THOMAS COOK PROFONDO NERO (Sacrificial Ground, 1988) Per Roux Sorden-Martin che è rimasto un mattacchione nonostante gli...
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THOMAS COOK PROFONDO NERO (Sacrificial Ground, 1988) Per Roux Sorden-Martin che è rimasto un mattacchione nonostante gli anni siano passati Dopo la prima morte, non ce ne sono altre. Dylan Thomas 1 Scolò il bicchiere di bourbon e si lanciò un'occhiata alle spalle, verso la pista da ballo. La musica si era addolcita e i ballerini si muovevano languidamente al ritmo country di Waylon Jennings. Sopra di loro, cadevano fasci di luce gialla che li avvolgevano come una ragnatela. In altri punti del locale, le luci al neon rosa e azzurre formavano immagini che ricordavano i cappelli da cowboy e il bestiame delle praterie. Frank si girò e picchiò il bicchiere vuoto sul bancone. Il barista si avvicinò. Indossava una vivace camicia rossa con la parte superiore riccamente decorata di perline colorate. «Un altro bourbon?» chiese. Frank fece un cenno con il capo. Il barista gli riempì il bicchiere e si allontanò. Frank bevve un sorso e poi fece ruotare lo sgabello. Il Bottom Rail non era decisamente il suo locale preferito, ma il bourbon costava poco, la musica era assordante e il fumo fitto e soffocante. Oltre la pista da ballo aveva notato un uomo robusto con la barba intento a fumare un Mississippi Crook. Era un sigaro di forma irregolare e bagnato di whisky e Frank non ricordava di averne visti altri da quando, diciotto anni prima, aveva abbandonato la campagna dell'Alabama per trasferirsi ad Atlanta. A quei tempi, insieme con gli amici, si divertiva con un gioco che avevano chiamato «fuma-fuori». Sei persone dovevano chiudersi in macchina, in una calda giornata estiva, e continuare a fumare Mississippi Crook fino a quando qualcuno scoppiava e scendeva dall'auto in cerca di un po' d'aria. A quei tempi l'estate non sembrava tanto terribile. C'erano sempre i freschi ruscelli di montagna e le macchie di pini sotto le quali riposarsi. A quel ricordo,
Frank scosse la testa. Ad Atlanta, invece, l'estate si trasformava in un insopportabile incubo, con una cappa di aria calda e immobile che l'asfalto, il cemento e le torri di cristallo delle città rendevano ancora più opprimente. Sua figlia era stata ritrovata in estate, tre anni prima. Sarah aveva solo sedici anni, ma il suo corpo si era annerito e gonfiato dopo pochi giorni trascorsi nel bosco. Da lontano era sembrata grande almeno il doppio: un'enorme bambola nera con gli abiti di sua figlia. Sarah aveva parcheggiato l'auto nei pressi del fiume e aveva girovagato per parecchi chilometri all'interno del bosco, alla ricerca dell'angolo giusto in cui morire. Suicidio. «È meglio che tu non la veda,» gli aveva consigliato Alvin mentre si avvicinavano al luogo del ritrovamento. «Sai bene come vanno queste cose.» Ma Frank era corso avanti e l'aveva trovata, una massa gonfia che si decomponeva sotto il caldo soffocante. Si era inginocchiato e aveva notato che gli animali avevano già fatto festa con le sue mani. Frank si alzò lentamente e vide la stanza che gli ruotava attorno. Afferrò lo sgabello e cercò di recuperare l'equilibrio, poi si diresse verso i tavolini, dall'altra parte del locale. Sentiva il whisky che gli scorreva nelle vene, gli scendeva nelle mani. Sembrava quasi che quel liquido scuro si fosse mescolato al suo stesso sangue. Le gambe si stavano muovendo, se ne rendeva perfettamente conto. Non erano completamente paralizzate e riuscirono a trascinare in qualche modo il suo corpo dall'altra parte della stanza. Persino la musica country rock proveniente dal juke box sembrava essersi smorzata, come se la puntina stesse per bloccarsi. Si sedette e riprese a guardarsi attorno. C'era il solito gruppo eterogeneo di avventori: dai ragazzi di campagna appena giunti in città ai giovani agenti di Borsa che sventolavano le proprie carte di credito come gli altri facevano con i coltelli. Tutti visi familiari. C'erano un operaio che cercava compagnia per la notte con una vecchia ubriacona che non si reggeva neppure in piedi, un tizio biondo tutto pelle e ossa che probabilmente aveva appena finito di litigare con qualcuno a Cabbagetown e, dall'altra parte del locale, in un angolo buio, un relitto umano, silenzioso e in preda all'agitazione. Intontito dall'alcol, Frank scosse la testa. «Il Regno Animale,» mormorò. Erano le tre parole con cui era solito descrivere la vita. Comunque, anche se non era il massimo, quel locale non era neppure una schifezza. Frank continuava a preferire le serate oziose trascorse in un bar dell'angolo allo squallido tran tran quotidiano di suo fratello Alvin. Per un attimo, gli apparve la figura di Alvin, con pochi capelli e decisamente
sovrappeso: l'immagine perfetta della bontà leggermente stupida ma persistente. Era sempre stato il fiore all'occhiello di loro padre, l'esempio vivente della rettitudine. Riusciva a sorbirsi quelle interminabili funzioni religiose senza mostrare il benché minimo segno di incredulità. Frank ricordava ancora la severità con cui la sua dissolutezza veniva paragonata alla perfetta rettitudine di Alvin e di come, per tutta la vita, avesse interpretato il ruolo di Caino accanto a un Abele senza macchia. Alvin si muoveva tra i banchi della chiesa come un coraggioso Shawnee urlando e strillando nelle lingue sacre, mentre la congregazione fremeva e strisciava sul pavimento della chiesa. Il padre lo aveva soprannominato Abednego, dal nome di un profeta che camminava sui carboni ardenti senza provare alcun dolore. Un giorno si era girato verso Frank e gli aveva detto: «Tu sei Daniele, colui che doma i leoni.» Frank era sicuro che Daniele fosse davvero capace di domare i leoni, ma, per quanto riguardava lui, non era mai riuscito a tenere a bada nulla: non solo un leone affamato, ma neppure il suo stomaco o il suo spirito ribelle. Sentì la testa farsi improvvisamente pesante e decise di appoggiarla sul tavolo. Gli saltarono subito all'occhio le parole incise sul tavolo di legno: nomi e iniziali, frasi oscene e battute volgari. Poi chiuse gli occhi. Quando li riaprì, si rese immediatamente conto che l'atmosfera del bar era diversa. Erano rimasti solo i vagabondi: chi aveva famiglia se n'era già andato a casa e chi aveva trovato compagnia si era cercato un luogo più appartato. I pochi rimasti avevano un'aria imbronciata e tetra, e l'umore si faceva sempre più nero con il passare del tempo. Avrebbe voluto andarsene, ma si accorse che le gambe erano ancora intorpidite. Chiuse gli occhi per un attimo, poi li spalancò di colpo. Non voleva perdere i sensi e farsi buttare fuori, sul marciapiede, come un sacco di stracci. Era quello che avevano previsto per lui Alvin, Sheila, la sua ex moglie, e innumerevoli altri individui di indole assolutamente retta. Lentamente, si alzò barcollando e si diresse faticosamente verso il banco. Il barista gli si avvicinò. «Stiamo per chiudere,» gli disse. «Vuole che le chiami un taxi3» «No,» rispose Frank. «D'accordo,» tagliò corto il barista accompagnandolo alla porta che dava sul retro. «Cerchi di stare attento,» gli raccomandò. Poi tornò nel bar e chiuse la porta. Frank rimase in piedi nel vicolo, assolutamente immobile. Un lampione lontano gettava una fioca luce grigiastra nel punto esatto in cui si trovava,
ma il debole riverbero era sufficiente per fargli male agli occhi. Si diresse dalla parte opposta, incespicando continuamente lungo il vicolo immerso nell'oscurità. Per quella che gli parve un'eternità, non udì altro che i suoi passi strascicati sulla ghiaia. Poi, una voce. «Dove stai andando, amico?» Improvvisamente scorse due visi: uno vicinissimo al suo e il secondo immerso nell'oscurità. «Ti ho chiesto dove stai andando.» Frank non rispose e la voce riprese a parlare, in un tono ancora più brusco. «Non hai speso tutti i soldi in whisky, vero, amico?» «A casa,» mormorò Frank, rispondendo alla prima domanda. «Come hai detto?» Ma prima che potesse ripetere quello che aveva detto, Frank si sentì spingere all'indietro con una forza inaudita. Fu colpito da un pugno, poi da un altro e alla fine si ritrovò con la schiena contro il muro. Continuarono a colpirlo con violenza allo stomaco e i pugni erano talmente forti da risuonare nella notte silenziosa. «Tiralo su!» Sentì due enormi mani che lo afferravano per il soprabito, sbattendolo di nuovo contro il muro. «Frugagli le tasche.» La gragnuola di colpi era cessata e Frank sentì la testa che ciondolava mentre il corpo iniziava a scivolare lentamente verso terra. Un'altra voce esclamò: «Sei fottuti dollari.» «Rimettilo in piedi.» Si sentiva scivolare lungo il muro, con la schiena che sfregava sulla superficie irregolare. «Ecco fatto.» Si rese conto di essere di nuovo in piedi e avvertì il pugno che lo colpì inesorabile e violento in pieno volto. Riuscì persino a sentire il fruscio dell'aria smossa dal rapido movimento della mano, le voci intorno a lui e il gemito smorzato e inutile che gli si era spento in gola. Quei rumori gli risuonarono nelle orecchie fino a quando un oggetto di metallo gli cadde dalla tasca, finendo per terra con uno strano rumore di ferraglia. «Oh, Cristo,» disse una voce. Subito si rese conto che se n'erano andati, lasciandolo sdraiato per terra,
nel vicolo. Aprì un occhio, poi l'altro e capì perché si erano spaventati. Vide l'oggetto che gli era caduto dalla tasca e che ora scintillava sul marciapiede. Socchiuse gli occhi per metterlo a fuoco e riuscì a scorgerne i contorni, ma non la scritta: POLIZIA DI ATLANTA. 2 Erano le quattro del mattino quando suonò il telefono, ma Alvin Clemons non fece assolutamente nulla per rispondere. Squillò una seconda volta, poi una terza, e alla fine Mildred allungò una mano verso il comodino, accese la luce e afferrò il ricevitore. «È per te,» gli disse, battendo leggermente sulla spalla del marito. Alvin si girò sulla schiena e prese la cornetta. «Sì?» La voce dall'altra parte del filo apparteneva a Fred Pitman, un tenente della Squadra Omicidi che faceva il turno di notte alla Centrale di Somerset Tenace. «Si tratta di Frank,» disse Pitman. «Di nuovo. Solo che questa volta qualcuno l'ha conciato per le feste.» Alvin si mise a sedere. «L'hanno picchiato?» «Esatto,» rispose Pitman. «Proprio fuori del Bottom Rail, quel locale dalle parti di Glenwood.» «Santo cielo,» mormorò Alvin, lanciando un'occhiata a Mildred, che scosse la testa con aria rassegnata. «Ci sono due agenti con lui,» continuò Pitman. «Sono solo due reclute, ma sanno tenere la bocca chiusa.» «Bene,» disse Alvin, «assicurati che lo facciano sul serio. Sarò lì fra venti minuti.» Riappese e scese dal letto. «Qualcuno l'ha picchiato, Alvin?» chiese Mildred. Alvin prese la camicia appesa al pomolo dell'armadio. «Già.» «Sheila ha fatto bene a lasciarlo,» disse Mildred. «Credo di sì,» replicò Alvin. Si allacciò i primi due bottoni, sperando che Mildred la smettesse. «Un giorno dovrai farlo anche tu, Alvin,» continuò. «Voglio dire, lasciarlo perdere.» Finì di abbottonarsi la camicia e afferrò i pantaloni. «È mio fratello, Mildred.» «E tu hai fatto tutto il possibile per aiutarlo,» esclamò Mildred. «L'hai
fatto venire ad Atlanta e sei riuscito a trovargli un lavoro alla polizia. Che cos'altro si aspetta, eh? Che cosa?» «Sua figlia si è ammazzata,» mormorò Alvin, fissando la moglie negli occhi. «Non so come mi comporterei io se mai Maryann dovesse fare una cosa del genere.» «Era già su una brutta strada,» disse Mildred, con aria disgustata. Alvin si allacciò la cintura, afferrò la pistola appoggiata sulla mensola dell'armadio e uscì dalla stanza. «Rimettiti a dormire,» le disse mentre chiudeva la porta. «Ti chiamerò quando saprò qualcosa di più preciso.» Mildred fece un gesto con la mano. «Non disturbarti.» Il tragitto da Decatur fu più lungo del previsto, ma quando arrivò nel vicolo, i due agenti lo stavano ancora aspettando. Uno fumava una sigaretta, mentre il secondo beveva una lattina di Pepsi. Quando videro Alvin che scendeva dalla macchina, si ricomposero rapidamente e gli si avvicinarono. «Come sta?» chiese Alvin. «L'hanno picchiato per bene,» rispose uno degli agenti. «L'abbiamo fatto sedere in macchina.» Alvin si chinò e guardò dentro la macchina della polizia. Vide Frank, raggomitolato sul sedile posteriore, con le braccia attorno alle ginocchia portate al petto. «Santo cielo,» esclamò Alvin. «Non ha voluto che lo portassimo al pronto soccorso,» spiegò uno degli agenti. Alvin lanciò un'occhiata al distintivo sull'uniforme: Billings. «Lavori con noi da molto tempo?» gli chiese. «Nossignore,» rispose Billings. Alvin annuì. «Hai fatto bene a chiamare la Squadra Omicidi. Dovrà rimanere una questione fra di noi.» Billings si frugò in tasca e ne estrasse un distintivo. «L'abbiamo trovato per terra. È per questo che l'abbiamo informata immediatamente.» Alvin prese il distintivo e se lo mise in tasca. «Grazie, vi sono molto grato.» Aprì lo sportello posteriore dell'auto e aiutò Frank a scendere, cercando di farlo stare in piedi. «Vieni, fratellino,» mormorò. «Lascia che ti accompagni a casa.» Era quasi l'alba quando Alvin riuscì a trascinare Frank su per le scale, depositandolo infine sul divano verde pieno di macchie che si trovava al
centro del soggiorno. Era una stanzetta squallida, con i muri scrostati e il pavimento di linoleum. Non c'erano quadri alle pareti, né tende alle finestre: solo delle persiane che pendevano a sinistra e sbattevano quando soffiava il vento. «Dovresti dare una ripulita a questa casa, Frank,» disse Alvin, andando in cucina a prendere uno straccio bagnato e iniziando a tamponare delicatamente le ferite sul viso del fratello. Frank allontanò la mano di Alvin. «Basta con queste stronzate da buon samaritano, Alvin.» Fece un cenno con il capo in direzione della sedia di fronte al divano. «Siediti. Rilassati. Sto bene.» «No, non è vero,» disse Alvin. Porse lo straccio bagnato a Frank. «Allora arrangiati da solo.» Frank lo afferrò e se lo appoggiò sull'occhio pesto e dolorante. «Grazie per essere venuto a recuperarmi,» disse in tono pacato. Alvin annuì distrattamente. «Che cos'è successo?» Frank si strinse nelle spalle. «Erano parecchi. Ma me ne occuperò io.» Alvin si sporse in avanti. «No, Frank. Puoi fare solo due cose: o compili una denuncia e lasci che se ne occupi il dipartimento, ma intendo una denuncia formale, con tanto di firma, oppure lasci perdere tutto.» Scosse la testa, esasperato. «Domani mattina puoi anche presentarti alla Centrale conciato come se ti avesse investito un pullman. E va bene: nessuno ti farà domande. Ce ne occuperemo noi. Ma andare a cercare quegli uomini mi sembra decisamente troppo, Frank. Sei già in una posizione difficile e ti assicuro che al dipartimento sarebbero felici di cacciarti via al minimo passo falso. Potremmo dire che stanno solo aspettando una buona ragione per farlo.» Frank distolse lo sguardo e fissò stancamente la lampadina che pendeva dal soffitto della minuscola cucina. «Sei una brava persona, Frank,» riprese Alvin con tono gentile, «ma sei troppo debole. Ricordati quello che diceva sempre papà: 'Al mondo non esiste persona più debole di un uomo forte che non riesce a controllarsi.'» Frank tornò a guardare il fratello, ma non disse nulla. «Quello che voglio dire è che in qualche modo dovresti cercare di non piantare sempre le cose a metà, Frank,» continuò Alvin. «Devi imparare a portare a termine quello che inizi. Capisci che cosa voglio dire? Sei andato alla scuola serale per tre anni e sei diventato matto per farcela. Poi, hai deciso di mollare tutto.» Scosse la testa. «Hai sposato Sheila.» Lo guardò leggermente di traverso. «Per quanto tempo siete stati sposati? Diciotto,
diciannove anni?» «Venti,» rispose Frank. «E dopo tutto quel tempo avete divorziato.» «Quando ci siamo sposati io avevo diciannove anni e lei diciassette, Alvin,» disse Frank. «E allora? Il problema è sempre lo stesso,» proseguì Alvin. «Tu pianti le cose a metà.» Frank si passò la pezza bagnata sul collo. Avvertì una sensazione di gelo che contrastava con la calura che cominciava a farsi sentire. Alvin guardò Frank direttamente negli occhi. «Sheila non era una cattiva moglie,» disse. «Okay, forse non eravate fatti l'uno per l'altra, ma credi che sia facile trovare l'anima gemella, Frank? Devi crescere!» Lanciò un'occhiata alla stanza e notò il disordine che vi regnava. «Almeno mandava avanti la casa e ti preparava qualcosa di caldo quando tornavi, dopo il lavoro.» «Il matrimonio non è solo questo, Alvin.» «E tu oseresti chiamare vita questo tuo modo di andare avanti?» «Non è così terribile,» rispose Frank con tranquillità. Si alzò, si diresse verso la finestra e aprì le persiane. «Oggi sono di servizio alle otto.» «Io invece sono di turno al pomeriggio,» disse Alvin con aria stanca. Frank fissò le persiane e tornò sul divano. «Come sta Mildred?» chiese. «Non c'è male,» rispose Alvin. «Dice che forse dovrei lasciarti perdere, come ha fatto Sheila.» Frank si strinse nelle spalle. «Be', forse sarebbe la cosa migliore, Alvin. Cioè, oh, al diavolo!» Si schiarì la voce e poi riprese, cambiando argomento: «Come sta Maryann?» «Bene,» rispose Alvin. «Ora esce con un giocatore di football.» Si mise una mano in tasca, prese il distintivo e lo lanciò a Frank. «Gli agenti l'hanno trovato nel vicolo.» Frank lo appoggiò sul tavolino accanto al divano. «Dovrò ringraziarli.» «Dov'era la pistola di ordinanza?» chiese Alvin in tono esplicito. «L'avevo lasciata a casa.» «Dovresti portarla sempre con te.» «Non credo che sia una buona idea, nel mio caso.» «Avrebbe potuto risparmiarti un bel po' di pugni.» «O magari farmi finire dentro, con l'accusa di omicidio, se solo avessi sparato a uno di quei teppisti.»
«Comunque è il regolamento, Frank,» tagliò corto Alvin. «La prossima volta, ricordati di prenderla.» Si alzò. «Ora è meglio che vada a casa.» Guardò l'orologio. «Forse riuscirò ancora a fare un sonnellino.» Suonò il telefono mentre Frank accompagnava il fratello alla porta. Rispose al primo squillo. Era Pitman dalla Centrale, che lo chiamava prima di smontare. «Te la senti di lavorare?» chiese Pitman. «Certo.» «Abbiamo trovato un corpo dalle parti di Glenwood. Passi tu a darci un'occhiata?» «D'accordo,» rispose Frank. Prese un taccuino e scrisse l'indirizzo che gli stava fornendo Pitman. «Sei sicuro di farcela, Frank?» chiese Pitman. «Sì, sto bene,» rispose Frank, cercando di mettere un pizzico di vivacità nella voce. «Sono solo un po' ammaccato.» Riappese e guardò Alvin che era rimasto fermo sulla porta. «Che cosa c'è?» chiese Alvin. «Un cadavere.» Alvin sorrise stancamente. «Oh,» esclamò, «tanto per cambiare.» Caleb Stone era già sul luogo del ritrovamento quando arrivò Frank. Era uno dei più anziani del dipartimento ed era pieno della saggezza tipica di chi conosce alla perfezione gli uomini e la vita. Era nato in una famiglia di contadini, nella Georgia meridionale, e aveva trascorso l'infanzia raccogliendo il cotone dall'alba al tramonto per un ricco proprietario terriero. Si era trasferito ad Atlanta all'età di vent'anni, insieme con la madre, che lavorava nell'enorme stabilimento tessile situato alla periferia di Cabbagetown. La fabbrica sovrastava le misere casupole in legno nelle quali vivevano gli operai. Caleb si avvicinò a Frank e lo guardò socchiudendo gli occhi. «Mi avevano detto che avevi avuto qualche problema,» disse, «ma non pensavo una cosa del genere.» «Erano in tre,» spiegò Frank. Erano ai bordi di un vasto spiazzo assolutamente deserto. Gli edifici circostanti erano semplici costruzioni di mattoni, con una chiesa evangelica da una parte e un piccolo negozio di ricambi per auto dall'altra. «Proprio un bel quartiere,» esclamò Caleb con una smorfia. «Chiedi al Signore che cos'ha la tua Ford, poi attraversi la strada e comperi il pezzo
che ti serve.» «Che cos'abbiamo questa volta, Caleb?» chiese Frank. «Questa volta, Frank,» rispose Caleb, «abbiamo qualcosa che assegna un nuovo significato alla parola 'tomba'.» «Che cosa vuoi dire?» «Voglio dire che hanno gettato un corpo in una fossa e hanno poi cercato di coprirlo con erba e spazzatura. Praticamente le hanno buttato addosso tutto quello che c'era in giro.» «Le hanno buttato addosso?» «È una donna. A giudicare dall'aspetto direi piuttosto una ragazza.» «Capisco,» mormorò Frank. «Giovane. E carina,» proseguì Caleb. «Di quelle che non passano inosservate.» «Com'è morta?» chiese Frank. «Non lo sappiamo,» rispose Caleb. «Il fotografo non è ancora arrivato e non possiamo toccare nulla, almeno fino a quando non avranno scattato le fotografie.» Si girò e si diresse al centro dello spiazzo. Alcuni agenti stavano piazzando le sbarre della polizia e delimitando la zona con una fune, mentre gruppetti di persone, perlopiù di colore, li fissavano dalle strade vicine. Caleb accese la pipa e osservò la folla. «Alla gente piace curiosare, non credi?» Sorrise. «Mi ricordo negli anni quaranta, Frank, santo cielo. I poliziotti avrebbero invaso un quartiere come questo arrivando a tutta velocità con le sirene spiegate, sparando in aria all'impazzata.» Scoppiò a ridere. «Quelli sì che erano bei tempi.» Sogghignò. «Ormai è tutta un'altra cosa.» «Tu non ti sei mai comportato così, vero, Caleb?» chiese Frank. Caleb distolse lo sguardo dalla folla e fissò Frank. «Una volta o due,» disse sottovoce, «ma ho smesso prima di perdermi completamente. Non esiste un solo nero in questa divisione che non sia venuto da me in cerca d'aiuto.» Tornò a guardare lo spiazzo deserto. «La cosa più divertente è che la ragazza è bianca.» Fissò Frank. «Sono questi dettagli insignificanti, Frank, che rendono la vita interessante.» Frank non rispose. Si mise a osservare lo spiazzo. Era coperto di bocche di leone e verghe d'oro. Notò la carcassa di una vecchia automobile ormai invasa dalle erbacce e dalle piante rampicanti e gli agenti che si stavano dando da fare nel tentativo di oltrepassare i rovi e i fitti arbusti. Caleb prese dalla tasca un fazzoletto rosso e si asciugò la testa ormai quasi calva. «Sembra che anche oggi dovremo soffrire il caldo.»
«È sempre così, in questa stagione,» disse Frank in tono indifferente. «Bene, andrò a dare un'occhiata.» Dal marciapiede al corpo non c'erano più di venti metri, ma il tragitto si presentava comunque difficoltoso. Il terreno era pieno di buchi, come se vi avessero fatto esplodere delle piccole bombe e le erbacce si facevano sempre più fitte a mano a mano che Frank si avvicinava al punto in cui giaceva il corpo. «Buongiorno, tenente,» disse uno degli uomini in divisa, mentre Frank arrancava a fatica. Frank lo riconobbe immediatamente: era uno dei due agenti che lo avevano aiutato nel vicolo qualche ora prima. «Pare proprio che tu abbia avuto una mattinata movimentata,» gli disse. L'agente sorrise imbarazzato. «Sì, signore. Così sembra.» Caleb si fece largo faticosamente fra le sterpaglie, continuando ad asciugarsi il viso e il collo. «Dannazione,» sbottò. «In questo maledetto posto ci sono solo rovi ed erbacce.» Si fermò e fece un cenno con il capo in direzione di alcuni agenti che stavano parlando con calma, guardando per terra. «Laggiù, Frank,» urlò Caleb, indicando un punto meno fitto nel sottobosco. «L'abbiamo trovata abbastanza in fretta, direi che non c'è male.» S'incamminarono lentamente verso una minuscola radura coperta di polvere e abbassarono lo sguardo. Caleb mise in tasca il fazzoletto e rimase a fissare con tenerezza il corpo disteso davanti a lui. «Non m'importa quello che dicono gli altri: non ci si può abituare a questo genere di spettacolo,» mormorò. Lanciò un'occhiata in direzione di Frank. «È questo che ci rende diversi, Frank. Noi non riusciamo ad abituarci.» Il corpo giaceva supino in un canale poco profondo: quando arrivarono i fotografi della polizia, a Frank parve di essere rimasto lì a fissarlo per un'eternità. Caleb era in piedi, vicino a lui, impegnato a fargli notare alcuni dettagli, come l'assenza di macchie di sangue sul terreno circostante, la mancanza di ferite o escoriazioni, a parte quelle visibili sui piedi e sulle caviglie, dovute probabilmente al fatto che il corpo era stato trascinato attraverso la sterpaglia. Inoltre non c'erano tracce di lacerazioni sui polsi e sulla gola. Caleb valutò metodicamente il significato di tutte quelle osservazioni. «Dunque, a giudicare dal cadavere,» concluse, «direi che i ragazzi del
laboratorio potranno escludere parecchie cose. Non è stata pugnalata, né strangolata, né uccisa da un'arma da fuoco. E di certo non è stata neppure picchiata.» Aspirò profondamente dalla pipa. Che cosa ne pensi, Frank? Avvelenata?» Picchiò un piede per terra. «È troppo duro per poter rilevare le orme.» Frank lasciò che i suoi occhi esaminassero quel corpo da capo a piedi. Il vento dell'estate aveva ormai disperso la polvere e i detriti che qualcuno aveva usato per ricoprire in tutta fretta il cadavere. Riuscì facilmente a coglierne i lineamenti. Aveva capelli biondi, occhi blu, carnagione pallida, quasi terrea. Aveva labbra piuttosto carnose e Frank notò che i denti, almeno quelli inferiori, erano assolutamente perfetti. Indossava una camicia azzurra con le maniche corte e una gonna blu con la cintura bianca e la fibbia dorata. Un piede era parzialmente coperto da un sandalo di cuoio, allacciato malamente, mentre l'altro piede era nudo. Era di corporatura regolare e statura media. Secondo Frank doveva pesare circa cinquanta chili per un'altezza di un metro e sessanta. «Che cosa ne dici? Più o meno sedici anni?» chiese Caleb. «Direi di sì,» rispose Frank. Si trovarono circondati dai reporter che iniziarono a scattare fotografie da tutte le angolazioni. Frank e Caleb si spostarono leggermente per permettere loro di riprendere il cadavere come meglio credevano. Caleb batté la pipa contro il tacco della scarpa, facendo cadere il tabacco per terra. «Troveranno tracce del tuo dannato tabacco e lo catalogheranno come prova, Caleb,» borbottò Frank. «No, figurati,» esclamò Caleb, con il sorriso tipico di chi sa il fatto suo. «Spiegherò loro che è un tabacco prodotto esclusivamente per me.» Si guardò attorno, cercando di cogliere le poche strutture situate nelle immediate vicinanze. «Non ci sono finestre attraverso le quali un bastardo insonne avrebbe potuto notare qualcosa la notte in cui è stato trasportato il cadavere.» Mise la pipa in tasca. «Si romperanno lo stesso il culo per controllare, ma non servirà a niente. Lo fanno solo per salvare la faccia.» Sorrise. «Ma sarà una fregatura, come nel caso di quel tipo che ammazzava i ragazzini.» Guardò Frank. «Ma per ora dovremo attenerci alle normali procedure. Non farà la benché minima differenza e perderemo anche un sacco di tempo.» Alzò leggermente la testa e chiamò un agente. «Ehi, di' ai ragazzi del laboratorio che questo tabacco appartiene a Caleb Stone.» L'agente annuì e gli fece un cenno con i pollici rivolti verso l'alto.
Caleb si rivolse a Frank. «Dovrebbe bastare a scagionarmi.» Si diede una pacca sul sedere e continuò: «Sarebbero anche capaci di prendersela con un vecchietto come me.» S'incamminò lentamente, facendosi strada fra le erbacce alte più di un metro, fino a ritornare alla macchina. Frank lo osservò mentre si allontanava. Caleb era uno dei pochi uomini del dipartimento che ammirava, o perlomeno che rispettava. Non era particolarmente intelligente, ma era dotato di una tenacia incredibile. Svolgeva bene il proprio lavoro e non riversava sugli altri i propri guai. Non gli aveva mai chiesto nulla di Sarah o del divorzio e non aveva mai indagato sulla sua vita privata, né accennato ai suoi problemi. Nonostante vivesse in città da molti anni, aveva saputo conservare la riservatezza tipica della gente di campagna, proprio come Frank. Era una qualità ormai rara nella moderna e caotica Atlanta ed era difficile trovare qualcuno che ne apprezzasse ancora il valore: Frank era uno di quelli. «Ancora un attimo e avremo finito, tenente,» esclamò Charlie Morton, il fotografo del dipartimento. «Non c'è fretta,» disse Frank in tono assente. «Cercate di fare un buon lavoro.» Charlie gli si avvicinò e scattò una fotografia. «È come se si fosse accasciata e fosse morta così,» disse. Si spostò dall'altra parte del cadavere, si chinò e fece un'altra fotografia. «È venuta fin qua, ha trovato un po' di spazio e si è lasciata cadere,» ripeté Charlie. «Con un sandalo solo?» chiese Frank. Charlie alzò gli occhi e sorrise. «È per questo che vi servono le foto, giusto?» Ne scattò un'altra. «Credo di averla ripresa da tutte le angolazioni possibili, Frank.» Osservò il corpo. «Be', forse è meglio che ne faccia un'altra.» Infine segnalò di avere concluso e corse verso la macchina. Frank fece un cenno agli infermieri rimasti in disparte. «Okay, potete portarla via.» I due uomini si avvicinarono e caricarono il corpo sulla barella. Frank controllò con delicatezza i vestiti della ragazza, alla ricerca di qualche indizio che potesse aiutare a identificarla. Non trovò nulla. Solo un anello al dito, che tolse e infilò in un sacchetto di plastica; poi lo sollevò, scuotendolo a destra e a sinistra. L'anello proveniva dalla Northfield Academy, l'anno era il 1987. Porse il sacchetto a un agente. «Portalo al laboratorio,» gli disse. «Poi chiedi alla Centrale di mandare un'auto alla scuola e di farsi dare l'annuario del 1987. Dobbiamo riuscire a identificarla al più presto.»
«Sì, tenente,» esclamò l'agente correndo via. Frank lanciò un'ultima occhiata al cadavere. I barellieri erano rimasti sospesi a mezz'aria, e se ne stavano immobili, in piedi sotto il sole, aspettando che qualcuno desse loro il permesso di andarsene all'obitorio. Erano rimasti nella stessa identica posizione anche quando avevano trovato il corpo di Sarah; Frank non poteva fare a meno di ripensare al terribile silenzio che si era venuto a creare. Era come se il mondo fosse diventato improvvisamente muto. Gli infermieri non avevano detto niente. Alvin non aveva detto niente. E due ore più tardi, quando lo aveva comunicato alla moglie, lei si era lasciata cadere sul divano, fissando il caminetto vuoto. E non aveva detto assolutamente nulla. In quel momento, mentre faceva cenno ai barellieri di allontanarsi, si rese bruscamente conto che quel terribile silenzio non era stato ancora infranto. Ne era ancora prigioniero, esattamente come sua moglie e Alvin, e come doveva essere stata Sarah per molti anni prima di morire. Se la ricordava ancora, seduta da sola nella sua stanza, oppure in giardino, o alla finestra del soggiorno, sempre lontana, irraggiungibile, cresciuta in quel silenzio profondo che aveva caratterizzato il padre di Frank ed era poi stato trasmesso allo stesso Frank, per giungere infine a Sarah, come un veleno ormai presente nel sangue. Rimase a osservare la barella che veniva caricata sul retro dell'ambulanza. Un braccio della ragazza era caduto lateralmente e penzolava pigramente verso terra, con il palmo rivolto verso l'alto e le dita aperte, come in una muta richiesta di aiuto. 3 Un'ora più tardi, Caleb entrò alla Centrale e lasciò cadere un volume sulla scrivania di Frank. Era verde-azzurro con una scritta dorata: Northfield Academy. «Pagina ottantasette,» disse Caleb. Frank aprì il libro e lo sfogliò fino alla pagina esatta. «Terza fila dal basso, la quarta da sinistra.» Frank seguì con gli occhi la serie di volti fino a quando individuò la foto di una ragazza che gli sorrideva con aria innocente. «Piuttosto carina,» esclamò Caleb, «prima che il diavolo se la portasse via.» Era molto più che carina e Frank continuò a fissare quell'immagine. Si stupì nel vedere come la morte avesse sciupato quel viso e reso cupi quegli
occhi, come si fosse impadronita della sua straordinaria bellezza. Caleb fissò tristemente la fotografia dell'album, poi spostò lo sguardo sull'immagine della ragazza distesa nella polvere. Rimase assorto per un attimo, quasi volesse imprimersi quel volto nella mente. Poi scosse la testa. «I morti assomigliano sempre a persone lasciate a lungo sotto la pioggia,» borbottò. Frank lesse la fila di nomi stampati sul lato sinistro della pagina. «Laura Angelica Devereaux,» lesse sottovoce. «Ma quasi tutti la chiamavano Angelica,» spiegò Caleb. Frank alzò gli occhi dall'album. «E chi te l'ha detto?» «Il direttore della Northfield,» rispose Caleb. «Una scuola prestigiosa, dove devi chiedere del 'signor preside'.» Si strinse nelle spalle. «Secondo me nelle scuole per ragazzi ricchi non esistono i direttori.» «Come si chiama?» «Albert Morrison.» «Che cos'altro ti ha detto?» «Solo poche informazioni,» rispose Caleb. Prese una sedia dalla scrivania e si sedette. La luce del mattino che filtrava dalle grandi vetrate, sopra la sua testa, non riusciva a illuminare il suo viso, che rimaneva perciò nell'ombra. «I suoi genitori sono morti,» aggiunse in tono neutro, «ma ha una sorella di nome Karen. Ha più o meno ventisette anni, la sorella, voglio dire. Vive al 255 della West Paces Ferry Road.» Sorrise. «Sei mai stato in quella zona?» Frank lasciò cadere lo sguardo sulle mani grandi e paffute di Caleb. «Non hai un taccuino?» chiese. Caleb scosse la testa, poi si batté la tempia con l'indice. «Ho tutto qui dentro, Frank. E sai perché? Perché così nessun altro può servirsi delle mie informazioni.» Fece ruotare gli occhi verso il soffitto. «Dov'eravamo rimasti? Oh, sì. Al 255 della West Paces Ferry Road. Sei mai stato da quelle parti?» «Una volta, di domenica,» rispose Frank con tono indifferente. Si rimise a guardare le fotografie appoggiate alla scrivania, e improvvisamente gli apparve Laura Angelica Devereaux. Fece il suo ingresso come una donna affascinante che si affaccia al mondo: Frank scorse un lampo nei suoi occhi e avvertì il soffio del suo alito fresco. «Hai notizie dal laboratorio?» chiese Caleb. «No.» «Hanno già iniziato le indagini?»
Frank annuì. «Stanno delimitando la zona.» Caleb chiamò un agente che stava passando. «Ehi, Teddy, ti piacerebbe guadagnare un posto in paradiso? Potresti iniziare portandomi una coca.» Si girò verso Frank. «Che cos'hai intenzione di fare con quelli che ti hanno aggredito?» Frank continuò a fissare la fotografia. Per un attimo, gli parve di vedere le labbra incresparsi in una sottile linea che esprimeva paura. Poi guardò gli occhi ormai spenti, come se l'immagine dell'assassino potesse essere rimasta impressa oltre le palpebre sbarrate. «Hai intenzione di farti giustizia da solo, Frank?» «Mi limiterò a compilare un rapporto, Caleb,» rispose Frank. Caleb scoppiò a ridere. «No, dico davvero,» ribatté Frank. «Stenderò un rapporto e lascerò perdere. Diamine, ormai saranno già in Messico.» Caleb si strinse nelle spalle. «Può darsi, Frank, può darsi. Comunque, l'esperienza mi insegna che è meglio fargliela pagare, per una cosa del genere. Se non lo fai, la situazione non fa che peggiorare. Iniziano con una cazzata, come quella di picchiare un poliziotto, poi finiscono con il non pagare l'affitto o la bolletta della luce.» Rise di nuovo. «Non ci si può fidare della gente. Purtroppo è la verità, Frank, anche se non la si può mettere a verbale.» Scosse la testa. «Se fossi Dio, terrei una mano sulle palle di quegli uomini, pronto a schiacciargliele alla prima occasione.» Arrivò l'agente con la Coca Cola. «Grazie, figliolo,» disse Caleb. Bevve un lungo sorso direttamente dalla bottìglia, poi si asciugò la bocca con il dorso della mano. «Potrei scolarmi anche una bottiglia di whisky.» Frank distolse lo sguardo dalle fotografie, poi socchiuse gli occhi, feriti dalla forte luce del sole. «Morrison ti ha detto qualcos'altro?» «Non ho insistito molto,» rispose Caleb. «È una cacchetta. Uno di quei tipi che tengono molto alla propria posizione, capisci?» Bevve un altro sorso di coca. «Ad ogni modo, gli ho detto che saresti passato a trovarlo uno di questi giorni.» Sorrise. «Lascerò che sia tu a occupartene, Frank. Potrà sicuramente tornarti utile per la tua carriera.» «Ammesso che lo prenda.» «Be', se è un vagabondo, dimenticatelo,» disse Caleb. «Ma se ha una tana da qualche parte, se paga il bollo della macchina, se deve occuparsi di tutte le altre cazzate di questo tipo...» «Allora l'abbiamo in pugno,» lo interruppe Frank.
«Se è come noi, magari solo leggermente diverso,» aggiunse Caleb, «allora consideralo già beccato.» Finì la coca e appoggiò la bottiglietta vuota sulla scrivania di Frank «Il caso è tuo, Frank, ma se scopri qualcosa di interessante, tienimi informato. Ti darò una mano.» «D'accordo.» «A meno che tu non preferisca dividere la torta con Alvin!» «Che s'inculi!» Caleb sorrise. «Santo cielo, non vorrei essere io a farlo.» Afferrò il bordo della scrivania di Frank e si alzò in piedi. Emise un gemito e rimase immobile come se volesse assicurarsi del proprio equilibrio. «Pancetta mia,» esclamò dandosi una pacca sullo stomaco. Poi lo sguardo scivolò sulla foto che ritraeva il corpo di Angelica distesa a terra. Scosse la testa con aria disperata. «Amore fraterno,» esclamò. «Ne hai mai sentito parlare, Frank?» Frank lo fissò. «Certo.» Caleb sorrise. «È un bene per te. Solo gli imbecilli dicono di no.» Si girò lentamente e se ne andò, mentre i raggi del sole illuminavano il suo corpo massiccio. Frank tornò a guardare le fotografie, ma solo per un istante. Non c'era nulla da vedere: una ragazza viva e una morta, una fotografia a colori e una in bianco e nero. Sembrava che i due visi non appartenessero neppure alla stessa persona e i due corpi allo stesso mondo. Nella prima immagine, l'espressione era decisa, il mento sollevato orgogliosamente e gli occhi fissi verso l'obiettivo; nell'altra c'era solo un corpo disteso a terra: le dita e gli arti iniziavano già ad assumere la grottesca conformazione della morte. Prese un paio di forbici e ritagliò la fotografia di Angelica dall'annuario della Northfield. Il laboratorio fotografico avrebbe potuto stamparne trenta o quaranta copie, ma Frank voleva conservare l'originale, come se in quell'immagine fosse racchiuso qualcosa che non poteva essere duplicato, che avrebbe potuto rivelargli un indizio prezioso oppure alzare un dito accusatore puntato in direzione dell'assassino. Dopo aver ritagliato la fotografia, se la infilò in tasca, si appoggiò alla sedia e lasciò che lo sguardo vagasse per la stanza. Dopo che Caleb se n'era andato, era convinto di essere rimasto solo, ma improvvisamente si rese conto che la stanza era affollata di agenti in borghese e in uniforme. Si muovevano in modo confuso dall'altra parte del locale, fermandosi ogni tanto vicino alla fontanella. Si udivano il sommesso mormorio delle loro conversazioni e il ticchettio delle macchine per scrivere mentre ognuno era
intento a sbrigare le proprie faccende. La stanza era impregnata dell'acre odore del fumo di sigari e sigarette. C'era qualcosa di selvaggio e di terribilmente primitivo nell'aria, come se la violenza potesse esplodere da un momento all'altro e le pareti in tinta pastello fossero assolutamente inadatte e fuori posto, come un tendone da circo in un mattatoio. Per sfuggire a quella sensazione, riprese la fotografia di Angelica e l'appoggiò sulla scrivania. Si concentrò per un attimo sul viso. Vide una stupenda ragazza che si affacciava sul mondo degli adulti, desiderosa, forse ansiosa, di nuove esperienze, eppure ancora stranamente e impercettibilmente innocente e inconsapevole. Era una qualità che aveva riscontrato in ragazze molto meno benestanti di Angelica. L'aveva notata nei volti di prostitute quindicenni. Non importava quello che avessero visto o fatto, o quello che avessero dovuto sopportare. Rimaneva l'innocenza. Faceva parte della giovinezza e perdurava tenacemente sul viso di qualsiasi ragazza. Era una luce negli occhi, la sensazione che ci fosse ancora qualcosa di salvabile, nonostante tutto quello che era già stato sprecato, rovinato o distrutto. Durava il tempo della giovinezza e se ne andava con essa. A volte, alzando gli occhi dal giornale, aveva scorto la stessa luce sul viso di Sarah. Era accaduto senza che lei se ne accorgesse, mentre se ne stava rannicchiata sulla poltrona arancione con lo sguardo assente rivolto alla televisione. Probabilmente l'avevano notata anche gli uccellini che svolazzando sopra il suo corpo avevano colto anche l'innocenza che svaniva nel tempo, sostituita dal buio della morte. Si alzò rapidamente e uscì in strada. La calura lo avvolse in una morsa e per un attimo desiderò solo sprofondare in un mondo diverso, più fresco. Il largo viale della West Paces Ferry Road doveva essere proprio come se lo era immaginato: grandi prati verdi e piscine azzurre che scintillavano sotto il sole dell'estate. Era il luogo in cui la frenesia della città scompariva insieme con il caldo soffocante, per lasciar posto a una profonda quiete e a una dolce frescura rilassante. Angelica Devereaux era nata in un posto del genere, pensò Frank, raggiungendo il garage e mettendosi al volante. Mentre si immetteva nel traffico caotico della Peachtree Street, Frank si rese conto che la spiegazione più logica che potesse giustificare il tragitto compiuto da Angelica dalla West Paces Ferry alla Glenwood Avenue era anche la più ovvia: era una ragazza ricca a cui piaceva gironzolare per i bassifondi. Aveva già avuto modo di notare quella particolare attrazione per i quartieri più poveri con le pensioni fatiscenti e i bar malfamati. A volte, nelle
lussuose dimore della zona settentrionale si risvegliava un desiderio di azione e di avventura che la tranquilla e sonnacchiosa vita dei cocktail e dei balli delle debuttanti non era in grado di soddisfare. Capitava quindi che un ragazzino, o una ragazzina, immergesse un dito in quella corrente impetuosa, poi un piede, una gamba, per ritrovarsi in poco tempo in balia di una risacca mortale. Veniva gettato su strani scogli, che assumevano la forma di sale da gioco, ritrovi ambigui, locali a luci rosse e bordelli. Nel corso della sua vita aveva conosciuto almeno un centinaio di persone di quel genere: ragazze che si facevano chiamare Porsche o Mercedes, a ricordo dell'auto di famiglia, e ragazzi conosciuti come Carlton e Royal, «nomi da hotel», come li aveva sempre definiti Caleb. Quando uno di loro non faceva più ritorno a casa, Caleb era solito ripetere: «L'hotel è crollato.» Prese il taccuino verde e aprì la prima pagina. Annotò il nome e l'indirizzo che gli aveva fornito Caleb: Karen Devereaux, 255 West Paces Ferry Road. Accanto a Laura Angelica, il nome Karen suonava stonato e banale quasi quanto il suo: si immaginò subito il brutto anatroccolo a fianco del meraviglioso cigno. Forse Karen era il classico membro della famiglia senza molte speranze. Premette leggermente sull'acceleratore, mentre il traffico si faceva più scorrevole. Karen Devereaux. Continuava a ripetere quel nome, ma non riusciva a dargli un volto. Sapeva solo che, chiunque fosse stata quella Karen, la sua vita stava per subire un duro colpo. Presto avrebbe appreso della morte della sorella e sarebbe dovuta andare in città per il riconoscimento del cadavere. Aveva conosciuto uomini e donne che erano crollati come bambole di pezza in momenti del genere. Molti anni prima, aveva accompagnato in Centrale una donna di mezza età. Era piccola, fragile e talmente debole da rimanere senza fiato dopo una semplice rampa di scale. Suo figlio era stato ucciso da un autista ubriaco e il corpo era stato ricomposto in una delle celle frigorifere che la polizia utilizzava come obitorio di fortuna. La donna era rimasta a lungo a osservare il viso del ragazzo, in perfetto silenzio, con gli occhi fissi sul cranio semispappolato. Poi, all'improvviso, si era girata con un'incredibile velocità e aveva schiaffeggiato Frank con tutta la forza che aveva in corpo. Frank aveva fatto un passo indietro, con la guancia in fiamme, gli occhi spalancati per lo stupore. La donna si era schiacciata contro il muro e aveva iniziato a scivolare, crollando a terra. Stava ancora pensando a quella madre quando arrivò alla casa dei Devereaux. Il viale compiva un'ampia curva intorno a un vasto campo fiancheg-
giato da un'ordinata fila di cespugli e azalee rosse che splendevano alla luce del sole. Sembrava che la casa fosse stata costruita seguendo un ideale religioso. Frank scese dalla macchina e osservò le colonne bianche e slanciate: gli venne in mente la minuscola chiesa di legno nella quale suo padre si era dato tanto da fare nel tentativo di salvare le anime tormentate di tutti i contadini peccatori che si rivolgevano a lui. La casa dei Devereaux dava l'impressione che gli abitanti fossero già stati salvati dalla maggior parte delle tribolazioni della vita. Probabilmente lì nessuno si era mai preoccupato di una gelata improvvisa o di un'estate troppo secca. La costruzione si ergeva in mezzo al prato e sembrava dominare tutta la zona circostante. Le alte colonne conducevano a un ampio portico e la facciata bianca in ombra sembrava quasi altezzosa nella sua tranquillità. Assomigliava a una di quelle dimore spaziose che gli eserciti nemici scelgono come quartier generale: Frank si immaginò i generali conquistatori yankee che legavano i cavalli proprio a quelle colonne. L'enorme porta di quercia si aprì al secondo squillo del campanello. Frank si aspettava di essere ricevuto da un maggiordomo impettito, ma si trovò di fronte una giovane donna che indossava un paio di jeans e un camice da artista imbrattato di vernice. Ai piedi calzava un paio di mocassini marroni, aveva i capelli neri raccolti in una coda di cavallo che ricadeva in una massa di riccioli disordinati. Lo guardò con aria interrogativa, come se Frank si fosse presentato all'ingresso sbagliato. «Sì?» chiese. «Casa Devereaux?» «Sì.» «Sto cercando Karen Devereaux.» «E lei chi è?» Frank le mostrò il distintivo. «Frank Clemons.» La donna annuì lentamente, gli occhi scuri si assottigliarono, come se cercassero di mettere a fuoco l'intera immagine: l'auto sporca e rovinata, l'uomo con gli occhi gonfi, impolverato e malconcio nell'abito marrone spiegazzato, il distintivo rovinato e leggermente ossidato. «Io sono Karen Devereaux,» rispose infine. «È successo qualcosa?» «Le spiace se entro?» chiese Frank, esitante. «D'accordo,» disse Karen. Si spostò leggermente e fece entrare Frank nell'ingresso. Era un locale dipinto di bianco, con le pareti coperte da ri-
tratti di quelli che Frank immaginò essere gli esponenti più illustri della famiglia Devereaux: senatori, giudici, colonizzatori e membri di quella che Caleb definiva «la folla della luna e della magnolia». Frank si tolse il cappello e lo rigirò goffamente fra le mani. «Temo di avere una cattiva notizia per lei,» disse. La donna respirò profondamente con calma. «Ormai ci sono abituata,» mormorò. «A che cosa?» «Alle cattive notizie,» rispose Karen. «I miei genitori sono morti in un incidente aereo, in Europa. Ero poco più di una ragazzina. Un uomo come lei è venuto a casa nostra. Si è tolto il cappello, proprio come lei, e lo ha rigirato fra le mani. Teneva lo sguardo basso mentre ci comunicava la notizia.» Sollevò leggermente il viso come per acquistare coraggio. «Questa volta che cos'è successo?» «Sua sorella.» «È morta,» disse Karen. Non era una domanda. Era un'affermazione. «Sì.» Reagì con un assoluto silenzio, che sembrò racchiudere tutto il resto. Fissò placidamente Frank negli occhi, con le labbra serrate, come se si stesse sforzando di reprimere l'urlo che tentava di esplodere. «Abbiamo trovato il suo corpo questa mattina,» continuò Frank. Karen indietreggiò e si aggrappò al bordo del tavolino. Iniziò a lanciare rapide occhiate ai vari ritratti appesi, nel tentativo di comunicare agli antenati ormai morti la notizia dell'ultima tragedia familiare. «Non sappiamo con esattezza che cosa le sia successo,» aggiunse Frank dopo un attimo. Lo fissò. «Non lo sapete con esattezza?» «No.» «Ma è stato un incidente?» Decise di andarci con i piedi di piombo. «Non lo sappiamo,» le spiegò. «Abbiamo solo trovato il suo corpo questa mattina all'alba.» Aspettò che dicesse qualcosa. Lei rimase in silenzio. «Lungo la Glenwood Avenue,» aggiunse. «Capisco.» «Si è accorta che non è tornata a casa la scorsa notte?» «No.» «Sua sorella vive qui?» «Sì,» rispose Karen. «La sua stanza è al piano di sopra.» Tolse le mani
dal tavolino e Frank vide i segni lasciati dalle dita sulla superficie lucida. «Dovrebbe venire alla Centrale per identificare il cadavere,» disse. «Ufficialmente, vuole dire?» «Sì.» «Quindi non ci sono dubbi. È mia sorella.» «Nessun dubbio. L'abbiamo riconosciuta grazie all'annuario della Northfield. Era la scuola che frequentava, giusto?» «Sì.» «Posso accompagnarla subito in città, signorina Devereaux,» disse Frank. «Oppure, se preferisce aspettare...» «No,» lo interruppe Karen. «Preferisco andarci subito. Non voglio rimandare.» «D'accordo.» «Mi lasci solo il tempo di cambiarmi,» mormorò Karen. «Ma certo.» «Torno subito.» «Non c'è fretta,» la rassicurò Frank. Sorrise tristemente. «Mi dispiace davvero averle dato una simile notizia.» Karen si voltò di scatto e salì di corsa le scale. Rimasto solo nell'ingresso, Frank si guardò attorno. Notò il tavolo incredibilmente lucido e il grande vaso di porcellana che vi era appoggiato sopra. Accanto al vaso c'era una scatola nera smaltata che raffigurava una scena campestre. Frank l'aprì, senza nemmeno rendersene conto. L'interno era rivestito di velluto rosso; Frank vi fece scorrere rapidamente un dito prima di richiudere il coperchio. Lentamente, girò la testa a destra e osservò il ritratto di un uomo alto con i capelli grigi, seduto su una sedia rivestita di tessuto blu. L'uomo era in una grande stanza tappezzata di libri ed esibiva uno sguardo pieno di orgoglio. Forse l'orgoglio proveniva dal denaro, oppure dal potere, o magari dai libri che lo circondavano e che rappresentavano l'intera sapienza. Era un volto difficile da interpretare, esattamente come qualsiasi volto di essere umano. Nonostante le enormi proporzioni e le particolari configurazioni, spesso i volti dei ritratti non riescono a trasmettere nulla. L'orgoglioso uomo nella stanza tappezzata di libri poteva non essere nulla, assolutamente nulla. Frank distolse lo sguardo dal ritratto e fissò il tappeto orientale. Rivide distintamente il braccio pallido e ciondolante di Angelica, come se fosse appoggiato fra i motivi rossi e blu del tappeto, una parte, distinta e confusa allo stesso tempo, del medesimo intreccio. «Un giorno ne sapremo di più,»
udì cantare il padre sull'altare della sua memoria. «Un giorno capiremo perché.» 4 L'aspetto di Karen Devereaux era decisamente diverso quando riapparve, pochi minuti dopo. Il camice imbrattato di vernice era stato sostituito da una lunga gonna nera e da una camicia rossa. Si era sciolta i capelli che ora le ricadevano sulle spalle. Appariva ancora più giovane, ma le emozioni che Frank aveva visto dipingersi su quel volto sembravano contenute sempre più a fatica. «Sono pronta. Possiamo andare,» esclamò in tono duro, quasi come se stesse impartendo un ordine. Frank si avviò immediatamente verso la porta. «Prenderemo la mia macchina,» le disse. «Sì, d'accordo,» rispose Karen. «In questo momento, preferirei non guidare.» Frank rimase in silenzio per alcuni minuti mentre si dirigevano in città. I larghi viali fiancheggiati di alberi non sembravano più imponenti come quando vi era passato la prima volta. Era come se avessero perso parte della loro invulnerabilità. Tanta ricchezza non era riuscita a proteggere una delle ragazze più giovani e belle della zona e quel fallimento aveva offuscato la loro maestosità. «Qui è davvero splendido,» mormorò Frank. Karen non disse nulla. «Sembra che faccia meno caldo che in città.» «Comunque l'afa arriva anche qua,» sbottò Karen. Seduta a fianco di Frank, con i grandi occhi scuri fissi sulla strada, Karen sembrava incredibilmente tranquilla, considerando la notizia che aveva appena ricevuto. Teneva le spalle leggermente rialzate e le mani appoggiate in grembo. Osservandola Frank pensò che forse, in un mondo tanto incerto e ambiguo, Karen aveva imparato a mantenere la propria dignità come l'unica cosa nella vita della quale potesse avere pieno controllo. «Naturalmente dovrà rispondere a qualche domanda,» proseguì. Karen teneva lo sguardo fisso davanti a sé. «Sì. Lo immaginavo.» «E in casi del genere è importante agire in fretta,» aggiunse Frank. «Già.» «Sono sicuro che anche lei avrà qualche domanda,» continuò lui, spe-
rando di riuscire a farla parlare, ma senza forzarla troppo. «Diceva di non essersi accorta che sua sorella non era rientrata la scorsa notte.» «No, non me ne sono accorta.» «Capitava spesso?» «Che lei non tornasse a casa o che io non me ne accorgessi?» chiese Karen. «Entrambe le cose.» «Aveva la sua stanza,» rispose Karen con durezza. «E anche la sua vita?» «Sì, anche quella.» «Lei ne sapeva qualcosa?» «Si teneva tutto per sé.» «Che cosa mi può dire dei suoi amici?» «Non so neppure se ne avesse.» Frank la guardò, senza capire. «Voglio dire, ammesso che avesse degli amici, io non li conoscevo,» spiegò Karen. «Altri ragazzi, magari. Non veniva mai nessuno a trovarla?» «No, che io sappia,» rispose Karen. «Io ho lo studio sul retro e trascorro la maggior parte della giornata lì. La gente può andare e venire, ma io non me ne accorgo.» Si strinse nelle spalle. «Comunque, per quanto ne so io, Angelica era molto solitaria.» «Sembra così anche lei,» disse Frank, senza riuscire a bloccare quelle parole. Karen lo guardò attentamente. «Forse è vero. E allora?» «Senta, so bene che è possibile perdere i contatti,» proseguì Frank rapidamente. «Capita anche in famiglia, voglio dire. Si perdono i contatti. È accaduto anche a mia figlia. È solo che vivevate da sole. È così, no? Eravate solo voi due?» «Sì.» «Quindi dovevate avere qualche contatto,» continuò Frank. «Ci doveva essere almeno un minimo di comunicazione.» Karen non rispose. Si rimise a fissare la strada davanti a lei. «Quando suonano alla porta,» proseguì Frank, «in genere qualcuno va a rispondere. Non è mai venuto nessuno a cercare Angelica?» «No,» rispose seccamente Karen. «Mai?» «Non quando c'ero in casa io,» ripeté decisa Karen. «Forse da qualche
altra parte aveva anche degli amici.» «Nella zona sud?» chiese Frank volutamente. Karen non rispose. «Lei sa che aspetto ha la Glenwood Avenue?» chiese Frank. «Vagamente,» rispose Karen in un soffio. «Quindi sa che non è esattamente come la West Paces Ferry.» «Questo lo so, certo.» «Non sappiamo con esattezza che cosa sia successo a sua sorella,» aggiunse Frank, «ma l'abbiamo trovata molto lontana da casa.» Karen rimase in silenzio, gli occhi fissi sulla strada. Osservandola di tanto in tanto, Frank cercò di capire i sentimenti che l'avevano legata alla sorella. Aveva abbastanza esperienza per sapere che era difficile stabilire dove iniziava o finiva l'amore in una famiglia. Aveva sempre creduto che sua madre amasse suo padre, eppure un pomeriggio lei se n'era andata senza una parola, senza una spiegazione, lasciandolo solo con due ragazzi che si stavano affacciando al mondo degli adulti. «So che a volte succede,» suggerì Frank. «Capita che non si vada d'accordo. Il sangue non è tutto. Lo capisco benissimo, mi creda. Ma lei viveva nella stessa casa di sua sorella.» Si girò verso di lui. Spalancò gli occhi, come se lo vedesse per la prima volta. «Che cosa le è successo?» Per un attimo pensò che si riferisse alla sua vita e che gli avesse chiesto che cosa fosse accaduto alla sua famiglia, poi si rese conto che ciò che le interessava era il suo volto coperto di cicatrici ed escoriazioni. Si toccò l'occhio sinistro e sobbalzò leggermente. «Ho avuto qualche problema,» spiegò. «In servizio?» «No.» Si girò di scatto, quasi impaurita, come se avesse notato qualcosa di terribile nella sua risposta. Arrivarono all'obitorio qualche minuto più tardi. Era un luogo molto pulito, quasi asettico. Le piastrelle del pavimento splendevano come le pareti completamente bianche. Regnava un silenzio assoluto, non c'era niente fuori posto e non si scorgeva la benché minima traccia di sangue. Era come se il personale avesse deciso di combattere il terribile disordine che regnava lungo i corridoi e nelle sale dove venivano praticate le autopsie. Uomini e donne assassinati, bambini soffocati nelle minuscole culle. I cor-
pi sezionati non erano che i resti di qualcosa già rotto da tempo, qualcosa che le stanze illuminate non potevano nascondere. «Come va, Frank?» chiese Jesse camminando lungo il corridoio in direzione di Frank e Karen, che erano rimasti in piedi accanto a un tavolino di legno. «Salve, Jesse.» Jesse girò attorno al tavolino e si sedette. «Hai bisogno di qualcosa?» «Siamo qui per vedere Angelica Devereaux,» rispose Frank. «Hai il numero?» «Non ancora. Non era pronto quando ho lasciato la Centrale.» «Puoi descrivermela?» «Giovane.» Jesse guardò Frank con aria interrogativa. «Carina,» aggiunse Frank. «Oh, sì,» ribatté Jesse. «L'hanno appena portata.» Controllò una lista sul registro aperto. «Laura Angelica Devereaux,» continuò. «Numero quindici.» Lanciò un'occhiata a Karen. «Siete insieme?» «Sì.» «Oh,» esclamò Jesse, leggermente sorpreso. «È la sorella di Angelica Devereaux,» spiegò Frank. Jesse sorrise. «Mi spiace, sembrava proprio una brava ragazza.» Angelica non apparteneva al genere di persone che si trovano normalmente in un obitorio e Frank riusciva a leggere la curiosità sul volto di Jesse. Come aveva fatto a finire intrappolata nella ragnatela? Com'era possibile che quel corpo fosse arrivato in quel posto dove normalmente si trovavano solo i poveri, i derelitti, gli individui per cui la morte non rappresentava altro che l'ultimo stadio della disperazione? Jesse si sistemò sulla sedia. «Ad ogni modo, è il numero quindici. L'ultima porta a destra.» «Grazie, Jesse,» disse Frank. Girò attorno alla scrivania e guardò di nuovo Karen. «Per di qua.» Lo seguì immediatamente, senza perderlo di vista. Frank aprì la porta e si avvicinò alle celle frigorifere in acciaio inossidabile che ricoprivano un'intera parete. Mentre sbloccava la serratura vide il viso di Karen riflesso nella cella numero quindici. «A volte hanno un aspetto leggermente diverso,» l'avvisò. «La apra,» disse Karen. La serratura scattò, Frank aprì lo sportello e notò che Karen si era irrigi-
dita ed era rimasta tesa mentre lui estraeva il lungo carrello di metallo sul quale era disposto il corpo di Angelica. «Mi dispiace,» mormorò Frank, aprendo la cerniera e rivelando così il volto di Angelica, bianco, assolutamente esangue, a eccezione delle labbra color porpora. Karen abbassò lo sguardo sul viso della sorella. La fissò per un lungo istante, come se cercasse di spiegarsi alcuni particolari: il lungo arco disegnato dalle sopracciglia, la linea sottile del naso e i grandi occhi leggermente a mandorla. «Era così bella,» mormorò Karen. Continuò a fissare il viso di Angelica. «Così bella.» «Già.» «È sempre stata bella. Fin da quando è nata.» Frank annuì. «Una bella donna,» proseguì Karen. Guardò Frank. «Non c'è niente di più eccitante.» Frank richiuse il sacco di plastica nera sul viso di Angelica. «Devo rivolgerle una domanda. È una formalità. È sua sorella?» «Sì.» «Ora possiamo andare,» disse Frank. Rimise a posto il carrello e chiuse lo sportello. Karen rimase immobile. Continuò a fissare lo sportello chiuso come se volesse studiare la sua immagine distorta. «Signorina Devereaux,» ripeté Frank. «Ora possiamo andare.» Scosse la testa. «Non ancora,» bisbigliò. Rimase con gli occhi fissi sullo sportello e sembrava volerlo penetrare, per ricongiungersi con il volto di Angelica all'interno della cella buia e fredda. «Sprizzava scintille dagli occhi,» disse. «Mio padre la prendeva sempre in braccio e scoppiava a ridere. 'Ti sprizzano scintille dagli occhi,' ripeteva sempre.» Nonostante avesse lo sguardo fisso sullo sportello, Frank si rese conto che il suo pensiero vagava altrove, e che quel momento racchiudeva tutta la tragedia della sua vita. Karen si irrigidì e lentamente alzò una mano verso la serratura. Frank gliel'afferrò. «No,» disse, lasciandola ricadere lungo il fianco. «Perché no?» chiese Karen. «Perché non servirebbe a nulla.» «E come lo sa?» «Sono stato qui molte volte.» «D'accordo,» mormorò Karen. Si girò lentamente e s'incamminò lungo il
corridoio. «Mi aspetti in macchina,» le disse Frank quando arrivarono all'ingresso. «Devo parlare un attimo con Jesse.» Quando la raggiunse, qualche minuto più tardi, Karen era in piedi accanto alla macchina e fumava una sigaretta. «Mi spiace averla fatta aspettare,» le disse. «Di che cosa avete parlato?» chiese. «Di un paio di cose. Questioni tecniche.» «Di che cosa? Voglio saperlo con esattezza.» Frank prese il taccuino e lo sfogliò rapidamente. «Dunque, il corpo è arrivato circa mezz'ora fa e il rapporto del laboratorio dovrebbe già essere sulla mia scrivania.» Girò la pagina. «Nessun'altra comunicazione su di lei.» «Segna tutto su quel taccuino?» chiese Karen. «Aiuta la memoria,» rispose Frank. Chiuse il blocchetto. «L'ha presa bene, signorina Devereaux.» Karen alzò un sottile sopracciglio scuro. «Dice davvero?» «Meglio di molti altri.» «Senza mostrare una grande partecipazione, intende dire?» «Mostrando solo una certa partecipazione.» «C'è differenza?» «Credo di sì,» rispose Frank. Aprì la portiera della macchina. «Venga. L'accompagno a casa.» Era ormai pomeriggio inoltrato e il traffico iniziava a farsi caotico, come sempre, nelle ore di punta. Frank sapeva che ci sarebbe stata una coda incredibile dal centro fino alla West Paces Ferry e considerando quello che aveva appena passato Karen, sarebbe stato eccessivamente brutale costringerla a sorbirsi un'ora di traffico pazzesco. «Se vuole, possiamo fermarci da qualche parte,» propose. Lei lo guardò con curiosità. «Fermarci da qualche parte?» «Per aspettare che il traffico migliori un po',» spiegò Frank. «D'accordo.» Qualche minuto più tardi, entrarono in un piccolo bar sulla Peachtree Street. Frank aveva bisogno di bere, ma più che altro sentiva la necessità di sedersi in un locale tranquillo, immerso nella penombra, lontano dal caldo e dal traffico. «Possiamo parlare di quello che vuole,» esordì Frank, dopo aver ordinato da bere. «Voglio dire, non è necessario...»
«È stata assassinata?» chiese subito Karen. «Probabilmente. Non lo sappiamo.» «Ma non è una cosa semplice da scoprire?» «Se le avessero sparato o se l'avessero strangolata, sarebbe stato molto più facile stabilirlo, ma, in questo caso, potrebbe esserle successo di tutto. Forse un incidente. Oppure, persino un attacco di cuore, non lo so. Magari c'era qualcuno con lei e quella persona si è fatta prendere dal panico, senza sapere che cosa fare, e ha deciso di portarla in quello spiazzo e l'ha lasciata lì... Be'... in tal caso non si potrebbe parlare di omicidio. È abbastanza improbabile, ma non impossibile.» «Allora il suo corpo non...?» «Non c'erano tracce di lotta,» rispose Frank, cercando di presentare la cosa in modo estremamente gentile. «Ed era completamente vestita.» Si strinse nelle spalle. «A parte una scarpa.» «Una scarpa?» «Ma era a pochi metri di distanza,» aggiunse Frank. Arrivarono le ordinazioni e Frank guardò i bicchieri senza toccarli. «Senta,» disse. «Non sappiamo esattamente come sia morta Angelica. Ma siamo sicuri che perlomeno non le sono accadute le solite cose.» Karen lo fissò da sopra il bicchiere. «Le solite cose?» «Per me lo sono.» Apparve la cameriera e prese le ordinazioni di due uomini eleganti, seduti a un tavolo vicino. Senza volerlo, gli occhi di Frank la seguirono. Era giovane e camminava con passo svelto ed energico, tipico delle ersone ancora convinte che la loro sorte può cambiare. Karen si guardò attorno. «Non sono mai stata qui,» disse. «Neppure io.» «L'ha scelto a caso?» «Era il primo sulla destra,» spiegò Frank. «Sembrava carino. Era meglio del traffico.» Guardò l'orologio. «La situazione dovrebbe migliorare nel giro di un'ora. Poi potremo andarcene.» Karen prese un pacchetto di sigarette dalla borsa e ne offrì una a Frank. «No, grazie.» Karen se ne accese una. «Ha l'aria del fumatore.» «Davvero? E che aria hanno i fumatori?» «Sembra che non gliene importi nulla di alcune cose.» «Si riferisce alla salute?» «La vita è troppo breve,» disse Karen.
«Allora ne prenderò una.» Karen gli porse il pacchetto. «Angelica e io non andavamo molto d'accordo,» mormorò. «L'avevo immaginato,» disse Frank, accendendosi la sigaretta. «Naturalmente, non c'è niente di strano.» «Ma non ho idea di che cosa le sia accaduto,» continuò Karen, «e se l'hanno uccisa, non so proprio chi sia stato.» «Per ora mi interessa solo la sua vita,» disse Frank. «Perché?» «In modo da poterla ripercorrere.» «Sino alla fine?» «In base al regolamento, è così che bisogna procedere,» le spiegò Frank. Bevve un sorso di scotch e fu pervaso da una piacevole e rassicurante sensazione di calore. Si rese conto che ne avrebbe voluto un altro, e un altro ancora. Appoggiò con forza il bicchiere sul tavolo. Karen lo guardò sbalordita. «Che cosa c'è?» «Niente,» rispose prontamente Frank. Si appoggiò alla sedia, allontanandosi dal bicchiere maledetto. «Non sa davvero nulla di come viveva Angelica?» chiese. «Ho cercato di occuparmi di lei. Dopotutto, era mia sorella. Ma la mia intrusione la irritava.» «Bene, per ora so solo che era molto ricca e molto bella.» Karen si sporse in avanti. «Il denaro e la bellezza rendono più probabile l'ipotesi dell'omicidio?» «Meno probabile, direi,» rispose Frank. Aspirò dalla sigaretta. «Nella Squadra Omicidi abbiamo un vecchio motto: 'Segui la pista del sangue e del denaro.'» «Che cosa significa?» «Nella maggior parte dei casi la gente uccide i suoi simili per questioni di soldi o affari di famiglia.» Karen scosse dolcemente la testa. «Non ho ucciso mia sorella, signor Clemons.» «Pensavo soprattutto alla questione dei soldi,» continuò Frank. «Angelica possedeva molto di suo?» «Sì, aveva un fondo fiduciario.» Frank prese il taccuino. «E aveva libero accesso ai soldi?» «Solo da poco tempo,» rispose Karen. «Li amministrava Arthur Cummings. Era l'avvocato di mio padre. E si può dire che fosse anche il tutore
di Angelica. Perlomeno, tutelava il suo patrimonio.» «E si preoccupava anche di sorvegliarla?» «Non penso», rispose Karen. «Credo che mia sorella non avrebbe permesso a nessuno di farlo.» Frank scrisse il nome di Cummings sul taccuino. «Dove posso trovare Arthur Cummings?» «Cummings, Wainwright e Houstan,» rispose Karen. «Li ha mai sentiti?» «No. Avrei dovuto?» «Be', non è obbligatorio. È un grande studio di avvocati. Tutto qua.» Frank si rese immediatamente conto che era il genere di legali potentissimi che la gente della cerchia di Karen conosceva per forza, e che quelli come lui non avevano mai sentito nominare. «Io conosco soprattutto quelli che sono fuori su cauzione e i pirati della strada,» spiegò. «Crede che Cummings sia molto diverso?» chiese Karen. «Si veste meglio,» rispose Frank. Rise, ed era la prima volta da quando era con Karen. «Le persone con cui ho a che fare si vestono solo ai grandi magazzini.» Karen spense la sigaretta senza dire nulla. «Cummings era anche il suo tutore?» chiese Frank. «Per alcuni anni,» rispose Karen. «Ero quasi maggiorenne quando sono morti i miei genitori. È stato il mio tutore solo fino ad allora.» «Lo conosce bene?» «Non molto,» rispose Karen. «Riconosco la sua firma. La vedevo sempre sui miei assegni.» «Nient'altro?» «Era il miglior amico di mio padre. Non so altro.» «E per quanto ne sa, Angelica lo conosceva meglio di lei?» «Per quanto ne so,» ripeté Karen. «Comunque, se Angelica è stata uccisa, può essere stato chiunque.» «Perché?» «Perché era bellissima,» rispose Karen decisa, «e chiunque avrebbe potuto desiderarla: Arthur, l'autista del taxi, il ragazzo del droghiere, lo sconosciuto dell'ascensore.» Fece una pausa. «Persino lei, signor Clemons.» Afferrò il bicchiere ormai vuoto e lo rigirò fra le mani. «Chiunque avrebbe potuto desiderarla, e per questo arrivare a ucciderla.» Appoggiò il bicchiere sul tavolo e si sporse verso di lui. «Mia sorella è stata violentata?»
«Non lo so,» rispose Frank. Per quella che parve un'eternità, Karen si limitò a fissarlo, poi, lentamente, gli occhi si fecero lucidi. 5 Quando Frank rientrò alla Centrale, trovò Caleb che lo aspettava, comodamente seduto sulla sedia imbottita davanti alla scrivania. «Ho due novità per te,» disse Caleb. «Che cosa?» «Un messaggio da parte di tua moglie.» «Ex moglie.» «Per me non fa differenza,» continuò Caleb. Scrollò le spalle. «A ogni modo, c'è un messaggio di Sheila.» «Che cosa vuole?» «Devi passare da lei prima di andare a casa.» «Va bene, che altro c'è?» «Questo,» disse Caleb. Prese una cartelletta appoggiata sulle gambe e la buttò sulla scrivania di Frank. «Il referto con i risultati dell'autopsia su Angelica Devereaux.» «L'hai già letto?» «L'ho appena finito.» «Niente di nuovo?» «Be', non è stata violentata, se è questo che vuoi sapere.» «E ti sorprende?» Caleb scosse la testa. «Non molto. L'esperienza m'insegna che non c'è bisogno di essere una bellezza per essere violentata. Grassa o magra, vecchia o giovane, non importa.» Sorrise tristemente. «Come dice un vecchio detto, Frank, la bellezza è negli occhi di chi osserva.» Fece scivolare la cartelletta sulla scrivania. «Dai un'occhiata.» Frank la prese in mano. «Ho conosciuto sua sorella,» disse. Guardò Caleb. «Vivevano insieme dal giorno dell'incidente aereo.» Scosse la testa. «Adesso non ha più nessuno.» Caleb lo osservò, immobile. «Ma a pensarci bene, tutti in fondo siamo soli. È una verità pura e semplice.» Indicò la cartelletta ancora chiusa. «A ogni modo, per lo meno conosciamo la causa della morte.» Sembrava che i suoi occhi stessero per sprofondare nelle grandi cavità rotonde. «Liscivia.» «Che cosa?»
«Liscivia, o qualcosa del genere,» ripeté Caleb. «La base è comunque quella. Così almeno hanno detto i ragazzi al laboratorio.» Afferrò la cartelletta dalle mani di Frank e l'aprì. «Ecco qua,» disse. Poi lesse direttamente dal referto. «Un veleno a base di liscivia somministrato con iniezioni multiple nella regione pubica.» Chiuse la cartelletta. «Che cosa ne pensi?» Frank prese il referto dalle mani di Caleb e cominciò a leggerlo. Non c'era niente di particolare. Non c'erano tracce di violenza, proprio come aveva detto Caleb, e inoltre nel sangue non erano state rilevate tracce di droga. «Non aveva bevuto nemmeno un goccio di alcol,» precisò Caleb. Frank continuò a leggere, mentre Caleb lo osservava in piedi. «Posso farti risparmiare del tempo, Frank,» disse infine. «Cosa vuoi dire?» «Era incinta,» disse Caleb senza mezzi termini. Frank appoggiò la cartelletta sulla scrivania. «Significa che potrebbe trattarsi di un caso molto semplice,» aggiunse Caleb. «Sarebbe a dire?» «La legge la chiama 'morte accidentale'.» «Che cosa significa?» «Forse cercava di abortire.» «Con la liscivia?» chiese Frank incredulo. «Con qualsiasi cosa,» aggiunse Caleb. «Un'amica a scuola potrebbe aver accennato alla liscivia come a un rimedio per liberarsi di un bambino indesiderato.» Frank continuò a guardarlo con espressione scettica. «Ti ricordi del figlio dei Johnson? Te lo ricordi?» «Sì, il bambino che si è impiccato.» «Esatto. Tutti, a eccezione dei genitori, erano convinti che fosse stato un suicidio.» «Be', è quello che normalmente si pensa, Caleb, quando si trova un bambino appeso al soffitto con uno sgabello sotto i piedi.» «Ma non è stato un suicidio, Frank,» disse Caleb. «La madre continuava a ripetermelo e io le credevo.» «Pensavo che ti preoccupasse solo il fatto che fosse nudo.» «Anche quello,» riprese Caleb. «A ogni modo, facendo domande in giro, ho scoperto che alcuni ragazzini della squadra di pallavolo gli avevano raccontato di quanto fosse eccitante masturbarsi quando si sta per perdere conoscenza. Ecco cosa stava cercando di fare.»
«E adesso pensi che la morte della Devereaux sia dovuta a un tentativo di aborto?» «Fuò darsi,» rispose Caleb. «Forse si è iniettata da sola il veleno.» Frank lo guardò e Caleb sorrise. «Sì, lo so. Ormai priva di vita, non avrebbe potuto trascinarsi da sola in quel campo, vero?» «No.» «Scommetto di sapere chi è stato.» Frank rimase in attesa della risposta. «Il padre del bambino,» disse Caleb. Poi continuò con l'aria da saggio. «Credimi, trovalo, e avrai trovato anche quella povera anima perduta che ha ucciso la ragazza o l'ha aiutata a suicidarsi. A ogni modo, trova il padre e avrai risolto il caso.» «Può darsi,» disse Frank. Ma non era convinto. Aveva avuto a che fare con troppi casi ai quali non era possibile applicare le regole generali, casi in cui niente era riducibile a elementi comuni. Per un attimo, riguardando la cartelletta, gli sembrò di sentire una voce dentro di sé. Sapeva che era solo frutto della sua immaginazione, ma non poteva scacciarla dalla mente. Era un gemito quasi impercettibile, tuttavia riusciva ad avvertirlo. Caleb mise la mano sulla spalla di Frank. «Trova il padre e sei a posto.» Frank annuì e aprì di nuovo la cartelletta. «Non ci credi?» chiese Caleb. «Non lo so.» Caleb lo fissò con un'espressione di rimprovero. «Rendi tutto troppo complicato, Frank.» Ridacchiò. «Non ti accorgi nemmeno delle cose più semplici.» «Forse non mi piacciono,» disse Frank, mentre dava un'altra occhiata alla prima pagina del referto. Caleb tolse la mano dalla spalla di Frank. «Devo andare a casa, ora. La Grande Hilda mi sta aspettando.» Si piegò in avanti e tamburellò con le dita sul referto. «Su con la vita, Frank. Il fatto che la ragazza fosse incinta è la cosa migliore che ci potesse capitare.» Si raddrizzò. «E, giusto per restare in tema di consigli, stai lontano da Bottom Rail.» «Non mi è mai piaciuto molto, quel posto,» disse Frank distrattamente. «E stai lontano anche da tutti i locali di quel tipo.» Frank lo guardò. «Mi sembra di sentire mio fratello.» «Oh, merda,» disse Caleb con un brivido. «Gesù santo, risparmiami almeno questo.» Scoppiò a ridere e uscì dalla stanza. Frank riprese a guardare il referto, ma la mente era sempre rivolta ad
Alvin: per un momento, ripensò al fratello con un briciolo di tenerezza. Gli venne in mente la vita tranquilla e pulita che conduceva Alvin, il percorso che ogni giorno copriva dalla stazione di polizia a casa e viceversa. Vide Alvin che tagliava l'erba del prato in estate, potava la siepe, lanciava la palla da bowling nell'unica serata libera della settimana e pensando a tutto ciò si rese conto, con tristezza, che solo il legame di sangue lo univa ormai al fratello. Erano cresciuti distanti l'uno dall'altro come due meteore fluttuanti in due galassie diverse e ora anche Sheila si era allontanata, e Sarah se n'era andata per sempre, e non sarebbe mai più tornata. Si ritrovò a osservare ancora il referto del laboratorio. Lo aprì lentamente e lo rilesse, questa volta più attentamente, con il blocco aperto e la matita appoggiata sulla pagina bianca. Il chiaro linguaggio scientifico poteva anche nascondere qualcosa. Lesse la prima pagina, poi la seconda: oltre le crude descrizioni, sentiva la lama del bisturi che apriva lo stomaco di Angelica e il rumore del contenuto delle viscere versato nel recipiente di acciaio. Poco prima di morire aveva mangiato un panino al prosciutto e bevuto del latte. Non c'erano tracce di droga, né di alcol. Prima di morire era perfettamente lucida. Ed era lucida mentre l'ago penetrava nella pelle e la liscivia scorreva nel sangue. Secondo il referto, avrebbe anche potuto iniettarsi il veleno da sola. Sarebbe stato molto doloroso, ma non impossibile. Niente lasciava supporre che fosse stata legata, non c'erano segni di violenza o di escoriazioni provocate dalle corde. Ma il quadro che emergeva da questi dati era insolito. Una bellissima ragazza seduta che riempiva ripetutamente di veleno una siringa ipodermica, per poi iniettarsi la soluzione due o più volte nella regione pubica. «Sette iniezioni ipodermiche,» così terminava il referto, una conclusione secca come il rumore del martello usato per chiudere la bara di Angelica: «Morte accidentale.» L'ultima parola continuò a risuonare nella mente di Frank: accidentale. Ma se si era uccisa accidentalmente, allora qualcuno l'aveva aiutata a farlo e aveva trascinato il suo corpo fino a quello spiazzo deserto. E c'era qualcos'altro. Nella sua bocca era stato trovato del fango. Ripensando alla posizione del corpo, al modo in cui giaceva sulla schiena, Frank non riusciva a capire come potesse esserle finita della terra in bocca. Se Angelica fosse stata trascinata per i piedi a faccia in giù, allora sarebbe stato possibile trovarle del fango in bocca. Ma il viso si sarebbe graffiato e invece risultava intatto. E neppure il davanti della camicia era sporco. Più Frank ripensava a questi elementi, più si sentiva attirato verso il campo deserto. Per alcuni minuti combatté l'impulso di tornare laggiù. Il
campo era già stato setacciato. I suoi occhi non erano migliori di quelli degli altri poliziotti. Eppure, sembrava che quel luogo lo chiamasse, sembrava che implorasse la sua presenza con quel silenzio simile a una voce sconosciuta e supplicante. Era già buio quando parcheggiò la macchina lungo la strada e gli sembrò di rivivere l'istante in cui, la notte precedente, qualcun altro aveva fatto la stessa cosa. Un altro individuo aveva posteggiato la macchina all'estremità del campo, aveva spento velocemente i fari e si era immerso nell'oscurità della notte. Frank scese dalla macchina e si guardò intorno. Le luci giallastre delle poche case circostanti non riuscivano a illuminare il limite del campo, ed era come se quello spazio vuoto riposasse in un'oscurità da lui stesso generata, che nessuna luce umana poteva penetrare. Avvertiva quell'oscurità come un pesante mantello gettato sulle spalle, come un pesante lenzuolo nero che lo avvolgeva. Si diresse lentamente verso il bordo estremo del campo. Fili d'erba secchi crescevano lungo il ciglio del marciapiede. Frank si piegò, ne staccò uno e se lo mise in bocca. Mentre lo sguardo vagava per il campo, si rese conto del tragitto percorso dall'uomo mentre, combattendo tra i rovi, trasportava il corpo di Angelica in braccio o sulle spalle. Gli stessi cespugli che avevano graffiato la caviglia della ragazza ora si attaccavano ai suoi pantaloni, mentre si dirigeva verso il centro del campo. Avvertiva il respiro affannato dell'uomo che l'aveva trasportata, vedeva i sussulti del corpo mentre si apriva un varco tra i rovi e il tonfo della scarpa di Angelica caduta per terra. Si fermò e abbassò lo sguardo. La scarpa era stata trovata proprio in quel punto e per un attimo fissò il terreno, come se cercasse di captare le vibrazioni provenienti dalle sue viscere. Ma la terra avida e sporca rimase indifferente, e Frank riprese a camminare attraverso i fitti cespugli, finché non si ritrovò sopra il canale poco profondo nel quale era stato rinvenuto il corpo di Angelica. Rimase immobile, guardandosi intorno. Il campo era così brullo da conferire a tutto ciò che lo circondava un senso di squallore ancora più profondo e desolato. Sulla sinistra un magazzino color ruggine era debolmente illuminato da un unico lampione. Era costruito con semplici mattoni giallognoli e metà delle finestre verniciate di nero erano rotte. Sembrava pendesse verso sinistra, come se stesse lentamente affondando nel terreno. E in fondo allo spiazzo, un gruppo di case di legno, metà delle quali erano state sprangate e abbandonate, gemevano nella brezza estiva. Una di esse si sporgeva in avanti come se dovesse crollare da un momento
all'altro, e l'unica luce che brillava dalla finestra del secondo piano sembrava osservare Frank con un occhio mezzo chiuso. Sugli altri lati che circondavano il campo non vi era praticamente nulla. Da una parte si ergeva solo una chiesa e dall'altra un magazzino abbandonato di pezzi di ricambio per auto. Frank osservò ancora una volta il punto in cui era stato ritrovato il corpo di Angelica. Rivide la ragazza distesa, con le gambe leggermente piegate, un braccio in avanti e l'altro disteso lungo il fianco. Era come se sul terreno fosse rimasta l'impronta del suo corpo. Guardandolo, Frank si convinse sempre più che Angelica non era stata portata lì per caso. Sembrava che quel posto fosse stato scelto per il suo squallore, come se qualcuno avesse voluto umiliarla e offenderla ulteriormente. Frank rimase lì per qualche minuto, sperando di percepire qualche cosa oltre all'evidenza dei fatti, un'intuizione, per quanto debole, che comunque potesse aiutarlo. Ma non avvertì nulla se non la fredda realtà della morte di Angelica. Si girò e si diresse lentamente verso la macchina. Quando Frank arrivò, tutte le luci erano accese, ma non ne fu sorpreso. Sheila le teneva più o meno sempre così dalla morte di Sarah, come se la tragedia fosse una specie di animale feroce che potesse essere tenuto lontano da un semplice fuoco. «Pensavo arrivassi prima,» disse Sheila bruscamente, aprendo la porta. «Ho un nuovo caso,» le rispose Frank. «Me lo ha detto Alvin. Una ragazza.» «Sì.» «Sai già che cosa è successo?» «Ne so ancora molto poco.» Sheila annui velocemente, poi si spostò dalla porta. «Be', entra,» disse. Frank si diresse in soggiorno, ma non si sedette. Non si sentiva più a casa sua. Sheila si avvicinò al camino e vi appoggiò la schiena. Indossava un vestito blu, leggermente stropicciato, e i capelli cadevano scompigliati sulle spalle. Sembrava stanca, come se avesse dormito male. «Ho deciso di andarmene da Atlanta,» disse. «Capisco.» «Sto per vendere la casa.» Frank non disse nulla. «Pensavo di dirtelo per primo, per darti la possibilità di acquistarla.»
«Non la voglio.» Sheila distolse lo sguardo. Era come se rifiutando la casa che avevano diviso, lui la rifiutasse ancora una volta. «Va bene,» rispose in tono duro. «Vendo la casa e ti do metà del ricavato.» «Non voglio quel denaro,» ribatté Frank. Sheila lo guardò con un'espressione di disapprovazione. «Sembra che tu abbia bisogno di un vestito nuovo.» «Non voglio quel denaro, Sheila,» ripeté Frank. «Potresti comperarti un'altra casa,» disse Sheila. «Mi piace quella che ho adesso.» «Quel buco in affitto? Ti piace? Frank, è una topaia!» «Non ci sei mai stata.» «Alvin me l'ha descritta.» «Alvin vede le cose a modo suo,» disse Frank. «E non è detto che abbia sempre ragione.» «Be', me ne ha parlato,» continuò Sheila. «E se penso che potremmo ancora vivere...» «No,» la interruppe con tono deciso Frank, guardandola mentre si voltava verso il camino. «Non volevo ricominciare,» disse sommessamente Sheila. «Ho promesso a me stessa di non ricominciare ed è quello che intendo fare.» Frank si sforzò di sorridere. «Allora, Sheila, dove ti trasferirai?» La donna si calmò e si girò verso Frank. «Torno a casa.» «A Fort Payne?» «Sembri sorpreso.» «Sì... un po'.» «Non capisco perché,» disse Sheila. «Non mi è mai piaciuta Atlanta, Frank. Non ho mai voluto venirci.» Si avvertiva un tono di accusa nella voce. Lui l'aveva portata dove lei non voleva andare, e i disastri si erano succeduti uno all'altro, finché tra di loro non era rimasto più niente, se non il ricordo della tragedia. «Hai intenzione di comperarti una casa?» chiese Frank. «Non subito,» disse Sheila. «Inizialmente abiterò con mio padre. Ha bisogno di cure, sai.» Frank cercò di sorridere di nuovo. «Ti auguro buona fortuna, Sheila. Davvero.» Lei lo guardò con uno sguardo improvvisamente rabbioso. «Sei un figlio di puttana,» sibilò.
Frank si diresse verso la porta. «Spargerò la voce che la casa è in vendita. Qualcuno al dipartimento potrebbe essere interessato.» Sheila si avvicinò al divano e ci si buttò sopra. «Non disturbarti,» disse amaramente. Frank aprì la porta e si girò a guardarla. Per un attimo, avrebbe voluto trovare il modo per alleviare l'amarezza, per attirarla dolcemente a sé, non come moglie, visto che ormai era impossibile, ma come la persona che aveva amato più profondamente e più intensamente nel corso della sua vita. Ma sarebbe stato tutto inutile, e lo sapeva. Ormai non poteva fare altro che chiudere la porta. Era mezzanotte passata quando arrivò a casa. Le ore trascorse al volante per le vie della città non erano servite a molto. Si buttò sul divano e accese la lampada. Vide il letto disfatto nella camera vicina e quel disordine fece riecheggiare l'accusa che si era sentito ripetere per tutta la vita: non sapeva portare a termine nulla e si lasciava trasportare dalla corrente senza opporre resistenza. L'accusa non era sempre stata fondata. In fin dei conti, si era trasferito ad Atlanta su esortazione di Alvin, e per anni avevano fatto la ronda insieme, due fratelli in uniforme per le chiassose e disordinate strade della città. Si ricordava dell'orgoglio che un tempo provava indossando l'uniforme con i bottoni risplendenti e il distintivo sfavillante. Gli ci erano voluti molti anni per cambiarlo con lo stemma d'oro da investigatore e, sebbene Alvin fosse più anziano e avesse lavorato più a lungo presso il dipartimento, riuscirono a farlo nello stesso anno. I due fratelli in uniforme diventavano i due fratelli della Omicidi, e per parecchi anni lavorarono insieme ad alcuni casi. Poi Sarah era morta a sedici anni e, due anni dopo, Sheila l'aveva lasciato. Da allora Alvin si era allontanato sempre più, sia sul lavoro che nella vita privata, ed ora, ripensandoci, Frank scoprì che non poteva certo biasimarlo. Si alzò e uscì sul piccolo balconcino. Ci stava solo una sedia di ferro battuto, ma a volte gli sembrava che quello fosse l'unico posto in cui si sentisse davvero a suo agio. Da quella posizione, poteva guardare la città dall'alto e prendere le distanze da ogni cosa per osservarla più chiaramente. Aveva passato molte ore seduto su quella sedia, pensando al padre, alla figlia e alla moglie. Il vecchio era sempre là, a predicare la bontà e la salvezza. Ma dov'era andata a finire la moglie del vecchio? Perché l'aveva lasciato con due figli e una chiesa con una congregazione così povera che spesso nel cestino delle offerte trovavano soltanto sacchetti di piselli o bacche? A volte, ripensandoci, gli sembrava di poterlo toccare. Si ricorda-
va il viso scuro e infinitamente triste della madre, sfinito dalla rigida santità del padre. Così avvizzito che a volte la donna sembrava poco più di una carcassa nuda, qualcosa che gli uccelli avevano beccato fino a far morire. «Vai via, madre,» pensò Frank. «Stai lontana da lui.» Ma luì e Alvin erano dovuti rimanere e si ricordava come, dopo la partenza della madre, il vecchio fosse diventato sempre più violento nei suoi sermoni, sempre più frenetico, disperato, fanatico. Domenica dopo domenica, aveva infuso in quella congregazione, fino ad allora priva d'interesse, una frenesia di gloria. Persino Alvin si era unito a loro. E così era solo lui che, in silenzio, tra una folla urlante di credenti, oscillava, piangeva e gridava per raggiungere la salvezza. Sheila era stata la sua redenzione e ricordava il tocco delle lunghe gambe come se fossero state ancora avvinghiate attorno a lui. Il suo caldo respiro e la sensazione delle sue dita fra i capelli lo avevano salvato. Durante quelle lunghe notti d'amore, pensava che mai avrebbe potuto sdraiarsi insieme con lei senza desiderarla. Eppure, con il passare degli anni, la loro passione era svanita, sinché alla fine, non avevano diviso altro che le piccole stanze con i quadri appesi alle pareti, che rappresentavano i paesaggi marini. Ormai, in comune, avevano solo la casa e la figlia. Era nata pochi anni dopo il loro matrimonio, e lui l'aveva chiamata Sarah, come ultima concessione al padre: Sarah, come la moglie fedele e sofferente di Abramo. La sua nascita aveva trasformato Frank, o, perlomeno, gli aveva dato quell'impressione. Era stato allora che aveva scoperto di possedere un'immensa e viscerale capacità di amare. Era come se la bambina possedesse una forza unica, che né la moglie né il lavoro erano in grado di trasmettergli. Si era reso conto che quel fagottino aveva dato un nuovo significato alla sua vita, come solo un figlio sa fare. C'era qualcosa di primordiale nel legame tra padre e figlia, ed era un legame unico, che lo aveva coinvolto completamente, e quando, anno dopo anno, aveva cominciato ad allentarsi, si era sentito lentamente privato di una forza vitale. E infatti, quel legame si era spezzato. Lentamente, la sua malinconia l'aveva sopraffatta, e Frank non aveva potuto farci niente. A nove anni giocava da sola. A undici anni lo sguardo dei suoi occhi era vuoto, indecifrabile. A tredici l'aveva persa. E tre anni dopo era morta. Frank non aveva capito perché. Lo psicologo della scuola l'aveva definita «malinconia congenita», come se fosse possibile risolvere il caso con un nome. Ma per Frank era rimasto un mistero, che si era insinuato in lui come l'acqua nelle venature aperte del legno. Per due anni non aveva pensato ad altro, mentre
i casi rimanevano insoluti sulla sua scrivania e la sua reputazione al dipartimento diminuiva sempre più. Ora gli sembrava che non gli fosse rimasto altro che la città con le sue strade senza fine. Dal balcone vedeva l'orizzonte che si ergeva come un muro di stelle contro la notte. La vita possedeva ancora una certa magia che lo attirava. C'era qualcosa di meraviglioso nella concentrazione di tutti quegli uomini in uno spazio così ristretto ed era questa incredibile confusione che creava l'energia selvaggia e insaziabile delle strade, un'energia che si risvegliava in ogni notte estiva e che resisteva, ora dopo ora, come se fosse sicura che la vita, dalla quale era stata generata, sarebbe continuata in quel modo, per sempre. A volte, osservando la città scintillante, Frank pensava di poter capire i suoi abitanti, come se le diverse forze nascoste che li facevano andare avanti fossero il prodotto di un unico desiderio che, per qualche tragico e misterioso codice, spingeva un uomo a salvare il proprio fratello e un altro a distruggerlo. 6 Il mattino seguente, Frank si svegliò presto, proprio mentre i primi raggi del sole iniziavano a filtrare attraverso le persiane. Fece una doccia, si vestì velocemente e si diresse verso l'auto. Il traffico era meno caotico di quanto credesse e quindi arrivò in netto anticipo alla Centrale ancora deserta. Prese il rapporto del laboratorio e lo rilesse. Non l'aveva ancora finito quando arrivò Asa Brickman, il capo della Squadra Omicidi, che si avvicinò alla scrivania. «Buongiorno, Frank,» disse. «Buongiorno, Asa.» Brickman indicò con il capo il rapporto. «È di quella ragazza trovata a Glenwood?» «Angelica Devereaux,» rispose Frank. «Sì, proprio lei. Dammelo.» Frank lo guardò con aria interrogativa. «Lo vuoi leggere?» Brickman rise. «No, non voglio leggerlo,» rispose. «Lo voglio dare a qualcun altro.» Si abbassò e afferrò la cartelletta con una grande mano scura. Frank non lasciò la presa. «Perché?» Brickman scosse la testa. «Oh, dai, Frank. Lo sai meglio di me che quando una ricca ragazza bianca finisce così, bisogna darsi subito da fare.»
«Me ne sto occupando io.» «Qui stiamo parlando di una ricca famiglia bianca con antenati illustri, Frank. Questa Devereaux non è una delle solite puttane che vengono buttate nei vicoli bui.» Frank non disse nulla. Ma continuò a tenere stretta la cartelletta. Brickman mollò la presa e si raddrizzò. «Hai intenzione di farmi incazzare?» Guardò Frank con aria minacciosa. «Stiamo parlando di una ricca famiglia bianca, dannazione!» «Proprio come te, Asa?» chiese Frank. «Anche tu sei di una ricca famiglia bianca?» Brickman emise un profondo sospiro. «Sì, esatto. Non sembra, vero?» Si strinse nelle spalle. «Ascolta, il problema è che l'intera nobiltà ci terrà sotto controllo. Perciò voglio che se ne occupino i miei uomini migliori.» Sorrise con aria astuta. «E il tuo stato di servizio non è certo immacolato, vecchio mio. Capisci cosa voglio dire?» «Ho un presentimento per questo caso, Asa,» spiegò Frank. «Un presentimento?» «Sì.» «Cosa significa? Hai già scoperto qualcosa?» Frank scosse la testa. «Allora scordatelo,» sbottò Brickman. Allungò la mano verso la cartelletta, ma Frank non mollò la presa. La voce di Brickman si fece più dura, mentre lui si raddrizzava nuovamente. «Cosa cazzo stai facendo, Frank?» «Voglio questo caso.» «Da quando t'interessi ai casi di cui ti occupi?» «Da questo preciso momento.» «Ci sei collegato in qualche modo?» «No.» «Ti ritieni particolarmente adatto al caso o roba del genere?» «No.» «C'è un motivo per cui dovrei lasciarti il caso? Qualcosa che possano bere anche quelli molto in alto?» «No. È solo un presentimento.» Brickman lo fissò con calma. «Conosci Harry Gibbons?» «Certo.» «Secondo te non è il migliore alla Omicidi?» «Sì, credo di sì.»
«E poi segue sempre tutti quei dannati corsi, giusto? E va alla scuola serale. Non ti sembra un poliziotto modello?» «Così dicono.» «È come i poliziotti canadesi a cavallo: riesce sempre a catturare il suo uomo.» Frank annuì. «Be', Frank, anche Gibbons vuole occuparsi del caso,» disse Brickman. «Che cosa faresti al mio posto? Prova a pensarci. Qui vai sempre peggio, ultimamente, e non fai che rompere le palle a tutti.» Fece una pausa. «A proposito, che cosa cazzo ti è successo alla faccia?» Frank non disse nulla. «Hai sbattuto contro una porta?» chiese seccamente Brickman. «Questioni personali,» rispose Frank. «Non ha niente a che vedere con il lavoro.» «Uh uh,» esclamò Brickman poco convinto. «Comunque, se tu avessi un caso che dev'essere assolutamente risolto, non lo affideresti a Gibbons?» «Probabilmente sì,» ammise Frank. «E allora perché non dovrei farlo io?» «Perché in realtà,» rispose Frank, «a Gibbons non gliene frega un cazzo.» «Non me ne frega niente, Frank,» sbottò Brickman. Frank lo fissò diritto negli occhi. «Qualche anno fa, Asa, se un fottuto sindaco avesse chiesto a Gibbons di andare a fare piazza pulita di qualche nero scalmanato con la lingua lunga, che cosa credi che avrebbe fatto?» Il viso di Brickman si addolcì leggermente e sulle sue labbra apparve un debole sorriso. «D'accordo, Frank,» disse dopo un attimo. «Puoi occupartene tu. Almeno per un po'. Ma non voglio che lavori da solo.» «Non parlarmi di Gibbons,» sbottò Frank. «Che ne dici di Alvin?» Frank scosse la testa. «Caleb Stone.» «Quel vecchio puzzone?» Brickman si mise a ridacchiare. «Anche quel vecchio bastardo ha qualche presentimento riguardo al caso?» Frank si strinse nelle spalle. «È solo che con lui riesco a lavorare, tutto qua.» «Okay. Lavorerai con Caleb. Glielo dici tu o vuoi che lo faccia io?» «Ci penso io.» «Ti stai occupando di qualcos'altro?»
«Di quel tizio che ha ammazzato la moglie dalle parti di Highland.» «Sembra un caso piuttosto semplice, giusto?» «Sì.» «Ti spiace se lo passo a Gibbons?» «No.». «Okay. Siamo a posto,» disse Brickman. «Tu occupati solo della ragazza, e lascia perdere tutto il resto. Ma non fare cazzate, Frank. È la tua ultima possibilità.» Si girò rapidamente e uscì dalla stanza. Frank si rimise a leggere il rapporto del laboratorio, analizzando nuovamente ogni singolo dettaglio. Lentamente, la mente si spostò da Angelica alla sorella e Frank ripensò al modo coraggioso con cui era riuscita a controllarsi. Si chiese se anche Angelica fosse dotata di quella particolare qualità e se fosse stata capace di sedersi su una sedia per iniettarsi il veleno sette volte con incredibile calma. Nonostante quello che sostenevano al laboratorio, sembrava una cosa impossibile per chiunque. Era un sistema troppo complicato e il risultato doveva essere incredibilmente doloroso. Gli era capitato spesso di vedere la morte: polsi tagliati e immersi nell'acqua tinta di rosso, volti spappolati da colpi di arma da fuoco, corpi semplicemente distesi a terra con gli abiti ancora impregnati dell'odore del gas. Le ragioni che spingevano a compiere quei gesti erano quasi sempre le stesse: una solitudine e un isolamento così profondi da tagliar fuori dal mondo le vittime, rinchiudendole in un armadio buio dal quale non riuscivano più a fuggire. Cercò di immaginarsi Angelica con la siringa in mano, ma non ci riuscì. Rivide la fotografia sull'annuario e poi il corpo disteso a terra, ma non riuscì a trovare alcun collegamento tra la banalità della prima immagine e la perversità della seconda. Era ancora alla ricerca di un filo conduttore quando Caleb si avvicinò alla scrivania. «Ho incontrato Brickman,» disse con le labbra strette attorno alla pipa. «Ha detto che volevi vedermi.» «Lavoreremo insieme al caso Devereaux.» «Be', una bella notizia, Frank, ma sono già maledettamente impegnato.» «Gli altri casi verranno riassegnati.» Caleb aggrottò le sopracciglia. «E chi se ne occuperà?» «Gibbons prenderà il mio,» rispose Frank. «Ma non so niente del tuo.» Caleb scosse la testa, visibilmente risentito. «Sai qual è il problema di questo dipartimento? Non ti lasciano il tempo di capire come vanno le co-
se. Non fanno che spedirti da una parte all'altra e, nella maggior parte dei casi, non ce n'è neanche motivo.» «Così è la vita,» disse Frank seccamente. «Cinque persone sono rimaste uccise durante una rapina a mano armata, e quelli sono capaci di farla passare per un semplice furto.» Frank gli allungò il rapporto del laboratorio. «Leggilo.» «L'ho già fatto,» rispose Caleb. «E lo sai anche tu.» «Leggilo di nuovo.» «Perché?» «Perché potrebbe saltar fuori qualche indizio,» disse Frank. «Magari qualcosa che ti è sfuggito.» «Non in questo caso,» insistette Caleb. «Conosco già la risposta.» Appoggiò la cartelletta sulla scrivania di Frank. «Le cose sono andate così. Una bella ragazza ricca si fa mettere incinta da un bel ragazzo ricco. Nessuno vuole quel bambino. Il tutto contornato dalle solite stronzate, magari i classici genitori rompiballe, quelli che in una situazione del genere ti portano via la macchina nuova e non ti fanno più andare all'università.» «Quindi è stato il padre del bambino a uccidere Angelica?» «Se è stata assassinata,» rispose Caleb. «Magari si è trattato solo di un aborto finito male, come sostengono i ragazzi del laboratorio.» Soffiò il fumo oltre la testa di Frank. «Che cos'hai fatto nel frattempo?» «Ho accompagnato la sorella a identificare il corpo.» «Ti ha detto qualcosa?» «Non molto. Vivevano insieme. Una casa enorme sulla West Paces Ferry.» «Nient'altro?» «Non ho insistito molto,» spiegò Frank. Prese il taccuino. «Mi ha raccontato che Angelica era appena entrata in possesso di un'ingente somma di denaro. Fino ad allora, il patrimonio veniva amministrato dal suo tutore.» Girò la pagina. «Arthur Cummings. È socio di un famoso studio di avvocati.» «Uno studio davvero famoso,» continuò Caleb. «Qualche anno fa Cummings non si era candidato per diventare sindaco?» Frank annuì. «Sì, me lo ricordo.» «Ma non è mai entrato in lizza,» disse Caleb. «Diamine, non che me ne sarebbe fregato molto. Denaro vecchio. Denaro bianco. Detengono il potere, ma non riescono più a ricoprire cariche importanti, non in questa città.» «Pensavo di andare da Cummings questa mattina,» continuò Frank.
«Vuoi che ti accompagni?» «No. Voglio che tu faccia fare molte copie della foto di Angelica da distribuire in giro.» «Non otterrai nulla,» disse Caleb con tono sicuro. «Provaci comunque,» ribatté Frank. «I grandi capi vogliono che il caso venga risolto.» Caleb si tirò su i pantaloni con aria stanca. «Per una stronzata del genere mi ci vorrà tutta la giornata.» «Fammi sapere se scopri qualcosa.» «Ok,» disse Caleb, girandosi e dirigendosi faticosamente verso la porta. Frank prese l'elenco del telefono dalla scrivania e cercò il numero della società di Arthur Cummings. Lo studio era situato in una delle torri scintillanti che si ergevano nel centro di Atlanta; annotò rapidamente sul taccuino l'indirizzo e il numero di telefono. Poi guardò l'orologio: le nove e mezzo. Se Cummings era uno dei tipici avvocati del sud, ambizioso e sgobbone, doveva già essere in ufficio da almeno un paio d'ore. Era già quasi alla porta quando improvvisamente apparve Gibbons. «Ehi, Frank,» disse Gibbons avvicinandosi lentamente. «Hai iniziato tardi questa mattina.» Sorrise allegramente. «Non è successo niente durante il turno di notte?» «Niente.» Gibbons si raddrizzò la cravatta giallo limone. «Nessuna morte prematura, eh?» «No.» «Che cosa mi dici della ragazza trovata a Glenwood?» chiese Gibbons. Scostò la sua copia personale dei Rapporti Criminali dell'FBI. «Si tratta di un omicidio?» «Non lo sappiamo ancora,» rispose Frank. «Se è un omicidio, è un caso di prim'ordine. Te ne occupi sempre tu?» «Sì.» Un lampo di sorpresa attraversò il viso di Gibbons e Frank sospettò che qualcuno gli avesse già spifferato che il caso avrebbe potuto diventare suo. Gibbons era sempre più informato degli altri quando si trattava di ordini che venivano dall'alto. Giocava a tennis con l'investigatore capo e a pallamano con il capo della Buoncostume. E alla domenica andava sempre alla chiesa di Mount Pyron a pregare per la propria salvezza insieme con due membri del consiglio comunale. Non c'era un solo ingranaggio del governo che non avesse già unto ed era quindi ovvio che le informazioni pioves-
sero su di lui come la manna dal cielo. «Be', fammi sapere se hai bisogno di una mano,» continuò allegramente Gibbons. «Voglio dire, siamo tutti nella stessa barca.» Sorrise velatamente e su quelle labbra Frank notò le pallide e deboli fattezze della sua anima. 7 Erano quasi le dieci quando Frank arrivò nello studio di Arthur Cummings. Era situato all'ultimo piano di uno degli edifici più eleganti della città ed entrando nello spazioso ingresso, Frank ebbe l'impressione di udire il fruscio degli incartamenti, delle istanze e dei ricorsi che avevano contribuito a pagare un simile lusso. Il tappeto era folto e di color rosso scarlatto, mentre le pareti rivestite di pannelli erano tappezzate di quadri. Un lampadario d'ottone pendeva dal soffitto e illuminava una quantità incredibile di fiori e di piante. La centralinista sedeva dietro una grande scrivania di legno e le dita si muovevano agili su una fila di telefoni. Indossava una camicia e una gonna dello stesso colore del tappeto e possedeva lo sguardo remissivo ma calcolatore delle donne che sanno di essere circondate da uomini ricchi e potenti. «Posso esserle utile, signore?» chiese quando Frank si avvicinò alla scrivania. Il tono era leggermente duro e Frank notò che gli stava lanciando una rapida occhiata sdegnosa, capace di cogliere ogni dettaglio fuori posto. La cravatta macchiata, le scarpe impolverate e il vestito vecchio e ormai liso; probabilmente non si aspettava che esistessero ancora reliquie di quel genere nel suo mondo ultramoderno. Era uno sguardo capace di far sentire a disagio una persona e di esaltarne un'altra: Frank si sentì ridotto a uno sbirro pezzente con un occhio pesto e pochi stracci da quattro soldi. «Desidera vedere qualcuno?» chiese la donna. «Arthur Cummings», rispose Frank seccamente. «Il signor Cummings?» chiese la donna dubbiosa. «Sì.» «Ha un appuntamento?» «No.» «Be', temo che dovrà fissarne uno.» Frank scosse la testa. «Non ho tempo.» La donna lo guardò con aria glaciale. «Forse non ha capito.»
«C'è Cummings?» La centralinista non rispose alla sua domanda, si limitò a fissarlo sapendo benissimo che la conversazione poteva continuare solo nell'atrio, dove Frank avrebbe dovuto fornire spiegazioni all'uomo della sorveglianza più robusto. «Come le ho già detto,» fece poi in tono freddo e misurato, «il signor Cummings non riceve nessuno senza appuntamento.» Frank prese il distintivo e lo sventolò in faccia alla donna. La centralinista si sporse in avanti e lo guardò attentamente, cercando di capire se era vero oppure se si trattava di un distintivo di latta comprato in un negozio di giocattoli. «È della polizia di Atlanta?» chiese alla fine. Frank annuì. «Matricola numero uno uno quattro sette, se vuole prendere nota.» La donna s'irrigidì. «Non ce n'è bisogno.» Fece una pausa, e continuò a squadrarlo. «Posso sapere di che cosa si tratta?» «No,» rispose Frank, «credo che il signor Cummings preferisca mantenere un certo riserbo.» «Molto bene,» disse la donna. «Si accomodi pure. Vedrò quello che posso fare per lei.» Si alzò e si diresse rapidamente verso una delle porte che si affacciavano sul retro del locale. Frank si girò e iniziò a passeggiare per la stanza. Rimase colpito dai dipinti appesi alle pareti e si mise a osservarli con estrema attenzione, uno dopo l'altro. Erano tutti ambientati in quella che a Frank parve Parigi: scene di bar all'aperto e viali eleganti, enormi archi di trionfo e parchi lussureggianti. I colori erano brillanti, quasi abbaglianti; decisamente non gli piacevano. La pace e l'allegria dipinte in quei quadri si scontravano con i fatti della vita e per un attimo Frank cercò di capire perché mai qualcuno avrebbe dovuto appendere solo immagini di quel tipo. Si chiese se era stato Cummings a sceglierli. Ammesso di sì, perché l'aveva fatto? Forse per alleviare la grigia monotonia di uno studio legale, oppure per presentare una visione della vita possibile solo a chi avesse vinto un certo numero di cause, guadagnando così abbastanza denaro per starsene seduto in un bar, a sorseggiare del buon vino, come facevano ogni giorno migliaia di altre persone, senza le preoccupazioni dei comuni mortali. Stava ancora rimuginando sull'atmosfera generale dei quadri quando ritornò la centralinista. «Signor Clemons,» disse, «il signor Cummings la sta aspettando.»
«Grazie.» «Mi segua, prego,» continuò la donna. Si girò bruscamente e condusse Frank lungo un interminabile corridoio che sbucava in un ampio e vasto ingresso. C'era un'altra donna dietro una scrivania di legno. Era giovane e vestita in modo elegante. Lanciò a Frank un sorriso radioso che ispirava ben poca fiducia. «Sono la segretaria personale del signor Cummings,» disse. Guardò l'altra donna con aria gelida: «È tutto, Amy.» Tornò a fissare Frank. «Mi hanno detto che è della polizia.» «Esatto.» «E questa è una visita ufficiale?» «Sì.» «Le interessa avvalersi del nostro studio?» «Che cosa intende dire?» «Ha bisogno di una consulenza legale? Per lei, voglio dire.» «No,» rispose Frank. La donna prese qualche appunto e Frank si chiese attraverso quanti schiavetti avrebbe dovuto passare prima di poter incontrare Arthur Cummings. «Non posso perdere tutta la giornata,» sbottò alla fine. La donna alzò gli occhi. Sembrava che le avesse sputato in faccia. «Come ha detto?» «Voglio vedere Arthur Cummings,» rispose Frank con tono aspro. «E non ho tempo da perdere.» «Vede, di solito il signor Cummings riceve solo su appuntamento.» «Si tratta di indagini su un caso di omicidio,» spiegò Frank. La donna spalancò gli occhi. «Ora perché non preme quel pulsante e non avvisa il signor Cummings che sto andando da lui?» L'interfono stava ancora suonando quando Frank oltrepassò la doppia porta di mogano. Arthur Cummings si alzò lentamente, fissando Frank negli occhi. Indossava un impeccabile abito blu che non doveva essere mai stato indossato per più di quaranta minuti. Era alto, snello, con una chioma bianca e lucente, e aveva l'aria di chi vede la sua fortezza invasa dai barbari. Frank gli mostrò il distintivo. «Non volevo sembrarle scontroso, signor Cummings,» disse con calma, «ma ho molte cose da fare e lei era il primo della lista.»
Il volto di Cummings fu illuminato da un sorriso. «Capisco,» disse. «Bene, perché non si accomoda?» Frank si sedette su una delle sedie di fronte alla scrivania. Il celebre avvocato rimase in piedi voltando le spalle a un'enorme finestra. La luce che proveniva dall'esterno rendeva i suoi capelli color argento. «A dire la verità, signor Clemons, non capisco davvero di che cosa si tratti.» «Riguarda Angelica Devereaux.» Cummings si scurì in volto e si lasciò cadere sulla poltrona. Per un attimo, si limitò a fissare Frank, poi si sporse in avanti e parlò al telefono. «Non voglio essere disturbato,» disse. Rimise a posto il ricevitore. «Dunque, che cosa mi voleva dire? «È morta,» rispose Frank. «Abbiamo trovato il corpo in un campo, dalle parti di Glenwood.» «Glenwood?» ripeté il signor Cummings, come se il luogo del ritrovamento fosse più assurdo ancora della morte della ragazza. «Non sappiamo esattamente come sia morta,» proseguì Frank, «ma è certo che non può essere arrivata laggiù da sola.» Cummings sembrava perplesso. «Vuol dire che non sapete ancora se è stata uccisa?» «Non sappiamo che cosa sia successo,» ripeté Frank, «ma per lo meno siamo sicuri che nella vicenda è coinvolta almeno un'altra persona.» Fece una pausa, cercando di valutare le informazioni che era meglio non divulgare. «La morte è legata a un'iniezione, ma non sono state trovate siringhe vicino al corpo.» «Quindi ci sono di mezzo altre persone.» «Almeno una.» Il signor Cummings annuì. «È terribile,» mormorò. Sembrava davvero addolorato. Congiunse le mani, le appoggiò sulla scrivania e rimase a fissarle. «Era nel fiore degli anni,» alzò lo sguardo verso Frank, «così giovane.» «Già,» convenne Frank. Il signor Cummings scosse la testa tristemente. «Era così giovane.» Frank prese la penna e il taccuino. «Ho saputo che lei era il suo tutore.» «Chi gliel'ha detto?» «Karen Devereaux.» «Sì, be', in questi casi il termine legale è tutore,» continuò Cummings.
«È il termine tecnico.» «Che cosa vuole dire?» «Amministravo il suo fondo fiduciario,» rispose Cummings. «Ma non c'è altro.» «Lo amministra ancora?» «No. Angelica aveva compiuto i diciotto anni qualche mese fa. Ormai si amministrava da sola.» «Di quanti soldi stiamo parlando?» chiese Frank. «Il suo patrimonio si aggira sui tre milioni di dollari,» rispose Cummings. Sorrise tristemente. «Troppi perché una ragazza così giovane potesse amministrarli da sola.» «Erano in contanti?» Cummings osservò Frank come se fosse stato un ragazzino. «No, naturalmente. Aveva titoli, azioni e cose del genere.» Si strinse nelle spalle. «Comunque, era facile trasformare tutto in contanti. Inoltre, possedeva anche un'ingente quantità di quello che possiamo definire 'denaro liquido'. In pratica, denaro contante.» «Quanto?» «Duecentomila dollari.» Frank prese nota. «Che cosa faceva con tutto quel denaro?» «Non ne ho idea.» Frank lo guardò con aria interrogativa. «È la verità,» proseguì Cummings. «Non ne ho la più pallida idea. Per questo le dicevo che ero suo tutore da un punto di vista puramente tecnico.» «Puramente tecnico?» «Mi occupavo del suo patrimonio,» spiegò Cummings. «Ma per quanto riguarda i miei rapporti personali con Angelica direi che erano inesistenti. Così, quando ha compiuto i diciotto anni e ha iniziato ad amministrarsi da sola, i nostri rapporti sono cessati del tutto.» «Angelica aveva deciso di occuparsene personalmente?» «Sì, completamente,» rispose Cummings. «Devo ammettere che non mi è sembrata una decisione molto saggia, ma sa meglio di me, signor Clemons, che la legge è la legge. E in questo è assolutamente esplicita. A diciotto anni, Angelica ha assunto il pieno controllo dell'intero patrimonio ereditato. È tutto.» Frank annuì. «Quando l'ha vista per l'ultima volta?» «Il giorno del suo compleanno, come può immaginare,» rispose Cum-
mings. «Quando è stato?» «Il diciassette giugno.» «Qui nel suo ufficio?» «Esatto. Il mio rapporto legale con Angelica è terminato in quella data e, naturalmente, non ho avuto contatti di tipo privato.» «Come mai era diventato il suo tutore?» «Sono stato nominato esecutore testamentario alla morte dei genitori di Angelica.» «Perché?» «Ero amico di suo padre.» «E i vostri rapporti personali si esaurivano lì?» «Sì. Probabilmente scoprirà che Angelica era una persona molto testarda. Secondo me, non ha mai accettato il fatto che fossi il suo tutore. E alla prima occasione, si è liberata della mia presenza.» «Quindi non appena compiuto diciotto anni.» «Esatto,» disse Cummings. «Devo ammettere che mi spiace non aver instaurato con Angelica alcun tipo di rapporto.» Sorrise tranquillamente. «Ma era normale che le cose andassero così. Dopotutto ero il muro che la separava da tutti quei soldi.» «Quanti anni aveva quando sono morti i suoi genitori?» «Cinque anni,» rispose Cummings. «Karen ne aveva quasi diciotto. Nessun altro è mai andato a vivere con loro. Sono rimaste sole in quell'enorme casa.» Scosse la testa. «Non so perché, ma ho cercato sempre di essere per loro qualcosa di più di un semplice consulente legale. Erano due ragazzine che avevano bisogno di un padre. Probabilmente ho cercato di svolgere quel ruolo.» «Ma non l'hanno mai accettato.» «No,» ammise Cummings. «Certo, non era tutta colpa loro. In fin dei conti, non sono molto bravo come padre. Non so proprio cosa voglia dire fare il genitore.» «Lei non ha figli?» chiese Frank. «Ne ho tre,» dichiarò Cummings, «ma li vedo pochissimo. Vivono a casa, con mia moglie.» Alzò le braccia, lentamente. «E io vivo qui.» Riappoggiò le mani sulla scrivania. «Ho imparato da molto tempo che non si può obbligare la gente ad amarti. Non puoi nemmeno costringerla a chiederti un consiglio.» Allungò verso Frank una scatola di legno laccato. «Vuole un sigaro?»
«No.» Cummings ne prese uno per sé e lo accese. «Mi occupo di questioni legali e sono cose che riesco a capire. Le persone? Per me sono un mistero.» «Anche Angelica era un mistero?» «Uno dei più complicati,» rispose Cummings. «Avete scoperto molto sul suo conto?» «Siamo solo all'inizio.» «Forse non c'è niente da scoprire,» riprese Cummings. «Perché dice questo?» «Be', non sono molto abile nel giudicare il carattere, ma capisco quando non c'è nulla dietro la facciata, quando una persona è piuttosto vuota.» «Angelica era così?» «Sembrava non ancora formata,» spiegò Cummings. «Naturalmente è solo una mia impressione.» «Sapeva che era incinta?» Per un attimo Cummings non rispose. Assunse un'aria interrogativa, quasi infantile. «Sì,» disse. «E non avrei potuto essere più sorpreso.» «Perché?» «Per quello di cui parlavo prima,» continuò Cummings. «Perché sembrava così immatura. Non riuscivo a immaginarla mentre faceva l'amore. Era bellissima, certo. E incredibilmente attraente. Senza ombra di dubbio. Ma prendere una decisione del genere e portarla sino in fondo... be', per me era inconcepibile vedere Angelica in una situazione simile.» Sorrise timidamente. «Non credevo che per lei potesse essere fonte di piacere.» Era un commento talmente strano che Frank lo annotò sul taccuino. «Comunque, non prenderei molto sul serio le mie informazioni,» aggiunse Cummings. «Non sono mai stato un buon osservatore della natura umana.» «Come faceva a sapere che era incinta?» «Me lo ha detto lei.» «Quando?» «Il diciassette giugno, quando è venuta a prendere possesso dell'eredità. Era una delle ragioni per cui voleva avere il pieno controllo del suo patrimonio. Pensava di tenere il bambino, o almeno così mi ha detto. E voleva mantenersi da sola.» «Pensava di tenerlo?» «Sì,» rispose Cummings. «Non ha avuto l'impressione che progettasse un aborto?»
«No, perché?» «Be', abbiamo ragione di credere che sia morta nel tentativo di procurarsi un aborto.» Cummings scoppiò a ridere. «È ridicolo.» «Perché?» «Santo cielo, se Angelica avesse voluto abortire sarebbe potuta andare dai migliori specialisti di tutto il mondo,» spiegò Cummings. Si sporse leggermente in avanti. «Stiamo parlando di una ragazza incredibilmente ricca.» Frank prese nota. «Non ha mai accennato a un aborto?» «No,» rispose Cummings. «Mi disse che voleva tenere il bambino, allevarlo lei stessa e contemporaneamente andarsene a New York e diventare un'attrice. Ma stiamo parlando di una ragazzina.» «A New York?» «Esatto: un vero paradiso per gli esiliati,» disse Cummings. «Voleva andare là.» «E non ne fu sorpreso?» «A dire il vero no. Secondo me, si stava lasciando trasportare.» «In che senso?» Cummings si batté sulla testa. «Qui dentro. Si stava lasciando trasportare dalla fantasia.» Scosse il capo. «Non credo che avesse molto a cui aggrapparsi, ma sono convinto che, anche se molto ingenuamente, amasse davvero il bimbo che portava in grembo.» Rimase in silenzio, con gli occhi fissi sulle mani. «Chi è al corrente della morte di Angelica?» domandò alla fine. «Sua sorella. Lei.» «E il suo assassino,» aggiunse Cummings con calma. «Sì,» disse Frank, per la prima volta sicuro che esistesse davvero un assassino. Cummings scosse la testa. «Quelle due ragazze non hanno avuto una vita facile. Prima l'incidente aereo e ora questo.» Allontanò lo sguardo per poi tornare a fissare Frank. «Ora Karen è completamente sola.» «Già.» «E naturalmente i soldi di Angelica andranno a lei.» «Come fa a saperlo?» «Be', dubito che Angelica abbia lasciato un testamento,» spiegò Cummings. «Avrebbe dovuto farlo subito e non credo che rientrasse nelle sue intenzioni, almeno immediate. Ovviamente, se non c'è un testamento, pas-
serà tutto nelle mani di Karen.» «Ma in realtà lei non ne ha bisogno, giusto?» «Bisogno?» esclamò Cummings. «No, direi proprio di no. Ma quando qualcuno vuole del denaro non sempre si tratta di autentica necessità. È una delle poche cose che ho imparato nella vita.» Aspirò profondamente dal sigaro. «Non ho bisogno di sigari cubani, però li voglio lo stesso.» Osservò il fumo azzurrognolo che saliva verso il soffitto. «Hanno una casa splendida lungo la West Paces Ferry Road. C'è già stato?» «Sì.» «Piuttosto elegante. Ha notato i quadri?» «No.» «I Devereaux erano grandi collezionisti,» proseguì Cummings. «Erano sempre in giro, a Parigi, Roma. I dipinti che ho nell'ingresso sono tutti regali di Charles, il padre di Karen.» Frank annuì. «Anche Karen è una pittrice,» aggiunse Cummings. Frank chiuse il taccuino. «Bene, per ora credo che non ci sia altro,» disse alzandosi. «Grazie per avermi ricevuto.» Cummings sembrò non udire nemmeno le sue parole. «La prossima volta che va a casa di Karen dovrebbe dare un'occhiata alle sue tele. Io ho un suo quadro nell'ingresso.» «Lo farò,» disse Frank. «Grazie.» «La signorina Carson l'accompagnerà,» esclamò Cummings mentre Frank chiudeva la porta. Tornato nell'ingresso, Frank riconobbe immediatamente il quadro di Karen Devereaux. Era il ritratto di una bambina accanto a un vaso di fiori. Osservò attentamente i colori vari e si ritrovò a fissare il viso, con la carnagione pallida e i profondi occhi azzurri. Si rese conto subito che era il volto di Angelica e rimase a contemplarlo in silenzio. Era indubbiamente Angelica e Frank si ritrovò a spostare lo sguardo dal viso al corpo. Fino alle gambette nude e bianche. Si aspettava quasi di trovare un piede senza sandalo e una caviglia graffiata. Karen aveva posto la sua firma nell'angolo in basso a destra e, continuando a fissare il quadro, Frank si sorprese di non averlo notato prima. I colori erano scuri e l'atmosfera cupa: quel ritratto era decisamente diverso dai dipinti che lo circondavano. Al posto delle allegre scene campestri, c'era solo una bambina, con il volto quasi più grande del corpo. Ed era proprio quel viso che l'aveva attratto; era bellissimo, proprio come doveva es-
sere Angelica, ma di una bellezza che sembrava fuori posto e deformata come se pesasse sul quadro invece di irradiare dallo stesso. Era come se Angelica sapesse già che non le sarebbe stato permesso di vivere a lungo. In qualche modo, Karen aveva dipinto quella consapevolezza sul volto della sorellina: Frank si rese improvvisamente conto con un brivido che quella certezza non apparteneva alla piccola Angelica ma, in realtà, alla stessa Karen. 8 Caleb Stone era seduto alla sua scrivania quando Frank rientrò alla Centrale. Appoggiato allo schienale della sedia, con la pancia che straripava dalla spessa cintura nera dei pantaloni, Caleb sembrava un dio della gioventù bruciata. «Ho bussato a molte porte per te,» disse seccato. «Hai scoperto qualcosa?» chiese Frank dirigendosi verso la scrivania. «Sì, grazie al cielo,» disse Caleb. «Hai mai lavorato alla Buoncostume, Frank?» «No.» «Te l'assicuro, serve davvero per aprirti gli occhi. Vai per le vie della città a controllare un tipo in doppiopetto che ha una dolce mogliettina a Ansley Park, e un Figlio che studia con profitto a Emory.» Sorrise tristemente. «Il punto è che questo stesso tipo, una volta al mese, si diverte a legare una donna al letto e la picchia a sangue.» Frank si girò leggermente. «Cosa hai scoperto, Caleb?» Caleb si appoggiò allo schienale della sedia. «Be', quando lavoravo alla Buoncostume mi è capitato di tenere d'occhio una casa di Glenwood. Un tizio di nome Sancho controllava da lì un gruppo di prostitute. Una di queste si chiamava Beatrice e, mio Dio, Frank, era la creatura più carina del mondo.» Sorrise, quasi ansiosamente, come se i ricordi diventassero incredibilmente dolci. «Era nera come l'asso di picche, e con una luce selvaggia negli occhi. Ma, mio Dio, com'era carina!» Improvvisamente il tono dolce svanì e la voce di Caleb assunse un'intonazione tagliente. «A ogni modo, una volta ogni tanto, il tizio in doppiopetto pagava la normale tariffa e Beatrice doveva andare nel suo cottage a Black Mountain. Passava là il fine settimana. Proprio un romantico fine settimana. Da sposini freschi freschi.» Scosse lentamente la testa e il tono della voce divenne più grave e solenne. «Ogni tanto picchiava Bea. Giusto per divertirsi un po'. Lei la-
sciava perdere. Non era niente di serio, faceva parte dell'accordo. Mi confessò che non le piaceva ma, d'altronde, chi ha mai chiesto a una puttana che cosa le piace? Ma durante un fine settimana le cose a Black Mountain si misero male e quello stronzo fece un lavoretto poco pulito a Bea.» Caleb distolse lo sguardo, come se cercasse di nascondere le sensazioni che provava nel raccontare quella storia. «Be', mi piaceva Beatrice. Non aveva quello che si dice un cuore d'oro, e probabilmente a quei tempi ha fregato più di un cliente, ma non era cattiva.» Guardò di nuovo Frank. «Cristo, persino il vecchio Sancho non era così marcio. Era onesto come può essere un protettore.» Ridacchiò. «Grasso bastardo con la dentatura da cavallo. Come dice il famoso detto, avrebbe potuto mangiare le noci senza nemmeno romperle.» Frank sorrise. «Quando ha cominciato a sentire puzza di bruciato, Frank,» continuò Caleb, «si è comportato in modo molto strano per essere un protettore. Ha speso i suoi ultimi maledetti soldi per pagare le cauzioni delle sue ragazze e quando ha lasciato Atlanta per trasferirsi a Kansas City si è portato dietro tutte le sue puttane. Poi le ha pagate e sai cos'ha fatto?» Frank scosse la testa. «Le ha lasciate libere, Frank,» disse Caleb. «Si è limitato ad augurare loro buona fortuna. 'Vi auguro una vita felice.' Dopodiché è scomparso.» «Che cosa vuoi dirmi, Caleb?» chiese alla fine Frank. «Be', dato che l'uomo in doppiopetto ha picchiato Bea, Sancho è venuto da me,» disse Caleb. «Mi ha raccontato l'intera storia e mi ha detto che intendeva assicurarsi che quel tizio stesse alla larga dalle sue ragazze.» Caleb scosse la testa. «Ed è quello che ho cercato di fare, ma il tipo in doppiopetto era pazzo di Beatrice. Quasi dipendeva dalla sua pelle e dal colore che assumeva quando la copriva di lividi. A ogni modo, non l'avrebbe lasciata in pace, e dopo che Sancho gli disse di stare alla larga da Beatrice, quasi tutti quelli del suo giro vennero beccati dagli sbirri.» «Per cui tutti hanno pensato che fosse un informatore,» disse Frank. «Esatto,» rispose Caleb. «E una cosa del genere è molto pericolosa.» Frank annuì. «Allora Sancho venne da me,» proseguì Caleb. «Era convinto che il responsabile fosse l'uomo in doppiopetto e che avesse degli agganci fra gli sbirri, che lo stavano aiutando a incastrarlo.» Caleb sorrise. «Ma si sbagliava. Il tizio in doppiopetto aveva sì un contatto, ma con un giornale e con un fotografo della polizia. Era lui che gli passava le informazioni.» Si
appoggiò ancora meglio alla sedia. «Be', non era trascorso molto tempo e qualcuno picchiò di nuovo Beatrice. Non era stato l'uomo in doppiopetto, ma qualcuno convinto che Sancho avesse fatto la spia. Da come la vedo io avrebbe potuto benissimo essere il tizio in doppiopetto. Sai che cosa voglio dire?» «Sì.» Caleb fece un mezzo sorriso. «Hai mai sentito l'espressione 'farsi giustizia da soli'?» «Sì.» Caleb fece un ampio gesto con le braccia. «Queste vecchie mani, figliolo,» disse, «una sera hanno afferrato quello stronzo in doppiopetto e non hanno smesso di lavorarselo finché non ha chiesto scusa per aver molestato una graziosa ragazza di colore.» Frank sorrise con aria indulgente. «E tutto questo ha qualcosa a che fare con Angelica Devereaux?» «Ha a che fare con le case vicino al campo che sono andato a controllare,» rispose Caleb. «Dietro una di quelle porte, ho trovato la piccola Bea.» «Vive da quelle parti?» «No, abita a Kansas City,» disse Caleb. «Proprio dove l'aveva lasciata andare Sancho. Sostiene di essere un'operatrice di computer e di aver abbandonato la professione da molto tempo.» «Le credi?» «Sì,» disse Caleb in tono deciso. «Che cosa ci fa di nuovo ad Atlanta?» «Sua sorella si è sposata per la quarta o quinta volta,» spiegò Caleb. «Ha voluto che Bea venisse in città per curare i bambini mentre lei era in luna di miele.» «E non ti puzza la faccenda?» «No, assolutamente,» rispose Caleb. «Sai perché? Perché non mi ha lanciato quell'occhiata che le puttane riservano sempre agli uomini, anche a quelli di loro gradimento. Dio mio, Frank, non hai idea di quanto sia disgustoso sentire le prostitute che parlano degli uomini. Io ho provato. Ne no ascoltate molte quando lavoravo alla Buoncostume.» Frank prese il suo taccuino. «Hai detto Beatrice?» «Beatrice Withers, è così che dice di chiamarsi.» «E che cosa ti ha raccontato?» «Dunque, Beatrice non ama molto i bambini,» disse Caleb. «Il fatto è che non sa come comportarsi. Così in questi giorni la stanno facendo di-
ventare matta. È spesso in piedi fino a notte fonda. Il giorno in cui abbiamo trovato Angelica Devereaux girava ancora per casa alle tre di notte.» «Martedì mattina,» aggiunse Frank. «Esatto.» Frank sentì le mani chiudersi a pugno come se stessero già stringendo la gola dell'assassino. «Che cos'ha visto?» «Pensavo che volessi ascoltarlo direttamente da lei.» «Dove si trova?» «A casa di sua sorella, te l'ho detto,» rispose Caleb. Lanciò un'occhiata all'orologio. «Mi ha detto che sarebbe rimasta a casa fino a mezzogiorno, poi pensava di portare i bambini al parco a rincorrere gli scoiattoli. Adesso probabilmente è là.» Si alzò improvvisamente. «Sei pronto?» Durante il tragitto verso il parco, Caleb rimase comodamente seduto sul sedile anteriore, con le cosce flaccide afflosciate come spessi rotoli di pasta da pane. Un'enorme nuvola di fumo bluastro gli faceva da aureola e, nonostante il finestrino aperto, sembrava avvolgere la macchina, facendo aumentare il caldo già soffocante. Era come se quel fumo facesse parte di lui, una nuvola vorticosa e indefinibile che lo caratterizzava, diventando quasi il suo marchio personale. «Ha detto che sarebbe andata vicino al campo giochi,» disse Caleb mentre Frank girava in Grant Street, e poi ancora a destra, entrando nel parco. «Indossa un vestito giallo,» aggiunse con un sorriso compiaciuto. «Beatrice non è cambiata poi molto.» Il vestito giallo si vedeva da lontano e a Frank saltò subito all'occhio. Accostò la macchina al marciapiede e lanciò un'occhiata al campo giochi. «È quella?» chiese. Gli occhi di Caleb erano già su di lei e sembravano addolcirsi mentre la guardava. «Oh sì, è lei,» disse, quasi in un sussurro, «vicino all'altalena.» Si girò verso Frank. «Si potrebbe dire che le sono sempre piaciute le cose in movimento.» Era mezzogiorno passato, e non appena Frank scese dalla macchina e cominciò ad avviarsi lungo la collinetta brulla in direzione del campo giochi, si rese conto di come l'opprimente caldo estivo avesse già fiaccato persone e animali. Persino i bambini si muovevano faticosamente nell'aria soffocante. Si arrampicavano senza entusiasmo in cima allo scivolo e ciondolavano lentamente avanti e indietro come se si muovessero fra strati di gelatina.
«Salve, Bea,» disse Caleb avvicinandosi. La donna alzò immediatamente gli occhi, vide Caleb e gli sorrise dolcemente. «Non pensavo tornassi.» «Te l'avevo detto,» rispose Caleb. Bea alzò le spalle. «Be', sai a che cosa ero abituata.» Si appoggiò delicatamente contro l'albero, come se fosse una fonte di aria fresca. Sotto le ascelle le si era formata una macchia scura di sudore e un'altra disegnava un semicerchio perfetto sopra il seno. «I bambini sono sempre terribili?» chiese Caleb. Beatrice sorrise stancamente. «Non riesco più a sopportarli, Caleb.» Si passò una mano sul viso. «E poi questo caldo. Mi ero quasi dimenticata quanto fosse soffocante da queste parti.» «Ti abitueresti, se non scappassi subito al nord,» disse Caleb, come se stesse cercando di convincerla a rimanere in città. Beatrice scosse la testa. «Niente da fare, devo tornare a Kansas City.» Lanciò un'occhiata a Frank, ma non disse niente. «Questi è Frank Clemons,» le disse Caleb. «Si occupa del caso.» Beatrice gli sorrise. «Alte sfere, eh?» Ammiccò a Caleb. «Bene, mi piace lavorare con i boss.» Rise. «Ehi, Caleb, hai parlato di me a questo ragazzo bianco?» «Non ho niente da nascondere, Bea,» affermò Caleb in tono grave. «Mi conosci e sai come la penso.» «Ti ha detto che una volta facevo la prostituta?» chiese Beatrice a Frank. «Sì.» «Ormai è acqua passata. Una vecchia storia.» «Adesso lavori sui computer,» disse Frank. «Esatto, sui computer,» ripeté Beatrice. «Ormai ho dimenticato quegli anni.» Fece un cenno a Caleb. «Eri tutto pelle e ossa allora. Non è vero, Caleb?» «Sì, è vero.» «Ed eri anche carino,» disse Beatrice. Scosse la testa sconsolatamente. «Ma eri così magro. Dio, eri praticamente trasparente.» Si sporse in avanti e gli diede un colpetto affettuoso sulla pancia. «Sembra che qualcuno ti abbia rovinato.» Lanciò un'altra occhiata a Frank, che vide la famosa luce selvaggia negli occhi della donna. «Ma potrebbe ritornare in forma come in quei giorni.» Si girò verso Caleb e gli sorrise affettuosamente. «Saresti ancora in grado di sfiancare una donna, vero?» «Con il giusto aiuto, sì,» disse Caleb e scoppiarono a ridere entrambi
sommessamente. «Mi è sembrato di capire che abiti dalle parti di Glenwood,» li interruppe Frank. «Esatto,» rispose Beatrice. «Mi sto prendendo cura dei figli di mia sorella che è in luna di miele. Non avrei mai immaginato che si sarebbe sposata un'altra volta, ma è successo, così sono venuta a tenerle i bambini.» «Caleb mi ha detto che ti tengono sveglia di notte.» «Anche questo è vero,» ammise Beatrice. «Non hanno molto buon senso, quei due. Mi corrono intorno tutto il giorno, come se fossero animali selvaggi.» E indicò una collinetta sporca. Due bambini si stavano rotolando giù, sollevando nuvole di polvere nera. «Guardali. Sembrano due scimmie.» Scosse la testa. «Merda, se io mi fossi comportata così, mia madre mi avrebbe inchiodata al pavimento.» Frank prese il taccuino. «Allora eri sveglia martedì mattina all'alba?» Beatrice annuì, osservando attentamente il viso di Frank. «Sembra che tu abbia avuto una discussione con il tipo sbagliato.» «Più di uno,» disse Caleb. Beatrice sorrise. «Ti ricordi quando quei due ti sono corsi dietro? Eri tutto ammaccato.» «Martedì mattina eri sveglia, giusto?» ripeté Frank. «Sono stata in piedi fino all'alba.» «Che cosa hai visto?» «Be', a quell'ora del mattino non c'è molto traffico su quelle stradine secondarie. Così, quando ho sentito il rumore di una macchina, ho guardato fuori della finestra, sperando fosse mia sorella. Era una vana illusione, come lo era la speranza che si fosse stancata di quel bastardo obeso e lo avesse mollato sulla spiaggia. Era un sogno pazzesco, ma sai, quando si desidera disperatamente qualcosa, la mente gioca dei brutti scherzi.» «Che macchina era?» «Una macchina di lusso,» rispose Beatrice, «non se ne vedono molte da queste parti.» «Sai che tipo di macchina era?» «Era piccola, rossa. Quelle che chiamano coupé, penso. Sembrava un'auto straniera.» «Hai notato che modello fosse?» «Non conosco molto le automobili. Un tempo era diverso. Quando c'erano solo le Ford o le Buick. Adesso ci sono troppe macchine straniere.» «Era nuova?»
«Oh, sì, era nuova. Splendente. Rossa come una rosa. Solo più brillante. Rosso fuoco.» Frank prese nota. «Da che parte veniva l'auto?» «Da Glenwood,» rispose Beatrice, «andava piano.» «Quindi ti abbagliava?» «Sì,» rispose Beatrice, «le luci mi sparavano negli occhi Ma poi si sono spente ed è tornato tutto buio.» Guardò Caleb. «Nero come il mio culo, giusto, Caleb?» Caleb si tolse la pipa di bocca. «Aveva gli abbaglianti o gli anabbaglianti, Bea?» «Gli abbaglianti,» disse Beatrice, lanciandogli un'occhiata piena di rimprovero. «Allora la fumi ancora?» «Come un tempo.» «Tua moglie come fa a sopportarlo?» «Come un tempo,» ripeté Caleb ed entrambi scoppiarono di nuovo a ridere. «Dove si è fermata la macchina?» chiese Frank. «Circa a metà della strada,» rispose Beatrice. «Ha fatto il giro una volta o due e poi ha accostato al ciglio della strada, accanto al campo. Poi i fari si sono spenti.» «Sei riuscita a vedere chiaramente la macchina?» «Era buio pesto, a eccezione della luce proveniente dal lampione.» «Ma sei sicura del colore?» «Sì, quello sono riuscita a vederlo.» «Hai notato qualcuno nella macchina?» «Un tipo. Sedeva al volante.» «Me lo puoi descrivere?» «Vuoi dire il viso?» «Sì.» «No, era troppo lontano per distinguerlo,» disse Beatrice. «Ha aspettato qualche minuto seduto al volante, prima di scendere dalla macchina. Poi è uscito e ha guardato a destra e a sinistra.» Sorrise. «Era un bianco. Questo te lo posso dire.» «Hai visto che cosa indossava?» «Una tuta, o qualcosa del genere,» rispose Beatrice. «Sai, quell'indumento che s'indossa sopra gli altri, proprio come faceva mio padre.» «È rimasto semplicemente in piedi vicino alla macchina?» «Uh uh.»
«Per quanto tempo?» «Oh, solo un minuto, forse due. Non l'ho cronometrato.» «Poi che cosa è successo?» «Si è diretto verso la fiancata buia della macchina e ha aperto la portiera.» «La portiera sul lato del passeggero?» chiese Frank. «Non il baule?» Beatrice scosse la testa. «Poi ne ha tirato fuori qualcosa. Sembrava un vecchio tappeto. Ho immaginato che lo volesse buttare nel fango. In teoria non si dovrebbe, ma c'è anche quella vecchia auto arrugginita e sicuramente non è stato Dio a portarcela, ti pare? Ho pensato che fosse per quel motivo che si guardava intorno, perché è vietato scaricare i rifiuti in quel campo. «C'era qualcosa nel tappeto?» «Mah, non lo so,» rispose Beatrice. «Non era arrotolato bene, e dal modo in cui camminava doveva essere molto più pesante di un normale tappeto.» Guardò Caleb. «Doveva essere veramente pesante, perché gli è anche caduto una volta.» «Dove gli è caduto?» domandò immediatamente Frank. «Oh, a pochi metri dal ciglio della strada, proprio di fronte a quella vecchia auto.» Era il punto in cui era stato trovato il sandalo di Angelica e Frank lo annotò sul taccuino. «Poi non si è più messo il tappeto sulle spalle,» aggiunse Beatrice. «Lo ha semplicemente trascinato, lo tirava camminando all'indietro.» Diede un'occhiata ai bambini che ora si trovavano oltre la collina. «Non allontanarti, Raymond,» urlò. «E stai attento a Leila.» «Dove ha portato il tappeto?» chiese Frank. «Nel campo, te l'ho detto.» «Dove, esattamente?» «Più o meno in mezzo.» Frank si rese conto che quello era il punto in cui era stato ritrovato il corpo: ciò significava che Beatrice aveva davvero assistito a quella scena. «Che cos'ha fatto nel campo?» domandò Frank. «L'ho visto appoggiare il tappeto sull'erba,» rispose Beatrice. «Quella è stata l'ultima cosa che ho notato. Uno dei bambini doveva fare la cacca e sono andata a controllare.» «Per cui non hai più guardato?» «Esatto.»
«Non l'hai visto andarsene?» Beatrice scosse la testa. «Ho dato un'occhiata in strada un'ora dopo. La macchina non c'era più.» Frank annotò quell'ultima affermazione e concluse con un grande punto interrogativo. «Grazie,» disse. Beatrice abbozzò un sorriso. «Non sono stata di grande aiuto, vero?» «Ci hai fornito delle informazioni preziose,» le disse Frank, sinceramente. Mise in tasca il taccuino. «Per quanto ancora rimarrai ad Atlanta?» «Forse un'altra settimana.» «Facci sapere quando parti.» «Lo dirò al vecchio Caleb.» Sorrise. «Siamo vecchi amici, vero?» «Sì, è così,» rispose Caleb. Più tardi, seduti in macchina, Caleb lanciò ansiosamente un'occhiata al campo giochi e i suoi occhi si soffermarono per un attimo sulla donna con il vestito giallo. Era un punto luminoso nel verde del parco. «Sai, Frank,» disse Caleb sommessamente, «non c'è niente come il passato per far apparire il futuro simile a un vero inferno.» 9 «Si tratta di omicidio, Caleb!» esclamò Frank con aria risoluta, mentre si faceva largo tra la folla riversatasi sulla Peachtree Street all'ora di pranzo. I grattacieli scintillanti li sovrastavano e il sole, riflettendosi nelle innumerevoli finestre, sembrava moltiplicarsi in migliaia di esemplari. Dall'asfalto si alzava la calura che proseguiva il suo implacabile viaggio verso l'alto. Caleb si asciugò il viso con un fazzoletto rosso. «Con premeditazione,» affermò. Rimise in tasca il fazzoletto e si fece largo a gomitate tra la gente che passeggiava tranquilla. «Sai che cosa mi ha messo la pulce nell'orecchio? Il modo in cui è stata scaricata in quel campo. Non ci si comporta così con qualcuno a cui si vuole bene.» Scosse la testa. «Mio padre era un figlio di puttana, ma mi ricordo che, mentre era disteso nella bara, mia madre si è avvicinata e gli ha raddrizzato la cravatta.» Arrivarono al piccolo parco privo di alberi che si trovava al centro della città. Era composto da blocchi di cemento alternati a piccole aiuole triangolari con l'erba ben curata. Era l'ora di pranzo e una moltitudine d'impiegati aveva affollato quell'angolo verde per divorare i propri panini. Qualche vagabondo cercava di farsi spazio tra la folla e, dall'altra parte del
parco, alcuni mendicanti vestiti di stracci si erano impadroniti di una piccola zona e si scolavano lattine di birra avvolte in pezzi di carta. «Il caldo non li fa certo stare meglio,» esclamò Caleb con un debole sorriso. Si sedette su una delle poche panchine di legno e fece un cenno a Frank. «Sfogati pure, amico.» Frank si sedette accanto a lui. «Alla Centrale sarebbero felici se fosse una morte accidentale.» «Che vadano a farsi fottere,» sbottò Caleb, asciugandosi di nuovo il collo. «Hanno una strana concezione della vita ed è sempre la solita storia. I capi ora sono negri, ma non è cambiato niente. Esiste solo una regola: salvare il culo.» Frank osservò la lunga fila di veicoli incolonnati che circondavano il parco: taxi, furgoni, automobili e ogni tanto una bicicletta che sfrecciava in mezzo al traffico. Per un attimo, provò invidia per gli uomini e le donne in bicicletta e per tutto quello che sembrava meno bloccato e impantanato. «Non vedono la cosa più importante,» continuò Caleb, «quello che sta alla base di tutto. E diventano matti proprio per quello.» Ficcò il fazzoletto nella tasca della giacca. «Così ti occupi di un omicidio dopo l'altro.» Scosse la testa. «E alla fine ti appare tutto confuso.» «Non ci sono moke vie d'uscita, Caleb,» disse Frank. «Ne conosco una,» affermò Caleb. «Devi usare un vecchio trucchetto. Devi ragionare ogni volta come se fosse il primo omicidio.» Portò lo sguardo su Frank. «C'è sempre un particolare che ti colpisce,» aggiunse. «Mi ricordo di un ragazzino che era stato ucciso. Gli aveva sparato il fratello maggiore. Il piccolo era sdraiato per terra e aveva ancora una pistola giocattolo stretta in mano. È stata proprio quella minuscola pistola a mettermi sulla strada giusta. Ho continuato a pensarci e, alla fine, non ho avuto bisogno d'altro per incastrare quel figlio di puttana del fratello.» Frank fece un cenno con il capo. «Ora, con Angelica, sono i capelli,» proseguì Caleb, «il modo in cui erano sparsi attorno alla testa. Sembravano un ventaglio dorato.» Frank lo guardò, incredulo. «Stai pensando a quello? Ai capelli?» «Sì,» esclamò Caleb, «è questo il particolare che non mi convince.» Frank distolse lo sguardo e tornò a fissare il traffico. Non riusciva a fare come Caleb, non gli veniva in mente alcun dettaglio insignificante che potesse aiutarlo in qualche modo. Per lui, era tutto il contrario. Non c'erano pistole giocattolo o capelli a raggiera o altri elementi fortuiti. Avvertiva
qualcosa di infinitamente più grande che proveniva dai quartieri più oscuri della città e che spazzava come un vento selvaggio i campi desolati ricoperti di erbacce. Era qualcosa che si nutriva delle stesse tenebre nelle quali si nascondeva e che sbucava improvvisamente, senza preavviso, per allungare una mano nel mondo di tutti i giorni e ghermire la sua preda, lasciando dietro di sé solo qualche debole traccia: una pistola giocattolo o un ciuffo di capelli biondi che Caleb potesse ricordare. Tutto d'un tratto, rivide i capelli di Angelica. Ma non era la massa bionda che aveva notato Caleb: li ricordava come li aveva dipinti Karen nel quadro appeso nell'ufficio di Arthur Cummings. C'era qualcosa in quel ritratto che gli era rimasto profondamente impresso nella mente. Lentamente, delicatamente, cercò di riportare alla memoria ogni singolo dettaglio. Le scarpe nere lucide, i calzettoni bianchi, le caviglie sottili, il vestito di velluto rosso bordato di pizzo che si congiungeva graziosamente sul petto in un delicato fiocco bianco. Rivide il collo di Angelica che spuntava dal colletto di pizzo. E poi il viso, di rara bellezza, incorniciato dai capelli biondi. Ogni particolare era così perfetto da sembrare costruito appositamente. Ricordò le orecchie, le labbra rosse, la linea del mento e degli zigomi. Poi, alla fine, si soffermò sugli occhi. Rivide in modo incredibilmente nitido le iridi azzurre, il nero delle pupille, il bianco intorno. Le iridi... Mancava qualcosa: le minuscole macchie bianche che conferiscono luminosità agli occhi. Nel ritratto non erano state dipinte ed era proprio per questo che gli occhi di Angelica sembravano morti. Molti anni prima, sua sorella l'aveva dipinta in quel modo, ma Frank non riusciva a spiegarsi perché mai l'avesse fatto. Nel frattempo, si sentì attraversare da un brivido. Stava ancora pensando a quel particolare quando arrivò a casa, qualche ora più tardi. Rimase a lungo sul balcone a contemplare la notte che ricadeva sulla città. Guardò prima un gruppo di luci lontane, poi in alto, ma la sua mente era ancora concentrata sugli occhi opachi del ritratto di Angelica. Abbassò lo sguardo a terra come se sperasse di poter trovare un indizio attaccatosi per caso sotto la suola delle scarpe. Ma non c'era niente, era tutto nella sua testa: sensazioni che i fatti non potevano giustificare, presagi vaghi e indistinti. C'erano attimi in cui era sicuro che suo padre fosse tormentato da quelle strane sensazioni, attimi in cui il suo viso scavato appariva così distrutto da far sembrare tranquillo tutto quello che gli stava attorno. Il mondo assomigliava ancora a un cucciolo rannicchiato, impaurito
e tremante in attesa dell'arrivo di un grande e feroce predatore. Per rilassarsi Frank accese una sigaretta. Lasciò che si consumasse un po', poi diede un colpetto alla cenere e la osservò mentre cadeva lentamente verso il basso. Roteava delicatamente nella calda oscurità di quella serata estiva, come se non dovesse mai toccare il suolo. Ma ben presto raggiunse la strada sottostante e, parecchi metri più in su, Frank vide la cenere che si posava a terra frantumandosi in minuscoli e impalpabili frammenti bianchi. Improvvisamente vide il volto di Angelica che si frantumava nello stesso modo. Era come se si fosse verificata un'esplosione che aveva fatto saltare in aria le varie parti del viso, lasciando intatti soltanto gli occhi privi di vita, che ruotavano nel vuoto come due biglie. Fece per rientrare, ma, quando si girò, avvertì un fremito lungo il corpo. Proveniva dal pavimento e Frank cercò d'immaginare da dove potesse giungere; forse un leggero assestamento nelle fondamenta o una frana in una minuscola caverna sotterranea. Guardò la finestra per cogliere eventuali tremolii nel vetro. Ma era immobile. Tutto era immobile. Era tutto dentro di lui, e doveva semplicemente aspettare che passasse. Quando quella strana sensazione lo abbandonò, guardò nell'appartamento. Regnava una confusione ben poco invitante di scatolette vuote e giornali vecchi. Non riuscì a tornare dentro. La macchina era la sua unica ancora di salvezza e dopo pochi secondi si ritrovò a girovagare per le strade della città. Quando guidava, di notte, si sentiva rinascere e rinvigorire. I fasci di luce e l'aria che s'infilava nei finestrini abbassati avevano l'effetto di un ottimo ricostituente. Era come se le strade gli appartenessero, in un certo senso. A volte gli sembrava di essere l'unico sopravvissuto in un regno devastato dalle bombe e ormai deserto, una presenza spettrale, silenziosa e senza pace che aveva sostituito alla ragione le proprie percezioni sensitive e che aveva come unica guida le mani appoggiate al volante. Era passata quasi un'ora quando si rese conto di aver oltrepassato anche i grattacieli del centro. A sinistra vide la West Paces Ferry Road che si congiungeva con la Peachtree Street. Mentre imboccava quest'ultima e si dirigeva a nord, rivide il ritratto di Angelica, come se fosse stato appeso agli alberi che costeggiavano la strada. Quando arrivò vicino alla casa dei Devereaux rallentò e posteggiò accanto al marciapiede. Il cancello di ferro battuto era chiuso ed era quindi impossibile percorrere il viale, ma Frank notò sulla sinistra una piccola
porta, provò a spingerla e questa si aprì immediatamente, permettendogli così di entrare. Mentre camminava lentamente lungo il viale coperto di ghiaia, notò la casa che si stagliava sullo sfondo. Le luci erano spente, ma i muri esterni risplendevano alla luce della luna piena. Si fermò un attimo sotto la grande quercia e rimase a contemplare la casa. Non si muoveva nulla oltre le finestre chiuse e Frank si girò lentamente per andarsene. Ma, improvvisamente, la porta d'ingresso si aprì e ne uscì Karen. Indossava una camicia e una lunga gonna entrambe bianche, come se avesse deciso di portare il lutto esattamente al contrario. Aveva un nastro bianco fra i capelli mossi appena dal vento della notte. Frank uscì dall'oscurità e s'incamminò verso di lei. Karen si accorse subito della sua presenza e Frank notò che il volto non appariva minimamente turbato da quella visita inaspettata. La donna rimase in piedi, immobile, con le braccia lungo i fianchi, aspettando che Frank si avvicinasse. «Il cancello era aperto,» disse Frank. «Sì,» annuì Karen. Si spostò leggermente sulla destra, verso un enorme cespuglio di rose i cui petali rossi erano chiusi per la notte. Karen colse un bocciolo. «Mio padre le ha piantate per Angelica,» mormorò. Indicò un altro cespuglio di rose bianche. «E quelle erano per me.» Guardò Frank attentamente. «Perché è venuto?» «Non lo so esattamente,» rispose Frank. «Sono uscito a fare un giro in macchina e mi sono ritrovato qui.» «E c'era il cancello aperto, a quanto pare.» «Sì.» «Ho il telefono, signor Clemons.» «So che avrei dovuto chiamarla prima.» «E perché non l'ha fatto?» «Non ne avevo voglia,» rispose Frank. Si aspettava che gli dicesse qualcosa, che lo insultasse, magari. Ma non fece nulla. Regnava un silenzio assoluto, senza neppure il mormorio del vento. «Oggi sono andato da Arthur Cummings,» disse Frank. «Per il fondo fiduciario?» «Per quello e per Angelica.» «Non scoprirà niente da lui,» disse Karen in tono secco. Lasciò cadere il bocciolo di rosa. «Perché è venuto qui?» chiese di nuovo.
Per un attimo Frank si sforzò di trovare una risposta che potesse andarle bene, qualcosa che potesse avere un senso per lei e per Brickman, al quale si sarebbe probabilmente rivolta per presentare le sue rimostranze. «Il ritratto,» mormorò alla fine. «Quello di sua sorella.» «Quello nell'ufficio di Cummings?» «Sì,» rispose Frank. «Quando l'ha dipinto?» «Aveva otto anni.» «E quindi lei ne aveva...» «Ventidue,» rispose immediatamente Karen. Fece un passo incerto verso l'oscurità, come qualcuno che prova l'acqua di una piscina prima di tuffarsi. «Ventidue,» ripeté. Si mosse leggermente all'indietro e fissò la lussureggiante vegetazione del giardino. «Giocavamo sempre qui,» disse, «io e Angelica.» Lo guardò. «I classici giochi dei bambini. A esempio, quell'albero laggiù, lo usavamo per giocare agli indiani.» Fece un cenno con la testa verso destra. «E laggiù avevamo organizzato la festicciola per il suo terzo compleanno.» Sorrise dolcemente. «A mio padre piaceva molto organizzare quelle grandi feste.» Scosse la testa. «Ci sono persone che ricercano il denaro e altre che devono trovare il modo per spenderlo. Mio padre amava veder scorrere il denaro: interi fiumi di banconote che finivano a istituzioni artistiche, scuole e cose del genere.» Respirò profondamente. «Credo che fosse il suo modo di sentirsi buono. Probabilmente erano le uniche azioni che lo facevano sentire tale.» «Era buono con Angelica?» chiese Frank. «Sì, certo. E anche con me, e con nostra madre.» Frank resistette all'impulso di prendere il taccuino. «Il volto di Angelica, in quel ritratto.» Fece una pausa, rimase in attesa e poi continuò. «Gli occhi.» Notò un brivido di emozione che le attraversava il corpo per raggiungere infine il viso. «Li ha notati?» chiese. «Sì.» Sorrise. «È il primo.» «Non ci credo.» Lo guardò come se l'avesse insultata. «Non dico bugie, signor Clemons,» e lo fissò con aria pensosa. «E a dire la verità, mi sorprende che li abbia notati.» Si strinse nelle spalle. «Alcune persone hanno affermato che quel dipinto ha un'aria un po' strana. Ma nessuno si è mai accorto che è tutto negli occhi.»
«Sono morti,» aggiunse Frank. «Sì, è vero.» «Perché?» «Non lo so,» rispose Karen. Alzò lo sguardo verso di lui. «Le posso dire solo una cosa: mi aspettavo che accadesse qualcosa di terribile ad Angelica. Quando sono morti i miei genitori pensavo che fosse quella la cosa terribile. Ma, più tardi, mi sono accorta che non era così.» «Quindi la sua morte non l'ha sorpresa?» «No,» rispose Karen. «Ma se lei...» «Abbiamo un giardino sul retro,» lo interruppe Karen. «Le piacciono i giardini?» «Non ne capisco molto.» «Non è necessario,» disse Karen. Sorrise dolcemente. «Sono contenta che sia venuto a trovarmi questa sera. Credo che se ne renda conto. Non pensavo che potesse essere così strano.» «Che cosa?» «Essere completamente sola.» Frank annuì. «Mi piacerebbe vedere il giardino.» «Bene,» esclamò Karen. «Venga con me.» La seguì sul retro della casa e il giardino gli apparve fresco e luccicante nell'umidità della sera. Era illuminato da piccoli riflettori. C'era una fontana rotonda di marmo e qua e là spuntavano statue di varie fogge e dimensioni, in mezzo alle aiuole od oltre le siepi amorevolmente curate. Era davvero splendido e per un attimo Frank avvertì una strana sensazione, come se quel giardino rappresentasse, in modo illusorio, l'ordine e l'armonia che erano fuori della sua portata. «Non coltiviamo nulla di veramente esotico,» spiegò Karen. «Le piante rare richiedono troppe cure.» Lanciò un'occhiata a Frank. «Solo quelle più robuste riescono a crescere da sole.» «C'è anche una serra?» chiese Frank. «No, solo il giardino.» «Ad Angelica piaceva il giardino?» Gli occhi di Karen si strinsero a fessura. «Non dimentica neppure per un attimo chi è e che lavoro fa, vero?» Frank s'irritò leggermente. «Non ci sono molte cose che valga la pena fare,» disse. Karen si allontanò. «Be', allora le piace?»
«Non è male.» «Quindi non le piace.» «È carino,» aggiunse Frank. «Che cosa le piace, signor Clemons?» «Le strade.» «Perché?» «Non sono così,» rispose Frank alludendo al giardino. «Non sono ordinate.» Scrollò la testa. «Non lo so, ma credo che ogni tanto ognuno di noi dovrebbe gettarsi nella mischia. Forse è per questo che mi piace la strada.» «La violenza, vuole dire?» «Se è proprio necessaria.» «Ma la violenza non risolve i problemi, giusto?» «Ho scoperto che può essere utile in alcuni casi.» Karen fece una pausa, come se stesse riflettendo sulla domanda successiva. «Angelica è stata uccisa?» chiese, alla fine. «Credo di sì,» rispose Frank. «Già,» sussurrò Karen. Il suo corpo fu percorso da un brivido, nonostante l'aria calda e umida che li circondava. «Penso sia meglio che rientri, ora.» S'incamminarono insieme verso la casa. «È la camera di Angelica,» spiegò Karen, indicando un rettangolo scuro. «Teneva sempre le tende chiuse.» «Prima o poi dovrei darle un'occhiata,» disse Frank. «Domani le andrebbe bene?» «Sì.» «A che ora?» «È lo stesso. Sarò in casa tutto il giorno.» Karen salì i gradini verso la porta, poi si girò verso Frank. «Vada pure,» gli disse. «Aspetterò che esca.» Sembrava una strana richiesta. Ma Frank obbedì prontamente. Mentre camminava verso l'auto, sapeva che lo stava osservando, ma non riusciva a capire perché, eppure era convinto di aver aperto un varco in quel muro di riservatezza. Sentiva gli occhi di Karen che lo seguivano mentre si allontanava ed era certo che non vi fossero più tracce di ostilità. Era come se si fosse creato una specie di legame fra loro. Una linea che andava oltre quel cancello, fino all'altro capo della città, dove le strade erano piene di rabbia e dove lo attendeva la sua stanza, solitaria come un bambino abbandonato.
10 Erano quasi le nove quando, il mattino seguente, Frank arrivò alla Northfield Academy. Era situata a poche miglia dalla casa di Angelica e nel parco crescevano gli stessi alberi, elegantemente disposti. Una rigogliosa vegetazione estiva circondava i pochi edifici che costituivano il campus e le cui facciate sembravano voler ricordare agli studenti la maestosità dell'antica Grecia. L'edificio centrale era più grande degli altri e le slanciate colonne doriche delimitavano un vasto viale lastricato. La sessione estiva era già cominciata e Frank s'incamminò lungo il viale facendosi largo tra gruppi di studenti. Erano tutti vestiti secondo l'ultima moda giovanile e in mezzo a loro Frank si sentiva come un relitto che era riuscito a intrufolarsi nel torrente limpido e fresco. I gruppi di ragazzi si facevano sempre più folti avvicinandosi all'ingresso dell'edificio. Arrivavano da tutte le direzioni, lo degnavano di uno sguardo colmo d'indifferenza e continuavano per la loro strada, senza prestargli attenzione. Alla fine una studentessa provò compassione e si fermò di fronte a Frank. «Ha l'aria di essersi perso,» disse. «È così.» La ragazza sorrise allegramente. «Forse la posso aiutare.» «Sto cercando l'ufficio del preside.» «Oh, è facile,» esclamò la ragazza. «Deve seguire questo corridoio. È l'ultima porta a destra.» «Grazie,» disse Frank e seguì le indicazioni della ragazza. Aprì la porta e si trovò di fronte a una scrivania alla quale sedeva una donna di mezza età vestita elegantemente. Al suo fianco, in piedi, un uomo basso e leggermente sovrappeso, con gli occhiali cerchiati d'oro, le stava indicando qualcosa in una lettera. «Cambi solo questa riga,» disse, «e poi la ricopi così com'è. Il signor Douglas la sta aspettando da un bel po'.» Sorrise sommessamente. «Abbiamo gettato l'amo e il nostro pesciolino ha abboccato. È tempo di recuperarlo.» I due risero con un cenno d'intesa, poi l'uomo guardò Frank. «Posso aiutarla?» chiese. Frank gli mostrò il distintivo. «Frank Clemons,» disse. L'uomo impallidì. «Oh sì, è una storia così triste,» mormorò. «Prego, si
accomodi.» Spinse Frank nell'ufficio accanto e chiuse velocemente la porta. «Il suo collega mi ha detto che sarebbe passato. Non posso dirle quanto ci dispiaccia per la povera Angelica.» Frank prese il taccuino. «Naturalmente,» disse. «Stavamo giusto parlando di una donazione in sua memoria,» proseguì l'uomo. «Lei è Albert Morrison, giusto?» chiese Frank. «Il preside?» «Esatto,» rispose Morrison. «E come le stavo dicendo, stavamo pensando a una donazione in sua memoria. Arthur Cummings è sembrato interessato.» Frank alzò gli occhi. «Conosce Cummings?» «Ma certo. È uno degli amministratori della nostra scuola.» Frank prese nota. «E naturalmente,» proseguì Morrison, «desidera che la scuola venga protetta.» «Protetta? E da che cosa?» «Be', per usare un antico termine vittoriano, dallo scandalo,» rispose Morrison. «Voglio dire, dopotutto studiava qui da noi. Come certamente saprà, aveva frequentato l'ultimo anno. Si era diplomata poche settimane fa.» Sorrise velatamente. «E c'è un'altra cosa. Voglio che lei sappia che la Northfield farà tutto il possibile per agevolare le indagini. Consideriamo ogni nostro studente, passato o presente, come un membro della nostra famiglia.» «Quando si è diplomata Angelica?» «Il primo giugno.» Frank segnò la data sul taccuino. «Qui all'Academy,» aggiunse Morrison, «come vuole la tradizione.» «Da quanti anni esiste questa scuola?» «Da quindici anni,» rispose Morrison. «Angelica era un'ottima studentessa. La sua morte è una tragica perdita per l'intera comunità della Northfield Academy. Credo che una donazione in sua memoria sarebbe un'ottima idea. Stavo pensando all'asta della bandiera oppure, se l'entità della donazione lo permette, magari a qualcosa per il nostro teatro.» «Quanti studenti c'erano nella sua classe?» chiese Frank. «Venticinque,» rispose Morrison. «È stata una cerimonia splendida, c'era persino un'orchestra di archi che suonava brani di Mozart.» Frank annuì senza convinzione. Per celebrare il diploma, lui e altri amici avevano comperato una vecchia macchina e l'avevano gettata da una sco-
gliera. Ora si rendeva conto che quella carretta era affondata insieme con tutte le sue ambizioni. «Conosceva bene Angelica?» chiese. «Cerco di conoscere tutti i miei studenti. E non mi riferisco solo ai loro nomi.» «E conosceva bene Angelica?» Morrison sembrò perdersi nei suoi pensieri. «Era molto bella.» «Quanto la conosceva, signor Morrison?» chiese Frank, alzando leggermente la voce. «Be', meno di molti altri,» ammise Morrison. «Meno di tutti gli altri, a dire la verità. Non era una ragazza estremamente socievole.» «Aveva molti amici qui a scuola?» «Questo proprio non lo so.» «Be', l'ha mai vista con altri studenti?» «Raramente.» «Ma qualche volta sì?» «Be', credo di sì.» «Chi erano quei ragazzi?» Morrison esitò. «Vuole dire i nomi?» «Sì.» «Cosa vuole fare?» «Controllerò i nomi nell'elenco dei suoi studenti,» rispose Frank in tono gelido, «e poi andrò a fare quattro chiacchiere con loro.» «Potrebbe essere imbarazzante.» «Una delle loro amiche è morta,» ricordò Frank. Aspettò che digerisse il colpo. Poi fece di nuovo fuoco. «Era incinta, questo lo sapeva?» Morrison trasalì. «Sì.» «Come faceva a saperlo?» «Me lo ha detto Arthur,» rispose Morrison. «Riteneva che fosse necessario avvisare la scuola.» «Era di sei settimane,» proseguì Frank, «e questo significa che all'epoca del diploma era già incinta.» Morrison abbassò tristemente gli occhi. «Sì, certo.» Frank si sporse leggermente in avanti. «Ha idea di chi possa essere il padre?» «Assolutamente no,» disse Morrison. Scosse la testa, visibilmente inquieto. «Un incidente del genere può avere gravi ripercussioni su una scuola come la nostra.» Increspò le labbra. «Basta solo una mela marcia.»
«È così che considerava Angelica?» Morrison lo guardò come se fosse stato un bambino sorpreso a dire una parolaccia. «Be', no,» balbettò, «certo che no. Voglio dire, era molto...» «Bella, sì, d'accordo,» lo interruppe Frank. «E che altro?» «Strana, ecco tutto.» «In che senso?» «Non partecipava molto alle attività scolastiche,» spiegò Morrison. «Qui sottolineiamo l'importanza della vita di gruppo. E ci piacciono le persone che prendono parte alle varie attività.» «E Angelica non era così?» «Per niente,» rispose Morrison senza celare il suo disappunto. «Passava la maggior parte del tempo da sola. Credo che non sia mai andata a una lezione di danza o a uno dei corsi organizzati all'interno della scuola.» Rifletté un attimo e gli venne in mente qualcosa. «A eccezione di uno.» «Quale?» «Il gruppo teatrale dell'ultimo anno,» esclamò Morrison. «Era nel gruppo teatrale.» «Quando esattamente?» «Deve chiedere al signor Jameson, se ne occupava lui.» «Dove posso trovarlo?» «Probabilmente è in teatro,» disse Morrison. «Abbiamo un programma teatrale anche per l'estate.» Frank annotò tutte quelle informazioni. «Ed era anche piuttosto in gamba,» proseguì Morrison. «Erano tutti favorevolmente impressionati.» Scosse la testa. «Peccato non essere riusciti ad aiutarla di più.» «In che cosa?» «Nella vita,» rispose Morrison. «Quando s'insegna ai ragazzi ci si rende conto di quanto siano impreparati per affrontare la vita.» Sorrise debolmente. «Devono affrontare un mondo pieno di violenza, signor...» «Clemons.» «Signor Clemons, certo. Noi facciamo del nostro meglio, ma non sempre è abbastanza.» «Vuole forse dire che Angelica era un tipo riservato, malinconico o roba del genere?» chiese Frank. «Sì, per quanto riguarda la vita nella scuola,» rispose Morrison. «Era sempre in disparte. Forse aveva qualcos'altro. Altre persone che la trascinavano lontano da noi.»
«Verso i quartieri meridionali?» «Be', dopotutto è lì che l'avete trovata.» «Come fa a saperlo?» «Era sul giornale,» disse Morrison. Prese un giornale dal tavolo accanto alla scrivania e lo porse a Frank. «Vede?» Frank prese il giornale. La fotografia di Angelica tratta dall'annuario della Northfield gli sorrideva dalla prima pagina. «Era giusto mettere la sua foto sui giornali,» disse Morrison, «ma non in questo modo. Magari come attrice. O comunque per qualcosa di valido.» Scosse la testa. «Ma non così.» Frank gli restituì il giornale. Morrison gli lanciò una rapida occhiata e poi fissò uno dei quadri raffiguranti la Guerra Civile, appesi sulla parete di fronte. Sembrò rilassarsi, come se il dipinto gli avesse rivelato qualcosa di meraviglioso che il mondo febbrile di quella scuola prestigiosa non era in grado di offrirgli. «Io credo nella tradizione, signor Clemons,» esclamò dopo un attimo. «Non credo di dovermi scusare per questo.» Tornò a osservare Frank. «Quando penso ad Angelica mi viene in mente una persona che si lasciava trascinare e che non aveva alcuna tradizione a cui aggrapparsi.» «Forse non le piacevano le tradizioni,» disse Frank. «Certo, è possibile.» «Perché si è iscritta a questa scuola?» «Non è stata una scelta sua.» «E di chi allora?» «È stato Arthur Cummings a scegliere per lei.» «L'ha fatta venire qui?» «Amministrava il suo patrimonio,» spiegò Morrison. «E una parte era destinata alla sua istruzione. Arthur ha deciso di spendere quei soldi alla Northfield.» Frank prese nota sul taccuino. «E posso aggiungere che la scelta di Arthur si è rivelata saggia,» proseguì Morrison. «Voleva aiutare Angelica, ma ci sono persone che non possono proprio essere aiutate.» A giudicare dal tono di voce, sembrava che stesse parlando del genere di ragazze che finiscono sdraiate sulla schiena, in attesa dell'amichetto di turno. «Secondo Cummings, che cosa sarebbe dovuta diventare?» chiese. «Una persona responsabile,» rispose Morrison, «che tenesse alto il nome
della famiglia. Una donna che avesse un certo peso nella comunità.» Guardò Frank con l'aria triste. «Non è quello che vogliamo tutti per i nostri figli?» Frank non disse nulla, ma si chiese che cosa avrebbe desiderato lui per sua figlia. Fu sorpreso nel notare che avrebbe desiderato solo che potesse vivere le diverse fasi della vita e che fosse arrivata alla fine con la sensazione che ne era valsa la pena. «Se solo avesse accettato di unirsi agli altri studenti della Northfield, si sarebbe trovata molto bene,» esclamò Morrison con convinzione. Per un attimo Frank cercò di vedere la realtà come faceva Morrison, ma si rese conto che non poteva accettare la visione di un mondo spaccato nel quale un individuo era destinato a essere salvo da una parte e in estremo pericolo dall'altra. Per lui il mondo era un paesaggio in continuo conflitto e non esistevano zone isolate, muri insormontabili e luoghi posti così in alto da non poter essere spazzati via da un'onda più potente delle altre. «Ho bisogno dell'elenco degli studenti e degli insegnanti,» disse. «Spero che userà la massima discrezione,» si raccomandò Morrison. «Potrebbe dirmi dov'è il teatro? Devo parlare con questo signor Jameson.» «È la costruzione qua dietro,» rispose Morrison. Accompagnò Frank fuori dell'ufficio e rimase un attimo con lui nel corridoio. «Mi dispiace per Angelica,» disse. «Spero che se ne renda conto.» Frank annuì. Sembrava non ci fosse più nulla da dire. 11 Frank fece il suo ingresso nel teatro e vide un uomo alto e magro in piedi sul palcoscenico. L'uomo regolò il microfono e lanciò un'occhiata verso il fondo della sala. «Bene, ora accendi sul palco,» ordinò ad alta voce. Immediatamente l'oscurità della sala fu rotta da un fascio di luce che illuminò l'uomo sul palcoscenico, lasciando nell'ombra la parete alle sue spalle. L'uomo si concentrò su quella zona d'ombra e la esaminò attentamente come se fosse una pozza d'acqua scura sgorgata come per magia dalle assi del palco. «Mi piace,» esclamò. «L'orchestra non la noterà neppure, ma sarà perfetta per il pubblico nelle balconate. Alzò nuovamente lo sguardo verso il fondo del teatro. «Okay, basta co-
sì,» disse, e le luci si spensero immediatamente. Fu solo in quel momento che si accorse della presenza di Frank. Si sporse in avanti e socchiuse gli occhi. «Posso esserle utile?» Frank percorse il corridoio centrale esibendo il distintivo. «Sono qui per Angelica Devereaux,» disse. «Lei è il signor Jameson?» «Sì, sono io.» «Bene, immagino che lei...» «Solo un attimo, per favore,» lo interruppe Jameson. Guardò di nuovo verso la balconata. «Okay, Douglas, puoi finire dopo. Lascia lì il riflettore e torna pure in classe.» Jameson aspettò che il ragazzo se ne andasse, poi saltò giù dal palco. «Questa mattina il corpo insegnante si è riunito in assemblea per discutere della faccenda di Angelica,» disse. Abbozzò un sorriso. «L'unica cosa che li preoccupa è che il nome di Angelica non venga collegato alla Northfield.» «La pensano tutti così?» «Il consiglio la pensa così,» rispose Jameson. «A loro interessa solo quello. Per quanto riguarda gli insegnanti, sono solo un gruppo di codardi preoccupati di non perdere il posto.» Si strinse nelle spalle. «Comunque, Morrison ha un punto in suo favore: Angelica si era già diplomata e quindi non faceva più parte della scuola.» «Mi hanno detto che ha preso parte a una rappresentazione,» disse Frank. «È vero.» «E lei era il regista?» Jameson scoppiò a ridere. «E questo mi rende sospetto?» «Non sappiamo ancora come sia morta.» «Be', e io che cosa c'entro, allora?» «Lei ha avuto dei contatti con Angelica,» rispose Frank. Abbassò lo sguardo con discrezione. Jameson indossava una maglietta, un paio di jeans sdruciti e scarpe da tennis macchiate. Con quell'abbigliamento, sembrava decisamente meno legato alle convenzioni di quanto fossero gli altri frequentatori della Northfield. «Lei la conosceva, giusto?» chiese. «Sì, un po'. Come ha detto lei, ero il suo regista.» «Sapeva che era incinta?» «L'ho sentito dire.» «Da chi?»
«Da Morrison,» rispose Jameson. «Li ha sconvolti più ancora del fatto che fosse morta.» «Ha idea di chi possa essere il padre?» Jameson spostò il peso del corpo da un piede all'altro. «Io no, se è quello che sta pensando.» Non lo si poteva certo escludere e Frank aveva già preso in considerazione quella possibilità. Jameson era giovane, sui trentacinque anni. Possedeva un fascino trasandato e dissoluto e gli occhi e il corpo sprizzavano un'energia capace di attrarre più di una ragazzina. Jameson sorrise debolmente e Frank ebbe modo di notare la sua dentatura irregolare. Gli conferiva una strana aria da predatore. «Crede davvero che io possa essere il padre?» chiese Jameson. «Non lo so,» disse Frank. «Lo è?» «Non esiste un test che possa stabilirlo con certezza?» Frank non disse nulla. «Bene, signor...» «Clemons.» «Clemons. Può sottopormi a quel test fino alle calende greche, ma non ho scopato Angelica.» Rimase in attesa di una risposta di Frank, fissandolo diritto negli occhi. «A proposito,» disse dopo un attimo, «che cosa le è successo?» Sorrise. «Sembra che le sia scoppiata una mina in faccia.» «Quando avete dato la rappresentazione?» chiese Frank. «Due mesi fa.» «E prima avete fatto le prove?» insisté Frank. «Sì.» Frank prese il taccuino. «Per quanto tempo?» «Per sei settimane.» «Provavate di giorno o di sera?» «Sia di giorno che di sera,» rispose Jameson. «Avvicinandoci alla data della rappresentazione, abbiamo provato molto anche di sera.» «Angelica era sempre presente?» «Sì,» disse Jameson, «e mi ha sorpreso, in effetti. Spesso i ragazzi non reggono sino alla fine. Pensavo che sarebbe stata una delle prime a crollare. Sa come sono i ragazzi: le loro priorità sono diverse rispetto a quelle degli adulti.» Frank non era alla ricerca di nuove teorie sulla psicologia degli adolescenti, soprattutto se queste provenivano da un uomo che aveva una luce piuttosto strana negli occhi.
«È stata assente in qualche giorno particolare?» chiese Frank. «Che cosa vuole dire?» «Be', per esempio tutti i giovedì, oppure il venerdì sera.» «No, e comunque quale significato pensa che potrebbe avere?» «Non conosco Angelica,» spiegò Frank, «e sarebbe utile riuscire a risalire ai suoi spostamenti.» Jameson ci rifletté un attimo. «Non ricordo esattamente quando è rimasta assente.» Continuava a fissare il viso di Frank. «L'hanno conciata per bene, non è vero?» Scoppiò a ridere. «È successo anche a me una volta, solo che sono stati poliziotti.» Sorrise con aria orgogliosa. «In un posto chiamato Chicago, nel 1968.» Frank non si preoccupò nemmeno di prendere nota. «In che ruolo recitava Angelica?» chiese. Il viso di Jameson s'irrigidì, come se l'avessero rimproverato. «Il ruolo principale.» «Che sarebbe?» «Medusa. L'ha mai sentita nominare?» Frank annuì. «Aveva dei serpenti al posto dei capelli,» continuò Jameson con un debole sorriso. Si passò le mani fra i capelli e se li scompigliò. «La storia di Medusa è stata sfruttata molto dagli uomini. I serpenti servivano per mettere in guardia i violentatori.» Tolse le mani dai capelli e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. «Ho scritto io il copione. Volevo che scioccasse tutte quelle vecchiette dai capelli d'argento che di solito vengono a vedere le rappresentazioni teatrali alla Northfield Academy.» Sfoggiò un sorriso da bambino. «E ci sono riuscito. Il povero Morrison deve aver ricevuto almeno venti telefonate.» «Come se l'è cavata in quella parte?» chiese Frank. «Abbastanza bene.» «Voleva fare l'attrice?» «Non è il sogno di tutti?» «Aveva talento?» «Non proprio,» rispose Jameson in tono deciso. «Era adatta alla parte, ecco tutto.» «Sapeva che aveva intenzione di trasferirsi a New York?» Jameson scoppiò a ridere. «Non è quello che sognano tutti?» «Per fare l'attrice.» «Le ripeto: non è il sogno di tutti?»
«Gliene ha parlato?» «Può darsi che abbia lanciato l'idea, un paio di volte,» rispose Jameson. «Ha avuto l'impressione che parlasse sul serio?» «Non ho avuto alcuna impressione,» disse Jameson, «ma le dirò una cosa, quella ragazzina sarebbe finita nel cast degli attori più di una volta.» Si frugò nelle tasche. «Ha una sigaretta? Le ho finite.» Frank gli allungò il pacchetto. «Sto cercando di smettere, ma non ci riesco,» spiegò Jameson, accendendosi una sigaretta. «Sa, i poliziotti mi hanno sempre incuriosito.» Alzò la mano verso il viso di Frank e la strinse lentamente in un pugno. «È una professione affascinante, non crede?» Frank annotò alcune delle cose che Jameson gli aveva appena detto. «Non è esattamente come Sherlock Holmes, vero?» chiese Jameson in tono altezzoso. Frank lo ignorò. «Una volta ho pensato di scrivere un giallo,» continuò Jameson. «O, per meglio dire, una parodia. Volevo intitolarlo 'L'investigatore deduttivo'.» Frank alzò lo sguardo. «Potrei vedere il copione?» Jameson sorrise soddisfatto. «Sì, dal momento che l'ho scritto io. È un adattamento dalle fonti della mitologia. Ne ho alcune copie a casa, gliene manderò una.» Frank gli porse uno dei suoi biglietti da visita. «Lo mandi al mio indirizzo,» disse. «Ne sarò felice,» esclamò Jameson. «Spero che lo troverà interessante.» Frank rilesse gli appunti. «Quante altre persone hanno preso parte alla rappresentazione?» «Cinque,» rispose Jameson. «Alcuni di loro sono qui fuori perché reciteranno anche nella sessione estiva.» «Angelica era amica di qualcuno di loro?» Jameson abbozzò un sorriso e Frank notò di nuovo quello sguardo strano. «Be', dipende. Cosa intende lei per amico?» chiese Jameson. «Pensi quello che vuole.» «A dire la verità, Angelica non socializzava molto con gli altri ragazzi.» «Con nessuno di loro?» «No, che io sappia,» disse Jameson. «Era piuttosto fredda. La maggior parte dei ragazzi la giudicava troppo snob.» «Quindi non aveva amici alla Northfield?» «Non credo.»
«Che cosa mi può dire delle sue conoscenze, delle persone con cui s'incontrava nell'ingresso?» Jameson scosse la testa. «Mi sta dicendo che a scuola era completamente isolata?» «Così sembrava.» «Sia con i ragazzi che con le ragazze?» «Coraggio,» disse Jameson. «Lei non sta cercando un'amica, lei sta cercando il ragazzo che se l'è sbattuta.» «Sto cercando chiunque l'abbia conosciuta in modo più approfondito.» «Approfondito?» Jameson scoppiò a ridere. «Giusto, approfondito. Be', l'unica cosa che posso dirle è che era molto sola.» «Non aveva legato nemmeno con gli altri studenti del cast?» «Nemmeno con loro.» Frank prese nota. «Secondo lei, perché stava così isolata?» «Perché era lei a volerlo,» rispose Jameson, un po' risentito. «Credeva di essere meglio di tutti gli altri.» «E come mai?» «Come mai?» chiese Jameson come se la risposta fosse assolutamente ovvia. «Ha mai visto una fotografia di Angelica?» «Quella nell'annuario della scuola.» Jameson scosse la testa. «Quella stupida foto,» asserì, «non può darle nemmeno l'idea di quanto fosse bella quella ragazza.» Guardò Frank come se fosse un ragazzino innocente. «Aveva una dote particolare, un modo di camminare. Qualcosa che non la faceva passare inosservata, che suscitava interesse: questo glielo posso assicurare.» «Che genere d'interesse?» «Oh, insomma, ha capito benissimo a cosa mi riferisco.» Frank non disse nulla. «Sesso, uomini,» proseguì Jameson. «Era dotata di un incredibile fascino erotico. Sembrava che il suo corpo sprigionasse vampate di calore.» Fece una pausa, come se avvertisse ancora quel calore nell'aria che li circondava. «La desideravano tutti.» «Anche lei?» chiese Frank bruscamente. Jameson strizzò gli occhi. «Questi non sono affari suoi.» Frank gli lanciò un'occhiata molto intensa. Aveva notato qualcosa che s'incrinava in quello sguardo. «A me interessa tutto quello che riguarda Angelica Devereaux,» disse.
«Senta, se è alla ricerca di una storia piccante, perché non va nello spogliatoio dei ragazzi?» Frank rimase in silenzio. Vedeva l'agitazione di Jameson farsi sempre più forte e aspettava che giungesse al culmine prima di sfociare in un fiume di verità. «Crede forse che quei ragazzi non parlino di lei?» esclamò Jameson. «Crede che non se la sognino di notte?» Frank continuò a osservarlo, con la matita appoggiata sul taccuino aperto. «Oh, può scommetterci che parlano di Angelica,» borbottò Jameson. «E sicuramente Angelica sapeva benissimo che cosa si raccontavano.» Frank continuò a rimanere in silenzio, con gli occhi fissi sul volto di Jameson. «Era come se avesse un riflettore costantemente puntato su di lei,» continuò Jameson. «E a lei piaceva. Aveva capito tutto. Sapeva che tutti si giravano quando entrava in una stanza. Sapeva che cosa mormoravano quando passava loro vicino.» Annuì freneticamente. «Oh, lo sapeva benissimo, e le piaceva un sacco.» Si fermò improvvisamente e strinse le labbra, come se cercasse disperatamente di trattenere qualcosa. Respirò profondamente, poi si asciugò le gocce di sudore che gli erano apparse sul labbro superiore. «Era quel genere di bellezza,» disse alla fine con aria tranquilla, «che può fotterti.» «Lei o la ragazza?» chiese Frank. Gli occhi di Jameson mandavano scintille. «Senta, non ho scopato quella ragazza. Quel che è successo tra noi, be', non era niente.» «Che cosa è accaduto, esattamente?» «Rimarrà fra noi, vero?» chiese Jameson con prudenza. «Se non ha a che vedere con l'omicidio.» Jameson strizzò gli occhi. «Omicidio? Credevo che la polizia non avesse ancora stabilito com'era morta.» «Io lo so.» Jameson gli lanciò un'occhiata nervosa. «Le posso assicurare che io non c'entro niente con l'omicidio.» «Mi racconti di lei e di Angelica,» incalzò Frank. «Ma deve rimanere fra me e lei,» insistette Jameson. Frank lo fissò con aria glaciale. «Se lei si rifiuta di raccontarmi tutto nei minimi dettagli,» disse, «la inchioderò per aver ostacolato il corso della giustizia.»
Jameson deglutì a fatica, con l'aria disperata. Sembrò riflettere per un momento, come se stesse valutando la posta in gioco. «D'accordo,» disse alla fine. «Comunque non è come pensa lei. Le assicuro che non abbiamo scopato. Non me la sono fatta, insomma.» Frank prese in mano la matita. «Una sera abbiamo lavorato fino a tardi,» cominciò Jameson. «Eravamo sul palcoscenico e gli altri se n'erano già andati. Non so perché Angelica avesse deciso di fermarsi quella sera, di solito era la prima ad andarsene.» Respirò profondamente, facendo un attimo di pausa. «A ogni modo, è rimasta qui e abbiamo iniziato a provare alcune battute. Era proprio di fianco a me ed era bellissima. Insopportabile.» Guardò Frank, in cerca di comprensione. «Lei mi capisce, vero?» «Aveva diciassette anni,» disse Frank. «Ma santo cielo,» proseguì rapidamente Jameson. «Insomma, lei sapeva che cosa aveva da offrire. E sapeva che cosa volevano gli uomini da lei. In fin dei conti a qualcuno si è concessa, no?» Si strinse nelle spalle. «La verità è che ho avuto un attimo di debolezza.» Frank non disse nulla. Aveva l'impressione che l'intera vita di Jameson fosse costellata di molti attimi di debolezza. «Che cosa è successo, esattamente?» chiese. «Come le ho già detto, eravamo insieme sul palcoscenico,» disse Jameson. «Stavamo provando alcune battute. Era a circa tre metri di distanza. Poi è successo qualcosa. Non so che cosa. Ho sentito la porta del teatro che si apriva e mi sono distratto per un attimo. Nel frattempo lei si era avvicinata. A essere sincero non mi ricordo se sono stato io a muovermi oppure lei, ma ci siamo ritrovati più vicini.» Fece una pausa e scosse la testa con aria stanca. «L'ho guardata e mi è sembrato che mi sorridesse. Abbiamo continuato a provare le battute, ma non era più la stessa cosa. Continuava a sorridere e aveva la voce diversa. Era come se si stesse rivolgendo a me, non al personaggio che interpretavo.» Indicò se stesso con un dito. «A me, con le battute che avevo scritto per lei.» Poi si mise a recitare: «'Per te, questa bellezza, avvolta nel fuoco capriccioso.'» Rimase in silenzio, come se volesse rivivere la follia di quel momento. «Allora mi sono avvicinato e l'ho baciata.» Scosse la testa con aria sconsolata. «Non posso credere di averlo fatto.» «E come ha reagito Angelica?» chiese Frank. «Si è tirata indietro e mi ha guardato. Aveva una particolare espressione sul viso, che non saprei come descrivere. Era un'espressione di trionfo e,
nello stesso tempo, di sommo disgusto. Sembrava volermi dire: 'Hai visto? ti ho fatto fare quello che volevo... e mi fai schifo.'» Emise uno strano suono. A metà strada tra un lamento e un sospiro. «Aveva proprio uno sguardo da Medusa.» «Poi che cosa è successo?» «Se n'è andata. E non ne abbiamo mai più parlato.» Frank continuava a scrivere sul taccuino. Jameson gli afferrò il braccio. «La prego,» disse. «Deve tenerlo per sé.» Frank si liberò dalla stretta. «Non sono il suo confessore,» disse. Jameson s'irrigidì, ma non disse nulla. «Ha detto che alcuni dei ragazzi che recitavano con Angelica sono ancora qui, è così?» «Sì,» rispose Jameson seccamente. «Dove sono?» «Fuori dell'auditorium. Di solito se ne stanno sotto gli alberi e aspettano che io li faccia entrare.» «Come si chiamano?» Jameson si diresse verso una sedia e prese un foglio di carta prelevato da un rnuccliio disordinato. «Ecco il programma. Troverà tutti i nomi.» Frank prese il foglio e se lo mise in tasca. Erano esattamente dove aveva detto Jameson: passeggiavano attorno a un'enorme quercia, di fronte all'auditorium. C'erano due ragazzi vestiti da tennis e una ragazza con una camicia bianca e un paio di pantaloncini rossi. Mentre si avvicinava al gruppetto, Frank prese il distintivo. «Avrete sicuramente sentito parlare di quanto è accaduto ad Angelica Devereaux,» esordì. I tre studenti annuirono e si lanciarono delle occhiate colme di apprensione. «Voi tre avete recitato con lei, giusto?» chiese Frank con calma. «Sì,» rispose la ragazza. Frank prese il taccuino. «Come ti chiami?» «Danielle Baxter.» Frank guardò i due ragazzi. «E voi?» «Philip Jeffers,» rispose il più alto dei due. «Aaron Shapiro,» disse l'altro. «Nel cast c'erano sei persone,» proseguì Frank. «Dove sono le altre
due?» «Joanna è in Europa in vacanza,» rispose Danielle. «Ci è andata con il padre.» «E Stan Doyle non poteva rimanere per la sessione estiva,» aggiunse Aaron. «Già,» spiegò Danielle, «ha dovuto accettare un lavoro per l'estate.» La voce era quasi dolorosa, come se fosse la cosa peggiore che potesse capitare. «Sto cercando di scoprire il più possibile su Angelica,» disse Frank. «E a dire la verità fino a ora non mi è andata molto bene.» Danielle annuì. «Sì, be', era piuttosto strana.» «In che senso?» «Non era una tipa socievole,» spiegò Philip. «Non partecipava mai a niente.» «Però faceva parte del cast,» fece notare Frank. «Era l'unica cosa a cui avesse aderito,» disse Danielle con tono sprezzante. «Non vi era molto simpatica, vero?» esclamò Frank. Aaron si strinse nelle spalle. «Probabilmente ci sarebbe stata simpatica se solo ci avesse dato una possibilità,» ribatté cercando di scusarsi. «Ma Philip e Danielle hanno ragione. Era piuttosto strana e non socializzava con nessuno.» Rifletté un attimo. «Secondo me non le eravamo molto simpatici. Intendo dire, noi della Northfield.» Philip scoppiò a ridere. «Insomma, a giudicare dall'aspetto, avrebbe dovuto essere molto popolare. Almeno tra i ragazzi, non ti pare, Aaron?» «Sì,» rispose Aaron. Guardò Frank. «Tutti i ragazzi le facevano il filo.» «Sì, erano tutti pazzi di lei,» disse Danielle. Sorrise con aria furba. «Anche tu, Philip.» Philip trasalì leggermente. «Era prima di conoscere Tina.» «Come reagiva al fatto di essere tanto corteggiata?» chiese Frank, cercando di riprendere il filo del discorso. Aaron finse di avere un brivido. «Brrr. Era peggio di un ghiacciolo.» Philip sospirò. «Già. Era incredibile il freddo che riusciva a trasmettere.» Danielle scoppiò a ridere. Frank si girò verso di lei. «E voi ragazze che cosa pensavate di Angelica?» «All'inizio forse eravamo un po' gelose,» ammise Danielle con un pizzi-
co di riluttanza. «Insomma, con quel fisico rappresentava una minaccia per tutte noi. Philip e Aaron hanno ragione: tutti i ragazzi le andavano dietro. Ma poi, quando ha iniziato a congelarli, non ci siamo più preoccupate di lei.» «Perché non rappresentava più una minaccia,» aggiunse Aaron. «Giusto, Danielle?» «Credo di sì,» ammise lei. «Immagino che fosse proprio per quello.» «Aveva qualche amico a scuola?» chiese Frank. «Direi di no,» rispose Danielle. «E durante il periodo delle prove?» proseguì Frank. «È diventata amica di qualcuno del cast?» Quasi simultaneamente, i tre ragazzi scossero la testa. «Dopo le prove,» chiese Frank, «non uscivate tutti insieme?» «Qualche volta,» rispose Aaron, «ma Angelica non è mai venuta.» «E dove andava?» «Usciva sempre da sola,» proseguì Aaron. «E per quanto riguarda gli insegnanti,» chiese Frank, «andava particolarmente d'accordo con qualcuno?» «No,» disse Danielle. «Non parlava molto in classe.» Guardò i due ragazzi. «Aveva dei bei voti?» Aaron si strinse nelle spalle. «Non lo so.» «Non ho mai visto il suo nome nell'elenco dei migliori,» aggiunse Philip, «quindi immagino che non dovesse essere un grande genio.» Frank si rendeva conto che quella pista non avrebbe portato a niente e che per scoprire qualcosa della vita di Angelica Devereaux avrebbe dovuto cercare fuori delle mura della Northfield Academy. Decise comunque di rivolgere loro un'ultima domanda. «Abbiamo ragione di credere che Angelica avesse un ragazzo,» disse in tono curioso. «Avete idea di chi potesse essere?» I tre ragazzi lo guardarono privi di espressione. «Forse qualcuno della scuola,» aggiunse Frank. Le occhiate rimasero prive di espressione. «Okay,» disse Frank ormai stanco. «Se vi viene in mente qualcosa di utile, vi prego di chiamarmi.» Diede un biglietto da visita a ognuno dei ragazzi. Poi fece un passo indietro e li fissò uno per uno. «So che nessuno di voi era amico di Angelica,» disse, «ma ricordatevi che era giovane, come voi, e che aveva tutta la vita davanti a sé, proprio come voi. Ormai non potrà più condurre alcun tipo di vita e non potrà nemmeno cercare di rendersi
più simpatica.» Fece una pausa e continuò a fissarli. «Devo scoprire perché le hanno tolto anche questa possibilità.» I tre volti sembrarono addolcirsi e, per la prima volta, Frank notò in loro qualcosa che andava oltre l'egocentrismo tipico della gioventù: dimostravano anche un pizzico di compassione e forse anche un po' di paura. 12 Era quasi mezzogiorno quando Frank arrivò in centro e il caldo implacabile che aveva colpito la città in quegli ultimi giorni stava già surriscaldando le strade. L'aria condizionata all'interno dell'edificio lo investì dolcemente e per un momento si domandò perché non fosse mai riuscito ad adattarsi allo stile di vita degli impiegati e dei giovani dirigenti, una vita calma che si svolgeva in stanze climatizzate, senza mai essere sfiorati dalla realtà violenta della strada. L'ascensore si aprì e Caleb uscì nel corridoio. «Ho lasciato un messaggio sulla tua scrivania,» disse. «Cosa volevi?» «Solo farti sapere dov'ero diretto.» «Dove stai andando?» «Dalle parti di Marietta. Un po' più in giù di Chattahoochee.» «Come mai?» Caleb afferrò il braccio di Frank e lo tirò verso di sé. «Seguimi,» disse, «ti spiegherò strada facendo.» Frank aveva pensato di andare da Karen per dare un'occhiata alla stanza di Angelica, ma decise di seguire Caleb. Il traffico si stava muovendo rapidamente verso nord e non ci volle molto perché i contorni indefiniti della città scomparissero dietro di loro. Caleb appoggiò il braccio fuori del finestrino e sentì l'aria infilarsi nella manica. «Ti risulta che Angelica avesse una macchina?» chiese. «No.» «A quanto pare ne aveva una,» disse Caleb. «Ma c'è dell'altro.» «Cosa vuoi dire?» «Be', circa un'ora fa ho ricevuto una telefonata da un vecchio amico,» continuò Caleb. «Luther Simpson. Un bravo ragazzo, in fondo. Si è trasferito ad Atlanta più o meno nello stesso periodo in cui l'ho fatto io. Eravamo solo dei ragazzi. Io sono entrato nella polizia e Luther ha preso un'altra strada.»
«Che tipo di strada?» «Si potrebbe dire la via del crimine,» gli spiegò Caleb. «Oh, niente di grosso o di realmente pericoloso. Roba da poco. Non basterebbe neppure per riempire un rapporto. Si tratta di un piccolo giro di contrabbando, a volte un po' di gioco d'azzardo.» Guardò Frank. «Ora si occupa prevalentemente di riciclaggio di pezzi d'auto.» «Cosa fa esattamente?» chiese Frank. «Non le ruba, intendiamoci,» disse Caleb, «le fa solo a pezzi.» Frank annui. «È su questa strada?» «A circa dieci miglia da qui,» precisò Caleb. Premette sull'acceleratore e la macchina prese velocità. «Lavora per Dave Goggins. Goggins ha in mano quattro o cinque di questi posti. Ormai sono anni che lavora nel settore. Lo sanno tutti, ma nessuno è ancora riuscito a incastrarlo.» Volse lo sguardo verso la folta boscaglia che li circondava. «Ogni tanto penso che vorrei riprendere a vivere in campagna,» disse. «Prova a pensare che bello avere una casa da queste parti!» Frank guardò diritto davanti a sé. Scorgeva in lontananza le colline che degradavano e questa composta bellezza faceva apparire la città di acciaio e cemento come un'escrescenza della superficie terrestre. Forse per questo Sarah aveva deciso di abbandonarla e si era allontanata verso le stesse colline che ora si stendevano davanti a lui. Erano calme, verdi e immerse nel silenzio. Ma mentre si avvicinavano, acquistando una visuale sempre più ampia, quelle stesse colline sembravano rivelare anche una vita misteriosa e strana. Frank sentiva crescere dentro di sé una rabbia indefinibile che gli stringeva la gola. Aveva già provato quella sensazione, ma ora sembrava un po' più intensa delle altre volte quando, per allontanarla, passava tutta la notte in qualche oscuro bar malfamato. «Dunque, Luther mi ha chiamato circa un'ora fa,» continuò Caleb. «La ragione?» «Questa mattina gli è arrivata una macchina che l'ha un po' spaventato.» Anche l'uomo che si era imbattuto nella macchina di Sarah doveva essersi spaventato, ricordò Frank. Ma in fondo, la macchina non significava nulla. Sarah era stata via per parecchi giorni e lui era già convinto che fosse accaduto il peggio, che ormai fosse morta, morta, e più niente avrebbe potuto riportargliela. Era stato Alvin che alla fine era andato da lui e, con il cappello in mano, in piedi sulla porta di casa, gli aveva tristemente detto: l'abbiamo trovata, Frank. Non aveva avuto bisogno di aggiungere altro e Frank si era limitato a chiedere: dove?
Proprio su queste colline, pensò, mentre cominciavano ad apparirgli in lontananza, cupe sopra di lui. Era salito sulla macchina di Alvin ed era rimasto in silenzio per il breve tragitto. Poi era sceso e si era inoltrato incerto nel bosco, dapprima lentamente, poi velocemente, e ancora più rapidamente fino a quando si era messo a correre senza neanche sapere dove o verso che cosa, lanciandosi a capofitto tra i rami così rumorosamente da sentire appena suo fratello che correva dietro di lui. Udiva solo il rumore dei rami più bassi che si spezzavano contro il suo corpo. Alla fine, dopo l'ultimo ostacolo, l'aveva vista nella piccola radura in riva al fiume ed era corso vicino a lei, cadendo in ginocchio, perduto in un silenzio che sembrava dovesse durare per sempre e che venne interrotto solo dal suono della voce di Alvin: Gesù, Frank, come facevi a sapere che era qui? «Proprio al di là del fiume,» disse Caleb mentre l'auto oltrepassava una collinetta e si dirigeva verso un ponte. «È qui che lavora Luther.» Frank si sforzò di prestare attenzione a ciò che stavano facendo. «Dimmi della macchina, quella che lo preoccupa tanto.» «Luther ha letto di Angelica sui giornali,» spiegò Caleb. «E questa mattina gli è arrivata una BMW rossa con le iniziali LAD sul cruscotto e ci ha trovato dentro il programma di una commedia o qualcosa del genere rappresentata alla Northfield.» «Così pensa che sia la macchina di Angelica?» chiese Frank. Caleb si voltò verso di lui. «Sì,» rispose. «Ed è risultato che ha ragione.» «Angelica aveva una macchina?» «Sì,» disse Caleb. «Ho chiamato sua sorella. Come si chiama?» «Karen.» «Ah sì, Karen. Lei lo sapeva. Dice che probabilmente Angelica l'ha comperata con i suoi soldi. «Perché non ha denunciato la sua scomparsa?» «Credo che non ci avesse pensato,» disse Caleb. «Ma quando le ho chiesto di guardare nel garage è tornata dicendomi che la macchina non c'era. Allora sono tornato da Luther e ho preso i numeri di serie della BMW. Li ho messi nel computer ed è risultata appartenere ad Angelica.» Caleb sterzò bruscamente a sinistra e l'auto imboccò una polverosa strada sterrata. «Posti del genere non si trovano esattamente sulle piste battute,» disse. L'auto procedeva a zig zag sulla strada tortuosa. I rami più bassi sbattevano contro il parabrezza e, guardando nello specchietto, Frank vide dietro di loro una lunga striscia di polvere come se la macchina si trascinasse una coda rossastra.
«Scommetto che non ti sei più trovato su una strada del genere da quando hai lasciato i tuoi boschi, vero, Frank?» chiese Caleb. Accelerò un po' piombando in un'enorme buca, uscendone senza fatica. «Mi è capitato di fare dei rally,» disse Frank, «ma le strade erano migliori di queste.» «Quando ero giovane, Frank, mi è capitato di guidare persino dove non c'erano strade.» Frank sorrise, ma la sua gioventù gli appariva ora così lontana che sembrava fosse stata vissuta da qualcun altro. «Quanto manca?» chiese. «Forse un miglio o due,» rispose vivacemente Caleb. Prese un'altra buca e un ampio sorriso illuminò il suo volto. «Dio, come mi piace tutto questo,» disse ridendo. Per un attimo Frank chiuse gli occhi e inconsciamente ritornò in campagna, dove aveva vissuto da giovane. Rivide i ruscelli dall'acqua limpida e fredda, le pareti rocciose, le lunghe notti estive trascorse con Sheila, sdraiati sul terreno, con il suo respiro sul viso e la luna che vegliava sopra di loro come un discreto ma vigile guardiano. La sua mente si spinse più in là e vide Karen nell'oscurità, davanti a casa sua, con le braccia lungo i fianchi. «Eccolo laggiù,» indicò Caleb. Frank aprì gli occhi. Attraverso uno spesso muro di foglie s'intravedeva una grande costruzione. Era fatta di lamiera ondulata e si era in gran parte coperta di ruggine con il passare degli anni. Sparse sul terreno circostante c'erano numerose automobili mutilate che conferivano al bosco l'aspetto soprannaturale di una città abbandonata. Un uomo in pantaloni da lavoro e camicia verde cachi uscì dal capannone mentre Caleb si fermava. «Ehi, salve, Caleb,» disse mentre i due scendevano dall'auto. «Salve, Luther,» rispose Caleb. I due si strinsero la mano. «Questo è il mio collega Frank Clemons.» Luther allungò la mano. «Come va?» «Bene,» rispose Frank stringendogliela. «Io e il vecchio Luther ci siamo incontrati qualche volta,» spiegò Caleb, lanciando un'occhiata all'amico. «Mi pare che tu abbia perso qualche chilo dall'ultima volta che ti ho visto.» «Sembra comunque che li abbia regalati tutti a te,» replicò Luther sorridendo. Caleb si strofinò la pancia. «Be', all'inferno, come dice la canzone, non
sono nato per correre!» «Come sta Hilda?» chiese Luther. «Sta bene,» rispose Caleb asciutto. «Senti, Luther, ho raccontato al mio amico Frank della macchina. Vorrebbe darle un'occhiata.» Luther annuì. «Come ti ho detto, quando ho capito che poteva avere a che fare con quella ragazza, ti ho chiamato subito.» «E noi apprezziamo il gesto, Luther,» disse Caleb. «Non è vero, Frank?» «Certo.» «Non nascondo niente al mio amico, Luther,» continuò Caleb. «Sa che tu non segui esattamente la retta via. «Ma io non ho mai fatto male ad anima viva,» protestò Luther. «Gli ho detto anche questo.» «Allora tutto chiaro. Sai, a volte gli sbirri vogliono qualcuno a tutti i costi e prendono il primo che capita. Ho visto succedere anche questo, Caleb.» «Frank non è il tipo,» lo rassicurò Caleb. «Ora dimmi, dov'è la macchina?» «Okay, se lo dici tu,» disse Luther. Si mosse lentamente verso l'edificio. «Seguitemi, è là dentro.» In fondo al capannone si distingueva chiaramente la BMW rossa. Brillava come un fuoco scintillante tra le altre macchine, ultimi modelli di tristi automobili di lusso nei loro classici colori grigio e nero. «Non appena l'ho vista, mi si è accesa una lampadina,» disse Luther, mentre si avvicinava lentamente alla macchina. «È arrivata questa mattina presto e io avevo già letto la storia della ragazza.» Si fermò dalla parte del guidatore e aprì la portiera. «Ho cominciato a darci un'occhiata ed è lì che ho scoperto le iniziali» Indicò il cruscotto. «Guardate, proprio qui.» Frank si chinò. Le iniziali LAD erano placcate in oro ed erano attaccate al rivestimento in pelle del cruscotto. «Per quello che mi riguarda, anch'io ho rimorchiato delle ragazze,» disse Luther. «Ma non ho mai pensato di torcere loro un capello.» Guardò Caleb. «Lo sai meglio di me, non è vero, Caleb?» Caleb annuì. «Quando hai detto che è arrivata la macchina?» «Verso le nove.» Frank uscì dall'auto e prese il taccuino. «Non hai fatto niente, vero?» Luther rise. «Merda, no. Se avessi fatto qualcosa a questa macchina te ne accorgeresti. Questo non è un autolavaggio. Noi le smontiamo completamente.»
«Manderemo un carro attrezzi a prenderla, Luther,» gli disse Caleb. Luther annuì. «L'avevo immaginato. L'ho già spiegato al capo. Non vuole avere nulla a che fare con questo caso. Mi ha detto: 'Prima te ne liberi, meglio è.'» Frank provò un forte impulso di esaminare la macchina sul posto, rivoltarla da capo a piedi, ma sapeva che potevano fare un lavoro migliore in garage. Si limitò a prendere il taccuino. «Chi l'ha portata qui?» Luther ebbe un attimo di esitazione. «Non è un bel tipo. Almeno, questo è quanto ho sentito dire in giro.» «Un grosso negro. È immischiato in parecchie faccende. Dicono che ha sparso in giro strane voci e che si è allontanato dal giro per un po'.» «Abbiamo bisogno di un nome, Luther,» insistette Frank. «Al resto ci pensiamo noi.» «È conosciuto come Davon Little,» disse Luther. «Ma c'è gente che lo chiama Carriola. Chissà perché poi.» Lanciò un'occhiata a Caleb e rise. «Come se dovesse trasportare balle di fieno.» «È da molto che hai a che fare con lui?» domandò Caleb. «In questi anni mi ha portato nove o dieci macchine,» rispose Luther. «Di solito un po' particolari come questa. Normalmente lui le usa per un po', poi le porta da un rottamaio.» «Questa non l'ha usata molto,» disse Frank. «Be', è ovvio. Uccidi una ragazza e vuoi sbarazzarti della sua macchina,» «Hai le chiavi?» chiese Frank. «Oppure quello l'ha avviata facendo contatto con i fili elettrici?» «Aveva le chiavi,» precisò Luther. «E questa è un'altra cosa che mi ha dato da pensare.» «Dove sono le chiavi?» «Eccole qui,» rispose Luther, togliendosele dalla tasca dei pantaloni e facendole tintinnare davanti a loro. «Apri il bagagliaio,» ordinò Frank. Luther si portò sul retro della macchina e aprì il bagagliaio. Era vuoto, a parte la ruota di scorta e il cric. «Neanche uno spillo,» mormorò Caleb con aria triste. «Non andiamo troppo bene.» Luther rise nervosamente. «Ehi ragazzi, cosa vi aspettavate di trovare, un'altra ragazza morta?» «Non si sa mai,» disse Caleb. Guardò Frank. «Toglieranno qualsiasi
schifezza da lì dentro. Se Angelica ha perso anche solo un capello, lo troveranno.» Frank chiuse il bagagliaio. «Hai qualche idea di dove abiti Davon Little?» Luther scosse la testa. «La gente con cui ho a che fare non si preoccupa di divulgare certe informazioni.» «Sai almeno da dove viene?» «Parla in modo buffo,» disse Luther. «Più o meno come parlava Johnson. Un accento texano. Forse è originario di quelle parti.» Prese in mano una rivista unta e cominciò a farsi vento fiaccamente. «Dio, se fa caldo qui.» Scrutò Caleb. «Ti ricordi di S.D. Pullens? Quello che aveva l'abitudine di farsi scoppiare in bocca quelle palline di fuoco?» «Sì, certo,» rispose Caleb. «È stato condannato alla sedia elettrica in Illinois.» «Pullens?» disse Caleb stupito. «Per che cosa?» «Lavorava in fabbrica e andava in giro ubriaco facendo casino. Gli sbirri sono intervenuti per riportare la calma e lui ne ha ammazzati due.» Sbatté le palpebre. «Non l'avrei mai immaginato, e tu?» «Sapevo che beveva, ma non pensavo arrivasse a uccidere,» disse Caleb. Luther scosse la testa stancamente. «Quando le cose si mettono male, può accadere di tutto. Penso che questa sia l'unica spiegazione.» Buttò la rivista in un vecchio bidone. «Farsi aria non serve a niente.» Guardò la luce che entrava attraverso l'unica porta del capannone. «Cosa ne dite se torniamo fuori?» Il caldo era soffocante anche all'esterno e Caleb si tolse la giacca, gettandola sulle spalle. «Come tipo, questo Davon, non ti ha colpito per qualcosa in particolare?» Luther rifletté un attimo. «Ho notato solo una cosa.» «Cioè?» «Non ha cercato di tirare sul prezzo,» disse Luther. «Ha accettato la prima offerta.» Guardò Frank. «Qui non siamo ai grandi magazzini Woolworth. La gente normalmente brontola e si lamenta, allora alzo un po' la cifra e l'altro l'abbassa. Ma Little no. Non questa volta almeno. Gliel'ho valutata la metà di quanto avrei fatto con chiunque altro e lui è sembrato contento.» Frank prese nota. «Si dev'essere reso conto che ormai stavano cercando la macchina,» dis-
se Luther, «e ha voluto sbarazzarsene. I demolitori sono il posto migliore. Un ricettatore non prende certo macchine che scottano.» Scosse la testa. «Merda, non l'avrei comprata se avessi letto prima il giornale.» Si mise a ridere. «Ma mi arrivano sempre con un giorno di ritardo. Quando leggo le notizie, sono sempre quelle del giorno prima.» «Non ti ha detto proprio niente della macchina?» chiese Frank. «Non c'era niente da dire,» rispose Luther. «Conosco il mio lavoro. Nessuno mi fa fesso. Inoltre, non l'ho comprata per andare in vacanza.» Accennò con la testa al capannone. «Quelle macchine là dentro saranno smontate prima di domattina. Voglio dire, proprio fatte a pezzi: terremo solo i paraurti, i carburatori e cazzate del genere.» Guardò Caleb con simpatia. «Quella piccola BMW avrebbe potuto fare la stessa fine.» «Lo so, Luther,» disse Caleb con calma. Luther si girò verso Frank. «So smontare le macchine, sono abbastanza bravo, ma non ho niente a che vedere con queste bastardate, lo posso giurare. Chiunque faccia del male a una ragazzina merita la stessa fine.» Rivolse lo sguardo verso Caleb. «Si merita un inferno ben peggiore di quello di S.D. Pullens, te l'assicuro.» Frank tirò fuori il suo biglietto da visita e lo porse a Luther. Luther non si mosse. «Tratto solo con Caleb,» spiegò. Frank rimise il biglietto in tasca. «Capisco.» Caleb scoppiò a ridere. «Be', Luther, sta' fuori dei guai, d'altra parte lo sai meglio di me.» S'infilò la giacca. «Sai dove trovarmi.» «Dite ai ragazzi di venire a prendersi questa fottuta macchina,» disse Luther. «Persone di mia conoscenza potrebbero cambiare strada se arrivassero qui e vedessero un dannato carro attrezzi della polizia.» «Arriveranno fra poco,» assicurò Caleb. «Te lo garantisco.» Luther si strofinò la guancia con una manica. «E fai qualcosa anche per questo dannato caldo, già che ci sei,» disse. 13 La strada di ritorno al quartier generale sembrò a Frank insopportabilmente lunga e appena s'intravidero i primi grigi contorni della città, sentì il bisogno di girare l'auto e guidare nella direzione opposta, senza una meta precisa: sarebbe andato ovunque, a condizione che non ci fossero stati protettori o puttane, e nemmeno quel giovane vigile che lo salutava in mezzo al traffico del tardo pomeriggio. Voleva essere uno straniero, una presenza
silenziosa e invisibile e niente più. Quando arrivarono alla Centrale, trovarono un rapporto completo su Davon Little. Gibbons lo stava sventolando allegramente quando Frank e Caleb entrarono dalla porta. «Sembra una cosa che scotta,» disse sorridendo come un bambino. Frank glielo strappò dalle mani. «Non lo sappiamo ancora.» Gibbons lo guardò dubbioso. «Spero che mi farete sapere se avete bisogno d'altro.» «Puoi stame certo,» assicurò Caleb, mentre gli passava accanto e seguiva Frank verso la sua scrivania. «Davon Clinton Little,» disse fra sé e sé Frank, mentre iniziava a leggere il rapporto. Caleb, in piedi dietro di lui, fissava l'incartamento. «Uh uh,» esclamò dopo un attimo. «Un'infinità di reati del cavolo. In gioventù furto con scasso. Poi è diventato grande ed è passato alle aggressioni.» «Ed è sparito per un po' dalla circolazione,» disse Frank. «Già, e sembra che si sia calmato per un po',» aggiunse Caleb. «Così si è dato a reati di poco conto, e a furti di auto.» Sorrise. «Tra non molto avremo a che fare con crimini da impiegato.» «Ha ricominciato nell'ottantadue,» continuò Frank. «E le cose si sono fatte più pesanti, vero?» insinuò Caleb. Frank completò l'elenco. «Rapina a mano armata, aggressione e tentato omicidio.» «Non è certo maturato con l'età,» constatò cupamente Caleb. Frank annuì. «L'ultimo domicilio conosciuto è nella zona meridionale.» Prese una cartina della città e la stese sopra la scrivania. «Simpson Street.» Trovò il nome della via nell'indice e io segnò sulla cartina. «Guarda un po' qua.» Caleb si sporse in avanti per osservare la cartina. Seguì il dito di Frank che si muoveva verso sinistra per indicare l'angolo tra Amsterdam e Glenwood, il luogo dove era stato ritrovato il corpo di Angelica. «Tombola,» mormorò. Frank si alzò. «Andiamo a vedere se è in casa.» «Diventando vecchio, ricordi tutto quello che ti è successo in passato,» disse Caleb, mentre saliva in macchina. Frank mise in moto e allontanò l'auto dal marciapiede. «Che cosa vuoi dire?»
«È la vita,» rispose Caleb. «Per esempio, da quando abbiamo trovato quella ragazza non faccio che pensare a tutti gli altri cadaveri. Mi ricordo ancora bene del primo.» Tirò fuori la pipa e cominciò a riempirla. «Anche quello era nella zona sud e si trattava di una ragazza. Ma c'era una differenza. Era rimasta sotterrata per un po' di tempo e sai, Frank, la cosa che mi è rimasta più impressa è il fatto che il corpo cadesse a pezzi mentre cercavo di tirarla fuori. Il corpo mi si sbriciolava in mano.» Scosse la testa. «E allora ho pensato, una volta che il prete se n'era andato, che in fin dei conti aveva ragione almeno in una cosa: polvere alla polvere, Frank, purtroppo è così.» Si mise la pipa in bocca e l'accese. Frank lo guardò e per qualche motivo i suoi occhi indugiarono sul volto di Caleb. Aveva la mascella quadrata, la pelle cadeva un po' flaccida dai contorni della bocca e sotto gli occhi formava delle piccole borse rotonde. Doveva avere circa sessant'anni, pensò Frank, ed era come se su quel viso si potesse seguire il percorso della sua vita, fibra dopo fibra. «Mia moglie la pensa diversamente,» aggiunse Caleb dopo un attimo. «Crede ancora che esista il paradiso ed è convinta che un giorno si riunirà a Dio.» Frank continuava ad ascoltarlo. Era sorpreso che, dopo tanti anni, improvvisamente Caleb gli parlasse della sua vita privata. Era come se ci fosse qualcosa in lui che cercasse disperatamente di uscire, un piccolo animale intrappolato che rosicchiava la sua carne. «Andava sempre in chiesa,» continuò Caleb. «Penso che pregasse affinché potessimo avere un figlio.» Guardò Frank. «Non so perché non ne abbiamo avuti. Abbiamo provato spesso durante i primi anni.» Sorrise con un certo rimpianto. «Poi non ci siamo più dati molto da fare.» Frank si sentì sopraffare da una profonda tristezza, sopraggiunta all'improvviso, e dovette volgere la mente altrove e fissare gli occhi sulla strada davanti a sé per riuscire a contenerla. Caleb sembrò accorgersene e non disse altro. Rimase semplicemente seduto, tirando boccate di fumo dalla pipa e osservando la fila di negozi e ristoranti fino a che scomparvero, lasciando il posto alle stazioni di servizio in rovina e ai fast-food della zona sud. «Okay, teniamo gli occhi aperti su Simpson Street,» disse Frank dopo aver sorpassato il luogo del ritrovamento. «Dovrebbe trovarsi sulla nostra destra,» precisò Caleb. Era una strada stretta e piena di buche e l'auto iniziò a sobbalzare quando Frank la imboccò.
«Ora rallenta,» consigliò Caleb. «Cerchiamo il 241.» Guardò attentamente dal finestrino, seguendo rapidamente i numeri da una casa all'altra. «Eccolo qui,» disse alla fine. Frank accostò la macchina al marciapiede e si fermò. Era una piccola casa che poggiava su fondamenta di cemento. La facciata di mattoni rossi era tutta rovinata e persino da lontano Frank riuscì a distinguere una grande crepa nella porta d'ingresso. Sul terreno riarso erano sparpagliati alcuni giocattoli. Gli occhi di Caleb passarono da un triciclo rovesciato alle altalene ormai arrugginite. «Non mi piace avere intorno bambini quando cerco d'incastrare qualcuno.» Si rivolse a Frank. «I tipi come Little perché cazzo mettono al mondo figli?» Frank saltò fuori dalla macchina e raggiunse Caleb sul marciapiede, poi si avvicinarono entrambi all'ingresso principale e bussarono. La porta si aprì immediatamente e si trovarono di fronte a una donna alta e magra dai fini capelli biondi. Indossava un paio di jeans sbiaditi e un top che a Frank parve essere la parte superiore di un bikini a fiori. Era molto pallida e se ne stava lì con le braccia simili a pennellate bianche lungo i fianchi. «Davon non è qui,» disse. Si ravviò i capelli con una mano ossuta. «Non so quando rientrerà.» Un bimbo con il pannolino sporco salterellò vicino a lei e le abbracciò le gambe. «Andatevene ora,» continuò la donna. Si abbassò, allontanò il bambino e lo spinse sul retro della casa. «Non sono affari vostri.» Frank tirò fuori il distintivo. «Dov'è il signor Little?» chiese. La donna guardò con indifferenza il distintivo. «Dov'è?» domandò Caleb senza complimenti. Gli occhi azzurri della donna si spostarono su Caleb. «Non sono tenuta a rispondervi.» «Stiamo indagando su un omicidio,» spiegò Frank. Un sorriso appena accennato comparve sulle labbra della donna. «Ha ucciso qualcuno?» fece. «Sapevo che l'avrebbe fatto un giorno.» «Vogliamo solo parlargli,» assicurò Frank. Rimise il distintivo in tasca. «Allora, dov'è?» «Al parco.» «Al Grant Park?» «Sì,» rispose la donna. «Ma non ditegli che sono stata io, capito?» «Dove esattamente nel parco?» chiese Caleb.
«Ha detto che andava allo zoo. Ha detto che doveva incontrare qualcuno. Comunque è un bugiardo. Potrebbe essere ovunque. A volte non torna nemmeno a casa. Mi lascia sola con i bambini e se ne va dove vuole.» Rientrò in casa. «Voi dovete trovarlo. Non lo voglio più vedere.» Richiuse la porta. Il parco non era molto lontano e Caleb e Frank rimasero in silenzio fino a quando non raggiunsero l'entrata. Frank prese la foto segnaletica che aveva trovato nel rapporto. «Vuoi darci ancora un'occhiata?» Caleb scosse la testa. «No. Mi basta vedere una volta una faccia per ricordarmela per sempre.» Frank osservò la fotografia per un istante, poi la rimise in tasca. Lo individuarono quasi subito: era un negro alto, con un paio di pantaloni giallo limone e una camicia a maniche corte con disegnati dei fenicotteri. Caleb sogghignò. «Con una fedina come la sua, pensavo che cercasse di mettersi un po' meno in vista.» Frank annuì. «Sai una cosa, Frank, quando ci s'imbatte in tipi come Little, si parte sempre avvantaggiati. Sono sempre più stupidi di noi.» In lontananza, Frank vide Davon Little che si chinava su di un recinto. Oltre la staccionata, c'era un fossato intorno a una piccola isola di cemento, dove due enormi orsi polari sbadigliavano sotto il sole. little guardò in direzione di un gruppo di alberi, poi si raddrizzò e si mosse lungo il recinto, fermandosi per un momento a guardare gli orsi. «Non ci posso credere, Frank,» disse Caleb, «sembra che sia qui per divertimento.» Non molto lontano, Frank vide un altro uomo appoggiato al recinto. Indossava un paio di pantaloni di velluto a coste e una camicia giallo limone con il colletto aperto. Teneva in mano un hot dog e una lattina di coca cola. «Guarda, Caleb, secondo me stanno per scambiarsi della droga,» disse. Caleb guardò attentamente l'uomo con la camicia gialla. «È Jimmy Swift,» affermò. Sorrise. «Scommetto una cena che si avvicinerà con noncuranza a Davon, scambierà due chiacchiere con lui e poi gli offrirà un sorso di coca cola. Sembrerà tutto assolutamente normale a parte il fatto che il povero Jimmy non riavrà più la sua lattina.» «E dentro la lattina...» continuò Frank. «...Una bustina di cocaina ben sigillata.»
«Come farà a dare i soldi a Swift?» «Veramente li ha già lasciati da qualche parte,» spiegò Caleb. «Cerca di prendere bene la mira, se le cose dovessero mettersi male. Non possiamo certo fare del male a un orso polare.» Si mossero insieme, lentamente. Quasi contemporaneamente, Swift e Little arrivarono vicino alla gabbia degli orsi, parlarono un attimo, poi, proprio come aveva previsto Caleb, Swift diede a Little la sua lattina di coca cola. Little ne bevve un goccio, ringraziò ma non restituì la lattina all'amico. «Guarda un po',» disse subito Caleb. «Little deve essere invecchiato per usare ancora un trucchetto del genere.» Swift se ne andò, lasciando Little appoggiato al recinto a guardare gli orsi. Bevve un altro sorso di coca cola, poi si avviò senza fretta lungo il vialetto che conduceva al padiglione dei rettili. «Avviciniamoci senza farci notare,» disse Caleb. Per un po' tennero il passo di Little. Caleb gli girò attorno da sinistra e Frank da destra, dividendosi. La folla che si era riunita attorno alla gabbia degli orsi si era sfoltita, dirigendosi verso la zona dei rettili, e Frank e Caleb aspettarono che Little rimanesse solo. A pochi metri dall'entrata del padiglione Frank e Caleb decisero che era giunto il momento e si avvicinarono rapidi a Little, accerchiandolo dai due lati. «Buongiorno, Davon,» disse Caleb, affondando le dita nel braccio di Little. «Frank, mostra al signor Little il tuo distintivo.» Little guardò sorpreso il distintivo di Frank. «Che succede, amico?» Caleb sorrise. «Dio, fa proprio caldo allo zoo, oggi,» disse. «Ehi, Davon, perché non mi offri un po' di coca?» La faccia di Little s'irrigidì. «È finita.» «Davvero?» esclamò Caleb. «Ce ne saranno rimaste due gocce, no?» Strappò la lattina dalle mani di Little. «Sembra che ce ne sia ancora un po'.» Gli occhi di Little passarono freneticamente da Caleb a Frank, poi di nuovo a Caleb. «Poca roba, amico. È solo un po' di cocaina.» Caleb alzò le spalle. «A noi non importa, anche se fosse solo erba. Vero, Frank?» Frank scosse la testa. «Da quanto tempo vive in questa zona, signor Little?»
«Da pochi anni, perché?» Frank tirò fuori una foto di Angelica. «Hai mai visto questa ragazza?» Little osservò la fotografia. «Non me la faccio di solito con le troiette bianche.» Alzò la testa orgoglioso. «C'è già abbastanza carne nera in giro.» «Come la donna con cui vivi?» domandò Caleb. Little non disse nulla. «O è tua cugina?» «Non è niente per me, amico,» rispose Little. «Un mio amico l'ha lasciata da me. Ha mollato lei e i suoi bambini piagnucolosi.» Scosse la testa. «Non ho avuto il coraggio di mandarli via, questo è tutto.» Frank gli mise la fotografia proprio sotto il naso. «Hai mai visto questa ragazza?» ripeté con durezza. «No, non l'ho mai vista.» «Sai niente di una BMW rossa?» chiese Caleb. «Ne hai mai vista una?» Little tirò un lungo e profondo sospiro. «Merda.» «Dove hai preso quella macchina, Davon?» «L'ho trovata.» «Non è esattamente come trovare una monetina per strada,» gli fece notare Frank. «Be', però è andata così,» disse Little. «Non l'ho scassinata o roba del genere.» Guardò disperatamente Caleb. «Sapete anche voi che non l'ho fatto. Non c'è alcun segno sulla macchina.» Rise. «Voglio dire, era li che mi aspettava, amico, con le chiavi inserite e i finestrini completamente abbassati.» «Dove l'hai trovata?» chiese Frank «Non lontano da qui.» Frank prese il suo taccuino. «Dove, esattamente?» «In fondo al parco,» rispose Little. «L'ho trovata lì una mattina.» «Da che lato del parco?» «Sydney Street,» disse Little. «All'incrocio con il Boulevard. Proprio sull'angolo.» Frank prese nota. «Quando?» «Tre giorni fa.» «Di mattina, hai detto?» «Stavo facendo una passeggiata,» aggiunse Little. Lanciò un'occhiata a Caleb. «È la verità. Non stavo cercando niente. Mi sono trovato lì per caso.» «A che ora del mattino?» chiese Frank.
«Dovevano essere circa le quattro.» «Era ancora buio?» «Stava facendo giorno.» «Bella ora per fare una passeggiatina, Davon,» osservò Caleb. Davon lo fissò con rancore. «Non è un delitto.» Caleb gli fece vedere la lattina. «Be', abbiamo qualcos'altro.» Davon lo guardò con odio. «È solo fortuna,» constatò amaramente. «Non eravate venuti qua per quello. Vi ci siete trovati in mezzo per caso.» «Questo non interessa al giudice,» gli ricordò Caleb. Davon fece un sorriso sprezzante. «Trattatemi bene, che forse vi conviene.» «Che poeta,» esclamò Caleb con una smorfia. «Fatemi del male e ve la farò pagare.» Improvvisamente la faccia di Caleb assunse un'espressione di rabbia. Afferrò Little per la camicia e lo spinse in avanti. «Ascoltami, piccola merda d'uomo, sei un ladro e un ruffiano e in tutta la tua maledetta vita non hai mai fatto una sola cosa buona.» La voce s'indurì e si fece tagliente. «Prova a fregarmi e ti spacco la faccia.» Lo lasciò andare e Little barcollò all'indietro. Frank gli si avvicinò. «Sarà meglio che tu ci racconti come sono andate esattamente le cose,» disse. «La ragazza della foto era la proprietaria della BMW e qualcuno l'ha uccisa.» Little abbassò lo sguardo. «Non ho niente da dire,» mormorò. «L'avevi immaginato, vero?» chiese Caleb. «Sapevi che la macchina scottava e così l'hai portata da uno che ricicla i pezzi d'auto.» Little rimase in silenzio. «Non è vero?» chiese Caleb alzando la voce. Little annuì lentamente. «Ma non ho ucciso la ragazza. Non l'ho neanche vista. Ho solo notato quella macchina, scintillante e tutta rossa, con i finestrini abbassati e con dentro le chiavi.» Scosse la testa. «Era come se fosse lì apposta per farsi rubare. Era lì e diceva 'prendimi'.» I suoi occhi si spostarono lentamente su Frank. «Così l'ho presa,» disse. «Ma non ho visto alcuna ragazza.» «C'era qualcosa nella macchina quando l'hai rubata?» chiese Frank. «No, era pulita dentro. Sembrava fosse stata pulita proprio per bene.» «Cosa vuoi dire?» «Da cima a fondo.»
«Non hai visto nessuno lì attorno?» Little scosse la testa. «Pensa che l'avrei presa se avessi visto qualcuno lì attorno?» «Dove sei andato?» «Ho girato un po',» rispose Little. «Vede, era proprio una bella macchina. Sapevo che era stupido non portarla subito da un ricettatore, macchine come quella sono facili da individuare. Ma non ho saputo resistere alla tentazione. Era troppo bella da guidare.» Alzò le spalle. «Così, ho approfittato dell'occasione.» Sorrise. «Chi non risica non rosica!» «Così sei andato a fare un giro, è giusto?» disse Frank. «Esatto,» confermò Little. «Ho persino pensato di dirigermi verso nord, o qualcosa del genere.» Guardò Caleb. «Ma sono pulito per quanto riguarda quella donna. Non ho niente a che fare con lei. È solo la puttana di un mio amico.» «Quando hai deciso di mollare l'auto?» chiese Frank. Little si voltò di nuovo verso di lui. «Quando ho visto la foto di quella ragazza sul giornale. Diceva che veniva da quella scuola, come si chiama?» «Northfield Academy.» «Esatto,» disse Little. «E nel vano portaoggetti, be', c'era quel pezzo di carta con il nome della scuola e anche il suo.» «Il programma teatrale,» disse Frank. «Ah, era quello?» chiese Little. «Non lo sapevo. L'ho lasciato dove l'ho trovato.» Si voltò verso Caleb. «Ho capito che la macchina scottava quando ho visto quei fogli.» «Così l'hai portata dal rottamaio,» disse Caleb. «Più in fretta che ho potuto, può stame certo,» esclamò Little. «Non volevo tenere nulla che appartenesse a quella ragazza. Scottava troppo.» Girò di nuovo lo sguardo verso Frank. «E questa è la verità.» Scosse la testa. «Non ho mai visto quella ragazza.» «Vivi ancora a Simpson Street, Davon?» domandò Caleb. «Sì.» «Non combinare guai in quella casa, hai capito? Ci sono dei ragazzini.» Davon fissò la lattina di coca cola. «Che cosa pensate di fare?» Caleb l'alzò davanti a lui. «La getterò nell'immondizia, Davon, e lascerò che se ne occupi la narcotici. Ma se succede qualcosa a quei bambini, giuro che vengo a prenderti di persona.» Davon annuì vigorosamente. «Okay, d'accordo, amico.»
Caleb fece scivolare la lattina in tasca. «Cerca di non fregarmi, Davon.» Frank tirò fuori uno dei suoi biglietti da visita. «Chiamami se senti qualcosa su quella ragazza,» disse. Little prese il biglietto e gli diede un'occhiata. «Sì, okay.» Si mosse un po', con aria impaziente. «Allora questo è tutto, giusto?» «Non lasciare la città senza avvisarmi,» disse Frank. «No, non andrò da nessuna parte,» lo rassicurò Davon. «E stai lontano dallo zoo,» aggiunse Caleb. «Cerca di concludere i tuoi affari da qualche altra parte.» «In ogni caso, non mi piacciono gli zoo,» disse Little. «Tutti questi animali che puzzano come merda.» Fece qualche passo, poi si guardò indietro, dubbioso, come se si aspettasse di essere colpito da una pallottola. Per qualche minuto Frank e Caleb indugiarono fuori del padiglione. Il caldo sembrava avvolgerli completamente in un vortice, ma non c'era un alito di vento. «Cosa ne pensi?» chiese Caleb. «Penso che ci abbia raccontato la verità,» rispose Frank. «Anch'io. Non avrebbe avuto il fegato di uccidere una ragazza come Angelica.» Frank prese la fotografia e la guardò. Caleb lo osservò per un attimo. «Pensi spesso a quella ragazza, vero?» «Qualche volta,» rispose Frank. Ripose la foto nella giacca e diede uno sguardo al parco. «A volte mi stanco a parlare con persone come Little.» «Scommetto che nell'alta società non è molto meglio,» esclamò Caleb ridacchiando. «Non era esattamente ciò che stavo pensando.» «Ah, ho capito,» disse Caleb. «A cosa stavi pensando?» Frank si strinse nelle spalle. «A niente, in realtà,» rispose, rendendosi conto che era una bugia. Stava invece pensando a qualcuno e non era la prima volta. Come trasportata da una corrente, la sua immagine giungeva all'improvviso: capelli scuri, occhi neri, e un bocciolo di rosa in mano. 14 Quando Frank arrivò da Karen Devereaux trovò una Mercedes nera parcheggiata davanti alla casa. La presenza di quella macchina lo infastidì: era troppo lussuosa e si sentiva assolutamente impotente di fronte a quell'eleganza. Non poté fare a meno di confrontarla con la sua Chevrolet ammac-
cata e impolverata, con i finestrini sporchi e le gomme lisce. Parcheggiata accanto alla Chevrolet, la Mercedes spiccava luccicante sotto i raggi del sole. Era lucidata alla perfezione e Frank s'immaginò immediatamente il proprietario, altrettanto tirato a lucido e di classe, un uomo in smoking e fascia di seta rossa che distingueva ogni tipo di vino e fumava sofisticate sigarette europee. Arrivato alla porta della casa, Frank esitò un attimo, non voleva intromettersi nella vita privata di Karen, ma, allo stesso tempo, si sentiva terribilmente attratto da lei. Era come se il legame avvertito la notte precedente fosse più forte di quanto pensasse e lo attirasse dolcemente e insistentemente verso di lei. L'uomo che aprì la porta era esattamente come Frank lo aveva immaginato. Alto, biondo e molto attraente, sulla trentina. Indossava un paio di pantaloni grigio scuro e una giacca di velluto nero. Sembrava perfettamente a suo agio, terribilmente naturale in quegli abiti che indosso a un altro sarebbero stati scambiati per un costume di carnevale. Mentre Frank lo guardava in silenzio, si rese conto del proprio abbigliamento trasandato, dell'abito logoro e del cappello senza forma, ma non si vergognò nel modo più assoluto e, per un istante, provò addirittura un po' di orgoglio per i vestiti che indossava. Prese il distintivo dalla giacca e osservò l'uomo mentre lo stemma d'oro scintillava al sole. «Sono qui per parlare con Karen Devereaux,» disse. «È di sopra,» rispose con calma l'uomo. «Lei chi è?» «Il mio nome è James Theodore. Sono il socio di Karen.» «Socio?» chiese Frank, come se sospettasse che quella parola potesse nascondere un significato molto più profondo. «Sì, alla Nouveau Gallery,» spiegò Theodore. «Una galleria d'arte del centro.» Fece un passo indietro. «Prego, si accomodi.» «Avevo avvertito la signorina Devereaux che oggi sarei passato,» disse Frank, entrando in casa. Era arrabbiato con se stesso: come aveva fatto a non scoprire l'esistenza della galleria? Si tolse il cappello e lo girò fra le mani. «Penso mi stia aspettando.» «Ma certo,» disse Theodore. Chiuse la porta e ci si appoggiò contro. Sembrava che stesse facendo la guardia alla cassaforte di una banca. «Me lo ha accennato,» aggiunse. «Accennato?»
«Che forse sarebbe venuto oggi,» continuò Theodore velocemente. «Sono sicuro che scenderà subito.» «Conosceva bene Angelica?» domandò Frank. «Non molto.» Frank prese il taccuino. Avvertiva che Theodore non era semplicemente un playboy dell'alta borghesia, ma che emanava una certa autorità, come se sapesse che non sarebbe cambiato nulla anche se la Mercedes e la giacca di velluto fossero svanite improvvisamente. «Allora è un amico di famiglia?» chiese Frank. «Be', non esiste una famiglia vera e propria,» disse Theodore tristemente. «Immagino sappia che cosa è successo ai genitori di Karen.» «Sì.» «Erano rimaste solo loro due,» aggiunse Theodore. «Karen e Angelica.» Fece un profondo sospiro. «Ora è rimasta solo Karen.» Sorrise, malinconico. «Ma non ho risposto alla sua domanda, giusto?» «No.» «Mi scusi.» «Che rapporti aveva con la famiglia?» «Non li conoscevo proprio,» rispose Theodore. «E anche per quanto riguarda Angelica, non posso dirle di più. Ho contatti solo con Karen.» Alzò le spalle. «A essere sincero, non sono sicuro di conoscere molto bene nemmeno lei.» «Tutto questo si addice più alla sorella,» disse Frank. «Che cosa?» «Il fatto che nessuno la conoscesse molto bene.» «È quello che ha scoperto?» «Sì.» Theodore guardò Frank con curiosità. «Lei deve vivere per un po' la loro vita, è giusto? Voglio dire, la vita delle vittime.» «In un certo senso,» rispose Frank. «Affascinante.» «Non molto,» disse Frank. «Solo che nella maggior parte dei casi la vittima conosce il suo assassino. Per cui, bisogna scoprire le conoscenze e le amicizie delle vittime.» «Pensa che Angelica sia stata uccisa?» «Sì.» «E che conoscesse il suo assassino?» «Non lo so.»
«Sa,» disse Theodore, «a volte penso che la morte accompagni determinate famiglie. È come se fosse un virus e non si potesse fare niente per distruggerlo.» Frank annuì. «La famiglia Devereaux è una di queste,» continuò Theodore. «Sembra impossibile che un semplice incidente abbia generato una simile tragedia. È come la peste, non crede?» «Quando ha visto Angelica per l'ultima volta?» Theodore rifletté un attimo. «Dev'essere stato venerdì scorso.» «Due giorni prima che morisse,» disse Frank. Aprì il taccuino. «Sembrava diversa dal solito?» «No, non venerdì.» La precisazione «non venerdì» colpì Frank. «Ma a volte sembrava diversa?» «Oh, no, non proprio,» rispose velocemente Theodore. «Solo che la vedevo così poco. La conoscevo appena.» «Venerdì scorso le sembrava felice?» «Immagino di sì,» disse Theodore. «L'ho vista solo per pochi secondi. Mi è passata davanti qui, nell'ingresso. Sembrava molto impegnata, ma era normale per Angelica.» «Sembrava sempre indaffarata?» «Era affaccendata, correva, era sempre in movimento,» spiegò Theodore. «Ho pensato che fosse un tipo creativo.» «Perché?» «Per la sua energia,» disse Theodore. «È una caratteristica che ho notato nelle persone creative. Non sono più intelligenti delle altre, sicuramente non hanno principi morali migliori dei nostri e non conducono una vita diversa dalla nostra. Ma possiedono questa energia. È come, mi scusi se uso un'immagine molto banale, è come se stessero bruciando.» Frank annotò le affermazioni di Theodore. «E Angelica secondo lei era così?» «A volte,» disse Theodore. Pensò un attimo, come se stesse cercando di focalizzare l'immagine della ragazza. «Ma, alla fine, quell'energia non l'ha mai condotta a niente. Non ha mai fatto niente.» «Aveva diciotto anni,» gli ricordò Frank. «Certo, ha ragione,» disse Theodore. «Che cosa ci si può aspettare da una ragazza così giovane?» Si allontanò di qualche passo, poi si girò verso Frank con un'espressione grave sul viso, come se gli fosse balenato un
pensiero improvviso. Socchiuse leggermente le labbra, come se stesse per parlare, poi le richiuse immediatamente, bloccando le parole. «Salve, signor Clemons.» Frank guardò verso le scale che conducevano nell'ingresso e vide Karen che scendeva lentamente. Indossava una gonna lunga color lavanda e una camicetta bianca. Quando la guardò, Frank sentì sciogliersi qualcosa dentro. «Le avevo detto che sarei venuto oggi,» disse. «Sì, lo so,» rispose Karen. «James se ne stava andando.» Si fermò sull'ultimo gradino, indugiando, come se volesse restare lontana da qualcosa. Poi si mosse velocemente verso Frank e gli toccò la mano. «Mi fa piacere che sia venuto,» disse. «Il funerale è domani, e prima di allora voglio sbrigare il maggior numero di cose possibili. Mi riferisco a tutto ciò che ha a che fare con le indagini.» «Sì,» disse Frank. Sentiva la mano in fiamme, nel punto dove l'aveva toccato. «È meglio che io vada, Karen,» disse Theodore velocemente. «Piacere di averla conosciuta, signor Clemons.» «Grazie,» disse Frank. «E se le viene in mente qualcosa che possa...» «Sì, sì, glielo farò sapere,» disse Theodore mentre usciva frettolosamente di casa. Frank guardò Karen. «È il suo socio?» chiese. «Sì.» «In una galleria?» «Esatto.» «Non sapevo avesse una galleria.» «Certo che non lo sapeva,» rispose Karen bruscamente. «E come avrebbe potuto?» Eppure a Frank sembrava di sapere già molte cose sul suo conto. L'aveva vista in giardino con la rosa. Abbassò lo sguardo sul taccuino e i fatti annotati gli sembrarono questioni poco importanti, poco più di un inventario. Karen si allontanò da lui. «Vuole vedere la camera di Angelica?» «Sì.» «Venga,» disse Karen. Frank la seguì mentre saliva le scale. Gli sembrò che dai movimenti della ragazza trasparisse una strana stanchezza, una riluttanza che la costringeva a fermarsi a ogni passo.
La stanza di Angelica era in fondo a un lungo corridoio. Quando Frank entrò nella camera rimase sbalordito da ciò che vide. Sembrava la stanza di una bambina, più che di una ragazza di diciotto anni. Alle finestre erano appese tende di pizzo e i disegni sulla tappezzeria sembravano tratti da Fantasia. Un letto enorme a baldacchino color lavanda dominava la stanza e, di fronte, sugli scaffali della libreria, erano esposte numerose bambole di pezza. Vicino al bagno c'era una toeletta in vimini bianco che sembrava non fosse mai stata usata, lo specchio era lucido e lo sgabello ricoperto di pizzo non aveva segni di usura. «Sono entrata in questa camera per la prima volta poche ore fa,» disse Karen. «Per la prima volta dopo molti anni. Sono rimasta sorpresa. In tutto questo tempo non è cambiato niente. È uguale a com'era quando Angelica aveva undici anni.» «Non è più venuta in questa stanza da allora?» domandò Frank. «No, assolutamente,» rispose Karen. «Era diventata una questione di principio per Angelica, quando aveva circa undici anni. Era praticamente ossessionata dalla sua privacy. Non lasciava entrare nessuno.» «Neanche lei?» «Soprattutto io.» «Perché?» «Pensavo fosse dovuto all'età,» disse Karen. «Al periodo della pubertà. Così non l'ho mai forzata. Ma anche con il passare del tempo non è cambiato nulla. Comunque, non me ne sono mai fatta un problema.» «Ma perché specialmente lei?» «Forse perché ero la sorella maggiore.» Frank si diresse lentamente verso il centro della stanza. Si ricordava la camera di Sarah, sempre in disordine, con dischi e libri gettati dappertutto. Era come se Sarah avesse disprezzato quell'ordine che Angelica aveva cercato in tutti i modi di mantenere. «Non sembra certo la stanza di una diciottenne, non le pare?» disse Karen. «Non è come quella di mia figlia,» si lasciò sfuggire Frank. «Oh, ha una figlia?» chiese Karen. Frank si girò leggermente. «È morta.» «Mi spiace.» Frank guardò il letto. «Angelica ha mai ricevuto qualcuno qui?» «Per quello che ne so io, no,» disse Karen. Si avvicinò alla toeletta e aprì il primo cassetto. «Ho trovato questo,» disse porgendo qualcosa a Frank.
«È un diario.» Frank lo prese e lo aprì. «Dove lo ha trovato?» «Era sul letto,» disse Karen. «Aperto.» «Lo ha letto?» «Sì.» «C'è niente d'interessante?» «Cose strane,» disse Karen. «Ma strane solo perché sono troppo normali.» Frank iniziò a sfogliarlo. «Che cosa vuole dire?» «Be', leggendo il diario si ha l'impressione che Angelica fosse una ragazza del tutto normale. Parla di qualche festa e di notti passate fuori casa. Dice di essere il tesoriere della sua classe. Di fare parte del comitato organizzativo e altre cose del genere.» Scosse la testa. «Ma non ha mai fatto niente di tutto ciò. Sono tutte bugie.» Lanciò un'occhiata al diario. «Ecco cosa intendo dire quando affermo che è strano. Racconta di una vita normale che non è mai esistita.» Frank continuò a sfogliare il diario. La scrittura era straordinariamente ordinata e precisa, le lettere perfette, le righe diritte. Sembrava che Angelica avesse disegnato le parole invece che scriverle. «Si nascondeva dietro una maschera,» disse Karen. «Non riesco a immaginare altro.» Il suo sguardo si soffermò sul diario. «Era come se conducesse una vita artificiale.» «Artificiale?» «Sì,» rispose Karen. «Come quando un quadro risulta artificiale, perché non ha niente di spontaneo. È come se il pittore decidesse di rappresentare un'emozione che in realtà non prova.» Frank chiuse il diario. «Devo tenerlo.» «Certo.» Lo mise nella tasca della giacca. «Come aveva reagito Angelica alla morte dei vostri genitori?» «Era troppo piccola per capire.» «Giocava con gli altri bambini?» «A volte,» rispose Karen, «ma penso non abbia mai avuto un vero amico.» Si guardò attorno nella stanza. «Sa, questa camera è strana non solo per le cose che ci sono, ma anche per quelle che non ci sono.» «E cioè quali?» «Lettere, per esempio. In questa stanza non c'è una sola lettera o cartolina indirizzata ad Angelica. Non ci sono libri e non ci sono dischi. È come
se non avesse aggiunto niente da quando aveva undici anni.» Frank si girò lentamente osservando con attenzione la stanza. La scena di un delitto veniva spesso divisa in sezioni per essere scrupolosamente ispezionata. I suoi occhi, abituati a procedere con lo stesso metodo, avevano diviso la stanza in una griglia e stavano analizzando ogni singola sezione. «È come se Angelica fosse una versione giovane di Miss Havisham,» disse Karen dopo pochi secondi. «Sembra che il tempo si sia fermato a undici anni, e tutto il resto sia stato solo frutto della fantasia.» «A meno che nascondesse un segreto,» disse Frank. «Vuole dire una doppia vita?» «Sì.» Karen sorrise dolcemente. «Sa, spero che l'avesse davvero. E in un certo senso non m'interessa che tipo di vita fosse.» Lanciò uno sguardo furioso alla stanza. «L'importante è che non fosse questa.» «Possiamo scoprire che tipo di vita conduceva,» disse Frank. «Come?» «Cominciamo da questo diario.» «In che modo?» «Be', per esempio, ci sono tutte quelle notti che dice di aver trascorso alle feste.» «E allora?» «Se non andava alle feste, dov'era?» Karen rifletté un attimo. «Penso che per la maggior parte del tempo fosse qui.» «Nella sua stanza?» «Sì.» «Ma non ne è sicura.» «No, non ne sono sicura,» rispose Karen. «Cercavo di rimanere fuori della sua vita. Sapevo che era quello che lei voleva.» Frank chiuse il diario. «Forse.» «Che cosa vuole dire?» «A volte i ragazzi vogliono essere controllati,» rispose Frank. «Vogliono che si dica loro 'no'.» «Non penso fosse il caso di Angelica,» obiettò Karen con decisione. «Va bene,» concesse Frank. Sollevò il diario. «Ha notato dei nomi?» «Nomi?» «Amici, compagni di scuola, insegnanti.»
«Usava le iniziali,» rispose Karen. «E ha scritto cose del tipo 'divertita un mondo da L.', oppure 'incontrata con membri del comitato organizzativo: B.T.H.'.» «Numeri telefonici?» «Non ne ho visti.» Frank si diresse verso il piccolo telefono bianco posto sul comodino, vicino al letto di Angelica. Tirò fuori il taccuino e annotò il numero. «Perché se lo segna?» «Per scoprire a chi ha telefonato,» rispose Frank. Karen gli lanciò uno sguardo pieno di comprensione. «Ci si deve sentire strani a fare il suo lavoro. Voglio dire, bisogna essere dei ficcanaso, non è così?» «Sì,» ammise Frank. Chiuse il taccuino, lo mise in tasca e la guardò. Era appoggiata allo stipite della porta, con il corpo illuminato da una morbida luce rossastra. La sua bellezza lo faceva vacillare come se lo avesse investito una forte raffica di vento. Nei suoi occhi si leggeva un certo isolamento, un distacco dalle cose comuni. Frank si chiese se anche la sorella avesse provato lo stesso senso di solitudine, se avesse camminato triste e desolata per la strada, ascoltando gli apprezzamenti degli uomini e se, dopo tutto questo, non le fosse rimasto altro che ritornare all'innocenza della camera di una bambina. Era il genere di solitudine che Frank aveva visto negli altri, e anche in se stesso, e sapeva come potesse facilmente portare alla pazzia. «Ha visto la rappresentazione in cui ha recitato Angelica?» chiese Frank. «Sì,» rispose Karen. «È stata l'unica occasione in cui mi ha invitata da qualche parte.» Scosse lentamente la testa. «La seppelliranno domani. Viene al funerale?» «Sì,» rispose Frank. «Immagino faccia parte del suo lavoro,» commentò Karen. Frank alzò le spalle. «Sì, è vero,» disse, «ma se vengo, non è solo per quello.» 15 Il corpo di Angelica Devereaux fu seppellito verso mezzogiorno, in uno dei cimiteri più esclusivi di Atlanta. Era il classico luogo con l'erba ben curata che fino a pochi anni prima non aveva mai ospitato il corpo di un negro o di un ebreo. Conservava una dignità austera, come se volesse dimo-
strare che i soldi non bastavano a comperarlo, anche se, in realtà, tutti sapevano benissimo che solo la ricchezza permetteva di accedervi. «Probabilmente seppelliranno qui anche il sindaco,» disse Caleb con le labbra che stringevano la pipa. «Così l'integrazione sarà completa.» Per Frank, l'unica cosa importante era che stavano seppellendo Angelica. Ricordava ancora la sensazione avvertita toccando i suoi vestiti. Li aveva perquisiti il giorno prima, frugando nelle tasche delle giacche ben ordinate e dei jeans ripiegati, alla ricerca di qualche nome o numero di telefono. Gli armadi non avevano rivelato nulla e quindi aveva continuato a perquisire i cassetti della toeletta e poi della scrivania, mentre Karen rimaneva in piedi sulla porta. Aveva controllato sotto il letto a baldacchino e fra i cuscini imbottiti. Le zone nascoste non rivelarono nulla proprio come quelle più visibili, e la stanza di quella ragazzina sarebbe rimasta intatta per sempre. «Chi è quel signore vestito di nero con i capelli bianchi?» chiese Caleb. «Arthur Cummings,» rispose Frank. Caleb si appoggiò a un grande olmo e si passò la lingua sui denti. «Oh, già, il tutore.» Nonostante la distanza, Frank riuscì a percepire il sommesso lamento del ministro episcopaliano che pregava per l'anima di Angelica. «Ho riconosciuto l'uomo alla destra di Cummings,» disse Caleb, «è il preside.» Strizzò gli occhi per la forte luce. «Ma chi è quel tizio biondo con la messa in piega?» «James Theodore. Un amico di Karen.» Il mormorio della preghiera svanì e Karen fece un passo avanti. Per un attimo la donna rimase con gli occhi fissi sulla fossa aperta. Poi prese una manciata di terra rossastra e la gettò sulla bara di Angelica. «Mi sembra di capire, Frank,» disse Caleb, «che Angelica non avesse molti amici.» «Nessun insegnante della scuola. E nessun compagno.» «Credi che ci sia anche il paparino?» Frank osservò un viso dopo l'altro: Cummings, Morrison, Theodore e infine un uomo piccolo e tozzo, vestito di grigio e con gli occhiali con la montatura di corno. «Quel tipo con l'abito grigio,» disse. «Ha l'aria familiare.» Caleb scosse la testa. «Credo che Angelica avrebbe potuto trovare di meglio.» «L'ho già visto da qualche parte,» disse Frank con aria pensosa. Non sapeva esattamente che cosa gli suonava familiare, forse il viso tondo e flac-
cido, il corpo tozzo, oppure gli occhiali enormi, ma era una sensazione sgradevole. Ripassò mentalmente i casi di cui si era occupato, alla ricerca di un dettaglio che potesse ricollegarsi a quell'uomo. Poi, improvvisamente, l'uomo si mise una mano in tasca e regolò l'antenna di una piccola ricetrasmittente. «È un medico,» mormorò Frank, lanciando un'occhiata a Caleb. «C'era una donna, una donna di mondo. L'hanno trovata morta nella sua casa. Al Prado.» Caleb lo guardò. «Questa mi giunge nuova, Frank.» «Si era iniettata un'overdose,» continuò Frank. «Alvin aveva interrogato il medico.» Gli occhi di Caleb scivolarono lentamente sull'ometto vestito di grigio. «È risultato essere uno di quei medici compiacenti,» spiegò Frank. «Era sempre disposto a rifornire la gente piena di soldi. Li riempiva di ricette per poter comprare ogni tipo di droga.» «Sono riusciti a incastrarlo?» «No, l'ha fatta franca,» rispose Frank. «Ho sentito dire che l'associazione dei medici voleva sbatterlo fuori, ma non so se alla fine l'abbiano fatto davvero.» Caleb prese un enorme fazzoletto e si asciugò il sudore sul collo. «Be', nel complesso abbiamo l'avvocato di famiglia, l'educatore di famiglia... magari c'è anche il medico di famiglia.» «Forse,» disse Frank. Aveva volto lo sguardo verso Karen. Era in piedi vicino alla tomba, con le mani giunte e gli occhi fissi sulla fossa aperta e sulla bara. Non l'aveva mai vista così triste. Era come se volesse esternare il proprio dolore a tutto quello che la circondava: alla luce radiosa che illuminava il prato, al caldo soffocante, all'enorme magnolia che cresceva dietro la tomba e persino al passerotto che cinguettava nascosto nella vegetazione lussureggiante. La messa funebre si concluse dopo pochi minuti, e Frank continuò a guardare Karen e tutti gli altri che si avviavano verso le limousine. «Ricordata per un po', dimenticata per sempre,» disse Caleb. «Era quello che diceva sempre mia madre.» Anche il medico stava per andarsene e Frank si diresse rapidamente verso di lui. Gli occhi dell'uomo divennero più grandi man mano che Frank si avvicinava. Erano grandi e scuri e conferivano al viso un'espressione tenera. Frank gli mostrò il distintivo. L'uomo gli sorrise. «Immaginavo che fosse della polizia.»
«Davvero?» «Come nei film. La polizia è sempre presente ai funerali.» Gli tese la mano. «Sono Herman Clark, il dottor Herman Clark.» Frank gliela strinse brevemente. «Sto conducendo le indagini sulla morte di Angelica.» Prese il taccuino. «La conosceva?» «Potremmo dire che ero il suo medico,» rispose Clark. «Immagino abbiate scoperto che era incinta.» «Sì.» «Sono il medico che ha confermato la gravidanza.» «Confermato?» «Che lo ha comunicato ad Angelica,» spiegò Caleb. «È venuta nel suo studio?» «Sì.» «Il suo nome le era stato consigliato da qualcuno?» «Ha detto di averlo letto sull'elenco telefonico,» spiegò il dottor Clark. «Per quanto ne so, mi ha trovato così.» «E l'ha vista nel suo studio?» «Sì.» «Quando?» «Due giorni fa. Quando ho letto sul giornale che era morta, sono andato a controllare nel mio schedario.» Sorrise. «Vede, non si può mai stare tranquilli con tutte queste cause per pratiche illecite.» Si mosse nervosamente. «A ogni modo, volevo essere sicuro di non poter essere accusato di negligenza nel suo caso. Volevo che non sussistesse il benché minimo dubbio sulla mia professionalità. Sa com'è, a quei dannati avvocati e ai loro clienti basta solo un debole appiglio.» Emise un sospiro di sollievo. «Ma, grazie a Dio, questa volta sono completamente a posto.» «Che cosa vuole dire?» «Be', non è successo proprio nulla,» rispose il dottor Clark. «È venuta due volte a farsi visitare. Ho eseguito un normale controllo e un test per accertare la gravidanza. Dopodiché l'ho opportunamente informata del suo stato. Non le ho prescritto medicinali e non le ho consigliato alcuna cura particolare.» Fece schioccare le dita. «È venuta e se n'è andata, tutto qua.» Guardò Frank con aria soddisfatta. «Così quei dannati avvocati non riusciranno a incastrarmi con l'accusa di negligenza. In questo caso sono in una botte di ferro.» Frank continuò a tenere la penna appoggiata a una pagina bianca del taccuino. «Quando è venuta da lei per la prima volta, dottor Clark?»
«L'undici maggio,» rispose Clark. «È tutto segnato sulla scheda. La visita è durata circa un'ora, ho eseguito normali controlli e il test di gravidanza, poi la ragazza se n'è andata.» «Sapeva già di essere incinta quando è venuta da lei?» chiese Frank. «Aveva qualche sospetto.» «Gliel'ha detto lei?» «Mi ha riferito che non aveva avuto le mestruazioni, che erano in ritardo.» Frank prese nota. «Dunque, l'undici maggio,» ripeté. Clark sorrise compiaciuto. «Alle undici e cinque del mattino, per essere più esatti. I miei registri sono molto precisi.» Poi notò che Frank stava scrivendo qualcosa sul taccuino e il sorriso svanì. «Senta,» disse, «non sono venuto qui per essere coinvolto nelle indagini.» Frank alzò gli occhi. «Perché è venuto?» «Mi è sembrato un gesto carino.» «Che cosa vuole dire?» «È per i parenti dei defunti,» spiegò il dottor Clark. «Cerco di essere sempre presente ai funerali dei miei pazienti. È il mio modo di esprimere le condoglianze. Di solito i parenti apprezzano il gesto.» Ridacchiò a bassa voce. «Secondo me, serve anche a evitare guai con la legge. I familiari ti vedono vestito a lutto, mentre preghi per il loro amato defunto. Sono contenti di aver trovato una persona di buon cuore. E nessuno trascina in tribunale un medico gentile e sensibile.» Rise nuovamente. «Sì, lo so, è una seccatura, ma ne vale la pena. Secondo me, nell'arco dell'intera carriera, può far risparmiare a un medico almeno un milione di dollari sui reclami per pratiche illecite.» «Dove ha lo studio, dottor Clark?» chiese Frank. «In centro, vicino allo Hyatt,» rispose Clark. «Sono anche segnato sull'elenco: Clark, dottor Herman.» «È un ginecologo?» «Sì. Di solito seguo l'intera gravidanza. E pensavo di fare lo stesso con la signorina Devereaux.» Scosse la testa. «Voglio dire, se avesse voluto solo accertarsi dello stato di gravidanza, avrebbe potuto eseguire il test tranquillamente a casa sua, risparmiando un mucchio di soldi.» «Perché non l'ha fatto?» «Era molto ingenua,» proseguì il dottor Clark. «Mi sembrava di parlare a una ragazzina. Facevo fatica a credere che avesse diciotto anni.» Sorrise. «Ed era così bella... Insomma, un corpo da lasciare senza fiato. Fisi-
camente, non assomigliava certo a una ragazzina.» Strinse il braccio di Frank. «Detto fra noi, è la donna più bella che abbia mai visitato. Lasci che glielo dica, considerando il lavoro che svolgo e le clienti con cui ho a che fare, ho visitato molte belle donne.» Lanciò un'occhiata verso la tomba. «È proprio un peccato.» Fissò per un attimo la bara di Angelica, poi tornò a guardare Frank, spalancando gli occhi come se lo vedesse solo in quel momento. «Santo cielo, che cosa le è successo?» «Cosa?» «La faccia, vecchio mio. Che cosa è stato?» «Niente.» «Be', spero si sia fatto vedere da un medico,» disse il dottor Clark, allungando una mano per toccare il viso di Frank. Frank si ritrasse. Clark sorrise in modo strano. «Anche lei era molto nervosa.» «Angelica?» «Sì,» disse il dottor Clark. «Certo, ne aveva anche motivo. Una visita di quel genere richiede una certa intimità, e capita spesso che le donne siano un po' nervose.» «Ma Angelica lo era particolarmente?» chiese Frank. «Era estremamente nervosa,» rispose il dottor Clark. «Quanto è durata la visita?» domandò Frank. Il viso del dottor Clark s'irrigidì. «Che cosa?» «Quanto ci ha messo?» ripeté Frank. Clark ebbe un attimo di esitazione. «Circa un'ora,» rispose alla fine. «L'ha esaminata per un'ora?» indagò Frank in tono gelido. Il corpo di Clark si tese. «La mia esperienza di medico mi suggeriva che una normale visita non era sufficiente.» Frank prese rapidamente qualche appunto. «Mi sono basato sulla mia esperienza,» aggiunse il dottor Clark nervosamente. «Non c'è niente di male nell'effettuare una visita più accurata se da un punto di vista professionale il medico la ritiene necessaria.» «Secondo lei, perché era necessario?» «Ho pensato che fosse meglio.» «Perché?» Clark s'inumidì le labbra. «Ma si può sapere cosa vuole? Questo non è un processo.» «Voleva guardarla, vero?» «Che cosa?»
«Era bellissima e voleva guardarla... toccarla.» «Come osa!» Frank fece un passo verso di lui e avvertì la rabbia di ogni donna costretta a sostenere gli sguardi degli uomini. Clark lo fissò con aria impaurita. «Senta, non ha il diritto di parlarmi così.» Frank si rese conto che aveva ragione e si fermò, rileggendo rapidamente gli appunti. «Io sono un medico,» riprese Clark in tono altezzoso. «E non mi diverto a 'guardare' le pazienti.» «Che cosa ha scoperto con questa particolare 'visita'?» chiese Frank. Clark respirò profondamente, cercando di calmarsi «Non sono sicuro di voler continuare questa conversazione.» Frank gli lanciò un'occhiata di fuoco. «Ha detto che era necessaria una visita più approfondita, e l'ha effettuata. Che cosa ha scoperto?» Per un attimo, Clark non rispose e sembrò valutare la situazione. Poi prese una decisione. «Ho scoperto che era una ragazza in perfetta salute,» disse alla fine. «Nient'altro?» «No, a parte il fatto che era incinta.» «Le ha detto se era sposata?» «No.» «Che cosa le ha detto?» «Ha detto che aveva saltato un ciclo e, visto che era sempre stata regolare, pensava di aspettare un bambino.» «Nient'altro?» «Che voleva mantenere un certo riserbo,» aggiunse Clark. «Naturalmente, questo era ovvio. Sono sempre molto discreto.» Esitò un attimo. «Comunque, era strano.» «Che cosa era strano?» Clark lo guardò. «Non vorrei parlare più della visita,» disse in tono esitante. «Vorrei che la nostra conversazione non fosse così tesa.» «Che cosa era strano?» «Vede, sembrava una ragazza ancora vergine,» spiegò Clark. «Senza esperienza, eppure aspettava un bambino.» Sorrise. «Insomma, ho avuto l'impressione che fosse una di quelle povere ragazze che rimangono incinte la prima volta che fanno l'amore.» Frank prese nota sul taccuino. «Non ha accennato a un eventuale abor-
to?» chiese. «No.» «Non le ha detto che cosa aveva intenzione di fare con il bambino?» «No.» «Secondo lei voleva tenerlo?» «Io credo di sì,» rispose Clark. «E credo che l'avrei assistita io durante il parto.» Osservò Frank da vicino. «Mi dia retta, si faccia dare un'occhiata alla faccia.» Frank gli allungò il suo biglietto da visita. «Voglio che mi spedisca tutto quello che riguarda Angelica: test, appunti, considerazioni. Tutto.» Il dottor Clark annuì, pronto. «Certo, naturalmente.» «Voglio tutto sulla mia scrivania entro domani mattina.» «Glielo farò avere,» lo rassicurò Clark, agitandosi nervosamente. «Ora posso andare? Ho un appuntamento fra mezz'ora.» Quando Frank ritornò, Caleb era ancora appoggiato all'albero. Il caldo di mezzogiorno gli aveva già procurato due macchie di sudore sotto le ascelle e Caleb sembrava sul punto di dissolversi nell'aria soffocante. «È dura la vita per i grassi,» esclamò. «Le persone scheletriche sembra che non soffrano nemmeno il caldo.» Osservò la sagoma del dottor Clark che si allontanava rapidamente verso una collinetta. «Chi era quel ciccione?» «Un dottore,» rispose Frank con aria cupa. «Era come dicevo io. Pensava di essere incinta ed è andata da lui per assicurarsene.» Caleb si raddrizzò. «Bene, possiamo andare ora,» disse. I due uomini s'incamminarono verso la macchina. Le tombe erano invase dalla luce accecante del sole che le rendeva simili a tanti blocchi di cemento bianco. «L'ha vista per la prima volta l'undici maggio,» spiegò Frank. «Poi è tornata dopo quattro giorni per avere i risultati.» Caleb si fermò. «Il quindici maggio? A che ora?» Frank rilesse gli appunti. «Alle tre e mezzo.» «Ottimo, questa sì che è precisione,» aggiunse Caleb con indifferenza. «Caleb, se tu fossi una ragazza e scoprissi di essere incinta, chi avviseresti subito?» «Credo il padre.» Frank annuì. «Hai già controllato il suo telefono?» «No,» rispose Caleb, «ma ci vorrà un attimo.» Tornarono velocemente all'auto e si diressero in città. Arrivati in ufficio,
Frank controllò l'elenco delle telefonate fatte da Angelica nel corso del pomeriggio e della sera del quindici maggio. «Ha chiamato tre volte, disse a Caleb, che attendeva ansiosamente accanto alla scrivania. «E sempre lo stesso numero.» Caleb si allontanò un attimo e tornò con l'elenco degli abbonati per numero telefonico. Frank gli lesse il numero composto da Angelica e Caleb lo controllò rapidamente. «È il numero di Stanford K. Doyle,» disse Caleb. «Vive ad Ansley Park.» Frank prese dalla tasca il programma della rappresentazione teatrale di Angelica e lo aprì. «Stanford Doyle faceva parte del gruppo di attori,» disse. «Papà,» esclamò Caleb con veemenza. Qualche minuto più tardi erano già in macchina, lungo una strada che sembrava condurre inesorabilmente verso il cuore di Ansley Park. 16 La casa dei Doyle era situata in una piccola zona abitata dalla media borghesia di Atlanta. Ansley Park era decisamente diverso dai viali ombreggiati e dalle vaste proprietà della West Paces Ferry Road. Le modeste villette di mattoni si trovavano esattamente a metà strada tra le sontuose dimore della zona settentrionale e le stamberghe desolate dei quartieri meridionali. «Guarda,» disse Caleb, osservando una villetta a un solo piano e un box per due macchine. «Scommetto che hanno una Buick familiare con una vecchia cartina del parco nazionale dello Yosemite nel vano portaoggetti.» Frank scese dall'auto e aspettò che Caleb facesse altrettanto. Avvertiva una strana sensazione che cresceva dentro di lui, come se si stesse avvicinando al punto focale del caso, alla tana nella quale si nascondeva l'animale. «Stai attento,» disse a Caleb. Caleb lo fissò stupito. «Attento? Il massimo che possiamo trovare, ammesso che ci sia qualcosa, è un ragazzino qualsiasi che si è spinto un po' troppo in là.» Osservò la casa. «Senti, guarda il prato. Devono averlo tagliato ieri.» Scosse la testa. «No, un assassino della media borghesia avrebbe offerto spontaneamente i polsi per farsi ammanettare. È come se
mancasse loro qualcosa. Non sono dei combattenti e non sanno nemmeno fuggire.» Fissò Frank. «Piuttosto che ridursi così, è meglio andare all'altro mondo.» S'incamminò lungo il vialetto, avvicinandosi alla porta come se niente fosse, come se non potesse succedere niente di imprevedibile e un onesto lavoratore non potesse impazzire all'improvviso. Caleb stava già bussando vigorosamente quando Frank lo raggiunse. Un ragazzo alto, magro e con i capelli rossi aprì la porta e rimase a osservarli. Aveva la carnagione pallida e delicata e indossava una maglietta con una scritta in bianco: NORTHFIELD ACADEMY. Caleb lanciò un'occhiata alla scritta, poi guardò Frank. «Il papà,» mormorò facendo un passo verso la porta. Frank mostrò il distintivo. «Sei Stanford Doyle?» «Junior,» disse sottovoce il ragazzo. «Stanford Doyle Junior.» «Tuo padre è in casa?» chiese Caleb. «Nossignore.» «Sei solo?» proseguì Frank. «Sissignore,» rispose il ragazzo. «Mio padre è in vacanza per due settimane.» «Dove?» chiese Caleb. «In Florida, a Fort Lauderdale.» «Quindi abiti da solo?» «Sì.» Per un attimo, Frank non seppe da che parte cominciare. Era una faccenda delicata e, a giudicare dall'espressione, quel ragazzo non aveva la più pallida idea del motivo che li aveva condotti a casa sua. «Vedo che vai alla Northfield.» «Sissignore.» «E ti piace, Stanford?» «Stan,» precisò il ragazzo. «Mi chiamano tutti Stan.» «Ti piace la Northfield?» «Non c'è male.» Caleb prese il fazzoletto e si asciugò il collo sudato. «Fa caldo qui fuori. Dentro c'è l'aria condizionata?» «Sì.» «Potremmo rinfrescarci un po' mentre parliamo, non credi?» «Oh, certo,» rispose il ragazzo, come se si fosse ricordato improvvisamente delle buone maniere. «Accomodatevi.» Spalancò la porta e fece entrare Frank e Caleb.
«Volete sedervi?» «Non è una cattiva idea,» esclamò Caleb. «Prego, di qua,» proseguì il ragazzo conducendoli in un piccolo soggiorno. Il tappeto era verde brillante e le pareti verde chiaro con minuscoli fiori bianchi. Era il classico posto dove l'albero di Natale veniva preparato con molto anticipo per poter nascondere fra i rami tanti pacchettini rossi. Caleb si sedette in una comoda poltrona di fronte al divano. «È una bella casa,» disse. «Vivi qui da molto tempo?» «Da quando sono nato.» «Beato te,» aggiunse Caleb con un grande sorriso. «C'è molta gente della Northfield che vive da queste parti?» Il ragazzo sorrise. «Non molta. Abitano per lo più nella zona nord.» Frank lanciò un'occhiata a una foto di famiglia. Un uomo e suo figlio. «È mio padre,» spiegò il ragazzo. «E dov'è tua madre?» domandò Caleb. «È morta,» rispose il ragazzo. «Durante il parto.» «Quindi abiti da solo con tuo padre?» «Esatto, signore,» disse il ragazzo, guardando Frank. «Non vuole sedersi?» «No, grazie.» Il ragazzo si sistemò sul divano, osservando nervosamente Frank e poi Caleb. «Non è mai venuta la polizia, qui,» mormorò. Mentre il ragazzo si agitava sul divano, Frank avvertì una profonda compassione per tutte le persone che non si erano ancora scontrate con le difficoltà della vita. Il mondo degli adulti era un terreno misterioso, una landa desolata che gli occhi di Stanford Doyle riflettevano in modo assolutamente perfetto. Sembrava che quel ragazzo fosse appena uscito dal suo guscio protettivo. «Ti piace questa zona?» chiese Caleb in tono affabile. «Non ho mai provato a vivere da un'altra parte,» rispose il ragazzo. Parlava con voce sommessa, quasi triste, e teneva gli occhi leggermente abbassati: nel complesso, aveva un'aria assolutamente innocente. «La Northfield è una scuola piuttosto cara,» proseguì Caleb. «Sì, è vero.» «È molto che la frequenti?» «Due anni.» «In che classe sei? Il penultimo anno? L'ultimo?» «Mi sono diplomato,» rispose Stanford.
«Quando?» chiese Caleb. «Il mese scorso,» disse il ragazzo. «Dovrei iniziare l'università in settembre.» «Quale?» «Emory.» Caleb sorrise bonariamente. «Be', è meraviglioso, vero, Frank?» «Sì,» borbottò Frank. Fece una breve pausa e poi proseguì, non avendo altra scelta. «Immagino tu sappia perché siamo qui.» Il ragazzo non disse nulla. «Angelica Devereaux,» aggiunse Frank. Stan fece un cenno con il capo. «Era in classe con te.» «Sì.» «Stiamo cercando di scoprire qualcosa sul suo conto,» continuò Frank «La conoscevi bene, Stan?» «Un po'.» «Solo un po'?» «Ci siamo parlati qualche volta.» Caleb si sporse leggermente in avanti. «Be', questo ti rende speciale.» Stan lo guardò. «Perché?» «Stando a quello che si dice in giro, non parlava con nessuno alla Northfield.» «È vero,» confermò Stan. «Non parlava.» «Però con te lo faceva,» continuò Caleb. «Non molto.» «Sì, d'accordo. Un po', come hai detto tu.» «Non aveva amici a scuola,» spiegò Stan. «E non capisco perché.» «È un po' strano, non credi?» proseguì Caleb. «Insomma, una bella ragazza come lei...» Il ragazzo alzò le spalle. «Era fatta così.» «Così come?» chiese Frank. «Che cosa vuol dire?» «Potresti descrivercela?» «Be', era molto carina.» «A parte l'aspetto fisico,» lo interruppe Frank. «La sua personalità.» «Non saprei dire,» rispose il ragazzo. «Davvero, non lo so. Insomma, non eravamo amici.» Lanciò un'occhiata fuori della finestra. Lungo i bordi del prato accuratamente tagliato, l'erba si stava seccando. Il caldo soffo-
cante ne inaridiva la linfa vitale. «Il fatto è,» intervenne Caleb, «che abbiamo una bella ragazza che frequenta una certa scuola, eppure nessuno sembra sapere niente di lei.» Fissò il ragazzo con uno sguardo penetrante. «Secondo te ha senso?» «Lei era fatta così,» ripeté Stan. «Timida, vuoi dire? Riservata?» «Credo di sì,» spiegò Stan. «Si comportava come se non volesse farsi conoscere dagli altri.» «Sapevi che aveva un telefono nella sua stanza?» chiese Frank. «No.» «Negli ultimi tre mesi ha fatto solo tre telefonate.» Stan guardò Frank senza riuscire a capire. «E tutte lo stesso giorno, il quindici maggio.» Nessuna reazione. Il ragazzo continuò a fissare Frank. «E tutte si riferiscono al numero di telefono di questa casa.» Stan spalancò la bocca. «A me? Ha cercato di chiamarmi?» «Non hai ricevuto le telefonate?» «No.» Caleb guardò Frank con aria interrogativa. Poi si girò verso Stan. «Non sapevi che stava cercando di mettersi in contatto con te?» «No, non lo sapevo,» esclamò il ragazzo freneticamente. «Vi giuro che non lo sapevo.» «Hai idea del perché stesse cercando di chiamarti?» chiese Frank. Stan scosse la testa vigorosamente. «Non le avevo più parlato dopo la rappresentazione.» «Recitavi con lei?» «Sissignore.» Frank prese il taccuino. «Ti ha chiamato tre volte il quindici maggio,» ripeté Frank. «E tu non sai il perché?» «No,» rispose il ragazzo con enfasi. Guardò Caleb e Frank, con aria smarrita. «Ve lo giuro. Non so niente di quelle telefonate. Forse ha risposto la segreteria telefonica e lei non ha lasciato alcun messaggio.» Anche quello era possibile, pensò Frank. Avrebbero registrato la chiamata anche se non avesse detto nulla. «Sapevi che era incinta?» chiese. Il ragazzo deglutì a fatica. «Che cosa?» «Angelica era incinta,» disse Frank. «Lo sapevi?» «No.»
«Di solito dicono tutti così,» sbottò Caleb. Stan chiuse lentamente gli occhi. «Non sapevo che fosse incinta,» mormorò. «Vi giuro che non lo sapevo.» «L'ha scoperto il quindici maggio,» proseguì Frank, «proprio il giorno in cui ti ha chiamato.» «Dunque, ragioniamo un attimo,» intervenne Caleb, «quando scopri una cosa del genere, di solito telefoni a un paio di persone.» Agitò un dito nell'aria. «All'amica del cuore, probabilmente.» Fissò Stan. «Ma tu hai detto di non essere molto amico di Angelica.» Sventolò un secondo dito in aria. «O magari al padre del bambino. Penso sia perfettamente normale aver voglia di parlare con lui.» Stan respirò profondamente. «Potrei essere io il padre,» mormorò. «Potresti?» «Ho fatto l'amore con lei una volta. Non so se l'abbia fatto anche con qualcun altro.» «Avete fatto l'amore solo una volta?» chiese Frank. «Sì.» «Quindi non avevate proprio una relazione,» disse Caleb. «Nossignore, per niente,» esclamò Stan. «Quando prima le ho detto che non conoscevo molto bene Angelica, be', era la verità. Non la conoscevo per niente. Praticamente prima di quella sera non ci eravamo mai rivolti la parola.» Guardò Frank. «Intendo dire, la sera in cui è successo.» Si girò verso Caleb. «Ci incrociavamo ogni tanto a scuola. A volte mi salutava, a volte no. Era fatta così. Fino a quella sera.» «Che cosa intendi con 'quella sera'?» chiese brutalmente Caleb. «L'ultima sera delle prove,» rispose Stan. «Quando è stato?» «Il primo aprile.» Frank lo segnò sul taccuino. «Era venerdì sera,» aggiunse Stan. «E sabato ci sarebbe stato il debutto.» «Quindi avete fatto le prove,» disse Frank. «E poi?» «Siamo andati a fare un giro.» «Con la tua macchina?» «No, con quella di Angelica.» «La BMW rossa.» «Sì, esatto,» confermò Stan. «Che macchina! L'aveva comprata solo da un mese.» Frank alzò gli occhi dal taccuino. «Vai avanti.»
«Be', la prova era stata uguale alle altre,» proseguì Stan. «Forse leggermente più impegnativa, visto che si avvicinava la sera del debutto.» Lanciò un'occhiata a Caleb. «Abbiamo finito verso le undici, più tardi del solito. Ed eravamo tutti stanchi.» Si appoggiò allo schienale del divano e respirò profondamente. «Comunque, stavo andando verso la mia macchina... be', a dire la verità è di mio padre, quando mi si è avvicinata Angelica.» Frank la immaginò dietro il volante, con i capelli biondi sciolti sulle spalle. «Che cosa ti ha detto?» domandò. «Era tutta la sera che era nervosa e non capivo perché. Pensavo fosse agitata per il debutto di sabato.» «Che cosa ti ha detto, Stan?» insistette Caleb. «Aveva uno sguardo strano, come se fosse arrabbiata con me per qualcosa. Pensavo che mi avrebbe insultato, ma non è stato così. Vedete, quella sera era stata molto pungente con tutti. Ci aspettavamo che il signor Jameson la mandasse a casa da un momento all'altro, ma lui si è limitato a girarle alla larga, come se avesse paura di lei.» Frank rivide il volto di Angelica: gli occhi azzurri, le labbra tirate e le parole fredde e scarne che le uscivano dalla bocca. «Mi ha detto: 'Sali,'» continuò Stan. «In un tono perentorio. Solo: 'Sali.'» Frank continuava a scrivere sul taccuino. «Non ha detto altro?» chiese Caleb. «Nient'altro.» «E tu sei salito, giusto?» «Sissignore,» rispose Stan. «Sono salito senza capire che cosa stava succedendo. Poi le ho chiesto: 'Cos'hai, Angelica?' o roba del genere. E lei è scoppiata a ridere e mi ha risposto: 'Lo scoprirai presto se tieni chiuso il becco.' Poi è uscita dal posteggio. Accidenti, come guidava, ha fatto fischiare le gomme!» A Frank parve di udire il rumore dei pneumatici che risuonava nella notte estiva simile a un gemito. «Dove siete andati?» chiese. «Ci siamo diretti verso il centro,» rispose Stan. «Me lo ricordo benissimo, era una serata splendida e le bocche di leone erano in fiore. Le ho anche fatto notare quanto fossero belle e lei ha detto: 'Sì, bellissime.'» «Così siete andati in giro,» lo interruppe Caleb. «Dove esattamente?» «Siamo finiti nella zona sud,» rispose Stan, «dalle parti di Grant Park.» «Ci siete capitati per caso o ti è sembrato che fosse diretta proprio lì?» «Be', adesso che me l'avete fatto notare, direi che sapeva fin dall'inizio
dove stava andando.» «Si è diretta subito verso sud?» «Sissignore, direttamente,» confermò Stan. «Siamo andati a Grant Park, poi abbiamo fatto il giro un paio di volte, forse di più. Continuava a guardare fuori del finestrino. Ho avuto l'impressione che cercasse qualcuno.» «Ha parlato forse di droga?» chiese Caleb. «No.» «Ci sono un sacco di spacciatori dalle parti del parco.» «Non ha proprio parlato di droga.» «Ma ha fatto il giro del parco?» chiese Frank. «Sissignore. Almeno due volte, forse di più.» «E poi?» «Poi è entrata nel parco,» proseguì Stan. «È arrivata fino a dove stanno restaurando quel diorama storico, sapete, quello della battaglia di Atlanta.» «Il Cyclorama?» chiese Frank. «Esatto.» Frank prese nota. «E poi ha posteggiato,» aggiunse Stan. Frank alzò gli occhi dal taccuino. «Ha parcheggiato al Cyclorama?» «Proprio così. Ha accostato al muro di cinta e ha spento la macchina.» «Quanto tempo vi siete fermati?» Stan ci pensò un attimo. «Credo dieci minuti. Forse un po' di più, o di meno. Non ne sono sicuro. A dire la verità, non avevo capito che cosa stesse succedendo. Insomma, non aveva aperto bocca per tutto il tragitto e pensavo che dopo aver parcheggiato avrebbe detto qualcosa. Ma non è andata così. È rimasta seduta al volante e si è fumata una sigaretta, guardando continuamente nello specchietto retrovisore.» «Nel retrovisore?» «Sissignore.» «Non davanti a lei?» «Be', davanti c'era solo il muro,» spiegò Stan, «e il cartello del Cyclorama.» Si strinse nelle spalle. «Ogni tanto guardava il cartello e poi tornava a fissare lo specchietto.» «Hai avuto l'impressione che aspettasse qualcuno?» domandò Frank. «Non lo so,» disse Stan. «Non riuscivo davvero a capire che cosa stava succedendo. Fumava una sigaretta dietro l'altra, eppure non l'avevo mai vista fumare prima di allora.» «E non ha detto una sola parola?» chiese Caleb, incredulo.
«Niente fino a un attimo prima che ce ne andassimo,» rispose Stan. «A quel punto mi ha guardato con quella sua aria spietata e mi ha detto: 'Bene, è la tua sera fortunata.' Poi ha messo in moto la macchina e siamo usciti dal parco.» Mentre prendeva appunti, a Frank parve di udire il rumore del motore e di sentire il fumo della sigaretta che si alzava in bianche volute nell'aria accanto a lui. Caleb si sporse leggermente in avanti. «Avete attraversato di nuovo il parco?» «No,» rispose Stan, «abbiamo fatto un altro giro intorno e io iniziavo a essere stanco. Era così strana. Non parlava e quando diceva qualcosa non riuscivo proprio a capirla.» «Perché non la capivi?» «Parlava sottovoce,» spiegò Stan. «Come se mormorasse a denti stretti.» Guardò Frank. «Io volevo solo andarmene a casa.» «E perché non le hai chiesto di accompagnarti?» domandò Frank. Stan scosse il capo. «Non lo so. Probabilmente perché era tanto bella. Il solo fatto di starle seduto di fianco mi faceva venire i brividi. Era come se quel corpo emanasse qualcosa che mi trascinava lontano. Era impossibile sfuggirgli. Io, almeno, non ci sono riuscito.» Mentre lo ascoltava, Frank cercò di rivivere l'intensità del desiderio giovanile. Si ricordava le notti insonni causate da tale desiderio. Tutto diventava umido, gonfio e terribilmente dolce. Capiva perfettamente che Stan doveva aver provato la stessa sensazione quando si era seduto accanto ad Angelica Devereaux. Frank si era sentito così con Sheila e fu sorpreso nel constatare il lento declino di una simile passione, dove il tempo aveva corroso le punte lasciando solo dei resti piatti e senza forma. Era quella una delle grandi perdite che aveva dovuto affrontare nel corso della vita. «Avevo già avuto qualche esperienza,» continuò Stan con calma. «Voglio dire, prima di quella notte. Ma niente in confronto ad Angelica.» «Dove siete andati quando siete usciti dal parco?» chiese Frank. «Siamo rimasti nella stessa zona,» rispose Stan. «Abbiamo continuato a girare in quel quartiere.» Si strinse nelle spalle. «Non c'ero praticamente mai stato, ma Angelica sembrava conoscerlo molto bene.» «Come fai a dirlo?» «Si comportava come se ci fosse stata molte volte, come se fosse di casa.» «Ti ha mai fatto dei nomi? Qualcuno che conosceva e che abitava da
quelle parti?» Stan scosse la testa. «No.» «Si è concentrata su una strada particolare?» «Be', siamo andati su e giù per una via un paio di volte.» «Ti ricordi il nome?» «No, signore,» mormorò Stan. «Sei sicuro?» «Non ho fatto caso ai nomi, mi spiace.» «Prova a sforzarti,» disse Caleb. «Sto cercando di ricordare il più possibile,» disse Stan, «davvero. Ma era buio e non ero mai stato in quella parte della città.» Lanciò un'occhiata a Frank. «Non mi sentivo tranquillo, sapete. Non mi piaceva quella zona. Insomma, mi sono chiuso in macchina, questo me lo ricordo. E ho suggerito ad Angelica di fare altrettanto.» «E ti ha dato retta?» domandò Frank. «No.» Frank scarabocchiò qualche appunto e tornò a guardare il ragazzo. «Dunque, avete girato per un po' attorno al Grant Park. E poi?» «Siamo finiti in un vicolo,» disse Stan. «Era dietro alcuni edifici. Non so esattamente dove.» «Hai notato qualcosa nel vicolo?» chiese Caleb. «Magari un camion, oppure un furgone carico di birra, o qualcosa del genere?» «Era deserto,» rispose Stan. «Credo che si sia fermata lì proprio per questo.» «Perché era deserto?» «Sì.» «Perché?» «Per quello che dovevamo fare,» continuò Stan. «Insomma, credo l'abbia scelto apposta perché sapeva cosa stavamo per fare.» «E cioè?» «Be', del sesso,» rispose Stan con voce tremante. «Ha spento la macchina ed è rimasta seduta per un po'. Non ha detto una parola e continuava a guardare fuori del finestrino. Non so per quanto tempo. Io non le ho detto nulla. Angelica aveva la capacità di far star zitta la gente. Quando voleva farti tacere, le bastava lanciarti una certa occhiata ed era proprio quello che voleva in quel momento: starsene lì seduta senza parlare. Dopo un po', comunque, le ho proposto di andare a mangiare un hamburger con patatine fritte.»
«E lei cosa ti ha risposto?» domandò Frank. «Si è messa a ridere con quella sua vocina,» disse Stan. «Una risata gelida, piuttosto antipatica, e ha esclamato: 'Un hamburger? È questo che vuoi?' Poi è scoppiata di nuovo a ridere e mi ha chiesto: 'Non vuoi me, Stan? Non è questo che vuoi?'»Guardò nervosamente Frank, poi Caleb, e poi di nuovo Frank. «Poi ha iniziato a slacciarsi la camicetta. Continuando a ridere. 'Tutti,' ha ripetuto, 'tutti mi vogliono.'» A Frank parve di udire la voce di Angelica, accompagnata dal suo sguardo spietato. In entrambi c'era qualcosa di irrimediabilmente perduto. Sentiva che una parte di lei era già morta oppure desiderava ardentemente morire. Scrisse: «Tutti mi vogliono» sul taccuino, poi osservò il ragazzo. «Ha iniziato a slacciarsi la camicetta,» disse. «E poi che cosa è successo?» «Non sapevo come comportarmi, esattamente,» rispose Stan. «Non che sia uno stupido, sapevo benissimo dove voleva arrivare. Ma non riuscivo a capire perché lo stesse facendo proprio con me. Avrebbe potuto avere chiunque. Qualche tipo in gamba della scuola. Pensavo che si sarebbe messa con qualcuno del genere, non certo con me.» Scosse la testa. «E non pensavo che potesse farlo così, in macchina, in un vicolo. Non sembrava il tipo per una cosa del genere.» La voce si addolcì e gli occhi si riempirono di tenero stupore. «Era così bella. Non riuscivo a crederci.» Guardò fuori della finestra, come se cercasse qualcosa fra gli alberi. «Comunque, si è trattato di una cosa veloce. Poi si è rivestita e mi ha riportato alla Northfield Academy.» «Senza dire nulla?» domandò Frank. «No,» rispose Stan. «Nemmeno una parola. Ho cercato di parlare un po', chi non l'avrebbe fatto in un momento del genere? Ma sembrava non le interessasse. Ogni volta che le rivolgevo la parola, lei mi fissava come se fossi un mostro, qualcosa di orribile. Come se fosse disgustata da quanto era accaduto. E da quel giorno, ha continuato a guardarmi così.» Si girò verso Frank. «Naturalmente, non potevo biasimarla. Tutti vorrebbero che la prima volta fosse qualcosa di speciale.» «La prima volta?» chiese Frank. «Sì.» «Per te?» «Per lei,» sottolineò Stan. «Insomma, non ho avuto molte ragazze, non sto dicendo questo. Però non ero... vergine.» «Ma Angelica sì?» insistette Frank.
«Sì.» «Ne sei sicuro?» Stan sorrise. «Non sono così stupido,» proseguì. «Vedo la differenza.» «Come si è comportata Angelica dopo quella notte?» domandò Frank. «Esattamente come prima. Non si era praticamente mai accorta della mia presenza e ha continuato nello stesso modo.» Frank segnò qualcosa sul taccuino e lo chiuse. «Grazie per l'aiuto,» disse. Caleb si alzò. «Sì, grazie,» ripeté. «Ci terremo in contatto.» Gli allungò un biglietto da visita. «Fatti sentire, soprattutto se ti viene in mente qualcosa che può esserci utile.» Stan esitò un attimo. «Sentite,» iniziò con tono preoccupato, «so che non dovrei parlare così, però questa gravidanza, be', mio padre non ne sa niente e, insomma, neanch'io lo immaginavo prima che me lo diceste voi.» «E vorresti che tuo padre non venisse a sapere nulla di tutta la faccenda, esatto?» «Se fosse possibile.» «È possibile,» lo tranquillizzò Caleb. Lanciò un'occhiata a Frank. «Credi che possa rimanere un segreto fra noi gentiluomini?» «Probabilmente,» disse Frank. Si alzò lentamente. «Forse dovremo farti ancora qualche domanda, Stan,» lo avvisò. «Forse dovrai raccontarci tutto da capo.» «Me ne rendo conto.» Dopo pochi minuti i tre uomini si ritrovarono in piedi sul prato davanti a casa. «Dev'essere interessante fare il poliziotto,» esclamò Stan con noncuranza. «A volte,» rispose seccamente Caleb. «Avevo pensato di diventare un tutore dell'ordine,» continuò il ragazzo, «ma mio padre vuole che faccia qualcosa di più... qualcosa di più...» «Be', probabilmente ha ragione,» disse Caleb. «I piedipiatti camminano in uno strano modo, non è vero, Frank?» Frank annuì velocemente. Gli sembrava di vedere Angelica nella sua silenziosa follia e di udire il tono sommesso e doloroso della sua voce. Qual era stata la causa di tutto ciò? Si chiese se anche la muta agonia di Sarah era stata così oscura, cupa e permeata di una rabbia che non era riuscito a cogliere neppure in sua figlia. Si sentì invadere da un'ondata di sorda depressione.
«Bene, è meglio che ce ne andiamo, Stan,» borbottò Caleb in tono cordiale. «È stato un piacere conoscerti.» Si avvicinò alla portiera del passeggero e salì in macchina. Per un attimo, Frank rimase come paralizzato, con gli occhi fissi e vuoti, rivolti verso il prato. «Ehi, Frank,» lo chiamò Caleb. Frank si girò. «Non ho voglia di guidare, Caleb,» disse. Caleb socchiuse gli occhi. «Non hai voglia? Okay, andiamo.» Scivolò dalla parte del volante e aspettò che Frank si sedesse di fianco a lui. «Un bravo ragazzo,» affermò Caleb, mentre percorrevano il vialetto in retromarcia. «Sì,» mormorò Frank fiaccamente. «Non è l'assassino di Ansley Park, questo è sicuro.» «No.» «Può darsi che stia mentendo,» aggiunse Caleb, imboccando la Piedmont Avenue e dirigendosi in centro, «ma non credo.» Frank fissò lo sguardo su un muro grigio della città che si ergeva davanti a loro. «Ehi, Frank, stai bene?» chiese Caleb dopo un attimo. «Sì, sto bene.» «Sembra che ti sia andato qualcosa di traverso.» «Non ho niente.» Caleb lo osservò attentamente. «Non è vero,» disse. «Vuoi bere qualcosa?» Sorrise debolmente. «Non devi far altro che dirmi se puoi permettertelo.» «Certo che posso,» sbottò Frank deciso. «Molto bene,» esclamò Caleb, fermandosi al primo bar che vide, imitazione di una piccola taverna messicana. Videro un tavolino vuoto in fondo al locale e vi si sedettero. «Mi porti un Tequila Sunrises,» disse Caleb alla cameriera. «Cosa prendi, Frank?» «Uno scotch.» Quando arrivarono le ordinazioni, bevvero in silenzio e Frank fece scivolare lo sguardo sulle venature del tavolo di legno, poi lungo le travi irregolari che raggiungevano il soffitto intonacato e ancora oltre, attraverso un piccolo lucernario posto in alto, fino a scorgere il cielo, azzurro e lontano. Dopo circa mezz'ora, Caleb guardò l'orologio. «Vuoi fare un altro giro?» «No.»
«Sembra che ti sia successo qualcosa, Frank.» «Improvvisamente mi sono sentito stanco,» spiegò Frank. «Molto stanco. Ti è mai capitato?» «Sì. Il dottore ha detto che è un problema di cuore.» Frank annuì debolmente. «Può darsi.» «È quello che mi ha detto il dottore,» proseguì Caleb. «E io ho replicato: 'Se uno ha il cuore malandato, che cosa può fare?' Mi ha risposto che non c'è molto da fare. E io allora: 'Be', ci deve essere qualcosa, Gesù Cristo,' e il bastardo si è messo a ridere e mi ha detto: 'Solo una cosa: spassarsela.'» Tracannò l'ultimo sorso rimasto nel bicchiere, scoppiò a ridere e afferrò il portafoglio. «Questa volta offro io, Frank,» disse. «Con il cuore malato, può anche darsi che sia l'ultima!» Impiegarono mezz'ora per tornare alla Centrale. Quando entrarono nell'ufficio, trovarono Alvin appoggiato alla scrivania di Frank. Aveva l'aria affranta, come mai in vita sua. Era come se gli fosse crollato il mondo addosso. «Che cosa c'è, Alvin?» chiese immediatamente Frank. Pensò subito alla moglie di Alvin, a Sheila e, per quanto assurdo, persino a Karen, senza tuttavia riuscire a immaginare che cosa fosse accaduto. «Che cosa c'è?» ripete. Alvin scosse la testa. «Il papà è morto un'ora fa,» disse con tranquillità, stringendo fra le braccia il suo unico fratello. 17 Era quasi mezzogiorno quando, due giorni dopo, Alvin accostò al marciapiede di Waldo Street per far scendere Frank. «Be', penso che il funerale sia andato bene, come previsto,» disse Alvin. Frank lanciò uno sguardo sul sedile posteriore: la moglie di Alvin e Sheila erano profondamente addormentate. «Salutamele quando si svegliano,» mormorò. «Lo farò,» assicurò Alvin. «Ehi, senti, potrei accompagnarle a casa e tornare qui.» Frank scosse il capo. «Non credo sia il caso, Alvin.» Alvin si sporse verso di lui. «Cerca di non ubriacarti, Frank,» gli raccomandò. «Non ti preoccupare,» lo tranquillizzò Frank. «Hai per le mani un bel caso. Non rovinare tutto.»
«Buonanotte, Alvin,» disse Frank. Chiuse la portiera e salì le scale che conducevano al suo appartamento. Quando era uscito, qualche giorno prima, aveva lasciato accesa la lampada in soggiorno e la luce che filtrava attraverso la tenda rossa colorava l'aria come se fosse stata spruzzata di sangue. Avrebbe voluto spegnerla, ma non aveva abbastanza forza. Era come se fosse capitato su un altro pianeta, dove il maggior peso molecolare e la rapida rotazione trattenevano le cose verso il basso con una forza immensa e invincibile. Accese una sigaretta e rimase immobile, mentre la mente ripercorreva i giorni appena trascorsi. Vide suo padre nella bara, con il viso incipriato, truccato per incontrarsi con Dio. Udì le preghiere recitate dal prete durante il funerale: La sua vita è stata bontà. La ricompensa sarà la gloria eterna. Senza dubbio suo padre aveva creduto a quelle parole e per un attimo Frank si sentì catturare dal mistero della fede. Ma sapeva benissimo che aveva perso quella fede, l'aveva persa completamente. Aspirò profondamente il fumo della sigaretta e cercò di pensare a qualcosa in cui credere. Emersero solo immagini negative. Credeva che un uomo lo avrebbe rispettato dopo aver ricevuto un pugno in pieno viso. Paragonato alla realtà della violenza, tutto il resto appariva vuoto e irrilevante. «Se fossi Dio,» aveva affermato Caleb, «non ne perderei d'occhio uno.» Caleb l'aveva detto più o meno per scherzo, ma per Frank era una sacrosanta verità, alla base di tutto il resto. Ma non gli era di grande conforto. Non lasciava posto all'amore, alla speranza o alla misericordia e si nutriva solo della forza violenta e spaventosa e del lancinante bisogno di vendetta che ne seguiva. Si soffermò a osservare l'appartamento, cogliendone il consueto disordine. Gli venne in mente la casa di Karen, poi la stanza di Angelica con le pareti immacolate, il letto ben fatto e lo specchio scintillante. Tutto sembrava essere così lontano dal suo mondo, e si chiese se una vita equilibrata non dovesse essere vissuta a metà strada fra ordine e confusione, in una terra governata da leggi non troppo numerose ma neppure assenti. Il fumo della sigaretta si concentrò nell'angolo opposto della stanza, mentre la luce della lampada gli conferiva un alone color lavanda. Si muoveva in modo leggiadro e Frank si ritrovò a fissare le nuvolette e le volute di fumo che si agitavano nell'aria rossastra. Lentamente, il suo pensiero scivolò su Karen e la rivide come l'aveva conosciuta quella prima volta: una donna con il camice sporco di vernice. Voleva rivederla ed era ciò che desiderava di più in quel momento.
Dopo pochi minuti si ritrovò in macchina, diretto verso la West Paces Ferry Road. Era passata la mezzanotte e la città sembrava tranquillamente addormentata in un bozzolo scuro. L'aria era ancora tiepida, ma iniziava a sentirsi una piacevole frescura e Frank sporse il braccio dal finestrino come se volesse immergerlo in un gelido ruscello di montagna. Ebbe un attimo di esitazione davanti alla porta. La casa era immersa nell'oscurità ma era sicuro che Karen non stesse dormendo. Alla fine bussò delicatamente. Quando aprì la porta, lei non parve sorpresa di vederlo. «Ho sentito di suo padre,» disse, «me lo ha detto il signor Stone alla Centrale. Mi dispiace.» «Volevo informarla che comunque questo non influirà sullo svolgimento delle indagini.» «Avrebbe potuto dirmelo domani mattina.» «Lo so,» mormorò Frank. «Ma non volevo aspettare fino ad allora.» La donna fece un passo indietro. «Si accomodi.» Frank la seguì in un piccolo studio sul retro. Non era come il resto della casa. Era decisamente più disordinato: c'erano parecchie tele sparse in giro, una scrivania di legno ormai rovinata e alcuni armadietti di metallo. L'unica libreria arrivava quasi fino al soffitto e, di fianco, c'era una vecchia macchina per scrivere appoggiata su un ripiano imbrattato di vernice. «È la mia stanza,» disse Karen. «È qui che lavoro.» Abbozzò un sorriso. «A volte mi capita anche di dormirci. Nell'armadio c'è un vecchio materasso.» «Ha intenzione di rimanere a vivere qui?» «No,» rispose Karen. «Non resterò neppure ad Atlanta.» Frank sentì qualcosa spezzarsi dentro. «Non rimane?» «No.» «Dove andrà?» «A New York.» «Perché?» «Non sopporto più Atlanta.» «Capisco,» disse Frank con calma. «Be', mi spiace che se ne vada.» Non sembrava ci fosse altro da aggiungere, così prese il taccuino. «Volevo dirle che abbiamo scoperto alcune cose su Angelica.» Karen indicò una piccola sedia a dondolo. «Si accomodi.» Frank si sedette e guardò Karen che avvicinava un'altra sedia traendo un profondo respiro, come se si aspettasse cattive notizie. «Si ricorda che avevo segnato il numero di telefono di Angelica?» do-
mandò Frank. «Sì.» «Lo usava pochissimo.» «Non mi sorprende,» disse Karen. «Non sembrava avere molti amici.» «Dal primo aprile ha chiamato solo tre volte,» proseguì Frank. «E nello stesso giorno: il quindici maggio.» «Il quindici maggio,» ripeté sommessamente Karen. «Esatto,» disse Frank. «Abbiamo scoperto che Angelica è andata da un medico l'undici maggio. Un ginecologo di nome Herman Clark. Lo conosce?» Karen scosse la testa. «Sospettava di essere incinta,» continuò Frank. «E voleva assicurarsene.» «Capisco.» «Bene, Clark ha confermato che era incinta. Glielo ha comunicato il quindici maggio.» «Quindi ha chiamato lui?» «No,» rispose Frank. «Ha telefonato a un ragazzo della Northfield Academy che vive ad Ansley Park. Si chiama Stanford Doyle, Junior. Mai sentito?» «No.» «Angelica non lo ha mai nominato?» «Non mi ha mai parlato di nessuno della Northfield,» rispose piatta Karen. «Perché ha chiamato proprio lui?» «Perché probabilmente è il padre del bambino,» rispose Frank. Gli occhi di Karen si strinsero a fessura. «Ha ucciso lui mia sorella?» «Non penso,» disse Frank. «E secondo il ragazzo, sono stati insieme solo una volta. Dice che si conoscevano appena.» «E gli crede?» «Sì.» «Allora gli credo anch'io,» mormorò Karen. Si alzò e si appoggiò alla scrivania. «Quindi è al punto di partenza.» «No, abbiamo fatto qualche passo avanti.» «In che senso?» «Be', la notte in cui sono stati insieme, Angelica si è comportata in modo molto strano.» Karen osservò Frank. «Angelica si comportava spesso in modo strano.» «Diciamo che ha scelto quel ragazzo a caso,» spiegò Frank. «Sembrava
arrabbiata, a quanto dice lui. Sono andati a fare un giro con la macchina di Angelica, e lei sapeva bene dove lo stava portando.» «Dove l'ha portato?» «Verso il centro. Non lontano da dove abbiamo ritrovato il corpo.» «Capisco.» Frank scorse velocemente gli appunti. «Quella notte non ha parlato molto. Ha fatto più volte il giro di Grant Park, poi si è diretta verso il Cyclorama e ha parcheggiato.» Karen distolse lo sguardo. «È lì che hanno fatto l'amore?» «No,» rispose Frank. «Si sono solo fermati per un po'. Il ragazzo non si ricorda per quanto. Ma neppure lì hanno parlato molto.» «Be', gli avrà detto qualcosa,» esclamò Karen. «No, a quanto dice il ragazzo.» «Mi sta dicendo che Angelica ha preso a caso un ragazzo per... scopare?» «Sì,» rispose Frank schiettamente. «E lei crede anche a questo?» «Sì,» disse Frank. «Ma sono convinto che avesse una ragione per farlo.» «Che ragione?» chiese seccamente Karen. «Non lo so.» Karen scosse la testa, disperata. «Non so se riuscirò ad accettarlo.» Frank rimase in silenzio e lasciò che si riprendesse. Poi, dopo un attimo, continuò. «Si sono fermati al Cyclorama solo per pochi minuti,» riprese, cercando di essere gentile. «Poi Angelica ha detto al ragazzo che quella era la sua serata fortunata.» «Oh, Dio,» gemette Karen. «Hanno girato ancora un po',» proseguì Frank. «Il ragazzo non sa dire esattamente per quanto tempo. E non sa neanche dove sono andati, perché non conosce la zona sud della città.» «È normale.» «Ma Angelica la conosceva bene,» sottolineò Frank. «È questa la cosa strana. Sembrava sapere con precisione dove stava andando.» Karen lo guardò, sorpresa. «La zona attorno a Grant Park?» «Sì.» «Come faceva a conoscere quella zona?» «Non lo so.» «Non lo ha spiegato per caso a questo Stanford Doyle?»
«No,» rispose Frank. «A lei ha mai accennato qualcosa del genere?» «No.» «Sa se aveva degli amici da quelle parti?» «C'è forse un motivo per cui era così di casa in quella zona?» «Non mi ha mai parlato di niente,» sbottò Karen. «E di certo non ha mai nominato Grant Park o il Cyclorama, o cose del genere.» Scosse la testa con aria stanca. «Per quanto ne so, la sua vita si svolgeva fra qui e la Northfield Academy.» Frank sfogliò il taccuino. «Cosa mi dice di Stanford Doyle? L'ha mai sentito nominare?» «No.» «Lo chiamano Stan.» «Non mi dice niente.» «Ci ha detto che Angelica era molto arrabbiata quella sera,» continuò Frank. «Ha idea di perché fosse tanto arrabbiata?» «No.» «Forse una piccola discussione. Qualsiasi cosa.» Karen iniziò a camminare lentamente su e giù per la stanza. «No,» ripeté. «Niente.» «Un brutto voto,» insistette Frank «Un contrattempo.» Karen si girò di scatto. «Niente, niente, niente,» urlò. «Non conoscevo mia sorella. Lo vuole capire?» Frank si alzò. «Le stava succedendo qualcosa, Karen,» esclamò. «Qualcosa di terribile.» Karen si allontanò e respirò profondamente. «Lo so,» mormorò. «Sentivo che c'era qualcosa che non andava. Ma non capivo che cosa fosse.» Chiuse lentamente gli occhi come se cercasse qualcosa dentro di sé. «L'avrei aiutata se avessi potuto.» Fissò Frank. «Sapevo che dovevo fare qualcosa, ma non sapevo da che parte cominciare. Avevo solo uno strano presentimento.» Frank ripensò a Sarah, ai piccoli segnali che aveva lanciato: un'improvvisa interruzione in una frase, un gemito di paura quando non c'era nulla da temere. «Ho sempre pensato che il destino riservasse qualcosa per Angelica,» disse Karen. «Era come se fosse sempre avvolta nell'oscurità.» Guardò lontano per un attimo, poi tornò a fissare Frank, con aria decisa. «Voglio vedere dove l'avete trovata.» «È un campo abbandonato,» spiegò Frank. «Pieno di erbacce, con una
vecchia macchina arrugginita.» «Non m'importa sapere com'è,» esclamò Karen. «Non c'è niente da vedere,» insistette Frank. «Non abbiamo trovato neppure le impronte perché il terreno era troppo secco. C'è solo un cespuglio rotto dove hanno trascinato il corpo. Non c'è altro.» «Non importa,» ripeté Karen. «Voglio andarci.» «D'accordo.» «Quando mi può accompagnare?» «Anche subito, se vuole,» rispose Frank. Karen rifletté un attimo. «Sì, è una buona idea.» Durante il lungo tragitto, Karen rimase seduta in silenzio di fianco a Frank. Il suo viso appariva bluastro sotto la luce della notte e Frank notò gli stessi lineamenti, seppure meno radiosi, che altri individui avevano scorto e probabilmente apprezzato nella sorella più giovane. A Frank, comunque, la bellezza di Karen sembrava più profonda e più completa. Aveva qualche piccola ruga attorno agli occhi e nella massa di capelli neri s'intravedevano pochi ciuffetti bianchi leggermente arricciati: tutto questo le conferiva una bellezza che la giovinezza non poteva possedere. Era una bellezza più intensa, più decisa e più desiderabile. «Anch'io mi sono recato in quel campo, una sera,» disse Frank, mentre imboccava la Peachtree. Karen lo guardò. «Da solo?» «Sì.» «A fare che cosa?» «Non lo so. Forse per captare qualcosa.» «Captare qualcosa?» «Per cercare di avvertire una sensazione, un presentimento.» Lei si girò verso la strada, con gli occhi fissi davanti a sé. «Mi sembra così meticoloso con quel suo taccuino. Non fa che prendere appunti.» «Sì, è vero.» «E allora che cosa si aspettava di 'avvertire'?» chiese Karen. «La morte. Forse la vita. Una sensazione.» «E ha avvertito qualcosa?» «No.» «Allora forse sarà lo stesso anche per me,» disse Karen. «No, con lei potrebbe essere diverso,» si affrettò ad aggiungere Frank. «Era sua sorella. In un modo o nell'altro, siete sempre state insieme. Magari le è sfuggito qualcosa. A volte succede: la gente si ricorda improvvi-
samente di un particolare insignificante a cui non aveva mai fatto caso. Accade molto spesso.» Abbandonarono la Peachtree e si diressero verso Glenwood, lasciandosi alle spalle le luci della città per entrare nel mondo dei tozzi edifici di mattoni che li avvolgevano come un gigantesco abbraccio. «Il giorno in cui Angelica è morta,» chiese Frank dopo un attimo di silenzio, «ha notato qualche cambiamento in lei?» «No.» «Magari un'improvvisa freddezza o un tono più duro del solito.» «Assolutamente nulla.» Frank svoltò e continuò in direzione dello spiazzo abbandonato. «Eccoci arrivati,» disse. Posteggiò la macchina di fianco al campo che si stendeva alla loro sinistra, con gli arbusti e le erbacce assolutamente immobili nella calda aria estiva. «Oh, mio Dio,» bisbigliò Karen. Frank indicò un punto in mezzo al campo. «L'abbiamo trovata laggiù, distesa sulla schiena.» Guardò Karen. «Abbiamo un testimone che afferma di aver visto qualcuno che trasportava un pesante fardello in quel punto. Pensiamo che potesse essere un tappeto arrotolato attorno al corpo di Angelica.» Karen chinò leggermente il capo. «Mi sembra ancora impossibile.» «Vuole scendere?» «Sì.» Scesero dalla macchina e camminarono lungo il bordo del campo. L'aria era soffocante e sotto la luce dei lampioni, Frank notò alcune gocce di sudore sul labbro superiore di Karen. «Mi segua,» disse. «Le mostrerò dove l'abbiamo trovata.» Si fecero largo lentamente fra i fitti arbusti. Le strade attorno erano tranquille, a eccezione dell'arteria principale, lungo la quale il traffico continuava per tutta la notte. Finalmente giunsero a destinazione. «Qui,» disse Frank. «Era sdraiata sulla schiena. E aveva i capelli disposti a raggiera attorno alla testa. Credo che sia stato l'assassino a sistemarli così.» «Perché dice questo?» «Perché se si fosse limitato ad appoggiare il corpo a terra, i capelli sarebbero finiti sotto la testa,» spiegò Frank. Si chinò a terra e fece un gesto circolare con la mano. «Invece, erano disposti tutti attorno.»
«Che tempo c'era quella notte?» domandò Karen. «Come oggi, direi.» «Niente vento?» «Niente vento.» «Allora possiamo verificarlo.» «E come?» «Ho i capelli come quelli di Angelica,» rispose Karen, «quindi non deve far altro che distendermi per vedere dove vanno i capelli.» Frank si avvicinò e la prese in braccio con molta attenzione. Poi si chinò e la appoggiò delicatamente per terra. I capelli caddero sotto la testa, formando una specie di cuscino. «È come pensava lei,» mormorò Karen. Frank annuì. «Sì.» Sentiva ancora il peso del suo corpo nelle braccia e per un attimo credette che fosse dovuto al suo desiderio. Poi, improvvisamente, la sensazione svanì e avvertì dentro di sé la morte di Angelica, simile a una forte scarica elettrica. S'irrigidì. «C'è qualcosa che non va?» domandò Karen, alzandosi in piedi. «Niente,» rispose Frank. «Niente. Possiamo andare.» 18 «Mi spiace per tuo padre,» disse Caleb quando Frank rientrò in ufficio il mattino seguente. Frank annuì e si sedette alla scrivania. Si sentiva rinvigorito e voleva approfittarne per mettersi immediatamente al lavoro. «Raccontami tutto.» «Be', mentre eri via, il dipartimento non è stato con le mani in mano.» «Non mi stupisce.» «E Gibbons non stava più nella pelle. Scommetto che se non fossi rientrato oggi, gli avrebbero affidato il caso.» «Cosa hanno fatto?» «Innanzitutto volevano arrestare Stan,» disse Caleb. «Con che prove?» «Hanno fatto l'esame del sangue del feto,» spiegò Caleb. «Ed è dello stesso gruppo di Stan. Gibbons voleva muoversi immediatamente.» «Che cosa è successo?» «Brickman non era d'accordo,» disse Caleb. «Troppo inconsistente come prova. Gibbons voleva utilizzare i risultati dell'esame per strappare una confessione al ragazzo. Ma Brickman gli ha detto di no.»
«Meglio per lui.» «Brickman è convinto che la teoria del padre sia sbagliata,» continuò Caleb. «Pensa si tratti di una faccenda di droga. Forse un colpo andato male.» «Non è saltato fuori niente?» «No.» «E Davon Little?» «A parte la macchina, pare non c'entri.» «E nell'auto non hanno trovato niente?» «Nemmeno un capello. Al laboratorio hanno detto che non hanno mai visto una macchina così pulita. Ci mancava solo che pulissero anche il tubo di scappamento. Dopo aver avuto i risultati delle analisi, sono andato da Little per chiedergli se aveva ripulito lui la macchina. Mi ha detto di sì.» «E dentro non c'era assolutamente niente?» chiese Frank incredulo. «Frank, se dobbiamo basarci su quello che abbiamo trovato nella macchina, possiamo stare certi che nessun altro oltre a Davon Little è stato in quell'auto.» «Nient'altro?» «Ho controllato il ragazzo.» «È pulito?» «Candido,» rispose Caleb. «Ottimo studente, bravo atleta, in complesso un bravo ragazzo.» «Per cui siamo al punto di partenza.» «Non proprio,» disse Caleb. «Perché quel ragazzo ci ha dato qualcosa su cui lavorare.» «Che cosa?» «Il fatto che Angelica sembrava conoscere la zona sud della città.» «Sì,» disse Frank. «Ne ho parlato con Karen.» «Karen?» «Karen Devereaux.» «Quando l'hai vista?» «Ieri sera,» rispose Frank, il più naturalmente possibile. Caleb abbozzò un sorriso. «Oh,» si schiarì la gola. «E che cosa... ti ha detto, la signorina Devereaux?» «Era convinta che Angelica conoscesse solo la zona attorno alla West Paces Ferry.» «E questo non fa che confermare quanto quella ragazza fosse strana, vero, Frank3»
«Già.» «Come faceva Angelica a conoscere la zona di Grant Park?» «Caleb, se lo sapessimo, avremmo risolto molti altri quesiti.» «Hai ragione,» riconobbe Caleb. «E l'unica cosa che mi viene in mente è la droga.» «E in che direzione vorresti muoverti?» «Ho già svolto qualche indagine,» rispose Caleb. «Mentre eri via, sono andato alla Northfield e ho fatto due chiacchiere con alcuni ragazzi. All'inizio erano un po' riluttanti, ma poi hanno cominciato a parlare. È saltato fuori che nella scuola gira l'erba e anche la cocaina.» «Cosa ti hanno detto?» «Be', praticamente tutti fumano un po' d'erba,» rispose Caleb, «e qualcuno non si limita solo a quello.» «E Angelica?» «Mi hanno detto che era pulita, o, per lo meno, lo era quando è morta,» disse Caleb. «Quella è la parte più divertente.» «Cioè?» «Angelica era come molti dei ragazzi della Northfield. Aveva tanti soldi ed era attratta dalle novità. Metti insieme questi due elementi e possiamo affermare che probabilmente anche lei aveva un po' di roba.» «Erba?» «E anche un po' di coca.» Frank tirò fuori il suo taccuino. «Continua.» «Be', all'inizio pensavo di aver scoperto qualcosa,» disse Caleb. «Mi era tutto chiaro. Angelica si drogava e questo significava che doveva conoscere gli spacciatori. Voglio dire, secondo me non era andata solo a fare un giro con la BMW.» Frank annuì. «Così ho pensato che il suo contatto fosse Grant Park, ed ecco spiegato perché conosceva quella zona.» «Il discorso fila,» ammise Frank. «Anche secondo me,» concordò Caleb, «ma continuando a chiacchierare le mie ipotesi si sono rivelate infondate.» «Che cosa vuoi dire?» «Sicuramente Angelica ha provato qualche droga,» proseguì Caleb. «Tre mesi prima che la ragazza morisse, uno di quei ragazzi l'aveva beccata a un drive-in. Poi è andato da lei e hanno fumato fino a star male.» «Tre mesi fa?»
«Esatto, ed è stata l'ultima volta che qualcuno ha visto Angelica con della droga.» «Aveva smesso?» «Completamente, Frank,» continuò Caleb. «Per quanto ne sanno i ragazzi, aveva abbandonato ogni genere di droga. Sono tutti concordi su questo punto.» Frank annotò quel particolare. «E non è tutto,» aggiunse Caleb. «Aveva anche modificato la dieta.» Avvicinò una sedia alla scrivania di Frank e si sedette. «Dieta?» «I ragazzi dicono che Angelica mangiava molto disordinatamente. Girava sempre con sacchetti di pop corn e patatine.» «Aveva smesso con quella roba?» «Completamente,» rispose Caleb. «Nello stesso periodo?» «Contemporaneamente. E tutto questo è accaduto prima che scoprisse di essere incinta.» Frank si piegò leggermente in avanti. «Che cosa le stava succedendo, Caleb?» «Si comportava come se avesse improvvisamente abbracciato una nuova religione.» «Questo cosa significa? Che aveva scoperto una nuova ideologia?» Caleb guardò Frank con aria perplessa. «E questo basterebbe a risolvere il caso?» Frank sorrise. «No, avevi ragione prima,» continuò Caleb. «Le stava accadendo qualcosa.» «Già.» «È la faccenda di Grant Park che non riesco a capire,» disse Caleb dopo un attimo. «Insomma, è tutto il contrario. Avrebbe dovuto frequentare Grant Park quando ha iniziato a fare uso di droga, e non quando ormai aveva deciso di smettere. Capisci cosa voglio dire, Frank?» Frank scosse la testa stancamente. «Provo delle strane sensazioni riguardo a questo caso, Caleb.» «È perché non tornano i conti. «C'è qualcosa che mi sfugge,» proseguì Frank. «Non c'è stata violenza. Non è stata una questione di soldi.» Scosse la testa sconsolatamente. «Che cosa abbiamo in mano?» Aprì il taccuino alla prima pagina. «Non mi resta
che ricontrollare ogni dettaglio.» Cominciò a rileggere i suoi appunti. «Sei lento a guarire, Frank,» mormorò Caleb dopo averlo guardato per qualche minuto. Frank alzò lo sguardo. «Che cosa?» «La tua faccia,» spiegò Caleb. «Non è migliorata in questi ultimi giorni. Sei uno che guarisce lentamente.» «È sempre stato così,» rispose Frank con indifferenza, mentre riprendeva a leggere il taccuino. Assomigliava più a un quaderno pieno di schizzi, e mentre Frank si accingeva a intraprendere il difficile compito di decifrare quegli scarabocchi, si rese conto che quel taccuino conteneva poco più che i fatti principali relativi al caso, annotati minuziosamente nel corso delle indagini. Oltre a questi, c'era solo un vasto assortimento di pensieri, idee e impressioni sulle persone e sul loro modo di parlare, di muoversi, di vestirsi. Di Arthur Cummings aveva scritto: «Sembrava sicuro della sua ricchezza e della sua innocenza», mentre Davon Little aveva parlato con voce ferma, come se sapesse che quello che stava dicendo corrispondeva a verità. «Che cosa stai cercando, Frank?» gli chiese infine Caleb. «Non lo so,» ammise Frank, continuando a sfogliare il taccuino. Aveva scritto che Albert Morrison era «molto controllato» e che Jameson, l'insegnante di arte drammatica, «aveva qualcosa di infido nello sguardo». Girò una pagina, poi un'altra ancora, fino agli appunti presi a casa di Karen. Aveva annotato che James Theodore «voleva dire qualcosa» e in quel momento quelle tre parole lo colpirono come le uniche degne di nota. Chiuse il taccuino e guardò Caleb. «Forse dovremmo darci dentro,» disse. «Che cosa vuoi fare?» «Occupati del parco,» propose Frank. «Devo parlare con qualcuno in particolare?» «Soprattutto con gli spacciatori,» rispose Frank. «Forse Angelica era in contatto con qualcuno. Potrebbe essere roba vecchia, ma vale la pena tentare.» «Va bene.» «E fammi un favore,» aggiunse Frank. «Vacci piano, all'inizio. Limitati a mostrare la foto di Angelica, e a scoprire se qualcuno l'ha vista da quelle parti.» «D'accordo,» rispose Caleb. «Ci vediamo nel pomeriggio.»
Appena Caleb fu uscito, Frank prese dal cassetto della scrivania l'elenco telefonico e cercò l'indirizzo della Nouveau Gallery. Si trovava in uno dei viali più ampi nella zona nord della città. Quando arrivò alla galleria era piuttosto presto, e la maggior parte dei negozi erano ancora chiusi. Il viale era quasi interamente deserto, ma, mentre si avvicinava alla vetrina illuminata della Nouveau Gallery, vide Theodore che cercava di appendere un quadro enorme. Picchiettò sulla porta a vetri. Theodore si girò immediatamente, appoggiò delicatamente il quadro sul pavimento e andò ad aprire. «Salve, signor Clemons,» disse freddamente mentre apriva. «Spero che abbia qualche minuto da dedicarmi,» disse Frank. «Certamente,» rispose Theodore. Spalancò la porta. «Si accomodi.» «Grazie.» Theodore chiuse la porta, poi si girò verso Frank. «Immagino non sia qui per comperare un quadro,» disse. «No.» «Angelica?» Frank annuì. «Sì, certo,» continuò Theodore. Diede un'occhiata all'orologio. «Il mio collaboratore arriverà tra poco, ma dovremmo avere abbastanza tempo.» Indicò una porta in fondo alla galleria. «Possiamo parlare nel mio ufficio.» Frank lo seguì in un ufficio piccolo, alle cui pareti erano appoggiate cataste di quadri. «Le piacciono i dipinti, signor Clemons?» chiese Theodore sedendosi dietro la scrivania. «Non me ne intendo molto,» ammise Frank. «Non ce n'è bisogno,» disse Theodore. E indicò un grande dipinto rappresentante una donna accanto a un lago. «Una cosa del genere può essere splendida o orribile.» Si picchiettò la tempia con il dito. «Dipende da come si osserva il quadro e da quello che può suscitare in noi.» Sorrise. Non c'è bisogno di essere degli esperti.» Frank tirò fuori il taccuino. «Si ricorda quando ci siamo incontrati da Karen?» «Sì.» «Mentre parlavamo, ho segnato qualcosa.» Frank sfogliò il blocco finché trovò la pagina esatta. «Stavamo parlando da pochi minuti, quando Karen è scesa dalle scale, si ricorda?» «Sì.» «È stato allora che ho preso l'appunto.» Diede a Theodore il taccuino.
«Vede?» Theodore diede un'occhiata alla pagina. «'Voleva dire qualcosa,'»ripeté. Guardò Frank. «Si riferisce a me?» «Sì.» Theodore restituì il taccuino a Frank. «Che cosa le ha dato quell'impressione?» «Non lo so,» ammise Frank. «Potrebbe essere stata qualsiasi cosa.» «A ogni modo, non importa,» disse Theodore. «Come sarebbe?» «È vero,» proseguì Theodore. «Volevo dire davvero qualcosa.» Frank sfogliò il taccuino finché trovò una pagina bianca. «Che cosa?» «Be',» cominciò Theodore, «non volevo parlarne quel pomeriggio. O, per lo meno, non volevo parlargliene davanti a Karen.» «Perché no?» «Perché quello che avevo da dirle non l'avrebbe certo aiutata a sentirsi meglio.» «Riguarda Angelica?» «Sì, ammise Theodore. «Perché non mi ha cercato?» Theodore scosse la testa. «Non lo so. Davvero. È molto facile evitare ciò che non ci fa piacere.» Sorrise ironicamente. «Dopotutto, è quello che fa la maggior parte della gente che conosco. Frank non disse niente. «Be',» aggiunse Theodore, «nei giorni seguenti non ho fatto assolutamente nulla, ma credo che alla fine sarei venuto da lei.» «Però sono venuto io,» precisò Frank. «Sì,» disse Theodore. Unì le mani e le appoggiò sulla scrivania. «È già giunto alla conclusione che Angelica era fondamentalmente senza amici, sola.» «È quanto è emerso fino a ora.» «D'accordo, ma potrebbe non essere tutto,» proseguì Theodore. «In che senso?» «In quello che suggerisce,» spiegò Theodore. «Voglio dire, quello che suggerisce il ritratto di Angelica. Abbiamo una ragazza timida, malinconica, che vive in una grande casa e praticamente non ha una sua vita.» Sorrise. «L'immagine che si è fatto corrisponde a questa descrizione, è giusto?» «Sì, qualcosa del genere,» disse Frank. «Almeno all'inizio.»
Theodore si raddrizzò leggermente. «Vuole dire che ha scoperto qualcos'altro?» Frank non rispose. Theodore lo guardò con aria soddisfatta. «Ha scoperto qualcosa, vero? Complimenti, signor Clemons. Sono sorpreso, perché Angelica deve essere sempre stata molto scaltra. Insomma, è stato per puro caso che l'ho vista... si potrebbe definire... fuori del suo personaggio.» Frank avvicinò la matita al taccuino. «Che cosa intende dire con 'fuori del suo personaggio'?» «Non era più la ragazza meravigliosa, timida e riservata che sembrava non rendersi conto della propria bellezza.» Frank prese nota. «Vada avanti,» disse. «Be', non l'ho mai bevuta, se vuole sapere la verità,» proseguì Theodore. «Perché no?» «Perché non credo che una persona così incantevole non si renda conto della propria bellezza.» «Per cui lei aveva una sua teoria su Angelica?» «Sì.» «E cioè?» «Ero convinto che fosse implicata in qualcosa,» disse Theodore deciso. «Non sapevo in che cosa. Forse droga. Tutto quello che sapevo era che c'era qualcosa di losco. Non era possibile che una ragazza come Angelica non avesse una vita sociale. Al contrario, mi ero convinto che ne avesse una che richiedeva una certa riservatezza.» Sorrise. «Per un certo periodo ho pensato che fosse lesbica.» Tirò fuori una bottiglia di brandy dalla scrivania e l'aprì. «Vuole bere qualcosa, signor Clemons?» «No, grazie.» Una strana tristezza adombrò improvvisamente il viso di Theodore. «Davvero? Perché?» «È ancora presto.» «Per me, è già tardi,» disse Theodore sommessamente. «Come vede, Angelica non era l'unica ad avere dei segreti.» Si riempì il bicchiere. «Mi dà forza,» aggiunse. «È l'unica cosa che ci riesce.» Lo mandò giù in un solo sorso. «Bevo per evitare che il tempo si fermi. Non voglio che si fermi completamente.» Si versò dell'altro brandy. «Anche se fossi felice, sarebbe insopportabile.» Diede un'occhiata all'orologio. «Ah, vede, il tempo ha ripreso a scorrere.» Scoppiò a ridere. «È semplice, in fondo, non le pare?» «Che cosa mi dice di Angelica?» chiese Frank insistentemente. Sapeva
benissimo che ogni uomo aveva un motivo personale per attaccarsi alla bottiglia. «Be', come le ho detto,» rispose Theodore, «sono sempre stato convinto che ci fosse qualcosa nella vita di Angelica, anche se non ho mai saputo che cosa. Eppure, negli ultimi mesi prima della sua morte, ho notato un cambiamento.» «E sarebbe?» «Era diventata ancora più riservata,» spiegò Theodore. «Non mi parlava quasi più quando andavo da Karen, e non veniva più alla galleria. Un tempo la incontravo qui nel viale. Poi non l'ho più vista.» Alzò le spalle. Naturalmente, si può sempre pensare che una persona stia attraversando un periodo particolare della vita. Ma ero sicuro che quello non fosse il caso di Angelica.» «Perché no?» «Perché non era nel suo stile,» disse Theodore. «Alcune persone sono eccentriche dalla nascita. Angelica era una di queste.» «In che cosa consisteva la sua eccentricità?» chiese Frank. Theodore si riempì di nuovo il bicchiere. «Nella sua bellezza,» disse. «Ecco che cosa l'ha rovinata.» Sorrise. «Per alcune persone può essere il denaro, per altre il potere. Ma, comunque sia, è qualcosa che ti porta a estraniarti dai comuni mortali. Questo, signor Clemons, devia e conduce alla perversione.» Lanciò un'occhiata alla bottiglia sulla scrivania. «E così bisogna trovare un altro modo per rimanere in contatto con la realtà. Io uso questa. Sorrise con aria furba. «Angelica deve aver usato qualcos'altro.» «Una vita segreta,» disse Frank improvvisamente. «Sì.» «Che tipo di vita?» «Non lo so,» rispose Theodore. «Ma sono sicuro che avesse un'altra vita al di fuori di quella innocente che conduceva a casa e a scuola.» «Come fa a saperlo?» «L'ho toccata con mano,» proseguì Theodore. «Ed è successo per puro caso.» Svuotò un'altra volta il bicchiere e poi mise via la bottiglia. «Come può notare dalla galleria,» spiegò Theodore, «il mio gusto artistico è abbastanza vario, per questo mi tengo aggiornato su tutti i movimenti artistici. Visito le piccole gallerie fuori mano di Atlanta e anche di altre città.» Tirò un lungo e profondo respiro. «Ed è proprio quello che stavo facendo tre mesi fa.» «Visitava gallerie,» mormorò Frank prendendo appunti.
«Una in particolare,» precisò Theodore. «Un posto chiamato Knife Point Gallery. È una galleria orribile, dove aleggia un'aria sadomasochista. Mi spiego. C'erano catene avvolte sul pavimento e una collezione di fruste in una cornice d'oro.» La sua bocca prese una piega amara. «Era veramente tutto molto ridicolo. E sicuramente, non aveva niente a che fare con l'arte.» «Dov'è questo posto?» chiese Frank. «Verso Piedmont,» rispose Theodore, «non lontano dalla Peachtree.» Frank prese nota del nome. «È veramente un posto orribile,» ripeté Theodore. «Non è certo invitante. Sembra una via di mezzo tra una prigione e una casa di tolleranza. Tutte quelle stanzette buie piene di oggetti rappresentanti... be'... il dolore.» Si versò un altro drink. «Questa mattina sapevo che sarebbe andata a finire così. Spero non le dia fastidio.» Svuotò il bicchiere in un colpo solo. «A ogni modo, tra tutti quei disgustosi strumenti di tortura, c'era Angelica.» Sorrise. «Una splendida Angelica. Davvero bellissima.» «Che cosa faceva?» domandò Frank. «Inizialmente pensai che stesse visitando la galleria,» rispose Theodore. «Ero sorpreso di vederla là. Voglio dire, non aveva mai mostrato un particolare interesse per l'arte. E certo non mi aspettavo che fosse interessata a quell'immondizia appesa alle pareti della Knife Point Gallery.» «Era sola?» «Penso di sì,» rispose Theodore. «C'era poca gente nella galleria. Quella che ci si aspetta in un posto simile. Un pittore derelitto da una parte, un sadico bavoso dall'altra.» «Le ha parlato?» Theodore scosse la testa. «No. A dire la verità ho preferito non farmi vedere. Avevo uno strano presentimento, come se sapessi di aver incontrato qualcuno che non voleva far sapere quello che stava facendo.» «Quindi, quando ha visto Angelica se n'è andato.» «Sì, esatto,» proseguì Theodore. Si piegò leggermente in avanti. «E le sarei grato se tenesse per sé quello che le ho raccontato. Voglio dire, Angelica è morta. A questo punto, non importa più sapere come ha vissuto.» Frank non disse nulla. «Inoltre, che cosa potrebbe fare?» chiese Theodore. «Ormai ho imparato che le persone si comportano in determinati modi perché non possono fare diversamente.» Lanciò un'occhiata al cassetto dove aveva messo la bottiglia. «Questa è la grande lezione della vita,» esclamò. «Siamo tutti deboli. «Ha visto Angelica uscire dalla galleria?»
«No.» «È sicuro che fosse sola?» «Penso di sì.» «La galleria ha un parcheggio?» «Ha visto la macchina di Angelica posteggiata lì?» Sembrò che qualcosa scattasse nella mente di Theodore. «È stato prima che comprasse la BMW, no? Sa, non so neanche se prima di quella avesse avuto un'altra macchina.» Frank prese nota. «Ciò significa che qualcuno deve averla accompagnata alla galleria,» disse Theodore quasi tra sé e sé. «Tra le persone che c'erano quel giorno alla galleria, poteva esserci qualche studente della Northfield?» Theodore si mise a ridere. «Non credo. Nemmeno Angelica sembrava della Northfield.» «Che cosa intende dire?» «Il modo in cui era vestita,» spiegò Theodore. «Non era certo un abbigliamento da Northfield.» «Che cosa indossava?» «Difficile spiegarlo,» rispose Theodore. «Sembrava che avesse una ragione particolare per vestirsi così. Era quasi come se fosse in maschera.» «Me la potrebbe descrivere?» «Be', indossava una camicetta nera, molto corta,» spiegò Theodore. «Lasciava poco all'immaginazione. E poi aveva una minigonna di pelle nera.» Frank annotò. «Nient'altro?» «Era pettinata in modo diverso dal solito.» «Cioè?» «I capelli non erano sciolti. Li aveva raccolti in uno chignon. E aveva dei ricciolini. I riccioli da bambolina sexy.» «Riccioli da bambolina sexy?» «Sì, che completavano l'effetto.» «Quale effetto?» «Be', l'effetto seducente,» spiegò Theodore, come se se ne fosse reso conto in quel momento. «Ecco a che cosa puntava. Alla seduzione.» Si guardò intorno. «E c'era qualcos'altro. Non le interessavano i quadri alle pareti. Non li guardava affatto.» «Ma allora che cosa stava facendo?» chiese Frank. «Gironzolava da una stanza all'altra,» disse Theodore. «Si fermava in
una per qualche minuto e poi passava all'altra. Camminava in modo provocante. Frank alzò gli occhi dal taccuino. «Quindi non ha lasciato subito la galleria?» Sul viso di Theodore apparve l'espressione di chi ha appena scoperto un fatto poco piacevole, ma inconfutabile. «Immagino di no,» rispose lentamente. Guardò Frank «Credo di averla seguita.» «Pensa che Angelica se ne sia accorta?» domandò Frank. «No, non credo,» rispose Theodore. «Ma penso che non gliene sarebbe importato.» «Vuole dire, essere seguita?» «Sì,» disse Theodore. I suoi occhi si appannarono, la loro luce svanì. Poi, improvvisamente, scintillarono, guardando Frank. «Perché penso fosse proprio quello che voleva: essere seguita e ammirata.» «Da lei?» chiese Frank. «Non necessariamente da me, no,» rispose Theodore. «Da tutti?» «Era lei la cosa in mostra in quell'orribile galleria, signor Clemons,» disse Theodore con estrema sicurezza. «Era come se avesse deciso di essere un'oscura opera d'arte da ammirare.» 19 Non appena Frank entrò nel vialetto coperto di ghiaia della Knife Point Gallery, si rese conto che la descrizione di Theodore non avrebbe potuto essere più precisa. Sembrava ancora più decadente di come l'aveva descritta. Il portico pendeva verso destra e, anche da lontano, Frank notò che il vento e la pioggia avevano corroso una delle colonne portanti. Da una delle travi inclinate penzolava un cappio di corda scura. Frank lo sfiorò appena avvicinandosi alla porta. Dondolava languidamente nell'opprimente aria estiva e la sua ombra scura sembrava occupare lo stretto portico in tutta la sua ampiezza. Mentre s'incamminava verso la sala principale, si sentì inghiottire da quell'atmosfera strana e inquietante. L'aria pareva contenere a fatica una sensazione di violenza che lo sferzò come un vento pungente. Per un attimo provò l'impulso di abbottonarsi la giacca e alzare il bavero per domare i brividi. «Benvenuto alla Knife Point.»
Frank si girò e vide un uomo robusto con un vestito nero e una camicia bianca sbottonata. Era molto alto e sfiorava con la testa il soffitto; quando sorrise, Frank notò che in fondo alla bocca gli luccicava qualcosa di metallico. «È quella che potremmo definire una galleria alternativa,» spiegò con calma l'uomo. «È mai stato qua prima d'ora?» «No.» L'uomo annuì lentamente. «Allora è meglio che le spieghi.» Abbozzò un sorriso. «Questa è la sala principale,» disse, facendo un ampio gesto con il braccio. «Non è molto grande, come può vedere, ma riusciamo a sfruttare bene lo spazio.» Frank seguì il movimento del braccio. La stanza era illuminata debolmente da poche lampade disseminate nel locale. L'ombra arancione rendeva l'aria leggermente giallognola, eppure stranamente luminosa. «La luce crea l'atmosfera,» continuò l'uomo. «È per questo che qui alla Knife Point ci comportiamo diversamente rispetto alle gallerie più affermate. Non cerchiamo d'illuminare, vogliamo offuscare, velare.» Fece un cenno in direzione della parete posta di fronte. «La nostra prima opera.» L'intera parete era stata dipinta di rosso e una grande piuma nera sembrava volteggiare al centro. Creava uno strano, sottile vortice e per un attimo Frank si sentì trascinare verso quel punto nero. «Il titolo è La caduta di Satana,» spiegò l'uomo, «e penso che trasmetta una certa grandeur tragica.» Guardò Frank con calma. «Ma la prego, non vorrei pensasse che la Knife Point è una specie di covo satanico. Non abbiamo niente a che vedere con queste idiozie. È una galleria alternativa, come le ho detto. E ci dedichiamo solo ed esclusivamente ad artisti alternativi.» Si girò lentamente verso la parete sinistra. «E così, abbiamo opere di questo tipo.» Era una grande tela dipinta di bianco con strisce blu. Dalle sezioni bianche cadevano gocce ovali di sangue che si congiungevano poi in pozzanghere scarlatte lungo la base verde del quadro. «Lo trova inquietante?» chiese l'uomo. Frank continuò a studiare il dipinto. «No.» «C'è gente che afferma il contrario,» proseguì l'uomo. «S'intitola Linfa vitale.» Frank si sentì inspiegabilmente trasportare dall'immagine che gli stava di fronte. Sembrava parlargli in modo più approfondito del mondo che conosceva, rispetto ai dipinti che aveva visto nella galleria di Theodore o nel
soggiorno di Karen. «Chi l'ha dipinto?» chiese. «Derek Linton. L'ha mai sentito?» «No.» «È un artista locale,» spiegò l'uomo. «Probabilmente il migliore.» Guardò Frank che continuava a contemplare il quadro. «Abbiamo altre opere esposte nelle nostre stanze.» Frank non staccò gli occhi dal dipinto. La pioggia sembrava cadere silenziosa e senza tragicità, per poi formare piccole pozze di dolore contenuto. «Chi l'ha mandata qui?» chiese l'uomo dopo un attimo. Frank si girò verso di lui. «Mandato?» «Be', non ha l'aria di un collezionista.» «Non lo sono, infatti.» «E allora come ha fatto a scoprire la Knife Point? Non credo sia riportata sugli itinerari turistici.» «Me ne ha parlato James Theodore.» L'uomo parve sorpreso. «Theodore?» «Sì.» L'altro scoppiò a ridere in tono ironico. «Allora mi sorprende proprio che sia venuto.» «Perché?» «Diciamo che Theodore non approva molto il nostro lavoro,» rispose. «Ha mai visto la sua galleria?» «Sì.» «Quadri per i ricchi e gli ignoranti,» proseguì. «Opere d'arte delicate per non disturbare gli ospiti che sorseggiano champagne.» Sorrise con aria orgogliosa. «Come vede, a noi non interessano queste cose.» «Sì, me ne sono accorto.» «Comunque, è stato Theodore a mandarla qui. Perché? Per prendersi gioco di noi? Per farsi quattro risate?» «No,» rispose Frank, mostrando il distintivo. «Frank Clemons.» L'uomo guardò prima l'uno e poi l'altro. «Divertente, non l'avevo scambiata per uno della Gestapo.» Frank rimise in tasca il distintivo. «Che cosa vuole dire?» «Una spia di Theodore e dei suoi amici,» rispose l'uomo. «Stanno sempre cercando di farci chiudere?» «No, che io sappia.»
«E allora che cosa c'entra con lui?» «Gestisce una galleria con Karen Devereaux.» «Sì, lo so.» «E la sorella di Karen, Angelica, è stata uccisa qualche giorno fa.» «Ah, e lei si sta occupando del caso?» «Sì. Potrebbe dirmi come si chiama?» «Leland Cartier,» rispose l'uomo. «Sono il proprietario della Knife Point.» Osservò Frank da vicino. «Comunque, questo non spiega perché Theodore l'abbia mandata qui.» Sorrise fiaccamente. «Insomma, crede che abbia ucciso la sorella della sua socia per vendicarmi?» «Vendicarsi di che cosa, signor Cartier?» «Per il modo in cui ci ha sempre preso in giro,» rispose Cartier. «È una campagna per distruggerci, odia tutto quello che facciamo. Sostiene che l'arte deve essere garbata. Ha persino osato scrivere che l'arte deve 'affermare la vita'.» Sorrise con aria sarcastica. «Uno strano atteggiamento per un alcolizzato, non crede?» Frank gli mostrò la foto di Angelica. «L'ha mai vista?» Cartier la osservò. «È la sorella di Karen Devereaux?» «Sì.» Cartier continuò a fissare la ragazza. «Sì, l'ho già vista,» disse lentamente. «Ma non avevo idea di chi fosse.» «Non sapeva che era morta?» Cartier restituì la fotografia a Frank. «No.» «Questa stessa foto è apparsa su tutti i giornali qualche giorno fa,» proseguì Frank. «Non leggo i giornali,» borbottò Cartier. «Non ci trovo niente di utile, almeno per me. Immagino che le apparirà un po' strano.» «Un po'.» «La vita è breve,» proseguì Cartier. «È l'unica legge che governa l'esistenza: tutto è destinato a finire. E a questo punto s'impongono determinate scelte. Innanzitutto è necessario saper riconoscere le cose su cui è possibile intervenire.» Scrollò le spalle. «Le notizie dei giornali vanno oltre la mia portata. Non posso fare nulla per modificarle, quindi non mi preoccupo di leggerle.» Sorrise freddamente. «Così acquista un senso, non le pare?» Frank prese il taccuino. «Diceva che Angelica è venuta alla galleria e che l'ha vista qui, giusto? «Sì.» «Ma non sapeva chi fosse.»
«Esatto.» Frank prese qualche appunto. «L'ha riconosciuta dalla fotografia?» «Mi ci è voluto un attimo, ma, sì, l'ho riconosciuta.» «Perché le ci è voluto un po'?» «Perché quando veniva qui, era vestita in modo decisamente diverso.» «Com'era vestita?» Cartier rifletté un attimo. «Praticamente tutta di nero,» rispose. «Io non noto molto l'abbigliamento, ma lo stato d'animo che un abito può suggerire.» «Lo stato d'animo?» «Sì,» rispose Cartier, «e l'abbigliamento di Angelica suggeriva una certa immagine oscura. Certo, non è strano per la gente che frequenta la galleria. Spesso sono solo alla ricerca di qualche quadro artistico. Vedono il cappio sulla porta, si sentono attratti da qualcosa ed entrano.» «Angelica era alla ricerca di opere d'arte?» domandò Frank. «Non conosco i desideri di tutti, signor Clemons,» precisò Cartier, «e lei?» «Quando è venuta qui?» «Circa tre mesi fa, direi,» proseguì Cartier. «Ma venga, lei sembra interessato alle nostre opere. Diamo un'occhiata alla galleria mentre parliamo.» Si girò e si avviò verso la stanza adiacente. Andò fino al centro del locale, si fermò e guardò Frank. «Che cosa ne dice?» chiese. Frank diede un'occhiata attorno. La stanza era illuminata ancora più debolmente della prima, l'atmosfera era incredibilmente sinistra. Da un gancio dorato pendeva un paio di manette color argento e sulla parete era stata inchiodata una frusta accuratamente arrotolata. «Angelica è tornata altre volte?» chiese. «Sì,» rispose Cartier. «Se non ricordo male, le piaceva soffermarsi soprattutto in questa sala. Qui e nell'ultimo locale sul retro, vuole vederlo?» «Sì.» «Mi segua.» I quadri della sala sul retro della Knife Point sembravano gocciolare direttamente dalle pareti. Le tele rosse e gialle appese sulle pareti intonacate di bianco assomigliavano a tanti sfregi, e grazie all'effetto tridimensionale, si riversavano sul pavimento. La stanza pareva invasa da una spessa coltre di fumo dall'odore penetrante e Frank ebbe l'impressione di bruciare. «Credo che fosse la sua sala preferita,» disse Cartier. Frank si girò verso di lui. «Perché?»
«Forse perché ha l'aria così selvaggia,» spiegò. «Così primitiva.» «Anche Angelica le è parsa così?» «Aveva un'aria strana,» proseguì Cartier. «Come una creatura a caccia di qualcosa.» Fissò Frank. «È proprio il colmo, non le pare? Voglio dire, sembrava che fosse lei la bestia braccata.» «Era da sola?» «Sì.» «Ne è sicuro?» «Assolutamente.» «Che cosa faceva quando era qui?» «Non quello che ci si sarebbe aspettati.» «Che cosa vuole dire?» «Be', in realtà non guardava i dipinti,» rispose Cartier. «Sembrava che le servissero solo come sfondo personale.» «Sfondo per che cosa?» «Non lo so, per qualsiasi cosa avesse intenzione di fare.» «E cioè?» Cartier allargò le braccia con un sorriso. «Mi spiace, ma non so leggere nella mente, signor Clemons.» «Be', se non s'interessava ai quadri, che cosa faceva?» «Gironzolava per la galleria con aria furtiva,» disse Cartier. «Con aria furtiva?» «Sì.» Frank prese nota. «Si comportava come se cercasse di adescare qualcuno?» «Non esattamente,» rispose Cartier. «Sembrava più che altro che volesse farsi vedere. Ammirare. Non voleva farsi toccare e nemmeno lasciarsi avvicinare.» «Qualcuno ha cercato di avvicinarla?» «Solo pochi coraggiosi,» continuò Cartier, «ma lei gli lanciava un'occhiata e li faceva allontanare.» «Quante volte è venuta qui?» domandò Frank. «Tre o quattro,» rispose Cartier. «Ed era sempre sola?» «Sì.» «Non parlava con nessuno?» «No.» «Nessuno l'ha mai seguita fuori?»
«No, che io sappia,» disse Cartier. «Ma la cosa non mi sorprende. Creava attorno a sé un'atmosfera estremamente fredda e distaccata.» Sorrise. «Derek la chiamava 'la Regina di Ghiaccio'.» «Derek?» «Derek Linton,» spiegò Cartier, «il pittore di cui le parlavo.» «Conosceva Angelica?» «Solo superficialmente,» proseguì Cartier. «Si sono incontrati qui alla Knife Point.» «Quando?» «Credo sia stata l'ultima volta che l'ho vista,» disse Cartier. «Ma Derek non si sarebbe neppure accorto di Angelica.» «Vuole dire che era Angelica a interessarsi a lui?» «Sì,» confermò Cartier. «Come fa a dirlo?» «Non l'avevo mai vista fare una cosa del genere,» spiegò Cartier. «Si è avvicinata a Derek e gli ha rivolto la parola.» «A proposito di che cosa?» «Dei quadri,» disse Cartier. «Linfa vitale. Derek lo stava appendendo alla parete e Angelica era nella sala principale. È rimasta a lungo a osservare il dipinto. Poi mi ha chiesto chi era l'artista che l'aveva realizzato. Gli ho detto che era di Derek e lei è andata a parlargli.» «Per quanto tempo hanno chiacchierato?» «Solo pochi minuti,» disse Cartier. «Come le ho detto, a Derek non interessano le persone come Angelica.» Rifletté un attimo. «Ma la ragazza era piuttosto insistente,» continuò. «Lo ha seguito addirittura sul suo furgone, con mia grande sorpresa. Anzi, a dire la verità, deve avermi proprio colpito, perché ricordo di essere uscito sul portico per osservarli.» «Che cosa hanno fatto?» «Semplicemente parlato,» continuò Cartier. «Derek seduto sul furgone e Angelica in piedi accanto a lui.» «È riuscito a sentire quello che si dicevano?» «No.» «Poi che cosa è successo?» «Be', come può vedere, non abbiamo un posteggio molto grande,» rispose Cartier. «Così, dopo un po', è arrivata una macchina e Derek è uscito per lasciarle il posto.» «Per quanto tempo hanno parlato?» chiese Frank. «Non più di tre o quattro minuti,» disse Cartier. «Almeno in quell'occa-
sione.» «Si sono incontrati altre volte?» «Sì, credo di sì,» continuò Cartier. «Lo so perché Derek si è lamentato.» «Di Angelica?» «Era andata a trovarlo a casa e aveva praticamente imposto la sua presenza.» Frank prese nota rapidamente. «Che cosa le ha detto, con precisione?» «Che non aveva tempo per quel genere di cose,» spiegò Cartier. «Ricordo ancora le sue parole. Io l'ho preso in giro per il fatto che fosse perseguitato da una ragazza tanto bella. Lui mi ha risposto: 'Nelle mie condizioni, non ho bisogno di una Regina di Ghiaccio.'» Frank scarabocchiò qualche frase sul taccuino. «Sa dove abita questo Derek?» «Sì,» rispose Cartier, fornendogli l'indirizzo. «È nella zona di Grant Park, vero?» domandò Frank. «Esatto,» disse Cartier. «Vive lì praticamente da quando è nato.» Frank continuò a fissare quell'indirizzo, Bergen Street 124, quasi che desiderasse scolorire l'inchiostro blu sul foglio incredibilmente bianco. 20 Frank si rese immediatamente conto che, anche al telefono, la voce di Karen lo attirava come un filo invisibile. «Pronto,» disse. «Karen, sono Frank.» Aspettò che gli rispondesse in tono confidenziale, con un sorriso soffocato e un improvviso sospiro. «Frank Clemons,» precisò. «Sì, ho capito, Frank,» continuò Karen ridendo sommessamente. «Come sei formale.» Avrebbe voluto chiederle che cosa intendeva dire, ma si rese conto che non era il caso. «Ascolta,» proseguì lui rapidamente. «Hai mai sentito parlare di un posto chiamato Knife Point?» «Una galleria d'arte?» «Sì.» «L'ho già sentito,» rispose Karen. «James l'ha nominato un paio di volte.»
«Ma tu non ci sei mai stata?» «No.» «Che cosa ne sai?» «Non molto,» disse Karen. «James l'ha sempre considerata una buffonata, ma non vuole dire niente. È molto severo per quanto riguarda il concetto di arte.» «Quindi non conosci nessuno in qualche modo collegato alla galleria?» chiese Frank. «No.» «Angelica non l'ha mai nominata?» «No. Perché?» «E cosa mi dici di Derek Linton? L'hai mai sentito?» «Sì,» rispose Karen. «È un pittore, ed è molto in gamba.» «Angelica ti ha mai parlato di lui?» «No,» disse Karen. La voce si fece più dura. «Che cosa c'è sotto, Frank?» «Ho saputo che Angelica gironzolava ogni tanto alla Knife Point.» «Alla Knife Point? E come mai?» «Non lo so,» disse Frank. «Ma ho scoperto che conosceva Derek Linton.» «E s'incontravano alla Knife Point?» «Sì.» «Ma che ci faceva Angelica in un posto simile?» «C'è andata qualche volta,» rispose Frank. «Il proprietario l'ha riconosciuta.» Ci fu un attimo di silenzio. E a Frank parve di vedere gli occhi di Karen che si facevano più tristi e più languidi. «Frank,» mormorò alla fine. «Stai attento.» La voce aveva assunto un tono strano e insistente e a Frank riecheggiavano ancora quelle parole quando giunse al 124 di Bergen Street. Era una villetta di legno, ma tenuta decisamente meglio delle altre costruzioni del quartiere. Era stata ridipinta recentemente di bianco e le persiane verdi si stagliavano allegramente nella luce del tardo pomeriggio. Eppure c'era qualcosa di triste in quella casa e Frank si sentì sopraffare da un profondo senso di depressione mentre s'incamminava lungo il vialetto di cemento. La tristezza aleggiava sull'aiuola fiorita accanto al vialetto e attorno alle campanelle in vetro colorato che risuonavano dolcemente appese sotto il portico. Camminò lungo il muro di siepi che delimitavano il
vialetto da un lato e che si aprivano in una lussureggiante caverna verde, dove le foglie coperte di umidità sembravano già assumere un colore autunnale. La porta si aprì quasi subito e Frank vide un uomo alto e magro che lo fissava attraverso la zanzariera. «Se è venuto a riscuotere qualcosa,» borbottò, «può anche scordarselo.» Frank prese il distintivo. L'uomo strizzò gli occhi guardando lo stemma dorato. «Non capisco che cosa possa volere da me la polizia.» «Lei è Derek Linton?» chiese Frank. «Sì.» «Sono Frank Clemons. Sto indagando su un omicidio.» «Omicidio?» «Esatto,» rispose Frank. «Mi risulta che lei sia un pittore, signor Linton.» «È forse un crimine?» Frank rimise il distintivo in tasca. «Dovrei parlarle per pochi minuti. È importante.» «Non le dà fastidio il disordine, vero?» «No.» «D'accordo, allora,» borbottò Linton, spalancando la porta. «Si accomodi.» Sembrava che l'ingresso non fosse mai stato messo in ordine, eppure Frank notò che non c'era quel senso di confusione senza speranza che regnava perennemente nel suo appartamento. C'erano macchie di vernice sul pavimento, sulle pareti e sui mobili. Contro il muro erano state appoggiate numerose cornici e sui quattro lati della stanza si notavano pile disordinate di tele. Vicino a una grande finestra aperta c'era un cavalletto traballante imbrattato di vernice, quasi fosse il testamento vivente di un cuore indomito. «Adoro questo posto,» disse Linton, sedendosi su una sedia azzurra imbottita. Prese una bottiglia di vino rosso da sotto la sedia e riempì il bicchiere. Poi allungò la bottiglia verso Frank. «Vuole bere qualcosa?» «No, grazie.» «Perché è in servizio?» «Perché non ne ho voglia,» borbottò Frank. Linton sorrise: «Si accomodi, Mr Clemons.» Frank si sedette su una piccola sedia a dondolo e tirò fuori il taccuino.
«Molto preciso,» esclamò Linton. Afferrò una bottiglietta di plastica tra una moltitudine di medicinali che ricoprivano il tavolino accanto alla sedia. «Solo un attimo, mi scusi,» disse. «È l'ora di questa.» Si mise in bocca una compressa bianca e la inghiottì con un sorso di vino. «So che non vanno bene insieme,» precisò, «ma io faccio quello che mi pare.» Rimise la boccetta sul tavolo. «Ho una bella collezione di medicine, non le sembra?» Frank annuì. «Morire,» sussurrò Linton fissando le boccette. «E senza averne voglia.» Allungò una mano verso i medicinali. «Fanno tutte parte della mia resistenza,» spiegò. «Ma non mi spingerò oltre.» Si passò una mano tra i folti capelli bianchi. «Non voglio perdere anche questi. Ci tengo troppo. Il cancro è capace di rubarti la dignità prima ancora della vita.» Osservando Derek Linton, Frank si rese conto che doveva aver avuto un viso molto espressivo, e nonostante fosse debole e terribilmente pallido, conservava ancora tracce di una bellezza eroica. Linton prese una fotografia incorniciata e la porse a Frank. Mostrava un uomo alto e robusto, con splendidi capelli bianchi e penetranti occhi azzurri. «Ecco com'ero solo un anno fa,» disse. Bevve un sorso di vino. «Ma non è venuto per parlare di questo.» Si appoggiò alla sedia. «Dunque, mi stava parlando di un omicidio, non è vero?» «Esatto,» rispose Frank, aprendo il taccuino alla prima pagina vuota. «Scrive tutto?» chiese Linton. «Quasi tutto.» «Quello che può essere espresso a parole, giusto?» «Ho una pessima memoria,» spiegò Frank. «E non mi fido troppo.» Il viso di Linton s'irrigidì improvvisamente. «Mi scusi,» disse. «Ho una fitta.» «Posso aiutarla?» «No, la prego,» rispose Linton in fretta. «Passa da sola.» Respirò profondamente. «Ho sempre tenuto molto alla mia dignità. È per questo che adesso è così difficile. Non c'è dignità nel dolore. Proprio per niente.» Scosse la testa con aria risoluta. «Ma non voglio continuare a parlarne. Basta con l'autocommiserazione.» Afferrò il bicchiere stringendo lo stelo. «La prego, andiamo avanti,» proseguì in tono teso e acuto. «L'omicidio. Mi stava parlando di un omicidio.» Frank prese la foto di Angelica dalla tasca della giacca e la mostrò a Linton. «Ha mai visto questa ragazza?»
Linton annuì lentamente. «Sì. È Diana.» «Diana?» Linton alzò gli occhi dalla foto. «Non si chiama così?» «No,» disse Frank. «Si chiama Angelica Devereaux ed è stata uccisa pochi giorni fa. Il corpo è stato abbandonato in un campo nei pressi di Glenwood. Era anche sui giornali. Hanno pubblicato questa stessa foto.» Linton tornò a guardare quell'immagine. «Non lo sapevo,» mormorò con un leggero tono di rimprovero verso se stesso. «È una dannata malattia, che ti isola da tutto. Non riesci a pensare ad altro. Mi dispiace.» «Ma l'ha riconosciuta?» «Certo, assolutamente,» rispose Linton. «L'ho incontrata circa tre mesi fa. Stavo appendendo un quadro in una galleria.» «La Knife Point,» precisò Frank. «C'è stato?» «Sì,» disse Frank. «Ho parlato con il proprietario.» «Allora Cartier le avrà raccontato tutto.» «Non esattamente.» «Che cosa vuole dire?» «Mi ha detto che la ragazza le si è avvicinata,» spiegò Frank. «Potrebbe raccontarmi lei che cosa è successo? «Non c'è molto da dire,» proseguì Linton. «Di certo non mi sarei interessato a una... ad Angelica, è così che ha detto che si chiama, giusto?» Sorrise. «Credo di essere vanitoso, e devo ammettere che una ragazza così bella... be', era piacevole.» «Che cosa le ha detto Angelica?» «Che le piaceva il mio quadro.» «Linfa vitale.» «Esatto, proprio quello,» continuò Linton. Si strinse nelle spalle. «Personalmente, non mi sembra niente di speciale. Ma quella ragazza, Diana, o forse dovrei dire Angelica, continuava a decantarlo.» «Che cosa le diceva esattamente?» «Che era stupendo,» rispose Linton, «che le piaceva molto. Che cos'altro poteva dire?» Bevve un altro sorso di vino. «Credo che fosse attratta da me,» aggiunse, dopo un attimo. Guardò Frank con aria interrogativa. «Era orfana, per caso?» «Sì.» «Ah, adesso capisco.» «Che cosa?»
«Era una figura patema quella che stava cercando.» «Secondo lei era solo quello?» «Vede, per un artista è difficile capire che cosa la gente vede in te oppure nelle tue opere,» spiegò Linton. «Può essere di tutto.» Lanciò un'occhiata piena di desiderio verso il vecchio cavalletto traballante. «Ma è stupendo essere un artista, e riuscire a colpire la gente in modo tanto strano e profondo.» Guardò Frank. «Sono convinto che quella ragazza fosse sincera e che abbia reagito in qualche modo alla vista di quel quadro. Forse è solo la mia vanità. Non lo so. Ma credo che ci sia stato qualcosa in quel dipinto che l'ha colpita.» Frank prese nota. Linton si sporse leggermente in avanti. «Perché scrive tutto quello che dico?» «Le ho già detto che ho una pessima memoria.» Linton scosse la testa. «No, non è per quello. Non c'entra niente la memoria, buona o cattiva che sia.» «Mi piace avere tutti i dettagli a portata di mano,» spiegò Frank. linton lo fissò diritto negli occhi. «Cazzate, signor Clemons. Scommetto che tiene tutti quei taccuini. E scommetto che non ne ha buttato neppure uno.» Per un attimo, Frank rivide la pila di taccuini verdi ordinatamente disposti uno sopra l'altro nella scatola infilata in uno dei suoi caotici armadi. Li aveva conservati tutti, come se valesse la pena di salvaguardare le conoscenze acquisite nel corso della vita. «Quindi avete parlato solo del quadro?» chiese a Linton. «Più o meno,» rispose questi. «Tranne il fatto che ho notato qualcosa in lei.» «E cioè?» «Era diversa da come voleva apparire,» spiegò Linton. «Cartier le ha raccontato che aspetto aveva quel giorno?» «Ho una vaga idea,» rispose Frank. «Non tutte le descrizioni coincidono.» «Sembrava una puttanella da quattro soldi,» disse brutalmente Linton. «Dava proprio quell'impressione. Ho pensato che fosse una di quelle prostitute specializzate in quel genere di cose.» Strizzò gli occhi. «Ma non era una prostituta, vero?» «Non so che cosa fosse,» rispose Frank. «È proprio quello che vorrei scoprire.»
«Forse non lo sapeva nemmeno lei,» continuò Linton. «Non è facile capirlo, soprattutto in questo mondo.» Prese un'altra fotografia dal tavolo e la allungò a Frank. Era Linton nell'uniforme della fanteria, un ragazzo con una sigaretta che penzolava all'angolo della bocca e un M1 sulla spalla. «Seconda guerra mondiale,» spiegò Linton. «Ero ad Anzio.» «C'era anche mio padre,» disse Frank. «O almeno non lontano da lì.» «Quel giorno, quando siamo sbarcati, ho capito esattamente di che pasta ero fatto,» proseguì Linton. «E da allora in poi, è stato difficile stabilirlo di nuovo.» Strappò la foto dalle mani di Frank e la posò sul tavolo. «Quando la vita scorre piatta, quando non c'è niente in gioco, è necessario crearsi una propria identità. Forse era quello il problema di Angelica. Mi ha detto di essere molto ricca. È vero?» «Sì.» «Ben protetta?» «Credo di sì.» Linton annuì. «Forse non sapeva chi era e così si vestiva con abiti che non le appartenevano. Insomma, come se decidesse di essere quella particolare persona solo per un giorno.» Fece un cenno verso la tasca di Frank. «Mi faccia dare un'altra occhiata alla fotografia.» Frank gliela diede. «Ah, sì,» esclamò Linton. «Il viso è lo stesso, ma i capelli sono diversi e anche il trucco.» Restituì la foto a Frank «Era così quando l'ho vista per la prima volta, ma, la seconda volta, era completamente diversa.» «Cartier mi ha detto che probabilmente l'aveva vista almeno un'altra volta.» «È vero.» «Dove vi siete incontrati?» «Qui, a casa mia.» «Lei sapeva dove abitava?» «Può darsi che abbia ricercato l'indirizzo sull'elenco,» rispose Derek. «Scommetto che l'ha scoperto proprio così, perché sono sicuro di non averle detto dove abitavo, alla Knife Point. Non ne ho avuto il tempo. Mi ha seguito fuori, ma è arrivata una macchina e sono dovuto uscire di corsa per lasciarle il posto.» Sorrise. «Un artista deve sempre accontentare i clienti.» «Così è arrivata da sola a casa sua?» chiese Frank. «Sì.» «Quando?» «Un paio di giorni dopo,» disse Linton. «E, come le ho detto, era com-
pletamente diversa, non aveva niente di nero, anzi era tutto il contrario. Aveva un delizioso vestitino azzurro, molto frivolo, e i capelli sciolti sulle spalle. Era molto, molto bella.» «Quanto tempo si è fermata?» «Circa un'ora,» rispose Linton. «Di cosa avete parlato?» «Le ho mostrato i miei quadri. Sembrava che le piacessero. Non capiva niente di arte, non aveva alcuna esperienza. Ma mi è parsa davvero interessata. Ha chiesto di vedere il mio studio, così siamo andati sul retro.» «Posso vederlo anch'io?» «Il mio studio? Perché?» «Giusto per farmi un'idea del posto.» «D'accordo,» disse Linton, senza fare altre domande. Si alzò e condusse lentamente Frank nel locale buio. Un raggio di sole invase la stanza e i capelli bianchi di Linton sembrarono scintillare. «Ecco,» disse, «il capolavoro della mia vita.» Era un mondo fatto di oggetti appena abbozzati, che riproducevano paesaggi anomali, visi lasciati a metà, schizzi, disegni, chiazze di colore che assomigliavano a informi macchie di vernice rossa e gialla. Era come se Linton avesse trascorso la vita in sporadici tentativi di catturare qualcosa che continuava a sfuggirgli. «È qui che l'ha portata quel pomeriggio?» chiese Frank «Sì.» Frank lanciò un'occhiata alla stanza. C'era qualcosa di meraviglioso nell'aria. Le tele erano legate in modo uniforme e le comici impilate. Non era l'ordine che conferiva tanta bellezza, ma il disperato tentativo di ricreare un certo ordine in tutto quello che c'era fuori della stanza, in tutto quello che non era riducibile a tele e pennelli. «È un bel posto,» disse Frank. «Ne ho visti di peggiori.» Frank osservò un vaso di fiori appena recisi appoggiato su un tavolino accanto al cavalletto. «Ogni tanto una mia amica me ne porta un mazzo,» spiegò Linton. «Li ha portati anche il giorno in cui è venuta Diana. Eravamo nello studio quando è arrivata Miriam, che mi è sembrata un po' sorpresa. Ha esclamato: 'Oh, sei tu.'» «La conosceva?»
«Credo di sì.» «Non ha aggiunto altro?» «No,» rispose Linton. «Si è limitata a sorridere e ha lasciato i fiori.» «Quella donna, come si chiama?» «Miriam Castle,» disse Linton. «E se vuole conoscere l'unica, autentica benefattrice dell'arte di questa città, be', questa è Miriam.» «Dove vive?» «Trascorre l'estate a La Grange,» rispose Linton. «È molto ricca. Possiede un'enorme piantagione da quelle parti.» «Ha l'indirizzo?» Linton scoppiò a ridere. «Non le serve l'indirizzo. A La Grange tutti sanno dove si trova la piantagione Castle.» Girò lentamente lo sguardo nella stanza. «Dio, mi mancherà questo posto.» Fece un cenno verso l'angolo. «La ragazza se ne stava proprio laggiù. Le ho spiegato in breve che cosa c'era nello studio. Le ho mostrato i miei quadri e alcuni schizzi, le solite cose, insomma. Sembrava di tenere una lezione a una bambina dell'asilo.» «Sembrava così giovane?» «Sembrava quasi che non esistesse neppure,» rispose Linton. «Ha mai parlato di lei alla... signora o signorina Castle?» «Signorina.» «Ne ha mai parlato con la signorina Castle?» «No.» «Non è mai saltato fuori il discorso?» «Mai,» continuò Linton. «E non è strano per noi. Non parliamo mai delle rispettive conoscenze o di qualsiasi cosa che abbia a che fare con la nostra vita privata.» «Perché no?» «Diciamo che nel corso degli anni abbiamo sviluppato tendenze diverse,» rispose Linton. «Lei voleva qualcosa che non ero in grado di offrirle.» Si avvicinò alla porta. «Preferirei non stare troppo tempo qui» «Naturalmente,» disse Frank. Qualche minuto più tardi Frank era di nuovo sulla veranda e guardava Linton attraverso la zanzariera. «Grazie per avermi dedicato un po' del suo tempo,» disse. Linton lo guardò con attenzione, gli occhi fissi sul viso di Frank che tardava a guarire. 21
Neppure nel più incredibile dei sogni Frank avrebbe potuto immaginare lo splendore che gli si sarebbe presentato davanti agli occhi quando oltrepassò il grande cancello che si apriva sulla piantagione Castle. Gli ci erano volute quasi due ore per raggiungere La Grange, ma la bellezza di quella tenuta lo ricompensò ampiamente per la fatica e la tensione accumulate durante il viaggio. Le foglie delle magnolie giganti si allungavano, formando una torre verde lucente. A sinistra, i salici piangenti si specchiavano immobili in un laghetto blu e, oltre lo specchio d'acqua, simile a un fantasma, Frank notò il grande portico bianco che dominava su tutto. Una donna minuta, con un vestito nero e un grembiule bianco, accolse Frank alla porta. Frank le mostrò il distintivo. «Ho chiamato prima. La signorina Castle ha acconsentito a ricevermi questo pomeriggio.» «Deve essere il signor Clemons.» «Esatto.» «Prego, si accomodi. La signorina Castle sarà da lei fra un attimo.» Il lusso della casa di Karen scompariva di fronte all'immenso ingresso nel quale si trovava in quel momento. Le pareti dell'enorme scalone che raggiungeva il secondo piano, erano coperte di quadri e arazzi dai colori vivaci. «Vuole darmi il cappello, signore?» chiese la donna. «No, grazie,» rispose Frank. «Preferisco tenerlo.» «La signorina Castle mi ha chiesto di farla aspettare qui,» proseguì la donna. «Scenderà subito.» «Va benissimo,» disse Frank. Qualche minuto più tardi, arrivò la signorina Castle. Scese lentamente il lungo scalone e Frank ebbe modo di notare che si trattava di una donna elegante e graziosa, con i capelli d'argento e un viso senza traccia di rughe. Quando si avvicinò a Frank, gli porse la mano con estrema grazia. «Sono lieta di conoscerla,» disse, sorridendo amabilmente. «Stavo uscendo per la mia passeggiata giornaliera. Spero che non le spiaccia accompagnarmi.» «Ma certo.» «Bene,» proseguì la signorina Castle. «Venga.» Dopo pochi minuti, si ritrovarono a camminare tranquillamente fra la ricca vegetazione del parco. I rami più alti erano ricoperti di muschio e in lontananza s'intravedeva un piccolo ruscello che s'insinuava tra una quer-
cia e un olmo. «È stata la schiavitù che ci ha regalato tutto questo,» spiegò la signorina Castle. «Uno dei miei antenati si è occupato del commercio di schiavi fin dall'inizio. La classica leggenda di famiglia racconta che era un uomo molto gentile. Ma ha mai sentito una leggenda di famiglia che parli di individui crudeli?» Si mise a ridere. «È un fatto che Derek non si stanca mai di sottolineare.» «Da quanto tempo vi conoscete?» «Da sempre,» rispose la signorina Castle. «O almeno, a me sembra. In realtà sono quarant'anni. E io continuo a portargli i fiori.» «Sì, li ho visti.» Si girò verso di lui. «Non lo so, signor Clemons, forse è solo la particolare luce o l'atmosfera del lago, ma sento dentro di me un'infinità di cose.» «Quali cose?» «Verità,» spiegò la signorina Castle. «A volte persino quelle più difficili appaiono meravigliose.» Si avvicinò alla riva del lago e si fermò. «Che cosa le ha raccontato Derek su di me?» «Niente.» Sorrise. «Naturalmente. È sempre stato così.» «Che cosa avrebbe dovuto dirmi?» «Be', innanzitutto che per tutti questi anni sono sempre stata innamorata di lui.» Frank non disse nulla. «Secondo lei è una cosa tanto tragica?» chiese. «No.» La donna lo osservò. «Perché no?» «Perché è durato.» «C'è gente che la pensa diversamente,» proseguì la signorina Castle. «Mi considerano una donna che ha sprecato una vita amando un uomo che... che non può amare le donne.» Si mise a ridere. «Direi che è piuttosto comico, non crede?» «Non penso,» disse Frank. La signorina Castle guardò Frank dolcemente. «Le donne come me sono attratte da due cose, signor Clemons, il denaro e il carattere. Derek aveva carattere.» «E ne ha ancora,» aggiunse Frank. «Sì, e si manterrà intatto,» proseguì la signorina Castle, lasciando che lo sguardo seguisse il volo di uno storno accanto a una grande quercia. «Co-
me sta?» «Sta morendo.» «Sì, lo credo anch'io,» mormorò, «di quella terribile malattia.» L'uccello riprese il volo e la donna tornò a guardare Frank. «Mi considererò una vedova, anche se so che lui non approverebbe.» «Forse sì.» «No, non lo farebbe,» disse con voce decisa. «Non voglio mentire a me stessa. Ho amato un uomo che non poteva amarmi e che non l'ha fatto. Tragica o comica che sia, è la pura verità.» Frank prese il taccuino. «Il signor Linton mi ha detto che ha incontrato Angelica Devereaux a casa sua.» «Sì.» «E che quando l'ha vista ha esclamato: 'Oh, sei tu.'» «È possibile.» «Quindi l'ha riconosciuta?» «Non come Angelica Devereaux,» precisò la signorina Castle, «ma solo come la ragazza che avevo incontrato in gallerie fuori mano della città.» «E non sapeva chi fosse?» «No. Ma l'avevo già vista in quei posti Era vestita sempre in modo diverso, ma un vestito non poteva certo nascondere una simile bellezza.» «Ha detto che le gallerie erano 'fuori mano'?» «Esatto.» «Che cosa vuole dire?» «Significa che non sono nella zona nord, fra quelle più prestigiose,» rispose la signorina Castle. «Sono posti minuscoli, con affitti bassi e cose del genere.» «Come la Knife Point Gallery?» chiese Frank. «Sì, intendo proprio posti di quel tipo.» «E le è capitato di vedere Angelica in gallerie come la Knife Point?» «Sì,» disse. «Non avevo idea di chi fosse. Ed era sempre vestita in modo diverso. Ma era bellissima. Straordinaria. Bastava vederla una volta per non dimenticarsela più.» «L'ha incontrata spesso?» «Non spesso, qualche volta.» «Quante volte?» «Non ne ho preso nota.» «Provi a dire un numero.» «Cinque, forse sei volte.»
«In quanto tempo?» «Ho iniziato a incontrarla circa quattro mesi fa.» «Era sempre sola?» «Sì. E questo fatto mi ha colpito. Dopotutto, come le ho detto, era davvero bellissima e di solito quel genere di ragazza non va in giro da sola. Mi sarebbe parso più logico che avesse avuto una specie di accompagnatore.» «Ma non ne aveva.» «No, che io ricordi.» Frank prese qualche appunto. Quando alzò gli occhi, vide che la signorina Castle lo stava osservando. «Ho una confessione da farle, signor Clemons.» «Una confessione?» «Sì, devo ammettere che avevo una ragione particolare per chiederle di venire qui, questo pomeriggio.» «E sarebbe?» «Per sapere di Derek,» rispose. «Inoltre, devo dirle che non sapevo praticamente nulla di quella ragazza. Non le ho mai parlato e non ho mai avuto niente a che fare con lei.» «Capisco,» disse Frank, «ma almeno l'ha incontrata qualche volta, e questo è molto importante.» «Davvero?» «Sì,» rispose Frank. «Dunque, riguardo ai luoghi in cui ha visto Angelica, le gallerie, dove si trovano?» «Personalmente, non l'ho mai vista alla Knife Point» spiegò la signorina Castle. «No, è successo sempre in altre gallerie.» Rifletté un attimo. «Sì, ora ricordo. Era sempre una di quelle gallerie della zona meridionale. Sono tutte lungo la stessa strada, non lontano da Grant Park.» «Grant Park?» «Sì, ce n'è una via piena. Tre o quattro, una accanto all'altra. Per la maggior parte sono posti alquanto squallidi, ma ogni tanto si trova qualche opera interessante.» «Queste gallerie,» domandò Frank, «come si chiamano?» La signorina Castle fornì un elenco di nomi che Frank annotò sul taccuino. «E mi diceva che sono tutte nella stessa via?» chiese Frank. «Esatto. Hugo Street,» precisò. Frank segnò anche il nome della via e lo sottolineò. «Questa ragazza,» domandò la signorina Castle dopo un attimo, «era
forse innamorata di Derek?» «Non credo.» «Dove si sono conosciuti?» «Alla Knife Point,» disse Frank. «Poi lei è andata a casa sua.» «Nient'altro?» «No, per quanto ne sappia.» La signorina Castle sorrise. «Alla mia età, sono ancora gelosa.» Rise amaramente. «E per di più, di una donna.» Frank le si avvicinò ed entrambi osservarono per un attimo un gruppetto di anatre che scivolavano senza fatica sulla tranquilla superficie del lago. «Trovo che la vita sia ancora piena di misteri, signor Clemons,» dichiarò, guardandolo. «E lei?» «Anch'io.» Sorrise e afferrò un pezzetto di muschio che pendeva da un ramo sopra la sua testa. «Questa specie sembra sempre morta,» disse. «È sempre grigia e polverosa.» Fece un debole sorriso. «Mio padre aveva l'abitudine di portarmi davanti alla finestra, la sera. Mi indicava il muschio e diceva: 'Vedi, Miriam, questa sera i fantasmi si sono appesi agli alberi, sotto la luce della luna.'» Arrotolò il muschio attorno al dito. «Quanto tempo resta a Derek?» «Non lo so.» «Ha l'aria... fragile?» «Non l'ha visto?» «No, non nelle ultime settimane.» «Ma c'erano i fiori.» «Mi ha detto quando posso andare a portarglieli senza trovarlo in casa,» spiegò. «Non vuole che lo veda così.» Iniziò a camminare lentamente, costeggiando la riva del lago. «Ne ho già visti altri, naturalmente. Sembrano morti prima di morire.» Si girò bruscamente verso Frank. «Anche lui è così?» «È magro, ecco tutto,» rispose Frank. «Non ha l'aria di chi sta morendo.» «Aveva così tanta energia,» proseguì la signorina Castle. «Ne ha ancora.» La donna parve sorpresa. «Davvero?» «Sì,» la rassicurò Frank. Lei scosse la testa. «È così testardo,» sospirò. «Gli ho offerto ogni tipo di aiuto, l'ho fatto per quarant'anni, e non solo per lui. Sono una mecenate, una benefattrice degli artisti. Compro i loro quadri e a volte procuro dei la-
vori che non li distruggano. Lavori di restauro, di finitura, oppure nei musei. Questo genere di cose. Avrei potuto farlo anche per Derek.» Si mise a ridere. «Dio sa che l'ho fatto per artisti molto meno dotati di lui.» Scosse la testa con aria sconsolata. «Ma non ha mai voluto niente. Non mi ha mai venduto uno dei suoi quadri. Me ne ha regalato qualcuno, ma non ha mai accettato un soldo da me.» Fece una pausa e lo sguardo scivolò verso il lago. Era l'ora del crepuscolo e l'acqua si stava tingendo di rosso. «Quindi non mi sarei stupita se quella ragazza si fosse innamorata di Derek.» «Quando l'ha vista in quelle gallerie, ha avuto qualche particolare impressione?» chiese Frank. «Sì.» «E cioè?» «Mi è sembrato che fosse una seduttrice,» rispose. «Con quel suo modo di muoversi da una sala all'altra, oppure di appoggiarsi in un angolo, rosicchiandosi un unghia.» «L'ha mai vista parlare con qualcuno?» «No. Mai. Ogni tanto vedevo qualcuno avvicinarsi, ma lei li respingeva sistematicamente tutti. È per questo che mi è sembrato strano trovarla a casa di Derek.» «Perché strano?» «Perché era ovvio che stesse usando la sua bellezza in modo spudorato,» spiegò la signorina Castle. «E immagino abbia già capito che per Derek la bellezza di una donna rimane a livello di pura astrazione. Non credo sia in grado di provare nient'altro.» «Sta forse dicendo che Angelica si divertiva ad adescare gli uomini, signorina Castle?» domandò Frank. «In termini volgari, direi di sì,» replicò. Si girò verso di lui e gli sfiorò il livido che aveva sotto l'occhio. «Le fa ancora male?» chiese. «Sì.» La donna ritrasse la mano. «Non sempre la bellezza serve a lenire, signor Clemons.» «Che cosa mi dice della bellezza di Angelica?» «Non placava di certo. Proprio per nulla. O, perlomeno, lei non sembrava usarla in quel senso, ma addirittura al contrario.» «E cioè?» «Be', per infiammare la gente, se proprio vogliamo usare il termine più drammatico.» «E secondo lei, le piaceva farlo?»
«Sì,» rispose in tono deciso. «Ho avuto quell'impressione, e non mi stupisce il fatto che sia morta.» Fissò Frank. «È pericoloso far infiammare così la gente, è facile prender fuoco.» Frank aveva già visto scene del genere e, in ogni caso, era evidente la rabbia, a giudicare da quello che si lasciava dietro: corpi picchiati fino a essere irriconoscibili, oppure scorticati, ridotti a brandelli, gettati sui letti disfatti, oppure ancora penzolanti dalla porta usata per ridurli all'impotenza mentre la furia si abbatteva su di loro, ripetutamente, fino a quando non erano più in grado di avvertirla. «Ha notato qualcuno che possa essere rimasto colpito a quel modo da Angelica?» chiese. «No,» ammise la signorina Castle. «Ma non è sempre così immediato, giusto?» «No.» «A volte nasce lentamente, giorno dopo giorno. E magari all'inizio non ci si accorge neanche che sta crescendo.» «È vero.» «Sa che cosa dice sempre Derek? Dice che siamo 'cuori della giungla'. E sa che cosa intende?» «No.» «Che reagiamo di fronte alle cose invece che crearle noi stessi,» spiegò. «Crede sia vero?» «Qualche volta,» ammise Frank. «Funziona così,» proseguì la signorina Castle. «Un gruppo di cellule si organizza all'interno di un corpo stupendo. Ed ecco Angelica Devereaux. E questa creatura suscita determinate reazioni negli individui che incontra. E queste reazioni possono essere molto diverse tra loro: qualcuno può adorarla, qualcuno amarla, ma un altro può odiarla, oppure arrivare a...» «Ucciderla,» intervenne Frank. «Esatto,» affermò. Improvvisamente alzò un sopracciglio completamente bianco. «E ora lei, signor Clemons, è stato chiamato per reagire a questo.» Si alzò il bavero attorno al collo, come se volesse scacciare un brivido improvviso. «Siamo tutti senza speranza. Lei, io, Angelica. Tutti noi. Non sappiamo chi siamo. Non sappiamo che cosa facciamo. E non possiamo neppure immaginare l'effetto delle nostre azioni.» Sorrise, poi gli porse la mano. «Arrivederci, signor Clemons,» si congedò. «Separiamoci in modo garbato, come due persone estranee, ma cortesi.» Si girò bruscamente e s'incamminò verso la grande dimora, che, con la
sua immensa facciata bianca, sembrava osservarla con occhi invisibili. 22 Sulla strada del ritorno per Atlanta, Frank cercò di rianalizzare gli indizi venuti alla luce. Il ritratto di Angelica Devereaux era cambiato radicalmente, ma era ancora molto confuso. La ragazza tranquilla, riservata e solitaria che dormiva in una stanza piena di bambole, si era trasformata, diventando una ragazza che vestiva in modo provocante, si aggirava in squallide gallerie d'arte e, a modo suo, cercava di attirare l'attenzione. Ma anche questo era troppo semplice, pensò Frank, mentre riconsiderava tutti i dettagli. Quella stessa ragazza aveva avvicinato un uomo anziano, con quello che sembrava genuino affetto, e un paio di settimane dopo, aveva rimorchiato un ragazzo che conosceva appena e lo aveva portato in un vicolo sudicio dove se l'era fatto sui sedili di una BMW rossa. Era come se avesse vissuto molte vite o, perlomeno, desiderasse viverle, e che nessuna di queste l'avesse mai soddisfatta pienamente. Erano le nove passate quando Frank arrivò alla Centrale. Molti degli investigatori se n'erano già andati da ore ed erano rimasti solo gli agenti del turno di notte: sedevano leggendo distrattamente i giornali e le riviste o vagavano pigramente da una scrivania all'altra, come se fossero alla ricerca della soluzione dei loro problemi. Solo Gibbons era ancora pieno di energie e quando si sedette alla scrivania, Frank lo vide sfogliare gli ultimi rapporti dell'FBl. Era un'immagine triste e disperata, ma Frank non riuscì a spiegarsi perché avesse avuto quell'impressione. Era come se a Gibbons mancasse qualcosa nel modo in cui cacciava le prede, con quella professionalità spietata e micidiale che tanto gli era servita per fare carriera. Aveva sempre risolto brillantemente i casi a lui affidati. Seguiva scrupolosamente la legge, ma il suo spirito era vuoto e povero come una tomba abbandonata. «Salve, Frank,» disse Caleb dirigendosi verso la sua scrivania. «Come va la gara?» «Quale gara?» «Ho visto Brickman parlare al nostro amico Gibbons questo pomeriggio,» spiegò Caleb. «Ho pensato che avessero affidato il caso a lui.» «No, che io sappia.» «Bene,» disse Caleb. Avvicinò una sedia alla scrivania e si sedette. «Uno a zero per noi.» Si appoggiò comodamente allo schienale e tirò fuori la
pipa. «A ogni modo, dove sei stato? Alvin era preoccupato.» «A La Grange.» «Per vedere il panorama?» «Ho una traccia, qualcuno ha visto Angelica in diversi posti.» «Dove?» «In alcune gallerie,» gli rispose Frank. «In una strada vicino a Grant Park ce ne sono parecchie.» «Di nuovo Grant Park,» disse Caleb pensieroso. «Sì.» «Sai, Frank, stavo pensando che forse era una prostituta.» «Ed era vergine?» rispose Frank, poco convinto. «Quel ragazzo forse non sapeva la differenza, Frank,» continuò Caleb. «Ci troviamo di fronte a una ragazza ricca e annoiata che ama aggirarsi per i bassifondi della città. La situazione degenera, e lei finisce per accettare qualche dollaro. L'idea le piace. Lo fa altre volte e infine rimorchia questo tizio e, prima che se ne accorga, è morta.» Frank scosse la testa. «Non penso sia andata così, Caleb.;» «È successo più di una volta.» «Sì, lo so. Dimmi un po', Caleb. Di quanti casi di prostitute assassinate ti sei occupato?» «Troppi per riuscire a ricordarli.» «Com'erano ridotti i corpi?» «Uno schifo.» «Come quello di Angelica?» «Molto peggio.» «Esattamente,» disse Frank. «Se vuoi uccidere una prostituta, usi una pistola, un coltello o un martello.» Caleb ci pensò un attimo. «Va bene, potrei sbagliarmi. Ma che cosa vuoi fare, Frank?» «Non lo so,» disse. Si alzò. «Ti va di andare a fare un giro?» «Dove?» «Nel parco.» Caleb si alzò stancamente. «Guidi tu?» Andarono insieme al garage, poi si diressero verso Cherokee Avenue nella parte settentrionale di Grant Park. «Secondo il ragazzo,» disse Frank, «Angelica ha fatto il giro del parco un paio di volte.» Parcheggiò sul ciglio della strada e guardò verso il parco. I lampioni erano stati accesi ed emettevano una luce argentata.
«Come se cercasse qualcuno,» disse Caleb. «Esatto.» «Ma non uno spacciatore.» «No, se quello che ho scoperto è vero,» continuò Frank. «E cioè che aveva smesso con la droga.» «Che cosa ne dici di un'avventura, Frank?» domandò Caleb. «Forse era solo alla ricerca di un po' d'emozione.» «Con Stanford Doyle Junior seduto accanto a lei?» replicò Frank. «Forse voleva scioccarlo,» rispose Caleb. «Poteva far parte del divertimento.» Frank scosse la testa. «Perché no?» chiese Caleb. «Il fatto è, Frank, che non sappiamo che cosa stesse passando nella testa di quella ragazza. Era giovane, molto giovane, e dovresti ricordarti che cosa significa.» Fece un sorriso sornione. «Sangue giovane. Ha bisogno di azione. Mio Dio, sai di che cosa sto parlando.» Per un attimo Frank ripensò agli anni in cui anche lui andava alla ricerca delle emozioni, a quando veniva attratto da tutto ciò che era selvaggio e immediato, e si rese conto di come gran parte della sua vita sembrasse noiosa e ripetitiva in confronto a quello che realmente desiderava. «Io mi ricordo,» disse Caleb con tranquillità. «Mi ricordo molto bene quei tempi. E sai una cosa? Quando ho visto quella ragazza in quel maledetto campo, ho pensato: 'Conosco la tua storia, tesoro.'» «Quale pensi sia la sua storia, Caleb?» chiese Frank con espressione seria. Caleb rimase un attimo in silenzio, come se cercasse le parole giuste. «Si è bruciata. E non è la prima. Lo sai anche tu.» Strizzò gli occhi come se volesse farli rientrare nelle orbite. «A volte si paga, quando si vuole troppo e troppo in fretta. È quello che penso sia successo ad Angelica Devereaux. Voleva quello che tutti noi, in cuor nostro, vorremmo, Frank. Qualcosa di interessante e di eccitante.» Frank annuì. «Già.» Gli occhi di Caleb si volsero verso il parco. La luce argentata si era ispessita con l'avvicinarsi dell'oscurità, tramutandosi in nebbiolina estiva. «Grant Park è sempre stato un posto di merda,» disse, in tono di voce che colpì Frank per la sua tristezza e amarezza. «Un tempo erano storie di alcol e non di droga. Si scopava e non si ammazzava. Ma era un posto sempre eccitante e interessante.» Guardò Frank. «E sai perché? Perché era
pieno di vita.» Si passò una mano sulla guancia. «Forse era per questo che veniva qua. Per la vita. Per qualcosa di reale.» Sorrise con amarezza. «E se questa supposizione è giusta, allora i protettori e gli spacciatori non ci porteranno da alcuna parte.» «Forse no,» disse Frank. «Sei venuto qua per setacciare il parco, vero?» «Sì.» «Per cercare in ogni angolo, per non lasciare nulla d'intentato, giusto?» Frank annuì. «L'unica cosa che sono riuscito a scoprire di Angelica è che girava da queste parti e che conosceva la zona piuttosto bene.» Fece vagare lo sguardo. La foschia stava aumentando nella calda notte estiva. «È qui dove ha portato il ragazzo quella notte. Ed è stata vista nelle gallerie della zona.» «E le gallerie di notte sono chiuse,» precisò Caleb. «Esatto.» «Per cui resta solo il parco.» «Già.» «Okay,» disse Caleb riluttante, «ma è meglio che tu stia attento.» Indicò pensieroso il parco. «A quest'ora, di notte, non c'è nessuno lì dentro che non abbia un problema.» Aprì la portiera. «Sei pronto?» «Sì.» «Allora andiamo.» La fitta foschia non aveva fatto altro che aumentare il caldo già afoso delle ore diurne e dopo aver percorso solo pochi metri, la camicia di Frank era già completamente bagnata, sotto le ascelle e sulla schiena. Gocce di sudore imperlavano la fronte di Caleb e sotto la luce dei lampioni i due uomini sembravano brillare come ghiaccioli. «Occhio alle spalle,» disse Caleb sommessamente, mentre procedevano nella nebbiolina appiccicosa, «e tieni le orecchie aperte.» Dopo pochi minuti si trovarono nel centro del parco. In lontananza sentivano i gemiti degli animali dello zoo, tristi lamenti di protesta di chi non capisce perché è finito in gabbia. La luce diminuiva sempre più intorno a loro, finché furono circondati dall'oscurità più completa. «Hai sentito?» chiese Caleb. Frank rimase in ascolto. Sentì dei gemiti indistinti in lontananza. «Bisogna avere una voglia incredibile per farlo qui,» disse Caleb con un triste sorriso. «Potremmo andare là e fare qualche domanda, ma non penso che in questo momento siano in grado di aiutarci molto.» Indicò la strada
davanti a loro. «Lasciamoli in pace. Che cosa ne dici, Frank?» Continuarono ad addentrarsi nel parco. I cespugli aumentavano intorno a loro, avvolgendoli in un caldo abbraccio. Sulla destra videro un vagabondo addormentato profondamente, con le braccia nude che stringevano teneramente una bottiglia di vino da quattro soldi, mentre, sulla sinistra, una ragazza filiforme con un vestito a fiori litigava furiosamente con una pietra. «Dopo un po',» mormorò Caleb, quasi tra sé e sé, «quello che vedi ti stronca.» Erano oltre la metà del parco quando udirono distintamente le prime voci. Due voci. Un uomo e una donna. Il tono della donna era alto, acuto, quello dell'uomo basso, rauco e minaccioso. «Hai intenzione di dirlo ai ragazzi?» chiese la donna. «Gli dirai come ti sei fatto fregare un'altra volta?» «Chiudi quella fottuta bocca, negra,» disse l'uomo in tono rabbioso. Caleb si fermò e tastò la pistola sotto la giacca. «Attento, Frank. Sai com'è. Non c'è niente di peggio di una lite familiare.» Continuarono a camminare e quando la nebbia si diradò, Frank vide un uomo e una donna, uno di fronte all'altra, accanto a un'enorme quercia. Litigavano animatamente, e le loro voci echeggiavano sommessamente, nonostante la nebbia. Non si rendevano conto di ciò che li circondava, troppo presi dalla loro lite furibonda. «Buonasera, gente,» disse Caleb gentilmente. L'uomo si girò immediatamente, con la mano alla ricerca della cintura. «Stai calmo,» disse Caleb deciso. «Polizia. Non muoverti.» La mano dell'uomo era sempre sulla cintura. Frank si mosse verso sinistra e tirò fuori la pistola. «Mani in alto,» urlò. «Subito!» L'uomo alzò le braccia. «Girati e appoggia le mani su quell'albero,» gli ordinò Frank. L'uomo fece come gli era stato ordinato, rimanendo immobile, mentre Caleb lo perquisiva. «Questo è un giocattolo?» chiese in tono sarcastico, tirando fuori una ventidue dalla cintura dell'uomo. «Lo sapevo che ti avrebbero beccato,» si lamentò la donna. «Sei troppo stupido, Charlie. Questo è il tuo problema.» Caleb fece scivolare la pistola nella tasca. «Girati, Charlie,» disse. Frank rimise la pistola nella fondina. Caleb indicò la borsa della donna. «Non ha niente lì dentro, signora?»
domandò. Lei scosse lentamente la testa. Caleb prese la borsa. «Quindi non le spiace se do un'occhiata.» Aprì la borsa, controllò il contenuto e la restituì alla donna. «Grazie,» disse tranquillamente. «Lo sapevo che ti avrebbero beccato,» ripeté sconsolata la donna. «E ora io e i bambini siamo di nuovo soli.» «Non l'abbiamo ancora arrestato,» le disse Caleb. Lei lo guardò con gli occhi spalancati per lo stupore. «Che cosa?» «Vogliamo solo farvi qualche domanda,» spiegò Frank. L'uomo lo guardò sospettoso. «Che genere di domande, amico?» «Be', che cosa mi dici di questa?» chiese Caleb, facendo dondolare la pistola. «Hai il porto d'armi?» «No.» «Charlie, dimmi un po', sei schedato?» L'uomo si voltò e rantolò qualcosa. «Scommetto che su di te c'è un dossier lungo tre metri,» disse Caleb. «I tipi come te non dovrebbero circolare con questi gingilli.» Guardò Frank. «Qizanto ci scommetti che è in libertà provvisoria?» L'uomo fissò con odio Caleb. «Vaffanculo, amico.» Improvvisamente, con un'incredibile velocità, Caleb lo schiaffeggiò in viso. L'uomo barcollò indietro, andando a sbattere contro l'albero. Caleb gli si avvicinò, lo afferrò per il collo della camicia e lo sollevò da terra. «La donna ha parlato di ragazzi, pezzo di merda,» urlò. «Hai dei bambini?» L'uomo annuì lentamente. «Devi occuparti di loro,» disse Caleb. «Mi hai capito?» «Caleb,» disse Frank, «vacci piano.» Caleb fece un profondo e lungo sospiro, cercando di calmarsi. Lasciò l'uomo e si allontanò di qualche passo. «Continua pure, Frank,» disse. Frank si avvicinò ulteriormente all'uomo e alla donna. «Vivete da queste parti?» domandò. «Sì,» rispose la donna. «Dove?» «Verso Cherokee.» «Per cui venite spesso al parco?» «A volte,» disse la donna. «Avendo dei bambini, verrà spesso.»
«Vengo qualche volta,» disse la donna senza sbilanciarsi. Caleb guardò l'uomo. «Hai qualche giro nel parco?» domandò in tono gelido. «Non ho niente,» rispose l'uomo. Si massaggiò la guancia. «Non avevi alcun diritto di colpirmi, amico.» «Disarmare un bastardo,» disse Caleb, «non avevo diritto di farlo?» «Voleva vendermi,» sibilò la donna. «Voleva vendere il mio culo.» Si batté la mano sul petto. «Vendere sua moglie, quel figlio di puttana.» Gli lanciò un'occhiata sprezzante. «Mia madre non mi ha allevato per fare la puttana!» urlò. «Allora avevi deciso di fare il protettore di tua moglie?» chiese Caleb, fissando l'uomo intensamente. Frank tirò fuori dalla tasca la foto di Angelica e la mostrò alla donna. «Ha mai visto questa ragazza?» La donna diede un'occhiata incerta alla fotografia. «Batte il marciapiede?» «Mi dica solo se l'ha vista da queste parti,» disse Frank. «No, non l'ho vista,» rispose la donna. Frank prese la foto e la mostrò all'uomo. «E tu?» L'uomo guardò distrattamente la fotografia. «Non ho niente a che fare con le puttanelle bianche,» sogghignò. Frank gli si avvicinò. «Che cos'hai detto?» Gli occhi dell'uomo si socchiusero in un'espressione di sfida. «Te l'ho appena detto, non l'ho vista. Non ho niente a che fare con le puttane bianche.» Frank rivide il corpo di Angelica disteso nel campo abbandonato. Puttanella bianca. Sentì una rabbia furiosa nascergli dentro. Avrebbe voluto tirare fuori la pistola, puntarla contro il viso dell'uomo e premere il grilletto più e più volte, fino a sentirsi esausto. «Una puttanella bianca, morta,» disse l'uomo, guardando la foto. «Ecco di che cosa si tratta.» Frank avvertì le unghie che si conficcavano nel palmo della mano. «È meglio che tu chiuda quella tua fottutissima bocca,» disse tra i denti. L'uomo sorrise, spavaldo. «Non c'è niente di nuovo, amico. È sempre la stessa storia. È così che va il mondo.» A Frank prudevano le mani, e sentì una di loro che si dirigeva lentamente verso la pistola. Sapeva cosa sarebbe successo. Gli occhi dell'uomo si sarebbero spalancati per il terrore. Per un attimo avrebbe pensato che era
solo un gioco e poi, per un solo, terribile istante, mentre l'eco dello sparo lo avrebbe travolto e la pallottola gli avrebbe fracassato il cranio, avrebbe capito che non lo era, che una terribile giustizia lo aveva infine raggiunto e che non ci sarebbe mai stato ritorno. «Non ancora,» disse Caleb, e Frank sentì improvvisamente le dita dell'amico stringergli il polso. «Fuori dei piedi,» minacciò Caleb. Frank rimase immobile e ascoltò il rumore dei passi della coppia che si allontanava velocemente. Si sentiva esausto, con le gambe e le braccia pesanti, come se centinaia di pesi lo stessero tirando verso il basso. Caleb prese gentilmente Frank per il braccio, spingendolo verso l'uscita del parco. «Sai, quando ero giovane... voglio dire, quando indossavo ancora l'uniforme, avevo un collega. Si chiamava Ollie Quinn. Veniva dalla campagna, come me. Atlanta rappresentava per lui la grande occasione.» Scosse la testa, mentre proseguivano nel parco. «Non avrebbe mai dovuto lasciare la fattoria. Avrebbe dovuto trascorrere la vita a pescare nel fiume e a raccogliere l'uva. Ma no, Ollie era venuto in città, era entrato nella polizia ed era finito a fare la ronda con me, notte dopo notte, ad ascoltare le mie stronzate.» Fece vagare lo sguardo verso sinistra, nel parco. «Questa era la nostra zona. Una notte abbiamo ricevuto una chiamata. Si trattava di una lite familiare. I vicini avevano sentito una donna e i figli che urlavano. Da quello che avevano capito un tizio li stava picchiando.» Si girò verso Frank. «Ci siamo subito recati sul posto, io e Ollie. Ed effettivamente si trattava di una lite familiare. Da fuori sentivamo quel bastardo urlare e picchiare. Ollie era spaventato a morte ma era anche su tutte le furie.» Tirò fuori la pipa e cominciò a riempirla. «A ogni modo, abbiamo fatto irruzione e, mio Dio, Frank, sapessi che spettacolo! Due ragazzini picchiati a sangue giacevano privi di conoscenza in un angolo della stanza. Vicino a loro, a terra, contro la finestra e con una corda intorno al collo, c'era la moglie. L'uomo era su di lei e la stava strozzando, quando siamo entrati noi.» Accese la pipa e continuò a camminare lasciando una traccia di fumo azzurrastro dietro di sé. Sembrava una locomotiva che si faceva strada nella nebbia. «Siamo saltati addosso a questo tipo. A dire il vero, io gli sono saltato addosso. L'ho allontanato dalla donna e l'ho gettato dall'altra parte della stanza. Ollie è andato dalla donna e ha cominciato ad allentare la corda che aveva al collo. È stato allora che lei lo ha morso. Ha affondato i denti nella mano di Ollie e non lo lasciava più andare, Ollie cercava di li-
berarsi, ma lei continuava a rimanere attaccata alla mano. Così, alla fine, lui l'ha colpita.» Si tolse la pipa dalla bocca. «In quel momento l'uomo mi è sfuggito, si è liberato e si è avventato su Ollie con tutta la forza. Ha cominciato a prenderlo a pugni mentre la donna lo graffiava sul viso. Io sono riuscito a bloccare l'uomo ma la donna continuava a graffiare Ollie urlando a squarciagola. Ollie era finalmente riuscito ad alzarsi, ma la donna non lo mollava. Urlava come una pazza, Frank, sembrava un animale selvaggio e continuava a graffiare il viso di Ollie, mentre lui cercava di allontanarsi. Lei continuava ad avventarsi su di lui e a graffiarlo e il suo viso era diventato una maschera rossa di sangue. Ollie si allontanava cercando di liberarsi, ma lei non lo mollava. Allora Ollie ha tirato fuori la pistola puntandola in aria, ma lei ha continuato a saltargli addosso, urlando e graffiandolo finché, alla fine, è riuscito a liberarsi, Frank. E ha puntato quella maledetta pistola, e le ha sparato proprio in mezzo agli occhi.» Caleb si fermò e fissò oltre il parco, dove s'intravedevano le macchine. Poi guardò Frank, con gli occhi scintillanti alla luce dei lampioni. «Hanno condannato Ollie Quinn all'ergastolo,» disse lentamente. «Ne hanno fatto una questione politica e il pubblico ministero del cazzo ha chiesto l'ergastolo, e così Ollie Quinn è stato condannato al carcere a vita.» Fece vagare lo sguardo soffermandosi sugli alberi dall'aria spettrale. «Ma non ha trascorso molto tempo in carcere. Due giorni dopo il processo si è impiccato.» Fissò Frank. «E il marito? Si chiama Towers, Harry Towers. Vive ancora in quella fottuta casa. Da allora ha avuto altre due mogli e continua a picchiarle, così come fa con i bambini. Continuiamo a ricevere segnalazioni su di lui.» Sorrise tristemente. «Abita al 265 del Boulevard e un giorno, quando sarò in pensione, andrò a casa sua e gli farò saltare le cervella.» Guardò Frank. «Ma non ora, amico mio, non ora.» Pochi minuti dopo erano già in macchina. Per un attimo Caleb rimase immobile dietro il volante, poi, improvvisamente, avviò il motore e schiacciò il piede sull'acceleratore facendo scattare la macchina e riempiendo l'aria con il rabbioso rombo del motore. 23 Il mattino seguente, di buon'ora, Frank iniziò a contattare le gallerie, ma erano ancora tutte chiuse. Non sapeva a che ora aprissero, ma probabilmente Karen era più informata di lui e decise quindi di telefonarle. Sembrava senza fiato quando alzò il ricevitore.
«Ho un po' fretta,» disse Karen. «Perché?» «Sto facendo le valigie per andare a New York.» «Sei già in partenza?» chiese Frank, incredulo. «Tra qualche giorno, spero,» rispose Karen. Frank si sentì svuotato di tutta l'energia che aveva in corpo. «Mi spiace che te ne vada così presto,» mormorò. Per un attimo, Karen non rispose e Frank capì che c'era qualcosa in lei che lo stava attanagliando, avrebbe voluto raggiungerla e tenerla stretta tra le braccia. L'amava, e se ne rese conto con enorme stupore, con quella struggente sensazione che si sprigionava dalle vecchie canzoni strappalacrime che Caleb ascoltava ogni tanto in macchina. «Ascolta, Karen,» disse sommessamente, «ho bisogno di vederti.» «Che cosa c'è?» Non poteva risponderle come avrebbe voluto, non poteva dirle che avrebbe desiderato stare con lei, parlarle e toccarla fino a quando il legame tra loro fosse stato così forte da non permettere a nulla di spezzarlo. Ma si limitò a farfugliare: «Le gallerie.» «Le gallerie?» «Ce ne sono alcune attorno a Grant Park,» disse Frank. «Sì, lo so. Perché ti interessano?» «Angelica le frequentava ogni tanto,» rispose Frank con la voce nuovamente sotto controllo. «E pensavo che forse avresti potuto venire con me a dare un'occhiata.» «Quando?» «Al più presto. Questo pomeriggio, se possibile.» «Be, ho un po' di cose da fare questa mattina,» disse Karen. «Ma sarò libera per mezzogiorno. Ti va bene?» «Sì,» rispose Frank. «Passo a prenderti?» «No, questa volta passo io. Sei alla Centrale?» «Sì,» disse Frank. «Sai dov'è?» «Sì,» rispose Karen. «Purtroppo sì.» Poi riappese. Due ore più tardi, Frank alzò gli occhi dalla scrivania e vide Karen che entrava in ufficio. Indossava un leggero abitino estivo azzurro, e tutti si girarono quando la videro. «Decisamente carina,» bisbigliò Gibbons, passando davanti alla scrivania di Frank.
Frank lo fissò: «Torna al tuo lavoro, Charlie.» Gibbons fece un debole sorriso. «Mi sembri un po' agitato, Frank. E non è bene per un poliziotto.» Frank si girò e osservò Karen che si avvicinava. «Sono un po' in anticipo,» disse. «Va benissimo.» «Sei pronto o vuoi che mi sieda da qualche parte ad aspettarti?» «No,» rispose Frank. «Sono pronto.» Raggiunsero in pochi minuti Grant Park e mentre procedevano verso Cherokee, Frank si ricordò della notte precedente, quando stava per afferrare la pistola e Caleb aveva dovuto fermarlo. Non aveva mai fatto una cosa del genere e si spaventò all'idea che avrebbe potuto uccidere solo seguendo i propri impulsi e la propria rabbia, come un serpente cieco che afferra la prima cosa in movimento che gli capita a tiro. «È strano venire qui di giorno,» disse Karen. La sua voce lo riportò alla realtà, alla triste strada grigia, al parco riarso sotto il sole. Girò a sinistra nel Boulevard, continuando verso Cherokee. «Secondo il ragazzo, Angelica conosceva molto bene questa zona,» proseguì Frank. «Ma questo te l'ho già detto.» «Sì.» «Sto cercando di scoprire come faceva a conoscerla,» aggiunse Frank. «Hai già qualche indizio?» «Non ne sono sicuro,» rispose Frank. «Ma so con certezza che è stata vista in alcune gallerie qui attorno. E anche più di una volta.» «Vuoi dire le gallerie d'arte sulla Hugo Street?» chiese Karen. Frank annuì. «Allora gira a sinistra e poi la seconda sulla destra,» disse. «È l'unica strada che so come raggiungere, in questa zona.» Fece un attimo di pausa, con lo sguardo rivolto verso l'alto. Il cielo terso dell'estate si stava facendo più cupo, mentre nuvole scure si addensavano sulla città. «Forse avremo un po' di sollievo,» disse. Frank la guardò. «In che senso?» «Il caldo,» rispose Karen con calma, girandosi verso di lui. «Sai, non mi sorprende che Angelica avesse in ballo qualcosa. La sua vita era troppo piatta. Assomigliava molto alla mia.» Sorrise dolcemente. «Mentre la tua è piena di azione, vero?» «Abbastanza.» «Comunque mi sembra più autentica,» aggiunse Karen. «E credo che
Angelica cercasse proprio questo: qualcosa che potesse toccare, qualcosa di autentico.» «È quello che cerchi anche tu, Karen?» chiese Frank. «Forse.» «E pensi di trovarlo a New York?» «Per lo meno cercherò di trovarlo,» rispose Karen. «Questa città, almeno per me, è piena di fantasmi.» Frank svoltò a destra e procedette con cautela in prossimità di una cunetta. «Ecco,» esclamò Karen, indicando una stradina laterale. «La Strada dell'Arte.» Sorrise in tono ironico. «Un nome altisonante, come tutto, del resto, qui ad Atlanta.» Frank accostò al marciapiede. «Credo sia meglio andarci insieme. Facciamo un giro in ogni galleria e vediamo cosa salta fuori.» Sorrise. «Non ho un piano preciso, Karen, sto solo cercando di uscire da un vicolo cieco.» Lo prese sottobraccio e Frank sentì i brividi lungo la schiena. Avrebbe voluto prenderla tra le braccia e portarla in un luogo dove avrebbero potuto rimanere da soli, per sempre, dove lei avrebbe continuato a dipingere e lui si sarebbe messo a pensare alla vita confusa che aveva intravisto nello schermo dorato del distintivo. «Le visiteremo una per una,» disse. «D'accordo.» C'erano tre gallerie nello stesso isolato. La prima si chiamava New Palette ed era situata in una grande casa vittoriana dipinta di blu e con le persiane bianche. «Sono temi tratti dalla mitologia,» disse Karen qualche minuto più tardi, dopo aver attraversato le varie sale appena illuminate. «Solo quadri di Diana e Afrodite.» Lanciò un'occhiata a una targhetta posta sotto uno dei dipinti. «Vincent Toffler,» lesse. «Dev'essere interessato a quella che si chiama mitologia erotica.» «Qualunque cosa sia, non vende,» disse una voce alle loro spalle. Frank si girò e vide un uomo basso, con un paio di jeans e una maglietta, che li osservava da dietro un paio di occhiali sottili. «Non pensavo voleste comperare quella roba,» proseguì l'uomo. «Forse è per la stalla o per un bagno che non usate più?» «Se non le piacciono, perché li vende?» chiese Frank. L'uomo si strinse nelle spalle. «Sono solo il direttore, non il proprieta-
rio,» precisò. «Non è necessario che mi piacciano. E ora, che cosa posso fare per voi?» Frank tirò fuori il distintivo. L'uomo parve sorpreso. «Polizia?» Frank gli mostrò la foto di Angelica. «Ha mai visto questa ragazza?» «Molto carina,» osservò l'uomo, «ma temo di non averla mai vista.» Si mise a ridere. «E, credetemi, se fosse entrata qui, l'avrei notata di sicuro!» «È morta,» disse Frank. La risata si spense. «Oh, mi spiace.» Restituì la foto a Frank. «Non volevo mancare di rispetto.» «È sicuro di non averla mai vista?» «Assolutamente, perché?» «È stata vista in questa zona, nelle gallerie di questa via.» «Non in questa galleria,» precisò l'uomo. «Non vorrei essere volgare, ma ha un fisico che un uomo non può fare a meno di notare.» Frank rimise in tasca la foto di Angelica. «Okay, la ringrazio.» Prese Karen sottobraccio. «Andiamo.» La galleria seguente, la Hidden Agenda, era piccola e decisamente più modesta della prima. «Questa mi è sempre piaciuta,» disse Karen mentre entravano dall'ingresso principale. «C'è un po' di tutto e non è rigorosa come quella che abbiamo io e James. Ma, dopotutto, abbiamo anche una clientela intransigente.» Sembrò illuminarsi mentre gli occhi vagavano per la sala. «Guarda, quello è di Edgar Benton,» spiegò, avvicinandosi a un quadro. «È molto bravo.» Si diresse verso un altro dipinto. «E questo è di Stirling Fox.» «Li conosci?» «Vagamente,» rispose Karen. «Stirling è un tipo piuttosto solitario, è difficile che partecipi alle feste.» Si strinse nelle spalle. «Fa parte del suo carattere.» «E quell'altro?» «Edgar è più socievole. È venuto a casa nostra qualche volta.» «Conosceva Angelica?» «No, che io sappia,» rispose Karen, fissando il dipinto. «È molto profondo, in tutto quello che fa.» Frank osservò il quadro. Era un abbagliante fascio di luce che attraversava una nuvola scura. S'intitolava Compimento. «Non sembra anche a te che sia stato dipinto da una persona molto profonda?» chiese Karen, senza togliere lo sguardo dall'immagine.
«Sì,» ammise Frank. «Be', Edgar è proprio così,» proseguì Karen con noncuranza. Si girò rapidamente e si diresse verso la stanza vicina. Al centro della stanza c'era un uomo alto in doppiopetto marrone. Karen gli si avvicinò immediatamente. «Ciao, Philip,» disse. «Ciao Karen,» esclamò lui affettuosamente. «Sono felice di vederti.» Lo sguardo si addolcì. «Ho sentito di Angelica. Mi dispiace.» «Conosceva Angelica?» chiese Frank. «Sì,» rispose Philip. «L'ho vista qualche volta prima che morisse.» «Dove?» «Qui alla galleria,» spiegò Philip. «Entrava e gironzolava per un po', non la vedevo da quando era bambina e non sono sicuro che mi abbia riconosciuto. Sembrava che stesse recitando. Così non mi sono presentato.» «Che cosa vuole dire?» chiese Frank, mostrandogli il distintivo. «Be', era per il modo di vestire,» spiegò Philip. «Aveva sempre qualcosa di diverso. Sembrava indossasse un costume.» Tornò a guardare Karen. «Non so dirti quanto mi dispiaccia per quanto è accaduto a tua sorella.» «Veniva qui da sola?» chiese Frank. «Sì.» «E se ne andava da sola?» «È sempre uscita da sola, per quanto mi ricordo,» rispose Philip. «State facendo qualche passo avanti nelle indagini?» «Sì, qualcuno.» Philip scosse la testa con aria sconsolata. «È terribile quello che può accadere in questo nostro mondo, non è vero?» «Sì,» disse Frank, rendendosi immediatamente conto che Karen era uscita dalla stanza. La trovò in piedi, da sola, davanti alla galleria. Aveva lo sguardo fisso verso il cielo dove le nuvole minacciose si stavano addensando. «Mi piacerebbe poter credere che Angelica sia lassù, da qualche parte. Ma non ci riesco.» Frank le circondò dolcemente le spalle con un braccio. «Rimane solo una galleria, Karen, e poi potrai andartene a New York. E non mi farò più sentire fino a quando non avrò trovato l'uomo che l'ha uccisa.» Karen annuì lentamente. «D'accordo,» mormorò. Si chiamava Broken Frame ed era situata in un piccolo edificio ridipinto di bianco con le persiane color lavanda. All'interno, le sale erano spaziose e ben illuminate. Una donna con un allegro costume variopinto da contadi-
nella diede loro il benvenuto all'ingresso. «Salve,» esclamò. «Salve,» rispose Frank, lanciando un'occhiata alla sala. I quadri erano stati appesi con molta cura, in modo che non risultassero troppo ammassati sulle pareti. Predominavano le tinte pastello che aggiungevano un tocco delicato all'interno della sala. «Curiosate pure finché volete,» disse la donna. «Non facciamo pressioni qui alla Broken Frame.» Frank le mostrò il distintivo e la foto di Angelica Devereaux. «Ha mai visto questa ragazza?» chiese. «Sì,» rispose la donna. «È la ragazza trovata morta non lontano da qui.» «Si chiamava Angelica,» proseguì Frank. La donna continuò a fissare la fotografia. «Non ha mai detto come si chiamava. Si limitava a gironzolare qui dentro, senza mai parlare con nessuno.» «Ha mai parlato con lei?» «No,» rispose la donna, guardando Karen. «Lei deve essere sua sorella. Si nota la somiglianza.» Frank indicò la foto. «Era come appare qui nella foto?» «Sì, proprio identica,» spiegò la donna. «Una ragazza fresca e davvero bellissima. Indossava molti pizzi e merletti. E colletti alti. A volte sembrava che fosse appena uscita dallo schermo di Via col vento.» «L'ha mai vista con qualcuno?» «No.» «Era sempre sola?» «Sì.» «Se n'è mai andata con qualcuno?» La donna sorrise. «Ci hanno provato in molti ad accompagnarla fuori e qualche volta mi è sembrato che la cosa le piacesse. Ogni tanto lanciava un'occhiata del tipo 'avvicinati'. Ma solo alle donne.» «Alle donne?» «Sì,» confermò la donna. «Sembrava che gli uomini non le interessassero per nulla.» Frank prese il taccuino. «L'ha mai vista parlare con altre donne nella galleria?» «No,» rispose la donna con aria decisa. «Come le ho già detto, non parlava mai con nessuno.» «Ma sembrava concentrarsi sulle donne?» chiese di nuovo Frank.
«Assolutamente,» ripeté la donna. «Era strano. Lanciava loro delle strane occhiate, timide, ma non proprio timide, non so se mi spiego.» Frank prese nota. «Quante volte l'ha notata qui alla galleria?» «Tre, forse quattro,» disse la donna. Si girò di scatto verso Karen. «Mi è venuto in mente adesso, lei deve essere Karen Devereaux.» «Sì,» disse Karen. «Abbiamo due suoi quadri,» esclamò allegramente la donna. «Mi piacevano moltissimo e li ho comperati in un'altra galleria.» Spinse delicatamente Karen verso la sala adiacente. «Guardi,» disse, indicando un piccolo, delicato ritratto di un uomo seduto su una sedia a dondolo, con le mani in grembo e uno sguardo grave e terribilmente concentrato. «Mio padre,» mormorò Karen in un soffio. «E poi quello,» aggiunse la donna. Fece girare lentamente Karen, in modo che osservasse la parete opposta. «Oh, sì,» esclamò Karen, mentre le labbra si schiudevano in un sorriso. Il quadro rappresentava un vaso di fiori. I colori erano delicati e applicati con leggeri, morbidi tocchi di pennello. Mentre l'osservava, Frank avvertì un piacere solenne che si sprigionava da quell'immagine, aumentando d'intensità per assicurarsi un proprio spazio. «Lo prendo,» disse, senza riuscire a bloccare le parole. Karen si girò verso di lui. «Non essere stupido, Frank,» disse. «Te ne darò un altro.» La guardò con aria triste. «Ma io voglio questo,» ripeté. La donna incartò il quadro mentre Frank le rivolgeva le ultime domande. Alla fine Frank prese con estrema attenzione il dipinto e lo portò fino alla macchina. «Dove hai intenzione di appenderlo?» chiese Karen. «Nel mio appartamento,» rispose Frank, «ha proprio bisogno di qualcosa di carino.» «È uno di quei buchi scialbi, mezzi distrutti e tagliati fuori dal mondo?» chiese Karen ridendo sommessamente. «Più o meno hai indovinato.» «Da quanto tempo abiti lì?» «Mi sembra da una vita.» Lo guardò teneramente. «Portami da te e ti aiuterò ad appendere il quadro.» Lo squallore dell'appartamento sembrava ancora più accentuato dalla presenza di Karen, ma lei sembrò non accorgersene.
«È proprio uno di quei posti tagliati fuori dal mondo,» disse con una risata. «Te l'avevo detto.» Andò verso il centro della stanza, poi si girò lentamente per esaminare le pareti. «Là in fondo,» esclamò alla fine. «È il punto migliore.» Frank frugò in tutti gli armadi per riuscire a trovare un chiodo. Lo conficcò nella parete e, assieme a Karen, vi appese il quadro, per poi indietreggiare di un passo per vedere l'effetto. «Sta proprio bene,» disse Karen. Poi lo guardò. «Rallegra la stanza.» «Sì, è vero.» Karen osservò il quadro per un attimo, poi andò verso la finestra, aprì la tenda e guardò fuori. «Ero felice quando l'ho dipinto,» disse Frank le si avvicinò. «E si vede,» mormorò. Le prime gocce di pioggia cominciarono ad abbattersi sulla città e forti raffiche di vento fecero tremare violentemente i vetri delle finestre. «Voglio un temporale,» disse Karen. «Un temporale pieno di tuoni e di lampi.» «Potresti dipingerne uno,» suggerì Frank. Karen si girò verso di lui. «Credi che un solo pomeriggio potrebbe cambiare qualcosa?» «Sì, quel pomeriggio sì,» disse Frank, stringendola fra le braccia. 24 Era tardi quando Karen se ne andò e Frank, seduto sul divano a guardare il quadro, sentiva ancora il calore del corpo della ragazza che fino a pochi minuti prima aveva stretto fra le braccia. Karen gli aveva detto ancora una volta che avrebbe lasciato quella città piena di fantasmi. Mentre continuava a osservare il quadro, Frank fu colpito dal fatto che Karen non aveva dipinto i fiori, né il vaso blu, ma l'apparenza spettrale di quegli oggetti. Era come se lei fosse stata in grado di avvertire il battito sempre più flebile di ogni foglia, di ogni petalo, ed era riuscita a catturare l'impressione della vita che fugge. Frank aveva comperato il quadro perché l'aveva dipinto Karen e perché pensava che forse avrebbe portato un po' di allegria nella sua casa. Ma ora in quel dipinto non riusciva a vedere altro se non tristezza e un doloroso senso di abbandono e di addio. Andò in cucina e si preparò una cena veloce, fagioli e pancetta quasi
bruciata. Li mangiò accompagnandoli con una sola fetta di pane bianco. Era un pasto da scapolo, senza allegria, e ogni boccone aveva il gusto di una vita che ormai non aveva più sapore. Ritornò in soggiorno e si sedette sul divano. Aveva bisogno di guardare la sua vita come un'entità unica e completa, come se fosse possibile rappresentarla con un'unica tonalità e colore. Ma niente rimaneva immutato. Niente, tranne il suo lavoro, la sua ricerca vaga e indefinita di qualcosa che potesse essere chiamata giustizia o, per lo meno, punizione. Le persone dovevano pagare per le loro azioni e Frank era quello che andava a riscuotere. Era il distintivo che gli dava il diritto di farlo e si rese improvvisamente conto che voleva aggrapparsi a esso con tutta la forza rimastagli. Niente poteva riportare in vita Sarah, Angelica od Ollie Quinn, o uno qualsiasi delle centinaia di corpi lacerati che rivedeva nella mente, i cui spiriti si aggiravano irrequieti intorno a lui. Erano più reali per lui di tutte le creature viventi che affollavano le strade della città. Vivevano più pienamente nella sua mente e la loro carne era più calda e tangibile. Sanguinava continuamente, come se il grande cuore dei morti ingiustamente battesse ancora negli animi, le loro grida riecheggiassero ancora nel tempo, simili a un gemito proveniente dalle viscere della terra o a un urlo che risuonava lontano. Prese una bottiglia dalla credenza, ritornò sul divano e bevve una lunga sorsata. Avvertì immediatamente il calore dell'alcol nel corpo e cominciò a rilassarsi. Fece per riempirsi nuovamente il bicchiere, ma si fermò. Sapeva che se ne avesse bevuto un altro, ne sarebbero seguiti altri ancora finché tutto intorno a lui sarebbe stato confuso. E al mattino si sarebbe ritrovato sul pavimento, con la bocca impastata e con la sensazione che la testa gli potesse scoppiare da un momento all'altro, spargendo il contenuto sul pavimento di legno. Appoggiò la bottiglia sul tavolino vicino al divano e guardò il quadro. Il pomeriggio era trascorso ed era sopraggiunta l'oscurità, ma niente di quello che era successo aveva convinto Karen a rimanere. Lei stava per andarsene, come tutto il resto, e così ancora una volta non gli sarebbe rimasto altro che il lavoro. Aveva perso tutto. Bambini, mogli, donne che amavano per poche dolcissime ore e poi prendevano aerei per andare in città lontane. Il quadro era perfetto. Ciò che ha vita è destinato ad appassire. Di ogni uomo restano solo le sue azioni, il suo lavoro. Tutto il resto è un'illusione. Prese il taccuino e cominciò a sfogliarlo. Una pagina dopo l'altra, cercando avidamente tra le righe un dettaglio degno di nota. Aveva descritto
il campo abbandonato, la macchina arrugginita, il corpo meraviglioso adagiato in quella squallida tomba. Lesse annotazioni su tutori e fondi fiduciari, scuole private e commedie, sogni di recitazione e progetti di trasferimenti a New York. Una dopo l'altra, le pagine passarono sotto i suoi occhi. Lesse, rilesse e lesse ancora gli appunti sulla stanza di una ragazzina, su un telefono usato una sola volta, il quindici maggio. Lesse di una gravidanza e di un giro di notte a Grant Park. Parcheggiò ancora la macchina con lei davanti al Cyclorama. Poi con lei andò su e giù per alcune squallide viuzze, fino al vicolo dove fece l'amore senza gioia e con una rabbia frenetica. Cercò ancora una volta nel suo armadio senza trovare i vestiti con i quali l'avevano vista in diversi posti. Le sue dita spostarono le candide gonne e camicette, alla ricerca dei pizzi e dei velluti neri che facevano parte della sua vita segreta. Parlò ancora una volta con un pittore morente e poi con la donna che lo aveva amato inutilmente per tutta la vita. Ascoltò il suo inno all'arte e i suoi sforzi per procurare un lavoro dignitoso agli artisti che si affidavano a lei. Continuò a leggere, finché le parole divennero un'unica riga indistinta e infine si addormentò. I tuoni lo svegliarono. Venivano da lontano e riecheggiavano nell'aria, riempiendo la città di un basso lamento baritonale. Si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Non pioveva più, ma dall'aria pesante si avvertiva che avrebbe ripreso presto, con maggiore intensità e violenza, un torrente in piena. Frank pensò agli animali nello zoo di Grant Park con il folto pelo bagnato fradicio, lo sguardo perso per il parco vuoto. La sua mente vagava per le gabbie dello zoo, sulle montagnette circostanti, attraverso la palude fino a dove il Cyclorama riposava sulla terra nuda. Vedeva il suolo inzuppato d'acqua attorno all'edificio, il mare di fango che sicuramente circondava la grande costruzione in granito. Quello era l'unico posto dove lei si era fermata quella notte, l'unico posto dove aveva indugiato. Aveva parcheggiato davanti al muro, dando un'occhiata, di tanto in tanto, allo specchietto retrovisore, e poi di nuovo davanti a sé, con gli occhi sempre fissi sull'angolo dell'edificio. Abbassò la tapparella con un rumore sordo. Poi, uscito sul balcone, guardò verso il parco. Da casa sua non riusciva a vederlo, ma sapeva che era là, invaso dall'acqua, deserto, a eccezione dei pochi senzatetto che cercavano rifugio sotto gli alberi maestosi. Alcuni di essi crescevano intorno al Cyclorama e s'immaginò Angelica seduta sotto uno di essi mentre pensava alla mossa successiva. Vide Angelica lasciare il parco e percorrere un
paio di volte una strada particolare per poi dirigersi nel vicolo. Frank cercò di mettere in ordine sequenziale gli avvenimenti: fermata al Cyclorama, attesa per pochi minuti, giro in macchina avanti e indietro per una via e poi fermata definitiva nel vicolo. Frank aveva la sensazione che Angelica avesse deciso di andare in quella viuzza solo dopo non aver trovato quello che cercava nella via. Ma di quale strada si trattava? Sfogliò il taccuino, trovò il numero di telefono di Stan Doyle Junior e lo chiamò immediatamente. «Pronto.» «Stan, sono Frank Clemons.» «Oh,» farfugliò il ragazzo, «sì, salve.» «Ho bisogno del tuo aiuto.» «Cioè?» «Voglio fare un giro con te nella zona di Grant Park.» «Ma le ho già detto tutto quello che sapevo.» «Voglio che mi mostri con precisione dove siete andati tu e Angelica quella notte.» Il ragazzo sembrò pensarci un attimo. «Be', va bene,» disse infine. «Ti passo a prendere fra mezz'ora,» lo avvertì Frank. Si diresse verso la macchina, girandosi a guardare la casa mentre si sedeva al volante. Qualcosa lo colpì, improvvisamente e, mentre continuava a guardare la vecchia casa, si rese conto di aver sempre avvertito uno strano senso di dolore aleggiare sull'edificio, come se qualche antica offesa fosse penetrata e fosse stata assorbita dal legno, trattenuta per sempre come una macchia profonda e indelebile. Non appena Frank entrò nel vialetto, Stan corse velocemente verso la macchina. «Mio padre ritorna domani mattina,» disse senza fiato. «Stavo cercando di mettere un po' d'ordine.» «Ti riporto indietro subito,» disse Frank, girando la macchina verso la strada. «Lo spero. Ho da fare un sacco di cose.» «Voglio solo rifare il giro che hai fatto con Angelica quella notte,» gli spiegò Frank. «Forse ti verrà in mente qualcosa di nuovo.» «Sì, d'accordo,» disse Stan. «Nessun problema.» Ci volle circa mezz'ora per arrivare a Grant Park. La pioggia aveva rinfrescato notevolmente l'aria e l'umidità sulle foglie, sotto la luce dei lam-
pioni, sembrava di ghiaccio. «Voglio solo ripetere i vostri spostamenti di quella notte,» proseguì Frank, dirigendosi all'angolo della Sydney con il Boulevard. «Ha girato a destra a quest'incrocio, è così che ci hai detto, vero?» «Sì.» «Ne sei sicuro?» «Ha girato qui,» rispose Stan con sicurezza. «Ne sono sicurissimo.» «E poi?» «Ha proseguito per questa strada sino alla fine del parco,» disse Stan, «poi ha girato a sinistra.» «Si è fermata da qualche parte?» domandò Frank. Stan scosse la testa con decisione. «No, ha costeggiato tutto il parco.» «Dopodiché?» «Ha girato intorno al parco.» «Quante volte?» «Tre, forse quattro. Non ne sono sicuro.» Frank premette lentamente l'acceleratore. «Va bene, ripetiamolo,» disse. La macchina girò a sinistra lasciando Cherokee e costeggiò il parco. Alla fine, Frank girò a sinistra, e poi, all'angolo, ancora a sinistra. «È quello che ha fatto anche Angelica, giusto?» chiese a ogni svolta. «Esatto.» Frank percorse il Boulevard, questa volta nella direzione opposta, facendo un giro completo intorno al parco. «Lei ha fatto così,» disse Stan, mentre Frank riportava la macchina verso Cherokee. «E lo ha fatto per tre volte?» domandò Frank. «Sì.» «Si comportava come se stesse cercando qualcuno?» «No.» «Si guardava intorno, a destra e a sinistra?» «No, teneva gli occhi sulla strada.» «Okay,» continuò Frank. «Poi che cosa è successo?» «Si è diretta nel parco.» «Dove?» «Sulla strada che porta al Cyclorama,» rispose Stan. Frank fece ancora un giro intorno al parco, poi girò a sinistra sulla strada tortuosa che portava al Cyclorama. «Dove ha parcheggiato, esattamente?» domandò.
Stan indicò verso sinistra. «Là, vicino al muro,» disse. «Di fronte?» «Sì.» «Fammi vedere il punto esatto.» «Dove c'è quel cartello,» spiegò Stan. «Ha posteggiato proprio lì davanti.» Frank mise la macchina nella posizione esatta. Un immenso cartello impediva di vedere oltre. Era bianco con una scritta in rosso: OPERE DI RESTAURO DEL CYCLORAMA DIVISIONE DEI BENI AMBIENTALI CITTÀ DI ATLANTA «Avrà letto quel cartello centinaia di volte quella notte,» disse Stan, mentre Frank spegneva il motore. «Quanto si è fermata qui?» domandò Frank. «È difficile dirlo. Forse dieci minuti. Forse un po' di più.» «Hai detto che continuava a guardare nello specchietto retrovisore, è esatto?» «Sì.» Frank diede un'occhiata al proprio specchietto retrovisore. La strada a curve che portava al Cyclorama era chiaramente visibile. «Non è arrivata nessun'altra macchina, mentre eravate qui?» chiese. «No,» affermò Stan. «C'eravamo solo Angelica e io.» «Non hai visto altre luci?» «No. Niente.» Frank distolse lo sguardo dallo specchietto e guardò davanti a sé. Dietro il cartello non c'era nient'altro che un campo fangoso. Vide i resti dei materiali utilizzati per il restauro, blocchi di cemento, assi di legno, pile di stracci inzuppati d'acqua. Distingueva il lato nord dell'edificio, bianco e nero, con una porticina sul retro. Un immenso mucchio di stracci strappati e sporchi di vernice giaceva fuori della porta. Diverse casse da imballaggio e latte di vernice vuote erano sparpagliate per terra, assieme ai tubi di metallo rotti delle impalcature. Sembrava un luogo saccheggiato e poi abbandonato alla devastazione della pioggia. «Allora, siete rimasti seduti qui una decina di minuti,» affermò Frank. «Sì.» «Poi che cosa avete fatto?»
«Ce ne siamo andati. Ha sgommato. Voglio dire, è schizzata fuori di qui. Mi ricordo di aver visto una nuvola di polvere sollevarsi dietro di noi.» «Ha sgommato?» «Sì, e anche tanto rumorosamente, da svegliare l'intera città.» Stan indicò verso destra. «Ha girato intorno a quello spiazzo e si è diretta a tutta velocità fuori del parco.» Frank accese il motore e ricondusse la macchina sulla strada principale. «Da che parte ha girato?» domandò. «A sinistra.» Frank svoltò. «Avete fatto un altro giro intorno al parco?» «No,» disse Stan. «Lo ha percorso sino alla fine, ha girato a sinistra e si è diretta giù per quella strada.» «Bene,» disse Frank. «Torna indietro.» «Mi ricordo solo che andava diritto,» spiegò Stan. Frank proseguì nella direzione indicatagli. Girò a sinistra alla fine del parco, poi lo costeggiò quasi tutto, incontrando un solo semaforo. «Ha girato qui,» affermò Stan, indicando una strada sulla destra. Frank svoltò nella Ormewood Avenue. «È andata diritta, come stiamo facendo adesso,» disse Stan eccitato. «Sta diventando interessante. È sempre così il lavoro di un poliziotto?» Frank tenne gli occhi fissi sulla strada. «No,» rispose. Proseguì nella stessa direzione, incontrando un semaforo, poi un altro, finché si trovò di fronte a un dosso e cominciò a salire. «Mi ricordo,» esclamò improvvisamente Stan. Frank levò il piede dall'acceleratore. «Che cosa?» «Siamo passati di qua.» «Come fai a saperlo?» «C'è un piccolo avvallamento in fondo. È dove abbiamo girato.» Frank scese lentamente. La macchina ebbe un sobbalzo che Frank avvertì come un pugno nello stomaco. «A destra! A destra!» urlò Stan. Guardò Frank tutto eccitato. «È quella la via. Quella che ha percorso un paio di volte avanti e indietro.» Frank svoltò a destra, poi si fermò e lesse il nome della via: Mercer Place. Quando si girò verso Stan, il viso del ragazzo era pallido. «È questa, ne sono sicuro,» disse lentamente. «Mi ha portato avanti e indietro un paio di volte. Poi siamo andati nel vicolo.» Tremò leggermente. «Mi fa venire i brividi.» Frank girò lentamente in Mercer Place e cominciò a percorrerla.
«Sembrava interessata a una casa in particolare?» domandò. Stan scosse la testa. «No. Teneva lo sguardo fisso davanti. Ma aveva una strana espressione in viso, come se stesse sforzandosi di non guardare da nessuna parte.» «Ha detto qualcosa?» «No.» Frank guardò a destra e a sinistra continuando a guidare lentamente lungo la via. Era fiancheggiata da case piccole e fatiscenti. Alcune tendevano in una dilezione, altre in quella opposta, ma sembrava che tutte volessero liberarsi di un pesante fardello che gravava sui loro tetti. Era quasi mezzanotte quando Frank rientrò a casa. Era passato un attimo dal Bottom Rail, per rendersi conto se ne subiva ancora il fascino. Scoprì che ormai lo lasciava indifferente, ma non sapeva con che cosa sostituirlo se non con un bicchierino bevuto sdraiato su un divano sudicio, con lo sguardo fisso su un vaso di fiori. Il taccuino verde giaceva ancora dove lui lo aveva lasciato quella mattina, accanto alla bottiglia sul tavolino vicino al divano. Lo prese immediatamente e ricominciò a sfogliarlo per l'ennesima volta. Fatti e supposizioni affollavano la sua mente. Vide gente e posti reali: Cummings, Morrison, Jameson e Theodore; uffici, stanze grandi e piccole, studi in disordine. Gli tornò in mente il ritratto di Angelica, dipinto da Karen, che si sovrappose, contro la sua volontà, al vaso di fiori. Fantasmi. Una città di fantasmi. Pensò a Linton, a Miriam Castle, alla stradina lastricata che si snodava dalla fine del parco. Vide il muro, il terreno fangoso, la porticina e i mucchi di stracci macchiati. Poi, improvvisamente, ebbe una folgorazione. Si sedette lentamente e, di colpo, la confusione che gli aveva annebbiato il cervello scomparve, lasciando il posto a una lucida e precisa visione dei fatti. 25 Il mattino seguente, alle nove, Frank era davanti al Cyclorama. Prese il distintivo dalla tasca e lo appoggiò sulla scrivania. Luccicava come fosse stato d'oro puro sotto la luce della lampada. «Vorrei vedere David Curtis,» disse. «Il signor Curtis è occupato in questo momento,» rispose l'uomo. Indossava una divisa blu con un grande distintivo di latta sul davanti, che riportava a caratteri vivaci il nome della società di vigilanza per cui lavorava. «Dov'è?» chiese Frank.
«Sulla rotonda.» «Vai a chiamarlo,» ordinò Frank. «Al signor Curtis non piace essere disturbato quando lavora,» spiegò l'uomo. Frank afferrò il distintivo e lo strappò via. «Ehi, amico,» gridò la guardia. Frank gettò il distintivo per terra. «Non mi spavento certo per un pezzo di latta. Li vendono persino nei negozi di giocattoli.» La guardia tastò la stoffa strappata della giacca. «S'incazzeranno molto quando lo vedranno, amico.» Frank afferrò uno dei bottoni della giacca della guardia e lo tirò con forza. «Come si fa ad arrivare alla rotonda?» chiese. L'uomo lo guardò con aria rassegnata. «Attraversi la stanza alle mie spalle e prosegua oltre le doppie porte.» Frank lo lasciò andare, passò davanti alla scrivania e si diresse verso la porta che conduceva alla rotonda. Era molto grande e completamente buia. Di fronte vide una miniatura che rappresentava la furia terribile della battaglia di Atlanta: un'immagine della disperata lotta condotta sulle rovine fumanti della principale città del sud. Gli sembrava quasi di avvertire il calore delle fiamme e di sentire il boato dei cannoni. Sul plastico aleggiava un'atmosfera di dolore e di terrore e la sofferenza avvolgeva come un manto scuro i minuscoli alberelli. «Posso esserle utile, signore?» La voce era quella di un uomo alto e leggermente curvo, seduto vicino a uno dei modelli, un soldato dell'unione, grande la metà di lui. «Sto cercando David Curtis,» disse Frank. «Sono io,» rispose l'uomo. «Fuori, sul cartello, ho letto che è lei il responsabile delle opere di restauro del Cyclorama.» «Sì, è vero,» disse Curtis. «Ma se sta cercando un lavoro, devo purtroppo avvisarla che non abbiamo più posti disponibili.» «Non sto cercando lavoro,» spiegò Frank, mostrando il distintivo. Curtis si sporse leggermente in avanti. «Che cos'ha in mano?» chiese. «Con questa luce e con i miei poveri occhi...» Frank si avvicinò. «Frank Clemons. Polizia.» L'uomo strizzò gli occhi. «Oh, sì.» Si allontanò di qualche metro e accese un interruttore. Una luce grigiastra simile all'acciaio inondò improvvisamente la rotonda. «Così va meglio, non crede?»
Frank annuì. Curtis andò verso di lui. «Dunque, che cosa c'entra la polizia?» «Sto indagando su un caso di omicidio,» spiegò Frank. Guardandosi attorno, si rese conto di essere proprio al centro della battaglia che sembrava infuriare con ferocia attorno a lui, tra nuvole di polvere e costruzioni distrutte: era orribile persino vista in miniatura. «Strano, non crede?» chiese Curtis con calma. «Che cosa?» «Questo posto.» «Sì, un po'.» «A volte mi ritrovo a piegarmi velocemente per evitare una pallottola diretta verso di me.» Era un paesaggio infernale e mentre gli occhi di Frank indugiavano sulla scena, quella stessa desolazione lo avvolse come una nuvola minacciosa. Era come se ogni grido di dolore o di sofferenza si fosse radunato in quella stanza, come se la follia dei secoli passati si fosse improvvisamente condensata in una pallottola straziante. «Mio Dio,» mormorò. Curtis lo guardò incuriosito. «Non era mai stato qui prima d'ora, vero?» «No.» «La maggior parte della gente lo osserva dalle tribune,» spiegò Curtis. «È molto diverso visto da quaggiù.» Prese gentilmente Frank per un braccio. «Venga, andiamo nel mio ufficio.» Frank lo seguì lentamente in una piccola stanza sul retro della rotonda. Era piena zeppa di minuscoli modellini di soldati e di equipaggiamenti militari, piccole bandiere che sventolavano in un vento invisibile. Pezzi di terra bruciata e resti di alberi incendiati. Curtis sedette dietro la scrivania. «Dunque, mi stava parlando di un omicidio?» «Sì,» rispose Frank. «Una ragazza.» Allungò a Curtis la foto di Angelica. «Eccola.» Curtis avvicinò la foto agli occhi. «Ho rotto gli occhiali ieri,» spiegò. «Questo pomeriggio ne avrò un altro paio, ma per ora mi sento un po' menomato.» «La riconosce?» chiese Frank. Curtis scosse la testa. «No. Chi è?» «Angelica Devereaux.» «Oh sì, era sui giornali qualche giorno fa.»
«Esatto,» proseguì Frank. «Il suo corpo è stato trovato poco lontano da qui.» «Davvero? Mi era sembrato che il giornale parlasse di Glenwood.» «Ha un'ottima memoria,» disse Frank. «Sì, lo so.» Curtis restituì la foto a Frank. «Il giornale si è sbagliato?» «No,» disse Frank, «ma sto cercando di ricostruire i suoi movimenti nei giorni precedenti alla sua morte. Una sera, è venuta qui.» Curtis parve sorpreso. «Qui? Ma il Cyclorama è chiuso fino al termine delle opere di restauro. Non avrebbe potuto entrarvi.» «Non è entrata nell'edificio,» proseguì Frank, «ha posteggiato qui fuori.» Curtis sorrise. «Oh, capisco. Be', non è molto strano. Il parco è aperto a tutti. È giusto che sia così.» Osservò Frank. «Lei, meglio di molti altri, dovrebbe sapere che recentemente i parchi sono caduti nelle mani degli elementi peggiori della città.» Sorrise allegramente. «Ma li stiamo riconquistando. Sta succedendo un po' dappertutto. A New York, a Boston, ovunque. E, ad Atlanta, parte di questi sforzi si sono concretizzati nel restauro del Cyclorama.» «Ma pare che la ragazza sia venuta qui per un motivo ben preciso,» continuò Frank. «Che motivo?» «Non lo so,» rispose Frank, prendendo il taccuino. «Lei è qui di notte, signor Curtis?» «A volte,» disse Curtis. «Amo questo lavoro. Mi riporta indietro nella storia.» «E gli altri?» «Chi sarebbero gli altri?» «Le persone con cui lavora.» «Be', gli addetti alla manutenzione arrivano verso le sette, ma di solito se ne vanno prima delle nove.» «E gli uomini della sorveglianza?» «Vengono solo di giorno.» «Come mai?» «È per la nostra sicurezza personale,» spiegò Curtis, «nel caso in cui qualcuno cercasse di entrare.» «Ma non avete paura che i ladri possano irrompere durante la notte?» chiese Frank. Curtis sorrise. «Qui non c'è nulla da rubare,» rispose con calma. «A eccezione della storia umana. E, ovviamente, non è qualcosa che si possa
portar via.» «Per quanto riguarda gli artisti che usate per i lavori di restauro, be', vengono qui di sera?» «Qualche volta,» rispose Curtis. «Hanno la chiave della porta sul retro.» «E la usano tutti quelli che lavorano qui?» «Naturalmente.» Frank prese nota, poi alzò lo sguardo. «La ragazza conosceva molto bene questa zona,» spiegò, «e non riusciamo a capire come facesse.» Curtis lo osservò attentamente. «Quindi non credete che il corpo sia stato solo scaricato?» chiese. «È stato scaricato,» precisò Frank, «ma questo non spiega il fatto che conoscesse tanto bene questa zona.» Curtis scosse lentamente la testa. «Vorrei poterla aiutare, signor Clemons.» «Ha mai visto una BMW rossa parcheggiata qui fuori?» «No,» rispose Curtis, «ma questo non significa molto. Non l'avrei comunque notata. Avrei potuto notare un vecchio modello, un'auto con un certo carattere. Ma queste nuove macchine sportive... no, non le noto proprio.» Gli occhi caddero sulla foto di Angelica. «Un viso stupendo,» disse in tono sommesso. «Non appariva sempre com'è in quella foto,» aggiunse Frank. Curtis alzò lo sguardo, perplesso. «Che cosa vuole dire?» «A volte si vestiva in modo strano e si pettinava in maniera completamente diversa.» «Perché?» «Non lo sappiamo,» rispose Frank. Curtis tornò a osservare la foto. «È così triste la vita.» Alzò gli occhi verso Frank. «È questa la tragedia. Abbiamo solo una vita, ed è anche breve.» Sorrise con aria solenne. «Penso sempre a questo mentre cammino nel diorama. Tutta quella gente che sta morendo.» Scosse la testa sconsolatamente. «Se pensiamo a loro come a un gruppo, la morte non sembra gran cosa. Ma se consideriamo il fatto che ognuno di loro sta per perdere l'unica vita a sua disposizione... be', signor Clemons, direi che è davvero insopportabile.» Prese uno dei soldatini appoggiati sulla scrivania e lo rigirò lentamente fra le mani. Era un soldato della Confederazione, con l'uniforme grigia strappata da una fucilata e le braccia all'indietro, con l'espressione di chi muore improvvisamente e in modo inaspettato. «Chi era quest'uomo? E perché è morto così? È questo il vero mistero.» Gli occhi scivolarono ver-
so Frank. «Questo è il mio cadavere e io lo considero come lei considera quella ragazza.» Rimise il soldatino al suo posto. «Vorrei poterla aiutare, ma non l'ho mai vista. Purtroppo è la triste realtà.» Si alzò. «Ho molto lavoro da sbrigare, signor Clemons, quindi, se non...» «Un'ultima cosa,» lo interruppe Frank. «Conosce una donna di nome Miriam Castle? Curtis parve sorpreso nell'udire quel nome. «Sì. Perché?» «Mi ha detto che a volte procura qualche lavoro agli artisti locali.» «Sì, è vero.» «Ha ottenuto qualche posto da lei?» «Vuole dire per le opere di restauro?» «Sì.» «Ha cercato di ottenere qualcosa per Derek Linton,» disse Curtis, «ma lui non avrebbe mai accettato di lavorare a questo progetto. Secondo lui sarebbe stato come esaltare la guerra.» «E qualcun altro?» «Be', abbiamo tre artisti locali che lavorano qui al Cyclorama,» rispose Curtis. «Per locali lei intende artisti che abitano ad Atlanta, vero?» «Sì.» «Allora il cerchio si restringe a due,» continuò Curtis. «Gli altri vengono tutti da fuori.» «Ma due abitano in città?» «Sì.» «È stata Miriam Castle a raccomandarglieli?» Curtis rifletté un attimo. «No, non credo,» fece poi. «Teneva molto a Linton, ma non mi pare che abbia proposto altre persone per questo lavoro.» «E questi due artisti,» continuò Frank, «chi sono?» Curtis prese un foglio appoggiato sulla scrivania. «Questo è l'elenco di tutte le persone che lavorano a questo progetto.» Porse il foglio a Frank. «Spero le sia utile.» Frank fece correre gli occhi sulla lista di nomi e di indirizzi. Molti degli artisti provenivano da altri stati: Washington, Boston e New York. C'erano solo sei artisti locali. Uno viveva a Doraville, uno a Marietta, e uno a Hapeville, un sobborgo a sud di Atlanta. Due abitavano in città. E uno viveva in Mercer Place. Frank alzò gli occhi dal foglio. «Chi è Vincent Toffler?» «Si occupava soprattutto dei ritocchi,» rispose Curtis.
«Si occupava? Vuol dire che non lavora più qui?» «La parte del progetto che lo riguardava si è conclusa una settimana fa,» spiegò Curtis. «Abita ancora a questo indirizzo di Mercer Place?» «Sì, per quanto ne so io.» Frank trascrisse l'indirizzo sul taccuino. «Lo conosce bene?» «Direi per niente.» «Ha una sua foto?» «Ce n'è una nello schedario del personale.» «Le spiace se la prendo io?» «Si figuri,» disse Curtis. «Tanto ormai ha finito qui da noi.» Si diresse verso un armadietto che conteneva gli schedari e prese la foto di Toffler. Era un giovane alto, magro e con i capelli ricci e biondi. Indossava un paio di jeans e una camicia di flanella e aveva in mano un pennello. «Grazie,» disse Frank mettendo in tasca la fotografia. «È un piacere, signor Clemons,» esclamò Curtis. «Lasci che l'accompagni.» Frank girò la testa verso la parte anteriore della costruzione. «No, no,» si affrettò ad aggiungere Curtis. «Useremo la porta sul retro.» Afferrò Frank per un gomito e lo spinse delicatamente verso destra. Uscirono da una porta laterale sbucando sul lato nord dell'edificio. Gli stracci bagnati erano ancora ammassati vicino al gradino di cemento e osservando l'area del parcheggio si rese conto che Angelica aveva posteggiato proprio in linea retta con la porta. «Se uno degli artisti lavora fino a tardi,» disse a Curtis, «deve per forza usare questa porta per entrare e uscire?» «Sì,» rispose Curtis, «visto che dopo le cinque l'ingresso principale è chiuso.» Lanciò un'occhiata al parco e poi verso l'alto muro grigio che circondava il Cyclorama. «Questo restauro porterà risvolti positivi a tutta la zona,» disse. «Può essere utile,» ammise Frank, incamminandosi verso la macchina. «Questo quartiere ha una storia molto antica, lo sapeva?» chiese Curtis. Frank scosse la testa continuando a camminare. «Qui sotto c'era un enorme cimitero,» continuò Curtis. «L'abbiamo scoperto durante gli scavi.» «Quali scavi?» «Quando hanno messo le prime tubazioni,» spiegò Curtis. «È stato allora che hanno scoperto alcune zone. Gli operai hanno trovato moltissime os-
sa.» Fece un cenno con il capo in direzione di Waldo Street. «Specialmente laggiù, nella parte oltre il Boulevard.» Gli occhi di Curtis si fecero più scuri. «Gli operai hanno avvisato la polizia. Dopotutto non erano archeologi e nemmeno antropologi. Era uno strano ritrovamento: una montagna di ossa. Ossa umane.» Tornò a fissare Frank. «Tutte donne. Tutte adolescenti.» Frank sentì la testa che gli girava. «Quindi, più che un cimitero,» continuò Curtis, «pensiamo che si trattasse di un luogo di sacrificio. Per esempio, non c'erano tracce di colpi o di fratture al cranio. Probabilmente hanno tagliato loro la gola.» A Frank parve di scorgere quelle ragazze che si accasciavano a terra, morendo lentamente dissanguate. Vide le lame che incidevano le gole morbide e scure, e l'ondata di sangue tiepido che scorreva sui seni nudi. L'acuto gemito di quefle creature sembrava diffondersi nell'aria circostante. 26 Frank fece cadere la fotografia sulla scrivania di Caleb. «Si chiama Vincent Toffler.» Caleb osservò la fotografia. «Okay.» Alzò lo sguardo. «Vuoi dirmi cosa c'è d'altro?» «La notte in cui Angelica è andata a fare una passeggiata con quel Doyle, si è fermata al Cyclorama. Ho sempre pensato che stesse aspettando qualcuno, ma mi sbagliavo. Penso invece che volesse farsi vedere da qualcuno.» Caleb picchiettò il dito sulla foto. «Questo tipo?» «Sì.» «Vai avanti.» «Dopo aver lasciato il Cyclorama, si è diretta verso Mercer Place. L'ha percorsa in macchina su e giù per un po' di volte. Di nuovo, come se volesse essere vista da qualcuno.» «E questo tipo vive in Mercer Place?» chiese Caleb. «Sì,» rispose Frank. «Lavora al Cyclorama e vive in Mercer Place. Da dove ha posteggiato, Angelica riusciva a vedere una piccola porta sul retro dell'edificio.» «Calma, Frank,» disse Caleb. «Quale edificio?» «Il Cyclorama,» continuò Frank, preciso. «Questa porta è l'entrata degli
artisti, quella che Toffler avrebbe usato sia per entrare che per uscire.» Caleb annuì lentamente. «Così sappiamo che è collegato al Cyclorama e a Mercer Place.» Poi sorrise con aria indulgente. «Non è male, Frank, ma sono solo indizi.» «E c'è un'altra cosa,» aggiunse Frank. «Tre delle gallerie situate nel vicolo vicino a Grant Park, danno sulla strada. Angelica è stata vista in due di queste. L'unica nella quale non sembra essere entrata è quella che espone i lavori di Toffler.» Caleb si grattò la guancia pensieroso. «Sono ancora indizi, ma vale la pena di controllare.» Si alzò in piedi. «Sarà un divertimento. È da anni che non vado al Cyclorama.» «Ma non lavora più lì,» spiegò Frank. «Ha terminato il suo lavoro una settimana fa.» «Allora andiamo a Mercer Place,» sospirò Caleb. «Sì.» Caleb, rassegnato, respirò profondamente. «Mio Dio, odio andare a prendere un tizio a casa.» Dopo pochi minuti si trovarono davanti alla casa di Mercer Place. Era una piccola struttura con profili in legno che sembrava fosse stata completamente ristrutturata. La parete bianca esterna, dipinta di fresco, brillava nel sole della tarda mattinata, ma l'interno era completamente buio e il viale adiacente vuoto. «Non vedo niente che si muova là dentro,» osservò Caleb, mentre guardava la casa. «Sembra che non ci sia nessuno.» «Non abbiamo abbastanza prove per un mandato di perquisizione,» fece notare Frank. Caleb lo guardò. «Non riesci a scovare qualcosa così, su due piedi?» «No.» «Allora dobbiamo solo aspettare che ritorni.» «Possiamo intanto dare un'occhiata qui fuori,» propose Frank. «Okay,» disse Caleb. «Ma assicuriamoci che non ci sia nessuno prima di curiosare qui intorno.» I gradini di legno appena riparati non scricchiolarono quando i due salirono verso la veranda. «Questo tipo si è sistemato piuttosto bene,» constatò Caleb, mentre prendeva posizione a sinistra della porta. Aspettò un momento, poi bussò. Nessuna risposta. Aspettò ancora, poi bussò di nuovo.
Nessuno venne ad aprire, e nemmeno il più piccolo rumore giunse dall'interno della casa. «Penso che sia fuori,» disse Caleb. «Sì.» Scesero le scale insieme poi si divisero: Frank girò sul lato sinistro della casa e Caleb andò a destra. Le fondamenta erano basse, quindi, muovendosi lungo il perimetro della casa, Frank poteva facilmente vedere attraverso le finestre. La stanza principale aveva pochi mobili, ma ogni cosa era sistemata in modo ordinato e razionale. C'erano un divano blu abbinato a una poltrona dello stesso colore, un tappetino intrecciato e una sedia a dondolo di legno. Attraverso l'oscurità dell'interno, Frank riuscì a vedere la faccia di Caleb che osservava la stessa stanza dall'altro lato della casa. Abbozzò un sorriso, poi fece un cenno indicando dietro di sé ed entrambi si avviarono verso il retro della casa. La finestra successiva era molto più piccola e la tenda era tirata a metà. Si trattava del bagno e Frank lo superò velocemente, passando alla terza finestra che era posta un po' più in alto rispetto al terreno. Non ebbe difficoltà a guardare oltre il davanzale: scorse una cucina più grande di quanto si fosse aspettato, sistemata in modo piacevole, con mensole lungo la parete principale di fronte alle quali si trovavano un angolo cottura e un frigorifero. Vide di nuovo la faccia di Caleb che lo guardava dalla parte opposta. Per un attimo sembrò svanire lentamente, poi si divise in mille pezzi come una scultura che si sgretola, e Frank dovette sbattere più volte gli occhi per rimetterla insieme. «Niente di strano qui attorno,» comunicò Caleb quando si riunirono sul retro. «No,» disse Frank. «Assolutamente nulla.» «La camera da letto è oltre il bagno,» aggiunse Caleb. «Solo un letto ordinato e un armadio aperto.» «Non c'è dentro niente?» «Solo ciò che ti aspetteresti di trovare. Vestiti.» «Allora probabilmente vive ancora qui,» disse Frank. «Sì. Questo è già un vantaggio.» Frank girò lo sguardo nel cortile. C'era una piccola costruzione vicino alla cancellata sul retro. In passato, doveva essere stato un garage. «Diamo un'occhiata,» propose. Era una piccola casetta di legno e su una parete era stata tolta la vernice, come se qualcuno l'avesse scrostata per ridipingerla. Le due finestrelle e-
rano chiuse dalle tendine tirate. «Le tende erano aperte in casa,» fece notare Caleb. «Perché qui no?» Frank si avvicinò alla porta. Guardò Caleb. «Che cosa vuoi fare?» «Stai indietro, Frank,» disse Caleb senza esitare. Poi alzò la gamba e diede un calcio alla porta. L'intera costruzione tremò quando la porta si aprì di colpo e si abbatté sul muro interno. L'interno era completamente buio e Frank ebbe un attimo di esitazione. Avvertiva una sensazione di morte, come se un fumo spesso gravasse sull'aria intorno a lui, e quando finalmente entrò nell'oscurità, sentì che la vita stessa stava frantumandosi come terra arida sotto i piedi, dissolvendosi in polvere. «Cerchiamo la luce,» disse Caleb. Frank si mosse rapidamente verso una delle piccole finestre e aprì le tende. Un fascio di luce argentea invase la stanza. Caleb aprì una seconda tenda e l'aria intorno a loro s'illuminò, rivelando uno studio d'artista pulito e ordinato. A una parete erano appoggiate numerose tele. Al centro della stanza stava un piedistallo dal quale s'innalzava un modello di gesso di donna nuda, una scultura non ancora finita. A destra, era appeso un dipinto enorme che bloccava una finestra, ma che veniva illuminato dall'altra. Rappresentava una giovane donna vestita di un sottile velo. Le bianche gambe affusolate s'intravedevano attraverso il vestito e, alzando lentamente lo sguardo, Frank vide le pallide cosce, poi il seno piccolo e rotondo e, seguendo il collo sottile, un viso scolpito così magnificamente che si rese improvvisamente conto di non aver mai notato la sua radiosa bellezza prima di allora. «Angelica,» esclamò estasiato. Caleb si volse verso il dipinto. Le sue labbra si aprirono leggermente, ma non disse nulla. «È stata qui,» disse Frank, quasi fra sé e sé. «È venuta qui spesso.» «Sì,» ripeté Caleb. Frank tolse gli occhi dal dipinto. Vicino c'era un armadio di legno. Si avvicinò e lo aprì. Era pieno di vestiti, pizzi e soffice velluto, la blusa di seta rossa e la gonna di pelle nera. Riuscì a percepire il profumo del corpo di Angelica sopra i vestiti. Era un muschio sottile e delicato che lo colpì come ultima traccia della sua vita sulla terra. Si accorse che la mano accarezzava i vestiti con profonda tenerezza, poi si bloccò e si girò verso Caleb. «Lo aspetterò,» disse. «Non m'importa quanto.» «Anch'io,» mormorò Caleb, stringendosi nelle spalle. «Non andrò in al-
cun posto se non nella tomba.» Uscirono e chiusero la porta, con attenzione. Poi ritornarono alla macchina e si spostarono di qualche metro fermandosi all'inizio della strada. Non lontano dalla casa c'era un vicolo, e vi si appostarono in modo da poterla tenere sotto controllo senza essere visti. La calda luce di mezzogiorno si affievolì, mentre il pomeriggio cedeva il passo alla notte. In lontananza si scorgevano nuvole minacciose che si muovevano verso la città. «Credo che arriverà un bel temporale,» disse Caleb. Guardò l'orologio. «Siamo qui da cinque ore.» «Vai a casa, se vuoi,» disse Frank. Caleb scosse la testa. «No, non ancora.» Si mosse impaziente sul sedile. «È il mio culo che si lamenta,» disse sorridendo, «non il mio vecchio cuore da bulldog.» Dopo un'ora, si udirono i primi tuoni sopra la città. I lampi illuminarono l'oscurità, e alcuni minuti più tardi la pioggia cominciò a cadere sul tetto dell'auto inondandola. Caleb si sporse verso il cruscotto e guardò attentamente la casa. «Be', non avremo difficoltà a vederlo.» «No, non ti preoccupare.» Caleb si sistemò sul sedile e fece un lungo respiro. «Vado in pensione il prossimo anno, Frank, lo sapevi?» «No.» «La vita è strana. Ci sono cose di cui sei stanco e cose di cui non ne hai mai abbastanza. Questa sorveglianza di merda, per esempio, è una cosa di cui sono stufo.» Gli occhi di Frank scivolarono verso la casa. «A volte mi viene voglia di mollare tutto.» Caleb lo guardò sorpreso. «Tu? Come mai?» «Penso sia solo stanchezza.» «Stanco di troppo sangue?» Frank scosse la testa. «No, non per quello. Ma credo che dovremmo vivere meglio di quanto facciamo, Caleb.» Guardò il collega. «Non so che cosa ce lo impedisca. Vorrei scoprirlo, un giorno o l'altro. Vorrei proprio saperlo.» Improvvisamente, due fasci di luce gialla apparvero dalla sommità della piccola collina alla fine della strada. Si mossero lentamente verso Mercer Place, due linee di luce che finalmente si fermarono e si spensero di fronte
alla casa di Toffler. Frank tirò fuori la fotografia che gli aveva dato Curtis e la osservò. Poi l'allungò a Caleb. «Dalle ancora un'occhiata, vediamo di non fermare il tipo sbagliato.» Caleb guardò la foto, e poi di nuovo la macchina. «Esci da quella fottuta auto,» mormorò. Frank avvicinò gli occhi al parabrezza e fissò la casa. La macchina se ne stava lì davanti, ferma. Poi la portiera si aprì e in quel momento un lampo di luce ruppe l'oscurità. «È lui,» disse Frank. L'uomo era in piedi vicino alla macchina, con la portiera ancora aperta. Guardò dietro di sé, poi verso la casa buia. Caleb aguzzò la vista. «Sì, hai ragione,» disse. L'uomo si avviò velocemente verso il cortile, poi voltò a sinistra e si diresse sul retro della casa. Per un attimo, scomparve nell'oscurità. Poi si accese una luce nello studio. «Bene,» esclamò Caleb. «Non c'è spazio per nascondersi in quel buco.» Prese in mano la ricetrasmittente. «Qui è A104. Stiamo sorvegliando un sospetto omicida. Pericolosità dell'azione: sconosciuta. Gradiremmo dei rinforzi al 121 di Mercer Place. Niente sirene, per favore. Raggiungeteci e tenetevi pronti.» Lasciò il microfono e sorrise. «Stavolta ci siamo, Frank.» Aprì la portiera. «Andiamo.» La porta dello studio era spalancata e ne usciva un fascio di luce. Di tanto in tanto un'ombra si frapponeva tra la luce e la fitta pioggia e ogni volta che Frank la vedeva, sentiva il cuore che gli saliva in gola. Fissò Caleb e sentì un improvviso e schiacciante bisogno di toccargli il braccio per avvertirlo di stare attento. Invece, fu Caleb che si voltò. «Stai attento, Frank,» mormorò. Poi sorrise e s'incamminò. Si fermarono al bordo della zona illuminata, aspettarono solo un istante, poi bussarono piano alla porta. «Chi è?» Frank tirò fuori il distintivo ed entrò. «Polizia,» disse. L'uomo alzò lo sguardo. Era alto, magro, con i capelli biondi e gli occhi azzurri che gli rendevano il viso sorprendentemente bello. Stava in piedi vicino alla scultura, con il pollice appoggiato sulla gola della statua. «Cosa volete?» chiese.
Caleb si avvicinò a Frank. «Solo un paio di domande.» «Su che cosa?» «Lei è Vincent Toffler?» «Sì. Perché?» Frank rimise il distintivo in tasca. «Dobbiamo farle qualche domanda.» Tirò fuori la foto di Angelica Devereaux e gliela mostrò. «Conosce questa ragazza?» L'uomo annuì. «Sì.» Frank fece un passo in avanti con prudenza, mentre metteva via la fotografia. «Come mai la conosce?» chiese. «Era la mia modella,» disse l'uomo come se fosse una cosa scontata. Indicò il grande dipinto alla sua sinistra. «Come può vedere, quella è lei.» «La conosceva bene, signor Toffler?» chiese Frank, quasi amabilmente. «Era la mia modella.» «Questo l'ha già detto.» «Be', questo significa che l'ho ritratta,» disse Toffler. «Era la mia modella. Non si può dipingere ciò che non si conosce.» «Allora la conosceva abbastanza bene?» chiese Frank. «Sì,» rispose Toffler. Accennò alla scultura. «Vi dispiace se continuo con questa, mentre parliamo?» «Faccia pure,» disse Frank, e fece un altro passo. «Così era la sua modella?» «Sì,» ripeté Toffler in tono indifferente. Premette il pollice sul braccio della statua e lo fece scivolare delicatamente. «Dove l'ha incontrata?» chiese Caleb. Si spostò verso la parete opposta e vi si appoggiò pesantemente. «A giudicare dal quadro, doveva conoscerla piuttosto bene.» Toffler fissò Caleb. «Questo è offensivo,» esclamò. «Perché non risponde semplicemente alla domanda?» replicò Frank. «Be', io non ritraevo esattamente lei,» spiegò. «Piuttosto dipingevo ciò che lei ispirava.» «E cioè?» «Il desiderio,» disse Toffler. «Lei era la figura principale, la creatura che lo rendeva possibile.» «Che cosa rendeva possibile?» chiese Frank. «I miei studi.» «Su Angelica?» Toffler rise. «Angelica non meritava uno studio,» disse. «No. Il mio ri-
tratto del desiderio umano. Questo è ciò che volevo catturare. Il desiderio negli uomini e nelle donne di tutte le età. Angelica lo ispirava nella gente.» Fece un lieve sorriso. «Era capace di entrare in una stanza e far sì che tutti la desiderassero, molto più di qualsiasi cosa che avessero mai desiderato nella loro vita. Questa era la sua virtù. Questo tipo di bellezza. Volevano toccarla, tutti quanti.» «Come fa a saperlo?» domandò Frank. «Lo si notava nei loro occhi,» spiegò Toffler. Ritornò alla scultura, muovendo attentamente il pollice verso la gola della donna. «La provocazione era abbastanza esplicita.» «Dove vedeva queste persone?» «Ovunque la mandassi,» disse Toffler. «Avevano sempre la stessa reazione, ovunque andasse. Poteva trattarsi di una sala da biliardo o di un teatro, non faceva differenza.» «Cosa ne dice di una galleria d'arte?» chiese Frank. «Ancora di più,» esclamò Toffler. «Ancora di più.» «Allora la portava in vari posti, non è così?» proseguì Frank. «Sì.» «E guardava il modo in cui la gente reagiva.» «Guardavo il loro desiderio, osservavo come cercavano di nasconderlo,» continuò a spiegare Toffler. Il suo pollice affondò nella creta. «Era stata fatta per essere guardata. Questo è ciò che le ho spiegato.» Tolse il pollice dalla creta, poi cercò di levigare una fessura. «E lei lo ha capito, almeno per un po'. Lo faceva bene. La gente smaniava per lei. Era più che lussuria. Angelica ispirava un desiderio veramente profondo. Ed è questo ciò che volevo catturare.» «E così l'ha usata?» chiese Frank. «Esattamente come uso un pennello, sì,» rispose Toffler. «Che male c'è?» Guardò Frank, con calma. «Niente è più importante del lavoro.» Tornò a concentrarsi sulla scultura. «Inoltre, lo faceva abbastanza spontaneamente.» «Davvero?» Toffler esitò. «Be', all'inizio.» «Poi ha smesso?» «Ha incontrato quel vecchietto ridicolo, quel pittore.» «Derek Linton?» «Sì,» disse Toffler. Non sembrò sorpreso che conoscessero il suo nome. «Lo ha incontrato in una galleria. Li ho visti lì insieme, davanti alla galle-
ria, e così ho capito che è stato Linton.» «A fare che cosa?» «A ucciderla.» Frank fece un altro passo verso di lui. «Derek Linton ha ucciso Angelica?» «Ha ucciso la sua ragione di esistere,» spiegò Toffler impaziente. «Le era stato assegnato un incarico, in una delle gallerie. È così che si è imbattuta in Linton. Ha guardato quelle idiozie senza senso che dipinge ed è rimasta... sedotta.» La sua voce si fece sottile. «Trasportati dal vecchio romanticismo. Persi nella foschia dei ricordi. Ridicolo.» Affondò l'unghia del pollice nella spalla della statua e tolse un pezzettino di creta. «Li ho visti insieme. Sapevo cosa stava cercando di fare.» «Cioè?» chiese Caleb, staccandosi dal muro. «Credo volesse scoparselo,» esclamò Toffler. Si volse verso Frank. «Cosa le è successo alla faccia?» «La vestiva in modi diversi,» disse Frank. «E poi la faceva sedere in una galleria o da qualche altra parte, in modo che la gente la vedesse.» «Sì.» «E poi osservava la gente che la guardava.» Toffler annuì. «Era 'living art', un successo fantastico, forse il miglior lavoro che io abbia mai realizzato.» Scosse la testa. «Ma poi Angelica l'ha reso volgare. Con quel vecchio, è diventata una piccola e disgustosa mocciosa.» «Scommetto che voi due avete litigato, vero?» chiese Caleb. Gli occhi di Toffler si volsero di scatto verso di lui «Che cosa?» «Vi siete picchiati,» spiegò Frank. «Mi sono battuto per la mia arte,» spiegò Toffler. «Ma Angelica non ha voluto cedere,» disse Frank. «Ho cercato di farglielo capire,» continuò Toffler, «ma ormai era inutile. Anche allora, comunque, ero convinto che avrei potuto lavorare con lei, ma poi lei si è rovinata con le sue stesse mani, mandando all'aria l'intero progetto.» «Rimanendo incinta,» affermò Frank. Toffler annuì. «Non potevo tollerare una cosa simile. Stava per diventare un'altra di quelle adolescenti incinte, grasse e flaccide.» Fissò il ritratto di Angelica. «A che cosa mi sarebbe servita?» Frank si avvicinò cautamente, pronto a scattare. «E così l'ha uccisa,» disse.
«No,» esclamò Toffler. «Certo che no. Sarebbe stato ridicolo. Figuratevi che ha persino cambiato idea. È ritornata da me. Mi disse che aveva ottenuto molto denaro raccontando al suo tutore che era incinta e che voleva tenersi il bambino.» «Ma non aveva intenzione di farlo, vero?» domandò Frank. «No di certo,» disse Toffler. «Se ne sarebbe liberata. Si sarebbe trasferita a New York e se ne sarebbe sbarazzata. Le ho detto che sarebbe stato troppo tardi per abortire e che avrebbe dovuto farlo subito.» «E che cosa ha fatto?» chiese Frank. «Le ho detto di liberarsi del bambino,» ripeté Toffler. «Era molto semplice.» «Le hai suggerito di usare la liscivia?» «Non le ho detto niente,» rispose Toffler con veemenza. Frank indicò il piccolo sgabello che stava in fondo alla stanza. «Le hai detto di mettersi su quello sgabello? Le hai detto di spogliarsi? Le hai detto che non le avrebbe fatto male?» «No!» esclamò Toffler, quasi urlando. «Ne ho abbastanza. Vi ho detto tutto quello che sapevo, adesso volete andarvene per favore?» Frank s'irrigidì mentre Caleb si avvicinava e afferrava Toffler per un braccio. «Non abbiamo ancora finito, signor Toffler. Credo che dovrà venire con noi.» Toffler li guardò furioso, come se meditasse di opporre resistenza. Frank gli si avvicinò immediatamente e subito Toffler sembrò riprendere il controllo di se stesso. «Va bene,» sospirò. Frank ricominciò a respirare. L'aria sembrò avvolgerlo, calda e infinitamente dolce. Sentì di nuovo la pioggia che cadeva sul tetto e capì che tutto era finito, che la morte di Angelica sarebbe stata vendicata, che la giustizia qualche volta scorreva come una forte corrente, come suo padre aveva sempre proclamato. Poi, improvvisamente, abbassò gli occhi e vide la mano di Toffler afferrare lo scalpello, vibrarlo nell'aria e conficcarlo nella schiena di Caleb. Caleb cadde in avanti, ma la mano lo seguì, colpendolo ancora mentre Frank l'afferrava. Si buttò istintivamente in avanti, cercando di bloccare la mano, ma questa gli sfuggì nuovamente e conficcò lo scalpello nella gola di Caleb. «No,» gridò Frank, ma l'urlo si spense assieme al lamento basso e gutturale che proveniva dalla bocca di Caleb, che cadeva all'indietro mentre lo scalpello fendeva l'aria tagliandogli la faccia. Frank vide le proprie dita in-
sanguinate che cercavano disperatamente di afferrare lo scalpello, ma questo ricadde di nuovo, questa volta nell'occhio aperto ed esterrefatto di Caleb e il lamento si trasformò in un alto gemito animalesco, per poi morire lentamente, mentre Frank cingeva con il braccio il collo di Toffler e lo stringeva fino a non sentire più il braccio. L'unica cosa che avvertiva era la vita di Toffler che scivolava via dal corpo, e allora strinse più forte, schiacciando sempre di più, finché qualcuno lo tirò indietro. Vide il distintivo sull'impermeabile del poliziotto, poi la canna blu acciaio della pistola puntata contro i capelli biondi di Toffler e sentì di nuovo il suo respiro, sentì la pioggia, ma l'unica voce che gli arrivò fu quella di Caleb, a metà tra un lamento e un sussurro: Sei salvo, Frank, le sue ultime parole. 27 Caleb fu sepolto in una giornata luminosa. La calura opprimeva le piccole lapidi grigie del cimitero municipale gremito di gente e Frank, in piedi accanto alla fossa aperta, avvertiva l'aria pesante e soffocante simile a un cuscino premuto sul viso. Karen era di fianco a lui, con gli occhi fissi sulla semplice bara marrone, le labbra strette. Rimase immobile in quella posizione fino a quando la guardia d'onore rese l'estremo saluto con colpi a salve e l'ultimo degli intervenuti al funerale uscì dal cimitero. «Non so dirti quanto mi dispiaccia, Frank,» mormorò alla fine. Frank la guardò. «Si meritava molto di più.» «Sì.» «Quando accade una cosa del genere, così profondamente ingiusta, bisognerebbe potersi appellare a una corte suprema.» Karen gli strinse la mano e lo spinse con dolcezza lontano dalla tomba. «Parto questa sera,» disse. «Lo immaginavo.» «Perché?» «Non lo so. Un presentimento.» «Tornerò per il processo,» continuò Karen. «Te lo prometto.» Frank scosse la testa con aria stanca. «È una questione fra te e il procuratore distrettuale.» Karen si bloccò e lo guardò diritto negli occhi. «No, riguarda noi.» «Sai come la penso.» «Non posso rimanere qui, Frank,» disse Karen. «Non ce la faccio pro-
prio a sopportarlo.» «Lo so,» proseguì Frank con un debole sorriso. «Credimi, ti capisco.» Fece per metterle un braccio attorno alle spalle, ma improvvisamente vide davanti a sé il volto di Toffler e per un attimo si ritrovò nella stanza degli interrogatori, mentre si squadravano l'un l'altro seduti a un vecchio tavolo rovinato. «Frank?» «Karen, sai che cos'ha detto Toffler?» chiese. «Ha detto che se abbiamo trovato della terra nella bocca di Angelica, significa che era sporca.» Scosse la testa, incredulo. «È vivo e può permettersi di dire una cosa del genere.» Karen lo prese sottobraccio. «Basta, Frank. È finita, ormai. È tutto finito.» Ma a Frank sembrava esattamente il contrario, come se non fosse finito tutto. Aveva ancora davanti agli occhi il volto di Toffler, con i lunghi capelli quasi bianchi sotto la luce della lampada e gli occhi azzurri trasparenti, a volte persino languidi oppure sfavillanti, ma sempre spalancati e terribili, che lo fissavano per l'eternità. «Gli hanno riconosciuto l'infermità mentale,» mormorò Frank, quasi rivolto a se stesso. «E finirà in un ospedale psichiatrico, ma non è pazzo. È soltanto marcio fino al midollo.» Alzò gli occhi verso Karen. «Attorno a lui l'aria è sempre gelida. Non ha alcun desiderio. Non gli interessa il cibo e nemmeno il sesso e niente del genere. Mi ha detto che non ha mai toccato Angelica. Che non ha mai desiderato farlo e io gli credo.» «Basta, Frank,» lo implorò Karen. «Ti prego, smettila.» Frank la osservò attentamente. «Una persona è perduta quando non mostra più alcun interesse per ciò che è piacevole, vero, Karen?» Karen indietreggiò di un passo. «Non voglio più parlare di lui, Frank,» disse con aria decisa. Si diresse velocemente verso la macchina e si mise al volante. «Volevo chiederti di accompagnarmi all'aeroporto questa sera,» disse. «Ma ora non ne sono più molto sicura.» Frank cercò di sorridere. «A che ora è il volo?» «Alle due del mattino. Sugli altri voli non c'erano più posti.» «Passo a prenderti,» esclamò Frank. «Fatti trovare pronta a mezzanotte.» Ma gli erano rimaste ancora alcune domande senza risposta. «Deve avere un debole per me,» disse Toffler con calma, mentre si sedeva dall'altra parte del tavolo.
Frank lo guardò attentamente negli occhi «Perché dici così?» Toffler si strinse nelle spalle. «È venuto a trovarmi due giorni di fila.» Appoggiò le braccia sul tavolo e si sporse in avanti. «Che cosa vede quando mi squadra così?» «Non lo so.» Toffler sorrise compiaciuto. «E non lo saprà mai.» Frank prese il taccuino e sfogliò le ultime pagine. «Deve averci messo molto tempo a morire. Ti sei divertito?» «Non mi sono divertito. Non c'ero nemmeno. Una cosa nasce e un'altra muore. E non serve che ci sia qualcuno.» «Una cosa? Angelica?» «Qualunque cosa fosse.» «Hai mai provato qualcosa per lei?» chiese Frank. «Provato?» Scoppiò a ridere. «Vuole dire amore?» «Voglio dire un sentimento qualsiasi.» Toffler si sistemò sulla sedia e gli occhi assunsero improvvisamente la stessa tonalità grigia della divisa che indossava. «Era possibile usarla. È a questo che servono le cose.» Fece un cenno in direzione del taccuino di Frank. «Come quel piccolo taccuino e la matitina gialla. Da usare. Proprio così.» Si strinse nelle spalle. «Non ero geloso. Avrebbe potuto scoparsi quel vecchio finocchio fino a farlo morire, e non me ne sarebbe fregato niente.» Gli occhi si strinsero a fessura. «Ma ormai non serviva più a niente, e quando una cosa non serve più la si butta via.» «E così te ne sei sbarazzato?» chiese Frank. Toffler scosse la testa, disperatamente. «Quella ragazza, per lei è davvero tutto, vero?» Sorrise. «D'altra parte, le piacevano i vecchi. I vecchi malati. Probabilmente è stato l'unico con cui abbia scopato.» «Vuoi dire Linton?» «Lui, sì.» «Non erano amanti,» disse Frank. Toffler lo guardò. «Certo che lo erano.» «Credi che Derek Linton fosse il padre del bambino di Angelica?» chiese Frank. «Chi altri poteva essere?» «Era un ragazzo che conosceva appena. Il gruppo sanguigno corrisponde a quello del feto.» Toffler abbassò gli occhi e socchiuse le labbra. «Quindi si è sbagliata,» mormorò.
Frank si sporse in avanti. «Angelica?» Il viso di Toffler s'irrigidì. E Frank non riuscì più a fargli dire una sola parola. Dopo aver lasciato Toffler, Frank rimase seduto da solo, per più di due ore, in un angolo tranquillo di Piedmont Park. C'era qualcosa che non quadrava. Gli era sfuggito qualcosa. Rivide le labbra di Toffler che si schiudevano per la sorpresa. Quindi si è sbagliata. Chi? Chi si era sbagliata? Angelica si era sbagliata in merito al padre del bambino? Ma aveva chiamato Doyle tre volte il quindici maggio. No, sapeva benissimo chi era il padre. E allora? Ricordò quello che gli avevano sempre detto a proposito degli omicidi. È una questione di sangue o di denaro. Vide il ritratto del vecchio appeso sulle bianche pareti dell'ingresso di Karen. Sangue. Ne era rimasto davvero poco per i Devereaux. Erano morti i genitori e poi Angelica. Il sangue dei Devereaux era concentrato nelle vene di una sola persona. Lasciò vagare la mente, lasciò che il sangue scorresse in un tranquillo fiume rosso, gli apparve il volto di Arthur Cummings: un viso calmo e ragionevole, accompagnato da una voce ferma e pratica. Frank udì nuovamente le sue parole, incredibilmente chiare: Ora Karen è completamente sola. E naturalmente i soldi di Angelica andranno a lei. Era ovvio che fosse così, pensò Frank, dal momento che non c'erano altri Devereaux. Era rimasta solo Karen. Angelica era morta, assieme al suo bambino. Ma Karen? Non riusciva a immaginare Karen immischiata nella morte di Angelica. Non ce la faceva proprio, ci doveva essere un'altra spiegazione. Mosso dalla disperazione, prese il taccuino e analizzò di nuovo tutti i dettagli relativi al caso. Ce n'erano a centinaia, separati, isolati. Sangue o denaro, mormorò fra sé, sfogliando una pagina dopo l'altra. Poi, improvvisamente, si fermò, con gli occhi fissi su un singolo appunto. C'era il sangue, sì. E c'era il denaro. Ma erano combinati in un'altra configurazione. Il denaro poteva fluire in seguito a un omicidio, ma poteva anche essere speso per lo stesso motivo. E anche se il sangue di solito si riferiva ai legami di parentela, poteva anche significare passione cieca, feroce, oltre qualsiasi definizione. Per l'umanità questa era ancora la molla che spingeva ad agire.
Rimase sorpreso quando fu lei ad aprire la porta. «Buonasera, signorina Castle,» disse Frank. «Edna ha il pomeriggio libero,» gli spiegò. Lo guardò con aria solenne, poi si chiuse la porta alle spalle. «Preferirei stare qui fuori, se non le spiace,» disse. «Ha qualche altra domanda, signor Clemons?» «Sì,» rispose Frank, prendendo il taccuino. «Immagino abbia letto dell'arresto.» «Dell'uomo che ha ucciso Angelica?» chiese la signorina Castle. «Sì, certo.» «Lo conosce?» «Che cosa?» «Si chiama Toffler. Vincent Toffler. Lo conosce?» La signorina Castle sospirò. «Sì, lo conosco. Il mondo artistico di Atlanta è piccolo, signor Clemons, e non si può fare a meno di venire in contatto con certa gente. L'ho sempre considerato una persona sgradevole e un pessimo artista.» Frank diede un'occhiata ai suoi appunti. «Ho svolto una piccola indagine,» disse. «Toffler espone molti suoi quadri in una delle gallerie della Hugo Street. È l'unica che esponga le sue opere.» La signorina Castle lo guardò con calma. «Ed è lei la proprietaria di quella galleria, signorina Castle.» La donna non disse nulla. Di nuovo, Frank abbassò gli occhi sul foglio. «Stavo rileggendo gli appunti,» prosegui. «I vari colloqui e tutto il resto. E c'è una cosa che mi ha colpito.» La signorina Castle si girò leggermente, dirigendo lo sguardo verso il ruscello che scorreva in lontananza. «Quando siamo usciti a fare quella passeggiata, lei ha accennato alla verità,» continuò Frank, sfogliando il taccuino. «Ecco qui. Mi ha detto che dentro di sé sentiva 'un'infinità di cose' e io le ho chiesto: 'Quali cose?' e lei mi ha risposto: 'Verità.'» Alzò lo sguardo e la fissò. «Poi ha proseguito dicendo che persino le verità più difficili possono apparire meravigliose.» «Sì,» confermò la signorina Castle senza guardarlo. «E c'è dell'altro,» continuò Frank, girando la pagina. «Mi ha detto che Angelica cercava di far infiammare la gente, e che secondo lei era pericoloso. Ha aggiunto che è facile prendere fuoco.» La signorina Castle annuì rapidamente. «È molto preciso nei suoi appun-
ti, signor Clemons.» Frank chiuse il taccuino e lo mise in tasca. «Era convinta che Angelica e Derek Linton fossero amanti.» La signorina Castle abbassò leggermente gli occhi «Sì.» «Ed era abbastanza vicina a Toffler per sapere che conosceva Angelica,» aggiunse Frank. La donna chiuse gli occhi. «La galleria di Hugo Street,» proseguì Frank, «quella che lei possiede. Ha esposto tutti i quadri di Toffler il mattino dopo la morte di Angelica.» La donna riaprì gli occhi e lo fissò. «Credo sia stata quella la sofferenza maggiore: dover appendere le opere di quell'uomo terribile nella mia galleria.» Si girò verso Frank. «Ho amato Derek Linton per tutta la vita e riuscivo a sopportare il suo modo di vivere. Lo sopportavo, davvero. Non mi sentivo tradita dagli uomini che frequentava.» «Ma poi ha creduto che ci fosse di mezzo una donna,» disse Frank. «Era insopportabile,» proseguì la signorina Castle. «Sapevo che lo avrebbe distrutto, rubandogli quel poco che gli rimaneva. Non potevo lasciare che accadesse.» Uscì dalla veranda e s'incamminò verso il fiume. Poi si fermò un attimo, si girò e tornò accanto a Frank. «Non si preoccupi, non me ne andrò,» mormorò pacatamente. «Sarò qui quando verrete a prendermi. È tutta la vita che aspetto.» Era quasi mezzanotte quando si fermò davanti alla casa. Aveva mandato una macchina a prelevare la signorina Castle, ma si era rifiutato di restare per rispondere alle domande di Brickman. C'era ancora una cosa da fare, una faccenda rimasta in sospeso. In piedi, davanti alla tomba di Caleb, aveva giurato che se ne sarebbe occupato, ma ora, davanti alla casa di quell'uomo, si chiese se ce l'avrebbe fatta ad andare fino in fondo. Poi ripensò a Caleb, allo scalpello che si alzava e lo colpiva al collo e sul viso, al corpo rovinato di Angelica disteso in quello squallido fossato. A tutti i corpi che aveva visto nel corso degli anni e ai volti lacerati e contusi di chi non era morto subito. E sapeva che doveva farlo per tutti loro. Si vedeva una luce accesa nel locale che dava sul davanti, ma sembrava che non ci fosse nessuno all'interno. Frank respirò profondamente e, quando pensò di essersi calmato a sufficienza, scese dall'auto e si diresse velocemente verso la porta. L'uscio si schiuse lasciando intravedere solo un occhio scuro. «Sì?» borbottò l'uomo in tono duro. «Che cosa vuole?»
«Sei Harry Towers?» chiese Frank. «Chi vuole saperlo?» domandò l'uomo con aria gelida. «Ollie Quinn,» disse Frank, facendo un passo indietro e buttando giù la porta con una spallata. «E Caleb Stone.» Il corpo di Towers cadde all'indietro, finendo su un tavolino di legno. Si rialzò in piedi a fatica e allungò la mano verso la pistola infilata nella cintura. Frank lo colpi allo stomaco, poi gli alzò la faccia e gli sferrò due violenti pugni. Towers barcollò e cadde sulla schiena, gemendo. Cercò di rialzarsi, ma Frank gli si avventò addosso, gli prese la testa fra le mani e la sbatté due volte sul pavimento. Towers continuò a lamentarsi, spalancando gli occhi. Frank lanciò la pistola dell'uomo dall'altra parte della stanza e afferro la sua. Per un attimo provò l'impulso d'infilare la canna della pistola e premere il grilletto nella bocca sdentata e spalancata di Towers. Avrebbe voluto vedere la testa di Towers esplodere davanti a lui, poi vide Karen nell'oscurità, con il bocciolo di rosa in mano, e udì la sua voce alle spalle, mentre sussurrava le parole di Caleb: Non ora. Appoggiò la pistola accanto alla testa di Towers, con la canna puntata verso il pavimento e fece fuoco. Lo sparo riecheggiò in tutta la casa. «Se torno qui un'altra volta,» sibilò, «non sentirai più nulla.» «Sei in ritardo,» esclamò Karen mentre usciva rapidamente di casa. «Mi spiace,» si scusò Frank. «Non importa. Ce la faremo. Non dovrebbe essera molto traffico a quest'ora.» «No,» disse Frank, osservando la valigia che Karen teneva in mano. «Ti porti solo quella?» «Ho fatto spedire il resto,» rispose Karen. Frank prese la valigia e l'appoggiò sul sedile posteriore. «Bene, possiamo andare,» disse. Impiegarono circa mezz'ora per arrivare all'aeroporto e durante il tragitto Frank non disse nulla. Era come se avessero ormai provato tutte le sensazioni nella loro forma più acuta e non fosse rimasto che il caldo, la notte e il silenzio. Forse non ci sarebbe stato altro. I passeggeri stavano già salendo a bordo quando Frank e Karen arrivarono all'uscita del volo per New York. Karen prese la valigia dalla mano di Frank. «Tornerò presto,» mormorò.
Frank annuì in silenzio. «Dico davvero,» insistette Karen. «Te lo prometto.» «Arrivederci, Karen,» disse Frank sottovoce. Poi la baciò. Karen scomparve fra la folla più rapidamente di quanto si potesse immaginare e Frank si sedette in una delle poltroncine rosse, osservando l'aereo illuminato che aspettava il permesso per decollare. Vide davanti agli occhi la figura di Karen che si sedeva, si allacciava la cintura di sicurezza e volgeva lo sguardo fuori del finestrino, pensando a lui. La vide di nuovo, come le era apparsa quella prima volta, triste, nel suo camice sporco di vernice con gli occhi scuri pieni di parole immense e mai pronunciate, e si stupì nel notare che quella profonda e perenne gravità era il fardello che l'accompagnava costantemente e che anche altre persone possedevano. Era il modo di penetrare nel cuore della sfortuna universale. Prese il distintivo dorato e lo fissò per un attimo. Era del distretto di Atlanta, ma si rese conto che avrebbe potuto usarlo ovunque. Quando Frank si avvicinò alla biglietteria, l'impiegato lo guardò con calma. «Posso esserle utile, signore?» «È troppo tardi per imbarcarsi sul volo per New York?» «No.» «Allora vorrei partire,» disse Frank. «Solo andata.» L'impiegato preparò il biglietto e glielo porse, osservandolo con curiosità. «Che cosa le è successo?» chiese. Per una volta, a Frank parve di avere la risposta appropriata. «Una donna,» esclamò. Poi salì sull'aereo. FINE