THEODORE STURGEON QUALCHE GOCCIA DEL TUO SANGUE (Some of Your Blood, 1961) Introduzione «Più vivevo e più mi rendevo con...
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THEODORE STURGEON QUALCHE GOCCIA DEL TUO SANGUE (Some of Your Blood, 1961) Introduzione «Più vivevo e più mi rendevo conto che al mondo non esistono bugie: tutto ciò che non avviene nella realtà lo sogniamo di notte, e se non accade oggi a me può accadere a un altro domani, fra un anno oppure un secolo. Che differenza fa? Viaggiando di dove in dove, seduto a tavole straniere, capita a volte che io inventi delle storie: sempre cose improbabili e che non possono accadere, diavoli e stregoni, mulini a vento e roba del genere.» Isaac B. Singer, Gimpel l'idiota Immaginatevi case infestate, diavoli e morti viventi. Immaginatevi sudari fantasma, catene o querce che rilucono e abominii venuti dall'Egitto. Streghe e patti col diavolo, mostri e lupi mannari. Poltergeist e macchine infernali, zombie e piccole cittadine del Maine... Facile da immaginare, tutta questa roba, L'umanità è venuta immaginandola da secoli, e negli ultimi anni in particolare. Immaginatevi astronavi e tempi futuri. Facile da immaginare: il futuro è già cominciato e dentro — forse — ci sono le astronavi. Non c'è niente, dunque, che sia difficile immaginare? Certo che c'è. Immaginatevi un'idiota dalle mani bellissime, una ragazza subnormale il cui solo fascino sta nelle dita bianche, lunghe e affusolate che attirano un uomo fino al punto da fargli desiderare di esserne strangolato. Oppure, una creatura solitaria che vaga nei boschi, che non è morta e non è viva, ma si è animata per caso da un insieme di foglie marcite, terra grassa e rifiuti... O ancora, un Caterpillar D-7 (una ruspa un po' sofisticata, insomma) in cui si accende una scintilla di volontà propria con pessime conseguenze per gli uomini che le stanno intorno. Tutte queste cose, in un modo o nell'altro, erano già state immaginate prima (e infinite volte dopo, grazie all'estro irrefrenabile dei plagiari), ma mai nel modo convincente e originale che è proprio di Theodore Sturgeon,
questo grande del fantastico scomparso da qualche anno e che per mezzo secolo ha fornito alla narrativa americana belle storie d'immaginazione. Sturgeon, che gli aficionados italiani ebbero l'opportunità di incontrare a Ferrara intorno alla metà degli anni Settanta, durante uno dei torridi convegni di fantascienza tenuti a battesimo da quella città (i cosiddetti S.F.I.R.), era un uomo dall'aspetto donchisciottesco: alto e magro, con lunghi capelli e una barba poco fluente che gli allungava il mento, gli occhi chiarissimi e penetranti. Sosteneva che per lui i racconti fantastici erano un modo come un altro per parlare della gente, ed è un peccato che negli ultimi tempi questa dichiarazione poetica sia diventata, nell'ambiente della fantascienza, un luogo comune dei più abusati. Non è certo colpa di Sturgeon, ma le cose sono andate così. Quando uno scrittore dice di voler parlare della gente o di qualsiasi altra cosa, ha perfettamente ragione: lasciate a chi crea la possibilità di rivestire la propria creazione con le parole che vuole, soprattutto se si tratta di un romanziere; egli sa che le parole sono ambigue, per non dire sfuggenti; è il suo mestiere tirar fuori un senso da sfumature e ambiguità. Guai, però, se a sentenziare sono critici o esegeti. Per costoro le parole sembrano di legno e sconfinano nell'assurdo: la famosa dichiarazione "parlare della gente", per dirne una, si è risolta nel banale proclama di una generazione poco inventiva e poco disposta a raccontare cose nuove. Per Sturgeon era esattamente il contrario: profondamente interessato alla psicologia umana — anche nei suoi risvolti "aberranti", e tuttavia convinto che dove c'è uomo non può esserci aberrazione se non in un senso molto speciale e artistico — egli era in sostanza un narratore. Aveva bisogno di un'invenzione, di una trovata fantastica per ogni storia e riusciva a immaginarne di eccellenti: e no, non erano "metafore" o allegorie, ma idee narrative allo stato puro. Gli spunti umani e i risvolti psicologici da cui partiva diventavano, così, il supporto di quell'operazione più semplice e più elevata insieme che consiste nel creare dal nulla qualcosa di concreto: un racconto, a volte un romanzo. L'invenzione dell'artista non è, infatti, illustrazione di una tematica o una dichiarazione d'intenti qualsiasi, proprio come un vaso uscito dalle mani del vasaio è all'opposto di una bolla di sapone. Sturgeon sapeva bene che l'arte — e quindi l'arte della narrativa — è questo vaso, questo oggetto concreto miracolosamente ottenuto da un insieme di astrazioni verbali. Sapeva che la loro combinazione cessa di essere astratta (se non a livello ideale) e che anzi si offre al lettore come qualcosa di sostanzioso di cui godere. Insomma, anche se avesse parlato dei
rossi cavalli di Marte o del canto delle Sirene invece che della "gente", Sturgeon sarebbe rimasto quello che era: tutto il resto non è che approssimazione. Aveva scelto il prosaico cognome con cui è famoso (e che significa "storione") dopo aver fatto qualche viaggio per mare; del resto era anche il soprannome del suo patrigno. Nato a New York il 26 febbraio 1918, si chiamava in realtà Edward Hamilton Waldo. Diventò Sturgeon collaborando alla rivista «Unknown» di John Campbell, un periodico che pubblicava narrativa fantastica di stampo lucido e mordace: una formula sconosciuta sul mercato dei pulp magazines. Nella sua lunga carriera Sturgeon ha scritto soprattutto racconti, diventando uno degli autori più apprezzati del dopoguerra. I suoi romanzi, a volte ricavati dalla fusione di testi brevi, vengono etichettati come fantascienza ma sono in fondo fantastici: Cristalli sognanti del 1950, Nascita del superuomo del 1953, I figli di Medusa del 1958 e Venere più X del 1960. Il romanzo che presentiamo è anche l'ultimo di Sturgeon: Some of Your Blood, finora inedito in Italia, è stato scritto nel 1961. È il più anomalo, quello che nessuno ha mai pubblicato forse perché definirlo "fantascienza" era tecnicamente impossibile. Tratta un argomento scottante, adopera una tecnica narrativa non facile e rientra perfettamente nella galleria di ritratti devianti di cui Sturgeon ha costellato la sua carriera. È raccontato con estrema accuratezza, attraverso una moltitudine di punti di vista, e pur essendo terribile non concede nulla agli "effetti speciali": non ne ha bisogno, è un racconto. A noi è sembrato uno dei punti più alti raggiunti dal suo autore, un tour-de-force emotivo e verbale di rara efficacia. Il suo carattere insolito e la completa indifferenza alle categorie della narrativa commerciale ci sconsigliano di tentarne una classificazione tematica, anche approssimativa: Qualche goccia del tuo sangue è destinato a rimanere un libro a sé, un testo a parte che getta un po' di luce sulle zone più nascoste dell'anima. O forse un'ombra. Giuseppe Lippi QUALCHE GOCCIA DEL TUO SANGUE ...ma prima, due parole: Tu sai come fare. Hai la chiave. È un tuo diritto.
Va' in casa del dottor Philip Outerbridge. Entra... hai la chiave. Sali le scale, percorri il corridoio sino in fondo e gira a sinistra. Lì c'è lo studio del dottor Philip, uno studio confortevole e assai ben ammobiliato. Libri, divano, libri, scrivania, lampada, libri, libri. Va' alla scrivania. Siediti. È giusto farlo. Apri il cassetto a destra. È uno di quei cassetti profondi. È chiuso? Hai la chiave... procedi. Aprilo, aprilo tutto. Tiralo verso di te. Ecco fatto. Le vedi quelle cartelle? Quella gran quantità di cartelle? Noti come sono inserite in verticale, sorrette da una sorta di intelaiatura a forma di scatola? Bene, sollevala. (Meglio alzarsi: è pesante.) Ecco! Sotto, messe in piano, ci sono una mezza dozzina di altre cartelle; semplici cartelle. Forse servono solo a rinforzare il fondo della struttura che regge le altre cartelle; e, infatti, lo fanno. O forse sono lì per tenerle nascoste, dissimulate, segrete. E forse sono vere entrambe le cose. Può anche darsi che siano lì perché hanno un valore, ora o in seguito... Valore ha il denaro, valore il sapere, valore il divertimento... sentimento, nostalgia. Aggiungi questo «forse» agli altri: non li elimina. E tieni in mente che di quelle sei cartelle, ciascuna rappresenta, l'una o l'altra, tutte queste probabilità. Puoi leggerne una qualunque. La seconda dall'alto. Vedrai che, come le altre, porta l’intestazione del dottor Outerbridge e, a lettere maiuscole, in rosso, c'è anche scritto: PERSONALE — CONFIDENZIALE — RISERVATO. Ma va' avanti. Va' fino in fondo. Tirala fuori. Rimetti a posto l'intelaiatura a forma di scatola, richiudi il cassetto, accendi la lampada, mettiti comodo. Ora puoi leggere le carte che contiene. Ma prima appoggia le mani su questa cartella di cartoncino color paglierino, chiudi gli occhi e rifletti sul fatto che è contrassegnata dalla parola CONFIDENZIALE, che era nascosta in fondo a un cassetto chiuso a chiave. E pensa che questa cartella clinica fu compilata alcuni anni fa, quando il dottor Phil era un giovane psicoterapeuta dello staff di un grande ospedale psichiatrico militare. All'epoca gli mancavano solo due mesi all'età richiesta per passare di grado e così era solo sergente. Tuttavia, sin dal primo anno di corso di studi superiori aveva fatto pratica diagnostica e terapeutica psicologica presso una famosa clinica universitaria guadagnandosi il diploma di specializzazione in psicologia clinica. Era tempo di guerra, o qualcosa di assai simile ai tempi di guerra. L'ospedale era stracolmo, sommerso, travolto. Il personale faceva miracoli, si prodigava in mille modi diversi, lavorava sino a ore indecenti come tutta la gente impiegata in strutture che dovevano far fronte alle esigenze belli-
che, fossero costruttori navali o esperti in lingue baltiche. E alcuni del personale, come ovunque anche altri, operai o professori, erano oberati dal troppo lavoro e dalla troppo scarsa assistenza, dall'estrema carenza di mezzi come dall'eccessiva routine, eppure sentivano che il loro fardello più pesante era la costante, opprimente, massacrante ricerca di qualità nel proprio lavoro. Operai in fabbrica che stringevano con estrema cura ogni bullone, saldatori che davvero si preoccupavano di fare un buon lavoro. E così alcuni medici, che seguitavano a prodigarsi, a impegnarsi nella loro opera per quanto ripetitiva, per quanto difficile e nonostante il mondo intero all'improvviso si fosse fatto ostile e li combattesse dicendo loro: ma smettila, lascia perdere, tanto non importa. Il valore di queste cartelle con la loro segretezza sta, quindi, forse, nella capacità che esse hanno di riportare alla memoria quel periodo. Aprine una, falla rivivere. Ammettilo: qui c'è un successo. Confessalo: qui c'è una tragedia. Gridalo: qui è stato commesso un terribile sbaglio, un errore imperdonabile... ma, proprio perché è stato fatto, non potrà mai ripetersi. Dillo: qui c'è il caso che mi ha ucciso, sebbene non sia morto, e sarà questa la vera causa della mia fine quando morrò. Ammettilo: qui ho avuto un'intuizione profonda, un'ispirazione straordinaria e un giorno ne farò il libro che mi darà l'immortalità. Confessalo: questo è un fallimento, ma penso che sarebbe comunque stato un fallimento per chiunque, io... io prego Dio di non scoprire mai che qualcun altro ha avuto successo intervenendo in qualche modo, usando un'inezia, agendo come avrei dovuto agire mentre io non l'ho fatto. Dillo... c'è qualcosa da dire per ciascuno dei casi raccolti in queste cartelle preservate sotto chiave, celate in un nascondiglio, protette dall'indicazione di assoluta riservatezza. Tre volte al sicuro. E ora apri gli occhi e leggi l'incartamento che ti sta davanti. L'etichetta in frontespizio, in alto, porta la dicitura: "GEORGE SMITH" Le virgolette alte sono ben marcate, sono disegnate con tanta cura da parere quasi un 66 e un 99. Va' avanti. Apri la cartella. Sai come fare. Hai la chiave. È un tuo diritto. Vuoi sapere perché? Perché tu sei Il Lettore e questo è un romanzo. Oh, sì! Lo è. È un romanzo.
Quanto al dottor Philip Outerbridge, anche lui è solo un personaggio romanzesco e non gli importerà. Quindi procedi. Non se la prenderà con te. Sei al sicuro. E lo è davvero, non è che un romanzo... Questa è una lettera battuta a macchina su un foglio di carta che mostra i segni di essere stato strappato lungo il bordo superiore con una riga affilata come per rimuovere un'intestazione. Le lettere D.n.A. sopra la data sono in inchiostro, scritte a mano, grandi e chiare. Ospedale della Base-Quartier Generale Portland, Oregon, detto anche: Ufficio della mancanza di personale Città di Freud, Oregon D.n.A. 12 gennaio Caro Phil, anzitutto osserva qui sopra la sigla: D.n.A. Sta per: Da non Archiviare. Significa ufficioso, e per me lo è totalmente. Se e quando la vedrai in futuro non avrai bisogno di spiegazioni. Tutto quello che si può abbreviare e codificare è per me un sollievo, specialmente da quando mi hanno affidato questo accidente di ditta da amministrare senza alleggerirmi di quel manicomio dove tu lavori. Vorrai scusare queste volgarità da profano, caro dottore, ma credimi, mi fa un gran bene potermi sfogare di tanto in tanto. In plico separato, ufficialmente e attraverso i debiti canali, riceverai i miei ordini relativi alla pratica AX544. Io sono il colonnello e tu il sergente. Io sono l'amministratore e tu fai soltanto parte del personale. Da qui, gli ordini. D'altra parte siamo vecchi amici e tu rispetto a me, nella tua specialità, sei bravo all'ennesima potenza. Il fatto — non menzionato negli ordini — è che abbiamo combinato quel tipo di guazzabuglio che non si può risolvere chiedendo scusa e dicendo mi dispiace. Questo soldato è stato buttato fuori da un campo di addestramento oltremare e spedito qui con un'etichetta di "psicosi non classificata" e un marchio "pericoloso, violento" da un idiota, maggiore del Corpo Medico. Una diagnosi fatta forse per puro desiderio di vendetta e dovuta al fatto che il soldato semplice gli ha dato un pugno sul naso. Questo ragazzo — secondo la valutazione corrente — potrebbe essere un criminale,
ma pazzo non lo è di sicuro. Per me ha reagito nel modo giusto ma, secondo l'ottusa valutazione del maggiore, colpire un ufficiale è il gesto di un folle, e così è stato spedito alla vostra ridente accademia invece che al muro. Quello che purtroppo complica la situazione è che abbiamo trascurato questo caso. Per mancanza di personale, a causa dei turni e della confusione che regna dappertutto, questo soldato semplice è stato ficcato tre mesi fa in una cella di isolamento tutta imbottita, senza diagnosi o cura. Se quando è arrivato lì da voi non lo si poteva certo qualificare come uno dei vostri carichi, ora lo è sicuramente. Tuttavia è successo, e questo caso è ora diventato il peggiore esempio di negligenza e di ingiustizia. Dunque, qualunque sia il significato che si dà nell'ordine ufficiale alla richiesta di una diagnosi e di una cura, per favore, te lo chiedo in ginocchio, fa' uscire quest'uomo da là dentro e dall'esercito, e fallo in modo che non ci siano ripercussioni, azioni giudiziarie o titoloni sui giornali. A parte i meriti del caso in se stesso, dobbiamo liberarci di queste banalità. Abbiamo bisogno di letti. Io ho bisogno di un letto, o ne avrò presto bisogno se ci capiteranno altre grane del genere. Sono sicuro che saprai risistemare tutta la faccenda, Phil. Non solo facendo una buona diagnosi, ma anche una diagnosi che suoni bene alle mie orecchie. Poi, naturalmente il congedo militare: la sua ricompensa. Che lui l'apprezzi o no, faremo in modo che i suoi cazzotti a quell'ottuso maggiore siano addebitati come spese alla ditta. Il tuo padrone assente, Al P.S.: Per completare la beffa, ho appena avuto notizia che il suddetto maggiore, di nome Manson, è morto in servizio, nello schianto di un C-119. L'ho saputo in risposta alla mia richiesta di qualunque documento supplementare egli avesse sul paziente in oggetto. Non c'era niente. A.W. Questa è la copia carbone di una lettera. Ospedale del Campo 2 Smithton Township, California; detto anche: Ufficio degli Scaldaletto Ranch di Reik, California
D.n.A. 14 gennaio Caro Al, sei molto abile a fare le diagnosi per posta. Devi averne studiato la tecnica in quei lontani avamposti dove un medicastro ti manda dieci dollari di Kleenex, tu te ne strofini uno sulla faccia, glielo rispedisci e lui ti dice che ti sei beccato il ginocchio della lavandaia. Ho passato mezz'ora con il ragazzo oggi — te lo assicuro, Al, è tutto il tempo che sono riuscito a dedicargli — e l'ho trovato all'ultimo piano, tutto solo in una cella di sicurezza. Molto educato, molto calmo. Nonostante non riveli nulla, risponde bene. Non ho avuto esitazioni e dargli qualche speranza. Tutto quello che vuole è uscire, e io gli ho prospettato l'idea che se collabora con me potrebbe farcela. Era pateticamente desideroso di piacermi. Per una volta, e probabilmente per quest'unica volta, sono felice di non essere un ufficiale. Non gli piacciono gli ufficiali. E se come hai detto tu, dovessimo mettere in isolamento tutti i soldati che la pensano in questo modo dovremmo evacuare l'intero stato della California per alloggiarli. Durante questa prima visita, non avendo a disposizione il materiale necessario per fare i test — e non avendone naturalmente neanche il tempo, accidenti! — ho mandato Gus a prendere un quaderno e alcune penne a sfera e ho chiesto al paziente di scrivere la storia della sua vita così come gli veniva, suggerendogli che usare la terza persona poteva essergli di aiuto. Questo compito gli darà qualcosa da fare fino a quando non potrò dedicargli un po' del mio tempo, evento che accadrà presto, molto presto, specie se tu autorizzerai con un tuo ordine perentorio che il giorno sia composto da trenta ore e se mi procurerai una macchina per eliminare il sonno. Stancamente tuo, Phil Terza o quarta copia carbone di un manoscritto battuto a macchina. Resoconto di George La prima volta che si sentì parlare di George fu in quella grande base di addestramento fuori Tokyo dove tutti erano così occupati che scaricavano un sacco di lavoro da fare su gente che di solito non lo faceva. Nell'esercito questo è un fatto normale: migliaia di ragazzi se ne stanno seduti aspet-
tando, mentre poche dozzine di uomini si stravolgono di fatica. Uno dei tanti impegni era la posta. La posta doveva essere censurata, ma solo per faccende militari e, in questa particolare guerra, solo per certe speciali faccende militari. Tutto il resto non era affare di nessuno, chiunque scrivesse. Ciò nonostante, un certo tenente che avrebbe dovuto saperlo e, certo, lo sapeva, ma non ne tenne conto, restò molto perplesso leggendo una delle lettere che si presumeva dovesse censurare. La portò a un suo amico che, guarda un po', era un maggiore del Corpo Medico, e questo maggiore non era solo un dottore, ma era anche uno psichiatra. Lesse la lettera e disse al tenente che non era affar suo preoccuparsi di ciò che c'era scritto, non era una faccenda militare, cosa che il tenente sapeva già. Ma questo non chiuse il caso perché adesso il maggiore aveva la lettera e questa lo preoccupava talmente che mandò a chiamare il soldato che l'aveva scritta. Il giorno dopo il maggiore mise in ordine la sua scrivania e andò ad aprire la porta della stanzetta dove il soldato stava aspettando. Il maggiore aveva in mano una cartella aperta e piegata dorso contro dorso insieme a un mucchio di carte. «Entra» disse, e guardando la cartella proseguì: «Ehm, Smith». Il soldato entrò e il maggiore chiuse la porta. Il soldato era sull'attenti e quando udì chiudersi la porta si guardò attorno. Il maggiore, seguitando a fissare la cartella, gli passò dietro alle spalle e disse: «Va tutto bene, soldato. Riposo». Non pareva un duro. Si sedette, appoggiò le carte sul tavolo, le sistemò e poi si adagiò sullo schienale della poltrona girevole marrone lucido e finalmente guardò il soldato. Vide un ragazzo grande e grosso, capelli biondi, pelle chiara e rosea. Le spalle e il torace davano l'impressione che la maglietta gli fosse cresciuta addosso tanto era aderente. Braccia e gambe erano robuste. L'espressione della faccia era chiusa. Fino a quel momento il maggiore non aveva detto al soldato che aveva la lettera. Così il soldato non sapeva perché fosse lì. Il maggiore proseguì: «Il caporale mi dice che sei un solitario, Smith. Non ti va molto la folla». Il soldato disse solo: Sissignore. Preferiva sempre lasciar parlare gli altri, per quanto fosse possibile. «Che cosa fai per divertirti?» «Mi piace camminare. A casa ogni tanto vado a pesca. A caccia.» Il maggiore non ribatté così il soldato dovette aggiungere: «Non c'è molta di quella roba qui. Procioni e galletti, voglio dire. Conigli».
Il maggiore abbassò lo sguardo sulle carte e disse: «Ti mancano molto?». «Be', sissignore, credo di sì.» «Hai una ragazza a casa, George?» Questa volta il maggiore lo chiamò George. «Certo che ce l'ho, signore.» «Vai in città ogni tanto, vero?» George sapeva esattamente quel che intendeva dire e si limitò a negare scuotendo la testa. Il maggiore sollevò un foglio per vedere se c'era qualcosa di scritto sull'altra facciata, ma non c'era niente. Era un foglio azzurro e c'erano solo due righe scritte. Fu solo allora che George cominciò a fissare il foglio. Lo fissò così come faceva il maggiore, per il resto del tempo che rimase lì, ma da lontano. Il maggiore sembrava dover aggiungere qualcosa a proposito del foglio, ma non lo fece. Disse: «Perché vai a caccia, George? Voglio dire, che cosa ci trovi?». Aspettò, gli occhi abbassati e fissi sul foglio azzurro poi, non ricevendo risposta, alzò lo sguardo e fissò in faccia il soldato. E finalmente con tono lieve e strascicato emise un lungo: «Ehi...» e si alzò. Andò all'altro angolo della stanza, velocemente, senza mai staccare gli occhi dalla faccia del soldato, prese un bicchiere, lo riempì di acqua fresca, tornò indietro e lo porse al soldato dicendo: «Ecco! sarà bene che tu beva». La faccia del soldato era bianca, tutta coperta da piccole gocce di sudore. Tremava e gli occhi semichiusi erano, come si usa dire, vitrei. Prese il bicchiere ma non sembrava sapere quello che stava facendo. Non bevve ma continuò a tenere il bicchiere il mano. Gli occhi abbassati fissavano il foglio. Anche il maggiore abbassò lo sguardo e in quel preciso momento ci fu l'esplosione. Il bicchiere sembrò esplodere ma ciò che avvenne in realtà fu che il soldato lo stritolò. La mossa successiva certo sarebbe stata saltare addosso al maggiore e il maggiore lo sapeva e, infatti, la sua faccia impallidì come quella del soldato. Ma quello che salvò la vita al maggiore fu la mano ancora tesa. Prima gocciolava acqua, ma poi cominciò a gocciolare il sangue. Il sangue che gocciolava salvò il maggiore, perché quando George Smith lo vide fu come se dimenticasse che lì c'era qualcun altro o qualcos'altro. Lentamente avvicinò la mano alla faccia. Aprì le dita, ne caddero pezzetti di vetro insanguinato. Chiuse il pugno e lo portò ancora più vicino alla
faccia e cominciò ad annusarlo. Lo aprì e lungo il palmo della mano, sotto il mignolo, c'era del sangue che pulsava dove si era tagliata una piccola arteria. George appoggiò le labbra su quel punto. Il maggiore aveva premuto un bottone sotto la scrivania o qualcosa del genere perché la porta si aprì violentemente senza che nessuno bussasse e due della polizia militare entrarono di corsa e afferrarono George. Anche il maggiore dovette intervenire per aiutarli e poi vennero altri due poliziotti e così ce la fecero. Il naso del maggiore sanguinava, uno dei poliziotti era steso sul pavimento e non si muoveva. George riavvicinò la sua mano alla bocca e restò in piedi sbuffando come un toro, le narici dilatate, fissando il sangue sulla faccia del maggiore. «Aspettate un minuto» disse il maggiore quando i poliziotti cominciarono a trascinare fuori dalla stanza il soldato, e tutti si fermarono. Guardò George Smith dritto negli occhi e gli parlò gentilmente. Respirava a fatica e stava sanguinando, ma fu realmente gentile e chiese: «Che cosa è stato, soldato? Che cosa ti ho detto?». George guardò la cartella sulla scrivania, poi guardò il maggiore che sanguinava, si succhiò il sangue che gli imbrattava la mano e non rispose. Per tre mesi non disse niente perché riteneva di aver già detto molto, troppo. Impacchettarono cartella e soldato e li rispedirono entrambi negli Stati Uniti. George Smith aveva ventitré anni a quel tempo. Veniva dal Kentucky, dalle colline, da quelle colline ricoperte di boschi, da quelle colline costellate di fattorie e dove, ogni tanto, crescono piccole città, lo sapete, come peli, attorno a qualcosa, un crocevia o un buco nella terra, o una miniera. George veniva da una città mineraria. Sua madre e suo padre erano originari del vecchio continente. Si sposarono da questa parte dell'oceano. Il padre lavorava a Charleston, nella Carolina del Sud, quando incontrò la madre. Probabilmente la sola ragione per cui la sposò fu che lei era la sola ragazza che conosceva che potesse parlare con lui. Di sicuro non c'era altro di valido tra di loro. Era un solitario. Ci si sente tanto soli, poi si viene agganciati da qualcuno e si va avanti a essere soli anche quando si è in coppia. Si trasferirono nel Kentucky in modo che lui potesse lavorare in miniera e lì tutti li evitavano perché non avevano mai imparato bene l'inglese. Qualunque cosa fosse quello che suo padre cercava, un amico, un posto a cui
appartenere o diventare qualcuno, lo cercò in una bottiglia. Uno dei primi ricordi di George era il padre ubriaco che urlava con rabbia, la madre che gridava spaventata e a volte lui stesso bambino che strillava. Non si trattava del ricordo di un evento speciale, ma di qualcosa che accadeva spesso e rimaneva impresso nella mente. Non era legato a un'occasione particolare, era invece come una luce colorata o un odore con cui si convive sempre. E poi la fame. George era praticamente sempre affamato. Era affamato quando aspettava che il padre tornasse a casa. E capitava che qualche volta non tornasse oppure che tornasse tardi e bastava una sola parola a questo riguardo e lui cominciava a picchiare. E allora George scopriva che quando sua madre urlava non sentiva più i morsi della fame. Ma tutto sommato era bello. Era bello il bosco. Si poteva camminare nel bosco e sapere sempre dove ci si trovava. Prima appena poco lontano da casa, poi di più e alla fine potevi andare ovunque. Quando pioveva, quando nevicava, anche quando era affamato il bosco non poteva farlo soffrire come soffriva a casa. Poteva morire nel bosco, o venire ucciso, ma il bosco non beveva, il bosco non dava pugni in faccia alla mamma. Stava sempre bene se poteva andarsene nel bosco. Il bosco è morbido, poteva quasi dire a se stesso, le città ruvide. Ci si può stendere nel bosco morbido e bere, ma non lo si può fare nelle città, dove le persone sono in conflitto con se stesse e pungenti. Nel bosco si sa sempre quello che ci si può aspettare. Gli animali, per esempio, non si arrabbiano mai. Se si va per bastonare un coniglio e lo si manca, o lo si ferisce e lui se ne va, non se la prenderà con il suo aggressore. Forse ha imparato qualcosa e forse starà più attento, avrà più paura, ma questo è tutto. Ma se si colpisce una persona non si sa mai come andrà a finire: può non succedere nulla del tutto, ma possono anche capitare molti guai e si può anche andare in galera. Se poi uno scoiattolo vede prendere un altro scoiattolo fa finta di niente. Ma se una persona ti vede accoltellare un'altra persona, sta' attento! Sempre! Per anni e anni. Quando George fu grande abbastanza per camminare, lo fu anche per andare nel bosco. Qualunque cosa accadesse erano là e lo aspettavano. Poi, quando compì undici anni, capitò in famiglia un evento eccezionale: la sorella del padre sposò un uomo che aveva una fattoria nel sud della Virginia e nonostante fosse molto lontano George ci andò di tanto in tanto. Anni dopo avrebbe scoperto che quella fattoria era molto modesta se la si paragonava ad altre fattorie, ma per lui, a quel tempo, fu il paradiso. Poi, in seguito, George visse là stabilmente per un certo periodo, ma questo avvenne più tardi, dopo che tutti morirono.
La sola brutta avventura che capitò a George nel bosco fu quando aveva cinque anni. Aveva sentito delle voci, era strisciato sopra un crinale, aveva guardato e visto un ragazzo che si faceva una ragazza. Non era la prima volta che assisteva a una scena del genere, ma era diverso da quanto accadeva a casa perché la ragazza non stava piangendo. Quello che ricordò sempre più di ogni altro dettaglio di questa scena furono le caviglie della ragazza. Erano per aria e ogni volta che il ragazzo dava una spinta a fondo si muovevano da una parte e dall'altra a piccoli movimenti ritmici. George stava osservando la scena senza pensare a nulla quando l'altro ragazzo — erano in due ad aver portato quella ragazza nel bosco e uno stava girovagando lì intorno aspettando il suo turno — quando, dunque, questo secondo ragazzo saltò fuori dietro George e lo colpì con il tronco di un albero. Non era un albero molto grosso, era morto da tempo e secco, altrimenti credo che George sarebbe morto. Il colpo gli fece molto male e lo spaventò a morte, il ragazzo che lo inseguiva lo colpì otto o dieci volte fino a che George riparò nella boscaglia che era così folta lì attorno e lui era così piccolo che fu come cercare di colpire un coniglio tra i rovi: proprio non puoi farlo. Dicono che questi eventi possono influenzare la vita adulta, ma questo non preoccupò mai George. Voglio dire che se si supponeva che questo potesse spaventarlo fino a farlo allontanare dal bosco, bene, non lo fece. Persino all'età di cinque anni George poteva capire che non era il bosco che gli aveva fatto male. Dunque, George dovette andare a scuola come tutti gli altri e fu lì che imparò per la prima volta a lasciar chiacchierare gli altri dato che tutti lo facevano così facilmente. George era perfettamente in grado di parlare, suo padre glielo faceva fare nel negozio e altrove, ma per molto tempo gli rimase quell'accento straniero che dava un suono particolare a ogni parola tanto che tutti ne ridevano. Naturalmente dopo un po' George riuscì a parlare americano come tutti gli altri, ma ormai l'intera città aveva soprannominato suo padre l'ubriacone della città, come del resto era davvero, e ogni volta che George apriva bocca era come beccarsi un pugno da qualcuno. Inoltre gli altri bambini della città stavano sempre insieme e andavano a casa gli uni degli altri, ma nessuno venne mai a casa di George perché quello era il solo e unico posto in cui tutti avevano paura del padre. E poi la madre era sempre troppo ammalata e troppo stanca. Soffriva di artrite che all'inizio aveva colpito le mani che le facevano male quando doveva lavare e pulire. Ma lei continuava a lavorare per quanto le era possibile e
George l'aiutava quando nessuno guardava. Ma c'era qualcosa che non voleva mai fare: appendere fuori i vestiti perché i ragazzi un giorno lo avevano visto. Tutto questo poteva essere peggio perché George stava proprio naturalmente diventando grande, pesava sei chili quando era nato, sua madre diceva sempre che era stato questo a farle venire l'artrite, allora da quando ebbe otto anni o giù di lì egli crebbe realmente, e questo, insieme al fatto di essere stato bocciato a scuola per due anni, lo faceva essere sempre più grande dei ragazzi con i quali lo mettevano. Quando raggiunse i dodici anni era alto un metro e ottanta e pesava settantacinque chili. A proposito della caccia. Aveva solo sette o forse otto anni quando cominciò a scoprire che ogni posto era buono. Una fionda andava benone, ma ci mise molto a imparare a usarla. A volte poteva beccare un coniglio con un bastone. Bastava andare fuori di mattina presto quando è ancora scuro e appostarsi sul margine di un bosco quando spuntano le prime luci. Hai un bastone lungo quasi settanta centimetri e spesso come il tuo polso, acero verde o noce sono i migliori. Verde perché così è più pesante. Il pino è più facile da tagliare, ma ti lascia sulle mani e sui vestiti quella resina che non va più via. Ti metti seduto nel sottobosco, là dove è più fitto, ma vicino al limitare così il tuo braccio può muoversi liberamente. Stai in piedi con il braccio dietro la schiena e il bastone appoggiato sulla biforcazione di un ramo o in qualche altro posto che ne sostiene il peso e ti convinci che devi stare lì senza muoverti per un sacco di tempo. Quasi subito comincia a far chiaro e allora i conigli escono fuori e si mettono a mangiare il trifoglio, la coda di topo o un'erba qualsiasi, e saltano tutt'intorno o si stendono per terra e si grattano la pancia sull'erba bagnata. Tu scegli il tuo coniglio e decidi che nessun altro ti andrà bene. Non importa se un altro si avvicina di più, lo lasci stare. Quasi subito il tuo coniglio andrà proprio dove tu vuoi che vada e non importa cosa fa, si rotola, agita le zampe per aria, si rannicchia e rosicchia qualcosa, fiuta un altro coniglio o qualunque altra cosa, lo lasci stare. Ma quando si ferma ed è davvero immobile con tutte e quattro le zampe per terra, il mento abbassato e le orecchie a riposo, perché quando le sue orecchie sono alzate vuol dire che sta in guardia, allora puoi lasciar volare il tuo bastone. Lo devi prendere dal ramo su cui l'hai appoggiato perché questo fa un leggero rumore, proprio quello che ci vuole per far rizzare il coniglio sulle zampe. Adesso è dritto come un picchetto di confine. Afferri il bastone e lo scagli, d'un colpo, senza aspettare, lo scagli in basso velocemente, quasi raso terra e non più alto delle sue orecchie. Lo
lanci in modo che giri come l'elica di un aeroplano (ma l'aeroplano dovrebbe volare verso l'alto) e tu balzi fuori e ti tuffi su quel coniglio nel momento esatto in cui il bastone lascia la tua mano. Ora, se il bastone colpisce bene potrebbe staccargli la testa di netto, ma se lo colpisce di striscio, o se lo prende sulla spalla, lo stordisce soltanto e sarà meglio che tu sia lì per acchiapparlo perché può essere solo stordito e poi subito riprendersi e fuggire via prima che tu possa battere ciglio. Se è solo stordito puoi afferrarlo e puoi tenerlo per le zampe posteriori con la mano sinistra e sollevarlo, ma quando lo fai, il coniglio si raddrizza e butta la testa indietro, così con la mano destra gli dai un colpo forte con il taglio della mano, gli rompi l'osso del collo e lui non si muove più e il sangue gli cola dal naso. Ma se lo fai a un topo, a un galletto, a un tasso o a uno scoiattolo, questo non si metterà in orizzontale e alzerà la testa, si raggomitolerà invece nell'altro senso e ti morderà. Uno scoiattolo ti può mordere fino a nove volte prima che tu possa gridare ahi! e ha grandi denti gialli lunghi due centimetri. Un topo che sembra morto ti può mordere anche se lo tieni per la punta della coda, purché riesca a risalire sulla coda con le zampe anteriori e a morderti prima che tu abbia abbastanza buon senso da lasciarlo andare. Uno scoiattolo ti morde in profondità e ti lascia ferite grandi come i suoi denti, ma un topo ha un modo tutto particolare di morderti, il buco che ti lascia è sempre molto più grande dei suoi denti e non si riesce a capire come faccia. Se un topo è stordito e lo vuoi afferrare per la punta della sua coda devi metterci sopra il piede di traverso in modo che la coda resti sotto la pianta del piede e poi tirarlo vicino alla scarpa dall'altra parte del piede. In questo modo ce l'hai saldamente in tuo potere e lui non può far altro che dimenarsi di qua e di là e tu ti ritrovi con una mano libera per dargli una bastonata o per prendere un sasso da terra o il tuo coltello o per saltargli sopra e spiaccicarlo con l'altro piede. Uno scoiattolo di terra, quello che all'Est chiamano tamia, non vale la pena: ha una coda che si stacca se l'afferri, cioè non cade ma scivola via e lui se ne va e il resto della coda avvizzisce e dopo si stacca. Una tamia può mordere quasi peggio di un topo e non si può immaginare quanto grande sia la sua bocca spalancata, e poi, una volta che l'hai presa, che cosa ti ritrovi? Ha meno sapore di una prugna cotta. E non vale la pena di acchiappare una puzzola, anche se è facile da prendere perché non ha paura di niente. Con un opossum, quello che devi fare è sollevarlo da terra. Per un procione devi procurarti un buon bastone, e non fare altro che bastonarlo e stare attento fino a che non sei sicuro, perché se riesce a mettersi con il dorso contro un albero o contro una roc-
cia e non è ancora morto, ti sembrerà che qualcuno ti abbia tirato addosso una sega circolare. Una volta George lanciando un bastone prese un gatto selvatico, ma poi non lo fece mai più. Tutti i gatti hanno lo stesso sapore, respiri con il naso e senti un odore di piscia di gatto. Per ore. Non ci crederete, ma i serpenti hanno un buon sapore, sanno forse un po' di pesce, ma i pesci non sono niente male, solo che non sono caldi. Gli uccelli sono una perdita di tempo, sono tutte piume, solo un paio di volte George vide dei tacchini selvatici, ma non riuscì mai ad avvicinarli abbastanza, neanche da colpirli con una grossa fionda. A parte le anitre. Le anitre sono buone. Quando George fu un po' più grande, dieci o undici anni, diventò bravo con le trappole. Non ebbe mai abbastanza soldi per trappole di acciaio, ma era così bravo con i lacci che non ne ebbe mai bisogno. Era capace di costruire una trappola mortale grande abbastanza per prendere un tasso e questo non è poco, perché un tasso può scavare giù dritto anche attraverso una strada asfaltata se lo deve fare, a meno che il tuo sasso sia grosso abbastanza da ucciderlo al primo schianto, ma il nostro George era un ragazzo molto forte. Questa trappola non è altro che un grosso sasso piatto inclinato e appoggiato a un bastone. Qualcuno lega una corda lunga al bastone e aspetta tutto il giorno fino a quando qualcosa finisce sotto il sasso mentre cerca di prendere l'esca, ma questa è roba da boyscout. A George piaceva puntellare il sasso e poi bucare il bastone e legare la corda nel buco. La corda passa di nuovo sotto il sasso attorno a un picchetto affondato in terra e poi, indietro, a una certa distanza, e tu ci metti l'esca. Una volpe o un opossum afferrano l'esca e tirano, il bastone si spezza e a questo punto il sasso cade. Una carota è l'esca migliore per i conigli perché è resistente. Per le volpi e a volte per i tassi va bene la carne di coniglio, ma non usare mai il rognone o ti beccherai qualche dannato gattaccio. La trappola più bella di tutte è quella a forma di quattro, e George era capace di fabbricarne una più in fretta di quanto ci si mette ad arrampicarsi su un pino. Tutto quello che devi fare è scegliere un bell'alberello giovane e duro, frassino, noce o anche betulla, se ne trovi. Misura la distanza giusta, dipende dall'albero che hai, e scava un buco. Poi ti procuri un ramo grosso come il tuo polso con una bella biforcazione. Lo tagli proprio sotto la V e poi tagli uno dei rami laterali lasciando uno sperone. Ciò che hai adesso è un grosso ramo con una specie di uncino. Lo capovolgi e sotterri la parte con i rami, calpestandolo forte e mettendo dei sassi pesanti nel buco e magari anche un tronco sulla cima, così solo l'uncino capovolto sporge dal terreno. Fai un piccolo intaglio nel gambo dell'uncino e ti prepari un
buon picchetto a due punte da piazzare dentro l'incavo, trasversale alla punta dell'uncino. Ecco, ha la forma di un quattro. Ora abbassi il tuo alberello fino quasi a piegarlo a metà e leghi un pezzo di spago vicino alla cima e l'altro capo dello spago al legnetto appuntito e sistemi il legnetto nell'uncino per formare il quattro. Lentamente fai sollevare l'albero piegato fino a che il legnetto si fissa contro l'uncino. Ora, legato a questo spago proprio sopra il quattro c'è un altro pezzo di spago, e legato a questo nient'altro che una vecchia corda di chitarra numero uno, del tipo con un minuscolo fermo di ottone da una parte che assomiglia a un cilindro vuoto. Fai passare la fine della corda della chitarra attraverso questo come per formare un laccio. Sistemi il laccio attorno all'esca e leghi l'esca con una corda al legnetto a due punte nel quattro. Spargi un bel po' di trituro tutto intorno fino a che il laccio e la corda legata all'esca sono sotterrati, e te ne vai. Al mattino dopo ci trovi un coniglio o un galletto e forse anche una volpe o un tasso. Questo succede perché la prima volta che dà uno strattone all'esca, fa uscire il legnetto e quello si piazza in verticale e quel sottile laccio metallico lo afferra e lo appende più in alto di Haman. Magari è una dannata puzzola o forse niente, o forse la zampa maciullata di una volpe, ma di solito è qualcosa di buono. E sì, a George piaceva cacciare. Ma non gli è mai piaciuto uccidere. Non gli piacevano quelli che uccidevano solo per uccidere. Nessuno dovrebbe uccidere se uccidere non gli serve a uno scopo preciso. Come nel caso dei cervi. Una volta George trovò una cerva schiacciata da un albero caduto dopo un violento temporale e lavorò tutta la mattinata con il solo aiuto di una piccola ascia per liberarla tagliando delle travi fino a quando poté sollevare l'albero facendo leva fino a un'altezza sufficiente perché l'animale potesse liberarsi. La cerva moriva di paura, ma George si mise a ridere e andò avanti a lavorare fino a quando non l'ebbe liberata. George non uccise mai un cervo. I cervi sono, comunque, troppo grandi. Ma il nostro George quando non era a caccia o a pesca passava il suo tempo a pensarci. Sì, a lui piaceva proprio farlo. Nel frattempo seguitava ad andare a caccia e a scuola, la situazione in casa andava peggiorando. L'artrite della madre si era aggravata e presto lei fu costretta a smettere di pulire la casa e non poteva quasi più cucinare. Il padre s'infuriò e da quel momento peggiorò anche lui. A volte restava fuori tutta la notte e al mattino andava a lavorare ubriaco; era un buon lavoratore, un uomo molto forte, ma a volte quando il caposquadra gli faceva un
rimprovero lui si metteva a discutere e una volta arrivò sino a picchiarlo, anche se non molto pesantemente. E così cominciarono a lasciarlo a casa. Quando fu licenziato, ritirò la paga e andò a bere fino a quando non l'ebbe spesa tutta. Quando stava lontano da casa, in quei giorni, la situazione era sopportabile, ma quando tornava le cose andavano malissimo. George e la madre cercavano sempre di non pronunciare parole che lo facevano imbestialire, ma invano. Bastava un nonnulla e lui allora cominciava a battere la madre, e la picchiava proprio in faccia e allora usciva il sangue e la madre piangeva, ma non urlava mai molto forte perché si vergognava. Il padre di solito picchiava anche George; ma George era diventato abbastanza grande da scappar via e tagliava sempre la corda non appena cominciavano i guai e anche prima, appena il padre tornava a casa. Rientrava quando il padre se ne era andato a dormire perché quando il padre si era addormentato non c'erano più problemi e quando si svegliava non ricordava mai niente di quello che era successo. George non si rifugiava mai dai vicini perché a loro non piaceva nessuno della sua famiglia né ricorse mai ai poliziotti perché il padre li odiava e George non aveva mai pensato che ci fosse qualcosa di sbagliato in quell'odio: chi mai glielo poteva spiegare? Se ne andava nel bosco, s'arrampicava su un albero o cacciava se c'era la luna, o si limitava a gironzolare intorno alla casa fino a quando tornava la calma e poi sbirciava dalla finestra per vedere se il padre si era addormentato, e se lo era rientrava e andava a letto. Capitava a volte che fosse già a letto addormentato quando il padre tornava e quelle erano le volte in cui si svegliava sentendo dapprima la madre che gridava: «No, no, non adesso, il ragazzo, il ragazzo» e il padre grugnendo rispondeva che il ragazzo stava dormendo. George teneva gli occhi chiusi e rimaneva sdraiato immobile come faceva nel bosco quando aspettava i conigli, e la madre continuava a gridare «No, no» fino a quando lanciava un piccolo grido e diceva «Le mie mani, oh, le mie mani» perché questo era quello che lui faceva, stritolava le sue mani piene di artrite fino a quando lei cedeva. Il padre era convinto che lei non avesse niente di veramente grave e che faceva finta di aver male. Allora lei smetteva di dire «No, no» ma andava avanti a piangere fino a che lui non si addormentava. Di questo almeno si poteva essere certi: dopo, immediatamente, si addormentava sempre. Quando George compì i tredici anni, era grande come un uomo. Come suo padre, ed era forse più forte di lui, anche se non sembrava saperlo. Suo padre aveva i capelli biondi e un sacco di denti marci. La pelle gli pendeva
sotto gli occhi e le pupille erano perennemente iniettate di sangue. I pantaloni gli stavano meglio se lasciava sporgere la pancia fuori dalla cintura, quindi li portava sempre così. George, da bambino, tentava spesso di portare i pantaloni in quel modo, ma non ebbe mai abbastanza pancia per farlo. Quando diventò più grande smise di cercare di imitare il padre. Dunque, quando ebbe tredici anni successe un fatto che cambiò tutto. Il padre lavorava con continuità e per un certo periodo di tempo c'era stato un sacco di roba da mangiare e George aiutava per quello che poteva nelle pulizie di casa e in tutto il resto. E lo faceva perché il padre quando tornava ed era sobrio e trovava la casa pulita e la cena sul fuoco, forse non si comportava proprio come i mariti gentili e affettuosi che si vedono al cinema, ma almeno entrava e si lavava, mangiava e si sedeva sulla soglia di casa intagliando il legno e andava a letto senza urlare e senza picchiare nessuno. Una volta o due notò qualcosa che George aveva fatto, come, per esempio, imbiancare il muro o fissare la ringhiera della veranda che si era rotta o riparare un gradino o qualcos'altro. Esaminava il lavoro fatto, poi guardava George e diceva: «Pravo! Pravo!» con quel suo accento straniero e allora George desiderava non aver mai fatto niente per lui. Poteva ancora ricordare quell'unica volta in cui il padre entrò in cucina, annusò e disse: «Che puon oddore!» e la madre se ne stava seduta nella sedia a rotelle e piangeva. La sedia a rotelle gliel'aveva data il prete che veniva a visitarla per vedere, credo, se la sedia a rotelle poteva convincere lei o George o anche il padre ad andare in chiesa una volta ogni tanto, ma loro non lo fecero mai; il padre disse loro di non andare e per un mese imprecò ogni volta che vedeva la sedia a rotelle, ciò nonostante le permise di tenerla. Vista la situazione, George e la madre si diedero naturalmente da fare per cercare di mantenere tutto in ordine per far durare più a lungo possibile quel periodo di quiete e fare in modo che il padre fosse contento di tornare a casa e di trovarsi in un ambiente confortevole. Quella particolare sera, tornando a casa, lui avrebbe dovuto fermarsi al negozio perché erano rimasti quasi del tutto senza cibo e avevano in casa solo un pezzo di lardo e qualche rapa. La madre li aveva messi da parte per usarli un'altra volta e, insieme a George, prepararono tutto e si misero ad aspettare che il padre tornasse a casa con il cibo. Nel frattempo, chiacchierando, avevano provato a immaginare quello che avrebbero cucinato a seconda del cibo che lui avrebbe portato con sé in modo da essere pronti e rapidi. Pensarono cioè che se lui avesse comprato un pezzo di carne ne avrebbero tagliate alcune fette, le avrebbero pestate con un piatto per farne delle bistecche da rosola-
re in padella con delle cipolle, se naturalmente avesse portato le cipolle; se invece avesse portato dei cavoli non li avrebbero bolliti, ma li avrebbero fatti rosolare rapidamente nel grasso caldo. George si sentiva sempre molto vicino a sua madre, ma in uno strano modo, come se fosse deluso o qualcosa del genere. E questo avveniva specialmente quando lei si commiserava, piangeva e gli raccontava come avesse preso l'artrite per colpa sua, quando l'aveva messo al mondo, e si batteva il petto scarno dicendo quanto duramente avesse cercato di nutrirlo lei, con il proprio corpo, anche se non poteva perché lui era troppo grosso e lei era troppo malata, e di quanto aveva desiderato di poterlo fare. Era come se lei avesse continuato a nutrirlo con se stessa per tutta la vita, era come se ciò che gli dava le costasse molto, la indebolisse e la facesse ammalare, eppure lei lo aveva fatto e continuava a farlo. Per lui. E allo stesso tempo era come se lui avesse bisogno di avere qualcosa da lei, di prendere ciò che lei gli dava per nutrirlo, anche se non gli bastava mai, anche se non era proprio quello di cui aveva bisogno. È molto difficile da spiegare. Lui, comunque, avvertì sempre questo suo dare e dare da se stessa, e sempre ebbe bisogno di avere qualcosa da lei e le stava intorno per ottenerlo, solo che quello che lei sempre gli dava non era mai ciò che lui voleva. E questo desiderio inappagato lo faceva a volte stare così male che doveva andare di nuovo a caccia. Di solito, dopo, stava meglio. Quella volta, quando stavano aspettando che il padre tornasse a casa e progettavano tutti quei piatti che avrebbero preparato velocemente per offrirgli una buona cena, cominciò a farsi tardi. Parlarono un po' per non pensarci, poi stettero zitti e seguitarono ad aspettare: lei era nella sedia a rotelle e si guardava le mani, le mani che ora erano diventate tutte scure e contorte come dei cipressi. George stava seduto sulla soglia dì casa e guardava verso il sentiero delle mucche che conduceva alla strada da dove doveva arrivare il padre. E quando scese la notte la madre disse più allegramente che poté: «Ho deciso, tagliamo quel lardo e lo friggiamo come il bacon e poi ci facciamo dei panini, poi ne possiamo bollire un altro pezzo con le rape, e poi credo che siano rimasti anche dei fagioli. Una cena completa e l'abbiamo già pronta». Allora George si alzò, era già comunque troppo buio per vederci, accese la lampada a cherosene, rimosse la brace nella stufa e si avvicinò al tavolo con in mano un coltello e il lardo da affettare. Fu così che in quel momento si trovò ad avere il coltello in mano. Non andò a prenderlo e non ci avrebbe mai nemmeno pensato, ma se lo ritrovò tra le mani.
Il padre entrò in casa, ubriaco fradicio, si guardò intorno e disse: «Accidenti a quel polacco». Questo fu tutto quello che avevamo bisogno di sapere: aveva litigato con il caposquadra, era stato licenziato, aveva preso la paga e si era ubriacato. La madre non riuscì a controllarsi, emise un lungo gemito, alzò le povere mani deformi ripetendo senza sosta: «Oh! oh!». Lui attraversò di corsa la stanza e le diede un pugno sul naso con tanta violenza che si sentì il rumore della frattura. Il sangue zampillò prima che lui potesse ritirare la sua mano. George attraversò la stanza, anche se in seguito non riuscì mai a ricordarsi di averlo fatto, e scagliò il coltello. Per un lungo momento tutto restò così calmo nella stanza che non potreste crederlo. Poi il padre si tolse la canottiera, era tutto quello che aveva addosso a parte i pantaloni, perché era stata una giornata calda e abbassò lo sguardo sulla ferita e sul sangue che ne usciva. Le mani appoggiate al naso, la madre seguitava anch'essa a sanguinare e, gli occhi atterriti, fissava il padre. Il padre respinse bruscamente George, afferrò uno strofinaccio e si spruzzò dell'acqua fredda sul torace, l'asciugò con un tovagliolo, prese l'altra canottiera dall'attaccapanni sopra il letto e un tovagliolo pulito, lo mise sulla ferita, indossò la maglietta e uscì. Nessuno aveva pronunciato una parola da quando lui aveva detto «Accidenti a quel polacco». Da allora niente fu più come prima. Il padre aveva ancora del denaro con sé quando uscì da casa e se lo bevve tutto quella notte stessa. Il giorno seguente prese George da parte e gli parlò: gli disse che la sera prima si era ubriacato perché era furioso per il licenziamento, ma dopo quello che era successo si era ubriacato dal dispiacere. Sembrava che gli importasse molto che George capisse quello che gli stava dicendo, ma George non capì e scrollò solo le spalle. Non disse che gli dispiaceva di avergli dato una coltellata o qualcosa del genere e il padre non glielo chiese, anzi a dire la verità non nominò nemmeno il coltello. Comunque non alzò più le mani sulla madre. Passava la maggior parte del tempo seduto sulla porta di casa guardando giù verso il sentiero. In un paio di giorni finirono il lardo, le rape e il pane, ma il padre continuava a stare seduto sulla soglia e la madre sulla sua sedia a rotelle con degli stracci bagnati sul naso. Nessuno aveva il coraggio di parlare con il padre, di dirgli che doveva procurarsi il cibo o andare a lavorare, così il terzo giorno George tornò a casa da scuola con un grosso sacchetto della drogheria. Entrò passando dietro al padre e appoggiò il sacchetto. Sul lato del sacchetto che George aveva tenuto premuto contro il petto mentre lo portava c'era scritto Morosch con una grossa matita nera untuosa. Era il nome di un im-
piegato della miniera. George svuotò in fretta il sacchetto e lo ficcò nella stufa per bruciarlo. Poi nascose tutto: un pollo arrosto, un chilo di hamburger, una pagnotta secca per il ripieno e una fresca, due quarti di latte, carote, un intero mezzo chilo di burro, un vasetto di marmellata di fragole e qualche banana. La madre probabilmente stava troppo male per notarlo, aveva gli occhi pesti e il naso gonfio tre volte la sua grandezza normale. Il padre entrò e guardò la roba mentre George la metteva via. Voleva sapere: «Ta tove hai preso la roba?». George per una volta nella sua vita si voltò e guardò il padre dritto negli occhi. «L'ho rubata. Dal furgone del negozio Acme» ed era la verità. Se il padre avesse urlato, l'avesse picchiato, avesse detto qualcosa o si fosse infuriato, non gliene sarebbe importato proprio niente. Il padre se ne stette zitto per un bel po', poi fece uno strano sorriso. Disse: «Forse stai tiventando qualcuno, ragazo!». E sapete? questo fece sentire George meglio di qualunque altra cosa nella sua vita, non vi sembra buffo? Perché se mai aveva odiato qualcuno, questo era il padre. Se c'era un uomo di cui non gli era mai importato niente di quello che pensava, questo era il padre. Ma quando il padre sorrise e gli disse quella frase lui si sentì avvampare e guardandosi allo specchio, sopra il lavandino, si accorse di essere arrossito e, accidenti, non poté trattenersi dal sorridere anche lui. Dunque, dopo un po' il padre tornò a lavorare. Buttava l'acqua alla testa del condotto di fusione dove nessuno poteva mai resistere a lungo. Chi avrebbe voluto stare all'inferno prima di essere morto? Ma il padre era in grado di tornarci in qualunque momento. E le cose andarono avanti bene, nessun'altra sbornia, mai molte parole, la scuola venne abbandonata e la madre se ne stava seduta sempre più silenziosa. Era come se avesse rinunciato, non avrebbe mai più lottato contro niente, contro lui, contro le umiliazioni o la sporcizia della casa o qualunque cosa. Diventò sottile e leggera come un opossum morto. George poteva facilmente portarla fuori al gabinetto e lasciarla là. Lei chiudeva lentamente la porta e dopo un lungo momento lui si sentiva chiamare, tornava indietro, la trovava là in piedi e la riportava di nuovo sulla sedia a rotelle. George, quando ci pensava, si occupava delle pulizie. Provava sempre il desiderio di andare a caccia, ma si impose di non farlo e non lo fece, stava sempre intorno a lei. Quando le passarono gli occhi pesti e il naso era ormai solo storto ma non più gonfio, mandarono a chiamare l'infermiera del distretto. Questa venne, cinguettò un po', e le consigliò di farsi ricoverare all'ospedale di Mountaindale, ma la
madre disse no! proprio un no deciso. Era la prima cosa che diceva da molto tempo. L'infermiera le prese un braccio, arrotolò la manica e lo osservò, era come vedere due bastoncini di salice attaccati insieme, cercò leggermente di piegare il braccio e di raddrizzarlo, non poteva farlo che per poco da ogni parte e la madre tratteneva il fiato e si mordeva le labbra. L'infermiera alzò le spalle e le lasciò alcune pillole da prendere se avesse avuto dolori. La madre morì circa quattro mesi dopo che fu colpita al naso. Il padre andò al lavoro quel giorno, ma George restò a gironzolare lì intorno e quando venne il furgone a prenderla volle salirci anche lui. Non glielo lasciarono fare. Lui allora gli corse dietro per tutta la strada fino all'obitorio e restò a girovagare lì intorno fino a quando non lo cacciarono. Verso sera, aspettò che tutti se ne fossero andati, andò sul retro, si infilò nell'obitorio e le disse addio a modo suo. Giurò che sarebbero stati insieme in un modo o nell'altro, a qualunque costo. Al mattino era ancora là fuori ad aspettare e restò là fino a quando non ebbero finito e la portarono al cimitero. Venne anche il padre. Stettero fianco a fianco guardando la fossa che veniva riempita e, come disse qualcuno, sembrava che non capissero, e davvero non capivano. Nessuno piangeva. Dopo, il padre tornò alla miniera e George sarebbe dovuto tornare a scuola. Invece andò a caccia. Non prese nulla. Quella fu la parte spiacevole. La vita continuava, George cacciava per la maggior parte del tempo e il padre lavorava. Strano a dirsi, ma il padre cominciò a rimettersi un po' in riga, almeno per quanto riguardava il bere. Lavorava regolarmente e gli dettero un posto agli strumenti di controllo del pozzo e se avesse continuato in quel modo avrebbe finito per fare un po' di soldi, una volta tanto. Ma non era quello che voleva, o almeno non cercò di farlo. Lo strano fu che per la prima volta a memoria d'uomo si occupava della casa. Non molto, ma per tutto il tempo in cui sua moglie era stata al mondo non aveva mai preso in mano una scopa tranne che per picchiare qualcuno e non si era mai bagnato le mani tranne che per lavarsi. Adesso che non importava più a nessuno si era messo a spazzare e a togliere le lattine di birra dal cortile quasi tutti i giorni e anche a pulire i piatti e risciacquarli. Una volta disse a George che gli sarebbe piaciuto avere un orto dove coltivare un po' di grano e dei ravanelli, solo che non aveva la zappa; così George ne rubò una dal banco che stava sul marciapiede di fronte alla Ferramenta Mountain. Il padre la prese e cominciò a imprecare, scuotendo la testa e sogghignando. Sapeva che George l'aveva rubata: dove avrebbe trovato altrimenti il denaro? Ma non glielo chiese mai. Era contento e in effetti zappò un pezzetto di
terra. George allora si recò al negozio Acme e con la scusa di osservare i disegni sulle bustine dei semi, ne rubò otto: grano, melone, girasole, pepe, e il padre li piantò tutti. Una volta, di notte, George stava tornando a casa dalla vecchia cava che si trovava dall'altra parte della città e dove c'erano le rane più grosse, e si trovava proprio in centro quando qualcuno sbucò fuori da un vicolo e gli afferrò un braccio. Stava quasi per colpirlo quando si accorse che era il padre. Il padre si mise a camminargli di fianco e cominciò a dire che non dovevano più andare avanti a vivere come maiali, che se non avesse dovuto spendere tutti i soldi per comprare da mangiare avrebbe magari potuto spendere qualcosa per comprare un tappeto per il pavimento o qualche piatto in più e un mastello dove lavarli o un'altra lampada, qualche quadro e cose simili. Quando arrivarono all'angolo il padre girò intorno a George e tornarono indietro; il padre continuava a borbottare su questo e quello e quando furono di nuovo all'altezza del vicolo il padre si guardò attorno e poi spinse velocemente George dentro al vicolo. Lo percorsero a metà. Era buio pesto, il padre prese il polso di George e tirandogli la mano verso il basso gli fece toccare una di quelle porte oblique delle cantine che sporgono a volte ai lati degli edifici. Il padre la sollevò, questa si aprì un poco e George poté vedere che non era chiusa a chiave. Il padre la riabbassò con molta cautela e si allontanò nel buio, lasciando George là davanti. Dopo un momento George provò ad aprirla da solo, ci riuscì e scese i gradini. Là dentro non riusciva a vederci, ma poteva sentire l'odore della farina, delle prugne secche e di tutta l'altra roba da mangiare che c'era: era la cantina del negozio Acme. Il giorno dopo si procurò dei fiammiferi e quando venne il buio ci tornò e si riempì le tasche con due lattine di latte, un apriscatole, qualche candela di sego e una pila giocattolo con le sue batterie, un oggetto minuscolo, ma proprio quello che gli serviva là sotto. Dopo quella volta ci tornò quasi tutte le notti e portò a casa un sacco di roba, ma George era un ragazzo sveglio e non prese mai niente che non si trovasse negli scatoloni già aperti e non lasciò mai niente in giro, né carta da imballaggio né fiammiferi usati. Quando stava là, seduto sotto la porta del vicolo, in ascolto come faceva nel bosco, si sentiva sempre al sicuro. Il padre non disse mai nulla mentre lui piano piano riempiva la casa, tutte le credenze e sotto il lavandino con cibo in scatola, dolci, riso, lenticchie e tutto il resto. Non si parlavano molto lui e il padre, ma ora il loro rapporto era migliorato, il padre mantenne la promessa fatta e spese qualche soldo per comprare un piccolo tappeto
per il centro del pavimento e alcuni piatti di poco prezzo. Dopo un po' di tempo George scoprì che anche il negozio della carne aveva una porta laterale che dava nella cantina, solo che era chiusa a chiave. Gironzolò per la città un paio di giorni fino a quando vide arrivare il furgone delle consegne, aiutò l'autista a scaricare qualche scatola di prosciutto, quattro quarti di bue e quattro pezzi di maiale e mentre faceva il terzo viaggio su e giù per le scale vide dove avrebbe potuto bloccare la serratura a molla inserendoci un pezzo di cartone e lo fece. Quella stessa notte scese giù nel seminterrato e da lì risalì ed entrò nella macelleria. Controllò attentamente la strada fuori, poi si decise e aprì la cella frigorifera. Appena la porta fu spalancata, si accese una luce violenta. George si spaventò moltissimo e si infilò nella cella richiudendo la porta per nascondersi. La luce si spense e quando si voltò verso la porta non riuscì a trovare una maniglia per riaprirla. Se fosse stato di sabato lo avrebbero sicuramente ritrovato morto il lunedì mattina. Invece lo ritrovarono vivo ma ridotto come un ghiacciolo quando aprirono la cella frigorifera il giorno dopo. Il buffo è che la porta si poteva aprire mediante un pedale che stava lì accanto in modo che il macellaio potesse uscire dalla cella anche se aveva le braccia cariche di carne, ma come poteva saperlo un ragazzo che si trovava al buio e che aveva dimenticato la pila? Lo misero in cella di sicurezza e lo fecero rinvenire e un paio di giorni dopo il giudice Manorora lo condannò a due anni per scasso e tentata rapina. Il padre aveva la stessa faccia di quando era al funerale. Era come se non capisse quello che stava succedendo e c'erano alcuni sussurri, cenni e ammiccamenti tra il giudice e il prete che aveva dato alla madre la sedia a rotelle e l'infermiera che si era fatta viva. Il padre se ne stava seduto e probabilmente capiva una parola su dieci. George non disse nulla anche perché dopo che l'avevano sgelato non faceva più caso a quello che gli succedeva. Dopo tutto due anni non erano poi una condanna molto dura. Doveva passarli in una specie di orfanotrofio invece che in una prigione. Nessuno scoprì mai niente a proposito della roba del negozio Acme. George si sarebbe messo a ridere se non fosse stato così sorpreso da non poterlo fare: l'edificio in cui lo mandarono all'inizio aveva sbarre alle finestre, le porte non avevano maniglie ma solo buchi per le chiavi, era circondato da un recinto di rete metallica sovrastato da cavi di filo spinato che pendevano, c'erano torri per sentinelle agli angoli e un piccolo cancello anteriore senza maniglia, con solo il buco della serratura, e due grandi can-
celli sul retro per i camion, così quando un camion oltrepassava il primo cancello che veniva chiuso, rimaneva bloccato sino a quando aprivano il secondo. Per tutto il tempo che ci rimase non chiusero mai tutti e due i cancelli e non vide nessuno nelle torrette per le sentinelle, ma quello che era veramente buffo era l'idea che qualcuno potesse aver voglia di scappare da un posto del genere. Ognuno aveva un letto con un lenzuolo pulito, una coperta pulita, due ripiani e un armadio a muro con una tenda scura come porta per riporci gli effetti personali. Tra ogni letto c'era una parete di separazione in legno così una volta che uno era là dentro si trovava come in una piccola cameretta da solo, tranne che per un'apertura che c'era in fondo lontano dalla finestra. In mezzo a ogni due letti, giù nel corridoio c'era un piccolo lavandino per lavarsi, e non sto scherzando, uno per ogni due letti, con acqua calda e fredda. Per ogni quattro letti c'era un gabinetto dall'altra parte del corridoio e un orinatoio di quelli dove si sta in piedi, e se anche non c'era porta, chi ne aveva bisogno? Di notte un guardiano e due custodi sorvegliavano ogni corridoio a ogni piano; sei corridoi in tutto. Portavano scarpe di gomma morbide ma potevi comunque sentirli arrivare. Per prima cosa al mattino venivano accese le luci e ognuno saltava giù dal letto, si infilava i pantaloni e andava schiamazzando a lavarsi la faccia e i denti e al gabinetto mentre i guardiani e i sorveglianti se ne stavano distanziati nel corridoio con un quaderno e una matita per segnare il tuo numero se ti azzuffavi o se non ti lavavi i denti o se dimenticavi di lavarti di nuovo le mani quando uscivi dal cesso. Quando si scendeva bisognava mettersi in fila per due, senza correre e senza spingere e si andava in un bel ristorante, dove però non c'era da pagare. Andavi al tuo posto e stavi lì in piedi fino a che la direttrice, un donnone grasso, recitava le preghiere e tu chinavi la testa, poi quando lei aveva finito ti sedevi e i sorveglianti ti portavano le uova strapazzate e secchi pieni di cioccolata bollente da versare nel tuo boccale di stagno. Filo spinato? George pensò subito che servisse a tenere la gente fuori, non dentro. Forse le uova liofilizzate, perché tali erano, dopo alcuni mesi diventavano vecchie, ma quante volte era andato a scuola o fuori nel bosco senza colazione del tutto, lasciando in casa il padre ubriaco e la madre ammalata e piangente? Al piano inferiore oltre alla sala del ristorante — che si poteva usare anche come cinematografo o come chiesa — c'erano un barbiere e un pronto soccorso, come un ospedale, con due stanze, e un'intera fila di quelle che loro chiamavano celle e che servivano come parlatori quando qualcuno, un
medico, un prete, una madre o qualche altro estraneo, voleva parlare in privato a un ragazzo. Poi c'erano anche le cucine e gli uffici. Così era l'edificio, alto tre piani, circondato di rete metallica, ed era il posto dove si andava all'inizio. Dopo un po', quando immaginavano che tu avessi capito l'andazzo, ti spostavano in un altro edificio. Alto solo due piani e senza rete metallica. Ce n'erano cinque, tutti uguali. Lì non c'erano uffici, c'erano solo un paio di celle e il pronto soccorso aveva una stanza sola. In ogni edificio, una delle celle era stata trasformata in biblioteca. Ogni fabbricato aveva un vero pianoforte, una propria squadra di pallone e un campionato ogni anno. Tutti i giorni c'era scuola dalle 8 alle 12, poi si pranzava e si tornava a scuola dalle 2 alle 4. Ogni giorno metà di ogni squadra doveva lavorare nei campi, dalle 4,30 fino al tramonto o fino alle 6 in inverno. E se vuoi sapere come potevano farli lavorare senza stargli addosso, be' ogni edificio aveva il suo orto ed era previsto un punteggio a seconda di quanto grano o quanti pomodori o qualsiasi altra verdura si raccogliesse e se pensi che quei tornei fossero combattuti, amico, dovresti vederli i ragazzi strappare le erbacce. C'era anche un tirocinio pratico per carpentieri, elettricisti, saldatori e panettieri. Tutti in quel posto dovevano lamentarsi perché se non lo facevi ti prendevano per matto. Ma io posso scommettere tutto quello che ho che neanche uno su cento di quei ragazzi aveva mai vissuto così bene là da dove veniva. Eppure ci si doveva lamentare, questo è quanto. E bisognava anche fare casino per mostrare che eri un duro e che avevi la ragazza. George avrebbe voluto avere un soldo per ogni diecimila volte che quei piccoli teppisti parlavano di donne, ma bisognava farlo. E c'era sempre qualcuno nei guai perché faceva scherzi ai froci o a quelli che pensava fossero froci o a quelli che desiderava fossero froci. Quasi tutti non avrebbero saputo cosa fare se un frocio avesse detto sì, anche se sapevano che non sarebbero stati beccati, mentre, invece lo sarebbero stati. A George quel posto piaceva veramente. Non che l'abbia mai confessato. Là dentro, avrebbero distrutto chiunque l'avesse detto. Forse dipendeva proprio da come era George. Prima di tutto era grande e grosso così nessuno lo scocciava. Poi, tutte le volte che nella sua vita si era trovato in mezzo ad altri ragazzi, questi erano sempre tutti della sua città, lo conoscevano, sapevano del padre ubriacone e della madre che non sapeva parlare bene l'inglese, sapevano che lui era stato bocciato e tutto il resto. In quel posto invece, nessuno aveva mai sentito parlare di lui. Tutto quello che sapevano era che lui era dentro per furto con scasso, mentre quasi tutti gli altri erano
là dentro perché i genitori non li volevano o perché erano morti o altre ragioni simili. Poi, lì tutti indossavano lo stesso tipo di abiti, dormivano nello stesso tipo di letto e quindi, di che cosa potevano vantarsi? Al paese, invece, un ragazzo aveva una bicicletta, l'altro le scarpe nuove e il padre di uno era il direttore del personale della miniera. E poi c'era un'altra cosa molto importante: la scuola. Il ragazzo che andava bene a scuola prima di essere schiaffato là dentro, continuava ad andare avanti. Mentre quelli che erano rimasti indietro — specialmente ragazzi come George rimasti indietro perché erano stati sbattuti da una parte e dall'altra e non perché erano nati stupidi — be', a quei ragazzi i professori dedicavano più tempo e veniva data loro una reale possibilità di recuperare. George rimase davvero sorpreso dalla scuola. Non sapeva che la scuola fosse così facile e interessante. Aveva sempre pensato che fosse un posto che serviva per togliere i ragazzi dalla strada per la maggior parte della giornata e per poterli facilmente beccare qualunque cosa avessero fatto. Lì gli spiegavano cose che non aveva mai saputo, ma che avrebbe dovuto sapere, come il motivo per cui le assi che aveva usato una volta potevano sollevare un grosso albero che schiacciava un cervo, e gli mostravano come costruire marchingegni come una trappola a forma di quattro, come collegare sei pulsanti e quattro campanelli in modo che i pulsanti controllino i campanelli che scegli tu, o quando tirar fuori il pane che aveva lievitato abbastanza. Dopo tutto, il motivo per cui a George piaceva tanto quel posto dipendeva molto da George stesso, da come lui era: da niente e nessun altro. George teneva la bocca chiusa. George aveva sempre tenuto la bocca chiusa, da quando era bambino, prima perché aveva paura o vergogna ad aprirla, poi perché era troppo difficile farsi capire dagli altri e alla fine solo perché ormai si era abituato a farlo. Quasi tutti quelli che hanno dei problemi sono, in genere, anche dei bugiardi. È sempre meglio dire la verità, questo è quanto di più saggio sia mai stato detto sulla bugia, perché se dici la verità non devi preoccuparti di ricordare quello che hai detto. Ma ancor meglio che dire la verità è tenere la bocca chiusa. Se menti qualcuno interverrà per chiederti di provare ciò che dici. Se ti vanti, anche se si tratta di verità, qualcuno te ne chiederà conto e tu dovrai sforzarti di essere all'altezza di quanto hai ammesso. Se fai una qualunque affermazione c'è la probabilità che qualcuno, ascoltandoti, non ti capisca o non senta bene. Ci sarebbero molti guai e fastidi in meno per molti se la gente non parlasse tanto. Questi erano però tutti argomenti su cui George pensò a lungo quando divenne adulto, ma non quando si trovava in quel posto e aveva quattordici anni. Comunque
questo fu il comportamento che scelse sin da quegli anni: tenne sempre la bocca chiusa. Non prese mai nemmeno l'abitudine di fare amicizie particolari, così se ne poteva stare per suo conto. Tutte le volte che si convinceva che qualcosa gli conveniva, la faceva. Ma non cercò mai di coinvolgere nessun altro, non ne parlò mai, e così nessuno lo costrinse mai a spiegare le sue ragioni. C'è un sacco di gente intorno a te capace di parlare con abilità, ma che sa ben poco, e sarebbe certo capace di aver la meglio in una discussione se solo tu gliene dessi la possibilità. Si impara, comunque, molto di più se si tiene la bocca chiusa. Se apri la bocca, ti si chiudono le orecchie. Ma ci sono anche dei casi in cui sarebbe bene potersi tappare le orecchie. Se George se ne fosse stato per conto suo, non sarebbe stato costretto ad ascoltare tutte quelle chiacchiere sul sesso e sul fottere. Ogni giorno, ogni momento c'era qualcuno che ne parlava. George aveva visto abbastanza scopate da averne abbastanza per lungo tempo e non era costretto a fantasticare sull'argomento, come in realtà facevano quasi tutti quei ragazzi. E fu allora, mentre frequentava la scuola, che George cambiò e da ragazzo si fece uomo e se ne accorse. E se ne accorse più di quanto avrebbe dovuto proprio a causa di tutte quelle chiacchiere. Alla fine dovette decidersi e cominciò a rifletterci di notte, sdraiato nel suo letto. Gli ci volle molto tempo prima di concludere il suo ragionamento, ad ogni modo questo fu il suo pensiero. Essere in grado di sborrare non ti trasforma in un essere speciale perché anche un coniglio è capace di tanto. Sborrare è forse più piacevole di cagare o di pisciare, ma se ci rifletti a fondo non è poi un evento tanto speciale perché non devi essere tu a determinarlo: non ci puoi fare niente. Basta aspettare abbastanza a lungo e poi, naturalmente, succede e sei pronto a scaricarti, come avviene quando dormi; non puoi fare niente per fermarlo anche se lo volessi; proprio come, prima o poi, ti tocca andare al cesso che tu lo voglia o no. Non si tratta quindi di qualcosa su cui rimuginare o di cui preoccuparsi, come fanno invece tutti gli altri con tutte quelle chiacchiere. Se poi l'impulso si fa pressante e tu non vuoi aspettare allora deciditi e sbarazzatene. Capita, in genere, di andare al cesso anche prima di averne urgente bisogno. Le sole riflessioni sul sesso che George riuscì mai a fare nacquero da un'intuizione che lui, in un certo senso, aveva sempre avuto, ma che solo più tardi, quando fu cresciuto, riuscì a elaborare. Si rese conto che tutto ciò che nel mondo intero è vivo, incomincia sempre prima di tutto con il prendere,
poi elabora e finalmente espelle ciò che non gli serve più. A prescindere da quello che sta facendo, ogni essere vivente, in realtà, vive solo per questo primo atto di primaria importanza che consiste nell'assumere. Assume, elabora e poi espelle lo scarto. Prendere, assumere, incamerare è la sola ragione di vita, l'obiettivo per cui cresce, il modo con cui cresce. Non importa quanto ti faccia sentir bene o quanto se ne parli o quante siano le norme su cui passa sopra, non ci si può nascondere il fatto che il sesso è solo un impulso di secondaria importanza. È un'esperienza che ci si lascia alle spalle quando si procede nella vita. Durante il corso di scienze, a scuola, quando passarono allo studio della biologia, George aveva imparato a memoria una frase del suo libro di testo: nessun organismo vivente è in grado di sopravvivere in un ambiente costituito dai propri prodotti di scarto. Seguitando a riflettere e a cercare le parole con cui definire il suo pensiero, George giunse a questa conclusione con cui chiuse per sempre l'argomento: l'azione primaria, l'assumere, ti dà Soddisfazione, l'azione secondaria, l'espellere lo scarto, ti dà Sollievo. C'è tanta gente al mondo, malata e sofferente, che non sa riconoscere questa differenza. Gli uomini vanno quasi tutti alla ricerca di un sollievo e poi si deprimono se non dà loro soddisfazione. Ma è naturale che il sollievo non dia soddisfazione, non può assolutamente farlo. La soddisfazione viene prima, consiste nell'assumere ciò di cui si ha bisogno se si vuole rimanere vivi. Il sollievo viene dopo, quando si espelle quello che non serve più e che ci si lascia alle spalle. Se cerchi di tornare indietro per raccoglierlo, non ti stupire se ti sentirai un po' sciocco e anche un po' ripugnante. Bene, passarono i due anni di detenzione, George lavorò nei campi, imparò abbastanza bene a fare il falegname e il panettiere, ma quello che gli piaceva di più era il lavoro di elettricista. Quando lasciò la scuola era in grado di collegare una gabbia per scoiattoli a un motore elettrico o a un deviatore. Sapeva anche saldare, non solo fili, ma anche tubi, abilità che oggi hanno solo in pochi, ma che serve molto, sapeva unire lastre di lamiera, sovrapposte o affiancate. Era bravo anche nei lavori dell'officina meccanica. Aveva assimilato i concetti elementari della matematica, sapeva abbastanza di geometria da misurare un campo o la quantità necessaria di carta da tappezzeria, abbastanza di trigonometria da misurare gli angoli per costruire una rampa in legno per i camion, abbastanza di algebra da bastargli per il resto della vita. Non gli piaceva l'algebra e nemmeno l'inglese. Non gli piaceva giocare al pallone ma gli piaceva fare il tifo per la sua quadra. Preferiva tutti quei lavori che poteva svolgere da solo. Non gli pia-
ceva tenere un capo della fune mentre qualcun altro teneva l'altro. Studiando fisica scoprì la parola risultante. Considera una massa e legaci una fune, tu tiri un capo della fune a nord e io tiro l'altro a ovest, il peso non si muoverà né verso nord né verso ovest, ma si muoverà in una direzione risultante nord-ovest. Ora, quando George tirava a nord, voleva che il peso andasse a nord e non in qualche altra direzione. Così qualsiasi cosa gli altri chiamassero cooperazione, George la chiamava risultante e questo lo metteva in una situazione di disagio e lo spingeva a voler lavorare da solo. Trascorse quasi due anni senza caccia: un fatto molto strano perché dopo che ti avevano spostato dalla Gabbia — che era il grande edificio circondato da filo spinato dove ti mettevano all'inizio — non eri più segregato. Dovevi essere dove dicevano loro quando lo dicevano loro, e questo per quasi tutto il tempo, ma oltre i campi verso sud c'era il bosco e se volevi allontanarti e andare a caccia potevi farlo. Eppure sembrava proprio che a George non importasse. Lo tenevano occupato e non aveva mai abbastanza tempo per svolgere tutte le attività che lo interessavano. In tutto quel periodo non desiderò mai andare a cacciare. Alla fine del secondo anno lo chiamarono in ufficio e lui si disse, bene, ci siamo, mi rilasciano. Ma non era quello che avevano da dirgli. Erano spiacenti di dovergli comunicare una triste notizia: suo padre era morto. George se ne stava in piedi lì nella stanza e seguitava a fissarle: la signora Dency, la grassa direttrice, e la signorina Grasheim, l'infermiera alta, brutta, ma gentile, e una delle dattilografe che se ne stava lì, pronta a intervenire se mai lui si fosse sentito male o fosse svenuto. Bene: non successe niente. Lui continuò a stare in piedi sbattendo le palpebre e cercando di assorbire fino alle sue ultime conseguenze il concetto di morte quando la signora Dency disse finalmente: «George, adesso telefono al tuo edificio e dico di lasciarti salire in camerata. Forse avrai voglia di sdraiarti e riflettere». Ed era esattamente proprio quello che lui desiderava in quel preciso momento. Questa era la straordinaria qualità di quella grassa signora Dency: otto volte su dieci indovinava ciò che più desideravi. Mentre stava uscendo lei gli disse che se ne avesse avuto voglia poteva andare a parlare con lei in qualunque momento. Quando giunse al suo edificio, lei aveva già telefonato, e lui poté salire direttamente di sopra, anche se normalmente era proibito farlo durante il giorno. Si lasciò cadere sul letto. Forse gli altri si aspettavano che lui pensasse, ma per un lungo momento non gli venne in mente niente a cui pensare. Quando finalmente riuscì a pensare fu come se stesse raccontando una barzelletta. Be', se vivi in un orfanotrofio,
devi pur essere orfano! Dopo un po' si alzò, si tolse la maglietta, allentò la cintura, abbassò i calzoni sotto all'ombelico e lasciò protendere la pancia sopra la fibbia. Rimase a guardarsi la pancia, poi scosse la testa e risistemò i calzoni. Riusciva solo a ricordare il padre quando faceva schizzare il sangue dal naso della madre, o quando barcollava ubriaco sul sentiero e urlava come un ossesso o quando se ne stava smarrito nell'aula del tribunale mentre lo condannavano. Ricordava l'espressione della sua faccia quella volta che George aveva rubato il primo sacco della drogheria. Ricordava quella faccia, le vene dilatate sotto la pelle, le chiazze rossastre, le sopracciglia bionde e biancastre, i capelli e le due borse scure formate dalle palpebre inferiori, gli occhi piccoli, iniettati di sangue, d'un azzurro slavato, i suoi denti storti e marci: tutto quel guazzabuglio di faccia con tutti quei tratti incasinati, messi insieme, almeno una volta, per almeno un disgustoso secondo, in modo che George potesse pensare con un certo piacere, sorpreso e orgoglioso, che dopo tutto quell'uomo aveva significato qualcosa per lui. George si riscosse e si sdraiò sul letto. Non provava niente, non si sentiva nemmeno sollevato. Be', suo padre per lui non era mai stato tanto un peso da sentirsi bene dopo averlo perso. Poi, finalmente, gli venne in mente quello a cui avrebbe dovuto pensare. Non aveva mai fatto dei veri e propri progetti come, innanzi tutto, imparare un mestiere, essere in grado di trovare un lavoro e non aveva mai nemmeno pensato che ci potesse essere un altro luogo dove andare che non fosse la città mineraria o di poter andare a vivere in una casa che non fosse quella capanna a cui si giungeva dopo aver percorso quel misero sentiero per le mucche. Suo padre stava là e questo era il solo motivo per cui ci sarebbe tornato. Ma adesso il padre non c'era più. All'improvviso questo pensiero lo colpì. No, non lo colpì, non fu un colpo. Avvenne come gli capitò una volta, quando era bambino ed era sul fiume e sonnecchiava al sole sdraiato in una vecchia barca a remi legata ad alcuni salici. Se ne stava tranquillo e osservava la grana del vecchio legno grigio là dove una volta c'era un nodo, notando come le venature profonde come solchi del vecchio legno corroso giravano intorno a quel nodo. È così che a volte vedi cose come quelle, che sebbene non si muovano il tuo occhio continua a girarci dentro, fuori, attorno e ancora indietro e in quel modo ci vedi due spirali di pelo sul dorso di un gatto. Lui continuò a lungo a fissare quel legno sino a quando lo conobbe bene. Era mezzo addormentato, ma riusciva a sentire il contatto di un lato della barca sulla sua testa e
il fondo della barca su cui era disteso. All'improvviso qualcosa lo costrinse a sedere. C'era intorno a lui un paesaggio che non aveva mai visto prima. La fune con cui la barca era legata si era sciolta e la corrente l'aveva spinto più a valle per mezzo miglio o più. Provò uno strazio profondo come se un paio di grandi mani lo stessero squartando, quando si accorse quanto estraneo gli fosse il mondo di fuori in confronto a quanto gli era invece familiare quello che c'era dentro la barca. Per un lungo momento non riuscì a muoversi. Rimase a guardare le rive sconosciute e poi tornò con lo sguardo verso il nodo che era sempre esattamente uguale. Lo fece più e più volte e sentì l'identica pressione del legno sul suo corpo. Era come se fosse in grado di recepire che tutto fosse nuovo o tutto vecchio, ma non potesse essere l'uno e l'altro. Steso sul letto, mentre pensava al padre morto, George si sentì perso e diviso come quella volta. Lì, a scuola, era vissuto nel solo modo reale che gli fosse mai stato concesso, se vivere è andare avanti scoprendo cose sempre nuove. Lì, a scuola, c'era la vita vera, invece fuori era diverso, era come se non fosse mai quello che lui aveva visto l'ultima volta che aveva guardato. Si alzò dal letto e guardò fuori dalla finestra. Erano le quattro di un giorno di primavera inoltrata e non c'era nessun posto dove andare fino alle 6.30; comunque anche se a quell'ora non si fosse fatto vedere la signora Dency non avrebbe detto niente, non quel giorno. Sapeva di non andare incontro a guai, eppure fu molto attento. Si fermò a metà scala per lasciar passare due ragazzi che al piano di sotto attraversarono l'atrio e scomparvero. Poi invece di passare attraverso i campi andò fino al fienile, lo attraversò e proseguì in quella direzione. Arrivato nel bosco, si sentì subito meglio. Da queste parti c'erano più che altro querce e aceri; gli mancavano le sottili e macilente betulle e senza i pini il profumo non era lo stesso. Ma le foglie erano nuove e non erano ancora grandi. Vide subito uno scoiattolo rosso, ma non ne fece niente. Avrebbe forse tentato di cacciarlo se fosse stato grigio, ma non uno rosso che può quasi balzare oltre una pallottola o abbassarsi improvvisamente e lanciarti uno sguardo rapido prima di fuggire. Scoprì degli escrementi nell'erba non calpestata e proprio mentre pensava a una marmotta vide delle foglie di acero strappate e capì che era un riccio. Gli mandò alcune maledizioni. Non poteva aver la meglio con un vecchio porcospino senza essere munito di guanti e coltello. E lui non aveva né guanti né coltello. Lo scoiattolo rosso si allontanò tra i rami sopra la sua testa squittendo energi-
camente contro due ghiandaie. Improvvisamente George cadde e rimase immobile. Aveva la posizione giusta per rialzarsi dato che giaceva sul lato sinistro. Non l'aveva mai provato prima, ma l'aveva letto in un libro della biblioteca a proposito di una volpe grigia. Lo scoiattolo sbucò fuori dalla cima di un acero dove c'erano poche foglie e un po' di brezza per sostenerlo, eppure in qualche modo lo reggevano e seguitò a squittire, e ad agitarsi tanto da disturbare per almeno un miglio il circondario, dalle formiche agli alci. George non si mosse. Allo scoiattolo non piaceva affatto. Non gli era mai capitata quella situazione e non pareva piacergli. Sgambettò lungo il tronco, salì e scese varie volte, seguitò a fischiare, a squittire e anche a battere i denti, ma George non si mosse. Lo scoiattolo se la prese con il tronco, scrostò un paio di scaglie di corteccia con i denti, le portò lungo un ramo e le lasciò cadere una dopo l'altra su George. Un pezzo di corteccia gli colpì proprio la guancia e l'occhio, ma lui non si mosse. Lo scoiattolo strepitò, tornò di corsa, scese lungo il tronco, giunse a terra e rimase immobile su tre zampe, con la quarta zampa pronta a balzare sul tronco per darsi alla fuga se fosse stato necessario, ma George non si mosse. Lo scoiattolo appoggiò per terra la quarta zampa e zittì, George continuò a stare immobile. Lo scoiattolo si fece avanti con una andatura che nessuno scoiattolo; e specialmente uno scoiattolo rosso, avrebbe mai usato. Non salticchiava, ma avanzava ondeggiando sugli artigli, le zampe rigide e la coda ritta. Per mezzo metro circa sembrò quasi che procedesse su piccole ruote. Poi urtò contro le foglie secche che frusciarono, lo spaventarono e l'animale sparì come in un cartone animato. C'era solo la sua testa che faceva capolino dietro il tronco. George non si mosse. Allora lo scoiattolo con due grandi balzi tornò ad avvicinarsi e si fermò a un metro di distanza. Ricominciò a fame di tutti i colori ma quando con un salto si fece più vicino, George lo colpì violentemente con la destra nella frazione di secondo in cui lo scoiattolo era per aria. Se quella piccola testa rossa vide arrivare il colpo, e sicuramente lo vide, non c'era niente che potesse fare per schivarlo. Il pugno di George lo colpì con tanta violenza che se non ci fosse stato lo scoiattolo la mano sarebbe penetrata nel terreno fino al polso. George ammazzò lo scoiattolo spiaccicandone il piccolo corpo contro il terreno. Dopo, George si sentì molto, molto meglio. Restò nel bosco un'altra ora, ma non vide nient'altro tranne un pipistrello pezzato addormentato a testa in giù sotto la biforcazione di un pioppo. Ma chi aveva voglia di cercar rogne con un pipistrello? Gli sarebbe piaciuto
trovare una bella lepre o un giovane opossum, ma in quel bosco sembrava che non ce ne fossero. Lo scoiattolo aveva comunque fatto la sua parte e questo era maledettamente meglio di niente. Dopo cena andò dalla signora Dency. Lei lo fece entrare in una delle celle, andò a prendere alcune carte, tornò indietro e chiuse la porta. «Siediti, George» disse perché lui aveva imparato ad aspettare stando in piedi. «Grazie, signora» disse perché aveva imparato a dire grazie, e a dire signora. «Ti senti meglio? Sì, vero, lo vedo. George, mi dispiace molto.» «Va tutto bene» disse George. La donna appoggiò le spalle allo schienale e strinse le labbra come faceva sempre per mascherare la sorpresa. Aveva i capelli neri con una ciocca di capelli bianchi di lato, portava occhiali cerchiati di nero con un nastro fissato nel punto in cui l'asta andava dietro le orecchie così che se le cadevano restavano appesi. George disse: «Avevo sempre pensato di tornare, ma adesso non m'importa più». La signora Dency distese la bocca e sorrise. «Cosa ne dici di tua zia?» Aveva buttato là l'idea come se fosse un biglietto da mille dollari coperto di cioccolata. Il sorriso svanì perché George non reagì, restò solo seduto. «Non ti piacerebbe, George?» George disse No. La zia, sorella di sua madre, aveva in effetti chiesto un paio di volte che George le fosse affidato. Le due sorelle non erano mai andate d'accordo, zia Mary era più vecchia di sua madre e si era molto irritata all'idea che la madre di George si fosse sposata prima di lei. Poi quando il padre aveva cominciato a bere e la situazione era peggiorata lei lo aveva saputo e aveva spesso chiesto che George andasse a vivere da lei, ma lo aveva fatto solo per fare bella figura o per inferire sulla madre, e non certo perché voleva veramente George. Aveva poi sposato quel povero diavolo di contadino in Virginia. Come lo aveva fatto prima, per umiliare sua sorella, aveva insistito per avere George con sé: un modo per farle capire che lui si sarebbe trovato meglio con lei, e che la loro situazione era più agiata. Adesso che la madre era morta, George non si fidava di questo invito perché non ne capiva la ragione. George, inoltre, non andava d'accordo con il marito di zia Mary per quel poco che l'aveva conosciuto. George era certo che tutti e due gli avrebbero rinfacciato di essere stato messo dentro per scasso e tentata rapina e non gli avrebbero mai permesso di dimenticare. Ma George non confidò a nessuno tutti questi suoi dubbi perché non parlava mai di
niente, e poi perché pensava che erano affari suoi. Disse solo No. La signora Dency parlò a lungo sull'argomento, ma alla fine George chiese di restare proprio dove si trovava. La signora Dency ne fu molto sorpresa, ci pensò un po' e poi disse va bene. George aveva solo quindici anni a quell'epoca e aveva scontato la sua condanna di due anni. Se rimaneva un altro anno avrebbe compiuto sedici anni e la scuola avrebbe potuto rilasciarlo senza che fosse costretto ad andare da un parente. George si sbagliava su un paio di punti, ma lo scoprì solo molto più tardi. Come avrebbe mai potuto accorgersene se non ne parlava e si limitava a starsene là davanti seduto? Restò per un altro anno e non avreste potuto notare nessuna differenza: lavorava a scuola, nell'officina e nei campi, faceva il tifo per la squadra di pallone. Il suo gruppo vinse la spiga di grano e George vinse la sola cosa che abbia mai vinto in una qualunque competizione e lo fece riuscendo a mangiare una torta di mirtilli con le mani legato dietro la schiena. Eppure una differenza c'era. Durante i primi due anni stabiliti dal tribunale, la legge e la scuola lo tenevano sotto controllo. Se fosse scappato lo avrebbero ripescato e allora lui sarebbe dovuto andare in prigione e fino alla fine della pena non avrebbe più potuto mangiare gelati e andare al cinema. Ma durante il terzo anno, dopo aver scontato la pena, lui se ne stava là dentro perché non c'era nessun altro posto dove avrebbe voluto andare, anche se non l'aveva mai confessato a nessuno per non essere bistrattato. Non aveva mai pensato seriamente di scappare, ma se l'avesse fatto durante quell'ultimo anno non lo avrebbero trattato come un criminale evaso, avrebbero preso in considerazione il suo caso, gli avrebbero chiesto se era in qualche pasticcio, se aveva un posto dove andare e, se non avesse fatto guai, lo avrebbero rilasciato senza neanche riportarlo indietro. George, tuttavia, sentiva che la sua posizione era molto diversa, ma per lui questa diversità non giocava in suo favore, anzi peggiorava la sua situazione. Era abbastanza sveglio da non far trasparire questi pensieri, ma quel che conta in una situazione del genere è come la vivi. Non cambiò comportamento ma prese la nuova abitudine di sgattaiolare sempre nel bosco. Non portò mai nessuno con sé e non combinò mai molto tranne una volta in cui trovò un'intera figliata di volpi, ma fu quasi un caso. Per il resto non c'era un granché da fare perché non acchiappi conigli se non puoi appostarti sul bordo di un prato al buio e aspettare l'alba,. e non ti viene in mente di preparare una vera e propria trappola col sasso o una a forma di quattro se non sei sicuro di poterla lasciare in un posto dove nessuno può arrivare o dove
tu puoi andare quando te ne viene la voglia. Era bello allontanarsi di tanto in tanto, ma d'altra parte non bastava mai e non era mai giusto. Come quando tu desideri qualcosa da morire, è meglio non avere niente piuttosto che ottenerne un po' per volta. Per George rimase un mistero la ragione per cui era riuscito a trascorrere due anni senza neanche pensare al bosco, mentre poi d'un tratto durante il terzo anno gli mancò tanto da avvertire sempre uno strano calore nel ventre. I due primi anni erano passati come un lampo, ma il terzo durò un'eternità e fu come non passasse mai. Più o meno verso la fine dell'anno George fu convocato dalla signora Dency. Lui ci andò e lei lo portò nel suo ufficio e chiuse la porta. Là c'era la zia Mary. Era una donna piccola, George lo aveva sempre saputo, ma non la ricordava così piccola, forse perché lui, nel frattempo, era cresciuto molto. Assomigliava alla madre, ma non molto. Aveva un naso assai lungo, sempre rosso in punta e George immaginava che sotto la punta fosse anche umidiccio. Zia Mary parlò con voce morbida come quella dei piccioni, così morbida che ti faceva sembrare musicale qualunque cosa dicesse. George, nel preciso momento in cui la vide, si accorse di non provare più alcun risentimento, se mai l'aveva provato. E se fosse venuta l'anno prima, sarebbe stato lo stesso. Ma come si possono prevedere reazioni del genere? Probabilmente la signora Dency aveva architettato quello che avrebbe detto e quello che zia Mary avrebbe dovuto dire e c'era da scommettere che si era tenuta zia Mary in quell'ufficio per almeno un'ora prima, per spiegarle come trattare George. Quindi, appena George fu entrato e zia Mary lo aveva salutato, le due donne si sedettero e George disse grazie signora no grazie e rimase là in piedi, la signora Dency respirò a fondo e prendendola alla lontana, con vari raggiri cercò di arrivare al punto, mentre zia Mary stava seduta dritta sul bordo della sedia di vimini e guardava con gli occhi che le brillavano come quelli di un cane quando tu hai un pezzo di carne in mano e lui spera che sia per lui, ma ha paura di fartelo capire. Così in una maniera molto buffa, quando finalmente la signora Dency si decise a dire che zia Mary desiderava che George andasse a vivere alla fattoria, questa sembrava quasi aver l'intenzione di toccarlo, ma poi si ritraeva e poi tornava lentamente a protendersi. Allora George disse, ed erano le prime parole dopo ciao, disse: «Ma certo che lo voglio». La signora Dency, comunque, non riuscì a interrompersi come se stesse cadendo da una scogliera e si trovasse a mezz'aria, e continuò per almeno
un minuto blaterando a proposito del sangue che è più consistente dell'acqua e sui vantaggi di avere una casa e una famiglia. Si fermò solo quando zia Mary si alzò, si avvicinò a George e gli afferrò tutte e due le mani. Così la faccenda si concluse. Il percorso in autobus fu piuttosto lungo, zia Mary non parlò molto e George come sempre non parlò del tutto. Eppure, prima che arrivassero alla fattoria, George aveva capito un sacco di cose: nessuno ce l'aveva con lui perché era stato messo dentro. A pensarci meglio lui non era stato condannato per scasso e tentata rapina, almeno non certo per due anni, ma il tribunale, il prete e l'incaricata dell'assistenza si erano convinti che, dopo la morte della madre, per lui sarebbe stato meglio andare a scuola piuttosto che rimanere in quella loro casupola con l'ubriacone del paese. Forse, dopotutto, zia Mary desiderava che lui andasse a casa sua soltanto perché lo voleva e non per fare dispetto a qualcuno come diceva sempre la madre. George capì che l'unico di cui si doveva preoccupare era il marito, un cafone di nome Grallus, Jim Grallus, zio Jim. A prima vista non pareva esserci niente da temere. Zio Jim, era un uomo magro alto solo un metro e sessanta circa, ma come la maggioranza dei piccoletti ce l'aveva con gli uomini alti, specialmente quando poteva dar loro ordini. Tipi simili ne incontri a iosa durante il dannato servizio militare. Il vecchio George però lo sapeva già anche se aveva solo sedici anni e come sempre niente è così brutto se ci sei preparato. Per un lungo periodo di tempo zio Jim non mostrò quasi questo suo risentimento. All'inizio George fece fatica ad adattarsi alla fattoria, che era così diversa dalla scuola. Gli dettero una camera tutta per sé e questo era un miglioramento, ma per un sacco di tempo non riuscì ad adattarsi a dormire con più di tre pareti intorno al suo letto, era come avere la bocca e metà del naso fasciati, si respira normalmente, ma mai abbastanza. Col tempo George cominciò ad apprezzare di avere una camera tutta per sé. Inoltre George reagiva sempre allo stesso modo, se lo si metteva in un posto nuovo con gente nuova lui ammutoliva più del solito, e per un lungo periodo si rese conto che zia Mary e zio Jim pensavano che lui fosse stupido. Rispondeva a monosillabi a tutte le loro domande: Sì e No e Tutto bene, e quando gli chiedevano di raccontare come era stata la sua vita a scuola o a casa, lui riusciva solo a fare un vago sorriso, agitava le mani ma non diceva niente. Durante tutta la prima parte di quel periodo di adattamento, per i primi otto, nove mesi, George dovette andare nel bosco un sacco di volte e pur-
ché avesse fatto il suo lavoro, e non mancò mai di farlo, lo lasciavano andare. C'era là attorno un gran bel bosco, più bello di quello del Kentucky. Per un paio di volte aveva intravisto persino degli orsi, ma non ne aveva mai preso uno. Ma non aveva mai visto degli opossum come quelli, tanto erano grandi e grassi, e c'erano anche procioni, conigli e castori, ma non molti. Così all'inizio George andava a caccia perché in qualche modo si sentiva spinto a farlo, poi per continuare a essere sicuro che sapeva farlo. Poi incontrò Anna e smise completamente, perché avvenne come nei primi due anni alla scuola: non ci pensava proprio più. Aveva già più di sedici anni quando incontrò Anna e lei aveva forse otto anni più di lui. Il suo vecchio possedeva circa duecento acri di terra, mentre zia Mary ne aveva solo quarantasei e si trattava per la maggior parte di pascoli argillosi, di rocce e boschi che si stendevano sul pendio di una collina. Il terreno del papà di Anna era forse anche peggio e c'erano sette bambini da sfamare. George pensava sempre che doveva essere bello avere una famiglia numerosa con tante persone che si appartenevano, mentre lui non aveva nessuno con cui parlare. Lo disse ad Anna e scoprì che lei pensava invece che doveva essere bello starsene da solo, in una piccola fattoria tranquilla con solo tredici mucche da mungere al mattino e alla sera, e una camera tutta per sé. Che buffo pensare che l'uno invidiava la vita dell'altro. George incontrò Anna alla latteria quando suo papà fu costretto a letto per essersi slogato una spalla cadendo da un fienile. Lei aveva guidato un furgone fino alla latteria e lui l'aveva aiutata a scaricare i quaranta bidoni da un quarto. Non si parlarono molto all'inizio. Anna non era bella e questa era la ragione per cui era ancora alla fattoria. Non c'era nessuno che avesse l'intenzione di sposarla. Anna aveva la faccia larga e rosea e i capelli e gli occhi neri, e teneva la testa china in avanti come fanno quelle donne che hanno quel tipo di gobba che viene chiamata la gobba delle vedove. Aveva le braccia e le cosce grosse, ma la vita, gli avambracci, le caviglie e i piedi erano sottili. Una donna così fatta non eccitava molto George, ma lo faceva sentire a suo agio. La terza volta che la vide le disse che c'erano quasi dodici miglia di strada dalla casa di zia Mary alla fattoria di suo padre, ma forse lei non sapeva che attraverso il bosco non c'era più di un miglio. Lei ci pensò sopra, gli sorrise e disse sì è vero, e lo èra perché le due fattorie si trovavano sui due lati opposti della montagna e le strade seguivano le valli. Bene, disse, forse capiterà che qualche volta, quando era fuori a caccia l'avrebbe vista nei
campi. Lei ripeté forse e questo fu tutto perché la volta dopo, quando lui andò alla latteria, c'era solo suo padre. George non parlò mai con suo padre. Non molto tempo dopo, era già estate e c'era ancora luce un paio d'ore dopo la mungitura, senza incertezze se ne andò nel bosco, sì avviò su per la montagna e poi di nuovo giù per la china e prima ancora di rendersene conto ci arrivò. Lei era seduta fuori dal recinto, al limitare del bosco, vicino al pascolo settentrionale del padre. Lui chiese: «Che cosa fai seduta qua fuori?». Lei rise e rispose: «Suppongo che ti stavo aspettando». E quello fu l'inizio. Presero l'abitudine di fare lunghe chiacchierate su come era fortunata lei con tutta quella grande famiglia, su come fosse fortunato lui senza famiglia, e su tutti quegli argomenti. Lui non era mai stato con una ragazza prima, lei invece aveva conosciuto molti uomini che lavoravano con la trebbiatrice o altre macchine e che non abitavano da quelle parti. Potreste pensare che scoprirlo avrebbe fatto arrabbiare George, ma a lui non importava. Quegli uomini facevano tutti parte del passato, e il passato era passato. Lei allora non aveva un ragazzo fisso, ma adesso ce l'aveva ed era lui. Lei gli mostrò cosa doveva fare. Potrete non crederlo, ma George non la forzò mai a farlo. Facevano tutto quello che lèi voleva fare e a lui piaceva farlo, ma solo perché faceva piacere a lei. Era per lei, come lo voleva lei. Lui aveva sempre paura di farle male alle mani o qualcos'altro. Fu solo dopo la terza settimana che forse in qualche modo lui prese l'iniziativa. Era una notte calda e più che altro lei emanava un odore che gli piaceva. Profumava di buono, come il fiato di una mucca sa di buono, come il fieno appena tagliato sa di buono, come la latteria sa di buono la mattina prima che il latte versato s'inacidisca. Gli venne quel fuoco nella pancia come quando aveva bisogno di cacciare, ma quella sensazione era anche piena di rabbia repressa mentre questo suo desiderio non lo era affatto. All'inizio lei gli disse di no, che non era giusto, ma lui continuò e a poco a poco lei lo lasciò fare. Bene, lei sapeva che lui non le avrebbe mai fatto male e che non ne avrebbe mai parlato. Quello fu il periodo più bello di tutta la vita di George, fu meglio dell'esercito, della scuola o di qualunque altra cosa. A volte lo zio Jim era veramente duro con lui, dipendeva da come si sentiva, e a volte George faceva uno sbaglio, ma solo perché non era in grado di fare meglio, come quando ammucchiò un covone di fieno e questo crollò, o la volta che lasciò andare
le galline nel vecchio pollaio dove si presero la coccidiosi, o come diavolo si chiama, e il primo giorno s'indebolirono, il secondo non potevano camminare e il terzo giorno cominciarono a morire e fu un miracolo che non perirono tutte. A George non piaceva commettere errori, lo faceva star male e si arrabbiava con se stesso. Se solo lo zio lo avesse capito, ma come poteva? Allora s'arrabbiava e lo rimproverava. A volte faceva un freddo cane e a volte si scoppiava dal caldo e lui doveva lavorare giorno e notte senza fermarsi come quella volta che il vitello nacque di traverso e nello stesso giorno il temporale abbatté parte del recinto. E capitò anche che l'ascia dopo aver colpito un nodo particolarmente duro gli sfuggì di mano e gli affettò un lato della scarpa e il piede. Ma nonostante i problemi, le discussioni, e il lavoro duro, quello fu sempre il periodo migliore della sua vita. Non successe mai niente che lo costrinse a vagare nel bosco con un bastone o una trappola, proprio non ne sentiva bisogno. Andava fuori molto spesso, e gli zii pensavano che fosse per cacciare e invece era per incontrare Anna. E se anche a volte non la vedeva era sempre meraviglioso, era come se di proposito non mangi e ti senti affamato per fare in modo che il pasto successivo abbia più gusto, e sai che lo puoi fare perché sei assolutamente sicuro che ci sarà un pasto successivo. E piaceva anche ad Anna. In casa nessuno faceva molta attenzione a lei, a patto che facesse i lavori domestici. E lei li faceva. Lo strano fu che nessuno scoprì mai niente. Eppure George e Anna non fecero mai niente per mantenere il segreto. Per loro diventò un'abitudine, nient'altro, si incontravano soli nel bosco, in una specie di caverna che conoscevano. A volte si incontravano alla fattoria o in città e chiacchieravano, ma tutti lì si conoscevano e nessuno ci fece mai caso. E anche se alla gente piace spettegolare e combinare matrimoni, nessuno pensò mai nulla a proposito di George e di Anna. Lui aveva solo quindici anni quando arrivò alla fattoria, e lei ventiquattro o giù di lì. Lui era grande e abbastanza bello tanto che alcune delle ragazze in città lo prendevano in giro e lo chiamavano cercando di attirare la sua attenzione. Anna era una di quelle persone che quando sono in mezzo a dell'altra gente tu sai che ci sono, ma non riesci a distinguerne il viso. Così anche quando la gente li vedeva insieme in città nessuno ne pensava niente e nessuno li vide mai in nessun altro posto. George, lui, era troppo giovane per pensare al matrimonio e per di più non aveva soldi, e Anna, per quanto la riguardava, probabilmente non ci aveva mai neppure pensato. Ci sono alcune persone che dicono a se stesse, bene, penso che questo non faccia per me, e non ci pensano più.
Be', per Anna quel momento era passato da molto tempo. Due anni e mezzo in quel modo e cominci a pensare che qualunque cosa tu stia facendo è naturale che continui così per sempre. Ma non fu così. Ci fu una volta in cui George e lo zio Jim Grallus ebbero davvero un duro litigio, fu in novembre, quando diventa scuro presto. Dopo la mungitura e la cena George sgusciò fuori nel bosco e su per la collina e lui e Anna passarono un sacco di tempo a sistemare la caverna che avevano là vicino al pascolo settentrionale del papà. Non era un granché, ma era riparata dal vento. Così tra il lavoro e il tempo passato a giocherellare con Anna, era abbastanza tardi quando tornò indietro. Scoprì solo più tardi quello che era successo mentre lui era via. Quasi tutte le notti c'era sicuramente un animale che rubava le galline e probabilmente, nel bel mezzo della notte lo zio Jim le aveva sentite starnazzare. Sta di fatto che era uscito in pigiama e con una lampada in mano. Fuori dal pollaio c'era una grossa puzzola che, quando vide lo zio Jim, si rifugiò nel ripostiglio dei finimenti sotto il granaio. Zio Jim furioso, le corse dietro e con la lampada poté vederla raggomitolata nell'angolo che lo guardava. Lì vicino c'era un forcone e lui era così arrabbiato che lo raccolse e lo scagliò contro la puzzola. Bene, una delle punte attraversò la pelle sul fianco della puzzola e si conficcò nel muro e l'animale restò bloccato, ma anche lo zio Jim fu bloccato perché tutti sanno che una puzzola puzza, ma nessuno sembra sapere che ha anche degli artigli niente male e un muso pieno di denti aguzzi come quelli di un gatto ed è veloce e forte come un lupo. E quella puzzola era veramente grossa. Lo zio Jim non poteva quindi liberare la puzzola e neanche l'animale riusciva a liberarsi e pareva impazzito. Zio Jim urlò un bel po', ma siccome si trovava dietro il granaio, lontano dalla casa, e siccome soffiava un forte vento — era una di quelle notti d'autunno di mezza luna e di mezza bufera — zia Mary non sentì. E George non era neanche in casa, ma zio Jim non lo sapeva. Bene, si sgolò fino a diventare rauco. Aveva freddo e gli dava fastidio la puzza. Forse pensò di lasciar morire dissanguata la puzzola, ma l'animale non perdeva molto sangue, così si appoggiò alla forca e sonnecchiò. Poi si svegliò, rabbrividì e si riaddormentò. Più o meno a quell'ora George rientrò. Alla luce della luna vide la porta posteriore del granaio aperta. Non c'era luce all'interno perché la lampada si era consumata già da parecchio tempo. Così George si fermò proprio lì davanti, invece di proseguire direttamente oltre. Spinse la porta, la chiuse, mise la sbarra e entrò in casa. Naturalmente il rumore della sbarra risvegliò
zio Jim che ricominciò a urlare e a dare calci alla porta ma ormai George aveva girato l'angolo e, a causa del vento che sibilava e al fatto che pensava, credo, ad Anna, George non udì niente. Lo zio Jim, intanto, era rimasto chiuso dentro al buio con la puzzola. Quando si era mosso per scalciare contro la porta aveva lasciato andare il forcone. E là dentro quei due fecero un tale bailamme che dopo circa dieci minuti il grosso toro Holstein, be' soprattutto Holstein, che stava nel granaio, cominciò a sbattere contro la stanga, le mucche diventarono irrequiete, i maiali si svegliarono, e forse la scrofa pestò un maialino che si mise a strillare. A questo punto ci fu abbastanza rumore perché George Smith lo sentisse. Corse là e dovette arrivare fino al cortile e al granaio prima di udire finalmente le maledizioni e i gran colpi che venivano dal ripostiglio dei finimenti. Si precipitò ad aprire e ne schizzò fuori la puzzola, così furente che quasi non toccava terra, e pareva volare. Quella puzzola non la presero mai. George sorpreso riuscì appena a spalancare gli occhi e la lasciò scappare. Poi arrivò zio Jim. Chiese solo chi aveva chiuso la porta e aveva messo la sbarra. E George ammise che era stato lui, ma... Ma niente. Subito zio Jim cominciò a inveire lanciando maledizioni. Non permise a George di spiegare ciò che era successo, non volle ascoltarlo. E invece tirò fuori tutto quello che pensava di George. Gli urlò che era stupido e goffo e pigro. E più urlava, più si arrabbiava; era come se avesse un boccale pieno di odio per George e per tutto quello che riguardava George con un tappo avvitato stretto, e il tappo fosse scoppiato e tutto l'odio stesse straripando. Se George fosse stato un abile parlatore come lo erano gli altri ragazzi non sarebbe andata così male, ma George riuscì solo a restarsene in piedi, là davanti allo zio, come un fantoccio, con un vago sorriso stampato sulla faccia. In realtà non era veramente un sorriso, George sicuramente non aveva voglia di sorridere, ma cosi sembrava. Questo fece impazzire lo zio Jim. Gli lanciò tutta una serie di nuovi improperi. Si scagliò contro la madre e il padre di George, disse che non si erano mai sposati e che quindi lui era un bastardo. Accusò George di essere un omosessuale. Quello che forse voleva dire era che George non aveva una ragazza e che gli piaceva solo andarsene per conto suo nel bosco. Disse che il padre di George era un ubriacone, un buono a nulla e che sua madre sarebbe stata una puttana se non fosse stata troppo maledettamente brutta. Accusò George di essere un ladro, uno scassinatore, un ex galeotto e disse che era disgustato e stanco di vedere la sua faccia. Sotto quella valanga di insulti George non aveva certo voglia di sorride-
re, ma non riusciva a pensare a niente da dire, così seguitò a sorridere. Lo zio ricominciò a urlare con più violenza, le parole si perdevano nella schiuma che gli usciva dalla bocca, aveva lo sguardo allucinato di un pazzo e persino un occhio storto. Si mise a colpire George. Ma lui era così piccolo e George così alto che doveva allungarsi per arrivargli alla faccia. George aveva un paio di pugni poderosi grossi quanto la metà della faccia di zio Jim, ma non li alzò mai. Aveva un coltello da caccia nella cintura ma non gli venne neanche in mente di usarlo. Zio Jim continuava a colpirlo, non era abbastanza forte da finirlo con un pugno, ma continuava a punzecchiarlo. Allora George gli diede uno spintone e si ritrasse, ma le urla e il modo in cui la schiuma continuava a uscire velocemente dalla bocca di zio Jim, lo fecero smettere. Sentì del sangue in bocca e ne gustò il sapore. Urlò, lanciò un solo grande, enorme urlo e corse via. Lo zio restò là fermo gridandogli alle spalle: «Non tornare. Non tornare». George non sapeva dove stava andando. Non sapeva in quale direzione stava fuggendo fino a quando non si ritrovò davanti a quella specie di caverna che lui e Anna avevano sistemato. Vi strisciò dentro. Respirava a fatica come se stesse ancora correndo o piangendo. Il sangue gli gocciolava e aveva gli occhi pieni di lacrime. Annusò il vecchio lenzuolo che avevano là, si stese e si rotolò in preda alla disperazione. Provava un bisogno tortissimo, ma non sapeva cosa fosse. In genere sentiva il bisogno di Anna, ma Anna era a letto addormentata e non c'era modo di andare da lei senza creare problemi. Se avesse potuto andare da zia Mary probabilmente lei lo avrebbe aiutato, ma non c'era modo di farlo senza trovarsi vicino a zio Jim. Pensò anche alla signora Dency, ma lei era a miglia di distanza e lui non l'avrebbe mai più rivista. Gli faceva male la pancia e gli dolevano le ferite in faccia e in testa. Alla luce del giorno riuscì a vedere il sangue che gli era gocciolato dal mento sulla mano, era un sangue nero, e lui pensò che era il sangue di sua madre. Lanciò un urlo, come aveva fatto nel granaio. Poi rimase seduto immobile, a lungo, senza pensare. Poi si alzò, attraversò il bosco, si diresse verso lo steccato del terreno del padre di Anna e poi, all'angolo, cambiò direzione, scese la collina attraverso il bosco e raggiunse la strada. Durante il percorso si fermò a un ruscello per pulirsi. Faceva molto freddo. Non ci fece caso, si sentiva bene. E si diresse verso la città. Lasciò fuori la strada e tagliò attraverso il bosco come gli piaceva fare. Passò vicino a una fabbrica che produceva scatole di carta e di cartone con la legna di quei pini gialli che crescono ai margini dei campi di cotone già
sfruttati. Là, non lontano dal binario morto della ferrovia, c'era una piccola capanna dove stava un vecchio guardiano che aveva la faccia di suo padre. Il guardiano era ubriaco, puzzava di pelle sporca e di liquore a poco prezzo proprio come il padre, e come il padre si mise improvvisamente a inveire contro George. Fu troppo per George, così si rifugiò di nuovo nel bosco e vi restò a lungo, tre, quattro giorni. Non lo seppe mai. Non mangiò, non dormì e probabilmente non bevve neanche un po' d'acqua. Più tardi ricordò chiaramente una scena, come un quadro: la caverna, l'odore del loro lenzuolo e Anna seduta vicino a lui che piangeva. Di ciò che accadde veramente, lui seppe solo quello che gli raccontarono. Anna lo riportò da zia Mary. Era debole, sofferente e aveva la febbre alta. Fu un vero miracolo che lei riuscisse a portarlo così lontano, ma Anna era piuttosto forte. Stette male per una settimana. Restò a letto nella sua camera senza dire una parola nemmeno quando fu in grado di farlo. Zia Mary cercò di spiegare a George per quanto le fu possibile il comportamento di zio Jim, soprattutto quando lui non era nei paraggi e non poteva ascoltarla. Disse che era in tutto e per tutto un piccolo uomo e che si arrabbiava sempre quando aveva a che fare con un uomo grande e grosso. Gli disse anche che avevano litigato lei e zio Jim a proposito di George. Lo zio non l'accusò mai veramente, ma le disse che lei guardava con troppo compiacimento, anche se non sapeva di farlo, quel ragazzo alto e forte dai capelli biondi e dai muscoli di acciaio. Inoltre lo zio Jim non era più un galletto. Quindi se lo aggiungi al resto si può comprendere che zio Jim ce l'aveva a morte con George perché era giovane, perché le donne lo consideravano bello, perché era forte, perché piaceva a sua moglie, e soprattutto perché non riusciva a capirlo: come si fa a capire un ragazzo che non dice mai niente? E poi, per colmare la misura, la notte della puzzola zio Jim aveva pensato che George stesse ridendo di lui. George non rideva di lui. Un episodio del genere fa ridere, ma non quando ci sei di mezzo. Zio Jim non chiese scusa a George, ma zia Mary disse che era dispiaciuto e George le credette. Zio Jim non ne parlò mai e se anche non ci crederete, tutto tornò come prima. Ricordatevi, però, che George fin da piccolo era abituato ad assistere alle liti e sapeva anche che dopo tutto ricominciava come prima. In questo caso forse andò persino meglio di prima. Zio Jim si era scaricato di un grosso peso ed era lento a ricaricarsi. Inoltre cercava in tutti i modi di dimenticare un episodio di cui non era orgoglioso. Non che facesse una grande differenza per George, ci era abituato. Zia Mary era
sempre molto gentile e affettuosa anche se era un po' spaventata dalla rabbia che provava zio Jim perché lei aveva un debole per George. Andava invece veramente meglio e senza screzi tra George e Anna. Ad Anna fece un gran bene occuparsi di lui quando lui si era ammalato e non era stato autosufficiente. E questo fece bene anche a George. George ripensò spesso a quei giorni, alla febbre e alle ferite. Un ragazzo desidera intensamente nel suo intimo sentirsi accudito, sentirsi al sicuro, essere certo che c'è qualcuno che si prende cura di te, e smettere di pensare. E vissero tranquillamente in quel modo fino a quando George ebbe diciannove anni e Anna si ammalò. Di buono ci fu soltanto che George sapeva perché lei vomitava: era incinta, ecco perché. Se lei non si fosse proprio fatta vedere e lui avesse cominciato a gironzolare intorno alla casa del padre facendo domande, avrebbe creato un pasticcio ancor più grave. Non ne era sicuro, ma era convinto che i suoi sapessero quel che era successo ad Anna ed era pronto a scommettere che impazzivano per scoprire di chi era la colpa. Erano un gruppo di persone testarde, i suoi, non lo avrebbero fatto sapere in giro, ciò nonostante, qualunque ragazzo si fosse fatto avanti e avesse chiesto di lei sarebbe stato in pericolo. Così era un bene che lui sapesse e potesse starsene lontano. Lui lo sapeva già che Anna era incinta quando lei glielo disse. Vomitava continuamente, si chiama la nausea del mattino, ma nel caso di Anna avveniva durante tutto il giorno e lei non tratteneva niente nello stomaco. Aveva saltato il suo ciclo già due volte, e lui, be', se ne era accorto prima di lei. Anna non aveva l'abitudine di tenere il conto dei giorni. Così quando lei smise di farsi vedere dopo i lavori di casa era perché stava male e se ne doveva restare a letto. All'inizio fu solo una seccatura, ma quando cominciarono a passare due, quattro, sei, sette settimane, divenne difficile reggere. George ormai aveva bisogno di Anna, non riusciva ad andare avanti senza vederla. Cominciò a stare in ansia: se lei era così ammalata e non sarebbe migliorata, lui che cosa avrebbe fatto? E se invece stava riprendendosi o era già guarita, ma era arrabbiata e non voleva più avere a che fare con lui? Questi dubbi gli erano insopportabili e passava dall'una all'altra ipotesi, ammettendo in cuor suo che nonostante gli anni in cui l'aveva frequentata, non la conosceva abbastanza da sapere se gli avrebbe scaricato addosso un tale peso. Oltre all'essere preoccupato, cominciò a odiare quel piccolo mascalzone che cresceva dentro di lei, anche se era solo un bambino. Lui se ne stava là al caldo, continuamente nutrito senza fare niente, senza nemmeno dover
pensare, mentre George doveva fare a meno di Anna. Era come se Anna avesse qualcun altro e George l'avesse perduta per un altro ragazzo più forte o più intelligente o più ricco, be', avrebbe potuto sentirsi offeso e anche triste, ma almeno chi aveva avuto la meglio era qualcuno, era, in qualche modo, più importante di George. Invece, quest'animale dentro di lei, che cresceva come una specie di grossa verruca o qualcosa del genere, per lui non rappresentava niente, anche se lo aveva battuto senza sforzo, senza neanche provare, senza neanche sapere che lui era là. E fu quella l'unica volta che lei lo fece arrabbiare. Accidenti! Per quale ragione si era fatta mettere incinta, lui ne avrebbe fatto a meno, l'aveva voluto solo lei, e adesso... Ricominciò a occuparsi delle sue trappole, riprese ad andare spesso a caccia e in quelle occasioni andava alla caverna, se ne stava là seduto, intagliava il legno con il suo coltello e odiava quella creatura che cresceva dentro di lei. E questo fu il motivo per cui decise di arruolarsi, perché le cose si erano messe così male che non riusciva a far niente, neppure a dormire, provava sempre quella rabbia nello stomaco ed era sempre più difficile liberarsene. Era come se un ordine circolasse nel bosco, tutti erano fuggiti, conigli, procioni, scoiattoli e topi, e quello che era rimasto era gracile e macilento. Ma era solo suggestione perché avvertì questa medesima sensazione anche quando prese l'opossum più grasso e più grosso che avesse mai visto. Si mise a girovagare sempre più lontano, senza sapere ciò che stava cercando, ma pensando che l'avrebbe trovato altrove, lontano, se non riusciva a trovarlo vicino a casa. Fu in piena estate che scoprì la tana di un castoro su per una collina e che si mise al lavoro per costruire una trappola, una grossa trappola perché un castoro è difficile da prendere. Lui aveva sempre sistemato le trappole dove nessuno andava mai, non per evitare di far male a qualcuno, ma solo perché non aveva senso mettere trappole in posti dove la gente poteva andare a sbattere. Non c'è un individuo su un milione che sappia starsene tranquillo in un posto se rimane solo nel bosco, ed è proprio questo che non va nella gente in genere. Il giorno dopo tornò alla trappola messa vicino alla tana del castoro e vi trovò un maledetto moccioso agganciato per una gamba. A George parve di impazzire dalla rabbia e stranamente più provava rabbia e meglio si sentiva. Ci si arrabbia così tanto quando ci si sente persi e confusi, ma non si avvertono né confusione né paura finché dura l'arrabbiatura. Si mise a picchiare quel ragazzino capace solo di occupare la trappola e si rese conto che per lui quel ragazzino era il bambino che stava crescendo
dentro Anna e che lo aveva sostituito. Finalmente poteva prendersela con quel bambino. Il giorno dopo andò in città e parlò con l'uomo dell'ufficio postale e zia Mary lo seppe solo quando le portò a casa le carte da firmare. Aveva scelto la sua strada. Tutto avvenne così in fretta che lei e zio Jim non seppero nemmeno cosa dire, lei era come impietrita e zio Jim continuava a ripetere: «Non è possibile, non è possibile» e quando George indossò la divisa, gli disse: «Figlio, noi abbiamo fatto del nostro meglio». George riuscì solo a sorridere. Sorrideva sempre quando non sapeva cosa dire e se ne andò. Be', non si fa che dire come funzioni male l'esercito, questo pidocchioso, maledetto esercito dove tutto si svolge all'insegna dello "sbrigati e aspetta". Ebbene io dico che c'è un sacco di ragazzi nell'esercito che vengono trattati molto meglio di quanto lo siano mai stati prima, che un mucchio di quelli che più si lagnano e mormorano non avevano da dire una sola parola prima di mettere su pancia per la prima volta in vita loro. C'è una sbobba migliore di quella che passa l'esercito, ma la sbobba dell'esercito, quella solita almeno, è molto meglio di quanto sia mai capitato di vedere a un bel po' di questi ragazzi. E rimarreste sorpresi se sapeste quanti di loro non avevano mai dormito abbastanza nella loro vita, una settimana dopo l'altra, e quanto poco avessero potuto tenersi puliti prima. Basta fare quel che ti dicono e non offrirsi volontari per guadagnarsi una bella vita. Vuoi prendertela? Fa' pure, ma non saranno che idiozie e piccolezze quelle di cui ti preoccupi, mentre le cose davvero importanti le decidono loro per te, e non hai da preoccuparti. L'ho già detto prima e dovrò ripeterlo in seguito, ma fondamentalmente non c'è una sola cosa di cui l'uomo ha più bisogno che di riempirsi la pancia e lasciare che qualcuno si prenda cura di tutto quel che pensa. E a meno che non lo voglia, non è tenuto a farlo. Se questo non corrisponde in tutto e per tutto all'esercito, be' allora non so che cosa sia. Per una volta nella vita George ebbe l'impressione di aver preso la decisione giusta. A volte gli dispiaceva non poter vedere Anna, ma qualunque cosa le fosse accaduta lei non era sola al mondo e si sarebbe trovata bene, a meno che non fosse morta, certo. Ma in tal caso che ci si. poteva fare? Comunque, grazie ai due anni di addestramento a scuola di meccanica, George aveva tutto quel che voleva e, per una volta, un po' di soldi da spendere. Per lui era come essere ancora una volta alla scuola, solo più grande e anche più facile. Quand'era arrivato alla scuola gli ci era voluto
un sacco di tempo per imparare che cosa poteva fare e cosa non poteva, ma nell'esercito già lo sapeva, e meglio di tanti altri ragazzi che non avevano mai vissuto in un dormitorio o in una caserma. Non si mischiava con nessuno e nessuno si occupava di lui, era ancora un ragazzone che teneva la bocca chiusa, che è poi la ricetta per esser lasciati soli se lo si vuole. Quando fu il momento, neppure si prese la prescritta licenza prima di rinnovare la ferma. Si limitò a ciondolare in giro nei paraggi della sua base in California. Può darsi che cadde nel tranello nel quale cade la maggior parte della gente con l'idea che le cose sarebbero andate avanti così com'erano per sempre. Bene, non andò come pensava. Prima circolarono una sacco di voci e si sa che credito dare alle chiacchiere. Ma in realtà una delle voci cui non aveva prestato fede si rivelò fondata: tutta la compagnia veniva spedita oltremare. Chi diceva che c'era una guerra, chi un'azione di polizia e penso che per qualcuno fosse tutto un bello scherzo. Per George era un guaio, non aveva nessuno con cui parlarne e, in caso gli fosse capitato, non avrebbe saputo che dire. Aveva girato un bel po' da quand'era nell'esercito, Louisiana, New Jersey, Michigan, California, ma questa dislocazione per lui non aveva niente in comune con gli spostamenti soliti. Quel caldo vuoto allo stomaco si impossessò nuovamente di lui, non c'era granché da fare per placarlo. Oltremare non era così semplice andare a caccia e se anche lo facevi c'era poco da cacciare. £ nessun permesso d'uscita da scambiare né era facile andare e venire come prima. Qui tutto era rigidamente regolato secondo la trafila di controllo. Poi c'erano le esercitazioni, ma questo non aveva mai preoccupato George, eccetto quel giorno che sulla pista atterrarono i tre C-119 con i soldati morti e feriti e chiamarono i ragazzi della fanteria a far da barellieri. Ne portarono fuori centosessantatré, e dopo che hai visto e sentito una cosa e l'altra non sei più lo stesso e non lo ridiventerai mai più. George si sentiva come fosse tornato un bambino piccolo che stava per prenderle, avesse o non avesse fatto qualcosa. Ed è tutto quello che si può dire in merito. Il padre gliele avrebbe date al suo ritorno, ma anche se tornava a casa ubriaco non era detto che gliele avrebbe suonate proprio allora. La sola cosa di cui si poteva essere certi era di prenderle, che ti stava per capitare tra capo e collo una gragnuola di colpi e c'era poco da illudersi. Solo che non si poteva sapere il momento, ecco tutto. E George tra scuola e fattoria, ma specialmente nell'esercito si era come distaccato da tutto questo; era una faccenda morta e sepolta, così dimenticala: il passato è
passato. E adesso questi uomini macellati... loro erano reali. E così aspettarsi di venir colpiti, di sicuro, senza sapere quando: ecco, l'incubo di una volta era tornato. La paura che l'aveva accompagnato per tutto il tempo. George pensava di averla superata, di essersela lasciata alle spalle. Be' non era così. E stanotte o la prossima settimana ti sarebbe toccato andare là dove trasformavano gli uomini in bare. E quando andavi, forse non ti sarebbe successo stanotte o la settimana prossima, ma prima o poi ti saresti sicuramente fatto prendere. George non era il solo a sentirsi così e lo sapeva. Qualcuno rideva e parlava ad alta voce e si muoveva con maggior slancio e faceva tutto mettendoci più forza; qualcuno lasciava perdere le occasioni che gli si presentavano e se ne stava seduto con aria preoccupata; qualcuno passava tutto il tempo a escogitare come ottenere almeno una volta la libera uscita e prendersi una sbornia colossale. Eccetto George. C'era una sola cosa che lui voleva e di cui aveva bisogno e cominciò a pensare ad Anna, a pensare ad Anna come non aveva mai fatto prima, a pensare ad Anna così intensamente che quasi poteva sentirne l'odore, il calore. E non poteva farci niente, questo era il peggio. Così quel che fece alla fine fu difficile come nessun'altra cosa avesse mai fatta perché non l'aveva mai fatta prima: decise di scrivere una lettera. Deve averci messo quattro giorni a scrivere questa lettera, e la maggior parte del tempo la passò a fissare il foglio bianco. Poi scrisse la sua lettera e fu cosa fatta, non lo fece sentire meglio, ma era tutto quello che pensava di poter fare e lo fece. E non poteva fare niente di più. Non c'era nessun altro che sapesse come si sentiva. Non era mai stato uno che parlasse molto. Quando qualcuno gli diceva di quella faccenda di venir spediti oltremare, sorrideva e basta. Credo che nessuno sapesse niente in realtà. Poi un giorno arrivò la chiamata di andare da questo medico, questo colonnello. E lui ci andò e quello è il punto in cui comincia questa storia. Phil ha detto che potevo cominciarla da dove volevo purché spiegassi qualunque cosa dicevo. Allora il vecchio George Smith tornò negli Stati Uniti e se ne stette zitto come mai prima in vita sua, e se ci pensi fu un bene che nessuno se ne preoccupasse dopo averlo rinchiuso in questa camera di sicurezza. Perché al principio era pazzo furioso fino in fondo. Non matto, ma matto da legare: c'è una bella differenza. Di modo che chiunque premesse su di lui quand'era in quello stato l'avrebbe soltanto fatto intestardire e magari infuriare ancora di più. Ma un pazzo furioso è come il fuoco, se lo isoli il tempo suffi-
ciente, brucia finché si spegne naturalmente. Così un giorno la porta della cella si aprì e la guardia fece entrare questo dottore, solo che era appena un sergente e nemmeno molto alto. Più alto di zio Jim, ma non molto grosso. Aveva capelli neri tutti arruffati e gli occhiali, e subito disse che sì era un medico, ma di chiamarlo Phil e come stava. E George avrebbe potuto spezzarlo in due sopra un ginocchio o sbatacchiarlo come si fa coi serpenti quando gli vuoi rompere il collo e non hai un bastone. Ma Phil fece solo cenno alla guardia di andarsene, e la guardia lo chiuse dentro a chiave: Phil si mise a sedere sulla brandina accanto a lui e gli offrì una sigaretta. George Smith, che mai aveva fumato, desiderò di averlo fatto. Phil fumava in silenzio e George cominciò a sentirsi più a suo agio, poi Phil gli chiese che cosa desiderasse più di tutto al mondo e George disse Uscir fuori di qui. Phil chiese Perché. E George ne fu sorpreso: anche se era una domanda stupida, Phil non sembrava stupido. Così George disse Tornare dalla sua ragazza e sposarsi. Perché adesso George sapeva che, in qualunque posto al mondo fosse andato, avrebbe dovuto essere vicino ad Anna, lei sapeva che cos'era lui e le piaceva anche: a nessun altro sarebbe mai piaciuto. E non voleva star più nell'esercito, non dopo quelle bare. Phil gli disse che sarebbe potuto uscire, ma avrebbe dovuto fare esattamente ciò che Phil diceva. E George Smith era pronto ad arrampicarsi sui muri e ad appendersi al soffitto se Phil gli avesse detto di farlo. Devo dire che mi fido di Phil. Lui vuole farmi uscire fuori di qui, di questo sono sicuro. Credo anche che voglia che questo mio scritto contenga nient'affatto che tutta la verità. Lui non ha niente da vendere, né a me né ad alcun altro che lo legga. Non volevo crederlo all'inizio, ma adesso sì. Dunque, mi disse di scrivere la storia della mia vita e io gli risposi che non sapevo come e neanche da dove cominciare, E lui mi disse comincia da dove vuoi, ma sta' attento a spiegare ogni cosa. Disse che, se volevo, potevo fare come in un film o in un fumetto, dove iniziano il racconto con un tipo che è già vecchio e poi tornano indietro nel tempo a raccontare quello che è successo prima. Purché mettessi giù qualsiasi cosa fosse importante, di modo che potesse capirmi meglio. E disse anche che se avevo difficoltà a cominciare potevo scrivere parlando di un altro, perché, secondo lui, questo è un buon sistema per prendere le distanze da se stessi, e ricordarsi meglio le cose. Così, dopo che se andò, mi ci misi subito e inventai il nome di George Smith. Phil aveva ragione, funziona Scrissi tutto il resto del giorno e da allora in poi non ho fatto altro che scrivere finché ci si
vedeva. Lui tornò altre due volte, ma non avevo finito. Così, questa è la storia. È tutto vero ed è tutto quel che posso ricordare. Ho fatto del mio meglio. Non so perché sto qui e perché sono stato rispedito in America, in questa gabbia di matti, invece che in galera solo perché ho preso a pugni un ufficiale. Non sono pazzo, lo è chiunque lo pensi. Tutto quel che voglio è andarmene. Fuori di qui e fuori dall'esercito, ne ho avuto abbastanza. Tutto quel che voglio è tornare dalla mia ragazza, ci sposeremo e ce ne staremo in pace dove sta lei o tirando su una casa, o magari un negozio. Questa è un'altra lettera con intestazione strappata. Covo dei lunatici Orgonia, Oregon D.n.A. 26 febbraio Caro Phil, accidenti a te, con tutto quello che dovrei fare, me ne sono stato seduto spremendomi il cervello per sapere cosa dirti. Premetto subito che al ricevere quel pacco di fogli che mi hai mandato, rendendomi conto che non si trattava del «Chronicle» domenicale completo di inserti sulla moda primaverile, mi sono imbestialito davvero. E suppongo di esserlo ancora. La mia prima impressione è che questo «George Smith» debba esser buttato immediatamente fuori da quella specie di motel per maniaci in cui stai, e persisto a pensarla allo stesso modo. Però mi hai fatto fare delle belle risate. Naturalmente, bastardo d'uno psicologo che sei. Dopo tutto questo tempo, qualunque cosa mi avessi detto ti avrei sputato in un occhio. Se mai mi capitava di pensare a te o a «George», mi dicevo: niente nuove, buone nuove e credevo che l'avessi fatta finita con lui. E poi mi mandi la sua autobiografia senza neppure un solo commento, niente del tutto. Per triste che sia, la storia è tutta da ridere. So a cosa miri: vuoi che io abbia una reazione, cioè che ci pensi su. Sai maledettamente bene che un amministratore non ha tempo per pensare più di quanto ne abbia per rimestare nei meandri di una testimonianza come questa. E sai pure, conoscendomi quanto basta, che la sfoglierò e mi farò coinvolgere, e quindi tornerò indietro e ricomincerò da capo, soppesando parola per parola. E resterò impressionato dallo sforzo che c'è voluto per scriverla, non escluso il tuo
picchiettare sulla macchina da scrivere per metterla in bella. (Che ti succede, non hai abbastanza da fare?) (Seriamente, Phil, so che lo hai fatto la notte invece di andare a dormire; e falla finita, ho bisogno di te. Ti stai ammazzando.) E veniamo alla biografia. Senza dubbio sono molto più impressionato dal patetico orrore che suscita di quanto possa esserlo un tipo coriaceo come te. Sono anche colpito dalle capacità descrittive che il ragazzo rivela. Non so come se la caverebbe un insegnante di sintassi inglese a fare l'analisi di alcuni periodi (come quello in cui descrive il nodo scolorito dal tempo nel legno sulla fiancata della barca: "A volte vedi cose come quelle, che sebbene non si muovano il tuo occhio continua a girarci dentro e fuori, attorno e ancora indietro e in quel modo ci vedi due spirali di pelo sul dorso di un gatto"), ma sono sempre riuscito ad apprezzare esattamente quello che voleva dire. E oltre a quel paio di intuizioni davvero penetranti con cui se ne esce, come ad esempio le sue considerazioni sul sesso e la sottile distinzione, quasi impercettibile, da meccanica di alta precisione, che fa tra Soddisfazione e Sollievo, mi ha colpito l'esaustiva completezza della sua storia. Ai miei occhi itterici, nulla di significativo è stato tralasciato; il ritratto che fa di se stesso è composto di materiale solido e non presenta lacune rilevanti. Quello che ha lasciato fuori, come la descrizione in dettaglio delle sue tecniche amatorie con Anna, non dovrebbe preoccupare nessuno fuorché uno sporco clinico come te che è al di là di qualsiasi richiamo alla cavalleria. Credo che ci siano un gran numero di persone in circolazione, gente in grado di superare a bandiere spiegate qualsiasi standard di normalità, che dentro di sé è ben più malata di questo ragazzo. Per quel che so, è uno dei pochi esseri umani al mondo che sembra aver collocato il sesso in una prospettiva genuinamente sana. È inusitatamente uno che basta a se stesso; finché è da solo non può sentirsi perso più di quanto possa sentirsi perduto un gatto. Il che ci porta a quanto secondo me è la vera natura della sua malattia, ammesso che ne abbia una. E non è una malattia sua. Dicevo sopra che molta gente che può venir dichiarata sana di mente dentro di sé è ben più malata di "George". Quel che può lasciarci perplessi in George concerne faccende che riguardano la gente, non una singola persona. Nessun essere umano, neppure un George, vive completamente solo. La comunicazione interpersonale non è unicamente piacevole, o conveniente, o adeguata, o convenzionale. È essenziale, vitale. L'homo sapiens è una specie interdipendente. Non può vivere da solo. Ed è facile descrivere
in che modo George si pone in relazione con la gente: non lo fa. Eppure, per lui, non credo che abbia importanza. Ha trovato Anna. C'è una strana aura attorno a questa relazione, ma di qualunque cosa si tratti — e non sto forzando — è convenientemente convesso-concava, se capisci quel che voglio dire. Lei sembra una ragazza cui manca qualche rotella, ma ha quelle di cui lui ha bisogno. Per ricapitolare, penso che l'unica malattia da cui è affetto questo tipo, sono i segni delle cicatrici lasciategli da una riprovevole infanzia e l'unico suo effettivo crimine l'essere un solitario. A noi povere anime gregarie il fatto sembra un crimine perché non pensiamo che potremmo commetterlo. È, come dire, improponibile. Ci mette a disagio a causa della congenita certezza che abbiamo in comune, secondo la quale non potremmo sopravvivere senza i nostri simili. In una cultura come la nostra, tutta gregge-ecomunità, un'inclinazione alla solitudine appare in un certo senso immorale. Ts ts. Tutto quanto precede (diss'egli con modestia) è a carattere personale, non è la mia specialità, è la tua. Con tutta l'irritazione che mi hai provocato, ti sono grato, vecchio mio, per l'ora affascinante che ho passato. E adesso, per amor di Dio, lascialo andare. Come sempre, Al P.S. Che diavolo pensi ci fosse in quella lettera che mise in allarme il maggiore? Questa è la copia carbone di una lettera. Vico del Fallo La Favorita, California D.n.A. 28 febbraio Anima mia, testa di pietra, deliziato dalla tua lettera, dalla tua saggezza, dal tuo acume, dalla tua perspicacia. Hai torto marcio. 1. Ci sono notevoli lacune nel racconto di "George", e: 2. Il suo atteggiamento nei confronti del sesso non è affatto normale. Avendolo affermato con tanta sicurezza, devo essere così onesto da am-
mettere per il punto 1 : che non so quali siano le lacune, so solo dove si trovano. Per il punto 2: non penso che il suo approccio al sesso sia normale, ma neppure affermo che sia patologico. Non si tratta di fare sottili equilibrismi sul concetto di norma Che del resto sai quanto sia elusivo e misterioso. È solo che non so quale sia la sua matrice sessuale: sono solo certo che si dovrebbe accertarla. Come te, sono stato preso da diverse migliaia di altre cose mentre tutto questo procede, e devo ricordarti che la nostra corrispondenza per tutte queste settimane è frutto proprio della sua volontaria testimonianza e della valutazione che ne diamo. Penso sia arrivato il momento di dedicargli un po' di tempo sul serio e di cominciare a scavare. Ti farò sapere che cosa succede. Grazie ancora per la magnifica lettera. Un abbraccio, Phil Questa è una lettera. Ufficio dell'Amministratore Ospedale da Campo, Quartier Generale Portland, Oregon D.n.A. 2 marzo Phil, cercherò di essere il più gentile possibile. L'amicizia e la corrispondenza privata, in quanto fattori "alfa" e "beta", sono auspicabili finché non interferiscono con "gamma", vale a dire il lavoro. "Alfa" e "beta" sono assolutamente insostituibili quando sono l'ausilio al lavoro. Ma se "gamma" ne risente negativamente o segna il passo, allora "beta" deve cessare e, se necessario, anche "alfa". Perché, vecchio mio, "gamma" è più grosso di tutti e due noi. Uso le lettere dell'alfabeto greco perché sei un intellettuale e non voglio offenderti con gli A, B e C, ma, Phil, credi, la cosa è davvero semplice come l'ABC. Posso dire che ho il sospetto che tu abbia lavorato così duro (e bene, aggiungo cordialmente) che il tuo giudizio stia perdendo l'equilibrio. E/o posso suggerire che la tua davvero ammirevole preoccupazione di specialista ti stia facendo andare a caccia di quisquilie mentre uno scivolo continua a scaricarti materiale che ti si accumula addosso. Questo torna a tuo
credito personale mentre non va bene per l'azienda. Posso persino concederti che sei nel giusto a proposito di questo paziente, e insistere tuttavia che se anche si trova su un piano inclinato, non lo è abbastanza per farvi rotolare un macigno. Caccialo fuori e scordatelo. O, se proprio devi, continua a seguirne le tracce per portargli l'aspirina quando ti promuoveranno allo stato civile. Alla fine, posso anche dire, e sai maledettamente bene che se proprio devo son capace di farlo, che è tuo dovere eseguire i miei ordini, Sergente Outerbridge. Anche se sai che mi sto sbagliando, anche se tu sai che io so che mi sto sbagliando. Apprezza il succitato sforzo letterario, che va oltre ogni obbligo di servizio, in nome del summenzionato fattore "alfa". Ci rimetterei io a perderlo. Ancor sempre tuo amico, Al Questa è la copia carbone di una lettera. Ospedale della Base N. 2 Giurisdizione di Smithton, California Ufficio del Personale D.n.A. 4 marzo Colonnello, mi arrendo davanti a forze superiori. E alle stelle. Sto stilando, in data succitata, come da ordini ricevuti, una diagnosi che suoni sensata. Sono spiacente che tu abbia dovuto prender cappello per questo, Al. Posso capire perché, ma devo dire che mi dispiace che tu l'abbia fatto. Oh, be'. La vecchia "alfa" può reggere anche a questo, suppongo. Mentre procedo agli accertamenti diagnostici (e non sto tirandola per le lunghe, signore), ecco una cosa da rimasticare nei momenti di ozio: Perché di preciso il pienamente integrato, mirabilmente ritratto, soldato semplice "George" scoppiò proprio quando gli è stata posta dal maggiore quella particolare domanda? In tutta obbedienza, tuo Phil Questa è la risposta.
Stesso posto Stesso indirizzo D.n.A. 13 marzo Phil, verme, accidenti a te e a quel tuo stramaledetto sistema di infilare formiche vive sotto lo scalpo di un uomo. A parte il fatto che non ho momenti di ozio, cosa che sai benissimo, avevo anche deciso di non dedicarli a problemi senza via d'uscita come quello che mi hai proditoriamente posto tu. Dopo quattro giorni mi aveva talmente seccato che ho dissotterrato il manoscritto di "Smith" per scoprire che cosa esattamente il maggiore gli aveva chiesto quando lui esplose. Era, cito a memoria: "Per che cosa vai a caccia, George? Voglio dire, che ne cavi di preciso?". E subito bang. Per altri due giorni ho preso la decisione, più volte confermata, di non pensarci più. Così adesso, non che importi, ma solo per amor di pace, pace, dolce pace sofferta, son qui a chiederti: Perché il bravo ragazzo andò su tutte le furie? Non che importi, in realtà. Non è necessario che tu mi risponda in proposito. Al Una copia carbone: La grande trappola Perizoma, California D.n.A. 15 marzo Non so, Al. Devo chiederglielo? Phil Una lettera Ospedale della Base, Quartier Generale Portland, Oregon
D.n.A. 16 marzo No! A.W. Un telegramma Sergente Phil Outerbridge Ospedale della Base N. 2 Giurisdizione di Smithton, California 16 marzo — 18.12 EBBENE CHIEDIGLIELO Al Altro telegramma Sergente Philip Outerbridge Ospedale della Base N. 2 Giurisdizione di Smithton, California 16 marzo — 18.21 CHE SIA PRESENTE UNA GUARDIA È UN ORDINE COL. ALBERT WILLIAMS Sacrestia degli Avvoltoi Luna Park, California D.n.A. 17 marzo Caro Al, il tuo secondo telegramma, ieri sera, mi ha veramente commosso. Pensa, è la prima volta che usi in effetti il tuo grado con me ed eccomi qui tutto commosso. A dire il vero, il tuo atteggiamento imperioso di fresca data mi aveva tanto soggiogato che sono scattato a eseguire l'ordine già nel ricevere il tuo primo telegramma, e non ho avuto il secondo, pieno di calore umano, che quando ero già tornato giù.
Si procede di buona lena per elaborare un'intelligente, colta diagnosi che raccomandi il congedo medico, e immagino che l'avremo pronta entro le prossime ore, diciamo 24. Come sempre, Phil P.S. Oh! Scusa. Vorrai certo sapere che cosa ha poi detto l'uomo. Ha detto — con perfetta calma. Colonnello, lui si fida di me, lo sai; cosa che non avverrà più quando (a Dio piacendo) riceverò le sbarrette d'argento, il che coinciderà più o meno col periodo in cui uscirà di qui. Ragazzi, sembra che abbia passato metà della mia vita ad aspettare questa promozione. Dimmi, Al, mi sentirò poi così bene a ricevere le modeste strisce di capitano come te quando hai ottenuto le tue nobili aquile?... ma sto divagando. Quando gli ho domandato perché andò su tutte le furie quando il maggiore gli chiese cosa ne ricavava dalla caccia (ti ricordi, nel suo scritto afferma che era contrario all'uccidere per il gusto di uccidere, così non era per quello; e, per quanto ovvio, non mi sembra che citi mai la fame in rapporto alla caccia; inoltre, è stato mesi e persino anni senza provare il minimo desiderio di andare a caccia), ha semplicemente detto che esplose perché pensava che il maggiore avesse scoperto di che cosa si trattava. Quando gli ho chiesto perché doveva prendersela per quello, mi ha spiegato con cura che non era col maggiore che ce l'aveva, che il maggiore era una brava persona; ce l'aveva con se stesso perché si era tradito. Il poliziotto della MP l'aveva agguantato mentre era in preda alla furia, di qui la rissa. Perdio! Il maggiore si mise di mezzo per dare aiuto e si trovò col naso sotto tiro. Sostiene che non sarebbe successo niente, se non gli avessero messo le mani addosso, a parte il taglio sulla propria mano quando spaccò il bicchiere. Spero che questo risponda alla tua domanda, Al. Pace, pace, dolce pace sofferta! Tornerà un civile prima che la rugiada bagni il trifoglio d'Irlanda, o poco dopo d'allora. P.O. Ospedale della Base, Quartier Generale Portland, Oregon D.n.A. 16 marzo
Caro Phil, capisco a cosa miri, ma fino a un certo punto. C'è una distinzione tra obbedienza assoluta e obbedienza implicita, scoperta e riscoperta una volta per sempre nei ranghi e impiegata per far fessi gli ufficiali. Con tutte le tue blandizie a cuor leggero, sanguini ancora perché ti ho imposto il mio grado. Posso anche capire in che modo mi hai manovrato, fino a farmi fare proprio quella domanda (perché "George" ha dato fuori di matto) quando era perfettamente chiaro che quel che mi interessava era proprio quel che interessava il maggiore: che cosa lo spingeva a cacciare, se non era per uccidere o sfamarsi? Se è ancora in circolazione quando ricevi questa, vedi se riesci a scoprirlo. E guarda, proprio per prevenire qualcuno dei tuoi irritanti trucchetti neuronici e da teatro dei pupi, mettiamo la faccenda in questo modo: rispostaesplicita a esplicita-domanda. Se ricevi risposta a questa domanda non comunicarla insieme a un rompicapo che mi suggerisca la seguente. Dio lo sprofondi all'inferno, Phil. Sei ben deciso su questa faccenda, vero? Se non ti lascio fare di testa tua con questo paziente, mi tortureresti a morte coi tuoi giochetti e meschine frecciatine. E sai maledettamente bene che ho bisogno di te proprio dove sei, a lavorare duro come sai fare, cosa che corrisponde, secondo me, a lavorare felicemente. La mia alternativa è metterti con le spalle al muro o trasferirti da lì, e tu sai che non posso. E quindi d'accordo, va' pure avanti. Ma fai fare tutto quel che è possibile a qualcun altro. Con lui, delle due l'una: o arrivi a un risultato, o lo sbatti fuori. È una bella fortuna per te che siamo amici. E una fortuna per me che sappia tenere chiusa la tua boccaccia. Quanto al "Ragazzo Selvaggio", continuo a pensare che ti sbagli. Sbrigati a dimostrarlo. Al Al capanno felice Oltremondo, California D.n.A. 21 marzo Caro Al, Dio ti benedica, ragazzo! Ho tutto pronto! Appercezione Tematica, Test di Rorschach, personalità proiettiva, insomma, tutto! Per quanto riguarda
l'altro lavoro, amico, hai sotto mano una dinamo. Non hai mai visto un trattamento come quello che vedrai ora. Grazie, grazie e grazie ancora e non chiedermi mai se davvero avevo dato l'avvio alla procedura di rilascio per "George". Con gratitudine, Phil Centro Schizoide Spaccateste, Oregon D.n.A. 23 marzo Caro Phil, non ringraziarmi, amico; e non preoccuparti, non ti chiederò se avevi veramente preparato la pratica di rilascio. Il tuo vecchio caro colonnello è completamente sottomesso ai tuoi ordini e disposto a qualunque cosa per aiutarti. Per esempio, ritardando la tua nomina a ufficiale fin quando avrai completamente finito con il tuo compagno di giochi, nonché autore letterario, di modo che il fatto che tu sia passato di grado non lo sconvolga. Un caso difficile, Phil, ma andrò avanti con te, ci volessero degli anni. Cordialmente, Al Ecco alcune pagine del fascicolo relativo alle sedute terapeutiche trascritte dai resoconti stenografici. D., domanda, sta per terapeuta e R., risposta, sta per paziente. Tutti gli appunti si riferiscono al caso contrassegnato AX 554. 25 marzo Mattino: 3 ore D. Buongiorno, George. R. Chi, io? George? (Era disteso sul lettino, si siede.) D. (Alza le spalle.) Un bel nome. Sei stato tu a sceglierlo. R. (Annuisce.) Quello che ho scritto... serve? D. Serve? R. A farmi uscire di qui. D. Serve come serve un mattone, George: a costruire qualcosa. Una par-
te di tutta una quantità di cose. R. Tante cose? Un solo mattone? D. Non un mattone, George, ma due autocarri pieni. Hai fatto un buon lavoro. R. (Si stende sul lettino. Appare inquieto. Con occhi socchiusi fissa D. Il respiro è lento.) D. (Gli gira le spalle. Va alla finestra. Riempie lentamente la pipa. L'accende. Si volta. R. sta ora fissando il soffitto.) Ci vogliono molti mattoni. Ma questo è l'unico modo. R. D'accordo. D. Questa volta non saremo interrotti, George. Starò con te fino all'ora di pranzo. (Pausa.) Se vuoi. R. (Alza impercettibilmente le spalle.) D. Allora? Vuoi metterti al lavoro? R. Che cosa devo fare? D. Quello che vorrei è cercare di conoscerti meglio. R. Facendo domande? D. Sì. Certo. Questo è uno dei modi. R. Quel maledetto maggiore che mi ha mandato qui... fa troppe domande. D. (Afferra l'avvertimento: non spiare.) E va bene. Proviamo a fare questo, George. (Comincia a preparare sul tavolo il Wechsler. Incuriosito, George si alza.) Il test mentale di Wechsler per le forze armate consiste di dieci diversi tipi di domande, alcune delle quali richiedono un uso appropriato del linguaggio, altre si basano su semplici calcoli matematici; per altre ancora si tratta di risolvere dei semplici puzzle figurativi. È un test d'intelligenza, a livello standard, e non dovrebbe suscitare reazioni violente. D. (Più di un'ora dopo, a metà del test.) Non parli molto, vero, George? Che cosa ti succede? Hai esaurito tutte le parole di cui disponevi scrivendo? R. (Passa dalla passività alla scontrosità.) Non ho mai parlato molto... E smettila di chiamarmi George. D. D'accordo... Vuoi che usi il tuo vero nome? (Il giovane si chiama Bela, un nome che fra ragazzi americani provoca in genere lo scherno.) R. Maledizione, no!
Con il test di Wechsler ottiene un punteggio abbastanza alto se si tratta di capire idee e significati convenzionali. Sa cioè quello che la gente si aspetta da lui. Ma quando il test richiede una concentrazione più profonda e l'uso del pensiero astratto il risultato è assai più modesto. Non è in grado di impegnare la sua mente su un'idea o una situazione più complesse. A mio parere, George possiede le qualità intellettive per farlo, ma in questo momento almeno non è assolutamente capace di usarle. Sembra che queste facoltà siano impegnate altrove. Direi che è paragonabile letteralmente a un'ostrica, le valve impenetrabili si socchiudono appena quel tanto che permette di avere un contatto immediato, diretto, semplice, palpabile. D. (Guarda l'orologio.) Ragazzo sei stato un fulmine! Lo sai che abbiamo finito con questo lavoro e ci rimane ancora un'ora intera di tempo? Se procedi con questo ritmo... R. Davvero? (Abbandona la passività e lancia una rapida occhiata verso l'interlocutore. Ne saggia la sincerità. Non è abituato agli elogi.) D. Ti va di continuare? R. (Annoiato.) Va bene. (Si sente, più che avvertirla o osservarla, una differenza nella consueta apatia. Questo atteggiamento differisce dall'immota flemmaticità che gli è abituale. È un atteggiamento quasi identico, ma inteso a nascondere una consapevolezza crescente.) D. Si chiama Rorschach. R. (Sulla difensiva.) Shock? Il Rorschach è un test costituito da dieci tavole, dieci «macchie d'inchiostro» diversamente colorate. (Volendo chiunque sarebbe in grado di confezionare queste tavole buttando su un foglio di carta uno schizzo di inchiostro, piegando il foglio in due, premendo con la mano e formando una macchia che riaprendo il foglio mostra un'immagine bilaterale e simmetrica. La macchia avrà una forma irregolare, ma da un lato e dall'altro della piegatura, ci sarà a sinistra l'immagine speculare e identica della macchia che si trova a destra.) Le dieci tavole di Rorschach stimolano nella maggior parte delle persone alcune reazioni convenzionali. Si vedono esseri umani o animali o insetti o piante. Si vedono persone in diversi atteggiamenti o in atto di compiere azioni convenzionali. Si immagina cioè che stiano mangiando, parlando, danzando, camminando, ridendo. Queste prime reazioni cosiddette «convenzionali» vengono offerte spontaneamen-
te a prima vista. Non c'è un modo «giusto» o «sbagliato» di reagire alle tavole di Rorschach. C'è solo un'elaborazione soggettiva che si avvicina o si allontana da alcune norme statistiche. D. (Ridendo.) No. Non ho detto shock. Ma Rorschach. Il nome dell'uomo che ha inventato questa tecnica. Guarda queste tavole una a una e dimmi che vedi, o a che cosa somigliano o a che cosa ti fanno pensare. R. (Al primo impatto, e per la prima volta, spalanca gli occhi ed è completamente presente. Lo sguardo esamina rapidamente la tavola in tutti i sensi. Poi le palpebre si abbassano di nuovo, come al solito, per dissimulare gli occhi; lo sguardo torna a essere calmo e distaccato. Nella tavola che sta esaminando, un giovane della sua età vede in genere due persone che danzano intorno a un albero gigantesco.) Qui sembra che due giovani stiano stritolando un animale o lo stiano dilaniando, o forse lo strangolano. Non sanguina ancora, ma lo farà tra poco. Ecco il foro dell'animale. (Indica una macchia rossa sulla tavola.) D. (D'impulso, usando una tecnica che si applica a un test molto diverso.) Perché lo fanno? R. (Si ritrae immediatamente, riservato, reticente.) Lo fanno e basta. D. (Un'altra tavola su cui in genere le persone vedono due animali che strisciano su per una collina.) E qui? R. (Risposta immediata.) Questo è un seno. Due draghi lo volevano ma l'hanno sciupato, l'hanno lacerato. Ora sono molto arrabbiati e stanno volando per raggiungerlo. D. E ora guarda questa tavola. (Ci si scorge in genere una grande farfalla.) R. È come se degli animali stessero dilaniando il corpo di qualcuno. Animali perversi. Ecco la colonna vertebrale della ragazza e il suo buco. È tagliata in due. Dentro è rosso. (Il respiro si fa più profondo e forse più lento. Le palpebre sono abbassate, le narici si dilatano ripetutamente). D. E questa? R. Oh! Qui qualcuno ha costruito una doppia trappola e bam! ha preso due animali, forse un pollo, forse un opossum, forse l'uno e l'altro, e sono stati maciullati. D. E questa? R. La pancia di una donna. È scoppiata. È stato il bambino che c'era dentro a farla scoppiare. Ma anche il bambino è scoppiato, lo vedi, lì? D. (Raccoglie le tavole. R. lo fissa, attento.)
R. (Come avesse riflettuto durante tutto quel tempo.) Phil? D. Sì? R. Se vuoi, puoi chiamarmi George. D. Se ti fa piacere... Oggi abbiamo fatto molta strada. Stai facendo ora un ottimo lavoro. Hai voglia di continuare? Fare altre prove? Presto? Non subito, certo, è ora di pranzo. R. (Annoiato.) D'accordo. D. (Bussa per chiamare la guardia.) Fine della seduta. Considerazioni: George possiede una strana qualità che in maniera impropria chiamo senso di "non-colpevolezza". Una definizione inadeguata in quanto George è perfettamente in grado di distinguere il bene dal male così come lo distinguono gli altri, ma non sembra affatto farsi carico di quel senso di colpa che porta a convincersi che ogni punizione è meritata e che affligge quasi tutti coloro che come noi provengono da una matrice culturale giudaico-cristiana. Caso limite determinato da questa convinzione, descritto sin dai tempi biblici e tuttora esistente, è l'individuo che, colpito dall'avversa fortuna o caduto in disgrazia, conclude subito che i suoi guai sono la giusta punizione per una sua trasgressione, nota o ignota che sia. E il lamento: "Che cosa ho fatto per meritarlo?" vuol significare piuttosto: "Non ho fatto niente per meritarlo" mentre in realtà nella maggior parte dei casi per lo più significa: "Per quale dei miei peccati vengo punito?". Nel caso di George avverto, come per intuito, che in lui non c'è assolutamente questa convinzione di un quid pro quo: di dover pagare per qualcosa, il castigo per un delitto commesso. Il castigo, George lo capisce, così come capisce l'atteggiamento degli altri nei confronti di una colpa. Ma non sembra in grado di far proprio un simile atteggiamento. Per fare un'analogia grossolana che serva a spiegare questo fatto si potrebbe ricorrere a due individui, uno appassionato cultore di musica, l'altro completamente stonato e senza il senso del ritmo. Quest'ultimo ammetterebbe senz'altro che l'altro prova qualcosa, ma non potrebbe riconoscere che cosa sia e come lo senta. George, sembra essere, in questo senso, "sordo" a tutto uno spettro di sentimenti che gli altri uomini condividono: empatia per un animale morente, orrore per il dolore, il sangue, i ferimenti, l'ingiustizia. Pare insomma dotato di una sorta di corazza protettiva formatasi negli anni, che si la-
scia penetrare apparentemente solo quando si trova al cospetto di feriti e di morti. Questo atteggiamento si può sicuramente spiegare in parte con la sua infanzia deprecabile durante il quale il castigo veniva inflitto senza una motivazione apparente, mentre le infrazioni alla buona condotta proprie dell'età giovanile come non tornare a casa per i pasti o la notte, i furti, l'insolenza e la disobbedienza passavano spesso, se non sempre, per cose senza importanza cui non si badava. Nel mondo di George alla colpa non corrispondeva inevitabilmente il castigo, anche se il castigo giungeva inevitabilmente, che vi fosse o no una colpa. Ho conosciuto un gran numero di detenuti che, con tutte le loro recriminazioni per il trattamento brutale, riconoscevano in realtà che era stato giusto catturarli ed equo punirli. Moltissimi consideravano o dicevano di considerare la pena ricevuta troppo severa, ma assai pochi, in verità, erano convinti che non avrebbero dovuto essere affatto puniti. Persino qualche innocente — innocente cioè del delitto per cui era stato condannato — in certo modo credeva di stare pagando per qualcosa. Ma i sentimenti di George per il lungo periodo di detenzione che seguì la sua aggressione al maggiore erano essenzialmente quelli che avrei provato io se, nel l'attraversare un campo, il mio corpo avanzando fosse precipitato in un'immensa caverna-labirinto. Non credo che avrei pensato di essermelo meritato. Cercherei di venirne fuori a ogni costo e se non ci riuscissi ma incontrassi un uomo che mi convincesse di sapere come uscirne, lo seguirei. Se poi, mentre procediamo insieme, dovessi scoprire che non ci vorranno ore, né giorni e neppure settimane, ma forse mesi e mesi prima di venirne fuori, credo che sull'intera faccenda penserei quello che George pensa ora. Come ha potuto una creatura come George sopravvivere tanto tempo in una società moderna come la nostra? Come ha potuto restar fuori dai guai anche un sol giorno con una così scarsa concezione della legge e della proprietà, della reciprocità e delle conseguenze? A pensarci bene il mistero si chiarisce. George è passato dall'uno all'altro dei poli ambientali: il mondo libero e senza costrizioni della campagna dove le regole sono imparziali e chiaramente comprensibili, che siano le leggi della gravitazione universale o la quantità di fruste che una giovane betulla produce e, al polo opposto, il mondo dell'orfanotrofio e dell'esercito dove un sistema rigido di regole comportamentali guida i percorsi individuali in maniera fissa alla stregua di un recinto di bestiame o di un piano inclinato. Una mucca può muoversi parallelamente allo steccato, ma non dirigersi ad angolo retto e non va contro lo steccato. George aveva impara-
to la massima vigente nell'esercito: "Fa' quel che ti ordinano e non offrirti mai volontario". E le piste sono facili da percorrere e impalpabili per chi obbedisce, per chi senza porsi domande o deciderlo consapevolmente dorme qui, si lava lì, mangia altrove e aspetta. Mi lascia invece assai perplesso la sfera della sessualità. Al Williams considera l'atteggiamento di George nei confronti del sesso "naturalmente sano" mentre io non lo credo affatto, ma non so dirne ancora la ragione. George, nella sua straordinaria autobiografia, spiega con estrema lucidità il suo pensiero. Al ne deduce quindi che George è un uomo che non prova vergogna, falsa modestia, insicurezza e ipocrisia. Si è incamminato faticosamente su un filone inattaccabile di ragionamento logico e si è convinto di certe verità che l'umanità è incapace di accettare soggettivamente: cioè che l'erezione, l'orgasmo e l'eiaculazione si verificano nell'uomo come nel coniglio e che nell'uomo non sono fenomeni più nobili. Non devono quindi essere sopravvalutati in quanto sono (se gliene si dà l'opportunità) automatici e incontrollati. Per questa ragione è insensato sopravvalutare questi fenomeni, ma ancor più insensato reprimerli. È questa la sessualità che Al considera "sana". Ma, allora, per seguire la linea di ragionamento di George, questa sua sessualità è sana quanto quella di un coniglio. La complessità della sfera sessuale che si manifesta a ondate e inficia il pensiero dell'uomo, la sua espressione verbale, il suo lavoro, rimane assolutamente incomprensibile a George e fuori dal campo di indagine di Al. Giungere alla conclusione che la straordinaria violenza della reazione di George al test di Rorschach è di natura sessuale sembra a tutta prima una deduzione logica. E definire straordinaria questa reazione è a dir poco inadeguato. Ho eseguito più di un migliaio di test del genere, ho letto tutta la letteratura pubblicata su questa tecnica e sull'interpretazione delle tavole e non ho mai riscontrato niente che stia alla pari delle visualizzazioni così concrete, cruente e delittuose di George. Non nei testi di Rorschach: sì invece, sì certo, nell'analisi del profondo. Ma una tale bestialità è però sempre profondamente nascosta ed emerge solo lentamente, quasi mai in maniera diretta ma unicamente attraverso simboli. Secondo la biografia scritta da George, Anna è la sola donna che lui abbia conosciuto: e io ci credo. Quel poco che dice della loro relazione non è chiaro. È stata lei, a quanto pare, l'istigatrice. George dichiara ripetutamente che faceva quel che lei voleva. Accenna poi in modo alquanto confuso a ciò che intendeva fare lui; che lei cercò di fermarlo, ma poi acconsentì, perché con lui si sentiva sicura.
Sicura con lui! Che cosa può mai essere al sicuro con lui? Chi? Io? E va bene... dovremo lavorare di più, saperne di più. Le fantasie di violenza a volte simbolizzano il sesso; i simboli sessuali (e gli atti sessuali) spesso simbolizzano la violenza. In qualche parte entro quest'area può esserci spazio teoretico per analizzare le fantasie incredibilmente violente, spesso genitali, eppure virtualmente asessuate di George al test di Rorschach. Riassunto: 3 aprile Due altre lunghe sedute con George (...sarà opportuno ricordare qui che il sergente Outerbridge faceva ancora parte del personale oberato di lavoro di un ospedale psichiatrico militare sovraffollato e male attrezzato, un personale che sosteneva un enorme carico di lavoro e si impegnava sino a ore impossibili. Il fatto che lui abbia trovato sei di queste ore da dedicare a George e che il colonnello Williams non avesse trovato niente da ridire, depone a favore del suo impegno e della sua energia sovrumana.) ...ci portano a vederlo affrontare i test di coordinazione motoria, il disegno di una casa, il disegno di figure umane e il test di appercezione tematica. Il primo che abbiamo affrontato dopo la sconvolgente esperienza del Rorschach fu il test di coordinazione motoria. Consisteva nel copiare otto diverse figure geometriche formate da cerchi, quadrati, linee sinuose e punti. George le riprodusse in modo esatto con cura e impegno, correggendosi qua e là per migliorare il disegno. Fu evidente che, nonostante un certo suo modo compulsivo e rigido di esecuzione, il controllo motorio era nella norma e non veniva facilmente stravolto da sentimenti profondi, repressi (spaventati?). Osservandolo eseguire i disegni, mi pareva di assistere alla rappresentazione di ogni nuova esperienza da lui vissuta in ambienti e circostanze controllati: l'orfanotrofio, l'esercito. Cercava i passaggi tra gli steccati, a caccia delle zone che, una volta individuate, gli avrebbero consentito ampia libertà d'azione. Fu facile capire come era stato capace di reggere per due anni e più nell'esercito, dedicandosi alla riparazione dei motori, lavorando per lo più solo e libero di usare la sua abilità manuale. Abbastanza rassicurato, mi sono avventurato un po' più vicino alla sua
sfera emotiva sempre con il timore di raggiungere involontariamente senza saperlo il punto di rottura e vederlo crollare. Gli chiesi di disegnare una casa. Disegnò una casa tradizionale con il suo giardino convenzionale e panoramico come lo avrebbe fatto un bambino di sei anni in preda all'angoscia. Ogni finestra era dotata di venti o più lastre di vetro, brevi tratti spessi e vigorosi delineavano le aiuole e i tre alberi del giardino, in netto contrasto con le linee tenui e sottili che incorniciavano la struttura più grande della casa. Due elementi del disegno saltavano agli occhi, incongrui, grotteschi: il giardino era collocato a mezz'aria, sopra il primo piano e si protendeva in alto sulla facciata della casa fino al tetto, che era semplicemente tagliato fuori dal margine superiore del foglio. Non era certo un disegno ben equilibrato. La prospettiva era più che mediocre e il progetto molto infantile. Suggeriva che George non era in grado di affrontare responsabilmente la realtà quotidiana del mondo degli adulti. Pareva non tener conto degli elementi fondamentali preoccupandosi solo dei dettagli che lo riguardavano. George poteva quindi sotto coercizione riuscire a controllare la propria vita, se la si manteneva su binari molto semplici, altrimenti sarebbe andato a pezzi. Con un profondo sospiro (silenziosissimo) gli chiesi di disegnare una figura umana. Avevo detto una figura umana: lui invece cominciò a disegnare in gran fretta un uomo e una donna sbadatamente come se, tracciati i contorni, fosse impaziente di tratteggiarli in nero, cosa che fece con mano pesante: gambe, braccia, torsi fino al mento furono tutti coperti di nero, poi tracciò un cappello tondo nero sulla testa della donna e un berretto di forma squadrata su quella dell'uomo, e calcati sopra gli occhi. Coprire, coprire tutto... l'ansia. Si fermò e io gli chiesi: «È tutto?». Mettendoci tutta la mia abilità professionale lo dissi in tono neutro e distaccato, ma le pesanti palpebre che gli nascondevano in parte gli occhi si sollevarono un istante e lui mi scrutò in faccia con la stessa avidità con cui aveva studiato le macchie di Rorschach. Tra le sopracciglia vibrò un moto appena accennato: «Posso rifarlo?» «Certo!» Appoggiò la matita sul foglio, la tenne ferma e mi lanciò di nuovo quel suo sguardo indagatore. Se credessi nella telepatia, e invece non ci credo affatto, dovrei ammettere che il messaggio ricevuto era una richiesta pres-
sante: «Posso dirlo?». E subito si rimise al lavoro. Mentre lo osservavo pensai a quanto la psiche umana, specie se gravemente disturbata, anela al contatto e alla comunicazione. La parziale alessia di George, cioè questa sua incapacità di usare la parola parlata, mentre è in grado di scrivere con una certa facilità, era un fenomeno che non avevo mai osservato anche se ne avevo letto. Pensavo a tutti gli altri innumerevoli modi che la mente malata ha di farsi sentire... a come la mano di un uomo solitario rimanga tesa dopo la stretta, abbandonata e supplice; a come gli occhi possano esprimere da soli il terrore, nel volto pressoché inespressivo di un catatonico; a come il severo controllo che impedisce lo sgorgare delle lacrime venga tradito dal fremere del mento. Mi ero ormai convinto che George fosse assolutamente inconsapevole di essere un uomo malato o d'avere in sé qualcosa di strano, eppure sentivo che in lui c'era qualcosa di vivo e pienamente cosciente di sé, del disturbo che lo affliggeva. In quel suo sguardo fuggevole pareva esserci un essere separato e senziente che avesse preso in prestito i suoi occhi e implorava: «Posso dirlo? lo so. Lo so. Lasciami dire». George stava intanto disegnando un maschio e una femmina. Cos'erano? Pere? Non volevo avvicinarmi troppo e temevo di distrarlo, per questa ragione rimasi dov'ero e mi limitai a sbirciare. Nudi. Testa e spalle unite in una sola linea curva, stretta e tagliente. Le braccia appena abbozzate, forse tenute dietro la schiena. Petto stretto, il seno della donna accennato con una linea curva a forma dì W. Ventre enorme, prominente, come di donna incinta, due semplici linee rette a T rovesciata per indicare gambe e piedi. Insomma, due raffigurazioni a forma di pera, la parte superiore più stretta, pochi segni per indicare la faccia e tutto concentrato sul volume arrotondato del ventre. Chinandosi con applicazione sul disegno, tenendo con estrema cura la matita, le narici frementi, disegnò meticolosamente i capezzoli sulla precedente linea a forma di W scarabocchiata sul petto della donna, poi si impegnò a tracciare un ombelico tutto nero, perfettamente tondo e poi, un po' più in basso, un altro identico opercolo. Infine disegnò un cerchiolino perfetto a guisa di ombelico sulla figura maschile. Posò la matita e mi passò il foglio. Aveva completamente dimenticato di disegnare gli attributi sessuali del maschio. Non feci alcun commento. Mi limitai a dirgli che andava tutto molto bene; e a fargli i soliti elogi per l'ottimo lavoro che stava facendo. Quel giovane aveva una tale fame di approvazione che la divorava al primo contatto inglobandola dentro di sé.
«Allo stesso modo si possono disegnare anche gli animali» disse all'improvviso, una delle poche volte in cui, spontaneamente, in qualche maniera prese lui l'iniziativa. Disegnò tutta una fila di forme a pera, poi aggiunse a una lunghe orecchie da coniglio, a un'altra piccole orecchie triangolari da opossum, a un'altra ancora piccole orecchie tonde e la coda folta del procione, e ancora le orecchie a punta e le vibrisse e la coda più sottile del gatto, e così via, fino a ottenere otto disegni di animali diversi. «Vedi?» fece e per un attimo sorrise persino. Mi sorpresi a desiderare che lo facesse più spesso. Era un ragazzo molto, troppo serio. Stavo per alzarmi, ma poi mi rimisi a sedere vedendo che ricominciava a disegnare. Su ciascuna raffigurazione degli animali — tutti rappresentati nella stessa posa, seduti frontalmente con il loro grosso ventre a palla — stava accuratamente disegnando piccoli ombelichi rotondi. Era ora di andare. Raccolsi i fogli e bussai alla porta per chiamare la guardia. 9 aprile Torno adesso da una seduta di un'ora e mezzo di test sull'appercezione tematica. E se mi fosse possibile ridere delle assurde difese che la psiche umana è capace di escogitare, scoppierei dalle risa. L'alessia di George, questa sua difficoltà a esprimersi oralmente, era completamente scomparsa come per magia durante la seduta e quando ne cercai la ragione rimasi stupefatto. Il test consiste nell'osservazione di una serie di immagini del tipo che si trova nei giornali illustrati, scelte accuratamente per rappresentare un certo numero di situazioni cardine o di rapporti interpersonali. C'è, per esempio, un'illustrazione che mostra una ragazza, in piedi, davanti alla porta di una casetta. Un paziente dice che la giovane sta uscendo, un altro che sta entrando, un altro ancora che se ne sta lì tutto il giorno aspettando qualcuno. Certi pazienti forniscono una miriade di dettagli: come si chiama la ragazza, se ci sono o no altre persone nella casetta alle sue spalle e quello che stanno per fare. A volte, il pettine nei capelli o le "scarpe nuove" della ragazza diventano l'elemento centrale. È evidente che queste "storie" e "aneddoti" inventati al momento hanno una stretta relazione con il paziente. Di frequente servono come surrogati delle soluzioni per i pro-
blemi del paziente stesso, soluzioni che il malato non osa affrontare in prima persona. Ad esempio, una ragazza che vive nell'angoscia dell'indecisione di lasciare la propria casa può reagire all'immagine raccontando la storia di una ragazza che se ne va di casa e viene trucidata, o di una ragazza che se ne va di casa e perde la ragione al punto di uccidere suo padre. Ascoltando l'incredibile chiacchierio di George divenuto tutto a un tratto così loquace davanti a queste illustrazioni, mi resi conto che il suo censore verbale esercitava un controllo costante su quanto riguardava l'argomento George. Come lui stesso aveva infatti osservato nell'autobiografia, c'è sempre la possibilità che l'ascoltatore o non senta bene o interpreti male. Sembrava quasi che avesse paura di venir udito correttamente, cioè che parlando la sua bocca potesse tradirsi senza che lui se ne accorgesse. Tradire che cosa? Forse qualche particolare per cui temeva di venir punito (anche se ho la certezza morale che egli non prova alcun senso di colpa). È molto probabile che George desideri nascondere sentimenti, deduzioni, osservazioni che potrebbero suscitare l'attenzione o lo scherno altrui. Incapace di valutare le cose come il resto della gente non era in grado di sapere prima di parlare l'effetto che le sue parole potevano avere. Ma di fronte al test dell'appercezione tematica il suo censore aveva tirato un sospiro di sollievo ed era andato a dormire, assolutamente convinto che se George doveva limitarsi a parlare di un'illustrazione e basta, non poteva certo mettersi a parlare di sé. George invece parlò di sé con spavalderia eloquente e non se ne rese affatto conto. Il colmo del ridicolo (se fosse possibile riderne) si verificò quando tra le illustrazioni apparve una pagina bianca con un bordo intorno e niente figure: viene data al paziente perché possa disegnarla come vuole e parlarne. Fu solo a questo punto che il censore che alberga in George si risvegliò e gli restituì quel suo eloquio strascicato e lento: «Un foglio vuoto?... Niente. Probabilmente riguarda me. Nessun commento». Ma i commenti sugli altri?... Sono questi, parola per parola. Un ragazzo e una donna in piedi in una stanza. «Il ragazzo aveva l'abitudine di combinarne di tutti i colori, così lo mandarono via. È stato via così a lungo che lui e sua madre a stento sanno come sono fatti. Lui è appena tornato. Tra un attimo lei tenderà le braccia e lui le correrà incontro e lei lo abbraccerà stretto contro di sé, forte, forte; ma il davanti del suo vestito non è morbido. È pieno di pietre. E non è sua madre, ma qualcuno vestito
degli abiti di sua madre che gli ruberà i soldi». Un ragazzo in piedi alla finestra. Appoggiato alla parete, un fucile di caccia. «Diciamo che il ragazzo è in un capanno. Nel capanno ci sono un fucile da caccia e una finestra. Il ragazzo ha letto libri di medicina, sa tutto sulle operazioni. Il padre sta per essere operato. Il ragazzo decide di andare all'ospedale e di star lì e dire al chirurgo che se sbagliava a far l'operazione, gli avrebbe fatto saltare le cervella. Ma il colpo parte incidentalmente dall'arma e uccide il padre». Un uomo sta baciando in fronte una donna dai capelli argentei. «Un figlio bacia in fronte sua madre. Le vuole molto bene. Pensava molto a lei e faceva sempre quello che gli diceva e la baciava in fronte, così, tutte le sere, o quasi. Potrei andare avanti a questo modo per sempre, ma... lei muore. Il figlio crolla allora in pezzi. Voleva andare alla sua tomba e coprirla di fiori. Si sentiva sempre meglio se stava lì intorno nelle vicinanze della tomba. È per questo che vorrei uscire di qui. Nessuno si cura della tomba di mia madre, né di quella di mio padre. Io l'ho sempre fatto». Una fantasia-desiderio (senso di colpa?) interessante: George non ha mai visto la tomba del padre. Un uomo giace addormentato su un prato. «Direi che probabilmente qualcuno ha preso a pugni quest'uomo; lo ha ucciso. Ora trascinerà il corpo così nessuno lo vedrà. Lo nasconderà dietro qualche bidone o roba del genere. Probabilmente ha ucciso per rubargli i soldi. Lo ha anche tagliato con un coltello. Poi se ne è andato nei boschi e suppongo che lo farà di nuovo una volta o l'altra, in qualche altro posto». Alcuni ragazzi nuotano in uno stagno. «Oh, bene, uno dei ragazzi si è fatto male a una gamba e comincia a sanguinare, allora uno degli altri ragazzi viene a vedere e il ragazzo ferito comincia a urlare, ma l'altro non può sopportarlo così lo spinge sott'acqua e questo mette fine alle urla. Poi il ragazzo ferito viene fuori dall'acqua. Era perduto, ma ora sa benissimo dove si trova.» In tono pacato e senza enfasi, vivace e pieno d'inventiva, George seguita a parlare e parlare: furto, assassinio, mutilazione, morte-della-madre, morte-del-padre, assassinio-del-padre, annegamenti, coltellate, operazioni. E mai seduzione, adulterio, violenza carnale. Nessuna felicità (nel senso convenzionale del termine) sebbene George, in molti momenti, apparisse tutt'altro che triste. Solo le madri morenti lo avevano fatto tornare un po' più serio.
Una lettera. Chiacchiera College Thalamus, Oregon D.n.A. 9 aprile Caro Phil, hai mandato il rapporto sul tuo Uomo della Maschera di Ferro con il tuo solito tempismo, proprio mentre stavo per emettere un ululato a lungo raggio per richiedertelo. Ammetto che il caso è affascinante e che avevi ragione intuendo — se di intuizione si trattava — che in quel giovane paziente c'era assai più di quanto sembrasse a prima vista. Eppure Phil, devo dirtelo, mi è tornato in mente quel particolare incidente al tuo terzo piano. Un paziente violento o potenzialmente violento non avrebbe mai dovuto essere ricoverato lì, in camera doppia con un altro degente. Anche se si trattava di un caso di violenza potenziale. Eppure l'hai lasciato lì perché non avevi camere singole libere al quarto piano, esatto? Esatto. E poi, in quella circostanza tu non c'eri. Assente per malattia! Phil... Stai bene, ora?... Comunque sia, quel giorno non c'eri. Questa volta non è successo niente, ma ve ne potrebbero essere altre, e qualcosa accadrà. Ora, io sono schierato al tuo fianco per quanto riguarda il tuo George e tu sei riuscito ad arpionare un intero sacco della sua immondizia interiore. Lo ammetto: è molto più malato di quanto pensassi. Però, tiralo fuori da lì. Per chiudere su un tono diverso, grazie di avermi mandato i disegni di George insieme al rapporto. Sono "molto interessanti", come era solita dire la mia vecchia madre. (Lo diceva sempre alle mostre, nelle gallerie d'arte. È una cosa da dire almeno. E non fa mai male a nessuno, non importa quale sia l'argomento.) Ma quello che mi ha interessato ancora più, caro amico strizzacervelli, è la tua identificazione di tutte quelle succulente sagome come pere. Certo che abbiamo tutti i nostri problemi... ma per me l'animaletto in fondo alla fila non è nient'altro al mondo che una titmouse. Pere! Un accidente! Non vuoi il nominativo di un bravo medico? O stai solo diventando vegetariano?
Al E la risposta. Castel Sconforto Dementia, California D.n.A. 11 aprile Caro Al, sarà una piccineria che sia io a tirar fuori il mio posto in graduatoria, ed è da screanzati, lo so, rinfacciare a qualcuno il lusinghiero giudizio che ha dato di te. Ma proprio tu mi dicesti, tempo fa, che professionalmente ti battevo di parecchie lunghezze o qualcosa di simile. Caro Al, la mia autorevole e ben ponderata opinione è che George sia potenzialmente molto più pericoloso di qualsiasi altra cosa possa esserci in questo dannato posto. Anticipando la tua domanda, se posso provarlo, ammetto di non esserne in grado. Lo so soltanto ed è tutto. A rigore, quel che gli bolle dentro non dovrebbe traboccare se prima non viene innescata la carica. Ma se esplode, voglio che ciò avvenga in condizioni di massima sicurezza. Può darsi che quel che c'è in lui sia pericoloso quanto una spada e non quanto un'arma da fuoco o una bomba. Il fatto è che non so ancora di che specie di cosa si tratti. Lo saprò presto, penso; ma finché non lo so, libererei subito tra la folla una tigre del Bengala piuttosto che lasciar uscire di qui George. Permettimi comunque di commettere un'ulteriore villania ricordandoti che finora ho sempre avuto ragione. Quindi quei disegni sono pere anche se ti concedo che il termine sia suscettibile di modifiche di significato. Dovresti aver ragione tu! Phil P.S. No, accidenti a te, non ero ammalato. Confesso di essere andato nella Grande Metropoli e d'aver presentato le mie credenziali per accedere alla cella sotterranea della biblioteca comunale dove tengono libri davvero sensazionali sulla demenza. Solo per farti rabbia, ti accludo gli appunti presi in quell'occasione. P.O.
Foglio di carta giallina con appunti scritti a mano. Von Krafft-Ebing, il vecchio voyeur... in circolazione sul finire del secolo scorso (parte bassa) indagava e spettegolava. Non sapeva che farsene di Freud. Per lui, tutto dipendeva dalla «tara ereditaria». La noia di quella sua idea fissa è che ci sono cose che la gente perbene non fa. Ma egli fu ugualmente infaticabile come ricercatore, così non rompere e tienti i tuoi pregiudizi. ASSASSINIO PER LUSSURIA La lussuria potenziata come crudeltà, una lussuria omicida fino all'antropofagia. Ragazzi! Con che stile scriveva questo von Krafft-Ebing... Guarda un po': "1827. Leger, vinaio, età ventiquattr'anni. Fin dall'adolescenza introverso, silenzioso, timido. Parte in cerca di lavoro. Girovagando otto giorni per una foresta vi cattura una bambina di dodici anni, la violenta, ne mutila i genitali, le strappa il cuore, ne mangia, beve il suo sangue e sotterra i resti. Una volta arrestato, dapprima mente, ma alla fine confessa il delitto con cinico sangue freddo. Ascolta con indifferenza la sentenza di morte e viene giustiziato. L'autopsia, eseguita subito dopo la morte da Esquirol [chi era costui?] rivela aderenze molli tra membrane cerebrali e cervello. "Vincenz Verzeni, nato nel 1849 in Spagna, dall'11 gennaio 1872 in galera. Era accusato (1) di tentativo di strangolamento dell'infermiera Marianne, quattro anni prima, mentre lei era a letto malata; (2) di analogo tentativo su di una donna sposata, Arsuffi, di ventisette anni; (3) di tentativo di strangolamento d'un'altra donna sposata, Gala, avendole afferrato la gola mentre era chino sul suo addome; (4) sospettato dei seguenti delitti..." Molti di questi delitti non contano per il nostro caso, ma eccone uno interessante: "In dicembre, una ragazza di quattordici anni, Johanna Motta si avviò tra le sette e le otto del mattino verso un villaggio vicino. Poiché non tornava, il padrone andò alla sua ricerca e la trovò morta su un viottolo tra i campi non lontano dal villaggio. Sul cadavere, orrendamente mutilato, un gran numero di ferite... Il corpo nudo e abrasioni sulle cosce fecero subito pensare a un tentativo di stupro, la bocca piena di terra faceva propendere per la morte per soffocamento. In prossimità del cadavere sotto un mucchio di paglia, si rinvennero un lembo di carne strappato dal polpaccio destro e alcuni indumenti. L'autore del delitto rimase ignoto.
"Quando Verzeni fu preso, confessò questo e molti altri delitti. Aveva allora ventidue anni, un collo taurino... [Oh! Oh! Rieccoci col cavallo di battaglia del nostro Krafft-Ebing!] Come c'era da aspettarsi, si rintracciarono nella famiglia Verzeni parecchie tare familiari: due zii cretini, un terzo microcefalo... Il padre mostrava tracce degenerative dovute alla pellagra... La famiglia era bigotta e di basso livello intellettuale [!]... Niente nel suo passato che facesse pensare a disturbi mentali anche se il suo carattere era per lo meno peculiare." Quel Krafft-Ebing era capace di definire il marchese de Sade un tipo non privo di stranezze! "...Verzeni era un giovane di poche parole e incline alla solitudine... Ammetteva che i delitti gli avevano procurato una sensazione di piacere (lussurioso!) indescrivibile, accompagnata da erezione ed eiaculazione. Non appena afferrava la vittima per il collo provava stimoli sessuali. Non importava se la donna fosse vecchia o giovane, bella o brutta. Normalmente gli bastava strangolarla per soddisfare i suoi desideri. "Ma nel caso di Johanna Motta e, come fu scoperto in seguito, di altre donne. aveva fatto di più. Le abrasioni sulla pelle delle cosce riscontrate sul cadavere di Johanna erano state causate dai suoi denti mentre ne succhiava il sangue con un piacere molto più intenso e lussurioso. "Le confessioni di questo vampiro dei tempi moderni [moderni per Krafft-Ebing, ovviamente!] sembrano rispondere a verità. A quanto pare i normali impulsi sessuali gli sono sempre rimasti estranei. Con le due fidanzate che aveva avuto si era soddisfatto solo guardandole. Gli era sembrato molto strano di non aver voglia di strangolarle o stringere loro le mani, ma non aveva provato con loro lo stesso piacere che gli avevano dato le sue vittime. "Verzeni dichiarò nella sua confessione: 'Provavo un'inesprimibile voluttà nello strangolare le donne... Mi dava piacere persino il solo odore degli indumenti femminili... Bere il sangue di Johanna mi ha dato un'intensa felicità. Anche togliere le forcine dai capelli delle vittime mi dava un piacere intenso... dopo aver commesso il fatto ero pienamente soddisfatto e mi sentivo bene. Non mi è mai venuto in mente di toccare o guardare i loro genitali o cose simili. Mi appagava stringere le donne al collo e succhiare il loro sangue. Fino a oggi ignoro come sia fatta una donna. Mentre le strangolavo e anche dopo mi premevo su tutto il loro corpo senza pensare a una parte più che a un'altra'." Ritraendoci dal puro orrore di tutto questo, fa pensare come l'indifferen-
za di Verzeni verso i propri genitali, la sua incapacità di concepire il corpo femminile nelle sue parti e il suo desiderio di succhiare il sangue siano tutte caratteristiche da bambino: come un lattante in preda a una fame irrefrenabile. E una risposta. Ospedale della Base, Quartier Generale Ufficio dell'Amministrazione Portland, Oregon D.n.A. 12 aprile Phil, e va bene, confermo i lusinghieri giudizi perché rispondevano, almeno allora, al mio pensiero. Ti concedo un'ulteriore dilazione, indefinita ma di breve durata. Perciò qualsiasi cosa decidi di fare, falla al più presto. Perché la prossima volta che ne parlerò, non ci sarà argomento che tenga. A.W. P.S. Gli appunti che hai preso in biblioteca coprono l'intera gamma dal cattivo gusto al disgusto, senza fornire alcuna prova solida per la ricostruzione dei fatti. 14 aprile. Seduta terapeutica: mattino. D. George, ti fidi di me, vero? R. Hem! Credo di sì. D. Secondo te, perché è difficile parlare con te? R. Lo è? D. Ti ricordi quando facevamo quel test sull'appercezione tematica? Sai quelle figure su cui inventavi una storia? Hai parlato di un periodo di malinconia. R. No, non ricordo bene. D. Se tu potessi parlare con me in maniera diretta a quel modo, si farebbe molto più in fretta. R. Be', posso provare... D. Sei un bravo ragazzo! Mi piace lavorare con te. Va bene. Comincia-
mo... George? R. Hmm? D. Che cosa c'era nella lettera che hai scritto ad Anna da oltreoceano? R. ... D. George? R. ... D. George, credevo che volessi cooperare. R. Be', è che non ricordo e basta. (Molto incupito). D. E va bene! Lasciamo perdere. George, quando vai a caccia .... R. Ahhh! Ancora questa storia! D. (Dopo una lunga pausa.) Lo vedi che c'è qualcosa che ti obbliga a rinchiuderti in te? George, questo qualcosa non ti è amico. Questo qualcosa non vuole che tu esca di qui. R. (Lamentoso.) Be', io non ci posso fare niente. D. (Più comprensivo che mai.) Lo so che non puoi, George... Ma io posso. R. Puoi cosa? D. Conosco un modo per aiutarti a ricordare meglio e quindi a parlare meglio. R. Come? (Sul chi vive.) D. Togliti le scarpe. R. Le scarpe! (Però se le toglie.) D. Perfetto! E ora stenditi sul lettino. No, sulla schiena. R. (Riluttante.) Be', così va bene? D. Chiudi gli occhi... Sei tutto teso. Rilassa le mani. Così va bene. Rilassa anche i piedi. R. Vuoi farmi dormire? D. No. Promesso. Rimarrai sveglio per tutto il tempo e saprai sempre se ti vuoi alzare e mettere fine alla seduta, se credi. Chiudi gli occhi, di nuovo. Così. Ora le mani, i piedi. Non ti stai addormentando, sei solo molto rilassato, tutto il tuo corpo è disteso. Senti come sono flessibili le dita, le caviglie. No. Non le muovere. Lasciale riposare. Senti quanto sono rilassate. E questa rilassatezza la senti anche nei polpacci, nelle gambe, nelle ginocchia, è come se fossero oliati tanto sono flessibili. Apri il pugno, senti le dita, no, non muoverle... Il pollice è Uno, l'indice, Due; e ora senti come tutte le dita sono distese, contale: uno, due, tre, quattro, cinque. Uno, due, tre... come ti senti? R. (Sottomesso.) Molto bene. Proprio bene. Come alla fattoria dalla zia.
D. Ora ti voglio mostrare solo quanto puoi ricordare bene. Scommetto che posso farti tornare in mente qualcosa che hai dimenticato e nemmeno sai di averla dimenticata... George, riesci a ricordare un momento felice di quando eri molto piccolo? Diciamo, quando avevi quattro anni? Quattro anni di età. Quattro anni. Ricordi un momento tranquillo, forse in cucina, a casa tua? Prima che tua madre fosse malata? R. (Rasserenato.) Hmmm! D. Sei un bambino di quattro anni. 'Sei nella cucina della tua casa. Quattro anni. La tua testolina riesce ad arrivare al bordo del tavolo? R. (Pensieroso.) N... no. D. Fa caldo in quella cucina, quando hai quattro anni? R. Fa caldo. D. Guardati intorno. Lentamente. Guarda gli scaffali. Guarda la sedia. Guarda le fessure del pavimento. Guardati intorno. Hai quattro anni. Guarda quello che hai dimenticato per tutti questi anni. Guarda il davanzale della finestra. Guardati intorno... R. (Calmo, con profondo stupore). C'è... il mio piatto! (Balza dal lettino, è tutto rigido, la faccia arrossata, la bocca aperta. Ride. Grida.) Ho visto quel mio stramaledetto piatto! D. Davvero? R. Ascolta, quando ero un ragazzino avevo un piatto, era bianco con intorno un bordo blu. Sul fondo c'era in blu il disegno di una mucca. Accidenti, non pensavo a quel maledetto piatto almeno sin dal tempo che Giona finì in bocca alla balena! D. Bene! Bravo! E ora tornatene sul lettino. R. L'ho visto così bene che c'era anche l'incrinatura sul bordo. D. Ssst! Rilassati ora e chiudi gli occhi. Questo è una specie di gioco e la regola è che se io ti riporto a quando avevi quattro anni, ti devo far tornare di nuovo qui. Ssst! adesso... Ora hai quattro anni, sei in cucina. Stai caldo in cucina, a quattro anni. Sei un bambinetto di quattro anni. Resta lì, in piedi, in cucina, ma non guardare niente di particolare. Goditi il tepore. Tra un minuto, batterò le mani. Non appena sentirai lo schiocco, sarai un ragazzo di ventitré anni. Avrai ventitré anni e ti troverai qui, insieme a me, in questa stanza. Farò il conto alla rovescia, da cinque a uno, poi batterò le mani. Intesi? R. Mmm ... D. Cinque, quattro, tre, due, uno. (Batte le mani.) Bene. Ora puoi aprire gli occhi. Come ti senti?
R. Come se avessi dormito per due ore. Phil, che cosa hai fatto? D. È solo un trucco per ricordare. Sei stato molto bravo. R. Questa è la cosa più straordinaria che mi sia capitata. Il mio piatto, te lo immagini? D. Sono contento... Chiudi gli occhi. R. Lo devo fare ancora? D. Non subito. Ma ora ti senti a tuo agio. Prenditela comoda, come si dice. Te la stai prendendo comoda. Comoda. R. Sì. D. Ti danno bene da mangiare? R. Sì. Mi danno da mangiare bene. Ho mangiato di peggio pagando di più. D. Prenditela con calma, calma, così, con molta calma e potrai parlarmi, lo sai, vero? R. Penso di sì. D. Ti piace andare al cinema? R. È tanto che non vedo un film. Sì, mi piace andare al cinema. D. Quali sono i film che preferisci? R. I western. D. Anch'io... George, lo sai come si può sempre riconoscere il buono dal cattivo? R. Certo. Se il buono viene colpito da una pallottola, è sempre alla spalla o al petto, se invece viene colpito il cattivo è sempre in pancia. D. (Ride. Molto.) Accidenti, George. Questo non l'avrei mai detto! Ma lo sai, ora che me l'hai detto, hai ragione tu. lo invece credevo che fosse dovuto ai baffi. R. Oh! Sì. Quello! D. George, chiudi gli occhi. Prendila con calma. Molta calma. Vorrei che ora ti ricordassi di un brutto momento, ma vorrei vedere se puoi ricordarlo con tranquillità, molta tranquillità... R. Oh! Va bene. D. Chiudi gli occhi. Rilassati. Voglio che tu ricordi quando sono venuti a prenderti e quando sei andato dal maggiore, quello che aveva la tua lettera. George, c'è già una ruga proprio lì sul naso. Cancellala! Non puoi prendertela con calma con quel cipiglio. Bene! Molto bene! Voglio che ti ricordi di quel momento, voglio che tu mi dica come ti sentivi. Quanto eri arrabbiato. Quando hai preso quel bicchiere... Quando hai mandato in frantumi quel bicchiere.
R. (Si drizza all'improvviso, stringe a pugno la mano destra. I muscoli si tendono sotto la camicia. La faccia s'incupisce. Il respiro si fa sibilante.) D. Non avevi alcuna possibilità, George. Ma che cosa avresti voluto fare? Mettiamo che ne avessi avuto l'occasione, che non ci fosse stato nessuno intorno oltre a voi due? Che pensavi di fare? R. Ucciderlo! Lo avrei ucciso! D. Come? Che cosa avresti fatto? E lui, che avrebbe fatto lui? R. Avrei preso quel bicchiere rotto, o un coltello, e lo avrei colpito. Lui... D. Sì? Va' avanti. R. Lui sarebbe indietreggiato, ma io lo avrei raggiunto. Gli avrei fatto un grande buco e il sangue sarebbe schizzato per tutta la stanza. D. E poi... R. E allora il vecchio mi avrebbe guardato come se non capisse che cosa lo aveva colpito. Si sarebbe infuriato. Gli occhi gli sarebbero venuti fuori dall'orbita, spaventati a morte... Non gli sarebbe servito a niente arrabbiarsi con me... È così debole. Non riesce nemmeno più a stare in piedi. Prima di accorgersene lui è già steso a terra e rantola come se non potesse respirare. Scuote la testa avanti e indietro, per un minuto... Ed è tutto! Alla fine ha avuto quel che gli spettava! D. E poi, cos'è successo, George? R. Penso che sia tutto. Non potrà più seccarmi. E lascerà in pace anche mia madre, ora. D. Già! R. Già. D. George, hai mai visto un uomo morire in questo modo, con il sangue che schizza per tutta la stanza? R. (Senza esitare.) Il vecchio guardiano. Vicino alla fabbrica di cartone. D. Un incidente? R. Accidenti! No! Prima l'ho colpito con un tubo alla testa. Devo averlo fatto secco, perché non si è dibattuto. Oppure era troppo ubriaco per farlo. Allora gli ho aperto il torace come si fa a un coniglio. Ma in quella vecchia carcassa non c'era granché di sangue. D. George, dove lo hai tagliato? Mostrami esattamente dove hai affondato il coltello. R. Proprio qui. (Con la mano destra afferra il petto tra l'ascella e il capezzolo sinistro.) D. Che cosa hai fatto dopo la morte del vecchio?
R. L'ho cacciato dietro un grosso bidone. D. E poi? Che cosa hai fatto? R. Sono tornato nel bosco. Ma era troppo buio per fare qualcosa. Credo di essermi perso per un certo tempo. (La mano piatta si insinua sotto la cintura e dentro i calzoni.) Mi sento tutto caldo quando ci penso. D. Caldo? Vuoi dire come quando si pensa a una donna? R. (Sbuffa.) O Dio! No! Qui, qui! (Si preme sul basso ventre.) D. Che cosa ti succede quando diventi così caldo, George? R. Mi viene voglia di andare a caccia. State attenti, conigli! D. È come aver fame? R. È diverso. D. (Guarda l'orologio.) E questo mi fa venire in mente che è meglio fermarci qui oppure non riuscirò a pranzare. Ho già perso i due primi turni di mensa. R. Anch'io vorrei che mi fosse capitato un cavallo invece di un coniglio. D. (Bussa alla porta per chiamare la guardia.) R. Fame! Fame! Fame! D. Calma, prendila con calma, ora. R. Mi hai tutto scombussolato, Phil. D. (Bussa alla porta.) R. Sono tutti a pranzo. Non c'è più nessuno qui oltre me e te, ora. D. (Bussa alla porta.) R. (Massaggiandosi il basso ventre.) Terribile sentirsi così quando non puoi nemmeno ammazzare un coniglio o un opossum per te stesso. D. Sta' calmo, George, sta' calmo... Ecco Gus. Finalmente è qui. Gus, pensavo che non saresti mai più arrivato. Considerazioni: questo è il grande giorno dell'avanzata, il giorno dello sfondamento e della vittoria: e gente, gente, gente, quante volte ho rischiato di mandare tutto a monte. (Più tardi.) Son dovuto uscire a far due passi prima di mettermi a scrivere. Ero troppo eccitato. Vediamo ora a che punto siamo tutto a un tratto. In primo luogo vorrei sottolineare la suggestionabilità di George. Non so perché, ma resto sempre sorpreso quando un ego così contorto, così sconnesso si dimostra un buon soggetto sotto ipnosi. Con tutti i dati clinici a sostegno di questa esperienza non dovrei stupirmene, eppure accade ogni volta. Continuo sempre a pensare che il più facile da ipnotizzare sia il tipo flemmatico integrato. Non è così. E George è caduto in stato di ipnosi co-
me un piatto nel lavello. Ed è regredito mentre era in leggero stato di trance, fino all'età di quattro anni come se avesse un forte vantaggio alla partenza. Il secondo passo è stato l'esperimento di controllo per verificare se l'episodio di trance avesse migliorato, nello stato di veglia, il nostro rapporto. Ed è stato l'altro momento in cui ho rischiato in un selvaggio impeto di gioia di mandare tutto a monte. George comunque, si è messo a parlare come un fringuello. Infine il test Ferenczi sulle "fantasie indotte": individuare un desiderio, non importa quanto casuale o profondo, accompagnare il paziente passo per passo fino a raggiungere, come avviene in ogni funzione ben regolata, il desiderio-immagine mentale, e riconquistare la pace interiore. Non fosse stato per la mia poco nobile e insistente richiesta di andare in mensa, questo risultato si sarebbe ottenuto e George avrebbe avuto pace. Poco mancò invece che fossi proprio io a ottenere quella dell'eterno riposo. Oggi, la conquista più importante, però, è stata ovviamente la rievocazione dell'episodio del guardiano. È stato magnifico, stupendo (clinicamente parlando, s'intende). Che passaggio d'assoluta bellezza è stato quel fluire senza sforzo dal maggiore, all'immagine paterna, al vecchio guardiano... ripensandoci è già tutto nell'autobiografia di George. Bisogna che controlli. Scommetto che lì c'è già tutto a saperlo leggere. E scommetto che c'è ben altro da leggere lì dentro ora che conosciamo la chiave... e George colmerà le lacune per noi. Devo scrivere ad Al. Una lettera. Antro del cuculo Glandolare, Oregon D.n.A. 16 aprile Ebbene, caro Phil! Se ti azzardi a dire: te l'avevo detto, ti cazzotto dritto sul... d'altra parte non ne ho il coraggio. Allora lo dirò io per te: me l'avevi detto! Me l'avevi detto e ridetto! Dio Santo! Se penso alle pressioni che ti ho fatto: Buttalo fuori quel vagabondo, ripetevo. E che se lo prenda il mondo che lo aspetta. Parlando seriamente: congratulazioni, Philip! Hai lavorato in maniera
superba in circostanze incredibili! E per quanto ho fatto io intralciandoti, ti chiedo formalmente scusa. Ho preso contatto con Lucy Quigley. Mai incontrata? È stata un lungo periodo con la Croce Rossa regionale. Ora s'è messa per suo conto ed è disponibile per il lavoretto che ci interessa. È piena di buona volontà, maledettamente abile e quasi pronta a partire. Le ho chiesto di andare al paese natale di George a spulciare gli archivi dei giornali locali per verificare le notizie sulla morte del vecchio guardiano. Sempre che ci siano. Non ti infuriare, adesso lo sai meglio di me che la storia può essere un'invenzione. Se c'è stato un delitto e le informazioni concordano con quel che dice, ti guadagni una piuma sul cappello. Se non c'è stato delitto o non concorda con la descrizione fatta nel racconto di George vuol dire che si tratta di qualcosa di cui ha sentito parlare. Perciò, trattiene il fiato, figlio mio, questo è il grande controllo. Giacché c'è, Lucy parlerà anche con Anna. È una ragazza abile nel suo mestiere, come già ti ho detto, ma anche piena di tatto ed è gentile. Partirà tra un paio di giorni, quindi se c'è altro da accertare o chiedere in zona, spara la richiesta qui. Sai cosa sei, sei un detective, ecco cosa. Al Ospedale della Base n. 2 Smithson Township, California (Oggi non sono in vena di scherzare.) D.n.A. 18 aprile Caro Al, ti scrivo alquanto esausto e sconvolto: ne capirai la ragione leggendo quanto allego. Per affascinante che sia stato non vorrei mai doverlo rifare. I più cordiali saluti e ringraziamenti a Miss Quigley. Dille che rimarrò in attesa, come il gatto che mangiò il cacio e stette seduto presso la tana del topo usando per esca il suo fiato. Tuo Phil Allegato: Seduta terapeutica del 16 aprile (Leggero stato di trance indotto all'inizio
della seduta mediante ipnosi. Rapidamente raggiunto dal soggetto che non oppone quasi resistenza.) D. Stai comodo, George? R. Oh sì. D. Come ti senti stamane? R. Hmm! D. Ricordi ciò che ti ho detto la prima volta a proposito del lavoro che facciamo insieme? Che è come fabbricare con i mattoni? Più ne prendiamo e ne sistemiamo, prima finiamo il nostro lavoro? R. Mai dimenticato. D. Bene, George. Oggi sarà un giorno speciale. Oggi, con il più grosso quantitativo di mattoni che riusciremo a mettere a posto, costruiremo qualcosa di importante. Spero che, conclusa questa parte, ti conoscerò così bene che, qualsiasi altro dovremo fare insieme, tutto risulti poi chiaro, diretto, semplice in modo da condurci dritto alla fine della nostra strada. Per te questo significherà uscire di qui. R. Va' avanti. D. Quel tuo resoconto della tua vita, sai, la biografia che hai scritto. Hai detto che c'era tutto quel che riuscivi a ricordare. R. È vero. D. Ora sai che puoi ricordare anche cose che non sapevi di aver dimenticato. R. O Dio, sì: il piatto... D. Esatto. Ebbene, qui c'è la tua storia e ci sono un paio di punti un po' oscuri: vuoi chiarirmeli? R. Se posso. D. Non importa a cosa si riferiscano? R. Hmm! D. Quando hai cominciato a bere il sangue? R. ... D. George? R. ... D. (Con calma e il più dolcemente possibile.) Ah, George, George. Sai che capisco quel che provi? Che so bene quel che ti ho appena fatto?... Era questo il tuo gran segreto, vero George? Ti dicevi che in un certo modo o nell'altro, se mai qualcuno l'avesse scoperto, per te sarebbe stata la fine. Hai conservato il segreto come fosse la tua stessa vita. E ora è saltato fuori.
Sei così spaventato che non sai cosa fare... Ma non stai morendo. Non è la fine del mondo. Questo segreto ti ha trascinato talmente in fondo al baratro che... be', un giorno lo saprai. Quando avrai risalito la china, saprai quanto in basso ti aveva trascinato. Ma non potrai rendertene conto finché non sarai risalito un po' più in alto di quanto ti trovi adesso. Ora sei pazzo di rabbia, vero George? Fa' esplodere la tua rabbia, se credi. Ti senti come quando il maggiore aveva la tua lettera, non è così? Ma lo sai con chi ce l'avevi allora? Ce l'avevi con il vecchio, George, perché pensavi che t'eri lasciato sfuggire il suo segreto. Ma in realtà non è andata così. A proposito, la lettera è andata perduta, George, nessuno l'ha mai vista, eccetto il maggiore e l'addetto alla censura e loro due sono rimasti uccisi, George... E tu non lo hai mai fatto capire a nessuno, neppure una volta. È stata un'intuizione da parte mia e poi ho cominciato a pensarci su e tutto quadrava. Ma scommetto che non c'è nessun altro al mondo che l'avrebbe capito. Tu non l'hai mai detto. Non l'hai mai detto. Arrabbiati, se vuoi, ma non te la prendere con George. (Lunga pausa. Cerca e carica la pipa. L'accende.) Lascia ora che ti dica qualcosa a proposito di segreti. Tempo fa alcune persone molto attaccate ai soldi, hanno sepolto un mucchio di denaro; preoccupati, sorvegliavano di continuo il nascondiglio e arrivavano persino a uccidere chi per caso vi si avvicinava. Si trattava del denaro della Confederazione! E in tutto quel tempo essi se ne erano addirittura dimenticati. Tenerlo nascosto era più importante di quel che il denaro fosse realmente. Il tuo segreto è come il denaro. È diventato parte di te, e tu lo tenevi nascosto anche quando non sapevi di farlo. Per questo ti era così difficile parlare con la gente, avevi paura di lasciartelo sfuggire... Bene, George, ora non è più un segreto e nessuno ti farà del male perché è stato svelato. Quel che dobbiamo fare è scoprire perché ti piace bere il sangue, non se lo fai. E sai che te ne verrà scoprire la ragione per cui lo fai? Perché solo così tu saprai il perché di questa cosa. Aiutandoti a scoprire i motivi anch'io ne verrò a conoscenza, ma io so già un mucchio di cose. Sono un medico. E tengo per me quel che so. Non me ne servirei certo per farti del male... Farò in modo che sia tu a dire a te stesso perché bevi sangue. Quando l'avrai capito allora tu e io rimetteremo insieme i pezzi e costruiremo una nuova vita per te. Dormi? R. No. D. È un grosso peso da portare tutto in una volta, non è così? R. Hmm! D. Bene, cominciamo. Qui c'è il resoconto che hai scritto della tua vita. Tieni gli occhi chiusi. Rilassati. Rimani disteso. Sta' calmo, calmo. Lascia
che sia buio sotto le palpebre. Sprofonda nel buio come in un gran materasso. Immergiti giù, in fondo al buio, sempre più in fondo, in fondo. Resta disteso nel tepore del buio. Va bene, va tutto bene, bene. Mi senti? Puoi parlare, ora. È facile, facile, facile... A proposito della caccia, hai scritto molto sull'andare a caccia, ma non hai mai detto, neppure una volta, che bevevi il sangue degli animali uccisi. Tu... R. Anyam! D. Cosa? R. Significa mamma. D. Continua. R. È tutto. D. (Pausa.) Non sei tenuto a parlare se non vuoi. Ma perché lo hai detto proprio adesso? R. Me lo hai chiesto tu. D. lo? R. Di quando ho cominciato. D. Oh! Già, a bere sangue. Mamma. Mamma? R. Lo diceva tutti i momenti. Lo disse pure in punto di morte che ero così robusto, così... Ah! Mi hai succhiato il sangue, diceva, quando stava male... ma io non volevo... D. Sicuro che non volevi. Oh, George, quello era solo un modo di dire, una figura retorica, una metafora linguistica. Come quando si dice che un uomo è arrabbiato come un toro... e nessuno si aspetta che si sia trasformato davvero in toro. R. No, il mio vecchio ha detto che l'ho fatto davvero. Mi allattava fin dalla nascita, poi le venne un disturbo, non so quale, e il seno le sanguinava. Ma non volle smettere. Diceva che era suo dovere e quasi ne morì. E poi, alla fine, è morta proprio per questo. D. (Sferrando, come i colleghi di cui si prendeva gioco, quel che chiamava il proditorio attacco dello psichiatra, eroicamente omettendo dalla battuta l'ah-ah d'apertura.) Tu pensi di esserne responsabile! R. No, per niente, e poi non farebbe alcuna differenza. Era quello che voleva. Lo diceva e ridiceva. Si considerava superiore alle altre madri piene di salute. Sosteneva che non avevano certo dato granché. Non quanto lei. Le piaceva rimuginare su questo argomento e parlarne. Se oggi fosse viva a vedere quel che è capitato sarebbe ancora felice di essere morta per questo. D. Sembra che sapessi bene come la pensava, tua madre.
R. Ne parlava di continuo. D. Quando hai cominciato ad andare in cerca di sangue? R. ... D. George? R. Ci sto pensando. D. Fa' con comodo. R. ... (Segni di ansia.) Tu vuoi sapere la primissima volta. Che succede se non riesco a ricordarmene? D. Non importa che si tratti proprio della prima volta. Eri molto piccolo? R. Credo di sì perché non ricordo quando fu. Ricordo il gatto... D. Vuoi parlarne? R. ... Micini, aveva avuto i micini e questi succhiavano la madre. Dev'essere stato quand'ero molto piccolo. Forse tre, quattro anni. Ho pensato che potevo farlo pure io. Volevo farlo, ricordo che lo volevo. D. Che cosa successe? R. Ci provai. La gatta mi graffiò in faccia. Avevo un pezzo di molla a scatti in mano, non so come l'ho colpita e l'ho uccisa sul colpo. Poi non mi son potuto fermare. Ma, in un certo qual modo, era il sangue quel che stavo ingoiando quando lui... D. ... Va' avanti. Dicevi, quando lui. R. Il mio vecchio. Mi è venuto alle spalle e mi ha colpito con un pugno in mezzo alla schiena. (Muove impercettibilmente le spalle sul lettino.) Dio mio! Ricordo ancora come la mia testa sbatté all'indietro rivoltandosi e vidi dal basso la sua faccia che incombeva su di me: fu come esser colpito da un fulmine! D. Che cosa ha detto? R. Niente, ha solo detto di smetterla! D. Scommetto che ricordi esattamente le sue parole. R. Come potrei! Ero solo un... be', aspetta un momento. (Lunga pausa. Poi, con stupore.) Ha sbraitato: E NON FARTI PESCARE MAI PIÙ A FARE UNA COSA DEL GENERE! Ha detto proprio così. D. Quindi non ti ha detto di non farlo più? R. Ma sì. Che cos'altro? D. Ti ho chiesto: quindi non ti ha detto di non bere più il sangue. Ha solo detto di non farti mai più pescare a farlo. Non è proprio lo stesso. R. Il significato è quello. D. Pensaci su. lo aspetto. R. Gesù!
D. George, ho letto su un vecchio libro scritto un centocinquant'anni fa, la storia di un ragazzino e di suo fratello maggiore che si fermarono per la notte in una locanda. Nella locanda c'era un vecchio seduto accanto al fuoco con cui si misero a parlare. Il vecchio disse una cosa non ricordo quale e non importa, qualcosa di molto saggio, comunque. Appena l'ebbe udita il fratello maggiore trascinò via il ragazzo prendendolo a botte da una parte all'altra della locanda. R. Ma perché? D. Perché voleva che il ragazzo tenesse a mente per il resto della sua vita ciò che il vecchio saggio aveva detto. Di modo che diventasse qualcosa che si sa da sempre. Cose del genere non si dimenticano mai, restano nella memoria, radicate nel profondo. Scommetto che ogni volta che senti in bocca il sapore del sangue, da qualche parte, dentro di te, ti giunge un qualcosa che a gran voce continua a ripetere urlando: non farti mai più pescare, non farti mai più pescare! R. Specie con i gatti... Non mi piace il gusto che ha il loro sangue. D. Sai perché? R. Mio Dio! Sì, certo. D. Ora sappiamo tutto, eccetto il perché ti piace bere sangue. R. Mi piace e basta! D. Nessun'altra ragione? R. No... eccetto che a volte mi fa sentire più vicino a mia madre. Non ridere di me. D. Non l'ho fatto, George. E non lo farò mai... Sai, George, leggendo la tua storia mi è venuta in mente una cosa. Cioè che in certi momenti hai un bisogno impellente di sangue, in altri puoi desiderarlo, ma anche farne a meno, e in altri ancora puoi tirare avanti anche due anni interi senza pensarci nemmeno. R. È così, credo. D. Da che dipende? R. Non so. D. Vediamo un po'. Qui... no: qui. I periodi in cui hai potuto farne a meno sono stati i primi due anni di scuola e i primi due anni circa che hai passato alla fattoria di tua zia. R. E sotto le armi. D. Sì, è vero. Sotto le armi. Eccetto quando... be', lasciamo perdere per ora. Controlliamo invece in quali periodi dovevi andare a caccia di animali. Durante il terzo anno di scuola, vero? E oltremare.
R. Anna si è ammalata. D. Brutto momento, eh? R. Hmm! D. Torniamo al periodo della scuola. In apparenza niente è cambiato, no? Seguitavi a fare le stesse cose nel medesimo posto. Che cosa accadde? R. Hmm! Dopo due anni il vecchio morì. D. E questo ti ha fatto venir voglia tutt'a un tratto? R. Non so. lo... l'ho fatto. Questo è tutto. D. Forse perché volevi provare quella sensazione di essere più vicino a tua madre? R. Potrebbe anche essere. Non mi pare fosse questo, però. D. E non ti è capitato nient'altro intorno a quell'epoca? R. Hmm! Non mi sembra. D. Bene, andiamo avanti. R. Aspetta... forse... (Una lunga pausa.) Ti dirò, dopo che il vecchio morì fu tutto in qualche modo diverso. Come quando dovevo uscir fuori, avrei voluto che anche lui fosse a casa. Non contava niente per me, ma non c'era nient'altro, lì. Non c'era una sola cosa in quel buco per cui valesse la pena di tornare. Scomparso lui, mi sentivo perso. D. Ogniqualvolta ti senti come smarrito ti viene quindi voglia di sangue. R. Ti va a fuoco lo stomaco. D. È accaduto quando Anna si è ammalata, quando tuo padre è morto e poi quando ti hanno mandato oltreoceano. R. E un sacco di volte anche a casa quando c'era il vecchio e lui si sbronzava. E la volta che lo zio Jim mi ha preso a botte e ha detto: non tornare, non tornare. D. Eccoci al punto, George: avevi mai capito prima che il tuo desiderio di sangue proveniva dall'esterno, dalle cose che ti capitavano e non veniva affatto da un impulso che nasceva dentro di te? R. No, mai. D. Quindi ora sai che quando ti senti quel fuoco dentro puoi tenerlo a bada in qualche modo diverso dall'uccidere per procurarti il sangue. Sai che ci sono cose che ti fanno sentir perduto e se terrai ben in mente questo, non avrai più bisogno del sangue. Mai più. R. E io che ho sempre pensato di averne bisogno e di essere il solo. D. Solo perché prendevi le cose dalla parte sbagliata. Forse non sono molti quelli che sentono la necessità di bere sangue, ma milioni e milioni di persone provano ciò che provi tu e che ti spinge a bere sangue.
R. Non capisco. D. Tutti, a questo mondo, di quando in quando, soffrono di solitudine e si sentono persi. Proprio come te. Ciascuno ha il suo proprio modo di far fronte al senso di vuoto, come tu avevi il tuo. R. Ho sempre pensato di essere l'unico. D. Non pensarlo più... Ehi, qui c'è un altro vuoto nella storia che racconti. Dici di esserti introdotto nella camera ardente la notte che c'era esposto il corpo di tua madre, perché l'hai fatto? R. Che ho scritto? Per darle l'ultimo saluto. D. Qui c'è scritto: "Per darle l'ultimo saluto a modo mio". Qual è il tuo modo di dire addio? R. (Dopo una lunga pausa.) Lei diceva sempre che era a causa mia. D. (Con molta cautela.) Dimmi, com'era là dentro? R. Non era certo un granché, non poteva esserlo in quel posto. Solo uno stanzone, una specie di laboratorio con scaffali e lavabi e cose del genere. E lei era stesa su un lungo tavolo coperta da un lenzuolo. Le avevano tolto tutto il sangue. Li avevo visti farlo di notte attraverso le persiane. C'era uno spiraglio dietro. Era in una bottiglia, sul pavimento. D. E tu... R. Lei aveva sempre detto che serviva a questo. E in un certo senso ci permetteva di essere parte uno dell'altro per sempre. Non ridere di me. D. Non sto ridendo... Va bene, George. Andiamo avanti... Qui c'è qualcos'altro. Tu parli di uno stagno dall'altra parte della città dove c'erano delle grosse rane. R. A volte le rane sono buone, tanto per cambiare, specie nei giorni di gran caldo. Sono fredde, sai, soprattutto se le spaventi quando se ne stanno al sole e allora si buttano in acqua riparandosi nel fondo. Possono resistere sottacqua dieci, quindici minuti e quando risalgono in superficie sono proprio fredde. C'è solo un difetto, la rana più grossa che esista non è che un sol boccone. Se non ti muovi la rana non ti più vedere. Se vai a caccia di rane basta quindi aspettare e ti vengono letteralmente in mano sempre che sappia startene fermo e immobile. D. Ma lo sai George che sei un vero e proprio conoscitore della natura? Non ho mai incontrato nessuno che come te avesse tanta pratica di caccia agli animali piccoli. R. Be', li ho studiati a lungo. D. Sì, certo. Ah! Ecco il punto in cui parli di sesso. Sai George, hai proprio una gran testa. C'è tanta gente che viene considerata più intelligente di
me e di te messi insieme che non è stata capace di inquadrare la faccenda con la tua stessa chiarezza. Ma dimmi, Anna è stata l'unica ragazza che hai avuto? R. Uh uh! D. Ascorta, non devi aver problemi a dirlo a me. Quando tu e Anna... R. Phil, non voglio farti infuriare... D. Va' avanti. Che cosa stavi per dire? R. Cos'è che... D. (Ride.) Non parliamo tutti e due insieme. Cosa stavi dicendo? R. Phil, non chiedermi di Anna e di me e di come lo facevamo, d'accordo? D. Se è così importante per te, ebbene, non ne parleremo. R. Grazie. Devo dirtelo, in un certo senso ho continuato a parlare per tutto questo tempo, perché volevo che andassimo oltre a questa faccenda. D. Se hai qualcos'altro di simile in mente, parla subito. Sto qui a lavorare con te e non su di te. R. E va bene. D'accordo! C'è un'altra cosa, ora che me lo hai fatto notare. D. Spara! R. La lettera che ho scritto ad Anna, proprio quella che ha messo in moto tutta la faccenda. Be' non voglio che tu mi chieda niente in proposito. D. (Impreca ma in silenzio.) Naturalmente se non lo vuoi non lo farò. Puoi starne certo. R. (Si stende sul lettino in tutta la sua larghezza con un sospiro profondo.) Allora siamo d'accordo. Così tutto è a posto. D. Benissimo. Perciò smettila di agitarti. Torna a rilassarti. Chiudi gli occhi, sprofonda nel buio, lasciati trascinare giù. Non dormire. Puoi udirmi distintamente. Puoi parlare. Rilassati tutto: dita dei piedi, caviglie, dita delle mani. Uno, due, tre, quattro, cinque. Come ti senti? R. (Calmo e disteso.) Bene. D. Sto dando un'altra scorsa alla tua storia in cerca di altre eventuali lacune. So quel che intendi, George. È tutto lì, basta saperlo leggere. Qui c'è l'intera vicenda del guardiano e non l'avevo neppure notata alla prima lettura. R. (Tranquillo.) È stato dopo la lite con zio Jim. D. Naturalmente non sei entrato nei particolari... eppure c'è. Ti piace il sangue umano? R. È il migliore che abbia mai avuto. Non il sangue di quel vecchio u-
briacone buono a nulla, però. D. (Esitante.) Molto bene, suppongo che arriveremo anche a questo... Oh, ecco qualcos'altro. Sulla tana dei castori. R. Sì e il ragazzo è inciampato nella trappola. D. Ma qui non dici molto di quel che avvenne. Il ragazzo non si fece male? R. Si è un po' maciullato la gamba. Ma non gli ha più dato fastidio al mio arrivo. D. L'hai tirato fuori, vero? R. L'ho tirato fuori e come! Gli ho fatto sputar l'anima a forza di botte. L'ho scritto, era come se lui fosse quel dannato bambino che aveva fatto ammalare Anna e finalmente potevo dargliele di santa ragione. D. E alla fine che ne è stato? R. L'ho messo nel lago. D. Un momento... a proposito di lago... durante il test dell'appercezione hai raccontato una storia. Ti ricordi? L'illustrazione di uno stagno. Hai raccontato qualcosa di un bambino che gridava e di un altro che lo spingeva sott'acqua. Sì. Ricorda. Anche quel bambino aveva una gamba ferita. R. Be', è successo proprio così. D. Lo hai ferito tu, George? R. Solo dopo averlo ripescato dall'acqua. Era già morto. Non ha sentito nulla. D. Quanti anni poteva avere questo bambino? R. Non so niente di bambini, io. Non so quanti anni possano avere né che età hanno quando sono grandi. Sei, sette anni, più o meno. Era quello di cui ti ho parlato, il migliore che abbia avuto. Ma ero così arrabbiato con lui e avevo bisogno di dargliele! Forse è questo che ha fatto tutta la differenza. D. Dove hai fatto il taglio? R. Lungo l'ombelico. D. Di chi era figlio? R. Dio! Non so. C'era una famiglia da quelle parti, certi Pollock che avevano più figli di quanto sapessero contare e quegli stupidi bastardi non riuscivano a contarsi nemmeno le dita di una mano. Ma non erano delle mie parti, erano dei dintorni di casa, verso Cravensville. A dire il vero Cravensville sta proprio sullo stesso lago, ma dall'altra sponda, e oltre il punto dov'ero io. D. Che cosa ne hai fatto, dopo, di lui?
R. L'ho ributtato in acqua come fosse annegato. D. George, tu ti sei arruolato immediatamente dopo quest'episodio. È stato perché avevi paura a causa del • bambino? R. Sì e no. Non ero preoccupato per quel singolo fatto, ma avevo paura di quel che poteva succedere al prossimo o a quello dopo ancora; se capisci quello che voglio dire. Si rischia di diventare incuranti. E avevo una mezza idea che l'esercito fosse un po' come la scuola solo più grande. Avevo ragione. Mi tenne a freno per due, tre anni fin quando non ci spedirono oltreoceano. D. Ancora quel problema di sentirti o non sentirti perso. R. Hai proprio ragione. Nessuno era più smarrito di me quando abbiamo estratto quelle barelle dai C-119. Ho capito dove andavo a finire e mi è bastato. Qualcosa doveva succedere. D. Successe, infatti. Ascolta, ho fatto qui un appunto su qualcosa che ti volevo chiedere, George. Un particolare che mi intrigava, un po' sfuggito alla prima lettura, ma che mi ha bloccato completamente la seconda volta che l'ho letto. Roba da poco, ma nel descrivere una scena tu fai sempre capire dove si trova ogni persona e ogni cosa, eccetto in quest'unico passo, quando tuo padre tornò a casa ubriaco e tu avevi il coltello in mano. R. Ah, sì. D. Lascia che lo legga ad alta voce. È il punto in cui lanci il coltello direttamente attraverso la stanza, esatto? Sì, allora ascolta: "...abbassò lo sguardo sulla ferita e sul sangue che ne usciva. Le mani appoggiate al naso, la madre seguitava anch'essa a sanguinare, gli occhi terrorizzati, fissava il padre. Il padre respinse bruscamente George, afferrò uno strofinaccio ..." ecc. ecc. R. Sì, allora? D. Se hai lanciato il coltello da una parte all'altra della stanza, come ha potuto tuo padre spingerti lontano? Mi era sembrato di capire che tuo padre stesse in piedi apparentemente vicino al lavandino e quindi non si mosse verso di te. R. Oh; sono stato io a muovermi verso di lui. (All'improvviso calmo e appassionato.) Fu una cosa completamente diversa da ogni altra che mi fosse capitata prima o dopo. Il coltello gli restò infisso nei muscoli del petto. Non credo che avesse trapassato una costola. Ed è rimasto lì. Allora, quando lui se lo è strappato via, io ho attraversato la stanza come se fossi tirato da un filo, come se camminassi nel sonno. Non potevo più fermarmi. Attraversai la stanza, misi la bocca su quel taglio e succhiai dalla ferita...
tentando di chiuderne i margini e di farla sparire o far sì che non fosse mai avvenuta... o qualcos'altro... non so. Di solito più o meno so quel che faccio anche quando sono in preda a un pazzo furore, ma quella volta no, non avrei potuto controllarmi... D. (Dopo una lunga pausa.) Bene, suppongo che questo risponda alla mia domanda sul come avesse potuto raggiungerti e spingerti da parte. R. Gli feci paura. E la feci a me stesso. Credo che sia per questo motivo che lui se ne è andato a quel modo e non ha più preso a pugni mia madre né chiunque altro. Questa... questa faccenda di camminare come in un sogno mi spaventò assai più che l'aver lanciato il coltello, lo capisci? D. Posso immaginarlo... Ne hai abbastanza per oggi, George? (Solita routine per riportare il paziente al presente e fine della seduta.) Considerazioni: Una valutazione completa e ufficiale del caso richiederà del tempo. Non solo è necessario fare avere queste ultime informazioni a Lucy Quigley prima che parta per il Sud, ma c'è anche il problema di acquisire una sufficiente obiettività per fare un buon lavoro. Forse sono semplicemente troppo stanco, ma allo stato attuale non sarei in grado di fare un'analisi clinica corretta e necessariamente impersonale sugli sviluppi del caso in esame. Mi limiterò, per ora, a ragionare su alcuni punti particolarmente significativi. Sembra che in questo guazzabuglio la chiave di volta sia stata l'aver svelato a George che il suo segreto non era più tale. Avevo già notato prima il sistema straordinario usato dalla psiche per chiedere aiuto. È un vero peccato che non si possa inventare un marchingegno che possa scoprire con quale linguaggio o con quale strumento o con quale lessico questo grido venga emesso. Il peso del suo segreto deve essere stato per George insopportabilmente greve ed è probabile che si sia aggravato durante queste ultime settimane. Sono stato molto colpito da come, quasi improvvisamente, si sia sentito sollevato. Proprio mentre cercavo laboriosamente di penetrare nell'abisso nel quale si dibatteva per tirarlo fuori, lui se ne stava già sull'orlo e cercava disperatamente di rispondere alla mia domanda: quando aveva cominciato a succhiare sangue. Tenendo conto di tutte le ragioni con le quali cercò di motivare questa pratica, scopriamo che il soggetto vi ricorre per ottenerne sollievo solo quando viene ferito, quando si sente disorientato, "perso", come dice lui stesso. È così che distingue questo impulso dalla fame vera e propria. Per
dirla in altre parole e applicando la distinzione che George stesso fa tra "soddisfazione" e "sollievo", la sua avidità di sangue non è simile all'irresistibile impulso sessuale che spinge il vero psicopatico, ma è molto simile al vuoto che un neonato chiede di colmare aggrappandosi al seno materno. Una volta espressa, questa analogia si adegua talmente alla situazione che cessa di essere tale e assume un carattere assai simile a un risultato di analisi. Un neonato che ha fame vuole quel che vuole con un'esigenza insensata, non ragionata, che non ammette ritardi, argomentazioni, rimandi o ragione. In questi termini è lecito descrivere un nesso emotivo infantile come anomalo, insano... maniacale... ossessivo. E il neonato cerca le sue Soddisfazioni in questo stesso modo per ogni altra emozione che oltre alla fame lo turbi. Quando il neonato agita la testa anche a pancia piena, si può sempre consolarlo attaccandolo al seno. Se agita la testa a pancia piena e non riesce a trovare il seno, il suo disappunto è enorme e la sua richiesta si fa più pressante. Per una creatura maltrattata a cui è stato negato tanto quanto a George, il transfert dal seno che dà latte al sangue è comprensibile. Nel caso di George non si potrebbe nemmeno chiamarlo propriamente transfert, non alla luce di quanto è accaduto e di quanto gli fu ripetutamente detto sulle preoccupazioni di sua madre a proposito del proprio seno sanguinante. Sto cominciando a pensare che il problema George è un problema sessuale solo in maniera alquanto remota, anche se parallela. "Arresto di sviluppo" è quanto si dice in casi simili, eppure questa diagnosi non pare affatto adeguata per lui. Sembra invece che il suo sviluppo emotivo si sia definitivamente bloccato non nell'adolescenza o in età prepuberale, come spesso capita, ma al più primitivo livello infantile. Il fatto che il suo sviluppo mentale e fisico sia rimasto relativamente inalterato può sembrare inverosimile o essere statisticamente impossibile, ciò nonostante è una realtà. Hotel Venetian Charlotte, Carolina del Nord 5 maggio Caro dottor Outerbridge: "Bloccata nella nebbia" come dicono quelli dell'aeroporto, dovrò restar qui la notte e prendere l'aereo domani. Ho spedito stasera il mio rapporto al colonnello Williams, ma non penso che la posta aerea partirà visto che non
sono potuta partire nemmeno io. E così, con una serata a disposizione e una macchina da scrivere nel bagaglio, ho pensato di inviarle un messaggio, non fosse altro perché la immagino sui carboni ardenti in attesa di notizie. Il colonnello Williams l'ha forse informata che ero infermiera psichiatrica prima di lavorare per la Croce Rossa. Glielo dico per dar più peso alle mie congratulazioni. Per favore, non si arrabbi se il colonnello Williams mi ha mostrato la vostra corrispondenza "Da non Archiviare". È un vecchio amico ed è sicuro, come vorrei lo fosse lei, che non sono tra coloro che non devono sapere dei vostri scambi di idee. Per non lasciarla più a lungo in sospeso, mi permetta subito di dirle che aveva ragione su tutta la linea. I due delitti ci sono realmente stati e sono avvenuti proprio nel periodo previsto dal colonnello Williams in base alla storia scritta dal paziente e ai dati ivi contenuti: il suo arruolamento, per esempio, e le ulteriori informazioni ottenute sul cosiddetto "episodio dello spregevole zio" (col quale, come le dirò, mi sono incontrata per parlarne). La morte del guardiano è stata riportata sul giornale locale e archiviata dalla polizia come decesso per crisi cardiaca. Non mi addentrerò nei particolari per spiegarle come ho dovuto procedere per ottenere le informazioni che le farò avere, ma le confesserò che le resistenze incontrate non erano deboli, il benvenuto per niente caloroso, la disponibilità con cui mi hanno accolta per nulla evidente, e le minacce non tanto velate. Il sentimento che mi sono lasciata dietro è stato solo di immenso sollievo. In breve, mi sono recata dal capo della polizia, dal barista del posto, che controlla il capo della polizia, dalla moglie dal barista che è proprietaria del locale e controlla il barista, e avendo avuto da lei via libera sono stata in grado di avvicinare il coroner e convincerlo a farmi esaminare il fascicolo d'archivio. Vi ho trovato, sul caso in questione, un rapporto alquanto differente da quanto compare sul giornale e dalle schede di polizia, che non menzionavano neppure una ferita da taglio sul corpo. Il coroner, un esempio incredibile di uomo d'altri tempi, con catena d'oro per orologio da panciotto, mi ha offerto una ben magra scusa per giustificare il fatto che nel referto non si era tenuto conto di tale ferita. Eppure, penso che mi abbia detto la verità. Secondo quanto mi ha riferito, il vecchio guardiano era un alcolizzato cronico da anni, soffriva di una malattia di fegato giunta quasi allo stadio terminale, di arteriosclerosi, di stenosi della valvola mitralica e di un verme solitario di almeno dodici metri e poteva essere morto per molte altre ragioni, anche se non fosse stato aggredito e ferito. La cosa che contava per lui (e per le altre
autorità del posto) era che in quel caso, con una vittima di nessun conto, un colpevole ignoto, indizi scarsi o quasi nulli e nessun sospetto, non c'era ragione di mettere per iscritto gli elementi di un omicidio insoluto. Gli ho dato ogni assicurazione che il rapporto ufficiale poteva rimanere tale e quale per quanto mi riguardava. Il colonnello Williams può darle, se crede, ogni ragguaglio in merito alla configurazione giuridica del caso, ma credo che si possa star sicuri che se mai si dovesse arrivare a un'inchiesta e a un atto di accusa, le condizioni mentali del suo paziente renderebbero inutile ogni ulteriore procedimento a suo carico. Come istanza morale, questa azione potrebbe scatenare, come si dice, delle risse nei bar, ma ciò esula dallo stretto ambito diagnostico e terapeutico del paziente. La mossa successiva è stata quella di recarmi a Cravensville, situata proprio, come ha descritto George, sulle sponde di un lago di montagna, entro una baia che si apre dietro un promontorio che ne nasconde alla vista della cittadina la parte più distante. Mi sono procurata una barca e ho incrociato fino a una caletta nei pressi di un piccolo stagno formato da un ruscello che lì sbocca nel lago. (E il, mio arrivo ha messo in fuga una mezza dozzina di ragazzini nudi che sguazzavano in acqua. Terrorizzati sono scomparsi nel bosco come tanti piccoli elfi.) Non sono certa di aver individuato quelle rocce piatte dove George costruì la sua trappola, ma se qualcuno volesse farlo lì lo potrebbe di sicuro. Non ho visto né orsi, né capanni. Ma orsi devono essercene stati di sicuro, chiunque avrebbe potuto individuarne le tracce. Quanto alla morte del bambino non ho avuto fortuna e non sono riuscita a rintracciare sui quotidiani locali neppure un cenno sulla notizia. La cittadina non ha un suo quotidiano e il settimanale locale deve essere andato alla stampa poco prima dell'avvenuta morte del ragazzino, e probabilmente non ha considerato la notizia abbastanza importante da trovar posto nel numero seguente. È agghiacciante ma il suo George ha ragione, per lo meno quando afferma che la vita in certe zone di queste montagne ha assai meno valore di quanto si creda. Povertà, analfabetismo, troppi figli sono quelle tre grandi forze che si contrappongono al dolore per la perdita di una piccola vita e di una bocca affamata. Alcune circostanze hanno poi contribuito a togliere ogni sensazionalità alla morte del ragazzo. Sul lato opposto del lago c'è un ponte su cui corre la strada provinciale e negli ultimi tre anni sono morte due persone (un suicidio e un investimento) i cui corpi sono riaffiorati proprio in quella caletta certo a causa dei venti e delle correnti delle acque del lago. Queste
circostanze e le condizioni del corpo del ragazzino hanno spinto le autorità locali a concludere senza ulteriori accertamenti che il bambino era probabilmente morto lontano dalla caletta. Indossava il costume da bagno, come quando aveva lasciato casa sua il pomeriggio prima della sua morte (povera creatura, penso che sia rimasto nella trappola tutta la notte), per cui non c'erano nemmeno i suoi indumenti vicino al posto in cui ha trovato la morte. È specificato che la gamba sinistra, il piede destro e la caviglia destra presentavano profonde ferite anche se nessun osso era spezzato. C'erano anche molte contusioni e abrasioni in testa e sulla faccia. E c'era anche la profonda ferita al ventre e sebbene nessuno si sia veramente preoccupato di indagare su come possa essersi verificata, le vaghe ipotesi di ferite dovute a un incidente nelle vicinanze del ponte, causato da uri pirata della strada, sono sembrate sufficienti a spiegare quella povera morte. Lei può quindi, una volta di più, fare credito all'onestà del suo George, qualunque siano le sue convinzioni sul fatto che la verità è bellezza e la bellezza verità. Sono andata a trovare il signore e la signora Grallus, lo zio e la zia, e non cercherò di celebrare il talento del suo George per le descrizioni. Se mai George, un giorno, dovesse tornare libero, lì troverebbe un asilo sicuro. Gli zii non sono più tanto giovani e non hanno figli. Penso che la zia provi un affetto sincero anche se tiepido per suo nipote e sarebbe pronta a dargli una mano. Credo che anche lo zio sarebbe disposto ad aiutarlo anche perché si sente in colpa per come ha trattato il ragazzo e vorrebbe in un qualche modo ripagarlo. Non lo fa per generosità ma solo perché vorrebbe cancellare i suoi sensi di colpa e sarebbe pronto a fare qualcosa per liberarsene. Tutti e due pensano che George sia un "innocente", un ritardato mentale, e se lei e io avessimo cento lire per ogni persona che in questo paese non riesce a distinguere tra un malato di mente e un ritardato mentale, potremmo costruire una clinica abbastanza grande per curarli tutti. Poi, per ultimo, sono andata a trovare Anna. Povera Anna! Spenta, silenziosa, brutta, male amata e piena di tenerezza. Mi ricorda un animale da soma, forse un somaro, un somaro dal basto carico, molestato da mosche, che se ne sta paziente ad aspettare, con grandi occhi tristi, che qualcuno venga a dissetarlo, o a dargli un calcio, o a ucciderlo o a dirgli ciò che deve fare... Sono piuttosto imbarazzata, sergente Outerbridge, e non sono propensa a descrizioni liriche, ma le confesso che Anna mi ha commosso. Anche lei è proprio come George l'ha descritta: una donna dalla struttura
pesante, spalle larghe, mani, piedi e caviglie sorprendentemente delicati. Ha la faccia larga e rosea, un piccolo naso a patata, occhi ravvicinati, e una bocca morbida e triste. La mascella è quadrata e ha il doppio mento pur non essendo grassa. L'ho trovata nei campi dove lavorava. Sono stata lieta di parlarle, lì all'aperto, lontano da quella squallida e rumorosa rovina che chiamano casa. La parola "meschino" ha molte sfumature di significato e tutto di quella casa, dei suoi abitanti, dei dintorni le comprende. Non cercherò nemmeno di riferire con precisione la nostra conversazione e non ho neppure mandato al colonnello un rapporto esauriente sull'argomento. Il vocabolario e l'esperienza di Anna sono così limitati che le parole non esprimono quasi niente. Eppure quella povera ragazza ha ricevuto in tutta la sua vita così poca simpatia, tenerezza e rispetto che un briciolo di questi sentimenti ci ha portato lontano. Non c'è dubbio che Anna ami George (lo chiama Belly. Mi pare di aver letto nella sua autobiografia che il suo paziente si chiama Bela, vero?). Lo ama molto. Ha accettato il suo abbandono, il suo silenzio, proprio come quella bestia da soma a cui l'ho paragonata accetta un calcio negli stinchi. Non si è mai sognata di ribellarsi né pensa di poterlo fare. Ha seguitato a vivere giorno dopo giorno, ricordando ostinatamente quei due anni e mezzo vissuti vicino a George e usandoli come suo unico sollievo. Non posso affermare che lo stia aspettando. Ammetterlo per lei significherebbe, implicherebbe una speranza. Ma su un punto non ho dubbi: se mai George dovesse tornare, lei sarà qui e sarebbe di nuovo sua se lui lo volesse. Ho potuto ricostruire con buona approssimazione il loro rapporto; Anna, in una conversazione, non è né in grado di esercitare una certa abilità né di stabilire delle difese, e quindi attraverso una serie di immagini e di eufemismi spesso alquanto scoperti, si riesce a capire che è stata la gentilezza di George ad averla così definitivamente conquistata. Quando ha incontrato George, Anna non era sessualmente innocente. C'erano stati dei rapporti con alcuni lavoranti stagionali, e pare che uno di quegli uomini avesse avuto con lei una relazione per un certo periodo di tempo. Mi ha anche parlato di un certo Sammy e, in quel caso, per la prima e ultima volta della sua vita, Anna aveva chiesto aiuto: lo aveva detto al padre il quale, così mi ha raccontato, lo bastonò quasi a morte. Non ho indagato per sapere chi fosse Sammy, ma mi pare d'aver capito che fosse il suo fratello maggiore. Secondo quanto le ha raccontato George, lui non ha mai cercato di imporsi ad Anna, e convinta come lei deve essere stata che tutti i maschi sono portati alla violenza sessuale, non le è mai venuto in mente che l'atteggiamen-
to diffidente di George nei confronti del sesso non fosse dovuto esclusivamente al suo autocontrollo e alla considerazione con cui la trattava. Per sedurre George le ci volle assai più che proposte e disponibilità. Ha letteralmente dovuto eseguire lei stessa quasi tutto l'approccio dell'atto sessuale. Apparentemente lui non collaborò quasi, ma certamente non resistette e per questa sua compiacenza disinteressata che considerò una specie di atto cavalleresco nei suoi confronti, Anna lo adorava. Hanno evidentemente fatto poco all'amore e solo quando il desiderio di lei si faceva imperioso, ma quando lo ha desiderato lo hanno fatto sempre, lui non si è mai rifiutato. Questo ha certo reso i rapporti sessuali poco frequenti, e inoltre, lei deve aver tentato di emulare quello che prendeva per autocontrollo da parte di George, di modo che la frequenza dei loro rapporti ne è stata influenzata. Comunque sia, quelle poche volte devono essere state per Anna sconvolgenti. Lei, caro dottor Outerbridge, ci ha descritto un George fisicamente forte, mosso da forti impulsi e sicuramente in grado di commuovere quella povera giovane. A questo punto la già modesta disponibilità di Anna a esprimere i propri sentimenti si è notevolmente ridotta, ma per fortuna non si è interrotta. Con aria gentile e distaccata sono riuscita a farla parlare e a farle scaricare quello che per lei deve essere stato l'insostenibile peso della colpa e dello scandalo facendole confessare quello che gli aveva permesso di fare. E quando finalmente è riuscita a balbettare quello che secondo lei poteva solo attirare sulla sua persona vergogna e dannazione, la povera creatura ha chiuso gli occhi e se ne è rimasta impalata ad aspettare, credo, che io le sputassi in faccia e che Dio la colpisse a morte. Allora, con tutto il garbo di cui sono capace, con parole semplice e chiare, le ho dato quello che chiamo il "Sollievo del rapporto Kinsey", quel dono inestimabile offerto da quel medico immortale a milioni di individui inutilmente preoccupati, e che consiste nel sapere che da un punto di vista statistico, qualunque sia il nostro comportamento... non siamo mai soli. E Anna, come molte altre persone che non leggono, non si informano, non sanno, in pratica non pensano, credeva davvero che ciò che era successo tra lei e il suo paziente, era unico e irripetibile e, agli occhi del Cielo, tremendo come una macchia di sangue su una tovaglia candida. Apprendere che ciò che era successo tra lei e George era comune e non particolarmente eccezionale, è stato per lei una rivelazione. Poi ho anche citato Havelock Ellis (naturalmente senza farne il nome) facendole notare che un'azione, anzi, meglio, qualunque azione compiuta per mutuo consenso dei partner,
purché non sia stata imposta da uno dei due all'altro, è espressione di amore, è morale... Una strana scena; io, con le mie lucide scarpe cittadine in piedi nel cortile di una fattoria, che parlo con un povero animale da soma, nel suo vestito sdrucito ma pulito, su quello che è l'estasi d'amore! O Dio! Devo aver fatto tardi; quando sono molto assonnata, arrossisco facilmente. Le farà piacere sapere e la interesserà certo che la frequenza di quell'atto seguiva un ritmo di ventotto giorni, con uno scarto di due in più o in meno. George lo avvertiva come un animale. Come molte altre informazioni anche questa c'era, abilmente nascosta, nelle pagine che ha scritto. Non ha forse ammesso di aver saputo prima di Anna che lei era incinta, perché lei non ne aveva mai tenuto conto, e invece lui sì? Aggiungiamo questa annotazione, dottore — sergente Outerbridge — a quanto si dice sulla malattia mentale e sulla influenza delle fasi lunari? Be', ecco la mia storia... e, sergente, poiché questa è una lettera personale e non un rapporto ufficiale, mi permetta un commento personale. Sarò innanzitutto ancora formale affermando che le mie opinioni devono essere considerate opinioni... non sono un medico. Sono una semplice operatrice, un'infermiera e una donna. Ma proprio in quanto tale, la prego, mi permetta di congratularmi con lei. L'ammiro moltissimo per come ha indagato su questo caso e spero un giorno di poterla incontrare e stringerle la mano. Penso che George sia una delle creature più tragiche di cui abbia mai sentito parlare. Non ho dubbi che la sua storia finirà per essere immortalata in una serie di casistiche o addirittura in un libro di testo. Ma vorrei tanto che finisca con l'essere libero, che viva con Anna e forse in una fattoria tutta sua. Non so naturalmente come intende curarlo, eppure in me chissà per quale ragione; non nutro dubbi che lei lo vorrà curare. Se c'è qualcosa che io possa fare per aiutarlo, per favore, mi chiami. Per favore. Sarebbe un onore lavorare per lei, un trionfo, riuscire a farcela. E mi permetta anche di sottoporle un mio ragionamento (forse troppo semplice, forse, a causa di elementi di cui non so niente, assurdo, o forse si tratta di una supposizione che lei ha già esaminato e scartato): tutte e tre le qualifiche — operatrice, infermiera e donna di cui le ho parlato più sopra — sono concordi nel suggerirle che George non è affatto uno psicopatico sessuale e quindi non ci si può aspettare che risponda a qualsiasi trattamento conosciuto volto a curare tale disturbi. Anche lei lo supporta azzardando l'ipotesi che lo sviluppo emotivo di George sia stato bloccato nella primissima infanzia, e che questo suo caso presenta una sorta di assurdità
grottesca giacché George invece si è sviluppato normalmente in tutti gli altri settori della sua personalità. Sono convinta che questa sua ipotesi sia in realtà molto azzeccata. So anche che la moderna psichiatria riconosce indizi sempre più precoci di attività e differenziazione sessuale. Nell'età vittoriana si pensava che sino a dieci anni tutti i bambini, a meno di non essere vissuti in ambienti deleteri, fossero "innocenti"; e tale aggettivo voleva significare che i bambini erano tutti angioletti asessuati. Io credo che invece l'insorgere degli impulsi sessuali si situi in un tempo più precoce che però non coincide con la nascita. Se e veramente così, allora c'è un periodo dell'infanzia in cui un bambino, da un punto di vista emotivo, non è ancora né un maschio né una femmina, non è ancora un'entità sessuale, ma solo un bambino (con tutte le insensate "anomale" esigenze di cui le ho parlato). Non so se qualcuno ci ha già pensato, ma si può ragionevolmente supporre che una bambina cerchi il seno materno meno di quanto non lo faccia un maschio?... Mi rendo conto di fare in questo momento delle supposizioni puramente "emotive" e "femminili", ma non mi riesce di togliermi dalla testa che lei scoprirà che l'emotività disturbata di George va ricercata e curata in quella particolare fase di sviluppo infantile. Il colonnello Williams in una di quelle sue lettere "Da non Archiviare", in cui le faceva alcune divertenti critiche sulle sue intuizioni, riferendosi ai disegni di George che lei definiva «a forma di pera» era invece giunto alla conclusione divertita che erano tanti seni disegnati l'uno vicino all'altro. Dopo essermi tanto divertita ho cominciato a pensare e ho ricordato che George aveva dato la stessa forma anche alla coppia del primo disegno. E George, mi è tornato in mente, aveva tracciato un'unica e rozza linea a zig zag per contrassegnare i seni della figura femminile non annettendo loro quindi alcuna importanza, ritornandoci poi in seguito per evidenziare accuratamente i capezzoli. Disegnava sempre invece l'ombelico come se considerasse incompleta ogni forma arrotondata priva di qualche orifizio terminale. Mi è quindi balenata l'idea che quei disegnini tanto umoristici in verità rappresentassero forse per George, la vita: esseri viventi, così come la sua consapevolezza emotiva infantile vorrebbe che fossero e crede che siano. Conigli, scoiattoli e ragazzini e vecchi guardoni, tutti una mamma piena di fluido vitale. La mammella costituisce per lui l'intero organismo, lo crede così fortemente che indica le vere mammelle appena con una approssimativa linea a zig zag (anche se non può sorvolare sull'esistenza dei capezzoli) e di preferenza considera l'intero corpo femminile come un oggetto
mammellare; questo indipendentemente, a prescindere e senza tener affatto conto che esso è di genere femminile! Questa ipotesi ci porta quindi sorprendentemente alla conclusione che nel suo periodico (una parola decisamente appropriata), aggressivo atto erotico con Anna egli eseguiva senza partecipazione sessuale un'azione asessuata su un organo o un oggetto il cui sesso era per lui trascurabile quanto il genere della parola bottiglia. (Mi chiedo come sarei riuscita a parlare ad Anna di quegli "atti d'amore" con toni così convincenti come feci, se avessi pensato allora a un'ipotesi del genere!) Per restare in ambito simbolico c'è qualcosa che ho dedotto da quella sorprendente affermazione di George sull'individuazione dell'eroe e del malvagio nei film western. (E bisogna ammettere che quel giovane stranamente perspicace, ha proprio ragione!) Gli eroi vengono colpiti al petto. (Seno?) I cattivi allo stomaco. Domanda: non è più che una coincidenza se il padre e il guardiano (identificato con il padre), furono feriti al petto, mentre il bambino identificato con il feto che mette in crisi il suo rapporto con Anna, fu ferito al ventre? Dio mio! Che cosa ho mai fatto? Avevo l'intenzione di darle tutte le informazioni, di congratularmi con lei e poi di andare a dormire: ma una luce rossastra già trapela dalla finestra, la nebbia si è dispersa, e il mio aereo parte tra un'ora. Sergente, dottore, Sir Philip, qualunque sia il modo in cui viene chiamato: grazie, è stato un piacere parlare con lei. Cordialmente, Lucy Quigley Una lettera. Manicomio di Sir Philip Praecox, California D.n.A. 8 maggio Caro Al, allego l'allegato, una monumentale missiva della tua Lucy Quigley che è, come tu stesso hai più o meno detto, una donna davvero eccezionale! A proposito, com'è? Bella? Te la mando perché suppongo che ti farà piacere leggerla, anche se con-
tiene quelle informazioni di repertorio che già conosci dal suo rapporto ufficiale e di cui non hai quindi bisogno, e un po' di lodi a me rivolte che a tuo giudizio sarebbe stato più sensibile tenere modestamente per me. Ora, parlando seriamente, vorrei che riflettessi su questa sua ipotesi della natura asessuale, direi meglio pre-sessuale, dell'anomalia di George. Al momento non sono in vena né di confermare, né di respingere una simile ipotesi, ma l'idea mi stimola e mi piacerebbe farmi l'eco di ciò che rimbalzerà da te. Sarai contento di sapere che ho obbedito al tuo ordine di circa cinque mesi fa e mi sono concesso circa quattordici ore di sonno filato, dopo di che ho lavorato per quaranta ore consecutive liquidando il cumulo di lavoro che il lungo sonno e la preoccupazione per George mi avevano fatto accumulare. Tutto è quindi tornato alla normalità. Ho visto George solo di sfuggita, una volta, stavo andando a controllare la testa di un vicino di cella in camicia di forza e ho solo scambiato due chiacchiere con lui. Uno scambio di battute che ti può interessare: gli ho detto che avrei rispettato il suo desiderio di non entrare nello specifico per quanto riguarda il rapporto che ha con Anna e il contenuto della lettera che ha dato fuoco alle polveri; l'ho ulteriormente rassicurato dicendogli che gli avrei rivolto una domanda alla quale poteva scegliere di non rispondere. Poi gli ho chiesto perché non voleva discuterne. Ebbene, il nostro George, seduto sul bordo della branda, si è grattato la bella testa bionda, e poi con tutto comodo e un sorrisino imbarazzato ha detto: «Non avrei voluto che mi prendesse per un tipo strano». Che mi dici di nuovo? Phil Palazzo di Patologia New Rosis, Oregon D.n.A. 10 maggio Caro Phil, ho letto e riletto la lettera di Lucy e te la restituisco acclusa. Hai perfettamente ragione: è una donna eccezionale! O sono stato io a dirlo? E va bene: allora sono io che ho ragione: è una donna eccezionale. Quanto al suo aspetto, giudicherai di persona. Arriva domani e procurati un pass, ti taglieremo la strada per andare a pranzo.
Riguardo alla sua ipotesi su George, mi vorrai scusare, amico caro, ma non ho alcuna opinione e se l'avessi non la direi a te. Fammi il piacere, considerami sempre come qualcuno, tipo l'addetto alla biglietteria di una linea aerea. So tutto sulle andate e i ritorni e fisso il posto a chi vola, ma non chiedetemi come funzionano questi marchingegni all'ultimo grido. Quindi: nessuna opinione circa la clausola n. 2 di cui sopra, dove dichiaro e dico che se avessi un'opinione non la direi a te, fammi affermare hic et nunc che a mio giudizio sei un grand'uomo. Un uomo intelligente. Un brav'uomo, sotto tanti aspetti. Ma che di quando in quando provoca tanti sensi di disagio. Con te ogni volta che esprimo un'opinione a tre mesi di distanza salta fuori che ti ho dato ordine di far questo, o concesso l'autorizzazione a fare quest'altro, e quel che è peggio, puoi anche dimostrarlo. Ho due notizie da comunicarti. La prima è che al mio arrivo ti consegnerò un bauletto con dentro qualche gioiellino con tre barrette di argento, una pergamena da incorniciare come un diploma di laurea, e una busta paga con gli arretrati a far data dal tuo venticinquesimo compleanno. Se ne sei capace, ora puoi far quadrare il tutto con la tua coscienza, per avere conquistato sotto mentite spoglie la fiducia di George spacciandoti per sergente, quando eri già a tutti gli effetti un ufficiale. L'altra nuova riguarda il defunto maggiore Manson, possa la sua anima sbirciare dietro la tua spalla e, sentite le mie scuse, accettarle. (Ricordi quando l'ho definito testa d'asino e concluso che aveva appiccicato a George la diagnosi di "psicosi non classificata: violento", unicamente perché si era preso un pugno sul muso?) Ebbene dopo il suo onorevole decesso sul campo, il nostro efficientissimo esercito ha trascelto i suoi effetti personali da quelli governativi inviando i primi ai legittimi eredi: un'unica figlia. Com'è comprensibile, Miss Manson ha lasciato passare un certo lasso di tempo prima di assolvere al compito di mettere ordine nelle cose del padre. Tra le sue carte ha trovato la lettera non spedita di un soldato. Te l'accludo, e credo che nessuno leggendola potrà meravigliarsi del fatto che il censore ne fosse rimasto tanto colpito da portarla in visione al maggiore, o che il maggiore avesse subito convocato George. Salta il pranzo. (Questo è un ordine.) Tu, Lucy e io ci abbandoneremo a una grande abbuffata. Hasta la vista Al
Allegato: una lettera via aerea non spedita. Reca il numero di matricola militare del mittente, un indirizzo fermo posta dell'esercito, e la designazione di una unità di combattimento. La lettera è firmata. Il testo, in foto, segue: Cara Anna, mi manchi molto. Come vorrei avere qualche goccia del tuo sangue. Chiudi la cartella. Hai letto tutto. Sei seduto nell'alone di luce della lampada da tavolo del dottor Outerbridge. È tardi. Però resta ancora un po': non verrai disturbato dallo psichiatra del romanzo che, dopo tutto, esiste solo per te, Il Lettore. Poggia le mani sulla copertina liscia e morbida della cartella chiusa, chiudi gli occhi e rifletti con calma. Giacché questo è e non dev'essere che un romanzo, cosa ti è piaciuto di più? Il dottor Outerbridge trovò molto graziosa Lucy Quigley che a tempo debito divenne la signora Outerbridge. Hanno lavorato bene insieme e insieme si sono creati un nome e un'unione perfetta. Questo ti fa contento? George venne trasferito in una clinica psichiatrica per reduci dove la sua personalità disturbata, quel suo blocco emotivo, venne curato con la narcoanalisi, la reserpina, l'elettroshock e l'assistenza di un analista comprensivo. In tre anni e cinque mesi fu dichiarato guarito e dimesso. Sposò Anna, ereditò la fattoria della zia dove vivono sereni, uno vicino all'altro e in prossimità dei boschi. Gli è stato insegnato ad amare i bambini. Tutto bene? Oppure ti offende anche l'idea che esista un uomo come George? Ebbene, sarà la cosa più semplice del mondo far fallire la terapia, rinchiuderlo per sempre tra quattro mura. Si potrebbe anche farlo morire ammazzato durante una rivolta in prigione o colpito da una pallottola della polizia in un tentativo di evasione. Ti piacerebbe che fosse colpito in pieno petto, o al ventre? Ti piacerebbe? Perché? Che cosa rappresenta uno come lui per te? Forse è meglio che tu rimetta a posto la cartella e te ne vada. Se il dottor Outerbridge dovesse tornare all'improvviso dovresti ammettere che realmente esiste e tutto il resto è veramente accaduto. E questo non ti garberebbe affatto, vero?
FINE