LAIRD KOENIG QUELLA STRANA RAGAZZA CHE ABITA IN FONDO AL VIALE (The Little Girl Who Loves Down The Lane, 1974) a Mary e ...
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LAIRD KOENIG QUELLA STRANA RAGAZZA CHE ABITA IN FONDO AL VIALE (The Little Girl Who Loves Down The Lane, 1974) a Mary e a Richard Kebbon 1 Era una di quelle sere che piacevano di più alla bambina. Si trovava in piedi davanti alla finestra, in quell'ultima notte di ottobre, e contemplava il mondo che stava rabbrividendo sull'orlo dell'inverno. Vento gelido faceva crepitare gli steli secchi dei fiori in giardino, e raschiava i nudi rami degli aceri facendone volar via le ultime foglie morte come pezzi di carta nera nell'oscurità. A un tratto la bambina accostò le tende della finestra e precluse la notte. Corse a piedi nudi verso il caminetto di pietra e, con l'attizzatoio, smosse i ceppi finché le rosse braci non scoppiettarono avvampando. Protese le mani avvicinandole al bagliore del fuoco e lo sentì insinuarsi nel soggiorno e nella cucina di quella che era stata, fino a cent'anni prima, una fattoria. La proprietaria della casa aveva sistemato una nuova stufa a gas contro la parete, ma la bambina amava il tepore delle fiamme e l'odore asprigno, di fumo, dei ceppi di acero che bruciavano. Alcuni altri passi la condussero intorno a un tavolino da caffè, a una sedia a dondolo e accanto alle lucenti manopole metalliche di un amplificatore stereofonico. Ella alzò il volume e il suono dilagò dagli altoparlanti collocati in alto, nell'ombra delle travi. Il concerto Numero 2 per pianoforte e orchestra di Liszt, interpretato da uno dei più grandi complessi sinfonici del mondo, si dilatò e pulsò in ogni angolo, finché parve che la stessa piccola casa fosse l'orchestra. Il magnifico suono si avvolse intorno a lei e in ultimo il cuore della bambina e il ritmo della musica divennero una cosa sola. Il volume venne ulteriormente aumentato e la musica si gonfiò ancora più forte. Nessun vicino avrebbe telefonato o bussato alla porta per lagnarsi dello strepito. Le persone meno lontane abitavano quattrocento metri più in là nel viale pieno di foglie morte. La bambina rimase immobile al centro della stanza. Aspettò, nella quasi oscurità, mentre la fioca e baluginante luce rossastra proiettata dal fuoco
respingeva le ombre negli angoli facendole ondeggiare. Aspettò. Presto il momento che aveva atteso per tanti giorni sarebbe venuto. Sin dalle prime ore del mattino, tranne che durante la passeggiata nel villaggio sotto la pioggia autunnale, si era dedicata alle pulizie in casa. Carponi, aveva passato la cera sul pavimento di quercia. Aveva spolverato e lucidato le superfici di legno opaco dei semplici mobili dai quali, per due volte nel mese di settembre, era stato attratto nella casa un antiquario dal giubbotto attillato di cuoio nero che sapeva di garofano, con offerte sempre più generose di acquistare tutto in blocco. Essendogli stato spiegato, dal padre di lei, che quasi tutti quei mobili non potevano essere venduti perché non gli appartenevano, l'antiquario aveva scosso la testa malinconicamente. Erano, avevano detto posando sguardi innamorati sul tavolo e sulle sedie, sui candelabri, sul divano, sul tappeto intrecciato, tra i più begli esempi di stile antico americano mai veduti. Il pavimento e i mobili, già resi lucidi dagli anni, splendevano adesso ai riflessi del fuoco. Persino il tappeto intrecciato sotto il tavolo allungabile, che si diceva fosse antico di centocinquant'anni, sembrava quasi restituito alle tinte originarie da quando la bambina lo aveva portato fuori e sbattuto per liberarlo dalla polvere. Nella cucina, separata dal soggiorno da un tramezzo di legno, il metallo dei moderni fornelli e del frigorifero splendeva ai bagliori del fuoco. Sulla credenza in cucina, la ragazzetta aprì una scatola di cartone per dolci; con cautela, servendosi di tutte e due le mani, ne tolse una piccola torta rivestita di spessa glassatura giallo-pallido e la mise su un vassoio. Sebbene una velatura di zucchero le fosse rimasta sulle mani, non si leccò le dita. La tolse con un tovagliolino di carta. Nella lucente superficie della torta, increspata come seta, affondò con cura tredici candeline, gialle, disponendole ben diritte a formare un circolo. Rimise nel cassetto le candeline rimaste. Strofinò un fiammifero di legno, il primo dei tre che le sarebbero occorsi, spostando la fiammella con tutta la rapidità e di cui era capace per accendere e rendere danzanti di luce tutte e tredici le minuscole candele. Quando agitò il fiammifero per spegnerlo, la sua mano, veduta di profilo contro la luce di candela, splendette rossa. La scrutò per un lungo momento, così come aveva osservato più attentamente ogni altra cosa in quel giorno tutto speciale. Girò adagio la mano. Le dita, color rosso-sangue sugli orli, erano quasi trasparenti, eccezion fatta per il profilo delle piccole unghie, curate alla perfezione.
Prese la torta splendente, ma, invece di portarla direttamente nel soggiorno, andò verso l'angolo più buio accanto alla porta di casa, ove, sotto l'attaccapanni, scintillava un lungo specchio. Ancor prima che ella giungesse davanti allo specchio, il bagliore delle candeline illuminò l'angolo in ombra. La bambina rimase del tutto immobile dinanzi allo splendore riflesso delle fiammelle. Nella luce oscillante delle candele le sue mani e la faccia sembravano pallide, bianche come cera. I capelli lunghi, che avevano di solito il colore delle foglie di quercia secche, erano adesso aureolati da fulgori di rame. Guardò con gli occhi spalancati. Decise che era vero, il suo viso era sul serio, come aveva scritto il babbo in una delle poesie, a forma di cuore. La fronte senza dubbio ampia, il mento appuntito. Un viso bianco, a forma di cuore, cosparso di lentiggini che sembravano più scure alla luce del fuoco, come puntini lasciati da una matita su carta bianca. Gli occhi scintillavano, colmi di luce selvaggia. Occhi piccoli, pensò. Verdi, ma piccoli. Una volta si era lamentata con il babbo perché altre bambine della sua età avevano occhi enormi. Suo padre, che allora stava traducendo una poesia russa, lasciato da parte il lavoro, aveva insistito nel dirle che gli occhi non erano affatto piccoli, spiegandole, con una prolissità che le sembrava adesso esagerata, come ella avesse una bella struttura ossea, e un viso giunto ormai alle sue dimensioni definitive. Gli òcchi erano esattamente proporzionati al viso. Sul momento, aveva intuito che era l'affetto del babbo per lei a parlare. Ma senza sentirsi persuasa. Già da allora. Aveva gli occhi piccoli. E si augurava che fossero, anziché piccoli e verdi, sia pure lampeggianti e colmi di luce come lo erano in quel momento, grandi, immensi, enormi. «Buon compleanno» disse alla bambina nello specchio. Badò bene a non sorridere, perché un sorriso avrebbe lasciato vedere l'incisivo scheggiato, e questo non poteva sopportarlo. «Buon compleanno a me» soggiunse, e tutti i crucci a causa degli occhi - ma verdi lo erano e questo le piaceva - impallidirono in confronto alla sofferenza che provava per il dente scheggiato. Bruscamente disse a se stessa, con molta severità, di non pensare al dente, di non consentire che le sciupasse quel giorno tutto speciale. Adagio, come se stesse prendendo parte a una cerimonia, allontanò dallo specchio il bagliore delle candeline. La musica pulsava intorno a lei e il vento notturno che investiva la casa ben presto la colmò di una felicità tanto grande da costringerla a chiudere gli occhi nel tentativo di trattenere in sé quella gioia, di impedire a quel momento di passare.
Accanto al tavolino da caffè, ove si inginocchiò per posare la torta davanti al fuoco, riuscì quasi a vedere se stessa mentre celebrava una sorta di rito, come qualche scena di uno di quei vecchi film biblici che aveva veduto alla televisione, trasmessi dalla BBC. Scorgeva - quasi come se fosse stata fuori da se stessa - una ragazzetta esile, nel lungo caffettano di lino bianco acquistato per lei dal babbo in Marocco. Quel caffettano, la cosa più bella che possedesse, aveva sul colletto e sulle maniche ricami blu, un colore capace di proteggerla, così era stato assicurato dal proprietario del negozio sia al padre sia alla figlia, dal malocchio. Aveva i piedi nudi sul liscio pavimento di quercia. Sì, era molto soddisfatta: Sembrava davvero una di quelle solenni vergini della mitologia, una sacerdotessa intenta a porre qualche offerta su un altare. Si accosciò con i piedi nudi sotto le gambe e fissò le fiammelle delle candeline. Portò un braccio dietro di sé e, con la mano, fece oscillare la sedia a dondolo. Di nuovo chiuse gli occhi e sentì di far parte del tepore del fuoco, delle fiammelle delle candeline, della musica, del vento notturno. A un tratto, udendo un suono, trattenne il respiro. Balzò in piedi e abbassò il volume della musica. Colpi rimbombavano contro la porta di casa. Corse a scostare le tende della finestra sulla facciata e sbirciò fuori. Nella notte ventosa, un uomo alto di statura, che indossava un impermeabile, si trovava davanti alla porta. Illuminato da una strana luce arancione, sembrava risplendere e oscillare come le fiammelle delle candeline sulla torta. Vi sarebbero stati altri colpi, lo sapeva, tonfi che paventava, e improvvisamente non desiderò altro che arrivare alla porta di casa in tempo per impedirli. Ma non era ancora giunta nell'ingresso quando risuonarono; tre colpi, più forti ancora di quanto si fosse aspettata. «Sì?» domandò, davanti alla porta. «Signor Jacobs?» La voce al lato opposto, fuori nella notte, risultò sconosciuta alla bambina. «Chi è?» Il suo accento era inglese. «Frank Hallet.» Hallet? Il cognome non significava niente per lei. Hallet? Poi ricordò la donna dell'agenzia immobiliare che aveva affittato la casa al babbo. Hallet. Quell'uomo doveva essere suo figlio. Che cosa poteva volere? La bambina rimase immobile. Sapeva che l'uomo non se ne sarebbe andato finché non gli avesse aperto la porta. «Un minuto solo» gridò.
Corse di nuovo accanto al tavolino da caffè e aprì una scatola di sigarette. Da un pacchetto di Gauloise sfilò una sigaretta, poi, scostando all'indietro i lunghi capelli, si sporse verso le fiammelle della torta di compleanno. La punta della sigaretta si accese rossa, mentre lei aspirava. Raddrizzatasi, voltò la testa e soffiò il fumo dietro di sé. Continuando a fumare, soffiò fumo nei quattro angoli della stanza prima di gettare la sigaretta nel caminetto e di tornare indietro di corsa nell'ingresso. Fece scattare la serratura e aprì la porta sulla notte e sul vento, che mandò foglie secche a frusciare sul pavimento di quercia. L'uomo sembrava risplendere nell'oscurità perché reggeva una di quelle zucche che ella aveva veduto giacere, dorate e arancione, nei campi, o in vendita, disposte a cataste, agli incroci. Quel grande globo arancione era stato svuotato e, all'interno, una candela accesa mandava luce attraverso due occhi, un naso e un enorme e sogghignante squarcio di bocca tagliati nella corteccia spessa della zucca. «Brutti scherzi o offerte.» La voce dell'uomo tuonò, quasi un grido, per poter essere udita nonostante il vento. «Cosa?» domandò la ragazzetta. Ma non perché non fosse riuscita a udirlo. Fissava l'uomo e aria gelida si insinuava nella casa. Che cosa voleva? «Brutti scherzi o offerte.» L'uomo spinse la faccia ghignante della zucca verso di lei, come se quella richiesta potesse essere chiarita dagli occhi luminosi, dal ghigno di fuoco. «Spiacente» disse la bambina. Cercò incerta e invano un qualche modo per dimostragli che non capiva perché si trovasse lì o che cosa volesse. Non tentò affatto di nascondere i brividi dai quali era percorsa. Il momento prezioso per il quale aveva lavorato tutto il giorno, si stava dileguando, come il tepore della casa, nel gelo. Più di ogni altra cosa al mondo, in quel momento, desiderò, bramò dolorosamente, un qualche modo per far sì che lo sconosciuto se ne andasse dalla porta di casa sua. «È la vigilia d'Ognissanti» gridò l'uomo, come avrebbe potuto fare cercando di spiegarsi con uno straniero che non parlasse la sua lingua. «Sì?» disse la bambina, e si domandò se poteva osare un gesto: appoggiare la mano allo stipite della porta. Il movimento avrebbe impedito all'uomo di fare il passo che, dalla veranda, poteva portarlo oltre la soglia. L'altro si mosse prima di lei. Un passo appena, ma già si sporgeva entro l'ingresso e sbirciava il soggiorno. «È il compleanno di qualcuno?» Fissando le candeline accese sulla torta.
Entro le lunghe maniche del caffettano, le mani della ragazzetta si strinsero a pugno. «Il tuo compleanno?» domandò l'uomo. La bambina annuì adagio. Entro le maniche aprì i pugni, ma soltanto per massaggiarsi le braccia e difendersi dal freddo. «Tanti auguri.» «Grazie» disse con una voce neutra, sforzandosi di eliminare ogni sentimento dalle due sillabe, perché ormai sentiva che la sua sola arma contro quell'individuo consisteva nel non incoraggiarlo assolutamente, in alcun modo, a parte un minimo di cortesia. Pensò alle donne più avanti negli anni, nei negozi di Londra come Harrods e nelle sale da tè come la Richoux, che riuscivano a raggelare commessi e cameriere con la loro meravigliosa, studiata freddezza. Se avesse potuto creare quello stesso genere di gelo, l'uomo sarebbe stato costretto ad andarsene. «Posso riferire a mio padre quello che vuole?» «Oltre al tuo compleanno, questa sera è anche la vigilia d'Ognissanti» urlò, quasi, lui. Credeva che non riuscisse a udirlo? Di nuovo la ragazzetta pensò a Londra e a un amico di suo padre, un anziano poeta dai capelli sudici che, sebbene alloggiasse in una stanza minuscola - grande appena quanto bastava per contenere il disordine delle tazze screpolate piene di tè bevuto a mezzo, nel quale galleggiavano mozziconi di sigarette, per non parlare dei libri ingialliti, dei manoscritti strappati e della puzza di gatti - urlava continuamente, con una voce forte e monotona come quella di costui. Dopo la prima visita, il babbo le aveva spiegato che quel suo vecchio amico era sordo. «Vigilia d'Ognissanti. Brutti scherzi o offerte.» L'uomo ripeté le parole con accurata chiarezza, quasi temendo che il vento potesse portarle via. Sebbene la bambina gli mostrasse un viso inespressivo e affatto incoraggiante come la sua voce, parve sentire la necessità di spiegare. «Mi chiamo Hallet. Frank Hallet. Tuo padre mi conosce.» L'uomo si voltò per scrutare l'oscurità ove il vento disperdeva le foglie. «I miei due marmocchi saranno qui da un momento all'altro. Brutti scherzi o offerte. In questo momento si trovano dai tuoi vicini, in fondo al viale, e aspettano che le mele candite induriscano. Io sto facendo, in un certo senso, da esploratore, per accertarmi che nelle case ove si presentano per i brutti scherzi o le offerte non ci siano veri spiriti maligni.» L'uomo ridacchiò. La bambina era sicura di non aver mai sentito un uomo adulto emettere
un suono così stupido. Gli occhi di lui, riflettendo il bagliore arancione delle candeline, le scrutavano il viso. Doveva essere uno scherzo che poteva essere interpretato in due modi. Aveva capito il vero significato delle sue parole? «Come ad esempio vecchi sporcaccioni che cercano di regalare caramelle alle ragazzette carine, è così?» Egli ridacchiò di nuovo. La bambina stava cominciando a pensare che la propria maschera inespressiva fosse stata uno sbaglio. L'uomo sembrava sentirsi in dovere di farsi capire. «Ti stupiresti» continuò. «Ci sono persone parecchio anormali, da dare i brividi. Anche qui nel villaggio.» Il vento sollevò lunghi ciuffi dei capelli castani di lui, rivelando una testa calva che scintillava come i mobili lucidati. Affatto scoraggiato dall'impassibilità della ragazzetta, Hallet cominciò a spiegare il significato di quella serata particolarmente fredda e ventosa. «In occasione della vigilia d'Ognissanti c'è la consuetudine dei brutti scherzi o delle offerte. Ancora non capisci? Sei inglese, vero?» «Sì.» «Non avete la vigilia d'Ognissanti, in Inghilterra?» «No.» «Ehi,» esclamò lui «stiamo facendo sfuggire tutto il caldo.» Si infilò al di qua della porta con un secondo passo che costrinse la bambina a indietreggiare nell'ingresso. «Di' a tuo padre che avete visite.» 2 «Dillo a tuo padre» aveva detto l'uomo, introducendosi, con la zucca luminosa, in casa sua. «Dillo a tuo padre», così si era espresso, come se non dovesse chiederle il permesso di entrare, come se quella non fosse stata la casa della bambina, ma soltanto di suo padre. Ella rimase immobile accanto alla porta e, con un odio di gran lunga più intenso di quello che la maggior parte degli uomini e delle donne ritengono possa essere provato dai fanciulli, strinse i denti e tacque mentre le scarpe bagnate dell'uomo lasciavano orme sulle splendenti assi di quercia del pavimento lucidato. Davanti alla finestra, l'intruso scostò le tende e si fece schermo agli occhi per guardare attraverso il vetro.
«I tuoi vicini abitano troppo lontano perché i bambini possano sentirmi chiamare» disse, e con l'alito appannò la finestra che lei aveva lavato nel pomeriggio. «Ma di qui posso vederli. Uno è mascherato come il mostro Frankestein. L'altro da scheletro verde.» Simulando brividi di paura, ridacchiò. La bambina odiava le sue risatine e odiava l'odore d'acqua di Colonia, dolciastro e greve, che egli lasciava dietro di sé. Soffocò per la rabbia, e la sola cosa che le venne in mente fu di sbattere la porta. Rimase nell'ingresso, fissandolo. Era più alto di suo padre. Aveva la faccia paffuta e rossa, accesa dal vento gelido. Il vento freddo poteva anche spiegare perché gli occhi azzurri di lui fossero così acquosi; ma in quegli occhi c'era un'espressione che ella aveva veduto nello sguardo di un amico di suo padre, un altro poeta con il vizio, a quanto diceva il babbo, di bere troppo. Accortosi che la bambina lo fissava, l'uomo posò la zucca sul tavolo allungabile e si lisciò i capelli con la mano sinistra, sulla quale luccicava una fede d oro insolitamente larga, mentre con l'altra mano toglieva uno stick di crema protettiva dalla tasca dell'impermeabile e si passava la pomata lucente sulle tumide labbra rosse. Come la traccia viscida lasciata da una lumaca, pensò la bambina. L'uomo rimise lo stick nella tasca dell'impermeabile, i cui orli erano sudici d'unto. Lo stesso nero listava l'orlo delle maniche e dell'impermeabile in basso. Più sotto, i pantaloni di flanella grigia pendevano non stirati sulle scarpe bagnate di pelle scamosciata marrone che avevano segnato di orme il pavimento. Tutto, di quel tipo, sembrava sporco, o luccicante, o rosso. «Se risiederai negli Stati Uniti,» egli disse, con una voce tutt'ora di gran lunga troppo alta, «devi sapere ogni cosa della vigilia d'Ognissanti. Perché questa è la sera in cui tutti i bambini si mascherano e si presentano alla porta di casa tua camuffati e con zucche.» La bambina, che ancora non si era mossa dall'ingresso, strinse la mano ad artiglio intorno alla maniglia della porta. «Quando si presentano alla porta di casa tua» continuò l'uomo «gridano "brutti scherzi o offerte", e tu dovresti fingere di essere spaventata. Se non offri loro qualcosa, ti giocano qualche scherzo terribile.» Agitò un dito rosso nella sua direzione e ridacchiò. «Qualcosa di tremendo.» L'uomo tornò a schiacciare la faccia rosea contro il vetro della finestra per scrutare fuori, nella notte. L'alito produsse un'altra piccola chiazza appannata, appena visibile sul vetro scuro. «Per quanto concerne la terribilità e la spaventosità degli scherzi» egli
disse «non mi preoccuperei troppo se fossi in te. Nel caso dei miei marmocchi gli scherzi sono terribili soltanto nella misura di bambini di quattro e sei anni.» La ragazzetta non riusciva a immaginare quell'uomo alto e roseo, con la massiccia fede nuziale, come il padre di due bambini. In confronto al babbo, sembrava più un bambino egli stesso che un genitore. Un bambino profumato d'acqua di Colonia. «Hai capito, adesso, che cosa vuol dire "brutti scherzi o offerte"?» «Cos'è che viene considerato un'offerta?» «Granturco soffiato. Caramelle. Qualsiasi cosa.» «Andrebbe bene una fetta di torta?» Sia l'uomo, sia la bambina guardarono la torta splendente di candeline davanti al fuoco. Alcune delle minuscole candele si erano già consumate e spente. Altre baluginavano. «Ma quella è una torta di compleanno» disse l'uomo. La bambina si allontanò dalla porta di casa per passare nella cucina. Un cassetto venne aperto; lo sportello di una credenza sbatté. Poi, con un coltello e una scatola di fogli di carta paraffinata ella si inginocchiò davanti alla torta. «Non dovresti» disse Hallet. «Non dovrei cosa?» domandò la bambina, che già aveva tracciato accuratamente una linea, con la punta del coltello, sulla serica glassatura. «Tagliarla. Soltanto per loro, voglio dire.» «Non gli piacerà?» «Certo, ma...» La mano rossa si levò, in una mezza protesta, davanti all'impermeabile, poi ricadde. «Bella, quella torta.» La bambina affondò la lama nel lucido piano di un giallo pallido. L'uomo tornò a guardare attraverso la finestra. A un tratto parlò. «Dov'è tua madre?» La bambina si accigliò, concentrandosi nel taglio della torta. Hallet aspettò. Non avrebbe risposto alla domanda? Lei stava sollevando la prima fetta di torta quando si decise a parlare. «Mia madre è morta.» «Ma tuo padre è qui con te.» L'uomo fiutò l'aria, esagerando la propria reazione a quel che sentiva. «Fuma sigarette francesi, no?» La bambina staccò un lungo pezzo di carta paraffinata dalla scatola, la distese e avvolse con cura la prima fetta di torta.
«Ho ragione? A proposito delle sigarette francesi?» «Sì.» Il dito della mano rossa venne nuovamente agitato. «Ed è un uomo molto vizioso.» La bambina, intenta a tagliare la seconda fetta di torta, non alzò gli occhi. «Sigarette francesi, oh-oh.» La risatina maliziosa dell'uomo incluse la ragazzetta nella mitologia di lui, nel folklore secondo il quale qualsiasi cosa fosse francese, anche le sigarette, doveva essere peccaminosa. Hallet ridacchiò di nuovo. «Sigarette francesi. Qui sull'Isola? Fuori stagione? È davvero un vizio.» La bambina avvolse la seconda fetta di torta. Con il coltello si raschiò un po' di glassatura che le era rimasta appiccicata alle dita, ma non la mangiò. «Mio padre non è affatto un uomo vizioso. È un poeta.» Aveva lo sguardo perduto entro il cerchio luminoso delle candeline ancora accese. «È di sopra?» domandò l'uomo. Lei guardò, oltre le fiammelle, lo sconosciuto davanti alla finestra. «Chi?» «Tuo padre.» «No» rispose. «È nel suo studio. Sta lavorando.» «Un poeta.» «Si.» «Anche mia madre dice che è un poeta, e quando mia madre dice qualcosa... be', automaticamente deve essere vera. Non potrebbe non esserlo. Mia madre è la signora dell'agenzia che ha ceduto in affitto questa casa a tuo padre.» La bambina si sollevò dal pavimento di quercia e portò le due fette di torta avvolte nella carta paraffinata all'uomo accanto alla finestra. Il profumo forte di lui le fece nascere dentro un'ondata di nausea. «I bambini saranno contenti» egli disse, tendendo la mano per prendere il dono. Le dita rosse toccarono le esili dita bianche della ragazzetta. Lasciando quasi cadere le due fette di torta, la bambina tirò indietro rapidamente le mani. Per un momento troppo lungo, l'uomo constatò che ella gli stava fissando le mani. Mani... pensò lei. Secondo suo padre, le mani dicevano molto di più della faccia sul conto di una persona; quelle mani erano piccole e molli come
se fossero appartenute a una donna, e, sebbene rosee di freddo, avevano il dorso punteggiato da grossi pori, come il portafoglio di pelle di cinghiale regalatole una volta dal babbo; ma lei si era decisa in ultimo a gettarlo via perché il cuoio non perdeva mai il suo odore sgradevole. La ragazzetta ebbe la certezza che se quell'uomo l'avesse toccata di nuovo, la pelle le sarebbe guizzata sulle ossa. «Il cielo si sta schiarendo» disse Hallet. «Non pioverà più, stanotte. Resteranno soltanto pozzanghere fangose e i bambini ci sguazzeranno dentro.» La ragazzetta tornò accanto al tavolino da caffè, prese il coltello e la carta paraffinata e portò l'uno e l'altra in cucina. «Che silenzio» egli disse, e per la prima volta parlò in tono sommesso. «Ascolta. A volte, da questa casa, si riesce a udire l'oceano. Ma stanotte non si sente altro che il vento.» Dalla cucina, la ragazzetta osservò l'uomo al lato opposto della stanza, accanto alla finestra. «Quasi tutti credono che questo posto sia solitario in inverno» disse lui, asciugando la chiazza appannata sul vetro con la manica dell'impermeabile. «In effetti, tu e tuo padre siete fortunati a trovarvi qui in questa stagione. Non appena comincia l'autunno, tutti i villeggianti estivi fanno le valigie, chiudono le imposte, tornano precipitosamente a New York e accendono i termosifoni. Poi, quando viene l'inverno, anche gli ebrei si decidono finalmente a restituire il luogo alla gente del posto. A noi anglosassoni protestanti. E ai sudamericani.» L'uomo stava contemplando adesso le candeline che si consumavano sulla torta di compleanno, e si spegnevano ad una ad una, ammiccando. «Compi tredici anni?» «No.» «Allora perché tredici candeline?» «Erano tutte quelle che avevo.» «Ne compi quattordici?» «Mio padre pubblicò la sua prima poesia quando aveva appena undici anni.» «In Inghilterra, vero?» «Sì.» «È più facile essere poeti in Inghilterra.» Si passò una mano rossa sui capelli, ridisponendoli sulla chiazza lucente di calvizie. «Qui in America, a undici anni uno è nei boy scouts e basta.»
Non capiva che lei non aveva voglia di parlare? «Anch'io scrivevo poesie» egli continuò. «Alle medie. Per il giornale della scuola. Tu scrivi poesie?» «Sì.» «Su che cosa?» La bambina alzò le spalle. Non avrebbe potuto rispondere meno di così alla domanda. Perché l'uomo continuava a parlare? Niente sembrava scoraggiarlo. «Pubblicate?» Egli non parve minimamente dissuaso dal suo silenzio. «Le tue poesie?» La bambina annuì. «Dal giornale della scuola?» Nella cucina, lei chiuse un cassetto, ma non rispose. «Quotidiani? Riviste?» Un ceppo si consumò entro il caminetto e cadde facendo rotolare braci ardenti sul davanti del focolare. La ragazzetta venne di corsa dalla cucina a prendere l'attizzatoio. «Mi piacerebbe leggere le tue poesie, qualche volta.» Ella spinse indietro le braci con l'attizzatoio. «Tuo padre si chiama Leslie Jacobs, vero?» «Sì.» «E tu come ti chiami?» «Rynn.» «R-Y-N-N? È un nome molto insolito.» La bambina spinse una brace luminosa sotto la grata. «Devi essere molto intelligente.» L'uomo si guardò attorno nella stanza. «Ci abitate soltanto tu e tuo padre, qui?» Lei non rispose, ma sollevò il coperchio della cassa per la legna e vi lasciò ricadere l'attizzatoio. «Soltanto voi due?» tornò a domandare l'uomo. «Sì.» Hallet si avvicinò alla sedia a dondolo e, con la mano rossa, la fece oscillare. «È la sua sedia?» «Sì.» «E non ti garba che ci si metta a sedere qualcun altro, vero?» La bambina fece una spallucciata nella direzione dell'uomo che si schiacciava sul cranio ciuffi di capelli castani.
«Vibrati» egli disse. «Vibrazioni che percepisco nelle cose. Ho ragione?» Con il dorso della mano, simile a pelle di cinghiale, fermò la sedia a dondolo. «Certe persone hanno superstizioni per quanto concerne fare oscillare una sedia a dondolo quando nessuno la occupa.» La bambina rimase voltata verso il fuoco. «Credono a queste cose anche in Inghilterra? Non venirmi a dire che non sei superstiziosa.» Silenzio. «Dovresti esserlo» egli disse. «In fin dei conti, è la vigilia d'Ognissanti. Dovresti anche avere un gatto nero. Un gatto nero è in pratica obbligatorio, stanotte.» Si guardò attorno, come per dimostrare alla bambina che si aspettava di vedere lì un gatto nero, nonostante il suo diniego. «Non c'è proprio nessun gatto?» «Nessun gatto.» «I gatti piacciono a tutte le bambine.» Rynn si portò in un angolo, accanto alla cassa della legna e si inginocchiò per aprire una minuscola gabbietta di rete metallica. «Che cos'hai lì?» La creatura che la bambina teneva tra le mani servì da pretesto all'uomo per farsi più vicino. «Un topolino bianco?» Mentre Hallet manovrava per osservare meglio il topo, lei distolse la faccia dal suo profumo. «Come ti chiami?» egli domandò al topo. La ragazzetta baciò il muso roseo del topo. «Deve pur avere un nome. Su, Rynn, dimmi qual è.» «Gordon.» Ma la bambina stava parlando alla creatura minuscola, i cui baffi guizzavano, e non all'uomo. «È inglese?» Rynn annuì. Non lo aveva detto nemmeno a suo padre, quando era riuscita a portare di nascosto Gordon negli Stati Uniti, sotto il giacchettone di lana pesante acquistato da Marks e Spencer. Dopo un altro bacio a Gordon, portò il topolino sul tavolo, posandolo accanto alla torta. Il topo alzò la testa e, con gli occhi rossi, osservò la montagna di glassatura color giallopallido, e le ultime fiammelle guizzanti delle candeline. Rynn prese una briciola e la porse all'animaletto perché la rosicchiasse. Negli occhi le scintillarono i riflessi delle candele. Gordon si drizzò sulle zampe posteriori e affondò le unghie delle zampe anteriori nella glassatura. «Non dovresti chiamare tuo padre prima che si spengano tutte le cande-
line?» «No, quando sta lavorando.» L'uomo osservò la ragazzetta e Gordon per un lungo momento silenzioso. «Ti ha mai detto nessuno che sei una bambina molto graziosa? Hai bei capelli. Specie alla luce delle candele.» La mano di lui si avvicinò, ma si fermò prima di aver toccato i capelli di Rynn. «Carina come sei... e il giorno del tuo compleanno, e così via... non hai amichetti?» La ragazzetta e il suo beniamino, insieme in un loro mondo, escludevano l'uomo. Rynn si protese sul tavolo per accostare la faccia a Gordon. Hallet osservò i capelli splendenti, il caffettano attillato sulla schiena e sui fianchi. «Suvvia, scommetto che ce l'hai un amico. Mucchi di ammiratori. Una ragazza graziosa come te.» A un tratto l'uomo si chinò e diede una pacca sulla curva delle natiche della bambina. Rynn girò sui calcagni per affrontarlo, gli occhi balenanti d'odio. Hallet ridacchiò nervosamente. «Niente di male. Dovevo sculacciarti. Il giorno del compleanno devi essere sculacciata. Una sculacciata per anno. E poi una in più, per continuare a crescere.» Gli occhi verdi di Rynn fissarono l'uomo finché egli non distolse lo sguardo. «È un gioco» protestò Hallet. «Un gioco di compleanno!» La voce di lui era alta e stridula. Indietreggiando verso il tavolo allungabile, per poco egli non incespicò. «Pensi per caso... Oh, via! Senti, ho due bambini anch'io. Là fuori.» Tornò alla finestra e scrutò l'oscurità. «Ehi, ecco che arriva lo scheletro verde! E il mostro Frankenstein!» L'esclamazione fu quasi di giubilo, mentre andava oltre il tavolo e prendeva la zucca splendente. Ficcò la torta avvolta nella carta entro la tasca dell'impermeabile, schiacciando le due fette. «Grazie per l'offerta. Ti garantisco il migliore dei comportamenti da parte dei miei mostri. Nessun brutto scherzo.» A lunghi passi, Hallet indietreggiò verso la porta. «Di' a tuo padre che sono spiacente di non averlo visto.» Spalancò la porta di casa. Fuori, due bambini mascherati aspettavano nel turbinio delle foglie. «Per poco me ne dimenticavo! Buon compleanno!»
Ma Rynn non lo ringraziò. Lo fissò con un altro sguardo colmo di un odio sorprendente. Hallet ridacchiò e si affrettò a uscire. «Buon compleanno!» gridò, ma il vento scaraventò la sua voce nella notte. La bambina chiuse la porta e fece scattare la serratura. 3 Si sarebbe detto che quel venerdì fosse una giornata di primavera; tanto l'aria era dolce sotto il cielo azzurro senza nubi. Il pomeriggio, invece, parve più che altro autunnale. Nell'aria aleggiava l'odore asprigno del fumo di legna; la fattoria di assicelle, dietro lo schermo dei rami degli alberi, era immersa in una luce più ambrata che dorata; e ombre, lunghe fino a quel punto soltanto quando l'anno sta per morire, si stendevano sulle foglie secche. Una Bentley del 1966, enorme, lucente, e di un rosso tanto scuro che gli abitanti del villaggio lo chiamavano «color fegato», percorse il viale attraverso il fumo portato dal vento e rallentò per poi fermarsi davanti alla casa. Nel silenzio turbato soltanto da chicchiricchì di galli, una portiera della macchina si aprì e una donna più anziana di quanto sembrasse da lontano discese con un canestro. I capelli, sfiorati dalla luce del sole, splendettero dorati, ma era un oro dai riflessi troppo intensi, non naturali. La donna sbatté la pesante portiera, la chiuse a chiave e si avvolse nel cappotto di tweed marrone. Le sue mani, anche nella piena luce, erano lisce e rosee come quelle dell'uomo entrato in casa la vigilia d'Ognissanti. Una rosea rotondità, identica a quella di Frank Hallet, le manteneva liscio il viso, eccezion fatta per le due profonde rughe di un cipiglio che convergevano alla radice del naso, simili ai segni dipinti degli indù. Occhi azzurri e duri balenavano, pietre levigate sbircianti dalla faccia rosea e liscia. Posto nella piega del braccio il canestro di vimini, la donna si diresse a lunghi passi verso la casa, e le scarpe di camoscio marrone schiacciarono ghiande e sparse foglie morte. In alto, sui rami di un albero spoglio, balenò una ghiandaia azzurra. In un campo lontano gracchiavano corvi. Ancor più lontano, le onde dell'oceano scrosciavano sulla spiaggia. Giunta a metà del viottolo d'accesso, la donna rallentò per ascoltare, in quanto le finestre e le porte della casa davanti a lei erano spalancate, come
se respirassero l'aria dell'autunno. Suoni strani la indussero a fermarsi del tutto. Udì voci che intonavano parole e frasi, ma, anche sforzandosi di ascoltare, ella non riuscì a capirne il significato né a supporre a quale lingua potessero appartenere. Invece di avvicinarsi alla porta sulla facciata, la donna si portò, tra le foglie, dietro la casa, in un giardinetto non coltivato. Lì l'erba era alta. Sopravvivevano crisantemi, gialli e arancione, ma le zinnie e le dalie, nere e putrescenti, ciondolavano dai fragili steli. In un pergolato di viti, la donna trovò grappoli rinsecchiti e coperti di muffa. Un melo a spalliera, crocifisso contro il muro della casa, conservava alcuni frutti gialli, ma anch'essi, o erano bacati, o chiazzati di marrone e imputriditi. "Avrebbero potuto irrorarli" ella si disse. Soltanto le mele cotogne adagiate su un cespuglio abbattuto dal vento erano grosse, verdi e dorate. Chinandosi, la donna staccò i frutti più belli e, in men che non si dica, riempì il canestro. Si inoltrò sull'erba secca verso la casa, per esaminare il rivestimento di assicelle. Una parte del legno, reso grigio-argenteo dagli anni, era spaccata e andava sgretolandosi. L'imposta di una finestra pendeva sbilenca da un cardine arrugginito. La donna prese nota mentalmente di chiamare il falegname del villaggio, ma, un attimo dopo, la padrona di casa in lei decise che la piccola casa poteva aspettare fino alla primavera. Accanto alla finestra aperta, le voci si udivano più forti, più chiare ed anche meno indecifrabili. «Ha-oo-KHAL luh-tal-PAYN mee POH?» Un'altra voce, assai sommessa, ripeté: «Ha-oo-KHAL luh-tal-PAYN mee POH». La donna sbirciò dalla finestra. Si stupì, perché non aveva mai veduto il piccolo soggiorno e la cucina così puliti. I mobili lucidati e il pavimento di quercia splendevano; i candelabri di peltro, sul tavolo allungabile, rifulgevano alla luce del sole. «Ha-too-KHAL luh tal-PAYN a-voo-REE?» La donna si rese conto che una delle voci risuonava troppo forte per non essere la voce amplificata di un disco. Ma l'altra? «Ha-too-KHAL luh tal-PAYN a-voo-REE?» La risposta proveniva dall'angolo in ombra accanto al caminetto. Siccome non poteva vedere in quell'angolo, la donna tornò davanti alla casa e al-
le altre finestre aperte, e di là scorse la ragazzetta che - seduta e intenta ad accarezzare un topo bianco mentre intonava le parole - balzò ora in piedi, rimise l'animaletto nella gabbia di fil di ferro e corse accanto al giradischi. «A-va-KAYSH see KHAH muh-ko-MEET, mees-PAHR...» Quando il suono venne interrotto, il silenzio fu tale che si udirono i corvi nella luce del sole autunnale. Rynn corse a piedi nudi verso la porta di casa, ma la donna con il canestro le passò accanto, sfiorando la bambina con il ruvido cappotto di tweed mentre entrava. Tenne alto il canestro. «Mele cotogne. Ho sempre pensato che somigliano a mele comuni bernoccolute.» Cercando intorno a sé, con lo sguardo, un posto in cui metterle, decise di lasciarle sul tavolo allungabile nel soggiorno. «Come vi trovate voi due, qui?» domandò, lisciandosi i capelli color oro, che non avevano alcuna necessità di essere ravviati; capelli crepitanti, impregnati di fissativo. «Va tutto bene?» «Benissimo» rispose Rynn, domandandosi dove avesse veduto capelli di quel lustro così innaturale. «La nuova stufa a gas vi tiene abbastanza caldi?» «Magnificamente.» «Bene.» Gli occhi penetranti della donna, dardeggiando qua e là nel soggiorno, scattarono su Rynn, che li trovò di un azzurro ancor più gelido di quelli di Frank Hallet. Gli occhi osservarono la ragazzetta dalla testa ai piedi. Se anche la donna ne disapprovò il maglione accollato, i calzoni di ruvido cotone, e i piedi nudi, non disse nulla. E, a quanto parve, sentì la necessità di presentarsi. «Sono Cora Hallet. Tuo padre ha preso in affitto questa casa da me.» «Ci siamo conosciute nel suo ufficio.» «È vero» disse Cora, riportando lo sguardo qua e là nella stanza, la padrona di casa che ispeziona la sua proprietà. Si avvicinò alla sedia a dondolo e si soffermò per fare scorrere una mano curiosa sullo schienale. «E questa da dove è venuta?» «È di mio padre.» La signora Hallet sbirciò la sedia, poi il tavolino da caffè. «Non dispiacertene» disse, trascinando la sedia in un angolo e mettendo al suo posto il tavolino che si trovava davanti al caminetto. «Ma il tavolino era qui.» Si guardò attorno di nuovo, quasi fosse certa di trovare altri cambiamenti
cui sarebbe stato necessario porre rimedio. «Non sopporto di vedere le cose fuori di posto.» Mentre parlava sorrise, sforzandosi di raddolcire l'imperiosità con la quale agiva. Ma si trovava già davanti al divano e sprimacciava e disponeva con meticolosità l'uno accanto all'altro i cuscini gualciti. Si accigliò. Un boccale di peltro, sulla mensola del caminetto sembrava richiedere un esame. Lo tolse dalla mensola e lo rigirò cercando il marchio di fabbrica. Dalla tasca del cappotto di tweed tolse un paio d'occhiali penzolanti da una catenina d'oro, poi, mentre li inforcava, scintillanti alla luce, domandò: «Inglese?». «Sì.» «Appartiene a lui?» «A mio padre.» «Non è un brutto oggetto, ma inadatto a questo ambiente.» La bambina si domandò se la donna riuscisse ad accorgersi della rabbia che stava cominciando a ribollirle dentro. Sentì che doveva essere diventata scarlatta in faccia. «Quel tavolo e quel tappeto intrecciato devono essere posti contro la parete.» La signora Hallet si voltò e sorrise di nuovo. «Lo so,» disse, trattenendo il sorriso, «ora mi dirai che i poeti non potrebbero vivere come le altre persone. È così?» Gli occhi verdi di Rynn non abbandonarono mai la donna che, invece di aspettare la risposta, tolse un libro dalla mensola del caminetto; un volume sottile rilegato in grigio. «È uno dei libri di tuo padre?» «Sì» disse la bambina. La signora Hallet esaminò la rilegatura, in apparenza affatto colpita. «Continuo a dimenticare di farmi fare un autografo.» Sfogliò le pagine del libro. Poi si fermò. «Qui ce n'è già uno.» Si aggiustò gli occhiali. «"Ti voglio bene." Firmato "Papà". Molto simpatico.» Chiuse il libro di scatto e lo rimise sulla mensola del caminetto. «Ed è bello avere un poeta famoso nel villaggio; solo che nessuno di noi riesce mai anche soltanto a intravederlo.» Prese un mazzetto di fiori di paglia. «Inglese?»
La bambina annuì. In preda all'ira com'era, non sapeva se sarebbe riuscita a dominarsi abbastanza per parlare. Al tocco della donna, petali secchi caddero sulla mensola del caminetto. «Non vi vediamo nemmeno al mercato, voi due.» Inarcò le sopracciglia, un tacito commento, un giudizio espresso silenziosamente sul padre inglese e sul comportamento della figlia. «I fornitori consegnano a domicilio» disse Rynn, con tutta la calma di cui era capace. Le sopracciglia della signora Hallet rimasero inarcate. Ella si espresse adagio, come una maestra sul punto di spiegare qualcosa che sa essere nuovo per l'allieva, nuovo e difficile ad afferrarsi. «A chi può permetterselo.» Tolse dalla tasca un pacchetto di sigarette, ne accese una, si voltò verso la finestra e fissò accigliata il pergolato di viti. Rynn aveva frattanto stabilito che cosa le ricordava il colore dei capelli della donna. Poiché erano ovviamente tinti, si domandò come mai ella avesse scelto un colore che non esisteva in natura, ma soltanto nell'oro filato di quelle brutte piccole creature, nei negozi di giocattoli, chiamate bambole Barbie. Il colore è precisamente quello, disse a se stessa. I capelli delle bambole Barbie su una donna anziana. «Voleva che riferissi qualcosa a mio padre?» La donna continuò a guardar fuori della finestra. «È un vero peccato che ci siano così pochi grappoli quest'anno. Sarebbe bastato irrorarli un po'...» Sbottonò il cappotto di tweed marrone, mettendosi comoda, come se prevedesse di trattenersi. Rynn, che non aveva alcuna intenzione di domandarle se gradisse una tazza di tè, non si sarebbe stupita se fosse stata lei a chiederla. I capelli delle bambole Barbie. Rossetto per le labbra troppo carico, un taglio rosso-sangue che aspirava fumo dalla sigaretta. «Non che vada pazza per la marmellata di mele cotogne, ma non sopporto, semplicemente, di dover sprecare qualsiasi cosa. Sarà senza dubbio la puritana che c'è in me.» Rynn aspettava che la donna soffiasse fuori il fumo, e invece esso sembrava rimanere entro la faccia rosea. «È tanto in voga, di questi tempi, parlare di sprechi. Ecologia e inquinamento sono i soli argomenti di conversazione. Ma avrai notato che nessuno fa una sola cosa al riguardo.» La cenere era diventata lunga sulla sigaretta e Rynn andò a prendere un
posacenere nel quale la signora Hallet schiacciò il mozzicone. «Posso riferire a mio padre quello che vuole.» «Sono venuta» disse la signora Hallet «a prendere i barattoli per la marmellata. Edith Wilson ed io abbiamo sempre fatto la gelatina d'uva, e l'anno scorso i barattoli sono stati messi in cantina.» Voltò le spalle alla finestra e vide che la bambina la stava fissando. «Tuo padre non è in casa?» «No.» «Non dirmi che si è fatto vedere al villaggio.» «È a New York.» «Mentre ero là fuori avrei giurato di udire voci.» La signora Hallet sollevò il coperchio di plastica trasparente del giradischi. Con le dita grassocce prese il disco. Rynn chiuse gli occhi come per trattenere l'ira. Lottò contro l'impulso quasi travolgente di dire alla donna di togliere le dita grasse e unte dal disco. Facendo tintinnare la montatura degli occhiali contro la catenina d'oro per mantenerli in equilibrio contro il cipiglio nella fronte, la signora Hallet si chinò sul disco e lesse l'etichetta. «Ebraico?» Incapace di parlare, la bambina annuì. La signora Hallet lasciò ricadere il disco sul piatto con un tonfo. «Secondo me, sarebbe più utile il francese. O l'italiano. Dio sa quanti stranieri abbiamo qui di questi tempi, stranieri con i quali si può parlare.» La bambina stupì se stessa dicendo: «Vorrebbe lasciare un biglietto per mio padre?». Dita rosee fecero passare una serie di dischi appoggiati nelle buste alla parete. «Ci sono tanti di quegli estranei nel villaggio, di questi tempi» la donna sospirò profondamente, poi tornò a ostentare il sorriso. «Devi scusarmi, ma vedi, gli Hallet risiedono qui nell'isola da più di trecento anni.» Si allontanò dall'impianto stereo per fare scorrere la mano sul cinz lucido del divano. «Questo divano va messo là.» Un dito tozzo indicò la finestra. Accanto al tavolo allungabile, la signora Hallet prese un giornale. «Inglese?» «Sì.» Gli occhiali tornarono ad appoggiarsi alle pieghe nella fronte mentre ella
studiava il giornale piegato. «Adoro i cruciverba.» «Lo prenda pure, se vuole.» Togliendosi gli occhiali, lei si voltò verso la bambina. «Ma questo cruciverba lo sta risolvendo tuo padre.» «Lo sto risolvendo io.» Un sopracciglio si inarcò con simulato stupore. «E per giunta l'ebraico. Sei una ragazzina brillante.» Sfogliò alcune pagine del giornale, poi lo gettò sul tavolo. La bambina tornò a piegarlo, lasciando in vista le parole incrociate. «I bambini di mio figlio mi hanno detto che la vigilia d'Ognissanti hai dato loro la torta di compleanno.» «Sì.» «È stato molto generoso da parte tua.» «Suo figlio disse che la consuetudine si chiama "brutti scherzi o offerte".» La donna spostò di pochi centimetri il candelabro di peltro sul tavolo, affinché fosse perfettamente allineato con l'altro. «È entrato in casa?» «Chi?» domandò Rynn, sebbene sapesse a chi si riferiva la donna. La signora Hallet riaggiustò gli occhiali per esaminare attentamente il peltro, come se si aspettasse di trovarvi graffi. «Mio figlio» rispose. «Sì» disse la bambina. «È entrato.» «Tuo padre...» la donna stava sforzandosi di far credere che il candelabro di peltro la interessasse più di qualsiasi risposta avrebbe potuto darle Rynn. «Tuo padre si trovava in casa, quella sera?» «Era nel suo studio.» «Lavorava?» «Traduceva. Quando sta traducendo non può essere disturbato.» «Naturale.» La signora Hallet si scostò dal tavolo, e mise la mano sulla sedia a dondolo, facendola oscillare. «Dopo quella sera, mio figlio è tornato ancora?» Continuò la finzione di non essere interessata alla risposta; si stava limitando alla conversazione spicciola di una vicina in visita a un'altra vicina. «No» disse Rynn, gli occhi sempre fissi su di lei. «Non è più tornato?» «No.» La signora Hallet accarezzò il legno lucido della sedia a dondolo.
«Se mio figlio dovesse tornare e tuo padre non fosse qui...» Esaminò le venature del legno liscio, cercando di fare in modo che quanto diceva continuasse a sembrare casuale. «Se dovesse tornare, forse, in questo caso, sarebbe preferibile che tu non lo facessi entrare.» «Quella volta non chiese il mio permesso.» «Spero» disse la signora Hallet, con la voce notevolmente gelida, «che tu non abbia considerato la cosa una villania.» Rynn sapeva che ella si aspettava un diniego; voleva sentirsi dire da lei che non aveva giudicato villano suo figlio. Come la tazza di tè, non avrebbe ottenuto questo. «Riferirò al babbo che lei mi ha detto di non far entrare suo figlio.» «Questo non sarà necessario.» Gli occhi della donna balenarono d'ira. «Forse non capisco bene che cosa vuole.» «Una cosa senz'altro non voglio: continuare a parlare di un argomento che non riveste la benché minima importanza. Sono venuta a prendere i barattoli della marmellata.» Il silenzio della ragazzetta parve un'accusa. «Ora andremo a prenderli» disse la donna. «Non vuole che dica al babbo di suo figlio?» «Ho detto che non voglio più parlarne. È una cosa, questa, che credo tu non possa capire.» «Secondo lui ho bei capelli. Glielo ha detto?» Le nocche rosee della donna si sbiancarono mentre ella stringeva la spalliera della sedia a dondolo. In quel momento Rynn osò alzare gli occhi e fissare quelli della donna. La signora Hallet, lo sapeva, si stava domandando fino a qual punto lei potesse essere scaltra. La signora Hallet si schiarì la voce e raddrizzò le spalle. «Vorrei i barattoli per la marmellata, adesso.» «Non li ho veduti.» «Ti ho detto che sono in cantina.» Gli occhi di Rynn guardarono altrove. «Spostiamo il tavolo, così potrò togliere il tappeto e sollevare la botola. Questo lo capisci, vero?» La voce stava divenendo più aspra. «I barattoli sono giù nello scantinato!» Rynn nascose i pugni sotto l'orlo del maglione nero. «Solleva il tavolo dalla tua parte.» «Al babbo e a me il tavolo piace dove si trova!»
«Questo tavolo deve stare contro la parete!» Un silenzio, che si protrasse per una decina di secondi, le separò. «Vorrai perdonarmi,» disse la signora Hallet, incidendo ogni parola con tono acido, «ma quando avevo la tua età mi insegnavano a fare quel che dicevano gli adulti!» Rynn chiuse gli occhi sulla furia rossa cui non doveva consentire di esplodere. «Spiacente, signora Hallet...» «Sono venuta a prendere quei barattoli.» «Li prenderò io, dopo.» Ma la donna si rifiutò di ascoltarla oltre. «Spostiamo il tavolo!» «Questa è casa mia!» «Sei una ragazzetta straordinariamente villana, ma farai né più né meno come dico io!» Rynn aspettò. L'avrebbe, la donna, afferrata per le spalle e spinta verso il tavolo? La faccia rosea divenne color magenta per la rabbia. Vene irose si gonfiarono sul collo, simili a tendini viola. In quel momento, Rynn si rese conto che la signora Hallet non riusciva a parlare. Con suo grande stupore si sorprese a gridare contro di lei. «La settimana scorsa ha preso i soli bei grappoli che avessimo! L'ho veduta! E adesso le mele cotogne! Non ha mai chiesto il permesso. Nemmeno per quelle!» La bocca rossa della signora Hallet si aprì, ma soltanto per richiudersi di scatto. Poi ella reagì. «I grappoli dei Wilson! Le mele cotogne dei Wilson!» «Oggi, senza domandare se le era consentito... è entrata in casa mia!» «La casa dei Wilson!» «La mia casa!» «In affitto!» La donna dai capelli d'oro parve sputare le parole. Nel momento che seguì, trasse alcuni profondi respiri; poi, ancora fremente di rabbia, riuscì a parlare senza l'esasperazione dell'isterismo. «Hai davvero tredici anni?» La ragazzina si rese conto che doveva ricambiare lo sguardo della donna fissandola negli occhi. «Perché non vai a scuola?» E, per la seconda volta, Rynn volse altrove lo sguardo. A un tratto, la signora Hallet capì di avere un'arma. Il suo silenzio, e gli
occhi, pretesero una risposta. Quando Rynn parlò, si espresse a malapena con un bisbiglio. «Avere tredici anni significa che non ho alcun diritto?» «Avere tredici anni significa che dovresti andare a scuola.» La ragazzina, smarrita, voltò la testa. «Guardami, quando ti parlo!» «Studio in casa.» «Se ne occuperà la commissione scolastica. Per il momento, solleva il tavolo da quella parte.» All'ordine della signora Hallet, Rynn affondò le mani nelle tasche dei jeans. «Si dà il caso che sia io a presiedere la commissione scolastica.» «E tutti i bambini devono fare quello che dice lei?» «Tutti i bambini devono essere a scuola.» I mobili dovevano essere al loro posto, i bambini dovevano andare a scuola. Tutto e tutti avevano un posto, nel mondo ordinato della signora Hallet. «La scuola ostacola la mia educazione.» «Ti ha insegnato tuo padre a dire questo?» Quando Rynn non rispose, la signora Hallet sentì di aver scoperto la verità. «Molto ingegnoso, senz'altro. Tra te e tuo padre, ne sono certa, avete innumerevoli cose ingegnose e sarcastiche da dire. Oh, immagino benissimo l'esistenza libera e disinvolta che voi due conducevate a Londra. Ah, sicuro. Ma se volete vivere qui...» Sottolineando quell'unica paroletta, quel se, la signora Hallet era riuscita a mettere in dubbio l'intero avvenire. «Qui fareste bene a ricordare che alcuni di noi abitano nel villaggio da molto più tempo e sono fieri di assumersi le loro responsabilità... sapendo, ad esempio, il modo di essere dei buoni vicini. Se necessario, posso assicurartelo, sappiamo anche come far sentire assai meno che bene accetti i nuovi venuti.» Ripescò nella tasca del cappotto il pacchetto di sigarette, lo trovò vuoto, e lo gettò, appallottolato, nel fuoco. «Ora basta con le assurdità. Dov'è tuo padre?» «Gliel'ho detto. A New York.» «E dove, precisamente, a New York?» Il tono della signora Hallet aveva le sfumature beffarde di un avvocato che demolisca qualche teste durante il controinterrogatorio. «È stato invitato a pranzo dal suo editore.» «Voglio il numero di telefono dell'editore.»
«Non ce l'ho.» «Benissimo, allora il nome dell'editore.» La signora Hallet afferrò il libro sulla mensola del caminetto e lo aprì con un gesto brusco, cercando il nome dell'editore. Sul libro, un'edizione inglese, figurava un indirizzo di Londra e lei chiuse il volume con un tonfo e lo gettò di nuovo sulla mensola, disgustata, quasi avesse intuito di non possedere più alcuna arma contro la bambina. «Tuo padre dovrà telefonarmi non appena sarà di ritorno. Siamo intesi?» Si trattava di uno scherzo della luce? C'erano lacrime luccicanti negli occhi della ragazzetta? «Rispondi!» sbottò la donna. «Così saprò se hai capito!» Rynn era pallida, ma si espresse con la voce ferma. «Questa è casa mia.» La signora Hallet afferrò il canestro di vimini lasciato sul tavolo e si affrettò a uscire. Rynn andò nell'angolo del soggiorno, ove Gordon si agitava nell'ombra. Tolto il piccolo animale dalla gabbia, la ragazzina sedette e gli mormorò parole affettuose. 4 Rynn si era proposta di recarsi nella cittadina la settimana seguente, ma la minaccia della signora Hallet di sottoporre la sua assenza da scuola alla commissione scolastica era una preoccupazione che, durante la notte, crebbe fino a tenerla completamente desta e tremante di terrore. Decise che sarebbe stato più prudente fare le spese quando per le strade si fossero trovati altri bambini e altre bambine. Il sabato, nessuno si sarebbe domandato come mai una ragazzetta di tredici anni non fosse a scuola. Ogni sabato e ogni domenica era libera di andare e venire come più le piaceva. Rynn rimase in piedi, sola, alla fermata dell'autobus, dirimpetto a una casa nel cui prato si trovava un cervo di bronzo; la pioggia tambureggiava incessante sull'enorme ombrello nero che il babbo aveva portato da Londra. Riparata dall'ombrello, infagottata nel giacchettone di lana color verde muschio e con gli alti stivali di gomma, era calda e asciutta. Un autobus giallo, sventagliando schizzi d'acqua mentre si fermava con cigolii, aprì le portiere e ingoiò la ragazzetta tra i passeggeri che appannavano i cristalli dei finestrini con il loro tepore. L'autobus non era gremito, ma lei si sentì a disagio, pigiata tra quelle
persone e si affrettò ad andare oltre per mettersi a sedere, sola, sul lungo sedile in fondo al veicolo. Fari di automobili splendevano nel pomeriggio piovoso e insegne al neon multicolori balenavano attraverso i vetri appannati. Rynn si sentiva soffocare, perché trovava l'aria nell'autobus, come l'aria in quasi tutti i locali pubblici dell'America, intollerabilmente calda, e sbottonò il giacchettone. Dalla tasca tolse un libro non rilegato di poesie di Emily Dickinson. Studiò il disegno sulla copertina, la giovane donna con il severo vestito scuro, i capelli neri suddivisi nel mezzo, il viso grave e assennato, dagli occhi enormi. Rynn pensò che, sotto molti aspetti, tranne gli occhi, esisteva una somiglianza notevole tra lei ed Emily Dickinson... tra lei e quella donna, morta da novant'anni, che, stando alle parole di un altro poeta, aveva «origliato il mondo». Tenne il libro tra le mani, spostandolo per studiare la faccia sotto un'altra angolazione. Sì, ne era certa, si somigliavano davvero. Lo aveva detto il babbo. Cominciò a leggere. Che l'amore sia tutto, Altro non ne sappiamo. Sui sedili all'altro lato del passaggio di fronte a lei, due ragazze si sbellicavano dalle risa. Avevano in mano bastoncini con vivide bandierine di feltro sulle quali figuravano musi ringhianti di felini e la parola LINCI ricamata sulla stoffa. Le due amiche parlavano a voce alta per farsi sentire dalla ragazzetta che fingeva di leggere. Tutti discorsi concernenti ragazzi e «la partita», e Rynn suppose che si riferissero al rugby americano. Rannicchiate l'una contro l'altra intorno ai loro segreti, ridacchiavano, bisbigliavano, ed eplodevano, ogni pochi secondi, in nuovi scoppi di risate. A un certo momento, Rynn incrociò lo sguardo della ragazza con gli occhiali. Si sorprese ad augurarsi di avere gli occhi grandi come quelli della ragazza, anche se - disse a se stessa - senza dubbio le lenti dovevano ingrandirli. Quando la ragazza rise e, per un breve attimo, rivelò un apparecchio per raddrizzare i denti, l'invidia di Rynn scomparve. L'altra aveva una carnagione opaca e per niente invidiabile, tranne il cappotto di lana rossa, che ricordò a Rynn le Guardie a cavallo della regina.
Le due scoccarono occhiate furtive alla bambina che se ne stava seduta per suo conto, e la ragazza con gli occhiali e l'apparecchio sui denti, senza tentare in alcun modo di nascondere un bisbiglio, si rivolse all'amica, la quale si accingeva a soffiar fuori una rosea bolla di gomma dalle labbra increspate. Quest'ultima ascoltò mentre la bolla andava gonfiandosi, poi, per poco la gomma non la fece soffocare mentre annuiva, seppellendo risatine contro la sciarpa di lana bianca dell'altra. Rynn capì che parlavano di lei e si sentì ardere le gote e la fronte. Adagio voltò una pagina, ostentando una profonda concentrazione sul libro; ma, dopo aver finto per un momento di leggere, trovò una poesia così bella che chiuse gli occhi e pensò al tranquillo villaggio del New England ove Emily Dickinson aveva vissuto ed era morta. Un, villaggio, pensò Rynn, che probabilmente non era stato tanto diverso da quello in cui risiedeva lei... olmi giganteschi, vie silenziose, piccole case di legno, un antico cimitero. Neve in inverno, prati con lunghe ombre in estate. Emily Dickinson, si poteva starne certe, non aveva avuto stupide amiche. Non avrebbe saputo che farsene. Una rosea bolla di gomma si gonfiò fino a scoppiare, in ultimo, e la ragazza che l'aveva soffiata, con la lingua ne raccolse in bocca i resti rosa, imperturbabile. Gli occhi lagninosi per il gran ridere, furono asciugati dalle due ragazze con lo stesso Kleenex. A un tratto lanciarono uno strillo e diedero strattoni violenti al cordone che segnalava all'autobus di fermare. Volarono fuori della portiera posteriore con un'ultima esplosione di risatine, gridando: «Sì, Linci!». Avevano lasciato sul sedile una rivista sottile e Rynn la prese. Un ragazzo stampato a tinte vivide sulla copertina le sorrise. Aveva la faccia di una signora inglese straordinariamente carina, quale la si sarebbe potuta vedere in qualche negozio lussuoso di Knightsbridge, o in piedi con l'erica sino alle ginocchia nella pubblicità di un profumo. Rynn studiò il ragazzo. Aveva occhi enormi (si augurò che i suoi fossero altrettanto grandi), una carnagione impeccabile, e capelli così lunghi e così soffici da destare l'invidia di qualsiasi ragazza. Sotto la sua fotografia, una didascalia a caratteri grandi annunciava che l'ultimo album di dischi del ragazzo dal volto femminile aveva frantumato tutti i primati di vendite. Rynn, sfogliando le pagine della rivista, trovò altre fotografie del divo della canzone, assediato da ragazzette della sua età, intente a contemplare a bocca aperta, malate d'amore, l'esile giovane dall'eterno sorriso che, il più delle volte, aveva tra le mani
una chitarra. PERCHÉ - domandava il titolo dell'articolo - CI DICONO CHE SIAMO TROPPO GIOVANI PER AMARE? «Già, perché?» disse Rynn, con uno sbadiglio esagerato, gettando di nuovo la rivista sull'altro sedile; poi viaggiò, per tutto il resto del tragitto fino in centro, in compagnia di Emily Dickinson. Sulla lista delle sue commissioni figurava per prima la banca. Il babbo aveva scelto una banca che rimaneva aperta il sabato mattina, e, tenuto conto della fitta pioggia, ella si stupì di vedere tanta gente... intere famiglie con cappotti dalle tinte vivide, e sciarpe e scarpe infangate. Persino cani trotterellavano nella banca, compreso un dalmata che espresse la propria felicità abbaiando e frustandola con la coda bianca. Era la sola davanti allo sportello delle cassette di sicurezza, e una pressione sul piccolo pulsante del campanello fece venire un'impiegata, una ragazza alta, molto truccata, trucco rosa quasi come lo zucchero filato, che però non riusciva a nascondere la pelle assai butterata. Rynn aveva già apposto la firma e segnato il numero della cassetta di sicurezza sul modulo del quale l'impiegata si servì per cercare una scheda. «Jacobs, Leslie A.?» domandò l'impiegata con una voce neutra. E fissò la ragazzetta. «E Rynn. R-Y-N-N. È la mia firma, quella. Si tratta, come lo chiamate qui in America, di un deposito in partecipazione.» La ragazza paragonò le firme. «Hai la chiave?» La bambina mostrò una chiave argentea che aveva staccato dalla catenella intorno al collo. L'impiegata premette un pulsante e la serratura della porta situata accanto alla sua scrivania ronzò come il calabrone che Rynn aveva imprigionato una volta entro un barattolo di vetro. In una stanza splendente di lampade fluorescenti, l'impiegata apri un lucente sportello d'acciaio e si scostò per consentire a Rynn di sfilare dalla parete una cassetta nera. «Ora portala in uno di quelli» disse, indicando una fila di séparés. «Sì, lo so.» Pochi minuti dopo, quando Rynn ebbe rimesso la cassetta nera entro la cassaforte e l'impiegata, chiuso lo sportello, le restituì la chiave, un bancario, un giovanotto con lunghe basette e denti gialli, si avvicinò alla collega e osservò la ragazzetta che si allontanava e attraversava il lucido pavimento di marmo per andare a mettersi in coda davanti a uno sportello. «Non è spaventosamente giovane?» disse denti-gialli. «Sembra sapere quello che fa» rispose la ragazza dal trucco rosa.
Rynn firmò due traveler's cheque da venti dollari. Il giovane cassiere, che cercava, invano, di farsi crescere i baffi, si accigliò studiando le firme. Osservò la ragazzetta, poi i due assegni. «Sono tuoi?» I baffetti quasi invisibili si muovevano appena mentre parlava. «Perché non chiama un funzionario della banca?» domandò la bambina, in tono piuttosto aspro. L'uomo si guardò attorno, ma se stava cercando qualcuno che potesse autorizzare l'operazione non lo trovò. Fece scivolare un foglietto di carta sul banco verso Rynn. «Firma di nuovo qui.» Nessuno diceva mai per piacere? Senza dir parola, la ragazzetta firmò con le stessa accurata grafia che figurava sugli assegni. Il cassiere fece cenno a una donna grassoccia con parecchi giri tintinnanti di una collana di perline intorno al collo. Le perline tintinnarono anche sul banco mentre ella si univa al cassiere per controllare le firme. La donna scoccò un'occhiata dubbiosa alla bambina. «Hai qualche documento?» Dalla tasca del giacchettone di lana, ove teneva il portafoglio, Rynn tolse il passaporto inglese. Il cassiere aprì il documento e lo tenne davanti alla donna grassoccia. «Ha appena tredici anni.» L'impiegata districò gli occhiali che pendevano tra le perline per esaminare la bambina di appena tredici anni. «Viaggi con tua madre e tuo padre?» «Mio padre ha un conto qui.» Il dalmata balzò oltre Rynn, frustandole le gambe con la coda. «Jacobs, Leslie A.» disse Rynn. La donna grassoccia la osservò ancora a lungo. «È okay» disse. Ma, a quanto parve, non tutto era okay per il cassiere, che si mostrò sempre più infastidito quando Rynn chiese il denaro in biglietti da un dollaro. Terminata l'operazione, fece cenno alla ragazzetta di spostarsi per contare i soldi. Altre persone, disse, stavano facendo la coda dietro di lei. Ma ella non si mosse. «Posso avere il foglietto con la mia firma, per favore?» I baffetti sottili guizzarono in una smorfia di esasperazione mentre il giovane spingeva il foglietto sul banco. Allontanandosi, Rynn lo lacerò a
pezzettini e li lasciò cadere in un cestino per la carta straccia. Quanta gente per la strada. Tutti frettolosi. Tutti con un gran numero di pacchi. La seconda meta di Rynn, un negozio di impianti idraulici, si trovava parecchie strade più in là, in una zona tranquilla della cittadina. Ella constatò di essere la sola cliente nel negozio. Si aggirò qua e là, osservando modelli di caldaie, progetti di impianti di riscaldamento centrale e sezioni delle tubature d'aria calda che tenevano gli americani così al calduccio. Un grande annuncio nel quale si sosteneva che l'inverno era il periodo più opportuno per sistemare in casa un impianto di condizionamento dell'aria, invitava a trascorrere un'estate fresca. Dopo essere rimasta sola per qualche minuto nella parte anteriore del negozio, Rynn si domandò se ci fosse qualcuno nel magazzino dietro il banco. «C'è nessuno?» Silenzio. Lei ripeté la domanda. Un uomo insolitamente allegro, molto anziano e intento ad aumentare il volume dell'amplificatore per sordi che portava all'orecchio, si affrettò ad avvicinarsi al banco masticando un panino imbottito con mortadella. «'giorno» disse, inghiottendo un grosso boccone del panino. «Che cosa possiamo fare per te?» «Mi chiamo Jacobs. Mio padre ed io abitiamo nella casa dei Wilson... in fondo al viale.» «Qui in città?» «Nel villaggio.» L'uomo annuì e staccò dal panino un altro boccone a falce di luna. «Sulla stufa a gas sistemata per ordine dei Wilson c'è una targhetta dalla quale risulta che viene da questo negozio.» Il vecchio annuì. Conosceva i Wilson. «Fastidi?» E posò con cura quel che restava del panino su un foglio di carta da lettere intestata. Rynn spiegò che non sapeva se avesse dei fastidi o meno, ma facendo le pulizie, il giorno prima, aveva letto sulla manopola come, la sera, si dovesse girarla completamente fino alla posizione con la scritta NOTTE. «Infatti.» L'uomo sorrise. «Ma perché non lasci che siano tua madre e tuo padre a preoccuparsene?» «Io non dovrei preoccuparmene?» Sorridendo di nuovo, il vecchio alzò le spalle. «Come dicevo, che cosa possiamo fare per te?»
«Quando uno gira la manopola fino in fondo, c'è sempre una fiamma che continua ad ardere. Molto alta, in realtà.» «È la fiamma-pilota.» «Ma si può stare proprio sicuri? In fin dei conti, si tratta di gas, e il gas può essere pericoloso.» Come se la sua fosse stata un'accusa che richiedeva di essere provata, si sorprese a soggiungere: «Sa, a Londra, uno dei nostri vicini venne trovato morto perché qualcosa non aveva funzionato nella stufa a gas». «Non hai nessuna ragione di preoccuparti.» Le parole dell'uomo vennero soffocate dal pezzo di panino che egli aveva in bocca. Poi il vecchio girò intorno al banco e condusse la bambina davanti a una stufa esposta. Era la stessa che si trovava nella casa di Rynn. «Ora ti faccio vedere perché.» Tolse il coperchio della stufa e spiegò in qual modo la fiamma-pilota, la fiammella blu, accendeva il bruciatore. Quel che più contava, mostrò alla bambina che il gas passava attraverso un tubetto di ottone. Dal bruciatore, un tubo di ventilazione, passando attraverso il muro della casa, finiva all'aperto. «Hai visto?» domandò il vecchio, con un sorriso che rivelò un frammento considerevole di panino imbottito non ancora ingoiato. «Sì, capisco» disse Rynn, nel suo tono di voce alquanto incisivo. «E adesso mi sento molto più tranquilla.» Si voltò verso la porta. «Grazie mille.» L'uomo stava ancora sorridendo e masticando quando lei uscì; con ogni probabilità, immaginò Rynn, aveva trovato strano che una bambina di tredici anni fosse entrata nel suo negozio per fargli una domanda sulle stufe a gas. Ma perché poi? Perché le ragazzette non si sarebbero dovute interessare a cose del genere? Aveva lasciato per ultima la meta successiva, perché era la cosa che desiderava fare più di ogni altra. Anche quando venne a trovarsi davanti alla libreria e contemplò le lucenti sopraccoperte dei mucchi di libri esposti nella vetrina con la stessa avidità di un monello affamato intento a fissare la vetrina di una panetteria, continuò a rinviare la felicità ultima, il momento in cui avrebbe effettivamente messo piede nel negozio. Si sarebbe trovata, allora, in un mondo che per lei era più meraviglioso di quello trovato da Alice nella tana del coniglio, o di quello scoperto dagli astronauti nelle tenebre sconfinate dello spazio. Una volta entrata, quando la circondarono tavoli carichi di libri, scaffali pieni di libri, pile di libri, si ostinò a rimandare ciò che più desiderava... il
momento magico nel quale sarebbe venuta a trovarsi davanti agli scaffali in cui si pigiavano sottili volumi di poesie. Due ore dopo era ancora seduta sul pavimento e divorava, pagina su pagina, libri le cui rilegature scricchiolavano ogniqualvolta le mani attente di lei aprivano la copertina nuova. Ignorava completamente gli acquirenti che continuavano a percorrere il passaggio, dominandola dall'alto. Nessuno la infastidì. Nessun commesso le domandò se potesse aiutarla, o la pregò di spostarsi. Ma giunse il momento in cui ebbe la gola stretta a causa di un eccesso di commozione e in cui si sentì così accesa dall'entusiasmo che fu costretta a correre fuori della libreria, nella strada gelida. Trascorse un'altra ora in un negozio di dischi, circondata dalla musica, immaginando la felicità di portar via bracciate di album. Mentre si allontanava dall'esposizione dei dischi di musica classica e andava adagio verso la porta, vide il ragazzo della copertina della rivista. I suoi occhi enormi la fissavano da un manifesto e il sorriso abbacinante e bianco di lui la trattenne per un lungo momento. Appollaiata su uno sgabello al banco del bar, nel Woolworth, Rynn rinunciò al tentativo di mangiare un unto hamburger. Si costrinse a inghiottire un insipido succo di frutta che la ragazza negra le servì dopo parecchia confusione, avendo lei ordinato una spremuta d'arancia. La negra continuò a fissare la bambina inglese e la bambina inglese continuò a bere. Per la strada, aspettando l'autobus, Rynn cercò di non pensare a quello che doveva fare dopo, perché la prospettiva la colmava di terrore. Rimase sull'autobus fino alla piazza del villaggio, la piazza con i pezzi d'artiglieria della Guerra Rivoluzionaria e la piramide di palle di cannone. Poi, una volta discesa, si costrinse a camminare in fretta sotto i rami spogli degli olmi, verso un edificio di mattoni rossi, con bianche colonne: il municipio. La porta principale era aperta, ma all'interno la accolsero corridoi e uffici silenziosi come Rynn aveva sperato che fossero a quell'ora del pomeriggio di sabato. Il silenzio era così assoluto da indurla a domandarsi se avrebbe trovato qualcuno in grado di rispondere alla sua domanda. Mentre percorreva un corridoio, udì il ticchettio di una macchina per scrivere. Qualcuno c'era. A un rumor di passi, si voltò. Una donna alta, in impermeabile, i capelli raccolti sotto un fazzoletto, si stava affrettando lungo il corridoio verso di lei. La donna si fermò. Aveva una faccia molto inglese. Le ciocche di capelli che sfuggivano di sotto il fazzoletto erano grigie. Rynn credette sen-
z'altro che la donna fosse inglese, ma, quando parlò, risultò inequivocabilmente che si trattava di un'americana. «Che cosa stai facendo qui?» Rynn si disse che la sconosciuta non aveva alcun diritto di affrontarla in quel modo. Eppure si sorprese a cercare disperatamente una spiegazione. Prima che avesse potuto parlare, la donna domandò: «Come mai non sei alla partita?». Perché, in effetti? Rynn si rese conto che avrebbe dovuto rispondere. Sebbene vedesse ora che c'era soltanto cortesia sul volto sorridente della donna e intuisse che la domanda, una volta giustamente interpretata, non era una sfida, ma soltanto un allegro interessamento... una risposta doveva essere data. «Lavora qui?» domandò. «Non precisamente» rispose la sconosciuta con un sorriso. «Cerco di rendermi utile in qualcuna delle commissioni.» «Sto scrivendo un tema sul governo» disse Rynn. «Ho bisogno di sapere quando tiene le riunioni la commissione scolastica.» «Potrebbe esserti utile assistere a una riunione?» domandò la donna. «In realtà, mi serve soltanto sapere quand'è che la commissione si riunisce.» «Due volte al mese, il secondo e l'ultimo giovedì. Alle undici. Si è riunita questa settimana. L'altra riunione avrà luogo soltanto tra due settimane...» La donna si interruppe. «Anzi no, perché quel giovedì sarà il Giorno del Rendimento di Grazie e quindi la rimanderanno.» La sconosciuta rifletté un momento. «Posso procurarti il regolamento; ti sarebbe utile?» Entrò in un ufficio e tornò con un opuscolo. «Questo è alquanto completo, ma se dovessero occorrerti altri ragguagli...» «Basta così» disse Rynn. «Grazie infinite.» «Ma non dovresti occuparti del compito, adesso. Dovresti essere alla partita. Le Linci hanno bisogno di tutto l'incoraggiamento possibile.» La bambina annuì. «Per quale corso devi fare il compito?» A un tratto, gli occhi verdi di Rynn si illuminarono. «Mi scusi,» disse, con una sorta di entusiasmo che raramente lasciava intravedere agli altri, «crede davvero che sarebbe giusto se andassi alla partita?» La donna sbirciò l'orologio. «Se ti affretti, arriverai per il secondo tempo.»
Rynn girò sui tacchi e corse lungo il corridoio. Sempre sorridendo, la donna proseguì verso il ticchettio della macchina per scrivere. Rynn continuò a correre fino a casa sotto la pioggia. «La commissione scolastica non si riunirà per altre due settimane. E anche allora rimanderanno la riunione!» Rise e il suo alito formò un pennacchio di nebbia. «Signora Hallet, lei è una bugiarda!» Rise forte. «Una bugiarda, ecco che cos'è, signora Hallet! Bugiarda! Bugiarda!» Irruppe nella piccola casa e corse a prendere l'elenco telefonico, nel quale cercò un numero. Mentre lo formava, guardò, al lato opposto della stanza, una scatola di cartone piena di barattoli di vetro, posta sul tavolo allungabile. Aspettando che qualcuno rispondesse al telefono, ascoltò la pioggia tamburellante sul tetto. «Il signor Hallet? Qui è Rynn Jacobs. Bene, sì... c'è sua madre? Capisco. Voleva certi barattoli di vetro che non ho potuto darle ieri. Le dica, se non le dispiace, che sono pronti, quando vorrà venire. Sì, mi troverà in casa...» A un tratto, la voce della bambina divenne sorprendentemente fredda. «No. Sarebbe preferibile se venisse lei. Vede, signor Hallet, può darsi che mio padre voglia parlarle di una certa cosa. Grazie, signor Hallet.» 5 Un colpo brusco alla porta di casa fece accorrere Rynn nell'ingresso. Ancora eccitata per avere scoperto la menzogna della signora Hallet, ella spalancò la porta, ma non vide la donna, bensì un visitatore inatteso. Soffocò un ansito, in quanto lo sconosciuto in piedi sotto la pioggia era enorme, un gigante che si profilava immenso dinanzi alla porticina di una casa di bambola. L'uomo disse di essere l'agente di polizia Ron Miglioriti. La bambina disse che si chiamava Rynn Jacobs, poi tacque. Non temeva affatto i poliziotti. In Inghilterra, aveva sempre trovato quei giovanotti cortesi e infallibilmente amichevoli e disposti ad aiutarla: non facevano mai altro che camminare, quasi passeggiare adagio, lungo i marciapiedi, come se potessero trovarsi di fronte a una sola situazione d'emergenza: aiutare qualche signora anziana a trovare una strada o una fermata dell'autobus. In America, Rynn non aveva mai avuto a che fare con un agente, ma niente poteva farle pensare che fossero diversi. Costui rimaneva in piedi dinanzi a lei, con la mantellina impermeabile luccicante di pioggia e ruscellante d'acqua. Qualcosa di assurdamente simile a quelle protezioni
di plastica che Rynn metteva sui piatti prima di conservare gli avanzi nel frigorifero copriva il berretto del poliziotto. L'uomo aveva basette di un nero corvino e folte sopracciglia nere che quasi si univano sopra vividi occhi neri. Il naso sembrava piuttosto strano, come se qualcuno glielo avesse rotto, ma ognuno dei denti di lui era perfetto e il sorriso splendeva, né più né meno radioso, così colmo di splendore, come la luce del sole mattutino, da illuminare la soglia anche in quella giornata grigia. Guardandolo mentre rimaneva in piedi sulla veranda sotto la pioggia, dopo averle chiesto di parlare con suo padre, Rynn sentì che non poteva fare a meno di invitarlo a entrare in casa. Gli fu grata perché, prima di farsi avanti, l'agente scrollò l'acqua piovana dalla mantellina. E, una volta entrato, cercò di non bagnare il pavimento appena tirato a cera. Non senza stupire se stessa, lei gli offrì una tazza di tè. In cucina, si disse che, se anche le sembrava simpatico, il suo sorriso non aveva niente a che vedere con la ragione per cui si trovava lì. Che cosa voleva? Le balenò nella mente un pensiero terrificante. Lo aveva forse mandato la signora Hallet? Ma Rynn sapeva che la commissione scolastica non si era riunita. Non poteva essere questa la ragione. Si trovava lì, forse, per ritirare i barattoli di vetro? Quale che potesse essere il motivo, decise, era meglio rilassarsi, e a renderglielo possibile fu il nome dell'agente. A tutta prima lo aveva trovato difficile, ma ora le accadde di pensare che non mancava di possibilità poetiche. Quando versò il tè, lo stava già pronunciando con un canoro e bell'accento italiano. «Miglioriti.» L'agente sorrise, la sua consueta reazione, si sarebbe detto, a qualsiasi cosa. Ma, davanti alla tazza di tè, le sue folte sopracciglia si unirono corrugandosi in un cipiglio. Trovava difficile, se non impossibile, far combaciare l'enorme pollice e l'indice attraverso il piccolo manico della tazza. Quest'ultima dondolò. Rynn gli fissò la mano. Grossa, quadrata e forte. Immaginò che in altri sabati, non molti anni addietro, quella stessa mano avesse tenuto un pallone da rugby. Il pallone da rugby poteva spiegare il naso rotto. Sempre accigliato, Miglioriti giostrò con la tazza e riuscì a bere un sorso di tè. «La sua famiglia si trova da molto tempo nel villaggio?» Rynn si espresse nel tono compito delle conversazioni ai tè, quando parlò.
Un sorriso si diffuse adagio sulla faccia di Miglioriti. «Sembra che tu abbia parlato con la signora Hallet.» La signora Hallet. Era stata lei a mandarlo? L'agente Miglioriti riuscì a bere un altro sorso di tè prima di continuare. «Non riferirle che te l'ho detto, ma secondo la signora Hallet bisogna puzzare dell'olio di balena della prima nave a vela che sia mai approdata qui, altrimenti per lei si è sempre un immigrato.» «Noi, presumo, siamo i più recenti» si affrettò a dire Rynn. «Mio padre ed io.» «Per lo meno, la signora Hallet vi ha accolti nel villaggio. Non consente mica a chicchessia di venirci. No, se può evitarlo.» Miglioriti tentò di bere un terzo sorso, ma versò tè nel piattino. Si guardò attorno nel soggiorno. «Deve avervi trovati abbastanza simpatici, se vi ha affittato questa casa.» Rynn sorseggiò il tè con un'elegante disinvoltura, che ritenne venisse considerata molto inglese dal poliziotto. «Immagino» disse «che ce l'abbia affittata perché mio padre è un poeta. Quello è uno dei suoi libri. Quello lì, sulla mensola del caminetto.» Miglioriti fu ben contento di poter posare sulla mensola del caminetto la vacillante tazza da tè. Frugò sotto la mantellina bagnata e accuratamente si asciugò le grosse mani con un fazzoletto prima di prendere il libro sottile. «Ha scritto questo?» domandò, con un notevole timore reverenziale. Rynn lo osservò al di sopra della tazza da tè. Sembrava un enorme orso nero intento a esaminare un fiore. Lo vide sfogliare adagio le pagine, manifestamente colpito. «Mi spiace che mio padre in questo momento stia traducendo. Quando traduce nel suo studio, e quella porta è chiusa, ho ordini severissimi di fare in modo che non venga disturbato, qualsiasi cosa possa accadere.» Le mani del gigante sfogliavano le pagine una alla volta. «Le piacerebbe se gliene firmasse una copia?» La faccia del poliziotto si increspò in un altro dei radiosi sorrisi. «Sicuro... se può privarsene.» Alla bambina piaceva tutto di quell'uomo, anche l'assurda protezione contro la pioggia sul berretto. Le piaceva il modo che aveva di tenere il libro: lasciava capire che lo rispettava, che capiva come si trattasse di qualcosa di prezioso. «È il primo scrittore che mi capita di conoscere.» Rynn sorseggiò il tè. «Sarà lieto di saperlo, quando ci saremo conosciuti meglio. Il babbo dice che è sempre un'ottima cosa fare la conoscenza del-
l'agente locale.» «So che questa deve essere grande poesia, ma non riderai se ti dico una cosa?» «Non riderò.» «Be', non riesco mai a convincermi sul serio che alla gente piaccia la poesia. Non mi riferisco ai versi dei biglietti d'auguri per i compleanni, ma, sai, alla poesia... vera. A quei versi che non fanno nemmeno rima.» Rynn dimenticò il dente scheggiato e sorrise, riconoscendo il momento meraviglioso in cui due quasi-estranei constatano di condividere qualcosa di più di un comune accordo e pervengono al punto di una. comune intuizione. Poi, quando ricordò il dente, portò la mano davanti alla bocca. «Non sto ridendo di lei» disse. «Anch'io gli domandavo la stessa cosa. Le poesie con la rima piacciano quasi a tutti.» «Credo di essere come quasi tutti gli altri, allora.» «No. Lei è sincero. Mio padre dice che la maggior parte delle persone, quando dicono di amare la poesia, si limitano a fingere.» «A te piace, immagino?» «Sì, l'amo moltissimo.» I lunghi capelli di lei sventagliarono mentre scuoteva la testa per correggersi. «Questo è superfluo. Le parole "l'amo" sono sufficienti. "Moltissimo" non fa che indebolirle. Mi piacciono le parole. La maggioranza delle persone non se ne serve con cautela.» «Dovresti sentire i testimoni, certe volte. Anche se si tratta della più semplice delle dichiarazioni, puoi star certa che confondono ogni volta tutte le carte.» Se era stata la signora Hallet a mandare quel poliziotto, perché lui aspettava prima di dirle che cosa volesse la donna? «Deve essere bravo... tuo padre.» «T. S. Eliot diceva che lo era. Il babbo conobbe Sylvia Plath quando sposò Ted Hughes. Tra tutti i poeti inglesi viventi, Hughes è quello che prediligo. E anche a lui piace Emily Dickinson. La mia prediletta tra i prediletti.» Rynn chiuse gli occhi. Poi ricominciò a parlare. La sua voce era diversa da quella di tutte le maestre che Miglioriti aveva udito cantilenare poesie a scuola... una voce naturale, limpida, e per nulla affettata. Non stava cercando di immettere un suo significato nelle parole; lasciava che le parole dicessero quel che avevano da dire.
Esiste una certa Inclinazione di luce Nei Pomeriggi Invernali... Che opprime, come il Peso Dei Motivi nella Cattedrale. Una Ferita Celestiale ci infligge... Non troviamo cicatrice alcuna Ma una diversità interiore, Là ove i Significati risiedono... Nessuno la può insegnare... Nessuno... È il Sigillo della Disperazione, Una calamità imperiale Trasmessaci dall'Aria... Quando giunge, il Paesaggio ascolta... Ombre... trattengono il respiro... Quando se ne va, è come il Distacco Sul volto della Morte... Il ceppo d'acero nel caminetto bruciò tutto e cadde con una piccola eruzione di scintille. Rynn sollevò il coperchio della cassa per la legna, prese l'attizzatoio e spinse il ceppo spezzato sul mucchio di rosse braci. «Le piace anche questa?» «"Ombre trattengono il respiro"... Sicuro che mi piace.» Rynn gli sorrise senza aprire la bocca. Miglioriti rimise il libro sulla mensola del caminetto. «Sembra particolarmente bella... come l'hai detta tu.» «Mi piace il suono che ha. Come mi piace "Miglioriti".» Il giovanotto arrossi. Strano. Suo padre diceva sempre che era impossibile mettere in imbarazzo un italiano. «Come dicevo, non ho mai conosciuto un poeta.» «Nemmeno la signora Hallet. E credo che questo la ecciti molto.» «Siete qui dal mese di settembre?» «Da quando il giardino splendeva di zinnie. Rosse e dorate e viola, bianche e arancione... Per prima cosa vedemmo le zinnie. Poi udii l'oceano. E gli alberi. Lo sapeva che parlano?» «È più di quanto facciano qui certe persone.»
Rynn sorrise per fargli capire che aveva apprezzato la battuta. Il sorriso di lui era ampio. «Immagino, allora, che questo posto ti piaccia.» «Lo adoro.» «La scuola va bene?» Rynn degluti, ricacciando giù il panico che le saliva dentro. Fece una spallucciata. «È okay.» «Non è facile per i nuovi arrivati. La gente, da queste parti, sembra a tutta prima piuttosto fredda.» «È okay anche questo...» «Quando sarai rimasta qui più a lungo,» l'uomo sorrideva ancora, come per dimostrarle che continuava a scherzare, «diventerà sempre più fredda.» Rynn dimenticò il dente e rise. Quando si accorse che il robusto poliziotto la osservava attentamente, si affrettò a chiudere la bocca. «Lei è molto buffo, per essere un agente.» Egli le domandò se volesse dire buffo-strambo, o buffo-ridicolo. Era, rispose Rynn, il poliziotto più divertente che avesse mai conosciuto. «E inoltre, quasi tutti i poliziotti americani non bevono il tè. Lo ha mai notato?» Miglioriti si stava guardando attorno nella stanza. «Questa era la casa dei Wilson.» «E sta per dirmi che è stregata?» «Impossibile. Erano le persone più felici che tu possa aver mai conosciuto.» «Fino a quando...» La bambina alzò un indice ammonitore e si espresse nel tono tenebroso che si addice a una storia di fantasmi. «Fino a quando non toccò loro una morte grottesca, misteriosa e straordinariamente orribile.» «No. In realtà, hanno ereditato un paio di milioni di dollari e ora risiedono sulla riviera francese.» «Bene! Lo sapevo che era una casa fortunata!» La ragazzetta fissò l'uomo in piedi accanto al caminetto, con la mantellina lucente di pioggia. «Sono contenta di sapere che è lei il nostro poliziotto.» «Grazie.» Il sorriso di Miglioriti divenne quasi fanciullesco. «È certo meglio che sentirsi chiamare "porco". Voglio dire, a te che effetto farebbe sentirti dare del "porco"? I ragazzetti del giorno d'oggi non hanno nessun rispetto per la legge.» Rynn avrebbe voluto chiedergli di togliere dal berretto l'assurda prote-
zione tipo frigorifero, e di liberarsi della mantellina impermeabile. Ma adesso che egli aveva finito di bere il tè, non osava incoraggiarlo a trattenersi. Ricordò a se stessa che non doveva provare troppa simpatia per quell'uomo. La sua presenza lì poneva un interrogativo tutt'ora senza risposta. Miglioriti riprese piattino e tazza. «Tutto sommato, il villaggio è un bel posticino in cui vivere. Soltanto, non lasciarti mettere i piedi addosso dalla signora Hallet. Ci proverà. Come ho detto, crede di comandare lei, qui.» «Ed è vero?» «Sotto certi aspetti, vorrei che lo fosse.» «Che cosa intende dire?» Con un'audacia che la stupì, Rynn fissò negli occhi l'agente di polizia, uno sguardo che esigeva una risposta. «Basta così.» Aveva detto troppo, e ora voleva evitare di spingersi oltre. Di nuovo prese in mano il piattino e la tazza. «Si riferisce a suo figlio?» «Lo hai già conosciuto?» Rynn si espresse molto sommessamente, ma questa volta senza fissare il poliziotto. «Dice che sono una ragazza molto carina.» «Lo sei.» L'uomo parve scegliere le parole con circospezione. «Ma potrebbe essere preferibile se a dirlo fosse stato qualcuno della tua età.» «È un anormale?» Miglioriti si guardò attorno, cercando un punto in cui posare tazza e piattino. «Dove la metto?» Rynn tolse le porcellane delicate dalla grossa mano. «Ha due figli» disse. «Sì» disse il poliziotto, ovviamente non persuaso. Ella ricordò di aver pensato quanto sembrasse improbabile, come padre, l'uomo dalle mani e dalla faccia rosee, mentre si strovava in quella stessa stanza. E di nuovo meravigliò se stessa con la propria audacia. «Sono davvero suoi?» Per un momento, pensò che Miglioriti non avrebbe risposto. Quando rispose, egli parve rivolgersi a una persona adulta, a qualcuno dal quale ci si potesse aspettare che capisse tutte le illazioni di quanto stava dicendo. «Sono di sua moglie. I figli di un altro matrimonio.» «In altre parole,» la bambina osò guardare di nuovo negli occhi il poliziotto «il signor Hallet è uno di quegli uomini che cercano di regalare ca-
ramelle alle ragazzine?» Miglioriti si tolse il berretto e fece scorrere le dita della grossa mano quadrata tra la scura massa di capelli ricciuti. Preferì non rispondere. Scosse la testa, fingendo incomprensione. «Di dove hai detto di essere?» «Di Londra, si può dire.» «Credo che i bambini crescano in fretta nelle grandi città.» Rynn finì di bere il tè e mise tazza e piattino, insieme a quelli del poliziotto, sulla credenza della cucina. «Mio padre e io siamo stati in una infinità di posti. Abbiamo conosciuto ogni sorta di persone.» Poi portò tazze e piattini nell'acquaio. Guardò, fuori della finestra sopra l'acquaio, il giardino dietro la casa, invaso da erbacce troppo alte, e i fiori secchi. «Come mai il signor Hallet non viene curato?» «A che genere di cura stai pensando?» Rynn si rese conto che il poliziotto lasciava parlare quasi sempre lei. «Esiste una cosa come la psicanalisi.» Toccava adesso a Miglioriti parlare, e sarebbe stato difficile per lui non dire più di quanto volesse, perché tra loro esisteva ancora l'inconsueta intimità di un'intuizione condivisa. «Ci sono due posti nei quali le persone che si trovano qui nell'isola da trecento anni non vanno. Non vanno dagli psicanalisti e non vanno in prigione.» Rynn stava facendo scorrere acqua del rubinetto sulle stoviglie. «Ha la mia solenne parola d'onore che non accetterò dolciumi da estranei.» Chiuse il rubinetto, si asciugò le mani e tornò accanto al poliziotto. «Sono contenta che sia passato di qui.» «Solo che non ti ho ancora detto perché sono venuto.» Rynn sperò di non aver tradito la sensazione di gelo dalla quale si era sentita pervasa. Lottò per impedire ai suoi occhi di fissare quelli di lui. E aspettò che egli parlasse. «Ti piace il tacchino?» «Dovrei dire di sì?» «No.» «Se vuole sapere la verità, non mi piace. Non moltissimo.» Immediatamente intuì che doveva fornire un pretesto a quell'uomo simpatico. «Gli uccelli sono rettili. Biologicamente, nelle origini. Lo sapeva?» «Credo di no.» Egli si rimise il berretto da poliziotto. «Allora non lo vuoi un biglietto della lotteria?»
«Vuol dire che se mio padre e io comprassimo qualche biglietto potremmo vincere un tacchino?» «È probabile che non lo vinciate.» Sembrava prendere molto a cuore la lotteria. «Per il giorno del Rendimento di Grazie. Un tacchino di dieci chili, come minimo. Naturalmente, se non ti piace, è un tacchino troppo grosso.» Stava andando verso la porta. Sorrise. «A tuo padre piace?» «Ancor meno che a me. Prenderemo due biglietti.» «Auff» disse il giovane poliziotto, togliendosi il berretto e passando le dita tra i lustri capelli neri. «In realtà, odio di dovermi occupare di questo, sai? Preferirei di gran lunga essere andato alla partita di rugby, questo pomeriggio. Cercando di piazzare i biglietti, ho sempre l'impressione di ricattare la gente, in un certo qual modo.» «Niente affatto» disse Rynn, con i suoi modi più mondani. «È per una degna causa. Si stupirebbe, da noi, in Inghilterra, se vedesse per che cosa deve vendere biglietti la Regina.» Miglioriti osservò la bambina. Lei lo osservò a sua volta, e sorrise a tal punto, per un attimo, da mostrare il dente scheggiato. «Quanto costano?» «Due biglietti? Due dollari.» «Un momento solo.» Rynn, con un cenno, fece capire al poliziotto che non doveva andarsene, poi salì di corsa le scale verso il primo piano, sopra la porta chiusa dello studio. Miglioriti, rimasto solo nel soggiorno, si affrettò a passare nell'ingresso, ad avvicinarsi alla porta dello studio e a bussare piano. Nessuno gli disse di entrare. Provò a girare la maniglia, ma la porta era chiusa a chiave. Dall'alto delle scale giunse la voce della ragazzetta. «Due dollari.» Ella discese i gradini due alla volta, spiegando le banconote mentre Miglioriti si toglieva di tasca un blocchetto di biglietti e ne staccava due. «E se il babbo e io saremo molto sfortunati» disse Rynn, con un sorriso, «vinceremo un tacchino da dieci chili?» Risero entrambi. Miglioriti era radioso. «Perché i bambini inglesi sono sempre così bene educati? Non succede mai che loro ci diano del "porco".» Rynn piegò i biglietti della lotteria. Il poliziotto stava ancora sorridendo. «Vorrei che ci fossero più ragazzine come te da queste parti. Senza dubbio, questo mi faciliterebbe il lavoro.» Rimise il blocchetto dei biglietti nella
tasca della giubba. «Bene, ora farò meglio, credo, ad affrettarmi a vendere altri biglietti. Grazie per il tè. E per la simpatia.» La ragazzetta e il poliziotto si scambiarono sorrisi. «Ringrazia anche tuo padre.» «Lo farò.» Rynn lo accompagnò fino alla porta. «La rivedrò?» «Non puoi evitarmi. Il villaggio è molto piccolo durante l'inverno.» Aprì la porta. «Piove ancora.» «Come in Inghilterra.» Miglioriti si tolse il berretto e si accertò che la protezione di plastica fosse al suo posto. Rimise il berretto sui capelli neri e uscì. Quando già si trovava sotto gli alberi bagnati e gocciolanti, si rivolse di nuovo alla bambina. «Grazie ancora, piccola signorina Jacobs. E spero che tu non vinca il tacchino.» Seguendo con lo sguardo il giovane bruno che si allontanava, Rynn provò un'improvvisa sensazione di perdita. Stava fissando ancora il pomeriggio nebbioso, anche quando la macchina di pattuglia si fu allontanata dal viale. Per molto tempo respirò l'aria gelida, satura dell'odore di foglie bagnate, e pensò alle giornate come quella nell'Hyde Park di Londra, quando gli alberi spogli ricordavano i disegni a penna in bianco e nero in un libro per bambini. Un'altra automobile entrò nel viale, un'automobile rosso-scura che si fermò davanti alla casa. Una portiera sbatté con un tonfo metallico e la donna dal cappotto di tweed si affrettò verso di lei, sotto un ombrello a vivide strisce rosse. Rynn aspettò che la donna con il cappotto ruvido fosse giunta quasi sulla soglia. «Salve, signora Hallet.» L'altra abbassò l'ombrello. Gli occhi freddi e azzurri si socchiusero entro gonfie borse alla vista della bambina che si trovava già sull'ingresso. Anche il tono della voce fu freddo. «Posso entrare?» «L'ho invitata io a venire.» Rynn strinse forte la maniglia della porta mentre le scarpe scricchiolanti della signora Hallet stampavano fango, a ogni passo, sul lucido pavimento di quercia. Attraversando d'impeto la casa e piazzandosi davanti al fuoco, la signora Hallet stava facendo la propria dichiarazione... tutti i diritti cui si
era richiamata la bambina durante la precedente visita di lei venivano ormai ignorati. La donna batté il puntale d'acciaio dell'ombrello sulle pietre del focolare per scrollare l'acqua piovana. Poi aprì di scatto e richiuse l'ombrello a vivide strisce tipo dolciumi di zucchero, facendo cadere qualche altra goccia nel caminetto. «Mai aprire un ombrello in casa.» La bambina ricordò le parole di una vicina a Londra, una donna anziana e sdentata, che si nutriva soltanto con latte condensato, e che, in una giornata piovosa come quella, le aveva strillato l'avvertimento. Tra tutte le possibili sfortune che si potevano evocare, le era stato spiegato dalla vecchia, l'apertura di un ombrello in casa apportava le peggiori. Rynn ricordava l'avvertimento, ma si vantava di non essere superstiziosa. La signora Hallet, si senti costretta ad ammettere, non aveva l'aspetto della donna alla quale la sfortuna potesse osare affidarsi. Lasciando la porta spalancata sulla pioggia, per dimostrare all'ospite accanto al caminetto come non si aspettasse di averla in casa più a lungo di quanto occorreva per ritirare i barattoli di vetro, Rynn passò nel soggiorno, chiuse con uno strattone le tende e accese una lampada. Preparare l'ambiente alla notte era stato un impulso, un istinto. La donna non avrebbe potuto non notare il cambiamento. La bambina aveva fatto sì che la casa sembrasse più piccola, più intima, la sua casa, come non mai. La pioggia scrosciava sul tetto e schizzava fuori della porta. Rynn sapeva che la signora Hallet stava aspettando di avere tutta la sua attenzione prima di parlare. Sapeva inoltre che la donna, in ombra contro il bagliore del fuoco, rifletteva attentamente su ciò che stava per dire. Nessuna delle due parve preparata quando la voce di lei si fece udire crepitante... aspra come lo spezzarsi del ramo secco di un albero. «Stamane ho parlato di te alla commissione scolastica.» Bastava per cominciare. Aveva fatto capire a Rynn, anche se quella era la casa della ragazzetta, che sapeva di rivolgersi a una bambina. Rynn si era ripromessa di non sfidarla, ma, in preda all'ira causata da quell'invadenza, dovette lottare con se stessa per non urlare alla faccia rosea che sapeva trattarsi di una menzogna, una menzogna stupida; chiunque - qualsiasi bambino intelligente - avrebbe potuto smascherarla semplicemente informandosi sulle riunioni della commissione. Non disse niente. Quante volte si era stupita delle bugie raccontate dagli adulti. Bugie stupide, facili da scoprire. Non ricordavano quanto è difficile ingannare un
bambino? Avevano dimenticato che, quando si tratta di mentire, i bambini sanno tutto quel che c'è da sapere? Il silenzio parve interminabile, eppure erano trascorsi soltanto pochi secondi. La donna non resistette alla tentazione di volgere i freddi occhi azzurri verso la bambina, per valutare l'impatto dell'attacco iniziale. «Quando hanno saputo del tuo caso, devo dire, si sono interessati moltissimo.» "Lei è una bugiarda, signora Hallet. Una bugiarda!" gridò Rynn entro di sé. Disse invece: «Stavo per mettere il bricco sul fuoco. Gradirebbe una tazza di tè?». La voce fu cordiale, e senza toni di sfida, il più possibile. Ma la signora Hallet non era affatto intenzionata a consentire a Rynn di smussare l'attacco con le buone maniere. «Davvero molto interessati.» Come lottò, Rynn, per non gridarle: "Bugiarda!". Quanto anelava a urlare alla paffuta faccia rosea che sapeva come l'ultima riunione della commissione scolastica avesse avuto luogo lo scorso giovedì, che sapeva come la commissione non si sarebbe più riunita per un altro mese! Avrebbe voluto dire alla vecchia bugiarda che, quanto fosse stata costretta ad affrontare la realtà, e non soltanto quelle minacce, era intelligente abbastanza, e scaltra abbastanza, e abbastanza audace per escogitare qualche espediente e non frequentare la loro scuola. Sarebbe riuscita a sottrarsi a quella gente. Non avrebbe mai fatto il loro gioco. «Non vuoi sapere che cosa hanno detto?» «Come tè posso offrirle l'Earl Grey o il Darjeeling.» La donna chiuse di scatto l'ombrello, fissando irosamente la bambina che osava guardarla in quel modo negli occhi, con una faccia né ingenua né soave, ma neppure di sfida aperta. Lo sguardo di lei, dopo aver frugato il viso impassibile di Rynn, esitò, e quell'attimo fuggevole, prima che ella avesse potuto ritrovare la fermezza degli occhi, tradì la sua incertezza. L'aveva, la bambina, sorpresa a mentire? Era stato stupido mentire a proposito della riunione, una circostanza così facilmente controllabile dalla ragazzetta. Assurdo. Si trattava di una bimbetta. Ciononostante, ella fece ricorso alla sua arma più forte... tutto il peso della maggiore età. «Ero venuta qui dispositissima a dimenticare quello che è accaduto ieri. Ma, devo dirlo, non trovo affatto che oggi il tuo tono sia migliorato.» «Allora spetta a me scusarmi.» Rynn si rese conto che, anche a Londra, non si era mai espressa in un modo così tipicamente inglese. «Se l'ho offesa in qualsiasi modo, signora Hallet, me ne dispiace.»
La signora Hallet attorcigliò le pieghe a strisce rosse strettamente intorno all'ombrello. «Una cosa trovo soprattutto sorprendente: quasi tutti i bambini e le bambine inglesi sono molto bene educati.» Quel genere di altezzosità richiedeva il più gelido degli sguardi, uno sguardo tale da far diventare di sasso una bambina, o, per lo meno, da strapparle lacrime. Ma la signora Hallet non notò alcun cambiamento sul viso della ragazzetta. «D'altro canto, tu non sei realmente inglese, vero?» «Che cosa ha deciso per quanto concerne il tè?» «Non mi offri un bicchiere di quel vino denso, dolciastro, che adoperate voi nei vostri riti religiosi?» La faccia di Rynn, splendente alla luce del fuoco, era sempre una maschera. La signora Hallet, la prima a spezzare il vincolo tra i loro occhi, si avvalse del pretesto dell'ombrello per nascondere la sconfitta, e passò nell'ingresso per appendere le vivide strisce rosse all'attaccapanni di legno. «O non sei grande abbastanza per bere vino?» disse, preparandosi al controinterrogatorio. Sbatté la porta e rientrò a lunghi passi melmosi, che la ricondussero nel soggiorno sfiorando la bambina. «A mio figlio hai detto di avere quattordici anni. A me di averne tredici. Ebbene, quanti ne hai?» «Tredici.» «E sei ricca di talento, come tanta della tua gente.» «Signora Hallet, vuole, la prego, accettare le mie scuse per quanto è accaduto ieri?» La donna aspettò di aver rioccupato la propria posizione di comando accanto al caminetto, prima di parlare. «Hai imparato a dirlo come un disco?» Tese le mani verso il fuoco e parve riflettere sulle scuse. «Temo molto che non sia così semplice. Quanto più ho pensato a quello che è accaduto qui ieri, tanto più mi sono persuasa che tu e tuo padre vi trovereste di gran lunga più a vostro agio in un luogo in cui vi fosse possibile - diciamo - parlare la lingua che sembrate preferire.» Con l'attizzatoio tolto dalla cassa della legna, la donna pungolò le fiamme. I suoi capelli metallici balenarono nella luce, quasi avessero preso fuoco. «Al telefono, hai fatto capire chiaramente a mio figlio che tuo padre vo-
leva parlarmi. Eccomi qui. Desidero senz'altro parlare con lui. È in casa?» «Sì.» «Chiamalo.» «Temo che in questo momento stia traducendo. Non può essere disturbato... non l'ho disturbato nemmeno per l'agente Miglioriti.» «L'agente Miglioriti lavora per le persone come me» disse la signora Hallet, lasciando capire inequivocabilmente che la bambina non doveva mai più confondere il potere e la legge con un affabile giovanotto, il quale poteva essere assunto o licenziato da lei. «È gran tempo» soggiunse «che noi tutti affrontiamo una semplice verità: abbiamo commesso uno sbaglio con questa casa.» Il fuoco balenò. La signora Hallet si scaldò le mani. «Se per caso ti stai domandando perché rimango... aspetterò finché avrai chiamato tuo padre.» «Non mi ha detto... quale tè preferisce.» La signora Hallet si concesse un lungo momento per studiare la stanza, come se le considerazioni del giorno precedente le consentissero di vederla sotto una nuova luce. «Voi due... abitare qui... in questo viale... con così pochi vicini. E con l'inverno imminente e tanto poco in comune con tutti noi. No. Direi che non si tratta affatto del posto adatto. No, in fede mia, non riesco a immaginare cosa ci ha fatto credere che vi sareste trovati bene qui...» «Al babbo e a me piace questa casa...» «Un luogo così solitario per una ragazzina che è quasi sempre sola. No. Credo che faremo altri progetti...» «Abbiamo un contratto d'affitto per tre anni.» La signora Hallet continuò a stropicciarsi le mani rosee. «I contratti d'affitto sono stati disdetti altre volte. No, non mi stupirei se venissi a sapere che tuo padre ha già deciso di trasferirsi in qualche luogo ove entrambi possiate trovarvi meglio.» «Non deve preoccuparsi per noi, signora Hallet.» «Ecco che ci risiamo. Sempre quel tono di scherno. E non guardarmi con quegli occhi così risentiti, fingendo di essere stata fraintesa. Tu cerchi di comportarti come se non volessi attribuire alle cose che dici il loro vero significato. Ma sai bene quanto me quali sono le tue intenzioni.» «I barattoli di vetro sono lì, signora Hallet. Sul tavolo.» «Mi metti alla porta?» Non sapendo che dire, Rynn ascoltò il respiro affannoso della donna. «Chiama tuo padre!» La voce venne resa aspra dall'ira. «Immediatamen-
te!» «Gliel'ho detto. Non può essere disturbato.» La signora Hallet si era già allontanta dal caminetto e si trovava nell'ingresso, diretta verso la porta dello studio. Là si fermò, quasi si aspettasse l'ordine della bambina. Quando venne, Rynn non si era mai espressa con maggiore autorità: «Non apra quella porta!». «Tu e io sappiamo benissimo» disse la signora Hallet «che non si trova lì.» La voce di Rynn suonò tranquilla, placida. «Apra quella porta, signora Hallet, e dovrò dire al babbo di suo figlio.» «Di mio figlio?» La mano della signora Hallet scivolò giù dalla maniglia e le parole di lei furono il ringhio di un animale in trappola. «A proposito dell'altra sera. Ancora non ne ho parlato al babbo.» Rynn, pur non riuscendo a scorgere la signora Hallet nell'oscurità dell'ingresso, sapeva che ella doveva avere la faccia accesa dall'ira. «Non hai parlato a tuo padre di che cosa?» «Di quello che è accaduto qui.» Rynn aspettò, consentendo al silenzio di incriminare il figlio della donna. «Come si è comportato. A quanto pare la gente nel villaggio sa tutto di lui...» La signora Hallet balzò fuori dall'ombra. «Miglioriti! È un bugiardo!» «Non l'agente Miglioriti, signora Hallet.» In contrasto con l'isterismo paonazzo e scoperto della donna, la serenità della bambina parve far sì che ella dominasse la situazione. «Che cosa ti ha detto quel maledetto italiano?» «Niente, signora Hallet.» «Niente? Ma se ha sempre odiato Frank! Ti ha detto di aver avuto una tresca con la moglie di mio figlio, prima che Frank la sposasse? E puoi meravigliarti se lo odia?» «Non mi avrebbe nemmeno detto che i bambini di Frank non sono suoi. Ho dovuto domandarglielo.» «Che altro ha detto? Pretendo di sapere che altro ha detto!» «Anche quando gli ho domandato come mai suo figlio non venisse sottosposto a una cura psichiatrica, o perché la polizia non facesse niente...» Qualsiasi cosa la signora Hallet avesse potuto fare in quel momento,
Rynn non se ne sarebbe stupita. Ma, a questo punto, toccò alla donna livida dominare la propria ira. «Perché mai la polizia dovrebbe fare qualcosa?» «Quando suo figlio offre caramelle alle ragazzine...» Con estrema malevolenza, la donna colpì la bambina con un manrovescio in pieno viso. La faccia in fiamme, Rynn corse accanto al tavolo e spinse la scatola di cartone, piena fino all'orlo di barattoli tintinnanti. «I barattoli, signora Hallet.» «Tu te ne andrai da questa casa!» «È casa mia, signora Hallet.» Battendo le palpebre, Rynn ricacciò indietro le lacrime. «Con... o senza tuo padre...» Rynn soffocò un singhiozzo. «È vero, è un posto solitario, questo sul viale. Spesso rimango sola. Ma la cosa non mi preoccupa, signora Hallet. Se preoccupa lei, è un problema che farebbe meglio a risolvere con suo figlio!» «Dio ti maledica!» La pioggia tambureggiava sul tetto. La signora Hallet si avvicinò al tavolo e infilò la mano nella scatola di cartone. «Mancano gli anelli di gomma» disse. «Senza gli anelli di gomma i barattoli non servono a niente.» Rynn sbirciò nella scatola. Tastò freneticamente con una mano, facendo cozzare gli uni contro gli altri i barattoli. Infine, sconfitta, abbassò il coperchio di cartone. La donna non distoglieva gli occhi di pietra dalla bambina. «Li voglio immediatamente, i barattoli! E gli anelli di gomma. Questa volta non oserai dirmi di tornare!» «Non le servono, gli anelli di gomma!» gridò Rynn. «In realtà, non le occorrono nemmeno i barattoli...» La signora Hallet aveva fatto altre mosse rapide e decise, ma Rynn non era stata preparata da alcuna di esse all'impeto con il quale la donna afferrò il tavolo per trascinarlo via dal tappeto intrecciato. Si avvinghiò frenetica al cappotto di tweed. «Esca da casa mia!» Le gambe del tavolo stavano stridendo sul pavimento di quercia. La signora Hallet gettò indietro il tappeto e rivelò una botola. Afferrato l'occhiello della cerniera di chiusura, fece scorrere indietro il chiavistello.
La bambina, tremante di rabbia, non riuscì a muoversi. La donna sollevò perpendicolarmente la botola prima di farla ruotare ancora un poco sui cardini e di appoggiarla con un tonfo alla parete. La furia di Rynn si tramutò in terrore. La bambina stette a guardare allibita mentre la donna scendeva sul primo gradino e guardava in basso, avvolgendosi meglio nel cappotto di tweed per difendersi dal freddo. Rynn vinse la paralisi della paura e si gettò contro di lei, ma tremava ancora con tanta violenza che non riuscì a completare la mossa, e gridò, un grido colmo di furia esasperata, un grido pauroso da parte di una creatura così giovane. «Badi, l'avverto, signora Hallet!» Il tono deciso della sua voce, poco prima, aveva fermato la donna davanti alla porta dello studio, ma questa volta la signora Hallet si fermò soltanto quanto bastava per avvolgersi ancora più strettamente nel cappotto prima di muovere un altro passo, con un raschìo, sulla pietra antica. Rynn tremava sopra il pozzo della scala, quasi in stato di trance, osservando i capelli d'oro, metallici, della donna, e le spalle del cappotto marrone di tweed affondare ad ogni gradino. Sulla scala, ove fu costretta ad abbassare la testa per passare sotto le assi di quercia del pavimento, la signora Hallet accostò gli occhiali alla faccia, scrutando in basso nell'oscurità. Un altro gradino, poi il raschìo dei piedi cessò. «Oh, Dio mio...» La voce fu appena un bisbiglio. Poi ella urlò. Come se l'urlo fosse stato un segnale, Rynn balzò avanti e scostò la botola dalla parete. La botola ricadde al suo posto, precludendo l'urlo che saliva dal basso. Rynn si gettò con tutto il suo peso sulle assi di quercia e artigliò l'occhiello di ferro, abbassandolo sulle cerniere. Tonfi martellavano la botola. Per fare scorrere nuovamente il chiavistello arrugginito entro l'occhiello, occorsero tutte le forze della bambina. I tonfi continuavano dal basso quando Rynn si sollevò adagio dalle assi. Ogni tonfo, come ognuno dei battiti del suo cuore, la faceva indietreggiare dalla botola. Un grido soffocato, come se fosse remoto, venne quasi spento dalle assi massicce. Altri due tonfi. A un tratto, mentre la bambina indietreggiava dalla botola, qualcosa bal-
zò contro di lei alle sue spalle, bloccandole la ritirata. Senza nemmeno osare un respiro, ella tastò dietro di sé e trovò la vuota sedia a dondolo che oscillava, cigolando frenetica avanti e indietro... avanti e indietro. 7 La ragazzetta si dondolava sulla sedia. Da quanto tempo non ne aveva idea. Era corsa a chiudere a chiave la porta di casa e ad accostare meglio le tende, in modo che nessuno potesse vedere all'interno. Ore prima? o soltanto pochi minuti prima? Un ceppo si consumò e piombò sulle braci. La pioggia scrosciava sul tetto. Lei si dondolava, avanti e indietro, avanti e indietro. La luce del fuoco si spense a poco a poco. La stanza stava diventando fredda. Rynn sedeva nello stesso stato catatonico di uno di quei miseri relitti umani dimenticati in qualche manicomio, chiusi in se stessi, intenti a fissare in eterno l'intonaco scrostato sulla parete, o un punto situato a mezz'aria. Ma non era pazza, e nella sua mente non si trovava il vuoto. Non aveva mai avuto la mente così lucida. Per molto tempo cercò di raffigurarsi la signora Hallet sotto le lucide assi di quercia della botola. Aveva udito grida soffocate, molti colpi. Ma da ore, o forse soltanto da pochi minuti, Rynn non udiva più nulla. Si pose un interrogativo. La signora Hallet, giù nella gelida cantina che sapeva di vecchi giornali umidi e brulicava di ragni, si era forse messa a sedere sugli antichi gradini di pietra? Rynn decise che la signora Hallet doveva essere rimasta in piedi, in piedi ad aspettare. Non importava per quanto tempo. Era la stessa cosa che stava facendo Rynn sulla sedia a dondolo. Aspettava. Aveva le mani fredde a causa di un sudore gelido e le strofinava contro i jeans. Doveva mantener chiara la mente. Questo poteva farlo. In fin dei conti, non lo sapevano tutti che era una ragazzina intelligente? Se questo rispondeva alla verità, ecco il momento di dimostrarlo, di dimostrarlo riflettendo come non era mai stata costretta a pensare e a riflettere prima di allora. Doveva riflettere attentamente e decidere, ancor più attentamente, il da farsi. La prima cosa cui doveva pensare: Poteva correre il rischio di aprire la
botola? Poteva correre il rischio di fare uscire la signora Hallet? Continuò a dondolarsi senza posa. Sebbene tutto fosse accaduto in un attimo, sebbene si fosse trattato di un atto che non si sarebbe mai sognata di credere d'esser capace di fare, lo aveva fatto. Era possibile riparare? Anche se Rynn si fosse distesa sul pavimento e avesse bisbigliato attraverso la botola, e giù per la scala, che sapeva di aver fatto una cosa terribile, anche se avesse esortato la donna alla clemenza, anche se l'avesse implorata di perdonarla, che cosa avrebbe potuto dire la signora Hallet dalla sua prigione sotterranea? Ma certo: stando là sotto nelle tenebre, non esisteva niente al mondo - assolutamente niente - che la signora Hallet non sarebbe stata disposta a promettere. Sicuro, la signora Hallet avrebbe giurato di non rivelare mai, mai, in nessuna circostanza, quello che la bambina aveva fatto. Naturalmente, la sua sarebbe stata una menzogna. La signora Hallet non l'avrebbe mai perdonata. La signora Hallet, con la sua grande, estesa casa di mattoni dietro le siepi di sempreverdi e la lunga distesa di prato, nel villaggio; la signora Hallet, con i suoi potenti amici; la signora Hallet, che assumeva e licenziava uomini come Miglioriti... la signora Hallet avrebbe fatto in modo, anche a costo di impiegarci tutta la vita, fino all'ultimo respiro, che la ragazzetta venisse castigata. La signora Hallet avrebbe insistito affinché la ragazzetta pagasse appieno, come disponeva la legge, per la cosa terribile, atroce, imperdonabile, che era accaduta. Appieno e anche di più. Che cosa poteva significare questo? La prigione? Sì, certo. In America come in Inghilterra - mandavano anche i bambini in prigione, bambini colpevoli di cose meno gravi dello spingere anziane signore entro scantinati, chiudendo le botole sopra di loro. La signora Hallet sarebbe entrata in tribunale con una mezza dozzina di avvocati, e, in piedi al cospetto del mondo, avrebbe rivelato la cosa tremenda che le era capitata. I giudici avrebbero ascoltato il suo cimento fissandola inorriditi. E quando fosse giunto il momento per la ragazzina, con un difensore d'ufficio, di presentarsi dinanzi a loro e di cercar di spiegare perché avesse fatto una cosa simile, chi le avrebbe creduto? Chi sarebbe riuscito a perdonare una bambina come lei? «È un vero peccato, signora Hallet, perché lei è quello che è. Non potrò mai aprire la botola e consentirle di salire quella scala. Non esiste alcun'al-
tra soluzione. Deve restare là sotto, signora Hallet.» La bambina continuò a dondolarsi, avanti e indietro, avanti e indietro. E ora l'altro interrogativo. Che cosa sarebbe accaduto alla donna là sotto? Per quanto tempo sarebbe rimasta viva? Doveva continuare a riflettere. Sarebbe morta di freddo? No, l'inverno, sebbene piovoso e freddo, non era ancora così rigido da far sì che la cantina fosse gelida al punto da uccidere. Sarebbe morta di fame? Certo, con il tempo. Ma quanto ci avrebbe messo a morire? Rynn aveva sentito parlare di persone che digiunavano. Aveva letto di persone sopravvissute per giorni e giorni, per settimane addirittura, senza cibo. Prima di morire di fame, la donna sarebbe morta di sete. Quanto tempo sarebbe occorso per questo? Tre giorni? La sedia dondolava. Avanti e indietro. Continua a riflettere. Tre giorni. Vacci piano, adesso. Pensa. Supponi che ci vogliano tre giorni perché la donna là sotto muoia. In questi tre giorni, loro potrebbero presentarsi alla porta. Loro... "loro"?... chi erano "loro"? Questo non aveva importanza. Loro... qualcuno si sarebbe presentato alla porta di casa. Persone come Frank Hallet e altri adulti... loro. Loro... quelli che non si prendevano mai la briga di domandare a una bambina di tredici anni se potessero entrare in casa sua. I passi di chiunque fosse venuto si sarebbero uditi e la signora Hallet avrebbe picchiato contro la botola. Anche con il tappeto intrecciato di nuovo al suo posto, anche con il tavolo allungabile sopra il tappeto e la botola, la donna sarebbe riuscita a farsi sentire di là sotto. Tre giorni. La ragazzetta trovò all'improvviso una soluzione. Se ne sarebbe andata per tre giorni. Avrebbe chiuso la porta a chiave e sarebbe partita. Chi sarebbe potuto entrare? Con le tende accostate, chi sarebbe stato in grado di curiosare nel soggiorno? E in tal caso, chi avrebbe potuto chiamare, la signora Hallet? Per un momento, l'idea della fuga riuscì a riscaldare Rynn, nonostante il gelo e la paura che la travolgevano. Poi ella si sentì gelida di nuovo, come non mai. Frank Hallet sapeva che sua madre sarebbe venuta lì nel pomeriggio. Lo sapeva a causa della telefonata. Avrebbe deciso di venirla a cercare... Un altro brivido. Frank poteva entrare in casa; l'agenzia immobiliare aveva una chiave... Rynn si massaggiò le braccia per riscaldarsi. Sempre tenendo d'occhio la botola a ogni passo, si alzò dalla sedia a
dondolo, si avvicinò al caminetto e tese le mani verso il bagliore rossastro. Gli occhi, scintillanti nella luminosità delle braci, fissarono la porta. Rabbrividì. Non le era mai accaduto, in quella casa, di tremare per un freddo simile, che la penetrava fino alle ossa. Forse, pensò, non sarebbe più stata così infreddolita se avesse acceso la stufa. La stufa. Funzionava a gas. A Londra, il gas di una stufetta aveva ucciso il loro vicino. «Ma quello era un appartamento piccolo, minuscolo» disse a se stessa. «Trovarono il folto tappeto contro lo spiraglio sotto la porta. I locali erano praticamente a tenuta d'aria...» Guardò le lucenti assi di quercia della botola. La cantina, là sotto, era ancor più piccola dell'appartamento di Londra. Corse in cucina e, infilandosi nel credenzino sotto l'acquaio, frugò tra le scatole di detersivi, i flaconi di candeggina, i barattoli di cera per mobili, dal forte odore, e di cera per pavimenti, finché non ebbe trovato quello che cercava: un grosso rotolo di tubo di gomma. Staccò il coperchio dalla stufa a gas, come aveva veduto fare dall'uomo nel negozio, e lo lasciò cadere di schianto sul pavimento. Esattamente come le aveva mostrato l'uomo, trovò la fiamma-pilota... una fiammella azzurra, silenziosa e costante. Si inginocchiò, si protese in avanti e, dopo essersi riempita d'aria i polmoni - quasi come aveva fatto per spegnere le candeline sulla torta di compleanno - soffiò. La fiammella danzò frenetica nell'oscurità e scomparve. Le occorsero soltanto pochi secondi per staccare il tubo del gas dal bruciatore e per forzare il tubo di gomma sul piccolo becco. Portando con sé l'altra estremità del tubo, lo infilò nello spiraglio tra la botola e le assi del pavimento. Là sotto... sarebbe stata a tenuta d'aria, la cantina? La botola era di quercia massiccia, compatta e senza una sola spaccatura o una fenditura. Ma tutto intorno agli orli c'era lo spiraglio. Doveva riempirlo pigiandovi qualcosa. Agendo rapidamente, lacerò in lunghe strisce il giornale con il cruciverba, poi, servendosi di un pezzetto di legna da ardere, conficcò le strisce, come tamponi, tra la botola e le assi del pavimento, su tutti e quattro i lati. Rimase accosciata ed esaminò il proprio lavoro. «E se qualcuno entrasse e sentisse l'odore del gas?» Scosse la testa, ri-
spondendo alla sua stessa domanda. «Se la cantina è a tenuta d'aria, il gas non può sfuggire. Rimarrà là sotto finché non si disperderà... o non farà quella qualsiasi cosa che fa il gas...» Per essere certa che il gas non potesse sfuggire in alcun modo nel soggiorno, Rynn si spostò lungo i quattro lati, della botola, pigiando ulteriormente la carta con il pezzetto di legno. A tenuta d'aria. Perché ricorrere al gas? Se la cantina era a tenuta d'aria, la donna là sotto sarebbe soffocata. Rynn studiò la botola. Sapeva che adesso era sigillata, ma non poteva sapere per quanto tempo sarebbe durata l'aria là sotto. E se fosse esistita anche la più piccola comunicazione tra i muri della cantina e l'esterno della casa? Sarebbe potuta non essere sufficiente per impedire al gas di saturare il locale, ma poteva bastare per mantenere in vita la donna. Non doveva correre un simile rischio. Tornò accanto alla stufa e la esaminò dove l'uomo le aveva mostrato come l'aria passasse attraverso il muro esterno della casa; controllò e vide che il gas non aveva modo di uscire dal becco e dal tubo di gomma. Rimaneva adesso una sola cosa da fare. Si inginocchiò davanti alla stufa e girò la manopola facendola scattare su tutte le tacche, fino all'afflusso massimo di gas. 8 Rynn accostò molto silenziosamente la porta di casa e la chiuse a chiave dietro di sé. Abbottonandosi il pesante giacchettone di lana sotto il mento, contemplò, attraverso gli alberi, il cielo. Sebbene il mondo intero sembrasse bagnato come un acquarello grigio, la pioggia era cessata. Ella affondò nelle tasche entrambe le mani. L'una fece tintinnare le chiavi di casa muovendole contro il portafoglio, l'altra si assicurò, tastando con cautela, della piccola e calda presenza di Gordon. Il gelo le faceva formicolare la faccia e lei respirava avidamente, come se non potesse averne mai abbastanza, quell'aria umida e fresca, dall'odore così intenso di terra e di foglie. Si aggirò sotto gli alberi gocciolanti e, con gli stivaletti, fece scricchiolare ghiande a ogni passo. Gocce di pioggia scintillavano sulla superficie lucida dei frutti degli ippocastani. Zinnie secche le raschiavano il giacchettone. Tolse Gordon dalla tasca, affinché potesse godersi l'aria fredda. Il muso
roseo della bestiola fremette. «Respira profondamente» disse lei. «Ti farà sentire lavato e pulito...» E in quel momento la vide. Fra i neri tronchi degli alberi, scintillante e bagnata nel grigio pomeriggio... la Bentley rosso-scura della signora Hallet. Gordon squittì. Il pugno di Rynn stava stringendo troppo forte il topolino. Udendo un altro squittio e sentendosi graffiare dalle unghie minuscole, la bambina lo lasciò ricadere nella tasca. Assecondò un istinto, come se, non guardando l'automobile, potesse negarne la presenza: girò sui tacchi e corse lungo il viale. Si voltò a sbirciarla una sola volta. Eccola là, splendente nel viale bagnato. Uno scoiattolo scosse i rami di un olmo. Foglie dorate le volarono accanto. Lei cercò di rimandare il momento in cui avrebbe dovuto pensare all'automobile e a quello che occorreva fare per sbarazzarsene. Bisognava proprio che fosse quel giorno? Non aveva già fatto tutto quel che poteva, quel giorno? Sì, doveva togliere di mezzo l'automobile. Subito. Ma come? A un chilometro e mezzo da casa udì lo squillare incessante di un clacson e lo strepito di una musica rock. Quando il suono si intensificò e un'automobile saettò all'incrocio, vide giovani passeggere della sua stessa età sporgersi dai finestrini, sventolando bandiere con linci e strillando il loro entusiasmo. La squadra del cuore aveva vinto la partita. Erano chiassose, felici, giovani, in compagnia, e non avevano una preoccupazione al mondo. Nessuna di loro conosceva la ragazzetta sola, in piedi sulla strada rivestita dai lustrini delle foglie bagnate, ma la salutarono sbracciandosi. Rynn alzò una mano come per rispondere al saluto, poi rinunciò. Gli squilli del clacson e la musica si allontanarono nell'umido pomeriggio. Alcuni minuti dopo, fiochi richiami di uccelli, molto in alto, la indussero ad alzare la testa ed ella vide un disordinato stormo a V di anatre che battevano le ali adagio, adagio, volando verso sud. Si sentì desolata e tremendamente sola. Quelle ragazze felici, sull'automobile. Si sentivano mai sole e indifese? Perché avrebbero dovuto? Avevano una famiglia, avevano amici. Se una di loro si sentiva spaventata da
morire, aveva sempre qualcuno cui rivolgersi, qualcuno con cui parlare. Se una di loro doveva spostare un'automobile, poteva rivolgersi a un fratello o a una sorella, o telefonare a un amico... a uno qualsiasi di numerosi amici. A un tratto, Rynn disse a se stessa, aspramente, che l'autocompatimento non avrebbe risolto nulla. Ma a chi poteva rivolgersi? Una sola altra volta, in passato, si era sentita così completamente sola. Lottò contro il bruciore delle lacrime ardenti, ma un gran singhiozzo le stava salendo in gola. Accecata dalle lacrime e scossa dai singhiozzi, si voltò di scatto e si mise a correre lungo il viale, verso casa. Mentre attraversava di corsa il giardino, si consentì una sola occhiata all'automobile. Sempre là, la maledetta Bentley color fegato brillava, scintillava, splendeva nel bagnato. Nel soggiorno, il tavolo allungabile si trovava sul tappeto intrecciato che nascondeva la botola. Rynn, sempre con il giacchettone davanti alla credenza in cucina, aveva trovato il numero di un distributore di benzina nelle pagine gialle dell'elenco telefonico. Lo formò e ascoltò la voce all'altro capo del filo con crescente esasperazione prima di interromperla spazientita. «Avrebbe dovuto portarla un vicino» spiegò. «Mio padre ci tiene molto a trovare la macchina alla stazione. Sa anche lei che non si riesce mai a trovare un tassì, quando se ne ha bisogno. No, come ho già detto non c'è bisogno che l'autista sia un meccanico. Uno qualsiasi degli inservienti del distributore, purché sia capace di guidare. Non appena possibile? Grazie infinite.» Stava per riattaccare, ma udendo quello che disse, subito dopo, l'uomo del distributore di benzina si irrigidì. «Le chiavi?» La voce di Rynn non tradì affatto il panico dal quale era dominata. «Sono sulla macchina» rispose. «Aspetto.» Posò il ricevitore e rimase in piedi, sempre irrigidita, davanti alla credenza della cucina. Occorse tutta la sua forza di volontà per precipitarsi nell'ingresso e correre fuori nel giardino davanti alla casa. La scintillante Bentley era chiusa a chiave. Tutte e quattro le portiere. Camminando adagio, lasciando ella stessa orme bagnate sul pavimento, Rynn attraversò il soggiorno, accostò ben bene le tende, accese una lampada e fissò il tavolo allungabile e il tappeto intrecciato, facendo scorrere la
mano sul legno lucido come se non avesse mai veduto quel tavolo prima di allora. Con improvvisa energia, lo afferrò per lo spigolo e lo trascinò via dal tappeto, facendone raschiare le gambe sul nudo pavimento. Poi scaraventò il tappeto pesante lontano dalla botola. Con le dita smosse l'occhiello finché non fu riuscita a fare scorrere il chiavistello. Per un momento interminabile rimase inginocchiata senza muoversi, lottando con se stessa, chiamando a raccolta tutto il coraggio che le occorreva per sollevare la botola. Di nuovo, soltanto impegnandosi con l'improvvisa energia che spezza la paura mediante l'azione, riuscì ad alzare la botola e a spingerla con un tonfo contro la parete. Trasse un profondo respiro, trattenne l'aria nei polmoni e si affrettò a scendere i freddi gradini di pietra. Meno di un minuto dopo, come un tuffatore in emersione che boccheggia per respirare, salì di corsa i gradini stringendo le chiavi nella mano. Sempre ansimante, staccò i giornali pigiati lungo gli orli della botola e li gettò, svolazzanti, nella cantina. Stava abbassando la botola quando udì bussare alla porta di casa. Il cuore parve fermarlesi. Non un martellamento. Non un colpo deciso. Qualcuno stava bussando piano. Agì con frenesia, fece scorrere il chiavistello e distese il tappeto intrecciato sopra la botola. Un altro colpetto alla porta. La bambina si irrigidì. «Un momento solo!» Stava trascinando di nuovo il tavolo dal pavimento di quercia al tappeto e cercava di evitare che raschiasse. Quando il tavolo si mosse, i barattoli di vetro nella scatola di cartone tintinnarono. Ancora tre insistenti ra-ta-ta sulla porta. «Vengo!» Rynn fissò il pavimento. Erano rimasti segni di raschiature sulla cera? Si inginocchiò e si servì dell'orlo del giacchettone per lucidarli e farli scomparire. Indietreggiò di un passo e osservò la stanza. Tutto sembrava di nuovo in ordine. Andò alla finestra e sbirciò fuori di tra le tende. Ma uno spigolo davanti alla porta di casa le impediva di vedere qualcuno. Si portò nell'ingresso e già aveva la mano sulla serratura quando scorse l'ombrello della signora Hallet - con le vivide strisce colorate - appeso al-
l'attaccapanni. La persona che si trovava là fuori, chiunque fosse, bussò di nuovo. Soltanto dopo avere staccato e scaraventato dietro il divano l'ombrello, e dopo aver tratto un ultimo profondo respiro, Rynn aprì la porta di casa. Non era preparata in alcun modo a quello che vide. Sulla soglia si trovava un uomo dal lucido cappello a cilindro di seta nera, con un mantello nero e un bastone da passeggio in mano. «Salve» disse allegramente la sagoma in nero. Ammutolita, Rynn poté soltanto fissare lo sconosciuto. Un paio di baffetti finti pendeva sbilenco, là ove si era staccato sotto il naso. Non si trattava di un uomo, ma di un ragazzo. Quanti anni poteva avere? Sedici? La faccia era quella di un adolescente, una faccia minuta e ilare, con occhi nerissimi. Picchiettando col bastone da passeggio sul cappello a cilindro, egli sembrava l'allegra volpe di un cartone animato che Rynn aveva veduto. Il ragazzo allargò il mantello nero facendo un inchino teatrale... l'illusionista che ha appena compiuto un miracolo e aspetta gli applausi. Alzò adagio la faccia, gli occhi neri balenarono, un sorriso fece rifulgere una fila di denti piccoli ma bianchissimi. Il sorriso sembrava un po' troppo simile a quello del giovane sulla copertina della rivista. Troppo soave per un ragazzo. «Sono Mario Podesta.» La bambina non rispose. «Dovrei portare alla stazione l'automobile di tuo padre.» La mano di Rynn rimase sulla maniglia. «Perché sei vestito in quel modo?» Il mantello nero turbinò e il bastone da passeggio batté sul cappello a cilindro di seta. «Sono...» ed egli si interruppe quanto bastava per drappeggiarsi il mantello sulla spalla, con l'orgoglio del matador, «... sono un mago!» Rynn guardò il bastone da passeggio. «E quella è la tua bacchetta magica.» «Soltanto un bastone» disse il ragazzo. «Sono storpio.» Rynn non tentò in alcun modo di fermarlo mentre entrava in casa zoppicando. Mormorò: «Dovrei dire che mi dispiace, presumo». «Perché? Non è colpa tua.» Si osservarono a vicenda, la ragazzetta con il giacchettone e i jeans, e il ragazzo tutto in nero lucente.
«Hai i baffetti storti» disse lei. Ma subito dopo si affrettò ad aggiungere: «Mi piacciono quel mantello e quel cappello a cilindro». «Ah sì?» Il ragazzo le rivolse il suo sorriso stupendo. No, la faccia minuta non ricordava tanto una volpe quanto un elfo. Senza dubbio, egli era qualche creatura dei boschi saltata fuori dalla mitologia. Un fauno, forse. Soltanto i cerchi scuri sotto gli occhi impedivano alla faccia di essere troppo bella. I cerchi erano profondi, dolorosamente incisi nel volto, sotto ogni altro aspetto intatto. Egli picchiò il bastone sul pavimento. «Nel pomeriggio del sabato, mentre tutti i miei fratelli stanno giocando al rugby, io vado a dare uno spettacolo di magia. Per la festa di compleanno di un ragazzino ricco.» «Sul serio? Sei un vero illusionista?» «Sarei un bel deficiente, andando in giro vestito in questo modo, se non lo fossi.» Di nuovo sventagliò il mantello. «Sicuro. Come Houdini, Thurston, Blackstone...» «Dimostramelo,» Eccitata com'era, Rynn sorrise e si rese conto che il ragazzo aveva visto il dente scheggiato. Per poco non chiuse la bocca di scatto mentre parlava. «Fa' qualcosa di magico.» «Ho tutto l'armentario sulla bicicletta.» Tese la mano verso di lei. Che cosa voleva? «Le chiavi della macchina, santo Cielo.» Rynn si sorprese a trasalire mentre ricordava la ragione per cui il ragazzo a nome Mario si trovava lì. Lasciandogli cadere le chiavi nella mano, disse: «Tieni, Mario il Mago». Il ragazzo zoppicò verso la porta di casa. «Farò così, lascerò la macchina alla stazione. Ma senza le chiavi. Se lasciassi le chiavi nel cruscotto, qualcuno la sgraffignerebbe.» Contemplò la ragazzetta, i cui occhi verdi lo stavano studiando attentamente. Aveva lentiggini molto scure sulla pelle pallida. Ella arrovesciò la testa all'indietro per respingere sulle spalle i lunghi capelli. «Non hai capito, vero?» E ripeté la parola sgraffignare. «Significa rubare.» «E come le avrà mio padre le chiavi?» Il ragazzo sospirò. Un sospiro come-si-può-essere-così-stupidi? Ovviamente, aveva a che fare non soltanto con una straniera, ma anche con una ragazzina non troppo intelligente. «Supponiamo che tu sia tuo padre, okay?» La bambina annuì.
«Scendi dal treno. Vedi l'automobile. Ma la trovi chiusa. E allora che cosa fai? Domandi a te stessa: "Se io fossi le chiavi della macchina, dove mi troverei?".» «Allo sportello dei biglietti?» «Abracadabra!» Rynn sorrise, poi ricordò il dente scheggiato e ridivenne seria. «Sei davvero un mago!» «Diavolo, posso far scomparire un'intera gallina!» Il mantello schioccò mentre lui lo faceva ruotare. «So dove sei andato a pescarlo il tuo nome.» «Ah, sì?» «Mario il Mago.» «Be'?» «È un racconto» ella disse «di Thomas Mann.» «Mario è il mio vero nome.» «Allora è doppiamente magico. Dimostra che ami quel racconto quanto me.» «Non l'ho mai letto.» Il ragazzo uscì nel pomeriggio nebbioso, servendosi del bastone da passeggio, come di una mazza da golf, per lanciare una castagna d'ippocastano lungo il viottolo d'accesso. Rynn lo seguì, le mani profondamente affondate nelle tasche del giacchettone, e rimase in piedi sulle foglie morte. «Senti,» disse lui «ora devo andare, altrimenti farò tardi. Bisognerà che metta sulla macchina la bicicletta e mi affretti poi alla stazione.» Rynn osservò gli assurdi baffetti che penzolavano. Il ragazzo parve sul punto di dire qualcosa, ma poi tacque e si premette il labbro superiore per fare aderire al punto giusto i baffetti sbilenchi. Per la prima volta, la bambina si sorprese a guardargli le mani. Mani piccole, esili, non molto più grandi delle sue. Non sopportava di vedere unghie rosicchiate, e quelle del ragazzo erano mangiate sin quasi alla carne viva. «Vuoi venire sin là con me?» «Dove?» «Alla stazione.» «Devo restare qui.» «Okay.» Il ragazzo fece una spallucciata. Vibrò orizzontalmente la mazza da golf, recidendo zinnie mummificate. «Quanto vuoi per guidare la macchina?»
«Mio padre ha detto di considerare la cosa relazioni con la clientela.» «È molto gentile.» «No, niente affatto. Come dicevo, relazioni con la clientela. Si rifarà mettendo un carburatore nuovo o qualche altro dannato aggeggio.» Alzò gli occhi verso i rami. Ella intuì che voleva dire qualche altra cosa e aspettò. «Lo sai che hai un dente scheggiato?» Mario non tentò affatto di addolcire l'osservazione con un sorriso. Lo disse come si può enunciare una verità ovvia, recisamente. Nello stesso modo aveva detto di essere storpio. «Com'è che non ti vedo mai a scuola?» «Non ci vado a scuola.» «No?» «No.» «Affatto?» «Non ci sono mai andata.» «Sei malata o che altro?» «Perché dici questo?» «Non so, soffri di qualche malattia inguaribile, o di qualcos'altro? Voglio dire, devi pur avere una giustificazione.» «Perché non vado a scuola?» Rynn si scostò i capelli dal viso. «La scuola rincitrullisce.» «Se non ci sei mai andata, come puoi saperlo?» Con il bastone da passeggio perforò una foglia dorata e la sollevò per osservarla meglio. «Io ne sentirei la mancanza, in un certo qual modo.» Rynn prese a sua volta una foglia per osservarla. «Io sento la mancanza di una sola cosa. Adorerei poter assistere alle lezioni di educazione sessuale. Potrebbe essere divertente sentire come voi americani pasticciate tutto.» Ridacchiò, stando bene attenta a non scoprire il dente scheggiato. A un tratto, si augurò con tutto il cuore di non aver detto niente degli americani e di non aver ridacchiato, perché Mario si stava già allontanando da lei. Il cuore quasi le balzò in gola, quando lui si voltò. «Vuoi sapere una cosa? Se non sei inglese, da come parli e così via, devi essere proprio deficiente.» Il ragazzo si diresse zoppicando tra gli alberi verso la Bentley. Rynn lo vide osservare la macchina. Di nuovo egli si voltò e le fece cenno di avvicinarsi. Qualcosa la dissuase dall'andare, sulle foglie bagnate, verso l'automobile.
«Vieni qui!» gridò lui. Le mani chiuse a pugno nelle tasche del giacchettone, Rynn corse fino all'automobile. Mario era accigliato e aveva i baffetti ancora più sbilenchi di prima. «Hai detto che era la macchina di tuo padre.» «Ho detto soltanto che lui ne aveva bisogno alla stazione.» Gli occhi neri di Mario stavano trapanando i suoi. Rynn sostenne lo sguardo. Il ragazzo fu il primo a parlare. «Appartiene a lei.» «Cioè?» Osservò il proprio alito che formava un pennacchio di vapore, come per dimostrare a Mario che quanto stava dicendo meritava scarsa attenzione. «Appartiene alla signora Hallet.» «Oh» fece lei. Non era un modo molto efficace per parare l'asserzione, ma sentì di essersi espressa con una indifferenza persuasiva. «È la sua Bentley. Ha fatto appena cinquantaquattromila chilometri. Io lo so bene perché è mio padre a ripararla.» «Ce l'ha prestata.» «No, non è vero.» Il ragazzo non sorrideva. Aveva la carnagione calda, color oliva, di tanti italiani. Ma perché quei cerchi scuri sotto gli occhi? La bambina distolse lo sguardo con il pretesto di staccare una foglia rossa e bagnata dalla carrozzeria dell'automobile. «No.» Egli ripeté l'accusa. «Tu non puoi assolutamente dire no in questo modo. Non lo sai...» «Credi di potermi prendere in giro, eh? Ma non ci riesci.» La voce di Rynn divenne molto inglese, molto altezzosa. «Se non mi credi, entra in casa. Telefonale. Domandalo a lei.» E aggiunse una nota tagliente, come se fosse abituata a impartire ordini. «Subito!» Voltò la testa e trovò i neri occhi di Mario intenti a fissarla. «Non permette nemmeno a quell'anormale di suo figlio di guidarla. Neppure a mio padre... anche dopo che l'ha regolata.» «Be', a mio padre lo permette» asserì Rynn, con petulanza. Poi, bruscamente, cambiò tono. «Senti,» disse «ti stai comportando proprio da stupido.» «Di' un po', non ti duole la gola a parlare in questo modo?» La ragazzina diventò scarlatta. «Senti chi parla di stupidi! Perdinci. Voglio dire, non ricordi che sei stata tu a chiedere a me di farti il favore?»
La bambina tolse il portafoglio dalla tasca del giacchettone e ne sfilò alcuni biglietti di banca. «Tieni. Cinque dollari tondi.» Il ragazzo le voltò le spalle e si diresse verso l'albero al quale aveva appoggiato la bicicletta. «Sono già in ritardo per lo spettacolo di illusionismo.» «Tuo padre ti ha detto di portare questa automobile alla stazione!» Le mani sul manubrio della bicicletta, Mario alzò adagio gli occhi neri. «Cos'è che ti succede?» «Non mi succede niente!» Rynn avrebbe dato qualunque cosa per non essersi espressa con un tono di voce così isperato. «Sentiamo, a che ora arriva il treno di tuo padre?» «Subito.» «Vedi?» Gli occhi neri continuavano a fissarla. «Non c'è nessun treno fino a dopo le sei.» «Senti, se ti ho offeso offrendoti denaro, mi dispiace. Ma è vero il fatto della macchina.» «No, non lo è.» Mario scostò la bicicletta dall'albero. Regolò la cinghia che tratteneva una grossa sacca di tela, con tutto il suo armamentario, sul parafango posteriore. Sulla sacca si leggevano le parole MARIO L'ILLUSIONISTA. In lontananza, una cornacchia si lamentò nella nebbia. Mario appoggiò il bastone da passeggio al manubrio e salì sulla bicicletta. «Devo dare lo spettacolo.» Rynn appoggiò il piede davanti alla ruota anteriore per impedire alla bicicletta di muoversi. «Dopo tornerai qui?» Mario la scrutò in viso. «Per piacere?» Ella sapeva che il ragazzo aspettava di sentirsi dire la verità. Si sporse per raddrizzargli i baffetti, ma lui si scostò. «Me li metterò a posto una volta arrivato.» Gli occhi di Rynn continuarono a cercare quelli del ragazzo per tutto il tempo che le accorse prima di decidersi a parlare. «Ho bisogno del tuo aiuto.» Mario abbassò gli occhi sul manubrio. In quel momento, parve un ragazzetto molto piccolo. «Forse. Voglio dire, quando lo spettacolo sarà terminato.» «Prometti?» La bicicletta passò sulle foglie e uscì nel viale.
9 Il fuoco scoppiettava nel caminetto. Il tavolo allungabile era stato apparecchiato per due. Rynn, staccando foglie di lattuga e lasciandole cadere ad una ad una nella scodella dell'insalata, guardava, al di là della credenza, il mantello nero di Mario appeso all'attaccapanni nell'ingresso. La bicicletta era appoggiata alla parete. Il ragazzo, portato con sé il telefono con il lungo cordone, stava parlando con sua madre seduto accanto al caminetto. «Il nuovo trucco ha avuto un successo davvero fenomenale. Sono ancora alla festa. Mi hanno invitato a cena. Soltanto hamburger e Coca Cola. Ci sono anche alcuni miei compagni di classe.» Rynn tagliò un pomodoro a fettine e le aggiunse alla lattuga. Osservò il ragazzo la cui sagoma si profilava accanto al fuoco. Non gli aveva chiesto di mentire riguardo al luogo in cui si trovava, ma era contenta che lo avesse fatto. «Di' a Tom che può accompagnarla lui a vedere quell'orribile film, tanto per cambiare. È il suo turno, del resto. Ciao.» Riattaccò e portò l'apparecchio sulla credenza della cucina, accanto a Rynn. «Il vantaggio di una famiglia numerosa è che hai sempre un fratellino il quale può accompagnare la tua orribile sorella a vedere un orrendo film.» La ragazzetta affettò un cetriolo con una rapidità e un'abilità che il ragazzo dichiarò simili a un gioco di prestigio. «Non hai né fratelli né sorelle?» «No.» Rynn si sporse a prendere l'olio e l'aceto. «Perdinci. È una cosa che non riesco nemmeno a immaginare.» «Vuoi accendere le candele, per favore?» Aveva dimenticato che zoppicava e se ne ricordò soltanto quando lui tornò accanto al tavolino da caffè. Mario tolse i fiammiferi dalla scatola delle sigarette. «Fumi?» «A volte» disse lei, assaggiando il condimento dell'insalata. «Non ti preoccupi per il cancro?» Rynn non gli rispose. Avvicinatosi al tavolo, Mario accese le candele, raddrizzandole sui candelabri di peltro. Le due fiammelle guizzarono oscillando e l'argenteria ne rifletté la luminosità.
La ragazzina, a piedi nudi, portò a tavola un vassoio. Si era cambiata, indossando il lungo caffettano bianco con i ricami blu sul collo e sulle maniche e, quando passò dalla cucina buia allo splendore del fuoco, si rese conto di avere il suo aspetto migliore. E si sentì ancor più orgogliosa quando sorprese Mario intento a fissarla. La fiamma del fiammifero gli scottò le dita e lui si affrettò a spegnerlo. «Ti sei messa in ghingheri per la cena» disse. «Mi sono tolta i jeans, tutto qui.» «È un vestito molto grazioso.» Lei abbassò gli occhi sul caffettano bianco, quasi non avesse mai notato che era, come diceva Mario, molto grazioso. «Il babbo e io lo abbiamo comprato nel Marocco.» «Fumano molto hashish, laggiù.» «Fanno un monte di cose, da quelle parti.» Cercò di sembrare molto vissuta, perché le piaceva dare quell'impressione al ragazzo. «Tu lo hai mai fumato lo hashish?» Rynn mise l'insalata sul tavolo. «Centinaia di volte.» «Davvero?» Mario non nascose la propria ammirazione. Lei trovò qualcosa di così commovente e ingenuo, nel suo timore reverenziale, che scosse la testa. «No, non è vero.» Sperò che quella sincerità lo avrebbe messo a suo agio. Si stava comportando con una compitezza eccessiva, dimostrando con ogni suo gesto quanto ci teneva a piacerle, facendo tutto il possibile per essere bene educato. Troppe belle maniere. Rynn si meravigliava perché quel modo di comportarsi era così forzato e, ricordando come egli avesse chiesto alla madre il permesso di trattenersi alla festa di compleanno, si domandò se per caso quella non fosse la prima volta in cui Mario cenava con qualcuno che non appartenesse alla sua numerosa famiglia italiana. «Siedi e comincia pure» disse, tornando di corsa in cucina. Ma egli rimase in piedi, come lei già sapeva che avrebbe fatto, finché non ebbe portato a tavola le costolette d'agnello alla griglia, i broccoli al burro e le patate al prezzemolo. Mario le scostò la sedia e, dopo parecchie goffe manovre, che entrambi sperarono di nascondere con risate, riuscì a sistemare la ragazzetta a tavola. L'uno di fronte all'altra, si misero i tovaglioli in grembo e sorrisero timi-
damente. Lei additò la sua cravatta nera. «Sei vestito come per una cerimonia.» «E tu, allora?» ribatté lui, indicando l'abito lungo. Con le fiammelle delle candele tra loro, sentirono entrambi che stavano entrando in un mondo nuovo e raffinato di uomini e donne che si cambiavano per la cena e cenavano a lume di candela. «Dovrebbe esserci un po' di musica» disse Rynn. Corse accanto all'impianto stereo e, quando gli accordi della chitarra di Julian Bream colmarono il soggiorno, Mario guardò meravigliato le sorgenti del suono, in alto. Rynn stava spegnendo tutte le lampade e, in ultimo, soltanto il fuoco nel caminetto e le candele illuminarono la stanza. «Vuoi un po' di vino?» «E tu?» «Non lo posso soffrire.» «Nemmeno io.» Ella si accorse che Mario aspettava di vederla mettersi a sedere e cominciare a mangiare, e di nuovo si lasciò cadere sulla sedia senza dargli il tempo di aiutarla, questa volta. Fece in modo che il ragazzo potesse cominciare con i broccoli e le patate; erano più facili a maneggiarsi con il coltello e la forchetta delle due costolette d'agnello. Sapeva che lui la stava osservando, affascinato da come teneva il coltello e la forchetta, con le mani sbagliate, secondo gli americani. Fu felice di dimostrargli che gli inglesi non incontravano la benché minima difficoltà nel disossare l'agnello. Rimasero seduti per un lungo momento senza parlare, e il silenzio venne riempito dalla musica della chitarra. Infine Mario riuscì a infilare nella forchetta un pezzo d'agnello. «Ottimo» disse. «Grazie.» Ella prese tra le mani l'osso e rosicchiò. Mario la osservò di nuovo attentamente, poi seguì il suo esempio. Adesso che riusciva a mettersi in bocca pezzi di carne più grossi, si stava davvero godendo il pasto: Rynn lo sapeva. «Sei davvero una cuoca fantastica.» «Che cosa c'è di tanto sorprendente in questo?» «Volevo soltanto dire... dato che hai tredici anni, e così via.» Rynn gettò l'osso della costoletta sul piatto, e lui si rese conto di aver detto qualcosa che la incavolava. Ma che cosa? La bambina lo stava fissando irosamente. Smise di rosicchiare l'osso d'agnello.
«Non sei migliore di tutti gli altri.» Mario fu così assennato da tacere. «Quanti anni bisogna avere prima che la gente ti tratti come una persona? Cucinare non è come una poesiola che una bimbetta intelligente recita in salotto alzandosi in piedi, né come un gioco di prestigio eseguito per i grandi. Sicuro che so cucinare.» «Volevo dire soltanto che nemmeno tutti gli adulti sanno cucinare.» «Chiunque sappia leggere può cucinare.» Rynn prese l'altra sua costoletta. Era passata la crisi? «Mia madre non sa cucinare» disse Mario. «La compra la salsa italiana per gli spaghetti. Surgelata.» Fissò la bambina. Stava sorridendo? Si augurò che sorridesse. «Tant'è vero che in famiglia abbiamo una battuta divertente.» Di nuovo fissò la ragazzetta, al di là delle candele. «Tu e tuo padre avete battute divertenti?» «Certo.» «Be', la nostra è che quando Ma' si trova in cucina a preparare la cena, noi diciamo sempre: "La cena si sta sgelando". E poi, ogni volta, aggiungiamo: "Ma non Ma'".» Rynn non rise. «A causa di tutti i cibi surgelati che adopera.» «Ho capito.» Il ragazzo posò l'osso sul piatto e si pulì le dita unte con il tovagliolo. «Credevo che fosse esilarante.» Fissò Rynn. «Gli inglesi hanno qualche specie di legge contro le risate?» «È una battuta divertente» disse lei, senza convinzione. Questa volta fu Mario a gettare il tovagliolo sulla tavola. «Merda.» La chitarra di Julian Bream evocava una notte d'estate in Spagna. Per un lungo momento Rynn rimase immobile e Mario spostò i broccoli con la forchetta. Poi ella parlò, la voce sommessa come un bisbiglio: «Mario il Mago?». «Dimmi?» «Grazie. Per l'automobile, voglio dire.» «Oh, di niente.» «Su, mangia la costoletta.» Ma lui non mangiò.
«Non ti piace sorridere, vero?» Evidentemente, riteneva giunta la sua volta di essere crudele. «Per via del fatto, voglio dire, che ti si vede il dente scheggiato.» «Lascia che sia io a preoccuparmi di questo.» «Credi che me ne importi? A mio fratello, quello maggiore di me, hanno fatto cadere tutti i denti davanti, durante le partite di rugby. Eppure sorride. Sorride a più non posso.» «Mangia la costoletta.» «Okay.» Mario riprese in mano la costoletta. «Non ero mica tanto sicura che saresti tornato.» Rynn raschiò via una goccia di cera ancor calda. «Il tuo grosso difetto» disse Mario, rosicchiando l'osso, «è che non ti fidi della gente.» «Perché lo hai fatto?» «Perché sono tornato?» «No, quell'altra cosa.» «L'automobile?» «Non eri obbligato.» «Sicuro che non lo ero, accidenti.» Mario si appoggiò alla spalliera della sedia. Stava vedendo e imitando suo padre, che si metteva comodo a tavola, all'ora di cena, esigendo il silenzio, preparandosi a parlare da capofamiglia. Ma suo padre aveva il vantaggio di un sigaro. «Se proprio vuoi saperlo, l'ho fatto soprattutto perché tu puoi essere molto furba, ma sei anche stupida. Senti, se davvero volevi togliere di mezzo l'automobile lasciata davanti a casa tua, perché ricorrere a tutte le complicazioni di portarla alla stazione? Vedi, il segreto, nell'arte magica, consiste nel fare cose tanto semplici e tanto ovvie che nessuno nemmeno ci pensa.» «Che cosa poteva essere tanto semplice e tanto ovvio?» «Che cosa c'era di più semplice del riportarla da dove era venuta? Cioè, tu hai detto che era venuta dall'agenzia.» Rynn sapeva di non avere escogitato molto bene quella parte del piano. Ma no, non si trattava di un piano. Era stata una situazione di emergenza, e lui l'aveva aiutata. Facendo quello che gli aveva chiesto di fare. Facendo quello che sentiva di poter fare. Eppure, Rynn non sopportava adesso di non aver avuto un piano, di non avere la situazione in pugno, di non conoscere neppure ogni singola fase di quello che era stato fatto.
«Ti ha visto qualcuno lasciarla davanti all'agenzia?» «Gesù» esclamò lui, abbandonando l'osso d'agnello. «Credi che voglia farmi mettere al fresco per avere sgraffignato alla vecchia signora Hallet il suo più prezioso tesoro? Se fossi stato cosi tonto da farmi pescare, lei mi manderebbe diritto filato in galera per ottocentoventisette anni.» Posò coltello e forchetta sul piatto con un tintinnio. «Senti, se non ti fidi di me, perché diavolo non lo hai fatto tu?» Incrociò le braccia. «Ma del resto, tu non ti fidi di me nemmeno quanto basta per dirmi perché ho dovuto farlo.» «Lo hai fatto per aiutarmi.» «Già.» Il ragazzo alzò le spalle. In qualche modo, quella semplice verità non sembrava più sufficiente, adesso, per giustificare il rischio enorme che aveva corso. Esisteva anche un'altra verità della quale non voleva parlare: non conosceva nessun'altra ragazza che gli avesse chiesto di fare qualcosa. «Avresti dovuto mettere le chiavi nella cassetta della posta sulla porta dell'agenzia.» «No, niente affatto.» Rynn giocherellò con la costoletta d'agnello, poi posò sul piatto forchetta e coltello. «Eccomi là,» disse Mario «seduto sulla Bentley, davanti all'orribile e dannata agenzia. Nell'orribile, dannata oscurità. Cercando in tutti i modi di non farmi vedere da nessuno. Cercando di non farmi beccare. "Regolati nel modo più semplice" ho detto a me stesso. Già, a dirlo sembra facile. Ma poi, tutto a un tratto mi è venuta un'idea. Okay, posso anche non sapere perché la signora Hallet non è tornata indietro in macchina, però una cosa la so. La signora Hallet non metterebbe mai le chiavi in nessuna orribile e dannata cassetta delle lettere. Per farle prendere da quell'anormale di suo figlio. Eh, no, le terrebbe lei le chiavi. Le chiavi si troverebbero ovunque si trovasse lei.» «Quando te ne sei andato, hai chiuso a chiave la portiera?» «Le ho chiuse tutte e quattro.» Frugandosi in tasca, egli tirò fuori le chiavi e le fece tintinnare davanti alla bambina. «Dovrebbero trovarsi ovunque si trovi lei. E siccome tu non vuoi dirmi dov'è... tieni, prendile tu, le orribili, dannate chiavi.» Caddero con un tintinnio dove lui le lasciò cadere, sul piatto della ragazzetta. «Dagliele, la prossima volta che la vedrai.» Rynn prese le chiavi, le fece tintinnare come per sentirne la presenza, poi chiuse il pugno intorno ad esse. Di colpo, come se avesse parlato del-
l'automobile fino ai limiti del sopportabile, spinse indietro la sedia e si alzò. «Ora mi andrebbe di bere vino.» «Anche a me» disse Mario, mentre lei correva in cucina. «Rosso o bianco?» «Quello che vuoi, tranne vino rosso italiano.» Lo sportello di una credenza sbatté. Rynn tornò frettolosamente a tavola reggendo una bottiglia. «Voila! Fai tu la parte del babbo e sturala.» «Vino di gran lusso. Non è una di quelle bottiglie con il tappo a vite. Ha il turacciolo e tutto.» Rynn gli porse il cavaturaccioli. Affondandolo nel sughero, Mario smise di sorridere. Ora che non doveva guardare la bambina, era di nuovo sul punto di farle la domanda cui lei non voleva rispondere. «Rynn...» «Si deve rispettare una regola, bevendo vino. Non dobbiamo parlare di niente che sia serio.» Ma lui non intendeva farsi chiudere la bocca così facilmente. «Non mi hai detto perché...» Rynn indietreggiò dalla tavola e i nudi piedi di lei piroettarono in una mezza dozzina di passi di danza mentre ella si alzava i capelli e li raccoglieva in una crocchia sul cocuzzolo della testa. «Mio caro» la sua voce divenne la parodia flautata di una dama inglese di gran classe della quale aveva riso assistendo a una commedia trasmessa dalla televisione a Londra. «Si dà il caso che quel vino sia di un'annata straordinaria... e quindi ti prego... ti prego, stura la bottiglia con la più grande, con la massima cura.» «Come mai non è tornata in macchina?» Rynn si ostinò a isolarsi nella fantasticheria e agitò una mano nella direzione della bottiglia. «Annata millenovecento...» «Rynn!» Subito ella lasciò ricadere i capelli e la sua voce assunse un lieve tono tagliante che lo sorprese. «Te l'ho detto, lo hai fatto perché io te l'ho chiesto.» «A sentirti, sembrava che si trattasse di una questione di vita o di morte. Hai detto che non avevamo il tempo di parlarne... in quel momento!» «Non eri obbligato!» La voce divenne stridula.
«Ho rischiato il dannato culo per te!» Rynn lo fissò gelida. «Non hai fatto altro che riportare indietro la sua macchina...» «Perché non l'ha riportata lei?» Mario non si era mai espresso in un tono così imperioso. «Sta' a sentire: faresti meglio a dirmi che diavolo succede. Perché, se io avessi lasciato quella sua macchina alla stazione, come volevi tu, tutti nel villaggio l'avrebbero riconosciuta.» «Avrebbero pensato che fosse andata in treno a New York!» «No, niente affatto. Lo sanno tutti che la signora Hallet odia New York. Troppi forestieri. La signora Hallet non metterebbe mai piede a New York.» Sorprese la ragazzetta intenta a fissarlo. «Questo non lo sapevi, eh?» Rynn gli strappò la bottiglia di mano, facendo schizzare vino sul caffettano bianco. Riempi un bicchiere e bevve avidamente. «Lo odio» disse, posando il bicchiere con un tonfo. «Non ti fidi di nessuno, vero?» «Solo di mio padre.» Il ragazzo fece una spallucciata e bevve un sorso di vino. «Già, be', ti auguro un monte di fortuna.» Un'occhiata alla ragazzetta gli fece capire che ella non aveva afferrato il sarcasmo. Aveva abbandonato la conversazione ed era chilometri lontana. Lui prese la bottiglia di vino. «Ancora?» Rynn scosse la testa. «Non ti piace?» «È acidulo.» Come per sfidarla, Mario ne bevve ancora. «Un'altra costoletta di agnello?» Quando le rispose, osservò l'effetto delle sue parole: «Se ne lasciassi un po' per tuo padre?». «Te l'ho detto, tornerà a casa tardi.» «Ma non dovremmo ugualmente lasciargli qualcosa?» «Rimane a New York.» «Questo non lo avevi mai detto.» Gli occhi di Mario non l'abbandonavano. Ella si alzò e portò dalla cucina un vassoio con altra carne. Con la forchetta di servizio, gli fece cadere un'altra costoletta sul piatto. «Sono contenta che tu sia qui» disse. Rimase in piedi accanto alla sedia di lui. Mario non si voltò per parlare; fissava l'osso rosicchiato.
«Eri mai rimasta sola, prima d'ora?» «Centinaia di volte.» «Come tutte quelle volte che avresti fumato hashish?» Il giradischi dell'impianto stereo si fermò con uno scatto metallico. Nell'angolo, i piccoli artigli aguzzi di Gordon raschiavano la gabbietta di fil di ferro. «Non hai paura?» «Di che cosa?» «Di essere sola.» «Tu non sei mai rimasto solo?» «Con undici tra fratelli e sorelle?» Rynn si mise a sedere. «Dovete avere una grande casa.» «Abbiamo» disse lui «il labirinto di stanze che un tempo era un motel dietro il garage. Ci troviamo tutti insieme soltanto quando ci mettiamo a tavola per una delle cene schifose che cucina Ma'. Dovresti vederci tutti quanti. Perdinci. Una bella e squallida famiglia.» «Dodici rampolli, più Ma' e Pa', che si ingozzano? Non lo sopporterei.» Egli prese la costoletta d'agnello e la rosicchiò fino all'osso. «È meglio che essere soli.» Rynn si portò dalla sedia al caminetto. «Uno non è mai meno in ozio di quando è completamente in ozio, non è mai meno solo di quando è completamente solo.» Parve non tanto rivolgersi a lui, quanto rassicurare se stessa. Mario, esaminando l'osso, fece una spallucciata per dimostrare che non era colpito. «Lo ha detto Cicerone» annunciò lei. «Ah sì? Be', io non ho domandato che cosa ha detto Cicerone, ti ho domandato di te.» «Cicerone e io siamo d'accordo.» «A proposito dell'essere soli?» «Completamente.» Mario si girò a mezzo sulla sedia. La ragazzetta lo stava contemplando. «Non sono sicuro che questo sia normale.» «Forse non lo è per te.» «Senti, ti trovavi qui tutta sola ed è successo qualcosa?» «Come ad esempio?» «Cose. Le cose possono accadere. Come per esempio quella vecchia di
Sag Harbor che trovarono strozzata con una calza.» Mario fissò la bambina per vedere se stesse sorridendo. Non c'era alcun sorriso sulla faccia bianca che fissava il fuoco. Si avvicinò alla finestra sulla facciata e scrutò l'oscurità di tra le tende. «Lo sai che c'è una lampada esterna?» «Non l'ho mai notata.» Nell'ingresso, Mario trovò un quadro di interruttori. Li fece scattere tutti finché non vide una luce accendersi dietro le tende. «D'ora in poi lasciala accesa, di notte. Okay?» «Okay.» Lui tornò nel soggiorno. «E grazie.» «Per che cosa?» «Per esserti preoccupato.» «Come ho detto prima, non è niente.» Si avvicinò all'altra finestra e guardò fuori. «Hai una pistola?» «No.» «Dovresti averla.» «Mio padre dice che avere una pistola è di gran lunga più pericoloso che non averla.» «Mio padre ce l'ha.» Rynn si avvicinò all'angolo ove Gordon faceva vibrare la gabbietta. «Voi americani siete gente violenta.» «E io che cosa posso farci?» «Finisci di cenare.» Mario si avvicinò al tavolo, ma invece di ricominciare a mangiare prese il tovagliolo e lo avvolse intorno al pugno. Si chinò sul caminetto, affondò l'indice nella fuliggine e disegnò due occhi e una bocca sulle nocche, creando una marionetta che accostò alla faccia di Rynn. La bocca si aprì e una vecchia parlò con l'accento francese. «Mademoiselle, è stata una cena meravigliosa. Merci.» Rynn si fece più vicina per parlare alla marionetta. «Soltanto che non è stata una cena francese» disse alla faccia. «Era cucinata all'inglese.» La voce della vecchia mutò. La faccia si increspò, la bocca tutta a rughe si aprì e ne venne fuori una voce talmente inglese che Rynn applaudì. «Oh, ma davvero? Allora dovrei dire... è stata assolutamente formidabile!»
Rynn ridacchiò. Mario non era ancora riuscito a farle aprire del tutto la bocca per una risata a piena gola. «Sei molto bravo!» disse lei, applaudendo. «Fa parte dello spettacolo. Il Signor Imitatore... sono io.» La bambina corse accanto alla gabbietta e ne tolse il topolino. «Devi avere più di uno spettatore. Ti presento Gordon.» «Come va, Gordon?» disse il pugno, con tono inglese. Rynn baciò il topo. «Non è superlativo, Gordon?» «Superlativo!» Il pugno si agitò davanti a Gordon. «Gli voglio bene a Gordon.» Mario strappò via il tovagliolo e lo gettò sul tavolo. Sfregò via la fuliggine dal dorso della mano e si porse per prendere la bestiola. «Permetti?» Rynn continuò a tenere il topolino, esitante. «Puoi almeno fidarti di me per quanto concerne il topo.» Lei consegnò Gordon a Mario. «Hai animaletti?» «Soltanto i miei genitori.» Rynn ridacchiò di nuovo. «Fantastico.» «Ai quali dò regolarmente da mangiare e da bere.» «Così impari ad avere delle responsabilità.» Ridacchiarono entrambi. Rynn baciò il muso roseo di Gordon. Il ragazzo portò il topo sul tavolo. I baffi bianchi guizzarono quando Gordon trovò una briciola di carne d'agnello. Mentre rimanevano in piedi l'uno al fianco dell'altra, accanto al tavolo, guardando Gordon rosicchiare, Rynn e Mario divennero consapevoli della loro vicinanza. Nessuno dei due si mosse. «Se ti dirò perché sono storpio, tu mi dirai dell'automobile?» La bambina non distolse lo sguardo da Gordon. «No» rispose. «Ho tanti fratelli e sorelle che mia madre dimenticò chi era stato vaccinato contro la poliomielite e chi no.» «Dovrebbe essere divertente, questo?» «Adesso devi parlarmi dell'automobile.» Rynn si scostò dal ragazzo. Stava creando un'altra donna immaginaria, adesso; non una gran dama, questa volta, ma una popolana di Londra. «Me non ho mai avuto né un fratello né una sorella. Eravamo tanto poveri che il mio Pa' doveva adoperare giornali, persino vecchi manoscritti, come pannolini... pannolini igienici, come dite voi.» «Qualunque cosa pur di non dire la verità. È così?»
Rynn andò a cercare qualcosa in cucina, come per impedire ogni altra domanda. «Ti andrebbe qualcosa di dolce? C'è del gelato buonissimo, di pesca.» «Sono pieno sin qui.» «E così Gordon. Guardalo.» Le unghiette rosee picchiettarono rapide sul tavolo, fino all'orlo, e gli occhi rosa si alzarono guardando la ragazzetta. Ella si chinò e prese il suo beniamino. «Nell'automobile...» prese a dire, in tono distratto. «L'automobile delta signora Hallet?» Mario era deciso a non consentire alla ragazzetta di essere distratta. «Bella macchina. Tutti quei rivestimenti di cuoio spesso. Sui cruscotti delle automobili così mica si trovano madonnine di plastica.» «Nella sua automobile...» Rynn stava rimettendo Gordon nella gabbia, e questa volta non aspettò che Mario la interrompesse, «hai lasciato impronte digitali?» Quando Mario zoppicò verso il suo mantello nell'ingresso, la bambina rimase di nuovo penosamente colpita. Una volta di più aveva dimenticato che egli si serviva di un bastone da passeggio. Lo vide sfilare un paio di guanti da una tasca e metterseli. Agitando entrambe le mani guantate, Mario tornò zoppicante verso di lei. «Ecco fatto! Nessuna impronta digitale!» «Mario il Mago!» Egli aprì le braccia, l'illusionista che entra in scena e si presenta al pubblico. «In persona!» Eseguì il movimento da torero e si drappeggiò il mantello sulle spalle. Rynn batté le mani, applaudendo. «Fa' un gioco di prestigio!» «Signore e signori, ora farò scomparire un'automobile!» La bambina nascose con la mano uno stravagante, teatrale sbadiglio e manifestò la noia con un sospiro. «Ma questo lo hai già fatto.» «Allora attenzione. Scomparirò io!» «Credi di riuscirci?» «Il Più Grande Illusionista del Mondo? Chiudi gli occhi e conta fino a tre.» «Okay» disse Rynn. Il ragazzo non si mosse. «Chiudili bene. Pronta?» Rynn annuì.
«Uno» disse Mario, guardandosi attorno e vedendo il divano. «Due» gridò, mentre correva dietro il divano e si abbassava scomparendo. «Tre.» La sua voce, sepolcrale e incorporea, parve rimanere sospesa nella stanza. «Adesso puoi aprire gli occhi.» Rynn aprì gli occhi e guardò intorno a sé. Rise e batté le mani, applaudendo di nuovo. Poi smise di ridere. «Mario?» Aveva nella voce una nota di apprensione. Non si mosse. «Puoi ricomparire?» Nella stanza regnò il silenzio soltanto per un attimo prima che lei chiamasse di nuovo, la voce affilata dalla paura. «Mario?» Si guardò attorno nella stanza. Corse ai piedi delle scale che portavano al primo piano. «Mario?» Era giunta davanti alla porta dello studio e stava per girare la maniglia quando Mario, saltando su da dietro il divano, aprì di scatto l'ombrello a strisce colorate della signora Hallet e lo tenne alto. «Mary Poppins Fottuta!» Per Rynn, tutto lo spasso dell'aver simulato la paura e l'entusiasmo di appena un momento prima si erano dileguati. Corse verso il ragazzo. La sua voce divenne un grido d'angoscia. «Dammi quell'ombrello!» Ma Mario, ancora eccitato, non si rese conto che ella aveva posto termine al gioco. Rise del grido di Rynn. Quando la ragazzetta urlò per avere l'ombrello, lui credette che volesse aggiungere nuova frenesia al divertimento. Stuzzicandola con l'ombrello, lo spinse verso di lei, lo ritrasse, lo chiuse e lo riaprì. La prendeva in giro, si burlava di lei. «Vieni a prenderlo!» La bambina si gettò sul divano e afferrò l'ombrello con tutte e due le mani, ma il ragazzo lo fece oscillare, lo scrollò, glielo strappò. Strisciando sul divano per tutta la sua lunghezza, lei cercò di bloccare ogni mossa di Mario. «Finiscila!» disse con voce aspra, tendendo le braccia. Le pieghe striate, simili a qualche creatura selvaggia che lottasse contro di lei, si aprirono e si richiusero fulmineamente. Rynn discese dal divano e inseguì il ragazzo verso il caminetto e nell'angolo, ove Gordon raschiava la gabbia. Ormai in lacrime, agitando le braccia, cercando di bloccare ogni movimento, una bambina travolta dal gioco
tocca-e-fuggi, frustrata sin quasi all'isterismo, Rynn tentava di afferrare e di artigliare. Con uno scoppio di risa, Mario si liberò dall'angolo, lanciandosi accanto a Rynn per girare intorno al tavolino da caffè. Il bastone da passeggio urtò qualcosa. Lui incespicò e cadde lungo disteso sul pavimento. La ragazzetta gli si gettò addosso e diede strattoni all'ombrello. Dibattendosi, barcollando insieme, si rialzarono. Il ragazzo l'allacciò con le braccia in una presa ferrea, inchiodandola impotente contro di sé. Il mantello li coprì entrambi mentre Rynn si contorceva frenetica, avvinghiata all'ombrello. Il fuoco ardeva, le candele splendevano e la loro luce combinata respingeva le ombre negli angoli. Fuori, di lato alla finestra sulla facciata, la lampada brillava attraverso le tende. Rynn si dibatté contro di lui. Niente si muoveva, tranne i bagliori guizzanti delle fiamme. Rynn fu la prima a vedere. Mario la senti irrigidirglisi tra le braccia e diventare gelida. Dietro le tende corse un'ombra. «Scccc» bisbigliò lei. «Ascolta.» «C'è qualcuno là!» Mentre Mario la lasciava, lei afferrò l'ombrello e silenziosamente sollevò il coperchio della cassa per la legna. Mise l'ombrello nella cassa. Sempre silenziosamente, riabbassò il coperchio. Poi si scostarono entrambi dalla finestra. Mario stava cercando di udire quello che si trovava là fuori, quello che aveva fatto tremare dapprima la bambina e ora rendeva tremante lui. Rynn tornò a bisbigliare: «Spegni le candele!». Il ragazzo si avvicinò al tavolo e, con pollice e indice, spense le fiammelle. Ora, soltanto il fuoco proiettava la sua fioca luminosità rossa nella stanza, una luce inghiottita dall'oscurità intorno a loro. Mario si accosciò sul pavimento accanto alla bambina e rimasero rannicchiati insieme davanti al fuoco. Entrambi osservarono la finestra. Poi videro quel che più paventavano di vedere. 10 Accovacciati, rimasero rannicchiati l'una contro l'altro per molti minuti o ore? - respirando come una creatura sola, senza mai distogliere lo sguar-
do dalle tende. Così a lungo che, al trascorrere di ogni minuto, man mano che il cuore batteva più adagio nella loro gola, si sentirono sempre e sempre più tentati a credere di avere soltanto immaginato, e non veduto, l'ombra. Rynn fu la prima a rialzarsi. Mario si mise in piedi a sua volta e il solo rumore che causarono entrambi, avvicinandosi alla finestra, fu il picchiettio del bastone. Il ragazzo si protese per aprire le tende. «Attento.» La voce di Rynn era sommessa. Entrambe le facce premettero contro il vetro freddo. «Riesci a vedere qualcosa?» domandò lei. L'alito di Mario formò una chiazza umida che egli eliminò con il mantello. «Là fuori... nel viale.» «Che cosa?» Rynn si sforzò di vedere al di là dello schermo dei rami spogli. Il ragazzo scostò Rynn dalle tende, che ricaddero al loro posto. Parlò senza bisbigliare. «Un'automobile della polizia.» Rynn ricadde contro di lui, sospirando di sollievo. Ma quasi subito, come se non osasse credere alla sua asserzione, si voltò di nuovo per sbirciare fuori. Mario zoppicò verso l'ingresso, e là accese la luce. Rynn gli corse accanto. Davanti alla porta di casa soffocò un grido e gli si strinse contro perché, proprio mentre stava per afferrare la maniglia, qualcuno bussò all'altro lato. «Vuoi aprire tu o devo aprire io?» domandò Mario. «Apri tu.» «Sarebbe meglio se fossi tu ad aprire. Voglio dire, questa è casa tua.» «Sei sicuro che si tratta della polizia?» Mario annui. Rynn si aspettava di vedere un uomo in uniforme. Quando scorse in piedi dinanzi a lei un uomo alto che indossava una giacca a scacchi bianchi e neri e un paio di pantaloni grigi, non lo riconobbe. «Ehi!» esclamò Mario, alle sue spalle. «Sai chi è? È mio zio Ron!» L'agente Miglioriti sorrise a Rynn, e ora ella vide che si trattava davvero del poliziotto. Stava sorridendo con lo stesso sorriso che, sulla faccia di Mario, era quasi troppo bello. «Salve» disse la ragazzetta, tendendo la mano all'uomo. Senza voltarsi
verso Mario, spiegò: «Ci siamo già conosciuti». Poi indietreggiò dalla porta e divenne a un tratto la padrona di casa. «Prego, non vuole accomodarsi?» Lo sguardo di Miglioriti incluse Mario, che ancora portava il mantello nero. Il ragazzo stava contemplando Rynn, perduto nell'ammirazione della sua disinvoltura da persona adulta. «Stavamo bevendo un po' di vino» disse lei, la più compita delle padrone di casa inglesi. «Vuole farci compagnia?» Miglioriti si passò le dita tra i folti capelli neri. «No, grazie.» Mario, togliendosi il mantello, rivolse la parola allo zio: «Mica sei in servizio, no?». Il poliziotto osservò il soggiorno e il tavolo apparecchiato per due. Poi fissò il ragazzo. «Che cosa è successo?» domandò Mario, con una sorta di tono canzonatorio che Rynn aveva udito spesso nella voce dei giovani quando si rivolgevano agli adulti, negli Stati Uniti, una familiarità rara in Inghilterra. «Dico, è sabato sera» e il tono del ragazzo rasentò lo scherno. «La tua Coniglietta della settimana ti ha piantato?» Miglioriti, per nulla seccato, rispose con disinvoltura: «Sta aspettando sulla macchina». Mario, al fianco di Rynn, mosse le mani tracciando curve. «Gli piacciono quelle che hanno l'aria di essere state gonfiate con una pompa da bicicletta.» «La inviti a entrare» disse Rynn. «Non posso trattenermi.» Miglioriti sbirciò di nuovo il ragazzo. Era forse infastidito perché non poteva parlare a quattr'occhi con lei? «Magari appena un goccio di vino?» «Mezzo bicchiere.» «Credi che Miss Novanta-settanta-novanta aspetterà?» sogghignò Mario. Rynn chiuse la porta e tutti e tre si avvicinarono al tavolo. Rynn riempì un bicchiere di vino per il poliziotto e Miglioriti la ringraziò. Seguì un silenzio che si protrasse per una decina di secondi, mentre Miglioriti fissava i piatti della cena, le costolette d'agnello spolpate, i broccoli freddi. «Mi ha invitato a cena» spiegò Mario. «Una cosa proprio fantastica. Ha cucinato tutto lei.» Il poliziotto prese la bottiglia di vino e la osservò; l'investigatore che va-
luta qualche indizio in un romanzo giallo. «Ti è piaciuto il vino, eh?» domandò al ragazzo. «Che cosa vuoi fare? Portarci dentro perché abbiamo bevuto e siamo minorenni?» «Sei fortunato che non sento l'odore dell'erba.» «Ne hai?» Mario sorrise e scoccò un'occhiata da cospiratore a Rynn. A questo punto, Miglioriti si rivolse anche alla ragazzetta. «È come ti dicevo, no? Nessun rispetto per la legge.» Il ragazzo gettò il mantello sul divano. «Ma guarda chi pretende rispetto! Uno che adopera continuamente la macchina della polizia per le sue faccende personali.» Mario sapeva di aver segnato un punto con lo zio, e si consentì il più ampio dei suoi sorrisi. «Denunciala, la corruzione della polizia» disse Miglioriti. Poi bevve, posò il bicchiere sul tavolo e continuò a osservare i due posti apparecchiati. «Soltanto voi due?» «Suo padre dorme» disse Mario, un po' troppo rapidamente, mentre gli occhi di Rynn sfioravano i suoi, appena per una frazione di secondo. Di nuovo la voce di Miglioriti mascherò a malapena il tono dell'investigatore durante il controinterrogatorio di un elemento sospetto. «Hai conosciuto il padre di Rynn?» Come per sottolineare il fatto che il ragazzo non era influenzato e che avrebbe risposto liberamente alla domanda dello zio, Rynn si allontanò dal tavolo e sedette sul divano. Mario prese la bottiglia e riempì un bicchiere. «Certo.» Rynn sentì una stretta al cuore. «Ha cenato con voi?» «Ti sembra che sia così?» Mario scostò una sedia dal tavolo e sedette. «Che cosa dovrebbe essere, questo? Una specie di terzo grado?» Poi vuotò il bicchiere di vino. Rynn si rese conto che il poliziotto aspettava una risposta più diretta. «Non ha cenato?» «Era così stanco che è andato subito a coricarsi.» «Se non sbaglio avevi detto che stava lavorando nello studio.» «Non ho detto così. Ho detto che dormiva.» Miglioriti si voltò verso Rynn. «È vero. È stata Rynn a dirmi che lavorava.» La bambina disse: «Questo pomeriggio. Dopo aver terminato la tradu-
zione, l'ha portata in città». «Andata e ritorno lo stesso giorno» disse Mario. «È molto faticoso.» Miglioriti si trovava accanto all'impianto stereo. Lesse il titolo del disco. Si voltò e di nuovo contemplò la stanza. «Cena per due. A lume di candela. Vino. Molto romantico.» Mario fissò lo zio oltre l'orlo del bicchiere, ma parlò a Rynn. «Soltanto perché è, in pratica, un maniaco sessuale, crede che uno non possa nemmeno terminar di cenare in compagnia di una ragazza prima di farsela.» Miglioriti rivolse a Rynn il suo sorriso meraviglioso. «Se non ci prova, dimmelo, e lo farò sconfessare dalla famiglia.» Rynn rispose con la risatina che ritenne doverosa. Mario crollò il capo e sospirò, come per dimostrare quanto poco capiva suo zio della vita. «Parole.» La sua riflessione, da uomo stanco del mondo, era destinata alla ragazzetta, ma anche lo zio avrebbe potuto ascoltarlo, se non era troppo vecchio per imparare. «Gli italiani parlano molto di sesso...» Miglioriti alzò una mano. Aveva finito con le canzonature. Rynn si rese conto che era mortalmente serio. Aspettando di udirlo parlare, si preparò ad altre domande su suo padre. Il poliziotto avrebbe voluto sapere perché era sola. Si ritenne pronta. Ma non era preparata a quello che disse Miglioriti. «Ha telefonato Frank Hallet.» L'uomo enorme si avvicinò al fuoco per scaldarsi le mani. «Verso le sei. Si preoccupava a causa di sua madre. Ha detto che non era tornata a casa. Ha ritelefonato verso le otto.» «La vecchia signora Hallet» disse Mario «probabilmente è fuori a fare da mezzana con le case.» Miglioriti guardò Rynn. «Il nostro Mario non ha simpatia per gli Hallet.» «C'è qualcuno che li ha in simpatia?» «Altri Hallet» disse il poliziotto. «Sbagliato» esclamò Mario. «Dille perché lui ha dovuto sposarsi.» «Non fare lo spiritoso.» Mario andò a sedersi sul divano con il bicchiere di vino. «Domandagli» disse a Rynn «di quella volta che cercò di metterlo dentro perché aveva trascinato una bimbetta tra i cespugli. In seguito, sua madre lo fece sposare con la cameriera di un bar che aveva due figli.»
«Adesso basta.» «Per dimostrare che era normale.» «Sei un pettegolo.» «E domandagli cosa cercò di combinare con la ragazza delle medie inferiori, quella che aveva le tette proprio grosse...» «Racconta un'altra volta questa storia e ti pesto io personalmente.» Mario ridacchiò entro il bicchiere di vino. «Normale! Puah! È normale press'a poco quanto una banconota da tre dollari!» Miglioriti ne aveva avuto abbastanza di Mario; lo lasciò capire chiaramente rivolgendosi soltanto a Rynn. «Quando Hallet ha telefonato alle sei per riferire che non trovava sua madre, ho pensato che ella fosse in giro, come ha detto il nostro signor spiritoso, qui, con un possibile cliente, per mostrargli una casa. Ma poi, quando ha ritelefonato alle otto, non è stato più possibile escludere qualche disgrazia.» «Come sai se non è ancora in giro?» Mario non intendeva essere escluso dalla conversazione. «C'è la sua Bentley davanti all'agenzia.» «Forse è andata con l'automobile del cliente.» Rynn si augurò di potersi voltare e mostrare a Mario quanta fiducia ispirava la sua ipotesi. Ma il poliziotto demolì quella fiducia. «Se tu conoscessi la signora Hallet, sapresti che non sale mai sull'automobile di un estraneo. Si serve soltanto della sua. E se tu mi domandassi il perché, potrei anche dirtelo.» «Teme che qualcuno possa violentarla?» ridacchiò Mario. «Si serve soltanto della sua macchina perché ha nel cruscotto una Magnum calibro quarantacinque.» Mario fece una spallucciata per dimostrare la propria indifferenza. «Ha il porto d'armi? Scommetto di no. Il diavolo se la porti!» «Zitto!» disse Miglioriti, in italiano. «Vuol dire chiudi il becco.» Il ragazzo batté la mano sulla spalla di Rynn. «La brutalità della polizia, vedi?» Poi, rivolto allo zio: «Ho una testimone». Di nuovo Miglioriti cercò di ignorare il nipote e di parlare soltanto con Rynn. «Hallet ha riferito che tu hai telefonato. Dicendogli qualcosa a proposito del fatto che sua madre poteva venire qui a ritirare certi barattoli per
la marmellata.» Sia Miglioriti, sia Mario aspettarono che lei rispondesse. La ragazzina sbirciò la scatola di cartone accostata alla parete. «I barattoli la stanno ancora aspettando.» Miglioriti scostò la scatola dalla parete e sollevò il coperchio. I barattoli tintinnarono quando respinse la scatola con un piede. «Non è venuta?» «Dopo aver telefonato» disse la ragazzetta «non sono più uscita di casa.» Rifletté. In verità, era uscita di casa soltanto per fare la passeggiata. Nessuno l'aveva veduta tranne le ragazze che tornavano dalla partita di rugby, e la macchina non le era passata così vicina da consentir loro di ricordare che aspetto avesse. La bugia non sarebbe stata smentita. «Sono sempre rimasta qui.» «Ho richiamato io Hallet circa mezz'ora fa» disse Miglioriti. «Sua moglie ha detto che la signora non era ancora rientrata.» «E allora sei venuto a cercala qui?» domandò Mario. Per un lungo momento, nessuno di loro due pensò che il poliziotto avrebbe risposto. «No. Sono venuto perché pensavo che Rynn potesse essere sola.» Fu Mario a domandare quello cui stavano pensando entrambi. «E hai immaginato che quell'anormale avrebbe potuto decidere di venire qui?» Le grosse e tozze dita di Miglioriti solcarono i capelli. «Ecco perché ho preso la macchina di pattuglia. Sei soddisfatto adesso, furbone?» Mario aprì le mani, come avrebbe potuto fare un illusionista per dimostrare che non c'era niente. «Soltanto che Rynn non è sola.» «Potrò essere un piedipiatti, ma ci vedo ancora.» «Grazie» disse Rynn. Miglioriti si versò un altro po' di vino. «È tutto okay?» «Tutto bene» disse la ragazzetta. «Zio Ron?» Il poliziotto bevve il vino e mise il bicchiere sul tavolo. «Lo so. Vuoi che non dica a tuo padre e a tua madre di averti visto qui.» «Perché? Se non lo dicessi,» il ragazzo sorrise «questo significherebbe automaticamente il crollo della civiltà occidentale?» «Se vuoi che ti aiuti, non fare lo spiritoso.»
Mario allargò le dita delle mani posate di piatto sul petto... l'innocente ingiustamente accusato. «E chi fa lo spiritoso?» Il poliziotto si rivolse a Rynn. «Chissà. Forse tu riusciresti a insegnargli le buone maniere.» A un tratto, Mario si espresse come un ragazzetto. «Non glielo dirai a Ma' e a Pa'? Credono che io sia a quella festa di compleanno...» «Perché? È questo che gli hai detto? Hai già incriminato te stesso.» Miglioriti stava sorridendo di nuovo, ma il sorriso era destinato soltanto a Rynn. «Per una buona causa.» Il suo sorriso si dileguò. «A proposito della signora Hallet... Ti sarei grato di qualsiasi aiuto tu potessi darmi.» «Lo so» disse Rynn, sotto ogni aspetto seria quanto lui. «Vorrei soltanto poterla aiutare...» Se anche Miglioriti non era soddisfatto delle risposte, parve non avere altro da dire. «Grazie per il vino.» Il poliziotto attraversò rapidamente il soggiorno e uscì di casa. Rynn gli corse dietro e alzò la voce sulla veranda. «Buonanotte!» Nell'aria gelida, la sua voce si tramutò in vapore, e Mario la trascinò dentro. Chiuse la porta, tenendo un dito sulle labbra per invitare la ragazzina al silenzio. Aspettarono zitti zitti quanto bastava perché il poliziotto arrivasse alla macchina di pattuglia e ripartisse. Soltanto quando udirono il motore che veniva acceso, Mario lasciò esplodere la sua paura repressa. «Mamma mia! Che cosa hai provato, tu? Hai avuto fifa, eh? Voglio dire, non è stato?...» Ma Rynn si era già allontanta da lui e parve calmissima mentre riempiva un bicchiere di vino. Lo porse a Mario, che lo prese avidamente e ne tracannò il contenuto. «Santo Cielo, come facevamo a sapere chi poteva esserci là fuori? Eh?» La ragazzetta staccò gocce di cera dal tavolo, sotto i candelabri. «Non c'era ragione di spaventarsi.» Mario batté le palpebre e scosse la testa per far capire che stentava a credere alla sua calma apparente. «Sì, dici così adesso. Ma hai avuto paura. Perdinci, hai avuto tanta fifa da fartela sotto!» Perché Rynn si rifiutava di condividere l'eccitazione di quei momenti? Mario si gettò il mantello sulle spalle. Si calcò in capo il cappello a cilin-
dro di seta. Agitò il bastone-bacchetta magica. «Ti è piaciuto come ho fatto scomparire tuo padre?» «Hai mentito.» «Puoi scommetterci il deretano. Cosa volevi che facessi?» Non riusciva capire perché ella si rifiutasse di condividere il suo entusiasmo, perché volesse negargli il merito di come aveva resistito al controinterrogatorio dello zio. Irosamente si aggiustò il mantello, inclinò il cappello a cilindro in modo spavaldo, e fece picchiettare il bastone da passeggio sul pavimento. Stava percorrendo i pochi passi verso la porta di casa, quando Rynn disse: «Dove credi di andare?». Se la bambina stava lottando contro il panico, la sua voce non lo tradì. Il ragazzo non si voltò e non rispose. Sapeva che lei stava osservando ogni suo passo e si servì del bastone per camminare eretto il più possibile, direttamente verso la porta. Rynn gli corse dietro. Mario si voltò. Aveva un sorriso enorme. «Volevo soltanto metterti alla prova. In realtà, non vuoi che me ne vada, vero?» Rynn disse di no scuotendo la testa. «Benissimo» esclamò lui, nella sua più allegra voce all'inglese. Mentre la cingeva con un braccio, Rynn arrovesciò la testa all'indietro e si lasciò sfuggire risatine, consentendo poi che divenissero scoppi di risa. Sapeva che lui le stava guardando il dente scheggiato, ma continuò ugualmente a ridere. Mario si mise a ridere a sua volta. Ben presto risero tanto tutti e due che caddero l'uno nelle braccia dell'altra e si strinsero. Mario fu il primo a smettere. «Ascolta!» Anche Rynn li udì, i colpi alla porta. «Gesù» esclamò il ragazzo, in un bisbiglio. «È tornato!» Rynn si mise davanti alla porta, con una mano sulla maniglia. Fece cenno a Mario di stare a vedere come avrebbe spedito il poliziotto. Poi spalancò la porta. Sulla veranda si trovava Frank Hallet. 11 Lottò per nascondere la paura che la pervadeva. Lottò, inoltre, per trova-
re una qualche logica in quanto era accaduto. Il poliziotto presentatosi dinanzi a quella stessa porta, aveva percorso in macchina il viale. L'ombra intravista dietro le tende non era stata la sua. Per tutto il tempo, mentre Miglioriti sorseggiava vino con lei e Mario, Hallet era rimasto accanto alla casa. Hallet aveva aspettato. L'uomo sulla soglia lisciò lunghi ciuffi di capelli arruffati sul cranio calvo e lucido. Gli occhi acquosi e celesti di lui tradirono a loro volta stupore scorgendo la bicicletta nell'ingresso. Poi gli occhi scattarono sul soggiorno e videro il ragazzo con il mantello. Hallet rimase immobile. Dietro di lui, nella nera notte, i rami spogli si muovevano nel vento, raschiando e cozzando gli uni contro gli altri. Rynn pregò affinché l'uomo non vedesse come le tremavano le gambe sotto il caffettano. Di solito così fulminea nell'agire, così calma, così immaginosa nel rispondere, ella non sapeva adesso che cosa fare, non aveva niente da dire. Quando udì il top-tap del bastone di Mario, quando ricordò che, diversamente da ogni altra notte, quella notte uun era sola, benedisse il ragazzo in silenzio. Facendo picchiettare il bastone, Mario venne a mettersi al suo fianco. Fu Hallet a fare la prima mossa. Né Rynn né Mario seppero come fermarlo. E subito divenne troppo tardi per chiuderlo fuori. Egli non fece alcun cenno, alcun gesto, non pronunciò alcun ordine, ma, a ogni passo che muoveva nell'ingresso, Rynn e Mario indietreggiarono incespicando. Si trovava lì. Non doveva fare niente di più per dimostrare loro che era lui il padrone. Percependo il forte profumo d'acqua di Colonia, Rynn soffocò un'ondata di nausea. Le mani di Hallet, di solito rosee, erano adesso violentemente arrossate dal freddo, ed egli le stropicciò l'una contro l'altra mentre si avvicinava alla bicicletta. La fissò quasi che veicoli come quello non fossero mai stati veduti in una casa. Rynn e Mario costatarono che stavano indietreggiando nel soggiorno, muovendosi quando l'uomo si muoveva, arretrando incespicanti quando lui avanzava. Soltanto una volta giunto sul tappeto intrecciato Hallet si fermò. Là si tolse di tasca lo stick di unguento e se ne passò il lustro sulle labbra tumide. Cosi come aveva fissato la bicicletta, guardò ora la stanza intorno a sé, osservando dapprima il divano, poi la sedia a dondolo, la cassa della legna, il tavolo, quasi vedesse tutte quelle cose per la prima volta. Con le scarpe
di camoscio lisciò, si sarebbe detto inconsapevolmente, una piega del tappeto. Un altro passo lo condusse accanto alla parete e alla scatola di cartone. Una scarpa di camoscio smosse la scatola. I barattoli tintinnarono. «Barattoli per la marmellata?» egli domandò, senza voltarsi a guardare la ragazzetta. Rynn annuì. Lui tolse dal tavolo uno dei candelabri di peltro e un dito roseo sondò la cera ancor calda. Il candelabro di peltro venne rigirato nella mano prima che egli lo posasse accanto ai due piatti della cena, ai bicchieri del vino, ai tovaglioli macchiati e gualciti. «Soltanto due persone a cena?» Sbottonò l'impermeabile, se lo tolse e lo gettò al ragazzo sorpreso. La giacca che indossava era dello stesso tweed ruvido del cappotto di sua madre. Il colletto alto di un maglione rosso logoro e accollato gli premeva il mento grassoccio. I pantaloni di flanella grigia erano ancor più spiegazzati di quanto lo fossero stati la sera della vigilia d'Ognissanti, le scarpe di camoscio ancor più infangate. Nessuno dei due giovani rispose alla domanda. Né, a quanto parve, egli si aspettava una risposta, poiché si chinò sul tavolino da caffè e sulla scatola delle sigarette. Adagio prese una Gauloise e la tenne perpendicolarmente tra le punte delle dita. Con un movimento deciso, portò la mano che teneva la sigaretta più vicino a Rynn, fino a costringerla a indietreggiare per impedire che mano e sigaretta le toccassero la faccia. Che cosa voleva da lei? Cosa si aspettava che facesse? Hallet stava fiutando l'aria. Voltò la testa, ma non trovò quel che cercava. «Tuo padre non ha fumato?» Era un'altra domanda come la prima, o si aspettava la risposta? Hallet si lasciò cadere sulla sedia a dondolo. Fece schioccare le dita nella direzione del ragazzo. Mario, che ancora aveva l'impermeabile su un braccio, zoppicò verso il tavolino da caffè, trovò la scatola dei fiammiferi e la porse all'uomo. Lui scosse la testa, no. Il ragazzo accese il fiammifero, si avvicinò alla sedia a dondolo e accese la sigaretta a Hallet. Hallet aspirò il fumo profondamente e lasciò che gli si arricciolasse adagio davanti alla faccia, silenzioso come un idolo dinanzi al quale ardesse incenso. Si dondolò adagio. Proprio mentre Rynn cominciava a domandarsi se avrebbe mai parlato,
egli si alzò dalla sedia a dondolo. «Fa freddo» disse, avvicinandosi alla cassa della legna per prendere un ceppo da mettere sul fuoco. Aveva già la mano sul coperchio. Mario soffocò un ansito. Scoccò un'occhiata a Rynn. Vide la bambina intenta a fissare la cassa, irrigidita dalla paura, paventando il momento in cui l'uomo avrebbe sollevato il coperchio, il momento in cui avrebbe trovato l'ombrello a strisce colorate. Poi ella si avvicinò al caminetto, sfiorando Hallet. «Lasci che lo alimenti io il fuoco» disse, e la sua voce non tradì minimamente quanto - Mario lo sapeva - stava provando. Hallet alzò le spalle e, udendo le unghie di Gordon raschiare la gabbietta di fil di ferro, si portò nell'angolo. Mario si accostò al caminetto per impedire a Hallet la visuale della cassa. Insieme alla ragazzina, prese due ceppi di acero, abbassò rapidamente il coperchio, mise la legna sul fuoco e attizzò le braci sotto i ceppi per fare sprizzare le fiamme. Fulminea, Rynn gli passò accanto e sedette sulla cassa. L'odore del fumo era asprigno. L'uomo tolse dalla gabbia lo squittente topolino bianco. «Gordon?» La ragazzetta annui. «Gli vuoi bene a Gordon?» Lei annui di nuovo. «Ti ho fatto una domanda.» «Si.» «Sì, cosa?» «Si, voglio bene a Gordon.» La sua voce era gelida e pungente come la notte intorno alla casa. Soltanto la testa di Gordon sporgeva dal pugno rosso che lo teneva stretto. Hallet portò l'animaletto fino all'altezza dei suoi occhi celesti e il piccolo muso roseo e bianco fremette nelle spirali del fumo di sigaretta, e i minuscoli occhi rossi rotearono frenetici cercando una via di scampo. «Credo che anche Gordon voglia bene a te» disse Hallet. Con la mano libera fece cadere la cenere dalla sigaretta, poi portò quest'ultima alle labbra lustre aspirando il fumo fino a farla risplendere sull'estremità. Con una salda presa sulla sigaretta, ne avvicinò la punta incandescente al topolino bianco. Rynn soffocò un grido. Hallet premette la sigaretta accesa contro uno degli occhi di Gordon.
Il topo stridette. Rynn si impedì di urlare premendosi le mani sulla bocca. «Gesù» bisbigliò Mario. Mentre il topo strideva ancora e ancora e ancora, la ragazzina afferrò Mario e gli affondò la faccia nel mantello. Il braccio del ragazzo, sebbene tremante, le cinse le spalle. Hallet tenne alta la sigaretta e soffiò sulla sua estremità facendola risplendere di nuovo. Soltanto quando il tabacco fu di un rosso luminoso, tornò a pigiarla contro l'altro occhio del topo che strideva. Per un secondo studiò il topo che gli si contorceva nel pugno, poi gettò l'animaletto nel fuoco. Lanciò anche la sigaretta sulle fiamme. Quindi, piazzò la mano aperta davanti alla faccia della ragazzina. Sangue filtrava da graffi sul palmo grassoccio. «Il figlio di puttana mi ha graffiato.» Disse al ragazzo di andare a prendere un disinfettante. «Nell'armadietto dei medicinali al piano di sopra?» domandò Mario. Tremante, Rynn non riuscì a rispondere. Mario attraversò zoppicando la stanza, appese l'impermeabile nell'ingresso e salì le scale. Esaminando i graffi sulla mano, Hallet rimase in piedi davanti alla ragazzetta, con l'aria dell'uomo soddisfatto di un buon lavoro. Si calò sulla sedia a dondolo e adagio la inclinò il più possibile verso Rynn, fino ad alitarle sulla faccia. «E ora sentiamo. Dov'è tuo padre?» La ragazzina farfugliò una sola parola. «Non ti sento!» «Dorme» riuscì a dire Rynn. «Di sopra?» Lei scosse la testa. «Ti ho domandato se è di sopra.» «Nell'altra stanza.» La voce era appena percettibile. Hallet sollevò dal polso la manica della giacca di tweed e sbirciò l'orologio. «Va a letto presto.» «È rimasto alzato tutta la notte. Traducendo.» «Ah sì?» L'uomo riuscì a immettere nelle parole un'inflessione che significava: anche se potrebbe essere vero, non ti credo nemmeno per un
momento. «Dove? In quella stanza?» E mosse la testa nella direzione dello studio. «Sì.» «In quanti eravate a cena?» Rynn non riusciva ancora a indursi a guardarlo. «Lo vede.» «Rispondi.» «In due.» «Soltanto voi due?» Rynn annui. Prima di sentir l'uomo parlare in tono aspro, come sapeva che avrebbe fatto, soggiunse: «Sì». «Tu e tuo padre?» «No.» «No, cosa?» «Mio padre non ha mangiato...» Si sforzò di ricacciare le lacrime. «Hai detto che era stanco.» «Sì.» Mario, discese le scale, entrò silenziosamente nel soggiorno. Zoppicò verso l'uomo, con il flacone del disinfettante in mano. Hallet si rivolse al ragazzo. «Hai cenato bene?» Mario parlò a sua volta con una voce che era poco più di un bisbiglio appena percettibile. «Sì.» Hallet afferrò il disinfettante. «Voi due soli?» Il ragazzo scoccò un'occhiata frenetica a Rynn, come se, sulla sua faccia, avesse potuto leggere quello che aveva detto, ma lei si era voltata verso l'angolo. «No.» «Soli, ma non soli?» L'uomo spalmò il disinfettante rosso del minuscolo flacone sui graffi nel palmo. «Se non siete soli, dov'è lui?» «Chi?» «Quello di cui stiamo parlando.» Hallet tenne la mano vicina alla luce. «Suo padre.» «È nella stanza accanto» disse a un tratto Rynn, che sentiva l'odore del disinfettante. «Non di sopra?»
«No.» «Avevi detto di sopra.» «No, non è vero.» «Non di sopra.» Hallet finì di spalmare il disinfettante sulla mano. Riavvitò il tappo e porse il flacone al ragazzo in attesa. «È dove lavora?» «Sì.» «Adesso però non lavora. Sta dormendo.» La bambina annuì. Si affrettò a dire: «Sì». «Ma non di sopra» asserì l'uomo, come chi voglia mettere bene in chiaro che non intende commettere errori. Si alzò dalla sedia a dondolo, che cigolò adagio, oscillando avanti e indietro. Davanti al caminetto, prese l'attizzatoio e smosse le braci. Parlò alla ragazzetta seduta sulla cassa della legna, ma, con un cenno brusco della testa, indicò il ragazzo. «Lui chi è?» «Sono Mario Podesta.» Hallet non guardò il ragazzo. Rimase voltato verso Rynn. «L'ho domandato a te.» «È Mario Podesta.» Adagio, egli si voltò verso il ragazzo. «È vero?» Mario annuì, poi si affrettò a soggiungere: «Sì». «Ti ho visto in giro.» «Mio zio» disse il ragazzo «è un poliziotto.» «Sì.» «È appena stato qui.» Hallet fece schioccare le dita affinché Mario alzasse gli occhi e lo guardasse. «Perché?» «Tornerà.» «Non è questo che ho domandato.» «Diglielo» disse Rynn. «Sì, dimmelo» disse Hallet. «È venuto qui perché, ha detto, lei gli ha telefonato. Chiedendo di sua madre. Come mai non si trovava in casa. Pensava che sarebbe potuto venire a cercarla qui.» «Perché si sarebbe dovuta trovare qui?» Una mano, striata di rosso, impose a Rynn, con un gesto, di non rispondere. Hallet voleva sentirlo dire
dal ragazzo. «Quei barattoli di marmellata. Laggiù. Doveva venire a prenderli.» «E sono ancora là» disse Hallet. «L'agente Miglioriti sta per tornare» disse Rynn. «Così ha detto?» «Sì.» «Sono certo,» disse Hallet, adagio, sistemandosi sulla sedia a dondolo, «che un giorno tornerà.» 12 Hallet sbirciò l'orologio. «Dove credi che possa essere andata a finire mia madre, a quest'ora della notte?» Sarebbe potuto essere un gioco della luce mutevole del fuoco, mentre lui si dondolava, ma Rynn ebbe la certezza che stesse sorridendo. Hallet tese le mani rosee verso il fuoco. «L'altra sera,» soggiunse, la faccia scarlatta ai riflessi delle fiamme, «hai detto di non avere amichetti.» Non era una domanda diretta, e Rynn aveva lasciato capire chiaramente di essere disposta a parlare soltanto quando le domande dell'uomo fossero state inequivocabili. Invece di insistere con lei, Hallet si rivolse al ragazzo. «Sei il suo amichetto?» «Sì.» Hallet voltò la faccia, di un rosso acceso, verso la ragazzina. «Avevi detto "niente amichetti".» L'uomo incluse nel proprio sguardo il tavolo con i due piatti. «Sembra a me che tu li inviti addirittura a cena, i tuoi amici; cene a lume di candela, con vino.» A un tratto, Hallet si voltò verso Mario. «È molto giovane. Quanti anni ti ha detto di avere?» «Tredici.» «Quattordici, tredici... è più giovane di te, comunque?» Mario annuì. «Non conosci nessuna ragazza della tua età? O gli piace ballare, alle ragazze della tua età?» «I barattoli di vetro» disse la bambina, arditamente. «Be'?» «Al telefono abbiamo parlato dei barattoli. Sono pronti e può portarli via.»
«Non adesso.» Rynn soppesava ogni parola dell'uomo. Aveva voluto dire che non se ne sarebbe andato subito e che pertanto i barattoli potevano aspettare, o aveva voluto dire che ormai sua madre non avrebbe più saputo che farsene? Non le occorreva scrutare la faccia rossa davanti al fuoco per capire che egli si stava godendo quella voluta ambiguità. Suo padre aveva avuto un amico a Londra, un avvocato, un uomo che amava gli intrichi della legge e i labirinti creati con risposte date soltanto a mezzo, mentre il babbo si sforzava sempre di essere preciso e di esprimersi in modo esatto e limpido. «Forse la cara mammà è venuta qui e tu non eri in casa.» «Sono sempre rimasta in casa.» «Non sei andata alla partita?» «No.» «Il sabato pomeriggio, in questa stagione, ci vanno tutti alla partita. Oggi hanno vinto le Linci.» Hallet stava fissando Mario. «Lo sapevi?» «Si.» «Non c'era quasi un'anima nel villaggio, questo pomeriggio.» Continuava a fissare Mario. «Giusto?» Ma Mario stava guardando Rynn. «Tu ci vai alle partite?» domandò Hallet. «No.» «Giochi al rugby?» Prima che Mario avesse potuto rispondere, Rynn disse: «Se fosse venuta qui l'avrei vista». Hallet si rivolse soltanto a Mario. «Non ti ho sentito rispondere.» «No, non gioco al rugby.» «Nemmeno io. I pomeriggi del sabato ascolto l'opera. Alla radio. In ufficio. Ma vedo che tu sei tutto in ghingheri...» «Dà uno spettacolo d'arte magica» disse Rynn. «Così siamo in due nel villaggio a non giocare al rugby.» L'uomo tornò a fissare Rynn. «Hai detto di essere sempre rimasta in casa?» «Si.» «Non avresti potuto non vederla?» «No.» «Strano.» «Può prenderli in vece sua, adesso» disse la ragazzetta. «I barattoli per la marmellata?» «Posso metterglieli sulla macchina» disse Mario.
«Puoi?» «Ce li porto subito.» «Non puoi.» Ricominciava daccapo. Le ambiguità esasperanti con le quali Hallet si faceva gioco di loro, le sottili, piccole confusioni. «Non è un disturbo» disse il ragazzo, intendendo al contempo che poteva portare i barattoli fuori della casa ed era disposto a farlo. Anche subito. «Ho detto che non puoi.» L'uomo fece schioccare le dita nella direzione della scatola di sigarette, che Mario gli portò. Il ragazzo rimise la scatola sul tavolino e strofinò un fiammifero, accostandone poi la fiammella alla sigaretta. Hallet aspirò profondamente. Parve a Rynn che non tanto soffiasse fuori il fumo quanto lo lasciasse filtrare dalla bocca. Spirali di fumo azzurrognole rimanevano sospese intorno alla faccia rossa e paffuta. «Non puoi» ripeté l'uomo. «Non ho l'automobile. Sono venuto qui a piedi, questa sera. La giardinetta ce l'ha la mia cara mogliettina. La lussuosa Bentley, color fegato, di mammà si trova maestosamente davanti all'agenzia.» Aspirò ancora fumo dalla sigaretta. «Le chiavi le ha mammà cara.» Rynn disse a se stessa che non doveva cercare con lo sguardo Mario. Hallet sembrava accontentarsi di contemplare il mistero della sigaretta accesa, di meditare su di esso. Una scintilla saettò dalle braci e si posò luminosa sul davanti del caminetto. Poi si spense. Intorno alla casa, il vento autunnale gemeva. I rami degli alberi cozzavano. Più e più volte Rynn si sforzò di rompere il silenzio, finché cominciò a dubitare d'essere ancora capace di pronunciare una parola. Quando infine prese a parlare, pregò affinché la sua voce non fosse stridula, tradendo tutto il panico che le turbinava dentro. «È molto tardi, signor Hallet. Dovrò pregarla di volerci scusare, adesso.» Con suo stupore, le parole risuonarono chiare, persino calme. Quando l'uomo non diede a vedere in alcun modo di averla udita, sebbene naturalmente avesse udito, sentì di non dover perdere la fiducia ispiratale dalle sue prime parole, sentì che doveva insistere. «Che cosa vuole, signor Hallet?» L'uomo continuò a fumare. Voltò la testa, sbirciando, oltre la propria spalla, il ragazzo ancora appoggiato al bastone da passeggio. «Che cosa volete voi?» «Cosa intende dire?» La voce di Mario fu un gracidio.
«Voglio dire esattamente quello che ho domandato. Che cosa volete?» «Devono tutti quanti volere qualcosa?» Le dita rosee di Hallet portarono la Gauloise alle labbra lucide. «Naturale. In questo momento stiamo aspettando. Stiamo aspettando di sentire che cosa volete voi.» «Sto aspettando anch'io.» Il ragazzo dovette compiere uno sforzo per pronunciare a fatica le parole. «Allora aspetteremo tutti insieme.» Hallet lasciò che il silenzio tornasse a calare. Era uno di quei silenzi assordanti, aveva una sua presenza che poteva quasi essere sentita, come acqua che silenziosamente riempie un sotterraneo. Con il tempo, quel genere di silenzio poteva uccidere. «Io direi che tu vuoi quello che vogliono tutti gli amichetti.» Hallet continuò a fumare. «È questo che vuoi?» «No.» Le sopracciglia si inarcarono adagio sulla fronte rossa e lustra di Hallet. «Non ti piacciono le ragazze?» «Sì, ma...» «Allora non vuoi Rynn?» Rynn smaniava per il desiderio di inserirsi in quel controinterrogatorio, di aiutare il ragazzo, ma sapeva che Haller l'avrebbe ignorata. O peggio. L'uomo avrebbe approfittato di qualsiasi cosa lei potesse dire per aiutare Mario, travisandola, e intrappolandola sempre più profondamente nel suo labirinto. «Piccolo illusionista,» disse Hallet «perché non ti esibisci in un trucco che piacerebbe a tutti? Perché non scompari?» Rynn sorprese gli occhi di Hallet scintillanti su di lei. «Digli di andare a casa.» «È il mio amico.» «Non il tuo amichetto?» Enormemente soddisfatto di se stesso, Hallet aspirò il fumo della sigaretta. Adagio lo lasciò sfuggire, un pennacchio sottile, azzurrognolo. Con la sigaretta indicò la ragazzina. «Devo dirti cos'è che vuoi tu?» Rynn non seppe decidersi ad alzare gli occhi su di lui. «Rimandiamo a dopo» egli disse. «Anzitutto, ti dirò quello che voglio io.» Si alzò e si avvicinò al caminetto, dominando dall'alto Rynn, seduta sulla cassa della legna.
«Voglio sapere che cosa sta succedendo. Qui... in questa casa. Voglio sapere che cosa è successo. Che cosa è successo oggi.» «Non è successo niente» riuscì a dire la ragazzetta. Hallet abbassò gli occhi su di lei, quasi come un maestro dinanzi all'allieva. Il tono di lui divenne condiscendente come quello di un insegnante; era un tono calcolato per porre in dubbio qualsiasi cosa la bambina dicesse. «Un giorno intero è lungo perché possa non accadere niente.» Rynn scosse la testa. «Niente.» Sempre da insegnante, sempre recitando la parte di chi è incamminato sulla strada della verità, Hallet stava deliberatamente passando in rassegna i fatti con meticolosità, in modo che nessun particolare potesse sfuggire, sia all'allieva, sia al maestro. «Poco fa. La polizia è stata qui. Questo è successo.» Rynn scosse la testa, ma l'adulto non volle consentire all'allieva di rifugiarsi nel silenzio. «La polizia. Qui. Sì o no?» Rynn annuì. «Sì o no?» «L'agente Miglioriti ha detto che lei gli aveva telefonato. Ha detto che si preoccupava per sua madre.» «Sì?» Quell'unica parola equivalse all'ordine di continuare a parlare. «Ha detto che secondo lei...» «Sì?» «Ha detto che secondo lei, se avesse potuto sapere dove era stata sua madre...» «Stata? Da quando?» «Da quando era uscita dall'ufficio.» «Bene.» Hallet sedette sulla cassa della legna, accanto alla ragazzetta, che trattenne il respiro. «Sicché, cosa pensava l'agente che io pensassi?» «Se fosse riuscito a sapere dov'era stata sua madre, avrebbe saputo dove si trovava.» «Secondo te, l'agente aveva ragione?» Rynn tentò di alzare le spalle. Il profumo greve di acqua di Colonia la faceva quasi vomitare. «Sì o no?» «Sì.»
Hallet continuò a fumare. «Questo è una parte di quello che voglio.» «I barattoli sono là.» Hallet non ebbe bisogno di sbirciare la scatola di cartone contro la parete. I barattoli erano già una presenza nella stanza quanto ognuno di loro. «Già, sono là.» «E aspettano lei.» «Vorresti dire?» «Non è stata qui.» «Errore. Stiamo procedendo troppo in fretta.» Il tono di lui ridivenne professionale. «Dovrò correggere la tua logica. Tutti quei barattoli in attesa dimostrano... che cosa? Che quei barattoli sono sempre lì.» «Allora temo di non poterla aiutare.» «Vuoi aiutarmi?» La ragazzetta distolse la faccia dal profumo d'acqua di Colonia e dal fumo di sigaretta. «Sì.» «In tal caso, che cosa proponi di fare?» «Di chiamare la polizia.» «Già fatto. Sembra che ci occorra qualcosa di più.» Lo sguardo di Hallet passò su Mario. «Tu vuoi aiutare?» «Sì.» «Allora va' a dire a suo padre che ci aiuti.» Il ragazzo deglutì e balbettò. «Sta dormendo.» «Nella stanza accanto?» «Sì.» Il ragazzo annuì energicamente. Hallet si rivolse a Rynn. «La porta sull'ingresso. È il suo studio, quello?» Ella annuì. «E ci dorme, anche?» Hallet si alzò. «Ho promesso di non svegliarlo» disse la ragazzina. Hallet stava andando verso la porta nell'ingresso. «Svegliamolo e domandiamogli se può aiutarci a rintracciare la cara mammà.» Adagio mosse un altro passo, quasi si aspettasse che la ragazzetta avrebbe cercato di fermarlo. «Questa stanza... sei sicura?» Mario, con il mantello nero svolazzante, si gettò nell'ingresso e incespicò accanto a Hallet per impedirgli di avvicinarsi alla porta.
«Rynn, va' al telefono!» Accanto al telefono, la bambina vide Hallet avanzare, dominando dall'alto il ragazzo. Egli rinunciò al gioco gatto-e-topo e fissò Mario irosamente. «Ti ho detto di andartene!» Mario, senza osare guardarlo, come se gli occhi di Hallet avessero potuto farlo tentennare, scosse la testa. «Tu e i tuoi trucchetti da sporco italiano, va' all'inferno, fuori di qui!» «Rynn... scappa! Corri dai vicini!» La ragazzina lasciò cadere il ricevitore del telefono e corse nell'ingresso, ma rallentò mentre valutava le possibilità di sgattaiolar via passando accanto a Hallet. «Avanti» disse Hallet. «Corri.» «Corri!» la stava supplicando Mario. Hallet non tentò affatto di mettersi davanti alla porta di casa per impedirle di passare. A un tratto il sorriso di lui, accentuato dal lustro dell'unguento, splendette nell'ombra. «Correre dove?» Con la mano egli indicò che era libera di aprire la porta. «I tuoi vicini non si trovano nemmeno in casa. Tutti quegli ebrei sono andati in Florida.» «Chiama la polizia!» urlò Mario. Hallet si avvicinò a gran passi alla credenza della cucina e alzò il ricevitore. Poi avvolse il cordone del telefono intorno al proprio pugno. «Devo strapparlo?» «Se farà questo, si accorgeranno che l'apparecchio è guasto» disse la ragazzina. «Chi può telefonare a quest'ora?» «Lo metta giù!» L'ordine venne da Mario... e fu una sorpresa sia per Hallet sia per Rynn, poiché il ragazzo sembrava avvampare di una pericolosa energia che nessuno dei due aveva sospettato potesse nascondersi sotto il sorriso soave. Mario premette bruscamente sul bastone da passeggio, che, con uno scatto, si suddivise in due. Dal fodero egli estrasse una lunga e scintillante lama. Hallet, fissando la spada, rimise con la mano tremante il ricevitore sull'apparecchio. Mario, la cui furia era stata scatenata, barcollò verso l'uomo senza il bastone, ma con la spada stretta nel pugno irrigidito. «Sono uno sporco italiano. Gli sporchi italiani sono armati di coltello, no?»
Hallet indietreggiò dal ragazzo che zoppicava; contorcendosi, si scostò dalla credenza e andò averso la porta di casa. Con la mano rosea fece cenni di tregua. «Sta' indietro!» La sua voce esplose in un grido penetrante, saturo di paura e di rabbia. «Sporco italiano? Guappo? Sudicio?» Il ragazzo inferocito arrancava verso l'uomo. Hallet piroettò per impedire all'attaccante di tagliargli la via d'uscita. Indietreggiando di nuovo, latrò quella che sperava potesse essere scambiata per una risata. «È un trucco da prestigiatore! Una lama truccata!» «Ah si?» Con un altro passo, Mario si trascinò più vicino. Sulla faccia rosea di Hallet scorrevano rivoletti di sudore. Egli indietreggiò nell'ingresso. Il ragazzo spinse la spada dinanzi a sé. Hallet urtò contro la bicicletta, ritrovò l'equilibrio e spalancò la porta di casa. Se n'era andato. Rynn corse alla porta; la sbatté e si gettò contro di essa. Fissò Mario, che, a cenni, la invitava a un assoluto silenzio. Annuì, in preda a un sollievo troppo grande per poter parlare; troppo esausta per poter fare qualcosa tranne cadere contro la porta. Mario raccattò l'altra metà del bastone e vi infilò la lama. «Telefona alla polizia» disse. Nell'ingresso buio, Rynn continuava ad appoggiarsi alla porta. «Non possiamo osare.» Una riflessione improvvisa fece sì che il ragazzo si affrettasse ad attraversare il soggiorno e ad avvicinarsi alla cassa della legna. Soltanto quando stava per sollevarne il coperchio si accorse che Rynn, correndo, lo aveva preceduto. La ragazzetta sedette sulla cassa. «Non volevi che guardasse lì dentro, vero?» Scuotendo la testa ella si liberò gli occhi dai lunghi capelli. «Non vuoi che ti domandi perché l'ombrello si trova lì.» Spinse la bambina, ma non fu la sua forza a farla muovere. Ella si alzò dalla cassa, si scostò e gli consentì di sollevare il pesante coperchio. Dopo aver frugato tra i ceppi d'acero, Mario ne tolse l'ombrello. Lo aprì di scatto. «È della signora Hallet?» Rynn lo afferrò, lo chiuse altrettanto fulmineamente e lo gettò sul diva-
no; poi andò, sul pavimento di quercia, accanto al tavolo e là aspettò, lasciandogli capire, con un'occhiata, che doveva raggiungerla. Gli fece cenno di sollevare il tavolo dalla sua parte. Insieme, spostarono il tavolo allungabile dal tappeto intrecciato. Con un piede nudo, Rynn arrotolò il tappeto. Si inginocchiò e fece scorrere il chiavistello della botola. Con una mano sollevò la botola in posizione perpendicolare; poi la lasciò cadere contro la parete. Si raddrizzò e si portò di fronte al primo gradino. Fece cenno a Mario di prendere il candelabro di peltro, di accendere la candela e di seguirla. Mario portò la candela accesa alla ragazzina, che sbirciava giù per la scala. Immobile, ella aspettò che fosse lui a fare il primo passo. Sentì che Mario esitava. Sapeva come ogni suo istinto gli suggerisse di girare sui tacchi, di allontanarsi, di andarsene, di fuggire, in qualsiasi posto, pur di non scendere giù per quella scala, nelle tenebre. Al di là della fiammella guizzante della candela, il ragazzo fissò Rynn. I loro sguardi si incrociarono soltanto per un secondo, ed egli abbassò gli occhi. Rynn continuò ad aspettare che lui scendesse. Infine Mario mosse il primo passo. Rynn lo seguì. 13 «Serve per riscaldarla» disse la ragazzetta, mentre Mario la guardava versare acqua bollente nella teiera. «Noi non beviamo molto tè a casa nostra.» «Se non ti dispiace disporre i biscotti su un piatto, possiamo metterli nel vassoio insieme al resto.» Il ragazzo dispose i biscotti in due cerchi sul piatto, osservò il risultato e parve soddisfatto. «Rynn?» «Mmmm?» «Da quanto tempo tua madre?...» La bambina versò l'acqua fumante dalla teiera nell'acquaio. «Dal diciassette di ottobre.» «Perdinci» esclamò il ragazzo. La osservò lasciar cadere alcuni pizzichi di foglioline di tè nella teiera. «Ma, dico, i cadaveri non?...»
La ragazzetta versò l'acqua bollente dal bricco sulle foglioline di tè. «Non si decompongono?» Mario, che si accorse di non riuscire a pronunciare quella parola, fece di sì con la testa. Dalla credenza, Rynn tolse piattini e tazze da tè e gli disse di mettere tutto sul vassoio. Lui fece come gli era stato detto, ma aspettava di sentirla spiegare in qual modo si può impedire a un cadavere di decomporsi. «Puoi metterci roba addosso» ella disse, aprendo il frigorifero e togliendone una scatola di latte. «Ah sì?» Rynn riempì una piccola lattiera e gliela porse. «Perdinci» eslamò lui. «Ma in che modo hai imparato a farlo?» «Il vassoio è pronto, adesso, se vuoi portarlo davanti al caminetto.» «Okay.» Le fu riconoscente perché non gli aveva domandato se riuscisse a portare il vassoio senza l'aiuto del bastone, e lo tenne con somma cura mentre la ragazzetta toglieva due cucchiaini da un cassetto. «Rynn?» Lei uscì dalla zona cucina e corse a far posto per il vassoio sul tavolino da caffè. Tenendo il vassoio in modo da compensare la sua andatura zoppicante, Mario lo portò davanti al fuoco, ove Rynn aspettava. «Come ho imparato a fare quelle cose a un cadavere? È questo che vuoi sapere?» Il ragazzo, sempre con il vassoio del tè tra le mani, non rispose. «Te l'ho detto. È né più né meno come cucinare. Si dà il caso che io sappia leggere.» «In biblioteca ci sono libri su cose di questo genere?» La ragazzetta prese l'attizzatoio e spinse indietro un ceppo d'acero. «In biblioteca c'è tutto.» «Perdinci. Immagino di si.» Mario posò il vassoio sul tavolino. Tolse dal divano l'ombrello a strisce colorate della signora Hallet. «Dovremo sbarazzarci anche di questo.» Rynn sembrava assorta nella contemplazione del fuoco. «Hai notato?» le domandò lui. «Ho detto dovremo.» «L'ho notato. Grazie.» «Tornerà. Hallet, voglio dire.» «Lo so.» «Ti aiuterò.»
La bambina lasciò cadere l'attizzatoio nella cassa della legna. Il ragazzo rimase con l'ombrello in mano. «Naturalmente, hai il diritto di sapere che cosa è accaduto.» Quando Rynn sedette con disinvoltura sul pavimento, accanto al tavolino da caffè, parve a Mario che si muovesse, nel lungo caffettano bianco, con la stessa grazia di una ballerina. Rynn si accosciò con i nudi piedi sotto le gambe. Mario appoggiò una mano al tavolino per sederle di fronte sul pavimento. Infilata una mano sotto i ricami blu intorno al colletto del caffettano, Rynn sfilò di sotto il vestito una lettera piegata e gliela porse. Alla luce del fuoco, il ragazzo vide la scrittura ferma in inchiostro nero sulla carta da lettere grigia; era una lettera che il padre di Rynn aveva scritto alla bambina durante l'ultima loro notte a Londra. Mentre lui leggeva, la ragazzetta dispose le due tazze, mise il colino su una di esse, sollevò la teiera e cominciò a versare con cautela. Mario lesse la lettera due volte, poi tornò a piegarla, e, poiché intuiva che non doveva posarla sul tavolino, che non doveva metterla in nessun posto se non di nuovo nelle mani di Rynn, la tenne tra le dita. «A Londra mio padre si era sottoposto a cure per quella che credevamo fosse un'ulcera allo stomaco. Un giorno, in primavera... quando continuava a far luce fino alla sera tardi, una di quelle sere in cui gli uccelli continuano a cinguettare, arrivammo a piedi fino a quello che era stato - quando lui non era ancora malato - il nostro ristorante prediletto. Un ristorante indiano. Il babbo ordinò curry. Un uomo che soffriva di ulcera allo stomaco? Uno di quei curry terribili, pieni di spezie! Lo fissai. Lui si sporse oltre il tavolo, mi baciò e disse che ormai non aveva più importanza.» Rynn aveva riempito le due tazze di tè. «Latte e zucchero?» Mario annuì. I movimenti della ragazzetta erano esperti. Mise nel suo tè due minuscoli cucchiaini di zucchero. Versò il quantitativo esatto di latte che occorreva per riempire la tazza, interrompendo il getto con uno scatto del polso così abile da non versarne nemmeno una goccia. Gli porse il piattino. Lui lo tenne e la tazza vi tremolò sopra. Rynn mise appena un pizzico di zucchero nella propria tazza, la sollevò delicatamente, ma poi, invece di sorseggiare, prese il cucchiaino e rimescolò il tè. «Dopo aver cenato, il babbo e io passeggiammo e passeggiammo nella mite notte di Londra. Studiammo insieme - molto attentamente - quello
che bisognava fare, una volta morto mio padre, per impedire alla mamma, che risiedeva in Italia, di avventarsi su di me.» La tazza e il piattino del ragazzo tintinnarono quando egli posò l'una e l'altro. La bambina prese la lettera e la rimise sotto il caffettano. «Quando dico la parola mamma, non significa niente per me. Il solo ricordo che serbo di lei sono le unghie verniciate di un rosso vivido. Era fuggita anni prima. E fu in realtà una gran bella cosa, in quanto una volta l'avevano tratta in arresto per avermi picchiata. Un giorno il babbo tornò a casa e la trovò che si aggirava nell'appartamento ubriaca fradicia. Io era coperta di lividi. E lui, seduta stante, la scacciò di casa e da allora in poi si occupò soltanto di me. Rividi quella donna una sola volta, prima che venisse qui. Fu quando il babbo aveva vinto un premio per le sue poesie, e lei sentì l'odore del denaro. A parte il premio, il babbo aveva un po' di soldi, sai. Non molti; ma abbastanza perché potessimo star certi che, dopo la sua morte, ella si sarebbe precipitata qui ad affondare in me i suoi lunghi artigli verniciati.» Offrì al ragazzo il piatto con i biscotti. «Vuoi?» Mario ne prese uno rivestito di pezzetti di mandorle. «Al posto tuo, io mi sarei rivolto a un avvocato.» «No, non lo avresti fatto.» L'asprezza del suo tono di voce la stupì. «Perché spendere tutto il denaro per gli avvocati e poi dover fare quello che ordina il tribunale? Il risultato sarebbe stato uno solo: il tribunale avrebbe deciso come dovevo essere educata, vale a dire in quale scuola sarei stata rinchiusa.» «Dovresti aver avuto un tutore.» «Un patrigno?» «Dico sul serio.» «E chi? Il babbo non aveva parenti. Le sole persone che conoscessimo erano poeti un po' matti. Sì, i poeti che conoscevamo noi - eccezion fatta per mio padre - potevano avere un talento pazzesco, ma non sarebbero stati dei buoni genitori.» «Del resto, tu non hai bisogno di nessuno, sei tanto intelligente da far girare la testa.» Rynn fissò Mario e lui fece una spallucciata. «Volevo soltanto scherzare.» «Si dà il caso che sia vero. Ecco perché il babbo vendette tutto, si procu-
rò tutto il liquido che poteva e partì dall'Inghilterra senza dire una parola a nessuno. Questo la scorsa primavera. Per tutta la primavera e l'estate viaggiammo con una macchina presa a nolo, dalla Carolina del Nord e dal luogo di nascita di Carl Sandburg, al Maine, per trovare il posto che mi piacesse di più.» «E trovaste questo?» «Devi proprio giocherellare con quell'ombrello?» Mario abbassò gli occhi. Stava tenendo l'ombrello come teneva a volte il bastone da passeggio, quasi fosse stato una bacchetta magica. «Scusami.» Senza alzarsi, sollevò il coperchio della cassa per la legna e vi gettò dentro l'ombrello. Poi riabbassò il coperchio. «Fu subito dopo la Festa del Lavoro. La gente faceva i bagagli e rientrava in città. Percorremmo questo viale, con gli alberi fitti che sembravano protendersi e prendersi per mano in alto. Poi vidi il giardino pieno di zinnie fiammeggianti di colori. Scendemmo dalla macchina e guardammo attraverso la finestra. Era facile capire che nella casa non abitava nessuno. Il babbo mi domandò se fossi proprio certa di poter trascorrere i successivi tre anni della mia vita esattamente come avevamo previsto. Ma non volle che decidessi ancora per una settimana. Insistette affinché riflettessi molto attentamente, dopo aver saputo dall'agenzia immobiliare del villaggio che la casa era libera. Infine la prese in affitto... e pagò la pigione per tre anni.» Alzò la tazza e rimescolò il tè con un cucchiaino, ma non lo sorseggiò. «Buono, questo tè» disse Mario. «Bene» disse lei. «Riusciremo ancora a fare di te un inglese.» Si sbirciarono. Una volta di più, era stato detto qualcosa che li univa nel futuro. «Per quasi tutto il mese di settembre il babbo parve star bene, e se anche il dolore era terribile non disse mai niente. Entrava in quella stanza, chiudeva la porta e prendeva qualche medicina. Fino all'ultimo andammo a fare lunghe passeggiate per i viottoli, sulla spiaggia. Chilometri e chilometri e chilometri. Una domenica sera, quando ancora faceva un gran caldo e si soffocava, eravamo seduti qui in questo soggiorno, al crepuscolo. Lui mise in funzione il giradischi. Liszt. Ci trovavamo qui, come ti ho detto, proprio in questa stanza. Ascoltammo il brano. Nessuno di noi due disse una parola. Poi egli mi prese per mano e uscimmo in giardino. In tono sommesso, il babbo disse che io ero diversa da ogni altra persona al mondo, e che molti non lo avrebbero capito. Non mi avrebbero voluto così com'ero e si sareb-
bero sforzati di cambiarmi. Avrebbero cercato di comandarmi a bacchetta, di cambiarmi e di trasformarmi nel tipo di persona che volevano io fossi. Siccome ero ancora una bambina, non potevo fare altro che starmene per mio conto, tenermi lontano dai guai e rendermi minuscola e inosservata a questo mondo.» «Startene per tuo conto? Sola?» Mario pronunciò quest'ultima parola come se fosse stata soltanto un concetto, qualcosa di assolutamente inimmaginabile per lui, non certo un modo di vivere. «Avevamo studiato ogni minimo particolare» disse la ragazzetta. «Sapevamo benissimo entrambi che non sarebbe stato facile. "Fa' tutto quello che dovrai" disse il babbo. "Lotta contro di loro in tutti i modi a tua disposizione. Sopravvivi." Mi baciò - eravamo sotto il pergolato - poi si allontanò tra gli alberi lungo il viale.» «E non tornò più?» Mario divenne scarlatto, lasciando così capire, immediatamente, che si augurava, per l'inferno, di non aver mai pronunciato quelle parole. Sapeva bene che il padre di Rynn non era più tornato. «In quella stanza... sulla sua scrivania... trovai carte nautiche... tabelle orarie delle maree, sia nello stretto, sia in mare aperto. Aveva studiato le maree. Non lo troveranno mai.» «Piangesti molto?» «Dipende da quello che intendi con "molto". No, penso di no.» «Credi in Dio?» «Sarebbe bello.» «Ma non ci credi.» «Non lo so.» «Nemmeno io.» Masticò un altro biscotto e lo mandò giù con una sorsata di tè. «Non dovresti tenere soldi in casa» disse. «Il babbo e io abbiamo aperto un conto corrente. E ho traveler's cheque a mucchi.» «Ma i bambini possono cambiarli?» Lo sguardo di lei rimase fermo dietro la tazza di tè. «Ti ho appena detto di sì.» Rynn frugò sotto il caffettano, ove aveva messo la lettera. Questa volta tirò fuori una catenina d'oro e fece ciondolare una chiave. Qjuasi sorrise mentre le faceva percorrere un circolo. «Li tengo quasi tutti in una cassetta di sicurezza in banca.» «È la prima volta che sento parlare di una ragazzina con traveler's
cheque.» «Ho detto "mucchi", ma in realtà devo farli durare per tre anni.» Infilò di nuovo chiave e catenella sotto il vestito. «Sicché ora sai» disse. «Già.» Mario stava fissando il tè. «Rynn?» «Mmmm?» «Sarebbe proprio spaventoso se... sì, dico, se tu dovessi stare al gioco?» «Ma abbiamo fatto tutto questo proprio per evitarlo...» «Lo so» disse lui. «No, in realtà non capisco. Forse non capisco quello che intendete tu e tuo padre con "il gioco".» Rynn sospirò profondamente, come per accusarlo di non voler capire. «Il gioco significa fingere. Significa imitare le manifestazioni della vita. Ma non è vivere.» «Andare a scuola vuol dire vivere.» «No.» Rynn scosse la testa finché dovette poi scostarsi i lunghi capelli dagli occhi. «Andare a scuola vuol dire sentirsi dire da altri che cos'è la vita, non scoprirlo per proprio conto.» «Ma non si può non andare a scuola!» «Perché?» «Per imparare qualcosa.» «Come ad esempio?» «A leggere e a scrivere. E...» «Non so leggere, io? Non so scrivere?» «Okay. Perché ti ha insegnato tuo padre. Ma se uno non ha un padre come il tuo?» «Ho mai detto, forse, che parlavo per gli altri e non soltanto per me stessa? Se la scuola ti piace tanto, buon pro ti faccia.» «Però non credo che tu dica sul serio.» «Perché dovrei volere che tutti siano come me, più di quanto io voglia essere come tutti gli altri?» «Io non sono come tutti gli altri» protestò Mario. «Sto parlando di loro.» «Loro chi?» «Tutti quegli altri, con le bolle di gomma da masticare, la musica fracassona e le partite di rugby.» «Non sono tutti così...» «La scuola va bene per i marmocchi che cresceranno e non scriveranno mai una poesia, non canteranno mai una canzone e non faranno niente.»
La sua fiducia in quanto stava dicendo era assoluta. «È come fare un gioco di prestigio. Ti ha mai insegnato, la scuola, a fare giochi di prestigio?» «No.» «Vedi?» Incrociò le braccia sul caffettano bianco. «Il gioco è per la gente che vuole regole perché ha paura di credere in qualcosa che non sia già creduto da tutti gli altri. Hanno il terrore, tutti quanti, di allontanarsi dalla strada dove abitano e di fare qualcosa della loro vita. Il gioco è per la gente che vuole sentirsi dire cosa deve fare. Okay. Tanto meglio per loro, se è quello che vogliono.» «Non tutti possono essere come te.» «Nessuno è come nessun altro! Te l'ho appena detto, nessuno è obbligato a vivere come vivo io.» «Vivere in questo modo... perdinci! Voglio dire...» «Sì?» Di nuovo il tono aspro, la sfida. «Voglio dire che la gente si aiuta a vicenda.» «Tu hai una famiglia.» «Anche gli altri. Vogliono rendersi utili. A volte» soggiunse debolmente. «Nel caso mio non c'era nessuno. Vorresti forse dire che il babbo e io non riflettemmo a lungo e intensamente? Immagini, per caso, che decidemmo una cosa simile da un momento all'altro? Per me, sai, avrebbe significato qualche schifosa scuola, puzzolente di gesso e di cavoli...» «Avresti potuto trovare una buona scuola.» «Una buona scuola! Una scuola dove mi avrebbero detto come dovevo vivere, che cosa dovevo pensare, che cosa dovevo fare per tutto il resto della vita. Una scuola dove i miei soldi sarebbero stati amministrati da qualche avvocato, fino a quando loro non avessero deciso che ero grande abbastanza per avere quanto mi apparteneva. Del resto...» Rimescolò il tè. «Vivo in questo modo soltanto provvisoriamente. Devo soltanto essere prudente, finché loro non giudicheranno che sono grande abbastanza per poter fare come voglio.» «Ma chi sono questi loro?» «Tutti!» «Mamma mia! Lo sai che impressione fa? Sì, insomma, continui a dire loro... come se tutti ce l'avessero con te.» «Forse è così.» Il ragazzo inghiottì un sorso di tè prima di dire: «Ma devi pur fidarti di qualcuno!».
Improvvisamente, si accorse di non poter sostenere lo sguardo di Rynn. Né ella riusciva a guardare negli occhi lui, come se soltanto in quel momento, soltanto dopo che la ragazzina gli aveva detto cose mai rivelate a nessuno, avessero cominciato entrambi a rendersi conto di quello che lei, di quello che entrambi, avevano fatto. Mario fissò il tè che Rynn non aveva toccato. «Come ti trovò... lei... tua madre?» Rynn posò la tazza sul tavolino da caffè e guardò il fuoco. «La colpa fu mia, in realtà. Una poesia che pubblicai. I primi sentimenti ispirati da questo posto. Amici suoi la lessero in Inghilterra e gliela mandarono in Grecia. Persone pratiche di Long Island riconobbero i luoghi che descrivevo. Un giorno, un tassì si fermò li fuori, nel viale...» Mario si domandò se intendesse continuare. Forse aveva già saputo tutto quello che lei era disposta a dirgli. Sentì che chiederle di rivelare di più avrebbe potuto indurla a chiudersi nel silenzio. Ma fu Rynn a parlare. «La porta di casa era aperta. Lei entrò decisa... con le unghie rosse come sempre. Mi odiai perché facevo una cosa simile, ma finsi di essere contenta di rivederla. Dio mio, che faccia tosta aveva avuto, venendo qui... Era una di quelle donne persuase che tutti siano disposti a perdonare loro qualsiasi cosa. Si mise a sedere proprio su quella sedia, fumò le sue sigarette dal bocchino d'oro e continuò a cianciare e a cianciare, dicendo che l'inquinamento nel Mediterraneo stava diventando spaventoso, che odiava e detestava i greci, e che sarebbe stato meraviglioso vivere qui.» Rynn voltò le spalle al fuoco per guardare al di là di Mario e della sedia a dondolo. «Prendemmo persino il tè. Voleva un liquore, ma non ne avevo. Sì, il tè. E questi stessi biscotti alle mandorle.» «Sono molto buoni.» «Piacquero anche a lei.» Il ragazzo ne prese un altro. Aveva un forte sapore di mandorle. Dopo un momento domandò: «Lo mettesti nel tè?». La ragazzetta annuì. Mario, che in quel momento stava sorseggiando, smise di colpo e si domandò se sarebbe riuscito a deglutire. «Cianuro di potassio.» Il ragazzo stava cercando di impedire che la tazza tintinnasse contro il piattino.
«I Wilson avevano adoperato lo studio come camera oscura. Trovai il veleno quando il babbo e io mettemmo via le sostanze chimiche che adoperavano per sviluppare le fotografie. Come ho già detto, so leggere. Lessi l'avvertimento sull'etichetta.» Il tè della bambina scintillava alla luce del fuoco. Rynn non ne aveva bevuto un solo sorso. Fissò Mario negli occhi. Molto calma, disse: «È ancora bollente. Non ho aggiunto latte freddo nel mio». Mario si domandò se si fosse accorta che lui aveva cominciato a sudare. Ma Rynn stava pensando a sua madre. «Vedo ancora quelle sue unghie rosse mentre teneva la tazza. Dopo alcuni sorsi disse che il tè sapeva di mandorle.» La tazza di Mario tintinnò finché il piattino non venne a trovarsi sul tavolo. «Naturale che sapeva di mandorle.» La ragazzetta si scostò i capelli dagli occhi con un movimento brusco della testa. «Sai che cosa le dissi?» La faccia di Mario era lucida al riverbero del fuoco. Egli sentiva la camicia, zuppa sotto le ascelle e sulla schiena, appiccicarglisi al corpo. «"È il biscotto alle mandorle" le dissi. E lei ci credette. "Li ho comprati da Fortnum" dissi. "Magnifico" disse lei. Ed era vero... trovava davvero la cosa magnifica. Le piaceva tutto quello che veniva acquistato nei negozi di lusso. Cuciva etichette famose sui cappotti e si serviva soltanto delle borse per la spesa più eleganti. Quelle di Harrods, come minimo.» Rynn si trovava nel suo mondo, si sarebbe detto che stesse parlando a se stessa. Mario sentì la gola chiuderglisi. Era tremendamente conscio di ogni suo respiro. Ogni volta gli riusciva più faticoso respirare. «Quanto tempo ci volle?» riuscì a domandare. «Fu una cosa molta rapida, in realtà.» «Prima ci si sente sonnacchiosi?» «A quanto pare. Molto.» La mano di Mario tastò il pavimento. Era fermo. Gli parve di essere febbricitante; continuava a sudare. Ogni respiro gli costava uno sforzo crescente. La tazza intatta di Rynn scintillava davanti a lui. «Sei stanco?» Mario scosse la testa per negare lo sfinimento contro il quale stava lottando. «No.» La sua voce parve un gracidio. «Non mi stupirei se tu lo fossi» disse Rynn. «È tardi.» Gli cercò la ma-
no, ma lui la tirò indietro. «Sai quale sarebbe, secondo me, un'ottima idea? Credo che sarebbe un'ottima idea se tu telefonassi ai tuoi genitori. Per dire che sei ancora alla festa di compleanno.» «Ma non ci sono...» Mario tossì. «Ma prima hai detto a tua madre che ti trovavi là.» Mario stava scuotendo la testa. Non voleva telefonare. «Davvero. Credo proprio che dovresti telefonare ai tuoi. Vuoi che porti qui il telefono?» «In che modo potrebbe giovare a te?» «A noi» ella lo corresse. «Lo zio Ron sa che sono qui.» «Ma non lo dirà... Telefona. Di' che sei ancora alla festa.» Di nuovo lui scosse la testa. No. «Poi che cosa accadde? A lei, voglio dire?» «A mia madre? Non riusci più a respirare.» «E poi?» «Poi? Finalmente non fece altro che... che afflosciarsi. Su quella sedia.» I pensieri di Mario erano vorticosi. Avrebbe telefonato. Poteva dire alla ragazzetta che telefonava alla sua famiglia e chiamare invece l'ospedale e dire che mandassero un'ambulanza. «Rimase su quella sedia per molto tempo mentre io mi domandavo che cosa fare di lei. Non mi venne in mente la botola della cantina. Non sul momento. Come hai detto tu dell'arte magica, uno non pensa a fare quello che è ovvio. Non subito.» Mario la vide prendere la teiera. «Ancora?» Infiacchito dalla paura, fece un cenno di diniego. «Credo che telefonerò.» «Bene.» La bambina si alzò. «Aspetta qui, ti porto l'apparecchio.» Corse, a piedi nudi, sul pavimento lucido. Gli mise accanto il telefono. «Sei proprio stanco.» Mario si costrinse a tirarsi su. «Vuoi che ti faccia io il numero?» Sicché è questo il suo piano. Sa che chiederò aiuto e non mi consente di telefonare ad altri che ai miei, e in questo modo si prepara un alibi... Che cosa posso fare? Posso afferrare il telefono e chiamare l'ospedale?
«Ti senti bene?» «Sì, okay» riusci a bisbigliare. Che cosa posso fare? La sua mente pensava con frenesia; prese in considerazione la possibilità di fuggire dalla casa. Con il suo dannato bastóne. Sin dove poteva sperar di arrivare?... A un tratto la mano della ragazzetta si mosse e quel gesto fece cessare ogni ulteriore proposito di fuga. Riuscì soltanto a fissarla con gli occhi spalancati. Rynn aveva preso la tazza e stava sorseggiando il tè. Con l'altra mano bianca prese un biscotto alle mandorle e lo mordicchiò. La punta rosea della lingua, simile a quella di lana gattina, passò sulle labbra, raccogliendo le briciole. «Ascolta» ella disse, ma questa volta non vi fu alcun tono incalzante nell'invito. Mario tese l'orecchio per udire quel che aveva attratto la sua attenzione. «È il vento» disse. «Creature che ciangottano sui tetti e fischiano nell'aria.» Di nuovo Rynn gli cercò la mano. Questa volta lui non la ritirò. Ella prese a parlare e Mario si domandò se i versi fossero una poesia di suo padre. Spaventosa una tempesta frantumò l'aria Sparute eran le nubi, e poche. Una tenebra, simile al mantello d'uno spettro, Alla vista sottrasse cielo e terra. Creature ciangottavano sui tetti E nell'aria fischiavano E i pugni agitavano E i denti digrignavano I capelli frenetici facendo vorticare. Rynn si alzò e portò silenziosamente il vassoio in cucina. Poggiando entrambe le mani sul tavolo, Mario constatò che sarebbe riuscito ad alzarsi. «"I capelli frenetici facendo vorticare." Mamma mia!» «Ti danno un brivido, queste parole?» «Come carta vetrata passata su e giù sulla schiena, come quando all'opera la situazione diventa proprio drammatica.» Aspettò che ella gli avesse voltato le spalle per tirarsi su. Una volta in
piedi e sicuro di essere ancora vivo, si consentì il suo meraviglioso, solare sorriso. La ragazzetta sciacquò le tazze da tè e le mise sullo scolapiatti. Poi asciugò la teiera. Mario si stiracchiò le braccia finché non sentì i muscoli del suo corpo giovane dolergli piacevolmente, e il sangue scorrergli nelle membra. Si contorse tutto, godendosi la sensazione di calore. Quando Rynn, con la teiera in mano, si voltò verso di lui, lasciò ricadere a un tratto le braccia e rimase immobile. Sebbene un sollievo immenso gli stesse scaturendo dentro, e nonostante tutto l'amore che provava per quella ragazzetta, non osò tradire nulla. Doveva mascherare la sua improvvisa felicità, altrimenti il cambiamento brusco avrebbe rivelato tutti i dubbi dai quali era stato assediato fino ad appena un momento prima. «L'ha scritta tuo padre?» «No, Emily Dickinson.» «Hai altre poesie scritte da lei?» «Le conosco quasi tutte a memoria.» Mario si avvicinò alla sedia a dondolo. Rynn osservò il ragazzo mentre si metteva a sedere. Adagio attraversò la stanza fino alla sedia e si lasciò cadere sul pavimento accanto a lui. Gli appoggiò la testa a un ginocchio. Egli le cercò con la mano i capelli castani e lucenti. La mano di Rynn coprì quella di lui. 14 Una settimana trascorse. Mario non poté recarsi da Rynn domenica, perché la domenica, come le spiegò, significava la Messa in mattinata, un pranzo in famiglia di portata quasi tribale, e visite a innumerevoli parenti. Ma andò a trovarla due volte durante la settimana. Lunedì le riferì che la Bentley color fegato era stata rimorchiata, ancor chiusa a chiave, nell'autorimessa di suo padre. Tutti nella cittadina sapevano che la signora Hallet era scomparsa. Al distributore di benzina e per le strade, la gente che risiedeva lì tutto l'anno aveva cominciato a porsi domande al riguardo nel salutarsi. Poiché non si sapeva niente di sicuro, tutti si scambiavano soltanto voci. E queste voci, annunciò Mario, dimostravano soltanto fino a qual punto la gente odiasse gli Hallet. Giovedì, egli passò in rassegna gli avvenimenti della settimana, inco-
minciata con la notizia sparsa dalla maggior parte degli abitanti del villaggio, secondo i quali la moglie di Frank Hallet, presi con sé i bambini, lo aveva piantato. Per i vicini, l'abbandono costituiva la prova che aspettavano. Non dimostrava, questo, forse, che Hallet aveva avuto qualcosa a che vedere con la scomparsa di sua madre? A metà settimana, concordavano tutti nel dire che Frank Hallet aveva sempre odiato sua madre. Nell'autorimessa, il padre di Mario comprovava tale asserzione ricordando a ogni suo cliente che si fermasse per fare il pieno, per il cambio dell'olio o per una messa a punto, come i rapporti fossero sempre stati tesi tra madre e figlio. In fin dei conti, lei aveva sempre impedito a Frank di guidare l'ormai leggendaria Bentley color fegato. Nessuno, tranne Mario, si fece mai vedere nella casa sul viale. O, più precisamente, nessuno bussò mai alla porta. Durante la notte, Rynn aveva veduto il riflettore di una macchina di pattuglia illuminare la casa. L'agente Miglioriti stava tenendo d'occhio il posto. Rynn badava bene a chiudere porte e finestre e ogni notte lasciava accesa la lampada fuori della casa. Se qualcuno - e non riusciva a indursi a pensare che quel qualcuno potesse essere Hallet - se qualcuno era passato davanti alla finestra sulla facciata, ella non aveva veduto alcuna ombra contro le tende. Durante le ore di scuola, non si faceva vedere per le vie del villaggio, timorosa che qualche adulto la fermasse e le domandasse come mai non frequentava le lezioni. Dopo la scuola, quando gli allievi andavano a zonzo, non osava uscire di casa per paura che Mario potesse non trovarla. Nell'eventualità che il telefono fosse sorvegliato, non se ne servivano per parlarsi. Quel sabato, come il sabato precedente, Mario portò la bicicletta nell'ingresso, ma non a causa della pioggia. La giornata, fino a quel momento, era rimasta fredda e limpida, ma riconobbero che sarebbe stato assurdo lasciar fuori la bicicletta, facendo così capire, a chiunque avesse percorso il viale, che il ragazzo si trovava in casa. Che giornata meravigliosa per andare a spasso! Il cielo, sopra i rami degli alberi, splendeva azzurro, e appena qualche nube in rapida fuga modificava la luce gialla e vivida del sole autunnale rendendola nebulosa e ambrata. Rynn, pur rendendosi conto che riusciva penoso a Mario camminare, era grata di averlo al proprio fianco e di tenerlo per mano; per più di due ore camminarono lungo i viottoli e sulla spiaggia, ove si stendeva una risacca
grigia come piombo. Sotto il cielo immenso, la spiaggia era deserta, tranne alcuni gabbiani che aspettavano di avere quasi addosso i due intrusi prima di battere le ali stridendo e di salpare nel vento. Sola con Mario sulla spiaggia, Rynn lo condusse fino alla sabbia bagnata, ove le onde si frangevano stendendo liquidi veli e scomparendo sotto i loro piedi. Poi gli mise in mano qualcosa. Lui non ebbe bisogno di guardare per sapere che stava stringendo le chiavi della signora Hallet. La ragazzetta gli disse che lui poteva lanciarle più lontano di quanto ella fosse capace. Quando le chiavi furono scomparse in mare, proseguirono in silenzio. Nessuno dei due parlò della fatica che li aspettava. Durante la settimana, avevano studiato in ogni particolare quello che dovevano fare. Ora stavano aspettando che cominciasse la parata di rugby nella cittadina. Frank Hallet lo aveva detto, e Mario riconosceva che era vero. Il sabato, tutti andavano alla partita. All'una, quando la partita ebbe inizio, si recarono sotto il pergolato e lo esplorarono in silenzio. Poi Rynn si appostò di lato alla casa: una sentinella attenta a chiunque potesse avvicinarsi da una parte o dall'altra del viale. Mario rastrellò le foglie sul terreno al di là del pergolato e cominciò a scavare. La terra del vecchio giardino, lavorata per tante generazioni, era priva di sassi e di radici intricate e cedeva sotto la vanga. Dopo un'ora, la ragazzina che, addossata con il giacchettone di lana al tronco di un ippocastano, osservava Mario intento al lavoro, ascoltando i cozzi metallici della vanga contro qualche raro sasso, riuscì a vedere soltanto il capo e le spalle di lui al di sopra della fossa. Quando quest'ultima fu ancor più profonda, rientrarono in casa e Rynn accostò le tende della finestra sulla facciata. «Okay?» domandò Mario. Rynn annui, dandogli il segnale dell'inizio. Insieme, spostarono il tavolo da un lato, arrotolarono il tappeto intrecciato e sollevarono la botola, appoggiandola alla parete. Mentre Rynn correva in cucina a prendere due scatole di strisce di plastica, Mario aprì la finestra che dava sul pergolato. Poi, a un nuovo cenno di Rynn, precedette la ragazzetta nella cantina. Soltanto un piano studiato nei minimi particolari avrebbe potuto consentir loro di agire così rapidamente. A fatica risalirono la scala della cantina, con il primo dei loro fardelli bene avvolti. «Attento» bisbigliò Rynn. «Non imbrattarti con quella sostanza chimi-
ca.» «Appoggialo sul davanzale della finestra» grugnì Mario. «Okay. Ora spingiamo tutti e due.» Stavano portando su dalla cantina il secondo fardello quando il clacson di un'automobile squillò. Il cuore di entrambi parve fermarsi. «È stato nel viale» bisbigliò Mario. «E se venissero qui?» Per un attimo, Rynn frugò con lo sguardo la faccia del ragazzo prima di accennare alla finestra spalancata. «Dobbiamo portarlo fuori. Presto!» Mentre Mario scavalcava il davanzale per seguire il secondo fardello nel pergolato, Rynn chiuse la finestra, accostò le tende, corse alla finestra sulla facciata e sbirciò fuori. Dopo più di un minuto, uscì dalla porta di casa e andò nel giardino sulla facciata, da dove poteva vedere il viale fino in fondo. Poi corse sulle foglie morte e voltò all'angolo della casa per riferire a Mario che un cane bianco era passato davanti a un'automobile. Così come avevano lavorato insieme in casa, portarono insieme i due fagotti avvolti fino alla fossa. Mario afferrò la vanga e l'affondò nella terra smossa; Rynn, in piedi all'angolo della casa, sentì il freddo solletico della nebbia sulla faccia mentre se ne stava rannicchiata nel punto dal quale poteva vedere sia il giardino, sia il viale tra gli alberi. Ascoltò la terra cadere con tonfi sordi nella fossa, dalla vanga di Mario, e rabbrividì mentre frugava con lo sguardo le grigie nubi che andavano estendendosi e riempivano il cielo. Già un piovischio luccicava sulle foglie e sui rami. Quando la pioggerella divenne più fitta, Rynn abbandonò il proprio posto per andare a prendere in casa l'impermeabile di suo padre e portarlo al ragazzo, ma constatò che il pullover e i jeans di Mario erano già zuppi. Aveva i capelli neri piatti e bagnati sulla testa e l'acqua gli scorreva a rivoli sulla faccia accigliata. La terra appena smossa si scioglieva, diventrva fango scivoloso e quasi liquido, pesante sulla vanga, ma il ragazzo lavorava senza sosta. Rynn corse di nuovo in casa e riscaldò un barattolo di zuppa di sedano, poi gli portò la zuppa entro una tazza, sotto la pioggia sferzante. Mario si interruppe soltanto quanto bastava per mandar giù la zuppa bollente. «Rientra in casa.» I denti gli battevano sulla tazza. «È inutile che ci in-
fradiciamo tutti e due.» Rynn prese la tazza vuota, che continuò a scaldarle le mani, e tornò al posto di guardia. Ben presto, la tazza si raffreddò e lei alzò fino alle orecchie il colletto del giacchettone umido, che sapeva di lana bagnata. Si domandò per quanto tempo ancora sarebbe riuscita a resistere, tremante di freddo, aspettando lì, sotto la pioggia. Mario, almeno, riempiva la fossa e questo lo teneva in movimento. Decisa a non abbandonare lui e il proprio posto, si limitò a indietreggiare quanto bastava per mettersi al riparo della gronda dalla quale l'acqua di una tubazione rotta zampillava ai suoi piedi. Mentre i minuti scorrevano lenti e lei seguitava a scostarsi dalla faccia ciocche bagnate di capelli, provò, sempre e sempre più forte, la tentazione di fare come le aveva detto Mario, di correre in casa, di togliersi di dosso il vestito bagnato e di accendere il fuoco, una bella vampata calda. «Ehi!» Rynn si irrigidì. Qualcuno stava chiamando attraverso la pioggia. Non osò nemmeno respirare. Stette bene attenta ad alzare gli occhi adagio, per non tradire lo stupore e la paura, nella direzione della voce. Là, tra i tronchi degli alberi lungo il viale, c'era un uomo che veniva verso di lei, un uomo diretto verso il giardino dietro la casa. Avrebbe dovuto avvertire Mario con un grido? Ma che cosa poteva fare, lui? Rynn schivò lo zampillo e si affrettò verso lo sconosciuto. A metà distanza rallentò il passo. L'uomo indossava una giacca impermeabile rossa il cui cappuccio gli copriva la testa. Con gli stivaloni di gomma nera sembrava un alto ed esile Babbo Natale che venisse verso di lei tra i tronchi degli alberi. La mente di Rynn cercò qualcosa da gridare, qualcosa da fare, qualche espediente che potesse impedire all'uomo di avvicinarsi alla casa. Impulsivamente, corse avanti e gli si fece incontro. «Hai visto il mio cane?» Rynn era certa che, da dove si trovava, l'uomo non potesse vedere il giardino dietro la casa, ma temeva che potesse udire la vanga di Mario far cadere la terra bagnata. «Il cane» gridò lo sconosciuto. «Sto cercando il mio cane.» «Che genere di cane?» Rynn costrinse la propria voce ad assumere un tono uniforme, nel tentativo di nascondere il panico. «Un mastino inglese.»
«Bianco?» «Lo hai visto?» L'uomo stava per farsi più vicino, ma lei annuì e indicò il viale, lontano dalla casa. «Laggiù.» L'uomo si fermò. «Circa dieci minuti fa.» «Grazie.» L'uomo si voltò, ma non si mosse. Vattene! Che cosa voleva, ancora? «Faresti meglio a entrare.» La voce di lui si tramutava in nebbia bianca. «Qui fuori ti bagnerai tutta.» Rynn seguì con lo sguardo la giacca rossa allontanarsi tra gli alberi e arrivare sul viale. Soltanto quando l'uomo fu scomparso, tornò incespicando verso l'angolo della casa. Prima di aver raggiunto il pergolato, udì i tonfi della vanga sul fango. Si rannicchiò sotto la gronda, osservando Mario che lavorava. Quando, finalmente, il ragazzo appiattì i grumi di fango con il rovescio della vanga e cominciò a riportare, servendosi del rastrello, le foglie bagnate sulla terra smossa, lei corse in casa. Allorché Mario ebbe finito in giardino, Rynn aspettava alla finestra con un enorme accappatoio. «Getta la vanga sotto la veranda.» Infangato, con i vestiti bagnati che gli si appiccicavano addosso, Mario fece sentire a Rynn quella stessa stretta al cuore che aveva provato vedendo un cucciolo, grassoccio e lanugginoso, miseramente bagnato e tremante. Egli era altrettanto indifeso e vulnerabile. Il ragazzo non eseguì il suo ordine. Lanciò invece la vanga nel fitto intrico di cespugli in fondo al giardino. Questo non era stato previsto dal piano, ma si trattava di una decisione più assennata di quella dì lei. Rynn trascinò dentro Mario e si voltò rapidamente a chiudere la porta e a girare la chiave nella toppa. Mentre egli si toglieva le scarpe infangate, gli coprì i capelli neri e gocciolanti con l'accappatoio. «Sei bagnato fradicio!» Cominciò a strofinargli vigorosamente i capelli. «Devi riscaldarti e asciugarti. Presto!» Quando lui si sporse per appoggiarsi alla bicicletta, gli incuneò la spalla sotto il braccio. Sostenendo gran parte del suo peso, gli fece attraversare l'ingresso.
Mario tossì. Lo esortò ad asciugarsi i capelli, lo fece indietreggiare verso le scale e lo costrinse a sedersi, poi gli sfilò i calzini bagnati. «Avevi ragione sostenendo che dovevamo farlo un sabato» gli disse, arrotolandogli sulle caviglie e sui piedi le calze di lana zuppe. «Erano davvero tutti alla partita.» Lui risucchiava il respiro attraverso i denti che gli battevano, incapace di parlare, tremando in tutto il corpo. «Non appena ti sarai tolto il resto di questa roba bagnata, troverai di sopra la vasca piena d'acqua calda. Sbrigati!» Diede strattoni al pullover, pesante e zuppo anch'esso. Gli sbottonò la camicia bagnata e gelida, staccandola dalle spalle bianche che tremavano. «Avrei dovuto aiutarti, là fuori.» Gli sfibbiò la cintola. Le mani tremanti di lui, livide di freddo, annasparono, ma riuscirono a fare scorrere la lampo dei calzoni, in modo che Rynn potesse sfilarglieli. Sotto l'accappatoio, simile a una tenda sulla testa del ragazzo, ella sorprese gli occhi neri intenti a fissarla e sentì una trafittura di rimorso. Sapeva benissimo quello che stava pensando e, mentre gli sfilava i calzoni, stette bene attenta a non guardargli le gambe per vedere se fossero storpie. Entrambe le gambe, a quanto poté intravedere, sembravano uguali, bianche e senza peli; entrambe tremavano di freddo. «È come lasciare che qualcuno ti guardi il dente scheggiato» disse. Lo trasse a sé e gli avvolse intorno l'accappatoio. «Su, vieni.» Ma, dopo un solo passo, lui si irrigidì. Si tolse l'accappatoio dalla testa. «Non senti qualcosa?» «No.» «Che cos'è?» «Niente» disse Rynn, ma stava tremando a sua volta. «Be', non preoccuparti così. La pioggia non potrà mica portar via tutta quella terra, là nel giardino.» La cinse con un braccio Era lui, adesso, ad aiutarla a salire le scale. «Vieni, e non ti crucciare. Ho scavato una fossa molto profonda.» Rynn si irrigidì a sua volta e rimase immobile. Qualcosa di ancor più grave della preoccupazione che la terra potesse essere asportata di quanto si era trovato nella cantina la stava paralizzando. A malapena riuscì a pronunciare le parole. «L'ombrello. Abbiamo dimenticato l'ombr...»
«Si trova con lei.» Dal bagno al piano di sopra udirono il telefono, sulla credenza in cucina, trillare stridulo ancora e ancora, per molto tempo dopo che la grande maggioranza di coloro i quali potevano telefonare si sarebbe stancata. Rynn, strofinandosi un asciugamano sulle braccia bagnate, scese di corsa le scale e afferrò il ricevitore. «Pronto?» La comunicazione era aperta, ma chiunque fosse in linea non disse niente. Silenzio. Con l'istinto che perviene a una conclusione più fulmineamente di quanto i processi logici possano concatenare i fatti, ella si rese conto che Frank Hallet doveva trovarsi in qualche posto, nel pomeriggio piovoso di quel sabato, ad alitare in un telefono. Si sforzò di esprimersi con calma e quando parlò la sua voce parve neutra, troppo placida, troppo controllata. «Signor Hallet?» Dov'era? Nell'agenzia immobiliare? In casa? In qualche cabina telefonica? Non aveva importanza; egli sapeva dove si trovava lei, e stava aspettando. «Lo so che è lei, signor Hallet. Questo pomeriggio tutti gli altri sono alla partita.» Immise nella voce un tono tagliente, quello stesso tono che aveva udito sulla bocca delle signore di Londra, quando si rivolgevano a commessi e cameriere. «Signor Hallet, dovrebbe sapere che ho detto a mio padre della sera di sabato scorso. Temo che egli abbia deciso di riferire il suo comportamento alla polizia. La polizia sta sorvegliando la casa già adesso.» Avrebbe dovuto riattaccare. E invece rimase al telefono, se ne rese conto, un momento di troppo prima di abbassare il ricevitore con uno scatto. Non voleva far pensare in alcun modo a quell'uomo, da come aveva concluso la telefonata, di essere ancor più terrorizzata di quanto egli già sapesse. Nell'ingresso, prese i vestiti bagnati di Mario e li portò davanti al caminetto. Lasciò cadere le scarpe infangate, distese la camicia sulla spalliera della sedia a dondolo e appese i calzini al bracciolo. Quanto ai jeans, li scrollò e li drappeggiò tra il tavolino da caffè e il caminetto. Con l'attizzatoio, spinse giornali appallottolati sulle braci finché la carta non ebbe preso fuoco. Aggiunse pezzi di corteccia tolti dalla cassa della legna e dispose sugli alari un altro ceppo. Tolse un disco dalla custodia e lo mise sul piatto del giradischi. Regolò il volume del suono quasi al minimo, e il concerto per piano di Liszt cominciò a riempire il soggiorno.
Un calzino cadde dal bracciolo della sedia a dondolo. Lei lo prese e senti con le dita che c'era un buco nel calcagno. Udendo i passi sulle scale si voltò. Era uno scherzo della luce, naturalmente, ma per un momento suo padre, con tanto di pipa in bocca, parve profilarsi dinanzi a lei. «Bella vestaglia» disse Mario. «È anche della mia misura.» Rynn gettò il calzino sulla sedia a dondolo e si affrettò a portarsi ai piedi delle scale, davanti al ragazzo, che si avvolse un asciugamano intorno al collo. Si tolse la pipa di bocca e gliela consegnò. «L'ho trovata nella tasca.» La mano di Rynn si chiuse sulla pipa, sentendone la forma familiare. Ella porse l'altra mano al ragazzo. «Davanti al fuoco starai caldo.» Alla luce delle fiamme, si inginocchiò dietro di lui per asciugargli i capelli. «Chi ha telefonato?» «Nessuno.» Continuò a sfregargli l'asciugamano sui capelli. «Rynn?» «No, davvero. Chiunque fosse, non ha detto una parola.» «Hallet?» «Naturalmente.» «Quell'anormale» fece lui, e tossì. «Stai ancora rabbrividendo.» Tolse una coperta dal divano e lo avvolse con quella. «Ecco, così. Sta' più vicino al fuoco. E, Mario, non rabbrividire. Per piacere, eh?» «Okay» disse il ragazzo, come se avesse potuto padroneggiare i brividi che il bagno caldo, la vestaglia di lana e la coperta non erano riusciti a vincere. «Sembri un pezzo di ghiaccio.» Gli mise le mani sulle spalle e le fece scendere, sotto la vestaglia, sul petto. Lo massaggiò. «Va meglio, così?» Mario le baciò il braccio, mentre gli sfiorava la faccia. Era la prima volta che la toccava con le labbra. Il contatto causò un silenzio che nessuno dei due riuscì a trovare il modo di riempire. Con i palmi delle mani Rynn continuò a massaggiargli il torace, lascian-
do vagare le dita sulle costole esili e sui muscoli sodi e giovani dello stomaco, guizzanti a quel tocco. «Si sta facendo buio» egli disse, a stento, quasi tutte le parole gli volessero rimanere chiuse in gola. Rynn appoggiò il capo all'incavo tra il collo e la spalla di lui. Le mani gli si insinuarono sulla schiena e risalirono sulle spalle. Quando ridiscesero dall'altro lato, sul petto, sulle costole, sul ventre vibrante, il ragazzo soffocò un ansito. L'alito di Rynn era ardente contro il suo orecchio. «Mario.» Lui non disse niente. «Se vuoi,» ella gli bisbigliò, con una voce così fioca che il ragazzo avrebbe potuto non udirla, «verrò a letto con te.» Senza osare guardarla, Mario si schiarì la gola. «Oppure, se preferisci, possiamo restare accanto al fuoco. Sposterò il divano.» Si alzò, spinse da un lato il tavolino da caffè e fece girare il divano in modo che venisse a trovarsi davanti al caminetto. Fece per prendere la coperta, con l'intenzione di stenderla sui cuscini, ma Mario se la strinse intorno. Poi, ubbidendo all'invito di lei, sedette sul divano, la testa bassa tra le spalle ingobbite. Non la vide sfilarsi il maglione nero, fare scorrere la lampo dei jeans e abbassarli sulle gambe lisce, dorate. Ella lo scavalcò per salire sul divano, gli si sdraiò accanto e tirò la coperta sopra di loro. Gli si rannicchiò contro, la faccia contro il collo. Lo sentì irrigidirsi, mentre aspettava le sue parole bisbigliate. «Va meglio?» Mario annuì, ma non riuscì a parlare. La cinse con un braccio e giacquero insieme, avvolti nella coperta, fissando in alto il soffitto, ove i riflessi del fuoco spostavano le ombre delle travi. Il concerto terminò con gli ultimi accordi, un'esplosione di note scintillanti. Il giradischi si fermò con uno scatto metallico. L'unico suono, adesso, era lo scroscio della pioggia. Mario tossì, tossì ancora e si coprì la faccia con una mano. Le dita di Rynn gli toccarono la bocca. «Scccc.» Osservarono le ombre intensificarsi sul soffitto mentre il solo bagliore esistente nella stanza diminuiva. «I tuoi capelli» ella disse.
«Che cos'hanno?» «Sono asciutti?» La domanda le diede il diritto di sporgersi e di fare scorrere le dita tra l'intrico di riccioli del ragazzo. La mano indugiò, accarezzandogli il capo. I muscoli sotto la nuca di Mario erano duri come roccia. «Mario il Mago?» «Lo so che cosa stai per domandarmi.» «Lo hai mai fatto?» «Centinaia di volte.» «Come me e l'hashish» ella disse, girandosi e baciandogli il collo. Gli passò le dita sulla faccia. Ma Mario non rise. Lei gli lasciò cadere la mano sulla spalla. Fissarono in alto le travi del soffitto, ormai quasi completamente buio. Fu un'ora dopo? O due ore dopo? Il fuoco non mandava più alcun bagliore. Nel caminetto le braci erano opache. Rynn rabbrividì. Una sola coperta non bastava più per tenerli caldi. Sollevandosi su un gomito, si voltò a guardare Mario. Non senza stupore, vide che aveva gli occhi luccicanti di lacrime. Bisbigliò: «Vado a prendere un'altra coperta». Lui scosse la testa e Rynn si meravigliò di quel silenzio. Mario non aveva detto niente per così lungo tempo da farle quasi pensare che forse volesse essere lasciato solo. «Quando ti sarai riscaldato, tutto andrà bene» gli disse. «Sarà bello. Lo sarà davvero. Vedrai...» Mentre si alzava, egli voltò la faccia dall'altra parte. Le spalle gli sussultavano: stava piangendo. Rynn tornò sul divano e giacque del tutto immobile. L'ultima volta che aveva fatto per abbracciarlo, si era sentita respingere. Che altro avrebbe potuto fare? «Mario?» Il ragazzo si era drizzato a sedere; sporgendosi oltre di lei, tolse la camicia ancor umida dalla sedia a dondolo e la tirò sopra di loro. «Mario?» Non le disse niente. Infilò la camicia. Rynn si sorprese a fornirgli il pretesto. «Ti aspettano a casa per la cena?» Abbottonandosi la camicia, il ragazzo annuì.
Mai le parole erano sembrate così inefficaci. «Mario?» Il ragazzo fece scivolare le gambe bianche giù dal divano. Non poteva lasciarlo andar via. Ogni suo istinto esigeva che dicesse qualcosa, qualcosa per far sì che lui smettesse di abbottonarsi la camicia... «Non è stata colpa tua» disse, ma, non appena ebbe pronunciato le parole, lo sentì irrigidirsi e si augurò con tutto il cuore di non aver detto niente. Avrebbe dovuto tacere e soffocare gli istinti. Fino a quel momento, non li aveva mai posti in dubbio. Ora le stavano venendo meno. Che cosa avrebbe dovuto dire? Da un'ora a quella parte non aveva detto niente, o quasi niente, e anche il silenzio non era servito. Mario infilò una gamba dei calzoni. Si alzò per infilare l'altra. Rynn osò parlare di nuovo, soltanto perché non riusciva a sopportare il silenzio. «Sarebbe tanto terribile se tu non te ne andassi? Voglio dire, se la tua famiglia venisse a sapere di noi?» Quasi ce l'avesse con la camicia, egli la spinse giù irosamente sui fianchi e fece scorrere verso l'alto la lampo dei calzoni. «Mario?» Lui si era messo un calzino umido e stava cercando l'altro. «Tuo zio Ron lo sa...» «Vorrebbero sapere tutto di te. Ogni dannata cosa, e io non sono bravo a mentire come lo sei tu.» "Non lo ha detto per offendermi" bisbigliò Rynn a se stessa. Mario stava cercando le scarpe bagnate. «Come diceva tuo padre in quella lettera. Da quando in qua lasciano fare ai ragazzi quello che vogliono?» Rynn si alzò. Sentì con i piedi nudi la pietra davanti al caminetto e avvolse intorno a sé la coperta. Senza dir parola, lo seguì fuori del soggiorno, incapace di escogitare un modo per impedire che lui portasse la bicicletta lungo l'ingresso e aprisse la porta. Fuori scendeva una pioggia dolce e le gocce scintillavano nel bagliore della lampada esterna. Gli porse l'impermeabile di suo padre e Mario si mise la giacca e ne alzò il bavero fino alle orecchie per difendersi dalla pioggia. «Tornerai, dopo?» L'aveva udita?
Lo sentì tossire. Era già in bicicletta e stava scomparendo nella notte. Rynn chiuse la porta e tornò nel soggiorno. Si avvolse più strettamente nella coperta e sedette sola al buio. 15 Più tardi, quella sera, la casa era immersa nell'oscurità, tranne un fioco bagliore rossastro nel caminetto. Un colpo sommesso alla porta di casa rimase senza risposta. Nulla si mosse nel buio. Un colpo più forte, poi un altro. Al piano di sopra, una luce venne accesa e al suo bagliore Rynn apparve sulle scale mentre infilava la testa nel maglione e se lo tirava giù fino ai jeans. Si affrettò a scendere e ad andare nell'ingresso. Si fermò davanti alla porta. «Chi è?» «Ron Miglioriti.» Con la mano sulla serratura, ella si voltò a scrutare il soggiorno. Il divano era stato allontanato dal caminetto e si trovava di nuovo al solito posto; i vestiti di Mario non c'erano più; lei aveva portato di sopra anche la coperta. Non rimaneva niente nella stanza, niente che l'agente non dovesse vedere, non c'era alcun motivo per non aprire la porta. Ron Miglioriti indossava gli stessi abiti borghesi del sabato precedente. Soltanto la camicia era diversa. Indubbiamente nuova, aveva ricami sul colletto e sui polsini. «Salve» egli disse, con il suo ampio sorriso. «Sembra che sia venuto per la solita visita serale del sabato.» Rynn indietreggiò dalla porta, un modo per dirgli che non aveva niente in contrario... che il poliziotto, se voleva, poteva entrare in casa; era il benvenuto. «Stai bene?» «Certo. Benissimo.» Il sorriso di Miglioriti divenne abbacinante. «Volevo soltato accertarmene.» «Lo apprezzo molto; ma, sì, dico, non dovrebbe preoccuparsi tanto per me.» Si domandò se il poliziotto si fosse accorto che l'espressione di cui si era servita - quel sì, dico - era tipica di Mario. Ne dubitò. L'uomo era troppo impegnato nel tentativo di far sì che tutte le sue parole sembrassero non
ufficiali, casuali. «Dovevo passare di qui, in ogni caso.» «Una tazza di tè?» «Non posso trattenermi.» «La sta aspettando la sua ragazza gonfiata con la pompa della bicicletta?» Rynn sorrise. «Mi scusi. È una frase di Mario. Le sarò sembrata alquanto sfacciata, no?» «Questa è una cosa che tu non sarai mai.» Che cosa aveva voluto dire? Forse che lei era altre cose? Probabilmente non era stata affatto questa la sua intenzione. A volte, l'inglese americanizzato sembrava così vago! Non si sapeva mai che cosa volesse dire la gente, in realtà. Rynn non lo sopportava. Miglioriti stava osservando il soggiorno. Rynn accese la luce, per consentirgli di vedere che tutto era in ordine. «Sei sola?» egli le domandò. «C'è mio padre.» Miglioriti non la guardò; continuò a osservare la stanza, senza dir niente. Lei si rese conto che non diceva niente perché rispondendole avrebbe dato l'avvio a tutta una serie di domande e di risposte a proposito di suo padre, nessuna delle quali egli avrebbe potuto accettare come la verità. Era già accaduto due volte. E Ron non intendeva più stare al suo gioco. Non una terza volta. «Rynn, ormai ti sei resa conto, presumo, che non credo a quanto mi vai dicendo di tuo padre.» «No?» La voce di lei fu ancor più che fredda, quasi altezzosa. «Senti, posso capire che tu voglia far credere alla presenza qui di tuo padre, se c'è stato Mario. Cioè, non hai bisogno di dirmi quanto si chiacchiera in un piccolo centro. Ma di una cosa non riesco a capacitarmi: come tu possa insistere in questa finzione, mentre sappiamo tutti e due che tuo padre non è qui. Tuo padre non è mai stato qui...» Gli occhi della ragazzetta fissavano i suoi, con uno sguardo che lo fece tacere. Si passò le dita tra i capelli. «E non comportarti come se avessi appena preso a calci Sua Maestà la Regina, o qualcosa di simile. Non ti credetti nemmeno la prima volta che me lo dicesti. Ascolta. Ho sperato che tu mi avresti aiutato. Ho aspettato che mi dicessi dove si trova.» Rynn continuò a fissarlo senza rispondere. «Ma ora mi aiuterai, non è vero?»
«Mi domando se si rende conto di quanto è condiscendente il suo tono di voce.» «Mi dispiace se ti sembra che lo sia, ma ancora non hai risposto.» Si avvicinò alla porta dello studio. «Se cercherò di aprire questa porta, mi dirai che è lì dentro e sta lavorando?» «No, ma ci ha lavorato. Ha tradotto. Per tutto il pomeriggio.» «Capisco.» Miglioriti non riusci a mascherare la propria irritazione perché le aveva consentito di rientrare così facilmente nel suo gioco. Con una pazienza esagerata, come chi abbia raccontato una storiella troppe volte, ripetendo le battute fino ad esserne nauseato, disse: «Ma in questo momento non c'è? È così? Non importa. Non posso aspettare tutta la notte. Ascolta, quello che fai è affar tuo, ma...». «Ho trasgredito a qualche legge?» «No, che io sappia.» «Ho fatto qualcosa di male?» «Rynn, perché non mi dici di tuo padre?» «Non sta facendo aspettare la sua amica?» «Lascia che di questo mi preoccupi io.» Ella scosse la testa con un'arroganza sufficiente per scostarsi i lunghi capelli dalla faccia. Con una mano se li lisciò contro la spalla, «Che cosa vuole sapere?» «Voglio sapere dov'è tuo padre.» «In questo momento?» «Per l'appunto.» «In questo momento è di sopra. Sta riposando.» Miglioriti non sorrideva più. «Sta' a sentire. Sono venuto tre volte in questa casa. Ogni volta mi ha colpito la tua abilità con le parole. Sei molto abile nell'esprimerti. Se vuoi sapere come la penso io, di gran lunga troppo abile, accidenti.» «Non crede che mio padre sia di sopra?» «Temo di non aver mai creduto a una sola delle tue parole.» La ragazzetta corse ai piedi delle scale. «Papà?» Salì di corsa una metà degli scalini e chiamò di nuovo. «Papà?» Prima che Miglioriti fosse riuscito a stabilire se avesse udito una voce risponderle, Rynn ridiscese le scale e venne verso di lui nell'ingresso. «Scende subito.» «Il signor Jacobs?» La voce di Miglioriti parve un colpo di fucile nella minuscola casa.
La ragazzetta parlò. «Ha perfettamente ragione, si capisce. Non le ho sempre detto la verità. Questo perché...» Abbassò gli occhi, guardandosi il maglione nero e gli diede una tiratina sull'orlo intorno alla vita. «...be', ecco, il fatto è che mio padre non sempre sta bene.» Si interruppe, come se vi fosse molto, molto di più che non poteva dire. Il poliziotto lasciò capire chiaramente che avrebbe aspettato, deciso ad ascoltare tutto, qualsiasi cosa lei volesse dirgli. «Vede, i poeti non sono come le altre persone.» «Un minuto fa hai accusato me di assumere un tono condiscendente.» Rynn non si scusò. «Forse lei non può, semplicemente, capire. Voglio dire che Edgar Allan Poe era un tossicomane. Dylan Thomas beveva e fini per morire alcoolizzato. Sylvia Plath si tolse la vita.» «Stiamo parlando di tuo padre.» «Mio padre» disse lei «entra a volte in questa stanza e chiude la porta a chiave. Là dentro, tiene qualcosa in un cassetto. Sarebbe inutile domandare a me di che cosa si tratta; non lo so. Ma, quando chiude a chiave quella porta, so che si comporta così perché non vuole farmi vedere come diventa.» La faccia di Miglioriti non tradì nulla, né credulità né incredulità. La ragazzetta lo seguì fino alla porta della stanza. Miglioriti girò invano la maniglia. La porta non si aprì. «Se lui non si trova qui dentro, in questo momento, perché la porta è chiusa a chiave?» «Non mi crede se le dico che è di sopra?» «Voglio entrare in questa stanza.» «La polizia americana è autorizzata a forzare le porte? Voglio dire, non le occorre un mandato di perquisizione, o qualcosa del genere?» Miglioriti tese la mano. «Dammi la chiave, per favore.» La ragazzetta corse ai piedi delle scale. «Papà!» Miglioriti ripeté la frase. «Dammi la chiave!» «È di sopra.» Poi, troppo in fretta, Rynn soggiunse: «Ce l'ha lui». «Allora vai a prenderla!» Irosamente, lei si voltò e salì le scale. Durante la sua assenza, Miglioriti esaminò il soggiorno. Sollevò i cuscini del divano, non trovò niente e li gettò di nuovo al loro posto. Aprì la cassa della legna e ne riabbassò silenziosamente il coperchio. Prese il libro di poesie sulla mensola del caminetto.
«Mi aveva chiesto la chiave.» Si voltò e vide Rynn in piedi nell'ingresso, porgergli una lucente chiave d'ottone. Rimesso il libro sulla mensola del caminetto, si avvicinò, prese la chiave, andò alla porta dello studio e infilò la chiave nella serratura. Stava girandola, quando udì la voce dall'alto delle scale. «Sì, agente?» Miglioriti piroettò sui tacchi e alzò gli occhi attonito verso il primo piano. Profilato contro la luce in cima alle scale c'era un uomo in vestaglia, con un paio di pantaloni che sembravano di flanella grigia. L'uomo discese le scale di un gradino o due, poi si afferrò alla ringhiera. «Spero che vorrà scusarmi se non scendo in soggiorno. Sento un po' il tempo, temo.» «Papà, questo è l'agente Miglioriti, del quale ti ho parlato.» «Buonasera, signore» riuscì a dire il poliziotto. «Mi scusi se l'ho disturbata.» «Per carità. Sono io a scusarmi. A quanto pare, le è stato difficile incontrarsi con me. Vede, volevo ringraziarla per essere venuto, sebbene dubiti seriamente che sia il caso di preoccuparsi per mia figlia e per me. Rynn, non startene lì impalata a guardare. Offri qualcosa da bere al nostro amico.» «No, la ringrazio, signore.» Miglioriti si avvicinò ai piedi delle scale. Quando la luce illuminò la faccia dell'uomo più anziano, il poliziotto poté vedere i capelli brizzolati di Jacobs, poeticamente lunghi, e la barba ben curata. «Confesso di essere un pochino stanco. La vostra New York non è, temo, un luogo particolarmente riposante. Ma questo, come si suol dire, è tutto un altro discorso. Vediamo, in che cosa possiamo esserle utili, mia figlia e io?» «Non c'è nessun problema, signore.» Passandosi le dita tra i capelli, Miglioriti volse lo sguardo verso la porta di casa. Rynn si rese conto che, per quanto potesse dire o fare, non sarebbe riuscito a nascondere quanto disperatamente anelava ad andarsene da quella casa. «Rynn, fa' una capatina nello studio e prendi uno dei miei libri, ti spiace?» La ragazzetta spalancò la porta che Miglioriti aveva aperto con la chiave. «E una penna» gridò il poeta. Quando ella uscì con un volume e una penna, l'uomo barbuto, in alto
sulle scale, si addossava alla parete. Stava parlando. «Devo proprio scusarmi per non essere riuscito a conoscerla finora.» Tese la mano verso la figlia. «Rynn mi ha detto che le abbiamo promesso la copia di uno dei miei libri con autografo.» Tossì. «Se fosse così gentile da dirmi come si scrive Miglioriti...» «Basterà Ron.» «Ma certo.» Jacobs scribacchiò qualcosa nel libro e lo consegnò a Rynn, che lo portò al poliziotto. «Grazie, signore.» «Mia figlia mi dice che una signorina la sta aspettando sulla macchina. Farebbe piacere anche a lei una copia del libro?» «Non è precisamente il tipo poetico» rise Miglioriti. L'uomo sulle scale, con appena un momento di ritardo, afferrò la battuta scherzosa e si unì alla risata. Miglioriti stava indietreggiando verso la porta di casa. «È stato un piacere conoscerla, signore.» L'uomo sulle scale si chiuse intorno al collo il colletto della vestaglia e salutò con la mano. «Anch'io sono stato lieto di conoscerla, agente. A meno che non debba tornare presto in Inghilterra per affari, ci rivedremo senz'altro, presumo.» Poi soggiunse, ridacchiando: «Da buoni amici, s'intende». «Buonanotte, signore.» «Buonanotte.» Aveva avuto un'aria molto stanca, ma il suo saluto ebbe un'allegra cadenza inglese mentre si voltava e risaliva adagio gli scalini. Sulla porta di casa, Miglioriti si voltò a guardare Rynn. «Credo di doverti delle scuse.» «Perché? Per aver fatto il suo dovere?» Lui consegnò la chiave alla ragazzetta. «Buonanotte.» Apri la porta e scomparve nell'oscurità. «Buonanotte» gridò Rynn. 16 Rynn seguì con lo sguardo la macchina di pattuglia che scompariva lungo il viale, poi chiuse adagio la porta, fece scattare la serratura e, con uno scoppio frenetico di risa, si precipitò su per le scale salendo gli scalini tre alla volta.
«Mario il Mago!» Esultante, corse verso la sua camera da letto, poi, sulla soglia, si soffermò, sforzandosi, consapevolmente decisa, di protrarre quel momento di felicità. Si appoggiò allo stipite di legno. La camera da letto era bianca e gialla. Il rivestimento a pannelli scanalati, il soffitto obliquo sottotetto... splendevano bianchi. Tende di un giallo vivido con minuscole rose bianche riflettevano la gialla luce della lampada, allegra come il sole di maggio. Una trapunta della stessa tinta era stata spinta indietro e pendeva fino al pavimento, lasciando risplendere il letto, anch'esso in giallo e bianco. La sua camera. Vi era sempre rimasta sola. Ma ora Mario, con la vestaglia del babbo, sedeva sulla sponda del letto; aveva in grembo una scatola di Kleenex gialli. «La tua voce» gli disse Rynn. «Assolutamente perfetta. Così profonda.» «Merito di questo maledetto raffreddore.» Mario soffocò uno starnuto entro un Kleenex. «No, volevo dire che sembravi davvero inglese.» «Tu scrivi dialoghi convincenti.» Voltò il profilo barbuto verso la ragazzetta, si ficcò la pipa in bocca e parlò come aveva fatto con Miglioriti: «Rynn mi ha detto che le abbiamo promesso uno dei miei libri». «Superlativo!» ridacchiò lei, la faccia splendente di felicità. «Come si scrive Miglioriti?» «Questa è stata un'idea tua!» Scoppiarono entrambi in una risata. Esultante com'era, Rynn quasi inciampò mentre si avvicinava al letto. «La cosa più meravigliosa, accidenti, è che tutto sia così perfetto. Tuo zio Ron non lo farà, ma, anche se dovesse portare il libro in banca o nell'agenzia degli Hallet e paragonare la firma del conto corrente o del contratto di affitto con quella della dedica, le troverebbe identiche, in quanto si trattava di una copia già firmata dal babbo.» Mario si soffiò il naso in un Kleenex. «Sicché, come vedi, non soltanto sei un attore fantastico, ma anche un imbroglione di prim'ordine.» Adagio, con cautela, come se staccasse la crosta di una piccola ferita cicatrizzata, Mario si tolse i baffi e la barba finta. «Sono il talento personificato» disse, asportando dalle labbra un pelo dei baffi. Rynn si sfilò il maglione nero, si liberò dei jeans, balzò sul letto, strappò la barba finta dalle mani del ragazzo e l'appese a una colonnina del letto. Guardandola, a un tratto scoppiarono a ridere entrambi. Quando si fu calmata abbastanza per poter parlare, la ragazzetta disse:
«Se non fossi tornato, come avrei potuto sapere che tuo zio Ron sarebbe venuto qui, questa sera?». «Sarei stato costretto... come dici tu... a "darti un colpo di telefono",» «Non devi. Mai. Questo lo abbiamo già deciso.» Gli sciolse la cintola della vestaglia e gli scostò il colletto dalle spalle. «Sarei tornato in ogni caso.» «Lo speravo.» «Solo che...» «Tesoro, lo so.» «No, volevo dire, dopo quello che è accaduto... o meglio non è accaduto... la prima volta... tu non puoi immaginare quello che prova un ragazzo. Sì, dico, Gesù, avevo una paura matta che potesse ripetersi la stessa cosa.» Rynn gli baciò la spalla bianca. «Perdinci» continuò lui. «Avrei dovuto dire allo zio Ron quello che aveva interrotto, eh?» Siccome la ragazzetta gli stava premendo la faccia sulla schiena, la sua voce suonò soffocata. «Un gentiluomo» disse Rynn, esagerando l'accento inglese, «non dice queste cose. Mai.» «Sarà forse così in Inghilterra. Qui i ragazzi non tengono mai il becco chiuso su questi argomenti.» Lei gli scostò il viso dalla spalla e stette a guardarlo mentre si toglieva la vestaglia e ricadeva sul guanciale, con un gran sorriso sulla faccia. «Scommetto che una buona metà... anzi no, diavolo, quasi tutti i giocatori della squadra di rugby stanno parlando soltanto di questo.» Il suo sguardo incontrò quello di Rynn. La luce filtrata dal paralume giallo rendeva gli occhi della ragazzina più verdi di quanto li avesse mai veduti. Si protese e cominciò a contarle le lentiggini con la punta del dito indice. «Sai che io non ne parlerò.» Lei gli toccò il petto nudo, fingendo di tracciarvi due linee. «Ecco, ti sei appena fatto la croce sul cuore.» «Dico sul serio, Rynn.» Gli sorrise, ma, nel momento stesso in cui sorrideva, senti lacrime ardenti riempirle gli occhi. Mario disse: «Come puoi anche soltanto pensare che io non voglia proteggerti?». La ragazzina non aveva mai veduto gli occhi neri così solenni. «Sì, dico, la maggior parte delle persone non vive tutto quello che abbiamo vissuto noi... nemmeno in una intera esistenza.»
Leggermente, Rynn baciò Mario dietro l'orecchio. «Nessuno saprà mai di noi due.» Ella si mosse, ma soltanto per tirare lenzuolo e coperta sulle spalle di entrambi. Appoggiò il mento sul petto di Mario, in modo da poterlo guardare in viso. «Vedi quanto ho bisogno di te?» «A meno che» egli disse, e nella sua voce riaffiorò l'accento inglese, «non debba tornare presto in Inghilterra per affari, ci rivedremo senz'altro, presumo.» Dopo queste parole, si strinsero più forte. «Il fatto è» la voce della ragazzetto era remota, la voce di chi esita a tradurre in parole i suoi timori «che loro si domanderanno dove tu sia.» «Chi sono questi loro?» «Me lo hai già domandato prima.» «E tu non hai risposto.» «Tutti. La tua famiglia, tanto per cominciare. Tuo zio.» Soltanto a stento riuscì a soggiungere: «Hallet». Mario capì che aveva altro da dire. «Si stanno già domandando perché non mi vedono quasi mai nel villaggio.» Sorrideva tra sé e sé. «Non possiamo renderli curiosi anche per quanto ti concerne.» «Di che cosa stai sorridendo?» «Di te, di me.» «No, stavi pensando a qualcos'altro.» «A Emily Dickinson.» «E al fatto che non usciva mai di casa se proprio non era indispensabile?» «"A meno che l'emergenza non mi conduca per mano."» «Credi che avesse qualche stallone nascosto nella camera da letto?» «Lo spero.» Rynn ridacchiò, le labbra soffici sulle sue. «Eppure» bisbigliò «dobbiamo essere cauti.» «Giusto.» «Prevedere. Prevedere, ed essere pronti ad affrontarli, continuamente.» «Rynn?» «Mmmmm?» «Credi che potremo?» «Certo.» «Vivere a modo tuo, voglio dire. Ricordi quando ti domandai se sarebbe
stato proprio tanto spaventoso per te essere costretta a stare al loro gioco?» Lei gli staccò le labbra dal viso. Furono i suoi occhi, ora a sfidarlo. «Se stessimo al loro gioco, tu ti troveresti in casa tua, in questo momento, a mangiare i terribili spaghetti di tua madre e a guardare l'orribile TV. E io sarei qui tutta sola.» Mario voltò la testa e parve studiare la pendenza del soffitto. «Mario?» «Mmmmm?» «Te ne rendi conto, non è vero?» «Sicuro.» «Voglio dire del perché hai fatto tutto quello che hai fatto. Non continuando in questo modo, saremmo come tutti gli altri. Non li osservi mai? Li osservi sul serio? dico. Non vuoi essere come tutti loro, vero?» «Credo di no.» Rynn si sollevò su un gomito per contemplare il ragazzo. Lui non la guardò quando le disse, molto sommessamente: «Non ti succede di pensare, qualche volta, che io stia facendo il tuo gioco?». «Lo hai fatto perché hai voluto!» «L'ho fatto perché ti amo!» Gli frugò il viso con lo sguardo. «Sai una cosa?» «Cosa?» «Stai sforzandoti di non starnutire.» Si sporse oltre di lui verso il comodino per prendere una manciata di Kleenex gialli. Il ragazzo ne afferrò uno prima di esplodere. «Finirai per prenderti il mio raffreddore» disse. «Non vorrei non prendermelo.» Per dimostrargli che si augurava con tutto il cuore quella possibilità, lo baciò avidamente sulla bocca. Era vero: la faccia di lui, e la fronte, ardevano. «Stai scottando.» «E ti domandi perché?» Ridacchiarono entrambi. «Mario?» «Mmmmm?» Lo aveva imparato da Rynn, quel mmm molto inglese. «Quando ti ho detto che non mi importava essere sola, mentivo.» Dolcemente come non aveva mai fatto, Mario baciò la faccia di Rynn, e gli occhi, un punto che, fino a quel momento, lei non aveva mai immaginato potesse essere baciato. Egli, la ragazzetta lo sapeva, stava sentendo il
sapore delle calde lacrime che le filtravano attraverso le ciglia chiuse e le striavano le gote. Rynn piangeva, rideva... tutti i suoi stati d'animo mutavano così rapidamente da non darle il modo, né il tempo, di domandarsi perché, aveva appena il tempo di sentirli... tante erano le cose che stavano accadendo. «Faccio del mio meglio per essere coraggiosa, come mi chiese di essere il babbo, ma a volte tutto mi spaventa a tal punto...» «Sccc.» Le labbra del ragazzo chiusero le sue. «Caro, caro Mario, non andartene mai... Lo prometti?» Il corpo duro e giovane di Mario si adattò al suo dalla testa ai piedi. Con la stessa labilità delle risa e delle lacrime di lei, ora si sentiva in fiamme, e, subito dopo, tremava di freddo. Prodigando e assorbendo consolazione in tutti i modi con i quali era possibile prodigare e assorbire, ogni parte dei loro corpi cercò di fondersi finché riuscì impossibile a entrambi distinguere il consolatore da chi veniva consolato. 17 «L'odore, nell'aria, delle foglie secche che bruciano mi fa pensare a Londra.» Rynn stava conversando con l'agente Miglioriti martedì pomeriggio; il sole era luminoso, ma la giornata cosi gelida da averla costretta a indossare il giacchettone di lana. «Non è incredibile? Tutte quelle foglie... tutte le foglie della terra, in realtà, devono andarsene affinché il mondo intero possa essere pieno di foglie nuove l'anno prossimo.» L'agente Miglioriti non era venuto per parlare delle foglie autunnali, e, sebbene cercasse di far credere che la sua presenza lì era casuale, cominciava a spazientirsi. Rynn aveva reciso i crisantemi, eliminato gli steli secchi delle zinnie e rastrellato le foglie morte formandone un mucchio; ora ardevano adagio, incandescenti, e un fumo bianco si alzava verso il cielo, arricciolandosi. Attraverso il fumo, aveva veduto la macchina di pattuglia percorrere il viale. Prima di essere scorta dall'uomo al volante, poiché i cespugli la nascondevano, era corsa in casa ad accendere una Gauloise e a riempire il soggiorno con l'odore asprigno del tabacco. Al di là della finestra, al di là del fumo che si allontanava nel vento, aveva osservato il poliziotto fermare la macchina. Allorché la stanza le era sembrata sufficientemente piena dell'odore della sigaretta francese, affrettatasi a uscire, aveva gettato la siga-
retta sul falò, prima che Miglioriti risalisse a gran passi il viottolo d'accesso. «Bella giornata.» «Splendida.» Ora la ragazzetta disse: «Gli inglesi vanno matti per i giardini». Parlarono del più e del meno e lei aspettò che Miglioriti le dicesse perché era venuto. Spinse verso il fuoco ghiande verdi e fulve castagne di ippocastani. Infine il poliziotto parlò: «Finché il terreno è ancora umido, sarebbe bene dare un'occhiata e vedere se tu e tuo padre avete avuto visitatori». «Va bene» disse lei. «Ma non vorrei disturbarti.» «Nessun disturbo. Mi piacerebbe dare un'occhiata insieme a lei. Se non le dispiace, s'intende. Adoro i romanzi gialli. Ha mai letto i libri di Agatha Christie? Quasi tutti gli assassinii di cui parla hanno luogo in Inghilterra, nelle più superlative, antiche dimore di campagna... non che posti del genere esistano davvero, ma è ugualmente piacevole immaginarli...» Camminarono fianco a fianco fino all'angolo della casa. «In Inghilterra abbiamo sempre avuto un giardino. Persino a Londra, un incantevole giardinetto dietro la casa, tutto coltivato a dalie» pronunciò la parola "dalie" all'inglese, strascicando la "a", «e a bocche di leone, gladioli e fiorcappucci... li chiamate così anche voi?» Si stavano avvicinando al pergolato. «Cos'è che cerchiamo?» domandò la ragazzetta con un entusiasmo eccessivo, come se avesse voluto partecipare alla ricerca del poliziotto. «Orme?» Con il piede, Miglioriti raschiò via le foglie secche dal terreno. Ella si rese subito conto che non avrebbe potuto ignorare come la terra, lì, fosse stata appena rivoltata. Al pari dell'agente, riuscì a sembrare molto casuale quando spiegò che quella era una nuova aiuola per i tulipani, lavorata da suo padre e da lei. Ci avevano messo bulbi di tulipani-pappagallo. Il poliziotto stava scrutando il terreno e le foglie che lo ricoprivano. «Sa quali sono i tulipani-pappagallo?» continuò a ciarlare Rynn, la tipica inglese appassionata di giardinaggio che accompagna un visitatore. «Fiori dagli orli frastagliati e dai colori brillantissimi. Per questo, credo, li chiamano tulipani-pappagallo.» Si affrettò a passare sull'erba secca e crepitante per sporgersi all'interno
della finestra aperta sotto il pergolato. «Papà, c'è l'agente Miglioriti.» Si voltò verso il poliziotto. «Vuole entrare?» Miglioriti si guardò attorno. Prese una manciata di chicchi d'uva rinsecchiti e li gettò via. «Sono venuto a parlare con te.» «Questo è molto lusinghiero.» Sembrava traboccante di allegria. Miglioriti soppesò una mela ancora appesa all'albero crocifisso contro il muro della casa. «La prenda, se vuole» gli disse lei. Ma il poliziotto lasciò ricadere la mela contro il muro. «Sono venuto per parlarti.» «Così ha detto.» «Farò meglio a dirti subito che non ti capisco affatto.» Con gli occhi neri la scrutò in viso finché Rynn, con la sensazione di dover fare qualcosa, mosse le mani bianche per abbassarsi il maglione nero sui fianchi. «Sì, ma cos'è che non capisce?» Le pesanti scarpe del poliziotto raschiarono via foglie secche dal terreno. «Da' un'occhiata» egli disse. «Orme?» «Vedi tu stessa.» «Le rivelano qualcosa?» «Niente di conclusivo» disse lui, senza attribuire alla parola alcun significato; era un termine molto utile nel suo lavoro, un termine che non spiegava nulla, ma chiudeva il discorso. Voltava le spalle e Rynn non poteva vederlo in faccia, ma, lo senti, stava per ripetere che non riusciva a capirla. Doveva stare all'erta. Egli parlò: «Non mi hai domandato di Mario». Un singhiozzo le sfuggì. Lacrime le bruciarono negli occhi. L'uomo era riuscito a farle abbassare la guardia; esattamente quello che voleva. «Sin da sabato. Per tre interi giorni non ho avuto...» «Non lo sapevi?» «Che cosa avrei dovuto sapere?» «È all'ospedale.» Rynn chiuse gli occhi e aspettò. «Polmonite.» «Non ne sapevo niente. È grave?» «Senza gli antibiotici probabilmente sarebbe morto.»
«Nessuno me lo ha detto!» «Mi dispiace. Credevo che lo sapessi.» «Come potevo saperlo? Avrebbe dovuto avvertirmi subito!» La ragazzetta non lottava più per dominarsi. In lacrime, aveva dimenticato ciò che giaceva sotto la terra sulla quale si trovavano. «Te ne stai molto per tuo conto, in fondo a questo viale.» «Devo andare da lui!» «Puoi venire subito?» Rynn stava già correndo verso il viale e la macchina della polizia. Miglioriti tornò indietro verso il mucchio di foglie che ardevano e spense il fuoco. Lei aspettava accanto alla macchina. «Lo ha visto?» Il poliziotto annuì. «Come stava?» «Delirava. Farfugliava, parlava a voce alta.» Rynn si sentì gelare e svuotare. Il cuore le balzò in gola. «Sragionava.» «Ah sì?» «Parlava di voi due.» «Sì?» «Dicendo quanto ti ama.» La faccia di Rynn era bagnata e lucente di lacrime. Si frugò le tasche. Trovò un pettine, se lo passò sui capelli, lo lasciò cadere. Di nuovo affondò le mani nelle tasche. «Mi occorre il portafoglio. Io...» Si voltò e corse in casa. Quando discese le scale, trovò Miglioriti nel soggiorno, intento a riabbassare il coperchio della scatola di cartone sui barattoli di vetro. Lo aspettò nell'ingresso. «Sono pronta.» Ma il poliziotto rimase ancora un momento accanto alla scatola. «Non è mai venuta?» «Chi?» «La signora Hallet.» «No.» «Aveva detto a suo figlio che sarebbe venuta qui.» «Non si è mai fatta viva. Possiamo andare all'ospedale, adesso?» «Ora non ne avrà più bisogno.» Poi il poliziotto si affrettò a soggiungere: «Questo è soltanto un mio parere, capito?».
Rynn mantenne la voce ferma, ma sentì di avere le mani, nelle tasche, madide di gelido sudore. «L'ha... trovata?» «Non ancora.» «Ma, ha detto...» Lui diede un colpetto alla scatola di cartone con il piede. I barattoli tintinnarono. Miglioriti passò accanto al tavolo allungabile e venne avanti sul tappeto intrecciato. «Ripeto... ma è soltanto un mio parere... e se tu lo riferirai dovrò smentirlo... ripeto, credo che non la troveremo mai.» «No?» Anelava a domandare al poliziotto perché, quali ragioni avesse per pensare che nessuno avrebbe mai trovato la donna. «Ho visto Hallet, stamane. Guidava la Bentley della madre.» Nel suo tono di voce più freddo, Rynn domandò: «Perché non dovrebbe?». «Vieni. Possiamo parlarne in macchina. Sei pronta?» Rynn corse accanto alla porta dello studio e bussò. «Papà, vado all'ospedale con l'agente Miglioriti. A trovare Mario. Ti darò un colpo di telefono di là, per farti sapere quando tornerò a casa. Ciao.» Chiuse a chiave la porta di casa, accese la lampada esterna e corse, attraverso il fumo, verso il viale. Sulla macchina di pattuglia, la radio crepitava. Una donna aveva dimenticato le chiavi sulla sua automobile ed era rimasta chiusa fuori, nel parcheggio del supermarket. «Che ne dici? Se lasciassimo scongelare i suoi cibi surgelati» domandò Miglioriti «e ti accompagnassi prima all'ospedale?» Rynn non era mai salita su una macchina della polizia. Sedette silenziosa, aspettando che la radio crepitasse di nuovo. «A proposito di Mario,» disse Miglioriti «puoi stare tranquilla. Gli vengono prodigate tutte le cure necessarie.» «Questo è facile per lei a dirsi.» Il poliziotto non la guardò, ma sorrise. «Spero che, in circostanze analoghe, quella mia prosperosa bionda si esprima nello stesso modo.» L'automobile passò dal viale alla via che conduceva sulla strada maestra. «In casa tua stavamo parlando di Frank Hallet al volante della macchina di sua madre. Hai domandato come avesse avuto le chiavi.» «No» disse la ragazzetta. «Ho domandato perché non avrebbe dovuto guidarla.»
Rynn si augurò che la radio entrasse in funzione e li interrompesse con qualche notizia più importante di quella d'una donna rimasta appiedata nel parcheggio di un supermarket; con qualche notizia che richiedesse tutta l'attenzione di Miglioriti. «Mario non ti ha detto che la signora Hallet non permetteva al figlio di guidare la macchina?» «Mi pare di sì.» «Non sapevi che da quando lei è scomparsa l'automobile è rimasta chiusa a chiave?» Rynn si rese conto che ogni domanda poteva essere quella dalla quale sarebbe stata fatta cadere in trappola. E ora che le domande si susseguivano così rapidamente da impedirle di riflettere, la sua sola difesa consisteva nel non rispondere. «E che abbiamo dovuto rimorchiarla dall'agenzia all'autorimessa del padre di Mario?» Miglioriti rallentò perché un'automobile stava uscendo a marcia indietro da un vialetto d'accesso. Il pensiero di Mario gravemente malato all'ospedale non abbandonava mai Rynn. Era sconvolta dalla preoccupazione, incapace di pensare a quello che stava dicendo il poliziotto, eppure sapeva di dover stare all'erta. In quel momento Miglioriti la stava interrogando, o si limitava a esprimere a voce alta i propri pensieri? L'agente aspettò che la ragazzetta gli domandasse come aveva fatto Hallet ad aprire la macchina, ma, poiché ella taceva, fu lui a porre un interrogativo. «Come supponi che abbia fatto a salirci?» «Ha chiamato un fabbro?» «Sì.» Miglioriti parve deluso per il fatto che la logica della ragazzina aveva risolto così decisamente il mistero. «Non è quello che avrebbe fatto anche lei?» gli domandò Rynn. «So che si sarebbe regolato così.» «Se non mi fossi aspettato di rivedere mia madre.» «Glielo ha domandato?» «Con gli Hallet non si fanno domande. Si parla, ma si parla molto educatamente, e per giunta senza insistere. Frank Hallet è un uomo ricco, ormai. Lo vedremo spesso... girare su quella Bentley.» «Non le è simpatico, vero?» «Mi limiterò a dir questo: spero che voi tutti vediate il giorno in cui quel
figlio di puttana farà la mossa sbagliata. Fino ad allora dovrete starlo a guardare... mentre se ne andrà in giro sulla macchina della madre.» Fermò a un semaforo. Si sporse e abbottonò, in alto, il giacchettone di Rynn. «No. Non mi è simpatico.» Proseguirono in silenzio. «Quanto vuoi scommettere che avrà la faccia tosta di venire alla lotteria della polizia, questa sera?» Miglioriti portò la macchina sulla strada maestra, ma nella direzione che allontanava dal villaggio. Dovette intuire la confusione di lei. «Mario non si trova nel villaggio. Il dottore ha voluto farlo ricoverare nell'ospedale della cittadina.» Questo faceva pensare che le condizioni di Mario fossero ancor più gravi. «Ce l'hai i soldi per l'autobus, per tornare a casa?» Rynn annuì. I finestrini della macchina di pattuglia cominciarono ad appannarsi e il poliziotto aprì l'aria calda sul cruscotto. Il traffico divenne più intenso. Miglioriti abbassò la testa per vedere il semaforo, a un incrocio, passare dal rosso al verde. «Ecco l'ospedale, là sulla destra.» Accostò la macchina alla cordonatura del marciapiede. Rynn pulì il finestrino laterale per guardare il gigantesco edificio grigio. In qualche punto, là dentro, giaceva Mario. Mise la mano sulla maniglia della portiera. «Prima che tu vada, ho una cosa da dirti.» La ragazzetta continuò a scrutare l'enorme edificio. «Hai notato che parlando di Hallet ho detto di sperare che vedrete tutti il giorno in cui farà la mossa sbagliata e lo beccheranno? Ho detto così perché io non ci sarò. Non mi vedrai più.» Occorse un momento prima che Rynn, assorta nella sua preoccupazione per Mario, si rendesse conto dì quanto egli aveva detto. «Vado in California.» «Ma lei lavora qui!» «Non più.» Miglioriti si tolse il berretto. «Finalmente ce l'ho fatta. Do le dimissioni.» Un grumo freddo di paura sembrava chiuderle la gola e impedirle di parlare. Infine riuscì a dire, con la voce soffocata: «Ma può? Voglio dire, dimettersi... così, da un momento all'altro?».
«Non è stato da un momento all'altro. Ci sto pensando da circa un anno.» Mise il berretto sul sedile tra loro e fece scorrere la mano intorno all'orlo nero del volante. «Significa perdere la mia anzianità qui. A San Francisco dovrò ricominciare da capo, ma credo che, in ultimo, la mossa risulterà giusta.» «No!» «Ormai ho deciso.» «È a causa di quella ragazza?» «Anche a lei piace l'idea di andare laggiù...» «Ma ha appena detto che perderebbe l'anzianità.» «La verità è che non vedo un grande avvenire per me, qui. Non in questa cittadina.» Rynn contemplò lo spazio che aveva pulito sul finestrino appannato. «Senza addentrarsi in questioni burocratiche, c'è una commissione che prende in esame le promozioni di tutti gli agenti.» «E Hallet ne fa parte?» «No, ma non voglio aspettare per poi venire a sapere che ne fanno parte suoi amici...» «Non può andarsene!» «Mi mancherai, Rynn.» Ella rimase seduta nel caldo soffocante, sentendo il sudore imperlarle la fronte. «Uno dei miei più grandi crucci era di dover lasciare te. Ti stupisce?» Rynn, incapace di rispondere, si limitò a scuotere lentamente la testa. «Non mi è mai piaciuta l'idea che tu abitassi là in quel viale, con Hallet in giro... no, finché ho creduto che tu fossi sola.» La mano sinistra di lui incontrò la destra, che girava intorno al volante. «Devo confessarlo: finché non ho conosciuto tuo padre, ti credevo del tutto sola, laggiù. Vedi, una cosa non riuscivo realmente a capire: perché... ogni volta che io venivo... ti dessi tanto da fare per dimostrare che lui era in casa. In parte, la situazione si chiarì la sera che seppi di te e di Mario. Volevi rendere plausibile la sua presenza. Okay. Be', siete molto giovani tutti e due, ma presumo che quello che fate riguardi esclusivamente voi. In ogni modo, quando infine vidi tuo padre mi sentii davvero tranquillo per quanto concerne Hallet. Oggi sono venuto da te soltanto per un ultimo controllo, per accertarmi che Hallet lo avesse saputo. Ora... sì, insomma, poiché so che non sei sola, posso andarmene tranquillo.» Rynn avrebbe voluto gridargli almeno la sua necessità di essere aiutata.
Ricacciò indietro le lacrime cocenti. «Sapere che tu non corri alcun pericolo significa molto per me, Rynn.» Rimasero seduti in silenzio. «Passerò a salutare Mario prima di partire, ma probabilmente non potrò più rivedere te...» La ragazzetta aspettò. «Credo quindi che questo sia un addio...» Lei gli premette la faccia contro la gota. Poi, il tonfo dello sportello chiuso impedì di udire il suo singhiozzo. 18 «Non esco dalla mia casa, a meno che l'emergenza non mi conduca per mano» aveva detto Emily Dickinson. Rynn si rendeva conto del rischio cui si esponeva andando a trovare Mario. Quella cittadina, quell'ospedale, erano il mondo. Non poteva più nascondersi nella piccola casa dietro gli alberi del viale, ove le sarebbe stato possibile chiudere la porta a chiave. Come immaginare che cosa sarebbe potuto accaderle lì? Come prepararsi alle domande che sarebbero potute esserle poste? Da loro. Mario le aveva domandato, una volta, chi fossero quei loro. Si trattava del pericolo che circondava entrambi. Chiunque poteva essere loro. La prima persona che incontrò, l'infermiera dietro la scrivania nell'ingresso, rigida e inamidata, era una di quelle donne americane grosse e dalla voce sonora; Rynn le aveva trovate tanto pronte alle risate, e sempre cosi disposte a rendersi utili, da essere propensa a ritenere che fossero le donne di quel genere a mandare avanti l'America. Le incontravi dappertutto, capaci, cordiali, e invadenti da matti. «Lo troverai al primo piano e in fondo al corridoio. Quattro-zero-sette. Non hai che da ascoltare. Non puoi non trovarlo. È nella camera rumorosa come un matrimonio italiano.» «Ha visite?» domandò Rynn. L'infermiera, che le ricordava una bionda diva americana del cinema veduta una volta, il cui nome però le sfuggiva, abbassò gli occhi sul proprio braccio massiccio e su un orologino minuscolo. «A quest'ora del martedì pomeriggio? Ne dubito. Puoi salire. Oh, aspetta un momento.»
La ragazzetta trattenne il respiro. Era già andato storto qualcosa? La donna bionda entrò in un ufficio e tornò indietro per consegnarle un vaso di crisantemi gialli. Rynn non sapeva bene che cosa avrebbe dovuto farne. «Portaglieli. Può darsi che gli facciano piacere.» L'infermiera vide gli occhi verdi della ragazzetta contemplare spalancati i fiori gialli. «Li hanno portati per qualcun altro, ma non si trova più qui...» «Grazie» disse Rynn. La donna sorrise. «È davvero un bel ragazzo, eh? Se fossi in te, salirei prima che tutta la sua famiglia arrivi e cominci a sbraitare.» Davanti alla camera 407 Rynn non udì niente, anche quando si accostò al pannello per ascoltare. Aveva deciso che se ci fossero state visite da Mario sarebbe tornata più tardi. Ma, poiché non udiva nulla, aprì la porta. All'interno, un divisorio pieghevole di plastica era teso soltanto a mezzo. Nel letto accanto alla porta, un uomo grasso, che sembrava un antipatico Budda, guardava con gli occhi socchiusi un film alla televisione. Dall'apparecchio non usciva alcun suono. Una bambina sui dodici anni, con l'aria di aver mangiato troppi spaghetti, se ne stava accosciata sul pavimento e masticava cioccolatini tolti da un'enorme scatola rivestita di stagnola d'oro, disseminando intorno a sé, come foglie autunnali, le piccole coppette di carta marrone vuote. Un ragazzo della stessa età di Rynn, una versione più robusta di Mario, sedeva accanto all'altro letto. Non alzò gli occhi dalle pagine colorate di un album a fumetti. Poi ella vide Mario, molto piccolo, quasi perduto nel letto all'altro lato della stanza. La sua faccia non era bianca come le lenzuola, ma di un orribile grigio-pesce che mozzò il fiato a Rynn. Mario non sarebbe potuto essere più cinereo, lei ne fu certa, se fosse morto. Tenendo in mano i fiori, lo fissò sgomenta, soltanto consapevole del fatto che la bambina intenta a masticare cioccolatini aveva alzato gli occhi e bisbigliato qualcosa. Si sforzò di liberarsi dal panico. Mario era stato malato, terribilmente malato, questo lo sapeva. Si trovava ancora in ospedale, ma lei non aveva mai immaginato che il ragazzo, il suo Mario, Mario il Mago, potesse essersi ridotto cosi... La bambina sul pavimento parve sentirsi in obbligo di spiegare quello che stava facendo. «Il signor Pierce, in quell'altro letto, è sordo e quindi non gli importa se
ho tolto il suono.» Parlò in tono sommesso. «E la mamma dice che quando stiamo qui con Mario non dobbiamo fare rumore. Non che riusciremmo a farlo stare sveglio.» Spinse verso di lei la lucente scatola d'oro con i cioccolatini. «Prendine uno. Li ha mandati a Mario qualche stupidella.» Rynn fece un cenno. Non voleva cioccolatini. «Io sono Terry, sua sorella. Quello là che si sta istruendo con i fumetti è Tom. È lui il vero malato.» Il ragazzo alzò gli occhi dalle avventure dell'Uomo-Ragno. Terry frugò tra i cioccolatini, ne assaggiò uno mordicchiandone un angolo, espresse con un cipiglio la propria disapprovazione perché era imbottito con caramello, e lo lasciò ricadere nella scatola. Avrebbe, l'ospedale, consentito visitatori, sia pure il fratello e la sorella, se Mario fosse stato davvero malato come sembrava? «Che bei fiori» disse la bambina, guardando i crisantemi. «Sei già stata qui?» Rynn riusci a fare di no con la testa, intendendo che non era mai stata in quella camera, che non aveva mai veduto Mario ridotto cosi. «Ora sta bene» disse la bambina, togliendosi di tra i denti un frammento di nocciolina con l'unghia del mignolo. Rynn parlò per la prima volta. «È quello che dicono i medici?» «Ha sempre sonno, però.» Terry frugò di nuovo tra le coppette di carta marrone. «Lo hai conosciuto a scuola?» Anche il dolore per aver veduto Mario così svuotato di vita non giustificava risposte che non fossero ben meditate. Rynn si disse che doveva soppesare le parole. Stava riflettendo sul modo di rispondere, quando il patito dei fumetti parlò. «Come può, Mario, averla conosciuta a scuola?» Rynn osò volgere gli occhi sul ragazzo prima di riportare lo sguardo sul malato. Quanto sapeva già, quel ragazzetto? «Voglio dire» spiegò Tom alla sorella «che lui è molto più grande.» Poi rivolse una domanda a Rynn. «Quanti anni hai?» «Tredici.» «Ah sì?» Il ragazzo arrotolò l'album a fumetti formando un tubo. «Anch'io ne ho tredici. Come mai non ti ho mai visto a scuola?» «Forse non frequentiamo la stessa scuola.» «Io non vado alla scuola parrocchiale, e tu?» «No» rispose Rynn.
«Allora com'è?» Lei fissò Mario e sentì che il cuore stava per spezzarlesi. Avrebbe voluto soltanto scoppiare in lacrime. Le domande continuavano a susseguirsi, di gran lunga troppo in fretta; fissando attentamente il ragazzo sul letto, sperò di dimostrare che stava pensando a Mario e non alle domande sulla sua età e sulla scuola. «Che scuola frequenti?» volle sapere Tom. «Una scuola privata, scommetto» disse la bambina grassa. «Insegnano là a parlare in questo modo.» «Da queste parti?» domandò Tom. Rynn chiuse gli occhi nel tentativo di escludere la maschera senza vita che era Mario. Doveva riflettere. Disse a se stessa che quei due non sospettavano niente, i loro erano soltanto i modi schietti dei bambini. I bambini erano fatti così. Rammentò a se stessa che conosceva pochi bambini. No, non era vero. Non ne conosceva nessuno, escluso Mario. Ma lui non era più un bambino. Era una persona adulta, non una di quelle creature che masticavano cioccolata e leggevano fumetti, ed erano così esigenti. Anche i bambini inglesi si comportavano in quel modo?... parlavano con tutti con una così terribile schiettezza? «Ti ho domandato:» e la voce del ragazzetto assunse un tono d'accusa «da queste parti?» «No. Non da queste parti.» «Sei inglese, o che altro?» domandò Terry, lasciando cadere nella scatola un altro cioccolatino non di suo gusto. «Sì.» «E allora dov'è che hai conosciuto Mario?» Tom si espresse in quel modo reciso, americano, che non era né amichevole né ostile, ma semplicemente pratico. «Al suo spettacolo d'arte magica, in realtà.» Posando i crisantemi gialli su un cassettone, desiderò improvvisamente gridare a quei due di andarsene per poter restare sola con il suo Mario. «Alle festicciole» si sorprese a dire. «Due sabati fa ha dato un bellissimo spettacolo.» «Bellissimo» la imitò Terry, increspando la bocca alla maniera leziosa delle conversazioni salottiere. «È un vero asso.» Tom srotolò l'album a fumetti e tornò all'UomoRagno. «Lo sai perché gli piace tanto l'arte magica?» domandò Terry, senza consentire a Rynn di rispondere. «È il suo modo di trovare un compenso.
Perché è storpio.» «Balle» disse la voce dietro l'album a fumetti. «È psicologicamente vero. Puoi domandarlo a chi vuoi.» Rynn lottò contro un impulso frenetico di correre accanto al letto, di stringere a sé Mario. Poi si sorprese a domandare: «I dottori dicono che guarirà?». La voce, dietro l'album a fumetti, rispose: «Che cosa possono saperne?». «In questo momento è pieno di antibiotici» disse la bambina. «Stupefacenti» disse il ragazzetto. Rynn sentì che se quei due fossero usciti dalla stanza, se lei avesse potuto restar sola con Mario, sarebbe riuscita a riscaldarlo, a fare scomparire il grigiore mortale dalla pelle olivastra. A malincuore, Terry lasciò su un tavolo la scatola rivestita di stagnola dorata. «Devi pensare, immagino, che non è molto divertente far visita a mio fratello. In pratica dorme sempre.» Rynn si accorse di aver alzato le spalle. Le mani in tasca, si sentiva indifesa e lottava contro le lacrime. Al di là della finestra, nel crepuscolo, i lampioni stradali si stavano accendendo, ammiccanti. Il clacson di un'automobile squillò. «Stiamo aspettando nostra madre» disse Terry. «È in ritardo.» Rynn si sentì percorrere da un brivido. La madre di Mario. Lì! Vi sarebbero state altre domande. Forse le avrebbero anche offerto un passaggio fino a casa... Cercò di arginare una crescente sensazione di panico. Tom chiuse l'album a fumetti e sbadigliò. «Puoi anche avvicinarti a Mario. Non ha niente di contagioso. È soltanto così imbottito di stupefacenti che, probabilmente, prima di uscire di qui diventerà un drogato.» Ridendo della propria lugubre battuta, Tom si alzò dalla sedia. «Avvicinati pure. Se puoi, sveglialo. Forse gli farebbe bene.» Bussò contro il divisorio di plastica. «Vuoi che metta questo aggeggio?» Rynn lo guardò tra le lacrime. Il sorriso di Tom le ricordava quello di Mario. Il ragazzetto stava tendendo le pieghe di plastica, e la isolava nell'angolo della stanza mentre lei rimaneva immobile ai piedi del letto. Non appena rimase sola, Rynn si precipitò al capezzale. «Mario?» Non avendo la maschera dato alcun segno di vita, pianse, cedendo infine all'estremo scoraggiamento dal quale si era sentita pervasa non appena aveva veduto il malato. «Ti amo.» Disse le parole tra sé e sé.
L'amore non aveva mai fatto parte del piano predisposto nei minimi particolari da suo padre e da lei. Amore. In. quel gelido crepuscolo di novembre, sentì che non avrebbe potuto continuare sola, senza Mario. Non le sarebbe più stato possibile fare quello che doveva. Se non lo avesse mai conosciuto, forse ci sarebbe riuscita, ma non più... Ora, la cosa più importante del mondo era che Mario emergesse da dietro la grigia maschera. «Sopravvivi» le aveva detto il babbo. Ma in che modo le sarebbe stato possibile aiutare il ragazzo? Se voleva sopravvivere, doveva fare una cosa, si disse. Doveva calmarsi, calmarsi e cercare di riflettere. Fino ad ora, il fratello e la sorella di Mario credevano che lei fosse soltanto un'amica. Ma, da un momento all'altro, una donna avrebbe spinto indietro il divisorio; da un momento all'altro, la madre di Mario si sarebbe trovata in quella stanza. E le avrebbe posto tutte le domande alle quali non doveva mai essere data alcuna risposta. Baciò il ragazzo. «Ti amo» bisbigliò. Poi girò intorno al divisorio di plastica e corse fuori. 19 Le luci della città scintillavano nella gelida sera. Sebbene non avesse idea di dove era diretta, Rynn sapeva che non avrebbe potuto affrontare il ritorno nella fredda e buia casa ove si sarebbe sentita fissare in ogni stanza dalla faccia cinerea di Mario. Non ancora. E corse a perdersi tra la folla frettolosa e le calde e vivide luci della cittadina. In un ristorante identico ai tanti sfarzosi e nuovi locali di cristallo e di plastica che lei e suo padre avevano veduto disseminati lungo le autostrade e le vie americane, si arrampicò su uno sgabello rivestito di finta pelle, al banco, e cercò di studiare una lista protetta dalla lucente custodia trasparente; le saltò agli occhi, in colori vistosi, una decina di diversi tipi di hamburger. La cameriera, non molto più avanti negli anni di lei, una ragazza in grembiule giallo-zucca, sul quale erano appuntati un fazzolettino a pizzi, di plastica e una strisciolina di plastica con il nome, prese l'ordinazione, e, con stupefacente rapidità, una minestra molto rossa, di crema di pomodoro e quattro cracker bianchi, avvolti strettamente nel loro involucro di cellophane, scivolarono sul banco. Li inseguirono immediatamente un hamburger al formaggio con qualche
fettina di sottaceti, una foglia di lattuga e un pomodoro tagliato in quattro. Rynn chiuse gli occhi per ricacciare le lacrime. La faccia di Mario colmava il suo mondo. Intorno a lei, nella luce abbacinante delle lampade fluorescenti, imperversavano voci chiassose. Il locale era pieno di giovani genitori che ingozzavano, con hamburger e patatine fritte cosparse di ketchup rosso-sangue, bambini rumorosi e invadenti. Rynn inghiottì a fatica qualche cucchiaiata di minestra, un cracker e un sottaceto. Nonostante il suo stato di trance, riusci a pagare il conto e a uscire. Poi si trovò fuori. Stava camminando. Le luci erano vivide, ma non calde, e ben presto, anche con le mani affondate nelle tasche, lei si sentì gelare e rabbrividì. Procedeva senza alcuna meta, alla deriva, come ipnotizzata. Alcuni negozi erano aperti, sfavillavano di luci e delle prime decorazioni natalizie, ma soltanto quando venne a trovarsi di fronte a una libreria Rynn capì che era stata questa la sua meta. La libreria però aveva già chiuso. Riflessa negli scuri cristalli delle vetrine, ella scorse non già l'immagine familiare con il giacchettone e i jeans, ma la faccia grigia e silenziosa di Mario che la fissava. Si allontanò. Più avanti, lungo la strada, la pensilina di un cinematografo rifulgeva bianca di luci. Rynn, che non era mai andata sola a vedere un film, decise un'altra mossa imprevista e tolse due dollari dal portafoglio, avvicinandosi al botteghino. La giovane donna dietro il cristallo scosse la testa. Non era consentito entrare. Una ragazza di tredici anni non poteva andare al cinema? La cassiera bussò sul cristallo per attrarre l'attenzione di Rynn su un cartello. Il film era vietato ai bambini, anche ai bambini, a quanto pareva, accompagnati dai genitori. In un altro cinematografo, illuminato altrettanto sfarzosamente, il nome di Walt Disney incoraggiò Rynn a ritentare. Sebbene non amasse il genere di fantasia che il nome evocava, pensò che le avrebbero consentito di pagare il biglietto e di entrare. Alla cassa, un uomo smunto, con occhiali non cerchiati che scintillavano nella luce, le chiese la tessera degli studenti e fece nascere in lei un grumo di paura che si sciolse soltanto dopo una spiegazione: la tessera le avrebbe dato il diritto a uno sconto sul prezzo del biglietto. Rynn acquistò una tessera e il biglietto e ben presto venne a trovarsi nel buio caldo che sapeva di granturco soffiato. Sedette nella calda oscurità e si lasciò sommergere dai
vividi colori e dalla musica. Ma colori e musica non riuscirono a cancellare la faccia grigia di Mario. Come nel ristorante, si sentì insensibile a quanto la circondava. Le immagini sempre mutevoli e i suoni sullo schermo non erano più di un mosaico caotico, di un guazzabuglio senza alcun significato. Il film ebbe termine e una luce tenue rivelò una cinquantina forse di persone che aspettavano ascoltando musica registrata, l'orchestra di Mantovani, si sarebbe detto. Alcuni bambini chiassosi correvano avanti e indietro sulla moquette dei passaggi, versando bibite da bicchieri di carta e spargendo granturco soffiato da scatole di cartone. Un altro film, con un cane, molti fucili che sparavano e ragazzetti che strillavano, riempì la schermo. Pensando a Mario, lei pianse. Le luci si riaccesero, facendo trasalire Rynn e inducendola ad asciugarsi gli occhi mentre una ventina di persone risaliva i passaggi, si infilava cappotti pesanti e cercava di non lasciar cadere sciarpe e guanti. A tutta prima, quando aspettò alla fermata dell'autobus, il gelo della notte non le parve troppo tagliente. Ma allorché le luci della pensilina si spensero e la strada rimase buia e gli ultimi spettatori l'ebbero lasciata sola ad aspettare l'autobus, il vento affilato come un rasoio cominciò a penetrarle il giacchettone e i jeans, constringendola a rannichiarsi su se stessa per difendersi dal freddo. Stava scrutando la strada deserta e si domandava se l'autobus sarebbe mai passato, quando un'automobile dal motore pulsante rallentò e si avvicinò. Rynn indietreggiò dalla cordonatura del marciapiede mentre i finestrini della macchina venivano abbassati e ragazzi in età di frequentare le scuole medie, con facce di un pallore spettrale e disseminate di foruncoli sotto la luce del lampione, fischiarono e le lanciarono richiami. Uno di loro le porse una sigaretta. Un altro emise un verso risucchiante e indescrivibilmente osceno. «Hai perduto l'ultimo autobus. Su, vieni. Sali. Ti scalderemo noi!» Entro la macchina si udirono sghignazzate. Rynn voltò le spalle all'automobile e venne a trovarsi di fronte alla vetrina buia di un negozio di macchine fotografiche; dalla vetrina la fissavano gli occhi freddi e spenti degli obiettivi. Riflessa nel cristallo, vide la macchina che non ripartiva e il cuore parve fermarlesi mentre la portiera posteriore si apriva e un ragazzo in un giubbotto di cuoio e in jeans, con lucenti distintivi di metallo, scendeva facendo cenno agli altri.
Il ragazzo si passò le dita tra i lunghi capelli e venne avanti adagio sul marciapiede. Rynn sbirciò a destra e a sinistra lungo la strada. Là nella notte nulla si muoveva. Un altro giovincello si districò dalla macchina, emettendo di nuovo il suono risucchiante che imitava un bacio mentre attraversava il marciapiede per bloccarle il passaggio dall'altro lato. In preda al panico, Rynn vide la vetrina riflettere i due che si avvicinavano da entrambi i lati. Era troppo tardi per mettersi a correre. Si fece piccola entro la porta del negozio. Adesso i due giovinastri stavano emettendo il suono succhiante dei baci, quando dalla macchina si levò un grido. Subito i due si fermarono, girarono sui tacchi e corsero sull'automobile, che ripartì rombando. Una macchina bianca della polizia rallentò e si fermò contro la cordonatura del marciapiede. Uno dei due agenti sul sedile anteriore bussò contro il cristallo del finestrino e fece cenno a Rynn di avvicinarsi. Quando il cristallo venne abbassato, Rynn scorse la metà inferirore della faccia dell'uomo muoversi su e giù masticando gomma. «Abiti qui in città?» La voce era sorprendentemente gentile. Lei scosse la testa. «No» soggiunse, sperando che quell'unica parola potesse bastare come risposta. Si disse che doveva riflettere attentamente, che non doveva commettere errori. «In realtà, vengo dall'Inghilterra e sono qui di passaggio» spiegò. «E in Inghilterra lasciano girare le ragazzine sole di notte in questo modo?» Il poliziotto la guardò negli occhi e continuò a far andare su e giù la mascella. «No. Vede, è successo questo: mi trovavo con mia cugina... al cinema... a vedere un film di Walt Disney, ma lei ha incontrato il suo ragazzo e, be', non ho voluto farmi rimorchiare, capisce?» Il poliziotto si sporse e aprì la portiera posteriore. «Sali, prima di morire di freddo. Ti porteremo a casa.» Lei si avvicinò alla portiera. «È molto gentile da parte sua. Grazie infinite, davvero...» Era già salita a mezzo sulla macchina, quando si tirò indietro e guardò il poliziotto. «Potrà sembrarle strano, ma non ho l'indirizzo e non sono affatto sicura di poterle spiegare come ci si arriva. Vede, andiamo sempre in macchina. Oppure
prendiamo l'autobus.» Sorrise, indifesa, e fece una spallucciata. «Credo di sapere soltanto dove devo scendere dall'autobus.» L'agente la fissò. La faccia inespressiva non lasciò capire in alcun modo se le credesse o non le credesse. «Immagino» soggiunse lei «che questo le sembrerà davvero spaventosamente stupido...» «Quanto lontano abiti dalla fermata dell'autobus?» «Soltanto un breve tratto di strada.» L'uomo non smetteva mai di masticare. Si voltò verso l'altro poliziotto, un giovanotto pallido, con i capelli tagliati a spazzola e un grosso pomo d'Adamo. «A che ora passa il prossimo autobus?» «Tra due o tre minuti.» Egli tornò a voltarsi verso Rynn. «Sali, comunque. Puoi aspettare con noi finché arriverà.» Per tre minuti, fino a quando gli agenti non ebbero segnalato all'autobus di fermare dietro di loro, Rynn cicalò allegramente, accettando una gomma da masticare alla doppia menta, e dicendo quanto la divertiva il viaggio negli Stati Uniti durante le vacanze scolastiche. Quando lasciò cadere le monete nel distributore automatico per i biglietti, l'autista dell'autobus, un negro dalla chioma all'africana e dai baffetti radi, l'adocchiò da dietro gli occhiali scuri e disse, in tono volutamente casuale: «È alquanto tardi, no?». Senza rispondere, Rynn si allontanò da lui il più possibile e andò a mettersi sul lungo sedile in fondo all'autobus vuoto. E sebbene non riuscisse a scorgere gli occhi dell'uomo dietro gli occhiali scuri, nel retrovisore, ebbe la certezza che l'autista la stesse osservando. Era soltanto immaginazione? Ma non poteva più trascurare alcun istinto, alcuna sensazione, alcuna percezione. «È alquanto tardi, no?» La voce sommessa di lui le echeggiava nella mente come quella dei dischi per l'insegnamento delle lingue. «È alquanto tardi, no?» Certo che era tardi. Era terribilmente tardi, e se avesse potuto escogitare un modo qualsiasi per non tornare nella casa sul viale, quella notte, se avesse potuto rimandare il momento in cui sarebbe stata costretta ad affrettarsi lungo il viale buio, pieno di foglie morte spazzate via dal vento, e a precipitarsi sola nella nera casa, non si sarebbe trovata su quell'autobus, seduta lì con le mani gelide, le gambe fiacche, ossessionata da un vuoto spaventoso.
Si avvolse più strettamente nel giacchettone, ma rabbrividì contro il sedile rivestito in plastica, sotto le vivide lampade, mentre l'autobus rombava nella notte. Tutto la spaventava, adesso. Gli occhiali scuri dell'autista sbirciarono il retrovisore. L'uomo la stava guardando. «Dove vuoi scendere?» «Tra due fermate» rispose. Si alzò e si portò avanti adagio, regolando i passi al procedere dell'autobus in corsa, in modo da arrivare all'uscita quando sarebbe apparso il suo punto di riferimento... la casa con il cervo di bronzo sul prato. «È molto tardi» disse l'autista, rallentando l'autobus in corsa finché le ruote non stridettero sulla ghiaia al margine della strada. «Sì, molto tardi» ripeté ancora una volta. Ora che stava per scendere, ed era certa che la conversazione non si sarebbe protratta, Rynn divenne improvvisamente audace. «Che cosa vorrebbe dire con questo?» «Vorrebbe dire, signorinella,» l'uomo si esprimeva con una sorta di ritmo tutto suo «che è molto tardi.» Lo sportello si aprì di colpo, sibilando. «Signorinella?» «Mmm?» «Devi andare lontano?» «Non mi succederà niente.» «Se lo dici tu. 'notte.» Lo sportello si richiuse alle sue spalle e le ruote slittarono sulla ghiaia. L'autobus ripartì, le due luci rosse divennero sempre più piccole e lontane. Rynn alzò il bavero del giacchettone intorno alle orecchie e, le mani affondate nelle tasche, corse lungo la strada verso l'oceano. Lo strato di foglie secche sembrava renderle più elastici i passi e lei continuò a correre, senza mai fermarsi a riprendere fiato, per più di un isolato, sebbene l'aria gelida le stesse facendo venire il mal di capo. Giunse nel viale. I tronchi giganteschi degli olmi si levavano neri, pilastri di una cattedrale gotica, e i loro nudi rami agitati dal vento si toccavano in alto come i costoloni di una volta aperta sul limpido cielo notturno. Quando lo aveva veduto per la prima volta, il viale era pieno della luce estiva, di ombre frastagliate, di fiori che avvampavano nei giardini, di insetti ronzanti; e un cane latrava.
Foglie le volarono accanto nell'oscurità. In alto, i rami cozzavano gli uni contro gli altri. La notte, una presenza viva, era costantemente in movimento, si spostava, sospirava, respirava. Rynn si domandò se per caso la notte non stesse cercando di scaldarsi. Si costrinse a passare di corsa davanti alla casa dei più prossimi vicini, le persone recatesi a trascorrere l'inverno in Florida. La casa si profilava nera, i vetri delle finestre luccicanti come gelido ghiaccio nella notte. Prima di allora, il viale non l'aveva mai terrorizzata. Correndo, si disse, sarebbe arrivata a casa in pochi minuti. Ma per poco non si fermò. Si tolse dalla faccia una foglia morta. Era vero, si trovava quasi a casa. E la riflessione la fece tremare in tutto il corpo. Quando avesse infilato la chiave nella serratura, aperto la porta sull'ingresso, e fosse entrata nel soggiorno non riscaldato dal fuoco, la stanza le sarebbe sembrata ancor più gelida della notte. Non c'era niente e nessuno ad aspettarla, là... Scosse la testa, i capelli al vento, si rimise a correre. Non doveva, non doveva mai consentire a se stessa pensieri come quelli. La casa era il solo luogo al mondo che le appartenesse. All'improvviso, quasi si fosse trattato di un presagio, splendente per dimostrare che aveva avuto ragione a pensare cosi, scorse la lampada esterna. Eccola là, tra gli alberi, luminosa e nitida e chiara nella notte gelida. Il cuore le balzò in petto, colmo di felicità e di sollievo. Grazie a Dio, grazie a Dio, grazie a Dio aveva pensato di accendere la luce. Quella era la sua casa, in quella casa abitava. Sempre di corsa si allontanò dal viale e attraversò il giardino, sparpagliando i mucchi di foglie. Con un solo movimento girò la chiave nella toppa, spalancò la porta e cercò gli interruttori della luce. A una pressione, tutte le lampade nell'ingresso e nel soggiorno si accesero. Rynn sbatté la porta e chiuse fuori la notte. Il soggiorno, sebbene inondato di luce, era vuoto e freddo. Frettolosamente, si avvicinò al caminetto, ove si trovavano ceneri bianche e grigie. È troppo tardi per accendere il fuoco, pensò. Mise la mano sulla mensola del caminetto, prese il libro di suo padre e lo tenne con sé mentre si lasciava cadere sul divano. Li, nel solo posto al mondo ove si sentisse a suo agio, rabbrividi. La paura non voleva abbandonarla. Si alzò e si avvicinò alle scale, ma accese la luce in alto prima di premere l'interruttore nell'ingresso e di far piombare nelle tenebre il pianterreno. Senza guardare il soggiorno, corse su per le scale.
Dall'alto, la luce si riversava nell'ingresso e nel soggiorno. Poi il pallido bagliore al primo piano venne spento, le ombre balzarono avanti e l'oscurità inghiottì la casa. Soltanto le tende della finestra sulla facciata, illuminate dalla lampada esterna, splendevano. Contro quel bagliore passò un'ombra. La lampada esterna si spense. 20 Senza il fuoco scoppiettante nel caminetto, senza Gordon che faceva vibrare la gabbietta, nulla viveva nel soggiorno gelido, nulla si muoveva. Eccezion fatta per la ragazza sul letto al piano di sopra, la casa era nera come un'ombra cinese, scura e vuota come quell'altra casa in fondo al viale. Il vento fece raschiare sul tetto un ramo d'acero. Lontano nella notte l'oceano tuonava. Una chiave, non udita dalla ragazza al piano di sopra, girò ticchettando nella serratura, un suono non più forte di quello d'una foglia morta lanciata dal vento a frusciare contro la finestra. La porta si aprì silenziosamente e il netto e bianco pennello di luce d'una lampadina tascabile scaturì nell'ingresso. Una sagoma passò dalla più scialba oscurità del cielo notturno alla casa, accostò senza far rumore la porta e la chiuse a chiave. Il pennello di luce pugnalò le tenebre del soggiorno e scattò sul tavolo allungabile e sul tappeto intrecciato. Nella totale oscurità, rotta soltanto dal fascio luminoso, la sagoma entrò nella stanza e, quasi senza rumore, spostò il tavolo via dal tappeto. Il tappeto venne gettato indietro dalla botola e la luce trovò il chiavistello. Una mano lo spinse indietro. I cardini della botola cigolarono, ma quel suono, come gli altri, non avrebbe potuto destare la ragazzetta al piano di sopra più di quello dei rami degli alberi che strisciavano contro il tetto. La luce che aveva illuminato i gradini della cantina si spostò a un tratto, attraverso la stanza, verso la credenza della cucina. Il fascio luminoso trovò il telefono. La sagoma si mosse, afferrò l'apparecchio, lo portò, collegato al lungo cordone, fino alla scala della cantina e discese, mentre il pennello luminoso causava chiazze di luce che scendevano con essa. Il soggiorno, di nuovo quasi buio, parve oscillare nella luce fioca riflessa dal basso. Il rumore e il raschio dei passi, coperto del vento, non sarebbe stato udito, ma il cordone del telefono, inanellandosi e impigliandosi nella
botola, fece cadere quest'ultima con un tonfo. La botola venne di nuovo sollevata e il pennello luminoso esplorò la buia stanza. Poi, silenziosamente, la botola si abbassò, precludendo ogni luce. Di sopra, una lampada si accese. Il suo bagliore si riversò giù per le scale, ove Rynn si trovava ritta a piedi nudi, nella camicia da notte bianca, splendente. Rynn fissò l'oscurità. Il cuore le martellava, sebbene stesse dicendo a se stessa che, come gli altri rumori, anche quello doveva essere stato provocato dal vento. Un ramo spezzato era piombato contro la casa. Sì, era questo. O forse aveva dimenticato di chiudere a chiave la porta di casa, spalancatasi ora a causa di una raffica. Ma sapeva di aver girato la chiave nella toppa. Forse un quadro era caduto dalla parete. La cassa della legna! Aveva lasciato sollevato il coperchio? Ma il coperchio della cassa faceva un rumore diverso. Quello appena udito era stato un tonfo più forte. Lottò per non accettare ciò che le diceva il cuore martellante. Quel suono. Non sarebbe mai riuscita a dimenticare la prima volta che lo aveva udito. Silenziosamente corse giù per le scale e attraversò l'ingresso per accendere le lampade. Niente, lì, era fuori di posto. Aveva paura di guardare nel soggiorno. Eccola, la cosa che paventava di vedere più di ogni altra al mondo. Il tavolo era stato spostato da un lato. Il tappeto giaceva ammonticchiato. La botola rimaneva scoperta. I suoi pensieri turbinarono. Se fosse riuscita a vincere il terrore che la dominava, se avesse potuto muovere le ginocchia tremanti e avvicinarsi alla botola, avrebbe abbassato l'occhiello, bloccandolo. Le sarebbe stato possibile intrappolare chiunque si trovasse là sotto. Allora avrebbe avuto il tempo di studiare la mossa successiva. Allora avrebbe accertato chi era... Se fosse riuscita a muoversi. Lottò contro il terrore che la paralizzava. Lottò per chiamare a raccolta ogni briciolo di energia. Sopravvivi! Spezzò la presa della paura e mosse il primo passo. Il secondo passo seguì. Troppo tardi. I cardini cigolarono mentre le lucide assi di quercia della botola, davanti a lei, cominciarono a sollevarsi. Si irrigidi ove si trovava. La casa si riempì dei suoi urli.
La botola continuava a sollevarsi, ma non appariva alcuna faccia. Non era nemmeno una mano a spingerla in alto. Che cos'era, un bastone? Un bastone da passeggio. Un bastone da passeggio nero. Mentre la botola si sollevava perpendicolarmente, emersero un cappello a cilindro di seta nera, poi un mantello nero; e un braccio sotto il mantello coprì la faccia. «Mario!» All'improvviso liberata, all'improvviso ih grado di muoversi, Rynn balzò a piedi nudi sul freddo pavimento. «Oh, bastardo! Non eri malato affamo! Tuo zio, tuo fratello e tua sorella ti hanno aiutato a fingere.» Lacrime di incredulità e di sollievo la soffocarono mentre le parole si riversavano da lei. «E persino di cerone grigio ti sei servito! Ti sei dato tutta questa pena per riuscire nel più grande dei tuoi trucchi magici?» Scoppiò in una risata irrefrenabile, ma esente dalla morsa della gelida paura. «Oh come mi hai spaventata!» L'ilarità silenziosa le scuoteva le spalle. Barcollò verso il mantello nero che emergeva dai gradini, esultante per il sollievo della liberazione dal terrore, pazza di felicità. Accanto al tavolo si fermò e respirò profondamente. Sarebbe potuta stare anche lei al gioco, avrebbe potuto fingere a sua volta. Con tutta la fredda furia che era in grado di evocare in se stessa, urlò: «Maledetto bastardo!» Ma, non riuscendo a soffocare la felicità, ridacchiò e corse avanti. La sagoma aspettò che la ragazzetta si trovasse quasi tra le sue braccia prima di voltarsi verso di lei con uno di quegli ampi movimenti teatrali facilitati dai mantelli e dai bastoni da passeggio. Ella vide non già la faccia minuta e allegra di Mario, resa spendente dagli occhi neri e dal sorriso gioioso, bensì la faccia rossa e bovina e il sogghigno a labbra tumide di Frank Hallet. L'uomo ridacchiò. «Ecco il tuo maledetto bastardo.» Con una mano che le ricordava la pelle di cinghiale scostò la botola dalla parete, lasciandola cadere rumorosamente. Con l'altra teneva il telefono. «Esca!» Tremante, la ragazzetta riuscì a gridare il rauco ordine. Hallet le porse il telefono. «Chiama la polizia.» Il sogghigno incise un taglio più profondo sulla faccia rossa. L'uomo continuò a porgere il telefono per rendere più persuasivo l'invito. Poi scosse la testa, simulando stupore. Come per dire: No? Non vuoi telefonare?
«Perché non chiami tuo padre?» Facendo turbinare il mantello, passò accanto alla ragazzina e mise il telefono sulla credenza. Sbirciò la cucina. «Sei inglese e nemmeno mi offri l'obbligatoria tazza di tè?» «Se se ne va immediatamente,» disse Rynn, e la voce fu poco più di un bisbiglio, «non dirò una parola.» Di nuovo Hallet fece turbinare il mantello, godendosi le possibilità che gli offriva, come se uno spettacolo per dilettanti gli avesse dato il modo di esibire una nuova e più vistosa personalità. Il mantello reagì mirabilmente mentre lui ne portava un lembo fino alla spalla. Con l'altra mano, Hallet batté il bastone sul pavimento. «Mi sono vestito in questo modo soltanto nell'eventualità che quei ciccione di Ron Miglioriti, o qualcun altro, mi avessero veduto passare... logicamente, sarei stato scambiato per il tuo amichetto.» Fece un paio di passi malfermi. «Zoppico, persino. Vedi?» «L'agente Miglioriti sa che Mario si trova all'ospedale.» Hallet fece una spallucciata e lasciò ricadere il mantello. «Ah... una svista da parte mia. Fortunatamente, non mi ha visto nessuno.» «L'agente Miglioriti mi ha accompagnato a casa poco fa dall'ospedale. Ha detto che avrebbe aspettato fuori sulla macchina di pattuglia, fino a quando non gli avessi segnalato che tutto era in ordine.» «Basta con le bugie.» «È vero. Ha promesso di passare di qui e di tenere d'occhio la casa.» «Ron Miglioriti il ciccione si trova alla sua stupida lotteria.» Hallet parve irritato mentre sollevava una piega della seta nera per togliere una macchia biancastra. «C'è molta polvere giù in cantina. Non soltanto polvere... di che si tratta? È lisciva?» Grattò via la macchia dal mantello con l'unghia. «Là sotto, mica sapevo che cosa avrei trovato. Probabilmente perché ignoravo, in realtà, che cosa stessi cercando. Senza dubbio, non quegli stupidi barattoli.» Hallet gettò indietro le nere pieghe del mantello con un movimento ampio e alzò una mano. Stretto tra pollice e indice aveva un piccolo oggetto che mise sotto il naso di Rynn. «Una forcina» disse. Si sporse verso la ragazzetta, guardandole i lunghi capelli sciolti, castano-dorati. «Ma tu non adoperi forcine, vero? Non con quei bei capelli.» Accostò ai propri occhi il minuscolo oggetto, per esaminarlo meglio. «Una forcina.» «Potrebbe essersi trovata là sotto da anni» disse Rynn. «Ma si sarebbe arrugginita.» La fiutò e sorrise. La porse a Rynn affinché
la osservasse, e non tradì alcuno stupore allorché ella indietreggiò. «Sa ancora del profumo che regalai a Ma' il Giorno della Mamma.» Rise. «Cara mammà.» Poi aprì il pugno, mostrando nel palmo qualcosa di ancor più piccolo della forcina. «E questa. Non diresti che è un'unghia spezzata? Di un rosso vivido. Non è affatto il colore della vernice che adoperava mammà. E inoltre abbiamo qui questi pochi capelli. Ebbene, di chi potrebbero essere, secondo te?'» Nessun avaro aveva mai tenuto nella mano il proprio tesoro con una più affascinata avidità, con una passione più grande. «Al buio, non sono riuscito a trovare altro. La polizia... con tutto il suo armamentario... non si può sapere che cosa troverà.» Quasi si separasse a malincuore da quei trofei, Hallet li mise con cautela in un posacenere di vetro. Poi batté le mani, pronto a darsi da fare. «Vogliamo rimettere a posto tappeto e tavolo?» Sferrò un calcio al tappeto, spingendolo sopra la botola. Lo spostò con il piede, lisciandone le pieghe e facendolo scivolare al punto giusto. Poi fece schioccare le dita nella direzione di Rynn e lei, remissiva, sollevò il tavolo da un lato. Insieme a Hallet lo riportò al suo posto. L'uomo si avvicinò alla finestra. Scostò le tende e si fece schermo agli occhi per guardar fuori, sotto il buio pergolato. «E in che condizioni è il giardino?» Rynn stava allineando sul tavolo i due candelabri di peltro. «Laggiù» disse lui. «Tutta quella terra lavorata.» «Tulipani» disse la ragazzetta. «Bene. Alla cara mammà piacciono i tulipani.» Lasciò ricadere le tende. Finse di riflettere a voce alta, ma Rynn sapeva che, come si era divertito con la teatralità del mantello, del cappello a cilindro e del bastone, si stava ora divertendo con lei... una spettatrice obbligata. «Dovrei fare uno sforzo, presumo, ma la verità è che non la rimpiango poi tanto. Pensi che sia perfido da parte mia? Ho paura che con il passare del tempo sentirò sempre meno la perdita.» Non seppe resistere alla tentazione di sorridere mentre si passava lo stick di unguento sulle labbra. «No, non mi manca affatto, ma, a quanto pare, la polizia...» Lasciò che la frase rimanesse in sospeso; le parole erano state pronunciate adagio, volutamente, e parvero indugiare come il vapore del suo alito nell'aria fredda. Con l'unghia, Rynn staccò un pezzetto di cera dal piano del tavolo. «Ricordami di pensare a lei quando mi metterò qui... davanti a questa finestra... la prossima primavera, nella stagione dei tulipani.»
Qui. La prossima primavera. Anche queste parole vennero pronunciate adagio, in tono deciso, mentre egli andava a mettersi alle spalle di Rynn, che continuò a raschiar via la cera dal piano del tavolo. «Ma nemmeno per tutto l'oro del mondo vorrei che tu ti cruciassi a causa sua. Ecco perché sono venuto a piedi sin qui.» Poiché Rynn non volle voltarsi, le girò attorno. Di nuovo lei gli voltò le spalle. «Proprio così. A piedi. Non mi domandi come mai non sono venuto con la bella Bentley color fegato di mammà cara?» Raccolse le pieghe del mantello e le passò accanto per avvicinarsi al caminetto. Dalla cassa della legna tolse un giornale vecchio che appallottolò e ficcò sotto la grata. Dispose pezzetti di legno sulla grata, accese la carta e stette a guardare il fuoco che prendeva, con i riflessi arancione delle fiamme sulla faccia. «O non me lo domandi perché sei così straordinariamente intelligente da capire che non voglio lasciarla sul viale e farla vedere da tutti? Giusto?» Alzò gli occhi dal fuoco quando le fiamme salirono lambendo la legna. «Oh, a proposito. Devo ringraziarti per aver riportato la macchina all'agenzia.» La ragazzetta rimaneva accanto al tavolo, immobile, silenziosa. «Rynn?» «Non so di che cosa stia parlando.» «Voglio dire che sei in gamba. Impossibile non riconoscerlo. Ma hai commesso un errore. Sto parlando del famoso sabato in cui lei venne qui con il suo orgoglio e la sua gioia, con la Bentley color fegato, a ritirare gli altrettanto famosi barattoli della marmellata. Non tornò mai a casa. Ma, in qualche modo, ci tornò l'automobile.» «Quel sabato non venne mai qui.» «Oh, andiamo, adesso sei sbadata.» «Non venne mai.» «Mia cara, ti consiglierei di metterti a sedere.» Rynn non si mosse. Hallet fece schioccare le dita indicando il divano. La guardò, con la luce del fuoco baluginante sulla faccia, mentre lei si metteva a sedere. «Venne e come. Io lo so. L'accompagnai sulla macchina.» Nel silenzio, Rynn lo udì respirare. «Ora capisci perché non devi mai fare certe asserzioni imprudenti?» «Non venne qui.» «Non essere noiosa. Quel sabato, pensai di venire anch'io a farti una vi-
sitina. Mentre uscivamo dall'agenzia, mentii. Dissi alla cara mammà che volevo andare dai tuoi vicini prima che chiudessero casa e partissero per la Florida. Ma una volta giunti nel viale, lei capi perché ero venuto. Mammà cara! Sapeva quel che volevo. Parcheggiati proprio là fuori, davanti a questa casa, avemmo la più terribile delle liti. Lei mi vietò di tornare ancora qui. Disse che avrebbe parlato con tuo padre. A quattr'occhi. Di me... probabilmente. Pensi che sia terribilmente pazzesco, da parte mia, pensare una cosa simile? Eppure è vero. Ma ormai non ha più importanza. Aspettai che uscisse. Aspettai e aspettai. Sotto la pioggia, ricordi? Ti vidi uscire di casa e tornare. Vidi il piccolo illusionista zoppo arrivare qui in bicicletta e andarsene, sempre in bicicletta. Nel frattempo, io ero bagnato fradicio, e me ne tornai a casa a piedi... lasciando qui l'automobile.» «Niente di tutto questo è vero.» «Sei testarda, eh? Domandalo al ciccione Ron Miglioriti e saprai che la polizia lasciò la Bentley di mammà (ero io il solo a ritenere misteriosa la sua riapparizione davanti all'agenzia) ferma là per tutta la giornata di domenica. Chiusa a chiave. Come il locale corazzato di una banca. Poiché il solo mazzo di chiavi lo aveva mammà cara, io non ero in grado di aprire la portiera. Lunedi, un autocarro trainò la Bentley nell'autorimessa di Podesta. Visto che ti si ritiene tanto intelligente, dimmelo tu. Come feci ad aprire la portiera della macchina e ad avviare il motore senza le chiavi?» «Gliele diede sua madre.» «No, no, no» esclamò lui, spazientito. «Te l'ho detto, non l'ho più vista. Del resto, non mi avrebbe mai permesso di toccare la sua preziosa automobile.» «C'era un altro mazzo di chiavi.» «Visto che mammà non mi permetteva di guidare la sua automobile, come puoi sostenere che mi avrebbe lasciato a portata di mano un altro mazzo di chiavi? Niente da fare. No, mammà cara era una donna molto meticolosa. Sicché...» Fece schioccare le dita per richiamare l'attenzione della ragazzetta. «Sicché, come l'aprii la portiera?» «Chiamò un fabbro.» «Voila!» «Allora sua madre ha ancora l'altro mazzo di chiavi.» «Vorresti dire che tornò in macchina all'agenzia?» «Sì.» «Ma se non fu lei, chi fu allora? Be', visto che sei una signorinetta tanto
intelligente da sbalordire, non potrei giurare che non sia stata tu. A quanto pare, sei capace delle cose più straordinarie.» Soffocò una risatina. «Be', dopo avere aperto la macchina, la esplorai centimetro per centimetro. Sherlock Holmes. Ellery Queen. Maigret. Scegli tu. Ma non trovai nessun indizio dal quale si potesse arguire che una ragazzetta di quattordici anni... o sono tredici?... l'aveva guidata. Così, cercai ancora. E sai che cosa trovai? Sullo spesso rivestimento di cuoio della portiera c'erano segni rotondi. Dio sia ringraziato per quel vero cuoio. La plastica non avrebbe rivelato niente. Segni rotondi lasciati da che cosa? Segni rotondi impressi dalla punta di un bastone che qualcuno aveva adoperato per aiutarsi a scendere dalla macchina. E sul sedile posteriore? Là dietro, qualcosa aveva graffiato il prezioso cuoio di mammà. Forse qualcosa che era troppo ingombrante per trovare posto nel portabagagli? E c'erano anche altre tracce del bastone. A che cosa era servito il bastone? A sostenersi? E i graffi... erano graffi lasciati da una bicicletta, quelli sul sedile posteriore? Tracce di un bastone adoperato come puntello per caricare e scaricare una bicicletta? Quella del piccolo illusionista zoppo? Intento a fare uno dei suoi zoppicanti giochi di prestigio?» Il fuoco cominciò a scoppiettare. «Tutto questo era accaduto sabato. Sfortunatamente, io riuscii a salire sulla macchina soltanto lunedì. E lui che cosa aveva fatto nel frattempo? Era venuto qui a riportarti le chiavi sabato sera? Le hai tu, adesso? Appese a una catenina intorno al tuo esile e grazioso collo?» Hallet prese l'attizzatoio e smosse il fuoco. Mise sulle fiamme un ceppo d'acero. «Naturalmente, tutto ciò non mi disse dove si trovava mammà cara. Questo dovevo ancora scoprirlo. Tornai qui a piedi, quelle sere, non con la macchina.» Sospirò. «Oh, le volte che arrancai sotto la pioggia e sulle foglie morte, soltanto per vederti...» Si scostò dal caminetto e si tolse la fuliggine dalle mani. Con un'eleganza esagerata, si avvolse nel mantello e si calò adagio sulla sedia a dondolo. «Rimangono ancora alcuni particolari da chiarire.» Alzò una mano ammonitrice. «Non dirmi niente. Mi diverto troppo ad arrivarci da solo.» Fece schioccare le dita nella direzione della scatola di sigarette. Rynn gli portò il pacchetto di Gauloise. Lui ne prese una e aspettò. La ragazzetta strofinò un fiammifero e gli accese la sigaretta. Aspirando, Hallet si appoggiò alla spalliera e cominciò a dondolarsi adagio. «Per avere quattordici anni... e sono tredici?... sei davvero intelligente.
Ricca di inventiva. Piena di risorse. Calma nelle difficoltà. Ma, prima o poi, tutti devono rendersi conto che esistono altre persone intelligenti al mondo. Scoprire realtà di questo genere fa parte, terno, della crescita. Eh si, è triste non essere più al centro del mondo, vero?» Fumo azzurrognolo si arricciolava intorno alla faccia rossa di Hallet. «Vedi, so bene che tu hai eliminato la cara mammà. A causa di quello che scoprì nella cantina... ma, come dicevo, preferirei rimandare il resto alle nostre conversazioni durante le lunghe serate invernali.» Si sporse e prese il pacchetto di sigarette che la ragazzetta aveva ancora in mano. «Scusami. Vuoi una sigaretta? No?» Continuò a fumare, mantenendo il suo atteggiamento teatrale. «Non assumere quell'espressione così solenne. Te l'ho detto, non ce l'ho con te per aver tolto di mezzo la cara mammà. È stato un dono di Dio. Mi hai evitato il disturbo. La odiavo, quella donna. Desideravo che un fulmine la incenerisse... che un'insalata di, gamberetti, a qualche pranzo del circolo femminile, l'avvelenasse... che un augurabile scontro frontale sull'autostrada appiattisse la Bentley color fegato come una pressa, facendo sì che il suo sangue blu scorresse a rivoletti in tutte le direzioni. E invece no. A ogni anno che passava diventava più sana. Sembrava fiorire. Dio mio, quella donna prosperava nella vecchiaia. Avevo ormai rinunciato alla speranza che potesse tirare le cuoia.» Sorrise, meccanicamente, dondolandosi avanti e indietro, come un pupazzo dipinto su una seggiolina-giocattolo, pensò Rynn. «Per conseguenza... ti ringrazio.» Il telefono squillò stridulo. Sempre sorridendo, l'uomo meccanico alzò una mano meccanica, ordinandole di rispondere. «Pronto? Oh, agente Miglioriti. Oh, come sono contenta che abbia telefonato.» Hallet si dondolava avanti e indietro, e il suo sorriso dipinto e lucente rimase immutato. «Be', hanno detto tutti che Mario stava meglio. Non mi è sembrato... Ah sì? Sì? Ha detto così? Sia ringraziato il cielo. Be', se il medico ha detto questo alla famiglia, allora credo che non dovrei crucciarmi. Io? Sto bene, benissimo. Ho preso l'autobus, come mi ha detto lei... Cosa? Senta, se davvero si tratta di una brutta notizia, forse non è questo il momento...» Voltò le spalle all'uomo sulla sedia a dondolo. La sedia rallentò e si fermò.
«Sì» disse Rynn al telefono. «Capisco. Non succede sempre così? No. Non adesso. Non voglio disturbarla. No, davvero. Ci penserò io. Grazie per aver telefonato.» Posò il ricevitore. L'uomo accanto al fuoco soffiò fuori un lungo pennacchio di fumo. «Regola numero uno» disse. «Nessun segreto. Una brutta notizia?» «Ho vinto lo stupido tacchino per il Giorno del Rendimento di Grazie.» «E gli hai detto di non portarlo qui. Sei stata molto savia.» Meccanicamente, Hallet ricominciò a dondolarsi. 21 «Domani andrò al posto di polizia e ritirerò il tacchino.» Hallet venne scosso da una risata silenziosa. «E ne approfitterò per salutare a nome tuo Ron Miglioriti il ciccione.» Osservò attentamente Rynn. «Il ciccione ci lascia e si trasferisce in California.» Annuendo e dondolandosi, Hallet contìnuò a scrutare la ragazzetta. Ma lei non reagì in alcun modo. «Uno sbirro italiano di meno, eh?» I sussulti silenziosi traboccarono e divennero una gorgogliante risata. Hallet si calmò soltanto succhiando la sigaretta. «Quanto al piccolo illusionista, quando uscirà dall'ospedale, sarai tu a parlargli. Toccherà a te dirgli di andarsene e di stare alla larga.» Rynn, le braccia conserte sulla camicia da notte, si massaggiò i gomiti allontanandosi dall'uomo. «Dove credi di andare?» «Ha chiesto una tazza di tè.» «La maniera inglese di risolvere ogni cosa, eh? Una bella tazza di tè bollente. Ma prima» disse Hallet «metti un disco. E spegni la luce.» La musica di Liszt scaturì nella casa. In trono sulla sedia a dondolo, Hallet si stava godendo la cerimonia che aveva inscenato, e fumava con voluta lentezza, quasi fosse persuaso che il mondo intero stesse aspettando il suo successivo decreto imperiale. «Mi è piaciuto come ti sei comportata al telefono. Hai dimostrato un'innata capacità di imparare. Tranne» e la faccia rossa si girò sul grosso collo per sbirciare la cucina «tranne l'errore commesso con la macchina, sei... brillante. Ancor più che brillante. Scaltra. Sagace. Un essere eccezionale.» Sopravvivere.
Sotto il rubinetto, la ragazzetta stava riempiendo il bricco con acqua calda. Non guardò l'uomo mentre diceva: «Mio padre dice che l'intelligenza è la capacità di vedere rapidamente la realtà». «Oh, davvero? Lo pensa anche il famoso filosofo americano George Santayana, e, sfortunatamente per tuo padre, Santayana lo ha detto prima.» Hallet ascoltò la ragazzetta che si muoveva tra la credenza e la cucina economica. «A Harvard studiavo filosofia, sì, finché non mi espulsero. Oh, constaterai che sono pieno di sorprese.» Hallet si alzò dalla sedia a dondolo, aprì la cassa della legna e prese un ceppo d'acero. «Non c'è motivo per cui tu non debba continuare a vivere come hai sempre fatto. Soltanto che, d'ora in poi, saremo amici, tu e io. Noi due soli. Com'è che dice la canzone? "Nessuno accanto a noi per vederci o ascoltarci". Canticchiò, le parole e il motivo di Tè per due. «"Né amici né parenti durante il weekend..." Mammà cara amava, adorava addirittura, questa canzone.» Con un grugnito, fece rotolare il ceppo sul fuoco. «Mario...» disse la ragazzetta, sommessamente. «Be'?» «Sa.» «Sa che cosa?» «Quello che è accaduto.» «Come ho detto, spetterà a te il compito di liberarti di lui.» «Forse non sarà facile.» «Forse morirà.» «I medici dicono di no.» Hallet si riadagiò sulla sedia a dondolo. «Allora dovrai semplicemente servirti di quella tua brillante testolina ed escogitare qualche maniera per fargli capire che non è gradito. Lascia che se ne vada sui suoi piccoli piedi storpi di italiano.» «Biscotti?» «Cosa?» «Gradisce qualche biscotto?» «Ma certo. Solo che qui negli Stati Uniti li chiamiamo pastine.» Il bricco sibilò e poi fischiò mentre la ragazzetta toglieva l'acqua bollente dalla cucina economica. Stava riempiendo la teiera quando disse: «Mario è disceso in cantina».
«Un posticino movimentato.» «Come ho già detto, sa tutto.» «È un piccolo italiano intelligente, eh?» «Molto.» «Allora sarà abbastanza intelligente per rendersi conto di essere complice. Conosci questa parola?» «Sì.» Rynn rimise il bricco sulla cucina economica. «E lui, lo sa che cosa vuol dire?» «Dovrebbe.» «È la sola altra persona che sappia della cantina?» «Sì.» Hallet stava osservando attentamente il pacchetto di Gauloise. Gli andava di fumarne un'altra? Al rumore dei passi di Rynn, decise di non fumare e osservò la ragazzetta equilibrare il vassoio del tè sull'angolo del tavolino da caffè mentre si inginocchiava sul pavimento. Ella si accosciò sui propri piedi nudi, poi fece posto per il servizio da tè. Hallet, che non distava nemmeno un metro da lei, non si mosse per aiutarla. Le fissò i capelli che splendevano alla luce del fuoco. «Signor Hallet?» «Sì, cara?» «Lo dirà a sua moglie?» Rynn si rendeva conto del pericolo implicito nella domanda. Se in quel momento l'uomo l'avesse schiaffeggiata, non si sarebbe stupita. Ma Hallet non si mosse. «Se questo» disse, rinunciando ad ogni traccia di ironia, «lo lasciassi decidere a me?» Rynn dispose sul tavolino piattini e tazze, la teiera, il vassoio con i biscotti. Hallet tese la mano rosea, che le ricordava la pelle di cinghiale, e, con la punta delle dita, toccò il profilo d'oro filato dei capelli della ragazzetta, splendenti al bagliore delle fiamme. «Bei capelli.» Rynn non si sottrasse bruscamente al contatto, ma approfittò dei propri movimenti per disporre ogni cosa sul tavolino e si scostò quasi impercettibilmente dalla mano dell'uomo. Se anche Hallet interpretò la mossa come una ripulsa, non disse niente. Aveva tempo. «Il fuoco sta prendendo» disse. «Ora stiamo bene e al calduccio.» Le note del concerto per pianoforte scendevano come una pioggia d'argento... alcune note scintillanti insieme preparavano il momento in cui sarebbe esploso il gran finale orchestrale.
«Che cosa stiamo ascoltando?» domandò Hallet. «Liszt.» «Bello.» Il suo sguardo non l'abbandonava mai. «Latte?» «Sì, prego.» Hallet osservò Rynn che versava. Con grande abilità ella interruppe lo scorrere del latte così destramente che non una sola goccia cadde dalla lattiera. «Zucchero?» «Metti pure. Ti dirò io quando smettere.» Ella lasciò cadere le zollette di zucchero finché Hallet non la fermò facendo schioccare le dita. «Tre?» «Mi aspetto che te ne ricordi.» «Sarà facile» disse la bambina. «Sono tante quante ne metto io.» Hallet batté la mano sul punto del tavolino ove voleva che lei mettesse la tazza, cosi da averla a portata di mano reclinando in avanti la sedia a dondolo. «Ecco, lì.» Rynn riempì la propria tazza, versò la stessa quantità di latte e aggiunse tre zollette di zucchero. «Non c'è niente» disse l'uomo «che valga quanto una tazza di buon tè bollente.» Ascoltarono la musica, e nessuno dei due toccò il tè. «Bella» disse l'uomo. «Mmmm.» Dopo parecchi minuti, Hallet ruppe il silenzio. «C'è qualcosa che non va, mia cara?» «No.» «Avanti, sii sincera.» «Mi sembra un peccato, ecco, che lei non si goda il tè finché è caldo.» «Vuoi sapere, insomma, perché non lo bevo?» «Non precisamente.» «Ma è questo che intendevi, no?» «Sì, credo...» «Anche tu non lo bevi.» «Sto aspettando lei. È lei l'ospite.» L'uomo sorrise. «Nel tuo ci hai messo più latte.»
«Davvero?» «In realtà, è così che lo preferisco.» «Bene,» disse la ragazzetta, prendendo la lattiera, pronta a versare, «è facile metterci rimedio...» «Preferirei avere il tuo» disse lui, fissandola negli occhi. Batté la mano sul tavolo e si espresse con un'asprezza sorprendente. «Quando ti parlo, guardami!» Rynn alzò gli occhi verdi verso i suoi, ma li riabbassò. «Voglio la tua tazza di tè» egli disse. «Questo ci farà sentire ancor più vicini, non ti sembra?» Tese la mano. Alzando il piattino e porgendoglielo, Rynn cercò di impedire alla tazza di tintinnare. Hallet, nel frattempo, fece scivolare la propria tazza, con il piattino, sul tavolo. «Non aspettare me» disse. «Prima le signore.» Rynn alzò la tazza. «Aspetta.» Lei si fermò con la tazza a mezz'aria. «Bella dama inglese, sei» egli disse, agitando il mignolo. «Non fai sporgere il ditino.» «Non lo faccio nemmeno in Inghilterra» disse Rynn. Hallet la osservò attentamente, aspettando che bevesse il primo sorso. La ragazzetta sorseggiò il tè. «Buono?» Ella bevve un sorso più lungo. «Come ha detto lei, non c'è niente che valga quanto una tazza di buon tè bollente.» Con l'altra mano gli porse il vassoio e lui prese un biscotto. Lo spezzò con i denti. Rynn aspettò mentre l'uomo beveva. «Buono.» Le labbra unte d'unguento luccicavano contro la tazza. «Un altro biscotto?» «Si chiamano pastine» egli disse. «Te l'ho già detto.» Tossì. «I tovagliolini» disse la ragazzetta. «Temo di averli dimenticati. Vado a prendergliene uno.» «Resta dove sei.» «Basta il latte?» «Va benissimo.» Hallet sorseggiò di nuovo. «Sai perché ho voluto cambiare tazza?» «No.» Rynn si rese conto immediatamente che non le credeva.
«Rifletti.» Il suo sguardo esigeva una risposta. «Una specie di prova?» «Ho cambiato tazza affinché tu ricordi, se per caso ti saltasse in mente di ricorrere a qualche trucco, che faresti meglio a lasciarlo al tuo piccolo illusionista italiano.» Tossì di nuovo. Masticò un altro biscotto. Sorseggiò ancora. «Questo tè sa di mandorle.» Rynn sentì lo spigolo ruvido del dente scheggiato mentre masticava uno dei biscotti. «Credo che siano queste pastine alle mandorle.» Hallet vuotò la tazza e la posò sul tavolino. «Dovresti vedere come il fuoco ti illumina i capelli. Sono tutti fulvi e dorati.» Al di sopra della tazza di tè, ella vide l'uomo protendersi verso di lei. «Che bei capelli...» La mano di Hallet si sporse, nella luce del fuoco, verso la ragazzetta e le accarezzò i capelli. Rynn rimase del tutto immobile. FINE