MARGARET MILLAR OCCHI NEL BUIO (Wall Of Eyes, 1943) 1 La ragazza e il cane procedevano a passo svelto lungo il marciapie...
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MARGARET MILLAR OCCHI NEL BUIO (Wall Of Eyes, 1943) 1 La ragazza e il cane procedevano a passo svelto lungo il marciapiede. La bestia si faceva strada tenendo gli occhi intelligenti fissi davanti a sé. Quando giunsero presso una buca dell'asfalto, la ragazza avvertì attraverso il guinzaglio uno strattone lieve ma deciso, e si spostò per evitarla. "Mi piacerebbe sapere se ha capito che non sono cieca" pensò Alice. Il cane si fermò all'angolo, levò il muso al traffico e scese dal marciapiede per attraversare. Alice lo seguì sorridendo leggermente. "È una bestia coscienziosa" pensò, "fa il suo dovere ma questo lavoro non deve piacergli." Quando ebbero attraversato la strada si chinò e con la mano libera lo accarezzò lievemente sulla testa. — Sei un buon cane. Bravo, Prince. La bestia scostò la testa con un gesto di insofferenza e continuò ad avanzare, calpestando le foglie secche. Verso la fine di St. George Street, Alice rallentò il passo e si mise ad osservare i numeri delle porte. Un giovane elegante veniva verso di lei sullo stesso marciapiede. Quando ebbe notato il cane, si fermò e domandò gentilmente: — Posso esservi utile? Alice girò la testa e vide che l'uomo aveva, appiccicata tra i capelli, una foglia umida. Cercò di rendere il suo sguardo vacuo come quello di sua sorella Kelsey. — Grazie — disse — sto cercando la casa del dottor Loring. — È la casa dopo questa — disse lui guardandola con timida curiosità. — Posso accompagnarvi, se volete. — No, grazie — rispose Alice — con l'aiuto del cane riuscirò a trovarla. Prince era già scattato avanti, avendo avvertito attraverso il guinzaglio il lieve movimento della mano di lei. Si avviarono e Alice ebbe la tentazione di voltarsi a vedere se il giovane si era fermato a guardarla, ma continuò a camminare, tenendo gli occhi fissi sul dorso di Prince. Un lieve sorriso le aleggiava sulle labbra. L'aveva divertita il timido e zelante giovanotto, completamente ignaro del bizzarro ornamento che portava tra i capelli e che gli conferiva un'aria stravagante e buffa.
Insieme al sorriso di superiorità, Alice sentì riaffiorare dal profondo l'antico senso di paura e disagio che conosceva così bene. Forse il disagio le veniva dal fatto che lei, Alice Heath, potesse divertirsi di un particolare così sciocco. La casa era vecchia, ma il prato antistante era ben tenuto e la targa di ottone con la scritta "dr. T. Loring" brillava come un piccolo sole. Sulla veranda un cartello diceva: "Suonate prima di entrare". Alice suonò il campanello e aprì la porta con i gesti precisi e marcati di chi si sente osservato. Poteva esserci qualcuno, a spiare dietro le tendine della finestra. La sala d'aspetto era deserta. Aveva temuto di trovarvi gente e tuttavia non ne fu sollevata. Il senso di paura che era continuamente in lei, sembrava trovare sempre nuovi motivi di cui alimentarsi. Paura di Kelsey, dello scandalo, paura del medico e infine di essersi sbagliata. Poteva darsi che questo non fosse un bravo medico. Rifiutava di pensare a lui come a uno psichiatra, si impediva di formulare la parola stessa, di lasciarla salire alle labbra. Il cane era accucciato ai suoi piedi, in posa vigile. Alice sentì che la porta si apriva ma non si voltò subito. Attese finché il dottore parlò. — La signorina Heath? Depose con gesto lento e studiato la rivista, raccolse i guanti e solo allora si girò verso di lui. Non aveva un aspetto che incutesse paura. Non portava neppure il camice bianco e non aveva niente di diverso dagli altri uomini; nulla che facesse pensare a una persona che ha a che fare con segreti personali, di cui la gente normalmente non parla. Tuttavia un'ondata di inquietudine la assalì nuovamente e un gesto involontario della mano trasmise al guinzaglio uno strattone che fece balzare Prince, fremente di attesa. — Sono il dottor Loring — disse l'uomo guardando il cane con espressione incerta. — È vostro il cane? Lei rimase in silenzio scuotendo leggermente la testa. Aveva una voglia pazza di fuggir via e gridargli mentre correva: "Non posso parlare con voi! Siete troppo giovane!". Restò ferma e si accontentò di infilare un guanto. — È il cane di mia sorella — spiegò. — Mia sorella Kelsey è cieca. — Ah, capisco — disse lui come se questo chiarisse ogni cosa. — Siete venuta per vostra sorella? — Sì. — Allora, entrate — disse. Il tono era professionale. Si fermò prima di
varcare la porta dello studio accennando al cane. — Volete fare entrare anche lui? — No — rispose lei in fretta. — Oh, no. — Ah — fece l'altro con la stessa nota di affettazione come se un pensiero sotterraneo si facesse strada nella sua mente. — Ah ah, tutto è chiaro ora. Alice entrò nello studio, sfilandosi di nuovo il guanto e sorridendo nervosamente per mascherare l'irritazione. Loring si chiuse la porta alle spalle, con un colpo sonoro e cominciò a spostare rumorosamente gli oggetti che gli capitavano sotto mano. Accostò alla scrivania la seggiola riservata ai pazienti, spostò la sua, cambiò posto alla lampada sullo scrittoio. Infine rimise alcune carte nel mobile-archivio e richiuse lo sportello con un colpo. Alice lo seguiva con lo sguardo, sentendo il suo nervosismo cedere sotto questo fiotto di rumorosa energia. Quando Loring vide che lei aveva smesso di cincischiare i guanti, si sedette dietro la scrivania. — Avete fatto bene — disse lei. — Bene che cosa? — domandò il medico con un'inflessione sospettosa, come se stesse sulla difensiva. — Avete cercato di mettermi a mio agio. Naturalmente non è facile. Se foste più vecchio forse... — No, avreste le stesse difficoltà — rispose piccato. — Vi sentite così perché siete venuta per un'altra persona. Se foste voi la paziente non vedreste l'ora di vuotare il sacco. Cominciò a scrivere rapidamente su un blocco di fogli, alzando di tanto in tanto gli occhi per gettare ad Alice una rapida occhiata. — Quanti anni ha vostra sorella? — Ventisei. Due anni meno di me. — Altri fratelli o sorelle? — Un fratello, John. Ha trent'anni. — Genitori? — Mia madre è morta di cancro un anno e mezzo fa, poco dopo che Kelsey perse la vista. — È stato un incidente? — Sì. — Lei notò l'impercettibile smorfia di impazienza di Loring. — Devo raccontarvi come è accaduto? — Vostro padre è ancora vivo? — Sì.
— Bene. Ora raccontatemi dell'incidente. — Kelsey guidava l'auto di mio fratello Johnny quella notte. Stavano andando a ballare, a una festa... — Chi c'era nella macchina? — Johnny e la sua ragazza oltre a Kelsey e a Philip James. La ragazza restò uccisa. — Ah! — il dottore alzò la testa con interesse. — La ragazza morì e vostra sorella perdette la vista. Guidava vostra sorella, avete detto. Era una sua amica, la ragazza? — No. Era una delle ragazze di Johnny. Kelsey non l'aveva mai vista prima di allora. — E Philip James? Alice girò la testa e guardò fuori dalla finestra. — Philip era... è il fidanzato di Kelsey. — Era, o è? — interrogò il dottor Loring. — Perché questo cambiamento di tempi? — Mi sono sbagliata — disse. — È il fidanzato di mia sorella. È stato un lapsus. — Bene. — Il dottore posò la penna, si passò una mano sugli occhi e rimase in silenzio in attesa che Alice proseguisse. — Lui vuole sposarla, ma Kelsey non vuol saperne, continua a farlo aspettare, da due anni a questa parte. Philip vive in casa con noi, in attesa che lei si decida. Erano fidanzati all'epoca dell'incidente. Parlava con lentezza come se, proiettata nel passato, dovesse farsi strada tra una folla di fantasmi. — Quando Kelsey ritornò dall'ospedale sapeva già che non avrebbe più riacquistato la vista, che sarebbe rimasta cieca. Non ha fatto aspettare Philip "in attesa" di conoscere la propria condanna. Fin da allora Kelsey immaginava la verità, e mia sorella non è tipo da ricorrere a illusioni pietose per attenuare il colpo. — Alice rimase per qualche momento in silenzio e sembrò ritornare alla realtà. — Così Philip aspetta. Non parlano neanche più di matrimonio, lei non affronta spiegazioni, e così tutto rimane in sospeso. Qualche mese fa, smise di portare l'anello di fidanzamento. Diceva di averlo perduto. Qualche tempo dopo assunsi una nuova cameriera; si chiama Ida. Circa due settimane fa mi accorsi che la ragazza portava l'anello di fidanzamento di Kelsey, infilato sul mignolo. Kelsey stessa glielo ha regalato. — Strano — commentò Loring.
— Nessuno ha notato la cosa e io non ne ho parlato a Kelsey ma so che lei vuole che sia io ad affrontare l'argomento. Lo capisco dal suo atteggiamento di sfida. — Fece una pausa per riprender fiato. — È stanca di Philip, qualche volta sembra addirittura che lo odii, tuttavia non vuole lasciarlo libero. Il dottore aveva ricominciato a scrivere. Il vederlo prender nota d'ogni fatto irritò Alice. — Non vorrei che scriveste queste cose — disse seccamente. — Perché no? Non sono vere? — Certo che lo sono. Come potete chiedere una cosa simile? Credete che avrei affrontato questo poco gradevole colloquio, questo "oltraggio" per venire a raccontarvi un sacco di bugie? Loring era ancora troppo giovane e inesperto per non sentirsi punto dal tono della ragazza, dalla parola "oltraggio"; ma cercò di conservare il sorriso. Si sforzava di pensare che l'antagonismo tra lui e la ragazza fosse del tutto naturale; faceva parte delle normali reazioni dei pazienti che venivano a consultarlo. Il fatto di essere coetanei, poi, peggiorava la situazione. Alice Heath era il tipo di ragazza che istintivamente, automaticamente riconosce nell'uomo il suo nemico. Aveva l'aria di una che si cambia d'abito un paio di volte al giorno e che si mette il rossetto in modo che nessuno possa notarlo. Certamente torcerebbe il naso, sverrebbe quasi se fosse costretta a prendere l'autobus in una giornata di pioggia. La vicinanza e l'odore di altri esseri umani la urterebbero troppo. "Che genere di famiglia, di genitori può avere questa ragazza?" si domandava Loring. — Quanti anni ha vostro padre? — domandò bruscamente. — Cinquantatré. Intendete continuare a interrogarmi o devo parlare io? — Parlate pure. — Non è stato leale da parte mia parlarvi di Kelsey senza prima avervi descritto il nostro ambiente. Noi siamo tutti... un po' strani, ad eccezione di Johnny. Avrete certo conosciuto famiglie dove le parole non dette hanno maggior peso di quelle che si dicono. Dove tutto ciò che accade è vissuto in sordina, velato da pensieri nascosti, da sentimenti segreti... Mi capite? — Gente introversa — suggerì Loring. — Ecco, introversi — ripeté Alice — volti verso la propria interiorità e quella dei familiari. C'è sempre un'atmosfera particolare in casa nostra. Basta per esempio che a tavola ci sia un piatto che non piace a Kelsey, perché la sala da pranzo sia subito satura di elettricità. Poco piacevole, no?
— Non deve esserlo certo — ammise lui sorridendo. — Solo Johnny non è così. Naturalmente avverte anche lui l'atmosfera, ma se ne stupisce soltanto. È un ragazzo molto semplice. — Semplice è una parola vaga. Può voler dire tante cose. — Non è uno sciocco — disse lei con voce tagliente. — Volevo dire che è facile intuire le sue reazioni. — Capisco; una persona alla buona, insomma. — Sì, anche mio padre doveva essere così, molto tempo fa. Mia madre e lui non si volevano bene, si odiavano. Egli annuì come se le parole della ragazza confermassero una sua ipotesi. — I figli di coppie male assortite — disse — sono spesso eccessivamente sensibili, abituati come sono a percepire i minimi indizi di tensione. Temono i litigi e proprio per questo percepiscono ogni segno premonitore della tempesta. — Non ci sono mai stati "litigi" in casa nostra. Loring fu colpito dalla reazione della ragazza. Sembrava che non le fosse stato facile parlargli della propria famiglia, descriverne i componenti come gente nevrotica e strana. I tipi nevrotici allignano nelle migliori famiglie... non poteva però ammettere che accadesse una cosa volgare come le liti in famiglia. La sola idea era sufficiente ad alterarle la voce. Fece uno sforzo su se stessa per ritrovare il tono distaccato della persona colta, per scegliere accuratamente le parole esatte, le frasi ricercate. — No; niente litigi; semplicemente un'atmosfera oscura, densa di nuvole. Da principio erano stati innamorati, mia madre era ricca e sebbene mio padre l'avesse sposata per amore, lei non era mai stata certa di tale sentimento. Mio padre parla raramente di queste cose, ma anni fa, prima che la mamma morisse, una volta mi disse che si può sposare una donna ricca, solo a una condizione; di non esserne innamorati. Inoltre lei era quasi sempre ammalata. Aveva una voce sommessa, sofferente, un corpo gracile, ma nella sua fragilità aveva la forza dell'acciaio. Odiava la vita, ma io credo che ancor più odiasse la morte. Non poteva accettare l'idea di morire mentre mio padre era ancora vivo. Vi racconto queste cose perché vi sarà più facile capire Kelsey. Il suo discorso aveva avuto un ritmo strano, irritante, pensò Loring. Sembrava che la ragazza si servisse deliberatamente di un metodo per sottolineare e spiegare determinate parole con un commento segreto.
— Quando mia madre morì — continuò — provammo tutti una sorta di colpevole sollievo. Naturalmente era un dolore, ma insieme una liberazione. In realtà non doveva essere così perché lei è rimasta con noi, rivive in Kelsey. Non c'è niente di cambiato, neanche in materia di danaro. Mia madre ha lasciato tutto a Kelsey, fino all'ultimo centesimo. Viviamo nella casa di Kelsey, mangiamo alla tavola di Kelsey. — È questa la ragione per cui rimanete in casa vostra? — Per avere vitto e alloggio gratis? — disse lei. — No, non è così semplice. Tutti noi potremmo mantenerci da soli. Johnny ha il suo lavoro, Philip è pianista, io... io potrei, nella peggiore delle ipotesi, lavorare come governante di casa. Non sarebbe niente di diverso da ciò che faccio attualmente. No, rimaniamo con lei non per ragioni economiche, ma solo perché non possiamo andarcene. Lei è cieca e non si può farle questo. — Coscienza? — Se è proprio necessaria una definizione per ogni cosa — rispose seccamente — allora chiamiamola "coscienza". — Eppure nessuno di voi è responsabile in qualche modo dell'incidente, vero? — Nessuno. Era lei che guidava l'auto, la colpa è stata sua. Non può addossare colpe a nessuno. — Lo fa, invece? — No. Non a parole, ma con il suo atteggiamento amaro e ostile. Pare che nessuno le vada a genio, ad eccezione di Ida. — La ragazza cui ha regalato l'anello? — Sì. Kelsey ci fa sentire colpevoli per la sua disgrazia. È assurdo, no? Alice fece una pausa come se si aspettasse di essere rassicurata, ma poiché il dottore taceva, abbassò gli occhi. — Non sarei dovuta venire qui. Kelsey non è pazza, è solo un po' strana, come aggrovigliata. Pensavo che avreste potuto aiutarla e così avreste aiutato anche tutti noi. Ora però mi vergogno di essere venuta a dirvi tutto questo. Non potrei pagare quanto vi devo e andarmene? — Certo che potreste, sebbene ciò equivalga a buttar via il vostro danaro, voglio dire il "suo" danaro. Siete venuta da me per vostra sorella, non per voi stessa, non è vero? — Che cosa volete dire? — Be', poteva darsi che foste venuta per parlarmi di voi — spiegò lui in tono asciutto. — Sentite, dottor Loring, ammetto di non esser venuta da voi esclusi-
vamente per Kelsey, ma non sono venuta neanche per me. Qualunque cosa gli altri faranno, io sono obbligata a rimanere con lei. Non mi aspetto molto dalla vita. Voglio però salvare Johnny e Philip. — Salvarli? — domandò lui in tono lievemente ironico. — Salvarli da che? — Da Kelsey, da questo senso di colpa che li costringe a rimanere, mentre dovrebbero andarsene e vivere la loro vita. Lei trattiene Philip per farlo soffrire. Lo scaccia e poi quando lui tenta di andarsene, non lo lascia andar via. — Non sarà poi una strega, e lui sarà capace di camminare con le sue gambe. — No, avete torto. Lei ha qualcosa della strega e Philip non è capace di andarsene e non è capace di tenerle testa. La situazione ora è anche peggiorata rispetto al passato. Da tre mesi Kelsey va immaginando che ci sono occhi che la spiano. Un muro fatto di occhi. Il dottore si chinò in avanti sulla scrivania. — Quali occhi? — Dice che ha un muro di occhi intorno a lei, i buoni occhi di chi le vuol bene e gli altri, quelli di chi la spia, la odia e attende la sua morte. Questo è ciò che dice. Ieri Letty l'ha trovata in camera sua in preda a una crisi di disperazione, graffiava la parete della sua camera nel tentativo di... — Chi è Letty? — Era la governante e l'infermiera di mia madre. È una cosa terribile vedere una persona cieca che piange. Kelsey è caduta sul pavimento e si è messa a piangere... — Non mettetevi a piangere voi, ora! Alice lottava con le lacrime. A un tratto nascose il viso nell'avambraccio poggiato sullo scrittoio. Il suo modo di piangere era sommesso e intenso come la sua voce. Rimase per qualche minuto con il viso nascosto nella manica del vestito, poi abbassò il braccio ed egli vide con stupore un viso solcato da due profonde pieghe agli angoli della bocca. Sembrava una donna di quarant'anni. Le lacrime non erano state un sollievo per lei. "Probabilmente non piange mai" pensò Loring. "Ma allora perché si è messa a piangere ora?" — Avanti — incalzò lui — raccontatemi ancora di vostra sorella. Che cosa posso fare per lei? — Vorrei che le parlaste, che la faceste ragionare. Vorrei che le spiegaste perché agisce in questo modo e che le faceste capire che così rovinerà
tutta la sua vita. — Non è una cosa semplice. — Lo so, ma è una ragazza ragionevole. In un certo senso è la persona più freddamente ragionevole della famiglia. Una gran parte delle cose che fa, direi la maggior parte, è solo una finzione. Non la faccenda del muro di occhi, ma altre cose. Per esempio, finge di dimenticare che una volta anche a lei piaceva fumare. Ora costringe tutti in casa a rinunciarvi. — Stava forse fumando quando avvenne l'incidente? — Aveva appena chiesto a Philip di accenderle una sigaretta. I finestrini della macchina erano aperti e Philip si chinò per riparare tra le mani la fiammella del cerino, quando avvenne l'incidente. All'ultimo momento lui tentò di afferrare il volante, ma fu inutile. — Credete che vostra sorella acconsentirebbe a vedermi? — No. Non sa neppure che sono venuta da voi. Non potreste venire voi a casa nostra, fingendo di essere un mio amico? Potreste venire a prendere una tazza di tè. Vi chiedo troppo? — No. Il tè mi piace. Quando allora? — Va bene domani? — Intesi — concluse Loring. — Ed ora ditemi del cane. — Che volete dire? — Perché avete portato con voi il cane? — Ah — fece lei strascicando la voce — credo di capire... Pensate forse che finga di essere cieca, che cerchi di identificarmi con... No, vi sbagliate. Ho portato con me Prince per tenerlo in esercizio. È una spiegazione valida? — Si. Allora arrivederci a domani. A che ora? — Alle quattro. L'indirizzo lo avete. Come... come vi chiamate di nome? — Tom. — Il mio nome è Alice. Sarebbe meglio non presentarvi come medico. Che cosa potreste diventare per l'occasione? — Un agente di assicurazione; vi va? — Bene. Spero... voglio dire che sono sicura che ci sarete utile. — Meglio non sperare — ribatté lui asciutto. — Arrivederci, dottore. — Arrivederci, signorina Heath. Uscita la ragazza, lui andò alla finestra e rimase a guardarla. Gli piaceva come camminava, un modo graziosamente arrogante come se la strada le appartenesse, come fosse stata costruita apposta per lei.
2 Riposava sdraiata sul divano accanto alla finestra, la testa reclinata sulla spalla. La tenda azzurra le carezzava i capelli. Non era ancora il momento di svegliarsi. Bisognava attendere che il sole raggiungesse la finestra e gradualmente venisse a batterle sui capelli, sulla fronte e finalmente sulle palpebre. Anche quando il sole le sarebbe arrivato in viso non avrebbe aperto gli occhi. Sarebbe rimasta ancora immobile senza scostare la testa, finché il calore le scottasse le palpebre. Non avrebbe steso la mano per abbassare le tapparelle. Voleva sentire che c'era il sole, che la camera ne era piena. Non avrebbe dovuto chiedere a nessuno che tempo faceva. Nessuno di loro avrebbe risposto senza una nota di pietà o di impazienza nella voce, senza aggiungere che le foglie cominciavano a cambiar colore e a cadere. Infine le avrebbero suggerito di uscire a fare una passeggiata. Sembrava che su questo punto tutti fossero d'accordo per farla uscire di casa. Per strada la gente sostava a scrutarla spietatamente, oppure affrettava il passo per evitare di fissarla. Aggrappata al braccio di Alice o al guinzaglio di Prince si sarebbe sentita più che mai indifesa, disperatamente minorata. No, non sarebbe uscita, non avrebbe concesso loro questa facile vittoria; poiché in realtà erano gli altri che dipendevano da lei. Udì la porta che si apriva. Qualcuno entrò. Lei non si mosse. Se avesse aspettato pazientemente, chiunque fosse entrato avrebbe svelato la sua identità con qualche particolare rumore. Bisognava solo rimanere in ascolto. Letty capì che Kelsey non dormiva. La posizione delle braccia troppo rigida, il corpo teso rivelarono la finzione. Aprì la bocca per parlarle, ma poi cambiò idea. "Mi tiene il broncio per qualche sciocchezza" pensò Letty. "Vuol fingersi addormentata." Con un sospiro si diresse verso l'armadio a muro per toglierne gli abiti estivi di Kelsey. Canticchiava piano a bocca chiusa perché Kelsey sentisse che era lei. Le sue grosse mani ossute stonavano con le vaporose stoffe. La stanza era spoglia. Contro una parete stava il letto di Kelsey, davanti alla finestra il divano. Una scrivania, una grande poltrona ricoperta di cinz azzurro, uno scrittoio e il tavolino da notte accanto al letto, erano il solo mobilio della camera. Lo scaffale dei libri, i quadri, gli specchi, erano stati
portati via dalla camera, pezzo per pezzo. Un portabiti cadde sul pavimento. Letty si chinò a raccoglierlo, aspettandosi che Kelsey si decidesse a svegliarsi. — Letty! La voce, chiara e tagliente, non emergeva dalla nebulosità del sonno. — Che cos'è stato, Letty? — Mi è caduta una gruccia — disse Letty. — Sto togliendo dall'armadio gli abiti estivi per riporli. Alice mi ha detto... — Proprio adesso dovete farlo? — La testa di Kelsey si volse rigida e gli occhi spenti la fissavano freddamente. — Proprio mentre stavo riposando? — Dormivate? — domandò Letty. — Mi spiace. Kelsey buttò le gambe giù dal divano e si mise seduta. Aveva chiuso gli occhi e per un attimo poteva ingannare se stessa. Quando li avesse socchiusi, si sarebbe vista riflessa nello specchio di fronte, i capelli biondi scompigliati, le braccia sottili, le gambe snelle che si stendevano pigramente. Poi avrebbe aperto del tutto gli occhi e si sarebbe avvicinata allo specchio per vedere meglio i suoi occhi azzurri, ancora assonnati ma pieni di vita. Ancora una volta avrebbe goduto di essere bella. — Sono stati tolti gli specchi? Tutti gli specchi? — domandò. — Sì, la settimana scorsa — rispose Letty, rimanendo ferma in mezzo alla stanza con gli abiti sul braccio. Sapeva che se avesse tentato di andarsene la voce di Kelsey l'avrebbe richiamata con asprezza. — Che fate lì impalata? Che ore sono? — Quasi le quattro. Oggi è martedì e Johnny rientrerà prima del solito. Non è meglio che cominciate a vestirvi? — Martedì — ripeté Kelsey. — Perché lo dite con questo tono? È un giorno speciale, oggi? Letty andò alla porta e la chiuse piano. — Non ricordate che Johnny oggi porterà a casa la signorina Moore, per farvela conoscere? Letty si affaccendava per la camera e parlava con un tono insolitamente vivace. — Che abito preferite mettere? Quello nero o quello di lana blu? — Un momento! Ho detto a John che non ho nessuna voglia di conoscere la signorina Moore. Ne ho già conosciute parecchie di queste ragazze e si somigliano tutte. La voce aveva risuonato scabra, come se il dente del ricordo rodesse ancora spietatamente, e schegge acute di sofferenza riaffiorassero. Non era vero, le ragazze di Johnny non erano tutte uguali nel suo ricordo. Ce n'era stata una diversa dalle altre. Il suo viso si era impresso nella
memoria di Kelsey, e vi era rimasto. Stava in agguato, a volte si animava, respirava, ritornava vivo. A volte era il viso di una morta e allora era più sopportabile. — Come si chiamava? — Di nome? Marcella. — No, non questa, l'altra. — Ah, Geraldine, mi pare. L'abito blu è più adatto, così potete portare gli zaffiri. Tolse l'abito dall'armadio, facendo rumore più del necessario. Fingeva di prevedere che la signorina sarebbe scesa per il tè. Era un vecchio gioco che facevano da tempo e di cui conoscevano le regole. Kelsey cominciò a slacciare i bottoni dell'abito giallo che indossava e se lo tolse, poi alzò le braccia in attesa che Letty la aiutasse a infilar l'altro. — Dopo tutto non ho nessuna difficoltà a conoscere la signorina Moore — riprese Kelsey conciliante. — Questa ragazza non rappresenta niente né per me né per Johnny. Mi auguro solo che abbia abbastanza buon senso per capire che John non ha nessuna intenzione di sposarla. Ve lo immaginate Johnny che si sposa, con trentacinque dollari la settimana? — Si capisce che non potrebbe — ammise Letty. — C'è il suo assegno mensile però e immagino che non smettereste di passarglielo. — Sto diventando magra. La cintura mi va larga ma per oggi è meglio lasciarla così. Non c'è tempo di aggiustarla — disse Kelsey, per suo conto. Si chinò per sfilarsi le scarpe con un'espressione ironica in viso. Era la sua maniera di rimettere Letty al suo posto rifiutando di discutere su Johnny. In silenzio Letty le porse il pettine e Kelsey cominciò a pettinarsi con studiata lentezza. — È diritta la riga? — Sì — rispose Letty. Kelsey si lasciò cadere le mani in grembo, il pettine scivolò sul pavimento. — Come posso sapere se è vero? — sussurrò. — Anche per una cosa tanto insignificante. — Perché non dovrei dirvi la verità? State dicendo delle sciocchezze. — Sciocchezze? Pensate che sia una sciocchezza desiderare di vedersi in faccia? È una cosa tremenda, insopportabile non potersi più specchiare; ancora più insopportabile che non vedere gli altri. "Per te" pensò Letty, "certo è insopportabile." Si inginocchiò davanti a Kelsey per infilarle le scarpe.
— Non potete capirmi — l'aggredì Kelsey. — C'è del malanimo in voi, lo sento. In questo momento per esempio avete la fronte aggrottata. È vero? — C'è una macchia sulla scarpa — tagliò corto Letty. — Vado a prendere una spazzola. Kelsey tenne il piede rigidamente teso mentre Letty spazzolava la scarpa. Dal piano terreno veniva il suono di una voce, una risata in chiave di basso. Kelsey ascoltava con l'orecchio teso. Questa era la risata di Johnny. Udì il suo passo pesante e vivace che saliva la scala a tre gradini per volta. Segno che la ragazza era arrivata e il romanzo era appena al suo inizio. Aspettava irrigidita, piena di avversione e di timore. La porta si spalancò, il pavimento vibrò sotto un passo pesante. — Salve, Letty — e poi: — Ciao, tesoro! — Kelsey si sentì sollevata in aria da due braccia robuste. — Johnny! — strillò, agitando le gambe. Un'espressione di panico le si era dipinta sul viso. Riprese fiato per strillare ancora: — Johnny, mettimi giù! Quando fu di nuovo sul divano, rimase per qualche momento in silenzio con un'espressione smarrita. — Specie di elefante! — disse piano come se la voce non le uscisse dalla gola. Solo Letty la udì e le si avvicinò. — Via, via. La fate spaventare in questo modo, John. — Neanche per sogno — protestò Kelsey. — Non mi sono affatto spaventata. Sentì la mano del fratello posarsi sulle sue e stringerle con forza. — Mi spiace, piccola. — Non mi sono affatto spaventata — ripeté Kelsey con voce stridula. — John, mi stai stritolando le mani! — Scusami ancora — disse lui sottovoce. Raramente John parlava sommessamente. La sua voce in questi casi suonava umile, colpevole, ben diversa dalla voce piena di dignità di Alice. "Come se qualcuno avesse spento la valvola dell'aria" pensò Letty, "e lui si afflosciasse come un palloncino. Nessuno riesce a sgonfiare Johnny meglio di Kelsey." Capitava spesso di essere tentati di smontare Johnny, quasi per un tentativo di ridurlo a proporzioni normali. Era un ragazzone splendido, enorme come suo padre e tutto in lui era proporzionato, la voce, la bella dentatura, le orecchie, i capelli foltissimi e biondi, ribelli nonostante
fossero tirati con abbondante brillantina. Ma se il corpo gli era stato regalato da benevoli dèi, sotto la superficie sembrava mancare il carattere. Lui guardò Letty con occhi stupiti e colpevoli come se chiedesse risposta a una domanda troppo difficile. Letty gli sorrise e si strinse nelle spalle. Johnny le restituì il sorriso e l'espressione smarrita scomparve dai suoi occhi. Le emozioni in lui si susseguivano fuggevoli e rapide come scoiattoli. — È arrivata Marcie, ti aspetta giù — annunciò a Kelsey. — È un tipino come te, ma bruna. Il suo nome veramente è Marcella, dice che sua madre lo ha letto in un libro... — Sì, è probabile infatti — disse senza interesse. — Dove l'hai lasciata? — In salotto con Philip che sta suonando per lei. — Delizioso! — Forse è meglio che John cominci a scendere e le dica che fra cinque minuti scendiamo anche noi — suggerì Letty. Johnny si alzò dal divano e il pavimento sussultò sotto il suo peso. Kelsey sentì le vibrazioni del pavimento salirle lungo le gambe come gattini. — Accidenti, John! Non puoi essere meno turbolento? Sembri un terremoto... — Via, via — disse Letty mentre con la testa faceva cenno a Johnny di andarsene. — Tra cinque minuti scenderemo anche noi. È rientrata Alice? Johnny sostò sulla soglia. — No, Philip ha detto che ha portato Prince fuori per una passeggiata. Uscì urtando uno stipite con la spalla e scese in fretta le scale. Prima di giungere dabbasso già fischiettava allegramente. Marcie sedeva con Philip sullo sgabello accanto al pianoforte. L'abito di seta nera, comperato per l'occasione in un grande magazzino, la faceva apparire più minuta. Stava rannicchiata, il più possibile discosta da Philip, con le braccia raccolte intorno al corpo per non disturbarlo con la sua presenza. Quando vide Johnny il suo viso si illuminò di un sorriso torturato e ogni muscolo si tese nell'aspettativa di alzarsi per andargli vicino. Non si mosse, però. Dall'istante in cui era entrata in quella casa e aveva visto il maggiordomo, si era sentita paralizzata dalla timidezza. Johnny le aveva detto di sedere lì, accanto a Philip ed ora attendeva che lui le dicesse che cosa doveva fare. Era un'estranea in un mondo estraneo. Neanche l'abito nero su cui aveva tanto contato la aiutava a sentirsi a suo agio. La sorella di Johnny non po-
teva vedere com'era vestita e l'avrebbe giudicata dalla voce, dal modo di parlare. Marcie si era alzata prima del solito quella mattina e si era studiata alcune frasi sulla bellezza dell'autunno, sul piacere di conoscere la sorella di Johnny e persino sulla situazione in India. Aveva già tentato di sfoggiare qualche osservazione intelligente sull'India con Philip ma questi l'aveva guardata malinconicamente e aveva lasciato cadere il discorso. Marcie gli gettò un'occhiata: Philip suonava ad occhi chiusi. Doveva essere un tipo strano, uno che non si interessava a nulla, che non faceva altro che suonare il pianoforte... Johnny si avvicinò e le posò una mano sul braccio mentre metteva l'altra sulla spalla di Philip. — Salve, ragazzi — disse. Le mani di Philip si fermarono di scatto su un accordo. Si volse verso John, e Marcie gli vide sul viso la stessa espressione malinconica e stupita di poco prima, quando aveva tentato di avviare la conversazione. Ora guardava lei che se ne stava appollaiata all'estremità dello sgabello. — Avete l'aria di chi ha passato un brutto momento — le disse con voce morbida. — Ho suonato tanto male? — Phil suona meravigliosamente — disse in fretta Johnny. — Non ti pare che sia magnifico? Ora la stavano a guardare tutti e due, aspettando che lei rispondesse; Johnny ansiosamente, Philip con un sopracciglio alzato. Marcie sentì la casa pesarle addosso. Rise nervosamente e aggiunse: — Anche il ragazzo che suona da noi, al club, è in gamba. Non legge neppure la musica e suona tutto quello che gli viene in mente. — Philip è bravissimo — continuò John. — Phil, dille che cosa ha detto di te Percy Grainger quando hai suonato davanti a lui a New York. — Lascia andare — mormorò Philip. — Ha detto che è grande — esplose Johnny entusiasticamente — un pianista robusto e brillante e che cosa ancora?... — Quel ragazzo che vi dicevo, una volta suonava in un'orchestra importante ma lo hanno cacciato via perché beveva — disse Marcie. — Io disapprovo la gente che beve. Trovo che è molto brutto bere, no? — Molto brutto — rispose Philip lanciandole un rapido sguardo tra gli occhi socchiusi. A Marcie non piacque quello sguardo. Era come se l'avesse soppesata e avesse deciso che non valeva la pena di prenderla in considerazione. Quan-
to poi a ciò che Marcie pensava di lui era presto detto. Secondo Marcie, Phil era uno snob che neppure aveva il diritto di stare in quella magnifica casa. Minor diritto di lei, in ogni caso, perché era chiaro che era un fannullone, senza un lavoro vero e proprio. Le sarebbe piaciuto dirglielo sul muso, ma quando i suoi occhi incontrarono ancora lo sguardo di Philip capì che non era necessario dirglielo. Philip sapeva queste cose da sé, neanche lui si sentiva forse a suo agio in quella casa. — Perché non andiamo a sederci in poltrona? — propose Johnny prendendo una mano della ragazza per farla alzare. — Hai freddo, Marcie? — Neanche un po' — rispose la ragazza. Aveva freddo invece e sentiva le gambe che non le obbedivano. Le sembrava di camminare sulla sabbia, invece che su un tappeto. Philip rimase seduto al piano, le braccia appoggiate al leggìo. A una certa distanza la sua figura aveva un aspetto romantico. Visto più da vicino si notava un inizio di pinguedine, i bei capelli neri ondulati erano radi e gli occhi stanchi. Il viso aveva un'espressione circospetta che lo faceva sembrare di molti anni più vecchio di John. "Deve stare in guardia" pensava con malanimo Marcie. "Ingrassa, ha tutto quel che vuole, lui; lezioni di musica, una camera in città per studiare comodamente, concerti, spettacoli d'opera qua e là quando ne ha voglia, e tutto con i quattrini degli Heath. Accidenti, diventerei famosa anch'io se potessi disporre di questo pozzo di quattrini!" — Hai visto Kelsey, Johnny? — domandò Philip. — Scenderà tra un minuto. — Devo salire a prenderla? — Buona idea, Kelsey non è... non... — Ho capito — disse Philip. Uscì e chiuse la porta. Rimase per qualche momento fermo ai piedi della scala, prima di salire. Guardava in su con una strana espressione. Aveva l'aria di un uomo che si prepari a compiere un salto pericoloso. La porta della camera di Kelsey si aprì e la ragazza comparve nell'atrio del primo piano, le mani tese innanzi a sé. Il momento di compiere il salto era arrivato, ma egli non si mosse. — Letty? — chiamò Kelsey. — C'è qualcuno nell'atrio? Chi c'è nell'atrio a pianterreno? — La sua voce era stridula. Philip respirò, aprì la bocca per parlare, ma qualcuno parlò prima di lui. — Sto venendo, Kelsey — disse la voce del signor Heath dalla rampa di scale che dal secondo piano portava al primo.
— Oh papà, sei tu? Vieni anche tu dabbasso? — Se scendo...? Ah sì, oggi pensavo di... Il signor Heath scendeva lentamente dalla scala che dal secondo portava al primo piano. Si muoveva cautamente tastando coi piedi i gradini come se temesse di trovarvi un buco. Le gambe sembravano troppo deboli per sorreggere il suo corpo massiccio. — John ha un ospite — diceva con voce incerta — così pensavo... Dall'atrio Philip gridò: — Finalmente, Kelsey. Ci domandavamo... — Philip — disse Kelsey scendendo le scale al braccio del padre — vuoi dire a Maurice di servire il tè? Non aspetteremo Alice. — Bene — disse Philip. Quando parlava con Kelsey, assumeva un tono ansioso di compiacerla, una gaiezza insincera come se si sforzasse di affermare che tutto andava benissimo tra loro. Anche il suo passo mentiva, era sempre troppo vivace e allegro. — Non potrebbe... — disse il signor Heath — non potrebbe suonare per chiamare Maurice? — Pensi che sia chiedergli troppo — disse Kelsey a voce bassa — in cambio di tutto ciò che facciamo per lui? — Ah... — fece il signor Heath. Erano giunti davanti al salotto. Il padre aprì la porta per far passare Kelsey. Le voci si interruppero. Kelsey si fermò un momento sulla soglia in attesa che la conversazione riprendesse, così che le fosse possibile identificare dove si trovavano Johnny e la ragazza. Sentiva che la ragazza la stava guardando, ma lei non poteva vederla, doveva aspettare, rimanere sulla soglia in attesa. Doveva tenersi diritta, perché nessuno potesse intuire il suo disagio, indovinare la sua disperazione. Kelsey ignorava come talvolta la sua dignità diventasse una forza quasi tangibile. Per chi la vedeva per la prima volta, come ora Marcie, questa forza era uno schiaffo morale, una sfida a chi osasse avere pietà di lei. Johnny attraversò il salotto, prese la sorella per un braccio e intimidito dall'espressione di Kelsey pronunciò le presentazioni con voce sommessa. — Kelsey, questa è Marcella Moore. Mia sorella Kelsey. Mio padre. Questa è Marcella, papà. — Fortunatissimo — disse il signor Heath avviandosi verso la sua poltrona. — Il piacere è mio — rispose Marcella. La sua voce suonò di un tono troppo alto, troppo acuto. Una voce stridula, volgare, pensò Kelsey e sorri-
se. — Molto gentile da parte vostra... — mormorò. Marcie continuava a sorridere incapace di rendersi conto che l'altra non poteva vederla. — Johnny parla sempre delle sue sorelle! Ero così impaziente di conoscervi. Johnny dice sempre... — È carino da parte sua — l'interruppe Kelsey con voce carezzevole. — Siete seduta comodamente? — Oh sì... sto benissimo. — Johnny ha una quantità di amici — continuò Kelsey — e me li porta a casa per farmeli conoscere. Non è un pensiero gentile? — Alice dovrebbe rientrare da un minuto all'altro. Ti piacerà molto mia sorella Alice, Marcie — disse Johnny. — Ne sono sicura — ribatté lei. — Johnny non fa che raccontare di Alice e di Kelsey. — Davvero? — domandò Kelsey. — Spero che ne parli bene. — Oh, sì, certamente! Dice sempre... — E voi non trovate il soggetto della conversazione piuttosto limitato? — domandò Kelsey con ironia. — No, a me piace — replicò debolmente Marcie. Kelsey sorrise e si appoggiò allo schienale del divano. Il momento difficile era passato. La ragazza era stata catalogata e messa in archivio. Il resto sarebbe venuto da sé. Philip rientrò in salotto. — Vieni qui, Philip — lo chiamò Johnny. — Ci stai anche tu sul divano. Johnny era felice: li aveva tutti riuniti, a portata di mano. — Phil, dovresti vedere come danza Marcie. Prima Phil ci suonava quel pezzo di Debussy che piace tanto a te, Kelsey. Marcella ci raccontava di un ragazzo... Kelsey sedeva comodamente nella sua poltrona, lasciando che Johnny sostenesse la conversazione. Aveva la sicura percezione che le chiacchiere di Johnny rendevano la ragazza nervosa. Ne immaginava le mani madide, strette nervosamente in grembo una all'altra; sentiva il panico nella sua voce. Entrò Maurice con il vassoio del tè. Era un uomo di mezza età, piccolo, con mani leggere che si muovevano con delicatezza fra la porcellana e l'argenteria. — Dovrebbe esserci Alice — osservò Johnny. — È sempre lei che serve il tè. Non è ancora rientrata la signorina, Maurice? — No, signore. — Lo servirà Marcella — propose Kelsey. — Non è vero, cara?
— Oh no! per favore... — esclamò Marcie — non ho mai... — Verso io — concluse Philip. Kelsey si volse verso di lui. — Ho chiesto a Marcella di servirlo lei. Non hai sentito? Senza replicare Philip si alzò, andò a sedersi sulla seggiola con lo schienale alto, quella in cui era solita sedersi Alice per versare il tè. Si sentì il tintinnio dell'argenteria e della porcellana. — Non sapevo che ti piacesse fare queste cose, Philip — disse Kelsey. — Anch'io, come tutti, ho i miei desideri segreti — rispose lui ridendo. — Latte e zucchero, Marcie? — Come volete — rispose Marcie. — Non ho preferenze. — Tu, Kelsey? — Limone e due zollette. Io ho delle spiccate preferenze. Piccole ondate gelide di silenzio dilagarono nel salotto. Marcie sembrava disperata e quando Johnny fece per prenderle una mano, lo respinse con furia, ciecamente, in un gesto di istintiva difesa contro qualcosa, un pericolo. Beveva in fretta il suo tè, ed ascoltava angosciata il rumore che faceva la sua gola deglutendo, un rumore orribile di cui si vergognava. — Johnny — disse posando la tazza — si è fatto tardi, devo andar via... — È ancora presto — osservò Kelsey con voce pigra — e non avete ancora conosciuto Alice. — Sei appena arrivata — protestò Johnny. — Davvero devo andarmene — strillò quasi Marcie — non posso fermarmi... — Forse Marcie ha un impegno per cena — suggerì Kelsey. — Ecco, io... — Tornate presto allora. Parleremo di Johnny, scambieremo le nostre idee su di lui. — Sì sì, certamente. — Marcie si gettò verso la libertà come un uccello che veda aprirsi la porta della gabbia. — Piacere di avervi conosciuta. È stato un bel pomeriggio. — Ti accompagno a casa — disse Johnny. — Arrivederci, signor Heath, arrivederci, signorina Heath, buonasera, signor James. La porta si chiuse alle loro spalle con un colpo sonoro. Nel salotto ci fu un lungo silenzio, finalmente Philip disse: — Ebbene? — Spaventosa — sillabò Kelsey. — Orribile. Che cosa ne pensi tu, papà?
— Eh? — rispose il signor Heath trasalendo — ancora una tazza, grazie, con meno latte, per favore. — La ragazza — disse Kelsey con voce tagliente. — Che cosa ne pensi della ragazza? — Ah... graziosa — rispose. — Una ragazza tranquilla. Graziosa. Di nuovo una lunga pausa. — Mi domando come John possa sopportare questo genere di ragazze — sentenziò Kelsey — non riesco proprio a capirlo. Una volta è stata una cameriera di Child, un'altra volta la figlia di un sovversivo. Poi una cantante... — Vuoi dire Geraldine? — domandò Philip. — No, non lei. — Geraldine, la faccia che la ossessionava nel sonno. Kelsey sentì che Philip si era mosso nella sua poltrona e aveva sospirato. — Tu sei dalla parte di Johnny. Tu ed Alice, tutti e due lo difendete, e siete contro di me. — Non è vero — disse Philip — penso solo che forse a Johnny piacciano ragazze di questo genere. — Che importa se gli piacciono? — esplose Kelsey. — Dovrei forse incoraggiare i suoi gusti volgari e permettere che pregiudichi il buon nome della famiglia? Il signor Heath emerse dalla poltrona. — Sarà meglio che... che ritorni di sopra, in camera mia. — Devo combattere contro tutti voi — gridò Kelsey. — Io, cieca, devo tener testa a tutti voi! — Bisogna proprio che torni in camera mia — ripeté il signor Heath e si avviò strascicando i piedi sul tappeto del salotto. 3 Alice rientrò alle sei. Il vento e la passeggiata in collina l'avevano stancata. Un milione di anni prima, la collina era ancora sommersa dalle acque del lago Ontario, poi l'acqua si era gradualmente ritirata lasciando emergere le pendici, su cui le imprese edilizie e gli architetti avevano fatto sorgere un quartiere. Alla sommità, sulla costa che aveva preso il nome di St. Claire Avenue, Isabel aveva fatto costruire una casa per suo marito e tra queste mura avevano fondato insieme una famiglia. Prima John, poi Alice ed infine Kelsey, una creatura minuta e delicata che era stata l'ultima concessione di Isabel alla vita fisica che le ripugnava.
Mentre Alice frugava nella borsetta in cerca delle chiavi, Prince si era accucciato sui gradini di pietra, stanco anche lui della lunga passeggiata. La vista degli oggetti familiari accolse Alice penetrando in lei come sempre, come un senso di sicurezza. Il vaso di giacinti sulla tavola dell'atrio, i colori smaglianti del tappeto persiano, le stampe di uccelli appese alle pareti. Da bambina, per anni Alice si era ingenuamente aspettata di scoprire un giorno o l'altro, tra il fogliame degli alberi del giardino, uccelli dai colori meravigliosi, fantastiche creature piumate simili a quelle delle stampe dell'atrio. Chiuse piano la porta e si chinò per togliere il guinzaglio a Prince. Con la coda dell'occhio scorse qualche cosa di bianco davanti alla porta del salotto, in fondo all'atrio. Si avvicinò silenziosamente e scorse di spalle Ida, china in avanti con l'orecchio incollato al pannello della porta. — Ida! — chiamò seccamente. La ragazza sussultò e si girò. Ansava smarrita e guardava Alice a bocca aperta. — Oh... — disse. — Non bisogna origliare alle porte — disse Alice. — È una cosa che non va. — Sì, signorina — parlò la ragazza indietreggiando — però non ho sentito niente, davvero, signorina Alice! — Andate in cucina — disse Alice calma. — È ora di dar da mangiare a Prince. Portatelo con voi e rimanete in cucina. Ida non replicò e si allontanò. Attraverso la porta filtrava la voce di Kelsey. — Passi metà del tuo tempo lontano da questa casa e in quanto a me potresti addirittura andartene per sempre! Non ti voglio più avere qui intorno! Alice sostò con la mano sulla maniglia, poi la fece girare un paio di volte per avvertire Phil e Kelsey che qualcuno stava per entrare. Finalmente aprì e scivolò in salotto richiudendo la porta alle spalle. Kelsey stava in piedi dietro la seggiola alta, le dita strette sul legno dello schienale. Sulla sedia sedeva Philip, curvo in avanti con le mani premute sullo stomaco, come se avesse un crampo. — Chi è? — gridò Kelsey. — Chi è entrato? — Alice — rispose Philip tetro. Alice si avvicinò a loro, buttando sul tavolino i guanti con naturalezza come se la scena che si svolgeva non avesse niente di insolito. — Salve — disse con voce allegra. — Cosa c'era di buono per il tè? Tar-
tine al cetriolo? — Dove sei stata? — domandò Kelsey. — Avresti dovuto essere qui e non lasciarmi sola a combattere... Alice mise le mani su quelle della sorella per calmarla. Philip rimase immobile, curvo su se stesso. Sentiva dietro di sé le due ragazze ma non voleva vederle, né ascoltarne le voci, come se cercando di ignorarle avesse potuto lasciarle fuori, lontane da sé, per sempre. Ma come resistere alla mano di Alice che gli premeva la spalla? Come ignorare la voce che lo blandiva e gli chiedeva di ritornare tra loro? — No, Alice — disse. — È inutile ormai. — Due bambini, ecco cosa siete! — disse Alice — e intanto sapete chi stava ad ascoltare dietro la porta? Ida. — Ida è dalla mia parte — disse Kelsey — sono stata io a chiederle di starmi vicina, quando è venuta in questa casa. — Che cosa le hai detto, Kelsey? Non devi confidarti con le persone di servizio. Ida, specialmente, è una ragazza falsa; non puoi fidarti di lei. — Di nessuno mi posso fidare. Dillo tu, Philip: posso forse fidarmi di qualcuno? Dillo tu se posso. Sotto la fredda ironia, c'era una supplica in quella voce, patetica come un uccellino assolutamente indifeso. Philip avvertì la supplica e chiuse le orecchie. — No, meglio che non ti fidi di nessuno — disse. — Bambini — disse ancora Alice cercando di prendere tra le sue le mani di Kelsey, ma questa si scostò da lei e si diresse verso la porta. Barcollò ritrovando subito dopo l'equilibrio, con un gemito di rabbia, trovò la porta ed uscì. La udirono salire le scale. — Sei peggio di lei — commentò Alice con voce fredda, esile. Egli rimase a lungo in silenzio senza alzare gli occhi. Alice andò a sedersi nella poltrona di fronte a lui. Rimase tanto a lungo immobile e silenziosa, che lui finalmente alzò il viso per guardarla. "Alice tranquilla e senza emozioni come un cadavere", pensò. — Non guardarmi — mormorò lui quasi gemendo. — Sei così immobile. — Non ti stavo guardando. Assolutamente non guardavo te. — Non voglio che mi guardi. — Va bene. — Volse deliberatamente la testa verso la finestra. — Va meglio così? — Sì. Voglio andar via.
— Sì? — sillabò Alice senza girare la testa. — Domani — precisò Philip. — Perché non questa sera? Domani Kelsey potrebbe aver cambiato idea. — Kelsey non ha niente a che fare con tutto questo — gridò lui con ira. — Sono io che me ne vado e indipendentemente da quel che Kelsey ha detto; indipendentemente da tutto e da tutti. — Vedo — osservò seccamente Alice. — È proprio una decisione interamente tua. — Si voltò verso di lui e gli lanciò un'occhiata. — Allora, buona fortuna, Philip. Lo hai detto a Johnny? — No. È fuori. — Johnny sentirà la tua mancanza. La sentiremo tutti. — Non sei convinta che abbia deciso di andarmene? — Mi piacerebbe crederci. Desidero che te ne vada. — Me ne vado domani. Domani sera. — Perché non di mattina? — Basta — sbottò lui con voce rauca di rabbia. — Non temere che cambi idea. Hai sentito che cosa ha detto Kelsey; non si fida di me. Vuole che me ne vada, dopo otto anni... — Non esaurire le tue forze in chiacchiere — disse lei con tono acido. — Lo hai già fatto altre volte. Conserva un po' di forza per andartene veramente. Philip la fissò con amarezza. — Ti sono grato per la simpatia che mi dimostri. — Direi che non ti è mai mancata la mia simpatia. Tutti avete avuto simpatia e comprensione da me. Forse ne ho abbastanza del mio ruolo materno! — Non sei mai stata... — Senti, da molto tempo so che Kelsey non ti sposerà. Non è un marito che le occorre, ma un'infermiera paziente e tollerante. Vattene via almeno per qualche tempo, Philip, dimentica questa casa e questi anni. Ritorna dov'eri prima. "Ritorna dov'eri prima." Philip ripeteva silenziosamente tra sé le parole di Alice. "Butta tutti questi anni dietro le spalle e ricomincia a vagabondare." — Non so dove andare, non ho una casa mia, non ho nessuno. Voi mi avete tolto da un vuoto assoluto. Mia madre è morta quando ero piccolo, poi... — Lo so — lo interruppe Alice con impazienza. Era irritata, non perché
Philip ripetesse cose già dette tante volte, ma perché stava cercando di divagare. — Parti con il treno? — Con il treno? Non ho ancora deciso. — Dove andrai? — A... a New York forse. Alice si alzò e cominciò a spegnere le luci del salotto. — Tu mi disprezzi — mormorò Philip. — Non dire sciocchezze. Ti voglio molto bene. — Non hai mai voluto bene a nessuno, tu. — Davvero? Alice sì avviò verso il camino con un sorriso sottile sulle labbra. Si sentiva sempre lusingata quando qualcuno parlava della sua freddezza. Le piaceva pensare che la sua freddezza era qualche cosa che lei stessa si costruiva, da cui avrebbe potuto uscire quando lo avesse voluto. Era un fresco rifugio per lei quando il calore di un sentimento diventava troppo forte. Maurice entrò per portar via il vassoio del tè. Raccoglieva lentamente i piatti. Alice osservò che muoveva silenziosamente le labbra come faceva sempre quando si preparava a dirle qualche cosa. Finalmente sollevò il vassoio, e rimase fermo di fronte a lei e dopo essersi schiarito la voce disse: — Chiedo scusa, vorrei dire qualcosa, signorina Alice. — Sì? — Ida... — Oh, sì lo so. Stava ancora origliando alla porta. Sarà meglio che la confiniate a fare i lavori al piano superiore. Maurice tossì ancora. — Sì, signorina. Io pensavo però di licenziarla. È un elemento poco soddisfacente, sotto ogni aspetto. — Concediamole ancora un altro periodo di prova — ribatté Alice. — È difficile in questo momento trovare personale di servizio. Egli si voltò per andarsene, con un'espressione di perplessità e la fronte corrugata. — Vedete, Maurice: Kelsey ha preso la ragazza in simpatia — aggiunse Alice. Il viso del maggiordomo si addolcì. — In questo caso, signorina... — Ecco — concluse Alice senza sorridere. — Siamo intesi. Sulla soglia del salotto egli si fece da parte per lasciare il passo a Johnny che entrava. Questi lo sfiorò e si diresse verso Philip. — Pensavo che tutto fosse andato bene! — esclamò. — Non è sembrato anche a te? Ti è sembrato che Kelsey l'abbia trattata dall'alto in basso? Lei dice che Kelsey l'ha
umiliata. Non eravamo ancora usciti che lei ha cominciato a lamentarsi. Johnny lanciò il cappello attraverso la stanza. — E brontolava e strillava e strillava! Oh salve, Alice! Accidenti alle donne. — Chi strillava? — domandò Alice. — Ho perso la prima parte. Johnny le disse in tono di rimprovero: — Non sapevi che doveva venire Marcella oggi? Perché non eri a casa? — Affari miei. Mi spiace. — Mi era sembrato che fosse andato tutto bene, ma lei ha cominciato a strillare. Non capisco proprio. Credevo che Kelsey fosse di buon umore, o almeno di umore migliore del solito. — E questo non ti aveva messo in sospetto? — domandò Philip. — C'è stato qualche cosa... qualche cosa che mi è sfuggito? — Sempre la stessa cosa — commentò Philip. — Si può dire che sia una regola fissa che ci sia qualche cosa che tu non... — Philip se ne va domani, Johnny — annunciò Alice d'un tratto. — Se ne va? — Johnny stava in piedi di fronte alla poltrona di Philip e lo guardava con un sorriso beffardo. — Di nuovo? Philip capì il significato dell'espressione di John. — Non sarebbe ora che voi due la finiste con queste commedie? — scattò John. — Ne ho abbastanza! — Questa volta non si tratta di una commedia — spiegò Alice. — Philip se ne va da qui domani. È una decisione sua e io l'approvo. — Usi un'espressione troppo mite — osservò Philip torcendo la bocca in un brutto sorriso. — Alice pensa che è ora che me ne vada per il mondo, reggendomi sulle mie gambe. Questo è ciò che pensa la nostra saggia, intelligente, onnisciente Alice. — Stai dicendo delle cose sgradevoli — protestò lei. — Spiacente, ma non rimarrò a sentire il resto. Johnny si volse sbalordito a Philip. — Che diavolo ti sta succedendo? Non ti ho mai sentito parlare in questo modo. — Philip vorrebbe che lo scongiurassi di restare — spiegò Alice con un sorriso acido — io invece non l'ho fatto, né intendo farlo. Ho finito di far da balia al suo temperamento d'artista. Si diresse verso la porta. Le gambe, impacciate e tremanti per l'ira che la invadeva, la reggevano a fatica. Mentre chiudeva la porta dietro di sé, udì la voce di Philip che riprendeva in tono minore. Salì adagio le scale e la voce si spense gradualmente. Dovette sedersi sull'ultimo gradino, improvvisamente troppo debole per
reggersi. Si coprì il viso con le mani e rimase così per qualche istante. Un minuto dopo era di nuovo in piedi. Rialzò la testa. "Qualcuno potrebbe vedermi" pensò. "Bisogna dominarsi, ad ogni costo. Io sono Alice. Io sono Alice Heath." 4 Bussò alla porta. Dall'interno la voce di Kelsey domandò seccamente: — Chi è? — Sono io, Alice. — Ah. — Ci fu una pausa, poi un mormorio malevolo. — Entra. Alice aprì la porta. La camera era invasa dall'oscurità del crepuscolo e Kelsey era sdraiata sul divano, appena visibile nella penombra, simile a uno spettro. Alice accese la lampada accanto al letto. Kelsey sentì lo scatto dell'interruttore e volse lentamente il viso verso la luce. — Perché hai acceso la luce? — Volevo parlarti. — Non mi occorre la luce. Per me va meglio l'oscurità. Di notte tu non hai molti vantaggi su di me. Alice sedette all'estremità del divano. — Non dire queste cose. Ti fanno male. Gli occhi di Kelsey vagavano fissi in direzione della lampada; occhi cupi che la luce non feriva, rimasti vividi di colore come un tempo. — Sì, al buio non hai niente più di me, Alice. Anche tu sei obbligata ad ascoltare, a distinguere i suoni. Anche tu hai soltanto orecchie, come me. — Kelsey... — Ti ricordi come il buio mi faceva paura? — Kelsey tese una mano e afferrò quella della sorella. — Anche adesso ho paura; il buio mi fa orrore, vorrei gridare e gridare e strappare via questa tenda nera. Ho paura. Sento la notte scendere dentro di me, a larghe ondate... Come sono i tuoi occhi, Alice? Qualche volta mi pare di non saperlo più. Alice trattenne il respiro. — Castani — disse gravemente. — Li vedo nel muro, ma potrebbero esser cambiati. Ah sì, i tuoi occhi sono sul muro, dolci come quelli di una gazzella. Le sue dita affondarono nell'avambraccio di Alice, in una stretta calda e nervosa. — Se lo volessi, mi daresti uno dei tuoi occhi di gazzella? — Ti prego...
— Tu stai piangendo. Perché piangi? — Non piango. — Io credo che tu mi daresti uno dei tuoi occhi. — Sì. — Ma dato che è una cosa impossibile, puoi stare tranquilla. Tutti possono stare tranquilli all'infuori di me, rinchiusa in questa oscurità, da sola. Sempre da sola. — Se tu... se tu non dicessi queste cose, o non le pensassi... Kelsey, ti prego. Se tu ti abituassi ad andare fuori con Prince, saresti più indipendente, potresti uscire a fare lunghe passeggiate se ti piacesse. — In compagnia di un cane invece che in compagnia dei miei occhi? — È sempre meglio di niente — ammise Alice con amarezza. — Per te, forse; per te qualsiasi cosa è meglio di niente. Ma per me no. Per me non c'è niente, non un miracolo, non un'operazione, non una speranza. Alice si alzò e cominciò a passeggiare su e giù per la camera, con le braccia strette al petto. Silenziosamente diceva a se stessa: "Sono Alice Heath" ma le parole restavano senza potere. Accadeva sempre così quando si trattava di Kelsey. Non c'era nulla che potesse renderla più forte di fronte al sentimento di amore-pietà-odio che sentiva per la sorella. Non c'era nessuna formula magica che potesse annullare tutti gli anni in cui era stata gelosa della sorella e al tempo stesso orgogliosa. Gli occhi di Kelsey la seguivano attraverso il suono dei suoi passi; avanti e indietro, avanti e indietro. — Smettila di camminare — sbottò Kelsey dopo un po'. Alice lasciò cadere le braccia lungo il corpo e si fermò davanti al divano. — Ho qualche cosa da dirti. — Sì? — Si tratta di Philip. Kelsey girò gli occhi con un moto di impazienza. — Sempre la solita storia? Devo cercare di essere più gentile con lui. Non ti stancherai mai di fare l'avvocato di Philip, tu? — Vuole andarsene. — Ah sì? — fece Kelsey beffarda. — Dove va? — A New York, credo. — Perché? — Perché tu non vuoi sposarlo. — È stato furbo a capirlo.
— Ho insistito io stessa perché se ne vada. Non credo che voi due possiate andar bene insieme. Lui non riesce a tenerti testa. È un ragazzo troppo sensibile sia nei tuoi riguardi, sia verso se stesso. — Povero Philip, debole e indifeso — mormorò Kelsey con un sorriso di ironia. — Non c'è nessuna ragione che rimanga. Non sei più innamorata di lui, da molto tempo. Forse non lo sei mai stata, non lo so. Non chiedergli di rimanere questa volta, Kelsey. — Così tu vuoi che se ne vada. Veramente lo desideri? — Sicuro. — Bugiarda! Sei una bugiarda, Alice. — Si alzò a sedere sul divano rivolgendo gli occhi verso il punto in cui, dalla voce, identificava la presenza della sorella. — Tu ti struggi, tu desideri l'amore... — No, ti prego! — Credi forse che sia sorda? — Kelsey ora gridava. — Come se non sentissi che ti manca la voce quando dici il suo nome, come una ridicola ragazzina anelante. Credi che non ti senta far le fusa quando parli con lui? "È delizioso questo, Philip." "Per favore spiegami quest'altro, Philip." Pronunci il suo nome come se fosse una parola magica, una preghiera, il nome di Gesù. — Non è vero — replicò Alice affannosamente. — Non penso a lui. — Per tutti questi mesi ti ho sentito tubare e mi hai fatto nausea, capisci? Mi faceva vomitare sentirti sospirare dolcemente. Quanta seduzione mettevi nella tua voce... Si alzò dal divano e si diresse barcollando, con le mani tese davanti a sé, verso Alice. — Mi senti? Sei ancora qui? Grazie a Dio non posso vederti, non posso vedere la tua faccia rincitrullita, i tuoi occhi teneri e stupidi come quelli di un vitellino malato d'amore. — Non puoi — insorse Alice — non puoi dirmi queste cose! — Tese una mano per afferrare quella di Kelsey ma questa avvertì il gesto e si ritrasse. — Vattene dalla mia camera, Alice, torna dal mio fidanzato. Vattene! — Alzò una mano e puntò l'indice. — Fuori di qui! Seguì un silenzio. Si udiva solamente il respiro sibilante di Alice. Poi la voce di Kelsey chiamò: — Alice? — Sì? — Il mio dito è puntato esattamente verso la porta?
— Sì, non c'è male. Non si può dire che ti manchi il senso dell'orientamento. — Dimmi la verità! Indicavo davvero la porta? — No. Kelsey agitò selvaggiamente le braccia, la sua mano colpì Alice. Con un grido di sorpresa e di dolore Alice indietreggiò vacillando. Quasi istantaneamente Kelsey parve calmarsi. — Ah — esclamò compiaciuta — ti ho colpito? Non l'ho fatto apposta; però non mi spiace. Devo pur ripagarti di volermi rubare Philip. — Philip non si accorge neanche che io esisto. — Questo lo so da me! Tu però hai tentato di togliermelo. — Si curvò in avanti e con le mani tese cercò a tentoni il letto. — Vai a chiamare Ida — ordinò. — Non è vero, Kelsey — tentò ancora Alice. — Non ho mai tentato di portarti via Philip. — Chiamami Ida, lei mi è amica. Di lei mi posso fidare. Sedette sul letto e girò la testa in direzione di Alice. Con un sorriso sottile domandò: — Hai visto l'anello di Ida? Grazioso, vero; come le sta? Ida ha le mani grasse, rosse e un po' gonfie, no? — Non avresti dovuto darle il tuo anello — protestò Alice. — Non dovevi far questo. — Philip lo sa? — No. — Promettimi che un giorno o l'altro glielo farai notare — propose Kelsey. — No, io non gli dirò niente. — Voglio Ida — insistette Kelsey con voce improvvisamente querula. — Vai a cercarla. — Dirò a Maurice che vada a chiamarla. — No, fallo tu. — Andrà Maurice. Scendi per la cena? — No, non verrò più a cenare con voi. Non voglio stare con nessuno. Alice uscì, chiuse la porta e rimase per qualche momento, immobile, le spalle addossate alla porta. Maurice non aveva ancora acceso le luci, e l'atrio era buio. Si stava bene così nascosti nell'ombra. Tante volte, da bambina, era rimasta accovacciata in quello stesso punto per spiare il viso del dottore quando usciva dalla camera della madre. Risentiva ancora un senso di colpa, legato a quel ri-
cordo infantile. Ricordava di aver temuto e insieme desiderato di esser lei la prima a leggere sul viso del dottore che la madre era morta. Erano solo in tre a tavola quella sera: Alice, Philip e John. Maurice aveva apparecchiato su di un tavolino accanto al camino. Da principio l'atmosfera era piuttosto fredda, le solite frasi di formale cortesia. — Ancora un pezzo d'agnello, Alice? — No grazie, John. — Tu, Phil? — No, grazie. — È troppo cotto — brontolò John. — Mi ricorda un certo pranzo che le patronesse di una scuola domenicale hanno offerto a Phil, una sera in cui aveva dato un concerto per la scuola. Ti ricordi, Philip? — No — rispose l'altro. Il suo viso sembrava modellato nella cera. Solo la luce della fiamma gli conferiva un'animazione fittizia. — Non ricordo nulla — proseguì con voce incolore. — Non posso permettermi di avere dei ricordi. Devo rifarmi un'anima vergine come quella di un neonato, un'anima candida, magari come quella di Johnny. — Sei ancora di malumore — commentò John sogghignando. Philip non replicò. Teneva gli occhi su Alice mentre questa versava il caffè. Quando gli tese la tazza lui la prese in fretta come se volesse evitare un possibile contatto. — Johnny, vuoi caffè? — domandò Alice. — Grazie; Maurice ha dimenticato però di portare il cognac. Ora suono. — Pensavo che tu fossi diventato astemio. — Io? — domandò Johnny stupito. — Perché mai? — La tua nuova ragazza disapprova l'uso dell'alcool, se non sbaglio. — Accidenti, è vero! Non credo però che troverebbe a ridire per qualche goccia di cognac nel caffè. Philip abbozzò un sorriso. — Non vale trovare scuse. Bisogna esser pronti a rinunciare a molte cose, per amore. Questo mi fa ricordare che ho rinunciato anch'io a parecchie cose per la stessa fragile ragione. — Philip! — lo richiamò aspramente Alice. Egli continuò, ignorando l'interruzione: — Io, per esempio, ho dovuto rinunciare a fumare. Non è un grande sacrificio per una così alta causa, tuttavia è un sacrificio penoso, esasperante. — È una cosa diversa — ribatté John. — Marcella è una ragazza più ra-
gionevole di Kelsey. — Non è difficile. Probabilmente Kelsey detiene il primato di irragionevolezza. — Smettila, Philip — intervenne di nuovo Alice. — Stai per andartene, non mi pare il caso di ritornare su queste cose. — Si volse al fratello dedicandogli il sorriso che tutte le donne, compreso le sorelle, erano pronte ad elargire a Johnny quando questi si comportava bene. — Fai sul serio con quella ragazza, Johnny? Lui si appoggiò comodamente allo schienale della seggiola. — È una brava ragazza, sono sicuro che ti piacerebbe se la conoscessi. Lavora nel locale di Joey. È una contorsionista e riesce ad assumere le posizioni più fantastiche. — Santo cielo! — commentò Philip. — È in gamba. Per di più ha anche un vero talento per la danza. Il locale di Joey è solo un inizio. Lavora sodo perché vuole diventare qualcuno, un giorno. Vive con sua madre... — Una donna di talento anche lei — completò Philip ironico. Johnny lo guardò torvo. — Che diavolo hai, Philip, questa sera? — Ho detto qualche cosa di male forse? — No — rispose Johnny seccamente. — Vorrei sapere che cosa ti succede questa sera. — Si tratta di tua sorella, ecco di che si tratta — disse Philip dopo una pausa. — Ho la bocca acida e amara anche. Devo sputare da qualche parte e in questo momento mi sei vicino tu... È tutto qui. — Non potresti comportarti come una persona civile? — Alice intervenne freddamente. — Già, una persona civile, come Alice per esempio — rimbeccò Phil in tono beffardo. — Non aspettatevelo da me. Non meritavo quello che mi capita. Non ho colpe da rimproverarmi. Anche quella sera, non volevo che Kelsey guidasse la macchina perché era un po' brilla. — Non è vero — ribatté Alice. — Chiedilo a Johnny se non è vero. Lui stava dietro con... — Perché si ricomincia a parlare di questo? — interruppe Johnny debolmente. — Con Geraldine... si chiamava così, mi pare. Kelsey si è messa al volante di sua volontà. — Tutto questo è talmente inutile! — esclamò Alice. Philip la guardò. — Se pensi che sia inutile, non ascoltare! Non ho nes-
suna colpa per ciò che è accaduto, eppure è come se dovessi scontare una colpa. Non può prendersela col destino e se la prende con me. Devo scontarlo io, perché lei ha perso la vista? — Vado a prendere la bottiglia del cognac — sbottò Johnny e se ne andò sbattendo la porta. — Tutti la scontiamo — osservò Alice. — Ma perché dobbiamo scontarla noi? È colpa nostra se è diventata cieca? Che cosa ho fatto a Kelsey perché mi voglia veder morto? — Non è vero — replicò Alice, ma la protesta suonò debole e senza convinzione. — Vorrebbe vederci tutti morti — continuò lui — persino il cane! Solo allora potrebbe morire anche lei, senza amarezza. Non prima di allora però, non prima di averci visti tutti morti. Hai notato come si tiene da conto lei? La voce di Philip aveva un tono falso, come quello di chi, leggendo un copione, si sforza di esprimere la collera alzando la voce. "Sentimenti di seconda mano, parole di seconda mano" pensò Alice. "Non sono cose veramente sentite, cerca soltanto di montarsi per avere il coraggio di andarsene." — Tutte fantasie — disse lei. — Sei tale quale a Kelsey. Anche lei si monta la testa con delle fantasie. Qualche cosa nella voce di Alice colpì l'attenzione di Philip che alzò gli occhi. — Che intendi dire? — domandò. — Si è messa in testa che io sia innamorata di te. Da principio il viso di lui espresse incredulità e sorpresa. Non poteva crederle. Poi si riprese e assunse un'aria risentita, come se dicesse tra sé: "Ci mancava anche questa!". — Naturalmente non è vero — disse in fretta lui. "Ecco il mio momento" pensò Alice. "Mai più ritornerà per me questo momento." — Naturalmente, no! — scherzò. Philip ebbe un moto di sollievo. La risata di Alice, il suo diniego avevano allentato la tensione. — Grazie a Dio — sospirò. — Dopo tutto sei fortunato. Ora sei completamente libero. — Alice tremava di sdegno per se stessa, per l'uomo che l'aveva respinta, che aveva rifiutato il dono. — Ormai non c'è proprio più niente che ti trattenga qui. — No.
— Fossi in te non metterei in tentazione il destino, fermandoti per salutare qualcuno. — Secondo te dovrei andarmene di soppiatto con la coda tra le gambe — affermò Philip con voce rauca di rabbia. — Così sarebbe tutto finito. Che accadrebbe se un giorno ritornassi? — Troveresti la porta chiusa — ribatté Alice furiosa. — È meglio che non ti ci provi! Lui si alzò da tavola, si allontanò di qualche passo e la fissò duramente, tentando di sorridere. — Quanto mi odii — disse piano. — Non sapevo che ne fossi capace. Forse tu assomigli a Kelsey più di quanto... Philip si volse di scatto verso la porta. Era entrata Ida. Stava di fronte a loro con il viso arrossato e stravolto, la bocca socchiusa, cincischiando convulsamente il grembiule. — Ida! — gridò Alice. La ragazza si avvicinò. Il viso era imperlato di sudore. — È morta — annunciò. Philip afferrò il braccio grasso della ragazza. — Che dici? — È morta — insistette ancora Ida, e la sua voce suonò stranamente gentile, quasi subdola. — È morta da poco. 5 Kelsey giaceva sul letto supina. La lampada era accesa, il fascio di luce diretto sul viso, come se Ida avesse voluto assicurarsi che era veramente morta. Alice posò una mano sulla fronte della sorella e la ritirò bagnata di sudore. — Kelsey — sussurrò. — Kelsey... La pelle era ancora tiepida, ma le palpebre e il petto erano immobili, senza vita. Alice si voltò e vide Philip appoggiato allo stipite della porta e dietro di lui Ida con gli occhi sgranati. — Uno specchio — ordinò Alice — datemi uno specchio. — No — gridò Philip — lasciala stare! Ida sospinse Philip, andò allo scrittoio e ne tolse un piccolo specchio. Lo ripulì con il grembiule e lo porse ad Alice, poi rimase a guardare con le mani incrociate sul grembo.
Alice avvicinò lo specchio alla bocca di Kelsey. Una leggera nebbiolina rese opaco il cristallo. — Non è morta — mormorò Alice più calma. — Chiamate Letty... — Oggi è martedì, Letty e Maurice sono andati al cinema. — Ida, andate in cucina a prepararmi delle borse di acqua calda. Tu, Philip, rimani qui mentre io telefono al dottore. — Secondo me la signorina è morta — insistette Ida. — Figuriamoci, io ne ho visti a dozzine di... Lo schiaffo la fece vacillare. Rimase a guardare Alice, tenendosi una mano sulla bocca dove Alice l'aveva colpita. — Ne ho abbastanza di voi — sbottò Alice esasperata. — Filate in cucina. Sospinse la ragazza in corridoio. Ida se ne andò, piangente e furiosa. Quando Alice formò il numero del dottor Loring, la mano era ferma. Aveva completamente recuperato il controllo dei nervi. All'altro capo del filo, le rispose una voce maschile che riconobbe. — Siete voi, dottor Loring? Sono Alice Heath. Non so se... — Sì, signorina Heath. Dite pure. — Non potreste venire subito da noi? Mia sorella... temo che mia sorella stia per morire... — Come? Che cos'è accaduto? — Niente, assolutamente niente. Stava bene un paio d'ore fa ed ora è così... sembra in coma... — Coma — ripeté lui. — Soffre di cuore? di diabete? — No, non ha mai avuto nulla. — Vengo subito. Sarò lì tra una decina di minuti. Alice riappese, ritornò nella camera di Kelsey. Philip era inginocchiato di fianco al letto, il viso premuto contro una mano inerte di lei. — Rialzati — disse Alice con voce stridula — non capisci che le togli l'aria a starle così a ridosso? Lui girò lentamente la testa e la guardò con gli occhi spenti. — Vai via, Philip — disse lei. — Il dottore sarà qui a minuti. Egli non si mosse. Alice allora si curvò e lo afferrò per le spalle forzandolo ad alzarsi. Le dita sottili e nervose affondavano con rabbia nelle spalle. Sapeva di fargli male e ne provava un amaro piacere. — Sono stanca di avere a che fare con dei pazzi! — gridò. — Vai da John e digli che tra poco arriverà il dottore. Maurice è uscito. Di' a Johnny che apra lui la porta al dottor Loring. Quanto a te, sarà meglio che tu vada
a fare quattro passi. Hai capito? Egli annuì con stanchezza. — Come vuoi. — Ti farà bene — aggiunse in tono più gentile. Quando fu sola nella camera, accostò la poltrona al letto e sedette. Bisognava aspettare. Teneva il busto eretto, le mani raccolte in grembo in una posa composta. Era così intenta a mantenere la posa che non udì entrare il dottore. Così la vide il dottor Loring. "Eccola di nuovo alle prese con se stessa" pensò lui con un'inspiegabile commozione. Non la ricordava così minuta e fragile. — Buonasera — disse. — Oh! — Alice sussultò. — Buonasera, dottore. Si alzò e offerse al dottore la poltrona vicino al letto. Lui sedette tenendo la sua borsa sulle ginocchia, e prendendo tra le dita il polso di Kelsey. Corrugò la fronte e si chinò su di lei per sollevare una palpebra. — Che cos'ha, dottor Loring? — domandò Alice. Lui non rispose direttamente. — Telefonate all'Ospedale Generale, cercate del dottor Hale e ditegli se può venire. Ditegli anche di portare iniezioni di caffeina e il necessario per la lavanda gastrica. È un avvelenamento, probabilmente di morfina. Avete capito? Alice annuì col capo, ma non riuscì a parlare. — Procuratemi subito borse di acqua calda e coperte. Dove sono le persone di servizio? — Ho già fatto preparare le borse di acqua calda — disse lei con voce roca. — Le coperte sono nell'armadio a muro. — Bene. Ricordatevi il nome; dottor Hale, all'Ospedale. Ditegli che deve trattarsi di una forte dose di morfina. Presto, per favore. Alice attese a lungo davanti alla porta della camera di Kelsey, attraverso la quale giungevano rumori strani: tintinnio di metallo, gorgogliare di liquidi, gemiti soffocati e secche frasi di comando. Finalmente la porta si aprì e ne uscì il dottor Hale, calmo e sorridente. — Tutto bene — annunciò. Dietro il sorriso professionale, Alice scorse nei suoi occhi una domanda: "Come ha potuto procurarsi la morfina?". Ma la domanda non fu pronunciata e il dottor Hale scese le scale con passo vivace, fischiettando tra i denti. Alice ritornò sulla porta della camera. L'infermiera stava finendo di ripu-
lire. Il dottor Loring in piedi accanto al letto osservava in silenzio Kelsey. — Le pupille cominciano a reagire — disse infine. — Molto bene — commentò la signorina Keller. — Allora io me ne vado. Buona notte, dottore, buona notte, signorina Heath. La donna uscì, il dottor Loring prese il cappotto che aveva posato sul pavimento e cominciò a infilarselo con gesti goffi come se avesse i muscoli irrigiditi. — Dottore... — cominciò Alice. — Parleremo quando saremo scesi — disse con voce stanca Loring. — Si è addormentata, naturalmente, e potremmo disturbarla. Verificò il contenuto della sua borsa, la chiuse e si avviò. Scesero insieme. La porta del salotto era aperta e dall'atrio in penombra poterono scorgere John, sprofondato in una poltrona di fronte al caminetto. Alice si diresse verso il salotto ma Loring la trattenne posandole una mano sul braccio. — Preferirei parlare soltanto con voi. — Va bene — disse lei — entrate qui allora. Alice fece scattare un interruttore e dall'oscurità emerse uno studiolo, un piccolo ambiente accogliente con le pareti tappezzate di libri. Loring non si guardò intorno però. Scrutava Alice, colpito dall'espressione che le aveva visto negli occhi, rivelata dalla luce improvvisa. Si aspettava una reazione di ostilità in lei. Era ciò che di solito accadeva ai familiari dei suoi pazienti. Sembrava che il fatto di dover ricorrere all'aiuto di uno psichiatra fosse di per se stesso un fatto spiacevole di cui illogicamente veniva ritenuto responsabile lo psichiatra. Ma se questa era una reazione comune, ciò che lo lasciava perplesso era stata la paura che aveva letto nei suoi occhi, e la stanchezza che aveva sentito nella sua voce. — Pensate che sia stata lei... ad avvelenarsi? — domandò la ragazza. Egli si sedette senza fretta e si guardò intorno. — Non aveva mai detto di volersi uccidere? — No... non seriamente. — Come potete sapere se lo ha detto seriamente o no? In ogni caso penso che vi rendiate conto che io ho il dovere di fare un rapporto alla polizia. — Sì — disse quasi sussurrando — lo so. Credete che la arresteranno? — Evidentemente non la metteranno in prigione, ma possono affidarla a un istituto. — Oh no! Non possono fare questo! — Non lo farebbero solo in un caso: e cioè che fosse stato qualcun altro
a propinarle la morfina. — Nessuno può averlo fatto. Come potete crederlo? Nessuno può aver fatto una cosa simile! — esclamò Alice. Lui la guardò fissamente. — Perché no? È molto facile propinare della morfina mescolata ai cibi o alle bevande. Credo sia dimostrato da una statistica che questo è il metodo preferito dai medici assassini. Vi risulta che la droga fosse in casa? — No, non ultimamente almeno. — Quando allora? — All'epoca in cui mia madre era ammalata, l'infermiera aveva il permesso di somministrargliela. — Dopo la morte di vostra madre, che ne è stato fatto? — Non lo so. Quando in casa muore qualcuno non ci si occupa di questi particolari... — Le infermiere però se ne occupano o almeno dovrebbero. Come si chiama l'infermiera? — Signorina Allison. Anche Letty curava mia madre, ma era la signorina Allison l'infermiera incaricata. — Vorrei parlare con Letty — disse Loring. — È in libera uscita questa sera, ma rincaserà tra poco. — Come si chiama il medico che vi ha proposto la Allison? — Beringer. Loring tolse di tasca una vecchia busta e vi annotò il nome. — La cameriera — riprese lui — era particolarmente vicina a vostra sorella, se non sbaglio. — Sì. — Perché? — Kelsey la voleva sempre vicina. Ida fa le carte, legge il futuro nei fondi del tè, e... così è cominciata questa amicizia. Naturalmente amicizia non è la parola giusta. — Intesa — suggerì lui. — Potrei parlare con questa ragazza? — No. Non servirebbe a niente. È troppo stupida per aver notato qualche elemento utile a chiarire. — Inoltre — fece Loring scrutandola — la cosa potrebbe causarvi qualche umiliazione. Preferite che la interroghino quelli della polizia? — Perché mai dovrebbero interrogarla? — Perché vostra sorella è cieca. Qualcuno deve averle procurato la droga. Anche nel caso che sia stata lei a volerla prendere, c'è stato qualcuno
che gliel'ha data. Ci fu un lungo silenzio. Poi Alice alzò la testa e guardò Loring con indifferenza. — Va bene. Suonate il campanello — disse. Passarono cinque minuti prima che Ida si presentasse. Era rossa in viso e spettinata, con il grembiule spiegazzato. Quando si trovò di fronte al dottor Loring, il suo viso assunse un'espressione di stupore e fece per andarsene. — Venite qui — ordinò lui — e chiudete la porta. Ida si chiuse la porta alle spalle, e si appoggiò al muro. Le grosse mani cincischiavano il grembiule nervosamente. — Non so niente — cominciò a dire in tono cupo. — Io non c'entro. È stata la mano di Dio. — Le avete portato voi il vassoio per la cena? — Certo. Dato che non voleva scendere a mangiare, ha cenato presto, alle sei e mezzo circa. Le ho portato un piatto di pollo con funghi che la cuoca aveva cucinato per lei. Le ho portato anche del tè. Dovevo leggerle il fondo della tazza. — È uno speciale talento che avete? — domandò Loring asciutto. La ragazza rispose agitando la testa: — Un sacco di gente che si crede intelligente, non crede a queste cose. Mia madre, che mi ha insegnato a leggere nei fondi del tè, era la settima figlia di una donna che era anche lei la settima figlia. Al buio potevate vedere le scintille che sprizzavano intorno a lei. Non aveva neanche potuto andare a scuola quando era bambina perché gli spiriti bussavano colpi nel suo banco e le maestre avevano paura. E le maestre credo siano persone intelligenti e istruite quanto tutti gli altri. — Avete bevuto anche questa sera — intervenne Alice. — Avevo mal di denti. Spero di avere il diritto di curarmi il mal di denti, specialmente se non bevo liquori della casa. — Si volse a Loring. — Tengono i liquori chiusi a chiave in questa casa. Loring sorrise silenziosamente. — Che cosa avete visto nei fondi della tazza della signorina Heath? Ida roteò gli occhi. — Quattrini. Quattrini su cui pesa una maledizione, quattrini che portano male. Un viaggio, un lungo viaggio da cui non si torna più indietro. Ci ho ripensato poi, era proprio tutto giusto. C'era anche un uomo, un uomo bruno. — Ida — scattò Alice. — Non dite bugie al dottor Loring. — C'era un uomo bruno! Stava tra il lungo viaggio e i quattrini, anzi i quattrini gli stavano intorno ai piedi.
— Dobbiamo stare ancora ad ascoltare queste idiozie? — disse Alice freddamente. — Atteniamoci ai fatti. — La signorina Heath si è lamentata del sapore dei cibi o del tè? — s'informò il dottore. — Sì, come sempre. Ha detto che il tè aveva un gusto amaro. — Portate direttamente il vassoio dalla cucina in camera della signorina? — No — rispose Ida beffardamente. — Lo porto a fare una passeggiata intorno alla casa per fargli prendere una boccata d'aria. Loring proseguì ignorando la battuta. — Dunque il vassoio passa dalle mani della cuoca a quelle della signorina solo attraverso voi. — E dalle mani di Dio anche — Ida si avvicinò a Loring e lo investì con una zaffata di alito di grappa. — Dite un po', siete anche voi di quelli che si pensano troppo intelligenti e istruiti per credere in Dio e in tante altre cose? Alice si volse a Loring. — Ha bevuto, come vedete. Non mi pare il caso di continuare con questi sproloqui. — Sono ubriaca, io? — Ida fece qualche passo verso Alice. — Forse perché dentro di me c'è qualche cosa che mi fa "sentire" le cose? Questa sera io "sapevo" che la signorina sarebbe morta. Un lungo, lungo viaggio... — Smettetela di dire sciocchezze — sbottò Loring. — Se non riesco io ad avere le informazioni che voglio, ci penserà la polizia. La signorina Kelsey è stata avvelenata. — Avvelenata! — Ida tese le mani verso di lui. — Io non le ho fatto niente, dottore. Come avrei potuto? Era la sola amica che avessi in questa casa. — Sedete — ordinò Loring forzandola a sedersi e rimanendo in piedi per meglio osservarla. — La signorina non vi ha chiesto di portarle una medicina? Delle pillole forse? — No. — Vi ha forse detto che si sentiva male? — No, mi ha detto soltanto che aveva sonno, poi ha chiuso gli occhi ed è stato come se qualcuno avesse spento la luce dentro di lei. Allora ho capito che sarebbe morta. — Non lasciatela parlare in questo modo! — gridò Alice. — Kelsey non è morta. Sta bene, avete detto voi che tutto è passato! Loring si avvicinò ad Alice e le prese una mano. — Salite in camera da lei e rimanetele vicino, se siete spaventata. — Non avrei dovuto lasciarla sola — continuò Ida in tono provocatorio.
— È la sola persona amica che avessi in questa casa, in cui tutti hanno il naso ritto... Alice chiuse la porta. Dovette rimanere per qualche momento nell'atrio ad aspettare che il tremito nervoso che le scuoteva le ginocchia si calmasse, e che sparissero le lacrime che le urgevano agli occhi. La polizia. Ancora una volta sarebbe venuta in casa la polizia. "Signor Heath, dite alla Corte dove avete incontrato per la prima volta la defunta Geraldine Smith. "Non erano stati consumati liquori o alcoolici quella sera, signor Heath? "Voi e la signorina Smith eravate seduti sul sedile posteriore, all'esterno della macchina. Continuate. "Signor James, dite alla Corte... "La Corte tiene conto..." Alice attraversò l'atrio e si diresse verso il salotto. Johnny era ancora sprofondato nella poltrona. Quando vide gli occhi annebbiati del fratello capì che aveva bevuto molto. "Forse anche lui sta riandando al passato" pensò. — Dov'è papà? — domandò. — Sono salito da lui, ma non era in camera. Come va Kelsey? — Il dottore ha detto che presto starà bene. — Dove può essersi procurata la morfina? E per quale ragione voleva morire? — È meglio che tu smetta di bere, Johnny — brontolò Alice. — Risparmiami il consiglio di andare a fare una passeggiata — ribatté lui con voce aspra. — Ho consigliato a Philip di uscire perché era sconvolto. Pensavo che gli avrebbe fatto bene prendere un po' d'aria fresca. Non farebbe male neanche a te del resto, ti aiuterebbe a smaltire... — Non sono sbronzo. — Salgo da Kelsey — tagliò corto Alice. Rimase a lungo seduta nella poltrona accanto al letto della sorella, senza pensare a nulla. Le ferite recenti si stavano già rimarginando. Era rimasto solo un dolore diffuso, una sofferenza ottusa di cui era stato difficile stabilire la sorgente. Kelsey respirava tranquilla. A un tratto mosse le mani sulla coperta e girò il viso verso la luce come se volesse dire ad Alice: "Guardami, sono bella, giovane, guarda la curva delle spalle, la grazia del seno, le guance rosee. Tutto ciò non significa nulla per me, desidero morire...".
L'orologio dell'atrio suonò la mezzanotte. Kelsey si mosse ancora. Alice si curvò su di lei. — Kelsey? — Ahh... — sospirò lei e il suono della voce era infinitamente stanco, ricordava il modo di sospirare di suo padre, simile a un gemito. — Sono io, Alice. — Alice... — sussurrò pianissimo. — Come stai, Kelsey? — Philip... — Philip non se ne andrà. Philip rimarrà qui. È per questo che lo hai fatto? — No... no... Morta. — Non sei morta, tesoro, starai bene di nuovo, presto. — Tornata indietro. — Certo, sei tornata con noi. Non devi più parlare ora, sei stanca. Le mani di Kelsey tormentavano le coperte. Alice gliele strinse con tenerezza. — Cerca di riposare ora. Dormi tranquilla. — So che cosa... fare... La voce si spense in un soffio. — Ahh... 6 Quando andava in scena l'ultimo spettacolo, all'una, Stevie Jordan era sempre un po' brillo. Ma a quell'ora anche i clienti del night club di Joey lo erano e i passi falsi di Stevie passavano inosservati. L'alcool rendeva tutto più bello; le ragazze erano più graziose sotto le luci attenuate, l'orchestra più indiavolata, le bevande più eccitanti e Stevie più brillante. Lui però non si faceva illusioni sul suo conto. Sapeva di essere un mediocre presentatore. Questa era la miglior scrittura che gli fosse mai capitata e che presumibilmente gli sarebbe mai capitata. Il locale di Joey segnava il culmine della sua carriera e poiché non si trattava di un culmine molto alto, Stevie non faceva sforzi per rimanervi. Era una persona che prendeva la vita come veniva ma aveva una particolare tendenza a cacciarsi nei guai; si innamorava regolarmente di ragazze di cui non avrebbe dovuto innamorarsi. — Ed ecco Marcie Moore che voi tutti ammirerete. Sapete come la chiamiamo familiarmente? La chiamiamo Ciambella... ed ora vedrete perché. Sei pronta, Marcie? Le luci della sala furono abbassate e il raggio di un piccolo riflettore va-
gò sul pavimento della pedana, strisciò verso la tenda illuminando finalmente una ragazza che stava seminascosta dal tendaggio e pareva troppo intimidita per presentarsi al pubblico. — Il suo vero nome è Marcella ma scommetto che preferite chiamarla Marcie... Forza, Marcie, saluta i tuoi ammiratori... La voce timida di Marcie si udì a malapena. — Salve, amici! La ragazza si mosse a piccoli passi riluttanti come se il fascio di luce del riflettore fosse una forza tangibile che la agganciasse e la tirasse a sé. Indossava un paio di calzoncini aderentissimi e un reggiseno di raso nero, ma la sua figuretta scarna la faceva sembrare più castamente vestita delle signore in abito da sera. Aveva l'aria di un magro uccellino ancora implume. In realtà Marcie non era affatto intimidita. Anzi, considerava con disprezzo i clienti del Club e li chiamava "un branco di sbronzoni". Joey voleva che lei si comportasse così in scena, e se un cliente andava a chiedergli il numero di telefono della ragazza rispondeva che con Marcie non c'era nulla da fare; era una ragazza che viveva con sua madre. — Vive con la mamma — ripeteva Stevie presentandola. — C'è poco da scherzare. Quanti di voi possono dire altrettanto? A un tavolo un ubriaco intonò un piagnisteo sulla povera mamma morta, morta quando lui era piccolo, povera vecchia che aveva lavorato sodo tutta la vita... L'orchestra sommerse la sua voce. Era il pezzo di Marcie, un tango. La ragazza scattò inarcando il corpo e cominciò a danzare con movimenti vigorosi ed eleganti al ritmo del tango, poi l'orchestra tacque e solo qualche strumento punteggiò la serie di spaccate, l'esibizione di contorsionismo che costituiva la parte più difficile del numero. Marcie in quel momento dimenticava di sorridere al pubblico. Quando ebbe finito si inchinò e rapidamente scomparve dietro il sipario, seguita da una salva di applausi. Stevie ritornò sulla pedana applaudendo anche lui e guardando tra le tende come aspettandosi di vederla ricomparire. Era solo un trucco per sollecitare un applauso più fragoroso per lei. Stevie sapeva che Marcie non concedeva mai il bis durante l'ultimo spettacolo. — In gamba la ragazza, no? Sono contento che vi sia piaciuta... — Stevie riprese il discorso con il pubblico. L'ubriaco in sala continuava il suo piagnisteo. Stevie scese tra i tavoli, si avvicinò all'uomo e lo toccò su una spalla. — Che cosa vi capita? Un ragazzo alla vostra età piangere per la mam-
ma! — Ha lavorato sodo per tutta la vita... — singhiozzò l'altro. — Piantala, George! — disse la sua dama. — Fategliela piantare! — Bisogna consolare questo signore — disse Stevie gravemente. — È un dovere, un sacro dovere. Qualcuno può suggerire una buona idea? — Fategli sentire "Dolce Susanna" — lanciò una ragazza. — Avete sentito ragazzi? "Dolce Susanna". Ma neppure il pezzo di musica ottenne lo scopo desiderato, e fu necessario accompagnare l'ubriaco all'uscita. Era Stevie che doveva occuparsene. Si passò il braccio dello sbronzo sopra le spalle e lo guidò verso il guardaroba. Ritirò cappello e cappotto e lo aiutò a infilarselo. Fece chiamare dal portiere un tassì e quando la macchina arrivò, vi depose di peso l'uomo. — Ciao, amico, auguri e buon viaggio! Quando l'auto se ne fu andata, Stevie rimase per qualche momento sul marciapiede, lasciando che il vento gli scompigliasse i capelli. Prima di rientrare in sala, sostò a pettinarsi e a raddrizzarsi la cravatta. — Una serata movimentata — disse la ragazza del guardaroba. — Sì — annuì sorridendole distrattamente. — Non si è ancora visto il gorilla di Marcie questa sera? Lei fece un risolino divertito. — Non ancora. Però non è un gorilla... — protestò. — Be', lo so. Quello è il tipo che rimane a casa se non ha un abito nuovo da sfoggiare. — Andiamo!, signor Jordan... — Un plutocrate grassoccio — continuò con una smorfia — ecco che cos'è. Non posso soffrire i plutocrati grassocci con la schiena tonda. La ragazza rise ancora e lui le pizzicò la guancia. Dopo tutto era già qualche cosa far ridere una ragazza. Con Marcie, non ci era mai riuscito. Lo guardava freddamente. "Mi spiace, signor Jordan, forse non ho il senso dell'umorismo" o peggio ancora: "Avete l'aria di aver bevuto, signor Jordan". Sempre, quando si rivolgeva a lui, la sua voce, il suo viso esprimevano disprezzo e riprovazione. Non che Marcie gli piacesse molto, ma Stevie sentiva ormai che stava per innamorarsene. Ora erano di scena le ragazze. Si dondolavano sulle anche segnando il tempo, mentre Mamie cantava una canzone sospirosa. Da come cantava, Stevie capì che Murillo, lo spagnolo con cui Mamie stava da molti anni, ancora una volta l'aveva piantata. Stevie si fece strada tra i tavoli e andò dietro il palcoscenico. Trovò Marcie che da dietro la tenda fingeva di guar-
dare le ragazze. Con un piede seguiva il ritmo della musica. Gli occhi miopi fissavano intensamente, al di là delle ragazze, la sala in penombra. Cercava di scorgere qualcuno. — Piantata? — domandò Stevie. Marcie sussultò come punta da un ago rovente, ma si ricompose subito continuando a canterellare tra i denti. — Se fossi in te non mi fiderei di un gentiluomo — continuò Stevie. — Un bel giorno lui incontra una gentildonna e chi si è visto si è visto. — Sbronzo anche stasera — commentò lei senza voltare la testa. — Naturalmente — ribatté Stevie bonariamente. — I gentiluomini, si sa, hanno le loro idee sul matrimonio, sui bambini, sulla casa col giardino. Marcie questa volta girò la testa e lo fissò furiosa. — Che intendete dire? Anche a me piacciono i bambini. Anch'io posso avere dei bambini come chiunque... — Sicuro, e anche una casa col giardino — completò Stevie — però... Le ragazze del balletto rientravano nei camerini. Visi truccati, sorrisi professionali, mascelle che riprendevano a masticare gomma che durante il balletto era stata appicciata tra un dente e l'altro. Mamie Rosen poteva sfogarsi a singhiozzare. Si avvicinò a Stevie asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. — Stevie, quel cimice... — Ci risiamo? — domandò Stevie battendole amichevolmente la mano sulla spalla nuda. Gocce di sudore si facevano strada nel cerone roseo di cui Mamie aveva ricoperto il viso e le spalle. Stevie ritirò la mano bagnata di sudore, e gliela passò sui capelli con gesto carezzevole. — Ritornerà — disse Stevie incoraggiante. — Non è sempre tornato? — Se potessi esserne sicura, Stevie! Forse questa volta... — Stai tranquilla. Non è il tipo che si mette a lavorare per mantenersi — continuò lui ironicamente, e la sospinse verso i camerini. Quando si voltò verso Marcie, la vide ancora nell'atto di spiare tra le tende. Aveva un'espressione ansiosa e infelice mentre strizzava gli occhi miopi. Stevie le si avvicinò standole alle spalle. — Come si chiama? — le domandò all'orecchio. — Non è affar vostro — replicò lei senza voltarsi. — Credi? — Si avvicinò ancora fino a sfiorarle con l'alito il collo. — Tutto, qui dentro, è affar mio; io sono gli occhi e le orecchie di Joey. E se occorre il suo pugno... Lei si strinse nelle spalle. — Se Johnny volesse vi farebbe rimbalzare
come una palla. E non respiratemi nel collo, per favore! — È il mio modo di fare il cascamorto con le ragazze — disse Stevie. — Respiro loro nel collo. — Signor Jordan... Stevie... Capì che la ragazza stava per chiedergli un favore. Non chiedeva spesso favori e non riusciva a farlo con grazia. Tutto quello che poteva fare era di chiamarlo per nome. — Stevie, avete visto se Johnny è in sala? Da qui non riesco a vedere. Egli finse di guardare in sala attraverso lo spiraglio fra le tende. — Dovrebbe essere in fondo a sinistra — disse Marcie. — Di solito siede all'ultimo tavolo. — No — disse lui richiudendo le tende. — A meno che non sia ubriaco fradicio e non sia caduto sotto la tavola, il mio verdetto è: non c'è. Ci sono io però e ti giuro che non sono neanche un pochino sbronzo. Lei non ascoltava, guardando avanti a sé, tenendo le esili braccia nude strette intorno al corpo. I lineamenti induriti la facevano rassomigliare a una bestiola presa in trappola. Un furetto, pensò Stevie. No, in fondo la ragazza non gli piaceva, provava per lei quasi un senso di paura. Nonostante queste riflessioni, disse ancora: — Io sono a tua disposizione, Marcie. Lei scosse la testa con insofferenza. — Oh voi... Stevie allora fu sul punto di cedere. Stava per dirle che il suo Johnny era in sala, seduto come ogni sera, all'ultimo tavolo a sinistra, ma non aprì bocca. — Vai a vestirti, Marcie. Ti accompagno a casa, dalla mamma. — No, no, grazie. — Sì, invece. Vestiti e vieni con me. Lei esitava. Gli stava di fronte con le braccia incrociate sul petto, le esili mani stringevano nervosamente gli omeri. — Non voglio che, per essermi fatta accompagnare a casa da voi, dopo pensiate che... — Non penso proprio niente — disse allegramente Stevie. Rimase a guardarla finché la vide sparire nel camerino, poi si avviò a prendere il suo cappotto, fischiettando tra i denti. Si sentiva bene, e tanto pieno di buonumore che quando si curvò sul banco del guardaroba dietro cui stava la ragazza, le diede scherzosamente uno sculaccione. La ragazza squittì e corse via a cercargli il cappotto. Quando fu di ritorno, Stevie non era più in vena di scherzi. Stava parlando con un enorme giovanotto dalle spalle muscolose.
— Ah sì? — stava dicendo Stevie. — Siete arrivato troppo tardi. Il giovanottone era molto educato. Guardò dall'alto della sua mole Stevie e disse con voce di basso: — Mi stavo chiedendo... Poi vide la ragazza del guardaroba e le rivolse un sorriso. — Sto aspettando la signorina Moore. Non è ancora uscita, vero? La ragazza ammiccò furbescamente a Stevie. — Non lo so proprio. Voi che ne dite, signor Jordan? — Certo che è uscita — rispose lui. — È uscita prima del solito perché si è presa una polmonite doppia. Sapete, a causa degli indumenti... che non porta. Il giovanotto sorrise distratto. — Voi siete il signor Jordan, vero? — Sissignore; Jordan il bello spirito. — Marcella parla spesso di voi. Dice che siete molto buffo. Stevie lo fissò. — Ah sì? Dice questo? Sono lieto di saperlo. — Se Marcie fosse ancora qui, potreste per favore dirle che la aspetto? Sono John Heath. — Va bene, signor Heath — confermò Stevie — glielo dirò. Stevie mantenne la parola data. Più tardi uscì passando dall'ingresso secondario. Si sentiva improvvisamente stanco e indifferente e non gli importava più di niente, neanche di Marcie. Sulla porta, le ragazze del balletto aspettavano i loro cavalieri. Mamie non aspettava nessuno ma stava con loro tanto per non rimanere sola. Era un'ebrea polacca con occhi scuri e capelli biondissimi, sciupati dall'ossigeno. Da molti anni stava con Murillo ed era ancora innamorata di lui come i primi tempi. Si disperava quando lui era lontano, il che accadeva molto spesso. Quando vide Stevie gli si aggrappò al braccio, lo seguì fino all'automobile e prese posto al suo fianco. Aveva ancora gli occhi bagnati. — E piantala! — scattò Stevie. — Tu non puoi capire... Non mi ha neanche salutato, ha scritto su un biglietto che va via. Non so quando lo rivedrò, forse... — Ti risparmierebbe guai e quattrini se stesse alla larga. — Ci si abitua a vivere insieme. È bello svegliarsi la mattina e trovare qualcuno vicino. — Ci si può anche abituare a dormire con un cobra e avere la gioia di trovarselo vicino al mattino. — Lui non è un cobra... La voce le morì in gola e tacque scoraggiata. Stevie voltò la macchina per imboccare la Bloor Street. Davanti al night
stazionava una lunga fuoriserie gialla. Senza girar la testa Stevie avvertì con che sguardo Mamie fissava la macchina. Era il modo con cui la gente come lui e Mamie guardava macchine simili, imprecando tra sé: "Vorrei proprio sapere che cosa ha di speciale quel tipo per meritarsi una macchina simile", oppure: "Un giorno o l'altro...". Mamie si lasciò sfuggire un sospiro pieno di invidia. — Lo stesso individuo — commentò Stevie — con una macchina diversa. — Cosa dici? — L'altra macchina è andata in malora; quella che guidava quella sera. — Di quale altra macchina stai parlando? — Mamie corrugò la fronte. — L'altra macchina era azzurra. Sono andato a vederla nel garage dove stavano tentando di rimetterla insieme. C'è andata molta gente a vederla. Bastava dare una mancia al meccanico della rimessa... Ci sono andato anch'io. Per vedere il sangue, forse. Può darsi che sia un tipo morboso. Ho visto il sangue, ma non era il suo, non era nel punto in cui stava lei. — Non capisco... — Geraldine. — Geraldine? — domandò lei come se facesse uno sforzo per ricordare. Stevie però sapeva che lei ricordava perfettamente. — Hai preso tu il suo posto come cantante — disse lui. — Ora riesci a ricordare? — Senti, Stevie, questa sera non ho voglia di pensare a queste cose. Ne ho già abbastanza di pensieri poco allegri per la testa. — Joey ti ha preso dalla fila delle ragazze e ti ha fatto cantare la sera che lei non è potuta venire perché era morta — insisté Stevie. — Non voglio che mi parli di questo! — strillò Mamie istericamente. — All'inferno! Neanche a me piace parlarne, ficcatelo in testa! Rimasero a lungo in silenzio. Mamie sprofondata nel sedile, il più possibile lontano da lui, si accarezzava il collo di pelliccia del cappotto, per trovarvi calore e consolazione. Era un bel collo di pelliccia, vera volpe argentata. Tony gliel'aveva comperata un paio d'anni prima da un cinese. Poco tempo dopo il cinese era venuto al Club e aveva piantato una grana per riavere il cappotto. Naturalmente lei non aveva voluto restituirlo e c'era stata una brutta storia. Proprio quella sera Tony era scomparso e per un paio di mesi non si era fatto più vivo. Quando era tornato, aveva delle cicatrici sul torace, Mamie non aveva domandato nulla, ma era chiaro che il cinese doveva aver regolato i conti.
— Eppure è strano — mormorò Stevie. — Che c'è di strano? — domandò lei con un moto di impazienza. — Heath. — Heath — ripeté Mamie, come se il nome risvegliasse in lei il ricordo di qualche cosa. — È il nome di quel tizio, quello che sta dietro a Marcie. Stava dietro anche a Geraldine due anni fa. — Non vedo che cosa ci sia di strano. Ai ricconi piace andare con quel genere di ragazze. — Come sarebbe a dire? Che genere di ragazze? Lei si strinse le mani in grembo. Erano belle mani forti, ma non sembravano mai perfettamente pulite. — Il genere a cui appartengo io — disse Mamie. — "Facile" mi immagino che diciate voi uomini. Stevie la fissò apertamente. — Marcie non è di questo stampo. — Va bene, e che me ne importa? Ognuno vive come gli pare e piace. — Dove abiti? — Lo sai benissimo dove sto. Mi rivolti lo stomaco, Stevie. — Anche a me — ribatté lui. — Pensavo che tu fossi più umana. Stevie non parlò più finché non arrivarono davanti alla pensione dove viveva Mamie, in Charles Street. Si chinò per aprire lo sportello dalla parte di Mamie e disse: — C'erano altre persone in macchina, ma Geraldine soltanto è rimasta uccisa. La ragazza tentò di scendere, ma lui la trattenne con la mano. — C'era un'altra ragazza — continuò Stevie. — Qualcuno in seguito, per rialzarmi il morale, mi disse che l'altra è diventata cieca. Pare che diventar ciechi sia peggio che morire. — L'altra ragazza era la sorella di Heath. Ricordo di averlo letto sul giornale. Grazie per il passaggio, lasciami scendere. — Ascolta! — finì Stevie, tenendola con forza per un braccio. — Non dire una parola di questo a Marcie. Lei lo guardò sfuggendo subito con lo sguardo. — Va bene. Non dirò niente. Non sono una pettegola. — Ma dentro di sé pensava già come avrebbe fatto a dirlo a Marcie. Il suo viso non cambiò espressione. Perché non avrebbe dovuto dirglielo? — Lei non immagina neanche che io conosca il cognome di questo tizio — spiegò Stevie. — Accidenti! Quando mi sveglio di notte, vedo sempre la sua faccia e mi tocca bere qualcosa per riprender sonno.
— All'inferno! — Mamie lo respinse con insofferenza. — Sei proprio fissato! Cerca di dimenticare questa storia. — No. Non solo non voglio dimenticarla, ma ogni volta che giro un angolo di strada, penso che potrebbe esserci lui dietro quell'angolo e io potrei dargliele sode... e poi non lo picchierei... — Perché no? — disse Mamie quasi allegramente. — Certo che potresti dargliele, sebbene... Be', lasciamo andare. Buonanotte, Stevie. Mamie sbatté il portone e scomparve. Stevie sedeva dietro il volante, a occhi chiusi. Ultimamente gli capitava spesso che, tenendo chiusi gli occhi, una tenda di velluto nero gli calasse sulle palpebre. Apri gli occhi in fretta e mise in moto la macchina. — Devo mettermi un paio di occhiali — ammise ad alta voce. Parlare a voce alta lo rassicurava. Queste ore della notte non gli piacevano. La città sembrava morta, o meglio, animata da una vita silenziosa che si svolgeva segreta dietro le porte chiuse. Si sentiva il bisogno di guardarsi dietro le spalle per sentirsi più sicuri. Quando svoltò l'angolo dell'Avenue, l'orologio della Torre del Soldato scoccava le tre. Bong, bong, bong. Un colpo per Geraldine, uno per Marcie... — E uno per me — disse. I colpi erano solo tre, ma egli immaginò che continuassero a scoccare. — Uno per Joey. Uno per Murillo. Uno per Johnny Heath. — Premette sull'acceleratore per allontanarsi in fretta. Imboccò la strada che saliva in collina, fiancheggiata da pensioncine e da negozi. A misura che la strada si avvicinava alla sommità della collina i negozi e gli edifici diventavano più lussuosi. E infine arrivò a St. Clair. Johnny Heath viveva qui. Già una volta Stevie era venuto fin quassù, per vedere la casa di lui, dove viveva assieme alla sua fuoriserie gialla e alla sorella cieca. Svoltò a sinistra, guidando molto lentamente. Non voleva fermarsi, aveva solo intenzione di passare davanti alla casa. Ma la macchina sembrò fermarsi da sola. Stevie spense il motore e accostò al marciapiede. Da qui non si poteva vedere la casa degli Heath se non confusamente. Se ne scorgeva solo un debole chiarore tra gli alberi. Rimase per qualche tempo immobile, lo sguardo fisso a quel riflesso di luce. La strada era deserta. Non passavano più automobili. In piena notte gli piaceva salutare la gente che passava in macchina. C'era un legame tra lui e gli altri che se ne andavano a casa, a quell'ora in cui tutti dormivano, in cui le strade sembravano fatte apposta per i nottambuli. Dietro a lui, nel silenzio, risuonò un passo strascicato e pesante. Sem-
brava quello di un vecchio. Qualcuno camminava sul marciapiede, i passi si avvicinavano. Aprì lo sportello e attese. Avrebbe chiesto al passante un fiammifero. Non che ne avesse bisogno; sul sedile posteriore della macchina c'era una intera stecca di bustine, di quelle che servivano per fare pubblicità al locale di Joey. Stevie voleva solo trovare un pretesto per parlare con qualcuno che come lui fosse ancora sveglio nella città addormentata. I passi sostarono. L'uomo aveva una figura imponente ma appesantita e incurvata dall'età. — Avete un fiammifero, per favore? — domandò Stevie. L'uomo sembrò non capire. — Un fiammifero — ripeté Stevie. — Ah? — Se non vi spiace, vorrei un fiammifero... L'uomo si era curvato e dal finestrino fissava Stevie all'interno della macchina. — Avete detto un fiammifero? — domandò. — No — rispose in fretta Stevie con voce aspra. — No, grazie, non mi serve più. La faccia dell'uomo era quella di Johnny Heath improvvisamente invecchiato, la bocca e le gote cadenti. Anche la voce era la stessa, soltanto terribilmente stanca. — Ho quanti fiammiferi volete. Non mi spiace affatto darvene... — Non ha più importanza — insistette Stevie — mi ero dimenticato di averne in macchina un'intera provvista. Guardate — disse prendendo la stecca dal sedile posteriore e mostrandogliela. Il vecchio fissò con espressione solenne la scatola di cartone con la scritta "Club Joey, il locale notturno più elegante di Toronto". — Meglio così — concluse il signor Heath. — Buonanotte allora. — Buonanotte, signor Heath — disse Stevie richiudendo lo sportello. La faccia del vecchio signore si inquadrò nuovamente nel finestrino. — Mi conoscete? Mi spiace di non ricordarmi... forse siete un amico delle ragazze? Scusatemi... Buonanotte. — Buonanotte — ripeté Stevie. Qualche minuto più tardi la luce dietro gli alberi scomparve. 7 Cinque minuti dopo, il signor Heath aveva già dimenticato l'incontro con
il giovanotto della macchina. Gli era difficile ricordare quello che gli accadeva e poi era troppo stanco per compiere qualsiasi sforzo. Spense la luce nell'atrio. Maurice l'aveva lasciata accesa per lui. Il maggiordomo era l'unico a sapere che quando il signor Heath non poteva dormire, usciva di casa in piena notte e camminava nelle strade della città addormentata, con le membra pesanti, gli occhi annebbiati come un vecchio leone. Arrivato al primo piano vide che la luce filtrava da sotto la porta di Kelsey. Sostò per qualche secondo, poi riprese a salire. Per andare al secondo piano, dov'era la sua camera, il signor Heath usava la scala di servizio. Non si era mai soffermato a ragionare sul perché, ma confusamente sapeva che questa abitudine risaliva a Isabel. Era stata lei che lo aveva confinato al secondo piano. Nei primi anni di matrimonio avevano condiviso la grande camera al primo piano, quella che ora occupava Kelsey, ma Isabel aveva sempre odiato questa convenzione di felice vita coniugale. Quando si ammalò, mandò il marito al piano superiore, e questo sanzionò di fatto uno stato di cose ben definito. Lui non poteva far più nulla per lei; non dare sollievo ai suoi dolori, non confortarla con la sua compagnia, non mantenere i bambini, non dare ordini alla servitù. Da allora il signor Heath aveva sentito di appartenere al secondo piano della casa. Quando poi Isabel era morta, non aveva neanche pensato di ritornare al primo piano. Troppo disturbo, eppoi non si sentiva del tutto sicuro che lei se ne fosse davvero andata dalla camera. Avrebbe sempre potuto tornare a turbargli i sonni con gemiti e rampogne. In cima alle scale, si sporse a guardar giù, portando una mano all'orecchio, per afferrare un rumore indistinto che gli era parso di sentire. Sembrava il rumore di passi silenziosi e rapidi, smorzati dal tappeto. Non poteva essere Isabel? Oppure era il cane? Entrò in camera sua e cominciò a svestirsi al buio. "Buio" disse Kelsey. "Com'è buio, Alice. Vieni ad aiutarmi, Alice!" "Eccomi. Non aver paura. Vengo subito." Erano in un bosco scuro, dove alberi smorti e scarni tendevano i loro rami scheletrici, dalle estremità vibratili come tentacoli. I tentacoli sembravano voler afferrare Alice che correva. Anche Kelsey correva, si allontanava da Alice veloce e leggera, come se conoscesse meglio di lei il bosco oscuro. "Vengo, Kelsey! Aspettami!" gridò. Sentiva una risatina di uccelli tra i rami, e insieme l'eco di singhiozzi.
Raggiunse Kelsey che con il viso sprofondato nel muschio del terreno piangeva. La sollevò: troppo tardi. Era il viso di sua sorella, morta. Era Kelsey che era morta, non l'altra ragazza. L'altra ragazza era diventata cieca, e Kelsey giaceva morta, tra il muschio smosso e inzuppato di sangue. Le toccò con le dita il viso freddo e i tentacoli dei rami si abbassarono per afferrare la preda... Alice si svegliò gemendo, respirando affannosamente. Il bosco, la ragazza morta erano scomparsi. Solo il ticchettio dell'orologio le faceva risentire il sommesso ciangottio degli uccelli, tra i rami. Bong, bong, bong, bong. Un colpo per Geraldine. Uno per Marcie. Uno per Stevie e un altro per chi lo vuole. Percorreva le strade della città, i luoghi noti. Victoria College, la Torre del Soldato, l'edificio del Parlamento, il Parco. Da almeno due anni Stevie non aveva più attraversato il Parco. L'ultima volta che c'era venuto era stato con una ragazza. Ricordava molto bene quella sera. Camminavano insieme e la ragazza parlava a bassa voce, con il viso basso e un po' voltato, come se si vergognasse delle parole che stava per dire. Ma lui sapeva che gli occhi le brillavano di felicità ed era rimasto ad ascoltarla in silenzio. "Ascolta, Stevie. Ho pensato che te lo avrei detto meglio durante una passeggiata, in un luogo pubblico; così tu non perderai la calma, non ti arrabbierai. Sai, qualche volta io ho un po' paura di te..." Non gli era mai capitato di perdere la calma con lei, non aveva mai detto parolacce, non l'aveva mai battuta. Ora era troppo colpito da queste parole per replicare. Forse lei riusciva a vedere in lui cose che potevano farle paura. "Stevie, credo che tu sappia già che cosa voglio dirti. Non verrò a casa con te questa sera. Ho pregato Margy di venire a prendere quello che ho lasciato da te. No, non credere che 'lui' abbia detto niente di quello che tu pensi. Soltanto... ho visto le sue sorelle per strada, ieri. Margy me le ha indicate. Sai com'è, mi sono sentita un po' a disagio quando ho visto le sue sorelle; l'idea che dormo con te..." Charles Street. Forse poteva tornare da Mamie Rosen e chiedere un bicchierino. La padrona di casa di Mamie non era noiosa. La sua invece era uno strazio. Aveva la mania di attaccare cartelli dappertutto, specialmente nel bagno.
Si prega di voler gentilmente astenersi dal prendere il bagno dopo le undici di sera. Ethel G. McGillicuddy. In considerazione della quiete degli altri pensionanti, si prega di non far uso del gabinetto, altro che per piccole necessità dopo la mezzanotte. Questo per evitare rumori che possono disturbare. Firmato: Ethel G. McGillicuddy. Non la si vedeva mai. Le comunicazioni venivano affisse nel bagno sotto forma di cartelli, oppure di striscioline di carta, appuntate sul cuscino. Signor Jordan. Che cosa si deve fare delle calzine ammucchiate nell'armadio? Obbligatissima Ethel G. McGillicuddy. Stevie conservava i bigliettini e li leggeva poi agli amici per riderne insieme. La signora McGillicuddy aveva sempre chiamato Geraldine signora Jordan sebbene sapesse che non era la moglie di Stevie. Aveva un modo tutto suo di mettere Geraldine al suo posto. La ignorava e scriveva le sue note indirizzandole a Stevie soltanto. Per esempio: Signor Jordan, prego chiedere alla signora di evitare di lavarsi i capelli sotto la doccia. Obbligatissima E. G. M. I capelli ostruiscono lo scarico. Stevie non era andato ai funerali di Geraldine. Vi era andata la signora McGillicuddy, avvolta in gramaglie, con un enorme mazzo di crisantemi. Quando era tornata a casa aveva gli occhi rossi, si era immersa nel lavoro e presto l'affissione di nuovi bigliettini aveva ricominciato a stigmatizzare la condotta dei pensionanti. Stevie fermò la macchina di fronte alla casa di Mamie. Le tapparelle della sua camera erano abbassate, ma la luce filtrava tra le liste di legno. — Mamie! — chiamò Stevie. — Mamie! Affacciati! Si alzò una tapparella al secondo piano. — Va' all'inferno! — gridò una voce maschile. — Mamiiie! — Se non la smettete chiamo la polizia! Stevie salutò l'uomo inferocito con un allegro cenno della mano. — È proibito forse chiamare la mia sorellina Mamie? La finestra si chiuse con un colpo secco e un paio di minuti dopo si aprì una finestra al piano rialzato e Mamie sporse la testa.
— Acc... Stevie! Ancora tu? — È tuo fratello Stevie che torna a casa, Mamie... — Oh, piantala! Cosa vuoi? — Voglio bere. — Non ho niente in casa. — Se mi dai qualche cosa da bere, ti dico una cosa. Un segreto. — Che segreto? — Sssst. — Egli si fece più sotto alla finestra e sussurrò: — Tony. — Che cosa c'è? — la sua voce suonò eccitata. — Lo hai visto? Dov'è? — Ho una mia idea — rispose Stevie. — Se mi dai la chiave vengo un momento da te... — Non è vero che l'hai visto — gemette lei con voce spenta, ma lasciò la finestra e dopo un momento il portone di casa si apri. Stevie attraversò l'atrio buio in silenzio, entrò nella camera di lei. Mamie non era ancora andata a letto, era ancora truccata e aveva indosso l'abito di velluto rosso. Sul tavolo c'era un bicchiere e una mezza bottiglia di acquavite. Stevie sedette sull'orlo del letto, dopo aver riempito il bicchiere. — A Tony Murillo! — brindò. Lei rimase a guardarlo finché non ebbe vuotato il bicchiere, poi disse: — Bene, ora che hai bevuto, parla. — Mi piacerebbe stare qui a vedere sorgere il sole sulla Charles Street — disse Stevie. — Deve essere uno spettacolo eccezionalmente deprimente. — Veniamo al sodo e piantala di dire sciocchezze. Voglio andare a letto. — Potrei dormire sul divano? — domandò Stevie. — Perché? Lui si versò il resto della bottiglia. — Ho avuto una disavventura. A casa ho trovato la signora McGillicuddy. Mi aspettava sulla porta con un'ascia, così ho pensato di venir qui a dormire. — Benone, però non puoi. — Mamie prese un altro bicchiere. — È la mia ultima bottiglia, dammela, vorrei bere anch'io. Si sedette accanto a lui, bevve una lunga sorsata, poi si voltò a guardarlo. — Ora basta con gli scherzi. Perché sei tornato? — Non so... Forse sono innamorato di te. — Va' al diavolo! — D'accordo, andrò al diavolo. — Stevie fece girare nel bicchiere il fondo di acquavite. — Che cosa ne è di Margy?
— Margy? — La cugina di Geraldine. — Ah, ricordo. Si è sposata con un elettricista. Ha un bambino. — Un bambino? Deve essere una bella cosa avere un bambino — commentò Stevie. — Accidentaccio! Che cos'hai questa sera? Prima Geraldine, poi i bambini, e chissà quale sarà il prossimo argomento. — Mamie si alzò e sbadigliò. — Ora vado a letto. Siccome non posso buttarti fuori a calci, mettiti pure a dormire sul divano. — Grazie. La voce di lui espresse una così calda gratitudine che lei si voltò a guardarlo sospettosa. La faccia di Stevie però non esprimeva nulla. Aveva chiuso gli occhi come se non chiedesse altro che dormire. Con gli occhi ancora chiusi, Ida allungò la mano per fermare la soneria della sveglia. Accese la luce e buttò le gambe fuori dal letto, in cerca delle pantofole. Salivano dal basso i rumori della casa che si svegliava; l'acqua che cantava nelle tubature, il trillare di un'altra sveglia, il rumore di passi. Scendendo le scale Ida cantarellava. Non che fosse di buonumore. Il mal di denti se ne era andato solo per lasciar posto al mal di testa, ma voleva che Maurice o Letty la sentissero e notassero che si era alzata di buon mattino per le faccende. Si fermò al primo piano e il suo occhio corse alla camera di Kelsey. Da sotto la porta filtrava la luce accesa. Smise di cantare e si diresse in punta di piedi verso la camera della signorina. Nonostante la sua mole, quando occorreva sapeva essere silenziosa come un gatto. "Possibile che la signorina Kelsey e il signor Philip...?" Appoggiò l'orecchio alla porta ma non sentì nessun rumore. Bussò leggermente strizzando gli occhi. Sarebbe stato bello che entrando avesse trovato il signor Philip, col pigiama o senza. Rabbrividì deliziata e cominciò pian piano a far girare la maniglia della porta, cercando le parole di scusa caso mai... Non ci furono parole da dire. Ida si ritrasse con un balzo e gettò un urlo. — Stai urlando, Stevie! — zittì Mamie. — Svegliati e finiscila! Stevie si girò sul dorso e farfugliò: — Che c'è? Che cos'è stato? — Stavi gridando nel sonno.
— Sì? — Era sveglio, ora. — Che cosa dicevo? — Parlavi ancora di lei — disse Mamie — e di quel tizio, il signor Heath. Pensavo che solo i pazzi parlassero e urlassero in sogno. — Forse sono pazzo — lui sbadigliò. — Che ore sono? — Non so. Accendo la luce. — Sporse un braccio per cercare l'interruttore. — Sono le sette meno un quarto. — E dopo una pausa: — Sono senza sigarette, Stevie. Me ne dai una delle tue? Lui frugò nella tasca della giacca, ai piedi del divano, trovò il pacchetto e glielo buttò, dopo aver acceso una sigaretta per sé. — Grazie — disse Mamie. — Mi piace fumare appena sveglia. Tony ed io spesso fumavamo a letto, quando non potevamo dormire. — Commovente — commentò Stevie beffardo. — Devo dire però che la camera puzza di acquavite e delle sigarette preferite dal tuo Tony. — Se non ti piace questo odore, perché non te ne vai a casa tua? Perché sei venuto qui? — Per avere la compagnia di qualcuno, ossia per la stessa ragione per cui tu mi hai permesso di rimanere. — Già, non te l'avrei permesso se avessi saputo che per tutta la notte non mi avresti lasciato dormire a furia di chiacchiere. Stevie scosse la cenere della sigaretta sul tappeto. — Tutta la notte non hai fatto che parlare di Geraldine — continuò Mamie; — in fin dei conti non è la prima persona a cui capita di morire. — Troppo giusto. — Non ho niente sulla coscienza io, anche se ho preso il suo posto. Le ho mandato perfino una corona al funerale. In fin dei conti è stata una disgrazia, voglio dire. — Certo, e probabilmente ne accadrà un'altra, uno di questi giorni. — Che vuoi dire, Stevie? — Lui filava con Geraldine, l'ha portata fuori e lei è morta. Ora si è messo con Marcie... — Sei un po' svitato, Stevie! — Sono stato a vedere la sua casa — continuò lui — questa notte prima di venire qui. C'era luce nella casa e il vecchio era fuori a passeggio. — Ebbene? Che te ne importa? — Mamie si voltò nel letto. — Che cosa diavolo ti importa quello che fanno? — A prima vista mi era sembrato lui — continuò testardamente Stevie. — Sembrava Johnny Heath. Ascolta, Mamie, ripeti questo nome, su. — Johnny Heath — ripeté meccanicamente Mamie con voce annoiata.
— E poi? — Non trovi che il suo nome gli assomigli? È proprio il nome di uno che ha tutto nella vita, quattrini, un bell'aspetto e tutto, assolutamente tutto; compreso un paio di ragazze che piacevano a me. Dillo di nuovo. — Che ti venga un... — Quello è un tipo che può fare qualsiasi cosa senza mai scontarla. Questa notte, quando ho visto il vecchio ho pensato che fosse Johnny stanco e invecchiato da un nuovo delitto. Pensavo che avesse appena finito di uccidere Marcie... — La voce di Stevie si spense. Ma dopo qualche minuto di silenzio chiamò: — Mamie. — Che c'è? — Dov'è il telefono? — Perché? — Voglio chiamare Marcie e sentire se sta bene. — Per l'amor di Dio, Stevie, piantala! Non credi di aver fatto abbastanza chiasso questa notte per farmi mandar via a calci dalla padrona di casa? Non si può telefonare da qui a quest'ora del mattino. C'è un emporio notturno se vuoi, a un paio di caseggiati da qui. Stevie si alzò dal divano e cominciò a vestirsi. — Lasciami le sigarette — disse Mamie — e se torni compera un'altra bottiglia di acquavite. — Bene — fece Stevie meccanicamente. Mamie rimase ad aspettare la bottiglia di acquavite, ma Stevie non fece ritorno. — Non doveva più fare ritorno dal suo lungo viaggio — disse Ida. — Ve lo avevo detto. Alice si avvicinò a lei lentamente. — Che cosa state dicendo, Ida? — Dico che è morta — incalzò Ida. La sua figura si stagliava nel vano della porta della camera di Kelsey. Aveva l'atteggiamento di una sibilla dalle forme massicce. Nell'atrio oscuro, Alice era solo una macchia incolore. — Morta — scandì Ida — in un lago di sangue. Stava sulla porta senza accennare a scostarsi per lasciar entrare Alice nella camera della sorella. Anche quando le porte delle altre camere si aprirono ed altre forme grigie si precipitarono nel corridoio, Ida non si mosse. Era il suo momento quello, ogni cosa apparteneva a lei, il cadavere, la morte della sua signorina, la morte che lei aveva predetto e scoperto e di
cui ora era la custode. — Qualcuno ha urlato? — domandò la voce incerta di Letty. — Che cos'è stato, Alice? — Che succede per Dio! — Johnny esclamò. Il momento di Ida era passato e lei dovette farsi da parte, sospinta da Johnny che si gettò nella camera. Ne uscì quasi subito, chiudendosi la porta alle spalle. Il corridoio ripiombò nell'oscurità e per un lungo momento nessuno si mosse. — Si è uccisa — disse la voce di Johnny — con un coltello. — La luce — gridò Alice. — Maurice, accendete la luce. — Sì, signorina. Il fiotto di luce illuminò visi stravolti e istupiditi. — Morta? — domandò Philip come se pronunciasse una parola senza senso. Fece un passo verso la camera. — Non entrare — ingiunse aspramente Johnny. — È tremendo vederla così. — Prese Philip per un braccio e disse ancora: — Non entrare, ti dico! — È vero — ammise Ida a voce bassa — è uno spettacolo orribile. Sangue dappertutto, anche sul tappeto. Letty si scagliò come una furia verso la ragazza. — Andate subito in camera vostra, e rimaneteci! — Non prendo ordini da voi! — ribatté Ida. — John. — La voce di Alice sembrava venire da molto lontano. — Fai qualche cosa perché se ne vadano. Falli andar via tutti. Poi sembrò ricadere in un atteggiamento assente in cui nulla di quello che accadeva intorno poteva attrarre la sua attenzione. Una mano si posò sulla sua spalla. — Credo sia meglio che io rimanga — disse Letty con voce calma. — Non entrate in camera. — Voglio entrare, Letty. — No. Kelsey desiderava morire, non trovava pace in questo mondo. Lasciatela in pace, Alice. Bisogna telefonare ora. — Telefonare? Dobbiamo telefonare a qualcuno... alla polizia? — Prima a un dottore — fece notare Letty. — Sì. Che ore sono? — È presto, non sono ancora le sette. — È presto — ripeté Alice con voce atona. — Non si sarebbe svegliata così presto per uccidersi... Letty si guardò le mani scarne. — Kelsey non poteva sapere che ore erano.
— È vero. — Era sempre inquieta quando si svegliava. Era terribile per lei svegliarsi, aprire gli occhi e non vedere la luce. Diceva che era come svegliarsi chiusa dentro una bara. Era un incubo che la tormentava. A volte entravo e la trovavo con le braccia tese in aria nel tentativo di liberarsi, di sollevare il coperchio... — Tacete, Letty. Voglio andare da lei. — No. — Devo vederla. — Va bene — disse Letty e si voltò raccogliendosi intorno al corpo l'accappatoio. Alice mise la mano sulla maniglia e la fece girare, aprì piano ed entrò. Kelsey fissava il soffitto con un'espressione sorpresa. Il manico di avorio di un coltello le stava tra i seni, la bocca era socchiusa come in attesa del bacio di un amante. Il sangue aveva zampillato, era colato in rivoli sul letto, fino sul tappeto. Alice si chinò e toccò con un dito le macchie brune. 8 Sebbene non fossero ancora le otto e fosse rimasto alzato buona parte della notte, Sands afferrò il ricevitore del telefono al terzo squillo. Alzò il microfono e disse con voce sommessa: — Sands? —, come se non fosse ben sicuro di essere proprio lui, o come se il fatto di essere Sands avesse poca importanza. Non aveva un senso spiccato della propria individualità. Viveva solo, senza moglie, né figli, né amici che si curassero di lui. Proprio perché viveva così, senza un mondo affettivo intorno a sé, gli riusciva facile capire, tollerare e non di rado aver simpatia per gli strani individui a cui dava la caccia. Insidiosamente, come un verme penetra in una mela, egli penetrava nella vita dei criminali, arrivava al centro della loro personalità, riusciva a identificarsi con loro, pur rimanendo se stesso. — Sands? — ripeté. — Parla il sergente D'Arcy. Mi spiace disturbarvi. — Avanti, parlate. — Faceva freddo nell'appartamento e la zelante stupidità di D'Arcy era irritante. — Ha chiamato un certo dottor Loring un momento fa. Parlava dal 1020 di St. Clair. Dice che una ragazza si è suicidata con un coltello. — Manda sul posto McPhail. — Sissignore, ma pensavo che fosse meglio parlare prima con voi. Il
dottore dice che secondo lui non si tratta di suicidio. Non c'è sangue sulle mani della ragazza e il colpo sembra sia stato troppo violento per un suicidio. Ho pensato che era meglio parlarvene. — Avete fatto bene. Ci andrò subito. Raduna Joe e gli altri e di' loro di venire a raggiungermi. Capito? — Sissignore. Sands appese. Rabbrividendo leggermente, accese la luce e cominciò a vestirsi in fretta. Evitava di guardarsi perché la vista della sua fragile persona lo disgustava. Non c'erano specchi nell'appartamento, ad eccezione dello specchietto per radersi nella stanza da bagno. Persino quando si rasava, non si guardava mai completamente; prendeva in considerazione solo il pezzettino di faccia che stava radendo. Avrebbe preferito addirittura essere senza viso e senza corpo, se gli altri non ci avessero trovato a ridire. E poiché questo non era possibile, aveva trovato che la cosa migliore era di ignorare sia l'uno sia l'altro e ci era riuscito a tal punto, che sarebbe stato seriamente imbarazzato se avesse dovuto fare la descrizione di se stesso su una scheda della polizia. Aveva vagamente nozione di essere un uomo di normale statura, di mezza età, che sembrava più alto a causa della sua magrezza, e più vecchio della sua età a causa della sua eterna stanchezza. Questo suo aspetto stanco ed esaurito era una calamità sotto molti aspetti. Le mogli dei suoi colleghi pensavano che Sands avesse bisogno che qualcuno si prendesse cura di lui e spesso lo invitavano a mangiare a casa e gli regalavano cravatte per Natale. Sands portava sempre le loro cravatte, il che faceva sì che le donatrici compiaciute gli regalassero altre cravatte. Ne prese una a caso, ricordando istantaneamente che gli era stata regalata dalla signora Lasky, il Natale passato. Il dono era avvolto in una bella carta azzurra ornata di stelle d'argento e di paffuti angioletti. Il colore che la signora Lasky preferiva era il lillà. Quando poi quel tenue colore era attraversato da vistose strisce rosso cupo, lo trovava addirittura irresistibile. L'ispettore Lasky era morto in primavera, non a causa dei gusti della consorte in fatto di cravatte, ma perché qualcuno gli aveva spedito un paio di proiettili nello stomaco. Lasky era da molti anni incaricato di far luce sui grossi furti e sulle rapine che avvenivano in città. Dopo la sua morte, non si era trovato nessuno che lo sostituisse e così l'ispettore Sands, che preferiva delitti più intellettuali, doveva a volte occuparsi di furti e di rapine. Quella notte aveva passato molte ore in una taverna del quartiere occidentale di Toronto. Non era stato il proprietario del locale a chiamare la polizia, perché il tentativo di rapina si era svolto un bel pezzo
dopo l'ora legale di chiusura. La Centrale era stata avvertita da un cliente e Sands era andato sul posto. I rilievi fatti dai suoi uomini avevano permesso di identificare il rapinatore dalle impronte lasciate su un bicchiere. Si trattava di un vecchio pregiudicato che da qualche anno si comportava con prudenza. Sebbene Murillo fosse giovanissimo quando era stato condannato per traffico di marijuana, era schedato come delinquente potenzialmente pericoloso perché si sapeva che lui stesso era dedito alla droga, e che portava come arma un pugnale. Non era molto pericoloso però, pensava Sands. se era così sciocco da seminare le impronte digitali nel locale dove stava per tentare il colpo. L'ultima nota alla scheda di Murillo risaliva a cinque anni prima. Riportava che Murillo viveva con una certa Mamie Rosen e che non si sapeva da dove traesse i suoi mezzi di sussistenza. Sands andò in cucina e innestò la spina della caffettiera elettrica. Mentre stava aspettando il caffè, scrisse qualche nota sull'agenda che portava sempre nel taschino del panciotto. Incaricare Higgins di pescare Tony Murillo. Controllare Mamie Rosen. Insistere con D'Arcy per adenoidi. Bevve il caffè meditando sull'ultima nota che poi cancellò a malincuore. Era sorprendente pensare all'enorme somma di cose irritanti che un uomo riusciva a tollerare, per trovare poi che non si era capaci di passar sopra alla voce di un poveraccio afflitto dalle adenoidi. Risciacquò la tazza e cominciò a pensare alla ragazza che si era suicidata nella villa di St. Clair. — Sono l'ispettore Sands — diceva poco dopo a Maurice che gli aveva aperto la porta. La sua voce acquistava un tono di maggior sicurezza quando si presentava con il suo titolo ufficiale; come se il solo fatto di appartenere a una organizzazione, di far parte di un gruppo, rafforzasse la sua personalità. — Sì, signore — disse Maurice. — Volete entrare, signore? — Penso di sì. Parlava in modo curioso, con un'intonazione che lasciava perplessi i suoi interlocutori e spesso li metteva in condizione di chiedersi se ciò che avevano detto era troppo ovvio o troppo stupido. Arrossendo Maurice si fece da parte e Sands entrò. — È ancora qui il dottore? — Sissignore. — Dov'è il telefono?
Maurice fissò lungamente la cravatta lillà e rossa e dopo una pausa disse: — Da questa parte, signore, c'è un apparecchio in cucina. Sands appoggiò con cura cappotto e cappello sul tavolino riservato unicamente per posarvi i biglietti da visita e seguì Maurice, guardandogli la schiena con un lieve sorriso. Sebbene le luci fossero accese in tutta la casa, questa sembrava deserta; la cucina tutta lucida e immacolata come se la cuoca avesse pulito e fosse svanita senza lasciare traccia di sé, nemmeno l'impronta delle scarpe. — Bello questo pavimento — commentò Sands. — Di che materiale è? — Cemento rosso — spiegò Maurice freddamente. — Pronto, Sylvia? È arrivato Tom? Digli che si metta in marcia e digli di leggere il mio rapporto al comando e di pescare Tony Murillo. Bisogna identificarlo e quindi è bene che Tom prepari un rapporto. Grazie. Riappese e fece un altro numero. — D'Arcy? Parla Sands. Sono a St. Clair. Provvedi come al solito. No; agire con discrezione. — Il... cadavere è di sopra — disse Maurice. — Com'è il nome? — Heath, signorina Kelsey Heath. — Heath? — ripeté Sands corrugando la fronte. — Non c'è stato qualche cosa un paio d'anni fa? — Una disgrazia. La signorina Kelsey ha avuto un incidente, ha perso la vista. — Ora ricordo. Andiamo di sopra. Il vostro nome? — Maurice King. — Bene. Il piano superiore sembrava disabitato come il pianterreno. Tutte le porte erano chiuse. Attraverso una di esse si udiva una voce d'uomo, un mormorio sommesso in cui non si poteva cogliere nessuna nota di ansietà o dolore. — Questa è la camera — annunciò Maurice. — Grazie. La maniglia è stata toccata? — Sì, signore. — Andate pure. Maurice brontolò qualche cosa tra i denti e si allontanò con passo malfermo. Sands entrò solo. I suoi movimenti erano vivaci come se fosse impaziente di cominciare il suo lavoro. Era una vivacità forzata. Aveva sempre paura di questo primo momento, in cui si sarebbe trovato di fronte al cadavere; occhi fissi, bocca stirata, membra rigide.
C'era una macchia di sangue che si allargava sul tappeto. Sands la evitò e si avvicinò a Kelsey toccandole delicatamente la fronte. Era ormai gelida. Si passò il palmo della mano sulla giacca e si scostò dal letto. La ferita nel petto della ragazza era larga e profonda. La pelle ai bordi era dilaniata come se la persona che aveva colpito avesse sentito il bisogno di colpire il più profondamente possibile. La mano che aveva guidato il colpo era una mano forte, resa ancor più forte dall'odio o dall'ira. Non si trattava di suicidio, era evidente. L'arma e la sede della ferita lo facevano escludere. Le donne non usano il pugnale per uccidersi. Anche gli uomini lo usano soltanto per tagliarsi i polsi o la gola ma non possono immergerselo nel cuore, attraverso la robusta protezione della cassa toracica. Le mani di questa ragazza poi erano esili e fragili e non portavano traccia di sangue. Inoltre la ragazza era cieca. Chi aveva colpito, non doveva aver avuto incertezze. Sands ritornò verso la porta, guardandosi intorno ancora. Dopo qualche momento si diresse verso lo scrittoio guardando con attenzione una scatoletta d'argento posata sul piano. C'erano delle intaccature sul metallo, intorno alla serratura. Proteggendo la scatola con un fazzoletto, Sands tentò di aprirla. Il coperchio si sollevò. La scatola era stata forzata ma conteneva, stipati alla rinfusa, dei gioielli. La serratura scassinata e i gioielli intatti. Per un istante ricordò qualche cosa di strano accaduto di recente. Ma il pensiero fu distratto da un fatto nuovo che attraeva la sua attenzione. Era l'odore che aleggiava nella camera. Un odore denso, dolciastro, più pungente di quello del sangue fresco. L'odore di una droga forse, o di una medicina? Che la ragazza stesse male? Forse per questo era stata lasciata accesa la luce nella camera. La sicurezza del colpo stava per questa ipotesi. L'assassino aveva avuto buon gioco; le luci accese, la ragazza cieca addormentata; senza neppure la fragile difesa degli occhi e delle orecchie. Aprì la porta e uscì sul corridoio. Con la coda dell'occhio colse la visione di qualcuno che stava scomparendo in fondo al corridoio. Intravvide una donna che camminava tanto silenziosamente da non poter essere sentita. Sands dovette farsi forza per non mettersi a correre e raggiungere la figura silenziosa che era scomparsa dietro l'angolo del corridoio. "Sono proprio un cane" pensò, sorridendo di sé; "non posso veder correre senza sentire l'impulso di inseguire."
Il sorriso gli aleggiava ancora sulle labbra, ma si sentiva a disagio. Non si sarebbe aspettato di essere spiato in questa casa fatta di porte chiuse, di bisbigli educati, di raffinata opulenza. Una porta si aprì e ne uscì una ragazza. — Maurice! — chiamò, poi vedendolo si corresse. — Oh scusate. Siete arrivato? Stavamo aspettandovi. Sono Alice Heath. — Ispettore Sands. — Entrate qui — disse, riaprendo la porta della camera da dove era uscita. — C'è anche il dottor Loring. Gli era molto vicina e per un momento Sands osservò il suo viso in piena luce. Non era un viso grazioso; troppo esangue e tirato per esserlo, tuttavia i lineamenti erano belli, delicati, evocavano l'idea di una persona calma e gentile. Poteva essere un'espressione genuina oppure una buona imitazione dovuta a un rigido controllo. Entrò nel salottino, mentre la ragazza gli teneva aperta la porta. Con uno sguardo penetrante osservò la mano posata sulla maniglia: una mano nervosa e delicata. Ancora la parola "autocontrollo" gli venne alla mente. Sentiva che gli sarebbe stato facile ammirare Alice, ma non sarebbe mai riuscito ad avere simpatia per lei. "È il tipo di donna che si raccomanda come moglie a un amico" pensò, "ma di cui non ci si innamorerebbe mai." — Questo è il dottor Loring, ispettore — disse la ragazza. Un giovanotto si alzò dalla poltrona d'angolo del piccolo salotto. "Ha una faccia sonnacchiosa" pensò Sands. — Lieto di conoscervi. — Tese la mano, ma il dottor Loring non la vide. — Sono colpevole di... una negligenza... — cominciò l'altro con voce rotta. — Accomodatevi — lo interruppe Alice. — Di una negligenza... criminale — finì Loring. — Mi aspetto di essere radiato dall'albo, quando si saprà la storia. Non ci sono scusanti per me. — Siete il medico di famiglia? — interrogò Sands. — No. Sono uno psichiatra. Non ho altra scusa che questa: ieri sera ero stanco morto e ho pensato che avrei potuto fare oggi il mio rapporto. — Che rapporto? — La ragazza era stata avvelenata, ieri sera — continuò il dottor Loring. — Sono sicura che il dottor Loring si sbaglia — intervenne Alice con voce chiara e fredda. — Morfina — disse Loring senza badarle. — Un grano o più di morfina per bocca. Sembra che la ragazza parlasse a volte di suicidio, ma era cieca
e questo rende impossibile pensare che abbia preso da sé la droga, non vi pare? Poi questa mattina... non può essere stata lei a immergersi il pugnale nel petto. — Ci sono degli uomini in corridoio — avvertì Alice. — Grazie — disse Sands e uscì dal salotto. Tre di essi erano già entrati nella camera di Kelsey, il quarto, con in mano la valigetta dello strumentario medico, stava accarezzando il cane. — Ciao, Sutton — disse Sands. — Salve — salutò Sutton. — Che bel cane. — Sì. Bella giornata anche. — È tanto tempo che desidero avere un cane — disse pensosamente Sutton. — Prenditene uno. Ti ci potrai trastullare nei momenti adatti — disse Sands asciutto. Sutton fece una smorfia e scomparve nella camera di Kelsey. Sands rimase sulla soglia a guardare gli uomini al lavoro. Erano in gamba i suoi uomini. Li aveva istruiti lui stesso ed era un suo vanto il fatto che fosse la migliore squadra del genere, quella che riusciva a raccogliere il maggior numero di rilievi utili all'indagine. Sands ritornò nel salottino. Alice Heath non c'era più e Loring passeggiava avanti e indietro per la camera, fumando. Il fatto di aver dovuto interrompere il suo racconto e ricominciare da capo, lo aveva innervosito completamente; come aveva sperato Sands. — Ora dovete ascoltarmi — lo aggredì Loring. — Ma certo. Dite pure. — Io non... non so se la ragazza abbia preso la droga volontariamente o no. Avevo intenzione di stendere il mio rapporto solo dopo aver parlato con la signorina Allison, l'infermiera che assisteva la signora Heath quando è morta, circa un anno e mezzo fa. Pare che la morfina fosse in casa da quel periodo. — Ci sono altri modi di procurarsi la morfina. Loring scosse la testa. — La morfina con cui è stata avvelenata proviene da una farmacia. Lo saprete anche voi che da quando è cominciata la guerra, la morfina di contrabbando è talmente adulterata con zucchero di latte, che centinaia di morfinomani sono stati disintossicati senza nemmeno accorgersene. La droga di contrabbando non può far male neanche a un gatto. A parte la cecità, Kelsey Heath era in buona salute e nessun medico le aveva prescritto morfina. Così dicasi per il resto delle persone che vivono
qui. — Chi sono le altre persone che vivono in questa casa? — domandò Sands. — Alice Heath; il padre; il fratello John; il fidanzato di Kelsey, Philip James; più la servitù: il maggiordomo; un'infermiera, Letty; la cameriera, Ida; la cuoca e un'altra cameriera che ora è in ferie. Non ho ancora visto la cuoca. — Va bene — disse Sands. — Sembra che conosciate bene la famiglia. — Non conosco nessuno di loro! — gridò Loring. — Non li avevo mai visti prima di ieri. Conosco solo Alice Heath perché è venuta da me ieri pomeriggio. Mi aveva telefonato in mattinata per fissare un appuntamento e nel pomeriggio è venuta nel mio studio per consultarmi a proposito della sorella. — Perché? — Pensava che la sorella fosse... stesse diventando un po' strana. — Sarebbe a dire pazza? — No, non esattamente. — Quasi insomma. L'avete visitata? — No. Quando l'ho vista io, era in istato di incoscienza per l'avvelenamento. — Così voi avete solo la versione della sorella circa le stranezze mentali della ragazza. — Sì — confermò il dottor Loring. — Graziosa messa in scena. — Che cosa intendete dire? — Molto semplice: si insinua un dubbio circa la normalità delle facoltà mentali di Kelsey Heath e la suddetta disciplinatamente pensa bene di sopprimersi; e lo fa esattamente come una persona malata di mente lo farebbe. Per di più sceglie anche il momento, in cui compiere il suo gesto: si uccide cioè prima che uno psichiatra possa parlare con lei. Naturalmente il verdetto è: suicidio di persona affetta da squilibrio mentale. — Ma perché... — cominciò Loring sconvolto. — Vi possono essere molte ragioni possibili. La prima potrebbe essere una messa in scena per simulare un suicidio, la seconda potrebbe essere connessa a un eventuale testamento di Kelsey Heath. Fece una breve pausa, e aggiunse: — Dottor Loring, vi hanno preso per il naso. Loring mormorò un'imprecazione tra i denti e si lasciò cadere su una
poltrona. — Capisco di aver usato una parola forte — ammise Sands — ma non siete più un ragazzo! Inoltre siete uno psichiatra. — Non mi è mai passato per la testa il più lontano sospetto, non potevo immaginare... — Suppongo che vi sia stato detto che la ragazza aveva parlato qualche volta di suicidio. È così? — riprese l'ispettore. — Sì, ma pensavo che fosse abbastanza naturale. Era una bella ragazza, giovane, stava per sposarsi e improvvisamente è diventata cieca. Una situazione simile è naturale che produca un conflitto emozionale molto serio, specialmente in una ragazza di questo tipo abituata ad avere tutto dalla vita. Quello che per una ragazza normale, cresciuta in un altro ambiente tra genitori diversi, poteva essere sopportabile, per lei poteva essere una sciagura inaccettabile. Sands lo lasciò parlare di conflitti e di complessi e alla fine lo interruppe. — Che cosa vi ha chiesto di fare per la sorella, Alice Heath? — Voleva che parlassi con lei, che la facessi ragionare. — E che eventualmente la convinceste ad entrare in qualche istituto? — Non è stato toccato questo argomento — precisò Loring seccamente. — La signorina Heath si rendeva conto che l'atmosfera familiare era pesante sia per il fratello sia per il fidanzato di Kelsey e desiderava che io persuadessi quest'ultima a permettere che i due uomini andassero a vivere altrove. — Aveva parlato tutto d'un fiato, fece una breve pausa, si infilò nel colletto due dita per allentarlo e continuò: — Mi rendo conto che ora, alla luce dei fatti, tutto ciò può parere strano, ma vedete, io sono abituato a venire a contatto con le situazioni più strane. Se voi vi sforzaste di non vedere le cose unicamente dal vostro angolo mentale... — Quale angolo mentale? — domandò Sands. — Quello del freddo raziocinio. Non tutto si può spiegare unicamente usando il freddo raziocinio. — Avete mai provato a farlo? — domandò Sands con viso arcigno. Loring arrossì. — Mi rendo conto che i miei argomenti non sono del tutto convincenti. È difficile pensare con calma ed esprimersi bene quando si vede la propria carriera professionale in pericolo. — C'entra qualche altro medico in questa storia? — Il dottor Hale mi ha aiutato, io stesso l'ho chiamato ieri sera. Però toccava a me fare un regolare rapporto di avvelenamento, non a lui. — E perché non l'avete fatto? Avete detto che eravate troppo stanco e
pensavate di fare rapporto questa mattina. Eravate troppo stanco anche per prendere in mano un telefono? — No. Io... volevo aspettare e tornare questa mattina a interrogare la ragazza. Se avessi potuto appurare che aveva preso di sua volontà la morfina con l'aiuto di Ida, non avrei fatto nessun rapporto. Non mi piacciono le leggi vigenti in questo stato per i tentati suicidi e volevo aiutare la ragazza io stesso, senza metter di mezzo la polizia e senza doverla internare in un istituto. — Chi è Ida? — La cameriera. — Perché avrebbe aiutato la ragazza ad ammazzarsi? Per amore o per danaro? — Niente di tutto questo. Ida ha dei contatti spirituali con i fondi di tè e i fondi di tè le hanno rivelato che Kelsey Heath doveva morire. Per una persona della classe a cui appartiene Ida i fondi delle tazzine sono onniscienti, come lo sono i giornali per le persone appartenenti alla classe superiore. Se la morte era inevitabile, pensava Ida, perché non favorirla e mantenere così il privilegio dei contatti soprannaturali? — Ida è grassa? — domandò Sands. Loring corrugò la fronte. — Sì. Perché me lo chiedete? — Penso di averla vista, a distanza. Tolse di tasca il notes e stese un conciso rapporto sull'avvelenamento e sul ruolo giocato da Loring. Non domandò a questi di firmare nessuna dichiarazione formale, e Loring notò l'omissione. — Che cosa intendete fare per ciò che mi riguarda? — domandò. — Niente — rispose Sands chiudendo il notes e riponendolo in tasca. — Per ora, almeno. — Avete il dovere di fare rapporto contro di me. — Sì? — Preferisco che lo facciate subito. — Siete troppo ansioso — disse Sands. — Non amate il vostro mestiere? — Non so... io... — Tenete d'occhio i conflitti emozionali — finì Sands, e si avviò alla porta; uscì chiudendosela alle spalle. Dalla camera di Kelsey venivano le voci degli agenti. Erano al lavoro e sarebbe stata una inutile perdita di tempo entrare. Sapevano meglio di lui quello che dovevano fare. Sostò in cima alla scala. Non aveva voglia di scendere, di ascoltare Alice Heath né
suo fratello né suo padre. Certamente ognuno di loro avrebbe affermato che era a letto, profondamente addormentato, quando la ragazza era stata uccisa in piena notte. — Ssst! Sands si voltò di scatto. — Ssst! Il richiamo veniva dal fondo del corridoio. C'era poca luce in quel punto. Sands poteva discernere appena una forma bianca. Si avviò verso di lei. — Chi è? Da vicino, la forma bianca si rivelò una grassa ragazza in grembiule da cameriera. Era curva, appoggiata alla balaustra della scala di servizio e guardava Sands con un sorrisino astuto. — Buongiorno — disse a voce bassa. — Buongiorno. — Sono Ida. Sono io che l'ho trovata morta. — Ah sì? — Proprio io. — Volete raccontarmi com'è stato? — Ma certamente! — rispose Ida. 9 Quando il signor Heath si svegliò quella mattina, il sole era già alto e batteva alla finestra della sua camera. Aprì gli occhi e si trovò sospeso tra due mondi, il sonno e la realtà. Nel mondo della realtà non c'era niente a cui aggrapparsi, e in quanto a rientrare nel mondo del sonno era ormai impossibile. Il sole lo aveva distrutto, mandato in mille pezzi; si riemergeva senza possibilità di scampo. — No! No! — esclamò. Un grido di protesta gli saliva alla gola; la protesta di un cadavere riportato alla vita, un bisbiglio a malapena udibile. L'esile protesta di qualcuno che ne conosce tutta l'inutilità. Riemergeva gradatamente alla vita, prendeva coscienza di se stesso, della casa dove viveva, del fatto di avere due figlie e un figlio, di avere avuto una moglie. Sporse dalle coperte una mano incerta. — Isabel? — chiamò. No, non c'era nessuno accanto a lui. Non si sarebbe affatto stupito di trovare Isabel accanto. Tutto era possibile in questo mondo strano. — Papà...
Alice china su di lui lo chiamava. — Sei sveglio, papà? — Sì. Perché continui a chiamarmi? — Svegliati, papà, devo parlarti — disse Alice, e dopo una pausa: — Kelsey è morta. Sedette sul bordo del letto e sembrò che stesse per stendere una mano verso quella del padre; invece rimase immobile con le mani raccolte in grembo. — Papà, Kelsey non è morta di morte naturale. — Ah... Kelsey? — Il signor Heath batté le palpebre cercando di scacciare la nebbia che gli velava gli occhi. — Sei sicura? Sapeva di aver fatto una domanda sciocca. Alice era sempre sicura di tutto quello che diceva. — È stata assassinata. C'è la polizia. Vogliono parlarti. — Ora? Prima che abbia fatto colazione? — Ho detto a Maurice di portarti la colazione in camera. Così andava meglio. Dopo aver fatto colazione, poteva raccogliere meglio le proprie idee. Kelsey era morta. Bisognava abituarsi a questa idea. Per ora sembrava una cosa così irreale. — Grazie, Alice — disse con voce inespressiva. — Ti occorre qualche cosa? — No, grazie. — Papà... — aggiunse, ma il momento delle lacrime era passato. La possibilità di congiungere le mani per attingere reciprocamente conforto nel dolore comune era dileguata. Chiuse la porta della camera del padre e scese le scale, la testa china in atteggiamento di rassegnazione. Non occorreva fare uno sforzo cosciente per dimenticare il penoso momento di incertezza in cui era stata per stendere una mano per chiedere e offrire conforto a suo padre. Aveva già dimenticato. Una volta le avevano detto che quando il leone è ferito, la sua pelle ricopre la ferita e ferma il sangue che ne esce. Anche il suo cuore doveva essere ricoperto da una pelle simile. In fondo alle scale incontrò Maurice che saliva con il vassoio. Accanto al bricco del caffè e alla tazza del latte, in una. ciotola d'argento galleggiavano due boccioli di rose gialle. Egli vide che Alice fissava i fiori. — Spero che la signorina non trovi sconveniente... — No, Maurice, naturalmente no — disse Alice. Tuttavia aveva notato le due rose, ed esse erano apparse il simbolo di tutte le cose frivole, dei gesti futili che si compivano in quella casa.
— Come ha accolto la notizia? — Molto bene — rispose lei meccanicamente. — State con lui finché avrà fatto colazione e poi aiutatelo a vestirsi. L'ispettore di polizia lo sta aspettando per parlargli. Maurice espresse la sua disapprovazione chiocciando. — È una vergogna che la polizia lo disturbi, alla sua età... — Alla sua età, Maurice? Papà ha la vostra stessa età, cinquantatré anni, no? — Sì, signorina — rispose lui cercando di sorridere e accusando il colpo. — Lo aiuterò a vestirsi. L'ispettore Sands aspettava nel salotto con Alice. Quando il signor Heath entrò, capì che la figlia stava parlando di lui. Lo aveva capito dall'espressione dei suoi occhi, dal modo di smorzare la voce quasi in tono di scusa mentre diceva: — Ecco mio padre. — Sembrava volesse dire: "Eccolo; che cosa vi dicevo? Perderete il vostro tempo". — Vuoi che rimanga, papà? — No, non occorre — rispose con uno sguardo di avversione, accennando con il capo la porta. Quando l'uscio fu chiuso alle spalle di Alice, il signor Heath si volse a Sands e gli sorrise. — Alice parla troppo — disse con voce inaspettatamente ferma. — Non vi pare? Se volete fumare non fate complimenti. Avevamo dovuto smettere di fumare in questa casa perché Kelsey non voleva, ma ora che è morta... Era il discorso più lungo che gli fosse capitato di fare da molti anni a questa parte. Ne provò un senso di allegria che gli fece salire un lieve rossore alle gote. Qualunque cosa Alice avesse detto di lui al poliziotto, era cancellata dall'urbanità del discorsetto che era riuscito a fargli. — Grazie — disse Sands, ma non tolse di tasca le sigarette. — Ho visto che non ci sono portacenere in casa. Vostra figlia dunque era contraria al fumo? Il signor Heath si chinò in avanti. — Sì, e io so il perché. Ma forse non vi interessa saperlo. È difficile parlare quando nessuno vuole ascoltare. — Vi sto ascoltando. — Bene, vedete, a mia moglie non piaceva fumare. Tutto risale sempre a Isabel. Potrete vedere voi stesso che quasi tutto qui risale a Isabel. Mia moglie era una donna sorprendente. Kelsey è... era come lei. Dunque, mia moglie non voleva che in casa si fumasse, ma Kelsey fumava lo stesso. Quando Isabel morì Kelsey cominciò a detestare il fumo. — Sorrideva con
espressione ansiosa a Sands. — Capite? Kelsey ha preso il posto di sua madre. Si dissero molte sciocchezze quando accadde l'incidente, Philip stava accendendo una sigaretta a Kelsey. In realtà la causa risale a Isabel, come sempre. — Anche il delitto? — domandò Sands. — Il delitto? — ripeté il signor Heath. — Volete dire che Kelsey è stata assassinata? — Sì. È stata uccisa con un coltello da frutta che era sul tavolino accanto al letto. — Assassinata in questa casa? — Era a letto — continuò Sands. — Deve essere successo circa a metà della notte. Il signor Heath si appoggiò allo schienale della seggiola. Era impallidito e la voce suonava fioca e querula. — Sono stanco, troppo stanco per continuare a parlare. — Vostra moglie ha lasciato tutto il suo patrimonio a Kelsey, se ho ben capito — continuò Sands senza badare alle sue proteste. — Sì, tutto. — Completamente? — No. Non sarebbe stato nello stile di Isabel. Ha lasciato tutto a Kelsey, con la condizione che alla sua morte sarebbe passato al resto della famiglia. — Compreso Philip James? — Per Philip era stata stabilita una sovvenzione, a condizione però che continuasse a studiare musica. A Isabel piaceva pensare di essere patrona delle arti. — La servitù? — Un legato ad ognuno, ad eccezione della nuova cameriera, Ida. — Sands aprì il notes. Dal suo viso non traspariva nessuna espressione di disappunto. Pensava, tuttavia, che se Kelsey non aveva testamento e non avrebbe potuto farne, allora il dottor Loring non era stato ingannato allo scopo di alterare un testamento. Una frase annotata sul taccuino attrasse la sua attenzione. Erano parole di Alice. "Papà era fuori ieri sera, e quando sono andata a letto non era ancora rientrato." — Siete stato fuori la notte scorsa? — Sì. — A che ora siete uscito?
— Non saprei precisare. — Non eravate in casa quando è stato scoperto che vostra figlia si era avvelenata e hanno chiamato il dottore? Dovevano essere circa le nove. — Si è avvelenata? No, non ero in casa. — Allora siete uscito prima delle nove — incalzò Sands. — A che ora siete rincasato? — Mi spiace — convenne il signor Heath a voce bassa — non riesco a ricordare. Doveva essere tardi... Qualcuno mi ha chiesto i fiammiferi — e con un cenno della testa indicò la finestra. — C'era qualcuno fuori? — Sì, un giovanotto in macchina. — Avete parlato con lui? — Mi pare di sì... ma non ricordo. — Heath si premette una mano sugli occhi. — Non forzate la memoria — disse Sands incoraggiante — vedrete che a poco a poco riuscirete a ricordare. Non fumate mai una sigaretta? Il signor Heath si guardò intorno con aria colpevole. — A dire il vero, qualche volta fumo in camera mia. La mia camera è al secondo piano. — Prendetene una delle mie — offrì Sands tendendogli l'astuccio. Mentre tendeva la mano per prendere la sigaretta, Heath improvvisamente ricordò la scena della notte innanzi. — Ecco, ora ricordo! — esclamò con voce trionfante. — Il giovanotto mi ha chiesto se avevo un fiammifero, io stavo per darglielo ma lui si è ricordato proprio in quel momento di averne in macchina una grossa scatola. Me l'ha anche mostrata. — Che tipo di fiammiferi erano? Scatolette di legno? — No, bustine, di quelle che si usano per far pubblicità... — Pubblicità di biscotti per cani, carburante, ristoranti... — suggerì Sands. — C'era scritto Joey, locale di lusso o qualcosa di simile — disse il signor Heath al colmo dell'eccitazione. La mano gli tremava talmente da impedirgli di tenere la sigaretta accostata alla fiammella del cerino che Sands gli tendeva. — Joey è il nome di un locale notturno, infatti — disse Sands. — Mi pare sia proprio questo il nome! — Il signor Heath giubilava, avrebbe voluto che ci fosse Alice. Ora si ricordava tutto chiaramente, persino la faccia pallida e stravolta del giovanotto seduto al volante. — Lo conoscete questo tizio?
— No, non mi pare di averlo mai visto, ma lui invece conosceva me. È strano perché non ho conoscenti io..., conosco solo la gente che viene per casa... Lui invece mi ha chiamato per nome. Poi è accaduta una cosa strana: quando mi sono avvicinato alla macchina e ho guardato all'interno attraverso il finestrino, mi ha fissato come se vedesse un fantasma e mi ha detto: "Buonasera, signor Heath". Tacque esausto, ci fu una lunga pausa, poi Sands disse: — Vostro figlio vi assomiglia molto. Ha molte conoscenze? — Tutti lo conoscono in città. È stato capitano della squadra di rugby per due anni di seguito. — Capisco. Dove posso trovare un portacenere? — C'è un vaso là sopra — Heath indicò un vaso cinese che se ne stava solo e trionfante sulla mensola del camino. — È un vaso che stava molto a cuore a Isabel. Mettetelo in terra, ci servirà da portacenere. Il signor Heath sembrò compiaciuto come un ragazzo che si permettesse una marachella. Il suo corpo massiccio era scosso da una segreta ilarità. — Bene — fece sorridendo Sands. — Vorrei sapere qualche cosa di più sul giovanotto dei fiammiferi Vi ricordate che faccia avesse? — Una faccia giovane e stravolta. — Bella, brutta, o indifferente? — Bella mi pare, ma aveva il cappello tirato sugli occhi e non posso dirlo con sicurezza. — Come ha fatto a ricordarsi che aveva i fiammiferi? — Ne aveva un'intera provvista in macchina. Il nome Joey era scritto a grandi lettere sul coperchio dello scatolone. Insomma, sono riuscito a ricordarmi una quantità di cose — concluse felice il signor Heath. — Merito vostro! — Aiutare la gente a ricordarsi fa parte del mio mestiere — disse Sands. — Vi ricordate qualche particolare dell'auto? — Non mi pare ci fosse qualche particolare insolito nella macchina, ma io non mi intendo di automobili. Non ne ho mai avute. Ho usato sempre quella di Isabel. — Spero di non affaticarvi troppo, signor Heath. — Oh no! Tutti mi dicono la stessa cosa, ma lo fanno per non darmi occasione di parlare. — Potete ricordare ancora qualche cosa del giovanotto? — La sua voce. Mi piace ascoltare la voce delle persone. A modo mio, sono un musicista. Ho un orecchio molto sensibile e mi diverto a trovare il
tono particolare della voce di ognuno. Per esempio Isabel parlava in mi. Era una voce monotona e quando si arrabbiava saliva di un'ottava. Era interessante... — Un dono prezioso il vostro. Mi sarebbe molto utile nella mia professione. — Davvero? — disse il signor Heath arrossendo di piacere. — Bene, la maggior parte delle persone usa normalmente tre o quattro note. Avete mai sentito parlare Philip? — Sì. Ha una bella voce. — Una voce molto espressiva. Cambia da un minuto all'altro e può usare un'intera ottava per esprimere un'idea. — E la voce del giovanotto dei fiammiferi? — Era una voce ordinaria, direi, una voce professionale nel senso più volgare, rauca e forte; la voce di un banditore o qualche cosa di simile. — Guardò Sands come a chiedergli scusa. — Naturalmente posso sbagliarmi, può darsi che fosse raffreddato o che sia uno che beve molto. La penna di Sands si fermò sul notes. Non molto tempo prima, una sera era stato al night di Joey e ricordava che gli avevano fatto omaggio di una bustina di fiammiferi con la pubblicità del locale. Era stata la ragazza del guardaroba a dargliela, l'aveva presa da uno scatolone sul banco. A che genere di clienti Joey faceva omaggio di una intera stecca di bustine? A un cliente che spendeva più generosamente degli altri? A un suo amico? "Un giovanotto con una voce rauca, un'auto comune e uno scatolone di fiammiferi..." — Se ne è andato subito dopo avervi salutato? — domandò. Il signor Heath esitò. — No, non mi pare. Non ho sentito il rumore del motore. — L'auto aveva il motore spento? — Sì. — Eppure non poteva essere fermo davanti a casa vostra per aspettare voi, dato che nessuno sapeva che voi foste fuori a quell'ora di notte. — No. Inoltre io non conosco quel giovanotto. — Lui però vi conosce. — Sì, è vero... — Potreste ricordarvi esattamente che ora poteva essere? — No... non so. Ho visto che la luce era ancora accesa in camera di Kelsey. Forse era ancora sveglia.
— Penso che a quell'ora vostra figlia fosse già morta — annunciò Sands. — Alice aveva spento la luce a mezzanotte quando è andata a letto. Non avete sentito nessun rumore quando siete passato davanti alla porta della camera di Kelsey? — No... non in quel momento. — Più tardi forse? — Sì, ero già arrivato al secondo piano quando ho sentito un rumore di passi in corsa. Sembravano i passi di Isabel... a pianterreno. 10 Joey non andava quasi mai dietro il palcoscenico. Lasciava a Stevie il compito di sorvegliare le ragazze, di badare che fossero pronte in tempo, che i costumi fossero in ordine. Quella sera però, prima che si iniziasse il primo spettacolo, Joey fece una capatina. Le ragazze chiacchieravano in attesa del loro numero. Appena apparve il principale, le risatine tacquero, le voci si abbassarono. Erano sempre intimidite dalla presenza dell'uomo dalla voce bassa e dallo sguardo duro che ogni quindicina firmava assegni-paga. — Chiudete il becco — ordinò Joey. — Devo parlarvi. Marcie emerse dal camerino, drappeggiata nella lunga cappa nera e Stevie apparve improvvisamente come fosse piovuto dal soffitto. — C'è in sala un ospite speciale questa sera. Non ha portato con sé il figlioletto in tenera età, ma ha tutta l'aria del paterno genitore che vuole uno spettacolo pulito. — Il nostro è il più pulito della città — intervenne Stevie. — Ragazze, voi tornate in camerino a dare un'occhiata alle scollature dei costumi. Non devono turbare i puri di cuore — disse Joey. — E tu, Mamie, ricordati che devi cantare per commuovere, per rendere piacevolmente tristi i clienti, non per spingerli al suicidio. Le ragazze se ne andarono ridacchiando, Mamie guardò il principale immusonita, prima di andarsene con loro. Aveva gli occhi rossi e gonfi di lacrime. Stevie aspettò che fossero rientrate nei camerini, poi domandò: — Chi è questo cliente? — Un poliziotto. — E allora? Non hanno diritto anche loro di divertirsi un po'? — Questo qui non è venuto per divertirsi — rispose Joey. — Come lo sai?
— Non si è presentato, come fanno di solito. L'ho saputo per combinazione. — Accidenti... — commentò Stevie. Joey si volse a guardarlo con sospetto. — Che diavolo può importare a te! Tu non porti costumi troppo provocanti e non sculetti. Non hai per caso qualcosa sulla coscienza? — Proprio no. — Neanch'io — disse Joey. — Questa gente però mi fa sempre una certa impressione. È come quando passo la frontiera; non ho un accidente di niente da nascondere, eppure mi sento sempre come se mi pescassero indosso roba di contrabbando. — Coscienza sporca — commentò Stevie. — Stai alla larga dall'alcool, stasera. Ho detto ai camerieri di non servirti che tè freddo. È un ordine. Stevie lo accompagnò fino alla porta che dava sulla sala. — Dov'è questo tipo? — È al secondo tavolo a sinistra; da solo. Joey se ne andò e Stevie rimase lungamente a guardare attraverso lo spiraglio della porta socchiusa. Non c'era niente di speciale che rendesse l'aspetto dell'uomo diverso da quello degli altri clienti. Era un tipo comune, con baffetti neri, in abito da sera. E se Joey avesse preso un granchio? Ma Stevie era sicuro che Joey non si era sbagliato. L'uomo stava seduto in una posa quasi rigida, come se tutti i suoi muscoli fossero tesi, ben decisi a non rilassarsi. Stavano sedute così certe mogli che venivano da Joey, non per divertirsi ma per tener d'occhio i loro mariti. Stevie richiuse la porta. Era scosso da un tremito nervoso e sentiva il palmo delle mani madido di sudore. Non riuscì a impedirsi di tirar fuori di tasca ancora una volta il ritaglio di giornale e di rileggerlo. Questa notte, nella casa paterna di St. Clair, è morta Kelsey Heath di anni 28. Lascia il padre, la sorella Alice e il fratello John. La data del funerale non è stata ancora fissata. Si prega di non mandare fiori. L'orchestra finì il pezzo, ci fu una pausa e poi il rullo di tamburi. Toccava a lui. Rimise in tasca il ritaglio di giornale, si lisciò i capelli e uscì. Il riflettore lo prese nel suo raggio e lo accompagnò tra i tavoli. Un breve applauso e il chiacchierio tacque. — Eccovi con noi anche questa sera — cominciò Stevie. — Buona sera a tutti... Parlò per cinque minuti, un po' troppo presto, senza lasciare alla gente il
tempo di ridere delle sue battute. Del resto durante il primo spettacolo le risate erano fiacche. Stevie abbreviò, affrettandosi ad annunciare il balletto delle ragazze. Quando uscivano le "girls", di solito Stevie si sedeva a un tavolo e ordinava da bere, ma quella sera ritornò direttamente dietro al palcoscenico. La porta del camerino era aperta, ma Stevie bussò ugualmente con le nocche sul legno. — Marcie? Lei uscì, tenendo la cappa stretta intorno al corpo. Aveva un'aria malata, gli occhi leggermente arrossati. — Che cos'hai? — domandò Stevie. — Niente — rispose appoggiandosi alla parete. "Un piccolo pipistrello stanco, con le ali ripiegate e il viso da donna", pensò lui. — Forse ho l'influenza. — Volevo mostrarti una cosa, una notizia. È sul giornale — disse Stevie. — Ho visto. — È una brutta notizia, per te. — Per me? — domandò lei corrugando la fronte. — È un brutto colpo per Johnny e siccome tu sei innamorata di Johnny è naturale che sia un brutto colpo anche per te. Le ali nere si mossero inquiete. — Non dite niente a nessuno. Di Johnny e di me, voglio dire. — Perché? — Non voglio entrare in questa storia io, non so niente e non voglio essere interrogata dalla polizia. — La voce si era abbassata in un sussurro. — Joey ha detto che c'è uno della polizia in sala. Questa mattina è venuto a casa mia un poliziotto fingendo di essere un agente di assicurazioni. Mi ha detto che Johnny aveva fatto un'assicurazione a mio favore e voleva controllare. Mi ha chiesto se dovevamo sposarci. Allora ho incominciato ad avere dei sospetti. Ho preso una scusa e sono andata nell'altra camera a telefonare a Johnny. — E lui cos'ha risposto? — Johnny allora mi ha detto che Kelsey era stata assassinata, che la polizia stava indagando e che era meglio tener nascosti i nostri sentimenti nel caso che qualcuno cercasse di farmi chiacchierare. Si vede che la linea era controllata perché a questo punto una voce d'uomo ha detto: "Ora basta, signor Heath". Allora ho tolto la comunicazione.
"Sono tornata in salotto e ho detto all'uomo che si spacciava per agente di assicurazioni che ci doveva essere un errore, che Johnny era solo un amico e che non aveva firmato nessuna polizza a mio favore." Marcie posò una mano sul braccio di Stevie. — Che faccia ha questo poliziotto che c'è in sala? È un tipo alto, con la faccia colorita e i capelli grigi? — No, è piccolo e smilzo. — Ah... — sospirò lei con un debole sorriso — non è lui. Forse è una coincidenza. Non è "il mio" poliziotto... — Forse è il mio — disse Stevie tentando di scherzare. — Se è così si farà vivo, non c'è che da attendere gli eventi. Tutto accadde più presto di quanto Stevie non si aspettasse. Accadde mentre Marcie eseguiva il suo numero e Stevie stava a guardarla da dietro il sipario. La voce di qualcuno che gli era arrivato silenziosamente alle spalle gli parlò quasi all'orecchio. — Signor Jordan? Stevie non si volse e rispose con indifferenza: — Eh? — Avete per favore un fiammifero? Stevie si toccò le tasche, prima l'una poi l'altra e disse: — Mi spiace, non ne ho. — Non importa — disse l'altro — tanto non mi occorrono. Guardate qui... Stevie teneva gli occhi fissi rigidamente davanti a sé. — Guardate, signor Jordan — insisté l'altro — ne ho una intera stecca di bustine. — Sì?... — L'ho trovata nella vostra automobile poco fa. Mi chiamo Higgins. Stevie sorrise forzatamente. — Bene — disse — ora che conosco il vostro nome e voi conoscete il mio, siamo arrivati a un punto morto della conversazione. — Nella mia professione non ci sono punti morti... — Assicurazioni? Bene, mi direte poi. Ora devo andare in scena. — E sollevò una tenda per raggiungere Marcie che stava ringraziando il pubblico che l'applaudiva. Stevie rimase in sala per qualche minuto e quando ritornò l'uomo era sempre al suo posto, con la stecca di fiammiferi sotto il braccio. — Ancora qui! Volete una sigaretta per usare almeno uno dei vostri fiammiferi?
Non intendeva nominare i fiammiferi, ma lo sguardo fisso di Higgins aveva finito per innervosirlo al punto di chiedergli qualche cosa per distogliere da sé quegli occhi. — Così siete proprio voi! — disse Higgins. — Eravate voi, nella "vostra" macchina, questa notte. — Che cosa volete dire? Quale macchina? Se soltanto non avesse avuto la stecca di fiammiferi sulla macchina, non si sarebbe fatto identificare. Il signor Heath non poteva averlo visto bene. C'era poca luce lassù, e Stevie si era tenuto l'ala del cappello sugli occhi durante tutto il colloquio. Se non fosse stato per quei maledetti fiammiferi... — La "vostra" auto — precisò Higgins. — Una Chevrolet vecchio modello. — Così dove sarei stato io? — In St. Clair Avenue. — A far che? Higgins sorrise. — Questo è ciò che sono venuto a domandarvi. Quanto alla domanda precedente è inutile che usiate il condizionale. So di sicuro che eravate proprio voi. — Finito il mio lavoro al Club sono andato subito a casa. Non posso provarlo perché naturalmente a quell'ora tutti dormivano alla pensione dove abito. — Tutti forse, ma non la signora McGillicuddy. È lei che si è rivolta alla polizia per denunciare la vostra assenza. Temeva che vi fosse successo qualche incidente. Non siete rincasato questa notte. — Ho passato la notte con una signora — disse Stevie. Se almeno avesse potuto togliergli quei fiammiferi... Le ragazze sarebbero uscite tra un minuto, se voleva far qualche cosa, bisognava far presto, agire subito, adesso. Higgins non vide arrivare il pugno che lo colpì sotto il mento. Si afflosciò con grazia, come una fanciulla che sviene. La stecca di fiammiferi cadde sul pavimento, seminando dal coperchio di cartone che si era aperto alcune bustine. Con una soffocata imprecazione, Stevie si chinò a raccoglierle, le infilò nelle tasche, afferrò la stecca. Nessuno lo aveva visto ed il poliziotto era svenuto. Si buttò verso la porta che conduceva all'uscita secondaria, su una stretta viuzza. L'auto era parcheggiata in uno slargo della stradina. Stevie trovò lo sportello aperto. Il poliziotto aveva dimenticato di richiudere.
— Oh Dio!... — imprecò dopo aver cercato di mettere in moto la macchina. Il motore non si accendeva. Qualcosa era stato fatto al motore perché non potesse partire. L'eccitazione che lo aveva sostenuto, il senso di vittoria che per un momento aveva gustato, si spense. Rimase per qualche momento seduto al volante guardando inebetito davanti a sé, poi udì il suono della sirena di un'auto della polizia nella Bloor Street a una estremità della viuzza. Scivolò fuori dalla macchina e ricominciò a correre nella direzione opposta. Non si voltò finché non fu in fondo alla viuzza. Allora guardò indietro e vide che la strada stretta e oscura era deserta. Svoltò nella Davenport e si mise a camminare a passo normale per non essere notato. Aveva vinto. Aveva vinto... sennonché: aveva dimenticato in macchina la stecca dei fiammiferi. — Dio... — mormorò ancora Stevie, appoggiandosi alla vetrina di un negozio per non cadere. Sentiva che le gambe gli tremavano. Un uomo gli si affiancò, lo sorpassò, ed ebbe un brusco arresto. — Scusate, avreste un fiammifero? — No — rispose Stevie con voce sgarbata. — No! Non ho fiammiferi. — Bene, grazie lo stesso. Non c'è bisogno di prendersela. L'uomo gli voltò le spalle e se ne andò. Aveva un vestito grigio e sotto la giacca le scapole si disegnavano prominenti come due ali. Un tram arrivò sferragliando e andò a fermarsi un po' più in su nella strada, quasi all'angolo. Stevie si mise a correre, il manovratore lo vide nello specchietto retrovisivo e attese qualche attimo per dargli modo di salire. Stevie si issò sulla piattaforma con un sospiro di sollievo, prese il biglietto ed entrò. La gente osservava incuriosita il suo abito da sera. Non c'era posto e dovette rimanere in piedi aggrappato al tubolare. Finse di immergersi nella lettura degli avvisi pubblicitari e dopo qualche momento nessuno lo guardava più. Dopo alcune fermate, venne libero un posto e Stevie poté sedersi. Poteva ormai riflettere sui casi suoi ma non riusciva a pensare a niente di preciso. Guardava distrattamente i compagni di viaggio, la ragazza grassoccia che si alzava, l'uomo di mezza età che prendeva il suo posto. A un tratto l'uomo si voltò per guardare fuori dal finestrino e Stevie vide, sotto la stoffa grigia, le scapole che si disegnavano come due ali. Si sentì correre un guizzo freddo nella schiena. L'uomo non si era guardato mai intorno. Voltava solo di tanto in tanto nervosamente la testa per sorvegliare la strada. "Probabilmente è un pacifi-
co cittadino che sta andando a casa sua" pensò Steve. "Perché mai dovrebbe seguirmi?" Tuttavia, quando qualcuno suonò per chiedere che il tram si fermasse, Stevie si alzò e con un balzo scese dal tram. Ripercorse un tratto di strada. Dal tram aveva notato l'insegna di una taverna: "Vino - birra - alloggio". "Una camera per andare a dormire e un telefono; ecco quello che mi occorre" pensò. Doveva telefonare a Joey e chiedergli di prestargli del danaro per andarsene via dalla città. Quando entrò si avvicinò subito al banco delle bibite e domandò se c'era una camera per lui. Il barista, che era probabilmente anche il padrone del locale e insieme il cassiere e il segretario, gli disse che era rimasta libera una camera con bagno. "Probabilmente l'unica camera con bagno della locanda" pensò Stevie. — Quant'è? — Due dollari e cinquanta. — Bene — disse Stevie versando il danaro. — Firmate il registro — disse l'uomo porgendo a Stevie il libro. Stevie scrisse: M. R. Stevens, Hamilton. — Ecco la chiave. Se volete salire subito, la camera è pronta. — No! — esclamò Stevie con voce soffocata. — No! La porta si era aperta per lasciare entrare un uomo che Stevie fissava come se avesse visto uno spettro. Quando l'altro ebbe visto a sua volta Stevie, si fermò un attimo corrugando la fronte e poi si avvicinò. Aveva un viso magro, le labbra sottili. — Allora è proprio come pensavo! — disse l'uomo lentamente. — Che cosa? — domandò Stevie. — State seguendomi e tutto perché vi ho chiesto un fiammifero. Dovete essere pazzo, voi. Mania di persecuzione. — La chiave, signore — disse il padrone della taverna, chinandosi attraverso il banco per sentire quello che i due si dicevano. Un cliente domandò una birra e lui dovette rinunciare all'interessante discorso che si stava svolgendo tra i due. — Ho visto che siete corso dietro al mio tram per salirvi — riprese l'uomo. — M'è toccato scendere una fermata dopo, perché non mi andava di avervi alle costole. Ed ora eccovi di nuovo qui. Si può sapere a che gioco giocate? — Non vi ho mai visto prima d'ora — Stevie rispose di cattivo umore. — È una semplice coincidenza. — Diavolo! speriamo sia così. Ci sono dei fissati che si credono perse-
guitati anche solo perché uno si ferma a chieder loro qualunque sciocchezza. — Mi spiace. Non ce l'ho davvero con voi. Credevo che foste voi a seguire me. L'uomo lo fissò sospettoso e gradatamente la sua espressione diventò gioviale. — Allora è stato un equivoco... Buffo però. Non vi pare? Stevie non rispose. — Lo racconterò a mia moglie — continuò l'altro che sembrava ora completamente disteso. — Forse ha ragione lei quando mi dice che sono troppo sospettoso. Scusatemi. — Non importa, non preoccupatevi. — In ogni modo vi devo una birra per avervi aggredito in questo modo — concluse cordialmente. — Accettate? Stevie non aveva bevuto un goccio per tutta la sera. Forse per questa ragione era così nervoso, ed era stato così pazzo da picchiare un poliziotto. — Grazie. Una birra mi farà bene. Sedettero a un tavolo della taverna, l'altro gli sorrise conciliante e propose: — Due birre? — Va bene, due birre. Mentre aspettavano da bere, Stevie si guardava intorno in cerca della cabina telefonica, preparando le parole che avrebbe detto a Joey. "Joey, sono inguaiato, puoi prestarmi cinquanta dollari? Se li mandi a mio cugino lui me li farà avere." Joey poteva dargli quella somma, non era un cattivo uomo. — Qualcosa vi preoccupa? — domandò l'uomo. Stevie sorrise fuggevolmente. — Affari di donne. Ho litigato con la mia ragazza. Sto pensando se devo telefonarle. — Ma sì, telefonatele. Stevie si alzò e si chiuse nella cabina. Dovette aspettare qualche istante prima di fare il numero di Joey. La mano gli tremava. All'apparecchio rispose Joey, col suo modo caratteristico. Diceva con voce secca e misurata: "Sì?". — Sei tu, Joey? L'altro lo riconobbe e di colpo la voce misurata si cambiò in un ringhio. — Senti, Joey, sono inguaiato. Ho bisogno di soldi, non potresti...? Joey scandì lentamente: — Vai all'inferno! — Ascolta, Joey... Era inutile continuare, Joey aveva riappeso. Stevie riappese anche lui e
sbatté il ricevitore così forte che il nichelino fu sbalzato fuori dalla cassetta. Stevie rimase per qualche momento tenendo la moneta sul palmo della mano e guardandola senza vederla, poi uscì dalla cabina e ritornò al tavolo. L'uomo stava già bevendo il suo bicchiere di birra. — È andata male? — domandò masticando un chicco di grano dolce abbrustolito che pescava da una ciotola sul tavolo. — Non prendetevela. Vedrete che quando le sarà passata, sarà lei a cercarvi. Scommetto che siete un uomo fortunato con le donne! — Sì, sì — disse Stevie — certo che lo sono. La birra gli andò subito alla testa, aveva lo stomaco vuoto; era stanco e desiderava che l'alcool gli andasse alla testa. Non c'era nessuna ragione di rimanere sobrio, del resto. Non doveva pensare allo spettacolo, non doveva neanche andare a casa. Se si fosse sbronzato, non avrebbe fatto altro che buttarsi a letto, su nella sua camera e dormire. Il mattino dopo si sarebbe comperato un altro vestito a buon mercato e gli sarebbero rimasti ancora un po' di quattrini per andar via dalla città, in qualche posto... — Non avete qualche bel posto da suggerirmi? Voglio andar via. — Lasciare la città, volete dire? E tutto per una donna? — disse l'altro stupito. — Be', io personalmente mi trovo bene a Buffalo o a Detroit, negli Stati Uniti. Forse perché conosco bene la città. Ho dei parenti laggiù. — Non ho il passaporto — disse Stevie. — Peccato. Mia moglie è proprio a Buffalo in questi giorni. Mi ha lasciato solo, ho la casa piena di piatti sporchi e di rifiuti. Non oso mettermi a far pulizia per paura di prendere il tifo — disse ridendo. — Se rimane via ancora per una settimana dovrò andare all'albergo. Stevie chiamò il cameriere. — Ancora due birre! — No, per me basta. Dovrei prendere un tassì per andare a casa, se bevessi ancora un bicchiere. Ma voi continuate se non vi fa male. — Ho preso una camera qui, in questa locanda. — Peccato! Stavo quasi per dirvi che, se non vi dà noia il disordine e il sudiciume, potevate venire a casa con me, fintanto che è passata la luna alla vostra ragazza. — Grazie, ma non potrei accettare. Non so neanche come vi chiamate. L'uomo rise schioccando le dita. — Per Dio, è vero! Neanch'io però so come vi chiamate. Potreste essere un avanzo di galera per quello che ne so di voi. — Sicuro — rispose Stevie. — Io però ho il dono di fiutare le persone. Le giudico dalla loro faccia e
la vostra faccia mi piace. — Anche la vostra mi piace. — In ogni modo, mi piace aiutare la gente nei guai e voi avete l'aria di un buon diavolo che si è cacciato nei pasticci. Non è affar mio chiedervi confidenze. Può darsi che siano guai sentimentali, può darsi di no, in ogni modo l'offerta che vi ho fatto la mantengo. — L'offerta? — Sì, di venire a casa mia. La birra e l'amicizia dello sconosciuto andarono alla testa di Stevie. Gli veniva voglia di piangere. Appoggiò la testa sul tavolo, ma il padrone si avvicinò e gli batté sulla spalla. — Giovanotto, è ora di chiudere. Stevie alzò la testa. — Che ora è? — È ora di chiudere il locale — ripeté il padrone. — È un amico vostro? — domandò rivolto all'altro. — Certo che è un mio amico — rispose calorosamente l'uomo. — Adesso ce ne andiamo. Potete farci chiamare un tassì? — E fece alzare Stevie. Quando furono in auto Stevie si rincantucciò in un angolo e chiuse gli occhi. L'altro non lo disturbò finché non furono giunti a destinazione. — Ci siamo — gli disse dopo aver pagato. Stevie scese dal tassì. Era bello avere qualcuno che si prendeva ogni responsabilità. L'aria fresca dissipò i vapori della birra, si sentiva meglio, poteva camminare da solo ora, seguire il suo amico su per le scale. — Eccoci arrivati! L'uomo accese una luce, poi un'altra. Stevie si fregò gli occhi; si sentiva ancora il cervello annebbiato, aveva l'impressione che qualcosa non andasse. — Vorrei bere dell'acqua — disse. — Ve ne prendo un bicchiere. L'uomo uscì dalla camera e Stevie lo seguì attraverso una sala da pranzo fino in cucina. L'acqua scorreva dal rubinetto. Stevie si guardava intorno. C'era qualche cosa che non andava... se solo avesse potuto ricordare... Non appena ebbe bevuto il primo sorso d'acqua, capì improvvisamente che cos'era che non andava. Niente piatti sporchi nel lavandino, niente disordine nell'appartamento. Alzò gli occhi e incontrò quelli dell'altro che lo scrutavano. Dopo un momento l'altro parlò. — Ci siete finalmente, signor Jordan? Il bicchiere cadde dalle mani di Stevie e si infranse sul pavimento. Muovendo le labbra faticosamente Stevie domandò: — Chi siete?
— Mi chiamo Sands. 11 La donna aprì la bocca per strillare di nuovo. Higgins ordinò: — Zitta! — e si rialzò. La bocca di lei rimase aperta ma lo strillo non uscì. — Sono scivolato — disse Higgins e si ripulì i pantaloni. Si toccò la mascella. Faceva male ma non c'era niente di rotto. — Non so come fate voi ragazze a non rompervi l'osso del collo, a camminare su questo maledetto pavimento, con quei trampoli di tacchi sotto i piedi. — Che cosa fate qui voi? Non sapete che Joey non permette? — La donna aveva una voce bassa, volgare. — Devo parlare con una delle ragazze — disse Higgins. — Con chi? — Con voi. — Con me? — Mamie fece un passo indietro. — Io non vi conosco. È meglio che vi leviate dai piedi, prima che vada a chiamare Joey. — Non credo che vi convenga chiamarlo. Si tratta di una cosetta confidenziale tra voi e me. — È la mia musica, questa. Devo andare. Higgins la lasciò passare e Mamie uscì sulla pedana a piccoli passi rapidi. Un breve applauso e poi la voce cominciò a cantare. Era una canzone molto sentimentale. Quando rientrò, Higgins ebbe l'impressione che fosse più sicura di sé. Doveva aver riflettuto, mentre cantava il suo pezzo. — Sono venuto a parlarvi di un vostro amico — cominciò Higgins — sapete di chi sto parlando, vero? — Non ne ho idea. Siete un poliziotto? — Sono l'ispettore Higgins. Signorina Rosen, sto cercando Tony Murillo. — Lo sto cercando anch'io, e sarebbe una bella cosa per lui, se foste voi a trovarlo per primo. — Non abbiamo avuto notizie di Murillo per parecchi anni. Conoscevate Tony una diecina di anni fa? — No. — Bene. A quell'epoca è stato condannato a un paio d'anni per spaccio di marijuana. Ora avrei bisogno di rivederlo dopo tanto tempo, e di fare quattro chiacchiere con lui. Dov'è?
— A me lo domandate? — Non vive con voi? — Solo di tanto in tanto — rispose Mamie sostenuta. Joey entrò e si fermò davanti a Mamie, tenendo i pugni sui fianchi. — Che cosa mi stai combinando tu? — Niente — protestò Mamie. Joey si rivolse a Higgins. — Polizia? Che cosa c'è? Dov'è Stevie? — Il signor Jordan è andato a fare un giretto per rinfrescarsi le idee — rispose Higgins. — Non credo che ritorni, questa sera. — Che succede qui dentro? Che diritto avete voi della polizia di venire a disturbare il mio spettacolo? — Non vi arrabbiate. Dovevo parlare con il signor Jordan ed ora stavo dicendo due parole alla signorina Rosen. Tutto qui. — Per tutti i diavoli! Non avreste potuto scegliere un momento migliore? Me l'avete spaventata da morire questa ragazza, col risultato che invece di cantare squittisce. Quanto poi a Jordan... — Jordan se n'è andato perché ne aveva voglia — disse Higgins con espressione seccata. — Ora ho bisogno di parlare a quattr'occhi con la signorina Rosen. — Posso saperne la ragione? — Si tratta dell'amico della signorina, Murillo. Joey si scagliò selvaggiamente verso Mamie. — Per Dio, te l'avevo detto che se non ti fossi tenuta alla larga da quello spagnolo ti avrei licenziata! Ogni momento succede qualche cosa e mi arrivi con un occhio pesto o con un labbro spaccato. Non voglio grane! Gestisco un locale dove ci si diverte, non un convalescenziario per... — Compì un altro passo verso di lei come se volesse aggredirla. — Di' al poliziotto dov'è Murillo. Che lo mettano in galera una buona volta. Diglielo! — Non so dov'è — sussurrò Mamie. — Non lo so proprio. Joe si volse a Higgins. — Tenete d'occhio la pensione dove vive Mamie. Probabilmente Murillo tornerà da lei. Quando un tipo come lui trova una scema che si fa sfruttare, non se la lascia sfuggire. Tornerà, vedrete. — Deve essere andato fuori città per affari — disse debolmente Mamie. — Affari! — esplose Joey. — Mi occupo io di questa faccenda — protestò Higgins. — Voi cercate di calmarvi. — Mi calmerò quando Stevie sarà ritornato. Vada in malora anche lui! Che cosa ha fatto?
— C'è di mezzo un assassinio. Dobbiamo indagare. Joey volse la schiena per andarsene. Bestemmiava tra i denti, malediceva Mamie, Stevie, Higgins, Murillo. Tutti ci si mettevano per rovinargli il locale, per mandarlo in rovina. — Allora voi dite che Murillo è fuori città — riprese Higgins quando furono soli. — La notte scorsa non era con voi? — No — rispose Mamie. — Ho passato la notte con qualcun altro. Posso provarlo. — Con chi eravate? — Con Stevie Jordan. — Tutta la notte? Mamie si soffiò delicatamente il naso. Gli occhi, al di sopra del fazzoletto, avevano uno sguardo prudente. — Non per la ragione che pensate. — Non me ne importa un fico secco per quale ragione. Mi importa soltanto se era con voi. — Che cosa volete sapere? — Mamie sentiva su di sé lo sguardo dell'uomo e ne era dominata. — Mi ha accompagnato a casa... — Ed è rimasto con voi? — Non subito; è tornato più tardi. — Quando? — Non potrei dire che ora fosse, non ci ho fatto caso. Avevo voglia di starmene in pace. Ho bevuto della grappa... — Perché Jordan è ritornato da voi? — Voleva bere anche lui — disse, e dopo una pausa continuò: — Chi è stato assassinato? — Una ragazza... una ragazza cieca. — Cieca?... no — Mamie deglutì. — Come si chiamava? — Kelsey Heath. — Kelsey Heath — ripeté. — Heath. — È stata ammazzata tra le tre e le tre e mezzo di questa notte — precisò Higgins. — In che modo? — Con un coltello. La donna si passò una mano sotto il seno, dove l'abito era chiazzato di sudore. — Sappiamo che Jordan era nelle vicinanze della casa degli Heath pressappoco a quell'ora. Naturalmente, non si può arrestarlo per questo, però
dobbiamo indagare su di lui. La porta di entrata della casa degli Heath era stata lasciata aperta, e una persona estranea alla casa potrebbe essere entrata e avere ucciso la ragazza. Così sono venuto per interrogarlo. — E lui è scappato — commentò Mamie pensosamente. — Può averlo fatto perché si è innervosito o ha avuto paura — disse il poliziotto — ma certo Jordan non aveva alcun movente per uccidere la signorina Heath. — No? — disse Mamie. — Almeno finora non ne conosciamo nessuno. — Allora dovevate essere in camera mia la scorsa notte quando parlava nel sonno. Kelsey Heath; sapete chi è Kelsey Heath? La ragazza che ha ucciso Geraldine — Mamie fece una pausa e guardò Higgins in modo subdolo... — Volete sapere una cosa? Kelsey guidava l'auto la sera che è successa la disgrazia. C'erano quattro persone in macchina ma Geraldine fu la sola a rimetterci la pelle. Stevie andò al garage a vedere l'auto fracassata e le macchie di sangue. Era come pazzo. Avete una sigaretta da darmi? Higgins gliela porse e gliela accese. Lei respirò golosamente. — Se tutto fosse andato liscio in seguito, forse Stevie si sarebbe messo il cuore in pace. E invece ecco che Johnny Heath si mette a ronzare intorno a un'altra ragazza che sta a cuore a Stevie. È la ragazza che avete visto durante lo spettacolo, quella che fa i salti mortali a tempo di musica. Si dà un sacco di arie come se fosse la prima cugina di Nostro Signore. Be'... in ogni modo a Stevie piace. Stava già guadagnando terreno con la ragazza, quand'ecco che è entrato di nuovo in scena Johnny Heath. — Geraldine era la ragazza di Stevie? — Viveva con lui. Quando ha cominciato a uscire con Heath, ha piantato il povero Stevie. Higgins sorrise per il tono pieno di riprovazione di Mamie. Lei non avrebbe mai piantato il suo uomo. Bisognava tener d'occhio la casa della ragazza, pensò. Murillo, come ogni altro criminale del suo tipo, sarebbe ritornato dalla sua donna dopo aver fatto un colpo. — Naturalmente — continuò Mamie — nessun uomo sopporta di essere piantato in asso. Sapete, gli uomini sono permalosi. Higgins annuì. — Così Jordan se l'è legata al dito, secondo voi? — Si capisce. Non è uno scherzo piacevole vedersi soffiare due ragazze dallo stesso uomo. Era un po' strano ieri sera quando mi ha accompagnato a casa. Pensavo che ormai si fosse dato pace per la morte di Geraldine, ma
lui continua a parlarne come fosse stato ieri. Diceva che un giorno o l'altro Johnny porterà Marcie a fare una passeggiata e anche a lei succederà quello che è accaduto a Geraldine. Insomma, diceva un sacco di sciocchezze di questo genere. — Minacce? — Sì, in un certo senso, ma non verso Kelsey Heath. Contro Johnny. Poi io sono andata a casa. Dopo un'ora circa... — A che ora dunque? — ...forse le quattro, Stevie è ritornato. Mi ha detto che voleva bere. L'ho lasciato venire in camera perché mi sentivo sola e mi faceva piacere avere qualcuno che mi tenesse compagnia. Abbiamo scolato la bottiglia e poi siamo andati a dormire. Io nel mio letto, lui sul divano. Durante la notte ha continuato a parlare nel sonno, a ripetere sempre le stesse cose. A un certo punto ho dovuto svegliarlo. Mamie tacque e cominciò a frugare nella scollatura per trovare un fazzolettino. Non appena lo ebbe trovato, le lacrime cominciarono a sgorgare. Perfetta sincronizzazione, pensò Higgins, oltre a un vero talento per le lacrime. Guardò gli occhi scuri, teneri e osservò la bocca di Mamie: le labbra erano sottili, tirate. — È odioso scoprire gli altarini di un amico come Stevie — disse ancora mettendosi il fazzoletto davanti alla bocca — ma non posso tacere quello che so. Stevie ha detto che Geraldine è stata assassinata da Johnny e che temeva per la vita di Marcie. Quando l'ho svegliato, voleva telefonare alla ragazza per sapere se non le era accaduto niente. Non ho voluto che telefonasse dalla pensione a quell'ora del mattino e l'ho spedito al telefono pubblico, in una farmacia notturna. Poi non l'ho più rivisto. Questo è tutto quello che so. — Mamie rimise a posto il fazzoletto. — Adesso dovrei andare a cambiarmi. — No, aspettate — insistette Higgins con voce severa. — Voglio sapere dov'è Murillo. — Giuro che non lo so! Tony non mi dice mai dove va. A volte non lo vedo per delle settimane intere. Forse va da un'altra donna. — E voi non avete mai cercato di indagare? — domandò lui. Mamie lo guardò indignata. — Per chi mi prendete? Si capisce che ho cercato di sapere dove va, ma lui me ne ha fatto passare la voglia. Ho avuto la mascella dolorante per un mese. Così ci ho rinunciato. — Fuma ancora, Murillo? — Fuma...? Che cosa intendete dire?
— Non fate la furba, parlo della marijuana. Naturalmente non ne sapete nulla, è così? — Certo che non ne so nulla. In quel momento Joey fece capolino. — Ancora qui? — tuonò. — Mamie, va' a cambiarti. Di' a Marcie Moore che la vogliono al telefono. E si voltò piantando in asso Higgins con uno sguardo ostile. Johnny uscì dal salotto, per telefonare. Rientrò poco dopo, con un'espressione di noia sul viso. Sands li aveva pregati di restare in casa quella sera. Sedevano tutti e tre, Alice, Philip e Johnny, nel salotto a pianterreno. Riandavano a tutto ciò che Sands aveva detto, a ciò che ognuno di loro aveva risposto. Discutevano, si punzecchiavano, si esasperavano l'un l'altro. Di tanto in tanto lunghe pause di silenzio saturo di elettricità cadevano tra loro. — Ho telefonato a Marcie — disse John. — Mi ha fatto capire che non vuole più saperne di me. Non ci fu nessun commento. Qualche minuto dopo Johnny aggiunse: — Sarà bene berci sopra un bicchierino. — Non c'era traccia di irritazione nella sua voce. "Vuole essere lasciata in pace? Benissimo, la lascerò in pace." Per Johnny non esistevano problemi e le parole di Marcie significavano soltanto che bisognava voltare pagina. — Se vuoi il cognac, sarà meglio che vada tu stesso a prendere la bottiglia — disse Alice. — Maurice è già a letto. — Chiamerò Ida — insistette lui. — Arrangiati da solo. Non voglio vedermela intorno. L'ho licenziata e domattina se ne andrà. — È una ragione di più perché questa sera si renda utile — ribatté John ottusamente, premendo il campanello. — Philip, lasciati andare per una volta almeno e bevi anche tu un bicchierino. — No, grazie — rispose Philip senza alzare la testa. Stava seduto in una posizione strana, le mani aggrappate ai braccioli, i piedi puntati sul pavimento. La testa più che essere reclinata in avanti sembrava penzolare sul petto come se il collo fosse troppo debole per sorreggerla. "Ha l'aria di un fantoccio" pensò Alice irritata. Anche se non c'era nessuno che potesse vederlo e ridere di lui, non poteva sopportare che mantenesse quella posa ridicola. — Philip, passami per favore... — Non sapeva come continuare, non sapeva che oggetto chiedere, voleva solo fargli cambiare posizione, ma lui
non si mosse, come se non avesse neppure sentito la sua voce. Alice si portò una mano alla bocca. Johnny la guardò stupito. — Che diavolo hai, Alice? L'irritazione della sorella contro Philip, immediatamente si trasferì su John. — Niente — rispose acidamente. — Cosa vuoi che mi succeda? Da quando mai mi si considera un essere umano qua dentro? Un essere a cui possa succeder di... — Parli proprio come un'acida zitella — la interruppe il fratello. — Già, una zitella! È proprio quello che sono e come rappresentante della categoria... — Finiscila, Alice — ordinò Johnny seccato. — Hai bisogno di bere un bicchierino anche tu. Lo sa il cielo che cos'hai in corpo! Alice scoppiò a ridere, gettando indietro la testa. Smise bruscamente e rivolse a Johnny gli occhi da cui le lagrime cominciavano a traboccare, scendendo sulle guance. — Sesso — disse. — Ecco che cosa ho in corpo. E adesso avanti, John, prendi l'aria afflitta e scandalizzata che si conviene alla circostanza. È una parola che io non dovrei neanche pronunciare, no? A tutti è permesso, ma non a me. Stona sulle mie labbra e inoltre potrebbe interferire con i miei doveri di massaia e di infermiera. Questi sono i compiti che la vita mi ha assegnato e dopo la mia lunga esperienza, dedicherò il resto dei miei giorni a dirigere un orfanotrofio o una casa di cura per pazzi o forse una casa di rieducazione per ragazze di strada. La porta si era aperta. Entrò Ida con il vassoio su cui i bicchieri tintinnavano pericolosamente. Posò il vassoio e la bottiglia sul tavolo basso di fianco ad Alice. — Grazie — disse lei senza guardarla. — Andate in camera vostra e fate in modo che il vostro bagaglio sia pronto domattina presto. Il tono di voce di Alice, gelido e sferzante, ebbe l'effetto di risvegliare l'aggressività della ragazza. Il fatto che persino l'ispettore di polizia l'avesse ascoltata attentamente, quel mattino, le dava un senso nuovo di forza. Non solo le potenze soprannaturali si occupavano di lei, ma ora anche la polizia era dalla sua parte. Non aveva paura di nessuno, adesso, e avrebbe fatto vedere ad Alice che poteva tenerle testa. — Vorrei sapere chi credete di essere voi — disse tutto d'un fiato — per offendere una povera ragazza. Ho sentito quello che avete detto quando entravo. Una ragazza di strada mi avete chiamato! Vedrete che vi faccio
mettere a posto dalla polizia. Nessuno ha mai avuto dei dubbi sulla mia moralità! — E neanche sulle vostre libagioni — scherzò Johnny. Philip sogghignò appena. Ida li guardò soffocata dalla rabbia. La stavano prendendo in giro, si facevano beffe di lei. — Riderà bene chi riderà ultimo — rimbeccò e con un goffo gesto di sfida si voltò e si incamminò verso la porta. — Ida! — La voce di Alice sferzò l'aria. L'altra non si girò, si fermò sulla soglia. — Non tollero minacce o insinuazioni di nessun genere da voi. E per aiutarvi a tener la bocca chiusa, sarà bene che sappiate che quelli della polizia hanno trovato, sulle mani di Kelsey, tracce di morfina. Questo significa che mia sorella ha tentato di uccidersi; e in questo caso chi le ha procurato la morfina? Ida uscì precipitosamente dal salotto e si mise a correre. Alice scattò dalla sua poltrona e dalla porta le gridò: — Voi siete stata! Voi, l'avete aiutata! Poi chiuse la porta e vi rimase per qualche attimo appoggiata, le mani sulla maniglia, le spalle curve. I due uomini la fissavano in silenzio. — Come hai fatto a scoprirlo? — domandò infine Philip. Alice fece qualche passo e poi guardandolo deliberatamente disse: — Ho origliato. — Cosa hai fatto? — domandò John, con espressione scandalizzata. "Non perché la cosa, in sé, lo scandalizzi, ma solo perché sono stata io" pensò Alice. "Non gli sembra possibile che io abbia origliato. Secondo loro io non sono un essere umano. Si aspettano che io sia un essere superiore; ha sempre fatto comodo a tutti quanti pensarlo." — Sì, ho ascoltato alla porta — ripeté trovando piacere nel pronunciare la frase. — La polizia non mi avrebbe informato e io sentivo di aver il diritto di sapere. Loro... l'hanno portata via in un baule di vimini... non mi hanno lasciato decidere nulla. Decidono tutto loro, mi hanno fatto un sacco di domande e hanno rifiutato di rispondere a quelle che io ho fatto loro. — È logico che abbiano fatto molte domande — replicò Philip. — Ognuno di noi avrebbe potuto... — La voce gli si incrinò. — Perché ha voluto uccidersi? Perché ho detto che me ne sarei andato? Lei doveva sapere che non lo avrei mai fatto; sapeva che non l'avrei lasciata. Alice prese il bicchiere che Johnny le porgeva. Era più facile parlare a Philip, se avesse avuto un bicchiere in cui guardare. Non avrebbe guardato
il suo viso disfatto. Ora che Philip aveva perso Kelsey, il suo viso era diventato senza forma, vacuo. — Kelsey ha tentato di uccidersi — disse Alice — per la stessa ragione che spinge quasi tutti a questo gesto. Kelsey non era adatta a vivere. O almeno, non a vivere così. Non poteva accontentarsi di ciò che la vita poteva ormai offrirle, e ha rifiutato di vivere questa vita incompleta. — Era riuscita a mantenere la voce calma. — Che cosa faremo di Prince, ora? — domandò dopo una pausa. — Ridiamolo agli istruttori. Ci vuol molto tempo per addestrare questi cani, non sarebbe bello tenercelo noi — convenne John inghiottendo penosamente e alzò il bicchiere per bere. La mano gli tremava. Alice guardò fissamente nel fondo del bicchiere. Era strano, pensò; potevano parlare con calma di Kelsey, quasi con distacco, ma non riuscivano a nominare il cane senza che un nodo di lagrime stringesse la gola. Era come se il cane fosse un simbolo e il simbolo fosse diventato più grande della realtà che stava dietro ad esso. — Bevi anche tu, Philip, ti farà bene — disse Alice dopo un penoso silenzio. — No, mi piacerebbe, ma non mi sento... — Mettiti al piano e suona se ti senti — propose lei con voce incerta e senza osare guardarlo. — Se... se non vi sembra... "Purché ora non si metta a piangere" pensò Alice. "Ha uno sguardo così inebetito. Purché non ceda di schianto." — Suona una musica bella — aggiunse — qualche cosa che allontani quest'atmosfera di voci sommesse, di passi felpati. Il poliziotto che sedeva sulla panca in giardino si volse stupito a guardare le finestre da cui uscivano le note del pianoforte. Non gli era mai capitato di sentir musica in una casa dove era appena morto qualcuno. Il signor Heath dalla sua camera udì e si mise alla finestra ad ascoltare. Philip suonava con foga selvaggia. Tecnica brillante e imprecisa, pensò il signor Heath. Soltanto Isabel poteva pensare che Philip fosse un artista... ma lei capiva così poco di musica. Quanto a Philip, sapeva anche lui, meglio di ogni altro, di essere un mediocre pianista. Si immaginò di vedere Philip seduto al piano. Quando suonava, i suoi occhi diventavano selvaggi, ricordavano quelli di una tigre. In quei momenti non sembrava più il solito, fiacco Philip abituato a ciondolare da una poltrona all'altra.
12 Stevie guardò i vetri rotti, con la punta della scarpa spostò un leggero frammento. — Un bicchiere da pochi soldi — commentò con voce incolore. — Dieci cents — disse Sands. — Bene. Vi devo dieci cents. E che cos'altro ancora vi devo? — Mi dovete un ringraziamento. Potevo portarvi alla polizia. — E invece mi avete portato qui per cogliermi di sorpresa, sperando che mi smolli. — Non siete un tipo duro, voi — disse Sands — e non lo sono neanch'io. Penso che noi due possiamo intenderci. Avanti, Jordan, sedetevi. — Vorrei sapere che cosa mi succederebbe se non volessi sedermi. — Rimanete in piedi, se vi piace, ma non parlate come un ragazzino riottoso. — Vorrei sapere se c'è qualche cosa che può impedirmi di andarmene da qui. — Niente e nessuno, ad eccezione del vostro cervello, se ne avete uno. — Siete armato? — domandò Stevie. — No e non ho nessuna intenzione di azzuffarmi con voi — replicò l'altro. Stevie fece un passo verso di lui e Sands lo guardò freddamente. — D'altra parte — continuò il poliziotto dopo un momento — le mie armi me le sono scelte da me. Ho fatto un lavoro di regìa. Ho creato la situazione, vi ho messo sulla scena e ho fatto in modo che agiste esattamente come avete agito. — Vi venga un accidente! — Vedete — spiegò Sands calmo — io ho la mia teoria. Secondo me, se si guarda una cavalletta abbastanza a lungo e abbastanza attentamente, si finisce per indovinare da che parte salterà. Voi ora non siete più tanto sbronzo da non capire che cosa vi conviene fare. Avete fatto già le vostre esperienze tentando di scappare e non credo che ricomincerete daccapo. No, Jordan; voi non scapperete. Vi metterete invece a sedere e chiacchiererete con me. È l'unica cosa che vi convenga fare. Vi lascio il tempo di riflettere. Sands volse le spalle e senza fretta si diresse verso la camera accanto. Aveva un alone di pallore intorno alla bocca e il viso tirato. Se questa volta non avesse indovinato da che parte avrebbe saltato la cavalletta... Per cin-
que minuti Stevie rimase in cucina. Era solo, avrebbe potuto andarsene quando voleva. Bastava aprire la porta di servizio della cucina, scendere le scale e si sarebbe trovato nella strada, libero. Libero? Forse per dieci minuti ancora sarebbe stato libero. Poi gli uomini della polizia sarebbero stati sguinzagliati alle sue calcagna, i suoi connotati trasmessi, la sua fotografia diramata. Stevie volse le spalle alla porta, lasciò la cucina e raggiunse Sands nell'altra stanza. Lo trovò seduto in poltrona. Si fregava gli occhi stanchi. — Eccomi qua — disse Stevie masticando un'imprecazione. — Calma, calma. Dopo tutto non avete niente sulla coscienza, no? — Niente se si eccettua il fatto di aver aggredito un poliziotto e di averlo preso a pugni. — Non preoccupatevi per Higgins. Posso persuaderlo a dimenticarsi di questa storia se voi vi lasciate convincere a dirmi che cosa facevate fuori dalla casa degli Heath alle tre e mezzo di questa notte, ora approssimativa in cui veniva commesso un delitto. Seguì un lungo silenzio. — Allora? — domandò Sands. — Non mi credereste. Pare anche a me una cosa incredibile, pazzesca. — Tentate, può darsi che a me non sembri così pazzesca. — Volevo vedere la "sua" casa; la casa dove vive Johnny Heath. — Perché? — Per Dio, ve l'ho detto che non mi credereste! — C'è sempre una ragione per ogni azione che la gente compie. — Va bene, allora la mia ragione è che io odio quest'uomo. — Be', è una ragione — Sands disse gravemente. — C'è della gente che passa sotto le finestre di una casa per amore; perché non potrebbe fare la stessa cosa per odio? Però, vi siete lasciato sfuggire un particolare. Quando vi ho detto che eravate lassù mentre si stava commettendo un delitto, avete dimenticato di esclamare "Un delitto! Quale delitto?". Lo sapevate già? — Certo che lo sapevo. Me lo aveva detto Marcie. — Marcie? — Sì. Johnny lo aveva detto a lei e lei lo ha detto a me. È una ragazza che lavora da Joey, si chiama Marcella Moore. Johnny Heath le fa il cascamorto. — Così voi sapevate che c'era di mezzo un delitto. Per questo, allora, avete preso a pugni Higgins?
Ci fu un altro silenzio. — No — rispose infine Stevie. — Non avrete avuto paura che vi arrestasse per il delitto, vero? — No. — Però lo avete picchiato per liberarvi di lui e scappare. Perché? Stevie si sollevò dalla poltrona e tendendo il corpo verso Sands disse con voce rauca: — Perché non mi piacerebbe rimetterci la pelle, avete capito? — Neanche a me piacerebbe. Tuttavia i miei metodi per evitarlo sono meno complessi dei vostri. Chi vuole assassinarvi? — Nessuno, per ora. — Per ora? — Per ora — ripeté Stevie tetramente. — Qualcuno tenterà di farlo? — Sì, adesso che sono tra le grinfie della polizia. Tutta questa messa in scena mi inganna; la conversazione amichevole e la porta socchiusa. No, questo è solo il principio. Poi verrà il resto e allora sarò solo contro mezza dozzina di poliziotti, con altrettanti manganelli di gomma... — È accaduto in certi casi — disse Sands. — ...e un riflettore negli occhi, niente acqua e niente sonno finché non mi decido a parlare. Certo con un tipo come Heath non usereste questi mezzi, ma con me sì, eccome! Ebbene io vi risparmierò il disturbo. Sceglierò piuttosto l'eventualità di rimetterci la pelle. La mia faccia mi serve così com'è, ne ho bisogno per il mio lavoro, e non voglio lasciarmela rovinare da voi a furia di botte. Capito? — Bene. Allora? — Allora; io so chi è stato a uccidere la ragazza. Si tolse di tasca un fazzoletto e se lo passò sul palmo delle mani. I gesti erano cauti e così la sua voce. — Certo — continuò con una sfumatura di ironia nella voce — sono un tipo che la sa lunga. Conosco gli autori di due delitti. Non credo che riuscirete a beccare né l'uno né l'altro. Specialmente il primo non lo beccherete di certo. Che c'è in quella bottiglia? — Whisky. Ne volete? — Sì — e vuotò di colpo il bicchiere che Sands gli aveva offerto. — Non parleremo neanche del primo. Quello è un tipo che ha tutte le carte in regola e riuscirà sempre a cavarsela. Il secondo invece è un pendaglio da forca. Avreste dovuto vederlo correre questa notte. Mi è passato vicino.
Mai visto nessuno correre così! — rise con voce rauca. — Gesù! Aveva la faccia verde. Ha il fegato di un coniglio, l'amico. Per questo devo dire che ci assomigliamo. Quanto a me sarei disposto a prendere in affitto una cella in carcere e rimanerci fino a quando avete messo lui al sicuro. — Chi è? Parlate, Stevie. — È Murillo. Tony Murillo, un gentiluomo che maneggia con perizia il coltello. E non chiedetemi se sono sicuro. Sono sicuro che è lui. Tanto sicuro da prendere a pugni un poliziotto per cercare di scappare e andarmene via dalla città. Perché c'è una probabilità che anche lui mi abbia visto e riconosciuto. La cosa non mi spaventerebbe se non sapessi che c'è di mezzo un delitto. Il secondo delitto, viene da sé, come sapete... — Fece una pausa per riprender fiato. — Signor Sands, credevo che la mia rivelazione vi avrebbe sorpreso. — Sono sorpreso — ammise Sands — ma non molto. Ero già arrivato alla convinzione che il colpo è stato fatto da un estraneo, aiutato da qualcuno della casa. Tutti gli elementi confermano questa ipotesi. La porta di entrata lasciata aperta, la serratura del portagioie della signorina Heath forzata, benché non sia stato preso nulla. Abbiamo trovato le impronte di un guanto di cinghiale sulla scatola e sul tappeto c'era qualche fogliolina di marijuana. — La droga di Murillo — commentò Stevie. — Sì, evidentemente deve essergli caduta quando si è tolto di tasca il fazzoletto o il temperino per scassinare il portagioie. Non avrei pensato a Murillo, se non avessi dovuto occuparmi proprio la notte scorsa di un'altra rapina, anche quello un colpo fallito... Ma di questo vi racconterò un altro momento. Murillo doveva essere a conoscenza che la ragazza era cieca e che quindi lui avrebbe potuto agire liberamente, tenendo la luce accesa; inoltre qualcuno deve averlo guidato fino alla camera e avergli detto dov'erano i gioielli. — C'è una cosa che non capisco però — obiettò Stevie. — Perché non si è limitato a prendere la scatola e non se ne è andato? Murillo non ha fegato, è un tipo nervoso. Non posso immaginarlo mentre rimane a scassinare con calma, a luce accesa, una serratura. Non lo avrebbe fatto neanche se la ragazza, oltre ad essere cieca, fosse stata sorda e muta. — Può darsi che sia stato disturbato e abbia perso la testa per qualche ragione. Forse la ragazza si è svegliata e lui non si è reso conto che non avrebbe potuto identificarlo perché era cieca. Ha visto il coltello sul tavolino, l'ha afferrato e ha colpito. Del resto la sua condotta appare illogica da
cima a fondo. Frutto della droga, forse. — Sì... — disse Stevie con voce incerta. — Tuttavia secondo me la rapina è una messa in scena. Murillo tenterebbe un furto solo in una casa vuota, con finestre e porte aperte. Non ne avrebbe il coraggio neanche sotto l'effetto della droga; la marijuana non è come la cocaina. — Sembra che conosciate molto bene il nostro uomo — osservò Sands. — Io? L'ho visto non più di un paio di volte, insieme a Mamie. Tuttavia lo conosco benissimo come se ci avessi vissuto insieme. — Intuizione? — Mamie — sorrise Stevie. — Murillo è il soggetto preferito di conversazione di Mamie. So che cosa mangia Murillo, cosa dice, cosa pensa; so tutto di lui, anche le abitudini più intime e segrete. Da anni seguo il romanzo di questi due, lei me lo serve in tutte le salse. Le piace chiacchierare. Proprio per questo le capita spesso di avere un occhio pesto. Sì, Murillo ha del fegato con le donne, con gli uomini al di sotto del metro e venti e con le ragazze cieche. Sands si tolse di tasca un foglio. Era una scheda antropometrica con la fotografia di un uomo di faccia e di profilo. Antonio Sebastiano Murillo Occhi scuri Capelli scuri ondulati Colorito normale Peso 60 Kg. Altezza 1,78 Nato l'8-11-1914 a Chicago Senza fissa dimora Segni di riconoscimento: nessuno visibile, una voglia di lampone sul fianco sinistro Accusa: spaccio di marijuana Giudicato colpevole Condannato a due anni meno un giorno nel 1932 Pena interamente scontata nel riformatorio Guelph Note: porta come arma un pugnale, fumatore di marijuana. Potenzialmente pericoloso. La fotografia era quella di un bel ragazzo, dall'espressione insolente, con un viso affilato, quasi emaciato. — Così, questo è Murillo da giovane — osservò Stevie e guardò meglio
la fotografia. — Non è più così bello, ora. Siete sicuro che sia la sua fotografia? Oggi non lo si potrebbe riconoscere davvero. — È un guaio, questo, perché è l'unica fotografia che abbiamo in mano. Non credo che potremmo averne una più recente da Mamie. No, è meglio tentare un'altra strada. Scusatemi, devo telefonare. Cercò nell'elenco e compose un numero. Il telefono squillò per una diecina di volte prima che qualcuno rispondesse. — Parlo con Klausen? — domandò Sands. — Sì. — Parla Sands. Dirigete ancora voi la scuola di disegno? — Non a quest'ora della notte — rispose l'altro acidamente. — Si tratta di una cosa urgente. Mi potreste dare l'indirizzo del disegnatore che ci ha fatto l'anno scorso quel disegno di Galvison? — Smithson? È molto occupato questa settimana e non credo... — Si tratta di arrestare un assassino. Datemi il numero di Smithson. Klausen gli diede un numero e riappese il ricevitore imprecando. Il telefono squillò a lungo prima che Smithson si decidesse a rispondere, tuttavia non appena l'ispettore gli ebbe detto che cosa voleva da lui, rispose che sarebbe stato felice di rendersi utile, e che si divertiva enormemente a fare lavori di questo genere. — Bene — fece Sands — allora tra poco vi manderò un agente con la fotografia e tutti i particolari. Il vostro indirizzo? Mentre scrìveva l'indirizzo sulla copertina dell'elenco, Sands disse con una smorfia che esprimeva soddisfazione: — Questo è l'uomo della situazione, ci risolverà lui il problema. — Che cosa farà? — Miracoli — rispose Sands, mentre chiamava il numero della Centrale. Poi si mise al tavolo e cominciò a buttar giù su un foglio qualche nota, dopo aver chiesto a Stevie di fargli una descrizione minuziosa dell'aspetto di Murillo. — Peserà circa ottanta chili. — Capelli? — Giurerei che sta diventando calvo, però l'ho sempre visto con il cappello. — Ditemi tutto quello che sapete sulle abitudini personali, eventuali malattie, eccetera. — Che cos'ha a che fare questo, con il suo aspetto? — Nel caso di Galvison, uno dei fattori determinanti fu che di tanto in
tanto si prendeva una blenorragia. Quando Smithson ci fece il ritratto di Galvison, da una vecchissima foto, ebbe cura di rifargli gli occhi, tenendo conto di questo particolare. Sapete, il genere di occhi con le borse e le palpebre pesanti, insomma quei particolari che Galvison non avrebbe potuto nascondere o cambiare. Risultato, la fotografia consegnata agli ospedali che curano questo genere di malattie permise di identificare l'amico, travestito, naturalmente sotto altro nome. Fu pescato in un ospedale di Montreal. In mezz'ora le istruzioni erano pronte. Un agente venne a ritirare la fotografia e le note per portarle a Smithson. — Spero che Smithson faccia bene il suo lavoro — commentò Stevie. — Avete ancora paura? — Non mi piacciono i pugnali. — Un altro gocciò di whisky? Servitevi, Jordan. Stevie sorseggiava dal bicchiere e guardava un punto indefinito della stanza. — Cosicché, Murillo non ha preso il portagioie. — Secondo me è probabile che i passi del signor Heath che rientrava lo abbiano disturbato. Inoltre, doveva avere i nervi sossopra per l'altro colpo che gli era andato male. Aveva tentato poco prima di compiere una rapina in una taverna. Ha seminato le sue impronte nel locale, dove prima di tentare il colpo si era fermato a bere e poi è scappato. Non è precisamente la condotta di un criminale di classe. — Mi viene un'idea — sbottò Stevie. Posò il bicchiere e disse con voce ostentatamente indifferente: — Non potrebbe esserci qualcuno che ha pagato Murillo per fargli fare esattamente quello che ha fatto? In questo caso chi lo ha pagato, gli avrebbe anche detto di fare in modo di simulare il furto di gioielli e di far sì che il delitto possa sembrare una conseguenza del furto. — Certo non si può escludere — ammise Sands. — Tuttavia non credo che il mio uomo si sarebbe servito di questo mezzo. Lui è un tipo che agirebbe da solo. La morte della sua vittima risulterebbe un incidente; un incidente automobilistico, per esempio. — Devo quindi concludere che mi è sfuggito un assassinio e il delinquente — convenne tranquillamente Sands. — Chissà quante volte vi capita! — È probabile. Mi piacerebbe che mi raccontaste voi quello che sapete. Stevie gli lanciò un'occhiata. — Dite, mi credete pazzo? — Nemmeno per sogno, o almeno non più pazzo di me.
— Grazie — sogghignò Stevie. — Ho già parlato di quello che ho in mente con un paio di persone e mi hanno considerato un po' tocco, così non sono andato a raccontarlo alla polizia. Ora che la polizia viene da me, compio un atto di audacia, a rischio di pentirmene. Ecco qua, due anni fa Johnny Heath ha assassinato Geraldine Smith... Sands non fece commenti. — Delitto perfetto — continuò Stevie — compiuto in circostanze particolarmente favorevoli che il caso stesso ha fornito. Immaginate un tale a cui capita di essere seduto a fianco di una bella ragazza sul sedile posteriore della macchina. Sapete, quei sedili di fortuna, scoperti, delle grandi macchine di lusso. La sera è bella e la ragazza gli appoggia la testa sulla spalla; i suoi capelli gli sfiorano il viso. La situazione sarebbe molto romantica e piacevole se quel tale fosse ancora innamorato di lei. Invece ne è stufo, la ragazza non è della sua classe; ha avuto uno o più amanti. Il nostro uomo, passata la prima infatuazione, non ha nessuna intenzione di sposarla. Lei invece se lo aspetta. Proprio quella sera accade qualche cosa che aiuta il giovanotto a risolvere il suo problema in maniera radicale. La macchina esce di strada e, nell'incidente, le due persone che stanno davanti rimangono ferite, l'una perde sangue, l'altra è svenuta. Geraldine è stata sbalzata fuori dal seggiolino e giace senza conoscenza sulla strada, mentre il nostro eroe è rimasto sul sedile. È soltanto stordito, tuttavia non abbastanza per non vedere lucidamente che si è presentata un'occasione ideale per sbarazzarsi di Geraldine. Perché gli stessi vetri che hanno ferito gli altri non avrebbero potuto ferire lei, e ferirla in modo mortale? Con un pezzo di vetro le taglia profondamente la gola, il viso e scaglia lontano la scheggia. Geraldine Smith è rimasta vittima dell'incidente di macchina e tutto finisce lì. Solo un piccolo particolare è stato dimenticato, un particolare che qualche mese più tardi balzerà all'occhio di un tale. Ma per il momento tutto sembra perfetto. Il giovanotto va in cerca di soccorsi, arriva un poliziotto, ma questi non fa domande: si tratta di uno dei soliti incidenti. In ogni caso, chi addosserebbe una qualsiasi responsabilità proprio a lui, che non era nemmeno al volante dell'auto? "Tuttavia, sei mesi più tardi un tizio ripensa ancora alla stranezza di quell'incidente, va da un ottico e compera una lente di ingrandimento. Ridete pure se volete, quel tizio fornito di lente di ingrandimento si sente un novello Sherlock Holmes. Ricerca le copie dei giornali di quei giorni e riguarda attentamente le fotografie. La stampa non è nitida sui giornali, tuttavia..."
— Conserviamo in archivio le fotografie di tutti gli incidenti — interruppe Sands. — Se volete vederle ve le posso procurare. — Anche subito? — Sicuro. Stevie rise. — Grazie. Non ho con me la mia lente di ingrandimento e infine potrebbe darsi che mi sia sognato l'intera faccenda... — Credo di sapere che cosa cercavate. Volete venire alla centrale a dare un'occhiata alle fotografie? — No, grazie. Ci verrò quando avrete ammansito Higgins e... quando Murillo sarà al fresco. — E quando a Jordan sarà passata la fifa — concluse ridendo Sands. Si alzò dalla poltrona, prese il cappello. — Posso darvi un passaggio? — No, grazie, non disturbatevi. Credo che l'unica cosa che mi converrebbe fare è di scomparire per un po' di tempo, magari di acquattarmi nelle fogne della metropli. — Stevie, vi comportate come un ragazzo. Non siete abbastanza intelligente per cavarvela da solo. — Forse no. — Stevie lo seguì verso la porta, sbadigliando. — Eppure da ragazzino ero intelligente come il diavolo. Recitavo persino pezzi di Kipling alla scuola domenicale, e pare che fossi un cannone. L'ispettore chiuse la porta e scese le scale. L'auto era ferma davanti alla porta d'ingresso. Aprì lo sportello e Stevie salì con lui. — Volete che vi racconti la storia della mia vita? Kipling è stato solo un primo gradino, una delle innumerevoli sfaccettature del mio temperamento. Sands innestò la marcia e la macchina partì. — Dopo Kipling e la scuola domenicale, mi sentivo pronto agli eventi, qualunque cosa accadesse. Ed ecco quel che accadde. Il mio vecchio, considerandosi a buon diritto stanco della mia vecchia, pensò bene di saltare da un aereo in volo senza prendere precauzioni, un paracadute per esempio. Potete immaginare che il risultato fu definitivo. Personalmente ho sempre pensato che mio padre ha dato una prova di buonsenso non comune. — Vi piace chiacchierare, eh! — commentò Sands asciutto. — È il mio mestiere, o per meglio dire, lo era. Ho il presentimento che Joey non mi ami più. — Gli avete telefonato dall'albergo? — Sì, mi ha detto di andare all'inferno.
— Vengo io, a parlare con Joey, vi aiuterò a chiarire le cose. — No, grazie — disse Stevie. — Figuratevi se desidero che qualcuno dei miei amici mi veda sottobraccio a un poliziotto. Appianerò da me le cose. — Non volete proprio dare un'occhiata alle fotografie? — No. — Le guarderò io, allora. — Non servirà a niente, però — continuò Stevie. — Non potrete mai provare niente, contro Johnny Heath. Rimasero in silenzio, finché furono arrivati al club. Il portiere si avvicinò alla macchina per aprire io sportello. Quando vide Stevie esclamò: — Accidenti, siete voi? Dove siete stato? — A fare una passeggiata con un mio vecchio ed ottimo amico. — E rivolto all'ispettore disse: — Grazie mille e... arrivederci all'obitorio! L'auto si rimise in moto stridendo. Sands "grattava" sempre nei cambi quando era nervoso. L'orologio del cruscotto segnava le due. Bisognava che in pochi minuti arrivasse alla centrale di polizia. C'era appena il tempo necessario per mandare un agente in borghese al club con l'incarico di pedinare Stevie. Il club avrebbe chiuso alle due e un quarto circa. Nella prima stanza, tre poliziotti sedevano con aria indolente. — Buon sonno, ragazzi — disse Sands con uno sguardo poco amabile. — Tutto tranquillo, stanotte — lo informò il sergente Havergal. — Non c'è niente da fare. — Benissimo, in questo caso vi do io qualche cosa da fare. Andate in archivio e ripescatemi le fotografie di quell'incidente automobilistico di un paio di anni fa. I protagonisti erano Heath, fratello e sorella, Philip James e una ragazza che è rimasta uccisa: Geraldine Smith. Havergal si affrettò verso l'archivio. Gli altri due erano agenti in borghese. — Siete mai stati al night-club di Joey? — domandò Sands. — Non ufficialmente — rispose Stern sogghignando. — Conoscete il presentatore dello spettacolo, un certo Stevie Jordan? — Sì, mi ricordo di lui. — Bene. Prendete la macchina e filate al club. Quando esce, seguitelo e tenetelo d'occhio. Voglio sapere dove va questa notte. Non appena avete qualche cosa da comunicarmi, telefonatemi a casa. — Sissignore. Sands si rivolse all'altro agente. — Ha telefonato Higgins per me?
— Sì, signore. Ha telefonato un paio d'ore fa. Ci ha chiesto di mandare qualcuno a piantonare la casa numero 110 di Charles Street. Abbiamo mandato subito un uomo. L'ispettore Higgins è a casa e aspetta una vostra telefonata. — Bene, chiamatemelo. Sands ascoltò in silenzio il rapporto di Higgins, poi disse: — Va bene. Buon lavoro — e riappese. Rientrò Havergal con le fotografie fissate a un fermaglio. Sands le prese e cominciò a guardarle attentamente, una per volta. Le prime due riprendevano l'auto da due angoli diversi. La terza mostrava il corpo della ragazza. Giaceva sul dorso e si distinguevano chiaramente profonde ferite da taglio al collo e al viso. I vetri della macchina dovevano averle reciso la carotide. Ma non c'erano vetri intorno al cadavere. Sands guardò ancora, imprecando tra i denti. — Chi ha fatto queste fotografie? — domandò a Havergal. — Il sergente Breton. — Domattina fate fare un paio di ingrandimenti di questa. — C'è qualche cosa di strano nella foto? — Guardate anche voi. Havergal la osservò attentamente. — Non ci vedo niente di speciale. — È quello che dico anch'io. Be', io vado a casa. 13 I clienti di Joey stavano uscendo dal night. Alcuni erano ubriachi, altri fingevano di esserlo. Stevie passò inosservato e scivolò nell'ufficio del principale. Joey non c'era. Si sedette sulla sedia girevole in attesa che rientrasse. Si sentiva la testa confusa. Troppe cose erano accadute quella sera. Prima la fuga dal poliziotto, poi il colloquio con quello strano tipo di Sands, e tutta la birra che aveva bevuto a cui era seguita una buona dose di whisky. Inoltre aveva ripensato a Geraldine... No, non si sarebbe sentito di vedere le fotografie... il suo viso coperto di sangue. Qualcuno bussò leggermente alla porta. — Avanti! — disse Stevie, la porta si aprì ed entrò Mamie. Quando lo vide, sgranò gli occhi. Sembrava spaventata. — Tu? — disse con voce incerta. — Che cosa fai qui? — Aspetto il principale.
— Ma io... — Cosa vuoi dire? — la voce di Stevie suonò aspra. — Pensavi che fossi in galera? Ti sarebbe piaciuto forse? Lei gettò indietro la testa con un gesto di sfida, rialzò intorno al collo il bavero di volpe del cappotto, fissando Stevie. — Ho dovuto dire al poliziotto tutto quello che sapevo. — E... che cosa gli hai detto? — Quello che hai fatto e quello che hai detto. Perché, infine, ti ricorderai pure che mi hai detto... — Brutta sgualdrina! — Non osare... — Volevi appiopparmi un delitto, vero? Pensavi che sarei stato io il capro espiatorio, e avrei pagato io per Murillo, Allora lo sai che è stato Murillo! — Stevie fece il giro della scrivania e si avvicinò minacciosamente a lei. — Sei impazzito — mormorò lei con voce bassa, strozzata. — Non avvicinarti o... — Altrimenti gridi — finì per lei Stevie con una risata. — Ti avevo detto ieri notte che sapevo dov'era Tony. Hai pensato che io scherzassi. E invece, non scherzavo. Sapevo dov'era perché lo avevo visto. Capito, Mamie? L'ho visto scappare come una lepre. — Bugiardo. — Scommetto che non te lo immagini neanche come può correre l'uomo del tuo cuore, quando ha commesso un delitto. Mamie rimase in silenzio per qualche momento, incerta se piantare in asso Stevie o rimanere. Finalmente parlò: — Hai detto a qualcuno di averlo visto? — No, naturalmente. Lo dico solo a te perché ti possa abituare all'idea di essere ormai la vedova di un pendaglio da forca. Dopotutto siamo amici noi due, non è vero, Mamie? Anche se hai cercato di far cadere su di me i sospetti della polizia, io posso metterci una pietra sopra... a condizione che tu non ripeta più questo scherzo. — È stato proprio Tony... è stato lui...? Stevie annuì. — La ragazza è stata pugnalata e Murillo correva via dalla casa: metti le due cose insieme e trai le conclusioni. — Non posso crederlo! — Già, lo capisco — disse Stevie ironico. — È difficile credere che il nostro Tony abbia fatto una cosa simile; che abbia macchiato il suo onore
e disertato il sentiero della virtù. — Piantala! Mamie lo guardava con occhi fiammeggianti di odio, il viso indurito dall'ira. Stevie cercò il pacchetto delle sigarette nella tasca del cappotto. Quando rialzò gli occhi, Mamie era scomparsa. Non gli dispiacque. Doveva aver perso la testa per aver parlato a Mamie in questo modo, pensò smarrito, asciugandosi il sudore dalla fronte. I clienti dovevano essersene tutti andati, si sentiva il rumore delle ultime automobili che si mettevano in moto, fuori sulla strada. La sala era ormai deserta e silenziosa. Stevie si guardò intorno, diede un'occhiata ai cassetti, nella speranza di trovare una bottiglia. Aveva bisogno di bere ancora. Non trovò nessuna bottiglia, ma improvvisamente gli ritornò alla memoria l'ispettore. "Strana persona, Sands" pensò Stevie, sedendosi di nuovo; "deve essere un po' pazzo. Nessuno può essere così sicuro di se stesso se non è mezzo pazzo." Era stato lui a predisporre tutto quella sera. Aveva fatto prendere i fiammiferi dalla sua macchina, aveva fatto in modo che il motore non funzionasse e intanto lo aspettava all'angolo della strada, sapendo esattamente ciò che lui, Stevie, avrebbe fatto. "Per Sands io sono una cavalletta, e fino a un certo punto è vero: ho saltato esattamente come lui si aspettava che facessi. Tuttavia, non ho detto tutto. È un poliziotto quest'uomo e non devo dimenticarmene. Non ci si può fidare dei poliziotti, così non gli ho detto tutto. È bene che prima guardi per suo conto le fotografie e veda che ho detto la verità e poi verrà lui a chiedermi il resto e io glielo dirò." Chiuse gli occhi e si appoggiò allo schienale della sedia, sorridendo. "Sto preparando la dinamite sotto i piedi di Johnny Heath" pensò ancora. Sands stava fumando l'ultima sigaretta della giornata. Era seduto sulla sponda del letto, rabbrividendo di freddo nel pigiama, troppo pigro per infilarsi la veste da camera. Benché le finestre fossero chiuse gli pareva che da tutti gli angoli della camera, persino dal soffitto, soffiassero spifferi d'aria. "È strano, non so perché, ma è come se questa notte debba accadere qualche cosa" pensava. Poteva darsi che Murillo uscisse dal suo nascondiglio e si tradisse, criminali di questo tipo possono anche arrivare a confessare a qualcuno i loro guai, quando si sono cacciati in una via senza uscita. Murillo apparteneva
al sottostrato dei criminali, ladruncoli e borsaioli, spacciatori di droghe e di fotografie pornografiche. Tuttavia questa volta aveva commesso un omicidio, un delitto non necessario, disseminato di errori grossolani, troppo stupidi. Si era lasciato dietro le impronte dei guanti e minuzzoli di marijuana, aveva dimenticato di prendere i gioielli che era venuto a rubare. Se ne era andato, correndo come un pazzo e si era lasciato vedere in pieno da Stevie Jordan, inoltre era poco chiaro come mai Murillo, che fino a quella sera viveva apparentemente bene alle spalle della sua amante, fosse ritornato dopo tanto tempo sulla scena con due tentativi di furto, tutti e due falliti. Forse, presumibilmente disarmato, aveva tentato di farsi consegnare il malloppo dal padrone della taverna e non essendoci riuscito se l'era data a gambe. Questo primo colpo andato male poteva ancora essere spiegabile. Ma il secondo... non si poteva spiegare. Che bisogno c'era di scassinare il portagioie, di rimanere con la luce accesa, di correre il rischio di svegliare la ragazza per poi ucciderla? Sarebbe stato infinitamente più facile prendere semplicemente la scatola dei gioielli e andarsene. Come mai sapeva tanti particolari utili sulla casa degli Heath? L'amichetta di Johnny lavorava da Joey insieme all'amica di Murillo. Forse le ragazze parlavano tra loro, e si scambiavano confidenze. Oppure uno dei domestici. Pensò a Ida e sorrise. Non sarebbe stato difficile a Murillo affascinare Ida e persuaderla a lasciare aperta la porta d'ingresso. Era stata senza dubbio Ida a dare a Kelsey Heath il tubetto di morfina. Naturalmente non si poteva accusarla per questo di omicidio. Kelsey poteva averle chiesto di portarle il medicinale senza che Ida sapesse le intenzioni della ragazza. Era meglio lasciare da parte, almeno per il momento, la faccenda dell'avvelenamento. Il dottor Loring aveva le sue responsabilità, ma aveva agito per motivi che si potevano capire. Non sarebbe stato utile a nessuno, fare un rapporto su di lui. Sì, per il momento bisognava lasciar da parte la faccenda dell'avvelenamento. Ma non si poteva fare a meno di chiedersi: perché la ragazza aveva voluto uccidersi? Kelsey Heath era il fattore comune nei due delitti e nell'avvelenamento. Lei era al volante quando Geraldine Smith era stata uccisa. Lei aveva preso la morfina, infine lei era stata assassinata. Un intervallo di due anni tra il primo omicidio e il secondo. Poche ore tra l'avvelenamento e il secondo omicidio.
Aveva vissuto per due anni cieca e poi aveva deciso di uccidersi a causa della sua cecità proprio qualche ora prima che qualcuno la uccidesse per qualche altra ragione. Oppure non era proprio stato il suo tentato suicidio a suggerire il delitto? In questo caso come mai c'entrava Murillo? Forse il furto era stato ideato prima che la ragazza si avvelenasse ed era troppo tardi per cambiare i piani, troppo tardi perché la persona, che doveva aiutare Murillo dall'interno, avesse il tempo di avvertirlo? Sands schiacciò il mozzicone della sigaretta in un portacenere. Non aveva più freddo. Era sicuro che Murillo avrebbe confessato prima o poi, e si sarebbe saputo chi lo aveva aiutato o chi lo aveva pagato. Per ora solo una cosa era sicura. Murillo era l'assassino della ragazza. Sands guardò l'orologio. Si sentiva vagamente eccitato. Gli sarebbe piaciuto parlare con qualcuno. Andò nel salotto e si versò una dose di whisky. Non aveva sonno, si sentiva bene, persino di buonumore. Forse era una buona idea telefonare alla signorina Heath e dirle che l'assassino di sua sorella era stato scoperto. Probabilmente la ragazza non dormiva e sarebbe stata sollevata sapendo che l'assassino era una persona estranea e che la polizia non avrebbe fatto altri interrogatorii. Afferrò il telefono, fece il numero e attese. Sorrideva a se stesso, dei sospetti che aveva avuto su Alice. Povera figliola, frigida e debole... come aveva potuto sospettarla di fratricidio? Così la prima delle tre telefonate che dovevano risolvere il caso, ebbe luogo alle tre di quella notte. Una voce assonnata rispose: — Qui casa Heath. — Parla Maurice? Sono l'ispettore Sands. — Sì, signore. I signori sono tutti a letto — annunciò con una nota di irritazione la voce. — Volete lasciarmi un messaggio? — Sì, non è urgente però. Pensavo che se la signorina Heath non dorme, forse sarà contenta di sapere che l'assassino è stato identificato. C'è un testimonio che lo ha visto uscire di corsa dalla casa, dopo il delitto. — Oh! — esclamò Maurice. — È una buona notizia, signore. Sands ebbe l'impressione che la voce del maggiordomo esprimesse sorpresa e contrarietà. — Grazie, signore — aggiunse il domestico. — Vedrò se la signorina è sveglia.
— Buonanotte — concluse Sands. — Dite a tutti in casa che stiano tranquilli. "Prima di domattina" si disse Sands "tutti sapranno la notizia e può darsi che qualcuno si senta tranquillo... troppo presto." La seconda telefonata avvenne venti minuti più tardi. Stevie stava ancora aspettando Joey. Era sicuro che sarebbe tornato in ufficio per contare gli incassi della serata. Joey non rimandava mai al mattino seguente questo controllo. Aveva un rispetto soprannaturale per i quattrini e niente al mondo gli avrebbe fatto rinunciare a fare i conti di cassa prima di andare a letto. Il telefono squillò. Stevie levò i piedi dalla scrivania e prese il ricevitore. — Sì! — disse. Questo era il modo di rispondere di Joey al telefono. — Joey? — La voce era sommessa, quasi un bisbiglio. L'uomo che parlava all'altro capo del filo doveva avere una ragione per parlare così a bassa voce. Forse non voleva farsi sentire mentre telefonava. — Sì, sono Joey — confermò Stevie. — Chi parla? Un momento di silenzio, poi ancora il bisbiglio. — Vorrei parlare con Mamie Rosen. C'è? — Certo che c'è. Mi ha incaricato di dirvi, se telefonavate, che vi aspetta a casa. Il bisbiglio diventò una voce. — Siete voi, Jordan? Andate all'inferno... — e dall'altra parte la comunicazione fu tolta. Dunque Mudilo era nei dintorni, vivo e vegeto. Molto presto se lo sarebbe trovato dietro uri angolo buio, il cappello sugli occhi, la bocca tirata e sottile come una lama. Stevie si passò il dorso della mano sulla fronte per asciugarsi il sudore. Bisognava avvertire Sands, pensò. Meglio vuotare il sacco e dir tutto. Raccontare anche quello che non aveva ancora detto. Dire che una volta aveva visto Murillo uscire da Child e con lui c'era Johnny Heath. Murillo aveva un'aria rispettabile quel giorno. A vederli, nessuno avrebbe mai potuto pensare che quei due avrebbero architettato insieme un delitto. — Sì? — disse la voce di Sands al telefono. — Ispettore, sono io, Jordan. — Sì, ho riconosciuto la voce — disse Sands senza cordialità. Stevie provò uno slancio di simpatia per Sands. Gli piaceva il modo di parlare di quest'uomo, proprio per il tono impersonale. Ora sentiva di potersi fidare di lui. Sapeva che poteva fidarsi di Sands perché non gli impor-
tava niente di tutto questo. Era solo un uomo che faceva il proprio dovere. — Sono nell'ufficio di Joey — gli disse. — Mi ha telefonato Murillo. Ho pensato che vi avrebbe fatto piacere saperlo. — Grazie. Che cosa voleva? — Parlare con Mamie Rosen e... sentite... Ci fu una pausa. Sands sentì il cigolio della sedia prima che Stevie mettesse una mano sul microfono. Non doveva averlo otturato completamente perché Sands lo sentì parlare a voce molto bassa. La mano fu tolta e la voce di Stevie disse ancora: — Scusate, signor Sands, volevo dirvi che ho visto Murillo... — Chi c'è vicino a voi, Jordan? — domandò concitato. — Jordan! Ci fu un bisbigliare sommesso, poi di nuovo il cigolio della seggiola girevole e poi il colpo di rivoltella. Subito dopo il ricevitore cadde dalla scrivania. — Jordan! — gridò Sands. Per qualche secondo non sentì più nulla, poi percepì il rumore di passi che si allontanavano. Il ricevitore doveva esser caduto sul pavimento perché il rumore dei passi era nitido. Sands contò. Uno, due... cinque. Poi silenzio. — Per Dio! — gridò Joey. Si era fermato sulla soglia e guardava Stevie che perdeva sangue dalla bocca. — Che cos'è successo ancora? — chiamò rabbiosamente, e vedendo che Stevie non si muoveva, si avvicinò. Stevie aveva un proiettile nello stomaco. — Porco diavolo! — cominciò a sbraitare Joey — Jim! Correte, chiamate la polizia! Il portiere e il sergente Stern arrivarono insieme. Avevano sentito lo sparo. Il sergente non riconobbe subito Stevie perché questi aveva la testa reclinata sulla scrivania. — Chi è? — domandò. — Jordan — rispose Joey. — Lavora nel locale. Per tutti i... — Chiamate un'ambulanza — ordinò Stern. — No, non con questo telefono! Con un altro. Presto! Joey uscì di corsa bestemmiando. Si sentiva sollevato però, perché se il poliziotto aveva fatto chiamare l'ambulanza, voleva dire che Stevie non era morto. Per un sacco di ragioni, non voleva che Stevie morisse lì, nel suo
ufficio. Il portiere guardava impietrito Stevie e muoveva le labbra senza riuscire a spiccicar parola. Stern era irritato. — Perché state lì impalato come una statua? — protestò. Pensava che non gli sarebbe stato facile raccontare che il tizio che aveva avuto l'incarico di pedinare, era stato fatto fuori a pochi passi da lui. L'ambulanza stava arrivando, si sentiva l'ululato della sirena. — L'ambulanza — annunciò il portiere ottusamente. La telefonata di Joey doveva essere stata drammatica e ricca di particolari, perché oltre al solito medico era venuto anche il medico capo. Avevano portato l'occorrente per una trasfusione di sangue. Stevie ricevette i primi soccorsi e la trasfusione nello sgabuzzino di Joey, mentre questi, fuori dalla porta, imprecava che avrebbe dovuto comperarsi una nuova scrivania. Sands arrivò qualche minuto dopo che l'ambulanza era ripartita alla volta dell'ospedale. Trovò Joey e il sergente Stern che si guardavano con l'espressione di due galli in lotta, uno al di qua l'altro al di là della scrivania insanguinata. — È morto? — domandò bruscamente a Stern. — No — rispose il sergente. — Questo individuo vuole pulire le macchie di sangue dalla scrivania. Gli ho detto che non può farlo, ma non vuol capire. — No, non potete toccare niente — confermò Sands rivolto a Joey. — Per Dio! — gridò questi con voce esasperata. — È ancora vivo, no? Non si tratta di un delitto in fin dei conti. Perché devo rimetterci la scrivania? Sands non rispose. Si aggirava nel piccolo ufficio senza toccare nulla. Si fermò davanti alla scrivania, poi si girò verso la porta, misurando mentalmente la distanza. Tre passi, forse quattro, camminando in punta di piedi. Ma i passi che lui aveva contato erano cinque. Si rivolse a Joey. — Venite qui dove sono io. Ora andate alla porta. Joey fece quattro passi. Provò con Stern: tre passi. — La rivoltella deve essere un calibro 32 — osservò Stern. — Ho sentito bene lo sparo. — L'ho sentito anch'io — disse Sands a voce bassa. — Stavo parlando con lui al telefono. — Stavate parlando con lui... — ripeté stolidamente Joey. — Ci sono bruciature di polvere? — domandò Sands a Stern. L'altro annuì. — Sì, signore.
— Dov'è un altro telefono? — Sands guardò interrogativamente Joey. — In guardaroba — rispose il padrone del night. — Rimanete qui, lo troverò da me. Passò un minuto intero prima che una voce assonnata rispondesse lungo il filo: — Pronto. — C'è la signorina Mamie Rosen? — Chi parla? — domandò l'uomo irosamente. — Lo sapete che ore sono? Non si disturba la gente a quest'ora!... — Sono l'ispettore Sands della polizia. Mandate la signorina Rosen al telefono. — Vado a chiamarla — disse l'uomo. Si udì il ciabattare delle pantofole. Dopo qualche momento la voce disse: — Non è ancora rientrata. — Va bene. Grazie. Ritornò in ufficio. — Rimanete voi, Stern, finché arrivano gli uomini. Voi, Joey, non c'è bisogno che restiate. — Ah no, eh? Dovrei andarmene e lasciare che i vostri uomini mettano sottosopra il mio ufficio. No, rimango qui — concluse Joey guardando ferocemente Sands. — Fate come volete. Buonanotte. Non appena Sands fu sicuro di non esser visto, si mise a correre per raggiungere la sua auto. Dieci minuti più tardi era in Charles Street, una strada fatta di case basse, tutte uguali. Le luci erano quasi tutte spente, solo nell'atrio della casa segnata con il numero 110, era accesa la luce. Sands scese dalla macchina e si avvicinò alla porta di ingresso ma prima di premere il campanello la luce si spense nell'atrio e dopo un attimo si accese in una camera del piano rialzato, a sinistra. Una donna si avvicinò alla finestra e abbassò le tapparelle. Sands bussò alla porta molto piano, così da essere sentito solo dalla donna. La luce si accese di nuovo nell'atrio e la porta si aprì. La donna che stava sulla porta lo guardò e improvvisamente il viso animato e quasi sorridente si spense. Evidentemente Mamie aspettava qualcuno; qualcun altro. — Che cosa volete? — chiese preoccupata. Un uomo passeggiava sul marciapiede davanti alla casa. Sands lo riconobbe: era il poliziotto che piantonava la casa. — La signorina Rosen? — domandò Sands. Lei annuì senza parlare. — Mi chiamo Sands — disse lui. — Ebbene?
— Ho bisogno di parlarvi. — Molti uomini vorrebbero parlarmi a quest'ora — disse Mamie. — Ma non mi piace quello che hanno da dirmi. Filate! — Vi sbagliate. Io voglio soltanto che mi prestiate qualche indumento di Murillo. Aspetto qui o posso entrare? Mamie lo guardò con occhi sgranati, occhi scuri, di vetro. — Polizia — precisò Sands. — Che cosa volete? — Ve l'ho detto, gli abiti di Murillo. — Perché? Sands sorrise. — Diciamo, per ragioni sentimentali. Posso entrare? — No, non voglio! Non potete entrare! Mamie si appoggiò al muro respirando affannosamente. Si strofinava il piede sinistro sulla gamba destra con un gesto infantile. Sands notò che aveva i piedi gonfi. Le scarpe le andavano strette, il piede e la caviglia formavano cuscinetti che debordavano dalle scarpe con il tacco alto. — Vi fanno male i piedi? — I piedi? — La domanda sembrò spaventarla del tutto. — Perché mi fate una domanda simile? Che cosa c'entrano i miei piedi? — Avete fatto la strada a piedi, dal club fino a casa? — Sì. — Con queste scarpe? — Finitela di farmi tante domande! Andatevene! Non siete un poliziotto voi, non ci credo. Toglietevi dai piedi. — Prima datemi i vestiti di Murillo. Cappello scarpe giacca e una camicia, non lavata, se possibile. — Sands fece qualche passo in direzione della camera di Mamie e lei non fece nulla per fermarlo. Stava appoggiata alla parete come se fosse esausta, troppo stanca persino per seguirlo. — Entro da solo? Mamie sbatté le palpebre. — Vengo — disse — però non toccatemi. — Perché mai dovrei toccarvi? — domandò Sands. Lei gli gettò un'occhiata velenosa. La frase, il tono ironico di Sands dovevano aver ferito il suo orgoglio professionale. La lasciò passare e rimase a guardarla da dietro. Camminava a passetti piccoli affettati, il corpo chino in avanti per bilanciarsi sui tacchi troppo alti. Sands si guardò intorno nella camera. Un letto abbastanza grande con la coperta rossa, un divano, un caminetto spento e pieno di vecchie scatole di sigarette, di mozziconi e di carte strappate. Una poltroncina e l'armadio che occupava la parete.
Sands aprì l'armadio. I vestiti di Murillo erano appesi accanto a quelli di Mamie in coniugale intimità. — Prendete quello che volete — disse amaramente Mamie — tanto io non posso impedirvelo. Rubatemeli pure. — Non è la parola giusta — corresse lui mentre sceglieva attentamente gli indumenti. Prese un paio di scarpe e il cappello nero a lobbia, mise anche quello in cima al mucchio di indumenti che teneva sul braccio e richiuse con cura l'armadio. Mamie lo guardava con odio. — Ed ora andatevene! — gridò nascondendo con il dorso della mano la bocca che cominciava a tremarle. — Una crisi di nervi? — domandò Sands. — Non mi stupirei. Che cosa ne avete fatto della rivoltella? — Rivoltella? Quale rivoltella? — Quella che avete usato per sparare a Jordan. Mamie cominciò a singhiozzare. — Siete pazzo, ecco cosa siete. Continuate a dire delle cose tremende e io non posso far niente per difendermi. Non capisco neanche quello che state dicendo, non so niente, io... — Ve lo dirò io, allora: qualcuno ha sparato a Jordan nell'ufficio di Joey, e lo ha colpito allo stomaco. È un brutto posto, lo stomaco; non si muore subito. Le donne mirano volentieri allo stomaco, è un bersaglio più facile. — Non so niente — continuava a singhiozzare Mamie — non so... — È per questo che vi racconto di Jordan. Non è morto, per ora; lo hanno portato all'ospedale dopo avergli fatto una trasfusione. La cosa più strana è che proprio mentre gli hanno sparato lui stava parlando con me al telefono. Ho sentito qualcuno che gli parlava e lo chiamava "Stevie". Non era Murillo. Se Murillo fosse entrato nello stanzino di Joey, Jordan avrebbe gridato. Inoltre Murillo non si serve della rivoltella per regolare i suoi conti. Dopo il colpo di rivoltella ho sentito dei passi, li ho contati; cinque passi. Un uomo non fa più di tre passi per andare dalla scrivania di Joey alla porta. Una donna, specialmente se porta scarpe strette con tacchi troppo alti, deve farne qualcuno di più. Mamie cessò di singhiozzare. — Sono forse l'unica donna in città a portare scarpe con i tacchi alti? — Fa freddo questa sera — continuò Sands senza badarle. — Che cosa avevate indosso quando siete rincasata? — Il cappotto. — E i guanti? — Che volete dire ancora?
— Dove sono i guanti? — Non è affar vostro — gridò lei. Sands si avvicinò lentamente. — Tutto è affar mio. Ogni cosa che mi interessa dovete dirmela, perché sono in cerca di Murillo, perché devo mettere le mani su Murillo, devo prenderlo, capite? Mamie cadde sulle ginocchia, gemendo. 14 "In collaborazione con il dipartimento di Polizia, trasmettiamo i connotati di un pericoloso criminale, ricercato per omicidio: Antonio Murillo, occhi scuri, colorito normale, capelli ondulati neri, altezza 1,78, peso 60 Kg, età 28 anni. Sono ora le otto e quattordici minuti. La ditta Crspunch vi raccomanda di consumare ogni mattina i suoi prodotti, ricchi di vitamina..." — Chiudi la radio, Johnny — disse Alice in tono irascibile. — Il prosciutto fritto si raffredda. La luce che entrava dalla finestra faceva risaltare i lineamenti di Alice, angolosi come la sua voce. Era come se Alice con le parole che aveva pronunciato la sera prima avesse compiuto una svolta decisiva. Aveva svelato una parte troppo intima della sua vita. Qualche cosa era ormai cambiata e anche la gentilezza che era sempre stata una caratteristica della sua personalità, era stata sostituita da questo tono sgarbato, non controllato. Johnny girò la manopola della radio e sedette a tavola. — Deve essere questo Murillo, l'assassino. — Chi? — domandò distratto Philip. — Oh! L'hai detto ad Alice? — Che cosa doveva dirmi? — domandò la ragazza. Philip allungò la mano attraverso la tavola e la posò su quella di lei. Era tutto ciò che Alice avesse mai avuto da lui; una carezza sulla mano, un braccio amichevolmente posato sulle spalle. Era tutto ciò che avrebbe avuto da lui. Alzò su Philip due occhi freddi e tristi. — Che cos'è questa affettuosità? C'è un'altra brutta notizia? Lui ritirò la mano. — No. Non è una brutta notizia. Quest'uomo, Murillo... l'ispettore Sands ha telefonato questa notte che alla polizia sanno di sicuro che è stato lui a... a... uccidere Kelsey. Alice aprì la bocca in un moto di stupore. — Incredibile... — Perché incredibile? — domandò John.
— Voglio dire, è incredibile che un uomo che non sapevamo neppure esistesse abbia potuto cambiare in questo modo la nostra vita... Che cos'altro ha detto l'ispettore? — Nient'altro — disse Johnny. — È andato Maurice al telefono. Philip era ancora in camera mia a fumare una sigaretta. Maurice ha visto la luce accesa ed è venuto a riferircelo. Alice suonò il campanello e Maurice entrò con il caffè. Mise il vassoio davanti ad Alice e disse: — Buongiorno — con un sorriso speciale riservato alla prima colazione. Il sorriso aveva un particolare significato, voleva dire che Maurice si accingeva a comunicare una sgradevole notizia. Di solito si trattava di cose impersonali, notizie sentite alla radio o lette nel giornale. Un bambino orribilmente ustionato, un delitto, e così via. Quando non c'era niente di notevole nella cronaca cittadina, erano notizie internazionali, inerenti la guerra. "Sì, signorina, cinquemila cadaveri sul campo di battaglia." — Allora, che cosa c'è stamane? — chiese Alice con voce tagliente. — L'ispettore Sands è arrivato adesso — annunciò Maurice. — Pensavo che, poiché è stato identificato l'assassino... — cominciò John. — Sì, signore, lo pensavo anch'io, tuttavia... — Vuole parlare con me? — domandò Alice. Maurice prese tempo e assaporò ancora per qualche istante l'attenzione che gli veniva dedicata, poi disse: — No, signorina, sta interrogando Ida. Maurice uscì dalla camera soddisfatto per aver avuto il suo momento. Johnny si alzò e senza tener conto che Alice lo aveva pregato poco prima di chiudere la radio, girò ancora la manopola in cerca di musica. Alice non aveva più presa su questi due uomini. Si era tradita, aveva perso il suo mistero e con esso la sua potenza. Johnny, che si divertiva a cercar musichetta allegra alla radio, e Philip, che mangiava educatamente e senza appetito, non badavano più a lei. "Siamo cambiati tutti" pensò Alice. Quel Murillo non aveva colpito con il suo pugnale soltanto Kelsey, aveva colpito tutti. Kelsey era morta e Philip era come qualcuno a cui è stato tolto un tumore dal cervello. Il dolore se ne è andato, ma l'organismo è rimasto debole. A Johnny erano stati tolti, di colpo, anni e anni di vita adulta. Era tornato ad essere il ragazzo incurante di quando veniva a casa dal collegio per le vacanze. In quel tempo Johnny riconosceva solo l'autorità materna. Isabel scendeva ancora a far colazione con i familiari.
Forse proprio perché Philip era così diverso da Johnny, Isabel aveva preso in simpatia il giovane bruno, con quella strana espressione famelica negli occhi, il ragazzo che si guadagnava da vivere suonando il pianoforte, e che aveva un talento di prim'ordine. "È criminale sciupare un simile talento" aveva decretato Isabel sebbene non capisse niente di musica. Philip aveva ceduto poco a poco alle insistenze della signora Heath. "Non è nessun sacrificio per noi pagarvi un buon maestro e delle lezioni": Philip era rimasto con loro. Inoltre aveva fatto anche una cosa che segretamente Isabel aveva sperato da lui: aveva influenzato Johnny. Philip non beveva ed anche Johnny aveva smesso di eccedere con l'alcool. Fino a quale punto il fidanzamento di Kelsey con Philip era stata la realizzazione di un piano di Isabel? Comunque era stata lei che aveva deciso molte cose; aveva guidato gli eventi, fino al momento in cui era piombata nella fase finale della sua malattia. La disgrazia di Kelsey era accaduta quando già lei era troppo logorata dal male per partecipare pienamente alla sciagura della figlia. Si era resa vagamente conto che Kelsey non sarebbe più stata normale e che l'unica arma che avrebbe potuto dare alla figlia era quella del danaro; il potere che viene dal danaro. Era rimasta un giorno intero senza prendere morfina. Il giorno seguente aveva fatto venire il suo avvocato e aveva fatto un nuovo testamento. "A me non ha mai pensato" si diceva amaramente Alice. "Mi ha condannata a rimanere eternamente qui, legata alla casa. Ero io la maggiore, e io avevo più diritto di Kelsey al danaro, a Philip..." — Scusatemi — disse alzandosi bruscamente. Uscendo, sentì su di sé gli occhi di Philip. Se si fosse voltata gli avrebbe visto un'espressione di stupore nello sguardo. Ma non ci sarebbe stato niente altro nei suoi occhi. Le altre donne amavano ed erano amate. La morte poteva togliere loro l'uomo amato, oppure questi poteva tradirle con altre donne, ma c'era stato almeno un momento nella loro vita in cui avevano conosciuto l'amore di un uomo. Lei, invece, non avrebbe mai avuto altro che sguardi indifferenti e stupiti da Philip, o tutt'al più una carezza fraterna sulla mano. "Tanto amore da dare e nessuno che lo vuole. Bisogna liberarsene in qualche modo; comincia a inacidire." Alice si feriva senza pietà. Si fermò di fronte allo specchio e scrutò la sua immagine riflessa. "Appassionata solo con la fantasia" si disse. "Tutto quello che io penso dell'amore è solo nel mio cervello. Persino se cerco di immaginare una scena d'amore tra due amanti in un letto... la mia rappresentazione si limita a raffigurarsi due che parlano d'amore; parlano e si dicono magnifiche pa-
role. L'amore fisico non mi interessa, vorrei solo sapere di essere amata. Questi sono i miei limiti. "Forse se qualcuno mi avesse veramente amata, tutto sarebbe diverso. Oppure la causa è un'altra. Le altre ragazze, le ragazze di Johnny per esempio, sanno come sedurre un uomo. Hanno imparato tutti i trucchi, hanno un istinto per queste cose. Sono vissute in famiglie dove l'uomo era il padrone, dove il maschio era vezzeggiato e ubbidito. Forse se il proprio padre ha avuto un ruolo importante nella famiglia, poi è più facile trattare anche gli altri uomini come a loro piace esser trattati, con rispetto o sottomissione." Il signor Heath era stato poco più di un ospite in casa propria. "No, non devo incolpare la mia famiglia" pensò Alice depressa. Per un istante le passò nella mente l'immagine del dottor Loring, in camice bianco. Ricordò lo strano sorriso di lui, gentile e annoiato. Sorrise con stanchezza alla propria immagine, girò le spalle allo specchio e si diresse verso le scale. — State calma — disse Sands. — Non avete un fazzoletto? Probabilmente Ida pensava che quando si aveva un grembiule il fazzoletto era un accessorio inutile. — Lo dirò a mia madre — disse Ida — le dirò quello che voi... — Torno a chiedervi ancora le stesse cose. Maurice dice che tenete sempre la porta chiusa con la serratura. Quando lui e Letty sono rientrati, l'altra sera dopo mezzanotte, la porta era chiusa così. In camera vostra c'era accesa la luce. Letty l'ha vista. — Certo che avevo la luce accesa. Avevo mal di denti. — Più tardi, nella notte, la porta è stata chiusa solo con lo scatto. Sappiamo questo perché il signor Heath, quando è rientrato, ha trovato che la porta non era chiusa. — Perché non l'ha chiusa? — domandò Ida immusonita. — L'ha chiusa infatti, ma era troppo tardi. L'assassino era già in casa. — L'assassino! Sempre questa storia! Non occorre immaginare che l'assassino deve per forza essere entrato da fuori. In questa casa tutti volevano vederla morta, tutti fuorché me. La stessa sorella, che faceva gli occhi dolci a... — C'è stato un uomo che è entrato da fuori — riprese Sands interrompendola — e la porta è stata lasciata aperta perché lui potesse entrare. È stata lasciata aperta da qualcuno della casa. — Perché allora non guardate in giro tra gli altri, che stanno in questa
casa? Il vecchio piedipiatti non potrebbe essere stato lui? E il vecchio caprone che annusa l'aria che respira Letty, allora? Non potrebbe essere lui? Sands sorrise divertito alla raffigurazione di Maurice con il piede biforcuto. — Chiedetelo a loro! — gridò Ida in uno scoppio di rabbia. — Chiedete loro perché la mia signorina ha tentato di uccidersi! — ...con il vostro aiuto — completò Sands. Lei rimase a guardarlo con la bocca aperta. Poi si voltò verso la porta e si appoggiò contro di essa come una bestia inseguita. — Aspettate! — esclamò Sands. — Nessuno ha intenzione di denunciarvi per il momento. — Non lo sapevo, non sapevo che cosa volesse fare la signorina. Mi ha chiesto di portarle un tubetto che stava in cima all'armadietto del bagno. Mi ha detto che era una medicina per farla dormire. "Ida" mi ha detto "sta' qui con me finché non mi addormento. Ho paura del buio." Così sono rimasta vicino e le ho raccontato tante cose di quando ero piccola, di mia madre. Dopo un po' si è addormentata allora ho pensato che fosse morta. — Perché voleva morire, secondo voi? — Aveva paura. C'erano tutti quegli occhi che la guardavano. La signorina diceva: "C'è qualcuno che aspetta che io muoia, qualcuno mi odia e ha bisogno che io muoia". — Non pensate che fosse tutta immaginazione? — No, l'odio è una cosa che si sente — rispose Ida con semplicità — si sente sulla pelle. Quando poi uno è cieco lo sente più degli altri. Lei sentiva lo sguardo di quegli occhi... e aveva paura. Sands aveva raggiunto il punto di saturazione con Ida, ma aveva anche raggiunto la convinzione che la ragazza non aveva lasciato aperta la porta per Murillo. La sua convinzione si basava più sull'intuito che su fatti precisi, tuttavia era convinto che la ragazza non sapeva niente. In ogni modo la cattura di Murillo non poteva essere molto lontana e allora si sarebbero risolti tutti questi punti oscuri. Sands si ripeteva questo, ma non riusciva a sentirsi tranquillo. Era inquieto, a disagio. Chiese di poter usare il telefono in cucina. Chiamò l'ospedale dov'era ricoverato Stevie. Il dottore non dava grandi speranze. "Jordan è ancora in istato di incoscienza e probabilmente ci rimarrà a lungo, se non per sempre. Il proiettile è stato tolto e mandato al laboratorio di polizia." — Scusate, signore — disse Maurice alle spalle di Sands. L'ispettore si girò di scatto. — Non strisciate qui intorno — scattò con
voce irascibile. — No, signore. Vorrei solo sapere quando potrò usare liberamente la cucina. Dovrei preparare la colazione del signor Heath. Lui non scende a mangiare con gli altri. — Perché? Maurice tossicchiò. — Vedete, signore, il padrone non è quello che si potrebbe definire un uomo socievole. — Io l'ho trovato molto socievole. — Davvero? — Io l'ho trovato molto simpatico. Certo mi pare che abbia abitudini senili un po' strane per la sua età. Quanti anni ha? Su per giù come voi, vero? — Sì — rispose Maurice asciutto. — Gli siete affezionato? — Sono al suo servizio da diciannove anni. — Questo non impedisce neanche a voi, come al resto della famiglia, di trattarlo come un vecchio rimbambito. Maurice arrossì violentemente. — A sentirvi parlare si direbbe che pensiate che il signor Heath è maltrattato, in questa casa. — Proprio così — replicò Sands pentendosi di aver cominciato questo discorso. — Non dico che sia per cattiveria; forse in questa casa non si apprezzano i valori umani. Quando la ragazza, Kelsey, stava morendo e aveva paura della morte, ha dovuto chiedere a una ragazza di cucina di starle vicino. Maurice disse con voce dura: — La signorina soffriva di delusioni, signore. — Anche lei? — Esiste una cosa chiamata ereditarietà — continuò Maurice con aria saputa. — Ed ora, signore, potrei preparare la colazione per il signor Heath? — Fate pure. Perché non viene la cuoca a prepararla? — Non può scendere perché ha una forte emicrania — spiegò il domestico, infilando due fette di pane nel tostapane. — Ogni genere di disturbo nervoso alligna in questa casa — commentò Sands. — Dalle delusioni alla mania di persecuzione, dalla nevrosi alla senilità precoce. Attento, mi pare di sentire odore di bruciato. Non può essere, il tostapane è automatico e il pane non può bruciare — replicò in tono asciutto Maurice. — Se lo dite voi — fece Sands osservando una nuvola di fumo che usci-
va dalla macchinetta elettrica. — Può darsi però che il tostapane abbia anche lui un complesso. Maurice si affrettò a togliere le fette di pane carbonizzato dalla macchina e rimase a guardarla con occhi costernati. — Andate tutti al diavolo — scattò Sands irritato. Le raffinate idiozie di casa Heath lo indisponevano. Spinse indietro la seggiola e si alzò per andarsene dalla cucina. — Tenete d'occhio il tostapane, Maurice — disse ancora malignamente. — Non si sa mai che cosa può uscirne: magari un paio di fette di pane tostato. 15 Johnny Heath a trent'anni avrebbe dovuto vivere ancora in un collegio. Questa era la vita che gli piaceva. Ragazzi con cui parlare e bere, ragazze che non si aspettavano niente da lui, anche se a lui piaceva portarle fuori a cena e a ballare. Nessuna donna, sorella o madre che lo tiranneggiasse, che desse buoni consigli se non per lettera o per telefono. Partite di rugby e gare sportive. C'era invece l'ufficio. Bisognava essere in ufficio alle nove, e per il resto della giornata fare cose noiose, cose senza senso, come stendere contratti, rispondere a lettere idiote, avere a che fare con gente noiosa. Spense la radio e sbadigliò. — Farai tardi — gli fece notare Philip — Pensavo che ti avrebbero dato una settimana di riposo, dall'ufficio. — Sì, me l'hanno data, ma ho rifiutato. Sono un tipo troppo in gamba per accettare, troppo nobile. Andrò in ufficio come tutti i giorni, invece, e poi cederò di schianto. Allora il principale dirà: "Heath è un bravo ragazzo, diamogli due settimane perché si rimetta in sesto". Rendo l'idea? — Sì — rispose freddamente Philip — e non mi piace. — Non fare il moralista — rispose e agitando il braccio in segno di saluto uscì dalla sala da pranzo. L'ispettore Sands lo aspettava nell'atrio davanti alla porta di ingresso. Aveva il soprabito sul braccio. — Buongiorno — disse Johnny. — Siete appena arrivato o state andando via? Io esco. — Devo parlarvi — gli rispose Sands. — Purtroppo sono in ritardo.
— Vi accompagnerò con la mia auto. — Prendo sempre la mia. — Sempre, salvo questa mattina. Sto facendo indagini sulla morte di Geraldine Smith. — Geraldine...? — Johnny si girò e lo guardò con occhi vacui. Sands capì che non era un'espressione simulata. Johnny aveva veramente dimenticato la ragazza. — Geraldine Smith — ripeté. — La ragazza che, apparentemente, morì a causa dell'incidente automobilistico di due anni fa. Ricordate? — Si capisce, che mi ricordo — disse Johnny irritato. — È una cosa vecchia che credevo ormai sepolta. — Sbagliate. Me ne sto occupando io proprio ora. Mettetevi cappotto e cappello. Faremo la strada insieme. — No, non vado in ufficio — obiettò John. — Se volete, parliamo qui. — Come preferite — disse Sands posando il soprabito sul tavolo dell'atrio e seguendo Johnny in un salottino pieno di sole, arredato con mobili di vimini e cinz giallo. La massiccia figura di Johnny faceva sembrare l'ambiente ancor più piccolo. Johnny sedette, appoggiò le gambe sulla sedia di vimini che gli stava di fronte e sorrise a Sands. — È inutile sfoggiare su di me la vostra tecnica di seduzione — disse Sands. — Tempo perso. Il sorriso si dileguò. — Non capisco che bisogno ci sia di fare quella grinta — replicò Johnny. — Volevo solo vi fosse ben chiaro che i sorrisi abbaglianti e i salamelecchi mi lasciano indifferente. Ho bisogno di avere delle risposte chiare alle mie domande. Da quanto tempo conoscevate Geraldine Smith prima della sua morte? — Circa un mese. L'avevo incontrata al night di Joey e l'ho portata fuori qualche volta. — Bella ragazza? — Niente di speciale, graziosa. Si diceva che non facesse la schizzinosa, ma io non ho neanche tentato. A quel tempo aveva un amico. — Chi era? — Non gliel'ho mai chiesto e non mi è mai importato un accidente di saperlo. Non avevo nessuna intenzione di soffiargli la ragazza. Era solo un'amichetta con cui mi piaceva ballare. — Che cosa accadde la notte dell'incidente?
— È passato tanto tempo... — Cercate di ricordarvi. — Kelsey, Philip ed io eravamo andati a vedere una partita di calcio. Alice era rimasta a casa con mia madre. Dopo la partita ci sentivamo tutti e tre in forma. Volevamo fare qualche cosa di divertente. Andammo a cenare in un ristorante in città; dopo cena, Kelsey propose di andare a ballare e così decisi di invitare Geraldine con noi. Le telefonai dal ristorante e lei accettò, a condizione che poi l'avremmo riaccompagnata al club per l'ora dello spettacolo. Ritornai al tavolo e dissi che avevo combinato con una ragazza. Salimmo in macchina e andammo a prendere Geraldine. — Era buio? — Sì. Guidava Kelsey. Philip voleva guidare lui, perché Kelsey era allegra. Aveva bevuto un paio di bicchieri più del solito, ma volle mettersi lo stesso al volante. Mi aspettarono in macchina, quando entrai da Geraldine. Lei era pronta e scendemmo subito, la presentai a Kelsey e a Philip e poi noi due montammo dietro, nel sedile di fortuna. Avevamo deciso di andare alla "Pantofola d'Oro", ma durante il tragitto ci fu l'incidente. È tutto quello che posso dirvi. — Vorrei sapere anche come successe l'incidente. — Come vi ho detto, stavo seduto con la ragazza nel seggiolino posteriore, allo scoperto, e non vidi niente. Kelsey però disse di aver chiesto a un certo punto a Philip di accenderle una sigaretta e mentre lui stava accendendo, la macchina slittò. Philip afferrò il volante, ma ormai la disgrazia era inevitabile. Questo è tutto ciò che ricordo. — Siete svenuto? — Sì, siamo svenuti tutti. — E poi? — Quando mi ripresi c'era molta gente in giro, un'autoambulanza e un poliziotto. Portarono via gli altri tre con l'autoambulanza. Io non ero ferito e così rimasi. Raccontai al poliziotto tutto quello che sapevo. Più tardi all'ospedale seppi che Geraldine era stata ferita mortalmente dai vetri del finestrino. — Dove eravate quando siete rinvenuto? — Sul sedile posteriore, naturalmente. — Non naturalmente — precisò Sands. Johnny fissò Sands interrogativamente. — Vi ho detto prima che mi ero seduto lì quando eravamo saliti in macchina. — Il corpo della ragazza che sedeva di fianco a voi è stato trovato a
qualche metro di distanza, sbalzato fuori dalla violenza dell'urto. — Volete dire come mai non sono stato anch'io sbalzato fuori? — Secondo me anche voi siete stato sbalzato fuori, ma poi siete ritornato a sedervi al vostro posto e lì vi hanno trovato. — Perché mai avrei dovuto farlo? — Johnny protestò irosamente stupito. — Perché volevate che vi trovassero il più lontano possibile da Geraldine, dato che le avevate tagliato la gola. Ci fu un silenzio. Sands si mise la mano in tasca e ne trasse una busta. — Guardate, queste sono le fotografie di Geraldine quando è stata trovata. Prendetele. — No — disse a bassa voce Johnny. — No, non voglio vederle. — Su, guardatele — insisté Sands — sono solo le fotografie di una ragazza che ora è cenere. Sands levò dalla busta una fotografia e la mostrò a Johnny tenendogliela davanti agli occhi. Johnny alzò lentamente gli occhi e guardò la fotografia. — Vedete com'è ridotta? Eppure gli altri che erano sull'auto se la sono cavata. È stata una cosa strana che vostra sorella sia rimasta cieca; non aveva riportato ferite gravi, quasi unicamente contusioni. Philip James aveva soltanto dei tagli superficiali e voi ve la siete cavata con uno svenimento, e anche quello... Comunque, solo Geraldine è morta. — Non è mai capitato, che in un incidente muoia solo una persona? — Spesso. Ma guardate bene. Dov'è il pezzo di vetro che ha tagliato la gola di Geraldine? — Non lo so. Ma posso provare che non ho fatto niente a Geraldine, che tutto quello che pensate è falso. Posso provarlo! Andò alla porta e chiamò ad alta voce: — Phil! Phil! Qualche minuto dopo Philip arrivò e Johnny lo prese per un braccio. — Diglielo tu a questo maledetto poliziotto — gridò Johnny. — Diglielo. Philip si lasciò cadere in una poltrona e guardando ottusamente Johnny domandò: — Che cosa dovrei dirgli? Non so neanche di che cosa stavate parlando. — Raccontatemi dell'incidente — intervenne Sands. Johnny esplose senza lasciare il tempo a Philip di aprir bocca. — Sands dice che io ho ucciso Geraldine, dice che le ho tagliato la gola, che l'ho assassinata — e rivolgendosi come una furia a Sands: — E perché
avrei dovuto ucciderla? Ci avete mai pensato a questo? — Stevie Jordan, ci ha pensato — rispose l'ispettore. — Stevie Jordan? — Era l'amico di Geraldine. Lei lo ha lasciato perché sperava che voi la sposaste. Invece pare che voi non ne aveste nessuna intenzione. — Così l'avrei uccisa per questo! Non sarebbe stato sufficiente che avessi smesso di invitarla, avrei dovuto ucciderla! — State mettendo in scena una commedia, ispettore — disse Philip con calma. — Voi sapete meglio di me che Geraldine non è stata uccisa. — Sì, che è stata assassinata — ribatté Sands. — Jordan lo sapeva da molto tempo. Ieri notte me lo ha detto. Proprio un paio d'ore prima che qualcuno gli sparasse a bruciapelo. Johnny aprì la bocca come se volesse gridare, ma la voce uscì strozzata: — Jordan è morto? — No, almeno lo spero, sarebbe la salvezza di qualcuno se Jordan morisse. Jordan voleva dirmi qualche cosa riguardo a Murillo. Stava parlando con me al telefono, quando qualcuno gli ha sparato. Qualcuno che era suo amico e vostro amico, una donna. — Johnny ha centinaia di amici — ribatté ansiosamente Philip — non può essere responsabile di ciò che essi fanno... — Stai zitto, tu — ordinò Johnny. Fissava Sands, battendo le palpebre. — Che cosa ha a che fare Jordan con la morte di Geraldine? Voi pensate che io avrei chiesto a uno dei miei amici di sparargli? Secondo voi non sarei forse capace di fare da me una cosa di questo genere? — Johnny, non parlare in questo modo... Calmati, Johnny — gridò Philip, e rivoltò a Sands: — Johnny non può aver ucciso Geraldine. Era svenuto. Lo so, perché rinvenni prima di lui e uscii dall'auto per soccorrere Kelsey. Quando vidi che non potevo fare niente per Kelsey, girai dietro la macchina e vidi Johnny svenuto, riverso sul sedile. Fu allora che arrivò il poliziotto in motocicletta. — Non vi preoccupaste di vedere che cosa era accaduto a Geraldine? — No. Mi spiace... ma avevo dimenticato che fosse con noi. Non l'avevo mai vista prima di quella sera e in quel momento.... non ho più pensato a lei. — Non avrei bisogno dell'aiuto dei miei amici, se volessi far fuori qualcuno io! — ricominciò Johnny, ripetendo una volta ancora il suo argomento. — Sarei capace di farlo da me, sarei capace. — Stai dicendo un mucchio di sciocchezze — sbottò Philip. — Tutti e
due ne state dicendo. Johnny, sarebbe bene che ti calmassi e ti decidessi a tener chiuso il becco e quanto a voi, ispettore, come potete credere che Johnny Heath conosca un uomo come Murillo? Sands ebbe un gesto di impazienza. — Chiedete piuttosto a Johnny quanto gli è costato Murillo! Johnny sorrise con fredda ironia. — Non mi è costato niente. Murillo mi ha fatto questo piccolo favore perché eravamo buoni amici. Un giorno parlavamo e per caso lui mi ha chiesto: "Johnny, c'è qualcuno che vorresti vedere morto?". "Sì" gli ho detto io, "Geraldine Smith, mia sorella Kelsey e un tizio chiamato Jordan." Ed ora sarebbe meglio che ve ne andaste fuori di qui. Prima che perda le staffe! — Non perderete le staffe — replicò Sands con voce morbida. — Non ve lo potete permettere. Cercherete invece di trovare una via d'uscita contando sul vostro sorriso di ragazzone. Johnny sembrò infatti ritrovare la calma e gettando da sopra la spalla uno sguardo freddo a Sands, uscì dal salottino, sbattendo la porta, senza aggiungere parola. Philip rimase per un momento a guardare la porta chiusa, poi si rivolse a Sands con un'espressione quasi supplichevole. — Voi non capite Johnny, ispettore. È come un bambino che non è mai veramente diventato adulto. Gli piace far credere... — Pensate che siano innocui i tipi come lui? — Johnny è innocuo. Fa il prepotente a parole, perché per tutta la sua vita è stato tiranneggiato dalla madre e dalle sorelle, ma non farebbe male a una mosca. È assurdo pensare che conosca Murillo; non ne sapeva neanche il nome fino a questa mattina. Philip parlava in tono cattedratico, con la pedanteria di un maestro di scuola. "È un giovanotto noioso" pensò Sands. "Inoltre non si sente abbastanza degno di respirare l'aria rarefatta di casa Heath. Proprio il tipo di uomo adatto a diventare il marito di una delle sorelle Heath. Un tipo di docile marito da maltrattare e proteggere alternativamente per tutta la vita." Eppure questa classificazione semplicistica non lo accontentava. Non gli riusciva di vedere con chiarezza nella personalità di questa figura secondaria. Non c'era forse una sotterranea ironia nell'ingenua scialba mitezza di Philip? Sands rimase lungamente assorto in meditazione, poi finalmente si riscosse. Il sole del mattino gli batteva sul collo e gli scaldava le spalle. Pensò che era piacevole meditare sulla personalità e sui casi altrui, stando co-
modamente seduti in un così accogliente salottino. Specialmente per chi, come lui, aveva una vita così povera di casi personali. Alice e Philip si sarebbero sposati e presumibilmente anche Letty e Maurice. Quest'ultimo avrebbe prodigato le sue manifestazioni amorose alla moglie con affettuosi sculaccioni, troppo forti per essere solo scherzosi e non abbastanza forti per esser qualche cos'altro. Si sarebbero spogliati al buio, poi Letty avrebbe chiuso gli occhi e avrebbe pensato a tante cose. Chissà a che cosa pensano le donne in certi momenti? Nessuno l'ha mai scritto o detto. Le donne non si rivelano mai completamente. 16 Il quartiere della città era misero, ma la villetta era graziosa e ben tenuta. Ai lati della veranda i ciuffi di salvie rosse erano ancora in fiore. Sands usò il battente, una testa di leone in ottone a cui era stato incollato del feltro, per attutire il suono. Venne ad aprire una donnetta timida e magra, in vestaglia, con la testa ornata di bigodini. Aprì solo uno spiraglio e sporse la testa con aria ostile. — La signora Moore? — chiese Sands. — Sono venuto a parlare con vostra figlia Marcella. Mi chiamo Sands. — Mia figlia è ancora a letto — rispose la donna bruscamente. — Lavora fino a tardi, la sera, e non può ricevere nessuno. Ritornate più tardi. Evidentemente Marcella doveva averle dato degli ordini precisi. — Sono l'ispettore Sands. Devo parlare immediatamente con vostra figlia. Si tratta di un delitto. La donna aprì del tutto la porta e fece passare il poliziotto. Fece un passo indietro, mettendosi una mano sulla testa per nascondere i bigodini. — Vado a chiamarla subito. Accomodatevi in salotto... — Grazie — disse lui, seguendo il cenno di invito della donna. Si sedette e lasciò aperta la porta. Sentì i passi di lei che saliva le scale. Poi la sua voce: — Marcella, svegliati cara... C'è giù... — Quante volte ti ho detto che non voglio essere svegliata, prima... — Parla piano, cara. Mi spiace di averti svegliata ma c'è giù uno della polizia che vuole parlarti. — Che aspetti! — disse la voce di Marcella deliberatamente alta e sgarbata. — Scenderò quando ne avrò voglia. Si udì ancora qualche bisbiglio sommesso, poi i passi della signora Moore che scendeva. Restando sulla porta con aria imbarazzata la donna disse:
— Viene subito. Mia figlia è stanca, e sapete... — Grazie. — Scusate se non posso rimanere a tenervi compagnia — disse ancora la signora Moore — ho da fare in casa. — Non importa, signora. Passarono dieci minuti. Quando Marcie entrò, salutando con un breve cenno del capo, Sands vide che si era fatta aspettare deliberatamente, perché era ancora in vestaglia, senza trucco sul viso e con i capelli scarmigliati. Sands, abituato a tollerare colpe maggiori, reagiva sempre sproporzionatamente ai piccoli dispetti meschini. — Sedete, prego — disse freddamente, senza alzarsi né salutare. Lei attraversò il salotto e andò a sedersi su una poltrona, ostentando un esagerato riguardo per la lunga veste da camera che le scendeva fino ai piedi. Alla luce del giorno sembrava molto meno giovane e niente affatto timida. In casa sua si sentiva lei, la padrona; tra queste mura non c'era bisogno di fingere né di sprecare sorrisi affascinanti. — Ebbene? Sands le offrì il biglietto da visita senza parlare. Lei lo prese con la punta delle dita. — Non abbiate paura — disse lui — non ho bisogno di avere le vostre impronte digitali. La ragazza lasciò cadere il biglietto sul pavimento. — Non si può mai sapere, con quelli della polizia. Vi arrivano in casa travestiti da agenti delle assicurazioni. Naturalmente non ci sono cascata, ma è logico che si usi prudenza, no? — Avete usato prudenza anche per Stevie Jordan? — Stevie? Di che cosa state parlando? — Questa notte hanno sparato un colpo di rivoltella a Stevie, mentre era nell'ufficio di Joey. È all'ospedale e forse non ne uscirà altro che per andare al cimitero. — Stevie — balbettò lei smarrita. — Stevie. Non posso crederlo, nessuno poteva volergli male. Era... è una cara persona. — Sì, anche a me piace Stevie — disse tranquillamente Sands — ma gli hanno sparato non perché non fosse una brava persona. C'è andato di mezzo soltanto perché è stato coinvolto in una brutta faccenda per pura combinazione. Proprio come succede a voi, signorina Moore. Stevie si è trovato nei guai e ha perso la testa; esattamente come potrebbe capitare a voi. — Io non sono coinvolta in nessun guaio. Non ho fatto niente, io!
— Lo so, ma voi conoscete tutti i personaggi di questa brutta storia: Kelsey Heath, Geraldine Smith, John Heath, Stevie Jordan, Mamie Rosen, Tony Murillo... — Murillo? Io non conosco Murillo, non l'ho mai neanche visto — protestò Marcie. Sands la guardò fissamente. — No, non l'ho mai visto. Ho soltanto sentito parlare di lui da Mamie. — Strano — commentò Sands. — Che cosa c'è di strano? Credete che una donna con un briciolo di buon senso porterebbe il suo bello dietro il palcoscenico, tra quel branco di sgualdrine? — Fece una pausa per assaporare la parola forte che aveva usato. Era una parola che pensava spesso ma che non usava mai, in pubblico almeno. In casa sua poteva dire quello che voleva. — Murillo veniva al club — riprese Sands. — Stevie e Joey lo conoscono. — Solo di vista — spiegò lei — e da lontano. — Geraldine lo conosceva bene, invece? — Penso di sì: era molto amica di Mamie. — Credo che vi sia noto che Geraldine era l'amichetta di Johnny Heath — disse Sands. La ragazza si chinò e, guardandolo fermamente, disse: — Mettetevi bene in mente una cosa, signor Sands. Me ne infischio di Johnny Heath, di quello che fa o quello che dice. È colpa sua se mi trovo ora coinvolta in questa storia. Ho commesso un solo sbaglio, io: quello di uscire con lui qualche volta, di aver accettato di conoscere quella superbiosa di sua sorella. Non voglio più sentir parlare di lui. Non ho bisogno di lui, né di nessun altro. Io ho il mio lavoro. Sono un'artista e lo dimostrerò a tutti, un giorno. Marcie cessò bruscamente di parlare e si appoggiò allo schienale della poltrona con gli occhi chiusi. Sands si alzò e uscì dal salotto. La signora Moore entrò nella stanza, con espressione allarmata. Non riusciva a parlare, e tutto quello che poteva fare era di agitarsi intorno alla figlia. — Stai tranquilla — disse Marcie irritata. — Non ti agitare per niente. — Ma quell'uomo ha parlato di un delitto! — No, non c'è nessun pericolo per me — rispose aprendo gli occhi e fissando lo sguardo smarrito fuori dalla finestra. — Hanno sparato a Stevie Jordan. — Il signor Jordan? Non è quel giovanotto simpatico che ti piace?
— Non ho mai detto che mi piace. Ho sempre detto che è meglio di tutti gli altri, il che non è così difficile. — Bene, cara, credevo che... Be', vuoi tornare a letto o rimani alzata? — No, non torno a letto. Attese che la madre fosse risalita al piano superiore, poi scivolò nell'atrio e prese il telefono. Rispose una voce femminile: — Qui è l'Ospedale Generale. — Vorrei aver notizie del signor Jordan, per favore. — Jordan e poi? — Stevie Jordan. — Un momento, per favore. — Si sentiva un suono di voci in distanza e finalmente la voce disse: — Il signor Jordan non può ricevere visite. — Ma come sta? Non è... non è morto, vero? — Speriamo di no — rispose la donna con una sfumatura di sufficienza nella voce. — Se fosse morto, il suo nome sarebbe cancellato dalla lista. — Grazie. — Marcie riappese, e si appoggiò al muro con un sorriso di sollievo e il viso rigato di lagrime. L'infermiera era giovane e brutta, infagottata nell'uniforme ospedaliera. — Salve — disse Sands con un sorriso buono. — Buongiorno, ispettore. — Posso vedere il malato? — No, non è permesso. La temperatura va meglio, ma è sempre in stato di incoscienza. Di tanto in tanto ritorna il delirio. Ho fatto quello che mi avete chiesto. È scritto tutto qui — disse la ragazza togliendo di tasca un notes. Sands lesse attentamente. Quando ebbe finito, l'infermiera disse: — Non è molto chiaro quello che dice, ma sembra così ansioso di dire una cosa, sempre la stessa, sempre gli stessi nomi, Murillo e Heath insieme, li ha visti insieme in qualche posto. Ci capite qualche cosa in quello che ho scritto? — Molte cose. Molte cose. Grazie, signorina. — Leggerò un giorno o l'altro questa storia nel giornale? — domandò ancora l'infermiera. — Forse. Sands andò a casa e si buttò sul letto vestito. Forse se avesse potuto dormire per qualche ora, gli sarebbe riuscito di ripensare a tutto, di ricominciare da capo, l'incidente, Kelsey e la ragazza che era morta con indos-
so il suo vestito più grazioso... Mamie sapeva che era ormai questione di tempo. Non avevano ancora trovato la rivoltella ma il poliziotto aveva portato via i suoi guanti di capretto e su quelli avrebbero trovato la prova che era stata lei a sparare. Tony le aveva raccontato in che modo la polizia riesce a trovare le tracce. "Non è così facile, però, quando si tratta di pugnali" e aveva riso con quel suo riso acuto di quando si vantava. Solo una questione di tempo. Si domandava che cosa le avrebbero fatto. Se Stevie fosse sopravvissuto, l'avrebbero messa in prigione. Ci sarebbe rimasta per anni, sarebbe invecchiata, senza neanche la speranza e il desiderio di uscire, perché ormai non ci sarebbe stato più niente e nessuno a cui far ritorno. Se Stevie fosse morto, allora sarebbe stata la condanna capitale. Ebbene, perché aver paura in questo caso? Ci si mette poco a morire in questo modo, molto meno che a morire di cancro o di un'altra malattia. Che cosa ci avrebbe perso, lei? Aveva avuto la sua vita, aveva voluto il suo destino, lo aveva scelto e afferrato. Era stato il suo inferno e il suo paradiso. Il suo solo paradiso. Non voleva pensare all'amore. Non in questo momento, almeno. Il suo amore non era di quelli a cui si pensa per averne conforto. Non chiaro di luna, non rose, non sussurri. Lui non le aveva mai neanche detto di amarla. Forse, ora, glielo avrebbe detto, se avesse saputo che cosa aveva fatto per lui. Alzò la testa dal cuscino per vedere l'ora. Erano solo le dieci. Da anni, non si svegliava così presto. Forse perché questo era l'ultimo giorno. L'ultimo giorno. Se almeno fosse stato un giorno buono. Se il telefono avesse suonato. Ma non avrebbe suonato, lei sapeva che non doveva aspettarselo. Se avesse potuto telefonargli lei... Le sarebbe bastato sentire la sua voce e avrebbe riappeso senza parlare. Lo aveva fatto tante altre volte. A volte doveva aver pazienza. Rispondevano sempre altre voci, una voce femminile, a volte un uomo. Qualche volta veniva lui al telefono. Oggi forse sarebbe stata fortunata, perché era il suo ultimo giorno. Oggi avrebbe risposto lui... Respinse le coperte e buttò le gambe dal letto, ma si fermò irresoluta. E se il telefono fosse stato controllato dalla polizia? No, lei non era una per-
sona così importante e poi non immaginavano che lei sapesse dov'era Tony. Si alzò dal letto con un senso di improvviso benessere e di forza. Niente aveva presa su di lei. La sua immagine riflessa nello specchio, la vista del viso pallido e un po' gonfio, delle gambe bianche e striate di venuzze non le davano uno spasimo di sofferenza come ogni mattina. A piedi scalzi attraversò la camera, senza neppure guardarsi allo specchio e scivolò nell'atrio dopo aver sostato un attimo sulla porta in ascolto. La padrona della pensione era al piano superiore, la sentiva cantare. Compose il numero che sapeva a memoria. Il telefono squillò tre volte, poi una voce disse: — Pronto. Mamie si aggrappò alla mensola del caminetto. — Pronto — ripeté Tony impaziente. Allora Mamie parlò, la mente annebbiata da un turbine di emozione, di irragionevole speranza. — Sono io, Tony — disse con voce rauca. Dall'altro capo del filo non ci fu risposta. Mamie poteva vedere mentalmente Tony. Lo vedeva guardarsi intorno furtivo, con la fronte corrugata. — Tony? — ripeté. — Come hai fatto a... — La voce le arrivava soffocata. — Ho sempre saputo — disse Mamie. — Ho bisogno di vederti. — Sei impazzita? — Sicuro — disse Mamie debolmente — sono impazzita. Ascolta, Tony, potremmo incontrarci in qualche posto... — Sei stata tu a sparare a Jordan. — La voce di lui era un sussurro. — Sì, l'ho fatto per te. Per te... — Non parlare così forte, cretina! — Devo vederti, solo una volta. Stevie sa che sono stata io, ed anche la polizia. Mi rimane ormai poco tempo. Tony... voglio vederti... — Piantala! Hai perso la testa? — Se non vuoi vedermi, mi ammazzerò. Mi avvelenerò... — Sarebbe una buona idea. Il guaio è che non lo farai. Dimmi piuttosto, che cosa hai detto alla polizia? Mamie non poteva rispondere perché il ricevitore le era caduto dalle mani, e appoggiata con il viso alla parete piangeva senza ritegno. Premeva disperatamente il viso alla tappezzeria con i mazzolini di margherite, come se potesse trovare un conforto. — No — diceva tra i singhiozzi; non lo diceva a Tony, né a Dio, ma alle margheritine sbiadite, al muro freddo e duro
contro la sua guancia. La padrona della pensione aveva smesso di cantare. Poteva scendere da un momento all'altro. Mamie si staccò dal muro e ritornò nella sua camera. Quando fu più calma riempì due bicchieri d'acqua. Usò quello di Tony per la prima metà delle compresse, l'altro per la seconda. Poi andò allo specchio e cominciò a pettinarsi con cura. Arrotolava ogni ciocca intorno al dito per dar forma ai riccioli. Si incipriò il naso e si passò il rossetto sulle labbra. Riordinò il letto e si lisciò la camicia da notte sul corpo, poi si sdraiò esattamente al centro del letto e chiuse gli occhi. 17 La strada di periferia, la ragazza bionda al volante, la macchina esce di strada, i vetri volano in frantumi... Quando Sands aprì gli occhi, conosceva la risposta. Una risposta assurda. Sorrise scuotendo la testa. — Sciocchezze — disse al soffitto. A tutta prima era sembrata una cosa senza senso. Era stato come guardare nelle ultime pagine di un libro di algebra e trovare una soluzione che sembrava impossibile e proprio perché sembrava così impossibile, si ritornava a vedere le prime equazioni e gradualmente tutto si risolveva e ci si convinceva che la risposta era giusta. Si buttò giù dal letto, diede al vestito qualche colpo di spazzola senza apprezzabile risultato e si calcò il cappello in testa. Si muoveva con energia come chi sa ormai che cosa gli resta da fare, oppure vuol convincersi di saperlo. In realtà, fingeva di saperlo. Non appena fu uscito da casa, le piccole sciocchezze di ogni giorno cominciarono ad andar per storto. Ebbe difficoltà con l'accensione, e quando si decise a funzionare quella e il motore si mise in moto, c'era ancora qualche cosa che non ingranava. Solo dopo aver imprecato per un buon tratto di strada, si accorse di aver dimenticato di togliere il freno a mano. Si fermò a un semaforo che segnava via libera soltanto perché aveva l'impressione che, da un momento all'altro, si sarebbe accesa la luce rossa. Non sorpassò nessun veicolo tranne un venditore di grano che spingeva il suo carrettino. Il grano aveva un aspetto e un profumo particolarmente invitante. Non capitava spesso di trovarne di così soffice e burroso. Ne comperò due sacchetti e se li posò accanto sul sedile. Durante la sosta al semaforo seguente, gettò un'occhiata ai sacchetti e be-
stemmiò tra i denti. "Mi manca solo di andare a fare gli acquisti in previsione del Natale. Perché non andare a fare una nuotata in piscina?" Un coro di clacson dietro a lui lo ammonì. Cambiò marcia, ma non accelerò. Non aveva idea di ciò che avrebbe fatto. Probabilmente avrebbe cominciato a parlare. Avrebbe lasciato loro ancora una mezz'ora prima di far esplodere quel piccolo mondo, prima di farlo volare in mille pezzi. Il principio e la fine; il momento in cui per la prima volta vedeva il cadavere e quello in cui vedeva per l'ultima volta l'assassino. Questi erano i momenti peggiori per lui, quelli che cercava sempre di ritardare. Ma non si poteva allontanarli da sé indefinitamente. Veniva il momento in cui si doveva pur affrontarli. Quando fermò l'auto davanti alla casa degli Heath, un'altra macchina si fermò dietro a lui. Ne scese il dottor Loring. Quando vide Sands gli sorrise meccanicamente, senza simpatia. — Anche voi, qui? — salutò Sands. — Una visita amichevole o professionale? — I loro occhi si incontrarono con fredda ostilità. Ma non era un'ostilità personale, era diretta contro la situazione e contro gli Heath che erano responsabili della loro situazione. — Amichevole e professionale insieme — rispose Loring. Una foglia che volteggiava, prima di cadere gli sfiorò ii viso. Fece un gesto di impazienza con la mano e aggiunse: — Sono un po' preoccupato. Non mi piace lasciare i pazienti in cura, abbandonati a se stessi. — La vostra paziente è morta — disse Sands ostentando la precisazione, poi gli volse le spalle e si diresse verso la casa degli Heath. Loring affrettò il passo e gli si mise a fianco. — Avete fatto rapporto contro di me? — domandò. Sands scosse il capo. L'altro aggiunse: — Dovrei esservi grato; anzi vi sono grato, ma ormai anche se lo aveste fatto non avrebbe avuto più molta importanza per me. — Perché avete scelto di fare lo psichiatra? — Perché? Forse soltanto perché mio padre lo era. — Personalmente non credo che siate tagliato per il vostro lavoro. Mi sbaglio? — Questa volta devo ringraziarvi per le parole incoraggianti e per la sincerità — disse Loring con amarezza. — Certo che dovreste ringraziarmi — ribatté Sands blandamente. — Probabilmente nessun altro ve lo direbbe. Sembra che io sia designato da
Dio per rivelare cose che la gente non vorrebbe sapere. Loring rimase per qualche momento in silenzio, poi disse: — Non mi piace essere uno psichiatra. — Sands sostò davanti ai gradini che portavano alla veranda. — È tutto così incerto. Bisogna indovinare molte cose e io ho paura di questo. Ho paura di sbagliarmi — continuò il medico. — È una paura che abbiamo tutti — rispose Sands; poi salì i gradini e premette il campanello. Venne Alice ad aprire. Quando vide Loring, arrossì leggermente. — Bene — disse — arrivate a due a due. Entrate. Loring si schiarì la gola e spiegò imbarazzato: — Sono venuto a vedere come state e se tutto va bene... — Certo che tutto va bene — ribatté lei ironica, lanciando una fredda occhiata a Sands. — Splendidamente bene. Il signor Sands sta tentando di fare impiccare mio fratello, ha stimolato impulsi di eroismo isterico in Philip e ha fatto venire una crisi di convulsioni a Ida. Johnny beve, Philip si prepara a dimostrare l'innocenza di Johnny e Ida prega. Quanto a Maurice, si è licenziato ed ora è in camera sua che cerca di rilassarsi perché il signor Sands lo ha reso nervoso. Quanto a me — continuò riprendendo fiato — faccio da custode. — Scusate — mormorò Loring. — Se dovete parlare con l'ispettore io aspetterò nell'altra stanza. — Sì, devo dire qualche cosa all'ispettore, ma non in segreto. — Si rivolse a Sands con uno sguardo duro. — Pensavo che voi foste una brava persona, per essere un poliziotto. Ed ecco qua, che cosa avete fatto della mia casa. Li avete fatti impazzire tutti... e sono tutti sulle mie spalle... — La voce le si ruppe come una bambina che sta per piangere. — Oh, andiamo — replicò Sands — non vi farà male dovervi occupare di tante cose. Alice stava per esplodere di rabbia, ma era troppo conscia della presenza di Loring, del suo sguardo che la scrutava analizzando. Si rivolse a lui e disse cercando di mantener calma la voce: — Non temete, non mi verrà una crisi isterica... — Alice! Philip stava scendendo le scale gridando: — Alice! ti avevo proibito di aver a che fare... di parlare ancora con questo poliziotto! Alice si voltò a guardarlo e sgranò gli occhi. Philip aveva indosso il soprabito e stava annodandosi la sciarpa. Aveva il cappello gettato indietro, sulla sommità della testa e un ciuffo di capelli che gli cadeva sulla fronte.
"Ha l'aria di un buffone" pensò la ragazza. "Perché si mette in condizione di essere ridicolo? Non devono ridere di lui." Mosse qualche passo verso Philip e infilò il braccio sotto quello di lui. Philip era stupito e la fissava a bocca aperta. Lei sentiva lo sguardo di Sands e di Loring su Philip che era davanti ai loro occhi, indifeso, ridicolo. — Philip — gli disse sorridendogli e stringendogli affettuosamente il braccio. L'espressione sorpresa sparì dal suo viso ed egli le restituì il sorriso come se fossero loro due soli nell'atrio. Si chinò e sfiorò la fronte di Alice con un bacio. — Stavate uscendo, signor James? — domandò bruscamente Sands. Philip lo guardò; incertezza e aggressività ritornarono sul suo viso. Alice sciolse tranquillamente il braccio da quello di lui e fece qualche passo verso Loring. — Volevate parlare con me? — gli domandò gravemente. — Venite in salotto. Loring la seguì, con la fronte corrugata come se le rimproverasse qualche cosa. Quando la porta si chiuse dietro di loro, Sands domandò ancora: — Stavate per uscire? — Sì — rispose Philip. — Stavo venendo da voi. — Perché? — Sì. Devo trovare Murillo e avere le prove che Johnny non ha mai avuto a che fare con lui. — Non aveva la voce dell'eroe e non ne aveva nemmeno l'aspetto. — E che cosa vi proponete di fare, per trovare Murillo, signor James? — La ragazza. La ragazza che ha sparato a Jordan. — Mamie Rosen? — Mamie Rosen — ripeté lui. — Se è vero che è la sua ragazza, lei sa dove si nasconde Murillo. Bisogna solo insistere, spiegarle che cosa significa per un ragazzo come Johnny essere sospettato... Sono sicuro che capirà. — Credete? — disse Sands. — A meno che non vi dica "al diavolo Alice e Johnny e tutta la gente rispettabile". Tacque un momento, poi inaspettatamente si avvicinò a Philip e guardandolo fissamente gli disse: — La ragazza ama quest'uomo, Murillo. Non importa se è un ladro, se è un omicida, qualunque cosa egli sia, Mamie lo ama, è l'unico uomo per lei. Ed ora andate pure, può darsi che abbiate ra-
gione voi. Forse vi sarà possibile ottenere da lei quello che volete sapere. Mamie abita al 110 di Charles Street. Il viso di Philip aveva un'espressione incerta, irresoluta. Gli sembrava che Sands lo spingesse ad andare, e con la testardaggine delle persone indecise e fiacche, sembrava che stesse cambiando idea. — Vado — concluse infine. — Ma certo che andate — disse Sands. — È il vostro funerale. — Che cosa volete dire? Pensate che sia pericoloso andare? — Volete che vi accompagni? — No! No, naturalmente. Sono... perfettamente in grado di sbrigarmela da me. Bene, allora avete detto 110 Charles Street? — Sì. Mille auguri. Philip fece qualche passo verso la porta, poi si voltò e vide il sorriso di Sands. Un sorriso innocente, soddisfatto. — Io... — Sì? — Sands parlò con voce morbida. — Andate, signor James. Volete tentare di salvare Alice e Johnny e la vostra soffice cuccetta qui? E allora andate. La porta sbatté. Philip era andato. Il sorriso scomparve dalla faccia di Sands. Guardò dal finestrino a lato dell'ingresso, e vide Philip scomparire. — Sì, sono proprio furbo — mormorò Sands con una smorfia di irritazione verso se stesso. — Furbo come il diavolo. Anche Loring vide Philip che usciva. Non aveva mai parlato quando era entrato con Alice nel salottino. Era rimasto davanti alla finestra, osservando le foglie che cadevano, affascinato dal ritmo quasi costante; una foglia, poi una seconda, un milione di foglie. "Anch'io sono come una di quelle foglie. Non importa un fico secco a nessuno che cosa ne è di me. Devo prendere una decisione. Se voglio cambiare devo farlo ora, non posso più aspettare. Piantare la psichiatria e fare il pediatra. Mi piacerebbe curare i bambini, sono esseri semplici i bambini" pensava. — Il signor James è uscito — annunciò ad Alice senza voltarsi. Alice non rispose ma la sentì muoversi, sospirare. Era conscio che per tutto il tempo in cui lui era rimasto alla finestra a veder cadere le foglie, Alice aveva pianto silenziosamente. — Be', mi rendo conto che dopo tutto non avevo niente da dirvi — lui disse bruscamente. — Non so perché sono venuto. Forse era solo... "Solo per vederti" finì la frase dentro di sé. — Forse era solo per vedere come andavano le cose — completò Alice.
— È stato gentile da parte vostra. Loring si girò per guardarla, per vedere se c'era dell'ironia nelie parole della ragazza. Il viso di Alice non esprimeva nulla, assolutamente nulla e sotto le palpebre rosee, gli occhi erano senza luce. "Se un uomo l'amasse" pensò Loring, "lei lo ucciderebbe, giorno per giorno, come sua madre ha annientato suo padre. No, voglio andar via da qui, non voglio più vedere la tua faccia gelida." — Perché non vi sedete? — domandò la ragazza. — Devo andarmene — tagliò corto impetuosamente. — Devo vedere dei pazienti... — Posso offrirvi qualche cosa da bere? "Non offrirmi niente. Rimani dove sei. Non muoverti mentre io vado via, scappo via da te." — No, grazie. Devo andare. — E si avviò alla porta. Lei si mosse nella poltrona ma non si alzò. — Verrete ancora a trovarci? — No — rispose con voce aspra. — Cambio città, perché ho deciso... di cambiare lavoro. Voglio fare il pediatra. Alice batté le palpebre, quando sentì la porta che sbatteva. Loring se ne era andato. Strano, pensò, ma subito dopo il suo pensiero ritornò lontano. Si rifugiò nel passato, ormai morto ma ancora caro. Era come aprire un armadio pieno di vestiti. C'erano i bei vestiti a cui erano legati ricordi piacevoli, c'erano abiti senza importanza, o brutti abiti, legati a ricordi spiacevoli. Ma si poteva ignorarli, questi, lasciarli nell'armadio. Il suo bel vestito giallo. La rendeva così graziosa. Aveva ancora vent'anni. Aveva vent'anni e sedeva vicino a un uomo... Quella sera aveva messo l'abito giallo, la sera in cui Philip era venuto a casa per la prima volta. In quel vestito, in ogni piega della stoffa soffice come una carezza, era rimasta qualche nota di musica, le emozioni di quella prima volta... — Dove è andato a finire quel vestito? — bisbigliò tra sé — è stato messo in solaio oppure l'ho regalato? La porta cigolò. Entrava qualcuno. Alice volse la testa e vide Loring sulla soglia, con il suo abito giallo buttato sul braccio ripiegato. Lo fissò con occhi ingranditi dallo stupore e si accorse che era solo l'impermeabile che Loring teneva sul braccio. Strinse le mani l'una all'altra con un gesto smarrito e rabbrividì.
— Alice — chiamò lui a voce bassa. — Siete turbata e avete freddo. — Sì. Loring si avvicinò e le buttò l'impermeabile sulle spalle. Era ruvido e non aderiva, ma Alice se lo strinse intorno al corpo. Philip prese la macchina di Johnny e si diresse verso Charles Street. Parcheggiò l'auto all'angolo della strada e proseguì a piedi. Camminava un po' curvo, con le mani nelle tasche e l'ala del cappello abbassata sugli occhi. Leggeva attentamente i numeri delle porte, le targhe delle pensioni e le insegne. — Ottantotto. Pensione per turisti. Acqua calda e fredda. Condizioni speciali per soggiorni lunghi. Il suono della sua voce lo rassicurava. — Novantotto. Centodue. Chiromante. Il vostro futuro svelato. Centosei. Un uomo era fermo sul marciapiede immerso nella lettura di un giornale. Philip si tirò il cappello ancor più sugli occhi e rialzò il bavero del soprabito. Sorpassò l'uomo e lesse il numero che cercava. Centodieci. L'uomo del giornale alzò gli occhi e si volse a guardare le spalle di Philip. Non fingeva più di leggere, anzi lasciò cadere i fogli. "Ha la rivoltella in tasca" pensò. "Siamo pari; ne ho una anch'io." — Hei! — gridò. Philip stava per premere il campanello. Si volse fulmineamente. — Hei! — ripeté l'altro. — Venite qui! Per un secondo i due rimasero immobili a fissarsi, poi Philip si mise a correre aiutandosi con il moto delle braccia. I suoi movimenti erano scomposti e violenti come se ogni muscolo lottasse per conto suo in uno sforzo disordinato per sfuggire all'uomo che lo inseguiva. Fuggiva lontano da tutti, da Alice, da Johnny, da Kelsey che giaceva immobile sul tavolo di marmo dell'obitorio, da Geraldine, da Sands e da Mamie. Era quasi piegato in due nello sforzo di correre, quando il primo proiettile lo colpì, alla schiena. Le gambe gli si piegarono sotto e cadde con il viso in avanti. Qualcuno dietro di lui gridò: — Murillo! — ed egli mosse appena la bocca per protestare. Sentì il sapore del sangue e gli parve di avere il viso appoggiato su un tappeto di velluto. Era contento di morire. — L'ho preso. Devo averlo colpito mortalmente. — È già morto? — Voltiamolo. Guarda, che cos'ha in tasca?
— Una lettera. C'è scritto Signor Philip James. Per Dio, non è Murillo! — Eppure deve essere Murillo. Gli ho sparato perché dovevamo prenderlo vivo o morto. Non può non esser lui! Guarda se ha una rivoltella. Aveva le mani in tasca, pronto a sparare. — Non c'è nessun'arma. — Deve ben esserci una rivoltella! — Ti dico che non c'è nessuna rivoltella. — Oh Cristo! 18 — Mi spiace — disse Sands. — Vi spiace... — lo interruppe Alice con voce spenta — è un'espressione stupida. — Sì, lo so. La luce del crepuscolo invadeva la stanza. Sedevano immobili, come figure di cera nella sala silenziosa di un museo. Da un momento all'altro sarebbe potuta entrare una comitiva di scolari guidata dal maestro. "Così si vestivano gli uomini nell'anno millenovecentoquarantadue." Qualche ragazzino avrebbe soffocato una risata, gli altri avrebbero preso appunti. — Quella prima sera, quando lui venne con Johnny... — Alice si interruppe per rivedere se stessa nell'abito giallo, sentirne il contatto sulla pelle, sentirne il profumo. — Quella sera... ricordo di aver notato i suoi occhi. Erano infelici, ansiosi e non cambiarono più la loro espressione. Non ho mai saputo che cosa chiedesse alla vita. — Chiedeva sicurezza e benessere — disse Sands. Alice scosse la testa rifiutando questa spiegazione. "Troppo semplice e banale per lei" pensò l'ispettore. "A lei piaceva pensare che Philip inseguisse un arcobaleno, qualche cosa di irraggiungibile, per cui valeva la pena di morire. Alice ha sempre posseduto nella vita sicurezza e benessere e queste cose ai suoi occhi non hanno nessun valore." — Era senza pace — continuò lei — lo si capiva da come suonava; superbo e selvaggio come un leone in gabbia. La sua gabbia era questa casa, pensò Sands, ma Alice non avrebbe mai voluto ammetterlo. Bisognava lasciarla vagare nella nebbia finché avrebbe battuto la testa nella realtà. — Era orgoglioso. Credo che fosse per questa ragione che non voleva
stare con noi, da principio, quando mia madre gli propose di venire a vivere qui. Due volte se ne andò prima di decidersi a rimanere. Ed anche dopo, rimaneva lontano per lunghi periodi. Andava a vivere in una casa che aveva preso in affitto per studiare. — Non aveva preso in affitto una camera per questa ragione... — Tacete! Lasciatemi sognare ancora. Andava ai concerti, persino a New York. Mia madre gli passava una sovvenzione e Kelsey gliel'ha conservata. — Doveva ricevere da lei il danaro? — Sì. Tutti noi eravamo obbligati a farlo, ma a Philip questo non importava molto. Era un temperamento facile. Inoltre non usciva mai, non amava andare con Johnny nei night-clubs. Non amava questo genere di divertimenti, non ne aveva bisogno. Quando non studiava, rimaneva in casa con noi e parlavamo. "Parlavano" commentò Sands tra sé, con amarezza. Dicevano milioni di parole, gli insegnavano come si doveva parlare, come si doveva pensare e non gli davano niente di solido a cui appoggiarsi. Gli insegnavano una lingua straniera senza dirgli il significato delle parole, senza dargli né dizionario né grammatica. — Pensavo che fosse felice, qui — riprese Alice. — Non pensavo che fosse in alcun modo soffocato o, se lo era, credevo che avrebbe trovato un modo di esprimersi attraverso la musica. — Alice teneva gli occhi socchiusi come se le palpebre fossero specchi in cui riflettere se stessa e la sua famiglia. — Noi siamo tutti gente inibita, gente che riesce ad inibire chi ci sta vicino. Se noi fossimo stati diversi, forse anche Philip non sarebbe diventato... — No — disse Sands tranquillamente. — Non commettete questo errore. Lui non è diventato niente di diverso da se stesso. È rimasto quello che era. Mai, neanche per un momento, è stato Philip James. Aveva soltanto a poco a poco preso l'aspetto di ciò che l'uomo chiamato Philip James poteva sembrare. Stava ingrassando e perdeva i capelli, aveva perso quello sguardo di sfida che potete vedergli nelle fotografie fatte dalla polizia e niente era venuto a rimpiazzare quell'aria di gallo. La sua faccia era diventata molle e scialba. Non lo avrei riconosciuto dalle fotografie. Non si riconosce una persona dal colore della pelle o da quello degli occhi, ma dalla sua espressione, dall'ossatura del viso. Ora, nel caso di Murillo, l'espressione era completamente cambiata e l'ossatura era scomparsa sotto lo strato di adipe.
— No — supplicò Alice — non voglio ascoltarvi... — Non è mai stato Philip James. Forse il nome lo ha preso da un film o da un libro. Il nome doveva avere per lui un significato speciale. Si è scelto un cognome dell'alto ceto inglese o scozzese. Lui era spagnolo. — No, non è vero... — Sì, invece. Un mascalzone dotato di un certo talento e squattrinato. Per vent'anni questo è stato Murillo e a questo punto vostro fratello lo ha incontrato e portato in casa vostra. Il nome doveva averlo già bell'e pronto, forse quello che intendeva usare il giorno in cui sarebbe diventato ricco, spacciando marijuana o facendo qualche grosso colpo. Anche i criminali di piccola taglia hanno i loro sogni. Quello di Murillo deve essersi cristallizzato la sera in cui entrò in questa camera e vide Kelsey e voi e il pianoforte. Nonostante ciò, forse i suoi piedi si sentivano a disagio su questo tappeto spesso. Tentava di vivere il suo sogno, di essere Philip James, ma non gli era facile. Per questo ogni tanto se ne andava, sebbene poi tornasse ogni volta. Poteva vivere nel sogno a condizione di poter di tanto in tanto ritornare a essere Murillo almeno fino a tanto che non si fosse abituato a diventare Philip James. Solo allora avrebbe potuto tagliare i ponti dietro a sé. Non voleva essere Murillo e avrebbe voluto incarnare per sempre Philip James. A questo punto però conobbe quella ragazza. — No, non voglio sapere della ragazza... — Quando Murillo la incontrò — continuò Sands implacabile — lei era stata con molti uomini. Cominciarono a stare insieme come accade a queste persone; senza far piani, senza pensare a niente e senza annettere alla cosa nessuna importanza. Forse non parlavano neanche di amore; vivevano insieme, semplicemente. Lui andava da Mamie ogni volta che vostra madre lo spediva a sentire un concerto. Ogni volta che gli riusciva di farlo, ritornava alla sua vita, alla sua donna, alle sigarette drogate, ai suoi abiti; cappello nero a lobbia, camicie di seta lucida, scarpe gialle a punta. "Credo che i vestiti fossero una cosa importante per Murillo. Questi erano i vestiti che gli piaceva portare; non si era mai sentito a suo agio negli abiti di stoffa e di taglio inglese, che portava come Philip James. "Non appena lasciava questa casa doveva cominciare a sentirsi diverso. Gradualmente, a misura che se ne allontanava, diventava se stesso, Murillo, e da quel momento non c'era più bisogno di fingere. Inoltre poteva liberarsi di tutte le umiliazioni che soffriva in questa casa, riversandole sulla sua ragazza, su Mamie." — Mamie — fece eco Alice con voce rauca.
— Tutto ciò che imparava in questa casa lo insegnava a sua volta a Mamie. La ragazza era cantante, lavorava da Joey. Murillo non si faceva vedere quasi mai nei dintorni del club. Soltanto due o tre persone che lavoravano da Joey lo conoscevano di vista e solo a distanza: Stevie Jordan, Joey e una ragazza, amica di Mamie, Geraldine Smith. "Lui teneva le sue due esistenze rigorosamente separate l'una dall'altra. L'unico punto di contatto stava nel fatto che, come Murillo, egli trovava uno sfogo alle repressioni che come James doveva imporsi. Si era creato una serie di rigide regole per far sì che le due personalità fossero il più possibile diverse tra ioro. Philip James era un carattere amabile, alieno da ogni vizio, non beveva e non si occupava di donne." — A eccezione di Kelsey — fece eco Alice amaramente. — Mia sorella e una prostituta chiamata Mamie. — Non so proprio come fu che lui e vostra sorella si fidanzarono — commentò Sands. — Kelsey si era abituata a lui e ne aveva pietà. — E inoltre lo amava. — No, non l'ha mai amato! — Sì che lo amava, e anche voi lo amavate. Alice si aggrappò ai braccioli della poltrona. — Io! Io amare un uomo simile, con un'amante simile, un assassino, un ladro! — Non sapevate che fosse un ladro e un assassino. Mamie sì che lo sapeva e lo amava ugualmente. Credo che dovesse essere una grande soddisfazione per lui avere Kelsey qui e Mamie che lo aspettava sempre. Probabilmente questo è stato per lui il periodo più felice, quando lui e Kelsey erano fidanzati, prima che accadesse la disgrazia. Non era nemmeno costretto a scegliere, poteva avere tutte e due le donne, tutte e due le vite! Distinti abiti di taglio inglese e cappello a lobbia, musica e droga. — Un vizioso intossicato! — No, non esattamente. Molti musicisti fumano la marijuana e poi diventano schiavi del vizio; non era così per Murillo. Quando era Philip, la droga non lo attirava, probabilmente lo disgustava come lo avrebbero disgustato le lenzuola di Mamie, usate nel letto della sua camera, in casa vostra. Sì, la sua vita deve essere stata perfettamente felice in questo periodo, fino alla sera in cui Johnny invitò una ragazza. Kelsey e Philip aspettavano in macchina mentre Johnny era salito in casa della ragazza a prenderla. Le aveva telefonato poco prima dal ristorante e le aveva proposto di passare la serata insieme. Quando i due scesero Philip riconobbe la ragazza: era Ge-
raldine Smith. "C'era poco tempo per decidere sul da farsi. Una cosa era chiara. Se fossero arrivati al locale dove erano diretti per passarvi la sera, alla luce normale Geraldine lo avrebbe riconosciuto. Il fondo della strada era sdrucciolevole, l'auto slittava leggermente. Qui ci troviamo di fronte non a James ma a Murillo. Per uscire da quella situazione bisognava giocare d'azzardo, cogliere l'occasione che si presentava. James l'avrebbe rifiutata, Murillo no. Diede uno strappo al volante, la macchina uscì di strada e si fracassò. Geraldine fu sbalzata sulla strada, Johnny rimase accasciato sul seggiolino, Kelsey svenuta anche lei. Murillo era ferito dai vetri del finestrino e perdeva sangue. Questo forse deve avergli suggerito l'idea. Trasportò Geraldine più lontano e con una scheggia di vetro le inferse tagli profondi al viso e al collo, poi gettò via il vetro e ritornò vicino alla macchina." — È stato lui — interruppe Alice cupamente. — Voi pensavate che fosse stato Johnny e invece è stato lui. — Sì. Dapprima avevo pensato che fosse stato Johnny. Era l'unico che conoscesse Geraldine e avevo pensato soltanto alla possibilità che l'incidente fosse stato procurato. Solo un pazzo irresponsabile potrebbe deliberatamente gettare una macchina fuori strada. Anche in questo caso la posta dovrebbe essere molto grande, forse io farebbe solo se ne andasse della propria vita. Murillo in un certo senso giocava proprio per la sua vita. Morta Geraldine, lui avrebbe potuto continuare a vivere in pace la sua comoda vita, il che infatti gli riuscì per un paio d'anni ancora. "Sono stati due brutti anni però. Kelsey era diventata cieca, Geraldine era morta e lui aveva un delitto sulla coscienza." — Coscienza! — esclamò Alice con amarezza. — Anche Murillo, come tutti, aveva una coscienza. Solo che era una coscienza soggettiva. Non aveva una regola morale. Per lui esisteva solo il suo benessere personale e così non si rimproverava di aver ucciso la ragazza; gli rincresceva però che fosse stato necessario sopprimerla. Kelsey dopo la disgrazia era cambiata. La sua intelligenza era diventata più acuta e la sua sensibilità aveva acquisito antenne che le permettevano di percepire molte cose che a voi passavano inosservate. Innumerevoli volte in questi due anni, Kelsey deve aver rivissuto l'incidente in ogni minimo dettaglio e infine aveva capito ogni cosa. — Aveva spesso degli incubi. Sognava la ragazza e urlava nel sonno. — In questi due anni — proseguì l'ispettore — continuò a posporre il suo matrimonio, regalò l'anello di fidanzamento alla cameriera. Il motivo
di questa condotta non era dovuto al fatto che vostra sorella amasse Philip e non volesse legarlo a sé, sapendo di essere condannata a essere cieca per tutta la vita e neppure perché lo odiasse. Agiva così unicamente perché il dubbio la tormentava. Dapprima deve esserle sembrato incredibile, poi poco a poco la verità si è fatta strada. — Allora tentò di uccidersi — disse Alice. — Non per aver raggiunto la certezza, ma piuttosto per il tormento del dubbio. Per due anni non aveva fatto che pensare a questo e non era riuscita a raggiungere la verità. Sapeva ormai che per tutto il resto della sua vita sarebbe rimasto il dubbio. Il dubbio che fosse stato Philip a dare uno strappo al volante e a provocare l'incidente che aveva ucciso la ragazza e fatto perdere la vista a lei. Doveva esser terribile per lei essere cieca, ma certamente era ancor più terribile l'assillo del dubbio; era una cosa che le sconvolgeva la mente. Non poteva risolversi a chiedere a Philip la verità. Se lui avesse negato non gli avrebbe creduto e forse aveva paura che lui confermasse. Così non poteva far nulla se non pungerlo con allusioni sottili, ferirlo. — Ricordo che l'ultimo giorno — disse Alice — Kelsey gli rivolse queste parole: "Non posso aver fiducia in nessuno, non è vero, Philip? Dillo tu se posso aver fiducia". — Quella sera disse a Ida di portarle la morfina — concluse Sands. — Perché non confidarsi con me... Non ha mai neppure lontanamente alluso... — Le avreste prestato fede se lo avesse fatto? Non siete andata a consultare uno psichiatra invece di tentare di capire che cosa tormentava vostra sorella? Una persona sola poteva crederle ed era Philip. Lui sapeva che giorno per giorno Kelsey riviveva l'incidente, sapeva che nella mente di lei ormai il dubbio aveva messo radici. Forse allora deve aver desiderato di fuggire, di andar via da questa casa per non tornar mai più, ma non poteva farlo. Se lo avesse fatto, Kelsey avrebbe capito, sarebbe stata sicura e allora avrebbe parlato. Rimase invece, per sorvegliarla. Non poteva fare a meno di scrutarla e lei ne sentiva lo sguardo. Sentiva gli occhi di lui fissi su di sé e questi occhi significavano odio e pericolo. Gradualmente gli occhi si moltiplicarono e cominciarono a ossessionarla come un muro che si chiudesse su di lei. Ormai non riusciva a vedere altra via d'uscita che la morte, la stessa via di uscita che ha scelto Mamie. Mentre i medici stavano salvandola dalla morte voi avete mandato fuori Philip. Gli avete detto di fare una passeggiata. Fu allora che egli scese in città, andò in quella taverna a
bere. Non voleva andare da Mamie, voleva solo bere, lasciarsi sprofondare nella voragine che lo ossessionava; la voragine tra le sue due vite. "Doveva aver capito che Kelsey aveva tentato di uccidersi e sapeva ormai che non sarebbe morta. Quando Kelsey avesse ripreso coscienza voi le avreste chiesto perché aveva tentato di togliersi la vita e lei avrebbe parlato. Era disperato e si sentiva ormai perduto. Voleva tentare di salvarsi ma per far questo gli occorreva danaro. Perse la testa e incurante di ogni particolare, dimenticando di aver lasciato le sue impronte sul bicchiere, decise di fare il colpo. Impose all'uomo di consegnargli l'incasso della sera. Era un gesto pazzo, il gesto di un debole che sfidava il destino. Come se svaligiare una cassa avesse potuto fare di lui un dominatore della vita anziché un vinto. "L'uomo del bar gli tenne testa e un paio di clienti lo misero in fuga. Lui se la diede a gambe e riuscì a dileguarsi. Aveva tentato il colpo ed era fallito, la sconfitta era un dolore cocente che lo sferzava. Ritornò qui, le luci dell'atrio erano accese. Salì in camera di Kelsey e accese la luce. Deve aver avuto un accesso di rabbia e di odio vedendola respirare tranquilla, ormai salva. Forse Kelsey si svegliò e capì perché Philip era entrato nella sua camera. Oppure lui la uccise subito, non appena vide il coltello sul tavolino da notte. Dopo il delitto si sentì più calmo, la mente si snebbiò e ricominciò a ragionare. Bisognava simulare il furto. Si tolse di tasca un temperino per scassinare il portagioie. Probabilmente fu allora che caddero sul tappeto alcune foglie di marijuana. Voleva portar via i gioielli per dare al delitto l'aspetto di una rapina. Fu in quel momento che vostro padre rientrò. Philip sentì il suo passo, sentì che sostava davanti alla porta. Sapeva ormai che la luce accesa filtrava da sotto la porta. Se vostro padre fosse entrato in quel momento lo avrebbe trovato accanto a Kelsey morta. "L'emozione violenta, il sollievo di sentire i passi che si allontanavano lo stordirono. Non si rese conto di aver dimenticato di prendere i gioielli, di aver lasciato la luce accesa in camera di Kelsey. Pensava soltanto a fuggire. Scivolò fuori di casa e si mise a correre. Fuggiva sempre da qualche cosa o da qualcuno. Anche quando lo hanno ammazzato stava correndo. Si è fatto buio. Accendiamo la luce?" — No — disse lei — non ancora. — Bisognerà pure accendere, un momento o l'altro. — Sì, ancora un momento. Le loro voci risuonavano nella stanza ormai buia e le pareti sembravano rimandarne l'eco dando ad ogni parola un significato più preciso.
— Anche voi fuggite sempre a modo vostro — riprese Sands. — Volete rimanere al buio, a occhi chiusi. Il presente è un fardello pesante per voi, il futuro un pericolo. Avete solo il passato in cui rifugiarvi, non è un passato felice, ma le ferite sono cicatrizzate. — Continuate con la vostra storia — disse lei con voce rauca. "Per te è già una storia" pensò Sands, "e Philip è diventato remoto, irreale e staccato come il personaggio di una storia. Non esiste più dacché hai saputo di Mamie, delle scarpe gialle e del resto." — Correndo passò vicino alla macchina di Stevie Jordan e questi lo riconobbe. Non credo che egli abbia visto Jordan, ma deve essersi reso conto che era pericoloso fuggire a quel modo. Capì che era meglio ritornare a casa e affrontare la situazione cercando di dominarla. Ora, era più calmo e lucido. Fissò lo scatto della maniglia e lasciò la porta socchiusa. Era un modo per indirizzare i sospetti della polizia. Per suggerire l'idea che l'assassino fosse un estraneo che si era introdotto nella casa. Non poteva immaginare che quel gesto sarebbe servito a indirizzare i sospetti su Murillo. Non poteva nemmeno immaginare l'ironia finale che avrebbe portato James a morire per conto di Murillo. — Siete stato voi a mandarlo là? — No, lui è voluto andare. Forse andava per ucciderla, non sapendo che lei era già morta. — No, non credo volesse ucciderla. — Forse no, forse voleva rivederla una volta ancora. In ogni caso era morta e si era preparata come se avesse saputo che Murillo sarebbe ritornato da lei. Si era pettinata e truccata in modo da piacergli ancora. Mamie aveva sparato a Stevie per salvare Murillo. Lo aveva fatto di impulso senza pensare a niente, nel tentativo di salvare il suo uomo. Aveva una strana lealtà infantile. Tutto in lei era primitivo e infantile. — Sapeva che lui viveva qui? — domandò Alice. — Sì, sono sicuro che lo sapeva. Era gelosa di lui e deve aver cercato in tutti i modi di sapere dov'era Murillo quando non stava con lei. Ma lui era furbo e inoltre non si fidava di Mamie. Non veniva mai direttamente in questa casa. Usava la camera che aveva preso in affitto come tappa intermedia. Comunque in qualche modo Mamie deve aver saputo, e probabilmente non deve aver resistito alla tentazione di chiamarlo. Deve avergli telefonato qui e questo spiegherebbe perché lui ha deciso di andare da Mamie. — E voi? Lo avevate capito che Philip e Murillo erano la stessa perso-
na? — Sì, a un certo punto l'ho capito. Il primo delitto era stato ben congegnato e James ha potuto non destare sospetti per due anni, eppure proprio la morte di Geraldine doveva alla fine smascherarlo. C'erano nella macchina tre persone che avrebbero potuto uccidere Geraldine. Kelsey era fuori discussione perché non conosceva la ragazza. Johnny avrebbe potuto farlo, ma bisognava trovare il movente. Vostro fratello può trovare mille maniere più facili per liberarsi da una ragazza che non intende sposare. — Johnny se la caverebbe con tutta facilità come ha sempre fatto, oppure lascerebbe a me l'incarico di sistemare la faccenda. — Rimaneva soltanto Philip James, dunque — proseguì Sands. — E se a tutta prima la cosa mi è sembrata improbabile, poi molti elementi mi hanno portato sulla giusta strada. Infine Stevie aveva visto una sera Johnny e Murillo insieme. Per lui questo fatto poteva significare che vostro fratello conosceva Murillo e se ne serviva come sicario. Per me è stato l'elemento decisivo per arrivare alla verità. — Siete stato dunque voi a mandarlo a casa di Mamie — disse di nuovo Alice. — Volevate che i poliziotti lo uccidessero? — Forse. — Grazie. — Non ringraziatemi. Forse non è vero che l'ho fatto — disse lui con un improvviso scoppio di irritazione — e se anche l'ho fatto non è stato né per voi né per la vostra famiglia. — Se non gli avessero sparato — disse lei — io stessa lo avrei ucciso. Avrei voluto essere io a ucciderlo. Sands non replicò. Quale strana mescolanza di decadentismo e di primitivismo in donne come Alice, pensava stupito. — Vorrei credere — aggiunse lui dopo una lunga pausa — che tutto ciò che è accaduto in questi giorni e che ha sconvolto la vostra vita vi rendesse più umana. — Umana? — replicò lei con sorpresa e con una punta di disprezzo nella voce. — Pensate che veder la propria sorella assassinata e l'uomo che... Lui si alzò dalla poltrona senza aggiungere altro. — Non andate via, non ancora! — implorò la ragazza. — Accendete la luce. Alice girò l'interruttore come se l'improvvisa docilità avesse il potere di conciliarlo, di abolire ciò che lui aveva detto. — Pensavo di essere umana — disse piano.
Alice serrò le mani in un gesto nervoso. "Che cosa può saperne lui? Infine non è altro che un poliziotto, un presuntuoso volgare ppliziotto." Sands uscì dal salotto chiudendo la porta dietro di sé. L'atrio era illuminato, e il signor Heath sembrava aspettarlo. Gli sorrise e domandò: — Ebbene? — Avete ascoltato? — chiese Sands. — Un po'. L'ispettore strizzò gli occhi: — Per voi non è stata una tragedia, no? — No — rispose il signor Heath. — Lui è morto. Sono morte la ragazza ed anche Kelsey. Ormai sono in pace e non soffrono più. "Decadenza" pensò Sands, "parlano della morte come di una soluzione a tutto. Nessuno di questa gente ama la vita!" — Ora devo andare — disse cincischiando l'ala del cappello. Desiderava trovarsi di nuovo solo, ritornare alla sua vita anonima. — E quell'uomo, quel Jordan? — chiese il signor Heath. — Sta migliorando. — Sands non riusciva più a nascondere la sua impazienza. — Sapete — continuò l'altro — non dovete giudicare troppo male Alice. Non ha mai avuto abbastanza affetto nella vita, abbastanza amore. Ora pare che il dottor Loring... Insomma quando se ne sarà andata da qui, riprenderò il mio posto di comando. Non vi sembra una buona idea? — Oh sì! Molto buona. — Volevo anche ringraziarvi — concluse il signor Heath. — No, meglio non ringraziarmi — disse Sands. "Buon Dio, non ci mancava che questo" pensò, e uscì da quella casa sbattendo la porta. FINE