibile. Ettrich indicò il telefono e fece cenno a Broximon di aspettare. «Cosa vuole?». «Non importa cosa voglio io, signor Ettrich, ma cosa vuole lei». Vincent frugò tra i suoi ricordi cercando di rammentare quella voce. L'aveva già sentita? Gli sembrava di no. «Non so di cosa stia parlando». «Allora sarebbe meglio che ci incontrassimo, così le posso spiegare. Se ha tempo». Broximon chiese con un fil di voce: «Cosa succede?». Ettrich staccò la cornetta dall'orecchio e rispose altrettanto sottovoce: «Zuppa di vetro». Broximon comprese immediatamente e si irrigidì. «È un amico di John Flannery? In tal caso non c'è nessun bisogno che ci incontriamo». La voce all'altro capo del filo si fece suadente. «Si sbaglia. Cosa direbbe se le dicessi che lei è qui?». «Isabelle?».
«Sì, è a Vienna». Fuori di casa, la presenza di Broximon era un problema. Fu subito chiaro, sin dal momento in cui Broximon aveva cominciato a vivere con Ettrich e si era messo ad accompagnarlo in giro per il quartiere. La gente, vedendolo, pur evitando di fissarlo sfacciatamente, si irrigidiva di colpo. Si copriva la bocca con la mano davanti a quell'ometto vestito di tutto punto che sembrava il personaggio di una fiaba o di un film di Fellini. Broximon era alto poco più di cinquanta centimetri, più di quando era uscito dalla busta di Simon Haden, ma ancora troppo piccolo per la realtà circostante. Malgrado le sue dimensioni, aveva le fattezze di un uomo e aveva portato con sé soltanto abiti vistosi, eleganti e alquanto problematici. Ettrich aveva scrollato enfaticamente la testa quando Broximon glieli aveva mostrati. «Che c'è, non ti piacciono i completi gessati?». «Broximon, hai visto come reagisce la gente quando ti vede. Se non vuoi attirare l'attenzione, non devi più metterti questi vestiti». «Perché?». «Perché in questo mondo, quando uno è alto cinquanta centimetri, è un bambino. Ma tu non hai l'aspetto di un bambino. Capisci che questo rende tutto più difficile? Non sei neanche abbastanza alto per essere scambiato per un nano, o almeno non credo. Hai detto che non vuoi attirare l'attenzione, e sono d'accordo con te. Meglio che non ti faccia notare troppo». Ettrich era seduto sul divano e Broximon in piedi, accanto a lui: non gli arrivava neanche al ginocchio. «E cosa dovrei fare, allora?». Come se non stesse aspettando altro, Ettrich allungò un braccio verso una busta rossa e nera di plastica, posata lì vicino, con sopra, in bianco, la scritta "Sports Experts". «Ecco il tuo nuovo guardaroba». Dentro la busta c'erano due paia di jeans nuovi azzurri per bambini, due maglioni gialli e un berretto da baseball lilla con su scritto "Campione". Broximon li guardò a occhi sbarrati, oltraggiato, poi la costernazione lasciò il posto a un rassegnato disgusto. Non disse una sola parola di protesta, perché sapeva che Vincent aveva ragione. «In casa puoi metterti quello che vuoi, ma quando usciamo deve essere questa la tua uniforme». «Nient'altro, comandante?». «Sì». Ettrich prese un rotolo di fogli da sotto la busta. «Quando qualcuno ti chiede perché sei così piccolo, di' che hai la sindrome di Hutchinson
Gilford, o progeria». Porse i fogli a Brox che li guardò con sospetto. «Ti ho scaricato un paio di articoli da Internet. C'è tutto». «Cos'è che dovrei avere?». «La progeria è una malattia genetica molto rara che fa invecchiare una persona sette volte più rapidamente del normale. Se la prende un bambino, può morire di vecchiaia a tredici anni. Lo so perché la mia agenzia era stata incaricata di preparare una campagna pubblicitaria per una fondazione di ricerca che si occupa di studiare questa sindrome. Se per strada qualcuno te lo chiede, di' che sei mio figlio e che hai la progeria». Broximon guardò Ettrich con una faccia che diceva: dai, è tutto uno scherzo, vero? Quando capì che Vincent faceva sul serio, sbottò: «Che cazzo ti sei messo in testa! Sei fuori! Pensavo che te lo fossi inventato. Pensi che qualcuno possa davvero credere che sono tuo figlio e ho una malattia con un nome che assomiglia a quello del pianeta di un film di fantascienza?». «Be', Brox, non è che un ometto alto una spanna con addosso un abito a doppio petto e un paio di mocassini di Gucci sia più verosimile». Brox si guardò i bei mocassini di Gucci grandi come due topolini. Gli tremavano le labbra. Sapeva che Vincent aveva ragione, il che non faceva che peggiorare le cose. Era venuto per salvare Isabelle, ma aveva fallito miseramente, in men che non si dica. Non poteva più tornare nel mondo di Haden, e lì non aveva niente da fare, se non stressarsi, guardare la tivù austriaca e farsi qualche sonnellino. Non aveva mai dormito tanto in vita sua. Ma il peggio doveva ancora venire. Lo zaino fu l'ultima goccia. Broximon era così annoiato di starsene sempre in casa, che si accodava a Ettrich ogni volta che usciva. Vincent non diceva niente perché gli dispiaceva per il povero Broximon, anche se, a dire il vero, qualche volta avrebbe desiderato poter fare certe cose da solo. Un altro inconveniente di uscire con lui era che Broximon era così piccolino che faceva fatica a stargli dietro, anche se lui camminava piano. Anche quando dovevano attraversare una strada piena di traffico, Broximon non riusciva a camminare più in fretta di una vecchietta stanca. Le macchine gli strombazzavano dietro impazienti e spietate. Trafelato e furibondo, Broximon si voltava verso quel frastuono, ma non vedeva altro che i minacciosi e detestabili sorrisi d'argento delle mascherine anteriori delle auto. Ettrich avrebbe voluto dirgli: senti, lascia che ti prenda in braccio io, e ti dia una mano. Appena abbiamo attraversato, ti rimetto giù, non è un gros-
so problema. Ma avendo avuto modo di trascorrere un po' di tempo con lui ormai, anche se certo non molto, sapeva che Brox era vanitoso, polemico nonché palesemente terrorizzato dal mondo in cui era finito. Ma un giorno, mentre stavano attraversando Schonbrunnerstrasse, venne investito. Da una bici, grazie al cielo, e soltanto di striscio. Uno di quei Pony Express con occhiali da sole argentei e una casacca arancione che fanno la gimcana tra le auto, nella fretta, non lo vide. Il ragazzo sentì soltanto una leggera botta contro la bici, nient'altro. Non si fermò neanche. Broximon si rialzò pian pianino, sotto shock. Sapeva che avrebbe dovuto accettare qualche cambiamento drastico, altrimenti non sarebbe sopravvissuto in quel posto. Per due giorni non mise il naso fuori dalla sua stanza, né tanto meno dall'appartamento, e non aprì bocca. Ettrich sapeva cos'era necessario fare e lo fece. Un pomeriggio tornò a casa con un'altra busta di Sports Experts, ma la lasciò nell'armadio dell'ingresso. Attese che Broximon uscisse dal suo isolamento e tirasse fuori l'argomento da solo. Lo fece tre giorni dopo, e in maniera bellicosa, ma Ettrich era pronto. Si diresse verso l'armadio, prese la busta e la portò in soggiorno. La posò per terra accanto a Broximon e senza dire una parola uscì dalla stanza. Cinque minuti dopo, mentre era in piedi in cucina che beveva un bicchiere di succo di pompelmo ghiacciato, Vincent sentì giungere dal soggiorno un gemito seguito da un «Noooooooooo!» sonoro e prolungato. Non si mosse. Attese di sentire se succedeva qualcos'altro, dopo di che bevve un altro sorso di pompelmo e guardò fuori dalla finestra il giardinetto di sotto, in cortile. Dopo un po' qualcuno si schiarì la gola alle sue spalle. Vincent si voltò e vide Broximon sulla soglia della cucina con quell'oggetto in mano. Doveva avere pianto. Ettrich fu così commosso e imbarazzato, quando se ne accorse, che distolse immediatamente lo sguardo dalla sua faccia. «Non puoi voler sul serio farmi usare quest'affare». «Hai un'idea migliore, Brox? Sei tu che sei stato investito. Dobbiamo trovare una soluzione». «Non sono stato investito. Quella bici mi ha solo urtato». Ettrich bevve l'ultimo sorso di pompelmo e fece schioccare le labbra prima di rispondere. «Va be', ti investiranno la prossima volta, comunque». Era uno zaino. Uno di quegli zaini fatti apposti per portare un bambino sulle spalle. Ci metti dentro il pargolo e lui può venire in giro con te e
guardarsi intorno quando vai a fare una passeggiata o un giro in bici in una bella giornata di sole. La cosa più terribile è che, prima di trascinarselo dietro in cucina, Broximon l'aveva provato e quel dannato coso gli andava bene. Dopo essersi assicurato che Vincent non fosse nelle vicinanze, ci si era calato dentro per vedere che effetto gli faceva. E non era poi così male, tutto sommato. «E io dovrei mettermi qua dentro e andare in giro sulla tua schiena ogni volta che usciamo?». «Non ho detto questo, Brox. Ma me lo posso portare dietro e nel caso in cui dovesse servire, sapremo cosa fare». «A proposito, hai visto come si chiama questo coso? Hai visto il nome sull'etichetta?». Ettrich fece finta che ci fosse dell'altro succo di pompelmo nel bicchiere e se lo portò di nuovo alle labbra. Sì, lo sapeva come si chiamava, ma era l'unico che aveva trovato della dimensione giusta per Broximon. «Sacco-bibbo. Penso che volessero chiamarlo sacco-bimbo, ma devono aver fatto un errore. E io dovrei uscire vestito in questo modo orribile e andare in giro sulla tua schiena in un affare che si chiama Sacco-bibbo? Senti, ho un'idea, perché non mi ammazzi, così la facciamo finita? Ci risparmiamo un sacco di problemi. Il tuo appartamento è abbastanza in alto: buttami giù dalla finestra. Quando si tratta di cadere, anche noi nanerottoli malati di progeria andiamo giù come voi grandi». Ettrich si grattò il naso. «Non essere melodrammatico. Vuoi un po' di succo di pompelmo?». Dopo quella minacciosa telefonata, Broximon si avviò verso l'armadio nell'entrata e tirò fuori il suo Sacco-bibbo senza che Ettrich dovesse dir nulla. Ogni volta che tornavano a casa, dopo averlo usato, Broximon prendeva quel coso maledetto e lo seppelliva nell'armadio più in fondo che poteva. Non cambiava nulla, ma almeno si sentiva infinitesimalmente meglio. Riaffiorando dall'oscuro paese dei cappotti, con lo zaino in mano, fu sorpreso dalla voce indispettita di Ettrich alle sue spalle. «E lo sai cos'ha detto quel figlio di puttana? Mi ha chiesto con una vocina tutta dolce e mansueta se sapevo che "anjo" in eschimese significa 'neve che cade' e che "anjou" è una regione della Francia e un tipo di pera. Conosce il nome di mio figlio e ci si diverte. Mi voleva provocare, quel figlio di puttana». Brox sbottò: «Calmati! Come cavolo pensi che andrà a finire se quando
lo incontri sei così incazzato e fuori di te?». «Conosce il nome di mio figlio, Broximon! Sa di Anjo e della zuppa di vetro e che Isabelle è a Vienna. Il Caos è qui, mi ha parlato adesso al telefono. Non sono incazzato, sono terrorizzato per loro». «Be', non esserlo, non serve a nulla. Andiamo a incontrare 'sto tipo e sentiamo cos'ha da dirci». «Sai cos'ha risposto quando gli ho chiesto se potevo portarti? Mi ha chiesto se la progeria è una specie di profiterole. Voleva sapere se poteva mangiarti». Isabelle, Leni e il falso Broximon erano seduti su una panchina marrone nel parco e fissavano quella strana cosa che s'innalzava davanti a loro. «È una Flakturm». «Come?». «Flak-turm». «Mah». Il falso Broximon non aveva mai sentito quella parola, ma non era neanche tanto strano, del resto, visto che non parlava tedesco. «È una torre antiaereo. È stata costruita dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Ci avevano messo delle mitragliatrici in cima per sparare agli aeroplani americani. È tutta di cemento. Dopo la guerra hanno scoperto che sono così resistenti e indistruttibili che non potevano demolirle con la dinamite, o altri sistemi del genere, senza danneggiare anche tutti gli edifici intorno. Così le hanno lasciate dov'erano. Credo che ne siano rimaste cinque in giro per la città». «E adesso a cosa servono?». «A niente. Non ci si può fare gran che. Un architetto voleva costruire un albergo in cima a una, ma non gli hanno dato il permesso. Questa è l'unica che viene usata, che io sappia. Ci hanno fatto un acquario con pesci esotici e rettili. Persino degli squali. Quella grossa tettoia di vetro che vedete da una parte è la foresta pluviale tropicale: c'è dentro una vera giungla, con tanto di scimmie e pappagalli». «Squali e scimmie in una torre antiaereo. Piuttosto surreale, non c'è che dire». Dopo lo smacco subito al caffè, erano arrivati in quel parco con la Flakturm nel mezzo, lungo la strada per l'appartamento di Isabelle che era solo a dieci minuti di distanza ormai. Erano andati in un caffè vicino al negozio di Petras, perché Isabelle ricordava che lì avrebbe potuto trovare il suo Mohr im Hemd. E ancor più
del dolce, aveva bisogno di un po' di tempo per pensare a quanto aveva appena imparato in compagnia di Petras, prima di vedere Vincent. Quando erano entrati, il caffè era semivuoto. Avevano potuto scegliere il posto che preferivano e si erano seduti in un tavolo grande vicino alla finestra, pieno di luce. Isabelle cercò un cameriere per ordinare, ma non c'era nessuno in giro. Si accomodò nell'ampio sedile e si guardò intorno sorridente. Leni fece per dirle qualcosa. Seduto sul davanzale, il falso Broximon intuì cosa stava per dire e la fissò scuotendo la testa. Lascia che lo scopra da sola, dicevano i suoi occhi. Non dire niente. Leni volse lo sguardo altrove. E dopo qualche minuto, Isabelle comprese. Da principio non si era preoccupata, o non aveva realmente prestato attenzione al fatto che, quando finalmente i camerieri erano apparsi, nessuno di loro li aveva degnati di uno sguardo, anche se lei continuava a provare ad alzare la mano per chiamarli al tavolo. I camerieri a Vienna sono famosi per essere irritabili e decisi a far sempre di testa loro. Vanno e vengono quando fa più comodo a loro e se non ti sta bene, fatti tuoi. Non si va di fretta in un caffè. Non si entra per prendere qualcosa in quattro e quattr'otto e andarsene. Ci si va per chiacchierare, o leggere, o sognare. I camerieri lo sanno e si comportano di conseguenza. Con il passare del tempo, però, fu evidente che quei camerieri non stavano ignorando Isabelle, ma semplicemente non la vedevano. «Non mi vedono», disse con voce tranquilla e posata. Stava enunciando un dato di fatto. Leni mosse piano la testa in segno d'assenso, con gli occhi chiusi, perché non voleva vedere la faccia di Isabelle. Il falso Broximon rimase impassibile. «Perché non me l'hai detto, Leni?». «Non ti ricordi cosa avevano detto le guardie al confine, parlando di quell'uomo in bici che viene qui un paio di volte alla settimana per cercare di comunicare con la madre? E non ci riesce quasi mai. È così per tutti i morti che ritornano qui». «Ma io non sono morta!». «Ma vieni dal mondo di Simon Haden. È per questo che il Caos voleva che fossi tu a decidere di venire, perché così hai scelto spontaneamente di entrare in quella fase della morte da cui non c'è ritorno». «Ma io ho riportato indietro Vincent. Siamo tornati tutti e due. L'ho già fatto una volta».
Con sua sorpresa e grande sconforto, tutti e due questa volta scossero la testa. «Vincent era morto da pochissimo. Sei arrivata prima che lui creasse il suo mondo, che è la seconda fase della morte. Se l'avesse già fatto, non saresti stata in grado di salvarlo». «E allora dove siamo adesso? Che posto è questo?». Isabelle indicò con aria esasperata quello che avevano intorno, tutta la realtà, il suo mondo, il mondo che conosceva così bene. «Siamo dall'altra parte del vetro. Ricordi? Sei anche tu dalla nostra parte, adesso». Si erano seduti nel parco invece di recarsi all'appartamento, per quanto fosse ormai poco lontano, perché Isabelle non sapeva bene che reazione avrebbe avuto quando si fosse trovata davanti a Vincent. Vederlo e non poterlo toccare? Sentire il suo odore e non poterlo baciare? Questa era la cosa peggiore di trovarsi dall'altra parte del vetro. Era tornata nel suo mondo, a tutto quello che conosceva così bene. Aveva tutto lì, di fronte a sé. Poteva vedere, sentire tutto... Era sicura che se almeno avesse potuto ordinare quel Mohr im Hemd, avrebbe potuto godere del suo delizioso e ricco aroma. Ogni elemento che faceva parte della sua vita era lì... tranne lei. «Ehilà, giovanotto. Come ti chiami?», domandò a Broximon in tedesco un affascinante signore con un cappello tirolese grigio in testa, sorridendo nel vederlo appollaiato sulle spalle di Ettrich nel suo Sacco-bibbo. Broximon cercò d'ignorarlo, ma non era semplice, perché il semaforo era rosso ed erano tutti e tre fermi sul marciapiede ad aspettare di attraversare. Non potevano andare da nessuna parte e quel tipo era chiaramente in attesa di una risposta. «Vincent, cos'ha detto?». Vincent protese la testa all'indietro e tradusse: «Vuole sapere come ti chiami». «Ah, inglese! Parlo inglese anch'io. Ciao, mio piccolo ometto. Come ti chiami?». «Marvin Gaye», disse Broximon con la voce più profonda che aveva, voltandosi dall'altra parte. In quel momento passò un autobus rosso e bianco che coprì le parole del vecchio signore. Broximon non gli chiese di ripetere, ma lui lo fece ugualmente. Con voce completamente diversa. E senza il minimo accento
tedesco. «Credevo ti chiamassi Broximon». Il semaforo divenne verde, ma nessuno di loro si mosse. Il vecchio sorrise, ma non Ettrich e Broximon. «Chi è lei?». «Vincent, abbiamo appena parlato al telefono. Non ti ricordi?». «Era lei?». Il vecchio signore sollevò il cappello con disinvolta galanteria, come a dire: «Piacere di fare la vostra conoscenza!». «Che cosa ci fa qui? Pensavo fossimo d'accordo che ci saremmo incontrati a Heldenplatz». «Un piccolo cambiamento di programma. Vuole vedere Isabelle? È qua vicino». La diffidenza generata in lui da quelle parole si trovò subito a dover combattere con il desiderio di vedere Isabelle. Era davvero lì? Così vicino? Gli mancava così tanto. E il bambino? Come stava loro figlio? «Dov'è?». «In un parco, a pochi minuti da qui. La porto anche subito, se vuole». Da sopra la spalla di Ettrich, Broximon disse: «Perché dovremmo fidarci di lei?». L'anziano signore allungò una mano e gli fece il solletico sotto il mento. «E perché non dovreste? Vi sto solo proponendo di fare due passi in un parco». Broximon si chinò in avanti e sussurrò qualcosa all'orecchio di Ettrich, il più lontano possibile da quel tipo. Ettrich ascoltò senza dire nulla e senza che l'espressione sul suo volto mutasse minimamente. Poi disse: «D'accordo, verremo con lei». «Perfetto. Seguitemi». S'incamminò davanti a loro e per qualche minuto Broximon continuò a parlare sottovoce con Vincent. Alla fine si raddrizzò nel suo zaino e chiese: «Lei è il sostituto di John Flannery?». «Sì». «Vale a dire il Caos?». «Diciamo che rappresento la ditta». «Non è un po' troppo vecchio?». L'anziano signore agitò un dito davanti a Broximon come a dire "cattivello" e rispose, facendogli l'occhiolino: «Solo perché c'è un po' di neve sul tetto non significa che non ci sia un bel fuoco nel camino. Comunque sia, non faccio miracoli, quelli li lascio a gente più giovane
di me. Del resto, gli ultimi due che erano stati inviati qui facevano ogni sorta di prodigi, e guarda che fine hanno fatto con il nostro Ettrich. Ho trovato delizioso il modo in cui ti sei sbarazzato di Flannery, Vincent. Oh, mi sono proprio fatto una bella risata. Lui e quel suo grosso cane, inceneriti, entrambi. Un vero colpo di genio. Ti hanno sottovalutato, Vincent. Nessuno ha capito le tue capacità. Io li avevo avvertiti. Gli ho detto: Ettrich è un uomo intelligente, è astuto. Mandate me questa volta. Fatemi parlare con lui. Sono certo che mi ascolterà». Si posò una mano sul petto. «Perché la mia specialità è l'ordine, sistemare ogni cosa per benino. Dovreste vedere la mia scrivania a casa: sempre perfetta. Di regola le persone anziane si sanno organizzare perché hanno abbastanza esperienza. E poi non è che sono rimaste loro tante altre cose da fare. All'angolo giriamo a destra: siamo quasi arrivati. Mi piacciono i patti chiari. Accordi, patti di ferro e condizioni vincolanti. Niente scappatoie, niente buchi da cui sgattaiolare fuori. Tutto fatto con i crismi: un bel contratto firmato, vidimato e approvato. Così si sa esattamente cosa aspettarsi. Detesto le sorprese». Né Ettrich né Broximon avevano la più pallida idea di dove volesse andare a parare, né stavano realmente ascoltando quel suo sproloquio. Ma lo osservavano: i gesti, l'andatura, il modo in cui continuava a voltarsi e a sorridere verso di loro. «Non ci ha detto come si chiama». «Mi potete chiamare Putnam». In fondo alla strada apparve la Flakturm. Ettrich sapeva cos'era, ma Broximon no. In quel momento però non c'era spazio per l'architettura tra i suoi pensieri. Quando la vide, fece una faccia strana, pensando a quanto fosse insolita e fuori luogo. Dopo di che riprese a studiare quel garrulo vecchio col cappello in testa. «Così ho detto: lasciate che vada io a parlare con Vincent Ettrich. Lasciate che provi a proporgli un patto che possa accontentare tutti. È un uomo ragionevole. Sono sicuro che riusciremo a trovare un accordo. Così mi hanno detto: vai, prova». «E farebbe parte dell'accordo anche mangiarsi Broximon come un profiterole?». «Quella era una battuta, Vincent! Stavo scherzando. Dai, non crederai davvero che dicessi sul serio. Non sarebbe stato necessario accompagnarvi qui, adesso. E mostrarvi Isabelle. È stata una mia decisione: un regalo per
dimostrarvi le mie buone intenzioni». Salirono alcuni gradini ed entrarono nel parco. In cima, sulla destra, c'era un campo da calcio e da basket circondato da una rete. Era pieno di ragazzini di tutte le età che giocavano, correvano, gridavano, e i loro palloni da basket e da football volavano da tutte le parti. Sulle panchine, fuori, davanti alla rete, c'era un altro gruppo di ragazzi che guardavano le partite e facevano i bulli davanti alle ragazzine che erano con loro, fumando, parlando a voce più alta del necessario, cantando, esibendosi in goffe mosse di karatè o nei passi del ballo più alla moda... Una ragazza seduta su una panchina, che guardava dalla loro parte, vide Broximon. Lanciò un gridolino stridulo e si portò una mano davanti alla faccia. Le sue amiche si voltarono per vedere perché avesse strillato. Ognuna di loro, vedendolo, reagì in modo diverso. Una saltò su e s'allontanò in fretta verso il parco senza voltarsi indietro una sola volta. Altre due si misero a ridacchiare e a darsi delle gomitate dicendosi reciprocamente di smetterla. I ragazzi fecero peggio. Scorgendo Broximon lo fissarono a bocca aperta, oppure gli sorrisero con aria maligna o con uno sguardo ebete, come se fossero stati in uno zoo e lui fosse un animale in gabbia. Non avevano mai visto nulla di simile a quel mostriciattolo nel suo Sacco-bibbo, cos'altro potevano fare se non guardarlo con gli occhi sgranati? Ettrich rabbrividì vedendo quelle reazioni. Disse: «Sono ragazzini, Brox. Fanno sempre gli scemi». Ogni volta che succedeva, e quella non era certo la prima volta, Brox ci rimaneva malissimo. Il modo in cui gli abitanti di quel mondo lo guardavano lo imbarazzava talmente che sarebbe voluto scomparire. Però, non diceva mai nulla. E perché, poi? Nessuno ci poteva fare niente, ed Ettrich aveva già abbastanza problemi senza che lui ci aggiungesse i suoi. «Vuoi che li faccia sparire? Volentieri, Broximon». Putnam aveva rallentato e si era messo a camminare accanto a Ettrich, di fianco a Broximon. La curiosità fu più forte di lui e Broximon gli domandò: «In che modo?». «Oh, ci sono diverse possibilità. La prima sono i corvi. Ci sarebbe da divertirsi: un vero spasso. Come in un film di Hitchcock. Basta che dica una parola e avremmo davanti a noi una scena del film Gli uccelli». Putnam indicò un maestoso castagno davanti a loro. Aguzzando la vista, si accorsero che era pieno zeppo di corvi tra i rami. Grossi uccelli corpulenti, ce ne
dovevano essere almeno venticinque appollaiati lassù. Stranamente, erano tutti muti, cosa piuttosto insolita per le loro chiassose abitudini. Presi dallo schiamazzo e dagli avvenimenti che riempivano il loro mondo, i ragazzini non facevano nessun caso a quegli uccelli sopra la loro testa. «Oppure i topi, se preferite qualcosa di più terreno. Ce ne sono in abbondanza nel parco. Non potete vederli perché di giorno non vanno tanto in giro. Ma verrebbero senz'altro in nostro aiuto, se glielo chiedo», disse Putnam con tono premuroso e zelante. «Allontaniamoci da qui e facciamola finita», esclamò Broximon, per quanto lo allettasse in cuor suo l'idea di vedere quelle piccole teste di cazzo e le loro reginette in blue jeans darsela a gambe gridando, inseguite da schiere di topi e ondate di corvi. Ettrich sollevò un poco lo zaino sulla schiena e riprese a camminare di buon passo. «Quanto manca?». «Siamo quasi arrivati. Forza». A un centinaio di metri da loro Isabelle stava protendendo la testa all'indietro per guardare la Flakturm chiazzata di grigio. Fu Leni a vedere Vincent per prima quando comparve davanti a loro in compagnia di un anziano signore. «Isabelle». «Sì», rispose lei senza girarsi. «C'è Vincent». «Cosa? Dove?». Glielo indicò. «Lì. Davanti a noi». «Oh, mio Dio». Non appena Isabelle lo vide, portò inconsapevolmente entrambe le mani sulla pancia, sul loro bimbo, come per dirgli: Anjo, guarda, guarda, eccolo. C'è tuo padre. «Chi è quel tipo con lui? Quel vecchio?». «Non lo so». Il falso Broximon vide l'originale nello zaino sulle spalle di Ettrich. Lo fissò incantato, ma anche confuso da quel che provava. Eccolo, si disse, quello sono io. O meglio, quello che dovrei essere. Gli sembrava di essere una specie di banconota falsa. Putnam condusse Ettrich verso un gruppo di tavolini da picnic a qualche metro da Isabelle. Gli fece cenno di sedersi con le spalle alla Flakturm. Al che gli indicò la panchina vuota accanto a lui. «È seduta lì, ti sta guardando. Sorride e si sta accarezzando la pancia». Vincent guardò, ma non vide nulla. E come lui Broximon. «Non vedo nessuno».
«È seduta lì, Isabelle. Insieme a Leni Salomon e un altro Broximon, una brutta copia di questo. Deve averlo creato lei». Vincent e il vero Broximon lo ascoltarono, ma continuarono a non vedere nulla. «Me lo dimostri». Putnam esclamò: «Isabelle, verresti qui, per favore?». Lei guardò Leni che le fece cenno di non esitare. Isabelle si avvicinò e si sedette davanti a Vincent. Aveva un volto così teso e magro. Aveva mangiato? Fu il primo pensiero che le attraversò la mente guardando il suo grande amore: non aveva mangiato abbastanza. Putnam la indicò e disse a Vincent. «È qui adesso. Si è seduta proprio davanti a te. Di' quello che vuoi». Vincent guardò verso di lei, anzi, attraverso di lei, come un cieco i cui occhi all'apparenza sembrerebbero normali. Le rammentò quel modo sconcertante che hanno i ciechi di guardarti, come se ti vedessero e non ti vedessero allo stesso tempo. «Sto ancora aspettando una dimostrazione». Invece di rispondere, l'anziano signore guardò Isabelle e aspettò. Dopo di che si voltò verso Vincent e disse: «Dice che vuole che tu metta tutt'e due le mani sul tavolo, col palmo in giù». Ettrich non aveva niente da perdere. Sollevò le mani dalle gambe e le posò sul tavolo. Avrebbe voluto girarsi e vedere la reazione di Broximon a quel che stava succedendo, ma non voleva perdersi le espressioni di Putnam. «Adesso guarda il palmo della tua mano sinistra. Così mi ha detto». Vincent sollevò la mano con una certa esitazione e la girò. Sul palmo c'era scritto "celadon" nella calligrafia un po' disordinata di Isabelle, in lettere verde celadon. «Guardati la mano destra». Al centro del palmo c'era scritto "anak", 'merda' in eschimese. Vincent ricordò cos'era accaduto al cimitero quando entrambi avevano posato le mani sulla lapide di Petras. Era stato trasportato indietro nel tempo, al giorno in cui il vecchio Petras aveva insegnato a Isabelle come entrare nella Morte. E quando, quello stesso giorno, più tardi, seduti sul tram, lui e Isabelle si erano tenuti per mano e avevano giocato alla "parola sconosciuta". Parole come celadon e anak. Grazie alla magia che accadeva ogni volta che i loro corpi si toccavano. «Cosa vuole, signor Putnam?». «Adesso mi credi, Vincent? Ci credi che Isabelle è qui?».
«Sì. Perché non posso vederla?». Broximon sapeva la risposta, ma rimase zitto. Fremeva per scendere dallo zaino, ma capiva che non era il momento di distrarre Ettrich per chiedergli di metterlo giù. «Non rivedrai mai più Isabelle qui. Si è spinta troppo addentro nella Morte, al di là del punto di non ritorno. Ha scelto lei di farlo, Vincent, è stata una sua decisione, non è stata obbligata. Se qualcuno sceglie di andare nella Morte, poi deve rimanerci. Queste sono le regole. Tassative. Non c'è niente da fare». Broximon sapeva che era vero. Ma sapeva anche, perché era presente, che Isabelle aveva scelto di andarci perché era stata ingannata dal Caos. E l'aveva fatto per proteggere suo figlio. A Broximon non serviva vedere quelle parole scritte sul palmo di Vincent per credere che Isabelle fosse lì, ma in un'altra dimensione, e che non sarebbe mai più potuta tornare. Era finita. Domandò sconsolatamente a Putnam: «Se Isabelle se n'è andata per sempre, perché lei è qui? Avete vinto. Che cosa volete ancora?». Isabelle raddrizzò lentamente la schiena, come un gatto che si alza dall'angolino al sole in cui ha dormicchiato sino a quel momento. Concentrata, ma piena di incertezza, facendo attenzione a non staccare le mani da quelle di Ettrich. «Anche se rimani qui da solo, Vincent, sei sempre un pericolo per noi», proseguì Putnam. «Conosci troppe cose della vita e della morte e di quello che sta tra loro. Sarò onesto con te e andrò dritto al punto. La nostra offerta è questa: faremo in modo che tu e Isabelle possiate vivere nel tuo aldilà. Tu sei già morto una volta, perciò hai già attraversato la prima fase. Se sei d'accordo, ti spediremo direttamente alla seconda fase, vale a dire nel tuo mondo dei sogni. Sono sicuro che Broximon ti ha già spiegato tutto al riguardo. Isabelle e Anjo ti aspetteranno lì, e voi tre potrete stare insieme per sempre. La cosa più interessante è che sarai tu a creare quel mondo, lo potrai modellare come un pezzo d'argilla fin nel più piccolo dettaglio esattamente come vuoi tu. Sarà il tuo paradiso personale, Vincent. Ti permetteremo anche di consultare Isabelle, in modo che tu possa creare anche tutto quello che renderà felice lei. Sarà davvero il vostro paradiso». Malgrado un milione di motivi per non farlo, Ettrich scelse di andare in una direzione diversa. «E Anjo? Cosa succederà quando nasce?». Putnam si stropicciò le mani lentamente, come se avesse l'artrite e cercasse di scaldarsele o di lenire il dolore. «Anjo crescerà sano e felice nel
vostro paradiso. Non è un brutto posto in cui venire su, no? Starà a voi decidere se dirgli o meno che posto è». «E quando cresce?». Putnam si rilassò e portò entrambe le mani dietro la nuca. «Gli potrete dare una fidanzata perfetta, o una moglie, un lavoro che gli piace, persino una bella Ferrari rossa fiammante». Sorrise a quella battuta e seguì un aeroplano che stava sfrecciando in cielo. «Magari dei figli, in seguito, se è quello che desidera, o una casa da un milione di dollari con vista sull'oceano... qualunque cosa lo renda felice. Starà a te. Gli potrai dare quel che vuole, Vincent. Sei tu il creatore, sarà il tuo mondo». «Dov'è il tranello?». Putnam rispose senza alcuna esitazione: «Il tranello è che voi saprete la verità. Sia tu che Isabelle sarete consapevoli di dove siete, in che posto, e come ci siete finiti. Per quanto possa essere meraviglioso, saprete sempre che non sarà come essere qua». «E già!», sbottò Broximon nel suo Sacco-bibbo, incapace di contenere la sua indignazione. In quel momento passò un'auto con i finestrini abbassati. Nello stereo, a tutto volume, una canzone degli AC/DC. Seduta sulla sua panchina a pochi metri di distanza, Leni la sentì e sorrise. Ricordò i giorni in cui era adolescente, e quando aveva attraversato la sua Highway to Hell, la sua autostrada per l'inferno, nel suo mondo immaginario, poco tempo prima. Anche Isabelle udì quella musica, ma la sua reazione fu totalmente diversa. Mentre la macchina passava, stava guardando Broximon nel suo zaino. Isabelle si domandò quale fosse stata l'ultima volta che aveva sentito una canzone degli AC/DC: quella volta che sono andata a mangiare una pizza con Simon Haden e gli ho raccontato di quando ero piccola perché continuava a tempestarmi di domande. Isabelle aveva parlato un po' della propria infanzia, gli aveva detto di Brogsma, il suo compagno immaginario, che era sempre con lei per aiutarla a superare tutte le cose che la terrorizzavano di cui era piena la sua vita. Brogsma era per metà un bambino della sua età e per metà un adulto, così sapeva come affrontare un sacco di situazioni perché possedeva i vantaggi di entrambe le condizioni. Le dava sempre degli ottimi consigli. Era spassosissimo. E anche se nessuno poteva vederlo, Isabelle sapeva che le sarebbe sempre stato accanto ogni volta che avesse avuto bisogno di lui. Sempre pronto a confortarla e a farla sentire al sicuro quando aveva paura.
Brogsma. Broximon. «Oh, santo cielo, ha capito male il nome! Credeva fosse Broximon. Che tenero, incredibile». A quell'esclamazione Putnam la guardò, domandandosi di cosa stesse parlando. Ma Isabelle continuò a fissare Broximon senza dire altro e l'anziano signore ritornò alla sua conversazione con Ettrich. Isabelle aveva sempre saputo che Haden aveva un debole per lei, ma sino a quel momento non aveva mai capito quanto le fosse legato. Adesso capiva che Simon aveva portato con sé nella Morte quel ricordo d'infanzia di Isabelle, e una delle persone con cui aveva popolato il suo mondo immaginario era il suo Brogsma. E poiché Simon era un tale snob in fatto di vestiti, l'aveva trasformato in una specie di damerino. Oggi, chissà perché, Broximon era vestito da ragazzino, ma tutte le altre volte che Isabelle lo aveva incontrato era sempre stato abbigliato con gran gusto, come un lord inglese o un miliardario italiano. Sin dall'inizio quel "Broximon" elegantemente vestito aveva cercato d'aiutarla. Era stato il primo a parlarle nel mondo immaginario di Haden. Poi Isabelle l'aveva incontrato nella realtà, al funerale di Leni, e anche allora aveva cercato di venire in suo aiuto, ma purtroppo non c'era riuscito. Isabelle guardò la panchina su cui era seduta Leni insieme al falso Broximon. Che buffo: lei l'aveva creato dai suoi ricordi del "vero" Broximon, nella speranza che potesse darle una mano a tirarsi fuori da quel casino. Ma adesso comprendeva che entrambi erano una copia imperfetta dell'amico che aveva inventato da bambina. Allora aveva creato Brogsma per farsi proteggere e consolare. Poi Simon Haden aveva dato vita a Broximon e adesso Vincent doveva inventarsi un intero mondo immaginario in cui avrebbero potuto vivere tutti insieme felici e contenti... Sempre da fuori, fuori, fuori. Tutti continuavano a creare cose che arrivassero da fuori a salvarli. Ma era all'interno che bisognava rivolgersi, di questo Isabelle ormai era sicura. Le venne in mente una frase che aveva letto poco tempo prima: «Devi cercare te stesso dove sei già». Isabelle aveva trentadue anni. Si passa attraverso così tante fasi nella vita. Così tante Isabelle Neukor avevano abitato le sue giornate sulla terra. Perché non rivolgersi a una di loro in cerca d'aiuto, a una di quelle Isabelle che avevano già vissuto e superato tante difficoltà con successo? Perché non chiedere aiuto a loro? Perché non
chiedere aiuto a se stessa? Come la Isabelle che a sedici anni una notte aveva camminato per le strade di Bombay da sola per tornare al suo albergo perché aveva perso il portafogli e non aveva i soldi per il taxi. Quella ragazza in gamba, impulsiva, che aveva considerato quella passeggiata notturna un'avventura divertente. Senza pensare neanche per un momento che potesse essere pericolosa. Perciò, aiutami, Isabelle sedicenne. Prendi il mio posto. Portami tu attraverso questa strada buia e sconosciuta perché io ho troppa paura, mi sento smarrita e non so più cosa fare. I semafori non funzionavano più da ore, non avevo nessuna cartina, ma la cosa non mi aveva minimamente preoccupata quella volta a Bombay, mezza vita fa. Oppure vieni tu in mio aiuto, Isabelle di ventotto anni che ha avuto la forza di affrontare il fatto di essere diventata un'alcolista, nonché il coraggio di confessarlo alle persone giuste che ti hanno aiutato a uscirne. Vieni in mio aiuto tu, Isabelle ventottenne. Stava di nuovo guardando quella torre antiaereo mentre pensava a tutte quelle cose. La sua mente vorticava come una turbina alimentata da tutti quei pensieri riguardo alle diverse Isabelle del passato. Quale mi può essere d'aiuto ora? Cosa devo fare per trovare quella giusta? È davvero un'idea che può funzionare? Aveva bisogno di forza e di coraggio. Aveva bisogno di una Isabelle che conoscesse la situazione, compresi i diversi attori e la posta in gioco. Isabelle a sedici anni non conosceva Ettrich, né un sacco di altre cose della vita. Come poteva, quando a sedici l'esistenza sta appena cominciando a mostrare il suo vero volto? La Isabelle di ventotto anni non era ancora andata nella Morte a salvare l'uomo della sua vita. A ventotto anni era stata a letto con molti uomini, il sesso era una specie di sport in quel periodo per lei, e l'Amore (qualunque cosa fosse) viveva su un altro pianeta, senza dubbio non quello su cui abitava lei. Adesso aveva bisogno di una Isabelle della sua età, con il suo passato, e i segni che quelle esperienze le avevano lasciato addosso. Una Isabelle che sapesse quello che sapeva lei, ma non ne fosse terrorizzata. Mentre rifletteva, i suoi occhi corsero lungo un fianco macchiato della Flakturm di cemento, sino agli alti alberi che ondeggiavano al vento e il recinto giochi per bambini poco lontano. La brezza si era trasformata in un mite venticello più sostenuto. Isabelle lo sentiva sulla pelle e tra i capelli. Forse avrebbe piovuto più tardi. Si udiva, vicino, lo scricchiolio delle fo-
glie e di tanto in tanto il verso di un uccello. Due giorni prima che la sua amica Leni morisse, Isabelle aveva fatto una lunga passeggiata attraverso il suo quartiere, da sola. Senza nessun motivo particolare, si era svegliata quella mattina traboccante di felicità e di fiducia. La colazione con Vincent era stata intima e divertente. Vincent le aveva raccontato delle storie che lei non aveva mai sentito e che l'avevano fatta ridere, mentre lui continuava a imburrarle fette di pane tostato con la precisione di un mastro orafo. Quel gesto, da solo, la cura, l'innegabile amore che aveva messo in una cosa tanto banale aveva fatto ubriacare di gioia il cuore di Isabelle. Quando avevano finito di mangiare, lui le aveva preso la mano e se l'era portata alle labbra, così fresche. L'aveva guardata negli occhi per un momento lunghissimo senza dire nulla, e anche Isabelle non aveva parlato. Tutto quello di cui avevano bisogno nella loro vita era contenuto in quel momento, quella stanza, quel gesto. Più tardi Vincent aveva portato il cane dal veterinario per una vaccinazione. L'appartamento le era sembrato troppo vuoto senza di lui e il tempo fuori così splendido che aveva deciso di fare una passeggiata. Si era mangiata un gelato alla fragola, seduta a un tavolino all'aperto di una gelateria italiana e poi aveva osservato tre cuccioli di bouledogue francese bianchi e neri che facevano la lotta nella vetrina di un negozio di animali sulla Neubaugasse. Avrebbe voluto gironzolare un altro po', ma si era sentita all'improvviso terribilmente stanca e appesantita. Le capitava spesso, ora che la gravidanza stava volgendo al termine. Qualche volta Isabelle trovava frustrante non avere più il controllo del proprio corpo. Ma era stata una passeggiata talmente deliziosa, che si era limitata a sorridere e a fermarsi un attimo a pensare dove poteva sedersi e continuare a godersi quella giornata senza doversi muovere. Si era diretta lentamente verso Esterhazy Park e si era seduta su una panchina da cui poteva osservare un recinto di giochi per bambini. Con grande contentezza, ma anche con profonda emozione e incredulità, aveva guardato i bambini che giocavano. A quell'ora della giornata erano quasi tutti bebè, che le mamme avevano portato un po' fuori tra un sonnellino e l'altro. Isabelle aveva pensato: tra un po' avremo anche noi un bambino così. Verremo qui o in un qualche altro parco con la carrozzina e uno zaino pieno di pannolini di ricambio, una bottiglia gialla di plastica con il succo di frutta preferito di Anjo e un sacchetto rosso di fette biscottate. Mentre pensava tutte queste cose, aveva sentito il bambino muoversi. E poiché l'aveva fatto proprio in quel momento, Isabelle si era detta che Anjo
stava dando un'occhiata a quei giochi insieme a lei: il tappeto di sabbia, le altalene, lo scivolo... Quando sarebbe stato più grande li avrebbe provati tutti. Si sarebbero divertiti un mondo. Sarebbe stato tutto così bello! Era un momento perfetto, quello, per lei, e ne era pienamente consapevole. Sapeva di essersi persa troppi momenti perfetti nella sua vita, perché troppo avida, cieca o distratta, ma non questa volta. Era conscia che quei minuti trascorsi sulla panchina a guardare quei bambini e sognare Anjo erano una di quelle occasioni straordinariamente rare nella vita in cui la nostra buona stella e tutti i nostri sogni convergono a rendere tutto assolutamente perfetto. Non esisteva istante più bello, né mai sarebbe esistito. «Ciao». Isabelle era talmente immersa nella gioia e nella serenità di quel momento che aveva sentito quella voce soltanto con l'anticamera del cervello. «Ti dispiace se mi siedo qui?». Con immensa calma aveva alzato gli occhi e aveva visto se stessa in piedi davanti alla panchina, con degli abiti diversi da quelli che lei stava indossando in quel momento. Fu sorpresa di non essere sorpresa. «Ma certo, sicuro. Siediti». La Isabelle che era seduta da un po' su quella panchina a guardare i bambini giocare sentiva che non c'era nulla di strano in quello che stava succedendo e che avrebbe potuto affrontare qualsiasi cosa in quel momento. «Cosa vuoi che faccia?». «Voglio che tu prenda il mio posto. Tu sei ancora dall'altra parte del vetro e puoi farlo. Ci sono alcune cose che non sai, ma non importa. La cosa più importante è che sei forte e senza paura, e io invece no. Vincent non si accorgerà mai della differenza, se non glielo dici tu. Ricordo così bene quella giornata nel parco. Ricordo di essere stata così pienamente soddisfatta e sicura, sicura di tutto. Quand'è stato, un mese fa? Io non posso più tornare perché ho scelto io di venire qua. Ma tu vivi ancora lì, perciò, per favore, prenditi il resto della mia vita, della nostra vita, per tutto il tempo che durerà. Con tutta me stessa, ti offro il mio posto nel mondo. Porta con te la forza che provi in questo momento, in questo istante. La tua felicità, la tua fiducia, la tua speranza...», la sua voce si fece soffocata, «e usale per vivere il resto della nostra vita qui. Sei immensamente più forte di quanto io possa mai essere...». «Non dire altro. Va bene». L'espressione sul suo volto avrebbe allarmato Putnam se l'avesse potuta vedere. Perché era lo sguardo di un essere uma-
no che non ha dubbi sul proprio scopo e sa che condurrà a qualcosa di buono. Uno sguardo che diceva: so perché sono qui e cosa devo fare. Non cercate di fermarmi. Sentendola acconsentire, le spalle di Isabelle si curvarono all'improvviso in avanti e tutta la tensione che aveva accumulato sino a quel momento nei muscoli della schiena pian piano si andò dissolvendo. Esalò un lungo respiro e poi cercò di riprendere a respirare normalmente prima di tentare di dire altro. «Come funziona? Cosa devo fare?». «Prima ti devo parlare delle farfalle. Le Morfo blu. E della loro capacità di camuffarsi. Dobbiamo ingannarli. Non possiamo permettere che Putnam veda il vero colore delle tue ali. "Nero per i tuoi nemici, azzurro per tutti gli altri"». «Non ho idea di cosa tu stia parlando». Isabelle allontanò per qualche secondo lo sguardo dal volto di quella donna tesa e turbata all'altra estremità della panchina per tornare ai bambini che giocavano nel tappeto di sabbia a pochi metri di distanza. Non poté non sorridere di nuovo quando li vide. Putnam aveva visto Isabelle alzarsi e allontanarsi, ma non ci aveva fatto troppo caso. Aveva semplicemente immaginato che l'avesse disturbata il suo discorso a Vincent. La osservò dirigersi verso l'angolo opposto del parco, dopo di che aveva ricondotto il suo sguardo e la sua attenzione su Ettrich. «Mentre stavo venendo qui per incontrarti, Vincent, ho visto una cosa davvero strana. C'era un uomo che stava camminando verso di me, una specie di vagabondo. Hai presente, no, di chi sto parlando, quei tipi impresentabili, ridotti malissimo. Quando l'ho visto, mi sono chiesto che cosa provavo nei suoi confronti. Poi ho visto che aveva entrambe le mani accostate alla bocca. E quando sono stato più vicino, mi sono accorto che stringeva un piccione e lo stava ricoprendo di baci». S'interruppe in attesa di una qualche reazione da parte di Ettrich, che continuò invece a fissare le proprie mani intrecciate e posate sul tavolo, impassibile. Broximon, nel suo Sacco-bibbo, fece una smorfia. Aveva già incrociato le braccia qualche minuto prima, con aria scettica, in attesa di sentire cos'avrebbe detto Putnam. «Disgustoso, no? Te lo immagini cosa dev'essere baciare un piccione di città? Sudicio, pieno di malattie... uno schifo. Ma sai cos'è successo, Vincent? La mia mente ha fatto un'improvvisa piroetta e ho capito che quel
tipo amava il suo piccione. Io pensavo che quello che stava facendo era rivoltante, ma lui no. E chi ha ragione? Forse lui sa qualcosa che io non so». Broximon non riuscì a non sbottare: «Che storia del cavolo è mai questa? Non è che si droga per caso?». Uno sguardo malizioso e provocante illuminò il volto dell'anziano signore. «Dico solo che Vincent deve imparare ad amare il piccione che gli ho appena offerto». Quando Isabelle comprese di aver perso l'attenzione della sua compagna, seguì il suo sguardo e si voltò a vedere cosa stesse succedendo alle sue spalle. Dall'altra parte di un recinto che le arrivava più o meno al petto, c'era un tappeto di sabbia con tre bebè, tutti presi da un gioco. Erano seduti in cerchio, vicini vicini, e non sembravano abbastanza grandi per essere in grado di alzarsi in piedi da soli. Le mamme erano lì vicino che fumavano e chiacchieravano. Le due Isabelle guardarono i bambini in un silenzio affettuoso. Due di loro indossavano una tuta di jeans, mentre il terzo aveva un paio di bermuda e una maglia da calcio viola dell'Austria Vienna. Erano dei vestitini perfetti malgrado quelle dimensioni così minuscole. Ai piedi avevano tutti e tre scarpe da ginnastica bianche non più grandi di un cellulare. La Isabelle che stava per cedere la sua vita pensò: ognuno di questi bimbi vivrà almeno mezzo secolo più a lungo di me, e forse anche di più. Mezzo secolo. E lo stesso vale per Anjo. Con quel pensiero in mente si accarezzò ancora una volta il pancione che le era divenuto ormai così familiare e col più grande amore pensò a Anjo, racchiuso lì dentro. Ricordò come si dimenava tutto eccitato ogni volta che lei mangiava qualcosa di dolce. E come la svegliava certe notti muovendosi. È una sensazione prodigiosa quella di essere svegliati in piena notte da tuo figlio che si muove dentro di te. Isabelle era stata spesso confortata durante la gravidanza da quel pensiero: non sarò mai più sola. Comprese che, se continuava così, sarebbe stata schiacciata dal dolore e dal senso di perdita, perciò senza lasciar passare un secondo di più scivolò lungo la panchina. «Appena avrò finito, dobbiamo andare a parlare a quei ragazzini». Con una mano ancora sulla pancia, indicò all'altra Isabelle il turbolento gruppo di adolescenti cui Ettrich era passato davanti entrando nel parco. «E come farai?». Isabelle era abbastanza vicina per poter allungare, invece di rispondere,
una mano verso di lei e posargliela sulla pancia: una mano sulla propria pancia, l'altra su quella della compagna. Chiuse gli occhi, cercò di liberare la mente, anche se non era affatto semplice. Ricordò quello che le aveva detto Vincent una volta parlando del tempo. Che è in grado di capirti se gli spieghi nel modo giusto cosa vuoi. Ora Isabelle doveva provarci. Con tutta la forza che le era rimasta, dalla parte del vetro in cui si trovava inviò tutto quello che possedeva, ogni speranza, ogni sogno e ogni desiderio, tutto quello che era, nel corpo e nell'anima dell'altra Isabelle. Come quando si vuole spingere una barchetta in un torrente, diede al bambino che stava per nascere e al resto della sua vita una spinta risoluta verso l'altra Isabelle. Poi benedì entrambi, quel gesto e quella esistenza. Pregò con tutto il cuore di aver fatto abbastanza. Dapprima non sentì nulla di nuovo, ma quando riaprì gli occhi e istintivamente guardò giù, Isabelle vide che la sua pancia non sembrava più che stesse per scoppiare. Quel peso e quella gioiosa rotondità che aveva portato in giro con sé per tanto tempo non c'erano più. Spariti. Si alzò e disse: «Vieni, dobbiamo fare in fretta». Se quei ragazzini non fossero arrivati in quel preciso istante, Ettrich avrebbe acconsentito alla proposta di Putnam. Ci mancava un pelo, qualche secondo soltanto e avrebbe detto di sì, sarebbe ritornato nella Morte. Qualsiasi cosa, purché potesse essere di nuovo con lei. Voglio solo stare con Isabelle e nostro figlio, e non m'interessa niente dove siamo. Broximon era terrorizzato che Vincent stesse per fare esattamente quello, ma rimase in silenzio perché non aveva nessun diritto di dire che non era d'accordo. Sperava soltanto di poter avere qualche minuto per parlargli con calma di quella faccenda e provare a farlo ragionare. Durante il poco tempo che avevano vissuto insieme, si era sinceramente affezionato a Ettrich, anche se era costantemente preoccupato per lui. E adesso ecco giunta la somma delle sue paure. E si sarebbe detto che il tentativo di proteggere qualcuno stesse per fallire miseramente un'altra volta. Broximon era troppo buono per pensare anche solo un minuto a se stesso e a cosa gli sarebbe successo se Vincent avesse deciso di andare nell'aldilà. Voleva soltanto che l'amico riflettesse con calma e con la maggiore lucidità possibile prima di decidere. Non si fidava delle parole di Putnam, anche se nella loro semplicità filavano a meraviglia. Continuava a rimuginare quella proposta in cerca di un possibile inganno o trabocchetto che avrebbe fatto finire Vincent in una situazione ancora più triste e dolorosa. Ma an-
che Broximon era costretto ad ammettere, per quanto con grande riluttanza, che l'offerta di Putnam era talmente scaltra e diretta che probabilmente non conteneva nessuna trappola. Non ce n'era bisogno. Se Vincent voleva ritrovare la sua famiglia, doveva soltanto rinunciare volontariamente alla propria vita e li avrebbe incontrati nella Morte dove non avrebbero creato più nessun pericolo per il Caos. Putnam stava osservando attentamente Vincent in cerca di un segnale qualsiasi, per capire quale fosse la sua decisione. Dal canto suo, Broximon lanciava occhiate infuocate a Putnam mentre si sforzava di escogitare un piano, di farsi venire un'idea, qualunque cosa che potesse evitare al suo amico di arrendersi e dire «Sì». Ettrich stava ancora fissando le proprie mani e pensava: devo farlo. Sì, dirò di sì. Concentrati com'erano, nessuno di loro notò i ragazzini che si erano andati pian piano avvicinando da ogni direzione del parco. C'erano sei ragazzi ormai molto vicini e un gruppo più numeroso alle loro spalle che si era fermato a guardare. Avevano tutti, ragazzi e ragazze, da quelli di sette anni a quelli di diciannove, un gran sorriso e aspettavano trepidanti il grande momento. Fino a pochi minuti prima la loro giornata nel parco non era stata niente di eccezionale, come tutte le altre trascorse cercando di ammazzare la noia di quelle ore estive. Ma poi era scoppiata quella bomba, così, dal nulla, offerta su un piatto d'argento da una bella signora straniera incinta, e adesso erano tutti elettrizzati. Dopo avere discusso un bel po', i capibanda erano riusciti ad assegnare i ruoli. Due dei ragazzi più forti sarebbero andati avanti per primi, seguiti da altri tre. Quello che tra loro correva più veloce sarebbe rimasto indietro, a tre metri di distanza, un ragazzino turco che si chiamava giustamente Bulut19. Le ragazze non avevano gran che da fare, a dire il vero, ma i ragazzi naturalmente volevano che assistessero alla scena. Così li avevano seguiti anche loro, con gli occhi spalancati, mangiandosi ansiosamente le unghie. Quando i due ragazzi più forti furono a non più di un metro dal tavolo da picnic di Putnam, guardarono il capobanda, poco lontano, in attesa del segnale. Non appena lo videro i due corsero verso il tavolo, agguantarono Broximon ognuno sotto un'ascella, lo strapparono dal suo Sacco-bibbo sulla schiena di Vincent e sfrecciarono via. Bulut intanto saltellava come un velocista che aspetta di correre la sua frazione di staffetta, carico di adrenalina. Broximon si mise a gridare come un forsennato: «Lasciatemi andare!
Mettetemi giù, vi ho detto! Non è divertente! Lasciatemi!». I due ragazzi continuarono a correre con lui che penzolava nel mezzo come in una specie di corsa a tre gambe. Non appena raggiunsero Bulut, glielo passarono. Il ragazzino scattò come un proiettile attraverso il parco con quell'ometto sotto il braccio, come se stessero andando entrambi a fuoco. Accadde tutto così all'improvviso e inaspettatamente che Putnam ed Ettrich non avevano nemmeno avuto il tempo di alzarsi, che Broximon era già stato agguantato da Bulut, il quale si stava allontanando di gran carriera. «È stato lei? Che cos'ha in mente? Perché?», domandò Ettrich al vecchio signore. Da parte sua Putnam era furibondo, talmente livido di rabbia che non riuscì neanche ad aprire bocca per difendersi. Pochi istanti prima del rapimento, lo sguardo di Ettrich l'aveva convinto che il suo avversario stava per cedere. Putnam era a un passo dal trionfo e poi sarebbe diventato Re del Parco usando soltanto la ragione e una buona dose di sangue freddo. Perché avrebbe dovuto buttare tutto all'aria con uno scherzetto inutile? Per qualche secondo pensò persino che fosse stato Ettrich a concertare quell'attacco a sorpresa per guadagnare un po' di tempo. Ma come? Come poteva avere organizzato una cosa del genere? Erano sempre stati insieme da quando erano entrati nel parco. Arrivando, erano passati davanti a quei ragazzini, ma Ettrich non si era fermato, né aveva voluto che lui gli aizzasse contro i corvi quando avevano preso in giro Broximon. Era così adirato e indispettito da un contrattempo così imprevedibile, pazzesco, che non gli passò neanche per la testa che potesse essere opera di Isabelle. Sì, l'aveva vista allontanarsi qualche minuto prima, ma era impossibile che potesse fare qualcosa da dov'era, e di conseguenza i suoi movimenti non potevano essere motivo di preoccupazione. Non pensò che con le conoscenze e il potere che aveva acquisito come essere vivente che ha potuto sperimentare sia la vita che la morte, Isabelle poteva essere un avversario davvero temibile. Ettrich si mise a correre attraverso il parco dietro a Broximon. Putnam poté solo rimanere lì fermo a guardare, rodendosi di rabbia. Tutt'intorno gli altri ragazzi fischiavano e gridavano esultanti, strillavano, si davano il cinque e ballavano felici e trionfanti. Era la cosa più folle che fosse mai successa da un sacco di tempo. Una signora incinta che spuntava fuori da chissà dove e offriva cento euro per acchiappare quell'ometto e correre via.
Wahnsinn20! Uno sballo! Ne avrebbero parlato per anni. Dall'altra parte del parco, vicino all'entrata da cui erano passati Ettrich e Broximon prima, Bulut rallentò, si fermò e lo posò delicatamente a terra. «Sei matto, porco cazzo?», gridò Broximon in inglese. Il velocista sorrise, ma era troppo affannato per rispondere. Una ragazzina paffutella con grossi seni prigionieri di una T-shirt troppo stretta si avvicinò e gli disse in un inglese corretto ma dal forte accento tedesco: «Izabelle dice che devi dire a Vinzent di dire di no. Di non andare con Putnam. Lei è qui e vi raggiungerà». La ragazza non capiva esattamente cosa volesse dire tutto ciò, ma quello era il messaggio che quella signora le aveva detto di riferire e lei l'avrebbe fatto. Sbalordito, Broximon dovette dimenticare la sua rabbia e chiederle di ripetere cos'aveva detto. La ragazzina obbedì, scandendo lentamente e con cura ogni singola parola, orgogliosa del suo inglese. Poi gli riferì le altre cose che quella signora incinta le aveva detto di riferire. Sapeva che era tutto molto importante. Doveva esserlo, perché quella signora aveva dato al suo ragazzo cento euro per rapire quel nanerottolo e poi, quando nessuno li avesse visti, riportargli esattamente quelle parole. Non appena la ragazzina ebbe finito, Broximon partì a tutta velocità verso il tavolo da picnic. Era terrorizzato di arrivare troppo tardi e che Vincent fosse già sparito. Ma la sua andatura era così lenta e comica che Bulut, quando lo vide, si piegò in due dalle risate. La ragazza ghignò e si aggiustò una spallina del reggiseno in attesa del ritorno del suo ragazzo dalla missione appena compiuta. Ettrich rischiò quasi di travolgere Broximon. Nella foga di correre dietro a quel ragazzetto per salvarlo, non l'aveva visto. Lo avvistò all'ultimo momento, giusto in tempo per frenare. Si chinò e se lo posò su un braccio come fosse un pallone. Erano tutti e due senza fiato, ma Broximon cominciò a parlare non appena fu a portata d'orecchio di Ettrich e gli riferì tutto il più in fretta possibile, mentre veniva riportato indietro, tenendosi con entrambe le braccia al collo di Vincent. Parlò sino al preciso momento in cui Vincent si sedette al tavolo da picnic e si appoggiò Brox sulle gambe come se fosse la bambola di un ventriloquo. Putnam li aveva visti avvicinarsi e si era seduto di nuovo in attesa che arrivassero. Proruppe con voce gioviale: «Be', è stato eccitante, su questo non c'è alcun dubbio! Ma perché tutto questo trambusto? Chi erano quei ragazzini?».
Vincent lo ignorò. «Non vado, Putnam. Rimango qua». Invece di replicare, Putnam posò il mento su una mano e fissò Vincent in silenzio per qualche istante. Ettrich proseguì: «Isabelle dovrà trovare un modo di sopravvivere laggiù, e io qui. Ma là non ci torno. Non ancora. Finché non arriva il momento, non vado». «E Anjo, paparino?», la voce del vecchio era acida e provocatoria. Vincent non replicò. Sapeva che era essenziale apparire convinto e non commettere il minimo sbaglio. «Non t'interessa neanche un po' il benessere di tuo figlio?». «Sì, m'interessa, ma dovrà preoccuparsene Isabelle. E lo farà. È una donna forte». «Allora, fammi essere sicuro di avere capito bene, Vincent. Abbandonerai il tuo grande amore e il figlio che sta per avere a chissà quale esistenza nell'aldilà solo perché ritieni giusto restare qui?». Vincent si passò una mano sulla bocca e disse la verità. «Sì, rimango qui a darvi del filo da torcere. Credo che sia questo che lei si aspetta da me. E anche se non è così, è quanto ho intenzione di fare, comunque». «E se la chiamassimo e le chiedessimo cosa desidera?». Ettrich disse: «Non c'è nessun bisogno di chiamarla. È in piedi dietro di lei». Putnam si girò di scatto, come una molla. A poco più di un metro di distanza, Isabelle lo stava guardando, impassibile, con le mani nelle tasche. Indossava dei vestiti diversi rispetto a mezz'ora prima. Fu quello, più di ogni altra cosa, che gli fece capire cos'aveva fatto Ettrich. Per qualche secondo fu quasi dispiaciuto di quella trovata così patetica. Ma non durò a lungo, naturalmente. Aveva davvero davanti la stessa persona che aveva liquidato così ingegnosamente John Flannery? Era difficile crederci. Putnam sospirò e si voltò verso quel cretino. «La dignità, Vincent: credo sia l'unica qualità davvero ammirevole degli esseri umani». Indicò con il pollice Isabelle, alle proprie spalle, che nel frattempo non si era mossa. «Non è dignitoso da parte tua. Creare una falsa Isabelle dai tuoi sogni per realizzare i tuoi desideri e placare il tuo senso di colpa non è affatto dignitoso. Vergognati». «La può toccare se crede che non sia vera». Putnam scrollò le spalle con noncuranza. «Vincent, ricordi con chi stai parlando? Le so queste cose. Non ho nessun bisogno di toccarla. Sono sicuro che il suo corpo è più che convincente. Complimenti, sono contento
che tu metta in pratica qualche trucchetto imparato da morto. Ma non è questo il punto. È fasulla, Vincent. Tu lo sai, e io lo so. È una copia. La vera Isabelle, quella che tu dovresti amare così tanto, ti sta aspettando con tuo figlio nella Morte. E quella Isabelle non la puoi vedere. Ma per evitare ogni responsabilità nei loro confronti ti sei creato... questo cazzo di bambola di gomma e l'hai messa al suo posto. Dovresti vergognarti di te stesso». «Non vado», ripeté Ettrich con voce convinta e risoluta. «La lascerai marcire laggiù? Lei e Anjo? Li abbandonerai davvero?». Ettrich fece un lungo respiro profondo e soltanto dopo avere emesso tutto il fiato che aveva nei polmoni rispose: «Non vado». Putnam guardò l'orologio perché non gli venne in mente niente di meglio da fare. Non c'era altro che potesse dire. Vincent Ettrich non accettava. Scacco matto. Li aveva sconfitti. Aveva preferito fare una cosa che Putnam non si sarebbe mai aspettato: aveva deciso di abbandonare l'amore della sua vita e il loro bambino per rimanere lì a lottare. Non c'era davvero più nulla che lui potesse fare. Si alzò, guardò Vincent e quell'essere di nome Broximon seduto sulle sue gambe come un cagnolino. Cercò di fare una risatina sarcastica per dimostrare tutto il suo disprezzo. Ma non gli venne bene e fece la figura di un vecchio catarroso che si schiarisce la gola. Si diresse verso l'uscita senza più voltarsi indietro. Soltanto quando fu lontano, Isabelle si avvicinò. Ettrich la guardò e non poté fare a meno di chiederle: «Sei davvero tu? Come hai fatto a tornare? Come ci sei riuscita?». Era una domanda strana, ma lei rispose dicendogli la verità. «Non sono mai stata lontana, tesoro. Ho solo passato un po' di tempo qui, seduta su una panchina». La vera Isabelle, la sua amica Leni Salomon e il falso Broximon li osservarono parlare e sorridere e accarezzarsi, prima di dirigersi lentamente verso l'uscita del parco, prendendo, però, un'altra direzione da quella in cui si era avviato Putnam. Broximon era di nuovo nel suo Sacco-bibbo, con un'espressione rilassata e quasi felice. Il falso Broximon li guardò allontanarsi e poi disse, quasi più a se stesso che a Isabelle e Leni accanto a lui: «Mi sarebbe piaciuto parlargli. Fargli un paio di domande». Naturalmente sapevano di chi stava parlando, ma non avevano nulla da rispondere.
Leni prese la mano dell'amica e gliela strinse forte. «Hai appena spezzato una delle regole più grosse, Isabelle. Talmente grossa che nemmeno il Caos è riuscito a capire cosa hai fatto, convinto com'era che fosse impossibile. Non so cosa succederà ora. Mi domando se Vincent si renderà mai conto che non sei davvero tu. Spero che il tuo camuffamento funzioni». «Chi sono io, Leni? Sono più felice di sapere che vivrà con lui il meglio di me, piuttosto che il peggio. E comunque il bambino è reale, e lui è l'unica cosa che conta». Con sua sorpresa, un singhiozzo che si era nascosto nel suo petto sino a quel momento le balzò in gola e Isabelle dovette lottare con tutta se stessa per trattenerlo. «Non so neanch'io cosa succederà, ma non avevo scelta. Ho fatto l'unica cosa che potevo fare». Leni annui e le strinse la mano. Inconsapevolmente i suoi occhi scesero sul ventre ormai piatto dell'amica. Non riusciva neanche a immaginare il dolore che doveva provare Isabelle in quel momento. Non riusciva neanche a immaginare la vastità incommensurabile di quella perdita. «Voglio tornare indietro, Leni. Non voglio più stare qui. Torniamo, andiamo a cercare Simon. Cosa ne dici?». Inaspettatamente a Leni venne in mente uno dei proverbi che John Flannery era stato così fiero di declamare in ogni momento: chi si è imbarcato col diavolo, deve stare in sua compagnia. Lei non aveva nessuna voglia di ritornare nella Morte e cercare Simon Haden. Ma non voleva neanche rimanere lì e ricordare tutte le cose che aveva amato ed erano ormai irraggiungibili. In futuro sperava di avere la possibilità di fare ritorno al proprio mondo immaginario, in modo da superare le prove che l'avrebbero fatta accedere al livello successivo. Ma ora Isabelle era più importante. Aveva appena fatto una cosa geniale e incredibilmente altruistica. Leni sapeva che lei non ne sarebbe mai stata capace, né da viva, né da morta. E così per la prima volta le venne anche in mente che forse faceva parte delle sue esperienze nell'aldilà seguire Isabelle Neukor e imparare da lei. Era possibile. Tutto era possibile in quel posto. «Immagino che Simon farà salti di gioia se ti ripresenti alla sua porta. Andiamo a cercarlo». Le due amiche e l'ometto che le accompagnava si avviarono. Leni disse a Isabelle: «Sai cosa stavo pensando? Che io e te abbiamo lo stesso lavoro. Solo che io l'ho fatto nella vita e tu nella morte». Isabelle la guardò perplessa. «Tu facevi denti artificiali, Leni». «E tu cosa credi di aver fatto per Vincent adesso, eh?».
Isabelle ci mise un po' a comprendere l'analogia, ma poi scoppiò a ridere ridere e ridere. Epilogo Isabelle posò sul tavolo un piatto fumante di uova strapazzate col prosciutto. Tornò in cucina scivolando sulle pantofole rosse tutte pelose che usava in camera da letto, tallonata da Hietzl, il loro cane. Era un eterno ottimista e pensava che ogni volta che mangiavano ci fosse qualcosa anche per lui. Isabelle riapparve con una teiera colma di tè verde e una caraffa di succo di pompelmo. Mentre le posava in tavola, disse: «La colazione è pronta!». Come al solito, ogni volta che veniva annunciato un pasto, Hietzl schizzò come un razzo verso l'altra estremità dell'appartamento, ovvero la camera da letto in cui risiedeva il televisore. Isabelle si rifiutava di metterlo in soggiorno. Il cane rimase sulla soglia, in attesa, con la coda che si agitava freneticamente di qua e di là sul parquet. Hietzl adorava i pasti con tutta la famiglia al completo. Adorava vedere tutti seduti a tavola insieme a ridere e chiacchierare, e godersi il suono delle loro voci, il rumore dei piatti e il profumo del cibo. A ogni istante qualcuno poteva allungargli un bocconcino. E di solito era proprio così. «Te l'avevo detto di non entrare in quella caverna, per forza ti hanno divorato». «Cosa? Ma se mi avevi detto che c'erano degli elfi dentro? Perché credi che sia entrato altrimenti? A differenza di te, so quello che faccio quando gioco». Broximon uscì per primo dalla stanza della tivù, agitando un braccio in aria, indignato. Indossava una tuta grigia nuova e un paio di calzettoni candidi. Vincent lo seguì tenendo il bambino appoggiato al petto con un braccio. Il bimbo aveva una faccia larga e grosse orecchie. Broximon era segretamente preoccupato che fossero troppo grosse e che gli altri bambini lo avrebbero preso per il culo quando fosse stato grande, Anjo sembrava seguire con interesse la loro discussione, ma in realtà era semplicemente attirato dal volume diverso della voce dell'uomo più alto rispetto a quella del tipetto più basso. E poi gli piacevano un sacco tutti quei bip e blop del video game con cui ogni tanto giocavano. Era stato talmente chiaro fin dall'inizio che adesso Anjo stava sempre seduto sulle gambe di suo padre o sul divano, nel Sacco-bibbo accanto a Broximon, ogni volta che loro gio-
cavano. Mentre attraversavano il corridoio in direzione del soggiorno, continuarono ad accusarsi a vicenda di avere mentito, imbrogliato, o semplicemente fatto una serie di gran cavolate. Ma dovevano sbrigarsi, perché quei discorsi dovevano terminare prima di arrivare a tavola. Se per qualche ragione se ne fossero dimenticati e avessero continuato dopo essersi seduti, sarebbe scattato lo sguardo di Medusa di Isabelle e nessuno dei due ci teneva ad essere il destinatario. Così il piccolo corteo entrò in soggiorno, aperto come al solito da Hietzl, seguito da un infuriato Broximon con alle spalle Vincent e Anjo. Seduta al suo solito posto a tavola Isabelle li guardò e nella sua mente vi fu un unico pensiero: eccoli, gli uomini della mia vita. Note 1. La zona del Tri-State negli USA comprende gli Stati di New York, New Jersey e Connecticut. 2. Ampio camicione africano a fantasia dai colori sgargianti. 3. Una delle protagoniste del romanzo «From the Teeth of Angels» di Jonathan Carroll, il quale ama inserire in ogni suo romanzo qualche riferimento ai personaggi dei suoi libri precedenti. 4. 'Trattoria'. 5. 'Stile Liberty'. 6. 'Alta borghesia'. 7.'Area riservata ai cani'. 8. «Mersey Beat» - la rivista di musica fondata da Bill Harry, che contribuì a lanciare i Beatles nei primi anni sessanta. 9. Locale tipicamente viennese, un po' cantina, un po' enoteca, un po' ristorante. 10. Una sorta di wurstel di fegato di cavallo. 11. Salmi, 18,20 (traduzione della Conferenza Episcopale Italiana). 12. Salsa messicana a base di avocado, mescolato a pomodoro, cipolla e spezie. 13. 'Salve, signore mie'. 14. Si tratta di Coco, protagonista di Mele bianche, primo romanzo della trilogia di cui fa parte Zuppa di vetro. 15. 'Rifugio'. 16. 'Con panna montata'.
17. Il riferimento è alle pantofole magiche di Dorothy nel Mago di Oz, di cui Jonathan Carroll ama disseminare accenni, più o meno espliciti, in quasi tutti i suoi libri. 18. Letteralmente 'moro in camicia', un tipico dolce austriaco a base di cioccolato e mandorle, simile a un budino, servito con una salsa al cioccolato e panna montata. 19. Calciatore turco che ha giocato nell'Eintracht Francoforte per diversi anni alla fine degli anni Novanta. 20. 'Delirio'. FINE