CLIVE CUSSLER SALTO NEL BUIO (Night Probe!, 1981) A Jerry Brown, Teresa Burkert, Charlie Davis, Derek e Susan Goodwin, C...
78 downloads
1974 Views
2MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
CLIVE CUSSLER SALTO NEL BUIO (Night Probe!, 1981) A Jerry Brown, Teresa Burkert, Charlie Davis, Derek e Susan Goodwin, Clyde Jones, Don Mercier, Valerie Pallai-Petty, Bill Shea e Ed Wardwell, che mi sono stati di prezioso aiuto con il loro amichevole incoraggiamento, tutta la mia gratitudine. PROLOGO UNA GIORNATA ALL'INSEGNA DELLA MORTE
1 Maggio 1914 Nella parte settentrionale dello Stato di New York I lampi che si susseguivano all'orizzonte con crescente frequenza annunciavano un violento temporale, mentre il Manhattan Limited divorava fragorosamente la strada ferrata che tagliava la parte più settentrionale dello Stato di New York. La densa colonna di fumo nero che usciva dalla locomotiva velava le stelle che punteggiavano il cielo. Nella cabina, il macchinista levò dalla tasca della tuta un cipollone d'argento e strizzò le palpebre per leggere l'ora al riverbero del fuoco. Non era il temporale imminente a preoccuparlo, ma l'inesorabile scorrere del tempo, che minacciava di non fargli rispettare l'orario. Si sporse dalla cabina, alla propria destra, fissando le traversine lustre di lubrificante che saettavano via sotto le otto enormi ruote della locomotiva. Come il comandante d'una nave che vive per il suo comando, anche il macchinista ci teneva, alla puntualità del convoglio che guidava ormai da tre anni sullo stesso percorso: era una questione di amor proprio. Si sentiva orgoglioso della sua «Lena galoppante», l'affettuoso nomignolo con cui si riferiva alle oltre cento tonnellate di ferro e di acciaio affidate a lui: verniciate di nero, erano decorate da una fascia rossa orizzontale e da un numero, un grosso «88», dipinto a mano in cifre dorate. Ascoltava compiaciuto il ritmico martellare delle ruote contro i giunti delle rotaie - una musica per il suo orecchio - e accompagnava col respiro affrettato l'impeto della locomotiva e delle otto carrozze che vi erano agganciate. Poi spostò la leva della velocità di una tacca più su. Nella carrozza di coda, una vettura salone lunga ventun metri, Richard Essex stava seduto alla scrivania, nello studio intercomunicante. Troppo stanco per prendere sonno e annoiato dal viaggio, ammazzava il tempo scrivendo una lettera alla moglie. Le descriveva il ricco addobbo dell'interno, rivestito di pannelli di noce intagliati: le lampade elettriche di ottone, le poltrone girevoli di velluto rosso, le palme nei vasi e perfino gli specchi molati e il pavimento di ceramica dei bagni, annessi alle quattro spaziose cabine-letto. Dietro di lui, nel salotto panoramico, cinque agenti in borghese giocava-
no a carte; il fumo dei sigari saliva in lente spirali azzurrine verso il soffitto; i fucili erano posati negligentemente in giro, sui mobili. Ogni tanto uno dei giocatori si chinava verso le sputacchiere di ottone sistemate sul tappeto persiano. Probabilmente è la prima volta in vita loro che si trovano in un ambiente così lussuoso, pensò Essex. Il trasporto nella carrozza principesca doveva costare al governo non meno di settantacinque dollari il giorno... e tutto ciò per un pezzo di carta. Sospirò, terminò di scrivere la lettera, la imbustò e la ripose nella tasca interna della giacca. Non aveva ancora voglia di dormire, e quindi rimase seduto, osservando attraverso il grande finestrino panoramico ad arco il paesaggio notturno immerso nel silenzio; un silenzio rotto soltanto dal fischio della locomotiva sfrecciante davanti a stazionane di campagna o passaggi a livello. Alla fine si alzò, stiracchiandosi, e si diresse verso l'elegante sala da pranzo, dove si accomodò a una tavola di mogano apparecchiata, con la tovaglia candida che conferiva risalto ancora maggiore ai bicchieri di cristallo e alle posate d'argento. Un'occhiata all'orologio gli disse che mancavano pochi minuti alle due dopo la mezzanotte. «Che cosa desidera, signor Essex?» Un cameriere nero era spuntato all'improvviso, come per magia. Essex alzò gli occhi e sorrise. «So che è piuttosto tardi, ma potrei fare uno spuntino?» «Lieto di servirla, signore. Che cosa desidera?» «Qualcosa che mi aiuti a prendere sonno.» Il cameriere sorrise a sua volta, in un balenio di denti. «Le consiglierei una bottiglia di borgogna e una tazza di brodo ai frutti di mare ben caldo.» «Ottimo, grazie.» Mentre centellinava il Pommard, Essex si chiese se anche Harvey Shields stentava a prendere sonno. 2 Harvey Shields stava vivendo un incubo. La sua mente si rifiutava di accettare qualsiasi altra spiegazione. Lo stridio metallico e le urla di sofferenza e di terrore nell'oscurità che lo avvolgeva erano troppo allucinanti per essere reali. Lottò con tutte le forze per sottrarsi alla scena infernale e ripiombare in un sonno tranquillo, ma il suo corpo soffriva per un insopportabile dolore fisico e capì che non si trattava di un brutto sogno.
In un punto imprecisato, più in basso, udiva uno scrosciare d'acqua che pareva uscire da un tunnel, seguito da un soffio di vento così forte da strizzargli l'aria fuori dei polmoni. Tentò di aprire gli occhi, ma le palpebre parevano incollate. Ignorava di avere la testa e la faccia coperte di sangue. Il suo corpo era rannicchiato in posizione fetale nella morsa gelida e implacabile delle lamiere d'acciaio. Un odore acre, elettrico, gli colpì le narici e, insieme col dolore crescente, contribuì a fargli riprendere coscienza. Cercò di muovere le braccia e le gambe, che però si rifiutarono di assecondare il tentativo. Intorno a lui si fece uno strano silenzio, rotto soltanto da un debole sciacquio. Tentò nuovamente di liberarsi dall'invisibile morsa che lo inchiodava. Respirò a fondo e poi tese i muscoli degli arti. A un tratto riuscì a svincolare il braccio destro e ansimò quando un frammento metallico glielo lacerò tra gomito e polso. La sofferenza lo fece rinvenire completamente. Si passò la mano sugli occhi coperti da un'umidità vischiosa e fredda, e finalmente poté vedere come si era ridotta la sua lussuosa cabina, a bordo del transatlantico canadese in rotta per l'Inghilterra. La grande toeletta in mogano era scomparsa e scomparsi erano la scrivania e il comodino. Nel punto in cui avrebbero dovuto trovarsi il ponte e la paratia di dritta si apriva un'enorme cavità e, tra gli orli contorti, nient'altro che il buio nebbioso e le acque cupe del San Lorenzo. Provò la sensazione che gli si aprisse davanti un abisso senza fondo. Poi il suo sguardo colse qualcosa di bianco che baluginava, lo mise a fuoco e seppe di non essere solo. Accanto a lui, tanto vicina di poterla quasi toccare, c'era la bambina della cabina attigua: sepolta tra le rovine, di lei spuntavano soltanto la testa e una spalla. I capelli, biondi e lunghissimi, erano scarmigliati; la testa, reclinata, formava un angolo innaturale e un filo di sangue le usciva dalle labbra, macchiando lentamente le ciocche dorate. Shields stava superando lo shock e avvertiva sempre più forte un diffuso senso di malessere. Sino a quel momento non era stato neppure sfiorato dall'idea della morte, ma nel corpo senza vita della bambina lesse la sorte imminente che lo attendeva. Poi un pensiero improvviso lo gettò nella disperazione. Lanciò occhiate ansiose intorno a sé, alla ricerca della valigetta che non aveva mai perso di vista. Era scomparsa, finita chissà dove tra i relitti. Tentò di liberarsi dai rottami che lo imprigionavano, sudando copiosamente, ma fu tutto inutile. Si accorse che dalla vita in giù aveva perso la sensibilità e capì di avere la colonna vertebrale fratturata. Il grande transatlantico cigolava, piegandosi rapidamente di fianco, ver-
so l'acqua che ben presto sarebbe diventata la sua tomba. I passeggeri, chi in abito da sera chi in camicia da notte, correvano sui ponti inclinati come formiche impazzite, tentando di salire sulle poche lance di salvataggio che i marinai si affannavano a calare giù dalle murate, o gettandosi nel fiume gelido, per aggrapparsi a qualsiasi oggetto galleggiante. Ancora pochi minuti e la nave sarebbe colata a picco, a neppure due miglia dalla costa. «Martha?» Shields s'irrigidì e girò la testa verso il fievole richiamo che proveniva oltre la partizione crollata tra lui e il corridoio interno. Tese l'orecchio e udì nuovamente il richiamo. «Martha?» «Da questa parte», gridò. «Per favore, mi aiuti!» Non ottenne risposta, però percepì un rumore: qualcuno si stava aprendo un passaggio tra i cumuli di macerie. Dopo qualche istante una lastra crollata dal soffitto fu rimossa e, attraverso l'apertura, si affacciò un volto circondato da una barba grigia. «La mia Martha? Lei ha visto la mia Martha?» L'uomo era sotto shock e parlava con una voce alterata, atona. Una profonda lacerazione gli solcava la fronte e gli occhi scrutavano in giro, con uno sguardo spiritato. «Una ragazzina bionda, coi capelli lunghi?» «Sì, sì, è mia figlia.» Shields accennò al corpo senza vita. «Temo che sia morta.» L'uomo allargò freneticamente il varco e vi strisciò dentro, si accostò alla bambina, con la faccia resa inespressiva dalla violenza del colpo improvviso, e le sollevò il capo, scostandole i capelli dal volto con un gesto carezzevole. Per alcuni secondi, lunghi come ore, non disse nulla. Nel tentativo di offrirgli l'unico, misero conforto possibile, Shields mormorò: «Non ha sofferto». L'uomo non rispose. «Mi rincresce tanto», disse Shields. Avvertì una brusca inclinazione a dritta della nave. L'acqua stava salendo rapidamente dal basso. Rimaneva poco tempo. Doveva scuotere quel padre dal dolore che lo rendeva apatico e convincerlo a mettere in salvo la preziosa valigetta. «Lei ha idea di che cosa sia successo?» chiese. «Una collisione», rispose l'altro in un tono indifferente, come se la catastrofe non lo riguardasse. «Ero sul ponte. Tutt'a un tratto un'altra nave è sbucata dalla nebbia. Con la prua ha squarciato il fianco della nostra.»
Tacque, levò di tasca un fazzoletto e pulì delicatamente il sangue dal volto della piccola. «Martha mi aveva supplicato di condurla con me in Inghilterra. Sua madre era contraria, ma io cedetti. Dio mio, se solo avessi potuto immaginare...» La voce gli si spezzò. «Non può fare più niente per sua figlia», commentò Shields. «Adesso deve pensare a mettersi in salvo.» L'uomo si girò lentamente verso di lui e lo guardò con occhi vacui. «L'ho uccisa io», bisbigliò rauco. Shields, in preda alla disperazione, esplose con rabbia: «Mi stia a sentire! Qua in giro, tra le macerie, si trova una valigetta con un documento che deve arrivare a tutti i costi a Londra ed essere consegnato al ministero degli Esteri». A questo punto stava urlando. «La cerchi, per favore!» L'acqua mulinava in piccoli vortici a due passi da loro. Ancora pochi, brevi attimi e li avrebbe ingoiati. «Non posso lasciare sola Martha... ha paura del buio...» balbettò l'altro, con le labbra che gli tremavano. Pareva che recitasse sommessamente una preghiera ai piedi d'un altare. Fu un colpo mortale per Shields. Non c'era alcun modo di scuotere il padre stordito dalla pena, con la mente persa in un placido delirio: si chinava sulla figliola morta e la baciava in fronte, per lasciarsi andare subito dopo a un accesso irrefrenabile di singhiozzi. Stranamente, la rabbia per la frustrazione si dissolse in Shields. Ormai rassegnato di fronte all'inanità dell'ultimo tentativo e alla morte imminente, non provava più né ansia né terrore. Negli ultimi secondi di vita che gli restavano si sottrasse ai limiti della realtà e vide le cose con una chiarezza sconvolgente. Quando le caldaie scoppiarono, il fragore di un'esplosione squassò la nave nelle viscere: piegandosi orizzontalmente a dritta, affondò, incominciando da poppa. Dall'avvenuta collisione nel cuore della notte a quando la nave scomparve sott'acqua, tra la massa dei superstiti che tentavano disperatamente di tenersi a galla lottando contro la corrente gelida, non erano trascorsi neppure quindici minuti. Erano le due e dieci del mattino. Shields non tentò di ritardare di pochi secondi l'inevitabile sforzandosi di trattenere il respiro. Aprì la bocca e ingurgitò l'acqua dal sapore ripugnante, vomitandola mentre gli scendeva nell'esofago. Mentre sprofondava nella tomba priva d'aria, la sofferenza e la morsa del soffocamento furono brevi, la coscienza lo abbandonò quasi di colpo. E poi fu il nulla, il nulla
assoluto. 3 Una nottata infernale, pensava Sam Harding, bigliettaio alle dipendenze della New York and Quebec Northern Railroad, mentre se ne stava sul marciapiede della sua stazioncina e osservava i pioppi, fiancheggianti i binari, che le raffiche impietose di un violento temporale piegavano quasi orizzontalmente. La bufera segnava la fine di un'ondata di caldo torrido che aveva imperversato sugli Stati della Nuova Inghilterra: il maggio più caldo che si fosse registrato dal 1880, affermava il settimanale di Wacketshire, sotto un titolo stampato in rosso a lettere cubitali. I lampi solcavano a zig zag il primo chiarore del cielo; nell'arco di un'ora la temperatura era scesa di quindici gradi e Harding si accorse di tremare dal freddo, mentre le folate di vento gli gonfiavano la camicia di cotone che l'umidità opprimente aveva inzuppato di sudore. Dalla parte del fiume scorgeva i lumi di una fila di chiatte: lo risalivano adagio, controcorrente, e si spegnevano via via che s'allontanavano, per ricomparire poco dopo, mentre sfilavano sotto i piloni portanti del grande ponte. La stazione di Harding si trovava alla periferia della cittadina, o per meglio dire del paesotto, nel punto in cui c'era un passaggio a livello. La linea principale correva a nord, verso Albany, la diramazione secondaria piegava a est e attraversava il ponte Deauville sull'Hudson prima di proseguire in direzione sud, verso New York City. Benché non fosse caduta neppure una goccia, nell'aria aleggiava un ben distinto odore di pioggia. L'uomo andò fino alla tettoia sotto la quale teneva la sua Ford T; slegò una serie di cordicellle sotto l'orlo del tettuccio e srotolò le protezioni in similpelle sopra i pannelli di quercia laterali, fissò le cordicelle ai ganci e rientrò nella stazione. Hiram Meechum, che faceva i turni di notte per la Western Union, se ne stava chino sulla scacchiera, impegnato nel suo passatempo favorito: una partita a distanza con il collega telegrafista di un'altra stazioncina. I vetri delle finestre vibravano sotto le raffiche, all'unisono con lo staccato della tastiera del telegrafo avvitata sul piano del tavolo davanti a Meechum. Harding prese il bricco tenuto al caldo sopra una stufetta a petrolio e si versò una tazza di caffè.
«Chi sta vincendo?» L'altro alzò la testa. «Sto giocando con Standish di Germantown. È un osso maledettamente duro da battere.» La tastiera eseguì la sua breve danza e Meechum mosse uno dei pezzi. «La regina in C4», borbottò. «La situazione è tutt'altro che incoraggiante.» Il bigliettaio levò l'orologio dalla tasca del panciotto e osservò le lancette corrugando la fronte. «Il Manhattan Limited sarebbe dovuto passare dodici minuti fa.» «Probabilmente è in ritardo per via del temporale», disse Meechum. Telegrafò la propria ultima mossa, appoggiò i piedi sul tavolo e, semisdraiato sulla seggiola inclinata all'indietro, in equilibrio sulle gambe posteriori, attese la risposta dell'avversario. Tutte le assicelle che rivestivano le pareti della piccola stazione scricchiolarono nel momento in cui un fulmine, lacerando il cielo, colpì un albero su un pascolo, a brevissima distanza. Harding, che stava sorseggiando il caffè, alzò istintivamente gli occhi verso il soffitto, chiedendosi se il parafulmine in cima al tetto offriva una garanzia sufficiente. Lo squillo assordante del telefono lo distolse dall'improvviso timore. «Il responsabile dei movimenti con notizie del Limited», buttò lì Meechum in tono tranquillo, senz'ombra di apprensione. Harding spostò il braccio girevole dell'apparecchio verso di sé e si premette il piccolo ricevitore rotondo contro l'orecchio. «Qui Wacketshire», rispose. La voce del responsabile, da Albany, era a malapena percettibile, disturbata dalle scariche di elettricità statica provocate dal temporale. «Il ponte... riesce a vedere il ponte?» Harding volse la testa per guardare fuori della finestra che dava a est, ma nell'oscurità non riusciva a vedere più in là della banchina. «Non distinguo niente. Devo aspettare il lampo del prossimo fulmine.» «C'è ancora?» «E perché diavolo non dovrebbe esserci?» replicò, irritato. «Il comandante di un rimorchiatore, che si è appena messo in comunicazione da Catskill, era fuori della grazia di Dio», urlò di rimando il responsabile dei movimenti. «Dice che una trave è piombata giù dal ponte e ha sconquassato una delle sue chiatte. Qua tutti sono nel panico. Il capostazione di Columbiaville ci ha avvertiti che il Limited è in ritardo sull'orario.» «Gli dica che stiano tranquilli. Fino a questo momento non è ancora pas-
sato da Wacketshire.» «Ne è sicuro?» Harding scrollò il capo sentendosi rivolgere una domanda così stupida. «Porco diavolo! Non crederà che io non sappia se un treno è passato o no dalla mia stazione!» «Grazie a Dio siamo ancora in tempo!» Nonostante le interferenze che disturbavano la comunicazione, il tono di sollievo nella voce dell'interlocutore da Albany fu chiaramente udibile. «Il Limited ha a bordo novanta passeggeri, senza contare il personale e la vettura speciale di un alto papavero del governo, diretto a Washington. Gli segnali di fermarsi, con la bandierina, e alla prima luce dell'alba ispezioni il ponte.» Harding assicurò che avrebbe eseguito l'ordine e riappese. Staccò dal gancio della parete la vecchia lanterna a luce rossa, la scrollò per assicurarsi che nel serbatoio ci fosse abbastanza petrolio e accese lo stoppino. Meechum alzò gli occhi dalla scacchiera e gli lanciò un'occhiata interrogativa. «Una segnalazione al Limited?» Harding annuì. «Albany comunica che una trave si sarebbe staccata dal ponte.» «Vuoi che accenda la lanterna del semaforo?» Un fischio acuto superò il sibilo del vento. Harding tese l'orecchio per riconoscerne la direzione. Il fischio si ripeté, un po' più vicino. «Non c'è tempo. Lo fermerò con questa...» La porta si spalancò di colpo e sulla soglia apparve uno sconosciuto, che scrutò l'interno con occhi da furetto. Piccolo e inagrissimo, aveva una corporatura da fantino. Portava un paio di baffi biondi, come i capelli visibili sotto il panama. L'abbigliamento rivelava che era un tipo pignolo in fatto d'eleganza: un completo di fattura inglese con le cuciture a mano, in seta, e i calzoni con la piega impeccabile che cadeva a piombo su un paio di scarpe in capretto e camoscio, di due tonalità di marrone. Ma quello che più di tutto colpiva in lui era la pistola automatica, una Mauser, impugnata da una sottile mano quasi femminea. «Che diavolo le prende?» balbettò Meechum, irrigidito dalla paura. «Una rapina a mano armata, signori», rispose l'intruso, accennando un sorriso. «Pensavo che l'avreste capito da soli.» «Lei è ammattito», replicò Harding. «Qui non abbiamo niente che valga la pena di rubare!» «In questa stazione c'è una cassaforte», affermò il rapinatore, indicando con un cenno l'armadietto metallico posato sopra una mensola, nell'angolo
della zona adibita a ufficio. «E le casseforti, a quanto ne so, contengono cose di valore, per esempio le buste con gli stipendi.» «Caro signore, l'avverto che una rapina ai danni delle ferrovie è un reato federale. Inoltre, Wacketshire è una comunità rurale, qui di buste paga non ne arriva neanche una. Diamine, il paese non ha neppure una banca!» «Non mi sento in vena di parlare dell'economia di Wacketshire.» Fece scattare all'indietro il lungo cane della Mauser. «Apra la cassaforte.» Il fischio della locomotiva si fece udire nuovamente, questa volta assai più vicino; Harding sapeva per esperienza che ormai il treno distava appena quattrocento metri dalla stazione. «Qualunque cosa lei abbia in mente, la farà solo dopo che avrò fermato il Limited.» La pistola sparò, la scacchiera di Meechum fu colpita e i pezzi si sparpagliarono sul pavimento di linoleum. «Basta con questa sciocchezza di voler fermare il treno. Faccia quel che le ho detto, è meglio.» Harding fissò il rapinatore con uno sguardo inorridito. «Lei non capisce. Può darsi che il ponte sia crollato.» «Capisco che sta tentando di fare il furbo.» «Giuro davanti a Dio...» «Dice la pura verità», s'interpose Meechum. «Ci hanno appena avvertiti telefonicamente da Albany che il ponte potrebbe essere pericolante.» «Ci ascolti, per favore», insistette il bigliettaio. «Per colpa sua, potrebbe morire un centinaio di persone.» Tacque e impallidì vedendo, attraverso la finestra, il chiarore del fanale di testa della locomotiva e udendo sempre più vicino il fischio. «Per l'amor di Dio...» Meechum strappò la lanterna dalla mano di Harding e balzò verso la porta aperta. La rivoltella sparò di nuovo. Il proiettile gli penetrò nell'anca ed egli piombò a terra, a meno di mezzo metro dalla soglia. Si mise faticosamente in ginocchio e alzò il braccio per scaraventare la lanterna all'esterno, sul binario. L'uomo col panama gli afferrò il polso e gli assestò un colpo violento sulla nuca, con la canna della pistola; infine chiuse la porta con un calcio. Poi si girò di scatto verso Harding, urlando: «Apri quella maledetta cassaforte». Un conato di vomito assalì il bigliettaio nel vedere il sangue del collega formare una pozza sul pavimento; quindi fece quanto gli veniva ordinato. Azionò la serratura a combinazione, disperato per la propria impotenza mentre il treno passava sferragliando cinque metri dietro di lui e le luci delle vetture guizzavano attraverso i vetri delle finestre. In meno di un minuto il rumore prodotto dalle ruote della vettura di coda sulle rotaie si
spense. Il treno proseguiva la sua corsa, affrontando il pendio che portava al ponte. I cilindri entrarono negli alloggiamenti e Harding, girato il volano, aprì la pesante porta blindata e si fece da parte. All'interno c'erano alcuni pacchi non ritirati dai destinatari, vecchi registri e una cassetta a scomparti per il denaro. Il rapinatore la rovesciò sul tavolo e si mise a contare i soldi. «Diciotto dollari e quattordici cent», disse, senza mostrarsi deluso. «Non è certo una gran somma, tuttavia ci potrò mangiare per un paio di giorni.» Infilò con calma le banconote nel portafogli che aveva levato dalla tasca interna della giacca e si mise gli spiccioli nel taschino dei calzoni. Gettò la cassettina vuota sulla scrivania, andò alla porta scavalcando il corpo di Meechum e scomparve nel temporale che continuava a infuriare. Il telegrafista si mosse, gemendo. Harding gli s'inginocchiò accanto e gli sollevò la testa. «Il treno?...» mormorò il ferito. «Sanguini di brutto», disse il bigliettaio. Levò di tasca un fazzolettone rosso e lo premette contro la ferita. Meechum, con i denti stretti per resistere al dolore bruciante, fissò il collega con gli occhi appannati dallo stordimento per il colpo alla testa. «Telefona alla stazione sull'altra riva... chiedi se il treno è salvo.» Harding riadagiò il ferito sul pavimento e andò al telefono. Girò freneticamente la manovella e gridò nell'imboccatura con quanta voce aveva. Come risposta non vi fu altro che il silenzio. Chiuse un attimo gli occhi per una muta preghiera, poi riprovò. La linea che lo collegava con la riva opposta dell'Hudson era caduta. Tentò febbrilmente di mettersi in contatto con il responsabile dei movimenti di Albany, ma tutto ciò che poté udire furono i crepitii e le scariche di elettricità statica. «Niente da fare.» Un gusto amaro gli appestava la bocca. «Il temporale ha messo fuori uso i circuiti.» In quel momento il telegrafo incominciò a ticchettare. «Ma le linee telegrafiche funzionano», mormorò Meechum. «Questo dev'essere Standisti che mi comunica la sua mossa.» Si trascinò a fatica sino al tavolo, vi si aggrappò per arrivare all'apparecchio, interruppe il messaggio dello scacchista e ne trasmise uno sulla linea d'emergenza. Poi rimasero fermi entrambi, fissandosi l'un l'altro, angosciati all'idea di quello che avrebbero potuto apprendere alla luce del crepuscolo mattutino. Folate di vento entravano dalla porta spalancata, sparpagliando in giro i fogli di carta sciolti e scompigliando i capelli dei due ferrovieri atterriti.
«Avvertirò io Albany», disse infine Meechum. «Tu va' a ispezionare il ponte.» Harding corse verso la massicciata, come un sonnambulo, e, in preda a un panico crescente, seguì il binario, saltando da una traversina all'altra. Dopo pochi minuti, il suo respiro si trasformò in ansito; il cuore gli batteva così forte da dargli l'impressione che gli spezzasse le costole. Superò il pendio e si precipitò verso il centro del ponte, passando sotto le travature della campata laterale. Inciampò e cadde, lacerandosi un ginocchio contro un arpione delle rotaie. Si rialzò e riprese ad avanzare zoppicando, come meglio poteva. Al margine esterno dell'arcata centrale si fermò. Un sudore gelido lo inondò tutto e un senso di nausea gli strinse la gola: lo spettacolo che gli si offriva lo inchiodò sul posto, inorridito e al tempo stesso incredulo. Al centro del ponte si apriva, enorme, un vuoto. La sezione di mezzo era precipitata nelle grigie, gelide acque dell'Hudson, una cinquantina di metri più sotto. Svanita, com'era svanito il treno che trasportava un centinaio di passeggeri, uomini, donne, bambini... «Morti... sono morti tutti!» gridò, scosso da una rabbia impotente. «Morti per diciotto dollari e quattordici cent.» PARTE PRIMA LA GARROTTA DI ROUBAIX 4 Febbraio 1989 Washington Non c'era niente di particolare che attirasse l'attenzione sull'uomo appoggiato mollemente allo schienale del sedile posteriore di una comunissima Ford che percorreva a velocità moderata le vie di Washington. I pedoni che, frettolosi, le passavano davanti agli incroci, avrebbero potuto scambiare l'uomo per un commesso viaggiatore che si faceva accompagnare dal giovane nipote. Il contrassegno della Casa Bianca, applicato all'interno del parabrezza accanto al bollo di circolazione, non era vistoso al punto di farsi notare. Alan Mercier, un tipo piuttosto corpulento e calvo, aveva una faccia da giovialone, alla Falstaff, dietro la quale si celava una mente analitica di
primissimo ordine. Incurante dell'eleganza, indossava invariabilmente abiti stazzonati che a vederli si sarebbero detti acquistati durante i saldi stagionali nei grandi magazzini, con un fazzoletto di Uno bianco ficcato alla bell'e meglio nel taschino della giacca. Abiti e fazzoletto erano i suoi distintivi e formavano la gioia dei caricaturisti che ne esageravano ferocemente la trasandatezza. Mercier non era un commesso viaggiatore. Il nuovo presidente degli Stati Uniti lo aveva voluto accanto a sé, come consigliere nel campo della sicurezza nazionale, ma la nomina era recente, quindi il suo nome non risultava ancora familiare al grande pubblico. Quando il presidente aveva posato gli occhi su di lui, Mercier era a capo della commissione incaricata di mettere a punto le misure atte a fronteggiare la crisi mondiale. Inforcò un paio d'occhiali di foggia antiquata e aprì la valigetta posata sulle ginocchia. Nel lato interno della ribalta era inserito lo schermo di un terminale e sul fondo c'era una tastiera con due file di luci-spia colorate. Formò una combinazione di numeri e attese perché il segnale arrivasse in pochi minuti, via satellite, nel suo ufficio alla Casa Bianca, dove un computer sarebbe entrato in funzione, con un leggero ronzio, per fornire il carico di lavoro della giornata. I dati d'entrata arrivavano in codice e il microcomputer a batterie li decifrava elettronicamente in millisecondi. Il testo in chiaro appariva sullo schermo, in minuscole lettere verdi. Per prima comparve la corrispondenza, seguita da una serie di promemoria redatti dai membri del consiglio di sicurezza e, infine, i rapporti quotidiani dei vari enti governativi, dei capi di stato maggiore delle tre armi e del direttore della CIA, la Central Intelligence Agency. Mercier memorizzò rapidamente le informazioni essenziali, quindi le cancellò dal microelaboratore. Tutte tranne due. Stava ancora rimuginando quando la macchina varcò il cancello ovest della Casa Bianca. Aveva lo sguardo stranamente perplesso. Si riscosse, premette il pulsante, sospirando, e chiuse la valigetta. Non appena fu entrato nel suo ufficio, sedette alla scrivania e formò il numero telefonico privato del ministro dell'Energia. Una voce maschile rispose immediatamente, troncando a metà il primo squillo. «Qui l'ufficio del dottor Klein.» «Sono Alan Mercier. Potrei parlare con Ron?» Dopo un breve intervallo, gli giunse la voce del titolare del dicastero, dottor Ronald Klein. «Salve, Alan. Hai bisogno di me?»
«Ti sarebbe possibile concedermi un paio di minuti, oggi stesso?» «Ho una giornata fitta d'impegni...» «Si tratta d'una questione importante, Ron. Fissami tu l'ora.» Klein non era il tipo da cedere alle pressioni, però il tono fermo del consigliere per la sicurezza nazionale lasciava intendere chiaramente che era ben deciso a ottenere l'abboccamento. Il ministro coprì il microfono con la mano mentre si consultava col proprio segretario. Poi ritornò in linea. «Ti andrebbe bene tra le due e mezzo e le tre?» «Perfetto», rispose Mercier. «Ho una colazione di lavoro al Pentagono e al ritorno farò un salto nel tuo ufficio.» «Mi dicevi che è importante.» «Per dirla in maniera più esatta», specificò Mercier - e fece una breve pausa per conferire maggiore significato a quanto stava per dire -, «dopo che avrò rovinato la giornata al presidente, rovinerò anche la tua.» Nello studio ovale della Casa Bianca, il presidente si appoggiò allo schienale della poltrona e chiuse gli occhi, per concedere alla mente affaticata dai troppi problemi quotidiani un paio di minuti di tregua. Benché avesse assunto la carica soltanto da poche settimane, appariva già logoro e stanchissimo. La campagna elettorale era stata lunga e sfibrante ed egli non si era ancora ripreso dagli strapazzi. Era piccolo di statura, con capelli castani che si diradavano e ingrigivano; l'espressione del volto, in passato allegra e spesso sorridente, era seria, quasi solenne. Aprì gli occhi al picchiettio del nevischio che una raffica di vento mandò a battere contro i vetri dei finestroni, alti quanto l'intera parete. Sotto, nella Pennsylvania Avenue, il traffico si muoveva lentamente perché il selciato si stava trasformando in una lastra di ghiaccio. Pensò con nostalgia al clima tanto più mite del Nuovo Messico dov'era nato. Avrebbe dato non sapeva neppure lui che cosa per potersene andare per un po' in campeggio sui Sangre de Cristo, i monti non lontani da Santa Fe. Non si era mai prefisso di diventare presidente, non si era mai fatto trascinare da una cieca ambizione. Durante i vent'anni in cui era stato senatore, aveva lavorato coscienziosamente, ma gli incontestabili risultati che aveva conseguito non erano stati tali da procurargli una grande notorietà sul piano nazionale. Designato dal suo partito come candidato di secondo piano, era passato in testa con un ampio margine di preferenze per puro caso, dopo che un giornalista aveva scoperto, frugando nel passato del suo avversario, certe
pastette finanziarie mai chiarite. «Signor presidente?» Ritornò alla realtà dalle sue fantasticherie nell'udire la voce dell'assistente. «Sì?» «C'è il signor Mercier, per il solito colloquio informativo.» «Bene, lo faccia passare.» Mercier entrò, prese posto di fronte a lui dall'altra parte della scrivania, e gli porse, senza parlare, un voluminoso incartamento. «Come va il mondo, quest'oggi?» chiese il presidente, con un accenno di sorriso. «Piuttosto male, al solito. I miei collaboratori hanno completato le proiezioni sulle riserve energetiche del Paese. Il risultato è tutt'altro che incoraggiante.» «Non mi sta dicendo niente che io non sappia già. Come si presentano le cose, secondo le previsioni più recenti?» «La CIA non dà più di altri due anni al Medio Oriente prima che i giacimenti locali si esauriscano. E con ciò le riserve mondiali finora scoperte potrebbero soddisfare meno del cinquanta per cento della domanda. I russi stanno tesaurizzando le loro, già troppo sfruttate, e i presunti ricchissimi giacimenti marini del Messico hanno deluso le aspettative. Quanto ai nostri...» «Ho letto i dati», lo interruppe il presidente. «Le frenetiche perforazioni di parecchi anni fa hanno fruttato ben poca cosa.» Mercier diede una rapida occhiata ai fogli contenuti nella cartella. «Radiazioni solari, mulini a vento per la produzione di energia eolica, automobili elettriche... Sono tutte soluzioni parziali più o meno valide. Ma il guaio è che tecnologicamente si trovano in una fase paragonabile a quella della televisione durante gli anni '40.» «Un vero peccato che il programma di ricerca per la produzione di petrolio sintetico abbia avuto un avvio così lento.» «La data più vicina perché le raffinerie di scisto bituminoso riescano a recuperare il ritardo è prevista non prima di quattro anni. Nel frattempo il sistema americano dei trasporti sarà ridotto alla paralisi per mancanza di carburante. Saranno contenti gli ecologisti che non avranno più motivo di protestare per l'inquinamento ambientale.» Il presidente abbozzò un sorriso a quella manifestazione di amaro umorismo, assai raro in Mercier. «All'orizzonte, però, so che si sta profilando
qualche fondata speranza.» «Sì, la James Bay.» «Intende il progetto idroelettrico canadese?» Mercier annuì e incominciò a snocciolare i dati statistici. «Diciotto dighe, dodici centrali, l'impiego d'una forza lavoro che ammonterà a quasi novantamila persone e la ricanalizzazione di due fiumi grandi quanto il Colorado. Stando alle pubblicazioni ufficiali del governo canadese, si tratta del progetto idroelettrico più grande e più costoso che sia mai stato realizzato in tutto il mondo.» «Chi lo gestisce?» «La Quebec Hydro, l'ente provinciale per la produzione energetica. Hanno incominciato a realizzarlo nel 1974, con costi elevatissimi. Ventisei miliardi di dollari, con la quota più consistente fornita dagli istituti finanziari di New York.» «A quanto ammonta la produzione annua?» «A oltre cento milioni di kilowatt, e nel corso dei prossimi vent'anni sarà raddoppiata.» «E la parte convogliata nel nostro Paese?» «Sufficiente a fornire la corrente a quindici Stati.» I tratti del volto del presidente si tesero. «Non mi piace una simile dipendenza dal Quebec per il fabbisogno elettrico. Mi sentirei molto più tranquillo se vi sopperissero i nostri impianti termonucleari.» Mercier scrollò il capo. «La triste realtà è che gli impianti nucleari esistenti coprono meno di un terzo del fabbisogno nazionale.» «Come al solito, abbiamo segnato il passo», fu l'amaro commento. «Siamo rimasti al di sotto del previsto in parte per l'aumento dei costi di costruzione e ammodernamento e, in parte, perché la crescente domanda di uranio ha ostacolato i rifornimenti. Questo, senza contare l'opposizione degli ecologisti», riconobbe il consigliere. Il presidente taceva, immerso nelle sue riflessioni. «Abbiamo fatto affidamento su inesistenti riserve inesauribili e, mentre il Paese cominciava a trovarsi in un vicolo cieco, i nostri confinanti settentrionali si sono mossi per ovviare allo stesso pericolo. Non ci è rimasta altra scelta se non quella di attingere alla loro fonte», continuò Mercier. «E che prezzi praticano?» «Per fortuna i canadesi, Dio li benedica, li hanno tenuti alla pari con quelli delle nostre compagnie idroelettriche.» «Almeno un fattore positivo, quindi.»
«Sì, ma c'è anche un'incognita.» Il presidente sospirò. «Dobbiamo tener presente un fatto estremamente spiacevole», seguitò Mercier. «Il Quebec si propone d'indire, la prossima estate, un referendum popolare per la completa indipendenza.» «Il primo ministro Sarveux ha sbattuto più d'una volta la porta sul muso ai separatisti, in passato. Non crede che lo potrebbe rifare?» «No, non credo, signor presidente. Secondo i nostri servizi d'informazione, il capo del governo provinciale del Quebec, Guerrier, che milita nel partito indipendentista, dispone dei voti necessari perché questa volta la proposta venga approvata.» «Pagheranno un duro prezzo staccandosi dal Canada», osservò il presidente. «Già adesso la loro economia sta andando a rotoli.» «Contano sull'appoggio degli Stati Uniti per eleggere il nuovo governo e sostenerlo.» «E se noi glielo rifiutassimo, il presunto appoggio?» «Potrebbero portare i prezzi della fornitura d'energia elettrica a un livello insostenibile per noi, oppure tagliarcela del tutto.» «Guerrier sarebbe pazzo a privarcene. Sa benissimo che risponderemmo con la rappresaglia, decretando massicce sanzioni economiche.» Mercier fissò cupamente l'interlocutore. «Probabilmente passerebbero settimane, o addirittura mesi, prima che il Quebec ne avvertisse le conseguenze. E nel frattempo le nostre regioni industriali, fulcro della nazione, rimarrebbero paralizzate.» «Mi sta prospettando un quadro assai fosco.» «Questo non è che lo sfondo. Ha sentito senza dubbio parlare del movimento clandestino estremista che si denomina 'Quebec Libero'.» Il presidente trasalì. I fanatici che reclamavano la separazione della provincia francofona dal Canada avevano assassinato numerose personalità in vista, politici e no, colpevoli d'essere anglofone. «Ne ha informazioni recenti?» «L'ultimo rapporto presentato dalla CIA afferma che sono orientati verso Mosca. Se riuscissero a salire al governo, avremmo sul gobbo una seconda Cuba.» «Una seconda Cuba», gli fece eco il presidente, con voce atona. «Una Cuba abbastanza forte da mettere gli Stati Uniti in ginocchio.» Il presidente si alzò dalla poltrona e andò alla finestra. Fissava, in silenzio, il nevischio che andava accumulandosi sul terreno antistante. Alla fine
disse: «Non ci possiamo arrischiare in una prova di forza col Canada per via del Quebec. Soprattutto non nei prossimi mesi». Si girò, guardando Mercier con un'espressione angustiata. «Il Paese è sull'orlo della rovina, Alan, e, detto tra noi, tra pochi anni non ci resterà altra soluzione che farla finita con l'attuale fase di stallo e dichiarare la bancarotta nazionale.» Il consigliere si afflosciò di colpo, improvvisamente ingobbito e raggrinzito. Una strana metamorfosi in un uomo della sua taglia. «Mi ripugna il pensiero che questo possa accadere sotto la sua amministrazione, signor presidente.» Il presidente si strinse nelle spalle, rassegnato. «Dai tempi di Franklin Roosevelt in poi, tutti i capi dell'esecutivo hanno giocato a scaricabarile, facendo cadere sulle spalle del successore un onere finanziario in crescita geometrica. Be', il gioco sta per finire e toccherà a me dichiararlo chiuso. Se la fornitura di corrente elettrica ai nostri Stati nordorientali venisse sospesa per una ventina di giorni, o più, le ripercussioni sarebbero tragiche. Il termine ultimo da me previsto per annunciare una nuova svalutazione del dollaro si avvicinerebbe di molto. Ho bisogno di tempo, Alan, tempo per preparare la popolazione e il mondo degli affari alla drastica stangata. Tempo perché la transizione a un nuovo standard monetario avvenga nella maniera più indolore possibile. Tempo perché le nostre raffinerie di scisto bituminoso mettano fine alla dipendenza del Paese dal petrolio estero.» «Ma come potremmo trattenere il Quebec da un'azione avventata?» «Non lo so. Non ci si offrono molte scelte.» «Ne resterebbero due, se ogni altro tentativo fallisse», replicò Mercier, con le labbra contratte per la tensione. «Due, vecchie come il mondo, per impedire che l'economia vada completamente a rotoli. La prima consiste nel pregare perché avvenga un miracolo.» «E la seconda?» «Nel far scoppiare una guerra.» Il pomeriggio, alle quattordici e trenta in punto, Mercier entrò nel palazzo Forrestal di Independence Avenue e salì in ascensore fino al secondo piano. Fu introdotto senza cerimonie nel sontuoso ufficio di Ronald Klein, il ministro dell'Energia. Klein aveva l'aspetto tipico dello scienziato, con la zazzera bianca e il gran naso aquilino; si alzò, nel suo metro e novantadue di magrezza, dall'estremità del tavolo delle conferenze disseminato di carte, e andò incontro al visitatore per stringergli la mano.
«Allora, qual è la questione di massima urgenza?» chiese, trascurando i soliti convenevoli. «Strana, direi, piuttosto che urgente», rispose Mercier. «Dall'amministrazione centrale federale è arrivata una richiesta di dati relativi all'esborso di seicentottanta milioni di dollari dai fondi federali per le ricerche e la costruzione di un pendolino.» «Di che?» «Di un pendolo da rabdomante», rispose Mercier, senza scomporsi. «È il nomignolo che i geologi danno a qualsiasi strumento non convenzionale atto a rivelare la presenza di nuovi giacimenti minerari.» «E che ho a spartire io, con il pendolino?» «La somma è stata stanziata tre anni fa a favore del ministero dell'Energia. Da quel momento non hanno mai ricevuto un rendiconto. Non sarebbe male se i tuoi collaboratori avviassero un'indagine per stabilire dov'è finita. Gli errori del passato hanno la deprecabile abitudine di ricadere sulle spalle degli attuali responsabili. Se il tuo predecessore avesse sprecato una somma da capogiro per un progetto del tutto inutile, ti converrebbe essere ben documentato nel malaugurato caso che a un deputato di fresca nomina saltasse in mente di mettersi in luce investigando per conto proprio.» «Ti sono grato di avermi avvertito», disse Klein. «Incaricherò i miei collaboratori di darsi da fare a svuotare gli archivi.» Il consigliere si alzò e gli porse la mano. «Non sarà una faccenda semplice.» «No», riconobbe l'altro sorridendo. «Non esiste mai qualcosa di semplice.» Dopo che Mercier fu uscito, Klein si accostò al caminetto e se ne stette là, con il capo chino e le mani infilate nelle tasche della giacca, a contemplare oziosamente un ceppo sulla grata ricoperta di fuliggine. «È incredibile che si possa perdere ogni traccia di seicentottanta milioni di dollari», mormorò rivolgendosi alla parete della stanza vuota. 5 La sala generatori nella centrale idroelettrica di James Bay lasciò letteralmente sbalordito Charles Sarveux, durante la visita ai quasi cinquantamila metri quadrati scavati nel granito, a una profondità nel sottosuolo di centoventi metri. Tre file di generatori giganteschi, alti ciascuno come una casa di cinque piani e azionati da turbine idrauliche, ronzavano producen-
do milioni di kilowatt. Sarveux ne rimase impressionato e non mancò di esprimere il proprio compiacimento ai dirigenti della Quebec Hydro. Era la sua prima visita alla colossale impresa da quando era stato eletto primo ministro del Canada, quindi rivolse ai tecnici tutte le domande di rito. «Quanta energia elettrica producono singolarmente i generatori?» Percival Stuckey, il direttore generale, avanzò di un passo. «Cinquecentomila kilowatt, signor primo ministro.» Sarveux manifestò la propria approvazione ammirata con un cenno del capo e assumendo un'aria di moderato compiacimento. Era l'atteggiamento giusto: adottato già durante la campagna elettorale, aveva contribuito a fargli riportare la vittoria. Uomini e donne erano unanimi nel giudicarlo un bell'uomo e probabilmente avrebbero assegnato a lui la palma in una gara con John F. Kennedy. C'era un che di magnetico nei suoi occhi celesti e gli squadrati tratti del volto acquistavano particolare risalto per effetto dei folti capelli brizzolati, dal taglio moderno. La sua figura, di media altezza e ben proporzionata, avrebbe fatto felice un sarto, se anziché acquistare gli abiti già confezionati se li fosse fatti fare su misura; questo lato del suo carattere contribuiva a far sì che gli elettori canadesi s'identificassero con lui. Candidato di compromesso tra i liberali, il partito per l'indipendenza del Canada e il Parti Québéquois francofono, aveva camminato politicamente sul filo del rasoio durante i primi tre anni del suo mandato, facendo il possibile affinché la nazione non si disgregasse frazionandosi nelle varie province. Sarveux si considerava un Lincoln redivivo, impegnato con tutte le forze in questa lotta diretta a salvare l'unità del Paese. Riusciva a tenere in scacco i separatisti soltanto con la minaccia di far intervenire l'esercito. Ma le sue insistenti esortazioni a rafforzare il potere centrale incontravano opposizioni sempre maggiori. «Le farebbe piacere vedere anche la nostra sala di controllo?» propose Stuckey. Sarveux si rivolse al proprio segretario. «Come stiamo, a tempo?» «Piuttosto stretti, signor primo ministro», rispose Ian Jeffrey, un tipo serio, sulla trentina, dopo aver dato un'occhiata all'orologio. «Fra mezz'ora dovremmo essere all'aeroporto.» «Penso che potremo ritardare un poco.» Il primo ministro sorrise. «Sarebbe un vero peccato se rinunciassimo a vedere qualcosa che promette d'essere interessante.» Stuckey annuì e indicò cerimoniosamente la porta di un ascensore. Dieci
piani sopra la sala generatori, Sarveux e il suo seguito si trovarono di fronte a una porta il cui accesso era proibito alle persone non munite della tessera dei servizi di sicurezza. Stuckey si sfilò il cartellino di plastica che portava appeso al collo e lo inserì in una fessura sotto la maniglia. Poi si voltò verso gli ospiti. «Mi rincresce, signori, ma, dato lo scarso spazio nella sala di controllo, vi può entrare, oltre a me, soltanto il primo ministro.» Le guardie del corpo di Sarveux fecero per protestare, ma lui li zittì con un cenno e seguì Stuckey attraverso un lungo corridoio, fino a una seconda porta: anche in quella il direttore dovette inserire la tessera di riconoscimento. La sala di controllo della centrale idroelettrica era veramente angusta, di una semplicità spartana. Quattro operatori, seduti davanti a un quadro di comando costellato da una miriade di spie luminose e di interruttori, fissavano attenti un pannello, zeppo di quadranti e indicatori, incassato nella parete che avevano di fronte. A parte una fila di monitor che pendevano dal soffitto, il resto dell'arredamento era costituito dalle quattro seggiole degli addetti. Sarveux si guardò intorno con attenzione. «Pare incredibile che una centrale gigantesca come questa possa essere controllata da soli quattro uomini e da un insieme, tutto sommato, assai modesto di apparecchiature.» «L'intera centrale e le stazioni di trasformazione sono azionate da computer che si trovano due piani sotto di noi», spiegò Stuckey. «Il complesso è automatizzato al novantanove per cento. Quello che lei vede qui, signor primo ministro, è un sistema di monitoraggio manuale di quarto grado che, in caso di malfunzionamento dei computer, li può sostituire.» «Quindi l'uomo conserva ancora un certo potere sulle macchine», commentò Sarveux, sorridendo. «Per il momento, almeno, non siamo proprio da buttare via», replicò Stuckey, sorridendo a sua volta. «Esistono alcuni settori, sebbene pochi, nei quali la scienza elettronica non dà pieno affidamento.» «Fin dove arriva questo enorme flusso di corrente?» «Di qui a qualche giorno, quando la centrale sarà operativa al cento per cento, sopperiremo al fabbisogno di tutto l'Ontano, di tutto il Quebec e delle regioni nordorientali degli Stati Uniti.» Un pensiero balenò nella mente di Sarveux. «E se accadesse qualcosa di imprevedibile?» «Scusi?»
«Un guasto, una catastrofe naturale, un sabotaggio.» «Ci vorrebbe un disastroso cataclisma per mettere fuori uso gli impianti della nostra centrale. Danni isolati o un'avaria totale possono essere ovviati senza difficoltà dai due sistemi di sicurezza previsti e realizzati a questo scopo. E, se anche questi dovessero guastarsi, qui abbiamo comunque il sistema di controllo manuale.» «E che mi dice se i terroristi sferrassero un attacco?» «I progettatori hanno tenuto conto sin dall'inizio di questo pericolo», affermò Stuckey, sicuro del fatto suo. «Il nostro sistema di sicurezza elettronico è il non plus ultra d'una tecnologia avanzatissima. E per difenderlo disponiamo di un corpo di guardia forte di cinquecento uomini. Perfino a una divisione d'assalto non basterebbero due mesi per raggiungere questa sala.» «Qualcuno, però, potrebbe interrompere l'erogazione.» «Nessuno, da solo.» Stuckey scrollò energicamente la testa. «Per bloccare il flusso della corrente, sono necessari tutti gli uomini qui presenti, me compreso. Due non basterebbero, neppure tre. Ciascuno di noi deve compiere una determinata operazione sconosciuta agli altri quattro. Nessun pericolo di manomissioni, per quanto remoto, è stato trascurato.» Sarveux rimase dubbioso, nonostante le recise assicurazioni dell'altro. Gli porse la mano. «Una visita che mi ha impressionato. La ringrazio.» Foss Gly aveva scelto meticolosamente il mezzo e il luogo per uccidere Charles Sarveux, tenendo conto di ogni sia pur improbabile ostacolo e stabilendo a priori la maniera in cui neutralizzarlo. L'angolo di salita dell'aeroplano era stato misurato con precisione millimetrica e non meno accuratamente ne era stata valutata la velocità. Lunghe ore erano state dedicate alle esercitazioni pratiche, finché Gly non aveva avuto la certezza che ogni singola fase dell'attentato ingranava nelle altre come le parti di un meccanismo di precisione. Il luogo prescelto era un campo da golf, situato a un chilometro e mezzo dall'estremità sud-ovest della pista principale nell'aeroporto di James Bay. Secondo i calcoli di Gly, l'apparecchio del primo ministro avrebbe sorvolato il campo a una quota di cinquemila metri e la sua velocità sarebbe stata di trecentotrentatré chilometri orari. Per l'attentato aveva deciso d'impiegare due lanciamissili terra-aria Argo, spalleggiati, di fabbricazione britannica e rubati dall'arsenale dell'esercito di Val Jalbert. Erano di scarso ingombro; una volta caricati pesavano appena una quindicina di chili l'uno e, smontati, si potevano nascondere facilmente nello zai-
no di un escursionista. L'attentato, così com'era stato ordito dalla fase iniziale a quella finale, era un capolavoro di precisione e di efficienza; per eseguirlo bastavano cinque uomini: tre, mascherati da sciatori fuori pista, avrebbero atteso sul campo da golf, mentre uno si doveva appostare sulla terrazza dell'aerostazione, tenendo nascosta su di sé una radiotrasmittente. Non appena i missili a guida IR fossero stati lanciati contro il bersaglio, i primi tre terroristi si sarebbero diretti sciando verso la palazzina del circolo del golf, deserta in quella stagione dell'anno, per allontanarsi poi a bordo di un fuoristrada guidato dal quinto uomo, che li avrebbe attesi al parcheggio. Gly scrutava il cielo col binocolo mentre i suoi complici procedevano al montaggio dei lanciamissili. Nevicava a sufficienza da ridurre la visibilità di circa cinquecento metri: una situazione con pro e contro; correvano minor rischio che qualcuno li scoprisse, ma al tempo stesso avevano a disposizione pochi preziosi secondi per prendere la mira e colpire un bersaglio in rapido movimento. Un reattore delle British Airways sorvolò la zona e Gly ne cronometrò il passaggio prima che le nuvole lo ingoiassero. Sei secondi appena. Un guaio, pensò rabbiosamente. Le loro probabilità di mettere a segno i due colpi erano pressoché nulle. Si passò la mano nei folti capelli paglierini per liberarli dalla neve e abbassò il binocolo, lasciando scoperta la faccia squadrata e abbronzata. Alla prima occhiata dava l'impressione di una bellezza quasi adolescenziale, con un paio di vivaci occhi marroni e il mento ben disegnato, ma, a uno sguardo più attento, non sfuggiva il contrasto del naso col resto del volto: deformato da numerose fratture riportate in gioventù nei violenti scontri di strada, tra bande avversarie di teppisti, spiccava tra le guance da ragazzo per la sua bruttezza. Una bruttezza che però finiva col risultare quasi attraente; addirittura sexy, agli occhi di alcune donne. La trasmittente miniaturizzata nella tasca del suo giubbotto emise un bip-bip. «Addetto al traffico a caposquadra, addetto al traffico a caposquadra.» Gly premette il pulsante. «Qui caposquadra, sono in ascolto.» Claude Moran, un tizio magro come un grissino e con la faccia butterata, di professione segretario del governatore generale, si aggiustò la cuffia e incominciò a parlare a bassissima voce nel microfono assicurato all'occhiello, senza distogliere lo sguardo, attraverso la vetrata della terrazza, dalla pista sottostante. «È arrivato quel carico di tubi, caposquadra. È pronto per riceverli?»
«Quando?» «L'autocarro sarà da lei tra poco, non appena i portuali avranno scaricato una partita di merce proveniente dagli Stati Uniti.» La conversazione avrebbe ingannato con la sua apparente banalità chiunque si fosse sintonizzato per caso sulla stessa frequenza. Gly, però, non fece fatica a interpretare il senso esatto delle parole di Moran: l'aereo del primo ministro sarebbe decollato subito dopo un aviogetto delle linee civili americane. «Va bene. Mi faccia sapere quando l'autocarro lascia la banchina.» Gly non nutriva un personale odio per Charles Sarveux, né gli portava rancore. Per lui il primo ministro del Canada era soltanto un nome che leggeva sui giornali. Del resto Foss Gly non era neppure canadese. Era nato a Flagstaff, in Arizona, frutto dell'accoppiamento di un ubriacone, lottatore di mestiere, con la figlia adolescente di uno sceriffo di contea. La sua infanzia era stata un incubo di sofferenze e di frustate assestategli dal nonno. Per sopravvivere era diventato duro e forte come l'acciaio. Poi era venuto il giorno in cui aveva ammazzato lo sceriffo a furia di botte e perciò era dovuto fuggire, riparando oltre i confini dello Stato. E da allora, per rimanere in vita, non aveva fatto che inoltrarsi sempre più nella strada del crimine, agl'inizi della carriera derubando gli ubriachi a Denver, poi mettendosi a capo d'una banda di ladri d'automobili a Los Angeles e infine dedicandosi ai furti in grande stile nel Texas: rapine a mano armata di carri cisterna carichi di benzina. Gly non si considerava un volgare killer; preferiva definirsi «un coordinatore». Era il professionista richiesto nei casi in cui altri sicari avevano fallito, un esperto di tutto rispetto nel suo campo. Lo avevano reso famoso la sua efficienza e il suo sangue freddo. Moran, dal posto di osservazione sulla terrazza coperta, accostò la faccia al vetro dell'ampia finestra, col rischio di appannarla col fiato. L'aeroplano di Sarveux si profilava confuso, come in dissolvenza, tra la neve che cadeva fitta, coprendo il tratto che l'automobile avrebbe percorso per condurlo fino alla pista di decollo. «Caposquadra?» «Sì, sono in ascolto.» «Purtroppo mi devo occupare delle polizze di spedizione e non posso precisarle l'ora esatta in cui arriverà il carico.» «Capisco. Si rimetta in contatto con me dopo colazione.» Moran non gli diede conferma. Imboccò la scala mobile per scendere fino all'ingresso principale, uscì e prese un taxi. In macchina, seduto sul se-
dile posteriore, si concesse il lusso di una sigaretta mentre fantasticava sull'alta carica che avrebbe potuto esigere nel nuovo governo del Quebec a titolo di compenso per i suoi servigi. Sul campo da golf, Gly si girò verso gli uomini che stavano puntando i lanciamissili, con un ginocchio affondato nella neve e gli occhi accostati al mirino. «Ci sarà un altro decollo prima del nostro bersaglio», annunciò. Passarono quasi cinque minuti prima che Gly percepisse un lontano ruggito di motori che giravano a pieno regime per sollevare l'apparecchio dalla pista innevata. Tentò di individuare nella parete bianca sfarfallante lo sfrecciare fulmineo dell'aereo di linea americano, riconoscibile per l'emblema rosso e azzurro. Troppo tardi ricordò che gli aerei ufficiali che trasportano un capo di Stato hanno la precedenza sui voli commerciali. Troppo tardi il familiare stemma canadese - la foglia d'acero rossa in campo bianco-rosso - balenò tra le raffiche di neve. «È Sarveux!» gridò. «Sparate, perdio, sparate!» In meno di un secondo i suoi complici premettero i pulsanti di lancio. Il primo mirò nella direzione approssimativa dell'aeroplano, ma il missile schizzò fuori, altissimo, e descrisse un arco troppo distante dalla coda dell'apparecchio perché i suoi sensori guidati dal calore si potessero dirigere sul bersaglio. Il secondo uomo mirò con maggiore precisione. Puntò per quasi un centinaio di metri i finestrini della cabina di guida prima di sparare. Il missile, dirigendosi senza deflettere dal suo corso verso lo scarico del motore esterno di destra, colpì l'aereo a poppa della turbina. Agli uomini a terra sembrò di udire la sorda esplosione molto dopo che l'apparecchio era scomparso alla loro vista. Attesero il rumore dello schianto al suolo, ma il sibilo lamentoso dei motori, sempre più fievole con la distanza, rimase inalterato. Smontarono in fretta i lanciarazzi e si avviarono sciando verso il parcheggio. Poco dopo la loro macchina s'inserì nel traffico dell'autostrada James Bay-Ottawa, che li portava a sud. Il motore esterno prese fuoco e le pale della turbina si staccarono perforando la cappottatura come una scarica di mitraglia, colpendo il motore interno, recidendo i tubi di alimentazione e riducendo in briciole il compressore a due stadi. Nella cabina di guida il segnale acustico che denunciava un incendio si attivò e Ray Emmett, il pilota, chiuse la valvola del carburante e premette il pulsante che metteva automaticamente in azione gli estintori al freon. Jack May, il secondo pilota, senza perdere un secondo in-
cominciò ad applicare le procedure previste per i casi di emergenza. «Torre di controllo di James Bay, qui Canada One. Siamo in difficoltà e torniamo indietro», annunciò Emmett con voce calma. «State dichiarando un'emergenza?» chiese il controllore, con la frase d'obbligo. «Affermativo.» «Libereremo la pista ventiquattro. Potete fare un atterraggio normale?» «Negativo, James Bay», rispose Emmett. «Ho due motori in avaria, uno in fiamme. Disponete l'equipaggiamento d'emergenza.» «Vigili del fuoco e autoambulanze avvertiti, Canada One. Pista libera. Buona fortuna.» Gli addetti alla torre di controllo, sapendo sotto quale tensione stava operando il pilota del Canada One, evitarono di distoglierlo dalla sua spasmodica concentrazione rivolgendogli altre domande. Non potevano fare altro che attendere, impotenti, ciò che sarebbe accaduto. L'apparecchio incominciava ad andare in stallo ed Emmett, manovrando cautamente, gli fece puntare il muso in basso, aumentandone la velocità relativa sui quattrocento chilometri orari; così finì nel mezzo di un vero e proprio muro di neve che non gli consentiva di scorgere nulla. Per buona sorte la visibilità migliorò quasi subito, per un raggio di oltre tre chilometri, ed egli poté distinguere sotto di sé la distesa piatta dei campi e la consolante estremità della pista. Nella cabina presidenziale a poppa, i due uomini della polizia canadese a cavallo, addetti al servizio di sicurezza del capo del governo ventiquattr'ore su ventiquattro, si erano mossi non appena avevano avvertito l'impatto del missile, assicurando Sarveux al sedile con la cintura di sicurezza e ammonticchiandogli intorno tutti i cuscini staccabili degli altri sedili. Nello scompartimento più avanti, verso prua, i componenti della segreteria e l'onnipresente gruppo di giornalisti fissavano, in apprensione, il motore fumante che bruciava senza fiamma e minacciava di fondere da un momento all'altro la radice dell'ala. Il sistema idraulico era fuori uso. May azionò quello manuale. Pilota e copilota lottavano insieme con i comandi irrigiditi, mentre il terreno pareva balzare contro di loro dal basso. Perfino a pieno regime i due motori di sinistra faticavano a mantenere in volo il gigantesco apparecchio. A questo punto stavano scendendo rapidamente al di sotto della quota di centottanta metri e tuttavia Emmett non abbassò il carrello, nel tentativo di mantenere sino all'ultimo istante la poca, preziosa velocità relativa che gli restava.
L'aereo superò la zona verde circostante all'aeroporto. Il pilota fece uscire il carrello d'atterraggio quando si trovò a soli sessanta metri dal suolo. Attraverso il movimento da metronomo dei tergicristallo la pista - un nastro d'asfalto lungo tremila metri - pareva si stesse allargando al rallentatore. Poi la sfiorarono, con i pneumatici a neppure due metri dalla superficie. Emmett e May tirarono indietro la doppia barra di comando con tutta la loro forza. Un atterraggio morbido sarebbe equivalso a un autentico miracolo, dato che già un atterraggio di fortuna, comunque fosse stato eseguito, avrebbe rappresentato l'incredibile. L'impatto fu duro e fece vibrare ogni singolo rivetto nella fusoliera di alluminio; tre dei pneumatici scoppiarono. Emmett invertì la spinta dei due motori intatti e tentò di tenere sotto controllo la tendenza dell'apparecchio a imbardare a sinistra. Frammenti grossi e piccoli dei pneumatici scoppiati schizzarono tutt'in giro. Una sezione dell'ala in fiamme, lunga nove metri, si staccò piombando sulla corsia riservata agli aerotaxi e mancò di poco un aereo di linea parcheggiato vicino. Le autopompe del servizio antincendio seguirono l'aeroplano presidenziale a velocità folle, a sirene spiegate e con i lampeggiatori in funzione. Il motore di destra si staccò dall'incastellatura di sostegno, piombò al suolo con un'allucinante rotazione e rimbalzò, colpendo la superficie inferiore dell'ala, squarciandone gli elementi strutturali e penetrando nel serbatoio esterno. Ne sprizzarono fuori quasi ventimila litri di combustibile, trasformati in un globo di fiamme che avvilupparono l'intera parte destra dell'apparecchio. L'altro motore, ormai perso, rollò sulla pista, simile a una meteora infuocata, lasciandosi dietro una scia di frammenti. Le fiamme raggiunsero la fusoliera, che incominciò a fondersi. All'interno il calore salì a una temperatura infernale. Quando il materiale isolante incominciò a carbonizzarsi e nuvole di fumo soffocante invasero il corridoio, fu chiaro che ai passeggeri restavano solo pochi secondi prima di morire arsi vivi. Uno dei poliziotti spalancò il portello d'emergenza dalla parte non ancora attaccata dal fuoco, mentre il suo collega strappò bruscamente la cintura di sicurezza del primo ministro e lo trascinò senza cerimonie verso l'apertura. Più avanti, nello scompartimento principale sovrastante all'ala, gli occupanti stavano morendo, con gli abiti che bruciavano senza fiamma, per l'intenso calore che essiccava i polmoni. Ian Jeffery, ritto in piedi nella cabina di guida, vacillò, urlando, e infine cadde, privo di conoscenza. Emmett e May non gli badarono; erano troppo affannati a mantenere sulla pista l'apparecchio che si stava disintegrando con un rombo assordante.
I poliziotti fecero scattare fuori lo scivolo di emergenza, che però penzolò inutile in coda, dopo che un frammento incandescente ne ebbe bucato il sacco pneumatico. Si girarono e videro, inorriditi, che la parte anteriore della fusoliera ardeva come una torcia. Uno di loro afferrò freneticamente una coperta e l'avvolse intorno alla testa di Sarveux. «Tienigliela stretta», gridò al compagno. Poi scaraventò il primo ministro fuori del portellone. Fu la coperta a salvare la vita a Sarveux, che toccò terra con una spalla, lussandosela, e rotolò più volte sulla ruvida superficie della pista. I colpi alla testa furono attutiti dalla coperta. Le gambe gli si tesero e la tibia sinistra, torcendosi, si fratturò. Ruzzolò per una trentina di metri prima di fermarsi, con gli abiti a brandelli, che a poco a poco si arrossarono del sangue che sgorgava da un'infinità di abrasioni cutanee. Emmett e May morirono ai posti di comando. E, insieme con loro, morirono altri quarantadue uomini e tre donne nell'aereo diventato una tragica bara avvolta dalle fiamme rosse e arancioni. I pompieri attaccarono con tutti i mezzi a disposizione quella enorme pira funebre, che nel momento in cui l'incendio toccò l'acme della violenza disseminò i frammenti infuocati su un quarto della pista. I loro sforzi furono inutili, la tragedia si era già conclusa. In breve tempo lo scheletro annerito scomparve sotto un mare di schiuma bianca. Uomini protetti da tute di amianto incominciarono a frugare tra i resti ancora roventi, lottando col senso di nausea che li assalì alla vista delle forme bruciate vive e a malapena riconoscibili come corpi umani. Sarveux, stordito e sotto shock, sollevò la testa e guardò con gli occhi sbarrati il disastro. A tutta prima gl'infermieri delle autoambulanze non lo riconobbero. Poi uno di loro gli s'inginocchiò accanto e ne scrutò il volto. «Buon Dio!» ansimò. «È il primo ministro!» Sarveux tentò di dire qualcosa che avesse un senso, ma dalle labbra non gli uscì neppure una parola. Chiuse gli occhi e si lasciò sprofondare con sollievo nell'oscurità che lo avvolse. 6 Apparecchi fotografici e telecamere si puntarono sul bel volto e sulla figura snella di Danielle Sarveux, mentre fendeva la folla dei giornalisti con la grazia silenziosa di una polena. Sostò un momento sulla soglia dell'atrio dell'ospedale, non per timidez-
za, ma per conferire maggiore effetto alla scena. Perché non succedeva mai che Danielle Sarveux entrasse, semplicemente, in una stanza; la colmava, con l'irresistibile potenza di un monsone. Da lei emanava qualcosa d'indefinibile, che costringeva le donne a fissarla con palese ammirazione e con invidia. Quanto agli uomini, li sopraffaceva addirittura. Personalità molto influenti, veri padroni del mondo, e vecchi uomini di governo spesso regredivano, in sua presenza, al livello di studentelli impacciati. Per chi la conosceva bene, la sua gelida posa e la sua granitica sicurezza erano irritanti. Ma il popolo la considerava un proprio simbolo, quasi la dimostrazione vivente che il Canada non era un Paese di semplici, rozzi boscaioli. Fosse impegnata in uno dei suoi doveri mondani o accorresse al letto del marito gravemente ferito, Danielle si abbigliava sempre con impeccabile eleganza. Passò scivolando tra i giornalisti, padrona di sé e sensuale nel vestito nocciola di crèpe de Chine accollato, con uno spacco laterale discreto, e una giacca di persiano naturale. I capelli nero corvino le scendevano a cascata fino alle spalle. Subissata da domande gridate da ogni parte e da una selva di microfoni, Danielle le ignorò con calma olimpica. Due giganteschi poliziotti le aprirono il varco fino all'ascensore dell'ospedale; al quarto piano fu accolta dal direttore sanitario, che si presentò. Era il dottor Ericsson. Lei lo guardò, ma senza fargli nessuna domanda, temendo la risposta che avrebbe potuto ricevere. Ericsson la prevenne, indovinandone l'apprensione, e sfoderò un sorriso professionale. «Le condizioni di suo marito sono serie, ma non troppo gravi. Ha riportato abrasioni su oltre il cinquanta per cento del corpo, ma non abbiamo riscontrato il pericolo di preoccupanti complicazioni. Porremo rimedio all'estesa perdita di tessuto delle mani procedendo a trapianti cutanei. E, se consideriamo il grado e il numero delle fratture, debbo dire che l'équipe dei chirurghi ortopedici ha fatto un lavoro molto soddisfacente. Tuttavia ci vorrà del tempo, forse quattro mesi, prima che si possa riprendere del tutto.» La donna gli lesse negli occhi l'evasività delle parole in apparenza ottimistiche. «Lei mi può garantire che col tempo Charles si ritroverà sano e fàsicamente integro come prima?» Il direttore sanitario, messo alle corde, fu costretto ad ammettere: «Debbo confessare che il primo ministro rimarrà leggermente, ma irreversibilmente, claudicante». «Ritengo che questa sia per lei una complicazione di scarso conto.» Il medico ne sostenne tranquillo lo sguardo. «Sì, signora, è così. Il primo ministro ha avuto una fortuna incredibile. Nessuna pericolosa lesione in-
terna, le funzioni mentali e organiche sono inalterate e le cicatrici, col passare dei mesi, si attenueranno. Nel peggiore dei casi per camminare avrà bisogno d'un bastone.» Fu sorpreso nel notare che le labbra si tendevano in un sogghigno. «Charles col bastone», commentò Danielle in un tono cinico. «Una manna dal cielo.» «Scusi, signora, come ha detto?» Il solo fatto di una simile invalidità gli porterà ventimila voti, fu la risposta che le balenò alla mente, però fu lesta, con la naturalezza del camaleonte che cambia colore, a ridare al proprio volto l'espressione della moglie angustiata. «Posso vederlo?» Ericsson annuì e l'accompagnò a una porta che si apriva in fondo al corridoio. «L'effetto dell'anestesia non è ancora scomparso del tutto», l'avvertì. «Quindi è probabile che sia un po' confuso. Per di più avrà qualche dolore, perciò la prego di fargli una visita il più breve possibile. Il personale addetto a questo piano ha già preparato per lei una stanza attigua, nel caso desiderasse essergli vicina durante il tempo della sua degenza.» Danielle scosse la testa. «I collaboratori di mio marito mi consigliano di rimanere nella residenza ufficiale, dove potrò rendermi utile nel mandare avanti a nome suo gli affari in corso.» «Capisco.» Il medico aprì la porta e si fece da parte. A fianco del letto c'erano parecchi medici, infermieri e il poliziotto di guardia. Si girarono tutti e si allontanarono, mentre lei si accostava. L'odore dei disinfettanti e la vista delle braccia del ferito, arrossate e scorticate, esposte alla vista senza bendature, la sconvolsero. Ebbe una fuggevole esitazione. Poi lui la riconobbe attraverso le palpebre semichiuse. «Danielle, perdonami se non ti abbraccio», mormorò con voce impastata. Era la prima volta che vedeva il marito senza la corazza del suo orgoglio. Non lo aveva mai considerato vulnerabile, fino a quel momento, e non riusciva a stabilire una connessione tra quel corpo, malconcio e immobilizzato a letto, e l'uomo vanitoso col quale aveva condiviso l'esistenza per dieci anni. Il volto cereo, alterato dalla sofferenza, non era quello che conosceva; le sembrava di guardare un estraneo. Si avvicinò, esitante, e lo baciò con delicatezza sulle due guance. Poi gli scostò la ciocca grigia e arruffata dalla fronte, non sapendo che altro fare. «Il tuo compleanno», disse lui, rompendo il silenzio. «Ho dimenticato il tuo compleanno.»
Danielle parve sconcertata. «Al mio compleanno mancano ancora parecchi mesi, tesoro.» «Avevo intenzione di comperarti un regalo.» Lui si voltò verso il medico. «Sta delirando.» Ericsson scrollò il capo. «I postumi dell'anestesia.» «Grazie a Dio sono rimasto ferito io e non tu», divagò Sarveux, con voce flebile. «È stata colpa mia.» «No, no, tu non hai nessunissima colpa», lo rassicurò Danielle, tranquilla. «La strada era ghiacciata e la neve copriva il parabrezza, non vedevo niente. Ho preso la curva con troppa velocità e ho premuto il freno. Uno sbaglio. Ho perso il controllo...» Allora lei comprese. «Molti anni fa ebbe un incidente d'auto», spiegò a Ericsson. «Sua madre restò uccisa.» «Niente d'insolito. Spesso, sotto l'azione di un anestetico, la memoria riporta il paziente a episodi passati.» «Charles, adesso devi riposare. Ritornerò domani mattina», disse lei. «No, non andartene.» Gli occhi di Sarveux si rivolsero a Ericsson, oltre la spalla della moglie. «Debbo parlare da solo a Danielle.» Ericsson rimase un momento indeciso, poi si strinse nelle spalle. «Se proprio insiste.» Si rivolse alla donna. «Non più di due minuti, signora, mi raccomando.» Non appena gli altri furono usciti, Sarveux fece per dirle qualcosa, ma s'interruppe subito, col corpo irrigidito in un accesso di dolori. «Chiamo subito il dottore», esclamò lei, spaventata. «Lascia stare», ansimò lui, tra i denti serrati. «Devo darti istruzioni.» «Non ora, caro. Più avanti, non appena sarai più forte.» «Il progetto della James Bay...» «Sì, Charles; il progetto della James Bay», lo assecondò. «La sala di controllo sopra quella dei generatori... ne aumenti la sicurezza. Dillo a Henri.» «A chi?» «A Henri Villon. Lui sa che cosa fare.» «D'accordo, Charles, glielo dirò.» «Il Canada correrebbe un grave pericolo, se venissero a scoprirlo le persone sbagliate...» Il volto gli si contorse all'improvviso e, gemendo, premette la testa contro il cuscino. Danielle non ebbe la forza di assistere alla sua sofferenza. La stanza in-
cominciò a vorticarle intorno. Si coprì la faccia con le mani e arretrò. «Max Roubaix.» Il respiro gli usciva a brevi rantoli strozzati. «Di' a Henri di consultare Max Roubaix.» Incapace di resistere più a lungo, Danielle si voltò, precipitandosi nel corridoio. Il dottor Ericsson, seduto alla scrivania, stava studiando le cartelle cliniche di Sarveux. Entrò la capo-infermiera e gli mise davanti una tazza di caffè e un vassoio di ciambelle. «Mancano dieci minuti allo spettacolo, dottore.» Ericsson si sfregò gli occhi e guardò l'orologio. «Immagino che i giornalisti stiano già scalpitando.» «Direi addirittura minacciando», replicò la donna. «Probabilmente avrebbero demolito l'ospedale, a quest'ora, se la cucina non avesse provveduto a tenerli buoni ingozzandoli.» S'interruppe per aprire la cerniera lampo di un sacco di plastica. «Sua moglie è passata di qua e le ha lasciato un completo e una camicia puliti. Ci tiene che lei faccia bella figura davanti alle telecamere, quando comunicherà il bollettino medico sulle condizioni del primo ministro.» «Qualche cambiamento?» «Riposa tranquillo. Il dottor Munson gli ha praticato un'iniezione calmante, dopo che la signora Sarveux se n'è andata. Una bella donna, ma senza un briciolo di coraggio.» Ericsson prese una ciambella e la contemplò, pensando chiaramente a tutt'altro. «Sono stato pazzo a cedere alle insistenze del primo ministro perché gli somministrassi uno stimolante a così breve distanza di tempo dall'operazione.» «Ma a quale scopo l'ha voluto?» «Non ne ho la più pallida idea.» Ericsson si alzò in piedi e si tolse il camice. «Però, quali che fossero i suoi motivi, la scena del delirio l'ha recitata in maniera convincentissima.» 7 Danielle uscì con grazia dalla Rolls-Royce guidata dall'autista e alzò lo sguardo verso la residenza ufficiale del primo ministro canadese. Giudicava fredda la facciata dell'edificio di tre piani, con un che di sinistro simile allo scenario di un romanzo di Emily Brontë. Attraversò il lungo atrio dal-
l'alto soffitto e dall'arredamento tradizionale e salì lo scalone per andare in camera da letto. Era il suo rifugio; l'unica stanza del palazzo che Charles le avesse permesso di far ritappezzare a suo gusto. Un raggio di luce proveniente dal bagno dava risalto a una forma coricata nel letto. Chiuse la porta e si chinò verso il letto, timorosa e al tempo stesso accesa dal calore che le saliva come una fiamma dal ventre. «Sei pazzo a venire qui», mormorò. Nella penombra balenò un sorriso di denti candidi. «Mi chiedo quante altre mogli stanotte stanno dicendo le stesse cose ai loro amanti, in tutto il Paese.» «Con i poliziotti a guardia del palazzo...» «Leali franco-canadesi colpiti improvvisamente da cecità e sordità.» «Te ne devi andare.» La forma coricata diventò un perfetto nudo maschile quando l'uomo si rizzò sul letto e le tese le mani: «Vieni, ma nymphe». «No... non qui.» Il tono nella voce di Danielle tradì la passione che si stava risvegliando. «Non abbiamo nulla da temere.» «Charles è vivo!» proruppe lei, quasi gridando. «Non capisci? Charles è vivo!» «Lo so», rispose lui, freddamente. Le molle del letto scricchiolarono quando l'uomo scese e avanzò sul tappeto, a passi felpati. Aveva un corpo magnifico; i muscoli - frutto di lunghi anni d'esercizio fisico - risaltavano compatti e armoniosi sotto la pelle tesa. Alzò una mano, se la passò tra quelli che sembravano i suoi capelli naturali e se li tolse. Il cranio era rasato a zero, come tutto il resto del corpo. Le gambe, il petto e la zona pubica luccicavano, lisci e perfettamente glabri. Le prese la testa tra le mani possenti e si premette La faccia di Danielle contro i pettorali. La donna aspirò voluttuosamente la fragranza muschiata del leggero strato di olio cosmetico col quale lui si frizionava sempre, prima di fare l'amore. «Non pensare a Charles», le ordinò. «Per noi due ormai Charles non esiste più.» Danielle avvertì tangibilmente la potenza animalesca che gli trasudava da ogni poro. Il desiderio per questo maschio glabro le dava le vertigini. Il calore che la bruciava tra le cosce si diffuse in tutte le membra. Gli si abbandonò stremata tra le braccia.
Il sole filtrò tra le tende semiaperte e un raggio strisciò sopra i due corpi che giacevano allacciati sul letto. Danielle, con i capelli neri sciolti sul cuscino, baciò più volte il compagno, poi lo scostò da sé, respingendo la testa nuda affondata tra i suoi seni. «Adesso devi andartene», disse. L'uomo allungò un braccio per girare verso la luce l'orologio sul comodino. «Le otto. Ancora troppo presto. Me ne andrò alle dieci.» Lo guardò con occhi che rivelavano un'apprensione non simulata. «I giornalisti pullulano, qua in giro. Saresti dovuto uscire parecchie ore fa, quando era ancora buio.» Lui sbadigliò e si rizzò a sedere. «Le dieci del mattino sono un'ora decentissima perché un vecchio amico di famiglia si faccia vedere nella residenza ufficiale del primo ministro. Nessuno farà caso a me, quando uscirò. Mi confonderò in mezzo alla folla di zelanti membri del parlamento che in questo stesso momento si stanno aprendo una pista per precipitarsi a offrire i propri servigi alla moglie del primo ministro nell'ora dell'angoscia.» «Che razza di carogna volubile sei», sibilò Danielle, coprendosi le spalle con il lenzuolo. «Tutto fuoco e passione un momento, tutto gelo e calcolo il momento dopo.» «Da non credere come le donne cambino umore, la mattina dopo», commentò lui, ironico. «Scommetto che non saresti così bizzosa se Charles fosse morto nel disastro.» «L'attentato è fallito», gli rinfacciò la donna, irosamente. «Già, è fallito.» Si strinse nelle spalle. Danielle indurì l'espressione. «Il Quebec diventerà una nazione socialista indipendente soltanto dopo che Charles sarà nella tomba», dichiarò con freddezza. «Vorresti vedere tuo marito morto perché la causa trionfi?» le chiese, sarcastico. «Il tuo amore si è trasformato in un odio così irriducibile da farlo diventare per te nient'altro che un simbolo da eliminare?» «Non c'è mai stato amore tra lui e me.» Prese una sigaretta dal pacchetto sul comodino, e se l'accese. «Sin dall'inizio Charles non vide in me altro che una carta preziosa per il gioco politico. La posizione sociale della mia famiglia era il suo lasciapassare nelle alte sfere. Io gli ho fornito prestigio e stile. Ma per lui non sono mai stata qualcuno da apprezzare, bensì solo uno strumento per migliorare la sua immagine pubblica.» «Perché lo hai sposato?»
Tirò una boccata dalla sigaretta. «Assicurava che un bel giorno sarebbe diventato primo ministro e io gli ho creduto.» «E poi?» «E poi, troppo tardi, ho scoperto che è incapace di amare. Ho tentato, tempo fa, di suscitare in lui passione. Adesso rabbrividisco tutte le volte che mi tocca.» «Ho seguito in televisione la conferenza stampa all'ospedale. Il medico intervistato ha affermato che la tua angoscia e la tua apprensione per Charles avevano commosso tutti i presenti.» «Scena, pura e semplice scena.» Rise. «Sono piuttosto brava a recitare. Capirai, dopo dieci anni di repliche...» «Charles ti ha detto qualcosa d'interessante?» «Niente che avesse una parvenza di logica. Lo avevano appena portato nella sua stanza dalla sala di rianimazione. Era ancora stordito per effetto dell'anestesia. Delirava, perdendosi in discorsi sconclusionati, e ritornava con la memoria al passato, parlando di un incidente d'auto nel quale è morta sua madre.» L'amante di Danielle scivolò fuori del letto ed entrò in bagno. «Be', almeno non ha spifferato segreti relativi alla difesa.» Lei aspirò a fondo un'altra boccata di fumo e lo fece uscire dalle narici. «Forse qualcosa si è lasciato sfuggire.» «Continua», la sollecitò l'uomo, dal bagno. «Ti sento ugualmente.» «Charles mi ha incaricata di riferirti che dovresti incrementare le misure di sicurezza a James Bay.» «Assurdo», esclamò lui, ridendo. «Dispongono del doppio di guardiani necessari per sorvegliare ogni metro quadrato degl'impianti.» «Non intendeva l'intero complesso. Soltanto la sala di controllo.» L'uomo si affacciò alla porta del bagno, strofinandosi il cranio con un asciugamano. «Quale sala di controllo?» «Mi pare che dicesse quella sopra la sala dei generatori.» La guardò, perplesso. «Ha aggiunto qualche altro particolare?» «Ha borbottato qualcosa a proposito di un grande pericolo per il Canada, se le persone sbagliate scoprissero...» «Va' avanti: se scoprissero che cosa?» Danielle allargò le braccia. «Si è interrotto perché è stato assalito dagli spasmi.» «Tutto qui quello che ti ha detto?» «No, vorrebbe che tu ti consigliassi con un tale che si chiama Max Rou-
baix.» «Max Roubaix?» le fece eco lui, in tono incredulo. «Sei sicura che sia proprio questo il nome che ti ha detto?» Danielle si concentrò, fissando il soffitto, poi annuì. «Sì, ne sono certissima.» «Strano!» Senz'aggiungere altro, l'uomo rientrò nel bagno, si fermò di fronte allo specchio a figura intera e, espirando e inspirando, allargò la gabbia toracica, estendendola al massimo, tanto che la rete dei vasi sanguigni pareva sul punto di spaccarsi sotto l'epidermide. Quindi eseguì un movimento tipico dei culturisti, portando la mano sinistra sopra il polso destro, col braccio contro il torace. Henri Villon studiava la propria immagine riflessa con occhio critico. Aveva un fisico che rasentava la forma perfetta. Poi si esaminò, attento, i lineamenti del volto finemente scolpito, i freddi occhi grigi. Quando non esprimeva sentimenti di sorta, la sua diventava una faccia dura, con un che di satanico intorno alle labbra, come se sotto il marmo magistralmente scolpito di una bella statua si fosse nascosto, in agguato, un selvaggio. La moglie e la figlia di Henri Villon, i suoi compagni di partito e una metà dell'intera popolazione canadese non avrebbero mai sospettato, neppure nelle più assurde fantasticherie, che egli conducesse una doppia vita. Il personaggio pubblico, membro stimato del parlamento e ministro degli Interni, agiva contemporaneamente nell'ombra, come capo segreto del movimento clandestino estremista che si batteva per la piena indipendenza della provincia francofona. Danielle gli si avvicinò da dietro, avvolta nel lenzuolo, e con la punta delle dita gli sfiorò il rilievo dei bicipiti. «Lo conosci?» Villon si rilassò, respirò a fondo, espirò adagio e chiese: «Roubaix?» La donna annuì. «Soltanto di fama.» «Ma chi è?» «Dovresti chiedermi chi era», le rispose, mentre si sistemava sulla testa la parrucca castana con qualche filo grigio sulle tempie. «Se la memoria non m'inganna, Max Roubaix era un assassino che finì sulla forca più di cent'anni fa.» 8
Febbraio 1989 Princeton, New Jersey Tra gli studenti dell'università di Princeton, seduti intorno ai tavoli della sala di lettura e intenti a esaminare documenti, Heidi Milligan pareva fuori posto con la sua elegante uniforme d'ufficiale di Marina, sulla quale spiccavano i gradi di capitano di corvetta. Era molto alta - un metro e ottanta e snella, con i capelli d'un biondo cenere naturale e curatissima nell'aspetto. Per i giovani presenti in biblioteca rappresentava una gradevole distrazione dagli studi. Lei avvertiva, per istinto, che la stavano spogliando con la fantasia, ma siccome aveva già superato la trentina, l'inespressa e tuttavia ben manifesta ammirazione la lasciava abbastanza indifferente. Abbastanza, ma non del tutto. «Ho come l'impressione che lei abbia tirato tardi un'altra volta, la notte scorsa, comandante.» Heidi sollevò la testa per guardare il volto sempre sorridente di Mildred Gardner, la matronale capo-archivista dell'università. «Tirato tardi?» «Sì, sui libri. Ai miei tempi, li chiamavano i secchioni notturni.» Heidi si appoggiò allo schienale della seggiola. «Devo approfittare di tutti i ritagli di tempo per portare avanti la mia tesi.» Mildred spinse indietro le ciocche dei capelli pettinati alla paggetto, fedele com'era alla moda degli anni '40, e si mise a sedere. «Una bella ragazza come lei non dovrebbe passare le nottate a studiare. Farebbe meglio a trovarsi un brav'uomo e a godersi la vita, ogni tanto.» «Prima voglio laurearmi in storia. Poi mi 'godrò la vita', come dice lei.» «Come fa a rincorrere come un'innamorata un pezzo di carta col quale si potrà fregiare del titolo accademico?» «Forse m'infiamma l'idea d'essere chiamata dottor Milligan», rise Heidi. «Il fatto è che, se voglio far carriera nella Marina, ho bisogno delle credenziali necessarie.» «Direi che ci tiene a mettersi in competizione col sesso opposto.» «No, il sesso non c'entra. Il mio vero, grande amore è la Marina. C'è forse qualcosa di male?» Mildred alzò le mani in segno di resa. «Inutile discutere con una donna ostinata che si sente lupo di mare dalla testa ai piedi.» Si alzò e diede un'occhiata ai documenti sparpagliati sul tavolo. «Ha bisogno che recuperi qualcos'altro dagli scaffali, per lei?»
«Sto conducendo ricerche sui documenti di Woodrow Wilson che abbiano attinenza con la Marina militare durante il periodo del suo mandato presidenziale.» «Mio Dio, che argomento noioso! Perché lo ha scelto?» «Be', diciamo che m'interessa chiarire certi risvolti storici non ancora indagati a fondo.» «Intende dire un argomento che nessun maschietto è stato così previdente da esplorare prima di lei?» «Non sono stata io a metterla così!» «Compiango il povero diavolo che la sposerà», commentò Mildred. «La sera, rincasando dal lavoro, dovrà fare a braccio di ferro con la mogliettina e il perdente sarà obbligato a preparare la cena e a lavare i piatti.» «Ma io sono già stata sposata. Per sei anni. Con un colonnello dei Marines. Ne conservo tuttora le cicatrici.» «Fisiche o morali?» «Entrambe.» Mildred lasciò cadere l'argomento e prese in mano il raccoglitore dei documenti, controllandone la segnatura. «Qui si trova proprio come un pesce nell'acqua. Il raccoglitore contiene il grosso della corrispondenza in cui Wilson trattava le questioni navali.» «Ormai li ho esaminati quasi tutti», disse Heidi. «Ritiene che possa esserci qualche altro sentiero finora inesplorato?» Mildred si concentrò per alcuni secondi, guardando nel vuoto. «Una piccola possibilità ci sarebbe. Mi conceda dieci minuti.» Ricomparve poco dopo, portando un altro raccoglitore. «Materiale inedito che non è stato ancora classificato», annunciò, con un sorriso e in tono solenne. «Forse vale la pena che gli dia un'occhiata.» Heidi incominciò a esaminare le lettere ingiallite. In gran parte erano autografe: consigli impartiti alle tre figlie; delucidazioni fornite al segretario di Stato William Jennings Bryan, a proposito della strategia politica durante il Congresso democratico del 1912; notizie di carattere strettamente personale inviate a Ellen Louise Axson, la sua prima moglie, e a Edith Bolling Galt, la seconda. Quindici minuti prima della chiusura, Heidi scoprì una lettera indirizzata al primo ministro britannico Herbert Henry Asquith. Il foglio conservava tracce di spiegazzatura, come se fosse stato appallottolato e poi nuovamente lisciato. Portava la data del 4 giugno 1914, ma era privo di timbri, il che lasciava supporre che la lettera non fosse mai stata spedita.
Incominciò a leggerla. Caro Herbert, dacché le copie firmate del nostro trattato sono andate, a quanto sembra, irrimediabilmente perdute e considerate le violente critiche rivolteLe dai membri del suo governo, può darsi che il nostro accordo fosse destinato in partenza a rimanere lettera morta. Poiché la cessione formale non avrà mai luogo, ho impartito istruzioni al mio segretario di distruggere tutti gl'incartamenti in cui si accenna alla questione. Questo procedimento straordinario si è reso indispensabile - e lo riconosco con una certa riluttanza - perché i miei connazionali sono, nella stragrande maggioranza, forniti di un vivo senso della proprietà e non resterebbero a guardare se sapessero con certezza che... Una profonda piega rendeva illeggibile la riga successiva. La lettera continuava con un nuovo capoverso. A richiesta di Sir Edward e con l'assenso di Bryan, ho fatto registrare i fondi accreditati a favore del vostro governo dal ministero federale del Tesoro sotto la voce «a prestito». Con amicizia, WOODROW WlLSON Heidi stava per riporre la lettera, del tutto estranea a una qualsiasi questione d'interesse navale, quando la curiosità la indusse a rileggere la frase relativa all'ordine del presidente di distruggere tutti gli incartamenti del «nostro accordo». Si fermò a riflettere. Dopo due anni d'intense ricerche, credeva di essere arrivata a conoscere Woodrow Wilson come avrebbe potuto conoscere il carattere e le abitudini di uno zio prediletto e, sino a quel momento, non aveva scoperto niente, nella personalità del defunto presidente, che facesse sospettare in lui una mentalità da Watergate durante gli anni dell'altissima carica. Trillò una campanella, ad avvertire che mancavano dieci minuti alla chiusura degli archivi. Heidi trascrisse rapidamente il contenuto della lettera sul suo blocco per gli appunti. Poi firmò il registro attestante la restituzione dei due raccoglitori. «Le è capitato sott'occhio qualcosa di utile?» chiese Mildred. «Un fil di fumo che proprio non mi aspettavo», replicò Heidi, tenendosi
nel vago. «Da quale parte la condurrà?» «Agli archivi nazionali di Washington.» «Auguri. Spero che abbia fatto centro.» «Fatto centro?» «Sì, che abbia scoperto una miniera di notizie finora sfuggite.» Heidi si strinse nelle spalle. «Non si può dire che cosa ne potrebbe saltare fuori.» Non si proponeva di lanciarsi a capofitto nel tentativo di chiarire i sottintesi della strana lettera di Wilson. Però, adesso che aveva socchiuso casualmente una porta, decise che sarebbe stato un peccato non dare una sbirciatina all'interno. 9 Il responsabile dell'archivio storico del senato si appoggiò allo schienale della poltrona. «Mi rincresce, comandante, ma qui, nell'attico del Campidoglio, non abbiamo posto per conservare al completo i vecchi documenti relativi al Congresso.» «Capisco», disse Heidi. «Però conservate tutte le fotografie d'epoca.» Jack Murphy annuì. «Sì, conserviamo un'abbondante raccolta di fotografie ufficiali, a partire dai dagherrotipi risalenti agli anni '40 del secolo scorso.» Si mise a giocherellare con un fermacarte. «Ha provato negli archivi nazionali? Lì hanno una quantità esorbitante di materiale.» «Fatica sprecata», rispose Heidi, scrollando le spalle. «Non ho trovato niente che avesse attinenza con la mia ricerca.» «Se posso esserle utile... Che cosa la interessa, in particolare?» «Un trattato che fu stipulato tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Penso che possano aver scattato almeno una foto, al momento della firma.» «Di fotografie ne abbiamo a non finire. Deve ancora nascere il presidente che non faccia immortalare la firma d'un accordo da un pittore o da un fotografo.» «Tutto quello che le posso dire è che la firma avvenne durante il primo semestre del 1914.» «Non riesco a ricordare, così su due piedi, un avvenimento del genere», disse Murphy, aggrottando le sopracciglia in uno sforzo di memoria. «Sarò lieto di fare una ricerca per lei, ma mi ci vorrà un paio di giorni. Ho altre richieste che hanno la precedenza sulla sua.»
«Capisco. Grazie.» Dopo una breve esitazione, Murphy le rivolse un'occhiata alquanto perplessa. «Mi pare molto strano che negli archivi nazionali non esista traccia di un documento riguardante un trattato nordamericano. Lei ha idea di che cosa si trattava?» «Ho trovato una lettera del presidente Wilson al premier inglese Asquith, nella quale si parla dell'avvenuta firma ufficiale di un trattato.» Murphy si alzò in piedi e accompagnò Heidi alla porta. «I miei collaboratori se ne occuperanno, comandante Milligan. E, se una fotografia c'è, la scoveranno.» Nella sua stanza al Jefferson Hotel, Heidi stava scrutando le sottili rughe ai lati degli occhi. Tutto considerato, aveva accettato con buona grazia l'inesorabile e impietoso avanzare del tempo, soddisfatta di conservare un volto dall'aspetto giovanile e un fisico ancora snello. Nel corso degli ultimi tre anni, era passata attraverso un'isterectomia, un divorzio e una tenera relazione amorosa; una relazione, durata quanto la neve di primavera, con un ammiraglio che aveva il doppio della sua età ed era poi morto per attacco cardiaco. E, nonostante tutto, era altrettanto vibrante di vitalità come lo era appena uscita dall'accademia navale federale di Annapolis, quattordicesima del suo corso. Avvicinò il volto allo specchio e si scrutò i profondi occhi neri: il destro aveva una piccola imperfezione lungo il margine inferiore dell'iride, una macchiolina grigia tondeggiante. Il termine scientifico usato dall'oculista durante la visita scolastica, quando lei aveva dieci anni e le compagne la deridevano, dicendo che aveva l'occhio malefico da iettatrice, era stato «eterocromia iridea». Da allora Heidi si compiaceva a mostrarsi diversa, specie da quando i ragazzi avevano incominciato a trovarla attraente. Dopo la morte dell'ammiraglio Walter Bass non aveva avvertito il benché minimo desiderio di trovare un nuovo legame affettivo. Eppure adesso, prima ancora di rendersi conto di quanto stava facendo, dopo aver appeso nell'armadio l'uniforme turchina, si trovava nell'ascensore che la portava al pianterreno indossando una morbida tunica di seta, vertiginosamente scollata; un fiore anch'esso di seta era appuntato dove incominciava la profonda V, parecchio sotto il seno. Oltre a una borsetta da sera, l'unico altro accessorio era un paio di lunghi orecchini ornati di pietre preziose che quasi le sfioravano le spalle. Una lunga pelliccia sintetica di volpe, marrone e nera, la riparava dal freddo invernale di Washington.
Il portiere, affascinato dalla sua bellezza, si precipitò a chiamarle una vettura. «Dove?» chiese il tassista senza neppure girare la testa. La domanda la colse di sorpresa. Si era proposta di uscire senza darsi una meta precisa. Rimase zitta, ma ci pensò il suo stomaco a suggerirle la risposta. «In un ristorante», disse. «Ha qualche preferenza, signora?» «Non saprei.» «Bistecche, cucina cinese, oppure pesce? Mi dica lei.» «Pesce.» «Lasci fare a me.» L'uomo premette il pulsante del tassametro. «Conosco un posticino con vista sul fiume, molto romantico.» «Esattamente quello che fa per me», rise Heidi. «Ottimo.» La serata prometteva d'essere un fiasco. Il trovarsi seduta là, a sorseggiare il vino al lume di candela e a osservare le luci del Campidoglio che si riflettevano nel Potomac, senza nessuno accanto con cui scambiare una parola, servì unicamente ad accrescere il suo senso di solitudine. A Heidi non sfuggivano le occhiate discrete di cui era fatta oggetto da più d'uno degli altri avventori e, per passare il tempo, si divertì a indovinarne le supposizioni: «Un appuntamento andato a monte? Una moglie in cerca di avventura? Una prostituta che si concedeva una pausa di riposo?» L'ipotesi della battona era quella che le piaceva di più. Entrò un cliente e il cameriere gli assegnò un posto due tavoli dietro il suo. L'illuminazione della sala era fioca e Heidi poté notare soltanto, mentre le passava accanto, che era molto alto. Fu tentata di voltarsi per vederlo meglio, ma non riuscì a superare l'innato ritegno. Tutt'a un tratto, però, avvertì che qualcuno era fermo in piedi al suo fianco e percepì il leggero profumo di una lozione dopobarba. Una voce le sussurrò all'orecchio: «Chiedo scusa, creatura celestiale, ma la generosità del suo cuore non le suggerisce di offrire un bicchiere di vino a un povero beone squattrinato?» Sbalordita, sussultò e squadrò lo sconosciuto. Il volto dell'importuno era indistinguibile nella penombra. Poi l'uomo fece un mezzo giro e si sedette di fronte a lei. Aveva i capelli neri e folti e, alla luce delle candele, gli occhi verde opale sprizzavano cordialità. Il volto abbronzato era segnato dalle vicissitudini. La fissava serio e impassibile, come se fosse stato in attesa d'essere riconosciuto, ma quando finalmente sorrise parve che l'intera sala s'illuminasse.
«Ma come, Heidi Milligan! Non ti ricordi di me?» Scossa da un tremito, fu sopraffatta dall'improvvisa ondata dei ricordi. «Pitt! Mio Dio, Dirk Pitt!» Impulsivamente gli posò le mani sulle tempie e lo attirò verso di sé, finché le loro bocche non si sfiorarono. Negli occhi di Pitt guizzò un lampo divertito e, quando Heidi lo lasciò andare, si risedette scrollando la testa. «Incredibile fino a che punto un uomo può sbagliarsi nel giudicare una donna. Il massimo che m'aspettavo da te era una vigorosa stretta di mano.» Heidi arrossì. «Mi hai colta in un momento di debolezza. Me ne stavo seduta qua, con una gran voglia di piangermi addosso e nel vedere un amico... be', diciamo che mi son lasciata andare.» Le prese le mani, stringendogliele con delicatezza, e il sorriso scomparve. «Mi ha rattristato molto apprendere la notizia della scomparsa dell'ammiraglio Bass. Un brav'uomo davvero.» Gli occhi di lei s'incupirono. «Non ha sofferto, per fortuna. È passato dal coma alla morte senza accorgersene.» «Dio solo sa come sarebbe andata a finire la questione di Vixen, se non fosse intervenuto lui.» «Ricordi quando ci siamo conosciuti?» «Sì, quando mi presentai per intervistarlo nella sua residenza vicino a Lexington, in Virginia, dove si era ritirato dopo il pensionamento.» «E io pensavo che tu fossi un funzionario governativo venuto a infastidirlo. Ti avevo trattato malissimo.» Pitt la fissò, senza ribattere. «Eravate molto uniti, voi due.» «Sì. Abbiamo vissuto insieme per un anno e mezzo. Era un tradizionalista, eppure rifiutava l'idea del matrimonio. Sosteneva che sarebbe stato stupido, da parte di una donna giovane, legarsi a chi aveva già un piede nella tomba.» Pitt s'accorse che gli occhi di lei s'inumidivano e s'affrettò a cambiare discorso. «A vederti - e non prendertela a male, ti prego - si direbbe che sei una liceale al primo ballo.» «Un complimento perfetto nel momento perfetto.» Heidi raddrizzò le spalle e si guardò intorno. «Non vorrei sconvolgere i tuoi programmi. Probabilmente ti devi incontrare con una persona.» «No, sono senza accompagnatrice.» Le sorrise con gli occhi. «Navigo in un mare di progetti e ho deciso di concedermi una sosta cenando in tutta tranquillità.» «Sono contenta che ci siamo incontrati», disse lei, timidamente.
«Non hai che da impartirmi un ordine e sarò il tuo schiavo fino all'alba.» Heidi mormorò, a occhi bassi: «Mi piacerebbe molto». Varcata la porta della stanza, Pitt la sollevò teneramente tra le braccia e la depose sul letto. «Non muoverti. Lasciami fare tutto», le sussurrò. Incominciò a svestirla lentamente, molto lentamente. Lei non ricordava un altro uomo che l'avesse spogliata così, completamente, dagli orecchini alle scarpe. Pitt la sfiorava appena e il desiderio cresceva in lei, procurandole una sofferenza deliziosa. Lui non si lasciava vincere dalla fretta. Heidi si chiedeva quante donne avesse torturato altrettanto dolcemente. Soltanto nei suoi occhi profondi incominciava a riflettersi la passione e quello sguardo la eccitò più che mai. Improvvisamente sentì sulle proprie labbra quelle di lui, calde e umide, e rispose con ardore nel momento in cui le serrò i fianchi tra le braccia, spingendosi contro il suo corpo. Ebbe la sensazione di dissolversi, le sfuggì un gemito roco. Poi, quando le parve che le vene le scoppiassero e i suoi muscoli incominciarono a pulsarle incontrollabilmente, aprì la bocca in un grido. E allora Pitt la penetrò e lei venne, in una frenesia travolgente di piacere che pareva non dovesse aver fine. 10 Le ore più belle del sonno, quelle per così dire più saporite, non sono le prime e neppure quelle a metà dormita, bensì le ultime, quando manca poco al risveglio. Perché è allora che i sogni si susseguono e si confondono in una fantasia caleidoscopica. Essere interrotti bruscamente durante il culmine dell'attività onirica per ripiombare di colpo nella realtà quotidiana procura una sofferenza tormentosa, uno stato di doloroso smarrimento. Heidi fu strappata dall'inconscio benessere da uno squillo del telefono e da un simultaneo bussare alla porta. Con la mente ancora annebbiata, sollevò il ricevitore, mormorando con la voce impastata: «Attenda un attimo, per favore» e scese dal letto, barcollando, per aprire la porta, accorgendosi appena in tempo d'essere nuda. Afferrato l'accappatoio dalla valigia, se lo infilò e aprì. Un fattorino sgusciò oltre il battente socchiuso con l'agilità di un'anguilla e posò sul tavolo un grande vaso di rose bianche. Heidi, ancora semiaddormentata, gli diede una mancia e tornò al telefono. «Mi scusi se l'ho fatta attendere. Sono il comandante Milligan.» «Buongiorno, comandante. Spero di non averla svegliata.» Era la voce
di Jack Murphy, dell'archivio storico del senato. «Dovevo alzarmi in ogni caso», rispose lei, tentando di soffocare sotto un tono cordiale la voglia omicida che le ribolliva dentro. «Mi sono detto che forse le avrebbe fatto piacere sapere che la sua richiesta ha fatto scattare una molla nella mia memoria; quindi ieri sera, dopo l'orario di chiusura, mi sono messo alla ricerca e ho scoperto qualcosa di molto interessante.» Heidi si stropicciò gli occhi ancora annebbiati. «L'ascolto.» «In archivio, non c'era niente relativo alla firma di un trattato del 1914, però ho trovato una vecchia foto di William Jennings Bryan, che a quel tempo era il segretario di Stato di Wilson, ripreso mentre sta salendo in automobile insieme col sottosegretario Richard Essex e con Harvey Shields, che nella didascalia è indicato semplicemente come rappresentante del governo di Sua Maestà britannica.» «Non vedo quale rapporto ci possa essere con l'oggetto della mia ricerca», obiettò Heidi. «Mi scusi, il torto è mio perché non mi sono spiegato bene. La fotografia in sé dice poco o niente, però sul retro, nell'angolo di sinistra in basso, c'è una breve nota a matita che si riesce a leggere a malapena. Porta la data '20 maggio 1914' e dice: 'Bryan mentre esce dalla Casa Bianca con il trattato nordamericano'.» Heidi strinse forte il ricevitore. «Quindi il trattato esisteva veramente.» «Io suppongo che in realtà fosse stata avanzata soltanto la proposta di stipularlo.» La soddisfazione per la fruttuosa ricerca trapelava chiaramente dalla voce di Murphy. «Se desidera una copia della fotografia gliela posso far avere, dietro un modesto rimborso delle spese.» «Sì... sì, la ringrazio. Mi potrebbe far avere anche la fotocopia ingrandita dell'appunto scritto sul retro?» «Certo. A partire dalle tre del pomeriggio potrà ritirare il tutto.» «Splendido. E grazie ancora.» Heidi riappese e tornò a sdraiarsi sul letto, cullandosi nell'intimo compiacimento di aver ricevuto conferma delle proprie previsioni. In ultima analisi, qualcosa di tangibile era saltato fuori. Solo più tardi si ricordò dei fiori. Al gambo di una delle rose era appeso un bigliettino: «Senza uniforme, sei affascinante. Perdonami, se non mi hai trovato accanto a te, al risveglio. Dirk». Si accostò la rosa alla guancia e socchiuse le labbra, in un lento sorriso. Le ore trascorse con Pitt le si ripresentarono alla mente come riviste at-
traverso un vetro smerigliato, visioni e suoni fusi insieme in una sorta d'irrealtà sognata. Solo il ricordo del contatto tra i loro corpi indugiava con chiarezza nel suo animo, insieme con una sensazione ardente, dolorosamente deliziosa. Pur con riluttanza, scacciò dalla mente il sogno a occhi aperti e dal comodino accanto al letto afferrò l'elenco telefonico di Washington. Segnando con l'unghia il numero stampato in caratteri minuscoli, lo compose e attese. Al terzo squillo, una voce disse: «Ministero degli Esteri. Desidera?» 11 Poco prima delle due del pomeriggio, John Essex, col bavero del cappotto rialzato per difendersi dalla gelida brezza che spirava da nord, si accinse a controllare una per una le vasche della sua coltura di molluschi. Era un allevamento condotto a regola d'arte, questo di Essex, a Coles Point in Virginia: seminava uova di ostrica, ne seguiva lo sviluppo fino a maturazione completa con la massima cura e le trapiantava negli stagni lungo le rive del Potomac. Era intento a prelevare un campione d'acqua per analizzarlo, quando si sentì chiamare. Una donna, vestita con un cappotto turchino da ufficiale di Marina, avanzava verso di lui sul sentiero serpeggiante tra gli stagni; una bella donna, se i suoi occhi di settantacinquenne non lo ingannavano. Raccolse la strumentazione per l'analisi e le andò incontro, camminando lentamente. «Il signor Essex?» chiese la visitatrice, con un bel sorriso. «Le ho telefonato qualche ora fa. Mi chiamo Heidi Milligan.» «Però non mi aveva detto la sua qualifica, comandante», rispose Essex, avendo notato i gradi sulle spalline. Poi sorrise anche lui: «La prego di non scambiare la mia sorpresa per disappunto. Sono un vecchio amico della Marina. Posso invitarla a salire in casa per una tazza di tè?» «Accetto più che volentieri. Spero solo di non distoglierla dalle sue occupazioni.» «Niente di così urgente da non poter attendere giornate più miti. Anzi, le dovrei essere riconoscente per avermi evitato una probabile polmonite doppia.» Heidi inalò l'odore che pervadeva l'aria. «Sembra di essere in un mercato del pesce», osservò. «Le piacciono le ostriche, comandante?»
«Certo. Se ne ricavano le perle, no?» Essex rise. «Risposta tipicamente femminile. Se fosse un uomo, le apprezzerebbe per le loro qualità gastronomiche.» «Un modo come un altro per riferirsi alle loro virtù afrodisiache?» «Un mito immeritato.» Heidi arricciò il naso. «Le confesso che non vado e non sono mai andata matta per le ostriche.» «Buon per me che molta gente abbia gusti opposti ai suoi. L'anno scorso gli stagni che lei vede qui attorno hanno prodotto più di quindicimila tonnellate per ettaro. E, badi bene, mi riferisco al peso netto dei soli molluschi estratti dalla conchiglia.» Heidi si sforzò di mostrarsi interessatissima a quanto le andava spiegando Essex sulla produzione e la coltura delle ostriche mentre la conduceva, lungo un vialetto di ghiaia, verso la casa in cotto, di stile coloniale, circondata da un meleto. Dopo che l'ebbe fatta accomodare nel suo studio, su un morbido sofà di cuoio, ricomparve con la teiera. Heidi lo osservò attentamente, mentre le versava il tè. John Essex aveva gli occhi azzurri dallo sguardo vivace e gli zigomi alti e prominenti; il resto della faccia era nascosto da un paio di baffoni e da una gran barba bianca. La figura non era minimamente appesantita dall'età e perfino vestito alla buona com'era, con una tuta da lavoro, un cappotto di lana grezza scozzese e un paio di stivaloni alti fino al ginocchio, dai suoi modi traspariva intatta l'antica eleganza da ex diplomatico presso l'ambasciata americana a Londra. «Mi dica, comandante, la sua è una visita ufficiale?» chiese, porgendole la tazza. «Oh, no. Sono qui per una faccenda privata.» Le sopracciglia di Essex s'inarcarono. «Signora, trent'anni or sono avrei potuto interpretare la sua risposta come un invito a iniziare un flirt. Ma adesso, mi rincresce ammetterlo, lei non ha fatto altro che solleticare la curiosità di un vecchio relitto.» «Non definirei 'vecchio relitto' uno dei più stimati diplomatici del nostro Paese.» «Acqua passata. In che modo potrei esserle utile?» «Nelle ricerche per la mia tesi di laurea, ho scoperto per puro caso una lettera che il presidente Wilson scrisse a Herbert Asquith.» S'interruppe per togliere dal borsello la copia che ne aveva fatto e gliela porse. «Come può vedere, accenna a un trattato tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti.» L'anziano uomo s'infilò un paio di occhiali da presbite e rilesse due volte
il foglio. Poi alzò gli occhi per guardarla. «Come fa a essere sicura che la lettera sia autentica?» Senza rispondere, Heidi gli tese le due fotocopie ingrandite dell'istantanea, attendendone la reazione. William Jennings Bryan, corpulento e sorridente, si stava chinando per salire in una hmousine. Altri due uomini, in piedi dietro di lui, parevano impegnati in una cordiale conversazione. Richard Essex, elegante e distinto, sfoggiava un ampio sorriso, mentre Harvey Shields arrovesciava la testa ridendo di gusto e mettendo in mostra, tra una miniera di capsule in oro, due grossi incisivi sporgenti. L'autista, che teneva aperta la portiera, se ne stava impalato, con un'aria tutt'altro che divertita. Essex rimase impassibile mentre esaminava i due ingrandimenti. Lasciò passare qualche minuto prima di alzare nuovamente gli occhi. «E lei, comandante, che pesce vorrebbe pescare?» «Il trattato nordamericano», rispose Heidi. «Non ne esiste traccia al ministero degli Esteri e negli archivi storici. Mi sembra incredibile che un documento di tale importanza si sia volatilizzato scomparendo nel nulla.» «E ritiene che io sarei in grado d'illuminarla?» «L'uomo che nel ritratto compare insieme con Bryan è Richard Essex, suo nonno. Ho ricostruito il legame familiare con lei, sperando che le abbia lasciato in eredità incartamenti o lettere che mi potrebbero schiudere una porta.» Essex le porse un vassoio con il bricco della panna e la zuccheriera. Heidi ne prese due zollette. «Mi rincresce, ma purtroppo lei sta sprecando il suo tempo. Tutti i documenti personali di mio nonno furono trasmessi, dopo la sua morte, alla biblioteca del Congresso, fino all'ultimo pezzetto di carta.» «Peccato», sospirò Heidi, delusa. «Ma dovevo tentare.» «Lei è andata alla biblioteca?» «Ci ho trascorso quattro ore, questa mattina. Era un poligrafo, suo nonno. Ha lasciato una montagna di documenti postumi.» «Ha svolto una ricerca anche tra gli scritti di Bryan?» «Sì, e anche là ho fatto cilecca», confessò Heidi. «A dispetto di tutta la sua scrupolosità e della sua facondia come oratore, non fu certo molto prolifico in fatto di promemoria, durante il periodo in cui era segretario di Stato.» Essex sorseggiò il tè, riflettendo. «Richard Essex era un uomo meticoloso e Bryan si appoggiava a lui come a un puntello quando si trattava di sti-
lare documenti politici e provvedere alla corrispondenza diplomatica. Gli incartamenti da lui lasciati rivelano un'attenzione quasi morbosa per ogni minimo particolare. Erano rare le carte che passavano attraverso il ministero degli Esteri senza portare la sua sigla.» «Nel complesso, ho avuto l'impressione che fosse un po' sfuggente, come persona.» Le parole le uscirono di bocca suo malgrado. Essex si rannuvolò. «Per quale motivo dice una cosa simile?» «Be', il suo curriculum in qualità di sottosegretario agli Esteri è ben documentato. Però non c'è nulla che ne descriva la personalità. Naturalmente ho trovato i soliti, concisi dati biografici che lo riguardano, luogo e data di nascita, generalità dei genitori, scuole frequentate e così via, tutto elencato in ordine cronologico. Però non ho trovato da nessuna parte qualcosa che ne rivelasse il carattere, i gusti, le propensioni e le avversioni. Persino i documenti in cui riferisce delle proprie attività pubbliche sono scritti in terza persona. Lo paragonerei al soggetto di un ritratto al quale il pittore abbia dimenticato di dare sostanza corporea.» «Sta forse insinuando che fosse inesistente?» chiese Essex in tono sarcastico. «No di certo, dato che sto parlando con la prova vivente della sua esistenza», si affrettò a rettificare Heidi, imbarazzata. Essex tenne gli occhi fissi sulla propria tazza, scrutandone il fondo, quasi vi avesse scorto qualcosa di vago che si delineava. «È vero», riconobbe alla fine. «Oltre ai suoi appunti quotidiani sugli affari del ministero degli Esteri e a un paio di fotografie conservate nell'album di famiglia, sono ben pochi i ricordi rimasti di mio nonno.» «Lei non ne conserva qualche ricordo dalla sua infanzia?» Essex negò gravemente, scrollando il capo. «No, morì giovane, a quarantadue anni, lo stesso anno in cui nacqui io.» «Il 1914.» «Sì, il 28 maggio, per l'esattezza.» Heidi gli scoccò un'occhiata colma di stupore. «Una settimana dopo la firma del trattato alla Casa Bianca.» «Lei può pensare quello che vuole, comandante, ma non ci fu nessuna firma di nessun trattato», disse Essex, paziente. «Mi scusi, ma lei non tiene in alcun conto le prove?» «Bryan e mio nonno si recavano alla Casa Bianca con tanta frequenza da perdere il conto delle volte. Quell'annotazione sul retro della fotografia è sbagliata, senza dubbio. Quanto alla lettera, lei ne ha semplicemente rica-
vato un'interpretazione fuorviante.» «I fatti collimano», insistette Heidi. «Il Sir Edward nominato da Wilson era Edward Grey, il ministro degli Esteri della Gran Bretagna. E il prestito di centocinquanta milioni di dollari, concesso al governo di Londra una settimana prima della data in calce alla lettera, è stato registrato ufficialmente.» «Certo era una somma assai considerevole per quegli anni... Però durante i pochi mesi che precedettero la prima guerra mondiale, l'Inghilterra era alle prese con due gravi problemi economici: il finanziamento per un piano di riforme sociali e l'acquisto di armamenti in vista dell'imminente conflitto. Detto in parole povere, aveva un bisogno urgente di denaro, in attesa che venissero approvate le nuove leggi fiscali che prevedevano un aumento delle tasse. Tutt'al più, si potrebbe sostenere l'irregolarità del prestito, che, peraltro, giudicato sul metro internazionale odierno, potrebbe essere definito un affare di ordinaria amministrazione.» Heidi si alzò in piedi. «Mi rincresce di averla disturbata, signor Essex. Non voglio rubarle altro tempo.» Lo sguardo dell'uomo anziano si rifece cordiale. «Nessun disturbo. E ritorni tutte le volte che desidera.» Sulla soglia, Heidi si voltò. «Un'altra cosa. La biblioteca possiede la raccolta completa delle agende mensili di suo nonno, tranne l'ultima, quella del maggio 1914. Pare che sia andata smarrita.» Essex si strinse nelle spalle. «Niente di misterioso. Mio nonno morì prima d'averla completata. È probabile che sia andata persa, confusa tra la roba scartata quando vuotarono il suo ufficio.» Essex rimase in piedi accanto alla finestra fin quando la macchina di Heidi non scomparve dietro gli alberi. Poi si accasciò di colpo, curvando le spalle. In quel momento si sentì molto vecchio e stanchissimo. Si avvicinò allo stipetto, un pregevole mobile d'epoca intagliato, e girò la testa di uno dei cherubini dalle orbite vuote che ne ornavano gli spigoli. Un cassettino segreto, poco profondo, scattò fuori dallo spigolo inferiore, a pochi centimetri dal pavimento. All'interno giaceva un libriccino rilegato in pelle, con la copertina decorata d'incisioni e screpolata dal tempo. Essex si sprofondò in una poltrona, si accomodò meglio gli occhiali e incominciò a leggere. Era un rito, quello, che ripeteva ormai da molti anni, a intervalli irregolari. I suoi occhi non seguivano più le parole tracciate sulla carta; le conosceva a memoria, da un pezzo. Stava ancora seduto là dopo
che il sole era tramontato e le ombre si erano allungate, sino a fondersi con la semioscurità. Si strinse il libriccino al petto, intimamente torturato e combattuto dall'indecisione. Il passato si era impadronito di un vecchio solitario, in una stanza ormai buia. 12 Il tenente Ewen Burton-Angus infilò la macchina in un posto ancora vuoto del parcheggio antistante al Glen Echo Racquet Club; prese la sacca sportiva dal sedile posteriore e si strinse nelle spalle per difendersi dall'aria gelida. Camminò a passo svelto lungo la piscina vuota e i campi da tennis ricoperti di neve, ed entrò nell'edificio. Il gestore del club era seduto a un tavolo, sotto una bacheca colma di trofei. «Desidera?» «Il mio nome è Burton-Angus. Sono stato invitato da Henry Argus.» L'uomo esaminò la lavagnetta appesa alla parete. «Esatto, tenente Burton-Angus. Mi dispiace, ma il signor Argus ha telefonato avvertendo che non gli era possibile venire. Mi aveva incaricato di rintracciarla all'ambasciata perché glielo riferissi, ma lei era già uscito.» «Peccato. Già che sono qui, vorrei fare almeno un po' di allenamento. Le sarebbe possibile mettermi a disposizione un campo da tennis coperto, tanto per tirare qualche colpo di racchetta?» «Dopo la telefonata del signor Argus, ho dovuto annullare la sua prenotazione. Però c'è un altro dei nostri soci che giocherà da solo. Forse potreste fare coppia.» «Dove lo trovo?» «È al bar. Il campo sarà libero soltanto tra una mezz'ora. Si chiama Jack Murphy.» Burton-Angus trovò Murphy che sorseggiava una bibita, seduto sotto una finestra panoramica che dava sul canale Chesapeake. Si presentò. «Le rincrescerebbe molto giocare con un avversario?» «Tutt'altro.» Jack Murphy lo guardò con un sorriso contagioso. «Detesto giocare da solo, a meno che lei non mi riduca in polpette.» «Stia tranquillo che con me non corre questo rischio.» «Gioca molto a tennis?» «Se devo dire la verità, le confesso che al tennis preferisco lo squash.» «L'avrei scommesso, giudicando dal suo accento britannico.» Murphy accennò con la mano al posto libero accanto a sé. «Beve qualcosa? Abbiamo un bel po' di tempo prima che il nostro campo si liberi.»
Burton-Angus accolse volentieri l'occasione di riposarsi e ordinò un gin. «Bello il paesaggio», commentò. «Il canale mi ricorda quello che scorre vicino a casa mia, nel Devon.» «Questo attraversa Georgetown per sfociare nel Potomac», spiegò Murphy, assumendo il tono di una perfetta guida turistica. «D'inverno, quando è ghiacciato, la gente del posto ci viene a pattinare e pratica la pesca, rompendo qua e là la superficie gelata.» «Lei lavora a Washington?» chiese Burton-Angus. «Sì, dirigo l'archivio storico del senato. E lei?» «Aiutante dell'addetto navale presso l'ambasciata di Gran Bretagna.» Murphy lo guardò con un'espressione vacua, con gli occhi che parevano trapassarlo da parte a parte. «Qualcosa non va?» L'altro scrollò il capo. «No, per niente. Il fatto che lei sia nella Marina britannica mi ha fatto ripensare a una donna, che ha il grado di capitano di corvetta nella Marina statunitense... Giorni fa è venuta da me, chiedendomi di aiutarla a cercare qualche dato relativo a un trattato tra i nostri due Paesi.» «Un trattato commerciale, immagino?» «Non saprei. Lo strano è che, a parte una vecchia fotografia, non ne esiste traccia negli archivi del senato.» «Una fotografia?» «Sì, con una nota sul retro che accenna a un trattato nordamericano.» «Se le fa piacere, potrei incaricare qualcuno di frugare negli archivi dell'ambasciata.» «Grazie, ma non è il caso che si disturbi. Non è poi tanto importante.» «Non sarà affatto un disturbo per me. Mi può indicare una data?» «Il 20 maggio 1914, oppure i giorni immediatamente precedenti.» «Ah, storia antica.» «Probabilmente dopo la fase interlocutoria non arrivarono alla conclusione.» «Comunque sia, farò dare un'occhiata», promise Burton-Angus, nel momento in cui il cameriere arrivava con il gin. Alzò il bicchiere verso Murphy. «Salute!» Alexander Moffat, seduto alla sua scrivania nell'ambasciata britannica di Massachusetts Avenue, aveva l'aspetto e il modo di fare del tipico funzionario governativo. I capelli tagliati corti e la perfetta scriminatura a sini-
stra, il busto rigido, un modo di parlare estremamente misurato e il comportamento ineccepibile davano l'impressione che fosse uscito dallo stesso stampo dei suoi impeccabili rapporti. Il piano lucidissimo della scrivania era sgombro di carte o altro; l'unico oggetto posato sopra erano le sue mani incrociate. «Mi rincresce moltissimo, tenente, ma non ho rintracciato nulla, nei nostri archivi, che parli di un trattato nordamericano stipulato nei primi mesi del 1914.» «Strano», disse Burton-Angus. «Eppure l'americano che mi ha passato l'informazione pareva sicuro che il trattato in questione esistesse, o per lo meno che avessero intavolato negoziati a livello ufficiale.» «Potrebbe darsi che le abbia indicato l'anno sbagliato.» «Non credo. È direttore dell'archivio storico del senato. Difficile che confonda fatti e date.» «Desidera approfondire la materia?» chiese Moffat, in tono molto burocratico. Burton-Angus intrecciò le dita, riflettendo. «Forse varrebbe la pena di controllare a Londra, presso il ministero degli Esteri, tanto per dissipare ogni dubbio.» Moffat si strinse nelle spalle, con indifferenza. «Un vago indizio riguardante un avvenimento di settantacinque anni fa? Avrebbe assai scarso interesse, oggigiorno.» «Forse ha ragione. Però io ho promesso a quel tizio che avrei fatto ricerche. Devo presentare una richiesta formale, scritta, perché indaghino?» «Non è necessario. Telefonerò a un mio ex compagno di studi, che adesso dirige l'ufficio di collegamento, pregandolo di far scartabellare i vecchi archivi. Sono in credito di un favore, con lui. Domani, più o meno a quest'ora, dovrei aver ricevuto una risposta. Ma non s'illuda troppo che ne salti fuori qualcosa.» «Non mi farò illusioni», assicurò Burton-Angus. «D'altra parte, però, chi può sapere quante e quali cose si trovano seppellite negli archivi ministeriali?» 13 Peter Beaseley conosceva, più di qualsiasi altra persona a Londra, fasti e nefasti del ministero degli Esteri. Bibliotecario capo da oltre trent'anni, per le sue mani erano passati tutti i documenti da archiviare e considerava l'in-
tera storia delle questioni internazionali britanniche un suo dominio privato. Si era specializzato nell'indagare gli errori politici e le pastette scandalose in cui erano incorsi i diplomatici, del passato e del presente; onte cacciate con un colpo di scopa sotto il tappeto della segretezza. Si passò una mano tra le superstiti ciocche di capelli incanutiti e allungò l'altra verso una delle numerose pipe disseminate sopra un grande vassoio rotondo. Poi torse la bocca guardando la lettera dall'aspetto ufficiale che aveva davanti a sé, con l'aria diffidente di un gatto che annusa un boccone poco invitante. «Il trattato nordamericano», borbottò a mezza voce, rivolgendosi alle pareti della stanza vuota. «Mai sentito.» Se qualcuno dei suoi collaboratori lo avesse udito, avrebbe preso le sue parole come vangelo. Assioma inconfutabile: se Peter Beaseley non aveva mai sentito nulla a proposito di un trattato, era ovvio che il trattato non esisteva. Accese la pipa e seguì con occhio distratto le spirali di fumo. Il 1914, rifletteva, era l'anno che aveva preannunciato la fine dell'antica diplomazia, l'unica degna di questo nome. Dopo la prima guerra mondiale all'eleganza aristocratica dei negoziati internazionali si erano sostituite manovre puramente meccaniche. Era diventato un mondo d'una insulsaggine davvero desolante. La sua segretaria bussò e infilò dentro la testa. «Signor Beaseley?» La guardò senza vederla realmente. «Sì, signorina Gosset?» «Se non le dispiace, adesso andrei a pranzo.» «Pranzo?» Levò l'orologio dal taschino del panciotto. «Oh, già. Avevo perso la nozione del tempo. Dove va a mangiare? Ha un appuntamento con qualcuno?» Le due inattese domande, sparatele in successione, colsero di sorpresa la segretaria. «Perché? No, mangio sola. Pensavo di provare com'è quel nuovo ristorante indiano in Glendover Place.» «Benissimo, mi va a pennello», disse Beaseley in un accesso di magnanimità. «Pranzerà con me.» Un invito da parte sua era un onore raramente concesso e la signorina Gosset ne restò stupefatta. Il bibliotecario notò la faccia sbalordita della ragazza e sorrise. «Ho un secondo, subdolo motivo, signorina Gosset. Lo chiami ricatto, se vuole. Mi è necessario il suo aiuto nella ricerca di un vecchio trattato. Quattro occhi vedono meglio di due. E più in fretta. Io non vorrei sprecare troppo tempo in questa caccia.» La ragazza ebbe a malapena il tempo d'infilarsi il cappotto prima che lui la facesse uscire di corsa in strada, dove chiamò un taxi agitando l'ombrel-
lo. «Sanctuary Building, Great Smith Street», disse al conducente. «Con cinque edifici sparpagliati in tutta Londra, pieni zeppi di vecchi atti del ministero, mi chiedo come si fa a saper da che parte incominciare», commentò la segretaria, aggiustandosi la sciarpa. «Le questioni trattate epistolarmente con l'America durante il 1914 sono archiviate al secondo piano dell'ala est, nel Sanctuary Building», dichiarò Beaseley, sicuro e deciso. La signorina Gosset, colpita, non aprì più bocca finché non arrivarono a destinazione. Beaseley, pagato l'autista, entrò, seguito dalla ragazza, esibì la propria tessera di riconoscimento e il portiere ne trascrisse i numeri nel registro. Presero un vecchio ascensore cigolante, premendo il pulsante del secondo piano. L'uomo infilò senza esitazione la porta giusta. «Lei controlli i raccoglitori di aprile. Io spulcerò quelli di maggio.» «Ma non mi ha ancora detto che cosa stiamo cercando», obiettò lei. «Qualsiasi cosa che accenni a un trattato nordamericano.» Avrebbe voluto chiedergli maggiori particolari, ma il suo capo le aveva già girato le spalle e stava scorrendo, in fretta ma con la massima concentrazione, la caterva di documenti ufficiali e di promemoria ingialliti che aveva estratto da una grande custodia in cuoio. Lei si rassegnò all'inevitabile e affrontò il primo volume dell'aprile 1914, arricciando il naso per l'odore di muffa che emanava. Dopo quattro ore - e intanto lo stomaco della signorina Gosset aveva fatto udire le sue proteste - non erano venuti a capo di nulla. Il bibliotecario ricollocò i raccoglitori al loro posto senza parlare, con la fronte aggrottata. «Mi scusi, signor Beaseley, ma il nostro pranzo?» L'uomo diede un'occhiata all'orologio. «Perbacco, non le so dire quanto mi rincresce. Non ho fatto caso alle ore che passavano. Mi permette d'invitarla a cena, per farmi perdonare?» «Accetto volentieri e la ringrazio», sospirò la ragazza. Stavano firmando il registro, all'uscita, quando Beaseley si rivolse improvvisamente al portiere: «Vorrei dare un'occhiata ai documenti ufficiali della camera di sicurezza. Il mio lasciapassare mi dà diritto all'accesso». «Ma non vi può entrare la signorina. La sua tessera è valida soltanto per la biblioteca», osservò l'uomo. Beaseley batté una manata gentile sulla spalla della ragazza. «Abbia ancora un momento di pazienza, per favore. Me la sbrigherò in pochi minuti.»
Seguì il portiere giù per tre rampe di scale, nel sottosuolo, fino alla massiccia porta di ferro incassata nel muro di cemento. Il suo accompagnatore inserì due pesanti chiavi di ottone nelle serrature perfettamente oliate di due enormi, antiquati catenacci, aprì il battente blindato e si fece da parte. «Devo chiuderla dentro, signore», lo avvertì, recitando a memoria il regolamento. «Qui c'è un telefono a muro. Quando avrà finito, formi il numero 32.» «Conosco la procedura, grazie.» Il raccoglitore contenente i documenti segreti che risalivano alla primavera del 1914 era piuttosto smilzo, una quarantina di fogli appena, e non riservò a Beaseley nessuna scoperta sconvolgente. Lo stava rimettendo a posto quando gli cadde sott'occhio qualcosa di strano. Un altro raccoglitore era scivolato, chissà come, verso il fondo dello scaffale, dietro la fila, quindi tra l'uno e l'altro rimaneva un leggero spazio vuoto. Lo estrasse, spinto semplicemente dal suo amore per l'ordine, e, già che c'era, lo aprì, cedendo alla curiosità professionale. Sollevò la copertina. Sul frontespizio di quella che aveva tutta l'aria d'essere una relazione strettamente riservata campeggiava un titolo: TRATTATO NORDAMERICANO. Sedette a uno dei tavolini metallici e incominciò a leggere. Dopo una decina di minuti, aveva l'aspetto del visitatore di un cimitero che a mezzanotte si fosse trovato a faccia a faccia con uno spettro. Le mani gli tremavano tanto che quasi non riuscì a formare il numero perché gli aprissero. 14 Heidi controllò la carta d'imbarco e alzò gli occhi verso il monitor per verificare l'ora di partenza del suo volo. «Altri quaranta minuti da passare in qualche maniera», sospirò. «Quanto basta per berci il bicchiere della staffa», replicò Pitt. La pilotò al bar, attraverso l'affollato salone d'aspetto dell'aeroporto Dulles. Uomini d'affari con il colletto sbottonato e gli abiti spiegazzati erano seduti in tutti gli angoli. Pitt adocchiò un tavolino libero e l'occupò con un fulmineo colpo di mano, impartendo al volo l'ordinazione a un'affaccendata cameriera. «Quanto mi dispiace dovermene andare», sospirò lei, malinconica. «Che cosa t'impedisce di fermarti?» «La Marina, che fa gli occhiacci agli ufficiali che se la squagliano dalla nave.»
«Quando scade la tua licenza?» «Domani a mezzogiorno mi devo presentare a rapporto alla sede del comando navale di San Diego, dove mi comunicheranno la nuova destinazione.» «Si potrebbe dire che il nostro amore sia vittima della geografia», disse Pitt, guardandola negli occhi. «Non gli abbiamo offerto granché in fatto di occasioni propizie, vero?» «Forse era destinato così già in partenza...» Heidi lo fissò. «Più o meno le stesse parole!» «Dette da chi?» «Dal presidente Wilson, in una lettera.» Pitt scoppiò in una risata. «Non vorrai mica scaricarmi?» «Scusami, non è questo che intendevo.» Scacciò il pensiero della lettera. «Una frase senza importanza.» «Ho l'impressione che la tua ricerca ti stia ossessionando.» «No, si tratta di un imprevisto che mi ha sviata. Succede, nelle ricerche storiche. T'impegni in un dato argomento e scopri una notiziola inattesa che ti conduce, tuo malgrado, da tutt'altra parte.» Arrivarono i drink e Pitt pagò la cameriera. «Sei proprio sicura che non ti prolungherebbero la licenza?» Heidi fece di no con la testa. «Magari potessi chiederlo. Ormai ho consumato tutto quello che mi spettava. Dovranno passare sei mesi prima che ne possa ottenere un'altra.» Gli occhi le s'illuminarono di colpo. «Perché non vieni con me? Potremmo trascorrere insieme alcuni giorni prima che la mia nave salpi.» Pitt le prese una mano tra le proprie. «Non ti so dire quanto ne sarei felice, cara, ma i miei impegni non me lo consentono. Sto per partire anch'io, per seguire un progetto nel mare del Labrador.» «Quanto tempo starai via?» «Un mese, forse un mese e mezzo.» «Avremo la possibilità di rivederci?» Nella voce di Heidi suonò una nota di tenerezza. «Sono fermamente convinto che è doveroso richiamare a nuova vita i bei ricordi.» Venti minuti più tardi, dopo un secondo bicchiere della staffa, Pitt accompagnò la donna al cancello d'imbarco. La sala d'aspetto si era già svuotata e l'addetto alle registrazioni stava impartendo ai passeggeri l'ultimo avviso. Heidi posò a terra la sacca da viaggio e il beauty case e alzò verso
di lui gli occhi colmi d'attesa. Le rispose baciandola. Poi, tenendola stretta ma scostando un po' il capo, sogghignò: «Ho appena bruciato la mia reputazione di macho». «Perché mai?» «Perché, non appena si passeranno parola che sono stato visto baciare un marinaio, sarò sputtanato definitivamente.» «Buffone che non sei altro!» Ne attirò la faccia contro la propria e lo baciò a lungo sulla bocca. Alla fine si staccò da lui, ricacciando a fatica le lacrime. «Addio, Dirk Pitt.» «Addio, Heidi Milligan.» Heidi afferrò il bagaglio e si avviò verso la rampa d'imbarco. Poi si fermò, come se le fosse venuto in mente qualcosa, e si voltò. Frugò nella sacca, ne estrasse una busta e gliela porse. «Stammi a sentire, leggi questi fogli», disse, in tono pressante. «Capirai che cos'è stato a sviarmi. E... Dirk... Può darsi che sotto ci sia qualcosa di molto, molto importante. Riflettici e, se ritieni che sia il caso di approfondire la questione, telefonami a San Diego.» Senza lasciargli il tempo di rispondere, si girò, allontanandosi. 15 Si dice che non esista al mondo scenario più idilliaco, in cui attendere l'eternità, del cimitero di imballaggio inglese. Le pietre tombali, raccolte in una pace senza tempo attorno alla chiesa parrocchiale, se ne stanno ritte, grigio-verdognole per il muschio che le ricopre, con nomi e date quasi cancellati dal passare dei secoli e raramente decifrabili se anteriori al XIX secolo. A Manuden, uno sperduto paesino non molto lontano da Londra, la campana rintoccava a morto. La giornata era gelida ma bella, col sole che si affacciava tra le masse di nuvole in fuga, d'un colore perlaceo. Un folto gruppo di persone - cinquanta o sessanta - si era raccolto intorno a una bara ricoperta con la bandiera militare; il vicario del luogo stava pronunciando l'elogio funebre. Una donna sulla sessantina, dall'aspetto matronale, non ascoltava; la sua attenzione era appuntata su un uomo che se ne stava isolato, discosto di alcuni passi dalla cerchia più esterna dei presenti. I suoi sessantacinque anni ce li ha tutti, pensava. I capelli neri, spazzolati negligentemente all'indietro, erano spruzzati di grigio e piuttosto radi all'attaccatura della fronte e sulle tempie. Il viso era ancora bello, e l'espres-
sione severa si era alquanto addolcita. Notò, con una leggera fitta d'invidia, che la figura era sempre snella e asciutta, mentre lei, col tempo, si era appesantita. L'uomo teneva gli occhi rivolti verso la cima del campanile, ma il suo pensiero pareva vagare lontano. Dopo che la bara fu calata nella fossa e la piccola folla si disperdette, avanzò di qualche passo per scrutare la fossa, quasi avesse scorto, attraverso una finestra, il passato. «Gli anni ti hanno trattato bene», disse la donna, avvicinandoglisi alle spalle. Lui si girò e la notò soltanto in quel momento. Poi schiuse le labbra nel vecchio, accattivante sorriso, e la baciò sulla guancia. «Da non credere. Sei diventata ancora più sexy di quanto ricordavo.» «Sei tu che non sei cambiato», rise lei e, per mascherare l'imbarazzo, si passò una mano nei capelli grigi tra i quali spiccavano rare ciocche biondo chiaro. «Sempre lo stesso vecchio adulatore.» «Quanti anni sono passati da allora?» «Venticinque, da quando ho lasciato il Servizio.» «A me sembra che siano passati almeno due secoli.» «So che adesso ti chiami Brian Shaw.» «Sì.» L'uomo indicò con un cenno la bara, ancora visibile perché gli affossatori non avevano colmato la tomba di terra. «Lui ha insistito affinché assumessi una nuova identità, quando sono andato in pensione.» «Un saggio consiglio. Avevi più nemici tu di quanti ne avesse avuti Attila, re degli unni. L'agente della squadra del KGB incaricata delle eliminazioni, lo SMERSH, che fosse riuscito a ucciderti sarebbe stato proclamato eroe dell'Unione Sovietica.» «Ora non ho più bisogno di preoccuparmi», riconobbe sorridendo. «Dubito che il mio antico avversario sia ancora vivo. Per di più, sono un vecchio relitto. La mia testa non vale il prezzo di un barile di petrolio.» «Non ti sei mai sposato.» Era una constatazione, non una domanda. Lui scrollò il capo. «Solo una volta, ma durò poco. Lei fu uccisa. Lo ricordi?» Il volto della donna s'imporporò. «In realtà non avevo mai accettato l'idea che tu avessi una moglie.» «E tu?» «Un anno dopo aver lasciato il Servizio. Mio marito lavorava nella sezione analisi crittografiche. Si chiama Graham Huston. Abitiamo a Londra e ce la caviamo discretamente con le due pensioni e gli introiti di un negozio d'antiquariato.»
«Una vita assai diversa da quella dei nostri tempi.» «E tu, risiedi sempre nelle Indie Occidentali?» «No, cominciavo a risentire gli effetti del clima, così sono rientrato in patria. Mi sono comperato una piccola fattoria nell'isola di Wight.» «Non riesco a immaginarti nelle vesti di un gentiluomo di campagna.» «Lo stesso vale per te, in veste di antiquaria.» Gli affossatori, con i loro badili, uscirono da una locanda dall'altra parte della strada e, poco dopo, palate di terra incominciarono a cadere con tonfi sordi sopra la bara. «Gli volevo bene, al vecchio», disse Shaw, malinconicamente. «Certe volte l'avrei ammazzato, altre avrei voluto abbracciarlo come un padre.» «Anche lui nutriva un affetto particolare per te», disse la donna. «Si preoccupava moltissimo tutte le volte che eri in missione, mentre gli altri agenti li trattava più o meno come pedine da scacchi.» «Lo conoscevi meglio di tutti noi», mormorò lui. «Un uomo conserva pochi segreti agli occhi di chi gli ha fatto da segretaria per vent'anni.» La donna annuì. «Solitamente era infastidito da questo fatto. Non di rado riuscivo a leggergli nel pensiero...» La commozione le alterò la voce e non se la sentì più di guardare la fossa. Shaw la prese sotto braccio e la condusse fuori del cimitero. «Hai tempo per fermarti a bere qualcosa?» Lei aprì la borsetta, levò il fazzoletto e se lo passò sugli occhi. «Purtroppo devo ritornare subito a Londra.» «Allora addio, signora Huston.» «Brian.» Parve che la voce stentasse a uscirle dalla gola e tuttavia si trattenne dal chiamarlo col suo vero nome. «Non riuscirò mai a pensare a te come Brian Shaw.» «Tu e io, intendo dire le persone che eravamo, siamo morti entrambi molto tempo prima del nostro vecchio capo», affermò Shaw, con dolcezza. Gli strinse la mano. «Peccato che non si possa farlo risorgere, il nostro passato», mormorò, con gli occhi lucidi di pianto represso; poi, senza dargli il tempo di rispondere, tolse una busta dalla borsetta e gliela infilò nella tasca del cappotto. Shaw non disse nulla, non mostrò neppure di essersene accorto. «Addio, signor Shaw. E sii prudente», bisbigliò la donna. La sera in cui una Austin nera spegneva il motore di fronte a un grande edificio in pietra di Hyde Park, il nevischio spazzava Londra. Dall'auto
scese Shaw che, pagato l'autista, rimase fermo per qualche secondo, insensibile ai minuscoli aghi di ghiaccio che gli pungevano il viso: osservava la brutta facciata della casa in cui una volta aveva lavorato. I vetri delle finestre erano appannati dalla sporcizia e i muri anneriti dalla fuliggine e dall'inquinamento d'un mezzo secolo di abbandono. Gli pareva strano che non avessero provveduto a ripulirla con una buona sabbiatura, come avevano fatto con la maggior parte degli edifici circostanti, in piena City. Salì la scalinata esterna ed entrò nell'atrio. Una guardia del servizio di sicurezza lo invitò a farsi riconoscere e verificò la presenza del suo nome su un registro. «Prenda l'ascensore fino al decimo piano. Troverà qualcuno ad attenderla», gli disse. L'ascensore saliva tra scrolloni e cigolii, come sempre; l'unica novità era il pannello coi pulsanti, che aveva sostituito l'ascensorista. Shaw lo fermò al nono piano e uscì. Percorse il corridoio, ritrovò il suo vecchio ufficio e aprì la porta, aspettandosi di vedere una segretaria intenta a battere a macchina nell'anticamera e un uomo seduto alla scrivania, più in fondo, nella seconda stanza. Rimase sbalordito nello scoprire che entrambe le stanze erano vuote, tranne che per qualche mobile malandato e coperto di polvere. Scosse la testa, rattristato. Chi afferma che non bisognerebbe mai tornare indietro, alla ricerca di ciò che è stato, ha perfettamente ragione. Almeno le scale erano ancora dove erano sempre state, benché nessun agente le sorvegliasse più. Salì a piedi al decimo piano e si avvicinò a una ragazza bionda con indosso un abito a sacco, di maglia, in attesa davanti all'ascensore. «Ritengo che stia aspettando me», disse. La ragazza si voltò, colta di sorpresa. «Il signor Shaw?» «Sì. Mi scusi il ritardo, ma siccome per me si tratta d'una sorta di rimpatriata, ho voluto fare un giretto nostalgico.» La ragazza l'osservò con malcelata curiosità. «Il generale la sta attendendo. Vuole seguirmi, per piacere?» Bussò a una porta che gli era familiare e l'aprì. A parte la diversa scrivania e lo sconosciuto sedutovi dietro, gli scaffali dei libri e gli altri oggetti d'arredamento erano rimasti gli stessi. Shaw respirò finalmente aria di casa. «Si accomodi, signor Shaw.» Il generale di brigata Morris V. Simms gli porse la mano. Era asciutta e robusta. Gli occhi verde-azzurri sprizzavano cordialità, ma Shaw non se ne
lasciò trarre in inganno. Sentiva che quello sguardo gli leggeva dentro. «Sieda, la prego.» Shaw sedette su una seggiola dallo schienale alto, rigida e dura come il marmo. Un trucco suggerito da una scarsa fantasia, pensò, fatto apposta per mettere i visitatori in una situazione svantaggiosa in partenza, data la scomodità. Il suo ex capo avrebbe imprecato contro simili mezzucci da dilettante. Notò il disordine che regnava sulla scrivania, con i raccoglitori ammucchiati l'uno sull'altro, alcuni al rovescio. E c'era perfino polvere in giro, non sul piano del tavolo, ma dove non ci si sarebbe aspettati di trovarne: lungo l'orlo dei vassoi per la posta in partenza e in arrivo, sotto il ricevitore del telefono, tra i margini dei fogli sporgenti dalle cartellette. Improvvisamente si rese conto che era tutta una messinscena. In primo luogo l'assenza dell'ascensorista, il cui compito reale consisteva nell'assicurarsi che i visitatori andassero nell'ufficio in cui erano attesi. Poi niente più guardie del servizio di sicurezza che pattugliavano le scale e fungevano da uscieri a ogni piano. Infine il suo antico ufficio, vuoto. La sezione del servizio segreto di cui aveva fatto parte non era altro che un palcoscenico preparato apposta per una recita a suo beneficio. Il generale Simms si calò nella sua poltrona senza flettere un muscolo. Impossibile cogliere l'espressione d'un sentimento sulla faccia perfettamente rasata. Era impenetrabile, come un Buddha di giada. «Questa è la prima volta che lei rimette piede nella sua vecchia tana, non è così?» Shaw annuì. «Sì.» Gli faceva uno strano effetto ritrovarsi in quella stanza avendo di fronte un uomo più giovane di lui. «Credo che l'abbia ritrovata immutata.» «Be', qualche cambiamento è stato fatto.» Le sopracciglia del generale s'inarcarono leggermente. «Lei si riferisce senza dubbio al personale?» «Il tempo appanna i ricordi», replicò filosoficamente l'ex agente. Le sopracciglia si riabbassarono. «Senza dubbio si starà chiedendo perché l'ho convocata.» «Mi è parso alquanto teatrale il modo: con quel biglietto che mi è stato infilato in tasca durante un funerale», obiettò Shaw. «Avrebbe potuto semplicemente mandarmi una lettera per posta, oppure telefonarmi.» L'altro gli rivolse un sorriso gelido. «Avevo i miei motivi. Motivi validi.» Shaw non fece domande; Simms non gli andava a genio perciò non vedeva motivo per eccedere in cortesia. «È ovvio che non ha richiesto la mia
presenza per una riunione degli appartenenti alla sua sezione.» «No», riconobbe il generale, estraendo il cassetto più basso per appoggiarvi, indolentemente, la scarpa lucidata a specchio. «L'ho fatta venire perché vorrei rimetterla al lavoro.» Shaw rimase senza fiato. Che diamine stava succedendo? Lo sorprese il sentirsi percorrere da un brivido di eccitazione. «Non riesco a credere che siate così a corto di uomini da dover ripescare, dal mucchio degli scarti, un agente decrepito come me.» «Si giudica troppo severamente, signor Shaw. Lei è stato forse il miglior agente che il Servizio abbia mai reclutato. Ai suoi tempi, era diventato quasi una leggenda.» «Una maledetta fregatura, la leggenda, perché mi ha costretto a ritirarmi prima di quanto avrei voluto.» «Comunque sia, ho per lei un incarico che si adatta come un guanto alle sue qualità. Richiede l'esperienza di un uomo maturo fornito di cervello. Non dovrà dar prova di efficienza fisica e non vi saranno spargimenti di sangue. Nel caso in questione, si tratterà unicamente di capacità investigativa e di prontezza di spirito. Nonostante le sue obiezioni riguardanti l'età, l'impresa può essere condotta a termine soltanto da un uomo come lei.» Cento interrogativi vorticavano nella mente di Shaw. Non riusciva a capacitarsi. «Perché proprio io? Avrete senz'altro una caterva di altri agenti più qualificati di me. E i russi? Non distruggono mai i loro dossier. Mi ripescherebbero in capo a un'ora, se rispuntassi in superficie.» «Questa è l'era dei cervelli elettronici, signor Shaw. I capisezione non se ne stanno più rintanati in vecchi uffici polverosi a prendere decisioni personali inappellabili. Adesso tutti i dati relativi a un incarico vengono elaborati dai computer. Affidiamo alla loro memorizzazione il compito di dirci quale tra gli agenti è il più adatto per una particolare missione. Evidentemente non avevano un'opinione troppo lusinghiera di quelli in servizio attivo, perciò abbiamo programmato un elenco di ex. E il suo nome è risultato primo nella loro graduatoria. Quanto ai russi, non ha motivo di preoccuparsene. Non avrà nulla a che fare con loro.» «Le spiacerebbe spiegarmi perché sono l'uomo ideale?» «Perché il compito che intendiamo affidarle è quello di cane da guardia.» «Ma di chi, se i russi non c'entrano?» «Degli americani.» Shaw tacque, chiedendosi se aveva capito bene. Dopo qualche istante,
replicò recisamente: «Dolente, generale, ma i vostri robot hanno preso una cantonata. D'accordo, non ho mai considerato la civiltà americana pari, come livello, a quella britannica, però si tratta di brava gente. Nel corso degli anni in cui ero in servizio ho stretto numerosi rapporti di amicizia con loro. Ho lavorato in collaborazione con gli uomini della CIA sulla base della fiducia reciproca. Mi rifiuto di spiarli. Sarà opportuno che lei si cerchi qualcun altro». Simms diventò paonazzo. «La sua reazione è del tutto fuori luogo. Prima di rispondere, farebbe bene ad aspettare che le esponga i fatti. Non le sto chiedendo di rubare informazioni segretissime agli yankee, ma soltanto di tenerli d'occhio per un paio di settimane. È in ballo una questione di tale importanza - e le garantisco che non faccio il melodrammatico - da poter costituire una grave minaccia per il governo di Sua Maestà.» «D'accordo. Accetto la strigliata», disse Shaw. «Per favore, vada avanti.» «Grazie», replicò il generale, seccamente. «Come non detto, allora. Dovrà condurre una normale investigazione a proposito di un cosiddetto trattato nordamericano. Un arrugginito barattolo colmo di vermi che gli americani hanno dissotterrato. Lei dovrà scoprire che cosa ne sanno di preciso e se intendono ricavarne qualcosa.» «Un po' vaga, come spiegazione. Qual è la sostanza di questo trattato?» «Meglio che, per il momento, lei rimanga all'oscuro dei particolari e delle implicazioni», tagliò corto Simms. «Capisco.» «No, lei non capisce, ma non è questo il punto. Le interessa?» Sul momento Shaw si sentì combattuto tra il sì e il no. I suoi riflessi non erano più quelli d'una volta, la sua energia fisica si era dimezzata col tempo. Per leggere aveva bisogno degli occhiali. Sarebbe stato ancora capace di centrare una pernice al primo colpo di fucile, però erano vent'anni che non sparava con la pistola. Era ben consapevole di essere ormai nella categoria degli anziani. «La mia fattoria...» «In sua assenza, la manderà avanti un docente di agronomia.» Il generale sorrise. «Si accorgerà che allarghiamo i cordoni della borsa assai più di quanto li allargassero ai suoi tempi. Aggiungerò che, dopo che avrà portato a termine l'incarico, il Servizio provvederà ad acquistare come gentile omaggio, intestandoli a suo nome, quei trentadue ettari confinanti con la sua tenuta sui quali lei ha messo gli occhi.» I tempi erano cambiati, ma l'efficienza del servizio segreto no. Shaw non
si era mai accorto di essere tenuto sotto sorveglianza. Stava proprio invecchiando. «Mi rende assai difficile risponderle con un rifiuto, generale.» «Allora mi risponda con un sì.» Chi ha fatto trenta può fare trentuno: l'antico proverbio passò per la mente dell'ex agente. Poi scrollò le spalle e annunciò, con l'abituale sicurezza di sé che l'aveva animato da giovane: «Tenterò». Simms batté una manata sul piano della scrivania. «Ben fatto!» Aprì un cassetto, ne tolse una busta e la lanciò a Shaw. «Biglietti d'aereo, traveller's cheques e prenotazioni d'albergo. Naturalmente viaggerà sotto nuova copertura. Il suo passaporto è in ordine?» «Sì. Però mi ci vorranno due settimane per sistemare le mie faccende.» Il generale liquidò l'obiezione dell'altro con un gesto della mano. «Il suo aereo parte tra due giorni. Prowederemo noialtri a tutto. Buona caccia.» Shaw si aggrondò. «A quanto pare, eravate sicurissimi che avrei accettato.» Simms gli rivolse un sorriso tutto denti. «Avevo scommesso su un veterano ansioso di tornare ancora una volta in battaglia.» L'ex agente sorrise a sua volta. Voleva che l'ultima battuta fosse sua: «E allora perché tutta questa fesseria di messinscena?» Simms s'irrigidì. Preso in contropiede, non ribatté. «Questa pagliacciata!» sbottò Shaw. «Il palazzo è in abbandono da anni. Sarebbe stato più semplice se ci fossimo incontrati su una panchina nel parco.» «Il trucco era così evidente?» borbottò il generale, scornato. «Come se lo aveste annunciato appendendo un cartello sulla porta.» Simms si strinse nelle spalle. «Può darsi che io abbia esagerato, ma gli americani possiedono un portentoso sesto senso per scoprire tutto quello che succede negli ambienti del servizio segreto britannico. Inoltre mi dovevo accertare che lei non avesse perso la sua famosa capacità di percezione.» «Un test, quindi?» «Lo chiami come vuole.» Simms si alzò in piedi, fece il giro della scrivania e gli strinse la mano. «Mi rincresce sinceramente di aver scombussolato il suo tran tran quotidiano. Non sono propenso, in genere, a dipendere da qualcuno che ha già dato il meglio di sé, ma adesso mi trovo nella situazione di un cieco vagante nella nebbia e lei è la mia unica speranza per esserne guidato fuori.»
Dieci minuti più tardi, Simms e la sua segretaria erano già nello scricchiolante ascensore che li portava dabbasso. La ragazza si stava infilando un cappuccio impermeabile; il generale pareva assente, sprofondato nei pensieri. «Mi è sembrato un tipo strano», disse lei. Simms alzò gli occhi. «Come ha detto, scusi?» «Il signor Shaw. Si muove silenzioso come un gatto. Mi ha fatto sussultare con quel suo modo di scivolarmi alle spalle mentre mi aspettavo che uscisse dall'ascensore.» «È salito per le scale?» «Dal nono piano. Me ne sono accorta dalla segnalazione luminosa sul quadro accanto al cancello.» «Be', veramente speravo che lo facesse», commentò Simms. «Mi tranquillizza constatare che non ha perso la sua proverbiale astuzia.» «Mi ha dato l'impressione d'essere un buon diavolo.» Il generale sogghignò. «Quell'anziano buon diavolo ha ammazzato più di venti uomini.» «Il suo aspetto mi aveva tratta in inganno.» «Avrà bisogno di trarre in inganno non le so dire quant'altra gente», mormorò Simms, aprendo il cancello dell'ascensore. «Non ha la minima idea del gioco duro nel quale lo abbiamo cacciato, quel povero cristo. Quasi quasi, sarebbe stato lo stesso se lo avessimo buttato in pasto ai pescecani.» 16 Mentre Brian Shaw si stava allontanando dalla dogana dell'aeroporto, gli si fece incontro un ufficiale che vestiva l'uniforme della reale Marina britannica. «Il signor Shaw?» «Sì, sono io.» «Tenente Burton-Angus, dell'ambasciata di Gran Bretagna. Mi rincresce di non averle risparmiato la visita doganale. Sono rimasto imbottigliato nel traffico. Benvenuto a Washington.» Mentre si stringevano la mano, Shaw lanciò un'occhiata di disapprovazione all'uniforme. «Un tantino vistosa, no?» «Tutt'altro.» Burton-Angus sorrise. «Avrei dato nell'occhio se fossi
comparso improvvisamente all'aeroporto in borghese: qualcuno, con molta probabilità, avrebbe sospettato che sotto sotto ci fosse un affare di spionaggio. Meglio farsi vedere nella tenuta abituale.» «Da quale parte si ritira il bagaglio?» «Non è necessario. Purtroppo il suo soggiorno qui nella capitale è stato abbreviato, rispetto alle previsioni.» Shaw mangiò la foglia. «Quando parte il mio aereo e dove mi porterà?» «Lei partirà per Los Angeles tra quaranta minuti. Eccole il suo biglietto e la carta d'imbarco.» «Ha qualcosa da dirmi?» «Certo.» Il tenente lo prese sotto braccio. «Meglio che ne parliamo mescolandoci alla folla. Saremo più difficilmente a portata d'orecchio, umano o elettronico.» Shaw approvò con un cenno del capo. «Fa parte del Servizio da molto tempo?» «Il generale Simms mi reclutò sei anni fa.» Burton-Angus lo pilotò verso il reparto libri d'un negozio di souvenir. «Lei sa già che sono coinvolto nella sua missione.» «Ho letto il rapporto. È lei che ha scoperto il primo indizio del trattato.» «Sì, da una conversazione con il direttore dell'archivio storico del senato.» «Jack Murphy.» Il tenente annuì. «Ha potuto ricavare qualche altra informazione da lui?» chiese Shaw. «Il generale Simms ritenne che fosse preferibile non insistere troppo. Informai Murphy che negli archivi di Londra non esisteva traccia del trattato.» «E l'ha bevuta?» «Non aveva motivo di non berla.» «Perciò dobbiamo eliminare Murphy dalla pista e incominciare da qualche altra parte.» «Proprio per questo lei deve recarsi a Los Angeles. Murphy sentì parlare la prima volta del trattato quando un ufficiale della Marina americana, una donna, si rivolse a lui sperando che la potesse aiutare in una ricerca storica. Lui scovò una vecchia fotografia e gliene fece fare una fotocopia. Uno dei nostri scassinò la porta del suo ufficio ed esaminò il dossier contenente le richieste di ricerche. Il nome dell'unica donna che vi compariva era quello di Heidi Milligan, che ha il grado di capitano di corvetta.»
«C'è qualche possibilità di stabilire un contatto con lei?» «Il comandante Milligan presta servizio, in qualità di ufficiale addetto alle comunicazioni, a bordo di una nave-trasporto anfibia che è salpata due ore fa da San Diego, avendo come destinazione l'oceano Indiano.» Shaw si fermò. «Con la Milligan fuori portata, mi chiedo da quale parte incominceremo.» «Per fortuna l'unità sulla quale è imbarcata, l'Arvada, deve rimanere tre giorni alla fonda nel porto di Los Angeles, per certe modifiche da apportare al sistema automatizzato di refrigerazione.» Ripresero a camminare. Shaw guardò il suo compagno con crescente rispetto. «Lei è bene informato.» «Fa parte del mestiere.» Burton-Angus si schermì. «Gli americani hanno pochi segreti per gli inglesi.» «È un pensiero consolante.» Un lieve rossore salì al volto del tenente. «Sarà bene che ritorniamo nell'atrio. Il suo cancello d'imbarco è il ventidue.» «Visto il cambiamento di programma, vorrei sapere quali sono le mie nuove istruzioni», disse Shaw. «Giustissimo», rispose l'altro. «Lei dispone di circa settantadue ore di tempo per scoprire che cosa ne sa il comandante Milligan.» «Avrò bisogno di aiuto.» «Dopo che sarà sceso all'albergo, un certo signor Graham Humberly si metterà in contatto con lei. È un concessionario della Rolls-Royce piuttosto facoltoso. Penserà lui a presentarla a Heidi Milligan.» «Ah, ci penserà lui a presentarmi alla signora Milligan», gli fece eco l'agente, in tono sarcastico. «Sì, perché non dovrebbe?» obiettò Burton-Angus, sconcertato dal palese scetticismo dell'altro. «Humberly è un ex cittadino britannico, americano d'adozione. Ha un'estesissima rete d'importanti contatti, specie nell'ambiente della Marina statunitense.» «E lui e io saliremo baldanzosi lo scalandrone di una nave da guerra americana, sventolando l'Union Jack e fischiettando God save the Queen, e chiederemo il permesso di sottoporre a interrogatorio un loro ufficiale.» «Se c'è qualcuno in grado d'introdurla, questo qualcuno è Humberly», affermò recisamente il tenente. Shaw aspirò un'energica boccata dalla sigaretta e lo fissò. «Perché proprio io?» chiese, con voce dura. «Da quanto posso arguire, signor Shaw, lei è stato, anni fa, il più abile
agente operativo del nostro servizio segreto. Sa come trattare con gli americani. Perciò Humberly la presenterà come un uomo d'affari inglese, suo vecchio amico dai tempi in cui entrambi eravate ufficiali della Royal Navy. E lei ha, cioè avrebbe, l'età giusta per appartenere oggi alla riserva.» «Già, l'hanno ben congegnata.» «Il generale Simms non si aspetta miracoli. Ma è indispensabile smuovere le acque. Il meglio in cui possiamo sperare è che la Milligan rappresenti il primo passo nella direzione giusta.» «Glielo chiedo una volta di più. Perché proprio io?» Burton-Angus si fermò e alzò lo sguardo verso il tabellone luminoso delle partenze. «Il suo volo è in orario. Eccole i biglietti. Non si dia pensiero del bagaglio. È già stato provveduto.» «A tanto ci ero arrivato da solo.» «Ebbene, suppongo che la scelta sia stata determinata da ciò che risultava dal suo dossier... Sì... per i buoni risultati conseguiti con le appartenenti all'altro sesso. Secondo il generale Simms, questo è un asso nella manica. Il fatto che la Milligan abbia avuto recentemente una relazione con un ammiraglio che poteva esserle padre ha fatto segnare parecchi punti a suo vantaggio,» Shaw lo fulminò con un'occhiata incendiaria. «Proprio quello che ci vuole per insegnarle ciò che lei dovrà aspettarsi in futuro, ragazzo mio.» «Non alludevo a niente di personale.» Burton-Angus sorrise debolmente. «Mi diceva che è nel Servizio da sei anni?» «Sei anni e quattro mesi, per l'esattezza.» «Le hanno insegnato come scoprire un pedinatore?» Il tenente aggrottò la fronte e lo guardò con aria interrogativa. «Era uno degli insegnamenti basilari. Perché me lo chiede?» «Perché ha fatto fiasco.» Shaw gli lasciò il tempo d'ingoiare il rospo, poi inclinò appena il capo a sinistra. «L'uomo con la ventiquattr'ore, che sta guardando l'orologio con noncuranza. Ci si è incollato alle calcagna dal momento in cui siamo usciti dalla dogana. Anche la hostess con l'uniforme della Pan American ci segue, tenendosi a sei metri di distanza. Il cancello d'imbarco della sua linea aerea è un altro. La ragazza è in coppia con l'uomo, come rinforzo. E hanno senz'altro un terzo compare che ci tiene d'occhio, davanti a noi, e che non ho ancora individuato.» Burton-Angus impallidì. «Non è possibile», mormorò. «Non possono avere subodorato qualcosa.» L'agente si girò, per consegnare il biglietto e la carta d'imbarco alla ra-
gazza addetta allo sportello. Poi guardò di nuovo in faccia il tenente. «Si direbbe che gli inglesi abbiano pochi segreti per gli americani», osservò in tono tagliente. Burton-Angus lo seguì con gli occhi mentre si allontanava. Aveva l'espressione di uno che stesse affogando. Shaw sedette comodamente al suo posto, rilassato e in vena di concedersi una coppa di champagne. La hostess gli mise davanti due bottigliette di spumante e due bicchieri di plastica. Il prodotto, diceva l'etichetta, era californiano. Shaw avrebbe preferito un Tattinger secco d'annata. Gazzosa della California e bicchieri di materiale sintetico... Si chiese se gli americani si sarebbero mai inciviliti. Dopo aver vuotato la prima bottiglietta, si mise a valutare seriamente la situazione. La CIA gli aveva puntato gli occhi addosso dal momento che era salito sull'aereo in Inghilterra, proprio come lui e il generale Simms sapevano che avrebbe fatto. Non era affatto preoccupato. Giocava meglio a carte scoperte. Non gli era mai piaciuto scivolare furtivo nell'ombra, come una specie di larva. Si esaltava rifacendo quanto aveva fatto con tanta maestria in passato. Le sue facoltà non lo avevano abbandonato. Forse funzionavano un po' al rallentatore, però erano tuttora all'erta. Stava giocando secondo le sue regole e se la godeva un mondo. 17 La squallida stazione di servizio si trovava in un angolo poco frequentato del quartiere industriale, alla periferia di Ottawa. Consisteva di una costruzione metallica, installata poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, con tre pompe di benzina che portavano i segni dell'usura e avrebbero avuto urgente bisogno di una mano di vernice. All'interno di quella sorta di scatolone regnavano il disordine e la sporcizia: latte di lubrificante e mosche mummificate sugli scaffali, scoloriti adesivi pubblicitari di pneumatici fuori produzione attaccati ai vetri delle finestre, resi opachi dall'unto e dalla polvere. Henri Villon, al volante della sua Mercedes-Benz berlina, svoltò dalla strada per imboccare la breve rampa di accesso e si fermò davanti alle pompe. Il benzinaio uscì da sotto una macchina, si alzò dal carrello e gli si avvicinò, pulendosi le mani con uno straccio. «Ha bisogno?» chiese, con un'espressione seccata. «Il pieno, per favore.»
Il benzinaio lanciò un'occhiata a una coppia anziana, seduta poco distante su una panchina, alla fermata dell'autobus, e poi disse a voce alta, affinché i due lo udissero: «Venticinque litri è il massimo consentito dalla legge, per via della scarsità di carburante; lo saprà anche lei». Villon annuì in silenzio e l'uomo incominciò a pompare la benzina nel serbatoio. Quand'ebbe finito, fece un mezzo giro e si andò a mettere davanti al muso dell'auto, indicandolo con un cenno. Il ministro allora tirò la manopola della leva e l'altro sollevò il coperchio del cofano. «Farebbe bene a cambiare la cinghia del ventilatore. È piuttosto consunta.» Villon scese dal posto di guida e si sporse oltre il parafango, per trovarsi di fronte al benzinaio. «Si rende conto del maledetto guaio che ha combinato col suo bel lavoro?» mormorò. Foss Gly replicò, fingendo di osservare il motore: «Quel che è fatto è fatto. La tormenta ci aveva lasciato un solo minuto di visibilità e il primo missile ha mancato il bersaglio. Questo è tutto!» «No, non è tutto!» ringhiò con voce repressa il ministro. «Quasi cinquanta persone ammazzate per niente. Se la commissione d'inchiesta scoprirà la vera causa del disastro, il parlamento insorgerà, esigendo che s'indaghi a fondo in tutte le organizzazioni, compresi i boy scout. Gli organi d'informazione chiederanno la testa dei colpevoli non appena apprenderanno che venti dei migliori giornalisti politici sono stati assassinati. E, quel che è peggio, i sospetti di tutto il Paese si accumuleranno sul 'Movimento per il Quebec Libero'.» «Ma nessuno potrà produrre le prove», asserì Gly, freddo e sicuro. «Maledizione!» Villon colpì col pugno il parafango. «Se almeno Sarveux fosse morto. Il governo sarebbe in piena confusione e noi avremmo potuto giocare le nostre carte.» «Ne sarebbero stati contenti i suoi amici del Cremlino.» «Se faremo un altro fiasco di queste proporzioni, non potrò più contare sul loro appoggio.» Gly si chinò, fingendo di trafficare intorno al motore. «Perché imbrancarsi coi rossi? Una volta che allungano la mano su qualcuno non mollano più la presa.» «Non è cosa che la riguardi, ma comunque le dirò che l'unica speranza perché il Quebec non solo diventi ma si mantenga indipendente è di darsi un governo di stampo comunista.» Il killer si strinse nelle spalle con indifferenza, insistendo nella finzione
di occuparsi del motore. «Che cosa vuole che faccia, adesso?» Villon rifletté per un po', senza rispondergli. Poi si decise. «Non si faccia prendere dal panico. Soprattutto è meglio che lei e la sua squadra di specialisti, come li chiama, continuiate a svolgere i vostri soliti lavori di copertura. Nessuno di voi è franco-canadese, perciò sarà difficile che vi sospettino.» «Per conto mio, non vedo nessun vantaggio nello starcene con le mani in mano ad aspettare che ci becchino.» «Dimentica una cosa: io sono il ministro degli Interni e tutte le questioni relative alla sicurezza passano attraverso il mio ufficio. Qualsiasi indizio potesse saltar fuori sul suo conto finirebbe sepolto nei meandri della burocrazia.» «In ogni modo sarei più tranquillo se uscissimo dal Paese.» «Lei non attribuisce il giusto peso agli eventi in corso, signor Gly. Il mio governo si sta spaccando. Le province canadesi si stanno azzannando l'una con l'altra. L'unico problema consiste nel sapere quando il Paese andrà a catafascio. Presto. Lo so io, lo sa Charles Sarveux e lo sanno quegli inglesi arroganti che giocano a chi blatera di più in quel vecchio relitto di pietra sulle rive del Tamigi. Presto, molto presto, il Canada, così com'è oggi, non esisterà più. Creda a me, lei non ha niente da temere, perché andrà smarrito nel caos.» «Smarrito e disoccupato.» «Una situazione temporanea», affermò Villon, cinicamente. «Fintante che vi saranno governi, corporazioni finanziarie e individui ricchi che si possono permettere di pagarle il prezzo dei suoi sporchi servigi, signor Gly, quelli della sua specie non correranno mai il rischio di doversi guadagnare la vita vendendo aspirapolveri.» Il killer gli rispose con un gesto indolente e cambiò discorso. «Come potrò mettermi in contatto con lei, se si dovesse presentare qualche difficoltà?» L'altro gli andò accanto e gli afferrò il braccio in una stretta ferrea. «Si cacci bene in testa due cose. La prima è che non ci saranno difficoltà; la seconda che lei non deve tentare mai, in nessunissimo caso, di mettersi in contatto con me. Non posso correre il minimo rischio di venir collegato con il 'Movimento per il Quebec Libero'.» Gly strizzò gli occhi, per un attimo, per la sorpresa e per il dolore fisico. Trattenne il respiro e gonfiò il bicipite, mentre Villon stringeva sempre più forte. Né l'uno né l'altro cedette o si mosse. Poi un lento sogghigno di sod-
disfazione incominciò ad apparire sulle labbra di Gly, mentre fissava il ministro negli occhi. Villon allentò la stretta e sogghignò cupamente a sua volta. «Complimenti. La sua forza e la potenza dei suoi muscoli sono quasi pari alle mie.» Il killer resistette a fatica al bisogno pressante di massaggiarsi il braccio intorpidito. «Il sollevamento pesi è un ottimo esercizio per ammazzare il tempo tra un incarico e l'altro...» «Qualcuno potrebbe scoprire una leggera somiglianza nei nostri lineamenti», commentò Villon, rimettendosi al volante della Mercedes. «Se non fosse per quel suo orribile naso, passeremmo quasi per fratelli.» «Badi a quel che dice, Villon!» rimbeccò Gly, in tono bellicoso. Lanciò un'occhiata alla coppia sempre seduta sulla panchina in attesa dell'autobus, poi un'altra al contatore della pompa. «Fanno diciotto dollari e sessanta.» «Me li segni sul conto!» replicò ringhiosamente il ministro e avviò il motore. 18 Villon imburrò una fetta di pane tostato e lesse il titolo sul quotidiano del mattino: NESSUN INDIZIO SULL'ATTENTATO CONTRO L'AEREO DEL PRIMO MINISTRO. Foss Gly aveva cancellato bene le proprie tracce. Da parte sua, Villon aveva preso direttamente in mano le indagini, consapevole che la pista si andava raffreddando di giorno in giorno. Aveva sfruttato con abilità il potere che gli derivava dalla carica per sviare i sospetti di eventuali collegamenti tra i terroristi e il movimento clandestino che lui capeggiava, sempre che l'inchiesta non avesse portato alla luce prove inoppugnabili. Ma fino ad allora tutto prometteva di andare liscio. La sua soddisfazione fu raggelata nel momento in cui il suo pensiero ritornò a Gly. Quell'uomo era un mercenario feroce che conosceva un unico dio, un prezzo sostanzioso per la sua opera. Nessuno era in grado di prevedere le azioni di un cane idrofobo come lui, se non lo si fosse tenuto stretto al guinzaglio. Alla porta della saletta riservata alla prima colazione si affacciò la moglie di Villon, una bella bruna con gli occhi azzurri. «Una telefonata per te», disse. Lui si alzò, entrò nello studio attiguo e chiuse la porta dietro di sé. «Pronto.» «Sono il sovrintendente McComb, signor ministro», annunciò un vocio-
ne profondo come un pozzo di miniera. «Spero di non averla disturbata mentre faceva colazione.» «No, per niente», mentì Villon. «Lei è il funzionario addetto agli archivi della polizia?» «Sissignore. Ho qui davanti a me, sulla scrivania, il dossier su Max Roubaix da lei richiesto. Vuole che ne faccia fare una copia e gliela invii al suo ufficio?» «Non occorre, grazie. È sufficiente che mi riferisca adesso, per telefono, i punti essenziali.» «Ma il dossier è piuttosto voluminoso», tentò di tergiversare McComb. «Mi basta un riassunto che non le porterà via più di cinque minuti», replicò Villon, con un sogghigno. Non stentava a immaginare l'umore del suo interlocutore, certamente arrabbiatissimo per aver dovuto lasciare il letto e la moglie, rinunciando al piacere d'una lunga dormita domenicale, per obbedire al capriccio d'un ministro e mettersi a frugare tra vecchi scartafacci polverosi. «I fogli, vecchi di oltre cent'anni, sono manoscritti e un tantino difficili da leggere, ma procurerò di fare del mio meglio. Dunque vediamo un po'... C'è ben poco sull'infanzia di Roubaix. Niente data di nascita, dicono che era orfano e che fu sballottato da una famiglia adottiva all'altra. Ebbe da fare una prima volta con la giustizia a dodici anni, per aver ucciso dei polli.» «Polli, ha detto?» «Li decapitava all'ingrosso, con le cesoie. Indennizzò l'agricoltore al quale aveva arrecato il danno lavorando per lui. Poi si trasferì in una piccola città vicina e si specializzò in cavalli. Ebbe il tempo di sgozzare la metà di un branco prima che lo arrestassero.» «Uno psicopatico precoce con istinti sanguinari.» «Lo dichiararono semplicemente l'idiota del villaggio», disse McComb. «Il termine psicopatico non faceva parte del loro dizionario. Non capirono che un ragazzo capace di massacrare gli animali per il gusto di farlo era soltanto a un passo dall'uccidere nello stesso modo gli esseri umani. Roubaix si guadagnò una condanna a due anni di prigione, ma siccome era appena quattordicenne lo affidarono al capo della polizia che se lo prese in casa, facendolo lavorare da giardiniere e da domestico. Poco dopo il suo rilascio, nelle campagne circostanti incominciarono a scoprire i cadaveri di vagabondi e di ubriaconi, tutti quanti strangolati.» «Dove succedevano questi fattacci?»
«Entro un raggio di ottanta chilometri dall'odierna città di Moose Jaw, nella provincia di Saskatchewan.» «Immagino che avessero arrestato Roubaix come indiziato principale.» «Durante il secolo scorso la polizia non agiva con la rapidità di oggi», riconobbe McComb. «Quando riuscirono a inchiodarlo ai suoi reati, Roubaix era già scappato nelle foreste vergini dei Territori di Nordovest; rispuntò soltanto nel 1885, al tempo della rivolta di Riel.» «Il movimento insurrezionale promosso dai discendenti dei mercanti francesi che si erano uniti alle donne indiane?» «Li chiamavano i 'meticci'. Louis Riel ne era il capo. Roubaix si unì alle sue forze e diventò addirittura una leggenda, qui in Canada, per il gran numero di persone uccise.» «E che cosa si sa di lui, durante il tempo in cui era praticamente scomparso?» «Sei anni per i quali manca qualsiasi dato. Ci fu un buon numero di casi d'omicidio insoluti attribuiti a lui, ma senza prove valide o deposizioni di testimoni oculari. C'era solo un elemento caratteristico che indicava il tocco di Roubaix.» «Quale elemento?» «Quasi tutte le vittime erano morte per strangolamento», spiegò McComb. «Roubaix aveva rinunciato a servirsi del coltello. E nessuno s'indignava troppo, a quel tempo, per la sorte di quei poveracci. La gente aveva un codice morale diverso e il delinquente che toglieva di mezzo i reietti era considerato poco meno che un benefattore della comunità.» «Se non ricordo male, Roubaix uccise moltissimi poliziotti durante la ribellione dei seguaci di Riel.» «Tredici, per l'esattezza.» «Doveva essere un uomo di una robustezza eccezionale.» «No, al contrario», obiettò McComb. «Dalle descrizioni risulta fosse debole di costituzione e piuttosto malaticcio. Il medico che lo visitò prima che fosse giustiziato attestò che Roubaix era allo stremo, divorato dalla consunzione. Oggi diremmo che era tubercolotico all'ultimo stadio.» «Ma com'era possibile che una mezza cartuccia come lui sopraffacesse uomini addestrati al combattimento a corpo a corpo?» chiese Villon. «Si serviva di una sorta di garrotta fatta con una striscia di pelle non conciata e grossa quanto un fil di ferro. Un'arma letale, che segava, letteralmente, la gola delle vittime. Le coglieva di sorpresa, in genere mentre dormivano. Lei, signor ministro, è famoso nei circoli atletici per la grande
vigoria fisica, eppure oso dire che sua moglie riuscirebbe a ucciderla per strangolamento se, di notte, mentre lei dorme, le passasse la garrotta di Roubaix intorno al collo.» «Parla come se la garrotta esistesse ancora.» «Esiste, esiste. Se lo desidera, può vederla nel museo della polizia, esposta nella sezione criminale. Analogamente a molti altri assassini che prediligono un'arma particolare, anche Roubaix teneva in gran conto la sua garrotta. Le impugnature di legno alle quali è attaccata la correggia sono scolpite a mano, a forma di testa di lupo. Si tratta di piccoli capolavori, nel loro genere.» «Può darsi che un giorno o l'altro venga a darci un'occhiata, impegni ufficiali permettendo», promise Villon, senza troppo entusiasmo. Rifletté un momento, tentando di dare un significato alle istruzioni che Sarveux aveva impartito a Danielle, poche ore dopo l'incidente. Non ne venne a capo. Un enigma cifrato. Volle tentare un'altra strada. «Se lei dovesse descrivere concisamente il caso Roubaix, come lo riassumerebbe in un'unica frase?» «Non sono sicuro di aver capito bene», rispose McComb. «Formulerò la domanda diversamente. Che cos'era, secondo lei, Max Roubaix?» Seguì, dall'altra parte, un breve silenzio. A Villon pareva quasi di sentire il lavorio del cervello del suo interlocutore. Alla fine, il poliziotto rispose: «Mi sembra che lo si potrebbe definire un maniaco omicida con la fissazione dello strangolamento». Villon passò dall'improvvisa tensione al rilassamento. «Grazie, signor sovrintendente.» «Se le posso essere ancora utile...» «No, mi ha fatto un grande favore e gliene sono riconoscente.» Villon depose lentamente la cornetta sulla forcella. Con gli occhi fissi nel vuoto, si raffigurava un uomo malaticcio in atto di torcere una garrotta. L'espressione di smarrito sbalordimento sulla faccia della preda colta al laccio, un ultimo barlume di comprensione negli occhi che uscivano dalle orbite prima che cessassero di vedere per sempre... Le parole dette da Sarveux alla moglie nel vaneggiamento del delirio incominciavano ad acquistare una parvenza di significato. 19 Sarveux accolse con un cenno del capo e un sorriso il vice primo mini-
stro che stava entrando nella sua stanza. «Ti ringrazio d'essere venuto, Malcolm. So benissimo che al parlamento ti stanno rendendo la vita amara.» Per abitudine Hunt gli tese la mano, affrettandosi a ritirarla non appena le braccia unte di pomata del primo ministro lo richiamarono alla realtà. «Prendi una sedia e mettiti comodo; se ne hai voglia, puoi anche fumare», lo invitò Sarveux. «Gli effetti della mia pipa potrebbero farmi perdere un bel po' di voti della classe medica, alle prossime elezioni», obiettò Hunt, sorridendo. «Ti ringrazio, ma preferisco rinunciare.» Sarveux attaccò subito, senza preamboli. «Ho parlato con il direttore della sicurezza del traffico aereo. Mi ha assicurato che la tragedia di James Bay non è stata accidentale.» Hunt impallidì. «Come fa a esserne sicuro?» «Hanno trovato un resto della cappottatura del motore dell'apparecchio a ottocento metri dalla pista», spiegò Sarveux. «Dalle analisi è risultato che alcuni dei frammenti che l'avevano perforata corrispondevano a un tipo di missile terra-aria, in dotazione del nostro esercito e impiegato col lanciarazzi Argo. Dall'inventario fatto nell'arsenale militare di Val Jalbert hanno scoperto che ne mancavano due, insieme con parecchie testate esplosive.» «Buon Dio», mormorò Hunt con voce tremante. «Questo significa che tutta quella gente che era sul tuo aereo è stata assassinata.» «Le prove raccolte dalla commissione d'inchiesta sembrano confermarlo», disse Sarveux, calmo. «Il 'Movimento per il Quebec Libero'!» esclamò Hunt, soffocato dall'ira. «Non riesco a immaginare altri che possano esserne responsabili.» «Sono d'accordo con te, però sarà difficile trovare prove che li inchiodino.» «Perché?» protestò Hunt. «Quei terroristi vivono al di fuori della realtà, o sono un branco d'idioti integrali se pensano di cavarsela impunemente. La polizia non darà tregua ai responsabili di un eccidio così efferato. Come movimento rivoluzionario clandestino sono spacciati.» «Non essere troppo ottimista, amico mio. Il tentativo di assassinarmi è un reato che non rientra nella stessa categoria del lancio di bombe, rapimenti e omicidi degli ultimi quarant'anni. Quelli erano compiuti da dilettanti, appartenenti alle cellule del 'Movimento per il Quebec Libero', e finivano tutti quanti con l'essere catturati e condannati. Ma il massacro di James Bay è stato organizzato ed eseguito da professionisti. Lo dimostra il
fatto che non hanno lasciato alcuna traccia. In mancanza di meglio, il capo della polizia ipotizza che gli esecutori siano stati ingaggiati all'estero.» «A questo punto, i terroristi potrebbero portare il Paese alla guerra civile», osservò Hunt. «Non ci riusciranno», dichiarò Sarveux, senza agitarsi. «Non glielo permetterò.» «Eri stato proprio tu a minacciare i separatisti dell'intervento militare, per tenerli a freno.» Il primo ministro sorrise freddamente. «Era un bluff. Sei il primo al quale lo rivelo. In realtà non ho mai preso in seria considerazione l'idea di far occupare il Quebec da reparti dell'esercito. Reprimere con la forza una popolazione ostile non servirebbe a niente.» Hunt mise una mano in tasca. «Tutto sommato, credo che, a questo punto, una pipata me la concederò.» «Fa' pure.» L'accese e tirò le prime boccate, finché una spira di fumo azzurrognolo non salì verso il soffitto. Per un po' tacquero entrambi. Hunt fu il primo a rompere il silenzio. «E adesso, che cosa succederà?» «Il Canada che conosciamo si smembrerà e noi assisteremo impotenti alla rovina, senza poter far nulla per scongiurarla», rispose tristemente Sarveux. «Un Quebec che reclamasse l'indipendenza completa era già inevitabile. La concessione di una larga autonomia non è stata altro che una mezza misura. Adesso anche l'Alberta intende staccarsi, e l'Ontario e la Columbia britannica si stanno agitando per lo stesso fine.» «Tu hai condotto una saggia battaglia per mantenerci uniti, Charles. Nessuno ti può negare questo merito.» «Un errore», ribatté Sarveux. «Invece di temporeggiare, tu, io, il partito, il Paese tutto, avremmo dovuto elaborare un piano per affrontare la situazione. Ormai è troppo tardi e tra poco avremo un Canada irreparabilmente diviso.» «Mi rifiuto di accettare una previsione così catastrofica», dichiarò Hunt, ma il suo tono tradiva una forte incertezza. «L'abisso che si è aperto tra le tue province anglofone e il mio Quebec francofono è troppo grande perché lo si possa colmare con gli appelli al patriottismo», disse Sarveux, guardandolo diritto negli occhi. «Tu sei di discendenza britannica. Ti sei laureato a Oxford. Appartieni all'élite che ha sempre dominato il Paese, politicamente ed economicamente. Tu rappresenti la classe egemone. I vostri figli studiano in aule scolastiche sotto il ri-
tratto della regina, i ragazzi del Quebec sotto il ritratto di Charles de Gaulle. E, come sai bene, li attendono assai scarse occasioni di conseguire il successo in campo finanziario o di salire molto in alto, socialmente.» «Ma siamo tutti quanti canadesi», protestò Hunt. «No, non tutti. Tra noi, ce n'è uno che si è venduto a Mosca.» Hunt, sbalordito, si tolse di scatto la pipa che stringeva tra i denti. «Chi?» domandò, incredulo. «Di chi stai parlando?» «Dell'uomo che è a capo del movimento clandestino», rispose Sarveux. «Poco prima di recarmi a James Bay sono venuto a sapere di certi accordi che ha preso con l'Unione Sovietica; accordi che diventeranno operativi non appena il Quebec si staccherà dalla Confederazione. E, quel che è peggio, trova ascolto presso Jules Guerrier.» Hunt pareva colpito da una mazzata. «Il premier del Quebec? Non riesco a crederlo. Jules Guerrier si sente franco-canadese fino al midollo. Non nutre la minima simpatia per il comunismo e non fa segreto della sua avversione per il movimento clandestino di liberazione.» «Ma Jules, come noi, ha sempre supposto che avessimo a che fare con un terrorista uscito dalle fogne. Sbagliato! L'uomo di cui ti sto parlando non è un semplice estremista sviato. Mi è stato riferito che occupa un'alta carica nel nostro governo.» «Ma chi è? Da chi hai avuto l'informazione?» Sarveux scosse la testa. «Mi è pervenuta da un Paese straniero, ma, a parte questo dettaglio, non mi è lecito rivelare la fonte neppure a te. Quanto all'identità del traditore, non la conosco con assoluta certezza. I russi si riferiscono a lui con più d'un nome, però sono tutti in codice. Quello vero è un segreto ben custodito.» «Santo cielo! Che cosa accadrebbe, se dovesse succedere qualcosa a Jules?» «Il partito del Quebec andrebbe a rotoli e il movimento clandestino potrebbe approfittare a proprio beneficio del vuoto di potere.» «E con ciò intendi dire che la Russia si assicurerebbe un saldo punto d'appoggio nel cuore del Nordamerica?» «Sì», confermò cupamente Sarveux. «Proprio così.» 20 Henri Villon lasciava vagare lo sguardo fuori delle finestre della sala di controllo, nella centrale di James Bay, e il suo sinistro sorriso di soddisfa-
zione si rifletteva nei vetri tersi. La soluzione dell'enigma incentrato sulla garrotta di Roubaix si trovava un piano più sotto, nella sala del gigantesco generatore. Percival Stuckey, in piedi dietro di lui, era in preda alla perplessità e al timore. «Mi sento in dovere di protestare contro quest'atto», obiettò. «È contrario a ogni etica del vivere civile.» Villon si girò, fissando Stuckey con occhi gelidi. «Nella mia qualità di membro del parlamento e di ministro degli Interni nel governo Sarveux, le assicuro che si tratta di una prova della massima importanza per il nostro Paese e che le norme della civile convivenza non c'entrano affatto.» «È un procedimento che va contro tutte le regole», borbottò Stuckey, ostinato. «Parla proprio come un tipico burocrate», commentò Villon, beffardo. «E adesso mi dica una buona volta: è in grado di eseguire ciò che il governo le chiede di fare?» Il direttore si concesse una breve riflessione, poi disse: «La deviazione di milioni di kilowatt è estremamente complessa e richiede anticipi di fase e controlli della frequenza tutt'altro che semplici, oltre a una perfetta sincronizzazione. Sebbene gran parte di un eccesso di corrente finisca con lo scaricarsi a terra, è altrettanto certo che sovraccaricheremo oltre misura la nostra rete». «Ma lei può farlo?» insistette il ministro. «Sì, posso.» Stuckey si arrese, stringendosi nelle spalle. «Ma non vedo lo scopo di sospendere l'erogazione a tutte le città comprese tra Minneapolis e New York.» «Per cinque secondi», disse Villon, ignorando l'implicita richiesta di spiegazioni dell'altro. «Non ha che da interrompere l'erogazione di energia elettrica agli Stati Uniti per cinque brevi secondi.» Stuckey gli lanciò un'ultima occhiata colma di diffidenza, poi si chinò tra i tecnici seduti alla consolle e girò parecchie manopole. I monitor sovrastanti si accesero e sugli schermi comparvero numerose vedute panoramiche delle città irte di grattacieli. «Se non vedo male, il contrasto si attenua mentre lei le inquadra da sinistra a destra», notò il ministro. «Le più buie sono Boston, New York e Filadelfia.» Il direttore lanciò un'occhiata all'orologio. «A Chicago è già sceso il crepuscolo, mentre a Minneapolis il sole sta appena tramontando.» «Come faremo a sapere, per le città ancora illuminate dalla luce del giorno, se il blackout è stato completo?»
Stuckey regolò leggermente il quadro e il monitor di Minneapolis zumò un incrocio stradale intasato dal traffico. L'immagine era così chiara, che Villon poté distinguere perfino gl'indicatori stradali all'angolo tra la Third Avenue e la Hennepin Avenue. «I semafori. Lo sapremo quando si spegneranno.» «Piomberà nel buio anche il Canada?» «Soltanto le piccole città di confine collegate con i nostri terminali.» I tecnici eseguirono una serie di manovre sulla consolle, poi si fermarono. Stuckey guardò Villon e lo fissò senza abbassare gli occhi. «Tenga presente che io declino ogni responsabilità per le conseguenze.» «Prendo debita nota delle sue riserve», rispose il ministro. Puntò lo sguardo sugli schermi, mentre un lampo d'incertezza dell'ultimo istante e una valanga di dubbi tardivi facevano vacillare brevemente la sua decisione. Avvertì di colpo tutto il peso dell'azione che stava per caricarsi sulle spalle. Cinque secondi. Un avvertimento che non poteva essere trascurato o frainteso. Poi si scrollò di dosso ogni timore e disse: «Potete procedere», accompagnando le parole con un cenno imperioso. E, subito dopo, vide scomparire dai quadri luminosi una quarta parte degli Stati Uniti. PARTE SECONDA IL DOODLEBUG
21 Marzo 1989 Washington Alan Mercier fu sopraffatto da un senso di smarrimento, quasi di timore, mentre stava esaminando con scrupolo, la sera tardi, una pila di suggerimenti del comando militare, riguardanti la sicurezza nazionale. Non poteva fare a meno di chiedersi se il nuovo presidente sarebbe stato capace di rendersi realisticamente conto della situazione. Dichiarare la bancarotta del Paese, per quanto il passo fosse indispensabile, significava farsi mettere ufficialmente sotto accusa dalla camera dei rappresentanti.
Mercier si appoggiò con le spalle allo schienale e si stropicciò gli occhi stanchi. I fogli che stava passando in rassegna non erano più semplici proposte e previsioni dattiloscritte su carta protocollo. Adesso diventavano decisioni che si sarebbero ripercosse su milioni di esseri umani. Fu distolto dalle sue tristi riflessioni da un collaboratore che entrò nell'ufficio e, indicando il telefono, lo avvertì: «C'è una chiamata per lei dal dottor Klein, signore». «Salve, Ron. Neppure tu, a quanto pare, riesci a trovare un minuto di tempo durante la giornata.» «Puoi dirlo», rispose Klein. «Ho pensato che saresti stato contento di sapere che ho scoperto un filo conduttore che ci porta a quel vostro costoso congegno.» «E sai anche che cos'è?» «No. E nessuno, da queste parti, ne ha la più pallida idea.» «Spiegati meglio.» «I fondi sono stati convogliati regolarmente al ministero dell'Energia, ma poi li hanno dirottati immediatamente verso un altro organo federale.» «Quale?» «La NUMA, National Underwater & Marine Agency.» Mercier tacque, immerso nelle sue riflessioni. «Alan, sei ancora lì?» «Sì, scusami.» «Noi, a quanto pare, siamo stati soltanto gli intermediari», seguitò Klein. «Mi rincresce di non poterti dire niente di più preciso, ma questo è tutto quanto ho potuto scoprire.» «Mi sa che c'è qualcosa di poco chiaro, sotto. Perché mai il ministero dell'Energia avrebbe concesso una somma così ingente a un ente che si occupa di oceanografia?» «Non so proprio che cosa dire. Vuoi che incarichi i miei d'indagare più a fondo?» Mercier rifletté un attimo, poi concluse: «No, meglio che me ne occupi io. Un'indagine da un settore neutrale susciterà probabilmente meno chiasso». «Se dovrai litigare con Sandecker, non t'invidio davvero.» «Ah, già, il direttore della NUMA. Non l'ho mai conosciuto personalmente, ma ho sentito dire che è un figlio di buona donna, da prendere con le molle.» «Io lo conosco», disse Klein. «La tua definizione è fin troppo blanda. Inchioda le sue budella sulla porta del granaio e ti garantisco che mezza
Washington vorrà offrirti una medaglia.» «Però dicono anche che è un uomo in gamba.» «Non è certamente uno stupido. Non s'immischia coi politici, ma si tiene buoni gli ambienti giusti. E non guarderebbe in faccia nessuno pur di spuntarla con i suoi progetti. Quelli che gli si sono messi contro hanno sempre avuto la peggio. Se hai intenzione di venire ai ferri corti con lui, ti consiglio di vagliare bene le tue chances.» «Innocente, finché mancano le prove della colpevolezza», disse Mercier. «Per di più è assai difficile riuscire ad acchiapparlo. Non risponde mai alle telefonate e non lo si trova mai in ufficio.» «Escogiterò la maniera d'inchiodarlo», assicurò Mercier, fiducioso. «Grazie per il tuo aiuto.» «Di niente», replicò Klein. «Buona fortuna. Ho la sensazione che ne avrai bisogno.» 22 Ogni pomeriggio, alle quattro meno cinque in punto, l'ammiraglio James Sandecker, direttore generale della NUMA, la National Underwater & Marine Agency, usciva dal suo ufficio e scendeva con l'ascensore al decimo piano, dove si trovava il dipartimento addetto alle comunicazioni. Era piccolo di statura - superava di poco il metro e sessanta -, ma battagliero e rosso di pelo, con una barbetta ben curata e una folta chioma striata soltanto da qualche filo bianco. Sano e vigoroso, portava molto bene i suoi sessantun anni. Si manteneva in forma trangugiando quotidianamente una buona dose di pillole vitaminiche e di estratto d'aglio, e percorrendo ogni mattina a piedi, di buon passo, i nove chilometri di strada tra casa sua e il quartier generale della NUMA, nell'alto edificio tutto vetri. Entrò come d'abitudine nell'immenso salone delle comunicazioni, stracolmo di apparecchiature manovrate da una squadra di quarantacinque tra ingegneri elettronici e tecnici. Sei satelliti che orbitavano intorno alla terra, ciascuno seguendo la propria rotta fissa, collegavano la NUMA con le stazioni meteorologiche, con le spedizioni di ricerche oceanografiche e con un centinaio di altre imprese analoghe sparpagliate in giro per il mondo. Il dirigente del settore alzò gli occhi quando Sandecker comparve. Era avvezzo alle visite dell'ammiraglio e alla sua puntualità cronometrica. «Sala di proiezione B, ammiraglio, se non le dispiace.» Sandecker annuì con un breve cenno del capo ed entrò in quello che
sembrava un piccolo studio cinematografico. Sedette in una comoda poltroncina e attese, paziente, finché sul monitor non si focalizzò un'immagine. Un uomo alto e dinoccolato lo guardò dallo schermo con un paio d'occhi penetranti. Aveva i capelli neri e sulla faccia, che richiamava l'idea di uno scoglio che le onde avrebbero tentato inutilmente di sgretolare, apparve un sorriso. Dirk Pitt stava seduto su una seggiola inclinata all'indietro, con i piedi piantati irriverentemente sopra una consolle elettronica. Teneva sollevato nella destra un panino imbottito dal quale aveva già staccato un boccone e, spalancando le braccia, esclamò: «Voglia scusarmi, ammiraglio. Mi ha colto sul più bello d'uno spuntino!» «Da quanto mi risulta, lei non ha mai badato, prima d'ora, alle formalità», borbottò in tono bonario Sandecker. «Perché incominciare adesso?» «Questa specie di aborto galleggiante è più freddo del buco del culo di un orso polare. Bruciamo una tonnellata di calorie soltanto per tentare di non restare congelati.» «Il Doodlebug non è una nave da crociera.» Pitt posò il panino. «Può darsi, però, in occasione del prossimo viaggio, la ciurma sarebbe lieta se si apportasse qualche miglioria al sistema di riscaldamento.» «A quale profondità siete?» Pitt guardò un quadrante. «A duecentoquarantatré metri. Temperatura dell'acqua meno tre. Condizioni non precisamente propizie per una partita di pallanuoto.» «Qualche difficoltà?» «Nessuna», rispose Pitt, sempre sorridente. «Il nostro pendolo da rabdomante si comporta da perfetto gentiluomo.» «Stiamo sprecando tempo», osservò Sandecker. «Da un momento all'altro mi aspetto una telefonata dal nuovo presidente, il quale vorrà sapere che cosa stiamo combinando.» «L'equipaggio e io resteremo nei paraggi finché avremo carburante, ammiraglio. Di più non le posso promettere.» «Avete individuato qualche giacimento?» «Siamo passati sopra enormi giacimenti di minerali ferrosi, e altri, commercialmente sfruttabili, di uranio, torio, oro e manganese. Quasi tutti i minerali conosciuti, in altre parole, tranne il nostro obiettivo primario.» «Ma dal punto di vista geologico vi sono speranze?» «Indizi sempre più incoraggianti, ma niente che somigli a un sollevamento strutturale, a un anticlinale o a un duomo salino.»
«Io continuo a sperare in una fossa stratigrafica. Potenzialmente è la più probabile.» «Il Doodlebug non è in grado di creare una barra di sabbia, ammiraglio, ma ionicamente di scoprirne una.» «Non per cambiare discorso, ma le raccomando di tener d'occhio lo specchietto retrovisore. Se le fanno una contravvenzione per aver trasgredito il codice stradale, non potrò tirarla fuori dei guai.» «Volevo chiederle una cosa: che fare per impedire ai curiosi di captare le mie videotrasmissioni?» «Metterne fuori uso quaranta per volta.» «Come, scusi?» «La rete di comunicazioni via satellite della NUMA è in collegamento diretto con altre quaranta stazioni che ricevono e ritrasmettono tutte quante, immediatamente, le vostre comunicazioni, con un intervallo inferiore a un millisecondo. A chiunque sia sintonizzato sulla vostra frequenza, la sua voce e la sua immagine giungono da quaranta punti diversi, distribuiti in giro per il mondo. Quindi non ha la possibilità di stabilire la fonte originaria.» «Be', ritengo che con questo margine di rischio possiamo vivere abbastanza tranquilli.» «La lascio al suo spuntino.» Pitt, ammesso che fosse pessimista, non lo diede a vedere. Inalberò un'espressione fiduciosa e agitò pigramente una mano. «Non si dia troppo pensiero, ammiraglio. La media statistica gioca a nostro favore.» Sandecker continuò a tenere gli occhi sullo schermo mentre la faccia del suo interlocutore scompariva. Poi si alzò e uscì dalla sala di proiezione. Salì due piani a piedi fino alla sezione dei computer, superando i controlli di sicurezza. In una stanza con i divisori di vetro che la isolavano dal ronzio delle macchine, un uomo in camice bianco stava esaminando una pila di schede stampate, uscite dal computer. Sbirciò al di sopra degli occhiali l'ammiraglio che gli si stava accostando. «Buongiorno, dottore», lo salutò Sandecker. Il dottor Ramon King gli rispose alzando con un gesto indolente la matita che teneva in mano. Il volto malinconico, dalla pelle chiara e con un paio di sopracciglia cespugliose, era del tipo che raramente rivela qualcosa, perdendo la propria naturale impassibilità. King si poteva permettere un comportamento scostante. Era lui la mente geniale che aveva concepito il
Doodlebug. «Funziona tutto a dovere?» chiese l'ammiraglio, tentando di avviare una conversazione. «La sonda funziona perfettamente, come ha funzionato ieri, ieri l'altro e le due settimane precedenti. Se il nostro bebè dovesse manifestare disturbi di dentizione, lei sarà il primo a esserne informato.» «Meglio una buona nuova che nessuna nuova», scherzò l'ammiraglio. King spinse da parte le schede stampate e guardò Sandecker in faccia. «Lei non sta pretendendo solo la luna, ma anche le stelle per soprammercato. Perché insistere con questa rischiosa spedizione? Il Doodlebug è un successo comprovato. Raggiunge profondità maggiori alle più rosee aspettative. Schiude prospettive di scoperte sensazionali. La smetta di mantenere il segreto, in nome di Dio, e ne renda nota l'esistenza.» «No!» ringhiò Sandecker in risposta. «Non fino al maledetto momento in cui vi sarò costretto.» «Ma che diavolo sta tentando di dimostrare?» insistette lo scienziato. «Voglio avere la prova che è qualcosa di più di un sofisticato rabdomante.» King si riaggiustò gli occhiali e riprese ad analizzare i dati forniti dal computer. «Non sono portato al gioco d'azzardo, ammiraglio, ma siccome è lei quello che si assume il grosso del rischio, la seguirò nel suo gioco, pur sapendo benissimo che finirò anch'io nella merda, col mio nome nel libro nero del ministero della Giustizia sotto l'accusa di essermi reso complice.» S'interruppe, fissando in faccia Sandecker. «Ripongo un interesse legittimo nel Doodlebug. Ci terrei come chiunque altro che facesse epoca, però, se qualcosa dovesse andare storto e quei tizi che sono immersi nell'oceano fossero beccati come ladri nella notte, il meglio che lei e io ci potremmo aspettare sarebbe di venire impeciati e coperti di piume prima che ci spediscano in esilio nell'Antartico. Quanto al peggio, non oso pensarci.» 23 I cultori dilettanti di atletica residenti a Washington disapprovavano Sandecker, perché era il solo praticante di jogging che, a memoria d'uomo, si fosse fatto i suoi bravi chilometri quotidiani divorando i marciapiedi cittadini con un immancabile sigaro alla Churchill tra le labbra. Stava trotterellando, come al solito, verso la sede della NUMA, sotto un cielo coperto di nuvole mattutine, quando si sentì chiamare da un tipo rotondetto, con
indosso un abito tutto sgualcito; se ne stava seduto su una panchina, alla fermata dell'autobus, ed era intento a leggere un giornale. «Ammiraglio Sandecker, potrei scambiare due parole con lei?» Sandecker si girò per pura curiosità, ma, non riconoscendo il consigliere del presidente per la sicurezza nazionale, non si fermò. «Mi telefoni per un appuntamento», ansimò. «Non mi va di perdere il mio ritmo.» «Per favore, ammiraglio, sono Alan Mercier.» Sandecker si fermò aggrottando le sopracciglia. «Mercier?» L'ometto ripiegò il giornale e si alzò in piedi. «Mi scuso per aver interrotto il suo esercizio mattutino, ma so che altrimenti mi sarebbe difficile ottenere un colloquio.» «Data la sua carica, lei è un mio superiore. Avrebbe potuto limitarsi a ordinarmi di venire alla Casa Bianca.» «Non sono un fanatico del protocollo», replicò Mercier. «Un incontro non ufficiale presenta i suoi vantaggi.» «Già, come quello di bloccare la preda su un terreno che non le è familiare», commentò Sandecker. «Una tattica subdola. A volte la impiego anch'io.» «Stando alle dicerie, lei è un maestro in fatto di tattiche ingannevoli.» Per un attimo, l'ammiraglio apparve sconcertato, poi scoppiò in una risata, levò un accendino dalla tasca della tuta sportiva e si accese l'immancabile mozzicone di sigaro. «So riconoscere le sconfitte, signor Mercier. Lei non mi ha certo teso un agguato per rapinarmi del portafogli. Che cosa sta meditando?» «Be', per esempio che lei mi parli del Doodlebug.» «Il Doodlebug?» L'ammiraglio rizzò la testa di scatto, un movimento che in qualsiasi altra persona avrebbe dimostrato che cadeva dalle nuvole. «Uno strumento interessante», disse, fingendo di equivocare. «Immagino che lei si diletti a usarlo.» «Perché è così elusivo?» Sandecker si strinse nelle spalle. «Potrei dirle che si tratta dello strumento indispensabile a un rabdomante.» «Gli strumenti dei rabdomanti, come dice lei, non costano ai contribuenti seicentottanta milioni di dollari.» «Che cosa vuol sapere di preciso?» «Un apparecchio così dispendioso esiste realmente?» «Esiste, eccome. E potrei aggiungere che è riuscito come meglio non ci si sarebbe potuti augurare.»
«Lei è disposto a illustrarne l'impiego e a giustificare le somme spese per la progettazione e la costruzione?» «Quando?» «Al più presto.» «Mi conceda due settimane e glielo consegnerò ben impacchettato e infiocchettato.» Mercier era deciso a non permettergli di tergiversare oltre. «Due giorni.» «Intuisco quello che sta pensando», rispose Sandecker, serio. «Ma le garantisco che non ha motivo di temere uno scandalo, tutt'altro. Si fidi di me per almeno una settimana ancora. Non ce la farei a raccogliere tutti i dati in meno tempo.» «Incomincio a sentirmi complice di un imbroglio.» «Una settimana, per favore.» Mercier lo guardò negli occhi. Dio mio, quest'uomo mi sta supplicando, pensò. Non se lo sarebbe mai aspettato, da parte di Sandecker. Fece cenno di avvicinarsi all'autista che aveva parcheggiato la macchina poco lontano e annuì. «D'accordo, ammiraglio, avrà la sua settimana.» «Ha concluso un buon affare», disse Sandecker con un sogghigno furbesco. Poi, senza aggiungere parola, si allontanò, riprendendo la sua trottata mattutina verso la sede della NUMA. Mercier lo seguì con gli occhi, mentre rimpiccioliva via via con la distanza, quasi si fosse dimenticato dell'autista che se ne stava in paziente attesa accanto alla portiera aperta della macchina. Immobile, come se avesse messo radici, friggeva di bile, convincendosi sempre più di essere stato giocato. 24 Era stata una giornata estenuante per Sandecker. Dopo l'inatteso colloquio con Mercier, aveva sostenuto una faticosa schermaglia con la commissione senatoriale del bilancio di previsione fino alle undici della sera, difendendo a spada tratta gli obiettivi della NUMA, perorando la sua causa e, in alcuni casi, esigendo fondi addizionali per le operazioni che l'ente aveva in programma. Era un'attività burocratica che detestava. Dopo aver consumato un pasto leggero al circolo ufficiali, rientrò nel suo appartamento al Watergate, si versò un bicchiere di latte e si liberò dalle scarpe. Stava appena incominciando a rilassarsi, quando il telefono squillò. Lo avrebbe lasciato suonare senza rispondere se non si fosse girato per vedere
su quale linea arrivava la chiamata. La spia rossa sul circuito diretto della NUMA lampeggiava e, data l'ora, non annunciava niente di buono. «Sandecker.» «Ammiraglio, sono Ramon King. Abbiamo un problema col Doodlebug.» «Qualcosa non funziona?» «Magari», rispose King. «Il nostro sistema d'intercettazione ha scoperto un intruso.» «Sta attaccando il battello?» «No.» «Allora sarà uno dei nostri sommergibili che per caso incrocia in quelle acque», fu l'ottimistica supposizione di Sandecker. Lo scienziato pareva preoccupato. «Mantiene una rotta parallela, a una distanza di quattromila metri. Si direbbe che stia pedinando il Doodlebug.» «Brutto segno.» «Avrò un'idea più precisa della situazione quando i computer sputeranno fuori un'analisi particolareggiata dello sconosciuto ficcanaso.» Sandecker non disse nulla. Sorseggiò il suo latte, riflettendo. Alla fine ordinò: «Telefoni a quelli della sezione sicurezza e li avverta di scovare Al Giordino, dovunque si trovi. Voglio che della faccenda se ne occupi lui personalmente». King obiettò, esitante: «Giordino è a conoscenza... be', intendo dire, sa...» «Sì, lo sa», lo rassicurò Sandecker. «L'ho tenuto al corrente io stesso del programma, mentre era in corso di esecuzione, nel caso che avesse dovuto sostituire Pitt. Sarà bene che lei vada avanti insieme con lui. Io sarò da voi tra un quarto d'ora.» L'ammiraglio chiuse la comunicazione. I suoi timori più gravi avevano preso consistenza. Fissava il liquido biancastro nel bicchiere quasi avesse voluto visualizzare il misterioso natante che seguiva le orme dell'indifeso Doodlebug. Poi depose il bicchiere e corse alla porta, senza accorgersi che ai piedi aveva soltanto le calze. A grande profondità sotto la superficie del mare del Labrador, non lontano dalla punta settentrionale di Terranova, Pitt, silenzioso e raggelato, scrutava attento i dati elettronici che comparivano sullo schermo mentre il sommergibile sconosciuto sfiorava l'estremo margine di portata degli stru-
menti di bordo del Doodlebug. Si sporse in avanti esaminando una fila di dati che lampeggiavano, poi, all'improvviso, lo schermo si spense. Il contatto era andato perso. Bill Lasky, l'operatore addetto al quadro di comando, si voltò verso Pitt scrollando la testa. «Purtroppo l'amico è un tipo timido, Dirk. Non vuol saperne di starsene fermo e buono per una ripresa.» Pitt gli posò una mano sulla spalla: «Tu insisti e continua a cercarlo. Prima o poi dovrà scavalcare lo steccato dalla nostra parte». Uscì dalla sala di controllo, superando un labirinto di complessi strumenti elettronici; il pavimento di linoleum smorzava il rumore dei passi. Lasciandosi scivolare giù per una scaletta che portava a un ponte inferiore, entrò in un minuscolo cubicolo, non più ampio di due cabine telefoniche attigue. Si mise a sedere sull'orlo di una cuccetta pieghevole, spiegò sul piano d'una scrivania in miniatura una pianta e osservò con attenzione l'interno del Doodlebug. Questo qui è una mostruosità subacquea, pensò, osservando il disegno della sezione orizzontale del più sofisticato battello per ricerche che fosse mai stato concepito. Si sarebbe potuto giurare che niente di simile era stato mai costruito per andare in cerca di bottino sotto i mari. La sua forma compatta superava i limiti del ridicolo. La descrizione più calzante che se ne sarebbe potuta dare suonava: «la metà dell'interno di un'ala di aereo vista longitudinalmente», oppure «la torre di comando di un sommergibile che ha perso il rivestimento». In altre parole, era una piastra metallica che navigava in posizione verticale. La sistemazione dei tre membri dell'equipaggio lasciava molto a desiderare in fatto di comodità. L'intervento umano era essenziale unicamente nei casi di emergenza, o se si rendeva necessaria qualche riparazione. Il natante era azionato e pilotato automaticamente dai computer che si trovavano a Washington, all'interno del palazzo che ospitava la NUMA. «Che ne diresti di un sorso di medicina, tanto per schiarirci le meningi?» Pitt alzò la testa e si vide davanti il mago dell'elettronica di bordo, Sam Quayle, che lo guardava con i suoi malinconici occhi da segugio e teneva in una mano due bicchieri di plastica e nell'altra una bottiglia nella quale erano rimaste due dita di brandy. «Vergogna!» esclamò, tentando di mostrarsi serio, ma senza riuscir a reprimere un sorriso. «Lo sai benissimo che i regolamenti della NUMA proibiscono gli alcolici a bordo dei battelli adibiti alle ricerche.» «Non è colpa mia», replicò Quayle, con finta innocenza. «Ho trovato
quest'opera del demonio, o il poco che ne è rimasto, nella mia cuccetta. La deve aver dimenticata uno degli operai, durante i lavori di costruzione.» «Molto strano», mormorò Pitt. «Che c'è di strano?» «La coincidenza.» Pitt cacciò la mano sotto il cuscino e ne tirò fuori, sollevandola bene in vista, una bottiglia di whisky piena a metà. «Anche questa la deve aver dimenticata un operaio nella mia cuccetta.» Quayle sorrise e allungò i bicchieri. «Se per te è lo stesso, conserverei il mio per bagnarci il becco all'ora dello spuntino.» Pitt riempì i due bicchieri e ne porse uno al compagno. Poi si rimise a sedere sulla cuccetta e, fattosi serio, chiese: «Tu che ne pensi, Sam?» «Del nostro evasivo visitatore?» «Appunto. Che cosa gl'impedisce di avvicinarsi per darci una guardata dappresso? Perché sta giocando a gatto e topo?» Quayle ingollò una sorsata di scotch e si strinse nelle spalle. «Probabilmente la configurazione del Doodlebug esula dalle possibilità delle apparecchiature di rivelazione dei sommergibili. Scommetterei che in questo preciso momento il comandante sta chiedendo informazioni per sapere se qualcun altro si trova in immersione nella zona di pattugliamento, prima di costringerci ad accostarci al marciapiede e appiopparci una multa per aver trasgredito alle norme del traffico.» Vuotato il bicchiere, l'uomo guardò con eloquente desiderio la bottiglia. «Potrei fare il bis?» «Serviti pure.» Approfittò del permesso per versarsi una seconda, robusta dose. «Mi sentirei assai più tranquillo se riuscissimo ad appiccicare un'etichetta con tanto di nome e cognome a quei tizi.» «Si guarderanno dall'entrare nel raggio dei nostri rivelatori. Quello che non riesco a spiegarmi è il motivo del loro comportamento. Si direbbe che s'immergano e riemergano per il gusto di sfotterci.» «Niente di misterioso», rispose Quayle con una smorfia, come se lo scotch gli avesse bruciato la gola. «I loro amplificatori a trasduttore magnetico stanno valutando i nostri sondaggi. Sanno perfettamente, con uno scarto di pochi metri, in quale punto i segnali si smorzano fino a cessare.» Pitt si tirò su di scatto, aggrottando la fronte. «Supponiamo... sì, tanto per fare un'ipotesi...» Non terminò la frase. Andò precipitosamente alla scaletta che portava alla sala di controllo e vi si arrampicò con la rapidità di un gatto. Quayle si concesse un'altra sorsata e lo seguì. Ma senza troppa fretta.
«Qualche novità?» chiese Pitt. Lasky scosse la testa. «Niente. Gli intrusi seguitano a fare i furbi.» «Sospendiamo gradatamente i sondaggi. Può darsi che così li adescheremo, inducendoli ad avvicinarsi. E non appena ci capitano a tiro, li colpiamo con tutti gli strumenti sensibili che abbiamo a bordo.» «E tu speri d'incastrare un sommergibile nucleare con un equipaggio di tecnici altamente specializzati ricorrendo a un giochetto da asilo infantile come questo?» ribatté Quayle, scettico. «Perché no?» Pitt sogghignò con aria combattiva. «Scommetto il mio scotch contro il tuo brandy che cadranno nel tranello.» Il collega non sarebbe potuto essere più sbalordito di chi avesse scoperto una zona portuale nel deserto di Gobi. «Per me, provaci pure.» Durante l'ora che seguì, i tre uomini svolsero le solite mansioni di routine, controllando gli strumenti e l'equipaggiamento. Poi Pitt diede un'occhiata all'orologio e si rivolse a Lasky con un cenno. «Attiva i sistemi.» «Sistemi attivati.» «Bene, inchioda quella carogna!» Lo schermo dell'elaboratore dati s'accese e comunicò quanto Pitt voleva sapere. DISTANZA: 3480 METRI. ROTTA: DIREZIONE UNO-ZERO-OTTO. VELOCITÀ: DIECI NODI. «Ha abboccato all'amo!» Quayle non riuscì a reprimere un entusiastico compiacimento. «Lo abbiamo acchiappato!» LUNGHEZZA TOTALE: 76 METRI. LARGHEZZA MASSIMA APPROSSIMATIVA: 10,7 METRI. PROBABILE DISLOCAMENTO IN IMMERSIONE: 3650 TONNELLATE. POTENZA: UN REATTORE NUCLEARE CON RAFFREDDAMENTO AD ACQUA. TIPO: HUNTER-KILLER. CLASSE: AMBERJACK. NAZIONALITÀ: USA. «È uno dei nostri», commentò Lasky, con evidente sollievo.
«Possiamo dirci fortunati, se non altro siamo tra amici», mormorò Quayle. L'unico dei tre a non mostrare sollievo fu Pitt. «Non è ancora detto che siamo fuori dei guai.» «L'amico ficcanaso ha modificato la rotta; adesso è zero-sette-sei. E aumenta la velocità», lesse Lasky ad alta voce, senza distogliere gli occhi dallo schermo. «In questo momento si sta allontanando da noi.» «Se non sapessi che è uno dei nostri», osservò Quayle, impensierito, «direi che si stava preparando ad attaccarci.» «Spiegati meglio», lo sollecitò Pitt. «Parecchi anni fa, facevo parte di un gruppo di progettisti incaricati di elaborare i piani d'un sistema di nuove armi subacquee per la Marina statunitense. Fu allora che venni a sapere un particolare relativo ai sommergibili di questo stesso tipo: essi si accostano al bersaglio in velocità, di fianco, e poi si allontanano prima di lanciare un siluro.» «Il che sarebbe lo stesso che scaricare il revolver a sei colpi sul cattivo, con l'arma rivolta all'indietro, mentre ci si lancia al galoppo fuori della città, come nei western.» «Un paragone calzante», riconobbe Quayle. «I siluri moderni sono zeppi di sensori acustici, termici e magnetici. Una volta fuori del tubo di lancio inseguono l'obiettivo con una stramaledetta tenacia. Se lo mancano sulla prima, si mettono a girargli intorno e insistono, finché non lo prendono in pieno. È per questo che il sommergibile, dando per scontato che l'avversario disponga di armi analoghe, si affretta a portarsi fuori tiro e a intraprendere un'azione evasiva.» Un'espressione preoccupata comparve sul volto di Pitt. «A quanta distanza siamo dal fondo?» «Duecentotrenta metri», rispose Lasky. Pitt, che non era ancora riuscito ad adeguarsi al sistema metrico decimale, eseguì mentalmente la conversione al sistema anglosassone: circa 750 piedi. «E la configurazione?» «Appare accidentata. Affioramenti rocciosi, che sporgono per una quindicina di metri.» Pitt si accostò al tavolino sul quale tracciavano i grafici e studiò una mappa millimetrata del fondo marino. Poi disse: «Lasciamo perdere gli ordini e caliamoci giù». Lasky gli scoccò un'occhiata poco convinta. «Alla NUMA, quelli della sala controllo andranno su tutte le furie se li lasciamo in bianco.»
«Noi siamo qui, mentre Washington è lontana tremila miglia. Perciò ritengo preferibile che si agisca di testa nostra, fintanto che non sapremo che cosa ci dobbiamo aspettare.» Quayle, sgomento, chiese: «Non penserai sul serio che quelli ci vogliano attaccare?» «Anche se le probabilità fossero soltanto una su cento non intendo trascurarle.» Pitt si rivolse a Lasky. «Portaci sotto. E auguriamoci di non finire completamente sfracellati sul fondo oceanico.» «Dovrò impiegare il sonar per non andare a sbattere contro qualche rilievo.» «Quello tienilo incollato sul sommergibile», ordinò Pitt. «Serviti piuttosto dei riflettori e dei monitor televisivi. E ci serviremo anche degli occhi.» «Ma è pura pazzia», protestò Quayle. «Se ci dovessimo spingere in prossimità delle coste siberiane, credi che i russi esiterebbero a prenderci a calcioni proprio dove fa più male?» «Santa madre di Dio!» ansimò Lasky. Pitt e Quayle raggelarono mentre fissavano, con gli occhi colmi di paura dell'animale braccato, le luminose lettere verdi comparse sullo schermo. EMERGENZA: CRITICA. ROTTA: DIREZIONE: UNO-NOVE-TRE. VELOCITÀ: SETTANTA NODI. SITUAZIONE: COLLISIONE IMMINENTE. CONTATTO: TRA UN MINUTO E UNDICI SECONDI. «Si sono allontanati dopo averci fregato», sussurrò Lasky, con la faccia di un uomo che avesse visto la propria tomba spalancarglisi davanti ai piedi. «Ci hanno lanciato contro un siluro.» Giordino avvertì per così dire l'odore di un'imminente sciagura nel momento in cui piombò nella sala dei computer. E avrebbe potuto leggere il triste presagio negli occhi del dottor King e dell'ammiraglio Sandecker. Solo che nessuno dei due si accorse dell'arrivo dell'italiano, un ometto piccolo di statura e scuro di pelle. Tutta la loro attenzione era concentrata sul gigantesco schermo che occupava un'intera parete. Giordino ci mise un attimo per esaminarlo e comprendere che quanto vi leggeva era l'annuncio di un disastro incombente. «Invertite la loro marcia in avanti», disse, calmo. «Non posso.» King alzò le mani, impotente. «Hanno interrotto il colle-
gamento con noi.» «Allora usate la radio.» «Impossibile anche questo.» Sandecker rispose cupamente, in un tono che ne palesava la tensione. «C'è un'interruzione nelle trasmissioni orali via satellite.» «Contattateli mediante i computer!» «Sì, sì», mormorò King, con un debole lampo di comprensione nello sguardo. «Sono ancora in grado di controllare le loro apparecchiature per l'inserimento dei dati.» Giordino osservò lo schermo, contando i secondi che mancavano all'impatto del siluro, mentre King parlava in una ricetrasmittente che, a sua volta, ritrasmetteva la comunicazione al Doodlebug. «Pitt ci ha preceduti», disse Sandecker, accennando allo schermo. Tutti e tre respirarono momentaneamente di sollievo notando che l'implacabile cacciatore del Doodlebug rallentava la sua corsa in avanti. «Mancano dieci secondi all'impatto», annunciò Giordino. Sandecker afferrò il telefono e urlò allo spaventato operatore di turno: «Datemi l'ammiraglio Joe Kemper, capo delle operazioni navali!» «Tre secondi... due... uno...» La sala piombò in un silenzio colmo di tensione; nessuno aveva il coraggio di parlare, erano tutti timorosi di pronunciare parole che sarebbero potute diventare l'epitaffio del «pendolino», e del suo equipaggio. Lo schermo continuava a rimanere spento. Poi la proiezione dei dati riprese. «Colpo mancato.» King tirò un sospirane. «Il siluro gli è passato vicino dalla parte di poppa, a novanta metri di distanza.» «I sensori magnetici non possono puntare con precisione il suo scafo di alluminio», commentò Sandecker. Giordino fu costretto suo malgrado a sorridere alla replica di Pitt. PRIMA RIPRESA. HA FATTO CILECCA. QUALCHE IDEA LUMINOSA PER MANDARGLI BUCA LA SECONDA? «Il siluro sta girando in tondo per un nuovo tentativo», disse King. «Qual è la traiettoria?» «Si direbbe che segua un percorso rettilineo.» «Ordinategli di far ruotare il Doodlebug sul fianco, inclinandolo su un piano orizzontale, in maniera che presenti la chiglia al siluro, per ridurre la
superficie d'impatto.» Sandecker fu messo in comunicazione con uno degli aiutanti di Kemper, un capitano di corvetta, il quale lo informò che l'ammiraglio dormiva e non voleva essere disturbato. La notizia ebbe l'effetto di mandare Sandecker su tutte le furie. «Mi ascolti bene, giovanotto», rispose, nel tono intimidatorio per cui era famoso. «Si dà il caso che io sia l'ammiraglio James Sandecker della NUMA e che questa sia un'emergenza. La sollecito caldamente a far venire Joe al telefono, o altrimenti la sua prossima destinazione sarà un centro meteorologico sull'Everest. E adesso si muova!» Dopo qualche secondo la voce dell'assonnato ammiraglio Kemper arrivò, strascicata, dall'altro capo della linea. «Jim, che cavolo succede?» «Succede che uno dei tuoi sottomarini sta attaccando uno dei miei battelli di ricerca.» Kemper reagì come se gli avessero sparato. «Dove?» «Dieci miglia al largo delle isole Button, nel mare del Labrador.» «In acque canadesi, allora?» «Non ho tempo per le spiegazioni», tagliò corto Sandecker. «Devi ordinare al tuo sommergibile di disporre l'autodistruzione del loro siluro prima che ci rendiamo responsabili di un'assurda tragedia.» «Resta in linea», disse Kemper. «Torno subito.» «Cinque secondi», annunciò Giordino. «Il circolo si è ristretto», osservò King. «Tre secondi... due... uno...» Parve che l'intervallo successivo si prolungasse all'infinito. Poi King esclamò: «Un nuovo colpo fallito. Questa volta di soli dieci metri». «Quanto gli manca per toccare il fondo?» chiese Giordino. «Trentacinque metri. E continuano a scendere. Credo che Pitt tenti di nascondersi dietro un affioramento roccioso. Ma ho paura che non ce la faccia. Se il siluro non li prende in pieno al prossimo passaggio, è quasi certo che gli produrrà comunque uno squarcio nello scafo.» Sandecker s'irrigidì nel riudire la voce di Kemper. «Ho parlato con il comandante in capo della difesa artica, che sta trasmettendo un segnale di priorità assoluta al sommergibile. Spero soltanto che arrivi in tempo.» «Non sei l'unico a sperarlo!» «Mi rincresce per questa faccenda sciagurata, Jim. La nostra Marina non ha l'abitudine di sparare prima al bersaglio e chiedergli solo dopo d'identificarsi. Ma siamo in piena stagione di caccia ai natanti subacquei non identificati che incrociano in prossimità del litorale nordatlantico. A proposito,
che cosa ci sta facendo il tuo battello, da quelle parti?» «Non è la Marina la sola a svolgere missioni segrete», rispose Sandecker. «Ti ringrazio per l'aiuto.» Riappese e fissò di nuovo gli occhi sullo schermo. Il siluro avanzava rapidissimo, con la sua mente elettronica inflessibilmente diretta a un unico scopo: colpire per distruggere. La testata esplosiva era ormai vicinissima al Doodlebug: quindici secondi appena e lo avrebbe raggiunto. «Scendete!» supplicò King ad alta voce. «Dodici metri ancora e toccherebbero il fondo. Dio buono, non ce la faranno.» Il cervello di Giordino era in ebollizione, alla ricerca di un'alternativa, ma non ne trovava nessuna. Ormai non era più possibile scongiurare l'inevitabile. A meno che il siluro non avesse ricevuto l'impulso che gli comandava di autodistruggersi all'ultimo istante, il Doodlebug e i tre uomini a bordo non sarebbero riemersi mai più. Si sentiva la bocca arida come una cava di sabbia. Rinunciò a scandire i secondi. Nei momenti di estrema tensione la mente umana percepisce con assoluta chiarezza i particolari trascurabili e del tutto fuori luogo. Nel momento cruciale, Giordino si sorprese a chiedersi come mai gli fosse sfuggita, sino ad allora, la stranezza di Sandecker senza scarpe. «Questa volta colpirà», disse King. Era una pura e semplice constatazione; la voce e la faccia pallida non tradivano ombra di emozione. Si coprì gli occhi con entrambe le mani, per sottrarsi alle immagini che comparivano sullo schermo. Nessun suono uscì dai computer mentre il siluro s'incuneava nel Doodlebug. Gli strumenti, impassibili di fronte alla tragedia, non trasmisero né il rumore dell'esplosione, né lo stridio del metallo che si spaccava contorcendosi e neppure l'urlo soffocato dei tre uomini che stavano morendo nell'abisso nero e gelido. A una a una le macchine inanimate cessarono di funzionare. Le spie luminose si spensero e i terminali si raffreddarono. Erano diventate cieche e mute. Per loro, il Doodlebug non esisteva più. 25 Mercier si sentiva depresso pensando a ciò che doveva fare. Nutriva simpatia per James Sandecker, ne rispettava la schiettezza, l'abilità decisionale e organizzativa priva di tentennamenti. Ma non avrebbe avuto senso procrastinare l'inchiesta sulla perdita del Doodlebug. Non se la sentiva
di rimandarla, correndo il rischio di una falla nella segretezza dell'impresa sulla quale i giornalisti si sarebbero precipitati come avvoltoi. Era suo compito escogitare alla svelta qualche piano grazie al quale l'ammiraglio, e la Casa Bianca, potesse cavarsela dal tragico episodio senza attirarsi l'indignazione dell'intero Paese. Dall'interfono gli giunse la voce del suo segretario: «Signore, l'ammiraglio Sandecker è arrivato». «Lo faccia entrare.» Mercier quasi si aspettava di vedersi comparire davanti un uomo stravolto per la mancanza di sonno e distrutto dalla tragedia in cui erano morti i suoi uomini, ma aveva sbagliato in pieno. Sandecker entrò nella stanza con un aspetto impeccabile: l'uniforme con i galloni dorati e i nastrini delle decorazioni, un sigaro appena acceso ben fermo all'angolo della bocca e gli occhi vivi, nei quali brillava il lampo abituale di allegra impudenza. Se anche l'avessero analizzato al microscopio, era indubitabile che se la sarebbe cavata con stile. «Ammiraglio, si accomodi, la prego», disse il consigliere, alzandosi in piedi. «Il consiglio di sicurezza si riunirà tra qualche minuto.» «Lei vuol dire l'inquisizione», precisò Sandecker. «No, non l'inquisizione. Il presidente desidera conoscere soltanto ogni dettaglio sugli scopi e i fini del Doodlebug e collocare gli avvenimenti delle ultime trentasei ore nell'esatta prospettiva.» «Vedo che non perdete tempo. Sono passate otto ore appena dal momento che i miei uomini sono stati assassinati.» «Forse usa un'espressione troppo dura, ammiraglio.» «Come direbbe lei, diversamente?» «Non sono una giuria», obiettò Mercier, con tono calmo. «Voglio anzi esprimerle il mio sincero rammarico per il fallimento del progetto.» «Sono pronto ad assumermi tutta la colpa.» «Noi non stiamo cercando un capro espiatorio. Desideriamo solo conoscere la sostanza dei fatti che lei è stato finora così restio a rivelare.» «Avevo le mie buone ragioni.» «E noi le ascolteremo con la massima attenzione.» L'interfono ronzò di nuovo. «Sì?» «La commissione è in attesa.» «Tocca a noi», disse Mercier, indicando la porta. «Vogliamo andare?» Passarono nell'attigua sala riunioni. La moquette azzurra s'intonava con
le tende e a una parete, appeso sopra il caminetto, c'era il ritratto di Harry Truman. Il presidente stava seduto al centro di un enorme tavolo ovale di mogano e dava le spalle alla terrazza sovrastante il giardino delle rose. Il vice presidente, di fronte a lui, stava scarabocchiando qualche appunto su un notes. Oltre a loro, erano presenti l'ammiraglio Kemper, il ministro dell'Energia dottor Ronald Klein, il segretario di Stato Douglas Oates e il direttore della CIA Martin Brogan. Il presidente andò incontro a Sandecker e lo accolse con marcata cordialità. «Sono lietissimo di vederla, ammiraglio. Si accomodi, la prego. Ritengo che lei conosca tutti quelli che si trovano qui.» Sandecker annuì e sedette a un'estremità del tavolo, lontano dagli altri. «E adesso», esordì il presidente, «noi vorremmo che ci parlasse del suo misterioso Doodlebug.» La segretaria di Dirk Pitt, Zerri Pochinsky, entrò nella sala computer portando un vassoio con una tazza di caffè e un panino imbottito. Gli occhi nocciola erano lustri di pianto. Non riusciva a rassegnarsi all'idea che il suo capo fosse morto. Il trauma della perdita dell'uomo al quale era stata tanto vicina non si era ancora manifestato in tutta la sua dolorosa realtà. Ne avrebbe avvertito il colpo più tardi - lo sapeva - quando si fosse trovata sola. Giordino si era messo a cavalcioni di una sedia, le braccia appoggiate allo schienale e il mento sul dorso delle mani. Teneva gli occhi incollati sui computer ciechi e muti. La ragazza gli si sedette accanto. «Le ho fatto preparare il suo preferito: carne di manzo affumicata e pane integrale», mormorò. L'uomo rifiutò il cibo con un cenno del capo, ma bevve il caffè che, per quanto forte, non poté alleviare la sua frustrazione e la sua rabbia; costretto a lasciar morire Pitt e i suoi due compagni, ne aveva dovuto seguire, impotente, la fine. «Perché non va a casa e cerca di dormire un po'?» gli consigliò Zerri. «Ormai non può più fare nulla per loro, standosene qua.» Giordino le rispose parlando come se fosse stato in trance: «Pitt e io siamo stati a fianco a fianco per tanti di quegli anni...» «Sì, lo so.» «Facevamo parte della stessa squadra di rugby, alla scuola superiore. Lui era il tre quarti più scaltro e imprevedibile della squadra.» «Lei dimentica che io ero spesso presente quando vi abbandonavate alle
rievocazioni. Potrei ripeterle quasi a memoria i vostri discorsi.» Giordino la guardò e sorrise: «Eravamo noiosi a tal punto?» «Sì, eravate terribilmente noiosi», rispose Zerri, con un sorriso tra le lacrime. Entrò un gruppo di tecnici elettronici. Il loro caposquadra si accostò a Giordino. «Mi scusi se la interrompo, ma mi hanno impartito l'ordine di distruggere i memorizzatori, cancellando tutti i dati inseriti, e di trasportare l'equipaggiamento in un'altra sezione del ministero.» «Per azzerare la registrazione dei tempi, no?» «Come dice?» «La disposizione le è stata data dal dottor King?» L'uomo accennò gravemente di sì con la testa. «Due ore fa. Prima che se ne andasse da qui.» «A proposito di andarsene», commentò Zerri. «Venga con me. Guiderò io.» Giordino si alzò, senza protestare, e si stropicciò gli occhi che gli dolevano. Aprì la porta e la tenne ferma, invitando con un cenno la ragazza a uscire per prima. Stava per seguirla senza voltarsi indietro, quando si fermò bruscamente sulla soglia. Fu questione d'una frazione infinitesimale di secondo. In seguito, non fu mai in grado di spiegarsi quale misterioso istinto lo avesse costretto a lanciare ancora un'occhiata agli schermi spenti. Il lampo luminoso fu così breve che gli sarebbe senz'altro sfuggito se non avesse puntato lo sguardo nella direzione giusta e nel momento giusto. Gridò al tecnico che aveva appena disinserito i circuiti: «Li rimetta in funzione!» «A che scopo?» replicò l'altro. «Maledizione, faccia come le dico!» Al tecnico fu sufficiente un'occhiata all'espressione minacciosa di Giordino per capire che non sarebbe stato il caso di mettersi a discutere. Eseguì quanto gli era stato detto, senza chiedere altro. Parve che la sala perdesse di colpo ogni dimensione. Tutti i presenti sussultarono, indietreggiando, come se avessero assistito al profilarsi di un'apparizione grottesca. Tutti tranne Giordino, che rimase immobile, mentre un sorriso di gioiosa sorpresa gli rischiarava la faccia. A uno a uno, i computer ripresero a funzionare. «Mi faccia capire», disse il presidente, con un'espressione inequivocabilmente dubbiosa. «Lei dichiara che questo suo Doodlebug riesce
a vedere oltre uno spessore roccioso di sedici chilometri?» «E a catalogare cinquantun tipi diversi di minerali, metallici e no, che lo spessore roccioso contiene», rispose Sandecker, impassibile. «Sì, signor presidente, ho detto proprio così.» «Non avrei mai creduto fosse possibile costruire un simile gioiello», esclamò Brogan, direttore della CIA. «Certe apparecchiature elettromagnetiche si sono dimostrate abbastanza efficaci nella misurazione della resistività elettrica dei minerali sotterranei, ma certamente non fino a questo punto.» «Come mai un progetto di così grande importanza fu sviluppato in fase di ricerca e poi realizzato senza che il presidente o il Congresso ne fossero stati informati?» chiese il vice presidente. «Il presidente della passata legislatura ne era al corrente», spiegò Sandecker. «I progetti futuribili lo entusiasmavano. Oggi - ne sono sicuro - tutti voi siete a conoscenza del fatto che finanziò segretamente un centro di ricerche che operava sotto copertura, chiamato 'sezione Meta'. Furono per l'appunto gli scienziati che ne facevano parte a ideare il Doodlebug. I piani, protetti dal più rigoroso segreto, furono trasmessi alla NUMA. L'ex presidente provvide a farci ottenere i finanziamenti e noi lo costruimmo.» «E funziona davvero?» chiese il presidente. «Funziona e funziona bene», asserì Sandecker. «Gli esperimenti iniziali hanno rilevato la presenza di giacimenti di oro, manganese, cromo, alluminio e almeno un'altra decina di elementi, tra i quali l'uranio, tutti sfruttabili economicamente.» I volti degli uomini seduti intorno al tavolo esprimevano reazioni diverse. Il presidente osservava Sandecker con uno sguardo piuttosto indecifrabile; l'ammiraglio Kemper lo guardava imperscrutabile; gli altri erano manifestamente molto perplessi. «Lei intende dire che il suo battello è in grado di stabilire l'estensione dei giacimenti, nonché di procedere a una valutazione della loro importanza?» chiese Douglas Oates, con evidente scetticismo. «In capo a qualche secondo dalla scoperta dell'elemento, o del minerale, il Doodlebug fornisce una valutazione precisa riguardante la ricchezza del giacimento, una proiezione dei costi estrattivi e dei profitti ricavabili dall'operazione e, beninteso, le coordinate esattissime dell'ubicazione.» Se, fino a quel momento, gli ascoltatori si erano mostrati dubbiosi, adesso erano palesemente increduli. Il ministro dell'Energia formulò la domanda che tutti quanti avevano in mente. «Come funziona quest'invenzione?»
«Sullo stesso principio fondamentale del radar e del sonar, con la sola differenza che il Doodlebug trasmette impulsi energetici ben focalizzati sull'obiettivo attraverso gli strati geologici. Questo fascio energetico ad altissimo potenziale, analogo, teoricamente, a un'emittente radiofonica che trasmetta suoni di varia ampiezza nell'aria, emette svariati segnali di frequenza che vengono riflessi dalle formazioni geologiche via via che le colpisce. I tecnici definiscono il fenomeno 'modulazioni di flessione'. Qualcosa di simile avviene quando si lancia un grido standosene sull'orlo di un abisso. Se la voce colpisce una parete rocciosa, questa rimanda, ben udibile, un'eco. Ma se, lungo il percorso, vi sono alberi o cespugli, l'eco risulta smorzata.» «Ma io ancora non riesco a capire come possa identificare un tipo specifico di minerale», obiettò Klein, frastornato. «Ogni minerale e ogni elemento allo stato naturale risuonano secondo la propria frequenza specifica: il rame, per esempio, a duemila cicli circa; il ferro a duemiladuecento; lo zinco a quattromila. Il limo, la roccia granitica e le formazioni scistose hanno una caratteristica individuale, la quale determina la qualità del segnale che li colpisce e che viene riflessa dalla loro superficie. Sullo schermo di un computer i risultati si leggono come una chiarissima sezione trasversale della terra, perché le svariate formazioni assumono un colore codificato.» «E voi potete misurare la profondità dei giacimenti basandovi sugli intervalli di tempo», commentò l'ammiraglio Kemper. «Esattamente.» «Ma i segnali non s'indeboliscono e non sono soggetti a una distorsione tanto maggiore quanto aumenta la profondità?» obiettò Mercier. «Sì, infatti», riconobbe Sandecker. «Il fascio d'onda perde energia passando attraverso gli strati geologici. Però noi, registrando quanto avviene ogni volta che ne incontra uno, abbiamo imparato ad aspettarci le immancabili distorsioni e a riconoscerle o meglio a rilevarne la maggiore o minore intensità. I computer ne analizzano l'effetto e ci trasmettono i dati, opportunamente corretti, in forma numerica.» Il presidente si agitava, irrequieto, nella sua poltrona. «Tutto questo mi sembra del tutto irreale.» «E invece è reale», assicurò Sandecker. «Così reale che la conseguenza logicamente deducibile, signori, è che nello spazio di cinque anni una flottiglia di dieci Doodlebug potrebbe cartografare e analizzare ogni singola formazione geologica di ogni singolo metro cubico del fondo marino.»
Per alcuni secondi nella sala si fece un silenzio completo. Poi Oates mormorò, in tono di reverente sbalordimento: «Dio buono, ma qui ci troviamo di fronte a possibilità potenziali inconcepibili». Brogan si sporse sul tavolo e chiese a Sandecker: «Crede che i russi possano essere anche loro sulla buona strada per realizzare qualcosa di simile?» L'ammiraglio scrollò il capo. «No, credo di no. Neppure noi, fino a pochi mesi fa, disponevamo di una tecnologia tanto avanzata da perfezionare un fascio energetico a così alto potenziale. Perfino se dessero il via a un piano di ricerche intensive con la massima profusione di mezzi, avrebbero bisogno di un decennio per mettersi alla pari.» «Un'altra domanda che esige risposta», interloquì Mercier. «Perché il mare del Labrador? Perché non avete condotto gli esperimenti col Doodlebug sulla nostra piattaforma continentale?» «Ho ritenuto preferibile condurli in una zona isolata e molto lontana dal normale traffico marittimo.» «Ma per quale motivo così vicino alle coste canadesi?» «Perché il Doodlebug seguiva, da certe indicazioni, un giacimento di petrolio.» «Petrolio?» «Sì, la pista conduceva verso lo stretto di Hardon, a nord di Terranova. Fui io a ordinargli di abbandonare la rotta prevista originariamente e di seguire l'usta nelle acque canadesi. Quindi la colpa della perdita di un carissimo amico, degli altri due uomini d'equipaggio e del battello adibito alle ricerche è mia e soltanto mia. Nessun altro ne è responsabile.» Un aiutante entrò nella sala, silenzioso come un'ombra, e incominciò a distribuire tazze di caffè. Quando servì Sandecker, gli pose accanto, sul tavolo, un biglietto su cui era scritto: DEVO VEDERLA IMMEDIATAMENTE. GIORDINO. «Posso chiedere una breve interruzione?» chiese Sandecker. «Uno dei miei collaboratori è qui, in anticamera, con le ultime notizie sulla tragedia.» Il presidente lo guardò con un'occhiata comprensiva e, accennando in direzione della porta, rispose: «Naturalmente. Lo faccia entrare». Un Giordino raggiante fu fatto entrare nella sala riunioni. «Il Doodlebug e i tre uomini a bordo se la sono cavata!» esplose, senza preamboli. «Che cos'era successo?» lo sollecitò Sandecker. «Il siluro ha colpito un affioramento roccioso a cinquanta metri dal bat-
tello. Il contraccolpo violento dello scoppio ha mandato in corto circuito i terminali principali. Pitt e i suoi compagni ci hanno messo un'ora per procedere alle riparazioni d'emergenza e riattivare le comunicazioni.» «Nessun ferito?» chiese l'ammiraglio Kemper. «E lo scafo non ha riportato avarie?» «Ammaccature ed escoriazioni», rispose Giordino, con telegrafica concisione. «Un dito fratturato. Nessuna notizia di eventuali falle nello scafo.» «Dio sia ringraziato, sono tutti salvi!» esclamò il presidente, fattosi di colpo tutto sorrisi. Giordino abbandonò l'impassibilità. «E non vi ho detto ancora il meglio», esclamò, eccitato. «Il meglio?» gli fece eco Sandecker, al colmo della sorpresa. «Non appena i computer sono ritornati in vita, l'analizzatore dei dati per poco non si è messo a dare i numeri. Congratulazioni, ammiraglio. Il Doodlebug è incappato nella madre di tutte le sacche stratigrafiche contenenti ciò che cercava.» «Vuol dire che hanno scoperto un giacimento di petrolio?» chiese Sandecker, teso. «Dalle indicazioni iniziali, pare si tratti di un giacimento che si estende per oltre centocinquanta chilometri in larghezza e più di un chilometro in lunghezza. La produzione prevedibile dovrebbe essere da capogiro, stando alle proiezioni. In totale, vi si potrebbero estrarre nientemeno che otto miliardi di barili.» Nessuno dei presenti riuscì a parlare. Ammutoliti, erano capaci soltanto di avventurarsi a considerare le incalcolabili ripercussioni della scoperta. Giordino aprì una cartella e ne levò un fascio di fogli che porse a Sandecker. «Non ho avuto il tempo di presentarglieli elegantemente legati con un nastro, ma contengono i dati preliminari, i calcoli, le proiezioni, compresi i costi previsti per le trivellazioni e l'estrazione. Il dottor King riceverà un rapporto più preciso dopo che il Doodlebug avrà esplorato meglio il giacimento.» «Dove si trova, esattamente?» chiese Klein. Giordino srotolò una mappa e la distese sul tavolo, davanti al presidente. Poi, con una matita, incominciò a tracciare la rotta del Doodlebug. «Dopo essere sfuggiti al siluro, i tre uomini a bordo hanno intrapreso un'azione evasiva. Ignoravano che il sommergibile aveva ricevuto l'ordine di sospendere l'attacco. Dirigendosi a nord-ovest, hanno abbandonato il mare del Labrador, per attraversare lo stretto di Gray a sud delle isole Button ed en-
trare nella baia di Ungava. È stato qui che hanno scoperto il giacimento petrolifero», disse Giordino tracciando un segno sulla carta. L'eccitazione che aveva acceso gli occhi del presidente si spense di colpo. «Allora non si trova presso le coste di Terranova?» «Nossignore. Il limite delle acque territoriali di Terranova corrisponde all'imbocco dello stretto di Gray. Il giacimento è situato al largo delle coste del Quebec.» Il presidente non nascose la delusione. Fissò Mercier, che a sua volta aveva assunto un'espressione altrettanto delusa. «Fra tutti i posti possibili dell'emisfero occidentale», commentò il presidente con una voce che era poco più di un sussurro, «disgrazia vuole che debba essere proprio il Quebec.» PARTE TERZA IL TRATTATO NORDAMERICANO 26 Aprile 1989 Washington Pitt infilò gli appunti di Heidi sul trattato nordamericano in una cartella e rivolse un cenno di ringraziamento alla hostess che stava controllando se il fermo della cintura di sicurezza era scattato. Si massaggiò le tempie, nell'inutile tentativo di far scomparire il mal di testa che lo affliggeva sin da quando aveva preso la coincidenza aerea nell'aeroporto di Saint-John, a Terranova. Ormai il frenetico esperimento col Doodlebug era acqua passata; il piccolo battello, adibito alle ricerche, era stato issato a bordo della naveappoggio e trasportato a Boston per le riparazioni e le modifiche. Bill Lasky e Sam Quayle erano partiti immediatamente per una settimana di licenza presso le rispettive famiglie. Pitt li invidiava. A lui non era consentito il lusso di un periodo di riposo. Sandecker lo aveva convocato alla sede centrale della NUMA, per avere un rapporto di prima mano sulla spedizione. L'aereo atterrò all'aeroporto nazionale di Washington pochi minuti prima delle sette. Mentre gli altri passeggeri, ansiosi di scendere, facevano ressa nel corridoio, Pitt rimase tranquillamente seduto sapendo benissimo che,
per quanto lentamente si fosse recato alla consegna dei bagagli, sarebbe arrivato in ogni caso in anticipo. Trovò la sua macchina, una Ford-Cobra rossa del 1966, nel parcheggio riservato ai VIP, dove aveva provveduto a portargliela, nel pomeriggio, la sua segretaria. Attaccato al volante c'era un biglietto: Caro Dirk Pitt, bentornato a casa. Mi rincresce di non aver potuto aspettare per salutarla, ma avevo un appuntamento. Si goda una bella nottata di riposo. All'ammiraglio ho detto che il suo aereo sarebbe arrivato soltanto domani sera. Si prenda una giornata libera. ZERRI P.S. Avevo quasi dimenticato come si fa a guidare un vecchio mastodonte. Molto, molto divertente; però beve benzina da far paura. Pitt sorrise e innestò il motorino d'avviamento, ascoltando con piacere il motore da 4,2 litri che si svegliava con un rombo assordante. In attesa che l'indicatore della temperatura si spostasse sul «caldo», rilesse il biglietto. Zerri Pochinsky era una ragazza dal temperamento vivace, con un sorriso che le illuminava quasi sempre il bel visetto e un paio d'occhi nocciola dallo sguardo malizioso e cordiale. Non si era mai sposata - un mistero per Pitt -, aveva trent'anni, la figura pienotta e i capelli d'un color fulvo chiaro che le arrivavano a metà della schiena. Spesso era stato tentato d'intrecciare una relazione con lei e dalla parte di Zerri l'invito, inespresso e senz'ombra di sfacciataggine, era partito più d'una volta; tuttavia Pitt, pur con rammarico, si atteneva a una legge impressa da qualche parte nel cemento dell'edificio che ospitava gli uffici, una legge che aveva imparato a sue spese, durante i giorni assai meno disciplinati dei suoi anni giovanili: mai impegolarsi in relazioni amorose con le collaboratrici, perché tali relazioni erano fonte di grossi guai. Scacciò l'immagine tentatrice di Zerri che lo invitava tra le lenzuola e mise in moto la sua convertibile a due posti che, benché vecchiotta, schizzò rapida fuori del parcheggio, e i pneumatici stridettero mentre imboccava l'autostrada. Seguì la tangenziale che correva lungo la periferia della capitale e svoltò a sud, sempre rimanendo nel territorio virginiano bagnato dal Potomac. Il motore della vecchia automobile gli consentì di superare senza sforzo la colonna delle utilitarie che formavano, come ogni sera, una coda
in fuga da Washington. Arrivato a una cittadina chiamata Hague, lasciò la strada principale per imboccarne una secondaria, piuttosto stretta, e la seguì fino a Coles Point. Non appena il fiume fu in vista, incominciò a leggere a uno a uno, con attenzione, i nomi delle cassette postali di campagna, disposte a intervalli lungo la banchina. La luce dei fari inquadrò una donna anziana che portava a passeggio un grosso setter irlandese. Pitt si fermò e, sporgendo la testa dal finestrino, disse: «Mi scusi, signora, saprebbe dirmi dov'è la casa del signor Essex?» La donna lo scrutò con aria diffidente e accennò dietro di sé. «Ci è già passato davanti, quasi un chilometro più indietro. È quella con i leoni di ferro.» «Ah, sì, ricordo d'averla notata.» Senza lasciargli il tempo d'iniziare la conversione a U, la donna si chinò verso il finestrino aperto. «Non lo troverà. Il signor Essex è partito quattro, o forse anche cinque, settimane fa.» «Per caso ha idea di quando tornerà?» «Chi lo sa. Succede spesso che chiuda casa e se ne vada a Palm Springs, in questa stagione, incaricando mio figlio di badare al suo allevamento di ostriche. Il signor Essex va e viene come meglio gli piace. Facile per lui, che è solo e se lo può permettere. Segno sicuro della sua assenza è la cassetta delle lettere traboccante di posta.» Ma guarda un po', si disse Pitt, tra tutti quelli ai quali mi sarei potuto rivolgere, sono cascato proprio sulla vicina impicciona. «La ringrazio, mi è stata davvero utile.» Ma se sperava di tagliar corto, si sbagliava. La faccia rugosa della donna passò di colpo dalla diffidenza iniziale alla più schietta cordialità e la voce le si addolcì come la melassa. «Se ha un messaggio per lui, può affidarlo a me. Stia tranquillo che glielo consegnerò. Tanto sono io che provvedo a mettergli da parte le lettere e i giornali che arrivano in sua assenza.» Pitt la guardò: «Il signor Essex non ha avvertito che sospendessero la consegna del giornale?» La donna scosse il capo. «Lei non s'immagina quant'è distratto, quell'uomo. Giorni fa mio figlio, mentre stava lavorando agli stagni, ha notato che dalla canna fumaria usciva del vapore. Pensi lei! Partire lasciando acceso il riscaldamento. Uno spreco, proprio adesso che raccomandano tanto il risparmio energetico.» «Mi diceva che il signor Essex vive tutto solo?» «Sua moglie è morta dieci anni fa», rispose l'impicciona, «e i suoi tre fi-
gli sono tutti lontani. Si ricordano sì e no di scrivergli ogni tanto, a quel pover'uomo.» Pitt la ringraziò ancora e si affrettò a chiudere il finestrino prima che l'altra riprendesse a subissarlo di chiacchiere. Non aveva bisogno di sincerarsi con un'occhiata allo specchietto retrovisore per essere più che sicuro che quella continuava a seguire con gli occhi la vettura mentre invertiva la marcia per portarsi alla casa di Essex. Imboccò il vialetto alberato, parcheggiò la macchina davanti all'ingresso, spense il motore ma lasciò accese le luci di posizione. Rimase seduto, qualche momento, al posto di guida; sentì gli scricchiolii del motore che si raffreddava e una sirena che ululava dalla parte opposta del fiume, nel Maryland. Era una bellissima serata, chiara e fresca. Le luci accese lungo la riva del Potomac sembravano decorazioni natalizie. La casa era buia e silenziosa. Pitt scese dalla macchina e si diresse verso la rimessa. La porta a bilanciere si sollevò senza sforzo sui cardini ben oliati, rivelando le due automobili che si trovavano all'interno e che la luce dei fari della Cobra illuminava in pieno: una piccola utilitaria Ford e una vecchia CadillacBrougham, uno degli ultimi esemplari superstiti dei macchinoni divorabenzina. Tutt'e due erano ricoperte da un leggero strato di polvere. L'interno della Cadillac era immacolato e il contachilometri diceva che era stata usata ben poco; ne segnava poco più di diecimila. Anche la piccola, economica utilitaria pareva appena uscita dalla vetrina di un concessionario. Perfino l'interno dei parafanghi di entrambe non portava traccia di sudiciume. Pitt incominciò a farsi un'immagine dell'uomo che cercava. A giudicare dalle cure che l'ex ambasciatore dedicava alle sue macchine, era ovvio dedurre che fosse amante dell'ordine e meticoloso fino alla pignoleria. Riabbassò la porta della rimessa e si girò, per osservare meglio la casa. Il figlio della chiacchierona aveva ragione: dalla canna fumaria uscivano volute di vapore biancastro che si dissolvevano nell'aria ormai buia. Pitt entrò sotto il porticato, trovò il pulsante del campanello e lo premette. Nessuno gli venne ad aprire né vi fu qualche movimento dietro il finestrone panoramico con le tende aperte. A puro titolo di tentativo, che riteneva del tutto inutile, provò la maniglia. La porta si aprì. Rimase fermo dov'era, bloccato dalla sorpresa. La porta d'ingresso aperta era un elemento che esulava dalla sceneggiatura e vi esulava anche il fetore stantio di putrefazione che gli colpì le narici. Entrò, lasciandosi la porta spalancata alle spalle. Cercò a tentoni l'interruttore e accese la luce. L'atrio era deserto e deserta era l'adiacente sala da pranzo. Fece un rapido giro
per tutta la casa, incominciando dalle stanze da letto, al primo piano. L'odore nauseabondo pervadeva ogni stanza. Non era possibile localizzarne l'origine. Ritornò dabbasso, ispezionò in fretta la cucina e il soggiorno. Per poco lo studio non gli sfuggì; riteneva che la porta chiusa desse su un ripostiglio, o fosse quella di un armadio a muro. John Essex era seduto sulla poltrona imbottita, con la bocca aperta, il capo piegato in avanti, di lato, e gli occhiali che penzolavano grottescamente da un orecchio, rinsecchito come cuoio. Gli occhi azzurri, dallo sguardo vivace nonostante l'età, erano avvizziti e sprofondati nelle orbite. La decomposizione era stata rapida a causa del riscaldamento rimasto ininterrottamente in funzione. Il termostato segnava una temperatura di ventiquattro gradi. Era rimasto lì un mese, senza che nessuno scoprisse, stranamente, che era morto. Il medico legale poté stabilire, in seguito, che lo aveva stroncato un embolo alle coronarie. Pitt non faticò a ricostruire quanto era accaduto. Durante le prime due settimane il cadavere era andato in putrefazione, gonfiandosi al punto di far saltare i bottoni della camicia. In seguito, dopo che i liquidi organici erano stati espulsi e l'evaporazione li aveva eliminati, la salma aveva incominciato a raggrinzirsi, essiccandosi, e la pelle si era ispessita e indurita fino ad assumere la consistenza del cuoio conciato. La fronte gli si bagnò di sudore e l'aria stantia della stanza, frammista al fetore, per poco non lo fece svenire. Tappandosi il naso con un fazzoletto per vincere i conati di vomito, s'inginocchiò davanti a quello che rimaneva di John Essex. Sulle ginocchia del cadavere c'era un libro, una mano simile a un artiglio ne teneva salda la copertina di pelle, ornata d'incisioni. Un brivido gli percorse la schiena. Aveva già avuto occasione di vedere dappresso la morte e la sua reazione era sempre la stessa: un senso di ripugnanza iniziale, cui succedeva la terribile consapevolezza che anche lui, un giorno, sarebbe stato tale quale la cosa che adesso vedeva là, in disfacimento sulla poltrona. Esitando, quasi avesse temuto che Essex si destasse di colpo, tolse il libro dalle dita che lo artigliavano. Poi accese la lampada da tavolo e ne sfogliò le pagine. Pareva si trattasse di un diario. Ne lesse l'intestazione e gli parve che le parole gli balzassero contro dalla carta ingiallita dal tempo: NOTE PERSONALI DI RICHARD C. ESSEX RIGUARDANTI L'APRILE 1914. Sedette alla scrivania e incominciò a leggere. Smise dopo circa un'ora e guardò il cadavere. Alla ripugnanza di prima nei suoi occhi si era sostituita
la pietà. «Povero vecchio ingenuo», mormorò tristemente. Spense la luce e se ne andò, lasciando di nuovo solo e al buio l'ex ambasciatore degli Stati Uniti presso la Corte di San Giacomo. 27 Nell'aria pesava, greve, l'odore di polvere da sparo mentre Pitt camminava dietro una fila di fanatici tiratori nel poligono di tiro, alla periferia di Fredericksburg, in Virginia. Si fermò accanto a un tizio dalla testa calva, il quale se ne stava chino sopra una panchina esaminando con la massima attenzione l'alzo di ferro di un fucile ad avancarica, con la canna lunga ben più d'un metro. Joe Epstein, critico letterario del Baltimore Sun e appassionato di quei vecchi catenacci, premette adagio il grilletto. L'esplosione fu uno scoppio sordo, seguito da una sbuffatina di fumo nero. Epstein controllò il bersaglio attraverso il telescopio, poi ricaricò il fucile. «Gl'indiani avrebbero tutto il tempo di scotennarti prima che tu ricarichi questo pezzo d'antiquariato», lo stuzzicò Pitt, con un sorriso. «È mio dovere informarti», ribatté Epstein, punto sul vivo, «che, se voglio, sono capace di sparare quattro volte in un minuto.» Servendosi di un pezzetto di traliccio da materassi come stoppaccio, inserì una pallottola di piombo nella canna. «Ho tentato di telefonarti.» «Ero in giro», rispose Pitt, senza precisare dove fosse stato. «Che cos'è questo arnese?» seguitò, indicando il fucile. «Un fucile a pietra focaia Brown Bess, calibro 30. Era in dotazione dell'esercito inglese ai tempi della guerra d'indipendenza», spiegò Epstein. «Vuoi provarlo?» Pitt sedette sulla panchina e puntò la bocca dell'arma verso il bersaglio. «Hai potuto scovare qualcosa?» «Nell'archivio del giornale abbiamo una quantità di articoli e trafiletti in microfilm.» Epstein mise un po' di polvere pirica nello scodellino dell'innesco. «Tutto sta nel non sussultare quando la pietra focaia innesca la polvere da sparo.» Pitt tirò indietro il meccanismo dell'otturatore, quindi prese la mira e fece scattare il grilletto. L'innesco quasi lo abbagliò e spostò il focone verso il basso. Un attimo dopo la carica contenuta nella canna esplose e Pitt ebbe la sensazione d'essere stato colpito alla spalla da un battipalo. Epstein esaminò il bersaglio attraverso il mirino telescopico. «Venti cen-
timetri più in alto a destra del centro», annunciò. «Niente male per un bellimbusto di città.» Dall'altoparlante una voce ordinò il cessate il fuoco e i tiratori deposero le armi e si diressero in ordine sparso verso l'estremità opposta del poligono, per sostituire i bersagli. «Accompagnami e intanto ti dirò che cosa ho scoperto.» Pitt seguì Epstein lungo la discesa. «Mi avevi dato due nomi, Richard Essex e Harvey Shields. Essex era sottosegretario agli Esteri e Shields l'equivalente britannico. Entrambi diplomatici di carriera, di stampo burocratico. Entrambi praticamente sconosciuti al pubblico, uomini che svolgevano ciascuno il proprio lavoro dietro le quinte. Tutti e due personaggi rimasti sempre alquanto in ombra.» «Mi stai ripetendo cose risapute, Joe. Avrebbe dovuto esserci dell'altro negli archivi.» «Molto poco. Tutto quello che posso aggiungere è che Essex e Shields non s'incontrarono mai, almeno in occasioni ufficiali, in veste di esponenti dei rispettivi governi.» «Eppure io possiedo una foto nella quale stanno uscendo insieme dalla Casa Bianca.» Epstein si strinse nelle spalle. «La mia quattrocentesima conclusione sbagliata dell'anno.» «Che fine fece Shields?» «Morto nel naufragio dell'Empress of Ireland.» «Sì, sapevo che l'Empress, un transatlantico, affondò nel San Lorenzo dopo essere venuto a collisione con una carboniera norvegese. Le vittime superarono il migliaio.» Epstein annuì. «Io non ne sapevo niente finché non mi è capitato di leggere il necrologio di Shields. La perdita dell'Empress fu una delle più grandi sciagure marittime del tempo.» «Strano: l'Empress, il Titanic e il Lusitania colati a picco a tre anni di distanza l'uno dall'altro.» «La salma di Shields, comunque, non fu mai recuperata. La famiglia fece celebrare un servizio funebre in un villaggetto del Galles, dal nome impronunciabile. E questo è tutto ciò che ti posso dire per quanto lo riguarda.» Arrivarono all'estremità del poligono di tiro e il giornalista esaminò il proprio bersaglio. «Tutti messi a segno entro un raggio distante appena quindici centimetri dal centro», commentò. «C'è di che essere soddisfatti,
con un vecchio archibugio come il mio.» «Certo che con un calibro simile le pallottole provocano degli squarci da far paura», disse Pitt, osservando il bersaglio ridotto a un colabrodo. «Pensa agli effetti su un bersaglio umano.» «Preferisco non pensarci.» Epstein sistemò un nuovo bersaglio, intatto, e poi si riavviarono verso la linea di tiro. «E di Essex, che cosa puoi dirmi?» riprese Pitt. «Che cosa vuoi che ti dica che tu non sappia già?» «Per esempio com'è morto.» «In un disastro ferroviario. Il treno precipitò nell'Hudson da un ponte crollato improvvisamente. Perirono oltre cento passeggeri. Tra questi anche Essex.» Dopo un breve silenzio, Pitt riprese: «Da qualche parte, sepolto sotto vecchi scartafacci in un ufficio della contea, ci sarà senz'altro un elenco degli effetti ritrovati sulla salma». «Molto difficilmente.» «Perché?» «Stiamo toccando un'interessante, bizzarra analogia tra Essex e Shields.» Epstein si fermò e lanciò un'occhiata all'amico. «Tutti e due morirono in due incidenti diversi lo stesso giorno, il 28 maggio 1914, e nessuna delle due salme fu ritrovata.» «Questa è grossa», sospirò Pitt. «So che di solito piove sul bagnato, ma non mi aspettavo di capitare sotto un diluvio e ritrovarmi perfettamente asciutto.» «Succede, quando si va a frugare nel passato.» «La coincidenza delle due morti ha dell'incredibile. Credi che si fosse trattato di una cospirazione alla quale imputare entrambi gli attentati?» Il giornalista scrollò la testa. «Ne dubito. A volte capitano strane coincidenze. Inoltre, mi chiedo, a che pro affondare una nave e causare la morte d'un migliaio di vittime innocenti quando avrebbero potuto semplicemente scaraventare Shields in acqua, nel momento in cui l'Empress si fosse trovata in pieno Atlantico?» «Già, hai ragione.» «Ti spiacerebbe rivelarmi il motivo di questa tua inchiesta?» «Io stesso non lo so di preciso.» «Se fornisse lo spunto per un buon articolo, spero che non mi terrai all'oscuro.»
«Troppo presto per parlarne pubblicamente. La faccenda potrebbe anche risolversi in una bolla di sapone.» «Ti conosco da troppo tempo, Dirk, e so che non sei solito rincorrere le nuvole.» «Diciamo che, quando si tratta di misteri storici, io ci casco come un merlo.» «Se è così, ho scoperto altro pane per i tuoi denti.» «Coraggio, sputa il resto.» «Il letto del fiume, proprio sotto il ponte, fu dragato per oltre un mese. E non ripescarono neppure una sola salma, né dei viaggiatori né del personale.» Fu la volta di Pitt di fermarsi bruscamente, fissando l'altro con occhi increduli. «Questa non la bevo. Impossibile che almeno una parte dei cadaveri non sia stata trascinata dalla corrente verso la foce e depositata sulla riva.» «Nota bene che t'ho raccontato soltanto una metà della storia», proseguì Epstein, con un'espressione sibillina. «Non ritrovarono neppure il treno.» «Cristo!» «Per curiosità professionale, mi sono letto tutta 'la faccenda del Manhattan Limited', come la chiamavano. Per settimane e settimane, dopo la tragedia, i sommozzatori continuarono a immergersi, ma non trovarono un bel niente. La locomotiva e le carrozze erano scomparse, come se le avessero inghiottite le sabbie mobili. I dirigenti della New York and Quebec Northern Railroad profusero un patrimonio nel tentativo di scoprire una traccia del loro treno volatilizzato. Tutto inutile e alla fine gettarono la spugna. Poco tempo dopo la compagnia venne assorbita dalla New York Central.» «E questa fu la fine della vicenda.» «Non del tutto», rispose il giornalista. «Alcuni sono pronti a giurare che il Manhattan Limited continua a correre, come un treno fantasma.» «Stai scherzando!» «Macché, parola di boy scout. Gente che vive nella valle dell'Hudson assicura con tutta serietà di vedere il treno fantasma avanzare lungo la riva, superare la curva, imboccare il pendio verso il vecchio ponte e poi svanire. Naturalmente appare soltanto dopo che è calata l'oscurità.» «Naturalmente», gli fece eco l'amico, sarcastico. «Hai dimenticato il particolare della luna piena e delle voci lamentose di anime in pena.» Epstein alzò le spalle, poi scoppiò in una risata. «Credevo che ti piacesse
il tocco macabro.» «Ti sei procurato le copie di quanto è stato scritto in proposito?» «Certo. Immaginavo che me le avresti chieste. Ho raccolto cinque chili di materiale sull'affondamento dell'Empress e sulle ricerche condotte dopo che il treno precipitò dal ponte sull'Hudson. Non solo, ho scovato anche nomi e indirizzi di alcune persone che per passatempo si dedicano alle ricerche relative ai disastri che hanno colpito in passato navi e treni. Le ho in macchina, diligentemente raccolte e chiuse in una busta.» Il giornalista accennò verso il parcheggio del poligono di tiro. «Te le vado a prendere.» «Ti sono grato del tempo e della fatica.» Epstein lo guardò dritto in faccia. «Sia ben chiaro, Dirk. Questo è un debito che hai contratto con me.» «Intesi, ti sono debitore.» «La faccenda concerne un progetto della NUMA, oppure è un tuo terreno di caccia, strettamente personale?» «Strettamente personale.» «Capisco.» L'amico abbassò gli occhi e scalciò distrattamente un sassolino. «Sai che poco tempo fa un nipote di Essex è stato trovato morto in casa sua?» «John Essex. Sì, lo so.» «Ne ha fatto un servizio completo uno dei nostri cronisti.» Epstein s'interruppe e accennò col capo verso la Ford-Cobra dell'amico. «Un tizio che, stando alle descrizioni, ti somiglia come un gemello, guidava una macchina sportiva rossa e s'informava sull'ubicazione della casa di Essex fu visto da una sua vicina un'ora prima che una telefonata anonima avvertisse la polizia che Essex era morto.» «Pura coincidenza.» «Coincidenza del cazzo!» sbottò Epstein. «Si può sapere che razza di pista stai seguendo?» Pitt riprese a camminare senza dir niente, con la faccia aggrondata, ma fatti pochi passi abbozzò un sorrisetto. Epstein ebbe l'impressione che fosse un sorriso presago di qualcosa che non riusciva a immaginare. «Credi a me, Joe, se ti dico che è meglio per te non saperlo.» 28 La villa di Graham Humberly sorgeva in cima a un'altura in un elegante quartiere residenziale di Los Angeles: Palos Verde. Lo stile era una com-
mistione di architettura moderna e ispano-californiana, con le pareti e i soffitti a gesso ruvido e i muri esterni percorsi da massicce travi di legno che recavano impressi i segni del tempo e finivano sotto il tetto di tegole rosse. Una grande fontana zampillava al centro della terrazza principale e i suoi getti cadevano in una vasca circolare. Da lassù si dominava, verso est, il panorama spettacolare della città illuminata, mentre dalla parte opposta si godeva la vista del Pacifico e dell'isola Catalina. Shaw, nel momento in cui metteva piede nella dimora di Humberly, fu accolto dalla musica di un'orchestrina messicana e dal confuso brusio di cento voci che chiacchieravano all'unisono. Alcuni camerieri erano indaffaratissimi a servire margarita a base di tequila, mentre altri riempivano di piccanti cibi messicani i piatti d'una tavola così lunga che pareva perdersi all'infinito. Gli si fece vicino un ometto con la testa sproporzionatamente grossa per le spalle; indossava uno smoking nero, con un drago cinese ricamato sulla schiena. «Salve! Sono Graham Humberly», si presentò, con un sorriso smagliante. «Benvenuto al ricevimento.» «Brian Shaw.» Il sorriso rimase inalterato. «Ah, sì, il signor Shaw. Mi scusi se non l'ho riconosciuta, ma i nostri comuni amici non mi hanno inviato una sua fotografia.» «Lei ha una casa da far restare a bocca aperta. Niente di simile da noi in Inghilterra.» «La ringrazio. Ma il merito è tutto di mia moglie. Se fosse dipeso da me, avrei optato per qualcosa di più rustico. Per fortuna i suoi gusti sono migliori dei miei.» Dall'accento, Shaw pensò che Humberly fosse originario della Cornovaglia. «Il comandante Heidi Milligan è già qui?» Il padrone di casa lo prese per un braccio e lo condusse un po' lontano dalla folla. «Sì», mormorò. «Per avere la certezza che intervenisse, ho dovuto estendere l'invito a tutti gli ufficiali della nave. Venga. Le voglio presentare un po' di gente.» «Non mi sento molto in vena di formalità sociali», rifiutò Shaw. «Preferirei che me la indicasse, poi mi arrangerò da solo.» «Come desidera.» Humberly scrutò tra la massa in continuo movimento che affollava la terrazza, poi il suo sguardo si fermò e fece cenno a Shaw di dare un'occhiata dalla parte del bar. «È quella donna alta e di bell'aspetto, con i capelli biondi e l'abito azzurro.»
Shaw non faticò a individuarla al centro di una cerchia di ammiratori, tutti quanti ufficiali di Marina in uniforme bianca. La si sarebbe detta sui trentacinque anni e da lei irradiava un che di vivo e luminoso. Pareva accettare l'attenzione degli uomini con naturalezza, senz'ombra di civetteria. A Shaw risultò simpatica al primo sguardo. «Forse potrei spianarle la strada sottraendola all'orda che l'assedia», propose Humberly. «Grazie, non si disturbi. A proposito, avrebbe un'auto da mettermi a disposizione?» «Un'intera flotta. Le andrebbe bene una limousine con autista?» «No, vorrei qualcosa di più brioso.» Humberly rifletté un po'. «Una Rolls-Royce Corniche convertibile potrebbe fare al caso suo?» «Sarebbe l'ideale.» «La troverà pronta al posteggio. Rossa. Con le chiavi già infilate nel cruscotto.» «La ringrazio.» «Di niente. Buona caccia.» Humberly ritornò ai suoi doveri di anfitrione. Shaw avanzò verso il bar, aprendosi il varco a spallate per arrivare fino a Heidi Milligan. Un giovane guardiamarina biondo lo fulminò, gli occhi colmi d'indignazione. «Un po' invadente, eh, paparino?» Shaw decise d'ignorarlo e si rivolse con un sorriso alla donna. «Comandante Milligan, sono l'ammiraglio Brian Shaw. Potrei scambiare una parola con lei... in privato?» Heidi lo fissò brevemente, tentando di ricordare dove mai si fossero già conosciuti, ma vi rinunciò e rispose: «Senz'altro, ammiraglio». Il guardiamarina biondo era più imbarazzato che se avesse scoperto di avere la patta dei calzoni sbottonata. «Tutte le mie scuse, signore. Ma io pensavo...» Shaw gli lanciò un sorriso benevolo: «Ricordi, ragazzo mio, che conviene sempre saper riconoscere il nemico». «Mi piace il suo stile, ammiraglio», gridò Heidi, per farsi sentire nel ruggito del vento. Shaw schiacciò di un altro paio di centimetri il pedale dell'acceleratore e la Rolls-Royce filò più rapida che mai in direzione nord, sulla superstrada di San Diego. Non aveva in mente una destinazione particolare, appena lasciato il ricevimento insieme con Heidi. Erano trascorsi
trent'anni da quando aveva visto per l'ultima volta Los Angeles. Guidava senza prefiggersi una meta, seguendo soltanto la segnaletica, ignaro di dove l'avrebbe condotto. Sbirciò la sua compagna con un'occhiata in tralice. Heidi aveva gli occhi spalancati, brillanti per l'eccitazione. A un tratto, Shaw sentì la stretta della sua mano sul braccio. «Meglio che rallenti, prima che sia un poliziotto a fermarla», gli gridò a pieni polmoni. No, in effetti era un imprevisto che non desiderava affatto. Alleggerì la pressione del piede sul pedale e tolse gas, finché la macchina non scese entro i limiti di velocità consentiti. Accese la radio e nell'aria si diffusero le note d'un valzer di Strauss. Stava per cambiare stazione quando lei gli fermò la mano. «No, lasci così.» Poi si riappoggiò allo schienale, alzando gli occhi per ammirare le stelle. «Dove stiamo andando?» «Una vecchia tattica scozzese», rise lui. «Rapire le donne e condurle in posti lontani... Così non c'è pericolo che ci piantino in asso, se vogliono che le riportiamo a casa.» «Non funziona», gli rispose, ridendo anche lei. «La mia casa si trova a cinquemila chilometri da qui.» «E per di più senza uniforme.» «Regolamento navale: le donne hanno il permesso di vestire in borghese nelle occasioni mondane.» «Un triplice urrà per la Marina americana.» Heidi lo guardò leggermente perplessa. «Non ho mai conosciuto un ammiraglio che possedesse una Rolls-Royce.» Shaw sorrise. «Vi sono dozzine di vecchi lupi di mare finiti in secca come me, in Inghilterra, che non guiderebbero mai una macchina che non fosse una Rolls-Royce.» «Un triplice urrà per la Royal Navy», esclamò Heidi di rimando. «Parlando seriamente, le confesserò che ho fatto un paio di saggi investimenti al tempo in cui comandavo un deposito navale a Ceylon.» «Che cosa fa, adesso che ha lasciato il servizio attivo?» «Per la maggior parte del tempo scrivo. Opere storiche. Nelson alla battaglia del Nilo, o l'Ammiragliato durante la prima guerra mondiale e roba del genere. Non si tratta di argomenti da best-seller, però procurano all'autore un certo prestigio.» Lei lo guardò di nuovo, più perplessa di prima: «Lei mi sta prendendo in giro».
«Mi scusi, perché?» «Scrive davvero opere di storia navale?» «Sì, certo», confermò lui, con aria innocente. «Non vedo perché dovrei mentirle.» «Incredibile», mormorò Heidi. «Me ne occupo anch'io, però il mio libro è ancora inedito.» «Ha ragione, davvero incredibile», disse Shaw, sforzandosi di mostrare una doverosa meraviglia. Poi cercò a tentoni la mano di lei, la trovò e la strinse appena. «Quand'è che deve ritornare a bordo?» Si accorse che tremava leggermente. «Non c'è nessuna fretta.» Colse in un lampo la visione d'un cartello segnaletico verde a grandi lettere bianche nel momento in cui vi sfrecciavano accanto. «È mai stata a Santa Barbara?» «No, ma ho sentito dire che è molto bella», rispose Heidi, con un sussurro a malapena percettibile. Il mattino seguente fu Heidi a ordinare la colazione in camera. Mentre stava versando il caffè, si sentì pervadere da un delizioso senso di calore. Aver fatto l'amore con un estraneo, a sole poche ore dal loro primo incontro, la colmava di un'eccitazione che non aveva mai sperimentato in precedenza. Qualcosa che le riusciva piacevole e inesplicabile insieme. Le era facile ricordare gli uomini che aveva avuto: lo spaventato allievo dell'Accademia navale a Minneapolis, il suo ex marito, l'ammiraglio Walter Bass, Dirk Pitt e adesso Shaw... Se li vedeva davanti chiaramente, come se si fossero schierati in riga per un'ispezione. Solo cinque... neppure sufficienti per formare un plotone. Chissà perché, si chiese, una donna quanto più invecchia tanto più si rammarica di non essere andata a letto con molti più uomini. S'incollerì con se stessa. Era stata troppo schiva nei suoi anni di solitudine, troppo timorosa di sembrare affamata di sesso, mai capace d'indulgere a relazioni passeggere. Sciocca, si rimproverò. Perché, in ultima analisi, spesso si rendeva conto di ricavare un piacere fisico dieci volte maggiore di quello che ne ricavava in genere l'uomo. La sua ebbrezza si diffondeva dall'intimo, mentre gli uomini da lei conosciuti avevano goduto una sensazione puramente epidermica, originata - si sarebbe detto - soprattutto dall'immaginazione. E non di rado, dopo, erano delusi. Per loro il sesso non differiva granché dall'andare a vedere un film. La donna, concluse, esige molto di più... troppo. «Mi sembri pensierosa», osservò Shaw. Le sollevò i capelli per baciarle
la nuca. «Il rimorso incomincia a rodere alle prime fredde luci dell'alba?» «Di' piuttosto tutta presa dalla dolcezza del ricordo.» «Quando devi partire?» «Dopodomani.» «Allora abbiamo ancora un po' di tempo per rimanere insieme.» Heidi scosse il capo. «No, sarò di servizio fino al momento in cui salperemo.» Shaw si accostò alle grandi porte-finestre scorrevoli con vista sull'oceano, ma la visibilità era ridotta a un centinaio di metri appena. Una densa nebbia avvolgeva la costa di Santa Barbara. «Maledetta scalogna!» esclamò, rammaricandosi. «Abbiamo tante cose in comune, noi due.» Heidi gli si accostò e gli passò un braccio intorno alla vita. «Che t'immaginavi? Fare l'amore di notte e dedicarci alle nostre ricerche di giorno?» «Ah, questi americani con il loro umorismo così esplicito», rise lui. «Però mica male come idea. Direi che ci potremmo completare benissimo a vicenda. Che stai scrivendo adesso, di preciso?» «La mia tesi di laurea. La Marina americana al tempo dell'amministrazione Wilson.» «Ha l'aria di essere un argomento d'una noia mortale.» «Puoi ben dirlo.» Heidi tacque un momento, assorta. Poi chiese: «Tu hai mai sentito parlare di un trattato nordamericano?» Era fatta! Senza bisogno di subdoli accorgimenti, senza farla cascare in un trabocchetto, senza bisogno d'insistere tormentandola. Gliel'aveva offerto spontaneamente, su un piatto d'argento. Shaw non rispose subito; scelse le parole con cura. «Sì, ricordo qualcosa in proposito.» Heidi lo guardò, aprì la bocca come per parlare, ma vi rinunciò. «Perché mi guardi con un'espressione così strana?» «Tu sei a conoscenza di questo trattato?» gli chiese infine, con evidente sbalordimento. «Ne hai visto coi tuoi occhi una copia?» «A dire il vero non ho mai letto il testo. E ho dimenticato a che cosa si riferiva, in sostanza. Tutto ciò che ricordo è che si trattava di una questione di scarso rilievo. Notizie in merito si trovano in quasi tutti gli archivi di Londra.» Shaw, seguitando a parlare in tono indifferente, si accese con tutta calma una sigaretta. «T'interessano i particolari ai fini della tua tesi?» «No. Ma nel corso delle mie ricerche mi è capitato di scoprire, per puro caso, un accenno. Ho voluto approfondire la cosa per semplice curiosità,
però... buio completo. Non è saltato fuori niente che ne confermasse l'esistenza.» «Se ci tieni, potrei fartene fare una fotocopia e spedirtela.» «No, non prenderti tanto disturbo. Alla mia anima inquisitiva è più che sufficiente sapere che non si trattava d'uno scherzo della mia immaginazione. Senza contare, del resto, che ho consegnato gli appunti a una persona amica, a Washington.» «Posso inviare la copia a lei.» «È un lui.» «D'accordo, la indirizzerò a lui», disse, tentando di reprimere un tono d'impazienza nella propria voce. «Dammi il suo nome e l'indirizzo.» «Si chiama Dirk Pitt e il suo recapito è presso la National Underwater & Marine Agency.» Shaw aveva ottenuto lo scopo che lo aveva portato negli Stati Uniti. Un agente segreto, dedito anima e corpo alla propria missione, avrebbe rispedito Heidi sulla sua nave e si sarebbe precipitato all'aeroporto per salire sul primo volo diretto a Washington. Lui, però, non si era mai considerato un uomo votato esclusivamente al dovere. C'erano occasioni in cui la dedizione assoluta non pagava e quella era una delle occasioni in questione. Baciò Heidi sulla bocca, con passione. «Ora basta con le ricerche storiche. Torniamo a letto.» E così fecero. 29 Di primo pomeriggio, una brezza soffiava insistente da nord-est; una brezza fredda, che pareva fatta di minuscoli aghi e pungeva la pelle fino a renderla insensibile. Il termometro segnava tre gradi sopra lo zero, ma Dirk Pitt, fermo sulla riva del San Lorenzo con gli occhi rivolti all'acqua del fiume, aveva l'impressione che in realtà ci fossero dieci gradi sotto zero. Inalava gli odori portati dal vento proveniente dai bacini portuali nella piccola baia a pochi chilometri da Rimouski, una città del Quebec. Un miscuglio di zaffate diverse: catrame, ruggine e nafta. Si mosse, camminando sulle vecchie assi scricchiolanti dell'imbarcadero, e scese i pochi gradini fino al battello che si dondolava lievemente sulle acque oleose. Lungo una quindicina di metri, era stato progettato e costruito secondo criteri razionali: ponti lisci e spaziosi, due eliche, motori diesel. Nessuna concessione superflua all'eleganza, niente finiture luccicanti di acciaio cromato. Il na-
tante, con lo scafo verniciato in nero, era stato concepito secondo un criterio funzionale per andare a pesca, o per spingersi al largo e praticare il nuoto subacqueo, oppure per controllare la presenza di chiazze inquinanti di petrolio. La coperta era accostata sottovento e pulitissima, segno che il proprietario trattava la sua barca con la massima cura. Dalla timoniera uscì un uomo con in capo un berretto a maglia che stentava a contenere la gran massa di capelli neri. Aveva la faccia profondamente segnata, però gli occhi che osservavano Pitt, esitante prima di mettere piede sul ponte di poppa, erano vivi e attenti. «Il mio nome è Dirk Pitt. Sto cercando Jules Le Mat.» L'uomo rimase un attimo impassibile, poi sorrise, con un gran lampeggiare di denti bianchissimi. «Ben arrivato, monsieur Pitt. Si accomodi, la prego.» «È una gran bella barca.» «Bella forse no, ma resistente e fedele come una brava moglie.» La stretta di mano parve quella di una morsa. «Ha azzeccato una magnifica giornata per la sua visita. Il San Lorenzo ce la mette tutta, niente nebbia e leggermente mosso solo dov'è più profondo. Se non le spiace darmi una mano a mollare gli ormeggi, possiamo muoverci subito.» Le Mat andò a mettere in moto i diesel, mentre Pitt, sciolte le gomene di poppa e di prua dalle bitte della banchina, le arrotolava sul ponte. L'acqua verdastra della baia scivolava via sotto la chiglia, quasi perfettamente liscia, senza increspature; mentre s'immettevano nella corrente principale del fiume, l'acqua diventava di un azzurro piombo, foriero di tempesta. Le alture della riva opposta, distanti una cinquantina di chilometri, erano ancora imbiancate dalla neve invernale. Incrociarono un peschereccio che rientrava in porto con la pescata di una settimana e il padrone agitò una mano in segno di saluto per rispondere al colpo di sirena del battello di Le Mat. Dietro di loro, a poppavia, le guglie della pittoresca cattedrale di Rimouski si stagliavano nette, illuminate dal sole marzolino. Il vento, non forte ma freddo, si fece ancora più gelido a mano a mano che si allontanavano dal riparo della riva e Pitt si rifugiò nella cabina comune, sotto il ponte. «Una tazza di tè?» propose Le Mat. «Ottima idea», approvò Pitt, con un sorriso. «Il bricco è nella cambusa», spiegò Le Mat senza voltarsi, con le mani appoggiate mollemente sulla ruota del timone e gli occhi fissi davanti a sé. «Si serva da solo, per favore. Io devo tener d'occhio i banchi di ghiaccio
galleggianti. In questa stagione sono più fitti di uno sciame di mosche sopra un letamaio.» Pitt si versò una generosa tazza di tè fumante e sedette su una grande sedia girevole, osservando il fiume. Le Mat aveva ragione: l'acqua era disseminata di lastroni fluttuanti, grandi poco meno del battello. «Com'era il tempo, la notte che l'Empress of Ireland colò a picco?» chiese, rompendo il silenzio. «Il cielo limpido, il fiume calmo, l'acqua poco sopra il punto di congelamento. Ogni tanto una fascia di nebbia, come succede sempre in primavera, quando da sud arriva aria già calda.» «Era una buona nave, l'Empress?» «Una delle migliori», rispose con serietà Le Mat, alla domanda che considerava ingenua. «Costruita secondo i criteri più avanzati del tempo, per conto della Canadian Pacific Railway. Erano due navi splendide, l'Empress of Ireland e la sua gemella, l'Empress of Britain, due transatlantici di quattordicimila tonnellate, lunghi centosessantacinque metri. Forse meno lussuosi, nelle finiture interne, dell'Olympic e del Mauretania, ma godevano di ottima fama per le comodità offerte ai passeggeri durante la traversata.» «Se non sbaglio, nel suo ultimo viaggio l'Empress of Ireland era salpata da Quebec diretta a Liverpool.» «Aveva tolto gli ormeggi intorno alle quattro e mezzo del pomeriggio. Di lì a nove ore era sul fondo del fiume, coricata sulla dritta. Tutto per colpa della nebbia.» «E di una carboniera norvegese, la Storstad.» Le Mat sorrise. «Vedo che se l'è studiata bene la lezione, signor Pitt. Il mistero per cui l'Empress e la Storstad vennero a collisione non è mai stato chiarito del tutto. Si erano avvistate tutt'e due a otto miglia di distanza. Quando la distanza si era ridotta a meno di due miglia, tra di loro calò un banco di nebbia molto basso. Kendall, il comandante dell'Empress, ordinò il macchina-indietro e fermò la nave. Fu un errore; avrebbe dovuto continuare a farla avanzare. Gli uomini che erano nella timoniera della Storstad rimasero disorientati vedendo che il transatlantico era svanito nella nebbia. Ritennero che l'Empress li avrebbe incrociati sulla sinistra, mentre in realtà, dato che le macchine erano spente, la deriva la spingeva alla loro destra. Il primo ufficiale della carboniera ordinò al timoniere di poggiare a dritta e questa fu la condanna a morte dell'Empress e dei suoi passeggeri.» Le Mat s'interruppe per indicare a Pitt un lastrone di ghiaccio che, a occhio e croce, doveva misurare circa un ettaro. «Abbiamo avuto un inverno
insolitamente rigido quest'anno. A duecentoquaranta chilometri dalla foce la superficie del fiume è tuttora una spessa lastra di ghiaccio.» Pitt tacque, centellinando il suo tè. «La Storstad, che stazzava seimila tonnellate e trasportava un carico di undicimila tonnellate di carbone, speronò l'Empress al centro della fiancata, aprendo una falla di oltre sette metri in altezza e quattro e mezzo in larghezza. L'Empress affondò in soli quattordici minuti e con lei trovarono la morte, sotto la superficie del San Lorenzo, più di mille povere anime.» «Strano che di una tragedia di simili proporzioni si sia cancellato così presto il ricordo», mormorò Pitt, pensieroso. «Eppure è vero», confermò Le Mat. «Provi a chiedere a chicchessia, negli Stati Uniti o in Europa, che cosa ne sa dell'Empress of Ireland e tutti le risponderanno di non averne mai sentito parlare. E quasi un delitto che l'abbiano dimenticata così.» «Lei, però, non l'ha dimenticata.» «E non l'ha dimenticata neppure l'intera provincia del Quebec», rispose Le Mat, indicando verso est. «Proprio dietro Pointe-au-Père, in un piccolo cimitero tuttora curato a spese della Canadian Pacific Railway, sono sepolte ottantotto vittime non identificate del naufragio.» L'uomo parlava con tale tristezza della terribile aritmetica della morte, da far credere che la tragedia fosse recentissima. «La ricorda anche l'Esercito della Salvezza. Dei suoi centosettantuno membri che stavano andando a Londra per un raduno, se ne salvarono soltanto ventisei. Tutti gli anni, nell'anniversario dell'affondamento, celebrano un servizio funebre nel cimitero di Mount Pleasant, a Toronto, per commemorare i loro morti.» «Mi hanno riferito che lei dedica gran parte del suo tempo alle ricerche dell'Empress.» «Guardi, più che un interesse, la mia è una vera passione, qualcosa di simile al grande amore che certi uomini provano per una donna morta assai prima che nascessero, vedendone il ritratto.» «Io sono del tipo che preferisce attenersi alla realtà piuttosto che alla fantasia», disse Pitt. «A volte la fantasia è più gratificante», replicò Le Mat, con uno sguardo sognante. Ma si riscosse di colpo, per evitare, con un colpo del timone, un blocco di ghiaccio che avanzava sulla loro rotta. «Fra giugno e settembre, quando l'aria e l'acqua sono più calde, faccio dalle venti alle trenta immersioni intorno al relitto.» «In quali condizioni si trova ora l'Empress?»
«Abbastanza cattive, ma non tanto quanto ci si potrebbe immaginare, dopo settantacinque anni dall'affondamento. A mio parere, dipende dal fatto che l'acqua dolce del fiume diluisce la salinità di quella oceanica che risale dalla foce. Lo scafo è inclinato sulla dritta, a un angolo di quarantacinque gradi. Una parte delle paratie soprelevate è sprofondata sulle sovrastrutture superiori, ma il resto del transatlantico è pressoché intatto.» «A quale profondità si trova?» «A una cinquantina di metri, più o meno. Un po' troppo per chi si tuffa come me con le bombole ad aria compressa, però riesco a farcela.» Le Mat chiuse le valvole a farfalla e spense i motori, lasciando che la barca andasse alla deriva con la corrente. Poi si girò verso Pitt. «Mi dica, signor Pitt, perché s'interessa tanto all'Empress? Perché è venuto a cercare me?» «Sto tentando di rintracciare notizie riguardanti un passeggero che scomparve nel naufragio. Si chiamava Harvey Shields. E mi hanno detto che nessuno conosce la storia del transatlantico come la conosce Jules Le Mat.» L'uomo rifletté piuttosto a lungo sulle parole di Pitt prima di rispondergli: «Sì, ricordo che tra le vittime vi fu un certo Harvey Shields. Il suo nome non figurò mai tra quelli dei cadaveri recuperati dopo il naufragio e riconosciuti dai superstiti. Perciò c'è da presumere che Shields fosse uno dei settecento, o poco meno, che giacciono tuttora chiusi per sempre nello scafo divenuto la loro tomba». «Non potrebbe darsi che fosse stato recuperato ma mai identificato, come le salme sepolte nel cimitero di Pointe-au-Père?» Le Mat scosse la testa. «Quelli erano in maggioranza passeggeri di terza classe. Shields era un diplomatico inglese, un personaggio importante. La sua salma sarebbe stata certamente riconosciuta.» Pitt posò la tazza che teneva ancora in mano. «Quindi la mia ricerca termina qui.» «No, signor Pitt», lo corresse Le Mat, «non qui.» Pitt lo guardò sorpreso, senza dire parola. «Qui sotto», seguitò Le Mat, accennando al fiume. «L'Empress of Ireland si trova esattamente sotto di noi.» Accennò con la mano fuori del finestrino. «Lo vede quel segnale galleggiante?» A una quindicina di metri dal battello, sulla dritta, un gavitello arancione, assicurato mediante un cavo al relitto adagiato sul fondo, dondolava leggermente, sollevandosi e abbassandosi sull'acqua gelida.
30 Alla guida dell'utilitaria noleggiata, Pitt lasciò la strada statale per imboccarne una secondaria, molto più stretta e lastricata, e arrivò in vista dell'Hudson poco dopo il tramonto. Si lasciò dietro il cippo commemorativo d'una delle battaglie della guerra d'indipendenza, vincendo la tentazione di fermarsi per sgranchirsi le gambe: gli conveniva giungere a destinazione prima che calasse l'oscurità. Il panorama della zona circostante il fiume era pittoresco: alla luce crepuscolare dell'incipiente primavera, i campi coltivati digradanti fin sulle rive luccicavano sotto l'ultima nevicata. Si fermò a fare il pieno in un piccolo distributore poco fuori un paesotto, Coxsackie. Il benzinaio, un uomo anziano con indosso una tuta scolorita, stava al riparo nello sgabuzzino che gli serviva da ufficio, con i piedi poggiati sopra una sedia metallica, davanti alla stufa a legna accesa. «Venti dollari tondi», disse. Pitt gli allungò le due banconote e chiese: «Ci vuole ancora molto per Wacketshire?» L'uomo strizzò sospettosamente gli occhi e fissò Pitt come se avesse voluto radiografarlo. «Wacketshire?» ripeté. «Sono anni che nessuno me ne chiede. Perché Wacketshire non esiste più.» «Una città fantasma nella zona nord dello Stato di New-York? Pensavo che ve ne fossero soltanto nel deserto sudoccidentale.» «Guardi che non sto scherzando, signore. Dopo che ebbero spostato la linea ferroviaria, nel 1949, Wacketshire non ce la fece più a campare e fu lasciata morire. Poi i vandali si divertirono a incendiare buona parte delle costruzioni. Non ci vive nessuno, tranne un tizio che lavora facendo statue.» «È rimasto qualcosa dei vecchi binari?» «Assai poco anche di quelli.» Il vecchio parve rammaricarsi. «Tutta colpa dei soliti dannati teppisti.» Scrollò le spalle. «Be', almeno non dobbiamo sopportare la puzza dei locomotori a nafta. Finché la linea era in funzione, le locomotive andavano a vapore.» «Chissà, può darsi che un giorno o l'altro le rimettano in servizio.» «Io, in ogni modo, non vivrò tanto da rivederle.» Guardò Pitt con evidente curiosità. «Come mai lei s'interessa a una linea ferroviaria che hanno soppresso da tanti anni?» «Sono un fanatico dei treni», fu pronto a rispondere Pitt. Da qualche tempo era diventato abilissimo nella menzogna a botta calda. «Soprattutto
di quelli antiquati. In questo momento sto conducendo ricerche sul Manhattan Limited, che era gestito dalla compagnia ferroviaria New York and Quebec Northern.» «Ah, quello che precipitò giù dal ponte Deauville, facendo un centinaio di vittime.» «Sì», disse Pitt, «proprio quello.» Il vecchio si girò. «Il Manhattan Limited è un treno tutto speciale», mormorò, guardando fuori della finestra. «Lo si riconosce a distanza, senza pericolo di sbagliarsi, quando si sta avvicinando. Fa un rumore inconfondibile.» Pitt dubitò di avere frainteso. Il benzinaio aveva parlato al presente. «Lei si sta riferendo a un altro treno dallo stesso nome, immagino.» «Nossignore. Più d'una volta l'ho visto con i miei occhi e sentito con le mie orecchie correre fischiando sui binari, con i fanali di testa accesi, proprio come la notte che precipitò nel fiume.» Il vecchio discorreva con la massima naturalezza del treno fantasma, come se stesse parlando del freddo o della neve. Era già calato il crepuscolo quando Pitt fermò l'automobile in una piazzola a lato della strada. Da nord soffiava un vento freddo che lo indusse a chiudere sino al collo la cerniera lampo del vecchio giubbotto di cuoio e ad alzare il bavero per ripararsi le orecchie. S'infilò un berretto di lana e scese dalla macchina, chiudendo a chiave tutt'e due le portiere. A occidente il cielo passò dall'arancione al rosso cupo mentre lui arrancava a fatica verso il fiume attraverso un campo gelato, facendo scricchiolare sotto gli stivali uno strato di neve alto una decina di centimetri. Aveva dimenticato d'infilarsi i guanti, ma piuttosto che tornare fino all'automobile e perdere gli ultimi minuti di visibilità, preferì cacciarsi le mani in tasca. Dopo aver percorso quattrocento metri, arrivò a un boschetto di hickory e di arbusti più bassi. Si aprì il varco tra i rami appesantiti da grappoli di ghiaccioli e si trovò davanti un alto terrapieno, così ripido che per arrampicarsi in cima dovette aiutarsi con le mani che stentavano a far presa sulla superficie resa scivolosa dalla patina gelata. Con le dita semicongelate e insensibili, si trovò sulla massicciata lasciata in abbandono da decenni. In certi punti era profondamente erosa e coperta da un intrico di erbacce gelate, che spuntavano a ciuffi rigidi dalla neve. All'ormai fievolissimo chiarore crepuscolare Pitt notò i resti che parlavano del passato: un paio di traversine di legno fradicio semisepolte nel terreno, qualche arpione arruggi-
nito, un po' di pietrisco schizzato tutt'in giro. C'erano ancora i pali del telegrafo, che si perdevano in lontananza come una fila di guerrieri sbandati, stanchi della battaglia. Le travi incrociate, con i segni evidenti dell'usura del tempo, erano rimaste al loro posto, imbullonate. Pitt diede un'occhiata intorno a sé, per orientarsi, e riprese ad arrancare lungo la leggera curva che conduceva, in salita, alla testa del ponte crollato. L'aria era tagliente come una lama di rasoio, il suo respiro si addensava in nuvolette di vapore che si dissolvevano rapidamente. Un coniglio selvatico schizzò davanti a lui, fulmineo, e scese il terrapieno a grandi balzi. Il crepuscolo aveva lasciato il posto alla notte. Era buio completo quando si fermò guardando le gelide acque del fiume che scorreva una cinquantina di metri sotto di lui. La spalla in pietra del ponte Deauville-Hudson aveva un che di assurdo. Dall'acqua sorgevano, simili a sentinelle che montassero la guardia a una posizione perduta, due piloni solitari. La corrente, battendovi contro, formava piccoli mulinelli. Non c'era più segno del ponte a travi reticolari lungo centocinquanta metri, che una volta quei piloni avevano sostenuto. Non era mai stato ricostruito, dopo la tragedia. Avevano spostato più a sud la linea ferroviaria e costruito un nuovo, robusto ponte a una sola campata. Pitt si piegò sulle ginocchia e rimase in quella posizione per un bel pezzo, tentando di ricostruire mentalmente la notte fatale: gli sembrava quasi di vedere le luci rosse di coda rimpicciolirsi mentre il treno correva verso il baratro e di percepire lo stridio del metallo contorto e l'immane tonfo nell'acqua. La sua fantasticheria fu interrotta da un rumore reale, una specie di gemito acuto, in lontananza. Si rizzò in piedi e tese l'orecchio. Dapprima non colse altro suono se non il mormorio del vento. Poi il gemito sibilante si ripeté. Proveniva da un punto imprecisato, più a nord, e riecheggiava tra le impervie rive rocciose dell'Hudson, tra i rami spogli degli alberi, tra le buie colline che chiudevano la valle. Era il fischio di un treno. Pitt scorse un debole bagliore giallastro che si allargava avanzando a velocità uniforme verso di lui. Subito dopo udì uno sferragliare cigolante e gli sbuffi del vapore. Tutto, in lui, si ribellava all'idea di accettare la realtà di quanto i suoi occhi stavano vedendo. Era impossibile che un treno corresse su binari inesistenti di una massicciata in rovina. Rimase inchiodato dov'era, senz'avvertire la morsa del gelo, scervellandosi per escogitare una spiegazione razionale, con la mente che respingeva le impressioni sensoriali. Ma il fischio diventava via via più acuto e la luce più viva. Per dieci
secondi, forse, o forse per venti, rimase altrettanto immobile e altrettanto irrigidito dal gelo degli alberi che fiancheggiavano quella che era stata una linea ferroviaria. Poi l'afflusso improvviso dell'adrenalina e della paura spazzò via ogni residua riflessione dettata dalla logica. Il panico gli artigliò lo stomaco e Pitt smarrì completamente il senso della realtà. Il fischio, ormai foltissimo, lacerò il silenzio notturno, il mostruoso occhio giallo sbucò dalla curva, abbagliandolo, e il ritmico fragore delle ruote aumentò mentre l'incredibile apparizione incominciava a superare il pendio avvicinandosi al ponte inesistente. Pitt non seppe mai dire, in seguito, quanto a lungo fosse rimasto là, pietrificato, alla vista di quello che sapeva essere, nel fondo della sua coscienza, nient'altro che un fenomeno suscitato dalla superstizione. In quell'attimo, tuttavia, ebbe il sopravvento la voce irrazionale dell'autoconservazione e lui si guardò in giro, frenetico, alla ricerca d'una via di scampo. I brevi fianchi del piedritto scomparivano nel buio pesto, dietro di lui non c'era altro che il salto nel fiume. Si sentì intrappolato sull'orlo di un abisso. La locomotiva spettrale gli si precipitava incontro rapidissima, il suono della campana udibile nonostante il fragore delle ruote e degli stantuffi. A un tratto, il timore che lo aveva attanagliato cedette alla collera, una collera originata in parte dalla sua impotenza e in parte dalla sua lentezza ad agire. Gli attimi che impiegò per prendere una decisione gli parvero lunghi quanto un'intera vita. Gli rimaneva una sola scappatoia e optò per quella. Come un velocista che scatta allo sparo dello starter, corse alla disperata giù per il pendio, verso l'ignoto. 31 La luce abbagliante si spense di colpo e il fragore si attuti fino a venire ingoiato dal silenzio della notte. Pitt si fermò e rimase immobile, frastornato nell'incomprensione, sforzandosi di riadattare la vista all'oscurità che lo circondava. Tese l'orecchio, col capo inclinato per cogliere un eventuale rumore, ma non udì altro che l'incessante sussurrio del vento che soffiava da nord. Incominciò ad avvertire il freddo tagliente sulle mani nude e il battito violento del proprio cuore. Trascorsero due minuti buoni in cui non accadde nulla. Riprese a camminare sulla massicciata, fermandosi ogni pochi metri per scrutare il tappeto di neve che la copriva. Il biancore era intatto, tranne le impronte che si
lasciava dietro. In preda a un profondo sbalordimento, continuò ad avanzare per circa un chilometro, muovendo le gambe a fatica, aspettandosi quasi, benché al tempo stesso ne dubitasse, di trovare qualche traccia dello spettro meccanico. Ma i suoi occhi non scoprirono niente. Pareva che il treno di poco prima non fosse mai passato. Inciampò in qualcosa di duro e piombò seduto su un mucchio di ghiaia accumulata dal vento. Imprecando contro la propria goffaggine, si mise a tastare intorno a sé e le sue dita toccarono due gelidi nastri paralleli di acciaio. Dio mio, sono le rotaie! Si alzò in piedi di scatto e riprese ad avanzare. Superata una stretta curva, scorse il chiarore azzurrognolo d'uno schermo televisivo che trapelava dalla finestra di una casa. Le rotaie, a quanto gli parve, correvano davanti al porticato della facciata. Dall'interno della costruzione udì abbaiare un cane. Subito dopo, un quadrato luminoso si proiettò sul terreno, dalla porta che qualcuno aveva aperto. Pitt restò nascosto nell'ombra. Un enorme cane da pastore, dal pelo lungo e ispido, balzò sulle traversine, annusò l'aria gelida e, evidentemente desideroso di sbrigarsi, alzò una zampa posteriore, fece quanto doveva fare e rientrò in fretta nel tepore del soggiorno riscaldato dal caminetto. La porta si richiuse. Avvicinandosi, Pitt distinse una grande massa scura parcheggiata su un binario di raccordo. Era una locomotiva con agganciate una vettura passeggeri e una di servizio, per il personale. Si arrampicò cauto nella cabina e toccò la caldaia. Il metallo era freddo come un pezzo di ghiaccio. Si ritrovò le mani sporche di ruggine. Non era stata accesa, quindi, da chissà quanti anni. Attraversò i binari e bussò alla porta della casa. Il cane si affrettò a lanciare doverosamente una serie di rauchi latrati e, subito dopo, un uomo, avvolto in un accappatoio spiegazzato, comparve sulla soglia. Aveva la luce alle spalle, quindi Pitt non poté distinguerne i lineamenti, ma soltanto la figura che pareva quella di un lottatore e riempiva quasi tutto il vano della porta. «Desidera?» chiese l'omone con una voce di basso profondo. «Mi rincresce disturbarla, ma avrei piacere di scambiare due parole con lei», rispose Pitt, con un sorriso accattivante. In risposta ebbe dapprima una gelida occhiata, poi un cenno secco. «Va bene. Si accomodi.» «Mi chiamo Pitt, Dirk Pitt.» «Ansel Magee.» Il nome non gli riuscì nuovo ma, prima che riuscisse a collocarlo nella
sua memoria, Magee si girò, annunciando col suo vocione: «Annie, abbiamo visite». La donna comparve, uscendo dalla cucina. Camminava eretta, con un portamento aggraziato. Era sottile come un grissino, l'antitesi esatta di Magee. Pitt immaginò che da giovane fosse stata un'indossatrice. Aveva i capelli brizzolati e acconciati con garbo. Indossava un aderente abito da casa, rosso, e un grembiule dello stesso colore; in mano teneva ancora lo strofinaccio dei piatti. «Mia moglie Annie», la presentò Magee, accompagnando le parole con un gesto. «Questo è il signor Pitt.» «Molto piacere», disse Annie, rivolgendogli un cordiale sorriso. «Credo che non le dispiacerebbe una bella tazza di caffè caldo.» «Lo berrei volentieri», accettò Pitt. «Nero, per favore.» La donna spalancò gli occhi. «Le sue mani sanguinano!» Pitt se le guardò: i palmi erano coperti di abrasioni. «Mi devo essere graffiato poco fa, quando sono caduto inciampando nei binari. Non me ne sono neanche accorto, tanto sono intorpidite dal freddo.» «Venga, si metta a sedere accanto al fuoco», disse Annie, indicandogli un divano. «Gliele medicherò io.» S'affrettò in cucina e riempì un catino di acqua calda, poi andò a cercare un disinfettante in bagno. «Il caffè lo preparo io», dichiarò Magee, sollecito. Il cane da pastore, immobile, fissava Pitt senza manifestargli né ostilità né amicizia. O almeno Pitt riteneva che lo fissasse, perché folti ciuffi di pelo gli coprivano gli occhi. Il soggiorno era arredato con raffinata originalità e i mobili, le lampade, i soprammobili, di linea moderna, parevano pezzi unici, disegnati da un artista di ottimo gusto. I colori dominanti erano il bianco e il rosso. La stanza pareva una galleria d'arte, calda, luminosa e accogliente, l'ideale per viverci. L'improvvisato anfitrione rientrò, portando una tazza di caffè fumante. Adesso, in piena luce, Pitt ne riconobbe il volto cordiale, dall'espressione maliziosamente bonaria che faceva pensare a un folletto. «Lei è Ansel Magee, il famoso scultore.» «Temo che parecchi critici d'arte non approverebbero l'aggettivo 'famoso'.» «Non sia troppo modesto», protestò Pitt. «Una volta, per visitare una sua mostra alla National Art Gallery di Washington, ho fatto la fila, in una coda lunga quanto tutto l'isolato.» «È un intenditore d'arte moderna, signor Pitt?»
«Un intenditore? Non oserei definirmi nemmeno un dilettante. In realtà la mia passione sono le macchine d'antiquariato. Faccio collezione di automobili e di aeroplani d'epoca.» E questo era vero. «Inoltre, m'interesso molto anche alle vecchie locomotive.» E questa era una bugia. «Allora abbiamo un punto in comune», affermò Magee. «Io pure sono fanatico degli scomparsi treni a vapore.» Si sporse in avanti e spense il televisore. «Infatti, ho notato la sua linea ferroviaria personale.» «La locomotiva è del tipo Atlantic quattro-quattro-due; fabbricata nelle officine Baldwin nel 1906. Era in servizio sulla linea Chicago-Council Bluffs nell'Iowa. Ai suoi tempi era un fenomeno di velocità», spiegò lo scultore, quasi declamando. «Quando l'ha fatta funzionare l'ultima volta?» Pitt si accorse subito di aver toccato un tasto sgradito, dall'espressione di rammarico sul volto del suo interlocutore. «L'avevo acquistata due estati fa, dopo aver riattato circa ottocento metri di massicciata. Portavo a spasso i vicini e i loro ragazzi sulla mia linea privata. Poi sono stato costretto a rinunciarvi, per via di un attacco di cuore. Da allora è rimasta ferma.» Annie ricomparve e incominciò a lavargli i graffi e i tagli. «Purtroppo non ho trovato altro che un vecchio flaconcino di tintura di iodio. Brucerà da matti.» Eppure non bruciò affatto: Pitt aveva le mani ancora troppo intirizzite. Non disse nulla mentre la donna gliele fasciava. Quand'ebbe finito, Annie sedette, osservando la propria opera con aria critica e commentando che, se anche il suo non era un capolavoro da meritarle il titolo di infermiera dell'anno, poteva comunque andare, almeno fintante che Pitt non fosse arrivato a casa. Lui l'assicurò che non avrebbe potuto imbattersi in una samaritana migliore di lei. Magee si mise comodo in una poltrona profonda e avvolgente che, per la forma, faceva pensare a un tulipano. «E adesso mi dica, signor Pitt. Che cosa sta cercando, in particolare?» Pitt giudicò che non fosse il caso di tergiversare. «Sto raccogliendo dati sul Manhattan Limited.» «Capisco», disse Magee, ma era evidente che non capiva. «Presumo che il suo interesse s'incentri non tanto sulla storia dell'intero periodo in cui fu in servizio, quanto sull'ultimo viaggio.» «Sì», ammise Pitt. «Ci sono parecchi particolari relativi al disastro che
non sono mai stati chiariti sino in fondo. Ho letto tutti i resoconti pubblicati allora nei giornali, ma ne ho ricavato molti più problemi insoluti che risposte ai miei dubbi.» Magee gli scoccò un'occhiata sospettosa: «Lei è un giornalista?» Pitt spiegò, con un cenno di diniego: «No, dirigo ricerche speciali per conto della National Underwater & Marine Agency». «Quindi lavora per il governo?» «Be', sì; è lo zio Sam che mi paga lo stipendio. Però la mia curiosità per il disastro ferroviario del ponte Deauville-Hudson è strettamente personale.» «Curiosità? Io la chiamerei piuttosto ossessione. Che cos'altro potrebbe indurre un uomo a vagare qua in giro con questo freddo e nel cuore della notte?» «Il fatto è che dispongo di pochissimo tempo per questa che lei chiama la mia ossessione», spiegò Pitt, senza irritarsi. «Domani mattina devo essere a Washington. Questa era la mia unica possibilità di venir a dare un'occhiata alla zona del ponte, senza contare che sono arrivato quand'era ancora giorno.» Magee, convinto ormai di non trovarsi davanti a un giornalista, si rilassò. «Mi scusi se l'ho sottoposta a un interrogatorio, signor Pitt, ma lei è il primo estraneo capitato nel mio piccolo eremo. A parte un paio di amici selezionati e i galleristi che s'incaricano di vendere i miei lavori, il pubblico crede che io sia una sorta di originale, mezzo matto, che vive rintanato in un vecchio magazzino nella parte orientale di New York, freneticamente impegnato a fondere le sue sculture. Un artificio che ho architettato con uno scopo ben preciso. Adoro il mio isolamento. Se dovessi trovarmi quotidianamente alle prese con una caterva di rompiscatole, di critici e di giornalisti alla mia porta, non riuscirei mai a portare a termine il lavoro. Qui, nascosto nella valle dell'Hudson, posso creare senza che nessuno mi secchi.» «Un'altra tazza di caffè?» propose Annie. Con tipica sagacia femminile aveva colto il momento opportuno per interromperlo. «Sì, grazie», rispose Pitt. «Le andrebbe una fetta di torta di mele appena sfornata?» «Accetto più che volentieri. Dopo la colazione di questa mattina, non ho mangiato altro.» «Allora le preparo un boccone per cena.» «No, no. La torta sarà più che sufficiente.»
Non appena Annie fu uscita, Magee riprese la conversazione. «Spero che lei abbia afferrato il sottinteso, signor Pitt.» «Ma io non ho nessun motivo di rivelare al pubblico la località del suo ritiro.» «Non dovrei fidarmi neppure di lei.» Col calore, le mani di Pitt avevano riacquistato la sensibilità e adesso gli facevano un male d'inferno. Annie ricomparve, con la torta, e lui vi si buttò sopra con la voracità di un affamato. «Visto il fascino che i treni esercitano su di lei e poiché vive praticamente a due passi dal ponte crollato, si dev'essere fatto un'idea molto più precisa del disastro di quanto sia possibile ricavare dalla documentazione vecchia di sessant'anni e passa», disse tra un boccone e l'altro. Magee contemplò il fuoco in silenzio, per un minuto buono, poi riprese a parlare, in tono distaccato. «Ha ragione, naturalmente. Ho riflettuto a lungo sugli strani incidenti che si verificarono quando il Manhattan Limited precipitò nel fiume. Incidenti che in gran parte sono radicati nelle leggende locali. Ebbi la fortuna di riuscire a intervistare Sam Harding, il capostazione di servizio la notte della sciagura, pochi mesi prima che morisse in una casa di riposo, a Germantown. Aveva ottantotto anni, ma una memoria che faceva concorrenza a una banca dati. Avrebbe dovuto sentire come rievocava ogni particolare. Mi pareva quasi di vedere gli avvenimenti di quella notte svolgersi davanti ai miei occhi.» «Una rapina a mano armata nel momento preciso in cui il treno stava passando», intervenne Pitt. «Il rapinatore impedì all'aggredito di fare la segnalazione al macchinista e di salvare così un centinaio di vite. Sembra un romanzo.» «Non fu un romanzo, signor Pitt. Tutto si svolse così come Harding aveva riferito alla polizia e ai giornalisti. Ne era una prova la pallottola che Hiram Meechum, il telegrafista, si era preso nella coscia.» «Sì, conosco bene tutta la storia», confermò Pitt. «Allora saprà anche che il rapinatore non fu mai catturato. Harding e Meechum lo identificarono senza la minima esitazione: un certo Clement Massey, 'il bandito azzimato', come lo definivano nei giornali. Una specie di damerino che aveva già a suo carico parecchi colpi messi abilmente a segno.» «Incredibile che sia scomparso nel nulla.» «I tempi erano diversi, prima della grande guerra che avrebbe dovuto mettere fine a tutte le guerre. La polizia allora procedeva con metodi, come
dire, assai più primitivi. Massey non era uno stupido. Pochi anni di gattabuia per una rapina sono una cosa. Ma causare indirettamente la morte d'un centinaio di uomini, donne e bambini è un'altra. Sapeva benissimo che, se lo avessero catturato, la giuria non avrebbe impiegato più di cinque minuti per decidere all'unanimità a favore dell'impiccagione.» Pitt finì di mangiare la fetta di torta e si appoggiò allo schienale del sofà. «Lei ha qualche idea del perché il treno non fu mai ritrovato?» Magee gli rispose con un cenno di diniego. «Presumibilmente sprofondò nelle sabbie mobili. Sommozzatori del luogo si tuffano tuttora, alla ricerca di qualche resto. Alcuni anni fa recuperarono dal fiume, un chilometro e mezzo più a valle, un vecchio faro di locomotiva. La maggior parte della gente suppose che provenisse dal Manhattan Limited. Secondo me, è soltanto questione di tempo prima che il letto del fiume si sposti e lasci il relitto allo scoperto.» «Un altro po' di torta, signor Pitt?» chiese Annie. «Ne sarei tentato, ma è meglio di no», rispose Pitt, alzandosi in piedi. «È ora che me ne vada. Domattina presto devo prendere un aereo al Kennedy. Vi ringrazio per l'ospitalità.» «Prima che se ne vada, vorrei farle vedere una cosa», disse lo scultore alzandosi a sua volta e dirigendosi verso una porta al centro della parete di fondo. L'aprì su una stanza buia, vi entrò e ne uscì pochi momenti dopo, reggendo una lampada a petrolio accesa e, con un cenno, invitò Pitt a seguirlo. L'agente della NUMA entrò; nell'ambiente a malapena rischiarato dalla fiammella vacillante che faceva guizzare le ombre, aguzzò gli occhi nel tentativo di notare i particolari. All'odore del petrolio se ne mescolavano altri, stantii, di vecchio legno e di cuoio. Non appena la vista si fu adattata alla scarsa luce, Pitt si accorse di trovarsi in un ufficio arredato all'antica dove campeggiava una stufa panciuta con un tubo lunghissimo. Riuscì a distinguere in un angolo una cassaforte: la porta era decorata dal disegno di un carro coperto dei pionieri in corsa nella prateria. Contro una parete, sotto la finestra, erano addossate due scrivanie, l'una con l'alzata avvolgibile e, sopra, un vecchio telefono a manovella, l'altra col piano a tavolo, sul quale poggiava un casellario. Sulla parte anteriore del piano, davanti a una poltroncina girevole rivestita di pelle nera, si trovava un manipolatore Morse, da cui partivano fili piegati ad angolo, che scomparivano nel soffitto. Alle pareti erano appesi un orologio, un manifesto che magnificava gli spettacoli d'un teatrino ambulante, l'immagine di una prosperosa ragazza
che reggeva un vassoio di bottiglie di birra della premiata marca Ruppert, 94' Strada, New York City, e un calendario omaggio della Compagnia di assicurazioni Feeney & Company, datato maggio 1914. «L'ufficio di Sam Harding», annunciò, con una punta d'orgoglio nella voce, Magee. «L'ho ricostruito tale quale era la notte della rapina a mano armata.» «Allora la sua casa...» «Era la stazione di Wacketshire», confermò lo scultore. «L'agricoltore dal quale l'ho acquistata se ne serviva come deposito del foraggio per i suoi bovini. Annie e io l'abbiamo restaurata e trasformata. Peccato che lei non l'abbia potuta vedere di giorno. Ha un'architettura tipica, che risale più o meno agli anni '80 del secolo scorso, con elaborate rifiniture tutt'intorno, sotto la sporgenza del tetto, a volute aggraziate.» «Una magnifica idea, la sua, di conservare una costruzione del tardo Ottocento», lo complimentò Pitt. «Sì, ha avuto una sorte migliore di molte altre piccole stazioni di quegli anni», riconobbe Magee. «Abbiamo apportato pochi cambiamenti. Quello che era il deposito bagagli adesso è la nostra stanza da letto e la vecchia sala d'aspetto è diventata il soggiorno.» «Gli arredi sono quelli originali?» chiese Pitt, toccando il manipolatore Morse. «In gran parte sì. La scrivania di Harding era già qui quando abbiamo comperato l'edificio. La stufa l'abbiamo recuperata in mezzo a un mucchio di rottami e Annie ha avuto la fortuna di scovare la cassaforte nel magazzino di un robivecchi a Selkirk. Ma il pezzo numero uno è questo.» Magee sollevò una copertina di camoscio che serviva da riparo contro la polvere: sotto c'era una scacchiera, con i pezzi in ebano e betulla scolpiti a mano, screpolati e un po' corrosi dagli anni. «Apparteneva a Hiram Meechum», spiegò Magee. «L'ho ottenuta dalla sua vedova. Il foro prodotto dalla pistola di Massey non è mai stato riparato.» Pitt la osservò qualche momento, in silenzio. Poi rivolse gli occhi verso il rettangolo buio della finestra. «Si riesce quasi ad avvertire la presenza dei tre uomini.» «Non di rado mi siedo qui dentro, tutto solo, e tento di ricostruire visivamente quella tragica notte», confessò lo scultore. «Le succede di vedere il Manhattan Limited mentre sfreccia fuori, sferragliando?» «A volte», rispose Magee, in tono sognante. «Se l'immaginazione si sca-
tena...» S'interruppe e lanciò all'ospite un'occhiata sospettosa. «Una domanda bizzarra, la sua. Perché me lo chiede?» «Il treno fantasma... Dicono che corra ancora, la notte, lungo la vecchia massicciata.» «La valle dell'Hudson è un vivaio di leggende», ribatté Magee, beffardo. «Alcuni giurano addirittura d'aver visto galoppare un cavaliere senza testa. Una storia incomincia come una favola e finisce col diventare una diceria. Col tempo, abbellita e gonfiata dal folclore locale, si perpetua come leggenda che esula dal limite estremo della realtà. Quella del treno fantasma ebbe inizio pochi anni dopo il crollo del ponte. I creduloni sono pronti a giurare che, come lo spettro del ghigliottinato non riacquisterà pace finché non avrà ritrovato la propria testa, così il Manhattan Limited non entrerà nel grande deposito del cielo se non dopo essere riuscito a passare di là dal fiume.» Pitt rise. «Signor Magee, lei è uno scettico a prova di bomba!» «Può ben dirlo.» L'agente diede un'occhiata all'orologio. «Adesso devo proprio andarmene.» Lo scultore lo accompagnò all'aperto e i due uomini si strinsero la mano sulla vecchia banchina della stazione. «È stata una serata piacevolissima», disse Pitt. «Non so come ringraziare lei e sua moglie dell'ospitalità.» «Il piacere è stato tutto nostro. Ritorni presto a farci visita. Mi piace parlare di treni.» Pitt esitò, incerto. «C'è una cosa che farebbe bene a tenere a mente.» «Sarebbe a dire?» «Una cosa strana che riguarda le leggende», continuò Pitt, fissando l'altro. «Di solito nascono da una verità.» Alla luce riflessa che usciva dalla casa, il volto di Magee appariva grave e pensoso, ma niente di più. Poi l'uomo scrollò le spalle con indifferenza, senza ribattere, e chiuse la porta. 32 Danielle Sarveux salutò con effusione il governatore generale del Quebec, Jules Guerrier, comparso nel corridoio dell'ospedale accompagnato dal suo segretario e da Henri Villon. Guerrier la baciò lievemente sulle guance. Era molto vecchio, vicino agli ottanta, alto e magro, con una folta
chioma argentea e una gran barba bianca, entrambe arruffate. Avrebbe potuto servire da modello per rappresentare Mosè. In quanto capo del governo del Quebec, era anche presidente del partito indipendentista francofono. «Sono felice di vederla, Jules», disse Danielle. «Più felici ancora i miei vecchi occhi di vedere una bella donna come lei», le rispose galantemente. «Charles è ansioso di ricevere la sua visita.» «Come sta? Migliora?» «I medici affermano che fa ottimi progressi; tuttavia ci vorrà molto tempo prima che guarisca completamente.» Sorretto dai cuscini, Sarveux era coricato su un letto collocato accanto a un finestrone dal quale si vedeva il palazzo del parlamento. Un infermiere prese i cappotti e i cappelli dei tre visitatori, che sedettero accanto all'infermo. Guerrier su una poltrona, gli altri sul sofà. Danielle versò il cognac in tre bicchieri. «Mi concedono di offrire da bere agli amici, ma sfortunatamente l'alcol e le medicine che mi propinano non vanno d'accordo, quindi non posso farvi compagnia», disse Sarveux. «Alla tua rapida guarigione», brindò Guerrier. «A una rapida guarigione», fecero eco gli altri. Guerrier posò il bicchiere su un tavolinetto posto all'estremità del divano. «Mi sento onorato che tu abbia chiesto di vedermi, Charles.» Il primo ministro replicò, serio: «Mi hanno appena informato che ti accingi a indire un referendum per l'indipendenza completa». L'altro accompagnò la risposta alzando le spalle e allargando le braccia. «È da un pezzo che ci saremmo dovuti staccare definitivamente dalla Confederazione.» «Sono d'accordo con te e intendo darvi il mio appoggio incondizionato.» Le parole di Sarveux fecero l'effetto di un fulmine a ciel sereno. Guerrier, visibilmente teso e sbalordito, chiese: «Questa volta non ti opporrai?» «No, desidero che la questione sia risolta una volta per tutte.» «Ti conosco da troppo tempo, Charles, per non sospettare che il tuo inatteso assenso non nasconda un altro motivo.» «Mi conosci, Jules, ma piuttosto male. Sono tenace, però non cocciuto e non lotto contro l'ineluttabile. Il Quebec desidera staccarsi dal resto del Canada? Ebbene, così sia. I referendum che avete tenuto, i mandati, le interminabili trattative sono storia passata. Il Paese ne ha sofferto abbastan-
za. La Confederazione non ha più bisogno del Quebec. Sopravvivremo anche senza di voi.» «E lo stesso sarà di noi senza di voi.» Sarveux fece un sorrisetto ironico. «Staremo a vedere come ve la caverete partendo da zero.» «È per l'appunto quello che ci proponiamo: ricominciare proprio da zero», replicò Guerrier. «Scioglieremo l'attuale parlamento ed eleggeremo un nuovo governo, sul modello di quello della repubblica francese. Adotteremo una nostra legislazione, introdurremo un nostro sistema fiscale e stabiliremo relazioni diplomatiche ufficiali con le potenze straniere. Naturalmente, manterremo la stessa moneta e tutti gli altri legami economici con le province anglofone.» «Ah, no», ritorse Sarveux con voce dura. «Non illudetevi di poter avere la botte piena e la moglie ubriaca. Il Quebec dovrà coniare una propria moneta e dovrà rinegoziare con noi tutti gli accordi commerciali. Inoltre chi di voi vorrà passare il confine sarà sottoposto a visita doganale. Ritireremo dal territorio del Quebec tutti gli enti e gli uffici governativi.» Un'espressione di collera lampeggiò sul volto di Guerrier. «Queste sono rappresaglie molto pesanti.» «Una volta che il Quebec avrà voltato le spalle alla libertà politica, alla ricchezza e all'avvenire di un Canada unito, la separazione dovrà essere incondizionata e completa.» Guerrier si alzò lentamente in piedi. «Speravo in una maggiore comprensione da un franco-canadese come te.» «I miei compatrioti franco-canadesi hanno ucciso cinquanta persone innocenti nel tentativo di assassinarmi. Tu, Jules, puoi ritenerti fortunato se non denuncio ufficialmente come colpevole dell'attentato il tuo partito. L'accusa sarebbe una frustata che danneggerebbe in maniera irreparabile la vostra causa.» «Ti do solennemente la mia parola che il partito è del tutto estraneo alla sciagura aerea.» «E che mi dici dei terroristi del movimento separatista clandestino?» «Non ne ho mai preso le parti», replicò Guerrier, sulla difensiva. «Ne hai deprecato le attività a parole, ma non hai fatto niente per fermarli.» «Sono come fantasmi», protestò l'altro. «Nessuno sa neppure chi sia il loro capo.» «E se, dopo l'indipendenza, uscissero all'aperto, che cosa succedereb-
be?» «Quando il Quebec sarà libero, il movimento terroristico non avrà più ragione d'essere. Il leader e la sua organizzazione scompariranno, per estinzione naturale.» «Tu dimentichi una cosa, Jules: i movimenti terroristici hanno l'incresciosa abitudine di trasformarsi in partiti d'opposizione, con piena legittimità.» «Il nuovo governo del Quebec non lo tollererà mai.» «Con te a capo», precisò Sarveux. «Lo spero bene», ammise Guerrier, senz'ombra di vanità. «Chi altri potrebbe ottenere il mandato popolare per una nuova, gloriosa nazione?» «Te lo auguro», rispose il primo ministro, scettico. Impossibile discutere con chi è animato da un fervore che rasenta il fanatismo, pensò. I francocanadesi: tutti sognatori, capaci soltanto di rimpiangere i tempi romantici in cui la bandiera dai gigli d'oro sventolava maestosa in tutto il mondo e presi dall'illusione di far tornare quei tempi. L'esperimento era destinato a fallire prima ancora d'incominciare. «Nella mia qualità di primo ministro non vi ostacolerò. Però ti metto in guardia, Jules: niente rivolte estremistiche e niente agitazioni politiche che si ripercuoterebbero sul resto del Canada.» «Te l'assicuro, Charles», promise fiduciosamente Guerrier. «Sarà un parto indolore.» I fatti lo avrebbero smentito. Villon ribolliva di rabbia e Danielle ne riconobbe tutti i segni. Andò a sedere accanto a lei, su una panchina davanti all'ingresso dell'ospedale. La donna rabbrividì al vento primaverile ancora freddo e attese in silenzio l'esplosione di collera che sapeva imminente. «Quel bastardo!» ringhiò alla fine l'uomo. «Quella carogna ipocrita ha consegnato il Quebec a Guerrier senza lottare.» «Non riesco ancora a crederci», mormorò Danielle. «Tu lo sapevi, tu dovevi sapere che Charles meditava da un pezzo di giocarci questo tiro.» «Non mi diceva mai niente, non mi ha mai fornito un indizio...» «Perché?», la interruppe Villon, stravolto dall'ira. «Perché questo improvviso voltafaccia, lui che è sempre stato un assertore a oltranza del Canada unito?» Danielle non rispose. Nutriva una paura istintiva della sua collera.
«Ci ha scavato la terra sotto i piedi prima che avessimo il tempo di assicurarci una solida base. Se i miei sostenitori al Cremlino lo venissero a sapere, tutti i nostri accordi preliminari con la Russia andrebbero in fumo.» «Mi chiedo che cosa spera di guadagnarci Charles. Politicamente commette un suicidio.» «Gioca d'astuzia», affermò Villon, che stava riguadagnando l'abituale compostezza. «Con un vecchio rincitnillito come Guerrier al timone, il Quebec finirà con l'essere, in sostanza, un governo fantoccio nelle mani degli uomini di Ottawa, costretto a mendicare aiuti, prestiti a lungo termine, aperture di crediti commerciali. Divenuti nazione indipendente, ci troveremo peggio di quanto ci troviamo oggi come provincia.» La donna lo guardò, con un'espressione risoluta. «Non è detto che debba andare così.» «Che diavolo vuoi dire?» Gli afferrò un braccio. «Falla finita con la clandestinità. Esci allo scoperto e scendi in lizza contro Guerrier.» «Non sono abbastanza forte da competere.» «I franco-canadesi hanno disperatamente bisogno di un capo più giovane e più aggressivo di Jules», insistette lei. «L'Henri Villon che conosco non si piegherà mai davanti al Canada anglofono o agli Stati Uniti.» «Tuo marito mi ha cacciato il bastone tra le ruote. Se non avrò il tempo di mettere su un'organizzazione efficiente, la lotta sarà impossibile.» «Ma non se Jules Guerrier restasse secco.» Per la prima volta Villon scoppiò in una risata. «Poco probabile. Jules potrebbe anche avere tutte le malattie di questo mondo, ma lo sorregge una forza d'animo tale che riuscirà a sopravvivere a tutti noi.» Il volto di Danielle assunse una durezza inconsueta. «Perché il Quebec si salvi, è indispensabile che Jules muoia.» Il sottinteso era trasparente. Villon s'immerse a riflettere e per un intero minuto non aprì bocca. «Uccidere gli altri era diverso, si trattava di estranei, la loro morte era una necessità politica. Ma Jules è uno dei nostri, un leale franco-canadese. Si è battuto più a lungo di tutti noi per l'indipendenza.» «Rispetto al guadagno, il prezzo non è alto.» «Il prezzo che si finisce col pagare è sempre alto», ribatté Villon, nel tono di chi segue una propria fantasticheria. «Da qualche tempo a questa parte, mi sorprendo spesso a chiedermi chi sarà l'ultimo di noi a morire prima che tutto sia finito.»
33 Gly si sporse in avanti, sopra il lavandino macchiato, per vedersi meglio allo specchio. Si applicò sul naso da pugile una protesi di lattice, allungandone la punta e rialzandone il dorso. L'appendice posticcia rimaneva perfettamente aderente grazie a una soluzione di gomma arabica in etere e il fondotinta conferiva al materale sintetico un colore naturale. Per accrescere la verosimiglianza, ci passò sopra un velo di cipria che ne attenuava il lucido. Si era già strappato completamente le sopracciglia e adesso incominciò a sostituirle con minuscoli ciuffetti di pelo. Servendosi di una pinzetta e della gomma arabica, li collocava a uno a uno al posto voluto, in maniera che le sopracciglia apparissero più arcuate e cespugliose. S'interruppe un attimo, arretrando d'un passo per confrontare i risultati del trucco con le fotografie fissate col nastro adesivo all'orlo inferiore dello specchio. Soddisfatto di quanto vedeva, passò alla fase successiva, spalmando un fondotinta chiarissimo, quasi bianco, da un punto accuratamente studiato, che partiva dal mento e seguiva il contorno della mascella fino al lobo delle orecchie. Infine si applicò, sotto il mento, una crema di una tonalità un tantino più scura, per conferire all'ovale del volto un taglio diverso, maggiormente squadrato. Ridisegnò anche la linea della bocca, coprendo le labbra con un colore di base, e accentuò il margine di quello inferiore adoperando una matita della stessa sfumatura di rosso scuro, affinché apparisse più tumido e sporgente. Poi fu la volta delle lenti a contatto cosmetiche, l'unica parte della complessa operazione che Gly detestava. Cambiare il colore degli occhi, facendoli diventare grigi anziché marroni com'erano, gli dava la sensazione di cancellare la propria personalità. Una volta che se le fu applicate, lui stesso non si riconobbe più. Per ultimo s'aggiustò, sulla testa rapata a zero, una parrucca castana usando entrambe le mani, lentamente, come se si fosse incoronato. Così il travestimento era completo in ogni particolare. Si osservò con scrupolo, reggendo con la mano una lampada portatile e spostandola affinché la luce lo illuminasse da angolazioni diverse, prima di fronte e poi di profilo, a destra e a sinistra. Un'opera quasi perfetta, si disse, perfetta nei limiti in cui gli era stato possibile eseguirla nel piccolo, tetro bagno di quell'albergo d'infimo ordine dove aveva preso una stanza. Il portiere di notte non si trovava dietro il banco, quando Gly scese nell'atrio e uscì. Una fortuna insperata. Attraversò a piedi due strade laterali e
un viale, e salì al posto di guida d'una Mercedes-Benz berlina. L'aveva rubata - e ne aveva cambiato la targa - poche ore prima, di pomeriggio. Percorse la parte più vecchia di Quebec, quella che chiamavano «città bassa», una serie di stradine anguste e tortuose, suonando furioso il clacson tutte le volte che si vedeva davanti un pedone: il malcapitato balzava immancabilmente di lato, impaurito, non appena incontrava lo sguardo feroce dell'uomo seduto al volante. Le nove erano passate da pochi minuti e le luci della città si riflettevano sulla superficie ghiacciata del San Lorenzo. Gly passò davanti a un albergo famoso, lo Château Frontenac, e imboccò a gran velocità la superstrada che correva lungo il fiume. Il traffico scorreva rapido e, ben presto, l'uomo si trovò all'altezza di un parco, il Battlefields of the Plains of Abraham, dove l'esercito britannico aveva sgominato i francesi, nel 1759, regalando il Canada alla Corona d'Inghilterra. Da là svoltò, entrando nell'elegante quartiere residenziale periferico di Sillery. Alte case di pietra, simili a fortezze senza età, proteggevano tra i loro muri il fior fiore sociale e finanziario dell'intera provincia. Non erano familiari a Gly, che non avrebbe saputo dire i nomi dei singoli proprietari. A lui i palazzi facevano l'effetto di cripte gigantesche, abitate da gente che ignorava di essere già morta. Si fermò davanti a una pesante cancellata di ferro battuto e si fece riconoscere dicendo il proprio nome al citofono. Nessuno gli rispose, ma la cancellata si spalancò, dandogli accesso a una rampa circolare che terminava davanti a un'imponente costruzione in granito; prati all'inglese si estendevano tutt'intorno, per parecchi ettari. Parcheggiò la macchina sotto il portico antistante alla facciata e suonò il campanello. Venne ad aprirgli e ad accompagnarlo nell'atrio l'autista di Jules Guerrier, che fungeva al tempo stesso da guardia del corpo del vecchio uomo politico. «Buonasera, monsieur Villon. Che gradita sorpresa.» Gly gongolò. Il suo travestimento aveva superato la prima prova. «Sono venuto a Quebec per salutare gli amici e mi son detto che sarebbe stata una buona occasione per porgere i miei omaggi a monsieur Guerrier. Ho sentito che non sta molto bene.» «Un attacco d'influenza», spiegò l'autista, prendendo il cappotto di Gly. «Il peggio, però, è passato, la temperatura è scesa, tuttavia ci vorrà ancora un po' prima che si possa rimettere del tutto.» «Se non è in grado di ricevere visite a tarda sera, potrei andarmene e tornare domani.»
«No, la prego, rimanga. Monsieur Guerrier sta guardando la televisione e sono certo che sarà lieto di riceverla. L'accompagno nella sua stanza.» «Non s'incomodi. Conosco la strada», replicò Gly. Salì l'ampia scala circolare fino al secondo piano. Si fermò un attimo per orientarsi. Si era studiato a memoria la pianta di tutta la casa, stampandosi in mente ogni singola uscita, nel caso se la fosse dovuta squagliare alla svelta. La porta di Guerrier era la terza sulla destra. Vi entrò silenziosamente, senza bussare. Jules Guerrier era sprofondato in una grande poltrona imbottita, i piedi calzati da pantofole, comodamente appoggiati su un divano e gli occhi rivolti allo schermo. Indossava il pigiama e si era gettato con noncuranza sulle spalle una veste da camera in seta stampata. Dava le spalle alla porta e non si accorse dell'intrusione di Gly. L'uomo si accostò al letto - il folto tappeto smorzò il rumore dei passi e, preso un grande cuscino, si portò alle spalle di Guerrier, sempre ignaro della sua presenza. Stava già per premergli, da dietro, il cuscino sulla faccia, quando si fermò esitante, a metà movimento. Voleva che lo vedesse, prima. Il suo distorto amor proprio aveva bisogno d'una soddisfazione, doveva dimostrare a se stesso, una volta di più, d'essere veramente capace di trasformarsi nel sosia di Henri Villon. A quel punto, Guerrier avvertì la presenza di qualcuno accanto a sé. Si girò lentamente sulla poltrona e i suoi occhi si trovarono all'altezza della cintola di Gly. Li alzò fino a incontrarne la faccia e li spalancò, non per timore ma per la sorpresa. «Henri?» «Sì, proprio io, Jules.» «È impossibile che tu sia qui!» esclamò Guerrier, sbalordito. Il killer si spostò, mettendosi dietro il televisore, e lo guardò diritto in faccia. «Eppure ci sono, Jules, proprio dentro il televisore.» E infatti lo era. Il personaggio che appariva in quel preciso momento al centro dello schermo era Henri Villon, che stava pronunciando un discorso per l'inaugurazione di un nuovo centro di manifestazioni artistiche a Ottawa. Dietro di lui, sedute, si vedevano sua moglie e, accanto, Danielle Sarveux. Guerrier non riusciva a raccapezzarsi, non poteva credere ai propri occhi. Era una trasmissione in diretta, lo sapeva con assoluta certezza. Avevano mandato anche a lui, per pura formalità, l'invito e ricordava il programma della cerimonia. Quello era il preciso momento in cui Villon doveva pronunciare il suo discorso. Continuò a fissare l'uomo, con la bocca semiaperta per lo sbalordimento. «Com'è possibile?»
Gly non gli rispose. Con un unico movimento si mise a cavalcioni sulla poltrona e premette il cuscino sulla faccia di Guerrier. Il grido di terrore del vecchio, soffocato sul nascere, non fu che un gemito roco e soffocato, animalesco. L'aggredito era troppo debole per sostenere un'impari lotta. Annaspando, afferrò con le esili mani il polso dell'assassino, tentando invano di scostare l'oggetto che gli veniva premuto sulla bocca e sulle narici. Gli parve che i polmoni gli scoppiassero, trasformati in due globi di fuoco. Un attimo prima di sprofondare nel buio finale, un lampo abbagliante gli attraversò il cervello. Dopo trenta secondi le sue mani allentarono la stretta e ricaddero, penzolando inerti oltre i braccioli della poltrona. Il corpo di Guerrier si afflosciò, ma Gly mantenne inalterata, per altri tre minuti buoni, la pressione. Poi spense il televisore, si chinò sul petto della vittima per accertarsi che il cuore non battesse più. Si rizzò. La vita era sfuggita definitivamente da quel corpo. Il governatore generale del Quebec era morto. Il killer s'affrettò alla porta e la socchiuse. L'anticamera era deserta. Ritornò alla poltrona, prese il cuscino e lo buttò sul letto; tolse con cura la veste da camera, per non lacerarne il tessuto, dalle spalle di Guerrier e la depose sullo schienale d'una seggiola. Fu sollevato nel constatare che il vecchio, morendo, non si era insudiciato. Per ultimo gli sfilò dai piedi le pantofole e le lasciò cadere accanto al letto. Prese il cadavere tra le braccia, senza provare il benché minimo raccapriccio, e lo coricò tra le lenzuola. Poi, con una calma e una professionalità da medico legale, gli aprì a forza la bocca e incominciò a esaminarne l'interno. Sapeva che la prima cosa che un patologo della polizia esamina, nei casi di sospetto strangolamento seguito da asfissia, è la lingua e lo stesso fece anche lui. Guerrier, involontariamente, lo aveva aiutato, perché non se l'era morsa. Però c'erano tracce di lesioni, a malapena visibili, sulla mucosa orale. Gly levò di tasca un piccolo astuccio con il necessario per il trucco e scelse una morbida matita grassa. Non poteva far scomparire completamente i segni, ma era in grado di scolorirli, in modo che assumessero la stessa apparenza del tessuto circostante. Un altro segno rivelatore era il pallore lungo il margine interno delle labbra e attenuò anche questo, con una matita da trucco diversa. Abbassò poi le palpebre sugli occhi spenti e massaggiò i contorni della faccia finché questa non assunse un'espressione rilassata, quasi con un'ombra di sorriso. Infine, dispose il corpo nell'atteggiamento di chi dorme e gli aggiustò intorno le coperte. Nonostante tutto, un sottile dubbio lo rodeva mentre usciva dalla stanza,
il dubbio del perfezionista sempre timoroso di aver trascurato un particolare. Stava scendendo l'ultima rampa quando scorse la guardia del corpo che usciva dal locale di servizio portando un vassoio con una teiera di porcellana. Il killer si fermò a metà scala. Si era improvvisamente reso conto della svista in cui era incorso: la dentatura di Guerrier era troppo perfetta per un uomo della sua età. Senza dubbio portava una protesi. Si rannicchiò affinché la guardia del corpo non si accorgesse di lui, salì di corsa i gradini e rientrò nella camera da letto. Gli bastarono cinque secondi per ritrovarsi in mano le due parti della dentiera. Ma dove le riponeva, il vecchio, fino al mattino? Probabilmente in una soluzione disinfettante. Sul tavolino accanto al letto non c'era nulla, tranne una sveglia. Trovò un piccolo contenitore di plastica colmo d'un liquido azzurro sulla mensola del bagno. Non aveva il tempo di analizzarne il contenuto. Vi lasciò cadere dentro la dentiera. Aprì la porta sul corridoio nel momento in cui la guardia del corpo stava premendo la maniglia all'esterno. «Oh, monsieur Villon, ho pensato che forse lei e il signor Guerrier avreste gradito una tazza di tè.» Gly accennò col capo al corpo adagiato sul letto. «Jules si sentiva stanco. Credo si sia addormentato nel momento stesso in cui ha posato la testa sul cuscino.» L'uomo gli credette sulla parola. «Ne vorrebbe lei una tazza, signore, prima di andarsene?» L'assassino chiuse la porta. «No, grazie, si è fatto tardi anche per me.» Ridiscesero insieme nell'atrio. La guardia del corpo, deposto il vassoio, lo aiutò a infilarsi il cappotto. Gly indugiò sulla porta d'ingresso, affinché l'altro potesse notare la Mercedes. Gli augurò la buonanotte e avviò il motore. Il cancello si aprì ed egli si ritrovò sulla strada ormai deserta. Otto isolati più avanti parcheggiò la macchina parallelamente al marciapiede, tra due grandi edifici. Chiuse le portiere e gettò le chiavi sul terreno molle, affondandovele a colpi di tacco. Pensava che nessuno si sarebbe stupito nel notare una Mercedes-Benz ferma per qualche tempo in un quartiere residenziale. La gente di quelle case di lusso raramente parlava con i vicini. Tutti avrebbero ritenuto che appartenesse a un ospite dei proprietari della casa accanto. Per giorni e giorni nessuno si sarebbe insospettito nel vederla sempre allo stesso posto. Alle dieci e dieci, il killer era sull'autobus che lo riportava in centro. In una tasca della giacca aveva ancora il veleno esotico che si era procurato in
precedenza. Era un metodo di assassinio a prova di bomba, usato dai servizi segreti sovietici. Nessun patologo era in grado di accertarne a colpo sicuro la presenza in un cadavere. La decisione di servirsi del cuscino era stata un'ispirazione improvvisa e lui l'aveva seguita, data la sua tendenza all'improvvisazione. La maggior parte dei killer segue un proprio schema fisso, preferisce impiegare sempre la stessa arma e le stesse modalità di esecuzione. Non così Gly. Il suo sistema consisteva nel non avere uno schema fisso di alcun genere. Assassinava ogni volta in una maniera e con uno strumento diversi. Non lasciava mai dietro di sé una traccia che lo collegasse con il passato. Era eccitatissimo. Aveva superato senza fatica il primo ostacolo. Adesso gliene rimaneva un altro, il più scabroso, il più delicato di tutti. 34 Danielle, sdraiata a letto, seguiva indolentemente le spirali di fumo della sigaretta, che salivano verso il soffitto. Era a malapena consapevole sia di trovarsi in una piccola, calda stanza di un cottage isolato alla periferia di Ottawa, sia dell'oscurità che stava calando, sia del corpo muscoloso e liscio che giaceva accanto a lei. Si rizzò a sedere e guardò l'orologio al polso. L'interludio era finito e si rammaricò che non potesse durare in eterno. Le responsabilità della sua condizione le imponevano di rituffarsi nella realtà. «Te ne vai?» chiese lui, stiracchiandosi. «Sì, purtroppo. Devo sostenere la parte della moglie amorevole e recarmi all'ospedale, per la solita visita a mio marito.» «Non t'invidio. Gli ospedali sono incubi in bianco.» «Io, ormai, mi ci sono abituata.» «Come sta Charles?» «I medici dicono che tra una settimana potrà tornare a casa.» «Tornare a casa a che pro?» disse lui, in tono sprezzante. «Il Paese è senza guida. Se le elezioni si tenessero domani, ne uscirebbe sconfitto.» «A tuo completo vantaggio.» Danielle scese dal letto e incominciò a rivestirsi. «Con Jules Guerrier scomparso dalla scena, sarebbe il momento ideale per te di dimetterti dal governo e presentare ufficialmente la tua candidatura alla presidenza del Quebec.» «Dovrei formulare molto accortamente il mio discorso. L'idea sarebbe di presentarmi nelle vesti di un salvatore. Non mi posso permettere il lusso di
essere scambiato per il classico topo che abbandona la nave sul punto di affondare.» Si avvicinò al letto e sedette accanto a lui. Il leggero odore di maschio la eccitò di nuovo. Gli posò una mano sul petto e sentì i battiti affrettati del suo cuore. «Oggi pomeriggio non sei stato l'uomo di sempre, Henri.» Gli comparve sul volto un'ombra di preoccupazione. «Come mai?» «Eri brutale mentre facevamo l'amore, quasi sadico.» «Credevo che ti piacessero i cambiamenti.» «Infatti mi è piaciuto.» Sorrise e lo baciò. «Ti ho sentito diverso perfino quand'eri dentro di me.» «Non riesco a immaginarne il motivo», disse lui, con l'aria di non dare troppo peso alle sue parole. «Neppure io me lo so spiegare, però mi è piaciuto.» Si scostò, a malincuore, e si alzò in piedi. Indossò il cappotto e s'infilò i guanti. Lui, sempre coricato, la osservava. Danielle, ferma, gli lanciò un'occhiata penetrante. «Non mi hai detto come sei riuscito a far sembrare naturale la morte di Jules Guerrier.» Ricambiò l'occhiata della donna con uno sguardo gelido. «Ci sono certe cose che è meglio tu non conosca.» La risposta la colpì come uno schiaffo in piena faccia. «Finora non ci sono mai stati segreti tra noi due.» «Ebbene, adesso ce ne sono», replicò lui, impassibile. Danielle non sapeva come reagire alla sua improvvisa freddezza. Non si era mai comportato così e ne era sbalordita. «Mi sembri in collera. È per qualcosa che ho detto?» La guardò di nuovo, tediato, e scrollò le spalle. «Mi attendevo di più da te, Danielle.» «Di più?» «Non mi hai raccontato niente di Charles che io non avessi già letto nei giornali.» Danielle gli rivolse uno sguardo perplesso. «Che cos'è che avresti voluto sapere?» «Quello che tuo marito pensa effettivamente. Le sue conversazioni con gli altri ministri. Come intende agire nei confronti del Quebec dopo che si sarà staccato dal resto del Canada. Medita di dare le dimissioni? Per la miseria, ho bisogno d'informazioni, io, e da te non ne ricevo nessuna.» Danielle tese le mani, in un gesto che intendeva rabbonirlo. «Charles è
cambiato dopo l'incidente aereo. Si è fatto più introverso. Non si confida più con me, come faceva prima.» Lui indurì l'espressione del volto. «Se le cose stanno così, sei diventata inutile per me.» Lei distolse la faccia, sentendosi bruciare dal dolore e dalla collera. «Non darti la pena di rimetterti in contatto con me, a meno che tu non abbia qualcosa d'importante da comunicarmi», seguitò lui, glaciale. «Non intendo correre altri rischi per questi noiosi giochi sessuali.» Danielle si precipitò alla porta. Poi, sulla soglia, si voltò. «Figlio di puttana!» gli gridò, con la voce soffocata da un singhiozzo. Ma come ho fatto a non accorgermi del mostro che si nasconde in lui? pensava. Represse un brivido e si asciugò le lacrime col dorso della mano mentre fuggiva all'aperto. La risata dell'uomo la inseguì fin dentro la macchina e continuò a risuonarle nelle orecchie mentre guidava, diretta all'ospedale. Non poteva sapere che, nella stanza da letto del cottage, Foss Gly assaporava l'indicibile soddisfazione di aver superato l'esame finale a pieni voti. 35 Il capo della segreteria del presidente accolse Pitt nel proprio ufficio con un cenno del capo come saluto; gli lanciò un'occhiata senza sorridere e rimase seduto alla scrivania. «Si accomodi, signor Pitt. Il presidente la riceverà tra qualche minuto.» L'agente della NUMA, visto che l'altro non accennava neppure a porgergli la mano, posò la cartella sul tappeto e si andò a sedere su un divano vicino alla finestra. Il funzionario, un giovanotto prossimo alla trentina che portava il nome altisonante di Harrison Moon IV, rispose brevemente a tre telefonate, passando contemporaneamente certe carte da un raccoglitore all'altro. Alla fine si degnò di guardare dalla parte di Pitt. «Desidero che lei, signor Pitt, sia consapevole dell'eccezionaiità di questa udienza. Il presidente può dedicare pochissimo del suo tempo prezioso ai colloqui con funzionari civili di terza categoria, colloqui che devono essere estremamente concisi. Se non fosse stato per suo padre, il senatore George Pitt, che ci ha rivolto di persona la richiesta, affermando che si trattava di un problema della massima urgenza, lei non avrebbe ottenuto neppure l'autorizzazione a varcare l'ingresso della Casa Bianca.» Pitt lanciò un'occhiata di finto candore a quel somaro pomposo ed e-
sclamò: «Porco mondo! Ma lei s'immagina quanto mi sento lusingato?» Il capo della segreteria si rabbuiò. «La pregherei di esprimersi in maniera più rispettosa nell'ufficio presidenziale!» «Ma come si fa, se il presidente assume teste di cazzo come lei?» ribatté Pitt con un sorriso sardonico. Harrison Moon IV s'irrigidì, quasi si fosse visto puntare addosso una pistola. «Come osa...» In quello stesso momento entrò nella stanza la segretaria personale del presidente. «Signor Pitt, vuol seguirmi? Il presidente l'aspetta.» «No!» urlò Moon balzando in piedi con gli occhi fiammeggianti d'ira. «L'appuntamento è annullato!» Pitt gli si accostò, lo afferrò per i risvolti della giacca e lo scaraventò oltre la scrivania. «Le consiglio di non montarsi troppo la testa, ragazzo mio, per via del posto che occupa.» Poi lo spinse all'indietro, con l'intenzione di rimetterlo a sedere sulla poltroncina girevole. Ma la spinta fu troppo energica e la seggiola si rovesciò, scodellando il giovane Moon sul pavimento. Pitt rivolse un bel sorriso alla segretaria che lo guardava sbalordita e disse: «Non occorre che s'incomodi a farmi strada. Sono già stato altre volte nello studio ovale». Il presidente, a differenza del capo della sua segreteria, accolse Pitt cortesemente, porgendogli la mano. «Ho letto e riletto la storia delle sue imprese per il recupero del Titanic e quelle relative ai progetti Vixen, signor Pitt. Mi ha colpito in particolare l'abilità con cui ha condotto a termine l'operazione Doodlebug. Sono onorato di poterla finalmente conoscere di persona.» «L'onore è tutto mio.» «Si accomodi, la prego.» «Temo che non farò in tempo a sedermi.» «Come mai?» Il presidente, sorpreso, inarcò le sopracciglia. «Il capo della sua segreteria è stato eccessivamente villano con me e mi ha trattato in maniera indegna, quindi io l'ho chiamato testa di cazzo e l'ho pure malmenato.» «Non sta scherzando?» «No, signore, non scherzo e immagino che quelli del servizio segreto piomberanno qui da un momento all'altro per trascinarmi via.» Il presidente andò alla scrivania e schiacciò il pulsante dell'interfono: «Maggie, non mi passi chiamate, per nessuna ragione, finché non glielo di-
rò io». Pitt respirò di sollievo nel vedere che la faccia del presidente si schiariva in un ampio sorriso. «A volte Harrison perde il senso della misura. Penso che lei non abbia fatto male, tutto sommato, a dargli una meritata lezione di umiltà.» «Uscendo gli presenterò le mie scuse.» «Non ce n'è bisogno.» Il presidente sprofondò in una grande poltrona davanti a un tavolino. Pitt sedette di fronte a lui. «Suo padre e io abbiamo percorso insieme un lungo cammino. Fummo entrambi eletti al Congresso lo stesso anno. Mi ha accennato, al telefono, a una scoperta che lei avrebbe fatto per caso, roba - ripeto le sue precise parole - da dare le vertigini.» «Papà di solito esagera con la sua retorica, ma questa volta ha ragione, al cento per cento.» «Mi racconti che cosa ha scoperto.» Pitt aprì la cartella e allargò i fogli sul tavolino. «Le chiedo scusa se l'annoierò con una lezione di storia, signor presidente, ma è indispensabile che mi rifaccia dal principio.» «L'ascolto.» «Nei primi mesi del 1914, gli inglesi erano certissimi che la guerra con la Germania guglielmina fosse alle porte. In marzo, Winston Churchill, allora Primo Lord dell'Ammiragliato, aveva già provveduto ad armare una quarantina di navi mercantili. Il ministero della Guerra calcolava che il conflitto sarebbe scoppiato in settembre, dopo che in Europa avessero portato a termine il raccolto. Il maresciallo Lord Kitchener, capo del dicastero in questione, si rendeva conto che lo scontro avrebbe assunto proporzioni gigantesche, tali da divorare una quantità inimmaginabile di uomini e di risorse, e si spaventò nello scoprire che il Paese disponeva di munizioni e di scorte alimentari sufficienti a malapena per una campagna di tre mesi. Nello stesso periodo, il Regno Unito aveva attuato un piano di riforme sociali così incisive da trovarsi costretto a decretare foltissimi inasprimenti fiscali. Non occorreva essere un chiaroveggente per capire che i costi crescenti per l'armamento, gl'interessi maturati per i debiti e il pagamento delle pensioni e dei sussidi avrebbero provocato il crollo totale dell'economia nazionale.» «Quindi la Gran Bretagna stava raschiando il fondo delle casse erariali quando entrò nella prima guerra mondiale?» «Non esattamente», rettificò Pitt. «Poco prima che i tedeschi invadessero il Belgio, il nostro governo aveva prestato agli inglesi centocinquanta milioni di dollari. O meglio, la somma era stata registrata ufficialmente
come un prestito, ma in realtà rappresentava la prima rata di un pagamento.» «Mi rincresce, ma non riesco a seguirla.» «Il primo ministro britannico Herbert Asquith e Giorgio V ebbero un incontro a porte chiuse, il 2 maggio, ed escogitarono una via d'uscita suggerita dalla disperazione. Contattarono segretamente il presidente Wilson, sottoponendogli la loro proposta. Ed egli l'accettò. Richard Essex, il sottosegretario agli Esteri di William Jennings Bryan, e Harvey Shields, che ricopriva lo stesso incarico nel governo di Londra, stilarono insieme le clausole di un patto che fu chiamato, con una dizione piuttosto inconsueta, 'trattato nordamericano'.» «E a che cosa si riferiva, in sostanza?» Cadde un gelido silenzio di una decina di secondi, mentre Pitt esitava a continuare. Finalmente si schiarì la gola. «La Gran Bretagna vendeva il Canada agli Stati Uniti per un miliardo di dollari.» Sembrava che le parole di Pitt non fossero state comprese, perché il presidente non fece una piega e il suo viso non tradì ombra di emozione. Evidentemente non riusciva ad assimilare quanto aveva appena udito. «Ripeta», mormorò. «Sì, con quell'accordo comperavamo il Canada per un miliardo di dollari.» «È assurdo!» «Ma vero», asserì Pitt con forza. «Prima dello scoppio della guerra, molti membri della camera dei comuni e della camera alta dubitavano che le colonie e i Dominions fossero disposti a fornire un appoggio leale alla madrepatria. E non mancavano neppure parlamentari, sia tra i conservatori sia tra i liberali, che dichiaravano apertamente che il Canada era una palla al piede dell'impero.» «Lei è in grado di fornirmi le prove della presunta vendita?» Il tono della voce rivelava un profondo scetticismo. L'agente gli porse un facsimile della lettera di Wilson. «La scrisse il 4 giugno 1914 l'uomo che allora era il presidente della Casa Bianca al primo ministro britannico Asquith. Come può notare, una piega del foglio sgualcito ha reso illeggibile parte d'una frase. L'ho esaminata allo spettragrafo e ho scoperto che le parole mancanti dicono: 'i miei connazionali sono, nella stragrande maggioranza, forniti di un vivo senso della proprietà e non resterebbero a guardare se sapessero con certezza che il nostro amato Paese e quello confinante a nord sono divenuti tutt'uno'.»
Il presidente studiò la lettera per parecchi minuti, poi la depose sul tavolino. «Ha qualcos'altro?» Senza parlare, Pitt gli passò la fotografia di Bryan, Essex e Shields mentre uscivano dalla Casa Bianca dopo la firma del trattato. Infine calò il suo asso nella manica. «Questo è il diario personale di Richard Essex, compilato durante il mese di maggio. Vi aveva riportato scrupolosamente, in tutti i particolari, lo svolgimento dei colloqui preliminari che condussero alla stipulazione del trattato nordamericano. L'ultima annotazione porta la data del 22 maggio 1914, il giorno in cui Essex partì da Washington per il Canada, dove il documento sarebbe stato firmato in triplice copia.» «In triplice copia?» «Sì, gli originali erano tre, uno per ciascun Paese interessato. [ primi a firmarli furono Asquith e re Giorgio v. Dopo di che Shields li portò qui, a Washington, dove il 20 maggio vi apposero le loro firme Wilson e Bryan. Due giorni dopo Essex e Shields partirono insieme, in treno, per Ottawa e a Ottawa il primo ministro canadese, Sir Robert Borden, vi aggiunse l'ultima firma.» «E allora come mai non c'è stata l'annessione ufficiale?» «Per una sequela di malaugurate circostanze», spiegò Pitt. «Harvey Shields perdette la vita, insieme con un migliaio d'altre vittime, nell'affondamento di un transadantico, l'Empress of Ireland, che venne a collisione con una carboniera e colò a picco nel San Lorenzo. Né la sua salma né la copia del trattato che portava con sé furono mai ritrovate.» «Ma Essex dovette ben arrivare a Washington con la copia americana.» Pitt scosse la testa. «Il treno sul quale viaggiava precipitò da un ponte sull'Hudson, in un disastro ferroviario che è divenuto un mistero perché non fu mai scoperta traccia né dei passeggeri né del personale viaggiante né della locomotiva e delle carrozze.» «Però non sarà scomparsa anche la copia canadese!» «Altro mistero. Nessuno sa dove sia finita. In questo caso il campo resta aperto alle ipotesi. Evidentemente il gabinetto di Asquith rifiutò di riconoscere l'accordo. I ministri, compreso senza dubbio Churchill, dovettero andare su tutte le furie quando scoprirono che il premier e il re avevano tentato di vendere, a loro insaputa, il più vasto dei Dominions.» «Credo che neppure i canadesi ne fossero entusiasti.» «Con due originali del documento smarriti per sempre, non sarebbe azzardato supporre che Sir Robert Borden, fedele suddito della Corona, aves-
se distrutto il terzo, lasciando Wilson senza una prova tangibile che gli consentisse di reclamare il buon diritto degli Stati Uniti.» «Pare impossibile che i documenti ufficiali relativi a un negoziato di tale peso si siano volatilizzati senza lasciare traccia.» «Nella sua lettera, Wilson dichiara di aver impartito istruzioni al suo segretario affinché distruggesse il benché minimo accenno al trattato. Quanto al Foreign Office, non posso affermare niente con sicurezza, però scommetterei che abbiano tuttora qualcosa in mano. È risaputo che gli inglesi non sono soliti gettare via o bruciare documenti, quindi è probabile che incartamenti relativi al trattato siano seppelliti, sotto tonnellate di polvere, in qualche vecchio archivio vittoriano.» Il presidente si alzò e incominciò a misurare la sala a grandi passi. «Non le so dire quanto mi piacerebbe poterne leggere il testo.» «Niente di più facile», sorrise Pitt. «Essex ne ha trascritto un abbozzo nel suo diario.» «Posso tenerlo?» «Certamente.» «Come mai è capitato tra le sue mani?» «Lo aveva conservato il nipote», rispose Pitt, senza dilungarsi in particolari. «John Essex?» «Sì, proprio lui.» «Per quale motivo lo ha tenuto segreto tutti questi anni?» «Probabilmente temeva che la rivelazione suscitasse un terremoto internazionale.» «E forse aveva ragione», riconobbe il presidente. «Se la stampa avesse strombazzato la scoperta ai quattro venti, chissà quali sarebbero state le reazioni popolari di qua e di là dal confine. Wilson era nel giusto affermando che gli americani sono terribilmente possessivi. Niente esclude che non avrebbero reclamato l'occupazione del Canada. E Dio solo sa che pandemonio avrebbe scatenato il Congresso.» «Tuttavia ci sarebbe stato un grosso intoppo.» Il presidente cessò il suo andirivieni. «Sarebbe a dire?» «Non esistono documenti che comprovino il pagamento. L'anticipo fu convcrtito ufficialmente in un prestito, quindi, anche ammesso che un esemplare del trattato saltasse fuori, gli inglesi si rifiuterebbero, a ragione, di riconoscerne la validità, perché non sono mai stati compensati per la cessione.»
«Già», mormorò il presidente, «il non avvenuto pagamento invaliderebbe le clausole.» Si avvicinò agli alti finestroni e lasciò vagare lo sguardo sul prato antistante la Casa Bianca, con l'erba bruciata dal freddo. Se ne rimase silenzioso, rimuginando i propri pensieri. Poi si girò, fissando in faccia il suo interlocutore. «Chi altri, oltre a lei, è al corrente di questo trattato nordamericano?» «Il capitano di corvetta Heidi Milligan, che iniziò le ricerche preliminari dopo aver trovato per caso la lettera di Wilson; il direttore dell'archivio storico del senato che scoprì la fotografia; mio padre e, naturalmente, l'ammiraglio Sandecker. Dato che è il mio superiore diretto, ho ritenuto opportuno informarlo, per correttezza, sull'oggetto della mia investigazione.» «Nessun altro?» Pitt, accompagnando le parole con un cenno di diniego, rispose: «No, ritengo di poterlo escludere». «Allora facciamo in modo che la cosa rimanga segreta e non trapeli al di fuori di questa ristretta cerchia.» «Come vuole, signor presidente.» «Le sono molto grato di aver sottoposto il problema alla mia attenzione, signor Pitt.» «Desidera che continui l'indagine?» «No, penso sia meglio rimettere il trattato nel suo sarcofago, per il momento. Non c'è motivo di deteriorare le nostre relazioni col Canada e con il Regno Unito. Secondo me, questo è un caso in cui è meglio ignorare piuttosto che sapere.» «John Essex sarebbe stato d'accordo con lei.» «E lei, signor Pitt, che ne dice? È d'accordo anche lei?» Pitt si alzò in piedi e chiuse la sua cartella. «Sono un ingegnere navale, signor presidente, e giro alla larga dai problemi politici.» «Una condotta saggia, molto saggia», approvò il presidente, con un sorriso che esprimeva piena comprensione. Cinque secondi dopo che la porta si era richiusa dietro Pitt, il presidente parlò nell'interfono. «Maggie, mi trovi Douglas Oates.» Poi sedette alla scrivania e attese. Subito dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, aveva fatto installare nell'ufficio un sistema di comunicazioni olografiche. Provava un gusto quasi infantile nell'osservare le espressioni, i movimenti, le reazioni emo-
tive dei membri del gabinetto mentre si metteva in contatto con loro, a chilometri di distanza. Poco dopo, al centro della sala, comparve l'immagine tridimensionale di un uomo dai capelli ondulati color rame, in abito grigio a righine. Douglas Oates, il segretario di Stato, seduto su una poltrona dirigenziale di cuoio, accennò un saluto con un lieve movimento del capo e un sorriso. «Buongiorno, signor presidente. Come procede la battaglia?» «Douglas, quanti soldi abbiamo regalato alla Gran Bretagna dal 1914 in qua?» Oates parve perplesso. «Regalato?» «Sì, tra prestiti di guerra cancellati, aiuti economici, sovvenzioni e così via.» L'altro si strinse nelle spalle. «Una bella sommetta, suppongo.» «Più di un miliardo di dollari?» «Probabilmente sì. Perché lo vuole sapere?» Il presidente ignorò la domanda. «Mi metta subito a disposizione un corriere. Ho qualcosa per il mio amico di Ottawa.» «Nuovi dati sul giacimento petrolifero?» insistette Oates. «Qualcosa di meglio. Pochi momenti fa ho appreso che abbiamo un asso nella manica sulla questione canadese.» «Avremo bisogno di una grande fortuna per giocarlo bene.» «Sono sicuro che, se sapesse di che si tratta, lei lo dichiarerebbe un diversivo prezioso.» «Un diversivo?» Il presidente aveva l'espressione d'un gatto con un sorcio stretto tra gli artigli. «L'intreccio romanzesco ideale per distrarre l'attenzione degli inglesi da quanto stiamo realmente meditando», rispose. 36 Il presidente si diresse a grandi bracciate verso il margine della piscina e salì la scaletta nel momento in cui Mercier e Klein stavano uscendo dallo spogliatoio. «Spero che una nuotata mattutina non scombussoli troppo i programmi della vostra giornata.» «Tutt'altro, signor presidente», rispose Mercier. «Anzi, un po' d'esercizio non potrà farmi che bene.» Klein fece scorrere in giro lo sguardo. «È questa, dunque, la famosa pi-
scina coperta? A quanto ne so, l'ultimo presidente ad averla usata fu Kennedy.» «Sì», confermò il presidente. «Nixon la fece svuotare, vi costruì sopra un pavimento e la adibì a sala per le conferenze stampa. Io preferisco una bella nuotata piuttosto che affrontare un'orda di giornalisti che mi subissano di domande cretine.» Mercier sogghignò. «Chissà le proteste di quelli accreditati a Washington se la sentissero definirli così.» «Un giudizio strettamente confidenziale.» Il presidente scoppiò in una risata. «Che ne direste se collaudassimo la nuova vasca dell'acqua calda? Gli operai hanno terminato d'installarla ieri l'altro.» Entrarono in una piccola vasca circolare, sistemata all'estremità più bassa della piscina. Il presidente aprì il rubinetto e regolò la temperatura sui quaranta gradi. A mano a mano che l'acqua si riscaldava, Mercier ebbe la certezza che sarebbe morto lessato. Incominciò a simpatizzare con le aragoste. Alla fine il presidente, completamente rilassato, disse: «Non ci potrebbe essere un posto migliore per discutere di problemi importanti. Voialtri, signori, potreste illustrarmi, per esempio, a quale punto ci troviamo con la situazione energetica canadese». «Una situazione assai poco rallegrante», dichiarò Mercier. «Le nostre fonti segrete d'informazione hanno assodato che l'ordine del blackout dalla centrale idroelettrica di James Bay fu impartito da un ministro del governo di Ottawa, Henri Villon.» «Villon», ripeté il presidente, come se avesse sentito una parolaccia. «E quel maledetto ipocrita che denigra gli Stati Uniti tutte le volte che attacca bottone con qualche giornalista.» «Proprio lui», confermò il consigliere. «Corrono voci che intenda candidarsi alla presidenza della nuova repubblica del Quebec.» «E adesso che Jules Guerrier è scomparso dalla scena, c'è il pericolo che riesca a spuntarla», aggiunse Klein. Il presidente si accigliò. «Non riesco a figurarmi una sciagura peggiore di un Villon che imponga i prezzi e condizioni-capestro sia per le forniture da James Bay sia per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi scoperti di recente dalla NUMA.» «Belle prospettive!» brontolò Mercier. Si rivolse al ministro dell'Energia: «Il giacimento è davvero tanto vasto come prevede l'ammiraglio Sandecker?»
«Anche di più. Lo ha calcolato per difetto», rispose Klein. «I miei esperti hanno analizzato i dati forniti dal computer della NUMA. A quanto risulta, ci si avvicina di più alla realtà calcolando la produzione intorno ai dieci miliardi di barili piuttosto che agli otto.» «Com'è possibile che le società petrolifere canadesi se lo siano lasciato sfuggire?» «I giacimenti più difficili da localizzare sono quelli esistenti in una depressione stratigrafica», spiegò Klein. «Né i sismografi né i gravimetri o i magnetometri possono rivelare la presenza degli idrocarburi in simili sacche geologiche. L'unico metodo sicuro, al cento per cento, sono le trivellazioni fatte a casaccio. I canadesi ne eseguirono una a due miglia dal punto in cui il Doodlebug ebbe il suo colpo di fortuna, ma ritornarono in superficie perfettamente asciutti. La posizione era segnata sulle mappe petrolifere con il simbolo corrispondente a una perforazione a vuoto. E le altre squadre di ricerca hanno condotto esplorazioni lontano dalla zona.» Mercier agitò una mano per disperdere il vapore che gli si addensava davanti agli occhi. «Si potrebbe dire che siamo stati noi a fare del Quebec un nuovo Paese indipendente molto ricco.» «Sempre che si decida di dirglielo», commentò serafico il presidente. Klein lo guardò. «A che scopo mantenere il segreto? È soltanto questione di tempo, poi finiranno con lo scoprire da soli il giacimento. Se glielo indicassimo e collaborassimo con loro nello sfruttamento, il governo del Quebec ci venderebbe senza dubbio il greggio, per gratitudine, a un prezzo di favore.» «Ottimismo mal riposto», criticò Mercier. «Pensi a quanto è accaduto con l'Iran e con i Paesi dell'OPEC. Guardiamo in faccia la realtà. Una buona metà del mondo è convinta che gli Stati Uniti siano una preda legittima, quando si tratta di strozzarli con prezzi proibitivi.» Il presidente reclinò la testa all'indietro e chiuse gli occhi. «Proviamo a supporre di possedere un pezzo di carta dal quale risulta che il Canada appartiene agli Stati Uniti.» Mercier e Klein non replicarono, chiedendosi sbalorditi che diamine avesse in mente. Fu Mercier, alla fine, a esprimere anche quello che era il pensiero di Klein. «Non riesco neppure a immaginare l'esistenza di un documento simile.» «Neppure io», gli fece eco Klein. «Nient'altro che un pio desiderio», disse il presidente, accompagnando le parole con un gesto disinvolto della mano. «Non pensiamoci più. Abbiamo
problemi assai più concreti da discutere.» Fu di nuovo Mercier a parlare, con lo sguardo rivolto all'acqua. «Il più grave pericolo per la sicurezza nazionale sarebbe un Canada smembrato. Secondo me, dovremmo fare tutto il possibile per appoggiare il primo ministro Sarveux nel suo tentativo d'impedire al Quebec di staccarsi.» «La sua proposta è dettata senza dubbio da un solido buon senso», riconobbe il presidente, «tuttavia le chiedo di accantonarla.» «Mi scusi, ma non capisco.» «Vorrei che lei elaborasse invece un piano rigorosamente segreto, che dovrà essere applicato dal Segretario di Stato in collaborazione con la CIA, per far sì che l'indipendenza del Quebec diventi realtà.» Mercier rimase letteralmente inorridito. «Penso che lei non si renda conto...» «La mia decisione è irrevocabile», lo interruppe il capo dell'esecutivo. «Come amico, le chiedo di fare quanto ho detto.» «Posso chiederle il perché?» Con uno sguardo che pareva scrutare in lontananza, il presidente parlò in un tono improvvisamente così duro da far correre un brivido gelido lungo la schiena di Mercier. «Si fidi di me, se affermo che un Canada smembrato gioverà nel migliore dei modi agli interessi del Nordamerica.» In piedi sotto il porticato meridionale della Casa Bianca, Klein, in attesa che l'autista arrivasse con la macchina, si abbottonò l'impermeabile. Il cielo grigio e minaccioso non contribuiva ad attenuare le sue preoccupazioni. «Non posso fare a meno di chiedermi se il presidente non sia altrettanto pazzo di Henri Villon», disse. «Tu sbagli nel giudicarli», ribatté Mercier. «Astuti, forse, scaltri, ma nessuno dei due è pazzo.» «Che strano quel suo cervellotico discorso sul Canada che apparterrebbe agli Stati Uniti...» «Su questo punto convengo con te che è uscito dai binari. Che diamine aveva in mente?» «Il suo consigliere per le questioni di sicurezza nazionale sei tu. Quindi dovresti essere tu, semmai, l'unico a saperlo.» «L'hai sentito. Mi sta nascondendo qualcosa.» «Sì. E allora che succederà?» «Staremo a vedere», rispose Mercier, con voce piatta. «Staremo a vede-
re, fino al momento in cui potrò intuire quale carta tiene in serbo nella manica.» 37 «Aggiudicato!» La voce del banditore, amplificata dagli altoparlanti, risuonò come una pistolettata, seguita dal solito, sordo brusio della folla mentre gli interessati segnavano nel catalogo la cifra assai considerevole pagata per la Ford coupé del 1946. «Volete portare qui la prossima vettura, per favore?» Una Mercedes-Benz bianco-perla 540 K, del 1939, scivolò, ronzando sommessamente, sul podio centrale dello stadio di Richmond, in Virginia. Un coro mormorante di tremila voci espresse la generale ammirazione quando le luci dei riflettori illuminarono l'elegante, lucidissima carrozzeria. Quelli che avevano intenzione di lanciare un'offerta le si affollarono intorno, alcuni inginocchiandosi e sorreggendosi sui palmi per esaminare le sospensioni e gli ammortizzatori, altri per scrutare ogni particolare dell'interno e altri ancora per guardare nel vano motore con la competenza degli addestratori di cavalli del Kentucky che osservano il potenziale vincitore di un derby. Dirk Pitt, seduto in terza fila, ricontrollava la progressione numerica del programma. La Mercedes era la quattordicesima nell'elenco dell'asta di automobili d'epoca organizzata, come ogni anno, a Richmond. «Come vedete, signori, questo è un autentico gioiello dell'industria automobilistica straniera», proclamava il banditore. «Una regina tra le macchine classiche stimata quattrocentomila dollari. Chi vuole dare il via all'incanto?» I commessi in smoking si aggiravano in mezzo alla folla, sollecitando le offerte. A un tratto qualcuno alzò la mano. «Centocinquanta.» Il banditore continuò con la sua cantilena e il rituale si animò via via che gli appassionati incominciavano a competere aumentando le offerte. Ben presto l'offerta di duecentomila dollari fu raggiunta e superata. Pitt, intento a seguire la gara, non s'accorse dell'elegante giovanotto che gli si sedeva accanto. «Signor Pitt.» Si girò e si trovò a un palmo dalla faccia d'adolescente di Harrison Moon IV.
«To'», esclamò, con sincera sorpresa, «non avrei mai sospettato che un tipo come lei s'interessasse di vecchie automobili.» «A dire il vero, mi sto interessando a lei.» Pitt gli scoccò un'occhiata divertita. «Nel caso che lei sia un gay, sta sprecando il suo tempo.» Moon si accigliò e sbirciò in giro, nel timore che qualche vicino avesse captato la battuta. «Sono qui in missione ufficiale, per conto del governo. Possiamo andare da qualche parte per parlare a quattr'occhi?» «Mi conceda cinque minuti. Intendo partecipare all'asta per la prossima vettura.» «Subito, signor Pitt, se non le spiace», disse Moon, tentando di assumere un tono imperioso. «La questione che mi ha condotto fin qua è assai più importante che stare a guardare degli adulti mentre gettano via soldi per un ferrovecchio.» «Duecentottantamila», annunciò a gran voce il banditore. «Qualcuno vuole offrire trecento?» «Ferrivecchi, ma certo non a buon mercato», lo rimbeccò Pitt, con calma. «Quella macchina è un capolavoro di meccanica, un investimento che aumenta ogni anno del venti o trenta per cento. Quando lei sarà nonno, i suoi nipoti non la potranno avere per meno di due milioni di dollari.» «Non sono qui per dibattere sul futuro dei pezzi d'antiquariato. Vogliamo andare?» «Neanche per sogno.» «Forse si mostrerà meno ostinato apprendendo che sono stato mandato dal presidente in persona.» Pitt rimase più impassibile che mai. «Oh, adesso sì che mi mette paura! Chissà mai perché uno stronzo qualsiasi che ha la fortuna d'essere assunto alla Casa Bianca è convinto di poter intimidire tutto il mondo? Torni indietro, signor Moon, e riferisca al presidente che ha fatto fiasco. E, approfittando dell'occasione, lo informi anche che, quando vuole qualcosa da me, farà meglio a mandarmi un fattorino in grado di comportarsi con un minimo di classe.» Moon impallidì. Non era così che aveva progettato di svolgere l'incarico. No, assolutamente non così. «Io...» balbettò, «io non posso...» «Potrà, potrà!» Il banditore sollevò il martelletto. «E uno... e due per trecentosessantamila...» S'interruppe, scrutando la folla che aveva davanti a sé. «Nessuno
offre di più? Tre. Aggiudicato al signor Robert Esbenson di Denver, Colorado.» Pitt aveva messo Moon al tappeto, freddamente, senza pietà. Il giovane optò per l'unica soluzione che gli restava. «Sta bene, signor Pitt, come vuole lei.» La Mercedes venne portata via; ne prese il posto una convertibile a quattro porte, con la carrozzeria bicolore, in due tonalità di nocciola. Il banditore toccò accenti addirittura iperbolici nel descriverla. «E adesso, signore e signori, il numero quindici del programma. Una Jensen di costruzione inglese, del 1950. Un'automobile rarissima. Anzi, è l'unico modello esistente, da quanto risulta, con questa particolare carrozzeria. Un autentico gioiello stimato cinquantamila dollari. Possiamo aprire le offerte.» La prima fu di venticinquemila dollari. Pitt attendeva, in silenzio, che i prezzi salissero. Moon lo scrutò. «Lei non si mette in gara?» «Al momento opportuno.» Una donna elegantissima, non lontana dalla cinquantina, agitò in aria il suo cartellino. Il banditore annuì e le dedicò un sorriso. «La gentile signora O'Leery di Chicago mi fa un'offerta di ventinovemila.» «Ma quello conosce tutti?» chiese Moon, mostrando un briciolo d'interesse. «I collezionisti costituiscono una sorta di congrega aperta», spiegò Pitt. «La maggior parte di noi partecipa in genere a tutte le vendite all'incanto degli oggetti di cui fa la raccolta.» A quarantaduemila dollari il ritmo delle offerte incominciò a rallentare. Il banditore intuì che il prezzo non sarebbe salito più di molto. «Coraggio, signore e signori. Quest'automobile vale molto, molto di più.» La signora O'Leery, nel suo impeccabile tailleur firmato, con la gonna dallo spacco generoso, segnalò che intendeva aumentare. Il banditore, però, non fece in tempo ad annunciarlo che Pitt alzò il cartellino. «La battaglia - e la mia concorrente lo sa - ha inizio adesso», sussurrò a Moon. «Quarantaquattro. E ora quarantacinque. C'è qualcuno che intende offrire quarantasei?» Nessuno rispose. La signora O'Leery discorreva con un uomo che le stava seduto accanto, più giovane di lei. Raramente compariva due volte di seguito a un'asta con lo stesso marito. Era la tipica donna che si è fatta da sé e aveva accumulato un patrimonio lanciando sul mercato una propria marca di cosmetici. Possedeva una delle più belle collezioni di macchine
esistenti in tutto il mondo, che vantava ormai un centinaio di pezzi. Il banditore le rivolse un'occhiata interrogativa, ma lei scosse il capo e poi si girò, inviando un cenno a Pitt. «Non direi che le abbia dimostrato una grande cordialità», osservò Moon. «Di tanto in tanto le converrebbe frequentare qualche donna più vecchia di lei», gli suggerì Pitt, in tono didascalico. «È ben poco quello che ignorano a proposito degli uomini.» Una bella ragazza gli si accostò, pregandolo di firmare il contratto di acquisto. «Possiamo andare, adesso?» chiese Moon, speranzoso. «Chi l'ha accompagnata fin qui?» «La mia fidanzata, da Arlington.» Pitt si alzò. «Mentre lei la va a prendere, io passerò in ufficio per consegnare l'assegno. Poi la sua ragazza potrà seguirci.» «Seguirci?» «Lei mi voleva parlare a quattr'occhi, signor Moon. Perciò la gratificherò di un piacere inatteso, riaccompagnandola ad Arlington a bordo di un'automobile degna di questo nome.» La Jensen correva senza sforzo sulla superstrada che portava a Washington. Pitt stava attento con un occhio alle eventuali pattuglie della polizia e con l'altro non perdeva di vista il tachimetro. Manteneva l'acceleratore su una velocità costante di centodieci chilometri orari. Moon si abbottonò il cappotto fino al collo e borbottò, con un'aria che non sarebbe potuta essere più infelice: «Ma questo residuato non possiede l'impianto di riscaldamento?» Pitt, tutto preso dal funzionamento cronometrico del motore, non aveva fatto caso agli spifferi gelidi che entravano dal tettuccio di tela. Girò un pulsante sul cruscotto e ben presto un sottile filo d'aria calda si diffuse nell'abitacolo della Jensen. «Ebbene, Moon, adesso siamo soli. Che cosa aveva da dirmi?» «Il presidente vorrebbe che lei guidasse alcune spedizioni di 'pesca' nel San Lorenzo e nell'Hudson.» Pitt distolse gli occhi dalla strada per piantarli in faccia al giovane. «Sta scherzando?» «Non potrei essere più serio di così. Pensa che lei sia l'unico uomo qualificato per tentare il recupero degli originali del trattato nordamericano.»
«Lei ne è al corrente?» «Sì, mi mise a parte del segreto dieci minuti dopo che lei era uscito dal suo ufficio. Sarò il suo uomo di collegamento durante la ricerca.» Pitt rallentò la corsa fino ai limiti di velocità legalmente consentiti e per un po' non riprese il discorso. Poi disse: «Temo che non abbia un'idea di quanto sta chiedendo». «Le garantisco che il presidente ha esaminato la cosa sotto tutti gli aspetti.» «Pretende l'impossibile e si aspetta un miracolo.» L'espressione di Pitt era ancora incredula, la voce pacata. «Non c'è la minima ragionevole speranza che un pezzo di carta rimasto per tre quarti di secolo sott'acqua sia tuttora intatto.» «Sono d'accordo anch'io che le prospettive di riuscita equivalgono a poco più di zero», riconobbe Moon. «Tuttavia, anche se le probabilità che un esemplare del trattato esista fossero una sola su dieci milioni, il presidente è dell'avviso che dobbiamo tentare a tutti i costi di recuperarlo.» Pitt si concentrò di nuovo sulla guida, fissando la strada che tagliava in due la campagna virginiana. «Ammettiamo per un momento che la fortuna ci assista e che noi riusciamo davvero a deporgli in grembo il trattato nordamericano. Ma poi, che se ne farà?» «Non posso dirlo.» «Non può o non vuole?» «Io non sono altro che un inviato speciale del presidente, anzi, come lei ha specificato con tanto tatto, un fattorino. Eseguo quanto mi si ordina. Nel caso in questione mi è stato ordinato di fornirle ogni forma necessaria di aiuto e di provvedere che le sue richieste di fondi e di attrezzature vengano soddisfatte senza ritardo. Ciò che succederà se e quando avrà recuperato un documento ancora decifrabile non è affar mio e neppure suo.» «Dica un po', Moon», chiese Pitt, con un sorrisetto, «le è mai capitato di leggere Come conquistarsi la simpatia della gente e farsi degli amici?» «Mai sentito nominare.» «Lo sospettavo.» Pitt si avvicinò pericolosamente a una Mini a trazione elettrica che lo precedeva e si rifiutava di lasciargli il passo sulla corsia di scorrimento veloce. L'altro finalmente si arrese all'insistente lampeggiare e si spostò sulla destra. «E se io rispondessi che non ci sto?» Il giovane s'irrigidì quasi impercettibilmente. «Il capo ne rimarrebbe oltremodo deluso.» «Mi sento molto lusingato.» L'agente seguitò a guidare in silenzio, im-
merso nei suoi pensieri. Poi, guardando il suo passeggero, dichiarò: «Sta bene, farò del mio meglio. Immagino che dovremo incominciare immediatamente». Moon, con evidente sollievo, annuì. «Prenda nota. Paragrafo numero uno nel suo elenco: avrò bisogno degli uomini e delle apparecchiature della NUMA. E, soprattutto, l'ammiraglio Sandecker dovrà essere messo a conoscenza del piano. Non intendo agire alle sue spalle.» «L'impresa che lei sta per affrontare, signor Pitt, rientra sotto l'abusata definizione di 'estremamente delicata'. Quanto più ristretto sarà il numero delle persone al corrente del trattato, tanto minore sarà il pericolo che i canadesi subodorino qualcosa.» «Sandecker ne dev'essere informato», ripeté Pitt, in tono risoluto. «E sia. Gli fisserò un appuntamento e lo informerò.» «Non mi basta. Voglio che sia il presidente in persona a parlargliene. È un gesto di deferenza al quale ha pieno diritto.» Moon assunse l'aria d'un tale cui avessero appena pizzicato il portafogli. «D'accordo, la consideri cosa fatta», rispose, guardando davanti a sé. «Paragrafo numero due: avremo bisogno di un esperto per le ricerche storiche.» «A Washington non mancano persone altamente qualificate che hanno già svolto incarichi per conto del governo. Le farò avere i loro curriculum.» «Io stavo pensando a una donna.» «Per qualche motivo particolare?» «Heidi Milligan, che ha il grado di capitano di corvetta nella nostra Marina, ha svolto le ricerche preliminari sul trattato. Si destreggia con disinvoltura tra i documenti d'archivio e, per di più, ci eviterà d'iniziare una persona di più al segreto.» «È una proposta sensata», riconobbe Moon, «solo che in questo momento si trova in una zona imprecisata del Pacifico.» «Sarà sufficiente telefonare al capo delle operazioni navali e farla tornare indietro. Beninteso, questa è una gatta che dovrà pelare lei.» «Pelerò io la gatta, signor Pitt», rispose Moon, con disinvoltura. «Paragrafo numero tre: uno degli esemplari del trattato è colato a picco con l'Empress of Ireland, che giace sul fondo del San Lorenzo, ossia in acque canadesi. Non c'è verso di poter svolgere in segreto la nostra operazione. In base alle leggi vigenti sui recuperi, la dobbiamo notificare al gover-
no di Ottawa, alla Canadian Pacific Railroad che era la proprietaria della nave, e alle compagnie d'assicurazioni.» Dall'espressione di rassegnazione, la faccia di Moon passò a quella di compiacimento. «Su questo punto l'ho preceduta, signor Pitt. Le formalità burocratiche sono già in via di espletamento. La versione di copertura dice che siete un gruppo di archeologi subacquei e che tutti i reperti che scoprirete saranno donati ai musei marittini statunitensi e canadesi. Per la tranquillità dei probabili occhi che vi spieranno, dovrete riportare in superficie quanta più robaccia vi sarà possibile.» «Paragrafo numero quattro: i quattrini.» «Le saranno messi a disposizione fondi più che abbondanti.» Pitt esitò prima di seguitare, tutto concentrato nell'ascoltare soddisfatto il ronzio uniforme del motore di centotrenta cavalli della sua Jensen. Il sole era calato dietro la cima degli alberi e perciò accese i fari. «Sia ben chiaro che non garantisco niente.» «Intesi.» «Come ci terremo in contatto?» Moon levò di tasca una penna e scrisse qualcosa sul rovescio del catalogo dell'asta. «Mi potrà raggiungere a questo numero ventiquattr'ore su ventiquattro. Personalmente non c'incontreremo un'altra volta, a meno che lei non incappi in gravi e inattese difficoltà.» Tacque e scrutò Pitt, tentando di sondarlo. Ma l'uomo era imperscrutabile. «Qualche altra domanda?» «No. Nient'altro.» In realtà di domande Pitt ne avrebbe avute a centinaia, ma nessuna poteva ricevere una risposta soddisfacente da Moon. Cercava di immaginarsi che cos'avrebbe potuto trovare sotto le correnti proibitive del San Lorenzo e dell'Hudson, ma nessuna immagine prendeva forma. Poi incominciò a chiedersi che cosa si nascondeva dietro il piano pazzesco, insondabile, che stava per catapultarlo nell'ignoto. 38 «È venuto il momento di decidere.» Sandecker non si rivolse a nessuno in particolare, mentre osservava le carte idrografiche ingrandite fotograficamente sino a coprire un'intera parete della sala operativa, nella sede della NUMA. Batté con le nocche quella che riproduceva un settore dell'Hudson. «Ci conviene attaccare per primo il Manhattan Limited...» - s'interruppe e indicò la carta vicina -, «oppu-
re l'Empress of Ireland?» Girandosi, si rivolse alle quattro persone sedute intorno al lungo tavolo. «A quale dobbiamo dare la priorità?» Heidi Milligan, col volto segnato dalla stanchezza per il lungo volo da Honolulu, fece per dire qualcosa, ma vi rinunciò. «Prima le donne», sorrise Al Giordino. «Non sono qualificata per esprimere un'opinione sui recuperi subacquei», si schermì Heidi. «Però ritengo che le maggiori probabilità di scoprire un documento decifrabile le offra la nave.» «Le dispiacerebbe illustrarcene le ragioni?» chiese Sandecker. «Prima dell'era dei trasporti aerei, i corrieri diplomatici che s'imbarcavano per attraversare l'oceano seguivano invariabilmente l'abitudine di sigillare i plichi in parecchi strati di tela cerata, per preservarli da eventuali danni causati dall'acqua», spiegò Heidi. «Ricordo il caso di un naufragio: documenti di grande importanza furono trovati intatti sul cadavere di un corriere del ministero degli Esteri britannico, gettato sulla spiaggia dalle correnti sei giorni dopo che il Lusitania, colpito dal siluro del sommergibile tedesco, era colato a picco.» L'ammiraglio la gratificò di un sorriso d'approvazione. Quella donna sarebbe stata di valido aiuto nell'impresa. «Grazie, comandante. Lei ci ha fatto balenare un primo raggio di speranza.» Giordino non riuscì a soffocare uno sbadiglio. Aveva trascorso gran parte della notte ascoltando Pitt che lo aveva messo al corrente del piano e, per mantenersi sveglio, non gli rimaneva altro che sbadigliare. «Forse anche Richard Essex aveva avvolto il trattato nella tela cerata.» Heidi ne dubitava. «Assai più probabile che lo avesse infilato in una cartella di cuoio, o in una valigetta.» «Poche speranze, allora, che si sia conservato», commentò Sandecker. «Io continuo a dare la preferenza al treno», disse Giordino. «L'Empress si trova una cinquantina di metri sotto la superficie, una profondità troppo pericolosa per i sub che si tuffano con le bombole. Il treno, invece, si trova, tutt'al più, a dodici metri di profondità, senza contare che l'acqua dolce del fiume avrà fatto certo meno danni di quella salata che, risalendo nel San Lorenzo dal Golfo, avrà corroso i resti del transatlantico.» L'ammiraglio interpellò un ometto con un paio di occhiali dalla montatura di corno e le lenti spesse sugli occhi scuri, da gufo. «Rudi, qual è la sua opinione?» Rudi Gunn, direttore dei servizi logistici della NUMA, alzò la testa dal blocco per gli appunti che aveva riempito di scarabocchi e, soprappensiero,
si grattò il naso; raramente si avventurava a giocare d'azzardo o svicolava con risposte evasive; lavorava basandosi sui dati assodati, non sulle percentuali approssimative. «Io propendo per la nave», annunciò, tranquillo. «L'unico vantaggio, procedendo al recupero del Manhattan Limited, consiste nel fatto che si trova in territorio nazionale. Però la corrente dell'Hudson è impetuosa, tre nodi e mezzo. Troppo forte perché i sommozzatori possano lavorare là sotto in maniera efficace. E questo senza contare che la locomotiva e le carrozze forse sono seppellite nel limo. In tal caso bisognerebbe dragare il fondo, un lavoraccio.» «Il recupero di una nave in acque aperte è assai più complesso e richiede molto più tempo che issare da poca profondità una vettura ferroviaria», obiettò Giordino. «È vero», riconobbe Gunn. «Però noi conosciamo l'ubicazione esatta dell'Empress, mentre nessuno ha mai scoperto il punto preciso in cui si trova il Manhattan Limited.» «I treni non si volatilizzano. Dovremo limitare la ricerca entro una zona che non misura neppure due chilometri quadrati. Una spazzata con un magnetometro a protoni ce la rivelerà in un paio d'ore.» «Lei parla come se la locomotiva e i vagoni fossero ancora agganciati. Ma probabilmente, precipitando dal ponte, si staccarono, sparpagliandosi in un raggio vastissimo sul letto del fiume. Rischieremmo d'impiegare settimane per tirare fuori la vettura sbagliata. Non me la sento di puntare sulle probabilità. Si procederebbe troppo a casaccio.» Giordino non desistette. «Secondo lei le probabilità di ritrovare un plico all'interno di un transatlantico ridotto a un relitto sarebbero maggiori?» «Lasciamo stare la questione delle probabilità.» Era la prima volta che Dirk Pitt, seduto a un capo del tavolo, le mani intrecciate dietro la nuca, apriva bocca durante la riunione. «Io propongo di avviare simultaneamente entrambe le ricerche.» Nessuno dei presenti replicò. Giordino sorseggiava il caffè, rimuginando su quanto aveva detto l'amico, mentre Gunn lo scrutava perplesso attraverso gli spessi occhiali da miope. «Ma ci possiamo permettere le complicazioni che ne deriverebbero, dividendo gli sforzi?» «Sarebbe meglio chiedere se ne avremo il tempo», rispose Pitt. «Abbiamo una scadenza?» Questa volta fu Giordino a formulare la domanda.
«No, non siamo tenuti a rispettare un termine preciso», disse Sandecker. Si allontanò dalle carte per sedere sull'orlo del tavolo. «Però il presidente mi ha detto chiaro e tondo che ha bisogno con estrema urgenza di un esemplare del trattato, ammesso che ancora esista.» L'ammiraglio scrollò la testa. «Quanto al valore che un maledetto foglio di carta inzuppato e vecchio di settantacinque anni potrebbe avere per il nostro governo, o all'urgenza di rintracciarlo, non mi ha dato la benché minima spiegazione. Non ho avuto la possibilità di discuterne. Dirk ha ragione. Non abbiamo il tempo di condurre le indagini con calma, una alla volta.» Giordino lanciò un'occhiata a Pitt, sospirando. «D'accordo. Vuol dire che prenderemo due piccioni con una fava.» «Con due fave», lo corresse Pitt. «Mentre una squadra di recupero cercherà d'introdursi nello scafo dell'Empress, un secondo gruppo tenterà di localizzare sul fondo dell'Hudson il Manhattan Limited o, meglio, la vettura speciale sulla quale viaggiava Richard Essex.» «Quando ritenete che potremo incominciare?» s'informò Sandecker. Pitt, con lo sguardo nel vuoto, rispose: «Quarantott'ore per radunare il personale e le apparecchiature, altre ventiquattro per armare un battello e ultimare il carico. Poi, nel tempo favorevole per la navigazione a vela, direi che tra cinque giorni ci potremmo ormeggiare sopra l'Empress». «E il Manhattan Limited?» «Entro dopodomani a quest'ora m'impegno a far arrivare sul posto un battello equipaggiato con un magnetometro, un ecogoniometro e un rivelatore di massima profondità», assicurò Giordino. A Sandecker parve che i calcoli dei tempi fossero troppo ottimistici, ma rimase zitto. Non aveva l'abitudine di contestare quanto dichiaravano quegli uomini, i migliori tra gli esperti del ramo, che molto raramente lo avevano deluso. Si alzò in piedi e, indicando Giordino, disse: «Al, il Manhattan Limited è tutto suo. Lei, Rudi, sarà a capo dell'operazione di recupero dell'Empress of Ireland e lei, infine», e si rivolse a Pitt, «le dirigerà entrambe». «E io da dove vorrebbe che incominciassi?» chiese Heidi. «Dal transatlantico. Il progetto di costruzione della nave, la disposizione dei ponti, l'ubicazione esatta della cabina di Harvey Shields. In una parola, tutti i dati utili per rintracciare il documento.» Heidi annuì. «L'inchiesta sul disastro venne condotta a Quebec. Per prima cosa frugherò negli archivi per scovare i verbali della commissione. Se la sua segretaria mi può prenotare il prossimo volo, partirò subito.»
Era visibilmente esausta, mentalmente e fisicamente. Ma l'ammiraglio, pungolato dall'urgenza dell'impresa che dovevano affrontare, non se la sentì di offrirle cavalierescamente qualche ora di sonno. Si fermò ancora qualche secondo, fissandoli a uno a uno nelle facce risolute. «Bene. Al lavoro.» 39 Il generale Morris Simms si sentiva a disagio mentre percorreva, in tenuta da pescatore, con una canna di bambù in spalla e un cestino di vimini, un sentierino di terra battuta verso il torrente Blackwater, non lontano dal villaggio di Seward's End, nell'Essex. Si fermò sull'argine, sotto un pittoresco ponte in pietra, e salutò un uomo, seduto su un seggiolino pieghevole, che contemplava pazientemente il galleggiante della lenza ondeggiare piano sull'acqua. «Buongiorno, signor primo ministro.» «Buongiorno, generale.» «Mi perdoni, se mi permetto di disturbarla durante la sua giornata di vacanza.» «Non mi disturba affatto», assicurò il primo ministro. «Tanto queste dannate non ne vogliono sapere di abboccare.» Con un cenno, indicò il tavolino portatile accanto a sé, con sopra una bottiglia di vino e qualcosa che aveva l'aria d'essere un pasticcio di carne. «Nel cesto troverà piatti e bicchieri. Si serva pure.» «Grazie, signore, volentieri.» «Che cosa la preoccupa?» «Il trattato nordamericano.» S'interruppe per versarsi un bicchiere di sherry. «Il nostro agente negli Stati Uniti ci riferisce che gli americani sono decisi a tentarne il recupero senza risparmio di mezzi.» «Qualche possibilità che lo ritrovino?» «Assai scarse.» Simms sollevò la bottiglia. «Anche per lei?» «Sì, grazie.» Il generale versò, poi riprese: «Dapprima ho creduto che si sarebbero limitati a un'indagine superficiale, capisce, a un'operazione su scala ridotta, giusto per convincersi che le speranze di ritrovarlo erano praticamente infondate. Invece, a quanto pare, fanno tremendamente sul serio». «Un bel guaio», borbottò il primo ministro. «C'è da ritenere che, semmai lo ritrovassero, farebbero fuoco e fiamme per ottenere l'applicazione delle clausole.» «Anch'io la penso allo stesso modo.»
«Non riesco neppure a immaginare il Commonwealth senza il Canada. Sarebbe il principio della fine per l'intera struttura dei nostri scambi con i territori d'oltremare. Già adesso la nostra economia fa acqua. Con la perdita del Canada, sarebbe il disastro completo.» «A tal punto?» «Peggio ancora», continuò il primo ministro, distogliendo gli occhi dall'interlocutore e lasciando vagare lo sguardo sull'acqua. «Con la cessione del Canada non ci vorrebbe molto, tre anni al più, perché anche l'Australia e la Nuova Zelanda proclamassero la propria indipendenza. E non occorre che le spieghi in quali condizioni si troverebbe il Regno Unito.» L'enormità delle fosche previsioni dell'uomo politico lasciò sgomento il generale. L'Inghilterra senza un impero era qualcosa d'inconcepibile per lui, benché nutrisse quasi inconsciamente la malinconica certezza che lo stoicismo britannico avrebbe trovato la maniera di accettare la realtà. Il galleggiante sobbalzò violentemente un paio di volte, ma non accadde nulla. Il primo ministro centellinava il suo sherry con aria meditabonda. Aveva i lineamenti duri, pesanti, illuminati però dallo sguardo franco degli occhi azzurri e dall'espressione sempre sorridente della bocca. «Quali istruzioni ha impartito ai suoi agenti che operano laggiù?» «Soltanto di osservare e riferirci che cosa stanno facendo gli americani.» «Sanno che il trattato rappresenta una minaccia potenziale così grave?» «No, signore.» «Sarà meglio che li informi. Devono rendersi conto del pericolo che incombe sul nostro Paese. Come si presenta, attualmente, la situazione?» «Il presidente americano, servendosi della National Underwater & Marine Agency come copertura, ha ordinato una rapida operazione di recupero, senza economia di uomini e di mezzi, dell'Empress of Ireland.» «È indispensabile tagliargli subito le gambe. Non debbono neppure arrivare vicino al transatlantico.» Simms si raschiò la gola. «Sì, capisco... ma con quali mezzi?» «Avvertendo subito i canadesi di quanto sta per accadere: offriamo loro il nostro appoggio incondizionato nell'ambito giuridicamente consentito dalla legislazione del Commonwealth, chiedendo che annullino il permesso concesso dalle autorità di Ottawa alla NUMA di operare nelle acque del San Lorenzo. E nel caso che il presidente degli Stati Uniti persistesse in quest'impresa folle, chiederemo che facciano saltare il relitto, in modo che l'esemplare britannico del trattato scompaia una volta per tutte.» «E l'esemplare americano perso nel disastro ferroviario? Non possiamo
bloccare le ricerche nelle acque dell'Hudson!» Il primo ministro scoccò un'occhiata colma d'irritazione al generale. «In tal caso, lei dovrà pensare a qualche mezzo più drastico.» PARTE QUARTA L'EMPRESS OF IRELAND
40 Maggio 1989 Ottawa, Canada
Villon rimise i fogli nella cartelletta e scosse la testa. «È assurdo.» «Le garantisco che è tutt'altro che assurdo», disse Brian Shaw. «Ma che significato può avere?» «Significa esattamente quello che lei ha appena letto nel rapporto. Gli americani hanno dato il via a un'operazione di ricerca d'un trattato in base al quale avrebbero giuridicamente il diritto d'impossessarsi di tutto il Canada.» «Fino a questo momento non avevo mai sentito parlare di un simile trattato.» «Pochissimi ne sono a conoscenza.» Shaw s'interruppe per accendersi una sigaretta. «Immediatamente dopo la scomparsa degli originali, quasi tutti i documenti che si riferivano ai negoziati furono distrutti, in gran segreto.» «Quali prove concrete ha lei che adesso gli americani vogliano mettere le mani sul trattato in questione?» «Ho seguito un filo d'Arianna che mi ha condotto sino a un tizio, un certo Dirk Pitt, che è un alto funzionario della National Underwater & Marine Agency. L'ho fatto sorvegliare dal personale dell'ambasciata e abbiamo scoperto così che questo Pitt dirige due gruppi di ricerca, uno nel tratto dell'Hudson dove precipitò il treno di Essex, l'altro nelle acque del San Lorenzo, nel punto in cui colò a picco l'Empress of Ireland. E, le posso assicurare, signor Villon, che non si stanno divertendo con una caccia al tesoro.» Villon rifletté un momento, poi, sporgendosi verso il suo interlocutore, disse: «E io che potrei fare per impedirglielo?» «Per prima cosa potrebbe ordinare a Pitt e ai suoi uomini di sgomberare dal San Lorenzo.» L'altro scosse la testa. «Impossibile. Il permesso l'hanno ottenuto regolarmente, per via burocratica, e se lo revocassimo di punto in bianco s'immagina quale potrebbe essere la reazione degli americani? Come minimo, per rappresaglia, non ci riconoscerebbero più i diritti di pesca nelle loro acque.» «Il generale Simms, infatti, ha preso in considerazione questa eventualità e ha ventilato un'alternativa.» Shaw s'interruppe un attimo, per sottolineare il significato di quanto stava per aggiungere. «Propone di distruggere il relitto dell'Empress of Ireland.» «E come, senza provocare un gravissimo incidente?» «Semplice: se io
arrivassi al relitto prima di Pitt.» Villon si appoggiò allo schienale della poltrona, analizzando freddamente la possibilità di sfruttare a proprio beneficio l'informazione datagli dall'agente segreto. Alla fine, chiaritesi le idee, annuì. «Avrà tutto il mio appoggio.» «La ringrazio», rispose Shaw. «Dovrebbe mettermi a disposizione cinque uomini, un battello e l'equipaggiamento necessario per le immersioni.» «Le occorrerà anche una persona capace di coordinare il suo piano.» «Sa già chi potrebbe essere l'uomo adatto?» «Sì. Provvederò a metterlo in contatto con lei. È un poliziotto molto in gamba per questo tipo di lavori. Si chiama Gly, ispettore Foss Gly.» 41 Pareva che la spedizione che aveva come obiettivo il Manhattan Limited fosse nata sotto una cattiva stella. Giordino si rodeva per la rabbia: aveva già accumulato un ritardo di quattro giorni sul tempo previsto. Dopo aver caricato in tutta fretta gli uomini e l'equipaggiamento, il battello nuovo di zecca adibito alla ricerca, il De Soto, lungo diciotto metri e progettato espressamente dagli ingegneri della NUMA per incrociare lungo le vie d'acqua interne, era finito nei gorghi, mentre risaliva il fiume controcorrente, e per poco non ne era stato travolto. Il timoniere teneva accuratamente d'occhio i gavitelli segnaletici che indicavano la rotta e i panfili che incrociavano; tuttavia a metterlo soprattutto in apprensione erano il barometro che scendeva, nonché l'acquerugiola che rigava le finestre della timoniera: promettevano entrambi una buriana coi fiocchi al calar della sera. Dopo che si fu fatto buio, le turbinose acque del fiume incominciarono a innaffiare con i loro spruzzi il ponte di prua del De Soto. Un vento improvviso, con raffiche che andavano dai trentacinque chilometri orari fino ai cento, incominciò a fischiare giù dalle alte, ripide colline che si alzavano lungo le rive e a spingere il battello, che avanzava a tutta forza, fuori rotta. Prima che il timoniere riuscisse a rimetterlo su quella giusta, facendo ricorso a tutta la sua forza muscolare, il battello era finito sui bassi fondali e aveva riportato una falla di sessanta centimetri sotto la prua, a sinistra, urtando probabilmente contro un tronco sommerso. Durante le quattro ore successive, Giordino aveva imperversato contro l'equipaggio con la proverbiale mano pesante del compagno d'avventure di Cook, il comandante James Blight. Il tecnico addetto al sonar assicurò, in seguito, di essersi sentito sibilare nelle orecchie, come una sferza di cuoio,
la voce implacabile dell'italiano. L'acqua entrava nella stiva a minuscoli, trascurabili rivoletti, ma lo squarcio fu tappato alla meglio soltanto dopo che l'acqua aveva invaso la sentina ed era salita sul ponte inferiore raggiungendo l'altezza di una spanna. Il De Soto, appesantito da due tonnellate di acqua, rispondeva pigramente alle manovre. Giordino, senza darsene per vinto, ordinò di forzare i motori al massimo della potenza e la velocità impressa improvvisamente al natante sortì l'effetto di allargare la falla sino oltre la linea di galleggiamento; fu quindi giocoforza che ridiscendessero l'Hudson per raggiungere New York. Andarono così persi due giorni, col De Soto in bacino di carenaggio per le riparazioni. Poi, non appena furono in grado di riprendere la navigazione, scoprirono che il magnetometro era difettoso e furono costretti all'immobilità per altri due giorni, in attesa che un nuovo apparecchio arrivasse da San Francisco. Finalmente, al chiaro della luna piena, Giordino poté tirare il fiato mentre il suo battello scivolava sotto la massiccia spalla in pietra sulla quale in passato poggiava il ponte. Cacciò la testa nel finestrino della timoniera. «Che cosa dice lo scandaglio acustico?» Glen Chase, il taciturno e calvo comandante del De Soto, lanciò un'occhiata all'indice. «Circa sessanta metri. Direi che ci possiamo parcheggiare qui tranquillamente, fino a domani mattina.» Calarono l'ancora e assicurarono il battello, mediante le gomene, a un albero che cresceva sulla riva e ai resti arrugginiti d'un pilastro del vecchio ponte, sporgenti dalla superficie del fiume. Spensero i motori e misero in funzione il gruppo elettrogeno ausiliario. Guardando il piedritto corroso dagli anni, Chase osservò: «Ai suoi tempi doveva essere stata un'opera imponente». «Il quinto del mondo per lunghezza, quando venne costruito», precisò Giordino. «Qual è stata, secondo te, la causa del crollo?» Giordino si strinse nelle spalle. «Stando al rapporto della commissione d'inchiesta, fu impossibile assodarla con certezza. L'ipotesi più attendibile voleva che l'avessero provocato il vento violentissimo e l'azione combinata dei fulmini, indebolendo una delle travature reticolari di sostegno.» Chase, accennando con la testa al fiume, seguitò: «Tu pensi che ci attenda là sotto?» «Il treno?» Giordino guardò l'acqua illuminata dalla luna. «Dev'essere
là, senza dubbio. Nel 1914 non riuscirono a scoprirlo perché tutta l'attrezzatura di cui disponevano allora gli uomini addetti al recupero consisteva nei caschi da palombaro, in rame, e negli ingombranti scafandri di tela, che riducevano la visibilità a zero e impedivano i movimenti, nonché in un certo numero di raffi trainati da piccoli battelli. E, per di più, oltre a essere muniti di un equipaggiamento insufficiente, lo cercarono nel punto sbagliato.» Il comandante sollevò il berretto per grattarsi la testa. «Dovremmo saperlo per certo in un paio di giorni.» «Anche meno, con un po' di fortuna.» «Che ne diresti di una birra?» chiese Chase, sorridendo. «Io la bevo sempre tutte le volte che ho bisogno di dar corpo all'ottimismo.» «Ci sto anch'io», accettò Giordino. L'altro scomparve giù per una scaletta e si diresse verso la cambusa. Nella saletta da pranzo gli uomini dell'equipaggio scherzavano e ridevano, mentre stavano regolando l'antenna televisiva circolare per captare i segnali di un satellite ripetitore che passava sopra di loro. Un'improvvisa folata gelida accapponò le pelose braccia di Giordino, che per ripararsi dal vento entrò nella timoniera, dove aveva lasciato la giacca a vento. Se la stava chiudendo con la cerniera lampo quando si bloccò, tendendo l'orecchio. In quella riapparve Chase e gli porse una lattina di birra. «Non mi sono dato la briga di portare i bicchieri.» Giordino alzò una mano per invitarlo a fare silenzio. «Lo senti anche tu?» Chase corrugò la fronte. «Che cosa dovrei sentire?» «Ascolta bene.» Il comandante tese a sua volta l'orecchio, socchiudendo gli occhi per concentrarsi meglio. «Il fischio di un treno», disse, senza scomporsi. «Ne sei sicuro?» Chase annuì. «Lo sento benissimo, è il fischio d'un treno, non c'è dubbio.» «E non ti sembra strano?» «Strano? Che cosa ci sarebbe di strano?» «Il fatto che le locomotive diesel hanno una sirena ad aria e che l'ultima di quelle a vapore, che fischiavano, è stata messa fuori servizio una trentina di anni fa.» «Be', potrebbe trattarsi di un trenino per bambini, installato nel parco dei
divertimenti in qualche paese lungo il fiume», replicò Chase. «Il suono si trasmette per chilometri e chilometri, se viaggia sopra l'acqua.» «Sarà come dici tu, ma io non ci credo», insistette Giordino, facendo coppa con una mano dietro l'orecchio e muovendo la testa avanti e indietro, come un radar. «Senti? Diventa sempre più forte... più forte e più vicino.» Chase entrò nella timoniera e ne rispuntò un attimo dopo, con una carta topografica che allargò sul parapetto del ponte e con una torcia con la quale la illuminò. «Guarda qui», disse indicando col dito le sottili linee azzurre. «La linea ferroviaria principale passa all'interno, trentadue chilometri a sud da qui.» «E quest'altra linea, più vicina?» «A sedici, forse diciotto.» «Ma la locomotiva, o il diavolo che sia, che sentiamo fischiare è distante non più di un chilometro e mezzo», dichiarò Giordino, con voce incolore. Non aggiunse altro, concentrandosi nel tentativo di stabilirne la direzione. La luna piena rischiarava il paesaggio con una straordinaria luminosità. Alberi isolati, lontani cinque chilometri, erano nettamente distinguibili. Il suono si stava approssimando lungo la riva sinistra, poco più a monte di loro. Non si percepiva altro rumore e le uniche luci visibili erano quelle di alcune case di contadini, piuttosto vicine. Un nuovo fischio stridente. Subito dopo vi si aggiunsero altri suoni. Un pesante sferragliare e l'ansito roco e ritmico di sbuffi di vapore lacerarono la notte. Giordino aveva l'impressione d'essere sospeso a mezz'aria. Se ne stette rigido, in attesa. «Adesso supera una curva... viene verso di noi.» Chase si schiarì la gola. Si sarebbe detto che tentasse ancora di convincere se stesso. «Mio Dio, avanza dalle rovine del ponte.» Fissarono entrambi gli occhi da quella parte, al colmo dello sbalordimento, col fiato mozzo, incapaci di trovare una spiegazione razionale. Tutt'a un tratto, dal buio eruppe il fragore assordante di un treno invisibile. Giordino, obbedendo all'istinto, si chinò; Chase si sentì raggelare, bianco in faccia come uno spettro e con gli occhi che quasi gli uscivano dalle orbite. Poi, di colpo, il silenzio... un silenzio funesto, di morte. Nessuno dei due uomini si mosse o parlò, simili a statue di cera inchiodate sul ponte. Giordino, pian piano, si riprese e tolse la torcia dalla mano
tremante di Chase, proiettandone il raggio sui resti del ponte distrutto. Non c'era nulla da vedere, tranne la spalla in pietra mezzo rovinata e l'impenetrabile ombra notturna. 42 L'Ocean Venturer aveva calato l'ancora esattamente sopra il relitto dell'Empress of Ireland. Durante le prime ore del mattino era caduta una spruzzatala di pioggia e, sotto il sole appena spuntato, lo scafo bianco dell'Ocean Venturer scintillava di riflessi arancioni. Poco lontano, un vecchio peschereccio con la vernice azzurra mezzo scrostata si trascinava dietro pigramente le lenze per la pesca alla traina. Agli uomini di bordo l'Ocean Venturer, proiettato contro l'orizzonte che si andava illuminando, dava l'impressione d'essere stato progettato da un artista che vi avesse voluto aggiungere un bizzarro, stridente tocco umoristico. Le linee dello scafo erano esteticamente aggraziate e moderne, con il ponte principale che si allungava dalla prua arrotondata, in una curva gradevole all'occhio, fino all'estremità soprelevata opposta, di forma ovale. Niente linee taglienti, come nella maggior parte delle altre navi; perfino il ponte dai contorni smussati poggiava sopra una leggera struttura arcuata. Però tutta la sua bellezza terminava lì. Perché un derrick, in tutto simile a quelli rizzati sopra i giacimenti petroliferi, sporgeva diritto e incongruo dalla sezione mediana dell'Ocean Venturer, facendo pensare al naso di Cirano. Il derrick, antiestetico ma funzionale, poteva calare sul fondo, attraverso la stiva, tutti gli apparecchi scientifici necessari, debitamente protetti, e issare oggetti pesanti, sempre attraverso la stiva, recuperati dal relitto. Così insolitamente attrezzato, l'Ocean Venturer era il natante ideale per l'operazione di ricerca del trattato, una via di mezzo tra un battello e una piattaforma galleggiante. Pitt, ritto in piedi a poppa, si teneva stretto sulla testa, con entrambe le mani, un berretto da pescatore portoghese mentre le pale di un elicottero della NUMA sferzavano l'aria intorno a lui. L'apparecchio volò per qualche momento a punto fisso, per saggiare le correnti aeree, poi si abbassò lentamente finché i pattini non si posarono ben fermi sulla zona del ponte marcata con un cerchio di pittura bianca. Pitt gli corse incontro e aprì il portello. Ne balzò fuori Heidi Millingan, vestita con una tuta da volo di tela d'un azzurro acceso. Lui le porse la mano e prese la valigia che il pilota gli allungava. «Al prossimo viaggio, portaci una cassetta di burro d'arachidi», gridò,
per superare il fragore delle turbine. Il pilota, agitando la mano in segno di saluto, gridò di rimando: «Sarà fatto». Mentre l'elicottero si risollevava puntando il muso verso sud, Pitt seguì la donna mentre percorreva il ponte: Heidi si girò, lanciandogli un sorriso. «Il direttore operativo fa regolarmente il portabagagli, come secondo lavoro?» chiese scherzosamente. Pitt rise. «Hanno ragione quelli che mi dicono incapace d'imporre la mia autorità». Più tardi. Heidi, dopo essersi sistemata nella sua cabina, entrò nella sala da pranzo portando con sé un fascio di carte e sedette di fronte a lui. «Com'è stato il tuo breve viaggio?» «Fruttuoso. E voi, a che punto siete?» «Siamo arrivati qua ieri pomeriggio, con diciotto ore di anticipo sul previsto, e ci siamo messi alla fonda proprio sopra il relitto.» «E adesso che cosa vi proponete di fare come prima mossa?» «Caleremo sul fondo un batiscafo senza equipaggio per un'esplorazione dell'Empress. I dati che ci trasmetterà con le telecamere compariranno sui monitor collegati e noi li studieremo e li analizzeremo.» «Qual è l'angolo d'inclinazione del transatlantico?» «Quarantacinque gradi a dritta.» Heidi corrugò la fronte. «Che maledetta scalogna!» «Perché?» Incominciò a stendere le carte sul tavolo. Alcune erano così grandi che dovettero ripiegarle. «Prima che te lo spieghi, leggi un po' quest'elenco dei passeggeri imbarcati sull'Empress quando partì per il suo ultimo viaggio. In un primo momento pensai d'aver fatto un fiasco completo, dato che il nome di Harvey Shields non si trovava tra quelli di prima classe. Poi mi venne in mente che forse, per non dare nell'occhio, viaggiava in seconda. Non di rado sulle navi di linea le compagnie di navigazione mettevano a disposizione alcune cabine di lusso sui ponti di seconda, per la gente ricca ma parsimoniosa, o per i diplomatici che per motivi di segretezza volevano passare inosservati. E infatti in seconda classe l'ho trovato. Ponte superiore D, cabina quarantasei.» «Ottimo lavoro. Hai stabilito il punto in cui dobbiamo cercare l'ago nel pagliaio. Questo ci risparmia almeno la fatica di smontare tutto il relitto.» «Questa era la buona notizia», ribatté Heidi, smorzando l'entusiasmo
dell'amico. «Adesso viene quella cattiva.» «Coraggio, sentiamola.» «La Storstad, la carboniera norvegese che speronò l'Empress, la colpì sulla fiancata di destra, quasi direttamente tra i fumaioli, aprendovi uno squarcio a forma di cono, largo più di quattro metri e mezzo e lungo poco meno di quindici. La prua della carboniera penetrò come una lama nella sala-macchine, sotto la linea di galleggiamento, e nel settore delle cabine di seconda classe che si trovava proprio sopra.» «In altre parole, temi che la Storstad abbia distrutto anche quella occupata da Shields?» «Dobbiamo tenere conto della possibilità più infausta», confermò Heidi, spiegando sopra le carte nautiche una pianta dell'Empress of Ireland e indicando con la punta della matita una piccola zona circolare. «La cabina quarantasei si trovava a dritta, sulla parte esterna, vale a dire vicinissima al punto d'impatto, o addirittura al centro.» «Questo spiegherebbe perché il cadavere non fu mai ritrovato.» «È probabile che Shields sia morto schiacciato nel sonno.» «Che cosa intendevi, imprecando contro la maledetta scalogna', quando ti ho riferito l'angolazione del relitto?» «Intendevo dire che, con la nave coricata a un angolo di quarantacinque gradi sulla dritta, la cabina quarantasei si deve trovare per forza sprofondata nel letto del fiume e completamente invasa dal limo.» «E con ciò ritorniamo al punto di partenza. Il limo potrebbe aver preservato dai danni dell'acqua il trattato contenuto nella sua custodia, rendendone però quasi impossibile il ritrovamento.» Heidi tacque, osservando il suo interlocutore che tamburellava piano le dita sul tavolo, mentre andava rimuginando le informazioni appena apprese. Lo sguardo degli occhi verdi pareva lontano, irraggiungibile. Si sporse e gli toccò una mano. «A che cosa stai pensando?» «All'Empress of Ireland», mormorò con voce tranquilla. «È la nave che il mondo ha dimenticato. La tomba di un migliaio di persone. Dio solo sa quel che vi troveremo, una volta penetrati all'interno.» 43 «Spero che non me ne vorrà se capito qui con un preavviso così breve», disse il presidente uscendo dall'ascensore. «Nemmeno per sogno», rispose Sandecker senz'ombra di piaggeria.
«Tutto è pronto. Da questa parte, prego.» Il presidente accennò agli uomini del servizio segreto di attenderlo vicino all'ascensore, quindi seguì l'ammiraglio lungo il corridoio fino a una grande porta doppia, in legno di cedro. Sandecker l'aprì e si tirò in disparte. «Dopo di lei, signor presidente.» La sala era circolare, priva di finestre, con le pareti tappezzate in stoffa rosso cupo. L'unico pezzo d'arredamento era un grande tavolo reniforme, collocato al centro. Lo illuminavano riflettori lenticolari azzurri e verdi, fissati al soffitto. Il presidente si accostò, chinandosi per osservare un oggetto lungo novanta centimetri posato sopra un letto di sabbia finissima. «È così, dunque, che si presenta», disse in tono riverente. «Sì», confermò Sandecker, «questa è la tomba dell'Empress of Ireland. Il nostro modellista l'ha riprodotta in miniatura, lavorando sulle immagini videoregistrate, trasmesse dall'Ocean Venturer.» «E questo sarebbe il battello adibito al recupero?» chiese il presidente indicando un secondo modello sospeso una sessantina di centimetri sopra l'Empress, che poggiava su una lastra di plastica trasparente. «Sì, le proporzioni sono esatte al millimetro. E la distanza tra l'uno e l'altro corrisponde, in scala, a quella tra la superficie e il letto del fiume.» Il presidente fissò per parecchi secondi il modellino del transatlantico. Poi scosse il capo, perplesso. «Sarà mai possibile trovare un oggetto piccolo come un documento in una nave così grande? Da dove pensate d'incominciare?» «Una componente della squadra è riuscita a segnare un punto a nostro favore, scoprendo qual era l'esatta ubicazione della cabina di Shields», spiegò Sandecker indicando una zona a mezza nave sullo scafo inclinato a dritta. «Si trova pressappoco qui, ma purtroppo abbiamo buone ragioni di temere che nella collisione con la carboniera sia andata completamente distrutta.» «Come pensate di fare per raggiungere la cabina?» «Dopo che gli uomini avranno portato a termine una perlustrazione all'interno della nave servendosi di un particolare batiscafo senza equipaggio», spiegò l'ammiraglio, «l'operazione di recupero avrà inizio incominciando dal ponte delle scialuppe di salvataggio e da lì scaveranno in direzione del nostro obiettivo.» «Mi sembra che abbiate scelto la strada più difficile. Io tenterei di arrivarci dall'esterno, attraverso la parte inferiore dello scafo.» «Presto detto... Da quanto abbiamo potuto dedurre, la cabina di Shields è
seppellita sotto tonnellate di sabbia e limo. E dragare il fondo fangoso del fiume - mi può credere sulla parola, signor presidente - è un procedimento sfibrante, lunghissimo e non privo di pericoli. Attaccando la nave all'interno, gli uomini disporranno di una piattaforma solida su cui lavorare e, quel che più conta, potranno orientarsi via via che avanzeranno, in qualsiasi momento, sulla scorta del progetto elaborato dai costruttori.» «Sì, mi ha convinto.» Sandecker continuò: «Disponiamo di quattro sistemi diversi per aprirci il varco nelle viscere della nave. Uno è il derrick che lei vede sull'Ocean Venturer. Con la sua capacità di sollevare carichi fino a cinquanta tonnellate, lo impiegheremo per tirare su i rottami più pesanti. Il secondo consiste in un minisommergibile con un equipaggio di due uomini e munito di braccia meccaniche, che funzionerà da unità d'appoggio in qualsiasi evenienza». Il presidente prese in mano un modellino in miniatura completo di tutti i particolari e lo studiò con attenzione. «Suppongo sia questo.» Sandecker annuì. «È il Sappho I, uno dei quattro battelli di recupero a grande profondità, che furono usati l'anno scorso nell'operazione di sollevamento del Titanic.» «Mi scusi se l'ho interrotta. Continui, per favore.» «Il terzo sistema è la chiave di volta dell'impresa», seguitò l'ammiraglio, sollevando un oggetto grande quanto una bambolina e simile a un orso polare meccanico con piccoli oblò nella testa tondeggiante. «Si tratta di uno scafandro per l'immersione a grande profondità, che noi chiamiamo comunemente JIM, in magnesio e lana di vetro. L'uomo che lo indossa può lavorare per ore in profondità a pressioni incredibilmente grandi, senza dover essere sottoposto, quando riemerge, al lento processo di decompressione. Con due di questi scafandri, sei uomini potranno lavorare, a turno, ventiquattr'ore su ventiquattro.» «A vederli, si direbbero pesanti e molto scomodi.» «Nell'atmosfera, con l'operatore dentro, pesano ciascuno cinque quintali e mezzo; sott'acqua, una trentina di chili soltanto e sono di una manovrabilità sorprendente. Consentono di camminare sul fondo marino come si camminerebbe più o meno nel Sahara.» Il presidente prese il modello che Sandecker gli porgeva e ne fece muovere le minuscole braccia e gambe articolate. «Con ciò, l'autorespiratore dei sub diventa un oggetto d'antiquariato.» «Non completamente», rettificò l'ammiraglio. «Il sub cui è consentita
una mobilità tridimensionale è tuttora il pilastro portante di tutte le operazioni di recupero. Il quarto e ultimo sistema, infine, è detto di massima immersione.» Indicò un modellino che aveva la forma di una cisterna cilindrica. «Una squadra di sub può lavorare all'interno di questa camera pressurizzata respirando una miscela di elio e idrogeno, senza esporsi al rischio di subire gli effetti narcotizzanti che si manifestano allorché si respira azoto a grandi pressioni. In altre parole, gli operatori possono rimanere qui dentro per parecchie ore di seguito, sott'acqua, senza pericolo che l'aria espirata s'immetta nel circolo ematico formando bolle e provocando embolie. Perciò, quando riemergono in superficie, non è necessario farli passare attraverso la camera di decompressione.» Il presidente rimase silenzioso. Aveva studiato giurisprudenza ed esercitato la professione legale; quindi possedeva una mente precisa, analitica, e tuttavia i dati scientifici erano al di fuori della sua portata. Non volendo fare la figura dell'ottuso di fronte all'ammiraglio, soppesò con cura le parole, prima di riaprire bocca. «Sono sicuro che non vi proponete di scavarvi letteralmente un sentiero, raspando tra chilometri quadrati di acciaio.» «No, esiste un metodo migliore.» «Ricorrendo forse agli esplosivi?» «Troppo rischioso», replicò Sandecker, reciso. «L'acciaio del relitto è rimasto esposto all'azione di sostanze corrosive per settantacinque anni, che lo hanno fatto diventare poroso e ne hanno ridotto fortemente la resistenza alla rottura. Una carica esplosiva collocata nel punto sbagliato, oppure una carica troppo potente basterebbero perché l'intera nave andasse in frantumi. No, ci taglieremo una strada all'interno.» «Con i cannelli acetilenici, allora?» «Col pirossilene.» «Mai sentito nominare.» «È una sostanza duttile infiammabile, che può bruciare sott'acqua a temperature altissime e per una durata di tempo prestabilita. Lo si applica contro la superficie da separare e quindi lo si accende mediante un impulso elettronico. A tremila gradi centigradi fonde qualsiasi barriera, comprese le rocce.» «Non riesco quasi a immaginarlo.» «Se desidera sottopormi altre domande...» «No, la ringrazio; mi ha spiegato tutto ciò che volevo sapere», rispose il presidente, accompagnando le parole con un gesto di diniego della mano. «Certo che lei e i suoi uomini state compiendo un'impresa notevole.»
«Anche se non riusciremo a recuperare il trattato, lei avrà almeno la certezza che abbiamo fatto tutto quello che era tecnicamente possibile.» «Mi sembra di capire che non nutre molte speranze.» «Per dirla chiara, signor presidente, penso che abbiamo circa le stesse speranze di quante ne ha una cincia nel becco di una poiana.» «E che cosa ne pensa riguardo alle possibilità di recuperare il trattato dal Manhattan Limited?» «Mi riservo di esprimermi dopo che avremo localizzato il treno.» «Se non altro, so che non si azzarda in supposizioni premature», commentò il presidente, sorridendo. Sulla faccia di Sandecker comparve, improvvisa, un'espressione astuta. «Signore, se permette, vorrei rivolgerle una domanda». «Dica pure.» «Posso chiederle rispettosamente a che diavolo mira tutta questa complicata e costosissima operazione?» Quella volta fu il presidente ad assumere un'espressione astuta. «Lei, ammiraglio, ha pieno diritto di chiedere, ma tutto ciò che io le risponderò è che si tratta di un progetto folle», disse, con lo sguardo di chi è oppresso da un presentimento infausto. «Il progetto più pazzesco che sia mai stato concepito da un presidente degli Stati Uniti.» 44 Il silenzio nella densa profondità verdastra del San Lorenzo fu spezzato da uno strano ronzio. Poi un sottile raggio di un azzurro vivido tagliò l'acqua gelida, allargandosi lentamente fino ad assumere le dimensioni di un grande rettangolo. Un branco di pesci curiosi, attirato dal brillante chiarore, incominciò a nuotarvi intorno, in cerchi ampi e pigri, con evidente indifferenza alla vista delle ombre confuse che ondeggiavano sopra di loro. Sull'Ocean Venturer, all'interno dell'enorme pozzo centrale, una squadra di tecnici stava approntando il batiscafo per le ricerche in profondità, che penzolava dal capo di una gomena attaccata a una piccola gru. Uno degli uomini regolava i gruppi elettrogeni destinati ad alimentare le tre telecamere, mentre un altro provvedeva a collegare gli accumulatori di riserva. Il batiscafo aveva la forma di una goccia allungata, era lungo soltanto novanta centimetri, con un diametro massimo di venticinque, e privo della benché minima sporgenza sulla superficie di titanio perfettamente liscia. Direzionalità e propulsione erano fornite da una piccola pompa a getto, a spinta
variabile. Heidi, in piedi sull'orlo del pozzo, fissava il banco di pesci che nuotava più sotto. «Una strana sensazione, vedere l'acqua attraverso l'interno di un natante e tuttavia non essere sul punto di colare a picco», disse. «Perché lei si trova un metro e venti sopra la superficie», spiegò Rudi Gunn, rivolgendole un sorriso. «Fintanto che il fiume non può penetrare da sotto la linea di galleggiamento, noi restiamo a galla.» Uno dei tecnici agitò la mano. «È chiuso ermeticamente.» «Niente cordone ombelicale per il comando elettronico?» chiese la donna. «Il bebè risponde mediante impulsi sonori a grande distanza, ben da oltre tre miglia di profondità.» «Lo chiamate bebè?» «Sì, perché è quasi sempre bagnato», rise Pitt. «Oh, gli uomini e il loro umorismo puerile», replicò Heidi, scrollando il capo. L'agente della NUMA si girò verso il pozzo. «I sommozzatori si calino sotto», ordinò. Un uomo, chiuso in una muta termica, si aggiustò la maschera e si lasciò scivolare lungo la fiancata, guidando il battellino di ricerca mentre i suoi compagni lo calavano fuori del pozzo; lo lasciò andare quando entrambi si trovarono sotto la chiglia dell'Ocean Venturer. «Andiamo nella sala di controllo, per vedere che cosa succede laggiù», propose Pitt. Dopo qualche minuto stavano osservando tre schermi diversi, montati orizzontalmente. Nel frattempo i tecnici, raggruppati nel lato opposto della sala, esaminavano misteriosi quadranti e trascrivevano i dati su pannelli appesi alla parete. Una fila di computer disposti lungo la parete di fianco incominciarono a registrare i dati trasmessi dal fondo. Un tizio grasso e allegro, con una massa di riccioli paglierini e la faccia lentigginosa, sorrise, con gran sfavillare di denti quando Pitt lo presentò a Heidi. «Doug Hoker, questa è Heidi Milligan», disse Pitt, tralasciando di specificarne il grado. «Doug ha il compito di fare da mamma al bebè.» Hoker si alzò a metà dallo sgabello di fronte a una grande consolle e le strinse la mano. «Sempre lieto di avere un pubblico così bello.» Heidi rispose al complimento con un sorriso. «È l'inizio d'una conoscen-
za che mi sarebbe spiaciuto perdere.» L'uomo si girò verso la consolle e s'immerse di nuovo nel lavoro. «Sta superando i duecentoquaranta metri», annunciò, con un vocione tonante, impugnando con la destra quella che pareva la cloche di comando d'un aereo. «Temperatura dell'acqua: zero gradi centigradi.» «Fa ruotare il bebè da poppavia», disse Pitt. «Ricevuto.» A circa cinquanta metri di profondità il fondo del fiume appariva, sul video a colori, d'un marrone slavato e non si notava traccia di vita acquatica, tranne qualche raro granchiolino e pochi, sparsi filamenti di alghe. La visibilità, nonostante le luci intense del piccolo esploratore elettronico, superava di poco i tre metri. Una sagoma oscura incominciò a prendere gradatamente forma sullo schermo e ad allargarsi a poco a poco finché non fu possibile scorgere ben distinti i suoi giganteschi arpioni. «Un ottimo senso di orientamento», disse Pitt a Hoker. «Lo hai manovrato con una precisione millimetrica, portandolo proprio sopra il timone.» «Sta venendo su qualcosa d'altro», annunciò Gunn. «L'elica, da quanto riesco a giudicare.» Le quattro enormi pale di bronzo, che in passato avevano spinto il transatlantico di quattordicimila tonnellate da Liverpool a Quebec, in una spola ripetuta più volte attraverso l'oceano, sfilarono, con una lentezza da funerale, davanti alle telecamere del battellino di ricerca. «Lunghe circa sei metri da un'estremità all'altra per un peso totale di almeno trenta tonnellate», valutò Pitt. «L'Empress era un bastimento a due eliche», mormorò Heidi. «Quella di sinistra fu recuperata nel 1968.» Pitt si rivolse a Hoker: «Portalo su fino a quindici metri e poi spostalo in avanti lungo il ponte di dritta». Il minuscolo sommergibile, a notevole profondità sotto di loro, obbedì, docile, alle disposizioni impartite mediante i telecomandi e nuotò poco sopra il parapetto di poppa, mancando per un soffio l'asta sulla quale aveva sventolato una volta la bandiera del porto di registro dell'Empress. «L'albero di poppa è caduto e, a quanto pare, il sartiame se n'è bell'e andato», osservò Pitt, in tono calmo. Poi videro comparire il ponte delle scialuppe. Un paio di gru penzolavano, vuote, ma alcune trattenevano ancora, strette saldamente nelle calastre, le lance di salvataggio. I ventilatori erano ancora là, privi ormai da lunghi decenni della loro vernice color cuoio; i due fumaioli, invece, erano scom-
parsi da chissà quanto, ingoiati dal limo del fondo. Per qualche minuto nessuno parlò, quasi nel tentativo di richiamarsi davanti agli occhi la scena di tre quarti di secolo prima, ricreando nella fantasia le centinaia di esseri umani terrorizzati - uomini, donne, bambini - che si agitavano come impazziti sui ponti, impotenti a sfuggire alla sorte che li attendeva, mentre la nave affondava con terrificante rapidità. Heidi, col cuore che le batteva forte, avvertì l'aura morbosa della scena di cui adesso era partecipe. Le alghe cresciute sullo scafo divorato dalla ruggine oscillavano nella corrente come sottili, impalpabili braccia di spettri. Non poté reprimere un brivido e incrociò le dita per frenare il tremito delle mani. Alla fine fu Pitt a rompere il silenzio. «Portalo dentro.» Hoker levò di tasca il fazzoletto e si asciugò la nuca bagnata di sudore. «I due ponti superiori sono crollati», sussurrò, come se avesse parlato in una chiesa. «Non possiamo penetrare all'interno.» Pitt dispiegò la copia della pianta dell'Empress su un tavolo della sala nautica e tracciò una linea col dito. «Calalo sul ponte di passeggiata inferiore. L'ingresso del corridoio di prima classe dovrebbe essere sgombro.» «Il bebè sta per entrare veramente nella nave?» volle sapere Heidi. «È stato progettato e costruito proprio per questo», replicò Pitt. «Con tutti quei morti che ci devono essere là... sembra quasi un sacrilegio.» «Per un mezzo secolo sommozzatori sono penetrati nell'Empress», rilevò Gunn con dolcezza, come se si fosse rivolto a una bambina. «Il museo di Rimouski è zeppo di manufatti recuperati all'interno del relitto. Inoltre è assolutamente indispensabile per noi avere un'idea chiara di quello che ci troveremo di fronte quando incominceremo a tagliarci un varco attraverso la nave...» «Sono sul punto di entrare», lo interruppe Hoker. «Vacci piano», suggerì Pitt. «È probabile che i soffitti di legno siano crollati e ostruiscano i corridoi.» Per un paio di secondi sui monitor non si videro altro che le particelle in sospensione dell'acqua, poi la luce proiettata dal battellino esploratore andò a cadere su una scala foggiata a ventaglio. Le linee curve delle balaustre erano ancora riconoscibili, tuttora sorrette dalle colonnine fradice e incurvate. Non c'era più traccia dei tappeti persiani che avevano abbellito il pavimento in quanto fatti marcire dall'acqua, né erano visibili le poltrone e i divani.
«Penso di potercela fare dal corridoio di poppa», dichiarò Hoker. «D'accordo, allora, provaci», rispose Pitt. Le soglie delle porte che s'affacciavano sulle cabine private sfilarono sugli schermi in una spettrale processione via via che il minisommergibile si apriva il passaggio tra i detriti. Dopo aver percorso una decina di metri, il corridoio si presentò sgombro e fu possibile ispezionare l'interno di una cabina. Il lussuoso arredamento per cui la sventurata nave era stata famosa si era ridotto a un pallidissimo, pietoso ricordo. I grandi, fastosi e solidi mobili avevano ceduto all'attacco incessante dell'acqua. Fu un viaggio a ritroso nel tempo, di una lentezza esasperante. Ci vollero quasi due ore prima che il battellino esploratore riuscisse a intrufolarsi nella zona d'uno dei saloni. «Dove siamo arrivati?» chiese Gunn. Pitt consultò di nuovo la pianta dell'Empress. «Se non sbaglio, all'ingresso del salone da pranzo principale.» «Sì, sì, è per l'appunto questo», confermò Heidi, tutta eccitata. «Il grande vano d'una porta sulla destra dello schermo.» Pitt guardò Gunn. «Vale la pena di verificare. Stando al progetto, la cabina di Shields si trovava proprio sul ponte sottostante.» Le luci del batiscafo si spostarono su tutta l'immensa sala, gettando lunghe ombre al di là delle colonne che reggevano i resti dei soffitti scolpiti sopra i séparé. Soltanto gli specchi ovali delle pareti, incrostati di fanghiglia da decenni, rendevano silenziosa testimonianza dell'ambiente opulento che aveva accolto i passeggeri. Improvvisamente qualcosa si mosse lungo il margine del raggio luminoso. «Che diamine succede?» esclamò Gunn. Tutti i presenti nella sala di comando sussultarono, affascinati, alla vista della nube evanescente che ondeggiava lenta entro la portata della telecamera. Per un lungo, interminabile momento parve librarsi, con i margini esterni non ben definiti e muovendosi adagio, al rallentatore. Poi, per così dire incastonata in un sudario lattiginoso traslucido, apparve sullo schermo una forma umana indistinta, quasi incorporea, come quella ottenuta da due negativi fotografici sovrapposti con un effetto di sovresposizione. Heidi non riuscì a pronunciare parola, con il sangue che le si gelava nelle vene. Hoker rimase seduto alla consolle, senza muovere un muscolo, simile a un masso di granito, con un'espressione di sbalordita incredulità
dipinta sulla faccia. Gunn ebbe una reazione strana: inclinò il capo di lato e osservò l'apparizione con lo sguardo intento del chirurgo che studia una radiografia. «Mai», mormorò, «neppure nelle mie fantasie più sfrenate, avevo pensato che mi sarebbe capitato di vedere realmente uno spettro.» Solo Pitt non si lasciò ingannare dalla sua apparente imperturbabilità. Capì subito che l'ometto era quasi in stato di shock. «Invertì la direzione del bebè», ordinò con calma a Hoker. Lottando contro un panico mai sperimentato prima in vita sua, Hoker si riscosse e mosse le dita sui tasti di comando. Dapprima la forma ondulante arretrò sullo sfondo, poi riprese ad allargarsi. «Mio Dio, lo sta seguendo», sussurrò Heidi. Bastava un'occhiata ai volti dei presenti per rendersi conto che tutti pensavano in quel momento la stessa cosa. Erano paralizzati, tesi, con gli occhi incollati sui monitor. «Per l'amor di Dio, che sta facendo?» gracchiò Gunn. Nessuno gli rispose; non uno, nella sala nautica, era in grado di tirar fuori la voce. Non uno, tranne Pitt. «Fa' compiere un giro completo al bebè e tiralo fuori, presto!» abbaiò. Hoker si costrinse a staccare lo sguardo da quella vista allucinante ed eseguì la manovra necessaria. Il battellino esploratore, visto lo scopo per il quale era stato ideato, disponeva di una scarsa velocità. Spinti al massimo, i suoi propulsori non superavano i tre nodi. Invertì la marcia tracciando una curva strettissima; le telecamere sistemate a prua ruotarono cancellando via via la sinistra immagine sfocata e trasmisero una panoramica degli oblò aperti, dal baluginio spettrale per effetto della luce che filtrava sul fondo dalla superficie; così si lasciò dietro a uno a uno gli specchi che non avevano perso il loro potere riflettente. Agli uomini dell'Ocean Venturer parve che la rotazione di centottanta gradi durasse un'eternità. E quando il battellino l'ebbe compiuta, era già troppo tardi. Un secondo spettro trasparente avanzò, ondulante, oltre la soglia di quella che era stata la porta del corridoio, con le braccia nebulose che parevano agitarsi in un gesto di richiamo. 45 «Maledizione!» imprecò Pitt. «Eccone un altro!» «Che diamine dovrei fare?» replicò Hoker con voce implorante, quasi
disperata. Tutti i presenti nella cabina di comando fissavano Pitt con qualcosa di più dell'attenzione che nei momenti cruciali si rivolge a chi deve prendere una decisione; ammiravano, con una reverenza che rasentava il timore, il suo eccezionale sangue freddo e incominciavano a spiegarsi il motivo per cui l'ammiraglio Sandecker lo teneva in così alta stima. Se mai c'era stato un uomo giusto al posto giusto e al momento giusto, questo era Dirk Pitt ritto sul ponte d'una nave di salvataggio mentre valutava lucidamente le proprie possibilità contro quanto si sottraeva ai fenomeni razionali. Neppure in cent'anni sarebbero riusciti a indovinare i pensieri che gli facevano ressa nella mente. Tutto ciò che poterono scoprire, studiandone il volto, fu che alla riflessione obiettiva si era sostituita la collera. Se il «rischiatutto» ha funzionato col treno fantasma, non ci sarà nulla da perdere a ripetere il gioco, pensava Pitt. Si rivolse a Hoker, deciso: «Ricaccialo dentro!» A bordo, l'atmosfera cambiò di colpo. Tutti attingevano da Pitt la propria energia: così in ognuno il timore si trasformò gradatamente nella volontà di trovare una spiegazione logica a quelle che, irrazionalmente, avevano creduto fossero le anime dei morti vaganti nel relitto del transatlantico. I comandi del battellino furono azzerati e invertiti, e la barriera spettrale della soglia venne nuovamente superata. A tutta prima il batiscafo non incontrò resistenza, la figura dai contorni imprecisi si allontanò, ma poi riprese a fluttuare in avanti, fino ad avviluppare completamente l'intruso. Le telecamere non inquadravano più niente e sugli schermi apparivano solo ombre vaghe. «A quanto pare, i nostri ospiti non sono immateriali», commentò Pitt tranquillamente, in tono discorsivo. «Il bebè non risponde ai comandi», gridò Hoker. «Gli strumenti reagiscono come se fossero immersi nella zuppa d'avena.» «Prova a invertire la marcia dei propulsori.» «Niente da fare!» Hoker scosse la testa. «Non so di che cosa si tratti, ma il bebè è immobilizzato.» Pitt si avvicinò alla consolle e studiò gli strumenti, sporgendosi oltre la spalla del compagno. «Perché l'indicatore di direzione sta oscillando?» «Si direbbe che stiano lottando col bebè», rispose Hoker. «Come se lo volessero trascinare da qualche parte.» Pitt lo afferrò per un braccio. «Disattiva tutti i sistemi, tranne le telecamere.»
«Già, e le luci?» «Spegni anche quelle. Facciamo credere a questi spettri dalla mano pesante che hanno messo fuori uso il gruppo elettrogeno del nostro bebè.» I monitor si affievolirono a poco a poco, finché gli schermi non diventarono neri. Soltanto sporadicamente vi balenava sopra, appena percettibile, un movimento difficile da definire. Un estraneo che si fosse trovato a entrare per caso nella cabina di comando avrebbe scambiato quanti vi si trovavano per un gruppo di psicotici. Intenti com'erano a contemplare rapiti i monitor spenti, avrebbero certamente fatto la gioia di uno psicologo. Passarono dieci minuti; i dieci minuti diventarono venti e i venti diventarono trenta. Nessun cambiamento. La tensione era quasi palpabile nell'aria. Niente, sempre niente. Finalmente gli schermi incominciarono a riprendere vita, ma così adagio che ci volle un bel po' prima che se ne accorgessero. «Che cosa ne concludi?» chiese Pitt a Hoker. «Impossibile dirlo. Con l'energia elettrica disattivata, non sono in grado di leggere i dati.» «Riattiva gli strumenti, ma solo per quel tanto indispensabile affinché i computer li registrino.» «Stai parlando di microsecondi.» «Be', vai con i microsecondi.» Le agili dita di Hoker gareggiarono in rapidità con quella fantasticamente breve del sistema di registrazione dei dati, sfiorando appena l'interruttore. Il battellino ricevette i segnali che gli chiedevano informazioni e a sua volta li trasmise ai computer, che proiettarono i dati di lettura sui dischi digitali della consolle prima che l'interruttore fosse riportato sull'OFF. «Posizione quattrocento metri, angolo di rotta zero-ventisette gradi, profondità tredici metri.» «Sta salendo», disse Gunn. «Riemergerà a un quarto di miglio circa dalla nostra parte poppiera, a dritta», annunciò Hoker, dopo aver verificato. «Adesso riesco a distinguere i colori», disse Heidi. «Un verde scuro che si trasforma in un turchino cupo.» La foschia davanti all'obiettivo della telecamera incominciò a luccicare. Poi gli schermi lampeggiarono improvvisi, di un arancione vivo. Forme umane si resero nettamente riconoscibili, anche se sfocate, come viste attraverso un vetro appannato dal ghiaccio. «Finalmente lo si vede», dichiarò Hoker. «Il bebè è salito in superficie.»
Pitt, senza parlare, uscì di corsa dalla cabina, attraversò il corridoio, salì sul ponte, afferrò un binocolo che era appeso alla ruota del timone e si mise a perlustrare il fiume con lo sguardo. Il cielo era del tutto sgombro di nuvole e il sole del tardo mattino traeva riflessi dalle acque. Una brezza leggera soffiava dal mare e tracciava brevi solchi sulle acque, controcorrente. Gli unici natanti in vista erano una nave cisterna che faceva rotta verso Quebec e una flottiglia di cinque pescherecci che puntavano a nord-est, allargandosi a ventaglio, ciascuno in una direzione diversa. Giunse Gunn e si fermò alle spalle di Pitt. «Vedi niente?» «No, sono arrivato troppo tardi. Il bebè se n'è già andato.» «Andato?» «Forse sarebbe più esatto dire rapito. Probabilmente se l'è issato a bordo uno di quei pescherecci laggiù.» S'interruppe e allungò il binocolo a Gunn. «Secondo me, dovrebbe essere stato quel vecchio motopeschereccio a strascico azzurro, oppure quell'altro, rosso, con la timoniera gialla. Hanno appeso le reti in maniera da impedire che si possa vedere quanto stanno facendo sul lato opposto del ponte.» Gunn fissò per qualche momento l'acqua, senza dir nulla. Poi abbassò il binocolo. «Il bebè è un pezzo d'equipaggiamento da duecentomila dollari!» esclamò irosamente. «Li dobbiamo fermare!» «Ho paura che i canadesi non accoglierebbero cordialmente una nave straniera che andasse all'arrembaggio dei pescherecci nelle loro acque territoriali. E, per di più, dobbiamo mantenere mascherata il più possibile la nostra operazione. L'ultima cosa che il presidente desidera è di suscitare un gran casino per un dispositivo che potrà essere comunque rimpiazzato, a spese dei contribuenti.» «Non mi sembra giusto», borbottò Gunn. «Qui dobbiamo dimenticare ogni legittima indignazione», ribatté Pitt. «Il problema che abbiamo di fronte s'incentra sul chi e sul perché. Quelli là sotto erano semplicemente sub sportivi con intenzioni furfantesche o persone con motivi ben più pressanti?» «Ce lo potrebbero rivelare le telecamere», osservò Gunn. «Sì, potrebbero, a patto che i rapitori non abbiano tagliato il cordone ombelicale del bebè», replicò Pitt, con un debole sorriso. Nella cabina di comando trovarono un'atmosfera strana, pesante, quasi carica di elettricità. Heidi se ne stava seduta rabbrividendo, pallidissima e
con gli occhi privi d'espressione. Un giovane tecnico dei computer le allungava un bicchierino di brandy e la sollecitava a berlo. A guardarla, si sarebbe detto che avesse intravisto il suo terzo spettro della giornata. Hoker e gli altri tre tecnici, chini su un pannello, controllavano le file delle luci-spia spente, manovrando senza risultato pulsanti e interruttori. Pitt comprese immediatamente che tutte le comunicazioni col batiscafo erano interrotte. Hoker, accortosi della sua presenza, alzò gli occhi. «Ho qualcosa d'interessante da mostrarti.» Pitt indicò Heidi con un cenno del capo. «Che cos'ha?» «Ha visto qualcosa che l'ha spaventata a morte.» «Sui monitor?» «Un attimo prima che la trasmissione s'interrompesse», spiegò Hoker. «Da' un'occhiata mentre io sostituisco il nastro.» Pitt osservò. Gunn andò a metterglisi accanto e osservò anche lui, con la massima attenzione. Lo schermo buio si accese lentamente e rividero il battellino mentre ricompariva alla luce del sole. Il bagliore diminuì d'intensità e subito dopo riprese a lampeggiare in parecchie sequenze. «Questo è il bebè quando lo hanno issato fuori dell'acqua», osservò Pitt. «Sì», confermò Hoker. «Adesso sta' attento a quello che segue.» Una serie di linee di distorsione tagliò orizzontalmente gli schermi; poi quello di sinistra si spense di colpo. «Quei balordi maldestri!» si rammaricò Hoker. «Neanche capaci di riconoscere un meccanismo delicatissimo quando lo vedono. Hanno lasciato cadere il bebè dalla parte della telecamera di sinistra e il tubo per la ripresa diretta a colori si è rotto.» In quel momento il presunto sudario fu tirato indietro di nuovo, ben teso, e, messo così a fuoco, si rivelò per quello che era. «Plastica!» esclamò Gunn. «Un foglio sottile di plastica opaca!» «Ecco che cos'era l'ectoplasma», disse Pitt. «Ed ecco i fantasmi che frequentavano la zona.» Apparvero due figure vestite con la muta da sub: erano in ginocchio e stavano esaminando il battellino. «Peccato che non li si possa vedere in faccia, sotto la maschera», si rammaricò Gunn. «Non avrai da aspettare molto. Sta' attento», lo avvertì Hoker. Nel campo inquadrato dalla telecamera comparve un paio di gambe coperte da stivali impermeabili alti fino al ginocchio e da pantaloni di cotone.
Il loro proprietario si fermò dietro i sommozzatori, si chinò e scrutò attraverso le lenti della telecamera. Indossava un blusotto sul tipo dell'uniforme dei commandos britannici, con le pezze di cuoio su spalle e gomiti; in testa un berretto di lana piantato sulle ventitré; i capelli pepe e sale erano accuratamente spazzolati dalle tempie sin dietro le orecchie. Pitt lo giudicò di un'età compresa tra i cinquantacinque e i sessantacinque e comunque pareva appartenere al tipo d'uomo che dimostra meno anni di quanti ne abbia in realtà. Dal volto traspariva l'espressione impietosa e sicura di sé tipica di chi è avvezzo ad affrontare i rischi. Gli occhi scuri guardavano con l'interesse freddo e distaccato del cecchino che prende di mira la propria vittima. All'improvviso, lo sconosciuto spalancò di poco, ma visibilmente, gli occhi e l'espressione di viva curiosità si alterò, manifestando una collera non repressa. Mosse le labbra, pronunciando parole che non si potevano udire, poi si girò con un movimento brusco e scomparve dallo schermo. «Non sono capace di leggere sulle labbra, però mi sembra che abbia esclamato: 'razza di stupidi!'» disse Pitt. L'ultima cosa che scorsero fu una specie di telone che veniva steso sopra il batiscafo. Poi i monitor si spensero definitivamente. «E questo è tutto quello che ci ha comunicato», concluse Hoker. «Un minuto dopo che hanno distrutto i collegamenti di trasmissione, il contatto è andato perso.» Heidi si alzò dalla seggiola e si diresse verso di loro con l'andatura di una sonnambula. Indicò con la mano i monitor abbuiati; le labbra le tremavano. «Lo conosco», mormorò con un filo di voce. «L'uomo sullo schermo... So chi è.» 46 Il dottor Otis Coli infilò una sigaretta Du Maurier in un filtro col bocchino d'oro, lo strinse tra i denti e poi accese. Quindi riprese a frugare attraverso il pannello aperto, che dava accesso al cuore elettronico del battellino esploratore. «Maledettamente abili, gli americani», commentò, colpito da quanto stava vedendo. «Avevo letto la relativa documentazione scientifica, però non ne avevo mai visto uno da vicino.» Coli dirigeva l'istituto d'ingegneria navale del Quebec ed era stato reclutato da Henri Villon. Era un omone, una specie di gorilla, con una grossa testa rotonda e la fronte spaziosa. Portava i capelli bianchi lunghi fin sopra
il colletto; i baffi, sotto il naso sottile e spiovente, parevano tagliati con le cesoie da tosatore di pecore. Brian Shaw, in piedi accanto a lui, con la preoccupazione dipinta in faccia, chiese: «Che ne pensa?» «Una realizzazione tecnologicamente geniale», rispose Coli, nel tono rapito di un adolescente immerso nella contemplazione d'una copertina di Playboy. «I dati visivi vengono trasmessi in forma di onde ultrasoniche alla nave appoggio, dove i computer le mettono in codice e le intensificano. Quindi le immagini che ne risultano sono trasferite sul nastro magnetico, con una chiarezza che direi strabiliante.» «E allora, in che cosa consiste il bidone?» grugnì Foss Gly, che se ne stava appollaiato con aria annoiata sopra un verricello arrugginito sul ponte di prua del peschereccio verniciato in azzurro. Shaw si trattenne a stento dal dare sfogo all'irritazione. «Il bidone, come lei lo definisce con tanta indifferenza, consiste nel fatto che queste telecamere stavano trasmettendo immagini quando lei lo ha issato a bordo. Così non soltanto l'equipaggio del battello della NUMA ha potuto accorgersi che li stiamo osservando, ma hanno anche le nostre facce registrate sul nastro magnetico.» «E a noi, che ce ne frega?» «In questo stesso momento è assai probabile che il direttore della spedizione stia facendo un fischio a un elicottero», replicò Shaw. «Prima del tramonto il nastro arriverà a Washington. E, tra ventiquattr'ore, c'è quasi da giurare che ci avranno identificati.» «Identificheranno lei, forse», sogghignò Gly. «Il mio compagno e io avevamo la maschera. Non se lo ricorda?» «Il guaio ormai è fatto. Gli americani avranno la certezza che non siamo un gruppo di sub della zona, che si tuffano per saccheggiare un relitto. Sapranno contro chi e contro che cosa si devono battere e perciò, messi in allarme, non mancheranno di prendere tutte le precauzioni necessarie.» Gly alzò le spalle e incominciò ad aprire la chiusura lampo della muta che ancora indossava. «Se questo pesce meccanico non fosse venuto a romperci le scatole», osservò quindi, «avremmo avuto tutto il tempo di piazzare le cariche, far saltare in aria il relitto e lasciarli con un pugno di mosche.» «Siamo stati scalognati», riconobbe Shaw. «Che cos'eravate riusciti a fare, voialtri?» «Avevamo appena cominciato il lavoro quando abbiamo visto le luci che
provenivano da sopra la poppa.» «Dove sono gli esplosivi?» «Sul castello di prua del relitto, dove le avevamo messe provvisoriamente.» «Quanti chili in tutto?» Gly rifletté brevemente. «Harris e io abbiamo fatto sei viaggi a testa, rimorchiandoci dietro due contenitori sigillati da un quintale.» Shaw calcolò in fretta il totale. «Quindi dodici quintali complessivi.» Poi si rivolse al dottor Coli: «Che cosa succederebbe se li facessimo esplodere?» «Adesso, in questo momento?» «Sì, adesso, in questo preciso momento.» «A pari peso, il trisinolo è tre volte più potente del tritolo.» Coli s'interruppe per guardare a distanza l'Ocean Venturer. «L'onda di pressione dello scoppio spaccherebbe in due il battello della NUMA.» «E l'Empress of Ireland?» «Verrebbe demolita la sezione di prua e la parte anteriore delle sovrastrutture crollerebbe. A questo punto la violenza massima dell'esplosione sarebbe già assorbita. Verso poppa, un paio di paratie forse s'ingobbirebbero e un paio di ponti finirebbero con lo sprofondare all'interno.» «Però la sezione centrale del relitto resterebbe praticamente intatta.» «Esatto», annuì Coli. «L'unico risultato che otterreste sarebbe di massacrare una quantità di persone innocenti.» «Senza aggiungere che sarebbe inutile, oltre che assurdo», riconobbe Shaw, meditabondo. «Per quanto mi riguarda, non intendo certo entrare in questa faccenda.» «Ah! E allora che cosa ci resta da fare?» interloquì Gly. «Per il momento procediamo con calma», disse Shaw. «Stiamocene buoni a osservare e troviamoci un altro peschereccio. Perché, da adesso in poi, gli americani faranno senza dubbio la posta a questo.» Gly gli lanciò un'occhiata sprezzante. «E quanto ha da proporre di meglio?» «Io mi accontento. A meno che non le vengano in mente altre idee.» «Come no? Facciamo saltare in aria quei bastardi e chiudiamo la faccenda una volta per tutte!» esclamò Gly. «Se lei, caro il mio vecchio, non ne ha il fegato, lo farò io.» «Basta!» latrò Shaw, fissando dritto in faccia l'altro. «Non siamo in guerra con gli americani e nelle istruzioni che ho ricevuto non c'è niente
che accenni a giustificare un eccidio. Solo gli idioti congeniti uccidono senza necessità, o per il gusto di ammazzare. Quanto a lei, ispettore Gly, niente più discussioni. Farà semplicemente ciò che le si dirà di fare.» Gly si strinse sgarbatamente nelle spalle, in segno di seccato consenso, e non aggiunse altro. Non aveva bisogno di sprecare parole, perché sapeva quello che né Shaw né persona al mondo sapevano: in uno dei contenitori di trisinolo aveva inserito un detonatore radiocomandato. Quando gliene fosse venuta la voglia, non avrebbe avuto che da premere un pulsante e tutto quanto sarebbe saltato in aria. 47 Mercier fece colazione col presidente, nella sala da pranzo privata della Casa Bianca. Era lieto che il suo anfitrione, a differenza di altri capi dell'esecutivo, facesse servire i cocktail prima delle cinque del pomeriggio. Il secondo Rob Roy gli parve ancora migliore del primo, sebbene non fosse proprio quello il drink che ci voleva con la bistecca alla Salisbury. «Dalle informazioni più recenti, risulta che i russi hanno trasferito un'altra divisione sul confine con l'India, quindi adesso ne dovrebbero avere là dieci, quanto basta per un'invasione.» Il presidente mangiò voracemente una patata bollita. «I giovanotti del Cremlino si sono bruciati le dita invadendo l'Afghanistan e il Pakistan. E adesso sono alle prese con un'inquietante sollevazione musulmana in grande stile, che è dilagata fin nella Madre Russia. Mi auguro che invadano anche l'India. Per noi, sarebbe una manna dal cielo.» «Ma non potremmo certo fare la parte degli spettatori. Finiremmo col trovarci coinvolti militarmente.» «Macché. Ci limiteremmo ad agitare con grande strepito le nostre sciabole e a pronunciare veementi discorsi alle Nazioni Unite, denunciando indignati un nuovo esempio d'aggressione comunista. Manderemmo un paio di portaerei nell'oceano Indiano. Proclameremmo un ennesimo embargo commerciale.» Mercier mangiò una forchettata di lattuga. «In altre parole, reagiremmo come abbiamo sempre fatto. Sta' a vedere quel che succede e aspetta...» «... i sovietici si stanno scavando la tomba da soli», lo interruppe il presidente. «Nel loro caso, invadere un Paese di settecento milioni di affamati sarebbe come se la General Motors si assumesse a carico proprio le spese per l'assistenza sociale di un vasto Stato. Mi creda, i russi, se vincitori, sa-
rebbero alla fine i perdenti.» Mercier non si dichiarò d'accordo, però in fondo sapeva che l'altro, probabilmente, aveva ragione. Lasciò cadere l'argomento e riportò il discorso su temi più vicini agli affari interni. «Il referendum per l'indipendenza del Quebec avrà luogo la prossima settimana. A quanto pare, dopo i due risultati negativi dell'80 e dell'86, la terza sarà la volta buona.» Il presidente non si mostrò preoccupato per la previsione, mentre tirava su una forchettata di piselli. «I francofoni si preparano un amaro risveglio, se s'illudono che la piena sovranità li faccia approdare nell'isola di Utopia.» Mercier tentò un sondaggio. «Potremmo fermarli con una dimostrazione di forza.» «Lei non molla mai la presa, eh, Alan?» «La luna di miele è finita, signor presidente. È soltanto questione di tempo prima che l'opposizione al Congresso e la stampa incomincino ad accusarla d'indecisione. L'opposto esatto di quanto aveva promesso nel corso della campagna elettorale.» «Tutto perché mi rifiuto di scendere in guerra per il Medio Oriente o d'inviare truppe in Canada?» «Esistono anche altre misure, meno drastiche, per mostrarci risoluti.» «Non vedo nessuna ragione di sacrificare una sola vita americana per un giacimento petrolifero in via d'esaurimento nel deserto. Quanto al Canada, le cose si aggiusteranno da sé.» Mercier arrivò diritto al punto: «Signor presidente, per quale motivo lei desidera vedere un Canada diviso?» Il capo dell'esecutivo gli lanciò un'occhiata gelida oltre la tavola. «È così che lei la pensa? Che io voglia vedere un Paese confinante piombare nel caos?» «Che cos'altro dovrei credere?» «Creda in me, Alan.» Il presidente riprese la solita espressione cordiale. «Creda in ciò che sto per fare.» «Ma come posso?» chiese un imbarazzato Mercier. «Come posso, se non so di che si tratta?» «La risposta è semplice», replicò l'altro, con una sfumatura di tristezza nella voce. «Sto conducendo un gioco disperato per salvare gli Stati Uniti gravemente malati.»
Le notizie non potevano essere che cattive. Il presidente ne ebbe la certezza scorgendo l'espressione avvilita di Harrison Moon. Mise da parte i fogli del discorso che stava rivedendo e si appoggiò allo schienale della poltrona. «Ho l'impressione che ci sia qualche difficoltà, Harrison.» Il giovane depose una cartella sulla scrivania. «Ho molta paura che gli inglesi abbiano annusato l'usta della selvaggina.» Il presidente aprì il dossier e si trovò sotto gli occhi l'istantanea su carta lucida, otto per dieci, d'un uomo che stava guardando verso l'obiettivo che lo aveva colto di sorpresa. «È appena arrivata, spedita dall'Ocean Venturer. Un veicolo di esplorazione subacqueo stava girando intorno al relitto, quando un gruppo d'ignoti sommozzatori se ne sono impadroniti. Prima che le comunicazioni s'interrompessero, sui monitor è apparsa questa faccia.» «Chi è?» «Durante gli ultimi venticinque anni è vissuto sotto il nome di Brian Shaw. Come può vedere dal rapporto, si tratta di un ex agente segreto britannico. Il suo curriculum costituisce una lettura molto interessante. Aveva conseguito grande notorietà negli anni '50 e agli inizi degli anni '60. Ormai era troppo conosciuto per restare in attività: non poteva mettere piede fuori della porta senza che un agente sovietico dello SMERSH lo attendesse al varco per farlo fuori. Fu costretto a ritirarsi per vivere praticamente in isolamento. Il Servizio di cui aveva fatto parte lo seppellì, ufficialmente, dichiarando che era rimasto ucciso mentre svolgeva una missione nelle Indie Occidentali.» «Come avete fatto a individuarlo così in fretta?» «Il capitano di corvetta Heidi Milligan, che si trova a bordo dell'Ocean Venturer, lo ha riconosciuto dal monitor. La CIA ha ricostruito poi la sua vera identità sulla base dei documenti d'archivio.» «La Milligan conosceva Shaw?» chiese il presidente, incredulo. Moon annuì. «Le fu presentato un mese fa a Los Angeles, durante un ricevimento.» «Pensavo che lei si trovasse in navigazione, un mese fa.» «Un pasticcio. A nessuno era venuto in mente di controllare il fatto che la sua nave aveva ricevuto l'ordine di restare ormeggiata tre giorni a Long Beach per certe modifiche. Perciò nessuno aveva avvertito chi di dovere di rifiutarle il permesso di scendere a terra.» «E il loro incontro? Potrebbe essere stato organizzato apposta?»
«Pare di sì. L'FBI aveva seguito Shaw non appena arrivato dall'Inghilterra... la procedura standard quando un membro dell'ambasciata va a ricevere un visitatore proveniente da oltremare. Shaw venne scortato all'aereo che partiva subito dopo per Los Angeles, dove si svolse il ricevimento offerto da Graham Humberly, un notissimo personaggio del jet set, sul libro paga dell'Intelligence Service.» «Così il capitano di corvetta Milligan si è fatta scappare di bocca ciò che conosceva sul trattato?» Moon si strinse nelle spalle. «Nessuno le aveva impartito istruzioni di non farne parola.» «Ma come hanno fatto gli inglesi, innanzi tutto, a scoprire che noi conosciamo l'esistenza del trattato?» «Lo ignoriamo», confessò Moon. Il presidente lesse il rapporto su Shaw. «Strano che abbiano affidato un'operazione così complessa e ingarbugliata a un uomo vicino alla settantina.» «A prima vista, si direbbe che l'MI6 abbia attribuito un'importanza secondaria alla ricerca del trattato, però, a pensarci bene, può darsi che sia proprio Shaw l'uomo più indicato per agire in segreto. Se Heidi Milligan non l'avesse riconosciuto, dubito che lo avremmo collegato con l'Intelligence Service.» «I tempi sono cambiati da quando Shaw era in servizio attivo. Chi potrebbe escludere che in questo caso si trovi come un pesce fuor d'acqua?» «Non lo giurerei», ribatté Moon. «È un tipo abilissimo. Non una volta che non si sia accorto dei nostri che lo stavano pedinando.» Il presidente se ne rimase zitto e immobile a lungo. «Si direbbe dunque che il nostro piano congegnato con tanta cura sia già un colabrodo.» «Sissignore», annuì cupamente Moon. «Ormai è questione di qualche giorno, o forse di qualche ora, prima che giunga all'Ocean Venturer l'ordine di sgomberare dal San Lorenzo. La posta in gioco è troppo alta perché gli inglesi si limitino a sperare che noi non troviamo il documento.» «Quindi dobbiamo cancellare l'impresa Empress of Ireland, considerandola una causa bell'e persa.» «A meno che...» mormorò Moon, come se pensasse ad alta voce, «a meno che Dirk Pitt non riesca a ritrovare il trattato nel brevissimo tempo di cui dispone.» 48
Pitt scrutava sugli schermi il lavoro della squadra di recupero, sott'acqua, intorno allo scafo. Simili a due creature lunari saltellanti al rallentatore, gli uomini rivestiti degli scafandri JIM collocarono con gesti precisi il pirossilene sulla sovrastruttura superiore. Lavoravano comodamente grazie alla pressione interna del loro guscio, uguale a quella che avrebbero sopportato in superficie; senza quel rivestimento protettivo, muniti soltanto del respiratore, i loro corpi ne avrebbero dovuto subire una di poco inferiore ai quaranta chili per ogni sei, o poco più, centimetri quadrati. Pitt si rivolse a Doug Hoker, il quale stava mettendo a punto un monitor. «Dov'è il Sappho I?» Hoker si girò per esaminare un diagramma che in quel momento usciva srotolandosi da un sonar. «Sta incrociando a venti metri dalla prua dell'Empress, a sinistra. Finché non saremo pronti per incominciare a rimuovere i detriti, ho dato ordine all'equipaggio di pattugliare la zona intorno al relitto, entro un raggio di un quarto di miglio.» «Ottima idea», approvò Pitt. «Nessun indizio di intrusi?» «Nessuno.» «Questa volta saremo almeno in grado di riceverli.» Hoker assunse un'espressione dubbiosa. «Non ho la possibilità di fornirti un sistema perfetto di detezione. Con una visibilità schifosa come questa, le telecamere non riescono a vedere molto lontano.» «E col sonar a scansione laterale?» «I suoi transduttori coprono un angolo di 360° entro un raggio di trecento metri, però neppure questo ci dà una garanzia. La figura umana costituisce un bersaglio ridottissimo.» «Niente navi di superficie che si aggirino nei paraggi?» «Una petroliera è passata circa dieci minuti fa», rispose Hoker. «E adesso, quello che mi sembra un rimorchiatore che si trascina dietro una chiatta di rifiuti si sta accostando scendendo lungo la corrente.» «Probabile che vada a scaricare le immondizie nel Golfo», suppose Pitt. «Tuttavia non sarà male tenerlo d'occhio.» «Pronti per attaccare», annunciò Hoker che, ritto davanti ai monitor, seguiva la scena con la cuffia auricolare, alla quale era unito un microfono assicurato con un morsetto. «Bene, ordina ai sub di allontanarsi.» Heidi, con una tuta da paracadutista di velluto a coste, entrò nella cabina di comando. Reggeva cauta un vassoio con dieci tazze di caffè fumante. Le
offrì a tutti i tecnici presenti. L'ultima toccò a Pitt. «Ho perso qualcosa dello spettacolo?» chiese. «Tempismo perfetto. Stiamo per incominciare. Fa' gli scongiuri, augurandoti che il giusto quantitativo di pirossilene sia stato collocato nel posto giusto.» «Altrimenti che cosa succederebbe?» «Una quantità insufficiente e faremmo un buco nell'acqua. Troppo nel punto sbagliato e una metà della nave crollerebbe all'interno, obbligandoci a giornate supplementari di lavoro, sulle quali non possiamo contare. Supponi che siamo una squadra di operai addetti alle demolizioni e che buttiamo giù un edificio piano per piano. Gli esplosivi devono essere collocati in una posizione strategica affinché la struttura interna della costruzione crolli entro una zona predeterminata.» «L'artificiere è pronto e sta iniziando il conteggio», annunciò Gunn. Pitt prevenne la domanda che Heidi non aveva ancora formulato. «Il nostro 'artificiere' è un congegno elettronico a tempo, che innescherà la carica di pirossilene.» «I sub si sono allontanati dalla nave e noi stiamo facendo il countdown», disse Gunn. «Dieci secondi.» Tutti i presenti nella cabina di comando tenevano gli occhi incollati sui monitor. Il conto alla rovescia proseguiva, mentre attendevano, tesi, l'esplosione e i risultati. Fu la voce di Gunn, una volta di più, a rompere il pesante silenzio. «Sta bruciando!» Una luce abbagliante inghiottì la coperta di dritta dell'Empress of Ireland e due nastri d'un bianco incandescente si alzarono serpeggianti, svolgendosi rapidi intorno al ponte e alle paratie, per poi congiungersi e formare un'enorme circonferenza rovente. Una cortina di vapore si alzò sopra l'arco d'intenso calore e salì, in volute, verso la superficie. Ben presto la struttura incominciò a insellarsi nella sezione centrale, ma per quasi un minuto resistette, rifiutando di aprirsi. Infine il pirossilene fuse l'ultimo, tenace legame e l'acciaio semicorroso si piegò silenziosamente all'interno, scomparendo sotto il ponte inferiore e lasciando un'apertura del diametro di sei metri. I margini fusi del varco circolare diventarono prima rossi, poi grigi e s'indurirono al contatto dell'acqua gelida. «Tutto bene, a quanto pare!» esclamò Gunn, eccitato. Hoker lanciò in aria i fogli degli appunti, accompagnando il gesto con un grido di esultanza. Poi tutti insieme si misero a ridere e ad applaudire. Il
primo attacco con l'esplosivo, l'attacco cruciale, aveva avuto successo. «Calate giù il raffio», ordinò Pitt in tono brusco. «Non dobbiamo perdere neppure un minuto per rimuovere i detriti.» «Ho stabilito un contatto.» Non tutti gli occhi erano inchiodati sui monitor; l'uomo dalla ispida capigliatura addetto al sonar a scansione laterale aveva tenuto fissi i propri sui dati che comparivano sul video. Con tre rapidi passi Pitt si portò alle sue spalle. «Riesci a identificarlo?» «Nossignore. La distanza è troppo grande per distinguerne i particolari. Si direbbe qualcosa lasciata cadere dalla chiatta che sta passando a sinistra.» «Ha descritto un angolo mentre cadeva?» L'operatore del sonar scrollò il capo. «È piombato giù dritto.» «Non si direbbe che si tratti di un sub. Probabilmente l'equipaggio ha scaricato un sacco di rifiuti, oppure ha lanciato fuori bordo la rete a strascico», disse Pitt. «Devo stargli addosso?» «Sì, guarda se riesci a notare un qualsiasi movimento.» Pitt si rivolse a Gunn: «Chi è a bordo del sommergibile?» Gunn ci dovette pensare su un momento. «Sid Klinger e Marv Powers.» «Il sonar ha uno strano contatto. Vorrei che provassero a girargli sopra.» Gunn gli rivolse un'occhiata interrogativa. «Pensi che i nostri visitatori si stiano rifacendo vivi?» «I dati non sono univoci.» Pitt si strinse nelle spalle. «Non si può mai sapere.» Foss Gly, non appena si fu lasciato scivolare lungo il fianco della zattera, prese a nuotare direttamente verso il fondo. Trascinarsi appresso una serie extra di autorespiratori non era il più facile dei compiti, ma ne avrebbe avuto bisogno per la nuotata di ritorno e per l'indispensabile pausa di decompressione prima di riemergere. Si mise in posizione orizzontale e procedette parallelamente al letto del fiume, agitando le pinne a ritmo lento. Affrontava un tragitto lungo e un altrettanto lungo lavoro. Aveva percorso una cinquantina di metri, quando in quel vuoto nero gli giunse, da una direzione imprecisata, un rombo smorzato e incessante. Si fermò di colpo, raggelato, e tese l'orecchio. L'acustica dell'acqua diffondeva il suono in ogni senso, perciò il sub non aveva modo, per quanto si sforzasse, di stabilire da quale parte provenisse.
Poi i suoi occhi colsero una debole luce giallastra che s'intensificò e si allargò sopra di lui, alla sua destra. Non ebbe più dubbi: era il sommergibile della nave appoggio americana che stava puntando su di lui. Non c'era possibilità di nascondersi sul letto del fiume piatto e privo di affioramenti rocciosi o di quelle piante acquatiche, le macrocistidi, che crescono folte come boschetti. Una volta che il fascio luminoso ad alta intensità del battello l'avesse inquadrato, sarebbe stato altrettanto visibile di un galeotto in fuga appiattito contro il muro della prigione, investito in pieno dalla luce accecante dei riflettori. Lasciò cadere sul fondo gli autorespiratori di riserva e si schiacciò nel limo, immaginando le facce degli uomini dell'equipaggio premute contro gli oblò, i loro occhi che si sforzavano di scrutare nella quasi impenetrabile oscurità. Trattenne il fiato affinché le bolle d'aria rivelatrici non sfuggissero fuori della valvola. Il battello gli passò dietro e proseguì. Gly inalò una gran boccata d'aria, ma non si rallegrò per lo scampato pericolo. Sapeva fin troppo bene che quelli avrebbero invertito la rotta e insistito nella ricerca. Solo in seguito comprese il motivo per cui l'aveva scampata: il limo, cedendo sotto il suo peso, si era gonfiato tutt'attorno al suo corpo formando una sorta di cortina protettiva. Si sollevò, sbattendo adagio le pinne, e s'accorse, con grande soddisfazione, che la luce del sommergibile scompariva in un turbinio di sedimenti. Raccolse manciate di fanghiglia e le sparse tutt'intorno a sé. Dopo qualche secondo ne fu completamente avvolto. Accese la torcia da sub, ma la melma galleggiante ne rifletteva il raggio. Tuttavia, se lui era costretto a procedere alla cieca, altrettanto alla cieca dovevano procedere anche gli uomini a bordo del sommergibile. Cercò a tastoni finché le sue mani non incontrarono le bombole di scorta. Regolandosi con la bussola da polso luminosa, incominciò a dirigersi nuotando verso l'Empress, sempre attento a sollevare il limo nella propria scia. «Rapporto di Klinger dal Sappho I», annunciò Gunn. Pitt si scostò dal monitor. «Parlo io con lui.» Gunn si tolse la cuffia e gliela consegnò. Pitt se la infilò e parlò nel minuscolo microfono: «Klinger, sono Pitt. Che cos'avete trovato?» «Una specie di perturbazione sul letto del fiume.» «Siete riusciti ad accertarne la causa?» «Negativo. Qualunque cosa fosse, dev'essere sprofondata nel limo.»
Pitt lanciò un'occhiata all'operatore addetto al sonar. «Qualche contatto?» L'uomo scosse la testa. «Niente. Tranne una macchia simile a una nuvola da questo lato del sommergibile, il diagramma è pulito.» «Dobbiamo tornare indietro e dare una mano all'operazione di recupero?» chiese Klinger. Pitt rifletté un momento, senza rispondergli. Stranamente, la domanda di Klinger lo infastidiva. Sentiva, senza potersene spiegare la ragione, che qualcosa d'indefinibile era stato trascurato. Secondo logica, era innegabile che la mente umana fosse assai meno infallibile delle macchine. Se gli strumenti non avevano scoperto nulla, le probabilità che vi fosse qualcosa da scoprire equivalevano a poco più di zero. Facendo tacere i dubbi che lo rodevano, Pitt decise di accogliere la richiesta di Klinger. «Klinger.» «Ascolto.» «Tornate indietro, però lentamente, e seguite una rotta a zig zag.» «D'accordo. Terremo gli occhi ben aperti. Sappho I passa e chiude.» Pitt restituì cuffia e microfono a Gunn. «Come va sull'Empress?» «Magnificamente. Guarda da te.» Lo sgombero della galleria procedeva di furia, almeno fino al punto in cui era possibile che gli uomini riuscissero a lavorare, ostacolati com'erano dalla pressione a quella profondità dove l'acqua pareva trasformata in un liquido colloso. La squadra dei sub della camera pressurizzata tagliava via i frammenti, un pezzetto per volta, servendosi di torce acetileniche e di trance idrauliche. Due di loro stavano puntellando le paratie traballanti mediante aste di alluminio per impedirne il crollo. Altri due, infilati negli scafandri JIM, guidavano l'artiglio d'acciaio che penzolava dal derrick dell'Ocean Venturer verso le sezioni più pesanti delle lastre metalliche contorte. Mentre uno maneggiava il cavo di sollevamento piegandolo ad angolo nella posizione migliore, il suo compagno reggeva una scatolina che comandava il grande artiglio. Non appena ebbero la certezza che la presa fosse saldissima, chiusero le ganasce delle pinze e, a quel punto, toccò all'operatore dell'Ocean Venturer d'intervenire, azionando il verricello del derrick per estrarre adagio il carico da quello che gli uomini avevano finito col chiamare familiarmente «il pozzo». «Se procedono con questo ritmo, dovremmo essere pronti ad aprire l'ultimo varco sopra la cabina di Shields, entro quattro giorni», osservò Gunn. «Quattro giorni», ripeté Pitt, strascicando le parole. «Dio solo sa se tra
quattro giorni saremo ancora qui...» S'irrigidì bruscamente, fissando gli schermi. Gunn lo guardò, allarmato. «Qualcosa che non va?» «Quanti sommozzatori dovrebbero trovarsi, durante questo turno, fuori della camera pressurizzata?» «Come al solito, quattro per volta», rispose Gunn. «Perché me lo chiedi?» «Perché ne sto contando cinque.» 49 Gly imprecò contro la propria incoscienza che gli faceva correre un rischio così pazzesco; d'altro canto, restando sdraiato sotto una delle lance arrugginite di salvataggio, non sarebbe riuscito a osservare in tutti i particolari l'attività che si svolgeva più sotto. Notò che la propria muta differiva ben poco da quelle indossate dai membri della squadra di recupero; le bombole, assicurate sul dorso con le cinghie, erano di un modello più vecchio, ma identiche nel colore. Chi avrebbe potuto notare, in quell'oscurità, un intruso quasi uguale nell'aspetto agli altri sub? Nuotò verso il basso, avvicinandosi lateralmente, finché non urtò con le pinne contro qualcosa di solido: la copertura d'acciaio di un boccaporto si staccò e ricadde sul ponte. Gly non ebbe il tempo di escogitare la mossa successiva e già uno della squadra di recupero si diresse verso di lui, indicandogli la lastra metallica che era andata fuori posto. Annuendo con un movimento esagerato della testa per dimostrare che aveva capito, Gly si affannò insieme con l'altro a sollevarla, pesantissima com'era, e ad appoggiarla contro il parapetto. A quel punto i pericoli erano ben evidenti. Il killer fu pronto ad accorgersene e aguzzò la vista e l'attenzione. Si aggregò al gruppo, lavorando di buona lena, come se ne avesse fatto parte sin dall'inizio del turno, e dicendosi che questo era il classico caso in cui la cosa che più salta all'occhio finisce con l'essere la meno notata. Quelli della NUMA erano andati molto più avanti con l'operazione di quanto avesse supposto. Parevano minatori intenti a scavare una galleria sapendo esattamente dove si trovava il filone principale. Da una rapida valutazione, calcolò che rimuovevano una tonnellata di detriti ogni tre ore. Nuotò attraverso la cavità, misurandone a occhio e croce la larghezza. Non gli restava che trovare la risposta alle altre due domande che sorgevano spontanee: a quale profondità volevano arri-
vare e quanto ci avrebbero impiegato? Avvertì che qualcosa non quadrava; fu una sensazione nata dall'istinto piuttosto che dall'evidenza, sia perché non notava niente che esulasse dallo svolgimento normale dell'attività sia perché gli americani parevano troppo impegnati per accorgersi di lui. Nondimeno era certo di cogliere un indefinibile mutamento. Scivolò tra le ombre e si lasciò galleggiare immobile, respirando superficialmente, con regolarità. Coglieva con l'orecchio i suoni amplificati dall'acqua e osservava i movimenti relativamente rapidi e sciolti degli scafandri JIM. Il suo sesto senso lo avvertì che era venuto il momento di scomparire. Ma non lo avvertì in tempo utile. Ciò che un attimo prima era stato impercettibile adesso diventò di colpo d'una trasparenza cristallina. Gli altri sub parevano affaccendati, mentre in realtà non stavano facendo nulla. L'artiglio, dopo aver sollevato l'ultimo carico, non era più ridisceso. I sommozzatori spostavano pigramente i rottami, però non ne buttavano neppure uno fuori bordo. Muovendosi adagio, ma in perfetta sincronia, avevano formato gradatamente un semicerchio intorno a Gly. E allora capì che cos'era successo. La sua presenza era stata scoperta dagli strumenti della nave-appoggio. Non si era accorto delle telecamere collegate alle fonti luminose perché il loro bagliore accecante le nascondeva. E non si era reso conto che gli uomini che operavano sul fondo potevano ricevere istruzioni da una centrale di comando attraverso i ricevitori miniaturizzati all'interno delle cuffie impermeabili. Arretrò fino a toccare con le spalle una paratia e vi si schiacciò contro. Gli uomini chiusi negli scafandri JIM formarono una barriera di fronte a lui e gli altri sub si disposero sui fianchi, a destra e a sinistra, precludendogli ogni possibilità di fuga. Tutti lo fissavano, calmissimi, imperturbabili. Gly sguainò un pugnale con la lama di venti centimetri, bilanciandolo a palmo in su, nella posizione non professionale ma comunque mortalmente pericolosa dei teppisti da marciapiede. Fu un gesto futile, determinato da un'azione riflessa. Anche gli avversari erano armati di coltelli, micidiali lame d'acciaio inossidabile assicurate sopra la caviglia. E le pinze a manipolatore manuale degli scafandri JIM, robustissime, potevano infliggere ferite assai dolorose. Il semicerchio si stringeva sempre più, poi tutti restarono immobili, simili a statue in un cimitero. Alla fine uno dei sommozzatori si tolse dalla cintura dei pesi una lavagnetta di plastica e vi scrisse sopra qualcosa servendosi di una sorta di gessetto grasso giallo. Non appena ebbe finito, la
sollevò davanti al naso di Gly. Il messaggio, conciso, ma eloquente, diceva soltanto: TOGLITI DAI PIEDI. Sul momento Gly sbalordì. Non era l'accoglienza che si attendeva. Ma non tardò a riprendersi e, senz'aspettare che ricorressero a mezzi più persuasivi, fletté le ginocchia e si diede una spinta verso l'alto, nuotando a tutta forza sopra le teste dei sommozzatori della NUMA, che non accennarono neppure lontanamente a fermarlo, limitandosi soltanto a seguirlo con gli occhi fintanto che l'oscurità non lo ebbe inghiottito. «Lo hai lasciato andare», disse Gunn, con voce pacata. «Sì, l'ho lasciato andare.» «Ritieni sia stata una decisione saggia?» Pitt, impassibile, non rispose subito. Rifletteva, cogli occhi verde opale socchiusi. L'espressione che gli si disegnava sulle labbra pareva un sorriso, ma non lo era affatto; somigliava piuttosto alla smorfia minacciosa d'un leone che guata la prossima preda. «Hai visto anche tu il pugnale», disse alla fine. «Sì, ma non gli sarebbe servito a niente. I nostri ragazzi avrebbero fatto in fretta a darlo in pasto ai pesci.» «Quell'uomo era un killer.» Le parole dell'agente della NUMA suonarono spassionate, una semplice constatazione. «Potremmo beccarlo nel momento in cui riemerge», insistette Gunn. «Allora non avrebbe la minima possibilità di cavarsela.» «No, non sono d'accordo.» «Hai qualcosa d'altro in mente?» «Già», rispose Pitt. «Ci serviremo del pesce piccolo per catturarne uno grosso.» «Ah, è così che la pensi?» ribatté Gunn, tutt'altro che convinto. «Aspettare che raggiunga i suoi compari, formare una squadra armata, circondarla e consegnarla alle autorità?» «Da quanto ne sappiamo, le autorità sono loro.» Il direttore dei servizi logistici si mostrò più stupito che mai. «E allora che cosa ci guadagniamo?» «L'amico era venuto ad aggirarsi qui attorno in missione esplorativa. Può darsi che la prossima volta si porti dietro un po' di gente che gli dia man forte, diventando veramente pericoloso. Noi dobbiamo guadagnare tempo, tutto qui. E penso che varrebbe la pena che gli fermassimo per un
po' l'orologio.» Gunn storse la bocca, ma annuì. «Sì, la penso anch'io come te, però credo che faremmo bene a muoverci subito. Quel tale salirà a bordo del primo battello che gli passerà vicino.» «Non precipitiamo. Avrà bisogno di una mezz'ora almeno per la decompressione. Molto probabilmente ha lasciato da qualche parte, sul fondo del fiume, un paio di bombole di riserva.» Un'altra domanda si era affacciata alla mente del direttore logistico. «Dicevi che l'intruso era un killer. Che cosa te l'ha fatto pensare?» «È stato troppo fulmineo nell'impugnare il coltello, aveva troppa fretta di adoperarlo. E soltanto chi nasce con l'istinto dell'assassino non esita mai.» «Quindi ci troviamo contro gente con licenza di uccidere. Non è quel che si dice una prospettiva consolante», commentò Gunn, impensierito. 50 Nel porto di Rimouski, lungo le due banchine deserte e la fila dei magazzini, l'alba era silenziosa e desolata e l'aria immobile, senza un alito di vento, contribuiva ad aumentare il senso di squallore. Era troppo presto perché l'animassero i portuali, le strida incessanti dei gabbiani e il rumore delle locomotive diesel che trainavano i mercantili non ancora scaricati fino al vicino approdo della zona industriale. Legato alla bitta di una banchina c'era il rimorchiatore che soltanto poche ore prima aveva trascinato su e giù per il fiume, accanto all'Ocean Venture, una chiatta vuota. Era solcato da strisce rosse di ruggine e l'usura trentennale di un continuo impiego era evidente sullo scafo robusto. Un raggio di luce trapelava dagli oblò della cabina del comandante, situata direttamente sotto la timoniera, e si rifletteva smorzato sull'acqua scura. Shaw controllò il suo orologio da polso e spinse un minuscolo interruttore su uno strumento con l'aspetto di un calcolatore tascabile. Chiuse un attimo gli occhi, riflettendo, e poi incominciò a schiacciare una serie di pulsanti. Non più come ai vecchi tempi, quando un agente segreto era costretto a nascondersi in una soffitta e a sussurrare piano nel microfono d'una radiotrasmittente, pensava. Ormai i segnali numerici venivano trasmessi via satellite a un computer che si trovava a Londra. Là provvedevano a decifrare il messaggio e a inviarlo a destinazione grazie a un sistema di trasmissione
ottica. Terminata l'operazione, l'agente segreto britannico depose lo strumento elettronico sul tavolo e si rizzò per stiracchiarsi. I muscoli gli si erano irrigiditi e la schiena gli doleva: l'implacabile avanzare dell'età. Tolse dalla valigia la bottiglia di Canadian Club acquistata all'arrivo nell'aeroporto di Rimouski. I canadesi lo chiamavano whisky, ma al palato degli inglesi pareva ben poco diverso dal bourbon americano. Secondo Shaw, berlo a temperatura ambiente era da rozzi primitivi - solo gli scozzesi lo mandavano giù tiepido -, ma i rimorchiatori decrepiti, come quello su cui si trovava, erano privi di quella comodità moderna chiamata frigorifero. Si mise a sedere e accese una sigaretta della sua marca speciale. Qualcosa almeno del passato gli restava ancora. Tutto ciò di cui soffriva la mancanza era una compagna amorosa. C'erano volte in cui, con la sola compagnia di una bottiglia e dei ricordi, rimpiangeva di non aver ripreso moglie. Lo distolse dalle fantasticherie il lampeggiare silenzioso del piccolo dispositivo posato sul tavolo. Una strisciolina di carta larga appena sei millimetri incominciò a uscire subito dopo da un'estremità. Miracolo d'una tecnologia avanzata, che non cessava mai di divertirlo. Inforcò un paio di occhiali da presbite - altra maledizione della vecchiaia incipiente - e si mise a studiare i microscopici caratteri. Il testo completo era lungo quasi mezzo metro... Finito di leggerlo, si tolse gli occhiali, spense il minuscolo terminale e se lo rimise in tasca. «Le ultime notizie dalla cara vecchia Inghilterra?» Shaw alzò gli occhi e vide Foss Gly inquadrato sulla soglia. L'uomo non accennava a entrare, ma si limitava a fissare l'altro con le sopracciglia inarcate interrogativamente e uno sguardo che richiamava l'immagine d'uno sciacallo che annusa l'aria. «Semplicemente la conferma d'aver ricevuto il mio rapporto su quanto lei ha potuto osservare», rispose, in tono indifferente. Incominciò ad arrotolarsi oziosamente la strisciolina di carta intorno all'indice. Gly si tolse la muta termica per infilarsi un paio di calzoni di tela grezza e un pesante maglione dal collo alto. «Sto ancora rabbrividendo. Qualcosa in contrario, se mi bevo un cicchetto dalla sua bottiglia?» «Si serva pure.» Il killer ingollò un mezzo bicchierone di Canadian Club in due sorsate, facendo ricordare a Shaw l'enorme orso ammaestrato che una volta aveva visto tracannare un secchio colmo di birra chiara ad altissima gradazione alcolica.
Gly emise un lungo sospiro. «Mi sembra di essere ridiventato quasi umano.» «Secondo il mio calcolo, la sua fase di decompressione è durata cinque minuti meno di quanto prescritto», prese a dire Shaw, tanto per parlare. «Non avverte il minimo disturbo?» L'uomo allungò la mano come per versarsi un altro bicchiere di whisky. «Soltanto un leggero formicolio e niente di più...» Con mossa fulminea tese il braccio oltre il tavolo e afferrò il polso di Shaw, serrandolo in una stretta di acciaio. «Quel messaggio non si riferiva per caso a me, paparino?» Shaw s'irrigidì, mentre le unghie gli penetravano nella carne. Posò saldamente i piedi sul pavimento, con l'intenzione di buttarsi giù dalla seggiola, all'indietro. Ma Gly indovinò quello che intendeva fare. «Niente scherzi, paparino, o altrimenti ti spacco l'osso.» Shaw fu scosso da un tremito. Non di paura. Di rabbia, per essersi lasciato cogliere alla sprovvista. «Lei si sta sopravvalutando, ispettore Gly. Per quale motivo il servizio segreto britannico dovrebbe occuparsi della sua persona?» «Mi scusi tanto», sogghignò Gly, beffardo, senza allentare la stretta. «Ma io sono un individuo sospettoso e i bugiardi mi fanno imbestialire.» «Un'accusa volgare nata da una mente volgare», replicò Shaw, riprendendo il proprio equilibrio. «E dato che conosco la fonte, non mi aspettavo niente di diverso.» Gly storse le labbra. «Parole astute, superspia. Supponiamo che lei neghi di essersi messo in contatto col suo capo di Londra e di aver ricevuto la conferma due ore fa.» «E se le dichiaro che si sbaglia?» «No, non glielo consiglio. Ho scambiato due chiacchiere col dottor Coli nella cambusa. La sua memoria funziona così male da farle dimenticare che è stato lui ad aiutarla a redigere il suo rapporto su quel piccolo aggeggio degli americani? E dimentica pure che lei vi aggiunse un poscritto, dopo che Coli se ne fu andato? La richiesta d'informazioni complete su Foss Gly? Lo sa lei e lo so io. E la risposta ce l'ha lì, in mano.» La trappola si era spalancata e Shaw c'era cascato dentro. Imprecò tacitamente contro se stesso, per aver fatto ricorso a una menzogna così trasparente. Era sicuro che l'orribile personaggio di là dal tavolo non avrebbe esitato ad ammazzarlo se solo gliene avesse offerto l'occasione. La sua unica speranza consisteva nel tenere a bada l'avversario, tirandola per le lunghe
in maniera da sbalestrarlo. Tentò un colpo a casaccio. «Il signor Villon mi aveva accennato, incidentalmente, che lei si sarebbe potuto manifestare per un carattere instabile. Ho fatto male a non credergli sulla parola.» Dallo sguardo collerico che lampeggiò negli occhi spalancati dell'altro, Shaw s'accorse d'averlo toccato nel vivo. Perciò seguitò a versare sale sulla ferita. «Se non sbaglio, mi pare che abbia impiegato perfino il termine 'psicopatico'.» La reazione di Gly non fu quella prevista; anzi, fu esattamente l'opposto. Invece di esprimere una fredda collera, la faccia dell'uomo s'illuminò di colpo. Lasciò andare il polso di Shaw e si rimise seduto. «Quindi quella miserabile canaglia ipocrita mi ha pugnalato alla schiena», borbottò. «Avrei dovuto immaginare che si sarebbe fatto in quattro per scombussolare il mio piano.» Tacque e lanciò un'occhiata strana a Shaw. «Adesso capisco tutto. Adesso capisco perché mi ha sempre mandato a fare il suo sporco lavoro sott'acqua. E a un certo punto doveva intervenire lei, perché io annegassi opportunamente, per un caso fortuito e malaugurato.» Shaw, perplesso, non sapeva che dire. Il discorso non prendeva la piega che si era proposto. Non comprendeva nel modo più assoluto di che diamine stesse parlando Gly. Non gli restava altro che continuare a tenerlo sulla corda. Si sfilò cautamente il messaggio arrotolato sul dito e lo lasciò cadere sul tavolo davanti a Gly, scrutandolo in faccia. Non colse altro che una brevissima occhiata scoccata verso il basso. Ma gli fu sufficiente. «Quello che m'imbarazza è il fatto che lei sta rischiando la vita per un governo e per un uomo che la vorrebbero morto.» «Può darsi che mi vada di farlo per il bene della società.» «Le spiritosaggini non le si addicono, ispettore dei miei stivali.» «Quanto le ha rivelato di me il signor Villon?» «Non si è dilungato granché», rispose Shaw, schiacciando il mozzicone della sigaretta nel posacenere e notando che gli occhi dell'altro seguivano il movimento. «Mi ha soltanto lasciato capire che avrei fatto un favore al Canada liberandolo della sua presenza. Ma io, per dirla tutta, non me la sentivo di sostenere il ruolo dell'assassino prezzolato, tanto più che ignoravo il motivo per cui lei meritava di morire.» «Che cos'è che le ha fatto cambiare idea?» «Me l'ha fatta cambiare lei.» Shaw si accorse d'aver suscitato un interesse assai vivo nell'altro, però non avrebbe saputo dire dove e come sarebbe sfociato. «Ho incominciato a studiarla. Lei parla un franco-canadese im-
peccabile ma, per quanto riguarda l'inglese, è tutt'altro paio di maniche. Non la pronuncia, badi bene, ma il gergo, certi termini che sono tipicamente ed esclusivamente americani. La mia curiosità ebbe il sopravvento e chiesi a Londra di eseguire un controllo sui suoi precedenti. La risposta è qui sul tavolo. Lei merita di morire, signor Gly. Nessuno al mondo lo merita più di lei.» Il volto di Gly si fece minaccioso, con un digrignare di denti che sotto la luce smorta della cabina mandarono un bagliore giallastro. «E lei, paparino, pensa d'essere l'uomo capace di farmi fuori?» Shaw si afferrò con le mani all'orlo del tavolo, chiedendosi come Gly si proponeva di ucciderlo. Senza dubbio si sarebbe servito di un coltello, o di una pistola col silenziatore, perché il rumore d'uno sparo avrebbe subito richiamato nella cabina Coli e l'equipaggio del rimorchiatore. Gly se ne stava seduto con le braccia conserte, di fronte a lui. Era calmissimo, in apparenza sin troppo rilassato. «Non c'è più bisogno che me ne occupi io. Il signor Villon ha cambiato idea, decidendo di consegnarla alla polizia.» Shaw s'accorse immediatamente d'aver compiuto un passo falso. Lo poté leggere in faccia a Gly. «Ben giocata, paparino, però ha fatto cilecca. Villon non si può permettere di lasciarmi in vita. Sa che lo potrei far finire dietro le sbarre fino alla prossima era glaciale.» «Lo dicevo giusto per tastare il terreno. Il rapporto che mi è arrivato non riguarda lei, ma Villon. Lo legga», concluse, accennando col capo al foglietto, con simulata indifferenza. Gly scoccò di nuovo un'occhiata verso il basso. Shaw, con una torsione in cui mise tutta la sua forza, si gettò contro il tavolo e lo spigolo colpì l'altro come un ariete, poco sopra la cintola. L'unica reazione di Gly fu un aspro grugnito, ma per il resto incassò la botta ritraendosi a malapena. Qualsiasi altro uomo sarebbe ruzzolato per terra contorcendosi dal dolore. Lui, invece, afferrò una gamba del tavolo di quercia massiccia e lo sollevò senza sforzo verso il soffitto. Shaw era sbalordito. Il mobile doveva pesare almeno settantacinque chili. Gly lo riabbassò lentamente, lo depose a terra con la facilità con cui una bambina avrebbe adagiato la bambola nella carrozzella e si alzò in piedi. Shaw afferrò allora la propria seggiola e la scaraventò, facendole compiere un arco, contro il falso ispettore, ma quello fu pronto a prenderla a mezz'a-
ria, evitando l'impatto, e la ricollocò tranquillo accanto al tavolo. Non c'erano né collera né ferocia nei suoi occhi mentre fissavano imperturbabili Shaw, ritto in piedi a neppure un metro da lui. «Ho una pistola», disse Shaw, lottando per impedire che la voce gli uscisse alterata. «Sì, lo so», rispose Gly, con un ghigno satanico. «Una patetica vecchia Beretta calibro 25. L'ho trovata nascosta in uno stivale accanto alla sua cuccetta. Ed è ancora là. Me ne sono accertato prima di entrare qua dentro.» Shaw comprese che l'altro non gli avrebbe sparato né lo avrebbe accoltellato, bensì liquidato a mani nude. Facendosi forza per reprimere l'ondata di angoscia, Shaw tentò di sopraffarlo con una delle mosse più efficaci di judo. Sarebbe stato lo stesso se avesse colpito con le dita del piede un tronco d'albero. Gly si scansò di lato e neutralizzò il colpo diretto contro le reni, assorbendolo sul fianco. Avanzò senza prendere la precauzione di coprirsi, con l'espressione di assoluta indifferenza del macellaio quando si accosta di lato al bue che deve abbattere. Shaw indietreggiò finché non sentì contro la schiena l'appoggio di una paratia, cercando disperatamente un'arma qualsiasi, una lampada, un libro, non importava che cosa, in grado di rallentare l'impeto di quel quintale di muscoli. Ma le cabine dei rimorchiatori sono costruite per una vita spartana. Tranne un'oleografia inchiodata a un pannello, non c'era nient'altro da afferrare. Shaw premette l'uno contro l'altro i palmi delle mani e li abbatté di taglio, come una falce, su un lato del collo di Gly. Ma fu - e se ne rese conto con disperata certezza - l'ultima chance: e infatti fu come se avesse colpito un muro di cemento. Ansimando per lo sforzo e per il dolore, gli parve d'essersi fratturato le ossa delle mani. Gly, senza dimostrare di aver risentito minimamente dell'attacco, circondò col suo braccio massiccio la schiena di Shaw, all'altezza della vita, e incominciò a stringere, mentre con l'altro avambraccio gli esercitava una crescente pressione sul petto. La duplice morsa si faceva sempre più implacabile. Shaw si andava piegando via via all'indietro. «Addio, cretino d'un inglese.» Shaw strinse i denti per la sofferenza che gli si diffondeva tormentosamente in tutte le membra. Boccheggiava, con i polmoni strizzati; il sangue gli batteva martellando nelle tempie, i contorni della cabina già gli si oscuravano davanti agli occhi. Tentò di lanciare un ultimo grido attraverso i denti serrati, ma ne uscì un suono smorzato. Non avvertiva più nulla, tran-
ne l'insopportabile dolore alla schiena che era sul punto di spezzarsi. La morte... unico sollievo. Da lontano, da una distanza imprecisata che pareva di chilometri e chilometri, percepì il suono di un forte schianto e pensò che fosse la fine. La pressione implacabile si allentò e la sofferenza diminuì di parecchi gradi. Completamente svuotato, si afflosciò sul ponte. Si chiese vagamente che cosa sarebbe avvenuto. Un lungo cammino attraverso un tunnel buio prima di raggiungere una luce abbagliante? Era quasi deluso di non sentire una musica. Poi incominciò a riconoscere, distinguendole, le proprie sensazioni. Lo colpì, come un fenomeno strano, il fatto di avvertire ancora i dolori. Gli facevano male le costole e gli pareva che la spina dorsale fosse arsa da un mare di fiamme. In preda all'apprensione, aprì gli occhi, ma gli ci vollero alcuni secondì prima che riuscisse a mettere a fuoco lo sguardo. I primi oggetti che distinse furono due stivaletti da cowboy. Sbatté le palpebre, ma gli stivaletti erano sempre là: di vitello, ricamati ai lati, col tacco alto e la mascherina appuntita. Girò la testa e vide sopra di sé una faccia solcata da rughe, con un paio d'occhi che parevano sorridere. «Lei chi è?» mormorò. «Pitt. Dirk Pitt.» «Strano, non somiglia per niente al diavolo.» Shaw non aveva mai dubitato che alla fine si sarebbero trovati l'uno di fronte all'altro. Sorrisero anche le labbra. «Ce n'è più d'uno che non condividerebbe il suo giudizio.» Inginocchiandosi, Pitt passò un braccio sotto le spalle dell'uomo accasciato. «Qua, lasci che l'aiuti, paparino.» «Dio buono! Come vorrei che la gente la smettesse di chiamarmi paparino», borbottò Shaw, irritato. 51 Gly giaceva abbandonato come morto, con le braccia allargate e le gambe contorte e leggermente flesse. Pareva un pallone sgonfiato. «Com'è riuscito a ridurlo così?» chiese Shaw, con ammirato stupore. Pitt sollevò, perché l'altro la vedesse bene, una grossa chiave inglese. «Utilissima tanto per stringere i bulloni quanto per ammaccare i crani.» «È morto?» «No, non credo. Per far fuori quello lì, ci vorrebbe come minimo un cannone.» Shaw respirò parecchie volte, a fondo, e si massaggiò le mani indolenzi-
te. «Le sono molto grato per il suo tempestivo intervento, signor...» «Il mio nome è Pitt, signor Shaw. Ed è inutile che finga di non sapere chi sono. Siamo entrambi informatissimi l'uno dell'altro.» Shaw passò mentalmente dalla prima alla seconda marcia. Aveva avuto la fortuna di sopravvivere per un pelo a un avversario e adesso se ne trovava di fronte un secondo. «Lei sta correndo un bel rischio, signor Pitt. Il mio equipaggio potrebbe irrompere da un momento all'altro.» «Se ci sarà qualcuno a fare un'irruzione qua dentro», replicò Pitt, con aria tranquilla, «questo sarà il mio equipaggio. Mentre lei si stava azzuffando con la montagna di muscoli sdraiata sul pavimento, i suoi uomini sono stati depositati al sicuro nella sala macchine.» «Congratulazioni», disse Shaw. «Si muove in punta di piedi e impugna una grossa chiave inglese.» Pitt fece scomparire l'arnese in una tasca della giacca a vento e sedette. «Devo riconoscere che si sono mostrati prontissimi a collaborare con noi. D'altro canto, ritengo che gli uomini si comportino sempre così allorché si trovano davanti alla bocca di un fucile automatico.» Ondate di dolori correvano su e giù per la schiena di Shaw. Strinse le labbra e impallidì. Tentò di eseguire alcuni piegamenti, ma non ottenne altro se non di peggiorare le sue condizioni. Pitt l'osservava. «Dopo che avrà comunicato all'MI6 gli ultimi avvenimenti, la consiglierei di farsi visitare da un traumatologo.» «La ringrazio per la sua premura», borbottò Shaw. «Ma come fa a saperla così lunga sul mio conto?» «È assurto di colpo alla notorietà nel momento in cui ha rivolto la faccia verso le telecamere del nostro battellino esploratore. Heidi Milligan l'ha riconosciuta e la CIA ha riesumato la sua gloriosa carriera.» Shaw socchiuse gli occhi. «Il comandante Milligan è a bordo della sua nave?» «Mi ha raccontato che siete vecchi amici. È una bella ragazza e per di più in gamba. Sta conducendo per noi le ricerche storiche.» «Capisco», disse Shaw. «È stata lei a tracciare la strada per la vostra operazione di recupero.» «Se intende dire che è merito di Heidi l'aver localizzato l'ubicazione della cabina di Shields, sì.» Shaw era rimasto sempre stupito di fronte alla franchezza degli americani, mentre Pitt, dal canto suo, si era sempre irritato per la tendenza tutta in-
glese di eludere le domande. «Perché si trova qui, signor Pitt?» «Perché ho la sensazione che sia venuto il momento d'avvertirvi di piantarla.» «Di piantarla?» «Nessuna legge dichiara che non abbiate il diritto di starvene seduti sulle gradinate, come spettatori, signor Shaw. Però tenga lontani i suoi giovanotti dalla nostra zona di recupero. L'ultimo di loro che si è aggirato da quelle parti ha tentato il gioco duro.» «Se non sbaglio, lei sta parlando di questo signore: Foss Gly.» Pitt diede un'occhiata al corpo ancora inerte. «Me lo sarei dovuto immaginare.» «Anni addietro, avrebbe trovato in me pane per i suoi denti», disse Shaw, con aria nostalgica. Pitt lo guardò con un sorriso che parve riscaldare l'ambiente. «Io mi auguro soltanto di essere altrettanto in forma come lei, quando avrò sessantasei anni.» «Ha fatto centro!» «Pesa ottantacinque chili; è alto un metro e ottantadue centimetri e mezzo; non è mancino; ha numerose cicatrici. Non tiro a indovinare, signor Shaw. Possiedo una copia della sua biografia. Lei ha condotto una vita molto interessante.» «Può darsi, ma le sue imprese superano di gran lunga le mie.» Shaw sorrise per la prima volta. «Come vede, anch'io possiedo un suo dossier.» Pitt guardò l'ora. «Devo tornare a bordo dell'Ocean Venturer. È stato un piacere fare la sua conoscenza.» «Ordinerò che la riaccompagnino sul suo battello. È il minimo che possa fare per un uomo che mi ha salvato la vita.» Sul ponte, fuori della cabina, due giovanotti montavano la guardia. Al vederli, per la taglia e per la sagoma, li si sarebbe potuti scambiare per una coppia di orsi polari. Uno dei due parlò, con un vocione da basso, non appena scorse Pitt. «Difficoltà in vista, signore?» Pitt scosse la testa. «Nessuna. Siamo pronti per portarci al largo?» «Sono saliti tutti a bordo, tranne noi.» «Precedetemi, io vi seguo.» Entrambi scoccarono a Shaw un'occhiata ammonitrice e scavalcarono il parapetto per calarsi in una lancia ormeggiata accanto al rimorchiatore.
Pitt si girò per accomiatarsi. «Porti i miei ossequi al generale Simms.» Shaw lo scrutò con evidente rispetto. «Esiste qualcosa che lei ignori?» «C'è un mucchio di cose che ignoro», replicò Pitt maliziosamente. «Tanto per dirne una, non ho mai trovato il tempo d'imparare a giocare a backgammon.» Mio Dio, è un uomo ammirevole, pensò Shaw. Però era troppo esperto per non scorgere la gelida astuzia sotto la patina esteriore della schietta cordialità. «Sarò lieto d'insegnarglielo, un giorno o l'altro. Dicono che sono piuttosto bravo in materia.» «Non mi auguro di meglio.» Pitt gli porse la mano. Shaw non ricordava d'aver mai stretto la mano a un avversario, durante tutti gli anni in cui aveva fatto parte del servizio di spionaggio. Per un lungo momento fissò gli occhi negli occhi dell'altro. «Non me ne voglia se non le auguro buona fortuna, signor Pitt, ma non le possiamo permettere di ritrovare il trattato. La sua parte ha tutto da guadagnare, la mia tutto da perdere. E questo lei lo deve capire.» «Conosciamo entrambi il valore della posta in gioco.» «Mi rincrescerebbe moltissimo se fossi costretto a ucciderla.» «Non piacerebbe troppo neppure a me.» Pitt si mise a cavalcioni del parapetto, e rimanendo un momento in bilico, agitò la mano per un addio. «In bocca al lupo, signor Shaw.» Poi si lasciò cadere sul ponte della lancia. Shaw rimase fermo dov'era per parecchi minuti, seguendo con lo sguardo la piccola imbarcazione che s'allontanava, finché non scomparve avvolta dal buio. Infine si mosse; scese a passi incerti nella sala macchine e liberò il dottor Coli e l'equipaggio del rimorchiatore. Quando rientrò nella cabina di comando, Foss Gly se n'era già andato. 52 Una folla di quasi un migliaio di persone si era raccolta davanti alla residenza del primo ministro, applaudendo e agitando striscioni e cartelli scritti a mano, in francese e in inglese, per dare il benvenuto a Charles Sarveux che tornava a casa dall'ospedale. I medici avevano insistito affinché vi si facesse trasportare a bordo di un'ambulanza, ma lui aveva respinto recisamente il consiglio ed era salito nella berlina ministeriale, impeccabilmente abbigliato con un completo nuovo fiammante. Le mani deturpate dalle cicatrici erano coperte da un paio di guanti di qualche misura più grandi. Uno dei consiglieri del suo partito gli aveva suggerito di lasciarle in vista
bendate, per suscitare una più intensa reazione emotiva nel pubblico, ma Sarveux non era uomo da far ricorso a tali meschini espedienti politici. Lo tormentavano fino al limite della sopportabilità i dolori al fianco, e le braccia, rese rigide dal tessuto cicatriziale, gli facevano un male atroce tutte le volte che tentava un movimento. Era contento che il pubblico e i giornalisti fossero lontani, almeno, tanto da non poter notare il sudore che gli grondava sul viso mentre sorrideva, con le labbra tirate, e rispondeva con la mano agli applausi. La macchina varcò il cancello e si fermò alla breve scalinata che conduceva all'ingresso principale. Danielle corse alla portiera e la spalancò. «Ben tornato a casa, Charles...» Le parole le si bloccarono in gola non appena scorse la faccia stravolta dalla sofferenza e grigiastra. «Aiutami a entrare», le sussurrò. «Lascia che chiami un poliziotto...» «No», la interruppe. «Non voglio che mi credano un invalido.» Si girò di fianco sul sedile posteriore e mise i piedi per terra, col corpo metà dentro e metà fuori dell'automobile. Si concedette un attimo per farsi forza, poi cinse con un braccio la vita della moglie e si rizzò, traballando. Per poco Danielle non cedette sotto il suo peso. Le ci volle tutta la sua forza per sostenerlo. Mentre salivano adagio i gradini, sentiva quasi fisicamente le ondate di dolore che emanavano da lui. Sulla soglia, Charles Sarveux si girò, rivolse il sorriso per cui era famoso al gruppo dei giornalisti fermi sulla rampa e li salutò, in segno di vittoria, con la mano chiusa e il pollice verso l'alto. Dopo che il portone si fu chiuso alle sue spalle, la volontà ferrea che lo aveva animato sino a quel momento cedette di colpo e l'uomo incominciò ad afflosciarsi sul tappeto. Un poliziotto fu svelto a spingere Danielle da parte e a sorreggerlo passandogli le mani sotto le ascelle. Comparvero come per incanto un medico e due infermiere che lo trasportarono su per le scale fino alla sua stanza. «È stata una pazzia il voler fare l'eroe», lo rimproverò il medico, dopo che l'ebbero messo a letto. «La frattura è tutt'altro che rinsaldata. Ha corso il pericolo di provocare grossi guai, che avrebbero ritardato la sua completa ripresa.» «Un piccolo rischio per dimostrare al popolo che il suo capo non è diventato un vegetale», replicò Sarveux, sorridendo debolmente. Entrò Danielle e sedette sull'orlo del letto. «Hai ottenuto l'effetto che vo-
levi, Charles. Adesso non c'è più bisogno che ti sforzi.» Lui le baciò la mano. «Ti prego di perdonarmi, Danielle.» Lo guardò, stupita. «Perdonarti?» «Sì», le disse così piano che gli altri presenti nella stanza non lo poterono udire. «Avevo sottovalutato la tua intelligenza. Ti avevo sempre giudicata una ragazza senz'altro scopo nella vita se non quello di coltivare la tua bellezza e d'indulgere in fantasie da cenerentola. Ma sbagliavo.» «Non credo di capirti...» disse la donna, incerta. «In mia assenza ti sei messa nei miei panni e hai preso in mano le redini della carica con dignità e risolutezza», affermò Sarveux, in tono sincero. «Hai dato veramente la prova che Danielle Sarveux è la First Lady del Paese.» Danielle si sentì all'improvviso sopraffatta da un'immensa pena per lui. Sotto certi aspetti era un uomo perspicace, sotto altri sembrava addirittura ingenuo. Soltanto adesso mostrava di apprezzare le qualità della moglie, e tuttavia ne interpretava i desideri e le ambizioni in un senso che non avrebbe potuto essere più sbagliato. Non si rendeva conto che la donna che lui s'immaginava era un'illusione, non riusciva a sondare la profondità dell'inganno. Quando fosse arrivato a conoscerla veramente, sarebbe stato troppo tardi, pensò Danielle. La sera dello stesso giorno, quando Henri Villon andò a fargli visita, Charles Sarveux era seduto sul divano, con indosso una veste da camera, e seguiva un programma televisivo. Sullo schermo si vedeva un telecronista al centro di Quebec Street, circondato da una massa di persone plaudenti. «Grazie per essere venuto, Henri.» Il ministro degli Interni lanciò uno sguardo allo schermo. «È fatta», annunciò, tranquillo. «Il referendum per la completa indipendenza è passato. Il Quebec è una nazione.» «Adesso inizia il caos», replicò Sarveux. Premette il pulsante OFF sul telecomando e lo schermo si spense. Poi si rivolse a Villon, indicandogli una poltrona. «Tu come la vedi?» «Io sono sicuro che la transizione si svolgerà senza scosse.» «Pecchi di eccessivo ottimismo. Fintanto che non saranno indette le elezioni per insediare il nuovo governo, il parlamento del Quebec sarà in subbuglio, fornendo così un'occasione d'oro al movimento clandestino terroristico di uscire dalle fogne e introdursi di forza nel gioco di potere.» Scrollò malinconicamente la testa. «La morte di Jules Guerrier non sarebbe potuta avvenire in un momento peggiore. Noi due insieme avremmo potuto colla-
borare per spianare la strada. Ora non so davvero come andrà a finire.» «Non vorrai sostenere che il vuoto lasciato da Jules non possa essere colmato?» «Da chi? Da te, forse?» Villon indurì lo sguardo. «Nessuno è più qualificato di me. La mia attività è stata strumentale nel mettere in piedi il referendum. Ho l'appoggio dei sindacati e degli istituti finanziari. Sono un capo partito che gode di prestigio e, quel che conta soprattutto, sono un franco-canadese rispettato da tutto il resto del Canada. Il Quebec ha bisogno di me, Charles. Mi candiderò alla presidenza e ne uscirò vincitore.» «Quindi sarà Henri Villon a guidare il Quebec fuori del deserto», commentò causticamente Sarveux. «La cultura francese è più viva oggi di quanto lo sia mai stata. È mio sacrosanto dovere alimentarla.» «Smettila di sventolare i gigli d'oro, Henri. Non ti si addice.» «Nutro un affetto profondo per la terra dei miei avi.» «Tu nutri un affetto profondo soltanto per Henri Villon.» «Hai un'opinione così bassa di me?» ringhiò il ministro. «In passato avevo un'opinione molto alta di te. Ma ho visto come l'ambizione cieca ha trasformato un idealista sincero in uno scaltro e subdolo intrigante.» L'altro lo fulminò. «Credo che faresti bene a spiegarti più chiaramente.» «Tanto per incominciare: dimmi il motivo per cui hai tagliato l'erogazione di energia a un terzo degli Stati Uniti, nella centrale di James Bay.» Villon si rifece impassibile. «Ero convinto fosse necessario. L'interruzione doveva servire di monito agli americani, affinché non intervenissero nelle questioni che riguardano il Quebec.» «Chi ti ha suggerito un'idea così pazzesca?» Il ministro gli lanciò un'occhiata stupita. «Tu, naturalmente.» L'espressione di Sarveux diventò impenetrabile. Tutt'a un tratto, Villon scoppiò in una risata. «Davvero non te lo ricordi?» «Ma che cosa dovrei ricordare?» chiese l'altro, meccanicamente. «In ospedale, dopo l'incidente aereo, eri in stato confusionale per via degli anestetici. Deliravi dicendo che il Canada sarebbe stato in grave pericolo se le persone sbagliate avessero scoperto il punto debole nella sala di controllo a James Bay. Il senso delle tue parole era vago, però incaricasti Danielle di riferirmi che dovevo consultare Max Roubaix, l'uomo che as-
sassinava le vittime con la garrotta, più d'un secolo e mezzo fa.» Sarveux lo ascoltava senza dire parola, indecifrabile come una sfinge. «Una sciarada maledettamente ben congegnata, tenendo conto che proveniva da un cervello in quelle condizioni», continuò Villon. «Ci misi un bel po' prima di stabilire un parallelo tra l'arma preferita di Roubaix e un capestro energetico. E te ne sono grato, Charles. Involontariamente, mi hai dimostrato com'è possibile far ballare gli americani al suono della nostra musica semplicemente girando un interruttore.» Sarveux tacque un momento, poi alzò gli occhi in faccia a Villon e dichiarò: «Non involontariamente». Villon non fu pronto a capire. «Come hai detto?» «Non farneticavo quando dissi a Danielle che avresti dovuto consultare Max Roubaix. Soffrivo moltissimo, però la mia mente era lucida in quel momento.» «A che gioco stai giocando, Charles?» Sarveux lo ignorò. «Un vecchio e carissimo amico sosteneva che avresti tradito la mia fiducia e la fiducia che il popolo canadese aveva in te. Io non riuscivo a convincermi che tu fossi un traditore, Henri, però dovevo averne la certezza. Hai abboccato all'amo e hai minacciato gli Stati Uniti col ricatto energetico. Un grave errore da parte tua metterti contro la superpotenza della porta accanto.» Villon storse le labbra in un ghigno malvagio. «Dunque t'illudi di sapere qualcosa! Al diavolo te e al diavolo gli Stati Uniti. Fintante che il Quebec manterrà il controllo sul San Lorenzo e sulla centrale idroelettrica di James Bay saremo noi a imporre un cambiamento agli americani e al Canada occidentale. Con tutte quelle loro prediche da bacchettoni sui diritti e sulla giustizia sono diventati i buffoni del mondo intero. Si crogiolano compiaciuti nella loro stupida moralità, curandosi unicamente dei patrimoni privati e dei conti in banca. L'America è una potenza in declino. L'inflazione manderà in rovina il suo sistema economico. Se osassero tentare di strozzare il Quebec decretando sanzioni ai suoi danni, noi risponderemmo tagliando l'erogazione di energia elettrica.» «Propositi audaci», commentò Sarveux. «Però finirete con lo scoprire, come è toccato a molti altri, che sottovalutare la risolutezza degli americani non conviene mai. Quando si trovano con le spalle al muro, hanno l'abitudine di uscire dalla morsa lottando strenuamente.» «Ora non ne hanno più il fegato!» sbuffò Villon, in tono sprezzante. «Sei uno stupido!» Sarveux non poté reprimere il brivido freddo che lo
percorse in tutto il corpo. «Per il bene del Canada io ti smaschererò e ti spezzerò.» «Non hai la benché minima prova contro di me. No, Charles, tra poco i bastardi anglofoni ti cacceranno via a calci dal posto che occupi, e io farò in modo che tu non sia persona gradita nel Quebec. Per te è venuta l'ora di svegliarti e di renderti conto che sei un uomo senza patria.» Villon si alzò in piedi, tolse dalla tasca interna della giacca una busta sigillata e la lasciò sgarbatamente cadere sulle ginocchia di Sarveux. «Le mie dimissioni da ministro.» «Accettate», rispose Sarveux, con salda determinazione. Villon non volle andarsene senza lanciargli un insulto finale. «Sei un disgraziato che fa pietà, Charles. Finora non te ne sei reso conto, ma non ti rimane più niente, neppure la tua carissima Danielle.» Sulla soglia, si girò ancora una volta per un'ultima occhiata a Sarveux, aspettandosi di vederlo sopraffatto dalla disperazione e dal peso schiacciante della disfatta, senza più sogni né speranze. Invece vide un uomo che, inesplicabilmente, sorrideva. Villon si recò direttamente nel suo ufficio al palazzo del parlamento e incominciò a sgomberare la scrivania. Non vedeva ragione di attendere fino al mattino e sopportare una quantità di addii da parte di persone per le quali non nutriva né rispetto né simpatia. Il suo più stretto collaboratore bussò ed entrò. «Ci sono parecchi messaggi che lei...» Villon lo interruppe con un gesto della mano. «Non mi riguardano più. Da un'ora ho cessato di essere il ministro degli Interni.» «C'è una comunicazione del signor Brian Shaw che sembra piuttosto urgente. E anche il generale Simms ha tentato di mettersi personalmente in contatto con lei.» «Sì, per la faccenda del trattato nordamericano», disse Villon, senza alzare gli occhi. «Probabilmente mi pregano entrambi di assegnargli più uomini e più equipaggiamento.» «A dire il vero si tratta d'una richiesta diversa. Vorrebbero che la nostra Marina scortasse la nave americana fuori della zona in cui si trova il relitto dell'Empress of Ireland.» «Compili le carte necessarie e le firmi a mio nome. Poi si metta in comunicazione col comandante navale del distretto di San Lorenzo e lo incarichi di accogliere la richiesta.»
L'aiutante fece per uscire. «Aspetti!» gridò Villon. «Un'altra cosa. Informi il generale Simms e il signor Shaw che il Quebec, nazione sovrana, non consente più intrusioni britanniche nel proprio territorio e che, a partire da questo momento, debbono smettere definitivamente ogni forma di sorveglianza. Quindi invii un messaggio al nostro amico mercenario, il signor Gly: un lauto premio lo attende se darà un eclatante addio alla nave della NUMA e al suo equipaggio; di certo lui capirà.» 53 Arrivarono la mattina dopo, con le bandiere spiegate e metà dell'equipaggio schierata ordinatamente sul ponte per osservare l'Ocean Venturer. La spuma si dissolveva a poppa in onde leggere. Il battito ritmico dei motori rallentò e si spense quando il cacciatorpediniere canadese si fermò parallelamente all'avversario, duecento metri più a sud. Il radiotelegrafista uscì e si mise accanto a Pitt e a Heidi Milligan, vicino al parapetto. «Dal comandante del cacciatorpediniere Huron, della reale Marina canadese. Chiede il permesso di salire a bordo.» «Garbato e cortese», commentò Pitt. «Se non altro, ce lo chiede.» «Che avrà in mente?» domandò Heidi. «Credo di saperlo», rispose Pitt e, rivolgendosi al radiotelegrafista, comunicò: «Ricambio i saluti. Permesso accordato, a patto che ci onori accettando il nostro invito a colazione». «Mi chiedo che tipo sarà», mormorò Heidi. Pitt rise. «Chi altro se lo potrebbe chiedere, se non una donna? Probabilmente il tipo tirato a lucido, freddo, preciso e 'rappresentante ufficiale', dalla punta dei capelli a quella delle scarpe, capace di esprimersi soltanto in stile alfabeto Morse». «Parli per pura malignità», sorrise lei. «Aspetta e vedrai.» Le ricambiò il sorriso. «Scommetto che salirà lo scalandrone fischiettando l'inno canadese.» Il capitano di corvetta Raymond Weeks non corrispondeva affatto alle supposizioni. Era un uomo grassoccio e cordiale, con un paio d'occhi celesti ridenti e una voce dal timbro piacevole, che gli usciva dalla profondità del corpo atticciato e dotato di una rispettabile pancetta. Con barba, baffoni e costume di prammatica, sarebbe stato il tipico Babbo Natale da sistemare
all'ingresso dei grandi magazzini. Salì agilmente fin sul ponte e si diresse senza esitare verso Pitt, il quale se ne stava un poco discosto dal gruppetto schierato per accoglierlo. «Signor Pitt, sono il capitano di corvetta Ray Weeks. Mi sento davvero onorato d'incontrarla. Ho seguito con molto interesse la sua impresa per il recupero del Titanic. Mi potrei definire addirittura un suo fan.» Pitt, disarmato e lusingato, non riuscì che a balbettare un «il piacere è tutto mio». Heidi diede all'amico una gomitata. «Tirato a lucido, eh?» «Come, scusi?» chiese Weeks. «Niente, niente», fu pronta a replicare Heidi, allegramente. «Uno scherzo tra noi.» Pitt si riprese e procedette alle presentazioni, benché a suo modo di vedere fossero una formalità sprecata. Era sin troppo ovvio che Weeks era informatissimo. Pareva sapesse tutto di tutti. Si dilungò a commentare un'impresa archeologica subacquea che Rudi Gunn aveva quasi dimenticato sebbene l'avesse a suo tempo diretta personalmente. E si mostrò particolarmente premuroso con Heidi. «Se i miei colleghi ufficiali avessero il suo aspetto, comandante, credo che rimarrei in servizio attivo per tutta la vita.» «Le adulazioni meritano un compenso», intervenne Pitt. «Forse riuscirò a convincere Heidi a farle da guida sulla nostra nave.» «Ne sarei felicissimo.» Poi Weeks si fece serio. «Temo che lei non sarà forse altrettanto ospitale quando apprenderà il motivo della mia visita.» «È venuto ad annunciarci che l'incontro di calcio è sospeso per colpa della pioggia politica.» «La sua metafora è particolarmente appropriata.» Weeks si strinse nelle spalle. «Devo eseguire gli ordini. Mi rincresce.» «Quanto tempo ci lascia per ritirare uomini ed equipaggiamento?» «Di quanto tempo ha bisogno?» «Di ventiquattr'ore.» Weeks non era uno sprovveduto. Sapeva quanto bastava in fatto di recuperi per capire che Pitt tentava d'imbrogliarlo. «Gliene posso concedere otto.» «Ce ne occorrono almeno dodici per tirare su la camera pressurizzata.» «Lei sarebbe un abile mercante in un bazar turco, signor Pitt.» Sulle labbra del comandante ricomparve il sorriso. «In dieci ore ce la potrebbe fare benissimo.»
«Purché incominciate il conteggio dopo colazione.» Weeks alzò le mani in segno di resa. «Dio mio, lei deve averla sempre vinta, vero? Sta bene, facciamo dopo colazione.» Accompagnato da due ufficiali, Weeks seguì Heidi giù per una scala, fino alla piattaforma di lavoro nel pozzo centrale. Pitt e Gunn si diressero a passo lento verso la cabina di comando. «Perché diavolo un'accoglienza tanto riguardosa a un tizio che è venuto per cacciarci fuori a calci?» brontolò Gunn, seccatissimo. «Perché così mi sono comperato a buon prezzo dieci ore», spiegò Pitt, a bassa voce. «E perché sfrutterò quanti più minuti potrò affinché i nostri continuino a lavorare là sotto, intorno al relitto.» Gunn si fermò per guardarlo dritto in faccia. «Stai dicendo che non intendi interrompere l'operazione?» «Certo! È proprio quello che intendo.» «Tu sei matto.» Gunn scrollò la testa, sbalordito. «Ci occorrerebbero come minimo altri due giorni per arrivare alla cabina di Shields. Non hai la più remota possibilità di riuscire a tirarla tanto in lungo.» Pitt gli rispose con un sorriso di traverso. «Può darsi. Ma, perdio, ti do la mia parola che sono deciso a tentare.» Moon, sprofondato nel sonno, si accorse che qualcuno lo stava scuotendo. Era rimasto ininterrottamente in ufficio, ventiquattr'ore su ventiquattro, sin dal giorno in cui l'Ocean Venturer si era ancorato sopra l'Empress of Ireland. Aveva dimenticato che cosa fossero le normali ore di sonno e cercava di rifarsi schiacciando brevi pisolini. Quando ebbe riaperto gli occhi, a fatica, si trovò a fissarli sul volto corrucciato dell'uomo che dirigeva il dipartimento comunicazioni della Casa Bianca. Si rizzò a sedere con uno sbadiglio. «Qual è l'ultima?» Il funzionario gli allungò un foglio di carta. «Lo legga e pianga.» Moon lesse molto lentamente quanto vi stava scritto. «Dov'è il presidente?» «Sta parlando con un gruppo di sindacalisti messicani nel giardino delle rose.» Moon s'infilò le scarpe e si precipitò di corsa in corridoio, mettendosi la giacca e aggiustandosi il nodo della cravatta strada facendo. Il presidente aveva appena finito di stringere una quantità di mani e stava rientrando nello studio ovale quando Moon lo raggiunse. «Altre cattive notizie?» chiese.
Poi alzò la testa. Moon annuì e gli porse il messaggio. «Le più recenti trasmesseci da Pitt.» «Me lo legga mentre andiamo nel mio studio.» «Dice: 'Ricevuto ordine dalla Marina canadese di lasciare il San Lorenzo. Ottenuto rinvio di grazia di dieci ore per fare le valigie. Sottoposti sorveglianza da cacciatorpediniere alla fonda...'» «È tutto?» «Nossignore, c'è dell'altro...» «Coraggio, allora, sentiamo.» Il giovane riprese a leggere. «'Intendo trascurare ingiunzione. Recupero continua. Ci prepariamo respingere abbordaggio. Firmato Pitt.'» Il presidente si fermò. «Come?» «Che cosa, signore?» «L'ultima parte. Me la rilegga.» «'Ci prepariamo respingere abbordaggio.'» Il presidente scosse la testa, sbalordito. «Buon Dio, sono cent'anni che l'ordine di respingere un abbordaggio non è più stato impartito.» «Per poco che io sappia giudicare le persone, sono sicuro che Pitt farà quel che dice.» Il presidente appariva pensieroso. «Britannici e canadesi, quindi, ci hanno sbattuto la porta sul muso.» «Ho paura che questa sia la loro ultima parola», disse Moon. «Devo mettermi in contatto con Pitt e ordinargli d'interrompere il tentativo di recupero? Qualsiasi altra azione potrebbe provocare una reazione militare.» «È innegabile che stiamo camminando sul filo del rasoio, però chi mostra d'avere fegato merita una ricompensa.» Moon represse un subitaneo timore. «Non starà suggerendo di lanciare a Pitt un salvagente?» «Sì», confermò il presidente. «È proprio quanto sto proponendo. Era ora che mostrassimo anche noi di avere fegato.» 54 Se ne stavano l'una accanto all'altro, teneramente, come se fosse stata la prima volta; guardavano la luna che spuntava a est, tentando d'indovinare la destinazione delle navi di passaggio. Le due luci rosse, accese sull'albero maestro sopra di loro, indicavano che erano ormeggiati sopra un relitto
e diffondevano quel minimo di chiarore necessario per riuscire a scorgersi in volto. «Non avrei mai pensato che saremmo arrivati a questo punto», mormorò Heidi. «Hai mosso le acque e adesso s'increspano in cerchi concentrici sempre più larghi», replicò Pitt. Gli si appoggiò al fianco. «Strano che la scoperta d'una vecchia lettera in un archivio universitario abbia coinvolto un così gran numero di persone. Se almeno l'avessi lasciata dov'era...» sospirò. Lui le passò un braccio attorno alle spalle e la strinse con dolcezza. «La storia non si fa coi se.» Heidi portò lo sguardo sul cacciatorpediniere davanti a loro. I ponti e le sovrastrutture rettilinee erano illuminati a giorno; il ronzio dei generatori arrivava fin sull'Ocean Venturer. Una fascia di nebbia strisciò in avanti dalle rive e la donna rabbrividì. «Che succederà se non rispettiamo la scadenza fissata dal comandante Weeks?» Pitt sollevò il polso per vedere l'ora. «Lo sapremo tra venti minuti.» «Non puoi immaginare quanto mi vergogno.» Le lanciò un'occhiata. «Che c'è? Siamo al momento della confessione?» «Quel cacciatorpediniere non sarebbe qui, se non avessi chiacchierato con Shaw.» «Ricordi quel che ti ho detto a proposito dei se?» «Ma io sono andata a letto con lui. E questo peggiora le cose. Se qualcuno restasse ferito... o peggio... Io...» Non riuscì a trovare le parole e tacque, mentre Pitt le stringeva una mano. Rimasero qualche minuto in silenzio, fin quando un discreto colpetto di tosse dietro di loro non li richiamò alla realtà. Pitt si voltò: era Rudi Gunn, affacciato al ponte sovrastante. «Faresti meglio a venire su, Dirk. Weeks sta diventando piuttosto insistente. Protesta, dicendo che non vede nessun segno di un'imminente partenza. Io sto esaurendo i pretesti.» «Lo hai informato che a bordo abbiamo la peste bubbonica e un ammutinamento?» «Non è il momento di scherzare», ribatté Gunn, serio. «Inoltre abbiamo un contatto sul radar. Ho paura che il nostro ospite abbia chiamato rinforzi.» Attraverso i finestrini del ponte di comando, Weeks fissava la nebbia che stava salendo dall'acqua. Teneva in mano una tazza di caffè piena a
metà, che si andava raffreddando. Il suo atteggiamento, solitamente tollerante, incominciava a mutare a causa dell'irritante indifferenza che il battello della NUMA opponeva alle sue richieste d'informazioni. Rivolto al suo primo ufficiale, chino su uno schermo radar, chiese: «Che cosa ritiene che sia?» «Una grossa nave, e nient'altro. Probabilmente una cisterna costiera, oppure un trasporto di container. Lei ne vede le luci?» «Le vedevo solo quand'era sopra l'orizzonte. Adesso la nebbia le ha cancellate.» «La maledizione del San Lorenzo», commentò il primo ufficiale. «Non si sa mai quando la nebbia decide di calare su questa parte del fiume.» Weeks tentò di esplorare con il binocolo l'Ocean Venturer, ma il banco di nebbia stava già inghiottendo anche le sue luci. Pochi attimi e la nave da sorvegliare sarebbe diventata invisibile. Il primo ufficiale si rizzò, sfregandosi gli occhi. «Se l'esperienza non mi suggerisse il contrario, direi che è una rotta da far temere una collisione.» Weeks impugnò un microfono. «Sala radio, parla il comandante. Sintonizzatemi alla svelta sulla frequenza delle chiamate di sicurezza.» «Il contatto sta rallentando», annunciò il primo ufficiale. Weeks attese finché non udì il leggero crepitio d'una scarica statica dall'altoparlante del ponte. Poi incominciò a trasmettere. «Al natante sulla rotta controcorrente. Rilevamento zero-uno-sette gradi al largo di Pointe-auPère. Qui il cacciatorpediniere Huron, della reale Marina canadese. Vi prego di rispondere. Passo.» L'unica risposta fu un'altra scarica statica. Ripeté l'invito altre due volte, con lo stesso risultato. «Velocità ridotta a tre nodi e continua ad accostarsi. Distanza mille e ottanta metri.» Weeks ordinò a un marinaio di segnalare con il corno da nebbia per la navigazione interna che c'era una nave all'ancora. Quattro ululati rauchi del corno si propagarono sopra l'acqua cupa: uno breve, due lunghi, un quarto di nuovo breve. La risposta fu uno stridio prolungato che tagliò la nebbia. Weeks si affacciò sulla soglia, tentando di penetrare con lo sguardo l'oscurità notturna. La nave intrusa in accostamento era invisibile. «Sembra che stia scivolando tra noi e l'Ocean Venturer», riferì il primo ufficiale. «Perché non rispondono, per la miseria! Perché non girano al largo, quegli idioti?»
«Forse non sarebbe male mettergli addosso un po' di fifa.» «Sì, penso che servirebbe», rispose il comandante, con un balenio astuto negli occhi. Schiacciò il bottone trasmittente del microfono e disse: «Alla nave in accostamento a sinistra, di poppa. Questo è il cacciatorpediniere Huron, della reale Marina canadese. Se non vi identificate immediatamente, apriremo il fuoco e vi faremo saltare in aria». Passarono forse cinque secondi. Poi una voce gracchiante uscì dall'altoparlante del ponte, con un inconfondibile accento texano. «Questo è l'incrociatore lanciamissili Phoenix, della Marina degli Stati Uniti. Appena sei pronto spara pure, compare.» 55 Gli agricoltori del posto forse si sarebbero rallegrati della pioggia che cadeva a rovesci nella valle dell'Hudson, ma gli uomini del De Soto si sentivano invece più depressi che mai. La loro ricerca del Manhattan Limited non aveva fruttato niente, tranne i resti contorti e arrugginiti del vecchio ponte, che giacevano sparpagliati sul fondo del fiume, come le ossa di un antidiluviano dinosauro. Le ore si susseguivano sempre uguali; l'equipaggio se ne stava inchiodato agli strumenti; il timoniere faceva ripercorrere al battello cinque, sei volte gli stessi reticoli tracciati sulla carta, nella speranza collettiva di scorgere finalmente qualcosa che era sfuggita. Ben tre volte le sonde che rastrellavano il letto a strascico, da poppa, si erano impigliate negli ostacoli subacquei, determinando ritardi di ore prima che i sommozzatori riuscissero a liberarle. Giordino stringeva sempre più le labbra, irritato, mentre, chino sulle carte topografiche, schizzava nei singoli reticolati la posizione dei detriti rivelati dall'ecogoniometro. Alla fine alzò la testa e si rivolse a Glen Chase. «Be', non sappiamo di preciso dove si trova, ma almeno sappiamo con certezza matematica dove non si trova. Spero che la squadra dei sommozzatori abbia avuto miglior fortuna.» Guardò il grande cronometro d'ottone della timoneria. «Tra poco dovrebbero risalire.» Chase stava sfogliando oziosamente il rapporto storico sul disastro del Manhattan Limited che Heidi Milligan aveva compilato e inviato dal Canada. Si soffermò sulle due ultime pagine e le rilesse in silenzio. «E se il treno fosse stato recuperato dopo parecchi anni, quando non faceva più notizia, e nessuno si fosse scomodato a informarne i giornali?»
«Non credo», rispose Giordino. «Si era trattato di un disastro che aveva fatto epoca, da queste parti, e, se l'avessero ritrovato, la scoperta non sarebbe potuta passare sotto silenzio, la stampa ne avrebbe certamente parlato.» «C'era qualcosa di vero nelle asserzioni dei sommozzatori solitari della zona, che dichiaravano d'aver trovato la locomotiva?» «Nessuno le ha mai verificate. C'è un tizio che giura perfino d'esservi salito e di aver fatto suonare la campana. Un altro sostiene di aver attraversato a nuoto una delle carrozze, piena di scheletri. Sottoponimi un mistero insoluto e io ti trovo tutte le risposte più fantasiose, anche quelle fatte sotto giuramento.» Sulla soglia comparve, come evocata dal nulla, una figura con indosso una muta sgocciolante. Era Nicholas Riley, il caposquadra dei sommozzatori, che entrò nella timoniera, si lasciò cadere sul pavimento, con le spalle appoggiate a una paratia, e sospirò profondamente. «Quella corrente di tre nodi è micidiale», disse con voce stanca. «Hai trovato qualcosa?» chiese Giordino, ansioso. «Un vero magazzino di rottami», rispose Riley. «Le sezioni del ponte sono disseminate su tutto il letto del fiume. Molte travi d'acciaio sono ridotte in schegge, come per effetto di un'esplosione.» «La spiegazione si trova qui», disse Chase, sollevando il rapporto. «I genieri dell'esercito fecero saltare la parte superiore del relitto nel 1970, perché costituiva un pericolo per la navigazione.» «Nessuna traccia del treno?» «Niente, neppure una ruota.» Riley s'interruppe per soffiarsi il naso. «Il fondo geologico è formato da sabbia fine, molto cedevole. Se ci cadesse dentro una moneta da un cent sprofonderebbe pure quella.» «Stando a quanto ha rivelato la nostra sonda laser, lo strato roccioso incomincia undici metri più sotto», disse Chase. «Quindi la sabbia potrebbe ricoprire completamente un treno e avanzerebbero ancora altri sei metri», osservò Riley. Giordino strizzò le palpebre. «Se agli intelligenti toccasse in premio una rosa e agli idioti una puzzola, io me ne meriterei dieci, di puzzole, più o meno.» «Via, facciamo sette», lo punzecchiò Chase. «Perché questo mea culpa?» «Perché sono stato uno stupido e non ho visto subito la soluzione dell'enigma. Il magnetometro a protoni non può fornire una lettura attendibile al
cento per cento e lo scanner non può distinguere un intero treno seppellito nello strato sedimentario.» «Ti spiacerebbe farci partecipi della tua improvvisa illuminazione?» «Tutti danno per scontato che il ponte lesionato fosse crollato sotto il peso del treno e che fossero piombati giù insieme, nell'acqua, la locomotiva e le carrozze aggrovigliate con le travi d'acciaio, in un unico intrico», disse Giordino, parlando con profonda convinzione. «Ma se fosse stato il treno a precipitare per primo, dallo squarcio centrale, e tutto il ponte gli fosse caduto sopra dopo, coprendolo completamente?» Riley guardò fisso Chase. «Ritengo che abbia ragione. Il peso di tutto quell'acciaio avrebbe potuto cancellare senz'altro ogni traccia del treno, comprimendolo sotto la sabbia molle.» «Inoltre la sua teoria spiegherebbe il motivo per cui i nostri strumenti rivelatori hanno fatto cilecca», riconobbe Chase. «La massa in frantumi della struttura del ponte altera i dati forniti dalle nostre sonde e fa da schermo, impedendo di riconoscere la presenza degli oggetti sottostanti.» Giordino si rivolse a Riley: «Nessuna probabilità di scavare una galleria sotto il relitto?» «Impossibile», borbottò Riley. «Il fondo è simile alle sabbie mobili. Senza contare che la corrente è troppo forte perché i miei sommozzatori riescano a fare granché.» «Avremmo bisogno di una chiatta con sopra una gru, per dragare via i resti del ponte, se vogliamo mettere le mani sul treno», obiettò Giordino. Riley si alzò stancamente in piedi. «D'accordo. Manderò i miei ragazzi a scattare qualche foto di rilevamento là sotto, cosi sapremo dove calare le mascelle della gru.» Giordino si tolse il berretto e si asciugò la fronte con una manica. «Buffo come si mettono alla fine le cose. Pensavo che a noi fosse toccata la parte di tutto riposo, mentre i più scalognati sarebbero stati Pitt e i suoi.» «Dio solo sa con che cosa sono alle prese sul San Lorenzo», disse Chase. «Io non cambierei il nostro posto col loro.» «Mah, non saprei.» Giordino scrollò le spalle. «Scommetterei che, se Pitt è in piena forma, a quest'ora se ne sta seduto sul ponte su una poltrona a sdraio, in compagnia di una bella donna e di un buon whisky canadese.» 56 Una nebbia strana, una cortina di vapore rossastro e turbinante, toglieva
la visuale e gli ondeggiava densa a un palmo dal viso. Pitt tentò disperatamente, più e più volte, di passare dall'altra parte, allungando le mani davanti a sé, con i movimenti incerti d'un cieco. Non aveva avuto il tempo di prepararsi al colpo, né di rendersi conto di quanto stava per accadere. Si asciugò il sangue che gli colava sulla fronte e tastò un taglio, poco sopra le sopracciglia, che per sua fortuna non arrivava all'osso. Si rizzò in piedi a fatica, barcollando, e vide, senza credere ai propri occhi, una confusione di corpi che giacevano intorno a lui. Rudi Gunn, pallido come un lenzuolo, pareva lo guardasse da sotto in su, gli occhi vacui, totalmente privi d'espressione. Avanzava carponi, trascinandosi su mani e ginocchia, gemendo piano. «Mio Dio! Che cos'è successo?» «Non lo so, non lo so», rispose Pitt, con una voce che non riconobbe come propria. Sulla riva, Shaw si era irrigidito, come colto da paralisi; le labbra strette al punto da far sembrare la bocca un taglio sottile, la faccia contorta da una rabbia cieca, feroce, accresciuta dalla consapevolezza della propria totale impotenza. Ignorando l'ordine di Villon che gli imponeva di andarsene dal Canada, si era accampato sull'estremità orientale di Pointe-au-Père, a quattro chilometri dalla zona del recupero. Aveva montato il telescopio S-66 a lungo raggio, in dotazione all'esercito britannico, col quale si riusciva a leggere la testata di un giornale a otto chilometri di distanza, e si era sobbarcato il tedioso compito di tenere sotto costante osservazione la flottiglia di battelli ancorati sopra l'Empress of Ireland. Lance stavano facendo la spola tra le due navi della Marina americana e canadese, con la regolarità di traghetti tenuti a rispettare l'orario. Shaw si divertiva immaginando le accese trattative tra gli ufficiali delle due parti. L'Ocean Venturer pareva abbandonato, senz'anima viva a bordo. Nessuno che si muovesse sui ponti; però poteva vedere chiaramente che il derrick era in funzione, poiché l'enorme artiglio seguitava a tirare su detriti coperti di limo dal relitto sul fondo. Shaw si mise a sedere, per concedere un po' di riposo agli occhi affaticati e sgranocchiare due barrette di cioccolato che rappresentavano tutta la sua colazione. Notò un piccolo idroplano fuoribordo che scendeva velocissimo lungo il fiume - calcolò che viaggiasse a una velocità dai centoquaranta ai centosessanta chilometri orari -, sfiorando la cresta delle onde e lasciandosi dietro una scia che somigliava a
una coda di gallo. La sua innata curiosità fu solleticata e puntò il telescopio sul battello. Lo scafo era verniciato in giallo metallizzato, con una fascia rosso scuro che si svasava verso poppa. Quando la rotta coincise con la direzione dei raggi del sole, parve una freccia appena scoccata. Shaw attese che uscisse dal chiarore abbagliante, poi azzerò il telescopio e lo puntò sul pilota. L'uomo seduto ai comandi, dietro il parabrezza, portava un paio di occhialoni da aviatore, però la faccia dura e squadrata e il naso schiacciato erano inconfondibili. Shaw non ebbe dubbi: Foss Gly. Seguì affascinato l'idroplano mentre tracciava un ampio cerchio intorno alle tre navi, balzando sulla superficie del fiume con le sole eliche immerse, per piombare poi sull'acqua provocando un rombo cupo che si ripercosse fino a lui, come un rullo di tamburo. Gli era difficile mantenere il telescopio puntato sul battello in corsa, ma riuscì a inquadrarlo bene al momento d'inversione di rotta, il che gli permise di distinguere chiaramente la cabina di guida. Gly stringeva forte il volante con la sinistra; nella destra teneva sollevata una scatolina. Un'asticciola sottile brillò al sole e Shaw capì che era un'antenna. «No!» urlò al vento, intuendo inorridito l'intenzione del killer. «No, maledetto, no!» La quiete mattutina venne improvvisamente rotta da un rombo sordo, che sembrava provenire da lontano e poi s'ingigantì con terribile rapidità. Al momento dell'esplosione delle cariche a bordo dell'Empress, una colonna d'acqua ribollente s'alzò altissima verso il cielo, tutt'intorno all'Ocean Venturer. La nave addetta al recupero rimase sospesa per alcuni secondi, poi ricadde di fianco, a dritta, sempre più giù, finché non sembrò che la massiccia colonna d'acqua l'avesse ingoiata. La violenza dell'esplosione si ripercosse fin sulla riva lontana, tanto che Shaw fu costretto ad afferrarsi al treppiede del telescopio per reggersi in piedi. E là rimase, istupidito e incredulo. Il getto si allargò a ventaglio in un'ampia nuvola vorticante intorno agli alberi maestri dell'Huron e del Phoenix, resistendo alla forza di gravità e ricadendo alla fine in un torrente che dilavò le sovrastrutture di entrambe le navi. Non uno degli uomini rimase in piedi sui ponti. Furono scaraventati tutti per terra, oppure oltre il parapetto dalla forza dello scoppio. Quando Shaw ripuntò il telescopio sull'idroplano, Gly stava già risalendo il fiume, verso Quebec. Impietrito e pervaso da una rabbia impotente, l'inglese non poté fare altro che seguire con gli occhi il delinquente che, una volta di più, se la cavava sano e salvo. Poi si voltò per guardare di nuovo l'Ocean Venturer. La si sarebbe detta una nave spacciata. Pareva in
procinto di affondare di poppa e la carena, inclinata a dritta, sporgeva di molto dall'acqua. Il derrick penzolava di lato, scricchiolando paurosamente. Poi si abbatté pesantemente sul fianco con un fracasso assordante, lasciando sui ponti un inestricabile groviglio di rottami e di gomene. Dio solo sapeva quanti erano gli uomini rimasti uccisi o storpiati tra i muri di acciaio. Shaw non se la sentì di sopportare oltre l'orrendo spettacolo. Imbracciò il telescopio e si allontanò a passi pesanti dalla riva, sentendo ancora nelle orecchie il rombo cupo dell'esplosione che seguitava a diffondersi attraverso il fiume. 57 Per qualche inesplicabile motivo l'Ocean Venturer si rifiutò di morire. Forse fu la pesante chiglia doppia, progettata e costruita per spingersi attraverso i ghiacci, a salvarlo. Buona parte delle piastre metalliche esterne si era spaccata, la tenuta stagna del fasciame aveva ceduto e la chiglia si era contorta. I danni erano estesi e molto gravi, però la nave sopravviveva. Pitt, fermo in piedi e vittima dello stordimento, aveva visto il derrick piombare giù, attraverso i finestrini senza più vetri della cabina di comando. Allentò la stretta sulla maniglia della porta alla quale si era afferrato e andò a cozzare traballando contro la consolle di Hoker: il senso dell'equilibrio gli confermò ciò che gli occhi si rifiutavano di credere: il ponte era inclinato a un angolo di trenta gradi. Il suo primo pensiero fu la dolorosa certezza che la nave era irrimediabilmente persa; subito dopo gli si affacciò alla mente un secondo e non meno doloroso pensiero: come poteva aver ridotto la tremenda esplosione i sommozzatori che lavoravano intorno al relitto? Si sforzò di superare lo shock che gli annebbiava il cervello e il dolore sordo che gli martellava nella testa. Ricapitolò mentalmente ciò che andava fatto, passo dopo passo, secondo logica, e si accinse a eseguirlo. Si accostò all'interfono e chiamò il capo macchinista. Passò poco meno di un minuto - che a Pitt parve eterno - prima che una voce resa impersonale dallo sbalordimento gli rispondesse: «Sala macchine». «Metz, è lei?» «Dovrebbe parlare più forte. Non riesco a sentirla.» Pitt si rese conto che gli uomini dei ponti inferiori e della sala macchine erano rimasti assordati dal fragore dello scoppio e dai colpi che indubbiamente avevano subito. Urlò, con le labbra attaccate all'imboccatura: «Metz, qui parla Pitt!»
«Così va meglio, adesso la sento», rispose l'altro, con voce monotona cui l'apparecchio conferiva una risonanza metallica. «Che diavolo sta succedendo?» «Tutto ciò che riesco a immaginare è che ci sia stata un'esplosione là sotto, sul relitto.» «Per la miseria! Pensavo che i canadesi ci avessero spedito un siluro.» «Mi faccia il resoconto dei danni.» «Qua è come lavorare sotto un centinaio di rubinetti aperti. L'acqua sta entrando da tutte le parti. Non credo che riusciremo a pomparla fuori. Questo è tutto ciò che le posso dire fintanto che non avrò esaminato lo scafo.» «Ci sono feriti?» «Siamo stati catapultati qua e là come acrobati ubriachi. Credo che Jackson si sia rotto un ginocchio e Gilmore deve avere una frattura cranica. A parte questi, un po' di timpani in malora e un sacco di lividi.» «Mi richiami ogni cinque minuti», ordinò Pitt. «E qualunque cosa vi mettiate a fare, tenete in moto i generatori.» «Non c'era bisogno che me lo ricordasse. Se i generatori vanno, andiamo bene anche noi.» «Vedo che ha afferrato il concetto.» Pitt chiuse la comunicazione e si girò a guardare Heidi, preoccupato. C'era Gunn inginocchiato accanto a lei e le reggeva la testa nel cavo del braccio. La donna giaceva rannicchiata contro il tavolo delle carte nautiche e fissava gli occhi vacui sulla propria gamba sinistra, piegata in un angolo innaturale. «Strano, non mi fa male... neanche un po'», sussurrò. I dolori verranno tra poco, pensò Pitt. Era già sbiancata in faccia come un lenzuolo per lo shock. Le prese una mano. «Sfattene qui tranquilla: vedo se riesco a trovare una barella.» Avrebbe voluto parlarle, confortarla, ma non ne aveva il tempo. Si allontanò da lei, a malincuore, nell'udire la voce angosciata di Hoker. «Fuori uso!» Il tecnico stava lottando con se stesso per riprendersi. Raccolse la seggiola che era caduta sul ponte e fissava sgomento la consolle e i monitor spenti. «E allora sbrigati ad aggiustare il tuo maledetto aggeggio!» disse Pitt, in tono aspro. «Dobbiamo sapere al più presto che ne è stato dei sommozzatori.» Prese una cuffia e si collegò con tutti i ricevitori dell'Ocean Venturer. Sui ponti e nelle sale sottostanti gli scienziati e i tecnici della NUMA incominciavano a riprendersi dallo sconquasso e a darsi da fare furiosamente
per rimettere in sesto la loro nave. I feriti più gravi furono trasportati nell'infermeria, ma ben presto i lettini furono tutti occupati e allora li adagiarono in fila nel corridoio. Chi non doveva provvedere alle riparazioni più urgenti diede una mano a spostare i frammenti del derrick o a turare le incrinature che si erano aperte nello scafo, lavorando con l'acqua gelida fino alla cintola. Una squadra di sommozzatori venne adunata in tutta fretta per un'immersione. Pitt incominciò a essere subissato da una valanga di messaggi mentre dirigeva le operazioni. Gli comparve davanti un radiotelegrafista che ancora non si era ripreso dallo stupore di quanto aveva appena ricevuto. «Un attimo fa, dal comandante del Phoenix. Chiede se abbiamo bisogno di aiuto.» «Cristo, se ne abbiamo bisogno!» gridò Pitt. «Gli dica di accostarsi con la sua nave, portandosi di fianco a noi. Ci occorrono tutte le pompe di cui dispone e tutti gli uomini che ci può assegnare per la verifica dei danni.» Rimase in attesa, impaziente di udire la risposta, e intanto si premette un asciugamano bagnato sulla fronte. «Ecco la risposta», annunciò il radiotelegrafista, eccitato. «Dice: 'Tenete il forte. Ci ancoreremo alla vostra dritta'.» Pochi secondi dopo ricomparve: «Il comandante Weeks dell'Huron vorrebbe sapere se stiamo per abbandonare la nave». «Già, gli piacerebbe», brontolò Pitt. «Così i suoi problemi si risolverebbero di colpo.» «Attende una risposta.» «Digli che abbandoneremo la nave quando saremo capaci di scendere con le nostre gambe sul fondo. Poi rivolgigli la richiesta di uomini e attrezzature di pompaggio...» «Pitt?» Era la voce di Metz. «Sono in ascolto.» «Pare che sia stata la poppa a subire la massima violenza dell'esplosione. Da mezza nave in avanti lo scafo è ancora intatto e asciutto. Poi, da qui verso prua, è più dentellato di un puzzle. Ho paura che siamo fritti.» «Per quanto tempo ce la fa a tenerci a galla?» «L'acqua, alla velocità con cui sta salendo, dovrebbe arrivare ai generatori e mandarli in corto entro venti-venticinque minuti. Le pompe non funzionerebbero più e allora ce ne resterebbero, se va bene, altri dieci.» «Stiamo per ricevere aiuti. Apra i portelloni laterali di caricamento, in modo che gli uomini e le pompe del cacciatorpediniere si possano trasferire qui a bordo.»
«Faranno bene a spicciarsi, perché altrimenti non troverebbero nessuno a dargli il benvenuto.» Il radiotelegrafista gli fece un cenno e Pitt gli si avvicinò con la fretta consentita dal ponte inclinato. «Ho ristabilito il contatto col Sappho I», annunciò. «La collego con loro telefonicamente.» «Sappho I, qui parla Pitt. Rispondete, per favore.» «Qui è Klinger del Sappho I, o di quanto ne è rimasto.» «In che condizioni vi trovate?» «Siamo circa centocinquanta metri a sud-est del relitto, con la prua conficcata nella melma. Lo scafo ha resistito allo scuotimento - ci pareva d'essere all'interno di una campana mentre rintocca -, però uno dei finestrini d'osservazione si è spaccato e imbarchiamo acqua.» «I sistemi d'aerazione d'emergenza funzionano?» «Sì. Dovrebbero mantenerci in vita ancora per un bel po'. Dovremmo restare sotto quindici ore buone prima che la riserva di ossigeno si esaurisca.» «Potete riemergere in salita libera?» «Io potrei», rispose Klinger. «Nello sconquasso ho perso soltanto un dente. Marv Powers, invece, è malconcio. Frattura di tutt'e due le braccia e un brutto colpo in testa. Non ce la farebbe mai a ritornare da solo in superficie.» Pitt chiuse un attimo gli occhi, chiedendosi che cosa doveva fare. Non gli piaceva atteggiarsi a padreterno quando si trattava di vite umane, decretando le priorità su chi doveva essere salvato per primo o per ultimo. Presa la decisione, li riaprì. «Dovrà resistere per un po', Klinger. Non appena possibile vi tireremo su. Si rimetta in comunicazione con me ogni dieci minuti.» Uscì sul ponte e guardò in basso. Quattro sommozzatori si stavano calando giù lungo la fiancata. «Sono riuscito a catturare un'immagine», annunciò Hoker, trionfante, mentre uno dei monitor s'illuminava. Sullo schermo comparve l'immagine del cosiddetto pozzo visto dal ponte di passeggiata superiore. Le colonne di supporto avevano ceduto sotto l'urto e il ponte sottostante era crollato, piombando giù all'interno. Non c'era segno dei due sommozzatori chiusi negli scafandri JIM e neppure di quelli che sarebbero dovuti essere nella camera pressurizzata. L'occhio gelido e indifferente della telecamera non mostrava altro che un
cratere circondato da lamiere d'acciaio grottescamente contorte, ma Pitt aveva la sensazione di guardare in una tomba aperta. «Dio li aiuti», mormorò Hoker col fiato che gli si spezzava in gola. «Devono essere morti, tutti quanti.» 58 A settanta miglia di distanza, il comandante Toshio Yubari, un omone robusto con il volto segnato dalle vicissitudini, nella piena vigoria dei suoi quarant'anni, sedeva eretto sul ponte della sua nave, e seguiva con attenzione il traffico dei natanti di piccola stazza che costellavano l'acqua tutt'intorno. La marea calava e la nave-mercantile Honjo Maru, lunga circa duecento metri, avanzava alla velocità costante di quindici nodi. Yubari aveva deciso di attendere, per aumentarla a venti, dopo che la sua nave avesse doppiato l'isola di capo Breton. La Honjo Maru aveva trasportato da Kobe, in Giappone, quattrocento minivetture elettriche nuove e, sulla rotta di ritorno, trasportava un carico di carta da giornale uscita dalle grandi cartiere di Quebec. I giganteschi rotoli che riempivano i container erano assai più pesanti, per unità di volume, delle minuscole automobili e lo scafo viaggiava basso sull'acqua, a sette centimetri appena dalla linea di galleggiamento. Shigaharu Sakai, il primo ufficiale, uscì dalla timoniera e si fermò accanto al comandante. Soffocò uno sbadiglio e si stropicciò gli occhi arrossati. «Si è divertito stanotte, a terra?» chiese sorridendo Yubari. Sakai mormorò qualcosa d'incomprensibile in risposta e cambiò argomento. «Buon per noi che non abbiamo salpato di domenica», disse, indicando con il capo una flottiglia d'imbarcazioni sportive a vela che gareggiavano lungo una rotta segnata da gavitelli, a poco più di un miglio dalla loro prua, sulla dritta. «Sì, mi hanno raccontato che durante il fine settimana il traffico è così intenso che si potrebbe quasi andare da una riva all'altra camminando sui panfili.» «Vuole che rimanga io di guardia sul ponte, comandante, mentre lei si gusta in pace il pasto di mezzogiorno?» «Grazie, ma preferisco restare qui fin quando non sboccheremo nel Golfo», rispose Yubari seguitando a guardare davanti a sé. «Comunque chieda
al cambusiere di portarmi una ciotola di tagliolini e una birra.» Sakai stava già per allontanarsi, ma si fermò a metà movimento, indicando un punto più a valle. «Sta arrivando un tale che dev'essere molto ardito o molto incosciente.» Yubari aveva già avvistato l'idroplano e lo guardava con l'ammirazione tipica degli uomini affascinati dalla velocità. «Quello lì deve fare poco meno di novanta nodi.» «Se finisce contro uno di quei cutter, non ne rimarrà abbastanza da ricavarne un paio di stuzzicadenti.» Yubari si alzò in piedi. «Quel pazzo punta diritto su di loro.» L'idroplano caricò nel folto della massa come un coyote tra un branco di polli. Gli equipaggi delle barche a vela straorzarono alla disperata in tutte le direzioni, perdendo il vento, quindi le vele spiegate si afflosciarono di colpo e incominciarono a sbattere. L'inevitabile accadde quando l'idroplano investì di prua un panfilo, strappandogli via la livarda e perdendo a propria volta metà del parabrezza. Poi, di nuovo libero, lasciò dietro di sé la flottiglia sparpagliata che rollava pesantemente nella sua scia spumeggiante. Yubari e Sakai non riuscivano a staccare gli occhi, come incantati, dai grotteschi balzi del natante che, compiendo una brusca orzata, si dirigeva verso la Honjo Maru. Ormai era così vicino che i due uomini riuscivano a distinguere una figura rannicchiata sopra il volante, nella cabina di guida. Dopo che la livarda del panfilo ebbe strappato via il parabrezza, si resero improvvisamente conto che il pilota doveva essere rimasto ferito. Non c'era tempo per lanciare ordini a voce o per azionare la sirena. Non ci fu nemmeno il tempo, per Yubari e Sakai, di fare alcunché: se ne stettero inchiodati sul ponte, impotenti come un pedone all'angolo d'una strada, consapevole dell'inevitabile incidente e della propria incapacità d'intervenire per impedirlo. Si scansarono per istinto, chinandosi, nel momento in cui l'idroplano andò a fracassarsi contro il baglio di sinistra della Honjo Maru ed esplose immediatamente in una cortina di fiamme alimentate dalla benzina che usciva a fiotti dal serbatoio. L'idroplano volò alto nell'aria prima di ricadere, fracassandosi, sul castello di prua della nave-mercantile. Rottami incandescenti colpirono il ponte in tutta la sua lunghezza, come schegge di shrapnel. Quasi tutte le finestre della timoniera andarono in pezzi. La pioggia ardente continuò a cadere dall'alto per parecchi secondi, sulla nave e sulle acque circostanti. Fu un miracolo che nessuno, a bordo, restasse ferito. Yubari ordinò di
fermare le macchine e fece calare una scialuppa perché perlustrasse la zona del fiume, a poppavia, dove una chiazza di nafta stava salendo a galla dal fondo e si allargava sulle lunghe onde. Tutto ciò che trovarono del pilota dell'idroplano furono un giubbotto di cuoio semicarbonizzato e un paio di occhialoni di plastica rotti. 59 Col passare delle ore il morale, a bordo dell'Ocean Venturer, si rinfrancò e verso il tardo pomeriggio tra gli uomini incominciò a diffondersi un cauto ottimismo. I soccorsi, umani e meccanici, affluivano senza sosta dall'Huron e dal Phoenix; le pompe ausiliarie non tardarono a bloccare l'avanzata dell'acqua che entrava nei ponti inferiori e dopo che i resti del derrick furono asportati, lo sbandamento si ridusse a diciannove gradi. La maggior parte dei feriti più gravi, compresa Heidi, fu trasferita sul Phoenix, che disponeva di un'infermeria più grande e meglio attrezzata. Pitt s'incontrò con lei sul ponte, mentre la stavano portando in lettiga. «Non è stata granché come crociera, vero?» le chiese, scostandole carezzevolmente dalla fronte i capelli biondo cenere. «Non me la sarei voluta perdere per tutto l'oro del mondo», sorrise lei in risposta. Pitt si chinò per baciarla. «Verrò a trovarti non appena mi sarà possibile.» Poi si girò e si arrampicò su per la scaletta inclinata, diretto verso la cabina di comando. Rudi Gunn lo aspettava sulla soglia. «Hanno avvistato uno scafandro JIM: galleggiava più a valle», disse. «Una scialuppa dell'Huron se l'è preso a rimorchio.» «Niente notizie dalla squadra dei sommozzatori di soccorso?» «Il capo, Art Dunning, si è messo in comunicazione con noi un minuto fa. Non hanno ancora ritrovato la camera pressurizzata, ma ci ha riferito che lo scoppio, a quanto sembra, è avvenuto a prua dell'Empress. Tutto il castello di prua si è disintegrato. Rimane aperto il problema di sapere da dove proveniva l'esplosivo.» «L'avevano depositato prima che arrivassimo», affermò Pitt. «Oppure dopo.» «Dopo non avrebbero potuto metterne tanto da provocare una simile devastazione. Come avrebbero fatto a intrufolarsi, con le misure di sicurezza che avevamo predisposto?»
«Quello scimmione scaltro d'uno Shaw è capace di tutto.» «Avrebbe potuto trascinare fin qui sotto i pesanti contenitori di esplosivo subacqueo una volta sola, non di più. E lo hanno collocato nella sezione di prua dell'Empress in attesa di capire come avrebbero dovuto distribuirlo in tutto il relitto per distruggerlo.» «Già, con la nave saltata in aria, addio trattato, prima ancora che noi fossimo spuntati all'orizzonte.» «Però siamo spuntati prima del previsto e gli abbiamo scombussolato i piani. È per questo che ci hanno rubato il bebè-sonda. Avevano paura che scoprisse il nascondiglio degli esplosivi.» «Shaw aveva dunque bisogno di fermarci a tutti i costi, anche ricorrendo a una strage?» «È proprio questa ipotesi che non mi convince», confessò Pitt. «Non saprei spiegare perché, ma scommetterei che non è il tipo da ammazzare senza scrupolo.» Girò intorno lo sguardo e scorse Metz, il capo macchinista, che si dirigeva lentamente verso la cabina di comando. Inzuppato fradicio dal berretto agli stivali, pareva sul punto di crollare, il volto tirato e livido. I suoi abiti emanavano un forte odore di nafta. «Vuol saperne una?» Abbozzò un sorriso stanco. «Il nostro Ocean Venturer ce la farà. Non sarà più quello che era, però ci riporterà a casa.» Era la più bella notizia che Pitt avesse udito dal momento dell'esplosione. «Avete arginato l'allagamento?» Metz annuì. «Rispetto a un'ora fa, il livello è calato di venti centimetri. Non appena lei mi potrà mettere a disposizione un paio di sommozzatori, farò turare all'esterno le falle più grosse.» «L'Huron...» borbottò Pitt, ansioso. «Potete fare a meno delle pompe dell'Huron?» «Penso di sì», lo rassicurò Metz. «Fra il nostro equipaggiamento e quello del Phoenix, ritengo che riusciremo a cavarcela.» Pitt non perdette altro tempo. Trascurando il solito sistema di mettersi in comunicazione via radio, urlò nel microfono della sua cuffia. «Klinger!» La risposta impiegò alcuni secondi per arrivargli e, quando giunse, la voce era impastata. «Ehilà, qui parla il capitano Nemo del Nautilus. Passo.» «Chi parla?» «Quel tizio delle non so quante leghe sotto i mari. Lo sa, no? Un film
fantastico. Lo avevo visto da ragazzino, a Seattle. Il meglio era la lotta col calamaro gigante.» Pitt stentò a raccapezzarsi, poi comprese che cosa stava accadendo là sotto. «Klinger!» urlò, facendo sussultare tutti quelli che si trovavano nella cabina di comando. «Il suo livello di anidride carbonica è troppo alto! Mi ha sentito? Controlli il suo apparecchio per la depurazione dell'aria. Ripeto: controlli l'apparecchio per la depurazione dell'aria.» «Ehi, lassù, che ve ne pare?» replicò Klinger, in tono allegro. «La lancetta dice che stiamo respirando il dieci per cento di CO2.» «Perdio, Klinger, mi ascolti! Deve regolare l'apparecchio per ridurla allo zero virgola cinque per cento. Sta soffrendo di anossia.» «Eseguito. Come ha fatto a capirlo?» Pitt respirò di sollievo. «Resista ancora un po' e attivi il localizzatore sonoro. L'Huron sta arrivando per issarla a bordo.» «Come vuole lei», rispose Klinger, ossequioso. «E l'acqua? Sale rapidamente all'interno?» «Ancora due, forse tre ore prima che le batterie siano sommerse.» «Aumenti l'ossigeno, ha sentito? Dia più ossigeno. Ci vediamo stasera a cena.» Si girò, per impartire istruzioni a Gunn, ma l'ometto lo aveva preceduto e stava già per uscire. «Dirigerò personalmente, da bordo dell'Huron, il salvataggio del Sappho I», annunciò. E scomparve. Pitt, dalle finestre aperte, vide il braccio d'una piccola gru che issava fuori dell'acqua lo scafandro JIM. Una scialuppa del Phoenix era in attesa, a breve distanza. La cupola non era agganciata e si spalancò. Tre marinai del Phoenix l'agguantarono ed estrassero dall'interno un corpo mollemente abbandonato, che deposero sul ponte. Poi uno di loro guardò in su, verso Pitt, e gli fece un segno col pollice alzato. «È vivo!» gridò. Due uomini del Sappho I e uno degli uomini negli scafandri JIM salvi e l'Ocean Venturer ancora a galla, riepilogò Pitt tra sé. Purché la fortuna continuasse ad assisterli. Dunning e la sua squadra avevano trovato la camera pressurizzata a quasi duecento metri dal punto in cui era stata ancorata. Lo sportello esterno del primo compartimento era chiuso, con la serratura bloccata, e avevano dovuto forzarla, tendendo i muscoli al massimo mentre manovravano rit-
micamente sbarre d'acciaio lunghe ciascuna un metro e venti. Poi si rivolsero tutti a Dunning, guardandolo attraverso le maschere. Nessuno di loro avrebbe voluto entrare per primo. Fu Dunning a precederli, introducendovisi a nuoto e proseguendo fin quando non si trovò con la testa nell'atmosfera pressurizzata. Si arrampicò fino a una piccola mensola, si liberò della bombola, esitò, quindi s'introdusse adagio nello scompartimento principale. Il cavo elettrico che aveva collegato il cassone all'Ocean Venturer era stato tranciato e, a tutta prima, si trovò nel buio completo. Accese la sua torcia da sub e ne fece vagare il raggio nell'angusto spazio. Tutti quelli che vi si trovavano dentro erano morti, ammucchiati l'uno sopra l'altro come una catasta di legna. Avevano la pelle d'un turchino rossastro e il sangue uscito da un centinaio di ferite aveva formato una larga pozza sul pavimento e già si stava coagulando per il freddo. Dai rivoletti che scorrevano dalle orecchie e dalle bocche, Dunning capì che erano morti sul colpo, per effetto del tremendo scossone, prima che i loro corpi venissero ridotti quasi in poltiglia quando quella che era diventata una bara aveva incominciato a vorticare furiosamente sul letto del fiume, sotto la violenza dell'esplosione. Rimase fermo, in preda ai conati di vomito, tremando per la nausea che lo sconvolgeva e per l'odore della morte. Passarono cinque minuti buoni prima che trovasse la forza di chiamare l'Ocean Venturer e di parlare in maniera coerente. Fu Pitt a raccogliere il messaggio. Chiuse gli occhi e si appoggiò di peso contro un quadro di comando. Non ribolliva di rabbia, si sentiva soltanto addolorato, in modo indicibile. Hoker, che l'osservava, poté leggere la triste realtà dai lineamenti di quel volto forte ed espressivo. «I sommozzatori?» «Era Dunning», rispose Pitt, con lo sguardo perso nel vuoto. «Gli uomini nella camera pressurizzata... non ci sono superstiti. Tutti morti per effetto dell'impatto. Due sono dispersi. Se si trovavano fuori, esposti alla violenza dello scoppio, non ci sono più speranze. Dice che riporteranno su le salme.» Hoker fu incapace di dire qualcosa. Pareva invecchiato di colpo e smarrito. Si rimise al lavoro intorno alla consolle degli schermi, con movimenti lenti, meccanici. Tutt'a un tratto Pitt si sentì troppo esausto per fare qualsiasi cosa. Era stato un fallimento, un desolante fallimento. Unico risultato: la perdita di dieci uomini tra i migliori. Perciò non prestò subito attenzione alla debole voce che risuonava nella cuffia. Alla fine il mormorio riuscì a penetrare la barriera del suo sconfor-
to. Chiunque fosse che tentava di comunicare, pareva allo stremo e lontanissimo. «Sono Pitt. Che c'è?» La risposta gli giunse confusa, indecifrabile. «Deve parlare più forte, non riesco a sentirla. Provi ad alzare il volume.» «Così va meglio?» «Sì, adesso la sento.» Gli giunse l'eco della propria voce. «Chi è che chiama?» «Collins.» Poi le prime parole pronunciate dall'altro gli sfuggirono. «... tentando di mettermi in contatto telefonico sin dal momento che sono arrivato qua sotto. Non capivo che cosa fosse accaduto. Solo una serie di maledette scariche. Adesso finalmente mi è riuscito d'inserire il collegamento.» Collins era un nome che suonava nuovo a Pitt. In quei pochi giorni a bordo dell'Ocean Venturer aveva avuto troppo da fare per imparare a memoria centinaia di nomi e associarli alle rispettive facce. «Che cosa le crea difficoltà?» chiese, impaziente, col cervello già occupato da altri problemi. Seguì una lunga pausa. «Secondo il mio modo di vedere, si potrebbe dire che sono intrappolato», fu la risposta, pesantemente venata di sarcasmo. «E se la cosa non le dà troppo disturbo, le sarei molto grato se si desse da fare per tirarmi una buona volta fuori di qua.» Pitt batté un colpetto sulla spalla di Hoker. «Chi è Collins e quali sono le sue mansioni?» «Non lo sai?» «Se lo sapessi, non te lo chiederei», grugnì Pitt. «Dice d'essere intrappolato e di avere bisogno d'aiuto.» Hoker gli lanciò un'occhiata incredula. «Collins è uno dei sommozzatori con lo scafandro JIM! Era sotto al momento dell'esplosione.» «Cristo!» borbottò Pitt. «Deve pensare che sono l'idiota del secolo.» Riprese il microfono e disse, quasi strillando: «Collins, mi descriva la sua condizione e il punto preciso in cui si trova!» «Lo scafandro è intatto. Un paio di ammaccature e di graffi, ma niente di più. L'apparato di emergenza indica che mi restano ancora venti ore, sempre che non mi metta a praticare la ginnastica aerobica.» Pitt non poté far a meno di sorridere per l'umorismo di cui Collins era capace e gli dispiacque di non conoscerlo. «Dove sono? Mi venga un accidente se lo so di preciso. Lo scafandro mi si è conficcato nella melma fino al cavallo ed è tutto avvolto da un mare
d'immondizia. Riesco a malapena a muovere le braccia.» Pitt spostò lo sguardo su Hoker, ritto dietro di lui, con una strana espressione, impenetrabile. «È possibile che riesca a liberarsi della braga di sollevamento, sganciarsi i piombi di zavorra e risalire in emersione libera come ha fatto il suo compagno?» chiese Hoker. Pitt fece di no con la testa. «È semisepolto nella fanghiglia e impigliato nel relitto.» «Dicevi che è sprofondato nel limo?» Pitt annuì. «Allora dev'essere caduto proprio sul ponte di seconda classe.» Anche a Pitt balenò la possibilità che fosse così, ma non osò non solo esprimere ma neppure formulare tacitamente la speranza. «Glielo chiedo», decise, in apparenza calmo. «Collins?» «Sì. Sono qui, non mi sono allontanato.» «È in grado di stabilire se è finito nella zona del nostro obiettivo?» «Mi piacerebbe saperlo», rispose Collins. «Ho perso i sensi subito dopo il grande botto. E qui c'è un casino che non le dico. Solo adesso la visibilità incomincia a schiarirsi un po'.» «Si guardi intorno. Mi descriva quello che vede.» Pitt attese impaziente di sentire qualcosa e intanto, senz'accorgersene, picchiava colpetti secchi con le nocche sopra un computer. I suoi occhi corsero sull'Huron e sul braccio della gru, che sporgeva oscillando dal ponte di poppa, per agganciare il Sappho I che si trovava sotto, a perpendicolo. Un improvviso crepitio nella cuffia lo fece irrigidire. «Pitt?» «Sono in ascolto.» La nota di fiducia in se stesso era scomparsa dalla voce del sommozzatore. Adesso suonava stranamente ansiosa. «Ritengo di trovarmi nel punto dove la prua della Storstad speronò l'Empress. I danni che vedo qua attorno sono di vecchia data... molti segni di corrosione e una quantità d'incrostazioni...» S'interruppe senza finire la descrizione. Riprese a parlare dopo un po', con una voce che tradiva un'ombra di raccapriccio. «Ho trovato ossa umane. Conto due... no, tre scheletri. Sono incastrati tra le macerie. Dio santo, mi sembra d'essere capitato in una catacomba!» Pitt tentò di figurarsi lo spettacolo che Collins aveva davanti a sé e si chiese che cosa avrebbe provato lui al suo posto. «Continui. Che altro c'è?» «I resti dei poveri diavoli, quali che fossero, si trovano sopra di me, poco
più in alto, tanto che potrei quasi toccarli e dargli un buffetto sulla testa.» «Sui crani, vorrà dire.» «Be', sì, sui crani. Uno è più piccolo, forse è quello di un bambino. Gli altri sembrano di adulti. Vorrei portarmi a casa uno dei due.» Dalla piega macabra che la conversazione stava assumendo, Pitt non poté fare a meno di chiedersi se Collins non stesse smarrendo il contatto con la realtà. «Perché? Per recitare l'Amleto?» «Macché», replicò Collins, indignato. «La mascella porta nei denti un valore in oro di quattromila sacchi!» Un campanellino si mise a tintinnare nei meandri del cervello di Pitt, che si sforzò di richiamare alla memoria un'immagine vista in fotografia. «Collins, mi ascolti con molta attenzione. Sulla mascella superiore? Vi sono due grossi incisivi che sporgono un po', tra altri denti incapsulati in oro?» Collins non rispose immediatamente e il breve silenzio tenne Pitt sulle spine. Non poteva sapere che il sommozzatore era troppo sbalordito per parlare. «Prodigioso... davvero prodigioso», mormorò Collins, al colmo dello stupore. «Ha descritto come meglio non sarebbe stato possibile la dentatura di questo tizio.» Pitt fu colpito con tanta violenza dall'incredibile rivelazione da rimanere a sua volta ammutolito, capace soltanto di ripetersi, col cuore in aritmia, d'avere conseguito, nonostante tutto, lo scopo dell'impresa: avevano scoperto la cripta di Harwey Shields. 60 Sarveux attese che la porta si fosse chiusa alle spalle del suo segretario prima di parlare. «Ho letto il rapporto e lo giudico molto increscioso.» Shaw non rispose, perché le parole del suo interlocutore non implicavano una domanda. Si limitò a guardare il primo ministro, seduto alla scrivania di fronte a lui. Pareva più vecchio di quanto appariva sugli schermi televisivi. Lo colpivano soprattutto gli occhi tristi e i guanti che gli coprivano le mani. Sapeva delle lesioni che Sarveux aveva riportato, tuttavia gli riusciva strana l'idea d'un uomo che lavorasse, sfogliasse documenti e scrivesse con le mani guantate. «Lei ha formulato accuse gravissime a carico del signor Villon, senza che siano suffragate da prove inconfutabili.» «Non sono l'avvocato del diavolo, signor primo ministro. Ho soltanto
presentato i fatti a mia conoscenza.» «Perché è venuto da me con questo incartamento?» «Ritenevo che lei ne dovesse essere informato. Il generale Simms condivide la mia opinione.» «Capisco.» Sarveux tacque un momento. «Mi avrebbe reso un servizio assai maggiore dimenticando tutte queste cose.» Shaw non riuscì a reprimere la sorpresa. «Come, scusi?» «Henri Villon non è più un membro del mio gabinetto. Quanto a quel Gly, lei mi ha informato che è morto.» Shaw non replicò immediatamente e l'altro approfittò dell'esitazione per continuare: «La sua ipotesi dell'assassino prezzolato è vaga e oscura, a dir poco. Si basa soltanto sul sentito dire. Non c'è ombra di prova che autorizzi se non altro a un'indagine preliminare». L'anziano agente segreto lo fulminò col suo sguardo più raggelante. «Il generale Simms è dell'opinione che lei, indagando un poco più a fondo, scoprirebbe probabilmente che il famigerato signor Gly fu la mente direttiva che organizzò sia l'attentato contro il suo aereo sia la recente scomparsa di Jules Guerrier.» «Sì, l'uomo era senza dubbio il tipo capace di...» Sarveux s'interruppe a metà frase. Spalancò gli occhi e i tratti del volto gli si tesero. Si sporse sopra la scrivania. «Che significano le sue parole? Che cosa sottintendevano?» Il tono era sbalordito e al tempo stesso imperioso. «Henri Villon aveva buoni motivi di voler morti lei e Guerrier; perciò... ho elaborato la tesi, non fosse che per mia soddisfazione personale... si è rivolto a un killer di professione. Ammetto che non sempre due più due fa necessariamente quattro, ma nel caso specifico anche tre potrebbe essere una risposta accettabile.» «Quello che lei e il generale Simms state supponendo è rivoltante», esclamò Sarveux, duro e sdegnoso. «I ministri canadesi non se ne vanno in giro ammazzandosi a vicenda per salire su un gradino più alto.» Shaw comprese che sarebbe stato inutile protrarre la discussione. «Sono dolente di non poterle presentare informazioni più esaurienti.» «Sono dolente anch'io», replicò Sarveux, riacquistando di colpo la fredda compostezza di prima. «Non sono affatto convinto che non sia stato un errore madornale suo, o di uno dei suoi, a provocare quel deplorevolissimo incidente con gli americani sul San Lorenzo. E adesso sta tentando di confondere le carte attribuendone la colpa ad altri.»
Shaw incominciava a ribollire di collera. «Le assicuro, signor primo ministro, che non è così.» Sarveux lo fissò senza distogliere lo sguardo. «Le nazioni non vengono rette sulla base delle probabilità, signor Shaw. La prego di ringraziare da parte mia il generale Simms e di riferirgli che sarà opportuno lasciar cadere la questione. E, già che ci siamo, gli dica inoltre che non vedo motivo di portare avanti la faccenda del trattato nordamericano.» Shaw parve colpito dal fulmine. «Ma, signor ministro, se gli americani trovassero uno degli originali, potrebbero...» «Non lo faranno», tagliò corto Sarveux. «Buongiorno, signor Shaw.» Con le mani strette a pugno, Shaw si alzò in piedi e uscì dalla stanza senz'aggiungere parola. Non appena ebbe udito lo scatto della maniglia, Sarveux prese il telefono e formò un numero sulla linea privata. Quaranta minuti più tardi gli si presentò Harold Finn della polizia canadese a cavallo. A vederlo con indosso un abito spiegazzato, dava l'impressione di un ometto da poco, il tipo che nessuno nota in mezzo a una folla. Portava i capelli corvini con la scriminatura al centro, che contrastavano in maniera stridente con le folte sopracciglia bianche. «Mi scusi se l'ho fatta venire qui di corsa», disse Sarveux. «Non si preoccupi», rispose Finn, impassibile. Si prese una seggiola e incominciò a frugare nella sua cartella di cuoio. Sarveux venne subito al sodo. «Che cosa ha scoperto?» Finn inforcò un paio di occhiali da presbite e incominciò a esaminare rapidamente il contenuto di un paio di cartellette. «Ho il referto sull'autopsia e un rapporto su Jean Boucher.» «L'uomo che scoprì il cadavere di Jules Guerrier?» «Sì, Boucher faceva da autista e da guardia del corpo a Guerrier. Solo la mattina dopo scoprì che era morto, quando andò a svegliarlo. Il certificato rilasciato dal coroner incaricato dell'inchiesta dice che Guerrier era deceduto la sera precedente, tra le nove e le dieci. Dall'autopsia, il medico legale non fu in grado di stabilire la causa precisa della morte.» «Ma si sarà fatto almeno un'idea.» «I fattori potevano essere stati parecchi, però nessuno fornì la prova conclusiva», rispose Finn. «Secondo il patologo forense incaricato dell'autopsia, Guerrier soffriva di enfisema, calcoli biliari, arteriosclerosi - e fu questa, probabilmente, a ucciderlo - e inoltre di artrite reumatoide e cancro alla prostata.» Finn sollevò gli occhi e sorrise timidamente. «Un miracolo
che sia campato così a lungo.» «Quindi Jules è deceduto di morte naturale?» «Ne aveva tutti i motivi.» «E a proposito di Jean Boucher?» Finn lesse dal rapporto: «Proviene da una buona famiglia. Istruito. Mai arrestato dalla polizia e niente che lo faccia sospettare di simpatie per gli estremisti. Coniugato, con due figlie; due ragazze entrambe sposate a onesti lavoratori. Boucher fu assunto da Guerrier nel maggio del 1962. Da quanto abbiamo potuto assodare gli era fedelissimo». «Lei ha qualche motivo per sospettare che facesse il doppio gioco?» «Francamente no», dichiarò Finn, in tono reciso. «Però la morte di un personaggio in vista impone che s'indaghino a fondo tutti i particolari, affinché in seguito non sorgano dubbi e incertezze. Questo caso avrebbe dovuto essere di normale routine, se non che Boucher, purtroppo, ha cacciato una zeppa nell'ingranaggio dell'investigazione.» «In che modo?» «Giura che Henri Villon andò a trovare Guerrier, la sera in questione, e fu l'ultima persona che lo vide vivo.» Sarveux rimase sbalordito. «È impossibile. Villon stava pronunciando un discorso per l'inaugurazione del centro artistico, a trecentocinquanta chilometri da lì. Lo avevano visto migliaia di persone.» «Milioni, per essere esatti», rettificò Finn. «La cerimonia veniva trasmessa in diretta dalla rete televisiva nazionale.» «E se fosse stato Boucher ad assassinare Guerrier e a tirare fuori questa storia fantastica come alibi?» «Non credo. Non abbiamo neppure uno straccio di prova dalla quale risulti che Jules Guerrier sia stato assassinato. L'autopsia è categorica su questo punto. Boucher non ha bisogno di un alibi.» «Ma la sua asserzione che Villon era presente a Quebec? Che vantaggio ne ricaverebbe?» «Impossibile immaginarne lo scopo, tuttavia la sua convinzione è incrollabile.» «Senza dubbio in quell'occasione l'uomo ha avuto un'allucinazione», azzardò Sarveux. Finn si sporse in avanti. «L'uomo non è uno squilibrato, signor Sarveux. È questo a rendere la faccenda inesplicabile; Boucher ci ha chiesto di somministrargli il siero della verità e di sottoporlo, ipnotizzato, alla macchina della verità. Noi abbiamo voluto scoprire il suo gioco, ma il risultato
ha confermato che non bluffava. Boucher diceva la verità.» Sarveux lo fissò senza parlare. «Sarei lieto di poter affermare che la polizia possiede tutte le risposte, ma non è così», riconobbe Finn. «Quelli della scientifica hanno frugato la casa da cima a fondo. Tutte le impronte rilevate, tranne una, appartenevano a Guerrier, a Boucher, alla cameriera e al cuoco. Quelle sul pomo della porta della sua camera da letto erano malauguratamente confuse.» «Ha accennato a un'eccezione.» «Abbiamo scoperto l'impronta di un indice della destra all'ingresso principale, sul pulsante del campanello, e non l'abbiamo ancora identificata.» «Non prova nulla», obiettò Sarveux. «Potrebbe avervela lasciata un piazzista, il postino, oppure perfino uno dei suoi uomini, durante l'investigazione.» Finn sorrise. «Se fosse così, il computer della nostra sezione informazioni ci avrebbe dato la risposta in meno di due secondi. No, appartiene a qualcuno che non si trova nei nostri schedari.» S'interruppe per esaminare un foglio del dossier. «Il fatto piuttosto interessante è che sappiamo a che ora, approssimativamente, lo sconosciuto suonò il campanello. La segretaria di Guerrier, una certa signora Molly Saban, gli portò una tazza di brodo di pollo per aiutarlo a combattere l'influenza. Arrivò verso le otto e trenta, premette il pulsante del campanello, consegnò la minestrina a Boucher e se ne andò. Non si era tolta i guanti, quindi fu l'indice della persona venuta dopo di lei a lasciare l'impronta.» «Brodo di pollo», sospirò Sarveux, scrollando il capo. «L'eterna panacea per tutti i malanni.» «Grazie alla signora Saban, sappiamo che qualcuno andò a casa di Guerrier dopo le otto e mezzo della sera in cui morì.» «Se accettiamo la versione di Boucher, dovremmo ammettere che Villon aveva il dono dell'ubiquità, visto che nello stesso momento si trovava in due posti diversi.» «Non saprei trovarne una valida spiegazione.» «L'inchiesta è stata chiusa ufficialmente?» Finn annuì. «Proseguendo di quel passo, non ne avremmo ricavato niente.» «Voglio che la riapriate.» La sola reazione dell'ispettore fu il lieve inarcamento d'un sopracciglio. «Dica, signor primo ministro.» «Tutto considerato, può darsi che ci sia qualcosa di vero nel racconto di
Boucher.» Allungò il rapporto di Shaw a Finn, oltre la scrivania. «L'ho appena ricevuto da un inglese, agente del servizio segreto britannico. Vi si adombra il sospetto di un legame tra Villon e un noto killer, certo Foss Gly. Veda lei se l'accusa ha qualche probabilità di stare in piedi. Inoltre desidero che la polizia disponga per una seconda autopsia.» Finn inarcò anche l'altro sopracciglio. «Prevedo che sarà una faccenda piuttosto ardua ottenere il permesso di riesumare la salma.» «Non ci sarà nessun permesso rilasciato dall'autorità competente.» «Capisco, signore», disse Finn, che aveva intuito il sottinteso di Sarveux. «Il problema sarà affrontato sotto la più rigorosa segretezza. Mi occuperò personalmente dei particolari.» Quindi inserì i documenti nella cartella e si alzò, per accomiatarsi. «C'è dell'altro», disse Sarveux. «L'ascolto, signore.» «Da quanto tempo è al corrente della relazione di mia moglie con Villon?» La faccia solitamente impassibile di Finn assunse un'espressione imbarazzata. «Ebbene, signore... sì, ne sono venuto a conoscenza circa due anni fa.» «E non si è recato subito da me.» «La polizia a cavallo, a meno che non si tratti di un atto di alto tradimento, non investiga nell'intimità familiare dei cittadini canadesi.» Poi aggiunse: «E questo, beninteso, vale anche per il primo ministro e per i membri del governo». «Una saggia linea di condotta», approvò Sarveux, con voce tesa. «La ringrazio, signor Finn. Questo è tutto... per il momento.» 61 L'alba trovò il San Lorenzo coperto da un manto funebre. Due dei feriti più gravi erano morti. Il totale delle vittime era così salito a dodici. Il corpo di uno dei sommozzatori dispersi fu deposto dalla corrente sulla riva, dieci chilometri più a valle. Il suo compagno non venne mai ritrovato. L'equipaggio dell'Ocean Venturer, gravato dallo sfinimento e profondamente sconvolto dagli eventi, assistette in silenzio, schierato lungo i parapetti, al trasferimento solenne dei suoi morti che venivano imbarcati sul Phoenix per il trasporto in patria. Per alcuni era un brutto sogno destinato a
svanire, per altri una tragedia di cui avrebbero conservato per sempre il ricordo. Dopo che anche Collins fu liberato e issato a bordo, con sole tre ore d'aria respirabile nello scafandro JIM, Pitt sospese tutte le operazioni intorno al relitto. Metz riferì che la sala macchine era sufficientemente asciutta e dichiarò che l'Ocean Venturer poteva riprendere la navigazione, perché ormai sbandava di soli dieci gradi. I tecnici specializzati che avevano controllato i danni risalirono sulle rispettive navi delle marine militari e le lunghe manichette delle pompe ausiliarie furono riavvolte e ritirate. Il battello-appoggio sarebbe rientrato alla base senza bisogno d'aiuto, ma con una sola macchina in funzione. L'albero dell'elica azionato dall'altra si era piegato e, ovviamente, non era possibile riparare il guasto con mezzi di fortuna. Pitt scese nella zona del ponte a pozzo e indossò una muta termica. Si era già affibbiato la cintura zavorrata e si stava infilando le cinghie delle bombole, quando comparve Gunn. «Vai sotto», constatò, senza meravigliarsi. «Dopo tutto quello che è successo, sarebbe una sciocchezza imperdonabile andarcene senza l'oggetto per il quale abbiamo corso tanti rischi.» «Pensi che sia prudente immergerti da solo? Perché non fai venire con te Dunning e i suoi uomini?» «Non sono in condizioni d'immergersi. Hanno superato ripetutamente i limiti d'immersione per riportare a galla i morti, inspirando così troppo azoto.» Gunn sapeva che gli sarebbe stato più facile smuovere l'Everest che vincere l'ostinazione di Dirk Pitt. Rinunciò all'inutile tentativo e fece una faccia costernata. «Sarà il tuo funerale.» Pitt sogghignò. «Niente male, come allegro arrivederci!» «Terrò gli occhi incollati ai monitor», promise Gunn. «Se farai il ragazzaccio e non rientrerai prima del coprifuoco, verrò giù io, di persona, e ti porterò le bombole necessarie per le pause di decompressione.» Pitt rispose con un cenno di tacito ringraziamento. Gunn, così equilibrato, paziente e tranquillo, rappresentava l'eterna polizza assicurativa, l'unico che badasse agli infiniti particolari sfuggiti agli altri. Non c'era mai bisogno d'impartirgli un ordine o un suggerimento. Pianificava tutto, con una strabiliante preveggenza, e poi eseguiva semplicemente quanto andava fatto.
Pitt si aggiustò sul viso la maschera da sub, inviò a Gunn un cenno di saluto e si tuffò nell'abisso gelido. Alla profondità di sei metri si rovesciò sul dorso e guardò la carena dell'Ocean Venturer, simile a un grande dirigibile scuro. A dodici metri di profondità la sagoma si confuse col buio circostante e scomparve. Il mondo delle nuvole e del cielo pareva lontano anniluce. L'acqua era densa e opaca, di un pallido verdognolo. Con l'aumentare della pressione che gli serrava il corpo, Pitt provò il desiderio irresistibile di risalire a galla, di mettersi supino al sole, di concedersi un bel sonno e di scordare l'intera faccenda. Si scrollò di dosso la tentazione e, mentre la semioscurità verdastra passava al buio più nero, accese la torcia da sub. Immediatamente il gigantesco relitto si materializzò davanti a lui. Un silenzio opprimente gravava sulla carcassa dell'Empress of Ireland: quasi una nave fantasma in un viaggio senza meta. Pitt nuotò sopra il ponte delle lance di salvataggio fortemente inclinato, lungo la fila degli oblò dai quali era visibile l'interno, misterioso e inquietante, delle cabine. Arrivò al limite dell'apertura praticata dai suoi uomini ed ebbe un breve istante di esitazione. L'acqua, a quella profondità, era parecchio più fredda. Osservò le bollicine d'aria che uscivano dal suo respiratore e salivano verso la superficie in minuscoli grappoli, che andavano a formare via via bolle più grandi. Puntò la luce della torcia verso di loro ed esse luccicarono come la spuma che si sperde sulla battigia sotto il chiaro di luna. Lentamente, si lasciò scivolare nella cavità aperta dal pirossilene nelle lamiere del relitto. Quindici metri più sotto si andò a posare, leggero come una foglia, sul fondo sabbioso. Si trovava nel ventre squarciato della cabina di Shields. Un brivido gelido gli percorse la schiena, non per la temperatura dell'acqua - la muta termica lo teneva sufficientemente caldo - ma per gli spettri evocati dalla sua immaginazione. Vide le ossa descritte da Collins. A differenza degli scheletri imbiancati e ricostruiti nelle aule di anatomia, questi erano diventati d'un color tabacco ed erano disfatti. Un cumulo di macerie si era ammonticchiato davanti a una piccola apertura nel groviglio di acciaio, dietro il più grande dei due teschi, ed era ricoperto in parte da fanghiglia. Pitt si avvicinò e incominciò a tastarne l'interno. Sentì sotto le dita un oggetto molle e tondeggiante. Lo estrasse e una nuvola di particelle simili a polvere e di minuscoli frammenti di materiale gli si formò davanti alla maschera. L'oggetto era una vecchia cintura di salvataggio. Si sforzò di portarsi oltre l'apertura, strappando via a forza i detriti. La torcia da sub era inservibile. Le particelle che vorticavano nell'acqua ne ri-
flettevano la luce, creando una sorta di nebbia. Trovò un rasoio arrugginito e, accanto, una bacinella per la barba. Poi una scarpa ben conservata, una scarpa bassa da passeggio, e un flaconcino perfettamente sigillato, contenente il medicinale in apparenza inalterato. Con la perseveranza dell'archeologo che scava attentamente strato dopo strato, Pitt frugò nell'ammasso fradicio. Era a tal punto intento nel suo lavoro da non avvertire il freddo che s'insinuava nella muta termica attraverso uno squarcio: senza che se ne fosse accorto, l'orlo d'una lamiera gli aveva tagliato l'involucro protettivo della muta e da numerosi, profondi graffi su schiena e gambe sgorgava il sangue che si sperdeva nell'acqua, come un vapore rosseggiante. A un tratto il cuore incominciò a battergli forte: credeva d'aver visto sporgere dal limo quello che stava cercando. Era l'impugnatura arcuata di una valigia. La strinse nella destra e la tirò piano verso di sé. Si staccò, insieme con la serratura. Deluso, ma non per questo scoraggiato, continuò la ricerca. Discosta di appena un mezzo metro, i suoi occhi scorsero un'altra maniglia, più piccola della prima. Si fermò per controllare il suo orologio da sub. Gli rimanevano cinque minuti appena d'aria. Gunn certamente lo attendeva sulle spine. Trasse un lungo respiro e pian piano rimosse la maniglia dal fango. Si trovò a fissare con gli occhi sbarrati i resti d'una valigetta diplomatica. I fianchi e il fondo di cuoio, benché marciti dall'acqua, tenevano ancora. Non osando quasi abbandonarsi alla speranza, ne aprì i fermagli. All'interno vide un plico imbrattato di melma. Seppe, istintivamente, di tenere tra le mani il trattato nordamericano. 62 Il dottor Abner McGovern sedette alla scrivania, osservò con aria pensosa il cadavere adagiato sul piano d'acciaio inossidabile e, staccando con un morso distratto un boccone dal panino imbottito con frittata piccante, masticò rumorosamente. McGovern era perplesso. Il corpo inanimato di Jules Guerrier non collaborava. I patologi avevano rifatto quattro, perfino cinque volte gli stessi esami. Lui e i suoi assistenti avevano analizzato più volte i dati di laboratorio, studiato e ristudiato i risultati ottenuti dalla polizia di Quebec. E tuttavia la causa precisa della morte di Guerrier gli sfuggiva. McGovern apparteneva a quella categoria di persone tenaci che non vogliono saperne di darsi per vinte; persone capaci di starsene alzate l'intera notte per finire un
romanzo o per mettere a posto fino all'ultimo le tessere di un puzzle. Una vita umana non si spegneva così semplicemente, senza che vi fosse una ragione. Nel caso di Guerrier, il decesso non era attribuibile a una cessazione improvvisa delle funzioni organiche. Doveva essere stato provocato artificialmente. Avevano eseguito tutte le prove per scoprire la presenza di qualche veleno, anche di quelli più rari. E tutte erano risultate negative. Non c'era segno di una puntura, per quanto microscopica, che desse adito al sospetto d'una sostanza introdotta mediante un'iniezione sul cuoio capelluto o sotto le unghie, o tra le dita delle mani o dei piedi. Avevano esplorato perfino gli orifizi interni. La possibilità che l'avessero ucciso per soffocamento tornò a riaffacciarsi alla mente del patologo. La morte per mancanza di ossigeno lascia ben scarsi segni rivelatori. Durante gli anni '40 aveva fatto parte dell'equipe di medici legali che lavoravano per la polizia canadese e ricordava di aver esaminato soltanto un numero esiguo di vittime assassinate mediante soffocamento. S'infilò un nuovo paio di guanti chirurgici e si accostò al cocciuto, come lo aveva soprannominato. Era la terza volta, quel pomeriggio, che gli esaminava l'interno della bocca. Eppure tutto appariva normale. Niente lesioni, né il tipico pallore delle mucose. Un altro vicolo cieco. Ritornò alla scrivania e si lasciò cadere sulla poltroncina, del tutto demoralizzato, con le mani abbandonate in grembo e gli occhi vacui fissi sul pavimento piastrellato. A un tratto notò una macchiolina sul pollice d'un guanto, più chiara. La stropicciò meccanicamente contro un pezzo di carta: vi rimase sopra una sbavatura rosea e leggermente unta. Rapido, si chinò per l'ennesima volta sulla salma di Guerrier e soffregò con cautela il lembo di un asciugamano tra l'interno delle labbra e le gengive. Poi scrutò attento la parte, attraverso una lente d'ingrandimento. «Ingegnoso», commentò ad alta voce, come se avesse parlato col cadavere. «Davvero ingegnoso.» Sarveux si sentiva stanchissimo. Non aveva preso posizione nella questione del Quebec indipendente e il suo atteggiamento di assoluta neutralità gli aveva suscitato contro la violenta opposizione sia dei deputati del suo partito sia di quelli che rappresentavano le province anglofone occidentali, fedeli ai legami con la Corona britannica. In parlamento i più indignati per
la frattura dell'unità nazionale erano stati i deputati delle province marittime. La loro ira era da considerarsi scontata a priori dato che il Quebec indipendente le isolava dal resto del Canada. Il primo ministro stava sorseggiando un drink nel suo studio, tentando di cancellare dalla mente gli avvenimenti della giornata, quando squillò il telefono. Il segretario lo avvertì che l'ispettore Finn desiderava parlargli, dal comando generale di polizia. Sarveux sospirò e attese il collegamento. «Signor Sarveux?» «Sì, sono io.» «È stato un omicidio», annunciò l'altro, senza perifrasi. «Ne avete le prove?» «Inoppugnabili. Non c'è ombra di dubbio.» Sarveux strinse forte tra le dita il ricevitore. Dio, quando mai finirà? pensò. «Come lo hanno ucciso?» «Jules Guerrier è morto soffocato. Maledettamente astuto, l'assassino. Si è servito di una matita del tipo usato dagli attori per truccarsi, allo scopo di camuffare i segni. Una volta saputo che cosa dovevamo cercare, abbiamo scoperto la traccia dei denti sulla federa di un cuscino.» «Quindi riprenderete a indagare su Boucher?» «Non ce n'è bisogno», rispose Finn. «Il rapporto dell'Intelligence Service che lei mi ha fatto leggere non avrebbe potuto capitare più a proposito. L'impronta sul campanello della porta è quella dell'indice destro di Foss Gly.» Sarveux chiuse gli occhi. Un preciso piano, quello sta seguendo un suo preciso piano, si disse. «Com'è possibile che Boucher lo abbia scambiato per Villon?» «Non saprei. Però, a giudicare dalla fotografia acclusa al rapporto, tra i due c'è una leggera somiglianza e il fatto che si sia servito di un prodotto per il trucco su Guerrier potrebbe fornirci un indizio. Se è riuscito a trarre in inganno i patologi legali, Gly è senza dubbio un maestro nell'arte del travestimento, in grado di assumere perfettamente l'aspetto di Villon.» «Lei parla di Gly come se fosse ancora vivo.» «Un'abitudine professionale, fintanto che non vedo il cadavere con i miei occhi», rispose Finn. «Desidera che continui a investigare?» «Sì, ma voglio che tutto rimanga strettamente confidenziale. Può garantirmi che i suoi uomini terranno la bocca ben chiusa?» «Rispondo di loro come di me stesso», lo rassicurò Finn.
«Sottoponete Villon a una strettissima sorveglianza e rimettete Guerrier nella sua tomba.» «Provvederò personalmente.» «Un'altra cosa ancora.» «Dica, signore.» «Da questo momento in avanti, venga a farmi i suoi rapporti a voce. Le comunicazioni telefoniche possono sempre venire intercettate.» «D'accordo. Sarò da lei tra breve. Arrivederla, signor primo ministro.» Finn aveva riattaccato da parecchi secondi e Sarveux stringeva ancora in mano il ricevitore. È mai possibile che Henri Villon e il fantomatico leader del movimento terroristico clandestino siano la stessa persona? E Foss Gly? Perché si sarebbe mascherato da Villon? si chiedeva. Gli ci volle un'ora prima che le risposte gli si affacciassero alla mente. E quando le ebbe formulate non si sentì più stanco. 63 L'aviogetto contraddistinto dall'emblema della NUMA sibilò avanzando sulla pista di atterraggio e si fermò a pochi metri dal punto in cui stavano in attesa Sandecker e Moon. Lo sportello della sezione passeggeri venne spalancato e ne scese Dirk Pitt, che reggeva tra le mani uno scatolone di alluminio. Lo sguardo di Sandecker si fece apprensivo non appena notò il volto emaciato e il passo lento e incerto dell'uomo che da troppo tempo si era prodigato sino allo sfinimento per la riuscita dell'impresa. Gli andò incontro e gli passò un braccio intorno alle spalle, mentre Moon prendeva la cassetta. «Ha un aspetto da far paura. Quand'è che ha dormito l'ultima volta?» Pitt gli alzò in faccia gli occhi velati dalla stanchezza. «Ho perso il conto. Che giorno è oggi?» «Venerdì.» «Non ne sono sicuro... penso che sia stata la notte di lunedì.» «Dio mio! Allora sono ben quattro giorni.» Un'automobile si avvicinò al gruppetto e Moon depose personalmente la cassetta nel bagagliaio. Poi tutti e tre presero posto sui sedili posteriori e Pitt si addormentò di schianto. Aveva l'impressione d'aver a malapena chiuso gli occhi quando Sandecker si mise a scuoterlo piano. La macchina si era fermata davanti all'ingresso del laboratorio della facoltà di archeologia di Arlington. Ne uscì un uomo che indossava il camice bianco, seguito
da due guardie addette ai servizi di sicurezza, in uniforme. Doveva essere sulla sessantina, camminava leggermente curvo e, dalla faccia, lo si sarebbe detto il dottor Jekyll subito dopo la trasformazione in mister Hyde. «Sono il dottor Melvin Galasso», si presentò, senza porgere la mano. «Avete portato l'oggetto da esaminare?» Pitt indicò con un cenno la cassetta che Moon stava togliendo dal bagagliaio. «È lì dentro.» «Spero che non lo abbiate fatto asciugare. È indispensabile che l'involucro esterno sia flessibile.» «La valigetta diplomatica e il plico avvolto nella tela cerata sono rimasti immersi durante tutto il viaggio, come lo sono adesso, nell'acqua del San Lorenzo.» «Dove li avete trovati?» «Seppelliti nel limo fino alla maniglia.» Galasso annuì, in segno di tacita soddisfazione, quindi si girò verso la porta che dava accesso al laboratorio. «Benissimo, signori. Adesso vedremo in quale stato è la vostra scoperta.» Al dottor Galasso si poteva forse rimproverare una scarsa familiarità con le buone maniere, ma non certo con la pazienza. Aveva impiegato due ore abbondanti soltanto per estrarre dalla valigetta la tela cerata, descrivendo in tutti i particolari ogni singola fase del procedimento, come se avesse tenuto una lezione in aula. «Dovete ringraziare la fanghiglia del fondo, perché è stata la vostra salvezza», spiegò. «Il cuoio, come potete vedere, è in ottimo stato di conservazione ed è tuttora sufficientemente morbido.» Con meticolosa destrezza aprì un foro rettangolare nel fianco della valigetta, servendosi di un bisturi da chirurgo, attentissimo a non danneggiarne il contenuto. Dopo infilò un foglio di plastica sottile poco più grande del plico e lo insinuò adagio nell'apertura. «Ha fatto molto bene, signor Pitt, a non toccare l'involucro», approvò, col suo vocione tonante. «Se avesse tentato di levarlo dalla valigetta, il materiale si sarebbe sbriciolato.» «La tela cerata non resiste all'usura dell'acqua?» chiese Moon. Galasso si fermò per fulminarlo con un'occhiata di professorale deplorazione di fronte a tanta ignoranza. «L'acqua è un solvente. Al limite, in tempi lunghissimi, potrebbe addirittura corrodere una corazzata. La tela cerata non è altro che un pezzo di tessuto trattato chimicamente, in genere su un solo lato. Di conseguenza, è un materiale deperibile.»
Liquidati Moon e le sue obiezioni, si rimise all'opera. Quando ebbe la certezza d'aver infilato il foglio di plastica sotto il plico, incominciò a tirarlo verso di sé, adagio, millimetro per millimetro, finché l'oggetto informe e ancora sgocciolante non ricomparve per la prima volta, pericolosamente fragile, dopo settantacinque anni. Gli altri l'osservavano immobili, nel più assoluto silenzio. Perfino Galasso sembrava avesse ceduto alla tensione che in quel momento li teneva col fiato sospeso, e non riusciva a trovare parole. Moon s'accorse di stare tremando e si afferrò con entrambe le mani all'orlo di un lavabo. Sandecker si tirava la barba. Pitt centellinava la sua quarta tazza di caffè. Galasso, sempre silenzioso, incominciò a concentrarsi sulla fase cruciale dell'operazione, quella di liberare il plico dall'involucro protettivo. Dapprima ne tamponò delicatamente la superficie con un asciugamano di spugna, finché non ebbe assorbito tutta l'umidità. Poi lo esaminò da tutte le parti, come un tagliatore di diamanti che vuol riconoscere il punto migliore dal quale incominciare con una gemma da cinquanta carati, saggiandola qua e là. Finalmente incominciò l'ultima operazione. Con esasperante lentezza, ma con movimenti sicuri, tolse la tela cerata che gli si sbriciolava pian piano tra le dita. Dopo quella che ai tre in attesa febbrile parve un'eternità, Galasso giunse allo strato finale. Sostò un attimo, per asciugarsi il viso lucido di sudore e per flettere le dita intorpidite. Poi si rimise al lavoro. «Il momento della verità», annunciò solennemente. Moon afferrò il telefono e chiese la linea diretta col presidente degli Stati Uniti. Sandecker si accostò e scrutò il plico, guardando sopra la spalla di Galasso. Il volto di Pitt era privo d'espressione, freddo e stranamente remoto. Il lembo sottile e fragile fu sollevato con precauzione, gradatamente, e poi riabbassato. Avevano avuto l'audacia di sfidare l'impossibile e l'unica ricompensa che ne ricavarono fu una profonda delusione, alla quale seguì un'indicibile amarezza colma d'ira. L'acqua del fiume era filtrata, lenta e inarrestabile, attraverso la tela cerata e aveva trasformato l'originale britannico del trattato nordamericano in una poltiglia appiccicosa e illeggibile. PARTE QUINTA
IL MANHATTAN LIMITED
64 Maggio 1989 Quebec, Canada Il ruggito dei motori a reazione si attenuò non appena il Boeing 757 si fu alzato dalla pista dell'aeroporto di Quebec. Quando la segnalazione luminosa del VIETATO FUMARE si spense, Heidi allentò la cintura di sicurezza, accomodò meglio la gamba ingessata dalla caviglia alla coscia, e guardò fuori del finestrino. Sotto, il lungo nastro del San Lorenzo scintil-
lava al sole e scomparve alla vista non appena l'apparecchio virò, puntando a sud, verso New York. I suoi pensieri ritornarono agli avvenimenti degli ultimi, lunghi giorni, in un caleidoscopio d'immagini confuse: il trauma e la sofferenza subiti dopo l'esplosione sotto la chiglia dell'Ocean Venturer, le cure premurose del medico di bordo e dei marinai del Phoenix e la loro simpatia, attestata dalle firme sul gesso, più numerose dal variopinto campionario di ombretti e rossetti d'un salone di bellezza. Riandò con la mente ai sanitari e alle infermiere dell'ospedale di Rimouski, dove le avevano rimesso a posto la spalla slogata: le pareva di risentire le loro amichevoli risate a ogni suo pietoso tentativo di parlare in francese. Ormai le sembravano lontani personaggi evanescenti di un sogno e si sentiva triste all'idea che non li avrebbe rivisti mai più. Non s'accorse di un uomo che si era seduto accanto a lei, dalla parte del corridoio, finché il nuovo arrivato non le sfiorò un braccio. «Salve, Heidi.» Voltò la testa e vide Brian Shaw, restando talmente stupita da non riuscire a spiccicare parola. «So a che cosa stai pensando, però devo parlarti», disse Shaw a bassa voce. La sorpresa iniziale della donna si trasformò immediatamente in disprezzo. «Da quale cunicolo è strisciato fuori?» L'ira le imporporava il viso. «Non tento di negare che il mio fosse un tentativo di seduzione freddamente deliberato e me ne dispiace davvero», confessò lui. «Tutto per il dovere», replicò Heidi, sarcastica. «Portarsi a letto una donna per carpirle informazioni e poi servirsene per assassinare dodici persone innocenti. Per me, signor Shaw, il suo nome equivale a un insulto.» Shaw tacque un momento. Le donne americane si esprimono in una maniera completamente diversa da quelle inglesi, rifletteva. «Una tragedia deplorevole e totalmente assurda», ammise. «Ma voglio che tu e, soprattutto, Dirk Pitt sappiate che non sono io il responsabile di quanto è accaduto.» «Mi ha già mentito una volta. Perché dovrebbe abbandonare una linea di condotta vincente?» «Pitt crederà alle mie parole se gli dirai che è stato Foss Gly a innescare gli esplosivi.» «Foss Gly?»
«Pitt conosce questo nome.» Heidi lo guardò, con aria scettica. «Avresti potuto chiarire il punto con una telefonata. Qual è il vero motivo per cui ti trovi qui? Per estorcermi altre informazioni? Per sapere se abbiamo recuperato il documento dall'Empress of Ireland?» «Non lo avete trovato», disse lui, sicuro. «Tira a indovinare.» «So che Pitt è partito da Washington per New York e che le ricerche nell'Hudson continuano. Come prova, mi basta e avanza.» «Non mi hai ancora detto che vuoi», insistette la donna. La guardò, scrutandola attento. «Dovrai trasmettere al tuo presidente un messaggio da parte del primo ministro del mio Paese.» Ne sostenne l'occhiata, con altrettanta fermezza. «Tu sei ammattito.» «Neanche per sogno. Stando così le cose, il governo di Sua Maestà britannica non è tenuto a essere al corrente di quanto il vostro si propone di fare e il gioco è in una fase iniziale, che renderebbe intempestivo un confronto diretto. Siccome la questione è troppo delicata perché due nazioni amiche ricorrano alle solite vie diplomatiche, gli scambi debbono aver luogo attraverso approcci mediati. Non si tratta di un procedimento inconsueto; tra l'altro è quello preferito dai russi.» «Ma non posso attaccarmi al telefono come niente fosse e chiamare il presidente.» «Non ce ne sarà bisogno. Basterà che tu riferisca il messaggio ad Alan Mercier.» «Il consigliere per la sicurezza nazionale?» Shaw annuì. «Proprio lui.» Heidi pareva sbalordita. «E che cosa gli dovrei dire?» «Semplicemente questo: che la Gran Bretagna non rinuncerà a uno dei membri del Commonwealth a causa di un pezzo di carta. E che organizzeremo una forte resistenza militare contro qualsiasi incursione americana fuori dei confini nazionali.» «Stai ipotizzando il rischio di uno scontro armato tra gli Stati Uniti e...» «Vincereste voi, naturalmente, ma sarebbe la fine dell'Alleanza atlantica e della NATO. Il primo ministro spera che il vostro Paese non voglia pagare a così caro prezzo l'annessione del Canada.» «L'annessione del Canada...» ripeté Heidi. «Ma è ridicolo.» «Credi? E allora perché voialtri fate fuoco e fiamme, senza indietreggiare di fronte agli ostacoli, per quanto ardui, pur di recuperare il documen-
to?» «Ci devono essere sotto altre ragioni.» «Forse...» Shaw esitò prima di prenderle una mano. «Ma, non so il perché, io credo che altre ragioni non ci siano.» 65 «Così il treno si troverebbe sepolto sotto i rottami del ponte crollato», ricapitolò Pitt. Glen Chase annuì con il capo. «Tutto sembra confermare l'ipotesi.» «È l'unico posto in cui si può trovare», aggiunse Giordino. Pitt si sporse dal parapetto della passerella appesa trasversalmente al baglio della chiatta di salvataggio. Osservò il lungo braccio sporgente della gru che descriveva un arco, mollava una massa sgocciolante di travi rugginose nella stiva principale e poi rifaceva il mezzo giro in senso inverso per riaffondare l'artiglio nell'acqua. «Con questo ritmo, ci vorrà una settimana prima che si riesca a scandagliare il fondo.» «Non possiamo incominciare lo scavo finché i rottami non saranno stati tolti di mezzo», obiettò Giordino. Pitt si rivolse a Chase. «Di' a uno dei tuoi uomini di staccare qualche frammento della travatura originaria, nel punto di giunzione, con un cannello da taglio. Vorrei mandarli a un laboratorio d'analisi.» «Che cosa ti aspetti che scoprano?» chiese Chase. «Forse la causa del crollo del ponte.» Un uomo con l'elmetto protettivo gridò forte nel megafono che impugnava, per superare il fragore del motore diesel della gru: «Signor Pitt, la chiamano al telefono». Pitt chiese scusa ai due ed entrò nella cabina adattata a ufficio, a bordo della chiatta. La chiamata veniva da Moon. «Novità?» «Nessuna.» Seguì un breve silenzio. «Il presidente deve avere la copia del trattato entro lunedì.» Pitt rimase sbalordito. «Mancano solo cinque giorni.» «Se all'una in punto di lunedì prossimo lei sarà ancora a mani vuote, tutta l'operazione di ricerca verrà definitivamente revocata.» Pitt strinse le labbra. «Per la miseria, Moon! Non può stabilire una sca-
denza precisa a un'operazione come la nostra.» «Mi rincresce, ma è così.» «Perché questo preavviso a brevissimo termine?» «Tutto quel che le posso dire è che si tratta di un'urgenza improrogabile.» Pitt strinse con tanta forza il telefono che le nocche gli diventarono bianche. Fu incapace di ribattere. «Pronto. Pitt, mi sente?» «Sì, sono sempre in linea.» «Il presidente è ansioso di sapere se fate progressi.» «Quali progressi?» «È assolutamente necessario che lavoriate più in fretta», insistette Moon. «Tutto dipende se riusciremo ad arrivare al treno e alla vettura in cui viaggiava Essex.» «È in grado di fare una previsione?» «C'è un vecchio detto che corre tra gli archeologi: non si scopre mai nulla che non voglia essere scoperto.» «Sono sicuro che il presidente preferirebbe un rapporto più ottimistico. Che cosa dovrei dirgli, a proposito delle sue speranze di avere in mano il trattato entro lunedì?» «Riferisca al presidente che le probabilità equivalgono a zero», rispose Pitt, in un tono più gelido del ghiaccio. Pitt arrivò nei laboratori d'analisi della Heiser Foundation di Brooklyn allo scoccare della mezzanotte. Parcheggiò il furgoncino contro una banchina di scarico e spense il motore. Il dottor Walter McComb, direttore del laboratorio, lo stava aspettando con due suoi assistenti. «Vi ringrazio d'essere rimasti qui fino a quest'ora», disse l'agente. McComb, più vecchio di Pitt d'una quindicina di anni e più pesante di una trentina abbondante di chili, sollevò uno dei grossi frammenti del ponte senza fatica apparente e scrollò le spalle. «Prima di oggi, non mi era mai giunta una richiesta diretta dalla Casa Bianca. Come avrei potuto dire di no?» In quattro, portarono il frammento di acciaio nell'angolo di un piccolo magazzino. Là i tre analisti misero mano a seghe elettriche provviste di lame d'acciaio al molibdeno, per tagliarne via campioni che subito dopo immergevano in una soluzione per ripulirli dei detriti; quindi li sottoponevano a tutte le analisi necessarie per rilevarne le particolarità.
Erano le quattro del mattino quando McComb, dopo aver conferito con i propri assistenti, si accostò a Pitt, il quale attendeva il responso degli esperti nella sala di ritrovo del personale. «Ritengo che quanto le sto per dire susciterà in lei un vivo interesse», annunciò sorridendo. «Fino a che punto vivo?» replicò Pitt. «Abbiamo risolto il mistero del crollo del ponte sull'Hudson.» McComb lo invitò con un cenno a seguirlo in una stanza piena di strumenti scientifici sofisticatissimi. Consegnò all'ospite una potente lente d'ingrandimento e indicò due oggetti sopra un tavolo. «Guardi lei stesso.» Pitt fece come l'altro gli aveva detto, poi gli rivolse un'occhiata interrogativa. «Che cosa dovrei vedere?» «I metalli che si spezzano per effetto di una fortissima tensione mostrano linee di frattura. E le linee sono evidenti nel campione alla sua sinistra.» Pitt guardò di nuovo. «Sì, le vedo.» «Noterà che non c'è segno di linee di frattura sul campione del ponte che si trova alla sua destra. La deformazione era troppo violenta perché fosse possibile attribuirla a cause naturali. Abbiamo esaminato frammenti di questo pezzo al microscopio elettronico, che rivela gli elettroni caratteristici presenti in ciascun elemento. I risultati dicono che vi sono residui di solfuro di ferro.» «E questo che significa?» «Significa, signor Pitt, che il ponte sull'Hudson fu fatto accortamente e sistematicamente saltare in aria.» 66 «Una faccenda orripilante», esclamò Preston Beatty con uno strano compiacimento nella voce. «Un conto è squartare corpi umani, un altro servirli a pranzo.» «Le andrebbe un'altra birra?» chiese Pitt. «Con piacere.» Beatty mandò giù l'ultimo sorso rimasto nel bicchiere. «Due personaggi fantastici, Hattie e Nathan Pilcher. Si potrebbe dire che avessero escogitato la soluzione perfetta per far scomparire il corpo del reato.» Indicò con un gesto circolare della mano la numerosa clientela del tardo pomeriggio, che sostava per il bicchierino di prammatica prima di cena. «Il locale in cui ci troviamo poggia sulle fondamenta della locanda dei Pilcher. Gli abitanti di Poughkeepsie le diedero fuoco nel 1823, quando
vennero a sapere dei macabri fattacci svoltisi tra le sue mura.» Pitt fece segno a una cameriera. «Lei, in sostanza, mi sta dicendo che i Pilcher assassinavano di notte i loro ospiti per derubarli e poi li servivano a tavola?» «Proprio così.» Era chiaro che Beatty si trovava nel suo elemento, poiché rievocava, con evidente piacere, avvenimenti vecchi di quasi due secoli. «Impossibile calcolare il numero delle vittime, naturalmente. Tutto ciò che la gente rinvenne, scavando, furono poche ossa sparse. Si presume, però, che durante i cinque anni in cui gestirono la locanda, i Pilcher abbiano ucciso tra i quindici e i venti poveracci, capitati qui per loro sventura.» Il professor Beatty era considerato un'autorità nel campo dei delitti rimasti impuniti. I suoi libri sull'argomento andavano a ruba negli Stati Uniti e in Canada, e a volte figuravano tra i più venduti sotto la voce saggistica. Se ne stava comodo e scomposto nel séparé dov'erano seduti e scrutava Pitt con occhi verde-azzurri, ai quali una gran barba brizzolata conferiva maggiore spicco. Giudicando dai lineamenti del volto duro e solcato da rughe e dalle tempie già di un grigio argenteo, Pitt riteneva che fosse prossimo alla cinquantina. Più che a uno studioso, somigliava a un inveterato pirata. «Ma il particolare incredibile fu il modo in cui vennero scoperti», riprese a raccontare Beatty. «Un esperto di gastronomia criticò sul giornale la loro cucina», scherzò Pitt. «Si è avvicinato alla verità più di quanto supponga», rispose l'altro, ridendo. «Una sera si fermò da loro, per pernottare, un comandante a riposo. Aveva con sé un servitore, un indigeno della Melanesia che aveva preso a bordo della sua nave molti anni prima, nelle isole Salomone. In gioventù il melanesiano, per sfortuna dei Pilcher, era stato un cannibale e le sue papille gustative, avvezze al sapore della carne umana, riconobbero subito l'ingrediente principale dello stufato.» «Da far passare l'appetito alla sola idea», commentò Pitt. «E allora quale fine fecero i Pilcher? Furono giustiziati?» «No, mentre erano in attesa del processo riuscirono a evadere e nessuno li rivide mai più.» Arrivarono le birre e Beatty interruppe la narrazione mentre Pitt firmava lo scontrino del conto. «Ho studiato con attenzione i rapporti su antichi delitti commessi qui e in Canada, tentando di stabilire un collegamento tra il loro sistema e quello seguito in anni successivi da altri assassini mai scoperti; la coppia ha finito
per diventare una sorta di leggenda, come Jack lo Squartatore.» «E Clement Massey?» chiese Pitt, portando il discorso sul problema che gli interessava. «Ah, sì, Clement Massey, alias Dapper Doyle.» Dal tono della voce, si sarebbe potuto pensare che Beatty parlasse di un suo caro parente. «Un rapinatore all'avanguardia. Avrebbe potuto far scuola.» «Era così abile?» «Massey aveva stile e possedeva un'astuzia impareggiabile. Progettava ed eseguiva le sue imprese in modo che sembrassero opera di bande rivali. Da quanto ho potuto ricostruire, fu autore di sei rapine a mano armata ai danni di altrettante banche e di tre assalti ai treni che furono attribuiti ad altri.» «Quali erano le sue origini?» «Apparteneva a una ricca famiglia di Boston. Laureato a Harvard con lode. Titolare di un fiorente studio legale che vantava tra i suoi clienti i cittadini più in vista di Providence. Sposato con una ragazza dell'alta società, dalla quale ebbe cinque figli. Eletto due volte al senato del Massachusetts.» «Perché diamine avrebbe dovuto svaligiare le banche?» obiettò Pitt, incredulo. «Per il gusto perverso di farlo», rispose Beatty. «Da quanto risulta, distribuiva in beneficenza fin l'ultimo centesimo dei suoi mal acquistati guadagni.» «E allora come si spiega che i giornali del tempo, o i periodici popolari, non avessero mai conferito una patina seducente a questo Robin Hood redivivo?» «Era scomparso dalla scena assai prima che i suoi crimini fossero collegati con la sua persona. La scoperta avvenne soltanto dopo che un cronista intraprendente ebbe dimostrato che Clement Massey e Dapper Doyle erano lo stesso individuo. Naturalmente, i suoi influentissimi amici e i colleghi si diedero da fare e lo scandalo venne soffocato. E comunque, non c'erano prove abbastanza valide da incriminarlo.» «Pare impossibile che nessuno avesse mai riconosciuto Massey, durante una rapina.» «Era difficile che vi partecipasse di persona», spiegò Beatty. «Analogamente a un generale che dirige la battaglia dalle retrovie, anche lui di solito si teneva nell'ombra. Organizzava le proprie imprese fuori dei confini dello Stato e neppure i componenti della sua banda ne conoscevano l'identità. A
dire il vero, fu riconosciuto una delle rare volte in cui partecipò a una rapina, ma le deposizioni dei testimoni furono accolte con derisione dallo sceriffo incaricato d'investigare. In fin dei conti, chi avrebbe potuto credere che un esimio senatore del Massachusetts fosse un bandito matricolato?» «Strano che Massey non portasse la maschera in queste occasioni.» «Una devianza psicologica», disse Beatty. «Probabilmente ricavava gusto nello sperimentare l'eccitazione che deriva dalla sfida alla propria fortuna. Per alcuni, condurre una doppia vita costituisce il massimo del piacere. E per di più, nell'inconscio, desiderano essere scoperti, come un marito che tradisce la moglie e mette nella cesta del bucato fazzoletti macchiati di rossetto.» «Ma allora, perché il furto alla stazione di Wacketshire? Per quale motivo Massey rischiò per diciotto miserabili dollari?» «Ho passato più d'una notte in bianco, fissando il soffitto per venire a capo del rebus.» Beatty abbassò gli occhi sul tavolo e spostò meccanicamente il bicchiere. «Tranne che in occasione di questa stravaganza, Massey non si scomodò mai per meno di venticinquemila dollari.» «Dopo di che scomparve definitivamente.» «Sarei scomparso anch'io, se fossi stato la causa di un centinaio di morti.» Beatty bevve una lunga sorsata di birra. «Non avendo dato ascolto alla supplica del capostazione che voleva fermare il treno, si rese responsabile delle donne e dei bambini che precipitarono nel fiume, entrò negli annali del crimine non come un Robin Hood, bensì col marchio di feroce assassino.» «Lei come interpreta la sua ultima impresa?» «Voleva rapinare il treno», spiegò Beatty. «Ma qualcosa mandò all'aria i suoi piani. Quella notte infuriava un violento temporale. Il treno era in ritardo. Forse furono queste le cause del suo fallimento. Non lo so, però è certo che non era così che aveva progettato la rapina.» «Che cosa trasportava il treno di tanto prezioso da fargli gola?» chiese Pitt. «Due milioni di dollari in monete d'oro.» Pitt lo guardò, sbalordito. «Non ho letto nulla, nei giornali del tempo, a proposito di un carico d'oro sul Manhattan Limited.» «Monete d'oro da collezione, da venti dollari l'una, coniate nel 1914 nella zecca di Filadelfia e destinate alle banche di New York. Ritengo che Massey ne avesse avuto sentore. I funzionari delle ferrovie pensarono d'essere stati molto accorti nel dirottare il vagone del tesoro attraverso mezzo
Paese invece di spedirlo direttamente sulla linea principale. Corsero voci, a suo tempo, che lo avessero agganciato al Manhattan Limited durante la sosta ad Albany. Non ci fu modo di appurarlo, beninteso. E gli alti papaveri del mondo bancario pensarono probabilmente di salvaguardare la propria immagine mettendo a tacere la faccenda.» «Questo spiegherebbe perché la compagnia ferroviaria per poco non fece bancarotta con i tentativi di recuperare il treno.» «Può darsi.» Beatty parve smarrirsi per un minuto nel passato. Poi disse: «Fra tutti i crimini che ho studiato, in tutti gli archivi di polizia del mondo, il prologo della rapina da due soldi inscenato da Massey nella stazione di Wacketshire è quello che m'imbarazza di più». «Puzza anche per un'altra ragione.» «Quale?» «Questa mattina un'analisi di laboratorio ha constatato la presenza di tracce di solfuro di ferro nei campioni prelevati dal ponte sull'Hudson.» Beatty socchiuse gli occhi. «Il solfuro di ferro è impiegato nella composizione della polvere pirica.» «Già. Sembrerebbe che Massey avesse fatto saltare il ponte.» Beatty restò sbalordito dalla rivelazione. «Ma perché? Qual era il motivo che l'aveva indotto a un'azione simile?» «Troveremo la risposta quando avremo trovato il Manhattan Limited», disse Pitt. Pitt guidò meccanicamente l'automobile, sulla via del ritorno al De Soto. Un'idea andava prendendo consistenza tra i mille pensieri che gli ronzavano nel cervello. A tutta prima l'aveva respinta, ciononostante gli si riaffacciava continuamente. Poi incominciò ad assumere una forma ben definita e ad acquistare significato. Pitt si fermò nel parcheggio di un supermercato ed entrò nella cabina telefonica per formare un numero di Washington. La linea era libera e dopo un paio di squilli gli rispose una voce burbera. «Qui Sandecker.» Pitt non si prese neppure il disturbo di dire il proprio nome. «Ho bisogno d'un favore.» «Coraggio.» «Mi occorre un elicottero da trasporto.» «Ripeta.» Pitt riusciva quasi a vedere il movimento della bocca dell'ammiraglio nel momento in cui si cacciava tra i denti un nuovo sigaro. «Una gru volante.
È indispensabile che mi venga consegnata entro le dodici di domani.» «Che cavolo vuol farsene?» Pitt tirò il fiato e glielo disse. 67 Villon, muovendo i comandi, fece compiere una virata a sinistra all'aviogetto dirigenziale, nel pomeriggio carico di nuvoloni. Danielle osservava, dal finestrino del secondo pilota, la pineta canadese che sfilava sotto di loro, folta come un tappeto verde cupo. «È una vista incantevole», commentò. «Uno scenario di cui non potresti godere da un aereo di linea», rispose Villon. «Volano a quota troppo alta perché si possano cogliere tutti i particolari del panorama.» La donna era vestita di blu, con un maglioncino attillato e una gonna di cotone che le arrivava alle ginocchia. Un abbigliamento che si usa definire pratico e che tuttavia non toglieva niente al caldo fascino femminile. «Anche il tuo nuovo aereo è magnifico.» «Un omaggio dei miei facoltosi sostenitori. Naturalmente non è intestato a me, ma nessun altro lo adopera.» Rimasero qualche minuto in silenzio, mentre Villon manteneva l'apparecchio in rotta immutata, sopra il cuore del Laurentides Park. Laghi azzurri cominciarono ad apparire sotto, simili a minuscoli zaffiri incastonati in una cornice smeraldina. Riuscirono a distinguere nitidamente una grande quantità di barchette di pescatori che gettavano le lenze per catturare le trote iridate, abbondanti in quelle acque. A un tratto, Danielle disse: «Sono felice che tu mi abbia invitata. È da tanto che non c'incontravamo». «Soltanto un paio di settimane», precisò lui, senza guardarla. «Sono stato occupatissimo con la campagna elettorale.» «Pensavo che forse... sì, che forse non volevi rivedermi mai più.» «Come t'è saltata in mente una simile idea?» «L'ultima volta, nel cottage...» «Che cos'era accaduto?» chiese, sinceramente stupito. «Non ti sei mostrato troppo affettuoso.» L'uomo corrugò la fronte, tentando di ricordare. Non trovò una spiegazione plausibile al rimprovero dell'amante e l'attribuì a una sua particolare suscettibilità. «Mi rincresce. Evidentemente avevo cento cose per la testa.»
Portò l'aereo sopra un grande banco di nuvole in corsa e inserì il pilota automatico. Poi le sorrise. «Vieni, voglio fare ammenda.» La prese per mano e la condusse fuori della cabina di guida. Lo spazio riservato ai passeggeri misurava sei metri fino al gabinetto. Era arredato con quattro poltrone e un divano, un fornitissimo bar e una tavola da pranzo. Un folto, morbido tappeto copriva il pavimento. Aprì la porta che dava sullo scompartimento-notte e s'inchinò davanti a un letto di dimensioni principesche. «Il perfetto nido d'amore, intimo, isolato e al riparo da occhi indiscreti», disse. I raggi del sole filtrarono attraverso i finestrini e si diffusero sulla coperta. Danielle si mise seduta mentre Villon le offriva un drink. «Non c'è una legge che proibisce queste cose?» chiese lei. «Di fare l'amore a millecinquecento metri?» «No», precisò lei, tra un sorso e l'altro del suo Bloody Mary. «Di far volare in tondo un aereo per due ore senza che qualcuno sieda ai comandi.» «Ti proponi di denunciarmi alla polizia?» Si riadagiò voluttuosamente sul letto. «Mi pare già di leggere i titoloni dei giornali: IL NUOVO PRESIDENTE DEL QUEBEC SORPRESO IN UN POSTRIBOLO VOLANTE.» «Non sono ancora stato eletto presidente», replicò lui, con una risata. «Lo diventerai dopo le elezioni.» «Mancano ancora sei mesi e può ancora succedere di tutto.» «I sondaggi ti danno per favorito.» «Che ne dice Charles?» «Non ti nomina più, nemmeno per sbaglio.» Villon sedette sul letto e le sfiorò con dita leggere il ventre. «Adesso che il parlamento gli ha votato la sfiducia, il suo potere si è volatilizzato. Perché non lo lasci? Le cose diventerebbero più semplici per noi due.» «Meglio che rimanga ancora qualche tempo con lui. Sono molte le cose importanti per il Quebec che posso sapere dalla sua bocca.» «Dato che siamo in argomento, c'è qualcosa che riguarda me.» La donna incominciò ad agitarsi. «Di che si tratta?» «La prossima settimana il presidente degli Stati Uniti terrà un discorso davanti al nostro parlamento. Non te ne ha accennato?» Danielle gli prese la mano e la portò più in basso. «Charles ne parlava ieri l'altro. Niente di preoccupante. Mi ha detto che il presidente avrebbe semplicemente perorato per una transizione del Quebec all'indipendenza
senza scontri e senza disordini.» «Lo sapevo io», commentò Villon, sorridendo. «Gli americani si accingono a ingoiare il rospo.» Danielle non si trattenne più e gli si strinse addosso. «Spero che tu abbia fatto il pieno prima di decollare da Ottawa», mormorò. «Ne abbiamo a sufficienza per altre tre ore di volo», le rispose mentre calava su di lei. «Non c'è possibilità di errore?» chiese Sarveux al telefono. «Assolutamente nessuna», rispose il commissario Finn. «Il mio uomo li ha visti salire sull'aereo del signor Villon. Li abbiamo seguiti sullo schermo radar. Hanno continuato a volare in tondo sopra il Laurentides Park dall'una del pomeriggio in avanti.» «Il suo uomo è certo che si trattava di Henri Villon?» «Certissimo», assicurò Finn. «La ringrazio.» «Di nulla, signore. Continuerò la sorveglianza.» Sarveux chiuse la comunicazione e per qualche minuto non fece niente, tentando di ricomporsi. Poi parlò nell'interfono: «Adesso può farlo entrare». A tutta prima, nell'istante cruciale dello shock, i suoi lineamenti si tesero. Aveva la certezza che gli occhi lo ingannassero, che la fantasia gli giocasse un brutto scherzo. Le gambe si rifiutarono di obbedirgli, non riuscì a trovare la forza di alzarsi in piedi. Il visitatore attraversò la stanza e si fermò davanti alla scrivania. «Grazie di avermi ricevuto, Charles.» Il volto portava stampata la solita espressione fredda, la voce aveva il timbro e l'accento di sempre. Sarveux dovette lottare con se stesso per ostentare una calma esteriore, ma si sentì di colpo debolissimo e in preda alle vertigini. L'uomo che aveva di fronte era Henri Villon in carne e ossa, a suo perfetto agio, con l'abituale, irritante aria di staccata superiorità. «Pensavo... credevo... ti ritenevo impegnato nella campagna elettorale nel Quebec», balbettò Sarveux. «Mi sono ritagliato un margine di tempo per venire a Ottawa, con la speranza che noi due si possa addivenire a una tregua.» «Il baratro tra le nostre opinioni è troppo profondo», ribatté Sarveux, riguadagnando pian piano il dominio di sé.
«Il Canada e il Quebec debbono imparare a convivere senza ulteriori attriti», affermò Villon. «E dovremmo imparare la stessa cosa anche noi due.» «Sono disposto ad ascoltare le tue ragioni.» Nella voce di Sarveux risuonò un accento più duro. «Siedi, Henri, e dimmi che cosa hai da propormi.» 68 Alan Mercier finì di leggere il contenuto di un incartamento contrassegnato dalla dicitura SEGRETISSIMO e poi si mise a rileggerlo. Era stupefatto. Per quanto sfogliasse a ritroso i fogli, tentando di essere obiettivo, trovava sempre più difficile accettare quanto vi stava scritto. Aveva l'aspetto di un uomo che si fosse trovato tra le mani una bomba senza la sicura. Il presidente, seduto di fronte a lui, attendeva, paziente e in apparenza distaccato. Il silenzio era profondo, nella stanza, interrotto solo di quando in quando dal crepitio di un ceppo che ardeva senza fiamma nel caminetto. Due vassoi carichi di vivande erano posati sull'ampio tavolino accanto ai due uomini, ma Mercier era troppo preoccupato per provare appetito. Il presidente, per contro, mangiò il pranzo servito a tarda ora con la voracità di un lupo. Alla fine il consigliere chiuse la cartella e si tolse gravemente gli occhiali. Rifletté qualche momento, a testa bassa, poi guardò diritto in faccia il suo capo. «Ho il dovere di chiederglielo. Questa pazzesca macchinazione corrisponde alla realtà?» «Da cima a fondo, sino all'ultima frase.» «Una concezione grandiosa», sospirò Mercier. «Questo sono obbligato a riconoscerlo.» «Lo penso anch'io.» «Trovo difficile credere che lei abbia portato avanti il progetto, per così tanti anni, senza che ne sia trapelato qualcosa.» «Non c'è da meravigliarsi, se pensa che soltanto due persone ne erano al corrente.» «Doug Oates, una volta nominato agli Esteri, doveva conoscerlo per forza.» «Sì, ma soltanto dopo il mio insediamento», ammise il presidente. «Non appena ebbi il potere di mettere in moto il meccanismo, il mio primo passo, il passo più ovvio, fu d'informarne il segretario di Stato.»
«Ma non i responsabili della sicurezza nazionale», obiettò Mercier, con una punta di freddezza nella voce. «Niente di personale, Alan. Non ho fatto altro che allargare la cerchia degl'intimi iniziati al segreto a mano a mano che le singole fasi verso la realizzazione si succedevano.» «Quindi adesso è la mia volta.» Il presidente annuì. «Voglio che lei e i suoi più stretti collaboratori vi mettiate in contatto e acquisiate alla causa personaggi canadesi influenti che la pensano come me.» Mercier si tamponò con un fazzoletto il sudore che gli bagnava la faccia. «Mio Dio! E se questa faccenda fallisse e la sua dichiarazione che il Paese è sull'orlo della bancarotta seguisse a ruota...» Lasciò in sospeso l'implicazione. «Non fallirà», affermò, reciso, l'altro. «Forse lei ha mirato troppo lontano.» «E se invece l'idea venisse accettata, almeno in via di principio? Pensi alle occasioni che ci si presenterebbero.» «Potrà accorgersi quale vento tira lunedì prossimo, quando si presenterà davanti al parlamento canadese.» «Sì, sarà il giorno in cui uscirò allo scoperto.» Mercier depose la cartella sul tavolino. «Devo riconoscerle il merito di una mossa capace di dare buoni frutti, signor presidente. Quando lei si rifiutò d'intervenire nella questione dell'indipendenza reclamata dal Quebec, ritenni che stesse commettendo un errore. Adesso incomincio a intravedere il metodo dietro l'apparente follia.» «Non abbiamo fatto altro che aprire una porta che si affaccia su un lunghissimo corridoio», concluse filosoficamente il capo dell'esecutivo. «Non teme di riporre troppe speranze nel ritrovamento del trattato nordamericano?» «Sì, può darsi che abbia ragione lei.» Il presidente lasciò vagare lo sguardo fuori della finestra. «Però, se entro lunedì sulle rive dell'Hudson accadesse un miracolo, potremmo avere il privilegio di far disegnare il modello d'una nuova bandiera nazionale.» 69 La gru volante richiesta da Pitt corrispondeva perfettamente ai suoi desideri: un apparecchio in grado di trasportare equipaggiamenti pesanti sulla
cima di alti edifici e di varcare a pieno carico fiumi e montagne. La fusoliera snella misurava quarantun metri e mezzo; da essa sporgevano verso il basso, come una coppia di robuste gambe rigide, i supporti su cui atterrava. Agli uomini addetti all'operazione di recupero parve una sorta di mostruosa mantide religiosa, uscita da un film di fantascienza giapponese. Rimasero a guardarla col naso in aria, affascinati, mentre volava alta una sessantina di metri sopra il fiume, con le enormi pale dei rotori che facevano spumeggiare l'acqua da una riva all'altra. L'aspetto della gru era reso ancora più bizzarro da un oggetto cuneiforme che penzolava sospeso sotto il ventre. A parte Pitt e Giordino, nessun altro agente della NUMA adibito alla ricerca del Manhattan Limited aveva mai visto con i propri occhi il Doodlebug. Pitt diresse via radio la manovra del gigantesco elicottero, dando istruzioni al pilota affinché calasse il carico a fianco del De Soto. L'apparecchio rallentò lentamente il suo movimento in avanti e per alcuni minuti mantenne un volo librato, in attesa che il Doodlebug cessasse di oscillare come un pendolo. Poi sciolse, lasciandoli scorrere, i due robustissimi cavi ai quali era appeso e lo calò sopra il fiume. La gru del De Soto venne messa in azione, in modo che il braccio sporgesse all'infuori e alcuni sommozzatori si arrampicarono svelti sulla scaletta esterna dello scafo verticale. Fecero scivolare fuori dei cappi dell'imbragatura i ganci di sostegno e la gru volante, liberatasi dal carico, tracciò un ampio semicerchio e si allontanò, dirigendosi a valle. L'intero equipaggio si era raccolto lungo il parapetto del De Soto osservando a bocca aperta il Doodlebug e chiedendosi a che diamine potesse servire. Improvvisamente il loro stupore aumentò: uno sportello si aprì di scatto e lasciò comparire la testa di uno sconosciuto, che a sua volta osservò gli attoniti spettatori. «Dov'è che si è cacciato Pitt?» gridò il nuovo arrivato. «Sono qua!» gridò Pitt a sua volta. «Vuoi saperne una?» «Hai trovato un'altra bottiglia di siero antiofidico nella tua cuccetta.» «Come hai fatto a indovinarlo?» rise Sam Quayle. «Lasky è con te?» «Sì, di sotto. Sta revisionando il sistema di controllo dell'assetto per operare in acque basse.» «Avete corso un bel rischio standovene là dentro sin dalla partenza da Boston.»
«Può darsi, però abbiamo guadagnato tempo riattivando i sistemi elettronici durante il volo.» «Quando sarete pronti per l'immersione?» «Dacci un'altra ora.» Chase si andò a mettere a fianco di Giordino. «Si può sapere che cos'è quell'aborto meccanico?» «Se tu avessi un'idea di quel che costa, non lo insulteresti dandogli dell'aborto», rispose l'altro, col suo imperturbabile sorriso. Tre ore più tardi, il Doodlebug con i portelli superiori a tre metri dalla superficie dell'acqua, stava avanzando lentamente sul letto del fiume. Gli occupanti si sentirono il cuore in gola quando lo scafo sfiorò, quasi, i resti scabri del ponte. Pitt seguiva sui monitor, attento e teso, la manovra di Bill Lasky che pilotava il battello controcorrente. Quayle, dietro di lui, fissava il quadro dei comandi, per leggere i dati del rilevamento. «Qualche contatto?» chiese Pitt per la quarta volta. «Nessuno», rispose Quayle. «Ho ampliato il raggio per coprire un tratto di venti metri, alla profondità di cento, attraverso gli strati sottostanti, ma tutto ciò che rivela sono rocce.» «Stiamo cercando troppo a monte», disse Pitt, rivolgendosi a Lasky. «Fagli fare ancora un giro.» «Accostamento da nuova angolazione», confermò Lasky, muovendo agilmente le mani tra i pulsanti e gli interruttori della consolle. Il Doodlebug ripercorse altre cinque volte l'intrico dei detriti sprofondati e per due volte udirono lo scafo strisciare contro di essi. Pitt sapeva fin troppo bene che, se l'involucro sottile si fosse lacerato, la responsabilità di aver distrutto un apparecchio che costava seicento milioni di dollari sarebbe stata sua. Quayle sembrava incurante del pericolo, furente perché il suo strumento si ostinava a rimanere muto e ce l'aveva soprattutto con se stesso, convinto che la colpa fosse sua. «Qualcosa non funziona a dovere», borbottava. «A quest'ora dovrei aver toccato l'obiettivo.» «Puoi localizzare il difetto?» chiese Pitt. «No, maledizione!» ringhiò Quayle. «Tutti i sistemi funzionano normalmente. Devo essere stato io a sbagliare i calcoli, quando ho riprogrammato i computer.» Le speranze di una rapida scoperta incominciarono a svanire. E la frustrazione fu più forte che mai, dato che tutti si erano abbandonati a un
prematuro ottimismo. Poi, mentre si accingevano a un ennesimo giro, la corrente del fiume investì il Doodlebug sulla dritta e lo mandò a incagliarsi su un banco di mota. Lasky dovette lottare per quasi un'ora con i comandi, prima di liberarlo dalla morsa vischiosa. Pitt gli stava trasmettendo le coordinate per una nuova rotta, quando gli giunse, dall'altoparlante, la voce di Giordino. «De Soto a Doodlebug. Siete in ascolto?» «Parla», rispose Pitt, seccamente. «Non abbiamo vostre notizie.» «Niente da comunicare», disse Pitt. «Fareste bene a chiudere bottega. Si sta avvicinando una violenta burrasca. Chase vorrebbe che il nostro prodigio elettronico fosse messo al sicuro prima che si alzi il vento.» Pitt detestava l'idea di darsi per vinto, ma sarebbe stato da pazzi proseguire. Avevano già perso troppo tempo e se anche avessero scoperto il treno in un paio d'ore, era pressoché impossibile localizzare la vettura di Essex, raggiungerla scavando e ritrovare il trattato prima che il presidente pronunciasse il suo discorso davanti al parlamento canadese. «D'accordo», sospirò Pitt. «Preparatevi a riceverci. Abbiamo fatto fiasco.» Giordino, in piedi sul ponte, indicò i nuvoloni neri che si andavano ammassando sopra le loro teste. «Sulla nostra impresa è pesata una maledizione sin dall'inizio», borbottò cupamente. «Come se non ne avessimo già abbastanza di problemi, adesso ci si mette anche il temporale.» «Qualcuno lassù ha progetti diversi dai nostri», disse Chase indicando il cielo. «Stai incolpando Dio, eretico che non sei altro?» scherzò Giordino. «No», rispose Chase, con aria grave. «Il fantasma.» Pitt si girò verso di lui. «Il fantasma?» «Un argomento che non si deve toccare da queste parti», spiegò Chase. «A nessuno piace confessare d'averlo visto.» «Parla per te», ribatté Giordino, con un sorriso. «Io ho sentito solo le voci che corrono.» «Mentre passava come una freccia su per il pendio verso il ponte, l'altra notte, le sue luci erano abbaglianti e illuminavano una buona metà della riva orientale. Non capisco come sia possibile che tu non lo abbia visto.» «Aspetta un momento», s'intromise Pitt. «State parlando del treno fantasma?»
Giordino lo guardò, sbalordito. «Lo sai anche tu?» «Non lo sanno tutti, forse?» ribatté Pitt, con simulata serietà. «Non si afferma in giro che lo spettro del treno condannato sta ancora tentando di attraversare il ponte per portarsi sull'altra riva?» «E tu ci credi?» chiese Chase, esitante. «Io credo senz'altro che qualcosa, sulla vecchia massicciata, si muove nella notte, sbuffando e fischiando. Dirò di più, mi è passato sopra, alla distanza di un palmo.» «Quando?» «Un paio di mesi fa, quando venni qui per una ricognizione sul posto.» Giordino scosse la testa. «Almeno non finiremo noi soli al manicomio.» «E voi, quante volte lo avete visto?» Giordino si girò verso Chase, per averne l'appoggio. «Due, no, tre volte.» «Dicevate che certe notti avete sentito solo il rumore, senza scorgere le luci?» «Le prime due volte sì; sentimmo soltanto i sibili del vapore e lo sferragliare della locomotiva», spiegò Chase. «La terza volta ci offrì un trattamento completo. Il fragore era accompagnato da una luce accecante.» «Anch'io ho visto le luci», confessò Pitt, lentamente. «Com'erano le condizioni del tempo quando lo avete visto voi?» Chase ci pensò su un momento. «A quanto ricordo, la notte era serena ma buia come la pece quando apparvero le luci.» «È vero», confermò Giordino. «Le luci si aggiunsero ai rumori soltanto la notte in cui non c'era la luna piena.» «Quindi c'è qualcosa di sistematico nella comparsa del fantasma», concluse Pitt. «La volta che mi piombò addosso la luna non c'era.» «Tutte queste chiacchiere sul treno fantasma non ci portano neppure d'un passo più vicino alla scoperta del treno vero», osservò Giordino con bonomia. «Vi proporrei di tornare alla realtà e di escogitare la maniera di arrivare sotto i relitti del ponte entro le prossime...» - s'interruppe per guardare l'orologio - «entro le prossime settantaquattro ore.» «Io avrei un'altra proposta», disse Pitt. «Cioè?» «Lasciar perdere tutta la faccenda.» Giordino lo guardò, pronto a sorridere perché riteneva che l'amico avesse scherzato. Invece diceva sul serio. «E che cosa andrai a dire al presidente?»
Pitt assunse una strana espressione, come se avesse scorto qualcosa a grande distanza, che lo assorbiva completamente. «Il presidente?» ripeté, distratto. «Gli dirò che abbiamo fatto un buco nell'acqua, sprecando il tempo e un'enorme quantità di soldi alla ricerca di un'illusione.» «Che vorresti insinuare?» «Il Manhattan Limited non si trova sotto il fondo dell'Hudson. Non vi è mai precipitato dentro», rispose Pitt. 70 Il sole al tramonto fu nascosto a un tratto dalle nuvole. Il cielo si oscurò rapidamente, facendosi via via più minaccioso. Pitt e Giordino si erano portati sulla vecchia massicciata e ascoltavano il rombo cupo della tempesta che si approssimava. Poi crepitarono i primi fulmini, il tuono brontolò e incominciò a cadere la pioggia. Il vento scrollava gli alberi con un gemito demoniaco. L'aria umida era opprimente e carica di elettricità. Dopo poco tutti i colori si spensero. C'era soltanto il nero attraversato da brevi striature bianche. Le gocce di pioggia, spinte orizzontalmente dalle raffiche, li colpivano in faccia pungenti come granelli di sabbia. Pitt abbottonò il colletto dell'impermeabile, chinò le spalle sotto la violenza della tempesta e si sforzò di scrutare nella notte. «Come fai a essere sicuro che comparirà?» chiese Giordino, gridando per superare il fragore del temporale. «Le condizioni sono identiche a quelle della notte in cui il treno scomparve», gridò Pitt in risposta. «Sono pronto a scommettere che il fantasma possiede un senso melodrammatico per la scelta del momento opportuno.» «Io gli concedo un'altra ora», dichiarò Chase, che li aveva seguiti e non ne poteva più di starsene sotto l'acquazzone. «Dopo di che me ne tornerò a bordo e mi consolerò con un buon bicchierotto di Jack Daniel's.» Pitt fece segno ai due di seguirlo. «Venite, facciamoci una passeggiatina lungo la massicciata.» Chase e Giordino lo seguirono a malincuore. Ormai lampeggiava quasi ininterrottamente e il De Soto, visto dalla riva, sembrava anch'esso un fantasma grigio. Una freccia luminosa brillò per un istante dietro il battello, attraverso il fiume, e ne rivelò, netta e nera, la sagoma. L'unico segno di vita era la luce bianca in cima all'albero maestro. Dopo aver percorso circa ottocento metri, Pitt si fermò e piegò la testa di lato, per sentire meglio. «Mi pare di percepire qualcosa.»
Giordino aspettò che l'eco dell'ultimo tuono si spegnesse sopra le colline e poi confermò le parole di Pitt. Si udiva il suono lamentoso del fischio d'una locomotiva. «Lo hai evocato», disse Chase. «Sta arrivando in orario.» Tacquero tutti e tre per parecchi secondi, mentre il fischio si avvicinava, sempre più forte; poi giunsero uno scampanellio e gli sbuffi del vapore, soffocati brevemente da un nuovo scoppio di tuono. Più tardi, Chase giurò d'aver sentito il tempo che si fermava. In quello stesso momento una luce spuntò dalla curva e li investì in pieno, con i raggi fantasticamente distorti dalla pioggia. Se ne stettero immobili, guardandosi a vicenda: i loro volti erano rischiarati da un vivo riflesso giallastro. Guardarono avanti, increduli e tuttavia sicuri di non soggiacere a un'allucinazione. Giordino si girò verso Pitt per dirgli qualcosa e rimase sgomento nel vederlo sorridere tranquillo, quasi divertito. «Non muovetevi.» Pitt parlò con una calma incredibile. «Giratevi, chiudete gli occhi e copriteveli con le mani per non essere abbagliati dalla luce.» L'istinto suggeriva ai due di fare esattamente l'opposto. Stentarono a resistere all'impulso di autoconservazione che li avrebbe spinti a scappare, o almeno a gettarsi bocconi per terra. Fu il tono tranquillo di Pitt a infondere in loro il coraggio di non arrendersi al panico. «Fermi... fermi. Tenetevi pronti a riaprire gli occhi non appena mi sentirete gridare.» L'attesa era sfibrante. Giordino era tesissimo, sicuro che un urto violento lo avrebbe in breve ridotto a un ammasso di carne e di ossa maciullate. Si convinse d'essere in punto di morte e si rassegnò. Il fragore assordante passò sopra di loro, lasciandoli storditi. Avevano l'impressione di essere stati scaraventati in un paradosso spazio-temporale. Poi, come per magia, la cosa inverosimile li superò, allontanandosi. «Adesso!» urlò Pitt. Si tolsero le mani dalla faccia e guardarono davanti a sé, con gli occhi che faticavano ad adattarsi all'oscurità. La luce si allontanava, dirigendosi verso il tracciato abbandonato da lungo tempo e il rumore ritmico della locomotiva si andava affievolendo. Tutti e tre poterono distinguere chiaramente un rettangolo scuro che spiccava al centro del bagliore, sospeso a circa due metri e mezzo dal suolo. Rimasero a osservarlo, affascinati, notando che rimpiccioliva con il crescere della distanza, finché non ebbe su-
perato il pendio e fu giunto all'altezza del ponte, dove si spense e ogni rumore fu soffocato dall'uragano. «Che diamine era?» mormorò finalmente Chase. «Nient'altro che un antiquato faro di locomotiva e un amplificatore», rispose Pitt. «Ah, davvero?», brontolò tra i denti Giordino, ancora scettico. «E come mai fluttuavano a mezz'aria?» «Appesi a un fil di ferro, tirato tra due vecchi pali del telegrafo.» «Peccato che vi sia una spiegazione logica per la faccenda», si rammaricò Chase, scuotendo la testa. «Mi spiace vedere smantellare così le belle leggende del soprannaturale.» L'agente della NUMA indicò verso l'alto. «Attenzione. La tua leggenda potrebbe ricomparire da un momento all'altro.» Si fermarono accanto al palo telegrafico più vicino, tenendo gli occhi fissi verso l'alto. Dopo un minuto emerse dall'oscurità una sagoma nera e scivolò silenziosa in aria, sopra di loro. Poi si fuse nuovamente con l'ombra e non la videro più. «Mi ha messo addosso una fifa blu», confessò Giordino. «Da dov'era sbucata?» chiese Chase. Pitt non rispose subito. Il bagliore d'un fulmine caduto su un campo lontano gli rischiarò per un momento il viso; i due compagni poterono notare che era assorto. Alla fine disse: «Sapete che cosa penso?» «No, che cosa?» «Penso che dovremmo farci offrire, tutti e tre, una tazza di caffè ben caldo e una fetta di torta di mele.» Quando bussarono alla porta di Magee parevano tre sorci annegati. Lo scultore aprì, li invitò cordialmente a entrare e prese i Loro impermeabili sgocciolanti. Mentre Pitt procedeva alle presentazioni, Annie Magee corse in cucina, come previsto, per preparare il caffè e la torta, quella volta di ciliege. «Che cosa vi ha portati fin da noi in una nottata da lupi come questa?» s'informò Magee. «Eravamo a caccia di fantasmi», rispose Pitt. Lo scultore strinse un tantino le palpebre. «Avete avuto fortuna?» «Potremmo parlarne nel vecchio ufficio della stazione, se non le rincresce?»
«Ma certo. Venite, venite.» Non ci vollero molte insistenze per indurlo a ripetere a Chase e a Giordino la storia della stanza e degli uomini che l'avevano occupata quella notte di maggio del 1914. Mentre la narrava, Magee accese il fuoco nella vecchia stufa panciuta. Pitt sedeva un po' discosto, in silenzio, davanti alla scrivania a ribalta che era stata di Sam Harding. L'aveva già sentita la prima volta che era capitato là e la sua mente in quel momento era altrove. Il padrone di casa stava indicando il foro della pallottola nella scacchiera di Hiram Meechum, quando entrò Annie, portando un vassoio con le tazze e i piatti. Dopo aver spazzato via fin l'ultima briciola della torta, Magee si rivolse a Pitt: «Lei non ha ancora risposto alla mia domanda. Il fantasma l'avete trovato?» «No», disse Pitt. «Nessun fantasma. Ma in compenso abbiamo scoperto un ingegnoso impianto che simula il treno fantasma.» Magee curvò le spalle possenti e scrollò la testa. «Sapevo che un giorno o l'altro qualcuno avrebbe finito con lo scoprire il segreto. Mi sono spinto a prendere in giro perfino la popolazione locale. Però nessuno di loro se l'è presa. Anzi, sono molto orgogliosi di avere un fantasma di cui possono dirsi proprietari. E poi è un fatto misterioso di cui possono vantarsi con i turisti.» «Quand'è che ha intuito la verità, signor Pitt?» chiese Annie. «La sera che bussai alla vostra porta. Mi ero trovato proprio sulla spalletta del ponte crollato quando voi avevate mandato il fantasma a farsi un giretto. Un attimo prima che mi arrivasse addosso, il faro si era spento e i rumori erano cessati.» «Aveva notato come lo mettiamo in azione?» «No, ero abbacinato dal faro e quando la vista si riadattò all'oscurità, era ormai scomparso. Lì per lì ero rimasto sbalordito, completamente disorientato. L'istinto mi spinse a perlustrare il terreno a livello del suolo, ma siccome non trovai tracce sulla neve, la mia perplessità non fece che crescere. Io, però, sono schiavo della mia curiosità. Incominciai a chiedermi come mai i vecchi binari fossero stati tolti fino all'ultima traversina e i pali telegrafici invece fossero rimasti in piedi. I funzionari delle ferrovie sono una banda di taccagni e non rinunciano a recuperare tutto il materiale che potrebbe essere riutilizzato, quando mettono fuori servizio una linea. Incominciai a seguire i pali finché non arrivai all'ultimo della fila, quello accanto alla porta di un capannone a fianco del vostro binario privato. E mi
accorsi inoltre che alla vostra locomotiva mancava il faro.» «Devo farle i miei complimenti, signor Pitt», disse Magee. «Lei è stato il primo ad azzeccare la verità.» «Com'è che funziona il trucco?» volle sapere Giordino. «Con lo stesso principio di una seggiovia», spiegò Magee. «Il faro e quattro altoparlanti sono appesi a un cavo continuo teso tra le traverse dei pali telegrafici. Nel momento in cui l'impianto luce e suono arriva all'imbocco del vecchio ponte, un comando a distanza disinserisce le batterie e allora, con una rotazione di centottanta gradi, ritorna nel capannone.» «Per quale motivo certe notti abbiamo sentito solo il rumore, senza scorgere le luci?» chiese Chase. «Il faro della locomotiva è piuttosto grande e di conseguenza fin troppo facilmente riconoscibile», spiegò lo scultore. «Perciò nelle notti di luna lo stacco e metto in funzione il solo impianto sonoro.» «Non mi vergogno di confessare che Chase e io eravamo pronti a giurare sull'esistenza del soprannaturale, la prima volta che lo vedemmo», disse Giordino, con un sorriso schietto. «Spero di non avervi spaventato col mio trucco.» «No, tutt'altro. Anzi, ci ha fornito un appassionante argomento di conversazione.» «Annie e io ci siamo recati quasi tutti i giorni sulla riva del fiume, per seguire la vostra operazione di recupero. Direi che avete incontrato numerose difficoltà. Avete già tirato su qualche parte del Manhattan Limited?» «Neppure un chiodo», rispose Pitt. «Siamo sul punto di abbandonare l'impresa.» «Peccato», si rammaricò Magee, sinceramente. «Stavo facendo il tifo per voi. Scommetterei che non era l'intero treno quello che volevate scoprire.» «Comunque, l'oggetto della nostra ricerca non si trova nel fiume.» «Qualcuno vuole ancora un po' di caffè?» Annie fece il giro degli ospiti con il bricco. «Io sì, grazie», rispose Pitt. «Stava dicendo...» disse Magee. «Lei per caso possiede uno di quei piccoli carrelli a motore che le ferrovie impiegano quando sono in corso riparazioni su singoli tratti dei binari?» s'informò Pitt, cambiando discorso. «Ne ho uno vecchio di ottant'anni, azionato a mano, a forza di muscoli.» «Me lo potrebbe prestare, insieme col suo aggeggio del treno fantasma?»
«Quando le servirebbe?» «Adesso, immediatamente.» «In una nottataccia come questa?» «Soprattutto in una nottataccia come questa.» 71 Giordino si mise ritto in piedi sulla piattaforma accanto al binario, reggendo in mano una grande torcia elettrica. Il vento aveva rallentato la violenza di prima e soffiava a sedici chilometri l'ora. Tenendosi appoggiato all'angolo dell'ex stazione di Wacketshire, trovava riparo dalla pioggia scrosciante. Chase non era altrettanto fortunato. Se ne stava accoccolato sopra un carrello azionato a mano, fermo sul binario, circa quattrocento metri più su. Asciugò, forse per la decima volta, i morsetti della batteria e controllò i fili di collegamento con il faro della locomotiva e gli altoparlanti, disposti con mezzi di fortuna davanti al carrello. Pitt apparve sulla soglia e fece un segno con la mano. Giordino gli rispose, poi saltò giù dalla piattaforma, sul binario, e lampeggiò nel buio con la torcia. «Era tempo che si sbrigassero», borbottò Chase, schiacciando l'interruttore della batteria e incominciando a muovere le leve manuali. Il raggio del faro fece scintillare le rotaie bagnate e una folata di vento si portò via il fischio della locomotiva. Pitt calcolò mentalmente il tempo che il carrello avrebbe impiegato per terminare la sua corsa. Avendo constatato con soddisfazione che Chase avanzava alla velocità voluta, rientrò in quello che era stato l'ufficio della stazioncina e si accostò un momento alla stufa per fare provvista di calore. «È incominciata», annunciò laconico. «Che cosa spera di venire a sapere, inscenando la replica della rapina?» chiese Magee. «Potrò essere più preciso tra qualche minuto», rispose evasivamente Pitt. «In ogni caso, io trovo tutto molto eccitante», dichiarò Annie. «Lei, Annie, fingerà d'essere Hiram Meechum, il telegrafista, mentre io sarò il capostazione, Sam Harding», disse Pitt. «A lei, signor Magee, che conosce meglio di tutti la storia, ho assegnato la parte di Clement Massey e la regia, visto che dovrà rispiegarci tutto, passo dopo passo.» «Proverò», rispose Magee. «Però è impossibile ricostruire esattamente il dialogo e i movimenti di un avvenimento vecchio di tre quarti di secolo.»
«Non lo dobbiamo ricostruire con assoluta fedeltà», sorrise Pitt. «Non è la prima dello spettacolo, ma una semplice prova generale.» Magee si strinse nelle spalle. «D'accordo... Vediamo un po': Meechum era seduto al tavolo, con la scacchiera davanti a sé. Harding aveva appena ricevuto una chiamata dal responsabile dei movimenti di Albany, quindi doveva trovarsi in piedi accanto al telefono quando entrò Massey.» Andò alla porta e si girò, fingendo d'impugnare una rivoltella. Il rumore della locomotiva si stava avvicinando, frammisto all'occasionale scoppio di qualche tuono. Rimase un paio di secondi in ascolto, poi annuì con un cenno del capo. «Questa è una rapina», disse. Annie guardò Pitt, incerta su ciò che doveva dire o fare. «Superata la sorpresa, i due ferrovieri dovettero replicare qualcosa», suggerì Pitt. «Sì, quando andai a intervistare Sam Harding, lui mi raccontò che tentarono di dissuadere Massey dicendogli che non c'erano soldi, nell'ufficio, ma quello non diede loro retta e insistette perché uno dei due aprisse la cassaforte.» «Naturalmente tergiversarono», suppose Pitt. «Da principio sì», continuò Magee, con una voce che s'incupiva. «Poi Harding non si oppose più, a patto di poter prima segnalare con la bandierina al treno di fermarsi. Massey rifiutò, accusandolo di voler tentare un diversivo, si spazientì e sparò, colpendo la scacchiera di Meechum.» Annie esitò, con la faccia inespressiva, quindi, lasciandosi trasportare dalla fantasia, spazzò via dal tavolo la scacchiera, con la mano, e i pezzi si sparpagliarono sul pavimento. «Harding supplicò e tentò di convincere Massey che il ponte era crollato, ma quello non cedette.» La luce del faro installato sul carrello lampeggiò attraverso la finestra. Pitt si accorse che gli occhi di Magee rivedevano il passato. «Poi che accadde?» lo sollecitò. «Meechum afferrò la lanterna e tentò di arrivare sulla banchina per fermare il treno. Massey gli sparò alla coscia.» Pitt si rivolse ad Annie. «Tocca a lei, per piacere.» La donna si alzò dalla seggiola, mosse qualche passo verso la porta e si sdraiò sul pavimento. Il carrello distava ormai cento metri scarsi. Pitt poteva leggere quanto stava scritto sul calendario appeso alla parete, illuminata dal raggio del faro.
«La porta!» gridò. «Era aperta o chiusa?» Magee rimase zitto, tentando di ricordare. «Presto, presto!» lo sollecitò Pitt. «Massey l'aveva chiusa con un calcio.» Pitt si affrettò a chiuderla. «E poi, che cosa fece?» «'Aprite quella maledetta cassaforte!' Sì, furono proprio queste le parole di Massey, secondo Harding.» Pitt corse a inginocchiarsi davanti alla cassaforte. Cinque secondi dopo, il carrello con sopra Chase che azionava le leve sudando abbondantemente, passò sul binario davanti alla vecchia costruzione in legno che rimbombava tutta per il rumore degli altoparlanti. Giordino, fermo al suo posto, agitò la torcia elettrica davanti alla finestra, con un'ampia rotazione del braccio, dando così l'impressione, a quelli che si trovavano all'interno, che la luce fosse proiettata attraverso i vetri dal faro assicurato sul carrello. Mancava soltanto, rispetto a quant'era avvenuto in realtà, il martellare ritmico delle ruote. Un brivido corse lungo il dorso di Magee e gli fece rizzare i capelli. Aveva la sensazione di aver rievocato un passato che non aveva mai conosciuto veramente. Annie si rialzò da terra e gli passò un braccio intorno alla vita. Lo scrutò in faccia, con uno sguardo penetrante. «Tutto pareva così reale», mormorò lui. «Così terribilmente reale.» «Sì, era terribilmente reale perché non abbiamo fatto altro che ripetere quanto è accaduto per davvero, nel lontano 1914», riconobbe Pitt. Magee si girò verso di lui. «Ma quella volta c'era il vero Manhattan Limited.» Pitt scosse il capo. «No, non c'era oggi e non c'era nemmeno allora.» «Lei si sbaglia. Harding e Meechum lo videro.» «Erano caduti in inganno», ribatté Pitt, tranquillo. «Non può essere...» protestò Magee. S'interruppe, sconcertato e incapace di comprendere. Poi riprese: «È impossibile... erano ferrovieri, gente esperta... non potevano prendere un abbaglio». «Meechum era per terra, ferito. La porta era chiusa. Harding stava chino sulla cassaforte, voltando le spalle ai binari. Tutto ciò che i due videro furono le luci. Tutto ciò che udirono furono rumori, i rumori che uscivano da un vecchio grammofono sul quale girava il disco con la registrazione di un treno in corsa.» «Ma il ponte... crollò sotto il peso del treno. E il crollo non fu certamente simulato.»
«Massey lo fece saltare a sezioni singole. Sapeva che uno scoppio forte avrebbe messo in allarme l'intera vallata. Perciò innescò piccole cariche di polvere pirica nei punti chiave della struttura e fece coincidere le esplosioni con il rombo dei tuoni, finché la campata centrale non cedette e precipitò nel fiume.» Magee, non ancora del tutto convinto, stette zitto. «La rapina alla stazione era soltanto una messinscena, una copertura. Massey mirava a ben altro che ai miserabili diciotto dollari. Voleva impadronirsi del carico di due milioni di dollari in monete d'oro che erano a bordo del Manhattan Limited.» «Ma perché rese le cose così complicate?» obiettò Magee. «Non avrebbe dovuto fare altro che fermare il treno, impedirgli di proseguire e svignarsela col tesoro.» «Una trama buona per un film di Hollywood», replicò Pitt. «Ma nella vita reale si presenta immancabilmente qualche ostacolo. Le monete in questione, le cosiddette Saint Gaudens, erano pezzi da venti dollari, ciascuna del peso di circa trenta grammi. L'aritmetica elementare ci dice che ne occorrevano centomila per arrivare a due milioni di dollari. Calcolando che per avere un peso approssimativo di mezzo chilo ce ne volevano sedici, basta eseguire una moltiplicazione e scopriamo che il carico completo pesava suppergiù tre tonnellate. Non si trattava quindi di un sacco che un paio di uomini avrebbero potuto riempire e portarsi via nella fuga, prima che i funzionari delle ferrovie fossero giunti a immaginare la causa del ritardo del treno e avessero mandato una squadra di poliziotti in perlustrazione lungo la linea.» «D'accordo», disse Giordino. «Comunque, voglio rivolgerti la domanda che tutti quanti stiamo pensando. Se il treno non è passato di qua e non si è tuffato nell'Hudson, dove diavolo è andato a finire?» «Ritengo che Massey sia salito sulla locomotiva, lo abbia dirottato fuori del binario della linea principale e lo abbia nascosto dove si trova tuttora.» Se Pitt avesse dichiarato d'essere un extraterrestre arrivato da Venere, oppure Napoleone Bonaparte reincarnato, le sue parole non sarebbero state accolte con maggiore scetticismo. Magee si mostrò addirittura profondamente incredulo. Soltanto Annie parve rifletterci sopra. «Sotto taluni aspetti, l'ipotesi del signor Pitt non è così campata in aria come potrebbe sembrare», disse. Il marito la guardò come si guarda un bambino troppo ingenuo. «Non un solo passeggero o un uomo del personale sopravvissuto per raccontare co-
me andò veramente a finire, non uno dei rapinatori che abbia confessato sul letto di morte, nemmeno un cadavere che fornisse un indizio? Non un frammento di un intero treno scoperto durante tutti questi anni... no, non è possibile!» «Sarebbe la scomparsa più clamorosa di tutti i tempi», rincarò Chase. C'era da ritenere che Pitt non avesse ascoltato neppure una parola di quanto dicevano. A un tratto si girò e chiese a Magee: «Quanto è lontana Albany da qui?» «Una quarantina di chilometri, all'incirca. Perché lo vuol sapere?» «Quindi l'ultima volta che qualcuno vide da vicino il Manhattan Limited fu quando il treno lasciò la stazione di Albany.» «Lei non crederà sul serio...» «La gente crede quello che vuol credere», asserì Pitt. «Miti, fantasmi, religioni e il soprannaturale. Io sono convinto che un oggetto inanimato e ben tangibile è stato nascosto, molto semplicemente, per settantacinque anni in un posto dove a nessuno era venuto in mente di cercare.» Magee sospirò. «E qual è adesso il suo piano?» Pitt si mostrò sorpreso della domanda. «A costo di cavarmi gli occhi esaminerò centimetro per centimetro tutto il vecchio tracciato ferroviario abbandonato, da qui ad Albany, finché non avrò scoperto la traccia di un vecchio binario che non conduce da nessuna parte», dichiarò reciso. 72 Quando il telefono squillò erano le undici e un quarto di sera. Sandecker depose il libro che stava leggendo a letto e alzò il ricevitore. «Sandecker.» «Sono di nuovo Pitt.» L'ammiraglio si mise seduto e cercò di schiarirsi la mente. «Da dove mi sta chiamando a quest'ora?» «Da Albany. C'è qualcosa di nuovo.» «Un'altra difficoltà con il progetto di recupero?» «L'ho annullato.» Sandecker respirò a fondo. «Le spiacerebbe dirmene il motivo?» «Stavamo cercando nel posto sbagliato.» «Oh, Cristo!» grugnì. «Questa non ci voleva. Dannazione! Nessun dubbio?» «Da parte mia, no di certo.»
«Resti in linea.» Sandecker prese un sigaro dall'umidificatore che aveva a portata di mano, sul comodino, e lo accese. Preferiva gli honduras, dal sapore più leggero e con le foglie avvolte meno strettamente, agli avana. Con un buon sigaro tra i denti, era fermamente convinto di poter tenere a bada tutto il mondo, se necessario. Mandò fuori una sbuffata di fumo che serpeggiò verso il soffitto e riprese a parlare. «Dirk?» «Eccomi.» «Che cosa dovrò dire al presidente?» Seguì un silenzio, poi Pitt rispose parlando lentamente e scandendo le parole. «Gli dica che le probabilità sono passate da una su un milione a una su mille.» «Avete scoperto qualcosa?» «Non esattamente.» «E allora su quale base procederete?» «Niente di più che un mio presentimento.» «Che cosa le occorre da me?» «Si metta in contatto con Heidi Milligan, per favore. In questo momento si trova al Gramercy Park Hotel di New York. Le chieda di andare a frugare nei vecchi archivi delle ferrovie, alla ricerca di tutte le mappe sulle quali sono segnati i binari, le diramazioni e i raccordi della New York and Quebec Northern Railroads tra Albany e il ponte Deauville sull'Hudson, durante gli anni compresi tra il 1880 e il 1914.» «D'accordo, me ne occupo subito. Ha il suo numero?» «No, ma glielo daranno alle informazioni.» Sandecker tirò un'altra energica boccata dal sigaro. «Quali speranze ci sono per lunedì?» «Pochissime. Non è possibile agire di fretta.» «Ma il presidente ha assolutamente bisogno del documento entro lunedì.» «Perché?» «Non lo sa?» «Quando glielo chiesi, Moon riattaccò.» «Lunedì il presidente parlerà davanti alla camera dei comuni e al senato canadesi, in riunione congiunta. Il succo del suo intervento consiste in una perorazione affinché il nostro e il loro Paese si uniscano. Alan Mercier me lo ha rivelato questa mattina. Da quando il Quebec ha proclamato la pro-
pria indipendenza, anche le province marittime hanno preso in considerazione l'idea d'imitarlo. Il presidente si propone di convertirle al suo progetto e, insieme con la loro, spera di ottenere anche l'adesione delle province occidentali. Questo, beninteso, se salta fuori uno degli originali del trattato nordamericano. Non per servirsene come di un mezzo coercitivo, o come di una minaccia, ma per eliminare la giungla giuridico-burocratica del trapasso e per erigere una muraglia contro le obiezioni e le interferenze del Regno Unito. E alla sua proposta di un Nordamerica unificato mancano soltanto cinquantotto ore. Ha afferrato il concetto?» «Sì...» rispose Pitt senza entusiasmo. «L'ho afferrato. E già che ci siamo, ringrazi da parte mia il presidente e la sua cricca di avermelo fatto sapere all'ultimo minuto.» «Le cose sarebbero andate diversamente se lo avesse saputo prima?» «No, penso di no.» «Dov'è che Heidi può mettersi in comunicazione con lei?» «Il De Soto resterà all'ancora vicino al ponte, come base di comando. Da lì mi trasmetteranno tutte le chiamate.» Non c'era altro da aggiungere. Perciò Sandecker si limitò a un «buona fortuna». «Grazie», rispose Pitt. E riattaccò. Sandecker ottenne il numero dell'albergo di Heidi in meno di un minuto e si mise immediatamente in comunicazione con New York. «Buonasera. Qui Gramercy Park Hotel», rispose una voce femminile assonnata. «La stanza di Heidi Milligan, per favore.» Una pausa. «Sì, è al tre-sei-sette. Attenda.» «Pronto.» Era la voce di un uomo. «È la camera di Heidi Milligan?» «No, signore, parla il portiere di notte. La signora è uscita.» «Non sa quando rientrerà?» «No, non ha lasciato detto niente quando è uscita.» «Lei deve avere una memoria fotografica», osservò Sandecker, sospettoso. «Scusi?» «Ricorda i nomi di tutti gli ospiti che attraversano l'atrio?» «Quando si tratta di una bella donna alta un metro e ottanta e con una gamba ingessata, sì.»
«Capisco.» «Vuol lasciare un messaggio?» Sandecker rifletté un momento. «No, nessun messaggio. Richiamerò io, più tardi.» «Un attimo, signore. Mi pare di averla vista entrare nell'ascensore mentre stavamo parlando. Se vuol restare in linea, le passo la telefonata nella sua stanza.» Nella camera tre-sei-sette, Brian Shaw depose il ricevitore sul tavolino ed entrò nella stanza da bagno. Heidi era nella vasca, coperta da una massa di bollicine bianche, con la gamba ingessata posata goffamente sull'orlo, la cuffia di plastica in testa per non bagnarsi i capelli e un calice da vino vuoto, tenuto mollemente in mano. «Venere nascente dalla spuma del mare», rise Shaw. «Mi piacerebbe scattarti una foto.» «Non arrivo a prendere lo champagne», disse lei, indicando la bottiglia di Tattinger brut riserva speciale nel secchiello del ghiaccio, in precario equilibrio sopra il lavabo. Si affrettò a riempirle il bicchiere, poi le versò il resto dello spumante ghiacciato sul seno. Heidi lanciò uno strillo e tentò di spruzzarlo, ma Shaw fu lesto a scansarsi, scostandosi agilmente di lato. «Me la pagherai», gridò lei. «Prima di scendere in guerra, t'avverto che qualcuno ti vuole al telefono.» «Chi è?» «Non gliel'ho chiesto. Mi sa che si tratta di un altro vecchio sporcaccione. Se vuoi, puoi prendere la telefonata qui», e indicò l'apparecchio a muro tra la vasca e il lavabo. «Io vado ad appendere di là nella stanza.» Non appena la sentì parlare, Shaw le passò la comunicazione, ma si guardò bene dal chiudere e, con l'orecchio premuto contro il ricevitore, ascoltò il dialogo tra la donna e l'ammiraglio. Quand'ebbero finito, attese che lei mettesse giù per prima. Lei, però, non lo fece. Astuta, la ragazza. Non si fida di me, pensò. Finalmente, dopo una decina di secondi, udì il clic. Allora formò il numero della portineria. «Desidera?» «Le rincrescerebbe chiamare tra un minuto l'appartamento tre-sei-sette e chiedere di Brian Shaw? Ma non dica, per favore, che è lei che chiama.» «Tutto qui?» «Quando Shaw le risponderà, chiuda. Tutto qui.»
«Sta bene, signore.» Shaw si riaffacciò alla porta del bagno e chiese: «Armistizio?» Heidi sorrise. «Ti sarebbe piaciuto se fossi stata io a fare lo scherzo a te?» «La sensazione non sarebbe stata la stessa. Mica sono fatto come te, io.» «Già, ma adesso puzzerò di champagne.» «Sarà delizioso.» Squillò il telefono. «Probabilmente è per te», disse lui, in tono indifferente. Heidi rispose, poi gli allungò il ricevitore. «Qualcuno che chiede di Brian Shaw. Preferisci parlare di là?» «Non ho segreti», ribatté lui, sorridendo maliziosamente. Disse qualcosa a bassa voce, come se all'altro capo ci fosse stato un interlocutore, poi riappese, con un'espressione seccata. «Accidenti a loro. Era il consolato. Devo incontrarmi subito con una persona.» «A quest'ora di notte?» Shaw si chinò e le depose un rapido bacio sulle dita del piede che sporgevano dal gesso. «Nell'attesa, datti ai bagordi. Sarò di ritorno tra un paio d'ore.» Il curatore del museo ferroviario di Long Island era un anziano ragioniere in pensione che aveva nutrito per tutta la vita una vera passione per i treni. Passò sbadigliando tra le bacheche dei pezzi antichi esposti, senza smetterla di borbottare per essere stato tirato giù dal letto da un agente dell'FBI che voleva farsi aprire. Arrivò alla porta, antica anche questa: sul vetro smerigliato era inciso un cervo, ritto in cima a un monte, e intento a guardare in basso una locomotiva scintillante, sormontata da un grande pennacchio di fumo, mentre affrontava una curva. Frugò nel mazzo di chiavi appese a un anello finché non ebbe trovato quella giusta. La infilò nella serratura, aprì la porta e accese le luci. Allungò il braccio per bloccare Shaw che già stava entrando per chiedergli: «Lei è veramente dell'FBI?» Shaw sospirò alla domanda piuttosto sciocca e gli mise sotto il naso, per la terza volta, un falso tesserino d'identificazione fabbricato poco prima, in tutta fretta. «Le assicuro, signor Rheinhold...»
«Rheingold, come oro del Reno, quello dei Nibelunghi.» «Mi rincresce, signor Rheingold, ma le garantisco che i miei superiori non le avrebbero dato tanto disturbo se non si trattasse di una questione della massima urgenza.» Il vecchietto lo guardò in faccia. «Non potrebbe dirmi di che si tratta, di preciso?» «No, purtroppo.» «Uno scandalo nei servizi ferroviari nazionali. Scommetto che state investigando su uno scandalo.» «Non glielo posso dire.» «Forse una rapina a un treno. Dev'essere una questione segreta, visto che non ne hanno parlato nel notiziario delle sei.» «Posso pregarla di farmi esaminare quanto m'interessa?» tagliò corto Shaw, che fremeva d'impazienza. «La faccenda è urgente.» «D'accordo, d'accordo. Chiedevo così, tanto per dire», rispose Rheingold, deluso. Lo precedette lungo un corridoio fiancheggiato da scaffali zeppi di volumi rilegati, tutti riguardanti le ferrovie, molti dei quali erano esauriti da decenni, e si fermò davanti a uno che conteneva grandi cartelle. Le passò in rassegna con lo sguardo, attraverso le lenti bifocali, leggendone le intestazioni ad alta voce. «Vediamo un po'... tracciato ferroviario della New Haven & Hartford... la Lake Shore & Michigan Southern... Boston & Albany... Ah, eccola qui: New York & Quebec Northern.» Tolse la cartella dallo scaffale, la mise sopra un tavolo e slegò i lacci che tenevano chiusa la copertina. «Una delle prime compagnie ferroviarie, ai suoi tempi. Oltre tremilacinquecento chilometri di binari. Possedeva un direttissimo scomparso in una sciagura, chiamato Manhattan Limited. C'è una sezione particolare della linea che le interessa?» «La troverò da me, grazie», rispose Shaw. «Gradirebbe una tazza di caffè? Glielo posso preparare di sopra, nel mio ufficio. Ci metterò soltanto un paio di minuti.» «Lei è davvero troppo gentile, signor Rheingold. Una tazza di caffè mi andrebbe proprio bene.» Rheingold si allontanò lungo il corridoio. Arrivato alla porta, si girò per dare un'occhiata all'inatteso visitatore. Shaw, seduto al tavolo, era immerso nell'esame della vecchia mappa scolorita e ingiallita. Quando il curatore del museo ricomparve col caffè, la cartella era stata
richiusa e riposta accuratamente sullo scaffale, al posto esatto. «Signor Shaw?» Non ricevette risposta. Nella biblioteca non c'era più anima viva. 73 Pitt, intimamente sicuro d'aver visto giusto, si sentiva rianimato, quasi allegro. La certezza di avere aperto una porta che intere generazioni prima di lui non avevano saputo scorgere gli faceva l'effetto di un eccitante. Con un ottimismo che sin dall'inizio dell'operazione non avev? mai provato, era fermo in un piccolo prato sgombro, in attesa che il jet bimotore spuntasse per atterrare. In circostanze normali, l'impresa sarebbe stata dichiarata impossibile: il campo era butterato da vecchi ceppi e solcato da fossi asciutti. Il tratto in piano più lungo misurava appena una quindicina di metri e finiva contro un affioramento roccioso rivestito di muschio. Si era aspettato che mandassero un elicottero e incominciò a chiedersi se il pilota non fosse per caso un aspirante suicida, o non fosse salito sull'apparecchio sbagliato, per distrazione. Poi osservò, incantato, le ali e i motori che si rizzavano lentamente verso l'alto, mentre la fusoliera e la coda restavano orizzontali. Quando si trovarono ad angolo retto, L'apparecchio cessò di avanzare e incominciò a posarsi sul terreno accidentato. Non appena le ruote ebbero toccato l'erba, Pitt si avvicinò e aprì il portello della carlinga. Una faccia da adolescente, lentigginosa e coronata da una capigliatura rossa, s'illuminò in un ampio sorriso. «Buongiorno. Lei è Pitt?» «In persona.» «Salga.» Pitt salì, chiuse il portello e sedette al posto del secondo pilota. «Questo è un convertiplano, non è vero?» «Sì», rispose il pilota. «Un aereo a decollo e atterraggio verticale fabbricato in Italia, uno Scinletti 440. Un vero gioiellino nel suo genere, anche se a volte è un po' ribelle... Io però gli canto un'aria di Verdi e allora diventa creta nelle mie mani.» «Non gli preferirebbe l'elicottero?» «Troppe vibrazioni. E poi, per la fotografia aerea si presta assai meglio un aereo veloce.» S'interruppe. «A proposito, io mi chiamo Jack Westler.» Invece di porgere la mano, manovrò i comandi e il convertiplano decollò.
Quando ebbero raggiunto la quota di sessanta metri, Pitt si girò sul suo seggiolino per osservare dietro di sé le ali che riprendevano l'allineamento orizzontale. L'apparecchio incominciò ad aumentare la velocità e ben presto riprese l'assetto regolare di volo. «Qual è la zona di cui vuol ottenere la carta fotogrammetrica?» chiese Westler. «Il vecchio tracciato ferroviario lungo la riva destra dell'Hudson fino ad Albany...» «Non ci manca molto.» «Conosce i posti?» «Ho passato tutta la mia vita nella valle dell'Hudson. Lei ha mai sentito la storia del treno fantasma?» «Me la risparmi», disse Pitt, con voce stanca. «Oh... d'accordo.» Il giovane lasciò cadere l'argomento. «Da dove dobbiamo incominciare a far scorrere la pellicola?» «Da sopra la casa di Magee.» Pitt ispezionò con gli occhi la parte posteriore della cabina. Non c'era segno di equipaggiamento fotografico. «Parlando di pellicola, dov'è l'apparecchio e dove il fotografo?» «Vuol dire gli apparecchi, al plurale. Ne impieghiamo due per volta, con gli obiettivi regolati ad angolazioni diverse, per ottenere una visione binoculare. Li aziono senza muovermi da qui, dalla carlinga.» «A quale altitudine volerà?» «Dipende dalle focali. L'altitudine viene calcolata matematicamente e otticamente. Questa volta sono regolate su una quota di tremila metri.» Il panorama che si svolgeva sotto di loro era d'una bellezza indicibile. L'ampia valle, fresca e verde, lasciava spaziare l'occhio fino all'orizzonte, con un cielo terso chiazzato di leggere nuvolette primaverili. Osservato da millecinquecento metri, il fiume assumeva la forma di un pitone gigantesco che si snodava tra le colline, costellato qua e là da basse isolette che facevano pensare alle pietre del guado di un torrentello. Una distesa di vigneti qua, una distesa di frutteti là, con qualche singola fattoria intercalata tra gli uni e gli altri. Quando l'altimetro segnò i tremila metri, Westler compì una virata per portare l'apparecchio su una rotta leggermente più a nord. Sotto di loro scorsero il De Soto, minuscolo come un modellino navale. «Le macchine sono in funzione», annunciò il pilota. «Parla come se stessimo girando un film», osservò Pitt. «Più o meno è così. Ogni fotogramma riproduce circa il sessanta per
cento di quello successivo. In questo modo tutti i singoli oggetti sono visibili due volte, da un'angolazione un po' diversa e con un'esposizione diversa. Si possono scoprire così particolari invisibili a livello del terreno, tracce di opere umane vecchie di centinaia o perfino di migliaia di anni.» Pitt vedeva chiaramente la traccia lasciata dal vecchio binario, che s'interrompeva bruscamente e svaniva in un prato di erba medica. La indicò al pilota. «E se quello che cerchiamo fosse ormai completamente cancellato?» Westler guardò attraverso il parabrezza e annuì. «Già, ecco un esempio. Se il terreno, nella zona della ricerca, è stato coltivato, la vegetazione finisce con l'assumere una leggerissima differenza di colore, dovuta agli elementi estranei alla composizione originaria del suolo. Il cambiamento può sfuggire all'occhio umano, ma non al sistema ottico della cinepresa: la tonalità cromatica più accentuata della pellicola a colori darà ai dettagli un risalto assai maggiore che nella realtà.» In un lampo, o così parve a Pitt, si avvicinarono alla periferia sud della capitale dello Stato di New York. Vedeva i mercantili transoceanici ancorati nel porto di Albany. Chilometri di binari ferroviari che s'intersecavano coprivano, come un'immensa ragnatela, la zona circostante i magazzini. E là il vecchio tracciato spariva definitivamente, sotto il peso livellatore e inesorabile del progresso. «Facciamo ancora un giro», propose Pitt. «Pronti!» esclamò l'altro, cordialmente disponibile. Ne rifecero non uno, ma altri cinque alla ricerca dei volatilizzati binari della New York & Quebec Northern; la debole, esigua traccia attraverso la campagna terminava nel punto già individuato, senza che si scorgesse segno di diramazioni secondarie. A meno che i fotogrammi non gli avessero rivelato qualcosa che a occhio nudo non era in grado di discernere, a Pitt non restavano altre speranze se non una fruttuosa ricerca da parte di Heidi. Sennonché dal museo ferroviario di New York erano scomparse le mappe e Heidi sapeva con matematica certezza chi era il ladro. Shaw era rientrato in albergo a tardissima notte e avevano fatto l'amore teneramente, con grande dolcezza, fino all'alba. Quando si era svegliata, Shaw se n'era già andato. Troppo tardi si era resa conto che doveva aver ascoltato il suo colloquio con l'ammiraglio Sandecker. Più d'una volta, mentre facevano l'amore, aveva pensato a Pitt. Con lui
era molto diverso: Pitt era impetuoso e insaziabile e la costringeva a rispondergli, suo malgrado, con un'intensità selvaggia. I loro incontri a letto erano stati una competizione, un torneo dal quale usciva sempre sconfitta. Pitt l'aveva dominata da padrone, lasciandola esausta, smarrita nello stordimento di una disfatta. Nel profondo, la sua personalità indipendente si ribellava, la sua mente rifiutava di accettare la superiorità dell'amanteantagonista e tuttavia il suo corpo lo bramava con un abbandono completo. Con Shaw, invece, l'atto sessuale era tenero, quasi rispettoso, e Heidi era padrona di controllare le proprie reazioni. Nella vita, però, loro due erano come gladiatori che si muovono in cerchio, guardinghi e pronti a cogliere l'altro allo scoperto per batterlo. Se era vero che Pitt la lasciava immancabilmente stremata, con la sensazione di essere stata un oggetto del piacere di lui, era altrettanto vero che anche Shaw si serviva di lei, sebbene per uno scopo ben diverso; tuttavia stranamente Heidi non se ne risentiva, anzi desiderava con tutta se stessa ritornare con lui, come si desidera ritornare in un porto tranquillo dopo una traversata burrascosa. Si appoggiò allo schienale della seggiola, nella biblioteca del museo, e chiuse gli occhi. Shaw pensava sicuramente di averla cacciata in un vicolo cieco. C'erano altre fonti alle quali avrebbe potuto attingere, altri archivi, raccolte private, associazioni storiche. Però Shaw sapeva che non poteva permettersi la perdita di tempo degli spostamenti necessari per consultarle. Quindi era giocoforza che escogitasse una soluzione diversa e quel che Shaw non poteva sapere né immaginare, nonostante la sua scaltrezza, era il fatto che Heidi non era affatto intrappolata. «E va bene, furbastro», mormorò rivolta agli scaffali. «Ti farò vedere io chi riderà per ultimo.» Chiamò il curatore, che stava ancora sbadigliando per le ore di sonno perse e imprecava contro i rompiscatole dell'FBI. «Vorrei dare un'occhiata ai vecchi dispacci archiviati e ai vecchi registri del movimento ferroviario.» Rheingold accondiscese di buon grado. «Abbiamo catalogato soltanto una parte del vecchio materiale che mi chiede. Troppo ingombrante per archiviarlo tutto, naturalmente. Non avremmo avuto lo spazio necessario. Ma mi dica che cosa le serve di preciso e sarò lieto di cercarglielo.» Heidi gli spiegò di che cosa aveva bisogno e a mezzogiorno aveva già trovato quanto voleva scoprire. 74
Heidi scese dall'aereo all'aeroporto di Albany alle quattro del pomeriggio e trovò Giordano ad aspettarla. Rifiutò seccamente l'offerta di procurarle una sedia a rotelle e insistette per andare a piedi, appoggiandosi alle stampelle, fino all'automobile. «Come stanno andando le cose?» chiese a Giordino che s'inseriva nel traffico diretto più a sud. «Direi che non si presentano molto incoraggianti. Quando ho lasciato il De Soto, Pitt stava esaminando una serie di fotografie aeree. Ma non vi compare traccia di una diramazione laterale.» «Io ritengo invece d'avere trovato qualcosa.» «Avremmo proprio bisogno di un briciolo di fortuna, tanto per cambiare», borbottò Giordino. «Non mi sembra entusiasta alla notizia.» «Gli entusiasmi li lascio ai giovani.» «La faccenda si è messa così male?» «Provi a pensarci. Domani pomeriggio il presidente pronuncerà un discorso al parlamento canadese e siamo a un punto morto. Non c'è verso che riusciamo a recuperare in così poco tempo il trattato... sempre ammettendo che esista, cosa di cui dubito.» «Che ne pensa Pitt?» chiese Heidi. «A proposito del treno che dovrebbe essere nascosto da qualche parte, ma non seppellito sotto il letto del fiume, intendo dire.» «È convintissimo che non sia mai precipitato dal ponte.» «Lei che cosa crede?» Giordino seguitò a guardare la strada davanti a sé, impassibile. Poi sorrise. «Credo che mettersi a discutere con Pitt significhi sprecare il fiato.» «Perché è un testardo?» «No, perché di solito ha ragione», rispose Giordino. Pitt aveva esaminato per ben quattro ore, con la massima attenzione, le riprese fotografiche, convertendole mentalmente in una dimensione tridimensionale, senza trascurare neppure un particolare. Gli steccati a zig zag che separavano i pascoli dai boschi adiacenti, le automobili e le case, il pallone aerostatico rosso e giallo che metteva una macchia di colore nel paesaggio verdeggiante... tutti quanti erano riconoscibili, con una nitidezza strabiliante. Sulla massicciata mezzo coperta dall'erba era riuscito a distinguere perfino qualche sporadica traversina. Aveva ricostruito senza troppa
fatica il tracciato quasi perfettamente rettilineo tra il ponte crollato e la periferia industriale di Albany, aguzzando lo sguardo per cogliere ogni minimo dettaglio, ogni sia pur lontana parvenza di un binario in disuso. Il segreto rimaneva ben custodito. Alla fine vi rinunciò e Heidi e Giordino, entrando nella sala nautica del De Soto, lo trovarono semisdraiato in una poltroncina, con gli occhi chiusi. Pitt si alzò in piedi e abbracciò l'amica. «Come va la gamba?» «In via di guarigione, grazie.» L'aiutarono a mettersi seduta, Giordino prese le stampelle e le appoggiò contro una paratia e poi mise la borsa portadocumenti sul ponte accanto a lei. «Tutto mi dice che non hai pescato il biglietto vincente», disse Heidi. Pitt annuì. «Già, pare che sia proprio così.» «Ho un'altra brutta notizia per te.» Pitt non disse nulla. «Brian Shaw sa tutto», annunciò Heidi, senza preamboli. Pitt lesse l'imbarazzo nei suoi occhi. «Tutto significa un'infinità di cose.» Heidi scrollò la testa, per la rabbia e la frustrazione. «Ha rubato le mappe del vecchio tracciato dal museo prima che io avessi avuto la possibilità di esaminarle.» «Non gli serviranno a un accidente di niente, a meno che non abbia avuto sentore di quanto valgono.» «Ritengo che lo abbia indovinato», disse Heidi, a bassa voce. Pitt si mise un attimo a sedere, riflettendo e respingendo la tentazione di sottoporre Heidi a un interrogatorio serrato. Il danno, ormai, era fatto. E non aveva più nessuna importanza sapere in quale modo Shaw era riuscito a mettere le mani sulla chiave dell'enigma. Incredibilmente, provò una fitta di gelosia. E non si poté trattenere dal chiedersi che cosa ci trovava, Heidi, in quell'uomo tanto più vecchio di lui. «Allora è da supporre che si aggiri nei dintorni.» «Probabilmente in questo stesso istante sta già fiutando qui in giro», aggiunse Giordino. Pitt guardò la donna. «Può darsi che non se ne faccia niente, lui, delle mappe. Dalle fotografie aeree non risulta nulla che somigli, sia pure vagamente, alla traccia di un binario.» Heidi prese la cartella, se la posò in grembo e aprì la serratura. «Ma il
binario c'era», disse. «Una diramazione della linea principale, in un posto chiamato Mondragon Hook.» L'atmosfera nella sala nautica si galvanizzò di colpo. «Dove si trova?» chiese Pitt. «Non posso indicarlo con precisione senza una vecchia mappa.» Giordino diede una rapida scorsa alle numerose carte topografiche della valle dell'Hudson. «Su queste non compare, perché le più vecchie risalgono al 1965.» «Come hai fatto a scoprire questo raccordo di Mondragon?» s'informò Pitt. «Attraverso un ragionamento elementare», spiegò Heidi. «Mi sono chiesta dove avrei potuto nascondere una locomotiva e sette carrozze passeggeri in maniera che nessuno riuscisse a rintracciarle per almeno cinquant'anni. L'unica risposta plausibile diceva sotto terra. Perciò ho incominciato una ricerca a ritroso e mi sono messa a controllare i dispacci anteriori al 1914. Per fortuna, l'avevo azzeccata: ho scoperto che ben otto diversi treni merci erano adibiti al trasporto di calcare.» «Calcare?» «Sì, e il materiale proveniva da un raccordo chiamato Mondragon Hook ed era destinato a un cementificio del New Jersey.» «In quale epoca?» «Intorno agli anni '90 del secolo scorso.» Giordino pareva scettico. «Ma questo Mondragon Hook sarebbe potuto essere lontano centinaia di chilometri da qui.» «Deve essere poco più sotto di Albany.» «Come fa a esserne sicura?» «Fra i documenti d'archivio riguardanti la New York & Quebec Northern nessuno fa cenno a carri adibiti al trasporto di calcare agganciati ai treni merci che passavano da Albany. Però scorrendo le comunicazioni di servizio dello scalo merci di Germantown, dove c'era uno scambio per le locomotive, ho trovato una menzione in proposito.» «Germantown», disse Pitt. «Si trova abbastanza vicina, a ventiquattro chilometri appena da qui.» «Per prima cosa, dopo aver letto la notizia, ho passato in rassegna le vecchie carte geologiche», continuò Heidi e così dicendo ne levò una dalla sua borsa. «L'unica cava sotterranea di calcare esistente tra Albany e Germantown si trovava qui», disse segnando il punto con la matita, «a una quindicina di chilometri dal ponte sull'Hudson e spostata di circa ottocento
metri a ovest.» Pitt prese in mano il visore e ricominciò a scrutare le fotografie aeree. «Qui, a est della cava abbandonata, si trova adesso una fattoria con un allevamento di bovini e le costruzioni hanno cancellato ogni traccia del raccordo.» «Sì, la vedo», esclamò Heidi, eccitata. «E c'è anche una strada che porta verso la superstrada statale.» «Sfido io che dall'alto non avete visto il tracciato», disse Giordino. «Lo hanno asfaltato.» «Se osservi bene», replicò Pitt, «noterai che si distingue un tratto della vecchia massicciata nel punto in cui si discosta dalla strada facendo una curva, per andare a finire ai piedi di una collina ripida, o monte, come lo chiamerebbero gli abitanti della zona.» Heidi guardò anche lei attraverso il visore. «Da non credere come tutto diventa perfettamente riconoscibile, quando si sa che cosa cercare.» «È riuscita a raccogliere qualche informazione sulla cava?» chiese Giordino. «Questa è stata la parte facile», assentì Heidi. «Proprietaria della cava e di quel tratto della linea ferroviaria era la Forbes Excavation Company, che estrasse il minerale dal 1882 fino al 1910, anno in cui si verificò un allagamento. Allora abbandonarono la cava e vendettero il terreno agli agricoltori del posto.» «Non mi piace fare la parte del pignolo, ma se la cava fosse stata a cielo aperto, anziché in galleria?» obiettò Giordino. Heidi lo guardò con rispetto per l'avvedutezza del dubbio che aveva espresso. «Capisco che cosa intende. A meno che la Forbes Company non avesse estratto il calcare in galleria, all'interno della collina, non ci sarebbe stato il posto per nascondere un treno.» Riesaminò la fotografia. «La vegetazione è troppo fitta per poterlo affermare con sicurezza, ma il terreno sembra intatto.» «Secondo me, sarebbe opportuna una ricognizione sul luogo», propose Pitt. «D'accordo», dichiarò Giordino. «Ti ci porto io, in macchina.» «No, meglio che ci vada da solo. Tu, intanto, telefona a Moon e chiedigli di mandarci altri uomini... che so, un plotone di Marines nel caso Shaw si portasse dietro rinforzi. E digli di mandarci anche un tecnico minerario che sia in gamba. E poi va in giro a interrogare i vecchi del posto che potrebbero ricordare qualche strano andirivieni nei pressi della cava abban-
donata. Quanto a te, Heidi, se te la senti, tira giù dal letto il direttore del quotidiano locale e fruga negli archivi per scoprire eventuali notizie sul disastro del ponte Deauville. Dopo che avrò ispezionato il terreno circostante la cava, saprò con maggiore precisione se questa sarà finalmente la volta buona.» «Non è che ci rimanga molto tempo», mormorò Giordino, preoccupato. «Il presidente pronuncerà il suo discorso tra diciannove ore.» «Non c'è bisogno che me lo ricordi», ribatté Pitt, infilandosi il cappotto. «Adesso tutto quel che ci resta da fare è di entrare nella montagna.» 75 Il sole era tramontato da un po' ed era sorta la luna al primo quarto. Shaw, che si era arrampicato sopra l'imbocco della vecchia cava, da lassù scorgeva nettamente, tanto l'aria frizzante della sera era limpida, le luci dei villaggi e delle fattorie distanti chilometri. Era un paesaggio pittoresco, quasi da fiaba. Il silenzio campestre fu rotto dal rumore di un aereo col motore a pistoni. Shaw si girò da ogni parte, scrutando il cielo, ma non vide nulla. L'apparecchio viaggiava con le luci di posizione spente. Dal rombo dei motori giudicò che stesse sorvolando la collina in circolo, duecento metri sopra di lui. Ogni tanto, la luminosità d'una stella appariva cancellata da qualcosa che Shaw, sicuro di non sbagliarsi, riconobbe essere una serie di paracadute. Un quarto d'ora più tardi, due ombre spuntarono tra gli alberi, più sotto, e incominciarono a salire il pendio, dirigendosi verso di lui. Uno dei due uomini era Burton-Angus. L'altro, un tipo grande e grosso che nell'oscurità poteva passare per una roccia in movimento, si chiamava Eric Caldweiler ed era l'ex direttore d'una miniera di carbone nel Galles. «Com'è andata?» chiese Shaw. «Un lancio perfetto, direi», rispose Burton-Angus. «Praticamente hanno toccato terra entro il raggio della mia segnalazione luminosa. L'ufficiale che li comanda è un certo tenente Macklin.» Shaw decise d'ignorare una delle regole fondamentali delle operazioni clandestine notturne e si accese una sigaretta, dicendosi che, in ogni caso, gli americani avrebbero scoperto fin troppo presto la loro presenza. «Avete trovato l'imbocco della cava?» «Se lo può scordare», rispose Caldweiler. «Vi è franata sopra una metà
del fianco della collina.» «Quindi è sepolta?» «Purtroppo a una profondità maggiore della cantina di whisky d'uno scozzese. Preferisco non pensare nemmeno allo spessore dello strato che la ricopre.» «Nessuna speranza di aprirci un varco scavando?» insistette Shaw. Caldweiler scosse la testa. «Anche se disponessimo di una scavatrice gigantesca impiegheremmo non meno di due o tre giorni.» «Neppure da pensarci. Gli americani possono arrivare da un momento all'altro.» «Tutt'al più potremmo entrare nella cava da uno dei pozzi», opinò Caldweiler, mentre levava di tasca una pipa di radica. «Sempre che riusciamo a scoprirli, al buio.» «Quali pozzi?» chiese Shaw. «Ogni miniera intensamente sfruttata deve avere due aperture addizionali: un'uscita di sicurezza nel caso che l'imbocco principale sia ostruito e un pozzo di aerazione.» «Da dove ci conviene iniziare la ricerca?» chiese Shaw, impaziente. Caldweiler era un tipo riflessivo. «Be', vediamo un po'... A mio parere questa era una miniera con accesso a pozzo... una galleria aperta nel fianco della collina, nel punto in cui il minerale affiorava in superficie. Da questo punto il pozzo seguiva probabilmente lo strato calcareo, in discesa. Quindi l'uscita di sicurezza, se le cose stavano come immagino, si doveva trovare ai piedi della collina. Quanto al pozzo di aerazione non poteva essere che parecchio più in alto, rivolto a nord.» «Perché a nord?» «Per via dei venti prevalenti. Un sistema elementare di aerazione trasversale prima che introducessero i ventilatori centrifughi.» «Allora proviamo a rintracciare il pozzo d'aerazione», propose Shaw. «Dovrebbe essere nascosto meglio nei boschi del pendio e meno esposto di quello dell'uscita di sicurezza, situato più in basso.» «Oh, no, un secondo safari in montagna!» gemette Burton-Angus. «Su, su, coraggio; le servirà per smaltire le abbondanti cene in piedi degli affollati ricevimenti offerti dall'ambasciata», lo esortò Shaw, sorridendo. Schiacciò il mozzicone della sigaretta sotto la scarpa. «Adesso vado a radunare i nostri soccorritori.» Si allontanò, inoltrandosi nel folto boschetto ai piedi della collina, lontano una trentina di metri dal vecchio tracciato della ferrovia. Incespicò in
una radice, sull'orlo d'una forra, e cadde, protendendo le braccia per attutire l'urto imminente. Invece rotolò giù per un declivio coperto di erbacce e si fermò, supino, su un ghiaieto. Era ancora sdraiato e ansimante e tentava di tirarsi su, quando una figura indistinta parve sorgere dal nulla sopra di lui, al debole chiarore delle stelle, e gli premette la bocca del fucile contro la fronte. «Spero per il suo bene che lei sia il signor Shaw», disse una voce garbata. «Sì, sono il signor Shaw», riuscì a rispondere, col fiato ancora grosso. «Mi fa piacere.» Il fucile venne scostato. «Permetta che l'aiuti, signore.» «Il tenente Macklin?» «No, signore, il sergente Bentley.» Bentley portava la tuta mimetica notturna nera e grigia, con l'orlo dei calzoni infilato negli stivali da paracadutista. Aveva un berretto scuro e la faccia e le mani spalmate di nerofumo. Nella sinistra reggeva per il sottogola un elmetto d'acciaio ricoperto da una rete. Una seconda figura sbucò dall'ombra. «Qualche difficoltà, sergente?» «Il signor Shaw ha fatto un piccolo capitombolo.» «Lei è Macklin?» chiese Shaw, che aveva ritrovato il fiato. Una fila di denti lampeggiò. «Non mi riconosce?» «Truccati come siete da negri, mi sembrate tutti uguali.» «Mi rincresce.» «Nessun incidente con i suoi uomini?» «Tutti e quattordici, me compreso, sani e salvi. E non è cosa da poco, con un lancio al buio.» «Ho bisogno che andiate a cercare l'imboccatura di un pozzo da miniera nella collina. Attenti a scoprire ogni segno di scavo nel terreno, ogni depressione. Incominciate dal piede dell'altura e continuate salendo sino in cima, sul versante nord.» «Sergente, raduni gli uomini e li disponga in linea per la ricerca, a tre metri di distanza l'uno dall'altro», ordinò Macklin. «Signorsì.» Dopo quattro passi, Bentley fu inghiottito dal denso boschetto. «Mi stavo chiedendo...» incominciò Macklin, parlando adagio. «Che cosa?» «Gli americani. Quale sarà la loro reazione quando scopriranno un reparto armato di paracadutisti dei Royal Marines trincerati nella parte setten-
trionale dello Stato di New York?» «Una previsione difficile. Ma gli americani non mancano di un sano senso dell'umorismo.» «Mi sa che non riderebbero se dovessimo sparare a un paio di loro.» «Quando fu l'ultima volta?» mormorò a mezza voce Shaw. «Intende dire l'ultima volta che armati inglesi invasero gli Stati Uniti?» «Sì, più o meno.» «Credo fosse nel 1815, quando Sir Edward Pakenham attaccò New Orleans.» «E ci sconfissero.» «Gli yankee erano arrabbiati perché gli avevamo bruciato Washington.» Tacquero improvvisamente, tesi. Arrivava fino a loro, inconfondibile, la rumorosa protesta del motore di un'automobile durante il passaggio a una marcia inferiore. Subito dopo comparvero due fari dalla strada poco discosta e imboccarono il tratto della linea ferroviaria abbandonata. Shaw e Macklin furono lesti ad acquattarsi, istintivamente, e sbirciarono davanti a sé, tra l'erba che cresceva alta lungo il margine della forra. Videro la macchina sobbalzare sul fondo accidentato e poi fermarsi nel punto in cui il tracciato scompariva sotto il pendio della collina. Il motore si spense; ne scese un uomo che si andò a mettere davanti ai fari. Shaw incominciò a chiedersi che cosa avrebbe fatto se si fosse trovato di nuovo a faccia a faccia con Pitt. Lo avrebbe ucciso? Sarebbe bastato un ordine sussurrato a Macklin, o perfino nient'altro che un cenno della mano, e Pitt sarebbe crollato sotto una dozzina di pugnalate inferte dagli uomini addestrati nell'arte di uccidere silenziosamente. Pitt rimase immobile per un lungo minuto, fissando la sommità dell'altura come se avesse voluto sfidarla. Raccolse una pietra e la lanciò contro il pendio buio. Poi si girò e risalì al posto di guida. Il motore riprese vita e l'automobile compì un'inversione di marcia. Shaw e Macklin si rizzarono soltanto dopo che le luci posteriori furono diventate due macchioline rosse a malapena distinguibili. «Per un attimo ho pensato che mi avrebbe ordinato di liquidare quell'individuo», disse il tenente. «L'avevo pensato, effettivamente», confessò Shaw, «ma poi mi sono detto che non era il caso di stuzzicare un vespaio. La situazione si farà calda da sé, fin troppo, con le prime luci del giorno.» «Chi ritiene che fosse, quel tizio?» «Quello, quello era il nemico», rispose Shaw, scandendo lentamente le
parole. 76 Sarveux desiderava poter prolungare quel raro momento, nell'intimità delle pareti domestiche. Danielle era stupenda nell'abito di chiffon di seta verde stampata, scollato sul dorso, con i capelli divisi al centro, spazzolati all'indietro e trattenuti su un lato da un pettinino dorato, e con un girocollo d'oro a spirale. La luce delle candele le si rifletteva negli occhi tutte le volte che guardava il marito, seduto di fronte a lei. Dopo che la cameriera ebbe sparecchiato, Sarveux si sporse in avanti e le baciò la mano. «È proprio necessario che tu parta?» le chiese. «Sì, purtroppo», rispose lei, versandogli un brandy. «I miei nuovi abiti autunnali sono pronti, da Vivonnes, e ho già preso appuntamento; mi aspettano domattina per l'ultima prova.» «Perché vai sempre a Quebec? Non potresti trovarti una sartoria a Ottawa?» Danielle gli accarezzò i capelli, con una risatina. «Perché preferisco i creatori di moda di Quebec ai sarti da donna privi di fantasia di Ottawa.» «Non riusciamo mai ad avere un momento tutto per noi.» «Tu non fai altro che girare da un capo all'altro del Paese.» «Non posso negarlo. Però tutte le volte che riesco a trovare il tempo per stare con te, tu hai qualche immancabile impegno.» «Sono la moglie del primo ministro», replicò Danielle, sorridendo. «Non posso chiudere gli occhi e voltare le spalle ai doveri che mi vengono dalla tua carica.» «Non andartene», le disse con voce atona. «Ma se sei proprio tu a volermi elegante per i nostri impegni sociali», ribatté, facendo il broncio. «Dove alloggerai?» «Dove alloggio sempre quando passo la nottata a Quebec... nella casa di città di Nancy Soult.» «Preferirei che tu rientrassi qui, in serata.» «Non mi succederà niente, Charles.» Si chinò e gli scoccò un tiepido bacio sulla guancia. «Sarò di ritorno domani pomeriggio. E allora parleremo.»
«Io ti amo, Danielle», disse lui, calmo. «Il mio più grande desiderio è poter invecchiare con te al mio fianco. Voglio che tu lo sappia.» L'unica risposta di Danielle fu il rumore della porta che si richiudeva. La casa di città era veramente intestata a Nancy Soult, ma la stessa Nancy lo ignorava. Fortunata scrittrice di romanzi e nativa del Canada, viveva in Irlanda per sottrarsi alle tasse da capogiro decretate a causa dell'inflazione. Di rado andava a trovare i familiari e gli amici di Vancouver, ed erano più di vent'anni che non metteva piede a Quebec. La prassi abituale non si modificò neppure quella volta. Non appena la berlina presidenziale ebbe condotto Danielle fino alla presunta abitazione di Nancy Soult e un poliziotto a cavallo si fu messo di guardia davanti all'entrata principale, lei passò di stanza in stanza sbattendo le porte, facendo scorrere l'acqua nel bagno e accendendo la radio sintonizzata su una stazione che trasmetteva musica leggera. Quando le sembrò che la sua presenza fosse stata dimostrata a sufficienza, entrò in un armadio, scostò gli abiti appesi e aprì la porta nascosta sul fondo, passaggio per il pianerottolo, raramente usato, di una casa adiacente. Scese di corsa le scale e si trovò nel box interno, che dava su un vicolo di scarsissimo passaggio. Lì, Henri Villon, puntuale, l'attendeva nella sua Mercedes-Benz. Le cinse le spalle abbracciandola non appena l'amante gli si sedette accanto. La donna, come sempre le succedeva, si rilassò, ma la dimostrazione d'affetto, da parte di lui, fu breve e lo vide riprendere immediatamente l'espressione dell'uomo occupato da mille pensieri. «Spero che quello che hai da dirmi sia importante», le disse. «Mi diventa sempre più difficile allontanarmi per questi nostri incontri.» «È mai possibile che chi mi parla sia lo stesso uomo che aveva l'audacia di fare l'amore con me nella residenza del primo ministro?» «A quel tempo, non stavo per essere eletto presidente del Quebec.» Danielle si ritirò nell'angolo del sedile e sospirò. Qualcosa dentro di lei le diceva che l'eccitamento e la passione dei loro incontri clandestini si stavano spegnendo. Non che per questo vedesse andare in frantumi le sue illusioni. D'illusioni non se n'era mai fatte. Non aveva mai tentato d'ingannarsi inducendosi a credere che la loro fosse una relazione senza uguali, destinata a durare in eterno. Tutto ciò che le restava da fare era d'ingoiare l'offesa e coltivare un'amicizia almeno cordiale, anche se non più intima. «Vuoi che andiamo da qualche parte?» chiese Villon, strappandola dalla sua fantasticheria.
«No, andiamo un po' in giro, così.» Villon azionò il telecomando della saracinesca del box e uscì in retromarcia sulla strada. Il traffico era scorrevole lungo il percorso sino alla riva del fiume, dove una breve fila di macchine, alla quale si accodarono, era in attesa d'imbarcarsi sul traghetto che li avrebbe portati sull'altra riva. Non scambiarono più parola finché Villon non ebbe portato la Mercedes su per la rampa d'imbarco per parcheggiarla a prua, da dove si godeva la vista delle luci che si specchiavano tremolanti sulla superficie del San Lorenzo. Soltanto allora Danielle aprì bocca. «Siamo nel pieno di una crisi», disse. «Ti riferisci a noi due o al Quebec?» «A tutti e tre.» «Mi sembri molto impensierita.» «E ho motivo di esserlo.» Tacque un momento, poi riprese: «Charles sta per dimettersi da primo ministro del Canada e concorrere alle elezioni presidenziali del Quebec». Villon si girò di scatto e la guardò fisso. «Ripeti ciò che hai detto.» «Sì, mio marito intende annunciare che si presenterà candidato per la presidenza del Quebec.» Villon scrollò la testa, esasperato. «Non posso credere che arrivi a tanto. Sarebbe la decisione più stupida che mi sia mai toccato di sentire. Perché? È un gesto da incosciente, del tutto campato in aria.» «Penso che l'idea gli sia stata dettata dalla collera.» «Mi odia a questo punto?» Danielle abbassò gli occhi. «Temo che sospetti qualcosa su di noi. Forse ne ha perfino la certezza. Può darsi che abbia deciso di agire così per vendetta.» «No, non Charles. Non è uomo da abbandonarsi a simili reazioni puerili.» «Sono sempre stata attenta. Ritengo che mi abbia fatta pedinare. Altrimenti come avrebbe potuto scoprirlo?» Villon arrovesciò la testa e scoppiò in una risata. «Perché sono stato io, praticamente, a dirglielo.» «Non è possibile!» ansimò lei. «Al diavolo quel rospiciattolo pedante! Per quel che me ne importa, si crogioli pure nell'autocommiserazione per la sua dignità offesa. Non c'è modo che un bastardo sospettoso come lui vinca le elezioni. Lo stimabile Charles Sarveux ha pochi amici nel partito del Quebec indipendente. La
corrente più forte, quella che conta davvero, è tutta dalla mia parte.» Il pontile della nave-traghetto distava solo un centinaio di metri quando un uomo uscì dalla quinta vettura dietro la berlina blu di Villon e si mescolò ai passeggeri che ritornavano al ponte di parcheggio dopo essersi goduti il panorama, durante la traversata, affacciati ai parapetti. Dal lunotto della Mercedes poteva vedere due profili e il mormorio della conversazione gli giungeva smorzato attraverso i finestrini abbassati. Muovendosi con indifferenza, avanzò lungo il fianco delle macchine, spalancò la portiera posteriore di quella che costituiva il suo obiettivo, come se ne fosse stato il proprietario, e scivolò all'interno. «Madame Sarveux, monsieur Villon, buonasera.» Allo stupore iniziale nel vedere l'intruso, nei due succedettero rapidamente un'espressione d'incredulità e quindi una di terrore, non appena videro la mano simile a una grossa pietra che agitava orizzontalmente una rivoltella, puntandola ora contro la nuca dell'una ora contro la nuca dell'altro. Villon aveva un buon motivo di mostrarsi sconcertato. Gli pareva di guardarsi allo specchio. L'uomo sul sedile posteriore era il suo doppio, un gemello, un clone. Ne distingueva ogni lineamento della faccia illuminato dalle luci del pontile di sbarco che penetravano dal parabrezza. Danielle si lasciò sfuggire un gemito soffocato che avrebbe toccato il diapason in un urlo isterico se la canna della pistola non l'avesse colpita con forza sulla guancia. Il sangue zampillò dalla ferita e lei per un momento non riuscì a respirare, tanto il dolore era bruciante. «Non sono il tipo che si fa scrupoli di colpire una donna, perciò la prego, per il suo bene, di non tentare un'insensata resistenza.» La voce era un'imitazione esatta di quella di Villon. «Chi è, lei?» chiese Villon al sosia. «Che vuole da noi?» «Mi sento lusingato che l'originale non riesca a distinguere la copia.» La voce assunse un timbro e un'inflessione diversi e Villon la riconobbe, attanagliato da un orrore subitaneo. «Sono Foss Gly e ho intenzione di uccidervi.» 77 Incominciò a cadere un'acquerugiola sottile e Villon mise in moto i tergicristalli. La bocca della rivoltella era premuta contro la sua nuca sin dal momento in cui erano scesi dalla nave-traghetto. Danielle, rigidamente seduta accanto a lui, si teneva sul volto un fazzo-
letto impregnato di sangue. Pareva smarrita in un incubo, intontita e resa insensibile dall'atroce paura. Tutte le loro domande e le loro suppliche avevano ottenuto in risposta un gelido silenzio. Gly apriva bocca unicamente per ordinare a Villon di seguire un determinato percorso. Stavano attraversando una zona rurale illuminata solo dalle luci di qualche rara fattoria. A Villon non restava altro che rassegnarsi ed eseguire i comandi del killer. Poteva soltanto sperare e attendere che gli si presentasse un'occasione propizia, attirare in qualche modo l'attenzione di un motociclista che passasse di là per caso, oppure, se avesse avuto fortuna, imbattersi in un'autopattuglia. «Rallenti», ordinò Gly. «A sinistra vedrà una stradina di terra battuta. La imbocchi.» Villon, tremando dentro di sé, abbandonò la superstrada. Quella sulla quale s'immise era stata livellata di recente ed era chiaro che l'avevano battuta automezzi pesanti. «La credevo morto», disse a Gly, tentando di provocare una sua reazione. L'altro non rispose. «Brian Shaw, l'agente segreto inglese, disse che lei era saltato in aria quando era andato a sbattere violentemente, con un idroplano rubato, contro un mercantile giapponese.» «Le ha detto anche che il mio corpo non era mai stato ritrovato?» Finalmente era riuscito a farlo parlare. Poteva essere un inizio incoraggiante. «Sì, c'era stata un'esplosione...» «Avevo bloccato il timone, regolato la velocità sul massimo e mi ero gettato in acqua cinque miglia buone prima della collisione. Con tutto quel traffico sul San Lorenzo, avevo intuito che era solo questione di tempo prima che l'idroplano andasse a sbattere con un altro natante.» «Perché si è camuffato in modo da sembrare il mio sosia?» «Non lo capisce? Dopo che lei sarà morto, prenderò il suo posto. Sarò io, non lei, a diventare il presidente del Quebec.» Ci vollero cinque secondi buoni prima che Villon afferrasse in pieno il senso della sconvolgente rivelazione. «In nome di Dio, questa è pura pazzia!» «Pazzia? Tutt'altro. Io la chiamerei intelligenza eccezionale.» «Impossibile che riesca a portare a termine un progetto così folle.» «Ah, ma ho già fatto le prove e tutto è andato alla perfezione. Come crede che sia entrato in casa di Jules Guerrier passando dall'ingresso principa-
le, ingannando la sua guardia del corpo, per salire nella camera da letto e ammazzarlo? Mi sono seduto alla sua scrivania, signor Villon, ho parlato con quasi tutti i suoi amici, ho avuto una discussione politica con Charles Sarveux e sono comparso perfino nell'aula della camera dei comuni. Che cosa crede? Sono andato addirittura a letto con sua moglie e con la sua amante, questa qui che le sta seduta accanto.» Villon parve fulminato. «Non è vero... non è vero... non con mia moglie.» «Sì, Henri, è vero. Ti posso perfino descrivere la sua anatomia, incominciando...» «No!» urlò Villon. Schiacciò il pedale dei freni e sterzò bruscamente a destra. La fortuna gli voltò le spalle. I pneumatici non fecero presa sulla terra bagnata e lo scossone violento che si era atteso e in cui aveva sperato non avvenne. Gli occupanti dell'abitacolo non furono sbatacchiati l'uno contro l'altro per effetto della forza centrifuga. La macchina eseguì soltanto un morbido, lento testacoda. Gly, per niente sbilanciato e con la mira leggermente deviata, premette il grilletto. Il proiettile della Magnum 44 fratturò la clavicola di Villon e uscì dal parabrezza. Danielle lanciò un urlo che poi si andò spegnendo in un lungo singulto soffocato di terrore. La macchina rallentò a poco a poco e andò a fermarsi tra l'erba umida, al margine della strada. Le mani di Villon si staccarono dal volante. Arrovesciò il capo contro il poggiatesta, si afferrò forte con la destra la ferita aperta e strinse i denti per resistere al dolore. Gly scese e spalancò la portiera dalla parte del guidatore, spinse con forza l'occupante accanto a Danielle e si mise al volante. «Da qui in avanti guido io», ringhiò. Ficcò la canna dell'arma tra le costole di Villon, poco sotto l'ascella. «E non tentar di fare il furbo una seconda volta.» A Danielle parve che il colpo avesse portato via mezza spalla a Villon. Si girò dall'altra parte e vomitò contro l'imbottitura della portiera. Gly invertì il senso di marcia e ritornò sulla strada. Dopo neppure un chilometro, alla luce dei fari comparve un'enorme scavatrice verniciata di giallo, ferma a breve distanza da un fosso profondo tre metri e largo quattro e mezzo. Sul lato opposto, la terra ammucchiata formava una collinetta. Mentre vi passavano accanto, Danielle scorse un grosso tubo di cemento
posato sul fondo dello scavo. Poco più avanti rasentarono una fila di autocarri e di benne. L'ufficio del direttore del cantiere, una vecchia roulotte adattata a questo scopo, era buio e vuoto. Gli operai erano rincasati per la notte; non c'era neppure un guardiano. Gly portò l'automobile in un punto dove l'indomani avrebbero ripreso i lavori per la nuova fognatura, esaminando l'angolo d'inclinazione fino alla parte superiore del grosso tubo. Poi diede gas al motore e fece scendere adagio la macchina nel fossato. Il paraurti anteriore urtò contro il cemento, sprizzando scintille. Il cofano posteriore sbandò e infine l'auto si arrestò, un po' spostata di fianco, con le luci di posizione leggermente sollevate verso l'alto. Dalla tasca del cappotto il killer levò due paia di manette. Ne assicurò uno al piantone dello sterzo e al polso sinistro di Villon; quindi, con l'altro paio, ripeté l'operazione con Danielle. «Che cosa vuol fare?» chiese la donna, in un bisbiglio roco. Gly si fermò per guardarla. I capelli corvini della donna erano scompigliati, i bei lineamenti deturpati dal sangue e dalle lacrime. Gli occhi parevano quelli di una cerbiatta paralizzata dalla paura. Un ghigno orrendo contorse la faccia dell'uomo. «Vi sto sistemando in maniera che tu e il tuo amante possiate rimanere uniti per l'eternità.» «Non c'è motivo di uccidere lei», protestò Villon, con la voce alterata dalla sofferenza. «Per l'amor di Dio, la lasci libera.» «Niente da fare», replicò Gly, duro come una pietra. «Fa parte anche lei del contratto.» «Quale contratto?» Non vi fu risposta. Gly sbatté la portiera e incominciò a risalire la parete in pendenza del fossato, arrivò rapidamente in cima e scomparve nell'oscurità. Poco dopo i due intrappolati udirono il rombo di un grosso motore diesel. Il veicolo stentava ad avanzare, come se dovesse trascinare un carico pesantissimo. Il rumore dello scappamento si avvicinava via via e poi, sopra il margine del fossato, si profilò un enorme cucchiaio argenteo. Rimase fermo un attimo, sospeso, quindi si abbassò, dondolando, e tre metri cubi di terra piovvero sul tetto della Mercedes. Danielle gridò, al colmo dell'angoscia. «Oh, Maria santa, madre di Gesù... ci vuol seppellire vivi... oh, no, no, per carità!» Gly ignorò l'invocazione e fece compiere un mezzo giro alla benna, per raccogliere una nuova massa di terra. Conosceva la posizione di ogni sin-
gola leva, le sapeva manovrare tutte, con la sicurezza di un esperto. Si era impratichito lavorando per due notti consecutive, colmando un fossato dopo l'altro con tanta maestria che nessuno degli operai del cantiere si era accorto, nei giorni seguenti, che la colmatura era progredita come per incanto. Danielle tentò freneticamente di liberare i polsi dalle manette, ma tutto quel che ottenne fu di farseli sanguinare. «Henri!» Non aveva più la forza di gridare. La voce le usciva dalla gola in un gemito soffocato. «Non lasciarmi morire, non così!» Villon non dava segno di udirla. La fine sarebbe sopraggiunta prima per lui. Si rendeva conto che tra poco, pochissimo, sarebbe morto dissanguato. «Strano», bisbigliò. «Strano che sia io l'ultimo a morire per la libertà del Quebec. Chi l'avrebbe mai pensato...» La sua voce si spense. L'auto era quasi completamente sepolta sotto il terriccio. Le uniche parti ancora visibili erano un tratto del parabrezza bucato dalla pallottola, la stella a tre punte dello stemma sul cofano e uno dei fari. Qualcuno si affacciò all'orlo del fossato e là rimase, fermo. Non era Foss Gly. L'uomo guardò verso il basso, con il viso contratto dallo strazio e le guance rigate dalle lacrime. Per un istante Danielle lo fissò inorridita, facendosi spettrale in faccia. Alzò la mano libera verso il finestrino, in un gesto supplichevole. Poi, lentamente, il suo sguardo espresse piena comprensione e le labbra formarono una parola: «perdonami». La benna rovesciò sopra la macchina un'ultima gigantesca cucchiaiata di terra che la seppellì del tutto. Alla fine il fossato fu colmato fino a livello del suolo e gli scoppi del tubo di scarico della spalatrice si allontanarono, spegnendosi nella notte. Soltanto allora Charles Sarveux, oppresso da una tristezza indicibile, si allontanò dal luogo della feroce esecuzione. 78 L'aeroporto di Lac St. Joseph, incassato tra le colline a nord-est di Quebec, era uno dei tanti, appartenenti all'aeronautica militare canadese, che erano stati chiusi per via dei tagli apportati al bilancio. La pista, lunga più di tre chilometri e mezzo, era vietata agli aerei di linea, ma veniva ancora impiegata dai militari per i voli di addestramento e per gli atterraggi d'emergenza.
L'apparecchio di Henri Villon si trovava fuori da un capannone in lamiera segnato dalle intemperie. Accanto era parcheggiata un'autocisterna e due uomini che indossavano l'impermeabile procedevano agli ultimi controlli prima del decollo. Charles Sarveux e l'ispettore Finn si trovavano al riparo, in un ufficio dove il solo arredo era costituito da un banco di lavoro metallico, semiarrugginito. Ritti in piedi, osservavano dalla finestra coi vetri sudici quanto stava avvenendo fuori. La pioggerella di poco prima si era trasformata in un acquazzone che penetrava dal tetto corroso, formando numerose pozze sul pavimento. Foss Gly, comodamente sdraiato sopra una coperta, con le mani intrecciate dietro la nuca, non si curava affatto dell'acqua che scrosciava tutt'intorno a lui, sul cemento. Sembrava perfino a suo agio, addirittura soddisfatto e compiaciuto di sé, mentre lasciava vagare lo sguardo sul soffitto metallico pieno di crepe. Aveva abbandonato il travestimento da Villon: era ridiventato Foss Gly. Fuori, sulla pista, il pilota saltò a terra da un'ala e si diresse a passi rapidi e saltellanti verso il capannone. Si affacciò con la testa alla porta dell'ufficio. «Quando vuole, possiamo partire», annunciò. Gly si mise seduto. «Trovato qualcosa?» «Niente. Abbiamo esaminato tutti gli impianti e gli strumenti di bordo, ispezionato ogni centimetro quadrato, controllato perfino la qualità del cherosene e dell'olio. Nessuno ha manomesso nulla. Pulito.» «Va bene. Può avviare i motori.» Il pilota annuì e uscì, chino, sotto la pioggia. «Ebbene, signori, sono in partenza», disse Gly. Sarveux fece un cenno a Finn. L'ispettore di polizia depose due grandi valigie sul banco da lavoro e le aprì. «Trenta milioni di dollari canadesi, in biglietti di banca usati», disse, impassibile. Gly estrasse di tasca una lente da gioielliere e si mise a osservare le banconote, prendendone alcuni campioni a caso. Dieci minuti dopo si rimise la lente in tasca e chiuse le valigie. «Non scherzava dicendo che si trattava di banconote usate. In gran parte si sono così stropicciate a furia di passare di portafogli in portafogli che le scritte sono quasi illeggibili.» «Tutto secondo le sue istruzioni», replicò puntigliosamente Finn. «Non è stata un'impresa da poco racimolare una simile somma in banconote usate, a così breve scadenza. Credo che le troverà tutte quante negoziabili.» «È piacevole concludere affari con lei, signor primo ministro.» Gly si
avvicinò a Sarveux, tendendogli la mano. Il politico ignorò il suo gesto. «Sono felice di una sola cosa: di aver potuto sventare in tempo il suo piano da impostore.» Il killer scrollò le spalle e ritirò la mano che il suo interlocutore aveva rifiutato. «Chi lo sa? Sarei potuto diventare un presidente maledettamente in gamba, forse migliore dello stesso Villon.» «Debbo ringraziare la fortuna se non lo è diventato. Nel caso che l'ispettore Finn non avesse saputo dove si trovava Henri, nel momento in cui lei è entrato temerariamente nel mio studio, può darsi che non saremmo mai stati in grado di smascherarla. Ma è andata così e il mio unico rammarico è di non aver potuto farla impiccare sulla più alta delle forche.» «Un motivo di più per cautelarmi documentando tutto per filo e per segno, a titolo di assicurazione sulla vita», ribatté Gly, in tono sprezzante. «Un'esposizione cronologica delle mie azioni per conto del movimento clandestino; nastri registrati dei miei incontri con Villon; videocassette di sua moglie in colloquio intimo col ministro degli Interni. Direi che non le costa troppo garantendomi in cambio la vita.» «Quando riceverò il materiale?» chiese Sarveux. «Le invierò le istruzioni per trovare il nascondiglio non appena sarò arrivato, sano e salvo, fuori della sua portata.» «Quale certezza mi fornisce? Posso fidarmi che in seguito non mi ricatterà?» Gly gli rivolse un sogghigno diabolico. «Nessuna, nessunissima certezza.» «Lei mi fa schifo», sibilò Sarveux, furente. «È una lordura sputata dalla terra.» «E lei è forse qualcosa di meglio?» ringhiò a sua volta Gly. «Se ne è rimasto impassibile nella sua virtù, guardandomi mentre facevo fuori il suo rivale politico e sua moglie che la tradiva. E ha avuto il fegato di pagare lo sporco lavoro con i fondi governativi. Lei è un individuo ancora più schifoso di me, Sarveux. L'affare più vantaggioso lo ha fatto lei. Perciò riservi i suoi insulti e le sue prediche per il momento in cui si guarda allo specchio.» Sarveux tremava, scosso dalla rabbia che gli ribolliva dentro. «È meglio che se ne vada via... lontano dal Canada.» «Con molto piacere.» Sarveux fece un ultimo sforzo per controllarsi. «Addio, signor Gly. Forse ci incontreremo di nuovo, all'inferno.»
«Già fatto», grugnì Gly. Afferrò le valigie, le portò fuori e salì a bordo dell'aereo. Mentre il pilota faceva rullare l'apparecchio verso l'estremità della pista, il killer sedette nella cabina principale e si versò da bere. Niente male, trenta milioni di sacchi e un aereo a reazione. Non c'è cosa che valga un'uscita in grande stile, pensava. Il telefono sul bar ronzò e Gly rispose. Era il pilota. «Siamo pronti per il decollo. Vorrebbe darmi le istruzioni per il volo?» «Si diriga a sud, verso gli Stati Uniti. Si tenga basso per evitare i radar. Quando saremo un centocinquanta chilometri oltre il confine, si porti alla quota di crociera e faccia rotta su Montserrat.» «Mai sentita nominare.» «È una delle Isole Sotto Vento nelle Piccole Antille, a sud-est di Portorico. Mi svegli quando arriveremo.» «Sogni d'oro, capo.» Gly si risprofondò nella poltrona, senza darsi la pena di allacciare la cintura di sicurezza. In quel momento si sentiva immortale. Sogghignò, scorgendo, attraverso il finestrino, due figure in controluce sulla porta del capannone. Pensando a Sarveux, si disse che era uno stupido. Lui, al suo posto, avrebbe nascosto una bomba sull'aeroplano, munita di un dispositivo a tempo per lo scoppio, oppure avrebbe impartito ai caccia l'ordine di abbatterlo. A ben pensarci, questa possibilità, per quanto improbabile, non era ancora da scartare del tutto. La bomba però non c'era. L'apparecchio era stato perquisito da cima a fondo. Ce l'aveva fatta. Poteva scegliersi il Paese che preferiva. Dopo che l'aereo ebbe guadagnato velocità e fu scomparso tra le nuvole, Sarveux si rivolse a Finn. «Come accadrà?» «Il pilota automatico. Una volta inserito, l'aereo comincerà a salire, ma molto gradualmente. Gli altimetri sono stati manipolati in modo da non segnare mai una quota superiore ai tremilatrecento metri. L'impianto di pressurizzazione non entrerà in funzione e l'ossigeno di emergenza non verrà erogato. Quando il pilota scoprirà che c'è qualcosa di anormale, sarà troppo tardi.» «Non avrà la possibilità di staccare il pilota automatico?» Finn scosse la testa. «I collegamenti elettrici sono stati alterati. Potrebbe tentare di disinserirlo a colpi d'accetta, ma non farebbe che peggiorare la situazione. È assolutamente escluso che possa riprendere il controllo del velivolo.»
«Quindi perderanno conoscenza per via della mancanza di ossigeno?» «Sì. E una volta esaurito il carburante, piomberanno nell'oceano.» «Potrebbero anche schiantarsi a terra.» «È un rischio che è stato calcolato», spiegò Finn. «Presumendo che Gly facesse riempire i serbatoi di benzina e intendesse allontanarsi il più possibile da qui prima dell'atterraggio, le probabilità che finisca in acqua erano di otto contro una.» Sarveux chiese, preoccupato: «E i comunicati stampa?» «Già compilati e pronti per essere inviati alle agenzie.» Finn aprì l'ombrello e, insieme, si avviarono verso la berlina del primo ministro. Nei punti infossati della pista di rullaggio si stavano formando pozzanghere. Uno degli uomini di Finn spense i fari che la illuminavano e le luci del capannone. Prima di salire in macchina Sarveux si fermò e guardò in alto, fissando il cielo nero come la pece, mentre il rombo lontano del jet si confondeva con lo scrosciare della pioggia. «Un gran peccato che Gly non saprà mai com'è stato battuto in astuzia. Penso che avrebbe apprezzato il tiro.» La mattina seguente, le agenzie di stampa internazionali diramarono un comunicato che diceva testualmente: Ottawa, 6 ottobre (Servizio speciale). Questa mattina un aereo, con a bordo Danielle Sarveux e Henri Villon, è precipitato nell'Atlantico, duecento miglia a nord-est di Caienna, nella Guiana francese. La consorte del primo ministro del Canada e il candidato alla presidenza del Quebec, proclamatosi da poco indipendente, erano partiti ieri sera da Ottawa, diretti a Quebec. L'allarme venne lanciato quando l'apparecchio non atterrò secondo l'orario previsto. A bordo non c'erano altre persone, perché l'aereo era pilotato dallo stesso Villon. Tutte le chiamate radio rimasero senza risposta. Poiché i controllori di volo canadesi non sospettarono immediatamente che il bimotore del tipo Albatros si fosse diretto verso gli Stati Uniti, ore preziose furono sprecate nelle ricerche tra Quebec e Ottawa. I primi sospetti nacquero soltanto dopo che un Concorde dell'Air France riferì d'aver visto un aereo che volava irregolarmente a sud di Bermuda, alla quota di 16.500 metri, ossia di 2400 superiore a quella registrata per l'Albatros personale di Villon. Aviogetti della Marina statunitense si levarono in volo dalla portaerei Kitty Hawk che
incrociava nelle acque di Cuba. Il primo a scorgere l'Albatros fu il tenente Arthur Hancock, il quale riferì d'aver scorto ai comandi un uomo che sembrava senza vita e di aver seguito l'apparecchio finché non lo vide cadere lentamente in vite e scomparire nell'oceano. Ian Stone, portavoce dell'aeronautica canadese, ha dichiarato: «Non siamo in grado di accertare le cause del tragico incidente. L'unica supposizione accettabile è che la signora Sarveux e il signor Villon siano svenuti per la mancanza di ossigeno e che l'apparecchio, che volava con l'autopilota inserito, sia andato di 3000 miglia fuori rotta prima di esaurire il carburante e precipitare». Nonostante le ricerche, non sono stati avvistati relitti. Il primo ministro Charles Sarveux è rimasto chiuso nella sua abitazione e non ha concesso interviste. 79 La foschia mattutina avvolgeva la valle dell'Hudson e riduceva la visibilità a cinquanta metri. Pitt aveva installato un posto di comando in un camper preso a prestito da un frutticoitore delle vicinanze, attestandosi sul lato opposto dell'altura rispetto all'imbocco nascosto della cava. Per ironia del caso, né lui né Shaw avevano un'idea dell'ubicazione precisa dell'altro, benché li separasse non più d'un chilometro e mezzo di bosco che copriva fittamente il pendio della collina. Pitt era intontito dalla mancanza di sonno e dai troppi caffè. Provava un desiderio quasi irresistibile d'una buona sorsata di brandy che gli snebbiasse il cervello, ma sapeva che cedere sarebbe stato un errore. La reazione avrebbe potuto sortire un effetto indesiderato offuscando la lucidità di cui aveva estremo bisogno. Se ne stava sulla porta del camper e osservava Nicholas Riley e la squadra dei sommozzatori del De Soto scaricare le loro attrezzature, mentre Glen Chase e Al Giordino erano chini su una pesante grata di ferro incassata in un punto roccioso del pendio. Quando accesero il cannello acetilenico, s'udì uno schiocco e, nell'istante in cui la fiamma azzurra attaccò le sbarre arrugginite, videro una sventagliata di scintille. «Non giurerei che l'apertura dietro la grata possa essere un pozzo per l'uscita d'emergenza, però mi sentirei di fare una scommessa», disse Jerry Lubin. Arrivato poche ore prima da Washington, con l'ammiraglio Sandecker, Lubin era un ometto piccolo, con un naso adunco e occhi da cane da caccia. Apparteneva alla Federal Resources Agency, in qualità di consulente minerario.
Pitt si girò verso di lui. «L'abbiamo trovato esattamente dove lei aveva detto che doveva essere.» «Una supposizione dettata dall'esperienza», spiegò l'ometto. «Se fossi stato io il responsabile della cava, l'avrei fatto aprire proprio lì.» «Qualcuno aveva fatto il possibile e l'impossibile perché nessuno bazzicasse nei paraggi», disse Sandecker. «Il qualcuno era l'agricoltore già proprietario del terreno», interloquì Heidi, appollaiata sopra di loro, su una cuccetta. «Da dove l'ha avuta, questa ghiotta notizia?» chiese Lubin. «Da una gentile giornalista che sono riuscita a tirar giù dal letto dell'amico affinché mi aprisse l'archivio del quotidiano locale, di cui è direttrice. Il fatto è che una trentina di anni fa tre subacquei muniti di respiratore finirono annegati nel pozzo e di due di loro non sono mai stati ritrovati i corpi. Allora l'agricoltore sigillò l'imboccatura per impedire alla gente di ammazzarsi sulla sua proprietà.» «Hai scoperto niente a proposito della frana?» chiese Pitt. «Un vicolo cieco. Tutto il materiale d'archivio degli anni anteriori al 1946 andò distrutto in un incendio.» Sandecker si tirava la barba rossiccia, immerso nei propri pensieri. «Mi sto chiedendo quanto avanti erano riusciti a spingersi quei poveri diavoli, prima di affogare.» «Probabilmente arrivarono nella galleria principale ed esaurirono l'aria mentre tornavano indietro», ipotizzò Pitt. Heidi espresse ad alta voce il pensiero che aveva attraversato di colpo la mente di tutti i presenti. «Se è andata così, dovevano aver visto che cosa c'è all'interno.» Sandecker lanciò a Pitt un'occhiata apprensiva. «Non voglio che lei commetta lo stesso sbaglio.» «Le vittime erano senza dubbio tre sub della domenica, privi di addestramento e male equipaggiati.» «Mi sentirei più tranquillo se ci fosse un'altra possibilità di penetrare nella cava.» «Una di queste possibilità sarebbe il pozzo di aerazione», suggerì il consulente minerario. «Naturale!» esclamò Sandecker. «Tutte le miniere devono avere un sistema di ventilazione.» «Non ne ho fatto cenno prima, perché ci vorrebbe un'eternità prima di trovarlo, con questa nebbia. Per di più, quando chiudono una miniera,
colmano il pozzo d'aerazione e ne coprono l'imboccatura. C'è sempre il rischio che un animale o una persona, specialmente un bambino, vi cadano dentro e scompaiano senza che vi sia la speranza di tirarli fuori.» Pitt aggrottò la fronte. «Qualcosa mi dice che è proprio il posto dove troveremo il nostro amico Shaw.» Lubin, che non lo aveva mai sentito nominare, chiese: «Chi è?» «Un concorrente», spiegò Pitt. «Uno che ha lo stesso, disperato bisogno che abbiamo noi di riuscire a entrare alla svelta nella cava.» L'ometto accolse l'informazione con un'alzata di spalle. «Allora non lo invidio», commentò. «Scavare il pozzo d'aerazione di una miniera quel tanto necessario perché sia largo quanto le spalle di un uomo è un lavoraccio da cani.» Gl'inglesi sarebbero stati unanimi nell'affermare che Lubin aveva ragione da vendere. Uno degli uomini del tenente Macklin aveva scoperto, per puro caso, la famosa imboccatura, incespicando nel leggero dislivello che la nascondeva e cadendovi letteralmente sopra. Dalla mezzanotte i paracadutisti s'affannavano come dannati per sgomberare l'angusto passaggio colmo di macerie. Il lavoro era sfibrante. La strettissima apertura consentiva che vi scavasse un solo uomo per volta, sotto la costante minaccia d'una frana. I secchi rubati nella fretta in un orto vicino venivano riempiti e tirati in superficie mediante una corda. La «talpa» di turno lavorava con la massima rapidità possibile e con tutte le sue forze; poi, quand'era al limite dello sfinimento, un altro si affrettava a sostituirla, quindi l'opera di scavo non subiva praticamente interruzioni. «A quale profondità siamo arrivati?» chiese Shaw. «A circa dodici metri», rispose Caldweiler. «E quanto ci manca ancora?» Il gallese ci pensò su un momento, corrugando la fronte. «Penso che dovremmo sbucare nella galleria principale dopo averne scavati altri trentasei. Però non sono in grado di dire a che profondità sia il pozzo d'aerazione. Potremmo incontrarlo scavando nel prossimo metro o seguitare di questo passo fino all'ultimo centimetro.» «Mi auguro che si tratti del prossimo metro», interloquì Macklin. «Mi sa che la nebbia non ci coprirà più per molto.» «Niente odore di americani, qua in giro?» «Solo un rumore di motori, da qualche parte dietro la collina.»
Shaw si accese un'altra delle sue sigarette speciali. Era l'ultima rimastagli. «Mi sarei aspettato di vederli sciamare su per il pendio da un bel pezzo.» «Riceveranno un'accoglienza calorosa non appena spunteranno», commentò Macklin, quasi allegramente. «Ho sentito dire che le galere americane sono sovraffollate», borbottò Caldweiler. «Non ci terrei a trascorrervi il resto della mia vita.» Shaw ribatté, sogghignando: «Per un uomo della sua esperienza, dovrebbe essere uno scherzo evadere aprendosi una galleria». Caldweiler vuotò la pipa dalla cenere. «Niente di meglio, per tirar su il morale, che guardare le cose dal lato umoristico. Tuttavia, parlando sul serio, non posso fare a meno di chiedermi che cavolo ci sto facendo qui.» «Ci è venuto volontario, come tutti quanti noi», rivelò Macklin. Shaw mandò fuori una grande sbuffata di fumo. «Se vivrà abbastanza da ritornare in Inghilterra, il primo ministro in persona le appunterà una bella medaglia sul petto.» «Per un semplice pezzo di carta?» «Il semplice pezzo di carta ha un'importanza che lei non riuscirebbe neppure a sognarsi.» «Spero bene che ce l'abbia, visto quello che sta per costarci in sudore e sangue», brontolò Caldweiler. Il piccolo convoglio di mezzi blindati si fermò. Dal veicolo di testa saltò a terra un ufficiale in uniforme da campo e lanciò a gran voce un ordine. Un folto gruppo di Marines che impugnavano ciascuno un fucile automatico scese dalle autoblindo e incominciò a disporsi in plotoni. L'ufficiale, che riconosceva a fiuto il più alto in grado, andò incontro a Sandecker senza esitare. «L'ammiraglio Sandecker?» Sandecker era visibilmente compiaciuto che l'altro l'avesse immediatamente individuato. «Sono io. Desidera?» «Tenente Sanchez.» Il nuovo arrivato scattò in un perfetto saluto regolamentare. «Terzo Recon Marines.» «Lieto di conoscerla.» «Non ho ricevuto disposizioni precise per quanto riguarda il nostro impiego.» «Quanti uomini ha con lei?» «Tre squadre, quindi, me compreso, quaranta in tutto.»
«Benissimo. Ne mandi una a isolare la zona circostante e le altre due a pattugliare i boschi intorno alla collina.» «Signorsì.» «Un'altra cosa, tenente. Non sappiamo quali sorprese ci aspettano. Perciò dica ai suoi uomini di muoversi con cautela.» Sandecker si girò per avvicinarsi al pozzo di emergenza. L'ultima sbarra di ferro era stata tagliata. I sommozzatori erano pronti a penetrare nelle viscere dell'altura. Tutti erano stranamente silenziosi e fissavano l'imboccatura nera come se fosse stata l'angosciante porta dell'inferno. Pitt aveva già indossato la muta da sub e si stava assicurando sul dorso le bombole. Quand'ebbe verificato che tutto fosse in ordine, inviò un cenno a Riley e ai suoi uomini. «Siamo a posto. E adesso facciamo un salto nel buio.» Sandecker lo guardò, stupito. «Un salto nel buio?» «Un vecchio modo di dire dei sub quando vanno a esplorare le grotte sottomarine non illuminate.» Sandecker era scuro in volto. «Non corra rischi e sia prudente...» «Tenga le dita incrociate perché riesca a trovare il trattato, là sotto.» «Di tutt'e due le mani. Dell'altra nel caso che Shaw ci dovesse mettere sopra le zampe prima di lei.» «Sì», convenne Pitt, in tono amaro. «Il problema sta tutto qui.» 80 Il vecchio pozzo dell'uscita di emergenza scendeva obliquamente nelle viscere della collina. Le pareti erano alte poco più di due metri e portavano impresse le cicatrici delle picconate dei cavatori. L'aria era umida e sapeva dell'odore, non forte ma di cattivo auspicio, tipico dei mausolei. Dopo una ventina di metri la galleria descriveva una curva e la scarsa luce che penetrava dall'alto diventava un ricordo. Gli uomini accesero le torce da sommozzatori e Pitt, seguito da Riley e da altri tre, continuò ad avanzare. Il solo rumore era l'eco dei loro passi. Videro un vagoncino per il trasporto del minerale: le piccole ruote erano state saldate allo stretto binario dalla ruggine. Picconi e pale giacevano, ben ordinati, in una nicchia scavata appositamente, quasi in attesa che mani callose li impugnassero di nuovo. Accanto al mucchio si trovavano altri attrezzi: una lampada da minatore, rotta, e un martello da fabbro. Poco più in là, con le pagine appiccicate, il catalogo di una ditta di vendite per corri-
spondenza. Persero venti minuti buoni per togliere di mezzo uno sbarramento di pietre cadute dalla volta, tenendo sospettosamente d'occhio le travi di legno infradiciate che minacciavano di cedere sotto il peso del soffitto pericolante. Lavorarono in silenzio, senza scambiarsi nemmeno una parola, attanagliati dall'inespresso timore di restare sepolti sotto un'improvvisa frana. Riuscirono infine ad aprirsi un varco. Da quel punto in avanti, il pavimento della galleria era coperto da dieci e più centimetri d'acqua, che saliva sempre più a mano a mano che procedevano. Quando arrivò loro alle ginocchia, Pitt si fermò, levando una mano. «Fra non molto il livello dell'acqua ci arriverà alla testa», disse. «Credo che la squadra di sicurezza dovrebbe incominciare le operazioni da questo punto.» Riley annuì. «D'accordo.» I tre sommozzatori, che dovevano rimanere indietro nel caso di un incidente, incominciarono ad accatastare le bombole di riserva e ad assicurarvi l'estremità di una corda arancione fluorescente arrotolata intorno a un grande rocchetto. Mentre si davano da fare, le luci delle torce danzavano a scatti sulle pareti del corridoio e le loro voci, amplificate, riuscivano estranee a loro stessi. Pitt e Riley si tolsero i robusti scarponi e li sostituirono con le pinne; poi, preso il rocchetto, ripresero a camminare, con la corda di sicurezza che si svolgeva dietro di loro. Ben presto si trovarono nell'acqua fino alla cintola. Si fermarono per mettersi la maschera e stringere tra i denti i boccagli. Quindi si tuffarono alla ventura. Sotto la superficie l'acqua era fredda e cupa, la visibilità stranamente netta e Pitt si sentì rabbrividire di superstizioso timore quando distinse una minuscola salamandra con gli occhi atrofizzati fino alla cecità. Si stupì che una qualsiasi forma di vita potesse esistere in quell'isolamento tombale. L'uscita di sicurezza della cava si allungava verso il basso e dava la sensazione d'essere un pozzo scavato obliquamente e privo di fondo. C'era un che di sinistro, là dentro, come se una forza malefica e ignota fosse stata in agguato nel vuoto cupo, fuori del raggio delle torce. Dopo dieci minuti, come indicava l'orologio subacqueo di Pitt, si fermarono per valutare la situazione. I loro calibri di profondità segnavano trentun metri e mezzo. Da sotto la maschera, Pitt studiò con gli occhi il compagno. Riley controllò rapidamente il suo manometro e a cenni gli comunicò che tutto andava bene. Ripresero l'esplorazione. A un certo punto, il pozzo si allargò davanti a loro, in una caverna con le
pareti d'un giallo dorato sporco. Erano entrati finalmente in una galleria della cava. Il pavimento vi correva orizzontale e Pitt notò che la profondità era andata aumentando lentamente fino ai diciotto metri. Puntò la torcia verso l'alto. Il raggio illuminò quello che sembrava un lenzuolo di argento vivo. Nuotò in ascensione, come un fantasma in volo, e all'improvviso si trovò circondato dall'aria. Era capitato in una sacca raccoltasi sotto il soffitto di un'ampia caverna a cupola. Le stalattiti gli pendevano intorno, simili a ghiaccioli, con le cime aguzze che terminavano a un paio di centimetri dell'acqua. Si chinò verso il basso, per mettere in guardia Riley, ma era troppo tardi. Riley, che non poteva scorgere le stalattiti per colpa del riflesso, andò a sbattere contro l'estremità di una e il vetro della maschera si spezzò, procurandogli un taglio profondo alla radice del naso e, quel che era peggio, ferendolo alle palpebre. Soltanto più tardi avrebbe saputo che l'occhio sinistro era perso. Pitt s'insinuò serpeggiando tra le formazioni calcaree appuntite e afferrò il caposquadra dei sommozzatori sotto le ascelle. «Che cos'è successo?» mormorò confusamente Riley. «Perché le torce si sono spente?» «Sei andato a sbattere contro la punta di una stalattite e la tua torcia si è rotta. E io ho perso la mia.» Riley non ci credette. Si tolse un guanto per toccarsi la faccia. «Sono cieco», disse, senza agitarsi. «Neanche per sogno!» Pitt gli tolse la maschera ed estrasse con delicatezza dalle ferite le schegge più grosse. L'acqua era così gelida che agiva da anestetico sulla pelle dell'infortunato e gli impediva di avvertire il dolore. «Che maledetta scalogna! Perché proprio a me?» «Smettila di compatirti. Un paio di punti e il tuo brutto muso diventerà come nuovo.» «Quanto mi dispiace di avere incasinato la faccenda. Immagino che più lontano di così non ci potremo spingere.» «Tu no, ma io sì.» «Come, non torni indietro?» «No, continuo ad andare avanti.» «La tua riserva d'aria?» «Abbondante.» «Non puoi darla a bere a uno che è vecchio del mestiere, ragazzo. Ce n'è rimasta appena quanto basta per arrivare fino alla squadra d'appoggio. Se
vai avanti, il biglietto d'andata e ritorno ti scade prima che tu riesca a riaffacciarti in superficie.» Pitt legò un capo della corda di sicurezza intorno a una stalattite. Poi afferrò una mano di Riley e gliela fece impugnare ben salda. «Non hai che da seguire la cordonata del marciapiede e badare alla testa.» «Non vali granché come commediante. Che cosa racconterò all'ammiraglio? Quello mi fa castrare se gli dico che ti ho lasciato qua.» «Digli che dovevo prendere un treno», ribatté Pitt con un sorriso tirato. Il caporale Richard Willapa si sentiva del tutto a suo agio mentre si aggirava furtivo nel bosco umido. Discendente diretto degli indiani Chinook del Nordovest, aveva trascorso gran parte della sua gioventù seguendo le tracce della selvaggina nelle foreste piovose dello Stato di Washington, acquisendo l'abilità che gli consentiva di avvicinarsi a un cervo fino a sei metri prima che l'animale ne avvertisse la presenza e fuggisse con la rapidità d'una freccia. La sua esperienza gli giunse a proposito mentre leggeva i segni di un recente passaggio umano. Le orme erano state lasciate da un uomo piccolo di statura che calzava un paio di scarponi militari simili ai suoi, arguì. L'umidità della nebbia non aveva ancora cancellato le tracce e questo rivelò all'occhio addestrato di Willapa che dovevano risalire a non più di mezz'ora prima. Si guardò intorno, a destra e a sinistra, ma nessuno della sua squadra era in vista. Il suo sergente l'aveva mandato avanti in perlustrazione e gli altri non lo avevano ancora raggiunto. Willapa si arrampicò, silenzioso e agile come un gatto, fino alla biforcazione di un albero e da lassù sbirciò nel boschetto. Dal suo osservatorio riusciva a distinguere la sagoma di una testa e le spalle chine di qualcuno che se ne stava seduto sopra un ceppo. «Vieni fuori!» gridò. «So che sei lì. Esci con le mani alzate.» Per tutta risposta una gragnuola di proiettili fece saltare via la corteccia del tronco, poco sotto di lui. «Porca miseria!» masticò tra i denti, sbalordito. Nessuno gli aveva detto che avrebbero potuto sparargli. Puntò la sua arma, schiacciò il grilletto e a sua volta innaffiò il folto con una sventagliata. Il tiro s'intensificò sulla collina, e riecheggiò nell'intera vallata. Il tenente Sanchez afferrò la radio da campo. «Sergente Ryan, siete pronti?» Ryan rispose quasi immediatamente. «Qui Ryan. Sono in ascolto, signo-
re.» «Che casino sta succedendo lassù?» «Abbiamo inciampato in un nido di vespe», rispose Ryan, parlando a scatti. «È come se fossimo in piena battaglia delle Ardenne. Ho già tre feriti.» Sanchez rimase esterrefatto nel sentire la tremenda notizia. «Chi vi sta attaccando?» «Non so, ma certo non i contadini armati di forche. Abbiamo a che fare con gente che sa il fatto suo.» «Si spieghi meglio.» «Quelli che ci sparano addosso con i fucili automatici sono giovanotti fin troppo esperti nel maneggiarli.» «Ci siamo!» urlò Shaw, incassando la testa tra le spalle mentre un tiro ininterrotto rastrellava il fogliame sopra di lui. «Ci stanno attaccando alle spalle.» «Non sono mica dilettanti, questi yankee», gridò di rimando Macklin. «Stanno aspettando il momento buono e tra poco ci faranno fuori.» «Tanto meglio per noi quanto più aspettano.» Shaw si avvicinò strisciando fino al pozzo, dove Caldweiler e altri tre uomini scavavano freneticamente, incuranti della battaglia che infuriava intorno a loro. «Qualche speranza di farcela?» «Quando ce l'avremo fatta, lei sarà il primo a saperlo», borbottò il gallese. Il sudore gli scorreva a rivoli sul viso mentre tirava su un secchio che conteneva un macigno pesantissimo. «Siamo a quasi ventun metri di profondità. Tutto quel che posso dirle è questo.» Shaw si chinò di colpo: una pallottola colpì il masso che Caldweiler teneva tra le mani e, di rimbalzo, gli portò via il calcagno dello stivale sinistro. «Sarà meglio che lei se ne stia al riparo fintante che non la chiamo», suggerì calmissimo l'esperto minerario, come se gli avesse consigliato di non uscire con la pioggia. Shaw non se lo fece ripetere. Andò a cercare rifugio in un avvallamento del terreno, accanto a Burton-Angus che aveva l'aria di godersela un mondo nel rispondere al fuoco proveniente dai cespugli circostanti. «Ha colpito qualcuno?» «Quei bastardi vigliacchi non si fanno mai vedere», rispose il tenente. «Hanno imparato la lezione nel Vietnam.»
Si rizzò mettendosi in ginocchio e sparò una lunga raffica, con calma, in un fitto sottobosco, da dove reagirono con una pioggia di proiettili che crivellarono il terreno tutt'intorno a lui. Improvvisamente balzò su, eretto, e ricadde subito, senza emettere suono. Shaw gli si accoccolò accanto. Il sangue incominciava a scorrere da tre fori che si aprivano a distanza regolare nel petto del tenente. Egli posò su Shaw gli occhi bruni che già si appannavano, mentre il volto s'illividiva. «Più pazzesco di così...» rantolò. «Farmi sparare addosso sul suolo americano. Chi l'avrebbe mai creduto...» Gli occhi non avevano più sguardo. Burton-Angus era morto. Il sergente Bentley scivolò cauto fuori del sottobosco e osservò il caduto. La faccia gli s'indurì. «Troppi bravi ragazzi si stanno facendo ammazzare, oggi», disse lentamente. Poi allungò il collo, con prudenza, per guardare oltre il margine del terrapieno. La raffica che aveva ucciso BurtonAngus doveva essere partita da un posto elevato, si disse. Scorse un movimento leggero, ma percettibile, tra i rami più alti. Regolò il fucile sul tiro semiautomatico, prese accuratamente la mira e sparò sei colpi. Con feroce soddisfazione vide un corpo che scivolava lentamente giù da un albero e restava immobile, rannicchiato sulla terra umida. Il caporale Richard Willapa non sarebbe mai più andato a fare la posta ai cervi nella sua piovosa foresta natia. 81 Non appena la sparatoria era incominciata, l'ammiraglio Sandecker aveva lanciato un appello radio per l'invio immediato di medici e autoambulanze dagli ospedali della zona. La richiesta era stata accolta prontamente e mentre i primi feriti venivano portati giù l'uno dopo l'altro dalla collina, già si udivano da lontano le sirene dei veicoli che stavano arrivando a tutta velocità. Heidi andava zoppicando dall'uno all'altro, prestando nell'attesa le prime cure e lottando con se stessa per ricacciare indietro le lacrime che le salivano agli occhi, mentre mormorava qualche parola di conforto. In particolar modo la commuoveva il fatto che erano tutti giovanissimi, ragazzi che parevano tutti sotto i vent'anni. Nessuno di loro si era aspettato di versare il proprio sangue, o di morire, sul suolo del proprio Paese, combattendo contro un nemico che non aveva neppure visto in faccia. Alzò lo sguardo nel momento in cui Riley, il viso trasformato in una ma-
schera di sangue, compariva dall'uscita di sicurezza della miniera, sostenuto da due dei suoi sommozzatori; non scorgendo segno di Pitt, una terribile paura l'attanagliò. Dio mio, Dirk è morto, pensò disperata. Sandecker e Giordino scorsero simultaneamente il ferito e gli si precipitarono incontro. «Dov'è Pitt?» chiese Sandecker in ansia. «Ancora laggiù, da qualche parte», mormorò Riley, a fatica. «Si è rifiutato di tornare indietro. Ho tentato, ammiraglio; lo giuro davanti a Dio, ho cercato di convincerlo, ma non mi ha voluto ascoltare.» «Pitt non è il tipo d'uomo che muore così facilmente», asserì Giordino, in tono risoluto. «Mi ha incaricato di riferirle una cosa, ammiraglio.» «Non mi sarei aspettato altro da lui», dichiarò Sandecker, sottovoce. «Che cosa mi deve riferire?» «Soltanto che voleva prendere un treno.» «Può darsi che a quest'ora lo abbia trovato, nella galleria principale», azzardò Giordino, improvvisamente speranzoso. «Impossibile», affermò Riley, gettando acqua fredda sul suo ottimismo. «Ormai deve aver esaurito la riserva di aria. Certo è morto annegato.» La morte nelle acque cupe di una caverna sotterranea è una prospettiva che ben pochi hanno il coraggio di raffigurarsi. L'idea è troppo orribile perché ci si possa soffermare a considerarla. È tristemente noto che sommozzatori, rimasti intrappolati, si scarnificarono le dita fino all'osso, letteralmente, nell'inutile tentativo di aprirsi una via a mani nude attraverso chilometri di roccia. Altri, per contro, si arresero, con la sensazione di rientrare nell'utero materno. L'ultima cosa che Pitt aveva in mente era di morire. Il solo pensiero sarebbe bastato per farlo cadere in preda al panico. Si concentrò invece sul proposito di economizzare l'aria che gli era rimasta e di non perdere l'orientamento, timore costante di quanti esplorano le grotte colme d'acqua, a grande profondità. L'indicatore del manometro tremolò spostandosi sull'ultima tacca, prima di andare a fermarsi sul VUOTO. Quanto tempo gli restava? Un minuto, due, forse tre, prima che tentasse d'inspirare da una bombola esaurita? Inavvertitamente sollevò con una pinna un vortice di fanghiglia che offuscò il raggio della torcia. S'immobilizzò, distinguendo a malapena la direzione delle bollicine d'aria che salivano davanti al vetro della maschera. Le seguì, nuotando verso l'alto, finché non si ritrovò di
nuovo nell'acqua limpida e allora incominciò a muoversi come una mosca, lungo il soffitto della caverna, spingendosi avanti con la punta delle dita. Provava una sensazione strana, come se si fosse affrancato dalla forza di gravità. Nell'oscurità, a un certo punto, intravide una biforcazione. Non poteva permettersi il lusso di perdere tempo a riflettere sulla decisione da prendere. Si lasciò andare in avanti e imboccò il passaggio alla sua sinistra. All'improvviso il raggio della torcia andò a cadere sopra una muta lacerata e marcescente in mezzo alla melma. A tutta prima, così afflosciata, dava l'impressione che chi l'aveva indossata se la fosse sfilata di dosso. Il raggio della torcia la percorse tutta, incominciando dalle gambe fino all'infossatura evidente all'altezza del petto, e si fermò sulla maschera, ancora allacciata alla cuffia. Due orbite vuote nel teschio scarnificato fissarono Pitt, che sobbalzò e si affrettò a nuotare a ritroso, lontano dal macabro spettacolo. Lo scheletro di uno dei sommozzatori scomparsi gli aveva salvato la vita, o almeno gliel'aveva prolungata di un po', perché il passaggio doveva essere un corridoio cieco, senza uscita. Probabilmente le ossa del secondo erano qualche metro più in fondo. Quando si ritrovò di nuovo all'inizio della biforcazione, Pitt ricontrollò la bussola da polso. Un gesto inutile, dato che non aveva altra scelta se non d'imboccare il corridoio alla sua destra. Aveva già lasciato cadere l'ingombrante rocchetto della corda di sicurezza. La sua riserva d'aria era vicinissima al punto zero. Tentò di trattenere il respiro per conservare il poco che ne rimaneva, ma già avvertiva che la pressione andava diminuendo. Avrebbe potuto tirare il fiato ancora pochissime volte. Si sentiva la bocca arida, era incapace di deglutire e avvertì un gran freddo. Era rimasto troppo a lungo nell'acqua gelida: riconobbe i primi sintomi dell'ipotermia. Mentre nuotava a maggiore profondità, incontro al buio che lo attirava, fu invaso da una strana calma. Aspirò l'ultimo resto di aria e si scrollò via dalle spalle l'inutile bombola, che cadde sul fondo fangoso. Cozzò violentemente col ginocchio contro un mucchio di pietre, ma non sentì il minimo dolore. Non gli restava più di un minuto: dopo di che, neppure una boccata d'aria sarebbe arrivata ai polmoni. Fu sopraffatto dall'orrore d'incontrare la stessa fine del sommozzatore di cui aveva visto i resti nella galleria. Lo ossessionava la visione del teschio abbandonato nella fanghiglia. Avvertì un male insopportabile al torace, gli parve che un incendio gli infuriasse nella testa. Continuò a nuotare, non osando fermarsi fintanto che il cervello funzionava. Qualcosa luccicò all'estremità del passaggio. Ebbe l'impressione di una distanza chilometrica. Mosche volanti gli offuscavano a tratti la vista. Sen-
tiva il sangue che gli pulsava nelle orecchie e il petto schiacciato da un macigno. I polmoni gli si erano afflosciati, completamente svuotati di aria. L'estremo, disperato momento era giunto. Il salto nel buio si stava concludendo. 82 Lentamente, ma inesorabilmente, la rete si stringeva intorno al plotone decimato di Macklin. I cadaveri e i corpi dei feriti giacevano in mezzo a un mare di bossoli. Il sole aveva dissipato la nebbia. Ormai riuscivano a scorgere meglio i loro bersagli, ma li distinguevano meglio anche gli uomini che li circondavano. Non avevano paura. Avevano saputo sin dall'inizio che le loro probabilità di scampo equivalevano a zero. Combattere lontano dalle rive della loro isola, imprendibile come una fortezza ben munita, non era una novità per i soldati inglesi. Macklin zoppicò verso Shaw. Il tenente aveva il braccio sinistro al collo, sostenuto da una fascia zuppa di sangue e un piede avvolto nelle bende, anche queste insanguinate. «Temo che per noi sia finita, vecchio mio. Non potremo tenerli a bada ancora per molto.» «Lei e i suoi uomini avete resistito in modo ammirevole. Assai più di quanto ci si potesse aspettare.» «Sono bravi ragazzi», riconobbe Macklin con voce stanca. «Hanno fatto del loro meglio. Qualche speranza di sgomberare quel maledetto buco?» «Se mi arrischiassi a chiederlo di nuovo a Caldweiler, credo che mi fracasserebbe il cranio con una badilata.» «E allora sarebbe meglio se facessimo scoppiare sul fondo una carica e considerassimo chiusa la faccenda.» Shaw lo fissò un momento, riflettendo. Poi si allontanò di scatto, per avvicinarsi all'orlo del pozzo. Gli uomini che tiravano su i secchi parevano sul punto di crollare dallo sfinimento. Erano fradici di sudore e respiravano con affanno. «Dov'è Caldweiler?» chiese Shaw. «Sotto. È sceso perché dice che nessuno è capace di scavare più in fretta di lui.» Shaw si sporse oltre il margine. Ma il pozzo d'aerazione faceva una curva e Caldweiler non era visibile. Shaw lo chiamò per nome, gridando. Un masso di fango in forma umana spuntò alla vista, sul fondo. «Che c'è adesso, porca miseria?»
«Non abbiamo più tempo.» Le pareti del pozzo rimandarono l'eco della voce. «Che ne direbbe di ricorrere agli esplosivi?» «Neanche per sogno», urlò di rimando il gallese. «Le pareti crollerebbero.» «Eppure dobbiamo correre il rischio.» Caldweiler cadde sulle ginocchia. Era allo stremo delle forze. «Sta bene», accondiscese con la voce roca per la stanchezza. «Mandi giù una carica. Proverò.» Dopo un minuto, il sergente Bentley calò nel pozzo uno zaino contenente esplosivi al plastico. Caldweiler inserì adagio le cariche malleabili nei fori aperti in profondità, vi unì le micce e poi segnalò che lo issassero in superficie. Shaw, non appena l'uomo fu alla portata delle sue mani, lo afferrò sotto le ascelle e lo trascinò lontano dalla bocca dello scavo. Caldweiler inorridì nel vedere il carnaio che lo circondava. Solo quattro uomini del gruppo di Macklin erano indenni, e seguitavano a sparare come dannati nei boschi. Improvvisamente il suolo tremò sotto i loro piedi e un fumo denso uscì dall'imboccatura della cavità. Caldweiler, senza frapporre tempo in mezzo, vi si calò dentro di nuovo. Shaw lo udì tossire, ma non poté seguirlo con gli occhi attraverso il velo fitto e vorticante. «Le pareti hanno tenuto?» gridò. Non ci fu risposta. Poi sentì che qualcuno aveva dato uno strattone alla corda e si mise a tirare come un matto. Gli pareva che le braccia gli si dovessero staccare da un attimo all'altro quando spuntò la testa di Caldweiler, tutta incrostata di polvere. Per qualche momento il gallese farfugliò parole incoerenti, poi si schiarì la gola e ansimò: «Ce l'abbiamo fatta! Siamo riusciti ad aprirci il varco. Faccia presto, prima che sparino anche a lei». Macklin, che si era avvicinato, strinse la mano a Shaw. «Se non ci dovessimo rivedere più, le auguro buona fortuna.» «Altrettanto a lei.» Il sergente Bentley gli consegnò una torcia. «La prenda, signore, perché ne avrà bisogno.» Caldweiler aveva annodato insieme tre funi, per aumentarne la lunghezza. «Con queste dovrebbe riuscire a calarsi fin sul pavimento della cava», disse. «Adesso, scenda pure.» Shaw scavalcò l'imboccatura del pozzo e incominciò la discesa. A un certo punto si fermò, per guardare in alto.
La polvere dell'esplosione non si era ancora posata e non poté scorgere bene le facce ansiose di quelli che se ne stavano affacciati all'imboccatura. Gli uomini del tenente Sanchez, acquattati tra gli alberi e le rocce lungo il perimetro della zona, sparavano fitto nella forra ricoperta dalla vegetazione. Sin dall'inizio dello scontro a fuoco aveva perso nove dei suoi: un morto e otto feriti. Era stato colpito anche lui, da una pallottola che gli era penetrata nella coscia e ne era uscita. Si era tolto il giubbotto mimetico e con la maglietta intima aveva fasciato alla meglio i due fori d'entrata e d'uscita. «Il loro tiro è diminuito d'intensità», commentò il sergente Hooper, tra uno sputo e l'altro di saliva color tabacco. «È un miracolo che qualcuno di quelli là sia ancora vivo», disse Sanchez. «Nessuno, se non una banda di terroristi fanatici, combatte con tanto accanimento.» «Sono uomini ben addestrati. Questo glielo devo riconoscere.» Il tenente s'interruppe, per ascoltare. Poi si grattò un orecchio, fece capolino tra i due massi che lo riparavano, socchiuse gli occhi e osservò davanti a sé, con la massima attenzione. «Ascolti anche lei.» «Che cosa?» chiese Hooper, corrugando la fronte. «Hanno smesso di sparare.» «Potrebbe essere un trucco per attirarci allo scoperto.» «Non credo», ribatté Sanchez. «Passi parola per il cessate il fuoco.» Così sui boschi sconvolti dalla battaglia scese uno strano silenzio. Poi un uomo spuntò, cauto, fuori del folto degli alberi, tenendo alto il fucile sopra la testa. «Quel figlio di puttana», masticò Hooper tra i denti. «È in tenuta completa di combattimento.» «Probabile che l'abbia comprata tra i residuati bellici.» «Una carogna che si presenta bene.» Sanchez si alzò in piedi e si accese una sigaretta, con aria disinvolta e rilassata. «Io gli vado incontro. Se fa un gesto, fosse solo di grattarsi il naso, lo stenda secco.» «Lei gli si metta di fianco, così lo potrò tenere direttamente sotto tiro.» Sanchez gli fece segno d'aver capito e si avviò. Quando si trovò a un paio di metri dal sergente Bentley si fermò e lo squadrò da capo a piedi. Notò la faccia annerita, l'elmetto con la rete mimetizzato da alcuni ramo-
scelli e i distintivi di grado. Lo sconosciuto non rivelava traccia di timore. Anzi, gli inviò un sorriso. «Buongiorno, signore», esordì Bentley. «È lei il comandante?» «No, signore. Se non le dispiace seguirmi, la condurrò da lui.» «Avete deciso di arrendervi?» Bentley annuì. «Signorsì.» Sanchez abbassò il proprio fucile. «D'accordo. Mi preceda.» Passarono tra i cespugli defogliati dai proiettili e scesero nella forra. Sanchez ebbe immediatamente la visione dei corpi sparsi sul terreno intriso di sangue già coagulato. I feriti lo seguivano con gli occhi, manifestando un interesse piuttosto tiepido. Tre uomini, che parevano illesi, gli fecero il saluto militare. «Scattate sull'attenti, ragazzi!» ordinò seccamente Bentley. Sanchez era perplesso. Nessuno di quelli che vedeva corrispondeva all'immagine del terrorista. Si trattava di soldati in uniforme, disciplinatissimi e addestrati al combattimento. Bentley lo accompagnò da due uomini, fermi accanto a un foro scavato nel terreno. L'uno, che sembrava essersi rotolato nel fango per fare da testimonial pubblicitario a un detersivo, era chino sopra il suo compagno sdraiato a terra e gli stava tagliando via uno stivale intriso di sangue. Il ferito levò gli occhi in faccia a Sanchez e gli lanciò un vivace buongiorno. Una compagnia di allegroni, pensò Sanchez. «È lei il comandante?» «Io in persona», rispose Macklin. «Posso avere l'onore di sapere il suo nome, signore?» «Tenente Richard Sanchez, del corpo dei Marines degli Stati Uniti.» «Allora è proprio il caso d'intonare il 'pari siamo'. Io sono il tenente Digby Macklin dei Royal Marines di Sua Maestà.» Sanchez se ne rimase impalato, a bocca aperta. Tutto quel che riuscì a borbottare fu: «Be', che mi venga un colpo!» La prima cosa che Shaw notò, calandosi nel pozzo di aerazione, furono l'umidità e l'odore di muffa che, pervadendo l'interno, lo assaliva a zaffate. Dopo una ventina di metri, a quanto poté calcolare, non gli fu più possibile allungare i piedi lateralmente e toccare le pareti di terra che lo serravano a destra e a sinistra. Afferrò la corda, stringendola spasmodicamente, come uno che sta per annegare, e accese la torcia per distinguere qualcosa nel buio che lo circondava. Era finito in un'ampia caverna, che in altezza misurava non meno di do-
dici metri dal pavimento al soffitto. Era vuota, tranne un mucchio di macerie in un angolo. L'estremità della corda finiva a dodici metri dal fondo. Si cacciò la torcia sotto l'ascella, respirò a fondo e lasciò andare la presa. Gli parve di precipitare come una pietra lanciata in un baratro nero. Un'esperienza terrificante, che si augurò di non dover ripetere mai più. Nel momento in cui toccò terra, ebbe la sensazione che una mano gli strizzasse i polmoni, facendogli uscire tutta l'aria trattenuta. Pensò di aver avuto fortuna, dato che era caduto, letteralmente, in piedi, perciò l'impatto lo avevano sopportato soprattutto le gambe. Ma subito dopo perdette il precario equilibrio, cadde di fianco e cozzò col polso contro qualcosa di duro. Avvertì, nettamente, il crac delle ossa fratturate. Rimase seduto due o tre minuti, stringendo le labbra per resistere al dolore, con una gran voglia d'impietosirsi per se stesso. Poi si riprese di colpo, rendendosi conto che era una questione di minuti prima che gli americani scendessero lungo il pozzo di aerazione e lo cogliessero in svantaggio. Recuperò a tentoni la torcia e l'accese. Funzionava ancora. Scoprì di trovarsi accanto ai vecchi binari di una decauville che, dalla caverna, s'inoltravano in una galleria aperta a un'estremità. Maldestramente, lavorando con una sola mano, si sfilò la cintura, se ne fece una benda di sostegno per il braccio fratturato, si alzò in piedi e si avventurò nella galleria, seguendo il binario. Camminò tra le rotaie, attento a non incespicare nelle traversine. Correvano in piano per una cinquantina di metri, o giù di lì, poi continuavano in leggera salita. Dopo aver percorso un bel tratto, Shaw si fermò e proiettò in giro il raggio della torcia. La luce gli rimandò di riflesso quelli che parevano due mostruosi occhi rossi. Riprese ad avanzare, più cauto che mai, e improvvisamente urtò con la punta della scarpa contro qualcosa di solido. Guardò in basso. Era un altro binario, a scartamento normale, più largo ancora di quello adottato in Gran Bretagna, a quanto gli parve. Sbucò fuori della galleria, in una seconda caverna. Però non era una caverna comune, come l'altra. Questa era un'immensa cripta, piena di morti. Gli occhi rossi erano i fanali di coda d'una vettura ferroviaria. Sulla piattaforma panoramica c'erano due salme, o per dir meglio due mummie, vestite da capo a piedi, con i teschi anneriti che dalle orbite vuote fissavano l'eternità. I capelli gli si rizzarono sulla nuca alla macabra vista e per un momento dimenticò il dolore martellante al polso. Pitt aveva avuto ragione. Il segreto del Manhattan Limited era custodito nella vecchia cava sotterranea.
Lanciò un'occhiata in giro, quasi aspettandosi di scorgere una figura armata di falce che lo chiamasse con un cenno del dito scheletrico. Percorse in tutta la sua lunghezza, all'esterno, la vettura e si accorse, meravigliato, che non era stata intaccata dalla ruggine. Dove la carrozza era agganciata a quella che la precedeva, proprio sotto i gradini, giaceva un grottesco fagotto, con la testa appoggiata contro una delle sei ruote. Cedendo a una curiosità morbosa, si fermò per esaminarlo. Alla luce della torcia vide che la pelle era di un colore grigio brunastro e mostrava di avere la consistenza del cuoio. Col trascorrere degli anni e dei decenni, il cadavere si era disseccato e indurito: l'aria asciutta della cava aveva provocato un processo di mummificazione naturale. Il berretto con la visiera arrotondata gli disse che quello doveva essere stato il controllore. Ve n'erano altri, a decine, sparpagliati intorno al treno, irrigiditi nella posizione in cui li aveva colti la morte, in maggioranza seduti e in parte sdraiati per terra. Gli indumenti erano in buono stato di conservazione e Shaw non fece fatica a distinguere gli uomini dalle donne. Parecchi altri giacevano contorti sotto lo sportello aperto del bagagliaio. Dirimpetto a loro una catasta disordinata di cassette di legno era stata caricata alla rinfusa sopra un vagoncino della miniera che in passato serviva al trasporto del materiale. Una delle mummie aveva strappato via il coperchio di una cassetta da imballaggio e si teneva stretto al petto un oggetto di forma tondeggiante. Shaw sfregò via dal disco il sudiciume che lo copriva e rimase sbalordito nel vedere, una volta eliminato lo sporco, il brillio dell'oro. Santo cielo, calcolato alle quotazioni odierne, qua attorno ci dev'essere un tesoro del valore di oltre trecento milioni di dollari, si disse. Pur sentendosi tentato d'indugiare per osservarlo, si costrinse a procedere. Aveva la camicia inzuppata di sudore e tuttavia gli pareva di trovarsi in un frigorifero. Il macchinista aveva scelto di morire chiuso nella sua cabina. La locomotiva, un gigante di ferro, era ricoperta dalla polvere di tre quarti di secolo, ma Shaw riuscì ancora a scorgere il numero «88», in cifre dorate, e la fascia di vernice rossa tracciata lungo i fianchi. Davanti ai respingenti, a non più di tre metri, c'era una massiccia frana di pietre che aveva ostruito l'ingresso principale della miniera. I morti sparpagliati tutt'intorno erano più numerosi. I picconi e i badili che stringevano ancora nelle mani dicevano che gli infelici avevano tentato disperatamente, fino all'ultimo respiro, di scavarsi un passaggio. Erano riusciti, in effetti, a rimuovere parecchie tonnellate di sassi, ma i loro sforzi disperati erano stati inutili. Non sa-
rebbe bastato un mese a un centinaio di uomini per rimuovere quella montagna di massi rocciosi. Ma com'era potuto accadere? Shaw tremò suo malgrado. Il luogo era davvero allucinante. Quali torture fisiche e psichiche avevano patito, intrappolati senza scampo in una prigione sotterranea fredda e buia, prima della fine liberatrice? Fece il giro della locomotiva e del tender, poi trovò la forza di salire i gradini della prima vettura passeggeri e ne percorse il corridoio. La prima cosa che vide fu una cuccetta sulla quale era sdraiata una donna, che si teneva stretti accanto due bambini. Distolse gli occhi e riprese a camminare. Frugò in tutte le valigette e le borse da viaggio che avrebbero potuto contenere il trattato nordamericano. Insistette nella ricerca, che gli portava via un tempo esasperatamente lungo. Si decise a fare più in fretta quando il panico incominciò a insinuarsi nel suo animo perché la luce della torcia diminuiva, segno inequivocabile che le batterie in pochi minuti si sarebbero esaurite. La settima e ultima carrozza passeggeri, quella con i due spettrali occupanti della piattaforma panoramica, recava sullo sportello l'aquila araldica, lo stemma degli Stati Uniti. Shaw si maledisse a mezza voce per non aver incominciato la ricerca da quella. Girò la maniglia ed entrò. Rimase fermo un attimo, colpito dal lusso della vettura speciale. Per i loro spostamenti non badavano a spese, pensò. In una poltrona girevole di velluto rosso giaceva, scompostamente, un corpo con in testa una bombetta e la faccia coperta da un giornale ingiallito. Altri due sedevano a un tavolo di mogano, col busto reclinato sopra e la testa tra le braccia incrociate. Uno indossava una giacca e calzoni di taglio che a Shaw parve indubbiamente inglese, il secondo portava un completo di leggera lana, del tipo chiamato tropicale. Fu a questo che si rivolse l'interesse di Shaw, perché la mano disseccata stringeva il manico d'una valigetta diplomatica. Quasi avesse temuto di svegliare il proprietario, la tolse adagio adagio dalle dita irrigidite. Improvvisamente si sentì raggelare. Con la coda dell'occhio gli parve d'aver colto un movimento impercettibile. Ma si disse che doveva essere stata una illusione, che erano le ombre oscillanti sulle pareti a suscitare in lui paure ataviche. Se si fosse abbandonato all'immaginazione, la luce fioca della torcia lo avrebbe convinto che tutto, intorno a lui, riprendeva vita. Poi il cuore gli si fermò. Un cardiologo avrebbe dichiarato che era impossibile, eppure gli si fermò per davvero mentre fissa-
va, paralizzato, ciò che vedeva riflesso nel vetro del finestrino. Dietro di lui, il cadavere con la bombetta abbandonato nella poltroncina girevole si stava raddrizzando e si metteva normalmente seduto. Infine la cosa orripilante abbassò il giornale che gli copriva la faccia e gli sorrise. 83 «Là dentro non troverà quello che cerca», disse Dirk Pitt, indicando la valigetta. Shaw non avrebbe potuto negare d'essere rimasto disorientato come mai gli era accaduto in tutta la vita. Si lasciò cadere su un sedile, in attesa che il cuore gli si rimettesse in sesto. Soltanto a quel punto si accorse che Pitt aveva indossato un vecchio cappotto sopra la muta da sub ancora bagnata. Quando finalmente si fu ripreso disse: «Lei ha una maniera davvero sconcertante di annunciare la sua presenza». Pitt accese la propria torcia per rischiarare un po' di più l'ambiente in penombra e poi, con fare indifferente, riprese in mano il vecchio giornale. «L'ho sempre detto, io, che sono nato con settantacinque anni di ritardo. Guardi qua: offrivano una Stutz Bearcat Speedster usata, che aveva percorso pochi chilometri, per soli seicentosettantacinque dollari.» Shaw, che aveva dato fondo a tutte le sue reazioni emotive nel corso delle ultime dodici ore, non era certo in vena di futilità. «Com'è riuscito ad arrivare fin qui?» La sua, più che una domanda, era un'ingiunzione a spiegargli il mistero. Pitt seguitò a leggere gli annunci pubblicitari economici, nella rubrica delle automobili d'occasione. «A nuoto, attraverso il pozzo che serviva da uscita di sicurezza», spiegò in tono leggero. «Avevo esaurito le bombole e per un pelo non sono affogato. Anzi, sarei affogato senz'altro se per fortuna non fossi sbucato in una sacca d'aria stantia sotto un vecchio frantoio per pietre sommerso. Allora mi è stata sufficiente un'altra boccata d'aria per penetrare in una galleria laterale.» Shaw, indicando con un gesto circolare la carrozza, chiese: «Che cos'era avvenuto qua dentro?» Pitt accennò ai due cadaveri seduti intorno al tavolo. «L'uomo con la valigetta diplomatica è, o per dir meglio era, Richard Essex, a quel tempo sottosegretario di Stato. Quello accanto era Clement Massey. Davanti a lui c'è ancora la lettera d'addio che scrisse alla moglie, nella quale narra tutta la tragica vicenda.»
Shaw la prese e, strizzando gli occhi, si sforzò di leggere la scrittura scolorita. «Quindi questo Massey era un rapinatore di treni?» «Sì, voleva impadronirsi di un carico d'oro.» «L'ho visto. Sufficiente per comperare tutta la Banca d'Inghilterra.» «Il piano di Massey era incredibilmente complesso, per quegli anni. Lui e la sua banda dirottarono il treno, facendo segnalazioni con la bandierina al macchinista, su un raccordo fuori uso, chiamato Mondragon Hook. Arrivati là, lo costrinsero a portare il Manhattan Limited su un binario abbandonato da tempo e a entrare nella cava prima che qualcuno dei passeggeri si rendesse conto di quanto stava accadendo.» «A giudicare fin qui, gli era andata fin troppo liscia.» «Sotto parecchi aspetti», ammise Pitt. «Sopraffecero il personale senza difficoltà, perché questa era una parte che avevano provato e riprovato. Ma la sorpresa, per lui, furono i quattro poliziotti armati che dovevano scortare Essex e il trattato fino a Washington. Quando la sparatoria cessò, le guardie erano tutte uccise o ferite e Massey aveva perso tre dei suoi uomini.» «Tuttavia non bastò questo per fermarlo.» «No, infatti. Simulò la sciagura del ponte sull'Hudson, quindi ritornò nella cava e dispose le cariche esplosive che sigillarono l'entrata principale. Fatto questo, aveva a propria disposizione tutto il tempo necessario per impadronirsi dell'oro e svignarsela attraverso l'uscita di sicurezza.» «Ma come sperava di farcela, visto che la galleria era colma d'acqua?» «Il diavolo fa le pentole eccetera eccetera», disse Pitt. «La galleria in questione si trova a un livello superiore rispetto alla parte più bassa della cava, dove si verificò l'allagamento originario e, quando Massey dirottò il Manhattan Limited, la via di scampo era ancora asciutta. Però, dopo aver provocato la frana che bloccò l'entrata, le onde d'urto aprirono crepe sotterranee e l'acqua incominciò a filtrare nella galleria, togliendogli ogni possibilità di fuga e condannando a un'orribile, lenta morte tutti quelli che si trovavano all'interno.» «Poveri cristi», mormorò Shaw. «Devono averci messo settimane, prima di morire di freddo e di fame.» «Strano che Essex e Massey si siano seduti allo stesso tavolo per morire insieme», rifletté Pitt. «Mi chiedo se alla fine non avessero scoperto di avere qualcosa in comune.» Shaw spostò la torcia, in modo da illuminare il viso di Pitt. «Mi dica, signor Pitt, lei è venuto solo fin qui?» «Sì, l'altro sommozzatore è dovuto tornare indietro.»
«Presumo che il trattato lo abbia lei.» Pitt guardò il suo interlocutore oltre l'orlo del giornale, con i suoi imperscrutabili occhi verdi. «La sua ipotesi è esatta.» Shaw levò la mano di tasca e puntò una Beretta calibro 25 contro l'avversario. «Mi rincresce, ma me lo deve consegnare.» «Perché lei lo possa bruciare?» L'altro annuì in silenzio. «Mi dispiace, ma non lo farò», disse Pitt, calmo. «Temo che lei non abbia afferrato bene la situazione.» «Eccome! Anche un cieco vedrebbe che lei ha una pistola.» «Mentre lei non ce l'ha», disse Shaw, sicuro di sé. Pitt si strinse nelle spalle. «Confesso di non aver avuto l'idea di portarmene addosso una.» «Per favore, signor Pitt, il trattato.» «Chi l'ha trovato se lo tiene, signor Shaw.» Shaw esalò un lungo sospiro. «Io le sono debitore della vita, perciò sarebbe un atto deplorevole, da parte mia, se la uccidessi. Però quel documento conta per il mio Paese infinitamente più di un debito di gratitudine personale nei suoi confronti.» «La copia destinata alla Gran Bretagna andò distrutta nell'affondamento dell'Empress of Ireland», ribatté Pitt, parlando adagio. «Questa appartiene agli Stati Uniti.» «Può darsi, ma il Canada appartiene alla Gran Bretagna. E noi non intendiamo cederlo.» «L'impero non durerà in eterno.» «Su India, Egitto, Birmania, limitandomi a citare alcuni possedimenti, non potevamo vantare un diritto di proprietà incondizionata, ma col Canada è diverso: è stato colonizzato e mantenuto in vita dagli inglesi», replicò Shaw. «Lei dimentica la storia, signor Shaw. I primi a occuparlo furono i francesi. Soltanto più tardi vi arrivarono gli inglesi e dopo di loro gli immigranti: tedeschi, polacchi, scandinavi e perfino gli americani che si spostarono al Nord, nelle province occidentali. Il vostro governo teneva in pugno le reclini mantenendo in funzione una struttura di potere retta da persone che non erano nate in Inghilterra, né vi avevano compiuto gli studi. E lo stesso vale per gli altri Paesi del Commonwealth. I governi locali e le grandi società in parecchi casi sono amministrati da indigeni, però gli uomini che detengono il potere decisionale ai più alti livelli vengono mandati
da Londra.» «Un sistema che ha dato ampia prova d'essere valido.» «La geografia e la distanza finiranno con l'abbatterlo», obiettò Pitt. «Nessun governo può imporsi, alla lunga, su un altro, distante migliaia di chilometri.» «Se il Canada esce dal Commonwealth, potrebbero uscirne l'Australia, o la Nuova Zelanda, o perfino la Scozia e il Galles. E io non so pensare a nulla di più deprimente.» «Chi può dire dove correranno tra un migliaio di anni i confini nazionali? O meglio, chi diavolo se ne preoccupa?» «Io me ne preoccupo, signor Pitt. La prego, mi consegni il trattato.» Pitt, invece di rispondere, girò la testa, tendendo l'orecchio. Da una delle gallerie, giungeva, debole, un'eco di voci. «I suoi amici mi hanno seguito attraverso il pozzo d'aerazione», commentò Shaw. «Non c'è più tempo.» «Se lei uccide me, i miei amici uccideranno lei.» «Mi perdoni, signor Pitt.» E gli puntò la canna della pistola diritto in mezzo agli occhi. Uno schiocco assordante risuonò nel tetro silenzio della caverna. Non era la frustata secca d'una Beretta di piccolo calibro, bensì l'abbaiare cupo e fragoroso di una grossa Mauser semiautomatica. Shaw reclinò bruscamente la testa di lato e si afflosciò sulla poltrona. Pitt osservò per un attimo il foro con i margini bruciacchiati al centro del giornale, poi si alzò in piedi, posò la pistola e sollevò Shaw, per deporlo supino sul pavimento. Alzò gli occhi quando Giordino irruppe precipitosamente dalla porta, impugnando davanti a sé un fucile automatico: l'uomo si fermò con un sobbalzo a fissare, sbalordito, la bombetta che Pitt aveva ancora in capo. Soltanto dopo si accorse di Shaw. «È morto?» «La mia pallottola gli ha colpito il cranio di striscio. Ma il vecchio è coriaceo. Un gran mal di testa, un paio di punti e probabilmente si metterà a darmi la caccia per stanarmi e farmi fuori.» «Dove hai trovato l'arma?» «Me la son fatta prestare da lui», e accennò alla mummia che era stata Clement Massey. «Il trattato?» chiese Giordino, col fiato sospeso. Pitt tirò fuori, dalle pagine del giornale, un grande foglio di carta e lo spiegò sotto la luce della torcia.
«Il trattato nordamericano», annunciò gravemente. «Tranne per un foro bruciacchiato tra due paragrafi, è perfettamente leggibile, come il giorno in cui venne firmato.» 84 In un'anticamera del senato canadese, il presidente degli Stati Uniti misurava a passi nervosi il tappeto. Sul suo viso era evidente l'apprensione che lo attanagliava. Alan Mercier e Harrison Moon entrarono e l'osservarono in silenzio. «Qualche notizia?» chiese il presidente. «Nessuna», rispose Mercier, scrollando la testa. Moon sembrava teso e desolato. «L'ammiraglio Sandecker ci ha fatto pervenire un messaggio nel quale esprime il timore che Pitt sia morto annegato nella cava.» Il presidente si afferrò a una spalla di Mercier, come se avesse voluto ricavarne un po' di forza. «Non avevo il diritto di aspettarmi l'impossibile.» «La posta in gioco valeva il rischio», disse Mercier. Il presidente non riusciva a scrollarsi di dosso l'indicibile paura che lo opprimeva. «Tutte le scuse che si accampano per giustificare un fallimento suonano vuote.» Entrò anche Oates, il segretario di Stato. «Il primo ministro e il governatore generale sono arrivati, signor presidente. E i ministri sono già nell'aula ad aspettare.» Nello sguardo spento del presidente si leggeva la sconfitta. «Direi che è suonata l'ora, signori, per noi e per gli Stati Uniti.» La Torre della Pace, alta ottantasette metri, che forma il corpo centrale del palazzo del parlamento, appariva sempre più grande attraverso il parabrezza dell'aereo a decollo verticale mentre s'inclinava in virata verso l'aeroporto di Ottawa. «Se non restiamo imbottigliati nel traffico aereo, fra cinque minuti atterreremo all'aeroporto», annunciò Jack Westler. «Niente aeroporto», obiettò Pitt. «Scendiamo giù sullo spiazzo erboso, davanti al parlamento.» Westler sbarrò gli occhi. «Non posso. Mi toglierebbero il brevetto di pilota.» «Le faciliterò io la discesa.» Pitt tolse la vecchia Mauser dalla valigetta
diplomatica di Richard Essex e ne accostò la bocca all'orecchio del pilota. «E adesso scenda.» «Se spara... se mi spara... precipiteremo», balbettò l'altro, esterrefatto. «E chi ha bisogno di lei?» sogghignò freddamente Pitt. «Ho più ore di volo io di quante ne abbia lei.» A Westler, bianco in faccia più di un lenzuolo, non rimase altra scelta e iniziò la manovra di atterraggio. I turisti che affollavano la piazza per fotografare la pittoresca sentinella della polizia canadese a cavallo levarono la testa udendo il rombo dell'apparecchio e poi, accorgendosi che stava per posarsi, fuggirono disperdendosi a raggiera. Pitt lasciò cadere la pistola sul sedile, aprì lo sportello e balzò fuori prima ancora che le ruote avessero toccato il prato. Si cacciò in mezzo alla folla senza lasciare al poliziotto inchiodato dallo sbalordimento il tempo d'intervenire. Davanti alla porta che dava accesso alla Torre della Pace si pigiavano code di spettatori curiosi di scorgere almeno di sfuggita il presidente americano. Pitt si aprì la strada con l'impeto di un ariete, sordo alle urla delle guardie. Esitò un attimo, quando fu nell'atrio, incerto sulla direzione da prendere. Poi l'occhio gli cadde sui cavi che si snodavano a dozzine sul pavimento. Li seguì correndo a rompicollo, perché sapeva che erano collegati alle telecamere che registravano il discorso del presidente. Era quasi arrivato alla porta dell'aula senatoriale, quando un poliziotto, alto come una roccia, reso ancora più imponente dalla giubba scarlatta dell'alta uniforme, gli sbarrò il passo. «Ehilà, brav'uomo, fermo dov'è!» «Mi conduca dal presidente! Presto!» gli ordinò Pitt. Non appena le ebbe pronunciate, capì che le sue parole dovevano suonare assurde. Il poliziotto lo squadrò, sbalordito nel vedere il suo abbigliamento. Pitt, infatti, aveva avuto a malapena il tempo di togliersi la metà superiore della muta ancora umida e di farsi prestare da Giordino una giacca - di due taglie più piccola - prima di precipitarsi a bordo dell'aereo di Westler. I calzoni erano quelli, umidi, della muta e ai piedi non aveva né calze né scarpe. A un tratto, altri due poliziotti gli si affiancarono, l'uno a destra, l'altro a sinistra. «Perquisitelo, ragazzi. Potrebbe avere una bomba in quella valigetta.» Pitt, su tutte le furie, gridò: «Non c'è niente qua dentro, solo un pezzo di carta». I turisti incominciarono a raccogliersi intorno al gruppetto, scattando fo-
tografie e chiedendosi che cosa stesse succedendo. «È meglio che lo portiamo via di qua», disse il primo poliziotto, strappandogli di mano la valigetta. Pitt non si era mai sentito così disperato. «Per l'amor di Dio, ascoltatemi...» Stava per essere sbattuto fuori senza troppi complimenti quando un tale, vestito con un completo blu, si fece largo tra la folla, lanciò una breve occhiata al presunto terrorista e poi si rivolse al poliziotto grande e grosso. «Qualche problema, agente?» chiese, mettendogli sotto gli occhi un tesserino. «Un facinoroso che tentava di fare irruzione nell'aula del senato...» Pitt si divincolò, liberandosi dai due che lo trattenevano, e si spinse accanto al nuovo arrivato. «Se lei è del servizio segreto, mi aiuti!» Senz'accorgersene, stava urlando. «Calma, amico», disse l'uomo dal completo blu, facendo l'atto di estrarre la pistola dalla fondina appena sotto l'ascella. «Devo consegnare un documento importantissimo al presidente. Il mio nome è Pitt. Mi sta aspettando. Lei deve fare in modo di condurmi da lui.» I poliziotti gli piombarono addosso di nuovo, questa volta lanciando fiamme dagli occhi. L'uomo della CIA alzò una mano per invitarli a fermarsi. «Un momento», disse, squadrando Pitt con aria scettica. «Non potrei condurla dal presidente, neanche volendo.» «Allora mi conduca da Harrison Moon», latrò Pitt, al quale pareva di ammattire per l'assurdità di una simile conclusione. «Moon la conosce?» «Sì! E, per il suo bene, le consiglio di credermi.» Mercier, Oates e Moon, seduti nell'anticamera dell'aula senatoriale, stavano guardando il presidente sullo schermo di un monitor, quando la porta si spalancò e un'orda di agenti del servizio segreto, di poliziotti e di guardie del servizio d'ordine piombò all'interno, come un'onda di maremoto, trascinando Pitt stretto da almeno una dozzina di mani. «Richiamate i cani!» gridò Pitt. «L'ho trovato!» Mercier balzò in piedi, a bocca aperta, troppo sbalordito per reagire con prontezza. «Chi è quest'uomo?» chiese Oates. «Dio buono, è Pitt», riuscì a balbettare Moon, con voce strozzata. Pitt, trattenuto per le braccia e con un occhio già nero per un pugno mol-
lato di sorpresa, accennò con la testa alla vecchia valigetta mal ridotta in mano a uno dei poliziotti. «La copia del trattato è là dentro.» Mentre Mercier garantiva per Pitt e cacciava fuori della stanza poliziotti e uomini del servizio di sicurezza, Oates si mise a leggere il testo del documento. Quand'ebbe finito, parve incerto. «È quello autentico? Voglio dire, non potrebbe trattarsi di un falso?» Pitt crollò, letteralmente, su una seggiola, tastandosi con cautela il gonfiore sotto l'occhio, svuotato di ogni energia: la lunga missione era giunta all'epilogo. «Si tranquillizzi, signor ministro, quella che ha in mano è merce genuina.» Mercier, che aveva chiuso la porta, tornò indietro e sfogliò rapidamente una minuta del discorso del presidente. «Mancano circa due minuti prima che arrivi alla dichiarazione conclusiva.» «Allora glielo dobbiamo recapitare, e in fretta», tagliò corto Moon. Mercier guardò l'uomo sfinito sulla poltrona. «Credo che l'onore debba toccare al signor Pitt. Rappresenta gli uomini che hanno perso la vita per recuperarlo.» Pitt si raddrizzò bruscamente. «Io? Non posso presentarmi ai milioni di spettatori televisivi che stanno seguendo la cerimonia all'interno del parlamento canadese e interrompere il discorso del presidente. Non conciato come uno sbronzo di ritorno da una festa mascherata.» «Non ce n'è bisogno», ribatté Mercier, sorridendo. «Interromperò io il presidente e lo pregherò di venire qui in anticamera. Lei glielo consegnerà qui.» Tra i velluti rosso cupo delle poltrone, nell'aula del senato, i membri del governo canadese ascoltavano, sorpresi, l'invito del presidente americano a iniziare i negoziati per l'unificazione dei due Paesi. Era la prima volta che sentivano ventilare la proposta. Solo Sarveux non mostrava meraviglia, calmo e con il volto imperscrutabile. Un mormorio si diffuse nella sala quando il consigliere presidenziale per la sicurezza nazionale salì i gradini del podio e sussurrò qualcosa all'orecchio dell'oratore. Interromperlo era un atto che andava contro la tradizione e il mormorio indignato era più che comprensibile. «Vi prego di scusarmi per un momento», disse il presidente, rendendo ancora più misterioso l'inaudito procedimento. Si girò e si diresse alla porta che dava sull'anticamera. Quando fu di fronte a Pitt, gli parve di vedere uno scampato all'inferno. Gli andò vicino e lo abbracciò. «Signor Pitt, lei
non può immaginare quanto sono felice di rivederla.» «Mi rincresce di essere arrivato tardi», fu tutto ciò che Pitt riuscì a dire in risposta. Poi si sforzò di abbozzare un sorriso e levò in alto, delicatamente, il preziosissimo foglio. «Ecco il trattato nordamericano.» Il presidente lo prese e ne lesse, attento, il contenuto. Quando alzò di nuovo gli occhi, Pitt fu sorpreso di vederglieli lustri di lacrime. Poi, in uno dei suoi rari momenti di commozione, il presidente degli Stati Uniti mormorò un «grazie» sommesso e uscì. Mercier e Moon si sedettero di nuovo davanti allo schermo. Il presidente riprese il suo posto al leggio. «Chiedo scusa per l'interruzione, ma pochi attimi or sono mi è stato consegnato un documento di grande importanza storica. È il cosiddetto trattato nordamericano...» Dieci minuti più tardi, concluse solennemente: «... e così, da settantacinque anni a questa parte, in virtù delle clausole del trattato di cui ignoravano l'esistenza, gli Stati Uniti e il Canada, pur vivendo come due nazioni separate, ne costituivano, in realtà, per la legge internazionale, una sola». Mercier sospirò di sollievo. «Grazie a Dio non li ha offesi affermando che il Canada ci appartiene.» «Il futuro non ci sarà troppo benevolo se trascureremo l'immenso potenziale che ci è stato offerto dai predecessori che hanno guidato i nostri due Paesi», continuò il presidente. «Non dobbiamo vivere più separati come in passato. Non ci dobbiamo più considerare anglo-canadesi, o angloamericani, o franco-canadesi, o messicano-americani. Ci dobbiamo considerare soltanto americani. Perché è questo ciò che siamo: nordamericani...» I ministri del governo centrale e i capi dei governi provinciali manifestavano, nell'atteggiamento, un'intera gamma di emozioni contrastanti. Alcuni, immobili, ardevano di collera, altri erano immersi nelle proprie riflessioni, altri ancora annuivano, mostrandosi convinti. Era chiaro che il presidente non agitava il trattato sulle loro teste come un randello. Non avanzava richieste né proferiva minacce. Però non dubitarono neppure un istante che il potere era tutto nelle sue mani. «... La storia dei nostri due Paesi è strettamente intrecciata, i nostri due popoli sono straordinariamente simili nella mentalità e nel modo di vita. L'unica differenza fondamentale risiede nel punto di vista dal quale guardiamo la tradizione... Le province del Canada, se decidessero di procedere per strade separate, affronterebbero un percorso lungo e arduo, che può
terminare soltanto con il reciproco scontro. E questo, per il bene comune, non deve accadere. Di conseguenza, vi lancio un appello affinché vi uniate a me nell'edificare la nazione più potente del mondo... gli Stati Uniti del Canada.» Il discorso del presidente fu accolto da applausi isolati e piuttosto tiepidi, nell'aula del senato. Gli ascoltatori erano storditi e si chiedevano come andasse accolta la proposta di formare una sola nazione. Ma l'impensabile, se non altro, era stato detto apertamente. Mercier sospirò e spense il televisore. «Be', è incominciata», commentò piano. Oates annuì. «Per fortuna il trattato è arrivato qua in tempo. Altrimenti avremmo assistito con molta probabilità a un disastro politico.» Si girarono tutti insieme, istintivamente, per dire un grazie all'uomo che aveva fatto tanto per meritarsi la loro gratitudine. Ma Dirk Pitt dormiva come un sasso. 85 La Rolls-Royce del primo ministro si fermò davanti al mastodontico aereo a reazione che portava lo stemma presidenziale. Gli agenti del servizio segreto uscirono dall'automobile di scorta e si collocarono discretamente intorno alla rampa di accesso. All'interno, Sarveux si sporse in avanti ed estrasse dallo schienale del sedile anteriore un tavolino ribaltabile in legno di noce. Poi aprì uno stipetto, ne levò una bottiglia di cristallo e due piccoli calici e versò in ciascuno due dita di whisky Seagrams Crown Royal. «Alla salute di due vecchi, intimi amici che hanno percorso insieme un lunghissimo cammino.» «Sì, puoi ben dirlo», confermò il presidente, con un leggero sospiro. «Se qualcuno scoprisse come noi due abbiamo tramato in segreto, tutti questi anni, per formulare il concetto di un'unica nazione, potremmo essere fucilati entrambi per alto tradimento.» Sarveux sorrise stancamente. «Forse interdetti da qualsiasi carica pubblica, ma sicuramente non fucilati.» Il presidente centellinava il suo whisky, pensieroso. «Strano come un colloquio occasionale, scambiato tanti anni fa davanti al caminetto acceso in un capanno di caccia, tra un giovane deputato al parlamento e un senatore di fresca nomina, possa cambiare il corso della storia.»
«Il momento e il luogo giusti per l'incontro casuale di due uomini che avevano in comune lo stesso sogno», disse Sarveux, con la mente rivolta al passato. «La fusione degli Stati Uniti e del Canada è inevitabile. Quando, lo ignoro: forse tra due anni, forse tra duecento. Noi due abbiamo collaborato semplicemente per accelerare i tempi.» «Spero che non dovremo arrivare a rimpiangerlo.» «Non è certo il caso di rimpiangere l'unificazione di un mezzo continente, con una superficie e una popolazione di poco inferiori a quelle dell'Unione Sovietica. Ed è probabile che in questa soluzione ci sia la salvezza per entrambi i Paesi.» «Gli Stati Uniti del Canada», disse Sarveux. «Mi piace il suono di queste parole.» «Come prevedi il futuro?» «Le province marittime, vale a dire Terranova, la Nuova Scozia e New Brunswick, adesso sono tagliate fuori dal resto del Canada da un Quebec indipendente. I prossimi mesi, comprenderanno di servire nel migliore dei modi i propri interessi reclamando a loro volta l'annessione a parità di diritti. Il Manitoba e il Saskatchewan le imiteranno. Una decisione facile per loro, dacché hanno mantenuto sempre forti legami con i vostri Stati agricoli nordoccidentali. Poi, a mio vedere, sarà la Columbia britannica ad aprire i negoziati e allora, persi i porti oceanici del Pacifico e dell'Atlantico, le restanti province a una a una faranno lo stesso.» «E il Quebec?» «Inizialmente i franco-canadesi esulteranno per la conquistata indipendenza. Ma poi, sbolliti gli entusiasmi sotto la doccia fredda delle gravi, inevitabili difficoltà economiche, finiranno con l'accettare l'integrazione, convinti che tutto sommato sarà per loro un buon affare.» «E la Gran Bretagna? Come reagiranno gli inglesi?» «Come hanno reagito nel caso dell'India, del Sudafrica e delle altre colonie. Con un riluttante addio.» «Quali sono i tuoi progetti personali?» «Mi presenterò candidato alla presidenza del Quebec.» «Non t'invidio. Sarà una battaglia dura e sporca.» «Lo so, ma, se la vinco, la vinciamo noi due. Il Quebec compirà un passo verso l'unione. E, cosa da non dimenticare, sarò in grado di garantire il rifornimento di energia elettrica dalla centrale di James Bay; inoltre farò sì che siate inclusi nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi che avete
scoperto di recente nella baia di Ungava e ne ricaviate il meritato beneficio.» Il presidente depose il bicchiere vuoto sul tavolino e guardò Sarveux. «Mi rincresce per Danielle. Non mi è stato facile rivelarti la sua relazione con Villon. Non sapevo come l'avresti presa e mi chiedevo perfino se mi avresti creduto.» «Ti ho creduto», disse Sarveux, tristemente. «Ti ho creduto perché sapevo che era la verità.» «Se almeno ci fosse stato un modo diverso...» «Non c'erano altri modi.» Non avevano più niente da dirsi. Il presidente aprì la portiera della macchina. Sarveux lo trattenne per un braccio. «Rimane ancora una questione da definire tra noi.» «Quale?» «Il trattato nordamericano. Se tutti gli altri tentativi fallissero, costringeresti il Canada a rispettarne le clausole?» «Senza dubbio», dichiarò il presidente, con un lampo risoluto negli occhi. «Ormai non si torna più indietro. Se fosse necessario, non esiterei a imporne l'osservanza.» 86 A New York pioveva: uno di quei rovesci cui è avvezza la città, che strappano le foglie dagli alberi e rallentano il traffico nelle ore di punta, costringendo le macchine ad avanzare in file chilometriche a passo di lumaca. Pioveva quando Heidi entrò, zoppicando, nella sala partenze dell'aeroporto Kennedy; indossava un impermeabile blu sopra l'uniforme e da sotto il berretto bianco le sfuggivano ciocche di capelli bagnati. Lasciò cadere sulla moquette una grande sacca a tracolla e, appoggiandosi cautamente sulla gamba sana, sedette su un sedile libero. Dopo gli eventi turbinosi delle ultime settimane, la prospettiva di riprendere il servizio abituale la deprimeva. Non aveva più visto Pitt dal giorno che si era precipitato a Ottawa e i Marines messi a guardia di Brian Shaw non le avevano permesso di avvicinarglisi mentre lo caricavano, privo di sensi, sull'ambulanza che lo avrebbe trasportato in un ospedale militare. Nell'agitazione del momento, Heidi era stata quasi dimenticata. Soltanto grazie alla sollecitudine dell'ammiraglio Sandecker, era stata condotta in auto fino a New York, per una ben meritata notte di riposo al Plaza Hotel,
e le era stato prenotato un volo in prima classe fino alla sua base di San Diego per il giorno successivo. Guardava oziosamente dalla finestra la pioggia che formava laghetti sulle piste, nelle quali si riflettevano le luci multicolori. Se fosse stata sola, si sarebbe abbandonata al sollievo di un pianto ristoratore. Ripensando alle carezze di Shaw, ne provava un desiderio irresistibile. Quell'uomo si era insinuato subdolamente nella sua vita e lei provava risentimento per l'amore che le aveva carpito, tuttavia non provava rimorsi; era soltanto arrabbiata con se stessa per non essersi saputa controllare. Cieca e sorda alla folla che le mulinava intorno, tentava di scacciare dalla mente i sentimenti e la vergogna che la rodeva per le proprie azioni delle settimane appena trascorse. «Ho già visto prima d'ora creature tristi, ma lei, signora, merita il primo premio», disse una voce familiare. «È così evidente?» chiese, meravigliandosi di poter parlare con tanta calma. «Come una nuvola nera su un cielo rosso al tramonto», rispose Pitt col suo sorriso malizioso. Era vestito sportivamente, con una giacca blu da yachtman e una camicia col collo aperto: la guardava dall'alto di un enorme mazzo di fiori. «Non avrai pensato che ti avrei permesso di svignartela senza un arrivederci?» «Almeno qualcuno si è ricordato di me», mormorò Heidi, che si sentiva smarrita, stanca e ferita nell'amor proprio. «Non farci caso se sono insopportabile. Questa è la mia serata dell'autocommiserazione.» «Spero che questi ti aiutino.» Le depose i fiori in grembo. Il mazzo era tanto grande che lei stentava a vedere oltre. «Sono splendidi», disse Heidi. «Credo che adesso mi metterò a piangere.» «No, te ne prego.» Pitt rise piano. «Ho sempre desiderato svaligiare la bottega d'un fiorista per fare un omaggio a una bella ragazza. Se mi metti in imbarazzo, non lo farò mai più.» Heidi attirò Pitt verso di sé e lo baciò sulla guancia, facendosi forza per trattenere le lacrime. «Grazie, Dirk. Sei sempre stato il mio amico più caro.» «Un amico?» Si finse offeso. «È questo tutto ciò che posso aspettarmi da te?» «Potremo mai essere qualcosa di diverso l'uno per l'altra?» «No... ritengo di no.» Le prese una mano, un'espressione colma di dolcezza in volto. «Strano che due persone che s'intendono così bene non rie-
scano a cadere innamorate l'uno dell'altra.» «Nel mio caso è stato per via di un terzo.» «Ah, la volubilità femminile!» esclamò lui. «Spasimano per il tipaccio che le tratta come spazzatura e tuttavia finiscono con lo sposare il brav'uomo tranquillo.» Heidi ne evitò lo sguardo e tenne gli occhi fissi fuori della finestra. «Noi due non abbiamo mai imparato a nascondere i nostri sentimenti.» «Shaw ti ama?» «Ne dubito.» «E tu lo ami?» «Quando si tratta di Brian, non posseggo più il mio equilibrio e non so valutare la realtà. Lo amo per tutto il bene che mi fa. Ci siamo consumati a vicenda. Io per le mie ragioni, lui per le sue. Se mi volesse, correrei al suo richiamo. Ma non succederà mai.» «Ecco che rispunta la faccia tutta tristezza», disse Pitt. «Io, però, non intendo mandare una femmina piagnucolante a bordo di un aereo. Non mi lasci altra scelta se non di rallegrarti con uno dei miei trucchi magici.» Heidi, con gli occhi umidi, non poté trattenere una risatina. «Da quando in qua pratichi la magia?» Pitt assunse un'aria di simulato risentimento. «Come, non hai mai sentito parlare di Pitt il Magnifico, il famoso illusionista?» «No, mai.» «Tanto peggio per te, miscredente. Chiudi gli occhi.» «Smettila di scherzare.» «Tu chiudi gli occhi e conta fino a dieci.» Heidi si decise a obbedirgli. Quando li riaprì, Pitt era scomparso e al suo posto sedeva Shaw. Il pianto sino allora trattenuto ruppe le barriere mentre lo abbracciava e le scese in grossi lacrimoni sulle guance e sul mento. «Pensavo che ti avessero messo al fresco», balbettò tra i singhiozzi. Shaw sollevò l'impermeabile che teneva ripiegato sulle ginocchia e le mostrò le manette. «È stato Pitt a brigare perché potessi venire qui.» Lei sfiorò teneramente la benda che s'intravedeva da sotto il berretto di tweed. «Stai bene?» «Il difetto visivo delle immagini doppie è quasi scomparso», rispose lui, sorridendo. Dall'altoparlante risuonò l'annuncio che invitava i passeggeri diretti a San Diego a imbarcarsi.
«Che cosa ne sarà di te?» chiese Heidi, che non avrebbe voluto lasciarlo. «Immagino che dovrò trascorrere un po' di tempo in una delle vostre prigioni federali.» «Mi daresti della sciocca sentimentale se ti dicessi che ti amo?» «Mi daresti del bugiardo se ti ripetessi la stessa cosa?» «No.» E avvertì un sollievo indicibile perché sapeva che non stava mentendo. «Ti prometto che un giorno saremo insieme», affermò Shaw, serio. Ma non avebbe mai potuto essere così. Una certezza per lei straziante, che le procurò un dolore fisico nel petto. Si alzò, sussurrando: «Devo andare». Shaw le lesse la sofferenza nello sguardo e la comprese. L'aiutò ad alzarsi e le porse le grucce. Si avvicinò una hostess servizievole e prese la sacca di Heidi e il mazzo di fiori. «Addio, Heidi.» Lo baciò leggermente sulle labbra. «Addio.» Dopo che la donna ebbe varcato il cancello d'imbarco, Pitt ricomparve e si affiancò a Shaw. «Una gran brava ragazza», disse. «Peccato perderla.» «Sì, una gran brava ragazza», riconobbe l'altro, malinconicamente. «Se non si sbriga, partirà senza di lei.» Shaw lo guardò stupito. «Che sta dicendo?» Pitt gl'infilò una busta nel taschino della giacca. «La sua carta d'imbarco e il biglietto. Le ho fatto assegnare il posto accanto a lei.» «Ma io sono in arresto, come agente nemico», ribatté Shaw, con la mente in subbuglio. «Il presidente mi deve un favore.» «È informato di quello che sta facendo?» «Non ancora.» Shaw scrollò il capo, disapprovando. «Lasciandomi libero, si andrà a cacciare nei guai.» «Ci sono già stato altre volte.» Pitt gli porse la mano. «Non dimentichi che mi aveva promesso d'insegnarmi a giocare a backgammon.» Shaw gli restituì la stretta con tutt'e due le mani. Poi le sollevò, mettendo in vista i braccialetti d'acciaio. «Molto fastidiosi, questi affari.» «Per un agente segreto dovrebbe essere un gioco da bambini toglierseli.» Shaw eseguì una serie di movimenti al riparo dell'impermeabile. Poi, con le mani libere, gli consegnò le manette. «Sono un tantino arrugginito.
Una volta ero molto più svelto.» «James Bond sarebbe stato orgoglioso di lei», disse Pitt, sarcastico. «James Bond?» «Sì, ho sentito dire che eravate molto amici.» Shaw sospirò. «Bond non è che un personaggio da romanzo giallo.» «Davvero?» Shaw alzò le spalle, poi fissò Pitt piuttosto a lungo. «Perché si prodiga tanto, dopo tutto il male che ho fatto a Heidi?» «Heidi l'ama», rispose semplicemente Pitt. «E a lei, che gliene viene?» «Niente che vada ad aumentare il mio conto in banca.» «Perché, allora?» «Perché mi diverte fare cose che escono dall'ordinario.» Prima che Shaw avesse il tempo di replicare, Pitt si era girato, mescolandosi alla folla che affluiva nell'atrio. La pioggia era cessata. Pitt abbassò la capote della Cobra convertibile e si diresse verso le luci di New York, che mandavano bagliori spettrali contro la coltre delle nuvole incombenti. Un vento leggero gli scompigliò i capelli e lui aspirò a pieni polmoni la fragranza leggera dell'erba bagnata, che saliva dai campi lungo l'autostrada. Strinse forte il volante, premette l'acceleratore a tavoletta e osservò l'ago del tachimetro che si spostava lentamente sul rosso. FINE