Armando Pizzinato, Autoritratto
a Armando Pizzinato
matematica e cultura 2005 a cura di Michele Emmer
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MICHELE EMMER Dipartimento di Matematica “G. Castelnuovo” Università degli Studi “La Sapienza”, Roma
ISBN 88-470-0314-8 Springer fa parte di Springer Science+Business Media springer.it © Springer-Verlag Italia, Milano 2005 Stampato in Italia Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla ristampa, all’utilizzo di illustrazioni e tabelle, alla citazione orale, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione su microfilm o in database, o alla riproduzione in qualsiasi altra forma (stampata o elettronica) rimangono riservati anche nel caso di utilizzo parziale. La riproduzione di quest’opera, anche se parziale, è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla legge sul diritto d’autore ed è soggetta all’autorizzazione dell’editore. La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. L’utilizzo in questa pubblicazione di denominazioni generiche, nomi commerciali, marchi registrati, ecc. anche se non specificamente identificati, non implica che tali denominazioni o marchi non siano protetti dalle relative leggi e regolamenti.
Traduzioni: Catia Peduto, Roma; Fausto Saleri per l’articolo di Jean-Marc Castera; Marco Rizza per l’articolo di Marcela Villarreal Progetto grafico della copertina: Simona Colombo, Milano Redazione: Paola Testi Saltini, Milano Fotocomposizione e impaginazione: Signum Srl, Bollate, Milano Stampato in Italia: Signum Srl, Bollate, Milano In copertina: incisione di Matteo Emmer tratta da “La Venezia perfetta”, Centro Internazionale della Grafica, Venezia, 1993 Occhielli: incisioni di Matteo Emmer, op. cit. Il congresso è stato realizzato grazie alla collaborazione di: Dipartimento di Matematica Applicata, Università di Ca’ Foscari, Venezia; Dipartimento di Matematica “G. Castelnuovo”, Università di Roma “La Sapienza”; Dipartimento di Matematica “F. Enriques”, Università di Milano; Liceo Marco Polo di Venezia; Dipartimento di Scienze per l’Architettura dell’Università di Genova; Galileo - Giornale di scienza e problemi globali; Dipartimento di Matematica, Università di Bologna, Progetto Europeo “Mathematics in Europe”; IBM Italia; Sissa - Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, Trieste; Galleria Venezia Viva, Venezia
Introduzione
– Su, signorina, – cominciò il vecchio, chinandosi sul quaderno accanto alla figlia... La principessina guardava con spavento gli occhi del padre luccicanti vicino a lei... Il vecchio perdeva la pazienza; muoveva in su e in giù con fracasso la poltrona sulla quale era seduto e faceva degli sforzi su se stesso per non andare sulle furie e quasi ogni volta s’infuriava, sbuffava, e a volte buttava il quaderno. La principessina sbagliò la risposta. – E poi non saresti una sciocca! – gridò il principe, respingendo il quaderno e voltandosi rapidamente in là. – È impossibile, principessina, è impossibile – disse, quando la principessina, preso e chiuso il quaderno con le lezioni assegnate, già si preparava ad andarsene – la matematica è una gran cosa, signora mia. E io non voglio che tu sia come le nostre stupide ragazze. Persevera e finirai per amarla… E le diede un colpetto con la mano sulla guancia. – La grullaggine ti andrà via di capo. Chi pronuncia queste frasi è il principe Andrei Bolkonskij, e si rivolge alla principessa Marja Bolokonskaja, sua figlia. Sono due dei protagonisti di Guerra e pace di Lev Tolstoj terminato di scrivere nel 1869. Quasi le stesse frasi si sono udite nel dicembre 2004 all’Auditorio della musica di Roma, quello ideato da Renzo Piano durante la messa in scena della prima parte di “Guerra e Pace” da parte del talentuoso regista Russo Pëtr Fomenko con la sua compagnia de “I Fomenki” di Mosca. Una delle scene scelte da Fomenko per la riduzione teatrale è appunto quella della “lezione di geometria”. E mentre il padre rimprovera la figlia, una amica della figlia gioca a fare le bolle di sapone! Dell’acustica dell’auditorio di Renzo Piano parla il fisico Andrea Frova in questo volume. E di bolle di sapone si parla, sempre a Venezia! In attesa che, dopo il grande successo a teatro, arrivi sugli schermi il film tratto dalla commedia di David Auburn Proof. Protagonista Anthony Hopkins, regia di John Madden, sceneggiatura di Rebecca Miller. Scelto per essere un grande attore, non per essere stato il famoso Hannibal the Cannibal, padre di tutti i “pazzi da legare” del cinema. Curioso quello che Hopkins ha dichiarato in una intervista: “In verità a scuola andavo malissimo, non ho una vera educazione, non ho mai fatto l’università. E nella vita non avrei mai potuto fare il professore, sono troppo stupido.”
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Introduzione
Ma evidentemente ha il fisico e lo sguardo del rôle, del genio della matematica, come si esige per il protagonista di Proof, commedia anch’essa liberamente ispirata alla vita di Nash. Ci sarà spazio anche per la protagonista femminile, nel film Gwyneth Paltrow, anch’essa matematica, figlia del personaggio interpretato da Hopkins. Il titolo rimanda al doppio significato di “dimostrazione” e di “prova”. Viene solo accennato di quale dimostrazione si tratta: sembra che sia l’ipotesi di Riemann. Il dramma della follia: il grande matematico era divenuto pazzo, la figlia teme di diventarlo, non è chiaro se la dimostrazione del teorema sia stata fatta dal padre o dalla figlia, il cui talento non è mai stato riconosciuto, offuscato da quello del padre. E da gennaio 2005 è finalmente in scena, in forma completa con scene e costumi, il Galois di Luca Viganò, produzione del Teatro di Genova. Cultura e matematica, non se ne può fare a meno! MICHELE EMMER
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Indice
omaggio a Coxeter H.S.M. Coxeter: un breve omaggio di Michele Emmer.......................................................................................... Donald nel paese delle meraviglie: le varie sfaccettature della vita di H.S.M. Coxeter* di Siobhan Roberts, Asia Ivi´c Weiss ...............................................................
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matematica e immagini Visioni e realtà. Empiria e geometria di Franco Ghione ........................................................................................... Stelle di Gian Marco Todesco..................................................................................
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matematica e Venezia Un epsilon piccolo a piacere: le murrine veneziane e muranesi di Giovanni Sarpellon ...................................................................................
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matematica e applicazioni Modelli matematici per la meteorologia di Elisabetta Cordero..................................................................................... La matematica in difesa dell’ambiente di Germana Peggion ..................................................................................... matematica e architettura La cupola a mouqarnas della sala delle due sorelle dell’Alhambra di Granada di Jean Marc Castera ..................................................................................... MATHLAND. Dalla topologia all’architettura virtuale di Michele Emmer.......................................................................................... Architettura come topologia della trasformazione di Giuseppa Di Cristina ................................................................................ Nuovo Auditorium di S. Cecilia, anatomia di una megaopera di Andrea Frova.............................................................................................
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Indice
matematica e educazione Matematica a… Un format per mostre di matematica di Simonetta Di Sieno, Cristina Turrini ...................................................... Imparare la matematica attraverso l’arte di Angela Elster, Peggy Ward........................................................................ matematica e medicina La matematica nel sangue di Chiara Bertini, Luigi Preziosi .................................................................. L’HIV/AIDS, l’agricoltura e la sicurezza alimentare in Africa di Marcela Villarreal ..................................................................................... L’uso di modelli matematici per la diffusione dell’AIDS nell’Africa sub-Sahariana di Gianpaolo Scalia Tomba........................................................................... matematica e moda Astrazione e concretezza, rigore ed eleganza di Donatella Sartorio ....................................................................................
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matematica e arte Verso un’estetica matematica di Martin Bálek, Jaroslav Nesˇetrˇil............................................................... Alla ricerca di arte frattale che riduce lo stress: da Jackson Pollock a Frank Gehry di Richard P. Taylor ....................................................................................... Un maestro americano: Jackson Pollock, 1930-1949. Mito e realtà di Sam Hunter................................................................................................ Armando Pizzinato di Michele Emmer.......................................................................................... Armando Pizzinato, una avventura espressiva del XX secolo di Enzo Di Martino ....................................................................................... matematica e teatro Bustric raccontato da Bustric di Sergio Bini/Bustric ....................................................................................
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omaggio a Coxeter
H.S.M. Coxeter: un breve omaggio MICHELE EMMER
Preliminari Il progetto “Matematica e arte” è iniziato nel 1976. Vi erano diverse ragioni per le quali ho iniziato a pensare al progetto. La prima ragione era che in quell’anno mi trovavo all’università di Trento e lavoravo nel settore del “Calcolo delle variazioni” e in particolare sulle superfici minime e sui problemi di capillarità. Sempre nel 1976 Jean Taylor aveva dimostrato un famoso risultato che chiudeva una congettura che era stata posta sperimentalmente dal fisico belga Plateau più di cento anni prima [1]: le proprietà delle singolarità, degli spigoli, che generano le lamine di acqua saponata quando si incontrano. Plateau aveva osservato sperimentalmente che malgrado la apparente enorme complessità, i tipi di angoli che si producevano erano solo di due tipi. Jean Taylor utilizzando la Geometric Measure Theory introdotta da Federer e poi da Allard e Almgren, fu in grado di dimostrare che le ipotesi di Plateau erano corrette. La rivista Scientific American chiese nel 1976 a Jean Taylor e Fred Almgren di scrivere un articolo sui risultati più recenti sulla teoria delle Superfici Minime e lamine di sapone [2]. Ad un fotografo professionale fu chiesto di realizzare delle suggestive immagini dei diversi tipi di lamine saponate. Sempre nel 1976 Taylor e Almgren furono invitati all’università di Trento come visiting professors. Le immagini dell’articolo pubblicato sul Scientific American erano veramente splendide. Guardando quelle foto mi venne l’idea di fare un film sulle lamine di sapone per mostrarle in maggior dettaglio: introdussi la possibilità di osservare l’evoluzione delle loro forme e geometrie e dei loro colori nel tempo, utilizzando anche la tecnica della slowmotion camera. Sia Almgren che Taylor erano molto interessati all’idea. In quello stesso anno avevo scoperto le superfici “topologiche” di uno dei grandi artisti del Ventesimo secolo: Max Bill. Le sue sculture furono per me una vera rivelazione. L’impressione di Endless Ribbon, quell’enorme nastro di Moebius in pietra, fu molto forte [3]. Una forma matematica viva. In un certo senso questa era l’idea che mancava al progetto: i matematici, la matematica in tutti i periodi storici ed in ogni civilità hanno creato immagini, forme, relazioni. Il progetto si stava chiarendo: fare dei film per mettere a confronto su singoli temi il punto di vista matematico e quello artistico; non per filmare delle “tavole rotonde” di discussione tra artisti e matematici, ma “To make visible the invisibile”, come ha detto l’artista David Brisson nel film Dimensions realizzato nel
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matematica e cultura 2005
1984 con Thomas Banchoff [4]. L’idea era quindi di realizzare dei film sulle relazioni, ovviamente, “visive” tra matematica ed arte. Gli argomenti dei primi due film erano le bolle di sapone e la topologia, il nastro di Moebius. Per una descrizione completa del progetto “Art and Mathematics” si veda [5-7]. Nell’articolo [5] è contenuta la lista completa dei film, libri, esposizioni inclusi nel progetto.
Il film con Coxeter
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Alla fine degli anni Settanta avevo già scoperto le opere dell’artista grafico olandese Maurits Cornelis Escher. In particolare leggendo il libro, curato da Escher stesso, The Graphic Work of M.C. Escher [8] avevo letto nell’introduzione che cosa l’artista grafico olandese scriveva dei suoi rapporti con la matematica. Sin dal primo momento, guardando le sue opere, mi venne l’idea di realizzare un film animando alcune delle più famose incisioni. Escher stesso aveva partecipato alla realizzazione di due piccoli film di animazione poco prima della morte avvenuta nel 1972. Dopo aver realizzato i primi quattro film della serie agli inizi degli anni Ottanta cominciai a pensare alla realizzazione del film su Escher. Pensai ad un film diviso in due parti della durata di 27 minuti ognuna. Il film sarebbe diventato poi un video unico di 50 minuti nella versione per gli USA e per il Giappone alla metà degli anni Novanta. Dopo aver letto i libri che erano stati pubblicati sull’opera di Escher mi resi presto conto che, per realizzare il mio film, dovevo entrare in contatto con H.S. Coxeter e con Roger Penrose. Oltre che con la cristallografa Caroline MacGillavry e Bruno Ernst. Tutti sono stati molto cooperativi e di alcuni come Ernst e Coxeter sono divenuto amico. Negli anni Sessanta i film che fossero di carattere “scientifico” o divulgativo” (non ho mai considerato i miei film di questi due tipi) erano distribuiti negli USA e nel Canada dall’International Film Board con sede a Chicago. I film erano in formato 16 mm che allora era molto diffuso. Meno costoso del 35 mm, lo standard utilizzato per i film in uscita nelle sale cinematografiche. Tra l’altro il 16 mm aveva il grande vantaggio che poteva essere proiettato in tutto il mondo, lo standard era unico, non come oggi per cassette e DVD. Coxeter aveva partecipato a due film brevi sulla geometria. Essendo anche quelli distribuiti dall’International Film Board ho avuto occasione di vederli anche prima di conoscere Coxeter di persona. Il primo si intitola Dihedral Kaleidoscopes [7] e ha una durata di circa 13 minuti, il secondo Symmetries of the Cube dura invece 14 minuti [10]. Dei due mi è subito piaciuto molto il primo. Visivamente attraente l’utilizzo degli specchi e geniale la parte finale girata “fuori scena” che mostra come sono state realizzate le riprese. Il piccolo teatrino degli specchi tra pareti scure, illuminato da tre parti. Coxeter stesso muove gli oggetti che formano le diverse simmetrie all’interno del piccolo teatro di specchi. Tra l’altro Coxeter come personaggio era molto fotogenico. Coxeter negli anni Settanta era un famoso matematico (lo era già da molti anni prima), io mi ero invece laureato da poco. Ero insomma molto preoccupato di entrare in contatto con lui. Ho sempre pensato che in ogni situazione la cosa migliore sia un approccio diretto cercando di far-
H.S.M. Coxeter: un breve omaggio
si capire. Ovviamente prima di contattare Coxeter e Penrose dovevo avere un’idea precisa di quello che volevo fare con loro e che tipo di film volevo realizzare insieme a loro. Insomma che tipo di film volevo realizzare sull’opera di Escher, su quelle opere che Escher chiamava le sue “visioni interiori”. D’altra parte Escher aveva scritto che: Le idee che per loro sono fondamentali (le visioni interiori) spesso testimoniano, con mio grande stupore e meraviglia, le leggi della natura che opera nel mondo intorno noi. Colui che si stupisce, scopre che il suo stupirsi non è altro che uno stupore esso stesso. Confrontando nel dettaglio gli enigmi che ci circondano, e considerando ed analizzando le osservazioni che io stesso avevo fatto, ho finito per ritrovarmi nel campo della matematica. Sebbene sia assolutamente fuori allenamento e non abbia alcuna conoscenza delle scienze esatte, mi sembra spesso di avere più cose in comune con i matematici che con i miei colleghi artisti ([8], p. 8). Inoltre Escher (che non a caso chiamerà il primo libro che contiene molte delle sue opere The World of M.C. Escher [11]) aveva un approccio “visivo”, “cinematografico” in molte delle opere. Era un artista meticoloso, preciso, oltre che immaginativo e realistico a suo modo. Come nel caso di quasi tutti gli artisti, l’utilizzo della macchina da presa permette di “restare all’interno” dell’opera, senza mostrare il mondo che la circonda. Quando si va a visitare una mostra le opere dell’artista sono appese alle pareti, vi è una cornice, un supporto, la parete, un ambiente, le altre persone. Tutto questo in qualche modo disturba. Anche nel caso del mondo di Escher. Si rischia di essere distratti. Utilizzando la macchina da presa, chi osserva è invece costretto a cogliere i dettagli, a seguire la “storia” che le immagini raccontano. Non si esce dal “mondo dell’artista”. Inoltre i racconti che sono presenti nelle opere di Escher acquistano quella dimensione temporale che le opere suggeriscono. In qualche modo è possibile filmare le opere di Escher restando nell’ambito del modo di operare dell’artista grafico olandese. Ecco quindi che in un certo modo era “ovvio” pensare al cinema, alle tecniche cinematografiche dello zoom, del rallenti, dell’animazione, del fish eye, per realizzare un film su Escher. Era stato Escher stesso a suggerire di leggere “cinematograficamente” le sue opere, o almeno alcune. Nel suo libro The Regular Division of the Plane [12] scrisse: In questo libro sono le immagini e non le parole a venire per prime ... Per me rimane una questione aperta se il gioco di figure bianche e nere mostrate nelle sei xilografie di questo libro appartenga al regno della matematica o a quello dell’arte. ... La prima xilografia ... mostra chiaramente che una successione di figure, che gradualmente si trasformano, può avere come risultato la creazione di una storia per immagini. Similmente, gli artisti del medioevo raffiguravano le vite dei santi in una serie di tavole statiche ... L’osservatore doveva guardare le scene seguendo un certo ordine. La serie di rappresentazioni statiche acquisiva un carattere dinamico a causa dell’intervallo di tempo necessario per seguire l’intera storia. Una proiezione cinematografica è in contrasto
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con tutto ciò. Le immagini appaiono, una dopo l’altra, su uno schermo immobile e l’occhio dell’osservatore rimane fisso e non si muove. In entrambi i casi, per la storia medievale illustrata sulle tavole e per il motivo che si sviluppa come divisione regolare del piano, le immagini sono fianco a fianco e il tempo scorre seguendo il movimento dell’occhio dell’osservatore, che segue la sequenza da un’immagine all’altra. Avendo abbastanza chiarito quali erano le mie idee sul film, era giunto il momento di contattare Coxeter. Prima di scrivere a Coxeter e Penrose ho iniziato a leggere i loro libri e i loro lavori scientifici.Volevo avere un’idea più precisa del loro lavoro. Inoltre in quanto matematico ero molto interessato a settori che erano al di fuori della mia attività di ricerca. Ho letto in particolare Introduction to Geometry e Regular Polytopes [13, 14]. Nella prima pagina di Introduction to Geometry, pubblicato nel 1961, è scritto: Negli ultimi trenta o quarant’anni, la maggior parte degli americani ha perso in qualche modo l’interesse per la Geometria. Questo libro vuole essere un tentativo per dare nuova vita a questa materia tristemente trascurata.
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Coxeter era interessato alla Geometria che può essere chiamata “Geometria classica”. Egli era interessato alle raffigurazioni mentali, all’intuizione, ma come scriveva in Regular Polytopes (pubblicato nel 1947): Soltanto una o due persone hanno avuto la capacità di visualizzare gli ipersolidi in maniera semplice e naturale come noi comuni mortali riusciamo a visualizzare i solidi. Ma una certa facilità in questa direzione può essere acquisita riflettendo sull’analogia tra la prima e la seconda dimensione, poi tra la seconda e la terza, e così tra la terza e la quarta. Quest’approccio intuitivo è molto utile per suggerire quale risultato ci si debba aspettare. Ad ogni modo, sussiste il pericolo di venire fuorviati, a meno che non si controllino i propri risultati con l’aiuto di una o dell’altra delle ulteriori due procedure, la procedura assiomatica e quella algebrica. Così, egli parla di intuizione, di raffigurare mentalmente, ma non solo di ciò. Serve anche il rigore per essere precisi e corretti. La prima grande mostra di Escher verrà organizzata al congresso mondiale di matematica di Amsterdam nel 1954. Sarà l’occasione per Coxeter di conoscere le opere di Escher. Qualche anno dopo, nel 1958, Escher scrisse una lettera a Coxeter: L’ho mai ringraziata per avermi inviato “Una conferenza sulla simmetria” [“A symposium on Symmetry”]? Sono stato così contento di questo libretto ed orgoglioso delle due riproduzioni dei miei disegni piani! Nonostante il testo del suo articolo sulla “simmetria dei cristalli e le sue generalizzazioni” [“Crystal Symmetry and its generalization”] sia troppo indirizzato a persone più erudite di uno come me – un semplice uomo che da sé ha imparato a fare disegni
H.S.M. Coxeter: un breve omaggio
Fig. 1. Modello di geometria iperbolica
piani – alcune delle illustrazioni e soprattutto la figura 7 a pagina 11 mi hanno provocato una forte emozione. [Il modello di Geometria iperbolica di Poincaré, Fig. 1]. Da tanto tempo nutro un certo interesse per i disegni con dei motivi che diventano sempre più piccoli finché raggiungono il limite dell’infinitamente piccolo. La questione è relativamente semplice se il limite è un punto al centro del disegno. Anche il limite assiale per me non è una novità, ma non sono mai stato capace a fare un disegno in cui ogni macchia diventa gradualmente più piccola partendo dal centro di un cerchio e andando verso il suo limite esterno, come mostrato nella sua figura 7. Ho cercato di capire come questa figura sia stata costruita geometricamente, ma sono riuscito soltanto a trovare i centri ed i raggi del cerchio interno più grande. Le sarei immensamente grato e riconoscente, se mi potesse dare una spiegazione semplice di come costruire gli altri cerchi i cui centri si avvicinano gradualmente partendo dall’esterno fino a raggiungere il limite! Ciononostante ho utilizzato il suo disegno per fare una grande xilografia (di cui ho fatto soltanto un settore di 120° che ho stampato tre volte). Gliene sto inviando una copia. Si tratta del Circle Limit One. Seguirono delle osservazioni di Coxeter e alla fine il Circle Limit III. Coxeter disse: L’opera di Escher, basata sulla sua intuizione, senza effettuare alcun tipo di calcolo, è perfetta, anche se la descrizione poetica che ne dà (Loodrecht uit de limiet, perpendicolare dal limite) era solo approssimativa (Fig. 2). Avevo letto tutto questo materiale e non avevo dubbi che uno degli argomenti che dovevo trattare con Coxeter nel film doveva essere il modello di Geometria iperbolica di Poincaré e la serie di incisioni Circle Limit. In questo modo invece di parlare in astratto dei rapporti tra Escher e il mondo matematico, con
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Fig. 2. M. C. Escher, Circle Limit III, incisione, 1959. M.C. Escher’s works © Cordon Art B.V., Baarn, The Netherlands. All rights reserved
Coxeter sarebbe stato possibile parlare di un fatto molto concreto, di una collaborazione esplicita che aveva portato alla realizzazione di alcune opere tra le più interessanti da parte di Escher. Il 18 maggio del 1978 inviai la mia lettera al dipartimento di matematica dell’Università di Toronto. Non sapevo che in quel periodo Coxeter fosse professore visitatore dell’Università di Bologna, abbastanza vicino all’università dove mi trovavo io, Trento. Non ho le copie delle mie lettere (non esisteva l’e-mail allora!): ecco la risposta di Coxeter, datata 18 June 1978: Caro Dott. Emmer, molte grazie per la sua lettera del 18 maggio che mi attendeva al mio ritorno dalle cinque settimane a Bologna. Se solo qualcuno le avesse detto che ero lì avremmo potuto incontrarci in Italia. Per coincidenza, giusto tre giorni prima che lei mi scrivesse, stavo tenendo una conferenza sugli aspetti matematici delle opere di Escher a Siena [è la conferenza pubblica-
H.S.M. Coxeter: un breve omaggio
ta in Leonardo [15]] su specifico invito dei matematici senesi. Sin da allora ho aggiornato la conferenza, concentrandomi particolarmente sulle quattro immagini di Circle Limit che avevano tratto ispirazione da un mio vecchio disegno. La sua idea di fare un film su Escher mi interessa molto. Credo che un film del genere sia già stato fatto mentre egli era ancora in vita. Qualcuno ha detto che comprendeva alcune versioni animate dei suoi disegni che si ripetono. Mi sono sempre rammaricato di averlo perso quando veniva mostrato in TV. Sì, sarei veramente interessato ad aiutarla a fare il suo film. Penso di rimanere a Toronto quest’estate. Dunque teniamoci in contatto. Cordiali saluti. Suo, H. S. M. Coxeter. Inoltre Coxeter mi segnalava un artista italiano, Lucio Saffaro, che aveva sempre dipinto poliedri nella sua vita. Lo aveva conosciuto a Bologna. Sarà grazie a Coxeter che entrerò in contatto con Saffaro con il quale realizzeremo due film e diverse mostre e libri. Durante il convegno dedicato a Coxeter all’università di Toronto, nel maggio 2004, a Bologna era in corso una grande mostra dedicata a Saffaro [16]. Qualche tempo dopo Coxeter mi inviò alcune idee su che cosa si poteva realizzare nel film su Escher. Donald stava già pensando a come si poteva realizzare la parte del film in cui sarebbe stato coinvolto. La sua mente visiva era la lavoro. Il progetto del film procedette. Normalmente non scrivo una sceneggiatura dettagliata dei miei film ma soltanto una traccia, anche se abbastanza estesa, riservandomi di cambiare i piani in dipendenza dell’interesse delle immagini che vengono filmate. Il che permette un grande margine di libertà per l’invenzione e la creatività. Con Coxeter decidemmo di realizzare tre diverse parti per tre diversi film: Solidi Platonici, M.C. Escher, symmetry and space e M.C. Escher: geometries and impossible worlds. Per le riprese cinematografiche fissiamo il gennaio del 1979. Le riprese verranno effettuate all’università di Roma “La Sapienza”, non nel mio studio, troppo piccolo, ma nello studio di un amico nel dipartimento di genetica. Coxeter resterà a Roma qualche giorno. Le riprese vanno molto bene, noi diventiamo amici. Viene a cena a casa e conosce Valeria di cui diverrà pure molto amico. Avendo deciso di dividere il film in due parti, in due film indipendenti, nella prima M.C. Escher: Symmetry and Space in cui si parla della simmetria e dei solidi nell’opera di Escher, faccio intervenire la cristallografa Caroline MacGillavry e Bruno Ernst. Nel secondo film M.C. Escher: Geometries and Impossible Worlds intervengono Coxeter e Penrose. Al ritorno a Toronto Coxeter scrive le sue prime impressioni. Questa volta, per la prima volta, mi scrive “Dear Michele”. La lettera è del 4 febbraio 1979. È stato un grande piacere esserti venuto a trovare e aver visto qualcuna delle tue attività. È stata un’esperienza interessante ritrovarsi in un film. Spero che taglierai le parti del film dove ho esitato troppo a lungo o ho parlato in modo confuso. Mi ha fatto anche molto piacere conoscere tuo padre [Luciano Emmer, regista e produttore] e vedere un po’ del tuo lavoro. Tanti saluti, Donald.
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matematica e cultura 2005
Qualche anno dopo prende forma l’idea di un congresso e di una mostra su Escher. Il convegno si tiene all’Università di Roma alla fine di marzo del 1985. La mostra all’Istituto Olandese resterà aperta per due mesi con grande successo. Sarà inaugurata dalla Regina Beatrice d’Olanda. Quella mostra ed il suo successo salveranno l’Istituto Olandese dalla chiusura che allora era prevista. Il catalogo in cui è pubblicato anche un articolo di Coxeter sarà stampato in 6000 copie che andranno esaurite in pochi giorni. Nel catalogo, stampato a cura dell’Istituto Olandese di Roma, erano inclusi i seguenti articoli (alcuni testi erano in italiano, alcuni in inglese): “Introduzione” di M. Emmer,“Escher e l’Italia”, di J. Offerhaus, allora direttore dell’Istituto Olandese di Roma, “Roman Memories” di George Escher, figlio di Maurits,“La fantasia dell’enigma e l’enigma della fantasia” di M. Emmer, “M.C. Escher, the Man and his Work”, di C. H. MacGillavry, “Escher’s Fondness for Animals”, di H.S.M. Coxeter [17] (Fig. 3). Molti anni dopo, nel 1998, un altro convegno su Escher sempre all’università di Roma e al centro Europeo di Ravello, con due mostre delle opere di Escher, una all’università di Roma, presso il laboratorio di Arte Contemporanea e l’altra a Ravello, città molto amata da Escher. Per ragioni di salute Coxeter non poté ve-
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Fig. 3. Copertina del catalogo della mostra all’istituto Olandese di Roma, 1985
H.S.M. Coxeter: un breve omaggio
nire al nuovo convegno. Inviò però due articoli che sono stati pubblicati nel volume degli atti nel 2003 [18]. Ho incontrato per l’ultima volta Coxeter ad un convegno sulla simmetria “Symmetry 2000” a Stoccolma nel 2000. Sono molto lieto di aver potuto realizzare con lui il film su Escher. Sono stato molto contento di essere stato invitato al convegno in onore di Coxeter organizzato a Toronto dal Fields Institute nel maggio 2004. Un ampio articolo con la pubblicazione di alcune lettere di Donald, dei testi dei film che abbiamo realizzato insieme comparirà negli atti del convegno [19]. Sono commosso ad aver contribuito con i film a mantenere un ricordo “visivo” di una persona dalla eccezionale “mente visiva”. Oltre che di un grande amico.
Bibliografia [1] J. Plateau (1873) Statique expèrimentale et Thèorique des liquides soumis aux seules forces moléculaires, Gauthier-Villars, Paris [2] F. Almgren, J. Taylor (1976) The Geometry of Soap films and Soap Bubbles, Scientific American, July, pp. 82-93 [3] M. Bill (1993) “The Mathematical Way of Thinking in the Visual Art of Our Time”, in: M. Emmer (ed.) The Visual Mind, Cambridge, Mass, pp. 5-9 [4] M. Emmer (1986) Dimensions, film and video, series Art and Mathematics, 27 minutes [5] M. Emmer (2002) Mathematics and Art: the Film Series, Mathematics and Visualization series, Bruter, P.C. (ed), Mathematics and Art, Springer-Verlag, Berlin, pp. 119-133 [6] M. Emmer (2003) Films: a Communicating Tool for Mathematics, Mathematics and Visualization Series, vol. 3, C. Hege, K. Polthier (eds) Mathematics and Visualization, Springer-Verlag, Berlin, pp. 393-405 [7] M. Emmer (2004) The ‘Mathematics and Culture’ Project, J. Wang, B. Xu (eds.) Trends and Challenges in Mathematics Education, East China Normal Univer. Press, Shanghai, pp. 85-103 [8] M.C. Escher (1961) The Graphic Work of M.C. Escher, MacDonald, London [9] J. Hines, G. Wright, registi, Dihedral Kaleidoscopes; matematici: H.S.M. Coxeter e W. O.J. Moser, modelli di J. Runyon, College Geometry Project, University of Minnesota [10] A. Landy, regista, Symmetries of the Cube; matematico: H.S.M. Coxeter, College Geometry Project, University of Minnesota [11] M.C. Escher (1971) The world of M.C. Escher, H.N. Abrams, New York [12] M.C. Escher The regular Division of the Plane; ristampato in: F.H. Bool, J.R. Kist, J.L. Locher, F. Wierda (eds.) (1982) M.C. Escher: his Life and Complete Graphic Work, H.N. Abrams, New York [13] H S.M. Coxeter (1961) Introduction to Geometry, J. Wiley & Sons, New York, p. VII [14] H.S.M. Coxeter (1973) Regular Polytopes, Dover Publ., New York, p. 119 [15] H.S.M. Coxeter (1979) “The Non-Euclidean Symmetry of Escher’s ‘Circle Limit III’”, Leonardo, 12, p. 19 [16] L. Saffaro (2004) Le forme del pensiero, catalogue of the exhibition, G.M. Accame (a cura di) Edizioni Aspasia, Bologna [17] M. Emmer, C. van Vlanderen (eds.) (1985) M.C. Escher, catalogue of the exhibition, Ist. Olandese, Roma [18] M. Emmer, D. Schattschneider (eds.) (2003) M.C. Escher’s Legacy, Springer-Verlag, Berlin [19] M. Emmer (2005),“The Visual mind: art, mathematics, cinema”, in: Proceedings of the Toronto University meeting, Fields/AMS Communications, in corso di stampa
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Donald nel paese delle meraviglie: le varie sfaccettature della vita di H.S.M. Coxeter* SIOBHAN ROBERTS, ASIA IVIC´ WEISS
C’è un che di soddisfacente per un mistico in un tale mondo di specchi. Poiché un mistico è una persona che ritiene che due mondi sono meglio di uno solo. In effetti, il significato più alto di tutto ciò, è che ogni pensiero è una riflessione.
Con questa citazione dal libro Man Alive di G.K. Chesterton, Donald Coxeter invitava molti nel suo reame di geometria e, una volta portati lì, felicemente divagava sui ricordi del suo passato.
Un’infanzia precoce Una delle prime fotografie di Donald Coxeter lo ritrae da bambino a circa tre anni. Era tutto ben agghindato, portava una camicia con un colletto ornato e dei calzoni alla zuava, con ciocche di ricci biondi fin sulle spalle ed era seduto su una panca davanti ad un pianoforte a coda, con i piedi a penzoloni. Secondo l’analisi fatta dallo stesso Coxeter, le sue mani facevano finta di suonare il pianoforte: egli posava per sua madre, e il ritratto di suo figlio in questa esatta posa si trova ora presso l’università che frequentò, il Trinity College di Cambridge (il pianoforte si trova all’Istituto Fields). In quel periodo Donald aveva tredici anni e non era solo diventato un discreto pianista per la sua età, avendo imparato a suonare da uno degli amici musicisti del padre che frequentava il loro grottesco salotto (in cui si trovavano non uno, ma ben due pianoforti a coda), ma componeva anche. Egli intitolò uno dei suoi arrangiamenti Autumn ed un altro Devil, parte di un’opera chiamata Magic. Più tardi compose un quartetto d’archi in Fa minore, come pure alcune canzoni. Coxeter si ricordava spesso che sua madre lo portava da Gustav Holst per una valutazione delle sue opere. Holst era un compositore che risiedeva presso una scuola femminile poco fuori Londra.“Non so come mia madre arrivò a lui,” disse Coxeter,“ma mi ci ha portato per un lungo periodo e io gli mostravo alcune parti della musica che avevo scritto e suonavo un po’ al pianoforte. Nel complesso deve aver pensato che si trattava di ben poca roba”. Ricevettero pressoché la stessa risposta da un compositore irlandese, C.V. Standford, che consigliò: “Educatelo dapprima”. Da quel momento in poi – così continua la storia – i genitori tentarono di pro-
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Traduzione dell’articolo Donald in Wonderland: The Many-Faceted Life of H.S.M. Coxeter, apparso sulla rivista The Mathematical Intelligencer, vol. 26, n.ro 3 © Springer-Verlag New York, 2004.
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Un ritratto di Coxeter da bambino dipinto da sua madre (Tutte le illustrazioni sono usate per gentile concessione di Susan Coxeter Thomas)
teggere Donald dal dispiacere del loro divorzio, mandandolo al collegio San George a Harpenden, poco fuori Londra. Il dodicenne Donald, tuttavia, trovò una via di scampo migliore per i suoi pensieri. Creò una lingua personale e la chiamò Amellaibian, un incrocio tra latino e francese. Riempì un libro di 126 pagine, in cui raccontava nel dettaglio il mondo immaginario dove veniva parlato l’Amellaibian, un posto mitico di cui incluse anche delle cartine (anticipando Tolkien di vari decenni). Scritto in maniera impeccabile a caratteri maiuscoli, degni di un disegnatore, il libro contiene anche un elenco di vocaboli, storie, genealogie, racconti e una parte intitolata “Compleanni delle fate e altri eventi”. Gradualmente, il testo diventa molto numerico, con pagine e pagine di calcoli dedicati a pesi e misure, formule, equazioni e numeri magici Amellaibiani (questi erano i numeri della fattorizzazione del numero preferito di Donald in quel periodo, il 250). Del suo periodo al collegio, Coxeter ricorderà: “Mi sentivo in carcere”. Si sentiva un miserabile, ma ha ammesso che il suo incontro formativo con la geome-
Donald nel paese delle meraviglie: le varie sfaccettature della vita di H.S.M. Coxeter
tria era avvenuto a San George. Convalescente nell’infermeria scolastica a causa della varicella, Donald si trovò nel letto accanto a quello di John Flinders Petrie, figlio dell’egittologo ed avventuriero Sir William Matthew Flinders Petrie. Fu l’inizio di una lunga amicizia e collaborazione. I due cominciarono a discutere sul perché esistevano soltanto cinque solidi platonici e passarono il loro tempo a cercarne altri di dimensioni più grandi. Uno o due anni dopo, Donald vinse un premio scolastico per un tema su come creare forme in più dimensioni. Lo chiamò Dimensional Analogy. Il padre di Donald decise quindi che suo figlio meritava un ambiente educativo più stimolante. Portò Donald e il suo tema da Bertrand Russell. I padri di Russell e Donald erano entrambi dei pacifisti e si erano conosciuti a Londra in un raduno di obiettori di coscienza durante la prima Guerra Mondiale. Russell convenne che Donald aveva un grande potenziale matematico e suggerì di mettersi in contatto con E.H. Neville, il matematico che ha aiutato a portare Ramanujan dall’India a Cambridge. Fra le carte di Coxeter c’è una lettera datata 11 settembre 1923, inviata a Neville da un’amica di famiglia, la professoressa Edith Morley. Così scriveva: Caro E. H., Mi sono presa una libertà che spero mi perdonerà! Un certo Donald Coxeter, un ragazzo di 15 anni, che deve essere un matematico ed un musicista piuttosto insolito per la sua età, ha passato le sue vacanze estive scrivendo ciò che mi dicono essere un trattato molto originale sulla quarta dimensione. Il ragazzo è amico di una mia amica, la signora McKillop: non lo conosco di persona, ma ho sentito parlare molto di lui e so che a scuola non riceve adeguata comprensione per i suoi risultati in matematica. Penso che lei mi perdonerà se lo inciterò a scriverle e a chiederle di aiutarlo. Sembra che abbia letto il suo piccolo libro (penso proprio di aver ragione): in ogni caso, ne ha sentito parlare e sente che lei è la persona giusta per aiutarlo. Se il suo lavoro non promette nulla di buono, può scoraggiarlo senza problemi: se così fosse, il suo consiglio sarebbe inestimabile per lui. In seguito andrà a Cambridge. Le scriverà non appena troverà il coraggio per farlo e spero tanto che lei non penserà che siamo troppo presuntuosi. Con i miei migliori saluti, Edith Morley Esattamente lo stesso giorno, l’11 settembre del 1923, il prodigio in questione, all’età di 16 anni, prese la penna e scrisse: Caro Prof. Neville, La professoressa Edith Morley mi ha suggerito di scriverle a suo nome. Sto per andare a comprami il suo libro sulla quarta dimensione, dato che sono tremendamente appassionato di queste tematiche. Sto scrivendo anch’io un libro sull’analogia dimensionale, di cui Le allego una bozza… Vostro fiduciosamente, Donald Coxeter
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Donald aveva già quasi rinunciato a ricevere aiuto da Neville, quando un mese dopo arrivò la sua risposta. Fu fissato un incontro a San George. Neville fece a Donald la domanda: “Cosa ha un limite?” Come ricordava lo stesso Coxeter, quando non rispose “Una successione”, Neville gli consigliò di lasciare la sua attuale educazione scolastica (non si sa se la motivazione di Neville di toglierlo dalla scuola fosse dettata dal fatto che era rimasto impressionato di non avere ricevuto una risposta ingenua alla sua domanda o costernato da una insufficiente; Donald, da ciò che ricordava di questa scena, optava con modestia per l’ultima delle due). Neville suggerì a Coxeter di lasciar perdere tutte le materie a parte matematica e tedesco e di fare una carrellata veloce delle altre in ripetizioni private per Cambridge. Un tutor adatto fu trovato in Alan Robson del Marlborough College. Donald affittò una stanza da una famiglia della città e andava in bicicletta all’università, dove Robson gli dava quotidianamente lezioni private durante il suo tempo libero (l’università non avrebbe accettato un nuovo studente di soli sedici anni). Per quanto si sa, sembra che inizialmente egli fu classificato in fondo tra gli studenti di Robson: era ossessionato dalla quarta dimensione, ma tristemente indietro in alcuni fondamentali. Gradualmente salì dal fondo della classifica fino ad essere il primo della classe, cosa resa possibile non solo per il fatto che trascurava le altre materie, ma anche perché gli era stato espressamente vietato di
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Coxeter insieme a suo padre
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sognare a occhi aperti sui politopi, finché non aveva finito di fare tutti i compiti del giorno. Ovviamente Coxeter non era riuscito ad astenersi del tutto dal farlo, come raccontò pochi anni dopo: Ho passato tuttavia una grande parte del mio tempo libero scrivendo ulteriori volumi di Dimensional Analogy. Ricorderò per sempre il fremito, l’eccitazione che ho sentito, mentre sedendo sotto un albero nella vicina foresta di Savernake ho riscoperto i politopi puri di Archimede in dimensione sei, sette ed otto. Più di quarant’anni dopo, il tema che aveva vinto un premio raggiunse il suo compimento, quando Coxeter pubblicò il suo libro Regular Polytopes. Il suo extutor Alan Robson gli inviò una lettera di congratulazioni: Sono contento di vedere i tuoi politopi finalmente stampati e il libro mi piace molto. Le immagini e le tabelle sono molto piacevoli. Quanto tempo è passato da quando, mentre studiavi per l’esame del Trinity, hai fatto quel proposito (te lo ricordi?) di non lavorare alla quarta dimensione eccetto che di domenica. Donald fu mandato via da Marlborough con un regalo d’addio del suo tutor. Robson suggerì che Coxeter presentasse la sua opera al Mathematical Gazette. I suoi tentativi di valutare il volume di un tetraedro sferico portavano ad alcuni integrali definiti che, ammetteva, lo lasciavano perplesso. Nel volume 13 della Gazzetta pubblicata nel 1926, Coxeter propose: Può qualche lettore dare una dimostrazione elementare dei risultati che sono stati suggeriti da considerazioni geometriche e verificate graficamente?
Cambridge, Princeton ed oltre Per la festa di San Michele del 1926, Coxeter era partito alla volta di Cambridge, sostenuto da una borsa di studio di entrata e da una considerevole provvista di marzapane fatto in casa da sua madre. Si sistemò nella stanza G9 della Whewell’s Court. Cosa ci potrebbe essere di meglio nei sogni più selvaggi di un fresco studente di matematica del Trinity, che ricevere a novembre una risposta alla sua domanda pubblicata nel Mathematical Gazette. Arrivò una lettera raccomandata nientemeno che da parte del grande G.H. Hardy, e poi da un professore di geometria di Oxford.“Ho tentato in tutti i modi di non passare tutto il mio tempo a risolvere i suoi integrali”, annotò Hardy al margine delle sue pagine di calcoli, “ma per me la sfida di un integrale definito è irresistibile”. Questo fu un rituale di passaggio: Coxeter era entrato nel reame della dialettica matematica. A Cambridge, Coxeter si teneva in disparte studiando con molto rigore. La prima e unica menzione del suo nome nell’annuario del Trinity ci fu nel 1928 quando il circolo di discussione “Magpie e Stump” (circolo di chiacchiere e comizi) riportava:
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Abbiamo due nuovi membri veterani, il Sig. J.A. Todd, che è troppo strano per essere descritto a parole, ed il Sig. H.S.M. Coxeter, che è sempre molto buono ed inintelligibile, ma terribilmente conciso. Con J.E. Littlewood come suo consigliere di studi universitari, Coxeter completò l’esame Tripos con la posizione B Wrangler. Il suo consigliere di dottorato fu H.F. Baker, che pure si era laureato a Cambridge nel 1888. Baker era rimasto a Cambridge come studioso ed insegnante, e gli era stata assegnata la cattedra di Astronomia e Geometria nel 1914. Ogni sabato mattina Coxeter faceva dalla sua residenza (che ormai si trovava nel Great Court) una passeggiata in bicicletta di dieci minuti, attraversando il fiume Cam, fino alla casa di Baker sulla Storey’s Way, dove riferiva i suoi progressi. I sabato pomeriggio erano riservati ai famosi “ricevimenti pomeridiani” di geometria di Baker. Coxeter vi partecipava insieme a P. Du Val, G. de B. Robinson, J.A. Todd, D.W. Babbage, J.G. Semple, T.G. Room, W.J. Welchman e William Hodge. Come annotato in uno degli articoli commemorativi di Baker del 1956, [Egli] radunava intorno a sé un gruppo di giovani, contagiati dal suo entusiasmo e dalla sua potenza evocativa … qui si riuniva l’ispirazione che ha fatto della geometria la grande materia che è oggi in molte nostre università ed oltre oceano. 18
I discepoli di Baker erano tutti molto appassionati, nonostante alcuni abbiano trovato queste riunioni – inevitabilmente di sabato – piuttosto stancanti. Baker dal canto suo non si stancava mai, perlomeno in apparenza, e teneva vive le riunioni. Ogni studente aveva un pomeriggio a disposizione per presentare la sua ricerca più recente, alla quale seguiva poi una discussione. Durante un pomeriggio del 1929 in cui toccava a Coxeter, come ha annotato nel suo Personal Record Book of Fellows della Royal Society, Ho descritto la successione di politopi “puri archimedei” nelle dimensioni 3, 4, 5, 6, 7, 8 (chiamate dopo (–1)21, 021, 121, 221, 321, 421) con il loro numero di vertici: 6, 10, 16, 27, 56, 240. Continuando, Coxeter si spiega più nel dettaglio: Uno dei geometri algebrici ha espresso subito il suo interesse, perché 6, 10, 16, 27 sono i numeri delle rette sulla superficie di Del Pezzo nelle dimensioni 6, 5, 4, 3. Du Val andò un passo più in avanti dichiarando che 2x28 erano il numero di rette della “superficie di Del Pezzo” nella dimensione 2, superficie che è costituita da due copie di un piano collegate lungo una quartica di genere 3; le rette corrispondono a coppie alle bitangenti alla quartica. Queste considerazioni mi hanno condotto a scrivere il mio articolo sui politopi archimedei puri. Un giorno, durante una delle mie passeggiate solitarie in bicicletta sui “Gogs”, vidi come questi e altri politopi potevano essere dimostrati essere membri di una sola famiglia per mezzo dei simboli npq (per una fi-
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gura nella dimensione n+q+1). Questa riflessione portò al mio lungo articolo nel Philosophical Transactions di questa società. In un’altra occasione, quando era di nuovo il turno di Coxeter al ricevimento pomeridiano, egli invitò “zia Alice”, come la chiamava, a tenere una conferenza congiunta, usando i suoi famosi modelli come sostegno. Era più nota con il nome di Alicia Boole Stott, una casalinga amante della geometria, cui Coxeter attribuiva l’introduzione della parola “politopo” nella lingua inglese intorno al 1902. La Stott era la figlia intermedia delle cinque di George Boole. Suo padre, che era diventato famoso per l’algebra della logica pubblicata nel libro The Laws of Thought 150 anni prima, era morto quando lei aveva quattro anni. Secondo le valutazioni di Coxeter, ciò significava che le sue capacità matematiche erano puramente ereditarie. Attribuendo elogi, come sempre, solo dove era veramente doveroso farli, Coxeter scrisse un esteso profilo biografico della Stott (come fece per molti altri predecessori in quel campo della matematica), includendolo nel suo libro Regular Polytopes. L’influenza della Stott sul lavoro di Coxeter è evidente dalla prefazione della sua dissertazione di dottorato. Egli scrisse: Nei capitoli 7, 9 e 13 si trova un tentativo di esprimere in forma più generale alcune delle scoperte della sig.ra A. BOOLE STOTT e del prof. P. H. SCHOUTE. Nel capitolo 10, per la sua conclusione logica, ho eseguito un suggerimento fattomi dalla sig.ra STOTT. SCHOUTE sembra invece non aver colto l’importanza delle “operazioni parziali” della STOTT, e conseguentemente si è perso una famiglia infinita di politopi uniformi… Anche Ludwig Wittgenstein aveva simpatia per Coxeter e lo scelse tra i sei studenti per il suo seminario sulla filosofia della matematica. “Ho preso un tè con Wittgenstein ieri” disse in una lettera alla sua famiglia dei suoi ultimi anni al Trinity.“Parlò in maniera molto interessante della cecità e della sordità, e perché su un cammello si soffre di mal di mare mentre su un cavallo no.” Aggiungendo alla fine: “Non sembra essere più anormale come prima.” Wittgenstein ha fatto su Coxeter un’impressione simile a quella che Coxeter fece sui partecipanti alle discussioni da Baker: era inintelligibile. Wittgenstein si rifiutava di tenere lezioni di cinquanta minuti, come era usanza, ma richiedeva centocinquanta minuti, in parte perché gli ci voleva un’ora per entrare nel vivo della questione ed in parte perché aveva l’abitudine di fermarsi a metà frase e tenere il suo pubblico in attesa mentre elaborava il prossimo punto o cercava la parola successiva. Una volta Coxeter cronometrò una di queste pause che durò per più di venti minuti, dopo i quali Wittgenstein continuò esattamente laddove aveva lasciato il discorso, come se tutto fosse normale, e con nessuna scusa o spiegazione. In un’altra occasione, Wittgenstein lamentò che l’aula delle lezioni era troppo formale, e disse che preferiva un salotto privato. Coxeter offrì il suo nella scala I della Great Court. Wittgenstein lo utilizzò a parecchie riprese, anche dopo che Coxeter aveva abbandonato la classe per passare più tempo nella sua ricerca matematica.
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Non riuscivo a capire quel tipo di filosofia, ricordava Coxeter, ho pensato che fossero sciocchezze. Dopo tutto, non mi interessava. La sola cosa che ricordo delle sue opere è che il suo libro Tractatus Logico-Philosophicus iniziava con le parole: “Il mondo è tutto ciò che è il caso”, e che finiva con la famosa frase, “Di ciò di cui non si può parlare occorre tacere”.
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Dopo aver ottenuto il suo dottorato a Cambridge, Coxeter alternò periodi di lavoro tra Princeton e Cambridge (1932-33 Princeton, 1933-34 Cambridge, 1934-35 Princeton, 1935-36 Cambridge). In ogni campus si portava una collezione di specchi che aveva fatto tagliare appositamente per i suoi scopi (ora si trovano all’Università di York). Sugli specchi erano fissati dei cardini, di modo che senza molto sforzo potevano essere montati in maniera tale da diventare una versione grezza di un caleidoscopio. Era un uomo quasi per niente vanitoso, ma amava i suoi specchi. Nella documentazione del Progetto di Geometria del 1960, prodotta nell’Università del Minnesota, Coxeter e i suoi colleghi costruirono un gran numero di caleidoscopi giganteschi. In uno egli collocò un triangolo su cui aveva stampato a chiare lettere la parola NONSENSE. In un altro posizionò l’amato bassotto di sua moglie, Nico, il quale, immancabilmente ringhiò contro Donald (come è ovvio che fosse). Coxeter portava i suoi specchi in giro in sacchetti cuciti appositamente per lui da sua madre. Di tanto in tanto nei suoi diari avrebbe annotato: “Riparazione degli specchi.” I cardini che incollavano uno specchio al prossimo, si erano forse scardinati a causa della sua passione per una guida sfrenata. “Mi hanno beccato a guidare troppo velocemente (65 miglia all’ora),” annotò un giorno, e un altro, “Ho portato Pat [Du Val] ad estrarre un dente dal dentista (ho sbandato e ammaccato il parafango di un’altra automobile mentre andavo lì)”. In età avanzata, Coxeter descrisse i suoi anni a Princeton, dove aveva studiato con Oswald Veblen, Hermann Weyl, George Pólya, J.W. Alexander, L.P. Eisenhart, J.H.M. Wedderbum, Eugene Wigner e Solomon Lefschetz, come i tempi più felici della sua vita. Faceva avanti e indietro da New York, andando appresso alle donne, ma mai quanto alla matematica. I suoi corteggiamenti, tuttavia, erano condannati a fallire a causa della loro predominante natura metafisica. Dopo una delle delusioni, scrisse una lunga lettera in cui si confidò con suo padre, riferendo nel dettaglio il disastro romantico che gli era accaduto e poi chiudendo con le parole: Sto scrivendo tutto ciò a letto nel bel mezzo della notte. Sono troppo stravolto da questi fatti per dormire. Adesso tenterò di trovare una consolazione nelle Lectures on the Icosahedron di Klein. Non molto dopo la sua seconda visita a Princeton, durante il suo ritorno a Cambridge nell’agosto del 1935, Coxeter conobbe “la ragazza attraente olandese” che divenne sua moglie: Rien Brouwer. Si incontrarono nel marzo del 1936 e, do-
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po un semplice corteggiamento di due mesi, in un cimitero, egli si dichiarò. Si sposarono in tragiche circostanze in agosto nella chiesa Round Church di Cambridge, subito dopo la morte improvvisa del padre di Donald, che era annegato per un attacco di cuore mentre nuotava nel Canale della Manica. All’inizio del 1936, Coxeter rifiutò l’offerta di un posto universitario da assistente all’Università di Toronto. Baker stava andando in pensione e suggerì Coxeter come candidato per la sua cattedra da Lowdean di geometria. Era una posizione privilegiata, ma quell’estate seppe di aver perso la cattedra contro William Hodge, che aveva vinto il Premio Adams per la geometria nel 1934. Consultandosi con Baker, Coxeter realizzò che aveva poche opzioni. Si persuase a riconsiderare l’offerta di Toronto.“Molti uomini buoni hanno iniziato lontano dall’Inghilterra.” gli consigliò Baker, aggiungendo, “L’Europa di oggi sembra essere diventata matta. E comunque Toronto è un posto stimolante.” Il 6 giugno Coxeter telegrafò a Samuel Beatty, poi al direttore del dipartimento di matematica a Toronto, chiedendo se, dopo tutto, era ancora possibile accettare l’offerta. Un “sì” via telegramma arrivò due giorni dopo. Il 3 settembre, la coppia di sposi novelli salpò per il Canada. Coxeter passò quasi tutta la sua vita da matematico all’Università di Toronto, a parte numerosi posti da visiting professor in giro per il mondo. Poco prima di lasciare Cambridge, Littlewood chiese a Coxeter di scrivere l’undicesima edizione dei Mathematical Recreations & Essays di W.W. Rouse Ball. Gli appunti lasciati a Littlewood da Ball (che era stato il tutor di Littlewood
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a Cambridge dal 1903 al 1906) passarono a Coxeter. Nel 1938 egli completò la revisione, che includeva un nuovo capitolo sui poliedri. Questo capitolo fu scritto nello stesso stile con cui più tardi scrisse il suo Regular Polytopes. Vi aggiunse anche un capitolo sulla crittografia, scritto soprattutto da A. Sinkov, con cui Coxeter ebbe una lunga corrispondenza per tutta la vita (si conobbero, probabilmente, durante la seconda visita di Coxeter a Princeton). Fu grazie ai Mathematical Recreations che Coxeter incontrò per la prima volta John Horton Conway. Anche se Conway non studiò mai insieme a Coxeter, si considerava comunque uno studente d’onore, a causa della natura “coxeteriana” di alcune delle sue opere. L’unione dei loro geni avvenne nel marzo del 1957, quando, mentre era studente al Caius College a Cambridge, un Conway adolescente scrisse una lettera a Coxeter, che iniziava così: Caro Signore, Nell’ultimo anno la mia copia della sua edizione del Mathematical Recreations di Ball ha accumulato un numero sorprendente di note al margine ed alcune correzioni. Della maggior parte di queste non si può dire che siano adatte per essere pubblicate nelle successive ristampe, ma una o due mi sembrano importanti …
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La lettera continuava per cinque pagine. I piccoli scarabocchi erano interrotti soltanto da una selezione di pochi grafici, inclusa una versione molto ben fatta di un quadrato magico. Conway concluse la lettera dicendo: L’ultimissima mia osservazione è una domanda. Dove posso trovare le informazioni necessarie per disegnare un {5, 3, 3}, oppure devo elaborare i dettagli da solo? Le sarei molto grato se potesse fornirmi alcune informazioni accessibili. Vostro fiduciosamente, J. H. Conway
Contributi matematici Nei diari che Coxeter ha scritto per quasi tre quarti della sua vita, una parte dei quali oggi si trova in archivio all’Università di Toronto, egli parlava soprattutto degli impegni sociali, di seminari occasionali, di libri e concerti. Molto raramente prendeva nota dei manoscritti che stava ultimando e di teoremi che aveva dimostrato o stava per dimostrare. Il 22 febbraio del 1933, per esempio, scrisse: “Ho dimostrato (mentre mi stavo alzando) che tutti i prodotti continui di generatori sono coniugati”. Questo prodotto di generatori è stato chiamato elemento di Coxeter ed il suo ordine numero di Coxeter. Sarà per il suo lavoro sui politopi regolari, sulla riflessione dei gruppi e settori collegati a questi, che Coxeter sarà ricordato. Un gruppo generato da involuzioni e definito da relazioni che specificano il periodo dei prodotti di tutte le coppie di generatori, è noto come gruppo di Coxeter. Ispirato da un suo commi-
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litone, J.A. Todd, con cui più tardi fece una relazione su quest’argomento, Coxeter investigò i gruppi di simmetrie dei politopi regolari. Infine, questo lo portò a studiare sistematicamente i gruppi di riflessione. In una serie di articoli, finita nel 1933 [1,2,3], Coxeter diede una classificazione completa dei gruppi discreti generati da riflessioni (finite ed infinite) in spazi sferici ed euclidei. Il nome di Coxeter viene anche associato ad un grafo, corrispondente al gruppo di Coxeter, dove i vertici del grafo rappresentano i generatori involutivi. Quando i generatori commutano, i vertici corrispondenti non sono collegati. Altrimenti, i vertici sono collegati ed i lati del grafo sono etichettati con numeri interi ≥ 3 o con il simbolo ∞. L’etichetta sotto il lato che collega due vertici del grafo indica l’ordine del prodotto dei generatori corrispondenti. Sebbene Coxeter scrisse che aveva cominciato ad usare i grafi per rappresentare le riflessioni durante la sua visita a Princeton nel 1932, il primo riferimento all’uso di un grafo può essere trovato in un articolo che pubblicò nel Journal of the London Mathematical Society [1], che presentò il giorno del suo compleanno, il 9 febbraio del 1931. La prima apparizione dei grafi pubblicata si trova negli Annals of Mathematics del 1934 [2]. Aveva completato questo articolo durante la sua prima visita a Princeton nel febbraio del 1933. E.B. Dynkin ha essenzialmente riscoperto la stessa notazione indipendentemente alcuni anni dopo. Coxeter salutò questa notizia cordialmente e non in termini di competizione e fu particolarmente soddisfatto della comunicazione che ne risultò con Dynkin. Coxeter amava raccontare i dettagli di una lettera di Dynkin, datata 3 aprile 1984, in cui Dynkin osservava, “Colpisce che la mia notazione risultò essere così simile alla sua. Questo mostra, probabilmente, come queste notazioni siano naturali”. Mentre si trovava a Princeton nel 1933, Coxeter aveva iniziato ad enumerare le stellazioni di un icosaedro (è stato certamente il primo a completare l’enumerazione). Tornato in Inghilterra, egli collaborò con Petrie e Du Val, che eseguirono dei disegni al tratto, e anche con Flather, che fece dei modelli di questi poliedri (Coxeter ricordava che, dato che Flather era piccolo quasi come un nano, era più facile per lui produrre modelli così intricati). Flather completò ventiquattro di questi modelli e, per metterli al sicuro, li spedì a Coxeter prima della seconda Guerra Mondiale, temendo che potessero essere distrutti se fossero rimasti in Inghilterra (uno fu danneggiato durante il trasporto, ma i ventitré restanti sono conservati oggi all’Università di York). Dopo la guerra, Flather fece un’altra serie di modelli, questa volta completa, delle cinquantanove stellazioni (conservato al Trinity College a Cambridge). Il manoscritto sui cinquantanove icosaedri è stato completato da Coxeter una volta tornato a Toronto e fu presentato nel 1938. G. de B. Robinson era stato di valido aiuto nel portare Coxeter a Toronto (i due si erano conosciuti ai ricevimenti pomeridiani di Baker nel 1928). Coxeter, Robinson e Richard Brauer fondarono il Canadian Journal of Mathematics, con Coxeter che aveva l’incarico di primo redattore capo. Era anche grazie a Robinson che Coxeter si era imbattuto nella costruzione di Wythoffs, argomento di molte lezioni universitarie successive. Secondo Coxeter, Wythoff nel 1918 aveva ricavato dei politopi dal gruppo {3,3,5} e osservava che “un’investigazione simile … può essere intrapresa … per ciò che riguarda le altre famiglie di politopi …”. Nel 1930, Robinson fornì una dimostrazione del risultato. Questa costru-
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zione formava il quattordicesimo capitolo della dissertazione di dottorato di Coxeter ed è stata anche utilizzata nel capitolo quindici, in un tentativo di classificare i politopi convessi uniformi. Indipendentemente, M.S. Longuet-Higgins e J.C.P. Miller lavorarono sulle costruzioni di politopi uniformi. Dopo parecchi vani tentativi di provare la completezza della loro enumerazione dei poliedri uniformi, Coxeter, Longuet-Higgins e Miller scrissero un articolo [8] contenente la classificazione completa (come fu dimostrata più tardi). Per un resoconto piacevole dell’importanza di questo lavoro, si faccia riferimento al contributo del Grünbaum in [7]. Il capolavoro di Coxeter è stato il famoso libro Regular Polytopes. Con la sua pubblicazione nel 1947, conseguì la fama di grande espositore, unificando con eleganza e con chiarezza la sua ricerca sui politopi come pure le scoperte dei suoi predecessori (che ha incluso nel suo trattato con meravigliosi schizzi storici). Regular Polytopes ha influenzato profondamente un gran numero di matematici. Nell’articolo commemorativo nei Notices of the AMS, Grünbaum dichiara che si tratta “possibilmente di uno dei testi di geometria più citati del secolo,” e Peter McMullen riconosce l’“influenza profonda” di quest’opera sulla sua carriera. Altri lo chiamano la loro Bibbia, o l’addendum dei giorni moderni degli Elementi di Euclide. Certo, qualcuno sostiene che il capolavoro di Coxeter è invece Introduction to Geometry, pubblicato nel 1961. È stato tradotto in molte lingue, viene ancora ristampato e al momento si trova ancora nel syllabus dei corsi di matematica dell’Università McGill. Towit, un bibliotecario dell’Università di To24
Coxeter con i suoi specchi
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ronto, una volta dimostrò che Introduction to Geometry era il libro più frequentemente rubato dalla biblioteca di matematica. Coxeter stesso, tuttavia, considerava il testo Regular Complex Polytopes (RCP) come il suo capolavoro. Era stato ispirato, fino ad un certo punto, dalla sua collaborazione di vecchia data con G.C. Shephard, collaborazione che cominciò nel 1951 mentre Coxeter era uno degli esaminatori esterni quando Shephard presentò la sua dissertazione intitolata Complex Polytopes. Venti anni dopo, questo seme germogliò nella mente di Coxeter con la pubblicazione di RCP. Paragonando quest’opera alla precedente, Regular Polytopes, Coxeter osservò: “Il seguito è più profondo. L’esposizione è bella, includendo vari disegni notevoli di McMullen”. È anche con RCP che Coxeter fornì la spiegazione più esplicita e viva di come compiva il suo lavoro di matematico. Riferendosi alla pubblicazione della seconda edizione attesa da tempo, egli commentò ai giornalisti: Ho fatto il tentativo di costruire un libro simile ad una sinfonia di Bruckner, con crescendi e punti culminanti, piccoli assaggi di un piacere che verrà e abbondanti riferimenti trasversali. Gli aspetti geometrici, algebrici e della teoria dei gruppi dell’argomento in questione si intrecciano come le diverse parti di un’orchestra. Le opere menzionate sono solo alcuni dei contributi che Coxeter ha dato alla matematica e alla geometria. Altri aspetti importanti del suo lavoro dovrebbero perlomeno essere passati in rassegna. Ha dato molti contributi alla geometria delle inversioni, esplorandone il collegamento alla geometria iperbolica. Era fra i primi a muoversi dalla geometria “reale” a quella combinatoria. Il suo articolo del 1937 sui poliedri regolari sghembi [4], cui seguirono discussioni con Petrie, ha esteso la nozione di poliedro regolare, includendo poliedri infiniti con vertici adiacenti a qualsiasi dato vertice che appartiene ad un poligono sghembo (come il poligono formato dai lati di un antiprisma). Coxeter ha lavorato sugli sphere packing e le forme quadratiche estreme. Il suo interesse per la geometria proiettiva ha dato indicazioni a parecchie dissertazioni di dottorato e ha trovato un risultato in due dei suoi libri: The Real Projective Plane nel 1949, seguito da Projective Geometry nel 1957. L’interesse di Coxeter per i gruppi discreti generati da involuzioni, lo ha condotto naturalmente ad investigare le geometrie noneuclidee. Nel 1950 scrisse un articolo insieme a Witrow [6], elencando tutte le quindici strutture a nido d’ape del 3-spazio iperbolico. Come conseguenza, al Congresso Internazionale di Matematica svoltosi ad Amsterdam nel 1954, Coxeter tenne una conferenza sulla classificazione completa delle tassellazioni nello spazio iperbolico n-dimensionale [5]. Un accenno particolare deve essere fatto per William Moser, insieme a cui Coxeter fu autore di Generators and Relations for Discrete Groups, pubblicato nel 1957. In molte occasioni, come alla conferenza tenuta in onore del settantesimo compleanno di Coxeter – che attirò centinaia di matematici da tutto il mondo e che ebbe come conseguenza la produzione del libro The Geometric Vein, The Coxeter Festschrift – Moser ha condiviso storie che mostrano l’apprezzamento ed il rispetto che aveva per Coxeter, e soprattutto l’ammirazione per lui di un in-
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segnante che dissemina la propria passione per la geometria e la gioia per la bellezza di questa materia, sia in un’aula universitaria che nei seminari settimanali di geometria. In una di queste occasioni Moser ha tessuto le sue lodi: Il professore Coxeter è un insegnante nel senso ampio della parola … Sedici studenti hanno completato le loro tesi di dottorato (il PhD) sotto la sua direzione. Ha insegnato a gruppi selezionati di studenti di liceo particolarmente dotati, fatto respirare la vita di un matematico ad insegnanti di liceo ed ispirato generazioni intere di studenti durante i suoi anni all’Università di Toronto. Alla festa dell’ottantesimo compleanno di Coxeter, Moser raccontò la seguente storia sul suo mentore:
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Nel 1955 Donald Coxeter ed io abbiamo ballato insieme, non uno nelle braccia dell’altro, ma tenendoci per mano a una distanza rispettabile. Non si trattava di una richiesta di un dottorando dell’Università di Toronto. Quell’estate eravamo a Stillwater, Oklahoma, dove Donald insegnava in un corso estivo della National Science Foundation ed io ero il suo assistente. Come diversivo dall’intenso lavoro – lui stava preparando le lezioni ed io gli appunti delle sue lezioni, e stavamo anche completando il nostro libro –Donald decise di imparare il ballo da sala e il corso richiedeva la partecipazione in coppia… Avrete notato che lo chiamo Donald, come probabilmente fate voi tutti. Ma io lo faccio perché sono stato espressamente invitato a fare così! Alla fine di quell’estate, egli mi disse: “‘William, ci conosciamo da sei anni, sei stato mio studente per quattro anni, abbiamo lavorato insieme da vicino e abbiamo scritto un libro insieme. Penso che sia arrivata l’ora di chiamarmi ‘Donald’.” Io risposi: “Va bene, professor Coxeter.” E il mio modo di rivolgermi a lui rimase tale per un paio di anni.
Come qualunque altro artista Nel suo penultimo viaggio Donald Coxeter andò a Banff, in Alberta, con sua figlia Susan, che dalla morte di Rien nel 1999 lo sorvegliava con devozione, per una conferenza su alcuni aspetti della simmetria. Introducendo il suo articolo, diede un colpetto alla lavagna luminosa e vi fece scivolare il suo primo lucido. In quel momento, Coxeter fu immerso in una gigantesca proiezione colorata del Circle Limit III di M.C. Escher. “L’argomento del mio articolo,” iniziò a parlare Coxeter, “è qualcosa che mi ha intrigato e fatto pensare per quasi cinque decenni. Riguarda ciò che io chiamo ‘la geometria intuitiva’ del mio amico M.C. Escher.” Dopo essersi conosciuti al Congresso Internazionale nel 1954, Coxeter ed Escher avevano incominciato una collaborazione sui generis, soprattutto per corrispondenza. Coxeter chiese ad Escher se poteva usare una delle sue tassellazioni in un articolo che stava pubblicando. Escher acconsentì e quando ricevette la sua copia gratuita, altri grafici che vi si trovarono fatti da Coxeter serviro-
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no ad Escher per rimuovere un blocco creativo di lunga data. Escher non capiva ciò che chiamava “il testo hocus pocus” di Coxeter. Ma in una lettera di ringraziamento a Coxeter, egli esclamò: Nonostante il testo del suo articolo “Crystal Symmetry and its generalization” sia troppo indirizzato a persone più erudite di uno come me – un semplice uomo che da sé ha imparato a fare disegni piani – alcune delle illustrazioni e soprattutto la figura 7 a pagina 11 mi hanno provocato una forte emozione. Da tanto tempo nutro un certo interesse per i disegni con dei” motivi” che diventano sempre più piccoli finché raggiungono il limite dell’infinitamente piccolo. La questione è relativamente semplice se il limite è un punto al centro del disegno. Anche il limite assiale per me non è una novità, ma non sono mai stato capace di fare un disegno in cui ogni macchia diventa gradualmente più piccola partendo dal centro di un cerchio e andando verso il suo limite esterno, come mostrato nella sua figura 7. Successivamente, Escher attribuì a Coxeter l’ispirazione dei sui disegni Circle Limit. Mentre lavorava ai suoi Circle Limit, Escher dirà “Oggi sto ‘coxetereggiando’.” E in una lettera a suo figlio George, Escher scrisse con effusione: La mia xilografia ispirata dal sistema di Coxeter è finita, e per me è la più bella che io abbia mai fatto del tipo “più piccolo e sempre più piccolo”. Non posso smettere di guardare quel limite circolare che circonda tutto di forme infinitamente piccole, tutto così logico ed ordinato. Quest’opera si avvicina alla bellezza e semplicità assoluta. Sono ansioso di sentire la reazione di Mr. “Cokeseater” (“mangiatore di coca-cola”), cui ho inviato una copia. Coxeter, per sua parte, si considerava allo stesso tempo un matematico ed un artista. “Sono come qualunque altro artista,” disse una volta al Globe and Mail. “È solo che ciò che riempie la mia mente sono le forme ed i numeri”. Nonostante Coxeter lavorasse alla geometria solamente per la sua bellezza artistica, e non per qualunque scopo pratico, il suo lavoro trovò spesso applicazione in vari altri campi. L’architetto Buckminster Fuller, detto anche da Coxeter “Bucky”, una persona di una cultura enciclopedica, si imbatté nel lavoro di Coxeter mentre costruiva le sue cupole geodetiche. Più tardi Fuller conferì a Coxeter grandiose lodi, dedicandogli il libro Synergetics, sulla geometria del pensiero: In virtù dell’opera straordinaria di matematica cui dedicò tutta la sua vita, il dott. Coxeter è il matematico “geometrico” che ha mosso il ventesimo secolo. [Egli è] il direttore terrestre, acclamato spontaneamente, di un inventario storico di una nuova scienza, quella dell’analisi delle forme. Nonostante fosse stato adulato, per Coxeter questa dedica e il fatto che Bucky vi buttasse dentro un po’ di nomi, era soltanto un modo per attrarre un pubblico matematico per il suo libro. Donald ne lesse dei frammenti e ritenne che Fuller avrebbe fatto meglio a consultare un matematico per scriverlo.
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Coxeter a Toronto con uno dei suoi pronipoti
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Coxeter dovrebbe essere ricordato anche per il suo intenso senso di giustizia sociale. Pacifista come suo padre, rifiutò l’opportunità di lavorare come decrittatore durante la seconda Guerra Mondiale. In parecchie occasioni parlò del trattamento ingiusto che il fisico teorico Leopold Infeld, un suo collega all’Università di Toronto, ricevette dal Canada. Ad Infeld era stato vietato di lasciare il Paese per passare la sua licenza sabbatica in Polonia, il suo Paese di nascita, perché la Polonia in quel periodo era “dietro la cortina di ferro.” Infeld fu denunciato da alcuni conservatori nel parlamento come potenziale traditore del popolo canadese, che avrebbe fornito dei segreti atomici ai comunisti. Dopo aver dato le dimissioni dalla sua posizione universitaria ed essere rimasto in Polonia con la famiglia, sia Infeld che la moglie e i loro bambini nati in Canada furono privati della cittadinanza canadese. Infeld fu molto grato a Coxeter per il sostegno che gli diede per pubblicare la sua opera Why I left Canada. Helen Infeld, dopo la morte di Leopold, rimase in contatto con Coxeter e gli scrisse le seguenti gentili parole in una lettera datata 6 gennaio 1976: Sai, la mia vita è stata tale che ho imparato a valutare con attenzione alcune qualità umane e trovo che sia una cosa giusta comunicarlo alle persone che ce le hanno.Vorrei dirti che ti ammiro come una persona di sani principi, non vacillante di fronte a pregiudizi generici, cecità emozionale o isteria temporanea come altri in questioni importanti. Se l’intera umanità avesse una tale comprensione razionale, ovunque! Infine, ritorniamo all’acuto senso dell’umorismo di Coxeter. Amava il nonsense ed in particolare il libro Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. La
Donald nel paese delle meraviglie: le varie sfaccettature della vita di H.S.M. Coxeter
sua richiesta più comune era per il passaggio di “Jabberwocky”. Diceva quella parola – “JabberrwOckAy” – con un tale gusto. Reciterebbe ancora oggi, se fosse vivo, a memoria e con la stessa drammatica intonazione, alzando il volume della voce, che in altre occasioni era sempre così posata: One, two! One. Two! And through and through The vorpal blade went snicker-snack! He left it dead, and with its head He went gulumphing back. “And, hast thou slain the Jabberwock? Come to my arms, my beamish boy! O frabjous day! Callooh! Callay! He chortled in his joy.1 Una volta, quando gli fu chiesto perché non si era mai stancato di Alice nel paese delle meraviglie, rispose, È come la lettura di una parte di matematica di cui si sa che è bella, ma che non si capisce abbastanza bene. Come la teoria delle stringhe. È altrettanto un mistero per me che per ciascun altro che non viene a capo della sedicesima dimensione. Durante le settimane prima della sua morte, Donald Coxeter perseverò nel voler fare dei ritocchi finali ad un articolo che aveva consegnato a Budapest l’estate prima. Non poteva credere che nessuno trovasse più degli errori o ulteriori refusi – gli faceva sempre un grande piacere, nei suoi articoli e nei suoi libri, cercare errori (che erano sempre molti) che sarebbero stati corretti nelle ristampe successive. Con l’articolo finalmente finito, Coxeter morì due giorni dopo.
Bibliografia [1] H.S.M. Coxeter (1931) Groups whose fundamental regions are simplexes, J. London Math Soc., 6, pp. 132-136 [2] H.S.M. Coxeter (1934) Discrete groups generated by reflections, Ann. of Math., 35, pp. 588-621 [3] H.S.M. Coxeter (1935) The complete enumeration of finite groups of the form Ri2 = (RRj)kij = 1, J. London Math. Soc., 10, pp. 21-25 [4] H.S.M. Coxeter (1937) Regular skew polyhedra in three and four dimensions and their topological analogues, Proc. London Math. Soc., pp. 43, 33-62
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Uno, due, uno, due! E affondò la vorpale lama zucando e zacando fino alla morte. Poi con la sua testa galonfappando ritornò. “Hai ucciso il mascellodonte? Vieni fra le mie braccia, mio radioso fanciullo O giorno fravoloso! Evviva! Evviva!” E cordeggiò un inno per la gioia.
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[5] H.S.M. Coxeter (1956) Regular honeycombs in hyperbolic space, Proc. Internat. Congress Math. Amsterdam (1954), North-Holland, Amsterdam, pp. 155-169 [6] H.S.M. Coxeter, G.J. Whitrow (1950) World structure and non-Euclidean honeycombs, Proc. Roy. Soc., London Ser. A, 201, pp. 417-437 [7] E.W. Ellers, B. Grunbaum, P. McMullen, A.I. Weiss, H.S.M. Coxeter (2003) Notices of the AMS, 50, pp. 1234-1240 [8] M.S. Longuet-Higgins, J.C.P. Miller, H.S.M. Coxeter (1954) Uniform Polyhedra, Philos. Trans. Roy. Soc. London Ser. A, 246, pp. 401-450 [9] J.A. Todd, H.S.M. Coxeter (1936) A practical method for enumerating cosets of a finite abstract group, Proc. Edinburgh Math. Soc., 5(2), pp. 26-34 [10] J.A. Todd (1931) The groups of symmetries of regular polytopes, Proc. Camb. Phil. Soc., 27, pp. 212-231
Letture consigliate
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H.S.M. Coxeter, P. Du Val, H.T. Flather, J.F. Petrie (1938) The Fifty-nine Icosahedra, University of Toronto Studies, Toronto W.W. Rouse Ball’s (1938) Mathematical Recreations and Essays (XI edizione), Macmillan, London H.S.M. Coxeter (1948) Regular Polytopes, Methuen, London H.S.M. Coxeter (1949) The Real Projective Plane, McGraw-Hill, New York H.S.M. Coxeter, W.O.J. Moser (1957) Generators and Relations for Discrete Groups, Springer-Verlag, Berlin H.S.M. Coxeter (1961) Introduction to Geometry, Wiley, New York H.S.M. Coxeter (1964) Projective Geometry, Blaisdell, New York H.S.M. Coxeter (1974) Regular Complex Polytopes, Cambridge University Press, London, New York (II ed. ristampata con correzioni e un nuovo XIV capitolo)
matematica e immagini
Visioni e realtà. Empiria e geometria FRANCO GHIONE
I fenomeni della produzione mentale di immagini sono molto poco studiati. Resto fermo nella mia convinzione circa la loro importanza. Sostengo infatti che certe leggi, proprie di questi fenomeni, sono essenziali e inoltre dotate di una straordinaria generalità; e che le variazioni delle immagini, le restrizioni imposte a queste variazioni, le produzioni spontanee di immaginirisposta o di immagini complementari, consentano di raggiungere mondi assolutamente distinti come quelli del sogno, degli stati di estasi, della deduzione per analogia. P. Valery
La geometria della visione, che trova una sua prima sistemazione coerente, per quello che ci è dato sapere, nell’Ottica di Euclide, col passare dei secoli ha subito quel processo di fossilizzazione ben descritto nel saggio di Lucio Russo sulla teoria delle maree [1], comune a tante altre teorie “antiche”. Questo processo è stato agevolato, da un lato, dallo sviluppo dell’ottica fisica tesa a descrivere i fenomeni quali la diffrazione, la rifrazione, la teoria del colore ecc. e dall’altro dalla riscoperta della prospettiva avvenuta nel Rinascimento in modo indipendente dalla matematica ellenista. Questi sviluppi essenzialmente estranei all’opera di Euclide e apparentemente più avanzati di quelli presenti nel vecchio testo ne rendevano il contenuto di scarso interesse: un elenco di affermazioni banali, importanti, semmai, solo in vista di una ricostruzione storica delle idee. La stessa concezione di una geometria della visione, una geometria dell’apparire, contrapposta a una geometria dell’essere si andava via via perdendo man mano che una ideologia della scienza monolitica e in grado di spiegare univocamente ogni fenomeno si faceva strada. La geometria della visione infatti si pone il problema di studiare il rapporto tra come le cose ci appaiono e come le cose sono. Che i sensi, e la vista prima di tutto, possano ingannare suggerendo idee sbagliate o lontanissime dalla realtà e che possa essere logicamente sostenibile l’esistenza di un mondo completamente diverso da quello che percepiamo era ed è cosa grandemente dibattuta fin dai primordi della filosofia presocratica. L’idea, ad esempio, che la Luna appaia cambiare forma pur essendo sempre la stessa sembra aver suggerito a Parmenide l’ipotesi che la molteplicità sia apparenza. La geometria della visione fornisce uno strumento di indagine razionale per studiare proprio il rapporto tra il modo in cui gli oggetti sono e il modo in cui appaiono e come questo venga a
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dipendere dalla posizione dell’osservatore. Se, ad esempio, guardiamo la grandezza del Sole e quella della Luna esse ci appaiono uguali mentre il Sole è molto più grande della Luna.
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Ciò significa che il cono visivo che si forma guardando la Luna ha la stessa apertura del cono visivo che si forma guardando il Sole. Questa evidenza visiva si traduce ora in una proprietà geometrica basata sull’idea astratta di raggio visivo e cono visivo, concetti introdotti nelle premesse dell’Ottica. Il vantaggio è che ora non solo abbiamo, della banale visione del Sole e della Luna, una immagine geometrica, un modello astratto sul quale ragionare, ma possiamo anche stabilire, usando il teorema di Talete, che esiste un medesimo rapporto tra le distanza dei due corpi celesti e il loro raggio. Questa immagine ci suggerisce anche l’idea che la parte della Luna illuminata dal Sole, quella cioè colpita dai raggi solari, è la parte di Luna interna al cono visivo rivolta verso il Sole e, di conseguenza, la linea che divide la zona illuminata da quella in ombra è la circonferenza lungo la quale la Luna è tangente al cono; da questo si ricava pure che la retta che unisce i due centri, quello del Sole e quello della Luna, cioè l’asse del cono, è perpendicolare a questa circonferenza. Questi fatti non sono patrimonio comune. Conosco molte persone che pur sapendo di big-bang e buchi neri ignorano completamente questa geometria. Se si domanda di disegnare un quarto di Luna nel modo più realistico possibile troviamo dei disegni di questo tipo che
contraddicono un importante e difficile teorema dell’Ottica, il teorema 36, che stabilisce come viene vista una circonferenza a seconda della posizione dell’occhio. Sulla base di quel teorema dovremmo disegnare la linea che separa la zona d’ombra da quella illuminata non con un arco di circonferenza ma con una ellisse tangente in due punti diametralmente opposti al bordo lunare.
Visioni e realtà. Empiria e geometria
Accade anche, quando la Luna è in quadratura, che il cerchio che divide la parte illuminata da quella in ombra appaia come un segmento. Questo, secondo il teorema 22 dell’Ottica, accade se e solo se l’occhio è posto sullo stesso piano del cerchio, e poiché, come abbiamo visto, la retta che congiunge il centro della Luna con quello del Sole è sempre perpendicolare a quel piano, si forma in cielo un triangolo rettangolo nel punto L corrispondente al centro della Luna.
Dato che la Luna in quadratura appare di prima mattina è possibile vedere in cielo contemporaneamente Luna e Sole e quindi misurare l’angolo L o S, la “distanza apparente” tra la Luna e il Sole. Questa misura permetterà di calcolare il reale rapporto tra la distanza della Luna (il cateto minore) e quella del Sole (l’ipotenusa del triangolo rettangolo). Esso è ciò che oggi chiamiamo il seno dell’angolo µ. Tutto ciò, come è noto, fa parte di una importante opera di Aristarco di Samo di poco posteriore a Euclide, dove si illustra un metodo geometrico per calcolare grandezze e distanza del Sole e della Luna conoscendo la grandezza del raggio terrestre. Aristarco è noto come il Copernico dell’antichità perché ipotizzò un sistema solare eliocentrico e coi pianeti disposti su orbite circolari centrate nel Sole. Tale ipotesi permetteva di spiegare facilmente il moto apparentemente irregolare dei pianeti. Essi infatti appaiono muoversi in una direzione poi fermarsi e tornare indietro formando in cielo una strana S. Non era facile immaginare che i pianeti si muovessero su un’orbita tanto irregolare anche se questo era quello che appariva alla vista. L’ipotesi di Aristarco rendeva ragione di queste stranezze se solo si teneva conto che il moto apparente dei pianeti è il risultato del moto composto dell’osservatore e del pianeta. Se questi due moti si svolgono
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su cerchi concentrici a velocità angolari diverse il fenomeno che si osserva viene pienamente spiegato. Sul sito www.mat.uniroma2.it/mep abbiamo realizzato una animazione dove si vede la Terra che ruota su un’orbita circolare intorno al Sole e Marte che ruota su un cerchio concentrico a quello orbitale terrestre a una velocità angolare quasi doppia. Il vettore Terra-Marte è, nella figura accanto, applicato a un punto fisso e in tale figura risulta riprodotto, sulla base di questo modello, esattamente ciò che appare: il moto retrogrado del pianeta.
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La conoscenza delle leggi che regolano la visione e di come questa modifichi le caratteristiche geometriche delle figure è di estrema importanza se si vuole rappresentare su un particolare supporto (ad esempio, su una parete, una tela o una scenografia teatrale) una scena reale. Il problema diventa non banale se si vuole rappresentare in modo realista su un supporto bidimensionale, come la tela di un quadro, la profondità tridimensionale dell’oggetto reale. L’effetto che si desidera raggiungere sarà pienamente realizzato se la visione del quadro risulterà equivalente alla visione della realtà che il quadro rappresenta. Se, ad esempio, sappiamo che, dati due oggetti uguali a diverse distanze dall’osservatore, quello più lontano viene visto più piccolo, allora sarà necessario seguire questa regola anche nella rappresentazione di questi oggetti su un quadro. Può sembrare che regole di questo tipo siano così semplici da apparire evidenti senza bisogno di una particolare teoria assiomatica deduttiva come la geometria della visione. In realtà le cose non sono così chiare e spesso un metodo empirico basato sull’occhio di un buon pittore non è sufficiente. Un importante teorema della geometria della visione afferma che segmenti paralleli vengono visti come se convergessero a un punto. La dimostrazione di questo teorema è indicata nell’Ottica euclidea (teorema 6) ed è sviluppata in tutte le sue implicazioni nel libro Le Geometrie della visione [2]. Il risultato appare poco intuitivo essendo completamente disatteso fino alla riscoperta della prospettiva nel Rinascimento. Se analizziamo, ad esempio, l’Ultima Cena di Duccio da Buoninsegna il tavolo non appare orizzontale e gli oggetti che vi sono appoggiati sembra debbano cadere.
Duccio da Boninsegna, Ultima cena
Visioni e realtà. Empiria e geometria
Anche la trabeazione del soffitto non restituisce pienamente la profondità della stanza. È naturale pensare che, nella scena reale che il quadro rappresenta, i lati del tavolo (che si allontano in profondità) e quelli del soffitto siano paralleli. Essi vengono dunque visti, stante il teorema 6 come se convergessero in un unico punto. La stessa cosa non accade guardando il quadro: le 6 linee che abbiamo evidenziano non appaiono convergere verso un punto, ma appaiono disordinatamente divergenti. Alcune volte la regola è rispettata localmente a dimostrazione del fatto di come sia spesso difficile da un punto di vista empirico integrare dei dati solo lo-
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calmente coerenti tra loro per arrivare a un modello globale: questo processo è possibile solo se possediamo una teoria astratta che ci permetta di sviluppare coerentemente delle leggi globali relative agli enti astratti della teoria e applicabili singolarmente ai vari casi che la realtà ci presenta. Il seguente dipinto di Daddi realizzato intorno al 1300 presenta un soffitto sulla sinistra del quadro co-
Bernardo Daddi, Il martirio di S. Stefano
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erente col teorema sulle parallele mentre il resto delle pareti è disegnato in modo molto approssimativo. Un ulteriore esempio è questa Annunciazione di Lorenzetti.
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Le linee del pavimento concorrono correttamente ad un unico punto, tuttavia i punti diagonali che nella realtà dovrebbero essere allineati non risultano allineati sul dipinto. Questo non è coerente con un importante teorema della geometria della visione che afferma che punti allineati nella realtà vengono anche visti come allineati: cioè i raggi visivi coi quali questi punti sono visti appartengono a uno stesso piano. È ovvio che se si vuole creare con la pittura un effetto realista si dovranno disegnare sul quadro allineati i punti che corrispondono a punti realmente allineati in modo che i raggi visivi con i quali li vedo sul quadro siano come quelli con i quali li vedrei nella realtà: cioè su uno stesso piano. La costruzione di una teoria geometrica completa che permetta di riprodurre una scena reale come fosse fotografata non è né banale, né intuitiva. Noi pensiamo che l’Ottica di Euclide, tra le altre cose, offra tutti gli elementi per poter delineare questa teoria ben prima del Rinascimento. Sul libro precedentemente citato [2] questa tesi è sviluppata pienamente tenendo anche conto di recenti ritrovamenti archeologici che dimostrano, anche sul piano fattuale, la piena dimestichezza dei pittori greco-romani coi teoremi base delle geometria della visione. La possibilità di “fotografare” oggetti reali apriva anche le porte verso un’altra fantastica direzione: quella di “fotografare” oggetti solo immaginati. Questa nuova possibilità fu pienamente compresa dai pittori-scienziati del Rinascimento. Le città ideali, ad esempio, trovarono la loro prima espressione in pitture così ben fatte da dare l’impressione che esistessero davvero. Il rapporto tra essere e apparire poteva anche essere invertito: ora l’apparire poteva trasformarsi in essere, il rapporto tra l’oggetto rappresentato e quello reale era così puntuale da permettere la completa ricostruzione dell’oggetto rappresentato. Questa nuova possibilità fu pienamente compresa solo alla fine del XVIII secolo e, nelle nuove scuole politecniche istituite con la Rivoluzione francese, la geometria descrittiva, che così venne chiamata, divenne materia fonda-
Visioni e realtà. Empiria e geometria
Scuola di Piero della Francesca, La città ideale
mentale di insegnamento e terreno fertile di ricerca. Nel contempo però si cominciò col realizzare quella cesura che andava separando i vari aspetti dell’attività creativa: prima di tutto tra arte e scienza e poi tra scienza e tecnologia. La geometria descrittiva divenne così un argomento tecnico ad uso di ingegneri e architetti mentre la geometria proiettiva, artificialmente slegata da quella, assumerà, nella ricerca matematica un’importanza sempre più grande. Lo stesso Desargues, matematico, architetto, ingegnere del XVII secolo, ignorato dai contemporanei abbagliati dagli impetuosi sviluppi della nascente geometria analitica e dall’analisi infinitesimale, fu parzialmente riconosciuto solo nel XIX secolo per lo meno come fondatore della geometria proiettiva mentre restava in ombra la sua versatilità nelle varie attività pratiche e la sua propensione didattica1. Le geometrie della visione possono aiutarci a recuperare a livello didattico e teorico quella unità del pensiero in grado di provocare emozioni, di suscitare reciproci legami e connessioni tra campi apparentemente lontani come la matematica e l’arte. L’opera di Piero della Francesca, il De prospectiva pingendi, dove l’Ottica euclidea più volte citata, viene sviluppata nella direzione della rappresentazione prospettica della profondità su una superficie piana, rappresenta un ottimo controesempio a questa separazione tra geometria e arte e tra tecnologia e scienza. Il percorso che segue Piero ci sembra emblematico. Si parte da una enunciazione di alcuni risultati sulla visione diretta per arrivare, nel primo libro, alla costruzione della trasformazione proiettiva, oggi detta omologia, che per-
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Per maggiori approfondimenti sull’opera di Desargues e per una nuova interpretazione del suo inusuale vocabolario si vedano [3] e [4].
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mette di individuare l’immagine, tramite una proiezione centrale, di un punto posto su un piano orizzontale (il piano reale) nel piano del quadro (il piano degradato) che si immagina verticale. La costruzione è descritta in modo geometrico molto semplice senza bisogno di uscire dal piano del quadro e dipende in modo essenziale dalla posizione dell’occhio. La sua correttezza è dimostrata servendosi di semplici prerequisiti di geometria elementare ed essa può essere realizzata in astratto (ma concretamente sul foglio) comunque si decida debba essere la posizione dell’occhio. Non serve insomma uno strumento empirico come un prospettografo dove fissare realmente l’occhio per vedere l’esito della pittura: questo esito è calcolato geometricamente e saranno solo il gusto e le esigenze artistiche e comunicative del pittore a decidere il punto di vista. Nel celebre dipinto la Flagellazione il punto di vista è posto all’altezza delle ginocchia, in una posizione cioè del tutto inna-
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Piero della Francesca, La Flagellazione
turale come se la scena fosse artificialmente un poco sollevata e vista dal basso. L’effetto che si ottiene è vagamente inquietante e riesce a dare all’insieme quella indefinibile sospensione tra una perfetta ricostruzione prospettica e una qualche invisibile anomalia strutturale che dà forza al contrasto tra il dramma della flagellazione che si svolge in profondità e la serafica, borghese discussione in primo piano. È questo un buon esempio di come sia l’impianto teorico a dare nuovi strumenti espressivi rendendo possibile la raffigurazione di una realtà solo immaginata. Nel secondo libro Piero affronta il problema delle alzate, cioè di come, una volta rappresentata la pianta, si debba procedere per realizzare le altezze nel loro geometrico degradare man mano che si allontanano in profondità. Gli esempi che vengono dettagliatamente sviluppati non sono solo di oggetti geometrici come cubi o prismi, ma si illustrano anche colonne, altari e pozzi. Il ben delineato confine tra geometria e arte così come è stato tracciato dalla nostra cultura comincia a vacillare e ci pare che ciò che leggiamo non sia né l’una né l’altra. Infine nel terzo libro la ricerca di Piero si rivolge con incredibile energia e grande passione verso un obiettivo grandioso che appare tuttoggi indomabile anche con
Visioni e realtà. Empiria e geometria
le più sofisticate tecniche informatiche: la descrizione del viso umano, un viso simbolico, astratto, né maschile né femminile, né adulto né bambino. Questo viso viene descritto con centinaia e centinaia di punti di ancoraggio ottenuti sezionando il volto con piani paralleli, che ne permettono varie visioni prospettiche, ognuna analizzata in dettaglio teoricamente, sulla base della iniziale scansione, una specie di Tac del volto col quale Piero riesce a “fotografare” teoricamente l’oggetto più complesso e più affascinante della visione: un volto umano.
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Riportiamo una delle pagine del manoscritto, che si ritiene autografo, dove Piero inizia la sua ricerca per dare un’idea della complessità del lavoro che si intende affrontare.
Piero della Francesca, Leggenda dlla vera croce
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Abbiamo provato a sovrapporre questo volto “geometrico” ad alcuni volti, a mio avviso, di straordinaria bellezza tratti dalla Leggenda della vera croce ad Arezzo. Lo studio di Piero ci ha permesso di realizzare con le recenti tecniche di computer grafica basate sulle triangolazione di superfici di Bezier una animazione 3D che è stata pubblicata sul CD allegato al libro Le Geometrie della visione [2]. In questa animazione il viso si forma in una ambiente virtuale, ricavato dai disegni di Piero che ruotando si presenta in prospettiva dalle diverse angolazioni. Ne riportiamo qui un frame per dare un’idea di questa animazione.
Bibliografia [1] L. Russo (2002) Flussi e riflussi, Feltrinelli, Milano [2] L. Catastini, F. Ghione (2004) Le Geometrie della visione, Springer-Verlag Italia, Milano [3] L. Catastini (2004) Il giardino di Desargues, BUMI, serie VIII,Vol.VII-A, pag. 321-346 [4] L. Catastini, F. Ghione Nella mente di Desargues, in corso di stampa sul BUMI, sez. A
Stelle GIAN MARCO TODESCO
Ho appena finito un piccolo origami. L’origami è l’arte che permette di ottenere un’impressionante varietà di figure piegando dei fogli di carta. Io sono partito da 12 fogli quadrati. Li ho piegati e incastrati fra loro in modo da ottenere un ottaedro: una piccola stella di carta colorata. I poliedri, ovvero il vastissimo insieme delle figure solide delimitate da facce piane, a cui la mia piccola stella appartiene, sono oggetti in qualche senso universali. La loro bellezza ce li fa ritrovare spesso anche fuori dai libri di matematica: ad esempio nella storia dell’arte o nella forma di molti oggetti di uso comune. Nelle pagine seguenti esploreremo una piccola parte della sterminata tassonomia dei poliedri: ci occuperemo infatti di quelli a forma di stella. Invece della carta piegata utilizzeremo il computer e con l’aiuto delle immagini digitali sperimenteremo il procedimento matematico chiamato stellazione. Passeremo in rassegna alcuni poliedri stellati cercando di comprenderne le parentele. Infine faremo una breve tappa nel mondo più esotico delle figure quadridimensionali. Quello è un firmamento ancor più ricco di stelle anche se sarà necessario qualche sforzo in più per riuscire a crearsene un’immagine mentale.
Le stellazioni dei solidi platonici Cominciamo la nostra esplorazione partendo dai poliedri più semplici: i poliedri regolari (Fig. 1), ovvero i poliedri convessi delimitati da poligoni regolari uguali e che presentano lo stesso numero di facce attorno ad ogni vertice1. Questi poliedri sono descritti da Platone nel Timeo e per questo motivo vengono in genere chiamati solidi platonici. Essi sono il tetraedro, il cubo, l’ottaedro, l’icosaedro e il dodecaedro. Platone associava i primi quattro agli elementi naturali che si riteneva costituissero il mondo: rispettivamente fuoco, terra, aria e acqua. Il dodecaedro rappresentava l’intero universo. È abbastanza facile (e piuttosto divertente) costruire dei modelli di cartoncino dei 5 solidi. Si tratta di ritagliare tutte le facce e poi unirle lungo i bordi con colla o nastro adesivo. Per la nostra esplorazione bisogna invece costruire un
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Le definizioni matematiche sono spesso più complicate del previsto nello sforzo di escludere le entità estranee. Ad esempio, in questa definizione di solido regolare, l’ultima richiesta proibisce oggetti come il poliedro delimitato da sei triangoli equilateri formato da due piramidi a base triangolare incollate fra loro. Vedremo in seguito quali bellissimi poliedri vengano esclusi dalla richiesta che la superficie non si autointersechi.
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Fig. 1. I cinque solidi platonici: tetraedro, ottaedro, cubo, dodecadro e icosaedro 44
modello “pieno”. Sfruttando il fatto che i solidi platonici sono convessi (i piani che passano per le facce lasciano il solido tutto dalla stessa parte) posso pensare di “affettare” il modello a partire da una massa di materiale idoneo. Una patata si presta particolarmente bene. Con un coltello affilato posso fare un certo numero di tagli e ricavare dalla patata qualunque poliedro convesso. Ovviamente per ottenere un solido regolare devo calcolare con la massima esattezza gli angoli fra un taglio e l’altro, ma andando ad occhio è senz’altro possibile ottenere, ad esempio, un poliedro delimitato da 12 facce pentagonali. Un opportuno programma permette di simulare su un computer il procedimento sopra descritto, mantenendo un controllo preciso sugli angoli. Molte figure in queste pagine sono realizzate per l’appunto con questo programma2. Se immaginiamo di rimettere a posto i pezzi dopo ogni taglio (oppure di effettuare tutti i tagli contemporaneamente) ci rendiamo conto che alla fine i tagli avranno generato un gran numero di pezzi dalla forme più strane attorno al solido centrale (Fig. 2). Fra i pezzi prodotti, alcuni, i più esterni, arrivano fino alla buccia della patata, mentre altri, fra cui il pezzo centrale, sono interamente delimitati dai tagli del coltello. Se la patata iniziale è abbastanza grande rispetto alla distanza fra i tagli allora il fatto che un pezzo arrivi alla buccia non dipende dalle dimensioni della patata, ma solo dalla posizione del pezzo rispetto ai vari tagli. Supponiamo che la patata sia molto grande e decidiamo di buttare via tutti i pezzi con la buccia. 2
Per gli amanti della programmazione: le animazioni interattive presentate durante la conferenza sono generate da un programma scritto in C++/OpenGL. Per creare le immagini presenti in questo articolo (statiche, ma di qualità superiore) è stato utilizzato il ray-tracer PovRay. Tutti i programmi sono stati realizzati dall’autore.
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Fig. 2. I “frammenti” ricavati dal taglio del dodecaedro
Facendo i tagli per ottenere il tetraedro o il cubo, e buttando via i pezzi con la buccia, rimane il solo pezzo centrale: per l’appunto il tetraedro o il cubo. L’ottaedro invece lascia otto tetraedri attorno a sè. Incollando questi tetraedri all’ottaedro otteniamo un bel poliedro stellato. Si tratta della stella octangula (Fig. 3), un solido citato da Luca Pacioli (1445-1514) nel suo famoso libro De Divina Proportione. Come vedremo anche in seguito, è caratteristico di questi solidi permettere più di un’interpretazione geometrica. Ad esempio è possibile immaginare la stella octangula come composizione di due grandi tetraedri incastrati fra loro. Gli otto vertici dei due tetraedri coincidono con i vertici del cubo circoscritto alla stella. Con il dodecaedro la situazione si complica. Fatti i tagli ed eliminate le “bucce” rimangono 62 frammenti attorno al nucleo centrale. Se li incollo tutti il solido risultante è una bella stella con 20 aguzze piramidi a base triangolare che si uniscono lungo la superficie di un icosaedro.
Fig. 3. La stella octangula
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Questo solido si chiama grande dodecaedro stellato. Il nome racconta diverse cose interessanti. Il termine “dodecaedro stellato” fa pensare a 12 facce stellate, e in effetti questo poliedro, delimitato da 60 triangoli, può essere pensato come delimitato da 12 facce ognuna delle quali a forma di stella a cinque punte. Val la pena osservare che, se nelle nostre definizioni di poligono e di poliedro regolare non imponiamo che la curva o la superficie sia semplice (ovvero che non si autointersechi), allora il grande dodecaedro stellato diventa a pieno titolo un solido regolare e il numero di solidi regolari passa da 5 a 9. I quattro nuovi solidi, di cui il grande dodecaedro stellato fa parte, si chiamano poliedri di Keplero-Poinsot (Fig. 4). Nonostante la loro grande bellezza, erano sconosciuti al mondo antico e sono stati scoperti soltanto a partire dal quindicesimo secolo. Rimane da interpretare l’aggettivo “grande”, che fa – ovviamente – pensare ad un piccolo dodecaedro stellato. In effetti anche quest’ultimo esiste ed è un altro dei poliedri di Keplero-Poinsot. C’è una stretta parentela fra il piccolo e il grande dodecaedro stellato, formati dallo stesso numero di facce dalla stessa forma, ma incollate in due modi diversi. Fra i frammenti che orbitano attorno al dodecaedro ci sono 12 piramidi a base pentagonale. Incollando queste piramidi sulle 12 facce del dodecaedro otteniamo proprio il piccolo dodecaedro stellato. Sul pavimento della basilica di San Marco a Venezia c’è un intarsio marmoreo, attribuito a Paolo Uccello (1397-1475), che raffigura questo solido. Le 12 piramidi formano una specie di guscio che nasconde completamente il dodecaedro. Anche gli altri frammenti possono essere raggruppati in gusci, ognuno dei quali ricopre completamente il precedente. I frammenti del dodecaedro formano tre gusci, mentre l’icosaedro, assai più ricco, ne conta sette. Ovviamente possiamo raggruppare i frammenti in molti altri modi ottenendo una grande varietà di poliedri. Un raggruppamento che non lasci pezzi isolati e che mantenga la stessa simmetria del solido di partenza si chiama stellazione. L’icosaedro vanta ben 59 stellazioni differenti. Vediamone un paio.
Fig. 4. I poliedri di Keplero-Poinsot: grande dodecaedro stellato, piccolo dodecaedro stellato, grande dodecaedro, grande icosaedro. Nella riga in basso è esposta una faccia
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Fig. 5. Poliedro composto formato da cinque tetraedri. Questa figura è una delle 59 stellazioni dell’icosaedro
Il grande icosaedro è un altro dei poliedri di Keplero-Poinsot. È strettamente imparentato con l’icosaedro. Oltre ad esserne una stellazione, ha lo stesso numero di vertici, nelle stesse posizioni, ed è formato, come l’icosaedro, da 20 facce a forma di triangolo equilatero. Le facce però sono più grandi e si intersecano fra loro. Il solido è formato dai pezzi che stanno nel penultimo “guscio” dell’icosaedro. L’ultimo poliedro che prendiamo in considerazione è composto da pezzi provenienti da diversi gusci. Come la stella octangula, questa bellissima stellazione è composta da tetraedri, in questo caso cinque. I venti vertici dei cinque tetraedri coincidono con i vertici di un dodecaedro circoscritto (Fig. 5).
La quarta dimensione Abbiamo visto come la stella a cinque punte, o pentagramma3, possa essere considerata la forma delle facce di alcuni poliedri stellati. Questa figura piana è essa stessa il risultato di una stellazione in due dimensioni: facendo cinque lunghi tagli per ricavare un pentagono da un foglio di carta si formano, fra gli altri, 5 frammenti triangolari che, uniti al pentagono, formano la stella a cinque punte4. Il procedimento di stellazione è applicabile quindi in due come in tre dimensioni. I matematici adorano le generalizzazioni e tendono a pensare che non ci possa essere tre senza quattro. Con l’aiuto del computer (e della nostra fantasia) possiamo provare ad esplorare le stellazioni in quattro dimensioni. La quarta dimensione, in questo contesto, è una pura dimensione spaziale, perfettamente analoga alle tre che ben conosciamo. Non ci riferiamo, quindi, allo spazio tempo, in cui la quarta dimensione ha caratteristiche differenti dalle prime tre.
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Il termine pentagramma è più frequentemente usato per indicare il rigo musicale, anch’esso composto da 5 linee. La stella a cinque punte veniva chiamata pentagramma o anche pentalfa. Questo simbolo contiene il rapporto aureo come rapporto fra la lunghezza dei vari segmenti che lo compongono e, anche per questo, era particolarmente caro ai pitagorici. Ma la sua storia è molto più antica: pentagrammi compaiono in iscrizioni risalenti a 5000 anni fa.
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Ovviamente il nostro cervello tridimensionale può solo intuire, ma non immaginare una quarta dimensione spaziale. D’altro canto una quarta direzione perpendicolare alle prime tre non crea alcuna contraddizione logica e quindi la geometria quadridimensionale è un argomento di studio (e di gioco) perfettamente legittimo. In effetti fin dal diciannovesimo secolo i matematici studiano la geometria oltre la terza dimensione. Pensiamo alla sequenza punto, segmento, quadrato e cubo. Come il segmento è delimitato da due punti, il quadrato da quattro segmenti e il cubo da sei quadrati (Fig. 6), così esiste una figura quadridimensionale delimitata da otto cubi. Questa figura viene chiamata tesseratto, dalle parole greche che significano quattro assi (Fig. 7). Le figure quadridimensionali delimitate da poliedri hanno ricevuto molti nomi, nessuno dei quali si è universalmente affermato. Uno dei più diffusi è policoro5, per analogia con poliedro. Cho¯ra¯ significa spazio, e il policoro è delimitato da iperfacce tridimensionali, cioè spaziali. Queste iperfacce vengono chiamate in genere celle. Un tesseratto è quindi un policoro delimitato da otto celle cubiche. I policora regolari, ovvero i policora le cui celle sono poliedri regolari uguali, disposti sempre nello stesso modo attorno ad ogni vertice, sono ben sei: i corrispondenti dei 5 solidi platonici più una figura completamente nuova delimitata da 24 ottaedri. I sei policora regolari vengono chiamati (in maniera piuttosto pedissequa) 5celle, 8-celle, 16-celle, 24-celle, 120-celle e 600-celle. L’8-celle, essendo il più famoso, ha diritto a qualche nome in più, ad esempio tesseratto oppure, in maniera un po’ impropria, ipercubo. Per tutti è sempre possibile usare i nomi di derivazione greca, ad esempio esacosicoro per il 600-celle. Per visualizzare questi enti geometrici abbiamo più o meno gli stessi strumenti che utilizziamo per rappresentare i poliedri: possiamo costruirne gli sviluppi, generarne delle immagini in prospettiva o possiamo studiarne le sezioni. L’ultimo sistema si usa in genere per ottenere precise rappresentazioni analitiche di una forma tridimensionale. La risonanza magnetica, ad esempio, permette di ottenere delle accurate immagini degli organi interni sotto forma di tante fette parallele. Un altro esempio è rappresentato dalle carte geografiche: le curve di livello corrispondenti ad una certa quota rappresentano il contorno di una fetta orizzontale del profilo montuoso; l’insieme di tutte le linee di livello, a diverse quote, permette di cogliere l’aspetto tridimensionale della regione raffigurata. Il sistema delle sezioni richiede uno sforzo di visualizzazione superiore rispetto alla rappresentazione prospettica, ma questa può essere utilizzata con efficacia solo in pochi casi. Ad esempio quando siamo interessati alla sola superficie esterna di un oggetto opaco e quando la forma generale dell’oggetto è sufficientemente chiara da permettere al nostro cervello di ricostruire le parti “nascoste” del disegno. Le sezioni invece sono uno strumento molto versatile che funziona anche in condizioni difficili. Noi lo utilizzeremo per rappresentare oggetti a quattro dimensioni. Prima di cominciare a sezionare (nella nostra mente) le figure a quattro dimensioni è utile familiarizzarsi con le sezioni di semplici figure geometriche tri-
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Il termine politopo, molto più diffuso, indica il generico “poliedro” a N dimensioni. Un poligono è quindi un politopo 2-dimensionale, mentre un policoro è un politopo 4-dimensionale.
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Fig. 6. Il cubo: sviluppo e rappresentazione prospettica
Fig. 7. Il tesseratto: sviluppo e rappresentazione prospettica
dimensionali. Ad esempio è facile convincersi che le sezioni di una sfera sono dei cerchi di varie dimensioni. Delle immaginarie creature bidimensionali, abitanti di un universo piatto, che si trovassero di fronte ad una sfera tridimensionale che attraversa il loro universo vedrebbero dapprima comparire un singolo punto. Il punto si trasformerebbe poi in un piccolo cerchio, sempre più grande fino ad arrivare ad una dimensione massima. Il cerchio comincerebbe poi a rimpicciolire fino a ridursi ad un punto e poi sparire del tutto. Questa scena immaginaria parafrasa uno degli episodi salienti di Flatlandia, un romanzo scritto da Edwin A. Abbot (1838-1926) nel 1882. Il protagonista, una creatura bidimensionale a forma di quadrato, incontra una sfera che lo ispira a riflettere sulle dimensioni del suo spazio, ipotizzando una terza dimensione e dopo di questa una quarta, una quinta, eccetera. Riflettere sui problemi che una mente bidimensionale (in senso geometrico) incontrerebbe cercando di crearsi delle immagini mentali dei poliedri rappresenta un eccellente strumento per aiutarci a visualizzare gli oggetti quadridimensionali. Della sfera che attraversa il loro mondo gli abitanti di Flatlandia vedono solo le sezioni: tanti cerchi di differenti dimensioni. Un cubo può generare sezioni differenti a seconda di come è orientato. Se ha una faccia parallela al piano di Flatlandia, allora le sezioni saranno quadrati tutti uguali. Con altre inclinazioni ci saranno triangoli, quadrilateri, pentagoni ed anche esagoni (Fig. 8).
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Fig. 8. Sezioni del cubo rispetto a dei piani perpendicolari ad una diagonale
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Fig. 9. Sezioni del tesseratto
Una sequenza ancora più complessa si ottiene sezionando un poliedro concavo, ad esempio il grande icosaedro. Il primo contatto con il piano potrebbe avvenire in più di un punto. Ad esempio tre delle 20 punte aguzze che adornano il solido potrebbero formare tre sezioni distinte, ognuna a forma di stella a cinque punte. Con il progredire del passaggio le tre stelle diventerebbero sempre più grandi fino a fondersi in una grande figura complicata ricca di punte. E le sezioni di oggetti quadridimensionali? Se le sezioni dei poliedri sono poligoni allora le sezioni dei policora saranno dei poliedri. Se per esempio un tesseratto scivolasse attraverso la nostra Spacelandia (lo spazio tridimensionale in cui viviamo), noi vedremmo comparire all’improvviso un cubo, che rimarrebbe immobile per qualche tempo per poi sparire in maniera altrettanto improvvisa. Ho supposto che una cella del tesseratto sia parallela al nostro spazio. Con una diversa inclinazione potremmo veder comparire un tetraedro che si trasformerebbe in un solido limitato da esagoni e triangoli che subirebbe altre trasformazioni fino a tornare un tetraedro, rimpicciolirsi e sparire (Fig. 9). Il programma che genera le sezioni può “affettare” qualunque policoro. Val la pena di metterlo alla prova con un modello più complicato del tesseratto. Un
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modello ambizioso è l’equivalente quadridimensionale del grande icosaedro. Partiamo dal 600-celle: con le sue 600 celle a forma di tetraedro regolare questo policoro corrisponde all’icosaedro (che è limitato da 20 facce a forma di triangolo equilatero). Il grande icosaedro, come abbiamo visto prima, è un poliedro non convesso con gli stessi vertici dell’icosaedro. Le facce sono sempre 20 triangoli, ma collegati in modo diverso e intrecciati fra loro. In maniera perfettamente analoga è possibile realizzare un policoro non convesso delimitato da 600 tetraedri intrecciati. Questa figura si chiama granesacosicoro (o gax secondo l’accattivante notazione stenografica inventata da Jonathan Bowers 6). L’unico modo che abbiamo per apprezzare la forma di questa figura è ricavarne delle sezioni. Diamo quindi il modello in pasto al programma. Muovendo il mouse possiamo simulare il passaggio del granesacosicoro attraverso il nostro spazio: dal nulla compare un grande icosaedro, affiancato quasi subito da 12 piccole repliche che si fondono al corpo centrale formando una struttura estremamente complessa, ma gradevolmente simmetrica. In queste pagine sono riportate alcune immagini estratte dalla sequenza (Fig. 10).
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Fig. 10. Sezioni del granesacosicoro
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George Olshevsky, Jonathan Bowers, Bruce Chilton sono i principali artefici dell’Uniform Polychora Project nell’ambito del quale sono stati classificati più di 8000 policora.
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Sullo schermo del computer il movimento è particolarmente efficace nel rappresentare l’inaccessibile quarta dimensione e le evoluzioni del modello danno vita ad un caleidoscopio tridimensionale in cui è piacevole smarrirsi.
Letture consigliate E.A. Abbott (1996) Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni, ed. italiana a cura di M. d’Amico, Milano, Adelphi, (il testo in lingua inglese è disponibile in http://www.geom.uiuc.edu/~banchoff/Flatland/) A.K. Dewdney (1984) The planiverse: computer contact with a two-dimensional world, New York, Poseidon Books T.F. Banchoff (1993) Oltre la terza dimensione. Geometria, computer graphics e spazi multidimensionali, Bologna, Zanichelli H.S.M. Coxeter (1973) Regular Polytopes, 3° ed., New York, Dover W.W.R. Ball, H.S.M. Coxeter (1987) Mathematical Recreations and Essays, 13° ed., New York, Dover
Siti web consigliati
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R. Webb Stellated Polyhedra http://web.aanet.com.au/robertw/Stellations.html V. Bulatov Polyhedra Stellation http://www.physics.orst.edu/~bulatov/polyhedra/stellation/index.html D.A. Fontaine Polyhedra Pages Index http://davidf.faricy.net/polyhedra/ G. Hart Virtual Polyhedra http://www.georgehart.com/virtual-polyhedra/vp.html Polychoron, Wikipedia http://en.wikipedia.org/wiki/Polychoron Bowers, Jonathan, Uniform polychora http://hometown.aol.com/hedrondude/polychora.html G. Olshevsky Uniform Polytopes in Four Dimensions http://hometown.aol.com/Polycell/uniform.html M. Newbold Hyperspace Star Polytope Slicer http://dogfeathers.com/java/hyperstar.html R. Towle Russel Towleís 4D Star Polytope Animations http://dogfeathers.com/towle/star.html POV-RAY, The persistence of Vision Raytracer http://www.povray.com
matematica e Venezia
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Un epsilon piccolo a piacere: le murrine veneziane e muranesi GIOVANNI SARPELLON
Mai dire mai… Mai avrei pensato di dover un giorno parlare a un convegno di matematici. Non ho nulla contro i matematici, sia chiaro. È con la matematica, piuttosto, che non ho mai avuto buoni rapporti, soprattutto da quando, partendo con quel poco che avevo imparato al liceo classico, ho dovuto, all’università, affrontare l’analisi, la matematica finanziaria e infine anche quella attuariale. Mi brucia ancora quel dodici (allora si usava ancora…) che presi al primo tentativo. Una cosa, comunque, non ho mai digerito e, precisamente, un paio di espressioni che tanto spesso si usano in quel gergo: nella dimostrazione di un teorema, prima o poi, salta sempre fuori un epsilon che diventa piccolo a piacere, così come, nei momenti più incomprensibili, il testo arriva al punto successivo per facili passaggi. Non ho mai provato alcun piacere a rimpicciolire un epsilon, né ho mai trovato facili i passaggi non spiegati che conducono alla dimostrazione finale! Questa è l’occasione della mia rivincita e posso mostrare ai matematici il mio epsilon che, per facili passaggi, diventa davvero piccolo a piacere: le murrine.
Come si fa una murrina Le murrine, in senso molto generale, sono dei dischetti di vetro che al loro interno contengono un qualsiasi disegno. Questi dischetti si ottengono tagliando a fettine una bacchetta di vetro la quale, in tutta la sua lunghezza, contiene il medesimo disegno. Per meglio far comprendere come questo disegno possa essere sia una semplice ruota dentata, sia un dettagliatissimo ritratto di una persona, è opportuno illustrare anzi tutto modalità e fasi della costruzione di una bacchetta di vetro (per la quale, a Murano come in questo testo, si usa il termine “canna”). Il lavoro comincia scaldando sulla bocca del forno di fusione la parte terminale di un’asta di ferro lunga circa un metro e mezzo e di spessore variabile secondo la grossezza della canna che si deve preparare; con questa asta il servente (assistente del maestro) raccoglie dalla paela (crogiolo) la quantità necessaria di vetro e, rotolandola sopra il bronzino (una spessa lastra di ferro), la riduce a un cilindro (questa operazione è detta marmorizzare, facendoci ritenere che un tempo al posto della lastra di ferro si usasse un marmo ben levigato); ciò fatto, la pas-
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sa al maestro (detto scagnèr) che perfeziona il cilindro, lo riscalda di nuovo portandolo alla temperatura necessaria e vi attacca all’altra estremità la conzaura, che è un’altra asta di ferro, più corta della precedente, a una estremità della quale è stata preparata una corona di vetro incandescente. Le due aste passano quindi nelle mani dei due tiradori che, camminando (o correndo) in direzione opposta, stirano il cilindro riducendolo a una canna della grossezza voluta. La lunghezza della canna può arrivare anche oltre cento metri e naturalmente varia in ragione del diametro voluto a lavoro finito. Via via che viene tirata, la canna si raffredda e finisce per essere appoggiata al suolo, dove sono state preparate delle assicelle di legno che ne impediscono il contatto con il terreno. La canna viene infine tagliata in pezzi, di solito lunghi un metro, raccolta in fasci e accantonata per le successive lavorazioni. La preparazione di una canna a più colori è molto simile. Dopo aver formato il primo cilindro, si ritorna al forno per immergere il vetro in una seconda paela e successivamente in altre, dopo aver provveduto a marmorizzare il cilindro sul bronzino a ogni aggiunta di colore. In questo modo si ottiene una canna a fasce concentriche di vario colore. È inoltre possibile arricchire ulteriormente la canna a più colori facendo uso di appositi stampi aperti superiormente che hanno all’interno delle costolature verticali: dopo ogni levada (aggiunta) di colore, si infila il cilindro nello stampo che trasmette così la propria forma al vetro ancora molle; con l’ultima levada la massa di vetro assume di nuovo la forma a sezione circolare, permettendo così di ottenere poi una canna circolare. È necessario a questo punto fare due osservazioni che risulteranno utili in seguito. Anzitutto si deve notare che, facendo uso di stampi adeguati, si possono tirare canne con sezioni di qualsiasi forma, anche se l’operazione risulta molto più delicata. In secondo luogo, bisogna fermare l’attenzione sul fatto che il cilindro a fasce concentriche (e quindi poi la canna) ripete in ogni sua sezione lo stesso disegno per cui, tagliando la canna in qualsiasi punto, apparirà sempre un cerchio centrale circondato da tante corone circolari quante erano le successive fasce di colore che avevano formato il cilindro di partenza (Fig. 1). Avendo a disposizione un certo numero di canne semplici del tipo appena decritto, è poi possibile costruire una canna complessa. Con un filo di rame si legano assieme alcune canne semplici, formando il disegno voluto, e poi si riscaldano molto lentamente fino a che il vetro si rammollisce al punto da poter essere nuovamente stirato. Ripetendo più volte l’operazione con canne sempre più complesse, si può costruire una canna composta da decine di canne semplici: Giovanni Franchini, come vedremo, è arrivato a comporne una di oltre 150 elementi. Caratteristica comune di questo tipo di canne (anche delle più complesse) è di essere di norma a disegni concentrici, perché tutto si raccoglie attorno a un cilindro centrale. La massa di vetro da sottoporre alla tiratura può tuttavia essere formata anche in maniera diversa. Particolarmente belle (e famose) sono le canne la cui sezione contiene una spirale a più colori, che già in epoca romana venivano usate per imitare la forma dell’agata-calcedonio e che saranno di nuovo usate da Vincenzo Moretti nel XIX secolo. Per fare questo tipo di canna si prepara anzitutto una striscia rettangolare di un dato colore, alla quale si sov-
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Fig. 1. Preparazione di una canna. Figura in alto: a Immersione di uno stampo a stella; b Canna a forma di stella; c Aggiunta di vetro in stampo cilindrico; d Immersione nello stampo silindrico; e Canna cilindrica con stella al centro. Figura in basso: a Preparazione di una canna a stella; b Assemblaggio delle singole canne; c Fusione a caldo in un’unica canna
rappone subito un’altra striscia di un altro colore; si provvede poi ad arrotolare il vetro e ad attaccare il cilindro così formato a due conzaure e a tirare la canna. Questo procedimento, che richiede una maggiore abilità dei precedenti, nasconde una terribile insidia per il vetraio: le bolle d’aria. È infatti facile che sia nella sovrapposizione dei due strati di vetro, sia nell’arrotolamento della pasta vitrea si insinuino delle bolle d’aria che, una volta tirata la canna, si allungheranno in altrettanti lunghissimi fori che risulteranno evidenti ad ogni sezione della bacchetta. Le canne complesse (formate dall’unione di più canne), oltre alle bolle d’aria, temono poi un altro pericolo. È infatti necessario che l’intera massa di vetro sia riscaldata alla medesima temperatura in modo da avere ovunque la stessa pastosità e poter quindi assottigliarsi uniformemente per effetto della successiva ti-
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ratura. In caso contrario, alcune canne termineranno prima di altre e, oltre a risultare più grosse del previsto (essendosi allungate meno delle altre), faranno sì che il disegno della canna finale, a partire da un certo punto, risulti incompleto. Esiste poi un altro modo, ancora più difficile, di preparare una canna a disegno non concentrico, come ad esempio un fiore, un animale, un volto. Prelevata con l’asta di ferro la quantità necessaria del primo colore, dopo averla marmorizzata sul bronzino e quindi raffreddata un po’, si provvede a ridurla uniformemente nella forma desiderata per tutta la sua lunghezza, facendo bene attenzione che la sezione della canna così ottenuta rimanga sempre uguale. Volendo, per esempio, costruire un fiore a tre petali, si potrebbe preparare anzitutto una canna la cui sezione abbia la forma del primo petalo. Presa poi con un’altra asta di ferro una seconda quantità di vetro, le si fa assumere allo stesso modo la forma del secondo petalo e, accostandolo al primo - mantenuto caldo - li si salda assieme. L’operazione viene infine ripetuta per la terza volta, ottenendo così i tre petali uniti. A questo punto si può preparare un paio di canne a forma di foglie, una a forma di gambo e saldare progressivamente tutto assieme. Con del vetro di uno stesso colore si riempiono poi un po’ alla volta gli spazi vuoti, fino a formare il solito cilindro che, attaccato a una seconda conzaura, verrà tirato e ridotto al diametro voluto. Le difficoltà di questa procedura sono molto evidenti. Bisogna lavorare con vetro caldo (e quindi tenero) che non può essere lasciato penzolare né può essere appoggiato su un supporto senza pericolo di venir deformato; gli strati di vetro che via via vengono aggiunti si sovrappongono ai precedenti, nascondendo il disegno che si sta formando; la massa vetrosa in lavorazione va mantenuta costantemente alla stessa temperatura; a ogni accostamento di una nuova porzione di colore c’è il rischio di inglobare anche dell’aria. Per superare, almeno in parte, alcune di queste difficoltà si possono adottare alcuni accorgimenti. Supponendo di dover costruire il fiore dell’esempio precedente, si possono preparare degli stampi aperti superiormente fatti in modo che le loro sezioni abbiano la forma dei vari elementi del fiore: un petalo, una foglia, il gambo. Colando entro lo stampo del vetro liquido, con una conzaura se ne possono estrarre, una dopo l’altra, le tre canne a forma di petalo e attaccarle insieme; similmente, da un altro stampo, si ricaveranno, perfettamente sagomate, le due lingue a forma di foglia e infine quella del gambo. Il fiore così formato verrà infine contornato con del vetro di riempimento, formando la canna. Dopo aver tirato la canna e averla tagliata in tante fettine, si otterranno altrettante murrine raffiguranti il fiore a tre petali. Il rametto di rosa di Giacomo Franchini, di cui parleremo più avanti (Fig. 2), è stato sostanzialmente costruito in questo modo. Se la murrina che si vuole costruire è più complessa, il numero degli stampi potrebbe diventare troppo elevato. In ogni stampo, inoltre, si versa normalmente vetro di un solo colore e quindi l’uso degli stampi è conveniente nei casi in cui il disegno sia composto da poche sezioni di colore diverso. Quando il disegno da comporre è più complesso, conviene procedere per stadi successivi, preparando secondo uno dei sistemi precedenti varie canne contenenti ciascuna una parte del disegno finale. Quando tutto il lavoro preparatorio è terminato, attorno a un nucleo centrale si saldano via via i vari elementi pre-
Un epsilon piccolo a piacere: le murrine veneziane e muranesi
Fig. 2. Giacomo Franchini, 1843-1845, murrina della rosa: bocciolo (L 10 mm), stelo (L 8 mm), rosa (∅ 5-8 mm)
parati (dopo averli gradatamente riportati alla temperatura del vetro tenero), aggiungendo dove necessario vetro preso direttamente dal forno. Questa tecnica, che si potrebbe definire mista, è una sintesi delle tecniche precedenti, richiedendo l’uso di canne precedentemente preparate, di stampi e di vetro prelevato direttamente dal forno. In questo modo è stata realizzata la murrina finora forse più famosa: il pavone di Giuseppe Barovier (Fig. 3). Il riferimento alla possibilità di utilizzare canne precedentemente sagomate facendo uso di stampi introduce la spiegazione del modo di realizzare un altro tipo di canna: la canna – mosaico. Questo metodo, infatti, è in qualche modo derivato dalla tecnica dei mosaicisti. Facendo uso di piccoli cubi o parallelepipedi di varia forma, i mosaicisti compongono i loro disegni, che vengono poi cementati su supporti di varia natura. Se al posto dei piccoli pezzi di mosaico si adoperano sottili canne di vetro della forma e del colore necessario, si possono preparare dei “mosaici” che hanno uno spessore non di uno, ma di 15-20 centimetri. Questo “mosaico”, tenuto assieme da opportuni legacci di rame, può essere riscaldato molto lentamente, fino a che il vetro riacquista plasticità. Aumentandone progressivamente la temperatura, il vetro arriva al punto in cui può essere stirato, dando vita a una lunga canna. Questa tecnica richiede un grande lavoro di preparazione: più sottili sono le canne di partenza, più accurato sarà il disegno finale, risultando meno evidenti i confini fra una canna e l’altra. Molta attenzione richiede inoltre il progressivo riscaldamento del mosaico che, non so-
Fig. 3. Giuseppe Barovier, 1913, pavone, ∅ 28 mm
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lo deve essere lento, ma anche uniforme, per non dar luogo agli inconvenienti precedentemente ricordati. I ritratti preparati da Luigi Moretti sono stati eseguiti secondo questa tecnica (Figg. 4-8).
Fig. 4. Luigi Moretti, 1888, ritratto di V. Moretti, ∅ 20 mm
Fig. 5. Luigi Moretti, 1888, Vittorio Emanuele II, ∅ 27 mm
Fig. 6. Luigi Moretti, 1888, Umberto I, ∅ 20 mm
Fig. 7. Luigi Moretti, 1888, Garibaldi, ∅ 17 mm
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Fig. 8. Luigi Moretti, 1892, Cristoforo Colombo, ∅ 24 mm
Un epsilon piccolo a piacere: le murrine veneziane e muranesi
Giovanni Battista e Giacomo Franchini L’abilità di fare murrine è molto antica: gli scavi archeologici hanno riportato alla luce un bicchiere prodotto tremila anni fa nel nord-ovest dell’Iran, sulla superficie del quale appare cinque volte una figura umana composta con l’accostamento e rifusione di murrine. Il periodo di maggior splendore di quest’arte si situa nel Quarto e Terzo secolo avanti Cristo, si prolunga fino al Primo secolo e ha come luogo di maggiore e migliore produzione le fornaci di Alessandria d’Egitto e quelle romane. L’invenzione della canna da soffio (che ha luogo nel secolo attorno all’inizio dell’era cristiana) fece andare in disuso questa tecnica complicata e costosa che, dopo una breve riapparizione a Murano verso la fine del XV secolo, conobbe un nuovo periodo di splendore verso la metà dell’Ottocento quando due perlai veneziani, Giovanni Battista Franchini e suo figlio Giacomo, vollero sfidare gli antichi e dettero vita ad una incredibile serie di vere miniature di vetro fra le quali si possono ammirare alcuni ritratti tanto minuti quanto perfetti. Giovanni Battista Franchini (1804-1873) non fu un semplice artigiano, ma un imprenditore molto capace, sempre pronto a cercare la strada dell’eccellenza attraverso l’innovazione: le sue perle furono fra le più belle di quelle prodotte nella metà dell’Ottocento. Ma la ragione per la quale egli deve ora essere ricordato è la sua idea di produrre, usando gli strumenti del perlaio, delle nuove canne millefiori allo scopo di utilizzarle per farne delle spille di nuovo tipo. L’intuizione che, tuttavia, portò Giovanni Battista Franchini, e poi suo figlio Giacomo, a raggiungere un risultato eccezionale fu quella di fare delle canne che, invece dei semplici disegni geometrici dei millefiori, avrebbero potuto avere altri disegni, come animali, rose, gondole e, alla fine, dei veri e propri ritratti. Lo sviluppo tecnico è, in astratto, molto semplice. Per costruire una canna con al centro una stella basta avere a disposizione uno stampo a forma di stella nel quale inserire la massa morbida del vetro caldo. Per costruire una canna con otto stelle basta unire una all’altra otto canne con una stella, amalgamare bene la nuova canna sotto l’azione del fuoco e poi tirarla fino a raggiungere il diametro desiderato. Con questa tecnica Franchini ottenne risultati mai prima raggiunti, riuscendo a produrre una lunga serie di canne millefiori molto belle e molto complesse (Fig. 9). Dopo questo primo risultato, il fascino delle murrine toccò anche il giovane Giacomo (1827- 1897) che si dedicò anima e corpo a questa entusiasmante impresa. L’idea geniale dei Franchini (semplice, come tutte le cose geniali) fu di preparare, dopo quelli a forme geometriche, altri stampi delle forme più varie (come un cane, un’anatra, un cavallo…) e di preparare quindi delle canne che contenevano al loro interno varie figure semplici. Allo stesso modo essi prepararono l’intera serie delle lettere dell’alfabeto e dei numeri e furono così in grado di fare delle nuove canne con nomi, date, sigle (Fig. 10). La strada era aperta per nuove esperienze e in esse si lanciò Giacomo al quale il padre lasciò volentieri il campo. Per comporre disegni più complessi, Giacomo procedette per fasi successive. Dopo aver scomposta la figura da realizzare nei suoi particolari elementari, costruiva le cannelle corrispondenti. Queste venivano poi assemblate progressiva-
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Fig. 9. Giovanni B. Franchini, 18401843, millefiori, ∅ 7-9 mm
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mente, saldandole assieme sotto l’azione della fiamma, finendo così per ricomporre il disegno, contenuto tutto in un’unica canna. In questo modo Giacomo compose delle murrine di rara bellezza, fra le quali spiccano dei ramoscelli di rosa (Fig. 2), un quarto di luna contornata da bianche stelline, un sole raggiante (Fig. 11). A queste fece poi seguito una parata di gondole (Fig. 12) che, pur misurando da 6 a 8 millimetri, sono perfette anche nei particolari più minuti, come il ferro di prua e le forcole. Le murrine di Giacomo Franchini sono infatti tutte incredibilmente piccole e solo raramente hanno il diametro superiore a un centimetro. Le murrine millefiori furono prodotte negli anni 1840-1843, mentre le prime murrine figurate appaiono fra il 1843 e il 1845.
Fig. 10. Giacomo Franchini, 1843-1845, sigle e date, ∅ 7-12 mm
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Fig. 11. Giacomo Franchini, 1843- 1845, murrina della luna: quarto di luna (L 12 mm), occhio della luna (L 8 mm), luna (∅ 5-8 mm); sole (∅ 6-8 mm) 63
Fig. 12. Giacomo Franchini, 1843-1846, gondole, ∅ 7-15 mm
Un bellissimo esempio di questo genere di produzione è la murrina con il ponte di Rialto (realizzata fra il 1847 e il 1848), che ha richiesto per la sua realizzazione la preparazione di un grande numero di canne elementari, che sono state poi progressivamente accostate per formare il disegno intero (Fig. 13). La precisione del disegno è totale: sull’arcata del ponte si distinguono, da una parte e dall’altra, le due file di archi che ospitano le botteghe, separate dal grande arco centrale. Ai lati del ponte sono due palazzi dei quali si può contare il numero delle finestre, mentre sullo sfondo, in perfetta prospettiva, si vedono il Fontego dei Tedeschi e il palazzo dei Camerlenghi; sotto il ponte scorre lentamente l’acqua del Canal Grande, increspata da un leggero vento che confonde i colori di ciò che vi
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Fig. 13. Giacomo Franchini, 1847-1848, Rialto, ∅ 11 mm
64 Fig. 14. Giacomo Franchini, 1845-1846, Angelina, ∅ 7 mm
si riflette. Il sole al tramonto, infine, colora il cielo di rosa e azzurro. Tutto questo nello spazio di pochi millimetri! La canna con il ponte di Rialto poteva già essere considerata un capolavoro; ma Giacomo volle andar oltre, tentando l’incredibile. Fra il 1845 e il 1846 egli aveva realizzato due murrine con il volto di una ragazza (di cui era probabilmente innamorato): Angelina (Fig. 14). Nel 1847 fece la canna con il volto di Pio IX, il papa che nei primi anni del suo regno aveva tanto entusiasmato i patrioti italiani. L’obiettivo successivo fu la costruzione di un vero e proprio ritratto. Per fare un ritratto in una murrina bisogna superare due particolari difficoltà, oltre alle consuete: ottenere la somiglianza con il soggetto e utilizzare vetro di diverse tonalità per dare il senso del volume al disegno. E questo Giacomo si impegnò a fare con il ritratto del re d’Italia, Vittorio Emanuele II. Era questo un lavoro estremamente complesso, che richiedeva la preparazione di un gran numero di canne semplici. Egli lavorò per quattro anni e alla fine, nel 1860, ottenne uno splendido risultato (Fig. 15). Dopo il Re, venne il suo generale, Garibaldi, ritratto in uniforme, fiocchi e alamari compresi. Anche di questo ritratto esistono diverse versioni (Fig. 16). E per
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Fig. 15. Giacomo Franchini, 1860, Vittorio Emanuele II, ∅ 5-7 mm
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Fig. 16. Giacomo Franchini, 1862, Garibaldi, ∅ 5-7 mm
completare questa piccola serie patriottica venne infine il ritratto del primo ministro della nuova Italia: Cavour (Fig. 17). A questo punto Giacomo Franchini volle dare una prova dei risultati estremi cui egli poteva arrivare con la sua nuova tecnica e riunì i tre protagonisti della nuova Italia in un’unica canna, ridotta al diametro assolutamente incredibile di 3 millimetri, senza che con questo venisse compromessa la nitidezza del disegno (Fig. 18). Dopo i tre italiani, Giacomo fece il ritratto di Napoleone III (Fig. 19), anch’esso preciso e dettagliato come i precedenti. L’incredibile galleria dei ritratti di Franchini si concluse, nel 1863, con quello dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe (Fig. 20). La carriera di Giacomo Franchini fu interrotta da una malattia mentale ed egli finì i suoi giorni nel manicomio dell’isola di San Servolo a Venezia. L’opera sua (e quella di suo padre) va ricordata nella storia del vetro non solo
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Fig. 17. Giacomo Franchini, 1862, Cavour, ∅ 6 mm
Fig. 18. Giacomo Franchini, 1862, Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Cavour, ∅ 3 mm
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Fig. 19. Giacomo Franchini, 1862, Napoleone III, ∅ 5-7 mm
Fig. 20. Giacomo Franchini, 1863, Francesco Giuseppe, ∅ 8 mm
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perché raggiunse una perfezione mai più uguagliata (in particolare i ritratti di Giacomo restano ancor oggi dei capolavori insuperati), ma anche perché i Franchini compirono queste meraviglie non in una fornace di Murano, ma nel loro laboratorio da perlaio, usando la piccola fiamma della lampada a olio ravvivata da un getto d’aria.
Vincenzo e Luigi Moretti Dopo la pionieristica opera dei Franchini, la lavorazione delle murrine raggiunse a Murano nuovo splendore con Vincenzo Moretti (1835-1901). Egli lavorava nella Venice and Murano Glass Company fondata da Salviati nel 1867 e ben presto si propose l’obiettivo di riprodurre le murrine di epoca romana che gli scavi archeologici di quel tempo stavano riportando alla luce. Il suo primo risultato venne nel 1873, con una serie di “canne mosaico” composte da un gran numero di canne semplici (Fig. 21). Queste canne furono fabbricate per essere utilizzare nella preparazione di spille, medaglioni e altri oggetti simili che fino a quel momento erano invece prodotti con la laboriosissima tecnica dell’intarsio. Questa esperienza permise al Moretti di fare i primi progressi in quella che diverrà poi la sua principale specialità: la composizione di una grande quantità di vetri di diversi colori e fra loro compatibili. La “compatibilità” fra vetri diversi è infatti sempre stato il grande problema dei vetrai, perché vetri di composizione diversa possono avere coefficienti di dilatazione diversi e, se uniti in uno stesso oggetto, possono provocarne la rottura al momento del raffreddamento. Vincenzo Moretti, che non era un maestro vetraio ma piuttosto un tecnico compositore, alla fine di una serie di ricerche ed esperimenti risolse brillantemente il problema e si preparò una coloratissima “tavolozza” che gli permise di affrontare con grande libertà la riproduzione di quei vetri che, nei due secoli attorno alla nascita di Cristo, venivano fatti accostando murrine e segmenti di canne, senza l’intervento della soffiatura. Le prime riproduzioni dei vetri romani vennero presentate nel 1878 all’esposizione internazionale di Parigi.
Fig. 21. Vincenzo Moretti, 1873, murrine a mosaico, ∅ 18-20 mm
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Fig. 22. Vincenzo Moretti, ca. 1880, fiori e farfalle, L 12-25 mm
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Moretti compose una gran numero di murrine di raffinata eleganza, che costituiscono ciascuna un piccolo gioiello. Esse sono fiori di vario tipo, tulipani, margherite, pansé, fiore di loto, ma anche due farfalle e un uccellino (Fig. 22). L’amore per il vetro a Murano si trasmette da padre in figlio da secoli: fu così che anche il figlio di Vincenzo, Luigi Moretti (1867-1946), volle cimentarsi in una difficile impresa. Egli aveva di fronte a sé l’esempio di Giacomo Franchini e decise così di dar vita a una nuova serie di ritratti. La tecnica del giovane Moretti era diversa da quella di Franchini. Luigi infatti non operava con il vetro caldo e fluido, ma faceva intervenire l’azione del fuoco solo dopo aver composto a freddo l’intero disegno. Facendo uso di tante sottili canne monocromatiche di vario colore e sfumature e accostandole le une alle altre, quasi come un mosaicista, egli preparava un cilindro di circa 10 cm di diametro e 20 cm di altezza. Il cilindro, ben legato con filo di rame, veniva poi riscaldato un po’ alla volta e, quando il vetro diventava morbido, veniva tirato in una lunga canna. In questo modo Luigi Moretti, fra il 1888 e il 1894, realizzò una originale serie di ritratti, cominciando con quello del padre Vincenzo (Fig. 4) e continuando poi con quelli di Vittorio Emanuele II (Fig. 5), Umberto I, nuovo re d’Italia (Fig. 6), il principe Vittorio Emanuele, Garibaldi (Fig. 8), Papa Leone XIII, l’imperatore Guglielmo di Germania e anche un volto di Madonna. Particolarmente bella, infine, è la murrina di Cristoforo Colombo (Fig. 25). Essa fu fatta nel 1892, in occasione del quarto centenario della scoperta dell’America. Quando, nell’anno successivo, la Venice and Murano Glass Company aprì una propria fornace a Chicago, il 18 maggio 1893, a tutti i quattrocento invitati fu regalato uno di questi piccoli ma preziosi ritratti.
Giuseppe Barovier e le murrine liberty Nella già ricordata fornace di Salviati, oltre a Vincenzo Moretti, prestavano la loro opera anche alcuni membri dell’antica famiglia dei Barovier. Colui che ci ha
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Fig. 23. Giovanni Barovier, 1881, piatto con murrine floreali su fondo nero, ∅ 225 mm
lasciato una bellissima serie di murrine è Giuseppe (1853-1942), che inizia la sua attività di vetraio a 14 anni, seguendo soprattutto l’insegnamento dello zio Giovanni. Costui aveva senza dubbio partecipato al lavoro di riproduzione degli antichi vetri murrini, tanto che a buona ragione gli si può attribuire un bel piatto attualmente conservato nel museo di Murano e databile attorno al 1881 (Fig. 23). Il giovane Giuseppe collaborò certamente con lo zio anche per queste prime
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Fig. 24. Giuseppe Barovier, ca. 1915, fiori, L 3-29 mm
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Fig. 25. Giuseppe Barovier, ca. 1915, Garibaldi, ∅ 19 mm
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murrine; le sue opere più belle, tuttavia, vennero molto più tardi, con il nuovo stile floreale dei primi anni del XX secolo. Sicuramente importante nello stimolare questa affascinante attività fu l’incontro con due artisti del tempo, Teodoro Wolf Ferrari e Vittorio Zecchin, che nella vetreria dei Barovier eseguirono alcune innovative opere in vetro. Giuseppe Barovier era un maestro vetraio di altissimo livello e fu quindi per lui ovvio adottare nella fabbricazione delle murrine la tecnica più confacente alla sua arte. Egli non seguì cioè l’esempio di Luigi Moretti (che componeva il disegno a freddo, accostando le une alle altre sottili canne di vari colori), ma formava la canna stendendo progressivamente strisce di vetro prelevate direttamente dal crogiolo e modellandole finché erano ancora calde: un lavoro di grande maestria, che immediatamente si apprezza osservando la complessità e la bellezza delle murrine realizzate. La maggior parte delle murrine di Barovier è costituita da fiori che, sia nella concezione, sia nella resa cromatica, ripetono l’affascinante stile di quegli anni (Fig. 24). Egli si cimentò tuttavia anche nell’esecuzione di figure umane, come quella in cui, in maniera spiritosa e quasi impressionistica , è ritratto un personaggio che potrebbe ricordare (ancora una volta!) Garibaldi (Fig. 25). L’indiscusso capolavoro di Giuseppe Barovier è comunque una murrina che rappresenta in se stessa un’opera completa e che, anche se misura solo pochi centimetri, è più preziosa di un quadro: il pavone (Fig. 3). Essa fu presentata a Venezia nel 1913 alla esposizione dell’Opera Bevilacqua La Masa (che raccoglieva artisti “dissidenti”) e valse al suo esecutore l’appellativo di “mago dell’arte vetraria”. Con le murrine liberty di Giuseppe Barovier si conclude un ciclo nella storia di questi minuscoli capolavori: negli anni successivi le murrine cessano di essere oggetti in sé compiuti e vengono sempre più concepite e utilizzate come elementi decorativi di oggetti di vetro soffiato: così le utilizzarono gli stessi Giuseppe e Benvenuto Barovier e, successivamente, Ercole (figlio di Benvenuto); così le utilizzarono i Fratelli Toso nella loro infinita produzione di vetri millefiori
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Fig. 26. Fratelli Toso, ca. 1920, lampada da soffitto, vetro soffiato, murrine floreali, H 900 mm
(Fig. 26) e tanti altri ancora, che non si possono qui ricordare, fino ai giorni nostri. Un’eccezione, tuttavia, deve essere fatta per Mario Dei Rossi (Murano, 1926), un maestro vetraio che, dopo aver abbandonato il lavoro in fornace, ha ripreso ancora una volta l’antica arte. Dal 1989, utilizzando la tecnica di Luigi Moretti, egli ha dato vita a una non interrotta serie di murrine di grande bellezza, che comprende ritratti, fiori, animali e altri soggetti estremamente complessi (Fig. 27).
Fig. 27. Mario Dei Rossi, 1998-1999, murrine figurate, ∅ 19-21 mm
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Modelli matematici per la meteorologia ELISABETTA CORDERO
Il tempo meteorologico ha grande influenza su molti aspetti della vita umana, come ad esempio l’agricoltura, il traffico aereo, navale, stradale e molte altre attività, soprattutto (ma non solo) quelle che si svolgono all’aria aperta. Talvolta esso può avere conseguenze devastanti, come nel caso delle calamità naturali (inondazioni, uragani, temporali, siccità), che possono provocare vittime ed ingenti danni economici. È quindi estremamente importante saper prevedere il tempo in modo accurato ed in tempo utile, per non farsi cogliere impreparati, soprattutto in previsione di eventi meteorologici estremi. Il tempo meteorologico è determinato dai moti dell’atmosfera, che è l’involucro gassoso che circonda la Terra. Tali moti sono descritti da un sistema di equazioni non lineari alle derivate parziali (tipo Navier-Stokes). Tali equazioni non possono essere risolte esattamente, ma devono essere approssimate mediante schemi numerici. L’approssimazione numerica delle suddette equazioni è alla base dei modelli matematici dell’atmosfera utilizzati per le previsioni meteorologiche e gli studi climatici, le cui altre componenti fondamentali sono le condizioni iniziali e la rappresentazione dei processi fisici che avvengono nell’atmosfera. In questo articolo introdurremo le equazioni matematiche che descrivono i moti dell’atmosfera, discuteremo come tali equazioni vengano approssimate all’interno dei modelli numerici dell’atmosfera, descriveremo le componenti dei modelli numerici e come questi vengano utilizzate per calcolare le previsioni meteorologiche.
Equazioni continue I moti atmosferici sono descritti da un sistema di equazioni differenziali non lineari alle derivate parziali che comprende la seconda legge della dinamica, che esprime la conservazione del momento, quella di continuità, che esprime la conservazione della massa, l’equazione termodinamica, che corrisponde al principio di conservazione dell’energia e l’equazione di stato, con la quale si assume che l’atmosfera sia un gas perfetto. Per una rappresentazione realistica dell’atmosfera, è inoltre necessario considerare l’umidità che è presente nell’atmosfera sotto forma di vapor acqueo ed acqua e ghiaccio contenuti nelle nuvole. Per ciascuna di queste sostanze viene introdotta un’equazione che ne esprime la conservazione.
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Forma vettoriale Generalmente le equazioni che governano i moti atmosferici si scrivono rispetto ad un sistema di riferimento con origine nel centro della Terra e solidale con essa, ovvero in rotazione attorno all’asse terrestre con la velocità angolare della Terra, Ω. In tale sistema di riferimento le equazioni assumono la seguente forma vettoriale [1]: dV 1 = –2Ω × V – ∇p – gk + F , dt ρ
cp
(2.1)
dρ + ρ ∇ ⋅ V = 0, dt
(2.2)
dT 1 dp – = Q, dt ρ dt
(2.3)
p = ρ RT.
(2.4)
∂ d ≡ + V ⋅ ∇, V = (u, v, w) è il vettore velocità; –2Ω × V è la dt ∂ t forza di Coriolis, ove Ω è la velocità angolare di rotazione della Terra attorno al suo asse polare; ρ è la densità; p è la pressione; gk è la gravità apparente; F è il termine forzante che comprende gli effetti dovuti ai processi fisici che avvengono nell’atmosfera; cpè il calore specifico a pressione costante; T è la temperatura; Q è la variazione di calore nel tempo per unità di massa; R è la costante universale dei gas. GM r La gravità apparente gk è la somma della gravità newtoniana g * r ≡ – 2 a r (ove G è la costante di gravitazione universale, M la massa della terra, a il raggio medio terrestre, r il vettore posizione relativo al centro della terra) e della forza centrifuga Ω × (Ω × R) = Ω2R, ove R è il vettore posizione dall’asse di rotazione terrestre. 1 Nell’equazione del momento (2.1), accanto alle forze reali g * r, ∇p, F com-
In (2.1)-(2.4),
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ρ paiono le forze apparenti –2Ω × V e Ω2R. La presenza delle forze apparenti è dovuta all’applicazione della seconda legge della dinamica (a = F / m) per derivare (2.1) nel sistema di riferimento in esame, che è non inerziale a causa della rotazione terrestre. Le equazioni (2.1)-(2.4) sono scritte ignorando, per semplicità, la presenza dell’umidità nell’atmosfera: esse vengono indicate come equazioni per l’atmosfera ‘secca’. Per includere l’effetto dell’umidità, a (2.1)-(2.4) viene aggiunta un’equazione di conservazione per ciascuna delle sostanze che la compongono: vapor acqueo, acqua contenuta nelle nuvole e ghiaccio contenuto nelle nuvole. Il prototipo di equazione di conservazione per ciascuna di queste sostanze prende la forma: dm x (2.5) = Sx , dt ove l’indice x identifica una delle sostanze in esame; il ‘mixing ratio’ mx = ρx / ρs
Modelli matematici per la meteorologia
rappresenta il contenuto di sostanza umida di tipo x per unità di massa di aria secca, indicata dall’indice s; Sx rappresenta il termine sorgente per l’equazione di conservazione della specie x. Oltre a manifestarsi nelle equazioni di conservazione (2.5), la presenza dell’umidità influisce anche sulle equazioni (2.1)-(2.4), nelle quali la densità ρ dovrebbe essere sostituita dalla densità dell’aria umida, che si ottiene sommando a quella dell’aria secca quella di ciascuna sostanza umida. La trattazione dettagliata delle equazioni in presenza dell’umidità esula dagli scopi di questo articolo, nel quale si preferisce limitarsi alle più semplici equazioni per l’atmosfera secca (2.1)-(2.4). Una derivazione e discussione delle equazioni in presenza dell’umidità è riportata ad esempio in [2]. Forma scalare in coordinate sferiche È conveniente riscrivere l’equazione del momento che appare in forma vettoriale in (2.1) nelle sue componenti scalari, utilizzando le coordinate polari sferiche: longitudine λ, latitudine φ e distanza radiale r. Le componenti scalari di (2.1) in coordinate polari sferiche sono [1]: du uv tan φ uw ∂p 1 – + =– + 2Ωv sinφ – 2Ωw cos φ + Fλ , r ρ r cos φ ∂λ dt r
(2.6)
dv u 2 tan φ vw 1 ∂p + + =– – 2Ωu sin φ + Fφ , dt r r ρr ∂φ
(2.7)
dw u 2 + v 2 1 ∂p – =– – g + 2Ωu cos φ + Fr . dt r ρ ∂r
(2.8)
75
I termini che compaiono alla sinistra delle uguaglianze in (2.6)-(2.8) accanto alle componenti di dV/dt sono chiamati termini ‘metrici’ e sono dovuti al fatto che i versori (i, j, k) nelle direzioni (λ, φ, r) dipendono dalla longitudine e dalla latitudine e devono quindi essere differenziati nel calcolo di dV/dt come segue: dV/dt ≡ i du/dt + j dv/dt+k dw/dt + udi/dt+vdj/dt+wdk/dt.
(2.9)
Riscrivendo udi/dt + vdj/dt + wdk/dt componente per componente, si ottengono i termini metrici di (2.6)-(2.8). Le equazioni (2.6)-(2.8), (2.2)-(2.4) costituiscono il sistema più completo e più generale utilizzato in meteorologia per descrivere i moti atmosferici; esso viene indicato con il nome di sistema di Navier-Stokes. Tale sistema non contiene semplificazioni, a parte quella di rappresentare la Terra come una sfera. Esso descrive tutti i tipi di moti atmosferici su tutte le scale spaziali e temporali, da poche ore a centinaia di anni, per cui è alla base dei modelli matematici che vengono utilizzati sia per le previsioni meteorologiche che per gli studi climatici, come ad esempio [2] e [3]. Una importante proprietà delle equazioni di Navier-Stokes è che esse implicano i seguenti principi di conservazione [4]: 1. dell’energia totale, somma dell’energia cinetica, potenziale ed interna del sistema, E = 1/2V2 + Φ + cvT (ove Φ è la funzione potenziale associata alla gravità apparente, gk ≡ ∇Φ e cv è il calore specifico a volume costante);
matematica e cultura 2005
2. della componente assiale del momento angolare, (Ωr cos φ + u)r cos φ; (∇ × V + 2Ω) ⋅ ∇ϑ R/ , ove ϑ ≡ T ( p0 / p) cv si defini3. della vorticità potenziale ρ sce temperatura potenziale e po è la pressione atmosferica al livello del mare. Introducendo opportune approssimazioni nel sistema di Navier-Stokes, se ne possono derivare sottosistemi che, pur essendo di validità meno generale rispetto al sistema originale, sono più semplici da trattare dal punto di vista numerico e per questo motivo vengono utilizzati, o lo sono stati in passato, per le previsioni meteorologiche e gli studi climatici. È desiderabile che i sistemi semplificati derivati dalle equazioni di Navier-Stokes mantengano gli stessi principi di conservazione 1.-3. soddisfatti dal sistema originale. Questa proprietà è soddisfatta dai sottosistemi che verranno discussi più avanti.
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Semplificazioni: sottosistemi Equazioni quasi idrostatiche (QHEs) Una delle difficoltà nella soluzione numerica delle equazioni di Navier-Stokes è rappresentata dalla sua non idrostaticità, o più precisamente dalla presenza dell’accelerazione verticale (dw/dt) nella componente radiale dell’equazione del momento (2.8), che comporta la presenza delle onde acustiche tra le soluzioni del sistema, accanto a quelle gravitazionali e a quelle di Rossby [5]. Tra le onde descritte da (2.6)-(2.8), (2.2)-(2.4), quelle più rilevanti dal punto di vista meteorologico sono quelle di Rossby, che governano i moti atmosferici su scala sinottica (cioè globale) ed hanno velocità di fase dell’ordine di quella di avvezione. Le restanti onde gravitazionali ed acustiche hanno alta frequenza e velocità di fase molto superiore a quella delle onde di Rossby: quelle gravitazionali hanno velocità da tre a sei volte superiore a quella delle onde di Rossby e quelle acustiche hanno velocità ancora superiore. La presenza di onde ad alta frequenza può imporre restrizioni sul passo temporale che è possibile utilizzare nella soluzione numerica (con schemi espliciti) delle equazioni [6], per garantire la stabilità della soluzione [7], [8]. Per evitare la restrizione sul passo temporale dovuta alla presenza delle onde acustiche, è possibile filtrarle dal sistema, omettendo l’accelerazione verticale in (2.8). Tale approssimazione è accurata per i moti per i quali l’accelerazione verticale è trascurabile rispetto agli altri termini che compaiono in (2.8). Le equazioni (2.6)-(2.8), (2.2)-(2.4), ma con dw/dt omesso in (2.8) prendono il nome di equazioni quasi idrostatiche (QHEs) [4]. Atmosfera ‘shallow’ ed equazioni primitive idrostatiche e non idrostatiche Un’approssimazione comunemente utilizzata in meteorologia è quella di atmosfera ‘shallow’, cioè ‘poco profonda’. Il 90% della massa dell’atmosfera è concentrata in uno strato dello spessore di 17 km che avvolge la superficie terrestre e che è molto sottile rispetto alle dimensioni della Terra, il cui raggio medio è 6360 km. Considerando una particella di atmosfera P (Fig. 1), la sua distanza r dal centro ∼ 6360km e dall’aldella Terra è data dalla somma del raggio medio terrestre, a = tezza del punto P sulla superficie terrestre, z < 17 km. Poiché z << a, è possibile approssimare la distanza del punto P dal centro della Terra, r ≡ a + z, con il rag-
Modelli matematici per la meteorologia
Fig. 1. Coordinate sferiche e distanza di una particella dal centro della Terra
gio terrestre, a. Questa approssimazione prende nome di atmosfera shallow. Al contrario, quando questa approssimazione non viene fatta, come nel caso delle equazioni di Navier-Stokes o quasi idrostatiche discusse precedentemente, si parla di atmosfera ‘deep’, cioè ‘profonda’. Dal punto di vista matematico, l’approssimazione shallow consiste nel modificare (2.6)-(2.8) come segue. Dove la variabile r appare in forma non differenziata, essa viene sostituita dalla costante a; mentre la differenziazione ∂/∂r viene sostituita da ∂/∂z, cioè viene calcolata rispetto all’altezza sul livello del mare, z [9]. Quando si utilizza l’approssimazione shallow, per garantire che il sistema di equazioni risultante rispetti i principi di conservazione 1.-3 (v. pag. 75) soddisfatti dal sistema originale, sono necessarie le seguenti ulteriori semplificazioni delle equazioni (2.6)-(2.8). Le componenti della forza di Coriolis (–2Ω × V) proporzionali al coseno della latitudine devono essere omesse (approssimazione tradizionale), insieme ad alcuni dei termini metrici (quelli che non dipendono dalla tangente della latitudine). Con queste approssimazioni, (2.6)-(2.8) si semplificano come segue: du uv tan φ ∂p 1 – =– + 2Ωv sinφ + Fλ , dt a ρ a cos φ ∂λ dv u 2 tan φ 1 ∂p + =– + 2Ωu sinφ + Fφ , dt a ρ a ∂φ dw 1 ∂p =– – g. dt ρ ∂z
(2.10)
(2.11)
(2.12)
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Le equazioni (2.10)-(2.12), (2.2)-(2.4) prendono il nome di equazioni primitive non idrostatiche (NHPEs) [10-12]. Esse sono più semplici delle equazioni di Navier-Stokes e quasi idrostatiche discusse precedentemente e scritte per l’atmosfera deep, però non hanno la stessa generalità di applicazione a tutti i moti atmosferici. Una prima limitazione è dovuta all’approssimazione tradizionale, cioè all’omissione delle componenti della forza di Coriolis proporzionali al coseno della latitudine. Come discusso in [4], per i moti nella regione tropicale su scala sinottica e planetaria, questi termini possono raggiungere grandezze del 10% dei termini chiave delle equazioni che governano i moti atmosferici. Il loro contributo può dunque essere trascurato negli studi teorici, ma non nei modelli matematici per le previsioni meteorologiche e studi climatici [4]. Inoltre esistono moti per i quali l’effetto non idrostatico di maggiore importanza è rappresentato dal termine 2Ωucosφ, che domina l’accelerazione verticale dw/dt nella componente verticale dell’equazione del momento [13], [14]. Poiché 2Ωucosφ è omesso in (2.12), le equazioni primitive non idrostatiche non sono applicabili a questo tipo di moti. Un’ulteriore semplificazione delle equazioni (2.10)-(2.12) è data dall’approssimazione idrostatica, che consiste nell’omettere l’accelerazione verticale dw/dt in (2.12). Le risultanti equazioni (2.10)-(2.12), (2.2)-(2.4), ma con dw/dt omesso in (2.12) prendono il nome di equazioni primitive idrostatiche (HPEs) [15]. Esse costituiscono il più semplice sistema di equazioni attualmente utilizzato per le previsioni meteorologiche e gli studi climatici, anche se meno generale di quelli validi per l’atmosfera deep e descritti precedentemente. Oltre alle limitazioni dovute all’approssimazione tradizionale e discusse sopra per le equazioni primitive non idrostatiche, la validità delle equazioni primitive idrostatiche è limitata dall’approssimazione idrostatica. Tale approssimazione è accurata quando la scala orizzontale del moto è molto maggiore di quella verticale o, più precisamente, quando la scala temporale del moto è molto maggiore di quella delle oscillazioni delle particelle che compongono l’atmosfera attorno alla loro posizione di equilibrio (buoyancy oscillations) [9]. La validità di questa approssimazione è discutibile per moti su piccola scala orizzontale, dell’ordine di 10 km o meno [6].
Approssimazioni numeriche I sistemi di equazioni discussi nel precedente paragrafo non possono essere risolti esattamente perché sono non lineari ed altamente complessi. Se ne possono però calcolare delle soluzioni approssimate, utilizzando opportuni schemi numerici, che devono soddisfare i seguenti requisiti: 1. robustezza: i moti atmosferici avvengono su molteplici scale spaziali e temporali (da pochi chilometri alla scala planetaria; da poche ore ad alcuni giorni per le previsioni meteorologiche, o addirittura secoli per gli studi climatici). Gli schemi numerici utilizzati per approssimarli devono fornire una soluzione stabile e realistica su tutte le scale di interesse per i fenomeni meteorologici;
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2. efficienza computazionale: per garantire che la soluzione numerica venga calcolata in tempo utile per poter distribuire le previsioni meteorologiche con anticipo rispetto agli eventi che vengono previsti, in modo da essere adeguatamente preparati ad affrontarli; 3. stabilità ed accuratezza: in modo da aver confidenza nelle previsioni calcolate, in particolare nella corretta localizzazione spaziale e temporale dei fenomeni meteorologici previsti e nella loro intensità. Poiché l’atmosfera è un fluido, tradizionalmente si possono adottare due punti di vista opposti per descriverne i moti: quello Euleriano oppure quello Lagrangiano [16]. Accanto a questi due approcci, nell’ambito della meteorologia, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, è stata sviluppata l’idea degli schemi semi-Lagrangiani [17-23]. Un’altra innovazione di grande importanza in meteorologia è stata la definizione degli schemi semi-impliciti [24-26]. Le caratteristiche di questi schemi verranno brevemente discusse nelle prossime pagine. Schemi Euleriani La descrizione del moto di un fluido dal punto di vista Euleriano consiste nel fissare un sistema di riferimento ed un numero di punti, che possono essere disposti a formare una griglia, attraverso la quale scorrono le particelle del fluido in esame. La griglia rimane fissata nel tempo, mentre il moto viene descritto in funzione delle particelle che fluiscono attraverso i punti della griglia allo scorrere del tempo e che cambiano ad ogni istante. Il vantaggio di questo approccio consiste nel fatto che la griglia rimane fissata nel tempo. Essa può essere fissata inizialmente in modo da coprire in modo omogeneo tutta la regione occupata dal fluido, così che il moto di ogni sua porzione sia descritto in modo accurato ad ogni istante di tempo. Una limitazione di questo metodo è dovuta al fatto che, se le equazioni del moto sono risolte mediante uno schema esplicito, per garantire la stabilità della soluzione numerica la condizione di Courant - Friedrichs Lewy (C ⬅ u∆t/∆x ≤ 1) [7], [8] deve essere soddisfatta; questo impone delle restrizioni sul passo temporale che è possibile utilizzare. Schemi Lagrangiani La descrizione del moto di un fluido dal punto di vista Lagrangiano consiste nello scegliere un numero delle sue particelle all’istante iniziale e seguirne il moto allo scorrere del tempo. In questo approccio, dunque, sono le particelle in funzione delle quali si descrive il moto del fluido ad essere fissate, mentre la griglia è definita ad ogni istante dall’insieme delle posizioni occupate da tali particelle nel sistema di riferimento e pertanto si muove insieme alle particelle del fluido. Questo approccio non è soggetto alla condizione di stabilità discussa precedentemente, dunque permette di superare la restrizione sul passo temporale degli schemi Euleriani, ma presenta un altro svantaggio. Sebbene all’istante iniziale si possa scegliere una griglia distribuita in modo omogeneo su tutto il fluido, agli istanti successivi la griglia si muove seguendo il moto casuale delle particelle di fluido e può quindi assumere conformazioni altamente irregolari.
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Fig. 2. Descrizione Lagrangiana di un fluido: la griglia segue il moto casuale delle sue particelle
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Questa situazione è illustrata in Figura 2. Nell’immagine di sinistra si vede una griglia Lagrangiana uniforme, costituita dalle particelle di fluido indicate in grigio, definita al tempo iniziale t0; nell’immagine di destra è rappresentata la stessa griglia ma ad un tempo successivo, in cui la griglia ha assunto una distribuzione irregolare. L’irregolarità della griglia rende la descrizione del moto del fluido più complessa, meno accurata e soprattutto mancante di informazioni, nelle regioni di fluido rimaste prive di punti griglia, in seguito al moto casuale delle sue particelle. Schemi semi-Lagrangiani Gli schemi semi-Lagrangiani sono stati introdotti a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo, ad esempio in [17-23], sebbene in questi studi iniziali la formulazione del metodo semi-Lagrangiano fosse soggetta alle stesse restrizioni sul passo temporale degli schemi Euleriani (v. pag. 79) per garantire la stabilità del metodo. Questa limitazione è stata superata negli anni Ottanta in [27] e [28], in cui il metodo semi-Lagrangiano è stato combinato con un trattamento semi-implicito (si veda il prossimo paragrafo) dei termini delle equazioni che governano i moti atmosferici responsabili delle onde gravitazionali. Grazie a questa formulazione che, non presentando i problemi di stabilità degli schemi Euleriani, permette di integrare le equazioni che governano i moti atmosferici con passi temporali più lunghi e dunque in modo più efficiente rispetto agli schemi Euleriani, senza perdita di accuratezza, il metodo semi-Lagrangiano ha raggiunto una considerevole popolarità, soprattutto nel campo della meteorologia. Un’ampia rassegna di schemi semi-Lagrangiani utilizzati nei modelli atmosferici è riportata in [29]. Gli schemi semi-Lagrangiani rappresentano un tentativo di combinare i vantaggi degli schemi Euleriani (la regolarità della griglia) e Lagrangiani (stabilità senza restrizioni sul passo temporale), senza averne gli svantaggi.
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Fig. 3. I cerchi grigi indicano i punti griglia, che coincidono con i punti di arrivo delle particelle scelte per descrivere il moto del fluido. Il quadrato nero indica il punto di partenza (all’inizio del passo temporale) della traiettoria della particella che si trova nel punto d’arrivo alla fine del passo temporale
Per illustrare il metodo semi-Lagrangiano, possiamo fare riferimento alla Figura 3. Si definisce una griglia regolare e si scelgono come particelle da utilizzare per descrivere il moto del fluido, quelle che arrivano nei punti della griglia alla fine del passo temporale (i cerchi grigi in figura). Si traccia poi la traiettoria approssimata descritta da ciascuna di queste particelle dal suo punto di arrivo A (in un punto griglia) al corrispondente punto di partenza P (il quadrato nero in figura), cioè la posizione della particella all’inizio del passo temporale, che viene determinato risolvendo l’equazione delle traiettorie. Il punto P non è, in generale, un punto griglia e pertanto il valore delle variabili dipendenti che descrivono il fluido viene interpolato (generalmente mediante interpolazione cubica) nel punto, utilizzando il loro valore nei punti griglia circostanti. Infine le equazioni del moto vengono integrate lungo ciascuna traiettoria AP. Il vantaggio principale di questo metodo consiste nel fatto che esso non è soggetto alle restrizioni sul passo temporale per ragioni di stabilità dei metodi Euleriani, pur mantenendone la regolarità della griglia computazionale. Nei casi in cui si utilizzi un passo temporale simile a quello Euleriano, il metodo semi-Lagrangiano è tuttavia più oneroso dal punto di vista computazionale, poiché richiede il calcolo dei punti di partenza delle traiettorie e l’interpolazione delle variabili in tali punti. Inoltre l’interpolazione è un meccanismo di ‘damping’ (o attenuazione), che aumenta la stabilità della soluzione numerica, ma fa sì che lo schema non soddisfi esattamente proprietà di conservazione analoghe a quelle delle equazioni continue che si vogliono approssimare (come ad esempio 1-3 a pag. 75). Le proprietà dell’interpolazione e di conservazione degli schemi semiLagrangiani sono trattate ad esempio in [29]. Schemi semi-impliciti Come discusso brevemente all’inizio della pag. 76, il sistema delle equazioni di Navier-Stokes ammette come soluzioni le onde di Rossby, le onde gravitazionali
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e le onde acustiche. Le onde di Rossby sono associate ai moti su scala sinottica e hanno velocità di fase dell’ordine di quella di avvezione. Esse sono quelle più rilevanti dal punto di vista meteorologico e devono essere risolte accuratamente dagli schemi numerici per le previsioni meteorologiche. Le onde gravitazionali e acustiche hanno velocità di fase molto maggiore di quella delle onde di Rossby; sono meno importanti dal punto di vista meteorologico, dato che la quantità di energia ad esse associata è piccola; non possono essere risolte accuratamente dagli schemi numerici, per il fatto che non sono rappresentate adeguatamente all’istante iniziale, a causa della scarsità delle osservazioni disponibili [29]. Nonostante la loro minore importanza dal punto di vista meteorologico, sono le onde ad alta velocità (acustiche e gravitazionali) a dettare la restrizione sul passo temporale necessaria a garantire la stabilità dello schema numerico. Come discusso a pag. 76 per le equazioni quasi idrostatiche e primitive idrostatiche, un modo per superare la restrizione imposta dalle onde acustiche è quello di filtrarle dalle equazioni, rimuovendo l’accelerazione dalla componente verticale dell’equazione del momento, (2.8). Questo approccio limita però la generalità di applicazione delle equazioni; inoltre esso non può essere applicato alle onde gravitazionali. Una soluzione al problema fu trovata all’inizio degli anni Settanta in [24-26], in cui si propone di trattare i termini delle equazioni responsabili delle onde gravitazionali in modo semi-implicito. Questa scelta permette di utilizzare un passo temporale che, non più limitato dalla velocità delle onde gravitazionali ma solo da quella delle onde di Rossby, risulta da tre a sei volte superiore a quello di uno schema Euleriano esplicito. Considerando la seguente equazione modello per l’avvezione di una quantità scalare G con termine forzante R in una dimensione spaziale: dG(t , x) = R(t , x), dt
(3.1)
ove dG/dt = ∂G/∂t + u∂G/∂x e supponendo di integrare l’equazione nell’intervallo di tempo [tn, tn + ∆t] come in Figura 3, l’approssimazione semi-implicita del termine forzante R è definita come segue. Nel caso di uno schema Euleriano, essa è la media dei valori del termine forzante nel punto all’inizio ed alla fine del passo temporale: R(t n , x) + R(t n + ∆t , x) , (3.2) 2 ove l’indice SI indica il trattamento semi-implicito e l’indice Eul denota lo schema Euleriano. Per uno schema semi-Lagrangiano, l’approssimazione semi-implicita del termine forzante è definita dalla media dei suoi valori nei punti di partenza e di arrivo della traiettoria (rispettivamente P ed A in Figura 3): SI R Eul (t n + ∆t / 2, x) =
R SLSI (t n + ∆t / 2, x – u∆t / 2) =
R(t n , x – u∆t) + R(t n + ∆t , x) , 2
(3.3)
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ove l’indice SI indica il trattamento semi-implicito, l’indice SL denota lo schema semi-Lagrangiano, u è la velocità orizzontale del fluido, u∆t è la distanza orizzontale percorsa dalla particella nell’intervallo ∆t, così che l’ascissa del punto di partenza risulta essere x – u∆t. Il metodo semi-implicito è stato sviluppato in [24-26] nel contesto delle equazioni di ‘shallow-water’ [29] ed applicato ai termini responsabili delle onde gravitazionali. Nei modelli non idrostatici (equazioni di Navier-Stokes ed equazioni primitive non idrostatiche discusse a pag. 73), che ammettono come soluzioni anche le onde acustiche, il trattamento semi-implicito viene esteso, oltre che ai termini responsabili delle onde gravitazionali, anche a quelli che generano le onde acustiche, come in [30].
Modelli numerici: componenti I sistemi di equazioni che governano i moti atmosferici e che sono stati introdotti a pag. 73, senza i termini forzanti (F in (2.1) e Q in (2.3)), costituiscono la parte dinamica dei modelli atmosferici. Una loro approssimazione numerica, ottenuta mediante uno degli schemi descritti a pag. 73, costituisce la parte centrale dei modelli numerici per le previsioni meteorologiche e per gli studi climatici e permette di calcolare l’evoluzione temporale dell’atmosfera, una volta che siano noti il suo stato iniziale e i processi fisici che avvengono in essa. Le condizioni iniziali (e il modo in cui queste vengono incorporate nel modello), la dinamica e la rappresentazione dei processi fisici costituiscono le componenti fondamentali dei modelli numerici, che verranno ora illustrate, con l’aiuto della Figura 4. Per calcolare le previsioni meteorologiche, è necessario conoscere innanzitutto lo stato attuale dell’atmosfera, che viene descritto dalle variabili che compaiono nelle equazioni (2.1)-(2.4): vento V = (u, v, w), pressione p, densità ρ e
Fig. 4. Componenti di un modello numerico per le previsioni meteorologiche
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temperatura T. Il valore attuale (cioè al tempo iniziale della previsione) delle variabili viene misurato per mezzo delle osservazioni, che vengono effettuate con diversi strumenti. Ci sono stazioni meteorologiche terrestri dotate di anemometri, barometri e termometri utilizzati rispettivamente per la misurazione del vento, della pressione atmosferica e della temperatura. Le stesse osservazioni vengono effettuate anche in mare per mezzo di boe o di navi, dotate degli strumenti necessari per misurare le variabili atmosferiche. Ulteriori osservazioni vengono raccolte per via aerea, tramite palloni sonda (lanciati da terra o da aerei specializzati) ed aerei, in parte di linea ed in parte adibiti esclusivamente alla rilevazione dei dati meteorologici, come ad esempio quelli che volano nelle perturbazioni. Come per le osservazioni terrestri e marine, le osservazioni aeree consistono nella misurazione del vento, della pressione e della temperatura dell’atmosfera. Altre informazioni che vengono generalmente registrate sono ad esempio la visibilità (per individuare l’eventuale presenza della nebbia, che può essere pericolosa ad esempio per il traffico automobilistico), l’estensione ed il tipo di nuvole eventualmente presenti, la quantità di precipitazione (pioggia o neve), misurata generalmente in termine di centimetri d’acqua caduti in un’ora. Tra gli strumenti più efficaci per acquisire dati sulle precipitazioni e sulle nuvole, si ricordano rispettivamente radar e satelliti. I radar sono utilizzati per misurare distribuzione ed intensità delle precipitazioni. Essi emettono una radiazione che viene riflessa dalle gocce d’acqua o dai fiocchi di neve. Dall’intensità della radiazione riflessa si determina l’intensità della precipitazione, espressa in centimetri d’acqua o di neve caduti in un’ora; dal tempo trascorso tra l’emissione della radiazione d’origine e la ricezione della radiazione riflessa si determina la distanza della precipitazione. Dai segnali riflessi ricevuti dai radar vengono prodotte immagini che devono essere interpretate da meteorologi esperti, per identificare possibili distorsioni del segnale radar dovute ad esempio alla conformazione del terreno (come la presenza di colline), o eco causate da alberi, dal passaggio di aerei o navi, o dall’interferenza con radar vicini. I satelliti producono immagini della distribuzione delle nuvole, dalle quali è possibile seguire l’evoluzione dei sistemi atmosferici e ricavare informazioni sulla temperatura e sul vento (dal moto delle nuvole e da quello delle onde sulla superficie dei mari). I satelliti hanno a bordo uno strumento chiamato radiometro, che assorbe le radiazioni visibili ed infrarosse emesse o riflesse dalla superficie terrestre o dalle nuvole. I radiometri visibili, che funzionano solo nelle ore di luce, assorbono la radiazione solare riflessa dalla Terra o dalle nuvole e producono immagini in bianco e nero, in cui il bianco corrisponde alle nuvole più dense. I radiometri ad infrarossi assorbono la radiazione emessa dalle nuvole, dall’oceano, o dal terreno e producono un’immagine che di fatto rappresenta la temperatura delle nuvole o della Terra. I corpi più freddi (le nubi più alte) appaiono bianchi, quelli più caldi (le nubi basse o, in assenza di nubi, la superficie terrestre) appaiono scuri. Esistono due tipi di satelliti, quelli geostazionari e quelli polari. I satelliti geostazionari orbitano attorno all’equatore con la stessa velocità angolare della Ter-
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ra; essi rimangono dunque stazionari rispetto ad essa (da cui il nome) e ne osservano sempre la stessa regione. Ci sono cinque satelliti geostazionari posizionati a diverse longitudini lungo l’orbita equatoriale, in modo da garantire la copertura di tutta la Terra con le loro immagini e due satelliti polari. I satelliti polari descrivono un’orbita attorno alla Terra che passa sopra ai poli. A causa del movimento di rivoluzione della Terra su se stessa, nel tempo impiegato dai satelliti polari a completare la loro orbita, la Terra ruota di circa venticinque gradi. Ad ogni orbita pertanto i satelliti fotografano una striscia diversa dell’atmosfera terrestre, ripassando sullo stesso punto due volte al giorno. I satelliti polari producono immagini di risoluzione maggiore rispetto a quelle dei satelliti geostazionari, poiché orbitano ad un’altezza dalla superficie terrestre di circa 870 km, rispetto ai circa 36000 km dei satelliti geostazionari. Tuttavia, trasmettono immagini di ciascuna regione della Terra solo ogni dodici ore, quando vi transita la loro orbita, a differenza dei satelliti geostazionari, che offrono una visione continua della regione sulla quale sono stazionari. Le osservazioni vengono incorporate nel modello per mezzo di una tecnica chiamata data assimilation (DA) [31] o assimilazione dei dati. Inizialmente, per determinare lo stato attuale dell’atmosfera, si calcola una previsione a breve termine (ad esempio a nove ore) utilizzando condizioni iniziali valide nel passato (nel caso dell’esempio indicato, si utilizzano condizioni valide nove ore prima, in modo che la previsione calcolata sia valida al tempo attuale). Lo stato attuale dell’atmosfera così calcolato viene corretto dalle osservazioni, che vengono assimilate minimizzando una funzione costo che rappresenta la differenza tra i valori delle variabili atmosferiche che definiscono lo stato attuale dell’atmosfera e quelli introdotti dalle nuove osservazioni, in modo da non introdurre, con le osservazioni, distorsioni significative dello stato dell’atmosfera, che possono essere dovute ad errori nelle osservazioni stesse (nella misurazione delle variabili o nella posizione in cui le osservazioni sono state effettuate). Lo stato attuale dell’atmosfera corretto dalle osservazioni nel procedimento di assimilazione dei dati prende il nome di analisi e rappresenta le condizioni iniziali per la previsione meteorologica vera e propria. Dalle condizioni iniziali l’evoluzione temporale del modello viene calcolata mediante la dinamica, cioè un’approssimazione delle equazioni che governano i moti atmosferici, scelta ad esempio tra gli schemi discussi a pag. 73 e la parametrizzazione dei processi fisici. Nell’atmosfera avvengono diversi processi fisici, che influiscono sui moti atmosferici. Il principale è probabilmente il fenomeno della radiazione solare: il sole può essere considerato il motore dell’atmosfera, nel senso che il tempo meteorologico può essere spiegato in termini del moto di masse d’aria di temperatura diversa (aria calda o fredda). Altri effetti importanti sono la presenza delle nuvole e delle precipitazioni, che possono manifestarsi su larga scala, associate a fronti (le aree di incontro tra masse d’aria con proprietà diverse, ad esempio calde e fredde) o depressioni (le zone in cui il tempo è perturbato); oppure possono essere prodotte dalla convezione. Quest’ultima si verifica quando l’atmosfera è instabile, cioè si trovano zone di aria calda al di sotto di quella fredda. L’aria calda è più leggera di quella fredda, e quindi tende a salire, mentre la soprastante aria fredda tende a scendere; nel salire l’aria calda si raffredda e, raffreddan-
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dosi, la sua capacità di trattenere l’umidità diminuisce; l’umidità in eccesso viene quindi liberata nell’atmosfera e forma nuvole e, se le condizioni sono favorevoli, precipitazioni. Un altro esempio di processi fisici sono gli scambi di calore, umidità e momento tra l’atmosfera e la superficie terrestre, il cui effetto non influisce solo su temperatura, vento e umidità alla superficie terrestre, ma si estende a tutta l’atmosfera. I processi fisici non si possono descrivere esattamente in termini di equazioni (come la dinamica dei moti atmosferici), in parte perché la nostra conoscenza dei loro meccanismi è incompleta, in parte perché avvengono su scale spaziali troppo piccole per essere risolte dai modelli numerici (la risoluzione dei modelli attuali per le previsioni locali, cioè su una regione di interesse invece che sull’intero globo terrestre, è di circa 10 km). I processi fisici devono essere rappresentati numericamente nei modelli atmosferici. La loro rappresentazione numerica prende nome di parametrizzazione. Il calcolo della dinamica e della parametrizzazione fisica viene iterato per un opportuno numero di passi, fino a determinare lo stato finale dell’atmosfera, cioè il valore delle variabili (V, p, T, ρ) (vento, pressione, temperatura e densità) ad un tempo futuro, che tipicamente, per le previsioni meteorologiche attuali, viene scelto da tre a cinque giorni nel futuro. Dalla conoscenza dello stato finale dell’atmosfera (e degli stati intermedi, tipicamente osservati ogni dodici ore) i meteorologi, aiutandosi con le immagini radar e satellitari, producono le previsioni meteorologiche che vengono distribuite al pubblico, in forma verbale e/o sintetizzate in carte meteorologiche. 86
Conclusioni L’accuratezza delle previsioni meteorologiche è in continuo miglioramento, grazie alle ricerche condotte dai centri meteorologici mondiali per sviluppare modelli atmosferici sempre più sofisticati. In particolare, gli sforzi sono indirizzati a: 1. valutare l’esigenza di utilizzare le equazioni di Navier-Stokes più complesse da trattare, ma di validità più generale rispetto alle sue semplificazioni (equazioni quasi idrostatiche ed equazioni primitive, idrostatiche e non idrostatiche). Tale esigenza è motivata dalla risoluzione raggiunta dagli attuali modelli numerici (grazie alle risorse di calcolo attualmente disponibili), alla quale la validità delle approssimazioni introdotte nei modelli semplificati (idrostaticità, atmosfera shallow ed approssimazione tradizionale) è discutibile; 2. migliorare l’accuratezza e l’affidabilità della dinamica e della parametrizzazione fisica e studiare come i due aspetti interagiscano nei modelli atmosferici; 3. rendere più accurata la rappresentazione delle condizioni iniziali, aumentando il numero di osservazioni disponibili e migliorando il procedimento di assimilazione dei dati; 4. impiegare supercomputers altamente paralleli dalle prestazioni sempre più elevate e codificare i modelli atmosferici in programmi ottimizzati per sfruttare la potenza di calcolo disponibile in modo efficiente.
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Lo sviluppo di un modello della circolazione dell’oceano è una procedura che richiede e unisce conoscenze fisiche, matematiche e informatiche, sfruttando le nuove tecnologie per accesso, analisi e distribuzione dei dati. Tuttavia, per certi aspetti, è necessario anche un tocco di temperamento artistico e di immaginazione perché, pur con la loro logica e rigide regole, i modelli sono interpretazione, piuttosto che rappresentazione fedele della natura. Il punto di partenza di un modello per la circolazione marina è costituito dalle equazioni di Navier-Stokes (NS). Nella nostra similitudine tra scienza ed arte, le equazioni sono equivalenti alla scatola dei colori che possono essere utilizzati da ogni pittore. Ovvero, le equazioni di NS, nella loro formulazione più completa, sono valide per ogni fluido, dall’acqua (oceanografia), all’aria (meteorologia), dal magma (geofisica) all’universo (astrofisica). Come lo stile distingue l’artista, le proprietà fisiche del fluido definiscono le caratteristiche del movimento. Se l’artista sceglie dalla scatola i colori per la tavolozza, il modellista prepara un sottoinsieme di equazioni specifico per un dato ambiente e/o un dato problema. Nel caso dei modelli di circolazione marina, le ipotesi e le approssimazioni più comuni sono: – L’acqua è un fluido incompressibile (ipotesi valida tranne che per i problemi di propagazione acustica). – Poiché la profondità dell’oceano (dell’ordine di 5000 m) è piccola se paragonata al raggio terrestre (dell’ordine di 6000 chilometri), è possibile assumere che le colonne d’acqua siano parallele (e non convergenti al centro della Terra). – L’approssimazione di Boussinesq: le variazioni di densità incidono sulla massa, ma non sul peso. – Equilibrio idrostatico: la differenza di pressione fra due punti sulla stessa colonna d’acqua è uguale al peso come se il liquido fosse in stato di riposo. In generale, la formulazione matematica contiene 5 equazioni prognostiche (le 2 componenti orizzontali della velocità, u e v; l’altezza della superficie del mare, h; temperatura, T e salinità, S). Si ricava così un sistema di equazioni alle derivate parziali che è una combinazione di equazioni di tipo parabolico (equazione di calore), iperbolico (equazione delle onde) e, con ulteriori ipotesi fisiche e/o metodi numerici specifici, di tipo ellittico (teoria del potenziale). I fenomeni di turbolenza e le caratteristiche di moto che avvengono ad una scala più piccola della risoluzione della griglia numerica, sono molto spesso parametrizzati da schemi tensoriali del secondo ordine. Questo comporta l’introduzione di due variabi-
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li prognostiche supplementari. Le forze esterne sono rappresentate dall’energia proveniente dai venti e dal trasferimento di calore e dall’evaporazione in superficie, ottenuti generalmente dai modelli meteorologici.
L’artista nel modellista Pur nella loro semplificata formulazione oceanografica, le equazioni di NS (alle quali generalmente ci si riferisce come ad equazioni primitive) restano complicate e non risolubili analiticamente. Ogni termine rappresenta una forza o un processo fisico, di modo che sono i rapporti fra gli elementi e non i loro valori assoluti che definiscono le principali scale spaziali e temporali del moto. Di conseguenza, è possible ed auspicabile prima isolare i termini in grado di descrivere il movimento, anche se soltanto approssimativamente, e in seguito reintrodurre i termini trascurati per ottenere una rappresentazione più realistica. Il metodo prevede così lo sviluppo di una gerarchia di modelli a complessità crescente.
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Il soggetto Sia l’artista ad illustrare la procedura. Il soggetto dei nostri quadri è la Corrente del Golfo (GS). La Figura 1a è un’immagine della GS da satellite che per gli scopi di questo esempio, definiremo una riproduzione fedele (senza interpretazione) dell’oceano. La GS è un sistema di correnti calde che dal Golfo del Messico arrivano al Mare di Barents, mitigando il clima delle regioni che attraversano. All’inizio la GS scorre parallela alla costa orientale degli Stati Uniti e in prossimità di Cape Hatteras (NC) si muove verso acque profonde. Dopo essersi separata dalla costa, la
Fig. 1a. Immagine infrarossa di telerilevamento della GS. b La mappa di Franklin-Folger (http://sam.ucsd.edu/sio210/gifimages/Franklin_folger.gif)
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GS forma spesso grandi meandri o fluttuazioni del proprio asse. I pescatori hanno sempre saputo dell’esistenza di questa corrente calda (le acque calde sono povere di sostanze nutrienti e quindi a più bassa concentrazione di pesci), ma fu B. Franklin uno dei primi a studiarla e documentarla dettagliatamente, misurando la temperatura dell’oceano in ciascuno dei suoi otto viaggi verso l’Europa. La Figura 1b è la mappa Franklin-Folger stampata nel 1769-70. Con l’uso di questa pianta, le rotte dall’Europa verso l’America potevano ridurre la durata del viaggio evitando la GS, e vicerversa, le rotte dall’America all’Europa potevano trarne vantaggio navigando dentro il sistema [1]. La caricatura Le caricature sono efficaci quando con pochi tratti esagerano e distorgono le caratteristiche più evidenti del soggetto. Similmente, i modelli devono poter identificare i processi dominanti per capire i meccanismi che regolano il moto. Il modello più semplificato della GS si basa su un equilibrio tra la rotazione terrestre (forze di Coriolis) e la particolare distribuzione dei venti sopra il Nord Atlantico (NA). L’immissione di energia da parte dei venti è dissipata da attrito laterale o nel fondo. I venti generalmente soffiano verso ovest nella parte del sud del NA e verso est alle latitiduni più alte. Cristoforo Colombo potè osservare questa distribuzione dei venti mentre risiedeva nelle Isole di Capo Verde e con questa conoscenza attraversò l’oceano alle latitudini più basse approdando in Hispaniola. Stommel [2] propose un modello in cui il NA è approssimato da un bacino rettangolare piatto e i venti da una distribuzione cosinuidale. Dimostrò cosi che le variazioni del parametro di Coriolis con la latitudine sono responsabili dell’intensificazione di una corrente sul lato occidentale del bacino. La Figura 2a indica una soluzione lineare del modello e Figura 2b una soluzione derivata un modello alle equazioni primitive. La non-linearità è la maggiore responsabile dei meandri delsistema e della perdita della simmetria nella soluzione. Il disegno La Figura 3a illustra la soluzione di uno dei primi modelli dinamici del NA [3] che comprende linee costiere ed una topografia più realistiche. A causa delle li-
Fig. 2. Funzioni della corrente del problema di Stommel: (a) modello lineare, (b) modello completamente primitivo di equazione [4]
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Fig. 3a. La pressione superficiale dal modello Holland e Hirschman. b Da MICOM (da http://oceanmodeling.rsmas.miami.edu/micom/micom.html)
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mitate risorse di calcolo disponibili a quel tempo, il modello ha una risoluzione orizzontale, dx, di appena 1o e 14 livelli verticali. A causa del fattore “aliasing” (nessun modello può fornire una rappresentazione dei processi che avvengono ad una scala più piccola di 2dx), la GS è più estesa ed ha la tendenza a scorrere verso nord senza attraversare l’Atlantico. Nonostante tutto ciò, il modello è in grado di riprodurre le caratteristiche principali della circolazione. Il ritratto Con l’aumento delle risorse di calcolo, è ora possibile sviluppare modelli dinamici basati sulle equazioni primitive ad una risoluzione molto fine della griglia numerica. La Figura 3b è la soluzione da MICOM, un modello di circolazione sviluppato all’Università di Miami. Questa configurazione del NA ha una risoluzione orizzontale di 1/12o e 20 livelli verticali (almeno 1000 volte computazionalmente più accurata del modello di Holand and Hirscshman) ed è eseguito con calcolo parallelo [5].
Applicazioni Studi ed applicazioni oceanografiche richiedono stime accurate dei campi fisici (velocità, pressione, temperatura e salinità) ottenuta sia mediante osservazioni dirette, sia mediante simulazioni numeriche. Ciò implica una descrizione dello stato attuale (nowcast) dai dati disponibili e una previsione (forecast) dai modelli che fanno uso di questi dati. Nowcast e forecast sono essenziali per un’ampia categoria di applicazioni quali operazioni militari e marittime, esplorazione e sfruttamento del gas e del petrolio, navigazione e conservazione dell’ambiente. Tuttavia, esiste una differenza fondamentale nel valutare un sistema di previsione mirato alla ricerca o alle applicazioni operative. Un sistema sviluppato per
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la ricerca ha lo scopo di evidenziare la dinamica dominante in una data regione. L’obiettivo è fornire la rappresentazione più accurata delle caratteristiche dinamiche per una zona specifica. Un sistema di previsione a sostegno di applicazioni operative deve essere velocemente configurabile in ogni area dell’oceano (disastri ecologici ed esercitazioni navali sono le applicazioni più rilevanti). L’obiettivo principale è fornire delle buone rappresentazioni ovunque ci siano dati disponibili (o, più realisticamente, nonostante la mancanza di dati disponibili). A tale riguardo, la sviluppo e la valutazione dei due sistemi si basano su valori e principi differenti. Più avanti si descrive brevemente un sistema di previsioni in in tempo reale sviluppato presso il Naval Research Laboratory (NRL) a sostegno delle operazioni navali. Il sistema è eseguibile su vari calcolatori e sistemi operativi ed è velocemente trasferibile da un dominio all’altro. L’analisi e la previsione sono solitamente disponibili per una qualsiasi parte del mondo entro sei ore dalla richiesta, rendendo il sistema particolarmente utile nelle situazioni di emergenza. Tra i vari casi, il sistema è stato applicato durante le operazioni di salvataggio e recupero del sommergibile russo Kursk nel Mare Di Barents (agosto 2000) e del peschereccio giapponese Ehime affondato nei pressi di Pearl Harbor (agosto 2001) e attualmente è utilizzato dalle operazioni di recupero dopo il naufragio della Prestige. Il naufragio della Prestige Giovedì 14 novembre 2002, la petroliera Prestige con 20 milioni di tonnellate di greggio si imbatte in violente tempeste, con eccezionali venti forza uragano, al largo delle coste atlantiche spagnole. Una falla si apre nello scafo e la petroliera inizia a perdere il suo carico. Il perdurare del maltempo ostacola gli sforzi di contrastare con barriere fluttuanti la macchia nera che rapidamente si dirige verso le coste della Galizia e successivamente anche verso le coste cantabriche e francesi. Nel frattempo, con una decisione controversa e forse discutibile, la petroliera, che continua a perdere il suo carico, viene trainata al largo. Il 19 novembre, la Prestige si spezza e affonda a circa 200 km dalla costa e a 3500 m di profondità (Fig. 4a). Si valuta che 1-2 milioni di tonnellate di petrolio siano stati riversati in mare e che dal fondo marino Prestige continui a perdere circa 125 tonnellate di greggio al giorno. A causa dell’alta viscosità e scarsa densità del materiale, i filamenti emergono alla superficie (Fig. 4b). L’onda nera stravolge la bellezza di una costa che si sosteneva quasi esclusivamente sulla pesca e sul turismo, settori economici praticamente distrutti. Il danno ecologico ed ambientale è incalcolabile, con gravi minacce sulle specie animali. L’inquinamento tossico dovuto alle sostanze dissolte e ingerite dalla flora e dalla fauna marina è ancora sconosciuto ed è impossibile valutare quando gli effetti decadranno. Le operazioni di intervento si svolgono subito su due fronti: la ripulitura delle coste colpite ed il contenimento in alto mare della macchia nera tramite barricamenti e navi aspiranti. Un uso efficace di queste risorse richiede la valutazione e la previsione delle correnti marine, da cui l’esigenza del supporto in tempo reale di modelli di circolazione. Grazie a precedenti contatti e collaborazioni, NRL si offre, su base volontaria, di mettere a disposizione di Puertos Estados
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Fig. 4a. La posizione della Prestige. b Un’immagine aerea dell’onda nera nei primi giorni del disastro
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(PE), (un’organizzazione molto vicina alla nostra Capitaneria di Porto), dati e previsioni derivati da modelli dinamici sviluppati e mantenuti dal laboratorio in appoggio di operazioni ed applicazioni della flotta Americana. Il 20 novembre, dopo appena sei ore dalla richiesta, i primi risultati erano già a disposizione di PE e da quel giorno si è stabilito un flusso giornaliero di dati. E fu così che la matematica e le altre scienze si sono messe al servizio della flora e della fauna delle coste spagnole.
Il sistema di previsione I dati trasmessi quotidianamente in Spagna provengono da NCOM_OS [6] un sistema di previsione che si basa su NCOM, un modello dinamico sviluppato da NRL. Per una rapida configurazione, NCOM_OS fa affidamento su un insieme di dati e prodotti disponibili su scala globale (quali la topografia, i venti, l’analisi dei dati satellitari). Questi prodotti sono generalmente a bassa risoluzione per cui il sistema ha la capacità di sostituirli con dati locali ad alta definizione, se/quando sono disponibili. Per esempio, nel caso delle simulazioni per la Prestige, i venti per la parte orientale del NA sono ottenuti da COAMPS, un sistema di previsione metereologica (www.fnmoc.navy.mil/PUBLIC). Una soluzione delle equazioni di NS richiede la specificazione dello stato iniziale e delle condizioni al contorno. Nel ciclo di previsioni, NCOM_OS è ogni giorno inizializzato dal nowcast del giorno precedente e forzato dalle previsioni dei venti. Il forecast è generalmente fornito per 48 ore. Questo intervallo è stato scelto in quanto risulta essere il periodo tipico in cui le previsioni metereologiche sono più accurate. Molto più complessa è la definizione delle condizioni al contorno che generalmente includono arbitrarie linee sul mare aperto. È ben noto che i problemi con condizioni al contorno di tipo aperto (OBC) sono mal posti: unicità ed esistenza delle soluzioni sono conosciute soltanto per una ristretta categoria di operatori.
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NCOM assume che i fenomeni che si propagano all’interno del dominio siano noti e specificati come forze esterne ed utilizza procedure numeriche che lasciano il più possible inalterate le caratteristiche che si propagano fuori del dominio. Se non è realistico assumere che esistano dati disponibili alle risoluzioni spaziali e temporali necessarie per specificare le condizioni al contorno, è invece possible estrarre le OBC da altri modelli configurati su un dominio più esteso. Nel caso di NCOM_OS, le OBC provengono da una versione di NCOM configurata su scala globale ad una risoluzione di circa 1/8° in latitudine e longitudine. Le previsioni del modello (d’ora in poi richiamato con la sigla come NCOM_GLB) sono disponibili in tempo reale presso NAVOCEANO, un altro istituto della marina americana (www7320.nrlssc.navy.mil/global_ncom./index.html). NCOM_GLB, le analisi dei dati satellitari assimilati dal modello, e le previsioni meteorologiche sono effettuati durante la notte in parecchi centri di calcolo e sono ricevuti da NRL nelle prime ore del giorno. Con una serie di comandi automatizzati, le simulazioni della Prestige sono effettuate alle 7:30 Central Standard Time (CST) e le 48 ore di previsione sono a disposizione degli scienziati spagnoli su un anonimo FTP dopo circa 2 ore. Fortunatamente, il ritardo è compensato dai dati trasmessi il giorno precedente. Dalle previsioni delle correnti di superficie, l’Universidad de Cantabria simula la traiettoria dell’onda nera e così dirige le operazioni quotidiane di pulitura in mare. Durante le operazioni in tempo reale, uno dei problemi più urgenti è la verifica delle soluzioni. Un’analisi a posteriori può apportare indicazioni e suggerimenti per applicazioni future, ma non per quelle a cui il modello è applicato. Un metodo molto comune è paragonare le soluzioni del modello con i dati raccolti durante le stesse operazioni e possibilmente apportare verifiche prima del prossimo ciclo di previsione. Per la Prestige, una fonte di dati è una serie di boe e sta-
Fig. 5a. Le componenti di velocità misurati alla boa Sillero (linea tratteggiata) e previsti dal modello (linea continua) per il periodo 12-22 dicembre 2002. U è la componente di velocità in direzione Ovest-Est e V quella in direzione Sud-Nord, rispettivamente. b Simulazione (linee continue) e posizione delle boe fluttuanti per i giorni 23-24 dicembre 2002
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zioni del livello marino che PE mantiene lungo le coste spagnole e i cui dati sono disponibili in tempo reale al sito Web: www.puertos.es/index.jsp (sotto oceanografia e meteorologia). La Figura 5a paragona le correnti di superficie previste con i dati della boa Sillero nei primi giorni della crisi. Ciò ha permesso un controllo quasi immediato del modello e una calibratura mirata di alcuni parametri numerici. La Figura 5b paragona la previsione del modello con le boe fluttuanti lanciate lungo il litorale della Cantabria. Questi strumenti seguono le correnti e trasmettono periodicamente (parecchie volte al giorno) ai satelliti ARGOS la loro posizione e le misurazioni di alcuni dati, fra cui i più comuni sono temperature dell’acqua e dell’aria, vento e pressione atmosferica. I satelliti riflettono il segnale ai laboratori che possono così ricevere le informazioni in tempo reale. Siamo particolarmente fieri dei risultati indicati nella Figura 5 perché indicano che il modello è capace di fornire la riproduzione delle correnti con una precisione considerevole.
Conclusioni
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I modelli dinamici sono solitamente l’ultimo anello di una lunga catena di prodotti. La qualità di una previsione dipende dalla conoscenza dello stato attuale e dell’accuratezza del nowcast derivato. Ciò implica una rete di osservazioni provenienti dal telerilevamento satellitario, alle boe fisse e fluttuanti, alle navi e, più recentemente, agli AUV, i veicoli subacquei telecomandati. Generalmente i dati convergono ad un certo laboratorio o centro operativo e sono spesso processati con le simulazioni numeriche per poter fornire una rappresentazione tridimensionale dell’oceano che possa essere usata come condizione iniziale ed al contorno per il prossimo ciclo di previsione. I centri meteorologici forniscono i dati atmosferici con una procedura molto analoga. Per ogni prodotto, per ogni fase di questa procedura esiste una squadra di persone e sono richieste particolari risorse tecnologiche e di calcolo [7]. Tuttavia, nonostante l’applicazione di discipline scientifiche e tecnologiche , lo sviluppo di modelli richiede anche un pizzico di estro artistico e di una certa creatività nell’esprimere processi fisici in formule.
Ringraziamenti Questo lavoro è stato parzialmente sponsorizzato dal Naval Research Labarotory Code 7320. L’autore desidera ringraziare Dr. C. Barron, Mr. D. Fox, Ms. L. Smetdstad e Mr R. Rhodes (NRL) per la loro collaborazione, per il loro supporto e la loro amicizia. Grazie anche al Dr. E. Alvarez Funjul di Puertos Estados per i suoi continui incoraggiamenti e per la sua collaborazione. All’inizio della crisi per il naufragio della Prestige, i contatti tra NRL e del PE sono stati possibili grazie all’interesse del delegato militare, Cmdr R. Robichaud, conseguentemente trasferito e sostituito dal capitano R. Garrett.
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matematica e architettura
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La cupola a mouqarnas della sala delle due sorelle dell’Alhambra di Granada JEAN MARC CASTERA
Il lavoro di Jules Goury e di Owen Jones Nel 1834 due giovani architetti, l’inglese Jones Owen ed il francese Jules Goury, soggiornarono a lungo a Granada per studiare accuratamente il palazzo dell’Alhambra. Sfortunatamente si trattò di un viaggio di sola andata per Jules Goury che, contratto il colera, morì a Granada il 28 Agosto del 1834. Piani, tagli, rialzi, rilievi a sbalzo e decorazioni, forme e calchi, fornirono la materia per un’opera notevole [1], in folio in due volumi con 104 tavole incise, della quale è presente una copia presso la Biblioteca Nazionale di Francia. Essa raccoglie un ponderoso studio della sala delle due sorelle con spaccati e piante della cupola. Le tavole presenti sono state successivamente riprodotte numerose volte in diverse opere dedicate all’architettura islamica.
Fig. 1. Fotografia della cupola. Una “alluvione” di geometria
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Fig. 2. Sezione e piano di proiezione della cupola, secondo Goury e Jones
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Lo studio condotto è quello tipico dell’indagine architettonica occidentale per il quale sono necessari due piani di proiezione (pianta ed alzato) per tener conto della struttura tridimensionale. Vedremo in seguito come queste informazioni possano essere contenute in un’unica rappresentazione piana che includa un codice di rappresentazione dei vari pezzi del mouqarnas. D’altra parte, è sorprendente che gli autori dello studio non abbiano segnalato l’irregolarità che si manifesta nel piano di proiezione pur avendola riscontrata preparando la loro pianta.
Struttura a mouqarnas: i principi I mouqarnas sono gli elementi principali che caratterizzano lo stile dell’architettura islamica. Esistono naturalmente delle differenze regionali: ad esempio, essi sono generalmente costruiti in laterizio per strati successivi in Iran o in Iraq, mentre vengono realizzati in pietra in Siria e in Egitto. Nelle regioni araboandaluse si tratta invece di costruzioni modulari, in legno o in gesso. Sono generalmente, a parte rare eccezioni, basati su simmetria ottagonale, anche se la simmetria pentagonale è assai frequente nello stile persiano. I moduli possono essere in legno, di solito di cedro, o in gesso. Vengono quindi assemblati come a formare un immenso puzzle basato su un numero modesto di forme differenti. L’uso del legno come la tecnica dello zellij per le decorazioni piane, impone un tracciato ben preciso a ciascuna forma. Al contrario, l’uso del gesso consente maggior libertà nei raccordi tra moduli, permettendo delle piccole deformazioni di alcuni pezzi. I pezzi vengono quindi decorati (con pit-
La cupola a mouqarnas della sala delle due sorelle dell’Alhambra di Granada
Fig. 3. Taglio dei 4 pezzi principali. Partendo da un prisma triangolare, per i primi due, rombico per i restanti. Le parti visibili sono colorate in nero
ture e sculture) solo dopo essere stati assemblati. In particolare, la cupola della sala delle due sorelle è stata realizzata in gesso, utilizzando più di 5000 pezzi. Tutti i pezzi sono dei prismi retti che hanno subito ad un’estremità, quella che sarà visibile nel mouqarnas, un taglio, generalmente a formare una superficie curva. Queste superfici si raccordano con continuità dando l’impressione che il mouqarnas sembri più una pelle che un volume. Il dettaglio del disegno del singolo pezzo non ha alcuna importanza a livello strutturale in quanto uno stesso assemblaggio può prestarsi a delle ricoperture di stile enormemente differente. Quattro forme diverse bastano a costruire un’infinità di strutture. Due sono sezioni di un prisma triangolare (un semi-quadrato), due sono invece ottenute a partire da un prisma che ha come sezione un rombo a 45°. Il taglio si esegue su un’unica curva, applicata su determinate facce del prisma. Questa curva definisce il profilo dei mouqarnas, e ha in generale una pendenza di circa 30° rispetto alla verticale. Codifica nella rappresentazione: per diversificare sul piano di proiezione due pezzi che presentino la stessa sezione (triangolare o romboidale), apporremo un punto in quei vertici che si trovano nella parte inferiore del pezzo. Un punto siffatto verrà chiamato il “piede” del modulo.
Fig. 4. I quattro principali pezzi di mouqarnas e le loro rappresentazioni piane. Per facilitare la lettura sul piano, abbiamo denotato il pezzo numero 4 con 3 punti invece di uno solo. Alla sua destra, lo stesso pezzo in una sua realizzazione in gesso decorato secondo lo stile dell’Alhambra. Il pezzo numero 5 è una variante del pezzo numero 1
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Fig. 5. Formazione di un gruppo di mouqarnas e le sue varianti con un nuovo pezzo a sezione rettangolare
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Le regole di assemblaggio. L’assemblaggio viene effettuato mettendo in comune fra due pezzi uno o più spigoli curvi. Due spigoli non possono essere messi in comune se non hanno lo stesso orientamento. E, in tal caso, esiste un unico posizionamento possibile. Di conseguenza, grazie alla codifica introdotta, una rappresentazione piana contiene tutte le informazioni della struttura: sapendo poi la pendenza del mouqarnas, o l’altezza di un solo modulo, potremo completare la rappresentazione. Gli altri pezzi. Oltre ai 4 pezzi principali si incontrano numerosi altri pezzi secondari, come ad esempio il pezzo a sezione rettangolare della Figura 5 e le sue varianti. Due piccoli pezzi “a mandorla” provengono dalla scomposizione del pezzo numero 3. Ci sono anche dei semi-pezzi utilizzati per raccordare angoli, che sono dei pezzi ad un sol livello (i piccoli quadrati in verde della Fig. 6; vedi la sezione a colori). Quanto alla “chechia”1, si tratta di una cupoletta messa al posto di un insieme di pezzi in cima ad una cupola (Figg. 9 e 15).
Elementi per una lettura simbolica di una sala con cupola Struttura Una sala con cupola è costituita da tre elementi principali: – La sala, di pianta quadrata. – La cupola, a base circolare o poligonale (con almeno 8 lati). – Il tamburo che è l’elemento intermediario, di solito ottagonale, che permette il passaggio dalla forma quadrata a quella della base della cupola. Serve quindi da base per la cupola e si appoggia a sua volta sulle quattro pareti della sala. Quest’ultimo elemento proviene dunque da una necessità architettonica: un cerchio non può appoggiarsi solidamente su un quadrato. I lati diagonali del tamburo chiedono a loro volta però di essere sostenuti e, a questo scopo, sono tipicamente destinati i pennacchi. Da un punto di vista simbolico Il quadrato rappresenta la terra, con i quattro punti cardinali. Rispetto all’uomo è pertanto il suo aspetto materiale. È anche la discontinuità, e per estensione, l’aspetto atomistico della materia, la separazione delle coscienze individuali. 1
La chechia è una sorta di fez rosso con un ponpon blu che costituiva parte dell’uniforme portata dagli Zuavi francesi.
La cupola a mouqarnas della sala delle due sorelle dell’Alhambra di Granada
Fig. 6. Disegno del piano della cupola
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Il cerchio è il cielo, la linea dell’orizzonte così come ci appare quando, sdraiati al sole, si leva lo sguardo verso lo zenith. È anche la forma delle entità superiori che abitano il cielo inaccessibile, la Luna e il Sole e costituisce, seppur in prima approssimazione, la traiettoria che gli astri disegnano nel cielo. È anche la continuità e il movimento ciclico infinito, ed infine l’idea dell’unità, il cerchio erede della simbologia del cielo. Rispetto all’uomo il cielo rappresenta il suo aspetto immateriale, aereo e spirituale. Una sala culminante con una cupola realizza quindi in modo simbolico, attraverso un movimento verso l’alto, il passaggio alchemico dal quadrato al cerchio, dall’uomo materiale a quello spirituale, dalla coscienza individuale a quella cosmica che realizza l’ideale di non separazione. Il passaggio dal quadrato al cerchio ha come intermediario l’ottagono che può essere visto come il frutto dell’incontro amoroso di due quadrati complementari e ruotati uno rispetto all’altro di 45°. Una connotazione d’amore, dalle molteplici descrizioni, definizioni, dalle infinite note evocatrici ed invocazioni poetiche, che si ritrova in tutte le forme di spiritualismo.2
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Questo simbolismo (dal quadrato al cerchio, dalla terra al cielo) ha un carattere fortemente universale, al di là della connotazione che gli attribuirà una religione od una particolare filosofia. Le prime moschee, così come i primi templi, erano di semplici edifici che delimitavano un’area rettangolare, aperta verso il cielo. La moschea minimale è in effetti il tappeto per la preghiera che è di forma rettangolare. Un bacino d’acqua è spesso posto al centro dell’edificio a costituire uno specchio naturale che riflette l’immagine del cielo, rappresentato dalla cupola: la presenza del cielo sulla terra. Si tenga anche conto che si trovano talvolta dei tamburi doppi costituiti da un tamburo a 8 lati che sormonta un tamburo a 16 lati (come ad esempio nella moschea di Vendredi a Isphahan in Iran).
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La sala delle due sorelle: rilevamento della mappa
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La cupola Il rilevamento: il triangolo impossibile Il rilevamento è stato effettuato a partire da fotografie, utilizzando una tecnica di disegno _ a mano riportato su un foglio di carta quadrettato (nel quale si approssima √2 con 1,5). Disegnando la mappa, si capisce però che c’è qualcosa che non torna: “qualcosa non quadra!”. In effetti ne abbiamo avuto la conferma analizzando le lunghezze dei lati del triangolo che definisce la 16° parte della cupola (si veda la Fig. 7). In effetti, i pezzi del mouqarnas inducono un ricoprimento mono-dimensionale di questi lati con due tipi di segmenti (in blu e in giallo nella figura; vedi la sezione a colori). Se si adotta la lunghezza del segmento piccolo come unità, al_ lora la lunghezza di quello grande è √2. Basta allora calcolare i segmenti per ottenere (rispetto alla scala considerata) la lunghezza dei lati del triangolo rettan_ _ golo, 8+6√2 per il minore, 18+15√2 per il maggiore. O, è altrettanto semplice verificare che un tal triangolo rettangolo, con un angolo di 22,5° è... impossibile! Ne deduciamo che certi pezzi devono essere necessariamente irregolari. Soluzione proposta La soluzione più semplice consiste nel concentrare le irregolarità nel piccolo gruppo di pezzi colorati in blu nel disegno di Figura 6 (vedi la sezione a colori), che saranno deformati lungo l’orizzontale. Servirebbe tuttavia un’indagine supplementare per sapere se questa è stata la soluzione adottata dai costruttori dell’Alhambra.
Fig. 7. Analisi delle dimensioni: il trangolo impossibile
La cupola a mouqarnas della sala delle due sorelle dell’Alhambra di Granada
Fig. 8. Una soluzione possibile per il centro
Fig. 9. La soluzione adottata
Uno pseudo pentacolo Un’altra stranezza osservabile (Figg. 6 e 16) è costituita dal pentagono stellato che sembra sulla pianta a prima vista regolare. Tuttavia non ci possono essere pentagoni regolari in una struttura siffatta. Una stupefacente rottura di simmetria Consideriamo la zona centrale della cupola, rappresentata in Figura 6. In Figura 8 riportiamo come avrebbe potuto essere assemblato il mouqarnas: una soluzione classica con pezzi standard e rispetto della simmetria ottagonale che detta legge in questa struttura. Insomma, nessuna sorpresa.
Fig. 10. Disposizione a mouqarnas degli spicchi negli angoli: rilievo a mano e rappresentazione esatta. Tutti i pezzi sono regolari
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Fig. 11. Rappresentazione in assonometria (modellazione 3D senza decorazioni dei pezzi del mouqarnas)
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D’altra parte, noi ora ci troviamo nell’Alhambra e, di conseguenza, nulla è così semplice. La Figura 9 mostra infatti la soluzione realmente adottata: tutti i pezzi sono regolari, ma la simmetria è andata perduta a causa della disposizione totalmente originale di alcuni pezzi (i quadrilateri romboidali grigi nel disegno). La legge costituita dal rispetto della simmetria ottagonale si dissolve, in un modo quasi invisibile per l’osservatore, proprio al di sotto della chechia, al vertice della cupola. Che si tratti di una qualche allusione un poco sovversiva? Ecoinçons e fregi La parte inferiore del tamburo riposa sui quattro muri della sala. I vuoti nei quattro angoli del quadrato devono essere colmati per ripartire il carico (quello della cupola portante, invisibile all’interno, ed alla quale è sospesa la cupola a mouqarnas, puramente decorativa). Questo scopo viene raggiunto con un assemblaggio di mouqarnas. I quattro spigoli sono collegati con un fregio molto semplice di mouqarnas, del tutto regolare. Facciamo solo notare che i pezzi usati sono stati realizzati ad una scala inferiore rispetto a quelli usati per la cupola (forse per delle considerazione di prospettiva?).
Modellazione 3D Le immagini che seguono, estratte da un’animazione 3D, mostrano la ricostruzione della cupola a partire dalla pianta, disegnata a mano.
La cupola a mouqarnas della sala delle due sorelle dell’Alhambra di Granada
Fig. 12. Tracciato in piano ed elevazione. I pezzi di mouqarnas sono stati semplificati all’estremo: semplici quadrilateri che rimpiazzeremo in seguito da pezzi più realistici. Alcuni elementi sono già stati rappresentati con volumi
Fig. 13. In primo piano, l’insieme dei pezzi irregolari. Vista dall’esterno
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Fig. 14. Ascensione verso la sommità della cupola
Fig. 15. Il vertice, visto dall’interno. La simmetria della chechia è a 16 lati, e culmina con un cerchio. Notate, subito sotto, la perdita di simmetria
Fig. 16. Stella pentagonale, irregolare malgrado le apparenze
Fig. 17. Raccordo della cupola al tamburo ottagonale
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Fig. 18. Raccordo del tamburo ottagonale con i quattro muri della sala, con i raccordi negli spigoli adornati da mouqarnas
Fig. 19. Piano finale
Bibliografia [1] J. Goury, O. Jones (1842) Plans, elevations, esctions and details of the Alhambra, London
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Per gli studi tecnici sui mouqarnas vedere l’elenco seguente, in ordine cronologico J. Rosintal (1928) Pendentifs, trompes et stalactites dans l’architecture orientale, Librairie Orientaliste, Paris J. Rosintal (1938) L’origine des stalactites de l’architecture orientale, Librairie Orientaliste, Paris H. Terrasse (1968) La mosquée Al-Qaraouiyin à Fez, Klincksieck, Paris B.P. Maldonado (1975) El arte musulman en su decoration geometrica, Instituto Hispanico Arabe de Cultura, Madrid M. Ecochar (1978) Filiation des monuments grecs, bysantins et islamiques: une question de géométrie, P. Geuthner, Paris A. Paccard (1980) Le Maroc et l’artisanat traditionnel islamique dans l’architecture, Atelier 74, Annecy C. Ewert, J.-P. Wissmak (1984) Die moschee von Tinmal, Deutsches Archäologisches Institut Madrid, Verlag Philippon Zabern, Mainz am Rhein (un buon esempio dal punto di vista occidentale) J.M. Castera (1986) Arabesques, ACR, Paris M. Sakkal (1988) An introduction to muqarnas domes geometry, in: Structural topology, Vol. 4, Université du Québec à Montréal G. Necipoglu (1995) The Topkapi scroll: geometry and ornament in Islamic architecture, Getty Research Institute
MATHLAND Dalla topologia all’architettura virtuale MICHELE EMMER
Premessa Sono andato in ottobre a visitare la Biennale di Architettura di Venezia del 2004. Dato che il tema della Biennale era “Metamorph” e dato che molte delle cose esposte erano di grande interesse per quello che intendevo scrivere, ho voluto aggiungere una breve premessa a quanto ho scritto sui legami tra architettura e matematica. Molti dei grandi atti creativi nell’arte e nella scienza possono essere visti come fondamentalmente metamorfici nel senso che comportano la riformulazione concettuale dei principi ordinatori da un ambito dell’attività umana a un’altra analogia visiva. Vedere qualcosa come essenzialmente simile a un’altra è servito come strumento chiave nell’evoluzione della forma mentis in ogni campo della ricerca umana. Ho usato la espressione “intuizioni strutturali” per cercare di catturare la mia sensazione in relazione al modo in cui tali metamorfosi concettuali operano nelle arti visive e nelle scienze... Esiste qualcosa che accomuna i creatori delle opere d’arte e gli scienziati negli impulsi, nella curiosità, nel desiderio di produrre immagini comunicative e funzionali di quello che vedono e si sforzano di capire? L’espressione “intuizioni strutturali” cerca di catturare quello che mi proponevo di dire in una frase, ovvero che scultori, architetti, ingegneri, designer e scienziati spesso condividono un profondo coinvolgimento con le magiche strutture che emergono nelle configurazioni e nei processi della natura i in quelli semplici come in quelli complessi... Credo che l’uomo ricavi una soddisfazione profonda dalla percezione dell’ordine all’interno del caos, una soddisfazione che dipende dal modo in cui i nostri cervelli hanno sviluppato i meccanismi per l’estrazione dei patterns sottesi, statici e dinamici.1 Così scrive Martin Kemp, storico dell’arte, specializzato nei rapporti tra arte e scienza, nell’articolo “Intuizioni strutturali e pensiero metamorfico nell’arte, architettura e scienze”, contenuto in Focus [1], uno dei volumi che compongono il catalogo della Mostra Internazionale di Architettura di Venezia 2004. Kemp nel suo articolo parla soprattutto di architettura. Come di grande complessità, di enorme numero di varianti, sviluppate tramite l’innovazione tecnolo-
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[1], pp. 31-43.
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gica, essenziale, di superfici continue in trasformazione parla il curatore della mostra Kurt W. Forster, citando l’articolo del matematico Ian Stewart intitolato Nature’s numbers: discovering order and Pattern in the Universe (1995)2. Parole chiave: pattern, struttura, motivo, ordine, metamorfosi, variazioni, trasformazioni, matematica [2]. Parole, progetti, idee della Biennale 2004 che erano visivamente molto legate a quanto volevo scrivere sui legami tra matematica, architettura, topologia, trasformazione. Parole, progetti, idee, in continuità con la Biennale precedente del 2002 da cui volevo partire. Ecco perché ho voluto aggiungere questa rapida premessa.
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Nell’estate del 2002 si è tenuta a Venezia la Biennale di Architettura. Tra i tanti progetti e le tante idee in mostra, alcune molto interessanti, altre solo più o meno stravaganti, vi era il progetto per un museo del mondo ellenico, del gruppo di architetti chiamato Anamorphosis Architects, formato da Nikos Georgiadis, Tota Mamalaki, Kostas Kakoyiannis, Vaios Zitounolis. Progetto in cui grande enfasi era data alla spazialità della costruzione, un grande spazio continuo in trasformazione, suggerita da linee curve che si avvolgevano a spirale contorcendosi, mentre al centro di una grande spirale si trovava la sede espositiva del periodo classico della civiltà greca. Quell’edificio era in qualche senso l’inizio e la fine (temporanea) di un discorso iniziato con la geometria euclidea migliaia di anni fa. Una geometria che è stata alla base, insieme alla filosofia greca, del formarsi della civiltà occidentale come la conosciamo oggi. Senza dimenticare ovviamente l’influenza di tante altre civiltà, prima tra tutte quella islamica che ha permesso all’Europa di riscoprire la civiltà greca dimenticata. Ci sono alcune questioni da indagare per capire almeno in parte come hanno contribuito nel corso dei secoli elementi filosofici, artistici, scientifici, culturali in una parola, alla sintesi di un progetto come quello per la civiltà ellenica. Una sorta di viaggio all’interno della civiltà occidentale degli ultimi duemila anni e più, privilegiando, dal mio punto di vista, gli aspetti culturali legati alla geometria, alla matematica, all’architettura.
Lo spazio è matematica Parmi di scorgere ferma credenza che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando Furioso, libri ne’ quali la meno importante cose è che quello che vi è scritto sia vero. La cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua mate-
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[1], pp. 9-10.
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Fig. 1. Anamorphosis Architects, Athens, Greece, Project for the museum of the Hellenic world (2002) © Anamorphosis Architects
matica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. Parole di Galileo Galilei scritte ne Il Saggiatore, pubblicato a Roma nel 1623. Senza le strutture matematiche non si può comprendere la natura. La matematica è il linguaggio della natura. Facciamo un salto di molti secoli. Nel 1904 un famoso pittore così scriveva ad Emile Bernard: Traiter la nature par le cylindre, la sphère, le cône, le tous mis en perspective, soit que chaque côté d’un objet, d’un plan, se dirige vers un point central. Les
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lignes parallèles à l’horizon donnent l’étendue, soit une section de la nature? Les lignes perpendiculaires à cet horizon donnent le profondeur. Or, la nature, pour nous hommes, est plus en profondeur qu’en surface, d’où la nécessité d’introduire dans nos vibrations de lumière, représentée par les rouges et le jaunes, une somme suffisante de bleutés, pour faire sentir l’air.
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Commentava lo storico dell’arte Lionello Venturi che non si vedono cilindri, sfere e coni nelle pitture di Cézanne, infatti è di lui si tratta, quindi la frase esprimeva un’ideale aspirazione ad un’organizzazione di forme trascendenti la natura, non altro. Negli stessi anni in cui Cézanne dipingeva, anzi qualche tempo prima, il panorama della geometria era cambiato dagli anni di Galileo. La geometria nel corso della seconda metà del XIX secolo era profondamente mutata. Lobacevskij e Bolyai tra gli anni 1830-1850 costruirono i primi esempi di geometrie non-euclidee, in cui non era valido il famoso V postulato di Euclide sulle rette parallele. Non senza dubbi e contrasti, Lobacevskij chiamò la sua geometria (oggi denominata “geometria non-euclidea iperbolica”) geometria immaginaria, tanto era in contrasto con il senso comune. La geometria non euclidea restò ancora per alcuni anni un aspetto marginale della geometria, una sorta di curiosità, fino a che non venne incorporata nella matematica come sua parte integrante attraverso le concezioni generali di G.F.B. Riemann (1826-1866). Nel 1854 Riemann tenne davanti alla Facoltà dell’Università di Gottinga la famosa dissertazione dal titolo Ueber die Hypothesenwelche der Geometrie zur Grunde liegen (Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria), che fu pubblicata solo nel 1867. Nella sua presentazione, Riemann sosteneva una visione globale della geometria come studio di varietà di un numero qualsiasi di dimensioni in qualsiasi genere di spazio. Secondo la concezione di Riemann, la geometria non doveva neppure necessariamente trattare di punti o di spazio nel senso ordinario, ma d’insiemi di n-ple ordinate. Nel 1872 Felix Klein (1849-1925), divenuto professore ad Erlangen, nel discorso inaugurale, noto con il nome di Programma di Erlangen, descriveva la geometria come lo studio delle proprietà delle figure aventi carattere invariante rispetto a un particolare gruppo di trasformazioni. Di conseguenza ogni classificazione dei gruppi di trasformazioni diventava una codificazione delle diverse geometrie. Ad esempio, la geometria Euclidea del piano è lo studio delle proprietà delle figure invarianti rispetto al gruppo di trasformazioni rigide del piano formato dalle traslazioni e dalle rotazioni. Jules Henri Poincaré affermava che: ... gli assiomi geometrici non sono né giudizi sintetici a priori, né fatti sperimentali. Sono convenzioni; la nostra scelta, fra tutte le convenzioni possibili, è guidata da fatti sperimentali, ma resta libera e non è limitata dalla necessità di evitare ogni contraddizione. È così che i postulati possono restare rigorosamente veri, anche se le leggi sperimentali che hanno determinato la loro adozione non sono che approssimative. In altri termini, gli assiomi della geometria non sono che definizioni travestite. Pertanto, che pensare della domanda: È vera la geometria euclidea? Essa non ha nessun senso. Così come non ha senso domandarsi se il sistema me-
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trico sia vero e siano falsi i vecchi sistemi di misura; o se le coordinate cartesiane siano vere, e false quelle polari. Una geometria non può essere più vera di un’altra; può solo essere più comoda. La geometria euclidea è, e resterà, la più comoda. Si deve sempre a Poincaré la nascita ufficiale di quel settore della matematica che oggi si chiama Topologia con il volume Analysis Sitûs, traduzione latina del nome greco, pubblicato nel 1895: Per quanto mi riguarda, tutte le diverse ricerche delle quali mi sono occupato mi hanno condotto all’Analysis Sitûs (letteralmente Analisi della posizione). Poincaré definiva la topologia come la scienza che fa conoscere le proprietà qualitative delle figure geometriche non solo nello spazio ordinario ma anche nello spazio a più di tre dimensioni. Se a tutto questo si aggiunge la geometria dei sistemi complessi, la geometria dei frattali, la teoria del caos e tutte le immagini “matematiche” scoperte (o inventate) dai matematici negli ultimi trent’anni utilizzando la computer graphic, si comprende facilmente come la matematica abbia contribuito in modo essenziale a cambiare più volte la nostra idea di spazio, dello spazio in cui viviamo e dell’idea stessa di spazio. Si comprende altresì che la matematica non è mero strumento di ricette di cucina, ma ha contribuito, quando non ha determinato, il modo che abbiamo di concepire lo spazio sulla terra e nell’universo. In particolare la topologia, la scienza delle trasformazioni, la scienza degli invarianti. Si veda ad esempio a New York il progetto di Frank O. Gehry per il nuovo museo Guggenheim di Manhattan. Un progetto ancora più stimolante, ancora più topologico di quello per il Guggenheim di Bilbao. Certo il salto culturale è notevole; si tratta di costruire utilizzando tecniche e materiali che consentano di realizzare la trasformazione rendendola quasi continua: una sorta di contraddizione tra la costruzione finita e la sua deformazione. È un segno interessante che si cominci a studiare l’architettura contemporanea utilizzando anche gli strumenti che la matematica, la scienza, mettono a disposizione. Strumenti culturali oltre che tecnici. Vale la pena sottolineare come la scoperta (o invenzione) delle geometrie non euclidee e delle dimensioni più alte, a partire dalla quarta, sia uno degli esempi più interessanti anche per le profonde ripercussioni che molte delle idee dei matematici avranno sulla cultura umanistica e sull’arte. Come per ogni buon viaggio bisogna tracciare un itinerario, itinerario in cui saranno presenti gli elementi che si utilizzano per dare un senso alla parola Spazio. Il primo elemento è senza ombra di dubbio lo spazio che Euclide è venuto delineando, con le definizioni, gli assiomi, le proprietà degli oggetti che in questo spazio devono trovare posto. Spazio che sarà quello della perfezione, lo spazio platonico. L’uomo come matrice e misura dell’universo, idea che attraversa i secoli. La matematica, la geometria che devono spiegare tutto, anche la forma degli esseri viventi: Le curve della natura, titolo di un famoso libro del Novecento
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Fig. 2. Frank O. Ghery Project for the new Guggenheim museum in Manhattan. Per gentile concessione © Keith Mendenhall for the Gehry Partners Studio
di Cook che certo non si immaginava quanto potesse essere vero ritrovare in forme della natura, addirittura in quelle che sono all’origine della vita, alcune curve matematiche. Dal famoso libro di D’Arcy Thompson Crescita e forma del 1914 alla teoria delle catastrofi di René Thom, alla complessità e all’effetto Lorentz e ai sistemi dinamici non lineari. Il secondo elemento è la libertà; la matematica, la geometria sembrano essere il regno dell’aridità. Chi non si è occupato mai di matematica, chi non ha mai studiato con interesse la matematica a scuola, non riesce a capire la profonda emozione che essa può suscitare. Né costoro possono concepire che la matematica sia una attività altamente creativa. Né che sia il regno della libertà dove non solo si inventano (o si scoprono) nuovi oggetti, nuove teorie, nuovi campi di attività della ricerca, ma si inventano anche i problemi. Non avendo inoltre il matematico bisogno in molti casi di ingenti risorse finanziarie, si può ben dire che la matematica sia il regno della libertà e della fantasia. E certo del rigore. Del corretto ragionare.
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Il terzo elemento su cui riflettere è come tutte queste idee vengono trasmesse e assimilate, magari non comprese a fondo e solo orecchiate dai diversi settori della società. Ha scritto l’architetto Alicia Imperiale nel capitolo Tecnologie digitali e nuove superfici del libro Nuove bidimensionaltà [2]: Gli architetti si appropriano liberamente di metodologie specifiche di altre discipline. Ciò può essere attribuito al fatto che ampi cambiamenti culturali si verificano più velocemente in altri contesti che in architettura. E ha aggiunto: L’architettura riflette i cambiamenti che avvengono nella cultura, e secondo molti, con un ritmo dolorosamente lento. Gli architetti, cercando costantemente di occupare un ruolo di avanguardia, pensano che le informazioni prese a prestito da altre discipline possano essere rapidamente assimilate all’interno della progettazione architettonica. Tuttavia, la traducibilità, il trasferimento di un linguaggio in un altro, rimane un problema. Gli architetti guardano sempre più spesso ad altre discipline e ad altri processi industriali per ispirarsi, e fanno un uso sempre maggiore della progettazione al computer e di software per la produzione industriale originariamente sviluppati per altri settori. Più avanti la Imperiale ricorda che È interessante notare che, nell’era dell’informazione, discipline un tempo distinte, sono legate tra loro attraverso un linguaggio universale: il codice binario digitale. Il computer risolve tutti i problemi? Il quarto elemento è il computer, il computer grafico, la macchina logica e geometrica per eccellenza. L’idea realizzata di una macchina intelligente che sia in grado di affrontare problemi diversissimi a patto di essere in grado di farle comprendere il linguaggio che usiamo. L’idea geniale di un matematico, Alan Turing, portata a termine sotto lo stimolo di una guerra. Una macchina costruita dall’uomo, in cui è stata inserita una logica, costruita sempre dall’uomo, pensata dall’uomo. Uno strumento molto sofisticato, insostituibile, non solo in architettura. Uno strumento, appunto. Il quinto elemento è il progresso, la parola progresso. Se si considerano le geometrie non euclidee, le nuove dimensioni, la topologia, l’esplosione della geometria e della matematica nel Ventesimo secolo, si può parlare di progresso? Delle conoscenze senz’altro, ma non nel senso che i nuovi risultati cancellano i precedenti. Usano dire i matematici che “la Matematica è come il maiale, non si butta via nulla, prima o poi anche le cose che sembra più astratte ed anche insensate possono venire utili”. Scrive la Imperiale che la topologia è effettivamente parte integrante del sistema della geometria euclidea. Dove quello che è sfuggito a chi ha scritto queste parole è che cosa voglia dire la parola spazio in geometria. Parole, appunto. Dove invece il cambiare geometria serve per affrontare problemi che sono diversi perché è diversa la struttura dello spazio. Lo spazio sono le proprietà, non gli oggetti contenuti. Parole.
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Il sesto elemento sono le parole. Una delle grandi capacità dell’umanità è di dare un nome alle cose. Molte volte nel “nominare” si usano parole che sono già nell’uso corrente. Questa abitudine crea alle volte dei problemi, perché si ha l’impressione, sentendo queste parole, di capire o perlomeno intuire di che cosa si tratti. In matematica è successo spesso negli ultimi anni con parole come frattali, catastrofi, complessità, iperspazio. Parole simboliche, metaforiche. Anche topologia e dimensionalità e serialità fanno oramai parte del linguaggio comune, o almeno degli architetti. Riassumendo, il viaggio si svolge tra parole, computer, assiomi, trasformazioni, libertà. Una parola avrà una grande importanza in questo viaggio nell’idea di spazio: la topologia. Per gli altri aspetti rimando al libro Mathland: dalle superfici piatte alle ipersuperfici [3].
Dalla Topologia alla architettura virtuale Verso la metà del XIX secolo la geometria prese uno sviluppo completamente nuovo e destinato a divenire presto una delle grandi forze della matematica moderna. Parole di Courant e Robbins nel famoso libro Che cosa è la matematica? 118
Il nuovo argomento, detto analysis situs o topologia, ha come oggetto lo studio delle proprietà delle figure geometriche che persistono anche quando le figure sono sottoposte a deformazioni così profonde da perdere tutte le loro caratteristiche metriche e proiettive. Poincaré definiva la topologia come la scienza che ci fa conoscere le proprietà qualitative delle figure geometriche non solo nello spazio ordinario ma anche nello spazio a più di tre dimensioni. La topologia dunque ha come oggetto lo studio delle proprietà delle figure geometriche che, sottoposte a deformazioni così profonde da perdere tutte le loro proprietà metriche e proiettive, per esempio la forma e le dimensioni, tuttavia restano invariate. Le figure geometriche mantengono cioè le loro proprietà qualitative. Si pensi a figure costruite con materiale deformabile ad arbitrio su cui non siano possibili né lacerazioni né saldature; vi sono proprietà che si conservano quando una figura così costruita viene deformata a piacere. Nel 1858 il matematico ed astronomo tedesco August Ferdinand Moebius (1790-1868) descrisse per la prima volta in un lavoro presentato alla Accademia delle Scienze di Parigi una nuova superficie dello spazio tridimensionale, superficie che oggi è nota con il nome di Nastro di Moebius. Nel suo lavoro Moebius ha spiegato come sia possibile costruire in modo molto semplice la superficie che oggi porta il suo nome: si prende una striscia rettangolare di carta sufficientemente lunga. Se con A, B, C, D si indicano i vertici del rettangolo di carta,
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si procede in questo modo: tenendo fermo con una mano un estremo della striscia (per esempio AB), si opera sull’altro estremo CD una torsione di 180° lungo l’asse orizzontale della striscia in modo da far coincidere A con D e B con C. La costruzione del nastro di Moebius è completata! La superficie è stata deformata, senza tagli né strappi, e la rotazione effettuata da una parte della striscia ha modificato profondamente le proprietà della striscia. Questa nuova superficie ha interessanti proprietà. Una consiste nel fatto che se la si percorre lungo l’asse più lungo con un dito, ci si accorge che la si percorre tutta ritornando esattamente al punto di partenza, senza dover attraversare il bordo della striscia; il nastro di Moebius ha cioè una sola faccia, non due, una esterna e una interna come per esempio nel caso di una superficie cilindrica. Superficie cilindrica che si ottiene dalla striscia ABCD di partenza semplicemente attaccando i due lati AB e CD tra loro. Volendo pitturare la superficie del nastro procedendo lungo l’asse orizzontale, è possibile colorare tutta la superficie senza staccare mai il pennello e senza attraversare il bordo della superficie. Volendo effettuare la stessa operazione con una superficie cilindrica, si può partire dalla faccia esterna, ma per dipingere anche la faccia interna si dovrà attraversare uno dei due bordi che separano la superficie esterna da quella interna, cosa non necessaria nel caso del nastro di Moebius. Mentre nel caso della superficie cilindrica, se si percorre con un dito il bordo superiore non si arriverà mai al bordo inferiore, nel caso del nastro di Moebius partendo da un punto qualsiasi del bordo lo si percorre tutto ritornando al punto di partenza, il nastro ha cioè un solo bordo. Tutto questo ha importanti conseguenze dal punto di vista topologico; tra l’altro, la striscia di Moebius è il primo esempio di superficie su cui non è possibile fissare una orientazione, cioè un verso di percorrenza. Scrivono ancora Courant e Robbins: Dapprima, la novità dei metodi usati nel nuovo campo non diede modo ai matematici di presentare i loro risultati nella forma deduttiva tradizionale della geometria elementare: invece i pionieri, come Poincaré, furono costretti a basarsi largamente sull’intuizione geometrica. Anche oggi [il libro di Courant e Robbins è del 1941] uno studioso di Topologia troverà che insistendo troppo nel rigore formale dell’esposizione si può facilmente perdere di vista il contenuto geometrico essenziale di una quantità di particolari formali. La parola chiave è intuizione geometrica. Ovviamente i matematici nel corso degli anni hanno provveduto a portare la Topologia nell’ambito della matematica più rigorosa, ma quell’aspetto d’intuizione è rimasto. E proprio questi due aspetti, quello delle deformazioni che pur conservano alcune proprietà della figura geometrica, e quello della intuizione, giocano un ruolo profondo dell’idea di spazio e di forma che a partire dal secolo XIX arriva sino ai giorni nostri. Alcune delle idee della Topologia saranno intuite dagli artisti e dagli architetti nel corso dei decenni, prima dagli artisti, poi molto più tardi dagli architetti. Val la pena raccontare la storia della scoperta di una forma topologica da parte di un grande artista del Novecento. Una forma che, quando l’artista la scoprì, esisteva già nel mondo delle idee matematiche. Si tratta del grande artista e architetto del
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Novecento Max Bill, scomparso nel 1994. Così scriveva Bill raccontando nell’articolo Come cominciai a fare le superfici a faccia unica, in quale occasione scoprì le superfici di Moebius (Bill ha chiamato le sue sculture dalla forma di nastri di Moebius Endless Ribbons, nastri senza fine) [4-5]: Marcel Breuer, il mio vecchio amico della Bauhaus, è il vero responsabile delle mie sculture a faccia unica. Ecco come accadde: fu nel 1935 a Zurigo dove, insieme a Emil e Alfred Roth stava costruendo le case di Doldertal che ai loro tempi ebbero grande seguito. Un giorno Marcel mi disse di aver ricevuto l’incarico di costruire, per una mostra a Londra, un modello di casa dove tutto, persino il caminetto, doveva essere elettrico. Ci era ben chiaro che un caminetto elettrico che splende ma non ha fuoco non è un oggetto dei più attraenti. Marcel mi chiese se mi sarebbe piaciuto fare una scultura da metterci sopra. Cominciai a cercare una soluzione, una struttura che si potesse appendere sopra ad un caminetto e che magari girasse nella corrente d’aria ascendente e, grazie alla sua forma e al movimento, agisse come sostituto delle fiamme. L’arte invece del fuoco! Dopo lunghi esperimenti, trovai una soluzione che mi sembrava ragionevole. La cosa interessante da notare è che Bill pensava di aver trovato una forma completamente nuova. Fatto ancora più curioso, l’aveva trovata (inventata?) giocando con una striscia di carta, nello stesso modo in cui Moebius l’aveva scoperta molti anni prima! 120
Non passò molto tempo che qualcuno si congratulò con me per la mia reinterpretazione fresca ed originale del simbolo egiziano dell’infinito e del nastro di Moebius. Non avevo mai sentito nominare né l’uno né l’altro. La mia conoscenza matematica non era mai andata al di là dei comuni calcoli architettonici e non avevo un grande interesse per la matematica. Il Nastro senza fine venne presentato per la prima volta alla Triennale di Milano nel 1936. Già fin dagli anni ’40 – scriveva Bill – pensavo ai problemi di topologia. Da essi sviluppai una specie di logica della forma. Le ragioni per cui venivo continuamente attratto da questo tema particolare sono due: 1) l’idea di una superficie infinita – che è tuttavia finita – l’idea di un infinito finito; 2) la possibilità di sviluppare superfici che – come conseguenza delle leggi intrinseche sottese – portino quasi inevitabilmente a formazioni che provano l’esistenza della realtà estetica. Ma sia 1) che 2) indicavano anche un’altra direzione. Se le strutture topologiche non orientate fossero esistite solo in virtù della loro realtà estetica, allora, nonostante la loro esattezza, non avrei potuto esserne soddisfatto. Sono convinto che il fondamento della loro efficacia stia in parte nel loro valore simbolico. Esse sono modelli per la riflessione e la contemplazione. Si può dire che, come nel caso della quarta Dimensione l’oggetto che ha più colpito l’immaginazione è stato l’ipercubo, o cubo a quattro dimensioni, nel ca-
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so della Topologia questo ruolo lo ha avuto il nastro di Moebius. Queste forme che hanno tanto interessato Max Bill negli anni Trenta non potevano non interessare gli architetti, anche se passeranno alcuni anni; bisogna arrivare alla diffusione della computer graphics che consente di visualizzare gli oggetti matematici di cui si è parlato, che permette cioè di supportare la intuizione che altrimenti, per chi matematico non è, riesce difficile da manipolare. Ecco cosa scrive nel capitolo Superfici topologiche Alicia Imperiale: Gli architetti Ben van Berkel e Caroline Bos di UN Studio discutono l’impatto sull’architettura delle nuove scoperte scientifiche. Le scoperte scientifiche hanno radicalmente cambiato la definizione del termine “Spazio” attribuendogli una forma topologica. Anziché come modello statico di elementi costitutivi, si percepisce lo spazio come qualcosa di malleabile, mutevole, e la sua organizzazione, la sua ripartizione, la sua appropriazione diventano elastiche. Ecco il ruolo che la Topologia, così come lo vede un architetto: La topologia è lo studio del comportamento di una struttura di superficie sottoposta a deformazione. La superficie registra i cambiamenti degli slittamenti spazio-temporali differenziali in una deformazione continua. Ciò comporta ulteriori potenzialità per la deformazione architettonica. La deformazione continua di una superficie può condurre alle intersezioni di piani esterni e interni in un continuo mutamento morfologico, esattamente come nel nastro di Moebius. Gli architetti usano questa forma topologica nel progetto di casa, inserendo campi differenziali di spazio e tempo in una struttura altrimenti statica. Naturalmente anche alcune parole ed idee nel passare dall’ambito strettamente scientifico a quello artistico e architettonico sono deformate, viste da un’ottica diversa. Ma questo non è affatto un problema né vuole essere una critica. Sono le idee che circolano liberamente ed ognuno le interpreta a suo modo cercando di coglierne, come la topologia, l’essenza. È essenziale in tutto questo il ruolo della computer graphics che permette di inserire quella variabile di deformazione-tempo che sarebbe altrimenti impensabile oltre che irrealizzabile. Continua la Imperiale a proposito del nastro di Moebius: La casa di Van Berkel ispirata al nastro di Moebius (Moebius House) è pensata come una struttura programmaticamente continua, che integra il continuo mutamento di coppie dialettiche scorrevoli che fluiscono l’una nell’altra, dall’interno all’esterno, dalle attività di lavoro a quelle del tempo libero, dalla struttura portante alla struttura non portante. Negli stessi anni Peiter Einsenman progettava la Max Reinhardt Haus a Berlino [6]. L’edificio ad archi, costituito da forme intersecanti e sovrapposte, presenta una struttura unificata che si separa, si comprime, si trasforma e infine si ricon-
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Fig. 3. Moebius House by © Ben van Berkel (UN Studio/vanBerkel & Bos), 1993-97
giunge sul piano orizzontale al livello dell’attico. L’origine della forma è rappresenta dal nastro di Moebius, una forma geometrica tridimensionale caratterizzata da un’unica superficie interminabile che sottostà a tre operazioni iterative. Nella prima, i piani sono generati dall’estensione dei vettori e dalla triangolazione delle superfici… La seconda iterazione capovolge il nastro, ef-
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Fig. 4. Eisenman Architects © Max Reinhardt Haus, 1992 123
fettua una operazione simile a quella della prima fase e quindi appone queste superfici sulla forma iniziale, creando in tal modo una forma fantasma. La terza fase applica un elemento della storia berlinese sulla forma stessa avvolgendo vasti spazi pubblici tra la griglia e lo zoccolo del pianterreno di una struttura già ripiegata… Come il nastro di Moebius che piega due lati in un’unica superficie ripiegandosi su se stesso, la Max Reinhardt Haus rinnega la tradizionale dialettica tra interno e esterno e confonde la distinzione tra pubblico e privato. Sia la casa di van Berkel che il progetto di Eisenman erano presenti alla Biennale di Venezia del 2004, sorta di archetipi della architettura topologica. La bottiglia di Klein, altro famoso oggetto topologico, scrive Van Berkel, “può essere tradotta in un sistema canalizzante che incorpora tutti gli elementi che incontra e li fa precipitare in un nuovo tipo di organizzazione integrale internamente connessa”; da notare che le parole integrale, internamente connessa hanno in matematica un preciso significato. Ma non è questo un problema perché “i diagrammi di queste superfici topologiche non vengono usati in architettura in una maniera rigorosamente matematica, ma costituiscono diagrammi astratti, modelli tridimensionali che consentono agli architetti di incorporare nell’architettura idee di spazio e tempo differenziati.”
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Cose analoghe aveva scritto nel 1949 Max Bill a proposito dei legami tra arte, forma e matematica: Per approccio matematico non si deve intendere ciò che generalmente si chiama arte calcolata. Fino ad ora tutte le manifestazioni artistiche si sono fondate, in minor o maggior misura, su suddivisioni e strutture geometriche. Anche nell’arte moderna gli artisti si sono serviti di metodi regolatori basati sul calcolo, dato che questi elementi, accanto a quelli di carattere più personale ed emozionale, hanno fornito equilibrio ed armonia ad ogni opera plastica. Tali metodi erano però diventati sempre più superficiali, secondo Bill, dato che, a parte l’eccezione della teoria della prospettiva, il repertorio di metodi utilizzati dagli artisti si arrestava all’epoca dell’antico Egitto. Il fatto nuovo avviene agli inizi del XX secolo: Il punto di partenza per una nuova concezione è dovuto probabilmente a Kandinsky, che nel suo libro Ueber das Geistige in der Kunst pose nel 1912 le premesse di un’arte nella quale l’immaginazione dell’artista sarebbe stata sostituita dalla concezione matematica. È poi Mondrian ad allontanarsi più di ogni altro dalla concezione tradizionale dell’arte. Scriveva Mondrian: 124
Il neo plasticismo ha le sue radici nel cubismo. Può essere chiamato anche pittura astratto-reale perché l’astratto (come le scienze matematiche ma senza raggiungere come loro l’assoluto) può essere espresso da una realtà plastica nella pittura. Essa è una composizione di piani rettangolari colorati che esprime la realtà più profonda, cui perviene attraverso l’espressione plastica dei rapporti e non attraverso l’apparenza naturale... La nuova plastica pone i suoi problemi in equilibrio estetico ed esprime in tal modo la nuova armonia. È opinione di Bill che Mondrian abbia esaurito le ultimi possibilità che restavano alla pittura. Io credo che è possibile sviluppare largamente un’arte basata su una concezione matematica. La matematica non è soltanto uno dei mezzi essenziali del pensiero primario, e quindi, uno dei ricorsi necessari per la conoscenza della realtà circostante, ma anche, nei suoi elementi fondamentali, una scienza delle proporzioni, del comportamento da oggetto ad oggetto, da gruppo a gruppo, da movimento a movimento. E poiché questa scienza ha in sé questi elementi fondamentali e li mette in relazione significativa, è naturale che simili fatti possano essere rappresentati, trasformati in immagini. Inoltre queste rappresentazioni matematiche, questi casi limite in cui la matematica si manifesta plasticamente, hanno indiscutibilmente un effetto estetico,
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aggiunge Bill. Ed ecco la definizione di che cosa deve essere una concezione matematica dell’arte: La concezione matematica dell’arte non è la matematica nel senso stretto del termine, e si potrebbe anche dire che sarebbe difficile per questo metodo servirsi di ciò che si intende per matematica esatta. È piuttosto una configurazione di ritmi e relazioni, di leggi che hanno una origine individuale allo stesso modo in cui la matematica ha i suoi elementi innovatori originari nel pensiero dei suoi innovatori. Per convincere, Bill ha la necessità di fornire degli esempi, esempi che siano interessanti dal suo punto di vista di artista, esempi cioè di quelli che chiama i misteri della problematica matematica come “l’ineffabile dello spazio, l’allontanamento o la vicinanza dell’infinito, la sorpresa di uno spazio che incomincia da una parte e termina dall’altra, che è contemporaneamente la stessa, la delimitazione senza limiti esatti, le parallele che si intersecano e l’infinità che ritorna a se stessa.” Il nastro di Moebius, ovviamente. Come detto, se pur con qualche ritardo, gli architetti si sono accorti delle nuove scoperte scientifiche nel campo della Topologia. Ed oltre che iniziato a progettare e costruire, hanno iniziato a riflettere. Nel 1999 nella tesi di dottorato Architettura e Topologia: per una teoria spaziale della architettura Giuseppa Di Cristina scrive: La conquista finale dell’architettura è lo spazio: questo viene generato attraverso una sorta di logica posizionale degli elementi, cioè attraverso la disposizione che genera le relazioni spaziali; il valore formale viene così sostituito dal valore spaziale della configurazione: ciò che importa non è tanto l’aspetto della forma esteriore, quanto la sua qualità spaziale. E dunque la geometria topologica, priva di ‘misure’ e propria delle figure non rigide, non è qualcosa di puramente astratto che sta prima dell’architettura, ma è la traccia lasciata da quella modalità d’azione nella concretizzazione spaziale dell’architettura. È stato pubblicato nel 2001 un volume sul tema Architecture and Science [7]. Nella prefazione di Di Cristina The Topological tendency in Architecture si chiarisce che: Gli articoli raccolti in questo volume riguardano direttamente o indirettamente l’approccio topologico che si è andato sempre più sviluppando in architettura durante l’ultimo decennio. Testimoniano l’intreccio tra la neo avanguardia architettonica ed il pensiero scientifico matematico, in particolare quello topologico; sebbene non sia stata ancora formulata una teoria vera e propria dell’architettura topologica, tuttavia si può parlare di una tendenza topologica da parte degli architetti a livello sia teorico che operativo. In particolare gli sviluppi della geometria o matematica moderna, della psicologia percettiva e della grafica computerizzata influiscono sull’attuale rinnovamento formale dell’architettura e sull’evoluzione del pensiero architettonico. Ciò che
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maggiormente interessa gli architetti che teorizzano la logica della curvilineità e della pieghevolezza è il significato di “evento”, di “evoluzione”, di “processo”, ovvero di dinamismo insito nelle configurazioni fluide e flessibili di quella che viene oramai chiamata architettura topologica. Per topologia architettonica si intende la variazione dinamica della forma, agevolata dalle tecnologie informatiche, dalla progettazione assistita dal computer, dai software di animazione. La topologizzazione della forma architettonica secondo configurazioni dinamiche e complesse conduce il disegno architettonico ad una rinnovata e spesso spettacolare plasticità, sulla scia del Barocco e dell’Espressionismo organico. Ecco cosa intende per “Architectural Topology”, Stephen Perrella, uno degli architetti virtuali più interessanti: La topologia architettonica è la mutazione della forma, della struttura, del contesto e del programma in modelli compositi e dinamiche complesse. Negli ultimi anni, si è sviluppata una sensibilità progettuale grazie alla quale le superfici architettoniche e gli elementi topologizzanti della forma vengono esplorati in maniera sistematica e inclusi in diversi programmi architettonici. Influenzato dalla intrinseca temporalità dei software di animazione, dalla augmented reality, della produzione industriale computerizzata, e, in generale, dell’informatica, lo ‘spazio’ topologico differisce da quello cartesiano perché in 126
Fig. 5. Stephen Perrella con Rebecca Carpenter, The Moebius House Study © Perrella, Carpenter, 1997-98
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esso gli eventi temporali diventano parte integrante della forma. Lo spazio, dunque, non è più un vuoto al cui interno sono contenuti soggetti e oggetti; lo spazio, invece, si trasforma in una fitta ed interconnessa rete di particolarità e singolarità che si potrebbe definire “materia” o “spazio pieno”. Questo legame comporta anche, in maniera più specifica, un pervasivo dispiegarsi di teletecnologia nella pratica progettuale, fatto che porta a un’indebita appropriazione del reale ed ad un’involontaria dipendenza dalla simulazione. Osservazioni in cui confluiscono idee sulla geometria, sulla topologia, sulla computer graphics, sullo spazio-tempo. I nessi culturali nel corso degli anni hanno funzionato: nuove parole, nuovi significati, nuovi legami.
Osservazioni finali Ho cercato di raccontare alcuni momenti importanti che hanno portato ad un mutamento nella nostra concezione di percepire lo spazio, cercando di far cogliere oltre agli aspetti tecnici e formali che pure sono essenziali nella matematica, l’aspetto culturale parlando dell’idea di spazio in relazione ad alcuni aspetti dell’architettura contemporanea. Vorrei solo ricordare due parole che hanno una grande importanza: fantasia e libertà. Sono forse queste le due parole magiche che hanno permesso all’architettura contemporanea di arricchire di molto il patrimonio progettuale. Fantasia e libertà che derivano dal confluire nel corso degli anni di tanti elementi: la logica dei computer, le nuove geometrie, la topologia, la computer graphics. Perché anche se in pochi se ne rendono conto, la matematica è, o può essere, ripeto, il regno della fantasia e della libertà. Senza tutto questo sarebbe stato impensabile il progetto del museo del mondo ellenico. Una cultura iniziata in quei luoghi migliaia di anni fa e che negli stessi luoghi viene celebrata con una costruzione altamente simbolica della storia della cultura del Mediterraneo.
Bibliografia [1] K.W. Forster (a cura di) (2004) Metamorph: Focus, catalogo, La Biennale di Venezia, Marsilio ed [2] A. Imperiale (2001) New Bidimensionality, Birkhauser, Basel [3] M. Emmer (2004) Mathland: from Flatland to Hypersurfaces, Birkhäuser, Boston; ed. it., Dal mondo piatto alle ipersuperfici, Testo ed Immagine, Torino [4] M. Bill (1949) A Mathematical Approach to Art, ristampato con correzioni dell’autore in: M. Emmer (1993) The Visual Mind: Art and Mathematics, MIT Press, Boston [5] A. Quintavalle (a cura di) (1987) Max Bill, quaderni n. 38, Dipartimento Arte Contemporanea, Università di Parma [6] Eisenman Architects (2004) Max Reinhardt Haus, in: Metamorph: Trajectories, catalogo, La Biennale di Venezia, Marsilio ed., p. 252 [7] G. Di Cristina (a cura di) (2001) Architecture and Science, Wiley-Academy, Chichester
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Architettura come topologia della trasformazione GIUSEPPA DI CRISTINA
L’architettura intesa come topologia della trasformazione riguarda una parte della sperimentazione architettonica che punta verso una crescente libertà nella configurazione degli edifici producendo opere dalle forme curvilinee, piegate, ondulate, ritorte, in altre parole delle architetture plastiche, con un approccio geometrico nella progettazione riferibile agli aspetti dinamici della geometria topologica, e quindi ai più generali processi di trasformazione continua delle figure geometriche [1]. Come è noto la Topologia, che fa parte della matematica moderna e che nasce ufficialmente nel 1895 [2], è anche chiamata “la geometria del foglio di gomma” perché consente tutte le trasformazioni possibili di una figura costruita con materiale deformabile quando si manipola la figura così costruita in qualsiasi modo, ad esempio stirandola, curvandola, piegandola, ecc. senza però strapparla o lacerarla. La geometria topologica è una geometria flessibile e dinamica che, a differenza della geometria euclidea, consente le deformazioni elastiche delle figure. Ad esempio, la topologia pone l’equivalenza tra una figura geometrica regolare, quale può essere quella di un cerchio, di un quadrato, di un rettangolo, ..., e la stessa figura deformata; esse si dicono topologicamente equivalenti perché l’una può essere trasformata nell’altra mediante una deformazione continua, ovvero attraverso un movimento elastico. Ancora, ad esempio, un cerchio e un quadrato per il topologo sono sempre la stessa figura perché l’uno è trasformabile nell’altro in modo continuo; insomma, in topologia la forma e le dimensioni sono trascurabili. Così, si potrebbe anche immaginare che attraverso alcune fasi di un processo dinamico di trasformazione un toro, che è una superficie a forma di ciambella, possa essere deformato con continuità nella superficie, ad esempio, di una tazza [3]. Quindi, dal punto di vista topologico possiamo considerare le forme come il prodotto della trasformazione continua di altre forme. Il famoso biologo D’Arcy W. Thompson nel suo celebre libro intitolato Crescita e Forma, pubblicato nel 1917 [4], utilizzava dei diagrammi geometrici di deformazione ovvero delle griglie deformabili per studiare la variazione delle forme degli organismi viventi appartenenti ad una stessa specie. Nei suoi disegni il profilo dell’organismo viene inscritto in un sistema di coordinate cartesiane che viene sottoposto a vari tipi di deformazioni in modo da ottenere la conseguente alterazione della figura inscritta nel diagramma; D’Arcy W. Thompson indagava così le forme organiche che studiava come risultati di trasformazioni geometriche.
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E già nel XVI sec. l’artista Albrecht Dürer nel suo Trattato delle Proporzioni aveva impiegato in un modo simile dei diagrammi di trasformazione per illustrare il modo in cui i caratteri del viso umano si modificano in relazione a delle deformazioni geometriche. La topologia, così come le opere del D’Arcy Thompson e del Dürer che a posteriori in qualche modo alla topologia si collegano, costituiscono dei riferimenti culturali per i molti architetti contemporanei che nella progettazione si mostrano interessati ai processi formali basati su tecniche di deformazione e distorsione della forma.
Il punto di vista topologico in architettura
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Oggi la topologia esercita fascino e riscuote interesse su vari architetti proprio perché riguarda intuitivamente il concetto di corpo elastico, di corpo deformabile e perchè implica la dinamica della forma, ovvero la sua variazione. A livello teoretico l’applicazione in architettura del punto di vista dinamico offerto dalla topologia cambia il modo tradizionale di concepire forme e volumi: abbandonando il mito della forma ideale, la forma viene intesa dagli architetti non in modo platonico cioè come un qualcosa di già dato, di preesistente, ma come il risultato di un’azione dinamica di trasformazione dalla quale essa scaturisce; si tratta di un’idea di forma plastica e flessibile continuamente modificabile secondo una variazione continua. Ne consegue che in questo approccio l’investigazione teoretica della forma in architettura si dirige verso una condizione chiamata dai teorici dell’architettura “forma debole” [5]. Oggi nel linguaggio architettonico va di moda usare il termine “blob” in riferimento ad una forma fluida, malleabile o anche, in altri termini, ad una massa informe. Ed ancora, la conquista del volume libero implica, poi, in architettura l’emancipazione dallo spazio consueto ortogonale in favore di uno spazio fluido, differenziato, continuo. Le deformazioni curvilinee delle superfici avvengono come si sa nel tempo, implicando oltre che una variazione continua dello spazio anche una variazione temporale e la variazione spazio-temporale in termini fisici significa dinamismo, il che vuol dire che il dinamismo è insito nelle forme stesse che si inflettono temporalmente. E allora, forte motivo di attrazione da parte di taluni architetti per la topologia è proprio l’idea di spazio topologico considerato nella sua accezione di spazio dinamico, di spazio-tempo. Le nozioni topologiche della trasformazione e della continuità si intrecciano con le tematiche architettoniche della flessibilità, della fluidità e del dinamismo. A ciò si aggiunge, ancora, una breve considerazione in relazione al campo di studio della topologia e alle sue possibili implicazioni nello sviluppo del pensiero architettonico. La topologia è principalmente definita come lo studio degli invarianti cioè come lo studio delle proprietà geometriche che rimangono invariate, ovvero che non cambiano, quando le figure sono sottoposte alle trasformazioni continue più generali. Queste proprietà topologiche che rimangono immutate corrispondono alle proprietà qualitative delle figure, a quelle, cioè, che trascurano gli aspetti metrici e quantitativi vale a dire le distanze e le misure: ad
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esempio, le caratteristiche di apertura-chiusura, di interno-esterno, di connessione, di continuità, la condizione di frontiera o confine, …; anche l’orientabilità di una superficie è una proprietà topologica. Le proprietà topologiche equivalgono agli aspetti fondamentali, se vogliamo primitivi nonché intuitivi delle figure nello spazio, e sono aspetti caratterizzanti al di là delle forme definite; in altri termini, le proprietà topologiche sono qualità che stanno “oltre la forma”, oltre la definizione formale. La trasposizione in architettura del modo topologico di pensare ha un’importante ricaduta nel pensiero e nella pratica architettonici. Se l’architettura dalla storia più antica fino alla modernità è stata condizionata fortemente dalla geometria euclidea, fondandosi, così, sul concetto di misura, di dimensione metrica, per cui le regole del comporre per secoli sono state quelle legate all’applicazione di rapporti di proporzione, di leggi armoniche e di ritmi regolari, con la crisi del modernismo e, quindi, dagli anni Cinquanta fino ad oggi, invece, una parte della sperimentazione architettonica, rinunciando alle certezze di matrice razionalistica, si è indirizzata sempre di più verso l’impiego di sistemi geometrici flessibili e malleabili, che consentono una libertà formale, la quale, sganciata da considerazioni di carattere metrico, lascia emergere proprio gli aspetti qualitativi ovvero topologici dello spazio come caratteri espressivi e fondanti dell’architettura.
Topologia e cultura architettonica Architettura informale come intuitiva sensibilità topologica Citando un esempio, il padiglione Breda realizzato nel 1952 alla Fiera Campionaria di Milano su progetto dell’arch. Luciano Baldessari è un’architettura pubblicitaria [6] caratterizzata dalla figura plastica di un nastro continuo che si sviluppa in modo curvilineo; da questo segno libero emerge il senso di continuità ininterrotta vale a dire il tema topologico del continuum che si trasforma, così, in un motivo fondante di tale opera architettonica. Quest’ultima appartiene a quella che è comunemente definita in architettura la corrente informale nel periodo compreso tra gli anni Cinquanta e Settanta, periodo in cui inizia a manifestarsi nella cultura architettonica un interesse esplicito per la topologia. Inizialmente l’interesse architettonico per la topologia si legava ad una volontà informale protesa verso un’architettura organica che celebrasse l’irregolare, lo spontaneo, l’indefinito e che si risolvesse in una spazialità naturale, legata alla dimensione intuitiva ed emozionale dell’uomo. Attraverso la topologia si pensava di recuperare un’architettura più umana rispetto a quelle classica e modernista caratterizzate da segni regolari, rettilinei, ortogonali; il segno architettonico abbandonava, allora, la linea retta in favore della linea curva, libera e sensuale. Nell’ambito della critica architettonica in quegli anni si comincia a parlare di un’architettura “non più basata sulla geometria della riga e del compasso bensì basata su una intuitiva sensibilità topologica” [7]. Tra i tanti progetti architettonici della corrente informale di quel periodo – progetti che possono essere considerati anticipatori delle tendenze più recenti – si potrebbero citare la Spray
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House di John Johansen (1955), la Casa senza fine di Frederick Kiesler (1959), gli spazi scultorei di André Bloc a Meudon (1962), il villaggio a Riesi in Sicilia di Leonardo Ricci (1963). Sono tutte idee di architetture che abbracciano l’ideale della continuità spaziale abolendo i muri rigidi e diritti; si tratta di opere concepite essenzialmente e topologicamente come involucri di chiusura. Questi progetti, per la maggior parte teorici, considerati all’epoca visionari e futuristici, scaturivano dalla ricerca di spazi inusuali generati da forme morbide e avvolgenti, ritenute più adatte a soddisfare i bisogni interiori dell’uomo e a sollecitare nuove esperienze percettive e sensoriali. In Italia negli anni Settanta l’architetto e teorico Costantino Dardi nel suo libro Il gioco sapiente scriveva: […] la geometria euclidea non è più il solo o il più appropriato strumento, cui ci sia consentito ricorrere, ma una geometria più generale, di carattere qualitativo […] l’attenzione si spostò sull’opportunità di ancorare il problema delle scelte configurazionali ad una concezione matematica più avanzata, quale quella offerta dalla topologia (che “considera un mattone e una palla da biliardo come se avessero la stessa forma, e persino una tazza da tè ed un disco […]”) [8].
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Nel corso degli anni Sessanta e Settanta gli architetti Claude Parent e Paul Virilio proponevano la teoria di un’architettura obliqua o dei piani inclinati. Essi inserivano la topologia nel discorso architettonico considerando l’obliquo un’implementazione architettonica della topologia [9]. Del resto, l’obliquo equivale ad un modo di piegare la superficie e la piegatura può essere vista come una deformazione topologica di un elemento originario. Parent e Virilio nelle loro visioni architettoniche immaginavano delle strutture oblique che, sottraendosi all’ortogonalità dello spazio consueto, potessero indurre alla felicità psicosensoriale del movimento, modificando la tradizionale fruizione dello spazio e stimolando una percezione tattile oltre che visiva dell’architettura, ovvero delle sensazioni corporee. Per i due architetti l’obliquo era uno strumento per concretizzare un’idea di spazio topologico considerato nella sua continuità e deformazione (secondo piani variamente inclinati). A proposito della continuità, si potrebbe dire che nelle loro visioni architettoniche, perduti gli angoli retti, ovvero la definizione ortogonale dei 90°, rimane la continuità topologica che, così, diviene un carattere fondante della loro architettura obliqua. L’architetto Vittorio Giorgini, anch’egli interessato fin dagli anni Cinquanta ad una ricerca architettonica di carattere topologico, in occasione della Biennale di Venezia del 1978 affermava: […] la nostra abitudine allo spazio euclideo era dovuta al fatto che era la sola geometria che potevamo strumentalizzare […] Strumenti nuovi consentiranno incredibili e infinite varianti spaziali con possibilità ed economie finora mai pensate [10].
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Architettura topologica: alcuni esempi contemporanei Venendo ai nostri giorni, proprio con il crescente sviluppo delle tecnologie, ed in particolare di quelle informatiche, emerge nell’architettura più recente una rinnovata plasticità nell’esplorazione della forma ed un rinnovato interesse per la topologia. La così detta architettura topologica dalle forme piegate, curvate, ondulate sempre più spettacolari, è certamente depositaria delle visioni futuristiche dell’architettura informale dei decenni precedenti. Tra gli edifici contemporanei costruiti, il celebre Museo Guggenheim a Bilbao (1991-1997) dell’architetto americano Frank Gehry è, forse, il più topologico (Fig. 1). Considerando i plastici di studio manuali che rappresentano le fasi del processo conformativo del progetto, si nota che i volumi scatolari del plastico iniziale vengono progressivamente deformati nei volumi curvati dei plastici successivi (bisogna dire che nell’architettura più recente viene attribuito un crescente valore all’aspetto processuale del progetto) (Fig. 2). La deformazione delle scatole è un modo di dare movimento a delle forme rigide, in altre parole attraverso la trasformazione della piegatura curva l’architettura di Gehry si libera della rigidità della geometria euclidea. L’immagine costruita del progetto è quella di un insieme scultoreo di forme sinuose che si curvano liberamente, variando in modo continuo; si tratta di un’architettura curvilinea fatta di pieghe e di flessi che realizzano una fluidità spazio-temporale che significa dinamismo (Fig. 3). L’edificio appare come se fosse in movimento; concettualmente la stasi dell’oggetto architettonico viene, così, messa in discussione. Tra l’altro, la flessi-
Fig. 1. Veduta del fronte del Museo Guggenheim a Bilbao (1991-1997) progettato da Frank Gehry (Foto di Francesco Isidori)
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Fig. 2. Processo conformativo del progetto attraverso i plastici di studio: i volumi scatolari del plastico iniziale vengono progressivamente curvati (Da: L’Architecture d’Aujourd’hui n. 313, ottobre 1997, riprodotto per gentile concessione dello studio Gehry Partners, LLP)
bilità topologica delle forme favorisce l’interazione dell’edificio con le condizioni fisiche del luogo, e, quindi, con il carattere mutevole del fiume su cui il museo si affaccia e con i profili curvilinei delle colline circostanti. Dal punto di vista compositivo, i vari corpi che costituiscono il complesso museale sono disposti intorno ad un nucleo centrale corrispondente all’atrio prin-
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Fig. 3. Veduta del corpo plastico del Museo Guggenheim (Foto di Francesco Isidori)
cipale di ingresso (Fig. 4); è interessante il fatto che mentre le singole parti dell’edificio sono configurate topologicamente, cioè liberamente, la morfologia del sistema complessivo, cioè dell’intero edificio è, invece, organizzata secondo una categoria geometrica regolare che è quella della centralità. Questo significa che principi geometrici di diversa natura coesistono nell’ambito della struttura formale di questo progetto, i principi riferibili alla libertà e flessibilità della geometria topologica e quelli riferibili alla regolarità dell’ordine euclideo. Come Gehry stesso afferma, la progettazione e la realizzazione delle forme complesse dell’edificio non sarebbero state possibili senza l’ausilio dello strumento elettronico. Le superfici curve dei plastici che l’architetto, ma nel caso di Gehry anche artista, aveva plasmato intuitivamente e direttamente con le mani, sono state, poi, lette da una bacchetta elettronica e digitalizzate al computer secondo reti di linee di curvatura; il computer ha consentito, così, il calcolo ed il controllo matematico delle superfici (Fig. 5). È, inoltre, interessante considerare come realmente è stata costruita questa architettura topologica: la struttura portante dell’edificio, che viene, poi, nascosta dalle superfici di rivestimento in titanio, è costituita da reticoli di acciaio composti di aste metalliche rettilinee, di dimensioni variabili in funzione dei raggi di curvatura dei corpi dell’edificio (Fig. 6). Si comprende che le linee di curvatura di rappresentazione e controllo formale del progetto al computer vengono tradotte costruttivamente nelle strutture metalliche a traliccio secondo un’approssimazione di linee spezzate in segmenti rettilinei. Si aggiunge, ancora, che lo spazio interno del museo generato dalla deformazione delle masse curvilinee non è uno spazio euclideo, né carte-
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Fig. 4. Piante del secondo e del terzo piano del Museo Guggenheim (Da: L’Architecture d’Aujourd’hui, n. 313, ottobre 1997, riprodotto per gentile concessione dello studio Gehry Partners, LLP)
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Fig. 5. Digitalizzazione al computer del plastico manuale (Da: L’Architecture d’Aujourdh’ui n. 313, ottobre 1997, riprodotto per gentile concessione dello studio Gehry Partners, LLP)
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Fig. 6. L’edificio del Museo Guggenheim in costruzione (Da: Domus, n. 798, novembre 1997, riprodotto per gentile concessione dello studio Gehry Partners, LLP)
siano, è piuttosto uno spazio comprensibile in termini di curvatura variabile, è, cioè, uno spazio curvo e differenziato comprensibile alla luce di una concezione generale dello spazio, dello spazio curvo di Riemann (Fig. 7). L’opera di Gehry è uno degli esempi più rappresentativi della tendenza architettonica che negli ultimi decenni ha accentuato il superamento in architettura dell’idea di spazio euclideo in favore di altre possibilità di intuizione e costruzione dello spazio architettonico.
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Fig. 7. Veduta interna dell’atrio centrale del Museo Guggenheim (Foto di Francesco Isidori)
Anche nel caso del progetto dell’architetto Peter Eisenman per la sede di una società informatica a Bangalore in India (1997) vengono impiegate procedure topologiche di deformazione come tecnica progettuale. Il processo formale inizia con un modello composto di barre rettilinee che si sovrappongono parallelamente e ortogonalmente in più strati; progressivamente i corpi delle barre vengono deformati e alterati secondo delle piegature. Contemporaneamente alla
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modellazione dei plastici manuali l’architetto controlla il processo progettuale anche attraverso l’elaborazione al computer di diagrammi di deformazione: gli schemi di partenza corrispondono a delle griglie piane che organizzano l’edificio secondo dei tracciati ortogonali; nei diagrammi successivi un quadrato ideale che contiene le griglie dell’edificio viene posizionato all’interno di una più ampia griglia cartesiana che a sua volta è sovrapposta al perimetro dell’area di progetto che è un contorno di forma irregolare inclinato secondo le direzioni nord-est e sud-ovest. I diagrammi così sovrapposti vengono, quindi, deformati in modo tale che le griglie iniziali dell’edificio vengono distorte in relazione alla morfologia del sito; dalle distorsioni diagrammatiche si passa, poi, via via a dei modelli tridimensionali informatici di corpi ripiegati che si concretizzeranno, poi, nei corpi reali dell’edificio; gli ambienti interni di quest’ultimo vengono concepiti come spazi continui, ma diversificati nelle loro pieghe. Il concetto di piega affascina non pochi architetti ed è stato teorizzato in architettura da Eisenman sia come tecnica progettuale che coinvolge il processo topologico di deformazione, sia come principio di filosofia architettonica. Concettualmente, la piega è un continuo topologico, e attraverso la piegatura una superficie può essere differenziata mentre rimane continua; si dice, infatti, che la piega produce la divisione del continuo, senza separazione; e, dunque, attraverso la piega viene espresso in architettura il tema del continuum differenziato. Da un punto di vista filosofico Eisenman fa riferimento alla filosofia della piega di Gilles Deleuze [11], da un punto di vista scientifico Eisenman conosce la teoria delle Catastrofi del matematico e topologo René Thom [12] che ha tentato di applicare la matematica topologica ai fenomeni della natura. Nella teoria di Thom la piega è una delle sette catastrofi elementari che rappresentano delle fasi di transizione, cioè dei bruschi cambiamenti che avvengono nei processi evolutivi naturali. Dunque, dall’architetto Eisenman la piega viene impiegata nella progettazione come strategia formale per esprimere in architettura il senso dell’evoluzione, del divenire, dello sviluppo, secondo un’idea organica dell’architettura. Eisenman ha utilizzato dei diagrammi dinamici di deformazione per la genesi formale di un altro progetto, quello per una casa virtuale, direttamente elaborato al computer. Il processo progettuale inizia con delle griglie cartesiane che via via vengono trasformate; l’architetto si avvale per questo di software di animazione. Le linee originariamente rettilinee vengono deformate elasticamente secondo piegamenti curvilinei o movimenti della flessione; le linee non sono più considerate alla maniera cartesiana come luogo dei punti, ma come dei continui elastici ovvero come delle corde flessibili; si passa, dunque, dalla considerazione del sistema cartesiano a quella del sistema vettoriale. Le griglie deformabili, disposte originariamente su due piani paralleli, sono soggette ad un campo di forze di intensità e direzioni variabili, e queste forze provocano gli allungamenti elastici e i piegamenti curvilinei delle linee. Dal movimento morfogenetico delle griglie si configura, poi, lo spazio della casa e tra le linee si genera, quindi, un sistema di superfici curve. L’immagine finale della casa virtuale corrisponde ad uno spazio fluido in movimento: essa appare come una sorta di massa gelatinosa articolata internamente secondo un intreccio continuo di spazi informi; l’informe topologico diviene, qui, espressione diretta del virtuale inteso nel signifi-
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cato di potenziale. Questa sperimentazione progettuale, che nel caso specifico rimane teorica, è un modo per ripensare lo spazio architettonico dell’abitazione al di là dei canoni tradizionali, nella ricerca di ambienti innovativi ed emozionali. Gli architetti Sulan Kolatan e William Mac Donald hanno utilizzato processi animati di trasformazione, con il supporto del programma informatico Maya, per progettare una serie di case differenziate a partire da un modello iniziale di casa corrispondente ad un tipo edilizio convenzionale caratterizzato da volumi scatolari e da tetti inclinati. Dal modello originario è stato estrapolato l’involucro esterno che è stato sottoposto via via a delle deformazioni; attraverso un processo dinamico di iterazioni sempre variate in modo continuo è stata prodotta una serie differenziata di case dalle forme sempre più morbide, che nel linguaggio architettonico potremmo chiamare “blob abitativi”. Si tratta di un sistema, teoricamente infinito, di variazioni possibili di un tipo originario, nell’ottica di una produzione industrializzata, ma nello stesso tempo flessibile. Sul piano concettuale l’idea architettonica di oggetto unico viene sostituita con quella di sistema e delle sue variazioni; è, cioè, l’idea di una entità architettonica topologica che non ha mai una forma definita ma oscilla tra una forma unica e un’infinita varietà di forme, e ciò corrisponde all’idea topologica di una stessa sostanza spaziale variamente modellata. Nel processo di trasformazione i dati informativi della casa base sono, tra l’altro, ibridati elettronicamente con quelli di oggetti di altra natura che sono oggetti di consumo di produzione industriale. In altre parole, attraverso una sorta di procedimento alchemico le forme della casa vengono combinate fluidamente con quelle di altri oggetti per produrre quelle che i progettisti chiamano “case chimeriche”, che sono come delle miscele composite e instabili riconfigurabili continuamente in differenti modi con esiti morfologici imprevedibili. Tra le versioni morfologiche della casa risultanti dai processi di ibridazione e trasformazione, ad esempio la Pool House è una contaminazione tra la casa e una piscina, la Ramp House tra la casa e una rampa, e così via. Alle varianti ibride vengono, poi, assegnati diversi materiali costruttivi, per cui gli involucri esterni di esse sono caratterizzati ora da un tracciamento di materiali in cemento, ora da rivestimenti in piastrelle di ceramica, ecc. Le case, nelle loro variazioni, sono concepite tutte secondo un’organizzazione fluida e continua degli spazi interni, in alternativa alla tradizionale partizione in camere; esse, inoltre, sono realizzabili strutturalmente con dei reticoli da rivestire poi con lastre di materiali malleabili. E le immagini pubblicitarie delle case propongono le varianti abitative inserite all’interno di diversi contesti ambientali (nella campagna, nei sobborghi cittadini, in prossimità del mare) in relazione ai diversi stili di vita. Degli stessi architetti Kolatan e Mac Donald è un progetto di interni realizzato come ristrutturazione di un appartamento a Vienna. Con le stesse metodologie dinamiche di progettazione animata al computer sono state ottenute le forme curvilinee e arrotondate degli elementi di arredo anch’esse ibridate elettronicamente con le forme di altri oggetti d’uso. L’interno domestico è caratterizzato dalla continuità delle superfici degli elementi di arredo che si fondono gli uni negli altri nell’ottica di una interconnessione fluida tra i diversi ambiti funzionali dell’abitazione: in esso, per esempio, l’ambito letto è integrato con l’am-
Architettura come topologia della trasformazione
bito della vasca da bagno, oppure la parete della zona notte si prolunga e si trasforma morbidamente nel ripiano del lavandino dell’ambiente di servizio, e così via. Insomma, si produce quella che i progettisti chiamano condizione chimerica tra gli arredi, lo spazio e le superfici.
Conclusioni Si conclude dicendo in generale che una parte dell’architettura contemporanea si sta rifondando come ricerca sperimentale di geometrie topologiche in vista di un’architettura plastica e spaziale. La tecnica, la poetica ed il ruolo concettuale della trasformazione in architettura sembrano emergere sempre più frequentemente come il risultato dell’incontro tra topologia e tecnologia digitale; attraverso le crescenti possibilità di modellazione al computer l’impiego della geometria topologica produce un effetto liberatorio sulle forme architettoniche, permettendo agli architetti di progettare con livelli di complessità sempre maggiori. Ma bisogna dire che, nonostante l’aiuto straordinario del computer, la così detta architettura topologica è in una condizione ancora di evoluzione; il suo sviluppo e la sua diffusione, una volta raggiunta una maggiore maturità, dovranno, poi, inevitabilmente, confrontarsi sempre di più con l’industria e l’economia delle costruzioni e, naturalmente, con il giudizio dei fruitori.
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Nuovo Auditorium di S. Cecilia, anatomia di una megaopera ANDREA FROVA
Nel dicembre 2002 è stata inaugurata la grande sala S. Cecilia del nuovo Auditorium “Parco della Musica” della città di Roma. È stata realizzata su progetto dell’architetto Renzo Piano e acusticamente progettata dal notissimo studio MüllerBBM di Monaco. Capace di accomodare circa 2800 spettatori, la sala è una delle più grandi del mondo. Oltre ad essa, il Parco conta su due sale minori, la Sinopoli di 1300 posti e la Settecento di 700 posti1. La Settecento dispone di un’acustica variabile che permette il suo utilizzo a un estremo come teatro per il parlato o per l’opera, all’altro come sala da concerto per complessi anche di una certa dimensione. Sui meriti e demeriti delle tre sale si sono sentite opinioni abbastanza discordanti, ma ciò è alquanto normale in un settore dove molti si sentono autorizzati a dare giudizi, pur mancando della più elementare competenza, cultura musicale ed esperienza con le tante sale di alta o bassa qualità sparse per il mondo. Alle tre sale, si aggiungono cinque sale di prova, una di 3000 posti destinata anche alla registrazione e dotata di riverberazione acustica variabile grazie a cortine assorbenti di stoffa srotolabili lungo le pareti. Alla sala S. Cecilia, naturalmente, un direttore d’orchestra della vecchia generazione rimprovera il fatto di essere esageratamente grande, così che gli orchestrali hanno quasi l’impressione di suonare in uno spazio aperto, dove il suono si perde. Ma questa obiezione non regge sul piano tecnico ed è in contrasto con la circostanza, come osserva il compositore Ennio Morricone, che anche i pianissimi si sentono più che bene in qualsiasi punto della sala, anche alle massime distanze. La sezione dei violini, semmai, lamenta il fatto di sentirsi un po’ sovrastata dal suono degli ottoni e delle percussioni. Tra i diversi direttori che finora si sono avvicendati sul podio, c’è chi ha utilizzato gli elementi variabili della sala in maniere diametralmente opposte (ad esempio, i pannelli riflettori che sovrastano l’orchestra sono stati talvolta spinti contro il soffitto, altre volte sono stati abbassati sopra le teste degli strumentisti). Alcuni solisti, in particolare un celebre pianista, si sono detti insoddisfatti, malgrado l’aggiunta di paratie riflettenti alle loro spalle dirette a rafforzare il suono alla sorgente: ma questo è un fatto inevitabile per una sala disegnata per la grande orchestra e come tale caratterizzata da tempi di riverberazione lunghi (poco appropriati, invece, per i piccoli complessi o per singoli strumenti).
1
Quanto alla prima delle due, mi sento in obbligo di menzionare l’inopportuna scelta del nome, fatta sullo slancio emozionale causato dalla scomparsa del direttore Giuseppe Sinopoli, avvenuta sul podio. Grave anche il fatto che, per contro, nulla nel Parco è stato intitolato a Ottorino Respighi, considerato nel mondo il musicista di Roma per antonomasia.
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La sala intermedia, la Sinopoli, sembra in qualche modo offrire il miglior compromesso tra i due estremi: pur garantendo anch’essa un’adeguata potenza acustica anche lontano dal palcoscenico, offre un suono limpido e chiaro, adatto in modo particolare alla compagine degli archi. Ma tutte queste sono soltanto opinioni: l’esperienza insegna che i giudizi soggettivi, di fronte a realizzazioni che sono comunque di livello medio-alto, possono trovarsi in notevole contrasto. Soltanto un’adeguata caratterizzazione tecnica, purtroppo non ancora disponibile, potrà dirimere le divergenze. Prima di passare a un discorso più tecnico, è opportuno mostrare (Figg. 1-5) alcune fotografie delle sale e mettere in evidenza alcune loro caratteristiche costruttive. Le spiegazioni sono affidate alle didascalie.
144 Fig. 1. I gusci metallici esterni delle sale Sinopoli e Settecento e la cavea da 3000 posti che viene utilizzata per spettacoli all’aperto (Foto Maggi)
Fig. 2. Sala S. Cecilia ad anfiteatro (Foto Maggi). Si noti: a) il soffitto a cassettoni in ciliegio americano disegnato in modo da riflettere diffusivamente il suono, senza direzioni privilegiate; b) i riflettori orientabili sopra l’orchestra; c) le cavità introdotte dalle balconate laterali, così come la curvatura della parte alta delle pareti e la loro ricopertura in basso con pannelli inclinati, tutti elementi utili a minimizzare echi specifici provenienti dai fianchi
Nuovo Auditorium di S. Cecilia, anatomia di una megaopera
Fib. 3. Particolare del palcoscenico con i riflettori orientabili e variabili in altezza che sovrastano l’orchestra (chiamati gergalmente “patatine”). I pannelli servono a più scopi, tra cui quello di tenere “raccolto” il suono attorno agli esecutori, favorendone la fusione, e di rafforzare la riverberazione precoce che, sommandosi al suono diretto, ne incrementa la chiarezza
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Fig. 4. La sala Sinopoli, la cui forma rettangolare è adatta a fornire al suono particolare “spazialità”, dando all’uditorio la sensazione di una più intima immersione nella sorgente di suono. Dai primi dati tecnici, è la sala più “limpida” delle tre (Foto Maggi)
Fig. 5. Sala Settecento, dotata di varie parti mobili che ne cambiano le caratteristiche di riverberazione, ad esempio i pannelli ruotanti disposti lungo le pareti della sala, i pannelli a soffitto e altre parti “adattabili” del palcoscenico (Foto Maggi)
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Suono diretto e suono riverberato Nello spazio libero, l’intensità I del suono emesso da una sorgente si attenua con il quadrato della distanza r da essa I(r) =
W 4πr 2
dove W è la potenza acustica alla sorgente.2 Su una distanza di 100 m, quale è almeno la separazione tra palcoscenico e fila estrema della balconata più alta della sala S. Cecilia, l’attenuazione sarebbe di ben 4π⋅104, pari a circa 50 dB!3 Il che significa che un fortissimo ff prodotto sul palco si ridurrebbe a un pianissimo pp nelle ultime file. È il problema delle esecuzioni all’aria aperta. Nelle sale, però, al suono diretto si aggiunge il suono riverberato, ossia il suono che torna indietro per riflessione dalle pareti, dal soffitto, dagli infissi. Tale riverberazione è assolutamente indispensabile a rendere il suono uniforme o quasi uniforme in tutto l’ambiente. Essa dipende naturalmente in modo critico dalle dimensioni della sala, dalla sua forma, dalle inclinazioni delle pareti, da eventuali elementi riflettenti, dai materiali di costruzione, e da molti altri fattori, non ultimo la presenza o meno del pubblico.
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Fig. 6. Suono diretto, riflessioni precoci e riverberazione a lungo termine in una sala da concerto. Non sono mostrate le riflessioni dalle pareti laterali, importanti nel dare allo spettatore la sensazione di essere “avvolto” dal suono
Un possibile schema delle riflessioni in una sala da concerto è illustrato in Figura 6. Il suono diretto e le riverberazioni precoci (ad esempio quelle delle pareti del palcoscenico e dei pannelli riflettenti sopra l’orchestra) vengono percepite come un tutto unico, perché la separazione temporale è troppo piccola per essere percepita. Si conviene di stabilire in 80 ms il ritardo che consente di cogliere una riflessione come un suono distinto. Le riverberazioni precoci hanno
2
3
Definita come l’energia che in un secondo fluisce attraverso una superficie sferica S0 = 1 m2, centrata sulla sorgente, se questa è puntiforme. La differenza in decibel tra due suoni di intensità rispettivamente I1 e I2 si calcola nel modo seguente Numero di dB = 10.log(I1/I2).
Nuovo Auditorium di S. Cecilia, anatomia di una megaopera
allora l’effetto di rafforzare il suono diretto, aumentandone in particolare la chiarezza (o limpidezza). Riflessioni precoci provenienti dai lati hanno l’effetto di allargare la sorgente, dando al suono maggiore spazialità. Le riverberazioni a lungo termine, ossia quelle successive a 80 ms, forniscono una coda che garantisce al suono vivezza (o vitalità) e pienezza. Se provengono dai lati, danno allo spettatore la sensazione di immersione, ossia di trovarsi avvolto dal suono. A questo fine, hanno grande importanza la forma della sala, la strutturazione e l’inclinazione delle pareti, e l’eventuale presenza di apposite strutture riflettenti. Nella Figura 7 è mostrata, per una generica sala di grandi dimensioni, la caduta del livello sonoro, espressa in decibel, del suono diretto, del suono riverberato e del suono complessivo, in funzione della distanza dalla sorgente. Aldilà del cosiddetto “raggio della sala” il livello predominante, e poco dipendente dalla distanza, è quello del suono riverberato.
147 Fig. 7. Campi sonori in funzione della distanza dalla sorgente. Il “raggio della sala” è la distanza dalla sorgente dove suono diretto e suono riverberato hanno eguale intensità. Oltre tale raggio, il livello sonoro è praticamente uniforme
Tempo di riverberazione Una misura della durata della riverberazione a lungo termine è data dal tempo di riverberazione, definito come il tempo necessario perché il suono decada a un milionesimo del valore all’emissione (ossia 60 dB). Una previsione approssimativa di tale tempo può essere fatta utilizzando l’antica formula di Sabine (grandezze in metri): Tr = 0.161
V secondo aS
dove S è l’area interna della sala, V il suo volume, a il coefficiente di assorbimento medio delle superfici esposte al suono, che varia tra i limiti 0 e 1 se rispettivamente esse sono perfettamente riflettenti o assorbenti. Il valore di a si calcola come 1 a= ai Si S i
∑
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dove le Si sono le aree coperte dai vari materiali e le ai sono i rispettivi coefficienti di assorbimento. Oggi il computer permette di stimare il tempo di riverberazione in modo alquanto più accurato. Il tempo di riverberazione (Tr ), deve presentarsi molto diverso a seconda della destinazione della sala, come illustra la Figura 8. Un Tr lungo garantisce vivezza e pienezza, un Tr corto, viceversa, chiarezza. Così è opinione corrente che per il parlato esso non debba eccedere 1 secondo, per l’orchestra sinfonica debba invece aggirarsi attorno ai 2 secondi – caratteristico valore delle migliori sale nel mondo. Infine per la musica da camera e per l’opera, un valore attorno a 1,3 s – tipico ad esempio della Scala e dell’Opera di Dresda – è considerato ottimale. Un valore del tempo di riverberazione un po’ più elevato nei bassi è raccomandabile per dare calore alla sala, anche se va a scapito della brillantezza.
148 Fig. 8. Tempo di riverberazione a lungo termine in funzione del volume della sala. I pallini mostrano il valore ritenuto ottimale per i vari utilizzi
Parametri caratterizzanti Le grande sala S. Cecilia è stata progettata al computer e ottimizzata grazie a un modello in scala. Sul modello, le prove sono state naturalmente effettuate con una gamma di suoni similmente scalati in frequenza. Nondimeno, l’impiego del modello si è rivelato forse più indispensabile del computer. I tempi di riverberazione misurati ad opere ultimate sono risultati molto prossimi ai valori definiti a priori. I rilievi tecnici sono soltanto preliminari, in quanto, dei quattro parametri fondamentali (tempo di riverberazione, indice di chiarezza, indice di potenza acustica e coefficiente di intercorrelazione interaurale) sono stati misurati soltanto dei valori medi presi a sale vuote. Tali parametri sono definiti nel modo seguente: a) Indice di chiarezza, definito in ciascun punto della sala in base al rapporto tra l’energia acustica ricevuta nei primi 80 ms e quella successiva (p = pressione sonora): 80
C 80
∫ = 10 log ∫
0 ∞ 80
p 2 (t)dt p 2 (t)dt
dB.
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Tale indice è considerato soddisfacente se cade tra –4 dB e +2 dB in tutta la sala (corrispondente a un rapporto tra le due energie acustiche che va da 0,4 a 1,6). b) Indice di potenza acustica (S0 = superficie di 1 m2, ∆t = durata dell’impulso sonoro prodotto, p = pressione sonora nel punto di ascolto a distanza r dalla sorgente, pr = pressione sonora del solo suono diretto nel punto di ascolto, valutata sulla base della potenza acustica alla sorgente4: G∞ = 10 log
S0
∫
4πr 2
∞
p 2 (t)dt
0
∫
∆t
0
dB.
pr2 (t)dt
Questo parametro è considerato soddisfacente se è elevato e alquanto uniforme su tutta la sala. c) Indice di intercorrelazione interaurale normalizzata (IIR), che dà una misura della spazialità del suono (pl e pr = pressione sonora rispettivamente al microfono – alias orecchio – sinistro e destro): κ(τ) =
∫
∞
0
pl (t) pr (t + τ)dt 1/2
⎧ ∞ p 2 (t)dt ∞ p 2 (t)dt ⎫ ⎨ ∫0 l ⎬ ∫0 r ⎩ ⎭
.
Variando la distanza tra i due microfoni, il ritardo τ viene fatto variare tra -0,6 e 0,6 s: l’indice è considerato molto buono se assume un valore massimo compreso tra 0,4 e 0,6 in tutti i punti della sala.
Dati per le tre sale Le Figure dalla 9 alla 11 illustrano l’andamento del tempo di riverberazione delle tre sale e i dati medi relativi ai parametri essenziali. Sono utili alcuni commenti. Per tutte le sale appare appropriatamente basso sia il livello di rumore di fondo, sia il valore dell’indice di chiarezza. I tempi di riverberazione sono adeguati, in particolare per la sala Settecento nei due assetti possibili. Non deve sorprendere l’alto valore per la sala S. Cecilia, considerato che il suo volume è al di sopra dei 30.000 m3). In condizioni di sala piena è legittimo stimare che debba scendere almeno del 10%, andando così a collocarsi al limite superiore atteso per le buone sale. La sala Sinopoli, con un tempo di riverberazione medio di 2 s che però scende sotto i 500 Hz, anziché salire, appare piuttosto “fredda”, ciò che in compenso le dona brillantezza. Presenta un ottimo indice di potenza acustica G∞ come del resto la sala Settecento, delle tre quella che si annuncia come più “calda”, soprattutto nella versione teatro.
Conclusioni Sulla base delle impressioni raccolte tra il pubblico e delle misure preliminari oggi disponibili, la qualità delle tre sale può definirsi molto soddisfacente. È evi4
Si veda la nota 2.
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Fig. 9. Parametri caratteristici medi per la sala S. Cecilia in assenza di orchestra e pubblico
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Fig. 10. Parametri caratteristici medi per la sala Sinopoli in assenza di orchestra e pubblico
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Fig. 11. Parametri caratteristici medi per la sala Settecento in assenza di orchestra e pubblico
dente che una definizione quantitativa, e dunque più obiettiva, delle proprietà delle sale sarà possibile soltanto allorché, dei quattro parametri essenziali – Tr, C, G, IIR – saranno rese disponibili misure effettuate in condizioni di risoluzione spaziale, per quanto riguarda sia i punti di ascolto nella sala, sia i punti di emissione del suono sul palcoscenico. È anche verosimile che, in base all’esperienza maturata, successivi interventi sulle parti mobili delle strutture possano rendere l’acustica delle tre sale più prossima a un comportamento ottimale. Sono grato a Jürgen Reinhold della ditta Müller-BBM per aver reso disponibili alla pubblicazione i dati preliminari qui presentati e a Francesca Malandrucco dell’Ufficio Stampa di Musica per Roma per aver messo a disposizione le fotografie.
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matematica e educazione
Matematica a… Un format per mostre di matematica SIMONETTA DI SIENO, CRISTINA TURRINI
Nel volume Matematica e cultura 2002 Maria Dedò ha presentato un primo esperimento di comunicazione della matematica curato dal gruppo che da qualche tempo si occupa di divulgazione presso il Dipartimento di Matematica “F. Enriques” dell’Università degli Studi di Milano e che più recentemente ha promosso la costituzione di matematita, Centro Interuniversitario di Ricerca per la Comunicazione e l’Apprendimento Informale della Matematica. Ora, questo articolo si riferisce a quella prima riflessione e propone una delle evoluzioni che ha avuto il progetto lì presentato. Si tratta della mostra matemilano, percorsi matematici in città che, ideata e realizzata dallo stesso gruppo di ricercatori con la collaborazione di colleghi del Dipartimento di Matematica dell’Università degli Studi di Trento, ha dato l’occasione per la costruzione del format matematica a… al quale questo articolo è dedicato. Ci sono, in effetti, motivi per ritenere che una proposta di divulgazione della matematica condotta secondo le linee-guida di matemilano possa avere una
Fig. 1. Immagine dell’allestimento della mostra matemilano, Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia, Milano, 2003-2004. (Fotografia di S. Provenzi)
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qualche efficacia. Fin dalla sua inaugurazione nel settembre 2003, l’esposizione è stata oggetto di grande attenzione, e non solo in città. Da subito, l’affluenza del pubblico è andata ben oltre non solo le nostre previsioni, ma anche quelle dello staff del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano che la ospitava e che aveva costruito la sua ipotesi di durata dell’allestimento su una lunga esperienza di contatti con il pubblico fruitore della divulgazione scientifica. Le prenotazioni per le visite si sono chiuse in poche settimane così che, invece di durare solo tre mesi come era previsto, la mostra è rimasta aperta sino alla fine di maggio 2004. I visitatori si sono quasi equamente suddivisi fra classi di scuole pre-universitarie (più della metà provenienti da istituti di istruzione superiore) e pubblico generico. È vero che questo risultato si inserisce nel crescendo di attenzione che in Italia, negli ultimi anni, è andato sviluppandosi verso le scienze matematiche, ma a posteriori ci sembra che esso presenti anche taluni elementi di novità su cui è utile riflettere.
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La mostra è stata costruita con l’intento di accompagnare il visitatore in una rilettura in chiave matematica di alcuni aspetti della realtà che lo circonda, rilettura che gli permetta di cogliere quanto la matematica intervenga nella sua vita quotidiana. La scelta del contesto in cui articolare l’esposizione è caduta, non in modo immediato ma con sufficiente naturalezza, su un territorio familiare sia agli ideatori che al pubblico previsto, ovvero su Milano. E si è rivelata l’elemento vincente nella comunicazione, perché, permettendo alla mostra di svilupparsi secondo un effettivo doppio filo conduttore, quello della realtà cittadina e quello della matematica, ha indotto una positiva reazione di coinvolgimento e di identificazione in buona parte del pubblico. La novità della proposta espositiva non va dunque cercata nei temi trattati, ma proprio nella loro contestualizzazione nel territorio. Probabilmente si potranno ottenere risultati anche più significativi se, nelle prossime edizioni, si userà il riferimento cittadino con maggior sicurezza di quanta noi non ci siamo concessi: per esempio, è ben vero che a conclusione del percorso in mostra il visitatore trovava raccontata in un video una “vera” passeggiata milanese, ma si trattava quasi soltanto di una caccia alle simmetrie o alle rotture di simmetria che lasciava lo spettatore con il desiderio di… andare avanti. Comunque un’osservazione è già possibile fin d’ora. Il fatto che a matemilano ogni argomento sia stato “ambientato” in città non solo ha provocato un immediato interesse nel visitatore, e quindi ha reso più facile anche il suo coinvolgimento in quegli esercizi di astrazione che sono tipici del lavoro matematico, ma ha avuto anche una conseguenza alla quale a priori non avevamo affatto pensato: guardare alla città da un punto di vista inconsueto ha permesso a molti di riscoprire (e qualche volta addirittura di scoprire) luoghi milanesi altrimenti poco noti. Molti visitatori sono arrivati al Museo soprattutto, in prima istanza, per mostrare ad ospiti stranieri, oppure a figlioli e nipotini incuriositi, una Milano che è difficile da vedere negli attraversamenti veloci a cui spesso siamo costretti. Di tale conseguenza invece sarebbe opportuno es-
Matematica a… Un format per mostre di matematica
sere ben consapevoli sin dall’inizio della costruzione di una proposta espositiva dello stesso tipo, perché ciò indurrebbe a cercare con maggior determinazione quel coinvolgimento delle istituzioni cittadine che purtroppo è del tutto mancato a Milano, dove si sono avuti molti riconoscimenti post factum, ma dove c’è stata altrettanta indisponibilità a correre il rischio all’inizio dell’avventura. Altre realtà locali, speriamo, potranno essere più disponibili: una prima conferma verrà dalle risposte che avranno i colleghi di Trento che stanno studiando l’allestimento di matetrentino. Chiaramente il capoluogo lombardo è stato solo un pretesto e non ci saranno difficoltà a sostituirlo con l’ambiente in cui matematica a… verrà allestita: un percorso analogo a quello compiuto per questa esposizione è possibile in qualunque altra città. Descrivere qui le linee che abbiamo seguito per costruirlo può offrire indicazioni per una replica che voglia produrre una efficace attività di divulgazione. Siamo, come dicevamo, in un momento favorevole per chi vuole parlare di matematica al grande pubblico: basta ricordare il successo editoriale (modesto se confrontato con i bestseller, ma impensabile fino a qualche anno fa) di alcuni volumi che parlano di matematica, o quello di pellicole cinematografiche che narrano la vita di matematici e persino di opere teatrali in cui a fare da protagonisti non sono semplicemente alcuni studiosi più o meno significativi, ma è la matematica stessa, come si è visto ad esempio nello spettacolo Infinities che il suo regista, Luca Ronconi, e il direttore del teatro che l’ha prodotto, Sergio Escobar, hanno descritto in passate edizioni di Matematica e Cultura. Tuttavia la sensazione è che spesso non siano i fatti matematici ad attirare l’attenzione e che siano piuttosto le storie stravaganti, gli effetti meravigliosi, gli aspetti esoterici a colpire la fantasia. Allora, per riportare l’attenzione sui problemi, sui metodi e sui risultati, chi fa divulgazione non può nascondersi dietro l’oggettiva difficoltà della “regina delle scienze”, ma deve trovare formulazioni delle questioni affrontate dalla ricerca matematica che suscitino interesse nel pubblico e insieme permettano una comunicazione senza mistificazioni, ma anche senza banalizzazioni. Non si tratta di riproporre a un livello più semplice la comunicazione che si può attuare nelle aule scolastiche, ma si tratta di costruire occasioni per facilitare quello che si usa chiamare livello “informale” di apprendimento, anche (ma non soltanto!) quale prerequisito per qualunque successiva acquisizione di sapere più formalizzata. La comunicazione su un piano informale si deve poter distinguere da quella formalizzata in quanto, senza esserne una brutta copia nei contenuti e nei metodi, si sviluppa su un piano diverso. Rispetto a questi obiettivi, matemilano si è rivelata un esperimento interessante da parecchi punti di vista. Non è stato certo difficile trovare sul territorio spunti per “raccontare matematica”: occorreva però decidere a quali settori disciplinari fare riferimento e non avere timore di operare una cernita fra gli spunti possibili individuando contestualmente le competenze necessarie per illustrarli al meglio. Le scelte che abbiamo operato per matemilano sono collegate a temi classici nella storia del-
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Fig. 2. Immagine dell’allestimento della mostra matemilano, Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia, Milano, 2003-2004. (Fotografia di S. Provenzi)
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la divulgazione e rispecchiano soprattutto i gusti e gli interessi dei curatori. Tuttavia abbiamo cercato di privilegiare argomenti che mostrassero anche volti inconsueti della matematica, volti che di solito sono ignorati dai non addetti ai lavori. Matematica è per molti sinonimo di numeri, di conti, meglio se abbastanza complicati, o al più di figure geometriche sulle quali comunque quasi sempre si fanno considerazioni di tipo numerico (calcolo di perimetri, aree, volumi…). Chi fa matematica sa invece che la matematica è anche molto altro: accanto a questioni in cui è fondamentale misurare e far di conto, ci sono problemi in cui l’aspetto quantitativo, quello appunto dei calcoli, non ha alcuna rilevanza. È per questo che abbiamo voluto dare molto spazio ad una disciplina, la topologia, che è sicuramente la più… qualitativa delle geometrie e nella quale non hanno importanza né la forma né le dimensioni di un oggetto, né la lunghezza di un itinerario, ma solo fattori in un certo senso più “di base”, che fanno riferimento a proprietà degli oggetti che non cambierebbero neppure se questi fossero fatti di gomma e li si potesse distorcere a piacere (senza romperli). Nella mostra abbiamo provato ad illustrare due ambiti apparentemente molto lontani fra loro che appartengono alla topologia: uno relativo ai nodi (i matematici chiamano nodo quello che si ottiene facendo davvero un nodo con una corda e poi unendone i due capi in modo da “fissarla” in qualcosa che non si può più sciogliere) e un altro che prendeva spunto dalla pianta di Milano. Il primo era introdotto dal nodo taurino rappresentato nell’opera Continuo infinito presente di Remo Salvadori che appare in basso nella Figura 2, una scultura presente in mostra insieme al Rotante dal foro centrale di Arnaldo Pomodoro (Fig. 3) e all’Elicoide di Michele Ciribifera (Fig. 4).
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Fig. 3. Arnaldo Pomodoro, Rotante dal foro centrale, 1966; bronzo, ø 60 cm. (Fotografia di S. Provenzi)
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Fig. 4. Michele Ciribifera, Elicoide, 2003. (Fotografia di S. Provenzi)
Questi oggetti così fortemente espressivi suggerivano una lettura “libera” delle questioni proposte in mostra e un’interpretazione fuori dagli schemi prevedibili: il connubio fra racconto “didattico” del problema e sua interpretazione “artistica” è risultato in generale particolarmente significativo per il visitatore che ne ha potuto ricavare una illustrazione ricca e non monocorde delle questioni trattate. E non solo per il visitatore! Anche dopo l’individuazione dei temi da trattare,
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la costruzione di matemilano (e – crediamo – ciò succederà per qualunque edizione di matematica a…) ha richiesto una serie lunga di interazioni con professionalità assai diverse dalle nostre. Contatti con persone che matematici non sono, ma che comunque spesso hanno esperienze di matematica abbastanza ricche e sorprendenti da essere utili per capire meglio quali forme di comunicazione scegliere. Può succedere, come è successo a noi, che tali contatti rivelino un interesse verso la matematica che va al di là della richiesta contingente. Le risposte che abbiamo avuto alle domande: “C’è un aspetto di Milano che Le offre l’occasione per cogliere nel suo lavoro risonanze con idee, problemi, metodi della matematica?”, “Ci sono aspetti del suo lavoro che possano confrontarsi utilmente con quelli matematici?”, “Quale ruolo ha la matematica nel suo lavoro?” sono andate spesso ben di là della generica cortesia e ci hanno suggerito di usarle per arricchire la mostra. Abbiamo raccolto alcuni di questi contributi – sotto la forma di interviste – in una installazione visuale che corredava matemilano: dopotutto non è usuale che intellettuali di formazione diversa come i matematici e… gli altri si confrontino non solo sul terreno delle applicazioni concrete o delle speculazioni filosofiche, ma direttamente su quello della loro maniera di lavorare. E anche questo sembra confermare l’impressione, che ricaviamo sempre più spesso dalla nostra attività di divulgazione della matematica, che se si riesce ad individuare uno snodo culturalmente importante è più facile essere … rincorsi dalle provocazioni intellettuali che se ne ricavano ad ogni livello, che non essere costretti a dare spazio a banalità. Tener presente la pregnanza disciplinare di quanto si va a comunicare è una delle principali avvertenze da seguire per garantire anche una divulgazione efficace. Ma torniamo al nodo di Salvadori. In effetti questa scultura introduce, in maniera diretta e senza che sia necessario esplicitare alcuna complicata definizione, a una particolare famiglia di nodi (i nodi taurini) che è possibile descrivere completamente attraverso due numeri interi. Una famiglia che comprende alcuni fra gli esempi più semplici di nodi, dal nodo trifoglio – ovvero quello che si ottiene facendo con una corda un nodo “normale”, come quello che si fa per allacciarsi le scarpe, e poi richiudendo i due capi – al nodo formato da due anelli legati a catena. La maniera più semplice per far comprendere “davvero” ad un visitatore come sono fatti alcuni nodi, ad esempio come è fatto il nodo taurino caratterizzato da una certa coppia di interi, è senz’altro quella di sfidarlo a ricostruire quel nodo con una cordicella. Più di un exhibit della mostra era dedicato a chi voleva rifare da sé nodi proposti in modelli tridimensionali peraltro maneggiabili a piacimento oppure semplicemente raffigurati in una loro rappresentazione piana. E molti sono stati i visitatori, piccoli e grandi, che si sono cimentati. (Con grande stupore dei docenti di scuola elementare che spesso avevano chiesto alle guide di non inserirlo nel percorso per le loro classi e poi hanno invece visto anche i loro ragazzi lasciarsi incantare dal gioco e… non mollare sino alla risoluzione del problema, cioè sino a fare quella “esperienza di matematica” che è uno degli scopi di chi fa divulgazione.)
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Tuttavia se si vuole mostrare come si ottengano nodi taurini diversi a partire da coppie diverse di numeri interi, o se si vuole consentire una maggiore possibilità di gioco con le varie forme che si vengono a creare, si può ricorrere utilmente anche agli strumenti informatici. La questione del ruolo da assegnare al supporto informatico in una esposizione che intende mostrare al pubblico come sia possibile essere “protagonisti attivi” in matematica ci accompagna fin dalla prima costruzione della mostra Simmetria, giochi di specchi. È ben diverso “vedere” un esperimento virtuale di matematica o usare occhi e mani per costruirlo; l’intervento del virtuale in una mostra di “matematica che si tocca” è molto impegnativo, ma qualche volta arricchisce in maniera significativa la qualità degli stimoli offerti al visitatore. D’altro canto le nuove possibilità offerte dagli strumenti multimediali aprono un campo di indagine particolarmente interessante anche sul piano della ricerca di contenuti e metodi adatti alla comunicazione della disciplina. Fino a matemilano avevamo privilegiato la manipolazione diretta, le “mani dentro gli exhibit”, ma con matemilano ci è sembrato che il tentativo di costruire un’interazione forte fra concreto e virtuale fosse quasi obbligatorio: abbiamo confidato che le animazioni, per quanto belle, non assorbissero tutta l’attenzione dei visitatori, ma rimanessero quello che noi volevamo che fossero, cioè un utile supporto, un mezzo potente per mostrare cose altrimenti troppo complicate. E in effetti è andata così, anche a partire dalla seconda serie di exhibit dedicati alla topologia. In essi la mappa di Milano forniva l’occasione per proporre due classici problemi di carattere topologico in teoria dei grafi: il problema dei ponti di König-
Fig. 5. Problema delle tre case sul nastro di Moebius. (Realizzazione di Gianni e Stella Miglietta; fotografia di S. Provenzi)
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sberg e il problema delle tre case. Per entrambi abbiamo messo a disposizione del visitatore pacchi di cartine di Milano “usa e getta” da scarabocchiare ed eventualmente portare a casa, per provare e riprovare a risolvere i quesiti proposti. Ad esempio, in una versione milanese del problema delle tre case, abbiamo chiesto al visitatore di collegare tre stazioni di grande passaggio (Centrale, Nord e Garibaldi) con tre luoghi importanti (il Duomo, l’aeroporto di Linate e lo stadio Meazza) mediante percorsi che non si intersecassero, perché pensati per una metropolitana leggera. Il problema, come si sa, non ha soluzione e… non c’è modo migliore per convincersene che provare. La stessa domanda veniva poi proposta in altre due versioni, nelle quali era previsto che si potesse uscire da un lato della piantina e rientrare dalla parte del lato opposto contrassegnata dallo stesso colore. Come ben sappiamo, tali “regole” corrispondono ad aver proposto il problema non più sul piano, ma su una superficie diversa (la superficie di un toro e quella di un nastro di Moebius, in Figura 5), sulla quale invece il problema ha soluzione. In mostra allora, sia pure con qualche esitazione, abbiamo preparato alcune animazioni in cui i percorsi scelti dall’utente venivano visti direttamente come cammini tracciati sul toro (Fig. 6, a sinistra) o sul nastro di Moebius (Fig. 6, a destra): inserire animazioni di questo tipo sulle postazioni virtuali a disposizione dei visitatori non avrebbe portato i più giovani a piazzarsi davanti ai computer e a ignorare il resto? L’esperienza dei lunghi mesi a contatto con il pubblico ci ha detto che non succede necessariamente così: forse occorre, semplicemente, che l’interattività generale dell’esposizione sia di tipo molto forte, che non preveda soltanto di… pigiare un bottone e vedere che cosa succede, ma induca il visitatore a provare e riprovare fino a capire quali siano buone strategie per ottenere un risultato. Le altre tre aree tematiche erano dedicate rispettivamente a problemi di massimi e minimi (la Figura 7 mostra la pianta di Milano del 1500 da cui si è tratto spunto per proporre problemi di tipo isoperimetrico, mentre la Figura 8 riproduce, degli stessi problemi, una versione per i più piccini), a questioni di simmetria (la Figura 9 mostra un modello di una metà di S. Ambrogio davanti allo specchio) e a fenomeni legati alla visualizzazione. Per non dilungarci trop-
Fig. 6. Dall’animazione interattiva “Percorsi senza incroci”
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Fig. 7. Mappa di Milano del 1500. (Fotografia di S. Provenzi)
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Fig. 8. Le mura di un castello
Fig. 9. Modello di una metà della chiesa di S. Ambrogio davanti a uno specchio
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po, ci limitiamo qui a fare qualche considerazione relativa all’ultima sezione. Alcuni aspetti della teoria della visualizzazione costituiscono topos classici per la divulgazione scientifica, anche perché ben si prestano a catturare l’attenzione del fruitore con magie ed effetti speciali. In realtà si tratta di un settore in cui è molto difficile fare della buona divulgazione, dal momento che in esso convergono e si mescolano questioni di natura diversa che necessitano di competenze differenti: la fisica e la matematica certo, ma anche, per larga parte, la psicologia e la teoria della percezione. La scelta che abbiamo fatto per matemilano, ancora una volta suggeritaci dal territorio, è stata quella di usare questa sezione non tanto per raccontare un risultato o per illustrare un concetto, quanto per mostrare un modo di procedere, un atteggiamento tipico di chi lavora in matematica: quello per cui, di fronte a un fenomeno da studiare e a proposito del quale si riceva una gran messe di dati e di informazioni, il matematico cerca di sfrondare, di discernere quali siano i dati essenziali e quali no, cerca cioè di schematizzare, e così facendo spesso mette in evidenza come taluni fenomeni, anche di mondi diversi, siano in realtà governati dalle stesse regole. Una delle capacità che vengono affinate studiando matematica, poco nota ai non addetti ai lavori, è appunto l’attitudine a cercare e a cogliere gli aspetti unificanti di problemi molto lontani tra loro. E questa è una maniera di lavorare tipica della matematica che abbiamo voluto portare nella mostra. Così nella sezione dedicata alla visualizzazione, abbiamo accostato exhibit assai diversi cercando di accompagnare il visitatore in un percorso al termine del quale l’aspetto unificante avrebbe dovuto risultare evidente. Ciascuno di noi ha assistito da bambino allo spettacolo improvvisato da qualcuno che con le dita proiettava sul muro l’“ombra cinese” di un coniglio o di una giraffa: a matemilano abbiamo realizzato qualcosa di analogo giocando con il tema stesso dell’esposizione. Appesa al soffitto c’era una serie di simboli della matematica, numeri e figure geometriche, di dimensioni e colori diversi, che proiettavano sul muro, grazie a un faretto posto in maniera “opportuna”, la scritta MILANO (Fig. 10). Le guide che accompagnavano i visitatori hanno avuto l’impressione che le domande su che cosa volesse dire “modo opportuno” provenissero in maniera indifferenziata da tutto il pubblico, adulto e no, competente e no, ma che le loro diverse formulazioni avrebbero potuto suggerire bene tanto la competenza specifica del visitatore quanto il suo livello di fruizione dell’esposizione in generale. Dallo stupore incantato e indistinto all’individuazione delle ombre lasciate da un numero piuttosto che da un altro, dall’analisi del ruolo giocato dalla posizione dell’oggetto originario a quella delle sue dimensioni, c’è stato posto per molte tipologie di reazioni e/o domande. Analizzarle può aiutarci a capire su quali basi si costruisce la minore o maggiore efficacia di una comunicazione, ma si tratta di un compito niente affatto semplice. Un altro esperimento nella stessa sezione è quello della camera di Ames. Si tratta del modello di una stanza, da noi riprodotta in formato “casa delle bambole”, che è un classico per coloro che si occupano di teoria della percezione: chi ha visitato qualcuno dei grandi musei della scienza ha probabilmente potuto fare l’analoga esperienza con una camera a grandezza umana.
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Fig. 10. “mateMILANO”. (Fotografia di S. Provenzi)
Adelbert Ames era uno psicologo statunitense che, intorno agli anni Trenta del secolo scorso, aveva realizzato una serie di esperimenti volti a mostrare come la nostra percezione sia condizionata e influenzata dall’esperienza precedente. Fra l’altro, aveva ideato un ambiente chiuso, osservabile dall’esterno da uno spioncino. Il pavimento e il soffitto della stanza sono inclinati, la parete di fondo è di sbieco e il pavimento è a mattonelle trapezoidali. Pavimento, soffitto e pareti sono però costruiti in modo da proiettarsi (per chi guarda dallo spioncino) su pavimento, soffitto e pareti disposti come in una stanza normale, e pertanto appaiono così all’occhio di chi guarda, dal momento che tutti noi siamo abituati a vivere in stanze squadrate a forma di parallelepipedo. Il pavimento a trapezi è anch’esso immagine prospettica di un normale pavimento a scacchi quadrati, e come tale viene percepito. I visitatori guardano quindi dentro la casetta da uno spioncino, vedono una stanza normale: le mura della stanza diventano una sorta di sistema di riferimento ortogonale. L’effetto di disorientamento si ha chiaramente quando vengono inseriti nella stanza oggetti reali che mal si adattano a tale riferimento: se si inseriscono ad esempio due oggetti uguali, appoggiandoli alla parete di fondo, uno dei due appare molto più grande dell’altro; la parete di fondo è di sbieco, l’oggetto che ci appare più grande è semplicemente più vicino. Nelle camere di Ames a grandezza umana si possono vedere persone che camminando lungo la parete di fondo si trasformano da nani a giganti. L’aggancio milanese a questo tipo di questioni è dato dal finto coro del Bramante, nella chiesa di Santa Maria presso San Satiro. Il Bramante aveva dovuto simulare per il coro, ovvero per quello che abitualmente è il quarto braccio del-
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le chiese a croce latina, una profondità che in realtà non c’era. Così ne congegnò l’architettura in modo da ricostruire, dal punto di vista della visione, il braccio mancante. In mostra avevamo un modello, scala 1:20, prestatoci dall’Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze (Fig. 11), che ricostruiva, nella metà sinistra per chi guarda, il finto coro così come è e, nella metà destra, il finto coro con la profondità che ci immaginiamo che abbia quando lo guardiamo. E la differenza dall’esterno tra le due parti è davvero impressionante. Con questo modello si è verificato in maniera molto chiara ciò a cui accennavamo poco sopra a proposito del fatto che una mostra che prenda spunti dal territorio serve in alcuni casi a far riscoprire luoghi affascinanti e scarsamente conosciuti: sono tanti i milanesi che non hanno mai visitato la Chiesa di San Satiro, che pure è a poche centinaia di metri dal Duomo, e che l’hanno scoperta con noi! Ora, che cosa hanno in comune i due esperimenti precedenti con il Bramante? In ognuno dei tre esempi si tratta di illusioni che si basano su due elementi di fondo. Da una parte il fenomeno puramente geometrico della visione, per il quale, almeno nella schematizzazione della visione monoculare, tutti i punti che appartengano allo stesso raggio visivo vengono visti come un unico punto, indipendentemente da quanto siano distanti dal nostro occhio (e un’osservazione dello stesso tipo vale per la formazione delle ombre), a causa del quale non è possibile ricostruire un oggetto reale dalla sua semplice immagine (o dall’ombra da esso proiettata). Dall’altra il fenomeno – che non ha più a che fare con la matematica ma piuttosto con la teoria della percezione – per cui il nostro cervello per decodificare le immagini viste aggiunge qualche informazione in più, qualcosa che non si sarebbe potuta ricavare dalla semplice visione: per la Camera di Ames aggiunge l’informazione errata che deriva dall’aver sempre frequentato stanze squadrate, mentre per i numeri che proiettano come ombra MILANO usa l’informazione che ci fa associare ad un’ombra la più naturale delle forme che la possono generare. Nel caso del coro del Bramante invece l’illusione è dovuta al fatto che chi guarda si immagina che anche i cassettoni della volta del coro siano fatti come i cassettoni in tutto il resto della Chiesa e siano cioè sostanzialmente quadrati, mentre in realtà sono molto più sottili, anche se prospetticamente compatibili con l’idea che ci siamo fatti di essi. La qualità della fruizione di questa sezione da parte del visitatore è stata molto condizionata dalla presenza o meno di una guida esperta che accompagnasse il pubblico da un tavolo all’altro, mettendo di volta in volta l’accento sui punti essenziali del messaggio che volevamo trasmettere. I visitatori che si aggiravano per la mostra senza l’ausilio di una guida, pur restando affascinati dagli effetti speciali delle ombre cinesi dei numeri appesi, o dalla magia della camera distorta, o ancora dalla efficacia del modello di San Satiro, assai difficilmente riuscivano a cogliere il messaggio globale. E per raggiungere lo scopo probabilmente non sarebbero serviti neppure lunghi cartelloni esplicativi. Questa è la tipica situazione in cui avere delle guide ben addestrate (e il Museo della Scienza e della Tecnologia ne ha davvero di molto brave!) fa, come si dice, la differenza. Probabilmente, come già l’esperienza della mostra Simmetria, giochi di specchi ci ha
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Fig. 11. Modello di San Satiro scala 1:20 di proprietà dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze. (Progetto di Filippo Camerota; realizzazione di Daniela Corradino e Giuseppe Fioroni; fotografia di S. Provenzi) 167
insegnato, per trasmettere in modo efficace, e senza la mediazione di una guida, un messaggio ampio, in cui contino di più i nessi logici che non i singoli contenuti, sarebbe necessario mettere a disposizione del visitatore molti più exhibit, permettendogli di fare molte più esperienze “sul campo” di quante una mostra non monotematica consenta. Solo per fare un esempio, per capire davvero a fondo il legame tra l’immagine (bidimensionale) di un oggetto e la sua realtà tridimensionale si potrebbe pensare a qualche esperimento di “fuga” nella quarta dimensione… Di una città come Milano non avremmo potuto dimenticare che è anche, e forse soprattutto, luogo di lavoro. Così abbiamo usato proprio le applicazioni della matematica per legare quest’ultima in maniera immediata al territorio e per introdurre quindi il visitatore alla mostra. L’esposizione si apriva perciò con alcuni flash sulla matematica nel lavoro e nella vita quotidiana dei cittadini, documentati da una serie di poster. Avevamo affidato direttamente ai protagonisti del mondo dell’economia, dell’industria o dei servizi il compito di illustrare la presenza della matematica nella società, chiedendo loro di raccontare se, e come, si fossero trovati ad usare strumenti matematici più o meno raffinati. L’idea era da una parte quella di mostrare la pervasività della nostra disciplina nel mondo reale e dall’altra di suggerire, soprattutto ai giovani, qualche alternativa allo schema stereotipato: laureato in matematica = insegnante di matematica.
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Venivano toccate svariate questioni [1], quali: che cosa vuol dire cablare Milano, progettare cioè reti efficienti e capillari, minimizzando i costi (ovvero la lunghezza dei cavi) e utilizzando le condotte sotterranee esistenti? in base a quali elementi un’istituzione sanitaria decide di comprare un macchinario o un farmaco di costo elevato, come valutare numericamente il beneficio che la comunità ne può trarre? quali sono gli strumenti matematici più adeguati a descrivere un fenomeno come quello del succedersi di giorni piovosi e siccitosi? come si può condurre un non-vedente a “sentire” le grandi dimensioni, soprattutto la dimensione dell’altezza? qual è la matematica che sta dietro al problema della ricostruzione delle immagini delle più recenti ecografie tridimensionali? o al problema di assicurare un portafoglio, ovvero proteggere l’investitore dai rischi di un’operazione in borsa? quale matematica c’è dietro la bellezza di un tessuto (il modo in cui trama e ordito si intrecciano per realizzare un tessuto è descritto da matrici le cui proprietà si rispecchiano in proprietà di compattezza, lucentezza, ruvidezza del tessuto)? quali sono i modelli matematici che si usano per descrivere i fenomeni demografici, ovvero i modelli della cosiddetta matematica delle popolazioni? Ci hanno chiesto se si trattasse soltanto di un escamotage per agganciare l’attenzione del visitatore prima di introdurlo alla matematica “vera”, ma non è così. Non c’è alcuna distinzione fra matematica “buona” e matematica “di seconda scelta”, semplicemente c’è la valutazione che la matematica necessaria per risolvere i problemi dei nostri… sponsor è molto spesso difficile da comunicare a chi non ha familiarità con i problemi e i metodi della matematica e che una familiarità di questo tipo si può invece cominciare a costruire avvicinandosi direttamente ad alcuni risultati importanti e centrali delle scienze matematiche. La visita ad una mostra non è una lezione di matematica. Si va a una mostra per vedere cose interessanti, per fare esperienze piacevoli, per guardare da prospettive nuove. Poi, se la curiosità è stata abbastanza sollecitata, si proverà a… studiare. Preparare matemilano è stato un lavoro impegnativo e che ha richiesto un’attenzione quasi esclusiva per lunghi mesi, ma ancora oggi, a distanza di un anno dalla consegna al Museo per l’allestimento, gli spunti e le provocazioni che ne abbiamo tratto sono vivi. Ci piace chiudere questo articolo ricordando solo la più recente fra le produzioni che ne sono conseguite. Quando chiedevamo consulenze e contributi, molti intellettuali milanesi ci hanno risposto, l’abbiamo già detto, aprendo nuovi panorami o suggerendo nuovi confronti, qualcuno addirittura rilanciandoci un’analoga sfida al confronto. Dalla loro disponibilità e da quella di alcuni colleghi ricercatori di matematica è nato un volume dal titolo direttamente espressivo: “Con altri occhi. Sguardi matematici e non sulla città” nel quale gli uni e gli altri “leggono” la città secondo i parametri della loro professionalità. Un esperimento sul quale non c’è ancora il giudizio del pubblico, ma al quale affidiamo il compito di aprire una nuova serie di contatti e di collaborazioni utili a dare sostanza alla nostra comunicazione di “fatti” matematici.
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Bibliografia [1] M. Bertolini, M. Cazzola, M. Dedò, S. Di Sieno et alii (a cura di) (2004) matemilano. Percorsi matematici in città, Springer-Verlag Italia, Milano (ristampa con modifiche, 2005)
Letture consigliate P. Bellingeri, M. Dedò, S. Di Sieno, C. Turrini (a cura di) (2001) Il ritmo delle forme, Mimesis, Milano (trad. portoghese: O ritmo das formas, Ass. Atractor ed., 2003; trad. francese: Symétrie et jeux de miroirs, Ed. POLE, 2002) M. Bertolini, M. Dedò, S. Di Sieno, C. Turrini (a cura di) (2005) Con altri occhi. Sguardi matematici e non sulla città, Electa, Milano M. Dedò (2004) Visualizzare politopi in dimensione 4, in: A. Abbondandolo, M. Giaquinto, F. Ricci (a cura di) Ricordando Franco Conti, Scuola Normale Superiore, Pisa, pp. 81-114 S. Di Sieno (2003) Matematica al Museo, Boll. UMI, n. 6, Aprile, pp. 85-103 S. Di Sieno (2002) Mostre di matematica: soltanto una moda o una strategia interessante?, Boll. UMI, n. 5, Dicembre, pp. 491-541 C. Turrini (2002) Superfici, poliedri e colori, in: S. Di Sieno, M. Rigoli, T. Sichel (a cura di), La matematica e la vita quotidiana, Mimesis, Milano
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Imparare la matematica attraverso l’arte ANGELA ELSTER, PEGGY WARD
“Music brightens the mind. When you learn something new you feel good, and that makes you feel good in other subjects like math.” Grade 6 LTTA student “La musica apre la mente. Quando impariamo qualcosa di nuovo, ci emozioniamo ed è questo ciò che ci fa piacere anche le altre materie come la matematica”. Studente del sesto anno di LTTA (“Learning though the Arts”, The Royal Conservatory of Music, Toronto, Canada)
Migliorare l’insegnamento e l’apprendimento attraverso l’arte Learning through the Arts (LTTA) è un programma di istruzione che fornisce agli insegnanti strumenti creativi per attirare più studenti verso la matematica, la scienza, l’arte del linguaggio e la sociologia. In sostanza, l’arte diventa uno strumento per suscitare e tenere alto l’interesse in un curriculum di studi generale. Attualmente è funzionante in più di 300 scuole in Canada, con gruppi di sviluppo professionale negli Stati Uniti, a Singapore, in Malaysia ed in Europa. Learning through the Arts è uno dei più grandi programmi scolastici pubblici nel mondo che si basano sull’arte. LTTA è un programma di miglioramento scolastico, creato dal Royal Conservatory of Music di Toronto in Canada, che si rivolge ai bisogni inerenti allo sviluppo di tutti i bambini del sistema scolastico pubblico. Il programma è cominciato nel 1994 e nel corso degli anni si è sviluppato andando oltre la semplice premessa secondo cui le scuole che incoraggiano gli insegnanti a rendere l’insegnamento e l’apprendimento un atto partecipativo, attivo e collegato allo stile degli interessi e della cultura personale di ogni studente, sono le più efficaci nel conseguire uno sviluppo scolastico, sociale e personale di questi studenti. I valori centrali sono: – una forte leadership – qualità dello sviluppo professionale – sostenibilità. I principi guida di attuazione sono:
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– interesse per le materie più importanti – interesse per lo sviluppo professionale – interesse per le società. Learning through the Arts offre un programma all’avanguardia per i giovani che hanno lottato per imparare nuovi concetti attraverso mezzi tradizionali come libri o conferenze. Esplorando nuove idee in maniera più fantasiosa e pratica (disegnando, creando balli, raccontando storie o cantando), gli studenti di LTTA approfondiscono il curriculum scolastico in tutte le materie e, allo stesso tempo, si entusiasmano nei confronti dell’apprendimento. Nello sviluppo del programma, il Royal Conservatory of Music ha riconosciuto che anche gli insegnanti, come gli studenti, imparano meglio attraverso l’esperienza diretta e pratica del tipo hands-on. Quindi, vi è una componente di sviluppo professionale che è centrale in Learning through the Arts: una componente che combina gruppi di sviluppo del mestiere con una frequente pratica in classe, sostenuta da una gruppo di artisti esperti di LTTA. Il programma intero inizia con una fase sperimentale di tre anni che consente agli insegnanti di avere il tempo di acquisire fiducia nell’applicare questi nuovi metodi in tutte le materie. Nel mondo del futuro, che diventerà sempre più complesso e globalizzato, la capacità di pensare in maniera integrante ed innovatrice sarà una caratteristica importante per la competitività nazionale ed affaristica. Con la globalizzazione, l’arrivo delle nuove tecnologie ed una maggiore enfasi nei confronti dell’autonomia dell’individuo, le società in tutto il mondo hanno bisogno di pensare ad un tipo di istruzione innovativa. L’arte offre agli studenti un mezzo per andare oltre la pratica dell’imparare a memoria le formule: permette loro di iniziare ad esplorare se stessi ed il mondo intorno a loro in una maniera olistica ed integrante. In breve, l’arte aiuta ad insegnare agli studenti la capacità di introdurre innovazioni. Integrare l’arte nell’apprendimento non solo produce migliori studenti, migliori impiegati del futuro e migliori pensatori, ma aiuta anche a produrre caritatevoli cittadini del mondo con vedute abbastanza grandi da abbracciare tutta la complessità di cui avranno bisogno per essere i custodi del futuro di un pianeta fragile. LTTA è un programma per tutta la scuola, al quale partecipa ogni studente e insegnante. Il suo scopo primario è creare una comunità di studi dinamica ed auto-sufficiente all’interno di ogni scuola. Il programma si sviluppa per un periodo di tre anni per assicurare che la nuova pratica venga completamente integrata nell’istruzione quotidiana degli insegnanti. Per tutti gli studenti, LTTA favorisce un nuovo impegno ad imparare, sviluppa la creatività, l’abilità a risolvere un problema ed il lavoro di squadra. Per gli insegnanti, LTTA offre un mezzo per rinnovare la passione per l’insegnamento, avere a che fare con classi culturalmente diverse, allargare le loro abilità, scoprire i talenti nascosti di tutti gli studenti ed eseguire un programma di studi esigente. Per i presidi delle scuole LTTA è un programma che ha dimostrato di valorizzare la direzione dell’istruzione e lo sviluppo di una comunità di studi rinvigorita all’interno della scuola. Per i genitori, LTTA offre l’opportunità di vedere il proprio bambino impegnato e contento di imparare.
Imparare la matematica attraverso l’arte
Background All’inizio del XXI secolo molti educatori e genitori stanno riflettendo sul tipo di istruzione di cui i giovani hanno bisogno per diventare membri responsabili e produttivi di una società globalizzata. Dopo aver riconosciuto che è la scuola a dover aiutare a facilitare lo sviluppo di cittadini creativi, seri e responsabili, siamo obbligati a considerare come un tale sviluppo possa avvenire per fornire una vasta opportunità di apprendimento a tutti i giovani [1, 2]. Ci sono prove documentate dell’importante ruolo che l’arte ha nell’istruzione [3-5]. Certamente non ci sono garanzie o soluzioni facili per affrontare la complicata sfida fornita dall’istruzione, ma un curriculum scolastico ricco di arte può fornire un mezzo per esprimere e capire se stessi, avere fiducia in sé, risolvere problemi in maniera creativa e sentirsi più motivati. Nell’ultimo decennio ci sono stati varie avvisaglie del fatto che l’istruzione in Canada dovrà operare con sempre meno denaro, meno insegnanti, più studenti e più studenti con bisogni speciali [6]. I maggiori cambiamenti nel mondo rendono sempre più difficile il compito di preparare lo studente ad essere “il cittadino responsabile del futuro capace di vivere e lavorare in un mondo globalizzato” [7]. Sembra che stiamo sperimentando un cambiamento di base, non solo nell’istruzione, ma anche nelle strutture sociali, nel mondo aziendale, nella scienza, nella medicina, nella tecnologia e nel settore privato. In risposta a questa situazione il Royal Conservatory of Music (www.rcmusic.ca) ha ingaggiato la società Artsvision, un’organizzazione considerata leader negli Stati Uniti nei progetti di istruzione innovativi, per farle condurre una valutazione dell’istruzione in rapporto all’arte e all’apprendimento nel sistema scolastico pubblico della città di Toronto. Questa valutazione è stata condotta per parecchi mesi nel 1994 [8]. Dopo mesi intensi di interviste, focus groups e indagini su studenti, genitori, educatori, amministratori ed artisti, è stata pubblicata una relazione che concludeva che le scuole metropolitane di Toronto dovevano confrontarsi con una serie di sfide di tutto rispetto [8]. Gli autori della relazione avevano trovato che molti studenti erano disinteressati ai loro studi. Questo non sorprendeva, dato che l’80% degli studenti in alcune scuole parlavano l’inglese solo come seconda lingua e avevano difficoltà a capire i loro insegnanti ed i loro pari. Gli insegnanti, mentre lottavano per venire incontro alla crescente domanda di nuovi curriculum scolastici, trovavano che la maggior parte del loro tempo venisse spesa a risolvere conflitti e a istruire gli studenti su livelli accademici di base. Molti degli educatori intervistati credevano che l’arte avrebbe potuto fare la differenza nelle loro scuole, ma temevano ancora che i tagli del budget avrebbero significato meno sovvenzioni per le esperienze artistiche in un momento in cui più se ne aveva bisogno. La relazione inoltre concludeva che le organizzazioni di artisti e di arti in ogni parte della città di Toronto, nonostante fossero state affidate loro attività di istruzione e di estensione, non usavano le loro considerevoli risorse come effettivamente avrebbero potuto. Dopo vari decenni di viaggi di studio e di programmi che coinvolgevano artisti nelle scuole, questi sforzi rimanevano largamente disorganizzati, dispersivi e privi di risultati tangibili. Pochi di questi programmi avevano dei meccanismi tali da preparare uno studente alle vi-
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site degli artisti, ed il ruolo primario degli studenti era di osservare l’artista/esecutore, piuttosto che di essere attivi nel processo creativo stesso. La relazione di Artsvision raccomandava la realizzazione di un approccio globale verso l’istruzione artistica, anzi verso l’istruzione in generale, che sfruttasse l’arte non solo come una disciplina, ma anche come mezzo di insegnamento attraverso tutto il curriculum scolastico. Tale approccio aveva il potenziale per dare un contributo decisivo alla capacità di una scuola di venire incontro alla complessità e alle sfide crescenti che aveva di fronte. In aggiunta alla convincente discussione a favore di un’istruzione basata sull’arte inclusa nella relazione di Artsvision, molto è stato scritto del valore dell’arte in altre materie in riguardo alla creatività [4], [9-12]. Opere successive di Gardner ed altri [4, 5], hanno rinforzato il valore dell’arte come strumento per l’insegnamento e l’apprendimento di molte abilità e di molti concetti cha vanno oltre l’arte in sé. Un’istruzione che si basa sull’arte può: – facilitare lo sviluppo di abilità analitiche e di risoluzione dei problemi [13-14]; – stimolare la curiosità naturale; – coltivare una vasta gamma di abilità di pensiero [5]; – rendere l’apprendimento un fattore di rilevanza per gli studenti nei molteplici e diversi ambienti culturali che esistono oggi nelle scuole; – facilitare i collegamenti che devono essere fatti fra aree accademiche e avvenimenti fuori dalle aule scolastiche [15, 16]; – migliorare il lavoro di squadra; – rafforzare la capacità di usare ed acquisire informazioni e di approfondire differenti tipi di sistemi simbolici [17, 18]; – sviluppare una capacità di pensiero creativo e perciò accedere ad un livello di pensiero più elevato [5]; – servire da strumento per esprimere se stessi – dare voce a sentimenti ed esperienze; – servire da mezzo per aiutare gli studenti a dare un significato a ciò che imparano [5]. Con la missione di “sviluppare il potenziale umano attraverso la direzione dell’istruzione musicale ed artistica”, è sembrato ovvio che il Royal Conservatory of Music avrebbe dovuto iniziare ad usare la sua considerevole competenza e le sue risorse per ciò che era chiaramente una crisi dei metodi di istruzione. Era ora di sviluppare un nuovo modello di istruzione che avrebbe dimostrato il valore di un approccio globale basato sull’arte e servire da progetto attuabile in tutte le aule scolastiche della nazione.
Storia In ogni parte del mondo sembra che gli educatori debbano affrontare molte sfide comuni: – nuovi curriculum introducono concetti più complicati per età più giovani; – l’aspettativa che ogni studente conseguirà un successo scolastico; – meno risorse.
Imparare la matematica attraverso l’arte
Allo stesso tempo, il diffondersi dei cambiamenti sociali e culturali rendono sempre più difficile per le scuole conseguire i loro scopi. Per soddisfare il ruolo rilevante che hanno nella nostra società, le nostre scuole hanno ovunque bisogno del pieno appoggio della comunità. Nel 1994 il conservatorio canadese ha formato una società cui appartenevano anche un gruppo di cento insegnanti delle scuole di Toronto e l’organo istituzionale North York Board of Education. Lo scopo era di accedere alle emozioni ed al talento artistico dei bambini (facendoli dipingere, cantare, raccontare storie, danzare ecc.), per aiutarli ad imparare i concetti matematici, scientifici, sociologici e linguistici e a sviluppare amore per l’apprendimento. Il conservatorio offriva ad ogni insegnante l’opportunità di lavorare con tre artisti della comunità locale. Gli artisti erano stati scelti in maniera che potessero relazionarsi al contesto sociale e culturale dei bambini, collegarsi ai loro diversi talenti e perché erano disposti ad impegnarsi in scopi educativi. Altri educatori, con anni di esperienza scolastica alle spalle, conducevano il programma. Insegnanti di ogni livello scolastico scelsero un comune centro d’interesse curricolare. Gli artisti lavoravano dunque per capire quale semplice strumento artistico poteva essere usato per insegnare nuovi concetti accademici. I danzatori utilizzavano il movimento per aiutare i bambini a capire concetti come quello dell’area e del perimetro, di forze sperimentabili come la compressione, la tensione e l’accelerazione. I cantautori aiutavano i bambini a scrivere canzoni sulle rocce e sulla geologia, sulla loro comunità o sugli avvenimenti storici. I primi anni di attuazione convalidarono il bisogno di tale programma e incoraggiarono il Royal Conservatory of Music a continuare ad allargarlo per venire incontro alle necessità di più insegnanti, più presidi scolastici e più studenti, per più tempo. Fu chiarito anche che, quando gli studenti erano contenti di ciò che succedeva a scuola, i loro genitori diventavano più attenti alla cultura scolastica. LTTA è diventato velocemente un mezzo per coinvolgere anche i genitori e tutta la comunità. Operando attualmente in sette province del Canada, dal British Columbia al Newfoundland ed in un territorio (lo Yukon), LTTA raggiunge più di 50.000 studenti ogni anno. Nel 2004/5 più di 100.000 studenti, 5.000 insegnanti e 500 artisti parteciperanno al programma in Canada e ai progetti internazionali in Europa, in Asia, negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Sebbene LTTA sia modellato per incontrare i bisogni regionali, i principi guida e la struttura rimangono invariati.
Insegnare la matematica attraverso l’arte Il drammaturgo greco Euripide disse nel V secolo a.C.: “La geometria è imponente: unita all’arte, è irresistibile”. Molte persone possono trovare inizialmente difficoltà a vedere il luogo in cui si intersecano la matematica, una scienza estremamente esatta, ed il campo sog-
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gettivo ed estremamente individuale dell’arte. Noi stessi ci siamo sorpresi quando abbiamo scoperto che, per gli studenti di LTTA che imparano le materie fondamentali attraverso l’arte, il maggiore profitto si verificava proprio nell’apprendimento della matematica. Uno studio del 2002 della Queen’s University su 6.750 studenti di tutto il Canada, ha mostrato i vari benefici dell’arte per allievi e insegnanti, incluso un maggiore impegno e un atteggiamento più positivo nei confronti della scuola. Ma il risultato più interessante era il fatto che gli studenti che impiegavano l’arte nel loro apprendimento per tutto il curriculum scolastico hanno raggiunto in percentuale 11 punti in più in matematica, senza badare se le lezioni curricolari erano di matematica o di altre materie. Perché l’arte porta profitti così sensazionali per gli studenti di matematica? Innanzitutto gli studenti di matematica godranno degli stessi benefici che l’arte apporta a qualunque materia fondamentale. L’arte, come già sottolineato, riesce a riscuotere un generale interesse poiché fornisce un ambiente di risonanza emotiva e quindi impegna gli studenti in maniera più completa rispetto all’approccio “lezioni/test” tradizionale. Le notizie fornite dalle neuroscienze negli ultimi quindici anni hanno mostrato in maniera definitiva che l’arte è un agente vitale per la creazione di nuove reti neurali tra parti diverse del cervello, che aiuta a creare più pensatori creativi che riescono ad attivare il loro cervello interamente per la risoluzione di un problema. In secondo luogo, per molti bambini imparare la matematica è un atto carico di paura e ansia. Quando i bambini sperimentano la paura e la trepidazione, l’apprendimento si blocca. In una lezione di LTTA di nome “Blues di matematica”, la cantautrice Peggy Ward (che ha tenuto insieme a me l’intervento al convegno di Matematica e Cultura) ha lavorato con studenti del sesto anno e i loro insegnanti creando liriche e canzoni di blues per aiutarli con la moltiplicazione. C’era un ragazzo della classe che era molto ansioso nei confronti della matematica. Dichiarava apertamente di “odiare la matematica” e Peggy pensò che l’insegnante inventasse dei programmi per torturarlo. Anche altri studenti della classe concordavano e, da una viva discussione risultò quanti studenti lottavano con questa materia. Peggy Ward e l’insegnante della classe svilupparono allora una serie di progetti di lezioni che hanno consentito agli studenti di comporre versioni blues di tutte le tabelline fino a quella del 12. Gli studenti cominciarono ad impegnarsi tantissimo. Nel successivo test di matematica il ragazzo che era così impaurito ottenne il massimo dei voti. Ebbe successo perché la lezione lo impegnava ed era piacevole. In questa maniera la sua ansia si era ridotta ed era così in grado di interiorizzare i nuovi contenuti. Questo è soltanto un esempio fra migliaia e migliaia di esempi possibili di scuole che applicano in Canada il programma LTTA. Si tratta dell’esempio che Peggy Ward ha presentato durante il convegno Matematica e Cultura. Mentre l’impegno degli studenti e la gioia di apprendere concetti nuovi sono parte vitale del perché l’arte aiuti i giovani ad imparare, gli speciali benefici che l’arte apporta all’apprendimento della matematica sono qualcosa di più. In ambiti che inizialmente sembrano incongruenti, ci sono infatti un grande quantità di collegamenti organici tra i due tipi di pensiero. Il pensiero matematico concettuale di alto livello, come l’approccio ad un alto livello di lavoro artistico, so-
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no entrambi caratterizzati analogamente da un tipo di “pensare/imparare” di base, induttivo e visivo. Entrambi usano linguaggi rappresentativi – metaforici e simbolici – per alzare il sipario sul mondo di tutti i giorni percepito dai sensi ed esplorare il mondo dietro il mondo. Per arrivare in profondità, oltre il superficiale e laddove vi è un significato. L’arte dà accesso agli studenti ad un’estetica concettuale: oltre la mera memorizzazione meccanica di formule, le immagini aiutano gli studenti a dare un significato a ciò che quelle formule rappresentano. Le immagini aiutano gli studenti a chiarire ciò che pensano. L’immaginazione e il movimento li aiutano a vedere come le idee siano collegate fra loro e come le informazioni matematiche possano essere raggruppate o possano essere organizzate. Immagini visive rivelano i modelli, i rapporti e le interdipendenze, che rinforzano la conoscenza e forniscono agli allievi un potente mezzo per dare senso alle cose. Anche il movimento è una maniera utile agli studenti per codificare concetti matematici. Un altro esempio presentato al convegno Matematica e Cultura è stata la danza geometrica con cui gli studenti sviluppano il proprio senso dello spazio e capiscono la geometria formando angoli acuti, angoli ottusi, angoli retti e altre forme geometriche con i loro corpi e insieme agli altri alunni. Si sviluppa così una coreografia piena di geometria che, ancora una volta, viene interiorizzata e capita. Il matematico inglese Godfrey Harold Hardy disse al volgere del secolo scorso: Un matematico, come un pittore o un poeta, fabbrica modelli. Se i suoi modelli sono più duraturi dei loro, è solo perché sono fatti con le idee. Molte idee importanti sia dell’arte che della scienza, sono emerse dall’intersecazione tra arte e matematica. I fisici e premi nobel Wolfgang Pauli ed Albert Einstein erano famosi per utilizzare molto intensamente la loro immaginazione per concettualizzare le loro teorie rivoluzionarie. Nello sviluppo della teoria della relatività, Einstein immaginava se stesso seduto su una particella mentre viaggiava alla velocità della luce e sfruttò la sua immaginazione per intuire i rapporti tra le varie parti del problema. L’artista Escher, i cui scarsi voti scolastici hanno precluso una carriera da architetto, venne alla ribalta nel 1950 quando i matematici trovarono nelle sue opere una straordinaria immaginazione dei principi matematici, incluse la geometria piana e proiettiva e la geometria euclidea e le loro strutture e meccanismi. Le opere di Escher abbracciano anche le nozioni del paradosso e di figure “impossibili”, dando all’osservatore un mezzo per considerare non solo la geometria spaziale, ma anche la logica dello spazio. Tutto questo è veramente straordinario, considerando che Escher era stato bocciato in matematica in un’aula scolastica tradizionale, e che successivamente non aveva mai perseguito una formazione formale di matematica. Oggi troviamo delle conquiste analoghe nelle aule di LTTA in tutto il mondo. Sono state dimostrate analogie simili tra l’arte della musica e la matematica. È stato dimostrato da tanto tempo che lo studio della musica migliora le prestazioni nella matematica e nelle abilità spazio–temporali. La musica con la sua
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progressione di accordi è un’analogia perfetta per il contare i numeri a blocchi in base 10. In una classe collegata al programma LTTA stanno imparando i blocchi in base 10 attraverso la media art. I ragazzi stanno creando autoritratti al computer, tagliandoli ed incollandoli poi in blocchi rappresentativi come parte di un’installazione di arte multimediale. L’analogia si riflette nella musica che gli studenti creano come colonna sonora per accompagnare la loro arte a blocchi di 10. Come disse il matematico svedese Goata Mittage-Leffler nel Ventesimo secolo: Il lavoro migliore di un matematico è un’opera d’arte, un’arte perfetta e di alto livello, come non si osa immaginare neanche nei sogni più segreti, che sia chiara e limpida. Il genio matematico ed artistico si toccano l’un l’altro.
L’impatto del programma
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Uno studio durato cinque anni e condotto dall’Ontario Institute for Studies in Education (O.I.S.E.) presso l’Università di Toronto, ha scoperto che LTTA offre dei benefici comprovati per studenti e scuole. Lo studio ha riportato che gli studenti di LTTA producono lavori scritti di più alta qualità. Fanno un uso più frequente e migliore della biblioteca e di Internet. Imparano a rispettare i loro insegnanti e i loro compagni. Causano meno episodi di disturbo, conducendo ad un aumento del tempo impiegato effettivamente in classe per l’istruzione. Questi atteggiamenti migliori degli studenti conducono a più alti punteggi nei test standardizzati. In uno dei molti esempi riferiti ai ricercatori dai presidi delle scuole di LTTA, gli studenti della scuola elementare Gateway, una scuola del centro di Toronto che include 55 minoranze culturali e linguistiche, ha ottenuto un punteggio del 17% al di sopra della media provinciale nei test di matematica. Un altro esempio che coinvolge un grande liceo metropolitano è che il numero di studenti con problemi nella disciplina è calato da 100 a 8. L’impatto del programma si estende anche lontano dal mondo scolastico. Gli studenti hanno trovato il mezzo per relazionarsi ai loro genitori, scoprire le loro radici culturali, vincere i pregiudizi e sviluppare un forte senso decisionale. Un recente studio indipendente, durato tre anni e condotto dalle dottoresse Rena Upitis e Katharine Smithrim della Facoltà di Scienze dell’Educazione alla Queen’s University, indica che Learning through the Arts non solo rende il programma scolastico divertente ed avvincente, ma aiuta effettivamente ad aumentare la prestazione accademica. Lo studio – il più grande e più completo del suo genere in Canada sull’argomento dell’arte e delle sue conquiste – confrontava i bambini di Learning through the Arts con i bambini di due tipi di scuole test. Alla conclusione dello studio, i bambini di LTTA hanno ottenuto in matematica un punteggio di 11 punti percentuali maggiore rispetto ai loro pari nelle scuole “non-LTTA”. Negli anni scolastici 1999/2000 e 2000/2001 lo studio della Queen’s University ha rivelato ciò che segue:
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– interviste ad insegnanti come anche dati di un questionario mostrano che la maggioranza degli insegnanti di LTTA credono che usare l’arte come metodo di insegnamento aiuti a raggiungere gli studenti difficili da istruire e a fornire loro un’esperienza di studio positiva. La stessa opinione non è sostenuta altrettanto fortemente dagli insegnanti nelle scuole “non-LTTA”. – Le lezioni di musica hanno un effetto positivo sul conseguimento dell’arte del linguaggio e nella matematica, indipendentemente dallo stato socioeconomico di provenienza dell’allievo. – I bambini nelle scuole LTTA credono di imparare molto dallo studio dell’arte a scuola. – Il 98% degli insegnanti esaminati crede che l’arte sia fondamentale per un apprendimento di qualità. – Il 98% degli insegnanti esaminati crede che l’arte sia una maniera efficace per raggiungere gli studenti difficili da istruire. – Il 99% degli insegnanti esaminati crede che gli studenti possano esprimere la conoscenza e le abilità attraverso l’arte. – L’89% degli insegnanti esaminati crede che l’arte sia una maniera efficace per insegnare le altre materie. – Tuttavia, soltanto il 22% degli insegnanti esaminati ha avuto una speciale formazione artistica. – Il 78% degli insegnanti esaminati crede che l’arte sia una maniera efficace per incrementare la partecipazione dei genitori alle attività scolastiche. Un’altra ricerca indica che una maggiore partecipazione dei genitori nelle scuole può essere messa in correlazione con un più alto risultato da parte dello studente. Nel 2002/2003 questo importante studio ha rivelato che: – gli studenti del programma Learning through the Arts (LTTA) hanno ottenuto in matematica un punteggio di 11 punti percentuali più alto dei loro pari nelle scuole “non-LTTA”; – per un periodo di tre anni c’è stata una crescita marcata nella percentuale di insegnanti di LTTA che dicono che l’arte sia una maniera efficace per insegnare la matematica, le scienze e le lingue; – quasi il 90% di tutti i genitori esaminati nello studio – di tutti i tipi di scuole elementari – dice che l’arte motiva i loro bambini ad imparare; – una più alta percentuale di insegnanti di LTTA crede che l’arte sia efficace nel raggiungere studenti difficili da istruire rispetto agli insegnanti delle altre scuole; – i presidi delle scuole LTTA erano più propensi a considerare personalmente l’arte come “molto importante”; – le ragazze di LTTA del sesto anno erano più felici di andare a scuola delle loro pari nelle altre scuole. L’importanza di questo studio è di tenere conto di altri fattori importanti nel conseguimento scolastico, come il livello di istruzione materna, dice Katharine Smithrim della Queen’s University
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le nostre ricerche mostrano che anche quando tali fattori vengono considerati, un programma basato sull’arte in una scuola può avere comunque un effetto significativo sul conseguimento scolastico 1.
Come funziona LTTA
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Ciò che rende LTTA unico è che, mentre consiste in una serie di attività strutturate con obiettivi chiari, è abbastanza completo per sostenere una crescita considerevole di tutti i partecipanti al programma e per attuare cambiamenti significativi. Ci sono molti esempi di vite che sono cambiate grazie a Learning through the Arts: insegnanti che sono diventati inaspettatamente fonte di ispirazione per i loro colleghi, studenti che hanno dimostrato un aumento di abilità e di conoscenze, presidi che hanno guadagnato un centro d’interesse per le loro abilità di direzione. Gli scopi del programma sono: – promuovere la crescita scolastica, sociale ed emotiva degli studenti; – far impegnare tutti i bambini con successo nell’apprendimento attraverso attività pratiche e di partecipazione del tipo hands-on; – migliorare la riuscita scolastica di tutti gli studenti; – fornire agli insegnanti molti strumenti educativi diversi; – far sviluppare un forte senso decisionale e direttivo in ogni studente; – promuovere la creatività, la risoluzione dei problemi ed il lavoro di squadra; – fornire opportunità per esprimere e scoprire se stessi; – creare un mezzo per esplorare le questioni culturali, etiche e sociali; – far concentrare insegnanti ed artisti sul loro sviluppo professionale; – fornire nelle classi un programma di attuazione sequenziale e sostenuto della durata di tre anni. LTTA è un programma rigoroso e strutturato che ha un impatto quotidiano sulla classe. Il formato completo del programma comprende lo sviluppo professionale continuo degli insegnanti e degli artisti, l’ideazione di sempre nuovi progetti di lezioni, lo sviluppo di un curriculum e di un modo di parlare all’interno delle classi innovativo ed una valutazione continua. LTTA stabilisce relazioni a lungo termine tra gli insegnanti e gli educatori-artisti istruiti allo scopo, che servono da agenti di cambiamento all’interno della scuola, promuovendo la collaborazione, prendendo dei rischi imparando continuamente sia dagli insegnanti che dagli studenti. Tra gli esempi di attività di apprendimento del programma LTTA: – Storia attraverso i giochi di ruolo – Moltiplicazione attraverso lo scrivere canzoni – Geometria attraverso l’arte visiva – Abilità di comunicazione orale attraverso il raccontare storie – Punteggiatura attraverso percussioni globali – Educazione civica attraverso l’ideazione di ruoli – Simmetria attraverso la danza 1
Per lo studio intero si veda www.ltta.ca
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Cicli vitali attraverso fotografie e video documentaristici Strutture e meccanismi attraverso movimenti creativi Sociologia attraverso la scultura Geometria attraverso l’architettura Matematica attraverso i paesaggi Imparare a leggere e scrivere attraverso il giornalismo.
La sequenza di attività LTTA. 1. Gli insegnanti scelgono un’area curricolare di interesse fondamentale. 2. Gli insegnanti e gli specialisti di educazione LTTA assieme agli artisti LTTA scelgono una disciplina artistica che supporta lo scopo curricolare. 3. Gli insegnanti e gli artisti creano tre progetti di lezione in classe che collegano la forma artistica al concetto curricolare. 4. Gli insegnanti assistono e partecipano ai laboratori tenuti dagli artisti per sviluppare strumenti artistici. 5. Ogni artista di LTTA visita l’aula almeno tre volte per un periodo di sei settimane. 6. Mentre l’artista conduce un’attività in classe, gli insegnanti interiorizzano nuove abilità attraverso la partecipazione attiva e osservano come i singoli studenti rispondono ed imparano. 7. Gli insegnanti proseguono le attività tra una visita ed un’altra dell’artista. 8. Gli insegnanti e gli artisti di LTTA valutano le reciproche prestazioni e commentano l’efficacia dei progetti di lezione riguardo alla promozione dell’impegno e dell’apprendimento dello studente. Come già menzionato, far funzionare dappertutto l’esperienza di LTTA vuol dire attivare un programma professionale completo e continuo di tre anni di sviluppo di una leadership, che abbraccia insegnanti, presidi scolastici e scuole, come anche artisti, educatori senior di LTTA ed amministratori regionali e locali di LTTA. Al cuore del programma LTTA vi è un’enfasi di collaborazioni creative che combinino la conoscenza speciale dell’educatore al talento dell’artista. Un programma completo di laboratori, addestramento avanzato ed una conferenza annuale internazionale riunisce i vari promotori di LTTA per migliorare continuamente le abilità professionali dei gruppi di lavoro LTTA. Lo sviluppo professionale è infuso in ogni parte del programma per assicurare il miglioramento continuo della qualità ed assicurare che tutti i membri del gruppo lavorino efficacemente insieme per fornire esperienze di apprendimento emozionanti, creative e attinenti per i bambini, progettate per migliorare la loro prestazione accademica complessiva. Recentemente LTTA ha lanciato un’iniziativa estesa di e-learning, in collaborazione con programmi scolastici di successo. Quest’iniziativa colloca LTTA in prima linea nelle nuove tecnologie ed è nata attraverso una collaborazione innovativa che coinvolge il Royal Conservatory of Music, il Canadian Heritage, Telus, la fondazione Salamandra, Keewaytinook Okimakanak First Nations, K-NET Services e le School Boards di tutto il Canada ed internazionali. Learning through the Arts ha sviluppato una serie di strumenti di apprendi-
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mento in cui attività accessibili e creative sono collegate ad obiettivi di apprendimento specifici. Molti di questi strumenti si addicono particolarmente bene alla distribuzione digitale e LTTA li ha scritti per Internet, affinché siano accessibili agli studenti, agli insegnanti, ai genitori ed agli educatori come parte integrante del programma. Un programma di sviluppo professionale on-line rivolto agli insegnanti integra il nostro programma di sviluppo professionale faccia a faccia, assicurando che gli insegnanti abbiano gli strumenti di cui hanno bisogno per incorporare le risorse del sito di e-learning di LTTA nella loro istruzione quotidiana, e creando connessioni vivaci tra l’apprendimento creativo e l’uso di una tecnologia all’avanguardia. Quest’iniziativa di e-learning ha migliorato la qualità del programma LTTA incorporando la tecnologia nello sviluppo professionale dell’insegnante e nelle attività dello studente, rendendo il programma anche più integrato e importante per gli studenti di oggi. I principi guida restano: Sviluppo professionale
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Curriculum
Collaborazioni
Conclusioni Il grande problema che ho come educatore e che anche i miei colleghi hanno, non è quello di far affluire le informazioni ai ragazzi ma quello di motivarli. La motivazione viene da un senso di eccitazione e di euforia. Questo senso si manifesta abbastanza direttamente attraverso l’esperienza delle arti, siano esse la musica, la scrittura o la danza. Tutte le cose che facciamo con le arti ci consentono di sperimentare direttamente la creatività, e la gioia della creatività ci permette poi di imparare. John Polanyi, Professore di Chimica, Nobel Lauriate 1986 È presuntuoso pensare che l’arte possa trasformare gli ambienti scolastici? Forse per alcuni questa è la verità, ma altri indicano di no [19]. Nel nostro lavoro attraverso il Canada, gli Stati Uniti e l’Europa abbiamo l’onore di incontrare
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molte persone che si preoccupano dell’istruzione. Un grande numero di questi individui vogliono ottenere a tutti i costi un cambiamento. Dappertutto la maggior parte delle discussioni riguardanti i cambiamenti si muovono verso degli ostacoli che impediscono tale cambiamento, degli impedimenti istituzionali spesso definiti insormontabili. Detto in altre parole, non importa quanta speranza è contenuta nell’immaginazione di queste persone: i sentimenti di paura e di mancanza di sostegno emergono come degli ostacoli alla realizzazione. C’è, tuttavia, un contrappunto alle resistenze istituzionali e cioè un “movimento sociale” [20]. Nonostante le sfide nei confronti dell’arte nell’istruzione, LTTA è cresciuta ad un passo accelerato nel corso degli ultimi dieci anni. Basandoci sulla nostra esperienza e sulla ricerca, possiamo identificare varie ragioni per questo successo e questa rapida crescita: – l’essersi focalizzati su aree curricolari fondamentali come la matematica, le lingue, la sociologia e la scienza; – la struttura sequenziale e continua; – la costruzione di rapporti autentici tra artisti ed insegnanti; – l’essersi focalizzati su artisti di qualità e sullo sviluppo professionale degli insegnanti; – collaborazioni dirette con organi scolastici pubblici; – il forte sostegno istituzionale del Royal Conservatory of Music basato sulla convinzione che l’arte sia un mezzo vitale per il cambiamento sociale. 183
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È quest’ultima ragione che mi obbliga a credere che la resistenza istituzionale che impedisce il cambiamento possa essere bilanciata (se non eliminata) da iniziative fantasiose che siano sostenute da istituzioni educative importanti. Come artista ed educatore che ha sperimentato personalmente la frustrazione di avere un sogno e di non trovare il sostegno necessario per dargli vita, più andiamo avanti con LTTA più sono personalmente piena di speranza. Sono incoraggiata dal sostegno istituzionale e dal fermo impegno che il Royal Conservatory of Music continua ad offrire. Tutto ciò che è dovuto accadere per poter dare inizio a questa importante trasformazione dell’istruzione, è stato che un’istituzione abbia visto questa opportunità e l’abbia fatta sua. È stato posto l’esempio da un’istituzione che si è presa l’impegno. Nel Royal Conservatory of Music c’era un movimento che guidava il cambiamento e ora c’è una fondazione che sta lavorando in tutta la nazione, un distretto scolastico per volta. La nostra esperienza continua a rinnovare la nostra speranza e offre agli altri il coraggio di sperare.
Bibliografia
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matematica e medicina
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La matematica nel sangue CHIARA BERTINI, LUIGI PREZIOSI
Tutti abbiamo la matematica nel sangue. Una legge matematica sembra governare fin dalla fase embrionale lo sviluppo e l’organizzazione dei vasi sanguigni, cioè arterie, vene e capillari che trasportano il sangue a tutti gli organi del nostro corpo. È questo il risultato di una felice collaborazione tra matematica e biologia, due scienze che di solito fanno a meno l’una dell’altra. Certamente non mancano gli esempi di impiego di strumenti matematici nella ricerca biologica, uno per tutti è l’analisi dei dati della genetica, ma la maggior parte delle conoscenze della biologia sono state ottenute senza grande uso della matematica. La causa principale è probabilmente la profonda complessità dei fenomeni della vita. Le innumerevoli relazioni esistenti tra le varie componenti di un sistema biologico, dove tutto sembra interagire con tutto, rendono difficile ridurlo a poche variabili significative, come è richiesto dalla formalizzazione matematica [1]. A questo si aggiunge la difficoltà di dialogo tra matematici e biologi, che spesso “parlano” un linguaggio scientifico diverso. Un’ipotesi affascinante prevede che la matematica di cui disponiamo oggi potrebbe non essere adatta alla trattazione dei problemi biologici, come è invece per quelli fisici, ma sarebbe necessaria una nuova matematica, ancora tutta da inventare [2]. Tuttavia, negli ultimi decenni alcuni di questi ostacoli sono stati superati. La collaborazione tra matematica e scienze della vita è divenuta più intensa e ha permesso la costruzione di modelli matematici che descrivono alcuni fenomeni biologici con il linguaggio della matematica. Un modello matematico consiste di alcune equazioni che mettono in relazione tra loro le variabili rappresentative del problema studiato. La modellizzazione matematica contribuisce alla comprensione del fenomeno biologico e ne permette la simulazione numerica al calcolatore (detta anche in silico). Per capire di cosa si tratti, possiamo riferirci ad un ambito probabilmente più familiare, la meteorologia, dove le simulazioni sono fondamentali. Lo studio dei fenomeni atmosferici permette di elaborarne dei modelli matematici: grazie a questi possiamo simulare, tramite il calcolatore, l’evoluzione futura dei fenomeni stessi e quindi prevedere con qualche giorno d’anticipo che tempo farà. In maniera simile nella biologia, la simulazione permette di prevedere il risultato di alcuni esperimenti non ancora svolti: può così aiutare ad ottimizzare la sperimentazione, che verrà riservata solo alle indagini più promettenti, riducendo i tempi e i costi della ricerca [3].
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Un caso concreto di modellizzazione matematica: la vasculogenesi
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Come si costruisce un modello matematico di un fenomeno biologico? Il punto di partenza è naturalmente l’indagine sperimentale del fenomeno, basata su opportune osservazioni in vivo e in vitro. Il secondo passaggio è la scelta delle variabili significative che rappresentino correttamente il fenomeno. Il punto d’arrivo è la ricerca delle relazioni tra le variabili, espresse da equazioni. Nel nostro caso il fenomeno biologico è la vasculogenesi, cioè la nascita dei vasi sanguigni dell’organismo. I vasi sanguigni, che trasportano il sangue a tutti gli organi del nostro corpo e quindi l’ossigeno e le sostanze nutritive a tutte le cellule, compongono una rete di tubi di dimensioni diverse, la rete vascolare: le grosse vene e arterie si ramificano in tubicini di diametro sempre più piccolo, fino ai piccolissimi capillari [4]. Il primo abbozzo di rete vascolare si crea nell’embrione, dove alcune cellule embrionali si specializzano e formano i primi vasi capillari. Tutta la rete vascolare del nostro corpo deriva dall’espansione e dal rimodellamento di questa primitiva rete embrionale, grazie alla moltiplicazione e all’accrescimento dei vasi esistenti. Tutti i vasi sanguigni sono costituiti da cellule endoteliali. A seconda del diametro e della funzione del vaso, la parete può o meno essere rivestita esternamente da altri tessuti (muscolare e connettivo). I capillari sono così sottili che la loro parete è formata esclusivamente da una sola cellula endoteliale raccolta su se stessa a forma di ciambella. Uno dei modelli sperimentali usati per studiare la formazione della rete di capillari in vitro è costituito da una coltura di cellule endoteliali umane versate sopra un substrato gelatinoso, chiamato Matrigel, che riproduce verosimilmente l’ambiente extracellulare dei tessuti viventi. Le cellule si depositano a caso sulla
Fig. 1. Reti di capillari in vitro
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superficie del substrato e vengono osservate al microscopio: si muovono e si organizzano formando spontaneamente una rete di vasi capillari del tutto simile alle reti capillari dei tessuti in vivo (Fig. 1). Le cellule si ripiegano in modo da formare il lume del capillare. Naturalmente, i capillari che nascono in una coltura di cellule endoteliali non contengono sangue e non trasportano nulla. Il flusso sanguigno non è quindi necessario per la formazione della rete: le cellule si organizzano autonomamente e non richiedono stimoli esterni ad esse. È interessante notare che altre strutture simili alle reti di capillari si trovano sia in natura sia in alcuni problemi matematici. In astrofisica, per esempio, la distribuzione delle galassie nell’Universo è organizzata a rete (Fig. 2), secondo il modello sviluppato da Zeldovich [5] partendo da una distribuzione iniziale casuale delle masse. La Figura 3 invece mostra il problema matematico della “tassellazione di Voronoi” in cui, dato un insieme N di punti distribuiti casualmente su un piano, si costruiscono dei poligoni tali che i punti appartenenti ad ogni poligono sono i
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Fig. 2. Modello di distribuzione delle galassie
Fig. 3. Tassellazioni di Voronoi
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più vicini all’unico punto dell’insieme N che si trova all’interno del poligono stesso. I poligoni ottenuti formano una struttura a rete. Rispetto agli esempi precedenti la rete dei capillari ha però una caratteristica geometrica e funzionale specifica. È composta da “nodi” separati da una distanza caratteristica detta “corda”, che rappresenta la dimensione tipica della rete. Negli esperimenti in vitro, le cellule endoteliali formano reti la cui corda misura circa 200 µm. Le reti di capillari in vivo hanno corde comprese tra 50 e 300 µm, valori ottimali per gli scambi metabolici: valori maggiori manterrebbero i capillari troppo lontani dalle cellule interne del tessuto che devono nutrire, mentre valori minori costituirebbero uno spreco inutile. Come possono le cellule endoteliali organizzarsi geometricamente per formare i vasi? Qual è il meccanismo che regola la dimensione della rete di capillari? Le risposte a queste domande sono di grande interesse non solo scientifico, ma anche medico e terapeutico. In particolare la formazione di una rete vascolare efficiente è un obiettivo primario delle tecniche di ingegneria tissutale, che creano o modificano in laboratorio tessuti umani per sostituire tessuti malati o danneggiati: i capillari devono essere strutturati in modo da distribuire i nutrienti a tutte le cellule del tessuto, che altrimenti morirebbero. Anche la crescita di un tumore solido è limitata dal rifornimento di sangue. Inizialmente, il tumore non è vascolarizzato e può crescere fino ad un diametro di circa 2 mm, grazie alla semplice diffusione dell’ossigeno e dei nutrienti tra le cellule tumorali [6]. L’aumento di dimensioni e l’aggressività del tumore dipendono dall’organizzazione di una rete di capillari che invade la massa tumorale raggiungendone anche le cellule più interne. Le cellule endoteliali sono quindi un bersaglio importante della terapia antitumorale: capire come si forma la rete vascolare del tumore può aiutare a bloccarne la progressione.
Dal modello sperimentale al modello matematico Il primo passo nello sviluppo di un modello matematico per la formazione della rete di capillari è stata la ricerca dei fattori che stimolano e governano il moto delle cellule. La nascita della rete è stata osservata al microscopio e filmata: le cellule endoteliali si muovono in direzioni diverse, interagiscono le une con le altre, aderiscono al substrato e alle cellule vicine tentando di formare una rete multicellulare connessa [7]. Le traiettorie del moto delle singole cellule sono state studiate anche tramite un’analisi statistica per determinarne le caratteristiche. Inizialmente, le cellule si muovono a caso. Quando però scelgono una direzione verso cui muoversi, mostrano una certa persistenza nel mantenerla, o forse meglio, una resistenza a cambiare la direzione del moto, perchè dal punto di vista biologico, questo richiederebbe alla cellula una riorganizzazione interna. Inoltre, le cellule tendono a muoversi verso zone in cui la densità di cellule è maggiore (va ricordato che la distribuzione iniziale delle cellule sul Matrigel è casuale e disomogenea, e cioè genera zone a maggiore o a minore densità). Si è ipotizzato che la direzione del movimento delle cellule sia dovuta alla pre-
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Fig. 4. Traiettoria di una cellula nel campo simulato di concentrazione del fattore chimico
senza di una molecola che le attrae, detta chemioattrattore, secreta dalle cellule stesse. Dove la densità di cellule è maggiore, è anche maggiore la concentrazione del chemioattrattore: ne consegue che le cellule si attraggono fra loro. Per verificare questa ipotesi è stato ricostruito al calcolatore il campo di concentrazione del chemioattrattore, supponendo che la molecola sia secreta da ogni cellula, diffonda intorno ad essa e si degradi spontaneamente nel tempo. Si trova che le traiettorie cellulari sono dirette effettivamente verso le zone con maggiore concentrazione simulata di chemioattrattore (Fig. 4). Alcuni esperimenti suggeriscono che il chemioattrattore sia una molecola chiamata VEGF-A, prodotta dalle cellule endoteliali stesse. Altre considerazioni importanti per lo sviluppo del modello matematico sono le seguenti [8]: – le cellule non muoiono, né si moltiplicano durante la formazione della rete; – le cellule non possono compenetrarsi una nell’altra; – la popolazione di cellule può essere descritta dal punto di vista fisico come un sistema continuo; – il sistema può quindi essere descritto analizzando l’evoluzione temporale della densità n e della velocità v su un piano; – l’evoluzione dipende dalla concentrazione c del chemioattrattore in un dato punto; – il movimento delle cellule è rallentato dall’attrito dovuto all’interazione con il substrato su cui si muovono. Tutte le osservazioni e le ipotesi sono tradotte in tre equazioni: ∂n + ∇ ⋅ (nv) = 0 ∂t ∂v + v ⋅ ∇v = −∇p + w∇c − bv ∂t ∂c c = D∇ 2 c + an − ∂t τ
(1) (2) (3)
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Fig. 5. Simulazione con 200 cellule/mm2
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L’equazione (1) descrive la conservazione della massa durante la formazione della rete, cioè rende conto del fatto che le cellule non muoiono né si moltiplicano. La (3) descrive come varia la concentrazione del chemioattrattore nel tempo, in funzione della velocità di rilascio (an), della diffusione (∆ⵜ2c) e del tempo di degradazione di questa molecola. La (2) descrive la risposta delle cellule alle diverse forze che agiscono su di esse. Queste forze sono: – una forza chemiotattica (ωⵜc) che attrae le cellule verso le zone con maggior concentrazione di chemioattrattore e quindi con maggior densità cellulare; – una forza dissipativa (– bv) che rallenta le cellule, dovuta all’interazione col Matrigel; – una forza repulsiva (–ⵜp) che impedisce alle cellule di ammassarsi, dovuta all’impossibilità delle cellule di compenetrarsi. Le equazioni (1-3) costituiscono il modello matematico della formazione della rete di capillari. Esse permettono di prevedere alcune proprietà del fenomeno biologico verificabili sperimentalmente, confermando così la validità del modello stesso. Ad esempio, dalle tre equazioni si può ricavare la lunghezza della corda tra i nodi della rete. Si trova così che tale lunghezza dipende dal coefficiente D di diffusione del chemioattrattore, supposto essere il VEGF-A, e dal tempo di dimezzamento t della molecola stessa, secondo la relazione L = (Dt)1/2. Il coefficiente di diffusione D è una misura della velocità di diffusione della molecola. Il tempo di dimezzamento t è il tempo occorrente per ridurre alla metà una certa concentrazione di VEGF-A a causa della sua spontanea degradazione. Sia D che t possono essere misurati sperimentalmente e quindi si può calcolare L. Si trova che L è dell’ordine di 100 µm. Questo valore è quindi compatibile con le misure sperimentali effettuate in vitro, dove L è circa 200 µm. Il risultato conferma la validità del modello e delle ipotesi su cui si basa (si confrontino le Figg. 5 e 1). La relazione L = (Dt)1/2 fornisce un legame diretto tra la dimensione della re-
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Fig. 6. Esperimenti e simulazioni a basse densità di cellule (50 cellule/mm2)
te, data da L, e la distanza di interazione tra le cellule mediata dal chemioattrattore. Inizialmente le cellule si distribuiscono a caso sul Matrigel. Ci sono delle disomogeneità casuali nella densità delle cellule corrispondenti a disomogeneità nella concentrazione di chemioattrattore. Il movimento chemiotattico delle cellule amplifica queste disomogeneità: si creano picchi di concentrazione separati da zone con concentrazione minima. La distanza tra i punti di massimo e di minimo è L. Si forma così una rete i cui nodi sono separati da una corda di lunghezza caratteristica L.
Dal modello matematico alla simulazione numerica È interessante confrontare le fotografie delle strutture formate dalle cellule a densità diverse con le immagini ottenute dalla simulazione numerica inserendo nel modello matematico gli stessi valori di n (le Figg. 5, 6 e 7 sono ottenute per valori crescenti di cellule utilizzate). Queste immagini costituiscono delle simulazioni del comportamento delle cellule. Se n è troppo basso come in Figura 6, la rete non si forma, se è troppo alto come in Figura 7 si crea una struttura simile ad un tappeto con buchi. La rete di capillari si forma correttamente solo se la densità delle cellule è compresa tra 100 e 300 cellule/mm2. La corrispondenza tra le simulazioni e gli esperimenti è notevole. Al variare della densità di cellule non esiste un passaggio graduale dalla struttura corretta, a rete, verso quella non funzionale. Un cambiamento improvviso nelle proprietà di una struttura formata casualmente, dovuto alla variazione di un parametro fondamentale (qui n), è noto in fisica come transizione percolativa [9]. Questo fenomeno conferma l’importanza della densità di cellule nel processo di formazione della rete di capillari. Esistono situazioni patologiche osservate in animali da esperimento in cui un sovraffollamento di cellule endoteliali è causa di una grave disorganizzazione della rete vascolare. Anche la transizione percolativa viene osservata sperimentalmente e riprodotta dalle simulazioni.
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Fig. 7. Esperimenti e simulazioni ad alte densità di cellule (400 cellule/mm2)
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L’esistenza di una transizione percolativa a basse densità e della formazione di lacune ad alte densità sembrano essere legate entrambe alla tendenza del sistema fisiologico a mantenere per quanto possibile la dimensione caratteristica delle strutture, piuttosto che a raggiungere una distribuzione il più uniforme possibile. Infatti, se la densità di cellule si discosta troppo da quella ottimale, teoricamente sono possibili due diverse distribuzioni delle cellule stesse, come è illustrato dalle due righe in Figura 8. Se la dimensione della rete può variare, diminuendo il numero di cellule, le cellule per mantenere la connessione si possono distribuire in modo da ingrandire le maglie della rete (Fig. 8a); se invece la
Fig. 8. Schema di possibili aggregazioni di cellule al variare della densità
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lunghezza della corda deve rimanere costante, si ha la distribuzione in Figura 8b, dove la struttura perde il suo carattere di connessione perchè il numero di cellule è insufficiente. Questo secondo caso è quello previsto dal modello matematico e che avviene in natura, perchè la dimensione della rete è quella ottimale dal punto di vista fisiologico. Per un motivo molto simile, se si raddoppia il numero di cellule a partire dallo schema di partenza, nella situazione della Figura 8d dove la lunghezza delle corde cambia, si crea una rete uniforme e più fitta di quella di partenza, mentre nella schematizzazione corrispondente alla Figura 8e si ha una struttura che, mantenendo le grandezze caratteristiche, tende ad inspessire le corde, fino a raggiungere la formazione di lacune quando si raddoppia ancora il numero di cellule (non illustrato). In conclusione, per ottenere il modello matematico qui descritto, il problema biologico è stato affrontato associando esperimenti, approfondimenti teorici e simulazioni numeriche. Le equazioni ottenute descrivono il comportamento delle cellule endoteliali coltivate in precise condizioni sperimentali che sono comunque molto simili a quelle dei tessuti viventi. Il modello ha centrato i suoi obiettivi gettando luce sui meccanismi della nascita della rete vascolare e permettendone una simulazione realistica che potrà essere sfruttata per predire aspetti del fenomeno non ancora noti sperimentalmente. Tuttavia, si può notare che il problema biologico considerato è solo una parte di un fenomeno più ampio. Questo ed altri modelli matematici di fenomeni biologici non sono legati tra loro, né inseriti in una teoria unificante come avviene nella fisica: si pensi, ad esempio, alla teoria della meccanica o dell’elettromagnetismo che rendono conto di una grande quantità di fenomeni fisici utilizzando poche leggi universali. Oggi, non possiamo sapere se alcuni di questi modelli e altri che seguiranno saranno in futuro riuniti come discendenti da pochi principi fondamentali. Dipenderà dal pieno superamento delle barriere tra matematica e biologia e forse dalla nascita di una nuova matematica. Oppure, la intrinseca e specifica complessità dei fenomeni biologici non sarà mai completamente ridotta a semplici leggi matematiche. Comunque andranno le cose, c’è sicuramente spazio per molto lavoro utile.
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L’HIV/AIDS, l’agricoltura e la sicurezza alimentare in Africa MARCELA VILLARREAL
Poche sono le crisi che hanno minacciato in modo così serio la salute e il progresso economico e sociale dell’umanità come l’epidemia dell’HIV/AIDS. Malgrado i recenti sforzi tesi ad attenuare il suo impatto, è lecito aspettarsi che l’epidemia di HIV/AIDS continui ad avere, per lunghi anni a venire, ripercussioni importanti sullo sviluppo sociale ed economico dei paesi più colpiti. L’HIV/AIDS non può essere più considerato alla stregua di un problema meramente sanitario, dal momento che ad esso bisogna imputare decenni di ritardo nello sviluppo dell’Africa e l’aver gravemente mortificato gli sforzi dei paesi del continente tesi a ridurre la povertà e migliorare la qualità della vita. Dovrà essere intrapresa una politica vigorosa per lottare contro le conseguenze sociali, economiche e istituzionali. Dovunque, nell’Africa subsahariana, si percepisce sempre di più l’impatto dell’epidemia sull’alimentazione, la sicurezza alimentare, la produzione agricola e le società rurali. Diviene necessario poter fare affidamento su strumenti che permettano di conoscere la probabile evoluzione dell’epidemia nel futuro allo scopo di preparare risposte adeguate. A tale scopo potrebbero rivelarsi importanti strumenti i modelli matematici.
Ampiezza dell’epidemia Attualmente si stima che su scala mondiale, all’incirca 40 milioni di persone abbiano contratto l’HIV, e di questi più di 25 milioni – ossia circa il 60 per cento – nell’Africa subsahariana, che si trova così ad essere la regione più gravemente colpita dell’intero pianeta [1]. Appurato che la malattia colpisce principalmente persone di un’età compresa fra i 15 e i 49 anni, vale a dire i membri più produttivi di una società sul piano economico, la malattia ha un’influenza capitale sullo sviluppo economico e sociale. Inoltre, essendo la popolazione dei paesi più colpiti in prevalenza contadina, il settore rurale si trova colpito in pieno dall’epidemia. Si possono osservare, fra un paese e l’altro, differenze rilevanti nel livello di propagazione dell’epidemia. Secondo le stime disponibili per l’anno 2004, i tassi di prevalenza riguardanti gli adulti vanno da meno dell’un per cento in alcune regioni dell’Africa del Nord a più del trenta per cento in Zimbabwe, Swaizland e Botswana. Sette paesi al mondo hanno tassi superiori al venti per cento, tutti nell’Africa australe. Nel complesso, sono i paesi dell’Africa orientale e australe
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ad essere i più duramente colpiti dall’epidemia, nonostante la propagazione proceda ad un ritmo allarmante in alcuni paesi dell’Africa occidentale [1]. L’AIDS non colpisce con la medesima intensità le diverse fasce di popolazione. Ad esempio, studi effettuati nell’Africa subsahariana hanno rivelato che, a causa di una combinazione di fattori biologici, socio-economici e culturali, le donne vengono colpite ad un età più giovane rispetto agli uomini [2]. Agli inizi dell’epidemia molti più uomini erano infettati dall’HIV. Nel 1998, le donne rappresentavano il 41% della popolazione adulta colpita dal virus dell’HIV. Alla fine del 2004 la quantità è cresciuta fino quasi a toccare il 50%. Nell’Africa subsahariana, circa il 60% degli adulti infetti sono donne. Le giovani donne sono molto più vulnerabili all’infezione da parte dell’HIV rispetto agli uomini loro coetanei. Il 76% dei giovani viventi fra i 15 e i 24 anni contagiati dall’HIV sono giovani donne. In media, 36 giovani donne sono portatrici del virus dell’HIV per ogni 10 dei loro coetanei maschi. Inoltre, i bambini subiscono in maniera sproporzionata gli effetti dell’epidemia: si stima difatti che vi siano 13.2 milioni di orfani causati dall’AIDS e che il loro numero sia destinato a più che raddoppiare entro il 2010 [3]. Anche le differenze di ordine geografico all’interno dei vari paesi hanno rilevanza. L’epidemia di AIDS si propaga, fra le altre vie, lungo le tratte percorse dai camion, che facilitano in maniera considerevole gli spostamenti della popolazione, aumentando il rischio di infezione da AIDS nei villaggi rivieraschi. I problemi legati all’AIDS incontrati dalle comunità rurali sono ancora più gravi a causa del fenomeno della migrazione. È infatti appurato che numerosi fra i migratori divenuti sieropositivi tendono a ritornare al loro luogo d’origine una
Fig. 1. Propagazione dell’HIV attraverso l’Africa dal 1984 al 1999
L’HIV/AIDS, l’agricoltura e la sicurezza alimentare in Africa
volta raggiunto lo stadio di malattia. Essendo l’accesso ai servizi d’informazione e di sanità molto più difficile nelle campagne rispetto alle città, le popolazioni rurali sono meno bendisposte ad apprendere i metodi di prevenzione contro il virus, o a ricevere cure una volta contratta la malattia. Per tutte queste ragioni, l’AIDS tende a diventare una minaccia maggiore nelle campagne piuttosto che nelle città. In prevalenza la malattia continua ad intensificarsi attraverso una buona parte del continente africano. In certi paesi la rapidità della propagazione rappresenta un elemento critico che rende estremamente difficile ogni intervento teso a placarne gli effetti. In Botswana, per esempio, dove meno dell’un per cento della popolazione adulta era infetta nel 1984, il tasso di prevalenza è cresciuto vertiginosamente fino a toccare quota 35% nel 1999 (Fig. 1). Tuttavia, anche nelle regioni in cui l’impatto dell’AIDS sembra meno pronunciato, come in Africa occidentale, l’epidemia progredisce rapidamente: in Camerun, per esempio, il tasso di prevalenza del virus HIV si è moltiplicato di venti volte nel corso dell’ultimo decennio. L’Africa del Nord è la sola parte del continente dove i livelli del contagio restano relativamente bassi.
Modelli matematici L’impatto dell’epidemia dipende dallo stato attuale dell’evoluzione dell’infezione nella popolazione. Come mostrato nella Figura 2, il tasso d’infezione del virus HIV segue fasi distinte. Durante la fase I, che può essere molto lunga, il tasso di prevalenza rimane basso e cresce lentamente. La fase II inizia quando è raggiunto un punto di svolta, usualmente quando circa il 5% della popolazione diviene infetta, e diviene evidente un incremento molto rapido, a volte esponenziale, del tasso di infezione. Un nuovo punto di svolta, quando la proporzione di popolazione infetta si stabilizza, marca l’inizio della fase III. Alla fine, l’inizio della discesa dei tassi di prevalenza dell’HIV porta alla fase IV. La precisa forma della curva e la durata di ogni fase, varia da area ad area e dipende da una molteplicità di fattori, che includono le scelte politiche e le altre azioni concrete predisposte a prevenire e mitigare la epidemia. Azioni decisive possono mantenere i tassi bassi, senza che si raggiunga la fase II, come è il caso nei paesi più sviluppati. Quella dell’HIV/AIDS è una epidemia lenta con impatti lenti. Gli impatti iniziano a diventare evidenti al livello della popolazione solo anni dopo un notevole incremento nei tassi di prevalenza. Questo scarto temporale varia in durata, ma un numero considerevole di decessi possono essere previsti tra i cinque e dieci anni dall’inizio della fase II, tendendo conto del livello di nutrizione della popolazione e di altri fattori. La morte è uno degli effetti principali, ma prima che inizino i decessi, ci sono altri effetti, per esempio la debolezza e la diminuzione della capacità di lavorare per circa due anni (dato che dipende di nuovo da fattori nutrizionali, medici ed altri ancora). L’impoverimento è un altro effetto, che inizia più o meno quando inizia la diminuzione della capacità lavorativa. Gli effetti che al livello di popolazione seguono la curva dei decessi sono, per esempio, i doppi orfani, dato che la morte del secondo genitore segue dopo qualche
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Fig. 2. Fasi nella curva di prevalenza dell’HIV
202 Fig. 3. Curve ipotetiche di prevalenza dell’HIV e di decessi
anno alla morte di uno dei genitori. Una ipotetica curva dell’effetto morte è mostrata nella Figura 3. Lo scarto temporale tra la curva di prevalenza e la curva impatto significa che una popolazione in cui i tassi di prevalenza sono molto alti può ancora non mostrare alcun effetto visibile a livello della popolazione stessa. Allo stesso modo, tassi di prevalenza bassi possono coesistere con un livello molto alto di impatto durante la fase IV. Le politiche, i programmi ed altre iniziative per prevenire e mitigare gli effetti di HIV/AIDS devono tener conto dello stato dell’epidemia relativamente all’area specifica verso cui sono diretti [4]. I modelli matematici che predicono l’evoluzione della curva di prevalenza del HIV e delle curve dei diversi tipi di impatto possono essere molto utili ai governi per programmare i tipi di intervento così come la loro scadenza temporale. Per esempio, se un paese o zone di un paese sono nella fase II, il governo può modellizzare la possibile evoluzione di una curva della malattia e della disabilità per programmare la distribuzione di farmaci e il dispiegamento del personale medico. Se un paese sta arrivando alla fase IV, le risorse devono essere spostate dagli sforzi per mitigare l’effetto alla ricostruzione.
L’HIV/AIDS, l’agricoltura e la sicurezza alimentare in Africa
Conseguenze dell’epidemia Le conseguenze della malattia sono sistemiche: il virus non colpisce solamente determinati settori sociali ed economici, lasciando integri gli altri. Se uno degli elementi del sistema è colpito, è probabile che gli altri lo saranno, direttamente o indirettamente. Crescita economica. Le ripercussioni dell’HIV/AIDS si estendono, a partire dal nucleo familiare, alla comunità e alle differenti parti del paese. Il deterioramento economico finisce per avere una profonda risonanza a livello nazionale. L’epidemia ha un impatto importante sullo sviluppo perché colpisce tre grandi pilastri della crescita economica, vale a dire il capitale fisico, quello umano e quello sociale. Le stime del PNUD (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) per l’Africa del Sud, per esempio, lasciano intendere che l’indice dello sviluppo umano potrebbe abbassarsi del 15% entro il 2010 a causa dell’HIV/AIDS. La Banca mondiale ha stimato che l’HIV/AIDS ha ridotto dello 0,7% il tasso annuale di crescita del PIB per abitante dell’Africa [5]. Salute ed educazione. Il costo sociale dell’epidemia è vertiginoso. Il costo dei supporti medici per le persone infette rappresenta una cifra esorbitante e insostenibile per molti governi e la maggioranza delle persone. Il costo elevatissimo dei malati di HIV/AIDS costituisce per i governi un fardello sempre più ingente che impegnerà denaro destinato ad investimenti produttivi. Si prevede che il costo del trattamento dell’AIDS e delle infezioni secondarie supererà entro il 2014 il 30% del budget del ministero per la salute pubblica, e rispettivamente del 50 e 60 per cento di esso in Kenya e Zimbabwe [6] entro il 2005. A questo bisogna aggiungere il costo per il sostentamento degli orfani e delle famiglie private dei loro componenti. Dovendo combattere l’epidemia, i governi sono obbligati a trascurare la qualità dei servizi che forniscono. Le capacità della manodopera futura sono seriamente compromesse dai tagli al settore dell’educazione. Nel corso dei primi 10 mesi del 1998, lo Zambia ha perso 1300 insegnanti a causa dell’AIDS, ossia l’equivalente dei due terzi dei nuovi insegnanti formati ogni anno [7]. Non è servito ridurre da due anni a uno il periodo di formazione di maestri elementari per fronteggiare la mancanza di insegnanti di ruolo. La speranza di vita alla nascita è precipitata al di sotto dei 40 anni in alcuni paesi africani. In Zimbabwe, per esempio, la speranza di vita alla nascita, che aveva toccato i 52 anni nel 1990, nel 2003 era di 34 anni. Risorse umane. L’HIV/AIDS decima i lavoratori di ruolo dei ministeri e di altri servizi governativi, creando ritardi e difficoltà nella messa in opera delle azioni politiche e dei piani. Nel ministero dell’agricoltura in Kenya, il 58% dei decessi dei membri del personale sono attribuiti all’AIDS; in Malawi, il 16% dei funzionari del ministero dell’agricoltura e dell’irrigazione sono infetti [8]. Numerosi sono gli stabilimenti agricoli dove lo sviluppo rurale, privato degli istituzionali servizi di sostentamenti, non può raggiungere gli obiettivi di crescita e produzioni prefissati. Sicurezza alimentare. La diminuzione della manodopera agricola, della produttività dei lavoratori e della produzione totale, congiuntamente al rallenta-
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mento della crescita economica globale, potrebbe provocare una diminuzione dell’approvvigionamento alimentare accompagnata da un aumento dei prezzi delle derrate, in particolare nelle zone urbane. La fragilità delle imprese commerciali rischia di compromettere, a livello nazionale, la capacità di esportazione e di mobilitazione delle valute necessarie alle importazioni alimentari. I paesi più gravemente colpiti sono quelli a basso reddito e con carenze alimentari che, spesso, appartengono anche alla categoria dei paesi poveri e fortemente indebitati; l’AIDS giunge ad esasperare le loro difficoltà a nutrire la popolazione. Gli effetti della sicurezza alimentare sulle famiglie. Dal momento che l’HIV/ AIDS colpisce principalmente gli adulti abili, riduce la capacità di produzione alimentare delle famiglie. È d’altro canto assodato che l’impatto sulla popolazione agricola lavoratrice, che costituisce l’essenziale della manodopera nei paesi toccati, è stato devastante. L’HIV/AIDS intacca la sicurezza alimentare impoverendo le famiglie colpite e riducendo così la loro possibilità di produrre o acquistare alimenti. Uno studio realizzato in Etiopia ha rivelato che il costo delle cure somministrate a un malato di AIDS, aggravato dalle spese funerarie che ne conseguono, oltrepassa il reddito annuo medio di un’azienda agricola familiare [9]. Quindi, le comunità rurali o povere sono costrette a vendere i loro mezzi di produzione, compreso il loro bestiame, allo scopo di poter fornire le cure necessarie ai malati o di farsi carico delle spese funerarie; facendo questo, si spogliano dei loro unici mezzi di guadagno, compromettendo così le loro condizioni di sopravvivenza nel futuro. Uno studio realizzato in Uganda ha mostrato che il 65 per cento delle comunità colpite dall’AIDS sono obbligate a vendere beni personali per pagarsi le cure [10]. Di conseguenza, i tradizionali dispositivi di solidarietà, che contribuiscono ad assicurare la sicurezza alimentare in tempi difficili, finiscono per esaurirsi nelle comunità più colpite, e parenti o amici sono a loro volta troppo indebitati per fornire un aiuto sotto forma di alimenti, abiti, assistenza nel lavoro agricolo o facendosi carico degli orfani. Sviluppo rurale. L’HIV/AIDS si propaga rapidamente nelle zone rurali, dove vivono più dei due terzi della popolazione dei 25 paesi più colpiti del continente africano. Le comunità rurali supportano una parte più ingente dei costi dell’epidemia, per il fatto che molti di quanti emigrano in città fanno ritorno al loro villaggio d’origine una volta che la malattia si rivela. Le comunità quindi vedono contemporaneamente prosciugarsi la fonte delle riserve di denaro di questi lavoratori e aumentare le spese mediche, alle quali vengono ad aggiungersi le spese funerarie; così, il numero di persone indebitate aumenta man mano che diminuisce quello dei membri produttivi della famiglia. La povertà, fenomeno generale nelle campagne, provoca un deterioramento delle condizioni di nutrizione e salute, aumentando la vulnerabilità all’infezione da HIV. Inoltre, la malnutrizione rischia di accorciare il periodo di incubazione della malattia e velocizzare l’apparizione dei sintomi. I poveri delle campagne, nella posizione peggiore per ottenere delle cure mediche, sono le persone maggiormente messe alla prova da questo fenomeno. Infine, i conflitti armati, strettamente legati alla violenza sessuale, gli spostamenti di popolazione e l’impoverimento, aggravano ancora la vulnerabilità all’HIV/AIDS. Deterioramento delle istituzioni informali. L’HIV/AIDS colpisce le istituzioni
L’HIV/AIDS, l’agricoltura e la sicurezza alimentare in Africa
non ufficiali, il costume e le tradizioni. Nel momento in cui una proporzione importante della comunità viene colpita, i meccanismi tradizionali di solidarietà consistenti nella presa in carico degli orfani, degli anziani, dei disabili e dei poveri non bastano più. Manca il tempo per occuparsi delle organizzazioni comunitarie. Trattandosi di istituzioni rurali informali, la malattia provoca una situazione di crisi, che tocca particolarmente la famiglia allargata e la parentela e che avrà conseguenze non solamente per la propagazione del virus dell’HIV/AIDS ma anche per la longevità di queste istituzioni. Le numerose perdite di adulti produttivi intaccano la capacità della società intera di mantenersi e riprodursi, disturbano i meccanismi di trasmissione del sapere, dei valori e delle credenze da una generazione all’altra e minano l’organizzazione sociale. La generalizzazione della malattia può distruggere il tessuto stesso di una società, e in numerose regioni dell’Africa rurale ha dato origine a un processo irreversibile di disgregazione del patrimonio costituito dalle persone socialmente attive. La povertà e l’epidemia di AIDS. L’AIDS può colpire tutti i membri di una società, senza distinzione circa il livello del reddito o dell’istruzione; tuttavia, i poveri ne subiscono più duramente gli effetti, poiché hanno meno possibilità di risollevarsi dallo shock causato dalla perdita di un adulto produttivo piuttosto che dell’ammanco nelle risorse di una comunità che deve fornire cure a un malato. La povertà fa nascere un contesto a rischio che contribuisce alla trasmissione dell’HIV, poiché ha come corollario un basso livello di capitale umano, mezzi di produzione limitati e ineguaglianza legata al genere relativamente all’accesso alle risorse. A sua volta, l’epidemia esaspera la povertà rurale. Il circolo vizioso che abbiamo appena descritto costituisce una preoccupazione particolare per gli abitanti delle regioni rurali, dove vive la maggioranza della popolazione povera dell’Africa. Così, comunità intere precipitano nella povertà e nell’insicurezza alimentare. L’epidemia può avere conseguenze importanti per le istituzioni ufficiali, in particolare la loro capacità di gestire la politica e realizzare dei programmi di aiuto alle comunità rurali. Possono subire perdite considerevoli in termini di risorse umane in caso il loro personale e relative famiglie siano affette da HIV/AIDS. Il disturbo dei servizi aggrava le difficoltà incontrate per soddisfare i bisogni di una popolazione colpita dall’HIV/AIDS. L’HIV/AIDS e i due generi. La differenza fra uomini e donne è uno dei principali vettori di propagazione dell’HIV/AIDS. In effetti, la differenza di condizione fra la donna e l’uomo, che privilegia frequentemente quest’ultimo, condiziona in maniera determinante l’accesso alle risorse produttive, in particolare la terra, il denaro, le conoscenze, l’educazione e la tecnologia. Nel momento in cui il marito muore, la donna rischia di perdere i vantaggi ottenuti tramite lui o il suo clan. Le sue condizioni di sopravvivenza, come quelle dei suoi figli, si trovano immediatamente minacciate. L’AIDS accentua così la disparità di condizione reciproca fra l’uomo e la donna. Di conseguenza, i fattori biologici e sociali rendono la donna più vulnerabile all’HIV, in particolare durante gli anni dell’adolescenza e della giovinezza. Così, si osserva frequentemente fra le giovani donne un tasso di infezione da 3 a 5 volte più elevato che fra gli uomini coetanei. Per poter essere efficaci, gli interventi dovranno mirare a soffocare la propagazione
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dell’epidemia tanto fra le donne quanto fra gli uomini, e tenere in considerazione il complesso fascio di rapporti di potere, i ruoli definiti dalla società e le relazioni che ne derivano. L’accesso alle attività e alle risorse è condizionato parzialmente da fattori quali il genere, la condizione socio-economica, l’età, la situazione coniugale o ancora la fase del ciclo vitale. Per esempio, nelle società patriarcali rurali dell’Africa, una vedova, a causa dell’AIDS e spesso infetta a sua volta, rischia, a causa di decisioni di diritto di costume o delle stesse leggi ufficiali riguardanti l’ereditarietà, di non poter reclamare alcun diritto fondiario né nessun altro elemento patrimoniale del marito defunto. Distrutta dalla povertà, dovrà forse fare in modo di mandare qualche figlio lontano dalla famiglia e all’occasione concedere i suoi favori per denaro o semplicemente adottare la prostituzione come modalità di sopravvivenza. Inoltre, a corroborare la stigmatizzazione causata dall’HIV/AIDS, una persona che riveli di essere stata infettata dal virus si esporrà inevitabilmente all’ostracismo sociale, privandosi così di ogni possibilità di difendersi dagli effetti della malattia. I fattori di accesso e disponibilità che condizionano la possibilità di lotta contro l’HIV/AIDS sono dunque, lo si vede, intrinsecamente legati alla questione dei diritti umani [11]. Di conseguenza, se si vogliono aiutare le comunità colpite ad adattarsi in maniera efficace alle conseguenze dell’HIV/AIDS, bisogna tenere in considerazione la dimensione dell’epidemia legata ai diritti umani. Gli effetti diretti sulle comunità. Gli studi realizzati hanno mostrato che i sistemi agricoli a forte intensità di manodopera, scarsamente meccanizzati e che impiegano pochi macchinari agricoli sono particolarmente vulnerabili all’HIV/AIDS. La pandemia causa una penuria sensibile di manodopera nella popolazione in età da lavoro, diminuisce la produttività, aumenta i costi di produzione e incoraggia nuovi movimenti migratori. I tassi di infettività e mortalità legati all’HIV/AIDS aggravano le spese cui devono fare fronte le comunità rurali, come le spese mediche e funerarie. Inoltre, colpiscono indirettamente la vita rurale a causa della perdita di lavoratori qualificati ed esperti, non potendo i malati di AIDS più pagarsi i loro lavori agricoli abituali. Di conseguenza, i membri della famiglia ancora sani devono occuparsi del malato, i lavori della fattoria sono trascurati e ben presto i campi divengono improduttivi. Uno studio calcola che l’aumento della giornata di lavoro varia da due a quattro ore dopo la morte del capo di una famiglia [12]. I bambini sono spesso costretti ad abbandonare la scuola per aiutare la famiglia, e ciò li isola da una fonte di informazioni utili – quand’anche costituissero un gruppo vulnerabile – e ipoteca il loro futuro. Le comunità rurali subiscono una caduta del reddito nel momento in cui vengono prese per la gola. Una volta dilapidati i risparmi, le famiglie si rivolgono ai parenti, chiedendo denaro o decidono di vendere i loro mezzi di produzione. La caduta del reddito obbliga i membri della famiglia a cercare lavoro in città, e questa migrazione non fa che prolungare l’epidemia. Aggiungiamo che la povertà spinge ugualmente l’individuo a comportamenti che aumentano il rischio di infezione, quali i rapporti sessuali a pagamento. Una volta compiuto il ciclo, la famiglia spesso non conta più che qualche anziano e qualche bambino caduti in una miseria che distrugge questi ultimi in particolare, poiché il loro potere de-
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cisionale e il loro accesso alle risorse sono limitati, proprio come le loro conoscenze ed esperienze; inoltre, i bambini, come le persone anziane, spesso mancano della forza fisica necessaria al sostentamento d’una famiglia. I parenti, dal canto loro, rischiano di non potersi occupare dei bambini rimasti orfani, che sono dunque abbandonati a se stessi. In certe regioni, la percentuale di orfani va dal 7 all’11%, e non sorprende quindi che si segnali una insicurezza alimentare elevata fra gli orfani delle regioni più colpite [6]. Effetti sulla nutrizione. Si osserva generalmente una diminuzione dei consumi alimentari delle comunità colpite dal virus dell’AIDS. La famiglia può non disporre di alimenti o di tempo per preparare dei pasti, soprattutto nel caso in cui la madre muoia. Studi realizzati in Tanzania hanno mostrato che il consumo di alimenti per ogni abitante diminuisce del 15% nelle famiglie più povere nel momento in cui un adulto muore [13]. Uno studio fatto in Uganda ha mostrato che l’insicurezza alimentare e la malnutrizione sono al primo posto fra i problemi immediati cui devono far fronte le famiglie gestite da donne e colpite dall’AIDS. Per il malato, accade che la malnutrizione e l’AIDS formino un circolo vizioso nel quale la denutrizione aumenta la vulnerabilità alle infezioni e per questo motivo aggrava la patologia dell’AIDS, che dà luogo a sua volta ad una nuova degradazione dello stato nutrizionale.
Effetti sul settore agricolo e sulle economie rurali Nella maggior parte dei paesi fortemente colpiti, l’agricoltura è la principale forma di sostentamento della maggior parte della popolazione, e rappresenta una parte importante del prodotto nazionale lordo. L’HIV/AIDS colpisce per diversi aspetti l’agricoltura e la produzione alimentare in particolare. Se ne possono osservare gli effetti a diversi livelli dell’organizzazione sociale (individuo, famiglia, comunità, ecc.) e secondo fasce cronologiche variabili (breve termine, medio termine, lungo termine). La ragione principale è che la malattia decima la categoria della manodopera agricola. La FAO stima che nei 25 paesi africani più colpiti, 7 milioni di lavoratori agricoli siano morti a causa dell’AIDS dal 1985 e che altri 16 milioni ne moriranno probabilmente entro i prossimi quindici anni. Nei dieci paesi africani più colpiti, si prevede che la perdita di manodopera si attesterà fra il 10 e il 26% (Fig. 4). In Etiopia, uno studio ha permesso di constatare che le famiglie colpite dall’AIDS dedicano dal 50 al 66% di tempo in meno ai lavori agricoli rispetto alle famiglie risparmiate dalla malattia [14]. In Tanzania, i ricercatori hanno osservato che le donne dedicano il 60% di tempo in meno alle attività agricole a causa della malattia del proprio marito [15]. Secondo una stima, nel momento in cui una persona muore di AIDS, la perdita di lavoro è circa di due anni per persona, a causa dell’indebolimento e del tempo dedicato dagli altri alle sue cure [16]. In secondo luogo, la malattia e la morte legate all’AIDS colpiscono la produzione alimentare in molti modi [8, 16-22]. Riduzione delle superfici coltivabili. La malattia e poi la morte di un adulto si-
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Fig. 4. Impatto dell’AIDS sulla manodopera agricola dei paesi africani più colpiti: stima delle perdite subite fra il 1985 e il 2000, e delle perdite previste fra il 1985 e il 2020 (espresse in percentuale). Fonte: FAO
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gnificano che la sua famiglia non sarà più in grado di coltivare tutta la terra di cui dispone. Le cure da somministrare a un malato assorbono gran parte del tempo e il restante viene impegnato nei lavori agricoli. I campi trascurati tendono ad essere abbandonati e la produzione totale dell’unità agricola diminuisce. Diminuzione del raccolto. I raccolti diminuiscono a causa del ritardo o della mancata sincronizzazione delle operazioni agricole basilari. Si verificano ritardi, conseguenti la malattia o la dipendenza dalla manodopera esterna, talvolta non disponibile al momento desiderato. La fertilità dei terreni soffre anch’essa dell’abbandono delle misure di conservazione dei terreni, dovuto alla necessità di privilegiare l’immediata sopravvivenza. Riduzione delle differenze di coltura e alterazione dei sistemi di coltivazione. Le coltivazioni di guadagno vengono abbandonate, poiché diviene impossibile mantenere contemporaneamente la manodopera necessaria a queste e quella necessaria alle coltura di sussistenza. Si è potuto constatare, in certi casi, l’abbandono delle coltivazioni a forte intensità di manodopera a favore di coltivazioni meno esigenti e spesso dal meno elevato valore nutrizionale, fatto che pesa sulla qualità dell’alimentazione e aggrava l’impoverimento. Diminuzione dell’allevamento e della produzione animale. Il bestiame assolve a numerose funzioni nella maggior parte delle zone rurali e costituisce in particolare una forma di patrimonio. L’AIDS dà luogo ad un deterioramento delle cure fornite agli animali, in particolare da parte dei bambini, spesso i principali responsabili di questo compito. Il bestiame deve allora essere venduto per sostenere le spese mediche dell’AIDS, o ancora offerto in dono o sacrificio per le ri-
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chieste della medicina tradizionale; inoltre, i riti funebri prevedono talvolta l’uccisione di animali. Declino delle operazioni a valle della produzione. L’immagazzinamento e la trasformazione degli alimenti sono disturbati. Così, la sicurezza degli alimenti e delle altre materie prime tra i raccolti è messa in pericolo, così come pure la possibilità di disporre di sementi per la stagione successiva. Perdita delle conoscenze e delle tecniche agricole. Molto spesso, i bambini acquisiscono le loro conoscenze circa il lavoro agricolo lavorando con i genitori; ora, l’epidemia di AIDS interrompe questa trasmissione. Uno studio effettuato in Kenya dimostra che il 7% solamente delle famiglie agricole dirette da orfani dispongono di sufficiente capacità nei lavori agricoli più elementari. Inoltre, a causa delle differenze di genere per quello che attiene alla conoscenza, il genitore sopravvissuto non è sempre in grado di trasmettere le medesime conoscenze di quello defunto. Cambiamento dell’organizzazione delle spese della famiglia. I risparmi destinati alla produzione agricola rischiano di essere dirottati sull’acquisto di trattamenti medici per un parente malato, o ancora delle spese funebri o degli alimenti. Ne risulta una diminuzione della resa agricola e una perdita di reddito che spinge la famiglia a non pagare i propri debiti o a vendere i propri averi. Crollo dei servizi di sostegno. Il funzionamento dei servizi di sostegno è interrotto nel momento in cui il personale si ammala. L’inquadramento e i servizi di trasporto e di divulgazione sono allora disturbati, aggravando ulteriormente la sorte delle comunità rurali. L’HIV/AIDS può pregiudicare la produzione commerciale. Sui piccoli appezzamenti, le coltivazioni a scopo di reddito vengono abbandonate poiché non vi è manodopera sufficiente contemporaneamente per queste coltivazioni e per quelle di sussistenza. Il fatto, rilevato anche negli studi, che i piccoli contadini riducano le loro coltivazioni a scopo di reddito e quelle che necessitano di troppa manodopera, ha ripercussioni anche sull’approvvigionamento alimentare nazionale. Altri effetti poi si vengono ad aggiungere: – la perdita di lavoratori stagionali può compromettere le piantagioni agricole; – i lunghi periodi di malattia e i decessi dei dipendenti rappresentano costi importanti in termini finanziari e sociali per le imprese, in particolare qualora esse perdano personale qualificato ed esperto; – il regresso della produttività e della competitività causa una diminuzione delle possibilità d’impiego e dei crolli di profitto all’economia locale. Così, il virus dell’AIDS può colpire indirettamente anche persone in buona salute per il fatto che alcune attività economiche non sono più praticabili. Le conseguenze dell’HIV/AIDS sulla produzione agricola e l’offerta alimentare si fanno sentire tutte insieme nella quantità e nella qualità degli alimenti. In Zimbabwe, la produzione agricola comunitaria è diminuita del 50% in 5 anni, in gran parte a causa dell’HIV/AIDS. La produzione di mais, di cotone, di girasoli e d’arachidi sono state particolarmente colpite [23].
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Trovare risposte efficaci all’epidemia di HIV/AIDS
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L’HIV/AIDS crea un enorme problema sul piano umanitario e su quello dello sviluppo. Tuttavia, l’esperienza di molti paesi mostra che si può raccogliere la sfida e che è possibile far regredire l’epidemia. In Uganda, per esempio, il contagio ha conosciuto un momento di picco all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso con quasi il 15% della popolazione infetta. Dieci anni più tardi, i tassi di contagio si erano dimezzati grazie a una campagna appropriata di prevenzione e di cure, vigorosamente promossa dal potere politico e con una grande dimostrazione di interesse. Il programma nazionale ugandese di lotta contro l’AIDS prevedeva di addestrare capi delle comunità, mobilitare la comunità stessa, utilizzare tecniche di comunicazione innovative per far progredire le abitudini, di ridurre le pratiche discriminatorie e di far partecipare alle attività di cura e di prevenzione le persone che già convivessero con l’AIDS. Le misure adottate per reagire all’HIV/AIDS variano a seconda del paese e della situazione locale, ma l’esperienza mostra che le iniziative riuscite di lotta contro l’epidemia si appoggiano su alcuni principi generali. Una direzione dinamica e l’impegno politico a tutti i livelli sono indispensabili perché le misure di prevenzione dell’HIV/AIDS e della riduzione dei suoi effetti siano efficaci. Una strategia per la prevenzione appoggiata sullo sviluppo, sull’accesso alle risorse produttive, sulla promozione della parità dei sessi, sull’accesso al potere per le donne, e sulla sicurezza alimentare. La prevenzione dell’HIV/AIDS nelle comunità povere non può essere efficace se non è accompagnata da un aiuto immediato e da misure di sviluppo. Una concezione dello sviluppo incentrata sull’essere umano, che tenga conto della situazione della donna, multisettoriale e fondata sulla comunità è indispensabile per creare e mantenere le condizioni che permettano di rallentare l’HIV/AIDS e occuparsi altrettanto efficacemente delle sue conseguenze. È possibile combinare la lotta all’HIV/AIDS e la sicurezza alimentare incorporando considerazioni sull’HIV/AIDS nelle azioni in favore della sicurezza alimentare e, reciprocamente, degli obiettivi della sicurezza alimentare nei programmi di lotta contro l’HIV/AIDS. Tenuto conto del fatto che, in numerosi paesi dell’Africa, il settore agricolo impiega oltre l’80% della popolazione attiva, i ministeri dell’Agricoltura e gli altri organismi che intervengono, a livello nazionale ed internazionale, per promuovere l’agricoltura e lo sviluppo rurale, giocano un ruolo determinante nell’applicazione di questi principi generali sotto forma di politica concreta. Un quadro di politica appropriata. Sebbene in regola generale, le politiche agricole non comprendano elementi riguardanti l’HIV/AIDS, possono contribuire in modo indiretto a contenere la propagazione dell’epidemia e ad attenuarne gli effetti sulle comunità agricole e sui sistemi di sfruttamento. In effetti, integrando in maniera esplicita un elemento riguardante l’HIV/AIDS, le politiche agricole possono mirare non solo a raggiungere i loro obiettivi abituali, come l’aumento dei raccolti o la promozione delle coltivazioni di reddito, ma anche a ridurre la vulnerabilità all’HIV influendo sui fattori socio-economici, demografici e culturali legati ai comportamenti a rischio e a fattori quali la pover-
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Fig. 5. Il range accanto alla stima riportato in questa tabella definisce i confini entro cui le cifre reali si situano, sulla base delle informazioni più aggiornate disponibili
tà, la disoccupazione, la precarietà alimentare o la migrazione. In effetti, anche se le politiche che mirano a ridurre la vulnerabilità non potranno rimpiazzare le politiche di riduzione del rischio, potranno creare delle sinergie positive. Gli organismi specializzati nello sviluppo agricolo e rurale rischiano spesso di avere l’impressione di non disporre della capacità o delle risorse necessarie alla messa in opera delle strategie tendenti a ridurre la vulnerabilità all’HIV. Ora, certe misure rilevanti della loro competenza abituale sono probabilmente di natura tale da cointribuire allo sforzo internazionale per la lotta contro la pandemia. In modo specifico, il settore agricolo può aiutare ad influenzare il quadro generale e il contesto di vulnerabilità nei quali si iscrive la pandemia, modificando così alcuni dei fattori che ne determinano l’evoluzione e gli effetti. L’identificazione delle politiche che possono essere utilizzate per ridurre gli effetti negativi del virus dell’HIV/AIDS non è che un elemento tra i molti disponibili per reagire all’epidemia. Per di più, per essere efficaci, queste politiche esigo-
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no una migliore comprensione della dinamica di propagazione dell’HIV/AIDS nelle regioni rurali. In effetti, nonostante la malattia tenda naturalmente a ramificarsi in tutto il settore rurale, le osservazioni condotte fino ad oggi mettono in risalto la particolare vulnerabilità di due sotto-settori: le zone adiacenti agli itinerari percorsi dai camion; i settori facenti funzione di riserva di manodopera migratoria, che essa sia a lungo termine o di tipo temporaneo (per esempio, durante la contro-stagione agricola). Si è potuto osservare che le regioni di sussistenza tradizionali e che presentano una debole mobilità della manodopera sembrano meno vulnerabili all’HIV. In regola generale, i soggetti la cui sopravvivenza dipenda da soggiorni prolungati lontano dalla propria famiglia e comunità, come i pastori nomadi o i pescatori, corrono un maggior rischio di contrarre l’HIV per il fatto che sono più esposti, ma anche in ragione della loro relativa emarginazione e del loro limitato accesso ai servizi sociali, e costituiscono quindi, a loro volta, dei potenziali vettori di propagazione. Inoltre, le donne che rimangono alla fattoria mentre il proprio marito va a proporsi come lavoratore stagionale migrante, rischiano di farsi contaminare dai loro sposi allorchè questi rientrano a casa dopo essere stati infettati dal virus. E necessario dunque fare di questi gruppi di popolazione dei bersagli prioritari delle strategie tese ad attenuare gli effetti negativi dell’AIDS. Tuttavia, l’incidenza dell’HIV/AIDS è determinata da una combinazione di fattori socio-culturali ed economici che possono variare da una situazione all’altra; ecco perchè le politiche devono appoggiarsi su una buona conoscenza del contesto locale al fine di essere adattate di conseguenza.
Fig. 6. Adulti e bambini affetti da virus HIV
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L’uso di modelli matematici per la diffusione dell’AIDS nell’Africa sub-Sahariana GIANPAOLO SCALIA TOMBA
Ci sono tante domande relative all’epidemia di HIV/AIDS in Africa alle quali sarebbe importante avere buone risposte: qual è la vera dimensione dell’epidemia, come si sta veramente evolvendo, quale sarebbe il migliore impiego delle risorse disponibili per contrastare l’epidemia... Purtroppo disponiamo solo di osservazioni parziali e qualche volta di difficile generalizzabilità e le nostre conoscenze teoriche dei fattori fondamentali per la diffusione, e di conseguenza, per il controllo o la riduzione dell’epidemia sono limitate e comunque mancano spesso di supporto osservazionale. È qui che lo studio di modelli matematici può venirci in aiuto. È utile pensare a un modello matematico per un certo fenomeno (in questo caso, l’epidemia di HIV/AIDS in una popolazione umana) come una versione semplificata e ridotta della realtà (come un trenino rispetto a una vera rete ferroviaria, degli animali allo zoo rispetto alla natura, un gioco di computer con personaggi e interazioni rispetto alla società reale, ecc). Se ci impegnamo nella costruzione, cercando di veramente chiederci cosa sappiamo, cosa crediamo siano i fattori determinanti e usando il talento umano per vedere (o credere di vedere...) dei principi generali negli esempi particolari, possiamo costruire qualcosa che rappresenta la realtà, ma di cui conosciamo i particolari, che sappiamo osservare e soprattutto che sappiamo manipolare per studiarne le reazioni. In parole semplici, abbiamo un laboratorio nel quale fare tutti gli esperimenti intellettuali che vogliamo, senza impedimenti pratici o morali, con buone speranze di imparare dai nostri esperimenti la via migliore da seguire nella realtà. Probabilmente, la speranza che un semplice modello matematico possa bastare per capire le conseguenze principali delle nostre potenziali azioni (o inazioni...) in un sistema in realtà molto complesso, viene dal successo che la modelizzazione seguendo semplici ma incisivi principi ha avuto nella fisica. Da una semplice relazione che deve descrivere l’attrazione tra due corpi e da altri semplici principi di conservazione di energia, la fisica newtoniana è riuscita a spiegare la dinamica del sistema solare, dei satelliti e dei palloni da calcio. È vero che in ognuno dei casi, i risultati diventano un po’ più aderenti alla realtà se si tiene conto di una grande quantità di dati particolari (non perfetta sfericità dei pianeti, differenze di densità, la resistenza dell’aria, ecc.), ma il semplice modello iniziale basta senza dubbio per descrivere le proprietà fondamentali del sistema studiato. Cosa ci vuole dunque per descrivere la diffusione dell’infezione da HIV in una
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popolazione umana e le conseguenze in termini di malattia e morte, cioè l’AIDS nei suoi vari stadi? Sicuramente, ci vuole una rappresentazione esplicita del tempo, nel quale ha luogo la dinamica della popolazione (demografia), ci vuole una rappresentazione della storia naturale della malattia, ci vuole un modello per la dinamica di un’infezione in una popolazione. Inoltre, la rappresentazione dello stato della popolazione deve permettere di rappresentare anche i possibili interventi che si desidera studiare. Invece di passare subito a un sistema di equazioni nonlineari a derivate parziali, che costituisce l’ambito naturale o comunque convenzionale per un modello di questo tipo, descriviamo i vari componenti. Il modello demografico deve descrivere il numero di persone di varie età con il passare del tempo, tenendo conto di nascite, morti, eventuali movimenti migratori. Su tali fenomeni ci sono dati riguardanti il passato, riguardanti tassi passati e attuali di nascite e morti. Se però si vuole utilizzare il modello per studiare l’evoluzione futura del sistema, bisogna affidarsi a ipotesi, che normalmente rispecchiano l’estrapolazione in avanti di comportamenti attuali. Concettualmente, ma anche computazionalmente, vediamo nella Figura 1, il funzionamen-
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Fig. 1. Diagramma di flusso per il sottomodello demografico. I simboli -D denotano la perdita per morte con il passare del tempo, mentre +N denota l’influsso di nuovi nati a età 0
L’uso di modelli matematici per la diffusione dell’AIDS nell’Africa sub-Sahariana
Fig. 2. Modello concettuale del processo individuale di infezione e degli stati successivi delle malattia
to di questa parte del modello. Ogni “scatola” contiene un numero di persone di una data età a un certo momento del tempo. Quando ricalcoliamo la popolazione, dopo un’unità di tempo, tutte le persone in una “scatola” vengono trasferite nella “scatola” successiva (questo rappresenta dunque l’invecchiamento) dopo riduzione per coloro che sono morti nel frattempo. I fatti principali della storia naturale del HIV/AIDS sono tristemente noti. L’infezione ha varie vie i contaggio; la via eterosessuale è dominante nei paesi sub-Sahariani, ma è anche possibile l’infezione da madre a neonato. Dopo l’infezione, segue un periodo di incubazione abbastanza corto, meno di sei mesi, e poi un periodo infettivo di lunghezza molto variabile, forse con media 10 anni o meno, in funzione della salute generale, durante il quale l’infezione non dà sintomi notevoli, ma può contaggiare altre persone. Quando appaiono i primi sintomi gravi, si parla di AIDS, uno stato con altissima mortalità. Questa dinamica può essere alterata con terapie moderne ma costose e complicate. L’infezione acquisita alla nascita conduce di solito alla morte prima dell’adolescenza, sempre in assenza di adeguate terapie. A parte il trattamento farmacologico delle persone infette, si può anche considerare la prevenzione comportamentale e, nel futuro, qualche forma di vaccinazione. La terminologia di comune uso è illustrata nella Figura 2. La forza d’infezione è la totalità di “tentativi” d’infezione alla quale un individuo suscettibile è sottoposto. L’ipotesi semplice più comunemente fatta è che questa forza d’infezione sia proporzionale al numero di individui infetti esistenti al momento; sommando l’effetto su tutti i suscettibili si ottiene un termine proporzionale al prodotto dei numeri di individui infetti e suscettibili. Tipicamente, il modello si sviluppa come un sistemi di equazioni differenziali con il numero di individui in vari stati e età come variabili. Il seguente modello si può considerare un modello base (si veda [1] per varie proposte di possibili modifiche e per una discussione approfondita di questo tipo di modelli). Le funzioni che rappresentano persone non infette H(a,t) di età a al tempo t, persone infette ma non ancora seriamente ammalate I(a,t) e persone con AIDS A(a,t) sono intese come densità nella variabile età, cioè da integra-
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re su intervalli di età per ottenere il numero corrispondente di persone. La dinamica nel tempo è data, per t ⱖ 0 e 0 ⱕ a ⱕ A, da ⎛ ∂ ∂⎞ + ⎟ H(a, t) = –λ(a, t)H(a, t) – µ(a)H(a, t) ⎜ ⎝ ∂a ∂t ⎠ ⎛ ∂ ∂⎞ + ⎟ I(a, t) = λ(a, t)H(a, t) – µ(a)I(a, t) – αI(a, t) ⎜ ∂a ∂t ⎝ ⎠ ⎛ ∂ ∂⎞ + ⎟ A(a, t) = αI(a, t) – µ * (a)I(a, t) ⎜ ⎝ ∂a ∂t ⎠ λ(a, t) = ∫ I(x , t)β(x , a)dx H(0, t) = v(∫H(a, t)da + (1 – ε) ∫I(a, t)da)
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iniziando con un profilo d’età realistico H(a,0) al tempo 0 (inizio della diffusione della malattia) e con una traccia di infezione I(a,0) ⫽ 0, mentre A(a,0) = 0. La forza d’infezione è rappresentata da λ, nella quale gli infettivi di varie età contribuiscono secondo la funzione di mixing β che rappresenta la dipendenza dell’intensità di “contatti infettivi” dall’età delle due persone considerate. In genere, ci si aspetta un aspetto “diagonal heavy” di questa funzione, cioè una preferenza per contatti tra persone di stessa età o di età solo poco differente. La mortalità generale µ dipende dall’età, secondo le tabelle di mortalità della popolazione d’interesse, mentre persone ammalate di AIDS hanno una mortalità particolare, µ*, tipicamente molto più elevata. Il tasso di passaggio α dallo stato infettivo allo stato AIDS è inversamente proporzionale al tempo d’atteso medio. Le nascite hanno una struttura particolare; il tasso di nascita ν è calibrato su tutta la popolazione, da cui gli integrali nell’espressione per H(0,t), ma si assume che una frazione ε dei bambini nati da persone infettive si ammalino dalla nascita e non contribuiranno dunque alla dinamica demografica futura della popolazione. Non è possibile ricavare formule esplicite per le quantità d’interesse, ma un computer le può facilmente calcolare, essenzialmente realizzando lo schema di Figura 1. È comunque possibile studiare un modello di questo tipo in modo qualitativo. Per esempio, si trova che per tutti i modelli di questo tipo, è possibile definire un numero R0 (basic reproduction number) che può essere interpretato come il numero medio di ”casi secondari” causati da un infetto in una popolazione totalmente suscettibile (per matematici: massimo autovalore dell’operatore generazionale), funzione dei parametri del modello. Se R0 > 1 l’infezione si sviluppa in epidemia o endemia, se invece R0 ⱕ 1 ci sarà l’estinzione (dell’infezione…!). Se è possibile esplicitare la formula per questo numero, diventa anche possibile studiare l’effetto di potenziali interventi direttamente su R0. Se l’inter-
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vento riesce a ridurre il suo valore a meno di uno, l’infezione sparirà dalla popolazione. Purtroppo, già nel modello presentato sopra, non vi è un’espressione semplice per il parametro R0. La “complicazione” ritenuta più importante per un maggiore realismo del modello è sicuramente l’introduzione di eterogeneità, cioè l’esistenza di sottogruppi della popolazione con comportamenti differenti (rispetto all’infezione), definiti da sesso, età, luogo, occupazione, ecc. L’introduzione di questi sottogruppi della popolazione aumenta il numero di variabili (tre, come gli stati di salute, per ogni sottogruppo) e crea il bisogno di definire quanto “spesso” i vari sottogruppi interagiscono e si possono quindi trasmettere l’infezione (quest’informazione viene rappresentata da un’estensione della funzione β di mixing a tutti gli indici dei sottogruppi definiti, cioè a rispondere a domande del tipo “quanto spesso si formano copie con una donna di venti anni da una particolare regione rurale e un uomo di trentacinque anni dalla capitale”. Spesso questa informazione viene discretizzata, per gruppi di età, provenienza, ecc, e si parla allora della “matrice dei contatti”). Un interessante esempio di modellizzazione “realistica” è il modello ASSA 2002 [2] della Actuarial Society of South Africa, una serie di spreadsheet Excel con possibilità per l’utente di modificare parametri e assunzioni. In questo modello, elaborato in varie versioni durante gli anni, si prevvede una descrizione dettagliatissima della popolazione sudafricana. Finalmente, allo scopo di illustrare quanto un grafico (in questo caso calcolato in un modello come descritto sopra con R0 circa 2.5, 30% dei bambini nascono sieropositivi, durata media del periodo infettivo 8 anni e durata media del pe-
Fig. 3. Popolazione totale per classi d’infezione
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Fig. 4. Effetto della fine della trasmissione anno 30 dell’epidemia 220
riodo con AIDS 1 anno) abbia forza espressiva superiore a quasi ogni rappresentazione verbale vediamo, nella Figura 3, come l’introduzione del HIV/AIDS e le conseguenti morti riescono a cambiare la precedente crescita della popolazione totale (simile a quella di un piccolo paese sub-Sahariano, come parametri) in declino. Nello stesso modello, è anche possibile ipotizzare che 30 anni dopo l’inizio dell’epidemia si riesca a porre fine alla trasmissione dell’infezione (ipotetico vaccino, differenti comportamenti, ...). Vediamo, nella Figura 4, che entro una ventina di anni la situazione ritorna come prima. In teoria c’è dunque speranza, ma come interrompere la trasmissione in pratica?
Bibliografia [1] R.M. Anderson, R.M. May (1991) Infectious Diseases in Humans: Dynamics and control, OUP [2] Actuarial Society of South Africa, “ASSA 2002”, modello dettagliato del HIV/AIDS con documentazione e strumenti di calcolo reperibili consultando il sito <www.assa.org.za> oppure scrivendo a
matematica e moda
Astrazione e concretezza, rigore ed eleganza DONATELLA SARTORIO
Non è semplice parlare di Moda in rapporto alla matematica senza cadere in semplificazioni e imprecisioni. Certamente però le parole del titolo possono fornire uno spunto per indagare le possibili connessioni tra la precisione della matematica nelle sue forme base, aritmetica e geometria, e la Moda intesa come momento creativo. L’astrazione è un’idea creativa attraverso la quale la materia deve diventare concreta, reale, portabile, trasformabile in un abito, un cappotto, un paio di scarpe, un gioiello. Astrazione e concretezza sono le idee di base che permettono alla Moda il passaggio dalla immaginazione alla realtà. Il rigore nelle scelta creativa e quindi il rigore dell’abito determinano l’eleganza che si rispecchia nell’armonia. L’eleganza serve a rendere sofisticato un corpo attraverso la fusione e l’accordo di materiali, colori e forme. Il concetto di eleganza non si scosta da quello di semplicità e funzionalità. Ad abiti che adornano ed abbelliscono semplicemente il corpo si possono aggiungere accessori di tendenza e tocchi decorativi. Il risultato è la Moda. È di fondamentale importanza, sia per quanto riguarda gli uomini che le donne, sottolineare la differenza tra Moda e Stile: la prima è proposta da altri, creatori di immagine e produttori intelligenti, o modelli di massa quali, ad esempio, divi televisivi e ragazzi in discoteca. Quindi proprio per il carattere mutevole delle tendenze, i media, che si nutrono di novità, sono uno dei principali veicoli attraverso i quali la Moda si impone. Ma, mentre la Moda cambia rapidamente ed in modo capriccioso, lo Stile è quello che ognuno di noi dovrebbe imparare a riconoscere come il più appropriato per sé. Lo Stile deve essere rappresentativo della persona e si costruisce attraverso la scelta attenta degli abiti e degli accessori che più ci assomigliano. Per questo motivo lo Stile non è soggetto a cambiamenti repentini ed evidenti, e di stagione in stagione segnala in modo sempre più marcato la personalità dell’individuo stesso. Fino a un secolo fa nel campo dell’abbigliamento come nelle arti figurative non si parlava di Moda ma appunto di Stile: gli stili, in pittura, in architettura, arredamento, duravano e durano tuttora. Dando uno sguardo al passato notiamo che le forme dell’abbigliamento dall’inizio sono molto semplici e geometriche; le stoffe sono tessute con telai a mano dai quali escono con una forma e una misura unica dovuta al formato del telaio: la dimensione artigianale si accompagna alla geometria. All’origine gli abiti sono tutti semplici rettangoli piatti, uniti da due o più punti a formare un drappeggio sul corpo. La tunica dell’antica Grecia, il peplo roma-
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no e le variazioni della toga e del chitone, il kimono giapponese, il sari indiano, il sarong indonesiano, il boubou africano sono tutti rettangoli. Con il passare del tempo, l’abito diventa sempre più ricercato e sagomato fino ad arrivare all’esasperazione dei corsetti stringivita del Settecento e dell’Ottocento, per giungere alla liberazione del corpo, per la quale bisogna ringraziare Coco Chanel, solo negli anni Venti del secolo scorso. Negli anni Sessanta la Moda ritorna prepotentemente “geometrica”, perché segue il sogno di un futuro spaziale vivibile. Il risultato di questo lungo processo comunque, è che tutto ciò che la Moda è oggi, è una rivisitazione di quello che è stato proposto, visto e realizzato nei secoli. È evidente che la differenziazione delle creazioni viene dettata dalle diverse visioni dei creatori di Moda che seguono il proprio talento facendolo diventare uno Stile. Senza visione o punto di vista non è possibile chiamare un abito “creazione”, è più corretto definirlo “prodotto vendibile”. Facendo una parentesi “matematica”, relativa al lato economico della Moda, si sottolinea che i “numeri” in termini di vendita vengono realizzati proprio attraverso gli abiti-prodotto, mentre la Moda “colta”, per esempio quella di Valentino, di Giorgio Armani, di Yves Saint Laurent, di Jean Paul Gaultier, di Karl Lagerfeld, e di Missoni, forse proprio perché basata su precisi rapporti e proporzioni, è considerata arte, e quindi non sembra obbligata a fare “grandi numeri”.
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Tre casi di connessione tra Moda e matematica Per esemplificare la stretta relazione esistente tra matematica e Moda contemporanea, ho individuato tre creatori attuali particolarmente interessanti al fine di rintracciare le linee di una concezione matematica caratterizzante. Il primo è Stephan Janson, un couturier di scuola francese, milanese di adozione, il secondo è Gianfranco Ferrè, un sarto architetto di scuola italiana, e il terzo è un designer alternativo di scuola belga, Martin Margiela. Janson, 47 anni, diplomato all’Ecole de la Haute Couture Parisienne, collaboratore di Kenzo, Saint Laurent e Diane Von Furstenberg, è colui che fra i tre ha lo Stile più “classico” con forti momenti di eccentricità. Oltre alla linearità del suo percorso, di cui sono esempi la lavorazione del “double” e il tailleur, va sottolineata la sua straordinaria capacità di “sentire” la stoffa con le mani, di riconoscerne la specificità, di lavorarla e quindi di creare forme geometriche direttamente sul corpo partendo dalla stoffa stessa. Dide Janson: Da sempre, le mie collezioni nascono dal “dialogo” che ho con la stoffa. È un “dialogo” tattile, sensoriale, un processo di addomesticamento, di conoscenza. Dalla stoffa voglio ottenere tante cose ma non posso cominciare a tagliare prima di averla presa in mano, palpata, fatta scivolare fra le dita. Studio la sua caduta in dritto filo, in sbieco, in semi-sbieco per capire l’armonia tra stoffa e corpo, materia e movimento. Questo è il mio metodo di lavoro. Così ho scoperto molte cose inimmaginabili. Per fare un esempio stupido, un tessuto di base come il crèpe de chine si comporterà diversamente se in tinta unita, o stampato
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Figg. 1-3. Abiti della collezione di Stephane Janson primavera/estate 2004
a un colore in applicazione, oppure un colore in corrosione, o stampato con 67 o più colori. La sua caduta non sarà proprio uguale. Da sempre gioco/lavoro così, e credo che chi sa tagliare un vestito si diverta allo stesso modo. Lo Stile di Janson è sensuale e atemporale, fatto da nodi morbidi che si sciolgono con una carezza e pieghe che rivelano la vera natura del tessuto. Egli sostiene che un abito diventa ugualmente tale e quindi un vero oggetto del desiderio, quando, indossato, non si percepisce il suo impianto geometrico. Nella sua collezione primavera-estate 2004 (Figg. 1-3) risulta più che mai evi-
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dente il contributo offerto dalla geometria ai tessuti e ai tagli sapienti: protagonista è il cerchio che grazie ad una sola cucitura strategica si trasforma in capi dall’eleganza fluida e dall’aplomb perfetto. Alla fine quindi i suoi abiti risultano dolci, morbidi e femminili. Gianfranco Ferrè, 60 anni, laureato in architettura, è il più “adulto”, maturo e rigoroso dei tre: la sua specificità infatti è quella di creare una struttura di base geometrica, partendo da un disegno quasi tecnico. La sua ricerca di equilibrio trae ispirazione dagli stimoli offerti dalla tradizione e va di pari passo con il suo desiderio di osare e rischiare nelle scelte: il presente è già futuro. Della sua collezione primavera-estate 2004 Ferrè afferma: La semplicità è il valore più importante. L’obiettivo di una ricerca che per me significa rifiuto di ogni ovvietà, esplorazione convinta di percorsi inediti e coerenti, concessione entusiastica agli slanci, alle sperimentazioni... Proprio per accendere di slancio la mia nuova collezione e per sottolinearne l’identità, ho scelto di percorrerla per intero con un unico elemento di decoro che rimanda all’esperienza estetica di Vittorio Zecchin1, straordinario italiano che ha assorbito in forme assolutamente personali la lezione della Secessione. I suoi moduli grafico-pittorici hanno la carica attualissima della serialità, della reiterazione quasi ossessiva, accentuata da scelte cromatiche decise, travolgenti... Ho voluto rileggere questi moduli in dimensioni e proporzioni differenti. Li ho resi con mezzi diversi per animare forme e materie, giocando tra geometrie elementari – quella del cerchio e del rettangolo in particolare – e costruzioni accurate. Realizzare in tessuti puri o con interpretazioni tecniche, assolutamente identici tra loro per nobiltà ed appeal...
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Ferrè imposta, dunque, la collezione primavera-estate 2004 sui modelli matematici della serialità rileggendo questi moduli grafico-pittorici. I pezzi più rappresentativi di questa collezione sono impreziositi da decori in perle oppure in pelle, organza, denim tagliati al laser con trafori che creano veri e propri disegni geometrici che rendono ogni singolo capo un’opera densa di creatività e progettualità. Per la sera, l’immediatezza di certe geometrie acquista un’enfasi speciale e fantastica. Rivela una festosità lieve, esuberante, vagamente messicana, caleidoscopica. Nelle gonne il cerchio si allunga a terra in accenti di strascico, accresce i volumi, crea una ricchezza ondeggiante. Nei corpetti, il cerchio invece si rovescia, si apre a ruota, a ventaglio, a corolla, svetta verso l’alto (Figg. 4-7). Martin Margiela, 47 anni, che ha studiato all’Accademia delle Belle Arti di Anversa, rappresenta il più aritmetico dei creatori. Dal 1990 al 2004, ogni stagione le collezioni sono tutte numerate e cerchiate secondo un criterio di funzionalità. L’uso dei numeri come elemento di identificazione, che il belga adotta per pri1
Vittorio Zecchin (Murano 1878 - Murano 1947) maestro vetraio
Astrazione e concretezza, rigore ed eleganza
Fig. 5. Disegno di Vittorio Zecchin
Fig. 4. Bozzetto per abito della collezione primavera/estate 2004
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Fig. 6. Particolare di camicia
Fig. 7. Abito della collezione Gianfranco Ferrè donna primavera/estate 2004
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Fig. 8. Alfabeto aritmetico che definisce le diverse linee disegnate da Margiela 228
mo, diventa un marchio immediatamente riconoscibile: 0 = abiti vintage da donna rimodellati a mano; 10 = abiti vintage da uomo rimodellati a mano; 4 = collezione più recente, sofisticata, costosa, è un vero e proprio guardaroba da donna; 6 = capi basici femminili; 22 = collezione di scarpe da donna. Margiela riesce ad inventare per esempio una storia attorno a una semplice T-shirt lavorando con precisi rapporti matematici sulle possibili dimensioni delle maniche: senza manica, mezza manica e manica lunga. Ci sono poi i pantaloni, corti, medi, lunghi, le maglie piccole, medie e larghe e tanti altri pezzi “basici” che attraverso la rieducazione matematica diventano speciali. Questo processo creativo mette in luce l’attenzione costante ai rapporti e alle forme, vera caratteristica di Margiela. È considerato un decostruttore del semplice capo: alterando le strutture di base e giocando con i numeri riesce a ricreare serie e accumulazioni che danno vita a nuovi e fantasiosi capi. Sono infatti di grande impatto e interesse i suoi capi quali il corsetto costruito assemblando stivali vintage destrutturati e cuciti insieme e il gilet fatto da cappelli da uomo tenuti insieme da sapienti cuciture. Il processo artigianale che porta alla nascita di questi capi parte dal desiderio di lavorare sulla forma già esistente di un indumento per crearne una nuova. La lavorazione rispetta i difetti e i segni dell’usura dei componenti originari, garantendo così l’unicità di ogni pezzo (Fig. 8).
Astrazione e concretezza, rigore ed eleganza
Conclusioni In sostanza ritengo che, pur senza voler seriamente penetrare nel campo matematico, si può però sfiorarlo, riflettendo su alcuni principi fondamentali e chiedendoci dove in realtà si intersecano matematica, geometria e moda. Partiamo da un abito ideale, che dovrebbe sempre vestire un corpo ideale. La citazione più precisa di un corpo ideale iscritto in moduli geometrici ci viene fornita dall’uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci, che indica la perfetta proporzione fra il busto, la testa e gli arti; e tanto più un corpo si avvicina a queste proporzioni tanto più è perfetto. In matematica questa perfezione ci è indicata dal “phi”, il numero aureo della Sequenza di Fibonacci, il numero che compare in varie manifestazioni della natura tanto da aver fatto pensare ad alcuni matematici che sia un numero pensato dal Creatore. E poiché i couturiers sono, a loro modo, dei creatori, possiamo anche accettare che chi disegna la moda è tanto più bravo quanto più riesce a vestire con armonia il corpo dei suoi modelli. E tanto più lo stilista è ispirato e sperimentato, tanto più le sue creazioni “cadono” bene, cioè funzionano e piacciono, per quanto folli siano le linee di ispirazione. E tanto più lo stilista è bravo, tanto più ha innata la percezione del “phi”, e così del corpo e di come vestirlo. Questa è la differenza che percepiamo – sovente senza razionalizzarla – fra i creatori “di talento” e quelli mediocri.
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matematica e arte
Verso un’estetica matematica MARTIN BÁLEK, JAROSLAV NESˇETRˇ IL
Se non ci è possibile cambiare questo mondo che non merita amore, cosa ci resta? Non consentire di venire ingannati. Per vedere e sapere. Per sapere come vedere. M. Kundera
Il problema principale L’arte contemporanea e la tecnologia producono una vasta quantità di dati visivi. Noi crediamo che la gestione, l’identificazione e la classificazione di questi dati sia uno dei problemi principali di oggi. Parecchie aree della scienza contemporanea si concentrano su queste questioni riguardanti sia il livello teorico che quello pratico. Queste aree includono, per esempio, campi diversi come la chimica, l’intelligenza artificiale, l’elaborazione delle immagini, il disegno grafico, la robotica e la teoria della complessità. La nostra ricerca è stata eseguita in tutte le possibili direzioni e testata largamente (soprattutto) su dati tecnici. Infatti, molti algoritmi sono progettati per essere utilizzati con dati e situazioni di una tipologia molto particolare (come progetti grafici o modellazione di superfici di un certo materiale). Ancora oggi è proprio questa varietà ad esigere un’unificazione e una codifica dei principi fondamentali alla base dell’analisi visuale. Riteniamo che la presenza di un aspetto estetico di questo tipo di analisi sia uno dei possibili principi unificatori.
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Sembra che l’aspetto estetico sia onnipresente nel giudizio che si dà alle informazioni visive. Anche in aree più tecniche e “non artistiche” esiste un giudizio estetico. A volte è presente solo minimamente, dando un senso di armonia, benessere, soddisfazione e attrattiva. Il giudizio che si dà alle informazioni visive include sempre dei criteri estetici. Come analizzare l’aspetto estetico, come esprimerlo? È possibile misurarlo ed analizzarlo nella speranza di riuscire poi a sintetizzarlo in maniera esatta? Questo è il problema principale sul quale ci concentreremo. In questo articolo continuiamo a sviluppare i nostri primi tentativi [1-5], che a loro volta erano motivati dai precedenti sforzi sia di artisti che di scienziati. Bisognerebbe citare anche [6] ed i lavori pionieristici [7-9], che presentano vedute estremamente concise e coerenti. Tutti questi lavori convalidano il nostro punto di vista, cioè che gli aspetti estetici delle informazioni visive dovrebbero essere sperimentati sull’arte (e che gli artisti devono essere coinvolti). È chiaro che né la semantica né l’ontologia dei sentimenti estetici sono conosciute. Vari lavori (per esempio [10]) tracciano in maniera eccezionale questi problemi nel contesto della neurobiologia e presentano sia prove convincenti (sebbene a volte un po’ speculative) di spiegazioni fisiologiche dell’evoluzione sia la descrizione del sentimento estetico. Vogliamo seguire qui una diversa – e in un certo senso duale – linea di approccio1. Vorremmo esprimere in termini esatti alcune qualità estetiche globali, per analizzare i dati visivi in riferimento alle loro qualità estetiche (o forse, più modestamente, per arrivare al punto della questione: le qualità “armoniose”). Ovviamente, esiste una letteratura estesa che riguarda queste tematiche, mostrata in maniera convincente dalla lunga evoluzione della storia dell’arte e dell’architettura, dalla teoria dei progetti e dagli “assiomi di bellezza” nei campi più disparati (come ad esempio l’allevamento degli animali!). Molto schematicamente, vogliamo procedere come segue: cominciando dalle informazioni visive in sé (che d’ora in poi chiameremo brevemente immagini), vogliamo trovare le loro caratteristiche essenziali per sviluppare un loro “nucleo astratto”, che a sua volta potrebbe essere usato per l’analisi, l’identificazione e la classificazione dei dati. Per essere più concreti, parliamo di immagini intendendo qualunque informazione visiva individualmente osservabile (isolata) a due dimensioni. Dunque l’immagine può essere un’opera d’arte come pure un progetto, una scena fissa o uno schizzo, oppure una foto proiettata su uno schermo. Non miriamo a relazionare le immagini con alcune forme canoniche (come, per esempio, la sezione aurea e il modello geometrico), ma vogliamo estrarne i parametri essenziali dall’immagine in sé. Il nostro scopo è che questi parametri (che chiamiamo invarianti; si veda il terzo paragrafo) riflettano delle essenziali qualità estetiche dell’immagine. La nostra analisi è libera dal contesto. Analizziamo delle singole immagini (e paragoniamo i parametri ottenuti). Questo va bene anche per le situazioni tecniche (come l’analisi di un grafico), nelle quali la storia ed il contesto hanno di norma un significato minimo. L’immagine individuale è la nostra fonte primaria che analizziamo come se fosse un oggetto isolato. Ma l’analisi che proponiamo riflette la nostra esperienza artistica e tecnologica che poi si proietta di nuovo sull’immagine. 1
Si veda il terzo paragrafo.
Verso un’estetica matematica
Fig 1. L’archetipo di Kupka, basato su [9]
Perché l’arte? L’approccio della matematica e dell’informatica dovrebbe riuscire a giustificarsi da sé, perché può analizzare la maggior parte dei dati tecnici per i quali la storia ed il contesto in cui sono stati realizzati non significano molto. Perché allora vogliamo illustrare i nostri metodi e i nostri risultati sull’arte e su opere “cariche” artisticamente? Riteniamo che analizzare informazioni visive, con la loro estrema varietà di input, richieda di effettuare esperimenti su esempi che sono complicati e che riflettono questa varietà. Gli artisti visivi hanno fatto e continuano a fare esattamente così, esplorando e sfruttando ogni possibilità fino al limite (e a volte, ci sembra, anche oltre). L’arte visiva produce esempi che non sono solo di grande varietà, ma che sono anche esteticamente molto carichi (ovviamente, sia in senso positivo che in senso negativo, visto che il giudizio dipende dalle impressioni individuali), in contrasto con (usuali) dati scientifici esteticamente neutri. Così questa dimensione estetica presenta una dimensione addizionale che possiamo usare per migliorare i nostri strumenti d’indagine e sperimentare la qualità del nostro approccio (e degli algoritmi). È più probabile che gli algoritmi astratti, quando vengono testati su esempi così complicati, rivelino i loro difetti. Inoltre, dato che le opere d’arte sono cariche esteticamente, anche il giudizio estetico può essere usato in questo algoritmo. Dobbiamo tentare e dobbiamo usare l’arte per allargare il nostro sapere. Sarebbe bello poter dire di voler mettere l’estetica al servizio della complessità. Quindi l’analisi dell’arte è necessaria per entrambi (per la generalità di un approccio esterno) e conveniente anche nei casi in cui i nostri dati di input sono di carattere tecnico (generati da computer).
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Fig. 2. G. Braque: Viaduct en L’Estaque, dell’inizio del 1908 e P. Picasso: Paysage avec un pont, primavera 1909
E il nostro approccio può essere forse anche utile per analizzare l’arte in sé. Per esempio, come contributo alla continua discussione sulla collaborazione tra Braque e Picasso nel primo periodo del cubismo (1905, [11]). I dati oggettivi (raccolti per illustrare la Tesi di Entropia Ereditaria 2 possono fornire alcune ulteriori informazioni.
La dualità “macro contro micro” Quali caratteristiche – invarianti – delle immagini dovrebbero essere investigate? Dove trovare questi invarianti? Nella scelta dei parametri, ovviamente, è codificato il periodo storico in cui viviamo e lo stato fisiologico e tecnologico dell’arte. La scelta dei parametri e la loro interpretazione è il luogo dove manifestiamo il nostro approccio e dovrebbe essere il luogo dove si manifesta l’ontologia della percezione estetica (che si presuppone esista, ma è attualmente ancora sconosciuta). Su un livello d’indagine molto basilare ci si chiede come il sentimento estetico venga acquisito, come si sviluppi e come venga mantenuto. Una possibilità di come affrontare questi problemi è considerare l’estetica in un contesto gnoseologico e vedere le impressioni e i giudizi estetici come l’e2
Si veda più avanti.
Verso un’estetica matematica
stensione di una funzione generale del cervello. Questo è espresso in maniera molto piacevole da S. Zeki in [12]: La caratteristica principale di un sistema di conoscenza acquisita che sia efficiente, è la sua capacità di astrarre, che lo libera dalla schiavitù dal particolare. Ma l’astrazione porta anche alla formazione di concetti e di ideali. Similmente, tutta l’arte è, in un certo senso, un’astrazione. L’arte è la traduzione su tela di concetti formati dal cervello attraverso l’astrazione. Anche in questa maniera, l’arte si innalza al di sopra del particolare e dà conoscenze generali sulle categorie. Questo approccio che mostra l’estetica come una funzione tipica del cervello, consistente di interazioni incomprensibili e complicate che hanno come risultato l’astrazione, potrebbe essere chiamato una micro analisi dell’estetica, l’estetica della percezione visiva. Quest’analisi sembra essere espressa dalla nozione di gruppo: le operazioni elementari sono reciprocamente combinate e anche invertibili. L’algebra che governa tale astrazione si riflette particolarmente bene nelle operazioni di gruppo, come forse ha sostenuto per primo Piaget [13]. Il nostro approccio è diverso: quando tentiamo di definire le linee guida per l’analisi di un’immagine, dobbiamo adottare un approccio più globale. Dobbiamo vedere i problemi estetici dell’immagine nella loro totalità e miriamo quindi ad una macro analisi. Forse in maniera simile all’approccio della topologia dei colori di H. Damish [14], miriamo ora ad una topologia dell’estetica. Come va inteso quest’approccio di tipo globale? Basandoci sulla nostra comprensione delle immagini e sulla tecnologia disponibile, isoliamo una certa serie di concetti misurabili e verificabili che chiamiamo invarianti. La scelta di questi invarianti è di cardinale importanza dato che non solo influenza la qualità e il significato del risultato, ma dovrebbe anche riflettere la struttura sottostante all’analisi dell’immagine e la sua topologia espressa in termini algebrici. Ma allora, quale è l’algebra di questa macro analisi? Piuttosto che una combinazione di percezioni locali è una percezione dell’intera immagine, di parti intere dell’immagine. Questa percezione è poi affinata dalla percezione delle parti che a loro volta possono essere ulteriormente affinate. In termini matematici lavoriamo con oggetti duali, come la partizione di un reticolo ed i cogruppi. Abbiamo tentato di rappresentare l’analisi nello schema di Figura 3. Ovviamente la macro e la micro analisi si combinano l’una con l’altra, ma sembra che soltanto la macro analisi (ossia un’analisi top-down) produca concetti sufficientemente generali per i nostri scopi. L’approccio globale (topologico) studia e si concentra sulle caratteristiche che sono simili al modo individuale di vedere l’arte. Sicuramente una caratteristica dell’arte è la sua ricchezza e la sua diversità. Ma considerando il lavoro individuale (“libero dal contesto”) cerchiamo le somiglianze e speriamo che emerga un’immagine globale. Abbiamo sviluppato le basi di tale analisi da una combinazione di tecniche della teoria degli integrali in geometria, della teoria dei modelli e della teoria dei
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MICRO ANALISI
MACRO ANALISI
immagine
gruppo
combinazione reciproca degli elementi con un’operazione di gruppo
immagine parti importanti dell’immagine affinate da partizioni
cogruppo
Fig. 3. Schema di una micro e di una macro analisi di un’immagine
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frattali. Usando queste tecniche possiamo definire rigorosamente l’algebra, la scala, lo spazio e l’entropia di un’immagine. L’interazione di queste nozioni porta alla Tesi Ereditaria 3, che vediamo come un criterio generale per un’immagine armoniosa.
L’analisi di un caso: invarianti di alcune immagini Cosa rende le seguenti immagini simili e cosa diverse fra loro?
Fig. 4. Uno schizzo di un partito musicale di Janácˇek [22] e uno tratto dai Moduli – uno schizzo di Nacˇeradsky´ e del secondo autore
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Si veda oltre.
Verso un’estetica matematica
E, molto semplicemente, possiamo distinguere oppure ordinare in qualche maniera sistematica i seguenti quattro disegni dello stesso grafo?
Fig. 5. Disegni diversi di un grafo (da sinistra): i vertici sono collocati regolarmente lungo un cerchio; versione prodotta dall’uomo accentuando le simmetrie e l’immaginazione spaziale; disegno ottenuto a caso; il computer ha generato il disegno usando modelli di stringhe. I disegni si distinguono dai numeri (le entropie) scritte sotto
La versione moderna di queste problematiche non è quella di insegnare ad un bambino dotato e collaborativo cosa sia piacevole e bello. Abbiamo bisogno di insegnare invece ad un individuo che non collabora affatto, che prende ogni informazione che gli diamo come oro colato e che la utilizza seriamente fino all’ultimo bit: il computer. Gli umani in genere non reagiscono in questa maniera (e se lo fanno, è solo nelle commedie come [15] o [16]; il fatto che questi grandi romanzi abbiano un’ambientazione militare non è accidentale). Per riuscire ad “insegnare” qualcosa ad un computer (e anche senza l’ambizione di insegnare, ma anche solo per trattare con un computer) abbiamo bisogno di precisione. E precisione, detto in altre parole, significa cercare misure concrete dei nostri fenomeni, o meglio significa trovare gli invarianti. Di conseguenza, il problema tradizionale principale dell’estetica (e della storia dell’arte) – spiegare e predire in maniera soddisfacente l’arte e l’estetica – ha portato recentemente ad uno sviluppo imprevisto. Non spieghiamo e non abbiamo a che fare con dei casi individuali, ma dobbiamo classificare una vasta quantità di dati e dobbiamo progettare delle procedure con degli output armoniosi. Questo problema nella sua molteplice varietà è interessante già quando i nostri oggetti sono solo delle composizioni ben definite e composte da semplici blocchi di costruzione, come linee, quadrati, ecc. Questo è infatti esercizio familiare e terreno di prova per tutte le scuole di design, di architettura e per le (tradizionali) accademie d’arte. Questo illustra la difficoltà e la varietà delle soluzioni, anche in situazioni semplici. Ciò non dovrebbe sorprendere, se riusciamo a capire quante semplici linee servivano, ad esempio a Rembrandt o a Picasso, per produrre immagini piene (i disegni di solito usano cinquanta linee o anche meno!). Vorremmo creare un invariante per la nostra “semplice composizione a blocchi di costruzione”, che ci aiuterebbe a classificare ed ordinare queste composi-
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zioni. È difficile dire, anche a questo semplice livello, cosa sia un invariante, ma possiamo dichiarare con certezza quali proprietà dovrebbe avere: 1. l’invariante dovrebbe essere un aspetto della struttura da calcolare (facilmente); 2. l’invariante dovrebbe essere costante (o invariante, nel senso che non dovrebbe cambiare) se si sceglie di effettuare delle modifiche alla struttura; 3. l’invariante dovrebbe essere utile per poter essere usato per catalogare, ordinare (quale struttura è “migliore”), classificare, distinguere. Proponiamo qui un invariante – di nome entropia ereditaria combinatoria – per misurare una qualità estetica di dati visivi (disegni, progetti, dipinti, spartiti, dati molecolari e altro). Questo invariante viene presentato nel prossimo paragrafo.
Misure
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Gli articoli [1] e [5] suggeriscono un’“estetica” diversa che si basa sulle tecniche della teoria degli integrali in geometria e della probabilità geometrica4. Il parametro definito Lunghezza Frattale [19] o Entropia Combinatoria [1] (due termini con lo stesso significato) è definito soltanto per disegni con linee e offre parecchi vantaggi: – il disegno (l’immagine, i dati visivi) non deve essere dato analiticamente; l’input può essere un’immagine scansionata. Questo ci consente di analizzare, classificare e paragonare immagini reali, scene, foto e opere d’arte visiva in genere; – l’Entropia Combinatoria è invariante per scala e per rotazione; – l’Entropia Combinatoria è facile da determinare ed è “robusta”. La generalizzazione dell’Entropia Combinatoria per immagini su scala di grigi può essere trovata in [2]. Tutti i risultati di questo articolo sono stati calcolati per mezzo di queste definizioni. Senza dare ulteriori dettagli e derivazioni, diamo le seguenti formule. Per un’immagine, data come un disegno di linee (connesse), abbiamo definito l’Entropia Combinatoria E come E = 2L /C, dove L è la lunghezza totale del disegno e C è il perimetro del guscio convesso del disegno. Per un’immagine su scala di grigi abbiamo una definizione simile di Entropia Combinatoria: E = πF/ C, dove C è ancora il perimetro del guscio convesso dell’immagine (in questo caso di solito è il perimetro del rettangolo di cornice) e F è l’area totale occupata dall’immagine. Questa formula non è precisamente invariante per scala (e questo è dovuto alle scale d’ombra variabili), ma può essere usata lo stesso per la maggior parte delle operazioni di cui abbiamo bisogno. 4
Per i dettagli matematici si vedano per esempio [17] e [18].
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Entrambe le formule hanno delle belle proprietà in comune, così che l’Entropia Combinatoria può essere facilmente approssimata analizzando l’immagine data, semplicemente guardando il numero di intersezioni del disegno con delle linee casuali. E questo è esattamente il modo con cui calcoliamo i numeri invarianti per qualunque immagine. Non calcoliamo soltanto l’Entropia Combinatoria dell’immagine intera, ma anche per le singole parti dell’immagine. I valori in tutte le parti non possono essere derivati dall’Entropia Combinatoria dell’immagine e sono essenzialmente dipendenti dall’immagine in sé. Questa è una delle ragioni per cui pensiamo che la distribuzione dell’Entropia Combinatoria dia delle informazioni di valore sulla struttura dell’immagine. Questo ci porta al nostro criterio principale per un’immagine bilanciata, armoniosa o esteticamente soddisfacente.
La tesi principale Così possiamo misurare (piuttosto facilmente) l’Entropia Combinatoria di un’immagine. Ma qual’è il suo significato? È una densità media, un’approssimazione della densità. Si noti che la distribuzione della densità a sua volta determina l’immagine in sé (questo è uno dei principi su cui si basa la tecnica tomografica al computer [20]). Ma i contenuti semantici ed estetici di ogni immagine provocano un rafforzamento ed un raffinamento delle informazioni globali. Siamo condotti dall’esperienza, dalla “logica” dell’immagine ad ispezionare le sue parti, a paragonarle fra loro. Non tutte le parti hanno la stessa importanza e la struttura gerarchica risultante è parte integrante dell’elaborazione dell’immagine. Qual’è il nucleo astratto di questa struttura gerarchica? Con l’aiuto della teoria dei modelli lo consideriamo come un reticolo omogeneo, numerabile e pesato, privo di atomi e che è stato troncato al livello della dimensione frattale dell’immagine. A sua volta ciò viene approssimato dai nostri sensi come se fossero inseparabili macchie sfocate e troncate. Nei disegni tecnici fatti da computer, questi possono essere dei pixel e, in questo caso, la topologia digitale è pertinente e produce dei risultati (e delle conoscenze) importanti. Il paragone e la valutazione reciproca fra le parti di un’immagine è espressa dalla nostra tesi principale [1], [4]: Tesi Ereditaria: un’immagine è armoniosa se due qualsiasi delle sue parti similmente significative hanno entropie combinatorie simili. La “similitudine di significato” non viene definita, ma non è una nozione primitiva. La similitudine è governata da considerazioni topologiche e algebriche. Questo conduce all’algebra di un’immagine. A sua volta ciò viene definito come una scomposizione in fattori sfocati dello spazio omogeneo privo di atomi di un’immagine. Ad ogni modo, in casi concreti questa complicata descrizione spesso non è un handicap. Inoltre, se non è data alcuna preferenza in un’immagine, allora la partizione uniforme serve da buon modello.
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Fig. 6. Antropogeometria [14]
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Esempi Includiamo vari esempi, insieme ai risultati delle misurazioni. Lasciamo al lettore il compito di interpretare l’importanza dei nostri esperimenti. Le entropie combinatorie di immagini intere assieme alle entropie delle loro suddivisioni regolari sono raffigurate in tabelle, nel cui centro è scritta l’entropia del rettangolo intero. In questa maniera vengono date le entropie dei primi dipinti di entrambi i padri del cubismo (Fig. 2) [11]. Nel caso in cui venga indicata soltanto l’entropia dell’intero dipinto, questo numero è semplicemente scritto sotto l’immagine (come nelle Figure 4,5,8). Sembra che le misure di entropia si adattino bene alle nostre impressioni intuitive di “densità” di un’immagine. Questo è vero anche se paragoniamo disegni con fotografie (come in Figura 7), dove abbiamo confrontato la foto di copertina di [21] scattata dal famoso fotografo di Praga S. Tu° ma con un disegno di J. Nesˇetrˇil (che di fatto è stato realizzato in seguito a questa foto). La Figura 8 contiene due versioni di un disegno del nostro istituto a Praga, entrambi fatti da J. Nesˇetrˇil. Uno è la copia del disegno originale, mentre l’altro è stato elaborato da un algoritmo in modo da ottenere solo linee sottili. La sua densità è considerevolmente più alta.
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243 Fig. 7. Malá Strana, veduta dal Dipartimento di Matematica Applicata
Fig. 8. Il palazzo del Dipartimento di Matematica Applicata. Un disegno (28.46) e la sua versione con linee assottigliate (35.28)
Abbiamo scelto delle immagini che sono bilanciate, in maniera da poter analizzare l’immagine per mezzo di una semplice algebra di suddivisioni regolari. Terminiamo l’articolo con un’analisi ereditaria del disegno di Venezia, realizzato da J. Nesˇetrˇil che si trova all’inizio dell’articolo.
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Fig. 9. Analisi ereditaria di un disegno di Venezia 244
Ringraziamenti Ringraziamo V. Douchová per le numerose osservazioni e discussioni riguardo a questo articolo.
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Letture consigliate T.J. Clark (2000) Modernism - a farewell to an idea, Yale Univ. Press H. de Fraysseix Graph Drawing SW (comunicazione personale)
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Alla ricerca di arte frattale che riduce lo stress: da Jackson Pollock a Frank Gehry RICHARD P. TAYLOR
Il profilo di Manhattan è una veduta familiare a tutti, con i suoi numerosi grattacieli che sembrano entrare nelle nuvole. Immaginate ora di dare ad uno dei grattacieli la forma delle nuvole che lo circondando. Nel 2001 il Guggenheim Museum di New York ha reso noto il progetto di un edificio in cui alloggiare la sua collezione d’arte moderna, che renderebbe reale una tale idea: si tratta di un progetto di Frank Gehry di un edificio cloud-like, ossia “simile ad una nuvola”. Con i suoi strati di superfici curvilinee che girano vorticosamente e si estendono su tre pontili, la struttura di 45 piani doveva dare una nuova forma al lungomare newyorkese. Se il progetto andasse avanti, che reazione avrebbero le persone nei confronti di questa insolita architettura? I miei studi recenti sulle reazioni percettive e fisiologiche della gente ai modelli di frattali, indicano un futuro roseo per progetti di edifici che incorporeranno forme della natura. In particolare, l’architettura dei frattali potrebbe essere usata per ridurre notevolmente i livelli di stress delle persone. Dal primo momento in cui ho visto uno degli edifici di Frank Gehry, il suo stile architettonico mi ha riportato alla mente le creazioni di un’altro artista visionario – il pittore espressionista astratto Jackson Pollock (1912-1956) [1]. Pollock srotolava enormi tele sul pavimento del suo studio e faceva gocciolare poi la pittura direttamente su queste tele, creando disegni di enormi vortici. Negli ultimi cinquant’anni i dipinti di Pollock sono stati frequentemente descritti come “biologici”, dato che le sue immagini richiamano alla mente allusioni alla natura [2]. “Biologico” sembra essere una descrizione appropriata anche per le creazioni di Gehry. Carenti del rigore di un ordine artificiale che non si trova in natura, le immagini create da Pollock e Gehry sono in forte contrasto con le linee dritte, i triangoli, i quadrati e la vasta gamma di altre forme appartenenti alla geometria euclidea. Ma allora, le creazioni di Pollock e Gehry, imitando le forme biologiche della natura, che tipo di forme sono? Oggetti come gli alberi e le nuvole e quindi appartenenti al mondo della natura, hanno una geometria sottostante o sono “privi di forma”? Mentre le forme artificiali della geometria euclidea sono state studiate fin dal 300 a.C., le forme della natura, a causa della loro complessità e apparente irregolarità, pur essendo parte della nostra esperienza quotidiana, hanno mostrato essere assai più difficili da definire. Un approccio, condannato al fallimento, è stato quello di cercare di modellare le immagini della natura usando le forme della geometria euclidea [3]. “Pensandoci bene,” fece notare Benoit Mandelbrot,
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“le nuvole non sono delle sfere, le montagne dei coni e le coste dei cerchi, e la corteccia non è liscia, né i fulmini seguono delle linee rette” [4]. L’approccio corretto alla risoluzione del problema si ebbe nel 1970 da parte dello stesso Mandelbrot: egli identificò una sorta di ordine nell’apparente disordine del paesaggio naturalistico. Mandelbrot mostrò che molti oggetti della natura sono composti da forme che si ripetono ogni volta che si aumenta la scala di ingrandimento. A queste forme ricorrenti Mandelbrot diede il nome di “frattali” (un termine che deriva dal termine latino “fractus”, che significa frantumato), per accentuare l’aspetto irregolare di queste forme rispetto alla regolarità delle forme euclidee. Catalogati nell’opera Fractal Geometry of Nature dello stesso Mandel-
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Fig. 1. Sinistra: Frattali “naturali” a forma di albero (noti come frattali stocastici). Destra: Frattali esatti, in cui le forme si ripetono nello stesso identico modo nei vari ingrandimenti (Fotografie di R.P. Taylor)
Alla ricerca di arte frattale che riduce lo stress: da Jackson Pollock a Frank Gehry
brot [4], una gamma di oggetti diversi della natura sono risultati essere dei frattali, incluse le montagne, le nuvole, i fiumi e gli alberi. Di alcuni frattali naturali, come l’albero mostrato nella Figura 1 (a sinistra), si parla di frattali di tipo statistico o di frattali stocastici. Difatti, anche se le forme che si osservano nei vari ingrandimenti non sono identiche fra loro, esse hanno tuttavia le stesse caratteristiche statistiche. Questo tipo di forma frattale è in contrapposizione con quella dei frattali “esatti”, mostrati nella Figura 3 (a destra), dove le forme si ripetono nello stesso identico modo nei vari ingrandimenti. Vista la larga diffusione di oggetti frattali nella natura, il concetto di architettura dei frattali è molto di moda (si vedano, ad esempio, [5-9]). L’architettura dei frattali trova le sue basi in proposte generiche di ‘biofilia’ e nello sforzo di incorporare la natura nei paesaggi urbani [10]. Tuttavia, queste proposte spesso non sono pratiche per le città, dove la densità edilizia limita o addirittura esclude la possibilità di una maggiore esposizione alla natura. Un approccio più diretto per introdurre immagini della natura nelle città è quello di disegnare l’aspetto degli edifici basandosi sulla geometria frattale. Ma è possibile costruire degli edifici a forma di frattale? La sfida, ovviamente, sta nella capacità di ripetere il processo di costruzione su scale diverse. I frattali esatti sono la proposta più semplice, perché per costruirli viene adoperata la stessa forma ad ogni ingrandimento. Per questa ragione, i frattali esatti sono apparsi regolarmente in ogni momento della storia dell’arte, fin dai tempi dei disegni islamici e celtici. Tra gli esempi più recenti la stampa xilografica di Katsushika Hokusai The Great Wave (1846) [4] e Circle Limit III e IV di M.C. Escher (1960). Escher è particolarmente noto nel mondo dell’arte per le sue abilità matematiche e le sue capacità nel maneggiare disegni che si ripetono su scale diverse [11]. Questa ripetizione esatta può essere adattata a oggetti fisici in un piano a due dimensioni (come la distribuzione delle rocce nel giardino di Ryoanji Rock in Giappone [12]) e a tre dimensioni (un esempio ovvio è quello delle bambole russe, dove una bambola grande nasconde al suo interno una bambola identica ma più piccola, che a sua volta ne nasconde una ancora più piccola). In termini di architettura, Castel del Monte, disegnato e costruito dall’imperatore del Sacro Romano Impero Federico II (1194-1250), ha come forma base un ottagono regolare con otto torri più piccole ottagonali su ogni angolo. Un esempio più recente è la Tour Eiffel costruita da Gustave Eiffel a Parigi, dove la ripetizione di un triangolo genera una forma conosciuta nella Geometria dei frattali come un “Triangolo di Sierpinski” [13]. La Tour Eiffel (1889) si presta per dare una dimostrazione delle conseguenze che l’architettura dei frattali comporta nella pratica. Se al posto della sua costruzione filiforme, la torre fosse stata disegnata come una piramide massiccia, avrebbe consumato una grande quantità di ferro senza molta solidità aggiunta. Invece Eiffel ha utilizzato la rigidità strutturale di un triangolo su tante scale di misura diverse. Il risultato è un design robusto e conveniente dal punto di vista dei costi. Anche le cattedrali gotiche utilizzano la ripetizione frattale per ottenere la massima solidità con un peso minimo. Il carattere frattale domina anche l’estetica di questi edifici. La ripetizione di forme diverse su scale differenti in una cattedrale gotica (gli archi, le finestre e le guglie) ha come risultato un’interessante combinazione tra complessità e or-
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Fig. 2. Esempi di dipinti “a gocciolamento” (colonna sinistra) e paesaggi della natura (colonna destra). In alto: una linea liscia (D=1) e l’orizzonte (D=1). Al centro: dipinto di Pollock Senza titolo (1945) (D=1,10) e nuvole (D=1,3). In basso: dipinto di Pollock Senza titolo (1950) e una foresta, entrambi modelli di frattale con D=1,89. (Fotografie di R.P. Taylor)
dine [6]. In contrasto con l’aspetto “massiccio” delle strutture romaniche che precedevano l’era gotica, il carattere scolpito degli edifici gotici dà loro un particolare aspetto scheletrico, che ha come risultato la loro notevole luminosità. Più recentemente, l’attrattiva visiva del Frank Lloyd Wright’s Palmer House a Ann Harbour (USA) del 1950-51 è stato analizzato in termini dell’uso che Llyod ha fatto di forme triangolari su scale diverse [8].
Alla ricerca di arte frattale che riduce lo stress: da Jackson Pollock a Frank Gehry
In contrasto con i frattali esatti discussi sopra, i frattali stocastici rappresentano una sfida ben più stimolante per entrambi, artisti e architetti. Leonardo Da Vinci è rinomato per le sue illustrazioni scientifiche delle turbolenze dell’acqua del 1500, anche se le sue rappresentazioni dell’acqua turbinosa non riescono a rendere qualitativamente un frattale stocastico generato da una turbolenza. Ciononostante, creazioni artistiche di frattali stocastici sono possibili. Nel 1999 ho mostrato che il processo del “dripping”, il gocciolamento della pittura dall’alto, sviluppato da Jackson Pollock, genera frattali stocastici simili a quelli che si trovano nelle forme della natura [14]. La stupefacente impresa di Pollock è stata battezzata “espressionismo frattale” [15], per distinguerlo dai frattali di tipo statistico che sono apparsi con l’avvento della computer art negli anni Ottanta. Il metodo di Pollock non era un metodo scientifico né scaturiva da una riflessione intellettuale, ma era un processo intuitivo in cui il carattere di frattale veniva fuori solo dopo due minuti di attività agile e intensa. Capire come precisamente Pollock fosse riuscito a generare frattali stocastici rimane l’argomento principale delle mie ricerche attuali. Comunque, Lee Krasner – moglie di Pollock ed essa stessa artista rispettata – pensa che il suo talento risedesse nella capacità di dipingere disegni a motivi ricorrenti a tre dimensioni nella mente e di saper prevedere in che modo l’olio si sarebbe condensato sulla superficie a due dimensioni della tela. I dipinti di Pollock dimostrano quindi che è possibile creare frattali stocastici nello spazio a tre dimensioni. Tuttavia, per disegnare un edificio basato sui frattali stocastici, un architetto dovrebbe creare frattali a tre dimensioni simili a quelli di Pollock, ma con la restrizione aggiunta che il progetto dovrà anche essere assemblabile in un oggetto strutturalmente valido. Quali sono le possibili motivazioni per creare un edificio basato sui frattali stocastici? Tali frattali hanno una grande area di superficie in proporzione al volume. Per esempio, gli alberi sono un modello di frattale stocastico perché massimizzano l’esposizione alla luce del sole. In maniera analoga, i rami bronchiali nei nostri polmoni massimizzano l’assorbimento di ossigeno nei vasi sanguigni. Tra i possibili vantaggi che porta con sé questa grande area di superficie per un edificio, dunque, possono esserci cellule solari sui tetti e finestre che consentono tanta luminosità all’interno dell’edificio. In ogni caso, la ragione principale per un tale progetto sta nell’estetica e nella speranza di riuscire ad imitare una forma “biologica” della natura. Come reagirebbe un osservatore ad un oggetto artificiale che assuma la forma di un frattale naturale? Lo studio del giudizio estetico che l’uomo dà ai modelli di frattale costituisce un campo di ricerca relativamente nuovo nell’ambito della psicologia percettiva. Solo recentemente i ricercatori hanno incominciato a quantificare le preferenze visive delle persone nei confronti dei frattali. L’aspetto di un oggetto della forma di un frattale stocastico è influenzata da un parametro cui si dà il nome di dimensione frattale D. Esso quantifica la complessità visiva di un modello di frattale. Il suo valore è compreso tra 1 e 2 e si avvicina più a 2 quanto più la complessità visiva aumenta. Ne abbiamo una dimostrazione nella Figura 2 per i dipinti a “gocciolamento” (colonna sinistra) e i paesaggi corrispondenti in natura (colonna destra). Cominciando dalla riga superiore, una linea diritta e liscia visivamente non è complicata e ha un valore di base di D pari a 1. Il corrispondente paesaggio in natura è dato dall’orizzonte.
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Spostandoci verso la riga centrale, il dipinto frattale a “gocciolamento” è un disegno molto scarso e semplice, con un valore di D pari a 1,3. Modelli di frattale equivalenti in natura sono le nuvole. Sulla riga inferiore troviamo frattali a “gocciolamento” molto ricchi, intricati e complessi, con un valore di D molto più alto pari a 1,9. Modelli di frattali corrispondenti in natura sono gli alberi di una foresta.
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Fig. 3. Immagini utilizzate negli esperimenti di stress: una fotografia realistica di una foresta (in alto), un’interpretazione artistica di un paesaggio naturale (al centro), un disegno di linee (in basso)
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Dato che il valore di D di un disegno frattale ha un legame così profondo con il suo aspetto “visivo”, una domanda cruciale da porsi è se le persone preferiscono i disegni caratterizzati da un particolare valore di D. Dal 1993 al 1996 Deborah Aks e Julien Sprott hanno usato un computer per generare disegni di frattali con diversi valori di D, scoprendo che la gente esprime una preferenza per i frattali con un valore medio di 1,3 [16]. Nel 1995 anche Cliff Pickover ha utilizzato un computer per il suo sondaggio, ma sfruttando un metodo matematico diverso per generare i frattali [17]. Questo sondaggio ha riportato una preferenza per valori di D molto più alti di 1,8. Il disaccordo tra i due sondaggi sembrava suggerire la non esistenza di un valore di D universalmente preferito e che le qualità estetiche di un frattale dipendessero invece specificatamente da come veniva generato. Per determinare se ci siano delle qualità estetiche “universali”di un frattale, ho collaborato con gli psicologi Branka Spehar, Colin Clifford di Colin e Ben Newell. Abbiamo eseguito degli studi di percezione, includendo tutte e tre le categorie fondamentali di frattale: i frattali “naturali”(paesaggi di alberi, montagne, nuvole ecc.), “matematici” (cioè simulazioni al computer) e “umani” (sezioni tolte ai dipinti a “gocciolamento” di Pollock). I partecipanti allo studio di percezione hanno espresso una preferenza costante per i frattali con valori di D tra 1,3 e 1,5, indipendentemente dalla categoria cui appartenevano. È anche significativa la scoperta fatta in una recente collaborazione con Caroline Hagerhall, i cui esperimenti indicano che la “naturalezza” percepita nei disegni di frattale raggiunge il suo punto massimo per i frattali con valori medi. Inoltre, molti dei frattali che ci circondano nella natura hanno valori di D in questa media. Tutto ciò fa pensare alla possibilità che l’occhio sia esteticamente più “in sintonia” con i frattali simili a quelli che troviamo nei paesaggi della natura. Recenti indagini scientifiche indicano che il fascino dei frattali con un valore medio si estende oltre l’estetica visiva: questi frattali, in realtà, riducono lo stress dell’osservatore. In uno studio di James Wise [18], le persone erano state posizionate di fronte ad illustrazioni di un metro per due ed era stato loro chiesto di eseguire una serie di compiti mentali che inducono stress, come problemi aritmetici, con ogni compito separato da quello successivo da un periodo di recupero di un minuto. Nel frattempo, Wise monitorava continuamente la conduttività della pelle di ogni persona. Le misure della conduttività della pelle sono un metodo consolidato per quantificare lo stress (un forte stress aumenta la conduttività della pelle). La quantità di stress indotta dal lavoro mentale può essere quindi quantificata dall’aumento della conduttività della pelle ∆G tra i periodi di riposo e di lavoro (un grande valore di ∆G indica un forte stress). Wise utilizzò le tre illustrazioni mostrate in Figura 3: una fotografia realistica di una foresta (in alto), un’interpretazione artistica di un paesaggio naturale (al centro), un disegno di linee (in basso) ed un pannello uniforme bianco che serviva da controllo (non mostrato). Si è scoperto che ∆G dipendeva da quale illustrazione veniva osservata. Per il disegno “artificiale” di linee (in basso) ∆G era del 13% maggiore rispetto all’osservazione del pannello di controllo bianco, cosa che indica che questa illustrazione ha aumentato effettivamente lo stress dell’osservatore. Al con-
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trario, i valori di ∆G per le immagini “naturali” erano minori del 3% (in alto) e del 44% (al centro) rispetto al pannello di controllo, cosa che indica una riduzione dello stress. Questo risultato conferma la proposta precedente per cui le immagini della natura potrebbero essere incorporate negli ambienti artificiali come metodo per la riduzione dello stress. Ma perché l’immagine al centro è stata molto più efficace nel ridurre lo stress rispetto a quella in alto? Per rispondere a questa domanda ho collaborato recentemente con Wise eseguendo un’analisi “frattale” delle due immagini. Abbiamo scoperto che il valore D dell’immagine in mezzo è di 1,4 e cioè che essa fa parte della categoria di frattali che precedentemente abbiamo stabilito essere visivamente più attraenti. Al contrario, l’immagine in alto ha un valore di D pari a 1,6, che si trova fuori dalla gamma di valori visivamente piacevoli. Sembra dunque che il fascino dei frattali “medi” (valori di D da 1,3 a 1,5) si estenda oltre la semplice estetica visiva e sia sufficiente per far avere all’osservatore un effetto benefico di tipo fisiologico [19]. Potenzialmente si tratta di ottime notizie per Frank Gehry ed il suo progetto per il Guggenheim Museum cloud-like: le nuvole sono dei modelli di frattale con un valore di D pari a 1,3 e si trovano quindi nella “magica” gamma di valori di complessità visiva preferita [20]. Ma il progetto di Gehry sarà mai capace di imitare il carattere frattale delle nuvole della natura? L’impresa può non essere così difficile come sembra. I frattali in natura non si ripetono per molti ingrandimenti. Mentre i frattali generati al computer ripetono un motivo per ingrandimenti successivi da una scala molto grande ad una infinitamente piccola, i frattali nella natura ingrandiscono il motivo al massimo di venticinque volte [21]. Quindi per un edificio cloud-like, la figura più grande dovrà essere soltanto di venticinque volte più grande della figura più piccola. Molto stimolante, ma non impossibile. Inoltre, il basso valore di D di una nuvola assicura che la struttura di frattale sarà relativamente liscia e rada (Fig. 2). Se Gehry avesse scelto una struttura di frattale simile ad una foresta, la complessità di questo frattale con un alto valore di D sarebbe stata molto più difficile da incorporare in un edificio. Anche recenti indagini architettoniche sono favorevoli al progetto di Gehry: gli esperimenti di percezione indicano che non è necessario uguagliare il carattere frattale dell’edificio ad un panorama frattale di fondo per ottenere un buon impatto estetico [9]. In particolare, ciò esclude la prospettiva estremamente indesiderabile di dover eguagliare la forma dell’edificio alle nuvole nel cielo, che cambiano forma in ogni momento del giorno! Se la proposta di Gehry verrà accettata, sarà molto interessante vedere se l’apprezzamento di base delle persone nei confronti delle nuvole frattali si rispecchierà anche nei newyorkesi nei confronti di questo progetto di costruzione rivoluzionario.
Bibliografia [1] K. Varnedoe, K. Karmel (1998) Jackson Pollock, Abrams, New York [2] J. Potter (1985) To a violent grave: An oral biography of Jackson Pollock, G.P. Putman and Sons, New York [3] G.D. Birkhoff (1933) Aesthetic measure, Harvard University Press, Cambridge, USA
Alla ricerca di arte frattale che riduce lo stress: da Jackson Pollock a Frank Gehry
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Un maestro americano: Jackson Pollock, 1930-1949 Mito e realtà* SAM HUNTER
Quando sono nel mio quadro, non sono cosciente di quello che faccio. Solo dopo una specie di “presa di coscienza” vedo ciò che ho fatto. Non ho paura di fare dei cambiamenti, di distruggere l’immagine ecc., perché un quadro ha una vita propria. Jackson Pollock, 1947
Ancora oggi, a quasi cinquant’anni dalla morte, Jackson Pollock è un personaggio mitico, ora più leggendario che mai. Conosciuto durante la sua breve vita, finita drammaticamente a quarantaquattro anni, come un “cowboy” esistenzialista, un cane sciolto proveniente dal cuore del selvaggio West americano, ossia da Cody nel Wyoming, e avversato come l’iconoclasta “Jack the Dripper”, colui che ha stravolto l’arte, Pollock è un artista la cui leggenda e il grande spessore artistico non hanno mai cessato di crescere. Nel 1956, pochi mesi dopo la sua morte, gli viene tributata un’importante retrospettiva al Museum of Modern Art di New York. In realtà questa mostra è la prima importante personale di Pollock organizzata presso un museo e, guarda caso, proprio dall’autore di questo saggio. Essendosi svolta, per pura coincidenza, poco dopo la morte di Pollock, è percepita nel mondo dell’avanguardia come una mostra commemorativa, che riconosce a Pollock la leadership dei cosiddetti “Irascibili”. Ma all’epoca le opere di Pollock non godevano assolutamente del plauso generale, come dimostra il commento piuttosto sarcastico al catalogo della mostra del critico d’arte del “New York Tmes”, Hilton Kramer: “La breve monografia di Hunter ... rivendica per Pollock l’eroismo della storia in modo assoluto e inequivocabile e poi continua reclamando per questo eroismo storico una sovranità artistica parimenti incondizionata e incommensurabile” [1]. Nel 1959, tre anni dopo l’incidente d’auto in cui Pollock perse la vita vicino a casa a Springs, Long Island, gli rende omaggio la prima monografia scritta dal grande poeta americano Frank O’Hara. La creazione del mito prosegue concentrandosi sempre più sull’uomo piuttosto che sulla sua arte, raggiungendo l’apoteosi verso la fine del 1978 con un testo che paragona il suo metodo di lavoro e la sua action painting a “un rituale religioso che lo tiene costantemente in uno stato di lucido determinismo” [2]. Ma già verso la metà degli anni Sessanta l’attenzione della critica si allontana
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L’articolo è stato in origine pubblicato in: da Jackson Pollock a Venezia, Skira, Nilano, 2002. Si ringrazia l’autore, la Guggenheim Collection Venezia e la casa editrice Skira.
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258 Circoncisione (Circumcision) gennaio 1946. Olio su tela 142,3 x 168 cm. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia (Fondazione Solomon R. Guggenheim, NY)
da simili esagerazioni sentimentali, dipinte forse a tinte forti ma non sempre frutto di fantasia, per propendere per una più misurata e meditata analisi del rapporto tra Pollock e il modernismo. Di recente si è aggiunto un nuovo elemento alla crescente mole di studi e critica su Pollock, con nuove prospettive derivate dallo studio delle implicazioni psicanalitiche dei suoi disegni. Questi studi mettono in relazione la sua arte con le teorie junghiane sull’inconscio collettivo, con le quali Pollock venne in contatto durante la discontinua terapia cui si sottopose a causa del suo perenne alcolismo. Per quanto benemerite siano queste interpretazioni accademiche e questi approfondimenti, non sorprendono chi conosce bene i dipinti e i disegni di Pollock, soprattutto i cosiddetti “disegni psicanalitici” risalenti al 1939-40, quando era seguito da un analista junghiano. È stato lo stesso Pollock a spiegare la sua ossessione per i simboli e l’indagine psichica che genera la sua arte: “Non mi interessa l’espressionismo astratto ... e comunque non si tratta di un’arte senza oggetto, né di un’arte che non rappresenta. Io a volte ho molta capacità di rappresentare, anche se di solito ne ho poca. Ma se tu dipingi il tuo inconscio, le figure
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259 Foresta incantata (Enchanted Forest) 1947. Olio su tela 221,3 x 114,6 cm. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia (Fondazione Solomon R. Guggenheim, NY)
devono per forza emergere. Tutti noi siamo influenzati da Freud, mi pare. Io sono stato a lungo junghiano. ... La pittura è uno stato dell’essere... La pittura è la scoperta di sé. Ogni buon artista dipinge ciò che è”1. A parte l’interesse per la sua psiche, Pollock sente anche che i suoi dipinti sono vicini alla natura, ma identifica la natura con l’ego. “Io sono la natura”, dichiara bruscamente un giorno a Hans Hofmann, esponente di spicco dell’astrattismo, in un violento e repentino accesso d’ira. Per i suoi dipinti e disegni usa una grande varietà di mezzi, matita e carboncino, pastelli colorati e inchiostro, gouache, tempera, acquerello, pastello, gesso e smalto, su carte di tutte le grammature e consistenze e di tutti i colori, oltre a realizzare collage, stampe e insolite sculture nei materiali più disparati come il mosaico e la terracotta. Per quanto riguarda i soggetti, c’è un po’ di tutto, da Picas-
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[2] p. 111 (trad. it. in Jackson Pollock, Lettere, riflessioni, testimonianze, a cura di Elena Pontiggia, Milano, SE, 1991, p. 102).
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Due (Two), 1943-45. Olio su tela 193 x 110 cm. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia (Fondazione Solomon R. Guggenheim, NY)
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so e il surrealismo alle dee minoiche della luna, alle voraci donne primitive che molti critici da un punto di vista psicologico collegano alla “cattiva” figura materna dominante. Più in generale, le sue forme sono influenzate dalle maschere e dai totem primitivi e dagli aspetti elementari dell’esistenza come la nascita e la morte. Tuttavia i suoi dipinti, i disegni e le stampe sono essenzialmente riflessioni sull’arte stessa. Quando nel 1951 gli hanno chiesto come le opere contemporanee riflettano il mondo, Pollock ha risposto: “Per me l’arte moderna non è altro che l’espressione degli ideali dell’epoca in cui viviamo... L’artista moderno lavora con lo spazio e il tempo, ed esprime i suoi sentimenti piuttosto che illustrarli”2. E l’anno prima, proprio quando incominciava ad essere più conosciuto grazie a un articolo su Life illustrato dalle foto di Hans Namuth, che lo mostravano febbrilmente al lavoro su un dipinto, aveva dichiarato: “Tempo fa un critico ha scritto che i miei quadri non hanno né capo né coda. Non intendeva farmi un complimento ma me lo ha fatto. Era un complimento magnifico. Solo che non lo sapeva”3. Per quanto semplicistiche possano apparire oggi tali parole, queste sono le osservazioni di un artista sofisticato, perfettamente conscio di ciò che faceva, dell’importanza delle tradizioni artistiche e dell’esigenza, inoltre, di reinventarle. Ad eccezione di un occasionale, seppur profondamente commovente, bisogno di approvazione, Pollock è quanto mai consapevole dei propri mezzi. Il più delle volte è assolutamente sicuro di sé e della sua tecnica innovatrice, che consiste nello sgocciolare il colore sulla tela, incurante del fatto che gli altri trovino bizzarro il suo orientamento pittorico. Qualche volta tuttavia lo assalgono i dubbi che confidava alla moglie, la pittrice Lee Krasner, la quale, poco prima di morire, ha raccontato: “Ma altre volte si sentiva insicuro. Tempo dopo, davanti a un’opera molto bella – non un bianco e nero – mi chiese: ‘È pittura, questa?’ Non mi chiedeva se era buona o cattiva pittura, ma se era pittura! Arrivava a livelli di dubbio quasi intollerabili, a volte”4. Americano fino alla provocazione, Pollock era però sensibile anche alle lezioni dell’arte europea del passato e attribuiva la dovuta importanza ad artisti contemporanei come Picasso, Miró, John Graham e altri esponenti della Scuola di Parigi e del movimento surrealista, con i quali era entrato in contatto negli anni della seconda guerra mondiale durante il loro volontario “esilio” a New York. Prima di allora era stato influenzato dal regionalismo di Thomas Hart Benton, suo maestro alla Art Students League, al quale in principio era ciecamente devoto ma che in seguito considererà con disprezo. Si tiene a prudente distanza da qualsiasi genere di organizzazione artistica politicamente connotata che cerchi di farlo entrare nei suoi ranghi e non si lascia coinvolgere da attività sociali impegnate che incoraggiavano discussioni sulla produzione artistica e il mondo dell’arte. Fin dall’inizio appare dolorosamente introverso e sembra orientarsi soprattutto seguendo una sua bussola interiore. A diciassette anni, in una lettera al fratello maggiore Charles, anch’egli artista, che all’epoca viveva a New York,
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[2] p. 114 (trad. it. in Pollock, Lettere, si veda nota 1, pp. 79, 81). [2] pp. 109-110. [2] p. 109 (trad. it. in Pollock, Lettere, si veda nota 1, p. 104).
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Jackson riflette sui propri sforzi per studiare il disegno dal vivo alla scuola superiore di Los Angeles. “Faccio continuamente nuove esperienze e sto attraversando un periodo di trasformazioni che mi lascia piuttosto disorientato”, scrive il giovane Pollock, e con onestà prosegue: “I miei disegni francamente non valgono niente, mancano di libertà e di ritmo, sono freddi e senza vita. Non valgono il bollo per spedirli... La verità è che non mi sono mai impegnato abbastanza a fondo da finire un lavoro. Generalmente mi scoraggio strada facendo e lascio perdere. L’acquerello mi appassiona, ma non l’ho mai praticato molto. Ma sento che un giorno sarò in qualche modo un artista” [3]. Pollock appartiene comunque al suo tempo e al suo ambiente. Nato il 28 gennaio 1912 a Cody, quando ha appena dieci mesi i genitori si trasferiscono in una città apparentemente più cosmopolita, San Diego. Non tornerà mai più nel Wyoming, e se sostiene che la sua visione ha acquisito il colore di una certa espansività occidentale, forse ciò è dovuto più alla successiva permanenza in Arizona della sua famiglia che, cronicamente povera, travagliata e senza radici, è costretta a spostarsi continuamente dove la porta il lavoro. Nei primi quindici anni di vita dell’artista, il padre LeRoy Pollock lavora precariamente come bracciante da un capo all’altro del sud ovest, da Phoenix a Chico e poi ancora a Riverside, in California. Alla fine, sentendosi fallito e schiacciato dalla responsabilità della famiglia, lascia la moglie e i cinque figli. L’artista, battezzato Paul Jackson, e i quattro fratelli maggiori sono spesso costretti a gravosi lavori agricoli ed è a queste esperienze che può farsi risalire il legame di Jackson con la terra. Sul certificato di nascita del suo quinto figlio, figura che LeRoy Pollock lavora come “scalpellino e operaio edile”. I Pollock non sono religiosi ma si interessano molto di arte, cosa che stupisce se si considera che non hanno una residenza fissa. L’atmosfera che si respira a casa loro è talmente ben disposta nei confronti dell’arte che Jackson e i suoi fratelli faranno tutti carriera in campo artistico. Il primo a lasciare casa è il maggiore, Charles, che nel 1922 inizia gli studi all’Accademia di Los Angeles e in seguito lavorerà nella redazione artistica del Los Angeles Times. Grazie a Charles e alle riviste che questi manda a casa, la famiglia ha qualche contatto con l’avanguardia e le nuove idee sul modernismo allora in circolazione. Charles va a New York nel 1926 per studiare alla Art Students League e a poco a poco lo raggiungeranno gli altri fratelli più giovani e Jackson con loro. Fin dai primi anni entrano in gioco molte delle forze che finiranno per determinare l’espressione artistica di Jackson Pollock. È affascinato da amici e maestri inclini al modernismo, ancora rari nella California del Sud. Grazie a un docente della Manual Arts High School, Pollock entra in contatto con il misticismo della teosofia e lo yoga di Krishnamurti e conosce certamente i culti esotici e le pratiche pseudoreligiose assai diffuse in quella regione. Non li pratica ma lo interessano, e quell’interesse lo conduce a tutta una serie di credenze esoteriche e culture che in seguito riaffioreranno nelle opere della maturità. Da quella ricerca giovanile scaturisce anche la sua tecnica dominante che consiste nello stendere o gettare fiotti di colore sopra la tela, usando la gravità per creare rappresentazioni grafiche di vario colore e consistenza. Nonostante risultati visivi ra-
Un maestro americano: Jackson Pollock, 1930-1949. Mito e realtà
Direzione (Direction) ottobre 1945. Olio su tela, 80,6 x 55,7 cm. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia (Fondazione Solomon R. Guggenheim, NY)
dicalmente opposti, ci sono notevoli punti di contatto tra i suoi successivi metodi pittorici e quelli usati per le pitture di sabbia dagli indiani d’America, che lo affascinavano. Durante l’adolescenza, anche se con conseguenze molto più infauste, iniziano a manifestarsi il suo ribellismo e l’alcolismo con cui avrebbe lottato per tutta la vita. A detta di tutti è un giovane lunatico, irrequieto, cupo, che si ritira da scuola o si fa espellere più volte prima di andare a New York per raggiungere i due fratelli che già vi si erano trasferiti. Si iscrive alla Art Students League il 29 settembre 1930, a diciotto anni, ansioso di scoprire, sono parole sue, “se ce l’avevo dentro” di diventare artista per davvero. Le opere dei muralisti messicani, in particolare di Diego Rivera e José Clemente Orozco, avevano colpito Pollock già in California. New York, che solo diciassette anni prima era stata scossa dall’Armory Show e dall’avvento del modernismo, è ora sconvolta dalla crisi dei mercati finanziari e incerta sul suo status culturale. L’onda lunga del risentimento, fomentata dalla grande depressione, lambisce il modernismo europeo, e il mondo dell’arte è dominato dai pittori regionalisti e dai paesaggisti americani da tempo affermati, tra cui Thomas H. Benton e John Sloan. Con una fervente ammirazione per tutto ciò che è americano, ma anche con un’avversione altrettanto forte per i modernisti contemporanei come Georgia O’Keeffe e Marsden Hartley, Benton è il maestro di Pollock
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per due anni che si riveleranno cruciali nella sua carriera. Pollock più tardi rinnegherà l’affettazione del maestro per l’immaginario campagnolo, il suo sciovinismo e la violenta antipatia per il modernismo europeo, e all’inizio del suo apprendistato riesce a modificare l’influenza di Benton diluendola nell’ambiente più misterioso e appassionato del malinconico visionario americano Albert Pynkham Ryder. Rimarrà tuttavia in contatto con Benton, che nel 1935 gli scrive parole di incoraggiamento: “Hai stoffa vecchio mio, basta che non molli”. E Pollock non molla, trovando sostegno e solidarietà, mentre la situazione economica si inasprisce, nella Works Progress Administration che, con sapienti iniziative in campo artistico, sa catalizzare le energie di molti artisti americani che economicamente versano in cattive acque. Al culmine della depressione, prima dello scoppio della guerra e prima che molti eminenti artisti europei trovino asilo a New York, portando in quel nuovo polo artistico le loro composite esperienze, Pollock si dedica a lavori umili, arrivando talvolta a rubare per mangiare, come tanta altra gente comune che ha perso tutto durante la crisi americana. Lascia la League e aderisce al WPA Art Project promosso nel quadro del New Deal, prima come pittore di murales e l’anno successivo dedicandosi alle tele su cavalletto. Alcune importanti conoscenze e la nuova solidarietà nata tra Pollock e altri artisti come lui coinvolti nelle iniziative artistiche del WPA formeranno in seguito la nuova identità collettiva d’avanguardia della New York School, verso la fine degli anni Trenta e Quaranta. Questo sentimento di appartenenza diventa particolarmente forte a New York, tradizionale polo di attrazione d’eccellenza per creativi e rivoluzionari. E così, proprio come Parigi aveva rappresentato un terreno fertile per talenti stranieri dell’importanza di Picasso, Gris e Miró, Kandinsky e Mondrian, Modigliani e de Chirico, Chagall, Lipchitz, Soutine ed Ernst, oltre ai maestri di origine francese, New York attira una grande varietà di aspiranti pittori e scultori. Arshile Gorky vi arriva nel 1925, dopo essere sfuggito alla persecuzione turca nella nativa Armenia. L’anno dopo fa la sua comparsa il ventiduenne olandese Willem de Kooning, partito da Rotterdam come clandestino su una nave. Nel frattempo dalla Russia emigra Mark Rothko, dopo essere passato per Portland, nell’Oregon. Nel 1930, come già sappiamo, Pollock, nato nel Wyoming, entra nella Art Students League per studiare con Benton. Il West americano manda a New York Robert Motherwell da San Francisco e Clyfford Still da Spokane, Washington. Nati meno lontano sono David Smith, dell’Indiana, e Franz Kline, del distretto carbonifero della Pennsylvania. In quanto a talenti autoctoni, la futura New York School annovera Lee Krasner, Barnett Newman, Adolph Gottlieb e Ad Reinhardt. A differenza dei precedenti artisti americani di indole solitaria, i protagonisti della futura avanguardia si cercano l’un l’altro, scambiano idee, mettono in comune le scoperte e parlano di tutto ciò che leggono negli ultimi numeri di riviste francesi come Cahiers d’art e Minotaure. Si incontrano negli squallidi loft del centro città, nelle luride caffetterie sempre aperte, o semplicemente sulle panchine di Washington Square, formando una bohème tutta loro, l’equivalente, ai tempi della grande depressione, della vita nei café-studio di Parigi. Come i più sofisticati abitanti di quell’ambiente più salubre e civilizzato, i New
Un maestro americano: Jackson Pollock, 1930-1949. Mito e realtà
Senza titolo (Untitled) 1946 circa. Gouache e pastello su carta, 58 x 80 cm. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia (Fondazione Solomon R. Guggenheim, NY) 265
Yorkers si confortano l’un l’altro accettando così il loro volontario estraniarsi dal mondo esterno popolato di filistei. Eludono per lo più le sollecitazioni a “dipingere americano” come Benton o a “dipingere proletario” come Ben Shahn e altri, in nome dei propri stringenti e concreti interessi politici e umanitari. Lo stile maturo di Pollock inizia a manifestarsi già verso la fine degli anni trenta. In un’opera giovanile, datata 1934-38, Composition with Figures and Banners, presenta un soggetto talmente stilizzato da sfiorare l’astrazione. Sembra essere influenzato tanto da El Greco e da Ryder quanto da Benton, che lo aveva incoraggiato a creare composizioni dinamiche tramite l’uso di forme oblique e di linee attorno alle quali fluttuano strutture di archi in una disposizione piuttosto lirica e ritmica. Stupisce quanto sia cambiato il suo stile rispetto ai primi dipinti, come l’angoscioso Self-Portrait del 1930-33, che ricorda un vivido ritratto a encausto di Faiyum nell’Egitto di circa duemila anni fa. Straordinariamente teso, quasi circospetto, il viso annerito, che a malapena ricorda quello di Pollock, scruta l’astante da una fitta semioscurità atmosferica; mentre nella composizione di poco successiva viene enfatizzata la calligrafia idiosincratica, mutevole, espressionistica e vorticosa. Il campo in cui si intersecano diagonali simili a lance può essere considerato il precursore di molti suoi successivi dipinti realizzati con la tecnica del dripping e in particolare il famoso Blue Poles, ora custodito all’Australian National Gallery di Canberra.
Autore? Controllare
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Altra dimensione della precoce creatività di Pollock entra in gioco con Overall Composition, che nonostante sia contemporaneo sembra molto più avanti di Composition with Figures and Banners nell’esplorazione dell’astrazione. Il campo totalmente coperto di segni – caratteristico dei dipinti cosiddetti “allover” –, l’ambigua profondità spaziale e lo sfumato del pennello, tutto fa presagire le grandi tele degli anni 1947-50 eseguite con la tecnica del dripping. Elementi biomorfici, surrealisti o primitivizzanti, associati a combinazioni di colori stridenti ed essenziali e una lineare cornice restrittiva, trasmettono la sensazione di energie compresse alle due tele semi figurative del 1938-41, Orange Heade Head with Polygons, dove è chiara l’influenza di Picasso e del surrealismo. Il loro rapporto con il sorprendentemente maturo Moon Vessel, piccolo capolavoro del 1945, funge da ponte tra la vitalità in trasformazione del regionalismo delle opere precedenti e la fase più immaginativa che sarebbe seguita. Con la sua luce tremula, effetto dei segni che formano sulla superficie un sottile velo incrostato di spruzzate di colore e sotto di essa uno spazio indeterminato, ma profondo e vitale, affollato di volti dai tratti primitivi, Moon Vassel rappresenta l’apice dell’evoluzione stilistica di Pollock di quegli anni. Il periodo dal 1943 al 1947 è determinante per la sua carriera,“un’epoca di sintesi e padronanza ma anche di transizione e di recupero delle energie”. Nel 1943 Pollock tiene la sua prima personale nella famosa Art of This Century Gallery di Peggy Guggenheim, dove espone alcuni dei suoi primi capolavori surrealisti, come The She-Wolf, il primo dipinto di Pollock acquistato dal Museum of Modern Art di New York. Nel 1945 con la moglie Lee Krasner si trasferisce a Springs, Long Island, grazie al generoso compenso annuale che riceve da Peggy Guggenheim. Nel 1946 e nel 1947 Pollock tiene altre due mostre nella stessa galleria, affermandosi sempre più e attirando su di sé l’attenzione degli espressionisti astratti e di alcuni critici, curatori e collezionisti tra i più lungimiranti. La sua vita ormai ha assunto un corso più ordinato, grazie in parte all’apprezzamento pubblico e in parte alle cure continue cui si sottopone, con alterni risultati, contro l’alcolismo; lavorando in campagna e tenendo momentaneamente a bada i demoni che porta dentro di sé, Pollock è pronto per il successo. Questa cruciale fase di transizione tanto nella vita quanto nella pittura, con un totale confluire delle energie e della fiducia in se stesso nelle proprie potenzialità artistiche da poco scoperte, si concretizza in Moon Vessel, che mostra un perfetto equilibrio tra qualità formali e profondità psicologica. Sobrio, serio e magistrale, fa la sintesi dei suoi antecedenti e indica il futuro; compendia ingegnosamente le lezioni di Picasso, Miró e Masson e l’immaginario scaturito dalla sua psiche unito all’emergente propensione per una struttura elegante e intuitivamente esatta. È di grande soddisfazione studiare questo periodo fecondo di opere in cui si possono leggere gli sviluppi futuri dell’arte di Pollock. Tra queste opere primeggia la serie, notevolmente complessa, di nove disegni a penna e inchiostro degli anni 1946-47, e le sei stampe a intaglio realizzate a New York tra l’autunno del 1944 e la primavera del 1945 presso il famoso Atelier 17 di Stanley William Hayter, dove realizzavano talvolta le loro stampe anche Joan Miró e altri affermati artisti europei, così come illustri “colleghi” dell’espressionismo astratto.
Un maestro americano: Jackson Pollock, 1930-1949. Mito e realtà
Suggestive sono anche le serigrafie del periodo successivo tratte dai dipinti in bianco e nero del 1950-53, angosciosi studi figurativi che esprimono un rinnovato e sconcertante ritorno a quello stile potentemente espressivo più turgido che Pollock sembrava avere abbandonato per sempre per prediligere l’astrazione lirica di opere “allover” come Lavender Mist (ora alla National Gallery di Washington) e lo sfarzo monumentale e la perfezione di Number 1, 1950 (New York, Museum of Modern Art). Sono opere evocative, con una propria dilatabilità ambientale e un flusso generoso e continuo di energia che segnano l’apoteosi di una evoluzione che ha il suo punto focale in Moon Vessel, opera cruciale dell’evoluzione di Pollock che preannuncia le sue famose pitture realizzate con la tecnica del dripping. Solo un anno dopo l’apoteosi di Number 1, si verifica un caratteristico quanto improvviso ritorno al nero versato, così angosciante nel Number 18, 1951, da cui ha origine una delle sue più pregevoli riproduzioni serigrafiche. Come le serigrafie evidenziano un chiaro nesso con i principali dipinti in bianco e nero, così i disegni figurativi dai segni appuntiti del 1946-47 svelano infinite informazioni sulle radici e le intenzioni visuali di Pollock, soprattutto per quanto attiene ai suoi legami con Picasso e l’automatismo, proprio come le stampe realizzate nel famoso atelier di William Hayter a New York. I disegni e le stampe, densi, complessi, decisamente barocchi nelle linee sottili ed energiche, si espandono sugli elementi sottili e organici che sono sviluppati più completamente e direttamente negli spruzzi di colore, nel colore versato e nei segni calligrafici di Moon Vessel. Dall’appassionato e cupo autoritratto giovanile e dalle prime audaci esplorazioni nell’astrazione, alle splendide stampe e ai magnifici disegni con il loro complesso e aggrovigliato intreccio di forme, fino alle essenziali immagini dei dipinti in bianco e nero della maturità, le opere esposte in questa mostra sono rappresentative dell’intera carriera di Pollock, presentandolo come un artista dalle doti impressionanti, eloquentemente espresse e realizzate a pieno. Date le sue origini certo non promettenti e la sua giovinezza così travagliata, non stupisce tanto che Pollock fosse dotato e che sia riuscito a realizzarsi in campo artistico, ma che riuscisse a tal punto a trionfare sui propri handicap personali da diventare il leader riconosciuto della New York School e un artista di primo piano in campo internazionale. A parte la leggenda che circonda la sua figura, vista come archetipo americano dell’eroe-martire, il successo di Pollock in quanto artista è certamente destinato a durare, mentre gli aspetti più torbidi della sua romanzata biografia con il passare del tempo cominciano, fortunatamente, a dissolversi.
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MICHELE EMMER
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Negli anni Cinquanta, ragazzino, avevo la grande fortuna di frequentare il mondo dei “cinematografari” (come si diceva allora) e degli artisti. Mio padre Luciano era famoso per i documentari sull’arte e aveva iniziato a realizzare i primi film. Ho incontrato così Flaiano e Pasolini, Fellini e Guttuso, Turcato e tanti altri. E ho continuato poi negli anni a conoscere ed incontrare artisti: Veronesi, Perilli, Munari, Max Bill, Fabrizio Clerici. Non ricordo se allora incontrai Pizzinato, ma certo i suoi quadri sì. Ricordo le grandi discussioni “ideologiche” sulla forma, sull’astrattismo, sull’arte contemporanea, insomma. Soprattutto con Turcato, che era spesso a casa, dato che Vana Caruso, sua compagna, era aiuto regista di mio padre. Discussioni che ora appaiono sfumate, svanite nel ricordo. Le forme, quelle sì, rimangono. I colori, la luce. Quelle bandiere rosse. Quando anni fa ci siamo trasferiti, anche se part time, a Venezia, non sapevo che saremmo andati ad abitare vicinissimi alla casa di Armando Pizzinato. E che avrei avuto più occasioni di visitare la casa e il giardino, e vedere i quadri, ammassati ovunque. E sono stato felice quando ho potuto fare pubblicare su L’Unità il quadro sul tema della pace, nato per un’altra guerra, anni prima, un’altra guerra, o la stessa, che non finisce mai. E avevo pensato da tempo che nella serie di mostre che si organizzano per l’incontro “Matematica e cultura” non doveva mancare un omaggio a Pizzinato. Già presente con alcune opere nel volume del convegno 2003 perché a lui il musicista veneziano Claudio Ambrosini ha dedicato l’opera Concavo/convesso. Scriveva Ambrosini: “Le sue tipiche forme, ora rigide, ora sinuose, disegnano volumi ed ambienti che chi guarda può vedere come concavi o convessi”. Non certo a caso Pizzinato è stato ispiratore di musica perché “i suoi motivi forma-colore sono armoniosamente legati alla sua sicura intuizione musicale”, ha scritto Rossella Florean. Un piccolo omaggio, a Venezia, la città dell’acqua: “senza quell’acqua, così vicina alla sua casa, non avrebbe potuto dipingere come ha dipinto; non avrebbe saputo spargere un colore tanto veneziano”, ha scritto Marco Goldin. A Venezia, la città del colore, della luce. Quella luce così vicina alla sua casa.
Armando Pizzinato
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A. Pizzinato, Strutture, serigrafia, 1975
matematica e cultura 2005
Armando Pizzinato è morto a Venezia nella sua casa nei pressi della Chiesa della Salute il pomeriggio del 17 aprile 2004. Al convegno “Matematica e cultura 2004” gli era stata dedicata una mostra di opere grafiche, mostra che si è svolta alla Galleria del Centro Internazionale della Grafica a Campo Sant’Angelo. Nel dedicare questo volume a Pizzinato abbiamo voluto inserire una sezione a lui dedicata in cui sono stati ristampati i testi contenuti nel catalogo realizzato per la mostra di grafica. In particolare i testi che Enzo Di Martino ha scritto sia per quel catalogo che per il volume realizzato dagli amici del Centro della Grafica Venezia per Armando Pizzinato. I più sinceri ringraziamenti a Di Martino. Un grazie anche a Patrizia Pizzinato per aver concesso di utilizzare alcune delle opere riprodotte in questo volume.
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Armando Pizzinato
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A. Pizzinato, Continuità I, serigrafia, 1975
matematica e cultura 2005
Armando Pizzinato, una avventura espressiva del XX secolo ENZO DI MARTINO
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Pizzinato è stato uno degli artisti italiani del quale è difficile raccontare la storia e ripercorrere il sentiero della ricerca espressiva, ma con il quale, tuttavia, bisognerà prima o poi fare i conti. È davvero difficile parlare di una personalità complessa nella quale l’arte e la vita sono state così intimamente intrecciate. Egli ha infatti attraversato quasi per intero, con straordinaria passione civile e una grande tensione poetica, un secolo contraddittorio e difficile come il XX appena concluso. Ha percorso nella sua strada sempre con rigore “morale” ed “intransigente severità critica”, verso orizzonti espressivi che ogni volta egli ha connotato con il marchio irrinunciabile della sua verità. Senza tenere conto dell’emozione che viene da una amicizia che mi ha legato a lui per oltre quarant’anni, pur nelle difficoltà che la sua natura aspra, spigolosa e tenera allo stesso tempo, spesso comportava. A Venezia era giunto nel 1930 per frequentare l’Accademia di Belle Arti, avendo la fortuna di incontrarvi come Maestro Virgilio Guidi del quale diverrà poi anche assistente per un breve periodo. Evitando così i pericoli del “lagunarismo” allora imperante in città e guardando piuttosto, come ha detto egli stesso più volte, alla lezione di Gino Rossi, purtroppo già da qualche anno internato a San Servolo. Senza dimenticare mai la sua terra d’origine, il Friuli, e Maniago, la città natale, dove avrebbe voluto lasciare un gruppo dei suoi dipinti negli angusti spazi delle ex carceri napoleoniche. E Poffabro, il borgo incantato della sua infanzia, quando sognava di diventare pittore ed al quale, negli anni Novanta, ha dedicato molto tempo per le ricerche documentate in un libro di fotografie impregnate da una lancinante nostalgia per un luogo dell’anima inesorabilmente perduto per sempre. Importante nella sua formazione appare anche il viaggio a Roma del 1936 – reso possibile dalla borsa di studio Marangoni – dove soggiornerà alcuni anni a contatto con Cagli e Mafai, Capogrossi e Guttuso.Volgendo però anche qui la sua attenzione ad un artista già scomparso, Scipione, del quale, ebbe a dire, trasse la lezione della sua “classicità espressionista”. Nel 1939 è di nuovo a Venezia, dove dominava allora la figura di Arturo Martini – Guidi era stato nel frattempo “esiliato” a Bologna – dove incontra i suoi compagni di riflessione sulla “nuova pittura”, vale a dire Santomaso e De Luigi, Vedova e Viani e il critico Giuseppe Marchiori. Nel 1943 Pizzinato è inevitabilmente partecipe della Resistenza e la sua casa diviene perfino una stamperia clandestina. Sarà arrestato nell’autunno del 1944 e uscì dal carcere di Santa Maria Maggiore solo dopo il 25 aprile del 1945. Ricominciò con immutato entusiasmo a riflettere sulla “pittura dopo Guernica”, icona indelebilmente fissata nell’immaginario dei giovani artisti europei di quel tempo.
Armando Pizzinato
A. Pizzinato, Continuità 2, serigrafia, 1975 277
A. Pizzinato, Laguna, serigrafia, 1975
matematica e cultura 2005
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Sono gli anni delle appassionate discussioni per dar vita ad una Nuova Secessione che faceva capo alle teorizzazioni critiche di Giuseppe Marchiori e che sfocerà nel 1946 nella costituzione del Fronte Nuovo delle Arti, un gruppo al quale, oltre Pizzinato, aderivano artisti quali Santomaso e Vedova, Guttuso e Viani, Corpora e Turcato, Birolli e Leoncillo, Morlotti e Franchina. Il gruppo sarà consacrato alla Biennale del 1948, la prima del dopoguerra, in occasione della quale Peggy Guggenheim, appena giunta a Venezia per esporre la sua strepitosa collezione d’arte del XX secolo, comprò proprio un dipinto di Armando poi donato al Modern Art Museum di New York. Nello stesso momento, tuttavia, emersero anche i contrasti con le direttive realiste del PCI che determinarono la spaccatura del gruppo: da un lato gli astrattisti che poi confluirono nel Gruppo degli Otto (Santomaso, Vedova, Corpora, Turcato), dall’altro gli artisti che per ragioni ideologiche aderirono al movimento del Realismo, come Guttuso e lo stesso Pizzinato. Egli fece una scelta, in questo senso, simile a quella del francese Jean Helion, abbandonando progressivamente l’astrattismo praticato tra il 1946 ed il 1948, e già nel Fantasma del 1949-50 annunciando l’adesione a Realismo che nel 1950 lo porterà a dipingere quadri come Terra non Guerra e I difensori delle fabbriche. Sarà una scelta che la cecità del sistema dell’arte gli farà pagare duramente emarginandolo, senza tenere conto che il cinema italiano del Realismo produceva nello stesso momento alcuni capolavori della sua storia e che tra il 1953 ed il 1956 Pizzinato realizzava gli affreschi di Parma, tra le opere più belle ed importanti del Realismo italiano. La morte della compagna Zaira accentuerà l’isolamento di Armando che solo l’amico e storico dell’arte Giuseppe Mazzariol riuscirà a rompere incoraggiandolo a dipingere nel 1962 i Giardini di Zaira, un ciclo che lo riporterà sulla scena dell’arte. Nel 1967, non a caso, gli vengono dedicate grandi mostre a Berlino, Mosca ed all’Ermitage di Leningrado. Verranno poi le Betulle nel 1970, viste durante il viaggio in Russia, i Gabbiani del 1973 e, verso la fine degli anni Settanta, le Falci o Composizioni che riportano Pizzinato al punto in cui aveva interrotto la sua ricerca espressiva di valenza inoggettiva, connotata da una lirica visione fatta di forme in movimento nello spazio. Nel 1981 Venezia gli dedicherà una grande mostra retrospettiva, curata da Giovanni Carandente, allestita al Museo Correr. Negli ultimi anni Pizzinato ha però vissuto come ripiegato in se stesso, impegnato a riflettere intensamentesul valore delle sue scelte artistiche ed esistenziali, in un isolamento interrotto solo dalla mostra sulla sua stagione realista, che ho personalmente curato nel 1986 al Museo di Carpi e dalla vasta rassegna retrospettiva dedicatagli da Marco Goldin nel 1996 a Villa Manin di Passariano. Appare chiaro, infine, che Armando Pizzinato è stato sempre impegnato in una intensa ed ansiosa ricerca della verità nell’arte e nella vita. È per questa ragione che egli costituiva un riferimento morale, oltre che artistico, per tutti noi più giovani. Un riferimento che ci mancherà dolorosamente nel futuro.
Armando Pizzinato
279 A. Pizzinato, La finestra sul mare, 1949, olio su compensato, 164x200, Parma, CSAC dell’Università
A. Pizzinato, Dragamine e faro, 1947
matematica e teatro
Bustric raccontato da Bustric SERGIO BINI/BUSTRIC
Capita a “Pippo ci cocco” la proposta che Michele Emmer mi ha fatto con una telefonata sintetica e precisa: “Sergio, scrivi del tuo lavoro, di te. Puoi mettere molte foto, anche a colori, tempo e spazio sono illimitati.” “Grazie, accetto con piacere l’invito, sto preparando il mio nuovo spettacolo e scrivere un articolo su di me mi aiuta a fare il punto della situazione e a capire dove sono in questo momento.” Mi chiamo Sergio Bini, in arte Bustric. Bustric è un nome inventato all’inizio della mia carriera d’attore, mago, giocoliere, autore. Mi considero un artigiano dello spettacolo, perché partendo da un’idea costruisco il mio lavoro facendo da solo, o quasi, tutti i passaggi necessari: dalla costruzione degli oggetti, alla regia, alla scrittura, fino ad arrivare alla rappresentazione finita. Bustric è un nome astratto e inventato che non significa niente. Bustric è un nuovo personaggio. Bustric sono io che faccio Bustric. Bustric conosce quello che io conosco. Ho fatto una scuola di circo, quella di Piere Etaix e Annie Fratellini, ma anche di mimo da Decroux, a Parigi, l’università a Bologna, il D.A.M.S. per precisione, e alcuni seminari, fra cui quello con Grotowski e Strasberg. Viaggio il mondo e rappresento i miei spettacoli ovunque: ovunque sia possibile. A Gerusalemme, per esempio, dovetti rinunciare. Ho sempre associato il mio lavoro all’idea del viaggio. Parlo un po’ di lingue e mi aiuto con i gesti. Pur lavorando da solo, non rappresento dei monologhi, perché considero il giocoliere, il gioco di prestigio e la pantomima dei compagni di lavoro, il testo e l’azione per me sono inscindibili. In genere non mostro un esercizio d’abilità se non è funzionale al racconto, perché, anche se la sorpresa e la meraviglia mi piacciono, è il racconto che privilegio. Il teatro di varietà è solo un importante punto di riferimento. Le barzellette non mi piacciono, far ridere con le barzellette è come vincere una partita di calcio ai rigori.
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Fig. 1. Per gentile concessione di E. Pujalet-Plaa
Sono un comico metaforico, perché parlo di una cosa per dirne un’altra. Nella comicità credo ci debba essere sempre un fondo drammatico, che divenendo comico esprime speranza e, a volte, poesia. Definire Bustric per me è molto difficile, lo considero un po’ come mio fratello gemello, così gemello che si confonde con me, cresciamo insieme. Ho cominciato la mia carriera di spettacolo alla fine degli anni Settanta, all’epoca nessuno mi avrebbe comprato lo spettacolo, così sono andato nelle piazze, dove c’è sempre pubblico, dove ero libero di scegliere il giorno e l’ora della rappresentazione e dove, se lo spettacolo non piaceva, potevo semplicemente andarmene, un po’ triste è vero, ma senza aver ingannato, né il pubblico, che pagava solo se voleva, né l’organizzatore, perché non c’era. La piazza mi ha insegnato a sentire e controllare il pubblico e che un palco-
Bustric raccontato da Bustric
scenico è un luogo inadatto per nascondersi. Nella strada si deve essere presenti a tutto ciò che accade, senza perdere la concentrazione. Un incidente in scena non può essere ignorato. Se un cane arriva e abbaia o un ubriaco interrompe, diventa immediatamente parte dello spettacolo, bisogna saper dire qualcosa per metterlo nel gioco, altrimenti il disturbo disturberà veramente e indebolirà lo spettacolo. Immaginate che le campane suonino all’improvviso mentre state recitando il monologo d’Amleto, non potete certo continuare a parlare, sarebbe inutile, non
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Fig. 2. Per gentile concessione di Lepera
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potete nemmeno fermarvi e aspettare, perdereste il pubblico così faticosamente radunato. Io vi consiglierei d’improvvisare un balletto sul suono delle campane. Il pubblico riderà, se il balletto è buffo, e quell’incidente vi farà guadagnare in simpatia. Il pubblico in strada è sensibile all’intelligenza, improvvisare è necessario. Quando dico nascondersi in scena, voglio dire nascondersi dietro le battute imparate a memoria, o gli esercizi ripetuti mille volte tanto da renderli automatici. Ogni frase e ogni esercizio è frutto di un pensiero che deve sembrare spontaneo e nato in quel momento. La scena è un momento di vita, ignorarlo significherebbe rendere falsa la rappresentazione, che è artificiale, ma non falsa. Credo che lo spettacolo sia un evento irripetibile, ogni rappresentazione è unica, perché è l’unione di tre elementi distinti. Il primo è la rappresentazione, come montaggio tecnico di testo, azioni, scene e costumi, poi c’è l’attore e infine il pubblico. Il pubblico cambia sempre e anche l’attore è sempre un po’ diverso, non sovrapponibile. “L’arte è un mistero”, mi disse una volta un cantastorie siciliano. Aveva ragione? Forse sì. Certo è che c’è sempre un po’ di paura prima di cominciare uno spettacolo, la riuscita non è mai sicura, per questo gli attori sono scaramantici e credono alla fortuna. Fare lo spettacolo per me è sempre, anche oggi, fare un salto in uno spazio sconosciuto, ogni volta nuovo. Tiro un respiro profondo e comincio. Cerco di essere il più possibile sensibile allo spazio scenico e al pubblico, devo in un certo senso aprirmi e lasciarmi vivere nella situazione che ho deciso e scritto. Lo spettacolo non occupa solamente l’ora della rappresentazione, ma tutto il giorno. Non potrei scrivere un racconto o fare un altro lavoro creativo, o anche semplicemente visitare un museo: devo conservare per la sera quella parte d’energia creativa, e di voglia di scoperta che ho. Per questo mi piace andare in teatro presto e preparare io stesso gli attrezzi di scena. In genere faccio una passeggiata, osservo la gente, prendo il respiro della vita e guardo com’è facile essere. Il margine di rischio nel mio lavoro è naturale, ma il rischio è anche uno degli elementi vitali del teatro. Qui riporto un volantino che regalavo quando giravo nelle piazze, in cambio della mancia che il pubblico mi dava (Fig. 3). Adesso vi parlerò del mio lavoro da un punto di vista più tecnico. Supponete che io mi appoggi a un bastone immaginario come fanno i mimi. Il mimo non usa oggetti ma finge di averli. Si ha l’illusione così che io sia veramente appoggiato ad un bastone, ma il bastone non c’è. Se al posto del bastone immaginario io metterò una sciarpa vera, il pubblico penserà che la sciarpa diventi rigida come un bastone. Avrà un dubbio: “È un gioco di prestigio o di Pantomima?” Questo ponte fra due tecniche è un po’ la chiave del mio lavoro. Non mi sono mai specializzato in un’arte in modo ossessivo, ma mi sono sempre messo a mescolare a trasforma-
Bustric raccontato da Bustric
Fig. 3. Volantino 287
re le cose che avevo imparato: un po’ di giocoliere, magia, danza, cammino sul filo, una caduta. D’altra parte la pantomima ha molte cose in comune con la prestidigitazione. Entrambe creano illusione, ma con una differenza sostanziale: il mimo rende magica la presenza di un oggetto che è proprio magico perché non c’è, mentre il mago rende magica la presenza di un oggetto che non c’era e che magicamente appare davvero. Tutti sono attori, il mago è innanzi tutto un attore che recita il ruolo del mago. Tutte le arti dello spettacolo hanno dei punti in comune, sarebbe un peccato dividere il gesto dalla voce, spesso una voce nasce da una postura, da una smorfia del volto, da un gesto, appunto. Un personaggio ha, oltre alle caratteristiche psicologiche, delle precise caratteristiche fisiche, ed è la precisazione di entrambi che lo fa nascere. Le intonazioni nascono dai pensieri, non viceversa. È bello costruire, inventare, sperimentare. A volte, ho la sensazione di fabbricare dei giocattoli. La ricerca è continua ed è appassionante, e faccio fatica a chiamarla lavoro. Lavorare bene mi dà piacere, se ciò non accade vuol dire che sto sbagliando qualcosa. Credo di aver iniziato questo modo di fare spettacolo, per una ragione molto pratica, ovvia: non potevo fare diversamente.
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Fig. 4. Per gentile concessione di M. Agus
Dovendo lavorare in piazza, infatti, era indispensabile creare fiducia nel pubblico, mostrare loro che si è capaci di fare qualcosa di eccezionale. Keaton disse: “Perché fare una cosa difficile se con un piccolo sforzo può diventare impossibile”. Il pubblico in piazza va conquistato ogni volta, è occasionale e involontario, diviene spettatore solo nel momento in cui si ferma e assiste in piedi, magari al freddo, forse con la borsa della spesa in mano. Diviene spettatore pagante solo se mette i soldi nel cappello, dopo aver visto lo spettacolo: ce ne vuole d’abilità per convincerlo. Allora un gioco di prestigio, o di giocoliere, divengono ottimi agganci per colpire in maniera rapida ed efficace. Poi si potrà fare la commedia, giocare di sottigliezza, ma il primo impatto deve essere forte. Non è un caso che il mondo del circo si sia sviluppato in quel senso, è per necessità che mi sono trovato a costruire gli spettacoli unendo varie abilità. Cerco nello spettacolo un equilibrio fra spettacolarità e racconto. Il mio fine
Bustric raccontato da Bustric
non è fare dei giochi di prestigio, meglio essere un attore vero che un mago finto. È vero che di creduloni il mondo è pieno, vorrei ricordare una frase di Chesterton: “Quando gli uomini non credono più in Dio, non è che non credano più a nulla. Credono a tutto”. Molte cose sono accadute da quando ho cominciato a fare spettacolo. Smisi di lavorare in piazza dopo alcuni anni, poiché non era più necessario. Non rinnego quel periodo, anzi considero ancora la piazza un’ottima scuola e, perché no, un modo di superare un momento di crisi. Da molti anni lavoro in teatro e cinema, anche in televisione, ma senza esagerare. Sto preparando, come dicevo, un nuovo spettacolo. E questa volta, anche se la tentazione di fare drammaturgia e regia contemporaneamente è sempre molto forte, procedo separando il momento della costruzione delle azioni da quello della scrittura del testo. Desidero scrivere senza preoccuparmi, seguendo unicamente il piacere e il senso della storia. Senza le limitazioni che in genere si hanno per incastrare un effetto magico o una pantomima. Vorrei un testo che stesse
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Fig. 5. Per gentile concessione di M. Buscarino
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290 Fig. 6. Per gentile concessione di M. Agus
in piedi da solo e non perché lo rappresento io. Poi mi dedicherò al doppio scenico, all’apparato visivo, alla regia. Alcuni elementi della nuova storia sono lo spazio, che diviene tempo. Mi spiego, parlo di un personaggio che viene da lontano (non importa da dove) e quando dice “nel mio paese si fa questo”, diviene un ricordo del tempo passato. Così lego la memoria ad uno spazio e non al tempo. Il protagonista è un personaggio di nome Nuvolo che vede cose che altri non vedono, si trasforma in modo bizzarro, un po’ come se i suoi pensieri prendessero forma. Un personaggio che viaggia stando fermo e mette in dubbio qualsiasi cosa, non chiamerebbe mai un albero semplicemente albero, perché osservandolo vede che ogni foglia è un po’ diversa e ha quindi ha bisogno di dare un nome ad ognuna delle foglie. Per dire “albero” gli occorre un quarto d’ora, troppo stupido o troppo intelligente. È un miscuglio fra pensieri profondi e osservazioni ridicole, non per fare obbligatoriamente il buffone, ma perché è ciò che vede e capisce. Non è colpa sua se nelle parole ci sono infiniti significati, che dipendono dall’intonazione, dal pensiero che svelano, dire “Ma!” Con un sospiro può significare dubbio e speranza. Dire “Ma! Ma!”, raddoppia quell’incertezza e speranza, ma letto velocemente diviene anche “Mamma!” cioè, mamma, madre d’incertezza e di speranza.
Bustric raccontato da Bustric
Il dubbio e la speranza, sono la nostra origine. La storia di Nuvolo ancora la sto cercando, mi servirà forse un altro personaggio, pensavo ad un topolino in gabbia, forse ci si accorgerà che Nuvolo è semplicemente un carcerato che ha tempo da perdere, o il cameriere del bar sotto casa innamorato della cassiera. Mi rendo conto che sono più le domande che le risposte, ma porre bene la domanda è già qualcosa. Sono certo che la soluzione è vicina, magari è lì e semplicemente non la vedo. Una cosa che Artaud aveva scritto e che mi colpì molto era: “l’uomo scoprì la ruota molti anni dopo che già suo figlio ci giocava.” Nuvolo ha anche la capacità di distrarsi, di essere in pratica un cattivo allievo, come io stesso sono stato. Credo che il mio modo di fare spettacolo nasca anche da questo, dalla mia particolare attitudine a distrarmi: praticamente un discorso troppo lungo finisce sempre con l’annoiarmi, mi obbliga a fantasticare. Già dai tempi del liceo, mi perdevo in immagini che non avevano niente a che fare con la lezione, era il mio bisogno d’immagini. Buffo come un difetto di allora sia diventato un mezzo utile ed importante. Parlare con voi mi fa proprio bene, mi rendo conto di come tutto abbia un senso logico e di come, di fatto, sia semplice. E dire che ognuno vorrebbe essere eccezionale! È il percorso che m’interessa, il risultato è una normale conseguenza, alla fine uscirà fuori ciò che si è, ciò che si è sempre stati. Per fare apparire un oggetto lo si deve per forza aver nascosto da qualche parte, altrimenti non apparirà mai. In fondo la bellezza del mio mestiere, ma forse anche del vostro, è che fa crescere. Capite come in tutto questo la convenienza, la moda, anche la globalizzazione, abbiano poco a che fare. Rifiutai di divenire ospite fisso a Buona Domenica quando Costanzo me lo propose, considero che la mia inadattabilità a certi schemi non mi abbia danneggiato, ma protetto. Bustric e Sergio Bini vi ringraziano per la vostra attenzione e, naturalmente, siete invitati allo spettacolo. “Mi chiamo Nuvolo, sempre, anche quando sono di buon umore come oggi che si può dire che sono sereno!”
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Autori
Martin Bálek
Dipartimento di Matematica Applicata e Istituto di Informatica Teorica (ITI), Charles University, Praha, Repubblica Ceca
Chiara Bertini
Dipartimento Matematica Politecnico di Torino
Sergio Bini/Bustric
Artista, fantasista, Firenze
Jean-Marc Castera
Artista, architetto Paris, France
Elisabetta Cordero
Met Office, FitzRoy Road, Exeter, UK
Giuseppa Di Cristina
Università “La Sapienza”, Roma
Enzo Di Martino
Critico d’arte, Venezia
Simonetta Di Sieno
Dipartimento di Matematica Università degli Studi di Milano
Angela Elster
Learning Through the Arts The Royal Conservatory of Music, Toronto, Canada
Michele Emmer
Dipartimento di Matematica Università “La Sapienza”, Roma
Andrea Frova
Dipartimento di Fisica Università “La Sapienza”, Roma
Franco Ghione
Dipartimento di Matematica Università “Tor Vergata”, Roma
Sam Hunter
Storico di arte contemporanea Princeton University
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Autori
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Jaroslav Nesˇetrˇil
Dipartimento di Matematica Applicata e Istituto di Informatica Teorica (ITI), Charles University, Praha, Repubblica Ceca
Germana Peggion
University of New Orleans, CERM BLDG, Lakeshore Dr., New Orleans, USA
Luigi Preziosi
Dipartimento Matematica Politecnico di Torino
Siobhan Roberts
Scrittrice, Toronto, Canada
Giovanni Sarpellon
Dipartimento di Scienze Economiche Università Ca’ Foscari, Venezia
Gianpaolo Scalia Tomba
Dipartimento di Matematica Università “Tor Vergata”, Roma
Gian Marco Todesco
Digital Video Srl, Roma
Cristina Turrini
Dipartimento di Matematica Università degli Studi di Milano
Donatella Sartorio
Giornalista, Milano
Richard P. Taylor
Physics Department, University of Oregon, Eugene Oregon, USA
Marcela Villarreal
Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Agricoltura e l’Alimentazione Dipartimento per lo Sviluppo Sostenibile, FAO, Roma
Peggy Ward
Learning Through the Arts The Royal Conservatory of Music, Toronto, Canada
Asia Ivic´ Weiss
Department of Mathematics and Statistics York University, Toronto, Canada
Collana Matematica e cultura
Volumi pubblicati M. Emmer (a cura di) Matematica e cultura Atti del convegno di Venezia, 1997 1998 – VI, 116 pp. – ISBN 88-470-0021-1 (esaurito) M. Emmer (a cura di) Matematica e cultura 2 Atti del convegno di Venezia, 1998 1999 – VI, 120 pp. – ISBN 88-470-0057-2 M. Emmer (a cura di) Matematica e cultura 2000 2000 – VIII, 342 pp. – ISBN 88-470-0102-1 (anche in edizione inglese) M. Emmer (a cura di) Matematica e cultura 2001 2001 – VIII, 262 pp. – ISBN 88-470-0141-2
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M. Emmer, M. Manaresi (a cura di) Matematica, arte, tecnologia, cinema 2002 – XIV, 285 pp. – ISBN 88-470-0155-2 (anche in edizione inglese ampliata) M. Emmer (a cura di) Matematica e cultura 2002 2002 – VIII, 277 pp. – ISBN 88-470-0154-4 M. Emmer (a cura di) Matematica e cultura 2003 2003 – VIII, 279 pp. – ISBN 88-470-0210-9 (edizione inglese in prep.) M. Emmer (a cura di) Matematica e cultura 2004 2004 – VIII, 254 pp. – ISBN 88-470-0291-5 M. Emmer (a cura di) Matematica e cultura 2005 2005 – X, 291 pp. – ISBN 88-470-0314-8
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Per ordini e informazioni consultare il sito springeronline.com
A. Pizzinato, Gabbiani, 1974 (pp. 271-279)
A. Pizzinato, Cantiere, 1948 (pp. 271-279)
A. Pizzinato, Il giardino di Zaira, 1963 (pp. 271-279)
A. Pizzinato, Laguna, serigrafia, 1975 (pp. 271-279)
A. Pizzinato, Un fantasma percorre l’Europa, 1949-1950, tempera-olio su tela, cm. 255x298, Venezia, Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro (pp. 271-279)
Giovanni Barovier, 1881, piatto con murrine floreali su fondo nero, ∅ 225 mm (pp. 55-71)
Giuseppe Barovier, ca. 1915, fiori, L 3-29 mm (pp. 55-71)
Vincenzo Moretti, 1873, murrine a mosaico, ∅ 18-20 mm (pp. 55-71)
Giacomo Franchini, 1862, Cavour, ∅ 6 mm (pp. 55-71)
Mario Dei Rossi, 1998-1999, murrine figurate, ∅ 19-21 mm (pp. 55-71)
Disegno del piano della cupola (pp. 101-110)
Analisi delle dimensioni: il trangolo impossibile (pp. 101-110) Disposizione a mouqarnas degli spicchi negli angoli: rilievo a mano e rappresentazione esatta. Tutti i pezzi sono regolari (pp. 101-110)
Raccordo del tamburo ottagonale con i quattro muri della sala, con i raccordi negli spigoli adornati da mouqarnas (pp. 101-110) Stella pentagonale, irregolare malgrado le apparenze (pp. 101-110)
Immagine dell’allestimento della mostra matemilano, Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia, Milano, 2003-2004. (Fotografia di S. Provenzi) (pp. 155-169)
Arnaldo Pomodoro, Rotante dal foro centrale, 1966; bronzo, ø 60 cm. (Fotografia di S. Provenzi) (pp. 155-169)
“mateMILANO”. (Fotografia di S. Provenzi) (pp. 155-169)
Fig. 6. Particolare di camicia della collezione di Gianfranco Ferrè (pp. 155-169)
Disegno di Vittorio Zecchin (pp. 155-169)
J. Pollock, Circoncisione (Circumcision) gennaio 1946. Olio su tela 142,3 x 168 cm. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia (Fondazione Solomon R. Guggenheim, NY) (pp. 257-267) J. Pollock, Senza titolo (Untitled) 1946 circa. Gouache e pastello su carta, 58 x 80 cm. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia (Fondazione Solomon R. Guggenheim, NY) (pp. 257-267)
Sezioni tridimensionali del granesacosicoro (pp. 43-52)
I piani che contengono le facce del dodecaedro tagliano la sfera in un gran numero di frammenti. Il colore indica il numero di piani che separano ogni frammento dal dodecaedro centrale (pp. 43-52)
Veduta del fronte del Museo Guggenheim a Bilbao (1991-1997) progettato da Frank Gehry (Foto di Francesco Isidori) (pp. 129-141)