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FRANK SCHÄTZING SILENZIO ASSOLUTO (Lautlos, 2000) Con astuzia, a Paul INTRODUZIONE Negli anni '90, il mondo si è trovato di fronte a due guerre: la guerra del Golfo nel 1991 e, otto anni più tardi, la guerra del Kosovo. Per lo meno questo è il ricordo. In realtà, negli ultimi dieci anni del secondo millennio, oltre cento nazioni nel mondo erano implicate in attività belliche e milioni di persone sono morte in seguito a conflitti armati, torture e deportazioni. I teatri di questi avvenimenti andavano dal Ruanda al Tibet, dai territori curdi alla Cecenia e alla striscia di Gaza. In vaste zone dell'Africa e del Sudamerica le guerre civili hanno mietuto un gran numero di vittime. Tuttavia non sono stati questi conflitti a sollevare nuovamente l'interrogativo sull'opportunità delle guerre, bensì la battaglia di un despota per accaparrarsi pozzi di petrolio e quella di un altro despota per un pezzo di terra nel quale, oltre seicento anni fa, un certo principe Lazar fu sottomesso dagli ottomani. Un semplice sguardo al rapidissimo sviluppo della cultura mediatica occidentale rivela perché vediamo le cose in questo modo. La televisione e Internet ci consentono di accedere a quasi tutte le informazioni che desideriamo. Possiamo procurarci dati a nostro piacimento, senza tempi di attesa. Nessuna parte del mondo, nessun settore specialistico e nessuna intimità ci sono preclusi. In compenso, ci abbiamo rimesso la capacità di giudizio. Misuriamo l'importanza dei fatti mondiali in base al tempo che la televisione dedica loro: due minuti di Cecenia, tre minuti di notizie locali, un minuto di cultura, le previsioni del tempo. Il problema è che ci siamo abituati a fidarci ciecamente della valutazione dei media e di conseguenza incorriamo in un errore: scambiamo una domanda per un'altra e, invece di chiederci se qualcosa è interessante per noi, ci chiediamo se è interessante in linea di principio e lasciamo che siano i media a rispondere al nostro posto. Per questo motivo, dal punto di vista dell'Occidente, ci sono state soltanto due guerre, cioè quelle due che ci dovevano interessare per forza. Quando Saddam Hussein ha minacciato d'incendiare i pozzi petroliferi del Ku-
wait - se non addirittura prima di minacciarlo -, quella guerra ha cominciato a riguardare tutti. Gli esperti profetizzavano un disastro ecologico globale. La guerra regionale è diventata una guerra mondiale, ha dominato i media e le opinioni. A prima vista, l'interesse mondiale per il destino degli albanesi del Kosovo appare molto più enigmatico, soprattutto negli Stati Uniti, un Paese nel quale quasi nessuno aveva la più pallida idea di dove si trovasse il Kosovo e del perché i suoi abitanti si accapigliassero da anni. A ciò va aggiunto che Slobodan Miloševič non aveva nemmeno invaso uno Stato sovrano, ma aveva, per così dire, scatenato una zuffa in casa propria. Il fatto che poi ne fosse scaturita un'altra guerra mondiale (cioè una guerra che ha tenuto col fiato sospeso il mondo intero) è dovuto a un nuovo concetto, insinuatosi di soppiatto nel vocabolario della politica mondiale: la «guerra dei valori». Questo concetto si è portato appresso di tutto, tranne che la chiarezza. Naturalmente salvare vite umane ha un grande valore. Resta però il fatto che qualsiasi azione di soccorso, per quanto animata dalle migliori intenzioni, appare in una luce completamente diversa quando si compie in funzione dei rapporti di potere nel mondo. Se giungiamo alla conclusione che le guerre si possono ancora fare, ciò implica anche stabilire chi le può fare e cioè chi ha più armi e più valori o, meglio, qualsiasi cosa che il soggetto in questione ritenga un valore. Se la NATO può legittimamente ricorrere alle armi in virtù dei valori, ciò non ha tanto a che fare coi tragici eventi di uno Stato balcanico, quanto piuttosto con chi imporrà i propri valori al mondo e, se necessario, bastonerà chiunque non vi si attenga. Con una certa ingenuità, l'Occidente ha dato per scontato che tale idea fosse universalmente accettata e che, com'era avvenuto per la guerra del Golfo, anche nel caso del Kosovo il mondo intero facesse fronte comune contro la canaglia delle canaglie. Invece il conflitto è sfuggito al controllo, degenerando in una sostanziale prova di forza. Ciò che era cominciato in Kosovo è riemerso per le strade di Pechino, dove sono state incendiate bandiere americane; ha messo il governo tedesco di fronte a profonde questioni costituzionali e ha relegato la Russia a un pericoloso ruolo di outsider. Il normale spettatore dei notiziari serali si trovava e si trova davanti tutto ciò e, nel Paese delle meraviglie dell'infotainment globale, ha nostalgia della sua valle isolata, di trasparenza e di problemi che può capire. Incapace di mettere nella giusta relazione i ritagli di verità provenienti da tutto il mondo, cerca un piccolo e semplice dettaglio, per essere finalmente di
nuovo partecipe e dedica tutto il suo sbigottimento al singolo profugo mostrato dalla televisione, il quale da tempo non è più al centro degli eventi. La sua realtà non è la realtà. Nel giugno del 1999, il normale spettatore dei notiziari ha assistito alla capitolazione di Miloševič e alla maratona del vertice di Colonia. Tutto era illuminato di pace. In chiusura, il vertice del G8 presentava immagini di concordia: Clinton, Eltsin, Schröder... Sembrava che tutti si volessero di nuovo bene. Poiché la maggior parte delle persone non sapeva ancora esattamente quali fossero stati i motivi della guerra, anche in quel caso si è affidata alle immagini, illudendosi di avere assistito a un film con tanto di happy end. Ma, in un mondo interconnesso, nel quale ogni giorno nascono interessi più complessi e più astrusi, le cose non sono così semplici. Nessuno poteva immaginare che l'intervento in Jugoslavia inducesse Boris Eltsin a minacciare la terza guerra mondiale. Nessuno poteva immaginare che la questione del Kosovo, ben prima della guerra, avesse già chiamato in causa forze che perseguivano scopi propri. Nella rete globale, noi vediamo soltanto ciò che accade e non cosa sta veramente dietro di esso. Non vediamo chi esercita influenza e con quali effetti. Su questo sfondo si sono svolti gli eventi del vertice di Colonia che non sono arrivati ai media e che, negli atti, vengono menzionati soltanto come «l'incidente». Quell'«incidente» ha chiarito in modo spaventoso quali pericoli siano in agguato in un villaggio globale nel quale gli abitanti non si sanno più orientare e in cui le persone che decidono hanno perso qualsiasi visione d'insieme. E ha pure chiarito che abbiamo ragione a considerare con scetticismo la nostra idea di realtà. Sui giornali non troverete nessun accenno all'«incidente». Niente del genere è arrivato al pubblico. In ogni caso, coloro che vi erano implicati direttamente sono quasi tutti morti e i governi dei Paesi coinvolti non hanno nessun interesse a rendere pubblica la faccenda. E, dato che «l'incidente» non è apparso sui media, in realtà non è mai avvenuto. Ecco la sua storia. «Una società che sa tutto non sa nulla.» THEODOR W. ADORNO
FASE 1 20 novembre 1998. Monastero Più che sentirlo, il vecchio percepì il rumore dell'auto che si avvicinava. Fissava i contorni delle montagne, oltre le colline alberate, tenendo le mani sul davanzale di pietra, con la testa incassata tra le spalle. Gli sarebbe bastato fare qualche passo a destra e l'ombra del massiccio tetto a spioventi avrebbe lasciato il posto al caldo tappeto di sole che ammantava la terra fino all'orizzonte. Era una giornata oltremodo limpida, il cielo era tinto di quel blu che lascia intuire la bellezza del cosmo e, nonostante la tarda stagione, faceva caldo come a luglio. Ma il vecchio preferiva il fresco. Gli occhi a fessura, semichiusi sotto le sopracciglia incanutite, tanto che era quasi impossibile distinguerli in quel labirinto di rughe, il mento proteso in avanti, cercava di prendere le distanze dalla bellezza del paesaggio. Non era ancora il momento di scendere i gradini dell'antica chiesa del monastero, per andare là dove le suole degli stivali sarebbero affondate nell'erba e nella terra soffice, facendo venire voglia d'incamminarsi verso le montagne così vicine e nel contempo così irraggiungibili. Ciò che interessava al vecchio non si poteva esplorare con una semplice passeggiata. Si trovava al di là delle montagne e non era il mare e non era nemmeno una terra ancora
più grande e più lontana. Era una visione. Una lucertola sfrecciò sulla pietra calda, superò il confine dell'ombra e si avvicinò alle sue dita. Lui sperò che ci camminasse sopra. Era una cosa che spesso aveva atteso per ore, quand'era piccolo, e una volta era accaduta. Una sola volta, ma la sua pazienza era stata ripagata. Il vecchio sospirò. Quanta pazienza doveva avere, stavolta? Quanti anni gli restavano per essere paziente? Abbassò lo sguardo sulle macchie che gli ricoprivano il dorso della mano e rabbrividì. Non sono poi così vecchio, pensò. Non ho nemmeno sessant'anni. Bisogna tenere tante mani, ci sono così tante persone che vogliono essere guidate. Ti affondano le unghie nella carne, strappano pezzi di te, del tuo amore per questa terra e tu dai più di ciò che sei. Ti chiamano capo e ti spartiscono tra loro... Come si fa a non sembrare vecchi? Eppure nel contempo ti danno la forza che ti serve, ti marchiano coi loro sguardi quando parli e sai che puoi anche morire, ma le tue idee continueranno a vivere dentro di loro! L'età non è importante, è un'illusione. Sono le idee che contano, nient'altro. Il suo sguardo cercò la lucertola, che guizzò all'indietro e scomparve. Quasi stizzito, constatò che il rombo del motore si era ormai impossessato completamente della quiete circostante e che la fonte di quel rumore era entrata nel suo campo visivo. L'auto risalì fragorosamente la scarpata e si fermò sotto le scale. Per qualche secondo il diesel continuò a vibrare sonoramente, poi il rumore della macchina si spense e riconsegnò la terra ai suoni più antichi e più misurati che il vecchio aveva ascoltato con attenzione fin dall'alba. Il nuovo arrivato aveva appena passato i quaranta, era alto, aveva i capelli tagliati a spazzola e leggermente brizzolati sulle tempie, una giacca di pelle nera e jeans sbiaditi. Salì i gradini con passo molleggiato. Il vecchio girò il capo verso di lui e ne squadrò il viso dai tratti regolari e dagli occhi verdi. Un viso aperto, pensò. Quasi gentile, ma senza calore, senza umorismo. Capì subito che l'altro avrebbe raccontato pessime barzellette, sempre ammesso che ne raccontasse. «Come la devo chiamare?» chiese. «Mirko», rispose l'uomo, tendendogli la mano. Il vecchio la guardò per un istante, poi la strinse. «Semplicemente Mirko?» «In che senso 'semplicemente'?» ribatté l'altro con un ghigno. «Sono
cinque lettere che mi hanno salvato la vita diverse volte. Amo questo nome.» Il vecchio lo osservò. «Lei si chiama Karel Zeman Draković», disse in tono asciutto. «È nato nel 1956 a...» «Novi Pazar. Eccetera, eccetera», lo interruppe l'altro con un cenno d'impazienza. «Bene, conosce i miei dati anagrafici. Anch'io. Vogliamo parlare di cose importanti?» Il vecchio rifletté. «Questa terra è importante», disse dopo un momento di silenzio. «Lo capisce?» «Naturalmente.» «No, non lo capisce.» Il vecchio sollevò un indice. «Ciò che è importante è a chi appartiene. Questa è la cosa che più conta, a chi appartiene qualcosa! Guerre, conflitti, controversie... quante cose ci potremmo risparmiare se tutti non si sentissero costantemente obbligati a irrompere nel salotto altrui a passo di marcia!» Protese ancora di più il mento. «Sa che cosa vedo quando guardo questa terra, Mirko Karel Zeman Draković? Vedo un cartello con la scritta RISERVATA. E sa per chi? Per il nostro popolo, per la nostra gente! Tutto quello che c'è là fuori è stato creato per noi. Dio onora i suoi, dico bene? Ora, io sono generoso e tollerante, perciò sostengo che tutti possono arrogarsi il diritto di amare la propria terra, ma, attenzione, la propria! La propria terra! Non la terra degli altri!» Mirko alzò le spalle. «Suona molto semplice e naturale, no?» proseguì il vecchio. «Voglio dire, lei che fa dopo aver costruito una casa? Ci vive con sua moglie e i suoi figli, quindi cosa fa? La protegge! E se scopre che degli estranei vi si sono annidati, estranei che le svuotano il frigorifero, mettono i piedi sul suo tavolo e scoreggiano sui cuscini puliti del suo divano, li caccia fuori! Nessun giudice al mondo se la prenderà con lei per questo. Invece in questo Paese si dovrebbe improvvisamente concedere un posto a tavola a tutti coloro che si definiscono 'minoranza' e blaterano sulla diversità etnica. E, quando i proprietari rivendicano il sacrosanto diritto di cacciarli, vengono presi a bastonate dalla loro stessa gente. Questo sarebbe un comportamento liberale!» Mirko lo fissò. «E quando mai lei si lascerebbe prendere a bastonate?» «Appunto! A proposito, che problema ha, lei? Ama questo Paese?» «Io amo parlare del mio incarico.» «I suoi referenti hanno sostenuto che lei è già una specie di patriota, nonostante la sua...»
Mirko sorrise cordialmente. «Nonostante la mia professione? Diciamo così: faccio in modo di permettermi il patriottismo. In quanto a ciò che conta per me, nessun altro può comprarselo.» «Dovrà pure avere un'opinione.» «Con tutto il rispetto, lei aveva un'opinione quando si è convertito al nazionalismo?» Il vecchio rispose con un sorriso sottile e varcò la soglia della chiesa del monastero. «Lei vede le cose nel modo sbagliato. Sono sempre stato dalla parte di coloro che hanno ricevuto questa terra da Dio. Ma credo pure che si debba scegliere con grande precisione il momento di agire. Ci vogliono prestigio, una posizione sociale, denaro. Io non ho nessuna stima dei rivoluzionari che strisciano fuori dai bassifondi e parlano alla gente con le scarpe infangate. Non ci conviene, capisce?» L'interno era fresco e buio. Anche lì gli agenti della sicurezza che lo seguivano passo passo rimanevano invisibili, ma il vecchio sapeva che erano abbastanza vicini da sentirlo respirare. Ormai era impensabile per lui vivere senza scudi umani a proteggerlo. Al contrario di altri, che a lungo andare trovavano la cosa snervante, lui si godeva quella condizione. Ognuno degli uomini si sarebbe buttato nel fuoco per lui: erano selezionati fino al midollo, erano intestati a lui, erano di sua proprietà. Un guizzo del suo sguardo, un sussurro e Mirko non sarebbe sopravvissuto altri due secondi. «Le è chiaro che il mio nome non deve venire a galla in nessun caso?» chiese in tono disinvolto, mentre avanzavano lungo i banchi neri della chiesa. «Le metterò a disposizione i mezzi necessari, ma non la proteggerò.» Si voltò a guardare Mirko. «In altre parole, se dovrò sacrificare la sua vita, non avrò remore a farlo.» «Naturalmente. Se mi permette la domanda, ha intenzione di farlo?» «No. Altrimenti non gliene parlerei. Sono consapevole che è dalla nostra parte, anche se insiste con veemenza sulla sua indipendenza e neutralità.» Il vecchio andò avanti di qualche passo e si fermò di fronte a una scultura in legno della Madonna. «Non dimentichi che so tutto di lei. Forse anche un paio di cose che sono sfuggite perfino a lei stesso.» «Mi sento onorato.» «Com'è giusto che sia. È in grado di portare a termine l'incarico?» «Sì.» «Niente 'se' e niente 'ma'?» «Migliaia», replicò Mirko. «Non prendiamoci in giro, è quasi impossibile. Quasi, appunto. Se riesco a mettere insieme le persone giuste...»
«Quanto ci costerà questo scherzetto?» «Ha detto ci costerà?» «Nel ventre del Cavallo di Troia c'è posto per più di una persona. Ho l'élite di questo Paese dalla mia parte, il conto lo paghiamo insieme o non lo paghiamo affatto. Allora, quanto ci costerà?» Mirko si risucchiò le guance e guardò nel vuoto. «Difficile a dirsi. In pratica, non ci sono precedenti o quantomeno non nelle stesse condizioni. Comunque dovreste preventivare almeno qualche milione.» Il vecchio allargò le braccia. «Come Dio vorrà.» «Già, ma non so ancora chi se lo prenderà e perciò non so nemmeno quanto costerà. Purtroppo il migliore l'ha acciuffato la Francia. È in prigione.» «Carlos? E allora? Tanto non è un serbo.» «Già, però ha alzato alquanto l'asticella. Voglio dire che è più o meno questo il livello di cui stiamo parlando.» «Lei ha piena libertà, Mirko. Ma insisto perché il commando sia serbo», replicò deciso il vecchio. «Stiamo parlando di un grande gesto patriottico! Che mi dice di Arkan?»1 «Il presidente della squadra di calcio FK Obilić?» chiese Mirko in tono canzonatorio. «Sappiamo benissimo entrambi che è molto di più», ribatté il vecchio. «Arkan è conosciuto in tutto il mondo.» «Proprio per questo è da escludere. Cos'è, vuole mettersi a firmare autografi dopo lo spettacolo?» sbuffò Mirko, sprezzante. «Se lo scordi. Arkan ama fare la star e giocare in casa. È un chiacchierone, il che è pericoloso nel suo ramo. Un giorno o l'altro, qualcuno lo farà fuori.» «Bene. Allora cerchiamo qualcun altro.» «Il mercato non ha poi tanto da offrire come pensa lei», osservò Mirko. «L'Europa dell'Est è cresciuta da quando i russi sono tornati a mordere la polvere, ma la condotta morale negli ambienti terroristici lascia a desiderare. A noi serve qualcuno della vecchia scuola, che non se ne vada in giro con bombe portatili sovietiche a radere al suolo interi quartieri, ma usi la testa. Dobbiamo essere realistici. I migliori sono quelli dell'Irlanda del Nord. Non posso proprio prometterle un commando completamente serbo.» «Lei mi delude, Mirko. Esiste forse qualcosa che non si possa ottenere 1
Željko Ražnatović, soprannominato Arkan, leader paramilitare serbo, è considerato responsabile di vari crimini di guerra. (N.d.T.)
col denaro?» «Non è questo il punto.» Mirko si appoggiò a una delle imponenti colonne che separavano la navata centrale dalle cappelle laterali. «Il problema è la qualifica. E poi l'anonimato. La cosa buona di Carlos era che lo conoscevano tutti e nel contempo non lo conosceva nessuno.» «In ogni caso, non voglio qualche americano...» «Stia tranquillo. Ho capito cosa vuole. Mi lasci sondare un po' il campo. Comunque le garantisco che sarà un serbo a guidare la sua impresa.» Il vecchio scrutò Mirko e si chiese cosa lo irritasse tanto nel suo interlocutore. C'era qualcosa in lui di... incompleto. Non tanto nel senso di una qualità mancante, non c'era nulla che sollevasse dubbi sulla giustezza della sua scelta. Eppure stare nello stesso luogo con Mirko era come guardare un film, vedere un'immagine bidimensionale. Quello che mancava era il dettaglio capace di trasformare la raffigurazione dell'essere umano in un essere umano in carne e ossa. «Bene», replicò il vecchio. «Trovi questo capo.» Con un movimento delle spalle, Mirko si staccò dalla colonna. «Forse l'ho già trovato. Fra una settimana potrò essere più preciso.» «Anche due, se vuole.» «C'è già qualcuno. Se la mia idea va in porto, una settimana dovrebbe essere sufficiente. Fino ad allora non si dovrà più preoccupare della cosa.» «Bene.» Mirko esitò. «Mi permette una domanda?» «Chieda pure.» «Ho sentito che sono ripresi i colloqui.» «Rambouillet?» Mirko annuì. «Il risultato potrebbe cambiare le cose. Holbrooke 2 non parlava certo cinese, quando minacciava bombardamenti. Solo che...» «Intende dire che un risultato positivo dei negoziati toglierebbe vigore alla nostra causa?» «In un certo senso.» «Mi fa piacere che lei si senta indotto a riflettere su questi aspetti», os2
Il diplomatico statunitense Richard Holbrooke, oltre a essere stato responsabile degli Affari asiatici al dipartimento di Stato e ambasciatore in Germania nel 1993-'94, ha presieduto i negoziati tra il presidente bosniaco Alija Izetbegović, il presidente jugoslavo Slobodan Miloševič e il presidente croato Franjo Tudjman che hanno portato agli accordi di pace di Dayton (21 novembre 1995). (N.d.T.)
servò il vecchio, storcendo la bocca. Lui stesso non avrebbe saputo dire se fosse un segno di riconoscimento o di disapprovazione. «Ma, dato che si sta scervellando, Mirko Draković o come diavolo le piace farsi chiamare, naturalmente ha ragione. Certo, vogliamo vedere tutte le parti sedute intorno a un tavolo a Rambouillet coi migliori intenti, almeno a livello di dichiarazioni. Io stesso non auspico altro, almeno a parole.» Scosse il capo. «Ma prevedo che le trattative non porteranno a nulla. Tutti ne saranno rattristati e se ne rammaricheranno.» «E se così non fosse?» «Otterremo lo stesso ciò che vogliamo. Anch'io vorrei domandarle qualcosa.» «Dica.» «Perché lo vuole sapere? Pensavo che lei fosse neutrale.» Mirko rise. Intorno agli occhi si crearono centinaia di piccole rughe, ma stranamente non cambiarono affatto l'impressione che lui fosse del tutto privo di senso dell'umorismo. «Io sono un uomo d'affari neutrale. Se i negoziati porteranno a un risultato positivo, lei riconsidererà l'incarico che mi vuole affidare. Mi piace soltanto sapere dove sto.» «Glielo dico io dove sta. Lei è la chiave, Mirko, lei ha un ruolo determinante!» Il vecchio guardò l'orologio e alzò una mano. «È stato un piacere chiacchierare con lei. Stia bene. Ci vediamo non appena ha qualcosa per me. Ah... Mirko? Non mi deluda. La mia benevolenza vale almeno quanto le sue cinque lettere.» Si girò e, percorrendo a passo svelto la navata della chiesa, tornò all'aperto. Il sole era più basso e aveva scacciato l'ombra dalla terrazza. Il vecchio sentì il calore sulla pelle, ma non era nulla in confronto all'ardore nel suo cuore. Una soddisfazione sfrenata divampava dentro di lui per aver messo in moto il meccanismo. Gli strumenti concessi dalle vie legali si erano esauriti. Non era colpa sua; lui avrebbe fatto in modo che il suo Paese riavesse ciò che gli spettava da sempre. La dissonanza della società plurinazionale avrebbe lasciato il posto a un suono diverso. Milioni di voci, di uomini e donne onesti che conoscevano il proprio posto e di bambini con visi pieni di speranza, avrebbero intonato un coro e alla fine la giustizia avrebbe trionfato. Una volta sconfitto il serpente, non ci sarebbero stati più ostacoli al ritorno del paradiso. Rise tra sé. Come s'inseriva bene la religione nell'orchestra della demagogia. A volte quasi si rammaricava di provare quell'assenza di fede che lo induceva a immaginare che lui stesso fosse l'essere supremo e che, in man-
canza di controparti adeguate, giocasse una partita contro se stesso. Le chiese gli incutevano rispetto, ma al loro interno non trovava altro che se stesso. Un sordo scoppiettio gli penetrò nell'orecchio quando si misero in moto i rotori dell'elicottero. Nello stesso istante, il vecchio si rese conto di quale fosse la peculiarità di Mirko. Quell'uomo se ne andava in giro, muoveva braccia e gambe, parlava, ma non emetteva il minimo rumore. Nemmeno un ologramma sarebbe stato più silenzioso di lui. Nessun senso dell'umorismo, nessun rumore. Le cose si mettevano bene. 26 novembre 1998. Alba (Piemonte) «Signora Firidolfi, lei ha un aspetto incantevole. E lo stesso si può dire per i suoi conti. Mi chiedo cosa ci stiamo a fare noi.» «A dire cose belle», osservò Silvio Ricardo, infilando alcune cartellette in una valigetta portadocumenti. Sulla serratura color argento opaco era inciso l'emblema della Neuronet AG, ma era discreto e bisognava guardare con molta attenzione per distinguerlo. Ardenti sollevò le mani e allargò il sorriso di altri due denti ingialliti dalla nicotina. A parte l'evidente assuefazione alle sigarette, la sua figura era al di sopra di qualsiasi critica. Abito scuro e costoso, cravatta Armani col nodo largo, occhiali dalla montatura dorata. Quello che gli rimaneva dei capelli era pettinato all'indietro e tinto di un blu-nero, l'unica stravaganza che il direttore del più importante istituto di credito piemontese si concedeva. «Tesso sempre le sue lodi», esclamò. «La Banca di Alba è praticamente sua.» «Attento, direttore», scherzò Ricardo. «Potrebbe avvicinarsi alla verità più di quanto desideri.» Ardenti si chinò e abbassò la voce fino a un mormorio cospiratorio. «Allora voglio essere ancora più chiaro. Dopo un'approfondita discussione con le signore e coi signori del consiglio di amministrazione, che ripongono una grande fiducia nei suoi confronti, l'istituto ha raggiunto il convicimento di... come dire... accogliere la richiesta d'incrementare la sua linea di credito.» Si appoggiò di nuovo allo schienale della sedia, irrigidì le dita di entrambe le mani e le intrecciò sulla pancia. «Abbiamo trascorso la pausa pranzo all'Osteria La Libera, mangiando ravioli tartufati. Ha presente? Mettono un intero tuorlo d'uovo su un letto di ricotta e spinaci e poi... screc screc, ci grattano sopra il tartufo. Madonna, che profumo! Non c'è
bisogno che le spieghi quale effetto può avere una cosa del genere sulla tipica predisposizione monetaria della mente di un bancario... C'è stato, di recente? Ne vale la pena! Ci deve andare assolutamente. La cantina dei vini è intrisa di segreti cui ci siamo sforzati di far prendere aria il più possibile. È bastata qualche bottiglia di un magico Pio Cesare dell'88 e cose straordinarie si sono succedute a questioni confidenziali, la saggezza ha preso il posto della follia! In breve, eravamo del parere unanime di ampliare i rapporti con la Neuronet e sono tentato di dire che la sua presenza avrebbe suscitato una standing ovation!» Laura Firidolfi sorrise, perché il direttore aveva pronunciato le ultime parole rivolgendole uno sguardo suadente. «Mi tranquillizza sapere che i convenuti sarebbero stati in grado di alzarsi», ribatté, divertita. Ardenti fece una risatina confidenziale, trasmettendola a Silvio Ricardo, che la incamerò nell'angolo sinistro della bocca. La donna sentì l'interesse del direttore posarsi su di lei come una serie di lame di coltelli. Piatte, fredde e piacevoli finché i suoi affari andavano bene. In caso di problemi, Ardenti avrebbe saputo rigirare i coltelli a sufficienza perché cominciassero a incidere la carne. In quel momento, però, la stanza era satura di particelle di successo e la Neuronet - o, meglio, Laura Firidolfi - era ben lungi dal perdere la benevolenza del direttore. Almeno nel breve termine. Ricardo chiuse la valigetta. «Siamo molto soddisfatti», disse ad Ardenti. «Fra l'altro le dovrò inviare alcune copie del bilancio di gestione. Avevo dimenticato che il consiglio d'amministrazione del vostro pregiato istituto percepisce le proprie retribuzioni in dodici esemplari. Da quando potremo disporre dei fondi aggiuntivi?» Ardenti inarcò le sopracciglia. «Ma da subito! Vi ho già detto che il nostro consiglio s'interessa alla vostra collaborazione con Microsoft?» «No, ma ci fa piacere sentirlo.» Ardenti si schiarì la voce. «Qual è la natura della vostra collaborazione, se mi permette la domanda? Ho sentito dire che avete ricevuto un'offerta di acquisto.» «Non è un segreto», rispose la Firidolfi. «Naturalmente l'abbiamo rifiutata.» «Ah, bene.» «Ma continueremo a studiare insieme alcune soluzioni per personalizzare ulteriormente l'uso di Internet», spiegò lei. «La Neuronet lavora a una generazione di finders che è prossima allo sviluppo di amicizie personali
coi suoi users.» «Pauroso!» «Assolutamente no. È semplice: il programma immagazzina il profilo dell'utente e impara costantemente. Certo, è possibile dargli qualsiasi comando si desideri, tuttavia, se gli si concedono determinate libertà, è in grado di pensare da solo.» «Allora chi vuole sapere qualcosa su di me deve soltanto aspettare che io sia online e decriptare la mia codifica», disse Ardenti con voce strascicata. «Non è pericoloso se il computer comincia ad amministrare la mia personalità?» «Non l'amministra. Fa selezioni e proposte. Per quanto riguarda l'accesso, siamo in contatto col Chaos Computer Club di Amburgo. Hanno cercato d'intrufolarsi per scherzo, però non ci sono riusciti. Dunque, fino a prova contraria, partiamo dal presupposto che la codifica sia ineccepibile.» Ricardo indicò i trofei golfistici allineati su un mobile. «Le faccio un esempio. Una volta che conosce le sue passioni, il programma setaccia regolarmente la rete alla ricerca di tutto ciò che ha a che fare col golf. Supponiamo che le piaccia il clima dell'estremo Nord...» «Per carità!» «È solo un'ipotesi. Il finder lo sa, perciò concentra le sue ricerche sulle località adatte. Lei può creare una serie d'icone compresa una per il golf. Quando il finder scova qualcosa che ritiene possa interessarle, l'icona lampeggia e lei richiama le novità. Diciamo: tre giorni in Irlanda, ai Cliffs of Moher, una località a picco sul mare, con uno strapiombo di duecento metri... una cosa straordinaria! Pacchetto completo con due pernottamenti e cena di lusso in un vicino castello.» «In effetti ci volevo andare», rifletté il direttore. «Vede? Allora lei dà al finder il comando di prenotare per il weekend successivo. Il caso vuole che una delle sue colleghe del consiglio d'amministrazione usi lo stesso finder. Di comune accordo, potete mettere in relazione i vostri programmi. Supponiamo che lo abbiate già fatto: a questo punto il finder constata che la sua collega ha fatto la stessa prenotazione per un weekend successivo a quello fissato da lei. Cosa farà il programma?» «Mi farà una proposta», rispose Ardenti, dubbioso. Poi vide l'espressione di Ricardo, capì che aveva fatto centro e s'illuminò in volto. Ricardo annuì. «Esatto. Le proporrà di andare nel weekend successivo, per condividere le gioie del golf con la signora in questione.»
«E insisterà anche?» chiese Ardenti in tono birichino. «Le qualità dei membri femminili del consiglio di amministrazione sono soprattutto di natura professionale.» La signora Firidolfi rise. In realtà stava mentalmente ripassando gli impegni della settimana successiva. «Be', e se fossi io la sua collega del consiglio di amministrazione?» chiese infine. Ardenti allargò le braccia come un predicatore e inclinò il capo di lato. «In tal caso, il programma non avrebbe bisogno d'insistere, signora.» Ma falla finita... pensò lei. Lanciò una rapida occhiata a Ricardo per segnalare che avevano chiacchierato abbastanza. Il suo segretario privato capì al volo. Avevano fatto colpo su Ardenti, ma d'altro canto non gli avevano svelato nulla che lui non potesse sapere anche da altre fonti. Equilibri del genere erano la specialità di Ricardo. Sapeva muoversi tra gli scambi d'informazione sintetici e le chiacchiere col medesimo passo leggero del direttore. Sapeva investire i secondi e i minuti in modo che fruttassero ore e giornate. Non dava mai alla sua controparte l'impressione di essere un calcolatore, però lo era sempre. Proprio in quell'istante, aveva dato ad Ardenti la rassicurante sensazione di aver ben investito la sua fiducia e la sua intercessione. Come braccio destro di Laura Firidolfi, era perfetto. Ma c'era anche qualcun altro cui rendeva servigi preziosi. La donna si chiedeva quando sarebbe arrivato il momento. Qualcosa le diceva che era imminente. Si alzarono insieme con Ardenti, che li accompagnò fino all'ascensore e, strada facendo, disse ancora qualche parola di elogio sugli sviluppi di Internet. Poi si accomiatò. La signora Firidolfi sapeva che la giornata del direttore si divideva tra innumerevoli incontri simili a quello. Ciò che apprezzava nelle persone come Ardenti era che non davano mai l'impressione, né a se stessi né ai propri interlocutori, di avere il fiato corto. La loro attenzione era sempre al massimo. Chi non faceva propria quella regola non andava lontano. Nessuno lo sapeva meglio di Laura Firidolfi. Uscirono nella cittadina medievale di Alba. Da metà ottobre, le strade erano sature del profumo di tartufo bianco. I tuberi, sempre più rari, crescevano in luoghi segreti e i cercatori erano diventati maestri dell'arte mimetica, quando uscivano la notte coi loro cani. Chi s'imbatteva in un tesoro del genere faceva di tutto per non condividerlo con altri. Non c'era da meravigliarsene, dato che il prezzo al chilo era di circa sei milioni di lire. Le
nebbie tardo autunnali nei boschi piemontesi avevano già inghiottito qualche colpo d'arma da fuoco, un monito per qualsiasi cercatore che intendesse seguire il custode del segreto. Alcuni non avevano mai fatto ritorno. Il loro sangue si era mescolato col terreno e si diceva che, talvolta, i cadaveri fossero diventati humus, nutrimento della natura, che brulicava di esseri striscianti, tra i quali cresceva l'oro nascosto dei buongustai. C'erano molti motivi per ammazzarsi a vicenda, se si era pronti a farlo. Ricardo si lasciò cadere sul sedile del passeggero della Lamborghini rossa e tirò a sé la cintura. La signora Firidolfi posò la mano sulla maniglia della portiera, ma non salì. «Vuole che guidi io?» chiese Ricardo dall'abitacolo. La donna aveva lo sguardo fisso sulla fila di negozietti al lato opposto della strada, che vendevano soprattutto specialità gastronomiche e vini. Cercava di ricordare la prima volta in cui aveva mangiato i tartufi e quante altre volte lo aveva fatto. Troppe, pensò. Se le cose particolari non si possono più contare, smettono di essere tali. «Laura?» Finalmente lei si riscosse. Salì rapidamente a bordo e avviò l'auto. Mentre la massiccia autovettura s'infilava nelle stradine che conducevano alla circonvallazione, Ricardo era già impegnato coi suoi bilanci. «Dovrebbe disfarsi di quest'auto», disse in tono casuale. La signora Firidolfi gli diede un'occhiata, riflettendo. Ricardo era un ragazzo carino. Era di Milano, ma i capelli biondi con la riga e gli occhiali con la montatura di corno lo facevano sembrare il giovane socio di un notaio londinese. Lei sapeva che il proprio benessere era dovuto al regime ferreo che il segretario applicava ai suoi conti. Ricardo sottoponeva la vita intera a una permanente analisi costi-benefici. Dal suo punto di vista, la signora Firidolfi aveva già lasciato passare il momento ideale per vendere la Lamborghini. «Ci penserò», replicò lei. «Ce ne sono migliaia. Di altre Lamborghini, voglio dire.» «Certo, ma questa è stata la prima, per me.» «È ancora la prima!» Ricardo le sorrise. «Lei mi paga lo stipendio, gentile signora, e certamente non è opportuno che io la accusi di sentimentalismo. Però mi permetta di farlo ugualmente. Questo affare è stato già ammortizzato un sacco di tempo fa. Ogni metro che percorre in giro per il Piemonte è una perdita secca di denaro contante.» «Va bene. Ci rifletterò.»
«Sì, certo.» Ricardo si appoggiò allo schienale e per un po' non disse nulla. Imboccarono la statale che attraversava la pianura in direzione di Cuneo e, dopo qualche minuto, la lasciarono per addentrarsi nel morbido paesaggio collinare delle Langhe. Sotto il sole del tardo pomeriggio, il cuore della regione del Barolo sembrava irreale, con le sue tinte pastello. La nebbia si addensava tra le viti. «Abbiamo davvero bisogno di questo aumento della linea di credito?» chiese la signora Firidolfi. Ricardo scosse il capo. «Non proprio. Però migliorerà la nostra reputazione e aumenterà gli accantonamenti. Inoltre potremmo comprare la vecchia fattoria a Monforte d'Alba e trasformarla in un nuovo stabilimento. Anche se Microsoft ci piantasse in asso avremmo comunque abbastanza da fare.» «Ci serve soprattutto spazio», osservò la signora Firidolfi, seguendo un cartello per La Morra. «Nell'edificio principale sono già quasi l'uno sopra l'altro.» «Già. Strano, vero? Nonostante tutto, rendono più della media.» «Mi chiedo ancora per quanto. Anche una batteria di polli rende più della media, almeno finché la gente ha voglia di mangiare uova che puzzano di pesce e che camminano da sole, tanto sono piene di salmonella.» «In linea di principio è giusto. Ma che ci vuole fare? I programmatori sono come porcellini. Più spazio si concede loro, più sporcano.» Lei rise. «Non tutto è pulito come il denaro, Silvio.» «I computer sono più puliti del denaro», commentò l'altro in tono sprezzante. «O forse lei è di un altro parere? Bene, compriamo la fattoria.» «Il prezzo va bene?» «Troppo alto. Ci penso io a farlo scendere.» «Bene.» «Per il resto, non possiamo davvero lamentarci. Quest'anno chiuderemo il capitolo ricerca e sviluppo con un'abbondante plusvalenza e credo sia questa la cosa che ha colpito di più quel vecchio coglione dai capelli al nero di seppia. A proposito, ci andrà ancora meglio se ridurremo il capitale. Scarichiamo una parte dell'hardware prima che quella roba perda valore del tutto. Investa un po' di risorse nei nuovi iMac, li possiamo avere a un prezzo di favore.» «Se ne occupi lei. E che mi dice dei torinesi?» «L'Alfa? Promette bene. Ci vogliono incontrare la settimana prossima. Il programma di simulazione di guida gli è piaciuto molto.»
La Neuronet era suddivisa in Neuroweb e Neuroware. Mentre la Neuroweb vendeva in prevalenza soluzioni proprietarie licenziate per Internet, la Neuroware sviluppava programmi per gli usi più disparati. Il direttore della programmazione era un russo in esilio, che lavorava per la Neuronet da alcuni anni. Ricardo continuò a sfogliare le sue carte. La signora Firidolfi condusse lentamente l'auto sui tornanti che risalivano verso la cittadina, il cui profilo frastagliato e spigoloso emergeva dal cocuzzolo di una collina immediatamente sopra di loro. Al di là delle mura che cingevano La Morra a est, il costone di roccia scendeva a picco nella morbida conca delle Langhe. «Ardenti pende dalle nostre labbra», osservò la signora Firidolfi. «Ottimo lavoro, Silvio. Si prenda il resto della giornata. L'accompagno da qualche parte?» Ricardo esitò. «Non posso prendermi una giornata libera», rispose lentamente, e poi aggiunse: «E non può neanche lei». La donna lo sapeva, ma chiese ugualmente: «Perché no?» «C'è ancora una richiesta.» «Per la Neuroweb o per la Neuroware?» Ricardo scosse il capo. «Per Jana.» 15 giugno 1999. Hotel Hyatt (Colonia) Ciò che comparve verso le 9.30, ora dell'Europa centrale, sugli schermi del controllo radioscopico allestito dal BKA 3 e dallo United States Secret Service all'ingresso fornitori dello Hyatt non era un bagaglio sospetto, una valigetta, una giacca, un cappotto né tantomeno una sacca da golf, una macchina fotografica, un laptop o un orsetto di peluche imbottito di cocaina, bensì il risultato della miscela di acqua e farina. Grazie alla tecnologia di fine XX secolo, la security riuscì a scorgere l'affascinante mondo interiore di circa trecento panini croccanti, che emanavano un appetitoso profumo e un residuo di calore. In altre circostanze, la procedura sarebbe stata di una ridicolaggine imbattibile, ma l'arrivo del presidente degli Stati Uniti metteva semplicemente fuori gioco qualsiasi altra circostanza. Se, fino a qualche giorno prima, lo Hyatt disponeva ancora di normali entrate e uscite, ormai qualsiasi aper3
Sigla del Bundeskriminalamt, cioè dell'«Ufficio criminale federale», l'ente di polizia tedesco che si occupa, tra le altre cose, di sicurezza nazionale e di prevenzione del terrorismo. (N.d.T.)
tura che consentisse di accedere all'interno in posizione eretta era stata trasformata in una paratoia di sicurezza, con metal detector e controlli radioscopici. Era soltanto una delle centinaia di misure che avevano fatto retrocedere le altre circostanze al rango delle questioni trattabili. Kika Wagner era seduta nella hall con una rivista sulle ginocchia e osservava l'andirivieni. Due giorni prima dell'arrivo di Bill Clinton a Colonia, lo Hyatt somigliava a una fortezza. Davanti all'edificio non poteva più essere parcheggiata nessuna auto. Erano state annullate persino le gite in battello: dall'inizio del vertice, non si poteva più attraccare al vicino molo di Frankenwerft. A prima vista, l'interno dello Hyatt appariva invariato, se si prescindeva dal fatto che, per settimane, i Servizi segreti americani avevano rivoltato tre volte ogni singolo mattone di cui era fatto l'hotel, avevano perlustrato tutti i condotti di aerazione e ormai si erano intrufolati in ogni angolo, sotto tutti i tappeti e all'interno di tutti i battiscopa. Il tetto era dominato dagli impianti satellitari e, nella maggior parte delle camere, erano state installate reti telefoniche proprie. Nel giro di quarantotto ore, sarebbe diventato più facile decidere se su Marte ci fosse vita che capire ciò che sarebbe avvenuto al sesto piano, dove operai e artigiani cercavano affannosamente di ultimare la suite per l'uomo più potente del mondo. Il sesto piano sarebbe stato interamente assorbito da quell'ipotetico locale. Sempre che ce la facessero a realizzarlo. Kika Wagner aveva una vaga idea di ciò che lo staff dello Hyatt stava passando. E tutto ciò soltanto perché sei mesi prima Mrs Madeleine Albright aveva dormito lì e si era trovata benissimo. La segretaria di Stato in persona aveva pensato che Hillary e Bill non potessero fare a meno di emettere qualche romantico sospiro contemplando lo spettacolo del duomo di Colonia. Così la scelta era ricaduta su Deutz, l'appendice di Colonia sulla riva destra del Reno, perché da lì si godeva un eccezionale panorama dell'altra sponda. Grazie a Dio, erano tempi in cui quelli della riva sinistra si erano accordati amichevolmente coi fratellastri dirimpettai. Fin dal primo giorno, i giornalisti e gli inviati televisivi avevano bombardato di domande il disperato drappello degli addetti alle pubbliche relazioni dello Hyatt che erano ancora disposti a fornire qualche informazione. Volevano sapere se fosse in arrivo Clinton e quando. Da cinque mesi, le risposte erano sempre le stesse e andavano dal «Può darsi» al «Non è possibile», dal «Sì» al «No», dal «Forse» al «Non so». Effettivamente in aprile erano cominciate le visite delle delegazioni a-
mericane. Membri dello staff della Casa Bianca, dei Servizi segreti, della CIA, l'ambasciatore... tutti erano andati a vedere se l'hotel era davvero lussuoso come aveva assicurato il cerbero di Clinton. Erano andati a controllare uffici e sale riunioni e a verificare se fosse possibile modificare le stanze, così da promuovere d'ufficio lo Hyatt al rango di quartier generale degli Stati Uniti d'America. «Security» era diventata la parola più usata. Ah, il cuoco fa le polpette! Quanto sono buone! Ma sono anche sicure? E via dicendo. Il motivo della confusione imperante era una di quelle dicerie che, nate col minimo sforzo, portavano con sé il massimo delle conseguenze. Girava voce che forse allo Hyatt sarebbe sbarcato E.T. oppure Madonna o addirittura il fantasma di Elvis Presley, ma sicuramente non Bill Clinton. Insomma tutto il trambusto a Deutz era stato messo in piedi soltanto per creare un diversivo, perché in realtà il presidente avrebbe alloggiato a Petersberg. Con tutta probabilità - anzi quasi certamente - la notizia era stata diffusa dagli stessi americani. Ed era stata sufficiente per scatenare la confusione a Petersberg, dove nessuno sapeva niente di niente e tutti si erano chiesti, sbigottiti: «Perché no?» In seguito, anche lì c'era stato un assalto dei media, come allo Hyatt, le dichiarazioni alla stampa avevano assunto un tono del tutto criptico e gli articoli pubblicati il giorno seguente erano allungati come il caffè in caserma. Gli Stati Uniti si erano ammantati di silenzio. Ma certo che il presidente avrebbe soggiornato allo Hyatt. O forse no. Nonostante tutto quel caos, lo Hyatt si era lanciato imperterrito nella fase calda, che nemmeno sette settimane prima era diventata più rovente di quanto piacesse ai vari responsabili. Proprio nella sauna della suite John F. Kennedy, riservata a Clinton, c'era stato un corto circuito. Le fiamme avevano divorato prima la sauna, poi l'intera suite di centottanta metri quadrati. Una fuliggine nera e appiccicosa copriva ogni centimetro quadrato dell'intero sesto piano, alcune parti del quinto non erano più abitabili, le lounge erano affumicate. Trovatasi sotto i riflettori dell'opinione pubblica, la direzione dell'hotel aveva creato un comitato anticrisi e intrapreso una disperata corsa contro il tempo, ben sapendo che Petersberg era dietro l'angolo. Nel frattempo, tutto risplendeva, rinnovato in modo ineccepibile. Soltanto la suite non voleva saperne di essere ultimata, nonostante i ritmi folli con cui si davano da fare schiere di specialisti. Se ce l'avessero fatta, sarebbe stato all'ultimo minuto. Quella prova di resistenza non passava inosservata. Ovunque guardasse,
Kika Wagner vedeva espressioni tese. Se poteva starsene seduta lì, lo doveva in primo luogo al fatto che la sua borsetta conteneva oggetti del tutto innocui. Era passata due volte ai controlli, con gli accessori per il trucco, le sigarette e altre utili piccolezze che vagavano sullo schermo. Aveva mostrato diverse volte il suo pass speciale, che era stato controllato e ricontrollato. Grazie, prego. Tutto era avvenuto con molta discrezione e gentilezza, ma all'insegna dell'irremovibile decisione di non rovinare in nessun modo quella visita di Stato. Anche a costo di sparare a una borsetta. In secondo luogo, la presenza di Kika Wagner era dovuta al fatto che l'editor di narrativa delle edizioni Rowohlt, Franz Maria Kuhn, stava facendo colazione al piano superiore con Aaron Silberman. Silberman era il vice caporedattore di politica del celebre Washington Post. Aveva anticipato i giornalisti americani, attesi al seguito del presidente, per riferire sulle attività dello Hyatt e con l'occasione rivedere Kuhn, che conosceva da quando quest'ultimo era stato corrispondente politico nella capitale americana. Entrambi avevano bazzicato la leggendaria briefing room della Casa Bianca, sviluppando una certa familiarità. La disadorna stanzetta con la tenda blu, sulla quale era impresso lo stemma presidenziale, era un affronto ben studiato, un'espressione della costante lotta che l'ufficio del presidente ingaggiava con quegli sgraditi ficcanaso dei giornalisti. Eppure non c'era nessuna tessera ambita al pari di quella del White House Press Corps. I membri del «corpo dei giornalisti della Casa Bianca» lavoravano sempre sotto lo stesso tetto con l'uomo più potente del mondo, erano insediati nel suo sancta sanctorum. Benché la Casa Bianca facesse di tutto per dare a quegli elitari imbrattacarte la sensazione di essere sullo stesso piano di un'infestazione di cimici o di un fungo parassita - insomma di un male di cui si può venire a capo soltanto con ripetute umiliazioni -, i cortigiani mediatici difendevano i loro privilegi come una muta di dobermann. Quando Clinton aveva proposto di trasferirli in locali luminosi e accoglienti nell'edificio adiacente, avevano fatto i duri. Non era un problema dividere la stessa scatoletta con altre sardine, purché quella scatoletta fosse situata nelle immediate vicinanze della camera da letto del presidente. Una volta, Silberman era riuscito a parlare di persona con Clinton per dieci minuti, un'investitura che pure i colleghi in servizio da tempo ricevevano soltanto in casi rarissimi. Perciò era diventato uno degli inviati più importanti e, per il Washington Post, meritava un accreditamento a corte, cioè una stanza allo Hyatt.
A quel punto, all'indirizzo più ambito di Colonia non c'erano più ospiti privati. In compenso, c'erano legioni di funzionari del governo americano, rappresentanti della CIA, esponenti dei Servizi segreti - che sembravano usciti da un manuale illustrato, coi Ray-Ban scuri d'ordinanza -, agenti dell'FBI e dozzine di pezzi grossi della CNN. Duecentocinquanta delle trecentocinque stanze erano riservate alla corte di Clinton; le rimanenti cinquantacinque al contingente principale della stampa. Ancora due giorni e poi sarebbe arrivato un Tristar pieno di giornalisti al seguito del presidente, trasformando definitivamente lo Hyatt in una seconda Casa Bianca. Mancava soltanto la bandiera a stelle e strisce sul tetto. Comunque il vero motivo per cui Kika Wagner aspettava Franz Maria Kuhn nell'edificio più sicuro di Colonia, non sapendo se fosse il caso di piangere o di ridere, non si chiamava Bill Clinton, ma Liam O'Connor. Il professor Liam O'Connor, per la precisione. Posò la rivista sul tavolo di vetro accanto a lei e accavallò le gambe. Finalmente spuntò Kuhn. Arrivava dal buffet, scendendo dalla scalinata esterna; con la destra armeggiava col nodo della cravatta e, con la sinistra, reggeva un sandwich smangiucchiato. La vide e si diresse verso di lei a grandi passi. Era esile e, come sempre, mal vestito. «Allora dobbiamo andare», disse, a voce un po' troppo alta. Sembrava che fosse stato lui a dover aspettare lei, non il contrario. Kika Wagner odiava le persone che non riuscivano a controllare il proprio tono di voce nei luoghi pubblici. Prese la borsetta e si alzò. «Belle gambe», osservò Kuhn, masticando. Lei guardò verso il basso. La gonna del tailleur grigio scuro si era accorciata. La stoffa era scivolata lungo le calze. Resistenze d'attrito contro le quali non si poteva nulla, se non dare uno strattone all'orlo, ogni tanto. Idiota, pensò. Non che le spiacesse ricevere complimenti in merito alle sue gambe, ma non da Kuhn. Era un uomo brillante nel suo campo, ma dal lato umano era una catastrofe. Più cercava di essere gentile, più peggiorava il risultato. Sguainarono i pass di sicurezza e si avvicinarono all'uscita. Lei sorrise ai due uomini alti che montavano la guardia lì accanto. Portavano abiti blu scuro che calzavano a pennello e cravatte dai disegni discreti, annodate alla perfezione. Dall'inevitabile bottoncino all'orecchio spuntava un filo che s'insinuava nel colletto della camicia, mentre il microfono, grande quanto il bottone di un polsino, era nascosto nella manica. Un minuscolo adesivo con una stella dorata su sfondo rosso li identificava come agenti dei Servi-
zi segreti. Bullet catchers, come loro stessi si definivano con orgoglio, cioè «acchiappapallottole». «Oggi è il giorno in cui il presidente verrà colpito e io sono l'unico che lo può impedire», era la formula di scongiuro che recitavano ogni mattina. In quel momento, apparivano rilassati. Il presidente doveva ancora arrivare. Poi sarebbe stato meglio non avvicinarsi troppo: chiunque violasse senza autorizzazione l'area di cinque metri di raggio intorno a Bill Clinton rischiava di ritrovarsi con un braccio rotto o peggio. Quell'area era ritenuta la zona mortale, nella quale potenziali attentati contro il capo di Stato potevano metterne a repentaglio la vita. I bullet catchers non avevano pietà. I due ricambiarono il sorriso, gli sguardi alla stessa altezza del suo. In momenti come quello, Kika si gustava la sua statura: era alta un metro e ottantasette senza tacchi, ma possedeva dozzine di scarpe coi tacchi alti, perché tanto non erano quei pochi centimetri a fare la differenza. Sapeva di avere gambe di una lunghezza ragguardevole, ma sapeva pure di essere, nel complesso, decisamente magra, pallida e spigolosa. Col suo naso sottile e interminabile pieno di efelidi sembrava uscita da un quadro di Modigliani. Purtroppo al resto delle sue forme mancava la dovuta rigogliosità, come se, finito di ritrarre il viso, l'artista italiano avesse perso la voglia di continuare, passando il pennello a Egon Schiele. Da adolescente, dopo aver attraversato i piccoli gironi infernali che il destino riservava ai bambini altissimi e magri come chiodi, aveva a un certo punto deciso che la miglior difesa era l'attacco. Portava i capelli color miele tagliati appena sopra la vita, gonne corte, tacchi alti e cravatte preferibilmente sottili sulle camicette. Così sembrava ancora più lunga di quanto non fosse. Come aveva detto una volta Spencer Tracy riferendosi alla giovane Katherine Hepburn, era una donna alla quale si poteva tirare un cappello, nella certezza che sarebbe rimasto appeso da qualche parte. I due americani gettarono uno sguardo ai pass e al pane imburrato di Kuhn. «Niente dinamite, ragazzi», disse lui gioviale. «Prosciutto della Foresta Nera! You know?» Il sorriso scomparve dai visi di entrambi gli uomini. Uno di loro indicò i metal detector dell'uscita, dove agenti di entrambi i sessi erano pronti alle perquisizioni di routine. Kika annuì in silenzio, mentre Kuhn faceva una smorfia. «Kika!» esclamò, come se fosse tutta colpa sua. «Ma stiamo uscendo, mica entrando! Ha idea di che cosa vogliano da noi, adesso?» «Glielo chieda lei.»
«Ho capito, ho capito... Finché è per entrare, okay, ma anche per uscire? Suvvia, è uno spreco di soldi. Questi sono i soldi dei contribuenti come lei, Kika, ci ha mai pensato? Lei e io paghiamo tutte queste fesserie e che ce ne viene in tasca? L'indebitamento dello Stato!» Kika Wagner sollevò gli occhi al cielo. Attraversarono il metal detector, furono perquisiti e Kuhn dovette sottoporre il suo panino al controllo radioscopico. «Voglio uscire, non entrare», continuava a brontolare. «Ormai lo sappiamo tutti», osservò lei. «E adesso sappiamo anche perché lo Stato è indebitato. Chi l'avrebbe mai detto? Il nesso è così semplice!» Lo spinse fuori e accelerò il passo. Davanti all'hotel c'era uno shuttle pronto a portarli a uno dei parcheggi pubblici dei dintorni. Kuhn si rese conto che la giacca gli pendeva di traverso e che aveva una stringa slacciata. Cercò di risolvere entrambi i problemi, sempre tenendo in mano il sandwich e arrancando dietro di lei. «Ma il nesso è davvero semplice!» esclamò. «E si fermi, maledizione, ho... L'indebitamento dello Stato è il risultato dell'interazione di fattori minimi. All'inizio si siedono tutti intorno a un tavolo e dicono: 'Adesso governiamo, vediamo che cosa possiamo fare...' Merda! Mi tenga il sandwich, per favore. Vuole sentire cosa mi ha appena raccontato Silberman? Lo sapeva che Franklin Roosevelt non aveva la minima idea di che cosa fare quando entrò per la prima volta nello Studio Ovale?» «No. Perché non finisce questo sandwich?» «Perché...» Kuhn si accovacciò, riuscì in qualche modo a riallacciarsi le scarpe e si rialzò. «Allora, ha chiesto una matita e un grosso blocco a pagine bianche. Capisce? Non aveva la più pallida idea di cosa fare! Primo atto d'ufficio, andare a prendere un blocco per il presidente, perché non ha nessun piano. Roba che si può calcolare in moneta sonante, ma oggi...» «Per quanto tempo ha ancora intenzione di gingillarsi?» Kika gli voltò le spalle e appoggiò un piede sul predellino del bus. «... i passaggi di consegna dei presidenti sono diventati come grandi aziende», proseguì Kuhn imperterrito, mentre saltava su dietro di lei. Kika si sedette. Kuhn si ficcò in bocca il resto del panino e farfugliò: «Ogni volta che eleggono un nuovo presidente, nasce praticamente da un giorno all'altro un mostro a tremila teste, i tremila dilettanti che si definiscono 'apparato governativo'. Per quasi tutti è un mistero quali politiche vogliano attuare. Lo sapeva che un passaggio di consegne da un presidente all'altro
può durare settimane o mesi interi? Semplicemente per poter coordinare tutto, ogni dipartimento, ogni moccioso che in qualche modo è della partita. Sono stato a Washington, qualcosa ho sentito. Potrei scriverci libri interi! Finiscono ogni santo giorno con una riunione, nel corso della quale un comitato di alto livello cerca di coordinare il coordinamento generale. Un incubo burocratico!» «Interessante. E che c'entra con Colonia?» Kuhn indicò con un ampio gesto lo Hyatt e Kika dovette abbassare la testa per evitare uno schiaffone. «Crede che qui le cose stiano diversamente? I soldi vengono buttati al vento perché tutti cercano di coordinare tutti. La logistica politica è un mostro costosissimo, creato da principianti di professione! Spendono una montagna di grana soltanto per mantenere una visione d'insieme. Questo vertice costa decine di milioni. Sono pronto a scommettere che gran parte dei costi è dovuta soltanto al fatto che è affidato a dilettanti. È così che vanno queste cose.» «Ah, capisco.» «Proprio così! Prendiamo il nostro generale Schröder. Cosa voleva, secondo lei?» Kuhn la guardava pieno di aspettativa. Kika sospirò. «Diventare cancelliere», rispose infine, per amor di pace. «Esatto! Nient'altro. Voleva diventare cancelliere anche se non gli interessava la politica. All'improvviso, però, lo è diventato. Allora ha riflettuto e si è chiesto: 'E adesso, che facciamo?' Un dilettante, sicuramente con le migliori intenzioni. Ma lei lo sa quanto ci sono costate queste prime settimane?» Lei lo guardò, mentre il bus partiva con qualche strattone. «Salta talmente di palo in frasca da far venire il mal di testa», osservò. Kuhn inarcò le sopracciglia e piluccò qualcosa che gli era rimasto tra i denti. «Cerco soltanto di sensibilizzarla sulla realtà politica.» «Mi sensibilizzi su O'Connor, piuttosto», sbuffò lei. «C'è ancora qualcosa che devo sapere su di lui?» Kuhn sogghignò e le guardò insistentemente le gambe. «In realtà no.» «La avverto: se dice qualche fesseria quando siamo con lui, se la dovrà vedere da solo.» «O'Connor è l'uomo più carino del mondo», disse Kuhn con voce flautata. Lei gli lanciò un'occhiata feroce. Poi all'improvviso le venne da ridere, si morse il labbro inferiore e guardò fuori dal finestrino in modo ostentato. Sul ponte Deutzer sventolavano bandiere colorate.
Kuhn non aiutava chi gli stava intorno a trovarlo simpatico. Sembrava che avesse un'innata inclinazione a fare gaffe, però era anche impagabile quanto a superare in modo indolore le situazioni più imbarazzanti. Quando chiudeva la porta in faccia a qualcuno per errore, lui non se ne accorgeva nemmeno. Non ci trovava nulla di strano a cacciarsi le dita nelle fauci spalancate in presenza di una signora. Sembrava che non possedesse uno specchio, né tantomeno un pettine. Il capitolo «buona educazione» l'aveva saltato a pie pari e, quando faceva qualche complimento, se finiva per sconfinare grossolanamente sotto la cintola era anche perché, in fondo, aveva le migliori intenzioni. Stranamente la sua personalità assumeva tratti diametralmente opposti non appena si trattava del suo lavoro. Prima di dedicarsi ai temi scientifici, era stato responsabile della saggistica politica della Rowohlt, con particolare attenzione agli Stati Uniti e all'Unione Sovietica. Kuhn era in grado di spiegare con pari sicurezza e in modo ugualmente appassionante la storia del presidenzialismo americano e i modelli di emissione dei buchi neri ed era un brillante editor. Motivo per cui le ciance sconclusionate cui si lasciava andare ogni tanto erano ancora più sorprendenti. A Kika sembrava che affettasse un tono da bar per scendere al livello dei comuni mortali, come lei stessa doveva apparire ai suoi occhi, in quanto persona semiistruita. In fin dei conti, cercava soltanto di fare amicizia. Forse aveva anche senso dell'umorismo, per quanto molto dubbio. Rideva in modo anticiclico, cioè preferibilmente quando non rideva nessun altro. Dopotutto era semplicemente un sessantottino rimasto solo, con un'istruzione che gli impediva di divertirsi. Il bus raggiunse il parcheggio dietro la vecchia fiera e si fermò. I due scesero e fecero qualche metro a piedi. «Dov'è la sua macchina?» chiese Kuhn, con uno sguardo compassionevole. «Quando si è alti come un lampione è sicuramente un problema trovarne una adatta. Voglio dire, cioè... le sue gambe... ehm...» Kika lo fissò. Ormai si limitava a fustigarlo con lo sguardo. «Già... forse... una Mini?» Lei trasse un respiro profondo. Kuhn fece tanto d'occhi e si finse sbigottito. «Non sarà mica un'Isetta?»4 Aveva senso dell'umorismo, dopotutto! 4
Microvettura prodotta dall'azienda italiana Iso dal 1953 al 1956 e, su licenza, dalla BMW dal 1955 al 1962. (N.d.T.)
Kika lo caricò sul sedile del passeggero della sua Golf e di soppiatto provò a spingere il sedile del guidatore un po' più indietro. Era già bloccato a fine corsa. Rien ne va plus. S'incastrò fra sedile e volante, sperando che le ginocchia non risultassero troppo sollevate. Kuhn la osservava senza dire nulla. «Forza», lo esortò Kika. «Faccia qualcosa di utile e mi dica quando e dove esattamente arriverà O'Connor.» «Credevo che lo sapesse lei.» «Non proprio.» «Strano, voglio dire, io glielo avrei...» «Quando?» tuonò lei. Kuhn trasalì. «Alle 10.40. Noi, ehm... dobbiamo aspettarlo nella lounge della Lufthansa. Lo accompagneranno fino al bar.» Fino al bar. Per san Patrizio! Kika girò la chiave dell'avviamento e partì. Kuhn si agitava inquieto sul sedile. Poi si chinò verso di lei e assunse la tipica espressione di quando voleva dire qualcosa di gentile. Lei ormai la conosceva e sperò che lasciasse perdere. «Io, per esempio, non sono particolarmente alto...» cominciò. Kika diede gas. Kuhn ripiombò sul suo sedile ed emise un suono simile a un: «Oh!» Ma forse era solo il motore che andava su di giri. 2 dicembre 1998. Mirko Il giorno in cui Mirko andò per la seconda volta all'antico monastero sulle montagne, aveva in tasca una mezza promessa. Commisurata alle esorbitanti difficoltà che il suo incarico comportava, valeva più di una intera che chiunque altro avrebbe potuto fare al vecchio. Rimaneva pur sempre meno di ciò che desiderava, eppure più di quanto avesse osato sperare. A differenza di dodici giorni prima, il tempo si addiceva alla stagione. Pioveva. Le colline e i rilievi più alti si nascondevano in un grigio fangoso. Più saliva di quota, più si abbassavano i nuvoloni, mentre colossali bruchi strisciavano lungo la strada stretta. Il regno dei cieli pesava sugli esseri umani e li angosciava mentre erano ancora in vita. Mirko accese la radio, ma lassù non riceveva nient'altro che fruscii. Mise una cassetta. Risuonò una musica soffusa, anonima. Mirko era di malumore. Pensò
che aveva promesso al vecchio di tornare dopo una settimana. Lo irritava averci impiegato di più; era l'unica imperfezione di una ricerca altrimenti riuscita. Ma, se si fossero accordati sul compenso, c'erano buone probabilità che tutto il resto procedesse velocemente. Non poteva essere altrimenti, d'altra parte. Avevano a disposizione sei mesi e non era molto. Dalla foschia emerse il nastro dentellato di una serpentina, che dai boschi conduceva lungo le ripide e nude montagne. Mirko scalò e diede gas. Il fuoristrada s'inerpicò sulla serpentina, portandolo sul cocuzzolo che dominava la vallata. Nelle giornate serene, da lì si abbracciava con lo sguardo l'intera pianura in cui era situato il monastero, fin dove cominciava la catena montuosa successiva. Mirko fermò l'auto, si soffregò gli occhi e guardò fuori. Nella conca c'era un muro nero che doveva essere alto almeno tre chilometri e nel quale guizzavano i lampi. Mirko sapeva che cosa lo aspettava: pur guidando un fuoristrada, nelle due ore successive avrebbe avuto l'incessante sensazione di essere travolto da masse d'acqua scroscianti. La porta per l'inferno non poteva essere più impressionante, ma quel temporale non era nemmeno particolarmente spettacolare, stando ai parametri locali. Rassegnato, lasciò che l'auto cominciasse la discesa a valle. Davanti a lui c'erano gli ultimi chilometri di strada visibile, poi cominciava un inferno dantesco che avrebbe messo fuori combattimento qualsiasi tergicristallo. Si chiese perché un uomo nella posizione del suo committente preferisse incontrarlo in un luogo del genere. C'erano zone più confortevoli per tenere riunioni segrete, in quella stagione. Forse ha bisogno di sentirsi come in un film, pensò. In tutto ciò che dice e che fa sembra legato a una messinscena più che alla vita reale. È uno spettacolo ambientato nel passato e chi non vuole imparare la propria parte deve uscire di scena. Il nazionalismo è sempre retrospettivo in questa strana maniera trasfigurante. Tutti i grandi nazionalisti percepiscono il proprio Paese in primo luogo come l'ombra di un'epoca di splendore e se stessi come coloro che riporteranno indietro le lancette dell'orologio e riaccenderanno la luce. Non è l'intelletto a dir loro come debba essere il futuro, ma un fiuto mitologico. Anche il suo committente sognava qualcosa che non era mai esistito. Ma dormiva su un materasso imbottito di una quantità sufficiente di denaro per far diventare realtà le caricature dei suoi sogni, infondendo loro una vita perversa. Come sempre, il risultato sarebbe stato una cinica smorfia, un
mostro di Frankenstein, spinto da un'insopportabile autoaffermazione e tenuto insieme da qualche vile slogan. I sogni di un ragazzino onanista gonfiati fino a diventare un'orgia. Avevano fallito tutti, i grandi leader. Alcuni, andava detto, in modo fulminante; ma tutti erano riusciti a far sì che milioni di persone pagassero per la loro esibizione, prima di uscire di scena dalla porta posteriore. E avevano pagato anche loro, milioni e miliardi, a persone come Mirko. Persone che sopravvivevano, perché per loro era indifferente quale padrone servissero di volta in volta. Se Mirko fosse stato animato da qualsiasi principio morale, conoscere le intenzioni del vecchio e ciò che avrebbe ottenuto in concreto sarebbe stato sufficiente per non fargli nemmeno attraversare quel muro nero. La missione poteva riuscire. Il risultato invece si sarebbe conquistato un posto nella cronologia degli errori umani. Ma era ben lungi dalle intenzioni di Mirko farlo notare al suo committente. Non faceva parte del suo lavoro. Aveva organizzato la propria vita per prendere il denaro che gli veniva offerto. Ciò che faceva per quel denaro cambiava le cose soltanto per poco tempo. Niente per cui valesse la pena di passare allo schieramento dei riformatori del mondo. L'umanità era abituata a patire catastrofi, per poi stabilizzarsi nuovamente, in un modo o nell'altro. Il vecchio si sbagliava nel ritenerlo un patriota. La fedeltà di Mirko al Paese derivava soltanto dalle possibilità che esso gli offriva. Certo, Mirko pensava che in effetti pure lui doveva avere una coscienza, semplicemente per completezza, e qualche volta si sorprendeva a provare compassione per gli animali. Per il resto, la sua sincera preoccupazione riguardava semmai il giorno in cui avrebbe perso i propri privilegi e non avrebbe più potuto fare ciò che lo divertiva. Alzò il volume. Tutt'intorno a lui calò la notte, poi il vento sferzò pesanti gocce di pioggia contro il parabrezza e un momento dopo gli si riversò addosso un diluvio. Scalò le marce e procedette più lentamente. Da quel momento in poi aveva bisogno di tutta la concentrazione possibile. Qualunque cosa spronasse quell'uomo che stava per incontrare per la seconda volta, non aveva nessuna rilevanza per Mirko. Lo stimolo consisteva nell'incarico stesso, nella sua esecuzione, nel compenso e nella certezza adrenalinica che un fallimento avrebbe rappresentato la fine di tutto, anche di se stesso. Quando, dopo una mezza eternità, riemerse dal temporale, avvenne repentinamente e senza transizione. Davanti a lui si estendeva la pianura
leggermente ondulata, sorvolata da nuvole alte e rade. Nello specchietto retrovisore, vedeva il muro nero bluastro cui era appena scampato. Mirko si accese una sigaretta, accelerò e non pensò a nulla. Su un poggio comparve il monastero. Lì a fianco notò alcune limousine nere e più indietro un elicottero che somigliava a un insetto. Parcheggiò a una certa distanza e scese, aspettandosi di vedere, come dodici giorni prima, la figura canuta appoggiata alla balaustra a guardare il paesaggio. Ma non c'era nessuno. Sentiva le due pistole sotto la giacca, però gli era chiaro che, se il vecchio avesse voluto farlo fuori, lui non avrebbe avuto nessuna possibilità di scamparla. La cosa non lo inquietava più di tanto. Le persone come lui venivano pagate col piombo o con l'argento, non era una novità. In genere, potevano scegliere. Mirko aveva deciso per l'argento. Scese i gradini. Il portone era aperto. Entrò lentamente nella penombra dell'interno. «Mirko, che piacere rivederla.» Il vecchio era seduto dove un tempo probabilmente c'era un altare. Adesso invece c'era un tavolo con due sedie, di cui una ancora libera e un pochino scostata. Il vecchio gli fece cenno di avvicinarsi e alzò una tazza verso di lui, a mo' di brindisi. «Un tempo di merda, vero? Gradisce un caffè?» «Volentieri», rispose Mirko, lasciando vagare lo sguardo. A parte loro due, sembrava che nella navata della chiesa non ci fosse nessuno. Sapeva che non era vero. Erano ovunque. Piombo o argento. Si accomodò di fronte al vecchio, il quale gli lanciò uno sguardo da sotto le sopracciglia aggrottate e svitò il tappo di un thermos. Un profumo delizioso raggiunse le narici di Mirko. «Latte? Zucchero?» «No, grazie, né l'uno né l'altro.» «Puro come il buonsenso», sogghignò il suo interlocutore, spingendo la tazza verso di lui. «La penso così anch'io. Certe cose non si possono diluire o addolcire. Una cosa che da queste parti è stata fatta fin troppo spesso, negli ultimi anni.» Mirko bevve. Dopo quella discesa agli inferi, il liquido bollente gli scorse dentro come un anno di vita in più. «Cos'è che le piace tanto di questo posto?» chiese. «Fa tutta questa strada per venire fin qui a incontrare qualcuno in una chiesa senza riscaldamento, mentre fuori crolla il mondo.» Il vecchio fece una secca risata. «Preferirebbe che la ricevessi davanti al-
le telecamere?» Mirko scosse il capo. «Non è questo che voglio dire. Potremmo incontrarci in segreto anche altrove. Perché si sobbarca tutta questa fatica?» «Anche lei viene qui.» «Io rispondo alla sua chiamata.» Il vecchio lo guardò, abbozzando un occhiolino. Nonostante la penombra, Mirko notò di nuovo quanto fosse intenso il blu di quegli occhi, irreale come il cielo di una cartolina. «È vero, Mirko. Lei risponde alla mia chiamata. Io chiamo e lei viene fino in culo al mondo. Sa che le dico? Io stesso vengo qui per un motivo non molto diverso. Rispondo a una chiamata. Sarebbe un gioco da ragazzi per me incontrarla in qualche grazioso salotto, dove potremmo imbottirci di caviale e innaffiare il tutto con qualche litro di champagne. In assoluto segreto, s'intende! Anche a lei piacerebbe di più, è chiaro. Ma forse ha sentito dire che ho una propensione per le cose singolari, estreme. Perché secondo lei questo Paese e la sua storia mi stanno così a cuore?» «Me lo dica lei.» Il vecchio si chinò in avanti e batté la mano aperta sul tavolo. «Perché sono radicato nella sua terra. Io sono un vecchio albero, Mirko, e le posso dire una cosa: la terra ha una vita propria e un polso potente. In questa regione selvaggia, si possono percepire i suoi respiri profondi e inquieti, i suoi atroci gemiti. Non in qualche comoda stanzetta in stile Luigi XIV! Il sangue dei nostri antenati fluisce tra i sedimenti, le grida degli spodestati si mescolano alla tempesta che spazza le valli, alle risate dei senza Dio! Solo qui fuori si possono sentire queste cose. Dove il sole brucia e il vento fischia nelle orecchie si è abbastanza lontani dal marciume narcotizzante che emerge dalla diplomazia. Io dico che abbiamo già parlato a sufficienza! Nel temporale che ha appena attraversato e probabilmente maledetto dal profondo del cuore, io riconosco la musica dell'insurrezione: no, non ci lasceremo disarmare! Sì, impediremo che usurpatori di dubbie origini e assassini distribuiscano la patria donataci da Dio a miscredenti ed esseri abietti! Il canto dei morti, Mirko. Quello ascolto, io. Sono loro che mi dicono cosa devo fare per i vivi, qual è il mio compito.» Aspettò, come se volesse valutare l'effetto delle sue parole. Mirko non si mosse. «Per questo sono qui», proseguì il vecchio. «Perché bisogna guardare da vicino la creatura tormentata, diventare una cosa sola con lei, per capirne la sofferenza. Sono seduto qui perché questa chiesa simboleggia la nostra
cultura, il nostro diritto di primogeniti. E perché sta crollando, perché è distrutta come la terra ed è diventata una specie di zoo in cui comandano le scimmie.» Fece un sorriso furibondo. «Ma le cose cambieranno e in questo lei sarà al nostro fianco. Non è vero? Sì, sarà al nostro fianco.» Mirko lo osservò e si chiese a quante di quelle fesserie il vecchio credesse effettivamente. Era possibile che quell'uomo assetato di potere, avido di piaceri e senza scrupoli che se ne stava lì a sorseggiare il suo caffè con falsa modestia si fosse lasciato abbindolare dal copione che lui stesso aveva scritto? «Forse», replicò. Il vecchio corrugò la fronte e sbatté la tazza sul tavolo. La maschera del predicatore finì nel ripostiglio del trovarobe. «Le parole del suo messaggio suonavano più impegnative. Non erano un semplice 'forse'.» «Non voglio suscitare speranze premature.» «Ma io non sono venuto fin qui per essere testimone della sua indecisione. Ha qualcosa per me oppure no?» Mirko bevve un sorso di caffè. Odiava essere insultato. In momenti come quello rimandava la risposta quanto bastava perché il suo interlocutore si sentisse bistrattato. Il vecchio lo fissava. «Sì, ho qualcuno», disse infine Mirko. «Una donna. Risponde al nome in codice Jana.» «Serba?» «Nata e cresciuta a Belgrado.» «Bene!» «Oltre al serbo parla correntemente tedesco, italiano e inglese. La definirei una delle dieci specialiste più richieste del mondo.» Fece una pausa. «E una delle dieci più costose.» Gli occhi del vecchio si ridussero a due fessure. Mirko notò che la notizia lo eccitava. «Continui», lo incalzò il vecchio. «Deve essere più preciso.» «Non c'è molto da precisare. Non ho ancora potuto incontrarla. È praticamente impossibile. Usa diverse coperture, ma per vie traverse si arriva sempre al suo direttore finanziario, il quale rifiuta il novantanove per cento delle richieste. Questa invece ha suscitato il suo interesse e così ne ha parlato con la donna.» «Una terrorista con un direttore finanziario?» «Ma no», ribatté Mirko, senza riuscire a trattenere il sarcasmo. «Terrori-
smo è una brutta parola. Non è molto amata, nel settore.» «Intende dire che potrei offendere la signora?» ridacchiò il vecchio. «No», rispose Mirko tranquillamente. «Non avrà mai l'opportunità di offenderla perché non la incontrerà mai. Ma la vedrò io, se accettiamo... voglio dire, se lei accetta il prezzo di Jana.» «Questa Jana sa di cosa si tratta?» «Lo sa.» «E quindi?» «Le avanzano venticinque milioni?» Il viso dell'interlocutore di Mirko si raggelò. Per un attimo l'uomo sembrò il proprio monumento commemorativo. «Per quella cifra voglio un miracolo», disse in tono piatto. «Jana dà per scontato che lei voglia proprio questo», ribatté Mirko. «Non ci sono molte possibilità di realizzare un simile miracolo, ma che venticinque milioni siano parecchi soldi lo sa perfino lei.» «E che cosa comprendono questi... venticinque milioni?» «Jana. La sua testa, le sue idee, l'attuazione.» «Nient'altro?» «Materiali e spese sono esclusi. Anche questo settore opera secondo i princìpi dell'economia di mercato. Naturalmente il buonsenso ci dice che ci sono altri modi per portare a termine l'incarico, con migliori prospettive di successo. Meno difficili. Il prezzo sarebbe quantomeno dimezzato.» Fece una pausa. «Ma lei vuole scegliere a tutti costi la strada più ripida.» Il vecchio si chinò in avanti, con gli occhi blu che brillavano. «Stiamo parlando di una necessità imprescindibile», disse. «Ma naturalmente le mie pretese vanno ancora oltre. Voglio qualcosa di clamoroso! Qualcosa che faccia girare il mondo più in fretta! Ovvio che ci sono possibilità più facili. Dove ce n'è una, ce ne sono migliaia. Ma il potere della simbologia sta nel come, nel dove e nel quando! Voglio che sia proprio quel giorno, Mirko. Le dirò addirittura esattamente in quale minuto e in quale metro quadrato! E, anche se è mille volte impossibile, per venticinque milioni pretenderò che avvenga! È chiaro? Sarà tanto spettacolare e tanto vergognoso per i nostri nemici da occupare prima i titoli dei giornali e poi i libri di storia.» «Ah, vuole passare alla storia?» «Io sono già nella storia! Adesso mi accingo a riscriverla personalmente.» Mirko si guardò le unghie. «Naturalmente non mi compete...» cominciò con voce strascicata.
«Cosa?» «Per un attimo avevo pensato che, alla base di questa nostra piccola azione, ci fosse qualcosa di più dei suoi rancori personali. Voglio dire, quando si tratta di venticinque milioni...» Il vecchio risucchiò le labbra all'interno della bocca ed esibì un sorriso da pescecane. «Lei si sta prendendo delle libertà, ma la cosa mi piace. Chi mi vuole leccare il culo deve aspettare anni: c'è una fila considerevole... Glielo avrei detto comunque, dato che lei è il mio generale strategico.» Ammiccò. «Sa, io vivo nella rassicurante certezza di poterla trovare ovunque, se lei dovesse tradire la mia fiducia.» «Come mi ha già fatto notare l'altra volta.» «Certe cose non si sottolineano mai abbastanza. Dica a quella signora che accetterò di pagare venticinque milioni non appena avrò verificato le sue referenze. Ne ha, vero?» Mirko sorrise. «Se si vuole ingaggiare qualcuno in Russia, si può scegliere tra associazioni semilegali di pugili professionisti, di veterani della guerra in Afghanistan, di unità speciali della polizia, di ex ufficiali del KGB e di funzionari del ministero degli Interni. C'è un sistema di classificazione, nel settore. In cima ci sono gli ex dei Servizi segreti militari oppure della prima divisione del KGB. La scelta è molto ampia, eppure alcuni dei più influenti rappresentanti della mafiocrazia moscovita hanno fatto ricorso a Jana. Lei salta fuori, fa il suo lavoro e non lascia tracce o, meglio, lascia soltanto quelle che vuole lasciare. I russi apprezzano la sua affidabilità. E la apprezzano anche i Servizi segreti israeliani. Jana è del tutto neutrale, purché non si tratti d'interessi serbi. Le fornirò qualche dettaglio ma, per la maggior parte, si tratta di cose che lei avrà già appreso dai notiziari. Prima scelta, serba al cento per cento, a quanto ne so estremamente patriottica.» «Hmm...» «Sul serio», confermò Mirko, segretamente divertito. «Jana crede nella causa serba. Proviene dal separatismo serbo.» Il vecchio lo guardò in modo sprezzante, poi annuì. «Va bene. Può avere un milione subito e il resto all'adempimento del contratto. Se non le sta bene, ci cercheremo qualcun altro.» «Accetterà.» «E come faccio ad assicurarmi che si attenga agli accordi, sempre ammesso che li prendiamo? È facile svignarsela con un milione in tasca.» «Sciocchezze», disse Mirko. «Se Jana ragionasse così, sarebbe già morta
da un pezzo. Del resto, il garante sono io. Visto che mi può trovare in qualunque parte del mondo, può dormire sonni tranquilli.» Il vecchio si grattò il mento. A Mirko dava l'impressione di oscillare tra decisione e perplessità. «Dubbi?» «È di gran lunga il più alto cachet che io abbia mai pagato a un essere umano», borbottò il suo interlocutore. «Jana può garantire la riuscita?» «No.» «Ma...» «Conosce George Habbash, chiamato 'il dottore'? Certo che no, lei è un galantuomo. È il fondatore del moderno terrorismo transnazionale, per così dire. E ha...» «E come potrei conoscere gente di questo tipo?» lo interruppe il vecchio, in tono irato. Mirko rimase in silenzio per qualche istante, quindi domandò: «Non me lo sta chiedendo sul serio, vero? Mah, in fondo non importa. Forse do per scontate troppe cose. Habbash è ritenuto il fondatore del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Secondo lui, la cosa più importante è scegliere obiettivi che promettono un successo al cento per cento. Per quanto possa suonare lapidaria, è la regola cui cercano di attenersi tutti. Oggi il terrorismo funziona come una carriera in un'azienda o in politica. Si chiedono attestati e referenze. Nessuno che desideri aumentare il proprio valore di mercato prenderà in considerazione un insuccesso, ma ogni professionista sa di camminare sul filo. Dipende dal livello delle richieste. Si vuole soltanto ammazzare qualcuno oppure lo si vuole ammazzare in un modo ben preciso, in un luogo ben preciso, in un momento ben preciso? Maggiore è la somma delle richieste, minori sono le possibilità che tutto vada in porto. È così che si muovono le cose. Ma se va in porto... L'ha espresso bene lei, prima. Come ha detto?... Il mondo gira un po' più in fretta. D'un tratto, ci si ritrova a giocare da professionista». «Quali referenze aveva questo... Habbash?» Mirko sorrise. «Monaco, Olimpiadi 1972. Undici atleti israeliani assassinati, ricorda? Proprio in Germania. È stato un bagno di sangue, anche qualche palestinese ci è restato secco e gli altri sono stati arrestati. Se si prende alla lettera la regola di Habbash, quell'azione è stata un insuccesso, proprio come la fallita liberazione da parte della polizia tedesca. In compenso, però, il mondo si è reso conto per la prima volta dell'esistenza di un problema israelo-palestinese. Da questo punto di vista, quindi, è stato un
successo. La questione dipende dal come si definisce il successo.» Fece una pausa. «Il punto è che al Fronte Popolare non sarebbe servito a nulla far saltare in aria qualche ufficio della E1A1. L'obiettivo esplicito era sottrarre agli israeliani i loro personaggi più in vista. E, siccome non potevano arrivare ai politici, si sono concentrati sugli sportivi e sugli artisti.» Il vecchio si mordicchiava il labbro inferiore. «Intende dire che c'è effettivamente una garanzia?» «Non per quello che si propone di fare lei. Ma, se la cosa va in porto, l'effetto è garantito. Non la posso tirar fuori da questo dilemma. Lei vuole una messinscena, uno spettacolo. Bene. Se ingaggia Pavarotti e lui quella sera ha la febbre, sarà un fallimento tanto fulminante quanto lo sarebbe stato il successo. Carlos ha fatto saltare un affare da un milione perché c'era la nebbia e lui non riusciva a vedere la sua vittima. Succede. L'IRA è stata la prima organizzazione a usare una bomba controllata da un microchip, per far saltare in aria Maggie Thatcher. Ha piazzato quell'affare con settimane d'anticipo e, per una stupida casualità, non ha funzionato. Prenda Gheddafi. È andato su tutte le furie per il bombardamento americano di Tripoli e Bengasi di due anni prima, perciò ha chiesto aiuto a Carlos e all'Armata Rossa Giapponese. Tutta gente di alto livello. E loro hanno scatenato un casino in una base aeronautica americana e davanti a qualche club militare americano. Ma il culmine doveva essere un attentato nel bel mezzo di Manhattan, con centinaia di morti. Stupidamente, però, l'uomo che doveva piazzare gli esplosivi è incappato in un controllo di routine della polizia stradale e tutto è sfumato. Già. Obiettivi importanti, rischi importanti.» Il vecchio rimase in silenzio. Dopo qualche istante, Mirko chiese: «Allora? Cosa devo dire a Jana? Vuole pensarci su ancora un po'?» «No! Che si faccia venire in mente qualcosa, maledizione!» Il vecchio congiunse i polpastrelli. «Il prezzo sembra più alto di quanto non sia in realtà. Non mi sobbarco mica tutti i costi da solo. Non appena l'accordo sarà fatto, la metterò al corrente di tutti i dettagli.» Il sorriso da pescecane riapparve. «Non morirà nell'ignoranza, Mirko. Le saranno rivelati nessi causali di estrema delicatezza. Ha tutte le ragioni di essere curioso.» «Sono curioso di scoprire se ho ragione», replicò Mirko, al quale cominciava a piacere quel gioco del gatto e del topo del suo interlocutore. «Direi che sommiamo odio e patriottismo e lo moltiplichiamo per gli interessi economici di una combriccola più grande che le dà una mano. L'odio lo pa-
ga lei, il patriottismo i suoi amici politici e il resto viene dai conti neri dei gruppi industriali. Sono sulla pista giusta?» «Benvenuto nel Cavallo di Troia», esclamò il vecchio, battendo le mani. Mirko inclinò leggermente il capo di lato. Il buffone di corte fa un inchino e fa tintinnare i campanelli. Nel dubbio, è così che si sopravvive al proprio re. 15 giugno 1999. Aeroporto di Colonia La prima cosa che il professor Liam O'Connor intravide, mentre avanzava, dritto come un fuso, accanto alla hostess, fu un tubo dalle caratteristiche escheriane. Qualche rimasuglio di ragione gli diceva che in realtà conduceva soltanto dal 727 appena atterrato all'interno del terminal. Probabilmente, a un'osservazione più attenta, avrebbe scoperto che venti metri più in là, dove vedeva scomparire i passeggeri scesi prima di lui, non era in agguato un tunnel cosmico che lo avrebbe risucchiato fuori dallo spazio e dal tempo, scaraventandolo in un'altra galassia, bensì una semplice curva. Cercò di ricordarsi come si calcolavano le curve, mentre il suo apparato motorio minacciava di non riuscire nemmeno a mantenere la posizione eretta. Mentalmente sottopose la struttura che si trovava di fronte a una breve analisi matematica e giunse alla conclusione che la cabina dell'aeroplano era più sicura. Fece dietrofront per tornare dentro. «Professor O'Connor?» Ecco il viso sorridente di una seconda hostess, che fingeva di non essere investita dall'effluvio del whisky invecchiato dodici anni. Lui la fissò come un allocco, si rese conto che stava fissando quella donna come un allocco e la fissò ancora di più. «Ha dimenticato qualcosa?» Bella domanda. Aveva dimenticato qualcosa? Ma erano già atterrati? Invertì nuovamente la marcia e si ritrovò di fronte il tubo, che nel frattempo sembrava aver guadagnato in lunghezza. Inoltre mostrava chiari segni di riscaldamento. Come si poteva altrimenti spiegare che il fiume di persone - ognuna delle quali lo scansava con una reazione che andava dal cortese al furioso - venisse risucchiato così velocemente nel gomito del tubo? Era chiaro che il sistema stava passando a uno stato energetico superiore. Era finito in un acceleratore di particelle. Se avesse aspettato ancora qualche istante, sarebbe stato accelerato fino alla velocità della luce e la sua massa sarebbe diventata infinita.
Ma no. Non si poteva. Almeno non così. «Non posso entrare là dentro», annunciò. Le hostess si scambiarono sguardi perplessi e sorrisero in sincronia. O'Connor rifletté. Sincronizzando i sorrisi di tutte le hostess dell'universo conosciuto e accoppiandoli a reazione in un risonatore, si poteva ottenere una produzione aggregata di cortesia di un'intensità inimmaginabile. Ci si sarebbe sentiti chiedere senza sosta: «Gradisce ancora qualcosa da bere?» «Le diamo un caloroso benvenuto al Colonia/Bonn, professor O'Connor», disse una voce che empiricamente non poteva essere correlata a nessuna delle due hostess. Il corpo di Liam cambiò di nuovo posizione. Le sue facoltà percettive arretrarono un po', producendo sulla retina immagini di rara enigmaticità. Sembrava che pure la massa delle hostess fosse diventata infinita. Poi lui ricominciò a vedere chiaramente. Un uomo con galloni e oro sul berretto gli fece un gran sorriso. In O'Connor s'insinuò il sospetto che si trattasse del pilota, ma ciò poteva essere dimostrato soltanto mediante impegnativi rilievi. «Se non le spiace affidarsi alla signora Schiffer», disse il pilota non comprovato matematicamente, «adesso verrà accompagnato alla lounge Lufthansa, dove la attendono uno speciale comitato di accoglienza e un cocktail di benvenuto.» Si sbagliava oppure il suo interlocutore l'aveva guardato con un ghigno sciocco mentre diceva «cocktail di benvenuto»? Non c'era ragione di fare battute sull'alcol. Non in presenza dell'imminente pericolo di essere centrifugati da forze elettromagnetiche in un corridoio dall'aspetto innocuo. Non c'era alternativa. Liam si schiarì la voce. «Adesso assumerò un'altra forma d'onda», annunciò in tono pieno di dignità. Poi si voltò lentamente ed entrò nel corridoio, sprezzante del pericolo. Era un po' in discesa e, proprio come lui aveva previsto, acquistò velocità. L'alto e il basso diedero l'impressione di volersi scambiare di posto, ma poi si accontentarono di una leggera curvatura del continuum. Per il resto, non avvenne nulla di preoccupante. «Professor O'Connor!» Che c'era ancora? «Per cortesia... Potremmo tenere qui il bicchiere?» Si fermò, sbigottito. Soltanto allora si accorse di stringere qualcosa nella mano destra. La memoria a lungo termine ne identificò il contenuto come whisky irlandese. La memoria a breve termine intervenne, cercando di
precisare da quanto tempo si stava portando dietro il bicchiere, ma non giunse a nessun risultato e sparì dalla circolazione. Liam rifletté. «No», rispose. Li sentì bisbigliare alle sue spalle. Qualcosa del tipo: «Ma come... Per amor del cielo... Non può andarsene col bicchiere... Non si può... Ma sì, lasciagli portar via quello stupido bicchiere, se proprio ci tiene... Sì, ma le norme di sicurezza...» Eccetera, eccetera. Ah, già, le norme di sicurezza. Liam si girò un'altra volta. In tutta la vita, non aveva mai girato tanto. Il sorriso delle hostess era di un'imperturbabile cordialità. Una delle due entrò nel tubo e gli mise una valigetta nella mano libera. «Se l'era dimenticata», gli fece gentilmente notare. «Adesso la accompagno alla lounge, professor O'Connor. Può tenere il bicchiere.» «Benvenuto al Colonia/Bonn», ripeté il pilota con un cenno del capo. «Ci farebbe piacere averla di nuovo a bordo.» La seconda hostess continuò a sorridere, ma il suo sguardo vagò all'intorno. Ed era uno sguardo che diceva: «Benvenuto, professor O'Connor. Ci farebbe piacere se là fuori inciampasse in uno stronzo di cane e finisse col muso per terra». Aveva forse fatto qualcosa? «Ho forse fatto qualcosa?» chiese alla hostess, che in teoria doveva essere la signora Schiffer, perché lo precedeva e lui la seguiva. Da quanto tempo andavano avanti così? Da quanto tempo camminavano nel tubo? Secondi? Ore? Lei scosse il capo e lo guardò coi suoi occhi verdi, mentre si dirigevano verso la curva. «Non ha fatto assolutamente nulla, professor O'Connor.» «Non menta», ribatté lui, deciso. «Quella signora è di tutt'altra opinione.» «Be', lei è un fisico, vero?» disse la signora Schiffer, digrignando i denti. «Sì. Perché?» La hostess alzò le spalle. «Be', allora è per scopi scientifici che ha pizzicato il sedere alla signora Klum.» Raggiunsero la curva. Mentre Liam rifletteva ancora febbrilmente su come dovesse rispondere a quell'affermazione, il suo corpo descrisse un'impeccabile curva a novanta gradi e seguì la signora Schiffer verso il controllo passaporti. «Lo sa cos'è un acceleratore di particelle?» chiese, colmo di gioia. Lei si voltò verso di lui e alzò le sopracciglia. «Sì, penso che sia qualco-
sa di simile a lei.» 4 dicembre 1998. Triora (Liguria) «Effettivamente potrebbe diventare una specie di quesito matematico», osservò Jana. «Mi sono chiesta spesso se sia possibile esprimere il nostro lavoro con formule. Qualcosa di vincolante che ci dica se, tutto sommato, la follia rende più di zero.» «Crede che sia una follia?» chiese Mirko. «Sì. Lei no?» «Dipende. Può ammazzare la persona in questione?» Jana non rispose subito. A passi lenti attraversarono la galleria di arcate, passaggi e portici del quartiere della Sambughea. La via si fece più stretta e terminò davanti a una casa fatiscente. Nel buio labirinto del più antico quartiere di Triora non c'era nessuno per strada, a quell'ora. Jana aveva proposto quel paese tra le montagne liguri per diversi motivi. Nel pomeriggio aveva un impegno di lavoro a Sanremo, che non distava nemmeno trenta chilometri, e Triora era di strada. Ma soprattutto lì sarebbero stati del tutto indisturbati. Nessuno s'interessava a due turisti di lingua serba che evidentemente seguivano le tracce dell'oscuro passato del luogo, dell'orrore delle trenta donne che vi erano state torturate a morte nel 1587, su incarico dell'inquisizione ecclesiastica e di un commissario genovese. Mirko era atterrato all'aeroporto di Torino nelle prime ore del mattino e aveva trovato ad attenderlo un giovane al quale, come da accordi, si era presentato come signor Biçic. Il giovane l'aveva accompagnato a una Mercedes, facendolo accomodare sul sedile posteriore. Mirko non si era dato pena di fare conversazione mentre lasciavano Torino, percorrevano un tratto di tangenziale e poi imboccavano l'A6 in direzione di Cuneo. Il ragazzo era soltanto uno chauffeur, con l'incarico di accompagnarlo in un luogo ben preciso. Non si era sorpreso per nulla quando, pochi chilometri prima di Asti, l'auto si era fermata in un'area di sosta, dov'era stato accolto da un altro uomo, con un vestito elegante, i capelli divisi a metà da una riga perfetta e gli occhiali di corno. Il viaggio era proseguito su un'Alfa 164 color argento, in silenzio, tranne qualche scambio di frasi retoriche sulla bellezza del paesaggio e sugli eccellenti vini piemontesi. Mirko era convinto di avere accanto il leggendario direttore finanziario di Jana, col quale finora era entrato in contatto soltanto tramite intermediari, ma non aveva fatto domande in proposito. Non s'intendeva molto di vino, quindi, dopo pochi chi-
lometri, la conversazione si era spenta, lasciando il posto a un silenzio meditativo. Non era neppure particolarmente curioso di sapere dove lo stessero portando. Ogni volta era la stessa cosa: bisognava andare o farsi accompagnare in luoghi fuori mano. Alcune volte erano viaggi difficili, con destinazioni infelici come la chiesa del monastero in rovina; altre volte erano ristoranti di buon livello o foyer di teatri. La maggior parte delle convocazioni era in camere d'albergo. L'unica speranza di Mirko era la prospettiva di vedersi offrire un piatto di pasta al termine della conversazione che lo attendeva. Mirko adorava la pasta. Aveva una fame terribile, perché, anche se non era certo un buongustaio, come sempre non era riuscito a mandare giù la sbobba servita sull'aereo. Si era messo a guardare fuori dal finestrino, godendosi il paesaggio. Nel tardo pomeriggio avevano raggiunto Triora. Il giovane gli aveva spiegato il percorso tra i vicoli del paese per arrivare alla biblioteca. Era aperta soltanto in agosto, ma non aveva importanza. Quel giorno, a nessuno interessavano i libri. Era stato lì che Mirko aveva incontrato Jana per la prima volta. Non aveva l'abitudine d'immaginarsi le persone prima d'incontrarle. Erano congetture per cui non valeva la pena di sforzare l'immaginazione. Ma il mercato era ancora dominato dagli uomini e quindi perfino lui aveva ceduto all'impulso di dare un viso e una statura a Jana. Non gli era venuto in mente granché: probabilmente era una donna con l'aspetto di una Sigourney Weaver, alta e spigolosa, forse non particolarmente attraente, ma di certo capace di venire alle mani col diavolo o con una dozzina di alieni, se necessario. A prima vista, quella donna di media statura, dai tratti gradevoli e dagli occhi scuri, complessivamente di bell'aspetto - ma nel contempo in grado di passare del tutto inosservata -, gli era parsa inadatta al ruolo. I capelli castano-rossicci erano lunghi fino alle spalle e ondulati. Indossava abiti eleganti, ma non vistosi, la voce non era né alta né bassa. Per un istante, Mirko era rimasto deluso. Poi aveva notato la tonicità del corpo della donna e si era reso conto di avere visto soltanto l'involucro. In realtà, Jana era una macchina di precisione e un camaleonte. In quel momento e in quel luogo Mirko vedeva soltanto ciò che lei voleva fargli vedere: una persona facile da dimenticare. Il giorno seguente, avrebbe potuto trasformarsi in una vagabonda che chiedeva l'elemosina per diventare poi, la sera stessa, l'affascinante attrazione di un dinner party. Quando faceva un passo verso di lui, ogni movimento gli diceva che la donna dal nome in codice
Jana avrebbe assoggettato tutto e tutti al proprio controllo, se fosse stato necessario. Si erano stretti la mano e avevano cominciato un'innocua passeggiata nella storia oscura di quel luogo. Gli orrori medievali della «roccaforte delle streghe» erano ormai diventati un'attrazione turistica. Erano passati dalla Cabotina, la rovina di quello che era stato un punto d'incontro delle presunte streghe. Il passato oscuro di Triora esercitava un fascino morboso su Mirko. Nell'intrico di porticati che attraversarono, niente lasciava intuire la luminosa leggerezza della riviera ligure, che era soltanto a mezz'ora d'auto. In dicembre, le montagne erano avvolte nella foschia, che consentiva solo rari sguardi al pallido disco del sole invernale. La luce scarsa non arrivava praticamente mai in quelle strade incassate, che respingevano il presente e qualsiasi piacevolezza e calore. La sagoma di Jana si fondeva con le ombre, finché, dopo una curva, la serie di case non si era repentinamente interrotta e i due erano sbucati su una terrazza nascosta. Mirko seguiva la donna senza fretta. Il muro del parapetto era ricoperto di muschio, lichene e vite selvatica. C'era odore di pietra ammuffita. Qualche metro più in là, una scala crollata finiva nel nulla e più oltre si scorgeva un dirupo. Quello spiazzo poggiava sui resti delle fortificazioni medievali, oltre le quali lo sguardo si perdeva nella valle e nel tetro grigio-verde delle montagne. Mirko si godette il silenzio. Non poteva esserci un luogo più adatto per parlare in pace della morte. Non c'erano molte cose che lo colpissero davvero, ma il silenzio era una di quelle. Era un lusso ed era ancora più bello perché non si poteva comprare. Segretamente era grato a Jana di averlo portato lì, anche se quel genere di sentimenti era irrilevante per l'oggetto del loro incontro. Decise di nascondere in sé quel piccolo sentimento di pace, per richiamarlo a tempo debito, quando ne avesse avuto voglia. «Può farlo?» chiese di nuovo. «Tutto si può fare. Basta volerlo», rispose Jana, imperturbabile. «Sì, ma lei può farlo, in queste circostanze?» «In effetti, l'incarico è molto allettante», replicò lei. «Direi che le condizioni spingono le probabilità verso lo zero. D'altra parte, l'effetto sarebbe potentissimo. Nessun momento potrebbe essere più adatto. La questione è se valga la pena di rischiare un fallimento.» «Non era di fallimenti che volevo parlare con lei.» «Chiaro.» Gli rivolse uno sguardo indagatore. «Suvvia, Mirko, sa bene anche lei cosa pretendono da noi i suoi committenti. Le ho detto il mio
prezzo...» «E io l'ho riferito.» «... ma questo di per sé non basta e non posso certo garantirle nulla.» Mirko scosse il capo. «Non mi aspetto nessuna garanzia.» Andò al parapetto e guardò giù. «O almeno non una garanzia di successo. Voglio che lei mi garantisca di essere in grado di farlo.» Jana gli si avvicinò. «E se io le dessi questa garanzia?» «In tal caso, saremmo in affari. Le persone che mi hanno assegnato questo incarico danno per scontato che lei rifletta a fondo sulla questione. Ho detto loro che non lo farà per meno di venticinque milioni e l'hanno mandata giù. Ora pensano che occorra fare il possibile per coinvolgerla nel progetto, anche se la trovano un po'... sospetta. Naturalmente ho dimenticato di menzionare loro quanto le interessino quei venticinque milioni.» «Perché vogliono proprio me?» «Sono io che voglio lei, perché lei è la migliore. Lo dico con riluttanza, perché ciò rafforza la sua posizione e giustifica il prezzo, ma è così e basta.» «Ci sono altri specialisti.» «Non per questo lavoro. Ci serve qualcuno che si faccia venire idee del tutto nuove. Qualcosa di così strano da risultare del tutto imprevedibile.» Mirko esitò. «In questo senso, pure qualcun altro potrebbe essere adatto. Ma devo aggiungere un elemento al quale i miei committenti tengono molto.» «Quale?» «Lei è serba.» Jana rimase impassibile. «Io sono del tutto neutrale», commentò. Mirko strappò del muschio dalle crepe del muro di pietra grezza, lo sbriciolò e poi si annusò le dita. Quel profumo aveva un che di tranquillizzante. «Lei non è neutrale», replicò, guardando Jana dritto negli occhi. La donna non si sottrasse al suo sguardo. Non diede segno di essere stata punta sul vivo, però Mirko non si lasciò ingannare. «Lo è quando collabora liberamente con la gente ricca che ha qualche problema da risolvere. In questo, lei è praticamente imbattibile. Ma anch'io sono serbo, Jana. So che immagina qualcosa di diverso per il nostro Paese. Se è tanto stufa quanto me delle continue ingerenze nella nostra storia, non è neutrale.» Fu un colpo a vuoto. Jana non mutò espressione. Si voltò e si allontanò di qualche passo dal parapetto. Mirko attese per qualche istante. Era sicuro che la spina fosse penetrata
nel fianco. Forse poteva rinnegare se stessa, giorno dopo giorno, ma non il suo Paese. Non poteva essersi sbagliato tanto! «Chi sono i suoi committenti?» chiese lei. «Il mio committente è il Cavallo di Troia. Non mi chieda chi c'è dentro.» «È proprio quello che le sto chiedendo.» Mirko non rispose. Lei tornò sui suoi passi e gli si parò davanti. «Ho lavorato per Arkan e Dugi», 5 disse. «Per anni. Conosco chiunque abbia avuto a che fare con le milizie serbe. In un modo o nell'altro, i paramilitari dipendono tutti dai capi delle milizie e non c'è nessuno che io non conosca. Conosco i capi ufficiali e no della Guardia serba e del Movimento serbo di rinnovamento. Non sono loro, Mirko. Nessuno di loro. Perciò chi altri in Serbia potrebbe averla mandata da me?» «Non posso dirglielo e non glielo dirò.» «Allora io non posso aiutarla e non la aiuterò.» «Invece sì. Perché può contare sulla punta delle dita i miei possibili committenti. Quand'era nelle milizie, le è mai capitato di ricevere un ordine, una disposizione o qualcos'altro che provenisse direttamente da Belgrado? Dalle massime autorità, insomma? Naturalmente no, ma questa è la prova dell'intelligenza dello statista. La risolutezza che sta dietro quest'incarico è di tutt'altra qualità, nasce da pensieri che Arkan o Dugi non sarebbero mai in grado di formulare! Lei non conosce tutti, Jana, perché non è arrivata a tutti. In più, il nostro Paese ha qualche amico potente, anche se al momento facciamo la figura di una banda di macellai. Per l'Occidente è comodo dimenticare i palestinesi, il Ruanda, i curdi in Iraq e in Turchia, il Tibet. Finalmente l'Occidente ha il nemico di tutti i suoi valori proprio fuori dalla porta di casa. Molto comodo. Se la NATO fa sul serio con le sue minacce e sgancia davvero bombe sulla Serbia, il prevedibile conflitto sarà in perfetta armonia con gli interessi economici occidentali. Una guerra in Turchia non renderebbe nessun profitto. Una guerra nel cuore dell'Europa, invece, è profitto puro: il dollaro salirà quanto i missili. La definiranno una nuova giustizia. Evviva la guerra dei valori, già la vedo arrivare. Nessuno di coloro che evocano il fantasma dell'interventismo vuole evitare una catastrofe umanitaria. Vogliono soltanto ampliare la loro sfera di potere. Lei vuole permettere che ciò accada, Jana? Dovremmo forse accettarlo senza combattere? I russi, per esempio, vedono la nostra posizione in modo di5
Branislav Lainović, detto Dugi, è stato un capo della mafia serba. (N.d.T.)
verso. E non sono gli unici.» Fece una pausa. «Quanto le devo ancora svelare, senza dire nulla?» «Perché non parlano direttamente con me?» «Perché non possono e non vogliono. Ci sono incarichi che non vengono mai affidati, non devo certo spiegarlo a lei, Jana! Loro parlano con me e io parlo con lei.» «E adesso si aspetta che ci abbracciamo piangendo ed evochiamo il Kosovo Polje?»6 Mirko fece una smorfia. «Non sono così sentimentale. Ma credo che dobbiamo mandare un segno. Il mondo ne ha bisogno. A dirla tutta, non sono sicuro che mi piaccia tutto della Serbia. Il catalogo delle mie perplessità comprende anche le idee di un certo uomo solitario e anziano. Ma so esattamente chi e che cosa odio! Conosco la prospettiva della cerchia più ristretta, Jana, e la vedo in modo un po' diverso rispetto a un Gerhard Schröder, un Bill Clinton o un Tony Blair. Lo chiami patriottismo, se vuole. Io me ne infischio di questi termini perché non descrivono la realtà. Ma bisogna pur mantenere un punto di riferimento.» «Ha detto che mi trovano 'sospetta'.» Mirko tacque per un po'. Poi annuì lentamente. «Lei ha lasciato il suo Paese», osservò. «Sciocchezze. Dubito che il suo Cavallo di Troia sappia chi sia Jana e da dove venga. Che importanza ha di quale nazionalità sono? I suoi amici hanno bisogno di un professionista. Qui le emozioni sono del tutto fuori luogo, non è d'accordo?» «In linea di principio, sì. Ma, se loro sono emotivi, io che ci posso fare? In più, sanno benissimo che Jana è serba. E pure che ha voltato le spalle alla Serbia.» «E allora?» «Se ne chiedono il motivo. Io ho chiarito che non ha nulla a che vedere con la sua posizione, ma loro vogliono avere la certezza che per lei la patria... insomma, che lei abbia una certa dose d'idealismo. Vogliono soltanto che sia convinta della cosa.» «Perché, lei è convinto?» 6
La battaglia del Kosovo Polje (letteralmente «campo dei merli») è considerata un importante simbolo della resistenza della cultura serba e del sentimento nazionale durante l'occupazione turca. Ebbe luogo nel 1389: i serbi, guidati dal principe Lazar, subirono una dura sconfitta da parte degli ottomani al comando del sultano Murad I. (N.d.T.)
«Sì.» Per la prima volta, il volto di Jana assunse un'aria riflessiva. Mirko si aspettava che lei continuasse il discorso, invece si limitò a chiedergli: «E io? Che garanzie ho da lei?» «Un milione di anticipo.» «Quando?» «Quando vuole», rispose Mirko. «Dopodiché si metterà al lavoro. Tuttavia, se preferisse rifiutare l'incarico, dovrà restituire il milione. Ha quarantotto ore di tempo per pensarci. Se decide di non accettare, volenti o nolenti dovremo cercarci qualcun altro. Però vorremmo avere qualche certezza al più presto. Il tempo stringe. È accettabile per lei?» Jana guardò oltre Mirko, verso la valle. «Ci penserò su.» Mirko sorrise e aprì le mani. «Bene. Ha altre domande?» «No.» Lui lasciò passare qualche secondo. «Voglio aggiungere un'altra cosa che potrebbe essere utile alla nostra collaborazione. Mi è noto - e, lo sottolineo, è noto a me soltanto e a un'istituzione discreta che si attiverà solo se non mi farò vivo per un determinato lasso di tempo - che lei si fa chiamare Laura Firidolfi. Naturalmente so che non è il suo vero nome. In certi ambienti, invece, gira voce che Jana sia Sonja Ćosić, separatista scomparsa dalla circolazione, nata nel 1969 a Belgrado, laureata in serbo, fisica e informatica, patriota fino al midollo. Immagino che qualcuno lo potrebbe addirittura confermare con una certa affidabilità. I miei committenti non hanno mai sentito il nome Laura Firidolfi e non lo sentiranno mai, per quanto mi riguarda. Però sanno delle sue origini serbe e per questo nutrono, come già detto, un certo scetticismo sulle sue convinzioni. In breve, lei è l'unione personale di Sonja Ćosić, Laura Firidolfi e Jana, il che probabilmente non esaurisce l'elenco delle sue incarnazioni. Ora», proseguì, voltandosi verso di lei, «deve sapere che a me tutto questo non interessa affatto. Se troviamo una base comune, sono pronto a trattare con lei con la massima franchezza. Al momento, però, questa fiducia deve consistere nella reciproca rinuncia a spiarci. Le sono venuto incontro, perché non voglio giocare a carte coperte. In compenso, lei dovrà tener conto delle mie regole. Non farà nessun tentativo di ottenere informazioni su di me e sui miei committenti, di seguirmi o di mettermi qualcuno alle calcagna. Da parte mia, le prometto di non approfondire le mie conoscenze su di lei, sulle sue ulteriori identità e sui suoi altri affari e contatti. Possiamo accordarci in questo senso?»
Jana rimase in silenzio. Poi sorrise. Da quando si erano incontrati, era la prima volta che lo faceva. «Le avrei chiesto la stessa cosa», replicò. «Ma lei ha già fatto i compiti a casa.» «Non è nel mio interesse crearle difficoltà», replicò Mirko cortesemente. «Al contrario. Vogliamo averla dalla nostra parte. Se deciderà di rifiutare l'incarico, la nostra conversazione non avrà mai avuto luogo e non succederà altro. Mi farò vivo soltanto se vorrò usare le sue capacità per altri scopi, sempre che ciò avvenga. Le garantisco sincerità e lealtà sotto tutti gli aspetti, purché lei si attenga ai nostri patti. D'accordo?» «Siamo in Italia, Mirko. Vale la parola data.» «Dunque siamo d'accordo?» «Sarebbe assurdo che persone come noi si mettessero a litigare», commentò Jana, rilassata. «Cose del genere finiscono sempre in modo spiacevole. Lei mi ha appena dato un motivo per sotterrarla da qualche parte tra queste belle montagne...» «Lo so.» «Però mi piace la sua franchezza. In più, dubito di riuscire a sotterrarla così facilmente», aggiunse con un cenno del capo. «Golia contro Golia. Fin qui siamo d'accordo, Mirko.» «Bene. Ancora una cosa. Se accetterà la nostra proposta, avvieremo l'operazione insieme, lei e io. Le obbedirò, aiutandola nel lavoro. Ma sarò della partita.» «Per volontà dei suoi committenti?» «Così stanno le cose.» «Capisco. Nulla in contrario, purché lei faccia il suo lavoro.» Il tono era sempre pacato, ma gli occhi di Jana si erano ridotti a due fessure. «Se però emergesse anche il minimo indizio che lei non riesce a gestire la cosa, mi riservo anzitutto di sbatterla fuori e, in secondo luogo, di far saltare l'intera operazione. Queste sono le mie condizioni, Mirko. D'accordo?» 7 «Completamente.» «Lei mi obbedirà. E veda di stupirmi.» Mirko chinò il capo di lato. «Si può fare», disse. Dopo che Mirko se ne fu andato, Jana si concesse un pranzo leggero. Seduta a un traballante tavolino di legno con una tovaglia a quadretti rossi e bianchi, mangiò vari stuzzichini fatti in casa, godendosi la vista mozzafiato dei centoventi metri di strapiombo della gola di Loreto. Fece diverse 7
In italiano nell'originale. (N.d.T.)
telefonate col cellulare alla Morra e a Sanremo, sbrigando il lavoro di Laura Firidolfi, mentre Ricardo riaccompagnava l'uomo di nome Mirko a Torino. Da un certo punto di vista, provava una certa ammirazione. Senza dubbio, Mirko conosceva bene l'ambiente. Tuttavia era proprio quello a inquietarla. A parte una manciata di persone fidate, nessuno conosceva la vera identità di Laura Firidolfi. E, fino a quel momento, nessun committente aveva saputo qualcosa sulla «vita civile» di Jana. Ricardo fungeva da tramite e ricorreva a una serie di posti di consegna ben studiati e ad altri intermediari. Era quasi impossibile far risalire a lui il percorso di una richiesta e lo era ancora di più identificare Jana come Laura Firidolfi o Sonja Ćosić. Le condizioni di Mirko, invece, non l'avevano sorpresa in modo particolare. Rispettare l'anonimato di un collega era una cosa normale. L'ambiente terroristico si distingueva dal mondo puramente criminale proprio perché metteva la cooperazione al di sopra delle dispute e ciò per interesse personale, non per questioni d'onore. I terroristi imparavano gli uni dagli altri e apprezzavano la collaborazione, purché non si trovassero su fronti opposti, come negli schieramenti religiosi. I professionals facevano eccezione. Chi lavorava esclusivamente per soldi dipendeva più di chiunque altro dall'anonimato. Chi eseguiva attentati per conto terzi non lasciava lettere di rivendicazione. Non sentiva l'impulso di fare outing, non aveva nessun messaggio da lanciare al mondo, soltanto conti cifrati. E Jana riteneva che Mirko, benché si spacciasse per patriota, appartenesse alla schiera dei professionisti. Lui aveva lasciato intendere che i suoi committenti occupassero una posizione rilevante nei centri di potere della Serbia, ma ciò non significava che lui ne condividesse le motivazioni nazionalistiche. Anche da neutrale - anzi a maggior ragione in quanto tale - poteva rendere loro preziosi servigi. La stessa Jana era un esempio perfetto, in tal senso. Un altro era Slobodan Miloševič. Non rappresentava il nazionalismo, ma se ne serviva, da ex comunista caparbio con un fiuto infallibile per capire dove soffiava il vento. La maschera dei nuovi princìpi gli stava così bene proprio perché la indossava con disinvoltura e distacco. Spesso una messinscena azzeccata sembrava più vera della verità. Era evidente che i mandanti di Mirko cercavano davvero dei patrioti e che Mirko conosceva la storia di Jana, da quando lei si era votata allo spirito patriottico. Lo avevano ingaggiato per trovare qualcuno come lei, una
persona che fosse entrambe le cose; un'idealista e una professionista. Vista così, in effetti, non c'erano alternative. Fece un cenno al cameriere e ordinò una grappa. Finché il bicchierino col liquido leggermente giallastro non le fu davanti, mise il cervello in standby e guardò il paesaggio. La capacità di rinviare a piacimento qualsiasi pensiero era uno degli aspetti gradevoli di un lavoro come quello di Jana. Sentì un uccello cantare da qualche parte sopra di lei e, in sottofondo, il tintinnio delle posate che il cameriere stava riponendo nei cassetti di una credenza. Bevve la grappa, dapprima in piccoli sorsi controllati, poi cambiò umore e buttò giù il resto d'un fiato. Cominciò di nuovo a riflettere. Il Servizio segreto jugoslavo dipendeva direttamente dal governo di Belgrado. Era il candidato più probabile al quale si potesse attribuire un'operazione come quella che Mirko le aveva prospettato. Non aveva mai avuto a che fare con gli agenti dei Servizi segreti. I paramilitari non ne facevano parte: erano mercenari e sgherri. Non si era mai incontrata nemmeno con la cerchia più ristretta, col ministro della Difesa Pavle Bulatović, per esempio, o con quel confusionario di Vuk Drašković, la cui ricchezza di varianti politiche aveva prodotto frutti assai singolari. Mirko le aveva fatto capire che non era entrata in contatto coi livelli più alti ed era vero. Effettivamente alla milizie non erano mai arrivati ordini che si potessero far risalire al governo. Sapeva che Miloševič comandava segretamente Arkan e le sue orde e non solo approvava le loro azioni, ma ne era anche un promotore, eppure sembrava che i due fossero divisi da un intero universo, da un abisso insuperabile. Belgrado era abbastanza saggia da non esporsi. La cosa più stupida era che, molto probabilmente, Mirko aveva calcolato e provocato i pensieri su cui Jana si stava arrovellando. Voleva che si lambiccasse il cervello. Manipolare la sua mente era un atto arrogante che irritava Jana, anche se lei non poteva escludere l'eventualità che Mirko avesse solo cercato di essere più franco di quanto non gli fosse permesso. Aveva citato la Russia. I russi simpatizzavano con Belgrado. Il commento di Mirko sulla posizione russa aveva un secondo fine. C'erano un sacco di uomini solitari e anziani che non si chiamavano Boris Eltsin e avevano in mano il potere. I capi russi rappresentavano tutti gli interessi possibili, ma erano ben lontani da una congiura politica mondiale. La Russia aveva criminalizzato il terrorismo e, in compenso, aveva reso presentabile il crimine. La zona grigia tra
legalità e illegalità nascondeva la vera sfera di potere di quel regno gigantesco e il potere si fondava sui flussi finanziari globali. Se la NATO avesse messo in pratica le sue minacce nei confronti della Jugoslavia, c'era da aspettarsi una certa ostilità dalla Russia, ma alla fine gli spigoli delle parole dure sarebbero stati nascosti sotto l'ovatta dei crediti occidentali. D'altra parte, era indubbio che determinati ambienti russi aspettassero con ansia guerre e conflitti. Mirko aveva tirato in ballo i russi, facendo capire che Mosca aveva le mani in pasta. Doveva essersi reso conto che la cosa suonava un po' banale. Allora perché l'aveva detto? Perché aveva fatto quelle allusioni? I suoi mandanti avevano forse paura che lei dicesse di no? Estrasse un paio di occhiali da sole dalla tasca interna del cappotto e li inforcò. Cominciava a fare troppo freddo per restare seduta sulla terrazza. Senza fretta, Jana aprì le porte a vetri del ristorante, si diresse alla cassa e pagò. Il cameriere le augurò una buona giornata. Tutto con quella pacata casualità che, in seguito, impedisce alle persone di ricordarsi di altre persone. Forse Mirko doveva portare a termine una missione più difficile di quanto lei pensasse. Era consapevole che i sentimenti da lei nutriti nei confronti della Serbia avrebbero influenzato la sua decisione. Nel contempo, non poteva mettere le carte in tavola. Il segreto professionale nei confronti dei suoi committenti gli aveva impedito di fornire a Jana l'argomentazione più importante che le serviva per accettare. A quanto sembrava, aveva rischiato comunque. O almeno ciò rientrava nel campo delle possibilità. Se era così, non l'aveva lasciata all'oscuro riguardo all'identità del mandante principale. Alla fine, entrambi avevano proferito minacce pro forma, assicurandosi a vicenda le peggiori disgrazie se avessero infranto le regole del gioco. Come al solito. Uscì tranquillamente in strada, compose un numero sul cellulare e telefonò alla Microsoft. 15 giugno 1999. Aeroporto di Colonia Kika si era trincerata dietro una rivista. «Che cosa legge?» volle sapere Kuhn. Che cosa leggeva? In realtà osservava i caratteri stampati per non incoraggiare Kuhn a fare conversazione. Non aveva funzionato, a quanto pare-
va. Il volo di Liam O'Connor era arrivato con mezz'ora di ritardo. Erano seduti nella lounge Lufthansa e bevevano caffè fatto da troppo tempo. Era evidente che Kuhn si annoiava. «Lo sapeva che O'Connor un tempo simpatizzava per l'esercito di liberazione irlandese?» «No.» Un momento, pensò Kika. Questo è davvero interessante. Appoggiò la rivista e chiese: «Quando?» «Prima di conquistare fama e onori. Me l'ha raccontato lui l'anno scorso a Cork.» Kuhn assunse un'espressione seria. «Non è incredibile? Una persona in grado di rallentare la luce si rivela un pazzo dinamitardo.» «Ah, una frase davvero circostanziata», lo prese in giro lei. «È sicuro di non far confusione?» Kuhn la guardò come se la vedesse per la prima volta. «Non volevo dire che lui stesso... per l'amor del cielo, Kika! Al Trinity ha tirato fuori diverse cose, tipo 'L'Irlanda del Nord agli irlandesi e un bel pugno sul muso agli inglesi'. Stronzate. A quanto pare, però, c'è mancato poco che lo sbattessero fuori dal college per roba del genere. Suo padre ha tirato il freno d'emergenza. Tutto qui. Una volta o l'altra, tutti abbiamo difeso qualche scempiaggine.» «Io no.» «Lei è troppo giovane.» Kuhn si appoggiò allo schienale e scivolò in modo così infelice che gli si sfilò la camicia dai pantaloni, scoprendo due dita di pancia pelosa intorno all'ombelico. «In generale, voi siete una generazione molto povera. I vostri genitori ascoltano la stessa musica che ascoltate voi, si vestono nello stesso modo e ormai andate dietro soltanto a Benetton oppure a Kookaï. Noi almeno avevamo ancora qualcuno da odiare veramente.» «Già, fantastico!» replicò Kika. «Per questo siete finiti tutti a fare professioni perbene. Preferisco Kookaï alle sciocchezze senza princìpi del vostro tanto decantato '68!» «Su, su!» «Davvero, suonava tutto così grandioso, peccato che non abbiate combinato nulla. O sbaglio?» Kuhn sorbì il caffè. Sembrava offeso. «In ogni caso, non pensavamo che il senso della vita consistesse nell'andarsene in giro in un abitino di Chanel.» Kika immaginò Kuhn in un abito di Chanel e le sfuggì una risata a singhiozzo. «Vogliamo parlare di moda?» gli chiese. Quando Kuhn non ri-
spose, si dedicò di nuovo alla rivista, per metà irritata e per metà divertita dalle sue inesauribili scorte di luoghi comuni. In un angolino nascosto della mente, sapeva che Kuhn non aveva tutti i torti. Ma non voleva dargli ragione. Almeno non finché continuava a proferire banalità. Cosa che faccio molto volentieri anche io, pensò d'un tratto, con una punta di senso di colpa. Quella dei sessantottini avrei potuto anche risparmiarmela. La porta della lounge si aprì silenziosamente ed entrò una donna che indossava l'uniforme della Lufthansa. Era molto carina, ma non aveva importanza. Sarebbe potuta essere pure Miss Mondo. Qualsiasi interesse nei suoi confronti non poteva che svanire davanti alla figura che la seguiva, con un bicchiere quasi vuoto in mano, una valigetta stretta sotto il braccio e un sorriso da cospiratore sulle labbra. Nell'istante in cui Kika Wagner scorse Liam O'Connor, seppe che era l'uomo più attraente che avesse mai visto in ventotto anni di vita. E la cosa non la rese particolarmente felice. Di foto di Liam O'Connor ne aveva viste a sufficienza. Perciò non era sorpresa che fosse bello, ma piuttosto di quanto fosse bello. Nessuna fotografia, nessun filmato poteva rendergli giustizia. Liam O'Connor entrò nella stanza e ne alterò la composizione molecolare. Sembrava emanare campi di forze che, se non erano in grado di strappare gli elettroni ai loro legami, come i colpi di fotoni dei suoi esperimenti, però erano fatti apposta per trasformare personalità ben strutturate in conglomerati d'indifese e smarrite particelle umorali. Si diceva che, da giovane, Marion Brando riuscisse a zittire i partecipanti a una festa semplicemente entrando nella stanza e sembrava che Liam O'Connor possedesse una magia analoga. Solo che il professore irlandese era di un bel pezzo più alto dell'attore. La hostess si guardò intorno e avvistò Kuhn, che si alzò di scatto. Nello stesso istante, O'Connor perse il sorriso, scrutò prima lui e poi il proprio bicchiere, come se Kuhn fosse responsabile del fatto che era quasi vuoto. Doveva averlo riconosciuto: dopotutto lo incontrava regolarmente da molti anni e lo aveva salutato solo quarantotto ore prima ad Amburgo. Ciononostante manifestò un ostentato disinteresse. Gettò la valigetta sulla poltrona più vicina, si passò la mano tra i capelli argentati, in strano contrasto coi tratti giovanili, e cominciò a canticchiare una melodia a bocca chiusa. «Liam!» Kuhn scattò verso O'Connor, fece per stringergli la mano destra e si bloccò di colpo. L'altro reagì come se fosse stato strappato da un mondo lontano per tornare all'amara realtà. Fissò Kuhn e gli mise in mano il
bicchiere. «Lo riempia», disse. «Il suo drink di benvenuto dovrebbe essere al bar», osservò la hostess. Sembra che lei non abbia ceduto alla magia, constatò Kika mentre si aggregava ai tre. La hostess sembrava piuttosto divertita, come una madre che osserva il figlio in pantaloncini corti che gioca a fare l'adulto. Era dunque quello l'uomo di cui doveva occuparsi. «Kika Wagner», disse a O'Connor. Si era sentita pronunciare il proprio nome innumerevoli volte. Perché quel giorno le sembrava che l'avesse pronunciato un cacatua per suo tramite? Lui la guardò, evidentemente confuso, perché d'un tratto si ritrovava a dover dividere la propria attenzione fra lei, Kuhn e la hostess. Poi il suo sguardo divenne più limpido: Kika si sentì assorbire dai suoi occhi e si trasformò nella protagonista di una commediola sentimentale. A cosa serve lottare per emanciparci se poi ci succedono continuamente cose del genere? pensò, arrabbiata con se stessa. La maggior parte delle persone si guarda negli occhi per manifestare interesse e attenzione. Succede più che altro in modo casuale e si percepisce l'altro come persona nel suo complesso. Ciò che avviene tra pupilla e pupilla svolge soprattutto una funzione comunicativa. Di rado avviene qualcosa di più o quantomeno avviene solo dopo contatti più... intensi. Gli occhi di Liam non ammettevano mezzi termini. Non cercavano un contatto, ti prendevano in ostaggio. Di un blu profondo, adagiato in un bianco quasi anemico, sembravano brillare di luce propria. Forse dipendeva dall'abbronzatura o forse dal fatto che era ubriaco fradicio, anche se non si poteva dire che barcollasse. Anzi, per i gusti di Kika, camminava un po' troppo eretto, troppo controllato. Ma lei ne era certa: anche senza l'influsso dell'alcol, si sarebbe sentita come attraversata dai raggi X, osservata, catalogata e dichiarata idonea o bocciata. Ogni difetto col quale aveva tranquillamente convissuto fino a quel momento si sarebbe gonfiato e potenziato, diventando insopportabile, riducendola a una mostruosa mediocrità. E, nel contempo, in netto contrasto con tutto ciò, gli occhi di Liam segnalavano alla persona davanti a lui di non avere mai guardato nulla di più importante e di più bello. Così, mentre si era sul punto di soccombere, si risorgeva. Come se non fossero capaci di sguardi fugaci, quegli occhi promettevano e pretendevano tutto, rendevano dipendenti e annunciavano una terribile mancanza nell'istante in cui Liam si fosse voltato, interrompendo la comu-
nicazione. Kika sorrise e cercò di scovare in quell'uomo il motivo per cui si trovava lì. Un cinico sbronzo con una mente brillante e una montagna di pessime abitudini, che amava dare scandalo. La casa editrice di O'Connor aveva insistito perché lei fosse presente, in modo da evitare episodi clamorosi come quello di Amburgo e lei era determinata a non lasciargliene passare nemmeno una. E possibilmente anche a non innamorarsi di lui. Sempre che non fosse appena successo. «Noi... ehm... le siamo molto grati», sentì Kuhn dire, e sussultò. Liam si girò dall'altra parte, irritato. In quel momento, era solo un uomo elegante, dai bei lineamenti e con un alito spaventosamente alcolico. Kika Wagner tirò un sospiro di sollievo. «Grazie!» Kuhn rivolse un sorriso paterno alla hostess. «Grazie di averlo accompagnato qui. Per quanto riguarda i bagagli...» «Sono già diretti in hotel.» La hostess esitò. «Fra l'altro adesso è docile», aggiunse, facendo l'occhiolino a Liam. «Vero? Oppure vogliamo tornare al controllo passaporti e cercare di togliere il berretto al poliziotto?» «Come? Cos'ha fatto?» chiese Kuhn. «E datemi qualcosa da bere, insomma», brontolò Liam in tedesco. «Mi ha trascinato per i corridoi per ore. Mi viene da vomitare.» «Sbagliato», lo corresse la hostess. «Abbiamo attraversato un acceleratore di particelle e tutt'al più abbiamo un po' di nausea. Non è così?» Liam sogghignò. «Non vuole restare con noi?» «Un'altra volta.» La hostess andò alla porta. Lì si fermò un momento e, rivolgendosi a Kika, aggiunse: «Faccia attenzione al sedere, sweetheart». Quando la porta si chiuse alle spalle della donna, Liam inarcò le sopracciglia, rassegnato. Kuhn si rigirava il bicchiere vuoto tra le mani, incerto sul da farsi. Poi sorrise e diede un'amichevole pacca sulla spalla all'altro. «Eh, già», disse. «Eccoci qui, a Colonia. Spero che lei...» Liam gli passò accanto, avviandosi a grandi passi verso il piccolo bar dall'altra parte della stanza. Il barman che doveva servire lo champagne non aveva previsto tutta quella intraprendenza e si apprestò a stappare la bottiglia. «Lei è davvero un caro amico», gli disse Liam, balzando su uno degli sgabelli, cosa che gli riuscì senza difficoltà. Kika lo seguì, con Kuhn a rimorchio, senza parole. Si piazzarono accanto a Liam e aspettarono finché non ebbero davanti tre bicchieri pieni. «Benvenuto!» esclamò Kika.
Liam si voltò verso di lei e corrugò la fronte. «Ci conosciamo?» «Mi chiamo Kika Wagner. Lavoro per l'ufficio stampa della sua casa editrice e...» Fece una pausa e decise che, da quel momento in poi, non si sarebbe più fatta impressionare da lui, né dal suo sguardo, né da nient'altro. «... Mi fa piacere, mi fa davvero molto piacere conoscerla, professor O'Connor. È bello che lei sia qui.» Liam inclinò il capo di lato. Poi allungò lentamente la mano. Kika la prese. Le dita di lui strinsero le sue con una presa salda e gradevole. «È un onore per me e un vero piacere», replicò. Per via dell'accento irlandese, pronunciava le parole in modo un po' più morbido, ma per il resto il suo tedesco era di prim'ordine. Lo strascico nella pronuncia rispecchiava chiaramente la quantità di alcol assunta nelle ultime ore. Kika rifletteva febbrilmente su come prendere in mano la situazione. Non aveva previsto che O'Connor arrivasse già ubriaco. Tutto sarebbe stato assai meno problematico se non avesse avuto il suo primo impegno pubblico quella sera stessa. Avrebbe bevuto fino allo stordimento anche in quel bar, proprio come ad Amburgo, dove aveva dimenticato l'appuntamento con la stampa e aveva fatto aspettare i giornalisti per due ore. Se avessero cercato di distoglierlo da quell'intento, non avrebbero fatto altro che peggiorare il risultato. «Forse è meglio che prendiamo lo champagne un'altra volta...» propose Kuhn, titubante. «I nostri tempi sono un po' stretti e...» «Lei è un acaro, Franz», disse Liam in tono deciso. «Questa giovane signora berrà champagne con me e lei tacerà.» Senza esitare, voltò le spalle a Kuhn e sollevò il bicchiere. «Per quanto riguarda lei, voglio dire che è una ragazza molto, molto alta.» E svuotò il bicchiere in un sorso. In bocca a Kuhn, quelle parole l'avrebbero mandata su tutte le furie. Dette da O'Connor suonavano quasi come un complimento. Bevve un sorso e si chinò verso di lui. «Un metro e ottantasette, per la precisione.» «Huuiiii!» fece Liam, raggiante. «Dovremmo davvero...» cominciò Kuhn. «No.» Kika lo fece tacere con un gesto e chiese a O'Connor: «Vuole un altro bicchiere?» Liam aprì la bocca. Poi si fermò e assunse uno sguardo meditabondo. «Non avevamo qualche... appuntamento?» chiese in tono pensoso. «Stasera lei terrà un breve discorso all'Istituto di Fisica. Nulla di speciale. C'è ancora un sacco di tempo. Che dice, svuotiamo la bottiglia?» Kuhn scuoteva il capo, disperato, e si torceva le mani. Kika lo ignorò. Prese la bottiglia di champagne e fece per versarne ancora nel bicchiere di
Liam. «No, ehm...» «Ehi, che succede? Le è passata la sete?» «No, però...» Sembrava qualche circostanza superiore lo avesse messo di fronte a problemi irrisolvibili. All'improvviso saltò giù dallo sgabello, andò al centro della stanza e batté ripetutamente le mani. Anche quelli che non lo avevano osservato al suo ingresso nella stanza alzarono lo sguardo. «Ascoltate!» Le conversazioni s'interruppero. «Che mi aspettavo?» sospirò Kuhn. «Perché doveva andare diversamente, stavolta?» «Forza, mettete via i giornali», ordinò Liam. «E zitti! Ho una cosa importante da dire.» In effetti, nella lounge nessuno fiatava più. Liam si schiarì la voce. Poi indicò Kika. «Questa donna...» esclamò. «Questa donna unica...» Silenzio assoluto. Qualsiasi cosa avesse voluto dire sembrò perdersi nelle vastità della sua mente, una particella di pensiero entrata in collisione con un'antiparticella di pensiero, un reciproco esodo in un lampo accecante di oblio, seguito da una pesantezza di piombo. La testa gli ricadde sul petto. Per un istante, Liam restò immobile, come se avesse sulla schiena tutte le sofferenze del mondo. Poi scrollò le spalle e si avviò a passo strascicato fino alla porta. «Okay», disse alla propria cravatta. «Andiamo.» 5 dicembre 1998. La Morra (Piemonte) Ricardo appoggiò il mento sulle mani e osservò Jana con uno sguardo rapito, come se stesse ordinando colonne di numeri in un bilancio. «Se fa questa cosa, non farà mai più nient'altro», disse infine. Jana annuì. L'affermazione di Ricardo era doppiamente vera. Se avesse portato a termine quell'incarico, sarebbe stato l'ultimo in assoluto e avrebbe comportato la sua uscita di scena. Continuare dopo un'operazione del genere sarebbe stato un suicidio bell'e buono. Ovunque fosse spuntato il suo nome, il mondo intero ci si sarebbe buttato addosso. Le avrebbero dato la caccia,
adescandola con incarichi fasulli, sinché non fosse caduta nella trappola. Sarebbe stato il suo ultimo incarico anche se avesse fallito. Pure in quel caso, non avrebbe mai più fatto nient'altro. Chi è morto non fa più nulla. Comunque andasse a finire, avrebbe dovuto seppellire quel giorno stesso Sonja Ćosić, Laura Firidolfi e una buona dozzina di altre identità. Jana, in particolare, non sarebbe potuta esistere nemmeno per un altro istante. Da un momento all'altro, sarebbe stato come se non ci fosse mai stata una specialista con quel nome. Avrebbe smesso di esistere. Non le spiaceva per Laura e per tutto il resto. Cadere vittima del massacro dei vari alter ego sarebbe stato sgradevole soltanto per Sonja. Era l'unica ad avere un'infanzia, ricordi dei tempi in cui la fantasia dominava ancora la realtà. Sonja Ćosić era il residuo d'innocenza che Jana credeva di avere conservato. Qualcosa di mummificato in una scatola, che si tira fuori ogni tanto, per osservarlo con un misto di nostalgia e avversione, ben sapendo che è morto... Così le sembrava l'innocenza di Sonja Ćosić, che correva nei prati fioriti della Krajina e volava tra le braccia del nonno che la chiamava per mangiare lo speck. Sonja voleva essere Jana, ma Jana aveva perso il diritto d'invocare Sonja. Forse era un bene che il viso della Sonja bambina finalmente scomparisse, per non essere più screditato dalla realtà. Doveva accettare? «Come responsabile finanziario naturalmente sono a favore di un sì», osservò Ricardo, come se le avesse letto nel pensiero. «Per la prima volta, ci troveremmo nella rara e invidiabile condizione di dover convertire la sua intera persona in un'altra valuta. In un certo senso, sarebbe divertente, non trova? Forse potrebbe imparare lo svedese o l'inuit. Se poi liquidassimo la Neuronet, ci sarebbe qualche altro milione da aggiungere... Insomma, ne varrebbe la pena. Naturalmente non potrebbe più tornare in Serbia. E considererei imprudente anche restare in Italia. Ma ci sono vari bei posticini in Inghilterra. E l'Irlanda è meravigliosa, se si riesce a convivere con qualche secchiata di pioggia. Il Nord della Francia e della Spagna hanno già offerto rifugi di tutt'altro genere e il cibo è ottimo.» «Questo lo possiamo decidere in seguito», replicò Jana. Ricardo scrollò le spalle. «È la sua vita. Detratti i costi derivanti dalla cancellazione di Jana dalla storia universale e dalla risurrezione di una persona per ora non meglio specificata, le resterebbero probabilmente trenta milioni. E sto parlando di dollari. A quel punto, potrebbe andare a racco-
gliere arance in Marocco o lavorare come cassiera di supermercato alle Hawaii o meglio ancora non fare nulla e bere vini costosi, ma non toccherebbe più armi, nemmeno in una sala giochi. Non in pubblico, intendo dire.» «Una bella lezione, grazie.» «Prepariamo la 'dipartita' della Neuronet in modo che, quando lei accetterà l'incarico, l'azienda liquiderà tutti i fondi, salderà tutti i debiti e licenzierà regolarmente i dipendenti il giorno successivo», proseguì Ricardo, impassibile. «Gli stipendi residui e le liquidazioni verranno saldati da un fondo che istituiremo a tempo debito. Gruškov è l'unica eccezione. Per come la vedo io, dobbiamo finanziare una nuova vita anche per lui.» Jana annuì. Maksim Gruškov era il programmatore capo della Neuronet e, nel contempo, il più stretto confidente di Jana, per quanto riguardava la pianificazione e l'esecuzione delle sue operazioni. «Fra l'altro, la fine di Jana sarà anche la fine di questa casa», aggiunse Ricardo. «Purtroppo andrà a fuoco. Un corto circuito. Non rimarrà nulla. Personalmente l'avrei ereditata volentieri, ma non è il caso di fare i sentimentali.» La guardò da sopra la montatura degli occhiali. «Anche Silvio Ricardo avrà bisogno di un nuovo nome e di una nuova residenza. Siamo troppo vicini. Mi esporrei malvolentieri a domande dolorose alle quali non saprei neppure rispondere.» «Non si preoccupi.» Jana misurava l'ufficio a grandi passi. Nei momenti di massima tensione, passeggiava su e giù per la stanza come una belva in gabbia. Stava riflettendo. Ricardo aveva fatto un buon lavoro a Triora. Aveva alcune fotografie di Mirko, e in nessuna di esse c'era lei. Inoltre Jana sapeva che, da Torino, Mirko era andato in aereo a Colonia, aveva passato la notte lì e la mattina seguente aveva preso un volo per Vienna. Poi lei aveva fatto sospendere il pedinamento. Non voleva infrangere le regole concordate, ma soltanto essere un po' più furba di quanto le permettevano di essere. «Per come la vedo io, l'incarico potrebbe arrivare direttamente dalla stanza dei bottoni del governo serbo», osservò. «Anche se mi permetto di dubitare che Miloševič stesso si possa spingere a tanto. Mirko ha detto proprio questo e poi ha cercato di allargare il cerchio, quando ha tirato in ballo i russi.» «Non poteva fare altrimenti», commentò Ricardo. «Però la cosa mi sembra piuttosto artificiosa. I funzionari governativi di Mosca sono quasi tutti legati alle più grandi associazioni criminali del Paese e, in quel giro, ciò
che conta è il denaro. È vero, la Russia è il cuore del mercato degli omicidi su commissione, ma preferisce tenersi fuori dalla politica. La mafia russa rischierebbe troppo. Guadagnano sulla Cecenia, così rattoppano la spina dorsale dell'Orso e tutti sono di nuovo orgogliosi. Ma perfino i comunisti guardano con scetticismo a tutto ciò che mette in pericolo la stabilità internazionale.» «Suvvia, non è certo una novità che gli ufficiali russi e gli ex agenti del KGB cerchino di svendere testate nucleari.» «Lo so, gli ucraini. Sono stati uomini d'affari tedeschi a organizzare le trattative.» «I militari corrotti vendono in tutto il mondo al migliore offerente. E sono russi. Voglio dire, chi promette di fornire all'Iran materiale fissile non si fa certo scrupoli a compiere un omicidio, seppure di altissimo livello.» «La domanda è sempre a chi gioverebbe.» «L'Occidente verrebbe richiamato all'ordine», rispose Jana, con una veemenza che quasi la sorprese. «E tornerebbe a occuparsi di se stesso.» Ricardo rimase in silenzio per un po'. «Ammira ancora Miloševič?» chiese infine. Jana si fermò. Il suo sguardo cercò un appiglio nel confortevole salotto arredato con pregiati mobili italiani. Poi andò alla finestra e fissò le colline delle Langhe. «È un lavoro», disse. Ricardo si schiarì la voce. Si alzò e la raggiunse. «Lo so che è un lavoro. Vede, io sono il suo contabile. Il mio compito consiste nel far andare d'accordo le attività di Laura e quelle di Jana e nel fornire consulenze proficue a entrambe. Se mi sposto su un altro terreno per mettere in discussione le sue motivazioni, dal punto di vista economico e aziendale non faccio un favore né a lei né a me. Ma ci siamo avvicinati. Non so, in qualche modo mi sento in dovere di metterla in guardia. Per Jana è un lavoro. Non prenderei in considerazione nemmeno per un istante l'ipotesi di rifiutare l'incarico. Non ci siamo mai interessati alle ideologie dei nostri committenti. Ma per Sonja tutto questo potrebbe diventare una campagna militare personale. Potrebbe commettere qualche errore. Se la sua obiettività è offuscata, metterà in pericolo l'esito dell'azione, che lo voglia o no. E c'è pur sempre una differenza tra usare ed essere usati. Anche su questo mediterei un po' prima di prendere una decisione definitiva.» «Fidarsi di Miloševič è stato un errore», mormorò Jana. «Ha mandato in rovina il Paese. Ma ha comunque ragione sui princìpi.» Sospirò, si voltò e sentì crescere l'indecisione dentro di sé. «Finora non si è mai presentata
una situazione in cui le conseguenze del mio lavoro abbiano... cambiato davvero qualcosa. Ho ragione?» «Sì.» «E adesso, all'improvviso, tutto si rimescola. Ha ragione, Silvio. Diventerebbe una faccenda personale. Lo so. È per questo che sono venuti a cercare proprio me. È il senso delle parole di Mirko. Non si tratta semplicemente di un lavoro, ma della risposta a una domanda cruciale: è giusto mandare al mondo un segnale di questo tipo? E io lo voglio mandare? Detto francamente, Sonja Ćosić in questo momento è su una collina della Krajina col pugno alzato e arde dal desiderio di seguire questa chiamata. Non possiamo più lasciarci degradare a figure marginali, a errori della storia. I serbi sono sempre stati soltanto vittime. Jana invece sa cosa metterebbe in moto e l'idea non le è del tutto indifferente. Pensa alla gente.» «Lo diceva anche Leila Khaled.» Jana sapeva a cosa si riferiva Silvio. Leila Khaled apparteneva ai commando del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina che, nel 1969, avevano dirottato un aereo della TWA e l'anno seguente un aereo della El Al. Non avevano intenzione di fare del male alle persone a bordo, bensì di usarle come ostaggi per far liberare alcuni loro compagni, così da richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica sui problemi palestinesi. Leila Khaled non si riteneva una donna crudele e senza scrupoli e probabilmente aveva ragione. In seguito, durante uno dei numerosi interrogatori cui era stata sottoposta, aveva detto: «Avevo l'ordine di occupare l'aeroplano, non di farlo esplodere. Io ci penso, alla gente. Se avessi voluto far saltare l'aereo, nessuno me l'avrebbe potuto impedire». Ma la storia di Leila Khaled risaliva a trent'anni prima. Era la storia di un'idealista che non aveva mai voluto essere qualcosa di diverso, ascoltata da un'idealista che era diventata qualcosa di diverso: una professional, un killer su commissione, che non si chiedeva più se si potesse uccidere per denaro, ma soltanto fin dove si potesse arrivare. Ormai da molto tempo si era creato un abisso tra Jana e Leila Khaled. Era quello il motivo per cui la frase di Ricardo aveva punto Jana sul vivo. Negli ultimi anni, lei era riuscita a convivere con la sua condizione e soprattutto a guadagnarsi da vivere in quel modo. Portare a termine un incarico: nulla di più e nulla di meno. La lotta giusta - quella che lei aveva creduto persa e di cui attendeva una ripresa - era una faccenda completamente diversa. Separare le due cose non le era costato fatica, almeno fino al giorno in cui Mirko non le si era avvicinato, riportando alla luce le vecchie domande.
All'improvviso le sembrava che ci fosse un ponte sospeso sull'abisso. Un invito a colmare il vuoto. Il pensiero era allettante. Due piccioni con una fava: l'esecuzione materiale di una richiesta e il trionfo sull'arroganza di un imperialismo nemico che si limitava sempre e soltanto a condannare, senza mai essersi dato la pena di capire il popolo di Sonja Ćosić. Senza contare che avrebbe incassato il compenso più alto in assoluto, per lei. Sarebbe stato il coronamento e la fine del suo impegno, l'inizio di una nuova vita. «Lei che cosa mi consiglia?» chiese d'un tratto, voltandosi verso Ricardo. Lui fece una risata sommessa. «Vuole un mio consiglio?» «Sì.» «Lo faccia.» «Perché?» «Perché non potrà continuare a lungo così. Sarebbe l'apogeo, il culmine dichiarato della sua carriera e tutti sanno che i politici più saggi si ritirano all'apice della loro fama. Poi sarebbe costretta a ricominciare da capo, cosa che, secondo me, le farebbe molto bene. La libererebbe dal dilemma in cui si ritrova fin da quando l'ho conosciuta. Lei non è felice, Jana. Accetti. Lo faccia. Molti le darebbero una pacca sulla spalla in segreto. Qualcuno piangerebbe, qualcuno digrignerebbe i denti. I problemi dell'Europa sarebbero al centro dell'attenzione del mondo. Forse qualche capo di Stato cadrebbe, ma né l'ONU né la Russia o la Cina sono interessate a uno scontro reale. Il problema sarebbe risolto. Il Cavallo di Troia conquisterebbe lo scalpo più ambito del mondo, senza che nessuno lo debba sapere. Lei e il suo Paese otterreste un'adeguata soddisfazione. Come lei possa affrontare la cosa non sono in grado di valutarlo e comunque non sono affari miei.» «Secondo lei, da dove viene l'incarico?» «Dalla Serbia? Dalla Russia? Dalla Libia? Sinceramente, Jana, ha importanza chi sia a darle la possibilità d'iniziare una nuova vita?» Jana restò con lo sguardo fisso nel vuoto. Le sembrava che i suoi pensieri stessero finendo in un vicolo cieco. Era come aprire una finestra dopo l'altra in un programma con una memoria limitata, richiamare file dopo file, finché sullo schermo non compariva il riquadro: IL PROGRAMMA NON DISPONE DI MEMORIA SUFFICIENTE PER APRIRE NUOVE FINESTRE; CHIUDERE QUALCHE FINESTRA E RIPROVARE. Era arrivato il momento di chiudere qualche finestra. Non poteva continuare a sovrapporre sempre più personalità e identità. Ricardo aveva ragione. Jana era arrivata alla fine. Il cursore interno si era bloccato tra pro-
fessionismo e patriottismo. Un ultimo, grande colpo di genio che avrebbe riunito tutte le sue personalità e poi lei sarebbe uscita di scena. Sarebbe diventata un'altra persona. Quella casa tra i vigneti del Piemonte sarebbe scomparsa. E allora? Era bella, ma poteva essere rimpiazzata. Aveva trenta milioni di dollari a disposizione! Finalmente avrebbe potuto smettere di correre dietro a Sonja Ćosić. «Silvio...» cominciò. «Dica.» «Si metta in contatto con Mirko. Gli dica che accetto l'incarico. Mi deve fornire i dettagli necessari e fare un bonifico di un milione sul conto che sa.» Silvio sorrise. «Sarà fatto, signora Firidolfi.» 15 giugno 1999. Aeroporto di Colonia Se O'Connor non fosse stato di Dublino, gli irlandesi avrebbero dovuto inventarlo, almeno stando a ciò che Kika sapeva degli autori che venivano dall'«isola di smeraldo». Per lei, quell'uomo era più uno scrittore che un fisico, benché fosse consapevole che si trattava di una valutazione soggettiva e, in ultima analisi, inesatta. Per giunta, Liam O'Connor, sebbene fosse nato e cresciuto a Dublino, non era nemmeno irlandese al cento per cento. Suo padre era dublinese, sua madre di Hannover: ecco perché era cresciuto bilingue e parlava correntemente sia il tedesco sia l'inglese. Quando non voleva essere capito né dai tedeschi né dagli inglesi ricorreva al patrimonio linguistico irlandese e parlava gaelico, per attestare il legame con le radici celtiche del suo popolo. Impossibile dire se ciò occultasse un autentico interesse oppure fosse generato da un autocompiacimento accademico; comunque lui aveva imparato quella lingua arcaica e l'aveva usata abbastanza spesso, nell'Ovest e nel Nord-Ovest del Paese, dove ogni tanto scompariva per giorni interi e soltanto uomini anziani con barbe ispide e vestiti che puzzavano di pesce sapevano dove fosse. La scienza definiva la reputazione di O'Connor e, come scienziato, lui non era né tipicamente irlandese né altro. La maggior parte degli scienziati che Kika aveva conosciuto aveva difficoltà con la moda. Bilanciavano atomi su aghi con punte nanometriche, ma sembrava che non si accorgessero di patacche grandi quanto pugni e di grinze nelle giacche e nei pantaloni. I più giovani portavano jeans e maglietta e, come Gerd Binnig o Horst
Störmer,8 rispecchiavano l'immagine dell'avventuriero accademico, almeno in linea di principio. Nell'ambiente, una teoria scientifica poteva essere definita «elegante», ma chi l'aveva formulata non lo era quasi mai. Liam, col suo abito Armani grigio acciaio con cravatta coordinata e camicia dello stesso colore, abbronzato e con un'acconciatura perfetta, contraddiceva un cliché e nel contempo provocava l'altro. Entrambe le cose, Kika doveva ammetterlo, gli riuscivano in modo impressionante. Al fisico O'Connor piaceva immaginarsi come personaggio di punta del Trinity di Dublino, il college dove si era guadagnato i galloni e che lo aveva sostenuto nella sua carriera. Lo scrittore O'Connor, invece, era noto per cercare la lite con la sua città natale a ogni piè sospinto. Ed era peraltro in ottima compagnia, il che forse rappresentava la molla delle sue ripetute invettive. Jonathan Swift aveva chiamato Dublino «miserevole», W.B. Yeats l'aveva definita «cieca e ignorante», mentre George Bernard Shaw parlava di un certo scherno e discredito che la caratterizzavano. James Joyce aveva dichiarato abbastanza spesso di averne fin sopra i capelli della città dell'infelicità, della cattiveria e del fallimento e di avere una gran voglia di andarsene lontano. Eppure nessuno di loro era riuscito a dimenticare Dublino. A suo modo, ognuno rappresentava il carattere paradossale della città sul Liffey, il lato triste e quello scintillante, come aveva osservato Joyce, la confusione senza la quale lui stesso non avrebbe potuto vivere e lavorare. Quale che fosse la base dell'amore-odio che i letterati d'Irlanda nutrivano verso la loro città, Liam l'aveva raccolta e coltivata amorevolmente. Kika dubitava che O'Connor fosse davvero irritato nei confronti di quel luogo che lui aveva definito «un cumulo di macerie». Fingeva d'ignorare che, nel XX secolo, proprio lì si era formata una corrente letteraria di prim'ordine e sembrava convinto che i suoi rappresentanti si crogiolassero nel loro atteggiamento testardo, limitandosi a bere e a discutere, quasi che i loro capolavori fossero nati per caso. Samuel Beckett, Brendan Behan e il singolare Flann O'Brien non solo si erano fatti causa a vicenda, ma erano anche ospiti fissi dei pub, il che aveva fatto guadagnare loro la reputazione, eccessiva e mitizzata, di essere bevitori di grande talento. Se quello fosse il motivo per cui Liam beveva come una spugna rimaneva un mistero, come non era ancora chiaro se i letterati irlandesi considerati ubriaconi 8
Nato a Francoforte sul Meno nel 1847, Gerd Binnig è stato insignito del premio Nobel per la fisica nel 1986. Anche Horst Störmer, nato a Francoforte nel 1949, ha ricevuto il Nobel per la fisica nel 1998, insieme con Daniel Tsui e Robert Laughlin. (N.d.T.)
avessero davvero bevuto tanto. Certo era che pochi altri popoli, e in particolare le loro caste intellettuali, avevano portato all'estremo i propri cliché come gli irlandesi. Non perché lo volessero, ma perché erano così. In effetti, l'Irlanda sembrava l'unico Paese al mondo in cui ogni cliché si realizzava al cento per cento. Perciò era naturale che Liam fosse entrato nella vita di Kika non soltanto ubriaco, ma ubriaco di whisky irlandese e che, nella tradizione degli scrittori che l'avevano preceduto, camminasse diritto nel suo delirio, con una certa superiorità e in pieno accordo con se stesso. Lasciarono la lounge e attraversarono il primo piano dell'aeroporto. Il Colonia/Bonn era un cantiere. Sul lato nordorientale stava sorgendo un nuovo mondo di acciaio e vetro. All'inizio del nuovo millennio, i viaggiatori sarebbero arrivati con un Intercity Express a una stazione diciotto metri sottoterra e, dopo meno di cento passi, avrebbero superato il check-in, per poi guardare la pista di rullaggio seduti in lussuose poltrone. Il progetto era coerente con le aspettative. Non c'era quasi più traccia dell'atmosfera accogliente di un tempo. I passeggeri affollavano il vecchio terminal, ormai troppo piccolo, come se fosse un formicaio. Il nuovo super aeroporto per il momento non era nient'altro che un guazzabuglio ad alta tecnologia, che dall'inizio dell'anno era onorato quasi quotidianamente dalla presenza dell'élite politica mondiale. Presero la scala mobile per il piano inferiore. Liam non aveva proferito parola da quando avevano lasciato la lounge. «Com'è andato il volo?» chiese infine Kuhn, girandosi, perché Kika e l'irlandese erano un gradino più in su di lui. Liam inarcò le sopracciglia. Allungò la mano sinistra, separò il pollice e l'indice e mosse le dita, come per descrivere curve in volo. «Bzzzzzzz...» rispose. «Ah», annuì Kuhn. «Hmm...» «Dica un po', professor O'Connor, si è divertito ad Amburgo? Che so, vita notturna...?» chiese Kika, maliziosa. Kuhn sgranò gli occhi, sbigottito. «Non credo che Liam ci debba rendere conto in merito, Kika», sibilò. «Volare qua e là è molto stancante, non si è mai freschi e riposati dopo un volo! Io, per esempio, ho paura di volare. Bevo volentieri un goccio, quando l'aereo prende quota. Ha qualcosa da eccepire, su questo?» «Kika?» echeggiò Liam. Lei sorrise. «È il mio nome.» «Lei è...» cominciò Kuhn. «Santo cielo, perché si chiama Kika?» esclamò Liam, con un'espressione
serissima. «In Germania le donne si chiamano Heidi oppure Gaby. Lei si chiama Gaby. Se lo ricordi.» «Avanti», disse lei. «Adesso.» Liam corrugò la fronte. Un istante dopo inciampò, riprese l'equilibrio e barcollò oltre la fine della scala mobile, tra la gente che affollava il piano terra. Imprecò in gaelico. Kuhn lo raggiunse con un balzo e lo prese sottobraccio. Liam si raddrizzò, si scrollò di dosso l'editor con un grugnito rabbioso e si voltò in tutte le direzioni, finché non vide Kika. «Avrebbe potuto anche dirmelo che stavamo entrando in un altro quadrante», brontolò. «Uhura! Kirk chiama ponte di comando! Teletrasportate questa femmina nella prossima singolarità.» Kika diede un'occhiata a Kuhn, il quale alzò le spalle, come a dire che non sapeva cosa farci. «Mi spiace», disse lei. «Fuori è pieno di Klingon. Non vorrà mandarmici sul serio, vero?» «Sì, invece», replicò Liam, arricciando le labbra. «Ma prima andiamo in albergo.» «Molto volentieri.» Si rimisero in movimento. Kika si diresse verso la porta a vetri che conduceva all'esterno, al parcheggio dei taxi. Era previsto che Kuhn prendesse un'auto insieme con O'Connor per fare una puntata al Neumarkt, una grande libreria, dove l'autore avrebbe firmato cento copie del suo libro. Kika rimpianse di non aver respinto la richiesta della libreria, ma ormai non c'era più nulla da fare. Lei sarebbe andata con la sua Golf al Maritim, l'albergo di O'Connor, avrebbe ispezionato la camera e atteso gli ulteriori sviluppi della giornata. Ciò poteva significare una visita al duomo, come pianificato, con eventuale salita sulla torre: una cosa non particolarmente originale, ma imprescindibile per qualsiasi straniero. Tuttavia poteva anche significare ritrovarsi col pomeriggio libero. Considerando lo stato in cui era O'Connor, portarlo in cima al duomo era uno di quegli eventi la cui probabilità di realizzarsi tendeva allo zero. Per essere soddisfatti, sarebbe bastato che lui fosse riuscito ad arrivare puntuale alle sette all'Istituto di Fisica dell'Università di Colonia. Anche se lo scopo della tournée «o'connoriana» era presentare un nuovo libro, l'istituto aveva colto l'occasione per invitarlo a tenere una conferenza specialistica. D'altra parte, Liam O'Connor era appena stato candidato al premio Nobel per aver rallentato la luce... qualunque cosa ciò significasse. Quanto al taxista che avrebbe avuto l'onore di trasportare O'Connor, Ki-
ka gli augurò mentalmente che l'irlandese non intendesse ordinargli di andare a velocità warp. In tal caso, Kuhn doveva cavarsela da solo. Nel frattempo, evidentemente, Liam ci aveva preso gusto a usare il vocabolario di Star Trek. Diede un'occhiata in giro e indicò un gruppo di giapponesi. «Vulcaniani», commentò. Continuando a camminare, Kika ridacchiò. Lui la prese per un braccio. Una cosa che lei di solito odiava. Ma quel gesto non aveva nessuna pretesa. «Si fermi un attimo, Kaki... Kika. Scusi. Gaby.» Abbassò la voce fino a un sussurro cospiratorio. «C'è un'infiltrazione nell'aeroporto. Intelligenze extraterrestri. Propongo di svignarcela.» «In effetti...» Kika si guardò intorno. «Dobbiamo avvisare la flotta stellare.» «Assolutamente», esclamò Liam, raggiante. «Ma prima andiamo in albergo, va bene?» Lui sembrò riflettere. «Come mai?» chiese quindi in tono strascicato. «Non è meglio andare a bere qualcosa da qualche parte? Prenderei volentieri qualcosa da bere, Gaby. Ho la gola secca come un tunnel cosmico. Vuole farmi morire di sete?» «In albergo c'è da bere a volontà», intervenne Kuhn. Liam gli strinse la punta del naso, poi la lasciò andare. «Chi ha detto che andiamo in albergo?» «Lei.» Quella risposta lapidaria sembrò fare il miracolo. Liam si rimise in movimento senza proferir parola. Kika aveva l'impressione di partecipare a una processione danzante: un passo avanti, due passi indietro. Si chiedeva fino a che punto lo scienziato fosse davvero ubriaco. Qualcosa le diceva che, per metà, quella era una semplice messinscena. Sì, almeno per metà. Cominciava a perdere la pazienza, quindi accelerò il passo. La doppia porta a vetri automatica si aprì. «Paddy!» gridò Liam all'improvviso. Kika si fermò, trasse un respiro profondo e si girò di scatto. Sorridi, pensò. Sii gentile. Pensa al tuo incarico. Deve vederti come una compiacente addetta stampa, non come un cane da guardia. Le addette stampa sono capaci di grande empatia, sono carine e hanno una resistenza infinita. Guardò Kuhn e comprese che era davvero preoccupato. D'un tratto, quell'uomo le fece compassione. Più tardi, nessuno gli avrebbe chiesto quanto fosse stata dura con O'Connor. Nemmeno lei. «Dobbiamo andare», sussurrò. «Davvero, professor O'Connor. Tutti la aspettano in libreria e...»
Liam non la ascoltava. Aveva lo sguardo fisso nella direzione opposta. Poi cominciò ad allontanarsi, tornando verso la scala mobile. «Paddy Clohessy! Patrick!» «Io non ce la faccio più.» Kuhn si morse le labbra. «Questo maledetto stronzo manderà tutto in malora un'altra volta.» Non riusciva a tener ferma la gamba destra. Quindi, col passo irrigidito dalla rabbia, si mise all'inseguimento di O'Connor. Kika gli andò dietro. Sapeva cosa provava Kuhn in quel momento. E già immaginava che l'evento all'Istituto di Fisica sarebbe saltato, generando il solito scalpore. Ci sarebbero state lunghe lettere e lunghissime telefonate di scuse. L'avrebbero linciato, scuoiato e squartato, prima a Colonia, poi ad Amburgo. «Professor O'Connor!» Liam si era fermato. All'improvviso sembrava più sobrio. Stava indicando gli ascensori. «Possiamo andare, adesso?» lo implorò Kuhn. «Di questo passo, salterà la firma delle copie in libreria.» Liam lo guardò. «Quello era Paddy Clohessy», disse. «Sì, va bene. Non so chi sia, ma volevo soltanto ricordarle...» «È scomparso nell'ascensore. Da non credersi. Dobbiamo salire anche noi. Dove vanno gli ascensori, qui?» «Su... giù... dove vuole!» sospirò Kuhn. Liam annuì, soddisfatto. «Su!» Rassegnati, i due lo seguirono al primo piano. Liam vagò un po' tra i banconi e poi tornò, scuotendo il capo. «Che cosa c'è di sotto?» chiese. «Nulla. La strada.» Kuhn digrignò i denti. «Vuole vedere la strada? Da lì si arriva benissimo ai parcheggi... Davvero, è una meraviglia.» Liam sembrava indeciso. «O viene con noi adesso oppure non mi potrà più chiamare Gaby. Cosa preferisce?» disse Kika con calma. Alla fine, lui si arrese. Raggiunsero i taxi senza ulteriori incidenti. Kuhn caricò O'Connor sul sedile anteriore di una BMW e s'infilò sul sedile posteriore. Kika si chinò accanto al finestrino e si concesse un ultimo sguardo agli occhi di O'Connor. Lui ricambiò con un'occhiata che non era molto diversa da un invito a presentarsi da lui, in bagno, senza vestiti. Il vetro si abbassò con un ronzio. «Che cosa significa Kika?» chiese Liam. «Viene da Kirsten Katharina. Due nomi che non mi piacciono. E che e-
videntemente non piacevano nemmeno ai miei genitori. In pratica, mi chiamo Kika da sempre.» Liam tentò qualcosa di simile a un inchino. Seduto com'era, con la cintura allacciata, risultò piuttosto ridicolo. «Kika», ripeté. «Ki-Ka!» «A più tardi.» In segno di commiato, lei bussò sulla portiera e attese finché l'auto non fu partita. Kuhn non aveva mentito quando aveva detto che O'Connor era l'uomo più carino del mondo. Aveva semplicemente dimenticato di specificare in quale senso. 9 dicembre 1998. Colonia La donna che passò il controllo passaporti dell'aeroporto Colonia/Bonn al calar della sera somigliava ben poco all'imprenditrice Laura Firidolfi, proprio come la persona che Mirko aveva incontrato a Triora. Il funzionario diede una rapida occhiata ai documenti e fece un cenno col capo, lo sguardo già puntato sulla persona successiva. L'aereo proveniente da Torino non era pieno. Il disbrigo delle formalità avvenne senza intoppi e senza clamore, se si escludeva il fatto che una delle donne più pericolose del mondo aveva appena messo piede nel territorio di Colonia. Se il funzionario avesse avuto la tipica cortesia inglese, forse avrebbe sorriso, dicendo: «Grazie, signora Baldi». Ma erano in Germania. Mentre andava al nastro di ritiro dei bagagli insieme con gli altri passeggeri, Jana si aggiustò gli occhiali affumicati sul naso e guardò il proprio riflesso avvicinarsi in una vetrina. Quella donna aveva i capelli grigi pettinati all'indietro, portava un cappotto un po' fuori moda e guanti di lana. La borsa a tracolla era di pelle e, a suo tempo, sicuramente non era costata poco, ma ormai era tanto logora quanto la sua proprietaria. Qualche minuto più tardi, lei avrebbe trascinato dietro di sé la valigia, senza trovare nemmeno un uomo premuroso ad aiutarla. Era una donna precocemente incanutita e dalla camminata artritica, senza nessun segno particolare, dall'aspetto né gradevole né sgradevole. Era una di quelle persone che si dimenticano prima ancora di averle notate. Aspettò nella zona del ritiro bagagli, lo sguardo fisso sulla pubblicità dei nastri trasportatori. Gli ingegnosi costruttori, infatti, erano riusciti a sfruttare anche le squame di plastica dei nastri a mo' di tabelloni, resistenti alle continue sollecitazioni delle valigie e delle borse che vi venivano scaraventate sopra. I bagagli non atterravano più su uno sfondo nero, ma su de-
tersivi, riviste, casalinghe felici, acque minerali o mangimi per cani. La valigia arrivò a portata d'occhio. Jana fece allungare la mano destra alla donna canuta, che agguantò quell'affare pesante e informe. Dopo essere uscita dall'aeroporto, trascinandosi appresso la valigia, prese un taxi e si fece accompagnare dietro la stazione ferroviaria, in una pensioncina a buon mercato dove aveva prenotato una stanza per la notte. Durante il tragitto, non prestò attenzione né agli scorci del Reno né alle torri illuminate del duomo né alla chiesa Groß St. Martin. Il taxista le chiese se era la sua prima visita a Colonia. In un tedesco stentato, lei rispose che stava andando a trovare alcuni parenti. A quel punto, il taxista non le chiese più nulla: una donna sfiorita sui quarantacinque anni che storpiava le parole ed era a Colonia per vedere i suoi parenti non sapeva nulla di calcio né di politica locale e quindi non aveva nulla d'interessante da raccontargli. La pensione era semplice ma accogliente. Il proprietario si offrì di portarle la valigia fino alla stanzetta al secondo piano e lei accettò. Poi rovistò nella borsa e gli mise in mano una moneta da due marchi. L'uomo non ne fu particolarmente colpito e le comunicò che la colazione veniva servita fino alle nove e mezzo. Lei annuì, fece un sorriso riconoscente e aspettò che i passi dell'uomo si perdessero per le scale. Poi rimase immobile per un po' a guardare fuori dalla finestra, mentre elaborava i suoi piani. Verso le otto, dopo essersi fatta consigliare un ristorante italiano non troppo caro nelle vicinanze del duomo, uscì. Mangiò penne all'arrabbiata e bevve due bicchieri di vino rosso. Quindi si mise a tracolla la borsa e camminò tra i chioschi ormai chiusi del mercatino di Natale, scendendo dalla piazza del duomo al Reno. Per qualche minuto, lasciò vagare lo sguardo, seguendo gli ultimi battelli, mentre prendeva mentalmente appunti e collegava vari ragionamenti. Alla Päffgen, una birreria tradizionale del centro storico, provò la Kölsch, trovandola gradevole. Poco dopo le dieci, si mise sulla via del ritorno. Arrivata alla pensione, andò in camera, s'infilò nel letto, spense la luce e si addormentò subito. Fece colazione alle nove, pagò il conto e chiese di lasciare la valigia nell'atrio per un'altra ora. Poi s'informò se, lì vicino, c'erano dei grandi magazzini. L'albergatore cercò di avviare una conversazione, ma si rese subito conto che la donna non era in grado di sostenerla - conosceva poche parole in tedesco - e le indicò i grandi magazzini Kaufhof. Jana ringraziò, si lasciò trascinare da una fiumana di gente lungo la Hohe Straße e pochi
minuti dopo entrò nei grandi magazzini. Dopo essersi rapidamente orientata, trovò il reparto che cercava e acquistò un'elegante valigia di MCM e una borsetta coordinata. Pagò in contanti, infilò la borsetta nella valigia e trascinò quest'ultima fino alla stazione, dove la depositò in un armadietto. Poi tornò alla pensione per ritirare la vecchia valigia. Lì si fece chiamare un taxi, che la portò alla stazione, prese la valigia nuova dall'armadietto del deposito e scomparve con entrambi i bagagli nei bagni pubblici. Cercò una cabina; con una rapida occhiata, valutò idoneo il minuscolo spazio e vi si chiuse dentro. Ciò che successe a quel punto si svolse col tagliente tempismo di un'assoluta professionista. In un istante, Jana aveva svuotato la valigia logora, posato una parte del contenuto sul coperchio del WC e ammucchiato il resto sul pavimento davanti a sé. Era tutt'altro che facile trasferire oggetti tra valigie di grande formato negli spazi ridotti di un bagno pubblico, ma, per chi era allenato a fare cose del genere, risultava semplicissimo. Jana non ci impiegò nemmeno due minuti. Vestiti e accessori passarono da un contenitore all'altro; per la maggior parte scomparvero nella nuova valigia, mentre altri oggetti finirono nella nuova borsetta. Poi lei si tolse i semplici vestiti che indossava, rimanendo in reggiseno e slip, si sfilò la parrucca grigia e sfregò via dalla fronte e dalle guance il sottilissimo strato di lattice che aveva conferito alla sua pelle quell'aspetto sfiorito e impuro. Con movimenti rapidi, ma controllati, indossò in successione collant neri, una camicetta dello stesso colore, una gonna grigia stretta e una giacca coordinata. Infilò un orologio costoso, un bracciale e una collana d'argento - entrambi non troppo appariscenti - e s'infilò un paio di scarpe décolleté di un nero opaco. Quindi estrasse un piccolo specchio e si dedicò al viso. Il trucco richiese qualche minuto. Poi i capelli scomparvero sotto una parrucca e, un istante dopo, una cascata di riccioli biondi ricoprì le spalle di Jana. Stipò gli accessori da trucco nella borsetta, mise in valigia la canuta signora Baldi con annessi e connessi, insieme col resto dei suoi vestiti, si avvolse una mantellina di loden sulle spalle e, rilassata, lasciò la cabina coi suoi nuovi bagagli. «Credo che qualcuno abbia dimenticato una valigia lì dentro», disse in tedesco, con una cadenza slava, rivolgendosi all'addetta ai bagni pubblici, mentre posava una moneta sul piattino. Senza aspettare una risposta, tenendo stretta la valigia MCM e con la borsetta sottobraccio, uscì nell'atrio della stazione e da lì raggiunse il parcheggio dei taxi. Il conducente della prima auto la vide arrivare, scese senza indugio e la aiutò a caricare la va-
ligia. Lei notò con soddisfazione che l'uomo l'aveva guardata furtivamente da capo a piedi prima di farla accomodare sul sedile posteriore. «All'hotel Kristall.» La valigia nel bagno della stazione e la vecchia borsa a tracolla che conteneva sarebbero state depositate all'ufficio oggetti smarriti. Jana aveva toccato entrambe soltanto coi guanti, ma, dato che erano vuote e non presentavano caratteristiche rilevanti, non sarebbe mai venuto in mente a nessuno di cercarvi impronte digitali. Dopo un breve periodo, sarebbero finite nella spazzatura oppure passate a qualche pover'uomo. Una donna era arrivata a Colonia. Un'altra donna avrebbe lasciato la città. Nient'altro. Divertita, Jana pensò agli innumerevoli libri e film nei quali agenti segreti e gangster mettevano in atto metamorfosi analoghe alla sua. Veniva sempre presentata come una cosa sbalorditiva; in realtà, non era nulla di speciale. La metamorfosi faceva parte della routine. Si trattava di disperdere con grande frequenza le proprie tracce, possibilmente prima che qualcuno le trovasse. Forse tutto ciò che aveva fatto sino ad allora e che avrebbe fatto in seguito non era necessario. Era quasi certo che, prima o poi, lei sarebbe andata a Colonia come Laura Firidolfi. Al momento, tuttavia, lei preferiva così. In seguito, nessuno sarebbe stato in grado di testimoniare se una certa persona si era trattenuta a Colonia. Ricostruire i fatti sarebbe diventato pressoché impossibile. Nessuno aveva mai visto Jana a Colonia. D'altra parte, Jana esisteva col suo vero aspetto soltanto nella persona di Laura Firidolfi, la quale, in quel preciso istante, si trovava nell'Italia meridionale, in compagnia del suo direttore finanziario Silvio Ricardo e del programmatore capo della Neuronet, Maksim Gruškov. Una cosa che entrambi potevano testimoniare sul proprio onore e in piena coscienza. Il taxi si fermò davanti al Kristall, un design hotel di dubbio gusto, ma ricercato e confortevole, sulla Nord-Süd-Fahrt, la bretella che attraversava la città da nord a sud. Diede una generosa mancia al taxista e gli fece portare la valigia all'interno, dove alcune persone servizievoli si occuparono di trasferirla nella sua camera. Alla reception, s'identificò come Karina Potschowa, imprenditrice ucraina, s'informò sulle più importanti attrazioni della città e si fece prenotare un tavolo per cena al lussuoso ristorante italiano Alfredo. L'ambiente del Kristall si avvicinava molto di più allo stile di vita di Jana, benché non le fosse pesato alloggiare alla pensione. Anche il nuovo
travestimento era più congeniale alla vera Jana e di conseguenza veniva associato a circostanze più piacevoli. Comunque, in caso di necessità, lei si sarebbe adattata anche a una catapecchia infestata dai pidocchi. Quando si calava nel ruolo di un'altra persona, diventava quella persona, nel modo di muoversi, di pensare e di sentire. Pensare di essere mascherati significava comportarsi come tali. Perciò, ogni volta, Jana era chiunque stesse impersonando in quel momento. Per un istante si concesse di gustare il senso di benessere che derivava dall'indossare begli abiti e dal trovarsi in un hotel di lusso. Avrebbe fatto una cena squisita, accompagnata da un eccellente Barolo o Amarone. Di ottimo umore, andò in camera, controllò il trucco e poi si diresse verso il duomo, contemplandolo con grande stupore, come se vedesse quell'edificio colossale per la prima volta. Si fermò in uno dei negozi di souvenir tra la stazione e la cattedrale, incastonato nella brutta lastra di cemento che faceva da zoccolo al duomo e fungeva da piattaforma per intrattenere schiere di turisti, acquistò una cartina e una guida della città, diede una scorsa ai passaggi più importanti e cominciò la sua passeggiata apparentemente senza meta. Quel giorno, Jana scoprì ciò che più le interessava a Colonia: l'opera, i teatri, i musei, il municipio e gli altri edifici di rappresentanza in cui ci si poteva aspettare che venissero ricevuti ospiti di Stato, oltre agli hotel più prestigiosi e al centro storico. Non aveva ancora informazioni di nessun genere per stabilire se in seguito uno di quei luoghi avrebbe svolto un ruolo decisivo, ma almeno si stava familiarizzando col territorio e poteva cominciare a farsi venire qualche idea. La giornata seguente sarebbe stata dedicata all'aeroporto. Sapeva che sarebbe dovuta tornare diverse volte, ma quella prima visita prometteva già qualche risultato. Due giorni dopo, alla stessa ora, quando Karina Potschowa sarebbe partita per Torino per poi trasformarsi subito in Laura Firidolfi, se non altro avrebbe saputo cosa non si poteva fare. Per l'ennesima volta Jana si chiese se ai committenti di Mirko fosse davvero chiaro cosa pretendevano. Avrebbero tirato fuori venticinque milioni. Dovevano ben saperlo! Le passò accanto un gruppo di olandesi che, incoronati con scadenti cappucci da Babbo Natale, facevano oscillare sacchetti pieni di acquisti. Giusto. Era Natale. Stranamente, a dispetto degli opulenti mercatini e delle scintillanti decorazioni natalizie nelle vetrine, bisognava fare uno sforzo per ricordarselo.
In Germania non era diverso dal resto dell'Europa. Forse era perché la festa dell'amore era regolamentata dagli orari di apertura dei negozi. Jana si proiettò l'immagine della croce di un mirino all'interno della retina e prese di mira uno degli olandesi, che camminava accanto agli altri, gesticolando. «Buuum!» mormorò lei, quando gli fu vicino. L'olandese rise. Il gruppo si allontanò. Jana li seguì con lo sguardo per qualche secondo, poi dedicò la sua attenzione ad altro. 15 giugno 1999. Colonia Kika andò subito al Maritim, per assicurarsi che i bagagli di O'Connor venissero portati nella sua suite. Dovette aspettare qualche minuto prima che arrivassero le due valigie e la borsa da golf che O'Connor portava sempre con sé. Quando non era impegnato a scrivere, a fare ricerche o a ubriacarsi, giocava a golf come un forsennato. Per il giorno seguente gli avevano procurato un ingresso al campo da golf di Lärchenhof, a Pulheim, come ospite della Cassa di risparmio di Colonia, e per il pranzo gli avevano prenotato un tavolo nell'annesso ristorante, che, benché avesse una sola stella, vantava una cucina migliore di altri locali a tre stelle. Kika si fece mostrare la camera. Era confortevole, generosamente arredata e offriva una vista fantastica sulla sponda opposta del Reno e sull'hotel Hyatt. Soddisfatta, prese l'ascensore e scese nella lobby, dove chiese alla reception un buon whisky: scozzese o irlandese, ma non un bourbon. Non era compito suo impedire a O'Connor di bere. Poteva procurarsi alcol dove e quando voleva. Visto che ci teneva tanto, che si gustasse pure una bottiglia in camera. Evidentemente la receptionist s'intendeva di whisky al pari di Kika. Chiamò un collega, il quale sollevò gli angoli della bocca con aria saputa e promise di occuparsene, citando un nome che Kika aveva già sentito. Aggiunse anche qualcosa come «Special Old Riserve» e «Pure Single Malt». Le sembrò abbastanza esotico per dar fiducia all'uomo. Lo ringraziò e lasciò vagare lo sguardo nella hall dell'albergo. Anche lì era scoppiata la febbre del vertice. Mancava lo spettacolo delle guardie del corpo dalle spalle larghe, ma in compenso vide uomini e donne in sobri abiti grigi che attraversavano il seminterrato, formavano gruppetti oppure occupavano i salottini coi loro raccoglitori e coi computer portatili.
Per la seconda volta quel giorno si mise comoda nell'atrio di un hotel, ordinò un cappuccino e aspettò. I salottini della lobby del Maritim erano eleganti e confortevoli come quelli dello Hyatt ed erano ugualmente inadatti per donne come Kika Wagner. Si appoggiò allo schienale, raccolse le ginocchia, le lasciò cadere delicatamente verso destra, provò a fare la stessa cosa verso sinistra e alla fine le distese completamente. Passarono due uomini che parlavano una lingua straniera, forse il russo, e la fissarono. Andava bene anche quello. Un quarto d'ora più tardi, arrivarono Kuhn e O'Connor. L'editor sorrise e alzò il pollice, il che probabilmente significava che lo scienziato si era comportato bene. Si aggiustò la giacca e si diresse verso la reception. Kika si alzò, si lisciò la gonna - irritandosi per aver fatto quel gesto in pubblico e andò incontro a O'Connor. «Salve, Ki-Ka!» esclamò lui. Quantità consistenti di atomi nel ventre e nel petto di lei passarono a un livello di energia superiore, agitandosi selvaggiamente. Kika sorrise. Lui sembrò riflettere, poi la sua espressione si rischiarò. Andò verso una delle composizioni floreali sparse in tutta la lobby, ne prese una rosa e tornò da lei. Ci mancava solo quello. Kika si preparò a formulare un ringraziamento opportunamente formale. Poi si rese conto che lui non aveva nessuna intenzione di consegnarle la rosa. Se la rigirava tra le mani, la annusava e annuiva, soddisfatto. «Adoro le rose», disse. «Sì», osservò lei asciutta. «Si vede.» «Me la porterò in camera e butterò nell'immondizia qualsiasi altro vegetale che trovo. Lo ha mai notato, Gaby? Gli hotel deturpano sempre le stanze migliori con composizioni floreali terrificanti, che sembrano fatte per le tombe. Ci si sdraia e ci si chiede dov'è il prete.» «Ha la suite 108», intervenne Kuhn, agitando una chiave. «E allora?» chiese Liam. «Che dovrei andarci a fare?» «Nulla», replicò Kika. «Possiamo salire sulla torre del duomo. È qui dietro l'angolo.» «Io sono alla 344», aggiunse frettolosamente Kuhn. «Se ha bisogno di qualcosa, per il prossimo quarto d'ora sarò in camera a rinfrescarmi. Mi chiami pure.» Liam gli diede una gioviale pacca sulla spalla. «Lo farei, Kuhn, vecchio
mio, se lei avesse riccioli rossi e le tette di Lollo Ferrari.»9 Kuhn arrossì fino alle orecchie. «Vedrò che cosa... ehm... si può fare in proposito. Ho capito bene? Ha detto...» Liam si chinò verso di lui, barcollando e annusandolo. «Che dopobarba è, questo? Muschio irlandese? Sta cercando di farsi benvolere?» «Ehi, Liam! Adesso basta, davvero!» «Il basto lo dia a me, per favore. Sono il suo cavallo da tiro... Oh, Dio mio, quanto puzza! Dovrò trascorrere il pomeriggio a letto, Gaby, voglio dire Kika... Dov'è? Ah! Credo che il suo amico Kuhn abbia bevuto qualche bicchiere di troppo. Sta in piedi a malapena. Mi accompagna in camera?» «Se va al primo piano...» cominciò Kika. «Se lei va al primo piano, forse la seguo», la interruppe Liam. «Altrimenti vado al bar.» Kika sentì qualcosa dentro di sé che spingeva per trovare sfogo. La ricacciò giù e annuì. «Va bene. Andiamo.» Kuhn chiamò l'ascensore. Salirono e percorsero il corridoio che conduceva alla suite di O'Connor. «Quanto è alta?» volle sapere Liam. «Troppo alta per lei», rispose Kika con un sorriso zuccheroso. «Non direi!» protestò Liam, incassando la testa tra le spalle e guardandola dal basso in alto con occhi da cagnolino. «Sono un metro e ottantaquattro. In realtà sono uno e ottantasei. Sono sempre stato uno e ottantasei.» «E perché adesso è di due centimetri più basso?» «L'anno scorso il mio medico ha sostenuto che io fossi alto uno e ottanta. Era da molto tempo che non andavo da lui. Abbiamo litigato molto sulla questione e alla fine ci siamo accordati su uno e ottantaquattro. Ci crede a questa storia?» «No.» «Ma è vera. Invecchiando, si diventa più piccoli. C'è ancora speranza per lei, Kika.» Kuhn aprì la camera 108 e trascinò dentro O'Connor. «Deve riposare un po'», gli propose. «Alle sette dovrà essere all'Istituto di Fisica.» «Ah, già.» Liam si rigirò la rosa tra le mani, brancolò indeciso verso i bagagli, tastò la borsa da golf e notò il whisky sulla credenza, sotto lo specchio. Sgranò gli occhi. «Glenfiddich», mormorò. 9
Ballerina e attrice pornografica francese. È entrata nel Guinness dei primati come la donna col seno più grande del mondo. (N.d.T.)
Kuhn lanciò uno sguardo astioso a Kika e lei si sentì a disagio. Forse non era stata una buona idea mettergli la bottiglia in camera. Se a O'Connor fosse saltato in mente di attaccare subito, avrebbero potuto anche annullare la conferenza. In ogni caso, aveva fatto centro. Lui era davvero colpito. «Glenfiddich», ripeté sottovoce. Posò la rosa sulla credenza, prese la bottiglia nelle due mani e scosse il capo. «Devo svuotare questa bottiglia senza indugi.» «Io non lo farei assolutamente!» esclamò Kuhn, inorridito. «Invece è proprio quello che farò.» Girò il tappo e andò in bagno, trascinando i piedi. Sentirono un gorgoglio. Kika si chiese cosa stesse facendo. Lo seguì e vide che stava svuotando l'intero contenuto della bottiglia nello scarico del lavandino. «Che imbecilli!» borbottava. «Per chi mi hanno preso? Mi vogliono offendere? Robaccia da grandi magazzini! Piscio da esportazione! La peggiore brodaglia che gli scozzesi abbiano mai disperso per il mondo! Mettermi davanti una roba del genere. Non sarebbe neanche buona per affogarci dentro.» Kuhn fissò Kika con un ghigno allusivo. «Un buco nell'acqua, signora collega?» «Chiuda il becco!» Liam tornò dal bagno e sbadigliò. Sembrava che stesse per crollare a terra da un momento all'altro. «Mi coricherò. A volte la realtà è semplicemente troppo realistica. Quando dobbiamo andare a questo ridicolo istituto?» «Kuhn verrà a prenderla alle sei e mezzo», rispose Kika. «A che ora è la conferenza?» «Alle sette. Sarebbe meglio se lei arrivasse qualche minuto prima.» «Santo cielo!» gemette Liam, lasciandosi cadere lungo disteso sul letto. «La puntualità è una cosa spregevole, stupida e volgare. Ruba il tempo, ha detto Oscar Wilde, e aveva ragione sotto tutti i punti di vista. È la generosità degli autistici. Anche un idiota può essere puntuale. Mi svegli verso le sette, poi vediamo.» «Le sei e mezzo», ribadì Kika. «E va bene.» Liam indicò la rosa. «Non è strano? Spesso le donne intelligenti sono notevolmente brutte. Lei no, il che è ancora più notevole. La prenda, viene dal cuore.» «Grazie, ma non ho l'abitudine d'inchinarmi dopo un complimento», replicò Kika avviandosi alla porta. «Sono troppo alta.»
Lasciò il Maritim, salì in auto e si ricompose. Quella cosa dentro di lei ricominciò a spingere e stavolta lei non si oppose. Con suo grande stupore, si rivelò una risata. Ciò che aveva vissuto fino a quel momento non era niente in confronto alle possibili sorprese che O'Connor teneva in serbo. Ad Amburgo aveva saltato diversi appuntamenti oppure si era presentato in ritardo, cosa abbastanza grave, ma innocua rispetto alle risse in cui si cacciava a intervalli irregolari. Come l'anno precedente, a Brema. Secondo la versione di O'Connor, sostenuta dalla casa editrice e dalla polizia che aveva condotto le indagini, quando lui, verso l'una del mattino, era entrato in un locale piuttosto trendy, un uomo d'affari l'aveva insultato e poi aggredito. In seguito, non era stato possibile stabilire con certezza chi avesse fatto la prima mossa, ma l'uomo d'affari ne era uscito col naso rotto, mentre O'Connor se l'era cavata con un po' di dolore alle nocche. Si diceva che il motivo del contendere fosse l'unico sgabello libero al bancone, che entrambi avevano puntato nello stesso momento. La faccenda era stata imbarazzante per tutte le parti coinvolte, tranne che per O'Connor, il quale evidentemente si era divertito molto. E perché doveva essere diverso? Ogni volta che lui faceva a botte, sembrava protetto da un'autorità superiore, che non soltanto lo esonerava da qualsiasi colpa, ma che pure dimenticava benevolmente come, in almeno metà dei casi, fosse stato proprio lo scienziato a mettere a segno il primo colpo. A ogni buon conto... Mise in moto la Golf, inserì la marcia e fece partire l'auto lentamente, passando davanti alla vecchia fiera. Le rimaneva soltanto il tempo di fare qualche acquisto e di andare dai suoi genitori, per lasciare il bagaglio. Nei giorni successivi, avrebbe dormito da loro. Che si occupasse Kuhn di O'Connor... sempre che non andasse in coma come promesso. 13 dicembre 1998. La Morra (Piemonte) Jana era sommersa da montagne di carte e malediceva il degrado delle buone maniere nel settore degli omicidi. Per quanto suonasse strano, si poteva dire che il terrorismo aveva perso l'innocenza. Per lungo tempo, i vari raggruppamenti si erano sforzati di mantenere un equilibrio tra violenza e non violenza, assicurandosi di combattere soltanto cattivi veri. Coinvolgere innocenti era considerato moral-
mente ingiusto. La violenza doveva essere diretta contro lo Stato, non contro i cittadini: in fin dei conti, era per loro che i terroristi si sobbarcavano tanti sgradevoli compiti. Mentivano a se stessi, ovvio. Chi veniva simbolicamente tolto di mezzo, in realtà moriva davvero. Tuttavia era proprio quella vaghezza tra escalation terroristica ed etica che fruttava al terrorismo simpatie ad ampio spettro. In ultima analisi, l'obiettivo era proprio quello di conquistare sostenitori che non fossero terroristi. Si estorceva la disponibilità ad ascoltare, per poi sfruttarla ingegnosamente, suscitando riflessioni, creando simpatie, allargando la propria lobby. Organizzazioni come l'OLP, l'IRA e l'ETA sapevano fin dove spingersi per poter continuare a giocare la carta del simbolico e non spaventare i sostenitori che avevano già conquistato. Volente o nolente, l'opinione pubblica cominciava a interessarsi dei problemi dell'Irlanda del Nord, dei baschi e dei palestinesi e a sviluppare una sensibilità al riguardo. Si poteva accusare il terrorismo di disprezzare il genere umano e di essere brutale ma, ogni tanto, esso veniva legittimato dai risultati ottenuti. L'esempio migliore era stato il conferimento del premio Nobel per la pace a Yasser Arafat. Poi, nel 1995, era arrivato lo shock. Il rilascio del letale gas nervino sarin nella metropolitana di Tokyo da parte della setta Aum aveva abrogato di colpo tutti gli statuti della ricerca sul terrorismo. Evidentemente c'erano gruppi che, per motivi inspiegabili, uccidevano in modo indiscriminato, cercando di fare il maggior numero possibile di vittime. Mentre fino ad allora quasi tutti i terroristi avevano dimostrato un'avversione per le armi di distruzione di massa, operando in modo quasi conservativo con pistole e bombe piene di chiodi, gli Aum avevano predicato la distruzione dell'umanità, ispirati da un imperativo mistico, quasi divino. Sembrava dunque che il terrorismo internazionale fosse entrato in una fase più violenta, con maggiori spargimenti di sangue, e basata su fumose massime religiose e razziste. Ci si chiedeva sempre cosa volevano quelle organizzazioni, ma soprattutto ci s'interrogava su chi ne faceva parte. Ma la cosa peggiore era un'altra: di certo quei pluriomicidi avevano a disposizione strumenti tecnologicamente avanzati ed enormi somme di denaro e si avvalevano di killer professionisti che, come i committenti, non avevano remore morali. Il mondo si era svegliato, soffregandosi gli occhi, e si era dedicato a una febbrile attività. Come se non ci fossero abbastanza problemi, dopo il crollo dell'Unione Sovietica era emerso anche il mercato nero delle armi ato-
miche. Erano stati istituiti comitati di crisi internazionali e stipulati accordi di cooperazione transfrontaliera. La paura della paura aveva messo in moto un'esercitazione globale, anche se, per il momento, soltanto sulla carta. Quale sarebbe stata la minaccia successiva? Le piogge acide? Le tempeste nucleari? Quasi tutti avevano ripensato con dolente nostalgia ai dirottamenti aerei e agli assassini politici, al tempo in cui i terroristi erano ancora brave persone, benché forse un po' troppo affezionate ai simboli. Il futuro era cupo. Poteva succedere qualsiasi cosa. Nulla era così strano da non essere pensato. Nell'ambito del possibile, almeno. E non c'era nulla contro cui non si cercasse di armarsi. Ecco perché, la sera del 13 dicembre 1998, davanti a una bottiglia di Nebbiolo d'Alba, Jana si era messa a riflettere su cose che andavano ben oltre il consueto armamentario del terrorismo tradizionale. Senza i folli segnali lanciati della setta Aum Shinrikyo, non avrebbe mai dovuto affrontare misure di sicurezza che, in pratica, non lasciavano spazio alle armi già sperimentate e relegavano qualsiasi successo nell'ambito dell'utopia. Gli automobilisti che passavano davanti alla casa tra le colline piemontesi non avrebbero mai potuto immaginare cosa stesse covando la stimata imprenditrice Laura Firidolfi in quell'abitazione così tranquilla e pacifica. Dal grande studio, giungeva la luce della lampada da tavolo, che rischiarava i pensieri solitari di Jana. Oltre la montagna di bozze, documenti e testi tecnici, lei vedeva le luci della Morra, il cui profilo dentellava la cresta della collina. Ogni tanto, dall'oscurità, spuntavano come dita luminose le luci dei fanali, accompagnate dai suoni di motori che poi si perdevano in lontananza. Il freddo spingeva la nebbia tra le viti. Era un luogo per storie di fantasmi, non per un terrore che faceva sudare freddo. Jana era andata a fare una breve passeggiata, inspirando profondamente l'aria invernale. In genere, le idee le venivano quasi per caso. Spunti se ne potevano trovare rapidamente; affinarli richiedeva tempo. Attingeva a un abbondante repertorio e personalizzava il metodo scelto nell'arco di poche ore. Il resto era routine, era quasi noioso. Un fucile restava sempre un fucile, una pistola era una pistola. Anche se si trattava di pezzi unici, fabbricati espressamente per quell'unico istante e che alcuni dei suoi committenti erano disposti a pagare anche un milione. Quella volta era diverso. Da giorni aspettava che partisse la carica d'innesco, che il file decisivo si aprisse nella sua testa, svelando i propri segreti. Ciò che era già stato sperimentato non offriva nessuna soluzione. Jana aveva esaminato e riesami-
nato la giornata in cui avrebbe dovuto dimostrare di valere venticinque milioni. Ogni volta era finita in un vicolo cieco. Si è verificato l'errore numero 5. Salvare i dati e chiudere la finestra. Provare un altro programma. Riavviare. In teoria, non sarebbe stato così difficile uscirne. Tuttavia i mandanti di Mirko avevano circoscritto con estrema precisione le condizioni secondarie. Tempo e luogo erano stati fissati. Loro volevano che accadesse proprio in quel particolare istante e volevano che la cosa lasciasse il mondo a bocca aperta. Volevano la quadratura del cerchio. Qualunque aspetto assumesse, la soluzione doveva rispondere a una logica tanto affascinante quanto astrusa. Doveva essere qualcosa di così incredibile da lasciare basiti e impotenti perfino i più scaltri addetti alla sicurezza. Il suo sguardo vagò verso l'orologio sulla scrivania. Sentì affiorare il sonno. Erano le tre meno un quarto del mattino. Ormai non c'erano più coni luminosi che fendevano le colline e le luci della Morra erano spente, tranne qualche lampione. Jana si alzò, stiracchiandosi, e avvertì una leggera contrattura alla spalla sinistra. Non andava bene. Non poteva permettersi nessun impedimento fisico. Né dopo essere stata seduta per ore, né dopo aver lavorato per notti intere. Avrebbe riconsiderato il suo quotidiano programma di allenamento e forse avrebbe dovuto cambiare massaggiatore. C'era andata a letto due volte e, da allora, aveva il vago sospetto che, quando lui la toccava, la pressione delle sue mani avesse lasciato il posto a una stupida tenerezza. Sbadigliando, andò allo scaffale dei CD, selezionò Space Oddity di David Bowie e si concesse un ultimo sorso di Nebbiolo. Col bicchiere in mano, si avvicinò alla finestra, come faceva sempre quando si sentiva indecisa. Le opportunità si nascondono nell'inatteso. Chi l'aveva detto? Forse un irlandese? Probabile. Avevano detto un sacco di altre cose intelligenti. Gli irlandesi erano davvero in gamba. Tornò alla scrivania, posò il bicchiere e allungò la mano verso l'interruttore della lampada. Nel bel mezzo di quel movimento, si bloccò di colpo. La mano restò sospesa in aria per un istante e poi si abbassò lentamente, mentre lei puntava lo sguardo sul bicchiere, affascinata. Raggi di luce si rifrangevano tra gli ultimi rimasugli di Nebbiolo, creando scintillanti cascate
di un intenso rosso chiaro. La soluzione stava nel vino. No, era davvero troppo astrusa. Meglio non sprecare altri pensieri in quella direzione e andare immediatamente a dormire. Tuttavia, mentre il suo intelletto protestava, lei si accovacciò, afferrò lo stelo sottile del bicchiere e cominciò a girarlo leggermente, allontanandolo e avvicinandolo alla lampada. Di volta in volta, gli archi luminosi nel liquido perdevano o guadagnavano intensità. Con l'indice disteso, spinse il bicchiere sotto la lampada alogena, finché la luce non si concentrò in un unico punto luminoso, come un piccolo sole, là dove il calice poggiava sullo stelo. Poi bevve il resto del vino. Un'idea insolita, certo. Ma avrebbe funzionato? Il sonno si era dileguato; della contrattura non c'era più traccia. Jana aprì un cassetto, ne estrasse un nuovo bloc-notes e una matita e si mise al lavoro. 15 giugno 1999. Colonia. Istituto di Fisica Per la maggior parte delle persone, la visita di O'Connor era una lieta circostanza. Quando lasciò la casa dei suoi genitori, alle sei meno un quarto, Kika si proponeva di fare il possibile per farla rimanere tale. Ma i temporali non si fermano; al massimo si possono prevedere. Ad attendere O'Connor c'erano circa quaranta studenti, un gruppetto di professori e diversi giornalisti di Colonia. O impediva allo scienziato di uscire dall'albergo o si rassegnava all'inevitabile, qualunque forma assumesse. Il centro era chiuso. Le ci vollero venti minuti per raggiungere l'istituto e infilare la Golf tra due Renault divorate dalla ruggine e coi finestrini tappezzati di offerte di vendita. La Zülpicher Straße, sulla quale si affacciavano i casermoni bianchi dell'istituto, in mezzo a una vasta area verde, era la via commerciale degli studenti, dedicata ai più antidiluviani mezzi di locomozione. Vi si potevano acquistare auto considerate estinte come i dinosauri e alcune funzionavano pure. Negli ultimi anni, il livello medio degli ammassi di lamiera lì raccolti era migliorato, ma si vedevano ancora certi macinini che avevano prezzi anteguerra e che davano l'impressione di non poter assolutamente lasciare il parcheggio. Kika chiuse la Golf - nella speranza che nessuno se la comprasse - si
guardò intorno e attraversò la strada. Nemmeno cento metri più in là, oltre un ponte sulla linea tranviaria, iniziava il quartiere delle birrerie studentesche. Per diversi anni, non si poteva passare per certe strade senza imbattersi in spacciatori che non facevano mistero delle loro merci, ma adesso era tornato un certo grado di civiltà. Alcuni dei locali peggiori avevano chiuso oppure cambiato proprietario. I furti di auto e biciclette erano un po' diminuiti. Ciò che era davvero criminale, secondo alcuni studenti della cerchia di Kika, era il cibo della mensa, ma anche quello, a quanto sembrava, era migliorato. Camminando su viali lastricati, girò intorno all'edificio, ma si ritrovò la strada sbarrata dagli alberi e dovette tornare indietro. L'ingresso era nascosto all'estremità opposta. Prima di trasferirsi sull'Alster,10 Kika aveva studiato germanistica, politica e anglistica a Colonia, ma anche allora non era mai entrata all'Istituto di Fisica. Fece a passo di corsa i pochi gradini fino alle porte a vetri che conducevano all'interno e attraversò l'atrio semibuio. Esistevano luoghi di erudizione peggiori e più miserevoli. Se non altro, le pareti erano ornate da alcune foto di radiotelescopi e immagini spettrografiche della superficie terrestre. Dopo aver quasi attraversato per intero l'atrio, lesse alla sua destra la dicitura ISTITUTO DI FISICA su una grande vetrata. Lì dietro c'era il regno di coloro che comprendevano ciò che lo spazio aveva da raccontare. Nell'ala adiacente, iniziava l'istituto vero e proprio. Non era facile entrarvi se non si era iscritti. Anche la scienza si proteggeva dagli intrusi. A una parete era appeso un telefono. Kika fece un numero e aspettò. Sentì una voce. «Kika Wagner», disse lei. «Sono l'avanguardia del...» «Lo so», replicò la voce. «Aspetti, la vengo a prendere.» Riagganciò e rovesciò la testa all'indietro. Sopra di lei spiccava una foto dello Zugspitze. Della cima dello Zugspitze, per essere precisi. Abbarbicato sul massiccio roccioso, un compatto osservatorio semisferico aspettava di strappare all'universo i suoi segreti. Kika immaginò di trascorrervi una notte stellata. Troppo spesso la gente dimenticava che molti scienziati, nel profondo del cuore, sono romantici. Pensò che lassù ci si dovesse sentire indicibilmente piccoli, come sotto un microscopio. Forse era proprio così. Forse gli esseri umani e i loro arnesi, per quanto si spingessero nel mondo dell'infinitamente piccolo, venivano a loro volta misurati, come colture intelligenti in piccoli vetrini, sviluppatesi 10
Il fiume che attraversa Amburgo. (N.d.T.)
in un inimmaginabile laboratorio di un ancora più inimmaginabile istituto di dimensioni metacosmiche, che faceva nascere e morire universi interi. La porta di uno dei corridoi si aprì e un uomo tarchiato con la barba e una folta capigliatura le andò incontro. «Dottor Schieder?» chiese lei. «Mi fa piacere che sia arrivata.» L'uomo le strinse la mano. «Venga, andiamo nel mio ufficio. O'Connor è già qui?» «Non ancora», rispose Kika. «Ma l'abbiamo... Be', diciamo che l'abbiamo ricevuto in condizioni piuttosto buone. Dovrebbe arrivare tra mezz'ora, insieme con Franz Maria Kuhn.» «L'editor, giusto?» «Sì, esatto.» Passarono accanto a porte chiuse e pareti spoglie. Schieder la fece entrare in una stanza che sembrava un incrocio tra uno studio, un archivio e un laboratorio dopo l'impatto con una bomba al neutrone. I tavoli erano colmi di raccoglitori, fascicoli, riviste e carte di ogni genere che arrivavano sino al soffitto, non particolarmente basso. Kika si guardò intorno in maniera un po' goffa, cercando un posto in cui sedersi. Schieder notò il suo sguardo e tirò fuori miracolosamente una sedia di plastica da sotto una piramide di videocassette. «Si accomodi. Abbiamo preparato l'auditorium grande. Le offrirei volentieri qualcosa da bere, ma tutte le macchine del caffè disponibili sono impegnate o fuori uso. Questa qui ha esalato l'ultimo respiro ieri e nessuno sa come rimetterla in funzione. In compenso, siamo in grado di osservare gli atomi.» «Di cosa si occupa?» chiese Kika, incuriosita. «Sempre che glielo possa chiedere.» «Certo che può, non è un segreto. Mi occupo di tutto e di più. Riceviamo incarichi dall'industria, perciò riusciamo a sbarcare il lunario discretamente. Al momento, stiamo affinando sistemi per la lavorazione di materiali come il silicio. Il secondo grande settore è la radioastronomia.» «Ho visto l'osservatorio sullo Zugspitze.» «Davvero?» chiese il dottor Schieder, sorpreso. «Nella foto, là fuori.» «Ah, certo. È un affare impressionante, vero? Un ex hotel. Lassù non c'è il consueto inquinamento atmosferico. Riceviamo praticamente senza filtri ciò che il cosmo ci manda.» «Ed è tutto finanziato dall'industria?»
«No, anche dallo Stato. Non è bene dipendere soltanto dalle grandi aziende, altrimenti la ricerca diventa una routine. Quando l'industria individua qualche problematica, non desidera autentiche innovazioni, ma piuttosto miglioramenti competitivi dei sistemi esistenti. La ricerca richiede tempo e il tempo è denaro. È così che vanno le cose.» Rise. «Alcune delle più grandi conquiste dell'umanità sono frutto di sviste. È questa la vera difficoltà del nuovo, del vero progresso. Un ricercatore deve pur cominciare da qualche parte, perciò comincia da dove s'incaglia la sua mente. Poi finisce per imbattersi in qualcosa di completamente diverso, che forse può far progredire un bel po' l'umanità... ma vallo a spiegare a un investitore, prima di cominciare. Finché riusciamo a conservare degli spazi, la vera ricerca ha qualche speranza, altrimenti le cose si mettono male per la spiegazione del mondo.» Fece una pausa. «Ma non la voglio annoiare. Andiamo di là? Forse ha qualche proposta di miglioramento.» «Che tipo di ricercatore è O'Connor?» chiese Kika, mentre attraversavano altri corridoi e si dirigevano verso l'auditorium. «Che cosa intende?» chiese Schieder, un po' irritato. «Be', penso che lavori a qualcosa che non sembra promettere un immediato vantaggio economico.» «Sì, invece. Si tratta di trasmissione di dati. Naturalmente l'economia s'interessa di tutto ciò che ha a che fare con la comunicazione. Pensavo che lei conoscesse i suoi committenti.» «Non proprio.» Tacque, imbarazzata. «Noi facciamo conoscere alla gente i libri di O'Connor. Non mi sono mai chiesta se lui possa fare ricerche liberamente.» «Non si preoccupi.» Avevano raggiunto l'auditorium. Alcuni studenti stavano controllando l'impianto di amplificazione. Schieder fece cenno a Kika di seguirlo. Scesero le scale fino al podio dell'oratore, che aveva dietro un'enorme lavagna. «Quasi nessuno riflette su cose del genere. È proprio questo il nostro problema e probabilmente anche il problema di O'Connor. La libera ricerca risulta sospetta all'opinione pubblica. Se chiede alla gente per strada se sia meglio che sviluppiamo un nuovo televisore ultrapiatto oppure che cerchiamo di controllare le onde luminose attraverso il mode-locking, così che si raggiungano impulsi a femtosecondi, è evidente quale sarà la risposta. Eppure la femtotecnologia consentirà di raggiungere elevatissimi tassi di trasmissione e di seguire e controllare processi ultrarapidi a livello atomico e molecolare e ciò contribuirà al progresso delle telecomunicazioni. Oppure prendiamo la tecnologia dei materiali. Se riu-
sciamo a lavorare materiali a livelli nanometrici, saremo in grado di costruire strutture micromeccaniche che potranno ripulire arterie incrostate e prevenire l'infarto. Come sottomarini nell'apparato circolatorio. Eccetera, eccetera.» «Bello, però la maggior parte della gente sa che cos'è un televisore. Che cos'è la femtotecnologia?» «I femtosecondi sono la miliardesima parte di un milionesimo di secondo», rispose Schieder, in un tono che non suonò affatto pedante. A Kika quel tizio piaceva. Sembrava uno coi piedi per terra. «Proprio quello che intendevo», replicò. «Nessun comune mortale lo sa, perciò come può giudicare se le vostre ricerche valgono la pena?» Schieder la guardò. «Ha afferrato il concetto. La maggior parte non lo sa, ma parla comunque. Molti di quelli che discutono di energia atomica non sanno nemmeno come funziona un reattore. Se un ricercatore inventa per caso la penicillina, battono tutti le mani; tuttavia, finché sta cercando d'inventarla, preferiscono un televisore ultrapiatto. Ecco, siamo arrivati.» Indicò il podio. «Pensavo che anzitutto dovremmo lasciar parlare il professor O'Connor per un po'. Qui tutti conoscono i suoi lavori, ma è diverso sentirli raccontare da lui. Poi gli studenti hanno preparato qualche domanda, ma in realtà volevamo dare la parola alla stampa, prima. O no?» «Dia la precedenza ai suoi studenti. Quello che i giornalisti sentiranno in anticipo non dovranno chiederlo.» «Forse in qualche modo andrà tutto bene.» Schieder andò al podio, osservò la superficie con occhio critico e soffiò via la polvere. «Il professor O'Connor è di buonumore?» Kika si chiese quanto Schieder sapesse di O'Connor. «È un po' esausto», rispose. «Esausto?» «Arriva da Amburgo e ieri sera ha fatto tardi. Ehm... Detto fra noi, a essere sinceri...» Schieder inarcò le sopracciglia, che scomparvero nella massa dei capelli pettinati dritti sulla fronte. «Sì?» «È ubriaco», sbottò Kika. Che idiota, si rimproverò. Sei una perfetta diplomatica. «La cosa non è poi così drammatica», aggiunse subito. «Penso soltanto che ad Amburgo si siano un po' scatenati. La casa editrice lo ha invitato... sa, la mattina dopo non si è così freschi e...» Schieder le sorrise. «La fama di O'Connor lo precede», disse. «Non c'è bisogno che mi faccia un resoconto del suo livello di forma. Pensa che riu-
scirà a reggere il nostro piccolo evento?» «Penso di sì. Ma non so come.» «Non lo sottovaluti. Io non lo conosco di persona, ma, stando a quello che ho sentito, O'Connor è un maledetto simulatore. Se è davvero ubriaco, non abbiamo nulla da temere.» Si accarezzò la barba e ridacchiò. «Se invece fa solo finta, la situazione si fa complessa.» «Già», replicò Kika, vedendo avvicinarsi l'apocalisse. «Proprio quello che temevo.» «Professor O'Connor!» «Comandi.» La studentessa s'illuminò in viso mentre ordinava i suoi bigliettini. «Vorremmo sapere alcune cose da lei. Badi, si tratta di domande personali. Sta al gioco?» «Sarà un onore per me», rispose con voce flautata O'Connor, mentre nell'angolo sinistro della sua bocca si annidavano presagi di sventura. Nessuno lo notò, tranne Kika e Kuhn e forse anche il dottor Schieder. Quest'ultimo, con le braccia incrociate sul petto, rivelava una notevole pacatezza. Bisognava riconoscerlo: fino ad allora, Liam era stato una sorpresa positiva. L'uomo che aveva fatto il suo ingresso nell'auditorium alle sette in punto era apparso del tutto in grado di tenere una conferenza. Accanto a lui, Kuhn era sembrato un fantasma. Kika aveva avuto l'impressione che fosse impallidito ulteriormente dal momento in cui si erano congedati al Maritim. Mentre entrava, si era limitato a scrollare le spalle, come a dire: «Siamo nelle mani di Dio». Liam, invece, era in forma smagliante. Si era cambiato d'abito, aveva portato con sé un sorriso benevolo ed evidentemente aveva sfruttato la breve permanenza in albergo per una rigenerazione lampo. Aveva sfiorato con lo sguardo gli astanti, che si erano sciolti all'istante. Sembrava che nessuno avesse previsto d'incontrare l'uomo più bello d'Irlanda. Avrebbe potuto mettersi a sbraitare canzoni da marinaio e lo avrebbero comunque portato in palmo di mano. La sua esposizione del metodo per rallentare la luce era stata sobria e profonda. «Come sapete, un fotone impiega un secondo per percorrere trecentomila chilometri. Il valore è fisso. Naturalmente siamo molto contenti di questa enorme velocità, perché così gli impulsi luminosi possono trasmettere straordinarie quantità d'informazioni a velocità fantastiche. Soltanto le casalinghe dublinesi sono in grado di disseminare dicerie a una ve-
locità superiore.» Risatine. «Ma c'è un intoppo. La luce non può sfrecciare più veloce di così, ma nemmeno muoversi a meno di trecentomila chilometri al secondo. Gli informatici sognano computer ottici in cui messaggi luminosi possano essere elaborati senza venire deviati per circuiti elettronici, ma i lampi sono fugaci. Non si fanno semplicemente catturare per essere ordinati e calcolati. Tutto ciò è assai irritante e poco collaborativo, perciò ci siamo apprestati a costringere la luce a piegarsi alla nostra volontà...» Aveva proseguito in quel modo, con qualche battuta innocua. Chiacchiere erudite. Tanto tutti sapevano che cosa avrebbe raccontato. Con grande stupore di Kika, non aveva mai perso l'equilibrio e aveva avuto un eloquio chiarissimo. Evidentemente in quelle poche ore di sonno - sempre che avesse dormito - aveva smaltito del tutto l'alcol. Era rimasto seduto sull'angolo del tavolo dell'oratore e aveva gesticolato come se stesse dirigendo un'orchestra invisibile. Kika aveva cercato di seguire la conferenza. Alla fine, aveva capito che Liam era effettivamente riuscito a rallentare e a immagazzinare la luce per una minuscola frazione di secondo, un'eternità in base ai parametri della luce. Senza essere frenato, in quel lasso di tempo l'impulso luminoso sarebbe sfrecciato dieci chilometri più in là. Si era chiesto a cosa servisse. Probabilmente Schieder le avrebbe risposto che serviva a inventare televisori ultrapiatti o la penicillina. Si era chiesto pure se, per il suo lavoro di addetta stampa, fosse indispensabile capire fin nel minimo dettaglio ciò che affermavano i suoi autori. Infine aveva deciso che non lo era. Accanto a lei, Kuhn era andato riacquistando il colorito. Poi la conferenza si era conclusa e avevano avuto inizio le domande. Ancora qualche minuto per rispondere in cinese tecnico a interrogativi posti in cinese tecnico. Kika si era rilassata. Non sarebbe potuto succedere più molto, ormai. O almeno era quello che aveva immaginato lei. Finché quella studentessa dalle gote rosate e dallo sguardo languido non aveva deciso di entrare nelle faccende personali. Kuhn cambiò nuovamente colore. Un camaleonte non era nulla al confronto. Rivolse lo sguardo prima a Kika e poi alla studentessa. Sulle labbra gli si formò una muta implorazione. Troppo tardi. «Professor O'Connor, lei ha colpito molto tutti noi. Ma poi abbiamo pensato... Be', anche una persona come lei deve avere un punto debole, una
piccola debolezza umana. Su, ci dica! Qual è il suo più grande difetto?» Lo guardava con un'espressione impertinente, sbattendo le ciglia. Liam allargò il sorriso. «Rispondere a domande come questa», disse. Schieder sospirò e si grattò la barba. Forse, a quel punto, la studentessa sarebbe potuta ancora sfuggire alle sabbie mobili della cattiveria di O'Connor; sarebbe bastato cambiare argomento. Ma sembrava incantata. Il suo sguardo era ancora innocente e innamorato, colmo di adorazione per lo scienziato, ma l'intelletto le diceva che qualcosa era andato storto. Il risultato fu un'espressione di rara goffaggine. Poi commise l'errore madornale di chiedere: «Perché?» Liam emise un lieve sibilo di rassegnazione, come se non potesse comprendere il grado di stupidità necessario perché una persona palesemente sconfitta si mettesse a invocare ulteriori disfatte. «Vede», cominciò, in tono paziente, «in linea di principio lei può leggere un libro. Nel contempo, io posso giocare a golf, lavorare o scrivere uno dei libri che lei deve leggere. Altrimenti posso raccontarle di persona ciò che lei sa già. Ma a quel punto, almeno, mi aspetto una discussione che mi dimostri l'esistenza di un intelletto, di una forma di vita intelligente. Invece lei mi fa domande... carine. Posso chiederle quali sono i suoi obiettivi personali?» «Non... non lo so ancora.» «Allora lasci che le dia un consiglio. La smetta d'idolatrare altri esseri umani. Si dedichi alle cose concrete.» «È quello che ho fatto», balbettò la studentessa. Cominciava a capire che O'Connor la stava punendo. Inoltre nella pronuncia dello scienziato si era insinuata una certa pesantezza, che conferiva al suo tono una punta di sufficienza e di disprezzo. «Io non idolatro nessuno!» esclamò la ragazza. «Non mi verrebbe mai in mente d'idolatrarla. Cerco soltanto di scoprire qualcosa di più sulle persone che hanno ottenuto grandi risultati. È così terribile?» «No, gli onori sono problematici soltanto per chi li deve ricevere. Mi creda, la venerazione degli eroi è qualcosa di poco piacevole, almeno per una delle parti in causa, cioè per l'eroe. Gli esseri umani tormentano i loro dei. Pregano perché vogliono qualcosa da loro. Legga i miei libri e, se mi scova in qualche pub, luogo in cui potremo definire una zona descientificizzata, allora potrà tranquillamente interrogarmi sui miei punti deboli. Qui siamo all'università. Ci sono altre domande?» La studentessa diede uno sguardo perplesso ai suoi bigliettini. «Cosa le piace fare quando non fa ricerca?»
«Scrivere.» «E quando non scrive?» «Mi piace bere. Siamo a tre domande. Se per caso sta accarezzando l'idea di chiedermi perché sono celibe, le posso già dire che non è a causa sua. Vuole una famiglia?» «Come, scusi?» «A mio parere, chi ha intenzione di farsi finanziare gli studi universitari dovrebbe passare un esame d'idoneità. Chi medita grandi piani soltanto finché non li può scambiare con qualche decibel di vagiti, dovrebbe andare a scuola di economia domestica e non gravare sui fondi per la ricerca.» «Ma...» «Non ha ancora risposto alla mia domanda.» «Sì, invece, io...» «Ha detto di non sapere quali sono i suoi obiettivi. È preoccupante. Vuole avere figli?» La studentessa fissava O'Connor come se fosse Mr Hyde in carne e ossa. «Penso di sì.» Lui si chinò in avanti e assunse nuovamente un tono gentile, quasi benevolo. «Le dico io cosa vuole, bella mia. Lei ha un cuore d'oro, ne sono certo. D'oro puro. E le piacerebbe convertirlo in spiccioli. Be', fra tre anni al massimo troverà qualcuno che lo cambierà in monete sonanti, e ci si comprerà tutto ciò che rende la vita gradevole senza innalzarla. Benvenuta nella mediocrità.» Liam distolse lo sguardo dalla ragazza come se quest'ultima avesse cessato di esistere e si rivolse ai presenti. «Una volta, Michael Collins, quel poveraccio che non poté mettere piede sulla superficie della luna perché uno degli astronauti doveva restare nella navicella, disse che lui e la moglie litigavano sempre per la faccenda dei viaggi nello spazio. Lei non capiva come qualcuno potesse andare sulla luna quando a casa c'erano ancora i piatti da lavare. La maggior parte dei presenti presto o tardi svenderà i propri sogni e le proprie visioni per un posticino caldo nel ceto medio borghese. E perché? Perché cercano di diventare qualcuno che già esiste e questo non è possibile. Un secondo Einstein, un secondo Hawking, un secondo che so io... Voi però dimenticate che Einstein non voleva diventare un secondo chissà chi, ma soltanto un Einstein migliore. È questo il vostro problema, il problema della mentalità dei ricercatori tedeschi. Tutti voi inventereste molto volentieri ciò che qualcun altro ha già inventato, ma purtroppo alla maggior parte di voi manca l'irritante stoffa del visionario. A
un certo punto, vi renderete conto di saper ripetere a macchinetta tutti i classici, distinguendovi per un'eclatante carenza d'ispirazione. Anche gli eruditi del Medioevo, quando l'Illuminismo dichiarò guerra al misticismo, non parteggiarono subito per la rottura con gli antichi, Aristotele, Platone, Democrito. Ma almeno loro si ritenevano gnomi sulle spalle dei giganti. Da lì godevano di un osservatorio un po' più alto e potevano guardare un po' più lontano. E la generazione seguente di gnomi riusciva a vedere ancora più in là. E voi cosa fate? Imparate tutta questa roba a memoria e i vostri professori vi danno un voto in base alla vostra somiglianza genetica al pappagallo. Finché la scienza rimane ripetitiva non è scienza, volete capirlo? Finché nell'arco di un'ora non vi vengono in mente domande 'diverse' da fare a uno come me, e mi chiedete invece cosa mi piace mangiare o dove mi gratto quando mi prude il sedere, finirete per passare il tempo a guardare quiz televisivi. Perché state qui ad ascoltarmi mentre vi racconto cose che già sapete? Quante volte volete recitare il rosario di ciò che è già stato? Fate ricerca! Mettete in dubbio le cose! Dubitate anche di me! Chiedetemi qualcosa di davvero scomodo. Se non riuscite a fare questo, gli uomini tra voi finiranno nella ricerca applicata e le donne daranno ai loro uomini la sensazione di poter spostare le montagne, per poi impedir loro di farlo, a matrimonio avvenuto. La prossima domanda?» Che stronzo, pensò Kika. «Perché ha tirato fuori tutta questa storia?» chiese sottovoce a Kuhn. «Quella ragazza non gli ha fatto niente di male.» «Non conta», mormorò Kuhn. «Gli ha dato lo spunto per esprimere la sua opinione. Nella visione del mondo di O'Connor, tutti sono soltanto spunti, in un modo o nell'altro.» «Ha un'opinione tremenda delle donne.» «Ha un'opinione tremenda di tutti. Ma non dei celti. Quelli li trova eccezionali, donne comprese. Probabilmente perché i veri celti sono estinti e non si possono opporre.» Un'altra studentessa alzò la mano. «Professor O'Connor, come pensa di riuscire a deviare la luce, voglio dire, a canalizzarla in traiettorie utili? Per ora si è limitato a rallentarla.» «È semplice», rispose Liam, visibilmente soddisfatto. «L'abbiamo già fatto, comunque. Abbiamo inviato una seconda onda sonora nel cristallo, perpendicolare alla prima. Si può letteralmente spintonare la luce e trasportarla in un punto a piacimento del semiconduttore, prima di lasciarla scappare.» «Ciò significa che siete in grado di trasmettere dati in entrambe le dire-
zioni tra le fibre di vetro?» «Sì, è esatto.» Schieder si voltò verso Kika. «Ecco la risposta alla sua domanda. Da anni le grandi aziende delle telecomunicazioni cercano di aumentare le capacità delle linee di trasmissione dati. Sono loro che finanziano le sue ricerche.» Kika annuì. Nel frattempo, la prima studentessa si era ripresa. «Professor O'Connor, in teoria non si potrebbe trattenere la luce all'infinito, facendola girare in tondo con diverse onde sonore circolari?» Liam aprì la bocca. Poi la richiuse e guardò la ragazza come se fosse appena entrata nella sala. «È ipotizzabile, in teoria. Ma la luce è fuggevole. Immagino che potremmo arrivare a un tempo d'immagazzinamento di un secondo.» Kika notò che le guance della ragazza cominciavano a infuocarsi. «E questo significa che, se si rallenta la luce, si rallenta anche il tempo percepibile?» «Oh!» Liam sorrise. Aveva davvero un bel sorriso. «Si riferisce a quella storia per cui la velocità del tempo sarebbe pari alla velocità della luce? Una formula passata di moda. In effetti, la luce ha sempre molto a che fare con le storie di viaggi nel tempo. Naturalmente se lei si muove alla velocità della luce in un certo senso il tempo si ferma. La sua massa diventa infinita. Se si muove a velocità superluminare, praticamente sfreccerà oltre il tempo e svanirà nel futuro. Sintomi analoghi di distorsioni del tempo sono noti dai buchi neri. Certo, dal punto di vista soggettivo di un osservatore nel mio cristallo, io rallento il tempo. Quell'osservatore percepirà l'informazione trasportata da un fotone in modo diverso rispetto a come la percepirebbe se gli sfrecciasse accanto a trecentomila chilometri al secondo. Ma lei cosa vuole costruire? Una macchina del tempo?» «Forse», replicò la studentessa, appallottolando il bigliettino che aveva in mano. «Sempre che non venga interrotta da un vagito.» O'Connor la fissò. Poi si mise a ridere. «Spero proprio di no, dato l'improvviso germoglio di genialità di cui sono stato testimone. Ma i bambini non sono un problema. Il problema è che noi li facciamo sin troppo volentieri diventare un problema. Sono la scusa per abbandonare la squadra dei grandi e svignarcela nella mediocrità. I bambini non possono farci nulla se i loro genitori decidono di regredire ad abitanti delle caverne. Basta la prospettiva di avere dei figli e gli esseri umani si mettono a comportarsi come scimpanzé. Non ci sono più visioni, obiettivi nobili, non c'è più nessuna
collettività, soltanto istinti primordiali. E si sentono sempre le stesse frasi noiose: prima volevo cambiare il mondo, volevo scoprire una cura per il cancro, volevo andare su Marte, volevo recitare Shakespeare, ma, da quando c'è Taldeitali, tutto ciò è privo d'importanza. Tutto gira intorno al marmocchio, che evidentemente è il marmocchio più importante del mondo. Ci si aspetta che tutti guardino affascinati il piccolino che vomita la pappa sul bavaglino e guai a chi vuole parlare di qualcosa di diverso! Se davvero vuole costruire una macchina del tempo, la costruisca, maledizione! Con o senza bambini. Tanti auguri! Io scommetto qualsiasi cosa che non funzionerà, ma soltanto per questa dichiarazione d'intenti sono disposto a tenerle il cacciavite per ore. Nel frattempo, potrà avere tutti i bambini che vuole.» «Accidenti!» sibilò Kuhn. «La settimana scorsa ha detto il contrario.» «Intende dire che i viaggi nel tempo non sono possibili?» s'intromise un giornalista, convinto di aver trovato un argomento di discussione. «Intendo dire che quando le persone cominciano a essere ragionevoli cominciano anche a morire», rispose Liam. «La ragione è un qualcosa di profondamente ostile alla fede, qualcosa di reazionario. La ragione dovrebbe indurvi ad andarvene a casa allorché qualcuno pretende di raccontarvi di aver rallentato dei raggi di luce. È stato un piacere chiacchierare con voi. La lezione è finita.» 14 dicembre 1998. La Morra (Piemonte) Maksim Gruškov aveva lo sguardo fisso su un raccoglitore e muoveva leggermente le labbra. Sul suo cranio calvo e assai lucido brillavano i riflessi delle lampade fluorescenti. Anche se fuori splendeva un limpido sole invernale e il cielo era di un azzurro opalescente, Gruškov preferiva le persiane chiuse e la luce artificiale. Leggeva quelle poche righe con tale concentrazione che qualsiasi rumore, perfino il ronzio del computer, sembrava smorzarsi in segno di riguardo. Poi lui richiuse lentamente il raccoglitore e lo posò sul tavolo intorno al quale lui, Silvio Ricardo e Jana si erano riuniti. Si massaggiò la fronte con le dita. Protese le labbra, sembrò rivolgere per un istante lo sguardo dentro di sé e poi mise a fuoco i suoi due interlocutori. «Non può dire sul serio», mormorò. La sua voce suonava distaccata e obiettiva, come sempre. Soltanto una volta Gruškov aveva perso il controllo. Era successo anni prima e migliaia
di chilometri più lontano ed era il motivo per cui lui viveva in Italia e non più a Mosca. «Già.» Ricardo alzò le spalle e allargò le braccia. «Ho detto anch'io qualcosa di simile.» La riunione si svolgeva nella «cucina dello stregone» Gruškov. Era lì, nel reparto di sviluppo della Neuronet, che il programmatore capo escogitava soluzioni software e serviva mercati bramosi d'innovazioni. Si erano ritirati nella sala riunioni e avevano chiuso la porta. La sala era insonorizzata. La cosa era facile da spiegare, perché in quasi nessun altro campo lo spionaggio industriale raggiungeva dimensioni analoghe a quelle che si registravano nel settore dei computer e del business online. Sul volto di Gruškov c'era un'espressione insolita per lui. Sembrava non sapere che pesci pigliare. Jana invece era estremamente soddisfatta. «Molto bene», disse. «Bene?» Gruškov incrociò le braccia e rimuginò per qualche istante. «Non lo so. È la cosa più folle che mi sia mai capitata sotto il naso.» Fece scivolare la mano sul dossier, come se volesse assicurarsi che fosse vero. «A nessuno, a parte lei, verrebbe un'idea del genere.» «È un'idea che può venire se si beve un bicchiere di vino nel momento giusto», replicò Jana, imperturbabile. «Una bottiglia intera, piuttosto», osservò seccamente Ricardo. Jana fece un cenno di diniego. «Non ha nessuna importanza. Ciò che conta è che ho trovato la soluzione. Le mie conoscenze sono rudimentali, so soltanto l'essenziale sulla tecnologia che dovremmo utilizzare. Ma l'idea è allettante. Se perfino i miei più stretti collaboratori la ritengono una follia, ci sono buone possibilità di riuscita.» «Appunto», intervenne Gruškov. «È questo il problema. Lei sa l'essenziale. Su quelle basi si può produrre fantascienza e non voglio mettere in dubbio che lei ci sia riuscita.» «È più che fantascienza.» «Al momento, no.» «Voglio soltanto sapere se è del tutto escluso che possa funzionare.» Gruškov si grattò la testa. Rìcardo scosse il capo, scettico, ma non disse nulla. Prese il dossier e lo aprì. Era la terza volta che lo faceva, quella mattina. Jana rimase in silenzio e aspettò. Per quanto la riguardava, potevano leggerlo tutte le volte che volevano. Lei non aveva fretta. Per diversi minuti non si sentì altro che il fruscio delle pagine. «Be', io non sono sicuramente un esperto», esordì alla fine Ricardo, per-
plesso. «Posso soltanto esprimere le mie sensazioni. Di questo passo, avrebbe potuto scrivere che vuole farsi teletrasportare. Io non ci credo.» «Neanche io sono un esperto», aggiunse Gruškov. «Jana vuole sapere se in linea di principio è fattibile. A questa domanda si può rispondere che, duecento anni or sono, la fattibilità di un viaggio sulla luna era assai limitata.» Si alzò e cominciò a camminare per la sala. «Il problema è che ci sono cose non fattibili, almeno non nel loro tempo. Da questo punto di vista, non è del tutto escluso. Probabilmente una simulazione funzionerebbe a meraviglia. Se tutti i fattori implicati venissero ridotti a un ventesimo della loro dimensione e collocati in un ambiente ermeticamente chiuso, potrebbe funzionare. Anche se ancora non so come potremmo colpire un bersaglio mobile con un sistema così rigido. Il punto dolente è un altro: noi abbiamo a che fare con la vita reale, cioè con tutt'altra cosa. Non so se una cosa del genere sia mai stata fatta su una scala di questo tipo.» «Gli americani l'hanno fatta», replicò Jana. «Anche i russi, fra l'altro.» «È diverso. So a che cosa si riferisce.» Gruškov si fermò. «Ma è stata un'impresa pazzesca. E anche loro ci sono riusciti soltanto in una simulazione perfettamente controllata. È fantascienza, dobbiamo tenerlo ben presente prima di continuare a lavorare su quest'idea.» Con un ampio gesto, Jana indicò i computer. «Tutto questo è fantascienza», disse. «Non possiamo viaggiare in regioni lontane dell'universo perché non sappiamo se c'è un modo per ingannare le leggi della natura. Eppure continuiamo a credere che prima o poi qualcuno scoprirà come fare. Tunnel cosmici, tunnel quantici... Nel nostro caso, la faccenda è diversa. Sappiamo come si fa. Non ci sono lacune nella nostra comprensione. Non dobbiamo inventare nulla che non esista già. La domanda è soltanto come possiamo servircene.» «Il suo esempio di calcolo fa riferimento alle prestazioni necessarie in considerazione della distanza», osservò Gruškov, aggrottando la fronte. «Mi è ben chiaro che possiamo scatenare la potenza necessaria, ma lei si rende conto di quanto dovrà essere grande quell'affare? Come farà a portare una cosa così grande nel bel mezzo di una zona di massima sicurezza?» «Non ce la porterò affatto. Penso che la zona di massima sicurezza avrà un raggio di un chilometro o due al massimo.» «Qui presuppone due o tre chilometri.» «Se necessario, anche di più. Secondo me, fino a cinque chilometri possiamo stare tranquilli. Se si va oltre, si può ancora fare, ma i margini si riducono. In un modo o nell'altro, al di fuori della zona di sicurezza possia-
mo collocare un oggetto di queste dimensioni senza che dia nell'occhio.» «A quelle distanze, avrà problemi con le interferenze ambientali. Ma non importa. Ammettiamo di riuscire a gestirle. In ogni caso, dovrebbe riuscire a rendere mobile il dispositivo, una cosa quasi impossibile. Bisognerebbe costruire una slitta di dimensioni gigantesche, che, come se non bastasse, dovrebbe essere inserita in tiranti ad alta precisione e si dovrebbe spostare senza nessuna vibrazione.» Jana scosse il capo e indicò il dossier. «Il dispositivo è fisso.» «Ma il suo bersaglio non lo è. È come pretendere che una casa si giri se qualcuno le passa davanti.» «Nient'affatto. Quello che ci serve è un sistema di deviazione.» «Intende...» «La soluzione classica.» Jana si chinò in avanti e tamburellò con le dita sul tavolo. «Funzionerà, Gruškov! Non è diverso da ciò che hanno fatto anche gli americani e i russi. Ancora non so come risolveremo gli aspetti tecnici dei comandi, ma dovremo fare in modo che uno dei componenti sia mobile.» Jana spiegò a Gruškov come immaginava la struttura tecnica. In realtà non era affatto così sicura che avrebbe funzionato. Sapeva fin troppo bene che quell'idea era nata da conoscenze superficiali e grezze, da una bottiglia di eccellente vino rosso e da un pensiero avuto alle tre del mattino. Ma, se ne avesse dubitato troppo, non sarebbe riuscita a convincere Gruškov a occuparsene. Certo, era un suo subordinato, ma non poteva estorcergli qualcosa che lui riteneva impossibile. Il parere di Ricardo era più che altro d'interesse accademico. Era un uomo d'affari, non uno scienziato. Aveva espresso un'opinione e Jana non si aspettava altro. Nel decidere se qualcosa era fattibile, le persone si affidavano anzitutto alle sensazioni. La maggior parte dell'umanità, per esempio, era del parere che i viaggi interstellari presto o tardi sarebbero stati possibili, anche se ciò contraddiceva tutti i dati della fisica. Al contrario, pochissimi ritenevano possibile che le piovre conversassero tra loro in una lingua basata su configurazioni fisiologiche, eppure la scienza aveva trovato chiari indizi in questo senso. Il processo di selezione che il cervello umano eseguiva quotidianamente avveniva in modo rapido e intuitivo. Ciò che non appariva subito chiaro, per mancanza di una comprensione profonda, veniva ritenuto improbabile. Se qualcuno avesse raccontato ai tedeschi che Gerhard Schröder era un extraterrestre mascherato, quasi nessuno si sarebbe dato pena di verificarlo. Ricardo, un uomo intelligente e con una
straordinaria cultura generale, aveva reagito nello stesso modo quando Jana gli aveva esposto le proprie idee. Pur non potendo fornire una giustificazione tecnica, aveva escluso a priori che fosse possibile metterle in pratica. La sua opinione era preziosa perché faceva presumere che a quasi nessuno sarebbe venuta in mente un'idea del genere. Le opportunità si nascondevano nell'inatteso. «Io sono un programmatore», disse infine Gruškov. «Non lo dimentichi. È solo un caso che m'intenda un po' anche di queste cose.» «Non è un caso che se ne intenda, perché lei è una persona dagli svariati interessi scientifici», precisò Jana. «E non è un complimento, ma soltanto un dato di fatto. Altrimenti non glielo avrei chiesto. Dunque? Lo ritiene possibile?» Gruškov gonfiò le guance. Si tolse gli occhiali, tirò fuori un panno e li pulì accuratamente. Poi li sollevò, guardandoli con gli occhi socchiusi nella luce delle lampade al soffitto. «Sì», disse infine. «Lo sapevo!» esclamò Jana, trionfante. «Sapevo che avrebbe funzionato.» «Piano.» Gruškov alzò le mani. «Ho detto che è possibile. Non significa che funzionerà. Mi dia del tempo e soprattutto un sacco d'informazioni certe. Ho bisogno di dati precisi sull'area, sull'estensione e sulla composizione del terreno, in particolare per quanto riguarda i punti più alti. Per i dettagli, mi metterò in contatto con Mosca e Leningrado e anche per le domande fondamentali ho qualcuno a disposizione. Però quando... o, meglio, se si passerà alla fase di costruzione, mi mancheranno i contatti giusti.» «Penso che Mirko possa aiutarmi in questo senso. Lo vedrò presto a Colonia. Sembra conoscere tutto e tutti.» Ricardo corrugò la fronte. «Ha detto che farà parte della squadra.» «Era una delle sue condizioni.» «Per quanto mi riguarda, la squadra dovrà comunque essere ancora più grande», riprese Gruškov. «Abbiamo bisogno di diverse persone con competenze specifiche. Quante? Dipende da ciò che scopriremo nei prossimi giorni.» «Va bene. Le serve qualcos'altro?» Gruškov rifletté. «Voglio essere lasciato in pace», rispose infine. «E possibilmente subito.» Ricardo sorrise e si alzò. «Capito, Einstein. Ce ne andiamo e la lasciamo qui murato vivo. Vuole un abbonamento a una pizzeria a domicilio? Le pizze si possono tranquillamente infilare sotto la porta.»
«Lei è spiritoso, Ricardo», disse Gruškov senza nemmeno un'ombra di divertimento in viso. «Sono sicuro che un giorno qualcuno riderà delle sue battute.» Quando lasciarono il reparto programmazione e uscirono all'aperto, Ricardo disse a Jana: «Non trova straordinario che fino a oggi non siamo stati beccati? Voglio dire, riunioni come quella di poco fa di solito avvengono in circostanze completamente diverse. Ci s'incontra in qualche luogo segreto con nomi di copertura e si fanno i salti mortali per non essere scoperti. E noi siamo qui a lavorare insieme sotto gli occhi di tutti». Jana scrollò le spalle. «Appunto. A chi verrebbe in mente che individui solerti come noi meditino omicidi a porte chiuse?» Ricardo inspirò l'aria invernale e osservò il cielo. Dal terreno della Neuronet, i cui squadrati edifici di vetro ben s'inserivano nel paesaggio romantico delle Langhe, si vedeva la villa di Jana. «Un giorno a qualcuno verrà in mente», disse. «Ce ne saremo già andati.» «Sarebbe un bene. È una legge non scritta: prima o poi, ciò che può andare storto andrà storto.» Jana sorrise. «Una legge. Chiaro. Ma quando mai ci siamo preoccupati della legge?» Maksim Gruškov rimase isolato dal mondo per tre giorni. Si fece effettivamente portare da mangiare nel reparto di programmazione. Poiché i suoi collaboratori erano abituati a vederlo ritirarsi per lavorare, anche quella volta nessuno ci trovò nulla di straordinario. Gruškov disponeva di una rete informatica propria e protetta da qualsiasi tentativo di accesso non autorizzato tramite un complicato sistema di codifiche. A parte lui, soltanto Jana conosceva i codici di accesso ed era collegata con una rete propria alla sua. Durante il ritiro del programmatore, i due restarono in contatto, scambiandosi messaggi all'interno del loro sistema isolato. Gruškov faceva soprattutto domande, alle quali Jana rispondeva come meglio poteva; per il resto, non le forniva altro che piccoli assaggi insoddisfacenti e un costante scetticismo. Jana sapeva che avrebbe annunciato un successo soltanto se fosse stato sicuro al cento per cento della riuscita del piano. Sperava che lui desse la propria benedizione. Se lo avesse fatto, sarebbe stata sicura che l'impresa era a prova di bomba. Gruškov operava al centomila per cento. Fino ad allora non si era mai sbagliato.
Il terzo giorno, a tarda sera, le telefonò normalmente e chiacchierò con lei di motori di ricerca. «Ho programmato qualcosa che potrebbe aprire un mercato completamente nuovo, in particolare per Microsoft», disse. «La cosa migliore è che venga subito qui a dare un'occhiata.» Jana lasciò la villa e andò in azienda. Dovette camminare in salita per un tratto di strada e poi girare in una strada che portava direttamente al portone dell'edificio principale. Era arrivato il freddo, però lei indossava soltanto una giacca sopra la maglietta. Freddo e caldo non le facevano un baffo. Aprì il portone e attraversò il corridoio a vetri dell'ingresso e la retrostante ala amministrativa. Nell'oscurità brillavano soltanto le spie di alcuni computer in standby. Poi entrò in un corridoio senza finestre, che conduceva al laboratorio privato di Gruškov. Una delle lampade fluorescenti sopra di lei ronzava e si accendeva a intermittenza. Jana tirò fuori il cellulare e lasciò un breve messaggio sulla segreteria telefonica del centralino. In quel momento, non c'era nessun dipendente a parte Gruškov, ma lei odiava le cose lasciate in sospeso. La mattina dopo, la lampada sarebbe stata sostituita ancor prima che lei facesse colazione. Gruškov l'aspettava. Era seduto davanti a uno schermo disseminato di equazioni e aveva messo una seconda sedia accanto alla sua. «Si accomodi. Ora ci guardiamo insieme una cosa.» Jana si fermò e si appoggiò con entrambe le mani allo schienale della sedia. «Funzionerà?» chiese. Gruškov sogghignò. Succedeva molto raramente, anzi soltanto quand'era assai soddisfatto del proprio lavoro. «Vale la pena di sedersi.» Jana obbedì. «Allora funziona?» Gruškov spostò il mouse, chiuse alcune finestre e ne aprì una nuova. «Sì», rispose infine. Jana fissava affascinata il disegno che occupava l'intero monitor. Era quasi commossa. «Quanto è grande quell'affare?» «Già...» Gruškov allargò le braccia. «Esattamente non lo so ancora, ma immagino che parliamo delle dimensioni di un piccolo camion. Ci sono diversi modelli e tipi di costruzione. Questo è uno YAG. Procura la potenza necessaria. Inoltre ci serve un aggregato di una certa grandezza.» «Fenomenale.» Lui la guardò. I suoi occhi si distinguevano a malapena dietro i riflessi del monitor sulle lenti tonde degli occhiali. «Non tutto è fenomenale. Per esempio, non ho idea di dove possiamo trovare un affare del genere.» «Vuol dire che questo affare non esiste?»
«Sì, ne esistono un sacco. Anche di più grandi. Ce ne sono alcuni delle dimensioni di un intero isolato. La domanda è come ce ne procuriamo uno.» «Se funziona, lo troveremo», mormorò Jana. «Lasci che me ne occupi io.» «Bene. Allora, la distanza non è un problema. Aveva ragione. Questo arriva anche a dieci chilometri con una precisione del cento per cento. Sempre solo in teoria, cioè in base a un'equazione lineare, il che naturalmente è una sciocchezza. In pratica, dobbiamo farci venire in mente qualcosa, perché, come ho già detto, dobbiamo combattere con fattori ambientali di tutti i tipi.» Aprì una nuova finestra. «Questo è il sistema, più o meno. Molto rudimentale. Bisogna costruire un'unità di comando maneggevole con la quale lo si potrà azionare.» Fece una pausa. «Ho pensato a una macchina fotografica.» «Come vengono trasmessi i comandi?» «Tramite onde radio. Con tanti saluti da Hedy Lamarr.»11 «Che ne dice degli infrarossi?» «Solo perché abbiamo lavorato due o tre volte con gli infrarossi non significa che siano sempre in voga», rispose lui in tono di rimprovero. «A questa distanza, se li può scordare gli infrarossi! Le onde radio sono perfette. Non sono ancora sicuro se dobbiamo usare il GPS. Faciliterebbe le cose, ma forse si può fare anche senza.» «Una macchina fotografica, quindi», ribadì Jana. Sapeva che c'era sotto qualcosa. A Gruškov piaceva farsi tirare fuori le cose un po' alla volta. «Sì.» «Mi faccia indovinare. Devo presentarmi come fotoreporter. Giusto?» Per la seconda volta nell'arco di pochi minuti, Gruškov sogghignò, superando abbondantemente la sua media mensile. «Nessuno smonterà una macchina fotografica al punto da scoprire due microchip che non c'entrano nulla. Nessun controllo di sicurezza del mondo è in grado di farlo. Perciò lei arriverà molto vicina.» «E quando premerò l'otturatore...» «Succederà quello che deve succedere.» 11
Hedwig Eva Maria Kieslerová (1913-2000), nota con lo pseudonimo di Hedy Lamarr, fu un'attrice di grande successo a Hollywood negli anni 40. Meno noto è il fatto che, insieme col compositore George Antheil, brevettò un sistema per codificare informazioni da trasmettere su frequenze radio, utilizzato ancora oggi, per esempio nei sistemi wireless. (N.d.T.)
«Gruškov, è fantastico.» «Lo so.» Lui si appoggiò allo schienale della sedia ed espirò. Soltanto allora Jana si accorse che era stato in ansia per tutto quel tempo. «Suona ancora impensabile, come un film sballato. Assolutamente fantastico. Ma, per quanto mi sforzi, non trovo nessun motivo per cui non debba funzionare.» Esitò. «Tranne uno.» «Quale?» «Non deve piovere.» «Cosa? E perché no? Che c'entra...» D'un tratto capì. Fisica. Semplicissima fisica. Restò in silenzio per qualche istante. Poi disse: «È banale, Gruškov. Orribilmente banale. Possiamo anche scordarcelo». «Non necessariamente. Cos'è, adesso sono io che devo convincerla? Anzitutto è un problema soltanto se diluvia. Non dimentichi che un nubifragio può essere devastante anche se vuole colpire un bersaglio mobile a cento metri di distanza. O la nebbia. Può succedere di tutto. Nel momento decisivo, proprio mentre sta per premere il grilletto, potrebbe passarle davanti un camion. Eventi così imponderabili non sono nulla di nuovo. Inoltre opereremo in estate, quindi c'è la possibilità che il clima rimanga asciutto.» «Non in Germania. Ma non importa, continui.» «Avrà più di un colpo. Penso due o addirittura tre. Ciò aumenta enormemente le possibilità di riuscita, anche in caso che pioviggini. Ma c'è un'altra ragione per farlo in questo modo.» «E sarebbe?» «Il piano B. Il caro, vecchio piano B, Jana. Lo so, i suoi committenti vorrebbero tanto che fosse quel giorno in quel dato luogo e a quella data ora. Accontentiamoli. Ma, se dovesse andare davvero storto, dovrà trovare un'altra occasione in un altro giorno.» «Mettere in piedi tutto questo trambusto un'altra volta?» «Non è un gran trambusto. Ci pensi. Le serve soltanto un secondo sistema di deviazione. La cosa importante è che lei sappia in anticipo dove lo dovrà installare.» Jana rifletté. «Fondamentalmente ai suoi committenti interessa che la cosa vada in porto, in un modo o nell'altro», aggiunse Gruškov. «Perciò faccia il salto con la rete.» «Quest'arma è fantastica», sussurrò Jana. «L'effetto sarebbe inaudito. Dobbiamo farlo così!»
«Lo faremo così», ribadì Gruškov. «E l'effetto sarà comunque impressionante anche se avverrà da qualche altra parte, un altro giorno. Il risultato resterà lo stesso. Anche le immagini che faranno il giro del mondo saranno spettacolari.» Si alzò e prese un pullover appoggiato allo schienale della sedia. «Ed è questo che lei vuole, giusto?» Lei rifletté brevemente. «Sì», rispose infine. «Suona bene, Gruškov, molto bene.» «Magnifico. Allora vado a mangiare qualcosa. Domani parliamo dei dettagli.» Sorrise per la terza volta e Jana cominciò a trovarlo inquietante. «Immagino che ci siano un sacco di cose da fare. Vero?» 22 dicembre 1998. Monastero Era passato un mese da quando Mirko aveva incontrato per la prima volta il vecchio sulle montagne e, a quel punto, era in grado di presentargli una soluzione. Non era sicuro di come avrebbe reagito. Jana era stata chiara: l'attrezzatura doveva essere procurata da lui, Mirko, o dai suoi mandanti. Ma non era quello il vero problema. La questione era: il vecchio aveva un'immaginazione sufficiente? Mirko si chiedeva come fosse venuto in mente ai suoi committenti il nome in codice Cavallo di Troia. Come allegoria era fuori luogo. Era come se i guerrieri avessero marinato in massa la lezione di storia, rifugiandosi nel ventre dell'immaginario cavallo. E si chiedeva pure come funzionava un mondo in cui i leader ne sapevano meno delle persone come Mirko, che lavoravano al loro servizio. Non che gli importasse più di tanto. Ma era comunque notevole che Karel Zeman Draković, assurto al ruolo di burattinaio dei potenti nonostante le sue semplici origini, percepisse una carenza evidentemente sfuggita a un'élite di persone colte e influenti. D'altro canto chi governava il mondo? Luigi XIII poteva anche essere stato il re di Francia, ma la Storia l'aveva decisa Richelieu. Nixon era inciampato nei suoi collaboratori. Giovanni Paolo I era stato papa e aveva avuto giusto il tempo di alludere a qualche idea controversa prima di morire all'improvviso. Gli imperatori, i re, i presidenti, i papi, i dittatori potevano anche mettersi in posa, ma insieme con loro, nell'istantanea della Storia, c'era sempre qualcuno dall'aria anonima, sorridente e seminascosto dal braccio del capo che salutava. E, alla fine, era quel qualcuno a decidere quando la testa del capo doveva rotolare. I potenti crollavano, ma la seconda linea di cui si erano avvalsi prima o
poi riemergeva, in posizioni che consentivano sempre il massimo spazio di manovra col minimo pericolo. Erano ombre che potevano scegliere da chi farsi proiettare. Che si chiamassero CIA o KGB, i guerrieri ombra avevano tutti del potere. Un potere che diventava rischioso soltanto se cedevano al fascino delle luci della ribalta. Mentre il monastero affiorava in lontananza, Mirko pensò a Slobodan Miloševič. Quando aveva deciso di uscire dall'ombra di un servizievole opportunismo, cedendo alla vanità, anche il dittatore aveva abbandonato il terreno sicuro. Come tanti altri prima di lui, era rimasto accecato e perciò era diventato vulnerabile. Finché aveva preferito cambiare ideologia al momento giusto e lasciare ad altri il governo era sopravvissuto, aveva preso decisioni e manovrato nell'oscurità. Aveva sempre avuto la possibilità di passare a un altro schieramento, di rispondere alla chiamata di un nuovo generale che aveva bisogno dei suoi servigi. Ma nel 1986, nell'assumere la direzione del partito, e ancora di più un anno dopo, nel diventare presidente della Serbia, si era ritrovato in cima. Non c'era più niente e nessuno sopra di lui; non si era lasciato nessun rifugio. Era diventato il prodotto di sé e di altri, della febbrile fantasia dell'intellighenzia nazionale serba, un omuncolo con l'unico compito di annunciare una volta per tutte la verità, la verità serba, più vera di qualsiasi altra verità, basata su mostruose rivendicazioni storiche, dalle quali lui derivava diritto e legittimità. Di conseguenza, il dittatore non era più riuscito a interpretare le leggi che lui stesso aveva fatto. Era lui la legge! Miloševič sarebbe stato sorpreso dal suo destino; la sua compiacenza sarebbe stata la sua rovina. Nella luce abbagliante della scena politica internazionale, rischiava di fare la fine del farabutto, perché i buoni erano venuti a sapere della sua esistenza. Era quello il suo più grosso problema e lui non l'aveva mai riconosciuto, né aveva mai agito di conseguenza. Ci sarebbero voluti anni, nei quali avrebbe causato danni mostruosi e avrebbe battuto innumerevoli volte i suoi nemici. Però nulla l'avrebbe protetto dallo Iago o dal Bruto dal volto inespressivo, sorridente, intento a pianificare il tradimento, seminascosto dal braccio del grande nazionalista. A prescindere dall'ideologia, la stessa cosa era successa a Kennedy, Nixon, Eltsin, Saddam Hussein e ai Cesari. Non si erano accorti di essere diventati burattini guidati da altri. S'impegnavano in battaglie tanto grandiose quanto impossibili da vincere, perciò conducevano una seconda guerra nascosta, nella quale ad agire erano un Mirko o un Carlos, un Abu Nidal o una Jana. Lasciavano che fossero altri a prendere in mano il loro destino.
Erano così sicuri di se stessi da non nutrire dubbi sul fatto di esercitare un controllo totale. Poi, al culmine del loro potere, qualcuno infilzava loro un pugnale tra le costole e metteva fine alla messinscena. Nel teatro dei burattini si chiudeva il sipario. I personaggi erano stati demoliti a sufficienza, i burattinai si ritiravano e aspettavano la missione successiva. Il mondo dei burattini si trasformava. Quello dei burattinai restava lo stesso. Mirko giunse sul pendio al di sotto del monastero e scese dall'auto. Era una giornata fredda e caliginosa. Chiuse la cerniera della giacca. Il vecchio lo aspettava davanti ai gradini che conducevano al portone. Quel giorno non si era dato pena di tenere nell'ombra gli uomini della sicurezza. Forse voleva fare colpo su Mirko. Diversi uomini in tenuta da combattimento erano disseminati nella zona. Mantenevano una rispettosa distanza. Mirko pensò che appartenessero a una delle numerose milizie. «Mio caro amico», esordì il vecchio cordialmente. «Il suo messaggio era come un tappo di sughero profumato! Adesso mi faccia assaggiare il vino. A che punto siamo con la nostra piccola impresa? Come dice di voler procedere la nostra stimata amica?» Mirko lanciò un'occhiata agli uomini in uniforme. «Queste persone devono stare ad ascoltarci?» «Non è un problema, ma naturalmente lei ha ragione. Facciamo due passi.» Si misero in movimento. C'era un sentiero che conduceva dal monastero alla strada e poi proseguiva oltre. Era orlato di cespugli incolti. Probabilmente, dopo qualche centinaio di metri, quel sentiero finiva in un campo, ma da lì sembrava che si perdesse nella foschia lattescente delle montagne all'orizzonte. Tre uomini li seguivano a una certa distanza. Dopo aver camminato in silenzio per qualche passo, Mirko comunicò al vecchio le richieste di Jana. L'altro si fermò e lo fissò. «Cosa vuole?» «Ha sentito bene.» Il vecchio scosse il capo e rivolse lo sguardo al monastero, come se in quell'edificio fosse racchiusa una realtà confortante. «Come può funzionare una cosa del genere? La sua amica ha perso il senno? Sono sciocchezze, Mirko. Sciocchezze che costano venticinque milioni!» «No», ribatté Mirko. «Se la cosa la tranquillizza, all'inizio mi sono irritato anch'io. Poi lei mi ha spiegato tutto. Funziona.» «Stento a crederle!»
«Se non crede a lei, può credere a me. Suona più fantastico di quanto non sia. Ciò che stupisce sono le dimensioni. Se fosse tutto in miniatura, sarebbe la cosa più semplice del mondo.» «Già, ma non è il nostro caso. Santo cielo, io ne ho viste di cotte e di crude, ma... non c'è un'alternativa?» «Certo», replicò Mirko. «Missili terra-terra. Forse. Il problema è che non riusciremmo ad avvicinarci a sufficienza per dislocare una base. Non riusciremmo a introdurre un'arma del genere nel Paese e non la potremmo trovare in Germania.» «E se cominciassimo adesso?» «Neanche se cominciassimo adesso.» Il vecchio guardò per terra, pensieroso. Poi proseguì lentamente. «Che cosa succederebbe se Jana mettesse in pratica il suo piano?» chiese. «Voglio dire, quale sarebbe l'effetto?» Dal suo viso era scomparso lo sgomento. Nella sua mente, quello scenario cominciava a tradursi in immagini. Mirko ne provò un moto di sollievo. L'ostacolo più grande era stato superato. Avevano bisogno dell'aiuto del vecchio, più che del suo consenso. Perciò dovevano convincerlo. Gli spiegò il funzionamento dell'arma. Non ci volle molto prima che gli occhi blu del vecchio cominciassero a illuminarsi. «Costa un accidente, ma è un bello spettacolo», commentò. «Quello che voleva», sottolineò Mirko. «Sembra proprio di sì.» Il vecchio esitò. «Eh, non si smette mai d'imparare. Pensavo di vivere ancora in tempi in cui un uomo si sdraia su un tetto con un fucile e che l'importante fosse trovare il tetto giusto.» Mirko sorrise. «È romanticismo da partigiani e lei lo sa. Un uomo e la sua arma. È sicuro di fare questo discorso alla persona giusta?» Il vecchio scoppiò in una fragorosa risata e gli diede una pacca sulla spalla. «Ah, Mirko! Maledizione, lo so anch'io che le cose non vanno così. D'altro canto, deve ammettere che ci vuole un po' per abituarsi alle idee della sua amica.» «Sono le idee di una donna», replicò Mirko imperturbabile. «Gli uomini pensano subito ai cannoni. Le donne hanno decisamente più fantasia. Lo sapeva che ci sono ponderosi trattati sul significato fallico di pistole e fucili? Perché agli uomini piace così tanto sparare, secondo lei?» «Perché hanno l'uccello, Mirko», rise il vecchio. Sembrava che si divertisse un mondo. «Perché sanno già come si fa a sparare. Dio vede di buon occhio un uomo che impugna un'arma.» «Ah, sì? Credevo preferisse vedere l'onnipotente cannone donare la vi-
ta.» «Qualche volta dona la morte. Che le prende, ha inghiottito un catechismo?» «Nient'affatto», replicò Mirko in tono sarcastico. «Mi chiedevo soltanto come lei potesse inneggiare contemporaneamente all'uccello e al fucile. Poi mi è venuto in mente Sigmund Freud, il quale ha detto che in un certo senso sono la stessa cosa. Secondo la mia esperienza, quanto meno si usa l'uno, tanto più diventa importante l'altro.» «Freud?» «Sì.» Il vecchio aveva smesso di ridere. «Ciance da psicologi», esclamò, sdegnato. «Un uomo deve potersi difendere. Conosco molti uomini onesti che hanno concepito bambini e, nel momento giusto, hanno premuto il grilletto.» «Può darsi. Io ne conosco altri. Ma tutto questo ha un interesse puramente accademico.» «Non lo so.» Il vecchio rivolse a Mirko uno sguardo indagatore. «Da quale cannone spara lei?» «Da quello giusto, a seconda del momento. Non mi sono mai sbagliato.» «Senta, non voglio prediche morali!» «Non si preoccupi. Se i generali avessero una vita sessuale più soddisfacente ci sarebbero meno guerre. Per me sarebbe un problema. Le cose mi vanno bene così come sono.» «Lei offende le persone che darebbero la vita per questo Paese e quelle che sono già morte. Preferiremmo non dover combattere. Qui tutti preferirebbero concepire piuttosto che sparare. Preferiremmo poter lasciare a casa le armi. E preferiremmo anche non doverci servire d'individui come lei.» «Si è espresso molto bene. Accetto la sua replica.» «Lei uccide volentieri? Mi dica, Mirko, lei è un patriota o semplicemente il garzone di una macelleria?» «Sono un uomo d'affari.» «È quello che ha detto la prima volta in cui ci siamo incontrati.» «Allora non me lo chieda più. Jana e io eseguiremo un incarico. Lungi da me offendere lei o i suoi ideali, ma non è preferibile per lei che io non ne abbia, d'ideali?» Il vecchio socchiuse gli occhi. Poi si rilassò. «Ben detto, Draković. Sì, è decisamente preferibile.» Ogni volta che voleva far pesare a Mirko la sua posizione, il vecchio u-
sava il suo vero nome. Mirko lo trovava divertente, ma pensò di averlo stuzzicato a sufficienza, per quel giorno. Era un gioco che serviva a non perdere il rispetto reciproco. Sapeva che il suo interlocutore lo stimava anche perché era uno dei pochi che non cercavano di adularlo. Inoltre non era sostituibile. Non ancora, pensò. Spingersi troppo in là avrebbe significato giocarsi la benevolenza del suo committente, il che sarebbe stato letale. «Bene, allora», proseguì il vecchio. «Le spiegherò subito alcune cose. Verrà a conoscenza dei retroscena della nostra piccola richiesta e di ciò che essi comportano per il suo incarico. Il Cavallo di Troia si schiuderà dinanzi a lei. Sicuramente sarà entusiasta della complessità dei nostri pensieri, sempre che abbia l'intelligenza necessaria per seguirli.» Mirko fece un cortese cenno di assenso. «Il Cavallo di Troia è stato l'idea più saggia che Agamennone abbia mai avuto», disse il vecchio. Niente da obiettare. Nessuna puntualizzazione sul fatto che fosse stato Ulisse ad avere l'idea del cavallo di legno, non certo Agamennone. Ma adesso basta, pensò Mirko, soddisfatto. «Può procurarsi uno YAG?» Il vecchio annuì. «Sì, non dovrebbe essere un problema. Se ho capito bene, tuttavia, non basterà procurarsene uno, vero?» «Ci occuperemo noi dei dettagli.» «Bene. Vedrò che cosa si può fare. Dobbiamo discutere di molti particolari. In chiesa, c'è una tavola imbandita che ci aspetta. Non c'è bisogno che lei faccia una vita da cani.» Mirko non replicò. Il vecchio guardò le montagne. Oltre le cime si stavano addensando masse color grigio scuro. «Arriva di nuovo la pioggia», constatò. «Torniamo indietro.» Fecero dietrofront in silenzio. Gli uomini della sicurezza si fecero da parte, aspettarono che fossero passati e poi li seguirono. «A proposito, come pensate di far arrivare in Germania quell'affare gigantesco?» chiese il vecchio. «Non dà un po' nell'occhio? Non è un'arma vera e propria, ma in ogni caso... spostamenti del genere si possono rintracciare.» Mirko sorrise. «Dalla Russia è arrivato ben altro senza che nessuno ci facesse caso.» Il vecchio sgranò gli occhi. Per un istante, essi rivelarono una certa confusione. Poi lui aprì la bocca e cominciò a ridacchiare. «Lei è un cane raffinato, Mirko.» La risata si trasformò in quella specie di fragoroso latrato
che Mirko già conosceva. «Bisogna ammetterlo. Un cane davvero raffinato!» Gli diede una pacca sulla spalla, rise ancora più forte e proseguì a passo svelto verso il monastero. «Ci trovo gusto a conversare con lei, Draković. Mi fa venire appetito.» Mirko chinò il capo. Aveva il favore del vecchio. 15 giugno 1999. Hotel Maritim (Colonia) «Non so come cucinino di sopra», disse Kuhn. «Tanto per me qualsiasi cosa che non venga servita con ketchup o patatine sa di cibo troppo caro.» «Ma non è per lei», replicò Kika, indispettita. Kuhn fece un gesto sprezzante. «Ah, Kika, il Maritim è solo un bel nome. E non mi guardi in quel modo. È così! Ovunque si vada, alla fine quello che si mangia è il nome. Non dia retta a quelle sciocchezze, ai cappelli da cuoco e alle stelle. I critici gastronomici sono tutti venduti oppure hanno la testa bacata. La carne può essere tenera o dura, finisce lì.» «Avevo proposto Le Moissonnier proprio perché non finisce lì.» «Sì, come quel Làrchenhof di domani, che ci costa montagne di soldi. E per cosa? Per farsi versare il vino da una caraffa all'altra, per un avanzo di fegato d'oca untuoso, per delle puzzolenti uova di pesce, per qualche gustosa mucillagine e altre cretinate...» «Quale mucillagine?» «Ostriche! Kika, per amor del cielo! Dovrebbe vedere il suo sguardo. Non mi venga a dire che le piace quella roba bavosa.» «Sembra che piaccia anche a lei.» «Cosa?» Kuhn socchiuse le palpebre, confuso. «Come? Ma se ho appena detto...» «La sua cravatta dà l'idea che ci sia appena strisciato sopra un affare del genere.» Kika prese un fazzoletto di carta pulito dalla borsetta e lo inumidì con la lingua. «Venga qua, è orribile. Ma non ha uno specchio in camera?» «Lei...» Kuhn si voltò e cominciò a gesticolare, mentre lei lo tirava per la cravatta e cominciava a sfregarla. «Ehi! Non è dignitoso! Non sono mica un pincher da trascinare per il guinzaglio... Ahi! Mi vuole strozzare? La vostra generazione dà troppa importanza alla tappezzeria! Davvero, Kika. In fondo non si dovrebbe nemmeno portare la cravatta, se non se ne ha voglia. Maledette pressioni sociali. Nient'altro che arroganza occidentale. Lo sapeva che i politici indiani...» «È vero, non dovrebbe portarla. L'unico problema è che non starebbe
meglio. Ecco fatto. Prego.» Kuhn la allontanò borbottando e s'infilò la cravatta nella cintola. Kika si chiese come riuscisse ad avere sempre quell'aspetto trasandato. L'editor non era affatto «alternativo», come voleva atteggiarsi. Non indossava vestiti economici. Ma, anche se erano cari, li portava talmente male che sembravano usciti da una fiera di beneficenza. A ciò si aggiungeva una delicatezza quasi imbattibile nell'accostamento dei colori. Accanto a O'Connor, sembrava un tragico errore. E con gli ospiti della serata, che avrebbero dovuto ringraziare Kuhn per la scelta del Maritim, non avrebbe fatto una figura migliore. Era l'unica prenotazione che gli aveva affidato e lui l'aveva mandata a rotoli. Kika non aveva nulla contro il Maritim. Era soltanto contraria in linea di principio ai ristoranti degli hotel, perché nella stragrande maggioranza dei casi offrivano una cucina mediocre. E la mediocrità era l'ultima cosa che aveva intenzione di offrire a O'Connor. Kuhn aveva messo sul piatto della bilancia la piacevole vista sul Reno. Alla fine Kika aveva ceduto e non aveva più insistito per cambiare la prenotazione. Aveva stabilito che Kuhn le doveva un favore importante per essergli andata incontro ed era decisa a pretenderlo quando sarebbe giunto il momento. «Vedrà, si mangerà bene», disse Kuhn in tono paterno. «Lo so bene anch'io cos'è appropriato.» «Hmm...» «Porzioni abbondanti, Kika. Così finalmente mette su qualche chilo! A proposito, lo sa perché così tante attrici sono anoressiche?» «No», sospirò Kika. «Molto semplice. Si vogliono fare le ossa! Ah, ah. Buona questa, eh? Ma quanto pesa lei?» «Se non la smette, finisce che gliele spacco, le ossa.» «Scusi, volevo solo...» «Non la riguarda affatto quanto peso, ha capito?» «Vista la sua altezza...» «Non lo sa nemmeno la mia bilancia!» Kuhn scrollò le spalle e perlustrò con lo sguardo la hall dell'albergo. Ormai stavano per arrivare gli ospiti. Il tavolo era prenotato per le nove e un quarto. Liam era in camera sua, per cambiarsi nuovamente d'abito. Durante il viaggio di ritorno con Kuhn si era comportato come un agnellino, appisolandosi diverse volte. Avevano lasciato l'Istituto di Fisica da tre quarti d'ora e Kika aveva notato con grande stupore che nessuno si era di-
mostrato minimamente offeso dall'arroganza di O'Connor. «Certo, ha qualche rotella fuori posto», aveva commentato Schieder al momento di congedarsi, quando lei era rimasta indietro per scusarsi. «Ma qui nessuno si aspettava nulla di diverso. Sì, insomma, è brillante! Ci pensi: quante persone beneducate ed equilibrate possono sostenere di esserlo? È un artista. I migliori fisici indipendenti sono artisti.» «È un'altra di quelle cose che nessuno sa, giusto?» «Giusto. Per questo facciamo così tanta fatica a trovare galleristi dalle finanze solide. Buona serata. Il suo pupillo è stato magnifico.» Schieder aveva ragione. O'Connor era un artista. Ma doveva per forza comportarsi come un'orda di artisti? «... capisco benissimo che non si porta al chiosco delle salsicce un autore di punta», stava dicendo Kuhn. «Ma questo è un buon ristorante, è rinomato. Lei invece si comporta come se io... Eccoli!» Dall'ingresso stavano arrivando tre uomini e due donne. Il primo era il libraio, un uomo dall'aspetto gioviale. La sua famiglia era proprietaria di una delle più grandi librerie della città. Kika sapeva che a Colonia infuriava una battaglia dei giganti. Decidere a chi dare la preferenza aveva richiesto un certo tatto. Il mercato locale era dominato da Gonski, filiale del gruppo Bouvier, e da Mayer'schen. I due antagonisti si dividevano il Neumarkt, nel cuore della città, dove si stavano talmente addosso che i loro negozi non distavano più di cinquanta passi. Per un attimo, Kuhn aveva accarezzato l'idea d'invitare anche il rappresentante della controparte, ma O'Connor non avrebbe fatto una presentazione in quella libreria, il che faceva temere qualche nota stonata. Colonia si era risparmiata almeno quel vertice, pensò Kika sollevata. Il secondo, un tizio alto e dai capelli bianchi, amava presentarsi come un esperto d'arte, prima di ammettere di essere il presidente della Camera di commercio e dell'industria. Doveva la sua presenza all'intervento del terzo ospite maschile, il quale a sua volta aveva procurato a O'Connor il privilegio di giocare a golf nel campo di Pulheim. Era il direttore della sede centrale della Cassa di risparmio di Colonia, una posizione che gli lasciava abbastanza tempo per conoscere persone importanti. La prima donna era l'assessore alla Cultura della città di Colonia: aveva una presenza di grande effetto e indossava un abito fluttuante. L'altra recitava da anni in una serie televisiva trasmessa da un canale pubblico nazionale ed era sempre presente quando persone importanti conoscevano altre persone importanti. Era anzianotta e rotondetta ed era ben nota per nutrire
un certo interesse nei confronti degli uomini più giovani. Kika si ricompose. Seguirono i consueti convenevoli con prolungate strette di mano. Kuhn riuscì a rivolgersi all'attrice col cognome del libraio. Kika glissò, continuando a conversare senza sosta e diede uno sguardo all'orologio. Le nove e venti. Come se i suoi pensieri si fossero trasformati in squilli di fanfara, in quello stesso istante Liam comparve dietro le porte a vetri dell'ascensore. Aveva un aspetto sfolgorante. Abito, camicia e cravatta erano perfettamente coordinati. I capelli grigio argento sembravano dipinti col pennello. In quel momento, se qualcuno le avesse raccontato che quell'uomo era un ubriacone fatto e finito, si sarebbe fatta una grassa risata. «Aspettate qualcuno?» chiese Liam allegramente, unendosi al gruppo. «O sono io che aspetto voi?» Urla di giubilo. Kuhn si assunse il compito di fare le presentazioni, non senza una certa giovialità. Liam si comportò con garbo e trovò parole gentili e ricercate per ciascuno. Kika rimase piuttosto colpita. «Mi piacciono i suoi abiti», gli disse in tutta sincerità mentre si avvicinavano all'ascensore che portava al ristorante del quinto piano. «Molto trendy.» «Signora Wagner, le sue parole sono musica per le mie orecchie.» Evidentemente, quand'era sobrio, O'Connor passava ai cognomi. «A onor del vero, non ne so molto di cose trendy. Invecchiano nel momento stesso in cui nascono e per me è decisamente troppo faticoso. Star dietro alla velocità della luce mi dà abbastanza da fare.» «Non direi. Dai suoi abiti, sembra piuttosto che lei sia sempre aggiornato.» «È un bluff. Compro i vestiti prima che diventino di moda e li smetto prima che passino di moda. In questo modo si è sempre chic senza essere al servizio di ciò che è trendy. Dopo di lei.» Salirono al quinto piano. Il tavolo accanto alla finestra offriva una splendida vista sul Reno e sulla sponda di Deutz. Ci fu un po' di confusione, poi tutti si accomodarono e venne servito lo champagne. Kika immaginava che O'Connor non avrebbe impiegato molto tempo per raggiungere il livello alcolico della mattinata, invece lui centellinava il vino, facendo onore all'acqua minerale. Lei lo osservava con le sopracciglia aggrottate e si chiedeva fin dove arrivasse il suo bluff. Aveva la vaga sensazione che lo avrebbe scoperto ben presto.
Per un po' la conversazione ruotò intorno a tutto e niente. L'attrice tormentò Liam con le solite domande. «Ma da dove le vengono le idee? Io non riesco proprio a immaginare come si possa scrivere un libro.» «Faccio come lo scultore macedone, gentile signora.» «Ma davvero!» «Già. Gli avevano chiesto come riuscisse a scolpire un leone perfetto da un blocco di marmo massiccio. Lui ci aveva riflettuto e poi aveva risposto: 'È molto semplice: prendo quel blocco e tolgo di mezzo tutto ciò che non somiglia a un leone'.» «Deliziooooso!» Eccetera, eccetera. «La vostra città è straordinaria», commentò cortesemente Liam, mentre spalmava un dito di quark alle erbe su un minuscolo pezzo di pane bigio. «A quanto ho sentito, dopo il miracolo di Cana e la battaglia di Isso, ora c'è la pace di Colonia.» L'assessore fece una smorfia. «Dopo il fantasma di Canterville, ora c'è perfino lo spirito del duomo di Colonia», ribatté. «Giunge completamente nuovo anche a me, però sembra che il nostro ministro degli Esteri lo abbia visto. Da quanto scrivono i giornali, è apparso all'illustre compagnia nella persona di Martti Ahtisaari12 e ci ha trasformato tutti in autentici pacifisti.» «Colonia si è fatta molti nuovi amici e ha messo fine a una terribile guerra proprio perché abbiamo una chiesa così bella», confermò il direttore della Cassa di risparmio. «Verissimo.» «Possiamo tagliarci tranquillamente una fetta di pace», osservò seccato il presidente della Camera di commercio. «Sa, professor O'Connor, Colonia si prende a calci nel sedere da sé. In quanto a disfattismo e autoflagellazione, non ci batte nessuno. Abbiamo un bel daffare con questa storia del vertice e potremmo anche esserne un po' orgogliosi.» «Io non litigo proprio», disse l'assessore. «Trovo meraviglioso che il no12
Nato a Viipuri nel 1937, è stato presidente della Repubblica finlandese dal 1994 al 2000 e si è sempre distinto per la sua opera diplomatica. In particolare, il 3 giugno 1999, a Belgrado, organizzò le trattative che portarono alla fine della guerra del Kosovo. Il riferimento al ministro degli Esteri tedesco si spiega col fatto che Joschka Fischer (ministro degli Esteri e vicecancelliere dal 1998 al 2005) aveva approvato il coinvolgimento della Germania nella guerra del Kosovo e la sua decisione, arrivando da un membro dei Verdi, era stata molto controversa. (N.d.T.)
stro cardinale Meisner sia apparso in sogno a Miloševič e poi Norbert Burger 13 abbia fatto il resto, lottando tenacemente.» «Ancora una volta lei ha una visione troppo limitata», osservò il direttore della Cassa di risparmio. «Anche Helsinki non ha fatto molto per la dichiarazione di Helsinki. Ora c'è la pace di Colonia. Qualche punto a favore della politica internazionale della nostra città. Abbiamo guadagnato un po' di prestigio, benissimo. E se è tutto merito del duomo... tanto meglio.» «Il cardinale Meisner non ha addirittura espresso la speranza che l'ultima guerra del secolo finisca all'ombra del duomo?» osservò Kuhn in tono sapiente. «Ciò che ha detto mi fa presumere che lui non voglia finire i suoi giorni all'ombra del duomo.» «Sia clemente. Tutti sono vanitosi.» «Che banalità, signori! Il duomo è il simbolo della pace per eccellenza, non vorrete mica metterlo in discussione?» «E perché?» «Se non altro, è sopravvissuto a una guerra mondiale. Io non sono troppo credente, ma lo definirei un simbolo.» «Certo, è vero. Hanno preferito gettare le bombe sulla gente tutt'intorno. Anche questo è un simbolo.» «Avrebbe preferito che venisse distrutto il duomo?» «Assolutamente no.» «Esatto. Niente duomo niente pace. Di recente l'Express 14 diceva addirittura che il duomo ha scritto una pagina di Storia.» «Chi? Il duomo? Oh, Signore! Il primo duomo che sa scrivere!» «In senso figurato.» «Non ha importanza. Il cancelliere ha assaggiato la birra Kölsch. Se n'è scolate quindici al Kölschen Stuff15 insieme con Rudi Carell.16 Questa è una cosa importante. Abbiamo così tanti motivi di montarci la testa che probabilmente un solo duomo non ci basterà più.» «Grandioso! Costruiamone un altro!» 13
Sindaco di Colonia dal 1980 al 1999. (N.d.T.) Rivista locale di Colonia. (N.d.T.) 15 Birreria ed enoteca dell'hotel Maritim di Colonia. (N.d.T.) 16 Presentatore televisivo e cantante di origine olandese, conduttore di uno show molto popolare in Germania dagli anni '60 agli anni '90. Nel 1987 causò una rottura diplomatica tra Germania e Iran con uno sketch ritenuto offensivo dal governo iraniano. (N.d.T.) 14
«Non so. Sono anni che non vado nemmeno in quello che già c'è.» «Davvero? Entri a vederlo. Penso che sia diventato ancora un po' più grande.» «Dica, professor O'Connor, voi come vedete Colonia a Dublino? Voglio dire, in questi giorni in cui tutto il mondo ci guarda...» «Come, scusi?» Liam sussultò. «Be', l'Irish Times ha scritto qualcosa del vertice. Ma non sono sicuro che sapessero che si teneva a Colonia.» «Ah, professor O'Connor... tutto il mondo conosce il nostro duomo», commentò in tono affabile l'attrice. «Già, c'è stato davvero di che preoccuparsi», osservò l'assessore. «Se si fossero seguiti i piani originali, le emittenti internazionali avrebbero potuto fare riprese soltanto dal tetto del municipio. Il mondo avrebbe visto il duomo dal lato sud.» Fece una pausa. «Con una sola torre, signori. Una mezza pace.» Qualche colpo di tosse e qualche risata sommessa. Furono distribuiti i menu. «In ogni caso, Tony Blair al Dom-Hotel, Eltsin al Renaissance, Clinton allo Hyatt», riassunse il libraio, sfogliando il menu. «Possiamo ritenerci fortunati. Che cos'è tutto questo in confronto a Liam O'Connor al Maritim?» «Gerhard Schröder è al Maritim», lo corresse in tono asciutto il presidente della Camera di commercio. «E Jacques Chirac è al Maritim. Noi siamo personalità eminenti, ma non esclusive.» «Beati noi!» esclamò il direttore della Cassa di risparmio, rivolgendosi a tutti i commensali con una risata accattivante. «Per lo meno non dobbiamo romperci la testa con cancellazioni del debito e piani di pace, no?» L'attrice si unì alla risata. Poi aggiunse: «Comunque nessuno sa perché si fanno la guerra, nei Balcani. Almeno, io ho perso il conto già da anni. Musulmani, non musulmani... per me sono tutti barbari». Piombò il silenzio. L'assessore tossicchiò. «Ma per favore!» esclamò l'attrice, sdegnata. «Secondo voi, si comportano da persone civili? Non so proprio perché ci immischiamo. Se si vogliono spaccare la testa a vicenda, che facciano pure, per quanto mi riguarda, ma non a spese di noi contribuenti.» Il banchiere la guardò come se fosse un'idiota. «Ma lei non ha sostenuto qualcosa di diverso in quella sua stupida serie televisiva che ha visto arrivare e svanire i suoi anni migliori?» chiese. «Non diceva che bisogna aiu-
tare gli altri, che non si deve rimanere a guardare senza intervenire?» «Ma lei stesso ha detto...» balbettò la donna. «Ho detto che ci sono argomenti più piacevoli! Nulla di più e nulla di meno.» L'attrice lo fissò con ostilità. «E io recito le sceneggiature che mi danno. E allora? Oh, Dio mio, il Kosovo! Non ci capisco niente e non voglio nemmeno capirci qualcosa. Non bisogna per forza capire tutto. Secondo me, dovremmo starne fuori. Non abbiamo già abbastanza problemi?» «Sì, sembra anche a me.» «Sceneggiature», mormorò il libraio. Liam si chinò in avanti e la guardò con occhi raggianti. «Non si lasci innervosire», le disse. «Io penso che lei abbia centrato la questione sotto ben due punti di vista.» «Davvero?» chiese lei sorridendo. «Ma certo. Prima di tutto chiedendosi perché c'immischiamo. Una buona domanda. In secondo luogo, dicendo che non sa rispondere, perché non ci capisce nulla.» L'attrice continuò a sorridere. Solo il suo sguardo esprimeva il dubbio che non fosse la reazione giusta a quell'affermazione. Il banchiere espirò una boccata di fumo e sogghignò. «Manuel Azaña ha detto che, se ogni spagnolo esprimesse giudizi soltanto su ciò che sa veramente, regnerebbe un gran silenzio, che si potrebbe sfruttare per imparare.» «Azaña?» gli fece eco l'attrice. «Un primo ministro spagnolo degli anni '30.» «Ma noi siamo in Germania.» «Ah!» «A ogni buon conto, non c'è bisogno di continuare a discutere», intervenne il libraio. «Il Kosovo è una tragedia, ma ora basta. Sono settimane che non si parla d'altro.» Lo disse col tono di chi dà un'occhiata al proprio cortile e si rende conto che è giunta l'ora che qualcuno faccia ritirare i rifiuti ingombranti. «Vogliamo ordinare?» propose Kika. «Solo un istante, se permette.» L'assessore alla Cultura sorrise gentilmente a Liam. «Mi piacerebbe sapere che cosa ne pensa lei, professor O'Connor.» «Penso che prenderò il loup de mer e per antipasto l'insalata di porcini e gamberi», rispose Liam, sollevando il bicchiere. «Un brindisi a tutti voi.
Mi sono appena reso conto che sto già assistendo al vertice.» «No... voglio dire, cosa ne pensa di questa guerra?» gli chiese di nuovo la donna. «Perché no?» Liam congiunse i polpastrelli. «Dopotutto rientra nel mio ambito di lavoro.» «La luce?» «No, la lingua. A mio parere non è una guerra.» «Non è una guerra?» L'assessore era sbalordita. «Questa me la deve spiegare.» «Oh, non sono fatto per queste cose», replicò Liam modestamente. «Non capisco nulla di politica. Dovrebbe spiegarlo la NATO.» «Che non è una guerra?» «Jamie Shea 17 parla sempre e soltanto di attacchi aerei. Se parlasse di guerra, sarebbe costretto a spiegarne il fondamento giuridico. Evidentemente non è in grado di farlo e non lo fa, perciò non è una guerra.» «E che cos'è, allora? Ci sono bombardamenti, laggiù.» «Be', non è una guerra offensiva, giusto? Tutte le nazioni coinvolte hanno ministeri della Difesa, non ministeri dell'Offesa, perciò non può essere una guerra offensiva.» «Giusto», fece l'assessore. «Rimane la guerra difensiva. Ma noi non abbiamo bisogno di difenderci. La Jugoslavia non ha attaccato nessuno di noi. Giusto?» «Giusto anche questo.» «Già, ma allora come dovremmo chiamarla?» «Che ne dite d'intervento?» propose Kuhn. «A proposito, io prendo la minestra di patate e la lombata.» «Sì, è così che lo chiamano tutti», riprese Liam. «Intervento. Ora, io in politica sono un asino fatto e finito. Scusate, ma cosa significa? Una specie di azione di polizia contro attività criminali?» «Forse.» «Ma la NATO non ha nessuna sovranità sulla Jugoslavia. Non può intervenire come polizia.» «Lei però la fa davvero complicata.» Il banchiere tirò fuori una scatolina di sigaretti. «Permettete? Qualcuno ne vuole uno? Ciò che succede in Kosovo è puro terrorismo. E lei non vuole intervenire?» «Sì, invece. Se è terrorismo, secondo la legge jugoslava ogni persona coinvolta è un delinquente. Perciò dovrebbero essere tutti condannati. Da 17
Portavoce della NATO durante la guerra del Kosovo. (N.d.T.)
giudici jugoslavi, intendo. Vede, qui sembra che ci sia un conflitto tra legalità e morale. Ciò che mi preoccupa non è tanto che qualcuno legittimi l'uso della forza per motivi morali, ma piuttosto che si veda costretto ad aggirare le leggi vigenti per questo motivo. Perciò sono ammissibili soltanto due conclusioni: o quel qualcuno è nel torto, oppure le leggi vigenti sono nel torto. Lei crede che la NATO abbia riflettuto prima di fare ciò che forse è giusto?» «Be', se la vede così...» «Mi perdoni.» Liam alzò le mani. «La domanda è stata fatta a me. Io sono soltanto uno scienziato che scrive libri, non un politico. So soltanto che nessuno vuole definirla una guerra e allora dico: se la NATO non sa esattamente di cosa si tratta, forse non sa nemmeno esattamente cosa sta facendo.» «Insomma, lei è favorevole o contrario?» chiese l'attrice. Il banchiere strabuzzò gli occhi e continuò a bere. «Non lo so», rispose Liam. «Perché ancora non so che cosa sia questa cosa.» «Un atto di giustizia!» esclamò deciso il presidente della Camera di commercio. «Ecco che cos'è! A proposito, il petto d'anatra deve essere davvero eccellente.» «Hmm...» «Non trova?» «Certo, eccellente.» Liam arricciò le labbra. «Sa, io trovo che sia giusto eliminare il male. Come dicevo, sono laico al cento per cento e non capisco nulla di strategie di guerra... Oh, scusate, d'interventismo! La logica mi dice che è ingiusto causare il male. Perciò un atto può essere giusto soltanto se elimina il male senza causarne altro, no?» L'assessore sorrise e rimase in silenzio. «Adesso so che ciò di cui stiamo parlando è soltanto un atto, grazie a Dio non è una guerra», proseguì Liam, tutto contento. «E naturalmente la NATO sapeva esattamente che i problemi che avrebbe causato non avrebbero mai superato quelli che doveva risolvere. E sapeva che avrebbe vinto l'atto da un giorno all'altro, perché aveva programmato tutto in anticipo con grande competenza. Stando così le cose, sono assolutamente a favore dell'atto. Alla salute, signori.» «Forse dovremmo...» cominciò Kika. «Certo che è una guerra», la interruppe bruscamente il libraio. «Qualsiasi altra cosa sarebbe solo una commedia. Lanciarsi in tali argomentazioni
significa non agire mai. È come dire: ammazza pure tua moglie, se la fai fuori a casa tua, io non faccio nulla. È guerra, certo, ma è una guerra dei valori. È buona la sogliola, secondo lei?» «Sicuramente.» «Un momento.» Liam scosse il capo. «Quindi difendiamo un valore?» «Esatto.» «Quale?» «La sogliola col riso. Voglio dire... be', la vita... il diritto alla vita... la vita umana ha un valore. Se questo valore viene attaccato...» «Io sono di altro parere», replicò Liam. «Se permette, trovo sospetta questa ideologia dei valori. I valori sono un inventario della cultura che li postula. In Occidente abbiamo valori occidentali, abbiamo uno stile di vita occidentale. Non c'è bisogno che difendiamo la nostra concezione dei valori, perché nessuno l'ha attaccata. Tantomeno possiamo imporre tali valori a un altro Paese che non vuole condividerli. Crede davvero che gli albanesi del Kosovo incarnino i nostri valori?» «Certo che no!» «E allora quali valori vuole difendere?» «Il valore della vita. Non è forse qualcosa?» «Un momento! Lei intende i diritti umani. I diritti umani inalienabili. I valori in sé sono astratti, quindi alla fine difendiamo ancora una volta esseri umani.» «Cavilli. È la stessa cosa!» «Mi perdoni, sono un vecchio chiacchierone. Sono sicuro che persino Miloševič è convinto di difendere dei valori. Ne era convinto anche Hitler e lo stesso vale per Saddam Hussein. L'hezbollah pensa di difendere dei valori, l'IRA, l'ETA, la RAF la pensavano nello stesso modo. Difendere valori è un'assurdità. Chi pensa di farlo non agisce ai fini di valori realmente esistenti, ma cerca di affermare la propria personale concezione di valore. E questo non è necessariamente nell'interesse delle persone. Vede, non riusciamo nemmeno ad accordarci su vocaboli obiettivamente validi per descrivere la situazione. Nessuno sembra in grado di farlo, in questa guerra, perciò di che cosa parliamo? Soltanto per questo, a mio parere, dovremmo parlare di cose più piacevoli. Di libri, per esempio. Se proprio dobbiamo parlare di dissimulazione della realtà, tanto vale restare nel campo della finzione letteraria.» Calò il silenzio. «Giusto. Il nostro vertice è la letteratura», annunciò infine Kuhn.
«Già, proprio così.» «Esatto!» La conversazione rischiava di arenarsi. Un cameriere si apprestò a soccorrere i commensali, prendendo le ordinazioni. Da quel momento in poi il discorso si spostò sull'argomento vino, su cui tutti avevano qualcosa da dire, tranne Kuhn. Kika scommise tra sé quanto ci sarebbe voluto prima che il gruppo dedicasse la propria attenzione ai nuovi sviluppi dell'industria automobilistica. «Gli uomini s'intendono di tante cose...» sussurrò all'assessore alla Cultura. «Ogni volta rimango senza parole.» «Già, anch'io a un certo punto non dico più nulla», replicò l'altra. Liam girò lentamente la testa e lanciò a Kika un'occhiata che sembrava dire: «Perché non ce ne andiamo in un bel bar e non li lasciamo qui a fare i fanfaroni per conto loro? Si potrebbe ascoltare qualche aneddoto al bancone, tra nuvole di fumo. Abbandonarsi al juke-box e ai suoi ricordi. Lasciar cianciare i politicastri e scolarsi un drink alla salute della pace di Colonia e della guerra dei valori e chiudere il becco appassionatamente». Lavori troppo di fantasia, si rimproverò Kika. Il direttore della Cassa di risparmio tirò fuori altri sigaretti e trovò un complice in Kuhn. «Dica, professor O'Connor», disse tra una boccata e l'altra, «passiamo a qualcosa di completamente diverso. Da irlandese, come trova la nostra città?» «Da irlandese?» chiese Liam, stupito. «Per essere franco, ciò che ho visto finora mi ricorda davvero Dublino.» «Sul serio?» «Sì. Mi piace il fascino dell'imperfezione.» «Davvero? Al momento non mi è chiaro questo concetto d'imperfezione. Dublino non è stata anche capitale della cultura?» «Anche Stonehenge era una capitale della cultura, qualche migliaio di anni fa», ribatté Liam, imperturbabile. «Dublino è come una dentatura malata i cui possessori preferiscono lustrare i denti restanti con spazzolini d'oro piuttosto che riempire i vuoti con protesi dentarie. Ma ammetto che il paragone non sta in piedi. Colonia è stata distrutta due volte, vero? Una volta dalle bombe degli Alleati, la seconda volta dagli architetti.» «Giustissimo», confermò l'assessore. «Il teatro dell'opera, per esempio, andrebbe fatto saltare in aria.» «Visto che un attimo fa lei ha parlato di fascino, devo insistere sul fatto
che spesso i fiori più belli spuntano dalle macerie», disse il libraio. «Ho trovato pub raffinati nelle zone più misere di Dublino. Anche a Colonia non è diverso. In realtà, professor O'Connor, lei non dovrebbe nemmeno essere qui. Il Maritim è un hotel come tanti altri. La vera attrattiva della città si scopre nei suoi luoghi più nascosti.» Ci fu un cambiamento quasi impercettibile in O'Connor. Kika si accorse che, per la prima volta in tutta la serata, nei suoi occhi si era accesa una scintilla di sincero interesse. Lo scienziato si chinò in avanti e dilatò le narici, come se fiutasse una pista. «E dove sarebbero questi luoghi, se mi permette la domanda?» «Nel quartiere frisone, il Friesenviertel. È lì che l'avrebbero dovuta portare i suoi ospiti, stasera. Mi perdonino, cara signora Wagner e gentile signor Kuhn, ma per il professor O'Connor il pub irlandese sarebbe un vero eldorado.» «Sciocchezze, di pub ne vede abbastanza in Irlanda», obiettò l'assessore. «Ma non come il Jameson's. È frequentato da veri irlandesi, sul serio, e la carta dei whisky è magnifica. Inoltre servono ostriche di Galway con pane integrale e Guinness.» «Fesserie! Deve andare alla Päffgen.» 18 «Macché! Semmai alla Klein Köln. 19 Forza, alla Klein Köln.» Il banchiere agitò il sigaretto, creando transitorie calligrafie di fumo. «Sì, che ci sono persone in gamba, in quel posto! È molto più originale della Päffgen.» «Puttane e magnaccia», commentò l'attrice, cercando di avvicinarsi un po' di più a Liam. «Che ci sarebbe di originale?» Liam non le prestò attenzione. «Dove ha detto che si trovano tutti questi posti?» «Nella Friesenstraße», spiegò il libraio. «Deve insistere per farcisi portare. Mi dia retta!» «Grazie.» Lui sogghignò, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Ma mi sento particolarmente bene in vostra compagnia. Forse un'altra volta. Con così tante persone intelligenti e colte, non c'è nessun motivo di cambiare ambiente. Non è vero, signora Wagner?» Kika lo squadrò. «Certo», disse lentamente. «Una bella serata.» «C'è un'altra cosa che volevo chiederle...» disse l'assessore. Da quel 18
Storica fabbrica di birra e birreria di Colonia. (N.d.T.) Altra birreria della Friesenstraße, nota anche come luogo di pesatura dei pugili prima degli incontri. (N.d.T.) 19
momento in poi, la conversazione finalmente s'incentrò sui libri di O'Connor e sulle sue conquiste nel settore della fisica sperimentale, a parte una piccola digressione sugli ultimi sviluppi nell'industria automobilistica, tra antipasto e portata principale. Dovevano essere circa le dieci, ricordò più tardi Kika, quando O'Connor si era alzato per andare alla toilette. La cosa più naturale del mondo. Tranne il fatto che non era tornato. Non era tornato dopo cinque minuti e neanche dopo dieci. I commensali si scambiarono sguardi interrogativi. Passò un quarto d'ora, ma i presenti non dubitavano che lo scienziato fosse andato in camera a fare una telefonata o a cambiarsi e che sarebbe ricomparso al più presto, con un'affascinante scusa sulle labbra. Alle dieci e venti, per la terza volta in quella giornata, Kuhn perse le staffe e il colorito. «Io, quello...» «Calma, Fury.» Kika gli diede qualche colpetto sul braccio. Il tizio della Camera di commercio chiacchierava con l'assessore, analizzando vari allestimenti teatrali. Il direttore della Cassa di risparmio parlava di ecommerce col libraio. Soltanto l'attrice guardava nel suo bicchiere con aria smarrita. «Che strano», osservò. «Proprio quando stavamo facendo amicizia.» No, nient'affatto strano, pensò Kika. Se sapesse... Si chinò verso Kuhn e mormorò: «Lei intrattenga la truppa. Io sparisco dalla circolazione». «Come?» sibilò l'altro. «Ma è impazzita? Non mi può lasciare solo. Prima O'Connor, poi lei!» «Appunto per questo. Vado a recuperarlo.» Kuhn la guardò senza capire. Poi annuì, come in trance. «Okay, forse si è addormentato.» Kika scosse il capo. «Ho detto che vado a recuperarlo. Non si è addormentato. Paghi lei il conto. Ci vediamo. Prima o poi.» «Kika!» protestò Kuhn. Lei gli diede un colpetto sulla spalla, si alzò e fece un cenno di saluto ai convitati. «Vado a vedere dove si è nascosto il nostro amico», disse. «Torno subito.» «Forse lo troverà nella Friesenstraße», scherzò il banchiere, dando una tirata al sigaretto numero chissà quanto. Kuhn si accasciò ancora di più. «Già», replicò poi allegramente. «Sarebbe proprio bello!»
28 dicembre 1998. Colonia Nella notte prima dell'incontro con Mirko a Colonia, Jana fece un sogno che occupò i suoi pensieri a lungo. Il sogno lucido ha una caratteristica interessante: dare a chi lo riconosce la possibilità di svegliarsi o di continuare a dormire. Si prova una sensazione molto forte a volare in un sogno lucido, godendosi l'esperienza in piena consapevolezza, mentre al di là dei muri del sonno non si è più in grado di farlo. Così d'un tratto s'influisce su un processo di cui si è creatori e protagonisti. Jana si alzò. La grande finestra della sua camera da letto, che dominava la valle fino all'altura della Morra, si trovava sulla parete opposta al letto, anziché al suo posto consueto. Si rese subito conto che stava sognando, ma decise d'intraprendere quell'avventura, tanto più che la scena non era assurda, ma si svolgeva in una specie di universo parallelo. Accanto a lei, era disteso qualcuno che respirava affannosamente. Si chinò su quella sagoma, ma il viso sembrava sciolto, senza contorni e identità. Si alzò, nuda com'era, e si avvicinò alla finestra fuori posto, per guardare fuori. Davanti a lei c'era una silenziosa strada di campagna, illuminata dal sole del primo mattino. Sulla diagonale erano affacciate alcune vecchie case, con giardini rigogliosi; più in là si estendevano campi di rossi papaveri selvatici, che giungevano ai margini di un boschetto, interrotti solo dal giallo rigoglioso di alcuni ondeggianti campi di grano. Nell'aria c'era uno stridio, da qualche parte abbaiava un cane e tre sagome con abiti da contadino erano riunite qualche metro più in là a fumare pipe arcuate di stile antico. Api grosse come pollici le ronzavano intorno facendo capriole e le si posavano sulle mani, che lei teneva appoggiate al davanzale della finestra per poter guardare meglio fuori. Jana sapeva che non l'avrebbero punta. Era piuttosto un fugace benvenuto e aveva senso, perché ciò che si presentava ai suoi occhi non era altro che la vista dalla cameretta di Sonja Ćosić nella casa dei suoi nonni in Krajina. Per una bambina, le api sono qualcosa di più grande che per una donna adulta. Da piccola era andata molto spesso in quella casa ma, crescendo, le visite ai nonni si erano fatte sempre più rare. Forse era per quello che la sua capacità di comprensione non riduceva le api alle dimensioni appropriate. Il tempo che andava alla rovescia le aveva fatte crescere, proprio come aveva fatto rivivere quegli uomini con la pipa, che erano morti, sepolti e dimenticati. Uno di loro fece un cenno e la chiamò: «Ehi, Sonja, sei
tornata?» Sembrava di sì. Voleva ricambiare il saluto, ma qualcosa la trattenne e si limitò a continuare a guardare fuori. Era davvero lì? Stava sognando, era chiaro, ma il sogno l'aveva condotta nel luogo giusto? Il paesaggio le sembrava un po' troppo idilliaco, tutto in quel mondo era eccessivo e artificioso, ricco di sfumature, ma sterminato. Eppure aveva di fronte la pura verità dei bambini, i quali non si rendono conto di crescere, ma credono, pieni di stupore, che il mondo intorno a loro rimpicciolisca. Alla sensazione di felicità che si era impossessata di lei nel momento in cui aveva visto la strada si mescolò una certa insicurezza. Si guardò. Aveva il corpo di un'adulta, ma si trovava senza dubbio in un luogo della sua infanzia. Uno degli anziani si staccò dal gruppo e si portò sotto la finestra. Aveva mento e guance coperti di un'ispida barba bianca. Riconobbe suo nonno. «Sono una bambina?» chiese Jana. La sua voce suonava sottile e timorosa. «Naturalmente», rispose il nonno. «Ma non ho l'aspetto di una bambina», disse lei. «Posso rimanere lo stesso, se prometto di non ammazzare più nessuno?» «La verità dei bambini è il cambiamento, piccola», replicò il nonno con una voce dolce, dando una tirata alla pipa. «Dunque è una verità viva e in costante evoluzione. Un continuum del possibile, una manifestazione metafisica, nella quale non conta ciò che manca, come per noi adulti, bensì ciò che è. E ai tuoi occhi ciò che è abbraccia molto di più delle poche cose che vede un uomo della mia età. Non credere alla favola della saggezza; l'età rende ciechi. Ricorda, il mondo non è definibile, è interpretabile. Finché sei parte della realtà, la realtà è una parte di te e così a un tratto i cavalli possono avere le ali e ce le hanno davvero. Ma devi volerlo e non volerlo nel contempo e mantenere il controllo. La tua volontà è l'unico motivo per cui sei qui, Sonja. Se permetti ad altri di volere qualcosa al tuo posto, è meglio che ti allontani da questa finestra, perché poi non ti potrai più fidare di te stessa. Non c'è nessun'altra verità all'infuori di te, perché il mondo esiste esclusivamente nella tua testa e non potrai mai dimostrare che non è così.» Lei guardò verso il vecchio, che era indubbiamente un gigante, e pensò alle ciliegie. Tenute insieme a due a due dalle estremità superiori dei piccioli. Il nonno sorrise. Doveva svegliarsi? Oppure uscire nell'infanzia e cercare la verità, la verità dei bambini? Ma evidentemente aveva esitato
troppo, perché all'improvviso la finestra era soltanto una vecchia foto in bianco e nero e Jana era seduta sul bordo del letto a osservare con delusione il blu del cielo che si trasformava in un grigio plumbeo. La visione svanì. Le sagome con le pipe sbiadirono. Poi all'immagine si mescolò una nuova tonalità di colore, un rosso sgargiante, e la foto cominciò ad annerirsi e arricciarsi ai bordi e a carbonizzarsi. «Nonno!» gridò lei. Al suo orecchio giunse un suono di passi. Urla e spari. Cominciò a singhiozzare, si gettò sul letto e si nascose tra i cuscini. «Jana?» Sussultò, emergendo dal ricordo, si girò verso Mirko e sorrise. «Mi spiace. Mi sono distratta per un attimo. Cos'ha detto?» «Le ho chiesto se è mai stata a Visoki Dečani. È splendido, uno dei monasteri più belli del Kosovo.» Mirko rovesciò la testa all'indietro e guardò le torri del duomo di Colonia. Erano davanti al portone principale, nella piazza del duomo, e si fingevano turisti. Jana era entrata nel Paese come Karina Potschowa e portava la parrucca coi capelli lunghi biondi, Mirko aveva il solito aspetto: jeans, giacca di pelle, capelli a spazzola brizzolati. Avevano passato la mattinata gironzolando per Colonia. Se qualcuno li avesse seguiti, avrebbe avuto l'impressione che si attenessero al classico itinerario turistico: municipio, centro storico, Gürzenich, i mercati, il duomo, la passeggiata lungo il Reno e, fra una tappa e l'altra, qualche escursione nelle vie dei negozi, in cerca di souvenir. In realtà né Jana né Mirko quella mattina avevano occhi per le bellezze della città, ma piuttosto valutavano ciò che Jana aveva immaginato come provvisorio piano B. «Questa chiesa è straordinaria», osservò Mirko. «Mi chiedo se per i tedeschi abbia lo stesso significato storico dei monasteri kosovari per la Serbia.» Jana scrollò le spalle. Conosceva il monastero di Dečani. Mirko aveva ragione a definirlo splendido. La chiesa del monastero risaliva alla prima metà del XIV secolo e riuniva elementi bizantini, romanici e gotici. La casa di Dio, i dormitori, gli edifici dei laboratori, perfino le possenti mura di cinta s'inserivano armonicamente nel paesaggio montano, senza entrare in competizione con la sua naturale grandiosità. Difficilmente si poteva trovare un altro luogo che esprimesse in modo così chiaro perché i serbi considerassero il Kosovo la culla del loro Stato e della loro Chiesa. In effetti le chiese e i monasteri del Kosovo rivestivano un'importanza storica quasi incommensurabile. C'erano diversi edifici me-
dievali ben conservati, rovine e resti di altre due dozzine di monasteri e oltre cento chiese. Quando Jana lo aveva visitato, anni prima, il monastero di Dečani era immerso in un perfetto silenzio. Ricordava i possenti rilievi delle Alpi albanesi tutt'intorno. Le propaggini orientali della catena montuosa formavano un confine naturale tra il Kosovo da una parte e l'Albania e il Montenegro dall'altra. Benché fosse la fine di maggio, le cime alte duemilacinquecento metri erano ancora ricoperte di neve, mentre sull'altopiano era già arrivata la primavera; i campi erano di un verde intenso e gli alberi da frutta erano fioriti. Il monastero emanava un'aria di maestosità. Lei era entrata e aveva ascoltato il canto salmodiante dei monaci, che probabilmente anche seicento anni prima non suonava molto diverso; anche se non credeva in Dio, aveva avuto l'impressione di percepire l'influenza di una forza superiore che confinava il brutale presente fuori dalle mura del monastero. Dunque il suo popolo avrebbe perso anche quello. Jana seguì lo sguardo di Mirko fino alle cime delle torri. «Come le vengono in mente i monasteri, adesso?» gli chiese. «Così. Ultimamente ho avuto spesso occasione di frequentarne.» «Mi fa piacere che lei si lasci colpire dalla Storia.» «Non è così, in genere», replicò Mirko. «Però al monastero di Dečani ci sono stato da bambino. Andavamo spesso in Kosovo. Dečani è un bel parco giochi.» Jana non aveva molta voglia di lasciar scivolare la conversazione sul terreno personale, anche se Mirko le stava davvero simpatico. Le piacevano i suoi modi sobri ed era bello. Gli avrebbe potuto raccontare della sua infanzia, dei viaggi in Krajina, dei suoi genitori. Ma tutto ciò non c'entrava nulla. Era la storia di una bambina di nome Sonja, la quale di lì a sei mesi avrebbe smesso definitivamente di esistere. Non c'era nessun motivo di entrare in intimità. «Che ne pensa del piano B?» gli chiese, cambiando argomento. «Difficile fare una cosa del genere in città», rispose Mirko. «Preferisco l'altra variante. Fra l'altro anche all'aeroporto avremmo una specie di piano B, una seconda possibilità, se non dovesse funzionare la prima volta.» «Allora la pensiamo nello stesso modo.» «In più, la scelta della posizione è eccellente. L'azienda di spedizioni mi sembra l'ideale.» «L'ho opzionata fino alla settimana prossima. A quel punto, dovremo deciderci.»
«Bisognerebbe comprarla.» «D'accordo.» «Metto in moto tutte le procedure necessarie. Ma naturalmente non dobbiamo annullare del tutto lo scenario del centro città. Credo che ben presto conosceremo il programma esatto. Prevederà senz'altro il duomo, il municipio e il centro storico. Forse anche quell'altro posto... come si chiama?» «Gürzenich», rispose Jana. «Quanto ci metterà ad avere le informazioni?» «Relativamente poco. Uno o due mesi.» «Hmm...» Lei si guardò intorno. La piazza del duomo era assai affollata. Il mercatino natalizio era scomparso, ma il flusso di visitatori sembrava comunque incontenibile. «No, non porterà a nulla. Dimentichiamoci del centro città. L'aeroporto è più che sufficiente.» «Come vuole. Allora parliamo dei dettagli.» «In albergo», disse Jana. Mangiarono un boccone nella birreria che Jana aveva visitato sotto le spoglie dell'anziana signora Baldi. Poi raggiunsero a piedi il Kristall, dove aveva deciso di alloggiare ancora una volta. Le piaceva l'atmosfera e aveva previsto di trascorrere un'altra giornata a Colonia, da una parte per prendere dimestichezza con l'ambiente, dall'altra perché la città le piaceva e voleva provare un ristorante situato in un castello fuori città e famoso per la sua eccellente cucina. Mentre Mirko, che era atterrato quella mattina presto a Colonia, aveva intenzione di ripartire la sera stessa, Jana aveva di fronte a sé la prospettiva di alcuni squisiti piaceri e forse anche una bottiglia di Bordeaux d'annata. Nel frattempo, Mirko si era confidato con lei, quindi Jana sapeva che sarebbe andato a Belgrado, con qualche scalo intermedio. Che cosa dovesse fare laggiù e con chi s'incontrasse non rientrava nelle sue conoscenze. Avrebbe potuto chiederglielo, ma dubitava che lui le avrebbe dato ulteriori informazioni. Jana non fece l'errore di metterlo sotto pressione. Col tempo, forse, le avrebbe raccontato di più. Entrò in albergo e andò subito in camera. Trascorsero dieci minuti, poi bussarono alla porta. Aprì e fece entrare Mirko. «Non c'era nessuno alla reception», disse lui. «Si accomodi.» Jana indicò il salottino alla finestra, aprì una valigetta portadocumenti e ne estrasse un raccoglitore sottile. Si sedettero. Mirko aprì il raccoglitore e cominciò a studiarne il contenuto. «Gruškov ha elaborato tutto nei minimi dettagli, perciò quella è la lista
definitiva di ciò che ci serve», commentò Jana. «Devo aggiungere che apporteremo qualche miglioria, però lei non se ne curi. La cosa importante è mettere insieme l'attrezzatura. Una parte è lo YAG, che naturalmente è il cuore del progetto. L'altra sono gli specchi. Sono quattro, come vede. Il termine 'specchio' è un po' fuorviante; in realtà sono trasparenti da entrambi i lati e hanno molteplici rivestimenti dielettrici. Quando gli specchi saranno in posizione, la riflessione della luce solare sarà limitata. A meno di averli proprio sotto il naso, sono di fatto invisibili.» «Che significa dielettrici?» «Significa che gli specchi lasciano passare la luce normale. Riflettono soltanto una lunghezza d'onda di 1 μm, che fra l'altro è uno standard.» «Capisco. E che significa 'ottiche adattative'?» «Un sistema speciale. Secondo Gruškov, potete reperire uno specchio adattativo dove troverete anche lo YAG. Forse non avrà le dimensioni che chiediamo, ma non dovrebbe essere un problema realizzarne uno della giusta misura.» «A cosa serve?» «È per via della distanza. Per questo ci serve uno specchio adattativo. I diametri dello specchio passano da dieci a trenta centimetri, è tutto descritto nel dettaglio.» Fece una pausa. «Lo specchio più piccolo è quello decisivo, Mirko. Lo trasformeremo in un mirino telecomandato. Se ne occuperà Gruškov. Sarà lui a scrivere anche il programma. L'altra cosa di cui ci occuperemo noi sono gli aggregati. Probabilmente ne accoppieremo due, dieci o venti kilovoltampere dovrebbero essere sufficienti. Inoltre ci serve un supporto a rotaie, che reperiremo in Germania. Conosco qualcuno che può costruirci qualcosa del genere. Noi forniremo tutto ciò che rientra nelle nostre possibilità. Ma rimangono un sacco di cose che deve mettere in moto lei. Pensa di farcela?» Mirko chiuse il raccoglitore e annuì. «Per quanto riguarda lo YAG, la cosa è praticamente risolta. Il Cavallo di Troia dispone dei contatti necessari.» «Dove lo andranno a prendere?» «In Russia. Probabilmente in Bielorussia o forse in Ucraina. In entrambi i Paesi ci sono istituti di ricerca adeguati. Inoltre siamo in contatto con un personaggio di spicco del Cartello, tramite il quale sbrigherò anche l'acquisto dell'azienda di spedizioni. Per quanto riguarda lo specchio, credo che non ci saranno molti problemi, come per lo YAG. Da quelle parti sono molto collaborativi, quando si tratta di soldi.»
«La Russia», borbottò Jana. «Il Cartello. C'ero quasi arrivata.» Mirko sorrise e rimase in silenzio. Il Cartello disponeva di eccellenti contatti nei Paesi dell'Europa occidentale, soprattutto in Svizzera, Austria e Germania. Non era chiaro cosa fosse esattamente, chi ne facesse parte e in quale misura lo si potesse ascrivere alla mafia russa. Era una parte della ragnatela in cui i «boss rossi», come venivano chiamati i carrieristi della nuova Russia, avevano avvolto l'intera Europa. Quella ragnatela ormai si estendeva fin negli Stati Uniti. Ma c'erano comunque Paesi coi quali il sottobosco russo preferiva fare affari. Ogni mese nascevano centinaia di aziende di copertura in Inghilterra, Austria e Svizzera per riciclare il denaro russo. In Germania il big bang del potere dei magnati russi era avvenuto all'inizio degli anni '90. Dal momento in cui il governo tedesco aveva cominciato a pagare l'Armata Rossa per il ritiro delle truppe, i boss avevano fatto una montagna di soldi. Nel frattempo, l'ufficio criminale di Berlino aveva capito con quali fondi la mafia russa aveva finanziato la sua partenza fulminea in Germania. Erano i sei miliardi di marchi che Bonn aveva versato fino al 1994. Tutte le attività del sottobosco russo che da allora erano diventate tristemente famose in Germania erano collegate in qualche modo a quel denaro. La battaglia era persa prima ancora di cominciare. I collegamenti tra interessi tedeschi e russi avvenivano nella famigerata zona grigia su cui si rompevano la testa i criminologi. Era ancora mafia o non più? Miliardi di guadagni riciclati del crimine organizzato cancellavano i confini tra legalità e illegalità, aprivano porte su stanze in cui venivano prese importanti decisioni politiche ed economiche e creavano così una nuova realtà. Il denaro illegale partoriva strutture legali. La Germania, per esempio, era letteralmente invasa dai soldi della mafia russa e italiana: i legami erano diventati inestricabili. Erano stati elaborati scenari per descrivere ciò che sarebbe accaduto se, da un giorno all'altro, quel denaro fosse stato sottratto all'economia tedesca. Non sarebbe crollata completamente, ma alcune sue parti sì. Ciò che da una parte minacciava di causare conseguenze catastrofiche per l'economia russa e quella europea era più che consono agli interessi di Jana e di Mirko. I capitali russi consentivano transazioni ad altissimo livello. Non era un caso che il timore di commerci illegali di materiale nucleare fosse così marcato: esistevano legami commerciali per cui si era indotti a temere che intere testate nucleari potessero passare «inosservate» ai confini. Lo YAG, che era pur sempre grande quanto un piccolo camion, sarebbe
arrivato senza problemi dalla Russia alla Germania, tramite documenti falsi, avvalendosi dei giusti contatti a Mosca. Tanto più che non era neanche un'arma. Indirizzarlo ufficialmente a un istituto in Germania che non lo aveva mai ordinato, per poi farlo scomparire a metà strada, era uno dei più semplici esercizi dell'ostetricia tedesco-russa applicata a piani equivoci. Dopo che i boss avevano «rilevato» anche l'intellighenzia innovativa del Paese, non c'era nulla che non si potesse acquistare in Russia. Se Mirko avesse parlato di ordinare una macchina del tempo o una navicella spaziale interstellare in qualche regione sperduta dell'Ucraina o della Bielorussia, la cosa non sarebbe stata completamente da escludere. Dunque potevano star certi che avrebbero avuto lo YAG e gli specchi. E l'azienda di spedizioni. Se Mirko conosceva una personalità del Cartello che aveva promesso di consegnare quell'affare e di acquistare l'azienda come prestanome, la questione era risolta. L'unico problema consisteva nella possibilità di risalire all'origine dello YAG. Insieme coi raffinati metodi della mafia russa, si affinavano anche le capacità dei criminologi tedeschi e internazionali. Forse, dopo l'attentato, i tedeschi avrebbero scoperto da dove proveniva lo YAG, svelando il coinvolgimento russo. Se l'Occidente fosse giunto a quella conclusione, c'era da aspettarsi una nuova Guerra Fredda. Se fosse emerso che la responsabilità dell'operazione risaliva a Belgrado, c'era da aspettarsi una rappresaglia, se non una guerra calda. Che concludessero pure ciò che gli pareva. Jana se ne sarebbe andata molto lontano, dove i problemi dell'Europa non potevano seguirla. Porse a Mirko un secondo raccoglitore. «Ho fatto un prospetto della squadra», disse. «In cima ci siamo io, lei e Gruškov. Per quanto riguarda Gruškov, è sicuramente molto dotato, ma poco adatto al fronte. Mi piacerebbe comunque che rimanesse a portata di mano, perché è capace di scrivere un programma completamente nuovo su due piedi. Ma abbiamo bisogno di un paio di tecnici per eseguire le installazioni necessarie. Uno specialista degli specchi e un assistente. E naturalmente di un sesto uomo.» Mirko corrugò la fronte. «Devo ammettere che mi sono scervellato su quest'ultimo. È l'unico punto debole.» «Be', ci sono soltanto due possibilità», replicò Jana. «Corruzione o estorsione.» «Abbiamo circa sei mesi di tempo», disse Mirko. «Non sarebbero sufficienti per introdurre un sosia?» Jana scosse il capo. «Troppo complicato. Dovremmo scovare qualcuno
con una generica somiglianza alla persona che vogliamo sostituire. Dovrebbe essere tedesco, disporre di conoscenze tecniche ed essere disposto a farsi operare. I chirurghi dovrebbero fare miracoli! Ci vogliono due mesi perché le cicatrici guariscano. Non si dovrebbe vedere neppure la minima traccia dell'operazione, il che è quasi impossibile.» «E se avesse un incidente d'auto? Ciò spiegherebbe perché non si è riusciti a ricostruire il suo viso, per non parlare delle cicatrici.» «Non funzionerebbe neanche così. E se questa persona ha una famiglia?» «E allora?» «Lei mi fraintende», disse Jana, irritata. «Voglio dire, dovremmo ammazzare tutti oppure scordarci di questa idea. Alla lunga non si può ingannare una famiglia intera. Una persona del genere non entrerebbe in scena soltanto per un breve periodo, dovrebbe fingere di essere qualcun altro per settimane, a casa, a letto, ovunque. Inoltre saremmo costretti a simulare un incidente. Troppi scenari secondari.» «Ha ragione», commentò Mirko dopo una breve riflessione. «Perciò prendiamo la strada classica.» «Entrambe le cose sono possibili», concordò Jana. «Corruzione ed estorsione. Possiamo lavorarci.» Mirko soppesò i due raccoglitori nella mano destra e sorrise. «È un lavoro eccellente», disse. «Sapevo che era giusto affidare l'incarico a lei.» Jana ricambiò il sorriso. «Mi fa piacere.» «Dato che organizzo già la fornitura dello YAG, propongo di occuparmi anche dei tecnici. Tra lei e me abbiamo un comando serbo e così accontentiamo il Cavallo di Troia. Se troviamo qualcun altro in Serbia, tanto meglio. In caso contrario, i miei mandanti hanno accettato la possibilità di affidarsi a professionisti esteri. Vogliono soltanto che l'operazione sia all'insegna dello spirito serbo.» «Può tranquillamente prometterglielo.» «Bene. Credo che, per prima cosa, drizzerò le antenne verso l'IRA. Gli irlandesi sono imbattibili in quanto a soluzioni tecniche. A quanto ne so, qualche anno fa hanno avuto la sua stessa idea.» «Davvero?» «Hanno addirittura cominciato a lavorarci. Ma poi, come si sa, le cose sono andate diversamente.» «Come mai? Cos'è successo?» Mirko inarcò le sopracciglia. «La pace.»
«Ah, già! Giusto. In effetti, ci torna utile che stiano trattando con gli inglesi. Alcuni di loro potrebbero essere rimasti senza lavoro. Sì, penso anch'io che troveremo qualcuno da quelle parti.» Ripercorse mentalmente i singoli punti. Avevano parlato di tutto. Non avevano tralasciato nulla. Si sentì appagata. «Bene, Mirko. Che ne dice, andiamo all'aeroporto?» «Con piacere», rispose lui. «Può prendere l'aereo non appena finiamo. Abbiamo circa due ore per l'ispezione. Dovrebbero bastare.» «Fantastico.» Jana si alzò. Mirko prese i raccoglitori, li mise nella valigetta e le aprì la porta. «Che galante.» Jana esitò. «A proposito, ho pensato che dovremmo dare un nome alla nostra operazione.» «Buona idea», approvò Mirko. «Ne ha già in mente qualcuno?» «Sì. Che ne pensa di 'Silenzio assoluto'?» Mirko sogghignò. «Molto adatto. Sì, mi piace. Non si potrebbe descrivere meglio.» Ma certo, pensò Jana. Vivere e morire nel silenzio assoluto. Le settimane e i mesi successivi avrebbero deciso a chi sarebbe stato riservato ciascuno di quei ruoli. S'infilò gli occhiali da sole e uscì, passando rapidamente accanto a Mirko. 15 giugno 1999. Colonia Ci sono cose che si sanno e basta. Senza perdere nemmeno un secondo, Kika uscì, prese un taxi e diede l'indirizzo al taxista. Non era lontano. Avrebbe potuto anche prendere la Golf, ma qualcosa le diceva che era meglio lasciare l'auto nel garage sotterraneo del Maritim. Cinque minuti dopo pagò, scese e s'infilò nella sovraffollata birreria Päffgen. Si ritrovò subito immersa in un oceano di rumore. Centinaia di voci si mescolavano a qualcosa che induceva alla fuga gli oppositori delle birrerie open space e che i clienti abituali definivano invece silenzio a un livello superiore. Soltanto a Colonia c'erano quei templi senza classi, sulla soglia dei quali si annullavano tutte le differenze tra poveri e ricchi, vecchi e giovani, sinistra e destra, entrando nel comunismo reale: tutti ricevevano la stessa birra Kölsch e la stessa fetta di formaggio olandese su un panino alla
segale, croccante o floscio che fosse. Mentre Kika sfuggiva alla ressa all'entrata e attraversava l'interno un po' più ordinato del locale, sforzandosi sempre di stare alla larga dai Köbes,20 che non avrebbero esitato a travolgerla, setacciò l'ambiente con lo sguardo. La zona intorno al bancone e l'intera sala alle sue spalle traboccavano di gente. Kika uscì nel cortile e girò tra i tavolini con le sedie pieghevoli dalla vernice sfaldata. Non c'era nemmeno un posto libero. En passant riuscì a sottrarre una Kölsch appena spillata a uno dei camerieri e, assetata com'era, la bevve d'un fiato. In una serata estiva come quella, due decilitri praticamente evaporavano sulla lingua. Poi rientrò nel locale e nell'adiacente budello che costituiva la parte più antica della mescita, dove la disposizione dei tavoli, soprattutto nella parte centrale, ricordava un incrocio tra un vagone merci rivestito di legno e una batteria per polli di allevamento. Ma anche lì non c'era nessun O'Connor in vista. Uscì sulla Friesenstraße. Sul lato opposto della strada c'era la Klein Köln, dove, secondo il direttore della Cassa di risparmio, si potevano ancora incontrare persone in gamba. Era una valutazione un po' troppo raffinata. In realtà, la Klein Köln era passata da equivoca birreria dei pugili a luogo di culto quale ultima birreria del suo genere. Dopo la massiccia immigrazione di bande albanesi, ceche e russe, l'ambiente criminale di Colonia aveva cambiato tono. Ed erano passati anche diversi anni da quando Schäfer Nas', il leggendario gangster di Colonia, si era stupito del fatto che le strade di quell'accogliente metropoli sul Reno fossero diventate luoghi animati da una cieca brutalità. Con un po' di fortuna, alla Klein Köln si potevano incontrare i reduci dei tempi in cui le puttane avevano un cuore d'oro e i magnaccia picchiavano i clienti, ma non le donne. Ci si poteva imbattere in qualche tipo caratteristico come il Cowboy, un vecchio dai capelli bianchissimi con un ciuffo alla Elvis e la camicia ricamata, che passava ore a dondolarsi accanto al juke-box con un sorriso estatico. Oppure versioni d'epoca di Olivia Newton-John, con abiti che sembravano usciti dalle prime puntate di Dallas. Per il resto, entrare nella Klein Köln era come fare un giro turistico; si dava una sbirciatina a quell'ambiente e ci si ritrovava a intonare canzonette che altrove avrebbero fatto salire brividi di raccapriccio lungo la schiena. 20
Nome con cui vengono tradizionalmente indicati i camerieri delle birrerie di Colonia, Düsseldorf e Krefeld. Forma dialettale del nome Jakob, il termine Köbes risale al Medioevo, quando i giovani pellegrini diretti alla tomba di san Giacomo a Santiago de Compostela facevano tappa a Colonia e lavoravano nelle birrerie per finanziarsi il resto del viaggio. (N.d.T.)
Kika dubitava che O'Connor potesse trattenersi in quel locale, sempre ammesso che ci fosse entrato. Prima dell'una, alla Klein Köln non succedeva niente. Diede comunque un'occhiata, ma come previsto non individuò lo scienziato. Restava soltanto Jameson's, qualche metro più in là. Il pub irlandese era un fenomeno. Piuttosto grande e pieno di elementi scenografici, stava alla vera Irlanda come Hollywood stava alla realtà. Né più né meno. Il Jameson's riusciva a vendere il sogno dell'Irlanda perfino agli irlandesi di Colonia. Vi erano raccolti, seppure combinati in modo avventuroso, elementi originali dell'arredamento di autentici pub. Ne era venuta fuori una chimera gastronomica, in cui si esibivano cantautori e gruppi pop, si servivano Guinness spillata nel modo corretto, con tanto di trifoglio nella schiuma, ostriche di Galway con pane integrale e praticamente tutti i whisky apprezzati dai conoscitori. Il personale parlava inglese, perché veniva in prevalenza dalle isole britanniche. Gli avventori, se erano tedeschi, facevano onore al fascino dell'autenticità, parlando anch'essi in inglese. Naturalmente il pub più amato di Colonia restava una Disneyland, anche se vi s'incontravano veri irlandesi e autentici fan dell'isola di smeraldo. E, con tutta probabilità, il professor Liam O'Connor. Kika lo vide ancor prima di oltrepassare la porta a due battenti coi vetri molati all'antica. Era seduto su uno sgabello al bancone, intento a conversare con un gruppo di giovani. Mentre lei si avvicinava, il barman stava mettendo davanti a loro una schiera di bicchieri; alcune pinte dal contenuto nero, con uno strato bianco e cremoso in cima, e vari bicchieri più piccoli, pieni di luce solare. Sembrava che O'Connor avesse soddisfatto il proprio fabbisogno di acqua minerale al Maritim. Kika trovò quasi rassicurante che fosse tornato alle sue abitudini. Si mise accanto a lui. Dato che O'Connor era girato per metà nella direzione opposta, non si rese conto di quel nuovo arrivo. Kika fece un cenno al barman e indicò il whisky che stava davanti allo scienziato. «Jameson 1780, twelve years old?» chiese l'uomo, fermandosi per un istante in attesa dell'ordinazione, col corpo già per metà orientato verso nuove incombenze. Kika annuì. Lui se ne andò di fretta, spillò un paio di pinte e le posò davanti a un altro gruppo di persone, prima di prendere una bottiglia panciuta dall'armadio del bar. Un altro bicchiere si riempì di oro fluido e Kika si ritrovò in possesso del suo primo whisky irlandese, almeno a quanto ricordasse. Lo annusò. Le salì al naso un profumo di brugo e, stranamente, di
sherry, morbido e dolciastro. Lo sorseggiò e trovò il gusto assai gradevole. Ripensò a quando O'Connor aveva gettato il Glenfiddich nel lavandino. Per divertimento, cercò l'etichetta tra le innumerevoli bottiglie di whisky sulle mensole del bar e trovò il Glenfiddich nascosto sullo scaffale più alto. Anche lì evidentemente non lo mettevano volentieri in primo piano. Al rumore di fondo si mescolò una musica proveniente dalla zona retrostante. Qualcuno stava cantando, accompagnato da chitarra e violino. Sembrava The Fool on the Hill in una versione di Brendan Behan o Sean O'Casey. Kika cominciò a canticchiare sottovoce. Non c'era fretta. Era chiaro che O'Connor aveva ben poca voglia di tornare alla tavolata del Maritim. Sarebbe stato più interessante scoprire cosa voleva fare e, se necessario, impedirglielo. Il gruppo intorno a O'Connor parlava inglese. Kika non li stava ascoltando, ma ciò che le giunse all'orecchio non somigliava a chiacchiere scientifiche o letterarie. Sembrava che parlassero di fiumi e barche e di un negozio di alimentari che in realtà non era tale. Dopo qualche tempo, O'Connor si voltò, perché l'oro era scomparso dal suo bicchiere, sollevò la mano destra, per chiamare con un cenno il barman, si schiarì la voce e vide Kika. «Che cosa beve?» le chiese, senza mostrare il minimo stupore. «Jameson.» Liam inarcò le sopracciglia in segno di approvazione. «1780, per essere precisi», aggiunse lei. «Invecchiato di dodici anni.» «Sono molto orgoglioso di lei», commentò Liam. «Inoltre sapevo che prima o poi sarebbe comparsa qui. Le posso presentare Scott e Mary? L'uomo col berretto lì accanto risponde al nome di Donovan. Ciò significa che risponde ancora, anche se si sta avvicinando a uno stadio che porta con sé una certa amnesia. A un certo punto, non ci si vuole più riconoscere, perché così non si deve più nemmeno riconoscere la propria casa, giacché non si ha nessun motivo di andarci. Poi c'è Angela, la ragazza di Donovan, fatto che trovo del tutto incomprensibile... Gente, questa piccolina si chiama Gaby o Heidi, secondo l'interpretazione giuridica tedesca, ma rifiuta di obbedire e perciò si chiama Kika. Non offritele uno sgabello, è già seduta.» Liam aveva fatto le presentazioni in inglese, allungando le sillabe, per cui le frasi erano suonate piuttosto confuse. Kika immaginò che gli altri fossero irlandesi. Strinse una serie di mani. «Per lei sarebbe un problema sapere che al Maritim sentono la sua man-
canza?» gli chiese, dopo che il gruppo l'aveva costretta a prendere una Guinness e a fare un brindisi. Liam fece una smorfia. «Nessuno sente la mia mancanza, laggiù. Le cene ufficiali riuniscono persone che normalmente non starebbero sedute insieme a un tavolo. Crede che qualcuno di loro sia veramente interessato agli esperimenti con la velocità della luce?» «S'interessano dei suoi libri.» «E allora che li leggano. Suvvia, Kika, nessuno vuole davvero conoscere personaggi 'in vista'. È così deludente. O non sono affatto interessanti come ci si aspettava oppure sono ancora più interessanti. In entrambi i casi, per gli altri non c'è molto da divertirsi. È meglio così. Finalmente tutti possono parlare di ciò che va loro a genio e la signora della televisione non si deve più chiedere, alla sua età, come si simula un orgasmo. È meglio per tutti.» «Non per me», replicò Kika con una certa enfasi. «E anche Kuhn ha saputo trattenere l'entusiasmo.» «Diamine», sospirò Liam. «Qual è il problema?» «Mi sa che lei oggi è un po' duro di comprendonio. Ci friggeranno in padella, ecco qual è il problema. Purtroppo la sua inclinazione all'indipendenza non ci esime dalla responsabilità di fare in modo che tutto sia perfetto, quando l'autore di punta del gruppo editoriale fa un tour.» «E allora? Non è mica colpa vostra se io me la svigno.» «Non ha mai sentito parlare del latore di brutte notizie? Sarei potuta andarmene a letto, invece che correrle dietro.» «Questo adesso non può farlo», disse Liam, con un misterioso sorriso. «E perché?» «Dato che lei si trova qui in missione segreta, la condanna a morte sarà meno dura per il suo amico Kuhn che per lei.» «Ma quale missione segreta? Che significa, Liam?» «No? Mah.» Liam scrollò le spalle. «Come ci si sbaglia a volte. Le piace il whisky?» Kika rifletté su cosa dovesse fare. E la domanda diventò cosa lei volesse fare, il che c'entrava ben poco col motivo ufficiale della sua presenza in quel pub. «Mi promette di essere in forma domattina?» chiese. Liam la squadrò. Poi indicò il giovane col berretto. «Donovan ha un cugino a Shannonbridge. Indovini un po' che cosa fa.» «Mah...» «Ha una barca!» rispose Donovan, come se il possesso di un natante fos-
se il massimo. «E allora?» «È una di quelle barche che sembrano case travolte dalle acque», aggiunse Liam. «Ed è ancorata al ponte grazie al quale quel paio di dozzine di case di Shannonbridge ha una ragione d'essere. Infatti ci sono pochissimi ponti sul fiume Shannon. Strano, vero? Un fiume che attraversa l'intera isola e quasi nessun ponte. Il secondo motivo per cui andare a Shannonbridge è il pub. Per motivi inspiegabili, il bancone finisce nella parete. E, alle undici, quando viene dato l'avviso dell'ultima ordinazione, tutti se ne escono nella notte e scompaiono nel negozio di alimentari adiacente. Lì scoprono con estrema sorpresa che il bancone ricompare dalla parete. C'è anche un impianto di spillatura, quindi, per le ore successive, se ne stanno lì al banco del negozio, a bere la loro Guinness in mezzo a scatolette di Ciappi e a fustini di Dixan. Mentre bevono, si abbandonano a strane considerazioni. Ricordano che Flann O'Brien aveva scritto dell'isola dei due uccelli, che si trova nel fiume Shannon, proprio dove ancora oggi si vede Shannonbridge. Qualcuno propone di andarci, ma per andare su un'isola l'unico mezzo è una barca. Allora qualcun altro, il cugino di Donovan, spiega che la sua casa galleggiante dispone di una scialuppa totalmente inutile e che, se qualcuno fosse disposto a remare, si potrebbe andare a vedere dove il gigante geloso ha ucciso sua moglie e l'amante di lei. Dice che a bordo della barca c'è pure una bottiglia di Paddy. Capito?» «No.» «Domattina alle sei parte un aereo per Shannon.» Kika lo guardò e sentì emergere dentro di sé una meravigliosa calma. «Bene. Lo prenda.» Liam arricciò le labbra. «Venga anche lei», disse. «Non posso. Dovrò spiegare a diverse persone che il tizio di cui vendono i libri se ne va in giro per il fiume Shannon su una barca a remi.» «Su, Kika, non sia così inflessibile. Vuole fare il suo dovere? È un segno di codardia. Non c'è nulla di più orribile che rinunciare all'avventura della vita sostenendo di fare il proprio dovere. Voglio dire, ha avuto il suo piccolo show all'Istituto di Fisica. Ha avuto la sua cena coi notabili signori e con le pregiate signore. Lasci che ci divertiamo un po', eh?» «Domattina alle nove e mezzo lei ha una prenotazione al golf club di Pulheim», ribatté Kika. «E giocherà ogni maledettissima buca di quel campo. Poi ci sarà il pranzo. Alla sera, terrà una conferenza davanti a circa trecento persone, che hanno comprato un biglietto per venirla a sentire.
Ciò che farà nel pomeriggio sono affari suoi.» «Cos'ha intenzione di fare, se io ci ripenso?» «Nulla.» Liam la squadrò. Poi sogghignò, con una scintilla negli occhi. «Non devo tornare alla cena», disse. «No.» «Sa che, andando in giro, prima o poi, ho sempre incontrato un Donovan che ha un cugino con una barca? Capisce cosa intendo?» «Penso di sì. Vuole continuare a raccontarmi fesserie sulla sua vita o mi ordina un altro whisky?» Liam s'illuminò. «Allora ci andremo la settimana prossima», disse Donovan in sottofondo. «Okay?» In capo a qualche ora, Liam si avviava lentamente, ma con determinazione, verso lo stato in cui si era trovato al suo arrivo, quella mattina. In altre circostanze, Kika se ne sarebbe accorta prima, ma ormai non era meno ubriaca dello scienziato e della compagnia che stava intorno a quel Donovan, il cui cugino aveva una barca da qualche parte, con la quale si arrivava su una qualche isola, se si riusciva a prendere il volo delle sei. Liam aveva conosciuto quei quattro al pub, ma proprio per quel motivo l'amicizia si era sviluppata in tempi brevissimi. Mentre Kuhn e le sue pene sbiadivano in lontananza, Kika s'immaginava a tracannare felicemente Guinness in mezzo a cornflakes e detersivi, benché fosse stata lei stessa a troncare l'argomento. Per qualche tempo, la conversazione si era incentrata sulla letteratura, poi, per motivi inspiegabili, era sbarcata nei Caraibi e da lì era andata alla deriva, fino ai piaceri dei massaggi orientali, forse perché Mary aveva trascorso le sue ultime vacanze in Marocco. Il seguito assunse un significato così vago che Kika dimenticò di cosa si trattava mentre ancora stava ascoltando o addirittura parlando. Non aveva mai bevuto una simile quantità di alcol prima di allora. Nel frattempo, aveva fatto conoscenza con Macallan, Oban e Balvenie, tutti invecchiati dodici anni o più, riportandone una certa insensibilità del cavo orale. Gli ultimi rimasugli di pensieri lucidi cercavano di prendere il sopravvento sulla confusione nella sua testa e le suggerivano che tutto quel buonumore non era decoroso. Liam e gli altri intonarono una canzone. Devi tornare sobria, si disse. Se adesso non fai attenzione, Liam O'Connor spiccherà sul green per la sua assenza. Ricomponiti.
Ordinò un'acqua minerale e la trangugiò. Non servì a molto, ma la nebbia si diradò un pochino. Mentre intorno a lei venivano sollevate le prime sedie, svuotò anche la caraffa con l'acqua di sorgente, che in realtà era destinata a essere mescolata coi single malt depositati a getto continuo sul bancone. Scivolò giù dallo sgabello, andò alla toilette, si spruzzò dell'acqua in viso e si guardò allo specchio. Alla fine si ritrovò. Era ancora ubriaca, ma il cervello continuava a lavorare. Fin qui è stato bello, pensò. Adesso, però, fai la cosa giusta e metti a letto quel maledetto ubriacone, prima che salga sul prossimo aereo. Tornò al bancone e constatò che la compagnia intera, O'Connor compreso, era scomparsa. Ciò che non aveva potuto l'acqua lo fece lo shock. D'un tratto, fu sobria. «Che stronzo», sibilò. Uscì in strada, accompagnata dal rumore dei tacchi che rimbombavano sull'asfalto, e si guardò intorno. La Päffgen era chiusa. La Klein Köln cominciava ad animarsi. Se non lo avesse trovato lì, avrebbe perso la partita. «Ki-Ka», disse qualcuno. Lei si girò di scatto. Liam era appoggiato a una delle colonne che sostenevano la tettoia del pub. Nella mano destra teneva una bottiglia mezza piena. «Sembri sollevata», commentò. Per un istante, lei fu tentata di mollargli un ceffone. Poi cominciò a ridacchiare. L'ebbrezza stava tornando. «Pensavo che avesse tagliato la corda, Liam.» Fece un passo verso di lui e si chinò leggermente. «Tu sai come far perdere la pazienza.» La sua mente lavorava con precisione. Allora perché sembrava che le parole ruzzolassero l'una dentro l'altra prima di uscirle di bocca? E da quando si davano del tu? Liam indicò la strada con la bottiglia. «Angela e Donovan se ne sono andati. Sull'isola, con la barca. Ma Scott e Mary hanno detto che ci avrebbero aspettato da qualche parte, dove si può bere ancora qualcosa. C'è un Pink Schampain o qualcosa del genere da queste parti?» «Sì», rispose Kika. «Ma non per te.» Liam annuì. «Mi aspettavo qualcosa del genere. Sei e rimani una guastafeste, Kika.» «No, che non lo sono!» esclamò lei, offesa. «Sono ragionevole, tutto qui.» Liam sturò la bottiglia. «Un giorno, quando sarai lunga distesa e ti chiuderanno sopra un coperchio, allora potrai essere ragionevole, signora Wa-
gner. Lo sai che gli errori più grandi sono quelli che non si sono mai commessi? Allora, che c'è?» «Tu vuoi combinare guai a tutti i costi, vero?» «Guai senza fine.» «Ascolta, Liam. Io ti trascino su quel campo da golf con le mie mani, capito? Per me, possiamo anche andare al Pink Champaign adesso, ma se domattina sento anche un solo lamento sei finito.» «Bah. Ma che ore sono?» «Le tre e qualcosa.» Finse di riflettere, ma Kika sospettò che fosse un altro dei suoi giochetti. «Prima ancora che tu dica qualcosa, ti avverto: puoi anche andarci da solo. Io ho appena deciso di andare a casa.» «E questa?» Lui fece dondolare la bottiglia. «Quella che cosa?» Liam si staccò dalla colonna e la raggiunse. Per un istante le restò davanti, così vicino che sembrava mangiarla con gli occhi. Lei sentiva il suo respiro. Lui era più basso di qualche centimetro, ma in qualche modo riusciva a darle l'impressione di guardarla dall'alto in basso. «Eventualmente sarei disposto...» cominciò. Lei sentì il cuore salirle in gola. «No», replicò, mantenendo la calma. «Eventualmente io sarei disposta. Così trovi la strada per l'hotel e domani non ti devo raccattare in qualche bettola. Se invece vuoi proprio continuare a fare il giro dei locali, io adesso vado a casa dei miei e ti lascio qui.» Liam tirò su col naso. Poi le porse la bottiglia. «Bevi qualcosa.» «Non voglio bere più nulla.» «Peccato. Nelle ultime ore, mi ero convinto che tu fossi tanto interessante dentro quanto lo sei fuori.» «Hai uno stile davvero pessimo di fare i complimenti.» Liam scrollò le spalle. Poi infilò di nuovo il turacciolo nel collo della bottiglia e si allontanò di qualche passo. D'un tratto, l'idea che lui se ne andasse in giro a divertirsi senza di lei le sembrò intollerabile. Ah, se lo avesse conosciuto così, semplicemente, senza lo stupido obbligo di consegnarlo sano e salvo a persone che volevano soltanto appagare la propria vanità... «Dammi un sorso di quella maledetta roba», gli intimò, seguendolo con un'andatura sgraziata e assai più incerta di quella di lui. Raddrizzò il busto e cercò di controllare i movimenti. Lui si voltò, sogghignando. «Lagavulin invecchiato sedici anni», annun-
ciò. «Non me ne frega quanti anni ha. Dammelo.» Portò la bottiglia alle labbra e bevve. Quella roba era pungente, ben diversa dai single malt che lei aveva bevuto nel pub. Il Lagavulin sapeva di medicinale e di fumo. Le venne da tossire e sentì che gli ultimi rimasugli di lucidità annegavano nell'alcol. «Okay», disse Liam. «Okay cosa?» chiese lei, affannata. «Okay! Hai vinto tu. Vado a dormire. Per amor tuo, così puoi metterti in testa chissà cosa. Almeno fai il viaggio con me fino all'hotel?» Con grande piacere, pensò la Kika ubriaca fradicia, con una giravolta sfrenata. «Se vuoi...» concesse l'altra Kika, sperando di suonare abbastanza distaccata. «Dove troviamo un taxi?» «Laggiù.» Ancora una volta il senso dell'equilibrio minacciò di abbandonarla e così lei si allontanò di un passo per non dargli l'occasione di prenderla sottobraccio. Si avviarono in silenzio. Che diavolo ci fai qui? pensò lei. Dovresti sorvegliare che quest'uomo si comporti bene, invece finisci in un pub a bere whisky con lui e accarezzi l'idea di emigrare a Shannonbridge. «Tanto domani pomeriggio non ci posso andare comunque, in barca», disse Liam in taxi. Kika l'aveva fatto salire sul sedile posteriore, dove si era prontamente spaparanzato. Anche stravaccato in quel modo, con la camicia aperta e la cravatta allentata, sembrava vestito meglio di Kuhn nei suoi momenti migliori. «Dopo il golf, dobbiamo tornare all'aeroporto, Kika.» Lei lo fissò. «Shannonbridge?» «Per via di Paddy.» Paddy? Ah. «Allora hai davvero visto qualcuno», constatò. «Credevo ci stessi prendendo per i fondelli.» «Non lo farei mai.» Liam scosse il capo. «Mi è passato davanti in carne e ossa, insieme con un altro tipo. Portavano tute da meccanici o da tecnici. Non era un passeggero. E non si è neanche fermato.» «Pi-Pa-Paddy», cantò Kika. «Come si chiamava quella roba che mi hai fatto bere? Lagairgeche? Forse non ti ha riconosciuto.» «Stava parlando con quell'altro. È possibile.» «Ma chi è questo Paddy?» «Paddy Clohessy. Eravamo all'università insieme. Un tipo losco. Ci di-
vertivamo un mondo, ma lui era sempre un po' ribelle. In effetti, mi sarei aspettato di vedermelo passare davanti in catene o qualcosa del genere.» «Uh! E cos'ha combinato?» «Paddy? Non lo so. Probabilmente nulla. Ma davo per scontato che prima o poi avrebbe combinato qualche guaio. Aveva un sacco di talento ed era di un'immoralità confortante.» Bevve un sorso dalla bottiglia ed emise un suono sdegnato. «Che rabbia. Mi passa davanti così... Mi avevano detto che se l'era filata in Irlanda del Nord. A me sembrava un sovversivo da scrivania, con convinzioni politiche dubbie, però innocuo. Esaltava la resistenza con toni un po' troppo entusiastici per la Dublino benpensante. Così lo hanno sbattuto fuori dall'università.» «Insomma era uno come te, o no?» «In che senso? Chi ti ha raccontato che mi hanno sbattuto fuori dall'università?» Chiudi il becco, Kika. L'auto imboccò il viale d'ingresso del Maritim. Kika rovistò tra le sue cose in cerca del portafoglio, ma Liam la precedette. Si sentiva il viso gonfio e addormentato come dopo un'anestesia dal dentista. In compenso, aveva voglia di volare. Mentre armeggiava con la borsetta nel tentativo di chiuderla prima che cascasse fuori tutto, Liam era già sceso, con notevole rapidità, e le aveva persino aperto la portiera. «Davvero beneducato», mormorò Kika. «È un piacere, gentile signora. Devo andare a prenderle una scala, così non deve saltare?» Lei lo incenerì con lo sguardo, sperando ardentemente di riuscire a scendere dal taxi senza il suo aiuto. Sembrava che l'auto la volesse risucchiare. Si aggrappò con la destra alla maniglia del finestrino e poi si spinse fuori con tutte le sue forze, rendendosi conto che era molto più facile di quanto avesse creduto. Per un pelo non volò tra le braccia di O'Connor. «Spero che tu non mi prenda in giro», borbottò. «Non sono abituata al tuo Lagavattelapesca.» «Lagavulin. Non ti prenderei mai in giro. Al massimo ti prenderei in privato. Ora lascia andare il taxi, così quest'uomo può andarsene.» «Oh.» Lei era ancora aggrappata alla maniglia. Sbatté la portiera e l'auto filò via. Ma... non doveva andare dai suoi genitori? Perché non era rimasta semplicemente seduta dov'era? «Devo andare», disse in tono serio.
«Sarebbe un errore», osservò Liam, scuotendo un dito. «Dimmi un po': io ho collaborato, giusto?» «Mah.» «Sì, invece. Non sono andato all'aeroporto di Shannon e non me la sono svignata. Domani gioco a golf coi ragazzi della banca. E in questa bottiglia c'è ancora qualcosa. Facciamoci un ultimo sorso, ti garantisco l'effetto assolutamente salutare di questa bevanda, di cui è inequivocabilmente comprovata l'assenza di postumi.» «Cavolo! Come fai a parlare così forbito in questo stato?» «Te lo spiego di sopra.» «Un bicchiere. Piccolo piccolo, hai capito?» Avvicinò il pollice e l'indice per spiegarsi meglio. Liam socchiuse le palpebre. «Per quello non ti serve un bicchiere.» Lei rise e lo precedette nell'atrio, dirigendosi verso gli ascensori. Si sentiva come un pioppo in balia del vento. Un metro e ottantasette più sei centimetri di tacchi... faceva quasi due metri. Dietro di lei, sentì Liam che chiedeva la chiave e poi la raggiungeva. «Sai essere davvero carino e davvero stronzo», gli disse nell'ascensore. «È vero», replicò lui, abbozzando poi un passo di danza e qualche piroetta nel corridoio. «Mi chiedo se ti sei mai beccato una bella mazzata», borbottò lei, mentre la porta della camera si chiudeva alle sue spalle. «Da una donna, voglio dire. Se sei mai stato innamorato perso, da balbettare come uno scolaretto, poi lei ti ha mollato e tu ti sei preso una bella botta.» «Non è mia abitudine innamorarmi. Quando si è in cima, si può solo scendere.» Le passò la bottiglia. «I bicchieri sono gretti e pedanti, non trovi? Hanno un bordo, per prescriverti la quantità che puoi bere. Taccagneria.» Kika bevve un sorso e restituì la bottiglia a O'Connor. «Bene.» Lui le rivolse uno sguardo interrogativo. «Bene cosa?» «Adesso vado. Ti ho promesso di bere un sorso e l'ho fatto.» «Ah, Kika.» Liam posò la bottiglia e si lasciò cadere sul letto. A onta di ciò che aveva appena annunciato, Kika si avvicinò allo specchio sulla parete opposta e guardò l'immagine riflessa dello scienziato e la sua. Lei era così vicina e lui era così piccolo... Pareva che le si fosse seduto sulla spalla. «Prenderò un taxi», disse. «Che idea stupida», mormorò Liam. «Ne hai avute di migliori. Perché non scopiamo, finalmente?»
Lei si voltò a guardarlo. «Lo sai che non sono così facile.» Lui rimase in silenzio. «Maledizione, che farabutto sei. Ti aspettavi che io dicessi di no e che m'incazzassi di brutto! L'hai pensato nello stesso momento in cui hai fatto quella domanda cretina. Non ne hai neanche voglia.» «Ho pensato che così avresti avuto meno problemi», si giustificò lui. «Sarebbe a dire?» «Chiariamo una volta per tutte cosa succede tra noi e cosa non succede. Ci sono soltanto due possibilità. Ora o mai più. Puoi tirarti indietro perché ho scelto il tono sbagliato e non hai potuto fare a meno di rifiutare. Comodo, no? Così possiamo svolgere il nostro lavoro senza essere disturbati da impulsi orgiastici.» «Mi correggo. Non sei carino, sei soltanto uno stronzo.» «Hai proprio ragione. In Kika Veritas.» Liam incrociò le braccia dietro la testa e accavallò le gambe. «Ma tu cosa vuoi? Ti aspettavi che mi facessi in quattro per convincerti. Ti sei sorbita il solito, misero repertorio. Oh, per favore, Kika, vieni con me in hotel, andiamo in camera a bere un goccio. Tutto questo per poi far marcia indietro da brava bambina educata. Puah, Liam, mi hai forse guardato il culo? Vedi, poi io faccio il porco per farti un favore. Meglio così. Voglio dire, non puoi certo accettare una cosa del genere.» Kika lo fissò. Cercava di essere furente, ma era paralizzata dallo stupore. Lo stupore di constatare che aveva ragione lui. Stupidamente. E adesso la stava cacciando fuori. «Sceneggiatori! Trovarobe!» esclamò Liam. «Ancora un po' di rosso collera per la signora Wagner!» «Idiota!» lo redarguì lei. «Pensi che soltanto perché bevo qualcosa con te devo venire anche a letto con te?» «No.» Liam scosse il capo. «Non me lo aspetterei mai. Nemmeno se venissi con me a Shannonbridge.» «E allora perché?» Lui si mise a sedere e la guardò. «Perché sei soprattutto tu che lo vuoi e non lo fai. Ecco perché.» «E chi te lo dice?» «Tu. È tutto il giorno che...» Sogghignò. «Cosa dobbiamo aspettare, Kika? Secondo te, a che serve, se non a farti venire il mal di testa? Forse sono io che non voglio. Allora incazzati pure e vai a casa. Non posso fartela più facile di così. Oppure svuotiamo finalmente questa maledetta botti-
glia.» Kika aprì la bocca per stroncarlo con qualche parola ben meditata. Invece gli si avvicinò e si fermò. Pezzo di merda, pensò. Se proprio dobbiamo giocare, allora le regole le stabilisco io. Lentamente si chinò su O'Connor e, con fare casuale, si mise a slacciargli la cravatta e a sbottonargli la camicia. I loro visi erano a pochi centimetri di distanza. Lui alzò lo sguardo verso di lei, ma non mostrò nessuna intenzione di baciarla. «Hai mai avuto problemi per via dell'IRA?» gli chiese lei all'improvviso. Liam sgranò gli occhi. «Come ti viene in mente una cosa del genere?» «Se ne sentono di tutti i tipi.» Si raddrizzò, gettò la cravatta sul pavimento e, muovendosi lentamente, andò al salottino accanto al secrétaire sotto la finestra. Poi si lasciò cadere in una poltrona e distese le gambe. Gambe lunghe, infinitamente lunghe, pensò. Perché adesso non vuole venire a letto con me? Con fragore, le scarpe caddero sul pavimento. «Secondo me ti si addice, Liam», continuò. «Ti sforzi tanto di fare il maleducato... Posso ben immaginare quante grane hai piantato all'università, con una scusa o l'altra, così, per principio.» Lui si appoggiò su un gomito e inarcò il sopracciglio sinistro. Non degnava nemmeno di uno sguardo le gambe di Kika. «Continuo a pensare che gli inglesi dovrebbero restituire l'Irlanda del Nord», disse. «Ma ho capito che il problema non sono gli inglesi. Il problema sono gli irlandesi. L'IRA non è una soluzione. C'è stato un periodo in cui la vedevo in modo leggermente diverso.» «Perché hanno sbattuto fuori Paddy?» «Proprio per questo.» «E perché hanno sbattuto fuori te?» «Quasi per questo.» Kika distese le braccia, rovesciò la testa all'indietro e guardò il soffitto. In realtà, si sentiva del tutto a suo agio. «Sei un infingardo, Liam. Abbai davvero forte, però non mordi affatto. Probabilmente non ti hanno sbattuto fuori dall'università perché non hai avuto il fegato di dar loro un buon motivo. Hai provocato un po', hai azzardato qualche mossa impertinente e, quando la cosa cominciava a diventare seria, sei rientrato nei ranghi. Giusto, Liam? Fai tanto lo spaccone, ma, quando si tratta di affrontare le conseguenze, te la svigni.»
Liam si alzò e la raggiunse, camminando sulla morbida moquette senza fare il minimo rumore. Lei girò la testa verso di lui e vide lo scintillio dei suoi occhi. Sembrava emanare ondate di calore... o forse era soltanto l'alcol? Lui si accovacciò e la guardò. Le fece scivolare le mani tra i capelli. Un sorriso gli sfiorava gli angoli della bocca. «In ogni caso, sono contento che tu sia così perbene e ragionevole», mormorò. «Almeno possiamo restare amici.» «Sì, è magnifico.» «I tuoi genitori si staranno preoccupando un sacco.» «Sicuramente!» «Ti accompagno giù?» «Grazie.» Per qualche istante, rimasero in silenzio, limitandosi a guardarsi. «C'è ancora qualcosa nella bottiglia?» sussurrò lei. «Ce n'è un bel po'.» «Secondo te, quanto durerà?» «Fino all'ora di colazione, direi.» Lei rise sommessamente. Poi lo prese per il ciuffo argenteo e lo tirò a sé. 29 gennaio 1999. Mosca Pochi giorni dopo che un oggetto molto grande e pesante aveva oltrepassato il confine tra l'Ucraina e la Polonia e da lì era stato condotto in Germania, Mirko atterrò all'aeroporto internazionale di Seremet'evo 2. Era tardo pomeriggio e lui non aveva prenotato stanze per quella notte. La sua permanenza sarebbe durata soltanto qualche ora, finché l'aereo non l'avesse riportato nel Paese del vecchio. Si sottopose pazientemente alla procedura del controllo passaporti, che poteva richiedere ore di coda. Poi sottoscrisse la consueta dichiarazione doganale e uscì all'aperto. Fu subito avvicinato da diversi taxisti illegali, ma non prestò loro attenzione. Aveva prenotato un'auto: la cosa migliore, quando si andava a Mosca. Costava meno e non c'era bisogno di aspettare. Era rilassato e di buonumore. Tutto procedeva secondo i piani. Avevano lo YAG. I documenti di carico indicavano un istituto ucraino come mittente. Il destinatario era un istituto sperimentale tedesco per la ricerca quantistica, dove tuttavia lo YAG non era mai arrivato. Adesso si trovava a Colonia, la sua vera destinazione. Gli specchi erano in lavorazione a Chur, in
Svizzera, e sarebbero arrivati la settimana seguente. Il gigantesco autocarro a pianale era quasi pronto. I contatti di Jana avevano fatto un ottimo lavoro, ma naturalmente ignoravano a cosa servisse. Avrebbero dovuto portarlo all'azienda di spedizioni, dove avevano collocato i venticinque metri di binari ferroviari. Non era stato un gioco da ragazzi, ma in compenso adesso avevano tutto il necessario. Mirko si accomodò sul sedile posteriore dell'auto e si dedicò a un giornale. I trenta chilometri scarsi fino al centro città gli sembrarono infiniti. Era una di quelle giornate cui spesso si associa l'immagine di Mosca - almeno della Mosca che si vede in televisione - e che non rendono giustizia alla città. Il cielo era grigio chiaro, torbido e compatto, senza nuvole, e il vento soffiava cristalli di ghiaccio sottili come aghi. C'era la neve, non abbastanza da giustificare impulsi romantici, ma a sufficienza per accrescere l'aria complessiva di desolazione. In periferia, passarono davanti a schiere infinite di grigi condomini-silos. Sembrava che il mondo avesse perso ogni colore. I pedoni avanzavano in fretta nella neve, simili a ombre fugaci, con la testa bassa e coi contorni sfumati. Il centro era diverso. Mirko non era un erudito, non era in grado di classificare gli stili architettonici, ma gli piaceva la miscela di costruttivismo, stile monumentale staliniano, elementi barocchi e modernità. Mosca era una città imponente e impressionante. Tuttavia, anche lì, sembrava che la gente fosse uscita di casa con riluttanza. Il traffico era intenso e aggressivo. Qualcosa d'infelice gravava sulla metropoli. La depressione, la crisi economica, l'arbitrio di un individuo collerico che da tempo aveva perso il controllo, l'impero ombra degli affaristi, la Cecenia, l'ultimatum della NATO che era pronta a bombardare la Serbia e un sentimento di profonda umiliazione. In ogni angolo, Mirko scorgeva un segno delle forze che si agitavano nel Paese. L'esibito pacifismo della Russia e le rimostranze contro l'intervento annunciato della NATO nascondevano a malapena il vero significato della protesta: la diffidenza nei confronti degli Stati Uniti e dei suoi alleati, il timore di essere travolti, di non valere più nulla, la paura dell'occupazione e dell'estromissione definitiva. Le forze democratiche del Paese avevano lanciato un monito contro l'intervento militare della NATO, perché temevano che i falchi conservatori potessero trarne vantaggio e paventavano le riforme, ma la loro voce era rimasta quasi del tutto inascoltata. Se la NATO avesse messo in pratica le sue minacce, sarebbero rimasti collera, delu-
sione e un pericoloso seme d'inquietudine. La Russia stava soccombendo al marciume di un potente complesso d'inferiorità che si era impossessato della sua anima, generando sofferenza e odio e risvegliando vecchi fantasmi. Gli avvenimenti del Kosovo fomentavano il risentimento nei confronti dell'Occidente e in particolare degli Stati Uniti, un risentimento che covava già da tempo, facendo divampare un'aperta ostilità. Una sorta di panslavismo istintivo si era impossessata della società sotto forma di una presunta simpatia per i fratelli serbi. Tutti sembravano aver dimenticato che, sotto Stalin e Tito, i rapporti fra i due popoli erano stati tutt'altro che amichevoli. A un'osservazione più attenta, l'atteggiamento della Russia nei confronti dell'Occidente e della NATO si rivelava piuttosto una reazione ai problemi interni del Paese, un tentativo di distogliere l'attenzione dalla crisi in cui Eltsin aveva gettato la gente di buona fede. Ma ciò interessava ben poco a quella stessa gente e la casta politica, che in Cecenia aveva vissuto il proprio Vietnam, sognava segretamente responsabilità globali e il ruolo perduto di una superpotenza. In fondo, per la maggior parte di loro, il crollo del regno sovietico aveva significato soltanto la fine di un'esistenza relativamente stabile e tranquilla. In Russia, lo zar Boris regnava contro una nostalgia strisciante e i falchi stavano affilando il becco. C'era una miccia accesa in Europa. Il taxi si lasciò sulla sinistra il Parco di Alessandro e il Cremlino, passò sulla sponda opposta della Moscova e portò Mirko nel placido quartiere di Zamoskvoreče, dove molte cose erano scampate al fervore dei restauri degli anni '30. Mirko fece un pranzo leggero all'Ubabuški, uno dei migliori ristoranti di Mosca. Tre quarti d'ora dopo l'autista tornò a prenderlo e seguirono la via principale, finché non arrivarono in un quartiere malfamato. Mirko scese e fece cenno all'autista di aspettare. Entrò in una strada laterale, la seguì e svoltò in un vicolo. Le pareti delle case erano imbrattate di slogan antiamericani. Non erano tanto il risultato della rabbia degli studenti, quanto piuttosto azioni mirate di forze scioviniste che speravano in una rinascita della grande Russia e incolpavano i liberali e i democratici della situazione corrente. Non erano stati loro a sottrarre all'Orso la sua forza con le loro chiacchiere da rammolliti? Non c'era da stupirsi che nessuno desse più retta alla Russia e che l'Occidente mettesse i piedi in testa ai russi. Era colpa dei liberali, chiacchieroni e adulatori. Tutto ciò interessava ben poco a Mirko. Proseguì finché non raggiunse
una casa la cui facciata neoclassica aveva urgente bisogno di una tinteggiatura. La porta era socchiusa. Attraversò un corridoio che puzzava di marcio e di cavolo e salì al primo piano, dove batté le nocche - a un ritmo concordato - sulla porta di un appartamento. Un uomo basso, con la faccia da volpe, andò ad aprire e lo fece entrare. «Stavolta non è stato tanto facile», esordì, senza neppure salutarlo. Mirko annuì. Il piccoletto gli fece cenno di accomodarsi su un divano logoro, scomparve in una stanza sul retro e tornò con qualcosa che era avvolto in un panno bianco. Mirko prese il pacchetto, lo svolse e ne tirò fuori un'arma, soppesandola. Era una PSM, un'arma di riserva usata dai militari di alto grado in Russia. «Piatta come un tampone per timbri», disse il commerciante con un certo orgoglio. «5,45 x 18 mm, come richiesto. Apparteneva a un ufficiale della DDR che l'ha usata diverse volte con successo.» «Bene», commentò Mirko. In effetti la PSM era straordinariamente piatta. A quanto ne sapeva Mirko, i suoi bossoli a collo di bottiglia con innesco centrale erano i più piccoli del mondo. Tirò fuori dal panno un altro pacchettino che conteneva le munizioni. «Pallottole esplosive», spiegò il commerciante, mentre Mirko caricava l'arma. «Le ho dovute fabbricare io stesso. Hanno la punta cava e contengono quattro grammi di tetrile e azotidrato di piombo.» «Molto bene.» Faccia da volpe esitò. «Non vuole qualcos'altro?» chiese poi. «Mi arriva sempre il meglio. L'esercito sta facendo i saldi invernali.» «Grazie.» «Ha una fidanzata? Avrei un vecchio modello di Walther TPH 6,35 mm, se le interessa.» Mirko sorrise. La Walther PPK era l'arma con cui James Bond aveva più volte perforato lo schermo e la TPH era una specie di sorella minore. Per i gusti della maggior parte dei professionals lasciava fori troppo piccoli. Si diceva che con la TPH si dovessero sparare più colpi che con qualsiasi altra pistola, perché le pallottole non uccidevano l'avversario, gli facevano solo qualche delicata perforazione. In sostanza, era la pistola perfetta per le signore, come la leggendaria FN Baby, che aveva un posto fisso in ogni borsetta di molti film polizieschi inglesi. «Le farò sapere», rispose. Il commerciante sogghignò. «Sempre gentile.» Prese i dollari che Mirko gli porse e, con un movimento rapido, li fece sparire nella cintola dei pan-
taloni. Quelli come lui accettavano soltanto dollari. «Fra l'altro, i prezzi stanno aumentando. Voglio dire, per la prossima volta. È sicuro di non volere la TPH?» «La regali al museo. Ne ho già visti a dozzine di aumenti di prezzo. Chi troppo vuole nulla stringe.» «Tutti dobbiamo campare.» Mirko giocherellò con l'arma e la tenne in modo che la canna fosse puntata come per caso verso il commerciante. «Già», confermò. «Tutti vogliamo vivere.» Il commerciante impallidì. «Naturalmente non mi sognerei nemmeno...» cominciò. Mirko lasciò scivolare l'arma nella giacca e andò alla porta. «Naturalmente», ripeté. Dopo aver lasciato la casa ed essere tornato nella strada principale, risalì in auto e si fece accompagnare sulla sponda opposta del fiume, al centro finanziario di Mosca, il Kitaj-gorod. L'antico e rispettabile quartiere fiancheggiava la zona del Cremlino e comprendeva la Piazza Rossa. Spirito e denaro si tenevano per mano. Si fece lasciare alla Nikol'skaja Ulica, con le sue boutique e gioiellerie, dando all'autista istruzioni precise su dove e quando andare a prenderlo. Poi scomparve in una delle banche e, dopo qualche minuto, tornò in strada con una valigetta. Da lì fece una breve passeggiata, attraversando un vicino parco. Lì dietro cominciava la collina Ivanovskaja, un quartiere idilliaco che ospitava una serie di ville esclusive e l'ambasciata bielorussa. Mirko prese la valigetta sottobraccio e si mise a camminare a ritmo più spedito. Dopo poche centinaia di metri, salì i gradini di una casa in stile liberty situata in un'ottima posizione. Suonò il campanello. Si sentì un sommesso ronzio e ben presto Mirko si ritrovò in un atrio con pareti alte e riccamente ornato di stucchi. Sul lato opposto, si apriva un portone a doppio battente. Un uomo massiccio lo fece entrare e un altro lo perquisì. «La valigetta», disse il primo uomo. Mirko annuì, aprì la valigetta e mostrò alla guardia il denaro sistemato con cura. «Un milione. In dollari, come concordato.» La guardia annuì. Mirko richiuse la valigetta e seguì i due uomini in una stanza adiacente, un ufficio accogliente, arredato con mobili lussuosi. Un uomo prestante, coi capelli radi e coi baffi, era seduto dietro la scrivania e, nello scorgere Mirko, si alzò. «Signor Biçic», esordì in tono amichevole. «Spero che sia stato ricevuto
col dovuto rispetto.» «L'accoglienza lasciava un po' a desiderare, onorevole.» Mirko, che in quell'ambiente era noto come Stanislav Biçic, andò verso una delle poltrone antiche che si trovavano davanti alla scrivania e vi si accomodò. «Vista la transazione che stiamo portando a termine, il trattamento dei suoi gorilla è piuttosto brusco. Non sono abituato a essere perquisito come un ladruncolo. Ho forse dimenticato di dire che il mio governo intende fare affari con lei anche in futuro?» Il suo interlocutore era sbigottito. «Mi spiace, io...» Incenerì con lo sguardo i due uomini che avevano accompagnato Mirko. «Cosa vi salta in mente? Ho mai parlato di perquisizioni?» I due trasalirono. «Pensavamo...» disse uno. «Pensate! È proprio questo il problema. Fuori! Il signor Biçic è sempre benvenuto in questa casa.» Con un'aria da cani bastonati, i due uscirono. «Quanti altri tizi del genere nasconde qui dentro?» chiese Mirko in tono colloquiale. «Nessuno. Due sono già troppi.» L'uomo scosse il capo e allargò le braccia, in segno di scusa. «Davvero, sono in imbarazzo. Gradisce qualcosa da bere, signor Biçic? Com'è andato il volo?» «Non ci ho fatto caso. Grazie, lei è molto gentile, ma vado un po' di fretta.» Picchiò il palmo della mano sulla valigetta. «Qui dentro c'è un milione di dollari. I suoi zelanti collaboratori hanno già avuto il piacere di dare un'occhiata. Ma mettiamoci una pietra sopra. Abbiamo appreso con piacere che lo YAG è arrivato in Germania e consideriamo questo milione di dollari non tanto come l'obolo concordato per il suo disturbo, ma piuttosto come un anticipo per il proseguimento della nostra collaborazione. Sempre ammesso che lei sia interessato, naturalmente.» Il deputato gli rivolse uno sguardo raggiante. «Ma naturalmente!» esclamò. «Dica pure. Cosa posso fare per lei?» Mirko accavallò le gambe. «Anzitutto deve mettere da parte la diffidenza, mio caro amico. Altrimenti non farà più nulla per me.» «Non succederà più! Al giorno d'oggi, la vita è pericolosa... ma non devo certo spiegarlo a lei. Quelle teste vuote là fuori pensano subito che qualcuno sia un killer o un criminale. Oh, Dio mio, che tempi, vero? Ma quelli non hanno la testa, hanno soltanto grosse zucche pensanti e sarebbe inutile cercare di spiegargli che i nostri affari sono di carattere puramente monetario. Comunque mi fa piacere sentire che tutto si è concluso in modo
soddisfacente per lei.» Mirko annuì. «Prima di parlare di altri progetti, devo avere l'assoluta garanzia che lei è l'unico a conoscere la vera provenienza dello YAG. Posso contarci?» L'uomo inarcò le sopracciglia e abbassò le palpebre. «La prego. L'abbiamo concordato e io mi attengo ai nostri accordi.» «Come faccio a sapere che non si è confidato con qualcuno?» «Fin dall'inizio il mio unico interesse è stato quello di ampliare i nostri rapporti commerciali. Le indiscrezioni non sono un buon punto di partenza, in tal senso. È dunque ovvio che io abbia mantenuto il segreto. Tutti coloro che hanno preso in consegna lo YAG non saranno in grado di rintracciarne l'origine se non fino al punto da lei desiderato.» Si appoggiò allo schienale della poltrona e assunse un'espressione compiaciuta. «Dovrebbero torturarmi per farmi rivelare da dove viene quell'apparecchio.» «Molto bene.» Mirko sorrise e fece scattare le serrature della valigetta. «Allora parliamo di nuovi incarichi. Prima, però, non voglio privarla oltre del suo meritato compenso.» Lo sguardo del deputato si accese di avidità. Mirko aprì completamente la valigetta e fece cadere le mazzette di denaro, che ruzzolarono l'una sull'altra, formando un mucchio disordinato sulla scrivania. Alcune caddero oltre il bordo. Il deputato si chinò subito in avanti e affondò le mani nel mucchio, ammiccando nervosamente. «Oh, per favore, preferirei che non trattasse così i soldi...» Mirko premette un pulsante sul lato interno della maniglia della valigetta. Spuntò un grilletto. Sollevò leggermente la valigetta, premette il lato più stretto contro la testa del deputato e tirò. Si sentì un plop. Nella fronte dell'uomo si aprì un buco, da cui fuoriuscirono sangue e materia cerebrale. Per un istante, il deputato oscillò, con la bocca aperta e gli occhi spalancati dal terrore, e poi crollò sul mucchio di denaro. Senza degnarlo di un altro sguardo, Mirko aprì il doppio fondo della valigetta. All'interno c'era un sistema di tiranti nel quale era inserita la PSM. Dove la canna toccava la parete della valigetta, la pelle era particolarmente sottile. Un meccanismo collegava il grilletto dell'arma con quello della maniglia, l'azionamento avveniva tramite un impulso elettronico e la valigia stessa fungeva da silenziatore. Il trucco non era nuovissimo, però era insolito. Soltanto pochi professionals erano in grado di gestire quel meccanismo complicato. Mirko estrasse l'arma e richiuse il doppio fondo. Poi ripose con tutta
calma il denaro nella valigetta, la chiuse e attraversò l'ufficio. Raggiunse la porta e l'aprì con una spinta. Nell'atrio, s'imbatte nelle guardie. Avevano preso posto su due sedie e stavano leggendo una rivista. Il primo uomo era ancora seduto quando Mirko lo colpì. Il secondo riuscì a sollevarsi per metà e a far sparire la mano sotto la giacca prima di crollare sulla sedia, morto. Mirko si diede un'occhiata intorno, ripose l'arma e lasciò la casa. Dopo pochi minuti raggiunse la banca e depositò nuovamente la valigetta nella cassetta di sicurezza. Qualcuno se ne sarebbe occupato. Poi, senza fretta, attraversò il parco che fiancheggiava la Chiesa della Trinità, si portò verso il fiume e, prestando attenzione a non essere visto, buttò l'arma nell'acqua. Poi inspirò l'aria fredda, soddisfatto, e procedette fino al punto d'incontro concordato. L'autista lo caricò e lo accompagnò direttamente all'aeroporto. Lo YAG era in Germania: ogni sua traccia - eccetto quelle lasciate ad arte - era scomparsa. Inoltre la squadra era stata formata. Fin lì non sarebbe potuta andare meglio. Mirko si mise a fischiettare sommessamente. Amava le giornate come quella. Non era meravigliosamente rilassante il successo? 16 giugno 1999. Hotel Maritim (Colonia) Stare sdraiati fianco a fianco poteva cambiare il mondo. La testa di Kika era appoggiata sul petto di Liam. Aveva raccolto a sé le gambe e le sembrava di essere tornata una diciottenne, alta un metro e settantotto... al massimo. L'aspetto straordinario della situazione era che le era piaciuto andare a letto con lui e, nel contempo, si sentiva appagata per non averci fatto nulla. Ormai erano le sei e qualcosa e si sentiva ubriaca fradicia, eppure guidata da una sobrietà cristallina che le consentiva di mantenere il controllo. Perché nient'altro contava nel gioco cui avevano deciso di giocare. Per perdere il controllo nel momento giusto ci voleva controllo. Sia Liam sia Kika avevano ben chiaro che, alla loro notte da Sharazad, sarebbe succeduta la notte delle notti. Ma non era quella. Il momento in cui ci si lascia andare senza riserve non si fonda sulla pianificazione e su bottiglie di whisky svuotate. Era una piacevole ironia che l'alcol, la giustificazione più frequente per le avventure di una notte, in quel caso fosse stato usato come pretesto per rinunciare. Anche se solo per qualche ora o qualche giorno. Kika giaceva tra le braccia di Liam, avvolta nella certezza che la statura
fisica era relativa, mentre quella intellettuale era obiettiva. Al suo orecchio, il petto di lui pareva un alveare. Emetteva vibrazioni mentre Liam canticchiava a bocca chiusa una melodia che probabilmente si sentiva soltanto a Shannonbridge e in simili luoghi incantati, quando si passava dal pub al negozio di alimentari, dove si beveva una Guinness insieme col poliziotto del paese, che era il cognato del locandiere, il cui zio era proprietario del negozio e il cui migliore amico possedeva una barca, e quando si parlava di andare sull'isoletta nel fiume Shannon per vedere se le carpe fossero ancora vive nel piccolo stagno che esisteva già all'epoca in cui il gigante aveva ucciso con la fionda sua moglie e il di lei amante, ai tempi dei tempi, perché i due se la facevano e in più erano talmente spudorati da trasformarsi in uccellini per la durata dell'amplesso e da provocare il sonno del gigante tramite una pozione magica, che una volta non aveva funzionato, ponendo fine alla tresca, eccetera, eccetera... Aprì gli occhi. Liam non aveva tirato le tende e la luce era abbagliante. Dalla finestra semiaperta entrava il cinguettio degli uccellini. Kika si chiese come sarebbero riusciti ad arrivare in posizione eretta al campo da golf, ma confidava nella miracolosa capacità di Liam di affrontare i problemi dell'alcol con sobria competenza tecnica, convinta che ce l'avrebbe fatta anche per lei. Il canto si spense. «Non ti sarai mica addormentato?» mormorò lei, in una piega della camicia slacciata di lui. «Sì, invece.» «Non è sportivo. Ed è noioso. Pensavo che scrivessi capolavori o rallentassi almeno qualche fotone quando sei ubriaco e credi di non essere osservato.» «Certo», replicò Liam. Proprio come il canto di qualche minuto prima, nella realtà senza spazio e senza tempo di quella stanza anche la sua voce non era molto più che una vibrazione oscura e immensamente benefica. «Ma soltanto nel mondo reale.» «Che cos'è il mondo reale?» «Quello nella mia testa. Tutto il resto è soltanto fantasia. La tua e quella di altre persone. Quando ho finito, consento a tutti voi di sognarmi e di diventare partecipi della mia genialità.» «Vuoi dire che non esisti veramente?» «Voglio dire che voi non esistete veramente.» «Tu sei suonato.»
«Respingo qualsiasi responsabilità. David Hume è suonato. È lui che ha inventato...» «Sì, lo so. Anche Hume è suonato.» «Hai ragione, probabilmente. Il rifiuto è la forma più economica d'interesse, mi congratulo. Va bene, allora esisti anche tu. Ma nessun altro, per favore.» «Che cosa canticchiavi prima?» Liam cominciò ad accarezzarle la nuca. Poi a Kika giunse di nuovo all'orecchio quella melodia. «Esatto! Che cos'è?» «Na Géanna Fiàine», rispose lui. «Suona gaelico o qualcosa del genere», osservò Kika. «È gaelico e parla delle oche selvatiche e delle loro migrazioni. Si può interpretare in diversi modi. Alcuni dicono che tornano alla Dublino dorata di Richard Cassels, Thomas Ivory e James Gandon, che sono i giovanotti cui dobbiamo il Royal Exchange e altre cose magnifiche come il Four Courts o il Westfront del Trinity, dove mi sono annoiato a morte per anni. L'altra versione è più vicina alla mia interpretazione della tristesse irlandese. Le oche abbandonano l'isola, se ne vanno e portano con sé ciò che rimane delle tradizioni.» «Bello in ogni caso, qualunque cosa pensino le oche.» «All'inizio del XIX secolo, un arpista di nome Patrick Quinn ha venduto questa canzone a un collezionista», mormorò Liam. «Sai, tutti gli irlandesi cantano, anche quelli che non sono capaci. Non perché siano particolarmente musicali, ma perché altrimenti nessuno darebbe ascolto alla loro disperazione.» «Non ti capisco proprio.» «Non mi capisco neanch'io.» «Perché bevi tanto?» «Questa è una domanda stupida. Tutti gli irlandesi...» «Tutti gli irlandesi bevono. Sì, certo. E che altro? Sai darmi una spiegazione che non sia nella guida turistica?» Liam tacque per qualche istante. Poi disse: «Ci sono oche selvatiche che vengono e altre che volano via. Poi ce ne sono altre che girano in tondo». «E perché lo fanno?» «Se prendessero una certa direzione, potrebbero essere seguite.» «E questo è un motivo per bere?» «È un motivo per non diventare mai sobri. Girare in tondo con maestria
ti esonera da qualsiasi responsabilità. Puoi impunemente rallentare la luce e combinare altre sciocchezze. Puoi diffondere le tue ciance sotto forma di libri. Puoi comportarti male e in cambio essere adulato. Se lo possono permettere soltanto gli irlandesi, da banda di disperati quali sono. Qualsiasi altra persona finirebbe in manicomio. A Dublino c'era un uomo che veniva chiamato Bu. Quando qualcuno attraversava il ponte di O'Connell a piedi, lui spuntava fuori alle sue spalle e gridava: 'Bu!' così forte da fargli venire un infarto. Faceva: 'Bu!' a tutti. Era un genio dell'arte di girare in tondo. Lo sai, talvolta penso che passo la vita a gridare: 'Bu!' e che ogni volta funziona. Nessuno vuole che io prenda una direzione precisa. Credi sul serio che una cosa del genere si possa sopportare quando si è sobri?» «E perché non la smetti di girare in tondo?» «E tu cosa fai?» Kika rifletté. Le vennero in mente migliaia di risposte aride e incontrovertibili nella loro desolazione. Poi si rese conto che qualsiasi spiegazione più o meno civile corrispondeva a una di quelle direzioni di cui parlava Liam. Non era affatto divertente pronunciare frasi razionali sulla sua presenza lì, discutere obiettivamente del perché fosse sdraiata sullo stesso letto con un uomo che conosceva da meno di ventiquattr'ore, con una bottiglia di single malt quasi vuota, eccitata dal pensiero di farselo e nel contempo entusiasta di non esserselo fatto. Mentre rifletteva su come fare a pezzi la logica di quella filosofia, vide nella sua mente uno stormo di pensieri che giravano in tondo, starnazzando mentre descrivevano le loro traiettorie. D'altra parte, perché i grandi scrittori avevano scritto sempre degli stessi luoghi e delle stesse persone, perché i grandi pittori avevano dipinto sempre lo stesso quadro e perché i grandi attori interpretavano sempre gli stessi ruoli? Quel girare in tondo era bello. Troppo bello, in un certo senso. Si sollevò un po', in modo da poter guardare Liam negli occhi. Erano semichiusi. Lui arricciò il naso, assumendo un'espressione che le piacque molto. «Tu non giri in tondo», gli disse. «Fingi soltanto. Come in tutte le cose. Ti piacciono questi ruoli. Cavolo, Liam, sei un fisico di grande talento, scrivi bestseller! A un certo punto, devi aver imboccato una direzione.» Lui sorrise. «Basta che il cerchio sia abbastanza grande perché agli altri sembri una direzione.» «Non trovi che tutto ciò sia molto astratto?» «Essere astratti è il privilegio degli ubriaconi. Joyce era così astratto da raggiungere una fama mondiale con libri che nessuno capisce. Se ricordo
bene ciò che mi ha detto Kuhn, sei nata a Colonia, ma lavori ad Amburgo.» «Esatto. E allora?» «Com'è tornare indietro?» «È...» Com'era? «Be', tornare indietro, già. È bello. I miei genitori vivono qui.» «Perché stai ad Amburgo?» «Per lavoro.» Liam scosse il capo. «Non ti sei trasferita ad Amburgo per lavoro. Non mi raccontare favole. Tu ami Colonia, lo sento a naso. E anche tu non sei affatto ciò che fingi di essere. Né tosta come cerchi di presentarti, né contenta di stare ad Amburgo. E certamente non sei qui per farmi da addetta stampa.» Kika sussultò. La sua mente si era concentrata sull'assurdo, ma quella era un'affermazione cui doveva controbattere con serietà. O forse no? «Ma è quello che faccio», rispose caparbiamente. «Non lo metto in dubbio. Dico soltanto che non sei qui per questo. Ti hanno mandato qui per starmi dietro, giusto?» «Che fesseria.» Lui le cinse le spalle e l'attirò a sé. Nella leggerezza del bacio, il sole sorse e tramontò almeno tre volte. Oche selvatiche seguivano bottiglie di whisky volanti. «Giusto?» ripeté lui. Kika incrociò le braccia sul petto di Liam, vi appoggiò il mento e lo guardò. «Lavoravo nell'ufficio stampa di una casa editrice e ho commesso l'errore d'innamorarmi del mio capo», raccontò. Che strano, tutto le usciva di bocca senza problemi. «È successo qualche anno fa. Colonia non era abbastanza grande per scappare.» Ridacchiò. «Ha una struttura circolare romanica. L'ideale per girare in tondo. Il problema è che qui t'imbatti costantemente in te stessa. A ogni angolo incontri qualcuno che conosci, ma alla fine è sempre te stessa che incontri. Può essere bello o brutto. Nel mio caso era un disastro, perciò l'oca è emigrata.» Liam rimase silenzioso. «Cos'è, vuoi sapere tutto per filo e per segno?» Kika sospirò. «No, non me ne sono allontanata volentieri. Se le cose fossero andate diversamente, avrei ancora il mio appartamento nel quartiere belga oppure convivrei con un uomo carino che quantomeno fingerebbe di volare dritto. Ma naturalmente hai ragione: ho girato in tondo, sorvolando sempre la stessa male-
detta situazione, finché non ne ho potuto più. Per un po' siamo stati insieme, poi ci siamo lasciati, ma ogni giorno c'incrociavamo decine di volte, e la cosa non funzionava. Scacco matto. Perciò, nel bene o nel male, mi sono cercata qualcos'altro, giusto per allontanarmi da lui. Qui a Colonia. L'ho trovato subito, ma è stata una vera catastrofe. Come succede quando ti butti alla cieca in qualche buco, spinta da premesse del genere, giusto per nasconderti. D'un tratto, hai l'impressione che il tuo problema sia la città intera. Non ti riesce niente, ovunque sono in agguato delusioni e guai. Ti porti a letto qualcuno e nel contempo vorresti sbatterlo fuori. Corri come una pazza, ma è come correre su una pista circolare: continui a passare davanti alla stessa tribuna, ogni volta ti sembra di avere meno vie d'uscita. In più, i consigli degli amici non sono più tanto originali... Così, un bel giorno, ammetti la sconfitta e fai le valigie. Ti convinci che, da qualche altra parte, le cose potrebbero andare a meraviglia e che saresti comunque più felice altrove. Una casa editrice importante ti fa un'offerta e così parti.» Kika fece una pausa. «All'inizio non torni. Devi dimostrare a te stessa che non hai bisogno della città e della tua vita di un tempo. Prima o poi ti calmi, le pene amorose svaniscono e sei comunque troppo giovane per essere sempre amareggiata. Hai successo, ti fai nuovi amici e ti diverti un mondo, ma purtroppo abiti nella città sbagliata. Siccome lo sai, non ti cerchi neppure un ragazzo: è inutile, dato che vivi come ospite di te stessa. Le vecchie insoddisfazioni, per esempio il fatto di essere lunga come una pertica, si rifanno vive, neanche fossero vecchie conoscenze che vengono a prendere il tè. E tu sei quasi contenta di aver ritrovato quei complessi così familiari. Perciò non vivi male e, senza nemmeno accorgertene, ti cerchi una nuova pista per girare in tondo, una pista più ampia, che va dall'Alster al Reno. Per un po', tutto fila liscio, finché una mattina non ti ritrovi nel letto di un pazzo che ti racconta di altri pazzi e ti fa ubriacare. Così senti te stessa raccontare la tua maledetta storia e pensi quanto ti piacerebbe vivere ancora qui... e basta. Anzi no. Non basta!» «No?» Lo guardò. Gli angoli della sua bocca si alzarono in un ghigno. «No, devi anche ammettere che avevi l'incarico di badare a quel pazzo, perché la casa editrice nutriva timori terribili... A questo punto, credo di aver messo tutte le carte in tavola.» Liam sorrise, compiaciuto. «La tua casa editrice può essere orgogliosa di te. Dimostri un impegno che sicuramente non si aspettava.» Lei si tirò su, poi si chinò su di lui e lo baciò. I capelli le ricaddero sul
viso e per entrambi fu come ritrovarsi sotto la chioma di un salice. «Questo non era previsto», bisbigliò Kika. «Lo so», disse lui sottovoce. «Nessuno mi aveva preparato al fatto che stanotte io potessi cedere all'idea di adottare dei princìpi.» «Stai bluffando un'altra volta.» «Nient'affatto. Sei bellissima. Il che è straordinario, considerato il tuo metro e ottantasette.» «Non sono bella. Sono magra, alta, pallida e spigolosa.» Per qualche istante si sentirono soltanto gli uccellini cantare sotto la finestra della camera. Quando Kika stava per addormentarsi, Liam disse: «No, Kika. Una donna è tanto bella quanto i complimenti che ha ricevuto. Tu devi averli ricevuti tutti in una sola volta». 18 febbraio 1999. Colonia Che quell'uomo non avesse mangiato praticamente nulla per giorni si vedeva al primo sguardo. Che il suo corpo non fosse entrato in contatto con acqua e sapone ancora più a lungo, si notava soltanto a portata di olfatto. Era seduto sul sedile del passeggero di un'Audi nuova di zecca e sfregava le mani sul vecchio cappotto. Gli arruffati capelli biondo-rossicci gli ricadevano sulla fronte e il viso era arso dal sole e gonfio, con gli occhi affondati tra le palpebre come tra due cuscini. Il naso aveva una colorazione bluastra, proprio come il sopracciglio sinistro, a seguito di un colpo che aveva ricevuto in una zuffa con un magnaccia albanese. Tuttavia, benché il suo aspetto facesse pietà, nell'insieme quell'uomo non dava l'impressione di essere infelice. Rideva, svelando una dentatura ingiallita e lacunosa, e annuiva, rivolgendosi al conducente dell'auto con fare confidenziale. Mezz'ora prima, aveva messo nello stomaco due BigMac e una porzione enorme di patatine fritte. «Gentile da parte tua», disse. La sua voce era poco più di un roco sussurro. Tra i punk e i senzatetto di Colonia gli era valsa il soprannome Voce da Computer. Ormai nessuno sapeva più come si chiamava veramente; sembrava che lui stesso non volesse più saperlo. «Davvero gentile, giovanotto. Era buono! Se vuoi proprio saperlo, potrei farci l'abitudine.» L'uomo più giovane sorrise. «Dipende», replicò. «Vedrai che sarai soddisfatto», gracchiò Voce da Computer. «Sono già
stato fotografato altre volte. Per un giornale. Era... macché, non lo ricordo più. Comunque sono tutti uguali. Non importa. Fanno sempre reportage su di noi... Alla gente raffinata piace leggere cose del genere a colazione.» Ridacchiò e tirò la manica della giacca del guidatore. «Anche tu sei un tipo raffinato, eh? Interni eleganti e tutto il resto. Si guadagna così tanto a fare il fotografo?» «No», rispose il guidatore. «Di fotografi ce ne sono a bizzeffe. Se le mie foto non sono belle, nessuno le compra. E, quando sono belle, può comunque succedere che non piacciano a qualche sputasentenze. Allora me la passo male.» Il vagabondo si stropicciò il viso, guardò il giovane e sporse il labbro inferiore. «Di certo non te la passi male come me.» «No. Su questo probabilmente ha ragione.» Il guidatore non gli aveva chiesto quanti anni aveva. Ai senzatetto non piacevano gli interrogatori. Erano diffidenti e ostili per natura. Diventavano comunicativi soltanto di loro spontanea volontà, quando scoccava la scintilla e giungevano alla conclusione che l'altra persona faceva sul serio. Non si poteva dar loro torto. Il loro unico capitale erano le brutte esperienze e gli interessi maturati erano il riserbo e la prudenza. Il guidatore aveva dato all'uomo qualche spicciolo e aveva chiacchierato con lui per un po'. Cose irrilevanti, battute, chiacchiere e pettegolezzi. Poi lo aveva invitato a pranzo. Solo dopo il primo BigMac, quando Voce da Computer si era scongelato, gli aveva proposto di farsi immortalare per un volume fotografico sul lato oscuro di Colonia, una testimonianza sul mondo dei più sfortunati, di quelli che muoiono di freddo fuori dalle porte delle case. Voce da Computer aveva accettato, ma solo dopo che si era parlato di duecento marchi. Nella sua vita c'erano state fin troppe cose che non gli erano valse nulla. Chi voleva il suo ritratto doveva sapere quanto valeva. A giudicare dal suo aspetto, era possibile che avesse fatto in tempo a combattere a Stalingrado, pensò il guidatore. Probabilmente non aveva nemmeno cinquant'anni, tuttavia sembrava la somma in carne e ossa di diverse esistenze rovinate. «Se non hai una casa sei come immondizia», disse Voce da Computer mentre percorrevano la strada che portava alla piccola zona industriale. «E, se non puoi comprarti da mangiare, peggio ancora. Guarda quel maiale, dicono, si è bevuto tutti i soldi, adesso dorme sdraiato per terra, coperto di stracci. Uno così è meglio che crepi. Poi si rendono conto di quello che hanno detto e pensano: 'No, non per noi, è meglio per lui, poveraccio, tanto
che se ne fa della vita? Non ha combinato niente fino a adesso, no? Avrebbe potuto: tutti sono capaci di lavorare. No, meglio lasciarlo morire, così ce n'è uno in meno'.» Si grattò la barba ispida. «Un animale qualsiasi vale di più. Lo sai che una volta avevo un criceto?» «No, non me l'ha detto.» «Invece ce l'avevo. E sai perché? Non me ne fregava niente di quella bestia, ma con un animale puoi fare i soldi! Me ne stavo rannicchiato sulla strada con una scatola di cartone di fianco, dove c'era dentro il criceto con un po' d'erba, e un pezzo di cartone su cui c'era scritto: UNA PICCOLA OFFERTA PER IL MANGIME, GRAZIE.» «Raffinato.» Voce da Computer rise come un matto, battendosi la mano sul ginocchio. «È stata l'idea più bella della mia vita, amico! Il massimo! Il primo giorno, due donne anziane escono da una caffetteria, ben rimpinzate di torta alla panna, e mi vedono seduto lì. Sono davvero disgustate. Quel tipo di gente che non ti dà un centesimo, hai presente? 'Quel vecchio sacco di merda se l'è meritato di starsene lì a crepare', pensano, 'perché il buon Dio è giusto. Se lo permette, vuol dire che va bene così.' Ma poi vedono la bestia. E subito una si mette a rovistare nel portamonete, tira fuori cinque marchi e li butta nella scatola! Cavolo, cinque marchi! 'Cosa ci può fare quella povera creatura?' dice. 'È innocente!' E anche l'altra sgancia subito, non sopporta che quella creatura tormentata da Dio debba morire di fame. Ma per 'creatura tormentata da Dio' non intendevano me.» Fece una pausa. Non sorrideva più. «Intendevano il criceto. Povero cricetino. 'Ecco, per quella bestiola', mi dicono. 'Le compri qualcosa da mangiare, non deve patire la fame.' Così vanno le cose. Alle bestie danno tutti qualcosa, per compassione. Una bestiola non può morire, ma, un uomo, cos'è mai? Non fa altro che rubare, deturpa la tua bella strada, si piscia nei pantaloni, deve sparire! Già, è proprio così che vanno le cose. Sei feccia, un mucchio di merda. Non sei più un uomo.» «È proprio quello che vogliamo cambiare», disse il guidatore. «Con un libro di foto?» Voce da Computer rise. «Fate pure. È un'idea fantastica. Sai qual è la cosa importante per me? Rimarrai deluso di brutto, amico, ma è la grana che conta. Solo la grana, altrimenti non lo farei proprio.» «Per noi la cosa vale quella grana», replicò il guidatore, sorridendo. Il barbone lo guardò con un'improvvisa diffidenza. «Ehi! Non vorrai mica fare foto sconce, eh? Voglio dire, porcate varie, dove bisogna spogliarsi
e cose del genere...» Il guidatore scosse energicamente il capo, girò a sinistra e imboccò un passo carrabile che portava in un cortile. C'erano parcheggiati due grossi camion e, sulla destra, c'era un capannone basso, quasi senza finestre. La zona era racchiusa da un muro di cinta. «Assolutamente no», disse sogghignando. «Comunque le foto non le faccio io. Le fa una donna.» Voce da Computer sussultò. «Ah! Non so se...» «Una bella donna», sottolineò il guidatore. «E anche una brava fotografa. Purtroppo devo ammettere che è molto più brava di me.» Il vagabondo lo guardò, dubbioso. «Non è che mi vuole in mutande, quella? Te lo dico subito, io le zozzate porno non le faccio.» «Niente paura. È tutto molto serio. Parola d'onore!» Voce da Computer si passò le dita sul cappotto, come se volesse staccarsi la pelle dal palmo delle mani. All'improvviso se ne uscì con un'altra delle sue risate ingiallite. «E chi se ne frega. Mi sta bene! Allora, che ne dici, amico, andiamo a soddisfare la signora?» «Eccome!» Il guidatore si unì alla sua risata cospiratoria. Scesero dall'auto, attraversarono il cortile ed entrarono nell'edificio, spingendo un cancello d'acciaio che il guidatore poi chiuse alle loro spalle. Si ritrovarono in uno spazioso capannone illuminato da lampade al neon. In fondo, c'erano alcune porte. Nel capannone non c'erano mobili, a parte un tavolo e qualche sedia. In compenso al centro, su una specie di vagone ferroviario, era posato qualcosa di gigantesco, affiancato da due apparecchi dall'aspetto altamente tecnologico e da una cassa di metallo scintillante, lunga una decina di metri. A pochi passi da quella singolare struttura, spuntava dal pavimento un supporto metallico con una cosa splendente in cima. Tra il vagone, o qualunque cosa fosse, e la parete si allungava una coppia di binari. Voce da Computer guardò da quella parte, curioso. Non aveva la minima idea di che cosa potesse essere quell'affare, ma che poteva saperne del progresso, dopo anni e decenni in mezzo a una strada? Venne loro incontro una donna, snella e di statura media, con un viso grazioso e lunghi capelli biondi. «Dunque è lei il nostro modello», disse cordialmente, porgendogli la mano. «Che piacere averla con noi.» Voce da Computer diede un'occhiata incerta al guidatore, con esitazione prese la mano della donna e la strinse lentamente. «Volevo lavarmi... prima», disse. «Non c'è bisogno.» La donna scosse il capo. «L'unica cosa che conta è
che lei sia qui. Le siamo molto grati.» «Ma non sono mica un maiale, signora.» Il vagabondo cercò di darsi un contegno, mentre cominciava a spogliare con gli occhi la sua interlocutrice. «Ci tengo che lei lo sappia.» «Certo che no. Non c'è dubbio.» La fotografa allargò le braccia. «Be', che dice, cominciamo subito? Purtroppo abbiamo una certa fretta.» «Ah... un momento... così alla svelta?» «Sì, perché no?» «E la grana?» «Oh, certo. Sistemiamo subito.» Lanciò una breve occhiata al guidatore. L'uomo infilò la mano nella giacca, contò due banconote da cento marchi e le mise in mano a Voce da Computer. Alla vista del denaro, il vagabondo fece un sorrisone. «Certo, dolcezza, certo. A posto! Allora, come mi vuole? Devo fare la ruota? La verticale? Sradicare qualche albero?» Il guidatore era appoggiato alla cassa e lo osservava, pensieroso. Poi indicò la parete opposta, quella col cancello d'acciaio. «Pensavamo a qualcosa di movimentato. Vogliamo che sia il più vitale possibile, pieno d'energia. La cosa migliore sarebbe se lei camminasse dal cancello verso di noi, mentre noi facciamo qualche scatto. Punti semplicemente verso la cassa.» «Di energia ne ho a bizzeffe, giovanotto!» gracchiò Voce da Computer, cominciando a saltellare goffamente. «Dammi un altro centone e avrò più energia di una maledetta centrale nucleare!» «Grazie, siamo già soddisfatti così.» La donna era andata al tavolo e stava tornando con una macchina fotografica. «È pronto?» «Oui, madame!» «Bene. Allora cominciamo. È molto semplice. Cammini normalmente. Non corra.» «Quando? Adesso?» «Per prima cosa vada al cancello.» Voce da Computer smise di ballare, si trascinò fino alla parete opposta e, quando la raggiunse, si voltò. «Adesso?» «Ancora un momento!» La donna si portò la macchina fotografica davanti al viso e manovrò l'obiettivo. Nella penombra del soffitto cominciò lentamente a muoversi in sincronia un aggeggio dalle dimensioni di una videocamera. Il barbone indicò la macchina fotografica. «Quello è un tele!» esclamò. «Caro, eh?»
«Esatto, è un tele ed è caro.» «Ehi, me la date una foto? Voglio avere qualche foto anch'io, avete sentito? Anzi le voglio tutte!» «Le faremo il servizio migliore della sua vita!» rise la fotografa. «Promesso?» «Ma certo! Okay, venga avanti. Sì, adesso. Forza!» Il vagabondo si dondolò per qualche istante sui talloni, come se fosse incerto sul piede col quale partire. Poi le andò incontro, un po' incerto. «Sa, sono...» gracchiò. La fotografa premette l'otturatore. Dalla cassa uscì un sibilo secco. Nel contempo si sentì un rumore lacerante, ma non particolarmente forte, mentre la testa del vagabondo esplodeva in una nuvola di sangue, materia cerebrale e schegge di ossa. Si aveva l'impressione che il corpo volesse continuare a camminare per qualche altro secondo, come se non fosse successo nulla. Le braccia si muovevano al ritmo della tranquilla camminata; poi il busto prese il sopravvento, si rovesciò di lato e cadde a terra. Le dita della mano destra si contrassero, come per cercare un appiglio. «Straordinario», commentò Mirko, che era ancora accanto alla cassa. Jana si avvicinò al cadavere e si accovacciò. Osservò attentamente lo squarcio. Sulla destra, la testa e il collo erano stati strappati via fino alla spalla; sull'altro lato, erano ancora appesi un pezzo di mandibola e un orecchio. Tra le scapole si stava allargando una pozza di sangue. «Più o meno quello che mi aspettavo», commentò. «È sicura che l'impulso non perda potenza a distanze maggiori?» «Sicura come la morte. Siamo a tre chilometri dal bersaglio. Ne avevo messi in conto cinque o sei. Il test è andato bene. In giugno il risultato sarà lo stesso.» Mirko annuì. «Devo esprimerle la mia ammirazione», mormorò. «Davvero, Jana, l'ammiro.» Lei scrollò le spalle. Raggiunse il tavolo e vi posò la macchina fotografica. Poi si voltò verso Mirko e lo guardò. Sul suo viso non si leggeva nessuna emozione. «Grazie. Però... mi ammiri fra quattro mesi.» Mirko sorrise. «Naturalmente.» Il suo sguardo si appuntò sul cadavere. «Be', adesso facciamo un po' di pulizia.» FASE 2
Liam O'Connor Qualcosa gli diceva che erano esattamente le sette e cinquantuno, ma gli era impossibile provarlo. Per essere precisi, gli era impossibile provare qualsiasi cosa. Qualcuno giaceva tra le sue braccia, questo lo sapeva, ma gli occhi non volevano aprirsi. Tastare quella persona, guardarla e assicurarsi della sua presenza avrebbero richiesto il controllo del proprio corpo, tuttavia, con tutta la buona volontà, Liam non sarebbe riuscito nemmeno a muovere il mignolo. Era disteso, completamente irrigidito, incapace di batter ciglio e tantomeno di aprire gli occhi e di padroneggiare le proprie capacità motorie. In passato, quando si era reso conto che, al risveglio, la sua coscienza si era come trasferita in un albero morto, si era fatto prendere dal panico. Gli erano venuti in mente certi racconti di Edgar Allan Poe: persone sepolte vive, morti apparenti e individui paralizzati, prigionieri del proprio corpo... roba da far sembrare le segrete del conte di Montecristo fantasie piccoloborghesi. Nessuno era riuscito a spiegargli da cosa derivasse quella temporanea paralisi; peggio ancora, nessuno gli aveva creduto. I medici avevano ripetutamente tentato di convincerlo che s'illudeva di essere sveglio e che in realtà fosse in preda a un terribile incubo. Poi elencavano gli effetti dell'eccessivo consumo di alcol. Tutti quei medici avevano occhialini a mezzaluna, così da poterlo fissare da sopra la montatura, con aria di rimprovero. Evidentemente nessuno riusciva a immaginare come ci si sentisse a risvegliarsi e scoprirsi condannati all'immobilità, incapaci persino di gemere. Le prime volte, Liam era riuscito a liberarsi dalla prigionia generando un'enorme tensione e tentando almeno di muovere un piede o una mano. Una volta infranto l'incantesimo, poteva succedere che le catene della paralisi si spezzassero all'improvviso, facendolo sussultare. Allora affondava le dita nel cuscino e fissava un punto qualsiasi, respirando affannosamente, felicissimo di avere di nuovo il controllo di sé. Da qualche tempo, però, accadeva sempre più di rado, quindi lui aveva sviluppato un nuovo metodo per avere la meglio sulla paura catatonica. Dato che il cervello era un computer, lui provava a riavviarlo. Quando il corpo scioperava, non gli restava che riaddormentarsi, consegnarsi a quel mondo intermedio che non voleva lasciarlo andare. Non appena smetteva di combattere la paralisi, si tranquillizzava. Sentiva soltanto una vaga diffidenza nei confronti della morte, che sospettava impegnata in una prova generale, e temeva di cedere
una volta di troppo al sonno e di lasciare il pianeta senza essersi divertito abbastanza. Comunque aveva accettato le regole del gioco e, fino a quel momento, si era sempre risvegliato. Dunque anche quella mattina non si sforzò di contrastarle. La sua coscienza andò alla deriva in un mare quasi morfinico, in cui Paddy Clohessy vagava come l'Olandese Volante, trascinandolo con sé nell'oscuro abisso del passato. Comparve una Dublino dai colori spettrali. Poi il cielo sopra il celebrato Trinity College si aprì e apparve un solare e spensierato 1980, insieme con un Liam dai capelli scuri e con alcuni individui che bevevano troppo e studiavano troppo poco. Liam aveva finito le scuole superiori con voti che andavano dall'ignobile all'eccellente e aveva ricevuto una spinta per entrare all'università, proprio come Falstaff per montare in groppa al suo destriero. Non andava malissimo in nessuna materia, a parte forse la matematica, una circostanza che era lieto di condividere con Albert Einstein. Non si preoccupava del fatto che, nei compiti in classe sulle equazioni integrali, non riuscisse a pensare ad altro se non alle ragazze sedute nei banchi davanti a lui o alle sue spalle oppure alle escursioni serali nella luce plumbea di Stephens Green Park, dove incontrava persone tanto piacevolmente viziose quanto lui, per discutere delle virtù nazionali. Comportarsi in modo sfacciatamente inopportuno rientrava di fatto nel codice degli studenti dublinesi del Trinity, i quali da secoli avevano la fama di essere reclutati fra i teppisti o fra i privilegiati o in entrambe le categorie. Che altro ci si poteva aspettare da un college in cui, anche alla fine del XX secolo, la polizia poteva mettere piede soltanto se invitata? E, data la precaria situazione sociale, tra Belfast a nord e il resto dell'Europa a sud, che altro si poteva fare se non spendere a piene mani il denaro dei propri benestanti genitori e disprezzarli per quello, anziché disprezzare se stessi? Al Trinity, Liam aveva studiato filosofia, fisica e matematica. Quest'ultima non gli era stata risparmiata, ma aveva smesso di fargli paura quando lui aveva scoperto che gli offriva possibilità completamente nuove per attirare e attizzare varie bellezze intellettuali. C'erano infatti ragazze oltremodo attraenti che soltanto in presenza di modelli di emissione di buchi neri, equazioni gravitazionali ed elaborati sui fenomeni di deformazione spettrale nel campo delle stelle neutroniche perdevano qualsiasi timidezza e subito dopo si sbarazzavano anche dell'ultimo capo di abbigliamento. Già nel primo anno di permanenza al Trinity, Liam aveva avuto la conferma del
potere romantico ed erotico della scienza. E aveva deciso che il sapere era sexy e il titolo accademico il migliore afrodisiaco. Era stato uno studente tanto mediocre alle superiori quanto eccezionale al college, benché ci tenesse a sottolineare di non aver mai studiato in vita sua per un esame. Come la maggior parte dei suoi compagni, bighellonava nelle birrerie della zona, preferibilmente da Kenny's e Lincolns. Teneva discorsi per la Philosophical Society e recitava in ruoli da mascalzone e da sovversivo nella tradizionale compagnia dei Trinity Players, nel teatro di Front Square. D'estate, insieme con alcuni compagni di studi, faceva da guida ai visitatori del college. Era stato in una di quelle occasioni che aveva conosciuto Patrick Clohessy, uno spaccone ossessionato dalla tecnologia, che Liam aveva fatto entrare nella troupe dei Players. In cambio, gli era stata offerta la possibilità di entrare in contatto con signore dalla dubbia fama e dagli straordinari talenti. Era nato così un gruppo che aveva lo scopo di annientare grandi quantità d'alcol e di non fare nulla di sensato. L'esame della situazione assorbiva tutte le forze. Dopotutto gli irlandesi se la passavano male, nel complesso, a differenza, per esempio, degli inglesi, i quali se la passavano bene, a eccezione della maggioranza. Quando Liam e Clohessy si sedevano davanti a qualche pinta di birra scura, l'isola di smeraldo si risvegliava un'altra volta come la Bella Addormentata, si sfregava gli occhi, come faceva ogni due o tre decenni, e si gettava con veemenza sui problemi sociali. Non avveniva in nessun altro luogo - tantomeno in Inghilterra -, eppure lì tradizionalisti e sovversivi si tendevano la mano. In un modo o nell'altro, finivano tutti in un grande abbraccio. Era troppo bello per essere vero e appunto per quello era soprattutto bello. Tranne che a Belfast, dove la situazione era spaventosa. Dato che tutti concordavano nell'evidenziare il proprio rinnovato orgoglio, le conversazioni nelle birrerie dublinesi si concentravano sulla pecora nera, sul vero enfant terrible, il Nord. L'Irlanda del Nord non passava più sotto silenzio, anzi veniva abbondantemente esaltata. Almeno in quell'ambito, si andava davvero al dunque e ci si poteva impegnare nel migliore dei modi, a distanza. I dublinesi si compiacevano a tal punto di esprimere il proprio parere e d'incitare alla battaglia, che poi si dimenticavano di agire. Tutti erano sovrani nel proprio pub e il pub era il mondo. Ciò che si diceva lì entrava nelle cronache della decadenza e del rinnovamento. Chi voleva agire? Perciò la protesta restava uno spettacolo e l'Irlanda del Nord - insieme con l'IRA - diventava un problema culturale, un fantasma da discutere e romanticizzare, da vivere a teatro, al cinema, in uno studio di regi-
strazione, senza interferire troppo col cristiano sforzo di condurre una vita ordinata. Erano state circostanze del genere a produrre chiacchieroni come Clohessy e Liam. Con la differenza che Clohessy era di umili origini - il padre era un ubriacone attaccabrighe, la madre era depressa -, aveva conosciuto la povertà e la miseria e aveva dovuto sbattersi non poco per entrare all'università, mentre il padre di Liam era uno stimato giudice, immensamente ricco. In Inghilterra, sarebbe stato un thatcheriano. A Dublino, era almeno un ultraconservatore. La sua fedeltà ai princìpi era superata soltanto dalla sua superficialità. Qualsiasi cosa Liam combinasse, qualsiasi insulto e scappatella si concedesse, veniva cancellato dalla faccia della terra grazie al denaro e ai contatti giusti. Qualsiasi cosa Paddy combinasse non faceva che aggravare i suoi problemi. I due amici si erano trovati e si erano persi di vista al Trinity. Si erano incontrati nell'ebbrezza della provocazione, avevano apertamente simpatizzato con l'IRA, perché era di moda, e si erano fatti conoscere come potenziali attentatori. Tuttavia, mentre Liam non aveva mai dimostrato un vero interesse per la politica, Paddy si era fatto prendere da una furia cieca: talvolta Liam aveva l'impressione che, quando parlava, perdesse il controllo. Alla fine, il suo amico si era rivelato un nazionalista estremista e gli aveva proposto d'interrompere gli studi e di entrare nell'IRA. Dietro tutta la demagogia, Liam aveva riconosciuto una disponibilità a commettere azioni violente, cosa che lui non aveva mai preso in considerazione, e ne era stato profondamente turbato. La vita era uno scherzo, ma Paddy Clohessy faceva sul serio. Così aveva cominciato ad allentare i contatti con Paddy e, una mattina, aveva saputo che il compagno era stato cacciato dal Trinity per attività sovversive. Era andato a trovarlo. Aveva negoziato col rettore una riammissione al college, a patto che Paddy si fosse scusato pubblicamente, ma lui si era rivelato alquanto caparbio. Sembrava che l'IRA fosse diventata il suo personale angelo vendicatore per tutte le umiliazioni che gli erano state inflitte o che pensava di aver subito. Il disorientamento, la mancanza di prospettive e l'enigma di una vita che puntava sempre più in basso avevano spinto Paddy all'isolamento. Liam aveva tentato un'ultima arringa wildiana, sostenendo che era tutto un gioco, ma la risposta era stata una serie di slogan militanti. Indispettito, aveva definitivamente voltato le spalle all'amico e, poco tempo dopo, qualcuno gli aveva detto che era sparito. Per qualche tempo, Liam si era fatto prendere dall'ozio; era stato indo-
lente e annoiato. In fin dei conti, Paddy gli mancava. Era stato un compagno di bevute spassoso e dalla lingua sciolta. Si era insinuata in lui la vaga sensazione che forse avrebbe dovuto occuparsi un po' di più di quell'anima smarrita. D'altro canto, non gli riusciva di dedicare alla faccenda l'interesse necessario. L'interesse era qualcosa che Liam perdeva rapidamente. Non interessarsi veramente di nulla era piacevole, anche perché attirava un autentico interesse da parte degli altri... Si era circondato di nuovi compagni di bevute, abbandonandosi a feste più scatenate che mai e, nel frattempo, aveva approfondito un po' le sue conoscenze di politica. Aveva così scoperto che le sue tirate sulle problematiche del Nord corrispondevano effettivamente alle sue convinzioni e aveva ripreso a fare i suoi grandi discorsi. Aveva coltivato la sua pessima reputazione e, tramite l'organo d'informazione ufficiale degli studenti, aveva chiesto l'espulsione degli inglesi dall'Irlanda del Nord. Poi, già che c'era, aveva esteso la richiesta anche alla Scozia. Pur consapevole che erano soltanto la noia e una scarsa voglia di vivere a indurlo a esternazioni sempre più provocatorie, continuava a dichiarare qualsiasi cosa che suonasse rivoluzionaria e irriverente. Spesso aveva l'impressione di osservarsi da una certa distanza e si vedeva come un playboy viziato. Non si piaceva particolarmente, ma quei momenti di autocritica non si protraevano mai a lungo. Intanto, a casa sua, non si parlava di nulla che mettesse in dubbio le tradizioni e lo status quo. I conflitti erano tabù. Suo padre non era esattamente un despota e sua madre non era veramente repressa. Quei due vivevano insieme come se fossero una versione borghese della famiglia reale. La superficie lustra della loro esistenza rispecchiava la società dublinese e, al di sotto di quella superficie, non avveniva nulla. Ma Liam aveva imparato che nella vita bisognava essere un leader e, per riuscirci, bastava essere tirato a lucido. Inoltre chi possedeva tutto non aveva bisogno di armarsi di convinzioni fondate o di difendere ideali controversi. Al massimo ci si poteva concedere qualche eccentricità, come il parlamentare Tony Gregory, che si rifiutava d'indossare la cravatta, o come Lord Henry Mountcharles, che sottolineava le sue eccentriche opinioni politiche indossando calzini bizzarri. Più Liam studiava, più capiva qual era il suo problema: cercava le sue convinzioni come se stesse rovistando in un guardaroba, indeciso su cosa indossare. Intuiva però che gli ideali nascevano dalla miseria e dal bisogno, non dall'abbondanza. Lui aveva tutte le porte aperte e ogni cosa gli riusciva facile. Gli attribuivano un'intelligenza superiore, gli prefiguravano
una carriera straordinaria. Qualsiasi cosa facesse e dicesse, la sua famiglia rimetteva tutto a posto. Gli eccessi nel bere, le zuffe, gli oltraggi e gli insulti pubblici... suo padre lo copriva sempre. Non era più un teppista privilegiato, era il re dei teppisti privilegiati! Dopo l'invettiva contro gli inglesi e l'ammissione di simpatizzare per l'IRA, Liam era stato minacciato di venire espulso dal Trinity. Era stata l'unica volta. Stranamente la cosa lo aveva riempito di soddisfazione e di orgoglio, ma poi una telefonata di suo padre aveva sistemato tutto e, da quel momento in poi, Liam era diventato intoccabile. Quel fatto lo aveva profondamente depresso: gli sembrava di continuare a sbattere con violenza contro una parete di gomma. Qualsiasi cosa facesse, c'era sempre qualcuno che cedeva. Il Nord, col suo inestricabile groviglio d'interessi, di religione e di potere, aveva perso ogni attrattiva per lui. Non poteva trovarci nessun ideale. Nulla per cui valesse la pena forzare le porte del giardino dell'Eden in cui il destino lo aveva collocato. Sapeva che era proprio quello ciò che gli serviva per sentirsi finalmente vivo. Ma non c'era nessun vero motivo per lasciare il paradiso, perché, così facendo, l'esito sarebbe stato uno solo: un peggioramento delle sue condizioni di vita. Così, nello stesso anno in cui aveva conseguito il dottorato summa cum laude senza particolare sforzo, Liam O'Connor aveva deciso che, qualsiasi cosa avesse fatto in seguito per guadagnarsi da vivere - pur non avendone bisogno -, sarebbe rimasto sempre uno snob. Tutto il resto era andato come da copione. L'ascesa di Liam da assistente a docente era avvenuta in metà dei tempi consueti. Era diventato professore ordinario, poi vicepreside della facoltà di Fisica e si era dedicato alla ricerca. Aveva cominciato a fare esperimenti sulla luce, scoprendo mondi fantastici in cui poteva essere tutto ciò che desiderava. Dentro di sé, spasimava per fare qualcosa di sensato, anelava ad avere convinzioni e ideali, ma non riusciva mai a spingersi oltre la sperimentazione di punti di vista diversi. Corteggiato e stimato, era l'anima di tutti i party, e si disperava, avvertendo la debolezza del proprio carattere e la famosa «insostenibile leggerezza dell'essere». Il tutto nel massimo comfort, ovviamente. Il suo cinismo era diventato più raffinato. Sfoggiava eleganti posizioni nichiliste, coltivava i propri problemi con l'alcol e s'immergeva sempre di più nei suoi esperimenti. Il mondo dei belli, dei ricchi e degli affermati lo disgustava e nel contempo era il suo palcoscenico. Sapeva fin troppo bene di non poter esistere senza il pubblico che tanto disprezzava, perciò lo de-
rideva, ma in una maniera tale da procurarsi ulteriore ammirazione. Aveva cominciato una seconda carriera come scrittore, prima con saggi scientifici e poi con romanzi utopistici. Com'era prevedibile, aveva avuto successo anche in quel campo. Liam si sentiva solo. Collezionava lodi e, per la sua carriera scientifica, veniva considerato un candidato al premio Nobel per la fisica. Sia nei lavori scientifici sia nei romanzi si era votato all'astratto e per quello veniva colmato di onorificenze. Anche la sua visione del mondo era diventata sempre più astratta: era un osservatore sobrio e analitico del divenire e della decadenza dell'umanità nonché degli errori dei suoi rappresentanti. La sua intelligenza girava su se stessa. Beveva più che mai, ma non si ubriacava. Il suo modello era Lord Henry, l'enfant terrible dei salotti vittoriani descritto da Oscar Wilde nel Ritratto di Dorian Gray. Benché sapesse che si trattava di un personaggio di fantasia, Liam aveva persino cercato di capire se un individuo del genere era veramente esistito. Ma, a dispetto del suo acume scientifico e intellettuale, a Liam mancava qualcosa di decisivo, qualcosa che aveva caratterizzato Oscar Wilde: una causa per cui combattere. E, cosa più penosa di tutte, non perché non volesse averne, ma perché non gliene veniva in mente nemmeno una. Sarebbe stato difficile spiegare che uno come lui aveva dei problemi. Perciò non smetteva di essere brillante, di bere, di flirtare sulla scena internazionale e di avere un'avventura dopo l'altra. A un certo punto, si era chiesto se diventare gay, ma poi l'aveva categoricamente escluso. Aveva continuato a bere e ad amoreggiare con intensità crescente nonché a prendere a pesci in faccia tutti coloro che lo circondavano. Più gli altri incassavano, più lui rincarava la dose. Nessuno gli rispondeva a tono. Suo padre, che ormai lui aveva superato per ricchezza e popolarità, gli muoveva titubanti rimproveri. Da uomo di mondo qual era, Liam se li lasciava scivolare addosso. Nemmeno la prospettiva di essere diseredato avrebbe potuto infilzare un chiodo nel comodo materassino gonfiabile su cui era sdraiato. Come i suoi genitori, lucidava la superficie della propria esistenza. Ciascuno di loro lo faceva a modo proprio e lui era ben lungi dal poter muovere rimproveri giustificati agli altri. Tutto sommato, Liam O'Connor si concedeva quei divertimenti che rendevano gradevole l'amarezza, come una spruzzata di succo d'arancia in un Bacardi. Del tutto godibile, insomma. Ma i ruoli che sceglieva d'interpretare presentavano un rischio: l'incapacità di accorgersi se qualcosa lo turbava davvero. Lo irritava essere turba-
to. L'avventura delle emozioni era l'unica a essergli estranea. Senza che se ne rendesse conto, la paura dei vincoli sentimentali era diventata tanto grande quanto quel desiderio di provarli che lui aveva sentito in passato. Era il timore di essere vulnerabile e di non sprizzare più veleno, ma di essere avvelenato a sua volta. Nella maggior parte dei casi, minimizzava qualsiasi cosa lo preoccupasse. Si rifiutava di riconoscere che la sua avversione per la guerra e la violenza derivasse non dall'insofferenza nei confronti del genere umano, bensì da una profonda umanità. Ammirava oltre misura chi si prodigava ad aiutare gli indifesi, ma, se la conversazione si appuntava sui bisogni della gente, lui preferiva dichiarare superflua l'umanità, piuttosto che esprimere la propria compassione. Liam O'Connor, il cinico, si era stordito col suo stesso veleno. La sua coscienza ammetteva soltanto ciò che rendeva piacevole la vita. Che quest'ultima durasse ancora cent'anni o finisse il giorno stesso, che si chiudesse all'Opera di Dublino o in un accogliente pub sulla costa occidentale dell'Irlanda, dove pescatori e contadini tenevano fermo il bancone per impedirgli di ribaltarsi, che differenza faceva? L'importante era che finisse con stile e in modo divertente. Ma non finiva. Come se volesse metterlo di fronte all'irrilevanza di tutto ciò che aveva fatto, la vita lo trascinava giù, nel profondo di se stesso, e gli imponeva quell'immobilità. Sembrava volergli dire: «Dato che nulla più ti smuove, allora anche tu rimarrai immobile. Ma non te la caverai con così poco! Vivrai e un giorno ancora lontano ti divertirai... da morire. Fino ad allora, impietrisci e vivi nella tua ignavia e nella tua futilità. Che questo sia il tuo destino. Così è deciso. A meno che tu non apra gli occhi e non ti svegli, finalmente. E in quest'ordine, professor Liam O'Connor!» C'era qualcuno tra le sue braccia. Si muoveva, si stringeva a lui. Era una donna molto alta, bellissima, di nome Kirsten Katharina Kika. Quello almeno lo ricordava. Una donna che non si piaceva, che si trovava magra, lunga e ossuta, pallida e poco attraente. Ma perché mai? Lo aveva colpito senza sapere come. Non era successo nulla tra loro e gli piaceva l'idea di non aver scopato con lei, come gli piaceva il pensiero che prima o poi sarebbe successo, forse non appena fosse riuscito a vincere quella paralisi. Si chiese se fosse innamorato. Stranamente non aveva l'impressione di esserlo. Eppure, quella mattina, quando si rese conto di essere vivo, Liam ci provò gusto come non gli capitava da tempo. Il professor Liam O'Connor aprì gli occhi e sollevò il capo. La prima cosa che vide fu un'arruffata criniera biondo-rossiccia. Quella massa di ca-
pelli prese vita, poi Kika Wagner lo guardò, strizzando un paio d'occhi che parlavano di troppo whisky e di poca pratica nel bere. «Che ora è?» gli chiese con una voce strana, appena udibile. Liam la osservò. «Non è ancora troppo tardi», rispose. «Almeno credo.» Kika Wagner Durante la colazione, dovette sforzarsi di non sorridere di continuo. Di rado le capitava di essere così assonnata e di rado si era goduta la cosa così tanto. L'uomo più bello d'Irlanda la guardò come se preferisse mangiarsi lei piuttosto che il pane tostato. Gli angoli delle labbra di lui guizzavano, pronti a esplodere in una risata. Liam sembrava completamente sobrio, mentre Kika aveva trascorso venti minuti buoni sotto la doccia e si sentiva ancora una distilleria ambulante. Quella mattina avrebbe volentieri recuperato ciò che si erano negati durante la notte, ma la sua scaletta non permetteva nulla del genere. Perciò si era infilata nel bagno e soltanto a quel punto si era spogliata, poi era rimasta apaticamente sotto il getto d'acqua ed era ricomparsa dopo essersi rivestita. O tutto o niente. Da parte sua, Liam si era comportato da gentiluomo, non esponendosi in nessun modo. Qualsiasi altro comportamento avrebbe significato saltare l'appuntamento al golf e far impazzire Kuhn. Così erano andati a fare colazione. Lei si chiedeva come l'editor potesse essere così cieco da non accorgersi che indossava gli stessi vestiti della sera prima. Sicuramente non gli era sfuggito che qualcuno a tavola aveva un alito terribilmente alcolico, ma Liam e la sua reputazione anticipavano qualsiasi sospetto e la esoneravano da qualsiasi colpa. Poiché erano seduti l'uno accanto all'altra, non era possibile individuare con precisione l'origine di quell'olezzo, ed evidentemente Kuhn non aveva il benché minimo dubbio su quale fosse la bocca che emanava l'inconfondibile fetore alcolico. Inoltre qualsiasi attento osservatore avrebbe saputo interpretare gli sguardi che Liam e Kika si scambiavano di continuo. Ma, anche in quel caso, l'indole di Kuhn venne in loro aiuto: l'editor aveva fame e in momenti del genere non si guardava molto in giro. S'ingozzava di uova strapazzate e riusciva nel contempo a parlare e a bere caffè. In altre circostanze, a Kika si sarebbe rivoltato lo stomaco, ma quel giorno Kuhn avrebbe potuto anche grugnire e rotolarsi nel fango senza pregiudicare il suo buonumore.
Soltanto per una frazione di secondo lo sguardo di Kuhn si era incupito e cioè quando Liam era arrivato. Una breve scintilla di malumore, che aveva lasciato il posto a un palese sollievo non appena l'editor aveva scorto Liam. Alla domanda che aveva negli occhi, Kika aveva risposto con una scrollata di spalle. Poi Kuhn si era schiarito la voce e aveva dato inizio ai saluti, con un tono flautato e cordiale, da compagnone. «Ehi, Liam, vecchio mio! Ieri sera non ha resistito molto, eh? Stiamo forse invecchiando?» «Mi spiace davvero.» Liam non dava affatto l'impressione di provare rimorso. «In effetti, devo ammettere che viaggiare è logorante, caro Franz. Mi ero proposto grandi cose, ma alla fine ha vinto la stanchezza.» «Spero che abbia dormito bene, almeno.» «Oh, sì, mille grazie. Non appena mi sono coricato, ho avuto tutto sotto controllo.» Kuhn l'aveva fissato, perplesso. Poi, con un ghigno malizioso, aveva mormorato: «C'era almeno una persona cui è rincresciuta molto la sua precoce uscita di scena». «Davvero?» Liam aveva corrugato la fronte. «Be', porga le mie scuse alla signora. Credo che non si sia persa nulla che non le avrei rifiutato.» Non erano state spese altre parole in proposito. In ogni caso, la presenza di un quarto convitato impediva qualsiasi approfondita discussione sull'andamento della serata precedente. Si trattava di Aaron Silberman, ex compagno di battaglie mediatiche di Kuhn ai tempi di Washington. Era un uomo di colore dall'aria affabile, con una mezza pelata e qualche chilo di troppo all'altezza dei fianchi. Parlava un tedesco mediocre, perciò, dopo che Kuhn lo ebbe presentato, la conversazione era continuata in inglese. «Arriva a proposito», aveva detto Silberman rivolgendosi a Liam. «Parlavamo proprio di lei.» Liam aveva finto di trasalire. «Soltanto cose buone, spero!» «Non c'è niente di buono da dire su di lei, Liam, tranne forse il fatto che è un genio», aveva replicato Kuhn a bocca piena. «Mi fa un torto.» Lo scienziato aveva assunto l'aria dell'innocente offeso. «Ho ascoltato per mezz'ora buona le frammentarie argomentazioni che i gentili convitati di ieri sera si sono scambiati sul senso e sull'insensatezza di questo vertice, ho resistito ai tentativi di un'attricetta non più giovane d'introdurmi ai segreti del sesso nella terza età e ho parlato troppo poco con la signora Kika. Mi sembra di essere stato tollerante e valoroso.» Silberman aveva riso sotto i baffi. Evidentemente Kuhn si era sfogato con lui, ma, poiché era sconveniente fare altre osservazioni in merito, l'ar-
gomento era stato abbandonato. «A quanto ho sentito, i risultati delle sue ricerche sono sorprendenti», disse l'americano. «Mi deve scusare, non m'intendo particolarmente di fisica, professor O'Connor, ma...» «Non importa, io non m'intendo affatto di politica.» «Franz mi ha raccontato che lei ha rallentato la luce. Le posso chiedere perché si fa una cosa del genere?» «Naturalmente. Ciò che conta non è tanto rallentare la luce, quanto addomesticarla. I fotoni sono ideali come veicoli di informazioni. Se la luce ci obbedisce, possiamo lavorare per accelerare, deviare e rallentare le informazioni a nostro piacimento. Questa prospettiva dovrebbe far battere il cuore all'impazzata a qualsiasi giornalista, o no?» «Certo.» Silberman bevve un sorso di caffè. «Per quanto mi riguarda, il rallentamento mi sembra un aspetto davvero interessante. O, meglio, diciamo che un uso ponderato delle notizie ci consentirebbe di non diventare sempre più stupidi a causa di un eccesso d'informazioni.» «Ahi!» esclamò Kuhn. «Ma lei non va praticamente a braccetto col presidente?» chiese Kika. «È molto gradevole avere le informazioni per primi.» Silberman fece cenno di no. «Non ne sappiamo più degli altri. La vicinanza fisica non è più una garanzia.» «È vero», concordò Kuhn. «Clinton era già a brache calate su Internet quando l'Oral Office si chiamava ancora Oval Office.» «Ed è proprio qui che sta il problema, professor O'Connor», proseguì Silberman. «La rete è fantastica, ma consente di diffondere qualsiasi sciocchezza in tutto il mondo in un batter d'occhio. A questi ritmi, non possiamo nemmeno capire come influenzare l'opinione pubblica.» Kika cominciò a vuotare un uovo col cucchiaino. «Povera umanità, come sono malvagi i media.» Non aveva una voglia particolare di approfondire quegli argomenti, non quella mattina. Ma non ci si poteva fare nulla. Con Kuhn e Silberman nella stessa stanza non c'era posto per nient'altro. Silberman scrollò le spalle. «I media non sono né buoni né cattivi, esistono e basta. Fra l'altro, ogni popolo governato democraticamente ha sempre e soltanto i media che si merita. È un errore credere che esercitiamo una qualche influenza. Facciamo parte della catena e, in un certo senso, siamo condizionati. Non lo dico per giustificare le pecore nere del settore, che causano danni senza pari, ma per capire i media americani bisogna anzitutto capire gli americani.»
«È quello che cerco di fare da quando ho letto dell'esistenza degli Stati Uniti», intervenne Liam, riempiendo di caffè la tazza di Kika. «L'unica cosa che ho capito finora è che Colombo ha sbagliato strada.» «Spiegaglielo, Aaron», disse Kuhn in tono secco. «Non voglio annoiare nessuno in questa bella mattinata», fu la cortese risposta di Silberman. «Non ci annoia affatto», replicò Kika. «E non si stupisca se, nel bel mezzo della sua spiegazione, il professor O'Connor si alza e se ne va, scomparendo per ore. Lui s'interessa di tutto contemporaneamente, è questo il suo dilemma. Non è vero, Liam?» Lui fece una smorfia. Kika gli rivolse un ampio sorriso. Silberman guardò alternativamente Kika e Liam. In quell'istante, lei comprese che il giornalista aveva capito, ma non se ne preoccupò. «Be', è molto semplice», riprese Silberman, mentre i suoi lineamenti aperti e gentili rivelavano una punta di divertimento. «Nell'intimo, l'americano desidera appartenere a un gruppo sociale. Se avete mai visto un western classico sapete cosa intendo. Ci si ritrova nel ranch dei vicini, nonno e nipote si raccontano le ultime novità, bevono qualcosa insieme oppure litigano. La morale del singolo è la morale di tutti e viceversa, tutti cacciano il naso negli affari degli altri, ogni cosa è pubblica. E oggi? Ce ne stiamo rinchiusi a casa da soli e i vicini non li conosciamo nemmeno. Con chi possiamo spettegolare? E di chi? Perciò ci cerchiamo nuovi vicini: personaggi pubblici, attori, politici. Ci vengono a trovare in televisione ogni volta che vogliamo e, più lo fanno, più noi ci ritroviamo a comunicare con una scatola. L'unico problema è che gli americani amano essere partecipi e si mettono a urlare contro il televisore; tuttavia quello non risponde urlando a sua volta. Per questo ci sono persone come il nostro grande inquisitore Kenneth Starr, che urlano al posto suo.» «Va bene, ma quello che ne viene fuori, cioè quello che i media ne fanno, non è né politica né intrattenimento, è un guazzabuglio alquanto schifoso», obiettò Kika. «Certo, però è soltanto il risultato di ciò che vuole la gente. Fatti e finzione, intrattenimento e informazione, arte, scienza, vera cultura e spazzatura... tutto confluisce in una pappa alla quale ognuno contribuisce, benché controvoglia. Forse le cose vanno diversamente in Germania? Di certo le monarchie democratiche come l'Inghilterra e l'Olanda oggi si possono paragonare alla famiglia del presidente degli Stati Uniti. La monarchia è argomento da stampa scandalistica. Chi mai vorrebbe sapere qualcosa di un
qualsiasi noioso primo ministro? Ma gli americani hanno trasformato i loro politici in monarchi. Le faccende private di Clinton alimentano i giornali scandalistici, grazie ai quali oggi sappiamo, per esempio, che il nostro presidente soffre del morbo di La Peyronie...» «Il morbo di che?» chiese Kika. «Ha il sigaro incurvato», spiegò Kuhn. «Invece di venirgli dritto, a Clinton gli viene storto.» «Grazie mille. Può continuare, per favore, signor Silberman?» «Mah, non è un argomento di cui discutere a colazione. Voglio soltanto dire che media e popolo si condizionano a vicenda, il che non è necessariamente un bene e non deve impedirci di migliorare. Ma cosa accade? Stati Uniti, morale, media... Un anno e mezzo fa il papa è andato in visita a Cuba: quella sì che era una notizia sensazionale! Castro e il gran vecchio di Roma. In quell'occasione, per la prima volta Cuba ha aperto le porte alla stampa internazionale. Potevamo scrivere a volontà. E cos'è successo? Dopo i primi servizi 'dal vivo' sull'arrivo del papa è partito un richiamo da Washington e, all'improvviso, i giornalisti sono stati sommersi da un'ondata così violenta da far sembrare Castro e Wojtyla due figure marginali della Storia. E questo perché Clinton si era fatto fare un pompino. Al confronto, anche gli attentati alle ambasciate americane, con centinaia di vittime, assumevano un ruolo marginale. Io e i miei collaboratori saremmo rimasti volentieri a Cuba, ma ci hanno detto chiaro e tondo che saremmo stati tagliati fuori dalla più grande notizia di tutti i tempi. Perciò abbiamo levato le tende. Tutto ciò non sarebbe stato possibile se la stragrande maggioranza dei cittadini americani non lo avesse voluto. Questi sono i media malvagi.» «In effetti, Clinton ha un rapporto più profondo coi sigari che con Castro», osservò Kika. «Forse è per questo.» «E Wojtyla ormai non va più a sciare. Quanto al resto...» disse Kuhn. «Ma sono cose da dirsi?» «Stronzate!» Kuhn sputò una raffica di briciole di pane e prese a gesticolare. «È la verità. È stato lo stesso anche per Schröder. Si è dedicato molto più tempo alla sua vita amorosa che al suo programma politico, eppure lui è diventato cancelliere. Anzi è proprio per questo che è diventato cancelliere, quel pallone gonfiato! L'importante è trovare la messinscena giusta.» «Cosa? Perché se la faceva con Doris Köpf, che era una giornalista?» «Perché la politica si fonda sulle persone. Non è solo una strategia di marketing, è un sistema. I media sono passati a vendere persone e perso-
naggi, perché funziona meglio dell'analisi di fatti complessi.» «Fra l'altro questa non è una prerogativa americana», aggiunse Silberman. «È americanizzazione», tuonò Kuhn. «Succede ovunque ci sia un'infrastruttura mediatica. Anche per Blair è stata la stessa cosa: è andato al potere grazie al suo bel sorriso. Schröder si è separato dalla sua vecchia, cosa che metà degli uomini della sua età farebbe volentieri, e solo per questo era già in vantaggio sul grassone di Oggersheim, col suo stomaco di maiale farcito e la sua Hannelore.21 Poi c'è stata la rissa dialettica con Lafontaine. Tutta una farsa. Qualcuno crede forse ancora che si possa distinguere il personaggio dalle sue argomentazioni?» «Ma questo che cosa ci dice, oh, Socrate?» Kuhn inarcò le sopracciglia, colmo di stupore. «Non lo sapete? Ne consegue che la messinscena distrugge il contenuto. Se la democrazia serve a votare gli occhi blu più belli, si potrebbe anche abolirla subito. Perché è finito il caffè, Kika?» Kika sbadigliò e fece un cenno al cameriere. «Sarebbe forse una novità scoprire che la democrazia è sempre stata il trionfo degli stupidi?» intervenne Liam. «Suvvia, Liam, se una nazione nasconde sotto il tappeto l'ingiustizia sociale, la discriminazione delle minoranze, eccetera, eccetera, ma considera la morale sessuale del suo capo un affare pubblico, non è solo una questione di stupidità, è molto peggio. Una società del genere regredisce, diventa primitiva e repressa.» «Franz, lei è impagabile», commentò Liam. «Per questo non bisogna darle nulla per il suono delle sue sublimi parole. Adesso avete il vostro vertice e tutti vogliono vedere Eltsin e Clinton sfilare da sinistra a destra. Il culto della personalità è antico quanto il mondo. Ieri ero io la scimmia di turno. Perché non parliamo di cose piacevoli?» Kika guardò l'orologio. «Non parliamo più di nulla, perché adesso andiamo a giocare a golf.» «Oh, che bello», fece Silberman. «Lei gioca a golf, professor O'Connor?» «Sì, è così gradevole.» Liam piegò garbatamente il tovagliolo e si alzò. 21
L'ex cancelliere Helmut Kohl ha un'abitazione a Oggersheim, frazione di Ludwigshafen, dove ha invitato anche vari capi di Stato e di governo, offrendo loro specialità regionali del Palatinato, come appunto il Saumagen, lo stomaco di maiale farcito, una delle sue pietanze preferite. (N.d.T.)
«Si può fare una passeggiata con persone importanti, indossando scarpe bizzarre. È stato un piacere conoscerla, Mr Silberman. Ci rivedremo?» «Probabilmente no.» «Allora mi saluti il suo presidente. Gli dica di fare come Bart Simpson: 'Non sono stato io, io non ho fatto niente!' Così dicendo è diventato l'americano più amato e anche lui deve la sua fama a un... gessetto.» «Come sei stata perfida», disse Liam mentre Kika lo accompagnava a Pulheim con la sua Golf. «Quando?» «Quando hai detto a Silberman che mi sarei alzato e sarei uscito dalla stanza. La verità è che non lascerei mai una stanza dove ci sei tu.» «Già, perché poi dovresti spiegarmi il perché.» Kika rise. «E dai, te lo sei meritato, lo devi ammettere.» «Devo sempre ammettere qualcosa.» Liam si stiracchiò, rovesciando la testa all'indietro. «Con chi gioco a golf?» «Lo sai già, col direttore della Cassa di risparmio.» «Quello di ieri sera? Ah, già.» Sospirò. «Insomma, mi metteranno in mostra. Sono vestito decentemente? Spero di essermi portato dietro abbastanza osservazioni argute.» Kika gli lanciò un'occhiata e fece un ghigno beffardo. «Te la cavi benissimo col tuo Oscar Wilde.» «Oh, non ho nemmeno la metà dell'arguzia di Wilde. Il che è una benedizione, perché mi protegge dal carcere. Viene anche Kuhn a pranzo?» «Sì.» «Che notizia terribile. È noioso. Sa così tante cose da non essere più interessante per nessuno. Fermati un attimo qui.» «Come?» Confusa, Kika esaminò la strada che scorreva come un nastro davanti ai suoi occhi e non vide nulla di significativo. «Qui dove? È già tanto se riesco a guidare, con tutto l'alcol che ho ancora in corpo.» «Qui, da qualche parte, sulla corsia d'emergenza», replicò Liam. Erano usciti dalla città e viaggiavano su una strada extraurbana. Tutt'intorno c'erano campi, in lontananza si vedevano le nuvole bianche di una centrale idroelettrica. Kika cercò un posto adatto, individuò un sentiero di campagna e parcheggiò l'auto tra due campi. «E adesso?» Liam si chinò su di lei, l'attirò dolcemente a sé e la baciò. Kika lasciò che succedesse. Avrebbe lasciato che succedesse pure altro, se non fossero dovuti andare a quel maledetto campo da golf e se sulla strada non fossero
sfrecciate di continuo le auto. In più, la Golf era troppo piccola e lei era troppo alta. «Ecco», disse lui. «Ecco cosa?» «Ho pensato che non lo potremo più fare sino a questo pomeriggio, tutto qui.» Liam sorrise, divertito. «E non dobbiamo perdere l'allenamento, giusto?» «Professor O'Connor, la sua concezione dei tour promozionali supera ogni limite. Non so se posso modificare così facilmente la procedura.» «A quello ci penso io, gentile signora. Inoltre ritengo che lei debba tenere in maggiore considerazione le abitudini degli ospiti stranieri. Da parte mia, le assicuro un'adeguata flessibilità in caso lei venisse a Dublino.» «Ma io non tengo conferenze.» «Non è per questo che deve venire. Posso avere un altro bacio? Poi sarò pronto per tutti i presidenti del mondo.» Mentre Liam giocava a golf sotto un sole splendente e Kuhn era andato in città con Silberman, Kika andò dai suoi genitori e li preparò all'idea che pure quella notte sarebbe rimasta lontana dal suo vecchio letto. Il padre scrollò le spalle, la madre le fece un caffè e, con sguardo critico, le chiese se, con tutto quell'andirivieni, lei mangiasse abbastanza. Kika assicurò l'assicurabile. Si coricò per due ore e poi si cambiò. Aveva ancora l'impressione di andare in giro con uno straccio imbevuto di cloroformio sotto il naso. Aveva una sete terribile e svuotò due bottiglie d'acqua, più due di succo d'arancia. Poi le venne un bruciore di stomaco e decise di non ripetere gli eccessi della notte precedente, almeno per un po'. Mentre s'infilava in un vestito verde chiaro, pensò a Liam e sentì battere forte il cuore. Era eccitante stare con lui. Stranamente non aveva più paura d'innamorarsene. Nell'istante in cui si erano baciati per la prima volta, lui era sceso dal suo piedistallo. Rimaneva comunque di una bellezza esagerata ed esercitava un fascino quasi inspiegabile su di lei, ma da angelo caduto dal cielo si era trasformato in un uomo in carne e ossa, che beveva volentieri e faceva osservazioni stupide, oltre che sagge. Insomma era abbordabile. E si lasciava abbordare. Considerò brevemente l'idea di troncare sul nascere la relazione, prima di finire a letto con lui e di ammalarsi d'amore un'altra volta. Che cosa sarebbe successo, poi? Liam sarebbe tornato a Dublino e lei sarebbe tornata
ad Amburgo. All'orizzonte non si delineavano prospettive particolarmente allettanti. Sarebbe stata un'idiozia mettersi con lui. D'altra parte, sarebbe stata un'idiozia ancora peggiore non farlo. Si truccò, s'infilò un paio di scarpe col tacco alto e si legò i capelli in una lunga coda liscia. Sicuramente si presentava meglio di come si sentisse. A poco a poco la sensazione di ubriachezza diminuì. Quando si mise di nuovo in auto, diretta a Lärchenhof per la seconda volta nella stessa giornata, la strada era tornata a essere una strada e non più un serpente che si contorceva all'improvviso, lasciando parecchio a desiderare quanto a prevedibilità. Parcheggiò l'auto davanti al ristorante, entrò e sperò di non incappare nell'ennesima disquisizione politica. Fortunatamente stavano parlando di golf e di cinema. Kuhn notò la nuova tenuta di Kika e d'un tratto sembrò che il suo cervello facesse due più due, sebbene con qualche ora di ritardo. Da quel momento, apparve oltremodo pensoso e per un'ora buona si dimenticò di parlare con la bocca piena. Liam si complimentò per l'eccellente menu. Bevve vino rosso e, insieme col direttore, stilò un elenco di famosi golfisti e dei loro vezzi. Tutto andava in maniera più che soddisfacente. «Davvero ottimo», disse Kuhn garbatamente, dopo che avevano ringraziato il direttore e si erano avviati a passo lento verso le auto. «E adesso che cosa facciamo, ragazzi?» «Kika e io andiamo all'aeroporto», lo informò Liam con un tono che escludeva categoricamente qualsiasi partecipazione dell'editor all'impresa. Kuhn si fermò. «Ah. E qual è la destinazione?» chiese senza entusiasmo. «Shannonbridge», rispose Kika. «Ah. Be', allora devo... Liam, mi voglia scusare se le rubo per un attimo la nostra stimatissima Kika.» La prese per un braccio e la trascinò da parte. «Cos'è successo ieri sera?» chiese in un sussurro. «Cosa dovrebbe essere successo?» bisbigliò lei. «Era nella Friesenstraße. Come da copione. Ho faticato parecchio a dissuaderlo dal lasciare il Paese.» «Oh, santo cielo!» gemette Kuhn. «Ma che gli abbiamo fatto? So che quell'attrice lo...» «Niente! Non gli abbiamo fatto proprio niente. Voleva andarsene a Shannonbridge in qualche pub, insieme con un branco d'irlandesi ubriachi. Non sarei riuscita a trascinarlo in albergo nemmeno col carro attrezzi, per-
ciò, volente o nolente, ho dovuto fare il giro delle birrerie con lui.» Kuhn la guardò, dubbioso, con le palpebre socchiuse. «Non sembra che le sia costato troppa fatica, se posso metterla in questi termini.» «La metta nei termini che vuole, non me ne importa un fico secco.» Kika lanciò un'occhiata a Liam, che era appoggiato alla Golf. Lui le fece un cordiale cenno di saluto. «Si deve fidare di me, Franz. Mi hanno mandato qui apposta per impedirgli di fare cavolate e lui non ne farà.» «Ma...» «Niente 'ma'. Ha giocato a golf, è stato a pranzo e stasera farà la sua presentazione. Va bene?» Kuhn inarcò un sopracciglio e la guardò dal basso verso l'alto. «Deve saperlo lei quello che fa.» «Certo che lo so.» «Lei non sa proprio nulla. Comunque, per me... Ma perché vuole andare all'aeroporto?» «Deve cercare Paddy Clohessy.» «Capisco. È quel personaggio di cui ieri ha gridato il nome per tutto il terminal, giusto?» «Esatto.» Kuhn annuì. «Alle sei alla libreria», disse. «E non un minuto più tardi. Per favore, Kika, la scongiuro. Mi metto in ginocchio. Non mi renda infelice. E se proprio non può fare a meno di... ehm... sa cosa intendo, insomma...» Kika si chinò verso di lui. «Sì?» mormorò. Lui rimase in silenzio, si grattò il mento e, scrollando le spalle, si diresse alla sua auto. «Dove pensi di trovare il tuo Paddy?» chiese Kika dopo avere imboccato l'uscita per l'aeroporto, mentre percorrevano il raccordo. Circa un chilometro davanti a loro spuntò la caratteristica struttura a strati del vecchio terminal, con la torre e la colonna della Sony, che fin dal momento della sua costruzione non era riuscita a decidere se volesse essere pubblicità o arte. Liam socchiuse le palpebre. «Che cosa c'è scritto lì?» chiese, indicando i cartelli sospesi sopra la strada. «P2 e P3. Arrivi, partenze.» «No, voglio dire su quell'altro cartello, quello dell'uscita sulla destra.» «Amministrazione aeroportuale.»
«Ecco, andiamo lì.» «Può essere che ti serva un paio d'occhiali?» «Kika, puoi chiedere tutto quello che vuoi, ma non puoi sapere tutto», la rimproverò. «Se tu dovessi sapere tutto di me, non vorresti più saperne di me. Guarda, non ti sembra un parcheggio pubblico, quello?» Erano arrivati a un fabbricato quadrato a diversi piani. C'era una rampa che dava su uno spiazzo rotondo, con un'aiuola al centro e una serie di parcheggi a raggiera. «Dev'essere l'amministrazione», osservò Kika, mentre faceva scivolare l'auto lungo la rampa. Poi infilò rapidamente la Golf nell'ultimo posto libero. Scesero. Mentre camminavano verso l'ingresso degli uffici amministrativi, Liam aveva una strana espressione, come se fosse certo di un'imminente vittoria, come se non fosse andato lì per rivedere un vecchio compagno di studi, ma piuttosto per dimostrare che era colpevole di varie scelleratezze e per arrestarlo coram populo. «E a chi vuoi chiedere, adesso?» Liam scrollò le spalle. «Dimmelo tu, sei la mia addetta stampa. Non dovresti essere preparata ad assecondare le manie dei tuoi protetti?» «Nessuno può essere preparato abbastanza per te.» «Strano, lo ha detto anche mia madre quando mi ha preso in braccio per la prima volta.» «Davvero? Cos'avevi combinato?» «Io? Niente. Mi ero soltanto fatto pregare per dodici ore. Si stava bene là dentro, sai. Rosso scuro, calduccio, come i bordelli nei porti. Quando mi hanno costretto a uscire, mi sono messo a scalciare a destra e a manca come un matto!» «Ti sei comportato male, come sempre.» «Ho sfruttato il tempo che avevo a disposizione. Puoi fare uno strappo alla regola soltanto da bambino e quando sei vecchio. Non voglio dire nulla d'irriverente nei confronti della mia famiglia, ma probabilmente per mia madre è stata l'unica volta nella vita che qualcosa l'ha davvero scossa e che ha lanciato veri e propri lamenti. Non l'ho mai più vista in preda a una tale agitazione. Ma, come ho già detto, non devi sapere tutto, almeno per ora!» Entrarono in un atrio. I vari piani si estendevano come balaustre intorno a un cortile a lucernario, sotto una cupola a forma di piramide. L'edificio era luminoso e accogliente. Una grossa bacheca specificava quali uffici si trovavano ai vari piani. Il reparto del personale era al secondo. Kika chiese al portiere dove fossero gli ascensori. «Perché ci tieni così tanto a rivedere Paddy?» chiese mentre salivano.
«Mi ha ricordato che, col passare degli anni, sono diventato una persona migliore», rispose lui. «Strano, vero? Quando l'ho visto, ho provato un moto di gratitudine.» «Mah. La gratitudine non ti si addice.» «Per questo la voglio scaricare su di lui. Forse voglio soltanto sapere perché qualcuno così pieno di talento e di doti intellettuali non abbia fatto strada. Siamo partiti alla pari.» «Empatia o curiosità?» «Le conoscenze di cui dispongo non sono sufficienti per provare empatia.» «Forse hai valutato male la situazione. Magari è una specie di dirigente.» «Paddy? Non riusciva nemmeno a dirigere se stesso.» «Le persone cambiano.» «Già, ma raramente migliorano.» L'ascensore si fermò. Scesero al secondo piano. «Di' un po', Liam... Avresti potuto fare qualcosa per lui, all'epoca?» «Quando?» «Quando l'hanno sbattuto fuori.» Liam si fermò. «Domanda interessante.» Fece una pausa. «Adesso dovrei dire che hai messo il dito nella piaga. Ma ti sei sbagliata, non c'è nessuna piaga. Nessun conto in sospeso. Nessun patto, nessun rimprovero nei confronti di me stesso. No, non credo che avrei potuto fare di più per lui. Non avrei potuto obbligarmi a considerarlo così importante.» «Perché adesso sì?» «Come già detto: curiosità.» «Allora riformulo la domanda. C'è qualcuno che sia davvero importante per te? Voglio dire, a parte te stesso?» «Come sai essere inquisitoria...» Sogghignò. «Be', per lo meno mi sforzo il più possibile di scoprirlo, questo qualcuno. Possibile che tu non te ne sia accorta?» «Non m'illudo di essere parte di una prima assoluta.» «Infatti non lo sei... non sei una parte, voglio dire.» Dopo aver letto le targhette sulle porte, decisero di provare con la segreteria dell'ufficio del personale. Liam fece la sua richiesta a una signora rotondetta, la quale non sapeva se pendere dalle sue labbra o dai suoi occhi. La donna gli rivolse un sorriso smagliante, si voltò verso il computer e richiamò diversi file, l'uno dopo l'altro. «Dove lavora questo suo conoscen-
te?» chiese. «Forse nel reparto tecnico», rispose Liam. «Forse. Non lo so, indossava una tuta da lavoro.» «Patrick Clohessy, ha detto?» «Sì.» Per qualche istante, si sentì soltanto il ticchettio delle unghie sulla tastiera. Poi l'impiegata scosse il capo. «Mi spiace. Ci sono un sacco di persone che indossano la tuta da lavoro. Può essere in un altro reparto?» «Non ho idea di quali altri reparti abbiate. Non può fare una verifica sull'intero aeroporto? Inserisca semplicemente il suo nome.» Passò un altro minuto. La donna alzò le spalle in segno di rammarico. «Nulla.» «Clohessy», ripeté Liam, come se lei non avesse capito. «Patrick Clohessy.» «Sì, lo so. Ma non c'è nessun Patrick Clohessy.» Liam si sfregò il mento. «È strano», mormorò, quasi tra sé. «Sono molto fisionomista e non mi sbaglio mai. Era lui, senza ombra di dubbio.» «Eri ciucco perso», gli mormorò Kika. «Mi duole fartelo notare, ma questa cosa mi ricorda un po' Il mio amico Harvey. Hai presente quel film col coniglio fantasma...» «Lo so che ero ciucco», la interruppe Liam, risentito. «Lo sono praticamente sempre. Mi è passato accanto, Kika! Camminava fianco a fianco con un altro tizio ed entrambi indossavano la stessa tuta.» «Spesso il reparto tecnico usa operai di ditte esterne», intervenne l'impiegata. «Se è sul loro libro paga, non lo troveremo mai.» «No.» Liam scosse il capo. «Sulla schiena c'era scritto COLONIA/BONN o CGN AIRPORT.» «Forse il suo amico non si chiama più Clohessy.» «Come?» «Voglio dire, forse si è sposato.» «Si chiama Patrick, non Patricia», sottolineò Liam in un tono un po' troppo amichevole. Kika gli schiacciò un piede. «A quanto pare, succede che gli uomini decidano di prendere il nome delle loro mogli. Siamo nell'anno 1999. Insieme con Kika Wagner, Liam O'Connor si spinge in galassie in cui nessun uomo ha mai messo piede.» «Spock inarca un sopracciglio», ribatté Liam. «L'unico motivo per cui un uomo debba assumere il nome della moglie è se è ricercato dalla Legio-
ne Straniera. Ma non importa. Per favore, può controllare se nel reparto tecnico c'è qualcuno cui il destino ha affidato il nome Patrick?» La donna esitò. Evidentemente cominciava a chiedersi, un po' in ritardo, se fosse autorizzata a fare tutte quelle ricerche. «Ma chi è lei?» chiese con diffidenza. Kika glielo disse. La menzione della candidatura al Nobel non colpì particolarmente la donna, ma, quando Kika aggiunse che Liam scriveva romanzi, il viso dell'impiegata s'illuminò. «Aspetti.» Scomparve in un locale adiacente. Quando tornò, era seguita da un uomo di mezz'età che si presentò come vicedirettore del personale. «Deve sapere che non possiamo rilasciare informazioni sui nostri collaboratori», annunciò cordialmente. «Ma in questo caso farò un'eccezione. La sua fama la precede, professor O'Connor. Ho letto il suo ultimo libro con grande piacere. Crede veramente che le formiche siano intelligenti?» «È quello che mi viene in mente ogni volta che guardo giù da un aeroplano», rispose gentilmente Liam. Il capo del personale si concesse una risatina. «Già, viene spesso in mente anche a me. In ogni caso, ho parlato al telefono con la sicurezza dell'aeroporto, come siamo tenuti a fare. Non c'è nessuna preclusione ad aiutarla, ma, a quanto sembra, l'uomo che lei cerca non esiste al Colonia/Bonn. D'altra parte, abbiamo effettivamente un irlandese. È un tecnico che si occupa delle facciate. È possibile che i due si conoscano. Se vuole può parlargli, si chiama Ryan O'Dea.» «Ryan O'Dea», ripeté Liam. «Il nome le dice qualcosa?» «No.» «È impegnato in una riparazione, al GAT 1, credo. In ogni caso, non potete accedere al piazzale. Se mi lascia un recapito, forse la richiamerà.» «Non mi fermerò a Colonia a lungo. Per essere preciso, soltanto per qualche ora», mentì Liam. «Non può fare in modo che gli possa parlare subito? È molto importante.» L'uomo rifletté. «Ci farebbe piacere esserle d'aiuto. Attenda ancora un istante, per favore.» Fece un'altra telefonata, poi disse: «Sì, è all'Hangar 1. Andate all'edificio principale. Sapete arrivarci? Bene. Aspettate nell'area A, al bancone della caffetteria. Mentre vi avviate, io dico a O'Dea che vi deve raggiungere lì». «Lei è molto gentile.» «Forse questo O'Dea era l'altro tecnico che hai visto», suggerì Kika,
mentre raggiungevano il terminal e lasciavano l'auto nel parcheggio a sosta breve. «È possibile.» Liam alzò il viso verso il sole. «Io ho un'altra ipotesi. Se ho ragione, passo a scrivere gialli.» Aspettarono circa un quarto d'ora al bancone della caffetteria e bevvero una cosa che si chiamava «bevanda calda al cacao» e il cui sapore corrispondeva perfettamente alla definizione. «Ecco», disse d'un tratto Liam. Kika seguì il suo sguardo. Dal corridoio del terminal stavano arrivando due uomini. Entrambi indossavano una tuta con la scritta CGN e portavano sul petto un cartellino d'identificazione con la fotografia. Parlavano tra loro, gesticolando. «C'è anche lui?» chiese Kika. «È quello a sinistra. L'altro non lo conosco. In ogni caso, non è lui che ho visto ieri insieme con Clohessy.» «Sarà O'Dea. Ehi, Liam, avevi ragione. Ritiro qualsiasi cosa io abbia detto sulle conseguenze del single malt.» Lui assunse un'espressione scettica. Nel frattempo i due uomini si erano diretti verso di loro. L'uomo che secondo Liam si chiamava Paddy Clohessy aveva un viso serio e un po' infelice, il naso affilato e occhi scuri e infossati. La bocca era poco più di una striscia tra due guance scavate come valli. Sembrava più vecchio di Liam. Aveva capelli scuri non pettinati che gli conferivano un aspetto disordinato. Fissò lo scienziato, ma non disse nulla. «Lei è il dottor Kommer?» chiese il suo accompagnatore. Quelle poche parole furono sufficienti a identificarlo come tedesco. Nemmeno una traccia di accento irlandese. «O'Connor», lo corresse Liam, senza distogliere lo sguardo da Paddy, ovvero dall'uomo che lui conosceva come Paddy, perché, con grande sorpresa di Kika, l'altro tecnico disse: «Voleva parlare col signor O'Dea, giusto?» «Giusto.» «Questo è Ryan O'Dea.» Il viso di Liam rimase privo di espressione, come quello dell'uomo che aveva di fronte. Si misurarono a vicenda, neanche stessero dialogando mentalmente, senza bisogno di parlare. «Già.» L'altro tecnico, indeciso, spostava il peso da una gamba all'altra. «Allora non voglio disturbarvi oltre. Ero di strada e ho pensato di accom-
pagnare Ryan. Posso fare altro per lei, professor... ehm...?» «Non disturba affatto», rispose Liam, senza perdere di vista l'uomo dalle labbra sottili. «Mi scuso, signor O'Dea, se approfittiamo del suo tempo. È stato molto gentile da parte sua venire qui subito. Non ci siamo ancora presentati, vero?» Gli porse la mano destra. O'Dea - o l'uomo che si faceva chiamare O'Dea - la prese e la lasciò andare subito, come se avesse stretto una ragnatela. «No», rispose bruscamente. «Le è stato detto perché volevamo parlarle?» «No.» «Bene, allora glielo spiego. Ieri mi è sembrato di vedere qualcuno col quale ho condotto studi molto gradevoli sull'effetto delle lezioni saltate sulla propria carriera. Si chiama Patrick Clohessy. Lo chiamavamo Paddy. Per caso questo nome le è familiare?» «Mai sentito», rispose l'uomo, e il suo accento confermò senza ombra di dubbio che non era tedesco. «Pensavo che magari lei avesse un collega irlandese.» «No.» «E lei?» chiese Liam al secondo tecnico. «Conosce un Paddy Clohessy?» «Mah, non si può conoscere tutti.» L'uomo si guardò intorno e indicò il corridoio. «Da quando stanno costruendo, qui ogni giorno arriva qualcuno nuovo. Chi lo sa come si chiamano.» «Qualcuno che si chiama Patrick? Di nome, voglio dire.» «No. Patrick? No!» Liam fissò nuovamente l'uomo taciturno coi capelli arruffati. «Forse lei?» L'altro scosse il capo in silenzio. Liam sospirò. «Che peccato. Gli avrei raccontato così volentieri che ne è stato della ragazza dalla pelle diafana con la chitarra, quella che cantava sempre A Stor Mo Chroi all'Hartigan. Lui si struggeva per quella ragazza. Siamo stati costretti a farlo diventare alcolista per direttissima, per affogare il male maggiore in quello minore. Lei è davvero sicuro di non conoscere un uomo che corrisponda a questa descrizione?» Ci fu un lampo negli occhi di O'Dea. «Ho già detto...» «Certo.» Liam fece un sorriso compiacente. «Ci scusi, non vogliamo disturbarla oltre. Ecco il mio biglietto da visita. Se le dovesse venire in mente qualcosa di utile in proposito, mi farebbe piacere avere sue notizie.»
O'Dea prese il biglietto da visita e lo fece scivolare nel taschino della tuta. «L'Irlanda è grande», disse. «Non abbastanza, temo.» O'Dea rimase in silenzio. Poi si girò e se ne andò. L'altro tecnico scrollò le spalle. «È un tipo scontroso, ma non lo fa apposta», commentò. «Lo so», replicò Liam, continuando a sorridere. «La ringrazio molto. Sono tutti irrequieti, qui, vero? Domani arriva il presidente degli Stati Uniti.» «È dall'inizio di giugno che svolazzano tutti qui come piccioni. Blair, Chirac, Guterres, Simitis, DAlema, Ahtisaari... Tutti pesci grossi. Ci si fa l'abitudine. Non se ne abbia a male... Allora io vado.» Fece un cenno col capo e se ne andò. Kika lo seguì con lo sguardo e aspettò che fosse fuori portata di voce. «Che razza di elemento era quello?» chiese. «Quello?» Liam la guardò come se gli avesse chiesto dove andare a prendere il treno. «Era Paddy Clohessy.» «Allora adesso Paddy Clohessy si chiama Ryan O'Dea», constatò Kika, mentre tornavano in città. «Non penso proprio che sia per via di un matrimonio.» «Difficile.» «Ora che vuoi fare? A parte il fatto che alle sei hai una presentazione, alla quale non mancherai, tanto per prevenire eventuali mascalzonate da parte tua.» Liam guardò l'orologio, tanto semplice quanto costoso. «Le quattro e un quarto», disse. «Abbiamo promesso alla libreria che arriverai con mezz'ora d'anticipo. Non dimenticartene.» «E perché?» «Per firmare una montagna di libri.» «Ma ho già firmato una montagna di libri ieri.» «Quelli sono già venduti.» «Pietà, Kika! La mia firma si è ridotta a un verme d'inchiostro senza nessuna caratteristica significativa. Mi risulta incomprensibile perché la gente tenga tanto a quello scarabocchio.» «Molto semplice. Soccombono all'illusione di essere particolari se possiedono qualcosa di particolare.» «Vedi? È proprio questo il motivo per cui preferisco svignarmela.»
Kika gli lanciò un'occhiata di avvertimento. «Guai a te!» «Non ti preoccupare», continuò Liam, allegramente. «Non ho l'abitudine di fare pasticci per due sere di seguito. Non c'è niente di peggio che essere ritenuto prevedibile.» «Credi che Paddy si farà sentire?» «Non ho avuto questa impressione.» «L'hai protetto.» «Ho cercato di meravigliarmi, ma non ci sono riuscito», mormorò Liam dopo un momento di silenzio. «L'avevo già capito all'ufficio del personale che cosa stava succedendo. Quando Paddy è scomparso da Dublino, girava voce che gli avessero sparato. Alcuni erano turbati, altri ritenevano che gli stesse bene essere morto, almeno un po'. Ma nessuno si è meravigliato. Era chiaro a tutti che, in un modo o nell'altro, avrebbe preso una strada fatale. Qualche tempo dopo, si diceva che fosse stato visto vivo e vegeto nell'Ulster, ma da quel momento in poi si è persa ogni sua traccia. Comunque sia andata la sua vita da allora, a un certo punto deve aver avuto la necessità di cambiare nome e lasciare il Paese.» «La cosa suona piuttosto losca.» «Non posso valutare se Paddy sia invischiato in qualche sporca faccenda. Naturalmente avrei potuto mandare a monte la sua copertura, ma a che pro? Forse ha trovato la pace.» Scosse il capo. «No, mi dico semplicemente che Paddy è tuttora disperso. Per quanto riguarda il signor O'Dea, non abbiamo niente a che fare con lui.» Quando arrivarono al Maritim, inaspettatamente Kika provò un certo distacco nei confronti di Liam. Non nasceva tanto dall'esperienza, quanto piuttosto da qualcosa di non detto e dalla paura che qualcosa potesse mettersi tra loro e ricreare la situazione della notte precedente. Con la differenza che, a quel punto, le sarebbe mancato qualcosa di cui prima non aveva sentito il bisogno. Per quanto le premesse seguirlo nella sua stanza e far diventare realtà ciò che avevano dichiarato vero nell'ebbrezza dello uisge beath, 22 il momento le sembrava più inopportuno che mai. Lo accompagnò fino alla sua camera e, mentre lui apriva la porta, rimase lì, indecisa sul da farsi. Sii disinvolta, pensò. Non è niente. Non abbiamo preso nessun appuntamento. Non c'è niente che debba accadere per forza. Ma d'un tratto si sentì bloccata. La disponibilità e la leggerezza che ave22
Letteralmente «acqua della vita»: il nome gaelico del whisky. (N.d.T.)
vano dominato i suoi pensieri quella mattina si dileguarono, lasciando il posto a una vuota percezione della realtà, la stessa che faceva scivolare via i sogni al momento del risveglio. Inoltre Kika era tornata sobria e la pesantezza nella testa era svanita. Fu sopraffatta dalla stanchezza. Le ultime ventiquattr'ore scomparvero nel mondo dell'irrealtà. In quel momento era semplicemente accanto a un uomo affascinante, ad aspettare che aprisse la porta e che si congedasse con un: «Allora a più tardi, signora Wagner». Non si sarebbe neppure meravigliata se lui le avesse dato di nuovo del lei. Sembrava tutto così distante. La notte, la sbronza, gli abbracci, i baci. Le storie che si erano raccontati nel letto di Liam, il loro tergiversare, l'eccitante rinuncia. Ma il libro si era chiuso e il loro capitolo insieme era stato cancellato. Se quel pomeriggio fosse andata a letto con lui, avrebbe distrutto il sogno. La successione obbligata degli eventi era insulsa. Il copione era arrivato al punto in cui avrebbero fatto sesso. Avevano poco meno di un'ora, nessuno dei due aveva altri piani, se non quello di far passare il tempo. Non c'erano altri Paddy da cercare e nessuna ubriacatura imprevista in cui incappare. Non si poteva più perdere la testa. Non c'era più niente d'imprevisto. Era proprio quello il problema: la logica della situazione, l'improvvisa prevedibilità che privava quel momento di qualsiasi fascino. La notte aveva portato con sé un meraviglioso forse. Quell'ora pomeridiana imponeva un sì o un no. Lo guardò di profilo e avvertì una fitta. Era fantastico. Da una parte l'avrebbe seguito molto volentieri. In quella stanza, a Dublino, a Shannonbridge, nel primo universo disponibile! Ma nel contempo le sembrava impossibile, lì, in quel momento. Era pazza? Che cosa doveva fare? Se non fosse andata con lui, ci sarebbe stato il rischio che tutto rimanesse un sogno e che si allontanassero di nuovo, incapaci di lasciarsi andare un'altra volta. Non c'era nulla che lei volesse di meno. Ma, all'altra estremità dello spettro, era in agguato la paura della delusione, il timore che la magia creata dalla negazione di tutte le regole avesse come conseguenza soltanto sudore e lenzuola sgualcite, senza felicità. Nessuna delle due opzioni le piaceva e tantomeno le piaceva la pesante goffaggine che si era impossessata di lei. Si guardò ed ebbe l'impressione di essere il proprio peggiore nemico. C'è in gioco anche qualcos'altro, pensò. Qualcosa che ammetteva malvolentieri. La paura di non essere la donna più bella del mondo, quel pomeriggio. Alle prime luci dell'alba lo era stata. Ma se lui in quel momento l'avesse
vista come si vedeva lei? Qualsiasi esitazione di Liam l'avrebbe annientata. Non avrebbe nemmeno voluto sapere perché esitava. Non sarebbe più stata la donna più bella del mondo. Anche quella sarebbe stata una conseguenza, a prescindere dalla sua decisione. Quella maledetta ora rovinava tutto! Evidentemente Liam percepì che qualcosa non andava. Rimase fermo, mentre la porta della sua camera si apriva lentamente, svelando ai loro occhi il letto in cui avevano fluttuato per ore. Mancavano soltanto i riflettori, i cameramen e il regista. Kika e Liam. Azione! «Be'», cominciò lei. «È troppo assurdo, Kika», la interruppe lui. «Mi piacerebbe da matti invitarti a entrare per bere un goccio, ma non funziona.» Lei esitò. «Non avevo intenzione... voglio dire...» «A Dublino aspettano una mia telefonata. Ho promesso di fare qualche calcolo per un esperimento che vogliono portare avanti all'istituto e, volente o nolente, mi devo mettere al lavoro.» «Ma... finirai in tempo per la presentazione, vero?» chiese lei goffamente. «Promesso.» La guardò. «Smanetterò al computer portatile per mezz'ora e passerò un'altra mezz'ora al telefono. Ma alle cinque e mezzo al massimo sarò pronto, armi e bagagli.» Esitò. «Sei arrabbiata?» Kika scosse il capo. «No, nessun problema.» «Bene. Prima di andartene... ti avanza uno di quei meravigliosi baci?» Sorrise come un gatto che si è appena mangiato un usignolo. «Quello di stamattina non durerà ancora molto.» Lo sguardo di lui la catturò. La attirava a sé e nel contempo la allontanava. Kika sentì la rigidità allentarsi e sciogliersi come neve al sole. Solo in quell'istante si rese conto che tutti i suoi muscoli erano contratti. Sorrise, si abbandonò contro di lui e chiuse gli occhi. Ecco che tornava. Il freddo bollente. «Ti avrò tutto per me per un'oretta, stasera?» sussurrò. «Che ne dici di una piccola eternità?» replicò lui. «Mi sta bene.» Le fece scivolare le dita tra i capelli. «È un peccato, ma adesso devo lavorare. Probabilmente farò spaventosi errori di calcolo. Attribuirò a pi greco il valore di 1,87 e cercherò onde luminose nello spettro biondorossiccio.»
«A presto», disse lei. A ogni passo che muoveva verso gli ascensori, sentiva il cuore farsi più lieto. Non aveva proprio tempo! Doveva lavorare. Non bisognava decidere nulla. Lui aveva da fare! Decise di scendere per le scale. All'improvviso, tutto tornò: il batticuore, l'eccitazione... L'unica cosa che le impedì di atterrare nella lobby col sedere per terra, facendo uno splendido tonfo, fu l'assenza di una ringhiera su cui lasciarsi scivolare. Il tempo era di nuovo dalla sua parte. Sera Poche molecole olfattive: pericolo! Zampe minuscole tastano il terreno con passi misurati. La prima formica invia una serie di complessi messaggi olfattivi alle altre, per avvertirle che poche lunghezze di formica più in là è in agguato una pianta carnivora, in attesa di dissolvere tra le sue mascelle gli insetti sbadati, trasformandoli in una schiuma aromatica. Uno scambio frenetico. Una delle esploratrici propone di abbandonare il sentiero prestabilito e di addentrarsi nel territorio ignoto sulla destra. Muovendosi in formazione a testa di serpente, potrebbero affrontare al meglio qualsiasi pericolo. Diverse esploratrici precederebbero il serpente di formiche, fiutando il terreno e sondando il cielo, per trasmettere un messaggio al corteo e poi accodarvisi. Le altre formiche formerebbero all'istante una nuova testa di serpente. Grazie a questo principio di rotazione, il corteo manterrebbe sempre un naso ipersensibile e potrebbe avanzare rapidamente e in sicurezza. La proposta viene accettata e circa tremila formiche rosse vaganti si accingono a far fuori gli abitanti di una fattoria. A quel punto, diverse persone nell'auditorium cominciarono a grattarsi... sempre che non l'avessero già fatto prima. Liam aveva scritto un romanzo sulle formiche. Era un thriller scientifico, nel quale gli esseri umani se la cavavano piuttosto male. La libreria aveva registrato il tutto esaurito. Trecento persone volevano sapere dello scontro fra esseri umani e insetti. Non nello stile dei tradizionali polpettoni a base di mostri, ma sulla base delle ultime scoperte della biogenetica. Il libro era spaventoso perché la storia era plausibile. Come tutti i romanzi di Liam, si basava su approfondite ricerche e, come tutti i suoi libri, offriva uno spaccato della sua visione distaccata del mondo.
Kika si rilassò e ascoltò la voce sonora, senza prestare attenzione al contenuto. Conosceva il libro. Come sempre, Liam cercava di guardare l'umanità dalla massima altezza possibile. Per lui era anch'essa una specie, come le formiche con le loro regine, le loro città e le loro caste. Faceva chiaro sfoggio d'imparzialità, però Kika aveva capito il suo gioco. Adorava considerare poco interessanti gli esseri umani e farlo notare al suo pubblico. Con cinica soddisfazione faceva apparire l'Homo sapiens vecchio, rispetto alla fredda logica dell'intelligenza collettiva degli artropodi. Gli esseri umani erano stupidi, le formiche intelligenti. Le eccezioni confermavano la regola. Per il resto, l'avversione di Liam nei confronti della stragrande maggioranza dei membri della propria specie sovrastava qualsiasi compassione. O almeno così doveva sembrare. Lei si chiese che cosa ci trovasse di così stimolante nel ruolo di spregiatore del genere umano. La storia della letteratura era piena di grandi misantropi. Quasi tutti si distinguevano per un'enorme intelligenza e disprezzavano gli orizzonti limitati delle masse, disgustati dalla loro rozzezza e dalla loro ottusità. Altri non erano veramente misantropi, ma piuttosto ricercatori e analisti, dotati di un intelletto che consentiva loro di riconoscere le strutture estese e i nessi generali. Chi si arrischiava a spiegare l'universo perdeva inevitabilmente di vista l'individuo. Più grande diventava il cosmo conosciuto, più complesse diventavano le teorie di universi in espansione, collassanti, fino ad arrivare all'idea che tutta quella struttura inconcepibile fosse soltanto una d'innumerevoli altre, in una specie di schiuma cosmica. L'idea di un Dio riservato agli abitanti del terzo pianeta di un insignificante sistema solare in un angolo di provincia di una galassia di media grandezza aveva sempre meno senso. Più si dilatavano la conoscenza e l'intuizione umane, più apparivano insignificanti proprio coloro che riuscivano a pensare tutto ciò: gli esseri umani. Perché Dio, sempre che esistesse, avrebbe dovuto amare un ammasso di geni maleducati che non facevano che azzuffarsi e, dato che c'erano, rovinare il pianeta? Perché proprio gli abitanti di un mondo tra miliardi di arcimiliardi di altri mondi dovevano essere così importanti per il creatore del tutto? Escludendo il sole, la stella più vicina alla terra, Proxima Centauri, era a quarantamila miliardi di chilometri, 4,23 anni luce, ed era soltanto una delle centinaia di miliardi di stelle che costituivano ciò che gli esseri umani chiamavano Via Lattea, la quale a sua volta rappresentava una parte minuscola di una struttura fatta di ammassi di galassie e superammassi, appesi come gocce di rugiada a una ragnatela vir-
tuale, tessuti intorno a spazi neri pieni di una materia enigmatica e invisibile. Una persona come Liam, i cui pensieri avevano cominciato a viaggiare in quelle regioni o nelle regioni dei nano-universi, dell'infinitesimale, delle molecole e degli atomi, delle onde luminose e dei fotoni, poteva credere a un creatore, ma difficilmente poteva credere che questi attribuisse particolare importanza alla specie umana, tanto più che, nel suo grande esperimento, l'ipotetico creatore non si era nemmeno accorto che tale specie aveva ricoperto un pezzo di roccia orbitante come una muffa e aveva preso consapevolezza di sé. Ma perché l'essere umano doveva valere di più di una formica? In virtù di quale arroganza, per esempio, un hooligan ubriaco di rudimentale intelletto e con una spiccata inclinazione alla violenza, che non aveva mai combinato nulla di sensato nella propria vita, poteva ritenersi più importante di una balenottera azzurra o di una martora o di una cavalletta? Kika si passò l'indice sul naso sottile. Le venne in mente una cosa che Liam aveva detto quel pomeriggio, un'osservazione sul suo rapporto con Paddy Clohessy ai vecchi tempi: Non avrei potuto obbligarmi a considerarlo così importante. Hmm... Cosa sarebbe successo se Liam si fosse sentito obbligato a considerare importante qualcuno? Liam O'Connor non era un misantropo, lei l'aveva percepito chiaramente. Cercava di farsi passare per tale, sforzandosi in tutti i modi di dichiarare nullo il diritto biblico dell'uomo di sottomettere il mondo. Non le era chiaro quale fosse lo scopo di tutto ciò. Senza dubbio, con la sua superbia, conquistava l'interesse del pubblico. Era un buffone di corte e un idolo, suscitava ostilità e ammirazione nel contempo. Tutti si chiedevano come un uomo di una bellezza così folgorante potesse scrivere con tale cattiveria. Liam non faceva nulla per rispondere a quella domanda, né a beneficio della gente, né per se stesso. Ogni sua osservazione sarcastica, arguta o beffarda, pronunciata con aria di sufficienza o con fascino, non faceva altro che mascherare ancora di più la sua vera natura. Ma cosa sarebbe successo se avesse manifestato la sua umanità, il suo affetto, le sue debolezze? Se fosse sceso dal piedistallo e avesse donato il cuore a qualcuno, sempre che ne fosse in grado? La gente sarebbe rimasta delusa. Perché in realtà nessuno voleva una risposta. Volevano averlo così com'era; proprio come avevano voluto, per esempio, l'attore Klaus Kinski, che insultava pubblicamente gli spettatori, o un David Letterman, il con-
duttore di talk-show, che li derideva. Nessuno voleva un Liam diverso da quello che stava lassù sul podio a raccontare storie di formiche, di acidi, di veleni e di morte; che, in tono leggero, proclamava ciò che probabilmente nessuno tra il pubblico capiva e che divenne chiaro come il sole per Kika soltanto in quell'istante: potevano andare tutti a farsi fottere. All'improvviso sentì un moto di desiderio nei suoi confronti e nel contempo ebbe la certezza che la loro storia non avrebbe avuto un happy end. Per un attimo si rattristò profondamente. D'altra parte, perché mai la loro storia doveva avere una fine? Happy end non era semplicemente un altro modo di dire che il film si chiudeva perché non c'era più nulla da raccontare? Tutto si fermava. L'avventura era finita. Da quel momento in poi, diventava un'esistenza borghese e tranquilla, con un futuro già prestabilito fino all'ultimo respiro. Che noia terribile! Che la loro storia fosse durata due giorni, due anni o una vita intera, che importanza aveva? Contava soltanto che ci fosse. Maledetta teorica, pensò. Allora lascia che succeda. Intanto Liam aveva concluso il suo discorso. Si formarono file davanti al podio, perché aveva promesso di autografare altre copie del libro. Kika andò al piccolo bar abilmente piazzato nel paesaggio di libri e scaffali e ordinò una Kölsch. Erano le otto passate. Aveva prenotato un tavolo da Marios Trattoria, un ristorante italiano nel quartiere belga di Colonia, che aveva un grazioso giardino davanti ed era famoso per la sua eccellente pasta. Erano invitati il team della libreria che aveva organizzato la presentazione e due giornalisti, entrambi esponenti del gruppo Neven-DuMont. Il panorama della stampa di Colonia era monopolistico: i tre quotidiani principali appartenevano alla stessa scuderia e non c'era nessuna seria concorrenza in vista. Forse proprio per quello tutti e tre avevano una sezione culturale più o meno ispirata e ben impostata, perché Qui, Quo e Qua avevano un solo zio Paperino di cui propiziarsi i favori. Kika stava cercando nella borsetta lo specchietto per ritoccarsi il trucco, quando notò qualcuno con la coda dell'occhio. Nello stesso istante, la sagoma scomparve nella massa di persone che aspettavano o si stavano mettendo in movimento. Le rimase impressa soltanto un'immagine sfocata di Paddy Clohessy. Rimase sbigottita. Scrutò le persone all'intorno. Aveva davvero visto Paddy Clohessy?
Lasciò il bar e attraversò lentamente la folla, guardandosi intorno con attenzione. Poi uscì in strada. Doveva essersi sbagliata. Il suo cervello aveva memorizzato il naso affilato e i capelli arruffati di Clohessy. Qualcuno con caratteristiche fisiche simili aveva ingannato la sua memoria. Tornò dentro pensierosa e si unì a Liam, che era stato sequestrato da Kuhn. L'editor era impegnato a presentargli persone che gli offrivano i loro libri da firmare come se fossero sacrifici. Le assillava, elogiando l'ultima opera di Liam come se l'avesse scritta lui. Kika cercò d'ignorare che Kuhn indossava una cravatta di maglia beige su una camicia di velluto color azzurro acciaio. «Professor O'Connor, i suoi personaggi mi colpiscono sempre tanto, come ci riesce?» stava chiedendo una donna sui quarantacinque anni, piuttosto carina. «Questa giovane allevatrice del brano che ha letto, che combatte contro quegli orribili insetti striscianti, è così... umana... così calda... quasi come...» «Sì?» chiese Liam in tono indagatore. «Come me!» esclamò lei, raggiante. «Sì, mi sono identificata in quella donna! È come se lei avesse descritto me!» «Mi fa piacere», replicò Liam. «Viene mangiata dalle formiche.» La donna tacque. Prese il libro, lo aprì e contemplò rispettosamente l'autografo che Liam aveva scarabocchiato controvoglia. «Vedi, Kika?» disse lui con un sorriso sottile. «Vedo», replicò lei. Il filo della loro intesa si tese ulteriormente. «Okay.» Kuhn alzò il naso e voltò le spalle al resto degli ospiti, in modo da schermare Liam. Evidentemente aveva deciso che bastava così. «Ho fame. Che dite, andiamo a mangiare? Questi stanno già cominciando a scalpitare, probabilmente non vedono l'ora di farsi pagare i maccheroni da noi.» «Lo ripeta in modo che la sentano tutti», lo esortò Liam con un ghigno. «Le darei una carrettata di champagne in cambio.» «Se questa è una prova di coraggio...» «È sciocco», intervenne Kika. «E poi una cafonaggine del genere non gliela perdonerebbero. Liam lo sa benissimo ed è un mostro.» «Non avevo nessuna intenzione di farmi trascinare», balbettò l'editor. «Bene. Devo dire una cosa a Liam.» Kuhn la guardò storto. «A quattr'occhi, immagino. Faccia pure. Ci ve-
diamo fuori.» Con tutta calma, si rinfilò nei pantaloni la camicia che, nelle due ore passate a stiracchiarsi, era venuta sempre più alla luce, andò da una delle libraie e cominciò a parlare con lei. «Che c'è?» chiese Liam. «Senti, io...» Un giovane s'infilò tra loro, mettendo un libro sotto il naso all'autore. «Può scrivere: 'Buon compleanno, Gisela'?» Liam lo fissò. «No.» «Ma...» «Impari a bussare. Si può fare anche senza porta.» Lo spinse da parte, prese Kika sottobraccio e si allontanò di qualche passo dal tavolo. Il ragazzo li seguì con lo sguardo, come se lo scrittore fosse venuto meno ai suoi maledetti doveri. Poi sbatté il libro su una pila di dizionari e uscì a passo di marcia. «O sono succubi o insolenti», sospirò Liam. «Se do il benservito agli insolenti, quelli succubi diventano ancora più succubi. Avere dei fan è noioso, Kika. Volevi dirmi che dovremmo darci dentro qui e ora? Sono d'accordo. C'è altro?» «Liam, può essere che Paddy Clohessy fosse qui?» «Come ti viene in mente?» «Non ci potrei giurare, però mi è sembrato di averlo visto.» Liam aggrottò le sopracciglia. «Quando?» «Un attimo fa. Può darsi che mi sbagli. Mi è passato accanto uno che mi sembrava proprio lui. L'ho seguito, ma d'un tratto è scomparso.» «E l'hai visto chiaramente?» «No.» Esitò. «A essere sinceri, è stata una specie di fugace déjà-vu. Non importa. Probabilmente mi sono sbagliata.» «Paddy è sempre stato imprevedibile», osservò Liam. «Perciò la cosa gli si addice. Ma perché dovrebbe saltare fuori qui per poi scomparire senza una parola?» «Oh, santo cielo! A me lo chiedi?» Liam lasciò trascorrere qualche istante di silenzio. Poi disse: «Forse hai visto Mr Ryan O'Dea, Kika. È un uomo che lavora all'aeroporto e che non stava particolarmente simpatico a nessuno di noi. Non lo conosciamo. Io non lo conosco. E, poiché una persona così non vogliamo nemmeno conoscerla, seguiamo in via del tutto eccezionale lo stomaco di Franz Maria Kuhn e andiamo a mangiare».
Tornarono al Maritim intorno alle dieci e mezzo. Liam era riuscito a convincere Kika a prendere un sorso di grappa, poi lei gli aveva fatto cenno che bastava. Due notti di fila a sbevazzare erano troppo. Ma anche Liam dimostrò una sorprendente moderazione. Kika ritenne che lo facesse con un certo riguardo per la sua missione segreta per conto dell'editore. Era sicura che, dopo aver subodorato la bambinaia che c'era in lei, la sua intenzione originaria fosse quella di polverizzarla in un'estenuante prova di forza e di disperderla ai quattro venti. Ma qualcosa era cambiato, la notte precedente. Erano alleati e gli alleati non si pugnalavano alle spalle. La cena era stata eccellente, come al solito. Fra vitello tonnato, tagliatelle agli scampi e sorbetto al limone, Kika aveva lanciato a Liam una serie di occhiate cui lui aveva dato risposte inequivocabili. Le arrivavano da sotto il tavolo, senza che nessuno degli altri le notasse e lei si godette quel dialogo tattile, più estasiata che mai di possedere un paio di gambe infinite. Nel frattempo, Liam era diventato la sollecitudine in persona. Mentre, con le dita dei piedi, vagava sui polpacci di Kika e conquistava in nome dell'Irlanda il morbido terreno del suo interno coscia, era talmente cortese coi giornalisti e coi librai che Kuhn gli lanciava occhiate preoccupate, come per accertarsi che non si fossero erroneamente portati dietro un sosia, mentre il vero Liam combinava qualche guaio. Era troppo bello per essere vero. Poco dopo le dieci, Kika pose fine alla cena, osservando che Liam aveva avuto una giornata molto impegnativa e che aveva ancora parecchio da fare. A lui non sfuggì il doppio senso e gli altri accettarono di buon grado che la serata finisse lì. Kika trasse un profondo sospiro di sollievo. Le sarebbe stato difficile spiegare ai presenti che l'addetta stampa e lo scrittore, dopo essersi fatti piedino per tutta la sera, avevano ora il desiderio di coinvolgere nella loro conversazione privata anche altre estremità del proprio corpo e, che a tal scopo, intendevano recarsi a una ben precisa suite del Maritim. Per far piacere a Kuhn, proposero di coronare la gradevole serata con un brindisi al bar dell'hotel e l'editor accettò volentieri. Kika era un po' dispiaciuta di averlo escluso in modo così esplicito dalla loro breve escursione all'aeroporto. Perciò, durante il viaggio di ritorno dal ristorante, propose a Liam di raccontare a Kuhn della doppia vita di Paddy. «Sei impazzita?» chiese Liam. «Non la smetterebbe più d'immaginarsi chissà quali scenari.» Kika scrollò le spalle. «E allora? Tanto mi assillerebbe comunque per sapere cosa stiamo combinando. Facciamolo contento. Così almeno ci la-
scerà in pace.» «Va bene. Sei tu il capo.» «Che entusiasmo! Dopotutto è solo una storia.» «Una stupida storia che non interessa a nessuno. Comunque, visto che la conosci tu, non vedo perché non possa conoscerla anche Kuhn. Il problema è che poi probabilmente ci vorrà raccontare degli esordi della resistenza irlandese.» «In quel caso, ci daremo alla fuga. Tanto l'avevamo già in programma, no? Che ne dici di Shannonbridge?» «Kika, sono sconvolto! Devi compiere una missione che non contempla in nessun modo Shannonbridge. Devi prenderti cura di me!» «Niente paura! Decido io il momento del ritorno», replicò lei con un sorriso compiaciuto. Poi soggiunse: «Cosa pensi veramente di Kuhn? Dopotutto lo conosci da più tempo di me. Ti piace?» «Bella domanda. A te piace?» «Non ne ho la più pallida idea.» Liam rifletté. «Ma sì, un po' mi piace. Almeno credo. Più o meno come ai sessantottini più sfegatati piaceva il film su Woodstock. Gli dedichi una serata con l'ausilio di bevande alcoliche e sei a posto per un anno.» «Sembra anche a te un sopravvissuto della generazione hippy?» «Non esistono sopravvissuti della generazione hippy, solo impressionanti casi di alienazione mentale. Proprio come non esistono manzi sopravvissuti dopo che qualcuno li ha trasformati in hamburger. Kuhn mi ha mostrato qualche foto, nell'anno in cui ci siamo conosciuti. Lo sapevi che c'era anche lui a Woodstock?» «No.» «Con una bella zazzera e poco altro addosso. Tutto l'armamentario dell'epoca, insomma. Ma non si è rotolato nel fango. Probabilmente sapeva che il suo futuro capo avrebbe visto il film.» «Dice che quelli erano tempi politicizzati. In generale, non per lui personalmente. E che la nostra non è un'epoca politicizzata.» «Davvero?» «Sì, noi siamo superficiali e indossiamo Chanel.» Liam arricciò le labbra in un ghigno beffardo. «Lascia perdere. Lo dicono tutti quelli che non vogliono ammettere apertamente la loro invidia nei confronti dei giovani.» «Non so. Ricordi quello che ha detto Silberman questa mattina? Entertainment rules. Allora erano davvero più politicizzati?»
«C'è ben poco di politico quando non si conclude nulla. Ma io sono troppo giovane, Kika. Posso dirti che chi tiene a se stesso dovrebbe guidare una Jaguar, possibilmente non costruita dopo il 1977. I più pragmatici obiettano che ci si ritrova a lottare con costanti problemi al motore, acqua nella sottoscocca e finestrini che si chiudono male... Al che io rispondo: 'Esatto! È proprio così che deve essere una Jaguar per poterla amare davvero'.» «Sono colpita. Ma cosa c'entra con Kuhn?» «Tra due mesi compirò quarant'anni, Kika. A quel punto, qualsiasi cosa dirò sarà frutto della saggezza. Al momento sono ancora un pivellino. Woodstock è stato prima dei miei tempi. Quando vedo quel film mi prende la tristezza. Per me, la brutta musica è una sofferenza fisica. Sul palco erano quasi tutti fatti e riuscivano a stento a trovare gli accordi sulla chitarra. Gli Who hanno suonato talmente male che è stata una buona idea fracassare gli strumenti. Grace Slick aveva impostato la sua canzone a due voci, ma nessuna delle due era in grado di mantenere la tonalità. Certo, Johnny Winter è stato eccellente e lo stesso vale per Hendrix... e pure Crosby, Stills e Nash mi piacciono, con le loro masse pelose. Cocker... vabbè. La Joplin, che orrore. Invece Kuhn si berrebbe come nettare delizioso ogni nota e ogni sillaba e direbbe: 'Eh, già! Era il '68. Eravamo politicizzati e per questo bisognava stonare, era proprio quello il punto'. Lui ci si ritrova. E sicuramente ha ragione, ha vissuto se stesso e la sua generazione come una grande speranza. A me però sembrano solo migliaia di persone seminude sotto la pioggia scrosciante, a condividere un sogno in cui l'obiettivo era di essere contro qualcosa e non a favore di qualcosa. Solo una cosa era certa: un giorno qualcuno sarebbe sceso dal cielo per porre fine alle ingiustizie. Da un posto di lavoro ne avrebbe creati migliaia, di quelli che permettono di fare soldi senza lavorare, dato che consistono prevalentemente nell'organizzare feste e arrotolare spinelli. Avrebbe fatto in modo che tutti si dessero del tu, che gli agenti di borsa si mettessero i fiori nei capelli e facessero saltare in aria Wall Street, come un atto simbolico. Non ci sarebbero state più né guerre, né povertà, tutti avrebbero avuto da mangiare e da fumare, tutti avrebbero fatto l'amore con tutti. Pensavano che Woodstock fosse l'inizio, in realtà era la fine. Il primo, e fatalmente anche l'ultimo, vero orgasmo degli hippy. Nessuno li aveva avvisati che, dopo, sarebbe arrivata la caduta libera. Non ne è rimasto nulla, tranne un paio di martiri, morti giovani perché non tolleravano d'invecchiare e di diventare come Kuhn. Lui pensa ancora di rifiutare l'establishment, quando in realtà è l'e-
stablishment a rifiutare lui. D'altra parte, ci sono abbastanza giovani che non comprenderanno mai che cosa io ci trovi in una Jaguar sconquassata. E, un giorno, ci ritroveremo davanti esemplari del genere umano ancora più giovani e loro cercheranno di spiegarci che non abbiamo combinato nulla coi nostri ideali, perché erano follie e nessuno capisce che cosa ci trovassimo. Ogni epoca ha i propri ciechi. Kuhn è disperatamente antiquato e in più è un tale moralista! È una figura tragica, il che gli conferisce un certo charme. Credo sia per questo che mi piace. Ogni tanto è bello essere il suo Sancho Panza.» Kika rifletté. «Intendi dire che è solo?» chiese poi. «Sicuramente.» «Povero, vecchio Franz.» «Tanto povero non direi. È ignorante e superficiale, sa troppo di tutto e mostra una spiccata mancanza di talento nel trasmettere il proprio sapere. A Cork siamo stati spesso seduti insieme al bancone e, dopo un paio di birre, si è sciolto in una tale fiumana di parole che mi è sembrato di essere sulla rampa di accesso di un'autostrada a cinque corsie. Vorresti immetterti, ma non c'è neanche un buco per farlo. Dopo un po', gli ho presentato degli amici che hanno dovuto soccombere a quel suo mare di pensieri scoordinati e me la sono spudoratamente battuta. Non mi sembra che la cosa gli abbia dato fastidio.» «È così che è andata, allora? Perché lui afferma che avete trascorso lunghe nottate insieme...» «Probabilmente l'abbiamo anche fatto», borbottò Liam, mentre Kika imboccava la rampa del Maritim. «Ma io c'ero raramente.» Liam ordinò un Laphroaig invecchiato di dieci anni, uno dei distillati scozzesi più forti e insoliti. Il barman era fiero di averne una bottiglia. Estasiato per essersi finalmente imbattuto in un conoscitore, riempì il bicchiere un po' più di metà. Aleggiò nell'aria un odore di torba, iodio e ospedale. Il barman era abituato a servire Johnny Walker e Ballantine's, un'attività in gran parte deludente per chi era in grado di distinguere gli alcolici distillati tre volte da quelli distillati due volte e gli Speyside malt dagli Islay malt. Per poco non offriva lui da bere a Liam. Se avessero accettato, però, si sarebbero dovute sorbire anche le sue storie. I barman sono come computer ambulanti con una memoria enorme. Guai a chi conosce la password! Kuhn fece opposizione con un cognac, Kika continuò con l'acqua. Dopo
il primo brindisi, lei e Liam raccontarono all'editor di Paddy Clohessy, per farla finita subito. A sentirla così, la storia sembrava un giallo da quattro soldi. Kuhn tuttavia era come paralizzato. Iniziò immediatamente a formulare teorie e volle sapere tutto di quel Paddy che si era tramutato in Ryan O'Dea. Dopo il secondo cognac, come previsto, fece cenno alla protostoria del separatismo nordirlandese, dalla quale a suo parere erano spuntati fuori tutti i Paddy del mondo. Tutto faceva pensare che avrebbe cominciato a raccontarla. Kika iniziò a dubitare di aver avuto una buona idea. Liam svuotò il bicchiere di gran fretta e scivolò giù dallo sgabello. «Che cosa ci fa un tipo così all'aeroporto?» domandò Kuhn. «Sembra proprio un infiltrato. Trovo la cosa assai preoccupante. Gli irlandesi sono maestri, quando si tratta d'infiltrarsi. Lo sapevate, per esempio, che i media britannici nel corso degli anni '90 erano infiltrati fino ai vertici da manipolatori dello Sinn Féin? E dietro chi c'era? L'IRA! Si sono infiltrati...» «Devo andare a letto», annunciò Liam, sbadigliando. Kuhn rimase impietrito. «Perché mai? Cominciavamo appena a goderci una tranquilla serata.» «Sì, lo so. È proprio questo è il problema. Quando la serata si fa tranquilla, io mi addormento. Non c'è nulla di più stancante della tranquillità. Buonanotte... Franz... Kika...» Le cinse le spalle, l'attirò a sé e le diede un bacio fuggevole sulla guancia. «Vai dai tuoi?» Kika si stropicciò gli occhi. «Credo di sì. Sono stanca.» «Allora buonanotte.» «Sogni d'oro.» Liam fece un inchino e se ne andò. «Commedianti da strapazzo», ringhiò Kuhn. «Credete realmente di potermi prendere per il culo?» Kika rifletté. «Sì», rispose quindi. «Credo proprio di sì.» Liam O'Connor Il destino volle diversamente. Liam aveva appena lasciato il bar dell'albergo e stava attraversando la hall illuminata, dirigendosi all'ascensore di vetro, quando si sentì chiamare. «Professor O'Connor!» Qualcuno lo stava raggiungendo di corsa. Era uno degli addetti alla reception. Liam proseguì, augurandosi che non volesse farsi autografare un
libro. «Una telefonata per lei.» Lo scienziato si fermò di colpo. «Chi è?» «Non lo so, non me l'ha voluto dire. Desidera che glielo chieda di nuovo?» «Sì, grazie.» «Posso trasferire la chiamata alla sua suite.» «La ringrazio, ma preferirei riceverla qui, se è possibile.» «Naturalmente. Le cabine sono laggiù. Vada alla numero uno, gliela passo subito.» Liam entrò nella cabina di vetro e chiuse la porta dietro di sé. Dopo pochi secondi, il telefono squillò. Lui sollevò il ricevitore e attese. «Sono io», disse una voce familiare in inglese, con un forte accento di Dublino. Liam sogghignò. «E io che pensavo che ormai il tuo vocabolario si limitasse a 'No' e 'Non so'.» All'altro capo del filo ci fu una breve pausa. «Mi devi capire. A proposito, ti sono grato per essere stato al gioco, anche se la tua osservazione su Katie è una dimostrazione di cattivo gusto.» «Proprio così. Non sono certo affari di questo O'Dea se, ogni sera che il buon Dio gli concedeva, il mio caro amico Paddy Clohessy se ne stava all'Hartigans con un'erezione enorme, per sentirla cantare. Fra l'altro non mi sembrava che cantasse molto bene. Ma, quando si ama, certe cose non si notano.» «Pezzo di merda! Io ero innamorato e tu te la sei scopata.» «La libido è schiava dell'intelletto», replicò Liam. «O era il contrario? Pensavo che avessimo deciso di fare come in Cyrano de Bergerac. Tu le scrivevi poesie e io le davo quello che le serviva. Come avrei potuto renderti un miglior servigio? Inoltre dovresti ringraziarmi perché ti ho risparmiato una delusione, te lo posso assicurare. Una volta spogliata del romanticismo da birreria, faceva una figura ben peggiore della sua chitarra. Non ti sei perso niente.» «Ego te absolvo. Possiamo vederci?» «Perché no? Domani...» «Io pensavo adesso.» Liam indugiò. «Senti, Paddy, adesso non è il momento. Mi sto esercitando con un nuovo strumento e mi spiacerebbe che perdesse l'accordatura.» «La ragazza con cui eri all'aeroporto oggi?»
«Sì.» «È eccezionale. Sicuramente non sei alla sua altezza.» «Grazie. Perché non ci vediamo a colazione?» «Non posso.» Liam percepì una certa urgenza nel tono dell'altro. «Preferirei vederti subito. Non ci vorrà molto. In memoria dei vecchi tempi. Domani non posso e dopodomani te ne vai. Che ne dici, puoi trovare un quarto d'ora per un vecchio soldato?» «From a dead beat to an old greaser», 23 scandì Liam. «Dove sei?» «Molto vicino.» Liam diede un'occhiata alla hall dell'albergo. «Non così vicino», disse Paddy. «Sulla sponda del Reno. Ti aspetto.» «Va bene. Ti raggiungo fra cinque minuti.» Riattaccò e osservò pensieroso il telefono. Poi tornò al bar e sbirciò all'interno. Kika stava chiudendo la borsa, mentre Kuhn se ne stava seduto, tutto imbronciato, davanti a un altro cognac, che non aveva quasi neanche toccato. Le sue labbra si muovevano, come se stesse parlando da solo o col bicchiere. Liam aspettò che Kika uscisse. Lei cambiò espressione non appena lo vide, passando dalla finta sonnolenza a un desto entusiasmo. D'un tratto, Liam provò un insolito impeto di preoccupazione, temendo che lei potesse sfuggirgli, e la raggiunse. Il minuto dopo si sciolse in un bacio e lui si chiese seriamente per quale motivo dovesse andare sulle rive del Reno. D'altronde... «C'è stato un cambiamento di programma», le sussurrò. Kika ritrasse il capo e lo guardò. «In che senso?» «C'è una piccola cosa di cui devo occuparmi.» Kika inspirò profondamente e fece per parlare. Lui le mise un dito sulle labbra. «Ci metterò dieci, venti minuti», aggiunse. «Allontaniamoci dal bar. Non c'è bisogno che Kuhn pensi che lo prendiamo in giro.» «Lo pensa già. Non è uno stupido. Allora, cosa è successo?» Liam le raccontò della telefonata di Paddy. Tra le sopracciglia di lei si formò una piccola ruga. Lo scetticismo le donava. «Pensavo non volessi avere più niente a che fare con Ryan O'Dea.» «Il tipo è mutevole. Ora si chiama di nuovo Paddy. Voglio solo assicurarmi che la lista dei suoi nomi finisca lì, poi torno indietro. Puoi cominciare a saccheggiare il minibar della mia suite oppure tornare al bar da Kuhn.» «Due opzioni molto allettanti. E cosa dovrei fare nella tua suite? Sedurre 23
Titolo di una canzone dei Jethro Tull. (N.d.T.)
la lampada a stelo?» «Farò in fretta. Te lo prometto.» Lei gli mise il broncio e tornò all'elaborata compagnia di Kuhn. Le oscillazioni dei fianchi con cui scomparve nel bar alterarono la curvatura dell'universo in un modo mai visto. Liam provò un'autentica commozione. Uscì senza fretta, scese verso la riva, godendosi la serata mite e lasciò vagare lo sguardo lungo la passeggiata. Non dovette cercare a lungo. Paddy era appoggiato di schiena al parapetto. Gli occhi erano ancora più infossati che nel pomeriggio. La luce dei lampioni segnava gli zigomi e il mento, facendolo somigliare a un teschio col naso e con un groviglio stopposo in cima. «Paddy», disse Liam. Gli sembrò di evocare il passato. Gli tornò soltanto l'eco della sua voce. Dove avrebbe dovuto vivere il ricordo, c'era il vuoto. Dopo un indugio, i due si abbracciarono, dandosi qualche pacca sulle spalle. Il tutto senza particolare entusiasmo e con una certa rigidità. Al telefono, si erano parlati come se non fossero passati quindici anni, ma là fuori, al cospetto del tempo trascorso, Liam ebbe l'impressione di guardare negli occhi il risultato di un esperimento fallito. La fine di una storia, che ci si era riproposti di non lasciar finire mai. Una storia che non era mai incominciata. «Ti trovo bene», disse Paddy. La frase suonò fuori luogo. Lui cingeva le spalle di Liam e nel contempo lo teneva a distanza. D'un tratto, fu come se quell'intimità lo mettesse in imbarazzo, così si sciolse dall'abbraccio e indietreggiò. «È la luce della sera», rispose Liam con nonchalance. Paddy scoprì i denti. «Non ci vediamo da tanto tempo. Congratulazioni, Liam. Sei famoso. Come vivi la popolarità?» L'altro scrollò le spalle. «Inezie. Ambienti alla moda, aspetto vittoriano, ma non troppo formale. Il Cagliostro della nobiltà moderna. Lo sai anche tu, il Trinity è un'istituzione ideata per trasformare le persone in ciò che detestano.» Fece una pausa e guardò il Reno. Di fronte a loro, splendevano le luci di Deutz. Sulle acque scure e increspate scivolavano barche e battelli, riconoscibili dai fari. «Ma non parliamo di me. Tu, piuttosto, come stai?» «Me la cavo.» «Davvero?» Improvvisamente si chiese a che cosa servisse tutto quello. L'idea di rivedere Paddy gli sembrò assurda e inutile. Tra loro si era aperta
una voragine. Era uno straniamento retroattivo. Davanti allo sfondo illuminato di uno dei più lussuosi alberghi di Colonia, Liam si rese conto con distaccata freddezza che non avevano mai condiviso le stesse idee. L'uomo che gli stava davanti poteva anche essere Paddy Clohessy, ma l'effetto della sua presenza su Liam era quello della prova tardiva di un malinteso durato anni. «Dove sei andato a finire?» chiese. «Non so niente di te... solo che ti hanno sparato e sei morto, ma non era una notizia su cui si potesse fare affidamento.» Paddy fece un sorriso tirato. «Le tue ricerche hanno fatto scalpore nel mondo della scienza», disse, ignorando la domanda di Liam. «Si parla di premio Nobel.» «Sono soltanto un candidato. Non ho ancora avuto il piacere di ballare il valzer davanti alla regina.» «Lo avrai», replicò tranquillamente Paddy. «Hai sempre ottenuto tutto. Sono anni che vedo il tuo ritratto sulla quarta di copertina di bestseller. Sei sposato?» «No.» «Nessuna bellezza in vista, per completare l'idillio da giornale scandalistico?» «Non mi piace firmare contratti senza garanzia o diritto di restituzione. E tu?» «Ci sono andato vicino. Ma mi ha fatto la domanda sbagliata.» «Quale?» «A cosa pensi?» «Oh, capisco. E a cosa pensavi?» «Che forse non ero chi credevo di essere. Era una domanda innocua; le donne lo chiedono di continuo, perché le innervosisce sapere che c'è una parte del tuo cervello che non possono controllare. Temono che i pensieri possano coagularsi in una congiura. Ma, nello stesso istante in cui mi ha fatto quella domanda, il mio mondo ha cominciato a disintegrarsi.» «A quanto ricordo, il tuo mondo è sempre stato sul punto di disintegrarsi», osservò Liam. «Non è fine incolpare le donne per questo. Ovunque mi giri, le vedo rimettere insieme con grande cura tutti i mondi disintegrati.» «Mi fraintendi. Quella domanda è stata semplicemente la forza scatenante. È come se qualcuno sollevasse il coperchio di una cassa, sulla quale sei rimasto seduto per anni, per non doverci guardare dentro, e ne uscisse fuori qualcosa di cattivo e di oscuro che ha il tuo stesso volto. E d'un tratto...» Esitò. Poi guardò l'altro negli occhi. «Hai mai avuto paura di te stesso?»
«Paura?» Liam scosse lentamente la testa. «No. Disgusto, forse, ma paura no.» Paddy annuì, come se non si aspettasse niente di diverso. «Il giorno in cui ho lasciato Dublino, erano passati sei mesi da quando mi avevano espulso dal Trinity... Mi trovavo nella cucina del suo piccolo appartamento, dietro la prigione di Kilmainham, e stavo tagliando le cipolle per lo stufato. Lei era appoggiata al frigorifero, di fianco a me, non più lontano di te in questo momento. Facevo dondolare la lama del coltello a ritmo costante e intanto spingevo avanti di qualche millimetro la cipolla. Ogni volta una piccola ghigliottina. Sapevo che, continuando a far dondolare il coltello e a spingere la cipolla, si preparava la cena. Era una consapevolezza intuitiva, non c'era bisogno che mi passasse per la mente nessun pensiero specifico. Ma lei mi ha chiesto a cosa stessi pensando e così improvvisamente ho cominciato a pensare. Paddy Clohessy, la tua mano stringe questo manico. Se sollevi la mano e fai un movimento verso destra, la lama taglia l'aria e non succede altro. Spostala di venti centimetri a sinistra e la lama taglia tessuti e carne e un essere umano muore. Che cosa sorprendente: è lo stesso movimento, ma anche una cosa completamente diversa! Basta così poco per provocare conseguenze così grandi. Naturalmente ho continuato ad affettare la cipolla. Solo che mi ero reso conto di come sarebbe stato facile agire. Tutti possono farlo. Poi sono rimasto solo, lei è andata ad apparecchiare la tavola e abbiamo continuato a parlare da una stanza all'altra. Io blateravo qualcosa, lei pure e così riempivamo l'appartamento di suoni controllati. Era come se ci fosse un televisore acceso. Mi sono ritrovato davanti alla finestra aperta. E ancora una volta ho pensato: Un salto e sei fuori. Senza sforzo. Devi solo superare un piccolo dislivello, un metro e dieci al massimo. Basta un piccolo passo per uscire dalla normalità, non ti costa più di ciò che serve per coprire una distanza insignificante. Allora ho pensato: Se è così semplice, perché non scavalchi il davanzale e ti lasci cadere?» «E ti sei lasciato cadere?» Paddy scosse il capo. «No. Ma il semplice fatto di averci pensato mi ha fatto capire chiaramente che avevo già superato il limite. Quasi nessuno si pone domande simili. Quasi tutti escludono d'istinto sia un salto dalla finestra sia un omicidio. Finché non diventi consapevole di certe cose, non devi prendere una decisione. Invece, nel momento in cui dici 'no', nasce anche il suo opposto, il 'sì'. E continua a crescere. Vuole essere pronunciato. Comincia a tormentarti. Ogni minuto della tua vita. Ogni maledetto secon-
do. Ogni istante. A ogni movimento della lancetta dell'orologio!» Liam taceva. «In breve, la paura di ciò che avrei potuto fare è diventata insopportabile. Mi sono reso conto che doveva essere rimasta in agguato in qualche angolo, in attesa di mostrare il suo orrendo volto. Qualsiasi cosa facessi, ovunque fossi, chiunque incontrassi, i miei pensieri ruotavano subito intorno alle possibilità più spaventose. Era diventata un'idea fissa: cosa deve accadere nel cervello, nel tuo sistema regolatore naturale, per spingerti a investire qualcuno, ad accoltellarlo, a mutilare, torturare, uccidere un'altra persona o te stesso? Quanto disti da questa possibilità? Dal male, intendo! E ancora, è il male o solo una forma particolare di libertà? E, se lo è, come potevo liberarmi da quella pressione, che cresceva inesorabile?» Paddy fece una pausa. Aveva lo sguardo rivolto in basso. «Naturalmente mi sono chiesto se fossi impazzito. Ero seduto al tavolo con questa donna, stavamo mangiando e nel contempo immaginavo di passarle la lama sulla gola. Dovevo essere pazzo! Ma non mi sembrava di esserlo. Non volevo ucciderla. L'amavo. Ero preso dal panico all'idea di perdere il controllo e compiere qualche gesto raccapricciante, per distruggere ciò che amavo. E, insieme, sentivo una forza incontenibile che mi spingeva a farlo, per non perdere la ragione di fronte all'orrore dell'ipotesi. Si dice che bisogna conoscere i propri limiti. Sciocchezze! Conoscerli vuol dire volerli superare. L'unico problema è che non si può tornare indietro. Se soccombi una volta al tuo demone interiore, imbocchi la strada per l'inferno.» Si voltò verso Liam e sorrise. «Non credo che tu abbia mai provato una simile paura di te stesso. La maggioranza degli esseri umani non la conosce. Era questa la differenza tra noi. Tu non hai mai rischiato di dover convivere con un'ingiustizia commessa da te. Per te esisteva solo il divertimento. Se fosse dipeso da te, non ci sarebbero mai stati nessuna Rivoluzione francese, nessun ammutinamento del Bounty, nessuna lotta armata contro l'imperialismo, lo sfruttamento e l'oppressione. Forse stare con te stesso ti ha annoiato, ma non ti ha mai fatto soffrire.» «E non ho mai ammazzato o fatto saltare in aria nessuno.» «Anche questo è vero.» Liam guardò l'acqua scura che scorreva davanti a loro. «Perché siamo qui, Paddy?» chiese. «Perché? La mia storia è andata in modo diverso dalla tua. Anche questa è una piccolezza. Una minima discrepanza nel nostro profilo caratteriale, un pizzico di destino, un po' del coraggio che non hai mai conosciuto. Era-
vamo diversi di un micron e ci siamo allontanati anni luce. Avevamo lo stesso formidabile talento, solo che tu sei diventato un eminente ricercatore con ambizioni letterarie e io un fuorilegge. Mi sono messo al servizio di un ideale e ho perso. Tu hai rifiutato il peso degli ideali e hai vinto. Non c'è logica, né morale, solo una curiosa perversione, che potrebbe togliere a una persona la fede nell'umanità, se fosse in qualche modo importante. Alla fine eccoti qui, col tuo bel vestito elegante e col bel nome che ti sei fatto. Anch'io mi sono fatto un nome, uno nuovo, per l'esattezza. Ma nessuno di questi nomi ci definisce. Tu sei riuscito in qualche modo a fare tutte le scelte giuste. Io ho commesso tutti gli errori possibili e sono sopravvissuto rinnegando me stesso. Questa nuova esistenza è la mia ultima possibilità. Volevo solo dirti che Ryan O'Dea ha un buon lavoro e non si sveglia più ogni notte, coperto di sudore, per la paura costante di essere ammazzato. La tua visita di oggi doveva essere un piacere per Paddy, ma Paddy è morto. È rimasto vittima di una serie di stupidaggini che non gli hanno permesso di fare qualcosa di giusto o di buono. O'Dea, invece, vorrebbe essere lasciato in pace. Capisci?» «Non ne sono sicuro.» «Credevo fosse giusto porre termine alla nostra storia in comune», continuò Paddy. «Ero in libreria, ma non mi hai visto, almeno credo. Mi ha colpito il fatto che tu appaia privo di vitalità. E lontano da qualsiasi vero dolore. Emani la freddezza della rettitudine e per questo t'invidio. Ma non vorrei mai essere nei tuoi panni. Non posso immaginare un altro scambio, nemmeno di scambiare qualcosa con te. Niente avrebbe più senso. Nemmeno bere una birra con te.» «Cosa ti ha spinto a questo furore senza senso?» chiese Liam dopo una breve pausa. «Camminavamo su una lastra di ghiaccio sottile. L'attrattiva era restarci sopra, non romperla.» Paddy alzò le spalle. «Lo dicevo, per te era un gioco. Comunque ricordo giorni in cui tu stesso saresti stato felice di rompere quel ghiaccio. Te ne sei scordato? Hai dimenticato la noia, la ricerca di un senso qualsiasi? Ma vedo che sei diventato figlio di tuo padre al cento per cento. Avresti potuto rubare i gioielli della corona, avevi tutte le porte aperte.» «E tu invece no? Sciocchezze, Paddy. Non avevo niente che non avessi anche tu. Saresti diventato un fisico brillante!» Paddy fece una risata sommessa. «Io sono diventato un fisico brillante, Liam. Per questo hanno iniziato a darmi la caccia. Non appena mi sono reso conto che l'unica differenza tra l'IRA, gli Ulster Freedom Fighters e i
Red Hand Commandos erano gli slogan, ho deciso di uscirne. Ma avevo creato troppi bei giocattoli per loro. Avevo avuto troppe buone idee. Ero il tipico uomo che sapeva troppo.» «Non saresti mai dovuto arrivare a quel punto», sbuffò Liam, adirato. Le sue parole parvero scivolar via con l'acqua. «Avevi un futuro, Paddy. Proprio come me.» «No, Liam. Tu avevi un passato con cui era possibile convivere, io no. Ma il futuro è il passato. Nient'altro.» Hotel Maritim Quando Liam tornò nel bar, non erano passati neanche venti minuti. Senza dire una parola si sedette tra Kika e Kuhn, tolse il bicchiere di mano all'editor e lo svuotò in un sorso. Kuhn lo guardò. «Okay, fatemi capire», sbottò. «Una dice che se ne va a letto e torna subito indietro, perché io non mi annoi. L'altro se ne va anche lui a dormire, per tornare mezz'ora dopo e scolarsi tutto il mio cognac. Niente di tutto ciò mi dà l'impressione di avere qualcosa a che fare con me, giusto?» «Giusto», rispose Liam. Si portò le dita alle tempie e iniziò a massaggiarle con movimenti circolari. Poi sollevò lo sguardo e disse lentamente: «Ho appena parlato con un uomo estremamente pericoloso». Kika sospirò. Per una volta Liam diceva sul serio, glielo si leggeva negli occhi. Paddy si stava rivelando un vero antidoto alla passione! Per quanto le spiacesse, era decisa a sostenere Liam con tutte le sue forze in quella faccenda. Doveva esorcizzare quello scarno fantasma irlandese emerso dal passato di Liam, prima che ricomparisse a rovinare il loro idillio. «Abbiamo fatto due chiacchiere. No, non è corretto. Io ho fatto un paio di osservazioni retoriche d'occasione e poi ho assistito a un monologo di una tetraggine macbethiana. In un primo momento, il tutto mi è sembrato soltanto insolito. Mentre tornavo all'albergo, però, mi è apparso inquietante. Forse lavoro troppo di fantasia, ma mi è passata per la mente una serie di considerazioni. Possiamo parlarne?» «Certo», disse Kika. «Dove l'hai lasciato?» «Paddy?» «Sì.» «È svanito nella notte.» Liam osservò il bicchiere vuoto che teneva in mano, lo rigirò per un attimo prima di posarlo nuovamente davanti a Kuhn.
«Forse avrei dovuto trattenerlo, ma credo sia stato meglio lasciarlo andare. Il bar è un posto più sicuro.» «Vuoi dire che stargli accanto potrebbe essere pericoloso?» «Vuol dire che ora non è il momento di andare a Shannonbridge. Se capisci cosa intendo.» «Hmm... Capisco.» Per un attimo, regnò un silenzio di tomba. Parve quietarsi anche il mormorio dei pochi clienti seduti ai tavoli. Solo l'asciugamano del barman strideva piano in un bicchiere da vino. Kuhn accennò un sorriso. «Sapete una cosa? Le vostre arie da congiurati mi annoiano. Non le sopporto!» Parve gonfiarsi di rabbia e finalmente esplose: «Liam, con tutto il rispetto, mi farebbe la cortesia di fornirmi una spiegazione? Io sono il suo editor, diamine! E che cazzo! Ho organizzato questo maledetto viaggio in modo che lei potesse piazzare il suo librone, ma lei preferisce fare le capriole, darsela a gambe, flirtare con l'addetta stampa, perdersi in misteri e scolarsi la mia ultima consolazione! Che c'è, volete liberarvi di me? Mi sta bene. Non c'è problema, tanto mi date sui nervi! Ma almeno ditemelo! Non fatemi diventar matto! Esigo soddisfazione, mi ha offeso e mi ha dato il benservito! Per la prima e ultima volta: che diavolo sta succedendo?» Liam inarcò le sopracciglia. «Spade o pistole?» domandò. Ci volle più di un doppio Hennessy per riportare alla frequenza normale il battito cardiaco dell'editor, dopodiché Liam raccontò del suo incontro con l'uomo che si faceva chiamare Ryan O'Dea. Kuhn si sciolse. Era come un bambino, constatò Kika. Bisognava occuparsi di lui, altrimenti diventava insolente. Se lo si coinvolgeva, tornava subito conciliante. I tre rimasero a lungo in silenzio, a riflettere. «Insomma, Paddy vuole starsene tranquillo», riassunse Kika a un certo punto. «E allora perché non lo lasci semplicemente in pace?» «La sua tranquillità è ingannevole», disse Liam. «Conosco Paddy. Quello che mi ha raccontato corrisponde a verità al cento per cento. È proprio questo il problema.» «Capisco», disse Kuhn pacato. Lo scienziato lo guardò. «Cosa capisce, esimio collega?» «Che lei dubita della schiettezza di un uomo che non ha nessun motivo per essere schietto.» «Diamine!» esclamò Liam, e per un po' non aggiunse altro. Kika si chiedeva come gestire la situazione. I due uomini fissavano as-
sorti il bancone. Seguendo il filo del pensiero di Kuhn, giunse a una conclusione straordinaria. Per sicurezza, chiamò il barman e ordinò un'acqua tonica per sé e un Macallan invecchiato di dodici anni per Liam. Aveva infatti imparato che distillati del calibro di un Laphroig, un Talisker o un Lagavulin sviluppavano il gusto e l'effetto di un panino al prosciutto imbevuto di alcol, facendosi sentire con prepotenza nei baci. Poi cambiò idea, cancellò l'acqua tonica e si unì a Liam. Le bevande arrivarono. Liam le rivolse un'occhiata piena di tenerezza e si concentrò nuovamente sul bicchiere. Il silenzio cominciò a farsi pesante. «Se posso fare un commento...» disse lei. Liam alzò lo sguardo. «Il tuo amico, o ex amico, Paddy Clohessy alias Ryan O'Dea ti ha fatto capire che voleva incontrarti stasera perché domani è impegnato, giusto?» Anche Kuhn alzò gli occhi. Sembrava che qualcosa nel tono di Kika facesse miracoli. «Inoltre ti ha detto che non avrebbe potuto vederti in seguito perché tu te ne saresti già andato», proseguì. «Anche questo è giusto, no?» Liam sorrise. «Continua, voglio sentirlo dire da te», la incalzò. «Quindi Paddy sa che dopodomani riparti. Gliel'hai detto per telefono?» «No.» «Allora come fa a saperlo?» Liam indugiò. Poi cinse le spalle di Kuhn, lo avvicinò a sé come un fratello e sussurrò: «Non è meravigliosa?» «Se avesse semplicemente voluto sapere quanto ti fermi a Colonia, avrebbe potuto chiedertelo», continuò lei imperterrita. «E invece lo sa già. Ha chiesto a qualcuno di scoprirlo per lui. Perché lo ha fatto? Perché non l'ha semplicemente chiesto a te?» «Già, perché?» «Perché vederti lo ha innervosito, credo. Giusto?» «Quasi.» «Allora che cos'è completamente giusto?» «Kika, avresti fatto onore ad Arthur Conan Doyle.» Liam si appoggiò allo schienale della sedia e la osservò con palese ammirazione. «È proprio questo il punto su cui stavo rimuginando. Tuttavia sono giunto a una conclusione diversa dalla tua. Secondo me, c'è qualcun altro cui non è piaciuto affatto che la copertura di O'Dea sia saltata. Come dicevo, io conosco Paddy. La realtà è che la vita ci ha portato in direzioni diverse. Voglio dire,
se c'era qualcosa che ci univa erano le donne, l'alcol e le illusioni. Nulla di particolarmente glorioso, ma in compenso non richiedeva molto sforzo! In ogni caso, stasera Paddy si è aperto con me per farmi capire che non mi sono perso niente. Non ha chiuso un capitolo, piuttosto ne ha chiusi una dozzina. E, come hai notato anche tu, era ben informato su quello che sto facendo a Colonia e su quanto tempo mi fermerò. Ai tempi del Trinity, il caro, vecchio Paddy non possedeva neanche lontanamente questa lucida eleganza. Se avesse voluto soltanto stare in mia compagnia, forse mi avrebbe cercato o forse no. Invece mi ha scaraventato nel labirinto delle sue psicosi e poi mi ha lasciato con un chiaro avvertimento.» «Un avvertimento?» gli fece eco Kuhn. «Sì! Di non immischiarmi. Vuole farmi credere di aver assunto una nuova identità per poter vivere e lavorare in pace. Ridicolo. Il classico mascalzone diventato un uomo perbene, la storica ultima possibilità. Sono commosso fino alle lacrime. Ma togliamo di mezzo il moccio e usiamo il cervello: e se invece lo avesse mandato qualcuno? Qualcuno che non desidera che i vecchi amici seguano le tracce di Paddy Clohessy e facciano sapere in giro che un ex attivista dell'IRA o chissà che altro è comparso improvvisamente nel reparto tecnico di un grande aeroporto europeo.» «Un aeroporto che, dall'inizio del mese, è frequentato da tutti i politici importanti del mondo intero», aggiunse Kuhn tra un sorso e l'altro. «Per non parlare di quelli che devono ancora arrivare.» Aveva pronunciato quelle parole come se si trattasse di un dettaglio trascurabile. Un istante dopo sgranò gli occhi, rendendosi conto di ciò che aveva detto. «Oh, Dio mio», sussurrò. «Piano.» Kika si mise tra i due uomini e cinse le spalle di entrambi. «Possiamo anzitutto constatare che Paddy Clohessy è diventato Ryan O'Dea. Okay? Tutto il resto è frutto della nostra fantasia.» «Se fosse soltanto un frutto della nostra fantasia, la serata avrebbe già preso una piega molto più interessante», disse Liam con un inequivocabile lampo negli occhi. «Naturalmente sono semplici congetture, ma per quale motivo Paddy dovrebbe precipitarsi qui per dirmi che devo dimenticarlo? La sua storia fa acqua da tutte le parti. Non si sarebbe mai comportato così di sua spontanea volontà! Ma qualcuno gli dice: 'Paddy, sfigato che non sei altro, questa scemenza non era prevista. Quell'O'Connor arriva al momento sbagliato. Vai da lui e pregalo di non tradirti e di non rovinare il tuo futuro. Tu sei un angelo caduto, animato dalle più nobili intenzioni, avverso al male e smanioso soltanto di vivere una vita rispettabile. Infinocchialo per
bene'. Ma Paddy non è capace di fare una cosa del genere. Quando si ritrova davanti a me, non riesce a fare una semplice conversazione. Non sa cosa dire e finisce per rivelarmi la verità. Mi racconta perché è scivolato in basso, cos'è andato storto. Rievoca il passato dal profondo del cuore e mi rivela troppo. Alla fine, ha ottenuto il risultato opposto rispetto a quello che gli era stato detto di fare. Non mi fido di lui. Penso, Paddy, miserabile idiota, che qualcuno ti ha mandato da me per confondermi. E perché? Così vi lascio in pace e potete portare a termine quello che siete venuti a fare.» «Bene», intervenne Kika. «Se sei veramente convinto che Paddy e qualche altro sinistro burattinaio si siano infiltrati nell'aeroporto, che cosa ne deduci?» «Non lo so. Chi arriva nei prossimi giorni?» «Clinton», disse Kuhn, contando sulle dita. «Domani sera, a quanto ne so. Arrivano anche i giapponesi e forse i canadesi.» «Tutti domani?» Kuhn aggrottò le sopracciglia. «Sì, credo di sì. Mi sembra che Eltsin sia atteso per dopodomani, sempre che ce la faccia a scendere dall'aereo.» «È così malato?» chiese Kika. «Così ubriaco», la corresse Liam. «Due anni fa, a Dublino, il suo aereo è rimasto fermo sulla pista per tre ore. Il Taoiseach24 aspettava che Boris Nikolaevič facesse la sua comparsa da un momento all'altro, ma quello era in preda al delirio e si stava accapigliando con le guardie del corpo. Alla fine l'aereo è decollato di nuovo. Il battaglione d'onore ha lasciato la pista con un nulla di fatto e il premier si è dimenticato la frase di benvenuto in russo.» «Una descrizione accurata dell'arte di governare di Eltsin.» Kuhn annuì e ruttò. «Scusate. Credo che i giapponesi arrivino il 19. O sbaglio? Un momento! Il diciannove arriva la First Lady! Sbarcano Hillary e il frutto del seme di Billiboy.» «Chelsea? Oh, Dio mio! La sacra famiglia al completo.» «America, the beautiful», intonò Kuhn. «Ah! Non dimentichiamo Ms Albright.» «Ora basta», intervenne Kika. «Liam, la questione è semplice. Vai alla polizia e racconta quello che sta succedendo.» Liam rifletté. «E se ci sbagliassimo?» chiese poi. «Non lo so. Se ci sbagliamo, non succede nulla. Vuol dire che Paddy 24
Denominazione del primo ministro irlandese in lingua gaelica. (N.d.T.)
non si è reso colpevole di nulla.» «Noi sì, però, Kika! Avremmo svelato la sua identità.» «Un attimo! Non hai detto tu stesso...» «So benissimo quello che ho detto. Hai ragione! Ma non sono sicuro di vedere tutto nel modo giusto. Non devi dimenticare che sono un uomo estremamente annoiato. Ho l'abitudine d'inventare e di scrivere sciocchezze, grazie alle quali guadagno milioni. Non sarebbe giusto, se finissimo per far perdere il lavoro a Paddy.» Kika lo guardò, stupita. «Non ci posso credere! Perché solleveresti questo polverone se si trattasse soltanto di una sciocchezza?» «Non la è!» Per la prima volta da quando si conoscevano, Liam le apparve indifeso. L'effetto fu così travolgente che Kika si scoprì incapace di prendersela con lui. Afferrò il whisky e se lo scolò. «Dove vive questo Paddy che si chiama Ryan o che so io?» «Bella domanda.» «Sono contenta che riscuota la tua approvazione.» Liam socchiuse le palpebre. «Dove vuoi arrivare?» «Per una volta facciamo sul serio, ecco dove voglio arrivare. Voglio dire, domani riprende lo spettacolo delle visite di Stato. E poi c'è Paddy. Certo, può essere che voglia semplicemente godersi la sua nuova vita in tutta tranquillità. Ma è anche possibile...» S'interruppe. No, pensò, è assurdo. Nessuno finisce in situazioni simili nella vita reale. Succede solo nei film. Ci stiamo prendendo troppo sul serio. Abbiamo giocato a fare i detective, ma ora Kuhn dovrebbe pagare il suo cognac e andarsene in camera, mentre io dovrei approfondire l'amicizia tedesco-irlandese con Liam. Liam aveva posato il mento sulle nocche e la osservava con occhi scintillanti. Kika notò ancora una volta che, quand'era assorto, sembrava che l'azzurro dell'iride risplendesse ancora di più sullo sfondo bianco. Sentì il corpo che cominciava a sciogliersi e fu presa da un desiderio irresistibile di appoggiarsi a lui, affondare dentro di lui. Non era il momento di andare a Shannonbridge. Inspirò a fondo e alzò il mento. «È anche possibile che si trovi all'aeroporto per commettere un crimine», aggiunse decisa. «E che questo crimine abbia a che fare con l'imminente vertice.» «Uffa», fece Kuhn. Liam continuò a fissarla. «Che cosa proponi di fare?» le chiese. Lei inarcò le sopracciglia. «Be', se lavora qui, probabilmente abita a Co-
lonia. Non dovrebbe essere difficile rintracciare un Mr O'Dea. Quindi facciamo un salto da lui e vediamo se è in casa. Se non c'è, aspettiamo che rientri. Tu gli parli. Il secondo round. Stavolta non t'intrattieni in cordialità retoriche, ma gli offri il tuo aiuto. Se poi sei ancora del parere che abbia in mente di compiere qualche sciocchezza, informiamo la polizia. Altrimenti...» Liam sogghignò. «Shannonbridge.» «Già. E facciamo il programma completo.» Paddy Clohessy Guardò l'orologio. Erano le 23.30. Le parole di Jana s'insinuavano ancora nella sua mente. Si erano parlati venti minuti prima attraverso la trasmittente che chiamavano FROG e che funzionava in base a un sistema di codifica e decodifica. Esteriormente le FROG somigliavano in tutto e per tutto a cellulari Motorola, persino nel logo, ma Gruškov vi aveva inserito un chip di codifica e qualche extra. Con le loro FROG, Mirko e Jana erano in grado di ascoltare di nascosto gli altri componenti del gruppo, anche se questi tenevano spento l'apparecchio. «L'ho incontrato», le aveva detto trafelato, mentre ancora si trovava sulla sponda del Reno e Liam era svanito nella struttura del Maritim. «Gli ho detto tutto quello che avevamo concordato. Non dobbiamo preoccuparci.» «Ti ha creduto?» «Liam mi conosce e...» «Niente nomi.» «Maledizione! Mi spiace. Sì, mi ha creduto. Non tradirebbe mai un amico.» Jana era rimasta in silenzio per un istante. «Bene. Molto bene.» La sua voce poteva essere spaventosamente fredda oppure dolce e gradevole. In quel momento, era quasi soporifera. «Sono contenta di sentirlo. Buonanotte, allora.» «Sì, buonanotte.» Paddy rallentò e svoltò nella strada in cui abitava da circa sei mesi. Il suo respiro era irregolare. Tra il palmo delle mani e la plastica del volante si era creato un leggero strato di umidità. In compenso, lui aveva la gola secca come una sorgente prosciugata. Non c'era parcheggio davanti alla porta di casa. Dovette proseguire per un centinaio di metri prima di trovare un posto.
Mentre percorreva il tratto di strada a piedi dopo aver lasciato l'auto, dovette trattenersi dal correre. Non ne era certo, ma probabilmente lo stavano spiando. Sarebbe bastato un movimento strano, il minimo segno di nervosismo per segnare il suo destino. Aveva soltanto una possibilità: mostrarsi sicuro di sé e dare l'impressione che tutto fosse davvero sotto controllo. Perché diavolo era successo quel pasticcio? Quand'erano andati a prenderlo per farlo parlare con un certo professor Liam O'Connor, il suo cuore aveva smesso di battere. Per sei mesi tutto era andato secondo i piani, senza il minimo intoppo. Avevano risolto problemi di fronte ai quali anche insigni professori universitari si sarebbero arresi. Avevano installato l'impianto senza far rumore, gabbando il più grande apparato di sicurezza del mondo, per poi scontrarsi con la remota possibilità che lui e Liam s'incrociassero proprio in quel luogo e in quel momento. Era assurdo. Paddy sapeva bene cosa passava per la testa a Jana. Era estremamente allarmata. Aveva dato l'impressione di accogliere la notizia con notevole pacatezza, ma Jana non si dimostrava mai particolarmente emotiva. Il suo cervello funzionava come un computer. Di certo, mentre lui le spiegava cos'era successo, aveva preso in considerazione e soppesato tutte le possibilità. Soprattutto doveva aver ipotizzato anche il caso peggiore, ovvero che Liam avvertisse la polizia che presso l'aeroporto Colonia/Bonn lavorava sotto falso nome un tizio che in Irlanda risultava scomparso, ma probabilmente era membro dell'IRA e di sicuro era pericoloso. Non sarebbe stato difficile identificarlo. Lavorava indisturbato come Ryan O'Dea soltanto perché nessuno metteva in discussione la sua identità. A nessuno sarebbe mai venuto in mente di mettere a confronto le identità di Paddy Clohessy e di Ryan O'Dea. Nessuno le avrebbe collegate. Era così che era rimasto al sicuro. Fino a quel maledetto pomeriggio. Chiunque avesse dato un'occhiata al dossier di Patrick Clohessy con l'intento d'individuare eventuali somiglianze con Ryan O'Dea non ci avrebbe impiegato molto a capire. Probabilmente Jana si stava chiedendo se lui potesse continuare a far parte del gruppo. Liam! Che andasse all'inferno! In un'altra vita si sarebbero sforzati di trovare un denominatore comune ai diversi modi in cui ognuno dei due si rovinava la vita. Ma a quel punto non aveva più importanza. L'uomo che aveva incontrato poco prima in riva al Reno cancellava anche gli ultimi ricordi nostalgici dei tempi del Trinity. Doveva morire. Subito,
prima che cominciasse a dire in giro ciò che sapeva. Il problema era che lo aveva accompagnato una donna, la quale probabilmente era al corrente di tutto. Dopodiché entrambi avevano avuto contatti con altre persone. Nel corso della serata, potevano essersi presentate innumerevoli opportunità per parlare di quell'incontro all'aeroporto. Paddy non dava per scontato che Liam l'avesse fatto, ma a chi potevano interessare le sue ipotesi? La possibilità sussisteva. In quel momento, eliminare Liam e la donna non avrebbe fatto altro che creare complicazioni ancora maggiori. Mentre camminava lungo la strada rischiarata da pallidi aloni di luce, i suoi pensieri correvano all'impazzata. Bisognava evitare la violenza, a ogni costo. Era uno dei requisiti per il successo dell'operazione. Nella rete di sicurezza che avvolgeva Colonia non dovevano insinuarsi dubbi sul regolare svolgimento del vertice. Non potevano permettersi di uccidere qualcuno. Niente sarebbe stato peggio di una variazione all'ultimo minuto della scaletta del vertice. D'altra parte, non potevano neanche permettersi che qualcuno smascherasse Ryan O'Dea. Non potevano permettersi Patrick Clohessy. Si costrinse a rimanere fermo e a non guardarsi intorno. Dubitava che Jana si facesse vedere nelle vicinanze, ma ignorava dove si nascondesse il suo cerbero, Mirko. Paddy non si sarebbe sorpreso di udire i passi del serbo alle sue spalle proprio in quel momento, ma il problema era che Mirko non faceva rumore. Da quando la squadra si era costituita, qualche mese prima, Paddy aveva incontrato Mirko solo un paio di volte. Si faceva vedere raramente, arrivava nei momenti concordati e spariva subito dopo. Sembrava che neppure Jana fosse al corrente di dove andasse e di cosa facesse nel restante 99,9 per cento del suo tempo. In presenza di Mirko, Paddy aveva sempre sentito una profonda inquietudine. Coi suoi modi disinvolti, il serbo non dava nell'occhio, sembrava una persona qualunque. Dava sempre l'idea di dedicare soltanto metà della sua attenzione a ciò che gli accadeva intorno, senza fare niente di più eccitante che mangiare e dormire. Dava l'impressione di non fare nemmeno sesso. Non che avesse un aspetto sgradevole, ma appariva asessuato, privo d'interessi e sempre in attesa, come Ken, il fidanzato di Barbie. Paddy era un professionista e sapeva che l'aria inespressiva di Mirko era una maschera, dietro la quale si celava una mente analitica. Mirko era molto intelligente, parlava correntemente diverse lingue - come Jana - ed era
esperto in materia di piani e di armi. Paddy ripensò al giorno in cui il serbo l'aveva reclutato. A quel punto, aveva già sentito parlare di Jana. Tutti quelli del giro la conoscevano; nessuno l'aveva mai vista. Era un fantasma. A quanto ne sapeva, persino la CIA non aveva in mano altro che il nome della donna. Veniva associata a figure come Carlos o Abu Nidal e ai killer professionisti. Nessuno sapeva da dove venisse, dove abitasse, né che aspetto avesse, sebbene circolassero alcune sue foto. Cambiava aspetto a suo piacimento e nessuno avrebbe mai pensato che potesse essere una patriota serba. Sempre che fosse realmente serba. Sempre che Mirko fosse serbo come sosteneva. Cosa poteva mai sapere qualcuno che accettava un milione per fare qualcosa senza nemmeno sapere perché? Era evidente che Mirko e Jana rappresentavano interessi serbi. Nessuno dei due aveva menzionato i mandanti dell'operazione. Davano l'idea di essere completamente autonomi, ma Paddy era sicuro che lavorassero per conto di una forza potente. Se non altro, sembrava che potessero tirar fuori un milione dalla cassa per le piccole spese e darlo a lui. Un milione. Era abbastanza per riuscire a sottrarsi alla spirale della violenza. Un unico lavoro che avrebbe potuto cambiare tutto. Nuovi documenti, un nuovo nome. Mai più in Irlanda. Peccato per la patria, ma in compenso lui avrebbe avuto una vita senza fughe e brutti sogni. Si era cullato nell'illusione che, una volta uscito dal giro, gli irlandesi lo avrebbero lasciato in pace. Avrebbe potuto ricominciare da capo. Senza violenza. Ma l'IRA non si poteva lasciare. Si era membri a vita, senza nessuna garanzia di vivere a lungo, in un'organizzazione lacerata dal sospetto. Sembrava che l'IRA tradizionale stesse per smembrarsi. Di conseguenza, ai più non rimaneva che il faticoso percorso per reintegrarsi in un'esistenza borghese. Ma coloro che avevano lavorato nel centro di ricerca dell'IRA, come Paddy, erano un pericolo. Paddy conosceva i capi dell'organizzazione, o almeno alcuni di essi. Era salito troppo in alto per poterne uscire con un atterraggio morbido. Per gli ex attivisti come lui, l'unica possibilità era sparire nuovamente dalla circolazione, nella speranza di non essere rintracciati dai compagni di lotta, e quindi offrire i propri servigi alla criminalità internazionale. Così l'uomo che aveva a cuore l'indipendenza dell'Irlanda del Nord si era ritrovato in un commando di nazionalisti serbi e aveva iniziato a mettere in pratica il sistema ideato da Jana e Gruškov, con l'aiuto di un assistente. Da quattro settimane, lo YAG era pronto per essere
utilizzato. Fino a quel giorno, avevano controllato l'impianto quotidianamente. Era quasi un miracolo, ma il sofisticatissimo dispositivo di controllo a distanza e la raffinata meccanica funzionavano con la precisione di un orologio atomico. Così il compito di Paddy era concluso. Un'idea agghiacciante, alla luce degli ultimi sviluppi. Perché non se n'era andato il giorno stesso in cui l'impianto era stato ultimato? Perché Jana non aveva voluto. Secondo lei, era meglio che continuasse a lavorare all'aeroporto. Non voleva che, prima del vertice, ci fossero variazioni nella composizione del personale, perché la cosa avrebbe potuto destare sospetti. Certo, c'era un sesto membro del gruppo che li copriva, ma era fondamentale ridurre i rischi al minimo. Al termine dell'operazione «Silenzio assoluto» Paddy avrebbe potuto lasciare l'aeroporto, ma non un attimo prima. L'irlandese raggiunse il numero civico 38, aprì la porta, entrò nel buio corridoio e attese che il pesante portone del vecchio palazzo si chiudesse alle sue spalle. Poi salì al secondo piano di corsa, facendo due gradini alla volta, irruppe nel suo appartamento e si lasciò cadere contro la parete dell'ingresso. Lo specchio che gli stava di fronte gli mostrò un volto che lui non volle riconoscere. Sembrava che fosse già morto. Solo gli occhi infuocati e infossati nelle orbite testimoniavano che Paddy Clohessy stava disperatamente pensando alla propria vita. Per la precisione, a come evitare di perderla. Guardò nuovamente l'orologio. Erano le 23.35. Si era congedato da Liam in riva al Reno poco meno di mezz'ora prima. Con estrema lucidità, si rese conto che Jana stava prendendo in considerazione la sua morte. Era riuscito a farle credere che Liam si fidava di lui e che non si sarebbe fatto venire in mente idee stupide fino al giorno successivo? Non ci credeva nemmeno lui. Liam era dotato di grande fantasia. Era troppo intelligente per lasciarsi raggirare e Paddy gli aveva raccontato più del previsto. Invece di abbindolare lo scienziato e suscitare la sua compassione per il povero Paddy, che si era dato alla fuga e voleva soltanto starsene in pace, si era lasciato andare a una confessione sconvolgente. Si era aperto completamente con Liam, per fargli capire perché non avevano più nulla in comune. Ma anche per chiarire a se stesso cosa gli era accaduto quindici anni prima, quando aveva abbandonato la donna che amava per non trovarsi un giorno grondante di sangue accanto al suo cadavere, il coltello nella mano destra, a fissare la ragione che lo abbandonava.
Volevano ammazzarlo. Le cose stavano davvero così? Cercò di calmarsi e rifletté. Se restava, doveva sperare che Jana non vedesse in lui un rischio. La ricompensa era un milione. Se si sbagliava, il milione non gli sarebbe servito. Poteva scappare. Senza il milione, ma in compenso ancora vivo. Valutò che gli restavano un paio d'ore. Se Jana aveva davvero in mente di eliminarlo, avrebbe dovuto farlo prima che entrasse in servizio. Magari gli stavano dando tempo, per illuderlo di essere al sicuro. Forse pensavano di ammazzarlo nel sonno. Oh, Dio mio, che pensieri! O la borsa o la vita! Non avrebbe mai creduto che quella vecchia frase retorica da rapinatore di banca potesse assumere un tale significato anche per lui. Senza il milione non valeva niente, era una nullità in fuga, un signor nessuno. Sarebbe stato tutto inutile. Un milione! Doveva davvero buttare al vento un milione? Madido di sudore, si staccò dalla parete e andò in bagno. Aprì il rubinetto e si gettò più volte l'acqua fredda sul volto, finché il calore febbrile non lo abbandonò. Proprio quando cominciava a sentirsi meglio, squillò il telefono. Ogni squillo lo colpiva come una scossa elettrica. Rimase immobile, chino sul lavandino, le mani a conchiglia, con l'acqua che gocciolava dalle fessure tra le dita. Ancora una volta, gli sembrò che la gola gli si serrasse e il cuore s'inceppasse. Attese, mentre il telefono continuava a suonare. Dopo il sesto squillo, s'inserì la segreteria telefonica e partì il messaggio. Per un secondo ci fu un fruscio nella linea. Poi qualcuno riattaccò. Pensavano che non fosse ancora a casa? Avrebbero aspettato o sarebbero arrivati, per entrare nell'appartamento prima di lui e aspettarlo lì? Aveva deciso. Che si tenessero il loro milione! Tanto se lo sarebbero tenuto lo stesso. Avrebbe voluto saltar giù dalla finestra ancora chiusa e correre via. Non essere precipitoso, rifletté. Vedi di uscire di qui il più in fretta possibile, ma fallo nel modo giusto. Non sei proprio al verde. Hai circa ventimila marchi in contanti. Tutti i membri del gruppo avevano a disposizione una somma consistente, da utilizzarsi in caso di necessità. Aveva bisogno di vestiti, doveva preparare la valigia e decidere cosa portare con sé. I suoi
documenti falsi, tutto ciò che faceva parte del suo personaggio e che gli sarebbe servito per passare il confine. Spense le luci, prese la sua unica valigia dall'armadio nella camera da letto e si mise al lavoro nell'oscurità. Kika Wagner Il calore che la pervadeva dipendeva soltanto in parte dal fatto che, in quel momento, si sentiva saggia e costruttiva. La proposta che aveva avanzato si poteva definire salomonica. Nel contempo, però, era come se il suo essere si fosse perso in una sorta di piano intermedio al di sopra della realtà. Non chiudeva praticamente occhio da trentasei ore, aveva bevuto come mai prima di allora eppure le sembrava di avere le idee più chiare che mai. Anche al di là del limite di tolleranza dei normali controlli del traffico, sfrecciava per Colonia insieme con un ubriaco fradicio di umore meditabondo. E tutto per verificare se la realtà non si fosse per caso trasformata in un film giallo. Come previsto, Ryan O'Dea era nell'elenco telefonico. Liam aveva composto il numero, ma aveva risposto la segreteria. Era probabile che Paddy non fosse ancora rientrato dall'incontro in riva al Reno. Liam aveva preferito non lasciare un messaggio. Così erano partiti. Ogni due semafori, Kika pensava di fare dietrofront, tanto le sembrava assurda tutta la storia. Ma poi ne assecondava il corso, come se non esistesse nulla di più ovvio. Più si avvicinavano alla Rolandstraße, un viale alberato con palazzi antichi che conduceva nella zona meridionale della città, più le sue percezioni assumevano una natura astrale. Le sembrava di guardarsi dall'esterno con una certa perplessità, mentre il piede schiacciava sull'acceleratore e Liam le accarezzava la nuca. Il cuore le rimbombava nelle orecchie. Kuhn non si era dimostrato entusiasta dell'idea di cercare Paddy. Evidentemente la cosa non lo interessava. Dopo aver provato a convincerlo, prospettandogli la possibilità d'incontrare Bruce Willis o Harrison Ford, che probabilmente recitavano in quel film, i due avevano rinunciato. L'editor sembrava inchiodato al bancone. Forse pensava semplicemente che la sua presenza non fosse gradita. Ma Kika aveva intuito cosa lo turbava. Andare alla Rolandstraße era reale. Le leggi della finzione valevano soltanto nei libri e, al di là delle parole stampate, Kuhn era tutto tranne che un eroe.
In fin dei conti, era meglio così. La Rolandstraße era nelle immediate vicinanze del Volksgarten, un vasto parco con un ricco patrimonio arboreo, birrerie all'aperto e laghetti con le anatre. D'estate, quando la città si scaldava, i prati erano animati fino a tarda ora. Si sentivano l'odore di cibi cotti alla griglia e il suono dei bonghi e delle conga. Tuttavia, mentre la Golf passava accanto alle ombre scure, il parco sembrava abbandonato. Anche la Rolandstraße era quasi deserta. I pochi lampioni accentuavano il senso di desolazione. Edifici d'epoca non molto ben tenuti si alternavano a facciate restaurate. «Liam, stiamo facendo una follia.» «Allora c'è qualche probabilità.» Lui socchiuse le palpebre. «Riesci a distinguere i numeri delle case?» «Ah, giusto, gli squali non ci vedono bene! Il tuo amico abita al 38. Siamo al 18. E c'è un posto libero.» Con una sterzata, parcheggiò il veicolo sotto un lampione. «L'hai schivato di poco!» commentò Liam. «È stata una manovra precisa. Ti aspetto in macchina?» «No, devi venire con me. Il tuo aspetto ottiene una combinazione insolita di effetti: entusiasma e contemporaneamente intimidisce gli uomini.» Percorsero la strada buia fino al numero 38. Era uno dei palazzi meno belli. Stando al citofono, O'Dea viveva al secondo piano. Liam suonò il campanello, tenendolo premuto a lungo. Appartamento Paddy s'irrigidì. Non aprire, si disse. Fingi di essere morto. Suonarono di nuovo. Con la gola secca, si avvicinò alla finestra del soggiorno e si arrischiò a dare un'occhiata fuori. Con sua grande sorpresa, vide che non si trattava di Mirko e Jana. Di sotto, con la testa rovesciata all'indietro e lo sguardo verso l'alto, c'era Liam. Paddy si ritrasse prima che l'altro lo vedesse. Era una situazione quantomeno interessante. Che cosa ci faceva Liam lì, a quell'ora, dopo che era stato detto tutto quello che c'era da dire? Era stato lui a telefonare poco prima?
Non è stato detto tutto, pensò Paddy. Non mi ha creduto. Per un attimo, fu tentato di aprire. Poi decise di non farlo. Liam se ne sarebbe andato. Meglio non correre rischi. Ogni secondo contava e Liam gli avrebbe solo rubato del tempo. Tornò a dedicarsi alla valigia, con una fretta ancora maggiore. Kika Wagner Liam fece un passo indietro e guardò in su, irritato. «Non c'è neanche una luce accesa.» «Prova un'altra volta.» Suonò diverse volte, ma nessuno aprì. «Non è ancora rientrato», brontolò. «Ragazzaccio.» «E questo che cosa significa, Holmes?» «Semplice, Watson. Ci infiliamo nella tua Golf e teniamo d'occhio la zona finché i vetri non si appannano.» Fu l'appostamento più eccitante di tutti i tempi, ma sicuramente non il migliore. Ci furono un paio di momenti di tale concitazione che Kika temette davvero di rompere gli schienali della Golf. Entrambe le volte si erano ricordati a malincuore del dovere che si erano imposti e avevano guardato fuori. «Era lui?» «Perché? C'era qualcuno?» «Accidenti, ci siamo distratti un'altra volta.» «Non c'era nessuno. È passato un tipo cinque minuti fa, poi non è arrivato nessun altro.» «Sei sicura? Ho visto un uomo. L'ho visto bene.» «Anch'io. Era sopra di me e cercava di sbottonarmi la camicetta. Non hai visto nessun uomo.» «Sembra convincente.» «Ma che ore sono?» «Troppo presto per rinunciare.» «E dimmelo, cretino. O non riesci neanche più a vedere le lancette dell'orologio?» «Ci vedo benissimo. È solo che il mondo è molto più bello se non lo si osserva con troppa attenzione.» «Allora?» «Allora cosa?»
«Che ore sono?» «Un attimo, aspetta... Mezzanotte e dieci.» Kika si sciolse dall'abbraccio e raddrizzò il sedile. I lunghi capelli le coprivano il volto. Li scostò e tirò giù la gonna. Una dozzina di lividi bluastri sarebbe stata la ricompensa per aver pomiciato in una Golf come una liceale qualsiasi, dall'alto del suo metro e ottantasette. «Stiamo aspettando il tuo Paddy da un quarto d'ora buono», disse. «Non ti sembra che possa bastare?» Liam si sfregò il mento. «Non so. A dire la verità, non sono più sicuro di sapere che ci facciamo qui.» «Ci siamo temporaneamente dedicati alle indagini criminali.» «Ha un senso?» «E lo chiedi a me?» Liam si stiracchiò, allungando le braccia e guardando fuori dal finestrino. «Devo ammettere che la questione sta perdendo la sua attrattiva. In qualche modo, ci stiamo rendendo ridicoli.» «Credi ancora che Paddy sia stato mandato da qualcuno?» «E, se così fosse, che cosa cambierebbe? Forse vedo fantasmi o forse no. Più ce ne stiamo qui, più mi sento sciocco.» «Allora che facciamo? Andiamo alla polizia? Torniamo in albergo? Aspettiamo ancora un po'?» La guardò. «La tua Golf è una camera di tortura. Aspettare mi fa troppo male alle articolazioni. Propongo di fare una passeggiata attraverso il magnifico parco che abbiamo costeggiato e di riflettere all'aria aperta. Che ne dici?» «Ottima idea», rispose Kika, sollevata. Scendere e sgranchirsi le gambe fu una benedizione. Liam le cinse la vita con la massima naturalezza e s'incamminarono in direzione del Volksgarten. Era appena a un centinaio di metri. Le sarebbe piaciuto appoggiare il capo sulla sua spalla. Purtroppo a lui mancavano alcuni centimetri per darle il sostegno necessario. Mentre camminavano sotto i primi alberi e davanti a loro si stendeva, immobile, lo stagno scuro e argenteo, il cellulare di Kika squillò. Ma lei non lo sentì. Era sul sedile posteriore della Golf, dov'era caduto dalla sua giacca, e continuò a squillare, come se volesse farla tornare indietro. Il display si era illuminato di un verde spettrale, e vi lampeggiava la scritta CHIAMATA IN ARRIVO.
Poi tornò il silenzio. Franz Maria Kuhn Kuhn era seduto sullo sgabello del bar del Maritim col suo Nokia premuto contro l'orecchio e si domandava perché Kika non rispondesse. Era una di quelle persone che erano praticamente un tutt'uno col proprio cellulare, sempre raggiungibile. Che cosa la tratteneva? Perplesso, premette il tasto OFF. L'addetta stampa e lo scienziato squilibrato se n'erano andati da circa mezz'ora. Di per sé trenta minuti non erano poi tanti, ma erano bastati per trasformare la zucca di Kuhn in un risuonatore. Gli sembrava che fosse trascorsa un'eternità da quando si erano messi in testa l'idea balzana di cercare quel Clohessy. Non era stata una buona idea. Kuhn era agitato. Nel corso di quella solitaria mezz'ora, i suoi pensieri erano diventati ipotesi che sarebbero parse dissennate, se non fossero state così sobrie e convincenti. Colonia attendeva con trepidazione il secondo, vero vertice. Da quando, due anni prima, Helmut Kohl aveva promesso a Norbert Burger, sindaco della città, l'evento mediatico, per consolare gli abitanti della Renania per aver perso la capitale del Paese, la città era animata dal respiro della Storia. La visione del mondo di un ex cancelliere che definiva «storici» i momenti ancora prima che lo diventassero si accompagnava alle manie di protagonismo di Schröder e all'orgoglio renano. Mesi prima di quel memorabile giugno, si era messa in moto un'eccezionale procedura di sicurezza. Procedure estremamente complesse si erano fatte strada fra le varie istanze e avevano dato origine a un Frankenstein logistico, cui contribuiva una miriade di responsabili che speravano di non perderne il controllo. Le varie competenze erano state messe a confronto e Colonia era diventata l'interfaccia dello scambio internazionale. Mai prima di allora la città era stata popolata da tanti diplomatici e da tanti agenti di sicurezza di diverse nazioni. I primi organizzavano, gli altri li tenevano d'occhio per escludere qualsiasi rischio. Ma come si potevano escludere tutti i rischi? Kuhn compose il numero di Liam. Il cellulare era spento. Tipico, pensò Kuhn. Probabilmente non lo aveva nemmeno con sé. A Liam non piaceva telefonare. Odiava essere raggiungibile e utilizzava il cellulare solo per contattare gli altri quando gli andava.
Che facessero pure quello che volevano. Borbottando, prese un giornale che qualcuno aveva abbandonato e s'immerse nella cronaca di Colonia. Anche il giornale parlava soltanto del vertice. Sembrava che i cittadini ormai non fossero più così entusiasti del grande evento. La città pareva sotto occupazione. Tutti avevano dimenticato che, all'inizio, Burger voleva ospitare il vertice alla fiera, ma Kohl si era opposto e l'opinione del cancelliere, allora, pesava ancora un quintale. Il vertice doveva essere vicino alla gente, non all'insegna della segregazione come quello di Birmingham. All'inizio, gli abitanti di Colonia si erano gustati il ritmo sincopato del vertice con soddisfazione e con l'allegria sfrenata di un festival popolare; poi però si erano resi conto che non avevano più voce in capitolo nella propria città. Il 3 e il 4 giugno, i capi di governo dei Paesi dell'Unione Europea avevano preso in ostaggio Colonia, cinque giorni più tardi erano arrivati i ministri degli Esteri dei Paesi del G8. Quasi a margine di tutto ciò, i vescovi dei Paesi ricchi e industrializzati sì erano riuniti coi fratelli poveri delle nazioni debitrici, per redigere una Dichiarazione di Colonia sulla questione del debito. Colonia era diventata il centro del mondo. Un simile spiegamento di polizia non si era visto nemmeno negli anni dell'isteria della RAF. Il verde era il colore dominante, alleggerito, secondo una memorabile statistica, da 165.000 begonie, 90.000 gerani e 55.000 fucsie. Ma Colonia rimaneva una città in armi. Mentre nel Kosovo proseguiva la catastrofe umanitaria, la città renana aveva cominciato ad agghindarsi. Masserie kosovare e ponti serbi venivano ridotti in macerie, mentre i consiglieri comunali decidevano di nascondere la nuova sede del museo Wallraf-Richartz, non ancora ultimata, dietro una pellicola colorata. Cinquantacinque passeggeri di un treno erano morti quando le forze NATO avevano bombardato un ponte ferroviario nel SudEst della Serbia; la strada tra Gürzenich e il municipio era stata riasfaltata per motivi ornamentali e le buche che la costellavano da tempo immemore erano state rattoppate. A Korisha, la pioggia di bombe era costata la vita a un centinaio di albanesi del Kosovo; a centinaia di chilometri di distanza, le strade di Colonia erano state liberate - tramite sabbiatura - da un quarto di milione di gomme da masticare calpestate e incastonate nell'asfalto. Sembravano cose del tutto scollegate e, di fatto, i mondi in cui si erano verificati quegli eventi non sarebbero potuti essere più distanti. In realtà, però, si condizionavano a vicenda e creavano un clima d'insicurezza. Poteva
essere così bello: il vertice e tutto il resto... Invece c'era da aver paura, perché un pazzo aveva deciso di scontrarsi con la più potente alleanza militare del mondo. Nel giorno in cui Miloševič e il parlamento jugoslavo avevano accettato il piano di pace del G8, era stato come se l'Europa si fosse liberata di un crampo. La prospettiva di una conclusione del conflitto offuscava tutto il resto. Colonia si era elevata a città della pace. Tra lo spirito carnevalesco e lo stato d'emergenza non c'era posto per la normalità. Le strade, le piazze, i ponti erano un mare di bandiere colorate. Schiere di giornalisti correvano da un evento all'altro, provvisti di buoni pasto municipali, distribuiti per propiziare articoli benevoli. Migliaia di delegati si godevano un programma culturale formato da innumerevoli mostre, concerti, letture e rassegne cinematografiche. Le facciate erano state tirate a lucido, i cantieri coperti, i graffiti cancellati, le fontane ripulite, le panchine ridipinte, i lampioni riparati e le fermate dei tram munite di una nuova illuminazione. Il vertice «vicino alla gente» voluto da Kohl era diventato realtà. Come aveva osservato il cabarettista Jürgen Becker: «Una città lustrata in un batter d'occhio, è scomparsa persino la merda dei cani, sedici anni di Kohl non sono stati vani». Soltanto il rumore delle pale degli elicotteri e le colonne di camionette della polizia lasciavano intuire cosa volesse dire realmente essere la sede di un vertice. Poi era sopraggiunta la stanchezza. A molti l'onnipresenza della polizia cominciava a dare fastidio. Non era tutto finito? I serbi erano fuori campo, la Russia era salita a bordo, Gerhard Schröder e Joschka Fischer erano pronti per essere immortalati nel bronzo... Invece sembrava che spuntassero continuamente nuove transenne. Si erano levate pesanti critiche. Ai ristoratori del centro storico erano stati promessi affari senza precedenti. L'orario di chiusura era stato abolito, la burocrazia aveva teso la mano alla vita notturna, ma i clienti non riuscivano a raggiungere i tavoli a causa delle inferriate e dei cordoni. Per giunta, i Servizi segreti avevano costretto il BKA a far sparire dal centro storico tutti gli ombrelloni, i vasi di fiori, le sedie e i tavoli. Dopo che la ristorazione all'aperto era stata vietata, i proprietari delle birrerie semivuote avevano calcolato quanto fosse costato loro assumere personale aggiuntivo e fare scorte extra. Alcuni avevano fatto causa alla città, altri avevano inviato i propri bilanci deficitari al ministero degli Esteri, chiedendo un rimborso. Anche i commercianti avevano visto le proprie aspettative frenate dalle
transenne e si erano infuriati. Era inutile spiegare agli interessati che le improvvise richieste degli americani erano arrivate a sorpresa. Dopo il vertice dei ministri degli Esteri, qualsiasi euforia era svanita. Mentre si succedevano le firme di ospiti insigni sull'albo d'oro e sembrava che il grande momento di Burger non finisse mai, i cittadini avevano un muso sempre più lungo. Al ricevimento organizzato dell'UE di fronte al municipio, le misure di sicurezza erano state tali che erano rimasti soltanto duecento posti per dare un'occhiata all'élite politica mondiale, ma se li era accaparrati tutti la stampa. Chi era davvero vicino alla gente era la polizia. Gli agenti si premuravano di smorzare il malcontento degli abitanti di Colonia, ma non ci si poteva illudere: l'isteria della sicurezza si stava avvicinando a un altro genere di vertice. La gente scuoteva il capo. Che ne era stato della pace di Colonia? Andava tutto per il meglio. Cosa poteva succedere ancora? Kuhn era di malumore e, agitandosi sullo sgabello, pensava che anni prima Gorbačëv era sfuggito a un attentato in Germania per un soffio. Anche allora tutto era sembrato all'insegna della riconciliazione. L'atmosfera rilassata era ingannevole. Dal giorno seguente, Colonia sarebbe stata ancora di più nel mirino del terrorismo. Al di là dei cenni gioviali e dei sorrisi soddisfatti che dicevano: «Ce l'abbiamo fatta anche stavolta», il sistema di sicurezza, indifferente a qualsiasi euforia, avrebbe aumentato la vigilanza. Dopo il periodo trascorso a Washington, Kuhn sapeva quanto gli americani temessero un attentato al presidente e come mobilitassero qualsiasi risorsa per prevenire una simile eventualità. I Servizi segreti non si fidavano di nessuno. A molti, l'imminente supervertice sembrava soltanto una grande e allegra festa, ma era soprattutto il vertice della sicurezza. Si diceva che Clinton sarebbe arrivato con mille agenti speciali. Da settimane, Colonia era infiltrata da uomini armati della sicurezza statunitense, che il BKA aveva munito di un porto d'armi speciale e di appositi documenti di riconoscimento. L'apparato di sicurezza intorno a Eltsin era di poco inferiore a quello americano. Per quanto volesse apparire alla mano, Schröder era inavvicinabile. Tutti i capi di governo godevano di una protezione che escludeva di fatto qualsiasi pericolo per la loro vita. Nemmeno un topo poteva passare sotto il cordone della sicurezza. Ma come si poteva escludere la presenza di un agente clandestino nell'aeroporto Colonia/Bonn? E cosa significava la sua presenza?
Più Kuhn rimuginava sulla questione, più si sentiva a disagio. Certo, fino a quel momento era andato tutto liscio. Il peggio era passato quando Schröder e Ahtisaari si erano abbracciati al vertice dell'Unione Europea. Da una settimana, l'accordo di Kumanovo aveva ufficialmente posto fine alla guerra. In linea di principio, c'era assai meno da temere rispetto a prima. La testa di legno di Belgrado era a terra, o almeno lì fingeva di essere. Tutti si volevano nuovamente bene. Eltsin telefonava al cancelliere e confermava il suo impegno per la pace. Il primo ministro cinese Zhu Rongji sottolineava il ruolo costruttivo di Pechino, qualsiasi cosa ciò volesse dire. Non rimaneva che accogliere i vincitori. Allori ai Cesari! Era una situazione equivoca. Se sussisteva realmente il pericolo di un attentato, perché non si era concretizzato due settimane prima? Centomila dimostranti erano scesi in piazza contro la politica economica delle nazioni ricche, insieme con pacifisti, autonomi e militanti attaccabrighe, mentre una Russia con la spina dorsale spezzata puntava gli occhi sui Balcani e la NATO annunciava in tono corrucciato che avrebbe dato seguito al messaggio di pace di Ahtisaari, sganciando bombe finché non ci fosse stato un accordo nero su bianco sul ritiro delle truppe serbe. Perché aspettare? Forse perché gli scalpi più importanti non erano ancora arrivati? Quel Clohessy, col suo nome falso, non avrebbe rappresentato una preoccupazione se i Servizi segreti non avessero creato un termine che quella sera, nella fantasia di Kuhn, assunse proporzioni mostruose: il «momento ritardato». Il mancato verificarsi della catastrofe quando tutti se l'aspettano. Lasciar passare il momento critico e poi assestare un colpo devastante quando nessuno ci pensa più. Che effetto avrebbe avuto un attentato in quel momento, durante il supervertice? Mentre tutti erano in posa con un sorriso smagliante? Con un Boris Eltsin come alleato e una Cina che, seppur con riluttanza, aveva cambiato tono, rinunciando al veto? Che diavolo voleva Paddy Clohessy? Sempre che volesse qualcosa e non fosse un semplice gregario, come aveva osservato l'intraprendente Liam O'Connor. Chi erano i mandanti? Kuhn sospirò. No, non era una buona idea andare a trovare un tizio del genere nel mezzo della notte. Era una sciocchezza! Un'idea balzana! Avrebbe dovuto impedirla con decisione. Perché non erano andati alla polizia, invece di giocare a fare i detective?
Poi pensò che forse erano andati alla polizia. Sarebbe stata la cosa migliore. Ma allora perché non era riuscito a contattare Kika? Non aveva spento il cellulare. L'aveva lasciato squillare. Naturalmente era possibile che fossero a casa di quel tizio e gli stessero parlando. Ma anche in tal caso nulla le avrebbe impedito di rispondere. O forse non poteva più rispondere. Per un attimo, pensò di avvisare la polizia. Ma O'Connor era contrario al coinvolgimento della polizia sinché non fosse dimostrato in modo inequivocabile che Clohessy aveva cattive intenzioni. E, se non lo si lasciava fare a modo suo, lo scienziato poteva arrabbiarsi parecchio. Avrebbe potuto riconsiderare la collaborazione con la casa editrice. In quel senso, era una vera carogna. Commettere uno sbaglio in quel momento, guidato forse da una semplice fantasia, preoccupava Kuhn più della possibilità che Paddy Clohessy fosse un farabutto. Svuotò il bicchiere e saldò il conto. Era tutto inutile. Sarebbe dovuto andare nella Rolandstraße per vedere cosa stava succedendo. Anche soltanto per calmarsi i nervi. Probabilmente non era successo niente. Andava sempre così. Ma dare un'occhiata non avrebbe guastato. Ma perché, quando c'era di mezzo O'Connor, sorgevano sempre problemi? Sicuramente non è successo nulla, pensò Kuhn, mentre scendeva nel parcheggio sotterraneo del Maritim. No, assolutamente nulla. Cercò nella tasca della giacca la chiave dell'auto. Gli sfuggì due volte e alla fine riuscì a infilarla nella serratura della sua vecchia 2CV e a entrare. Il cognac lo aiutava a tenere sotto controllo la paura di essere troppo intraprendente. Mirko Mirko era invisibile, nascosto nell'oscurità all'altro lato della strada. Stava sotto gli alberi e vide lo scienziato irlandese e quella donna altissima scendere dall'auto e scomparire verso il parco. Con tutta calma, estrasse la FROG dalla giacca di pelle e chiamò Jana. «I piccioncini si sono dati da fare in macchina per un quarto d'ora», disse. «Sono appena scesi.» «Era prevedibile», commentò Jana. «Che stanno facendo?» «Non ne ho idea. Ma non mi hanno dato l'impressione di voler far scatta-
re l'allarme. Sono andati verso il parco, tenendosi a braccetto. Sembravano una coppia d'innamorati.» «Però, finché sono lì, non sappiamo cosa intendono fare, quando torneranno e con chi.» Fece una pausa. «Direi che la decisione è presa.» «Sì. Eliminiamo il problema.» «Come concordato», confermò Jana. Mirko riattaccò. Paddy non poteva sapere che lo avevano spiato durante il suo incontro con Liam. Si domandò cosa avesse spinto il tecnico a riversare su O'Connor quello sfogo intriso di narcisismo e di spirito di rivalsa sul passato. Doveva essere il carattere irlandese. Paddy non doveva far altro che addolcire un po' i trascorsi comuni e pregare lo scienziato di non tradirlo. Bastava raccontargli la storia del brav'uomo che era finito nei guai e che quindi viveva e lavorava all'estero sotto falso nome. Cosa c'era di così difficile? Un tocco di pathos, un'amichevole pacca sulla spalla... Gli avrebbe dato un appuntamento per una birra dopo il vertice, l'avrebbe rassicurato che era tutto a posto e O'Connor non ci avrebbe più pensato. Ma Paddy Clohessy era uno smidollato senza speranza; peggio ancora, era un idealista. Tutti gli idealisti tendevano a essere chiacchieroni. Il vecchio sulle montagne, sebbene perfido e senza scrupoli, quando si trattava d'ideali, cianciava come una portinaia. Solo Jana era diversa. Per lei Mirko provava un'ammirazione silenziosa; quella donna si teneva per sé le sue vere motivazioni. Lui però intuiva ciò che la animava nel profondo: il desiderio di fare qualcosa per il suo popolo, il dolore per le ferite che il passato le aveva inferto, il conflitto interiore che nasceva dalla consapevolezza di essere diventata ciò che non avrebbe mai voluto essere. La spirale della violenza portava sempre più in basso. Mirko attraversò la strada senza fretta. Si concesse un sorriso. Paddy non l'aveva visto. Nemmeno durante l'incontro con O'Connor in riva al Reno, benché lui fosse a pochi metri da loro a guardare l'acqua scura, mentre li ascoltava tramite l'auricolare. Con un certo piacere, estrasse dalla giacca un oggetto scintillante e si mise al lavoro per forzare la serratura del portone. Era quasi un divertimento nostalgico: s'immaginò disegnato dalla mano di un fumettista, con una maschera nera sugli occhi e la barba corta e ispida sul volto da bandito, con le orecchie penzoloni e il naso da cane, come i Bassotti nei leggendari fumetti di Carl Barks. Ogni tanto era un piacere rimpiazzare gli strumenti ad alta tecnologia col caro, vecchio grimaldello, con un piede di
porco e una mazza. Mirko canticchiava sottovoce, mentre le sue dita prendevano vita propria e armeggiavano con la serratura, con la leggerezza di un ragno. Gli ci vollero meno di dieci secondi per far scattare il meccanismo. Nessuno si sarebbe accorto che qualcuno si era introdotto da lì. Il suo modo di aprire le serrature non lasciava la minima traccia, nemmeno un graffio. E di solito non c'erano sopravvissuti a descriverlo. Entrò nell'atrio buio e rimase immobile, stringendo il telaio del portone. Quante volte avrebbe dovuto aprire quel portone? Meglio bloccarlo temporaneamente. Fece scattare il catenaccio, in modo che il portone non potesse richiudersi, lo accostò senza far rumore e salì i gradini consumati del vecchio edificio fino al secondo piano. Le sue scarpe da ginnastica non emisero nessun rumore mentre lui si avvicinava alla porta di Paddy. Camminava lungo il battiscopa, dove il rischio che le assi scricchiolassero era minore. L'appartamento si trovava a sei metri dalla spaziosa tromba delle scale, al termine di un breve e alto corridoio. Mirko si appoggiò al muro, infilò i pollici nelle tasche dei jeans e attese. Non si era sbagliato. Dieci minuti dopo, cominciò a sentire dei rumori all'interno dell'appartamento. Qualcuno si stava avvicinando. Poi uno dei due battenti della porta d'ingresso si aprì e sulla soglia comparve Paddy, con in mano una valigia di media grandezza. «Buonasera, Paddy», disse Mirko. Lo spavento deformò il viso dell'altro. Mirko sapeva che l'irlandese stava fuggendo. Si staccò dalla parete e gli sbarrò la strada. «Abbiamo bisogno del tuo aiuto», disse, prima che Paddy riuscisse a parlare. «C'è un problema.» L'altro lo fissò a bocca aperta. «Che tipo di problema, Mirko?» «Entriamo. Te lo spiego dentro.» Paddy era impietrito dalla paura. Gli tremavano le pupille. Alla vista di Mirko, probabilmente aveva pensato di tutto, tranne che gli potesse chiedere aiuto. Non si mosse. Mirko gli mise una mano sul torace e lo spinse dolcemente all'interno. «Come mai te ne vai in giro al buio?» chiese. «Per nessun motivo in particolare», rispose Paddy, controllando a fatica la voce. «Volevo solo...» «Non importa. Affari tuoi.» Mirko lasciò che la porta si chiudesse alle loro spalle e abbassò la voce. «Ho sentito che è andato tutto bene con O'Connor.» «Benissimo. Sì, non poteva andare meglio.»
«Ti ha creduto?» «Certamente!» «Bene.» Mirko fece una lunga pausa a effetto. «Un problema in meno. In compenso ne abbiamo un altro. Qualcosa è andato storto.» «E che... cosa?» «Jana ha mandato un impulso di prova.» Paddy trasse un respiro profondo. Quindi posò la valigia e s'irrigidì. «Adesso?» «Già. Dice che il sistema non ha risposto perfettamente. C'è stata una leggera dissonanza nel coordinamento tra lo specchio di puntamento e l'obiettivo. Secondo Jana, potrebbe causare un errore di almeno venti centimetri, se non di trenta. Non c'è bisogno che ti dica cosa significa.» L'espressione di Paddy si fece molto eloquente. Era chiaro che stava valutando se Mirko aveva detto la verità. Nel suo sguardo s'insinuò la speranza. Corrugò la fronte e si grattò i capelli scompigliati. «Non può esserci una dissonanza», mormorò. Poi si rese conto che quella era la risposta più stupida che avrebbe potuto dare. «Cioè, forse sì», aggiunse di slancio. «Voglio dire, sicuramente non dipende dalla meccanica, che è protetta e funziona alla perfezione. Al massimo può essere un segnale difettoso proveniente dal dispositivo di controllo.» «Jana però teme che sia un problema meccanico.» «Imposs... Non so. Devo parlare con Gruškov.» «Gruškov è al centro spedizioni. Abbiamo avuto la stessa idea. La cosa migliore è che tu venga con me, subito.» Paddy fece un passo indietro. «Che c'è, Paddy?» chiese Mirko in tono pacato. «Hai paura?» «Perché dovrei aver paura?» «Perché dovresti. Se la conversazione con O'Connor non fosse andata così bene, avremmo seriamente pensato di eliminarti.» «Voi... avete...» «Certo, che credevi?» Mirko sorrise. «Ma tu hai guadagnato tempo. O'Connor non dovrebbe rappresentare un pericolo. E neanche la donna. A proposito, sai per caso come si chiama?» Paddy scosse il capo. «Non importa. Non ti preoccupare. E comunque abbiamo bisogno del tuo aiuto. È seccante che qualcosa vada storto proprio all'ultimo momento.» «È che...» cominciò Paddy, chinandosi verso la valigia, col braccio teso.
Poi cambiò idea e si raddrizzò. «Volevi svignartela», disse Mirko. «No, io...» «Volevi svignartela! E allora? Ora non hai motivo di scappare. Su, andiamo, abbiamo un sacco di cose da fare...» Paddy annuì, titubante. Mirko notò che si era rilassato. Aprì la porta dell'appartamento, prese l'irlandese per la manica e lo spinse nel corridoio. Parco «Facciamo un gioco.» «Perché, non stiamo già giocando da ieri?» «Sì, ma questo gioco è diverso. Ti piacerà. Si chiama: sfrutta il tempo.» «Ah! Carpe diem.» «Carpe tempus. Lo sai, c'è una sola cosa che possiamo opporre alla velocità del tempo: la velocità con la quale lo utilizziamo. È tutto qui, capisci? Dunque in questo gioco c'è una sola regola.» «Ovvero?» «Non riflettere.» «Capisco. E l'obiettivo?» Liam scosse il capo. «Fa parte del gioco non conoscere l'obiettivo, ma doverlo scoprire, Kika. Tutto ciò che farai o dirai da questo momento in poi dovrà sgorgare da te spontaneamente, senza che la tua mente frapponga barriere. Potrai essere banale, colta, patetica, stupida, sciocca, tragica, snob, grossolana, ma non devi assolutamente pensare.» Avevano camminato per un po' sotto gli alberi e fatto il giro del laghetto. Sulla terrazza buia del ristorante di fronte si era sistemato un gruppo di adolescenti. Alcuni suonavano i bonghi e nell'aria riecheggiavano risate smorzate. Il ritmo dei tamburi aveva qualcosa di rituale e di arcaico che si prestava alla sospensione di ogni regola. Il parco non era deserto come sembrava quando lo avevano costeggiato in auto. Tuttavia era come se i possessori di quelle voci sussurrate avessero tacitamente concordato di abitare una zona d'intimità comune, nella quale non ci si disturbava a vicenda, ma si dava spazio a piccole audacie, confessioni e avventure. Il sentiero s'inoltrava in un'area fitta di alberi. «Continua, come funziona il gioco?» lo incalzò lei. «Ogni volta in modo diverso.» Liam sorrise, misterioso. «Inizia qui e ora. E poi diventa quello che vuoi tu.»
«E chi vince?» «Anche questo non sì sa.» «Va bene, giochiamo. Chi comincia?» «Tu.» «Okay. Cosa devo fare?» «Descrivi la situazione del momento.» «Hmm...» «Non devi pensare!» «Va bene, va bene! Aspetta. Dunque... al momento siamo...» «Con una sola parola.» Kika alzò lo sguardo al cielo. La notte era insolitamente limpida. Come se bastasse un salto per raggiungere le stelle. «Oscurità», sussurrò. Gli occhi di Liam s'illuminarono. «Bang! Big Bang, oscurità, successione di lettere, assurdità, senso. Si estende. Oscuro, tetro, sinistro, informe, vuoto. Agglomerati, strutture, mondi si formano nell'oscurità. Arriva la luce. Luce... luce... fuoco, falò! Uomini seduti intorno a un fuoco nell'oscurità. Leggende e storie. Racconti. Miti. Gli antichi, gli... gli Hutu... già, gli Hutu... nella mitologia degli Hutu, l'oscurità è lo stato originario e nel contempo lo stato ideale. L'oscurità dominava ogni cosa, prima che gli dei creassero il mondo in uno splendore folgorante. Ma, poiché gli dei erano potenti, dovevano aver creato anche l'oscurità. Erano potenti, onnipotenti! Dovevano aver creato l'oscurità prima ancora di creare il mondo. Solo che, per gli Hutu, la creazione dell'oscurità prima della luce non aveva senso. Quindi i saggi intorno al fuoco affermavano che doveva essere stata l'oscurità a dare origine agli dei e per questo era divina a sua volta. Era suprema, la cosa più divina in assoluto, da preferirsi alla luce sotto tutti gli aspetti.» Kika ebbe davvero l'impressione di assistere a un Big Bang. Liam aveva parlato con incredibile rapidità. Brandelli di pensiero e frammenti sconclusionati avevano dato origine a frasi di senso compiuto e infine a una storia. «Non male», commentò lei. «Te la sei inventata sul momento?» Senza rispondere alla sua domanda, lui proseguì: «E in effetti l'oscurità pervade la vita degli uomini come modello costante. Diventiamo consapevoli di noi stessi nell'assenza di luce, la vita finisce nella penombra di stanze chiuse, in capanne cupe, nella cecità e nell'ottenebramento. Gli assassini trovano le loro vittime lontano dalle strade illuminate, i cuori vengono spezzati, fermati o rubati dove il sole si nasconde». «Uau! Questa è grossa!» «Tocca a te.»
«Non ci riesco!» «Sciocchezze, ci riescono tutti. Non fermarti, Kika, è come una staffetta! Vai! Vai!» Kika prese fiato. «Bene, hmm... allora... nobile Liam! Nell'oscurità Romeo corre da Giulietta, Orfeo cerca la sua Euridice, la bestia innamorata si avvicina alla graziosa Isabella. In assenza di luce, Macbeth massacra Duncan, Giuditta decapita Oloferne. L'oscurità è l'abito del Giuda frettoloso, domina la mente di Iago, che non conosce la luce della magnanimità. Nel buio informe, sussulta la partoriente Gea e si nasconde la natura delle norne filanti...» «Le norne?» «Ehi, non vale!» «Non farti interrompere.» Liam sogghignò. Kika rise. Entrò in un bizzarro intrico di rami, che pendevano da una grande altezza, creando una cupola naturale. Doveva essere un albero molto antico. Liam la seguì. «È bello qui», sussurrò lei. «È una cattedrale in cui la paura sposa la speranza. Alla luce della ragione restiamo impietriti, ma il desiderio ci viene a cercare dalle profondità della terra, dagli abissi oscuri dell'inconscio ascende la lussuria.» Kika si voltò verso di lui. Quel gioco cominciava a piacerle. «È cosa strana come spesso, per trascinarci al nostro peggio, i ministri delle tenebre ci dicano il vero e seducano con delle inezie oneste, per tradirci in cose del più grave momento», declamò. «Accidenti!» si lasciò sfuggire Liam. «Già. Macbeth.» «Il vecchio scozzese. Amo la Scozia. Adoro la tua mente.» Le si avvicinò e portò le labbra a pochi centimetri dalle sue. Kika si sottrasse, gettò via le scarpe e s'inoltrò fino al centro della cupola naturale. Fece scivolare le dita sulla superficie ruvida del tronco. «La Scozia?» chiese. «Pensavo che fossi irlandese. Ti manca qualche punto di riferimento stabile?» «I punti di riferimento non mi mancano. Ne ho così tanti che potrei tranquillamente rinunciare a qualcuno.» «Sei uno scapestrato.» Liam fece una risata sommessa. «E tu cosa sei, una contessa scalza?» «Non dovevamo riflettere sul da farsi, per quanto riguarda Paddy?» «Dovevamo riflettere. Ricordo.» «È per questo che siamo venuti qui.»
Lui scosse il capo. «No. La vita non è lineare. Le circostanze ci hanno condotto a questo momento. Era tutto in funzione di questo istante, Kika. Riconoscere l'obiettivo. Ricordati le regole.» «Non pensare!» «Non pensare! Non riflettere!» Kika si appoggiò al tronco, con le braccia aperte. «Forse la questione di Paddy è più importante di questo... gioco.» Liam le si avvicinò. «Le norne tessono il filo della vita, non era così? E l'ultima norna lo taglia. È questo il gioco. Se non pensiamo alla vita come a un gioco, abbiamo già perso. Vuoi perdere, stanotte?» «Perché, possiamo perdere?» «Non lo so.» Le stava proprio davanti e ancora una volta ebbe l'impressione che fosse alto quanto lei. I suoi occhi risplendevano nell'oscurità. Per un momento apparve serio e pensieroso. Poi sorrise. «Deciditi, Salomè. Per baciare Giovanni Battista ci vuole una notte senza luna. Ciò che è proibito deve accadere ora o mai più.» Le accarezzò il viso e il collo e poi lasciò scivolare delicatamente le mani sui suoi seni. «Allora, vieni, mio amato, figlio della notte», sussurrò lei. «Ti amerò e ti terrò stretto fino al primo canto del gallo. Quando il sole brucerà la tua carne non morta, saprai, principe delle tenebre, chi ha vinto il gioco.» Di bene in meglio, pensò. Da Macbeth a Dracula. Cosa verrà dopo? Il viso di Liam era così vicino che Kika sentiva il suo respiro sulla pelle. Socchiuse le labbra. Lui le sfiorò la lingua con la sua, facendosi strada nella sua bocca, per poi ritrarsi nuovamente. «Il gioco lo perde solo chi resiste alla tentazione», sussurrò. «E il vincitore? Che cosa vince?» «L'attimo.» Iniziò a sbottonarle la camicetta. Lei sentì le mani di lui che sollevavano il reggiseno, accarezzandole i capezzoli con movimenti circolari dei pollici. Non dovremmo farlo, pensò Kika, avvertendo una debole fitta di panico. Sarà una delusione disastrosa. Liam vive su un palcoscenico e lo sa. Non cambierà. Non potrò cambiarlo. Non abbiamo la minima possibilità. Anche quei pensieri facevano parte del gioco? Chinò il capo all'indietro e lo guardò. «Perché non sei più basso di me?» gli chiese, ansimando. «Tutti gli uomini sono più bassi, anche tu. Perché mi sembra che tu sia più alto?» «Sto bluffando.»
«In tutto?» Lui sorrise. Lei lo prese per le spalle e concesse alla ragione un'ultima chance d'interrompere la cosa. Poi lo attirò a sé. Afferrò la giacca di lui per il risvolto e la gettò nell'erba, seguita dalla cravatta. I bottoni saltarono dalla camicia, mentre lei gliela toglieva di dosso con foga. Contemporaneamente sentì le cuciture della sua camicetta che si strappavano. Lui aveva la pelle liscia, quasi glabra, pettorali vigorosi e scolpiti, tronco e braccia statuari. Niente lasciava intuire un'esistenza di eccessi, né il fatto che dovesse riempirsi le vene di alcol per esistere. Emise un suono cupo e arrotato, come le fusa di un gatto. Quindi la sollevò senza sforzo. Lei lo cinse con le gambe, lasciò che le passasse la lingua sui capezzoli, che infilasse le mani sotto la gonna, afferrando le mutandine. Poi si ritrovò di nuovo coi piedi per terra, le mutandine e la gonna caddero e improvvisamente si vide nuda davanti agli occhi di lui e rabbrividì. «Dio, come sei bella», sussurrò Liam. S'inginocchiò davanti a lei, come se volesse adorarla. Lasciò cadere le mani lungo i fianchi, ma il suo sguardo era come mille carezze. Lei sentì le fiamme divampare nel suo corpo e quasi perse i sensi. «Sweeney il pazzo!» esclamò lui. «Finn il potente, voi tutte potenze di Erin, san Brendano, aiutatemi. Aiutatemi!» Le afferrò le natiche con forza e affondò il viso nel triangolo dorato tra le sue cosce. Franz Maria Kuhn Qualcosa cigolava. Era un suono squisitamente terribile. Kuhn lo attribuiva alla meccanica dello sterzo, ma, dato che era un rumore fra tanti, almeno tre dozzine di suoni di grande enigmaticità, non se ne curò. Spinse sull'acceleratore e ben presto la vettura raggiunse brontolando la circonvallazione. Kuhn amava quell'auto. Poteva essere anche la 2CV più vecchia del mondo, ma non era certo la più lenta. Comunque lui ringraziava Dio per essere stato così gentile. Fino a quel momento, non era stato costretto ad attraversare nessuna zona a traffico limitato. In generale, bastava il binario di un tram per rivelare la mancanza di qualsiasi comfort - per esempio di sospensioni funzionanti - e per assestare un duro colpo alla spina dorsale. Viaggiare sul catorcio di Kuhn era come andare a cavallo. Era sufficiente
un ramoscello o un sassolino per scuotere quella carretta da cima a fondo. I dossi rallentatori, che obbligavano a ridurre la velocità a dieci chilometri orari, erano un attentato all'integrità fisica. Qualsiasi ortopedico avrebbe messo all'indice quella vettura. Ma, per Kuhn, venderla o farla rottamare significava rompere l'ultimo legame coi giorni precedenti alla scadenza definitiva di tutti i suoi sogni. Avrebbe dovuto sacrificare anche gli adesivi. Sarebbe riuscito a stento a staccarli dalla 2CV, alla quale il passato era rimasto appiccicato ancora di più che a lui. I vecchi adesivi contro le centrali nucleari, l'emblema di Woodstock e tutti gli altri non avrebbero avuto via di scampo. Si sarebbe perso ogni indizio di un passato dignitoso. Dal mangianastri arrivava In-A-Gadda-Da-Vida degli Iron Butterfly. Kuhn accese l'illuminazione interna, diede un'occhiata alla piantina che copriva metà del sedile del passeggero, si rese conto di essere sul punto di oltrepassare la sua svolta e sterzò bruscamente a destra. Quella strada conduceva alla Volksgartenstraße, che più avanti prendeva il nome di Rolandstraße. Così diceva la cartina. Aveva il morale a terra. Kuhn odiava Colonia. A suo modo di vedere, non era affatto paragonabile ad Amburgo. Chi arrivava alla stazione di Amburgo leggeva per prima cosa la frase LA PORTA PER IL MONDO, scritta a caratteri cubitali. Chi scendeva dal treno ad alta velocità ICE a Colonia e lasciava la stazione dall'uscita principale si trovava davanti la scritta RIEVKOOCHE, 25 stampata a caratteri obsoleti sull'insegna di un orribile chiosco che puzzava di fritto. Il fatto che lì accanto si levassero al cielo le stalagmitiche torri del duomo risultava ancora più blasfemo. I coloniesi non riuscivano nemmeno a presentare i loro monumenti a dovere, non avevano stile e il loro dialetto aveva la stessa classe di una salsiccia scadente. Soprattutto, però, Kuhn odiava Colonia per il ghigno compiaciuto con cui i suoi abitanti vedevano finalmente confermato ciò che nessun altro aveva voluto riconoscere fino ad allora e cioè che Colonia era l'ombelico del mondo, il corpo galileiano intorno al quale tutto ruotava. Nemmeno una parola sulla discrepanza tra percezione di sé e prospettiva esterna. In quel momento, Colonia era la capitale segreta dell'Europa, aveva intascato una pace in cui i suoi abitanti non avevano nessuna parte e sbandierava una giovialità da far venire il voltastomaco. Nemmeno i capi di Stato erano al sicuro dal chiassoso cameratismo con cui i coloniesi li accoglievano, nean25
Specialità di Colonia, simili a frittelle di patate. (N.d.T.)
che fossero loro vecchi compagni di bevute, per poi tornare senza batter ciglio alle proprie faccende. Maledetta Colonia. Dove, se non lì, Liam avrebbe potuto incontrare Paddy Clohessy, mettendo in moto la fantasia di Kuhn e spingendolo a percorrere quelle strade sconosciute a tarda ora, per scoprire come mai Kika Wagner non rispondeva al telefono? Alla fine avrebbe fatto la figura dell'idiota. Deriso e schernito per essersi preoccupato. Era così che ti ripagava il mondo. La 2CV costeggiò affannata un parco. Il Volksgarten, diceva la cartina. Poi ricomparvero le case. Doveva essere quasi arrivato. Nello stesso istante vide la Golf di Kika. Si fermò e guardò dentro, ma l'auto era vuota. Sentì un formicolio adrenalinico nelle parti basse e proseguì finché non trovò un parcheggio. Sembrava fatto su misura per la 2CV. Kuhn scese e lasciò che la portiera si chiudesse con un poderoso sferragliamento, poi si mise in cerca del numero 38, dove probabilmente Kika, Liam e Paddy si stavano bevendo una birra e si sarebbero fatti una grassa risata alle sue spalle. Diede un'occhiata all'orologio. Era quasi mezzanotte e mezzo. Il numero 38 si rivelò un esemplare piuttosto malridotto dello sfarzo edilizio della fine del secolo precedente. L'editor passò in rassegna le targhette dei nomi, strizzando le palpebre. Sembrava che Paddy abitasse al secondo piano. Fece qualche passo indietro e guardò la facciata del palazzo, ma non vide luci accese. Doveva suonare? Indeciso, si appoggiò al portone e, con sua grande meraviglia, si accorse che era aperto. Il catenaccio impediva che si chiudesse. Sconcertato, ma nel contempo pervaso da un insolito spirito d'avventura, s'infilò nell'atrio e si chiese se accendere o no la luce. A breve distanza, un interruttore emanava una debole luce arancione. Decise di non accendere la luce. Non si conveniva, quando si entrava di soppiatto in un'abitazione per indagare su un complotto. Si era mai visto Sean Connery accendere una luce? Dopo pochi secondi, si abituò all'oscurità. Salì le scale quatto quatto, spaventandosi ogni volta che l'assito scricchiolava sotto i suoi piedi. Anche al secondo piano la luce di un interruttore risplendeva accanto alla sagoma appena riconoscibile di una porta a due battenti, rientrata di qualche metro rispetto alla parete, in un piccolo di-
simpegno. Nell'istante in cui stava per entrare nel disimpegno, per raggiungere quel debole punto luminoso, sentì qualche rumore che proveniva da dietro la porta. Qualcuno spinse la maniglia. Kuhn indietreggiò di scatto. Tutto il suo coraggio si concentrò nelle ginocchia. Con un balzo raggiunse le scale e guizzò sui gradini che conducevano al piano superiore, notò una nicchia nel pianerottolo intermedio e vi si nascose. Sentì alcune voci. «Non capisco», diceva un uomo in inglese, con una voce nervosa. «Forse sono i piezo. Lo specchio adattivo è più sensibile del mirino.» «Zitto. E smettila di parlare inglese», disse il secondo uomo sottovoce, in tedesco. Il tono era freddo, metallico, con un vago accento slavo. «Devi esercitarti, quando sei in un altro Paese.» «Certo.» Entrarono nel campo visivo di Kuhn. Non riusciva a distinguere i volti, ma uno dei due era magro e camminava leggermente curvo. Kuhn ricordò la descrizione di O'Connor. Probabilmente si trattava di Paddy. L'uomo che lo seguiva indossava una giacca di pelle scura. Voltarono le spalle a Kuhn e cominciarono a scendere le scale. Sentì quello nervoso che diceva: «Quando lo YAG spara, in una frazione di secondo l'intero sistema...» «Chiudi il becco», lo interruppe lo slavo. «Noi...» L'editor non riuscì a distinguere il resto: erano solo sussurri. Sentì i passi allontanarsi al piano inferiore. Un attimo dopo, il portone si chiuse. Kuhn rimase immobile nella sua nicchia, cercando di calmarsi. Se n'erano andati. Di cosa stavano parlando? Con cautela sbirciò nel disimpegno. Kika e Liam dovevano essere lì. Altrimenti perché la Golf di Kika era parcheggiata poco più in là? Erano andati a trovare Paddy Clohessy e non erano nell'auto, quindi era presumibile che fossero nell'appartamento. Sei impazzito, pensò Kuhn. Ti ha dato di volta il cervello. Dove credi di essere? A Hollywood? Con circospezione, sforzandosi di non far scricchiolare le assi del pavimento, scese al secondo piano. Guardò la porta d'ingresso. Sbagliava o era socchiusa? Si avvicinò. Paddy e lo slavo se n'erano andati, perciò poteva dare un'occhiata dentro. Quando la posò sulla fredda maniglia d'ottone, la mano gli tremava.
Senza nessun rumore, la porta si aprì, come al rallentatore. Gli venne voglia di scappare. Invece entrò. Mirko Non era nell'indole di Mirko provare compassione, però, quella sera, la provava, seppure in modo singolare. Paddy aveva qualcosa di tragico. Avrebbe potuto essere un ottimo professional. Purtroppo la sua grande competenza si accompagnava a un'assoluta incapacità di ragionare in modo obiettivo. Aveva installato il sistema in modo magistrale, aveva recitato la parte di Ryan O'Dea alla perfezione. Poi erano entrati in gioco i sentimenti. Finché si trattava di cose pratiche, Paddy valeva oro. Ma, quando arrivavano le emozioni, falliva su tutta la linea. Attraversarono la strada. «Dov'è la tua macchina?» chiese Mirko. «Un centinaio di metri più avanti. Sono solo quattro passi, possiamo...» «Prendiamo la mia», lo interruppe Mirko. Paddy si fermò. «Perché dobbiamo andare con la tua macchina?» domandò. «Perché lo dico io.» Mirko sospirò e allargò le braccia. «Non abbiamo tempo da perdere. Ogni secondo che passiamo qui a discutere ci costa tempo prezioso.» Paddy deglutì. Improvvisamente Mirko si rese conto che stava piangendo. «Ho paura», sussurrò. Mirko scosse il capo. Poi gli si avvicinò, gli cinse le spalle e lo attirò a sé. «Paddy, vecchio mio», disse sottovoce. «Siamo arrivati fin qui insieme. Abbiamo lavorato per sei mesi, aspettando questo momento. Siamo così pochi, credi che Jana e io ci sbarazzeremmo così facilmente di un membro del gruppo?» L'altro non replicò. Era rigido come un palo. «Naturalmente devi scomparire, prima che faccia giorno. È deciso. Devi lasciare il team; sarebbe troppo pericoloso se domani ti trovassi ancora a Colonia. Controlli il sistema, metti tutto a posto, poi prendi la valigia e lasci il Paese.» Gli passò amichevolmente una mano tra i capelli. «E alla svelta, capito? I soldi sono pronti. Sono sicuro che ti basterà dare qualche dritta a Gruškov. Poi ti riporto qui. Così prendi la macchina e in meno di
un'ora sei in Olanda.» Paddy espirò pesantemente. Poi annuì. «Pensavo che mi avreste ammazzato», mormorò. Mirko aggrottò le sopracciglia. «Come ti dicevo, ci abbiamo pensato. Ma non sarebbe nel nostro stile. E abbiamo bisogno di te.» «Okay.» «Solo una cosa, Paddy: è indispensabile che tu rimanga nascosto finché non ci saremo lasciati alle spalle tutta questa faccenda. Se domani ti trovassi ancora a Colonia, non potrei fare più niente per te. Ci siamo capiti?» «Certo.» La voce di Paddy era più sicura. Si asciugò gli occhi e sorrise, fiducioso. «Nessun problema.» «Bene. Adesso andiamo.» Camminarono fianco a fianco e oltrepassarono la schiera di lussuosi palazzi d'epoca di fronte al parco. Il fuoristrada di Mirko era parcheggiato sotto un castagno enorme. «Sali», disse Mirko. «È aperto.» L'altro si arrampicò sul sedile del passeggero. Mirko salì dall'altra parte e si mise al volante. «Ti va una Coca?» Paddy annuì, riconoscente. Mirko afferrò con la mano destra i capelli di Paddy e gli fece sbattere la testa contro il cruscotto. Si sentì un orrendo scricchiolio. Paddy gemette. Alzò istintivamente le mani, annaspando nell'aria. Aveva commesso un errore fatale, ma l'aggressione era stata così rapida da non dargli il tempo di difendersi. La fronte sbatté nuovamente contro la plastica. Il corpo si accasciò. Con la sinistra, Mirko estrasse dalla fondina una piccola Walther PPK col silenziatore, spinse la canna contro il collo di Paddy e premette il grilletto. Una morte discreta. Nessun rumore al mondo era paragonabile a uno sparo col silenziatore. Come se cercasse conforto sulla spalla di Mirko, Paddy si accasciò contro di lui. Mirko ripose l'arma nella fondina, afferrò un panno che aveva preparato e lo avvolse intorno al collo del morto. I fori procurati dalla Walther PPK non erano piccoli come quelli della TPH, però erano discreti. Era proprio un'arma inglese. Mirko sapeva come uccidere qualcuno senza poi dover pulire l'auto. Ci sarebbe voluta la Scientifica per scoprire i minuscoli spruzzi di sangue. A occhio nudo, l'interno dell'auto appariva immacolato. Mirko esaminò la strada. Passarono due automobili. Aspettò che i fanali
posteriori diventassero puntini lontani. Poi scaraventò con destrezza il corpo di Paddy sul sedile posteriore, lo nascose sotto una coperta e un telo scuro. A quel punto, niente faceva intuire che sull'auto ci fosse qualcun altro oltre a Mirko. Si accese una sigaretta e rifletté. Avrebbe portato al centro spedizioni prima il cadavere e poi l'auto di Paddy. Prima ancora, però, doveva ripassare dall'appartamento e assicurarsi che non ci fossero indizi che potessero mettere la Scientifica sulle loro tracce. Nel caso di una perquisizione, tutto doveva suggerire che Paddy fosse partito in gran fretta. Involontariamente l'irlandese gli aveva dato una mano, preparandosi a fuggire. Non rimaneva molto da fare. Spaventato com'era, Paddy non si era accorto nemmeno che Mirko aveva lasciato socchiusa la porta di casa. Così si sarebbe evitato di usare gli attrezzi un'altra volta. Scese dalla Jeep, la chiuse a chiave e, con passo spedito, tornò nella Rolandstraße. In ogni caso, non avrebbero avuto più bisogno di Paddy. Aveva installato il sistema in modo magistrale. Funzionava alla perfezione. Franz Maria Kuhn «C'è nessuno?» Nell'appartamento era buio pesto. Poteva essere un buon segno oppure no. Un buon segno se Kika e Liam non erano lì, un segno non tanto buono se invece c'erano. In un film, sarebbero stati morti oppure legati e imbavagliati. Non sei al cinema, però, si disse Kuhn per l'ennesima volta. Smettila di agitarti! Tastò gli stipiti interni della porta finché non trovò un interruttore. Quando una nuda lampadina sul soffitto si accese, gli si schiarirono anche le idee. Chi vedeva poteva essere visto. Istintivamente chiuse la porta alle sue spalle, respirò profondamente e si voltò. Non era solo! Con un grido soffocato indietreggiò e andò a sbattere contro la porta. L'uomo che gli stava di fronte, entrato inaspettatamente nel suo campo visivo, fece lo stesso. Doveva essersi spaventato come Kuhn. Anche alle sue spalle c'era una porta alta, a due battenti, e anche nei suoi occhi c'era il terrore.
E aveva il suo stesso aspetto. Rendendosi improvvisamente conto di fissare la sua immagine riflessa, Kuhn ringhiò contro lo specchio. Sentì la rabbia ribollire dentro di sé e scacciare la paura. Diede un'occhiata all'ingresso. Non c'era assolutamente nulla, tranne alcuni ganci appendiabiti e una passatoia scadente. C'erano porte semiaperte su entrambi i lati del corridoio e in fondo a esso. Kuhn socchiuse le labbra, fischiettò le prime battute della marcetta del Ponte sul fiume Kwai ed entrò nella prima stanza. Si ritrovò in un cucinino. Dall'ingresso entrava luce sufficiente per rivelare una cucina componibile di scarso valore e un tavolo con due sedie. Sopra il lavello era appeso un poster che ritraeva un verde paesaggio con coste a picco sul mare. SPIRIT OF ULSTER, diceva la scritta in caratteri celtici. C'era un vago odore di salsicce avanzate e muffa. Tornò nel corridoio. Adiacente alla cucina c'era un minuscolo bagno. Il lavandino era talmente vicino al gabinetto che ci si poteva lavare le mani stando seduti. Qualche decina di centimetri più in là, una tenda di plastica blu semichiusa nascondeva una doccia troppo piccola. Per qualche strano motivo, Kuhn la trovò rassicurante. Riprese a fischiettare e ispezionò la camera da letto in fondo al corridoio. Dato che fino a quel momento nessuno lo aveva aggredito o minacciato, sentì tornare una certa sicurezza, alla quale si aggiunse anche un pizzico di arroganza. D'un tratto, la cosa cominciava a divertirlo. Forse non corrispondeva alla sua idea d'intrattenimento serale, ma non poteva certo negare che quella situazione stesse movimentando la sua seriosa esistenza. Sorrise. Mentre assaporava sempre di più il gusto del proibito, la sua attenzione non si limitò più alla ricerca di Kika e Liam, ma divagò verso eccitanti indiscrezioni. Quante cose si potevano scoprire sulla vita di altri esseri umani! Le persone erano come libri. Si potevano leggere: non le loro opere letterarie, ma le persone in quanto tali, con le loro usanze. Si potevano educare, cancellando abitudini, sostituendo scelte sbagliate con scelte giuste, accorciando o riscrivendo interi paragrafi della loro vita. Che pensiero edificante! Un uomo come lui avrebbe potuto abbordare l'oggetto dei suoi desideri in modo volgare, poco creativo, sciovinistico, banale, per poi cancellare il giustificato ribrezzo con un tratto di penna e sostituirlo con un «sì» mormorato. La vita sarebbe stata così facile! Non ci sarebbe stato bisogno di avere l'aspetto di O'Connor, col suo charme glaciale e coi suoi completi firmati. Avrebbe potuto canzonare impunemente Kika Wagner per la sua altezza e, in premio, portarsela a letto. Ogni scena si sarebbe po-
tuta riscrivere nell'attimo stesso in cui avveniva. Per esempio, in quell'istante, si sarebbe sentito un lamento soffocato proveniente dall'armadio di Paddy. All'interno, Kuhn vi avrebbe scorto Kika legata e imbavagliata. Alla liberazione eroica sarebbe seguita la scena della gratitudine. Liam o'Connor? Che andasse al diavolo! Ispirato, Kuhn aprì un armadio messo insieme alla bell'e meglio, ma, a parte un ampio spazio vuoto e alcuni capi di biancheria, l'interno non aveva molto da offrire. All'improvviso, si vergognò dei suoi pensieri. Non era stata la preoccupazione a portarlo fin lì? Le avventure della mente sono gratis, pensò. Ci mancherebbe! Continuò a guardarsi intorno. Evidentemente Paddy Clohessy era un esistenzialista. Dormiva su un materasso sul pavimento. C'erano libri accatastati contro le pareti. Kuhn diede un'occhiata alle copertine di quelli che stavano in cima. Nella penombra, dovette chinarsi per distinguere i titoli. Quell'uomo leggeva traduzioni inglesi delle opere di Proust! Non era uno stupido, quell'irlandese. Una biografia di Yasser Arafat, testi scientifici, tutti di fisica. Romanzi di Ernest Hemingway, Tennessee Williams e Toni Morrison. Un libro sulla battaglia per la libertà di Nelson Mandela. Kuhn provò quasi simpatia per il malvagio Clohessy. Lasciò la camera da letto ed entrò nel soggiorno. Anche lì, poca roba. A parte il poster dell'Ulster in cucina, sembrava che Clohessy non avesse nemmeno un quadro. Un divano in pelle nera era posizionato di fronte al televisore, che, in quanto unico oggetto di arredamento, era collocato con cura e probabilmente era costato caro. Non c'erano posti a sedere per gli ospiti. Sotto la finestra, c'era una scrivania e, lì accanto, si scorgeva una serie di contenitori con le rotelle. Il piano di lavoro era coperto di riviste e raccoglitori, fogli sciolti, matite e un bloc-notes. In giro c'erano diverse tazze da caffè. Senza doverle esaminare ulteriormente, Kuhn sapeva che non erano una testimonianza di socievolezza, ma il risultato dello stesso disordine che regnava in casa propria. Il caffè secco non puzzava. Talvolta le tazze restavano in giro anche per un paio di settimane. Fintanto che nessuno si lamentava, rendevano la casa quasi accogliente. Pensieroso, guardò fuori dalla finestra. Doveva andare. Aveva scoperto ciò che doveva scoprire. Né Kika né Liam si trovavano lì. E non c'era neanche Clohessy. Naturalmente poteva dare un'occhiata alla scrivania. Sei indecente, Kuhn, si rimproverò. Non ti sei perso proprio nulla, qui
dentro! Vedi di andartene, su. Per contrastare la paura, il Philip Marlowe che era in Kuhn prese il sopravvento. Il fatto che i due rompiscatole non fossero lì non scagionava necessariamente Clohessy. Qualsiasi cosa si trovasse in quella stanza poteva essere interessante. E lui, Franz Maria Kuhn, avrebbe svelato il mistero. Esitò. La voglia di avventura si alternava all'istinto di fuga. Si rese conto di aver esitato troppo quando sentì raschiare e grattare alla porta. Qualcuno stava armeggiando con la serratura! Kuhn sentì il sangue defluire dal cervello e fu sopraffatto da una debolezza paralizzante. Incapace di muoversi, rimase in ascolto, nel silenzio. Era più un presentimento di un rumore chiaramente udibile; si trattava solo di vibrazioni minacciose. Ma furono sufficienti a fargli passare qualsiasi interesse per l'avventura. Nello stesso istante, svanirono anche gli ultimi residui di coraggio. La maniglia fu spinta verso il basso. D'un tratto, fu come se Kuhn avesse le ali. Spinto dal terrore, raggiunse il corridoio e poi il bagno antistante prima ancora che l'intruso spingesse completamente la maniglia. La porta del bagno si chiuse con un sommesso clic proprio mentre quella d'ingresso si apriva col suo inevitabile cigolio. I rumori si sovrapposero, diventando uno solo. Kuhn scrutava freneticamente nell'oscurità. Poi entrò nella doccia, tirò la tenda e si lasciò scivolare sulle piastrelle fino a ritrovarsi col fondoschiena sul pavimento della vasca. Nei primi istanti, sentì solo il sangue che gli pulsava nelle orecchie. Sembrava che volesse sprizzare da tutte le aperture della sua testa. Il cuore martellava. Il suo cuore. Faceva un tale rumore! Lo avrebbe sentito! Quel tizio che stava lì fuori avrebbe sentito battere il suo cuore e sarebbe andato a prenderlo. Silenzio. Silenzio! Dopo quegli istanti angosciati, nell'improvviso silenzio, Kuhn si sentiva come un pollo in gelatina. Oltre la porta del bagno non si udiva nessun rumore. O forse si sbagliava? Represse il panico, seppur con una certa difficoltà, e si mise in ascolto. Sì, ci doveva essere qualcuno nell'appartamento. Qualcuno che si muoveva in modo molto silenzioso. Era Paddy Clohessy? O era l'uomo dall'accento slavo? Allora sì che era
in un bel guaio. Quando i due erano usciti non avevano lasciato luci accese e la porta era aperta. Chiunque fosse, il tizio che si aggirava là fuori doveva sapere che nell'appartamento c'era qualcun altro. Tastò il Nokia nella tasca interna della giacca. Lo tirò fuori e attivò la rubrica. Il display s'illuminò. Comparve una serie di numeri. Premette il tasto CONTINUA col pollice, finché sullo schermo non comparve il numero di Kika Wagner, poi lo selezionò automaticamente. Rispondi, pensò. Ovunque tu sia! Continuava a squillare a vuoto. Come l'altra volta. Niente segreteria telefonica, niente. Kika, per l'amor del cielo, dove sei? Doveva farsi sentire in qualche modo. Con dita tremanti cominciò a scrivere un messaggio. Ciò che gli restava della ragione gli suggerì cosa scrivere. Comunicare dove si trovava, ciò che sapeva e chiedere aiuto. Rumori. Passi. Qualcuno si fermò davanti alla porta del bagno. Le dita di Kuhn si muovevano sulla tastiera con ansia febbrile. Ogni volta che premeva un tasto, l'apparecchio emetteva un debole pigolio. La lunghezza massima di un messaggio era di centosessanta caratteri, ma li avrebbe sfruttati al massimo, non importava quanti errori facesse. La porta si aprì. Entrò la luce, colorando di blu la tenda sotto gli occhi di Kuhn. Lui smise di scrivere. Poteva scordarselo. Solo aspettare e sperare che l'altro se ne andasse senza ispezionare la doccia. Spedisci il messaggio, gli passò per la mente. Devi mandare questo maledetto messaggio. Ma, se lo mandi, il telefono emetterà un bip. Passi leggeri si avvicinarono e si fermarono proprio davanti alla doccia. Poi gli sembrò che lo sconosciuto fosse uscito dal bagno. Senza fiato e con occhi sgranati, Kuhn rimase in attesa. Dall'ingresso arrivavano rumori più forti. Evidentemente l'altro era giunto alla conclusione di essere solo nell'appartamento e non tentava più di celare la sua presenza. Un momento dopo, la porta d'ingresso si chiuse. Kuhn si lasciò sfuggire un profondo sospiro. Soltanto allora si rese conto di essere in un bagno di sudore. L'odore della paura gli raggiunse le narici. Sperò di non essersela fatta addosso. Non si sarebbe mai liberato da un imbarazzo del genere. Non sarebbe più riuscito a entrare tranquillamente in una doccia o in un bagno pubblico. Senza neanche rileggerlo, spedì il messaggio. Dopodiché infilò nuovamente il cellulare nella giacca e si sollevò, ap-
poggiandosi alle piastrelle. La tenda fu strappata via. Kuhn lanciò un urlo e cadde all'indietro. Chino su di lui, c'era l'uomo con la giacca di pelle. Lo guardava con un'espressione impassibile, come se non si fosse aspettato altro che la scena pietosa che si trovava davanti; ma nei suoi occhi risplendeva una fredda curiosità. Kuhn ansimava. Provò a dire qualcosa, a scusarsi per la sua intrusione, a giustificarsi, ma dalla gola gli uscì soltanto un gemito vuoto. Quasi fuori di sé per la paura, si rannicchiò ancora di più nell'angolo. L'uomo non si mosse. Se ne stava lì e lo fissava con uno sguardo glaciale, che faceva sentire Kuhn sempre più piccolo. Ancora pochi secondi e si sarebbe rimpicciolito al punto da sparire nello scarico. Poi lo slavo alzò il braccio per colpire. Kuhn lo vide alzarsi e piombare verso di lui. Urlò un'altra volta, si protesse il capo con le braccia e sentì il suo urlo trasformarsi in uno strillo. Fu sopraffatto dalla paura di morire. La sua vescica si svuotò nel momento in cui il pugno dell'altro si abbatteva come una mazza sulla leva del miscelatore e la sollevava. Dalla doccia uscì un getto d'acqua gelida e, in una frazione di secondo, Kuhn si ritrovò bagnato fino al midollo. Lo scroscio dell'acqua e le urla si fusero in un lamento infernale. Kuhn continuò a urlare, anche dopo che lo slavo aveva chiuso la doccia e lo aveva sollevato per il colletto. Sarebbe mai riuscito a smettere di urlare? «Zitto», gli intimò l'uomo. Gli ululati di Kuhn si spensero in una tosse piagnucolosa. Si sentiva soffocare e tremava dalla testa ai piedi. Lentamente sollevò il capo e si trovò davanti la canna di una pistola. Parco «Chi è Sweeney?» mormorò Kika. Ancora una volta, come la notte precedente, era sdraiata per metà sopra di lui, le gambe piegate, il capo adagiato tra il torace e i bicipiti. Però era tutto diverso. Ascoltava il battito del cuore di lui e si sentiva meravigliosamente priva di forze e rilassata. Ma nel contempo si sentiva sveglia e vitale come non le accadeva ormai da tempo. Non avrebbe saputo dire quante volte e per quanto tempo si fossero amati. Non aveva importanza. Ciò che importava era la sensazione che avesse-
ro finalmente compiuto qualcosa che era atteso da anni. Una cosa che poteva indurre dipendenza, tanto che ne sentiva la necessità prima ancora che gli effetti fossero svaniti. È mai possibile che le persone siano come tessere di un puzzle, destinate a incastrarsi in uno spazio libero ben preciso? Non sai dove sia o chi sia. Può essere una persona, può essere un luogo. Nel momento in cui lo trovi e lui trova te, t'inserisci alla perfezione. Qualcuno lo ha lasciato libero apposta per te. Può esserci una felicità più grande? Quante persone muoiono senza averla mai provata? Quante persone muoiono senza aver mai giocato? Perché era dovuta tornare a Colonia per poter riconoscere il suo posto nel puzzle? Se esisteva una provvidenza divina che passava il proprio tempo a mandare segnali alle persone, senza dubbio quella notte l'aveva fatto. Non era Liam. Non era lei. Era il loro incontro, l'immenso, l'intangibile, che andava oltre tutto ciò che normalmente risultava dalla somma di due esseri umani e da una notte afosa. Erano un luogo, un momento, una scacchiera e due giocatori, una follia che stava alla base di tutto ed era capace di guarire l'animo umano dagli eccessi di razionalità. L'orologio che aveva comprato col primo stipendio ticchettava solerte e quasi impercettibile. Le era molto caro, anche perché le era costato parecchio, eppure non valeva nemmeno uno sguardo. L'ultima cosa che le interessava in quel momento era sapere che ore erano e quanto tempo era trascorso. I fisici potevano ripetere centinaia di volte che l'uomo, il mondo e l'intero universo erano incatenati alle forze distruttive del secondo principio della termodinamica e che di conseguenza tutta l'energia e tutta la materia a un certo punto avrebbero avuto una fine: tutto l'amore, tutta la passione, tutto l'odio, tutta la miseria, tutta la felicità, tutti i sentimenti, tutta l'esistenza. Quella notte, però, le leggi della natura non erano in vigore. All'improvviso, non si sentì più un'ospite in quella città. Sopra di lei il vento sibilava leggero tra le foglie. Il lontano battere dei bonghi era cessato. Sentiva l'odore della terra, dell'erba e dell'uomo sotto di lei. Era a casa. «Sweeney?» le fece eco Liam. «L'hai nominato tu. Sweeney il pazzo. Hai invocato tutte le divinità possibili e immaginabili.» Liam rise. «Se ti viene voglia di fare un bagno nello champagne e non ce l'hai, ti accontenti delle parole. Sweeney non è una divinità. Era un sovrano che regnava sul Dál nAraidi, nell'antica Irlanda. Uccise un salmista e
distrusse la campana di un sant'uomo. Per punizione, venne trasformato in un uccello e perse la ragione. Riusciva a parlare soltanto in rima. La maledizione lo confinava nell'aria, i suoi piedi non potevano più toccare il suolo ed era eternamente in balia delle tempeste.» «Be', direi che se l'era cercata, quell'assassino scarmigliato. E un elemento del genere poteva darti forza?» «Sweeney? Naturalmente! Se gli prometti che lo farai tornare uomo, farà qualsiasi cosa per te. Le maledizioni rendono corruttibili.» Kika sospirò e si lasciò rotolare, stendendosi supina accanto a lui. Il terreno era piacevolmente fresco e le dava la sensazione che, volendo, avrebbe potuto metterci radici. Sopra di loro, si estendeva l'oscura cupola di rami e foglie. «Hai mai la sensazione che in certi posti non... esista il tempo?» gli chiese. Liam si voltò a guardarla. «Ho questa sensazione fin da quand'ero bambino.» «A me capita di rado», continuò lei. «Questo albero è il mio posto. Sai, è strano... So benissimo che fra poco ce ne andremo da qui. Forse non ci torneremo mai più. Non voglio aggrapparmi a un momento, però mi piacerebbe che potessimo portarla con noi... questa sensazione di aver sconfitto il tempo. Una volta che è dentro di noi...» Lui non replicò. «Quali sono i tuoi posti?» gli domandò lei. Lui alzò lo sguardo. «Credo che la mia intera vita sia come uno di quei posti.» «E ne sei felice?» «Non so. Ha i suoi vantaggi. Quando sei giovane, pensi che prima o poi arriverà il momento in cui diventerai adulto. Al più tardi intorno ai trent'anni, però, ti rendi conto che non diventerai mai adulto. Che diventerai soltanto più vecchio. Questo pensiero è ancora meno piacevole e così inizi a negare il tempo e il mondo intero nella sua ridicola serietà. Non posso farci nulla, ma sono proprio... nulla di ciò che accade intorno a me mi colpisce.» «Talvolta è importante prendere le cose sul serio. Non ti sembra?» Lui allungò una mano e le accarezzò la guancia. «Per chi, Kika? Si tratta solo della mia piccola, insignificante vita. A chi può giovare che io prenda le cose sul serio?» «Potrebbe esserci qualcuno.» «Forse. Ma nessuno è al mondo per soddisfare le aspettative degli altri.»
«Scusa», mormorò lei. «Certo, è la tua vita. Per un attimo me n'ero dimenticata.» «Ehi, Kika!» le tirò un orecchio. «Stanotte abbiamo volato. Voleremo ancora. Mi vorresti ancora se i miei piedi toccassero terra?» «Vorrei che tu scegliessi di restare in volo di tua spontanea volontà.» Si sollevò e si appoggiò ai gomiti. «Non volevo rimproverarti», aggiunse. «Non l'hai fatto.» «Non c'è proprio nulla che ti colpisca almeno un po'?» Nel momento stesso in cui pronunciava quelle parole, si arrabbiò con se stessa per quella domanda così esplicita. «Voglio dire, c'è stata una guerra», aggiunse per spostarsi su un terreno diverso. «Noi siamo distesi qui felici, ma altrove...» Liam corrugò la fronte. «Dov'è altrove, Kika? Altrove non è qui. Altrove è un'ipotesi. Altrove è soltanto dove io voglio che sia.» «Altrove è ovunque», replicò lei, caparbia. Liam si girò su un fianco. «Lo pensi veramente?» le chiese. «Sì.» «Bene. Lascia che ti racconti qualcosa su questo vertice, di cui tutti qui sono così orgogliosi. Se fossi un cencioso profugo kosovaro, che nell'inferno di un campo profughi di Blace si domanda dove siano sua sorella e i suoi genitori e soprattutto se siano ancora in vita, non potrebbe esserci un altrove più bizzarro di queste pompose celebrazioni nella vostra bella Colonia, indette soltanto perché un pazzo, oltre che un pericolo pubblico, ha assicurato che incatenerà i suoi aguzzini per qualche anno. Sono colpito. E l'altrove del Ruanda? E quello del Kurdistan? Nelle nostre città uomini e donne si danno fuoco sulle strade, perché da qualche parte i loro parenti vengono trucidati oppure ogni giorno temono di calpestare una mina e perdere un arto. Eppure è altrove. La piccola differenza sta nel fatto che Eltsin non minaccia una guerra mondiale e gli studenti cinesi non bruciano una bandiera americana. Non condividiamo mai la paura degli altri. Scambiamo semplicemente la loro paura per la nostra.» «Non avevi detto che tutto ti lasciava indifferente?» «È così. Non sono capace di struggermi per la disperazione di fronte a guerre, disordini, crimini, incendi boschivi e mareggiate. Immagini alla televisione. Non conosco quelle persone. È il meccanismo che ci sta dietro che mi fa schifo, ecco cos'è. Potrai accusarmi di essere cinico e distaccato, però non mi sorprenderai mai a mentire. Odio la falsità e, per questo, odio anche l'altrove alle nostre porte. È ciò che accade dietro l'angolo nella tua città il vero altrove, ma preferiamo sfogare il nostro turbamento globale
negli angoli più remoti del mondo.» «E questo sarebbe un motivo per non impegnarsi? Kosovo, Kuwait, Ruanda. Nessun interesse?» «Non venirmi a raccontare storie, Kika. Tutti noi non desideravamo altro che Miloševič ponesse fine alle deportazioni e alla pulizia etnica, in modo che a noi non succedesse nulla. Ecco perché d'un tratto ci siamo sentiti così vicini ai kosovari: abbiamo avuto paura dell'escalation di ciò che la NATO è riuscita a far scoppiare. Nessun popolo voleva questa guerra. L'Inghilterra ne ha piene le tasche di azzuffarsi con l'IRA, gli inglesi vogliono soltanto un po' di tranquillità... e all'improvviso Eltsin si mette a filosofeggiare sulla terza guerra mondiale. Ora devono impegnarsi, semplicemente perché gente come Tony Blair non ha bisogno di scervellarsi su come e dove sopravvivere. In contrasto con la volontà della popolazione, inneggia al turbamento e all'impegno, al pari del vostro cancelliere Schröder e del vostro ministro della Difesa Scharping, al pari del vostro ministro degli Esteri che appartiene ai Verdi, ma che tanto verde non è, al pari di Bill Clinton, il quale, della terra che i suoi aerei bombardano, uccidendo colpevoli e innocenti, sa poco più di quanto io sappia della Terra del Fuoco o del Senegal. Era quasi commovente sentirlo parlare delle splendide prospettive di un bombardamento della Jugoslavia in maggio, quando il clima è migliore che in aprile. E sapeva persino che a giugno il clima sarebbe stato ancora meglio che a maggio, diamine! Corso di geografia, primo anno, pronti! L'altrove del presidente. Trovi così riprovevole che io esprima apertamente il mio disinteresse per le numerose catastrofi mondiali, i disastri e le guerre? No, non mi riguarda. Io non c'ero. Vedo le immagini in televisione. Sto bene, grazie.» Kika lo fissava, sbalordita. Era andato su tutte le furie. Si sentiva aggredito, ma, a differenza di quanto faceva di solito, non aveva reagito con un atteggiamento altezzoso e derisorio. Era riuscita a farlo uscire dal suo riserbo. La cosa la mise di buonumore. D'un tratto, non poté fare a meno di sorridere. Rotolò verso di lui e gli spinse con forza il braccio, finché non si piegò, consentendole di scivolare su di lui. «Bene bene», disse. «Bene cosa?» «Ti ho beccato.» «Beccato? A far che?» «A dimostrare interesse.» Liam inarcò un sopracciglio. In quel momento somigliava a un David
Niven messo di fronte a un grave pericolo: un po' irritato ed evidentemente ansioso per l'impeccabilità del suo vestito. «Sembra proprio di sì.» «E cosa ne consegue?» Lui esitò. «Non so cosa ne consegua. So soltanto che oggi pomeriggio non dovevo lavorare.» «Cosa?» «Non dovevo lavorare. È stata la prima e l'ultima volta, te lo giuro, ma ti ho mentito. Oggi pomeriggio non avevo nulla da fare. Assolutamente nulla.» «E... perché allora...?» domandò Kika, benché avesse intuito dove lui volesse arrivare. «Avevo paura.» «Paura?» «Avevo paura di perderti nel momento sbagliato. La stessa paura che avevi tu, credo.» Lei distolse lo sguardo, quindi lo fissò, infine abbassò gli occhi. Oh, Dio mio, pensò. Ti prego, fa' che non sia così! Che cosa dobbiamo fare? Non posso innamorarmi di te, Liam O'Connor, di te, pazzo ubriacone, parto di una fantasia nichilista. Sono così felice e vorrei continuare a esserlo, aiutami, ti prego, non lasciarmi sola, tienimi, lasciami andare! Troppo tardi. E va bene, allora che succeda. Sta già succedendo. È successo. «Fai l'amore con me», gli disse. Che vita vivevano? Come Sweeney il pazzo, svolazzavano da un argomento all'altro; sotto la protezione di una vecchia quercia comprimevano nello stesso vocabolario pomeriggi amorosi e miserie di profughi; si creavano un bozzolo contro il mondo, come tutti nelle settimane precedenti si erano creati un bozzolo personale. Al posto dei cannoni tonanti, c'era il confortante sussurro del vento tra i rami; al posto delle case bruciate, c'era il calore dei loro corpi. Liam le cinse la vita. Lei si mise a cavalcioni sopra di lui e cominciò a fremere. Quella notte non gli disse che lo amava. E lui non disse nulla del genere a lei. Jana
Karina Potschowa. Teresa Baldi. Laura Firidolfi. Una dozzina di personalità diverse popolava la stanza buia ed elegantemente arredata dell'Hotel Hoppers, un albergo di classe nel centro di Colonia. Una compagnia spettrale sotto il comando di una non-persona di nome Jana, che era distesa sul letto, completamente vestita, e pensava, con lo sguardo fisso nel vuoto. Mancava solo Sonja Ćosić. Negli ultimi tempi, mancava sempre più spesso. Andava bene così. La sua presenza causava soltanto problemi. Ogni volta che si univa al resto della compagnia, Sonja ricordava a Jana che lei era solo un'invenzione, il semplice frutto d'illusioni e di necessità. Dal giorno in cui aveva accettato quell'incarico, rinfacciava a Jana di essere diventata indipendente e di aver dimenticato il motivo per cui era stata creata; la accusava di tradimento e la incolpava dell'escalation di tutte le sofferenze del mondo. In generale, quando si trattava di concludere affari, Sonja si rivelava un ostacolo. Per anni le cose erano andate diversamente. La creatura era riuscita a vivere in armonia con la propria creatrice. Come un golem, Jana aveva compiuto tutta una serie di lavori sporchi per dare a Sonja una solida base economica. Si completavano a vicenda. Sonja era in grado di provare rabbia e tristezza, odio e amore. Jana non provava niente di tutto ciò. Apprezzava la professionalità e la perfezione. Nel corso degli anni, aveva tolto la vita a diversi esseri umani per dare a Sonja ciò che le serviva: soldi per costituire una milizia personale, in accordo col grande presidente che avrebbe raccolto l'eredità dispersa e assegnato a ciascuno il proprio posto. Voleva costituire truppe forti, ma giuste, che ricorressero alla forza solo quand'era legittima, non bande di carnefici ottusi come quelle che circondavano Arkan e Dugi. Era un accordo perfetto. Ma ogni colpo che Jana metteva a segno rendeva Sonja sempre più titubante. Le sue forze scemavano, la sua sicurezza s'incrinava, logorata dal dubbio. Alla fine era tornata bambina. E, come tutti i bambini, incarnava la speranza che un piccolo essere umano non si potesse trasformare in un essere malvagio, e reclamava anni di vita per la Sonja adulta. Sei mesi prima la voce della donna dalle molte personalità aveva detto a Silvio Ricardo: «Sonja Ćosić in questo momento è su una collina della Krajina col pugno alzato e arde dal desiderio di seguire questa chiamata. Non possiamo più lasciarci degradare a figure marginali, a errori della storia». Lo aveva detto
senza rendersi conto che Sonja aveva deposto le armi da tempo, disgustata dal volto odioso del genocidio. Anche Ricardo, con la sua toccante preoccupazione, aveva frainteso i segnali, scorgendo la partigiana che poteva rappresentare un pericolo per l'attentatrice professionista, perché si lasciava guidare dall'odio e da una mancanza di autocontrollo. Nel frattempo, però, Jana si era resa conto che si erano sbagliati entrambi. Alla fine della storia, non ci sarebbero stati un mondo migliore, un popolo divino redento, un'eredità storica riconquistata, un grido di giustizia, nemmeno un simbolo di collera. Ci sarebbero stati soltanto venticinque milioni. Niente di più, niente di meno. Jana e Sonja si sarebbero distrutte a vicenda, per far posto a una persona nuova, che non aveva passato, ma in compenso forse aveva un futuro. Jana e Sonja. La loro morte era indivisibile. Sollevò la mano destra, la mise davanti agli occhi e mosse le dita. Sentì un leggero ronzio. Senza fretta, si allungò verso il comodino, prese la FROG e stabilì il collegamento. «Fatto», disse la voce di Mirko. «Sono nell'appartamento. Ma c'è un problema.» «Che problema?» «L'ha pedinato anche qualcun altro. A quanto pare, i piccioncini si sono involati nel bosco, ma c'era un altro tizio nascosto nella doccia.» «Ha visto...» «No. Ma naturalmente non so se sappia qualcos'altro. L'ho perquisito e poi l'ho rinchiuso. Non ho idea di cosa voglia.» «Aveva con sé qualche documento?» «La carta d'identità.» Jana rifletté. Le ultime ore erano state un susseguirsi d'inconvenienti. «Va bene», disse. «Cerchi di scoprire cosa vuole. Faccia in fretta e mi richiami.» «Ricevuto.» Ripose la FROG sul comodino, si alzò dal letto e andò al minibar, dal quale prese una bottiglia di acqua minerale. La bevve a grandi sorsi. Nessun problema era irrisolvibile, ma quasi tutti avevano uno sgradevole effetto collaterale: facevano venire la gola secca. Era stato un errore ingaggiare Paddy Clohessy? No, decise, aprendo una seconda bottiglia. Nessuno avrebbe potuto pre-
vedere ciò che era successo. Era stato Mirko a scovare Clohessy. Era il migliore del giro ed era in fuga. Circostanze quasi ideali. Paddy, che si era staccato dall'IRA e sognava una vita migliore, braccato dagli ex compagni di lotta e pronto a cogliere l'offerta delle offerte, quella che poteva sistemare per sempre la vita. Come avrebbero potuto trovare di meglio? Gli avevano offerto una nuova identità e un milione. Clohessy aveva accettato senza batter ciglio. Insieme, gli avevano creato un passato incontestabile, avevano persino creato una serie di punti di contatto telefonici, che avrebbero confermato tutte le tappe della vita privata e professionale di Ryan O'Dea per qualsiasi controllo di routine. Avevano previsto tutto. Tranne quel maledetto scienziato irlandese. Jana svuotò anche la seconda bottiglia, si distese nuovamente sul letto e attese. Dopo circa dieci minuti, Mirko si fece vivo di nuovo e le raccontò chi era l'uomo nella doccia. «Siamo messi male», commentò lei. «Non possiamo semplicemente farlo fuori.» «Concordo», replicò Mirko dopo una breve pausa. «Ma di certo non possiamo lasciarlo andare.» «No, tuttavia possiamo usarlo. Lo porti al centro spedizioni. Ci troviamo lì tra mezz'ora.» Improvvisamente le venne un'idea. Forse sarebbero riusciti a fare in modo che O'Connor e la donna non si preoccupassero di nulla fino al termine dell'operazione. Quel ficcanaso avrebbe potuto aiutarli. D'altronde, non era più possibile calcolare gli sviluppi di quella situazione. Dovevano tenere conto che, nel peggiore dei casi, la scomparsa di Kuhn e quella di Paddy Clohessy avrebbero dato luogo a un'indagine. L'appartamento di Clohessy sarebbe stato controllato. Dovevano evitare a ogni costo che qualcuno collegasse la scomparsa di quelle persone a un possibile attentato. Forse un modo c'era. Immaginò l'intero scenario. Se O'Connor si fosse intromesso, una squadra investigativa avrebbe potuto scoprire ben presto chi si nascondeva dietro Ryan O'Dea. O'Connor era pericoloso, ma liquidarlo non avrebbe avuto senso. Non potevano sapere a chi avesse raccontato di Clohessy. Ma potevano minare la sua credibilità. Così avrebbero potuto dirottare eventuali indagini. Decise di svegliare Gruškov, che alloggiava in una camera al piano su-
periore. Sapeva che il programmatore smaniava dalla voglia di fare qualcosa. Si annoiava, perché il sistema era già installato e, a quel punto, non restava che aspettare. Forse non sarebbe stata una brutta idea fargli tener d'occhio per un po' O'Connor e la donna. Il piano maturò nella mente di Jana, venne riorganizzato, affinato, ricontrollato e perfezionato, il tutto nel giro di pochi secondi. Poteva funzionare. «Mi sente, Mirko?» «Sì.» «Faccia quello che le dico. Scriva una lettera.» Kika Wagner Erano le tre e venti quando si aiutarono a vicenda a rimettersi i vestiti strappati, tra una risatina e l'altra. «Era una camicia costosa?» «Molto. Perfetta per essere strappata da te. E la tua camicetta? Un ricordo della nonna scomparsa?» «Naturalmente.» «Mi spiace. Ti stava bene.» «Il suo spirito si scaglierà contro di noi. Sei un dissoluto! Hai visto troppi film con Michael Douglas.» «Sbagliato. È lui che ha visto troppi miei film.» Uscirono da sotto la cupola arborea. Era quasi una separazione dolorosa. Non stavano lasciando semplicemente un posto, ma un'isola fuori dal tempo. Un altrove, pensò lei. Avrebbe continuato a essere un altrove? Pensò alla giornata che stava per cominciare. Avrebbero potuto dormire fino a tardi, amarsi, oziare. Lei aveva una serie d'impegni, ma nel tardo pomeriggio. Per quanto agisse in incognito come dama di compagnia di O'Connor, ciò non aveva impedito alla casa editrice di affidarle pure due incontri coi responsabili della redazione culturale della WDR e alla RTL. 26 Alle quattro e mezzo avrebbe incontrato quelli della televisione pubblica, un'ora e mezzo più tardi quelli della rete privata. Dopodiché, se le cose non 26
La WDR, acronimo di Westdeutscher Rundfunk, è una rete radiotelevisiva pubblica. La RTL, acronimo di Radio Télévision Luxembourg, è una rete televisiva commerciale. Entrambe hanno la loro sede principale a Colonia. (N.d.T.)
fossero andate per le lunghe e a nessuno fosse venuto in mente d'invitarla a cena, sarebbe stata libera. Libera di fare qualsiasi cosa. Costeggiarono il laghetto tenendosi stretti. Sopra di loro risplendeva fredda e tagliente una falce di luna. «Stai bene?» le chiese Liam dopo un po'. «Da favola. E tu?» «Sono di un buonumore indecente. Non dovevamo pedinare qualcuno?» «Mi hai vietato di pensarci.» «Da quando lasci che qualcuno ti vieti qualcosa?» «Le regole del gioco non escludevano ogni riflessione?» «Verissimo.» «Ma naturalmente hai ragione. Che facciamo per quanto riguarda Paddy?» Lui rifletté. «Lo decidiamo poi, se la tua macchina è ancora dove l'hai lasciata.» Qualche minuto più tardi, Kika si accomodò sul sedile del passeggero della Golf. Lui aveva insistito per guidare. Le andava bene. Le andava bene qualsiasi cosa, purché non finisse. Assecondando un impulso, allungò la mano dietro di sé e cercò il cellulare. «Che fai?» chiese Liam. «Credevo di averlo perso nel parco», rispose lei. «Sei sicuro di cavartela, col volante a sinistra?» «No.» «E Paddy?» Lui scosse il capo. «Direi che è un po' tardi per intrattenersi con lui. Propongo di andare a trovarlo all'aeroporto domani, voglio dire stamattina, quando sarà di nuovo in servizio. Gli parlerò, sempre che ne abbia voglia. Se poi saremo ancora convinti che qualcosa bolle in pentola, avvertiremo la polizia.» «Mi sembra un'idea ragionevole.» Sbadigliò e si stiracchiò. Le cadde lo sguardo sul display del cellulare, che stringeva ancora tra le dita. Le sfuggì un: «Merda!» Lui si voltò a guardarla. «Che succede?» «Non c'è spazio per nuovi messaggi, dice. Qualcuno mi ha mandato un SMS, ma la memoria è piena.» «Aspetti qualcosa d'importante?» Lei corrugò la fronte. Passò in rassegna i messaggi salvati. Erano di a-
miche, conoscenti, colleghi. Niente che non avrebbe potuto cancellare, ma se ne dimenticava sempre e ignorava sistematicamente la piccola busta lampeggiante che le segnalava quando la memoria era piena. «No», rispose. «Forse è la casa editrice. Oppure Kuhn.» Lui mise in moto. Mentre rientravano in albergo, lei cancellò i messaggi, l'uno dopo l'altro. Non era improbabile che il messaggio non recapitato circolasse ancora nell'etere. Il display indicò la connessione alla rete, poi comparve subito un nuovo messaggio. CINQUE CHIAMATE SENZA RISPOSTA. «Accidenti!» esclamò Kika, sorpresa. «Siamo stati molto richiesti nelle ultime tre ore.» «Puoi stabilire chi era?» NESSUN NUMERO SCONOSCIUTO, diceva il display. «Quanto è stupido, questo aggeggio! Ti dice che conosce il chiamante, ma non specifica chi sia. Ho una quarantina di numeri in memoria, potrebbe essere chiunque.» «Chi potrebbe chiamarti tra mezzanotte e le tre?» «Ottima domanda.» «Forse Kuhn ha sentito la nostra mancanza?» azzardò lui. «Forse voleva sapere che cosa stavamo combinando.» Liam aveva ragione. Aveva senso. Kuhn non aveva apprezzato la loro idea di andare da Paddy Clohessy e in più era sembrato offeso. «Dici che devo richiamarlo?» «A quest'ora? Sono le tre e mezzo passate, Kika! Andrà su tutte le furie. Già, chiamalo. È un'ottima idea.» «Sei perfido. Forse però era qualcosa d'importante.» Esitò. Poi scrollò le spalle. «Va bene, lo chiamo. Al massimo mi staccherà la testa.» Compose il numero di cellulare. Non voleva farlo svegliare dal centralino dell'albergo, in caso stesse dormendo, il che era probabile. Non avrebbe fatto squillare il telefono all'infinito. Se non avesse risposto, avrebbe lasciato perdere. Invece lui rispose al terzo squillo. «Sono Kika.» S'interruppe. «Tutto bene? Mi spiace se l'ho svegliata...» «Non mi ha svegliato, stavo leggendo.» «Leggendo?» «Sì, be'... mi sono portato dietro una cosa... il manoscritto di quel tizio che ha scritto un romanzo sulla casata degli Hohenstaufen. Ne avevamo
parlato, ricorda?» Le parve che Kuhn avesse un tono strano. Non sembrava di malumore; piuttosto avvilito. «Sì, certo», rispose. «Gli Hohenstaufen. Per caso ha cercato di chiamarmi al cellulare, stanotte? Non l'avevo con me e...» «Come?» «Il cellulare.» Che gli prendeva? Sembrava assente. Forse era sul punto di crollare addormentato su quel manoscritto. «Volevo sapere se mi ha chiamato nelle ultime ore.» «No. Perché avrei dovuto?» «Non lo so.» Lui tacque per un po'. «E voi, tutto a posto?» «Non potrebbe andare meglio.» «Siete stati da quel tale, Paddy Clohessy? Era in casa?» «No. Ho l'impressione che lei sia stanco, Franz. Perché non mette via quel maledetto manoscritto e non se ne va a dormire? Sono quasi le quattro.» «Questo lo so anch'io.» Sbadigliò. O quantomeno sembrò che ci stesse provando. «Ah, ho dimenticato di dirle una cosa... Domattina a colazione non ci sarò e probabilmente starò via tutto il giorno. Devo andare prima a Düsseldorf e poi a Essen. Una scocciatura. Ho ricevuto la telefonata subito dopo che siete usciti.» Kika rimase sbigottita. «Che telefonata?» «Da Amburgo.» Kuhn ansimava, come se gli mancasse l'aria. «La solita storia. Non hanno fatto i compiti. C'è stato qualche problema con le consegne in alcune librerie e poi c'è da organizzare una conferenza. Visto che io sono in zona, hanno pensato di mandarmi a calmare le acque e stronzate del genere. Come al solito. Si... goda la giornata, tanto non avevamo un programma definito per domani. E poi voi due v'intendete a meraviglia», aggiunse. «Come il gatto e la volpe.» Fece una risata sciocca. Lei fu quasi sollevata per quella piccola cattiveria. Quello era il vecchio Kuhn. «È davvero tutto a posto?» gli chiese, preoccupata. «Cosa? Sì, certo. Perché non dovrei star bene? Ma adesso... ah... vado a dormire. Ha ragione. Le quattro, Dio mio! Maledetti Hohenstaufen.» Per un attimo ci fu un disturbo nella comunicazione. «Oggi non sono a posto. Non è da me. Troppa acqua sotto i ponti, ultimamente. Perciò fate i bravi e non rompetemi più le scatole, d'accordo?» «D'accordo. D'accordo!» «Dove siete?»
«Stiamo tornando in albergo.» «Che non vi venga in mente di bussare. Altrimenti sono guai.» «Va bene.» «Allora... ci vediamo domani. Possiamo sentirci per telefono, ho con me il cellulare.» «Perfetto.» Kika chiuse la comunicazione e fissò pensierosa il piccolo monitor. Dopo alcuni secondi, la luce si spense. «Allora?» volle sapere Liam. «Non è stato lui a chiamarmi.» S'interruppe. «Qualcosa non va. Gli hanno appioppato una serie d'impegni per domani. Credi che abbiamo fatto troppo i misteriosi, facendolo arrabbiare?» «Non abbiamo fatto i misteriosi. Poteva venire anche lui.» Liam sogghignò. «Poi però avrebbe dovuto fare la guardia all'auto per tre ore. E poi cosa farebbero i bar degli hotel di questo mondo senza i Kuhn di questo mondo?» «Non so... mi fa pena. Credo quasi che sia un po' geloso.» «Di me?» «Gli manca una donna, tutto qui. E la cosa gli pesa.» Liam imboccò la rampa del Maritim e proseguì verso il garage sotterraneo. Si fermò davanti alla saracinesca, si chinò verso Kika e la baciò dolcemente e a lungo. «Non preoccuparti per Kuhn», le disse. «Certo, non è un tipo cui le donne corrano dietro per il suo aspetto. In compenso, non deve preoccuparsi che qualcuna lo sposi soltanto per il suo aspetto.» Centro spedizioni Lo slavo gli tolse di mano il Nokia e annuì soddisfatto. «Bravo», disse. «Molto bravo.» Kuhn si accasciò. Perché Kika non aveva reagito al suo SMS? Doveva averlo ricevuto già da un bel po'. Se non le era arrivato, era tutto perduto. Le ultime ore erano state un inferno. Dopo la doccia obbligata, lo slavo lo aveva chiuso in bagno e lo aveva lasciato lì per trenta minuti. Gli aveva portato via il Nokia. Kuhn lo aveva sentito aggirarsi nella casa, forse per sbrigare qualche faccenda. La paura di restare rinchiuso lì dentro per sempre era superata soltanto dal terrore del momento in cui l'uomo sarebbe tornato a prenderlo.
Infine era stato liberato dalla sua prigione e senza essere malmenato... o peggio. Lo slavo lo aveva spinto in soggiorno e gli aveva detto di sedersi sul divano. Aveva riposto l'arma, ma Kuhn non dubitava assolutamente che sarebbe riuscito a tirarla fuori più in fretta di quanto un essere umano potesse balzare in piedi. L'uomo gli aveva fatto varie domande, facendogli capire chiaramente ciò che lo aspettava se avesse pensato d'imbrogliarlo. Così Kuhn gli aveva raccontato dell'incontro di O'Connor con Clohessy, senza però menzionare Kika. Era il massimo dell'eroismo che riuscisse a racimolare... forse poteva almeno tenere fuori lei. Lo slavo aveva ascoltato con attenzione e alla fine aveva accennato un sorriso. Probabilmente i suoi disperati sforzi lo divertivano. Agli occhi di quell'uomo, Kuhn doveva apparire come uno studentello che, con le orecchie rosse dalla vergogna, cerca di nascondere qualcosa alla madre. «Ti aspetta qualcuno?» chiese lo slavo tirando fuori il cellulare di Kuhn. «Ti chiamerà qualcuno?» «Non so», balbettò Kuhn. «Non stanotte.» «Sei sicuro?» Forse sapeva dell'SMS? Impossibile. Kuhn l'aveva spedito e cancellato subito dopo. Non ce n'era traccia nella memoria. L'uomo si rigirava il cellulare tra le mani, con fare pensieroso. «E O'Connor?» chiese in tono strascicato. «E la donna? Già che ci siamo, come si chiama la donna?» «Non lo...» Si trovò di nuovo di fronte la canna della pistola. «Kika Wagner!» gridò. «Dio mio! La prego, la lasci stare! Lei non c'entra nulla, è la mia addetta stampa, non sa niente di niente, mi deve credere!» «E tu? Tu cosa sai?» «Niente. Glielo giuro, non so niente, proprio niente!» Lo slavo scosse il capo con una certa meraviglia. Ripose l'arma e ammiccò. «Perché ti complichi inutilmente la vita, amico? Dipende soltanto da te. Perché non dire la verità fin dall'inizio?» «Glielo prometto», ansimò Kuhn. «Le prometto tutto quello che vuole!» Il suo interlocutore si accovacciò. «Se non altro è un inizio. Continuiamo, allora. E domani? Chi sentirebbe la tua mancanza?» Kuhn sentì il cuore che smetteva di battere. «La prego», piagnucolò. «Non mi faccia niente, io...»
«Non agitarti», disse lo slavo, quasi con dolcezza. «Nessuno parla di farti qualcosa. Dopodomani sarà tutto finito e non dovrai più preoccuparti di niente.» Per un po', rimase a guardarlo in silenzio. A Kuhn sembrava di vedere i pensieri che scorrevano nella testa dell'uomo. Poi quello gli fece cenno di alzarsi. «Torna nella doccia», lo esortò gentilmente. Kuhn si rimise in piedi. Le gambe quasi non lo reggevano. Tremando entrò in bagno e lo slavo ce lo rinchiuse ancora una volta. Tornò dopo pochi minuti. «Ecco che cosa faremo. Fai attenzione», gli disse, col tono di chi sta organizzando una festa. «Escogitiamo un bel piano. Che ne dici? Per ogni eventualità. Per esempio, stabiliamo cosa dirai se questo qualcuno vuole parlare con te. Tipo dove sarai domani, eccetera, eccetera. Intesi? Voglio che tu chiami i tuoi amici domattina presto e racconti loro una storia credibile.» Senza attendere una replica, caricò Kuhn di una montagna di roba: vestiti, scartoffie, un raccoglitore. Lasciarono l'appartamento. Lo slavo non si premurava di non far rumore. Kuhn sapeva perché. Essere furtivi era il modo migliore per farsi scoprire. Kuhn camminava da bravo davanti all'altro, ben sapendo che qualsiasi tentativo di fuga era destinato a fallire. Passarono accanto alla Golf di Kika. Kuhn ebbe una stretta al cuore. Dov'era? Dov'era O'Connor? Che cosa diavolo era successo a entrambi? Poche centinaia di metri più in là, lo slavo lo tirò per la manica e gli indicò una Jeep parcheggiata sotto gli alberi della Vorgebirgstraße. «Guidi tu», gli disse. Per l'intero tragitto, lo slavo rimase seduto accanto a lui senza proferir parola. Nonostante i nervi a pezzi, Kuhn riuscì a non finire contro un albero, a non passare col rosso e a restare nella sua corsia. I suoi pensieri oscillavano tra una speranza senza freni e un ultimo, nostalgico sguardo al suo passato. Si vide passare davanti agli occhi vari momenti della propria vita, le strade che aveva scelto, le possibilità di dare un corso diverso a quella serata, ma erano tutte strade che finivano nel vuoto. Di lì a poco, avevano attraversato il Reno e raggiunto una piccola zona industriale, costeggiando baracche, uffici, superfici di carico e parcheggi. Il cortile in cui entrarono sembrava appartenere a un'azienda di spedizioni. Nell'oscurità, Kuhn riuscì a distinguere i contorni massicci di diversi camion. Lo slavo gli fece cenno di fermarsi e di scendere. Raggiunsero a piedi un capannone e vi entrarono. C'erano lampade al neon che irradiavano una luce fredda. In mezzo, un'enorme cassa era sistemata su una specie di autoarticolato. In un primo
momento, Kuhn credette di avere di fronte il rimorchio di un camion, tanto era grande la struttura, ma le ruote erano disposte di traverso e poggiavano su rotaie. Da un lato, spuntavano alcuni cavi che scomparivano in due strutture massicce. Niente che gli sembrasse familiare. Come tutti gli intellettuali, abitava nell'Olimpo della scienza e, di lassù, la prospettiva sulle cose pratiche della vita era piuttosto annebbiata. Vide altre cose: un treppiede argentato, una console su un piedistallo... La sua curiosità infranse il muro della paura, ma non osò fare domande. In effetti non voleva sapere. Non voleva sapere un bel niente. Qualsiasi libro e qualsiasi serie poliziesca spiegavano benissimo ciò che accadeva a chi sapeva troppo. «Mettiti lì.» Lo slavo lo spinse contro una parete. Sottili tubi di acciaio scendevano dal soffitto al pavimento. L'uomo tirò fuori un paio di manette e legò Kuhn a uno dei tubi. Poi se ne andò e scomparve dietro una porta, in fondo al capannone. Kuhn lo seguì con lo sguardo, poi si ritrovò solo con se stesso e con quella situazione pericolosa. Si guardò intorno. A eccezione dell'enigmatico veicolo, non c'era praticamente nulla nel capannone. A qualche metro di distanza, appoggiati a una parete, c'erano un lungo tavolo di legno e alcune sedie. Il mobilio era tutto lì. Non era certo un luogo accogliente. Sentì qualche voce smorzata. All'improvviso, rendendosi conto di essere definitivamente prigioniero, Kuhn si sentì più avvilito che mai. Non osava immaginare ciò che gli avrebbero fatto, né ciò che avevano fatto a Kika o a Liam. Fu travolto da una terribile sensazione di abbandono. Cominciò a singhiozzare. La porta si riaprì. Una donna lo raggiunse. «Che stupido», disse. Aveva una voce morbida e scura. Parlava tedesco con un accento straniero quasi impercettibile. Sulle prime, Kuhn pensò che fosse italiana, ma poi non ne fu così sicuro. «Mi... ucciderete?» chiese. Nell'ampio spazio vuoto del capannone, la sua voce suonò patetica. All'improvviso si vergognò. Era ridicolo. Forse lei lo avrebbe ammazzato e lui si vergognava di aver paura di fronte a una donna. Lei lo guardava coi suoi occhi scuri. In un certo qual modo era bella, anche se i suoi lineamenti ricordavano una maschera. Ma aveva uno sguardo di un'intensità irritante. «Dipende», disse. «Da cosa?» «Non deve avere paura. Non uccidiamo indiscriminatamente. Scegliamo con cura le nostre vittime.» Fece una pausa e attese che quelle parole fa-
cessero effetto. Poi disse: «Se riesce a restare fuori dalla circolazione con una scusa plausibile fino a domani sera, in modo che nessuno dei suoi amici sospetti qualcosa o vada alla polizia, dopodomani sarà libero. Questa è la mia proposta». Dentro di lui si riaccese la speranza. Dalle parole della donna sembrava che Kika e O'Connor non fossero in pericolo immediato. «Sarà fatto», promise senza fiato. La donna chinò leggermente il capo. Poi gli si avvicinò, gli prese il mento e gli premette le guance. «Non ammetto errori, intoppi né problemi. Questo deve saperlo. Se fa bene la sua parte, vivrà.» Quindi lo lasciò andare. Kuhn deglutì e si appoggiò alla parete, esausto. «Farò qualsiasi cosa», mormorò. «Purché basti», replicò lei. Tenne per alcuni secondi lo sguardo puntato su di lui. Poi si voltò e scomparve dietro il grosso pianale da autocarro. Dopo alcuni minuti, ricomparve lo slavo. Chiese nuovamente a Kuhn i dettagli della sua permanenza a Colonia, di Liam e di Kika. Poi gli impartì una serie d'istruzioni. Infine lo lasciò nuovamente solo. Kuhn restò seduto sul pavimento, indifferente, con lo sguardo fisso davanti a sé. Nessuno s'interessò di lui. Aspettò, senza sapere che cosa stesse aspettando. Era quella la parte peggiore. Poi squillò il cellulare. Lo slavo lo raggiunse di corsa e, con un gesto eloquente, si portò la mano al cuore. Che fosse per indicare dove teneva la pistola con cui, in caso di necessità, avrebbe fatto fuori Kuhn, oppure il punto in cui sarebbe penetrata la pallottola, l'editor non commise errori. Disse ciò che gli avevano intimato di dire e lo fece abbastanza bene da far spuntare un sorriso sul volto spigoloso dell'altro. Kuhn riuscì a sorridere a sua volta. «Voglio vivere», disse. L'uomo annuì. «Lo vogliamo tutti.» L'SMS. L'ultimo alito di speranza. E ce n'era anche un'altra. Forse. Lo slavo non si era accorto che Kuhn aveva inserito due indizi nascosti nella conversazione telefonica. Li aveva celati talmente bene da domandarsi se Kika se ne fosse resa conto. Ma non aveva osato essere più chiaro. Sarebbe stata una pessima idea, probabilmente l'ultima della sua vita. In ogni caso, si disse, sono nell'invidiabile condizione di sapere che è in
atto un complotto. Ne sono certo. So pure che, di qualsiasi cosa si tratti, avverrà all'aeroporto. Nello stesso istante, si rese conto anche di chi era il bersaglio. No, non mi uccideranno, pensò con amarezza. Non così presto. Probabilmente non fino a domani sera. Di lì alla sera successiva sarebbe dovuto accadere un miracolo. Non importava chi lo facesse. Stanza dei computer Mirko tornò nella stanza che fungeva da centrale di comando e attese. Aveva le palpebre a mezz'asta e la sua mente funzionava grazie a una sorta di generatore d'emergenza. Dormiva di rado, talvolta non chiudeva occhio per diverse notti consecutive. La trance era il suo modo per rigenerare il corpo e lo spirito. Dieci minuti di trance erano più efficaci di tre ore di sonno. Dopo un po', Jana lo raggiunse, con in mano una tazza di caffè appena fatto. Mirko la osservò. Constatò con soddisfazione che, nonostante gli imprevisti, Jana appariva equilibrata e rilassata. In realtà, in quell'ultima fase, non avevano molto da fare. Se non fosse stato per la rimpatriata di O'Connor e Clohessy e per l'imprevista comparsa di Kuhn nella doccia, si sarebbero davvero annoiati. Quando non erano al centro spedizioni, non esisteva nessuna Jana. Laura Firidolfi, socia unica della Neuronet S.p.A. di Alba, e il suo programmatore capo, Maksim Gruškov, alloggiavano all'elegante Hotel Hoppers nel quartiere belga di Colonia, per una serie di colloqui con sviluppatori di software del posto. Dopo settimane e mesi di travestimenti, nessuno avrebbe mai sostenuto che erano stati a Colonia prima di allora. La direttrice amministrativa e il direttore tecnico della ditta piemontese soggiornavano sul Reno per la prima volta, per una settimana, muniti di due Audi 8 a noleggio e non si stancavano mai di sottolineare come fosse piacevole unire gli affari a un po' di turismo. Per un po' regnò il silenzio. «Ci siamo», disse infine Mirko. «Non posso più fare nulla per lei. Da questo momento è sola.» «In caso di necessità, posso raggiungerla via FROG?» «Certo.» Le rivolse uno sguardo indagatore. Poi aggiunse: «Le cose sono andate un po' diversamente dal previsto, Jana. Voglio essere franco con
lei: ai miei committenti non interessa il modo in cui lei risolve i problemi. Danno per scontato che venticinque milioni siano sufficienti. Naturalmente sanno pure che, con un acconto a sette cifre, si può sparire dalla circolazione in un batter d'occhio». «Non accadrà», replicò Jana, imperturbabile. «La contropartita sarebbe troppo alta per me.» «E io dovrei riscuoterla.» Mirko annuì. «Malvolentieri, fra l'altro. Abbiamo fatto molta strada insieme.» «Sì, ci siamo divertiti», osservò Jana con un certo sarcasmo. «Quando incontrerà i suoi committenti?» «In tarda mattinata.» Esitò. «I nostri committenti, dovrei dire. Sono implacabili, ma nel contempo apprezzano molto il suo impegno.» Jana soffiò sul caffè. «Finché non so chi si nasconde nel Cavallo di Troia, sono i suoi committenti, non i miei.» Mirko scrollò le spalle. «Come desidera. Tornando alle questioni operative, stanotte abbiamo trasferito altri dieci milioni sul conto che ci ha indicato, per vie traverse, come concordato. Il saldo sarà trasferito non appena avremo una conferma dell'esecuzione dell'incarico.» Sorrise. «Una conferma che dovremmo ricevere piuttosto rapidamente. Sarà trasmessa da tutte le reti televisive del mondo.» «Un reality show», mormorò lei. «Già. Talvolta penso che potremmo far saltare in aria mezza America e la gente lo scambierebbe per una soap opera. Ognuno ha ciò che si merita.» Mirko fece una pausa. «Collaborare con lei è stato un grande piacere, Jana. Spero che continui così. Tra meno di un'ora, lascerò il Paese. Non mi seguirà e non farà nessun tentativo di rintracciare me o i miei committenti. Non ci rivedremo più e non avremo mai più notizie l'uno dell'altra. Se c'è qualcos'altro di cui dobbiamo parlare, questo è il momento.» «Forse ci vorrebbe un quartetto d'archi per sottolineare l'addio.» Mirko rise sommessamente. «Forse non mi crederà, però lei mi piace. Nel nostro lavoro non c'è molto spazio per le simpatie e in genere non mi capita di provarne. Lo prenda quindi come un'espressione della mia stima personale se le dico che forse sentirò un po' la sua mancanza.» Per un momento, Jana rimase impassibile. Poi la sua espressione si addolcì. «È molto gentile da parte sua, Mirko. Ma naturalmente sa benissimo anche lei cosa succede se si prende sul personale un lavoro come questo.» «Per lei non è una questione personale?» «In altre circostanze forse lo sarebbe. Lo so, in passato lei ha tentato di
far leva sulle mie radici patriottiche. Forse aveva ragione. Ma, nel contempo, mi ha anche offerto venticinque milioni. Negli ultimi tempi mi sono chiesta se l'avrei fatto anche per meno.» «E l'avrebbe fatto?» «No.» «Hmm... Credevo che il patriottismo costasse caro.» Mirko la scrutò. Poi aggiunse: «Però potrebbe usare i soldi per determinati scopi che le stanno molto più a cuore di questo lavoro. Per non parlare del fatto che, eseguendo questo incarico, renderà un servigio impagabile a gran parte del suo popolo. Anche se lei non ne fosse convinta, sarebbe comunque una grande vittoria». «Una vittoria per chi?» «Per i serbi. Per il popolo serbo.» «Sì, noi serbi riusciamo sempre a trasformare le sconfitte in vittorie. Crede veramente che stiamo facendo un favore al popolo serbo?» Mirko esitò. «Alla causa serba, sì.» «La causa.» Jana corrugò la fronte. Poi scosse il capo. «È strano, non trova? Evidentemente oltre i destini personali c'è sempre anche una causa nazionale. Prima non lo capivo. Sa, Mirko, alla fine della mia carriera mi ritrovo di nuovo su un terreno astratto. All'inizio combattevo per le persone. Funzionava. Si possono avere opinioni differenti sui modi, ma, finché sapevo quanto valesse ogni vita umana che volevo salvare, sapevo anche quanto fosse terribile sacrificarne un'altra a tale scopo. Ciò che non sapevo era che ai livelli più alti si facessero accordi per mandare a morire degli esseri umani al servizio di una causa. Forse mi manca la prospettiva dello statista, ma non ho mai capito cosa sia realmente questa causa. Dove la si può trovare? Che aspetto ha? Dove vive? Dieci anni fa, Miloševič parlava del popolo serbo. Oggi parla della causa serba. C'è anche la causa albanese. Chi è al potere definisce la causa a modo proprio. Contrapposta alla Serbia c'è la causa dell'Occidente e della NATO, per non dimenticare la causa dell'umanità in generale. In qualche modo, ormai si combatte soltanto per una causa.» Mirko rimase in silenzio. «Conoscevo un po' di serbi della Krajina che sono morti», proseguì Jana. «Sono caduti vittime dei croati... anzi dovrei dire della causa croata. O almeno allora era la causa croata. Io ne ho fatto una questione personale. Mi sembrava la prova definitiva che, nel 1989, Miloševič avesse ragione a descrivere i serbi del Kosovo Polje come vittime di una tragedia durata
seicento anni, fatta di discordie, oppressioni e tradimenti. All'epoca, ero patriota fino al midollo. In base alla mia esperienza in merito alla causa croata, pensavo che ciò che era accaduto ai profughi in Krajina non dovesse ripetersi. Ma sembrava che si stesse ripetendo nel Kosovo. Allora ho combattuto lì in nome della causa serba, ma in senso stretto la mia causa era soltanto la morte di alcune persone.» «Credeva in qualcosa. Che c'è di male in questo?» «Nulla. Ma, quando ho capito che Miloševič e gli stessi esponenti dell'opposizione serba tenevano di più alle tombe dei propri antenati in Kosovo che a coloro che ci vivono oggi, ho perso la fede per la prima volta. Due settimane fa, quando Slobo ha deposto le armi, l'ho persa una seconda volta. Si renderà conto, Mirko, che la catastrofe umanitaria del Kosovo continuerà. Gli albanesi torneranno e passeranno al contrattacco: saranno loro a dare la caccia ai serbi, a torturarli, derubarli e ucciderli. Slobo ci ha fatto un brutto scherzo, ma è un politico. Può sempre rifarsi alla causa. Intanto inizia il secondo round della tragedia e stavolta il mondo non presterà più tanta attenzione. I cattivi siamo noi e, dopo la pace di Colonia, tutti i valori sono tornati al loro posto. Se stavolta saranno i serbi a scappare dal Kosovo e a essere privati dei loro averi e della vita, non ci sarà un secondo intervento. Questo Miloševič l'ha messo in conto. E per questo motivo lo disprezzo.» «Un tempo lo ammirava.» «Ammiravo la determinazione con cui voleva restituire ai serbi ciò che spettava loro. Anche il fatto che fosse pronto ad affrontare chiunque per questo. Certe cose non si possono ottenere senza combattere, lo sapevamo tutti. Ma non posso ammirare un macellaio, Mirko. Gli attentati sono simboli. Il genocidio è una barbarie. Miloševič lo sapeva benissimo fin dall'inizio. Ci ha mentito e ci ha tradito. Sapeva pure che avrebbe sacrificato la sua stessa gente per la sua... causa. Solo che sei mesi fa non ne ero così certa.» Jana bevve un sorso di caffè e guardò Mirko negli occhi. «Capisce, io ho smesso di combattere per una causa. Non ho mai voluto massacri, campi di concentramento e deportazioni, per nessuno. Non volevo nemmeno diventare un'assassina. Non volevo uccidere per gli interessi di terzi o soltanto per denaro. Ho fallito in tutto. Mi resta soltanto la mia particolare abilità nello svolgere il mio lavoro. Vengo pagata per uccidere. Non posso più credere alle cause, né tantomeno posso far tornare indietro il tempo, quindi non mi resta che scegliere se impiccarmi nel primo solaio disponibile o dedicarmi alla mia professione. Francamente non sono così
amareggiata da aver perso la gioia di vivere. Nel corso degli anni, sono diventata ricchissima e me la passo molto bene. Forse è una vita un po' vuota. Ma venticinque milioni potrebbero certamente cambiare le cose.» Mirko la guardò e si sentì turbato e attratto nel contempo. «Non mi dovrebbe raccontare tutte queste cose», osservò. «E perché no? Trovo sciocco trascinarsi dietro oscuri segreti. Non mi lamento di ciò che faccio. È il mio lavoro. Lo è diventato. Tutti facciamo guerre per procura. Cosa l'abbia spinta a diventare ciò che è non m'interessa. Ognuno, a modo suo, dà l'esempio. Miloševič non sistema il mondo dei serbi, ma soltanto il proprio. L'Europa trasuda puro altruismo, ma alla fine non fa che adempiere al patto di alleanza con gli Stati Uniti. E la Germania? Secondo lei che guerra combattono i tedeschi?» «Non lo so.» Jana sorrise. «Bombardano il loro disastroso secolo, Mirko. In nessun altro luogo l'intervento contro il mio popolo è stato giustificato citando Auschwitz tanto spesso quanto in Germania. Per questo i tedeschi erano tutti così silenziosi mentre cadevano le bombe su Belgrado e per questo le discussioni erano così stranamente pacate. Avevano le migliori intenzioni, certo, però credo che, in realtà, non abbiano bombardato i serbi, ma la Gestapo, le SS e la Wehrmacht. Con effetto retroattivo, per essere finalmente assolti dal peccato originale.» Mirko alzò le mani. «Probabilmente ha ragione, ma che differenza fa?» «Nessuna. Volevo soltanto chiarirle che non c'è motivo di esprimermi la sua stima personale per qualcosa. Facciamo il lavoro sbagliato per poterci piacere. Non sia deluso, Mirko. Vada dai suoi committenti e dica loro che lavoro per i soldi. E che li voglio, una volta terminato il lavoro. È più che sufficiente.» Rivolse lo sguardo altrove e continuò a bere il caffè. Mirko rimase in silenzio. Si rese conto ancora di più di quanto ammirasse quella donna. È un vero peccato, pensò. Kika Wagner Si svegliò di soprassalto. In un primo momento provò un terribile senso di vertigine. Cercò di stabilire dove si trovava. Il cuore le batteva all'impazzata. I fantasmi di un sogno inquietante stavano svanendo nelle prime luci dell'alba, lasciando dietro di sé vaghi ricordi di morte e di pericoli.
Si era sentita braccata. Accanto a sé vide un paio di piedi. Alzò la testa e, facendo risalire lo sguardo riconobbe un paio di gambe, un addome piatto, spalle possenti, un uomo intero. Era Liam. Il suo respiro era tranquillo e regolare, la testa era posata di lato sul cuscino. Vedendolo, alla nervosa inquietudine si mescolò un profondo desiderio, producendo un cocktail che, nel complesso, era più sconcertante che gradevole. A quanto sembrava, era lei a essere distesa nella direzione sbagliata. Lentamente il cuore si mise a battere a un ritmo più regolare. Perché si facevano sogni così paurosi quando si raggiungeva l'apice della felicità? Ancora incerta, si mise a sedere e ripercorse la cronologia delle ultime ore. I frammenti di ciò che era successo da quand'erano usciti dalla cupola di rami si ricomposero, l'uno dopo l'altro, come bambini smarriti. Era al Maritim. Notò la credenza di fronte al letto. Quando vide la bottiglia sotto lo specchio, piena soltanto per un quarto, d'un tratto gli eventi si ricostruirono da sé. La conversazione telefonica con Kuhn. La casa editrice lo aveva chiamato. Nel bel mezzo della notte, a quanto sembrava. Sarebbe andato a Essen e a Düsseldorf e probabilmente non sarebbe rientrato fino all'ora di cena. Era incredibile! Avevano chiesto al portiere di notte di procurare loro una bottiglia di quell'affare, alle quattro del mattino. Poi si erano infilati nel letto di Liam e avevano cominciato a bere, troppo esausti per fare l'amore un'altra volta e tuttavia ben determinati a non lasciar finire quel momento. Quanto poteva andare avanti in quel modo una persona che non si chiamava Liam O'Connor? Mise le gambe penzoloni fuori dal letto e continuò a lambiccarsi il cervello su cosa l'avesse svegliata. C'era stato un rumore. Sgradevole, penetrante. Un bip. Un doppio, penetrante bip, di quelli che il suo cellulare emetteva quando riceveva un messaggio. Il messaggio! Balzò in piedi con uno slancio un po' eccessivo e barcollò. Quanto tempo aveva dormito? Il quadrante del suo orologio cambiò posizione diverse volte, sinché le sue facoltà percettive non riuscirono a coordinare lancette e numeri in un insieme comprensibile.
Le otto e un quarto. Non c'era da meravigliarsi che riuscisse a malapena a stare in piedi. Procedendo a passo incerto, attraversò il caos dei vestiti sparpagliati sul pavimento. Per poco non calpestò il cellulare. Era vicino a una delle sue scarpe. Si chinò e sentì il cervello scivolare in avanti nel cranio, fino a cozzare morbidamente contro la fronte. Ben presto sentì montare la nausea e dovette raddrizzarsi senza aver concluso nulla. Al secondo tentativo fu più cauta. Piano piano, tenendo il cellulare nella mano destra, si sollevò e lesse la scritta sul display. NUOVO MESSAGGIO Premette i tasti delle funzioni l'uno dopo l'altro, finché non comparve il numero del mittente. Era il numero di Kuhn. Di Kuhn? Ebbe la sensazione che fosse in agguato qualcosa d'illogico, ma non le venne in mente perché. Con un'ulteriore pressione del pollice fece comparire il testo sullo schermo. I caratteri si trasformarono in parole. Fissò il display con uno sguardo apatico, incapace di capire il senso del breve messaggio. AIUTO - APARTAMNETO DI PADY - LOYAK - LOJAG? SPARA - C'È PROBLEMA - PIEZA - SPECCIO DATIVO MIR NO Sotto, come mittente, compariva ancora una volta il numero di Paddy Clohessy. Ma non fu quello che le suscitò una sensazione di profonda inquietudine. Il display mostrava in modo chiaro e inequivocabile quando il messaggio era stato inviato. INVIATO: 17 GIUGNO 1999 00.56.12 Due ore e mezzo prima della sua telefonata con Kuhn. «Liam», sussurrò. Nonostante il mal di testa, prese l'uomo per le spalle e lo scrollò con tutte le sue forze. «Liam. Liam! Svegliati.» Lui aprì gli occhi e la guardò. «Sláinte», disse. «È rimasto qualcosa da
bere?» Maksim Gruškov Al Maritim erano tutti indaffarati. Erano quasi le nove. C'era un andirivieni di autobus. Erano arrivate altre schiere di diplomatici e corrispondenti, nella hall andavano e venivano i carrelli carichi di valigie, c'era ressa alla reception. Maksim Gruškov osservava tutto con una certa indolenza. I suoi occhiali riflettevano la luce solare filtrata dai vetri dell'ingresso. Indossava un abito scuro e una sciarpa di seta color rosso vino. Col cranio lucidato, con un tascabile in mano e il suo terzo cappuccino davanti a sé, poteva sembrare un artista o un letterato. Era seduto nella hall da tre ore a leggere Platone, con lo sguardo che vagava costantemente oltre i margini del libro. Sapeva che O'Connor e la donna erano rientrati in albergo alle prime ore del mattino. Erano andati subito di sopra e non si erano più visti. D'un tratto, li vide spuntare dall'ascensore e dirigersi verso l'uscita. Gambe molto lunghe, pensò Gruškov. Belle gambe. Sorbì ciò che rimaneva del cappuccino, si alzò e li seguì. Andavano verso un taxi. Gruškov passò davanti all'auto, proseguì sino alla fine della rampa e salì sull'Audi parcheggiata appena fuori dall'hotel. Nell'istante in cui girò la chiave dell'accensione, il taxi gli passò davanti. Senza fretta, s'infilò nel traffico e lo seguì, tenendosi a debita distanza e lasciando sempre un paio di veicoli tra sé e il taxi. Era segretamente divertito da quell'insolito ruolo. Maksim Gruškov, che in Russia era ricercato per l'omicidio della moglie e negli anni successivi aveva contribuito a far fuori almeno una dozzina di persone, si sentiva come in un film poliziesco. Segua quella macchina! Era un diversivo. Programmare di continuo era troppo impegnativo, a lungo andare. Poi si ricordò della situazione in cui si trovavano e il divertimento svanì. Il taxi passò sull'altra sponda del Reno e imboccò l'autostrada che conduceva all'aeroporto. Gruškov accelerò. Sembrava che i timori di Jana si stessero concretizzando. Per un po' procedettero a rilento nel traffico, poi il taxi imboccò l'uscita per l'aeroporto e percorse il raccordo. Spuntarono i cartelli che indicavano arrivi, partenze e parcheggi. Il taxi non prese nessuna di quelle direzioni, ma scomparve in una strada
laterale, lontano dal terminal. Gruškov frenò e proseguì lentamente. La strada curvava a sinistra, costeggiava gli uffici amministrativi e conduceva a una costruzione piatta. Gruškov conosceva l'edificio di fronte al quale Kika Wagner e Liam O'Connor scesero dal taxi. Tutti i membri del team conoscevano l'aeroporto come le loro tasche. Senza sprecare nemmeno un'altra occhiata, passò davanti all'edificio piatto, tenne la sinistra, passò sotto il raccordo e tornò all'autostrada. Quell'edificio era la stazione di polizia. Chiamò Jana. FASE 3 Aeroporto Colonia/Bonn Eric Lavallier si appoggiò allo schienale della sedia e scrutò con le palpebre semichiuse la donna e l'uomo seduti al lato opposto della scrivania. Con ogni parola, dalle loro bocche effluivano esalazioni di eccessi notturni. Appollaiata sulla sedia, Kirsten Kika - o forse si chiamava Katharina? - dava l'impressione di essere un uccellino caduto dal nido. Evidentemente aveva mal di testa. Aveva gli occhi gonfi e un'espressione tormentata. Sembrava che si rivoltasse in bocca tre volte ogni frase, per poi sputarla fuori con grande difficoltà. L'uomo che gli era stato presentato come professor Liam O'Connor, invece, si esprimeva con sorprendente chiarezza. Si era rifiutato di sedersi e andava avanti e indietro per l'ufficio. Aveva un aspetto curato e raffinato. Pur non interessandosi particolarmente di moda, Lavallier notò come gli calzasse a pennello quell'abito argentato, che probabilmente era carissimo. Sapeva pure che Liam scriveva romanzi e che godeva di una certa popolarità a livello internazionale. Quindi rientrava nella categoria degli artisti e godeva del privilegio di puzzare di alcol e di comportarsi male, senza suscitare un'immediata condanna da parte della società. Se gli si potesse credere, però, era un altro paio di maniche. Mentre ascoltava, Lavallier classificava i suoi visitatori. L'uomo beveva regolarmente, si disse; la donna non ci era abituata. Non c'era bisogno di essere un esperto per accorgersene. Bastava fare quel lavoro da un po' di tempo. Avvertì una punta di stizza.
Che qualcuno si presentasse nel suo ufficio a spiattellargli una storia del genere era la cosa peggiore che potesse succedere. Be', almeno non era stata raccontata a qualcun altro. Ma, in fondo, chi sarebbe andato da Winrich Granitzka, che, in quanto comandante della polizia, in quei giorni dirigeva dodicimila uomini ed era il principale responsabile del perfetto svolgimento del doppio vertice? Lavallier aveva assunto la direzione operativa degli eventi all'aeroporto. L'arrivo di quei due non prometteva niente di buono. Per essere più precisi, era uno scherzo del destino. Evidentemente il santo patrono della polizia non gli voleva più bene. Si chiese se una potenza divina intendesse punirlo per il breve attacco di autocompiacimento cui si era lasciato andare quella mattina a colazione. E allora? Era così disdicevole rallegrarsi del fatto che gli arrivi dei delegati dell'UE si fossero svolti senza intoppi, all'inizio di giugno? Tutte quelle personalità piombate lì in così poco tempo sui loro bireattori, come uno stormo di piccioni: Viktor Klima, Antonio Guterres, Tony Blair... Undici aeroplani, l'uno dopo l'altro, undici momenti saturi di adrenalina, undici volte a sperare che qualche pazzo non combinasse qualcosa che nessuno aveva calcolato, sebbene il BKA avesse previsto tutto il possibile e l'immaginabile, perfino l'impiego di gas tossici e missili da crociera. È vero, i partecipanti al vertice UE rientravano soltanto nel livello di sicurezza due, «attentati non esclusi», e alcuni nemmeno in quello. Ma quella classificazione si era rivelata inutile. Che livello di sicurezza era stato assegnato a Olof Palme? E ad Anwar alSadat? Che cosa avrebbe potuto indurre a pensare che qualcuno aggredisse Oskar Lafontaine con un coltello o sparasse nella schiena a Wolfgang Schäuble? 27 Tutti coloro che, negli ultimi giorni, erano scesi da un aeroplano e avevano percorso il tappeto rosso fiancheggiato dalle bandiere oppure ci erano passati davanti, come il premier greco Simitis - dovevano avere l'impressione di ricevere un'accoglienza amichevole, quasi rilassata, senza doversi preoccupare per la propria vita. Ovviamente il presupposto erano le ore e le giornate intere che gli uomini di Lavallier avevano trascorso a conferire con le delegazioni straniere, prendendo in considerazione tutte le loro particolari richieste, per consegnare infine un aeroporto pieno zeppo di tiratori scelti al battesimo del fuoco diplomatico del supervertice. Qualche giorno dopo, ormai quasi esperti, avevano accolto i ministri degli Esteri, senza allentare la vigilanza nemmeno per una frazione di 27
Oskar Lafontaine era il ministro delle Finanze, mentre Wolfgang Schäuble era il ministro dell'Interno (N.d.T.)
secondo. Ben presto, la quantità di star aveva fatto perdere lustro alla parata. Dato l'aspetto assolutamente normale rivelato da alcuni eminenti politici, il momento decisivo ricordava più che altro la visita di una vecchia zia. Madeleine Albright, che non si lasciava impressionare dallo sfarzo, era apparsa indaffarata come al solito. Aveva sceso i pochi gradini con la consueta goffaggine e Lavallier si era chiesto se una persona del suo calibro si sentisse mai impaurita atterrando in un aeroporto straniero, quando l'aereo rollava sulla pista, quando passava in rassegna il picchetto d'onore. La discesa dall'aeroplano e il breve tragitto fino alla limousine erano i momenti più critici. L'incubo di tutti i tiratori scelti, la potenziale fine di tutte le personalità. Madeleine Albright aveva paura? No, non aveva paura, gli aveva detto «Major Tom», come tutti chiamavano scherzosamente il maggiore Thomas Nader, Assistant Air Attaché e responsabile della sicurezza dell'USDAO, cioè dell'United States Defense Attaché Office. In quei giorni, Nader faceva il pendolare tra l'ambasciata americana e l'aeroporto. Aveva l'incarico di pianificare l'arrivo del presidente e di far rispettare alla lettera, possibilmente senza compromessi, tutte le richieste degli americani, in collaborazione col ministero degli Esteri e coi rappresentanti dell'aeroporto. Se c'era qualcuno che sapeva come stavano davvero le cose per i rappresentanti del governo statunitense, quel qualcuno era lui. «Se ogni volta Madeleine Albright avesse paura, non potrebbe fare il suo mestiere», aveva spiegato Nader. Era semplice. In quel campo, gli americani erano piuttosto prosaici. Per loro, essere il segretario di Stato e scendere da un aereo in Germania era paragonabile a essere Lavallier che andava al lavoro con la sua auto: anzitutto era un poliziotto, dunque esposto a rischi maggiori rispetto alla cassiera di un supermercato; in secondo luogo, il rischio di perdere la vita nel traffico automobilistico era sempre maggiore che in aereo. Non si pensa a nulla, perché altrimenti s'impazzisce e non si esce più di casa. Nel suo mondo, anche un venditore di salsicce non vive in modo meno rischioso di un domatore di leoni. L'animo umano dispone di eccellenti meccanismi di protezione. In Vietnam, i soldati americani si erano ritrovati in una giungla infernale, che pullulava di cecchini, ma in quei momenti si preoccupavano più delle vesciche ai piedi che di essere trapassati da un proiettile un istante dopo. Madeleine Albright non si metteva in situazioni rischiose in quanto donna anziana o cittadina degli Stati Uniti, bensì esclusivamente nella sua funzione di segretario di Stato. Era
così che pensava, agiva e si sentiva. La sua paura di un attentato non era maggiore della paura dell'apicoltore di essere punto, cioè tendeva allo zero. Erano quelli che dovevano occuparsi della sua sicurezza ad avere paura. Era un modo di pensare tipico degli americani. Anche soltanto per tale motivo a Lavallier piaceva collaborare coi Servizi segreti: si trattava di pragmatismo allo stato puro. Inoltre gli americani erano gentili, almeno quelli di stanza all'aeroporto. Secondo le voci provenienti dal centro città, invece, gli agenti dei Servizi segreti facevano saltare i nervi a quelli del BKA. Ma non era un problema suo. A Lavallier piaceva la disinvoltura degli agenti americani. Gli piacevano anche i russi, che prendevano atto delle esigenze di sicurezza del loro presidente con maggiore calma ed erano ancora più gentili degli americani. Finché non erano spuntati fuori quello scrittore alcolizzato e quella donna totalmente sbronza, gli era piaciuto tutto di quel vertice. Sembrava che potesse diventare la storia di un successo personale. E invece adesso rischiava di essere travolto da una valanga di problemi personali. Avrebbe voluto sbatterli fuori. Qui non può andare storto niente, stava per dire. Non a Colonia e tantomeno all'aeroporto. Non avete il diritto di sprecare il mio tempo. L'unico vero istante di paura tra il 2 e il 5 giugno lo dobbiamo al radiatore di una Opel Kadett, saltato in aria davanti all'Hotel Ramada-Renaissance proprio mentre vi erano riuniti i capi di Stato e di governo. Dal punto di vista statistico siamo fuori pericolo, per quanto riguarda gli incidenti imprevisti. La vostra storia non può essere vera. Tornatevene a letto e smaltite la sbornia. Invece ascoltò attentamente, picchiettando con la mano destra un mozzicone di matita sulla scrivania, al ritmo del suo battito cardiaco. Poi nessuno disse più nulla. Liam guardava fuori dalla finestra. Kika cercava di fissare il funzionario di polizia, ma aveva palesi difficoltà a concentrarsi su qualsiasi cosa che non fossero i suoi piedi. Lavallier si schiarì la voce. «Bene. Riassumo, giusto per vedere se ho capito bene tutto. Il tecnico aeroportuale Ryan O'Dea in realtà si chiama Patrick Clohessy ed è, anzi era, un attivista dell'IRA. Franz Maria Kuhn è scomparso e forse è stato rapito, perché lei ha ricevuto una richiesta d'aiuto da lui. Lei stessa, due ore e mezzo dopo, ha parlato con lui al telefono e l'ha trovato... strano. Inoltre l'improvviso incarico a Düsseldorf e a Essen non le tornava. In più, ieri sera voi due volevate andare a trovare Paddy, ma non lo avete fatto.»
«Sbagliato. Lui non c'era», lo corresse Liam. «Mi permetta di correggerla a mia volta», replicò Lavallier. «Avete avuto l'impressione che non ci fosse. Scusatemi un attimo.» Prese la cornetta e compose il numero del servizio di sicurezza dell'aeroporto. «Ryan O'Dea», disse. «Addetto alla manutenzione delle facciate ed elettricista. Dovreste mandarmelo qui alla svelta, per direttissima. In più, vorrei un incontro col direttore della sicurezza e col direttore tecnico. Diciamo alle 10.15. Ci troviamo in amministrazione, terzo piano, per una piccola riunione.» Rifletté un secondo. «C'è un'altra cosa. Vorrei che fosse presente anche il diretto superiore di O'Dea e non m'importa che cosa abbia da fare a quell'ora.» Poi convocò anche il vicedirettore del personale. Nessuno si mise a discutere con lui. Lavallier sapeva che ciascuno di loro era estremamente occupato. A loro volta, tutti i convenuti sapevano che Lavallier non avrebbe indetto una riunione del genere senza motivo. Rifletté se informare il direttore commerciale e il direttore tecnico, ma decise di no. Era prematuro. Doveva seguire qualsiasi segnalazione, ma in quel momento parlare di una crisi avrebbe fatto troppo scalpore, e comunicare alla direzione che c'erano dei problemi equivaleva ad annunciare una crisi. Nel frattempo, Liam si era avvicinato alla donna. Lei appoggiò il capo su di lui e chiuse gli occhi. Sembrava che da un momento all'altro sarebbe caduta dalla sedia e si sarebbe addormentata profondamente. O viceversa. «Signora Wagner?» La donna aprì gli occhi di qualche millimetro. «Ha parlato con la reception, stamattina?» chiese Lavallier. «Forse ieri sera qualcuno l'ha visto in albergo.» Kika scosse il capo. «Che significa? È stato visto o no?» «Non sanno nulla.» «È stata in camera sua?» Kika si raddrizzò. «Sì, prima», disse con una voce un po' più ferma. «Il letto è intatto.» «Questo non significa nulla», commentò Lavallier. «Può darsi che si sia alzato presto. Il letto possono averlo rifatto le cameriere.» «No, non l'hanno rifatto. Lui non è andato in camera! Per tutta la notte. E non è reperibile al cellulare. È semplicemente scomparso.» «La segreteria telefonica funziona?» «Ho lasciato due messaggi», rispose Kika, perplessa. «Cos'altro avrei potuto fare? Ieri notte ha detto che sarebbe stato reperibile per tutta la
giornata.» «E la sua auto?» «La sua auto cosa?» «Avete controllato se è ancora lì?» «Monsieur Lavallier...» cominciò Liam sorridendo, come per scusarsi. «Posso chiamarla Monsieur?» «Commissario capo va benissimo.» «Mi perdoni. Da circa un'ora ci reggiamo su gambe che sono state distese per meno di metà notte e in più devono sostenere due teste grosse così. Mi viene da dire che siamo sotto shock. Naturalmente ci siamo informati alla reception, abbiamo dato un'occhiata alla sua stanza e poi abbiamo deciso che venire qui da lei aveva una priorità maggiore che ispezionare il parcheggio. Sono un po' confuso. Non sapevo che fosse richiesta una laurea in criminologia per potersi recare dalle forze dell'ordine a segnalare un fatto sospetto.» «Neanch'io», ribatté Lavallier, impassibile. «A proposito, sapete dove si trova l'auto? Anche senza laurea...» «Nel garage sotterraneo del Maritim», rispose subito Kika, prima che Liam potesse replicare. «Modello?» «Due catorci. Voglio dire una due...» «Ho capito.» Lavallier le rivolse un sorriso amichevole. «Per caso ha a portata di mano il numero di targa?» «È la 2CV più scassata del pianeta», intervenne Liam. «Tra una professione di fede per il '68 e l'altra si può immaginare che, sotto tutti quegli adesivi, la carrozzeria sia verde. Verde che più verde non si può, se capisce cosa intendo. Tanto che a guardarla fanno male gli occhi. Penso che l'hotel possa farle avere la targa.» Lavallier storse la bocca. Compose il numero del PPK, il presidio di polizia di Colonia, e si fece passare il commissario capo Peter Bär. La giurisdizione di Lavallier era l'aeroporto. A quanto sembrava, quel caso avrebbe coinvolto anche la polizia criminale di Colonia. Chiese a Bär d'informarsi sull'auto al Maritim e di tirare giù dal letto il barman che era di turno la notte precedente. Poi gli propose di raggiungerlo all'aeroporto insieme con alcuni dei suoi uomini, per proseguire le indagini da lì. Anche all'aeroporto, infatti, avevano accesso alle banche dati, come nel quartier generale, e la collaborazione sarebbe stata più semplice.
Non fece in tempo a riagganciare che ricevette una telefonata dal servizio di sicurezza. Il commissario ascoltò in silenzio e poi rivolse lo sguardo a Liam. «Spero che lo shock non le impedisca di dare un'occhiata a qualche foto, più tardi. Purtroppo non abbiamo altro da offrire. Ryan O'Dea non si è presentato al lavoro, stamattina.» Liam si limitò a fissarlo. «E non è neanche reperibile telefonicamente», aggiunse Lavallier. «Non mi sembra vero», sussurrò Kika. Lavallier si appoggiò allo schienale. «Invece lo è.» Fece una pausa. «Allora, tanto per tenervi informati, coinvolgerò l'Europol e se necessario l'Interpol. Ho bisogno che voi mi diate tutte le informazioni disponibili su Paddy Clohessy, oltre che su Kuhn. Naturalmente mi servono anche le vostre generalità. C'è un'altra cosa. Vi devo chiedere di restare a nostra disposizione, per il momento. Il che può significare per le prossime ore o per i prossimi giorni.» Kika aveva uno sguardo infelice. «Mi spiace», aggiunse il commissario. Liam strizzò gli occhi. Per la prima volta, Lavallier notò che, dietro quella facciata di grande autocontrollo, l'irlandese si stava sforzando di non perdere la testa. Poi lo scienziato chiese: «Se mi permette la domanda, quanto ritiene che sia seria questa faccenda?» «È seria.» «Hmm...» «La prenderemmo sul serio anche se non ci fosse un vertice a Colonia. Le basta?» Liam sembrava indeciso. Poi prese una sedia e si sedette di fronte a Lavallier. «Conosco Paddy Clohessy. Voglio dire, dai tempi del Trinity non abbiamo avuto più nessun contatto, ma le persone non cambiano. Cambia soltanto il modo in cui le altre persone le vedono. Non la prenda per arroganza o per un'ingerenza, però a me sembra che siano in gioco altre variabili, oltre a Paddy. Variabili ignote.» «Cosa intende?» «Intendo che non è da lui portare a termine da solo qualcosa di... grande.» Liam scrollò le spalle. «Paddy si è sempre perso in qualche ideale un po' ridicolo. Ha bisogno di un'idea alla quale aggrapparsi, ma soprattutto di qualcuno che rappresenti tale idea.» «A che pensa quando parla di 'qualcosa di grande'?» Liam inarcò le sopracciglia, come se quella fosse una domanda estre-
mamente stupida. «A un attentato, naturalmente. A che altro? Un attacco all'aeroporto o un attentato nei confronti di qualcuno che arriverà qui. È così difficile da capire?» Lavallier lo scrutò. Compose un'altra volta il numero di Bär e lo pregò di mandare qualcuno all'appartamento di O'Dea, prevedendo l'eventualità di doverci entrare con la forza. Poi congiunse i polpastrelli e trasse un respiro profondo. «Mr O'Connor... Posso chiamarla Mister, vero? Forse le devo raccontare qualcosa sulla problematica dell'attentatore infiltrato.» Notò un tremito nei lineamenti del suo interlocutore, ma proseguì. «Gli aeroporti sono zone ad alta sicurezza, a prescindere dal fatto che a Colonia ci sia un vertice o no. Facciamo il possibile per escludere qualsiasi evenienza. Abbiamo sviluppato scenari che vanno al di là della sua immaginazione. Tutto per fare in modo che l'unico problema di Eltsin sia quello di non cadere quando scende dall'aereo. Ma anche perché persone come lei non debbano temere di essere intossicate, di prendersi una pallottola, di andare a fuoco o di saltare in aria... Ho dimenticato qualcosa?» «Di annegare.» «Penso che ce la caviamo molto bene», proseguì Lavallier, impassibile. «Ci sono poche cose che ci fanno davvero venire il mal di testa. Che qualcuno possa prendere del denaro, per esempio. Capisce? Corruzione. Oppure che a qualcuno venga un improvviso accesso di rabbia. Insomma che uno degli oltre mille dipendenti di questo aeroporto trovi un motivo per diventare un traditore. Il minimo sospetto di un attentatore infiltrato fa scattare tutti i nostri allarmi. Di fronte alla pista di atterraggio principale c'è un boschetto. Possiamo garantire che nessuno scavi un cunicolo sotto la recinzione e si nasconda sottoterra per tre settimane per poi saltar fuori stasera con un lanciarazzi anticarro. Ma non possiamo guardare dentro la testa delle persone. È questo il nostro problema. Non potevamo vedere nella testa di Ryan O'Dea e, fra meno di dieci ore, il presidente degli Stati Uniti atterrerà qui.» Lasciò che quelle parole facessero il loro effetto e poi si chinò in avanti, con aria aggressiva. «Allora, cosa crede che io faccia, qui? A cosa sto pensando in questo momento? Che timori potrei avere?» Liam corrugò la fronte. «Ha ragione, sono stato offensivo e poco obiettivo. Non importa. Mettiamoci una pietra sopra.» Lavallier lo fissò. «Lei...» «Aspetti.» Kika si sfregò gli occhi e posò un biglietto davanti a lui sulla scrivania. «Ecco il messaggio. L'ho trascritto.» Lavallier si apprestava di nuovo a parlare, ma cambiò idea e studiò il te-
sto. AIUTO - APARTAMNETO DI PADY - LOYAK - LOJAG? SPARA - C'È PROBLEMA - PIEZA - SPECCIO DATIVO MIR NO «Presumo che gli errori ortografici corrispondano esattamente a ciò che ha scritto Kuhn, giusto?» Kika annuì. «Mentre eravamo in taxi, abbiamo cercato di trovare un senso.» Indicò le parole, l'una dopo l'altra. «Fino a qui direi che era nell'appartamento di Paddy e che si è ritrovato in pericolo. Forse ha tentato di telefonarmi, prima.» «Perché, dov'era il suo cellulare?» «Sul sedile posteriore della mia auto.» «E dov'era lei mentre Kuhn cercava di raggiungerla?» Lei chinò il capo di lato e arricciò il naso. Le si formò una piccola ruga tra le sopracciglia. Sembrava che la domanda fosse troppo complessa. «Studiavamo l'oscurità», rispose lentamente. «L'oscurità. Per due ore e mezzo?» «Sì. Lei non l'ha mai fatto?» «Certo, è il mio lavoro. La sua risposta, per esempio, era alquanto oscura. Devo pregarla di essere più concreta.» «Siamo andati a spasso nel Volksgarten», intervenne Liam in tono perentorio. «Alle tre del mattino.» «Sì.» Lavallier annuì. Aveva la sensazione di sapere di che tipo di passeggiata si trattasse. «Loyak», continuò a leggere. «Lojag? Spara.» «Da lì diventa criptico.» «Non necessariamente», obiettò il commissario. «Se non altro la doppia grafia e il punto di domanda ci rivelano che ha origliato la conversazione di qualcuno.» Liam tacque. Negli occhi gli balenò qualcosa che somigliava a un'approvazione. «Non era sicuro di come scrivere il nome», proseguì Lavallier. «Qualcuno spara e si chiama Loyak o qualcosa del genere. O almeno è la cosa più probabile. Vediamo cosa viene dopo. C'è problema. C'è problema... anche questa è una frase che consente due interpretazioni. Chi ha un problema?
Kuhn?» «Forse voleva dire tutti noi. Cioè c'è un problema che riguarda lui, Kika e me. Per quanto ne so, pure lei e tutti quanti a Colonia. L'umanità intera, chi lo sa. Houston, abbiamo un problema.» Lavallier si grattò il mento. «C'è un'altra possibilità», disse. «Le persone che ha sentito hanno un problema. Ma quello che segue non lo capisco per niente.» «Pieza - speccio dativo?» Liam si appoggiò il mento sulle mani. «Purtroppo questa mattina non sono ancora riuscito ad attivare determinate funzioni cerebrali. Qualcosa mi dice...» «Ti dice cosa?» gli fece eco Kika, stupita. «Non ne sono sicuro.» Liam scosse il capo. «Per un attimo, mi sembra di avere davanti la soluzione e l'attimo dopo è del tutto incomprensibile. A proposito, che ne pensa dell'ultima parola? A me sembra piuttosto chiara.» «Mirino», mormorò Lavallier. Il mirino di un'arma, pensò. Loyak spara e spara con un'arma di precisione, puntandola con un mirino telescopico. Un mirino a specchio? Speccio. Per un istante, ebbe l'impressione che fosse una trovata dei suoi colleghi, per prenderlo in giro nel giorno dell'arrivo di Clinton. O era possibile che, d'un tratto, i suoi interlocutori rivelassero di essere i conduttori di una candid camera televisiva. Era un'idea tremenda e nel contempo una prospettiva consolante. Con la coda dell'occhio, il commissario fissava Kika, poi guardava il foglietto. Ma quella donna sembrava troppo sconvolta perché si trattasse di uno scherzo. «È proprio sicuro che ciò le ricordi qualcosa?» chiese a Liam. L'altro annuì. «Bene.» Lavallier sospirò. «Spero che le sia chiaro che, grazie a questa informazione, lei è appena diventato la persona più importante della stanza.» «Come sarebbe a dire che lo sono 'appena' diventato?» chiese Liam, visibilmente sbalordito. Lavallier si morse il labbro inferiore. «Aspettate un attimo. Torno subito. Non scappate.» Uscì in corridoio. Gli andarono incontro diversi agenti della sicurezza mobile, alcuni bardati di tutto punto, con tanto di giubbotti antiproiettile. Facevano parte dell'unità speciale dei servizi di polizia straordinari e avevano l'incarico di garantire la sicurezza dei politici di alto livello e delle lo-
ro colonne di auto. Più in là, una commissaria conferiva con un agente dei Servizi segreti. In quei giorni, l'edificio piatto che ospitava il posto di polizia principale dell'aeroporto era come un alveare. Passando, Lavallier diede una sbirciata nelle stanze aperte, finché non trovò un ufficio vuoto, chiuse la porta dietro di sé e si lasciò cadere sulla logora poltrona di pelle dietro la scrivania. Quindi compose il numero di cellulare di Bär. «Oggi senti molto la mia mancanza», rispose il collega. «Può essere?» «Dove sei?» «Siamo per strada. Io e due uomini. Saremo da voi tra un quarto d'ora. Fai preparare il caffè. Un sacco di caffè!» «Peter, dobbiamo parlare dei due piccioncini che sono nel mio ufficio», disse Lavallier. «La ricerca è in corso. I miracoli non riesco a farli nemmeno io.» «Lo so.» «Bene. Dunque, di Paddy Clohessy si occupa l'Europol. Noi siamo in contatto con Dublino e abbiamo mandato una macchina nella Rolandstraße. Dovrebbero farsi sentire tra un attimo. Intanto i ragazzi della PPK si occupano di controllare O'Dea. Contento?» «No, ma non importa. Avvia un'altra ricerca.» «E chi cerchiamo?» «Magari lo sapessi! Forse troverete qualcosa negli archivi del BKA, forse in quelli della CIA, ma non raccontate a cosa servono le informazioni. Dite che ci sono altri motivi.» «La CIA? Santo cielo, che succede?» «Cerchiamo un killer, credo. Sempre che esista. Non importa. Scoprite semplicemente se da qualche parte nel mondo spunta fuori da qualche archivio un attentatore o terrorista che si chiama Loyak, di nome o di cognome o che ne so, forse è un nome in codice. Uomo, donna, non ne ho idea.» «'Semplicemente', eh? Secondo te, è semplice scoprirlo?» Lavallier scrollò le spalle. «Non ho altro da darti. Non so nemmeno se si chiami davvero così. Potrebbe anche chiamarsi Lojag, con la K oppure con la G alla fine.» Esitò. «Di' un po', questo professor Liam O'Connor... hai mai letto qualcuno dei suoi libri? Ultimamente sono ovunque.» «In realtà non è uno scrittore», precisò Bär. «Il giornale diceva che è un fisico ed è quasi sicuramente candidato al premio Nobel.» Ci mancava soltanto quello. «Perché? Fa storie? Oppure è la donna?»
«Non direttamente», borbottò Lavallier. «Puzzano come se avessero passato la notte in una distilleria di acquavite. La donna riesce a malapena a guardare dritto; O'Connor è stupido oppure è un vero insolente.» Rifletté. «La storia che mi hanno raccontato sembra uscita da un film. L'unica cosa certa è che O'Dea è scomparso. Al momento, non mi rimane che prenderli sul serio.» «Tanti auguri», gli disse Bär. «A proposito, sul giornale c'era anche qualcos'altro.» «Che cosa?» «L'anno scorso, O'Connor ha mandato all'aria un congresso di fisica. Sosteneva di aver ricevuto una telefonata che lo avvisava di una bomba nascosta nell'edificio.» «E perché mai?» «Voleva semplicemente vedere trecento scienziati travolgersi a vicenda. In più, scrive strane lettere ai politici, in cui si presenta come multimiliardario e sostiene di voler lasciar loro in eredità le sue ricchezze se infileranno determinate parole nei loro prossimi discorsi pubblici.» «Sul serio? Diceva anche quali parole?» «È riuscito a convincerne uno ad arricchire il dibattito sulla legge finanziaria con le parole... aspetta, vediamo se mi ricordo... 'maschera di lattice' e 'paramecio'. Gli piace prendere per il culo la gente.» «Già, è l'impressione che ho avuto anch'io», rispose cupo Lavallier. «Forse prende per il culo anche te. Forse O'Connor ha ucciso O'Dea o Clohessy che sia e, per completare l'opera, ha fatto fuori Kuhn. E adesso ti racconta qualche frottola.» «Scemenze.» Bär rise. Ormai l'umore di Lavallier era quasi a terra. «Una L, una O e poi 'yak' o qualcosa del genere», ribadì. «Per me suona slavo o russo. Forse dovresti concentrarti sui Paesi dell'Est. In particolare sui serbi, che nelle ultime settimane hanno sviluppato un rapporto davvero affettuoso nei nostri confronti. O forse è il contrario. L'altro candidato interessante sarebbe l'IRA. Ce la farete, vedrai.» Riagganciò e si diresse verso il suo ufficio. Uno sguardo all'orologio gli disse che mancavano pochi minuti alle dieci. E se Bär avesse avuto ragione? La giornata era cominciata in modo così meraviglioso... All'orizzonte delle sue speranze era comparsa la scintillante prospettiva di stringere la mano a Bill Clinton. Non che Lavallier ci tenesse poi tanto. Ma stringere la
mano a Clinton significava avere davanti a sé un presidente di buonumore, al quale non mancava nulla. Per esempio la vita. A quel punto, però, le cose erano cambiate. Bene. Allora era così e basta. Scrollando le spalle, tornò dai suoi sgraditi visitatori. Kika Wagner «Lavallier! Che cosa fa un tecnico?» Liam aveva sparato la domanda senza quasi aspettare che Lavallier rientrasse nella stanza. Il commissario capo andò alla sua scrivania. «Non me lo sta chiedendo sul serio», replicò. «Come?» «Ho sentito che è candidato al premio Nobel.» «Sono candidato alla riflessione e in questo momento non sto facendo altro.» Kika soppresse uno sbadiglio, augurandosi che Liam diventasse finalmente sobrio. Era pressoché impossibile non accorgersi che stava cercando di lasciare il poliziotto al palo. E la cosa non aveva nulla a che vedere con Lavallier. Era nella sua natura combinare guai. Non poteva e non voleva che le cose andassero diversamente. Perché mai? si chiese. Perché non può essere bello, affascinante, intelligente e gentile? «Dove vuole arrivare, professor O'Connor?» chiese Lavallier cortesemente. «Paddy è un tecnico dell'aeroporto, Monsieur... mi scusi, commissario capo, Monsieur le commissaire! O almeno lo era fino a oggi. Mi è appena venuto in mente che si può scoprire quali incarichi svolgeva.» Lavallier guardò la scrivania e mise in ordine un mucchio di fogli sparsi. «Mi fa piacere che lei faccia il mio lavoro», osservò. «Le piacerebbe occuparsi anche delle altre cose che devo fare oggi? Alle undici, atterra un aereo russo con un carico di materiali; verso le quattro e mezzo, arriva una delegazione canadese. Nel frattempo, prepariamo l'atterraggio dell'aereo della stampa americana e dell'Air Force One. Ah, già, bisogna accogliere anche qualche giapponese. Sushi per i nervi. I figli di Nippon sono tanto cari, ma terribilmente impegnativi. Che ne dice? Le va di prendere il mio posto?» Liam borbottò qualcosa.
Lavallier alzò lo sguardo. «Ascolti, O'Connor, se davvero vuole dare una mano, rifletta su questo SMS.» «È quello che sto facendo da un bel pezzo.» «Dunque? È ancora convinto che le dica qualcosa?» Liam allargò le braccia. «È qualcosa di così ovvio che evidentemente mi sfugge. Conosce quel racconto di Poe, quello del tizio che cerca una lettera? Ce l'ha sotto il naso per tutto il tempo, in un portacarte, ma lui preferisce cercarla sotto il divano e svuotare gli scaffali.» «Capisco.» Sulla bocca di Lavallier guizzò un accenno di sorriso. Poi lui tornò serio. Rivolse lo sguardo a Kika. «Quando ha parlato al telefono con Kuhn, stanotte, l'ha trovato strano...» Lei annuì. «Cosa c'era di strano, esattamente? Il modo di parlare?» «Non era il Kuhn che conosco. Aveva un tono depresso.» «Depresso», ripeté Lavallier. «Era strano e basta oppure ha anche detto qualcosa di strano?» Nella testa di Kika, due funzionari letargici si alzarono a fatica dalle loro poltrone e si avviarono a passo strascicato verso un grande cancello. Riuscirono a malapena a forzarlo. Lì davanti c'era la domanda di Lavallier, che aspettava di entrare nel cervello. Kuhn aveva detto qualche cosa di strano? Dentro di lei si fece strada un'intuizione. Che cosa l'aveva meravigliata la notte precedente? L'improvviso viaggio per conto della casa editrice? Anche quello. Ma c'era dell'altro. «Non ricordo esattamente», disse. Lavallier annuì. «Faccio una proposta a entrambi. Tra qualche minuto comincia la riunione straordinaria. Vi lascio da soli per un po'. Potete andare a fare colazione all'Holiday Inn, è a pochi passi da qui, dietro gli uffici dell'amministrazione. Qualche uovo con la pancetta vi farebbe bene, secondo me. Un caffè forte. Ma prima una gentile signora qui accanto prenderà le vostre generalità. Dovete avere pazienza. Mi lasci il numero della casa editrice, così scopriamo se stanotte Kuhn ha davvero parlato con qualcuno. Poi vi trovo all'hotel oppure qui, d'accordo? Riflettete, mentre fate colazione. Ogni dettaglio può essere decisivo, anche se vi sembra insignificante.» Sorrise. «Questa frase l'avrete sicuramente già sentita in televisione.» «Preferirei un letto», gemette Kika. Poi le venne in mente che alle quattro e mezzo doveva andare alla redazione della WDR e quindi alla RTL.
Ci mancava soltanto quello. D'altra parte, le quattro e mezzo erano molto lontane. La WDR e la RTL scivolarono nuovamente nell'oblio. «Ancora una cosuccia», aggiunse Lavallier uscendo. «Non cercate più di chiamare Kuhn al cellulare. D'ora in poi ce ne occupiamo noi. Tutto chiaro?» Kika annuì. Liam le accarezzò la nuca. Per una volta non disse nulla. Centro spedizioni In genere, i rapitori tagliavano un orecchio oppure un mignolo alle loro vittime e spedivano la parte del corpo in questione ai parenti, tramite raccomandata. Sembrava che fosse ancora il metodo più idoneo a convincere i congiunti della necessità di sborsare grosse somme di denaro. Così alcune persone sequestrate, come Paul Getty jr., avevano riacquistato la libertà, ma in un certo senso non interamente. Quando Kuhn vide la donna avvicinarsi a lui, stringendo una sedia nella mano sinistra, più che la morte temette che gli mozzasse o gli cavasse qualcosa con un movimento rapidissimo. Si schiacciò contro la parete davanti alla quale era seduto da ore e cercò di prendere le distanze. Quel tentativo ridicolo non gli procurò altro che un improvviso dolore al polso, perché la catena delle manette si tese e l'anello d'acciaio gli incise la carne. Mandò un gemito e scosse energicamente il capo. Lei si fermò davanti a lui e lo guardò dall'alto in basso. «Non sembri particolarmente coraggioso», constatò. Kuhn trasalì. Un altro indizio della fine che si avvicinava. La notte prima, quella donna gli aveva dato del lei e lo aveva trattato con una certa cortesia. Certo, sia lei sia lo slavo gli avevano fatto una raffica di domande, ma non lo avevano maltrattato e non gli avevano urlato contro. Dopo la telefonata con Kika, gli avevano tolto nuovamente il cellulare e l'avevano spento. Nient'altro. Infine lo slavo aveva lasciato il capannone e subito dopo la donna era scomparsa in un locale adiacente. Kuhn immaginava che stesse lavorando o riposando. Per le ore successive, non l'aveva né vista né sentita. Naturalmente era possibile che lei lo stesse osservando. Nella luce pallida dei neon, Kuhn aveva esplorato con lo sguardo il capannone e, appena sotto il soffitto, aveva individuato un oggetto delle dimensioni di una fotocamera.
A un esame più attento, tuttavia, gli era sembrato piuttosto un corto telescopio oppure un teleobiettivo, con una lastra di vetro fissata immediatamente davanti alla lente. Non aveva la minima idea di quale funzione avesse e non voleva nemmeno saperlo. Profondamente depresso, si era lasciato scivolare a terra e aveva cercato di placare la paura nel sonno. Era riuscito soltanto ad assopirsi, sempre in preda al nervosismo e a una serie d'immagini da incubo. Dopodiché si era ritrovato intontito, col mal di testa e con una leggera nausea. Sapeva che la nausea derivava dalla paura. Come sempre, sapeva un sacco di cose, ma non come far tornare indietro il tempo fino al momento in cui era seduto al bar del Maritim, combattuto tra l'idea di recarsi da Paddy Clohessy e la prospettiva di andarsene a letto. La donna appoggiò la sedia davanti a Kuhn, con lo schienale rivolto verso di lui. Poi vi si sedette cavalcioni, incrociò le braccia sullo schienale e scrutò l'uomo. Soltanto allora lui si accorse che gli occhi scuri di lei erano di una bellezza singolare. «A quanto sembra, la tua situazione non è migliorata», sussurrò. Kuhn notò che aveva qualcosa in mano. Gli venne un groppo in gola, poi vide che non era né una pistola né uno strumento di tortura, bensì un minuscolo cellulare ultrapiatto. Espirò lentamente. «Le ho già detto tutto.» Dalla voce, sembrava che non avesse pronunciato neppure una parola per mesi. La donna teneva gli occhi fissi su di lui. «Qualche minuto fa, i tuoi amici sono entrati nella stazione di polizia dell'aeroporto», disse. Il messaggio, pensò Kuhn, esultante. Hanno ricevuto l'SMS! Oppure c'erano andati soltanto per via di Paddy Clohessy? «Forse pensi che sia un bene per te se coinvolgono la polizia», proseguì la donna. «Non ti fare illusioni. È proprio il contrario. Tuttavia penso che tu mi possa svelare cosa ci fanno lì.» «Io?» Lo disse con una voce troppo stridula. Maledetto stupido! La donna sicuramente avrebbe creduto che lui le aveva nascosto qualcosa. «Perché io?» «Ieri notte avevano preferito svignarsela tra i cespugli.» Non deve sapere dell'SMS, pensò Kuhn. Non dirle niente! Ti ucciderebbe subito. «Allora, che succede?» indagò la donna. «Non ti viene in mente nulla?» «Volevano comunque andare da Paddy Clohessy», replicò Kuhn frettolosamente. Sì, era una buona pista. Per di più era la verità. «Ieri notte oppure stamattina. Pensavano che, se non l'avessero trovato in casa, proba-
bilmente lui sarebbe stato all'aeroporto.» «Sì, ma perché lo cercano alla polizia?» «Forse...» Kuhn si bloccò. Poi riprese: «O'Connor credeva che Clohessy fosse coinvolto in qualcosa di grosso. Di fatto sarebbe andato alla polizia già ieri, ma voleva dare un'ultima chance a Paddy, perché è un suo vecchio amico». La donna appoggiò il mento sulle mani. «Quindi O'Connor è convinto che la presenza di Clohessy all'aeroporto abbia a che fare in qualche modo col vertice?» Kuhn annuì. La donna gli aveva fatto quella stessa domanda almeno tre volte. Glielo aveva chiesto pure lo slavo. Facevano a turno. La nausea divenne una sensazione pastosa in gola. «Per favore...» «Sì?» «Lasciatemi vivere. Farò tutto quello che volete per aiutarvi, ma non mi uccidete.» Ancora una volta sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Si sforzò di trattenerle, ma non gli riuscì di contenere il tremito della voce. «Non... voglio morire. Per favore. Non vi ho fatto niente, io.» La donna aveva distolto lo sguardo e sembrava assorta. Poi si alzò e scosse il capo. «Chi s'inoltra sotto la superficie lo fa a proprio rischio e pericolo. Vale per l'amore, ma questo caso non è diverso. Se c'è qualcosa che devo sapere...» Lasciò la frase in sospeso e, senza rivolgergli nemmeno uno sguardo, si allontanò. Eric Lavallier Oltre al reparto del personale e alla direzione tecnica, l'amministrazione aeroportuale ospitava anche la direzione. Mentre andava verso la sala riunioni, Lavallier s'imbatté in Heinz Gombel, il direttore commerciale dell'aeroporto Colonia/Bonn. Le giornate di Gombel erano all'insegna dei lavori di ampliamento, che in quel periodo causavano una situazione piuttosto confusa per quanto riguardava il traffico aereo. L'imponente progetto vedeva impegnate schiere di dipendenti, tecnici, fornitori e specialisti esterni, oltre al reparto marketing, che aveva sede anch'esso nell'edificio dell'amministrazione. Dall'apertura del cantiere, l'anno precedente, gli umori oscillavano dall'euforia a un ottimismo contenuto. Negli ultimi tempi, si era aggiunta pure la tensione per il vertice. Quando vide il direttore, per un attimo Lavallier avrebbe voluto scomparire. Non voleva ancora informarlo
degli ultimi avvenimenti. Non prima di avere qualche elemento concreto. «Ehilà, signor Lavallier.» Gombel gli andò incontro e gli porse la mano. «Come va coi terroristi? Si sono già fatti sentire?» Era un uomo gentile e gioviale, dall'aspetto impeccabile. La chierica e gli occhiali con la montatura dorata lo facevano sembrare un direttore di banca. Lavallier sorrise, sperando che non gli si leggesse in faccia quanto era allarmato. «L'uno dopo l'altro», scherzò a sua volta. «Bene, allora. Dove sta andando?» «Al terzo piano. Ho convocato una riunione col reparto tecnico e con la sicurezza», rispose Lavallier. Gombel, che si stava già allontanando, si fermò all'improvviso. «Niente di serio, vero? Ci mancherebbe soltanto che...» «Al momento mi servono soltanto alcune informazioni.» «Hmm... Va bene. Mi faccia sapere se ci sono problemi.» «Come sempre.» Gombel gli rivolse un sorriso fugace e attraversò il cortile a lucernario, raggiungendo l'ala opposta dell'edificio. Lavallier lo seguì con lo sguardo e sperò che i problemi si risolvessero presto, anche se gli sembrava improbabile. Salì al terzo piano, entrò nella sala riunioni e salutò i presenti con un cenno del capo. Aveva rinunciato a qualsiasi formalità: non c'era un ordine del giorno e, a quanto sembrava, non c'era nemmeno il caffè. Pit Brauer, il direttore del servizio di sicurezza - il SI, da Sicherheit, «sicurezza» -, era già arrivato. Era un uomo apprensivo, con una barba ben curata e un principio di calvizie. Non appariva particolarmente felice, ma ciò era da attribuire al suo consueto modo di essere, più che alla situazione del momento. Per Lavallier, Brauer era uno dei contatti più importanti. Il suo reparto dipendeva direttamente dalla società che gestiva l'aeroporto e costituiva un secondo caposaldo della sicurezza, insieme con la polizia. Ai sensi del paragrafo 19 della legge sul traffico aereo, le società di gestione aeroportuale erano tenute a prendere provvedimenti autonomi per la sicurezza, così da ridurre il pericolo di attentati. Da alcuni anni, la centrale operativa e gli uffici del SI si trovavano nel settore A del vecchio terminal ed erano dotati di un sofisticato armamentario tecnico, che comprendeva tessere elettroniche, telecamere e controlli radio. Pattuglie a piedi e su automezzi sorvegliavano giorno e notte l'area e tutte le sue ramificazioni, garantendo che nessuno vagasse nei piazzali dell'aeroporto e che ogni dipendente si trovasse esattamente dove doveva essere.
Nella stanza c'era anche Herbert Fuchs, il direttore tecnico dell'aeroporto. Era l'esatto opposto di Brauer: un individuo pragmatico, sempre di buonumore, alto, snello e in forma. Le sue coorti erano distribuite nei seminterrati dei terminal e si aggiravano sul centinaio di persone, oltre ai liberi professionisti che venivano ingaggiati giorno per giorno per gli incarichi straordinari. Accanto a Fuchs c'era un altro uomo che Lavallier non conosceva. Era tarchiato, aveva un viso rubicondo, capelli biondo chiaro tagliati corti e portava i baffi. Lavallier gli diede poco più di cinquant'anni. «Mi permetta di presentarle Martin Mahder», disse Fuchs. «Piacere.» «È il direttore del reparto manutenzione facciate ed elettricità ed è il diretto superiore di O'Dea.» «Salve», lo salutò Mahder. Lavallier avvicinò una delle sedie e prese posto a capotavola. In quel momento, la porta si aprì ed entrò Fichtner, il vicedirettore del personale, piccolo, grasso e irrequieto e con la fronte imperlata di sudore. Erano al completo. Lavallier aspettò che scemasse il brusio dei saluti. «Vi ringrazio di aver trovato il tempo di venire così rapidamente.» Li guardò a uno a uno. «Forse nel giro di un'ora potremo già mettere agli atti questa faccenda, ma al momento ci sono alcuni indizi che purtroppo dobbiamo verificare.» «Cosa abbiamo sottomano?» scherzò Fuchs. «Segnali extraterrestri?» «Abbiamo O'Dea», rispose Fichtner. «O, meglio, non ce l'abbiamo più, a quanto pare.» «O'Dea?» «Non ci tenga in sospeso, Eric», intervenne Brauer. «Sarò breve.» Lavallier spiegò la situazione a grandi linee, tralasciando i dettagli. Rivelò soltanto che Ryan O'Dea aveva una doppia identità, che era scomparso la sera precedente e che forse era implicato in un rapimento. Non menzionò nemmeno l'SMS mandato da Kuhn, che era scomparso a sua volta. Concluse dicendo che non erano da escludere conseguenze per il vertice. Calò un silenzio imbarazzante. «Questa è la situazione attuale», aggiunse Lavallier. «Naturalmente non c'è da escludere che O'Dea ricompaia. Per ora, tuttavia, non possiamo che prendere atto della sua scomparsa e cercarlo.» Fece una pausa. «Per poi forse... anzi sicuramente arrestarlo.»
«Un bel casino», mormorò Brauer. «Rapimento.» Fuchs si grattò la fronte. «Deve per forza essere collegato coi nostri arrivi?» «No, ma potrebbe», rispose Lavallier. «Che schifo», sbuffò Brauer. «Se la stampa subodora qualcosa, siamo rovinati.» «Non c'è bisogno che glielo diciamo», osservò Fichtner. «Ma come? Se le diciamo sempre tutto! Qualsiasi porcheria diventa di dominio pubblico. E che ne fanno quelli? Si mettono a discutere sull'opportunità di vietare i voli notturni. Noi costruiamo l'aeroporto più moderno d'Europa e loro preferiscono buttarsi su qualche vecchio bacucco che non gradisce il nostro cantiere. Metteranno in piedi un pandemonio anche per questa storia.» «Un attimo», intervenne rapido Lavallier. «Per il momento non raccontiamo niente a nessuno. Nessuno dei presenti lo farà.» «Chiaro.» «Certo.» «E chi sarebbe O'Dea, se non è lui?» chiese Mahder, che sembrava confuso. Lavallier lo guardò. «Il nome Patrick Clohessy le dice qualcosa?» «No.» «A quanto pare, è così che si chiama. Non lo possiamo ancora affermare con certezza, ma pare che non si chiami O'Dea.» Fichtner aggrottò le sopracciglia. Aprì un raccoglitore che aveva portato con sé e cominciò a sfogliarlo. «Vediamo quando ha cominciato.» «Non c'è bisogno che guardi», disse Mahder. «Glielo dico io. È stato assunto su mia iniziativa e ha cominciato a lavorare il 25 gennaio di quest'anno.» «Solo cinque mesi fa», rifletté Lavallier. «Ecco.» Fichtner si alzò e si avvicinò alla finestra, con un fascicolo in mano. «O'Dea, Ryan, nato a Limerick, Irlanda. Tecnico specializzato in elettricità e trasmissioni all'aeroporto Colonia/Bonn, assegnato al servizio riparazioni facciate e installazioni, eccetera, eccetera... Perito elettrotecnico, primo impiego all'aeroporto di Shannon. Perché abbiamo assunto un irlandese? Non c'è gente abbastanza brava in Germania?» «È lei che ha approvato la spesa e l'assunzione», precisò Mahder. «Io ho soltanto fatto la proposta.» «Non importa. Poi è stato per un periodo in Inghilterra, alla Rover, come
addetto alla manutenzione dei capannoni. Si è trasferito in Svizzera, ha fatto diversi lavori in piccole imprese. L'ultimo presso una ditta tecnica di Berna. Quindi ha lavorato in proprio ad Amburgo. Già.» Si voltò verso gli altri, chiuse il fascicolo e lo passò a Lavallier. «Solo voci positive. I documenti sono a posto. Anche da Düsseldorf non hanno riferito nulla. Un tipo non molto rilevante, questo O'Dea. E avrebbe rapito qualcuno?» Lavallier scosse il capo. «Lasciamo perdere il rapimento. Chi ha avuto più a che fare con lui negli ultimi tempi?» Mahder alzò la mano. «E dunque?» chiese Lavallier. «Affidabile.» Il direttore di reparto guardò Fuchs in cerca di aiuto, ma questi si limitò ad alzare le mani. «Non ho molto da dire su di lui, era un po' taciturno. Un brav'uomo, non antipatico, ma di poche parole.» «Amici, conoscenti?» «Non che io sappia.» «Ha mai parlato del suo passato? Della sua patria?» Il direttore di reparto scosse il capo. «Proprio di recente gli ho chiesto qualche dritta, perché ho sempre sognato di andare in Irlanda. Ma lui non si è appassionato all'argomento. Ho cominciato a chiedergli del Nord, per sapere se ci si può andare senza rischi, eccetera, eccetera, ma poi ho lasciato perdere. Non gli piaceva. Non ne parlava volentieri.» «Forse aveva paura di parlarne?» chiese Lavallier, tirando a indovinare. Mahder rifletté. «Sì», rispose lentamente. «Forse. Non lo so.» Lavallier lanciò uno sguardo al fascicolo. «In ultima istanza, chi ha deciso di assumere O'Dea? È stato lei?» chiese a Fuchs. «Ah, Lavallier, lo sa come vanno queste cose.» Fuchs scrollò le spalle. «Abbiamo un sacco di gente. Io amministro bilanci. Se Mahder o qualcuno nella sua posizione fa una richiesta di personale viene pubblicato un annuncio. La solita procedura. Noi controlliamo le domande, ma sono i direttori di reparto che devono essere soddisfatti. Mahder dice che vuole O'Dea e noi gli diamo O'Dea.» «Però O'Dea non si è presentato in seguito a un annuncio», intervenne Fichtner. «Ha fatto domanda di sua iniziativa.» Lavallier aggrottò le sopracciglia. «Intende dire che avete aggirato la procedura di assunzione?» «In questo caso sì.» «Pensavo...» «Ci sono alcune eccezioni. All'inizio di quest'anno c'era un forte afflusso
di persone, perciò abbiamo assunto un po' di gente senza mettere un annuncio sul giornale per tutti i posti di lavoro. Capita in tutte le grandi aziende.» «A me sembrava soltanto che fosse adatto al suo lavoro», si giustificò Mahder, in evidente imbarazzo. «Non potevo certo immaginare...» «Va bene.» Lavallier lo tranquillizzò con un cenno. «Voglio soltanto andare sul sicuro. Insomma la... ratifica, per così dire, della sua decisione è avvenuta in funzione della compatibilità col budget e sulla base del fatto che non sussistevano particolari dubbi sul candidato. Giusto?» «Se vuole metterla in questi termini», rispose Fichtner, indispettito. «E il SI? Qualche esperienza con O'Dea?» «Non che io sappia.» Brauer si arricciò le estremità dei baffi. «Non dava nell'occhio, non è mai andato a zonzo dove non avrebbe dovuto. Proprio nulla.» Lavallier annuì. Tutti coloro che lavoravano sui piazzali dovevano indossare una tessera di riconoscimento in una posizione visibile o quantomeno averla in tasca. Prima che ricevessero la tessera, veniva avviata un'apposita procedura di controllo. Ma, anche una volta ottenuta la tessera, i tecnici non potevano andare ovunque. Le tessere erano basate su uno schema a punti. Ogni punto corrispondeva a un'autorizzazione per una determinata area. Saltava subito all'occhio chi si tratteneva in zone in cui non era autorizzato a entrare e O'Dea evidentemente aveva evitato di farlo. Lavallier sapeva che il SI era sempre all'erta. Se lo diceva Brauer, era quasi certo che O'Dea fosse rimasto diligentemente nel suo territorio. «Bene.» Si guardò intorno. «O forse no. Chi mi può fornire una pianificazione operativa esatta, con tutti gli interventi assegnati a O'Dea e da lui effettivamente eseguiti?» «Gliela farò avere», si affrettò a rispondere Mahder. «È stato al Terminal 2, questo glielo posso dire anche subito. In più al Terminal Ovest, alla direzione della posta aerea, agli hangar, soprattutto all'Hangar 1. Posso farle avere l'elenco immediatamente.» «Grazie. Un'altra cosa: con chi lavorava di preferenza O'Dea?» «Le squadre non sono fisse. Voglio dire...» Mahder corrugò la fronte. «Aspetti! Peček! Hanno cominciato più o meno insieme.» «Peček?» «Josef Peček. Addetto alla manutenzione delle facciate come O'Dea. Hanno fatto diversi interventi insieme.» Lavallier prese nota del nome. «Gli dica di venire da me. Voglio il suo
fascicolo. In più, desidero sapere con chi altri ha lavorato O'Dea e quando sono stati assunti. Il SI farebbe bene a sottoporre a un controllo dettagliato tutti gli interventi di O'Dea, coordinandosi col reparto tecnico. Nell'arco della prossima ora, dobbiamo conoscere ogni singola vite e ogni filo che O'Dea ha toccato negli ultimi cinque mesi o ha installato da qualche parte.» Si alzò. «Bene, signori. Con questo vi ho messo al corrente della situazione. Sicuramente non c'è bisogno che vi sottolinei l'assoluta riservatezza, eccetera, eccetera.» Rivolse un sorriso rincuorante a tutti i presenti. «Speriamo che gli eventi di oggi non vengano compromessi in nessun modo da questa storia.» Brauer lo guardò corrucciato. «Se qualcosa può andare storto, lo farà», commentò. «Ha già informato la direzione?» «Non ancora. Voglio aspettare qualche risultato.» «Molto ragionevole.» «Se facesse evacuare l'aeroporto, vorrei essere il primo a saperlo», lo punzecchiò Fuchs. «Odio le code.» Anche se non era in vena, Lavallier sorrise. Quando tornò alla stazione di polizia, verso le undici, Liam e Kika non erano ancora arrivati. Il commissario sperava che fossero andati a fare colazione. Non era sicuro di quali sorprese potesse riservargli un uomo come O'Connor, che aveva trasformato un congresso in un fuggi fuggi generale e che si prendeva pubblicamente gioco dei politici. Nel frattempo, erano arrivati Bär e i suoi uomini. Avevano occupato due uffici e facevano a gara a chi faceva più telefonate. Lavallier aspettò che Bär riagganciasse e poi si sedette di fronte a lui. «Qualche novità?» chiese. Bär spense nel posacenere una sigaretta consumata sino al filtro e si appoggiò allo schienale della sedia. «Abbiamo trovato la macchina.» «La 2CV?» «Indovina dove.» Lavallier non ci mise molto. «Nella Rolandstraße.» «Regolarmente parcheggiata e chiusa a chiave. A poco più di cento metri da casa di O'Dea. Kuhn deve esserci passato davanti prima di parcheggiarla.» «E O'Dea?» «La Scientifica sta raccogliendo le impronte nel suo appartamento, ma si può già dire che ha tagliato la corda.» «Vuoi dire che è sparito?» Bär sorbì il suo caffè. Si accese un'altra sigaretta e porse il pacchetto a
Lavallier. «Come sempre, no», disse questi. «Sono quarantadue anni che non fumo.» «Giusto, lo dimentico sempre... Sì, qualcosa ce lo fa pensare. A giudicare da come abbiamo trovato l'appartamento, sembra che se ne sia andato di fretta, ma dopo aver fatto i bagagli. Armadi spalancati, cassetti aperti, quasi nessun oggetto personale. Ne deduci qualcosa?» Lavallier rimuginò su quelle informazioni. «Ieri pomeriggio, O'Dea scopre che O'Connor l'ha riconosciuto», disse, come se stesse riflettendo ad alta voce. «Alla sera, i due s'incontrano e, la notte stessa, O'Dea sparisce dalla circolazione. A O'Connor ha raccontato di essere stato costretto a cambiare identità perché era nei guai con l'IRA.» «Perciò O'Connor è quello che ne sa di più, al momento.» «Dipende. Gli piace sentire il suono della propria voce. Penso che non sappia niente di più di ciò che Paddy gli ha raccontato.» «Se quella storia è vera, non è detto che sia collegata col nostro vertice», osservò Bär. «Supponiamo che Paddy fosse effettivamente nell'IRA. È incappato in qualche guaio, come hai detto, perciò è normale che debba sparire. Chi cade in disgrazia presso l'Esercito Repubblicano Irlandese può anche cominciare a scavarsi la fossa. Perciò il nostro amico ha sborsato qualcosa e si è trasformato in Ryan O'Dea, un uomo con una biografia impeccabile, che riesce a farsi assumere in un aeroporto tedesco.» «E perché?» «Per starsene in pace», ipotizzò Bär. «D'accordo. E poi?» «Poi cosa?» Bär gonfiò le guance. «Be', all'improvviso si ritrova davanti O'Connor. La sua nuova identità è saltata. Ha paura e se la svigna.» Lavallier rifletté. Non suonava male. Purtroppo non suonava neanche benissimo. «O'Dea e O'Connor erano compagni di università ed erano amici», rifletté. «Negli anni, si sono allontanati, ma non c'erano risentimenti tra loro. Ora, immagina di essere Paddy. Il tuo cambio d'identità è riuscito, hai fregato l'IRA e ti sei stabilito a Colonia. Un giorno, il tuo vecchio compare ti passa davanti e ti riconosce! Voglio dire, certo... ti spaventi, la cosa non ti piace, ma tu te la daresti a gambe per questo? Ti sfileresti la nuova pelle che ti sei procurato con tanta fatica? Non basterebbe raccontare la verità a O'Connor e pregarlo di tenere la bocca chiusa in nome della vecchia amicizia?» «Cosa che ha fatto.»
«Appunto. E perciò non c'è nessun motivo per scomparire così.» Bär rifletté. «Sì, invece. Ce ne sono addirittura due.» Lavallier lo guardò con aria interrogativa. «In primo luogo, Paddy non può sapere a chi O'Connor abbia raccontato della sua scoperta», spiegò l'altro. «Perciò il suo silenzio vale soltanto a metà, per quanto possa promettere o giurare. In secondo luogo...» «Sì?» «... Paddy potrebbe avere paura di O'Connor.» «E perché?» Bär scrollò le spalle. «Forse O'Connor non è poi così innocuo. Può darsi che Paddy avesse motivo di supporre che O'Connor l'avrebbe denunciato.» «E Kuhn?» «È il secondo a mettersi sulle tracce di Paddy. In altri termini, viene tirato dentro da O'Connor, proprio come la donna. Paddy trova conferma ai suoi sospetti: O'Connor lo fa pedinare, Kuhn s'intrufola nel suo appartamento. Perciò fa sparire Kuhn e poi sparisce a sua volta.» Lavallier lasciò decantare la teoria di Bär. Era allettante. Metteva fuori discussione il vertice. «Non avete per caso trovato l'auto di O'Dea?» chiese. Bär scosse il capo. «Ci stiamo lavorando. Ma, se vuoi sapere cosa ne penso io, non la troveremo. Non se O'Dea si è dato alla fuga.» Fece una pausa. «È possibile che Kuhn si trovi in sua compagnia.» Lavallier si passò una mano sugli occhi. Che giornata! «Che cosa proponi?» «Di avviare una ricerca», rispose l'altro. «L'auto di O'Dea, lui e un uomo che corrisponda alla descrizione di Kuhn. Direzione Olanda, Belgio, Svizzera, eccetera, eccetera.» «Bene. Dato che ci sei, controlla un certo Josef Peček. Lavora qui come tecnico. È un collega di Paddy.» Bär prese il pacchetto di sigarette con la mano sinistra e il telefono con la destra. Kika Wagner Quando aprì gli occhi, alle undici e un quarto, il mal di testa si era affievolito. In compenso, aveva la lingua così asciutta che faticò a staccarla dal palato. «Buongiorno», disse Liam, da qualche parte, alle sue spalle.
Lei si scostò i capelli dalla fronte e sbatté le palpebre. Si ritrovò davanti una tazza di caffè. «Per quanto tempo ho dormito?» «Non molto. Mezz'ora. Abbiamo ordinato la colazione poi sei crollata sul mio petto. Cosa che in linea di principio mi fa molto piacere.» «Santo cielo», gemette lei. «La notte scorsa... A chi è saltato in mente di portarsi in camera quella maledetta bottiglia?» «A te», rispose Liam. «Sul serio?» «Credo che tu lo ritenga un requisito protocollare imprescindibile, quello di consumare alcolici in mia presenza, e non ti volevo far fare una brutta figura. Vuoi un'altra tazza di caffè?» Kika si mise a sedere e sbadigliò. Erano nella sala da pranzo dell'Holiday Inn. A parte un uomo anziano seduto qualche tavolo più in là, erano gli unici clienti. Un cameriere andava avanti e indietro sulla moquette, senza far rumore. Non prestò loro la minima attenzione. Kuhn! Come aveva potuto addormentarsi? Avrebbe fatto meglio a riflettere! «Lascia perdere il caffè», disse. «Dobbiamo tornare alla polizia.» «E perché? Lavallier ha detto che ci sarebbe venuto a prendere, a quanto ricordo. Piuttosto pensa a cos'ha detto Kuhn di strano.» «Non... è ancora venuto in mente.» Era ovvio. Aveva dormito. Dentro di lei si fece strada un terribile senso di colpa. «E tu? Ti è venuto in mente qualcosa?» «A proposito dell'SMS?» Liam scosse il capo. «Verrà il giorno.» «Sempre che ci sia ancora tempo», osservò lei, scoraggiata. In quell'istante, si ricordò di un frammento della conversazione con Kuhn. Cercò di aggrapparvisi e di richiamarne altri. I frammenti si sommarono... D'un tratto ricordò che, verso la fine della telefonata, l'editor aveva detto qualcosa di strano. Una cosa che non aveva senso. Liam la osservava. «Hai...» Lei lo interruppe con un cenno. C'era arrivata! «Dobbiamo andare», esclamò. «Adesso ricordo!» «Ricordi cosa?» Le vennero le lacrime agli occhi. Liam se ne accorse e la abbracciò. Lei si strinse a lui e si chiese perché a quella meravigliosa notte non fosse seguita una mattina altrettanto meravigliosa. «Liam...» «Sì?
«Ho paura.» Lui la strinse più forte. «Va tutto bene», replicò. «Come t'invidio.» Centro spedizioni «Dunque sei stato rapito», disse la donna, in tono troppo tranquillo. Kuhn la fissava senza capire. Lei dava l'impressione di cercare qualcosa dentro di sé. Poi all'improvviso gli diede un manrovescio. Kuhn emise un ululato e strattonò le manette. «Cosa mi hai nascosto?» «Niente. Lo giuro!» Un secondo colpo lo raggiunse sul naso, che sprizzò sangue. Lui si abbassò, cercando la salvezza dall'altra parte del tubo. Lei lo seguì. «Idiota! Vuoi vivere?» «Sì!» «Perché Liam O'Connor e Kika Wagner hanno denunciato la tua scomparsa?» «Non lo so. Volevamo...» Il pugno della donna, piccolo e appuntito, gli s'infilò nello stomaco. Kuhn si piegò in due, gorgogliando, e cadde in ginocchio. Gli si rivoltava lo stomaco, ma non c'era niente dentro, soltanto acidi, che gli risalirono in gola. S'ingozzò e tossì, mentre i pensieri gli si accavallavano nella mente. Per un istante, fu tentato di raccontarle dell'SMS. Ma poi lei l'avrebbe ucciso. Che poteva farsene di lui, sapendo che la frottola del viaggio improvviso per conto della casa editrice era stata smascherata? «Perché?» chiese di nuovo lei. Kuhn annaspò. Non era mai stato umiliato in quel modo. D'un tratto si accorse che la rabbia si mescolava alla paura e sentì divampare l'odio per quella stronza che si arrogava il diritto di decidere della sua vita. Alzò la testa e la guardò. «Volevamo telefonare a O'Connor, no?» sbottò, imbestialito. «Non faceva parte del suo grandioso piano? Perché si meraviglia che si preoccupino? Ho detto a Kika che sarei stato reperibile per tutta la giornata e che l'avrei chiamata. La smetta di sfogarsi su di me! Avrei dovuto farmi sentire già da un pezzo, così a nessuno sarebbe venuto in mente che sono stato rapito. È colpa sua, ha capito? È tutta colpa sua!» S'interruppe. Inorridito, si rese conto dell'effetto che le sue parole avrebbero avuto sulla donna. Una paura senza precedenti si portò via la collera. L'avreb-
be punito. Gliel'avrebbe fatta pagare per essersi rivolto a lei in quel modo. «Mi spiace», balbettò. «Non... non volevo...» La donna lo osservò. Non sembrava intenzionata a colpirlo di nuovo. «Sì, hai ragione», disse. «Avrei dovuto farti telefonare.» Kuhn pompò aria nei polmoni. Dopo il colpo alla bocca dello stomaco, non sapeva se sarebbe riuscito ad alzarsi. «Posso telefonare adesso», disse ansimando. «No.» La donna scosse il capo. «Ho cambiato programma. Che ti cerchino pure. Non cambia nulla.» «Ma potrebbe essere importante...» «Seguiranno un'altra pista che abbiamo preparato. Nel dubbio, tu ci vai benissimo come vittima di un rapimento.» Fece una pausa. «O come cadavere.» Kuhn deglutì e si rimise in piedi. «Per quanto tempo ancora?» chiese con voce spenta. Lei lo guardò e scrollò le spalle. «Non ti voglio ammazzare.» Dal suo tono, Kuhn non dubitò che stava dicendo sul serio. Si appoggiò alla parete, boccheggiando, e con la mano libera si pulì il sangue dal labbro superiore. «Quando avrà fatto quello che è venuta a fare, mi lascerà andare, vero? Io non c'entro con le sue faccende, dopotutto.» «Però hai ficcato il naso anche troppo, non pensi?» «Ciò che sta facendo non è giusto. Non so quali siano i suoi piani, ma sta commettendo un crimine. Ci ho ficcato il naso perché Liam, Kika e io volevamo impedire un crimine. Non crede che, in questo senso, agissimo nell'interesse di una parte molto maggiore dell'umanità rispetto a lei?» «Sì, è vero», rispose la donna. Era irritato. Si aspettava e temeva che lei lo colpisse di nuovo, ma evidentemente la donna reagiva a quella protesta con calma e pacatezza. In effetti, a Kuhn non dava l'impressione di essere una fanatica. Finché ci poteva parlare, la sua unica chance consisteva proprio in quello. Parlare. Piano piano, nonostante la paura logorante, ricominciò a farsi coraggio. «Mi dirà cosa intende fare?» chiese. Lei aggrottò la fronte. Poi fece una breve risata. «Perché t'interessa?» «Se devo morire perché il suo piano possa funzionare, ho un comprensibile interesse a sapere di cosa si tratta, giusto?» Lei continuò a guardarlo, mentre sembrava che le palpebre le si appesantissero. Poi si voltò senza proferir parola e se ne andò. «Io so cos'ha intenzione di fare», le gridò dietro Kuhn.
Lei si bloccò. «Ebbene?» chiese senza voltarsi. «È un crimine! Non è un atto eroico. Se lo farà, non sarà migliore dei suoi nemici.» Era un tentativo alla cieca. Ma portò a un risultato, benché non a quello sperato da Kuhn. La donna si voltò e lo raggiunse a passo svelto, con un lampo di rabbia negli occhi. «E tu che ne sai dei miei nemici?» «Non... non lo so, però...» «E allora non parlarne.» «Lei non è italiana. È russa oppure serba. Lei...» «E allora?» «Avete perso», urlò Kuhn. «Avete perso, non lo volete capire? Avete perso!» Ormai era finita. «Sì, può essere», sibilò lei. «Ma voi non avete vinto. Non avete sottomesso Miloševič. È ancora lì e continuerà a farsi beffe di voi. Con le vostre bombe non avete riportato all'età della pietra lui e le sue truppe, ma il mio popolo e la terra che volevate liberare. La vostra NATO, il vostro cancelliere, il presidente americano... Voi pensate sempre che la vittoria sia una questione di supremazia tecnologica. Quella l'avete dimostrata, certo. Ma quanto tempo ci è voluto perché la vostra tecnologia mettesse in ginocchio il dittatore? Chi ha dovuto soffrire sotto la vostra superiorità? Parlate di ritorno dei valori e lanciate bombe, ma quanti valori serbi e albanesi avete annientato? Quanta gente è morta?» Kuhn sentiva il respiro della donna sul viso. Incassò la testa tra le spalle. «Avete voluto salvare la faccia», proseguì lei. «Era l'unica cosa che v'interessava. Maledetti bugiardi! Avreste potuto interrompere i bombardamenti mille volte, ma la cosa non avrebbe collimato con la vostra interpretazione della vittoria. Dopotutto bisogna provarli, tutti quei bei giocattoli. Folli infantili! Ma chi credete di essere? Quell'imbecille di Bill Gates, hai letto il suo ultimo libro?» Kuhn scosse il capo. «Io sì. S'intitola Business @lla velocità del pensiero. Devi leggerlo, se sopravvivi. Ha sviluppato un programma che si chiama Falcon View e scrive, con entusiasmo infantile, che per esempio lo si può usare per distruggere i ponti jugoslavi. Pensate che il mondo sia un wargame! Abbiamo perso tutti, è questa la tragedia. Il nostro dittatore non si è curato dei diritti umani; il vostro, in America, non si è curato della democrazia, ha aggirato l'ONU e umiliato la Russia per bombardare esseri umani in nome
dei diritti umani! E pretendete di aver vinto?» «Abbiamo bombardato Miloševič», ribatté Kuhn. «Noi...» «Noi? Noi chi? I tedeschi? E perché i tedeschi? Perché la NATO ha detto: 'Se minacciamo di bombardare dobbiamo bombardare davvero, altrimenti che figura ci facciamo'? Oppure perché eravate stufi di sentirvi dire che si sarebbe potuto fermare Hitler se gli si fosse data una lezione prima?» «E allora?» Kuhn serrò i pugni. «Saremmo dovuti rimanere a guardare mentre massacravate qualche centinaio di migliaia di kosovari? E la Russia? Certo, ha una montagna di complessi d'inferiorità, con quel vecchio ubriacone al governo. Forse per questo avremmo dovuto implorarla di fermare un massacratore? Umiliati? Oh, povero Est! Mi fate tanta compassione, voi e il vostro campo dei merli e la perdita dello status di potenza mondiale! Roba da voltastomaco! I russi hanno acconsentito a fermare Miloševič. Proprio i russi dovrebbero sapere benissimo che tipi sono quelli che organizzano deportazioni di massa e lo sterminio d'interi gruppi etnici. Noi tedeschi lo sappiamo meglio di chiunque altro. È per questo che siamo intervenuti ed è per questo che era giusto! Era giusto!» La donna serrò le labbra. «Sì, avete risolto i vostri problemi.» Attaccato alla catena, Kuhn si rese conto di ciò che stava accadendo in quei minuti: un prigioniero, che forse aveva ancora poco da vivere, discuteva di guerra e pace con la sua rapitrice. C'era da piangere. Ma forse era l'unica strada. «Mi... piacerebbe chiamarla per nome», disse. «Se... non le spiace.» «Chiamami Jana.» Non avresti dovuto farlo, pensò lui. Più cose ti dice, meno possibilità ci sono che ti lasci in vita. Ma ormai era troppo tardi. «Per chi lavora, Jana?» chiese. «Per Miloševič? È lui che vuole questa follia?» «Sarebbe facile, eh? Bello e facile. Ma il mondo non è così facile. Io lavoro soltanto per una persona.» «Chi?» «Per una donna.» Una donna? «E... chi...?» Lei sorrise. Era la prima volta che Kuhn la vedeva sorridere. Che peccato, pensò. Ha un viso fatto per sorridere. «Non la conosco ancora», rispose lei quasi allegramente.
Stazione di polizia «Arrivate al momento giusto», disse Lavallier a Liam, poi prese una foto dalla scrivania e la porse allo scienziato. «È questo l'uomo che le è stato presentato come Ryan O'Dea?» Liam guardò l'immagine e poi la passò a Kika. «Sì.» «Le foto sono appena arrivate dall'Europol», precisò Lavallier. «Vengono da un dossier trasferito anni fa da Belfast a Dublino. L'uomo per cui è stato aperto il dossier si chiama Patrick Clohessy.» «Bene», disse Liam con aria soddisfatta. Poi si sedette. A Lavallier non diede l'impressione di essere consumato dall'ansia. Piuttosto era come se fosse lui a dirigere le indagini e avesse appena dato una lezione memorabile al suo assistente. Il commissario decise d'ignorare la cosa. Prese il pacchetto di fogli che i colleghi di Dublino avevano inviato a Bär qualche minuto prima e diede loro uno sguardo. «Dicono pure che, dal 1990 alla fine del 1998, Clohessy ha combattuto attivamente tra le file dell'IRA e si è reso responsabile di una serie di attentati, con danni materiali e alle persone. Sono stati spiccati diversi mandati di arresto nei suoi confronti.» Alzò lo sguardo. «Pare che sia corresponsabile della morte di diverse persone. Lo credeva capace di questo, Mr O'Connor?» «Di omicidio? Non, Monsieur le commissaire.» «Già. A quanto sembra, ne ha avuto abbastanza dei suoi amici ribelli. Secondo alcune segnalazioni, a metà del '98 ha dichiarato di voler uscire dall'IRA. I suoi ex compagni non erano particolarmente entusiasti della cosa. A quanto pare, l'ala scientifica dell'Esercito Repubblicano Irlandese gli è assai debitrice.» «Paddy era brillante», confermò Liam. «E cosa avrebbe fatto per essere definito 'brillante' un assassino e terrorista come quello?» chiese Kika. Lavallier la guardò. Gli piacque molto per quella domanda. «Sistemi d'innesco», rispose, guardando i fogli. «In particolare, ha partecipato allo sviluppo di un cannone radar.» «E la parte brillante quale sarebbe?» «Sarebbero le circostanze», intervenne Liam. «Devi capire che gli inglesi hanno sempre potuto schierare laboratori ben attrezzati, budget immensi e un esercito di accademici, mentre il reparto di ricerca dell'IRA si nascon-
deva in qualche cantina o in un retrobottega. In compenso, gli irlandesi hanno escogitato schemi elettrici molto raffinati. Più tardi gli inglesi hanno inventato un sistema di scanner elettronici che intercettava le onde radio e mandava interferenze qualche decimo di secondo prima che il dispositivo trasmettesse il segnale d'innesco. Ma il cannone radar funziona in modo diverso. Non può essere localizzato. Prima di essere attivato, viene puntato sulla bomba. E, se qualcuno preme il bottone, non c'è più tempo per interferire col segnale, che arriva istantaneamente a destinazione.» «Perfido», commentò Kika. «Ripugnante e ignobile.» «Non dal punto di vista scientifico», osservò Liam. «Quello che può essere ignobile è l'uso che ne viene fatto.» Lavallier lo aveva ascoltato con la fronte corrugata. Si rimise a guardare i fogli. «Ha contribuito a inventare anche qualcos'altro. L'innesco a lampi luminosi.» «Lampi simultanei.» Liam annuì. «Lo so.» «Sa anche questo? Lei sa parecchio di molte cose.» «È il mio campo, se permette. Lavoro con la luce. Si usa un flash per macchine fotografiche, di quelli che si trovano in commercio, lo si accende a notevole distanza dalla bomba, ma soltanto per azionare un altro flash, più vicino. E così via, fino ad arrivare alla bomba. Ogni lampo alimenta quello successivo. Innesco e detonazione avvengono contemporaneamente. Molto semplice.» Lavallier mise da parte i fogli. Lampi luminosi! Bombe! Era inutile. Doveva informare la direzione dell'aeroporto. Avvicinò la mano al telefono. «Aspetti», disse Kika. «Sì?» «Mi è venuta in mente una cosa. Lei mi ha chiesto se Kuhn aveva detto qualcosa di strano.» La mano di Lavallier rimase sospesa sopra la cornetta del telefono. «Dunque?» Lei esitò. «Ha detto: 'Oggi non sono a posto. Non è da me. Troppa acqua sotto i ponti, ultimamente'.» «'Acqua sotto i ponti'? A cosa si riferiva?» «Appunto. Non ne ho idea. Sembra una frase inappropriata, fuori luogo. Voleva forse dire che, di recente, aveva sopportato molte difficoltà? Che aveva dovuto mandar giù molte cose? Che aveva avuto un sacco di cose
per la testa? A ogni modo, l'acqua sotto i ponti non c'entra.» «In che anno Mosè ha costruito l'arca?» intervenne Liam. «Come?» chiese Lavallier confuso. L'altro allargò le braccia. «È molto semplice. In che anno Mosè ha costruito l'arca?» Lavallier sorrise. «Ma non l'ha costruita Mosè.» «Esatto. Ma la domanda è posta in modo tale che si è indotti a concentrarsi sull'anno, ignorando i fatti. Voglio dire, se Kuhn non era solo quando ha parlato con Kika, visto che non poteva parlare liberamente, ha cercato di darle qualche indizio. Il modo in cui si è espresso suggeriva una cosa del genere: 'Ehi, non sto tanto bene... Sono fuori fase... Mi sono strapazzato troppo ultimamente'. Forse il suo sotterfugio ha funzionato e, a chi lo ascoltava, è sfuggito ciò che lui voleva dire davvero.» Lavallier guardò Liam e poi Kika. «'Oggi non sono a posto. Non è da me'», ripeté. «Voleva dire: 'Non sono al mio posto, non sono da me, ma da qualcun altro. Mi hanno rapito'.» Liam annuì. «E l'acqua che è passata sotto i ponti ultimamente, appena prima della telefonata di Kika...» «È l'acqua del Reno.» «Già. Il punto di partenza delle sue riflessioni era il Maritim. Immagino che ora si trovi sull'altra sponda del Reno.» Lavallier fissò lo scienziato per qualche istante poi compose il numero della direzione dell'aeroporto. «E allora?» chiese Liam. «Allora cosa?» «Visto che adesso ha un sacco d'informazioni...» «Vi devo chiedere di rimanere, per il momento.» Liam fece una smorfia. «Possiamo fare qualcosa, almeno?» chiese Kika. «Il fatto di essere costantemente in sospeso mi strazia.» «Potete raccontare al commissario capo Bär la stessa cosa che avete raccontato a me. Lo trovate due uffici più in là. Lavoriamo insieme a questo caso e vi vuole vedere.» «Non posso restare a disposizione all'infinito», protestò Kika. «Alle quattro e mezzo devo essere a Colonia.» «Vada da Bär», ribadì Lavallier, impassibile. «Scopra cosa voleva dire l'SMS. Faccia un giro per l'aeroporto. Vada a mangiare o a bere qualcosa,
non lo so. Se proprio deve andare a Colonia, va bene, però sia reperibile.» «L'età della reperibilità», filosofeggiò Liam. «E-mail, cellulari. Lo sapevo che la schiavitù non era stata abolita del tutto.» Amministrazione. Direzione Entrando nell'ufficio, la prima cosa che saltava all'occhio erano due grandi poster, appesi l'uno sopra l'altro, sulla sinistra. Mostravano la stessa scena, di giorno e di notte. Aeroporti simili a dinosauri, in un ambiente che sembrava una via di mezzo tra un bosco, uno scalo vero e proprio e uno zoo. Alcune persone avanzavano tra recinzioni di rete metallica verso i giganteschi jet, e sembravano animali incanalati in un percorso fatto di reticoli. Chi si dava pena di chiedere spiegazioni scopriva che non si trattava affatto di arte, ma di come il Terminal 2 era stato immaginato da uno degli architetti che avevano partecipato al concorso indetto per l'ampliamento dell'aeroporto all'inizio degli anni '90. Quella sorta di Jurassic Park aeronautico era stata il primo progetto eliminato dalla gara; tuttavia era arrivato ai piani superiori e aveva trovato una sistemazione nell'ufficio di Heinz Gombel, dov'era stato promosso a opera d'arte, almeno in un certo senso. Nelle sue rare visite, Lavallier dedicava sempre una certa attenzione alle due immagini. L'idea di un aeroporto verde gli piaceva. Quel giorno, però, non guardò neppure i due poster. Subito dopo l'arrivo delle informazioni su Paddy Clohessy e la discussione con Kika Wagner su Kuhn, aveva preso posto nell'angolino che Gombel dedicava ai visitatori e stava informando della situazione quattro funzionari, i quali lo guardavano con espressioni che andavano dal serio al mortalmente preoccupato. Come nel caso precedente, tutti avevano risposto subito alla convocazione. Accanto a Gombel c'era il direttore tecnico Wolfgang Klapdor, che aveva un ufficio proprio dietro l'angolo e che, fin dall'inizio dei lavori di costruzione, si azzuffava con autorità ed enti vari, per ottenere certificati e autorizzazioni. I tratti distintivi di Klapdor erano barba e occhialini a mezzaluna legati a una cordicella. Lavallier si aspettava sempre di vederlo fumare sigarette col bocchino, il che avrebbe completato l'aspetto da distinto letterato da caffè. Accanto a lui, appoggiato al divano di pelle nera, c'era Peter Stankowski, il direttore del traffico aereo, anch'egli barbuto e con una perenne espressione furibonda in viso. Il quarto uomo si chiamava Dieter Knott. Era il vi-
cedirettore del traffico aereo. A entrambi toccava la responsabilità logistica degli arrivi per il vertice, della Tenda VIP, del coordinamento della stampa e degli adempimenti di protocollo. Erano in contatto diretto col ministero degli Esteri, dove la storia che Lavallier stava raccontando non avrebbe suscitato molto più entusiasmo che in quell'ufficio. Lavallier concluse il rapporto, congiunse i polpastrelli e annuì. «Ecco, queste sono le novità.» Si era diffusa un'atmosfera di disagio. Per qualche istante, nessuno parlò. I funzionari si guardavano i piedi oppure fissavano Lavallier, come se, dopo l'esposizione del problema, si aspettassero di sentirne la soluzione. «Non è una bella cosa», borbottò Gombel. Klapdor si schiarì la voce. «Cosa sappiamo di questo O'Dea, a parte ciò che dicono i nostri archivi?» Lavallier scosse il capo. «Nulla.» «Ah.» «Immagino che, fino a cinque mesi fa, Ryan O'Dea non esistesse nemmeno. Anzi sono sicuro che abbia di proposito evitato di allacciare amicizie. Quindi dobbiamo occuparci di Patrick Clohessy. E le cose si mettono male. A dir poco.» «Lei ha detto che militava nell'IRA...» «Già, esatto, nell'IRA», lo interruppe Stankowski. «E allora? Non creiamo scompiglio inutilmente. L'IRA non ha mai agito al di fuori delle isole britanniche.» «Dipende», obiettò cautamente Knott. «In che senso?» «L'esplosivo al plastico Semtex-H, con cui si dilettavano alla fine degli anni '80, glielo ha mandato Gheddafi, in cambio di alcuni servigi particolari.» «Ah, Gheddafi! Sono passati più di dieci anni.» «So dove vuole arrivare», intervenne Lavallier. «Abbiamo già discusso stamattina se tutto ciò possa riguardare gli arrivi per il vertice. A essere sinceri, non ne abbiamo idea. Il commissario Bär ha una teoria: secondo lui, si tratterebbe di una lotta intestina degli irlandesi.» Esitò. «D'altro canto, ci si potrebbe chiedere cosa si sia lasciato dietro un attivista dell'IRA nel luogo in cui fra poco atterrerà Tony Blair.» «Non oserebbero», osservò Knott, scuotendo energicamente il capo. «Non adesso che una soluzione per l'Irlanda del Nord si avvicina.» «Perché?» chiese Gombel. «Volevano far saltare in aria anche la Tha-
tcher nel 1984, a Brighton.» «Erano altri tempi.» «E pure John Major.» «Sì, ma non l'hanno fatto.» «Forse si sono resi conto che avrebbero fatto un piacere troppo grande agli inglesi. Comunque ha ragione. Blair è il loro garante per la pace, no?» Gombel guardò Lavallier. «Perché dovrebbero far fuori Blair proprio quando si stanno appianando i contrasti?» «La sua prospettiva è troppo idealistica», rispose Lavallier. «Io non sono un esperto dell'Irlanda, ma se l'IRA accetta il disarmo e gli irlandesi si accordano con gli inglesi, va in fumo un'organizzazione enorme. Lo Sinn Féin, il ramo legale, è lacerato internamente e anche l'IRA è spaccata. Lo zoccolo duro estremista continuerà a combattere. Sono quasi tutti criminali senza speranza. Cosa faranno, una volta risolta la controversia con gli inglesi? Voglio dire, cosa fa il KGB, che pure era legale? È già successo diverse volte che gli estremisti dell'IRA abbiano assassinato qualcuno semplicemente per arrestare un processo di pace che li lascerebbe senza lavoro. Non tutti in Irlanda vogliono questa pace. Credete davvero che se Blair viene fatto fuori, qui e ora, qui a Colonia, Londra siederà al tavolo con quelli anche soltanto per un minuto?» Klapdor giocherellava con la cordicella degli occhiali. «Capisco», disse. «Lei ci suggerisce di prendere in considerazione la possibilità di deviare i voli delle personalità politiche, per scongiurare il peggio.» Ecco, era venuto fuori. Lavallier sospirò. Deviare i voli di Clinton, Eltsin, Blair e degli altri politici su un aeroporto diverso da quello di Colonia sarebbe stato un incubo. Ma un attentato sarebbe stato ancora peggio. «In ultima analisi, sarà il BKA a dover prendere questa decisione», esclamò. «Oppure gli americani. Ma non sinché io non farò una raccomandazione in tal senso.» Stankowski scosse il capo, furente. «Vede, io spero di avere altri risultati», proseguì Lavallier. «Nelle prossime ore, sarò in grado di dire qualcosa di più e...» «Finché non avrà altro che questa storia inverosimile non vedo motivo di cambiare programma! I russi, i serbi, gli algerini, i curdi, perfino gli iracheni prendono ciò che passa il convento e lei se ne viene fuori con l'IRA!» Lavallier capiva l'esasperazione del direttore del traffico aereo. Lui e Knott avevano negoziato per mesi ogni dettaglio con le delegazioni stra-
niere, definendo la procedura. Se avesse insistito a deviare i voli, l'accoglienza in pompa magna sarebbe saltata. Tutti gli sforzi fatti sino ad allora si sarebbero rivelati inutili. Qualche ministro degli Esteri, qualche diplomatico, certo... Ma i capi avrebbero onorato Francoforte o Düsseldorf. Era una prospettiva terribile! Per qualche istante calò il silenzio. «Bene, Lavallier», disse infine Gombel. Cercò di sorridere, ma non ci riuscì. «Faccia del suo meglio. Per ora non abbiamo prove di attentati alla vita dei nostri ospiti ufficiali, giusto? Aspettiamo, per il momento. Possiamo sempre tirare il freno anche dopo, no?» «Mi unisco a questa proposta», ringhiò Stankowski. Bene, pensò Lavallier, unisciti pure. Così, se Clohessy ha nascosto una bomba e non ce ne siamo accorti, il tuo bel terminal nuovo ti esploderà intorno. «No, naturalmente non abbiamo prove», dichiarò. «È proprio questo che intendevo dire all'inizio.» Si alzò e si appianò la giacca. Aveva l'impressione che nell'ultima ora si fosse ristretta. «Ma se gli indizi si moltiplicheranno, spingendoci a presumere che la cosa abbia a che fare con noi, vi devo chiedere di non trascurare le eventuali conseguenze.» «Naturalmente», annuì Knott. «Accidenti! Abbiamo Clinton», s'infiammò Stankowski. «Crede che ci lasceremmo sfuggire Clinton?» «Non è ancora chiaro se...» «I Servizi segreti hanno rivoltato questo maledetto aeroporto da cima a fondo! Non c'è niente! Santo cielo! Se atterra a Düsseldorf, può anche spararsi da solo, ma dove...» «Nessuno ha detto che atterrerà a Düsseldorf», intervenne Klapdor, cercando di placare l'adirato direttore del traffico aereo. «... dove mai potrebbe essere nascosto qualcosa? Lavallier, accidenti! Ci è forse sfuggito un dettaglio, un...» «No», lo interruppe Lavallier, scuotendo il capo. «Maledizione!» Knott sospirò. Klapdor guardò i poster. Gombel si passò una mano sulla pelata, quindi disse: «D'accordo. Sarebbe un disonore, vero? E non farebbe bene all'aeroporto, in questa fase. Ma, per ora, non si può dire altro. Lasciamo che Lavallier faccia il suo lavoro.» «Già, trovi quel pezzo di merda», sbuffò Stankowski. «Pregheremo per lei.» «Faremo il possibile», mormorò Lavallier.
Gombel lo accompagnò fuori e gli strinse la mano. «So che fate e farete il possibile», mormorò. «E lo sa anche Stankowski. Al suo posto, me la prenderei a morte, però ho fiducia in lei. E deve prendere una decisione.» Con aria infelice, Lavallier annuì. Lui, la direzione, Stankowski, Knott e tutti quelli che erano coinvolti nelle procedure per gli arrivi avevano sempre collaborato in armonia. Mentre scendeva le scale a passo lento, ricordò a se stesso la pressione enorme cui erano sottoposti quegli individui. Andavano più che d'accordo, ma quella pressione, con l'avvicinarsi degli arrivi «importanti», stava diventando addirittura micidiale. Tutti erano onorati della consacrazione che l'aeroporto avrebbe ricevuto. Dunque avevano i nervi a fior di pelle. In ogni caso, la situazione era difficile. L'ambizioso progetto del nuovo terminal non era sufficiente a nascondere il fatto che il Colonia/Bonn continuava ad avere grossi problemi d'immagine presso l'opinione pubblica. Nato come aeroporto per i funzionari statali, era uno scalo piccolo, provinciale, sperduto nella brughiera. Per anni, nessuno l'aveva preso in considerazione. Anche se un numero sempre maggiore di compagnie aeree aveva cominciato a volare su Colonia/Bonn, le agenzie di viaggi di Colonia continuavano a prenotare voli su Düsseldorf con seccante regolarità. Nonostante gli sforzi di ampliare l'offerta, includendo destinazioni come le Seychelles e i Caraibi, chi prenotava una vacanza di due settimane nella Repubblica Dominicana in un'agenzia del centro di Colonia, a soli quattro chilometri dall'aeroporto, doveva comunque cercarsi qualcuno che lo accompagnasse a Düsseldorf alle cinque del mattino. Poi era arrivata la catastrofe. L'incendio dell'aeroporto di Düsseldorf aveva cambiato tutto. All'improvviso, lo sperduto aeroporto di Colonia si era trovato sull'orlo del collasso a causa del traffico eccessivo. E l'ampliamento, comunque già in programma, era stato accelerato. Erano sorti, quasi dal nulla, due nuovi parcheggi. Erano arrivati nuovi operatori turistici e nuove compagnie aeree, ed era stata ampliata l'offerta di collegamenti. Tutte le curve possibili e immaginabili tendevano verso l'alto, creando un clima di grande tensione tra conservatori e visionari al Colonia/Bonn. Ormai sui tabelloni non mancavano nessuna delle compagnie più rinomate e nessun operatore turistico di vaglia. Tutte le destinazioni erano servite. In quello che, un tempo, era il tranquillo Terminal 1, i passeggeri si pestavano i piedi a vicenda. Il nuovo terminal avrebbe accolto altri sei milioni di persone all'anno, il che poneva un interrogativo: forse i profeti della crescita si erano sbagliati di grosso?
Era quella la paura. Erano ancora pochi quelli che avevano una vaga idea di cosa stesse succedendo davvero, laggiù nella brughiera. E la stampa non aiutava molto. Piuttosto fomentava il risentimento, insistendo con snervante sistematicità sulla questione dei voli notturni e ignorando i lavori per il nuovo terminal. Ma l'aeroporto di Colonia/Bonn era al centro d'interessi che andavano ben oltre Colonia o il Nord Reno-Vestfalia. Gli arrivi dell'élite politica mondiale sembravano una conferma di ciò che molti avevano sempre creduto, pur non rivelandolo: quell'aeroporto aveva una statura mondiale. Nulla era più efficace di una pubblicità così illustre. E nulla poteva essere così catastrofico quanto un attentato terroristico! Nessuno voleva un attentato, ovvio. Però nessuno voleva rovinare un momento magico. Mentre Lavallier tornava alla stazione di polizia, si chiedeva come avrebbero reagito se lui avesse insistito nel voler deviare i voli. I suoi superiori, il direttore dei Servizi segreti per il settore arrivi, tutti confidavano in lui. Poteva soltanto formulare raccomandazioni, ma con tutta probabilità loro le avrebbero seguite. Eppure, in quel momento, Lavallier avrebbe preferito non avere nessuna influenza. Odiava l'idea di rovinare la festa a tutti, per poi magari capire di essersi sbagliato. Digrignando i denti, aprì la porta della stazione di polizia. Stankowski aveva ragione. Avevano Clinton. Si erano scapicollati per fare in modo che l'uomo più potente del mondo potesse atterrare lì. Si ripropose di fare il possibile perché accadesse davvero. Lavallier non era sicuro di ritrovare Kika Wagner e Liam O'Connor, dopo la riunione. Invece trovò il suo ufficio sotto assedio. C'erano tazze di caffè ovunque. C'erano Bär, Liam, Kika, Mahder e qualcuno che indossava una tuta e che lui non conosceva. Si erano radunati davanti alla finestra e sembrava che tutti conversassero con tutti. «Peter...» sibilò il commissario. Bär si voltò, vide Lavallier e lo raggiunse. «Questo O'Connor è un fenomeno», mormorò. «Mi ha raccontato tutta la storia, devo dire...» «Lo so che è un fenomeno», replicò Lavallier. «Adesso vorrei scoprire cosa sta facendo il fenomeno in questo momento. Dirige lui le indagini o abbiamo ancora qualche speranza?» «Aspetta.» Bär abbassò ancora di più la voce. «L'ho controllato, sembra pulito. Molto autorevole. È candidato al premio Nobel per la fisica e ha
scritto sette libri che vendono un sacco. È invidiabile su tutta la linea. Oltretutto non se la cava male neanche come aspetto fisico...» «Sì, sì, sì», lo interruppe Lavallier. Bär fece un sorriso misterioso. «Ma non è tutto qui.» «No? E che altro c'è? È un membro della famiglia reale?» «No. L'hanno quasi sbattuto fuori dal college. E sai perché? Perché lui e Paddy erano sospettati di simpatizzare per l'IRA.» Lavallier trasalì. Con la coda dell'occhio, sbirciò verso la finestra. Gesticolando, O'Connor stava descrivendo qualcosa. «Simpatizzante... o qualcosa di più?» chiese. «A differenza di Paddy, non ci sono prove. Ma non significa nulla.» Bär fece una pausa. «Forse negli ultimi anni hanno avuto più contatti di quanti O'Connor voglia darci a intendere.» «Ah, Monsieur le commissaire!» O'Connor lo aveva avvistato. Il gruppo si sciolse e tutti si allontanarono dalla finestra. All'improvviso, Lavallier era al centro dell'attenzione. Mahder spinse in avanti l'uomo con la tuta. «Josef Peček», lo presentò. «Piacere», disse Peček. Era piccolo, muscoloso e tarchiato, con capelli neri ispidi e occhi scuri. «Noi ci conosciamo già», intervenne Liam, prima che Lavallier potesse proferir parola. «Ieri pomeriggio, all'aeroporto, ha accompagnato... ehm, Ryan O'Dea. Hanno lavorato insieme diverse volte. Vede? Peček è il nostro uomo! Può chiedere a lui!» L'odore di alcol che Liam aveva emanato quella mattina era quasi scomparso. L'irlandese lo guardava, raggiante. I suoi occhi brillavano nel viso abbronzato e Lavallier aveva la sensazione di scomparire e di essere irrilevante al confronto. «Io...» «Non possiamo chiamare Kuhn un'altra volta?» chiese Kika. Lavallier alzò le mani. «Piano! Uno alla volta. O'Connor, si sieda laggiù.» Trasse un respiro profondo e indicò il piccolo tavolo messo di traverso davanti alla scrivania. «Anzi sedetevi tutti.» Aspettò che ognuno prendesse posto intorno al tavolo rotondo. Preferiva vederli lì che alla finestra. «Restate seduti», ordinò, alzando un dito. «Torno subito.» Prese Bär per una manica e lo trascinò in corridoio, indicando il gruppo alle sue spalle. «Che cos'è, una festa?» «Non ho potuto farci niente», si giustificò Bär. «Mahder ha portato Peček, sono venuti da te in ufficio e lì hanno incontrato Kika Wagner e Liam
O'Connor. Poi sono arrivato io, è cominciata una conversazione e... sai com'è...» «Il che vuol dire che possiamo anche scordarci d'interrogare Peček a sei occhi.» «In un certo senso, l'ha già interrogato O'Connor...» «Maledizione! Che idiota!» «Eric...» «Anche tu sei un idiota!» «Ehi, vacci piano, la situazione non è poi così assurda. Né Mahder né O'Connor hanno dato informazioni a Peček. Lo scienziato si allarga solo per farla in barba a te.» «Per farla in barba a me? Fantastico! E perché, poi?» «È un tipo così! Pura superbia, non te la prendere.» Bär fece una tirata di sigaretta. «Eric, sul serio, Peček non sa di cosa si tratta. Non sa nemmeno che il suo compare Ryan in realtà si chiama Paddy. Chiaro?» «Chiaro cosa? Avete controllato Peček?» «Sì, certo.» «E dunque?» «Non c'è niente su di lui. Un curriculum impeccabile.» Lavallier sbuffò. Guardò la porta dell'ufficio e poi di nuovo Bär. «Che mi dici della macchina di O'Dea... voglio dire, di Clohessy?» «Non l'abbiamo ancora trovata. Ascolta, non mi hai lasciato finire...» «O'Connor non ci ha lasciato finire», lo corresse Lavallier, stizzito. «Come vuoi. Punto primo: nei nostri archivi non risulta nessun Loyak. Il nome più simile è un certo 'Le Jacques', un belga, che è al fresco. In tutta Europa non esiste nessuno che risponda a questo nome, a quanto sembra. Adesso ci stanno pensando gli americani.» «Bene. Secondo?» «Abbiamo cercato invano di contattare Kuhn al cellulare. Continuiamo a provare. In compenso, da Dublino ci sono arrivate alcune informazioni chiare su Paddy Clohessy. Naturalmente non sanno tutto, ma a quanto pare è confermato che Paddy ha rotto con l'IRA e che i suoi ex compagni lo cercano.» Lavallier aggrottò le sopracciglia. «Ciò significa che l'identità falsa di Clohessy...» «Be', non dobbiamo essere troppo ottimisti. Ma, a quanto sembra, potrebbe davvero trattarsi di una questione interna degli irlandesi. Evidentemente Clohessy ha voluto andarsene perché era giunto alla conclusione
che l'IRA non avesse più motivo di esistere. D'ora in poi, non ci sarebbe stata più nessuna lotta per una giusta causa, ma soltanto terrorismo per mancanza di prospettive.» «E come lo avrebbe saputo?» «Da informatori dell'Ulster. Avrebbe cercato di 'ritirarsi' pacificamente, ma non lo volevano lasciar andare.» La stessa cosa che ho appena spiegato alla direzione, pensò Lavallier. L'ala estremista continuerà, a prescindere dal fatto che abbia senso o no. Clohessy potrebbe essere un'enciclopedia ambulante della cultura tecnologica degli irlandesi. Uno dei pochi in grado di aiutare veramente gli inglesi nella corsa alla tecnologia più raffinata, perché sapeva come pensava l'IRA. Era chiaro che doveva essere fatto fuori. «Abbiamo controllato anche Kuhn», proseguì Bär. «Dunque?» «Un vecchio sessantottino. È stato coinvolto nelle rivolte studentesche, ma più che altro seguiva la corrente. Ogni tanto si è fatto notare per qualche esternazione sul Terzo Mondo, ma niente di serio. La stessa roba incoerente che metteva in giro la banda Baader-Meinhof, però non ci sono collegamenti con la RAF, il Movimento 2 giugno, le Cellule rosse o come diavolo si chiamavano. Ha passato una notte in galera perché ha lanciato l'unica pietra della sua vita e stupidamente ha colpito qualcuno. Dopodiché è diventato borghese e perbene. Carriera in diverse case editrici, qualche anno come corrispondente dagli Stati Uniti, ora editor alla Rowohlt.» «È impegnato politicamente?» «Più che altro in senso retrospettivo e teorico. Ma sembra che abbia una bella testa. Abbiamo telefonato alla casa editrice e naturalmente non gli è stata data istruzione di andare da nessuna parte, oggi.» «Chiaro. Che hai raccontato?» Bär fece un cenno. «Nulla. Naturalmente volevano sapere mille cose. L'aspetto interessante è che questa Kirsten Wagner, che O'Connor chiama Kika, è stata appioppata allo scrittore come cane da guardia. È la sua addetta stampa, ma il suo vero compito era assicurarsi che lui non combinasse troppi pasticci.» «Ho l'impressione che il cane da guardia si sia fatto mettere al guinzaglio», osservò Lavallier, dubbioso. «Anch'io. In ogni caso Kuhn e O'Connor si conoscono da molti anni. Non so che cosa li accomuni oltre al lavoro, ma ipotizziamo che Clohessy
creda, e basta solo che lo creda, che Liam gli stia alle calcagna per conto dell'IRA. Naturalmente s'innervosisce. Poi di notte vede O'Connor e la donna di fronte a casa sua e Kuhn gli s'infila perfino in casa.» «Hmm...» «Che c'è, non ti piace?» «Certo», si affrettò a rassicurarlo Lavallier. «Mi piace molto. Sai, in un certo senso mi piace troppo. Risolverebbe così tanti problemi che non oso nemmeno continuare a pensarci. È solo che questo SMS mi puzza: loyak, spara, pieza, speccio e tutto il resto. In qualche modo, non rientra nella tua teoria. A proposito, abbiamo trovato qualcosa nell'appartamento di Clohessy?» «Niente che faccia pensare a una lotta. Nessun pelucco o capello. Te l'ho detto, sembra che se ne sia andato di gran fretta, portandosi dietro qualcosa al volo. I mobili si contano sulle dita di una mano. La Scientifica ha trovato qualcosa e lo sta esaminando in questo momento: è un blocco per appunti. Clohessy deve aver scritto qualcosa a mano e poi strappato la pagina, ma la scrittura è rimasta impressa sulla pagina successiva. Forse è una traccia.» «Va bene. Rientriamo, adesso.» «... v'invito volentieri a pranzo», stava dicendo Mahder a Kika quando i due commissari rientrarono nell'ufficio. «Molto volentieri, ma dobbiamo...» «... non c'è una ricetta definitiva per lo stufato all'irlandese», sentirono O'Connor dire a Peček. «È facile ipotizzare che lo stufato all'irlandese sia anch'esso un'invenzione dei tedeschi, come la pizza, rilevata poi dagli italiani alla fine degli anni '60 e...» «Ah! E io che ho sempre pensato...» Lavallier scosse il capo, poi mandò Mahder, Liam e Kika con Bär nell'ufficio di quest'ultimo e parlò con Josef Peček per qualche minuto. Il tecnico non aveva molto da dire su Ryan O'Dea. Avevano lavorato insieme al Terminal 2 e un paio di volte agli hangar. In base alla sua esperienza, O'Dea era una persona che non parlava volentieri del proprio passato. «Sembrava sempre sulle spine», osservò Peček. «Glielo leggevo negli occhi. E una volta ha detto una cosa che mi è rimasta impressa, perché suonava strana. Ha detto che il suo lavoro qui, che questa vita, era la sua ultima chance. Credo che volesse essere lasciato in pace.» «Non gli ha chiesto cosa intendesse con quella frase?» «Come ho già detto, voleva essere lasciato in pace. Io sono un uomo
semplice, signor commissario. Se qualcuno mi dice che vuol essere lasciato in pace, io lo lascio in pace.» Lavallier ci pensò su. Poi lasciò tornare Peček al suo lavoro, studiò l'elenco degli incarichi che Mahder gli aveva portato e si mise in comunicazione con Stankowski. «Da un'ora a questa parte gli uomini di Brauer e i tecnici stanno strisciando ovunque Clohessy abbia mai messo mano», disse il direttore del reparto manutenzione. «Non hanno ancora trovato nulla, nemmeno un raschietto.» Fece una pausa. «Sul serio, Lavallier, non voglio minimizzare, ma ieri abbiamo esaminato tutto nei dettagli con Major Tom. È tutto controllato fino all'osso. È sicuro che la storia di Clohessy abbia a che fare coi nostri arrivi?» Potrebbe. Forse. Se e ma. Lavallier sospirò. Sapeva che l'USDAO, Stankowski e Knott avevano condotto una riunione finale di tre ore per il G8 il giorno precedente. Il SI, il ministero degli Esteri, i vigili del fuoco, il controllo del traffico aereo, l'esercito: si erano ritrovati tutti per discutere un'altra volta di cose già discusse mille volte. Dal canto suo, il maggiore Nader aveva portato due rappresentanti dell'Air Force One. La direzione del traffico aereo aveva garantito che tutto sarebbe andato secondo i piani. «No», rispose Lavallier. «Non ne sono sicuro.» «Eric.» Quando la situazione diventava seria, Stankowski chiamava sempre Lavallier per nome. «Faccia quello che deve fare. Lei sa che nessuno le mette i bastoni fra le ruote. Ma si ricordi che faremmo una ben meschina figura. L'USDAO non ha problemi se manifestiamo preoccupazioni serie. Per loro, la sicurezza del presidente è più importante di qualsiasi altra cosa. Ma, dopo avergli raccontato per settimane che tutto era a posto, se adesso si scoprisse che non abbiamo adeguatamente controllato i nostri dipendenti, sarebbe un disastro. La faccenda di O'Dea è imbarazzante! e vergognosa. Altro che calarci le brache! Non abbiamo le gambe abbastanza lunghe per quanto dovremmo calarcele!» «Sì, lo so. Non ce le caleremo.» «Me lo promette?» «Non le posso promettere nulla.» Lavallier strabuzzò gli occhi. «Santo Dio, crede che io mi diverta?» Stankowski tacque per un momento. «Naturalmente no», rispose. «Mi spiace. Non vorrei essere nei suoi panni.» «Nemmeno io.»
«Se la caverà.» Lavallier riagganciò e rimase immobile per qualche istante. Se la caverà. Quella mattina non facevano che assicurargli che se la sarebbe cavata. Era una tortura. Niente sarebbe stato più liberatorio che avere una conferma della versione di Bär. Ma il caso di O'Dea minacciava di paralizzare l'intero svolgimento della giornata, mentre c'erano ancora migliaia di preparativi da fare. Già non era riuscito a occuparsi dell'atterraggio degli Iljusin russi. Almeno voleva accogliere personalmente i canadesi nel pomeriggio. Non aveva forse sentito Mahder invitare O'Connor e la donna a pranzo? Era un'ottima idea. In quel modo, li avrebbe avuti a portata di mano e nel contempo fuori dai piedi. Nel perimetro dell'aeroporto La mensa si trovava nel vecchio terminal. L'ufficio di Martin Mahder era nell'amministrazione, che si trovava a mezzo chilometro dall'aeroporto, proprio come la stazione di polizia e l'Holiday Inn. Lui abitava a Porz, nei dintorni. Normalmente andava a casa per pranzo. Fece un'eccezione per Kika e Liam e si offrì di portarli in auto al parcheggio centrale, che cingeva la struttura a ferro di cavallo del vecchio terminal. Dopo che si furono lasciati alle spalle la stazione di polizia, passando sotto una strada sopraelevata, lo sguardo di Kika cadde su un piccolo recinto. «Cavalli!» esclamò, allibita. Mahder rise. «Sì. Romantico, vero? Appartengono alla polizia. Gli ospiti di Stato più importanti vengono accolti dalla cavalleria.» Kika si voltò indietro, mentre il recinto diventava rapidamente più piccolo. La vista dei tre cavalli in quel fazzoletto di pascolo circondato da strade a corsie multiple era quasi surreale. Procedettero in direzione del terminal. Alla loro sinistra e sopra di loro si diramavano i vari raccordi; sulla destra, c'era un'enorme area di sabbia e macerie, nella quale sorgevano le intelaiature di nuove rampe in costruzione. Era come se un invasato avesse iniziato quel groviglio di strade, sopraelevate e no, in un attacco di mania creativa, per poi perdere qualsiasi interesse nel bel mezzo della costruzione. Quello scenario aveva un che di apocalittico, quasi non fosse una realtà in divenire, ma piuttosto la testimonianza di un passato civilizzato, prima che una grande tempesta spazzasse via tutto, aeroplani, tecno-
logia, progresso e umanità, per creare di nuovo spazio per gli alberi, i cavalli e gli abissi dell'istinto. Mahder indicò il vecchio raccordo che si avvitava fino al livello delle partenze, retto da potenti pilastri. «Lo demoliranno», disse. «Il problema dei vecchi raccordi è che attraverserebbero il nuovo aeroporto, dividendolo a metà. I nuovi tracciati, invece, saranno tutt'intorno, come una morsa.» «E dov'è il famoso Terminal 2?» chiese Kika. Mahder rise nuovamente. I baffi biondi si sollevarono, scoprendo una serie di protesi dentarie malfatte. «Ben nascosto.» «L'ho cercato anche ieri», aggiunse lei, indicando un'ampia facciata coperta da una rete metallica e con una rampa a spirale. «Quello è il parcheggio, giusto?» «Sì, il più grande d'Europa. Fantastico, vero? Il nostro nuovo P2. Chic, eh? Il nuovo terminal sorgerà lì dietro. Non lo vede bene da qui per via dell'attuale posizione delle strade di accesso.» Mahder condusse l'auto sotto il raccordo, che in quel punto descriveva una curva e saliva al livello delle partenze. Poi indicò una zona dietro il parcheggio. «Faccia attenzione... adesso! Tra la rampa del parcheggio e il vecchio terminal... vede quell'edificio di vetro?» Kika seguì il dito teso. Oltre il P2 s'innalzava qualcosa che, a prima vista, sembrava una gigantesca serra. La costruzione era luminosa e trasparente come una filigrana, nonostante le dimensioni colossali. Kika ne vide soltanto una parte. Era difficile valutare con precisione quanto fosse grande, ma di certo non era piccola. «Quando avremo finito, avremo l'aeroporto più moderno d'Europa», aggiunse Mahder. «Nessun altro terminal al mondo ha ponti di vetro per i passeggeri. È molto raffinato.» «Sembra che lei ne vada molto orgoglioso», osservò Liam. «Sì, certo.» Mahder inarcò le sopracciglia. «E perché no?» «E riuscite a combinare le due cose? Una ristrutturazione completa e l'arrivo di qualche dozzina di uomini di Stato?» «Be', sa... entrambe le cose danno maggior rilievo all'aeroporto. Per il resto, gli arrivi e la ristrutturazione non s'intralciano a vicenda. Là in fondo, alle piste e agli hangar, sospendiamo i lavori per qualche oretta quando arriva un tizio importante. Tutto tace, l'eminente personaggio saluta, sale sulla sua limousine e noi ricominciamo a picchiare, come se niente fosse.» «Insomma non rimanete particolarmente colpiti.» «In pratica non vediamo nulla», precisò Mahder. «Ma, in certi giorni, ci
sembra di essere in un film di James Bond. Agenti, cecchini, polizia...» Scrollò le spalle. «Lavallier solleva un vero polverone. Non so... Certo, non può farne a meno, tuttavia... Hanno perquisito tutti e frugato ovunque, hanno messo tutto sottosopra. Per me è un mistero... Che cosa potrebbe mai succedere? Vabbè, lasciamo perdere. Io non sono un esperto in questo campo.» «Paddy ha lavorato anche alla costruzione del nuovo terminal?» «Paddy?» gli fece eco Mahder. «Clohessy. Mi scusi, dimenticavo che ha una pessima memoria per i nomi e ultimamente crede di chiamarsi O'Dea.» «Sì, ci ha lavorato. All'inizio gli avevo assegnato altre mansioni, ma sa come vanno le cose... Lavoriamo con schiere di aziende di servizi contemporaneamente: è un disastro.» Abbassò il finestrino e passò una tessera davanti a un lettore ottico. La sbarra si sollevò. «Non so se lei abbia mai costruito una casa», continuò, mentre entravano in un ampio parcheggio. «La mia umile dimora è qui vicino. Piano terra, primo piano, mansarda, un piccolo giardino e un garage. Molto carina. Comunque non la costruirei mai più. È stato un inferno! Anche se uno è ubiquo, ci sono sempre almeno tre persone che fanno qualcosa di sbagliato, sempre che si presentino a lavorare, che non siano in pausa caffè o da qualche altra parte. Ti mandano cose che non hai mai ordinato e ti prendono per il culo con le loro fatture. Ora, moltiplichi tutto questo per un edificio come il T2 e capirà perché i nostri dipendenti devono costantemente intervenire. Ecco, siamo arrivati.» Mahder parcheggiò accanto al vecchio terminal. Scesero e lo seguirono nell'edificio. Erano più o meno dove avevano aspettato Paddy il giorno precedente. «Spero che vi piaccia», disse Mahder, mentre salivano con l'ascensore alla mensa, che si trovava al quinto piano. «Qui talvolta cucinano bene e talaltra un po' meno, ma all'Holiday Inn cucinano di merda sempre.» Liam sorrise. «Come dicevano i re, quando andavano a mangiare a sbafo dai loro sudditi? 'Speriamo che non sia troppo buono. Se è buono, vuol dire che cercano di avvelenarci.'» Trovarono un tavolo libero vicino al banco delle vivande. C'erano polpette con contorno di carote. Non era certo alta cucina ma, per essere una mensa, fecero un pasto più che dignitoso. Kika consumò una grande quantità d'acqua. Quando l'ebbrezza e la sbornia erano passate, si era sentita completamente disidratata, come un e-
stratto di se stessa macinato e conservato in polvere. Sembrava che la notte precedente le avesse sottratto tutti i fluidi. L'acqua ripristinò il benessere e le capacità intellettive. E la preoccupazione per Kuhn. Finché non si era sentita bene, i meccanismi di controllo che le consentivano di concentrarsi sull'essenziale, cioè il recupero della sua salute, avevano preso il sopravvento. Era come se un archivio interno avesse temporaneamente messo da parte il caso Kuhn. Ma poi la spaventosa consapevolezza della possibilità che Kuhn fosse vittima di un rapimento cominciò a mostrare il suo vero volto. Prese il cellulare, armeggiò un po' e poi compose il numero di Kuhn. Liam la guardò con un'espressione interrogativa. «Lo so», sospirò. «Lavallier ce l'ha proibito.» «Allora fallo. Disobbedire è sexy.» Mahder alzò lo sguardo dal suo piatto. «Le posso chiedere di cosa sospettate O'Dea... voglio dire Clohessy?» chiese, masticando. «Be', pensiamo che voglia distruggere il mondo», disse Liam, allargando le braccia. «Ha fabbricato queste polpette con esplosivo al plastico e spezie...» «No, sul serio. L'ho assunto io. Può immaginare come mi senta a disagio in questa situazione.» Mahder bevve un sorso di Coca-Cola. «Allora, che ne pensa? È una storia personale tra Clohessy e qualcuno che gli vuole fare la pelle oppure noi c'entriamo davvero qualcosa?» Liam si soffregò il mento. «Ciò che ne penso io è irrilevante», rispose. «Fino all'altro ieri, per esempio, pensavo che non mi sarei mai innamorato.» Kika lo guardò con la coda dell'occhio, mentre ascoltava il segnale di linea libera che proveniva dal suo cellulare. Liam aveva la solita espressione indifferente che lei ormai conosceva fin troppo bene. Non ti fidare, pensò. S'innamora anche di un pasto caldo, sinché non diventa freddo. «La persona chiamata non è al momento raggiungibile», disse la voce familiare della segreteria telefonica. Dove diavolo era Kuhn? Perché non poteva rispondere? «E lei?» chiese Mahder rivolgendosi a Kika. «Che ne pensa, lei?» «Non lo so. Ma non è colpa sua. Non poteva certo sapere che quello era un...» S'interruppe.
Già, che cos'era? Chi era Paddy Clohessy? Un assassino? Un attentatore? O semplicemente un uomo disperato in fuga dal suo passato? Mahder rise, ma senza nessuna allegria. «Vi voglio raccontare cosa succederà se Lavallier giungerà alla conclusione che noi siamo coinvolti in questa faccenda. Devierà i voli. Così saremo esclusi dallo spettacolo politico. Non la città di Colonia, ma l'aeroporto.» Raschiò dal piatto gli ultimi resti di verdure e li trangugiò. «Mi piacerebbe proprio sapere cos'ha davvero per le mani. A noi ha detto soltanto che Clohessy è coinvolto in un caso di rapimento. La cosa fastidiosa è che non ti dicono mai che sta succedendo. Ci facciamo un culo così per far funzionare tutto, però, se c'è qualcosa che non va, nessuno ci dice perché!» «Forse lo stesso Lavallier non sa il perché», osservò Liam. Mahder emise un brontolio sdegnato. «Poco fa, nel suo ufficio, lei ha detto che forse Clohessy è in fuga. Dall'IRA, se non ricordo male... e che non ha niente a che fare con noi.» «Ho detto pure che potremmo sbagliarci completamente», precisò Liam. «E, secondo lei, quali sarebbero le conseguenze?» «Semplice. Paddy è un terrorista.» «Un terrorista. Merda! E che cosa avrebbe intenzione di fare, questo terrorista? Tutte congetture. Perché Lavallier non ci dice cosa pensa davvero?» Liam scrollò le spalle. «La notte scorsa, il nostro amico Kuhn è scomparso. Oggi è scomparso Paddy. C'è una sovrabbondanza di enigmi, non trova? Che dovrebbe fare Lavallier, secondo lei?» «Dovrebbe coinvolgerci», disse Mahder con enfasi. «Ci dovrebbe dire com'è giunto alla conclusione che il vostro amico è stato rapito. Forse possiamo dare una mano, forse a me o a Peček o a qualcun altro verrebbe in mente qualcosa di sensato.» Fece una pausa. «Siete stati voi due a denunciare il caso, no? Cosa vi ha convinto che sia stato rapito?» «Ci ha mandato un messaggio», disse Kika. «Un messaggio?» «Un SMS. Una richiesta d'aiuto. La notte scorsa.» Mahder smise di masticare e la guardò. «Ma deve per forza avere a che fare con noi? Cos'ha scritto?» «Qualcosa d'incomprensibile», rispose Liam, pulendosi la bocca. «Kuhn è così scaltro che si esprime soltanto in forma compressa.» Mahder corrugò la fronte. «E cosa pretendete di concludere da un mes-
saggio incomprensibile?» «Che era nell'appartamento di Paddy e che qualcuno se l'è portato via.» Liam esitò. «Lei ha detto che non aveva amici. Non ha mai fatto nomi? Nemmeno di qualcuno che gli aveva telefonato?» «Cosa vuol dire?» «Conosceva qualcuno che si chiama Loyak?» Mahder tacque per un secondo. Poi scosse lentamente il capo. «No. Loyak?» «O qualcosa di simile. Lojag?» Il direttore scosse di nuovo il capo. Poi si fermò. «Un'illuminazione?» chiese Liam. «Kojak», disse Mahder. Kika si mise la testa tra le mani e lo guardò. «Kojak è una serie televisiva», disse. «Sì, certo.» Mahder assunse un'espressione imbarazzata. Poi rise di nuovo, mostrando le protesi dentali. «Be', non ne ho idea. Che dite? Avete voglia di fare un giro per l'aeroporto? Posso dedicarvi una buona mezz'ora. Piuttosto che annoiarvi nel retrobottega di Lavallier...» Kika diede un'occhiata all'orologio. Erano le due passate. Mancava ancora un sacco di tempo al suo appuntamento alla WDR. «Mi sembra una buona idea», rispose. «Che ne dici, Liam? Hai voglia d'imparare qualcosa di nuovo?» «Mai avute certe voglie. Ma hai visto qual è il risultato. Andiamo.» Eric Lavallier Bär gli telefonò mentre stava arrivando al parcheggio riservato ai giornalisti e ai diplomatici, i quali, quando giungevano personaggi importanti, venivano poi condotti nelle rispettive zone. Dietro l'estesa copertura bianca della Tenda VIP cominciava la Zona Merci Ovest. Anche l'Air Force One di Clinton sarebbe arrivato lì. O forse no. Lavallier fece un cenno a Knott, che era poco più in là, impegnato a discutere con l'autista di una ditta di catering, estrasse il cellulare e premette il tasto di risposta. «Questa la devi sentire», disse Bär. Intanto un 707 decollava in sottofondo. Lavallier si tappò l'orecchio destro e si spostò di qualche passo.
«Cosa devo sentire?» «Ti ho detto della lettera.» «Come? Non capisco una parola! Quale lettera?» Il rombo dell'aeroplano in partenza trasformò la voce di Bär in un rumore di fondo gracchiante. Lavallier tornò alla sua auto, salì a bordo e chiuse la portiera. «Ripeti, per favore. Di che parli?» «Hanno trovato un blocco per appunti nell'appartamento di Clohessy», disse Bär. «E anche francobolli e buste. Poco prima della partenza, deve aver scritto una lettera, chissà a chi. È rimasto un calco della scrittura.» «Ho capito. Dunque?» «Ti verrà un accidente, ti avverto! Era relativamente facile dà decifrare. Purtroppo sembra che abbiamo beccato soltanto l'ultima pagina, ma il nostro caro zio Nobel per la fisica non ne esce per niente bene.» «E leggi, dai.» Bär si schiarì la voce. «Allora, ascolta. Comincia a metà frase: '...è capace di tutto. A nessuno verrebbe in mente che lavori per Foggerty, ma io lo conosco bene'.» «Foggerty?» «Stiamo già verificando. Senti come continua: 'Può essere sommerso di premi e scrivere libri sino alla fine dei suoi giorni, quel verme ipocrita! Sta di fatto che mi ha trovato per loro conto. Mentre ti scrivo queste righe, ho già fatto i bagagli. È la mia unica chance. Ho pensato che fosse finita, ma stanotte Ryan O'Dea è morto. Non ho idea di come andrà avanti. Non mi cercare. Mi farò sentire non appena posso. Con tutto il mio amore. Paddy'.» Lavallier tacque. «Ci sei ancora?» gracchiò la voce di Bär dal cellulare. «Ah... sì.» «Che ne dici?» «Non so. Avete fatto un controllo di autenticità?» «Naturalmente non siamo andati a trovare Clohessy per chiederglielo», replicò Bär. «Ma sia sulla penna trovata sulla scrivania sia sul blocco c'erano le sue impronte. E soltanto le sue!» «Analisi calligrafica?» «Non ci sono campioni calligrafici di Clohessy.» «Come? Deve pure aver firmato qualcosa, prima o poi.» «Sì, il suo contratto di lavoro. Da lì non si può dedurre niente, anche se direi che la firma sul blocco non sembra dissimile da quella del contratto.»
Lavallier appoggiò la mano destra sul volante dell'auto e cominciò a tamburellare con le dita. «Non c'è scritto niente su O'Connor», osservò. «Né sull'IRA.» All'altro capo della linea Bär respirò sonoramente. «Eric, sei sordo? 'Sommerso di premi'! 'Scrivere libri'! Di chi dovrebbe parlare, se non di O'Connor?» Lavallier smise di tamburellare. «Insomma O'Connor era davvero alle costole di Clohessy.» «L'IRA gli stava alle costole. E O'Connor è la dannatissima IRA!» «Il professor Liam O'Connor? Autore di bestseller e prossimo premio Nobel?» «Sì, santo cielo!» Non può essere, pensò Lavallier. Nel contempo, tuttavia, fu pervaso da una sensazione di profondo sollievo. Se la lettera era autentica e si riferiva effettivamente a O'Connor, Bär aveva ragione e l'aeroporto era fuori pericolo. Troppo bello per essere vero. D'altra parte: un premio Nobel! Be', però non l'aveva mica vinto. Non ancora. Non aveva nessun appiglio legale. O'Connor poteva anche essere il diavolo in persona, ma, finché non c'era il sospetto che avesse ucciso qualcuno o gli avesse recato danno, al massimo potevano cercare di farlo parlare. Guardò Knott. C'erano agenti di polizia ovunque. File di auto di pattuglia verdi fiancheggiavano l'area. Fino a un attimo prima, gli era sembrato che tutti quei preparativi fossero vani. O'Connor e l'IRA. Incredibile! Lavallier accese l'auto e partì. Tour Più o meno nello stesso momento, l'auto di Mahder raggiungeva lentamente il checkpoint che impediva ai non autorizzati di accedere al Terminal 2. Appoggiò la tessera di riconoscimento al finestrino. Due uomini uscirono dalla garitta e si avvicinarono. «Questo lo conosco», sussurrò Mahder a Kika. «È del SI. Quell'altro deve essere di un altro servizio di sicurezza oppure è un americano.» Abbassò il finestrino. L'uomo del SI prese la tessera, si chinò e controllò la foto. Poi annuì e restituì il documento al proprietario. Il suo compagno
se ne stava lì, con un'espressione impassibile. Kika notò che indossava un giubbotto antiproiettile. «A posto.» L'uomo del SI alzò una mano. Al suo cenno, dall'interno della garitta venne azionata la sbarra e l'auto poté avanzare. «Perché ci sono gli americani?» chiese Kika. «Sono ovunque», replicò Mahder. «Lei non ha idea di cosa stia succedendo qui. Da mesi, i Servizi segreti, i russi, gli inglesi, i francesi e i giapponesi ci stanno col fiato sul collo. Stasera arriva Clinton. Quelli non lasciano niente al caso. Ho sentito che il jumbo del presidente non lo faranno atterrare i nostri controllori, ma quelli americani. Non ci lasciano fare nemmeno quello.» «Siete forse stati spodestati in casa vostra?» lo canzonò Liam. Mahder lo guardò. «Ci può giurare!» Seguì la strada provvisoria. Davanti a loro comparve un'enorme spianata. Sulla destra, sorgeva la facciata di vetro del T2. «Ecco», disse Mahder. «Niente male, eh?» Stupita, Kika osservò il possente edificio. Anche se sarebbe passato circa un anno prima dell'inaugurazione, era già difficile sottrarsi al suo fascino. Paradossalmente erano le enormi dimensioni a mettere in risalto la finezza dell'architettura. La struttura del tetto, simile a una ragnatela, sembrava sospesa sulle infinite superfici di vetro. «È fantastico», replicò. «E aspetti che siano finiti i ponti per l'imbarco dei passeggeri. Otto ponti di vetro che portano agli aerei. Come nelle favole.» «Già, un vero castello in aria!» intervenne Liam. Mahder condusse l'auto sulla spianata e procedette a velocità contenuta lungo la facciata. C'erano operai ovunque. Uomini con elmetti che si arrampicavano su impalcature all'interno dell'edificio, saldavano, martellavano e spostavano materiali. «Qui siamo nel nuovo piazzale», spiegò. «Di fatto qui sorgerà un nuovo aeroporto. Le capacità vengono raddoppiate, ma a un livello ben diverso da quello attuale.» «Quant'è lungo questo casermone?» volle sapere Liam. «Circa quattrocento metri.» Mahder indicò un gruppo di uomini che indossavano tute scure e berretti con la visiera e stavano uscendo dal terminal, diretti a un furgone. «Quelli sono senza dubbio americani. Mettono il naso ovunque. Una volta lo hanno rivoltato da cima a fondo. Insieme con quelli del SI, in modo che non pensassero di non avere più voce in capitolo in casa propria. Non si vede quasi più nessuno della sicurezza. Capite? Se qualcuno avesse voluto nascondere un'arma qui, avrebbe dato
nell'occhio. Oppure un cecchino, per sparare a un aereo da qui... impossibile!» «Dove arriveranno gli aerei?» «Probabilmente qui.» Mahder indicò il lato del piazzale che stava di fronte al terminal. «Ah! C'è già la pista?» Il direttore rise. «Lo so, si perde facilmente la visione d'insieme. Deve immaginare il terreno dell'aeroporto come una struttura lunga circa cinque chilometri. In testa c'è l'aeroporto effettivo, coi raccordi autostradali e coi terminal. Aspetti... Sì, testa è la parola giusta. Faccia attenzione: l'edificio dell'aeroporto è la sua testa e i suoi occhi indicano la posizione del vecchio terminal. Capito? La lunga pista d'atterraggio comincia accanto al suo orecchio sinistro. Il nuovo terminal, invece, è il suo orecchio destro. Ecco perché da qui c'è una vista straordinaria: si vedono gli apparecchi poco prima che tocchino il suolo, è fantastico!» «Impressionante», disse Liam. «Ed è qui che atterreranno anche i capi di Stato?» Mahder assunse un'espressione scaltra. «Be', nessuno sa da quale direzione si avvicineranno alla pista. Non sarà deciso fino all'ultimo secondo. D'altro canto... io che ne so?» Kika rifletté. Se Mahder aveva ragione, qualsiasi manipolazione nel nuovo terminal non aveva senso. Pianificare un attentato da lì era assurdo. Procedettero, lasciandosi la nuova costruzione alle spalle e raggiungendo il piazzale del Terminal 1. Dalla costruzione a ferro di cavallo si dipartivano due gate a forma di stella. In ciascuno poteva arrivare una mezza dozzina di aeroplani. Mahder fece una serie di strane curve nelle enormi aree aperte, finché Kika non capì che stava seguendo corsie tracciate per terra. Davanti a loro, un DC 8 francese rullava sul piazzale. Per un istante, sembrò che l'apparecchio puntasse dritto verso di loro, poi curvò verso una delle «stelle». «Abbiamo tre piste di atterraggio», annunciò Mahder in tono didascalico. «La super-runway, di cui parlavamo poco fa, si estende dal terminal fin nella brughiera. Ha una lunghezza di 3800 metri. Siamo uno dei pochi aeroporti in cui possono atterrare gli space shuttle, lo sapevate?» «Belle prospettive per il futuro», commentò Liam. «Parallela a quella corre una pista d'atterraggio più breve, di due chilometri scarsi.» Indicò un punto in lontananza, dove la pista si perdeva nella brughiera, e proseguì: «Più avanti, le due piste ne incrociano una terza. La
chiamiamo la 'pista trasversale'. È lunga circa due chilometri e mezzo. Dal punto di vista del coordinamento tutto questo è molto interessante, perché gli apparecchi possono atterrare sulle nostre piste da entrambe le direzioni. Quelli più grandi, per esempio lo Iljusin di Eltsin o l'Air Force One, atterrano naturalmente sulla pista più lunga». Si erano ormai lasciati alle spalle il vecchio terminal e i gate e stavano passando davanti a una serie di edifici. Kika constatò sorpresa che quella sezione dell'aeroporto era grande quanto una zona industriale di medie dimensioni. Stavano viaggiando su una strada vera e propria. A destra e a sinistra c'erano hangar e capannoni. Più in là sorgeva la torre di controllo. «Siamo ancora paralleli alla super-runway», spiegò Mahder. «Questa zona è il cuore dell'aeroporto. Dall'altra parte atterrano i cargo. Ecco un'altra cosa che nessuno sa: siamo il secondo scalo merci della Germania. Comunque, la torre di controllo è nuova. Lì accanto, vedete quella vecchia, più piccola. Una volta era la costruzione più alta dell'aeroporto, da non credere. Eh, sono tanti i ricordi... ma il tempo finirà per cancellarli. Adesso scomparirà.» «Non potete trasformarla in un caffè o qualcosa del genere?» «Se n'è parlato. Prima si è detto che sarebbe diventata una centrale di sicurezza, una centrale d'intervento, un centro d'emergenza, ma adesso si è deciso di buttarla giù. Con una certa nostalgia.» Mahder scrollò le spalle. «Be', avete visto le cose principali. Che dice l'orologio?» «Sono quasi le tre.» «Bene, torniamo indietro.» Mentre viaggiavano tra i capannoni e gli hangar, d'un tratto a Kika venne un'idea. Compose il numero delle informazioni sul cellulare e si fece mettere in comunicazione con lo Hyatt. «Avete un ospite di nome Aaron Silberman», disse. «Me lo potreste passare?» La receptionist la mise in attesa. Dopo un minuto si fece viva e disse che Silberman non era nella sua stanza. Kika lasciò nome e numero con la preghiera di richiamarla a proposito di Kuhn. «È una buona idea», commentò Liam dal sedile posteriore. Lei rovesciò la testa all'indietro e chiuse gli occhi. La sua mente mandò una richiesta silenziosa dietro di lei, nella speranza che un operatore virtuale nella testa di Liam accusasse ricevuta del messaggio e facesse evadere la richiesta al più presto. Un istante dopo, sentì le dita di lui che le accarezzavano la nuca.
Aveva funzionato. «Sì», disse. «Lo so.» Stazione di polizia Mahder li accompagnò fino all'ingresso della stazione di polizia e poi si congedò. «Se vi posso aiutare in qualche modo, fatemi sapere», disse. «Il mio ufficio è qui di fronte.» «Sarà fatto», rispose Kika. «Grazie per l'invito.» «Grazie per il vostro interesse.» Dalla stazione di polizia uscì un gruppo di agenti. Due di loro indossavano giubbotti antiproiettile, anfibi e impugnavano mitra. Salirono su una camionetta e si diressero verso il Terminal 1. Kika li seguì con lo sguardo. «Dunque?» chiese. «Che ne pensi di tutta questa faccenda, ora che siamo tornati sobri?» Liam socchiuse gli occhi. Si passò una mano tra i capelli argentati e borbottò: «Hmm... Hmm...» «Be'...» «Non sono sicuro. Certamente Paddy ne ha fatte di cotte e di crude e il fatto che Kuhn sia scomparso c'inquieta parecchio. Forse però abbiamo cominciato a vedere i fantasmi...» «Vuoi dire che non ci sono piani per un attentato?» «Forse no. Ci sono soltanto il povero piccolo Paddy e i suoi problemi locali. Che peccato. La cosa si faceva interessante. Ma le teorie del complotto ormai sono un dominio degli americani. Vieni, vediamo a che punto è Lavallier.» Lei annuì. «Provo di nuovo a chiamare Kuhn. Non m'importa proprio di cosa dice Lavallier.» Mentre entravano nell'edificio e camminavano lungo il corridoio verso l'ufficio del commissario capo, lei compose il numero. Rispose nuovamente la segreteria telefonica dell'editor. Kika era scoraggiata. Più tempo passava senza che lui si facesse sentire, più diventava terrificante l'idea che potesse non rispondere mai più al telefono. E se fosse morto? Non voleva nemmeno formulare quel pensiero. Non doveva nemmeno entrarle in testa. «Professor O'Connor», disse una voce alle loro spalle. Si fermarono e si voltarono. Lavallier li raggiunse a grandi passi. «Venite nel mio ufficio!» ordinò bruscamente.
«Ah, Monsieur le commissaire», lo salutò amabilmente Liam. «Che succede, è preoccupato? Perché non se ne va in vacanza da qualche parte? È pieno di aerei, qui e...» «Al momento non ho bisogno dei suoi stupidi commenti», lo interruppe Lavallier. «O venite entrambi con me oppure vi ci faccio portare. La seconda opzione non vi piacerebbe molto, ve lo posso assicurare.» Li spinse nel suo ufficio e indicò le due sedie di fronte alla sua scrivania. Kika si sedette. Liam pareva seccato. «Che succede?» brontolò. «Abbiamo fatto qualcosa di sbagliato? Siamo stati fuori a giocare per troppo tempo?» Lavallier picchiò la mano aperta sul tavolo. «O'Connor, lei mi dà sui nervi! Non so cosa lei c'entri con la scomparsa di Kuhn o di Clohessy o se quei due siano scomparsi davvero, ma non mi venga a raccontare la favola dell'incontro casuale!» Liam fissò sbalordito Kika e poi il commissario. Quindi si sedette controvoglia. «È impazzito?» abbaiò. Lavallier si lasciò cadere sulla poltrona e incrociò le braccia. «Conosce un certo Foggerty?» «Foggerty?» «Esatto.» «Santo cielo, conosce questo, conosce quello... Conosco tanta di quella gente che non ci faccio nemmeno caso.» «Ci pensi bene!» «No. No, non conosco nessun Foggerty. Nemmeno se mi deve qualcosa.» Lavallier digrignò i denti e si chinò in avanti. «James Foggerty è probabilmente stato al vertice dell'Esercito Repubblicano Irlandese negli ultimi dieci anni. La stessa combriccola cui apparteneva anche il nostro amico Clohessy.» «Bene. E allora?» «Foggerty era al Trinity College di Dublino nello stesso periodo in cui lo frequentavate anche lei e Patrick Clohessy. Lo abbiamo verificato. E lei lo conosceva. Avevate professori e corsi in comune.» D'un tratto, Liam apparve perplesso. Alzò le mani e le lasciò cadere di nuovo. Poi scosse lentamente il capo. «Commissario Lavallier... Anch'io non le posso nascondere che questa nostra conversazione non mi allieta per niente. È un peccato, perché lei cominciava a piacermi. Se mi consente un controinterrogatorio: conosce un certo Krämer?»
«La smetta», sibilò Lavallier. «La faccio arrestare, O'Connor!» «No, lei mi fraintende. Le prometto di rispondere in modo veritiero a tutte le sue domande, ma prima mi dica: conosce un certo Dieter Krämer?» Lavallier tacque per un istante. «No.» «Eppure era con lei nell'Accademia di polizia. Aveva gli stessi istruttori e proprio come lei seguiva corsi di criminologia, profilo psicologico criminale e armamenti.» Liam sorrise. «Ma Dieter Krämer potrebbe anche chiamarsi Fritz Schulte. O chissà come. Vede, al Trinity ci sono migliaia di studenti che hanno gli stessi insegnanti e le stesse materie, ma lei si ricorda di tutti i suoi compagni di corso?» Lavallier lo guardò cupo. «Nessuno può ricordarli tutti. Comunque lei mi spiegherà qualcosa e me lo spiegherà per bene, se mi permette di chiederglielo.» «Farò del mio meglio.» «Perché Patrick Clohessy, poco prima di scomparire e chiaramente dopo essersi incontrato con lei, scrive in una lettera che lei è un agente dell'IRA e che è venuto a cercarlo per conto di James Foggerty?» «Io sarei cosa?» Liam perse visibilmente le staffe. Kika lo guardò e sentì il pavimento che le si apriva sotto i piedi. Liam? L'IRA? Kuhn aveva detto che era stato un simpatizzante dell'IRA. Kuhn era scomparso. E così Paddy. Che diavolo... Piano, pensò. Torna alla ragione! Stupida oca! Lavallier dice una mezza frase e tu fiuti subito un tradimento. «Primo: il professor O'Connor non risponderà a questa domanda», esordì d'impulso. «Visto che lei attribuisce tanta importanza alla chiarezza, non dovrebbe esserne sorpreso. Secondo: le risponderà quando lei ci fornirà una prova scritta di ciò che ha appena detto. E mi permetta di chiarire che, da un momento all'altro, potrebbe arrivare qui un avvocato, se io lo volessi.» Liam la guardò con gli occhi sgranati. Uh, pensò lei. Qualcuno deve aver parlato per mio tramite. Che mi succede? Mi sto trasformando nell'Incredibile Hulk? Lavallier la osservò, per nulla impressionato. Poi prese un foglio di carta che aveva accanto a sé e lo fece scivolare sulla scrivania. «È una copia», precisò. «L'originale è in mano alla Scientifica. Naturalmente più tardi lo potrà esaminare, se insiste.»
Liam diede una scorsa alle poche righe battute a macchina e passò il foglio a Kika. «Qui non compare né il mio nome né qualcosa di relativo all'IRA», osservò. «Premio Nobel», ribatté Lavallier. «Libri. Foggerty.» «Sciocchezze!» «Ah, davvero? Ci sono le impronte digitali di Clohessy sull'originale.» «Lavallier», sospirò Liam. «Faccia un controllo. Entri nella sua maledetta banca dati e cerchi informazioni su di me. Sono un personaggio pubblico, ogni mio passo è mappato meglio della superficie della terra. Non ho mai avuto contatti con Foggerty. Se mi mostra una foto, probabilmente lo riconoscerò, ma non ho avuto nessun contatto con lui. Non ho mai avuto nulla a che fare con l'IRA.» «Quasi la espellevano dal college per via dell'IRA.» «Cosa? Ah, quella faccenda!» Liam si portò una mano sulla fronte. «Oh, Lavallier! Eravamo immature teste di cavolo, che giocavano a fare i rivoluzionari perché se la passavano troppo bene! Quante ne ha sparate lei quand'era giovane? Paddy si è impegnato davvero per i problemi dell'Irlanda del Nord; io avrei potuto anche agitare il pugno contro l'estinzione delle pulci d'acqua. Volevo soltanto divertirmi.» «Non era divertente. Non può essere divertente mettersi con un'organizzazione terroristica...» «Ero annoiato», s'inalberò Liam. «Non capisce? No, non può capire. Quando ti imbottiscono di bambagia, ti chiedi cosa devi combinare per poterti finalmente rompere le corna! C'era sempre qualcuno che mi tirava fuori dai guai... Avrei potuto mettermi a sparare a casaccio! Capisce com'è desolante? Volevo essere sbattuto fuori! Volevo tirarmi fuori da quel letto che mi avevano preparato, prima di ritrovarmi paralizzato! Tutto qui.» Lavallier tacque. «Torni con la memoria alla sua cameretta, quand'era un marmocchio presuntuoso», gridò Liam. Sembrava che bruciasse letteralmente dalla rabbia. «Quale poster aveva appeso alle pareti? Quello di Che Guevara? Quali slogan ripeteva a pappagallo?» «Liam», replicò Lavallier con molta calma. «Ha scritto lettere a uomini politici, convincendoli a rendersi ridicoli davanti alle telecamere?» «No.» «Lei mente.» «Non ho convinto nessuno a rendersi ridicolo. Ho indotto persone ridicole a manifestare pubblicamente la loro ridicolaggine.»
«E la storia della bomba al simposio di fisica?» «Una burla.» «Una burla?» Il petto di Liam si gonfiò. Kika si aspettava un'altra esplosione di rabbia, ma non ci fu. Invece Liam si voltò verso di lei e la guardò in cerca di aiuto. «Kika, qual è la pena per chi fa la linguaccia a un poliziotto tedesco?» «Non ne ho idea.» Guardò Lavallier. «Lei lo sa?» «Se necessario ne introdurrò una», rispose il commissario capo. Liam si appoggiò allo schienale della sedia. «Kika, spiega a questo adulto zelante e di certo molto competente che io sono un bambino cresciuto. Ho bisogno di divertirmi. Non cerco altro che divertimento. Non sono un agente dell'IRA e non do la caccia alle persone per poi farle scomparire.» Se la tensione fosse stata infiammabile sarebbe bastato un fiammifero per far saltare in aria la stazione di polizia. «Ricominciamo da capo», disse Lavallier. «Dov'è stato ieri sera da quando ha lasciato il Maritim al momento del suo ritorno?» Kika lanciò un'occhiata a Liam. Lo scienziato annuì. Raccontarono tutto a Lavallier. Omisero i dettagli, ma alla fine lui si era fatto un'idea della situazione. D'un tratto il commissario capo apparve molto stanco. «Avete qualche testimone?» chiese, quasi svogliato. «Per un certo periodo sicuramente no», rispose Liam. Lavallier sospirò. «Dunque?» chiese lo scienziato. «Siamo in arresto?» «Non vi posso arrestare. E nemmeno lo voglio. Voglio soltanto che stasera Bill Clinton possa atterrare qui, fra tre giorni lo possa fare Boris Eltsin e nel frattempo possano farlo tutti gli altri. Capisce il mio problema?» Kika annuì. «Se Liam fosse quello che crede lei, pensa che saremmo venuti qui?» Lavallier scrollò le spalle. Evidentemente rimpiangeva di essere stato debole anche soltanto per un istante e di aver mostrato loro le sue preoccupazioni. «Rimanga ancora a disposizione», disse freddamente. «Per quanto riguarda lei, professor O'Connor, la devo pregare di non lasciare l'aeroporto finché io non glielo consentirò.» Fece una pausa. «Non ho nessun appiglio legale in questo senso. Potete andare entrambi, non posso costringervi a rimanere qui. Ve lo posso soltanto chiedere.» Liam si morse il labbro inferiore. «Capito», rispose.
«Io non potrò rimanere, ma sono reperibile», precisò Kika. «Va bene? Posso andare?» Non voglio proprio andarmene, pensò. Non voglio allontanarmi da te, Liam, non in questa situazione. Anzi in nessuna situazione. Non voglio allontanarmi mai più da te. Lo guardò e colse una sua occhiata. Sembrava che volesse dirle: «Va' e non ti preoccupare. Fa tutto parte del gioco. Ci stiamo soltanto divertendo un po', Lavallier e io. Giochiamo a guardie e ladri. Se stasera ci rivedremo, saprai che ho vinto io». Lei allungò la mano verso di lui. In quell'istante, il suo cellulare suonò. Trafelata, lo tirò fuori e premette il tasto di risposta. «Silberman», disse la voce all'altro capo della linea. Centro spedizioni Quando Jana lo raggiunse, attraversando il capannone a passo svelto, Kuhn seppe di avere perso. Glielo leggeva negli occhi. Involontariamente si cinse il corpo col braccio libero e incassò la testa fra le spalle. Lei gli si parò davanti. «Hai mentito.» Non sembrava adirata né particolarmente sorpresa. Aveva semplicemente fatto una constatazione. Kuhn si aspettava di essere mandato all'altro mondo con la stessa pacatezza. Si meravigliò che non lo avesse colpito in preda alla collera come quella mattina. «Sì, ho mentito», ammise, stanco. «E allora? Che differenza fa?» Lei lo squadrò. «Per me fa differenza. Hai mandato un messaggio ai tuoi amici. A quanto pare, non ci hanno capito granché, ma naturalmente le cose potrebbero cambiare.» Fece una pausa. «Kuhn, sei un povero idiota. Ti avevo proposto uno scambio equo, la tua vita in cambio della verità, ma tu hai preferito fare l'eroe. Ridicolo. Non sei un eroe, non te l'ha ancora detto nessuno?» Kuhn rise a singhiozzo. «Perché voi forse siete eroi?» All'improvviso, non gli importava più di nulla. «Non siamo granché in quanto a eroismo. In tutta questa storia non c'è nessun vero eroe... perciò cosa si aspetta da me?» Un breve tremito percorse i lineamenti di Jana. «È stata una mossa stupida.» «No, ho solo cercato di sopravvivere, tutto qua. Lei cosa avrebbe fatto al mio posto?»
«Avrei cooperato.» «Lei non avrebbe cooperato», replicò Kuhn. «Sa benissimo che l'SMS era la mia unica vera possibilità.» «Congratulazioni», lo schernì lei. «E adesso? Adesso di possibilità non ne hai più. Volevi fare il furbo, invece morirai incatenato a un tubo arrugginito.» Kuhn abbassò la testa. Aveva paura, ma soprattutto provava una profonda tristezza al pensiero che dovesse finire così. Si strinse ancora più forte il braccio intorno al corpo, come per consolarsi, e si accorse che gli tremava la mandibola. La terrorista lo osservava, impassibile. Poi all'improvviso disse: «Tu sei solo». Lui alzò lo sguardo. «Le decisioni solitarie sono le più intelligenti o le più stupide.» Jana indicò le rotaie al centro del capannone. «L'idea di utilizzare quell'affare è una decisione molto solitaria. Se sia intelligente o stupida lo scopriremo poi. Io mi assumo rischi che tu non riesci neanche a immaginare, Kuhn. Alla fine, è tutto o niente. Non parlandomi dell'SMS, tu hai preso una decisione. Bene. Conoscevi le regole, conoscevi le alternative. Ti ho avvertito più di una volta, quindi non ti lamentare. Tutto o niente. E ti sei fatto beccare, perciò niente.» «Non è stata una decisione stupida.» Kuhn scosse il capo. Se doveva morire, almeno non voleva sentirsi dare dello stupido. «Era la cosa migliore che potessi fare. Una cosa geniale! Richiedeva presenza di spirito e coraggio. In ogni film, in ogni libro, sono queste le qualità che usano i buoni, prima che i cattivi colpiscano.» Scoppiò in un'amara risata. «Cosa c'è di così stupido, Jana? Che io mi aggrappi alla speranza di uscire di qui vivo? Che non sia abbastanza professionale nel trattare con killer e folli, che non conosca le vostre perverse regole del gioco, di cui andate tanto orgogliosi? Che pensi che la mia vita mi appartenga?» «Al momento appartiene al miglior offerente, che ti piaccia o no.» «No. La tua vita appartiene al miglior offerente», esclamò Kuhn. «Lui ha già fatto la sua offerta e tu l'hai accettata senza nemmeno accorgertene!» «La mia vita non appartiene a nessuno!» urlò Jana. Kuhn deglutì. Era come se fosse un'altra donna a parlare. Lo guardava con occhi pieni d'odio. Adesso, pensò. Adesso mi fa fuori. «C'è soltanto una persona che stabilisce il prezzo della mia vita», conti-
nuò Jana, sottovoce e con enfasi. «Sono io, hai capito? Io! E il prezzo della tua lo decido subito.» «Troppo tardi. Appartieni già a qualcun altro.» «Cosa stai dicendo?» «A una holding che ha qualcosa a che fare con la NATO, Miloševič, eccetera, eccetera. Puoi togliermi la vita, ma io non la venderò. Se morirò, almeno morirò da uomo libero. La tua vita è venduta da tempo. Non mi venire a raccontare di decisioni solitarie. Qualcuno ha già deciso per te.» Per un momento, parve che Jana volesse colpirlo. Poi sospirò e si appoggiò alla parete, accanto a lui. Per qualche tempo, si sentì soltanto il respiro affannoso di Kuhn, che piano piano tornò normale. Poi Jana disse: «Tutto questo pathos, Kuhn. Perché rendi la vita così difficile a entrambi?» «Io?» Kuhn scosse il capo, triste e meravigliato nel contempo. «La mia vita non era difficile prima che tu t'intromettessi.» Sentì un dolore al braccio e si accorse che era dovuto alla presa delle sue stesse dita. Lentamente lasciò cadere il braccio e la sensazione di essere indifeso lo travolse, ancora più intensa di prima. Aveva il polso escoriato dalle manette. Era solo e indifeso. Jana aveva ragione. Era solo. Era sempre stato solo. Se ne stavano lì a parlare di verità, ma alla fine quella donna avrebbe commesso due omicidi. Altri due, in aggiunta a quelli che probabilmente aveva già commesso. «Non capita spesso di fare una conversazione intelligente», disse Jana. «È un peccato. Voglio dire, nella mia situazione si può parlare di ogni cosa, ma non di ciò che conta veramente. Ci s'intrattiene con la propria eco e purtroppo chiunque abbia un'opinione diversa deve essere ucciso.» «Che preoccupazioni», commentò Kuhn. «Vuoi un caffè?» Lui si voltò e la guardò. Il suo viso era di nuovo privo di espressione, come succedeva spesso. Era come un campo di prova per le emozioni. Prova, interruzione. Prova, interruzione. Come un deserto. Né triste, né felice, semplicemente un volto. «Volentieri», rispose lui. Liam O'Connor L'una se n'era andata, l'altro era arrivato.
Pochi minuti dopo che Kika era partita alla volta della città, era giunto Aaron Silberman. Lavallier si era portato nel Piazzale Merci Ovest, per presenziare all'arrivo dei canadesi. Liam sapeva che né il commissario capo né Bär erano entusiasti all'idea di consentire a un corrispondente della Casa Bianca di venire a conoscenza del caso. Bär aveva fatto qualche domanda a Silberman, ma anche il giornalista non aveva né sentito né visto Kuhn da quando avevano fatto colazione insieme, il giorno precedente. Poi Silberman si era mostrato molto curioso e Bär molto occupato. Aveva proibito al giornalista di far trapelare anche una sola parola sulla faccenda e lo aveva affidato a Liam, il quale, dopo una breve riflessione, lo aveva trascinato al bar dell'Holiday Inn. Mentre facevano quei pochi passi, camminando davanti agli uffici dell'amministrazione, Liam cercò di vincere il malumore. Era abituato a essere accusato di cinismo, indifferenza e di varie cattive abitudini, ma non di un banale crimine! Era insolente imputargli qualcosa di peggio di un comportamento disgustoso. Potevano chiamarlo sciovinista, okay. L'avevano definito «parvenu affettato», «stronzo decadente» e «bastardo beone», mille grazie! Cafone, chiacchierone, donnaiolo. Non c'era problema. Qualsiasi cosa potesse procurargli la fama di celebre mascalzone la registrava come un complimento, inarcando il sopracciglio sinistro. Ma interrogarlo come se fosse un farabutto qualunque e sospettarlo di atti terroristici era inaccettabile! E in più indurlo a esternazioni personali! Soltanto per quello Lavallier meritava di essere preso a schiaffi! Con le gambe rigide dalla rabbia, fece strada a Silberman. Il gioco stava prendendo una piega che non gli piaceva. Ma avrebbe potuto convivere con la sua vanità ferita, se non ci fosse stato anche qualcos'altro. Qualcosa che lo inquietava profondamente. Una supposizione insidiosa, che d'un tratto divenne una certezza. Qualcuno si era preso gioco di lui. Era assurdo che, dopo aver puntato il dito contro un possibile crimine, quella mattina, si ritrovasse indiziato nel pomeriggio. Liam non dubitava che la lettera fosse stata trovata nell'appartamento di Paddy, ma piuttosto che fosse stata scritta da lui. Paddy non aveva nessun motivo di screditarlo in quel modo. Fino al giorno precedente non avrebbe potuto nemmeno immaginare di ritrovarsi davanti Liam. Perché avrebbe dovuto scrivere una sciocchezza del genere? Per minare la sua credibilità? Esatto! Dietro la scomparsa di Paddy e il rapimento di Kuhn c'era qual-
cosa di più del passato di un attivista dell'IRA scomparso dalla circolazione. Ma era proprio così che doveva sembrare. Come una faida nella cerchia ristretta del separatismo irlandese, che riguardava l'aeroporto soltanto per caso. E stavano usando lui per quello scopo! Raggiunse con passo deciso il bancone e avvicinò due sgabelli. «Che cosa prende, Aaron? Il whisky irlandese è sempre raccomandabile, quando c'è un problema da risolvere. E noi ne abbiamo più di uno, mi sembra.» Dal momento dei saluti, quando Silberman era entrato nella stazione di polizia con un'espressione sconvolta, erano passati automaticamente al nome di battesimo. Era la maniera americana di entrare in confidenza, senza che fosse necessaria una vera confidenza. Niente d'impegnativo, ma era pratico, per esempio quando si trattava di andare al bar e discutere questioni come rapimenti o attentati terroristici. Silberman aveva un'aria scettica. «È un po' presto per il whisky.» «Dopo l'una, è sera», disse Liam. «In effetti è tardi. Conosco zone di Sligo in cui le sere si avvicendano senza soluzione di continuità.» «Ma io sono piuttosto americano», replicò Silberman con un sorriso. «La formula irlandese della felicità mi risulta un po' troppo faticosa, temo.» «Deve avere frainteso», spiegò Liam. «Gli irlandesi non sono felici. Hanno scelto di godersela. Dura di più. A proposito, ma gli americani non vengono tutti dall'Irlanda, in un modo o nell'altro?» «Non i neri.» «Vabbè. Una ragione in più. Due Jameson.» Il barman sembrava confuso. Poi s'illuminò in viso. Allungò una mano nello scaffale alle sue spalle e afferrò una bottiglia di Tullamore Dew. «Fermo», gli intimò Liam. «È whisky irlandese», disse il barman timidamente. «Quella è roba da mettere nel caffè, acquaiolo. Va bene, proviamo con gli scozzesi. Quali single malt ha?» «Glenfiddich?» Era deprimente. «Per me un'acqua tonica», disse Silberman, pulendosi gli occhiali. «Fra l'altro non credo che troverà quello che cerca, qui. A meno che non passi al bourbon», aggiunse rivolto a Liam. «Sarebbe la fine. Mi dia una birra.» «In ogni caso, grazie per avermi telefonato.» Silberman controllò gli oc-
chiali in controluce e li inforcò nuovamente. «Kuhn è un buon amico. Questa storia mi preoccupa parecchio. Temo soltanto di non poterla aiutare granché.» Fece uno dei suoi ampi sorrisi gentili. «Ma se c'è una cosa che posso offrire è un po' di tempo», aggiunse. «Possiamo spremerci le meningi. Tanto sarei dovuto venire qui comunque tra due ore.» «Già, lei è accreditato. Quando arriva il POTUS?» POTUS era la definizione comune per il presidente americano. Era apprezzata in particolare dai giornalisti, dalla CIA e dai Servizi segreti. Si faceva prima a dire POTUS che «President Of The United States». «L'arrivo è previsto per le sette e venti», rispose Silberman. «Ma con Clinton non si sa mai esattamente. Gli piace fare piccole sorprese.» Bevve un sorso di acqua tonica. «A ogni buon conto, il presidente è lui. Mi faccia vedere questo messaggio che Kuhn ha mandato.» Liam gli porse il bigliettino con la trascrizione. Silberman lo lesse, aggrottando le sopracciglia e muovendo le labbra in silenzio. «Suona minaccioso.» «Concordo. Qualche associazione spontanea?» «Aspetti. Qualcuno spara. Sparano, chiedono aiuto e Kuhn è in quell'appartamento, perciò viene minacciato oppure è testimone di una minaccia nei confronti di qualcun altro.» «Fin lì c'eravamo arrivati anche noi. E il resto?» «Devo ammettere che non mi dice nulla.» «A me sì, però.» «Ah!» esclamò Silberman esterrefatto. «E cosa?» «Non lo so.» Il giornalista corrugò la fronte. «Un momento. Ma non ha appena detto...» «Certo! È da idioti, vero? Ogni volta che lo guardo, so che c'è qualcosa di molto familiare. Come un volto visto centinaia di volte, ma senza riuscire a ricordarsi dove.» Liam tracannò metà della sua birra e si asciugò la schiuma dal labbro superiore. «Bleah! Orribile! Sa, Aaron, guardo queste lettere e mi dicono: 'Fuoco, Liam. Fuoco. Fuochissimo!' La soluzione di tutte le domande è su questo pezzetto di carta e io non riesco a leggerla.» «Be'...» Silberman si rigirò il bigliettino tra le dita. Poi rilesse il messaggio. «Kuhn ha sbagliato a scrivere. Segno che era sotto stress.» «Ha sbagliato 'appartamento' e probabilmente 'specchio'. C'entrano in qualche modo gli specchi. E un mirino. Ma questo non è particolarmente rilevante.»
«E questa parte? Loyak spara?» «Potrebbe essere la chiave. Forse.» «Quindi la domanda sarebbe chi è Loyak. Che dice la polizia?» «Oh, lavorano di fantasia.» Liam fece una risata amara. «Al momento sono io il babau.» «Lei? E perché lei?» Liam glielo raccontò. «E cosa pensa che succederà?» chiese Silberman, senza entrare nel merito della colpevolezza o innocenza di Liam. Lo scienziato lo guardò. «Non è ovvio? C'è qualcosa che puzza qui all'aeroporto e non è soltanto il caro, vecchio Paddy. Per questo mi hanno messo fuori gioco. Così non gli metto più i bastoni tra le ruote.» «Un momento. Di chi parla?» «Di quelli che hanno organizzato la presenza di Paddy. Quelli di cui Kuhn ha trovato le tracce.» «Sono colpito», constatò Silberman, e lo sembrava davvero. «Una vera e propria congiura! Può essere che gli irlandesi vengano dagli Stati Uniti?» «Possiamo discuterne», replicò Liam allegramente. «Prima che saltiamo tutti in aria, s'intende.» Silberman esitò. «Dice sul serio, vero?» «Sì. Ma, invece d'indagare sulla faccenda, il commissario mi tormenta con sospetti campati in aria.» «Non sono campati in aria, se mi permette di farglielo notare. Con un testo come quello ritrovato a casa di Paddy, anch'io non saprei più cosa credere.» «In ogni caso, non crede a me.» «Be'...» Silberman allargò le braccia con un gesto che aveva un che di pastorale. «Forse pensa che uno che è in grado di deviare la luce sappia anche piegare la verità. Ma ammettiamo che la sua versione corrisponda esattamente ai fatti. Ecco come mi appare la situazione: lei incontra Clohessy, che però non si chiama più così e si dimostra poco entusiasta di rivederla. Eppure più tardi viene a cercarla.» «Ce l'hanno mandato!» «Bene. È stato mandato e ciò desta i suoi sospetti. Probabilmente ottiene l'esatto contrario di quello che voleva. In ogni caso, lei e la sua incantevole accompagnatrice giocate un po' a Sherlock Holmes. Con poco entusiasmo, se mi permette. Nel frattempo, o di conseguenza, Kuhn e Clohessy spariscono nel nulla durante la notte e lei si ritrova oggetto di sospetti che sem-
brano assurdi.» «Paddy doveva sparire dalla circolazione», disse Liam, annuendo. «Questo è chiaro.» Silberman si guardò le mani. Poi disse lentamente: «Forse non doveva soltanto sparire dalla circolazione, Liam». «Cioè?» «Forse doveva proprio sparire.» Liam non replicò. Paddy Clohessy morto? C'era da aspettarselo, pensò. Naturalmente era morto. Lo era sempre stato. L'ho sempre detto che non sarebbe andato a finire bene, quel ragazzo. Un'altra pinta, ah, Paddy, siediti qui con noi! D'un tratto si sentì pieno di malinconia. Clohessy fuori dal gioco? Non poteva essere. Non erano forse ancora sul palcoscenico del piccolo teatro di Front Square? Gli era sfuggito qualcosa? Avrebbe dovuto leggere il copione più attentamente? E Kuhn? Kuhn che non si faceva vivo e che non era reperibile? In cos'era incappato, se qualcuno aveva ritenuto necessario uccidere Paddy Clohessy? Silberman sembrò indovinare i suoi pensieri. «Mi spiace, Liam. Non volevo inquietarla, ma non ho potuto trattenermi dal fare questa considerazione. E c'è dell'altro. Ammettiamo che il suo amico Patrick sia stato sacrificato. Kuhn è sparito. Poi cercano di screditare lei. Tutti questi eventi hanno qualcosa in comune, non trova?» «E sarebbe?» «Guadagnare tempo.» Liam corrugò la fronte. «Ma in questo modo non si guadagna molto tempo. Qualche ora. Forse un giorno.» Silberman annuì. «Ciò significa...» Liam s'interruppe. «È il tempo necessario per mettere in pratica il loro piano.» «Penso di sì.» «Per san Patrizio!» «Naturalmente stiamo giocando un po' ai detective, ma è per questo che siamo qui. Perciò, se vogliamo andare oltre, non soltanto giungiamo alla conclusione che hanno in programma qualcosa, ma possiamo immaginare anche quando questo qualcosa succederà.» Liam fissava il mezzo bicchiere di birra. Poi lo allontanò lentamente.
«Clinton», disse, quasi tra sé. «Clinton non è l'unico a rischio. Dopo di lui, credo verso le otto e mezzo, è attesa la delegazione giapponese, ma non sono sicuro se Obuchi28 sarà a bordo. Domani arrivano aerei russi, inglesi, francesi e italiani. Conosco il programma con una certa precisione. A mezzogiorno arriva Blair, un'oretta dopo Chirac e subito dopo D'Alema.» «E i russi?» «Eltsin arriverà solo fra tre giorni, forse, e ripartirà il giorno stesso. Lui lo escluderei. Ma naturalmente potrei sbagliarmi. Anche Eltsin è sulla lista dei politici più a rischio del mondo.» «Schröder?» «Il cancelliere?» Silberman protese le labbra, pensoso. «No. Decisamente no. Non viene in aereo. In più gli attentati ai politici tedeschi vengono sempre eseguiti da tedeschi. Nessuno li odia quanto loro stessi. No, non credo che abbiamo a che fare con dei tedeschi.» Silberman fece una pausa e sorseggiò la sua acqua tonica. «Sempre che abbiamo a che fare con qualcuno. Stiamo facendo delle ipotesi.» D'un tratto, Liam ebbe l'impressione che il giornalista stesse per fare marcia indietro. «Stavolta non si può sottrarre, Aaron. È possibile che qualcuno voglia far fuori Blair o Chirac, ma lei lo crede veramente?» Silberman scosse il capo. «Allora chi potrebbe voler uccidere il presidente degli Stati Uniti?» Silberman lo guardò. Poi scoppiò in una breve risata. «Tutti! Chiunque! La Russia, la Serbia, la Libia, la Cina, la Colombia, l'Iraq, la Corea del Nord. Santo cielo.» Fece un cenno al barman. «Mi porti un bourbon, presto!» «Quale bourbon?» chiese il barman prudentemente. «Uno qualsiasi.» «E... per lei?» «Io preferisco affondare con stile», rispose Liam. «Cosa offre la sezione porto?» Il barman s'illuminò e mise sul bancone una notevole collezione di bottiglie d'annata. Liam studiò le etichette con benevolenza. «Bene, procediamo con metodo. Clinton è ritenuto la forza tramante dell'intervento della NATO. I serbi, per esempio, potrebbero avercela con lui.» Si rivolse al barman. «Mi dia il 28
Keizo Obuchi è stato il primo ministro giapponese dal 30 luglio 1998 al 5 aprile 2000. (N.d.T.)
Delaforce del '78 e una ciotola di noccioline.» «Ce l'hanno molto di più con Blair e Schröder», osservò Silberman. «Dagli americani non si aspettavano nient'altro che tumulti, ma essere attaccati di nuovo dalla Germania, quale che fosse la ragione, li ha davvero traumatizzati.» «Stavolta però non era la Wehrmacht.» «E allora? Lei sottovaluta il vittimismo serbo. Se si sentono nel giusto, non gli importa nulla del perché qualcuno li attacchi; chiunque sia ha sempre torto. Lei non ci crederà, ma inizialmente Clinton non era affatto entusiasta d'immischiarsi. Non bisogna diffidare per principio dell'atteggiamento interventista; è sufficiente relativizzare certi aspetti. Gli USA hanno cominciato a esercitare pressioni diplomatiche soltanto quando i soprusi di Belgrado nei confronti della popolazione albanese si sono moltiplicati. A dire la verità, si mormora che la grande offensiva della Serbia contro l'UCK, l'anno scorso, sarebbe avvenuta col tacito consenso di Washington. Clinton ha messo in moto la spaccatura dell'UCK, che gli risultava sospetta. Allo stesso modo in cui gli altri respingevano l'idea di dare al Kosovo lo status di terza repubblica della Federazione jugoslava, con pari diritti rispetto a Serbia e Montenegro.» «Non poteva funzionare.» «Sì, invece! E non sono stati tanto i serbi a protestare quanto il Montenegro, che è intervenuto. All'epoca, però, gli Stati Uniti hanno ritenuto che fosse bene non rompere del tutto col regime di Belgrado. Se vuole sapere la mia opinione, Clinton non aveva il minimo interesse in questa guerra. Non è un generale. Apprezza l'armonia.» «Pensavo che Holbrooke avesse già minacciato dei bombardamenti, l'estate scorsa.» «È vero. Perché gli Stati Uniti davano per scontato di cavarsela con un bluff. E in parte ha funzionato. Avevamo un bell'accordo, Miloševič aveva ritirato un po' di truppe e l'OSCE aveva allestito una bella missione in Kosovo. Fin lì tutto bene.» «Capisco. O forse no.» Liam scosse il capo. «Forse mi può spiegare una cosa, Aaron.» «Se ne sono in grado...» «Perché fare la corte a uno stronzo come Miloševič?» Silberman prese un sorso di bourbon e lo tenne in bocca per qualche secondo. «Una bella domanda», rispose. «Cercherò di trovare una risposta. Anzi c'è una risposta! È semplice. Lo corteggiamo perché siamo quello che
siamo.» «Oh.» Silberman sorrise. «Siamo occidentali. Ecco qual è il problema di queste guerre. Possiamo discutere se fosse necessario intervenire prima o intervenire del tutto, ma una cosa è certa: ciò che abbiamo fatto corrisponde alla nostra mentalità occidentale. Vede, all'inizio degli anni '90, il Kosovo era già all'ordine del giorno delle trattative. Ricorderà la conferenza sulla Jugoslavia, l'UE e l'ONU in armonia. A proposito, ecco un altro esempio di come Washington non voglia trasformare i problemi europei in problemi americani. Allora lo slogan era: We got no dog in this fight. Poi, alla fine del '95, c'è stata la conferenza sulla Bosnia.» «Dayton.» «Esatto. A quel punto era chiaro a tutti che la guerra sarebbe tornata nel Kosovo, e solo perché, oltre seicento anni fa, i serbi vi hanno perso una battaglia. Ma che dico, era già chiaro nell'89, quando Miloševič aveva abrogato l'autonomia del Kosovo! Schiere di studiosi, giornalisti ed esperti di diritti umani avevano previsto ciò che poi è successo. Anche i Servizi segreti occidentali lo sapevano. Si portavano dietro tutto questo sapere accademico e nel contempo si facevano ingannare dalla loro mentalità. Vuole sapere cos'è successo a Dayton? È entrato in scena un uomo di mondo, gioviale e disponibile al compromesso. Uno statista calcolatore, che non aveva niente in comune con razziatori dello stampo di un Karadžić o di un Mladić.29 Slobodan Miloševič. Immediatamente è scattato il tipico modello comportamentale delle nostre democrazie occidentali. Avevamo riconosciuto l'unica persona ragionevole in una massa di fondamentalisti! Ne eravamo orgogliosi! Con quell'uomo si poteva parlare. Sa, noi americani vediamo qualsiasi fondamentalista al di là dei confini balcanici come un fanatico con la bava alla bocca: barba nera, occhi di fuoco, Kalašhnikov in pugno e un rudimento d'intelletto accecato dalla religione e dal nazionalismo. Ma lui era diverso. Ecco perché lo abbiamo corteggiato. Perché si è travestito da statista occidentale. Miloševič era una specie di cavallo di Troia e l'abbiamo esibito sulla scena diplomatica, invece di assestargli 29
Radovan Karadžić, presidente della Repubblica serba di Bosnia, è stato accusato di aver condotto operazioni di pulizia etnica durante la guerra in Bosnia-Erzegovina e, dal 1996, è ricercato per crimini di guerra, un destino che condivide con Ratko Mladić, capo dell'esercito della Repubblica serba e responsabile della strage di Srebrenica (luglio 1995), durante la quale morirono migliaia di musulmani bosniaci. (N.d.T.)
qualche schiaffone, impedendogli di arrivare fino a questo punto. Stupido, stupido Occidente. Stupida, stupida psicologia.» Liam sorrise. La caratterizzazione di Silberman gli piaceva. Il giornalista aveva ragione. E nel contempo aveva torto. «Non crede che la volontà di Clinton a impegnarsi in una guerra sia soltanto un aspetto della faccenda?» chiese. «Talvolta mi sembra che noi abbiamo cercato per decenni qualcosa che potesse fungere da simbolo dell'Occidente... poi, all'improvviso, è saltato fuori il presidente degli Stati Uniti. Voglio dire, ammazzare il POTUS è sempre giusto per qualcuno che voglia colpire l'Occidente, no?» Silberman agitò il suo bourbon. «Purtroppo su questo ha ragione. Ma è colpa dell'Occidente stesso. Chi oggi protesta perché gli Stati Uniti hanno dominato l'intervento NATO, dovrebbe ricordare il pietoso fallimento dell'UE in Bosnia.» Fece una pausa. «Lei ha ragione e forse io non lo voglio ammettere. Ma, se non ci è dato di volta il cervello e se il Colonia/Bonn rischia davvero di diventare il teatro di un attentato, mi sento di dire con una certa sicurezza che quell'attentato riguarderà Clinton.» Guardò l'orologio e fece una smorfia. «E per la precisione tra due ore e mezzo.» Centro spedizioni «Poco meno di due ore e mezzo», disse Gruškov a Jana. Era appena arrivato al centro spedizioni, fresco e riposato. E aveva visto per la prima volta Kuhn in catene. Fece una smorfia e prese Jana da parte. «Che ne facciamo di quello?» chiese. «Non siamo obbligati a ucciderlo», replicò Jana. «Non dobbiamo ammazzare tutti.» «Quattro mesi fa, però, lei ha liquidato il barbone senza problemi. Come mai adesso si fa scrupoli?» «Il barbone era inevitabile. Dovevamo fare un collaudo.» Diede un'occhiata a Kuhn, accasciato al suolo. Sembrava stanco e depresso. Da lontano, dava l'impressione di sonnecchiare, ma lei sapeva che stava notando ogni dettaglio con nervosa attenzione. «Non è stupido», riprese. «Pensavo che fosse un vigliacco, ma in realtà ha soltanto paura del suo stesso coraggio. In compenso ha sale in zucca. Forse ci può servire ancora.» Gruškov storse la bocca. «Sa benissimo che non ci serve più. Non lo vuole far fuori. Tutto qui. Vabbè. Il capo è lei. Andiamo al lavoro.» Puntò un telecomando verso il lato più lungo del capannone. Si sentì uno sferragliamento quando le due metà del grande cancello cominciarono a muo-
versi, scivolando l'una contro l'altra. La luce solare inondò l'atmosfera fredda e relativamente cupa dei neon. Entrò una leggera brezza. Nel cielo azzurro, da cartolina, brillava il caldo sole di giugno. Guardando fuori si vedeva pure che i binari su cui poggiava lo YAG si estendevano nel cortile e terminavano poco prima del muro. Gruškov annuì, soddisfatto. «Non potrebbe andare meglio.» Uscì alla luce del sole e guardò il cielo, strizzando le palpebre. Poi si voltò verso Jana. «A posto», disse. «Faccia partire quell'affare.» Jana andò alla console, che spuntava dal pavimento all'estremità posteriore dello YAG e che presentava un grosso pulsante verde e un analogo pulsante rosso. Premette quello verde e rivolse lo sguardo allo YAG. Un generatore si mise in moto, ronzando. Muovendosi a scatti quasi impercettibili, la struttura fatta di pianali di autocarri saldati l'uno con l'altro, lunga dodici metri e quasi altrettanto profonda, si mise in movimento, portando con sé l'enorme cassa e i due gruppi ad alta tensione. Le ruote collocate di traverso brillavano, nere d'olio, mentre giravano quasi in silenzio sulle rotaie. Senza scosse, la mostruosa struttura passò dall'interno del capannone all'esterno e si avvicinò al muro. Riflessi di luce solare guizzarono sul mantello d'acciaio dello YAG, accecando Jana. Gruškov si portò davanti al carro e alzò la mano. «Ancora un attimo... ancora un po' e... stop!» Jana premette il bottone col palmo della mano. Il ronzio del generatore scemò. La struttura rallentò e un meccanismo passò sulle rotaie. Spuntarono ganci che si ancorarono alle ruote, sollevarono la struttura di qualche centimetro e la bloccarono in un punto preciso. Ganasce metalliche premettero contro le ruote da entrambi i lati, bloccandole. Lo YAG aveva raggiunto la sua posizione. Per spostarlo anche solo di un millimetro ci sarebbe voluto un terremoto di media intensità. Gruškov girò di corsa intorno ai pianali, fino a raggiungere una struttura di legno alta quasi tre metri e con una superficie di quasi due metri quadrati. A prima vista, sembrava una sorta di vespasiano. Il russo armeggiò negli angoli, aprendo diverse chiusure. L'una dopo l'altra, prese le pareti di legno e le fece scivolare cautamente a terra, rivelando uno scheletro aperto su tutti i lati, al centro del quale era visibile un treppiede argentato identico a quello che si trovava nel capannone. In cima, all'altezza del foro nel lato più corto della cassa e a quattro metri di distanza da esso, brillava una superficie riflettente bluastra e rotonda, con un diametro di trentatré centimetri. Poggiava su un alloggiamento metallico largo due palmi e inclinato di
quarantacinque gradi, in modo che riflettesse il cielo oppure l'apertura nella cassa, a seconda della direzione da cui la si guardava. Camminando lentamente, Jana uscì dal capannone e raggiunse Gruškov. Poi s'infilò fra il treppiede e il carro. «Quando accendiamo i generatori?» chiese. «Tra cinque minuti», rispose l'altro, in tono pacato. «È sufficiente. Avremo abbastanza potenza.» Jana si avvicinò al foro nell'involucro dello YAG. Era esattamente all'altezza della sua testa. Pervasa da una strana sensazione, ci guardò dentro e, nell'oscurità, scorse l'occhio scintillante del telescopio a specchi. Il suo diametro era di pochissimo inferiore a quello dello specchio sul treppiede. Pensò al barbone. «Devo ancora regolare i piedini del carro», borbottò Gruškov. «Forse ci mancano due millimetri in altezza. Pignoleria, certo, ma non vogliamo fare un lavoro abborracciato.» La guardò. «Allora? Ansia da prestazione?» «Mi è sconosciuta. Quando controlliamo la macchina fotografica?» «Adesso. Venga, torniamo dentro.» Seguendo i binari, tornarono nel capannone: senza lo YAG, sembrava infinitamente più grande. Legato al tubo, Kuhn pareva ridotto alle dimensioni di un insetto. Aveva distolto lo sguardo da Jana e Gruškov e guardava fuori. Oltre alla paura, Jana gli leggeva negli occhi un certo interesse per lo spettacolo cui aveva appena assistito. In altre circostanze, avrebbe provato compassione. Sonja sarebbe morta di pietà. Entrarono nella stanza dei computer. Ogni volta a Jana sembrava che, dai tavoli, fossero spuntati nuovi calcolatori e altri schermi. Sugli scaffali erano accatastati raccoglitori e pigne di stampati ben ordinati. Ovunque si vedevano apparecchiature tecniche. Jana si avvicinò a uno dei tavoli e prese la Nikon che aveva usato col barbone. Gruškov accese una serie di apparecchi. Jana puntò la macchina fotografica verso di lui e guardò nel mirino. «Perfetto», disse. Non si vedeva neanche un centimetro di Gruškov. La Nikon non le mostrava assolutamente nulla della stanza in cui si trovavano. Invece vedeva una parte del capannone, un pezzo di parete e una parte del soffitto. Le sue dita cinsero l'anello più esterno del teleobiettivo e lo fecero ruotare lentamente. Nello stesso momento, anche l'obiettivo sul soffitto del capannone si muoveva, trasmettendo informazioni digitalizzate alla Nikon. Jana conti-
nuò a girare l'anello e vide comparire nel mirino Kuhn. Azionò lo zoom. L'uomo divenne più grande, finché le sue tempie non occuparono completamente il mirino. Infine lei posò la macchina fotografica. Per fare una prova, premette la piccola leva che apriva il comparto delle batterie. Nel modello standard, slittava verso destra. Jana spostò la leva a sinistra. Dal fondo della macchina fotografica uscì una piastra delle dimensioni di mezzo francobollo e cadde a terra. «Tutto come al solito», commentò Gruškov. «Sguscia fuori come un neonato.» La piastrina era un microchip su un supporto in silicio. Una volta installata all'interno della Nikon, bloccava le funzioni consuete e la trasformava in un'unità di controllo, che stava a una macchina fotografica più o meno come un fucile di precisione a una fionda. Grazie al chip, la Nikon poteva controllare a distanza un obiettivo mobile installato altrove, come quello del capannone. Ma non solo. Ciò che quell'obiettivo vedeva, dovunque si trovasse, compariva nel mirino. Una volta messo a fuoco il bersaglio, Jana doveva soltanto premere l'otturatore. Quindi, subito dopo l'attentato, avrebbe premuto la levetta delle batterie verso sinistra, facendo cadere il chip, per poi calpestarlo. A quel punto, la Nikon sarebbe tornata a essere una normale macchina fotografica. Nessun controllo avrebbe potuto dimostrare altrimenti. «È un capolavoro», commentò Jana con ammirazione. Gruškov scrollò le spalle. Si passò una mano sulla pelata e cercò di apparire il più indifferente possibile, ma era chiaro che quasi scoppiava di orgoglio. «Scatti una bella foto», le disse. Holiday Inn Liam appoggiò la testa sul palmo della mano e depennò a uno a uno i nomi che Silberman aveva scritto su un foglio. Passarono in rassegna ancora una volta tutti i partecipanti del G8. Schröder non avrebbe nemmeno messo piede all'aeroporto. Jacques Chirac era a rischio in generale, ma era più probabile che fosse sulla lista nera dei musulmani radicali. Anche se gli Abu Nidal del mondo erano sempre in agguato, un attentato di matrice musulmana in quel momento non era molto probabile. L'attualità ruotava intorno ai Balcani. In quel contesto, dopo Clinton, il capo di Stato più a rischio era Tony
Blair. Più di ogni altro aveva rappresentato la linea dura. Se fosse stato per lui, non ci sarebbe stato un tira e molla sulla guerra. L'odio della Serbia e il malumore della Russia erano particolarmente accesi nei confronti della Gran Bretagna. Assassinare D'Alema poteva interessare al massimo ai neomarxisti. A proposito di Obuchi e Chrétien30 non c'era nulla da dire, se non che sarebbe stato assurdo assassinare uno statista canadese o giapponese in Germania. «Se ci sarà un attentato, avrà un forte valore simbolico», dichiarò Silberman, che nel frattempo era passato alla stessa marca di porto di Liam. «Altrimenti non ci sarebbe nessun motivo plausibile per eseguirlo in circostanze così difficili. Clinton, per esempio, è sostanzialmente ben protetto, ma potrebbero farlo fuori con meno problemi quando fa jogging dietro la Casa Bianca.» «Quindi si tratta di una dimostrazione di potere.» «Naturalmente. Il terrorismo è sempre là dove il potere e la violenza s'incontrano, il che avviene prevalentemente nei media. Il potere deriva dalla pubblicità e dal riconoscimento. Se si vuole scoprire che cosa abbia in programma un commando terroristico professionista e come voglia mettere in atto il suo piano, basta pensare al prime time televisivo. I terroristi sono molto attenti alla loro presenza nei media. Fanno ciò che può garantire la migliore riuscita mediatica e tutti sono fin troppo disposti ad andare loro incontro. Ricorda, nel 1975, l'occupazione del quartier generale dell'OPEC a Vienna e il rapimento dei ministri del petrolio? I terroristi sono fuggiti dall'edificio coi loro ostaggi in modo estremamente drammatico, ma soltanto dopo essersi assicurati che ci fossero abbastanza troupe televisive.» «Della serie: 'Non sparare adesso, Abdul, perché non è ancora iniziato il prime time'?» «Esatto. Bisogna tenerlo presente, se si vuole capire perché questi commando vanno a cercare situazioni difficili. Assassinare Clinton stasera è praticamente impossibile. Riuscirci significherebbe mostrare il dito medio all'intero apparato di sicurezza dell'Occidente, a telecamere accese. Sarebbe una pubblica dichiarazione d'impotenza.» Continuarono la loro analisi. Ogni tanto, Liam riempiva i bicchieri. A un certo punto, tuttavia, Silberman gli fece cenno di smettere. 30
Jean Chrétien è stato il primo ministro canadese dal 4 novembre 1993 al 12 dicembre 2003. (N.d.T.)
Alla fine, rimasero due nomi. Bill Clinton e Boris Nikolaevič Eltsin. Eltsin. Lo zar Boris. Perché no? Ma Eltsin sarebbe arrivato di lì a tre giorni e i suoi nemici più potenti non erano sparsi per il mondo, bensì nel suo Paese. «Vogliono Clinton», decise Silberman. «Sì, ma chi? Chi sono?» chiese Liam. L'altro giocherellò col bicchiere. «Direi che dipende dal pretesto dell'attentato. Se è collegato, in via retroattiva, col vertice mondiale dell'economia, potrebbe trattarsi praticamente di tutti i gruppi radicali che sbandierano le questioni del Terzo Mondo.» «La lega delle vittime eterne? Impensabile. Io non me ne intendo granché, Aaron, ma che un manipolo di difensori dei diritti umani possa violare la sicurezza di questo vertice è fantascienza della peggior specie. Lo ha detto lei stesso che è praticamente impossibile uccidere Clinton qui.» «Vero.» Silberman rifletté. «Inoltre qualunque cosa abbiano intenzione di fare, deve essere costata una valanga di soldi.» «E chi ha più soldi di tutti?» «Gli Stati. Voglio dire, gli Stati in generale, i governi. È vero. Un'azione come questa puzza di nazionalismo. Si spodesterebbero non soltanto gli Stati Uniti, ma anche il Paese ospite, la Germania. E tutti gli altri che partecipano al vertice.» «D'accordo. E chi odia gli americani più di tutti, in questo momento?» «La domanda è chi odia la NATO. E per chi la testa di Clinton sarebbe il trofeo più grande di tutti i tempi?» «Per la Serbia. Miloševič.» «Diventerebbe un eroe popolare.» «Già.» «Ne farebbero un mito. E Miloševič è senza dubbio il mito di se stesso, si è creato come reincarnazione dello sciagurato principe Lazar, per vincere la battaglia del campo dei merli, stavolta.» Silberman inarcò le sopracciglia e guardò Liam. «Non è straordinario? Tutti i leader fascisti hanno avuto una singolare propensione per il mito. Se guardiamo agli statisti del mondo in base alla loro prospettiva mitica, dovremmo sviluppare una sorta di riconoscimento precoce degli Hitler.» «L'unica cosa...» Liam esitò. «La teoria è convincente. Ma il fatto che Paddy sia irlandese ci dovrebbe turbare in qualche modo?» Silberman scosse il capo. «Il terrorismo internazionale è un mercato del lavoro. Paddy non è il capo. È il capo che ci può rivelare con chi abbiamo
a che fare. Mi scusi un attimo, Liam.» E si diresse alla toilette, lasciando Liam solo coi suoi pensieri. Liam continuò a bere il suo porto e si chiese se stessero perdendo la testa. La teoria che avevano elaborato era concreta, però gli sembrava ancora più assurda e stupida. Lui era un fisico. Il suo campo di specializzazione erano i fotoni, il suo luogo di lavoro i laboratori. Scriveva romanzi e inventava storie. Viveva avventure in pubblico. Ogni tanto prendeva in giro qualcuno, metteva a segno qualche offesa coram populo con la prospettiva di una zuffa adeguata alla sua posizione sociale - mai azzuffarsi con uomini di rango inferiore! - e in sostanza gli piaceva vivere un po' sul filo del rasoio. Il resto era lavoro, benessere e piacere. Tra una cosa e l'altra, Liam era abbastanza indaffarato a inventare se stesso. La brutale realtà in cui si era all'improvviso ritrovato lo confondeva. Due uomini adulti concordavano sul fatto che quella sera il presidente degli Stati Uniti sarebbe morto. Forse si comportavano da bambini, in fondo? Dovevano andare da Lavallier, era chiaro. Liam immaginava che il commissario non avesse fatto sostanziali passi avanti nelle sue indagini. Lavallier e Bär sapevano che lui si era rifugiato all'Holiday Inn. Se fosse successo qualcosa d'importante, sicuramente l'avrebbero cercato. Anche solo per tempestarlo di domande stupide. Come odiava quella situazione! All'improvviso, e inaspettatamente, notò che gli mancava Kika. Kika Wagner La sede della WDR era male organizzata: Kika riuscì a perdersi tre volte. Dopo un ripetuto su e giù per i vari piani e inutili spedizioni in corridoi quasi identici, finalmente raggiunse l'anticamera giusta, con dieci minuti buoni di ritardo. Odiava non essere puntuale. Mentre diceva il proprio nome alla segretaria, formulò mentalmente una breve scusa, per poi scoprire che il responsabile era in riunione e purtroppo ne avrebbe avuto per un altro quarto d'ora. D'un tratto si ritrovò a essere la destinataria delle scuse, le vennero offerti caffè e biscotti e fu affidata al divano dei visitatori nell'ufficio vuoto. Prese un biscotto e lo sgranocchiò svogliatamente. Il ritardo scombussolava tutti i suoi piani. Era attesa a Hürth per le 18.15. L'emittente privata stava prendendo in considerazione di creare una trasmissione per un secondo quartetto letterario, che avrebbe discusso di banalità culturali per il
popolino e la casa editrice aveva manifestato un certo interesse. Quelli della TV non erano particolarmente flessibili per quanto riguardava gli orari degli appuntamenti. In quel settore, tutti erano immensamente importanti e parimenti stressati, anche se in misura inversamente proporzionale alla loro effettiva posizione. Avrebbe dovuto affannarsi per arrivare a Hürth in tempo. Troppo poco tempo per il primo colloquio e troppo poco respiro per il secondo. C'era di che essere nervosi. E in effetti Kika lo era, anche se per tutt'altre ragioni. I suoi pensieri riguardavano Kuhn e ciò che poteva essergli successo. Era preoccupata. L'intera situazione era assai inquietante. E la cosa più inquietante era che Liam l'aveva emotivamente turbata. Si chiese se sfruttare quel momento per chiamarlo al cellulare. Era passata un'ora e mezzo da quando l'aveva lasciato all'aeroporto, con un bacio fugace e un breve abbraccio. Dopo tanta intimità sembrava che all'improvviso il contatto si fosse spezzato. Era irritata. Come si poteva essere così vicini e un attimo dopo così distanti, come estranei? Che senso aveva? Era impossibile lasciarsi andare più a lungo che in un momento magico, sotto un vecchio albero appartato? Perché doveva essere sempre tutto così difficile? Ricordò cosa aveva detto un filosofo d'epoca romana, oltre duemila anni prima: se all'improvviso hai la sensazione che fra te e l'altro ci siano oceani, ciò può significare l'inizio o la fine di un amore, sei tu che devi saperlo interpretare. Se i nostri sentimenti ci risultassero chiari e ne conoscessimo la vera natura, tutto fluirebbe spontaneamente. Ma noi traduciamo il linguaggio del cuore con la testa e gli errori di traduzione distruggono la comprensione più profonda dell'amore, di ciò che sarebbe potuto essere. Fra lei e Liam stava nascendo o morendo qualcosa? Nello stesso momento, le fu chiaro che era la paura del freddo a creare il freddo. Prima di Liam era sola. Se tutto fosse finito, sarebbe stata sola. In conclusione, avrebbe dato tutto per poi constatare che non era abbastanza per l'altro. Che niente contava più. Che non era più la donna più bella del mondo. Sei un'oca complicata, pensò. Prese il cellulare e passò le dita sui tasti, indecisa. All'improvviso, sentì nostalgia di lui. E nel contempo si sentì rodere dal senso di colpa, perché non stava riservando pensieri e sentimenti alla sorte di Kuhn. Si fece strada dentro di lei un pensiero quasi indecoroso: proprio per quel motivo avrebbe potuto chiamare Liam senza paura di manifestare una volta di troppo il
suo interesse, mettendo a rischio l'equilibrio del potere, nel quale non si deve mai concedere un credito all'altro. Telefonata contro telefonata, attenzioni contro attenzioni. Hai sentito qualcosa di Kuhn? Un bel trucco. Disgustoso! E non telefonare solo per quel motivo? Altrettanto stupido. Maledette tattiche! Odiava le tattiche. «Signora Wagner!» Il responsabile entrò nell'ufficio, con un ampio sorriso di scusa, che gli bastò per autoassolversi, e i pensieri di Kika giunsero a una temporanea conclusione. Sei una codarda, pensò prima di alzarsi e stringere la mano a quell'uomo. E poi si chiese cosa stesse facendo l'eterno e spensierato giocherellone, che cosa provasse, che cosa pensasse. O forse non faceva né l'una né l'altra cosa? Liam O'Connor Che cosa provava? Kika aveva promesso di tornare al più presto, sempre che Lavallier non lo lasciasse andare prima di sera. Generalmente trovava inquietanti le promesse di quel tipo. Alle sue orecchie, suonavano come minacce, sinistri avvisi di chi voleva intrufolarsi nel suo spazio vitale e assoggettarlo a esigenze estranee, a un orario non deciso da lui. Ogni volta si chiedeva perché tutto non potesse consistere d'inizi, di prime volte protratte a piacimento. Aveva domato la natura fuggevole della luce. Perché le storie d'amore non potevano rimanere ferme agli albori? Non si poteva frenarne l'avanzamento, come per i fotoni? Perché i sentimenti non si assoggettavano alla fisica? Il caos originava l'attimo, l'attrazione, il viaggio nell'ignoto, l'abrogazione di regole e forma. C'era un che di grandioso in quello. Nella libertà da qualsiasi legame si compiva qualcosa di unico, di mai esistito, d'immensamente elettrizzante. Com'era eccitante scoprire l'America! Com'era ostico e deprimente colonizzarla! Agli inizi seguivano ore trascorse insieme, simili a perle di una collana, ben ordinate, di crescente frequenza e regolarità. Ci s'impossessava del tempo dell'altro, delle sue condizioni di vita e della sua persona. Si redigevano statuti, si stabilivano giorni fissi in cui ci si vedeva, limitando il resto. Dallo straordinario si passava all'ordinario. Tutto cominciava a cementificarsi, prima o poi prendeva il nome di «relazione» e somigliava ben poco
al fortissimo dell'attacco, proprio come il ripetitivo trascorrere dei minuti non aveva nulla a che fare col Big Bang. Liam si versò dell'altro porto, facendo girare lentamente il liquido profumato nel bicchiere. Non era proprio quella la cosa che lo aveva sempre disgustato? Una passione selvaggia ed esplosiva diventava un fuocherello addomesticato, su cui cuoceva a fuoco lento la quotidianità. Si dimenticavano i motivi per i quali ci si era innamorati. Le relazioni fisse andavano contro il fascino dell'inatteso. Proprio così. Ci si pronunciava su ciò che era importante o no per l'altro. Il primo arredava la propria vita e l'altro cambiava l'arredamento. Il primo s'insediava nella personalità del partner finché non ci si trovava più a suo agio che l'occupante originale. Lo spirito libero moriva nel noi. «Sì, ci piace andare in montagna.» «No, non ci piace andare alle feste.» «Sì, ci piace quest'auto.» «No, non votiamo questo partito.» «Il film ci è piaciuto. Il libro ci è piaciuto di meno.» «Adesso andiamo a casa, è già tardi.» «Noi pensiamo che...» «Noi siamo del parere che...» «Non è vero, tesoro?» Tutto perché non ci si era fermati prima. E allora come mai aveva nostalgia di lei? Fino a quel momento non avevano fatto nulla due volte di seguito, a parte il fatto che si erano amati diverse volte. Ma quello era da considerarsi un unico evento e, in quanto tale, indivisibile. Ma, dopo che il loro breve e rapido idillio aveva raggiunto il momento culminante, non c'erano motivi per andare avanti. La seconda parte era sempre peggiore della prima. Le serie erano noiose. Tutto ciò era giusto. Era un o'connorismo dimostrato. Cos'era andato storto quella volta? Era quella parola che cominciava per A? Fu sopraffatto dalla preoccupazione. Lo faceva sentire insicuro provare qualcosa per lei; non era abituato a quel sentimento. Aveva addirittura formulato la possibilità di essersi innamorato. Ed era vero. Si era innamorato di quel momento. Invece innamorarsi di quella donna che lui conosceva a malapena, col risultato di volerla rivedere, era una cosa inaccettabile. Non lui! Non Liam O'Connor, l'isola nel distillato della libera volontà. Quel viaggio a Colonia aveva messo tutto sottosopra. Silberman tornò dalla toilette. «Dunque?» chiese. «Le è venuto in mente qualcos'altro?» Liam si alzò. Sì, che gli era venuto in mente. Il porto lo aveva riscaldato
che era una meraviglia. Si sentiva pronto a suonarle di santa ragione ai terroristi. «Ha ancora il biglietto col messaggio?» chiese. «Certo.» Liam prese il pezzetto di carta e lo osservò per la centesima volta. Che cosa gli era passato per la mente, prima? Kika. Le relazioni. L'Irlanda. Le zuffe. Il suo lavoro. Il suo lavoro. Per una frazione di secondo, credette di vedere le cose chiaramente, ogni aspetto ben distinto dall'altro, come nel flash di una lampada stroboscopica. La soluzione era lì, sotto i suoi occhi! Poi tutto si rimescolò in un'irritante confusione. Il suo lavoro. Il lavoro di Paddy? Dove aveva lavorato Paddy? Lavallier lo sapeva di certo. Ma non glielo avrebbe detto, nemmeno dopo cent'anni. E Liam non glielo avrebbe chiesto. Nemmeno dopo mille anni. «Ascolti, Aaron», esordì, dandogli un'amichevole pacca sulla spalla. «Mi è appena venuta un'idea. Dividiamoci. Lei va alla stazione di polizia e racconta la nostra piccola teoria. Voglio dire, se Lavallier la pensa come noi, può sempre far atterrare altrove il presidente. Tutti ne saranno entusiasti e lo adoreranno per aver preso una simile decisione.» «E lei che cosa farà?» «Vado in missione segreta.» Silberman accennò un sorriso. «Lei è ingiusto, Liam. Sa che m'interessa, in quanto giornalista. In più le ho dato un aiuto determinante per sviluppare una teoria che...» «Va bene.» Liam sorrise a sua volta. «Voglio andare all'amministrazione per capire su cosa ha messo mano Paddy.» Silberman annuì. «Come faccio a reperirla?» «Al cellulare.» «Un momento, mi scrivo il numero.» Silberman si annotò il numero. Poi uscirono. «Sa, in fondo sono di buonumore», disse, mentre attraversavano il parcheggio davanti all'Holiday Inn. «Anzitutto continuo a sperare che, nell'ultima ora, abbiamo dato la caccia a semplici fantasmi. In secondo luogo, finora Clinton si è sempre salvato la pelle. Nessun presidente è sopravvissuto a tanti attentati. Supererà anche questo, con la sua solita giovialità.»
«Non sapevo che...» iniziò Liam, sorpreso. Silberman sorrise. «Certo che lo sa. Erano coinvolte molte persone, ma l'attentatore principale si chiamava Kenneth Starr.» «Ah, già. Lo spermatologo del presidente. Sì, ci sono professioni buffe negli Stati Uniti.» «Politicamente stiamo attraversando una crisi più grave di quanto non si creda», aggiunse Silberman. «Starr è l'uomo di facciata. Lo pagano. Dietro di lui, ci sono rami di estrema destra del partito repubblicano e l'ultradestra. Miliardari superconservatori e direttori di giornali. Un'élite animata dall'odio, unita dall'interesse ad annientare Clinton. Affermano di voler ottenere giustizia e chiarezza. Io lo chiamo un attentato alla democrazia.» «Ha ragione. Io sono sempre stato del parere che l'uomo più potente del mondo dovesse avere un'intensa attività sessuale», commentò Liam. «Impedirglielo sarebbe soprattutto un attentato alla sua pacatezza politica.» «È un attentato agli americani e alla sicurezza del mondo intero. Lo sapeva che Starr originariamente non è stato messo in campo per via della Lewinsky? Indagava sullo scandalo Whitewater.» Lo scandalo Whitewater era il più famoso flop finanziario della storia americana. Clinton aveva investito in quel progetto immobiliare quand'era governatore dell'Arkansas, diventando il bersaglio dei repubblicani. Lo accusavano di aver disposto gli investimenti con intenzioni truffaldine e di aver tenuto segreto il suo ruolo nel progetto. «Ma le accuse si sono rivelate prive di fondamento, giusto?» «Sì. Però la faccenda ha un lato perfido. Dopo che dallo scandalo Whitewater non era scaturita nessuna imputazione, Kenneth Starr è stato confermato nella sua funzione d'investigatore speciale e ha ricevuto mezzi e possibilità ancora maggiori. In altre parole, il suo lavoro consisteva nel cercare qualcosa di sospetto e, se necessario, fabbricarlo. È come se qualcuno osservasse casa sua giorno e notte nella speranza di sorprenderla prima o poi a fare qualcosa di proibito.» «E il vostro sistema giudiziario lo consente?» Avevano raggiunto gli uffici dell'amministrazione. Liam si fermò. Silberman guardò la caserma della polizia. «È un peccato che non abbiamo più tempo per chiacchierare», disse. «Comunque, in breve, Kenneth Starr ha corrotto la nostra giustizia. L'ha resa uno strumento della politica e, per suo tramite, ha ostacolato il presidente nell'adempimento della carica più importante del mondo. Ecco perché ho parlato di attentati. La questione non è soltanto chi abbia fornito il sigaro a chi. Da voi in Europa questo non succede. Qui i partiti del cen-
tro si pestano i piedi a vicenda. L'estremismo di destra vive ancora in isolamento. Da noi è diverso. Di fronte ai nostri democratici c'è un'ala veramente di destra, che ha una frangia pericolosa e incline alla violenza. Direi che i nostri conservatori e i nostri fondamentalisti religiosi possono stringere la mano ai fondamentalisti islamici, in tutti i sensi: commettono omicidi, mettono bombe nelle cliniche che praticano l'aborto, linciano chi la pensa diversamente e spendono una montagna di soldi per scacciare il demonio dagli Stati Uniti. Per loro, Clinton è un usurpatore, un tragico errore, che non ha mai interiorizzato i valori tradizionali della formazione cristiana, della morale puritana e dell'orgoglio nazionale. Un mezzo orfano dell'Arkansas di dubbie origini che non sarebbe mai dovuto diventare presidente.» Liam guardò Silberman. «Non voglio difendere nessuno, ma in effetti Clinton è un codardo. La cosa che manda su tutte le furie le persone non è il fatto che si scopi le tirocinanti, ma che menta.» «Non mente», replicò Silberman con un sorriso forzato. «Distorce la verità. In questo, è molto più abile.» «Se l'è sempre cavata, in ogni situazione», sbuffò Liam. «Lo sanno perfino gli stupidi contadini irlandesi, che in genere non sanno granché del mondo a parte come germogliano le patate. Cose del genere mi fanno infuriare, Aaron. Odio la falsità che è insita nella cultura politica. Di solito, prendo atto del mondo con la pacatezza di un critico teatrale. La cosa che mi stupisce di più è che il cast sia scelto così male. Ma io sono ricco. Sono multimilionario. Posso alzarmi e andarmene. Le persone che hanno votato Clinton non possono, devono convivere col fatto che il rapporto del loro presidente con la verità si possa definire al massimo 'interessante'. Era contro la guerra del Vietnam, ma soltanto un po'. Ha fumato uno spinello, ma senza inspirare. Si è fatto fare un pompino, ma non gliel'ha messo dentro. E come Clinton ce ne sono a dozzine. Qui in Germania si è mentito tanto, aspettando sempre che tutto si risolvesse da sé... Mi meraviglia non vedere i capi dei partiti ricoperti di catrame e di piume. In Irlanda uccidiamo i nostri problemi col silenzio, oppure li affoghiamo nel sangue. È così in tutto il mondo: si è credibili soltanto finché non si arriva al vertice. Dopodiché ti considerano un truffatore eletto. Non c'è integrità in politica. Chi governa è bugiardo. È questo che pensa la gente.» «E lei si alza e se ne va?» «Ma certo.» «E perché non lo fa anche adesso?»
Liam si limitò a fissarlo. «In realtà, non siamo su posizioni molto lontane», proseguì Silberman. «È vero, Clinton è un vigliacco, è politicamente ambivalente ed è caratterizzato da una spiccata mancanza di responsabilità personale. Ma è anche un buon politico ed è un essere umano. Se il semplice fatto di entrare in politica rende un individuo un potenziale mascalzone agli occhi dei suoi simili, la cosa è davvero preoccupante. È uno specchio dei nostri tempi. I nostri amici in Germania amano guardare a chi fa carriera in politica con benevolenza, ma ben pochi ritengono i politici credibili. Pensano che Kohl sia un padrino e Schröder un parvenu. Negli Stati Uniti è ancora peggio. Viviamo col disprezzo e col cinismo che viene riservato per principio ai nostri presidenti. Un terzo degli americani disprezza Clinton.» Fece una pausa. «Ma questo fenomeno riguarda il mondo intero. Parliamo di attentati negli aeroporti e dimentichiamo che è la decadenza morale della cultura politica mondiale a consentire l'esistenza di attentatori come Starr. Apriamo le porte alla destra e ai radicali, perché la democrazia è diventata debole e attaccabile. Dietro l'inquisizione di Starr, c'è il tentativo di danneggiare la carica presidenziale. La crociata contro Clinton, comunque la si voglia vedere, è un'offensiva contro un uomo che è stato eletto democraticamente due volte. Se si fosse dimesso, le conseguenze sarebbero state letali, equivalenti a un colpo di Stato della destra. Il metodo dell'annientamento personale avrebbe trionfato.» Silberman socchiuse le palpebre, si tolse gli occhiali e guardò Liam. Senza le lenti molate a ingrandirli, i suoi occhi apparivano piccoli e lustri nel viso tondo e gentile. Il suo sguardo esprimeva un profondo acume e l'assenza di qualsiasi sentimentalismo. «Mi perdoni se in questa situazione ho insistito sui fatti che mi stanno a cuore», disse. «Lei ha altre cose per la testa e le ho anch'io. Volevo soltanto dire che un 'omicidio politico' del nostro presidente sarebbe stato peggiore della fine della sua esistenza fisica. Se esiste questo pericolo, dobbiamo fare tutto il possibile per combatterlo. Ma dobbiamo soprattutto capire i segnali. Le nostre strutture democratiche vengono silenziosamente smantellate. È l'America stessa a distruggere il suo sistema e a lasciare che un'orda di ultraconservatori velenosi e religiosi di destra trasformino il sogno americano in un incubo. Anche in Europa ci sono ideologi fondamentalisti e teorici della paura che aspettano di entrare in scena alla grande. Basta guardare l'Austria, la Francia, la Germania. Che ne sarà della Russia, se Eltsin se ne va? Il mondo non può tollerare un'ulteriore banalizzazione della politica, Liam. La società del divertimento si è divertita abbastanza. Ci serve una
nuova integrità in politica, ci serve verità e ci servono persone che ci credano!» «Una verità smette di essere tale quando ci crede più di una persona», commentò Liam con tracotanza. «Conosco questa citazione. È di Oscar Wilde, vero? Be', Liam, mi consenta di dirle una cosa: se un poveraccio che non ha niente da mettere sotto i denti e nessuna prospettiva si alza e se ne va non appena le cose diventano sgradevoli ha la mia più profonda comprensione. Quando lo fa un multimilionario annoiato, favorisce il cinismo. I politici mentono, i fascisti li depongono a mazzate e il popolo si alza e se ne va. Le mie congratulazioni per questa visione così elevata del Terzo Millennio.» Posò con cura gli occhiali sul naso, come se potessero danneggiarsi. «Spero che non se la prenda, non è una questione personale. Come si chiamava il commissario? Lavallier. No, Bär. La chiamo non appena ho parlato con uno dei due.» Liam annuì. Aveva sulla punta della lingua mille citazioni, battute di spirito e repliche argute. Invece disse soltanto: «D'accordo, Aaron. Farò lo stesso anch'io». «Speriamo. Sono davvero preoccupato per il povero Franz.» Silberman sorrise e se ne andò. Liam lo seguì con lo sguardo e si sentì come se fosse stato colto alla sprovvista. Quel viaggio a Colonia stava davvero mettendo tutto sottosopra! A passo svelto, entrò negli uffici dell'amministrazione e salì le scale fino al secondo piano, dove si trovava il reparto tecnico. Jana Difficilmente una corrispondenza giornalistica era stata preparata con tanto anticipo e sottoposta a una procedura di sicurezza più rigida di quanto era avvenuto per il doppio vertice di Colonia. I giornalisti avevano dovuto presentare le loro richieste di accredito all'ufficio stampa del governo tedesco con sei mesi d'anticipo. C'era una tessera per il vertice UE e un'altra per il G8. Inoltre la richiesta non comportava necessariamente un accredito. Il BKA aveva verificato i dati personali dei giornalisti che avevano fatto domanda: curriculum, reputazione, carriera professionale, durata dell'impiego presso un certo giornale o del lavoro da libero professionista, eventuali infrazioni della legge... Insomma tutta la litania. Chi usciva da quel purgatorio con la qualifica di «non pericoloso» si ve-
deva assegnare l'ambita tessera di accredito. Nella Tenda Stampa, all'Heumarkt, le tessere venivano finalmente consegnate ai loro possessori. Tre giorni prima del rispettivo vertice si potevano ritirare, presentando un bel mucchio di documenti, tra cui carta d'identità, attestati vari, domande di accredito, certificazione dell'ufficio stampa del governo e del BKA. Per prima cosa, si otteneva l'autorizzazione retroattiva a entrare nella tenda. Ma soltanto con quella tessera, seppur conquistata con tanta fatica, non si andava lontano. Per accedere alla tribuna stampa all'aeroporto, per esempio, oppure a quella di Gürzenich, oltre alla tessera di accredito servivano i cosiddetti «biglietti pool». C'erano biglietti per ogni occasione possibile e immaginabile. Chi era riuscito a ottenere l'accredito richiedeva i biglietti che lo interessavano due mesi prima del vertice e li ritirava nel giorno dell'evento presso la Tenda Stampa, sempre che fosse in possesso di una tessera di accredito valida. Così si chiudeva il cerchio. Jana era davanti all'uscita AEROPORTO e aspettava pazientemente la navetta. La tenda aveva un'uscita apposita per ogni «pool». Un'ora buona prima dell'orario dell'evento, si passava dalla rispettiva uscita, affiancati da collaboratori dell'ufficio stampa del governo, si saliva sull'autobus e ci si lasciava trasportare a destinazione. Non era stato facile procurare a Jana un accredito. Se n'era occupato Mirko e aveva fatto le cose per bene. Jana era Cordula Malik, provvista di una storia personale inattaccabile e ufficialmente registrata come giornalista free lance di Vienna, da quel giorno alloggiata all'Hotel Flandrischer Hof nell'Hohenzollernring. Possedeva una tessera di accredito e, da qualche minuto, anche un biglietto pool per la tribuna stampa del Piazzale Merci Ovest dell'aeroporto Colonia/Bonn. Si guardò intorno. La Tenda Stampa era molto animata. Senza dubbio era il capolavoro degli organizzatori del vertice. Un po' per scherzo e un po' con reverenza, il quartier generale provvisorio del giornalismo internazionale veniva chiamato «L'UFO del vertice». Una volta passati i controlli di sicurezza, consegnando cellulare e chiavi ai raggi X e passando al vaglio del metal detector, mentre gli scanner guizzavano su borse e apparecchi, ci si ritrovava in un universo high-tech costato tre milioni di marchi, che somigliava al ponte di comando di un'Enterprise sovradimensionata. Al centro dell'UFO c'era una centrale fax tonda. Da lì, in una configurazione a stella, si dipartivano infinite postazioni di lavoro ultramoderne, dotate di attacchi per laptop e PC, telefoni analogici e ISDN. Sugli schermi scorrevano notizie e riprese di conferenze stampa; nelle pause, i televisori si sin-
tonizzavano sul canale musicale VIVA, per offrire un po' di relax. A qualche passo da Jana c'era un giovane dai capelli a spazzola che parlava in un dittafono, guardando ogni tanto un blocco per appunti. «L'UFO può accogliere tremila giornalisti, che, secondo stime provvisorie, si sono già scolati alcune centinaia di migliaia di ettolitri di Kölsch, acqua e bibite e hanno trangugiato tartine, panini, insalate e torte, oltre a circa due tonnellate di salmone. Ogni dieci minuti arrivano camion carichi di rifornimenti. È stato messo in moto un potente ingranaggio per placare ogni appetito di notizie o di carboidrati.» Fece una pausa, sfogliò le pagine del blocco e poi riprese: «L'atmosfera è buona, anzi eccezionale. Ai giornalisti sono state regalate meravigliose borse stracolme di oggetti utilissimi. Un momento... Non ne abbiamo già parlato la settimana scorsa? Non importa... In ogni caso, tutti hanno offerto qualcosa: la WDR una calcolatrice col convertitore in euro e col traduttore automatico, la Ford un cuscino, la Bayer un misuratore di glicemia, per verificare la propria idoneità al vertice». Sorrise. «Il cuscino, diciamolo pure, sta sul culo quasi a tutti, il misuratore di glicemia ha suscitato perplessità e poi disgusto, perché la diagnosi richiede di pungersi un dito. In compenso, i biglietti d'ingresso gratuiti per il concerto del vertice in Roncalli-Platz, l'inevitabile bottiglietta di colonia 4711, ma soprattutto i preservativi distribuiti generosamente dall'ufficio stampa del governo sono stati accolti con vivo interesse. Quest'ultimo articolo ha irritato il clero locale, come il fatto che la zona a luci rosse della città si sia attrezzata con nuovi materassi e con duecento ragazze aggiuntive. Inoltre da settimane un monomotore sorvola il duomo, trascinando dietro di sé uno striscione con la pubblicità del night club Pascià. Il portavoce dell'arcivescovado ha espresso una certa irritazione... - Abbiamo una foto di questo tizio? Controllare! - seppure in forma attenuata. La Chiesa sa benissimo che non si guadagnerà nient'altro che la fama di guastafeste, perciò fronteggerà la prevedibile perdizione con confessioni last-minute e messe aggiuntive in occasione del vertice. Alla fine andranno tutti d'amore e d'accordo e Colonia avrà ciò che vuole, ovvero una stampa molto soddisfatta.» L'uomo che stava dettando il suo articolo nel registratore aveva ben descritto la situazione. Jana sapeva cosa si aspettavano i potenti della città. Pur con tutta l'attenzione ai protagonisti e ai contenuti politici del vertice, speravano soprattutto di affermare una star che si chiamava Colonia. Sarebbero rimasti sbigottiti. Jana sbadigliò e si controllò il trucco in uno specchietto. Cordula Malik esisteva davvero. O, meglio, era esistita, anche se soltan-
to per tre anni. Poi lei e i suoi genitori erano morti in un incendio, all'inizio degli anni '70. Con scrupolosità e coi giusti contatti, Mirko era riuscito a ricavare da quel caso una persona in carne e ossa, con una storia personale e professionale e una residenza fissa. Aveva ottenuto il certificato di nascita, un metodo ampiamente usato dalla criminalità internazionale e dai terroristi per entrare in altri Paesi sotto falso nome. Poi si era resa necessaria una serie di altri provvedimenti, compresa la corruzione di alcuni onorevoli funzionari, per dar vita a una giornalista trentenne. Cordula Malik era risorta dalla tomba. In cambio, sarebbe uscita di scena un'altra donna: una italiana, bella, elegante, dai capelli castano-rossicci, di nome Laura Firidolfi. Non sarebbe mai più riapparsa. Jana provava un certo rammarico. Le piaceva quella donna d'affari di successo. Laura Firidolfi sarebbe potuta degnamente subentrare a Sonja Ćosić, ma la storia aveva disposto diversamente. Cordula Malik aveva capelli corti e stopposi. La trasformazione era avvenuta un'ora prima con un paio di forbici, subito dopo che Jana e Gruškov avevano controllato la macchina fotografica. Il costoso abito di Laura Firidolfi aveva ceduto il posto a jeans sbiaditi, a una T-shirt che lasciava scoperto l'ombelico e a un giubbotto leggero coi colori degli anni '70, secondo l'ultima moda. Ai piedi, Cordula portava scarpe da ginnastica Nike con le suole rinforzate. Così abbigliata, con occhi e labbra accentuati dal trucco, sembrava una ragazzina un po' cresciuta, in teoria troppo vecchia per quel look, ma ancora abbastanza eccitante. Aveva preso in considerazione un piercing all'ombelico, ma poi aveva scartato l'idea e con una tattoo-pen si era disegnata un simbolo celtico, che, dall'altezza della cintola, le risaliva sull'addome. Sembrava la quintessenza della generazione del divertimento. Una puttanella del circo mediatico, probabilmente piena di sé e non molto intelligente. Era impossibile considerarla capace di compiere un attentato al presidente degli Stati Uniti. Teneva la Nikon e una piccola Olympus appese al collo, in modo che non le penzolassero sul petto, ma all'altezza dei fianchi. Le sue mascelle si contraevano regolarmente, lavorando una gomma da masticare. Annoiata, passeggiava davanti all'uscita. Alla fine le porte si aprirono e furono tutti accompagnati fuori. C'era moltissima gente in giro per la città. La luce solare immergeva il centro storico in colori caldi. Tutto faceva presagire una bella serata d'inizio estate. Tranne la cappa di nuvole che si avvicinava dall'altra sponda del
Reno. Pioggia. L'unica cosa che poteva mettere a rischio il piano. Ma soltanto se fosse piovuto a catinelle. E, anche in quel caso, avrebbe comunque avuto un'altra possibilità. Tuttavia la pioggia era un problema. Poteva costringerla a restare più a lungo di quanto lei non volesse. Nel dubbio, Laura Firidolfi sarebbe esistita ancora per qualche giorno. Il travestimento non era un problema, ma lei odiava quella possibilità. Niente pioggia, pensò. Per favore. «POTUS?» le chiese il giovane dai capelli a spazzola. Lei si voltò. Anche lui aveva al collo qualche macchina fotografica. «Hmm...» fu la risposta, tra un movimento e l'altro delle mascelle. «Anch'io», disse il giovane. «Per quale giornale scrivi?» «Nessuno», farfugliò lei. «Sono free lance.» Il giovane le porse la mano. «Peter Fetzer. Kölner Express.» «Ah, i mattatori locali.» Inarcò le sopracciglia e depositò la gomma in fondo alla bocca. «Cordula Malik. Vienna. Corrispondente di tutto e di più.» «Sei a Colonia da molto?» chiese Fetzer. Lei scosse il capo. «È il mio primo evento», disse. Lui sogghignò. «Non meravigliarti quando prendi la navetta. Di solito facciamo un tratto accettabile, ma può capitare che questo stupido bus porti soltanto dietro l'angolo. Dopodomani Clinton andrà al duomo, dicono.» «Lo so», rispose lei in tono annoiato. «Ci voglio andare anch'io. È una figata, quella chiesa.» «Buon divertimento, allora.» Indicò le torri del duomo che svettavano sulle case del centro storico e rise. «Sarà il viaggio in bus più breve della tua vita.» Rise anche lei, cercando di suonare poco elegante. Naturalmente sapeva benissimo di cosa parlava. Tutti i giornalisti che volevano andare a un evento del vertice dovevano salire sull'autobus in Heumarkt o in un altro dei punti di raccolta, anche se il percorso non superava i dieci metri. I pool di giornalisti venivano tenuti d'occhio. «Forse ci vediamo», disse Jana. «Quando arriva l'autobus?» «Non lo so.» Fetzer si guardò intorno e scrollò le spalle. «Evidentemente è in ritardo. Se ti posso aiutare in qualche modo...» «Molto gentile, grazie. Me la caverò.»
Uffici amministrativi. Reparto tecnico Quando Liam O'Connor entrò, Mahder stava per lasciare il suo ufficio. Il direttore aveva sottobraccio un mucchio di disegni tecnici e sembrava teso. «La febbre del vertice ci distrugge», disse. «Sarò contento quando finirà, ma non lo posso dire a voce alta, perché altrimenti Stankowski mi salta addosso.» «Non volevo trattenerla», replicò Liam. «Non mi trattiene affatto. Aspetti un attimo.» Mahder andò nell'ufficio adiacente. Liam lo sentì dare istruzioni a qualcuno di portare i progetti al terminal. Poi il direttore tornò con un'espressione mortificata. «Il lavoro procede», disse. «O, meglio, dovrebbe procedere, ma non sempre le cose vanno avanti. I miei dipendenti vengono controllati ogni dieci minuti, ogni santa volta che escono sul piazzale.» «I dipendenti del reparto tecnico?» «Tutti vengono controllati. Tecnici, personale di ogni genere. Il SI controlla noi, la polizia controlla il SI, i Servizi segreti controllano la polizia e il BKA, se non ha niente da fare, probabilmente si controlla da sé.» Fece una smorfia. «E questo è soltanto il capitolo americano. Fra tre giorni rivivremo lo stesso gioco, con Eltsin. Allora avremo i cosacchi alle costole e domani saranno gli inglesi e i francesi a darci sui nervi. Stanno tutti perdendo la testa. Ha sentito di Strack?» «Di chi?» Mahder scoppiò improvvisamente a ridere. Era la risata di un uomo infelice quando si accorge che qualcun altro è appena scivolato su una buccia di banana, pensò Liam. «Strack è un pezzo grosso della polizia, non lo sapeva? È la star della situazione. Gli piace andare nella Tenda VIP ed è sempre impegnato a parlare con gente importante, mentre uomini come Lavallier si ammazzano di lavoro. Lo sanno tutti a Colonia. A proposito, vuole un caffè?» «Grazie, ma non vorrei trattenermi...» «L'hanno arrestato!» Mahder fissò Liam, ridendo a crepapelle. «Non è il colmo? Naturalmente erano dell'Est. Agenti di Brandeburgo della SEK, le forze speciali di polizia. La settimana scorsa, quand'è partito il premier francese, hanno bloccato di nuovo tutto. Qui ci sono poliziotti provenienti da tutti i Lander e alcuni sono troppo deficienti per lasciar passare il capo della polizia, semplicemente perché non ha la tessera di riconoscimento in mano. Lavallier è dovuto andare a tirarlo fuori.»
«Inaudito.» Mahder smise di ridere e scrollò le spalle. «Vabbè. Facciano pure quello che gli pare. Il problema è che dobbiamo smettere di lavorare quando arriva Clinton.» «Ma non aveva detto che gli arrivi non interferiscono coi lavori?» «In linea di massima è così. Al Terminal 2 procede tutto normalmente. Ma oggi arriva Clinton. Piazzali, aeroporti commerciali... Viene bloccato tutto il possibile. All'A2 è in corso una fase di costruzione importante, stiamo facendo una colata di calcestruzzo. Lavoriamo anche di notte. Inizialmente volevano che smantellassimo l'intero cantiere, ma almeno stavolta siamo riusciti a strappare un compromesso agli americani. Comunque i lavori si fermeranno per due ore quando arriva Clinton. I nostri operai verranno portati via in autobus. Faranno la pausa cena a bordo. Ridicolo!» «Be', è pur sempre il presidente degli Stati Uniti.» «E allora? Ma cosa si aspettano? Che tiriamo qualche pala contro l'Air Force One?» «Non so se sia così ridicolo», commentò Liam. «Mi viene in mente Patrick Clohessy, voglio dire, O'Dea.» «Certo, è vero», ammise Mahder, imbronciato. Si grattò dietro l'orecchio e guardò Liam. «Che posso fare per lei? Oppure voleva soltanto fare due chiacchiere?» «No.» Liam scosse il capo. «M'interesserebbe sapere dove ha lavorato Clohessy.» «Perché non lo chiede a Lavallier?» «Non c'è», mentì Liam. «Inoltre immagino che lei abbia informazioni più dettagliate.» «Vero», rispose Mahder, esitante. Liam si avvicinò al direttore e abbassò la voce. «Oggi a pranzo ha detto che non le viene raccontato abbastanza. Be', adesso le racconto io qualcosa. Forse lei può dare una mano a fare chiarezza, senza doversi angustiare con le istituzioni che la ostacolano continuamente.» Mahder socchiuse le palpebre. Poi sorrise. «Devo ammettere che in effetti mi sono fatto un'idea.» «Anch'io.» «Ma abbiamo controllato tutto, noi, il SI e la polizia. Ho dato a Lavallier un elenco completo dei lavori cui O'Dea ha partecipato. Io stesso mi sono messo a fare l'equilibrista sui ponteggi. Non abbiamo trovato niente.»
«Dove lavorava, in prevalenza?» «Al nuovo terminal. Come le dicevo, dobbiamo intervenire continuamente.» Liam si allontanò di un passo e ripensò a ciò che Mahder aveva mostrato loro durante il tour dell'aeroporto. Forse l'Air Force One sarebbe atterrato all'altezza del nuovo terminal. O forse no. Dunque appostarsi lì non aveva senso. Tanto più che, nel caso, bisognava portarsi dietro un'arma di calibro consistente per far saltare in aria il jumbo meglio protetto del mondo. Loyak spara. Chi diavolo era Loyak? Con cosa voleva sparare? Pieza - speccio - dativo. «Mi potrebbe mostrare ancora una volta sulla piantina dove atterrerà Clinton?» Mahder allargò le braccia. «Certo, ma a cosa può mai servire?» «Potrebbe chiarire qualcosa.» «Nessun problema. Venga qui.» Mahder andò a una parete intonacata di bianco, alla quale era affissa con puntine da disegno una piantina dell'intero terreno dell'aeroporto. Più sotto erano appese diverse vedute aeree. Liam lo seguì. Per la prima volta, vide l'aeroporto dall'alto. Era sorprendente come risultasse piccolo il ferro di cavallo del vecchio terminal, se raffrontato alle dimensioni complessive dell'aeroporto. In effetti, ne costituiva soltanto una parte minuscola, ampliata dal T2 e dall'enorme parcheggio adiacente. Un po' più in là, oltre il raccordo autostradale, Liam riconobbe gli edifici dell'Holiday Inn, dell'amministrazione e della polizia. Erano molto ravvicinati e sembravano separati dal resto, come se non appartenessero all'insieme. Simili a parenti sgraditi che non possono abitare nel castello e devono accontentarsi di una casetta sul viale d'accesso. Al di là del terminal, cominciavano le piste, i piazzali e ciò che Kika aveva definito «una piccola città», formata quasi interamente dallo Scalo Merci. Il complesso di uffici, hangar, capannoni e magazzini correva parallelo alle piste d'atterraggio. L'avevano attraversato in auto, ma Liam era comunque esterrefatto della sua estensione. Mahder indicò la fine della super-runway. «Ci siamo passati, prima. Ricorda? L'AFO atterrerà su questa pista.» «L'AFO?» «L'Air Force One. Non si può lavorare in questo settore senza usare ab-
breviazioni, altrimenti si farebbe notte. Come ho già detto, non è sicuro, ma penso che atterreranno alla 14L, all'altezza del terminal, quindi.» Mahder indicò il percorso della pista. «Vede? Ogni pista ha un suo codice. L'estremità nord-ovest della grande pista si chiama 14L, quella sud-est 32R. L e R stanno per sinistra e destra. Insomma, entrerà da sinistra e rullerà lungo lo Scalo Merci in direzione sud-est. Qui in fondo, nella brughiera, farà un backtrack, cioè tornerà indietro lungo la pista di rullaggio A, poi andrà a sinistra e di nuovo a destra, sul lato ovest dello Scalo Merci.» «Passerà dallo Scalo Merci», constatò Liam. Mahder sogghignò. «Perché? Credeva che il POTUS dovesse mostrare il passaporto, passare la dogana e aspettare la valigia al ritiro bagagli?» «Non avevo un'idea precisa», replicò Liam. «Non mi è mai toccato il lusso di disporre di un intero piazzale.» «Le posso fare una domanda?» «Naturalmente.» «Lei è senza dubbio benestante. Perché non si concede il lusso di un aeroplano privato?» Eccola di nuovo, l'insulsa invidia, travestita da partecipazione. «Sarebbe noioso», rispose Liam. «Farei arrabbiare sempre lo stesso equipaggio.» Indicò un grosso edificio che sporgeva nel Piazzale Ovest. «Che cos'è questo?» «Il capannone insonorizzato. Si vede meglio qui, nella foto aerea. È un casermone. Ci collaudiamo le turbine, per questo abbiamo dovuto acquistare un capannone aperto nella parte superiore. Quando l'AFO rullerà verso lo Scalo Merci, raggiungerà il lato ovest passando per le altre due piste d'atterraggio, poi girerà un'altra volta qui. Dalla 14R alla pista di rullaggio T e infine si fermerà sul Piazzale Merci Ovest. È appena a destra del capannone insonorizzato.» «E Clinton scenderà lì?» «Tutti gli ospiti di Stato scendono lì. Lì ci sono la Tenda VIP, la stampa, il ministero degli Esteri, la polizia e il battaglione dell'esercito. Clinton passerà davanti al picchetto d'onore, stringerà qualche mano e salirà sulla sua limousine. Lo Scalo Merci è attraversato dalla Heinrich-SteinmannStraße... l'abbiamo percorsa per un tratto anche oggi. La colonna di auto lascerà il piazzale, girerà su quella strada e uscirà dall'aeroporto, diretta verso l'autostrada.» «Perfetto», commentò Liam. «Non deve entrare in nessun edificio.» «No, passerà solo tra un edificio e l'altro. Ma anche questo non è un pro-
blema. Verranno chiusi tutte le porte e le finestre, tutti gli hangar e i capannoni. Ogni stanza sarà controllata.» «Ci sono un sacco di edifici.» «Tutto ciò che conta», ribadì Mahder, annuendo. «L'ha visto anche lei oggi. Di fronte al capannone insonorizzato ci sono la torre di controllo e l'UPS...» Liam diede un'occhiata a una delle foto aeree. «Entrambe costruzioni molto alte, vero?» «Be', la torre di controllo è naturalmente la più alta di tutte. Poi abbiamo il Terminal Ovest, qui... la direzione della posta aerea, la sicurezza aerea, la stazione di carico dei camion e gli edifici della dogana, i capannoni per le attrezzature e il carico merci, qui dietro i vigili del fuoco, questo e quell'altro. Dall'altro lato della strada ci sono gli Hangar 1, 2 e 3, il palazzo della Lufthansa, eccetera, eccetera.» «E sono tutti messi in sicurezza?» «Lì non può succedere niente», annunciò Mahder con la massima convinzione. Pur con tutto il malumore che aveva manifestato, sembrava che ne fosse orgoglioso. «I tetti sono disseminati di tiratori scelti. Ho sentito dire che sono addirittura preparati per un attacco aereo.» Liam studiò il complesso, corrugando la fronte. Probabilmente Mahder aveva ragione. Come sarebbe stato possibile introdurre di nascosto un'arma in quella zona di sicurezza? Loyak spara. Con cosa? Loyak spara al POTUS. POTUS. POTUS non era un nome proprio. Era un acronimo. Forse anche Loyak era un acronimo? «E la colonna delle auto passerà di qui?» «Aspetterà dall'altro lato del capannone insonorizzato», rispose pazientemente Mahder. «Qui. Poi...» «Al GAT 1?» «Sì. GAT sta per General Aviation Terminal. Il GAT 1 è destinato ai piccoli Learjet, con cui sono arrivati alcuni ministri degli Esteri. Quelli vengono parcheggiati lì, mentre gli apparecchi più grandi, come l'AFO o lo Iljušin di Eltsin vanno al vicino aeroporto militare...» Liam non lo ascoltava più. Il GAT. Ilgat, Ilcat. C'erano migliaia di possibilità di fraintendere.
In quello stesso istante gli apparve chiaro che cosa volevano fare e come. Loyak non era un nome, non era una sigla e non era una persona. Non era nemmeno una sola parola. Lo non era nient'altro che l'articolo determinativo maschile. Lo YAG! Tutto quadrava. Kuhn doveva aver origliato una conversazione. Evidentemente aveva scritto a casaccio ciò che gli era sembrato importante, in gran fretta e senza capirne il senso, ma aveva fatto centro. Pieza - speccio dativo. Piezo. Specchio. Adattivo. Piezomotori in uno specchio adattivo. Uno YAG e un sistema di specchi, come nella fisica classica. Un mirino per puntare il bersaglio. Ecco fatto. Così si spiegava come si poteva introdurre di nascosto un'arma nell'aeroporto e cosa sarebbe successo a Clinton se fosse stato colpito. «Professor O'Connor?» Lui non reagì. La sua mente esaminava alla velocità della luce tutte le possibilità. Poteva contare su vaste conoscenze in materia. Le conoscenze di un uomo che si era occupato di ricerca nel campo dei fotoni a livelli da premio Nobel e che conosceva qualsiasi possibile applicazione. Mentre cercava di ricostruire il lavoro di Paddy, stentava a credere di non esserci arrivato prima. D'altro canto era assurdo. Quasi impensabile che qualcuno contasse di fare una cosa del genere e che potesse funzionare. Poteva funzionare? «Professor O'Connor? Non sta bene?» «Hanno uno YAG», mormorò. Lentamente alzò lo sguardo sul volto preoccupato di Mahder. «Ora lo so.» «Sa cosa?» «So cos'hanno intenzione di fare.» Mahder era confuso. «Hanno? Chi? Di che sta parlando?» «Dove ha lavorato Paddy, oltre che nel nuovo terminal?» Mahder lo fissava. «Non mi vuole dire...» «Dopo. Dove?» «Be', qui.» Indicò vari edifici nella foto aerea. «Terminal Ovest, direzione della posta aerea, Hangar 1. Ah, e laggiù, dall'altra parte, un bel po' distante, ai magazzini di transito.» Liam si avvicinò. La foto mostrava in modo chiaro e dettagliato lo Scalo Merci, ma da un'altezza considerevole. Quasi nessuno degli edifici in que-
stione aveva l'altezza necessaria. E serviva una certa altezza per mettere in pratica quel piano. Oppure stava prendendo un granchio colossale? No, è possibile. In quanto a probabilità, viene subito dopo un attacco degli UFO. Però è fattibile. Quindi era al Terminal 2? Dipendeva da quanto era grande lo YAG. Per danneggiare un aereo in fase di atterraggio, ce ne voleva uno grande quanto tre isolati. E difficilmente sarebbe bastato. Forse il nuovo terminal era abbastanza alto. Era difficile fare una valutazione definitiva sulla base della foto aerea. E c'era un'altra questione: quanti punti di deviazione aveva la struttura che era stata realizzata? Dovevano esserci diversi specchi e il primo era adattivo. Accanto a lui, Mahder cominciava a spostarsi nervosamente da una gamba all'altra. «Professor O'Connor, non voglio metterla sotto pressione, ma...» «Niente paura, non mi mette sotto pressione. È sicuro che Paddy abbia lavorato soltanto in questi edifici?» «Naturalmente.» Suonava irritato. All'improvviso, Mahder sembrò perdere tutta la sua calma. «Ho disposto personalmente tutti gli incarichi. Non sarebbe potuto andare altrove senza il mio consenso. Non siamo mica una compagnia di clown.» «Chiedo scusa.» Liam tirò fuori il cellulare e frugò nell'altra tasca interna della giacca. Le sue dita cercavano il bigliettino coi due numeri di Lavallier, ma non trovarono altro che aria. Dove aveva messo quel bigliettino? Poi gli tornò in mente. Ci avevano scritto i nomi dei politici. Era al bar dell'Holiday Inn, sempre che non fosse già rimasto vittima dello zelo del barman. Maledetto idiota! Per un istante prese in considerazione l'idea di tornare all'hotel. Ma avrebbe soltanto perso tempo. «Sarebbe così gentile da chiamare Lavallier?» chiese con un sorriso. Mahder si contorse le mani e aprì la bocca. Poi scrollò le spalle e andò alla scrivania. Sfogliò una guida, poi compose il numero della stazione di polizia. «Il commissario capo Lavallier, per favore.» Aspettò per qualche secondo. «Alla Tenda VIP? Sì, certo. Sì, prendo nota.» Mahder annotò due numeri telefonici su un foglio, mentre Liam andava
avanti e indietro nella stanza. Doveva fare qualcosa. Non avevano tempo da perdere in telefonate con la polizia. «Provi a chiamare Bär!» gridò. «Non c'è nemmeno lui», replicò Mahder. «Sono tutti alla Tenda VIP. Tutti enormemente occupati. Provo a chiamare Lavallier al cellulare.» «Sì, per cortesia. Farebbe un grande piacere sia a me sia al presidente degli Stati Uniti.» Mahder lo fissò perplesso, mentre le sue dita guizzavano sui tasti del telefono. Aggrottò le sopracciglia, poi scosse il capo. «Occupati entrambi. Senta, anch'io avrei ancora parecchio da fare. Non che mi voglia sbarazzare di lei ma, se devo rimanere ancora a sua disposizione, mi deve ben dare un motivo. Altrimenti poi il cretino sono io, capisce?» «D'accordo», rispose Liam. «Se in cambio mi porta al nuovo terminal.» «Cosa?» «Voglio dare un'occhiata.» Mahder annaspò. «Non può semplicemente andare a dare un'occhiata. Non la faranno entrare, non è autorizzato e...» «Se mi accompagna lei sono autorizzato», s'imbestialì Liam. «Lei ha una tessera, oggi a mezzogiorno funzionava, no?» Impaziente, andò alla porta. «Si muove o no? Non abbiamo tempo da perdere. Sulla macchina le spiegherò cosa cerco, ma devo entrare lì dentro, altrimenti il Piazzale Merci Ovest sarà l'ultima cosa che il presidente degli Stati Uniti vedrà.» Il direttore impallidì. «Intende...» «Sì, intendo proprio quello.» «Allora... va bene, prendo... prendo le chiavi della macchina.» «Si sbrighi.» Mahder scomparve nella stanza accanto e si chiuse la porta alle spalle. Passò un minuto, poi ricomparve, con una pila di raccoglitori sottobraccio. «Dato che ci siamo, posso fare un salto al vecchio terminal per discutere di un paio di cose», disse rapidamente. «La mia macchina è qui sotto.» «Basta che mi faccia entrare», disse Liam. «Sì, certo.» Mahder si affrettò a raggiungere la porta dell'ufficio e la tenne aperta per Liam. Lo scienziato guardò l'orologio. Mancava meno di un'ora all'atterraggio dell'Air Force One. Piazzale Merci Ovest Lavallier uscì dal container dei vigili del fuoco e guardò il cielo con aria
scettica. Si stava rannuvolando. C'era stato il sole per tutto il giorno, ma nuvole plumbee si stavano avvicinando da est. Si era sollevato il vento, che gonfiava le bandiere davanti alla Tenda VIP. Un gradevole effetto collaterale del peggioramento delle condizioni atmosferiche, pensò. Non era bello vedere bandiere flosce e cascanti. Fece qualche passo sul piazzale e registrò l'atmosfera. Ormai tutti si erano abituati a ricevere ospiti di Stato, ma Bill Clinton era un'altra cosa. Involontariamente ci si ritrovava a sottoporre a un altro sguardo critico ciò che era già stato controllato centinaia di volte, a ispezionare la facciata della tenda in cerca di tracce di sporco, a verificare il corretto posizionamento dei rivestimenti di stoffa delle basi delle bandiere e la loro integrità. L'idea che, di lì a poco più di un'ora, il presidente sarebbe sceso dall'aereo e avrebbe stretto la mano agli astanti aveva qualcosa di edificante. E naturalmente tutti volevano vederlo da vicino, quell'uomo che riuniva in sé le caratteristiche più disparate, come ben pochi prima di lui: portatore di speranze, angelo di pace, moralista, libertino e oscurantista... E per di più era noto per il suo magnetismo. Lavallier diresse lo sguardo sulle superfici asfaltate del piazzale. Si estendevano a poche centinaia di metri di distanza lungo la breve pista di atterraggio e la pista di rullaggio dalla quale sarebbe arrivato l'Air Force One, dopo aver toccato terra sulla super-runway e aver manovrato sulla serpentina che si snodava nella brughiera. Al di là della pista di atterraggio, riusciva a distinguere gli hangar dell'esercito. Lo scalo militare si trovava al limite occidentale esterno del terreno dell'aeroporto. Una volta che Clinton avesse lasciato il Colonia/Bonn, l'aereo presidenziale sarebbe stato condotto lì e vi sarebbe rimasto sotto rigorosa sorveglianza fino al termine della visita. Tutti i velivoli degli ospiti di Stato più importanti venivano portati allo scalo militare. Lavallier si voltò e si gustò la vista. Era davvero grandioso quello che avevano allestito. Davvero solenne. La stessa Tenda VIP, col tetto a spioventi e con le finestre romaniche ad arco, si estendeva per quasi cinquanta metri ai margini del piazzale. Alla sua destra era situato un container dei vigili del fuoco, color rosso vivo, poi c'erano due autopattuglie verdi, le ambulanze e la postazione del pronto intervento. Lì davanti, le bandiere sferzate dal vento creavano una spensierata confusione di colori, rappresentando il mondo in una rara immagine di armonia.
A sinistra della tenda, verso il capannone insonorizzato, c'era un'area delimitata. Anche lì si ergevano due tende, ma erano più piccole e riservate alla stampa. Le transenne che circondavano il piazzale, lasciando un'apertura soltanto davanti alla Tenda VIP, proseguivano in diagonale fino alla parete del capannone insonorizzato. Così era stata creata un'area orientata verso la pista di rullaggio, area in cui, dall'inizio del vertice, fotografi e giornalisti si pestavano i piedi ogni volta che era atteso un arrivo importante. Dietro la Tenda VIP, si stagliava nel cielo la nuova torre di controllo. In mezzo correva la strada lungo la quale il convoglio di Clinton avrebbe lasciato l'aeroporto. Venti minuti prima, gli agenti della SEK avrebbero cominciato a bloccare l'intera autostrada e i cavalcavia che la sovrastavano. C'era voluta un'organizzazione logistica imponente per mettere in sicurezza tutte le zone interessate di Colonia. Ciò che era stato allestito all'aeroporto superava ogni precedente, a partire dalla visita di un alto presidente americano, Lyndon B. Johnson, avvenuta decenni prima. Per gli sbarramenti del piazzale dell'aeroporto si era reso necessario un gran lavoro, ma ormai tutto era perfetto. Per arrivare alla Tenda Stampa e alla Tenda VIP dalla Heinrich-Steinmann-Straße, bisognava anzitutto attraversare un enorme parcheggio sorvegliato e poi diversi checkpoint separati. I giornalisti accedevano all'area tramite un container, nel quale erano perquisiti e controllati, mentre le loro apparecchiature venivano passate ai raggi X. Dopodiché attraversavano un metal detector, riprendevano i loro oggetti metallici e le attrezzature e poi potevano raggiungere la Tenda Stampa, passando per il prato confinante. Agli ospiti dell'area VIP non si era voluto imporre un prosaico cassone come il container riservato ai giornalisti, e si era preferita un'elegante tenda inserita tra le sbarre. Lì ci si accertava, con cortesia, ma anche con la massima sicurezza, dell'identità della persona in arrivo, prima di lasciarla accedere al breve sentiero tracciato nel prato che conduceva alla Tenda VIP. Al di là dei checkpoint, i VIP e i giornalisti erano separati da una serie di transenne. La cosa puzzava un po' di divisione di classe, ma in effetti era meglio così. Si voleva evitare il «turismo della stampa» in un'area in cui i rappresentanti del ministero degli Esteri avrebbero discusso di varie questioni con esponenti della sicurezza e diplomatici. Non sarebbe stato bello ritrovarsi quelle cose spiattellate sui giornali del giorno seguente. E poi un VIP senza privilegi non era più un VIP.
Lavallier pensò al colloquio di poco prima e imprecò sottovoce. Aveva convocato un'altra riunione nel container. Non c'era ancora nessuna traccia né dell'editor scomparso né di Patrick Clohessy. La faccenda sembrava sempre di più una lotta intestina tra separatisti irlandesi. Eppure continuava ad aleggiare il fantasma di un possibile attentatore infiltrato. Gli attentatori infiltrati erano un incubo e Clohessy si apprestava a diventare l'incubo personale di Lavallier. Come se non bastasse, era spuntato anche quel giornalista della Casa Bianca, con cui O'Connor si era intrattenuto al bar dell'Holiday Inn, e aveva proposto una teoria piuttosto azzardata. Non sembrava particolarmente sobrio e tutto ciò che diceva somigliava tanto a quello che avrebbe potuto dire un O'Connor sbronzo perso, ma la cosa non era particolarmente rassicurante per Lavallier. Il succo era che i serbi volevano assassinare Clinton. Ci si poteva fidare di O'Connor? Avevano controllato fino all'osso lo scienziato e, con l'aiuto di alcuni suoi colleghi di Dublino, avevano ricostruito un curriculum senza lacune. Lavallier sapeva bene che essere un intellettuale famoso non significava automaticamente essere rispettabile, ma O'Connor pareva davvero al di sopra di ogni sospetto. Le sue occasionali sortite gli conferivano piuttosto un'immagine clownesca. Certo, alcune donne avevano esplicitamente sostenuto di volerlo ammazzare. Ma, dal punto di vista criminale, non c'era nulla da dire sullo scienziato irlandese. Tutto sommato, O'Connor era uno spirito libero senza ambizioni politiche, un personaggio al quale la lettera di Clohessy non si addiceva affatto. Sempre che l'avesse scritta Clohessy. L'idea che qualcuno stesse cercando di screditare O'Connor era ciò che più tormentava Lavallier. Che senso aveva, minare la sua credibilità? Era un tentativo di distogliere l'attenzione dalle teorie di O'Connor su un eventuale complotto? Era forse vero ciò che ipotizzava lo scienziato? Poi gli era tornato in mente Foggerty, il capo dell'IRA che O'Connor negava di conoscere o sosteneva di non ricordare. E l'IRA stava davvero dando la caccia a Clohessy, l'avevano confermato da Dublino. Tutto poteva essere così bello! Negli ultimi venti minuti, si erano ritirati nel container dei vigili del fuoco, per consultarsi ancora una volta sulla faccenda: lui, Gombel e Klapdor, Brauer, Stankowski e il colonnello Graham Lex, che aveva il comando locale dei Servizi segreti per il settore arrivi. Avevano informato Lex della situazione nel primo pomeriggio, quand'era arrivato nella Tenda VIP. Nes-
suno dei partecipanti alla riunione era sembrato particolarmente felice, ma tutti avevano lasciato la decisione sul da farsi a Lavallier e a Lex. Perfino Stankowski non aveva protestato, limitandosi ad aggrottare le sopracciglia ogni tanto. La fiducia nelle forze dell'ordine era illimitata e Lex aveva sottolineato di fidarsi di Lavallier, fino a prova contraria. Ma nessuno riusciva a immaginare come ci si potesse avvicinare a Clinton con un'arma. Non esisteva un luogo dove si potessero nascondere delle armi. In più, non stava scritto da nessuna parte che un eventuale attentato dovesse riguardare proprio Clinton, nonostante le teorie di O'Connor e Silberman. Se veramente c'era il pericolo di un attentato, allora poteva riguardare chiunque. Che cosa dovevano fare? Deviare tutti i voli? Alla fine, avevano concordato di lasciare che tutto proseguisse come da programma, ma di fare un controllo lampo al lato sud-est del capannone insonorizzato. Non restava molto tempo, ma quello era l'ultimo punto critico. Se non avessero trovato nulla lì, non avrebbero trovato nulla da nessuna parte. Non poteva esserci un'arma! Lavallier guardò il cielo un'altra volta. I nuvoloni grigi erano sempre più minacciosi. Alle sue spalle, gli altri partecipanti alla riunione stavano lasciando il container. Gombel e Klapdor scomparvero con Brauer nella Tenda VIP, per dare il benvenuto all'ambasciatore americano e a sua moglie, appena arrivati. Nello stesso momento, davanti al capannone insonorizzato, si erano fermati tre automezzi con ponti sollevatori. Una squadra di tecnici, poliziotti e agenti della sicurezza si apprestava a ispezionare la facciata del capannone, per verificare se ci fossero cavità nascoste. Stankowski e Lex raggiunsero Lavallier. Il direttore del traffico aereo seguì lo sguardo dell'ispettore e scrutò il cielo con gli occhi socchiusi. «Pioverà», disse. Lavallier scrollò le spalle. «Non posso certo definirla la mia maggiore preoccupazione. Vorrà dire che il POTUS si bagnerà.» «Il presidente degli Stati Uniti d'America non si bagna, se lo ricordi», lo corresse Lex. «È protetto così bene che nemmeno la pioggia gli si può avvicinare. Se cadrà una goccia dal cielo, le guardie del corpo gli faranno scudo anche da quella.» Lavallier fissò l'americano con un'espressione cupa. Poi non poté fare a meno di ridere. «Ci vuole un po' di umorismo, eh?» «Con tutte queste stronzate si finisce per dimenticarsi le vere preoccupazioni», brontolò Stankowski. «Se piove, le grida di terrore dei giapponesi
arriveranno fino a Tokyo. Mi si romperanno i timpani.» «I giapponesi?» «Non lo sa? Punto nove dell'ultima lista dei desideri dei giapponesi: 'Scarico dei bagagli in caso di pioggia'. C'è da morir dal ridere... Hanno milioni di richieste speciali per questo caso. Vogliono anche sapere quanto tempo impiegano i nostri apparecchi radioscopici a passare ai raggi X duecento colli. Nella prossima mezz'ora, mi chiederanno cosa pensiamo di fare contro Godzilla, nel caso si facesse vivo.» Fece una risata lamentosa e diede una pacca sulla spalla a Lex. «Voi non avete idea di quali siano i veri problemi. Queste sono vere preoccupazioni, ragazzi!» «Sono sorpreso», replicò Lex con un ghigno. «Ho sempre pensato che non esistesse nulla di più snervante dei Servizi segreti.» «È vero. Siete unici.» «Proprio quello che intendevo.» «Be'», aggiunse Stankowski, sfregandosi la barba. «Per quello i figli di Nippon sono gentili. È solo che perdono la trebisonda per qualsiasi piccolezza.» Indicò la tenda. «Entriamo, mi brontola lo stomaco.» «La raggiungo», disse Lex. Aspettarono che Stankowski scomparisse nella tenda. «Allora?» chiese Lex. «Allora cosa?» «Che ne pensa? Facciamo saltare l'atterraggio di Clinton?» «Me lo deve dire lei», replicò Lavallier. «È il suo presidente.» Lex scrollò le spalle. «Sa, per me la teoria di questo O'Connor ha un piccolo difetto. I tempi. Per fare un attentato qui, oggi, non basta infilarsi nell'aeroporto all'ultimo minuto. Una cosa del genere deve essere preparata. Ma la guerra è scoppiata soltanto due mesi e mezzo fa. Prima Miloševič non aveva motivo di prendersela con Clinton e dopo non c'è stato abbastanza tempo per preparare un attentato di questo livello.» «Sì, certo.» «Non sono tranquillo nemmeno io, Eric. Ma, se qui bolle qualcosa in pentola, sono gli irlandesi. O'Connor sembra un tipo strano. Non so se possiamo fidarci di lui.» «Non lo so nemmeno io.» «Vediamo se salta fuori qualcosa dai controlli al capannone», propose Lex. «Poi decidiamo il da farsi.» Lavallier non replicò. «Che fa? Viene dentro, prima che Stankowski ci rubi tutte le tartine?»
«Arrivo subito.» Lavallier si avvicinò al capannone insonorizzato e osservò i sollevatori che risalivano la facciata. Se non avessero trovato nulla, avrebbero lasciato che Clinton atterrasse. A quel punto, non ci sarebbe stato più nulla da perquisire. Sempre che Lex non cambiasse idea. Lavallier non sapeva più se sperare di trovare qualcosa oppure no. Sentì qualcosa sulla guancia. L'asciugò. Era acqua. Sull'asfalto del piazzale cominciarono a delinearsi chiazze scure, dapprima isolate, poi sempre più numerose. Di lì a qualche minuto, il Colonia/Bonn avrebbe bloccato lo spazio aereo. Nessuno sarebbe potuto decollare o atterrare prima che Clinton avesse lasciato l'aeroporto. Migliaia di persone sarebbero rimaste sospese in aria, a sorvolare lo scalo per mezz'ora, oppure sarebbero state dirottate verso altre destinazioni. Non ci si poteva fare niente. Ovunque arrivasse l'Air Force One, il regolare traffico aereo veniva messo fuori gioco. In quei minuti, venivano sospesi tutti i lavori sui piazzali nell'area della pista di atterraggio. Non rimaneva aperta nemmeno una finestra o un cancello. Nel momento dell'atterraggio, niente e nessuno poteva muoversi nelle sezioni a rischio, né auto, né persone. Già mezz'ora prima, una squadra di meccanici, che stava eseguendo alcune riparazioni nel punto in cui la super-runway incrociava la pista trasversale, era salita su un autobus ed era stata condotta a distanza di sicurezza. La terrazza dei visitatori era chiusa già fin dall'inizio del vertice, perché consentiva di osservare liberamente gli apparecchi in atterraggio e perciò era una zona tabù. Che altro poteva succedere? Lavallier si avviò verso la tenda, estrasse uno dei suoi due cellulari e chiamò Bär, per informarsi sullo stato delle cose. Liam O'Connor Mahder riuscì a percorrere le poche centinaia di metri che li separavano dal checkpoint come se fosse su un circuito di automobilismo. Le tremende visioni prospettategli da O'Connor lo avevano di certo scosso fino al midollo. «Allora, che succede...?» cominciò a chiedere. «Dopo. Provi di nuovo a chiamare Lavallier.»
L'altro selezionò il numero, reggendo il volante con la sinistra. Scosse il capo, innervosito, e riprovò. «Provi con Bär.» Mahder annuì e fece scivolare il pollice sulla tastiera. «Occupato.» Liam emise un ringhio sdegnato. Per un attimo, si chiese se fosse il caso di telefonare a Silberman. Poi ricordò di aver lasciato il suo numero all'Holiday Inn, insieme con quello di Lavallier. Comunque il giornalista non l'avrebbe potuto aiutare in quella situazione. Probabilmente era già sul piazzale e si preparava all'arrivo del suo signore e padrone. Liam distese le braccia. Aveva il collo teso e dolori alle reni. Il tempo passato con Kika sotto il vecchio albero nel parco era stato un piacere, ma non particolarmente comodo. Poi raccontò sinteticamente a Mahder quello che sarebbe successo. Il direttore rimase in silenzio, guardando fisso davanti a sé con un'espressione sbalordita. Superarono il checkpoint e furono controllati, poi procedettero a velocità moderata. «Lei è folle», sentenziò infine Mahder. «No», replicò Liam, impassibile. «È il piano a essere folle. Però funzionerà.» «A me sembra tolto di peso da Guerre stellari.» «Ci sono un sacco di cose pazzesche che hanno già funzionato. Per esempio far volare tonnellate di acciaio.» Mahder si avvicinò il più possibile alla facciata di vetro, fino a raggiungere una recinzione del cantiere, poi spense il motore. C'erano alcuni veicoli privati, oltre a furgoni, autocarri e una camionetta della polizia. «Si fidi di me», disse Liam. «Ne capisco più di quanto vorrei.» «E adesso che facciamo?» «Mi mostri esattamente dove ha lavorato Paddy. E mandi un po' di gente a darmi una mano. Possibilmente un'intera centuria.» «E... cosa cerchiamo?» «Specchi», rispose Liam. «Piccoli specchi, probabilmente non più grandi di un piatto. O anche piccole lastre brillanti di vetro blu. Forse nascoste e montate su qualche apparecchiatura. In una costruzione moderna come questa, dove niente è ancora terminato, una cosa del genere non dà affatto nell'occhio. Immagino che Paddy le abbia nascoste per bene.» Scese dall'auto e guardò l'imponente facciata di vetro. Mahder chiuse a chiave l'auto. «Venga.» Mentre si apprestavano a entrare, Liam diede un'occhiata all'intorno e si rese subito conto che non avrebbero trovato nulla nel settore inferiore. At-
traversarono un capannone alto probabilmente cinque metri e di considerevole lunghezza e profondità. Era occupato prevalentemente da strutture simili a nastri trasportatori. Sul soffitto correvano enormi tubi. Non c'erano operai in giro. «Questo è l'impianto di smistamento dei bagagli», spiegò Mahder. «Ci troviamo al livello 0, cioè al piano terra, rispetto al piazzale. Nella sezione trasversale del progetto, questo è il livello 5.» «Come mai?» «Il terminal ha una parte fuori terra e una parte interrata. Qui siamo sul lato degli aerei.» Indicò l'unica parete che divideva il terminal in senso longitudinale e proseguì: «Dall'altro lato, sorgerà il nuovo accesso per le auto e gli autobus. È a un livello più basso rispetto al piazzale, almeno cinque metri in meno. Poi si scende ancora, fino al livello 1». «E a che profondità è quello?» «A quasi diciotto metri sottoterra. Tra due anni ci si potrà arrivare con l'Intercity Express. Da lì al bancone del check-in non sono nemmeno cento passi. Molto comodo.» Mahder entrò nel vano di una scalinata Liam diede un ultimo sguardo ai nastri dei bagagli e lo seguì. «Questo progetto è stato scelto perché permette di concentrare tutto in uno spazio relativamente limitato», spiegò Mahder. «Lo chiamiamo il 'terminal delle vie brevi'. Tutto collocato a strati, come in un hamburger. I bagagli vengono smistati al livello 0 e consegnati a un livello inferiore. Da lì, i passeggeri possono accedere direttamente ai taxi o scendere alla stazione.» «Bello, ma a noi interessano i livelli alti», replicò Liam. «Eccoli qua, i suoi livelli alti.» Uscirono dalla tromba delle scale. Per un momento restarono in silenzio, poi il direttore annunciò, con una certa dignità: «Il padiglione delle partenze». Liam fece qualche passo all'interno e registrò l'atmosfera. La prima impressione fu quella di uno spazio infinito. Senza pareti divisorie, il padiglione nel quale sarebbero stati collocati i banconi del check-in, le lounge e i gate si estendeva per diverse centinaia di metri. Ma non era quello che lo rendeva così affascinante; piuttosto era il fatto che l'intera sovrastruttura del terminal sembrava fatta di vetro e nient'altro. A intervalli regolari, dal padiglione spuntavano sottilissime strutture realizzate con tubi d'acciaio. Ciascuno di quei tubi aveva probabilmente una circonferenza paragonabile a quella di un essere umano ma, rispetto alle dimensioni complessive,
sembravano pennellate dipinte nell'aria. Sopra di essi si estendeva il tetto trasparente e pieghettato. Il padiglione era pervaso dalla luce non filtrata del sole. Era come essere all'aperto. Si dominava l'intero aeroporto, il territorio circostante, la città in lontananza. Liam si vide passare davanti un 747 della British Airways pronto al decollo. Abbastanza vicino da fargli venire voglia di saltarci su e di farsi trasportare sopra le nuvole. Guardò oltre i piazzali, verso la brughiera e i boschi circostanti, fino al profilo vago di Colonia. Partire in aereo da lì doveva essere un'esperienza particolare. D'un tratto, comprese perché tutti erano così nervosi. L'aveva capito anche prima, ma bastava uno sguardo da lassù per percepire con chiarezza l'ambizione di un aeroporto che si apprestava a uscire dal suo guscio provinciale per allinearsi con gli scali più prestigiosi del mondo. E in più stava arrivando l'élite politica mondiale. Non c'era da meravigliarsi che fossero preoccupati. La questione era se fossero disposti ad assumersi preoccupazioni di tutt'altro genere. Lavallier doveva dirottare l'Air Force One. Liam si guardò di nuovo intorno. A un esame più attento, il padiglione delle partenze non sembrava poi così vuoto. Si ergevano impalcature ovunque. Si era aspettato una maggiore attività, ma erano rimaste pochissime persone nel terminal. Tra gli operai c'erano anche alcuni civili. «Costruiamo contemporaneamente in tutti i settori», spiegò Mahder, che gli si era avvicinato. Puntò un dito verso l'alto. «Clohessy ha lavorato soprattutto sulle impalcature, posando cavi elettrici nelle traverse sotto il soffitto.» «Dove, esattamente?» chiese Liam. «Nel lato più corto di sud-est. Verso il vecchio terminal.» «Verso lo Scalo Merci, insomma?» «Più o meno.» Attraversarono il padiglione, passando davanti a impalcature, macchinari e alloggiamenti provvisori di apparecchiature. Mahder fu salutato diverse volte. Portava il tesserino di riconoscimento ben in vista sulla tuta. Un tizio chiese spiegazioni e Mahder disse che Liam si sarebbe arrampicato su qualche impalcatura, col suo consenso. L'uomo, evidentemente un addetto alla sicurezza dell'aeroporto, annuì e così i due procedettero sino in fondo all'edificio di vetro. Da lì si abbracciava con lo sguardo il vecchio terminal e gran parte dello Scalo Merci, con la torre di controllo.
Erano in alto. Tuttavia quell'altezza non era sufficiente. Da qualche parte, là dietro, ci doveva essere un altro specchio, e doveva trovarsi in uno degli edifici più alti dello Scalo Merci, anche se Paddy non ci aveva lavorato. Sì, era possibile: uno specchio nel T2 e un altro là fuori. Liam camminò per un tratto lungo le vetrate e indicò il soffitto. «Quanto è alto?» Mahder rovesciò la testa all'indietro. «In media, sedici metri.» «In media?» «Il tetto è pieghettato, come una fisarmonica. Perciò ha diverse altezze. La differenza è di circa due metri.» Fece un gesto col braccio, comprendendo l'intero lato dell'edificio. «Qui ci sono impalcature ovunque, come vede. Tutte arrivano fin sotto il tetto. Da alcune si può anche uscire sul tetto. Clohessy era impegnato pure lì.» Fece una pausa. «Dica un po', ma lei è davvero convinto di quello che mi ha appena raccontato?» Liam lo guardò con aria impassibile. «Non ho altra scelta se non esserne convinto», rispose. «L'alternativa sarebbe prendere e andarmene. Ma, un'ora fa, un uomo saggio mi ha insegnato che non è una soluzione. Perciò adesso salirò lassù.» «Va bene. Vado a chiamare i rinforzi.» In effetti avresti anche potuto farlo durante il tragitto, idiota, pensò Liam. Perché non ci aveva pensato nemmeno lui? Il tempo passava in fretta e Lavallier non era raggiungibile. «E cerchi soprattutto di parlare col commissario», disse. «Ci provi ogni trenta secondi. Se chiede cosa sta succedendo gli dica semplicemente che io me ne vado in giro per il suo nuovo terminal, cercando di salvare la vita a Bill Clinton. Credo che questo lo farà arrivare qui più in fretta di Kirk col teletrasporto.» Mahder lo osservava con le palpebre semichiuse, indeciso. Poi annuì con le labbra serrate e se ne andò. «Non si spezzi il collo», gridò a Liam mentre si allontanava. Lo scienziato lo seguì con lo sguardo. Quell'uomo era davvero un cretino. Perché non mandava qualcuno degli operai in servizio ad aiutarlo, tanto per cominciare? Era forse il caso di chiamare qualcuno di quegli uomini? Ma poi avrebbe dovuto spiegare tutto da capo. Forse gli agenti della sicurezza l'avrebbero bombardato di domande e non l'avrebbero più lasciato salire sulle impalcature. Per quanto Mahder sembrasse dinamico, c'era il rischio di aspettare un'eternità prima dell'arrivo di qualcuno. Si lisciò l'abito, sbottonò la giacca e si arrampicò sulla scala più vicina.
Jana Travestirsi era una routine, ma non succedeva sempre. Jana aveva già indossato molte volte alcune delle sue maschere. Ormai la signora Baldi o Karina Potschowa, l'imprenditrice ucraina, le erano familiari. Il look sbarazzino di Cordula Malik, invece, era nuovo ed eccitante. La divertiva. Di rado si era guardata allo specchio con altrettanto piacere. Cordula era l'esatto contrario di Laura Firidolfi, la donna d'affari sempre corretta che aveva dominato gli ultimi anni della vita di Jana. Quello stile da puttanella, curato fin nei minimi dettagli, esprimeva gioia di vivere e sensualità, cose di cui per troppo tempo si era concessa troppo poco. Forse l'idea di far risorgere dalle ceneri di Jana, Sonja, Laura e di tutte le altre una donna come Cordula non era disprezzabile. La vita sarebbe stata più allegra con l'ombelico scoperto. Per quanto riguardava il piercing, poteva farci un altro pensiero. Piccolo, con una pietra... azzurra oppure semplicemente un piccolo brillante. Aveva milioni a disposizione. La definizione «puttana d'alto bordo» avrebbe assunto un significato completamente nuovo. Jana guardò fuori dalla finestra, mentre l'autobus portava lei e altri quaranta giornalisti attraverso l'aeroporto, e pensò alla sua nuova vita. Per molti, pensare a quale ornamento mettersi all'ombelico rappresentava il massimo della complessità. Che riflessioni spensierate. Molto diverse da quelle incentrate su armi e omicidi su commissione, da quelle che generavano uno YAG e un piano per assassinare l'uomo più potente del mondo. Forse sarebbe andata in una gioielleria e avrebbe detto: «Buongiorno, ho ucciso Bill Clinton e una buona dozzina di altre persone. E adesso mi piacerebbe farmi mettere un po' d'argento nell'ombelico». L'avrebbe pensato? L'avrebbe potuto pensare? Sarebbe stato possibile diventare una donna che era, semplicemente e candidamente, una donna? Continuò a masticare la gomma, spostandola a destra e a sinistra, cercando di sentirsi sbarazzina; invece si sentiva soltanto un'abile killer professionista con una maglietta che le lasciava scoperto l'ombelico. Solo un'altra volta, pensò. Poi cambierà tutto. L'autobus passò un checkpoint e proseguì lungo la strada. Sulla sinistra, si estendevano i nuovi edifici dell'aeroporto, il Parcheggio 2 e il terminal quasi ultimato. Poi passarono accanto a una pista di rullaggio e si diressero verso una rotonda. Oltrepassata quella, cominciava l'area dello scalo com-
merciale. Ovunque c'erano transenne e poliziotti. Camionette della polizia orlavano la Heinrich-Steinmann-Straße. Jana sapeva che quella era la strada da cui i politici lasciavano l'aeroporto. Sulla sinistra, vide la costruzione piatta del centro di smistamento della posta; lì accanto, c'era l'edificio della sicurezza aerea, collocato in diagonale, e più in là si scorgevano i capannoni dello Scalo Merci. Dove finivano i capannoni, si ergeva un edificio con molti piani, color giallo sabbia. Era la sede dell'UPS, superata in altezza soltanto dalla torre di controllo. Jana sorrise. Conosceva l'aeroporto come le sue tasche. Si fermarono. Scesero l'uno dopo l'altro, entrando nel parcheggio dal quale si accedeva alla tenda. Jana vide il reporter dell'Express spuntarle accanto. Scambiarono qualche osservazione sullo spiegamento eccezionale di forze dell'ordine e agenti di sicurezza stranieri, mentre attraversavano a piedi il parcheggio e si avvicinavano alle transenne. Davanti a loro, c'era una costruzione piatta di un'azienda di spedizioni e, dietro quella, si ergeva l'imponente e lungo capannone insonorizzato, che si estendeva nei piazzali e li divideva in due. A destra del capannone, c'era il GAT, nel quale normalmente venivano parcheggiati gli aeromobili più piccoli, gli aerei privati e i jet dei ministri degli Esteri. Sulla sinistra, affiancato dal capannone insonorizzato, si estendeva il Piazzale Merci Ovest. Ovunque c'erano poliziotti, tiratori scelti e agenti di sicurezza in borghese. Per qualche istante, ci fu una certa ressa. Davanti al container per i controlli si formò subito una coda. Jana procurò alle sue mandibole un'altra gomma da masticare e flirtò col tizio dell'Express finché non venne il suo turno. Salì i due gradini ed entrò nel container. «Carta d'identità, tessera di accredito, biglietto pool, per favore.» I funzionari erano di una gentilezza distaccata. La carta d'identità di Jana fu confrontata coi dati e con le foto negli elenchi. Un funzionario prese in consegna cellulare e macchine fotografiche e li collocò con cautela su un nastro, che si mise in movimento, portando la Nikon e la Olympus all'interno di una specie di scatola, dove entrambi gli apparecchi vennero passati ai raggi X. La scatola poi inghiottì tutti gli oggetti che Jana portava con sé: la chiave della camera d'albergo, il portamonete con un misto di valuta tedesca e austriaca, la borsetta a tracolla con matite e accessori per il trucco. Quegli apparecchi erano stati un cruccio per Gruškov. Temeva che potessero danneggiare il microchip all'interno della macchina fotografica e
aveva proposto di rivestirlo con uno strato sottilissimo di piombo. Ben presto, però, avevano abbandonato l'idea. Il piombo veniva visualizzato come una macchia nera sui monitor degli apparecchi radioscopici e qualsiasi macchia nera avrebbe attratto l'attenzione dei funzionari. Alla fine, avevano condotto una serie di prove, aumentando le radiazioni molto al di sopra dei livelli consueti, per essere sicuri al cento per cento. Non era successo nulla. Le macchine fotografiche, il cellulare e la borsetta ricomparvero all'altra estremità della scatola. Un'agente della sicurezza perquisì Jana, poi lei dovette attraversare un metal detector. Divertita, pensò che forse era stata una buona idea rinunciare al piercing. «Grazie mille», le disse la donna. Jana sorrise. «Buona serata», replicò, continuando a masticare la gomma. Riprese possesso delle sue attrezzature e lasciò il container all'altra estremità, mentre, dietro di lei, un'altra persona si sottoponeva ai controlli. Era nella zona di sicurezza. Era entrata. Per un momento, sentì il cuore batterle più rapidamente. Un presagio di trionfo s'impossessò di lei: era la soddisfazione di avercela fatta, almeno fin lì. Adesso tutto dipendeva dal funzionamento del sistema. E dalle condizioni atmosferiche. Pensò all'uomo nel centro spedizioni. Gruškov l'avrebbe ucciso soltanto dietro suo comando. Sempre che lei desse quel comando. Pensò alla donna che l'attendeva alla fine del lungo cammino percorso fino a quel momento, il cammino di una vita che ben presto sarebbe finita, per fare spazio a una nuova vita. Forse quella nuova vita richiedeva un pegno, un dono iniziale. Forse proprio la sopravvivenza di quell'uomo. Forse doveva lasciarlo vivere. Il pensiero le piaceva. Prese le macchine fotografiche per la cinghia e attraversò il prato per raggiungere la Tenda Stampa. Terminal 2 Sedici metri erano sedici metri. Liam si fermò su due livelli intermedi dell'impalcatura e ispezionò i telai
delle enormi lastre di vetro. Perché il sistema potesse funzionare, Paddy doveva avere installato lo specchio all'esterno, ma le vetrate non si potevano aprire in nessun punto. La gente nel capannone diventava sempre più piccola, vista di lassù. In apparenza, sulle impalcature non c'era nessuno. Liam diede un'occhiata all'orologio: erano passate da poco le sette. Ancora un quarto d'ora. Perché diavolo ci metteva così tanto, quel Mahder? Nello stesso istante il suo cellulare suonò. «Sì?» «Sono Mahder.» «Ah, finalmente! Dove sono finiti i miei aiutanti?» «Ho dovuto fare i salti mortali per mettermi in contatto con Lavallier», gracchiò Mahder. «Pensavo che fosse la cosa più importante.» Suonava offeso. «Ho fatto quello che ho potuto. Tra poco arrivano i rinforzi, okay? Non si poteva fare più in fretta.» «Lavallier è informato?» «Gli ho riferito tutto quello che lei mi ha raccontato. Era a dir poco sbigottito.» Liam trasse un sospiro di sollievo. «Bene. A dopo.» Riagganciò. In effetti, ormai avrebbe potuto anche sospendere le ricerche. Ma sapeva meglio di chiunque altro cosa cercare. Lentamente si arrampicò sempre più in alto, sinché non fu proprio sotto il tetto. Lassù si perdeva del tutto l'orientamento. Fra aste e tiranti, sembrava di essere in una foresta. Per un istante, Liam si sentì scoraggiato. Le strutture d'acciaio che sostenevano il tetto lasciavano molto spazio per incavi in cui si sarebbe potuto nascondere uno specchio, ma erano tutte dietro i vetri. Sarebbe dovuto uscire sul tetto. L'idea non era affatto rassicurante. Lui non era un tipo poco sportivo, né un fifone, ma le grandi altezze gli davano qualche problema. Guardò di nuovo in basso. Bisognava soltanto fingere di trovarsi ad appena venti centimetri dal suolo. Almeno così dicevano quei furbastri che comunque non avevano difficoltà a camminare su una fune tesa tra due campanili. Sotto di lui, una sagoma si avvicinò all'impalcatura e fece un cenno. «Professor O'Connor!» Guardò con maggiore attenzione. Era Josef Peček, il tecnico. «Capita proprio a proposito», gridò. «Può darmi una mano?»
«Non sono capitato qui per caso, mi ha mandato Mahder», rispose Peček. Bene, fantastico. Almeno uno. Peček cominciò ad arrampicarsi sull'impalcatura. «La raggiungo subito», disse. Liam annuì e si concentrò di nuovo su aste e tiranti. Il ponteggio su cui si trovava era largo all'incirca tre metri e si estendeva per l'intera lunghezza dell'edificio di vetro. Proseguì per qualche metro, fino al punto in cui il lato più corto del padiglione delle partenze si congiungeva ad angolo retto con la facciata anteriore e uno dei tubi portanti terminava nel tetto. Punti come quello erano sicuramente i più adatti per arrivare all'esterno, ma lui non vedeva né lucernari né niente di simile. Alle sue spalle, sentì avvicinarsi un rumore di passi. Si voltò e scorse la corporatura taurina di Peček. «Che cosa sta cercando?» chiese il tecnico. «Mahder non gliel'ha detto?» «Aveva molta fretta.» Peček gli passò accanto e ispezionò con un rapido sguardo il ponteggio. «Vuole mandare anche altre persone. Io ero già da queste parti. C'entra qualcosa con Ryan?» «Ryan?» Già, per Peček, Paddy era ancora Ryan O'Dea. Probabilmente nessuno gli aveva mai detto il vero nome di Paddy alla stazione di polizia. Peček lo guardò. «Sì, Ryan. C'entra qualcosa con lui? È ricomparso?» «No. Ma in effetti ciò che stiamo facendo qui c'entra con Ryan. Cerchiamo degli specchi.» «Specchi?» «In realtà, si tratta piuttosto di vetri trasparenti, delle dimensioni di un piatto... o forse anche più piccoli, bluastri e luccicanti. Forse ha installato qualcosa del genere qui.» Peček aggrottò le sopracciglia. «E a cosa dovrebbero servire?» «Glielo spiego più tardi», replicò Liam. Poi gli venne un'idea. In effetti, era una fortunata combinazione che Mahder si fosse imbattuto proprio in Peček! «Lei ha lavorato quassù insieme con Ryan?» «Sì, qualche volta.» Peček cinse uno dei puntoni del tetto. Sembrava un gesto superfluo, come di chi scuote un albero per assicurarsi che non cada. «Ma eravamo quasi sempre in punti diversi. Io, per esempio, aiutavo a fare le saldature, qui e un po' più indietro. Paddy posava cavi.» «Dove sono i cavi?» «Nei tubi.» Peček si avvicinò. Sotto i suoi passi, l'assito del ponteggio ondeggiava,
cosa che non poteva sfuggire a Liam, che non amava le grandi altezze. Meccanicamente si tenne con una mano al parapetto. «Nascosti, quindi?» «Certo. Non starebbero molto bene, se fossero in vista.» Il tecnico raggiunse il livello di Liam e indicò in alto. «Installare qualcosa che nessuno doveva vedere qui dentro sarebbe stato assai difficile», osservò. «Fuori, sul tetto, è diverso. Una volta che l'hanno posato, amen.» Naturalmente, pensò Liam, fin lì ci arrivo anch'io. È solo che non ho nessuna voglia di arrampicarmi su quel dannato tetto. «Come si arriva sul tetto, signor Peček?» «Mi chiami pure Jo. Tutti mi chiamano così. Non sono abituato a essere chiamato diversamente.» Peček lo guardò, scettico. «Sarebbe utile sapere dove, esattamente, sul tetto», aggiunse. «Il tetto è grande.» Liam si staccò dal parapetto e guardò in alto. Peček aveva ragione. Avrebbe potuto passare settimane intere a strisciare su quel tetto. Rifletti, Liam! Lo specchio deve essere installato in modo da consentire un collegamento diretto con l'altro specchio allo Scalo Merci. Deve esistere un secondo specchio! Non importa quello che dice Mahder. Paddy deve essere riuscito a installare un altro specchio in uno degli edifici di quell'area, in un modo o nell'altro. Perciò c'era soltanto un posto adatto. «Laggiù», disse, indicando il luogo in cui il puntone portante, che partiva dalla base del padiglione, si congiungeva col tetto. Peček socchiuse gli occhi. Poi estrasse un grande fazzoletto e si soffiò rumorosamente il naso. La sua flemma cominciava a dare sui nervi a Liam. Mahder era impazzito? Quando gli aveva raccontato cosa sarebbe successo, aveva forse parlato in cinese? «Non c'è nessuna uscita, lì», rispose Peček, mentre ripiegava con cura il fazzoletto e lo riponeva. «Venga, le faccio vedere.» Liam seguì il tecnico e si costrinse a non guardare giù. Le impalcature traballavano a ogni passo. Raggiunsero la fine del ponteggio, al punto d'incontro fra le pareti del terminal, e Liam si sentì prendere da una leggera vertigine. Come se non bastasse essere a sedici metri dal suolo, le vetrate lo ingannavano, dandogli l'impressione di essere sospeso nel vuoto, a pochi centimetri dall'abisso. Sapeva che il vetro lo proteggeva, ma l'informazione che arrivava al suo subconscio era che si trovava alla fine di un'asse e sarebbe precipitato. Involontariamente fece un passo indietro. Peček sogghignò. Evidentemente la paura di Liam lo divertiva.
Il tecnico staccò un'asta sottile da un sostegno e poi premette qualcosa. Appena sopra di loro, un rettangolo di circa quattro metri quadrati si estese verso l'esterno. Peček alzò le braccia e tirò giù una scala di alluminio. «Dopo di lei», disse. Liam esitò. Sentì un formicolio che gli attraversava la zona inguinale. «Perché non va avanti lei?» chiese. «Sa cosa stiamo cercando, no?» Peček gli lanciò un'occhiata compassionevole. Poi salì sulla scala e uscì all'esterno attraverso il lucernario. Liam lo vide alzarsi in piedi e guardare giù verso di lui. «Viene, professor O'Connor? Non vedo nessuno specchio, ma probabilmente non sto guardando come si deve.» Lo ha camuffato, scherzo dell'evoluzione che non sei altro, avrebbe voluto replicargli Liam. Con un respiro profondo, respinse la paura e afferrò i pioli della scala. «È sicuramente quassù», disse Peček. «Non le succederà nulla. Dopo di lei, verranno altre dozzine di persone a controllare che tutto sia a posto, perciò non faccia il coniglio!» Il tecnico rise. Liam strinse i denti e mise il piede sinistro sul piolo inferiore. Paura dell'altezza. Paura di cadere. Non c'era niente di peggio. Talvolta sognava di essere in equilibrio in cima a una torre, su una superficie minuscola, che diventava sempre più piccola, finché lui non riusciva più a tenersi e precipitava... Con decisione, cominciò ad arrampicarsi sulla scala. Il vento e la pioggia gli sferzarono il viso. Si issò fuori dal lucernario e si guardò intorno. Dietro di lui, il tetto si estendeva per centinaia di metri. In effetti, somigliava un po' a una fisarmonica. O forse ricordava un foglio piegato dozzine di volte in parallelo e poi aperto di nuovo. Tra le pieghe in rilievo, correvano sottili passerelle d'acciaio, sulle quali si poteva camminare. Erano state collocate con tale perizia che dal basso non si vedevano. Chi guardava in alto dal padiglione delle partenze vedeva soltanto vetro. Peček era su una di quelle passerelle e gli stava facendo cenno di raggiungerlo. Erano proprio ai margini del tetto; oltre quell'angolo c'era il vuoto. Sotto di loro, il piazzale era molto lontano. Le persone sembravano minuscole, le auto modellini. O'Connor guardò il gate a forma di stella che spuntava dal vecchio terminal e rabbrividì. Da lassù, perfino i jumbo che erano parcheggiati al gate sembravano giocattoli. Non c'era nessun tipo di protezione, niente parapetti o altro. «Allora?» Peček sembrava di ottimo umore. Andò all'estremità del tetto
e guardò giù. «Da dove cominciamo?» «Dall'angolo», rispose Liam. Gli sembrava di avere i piedi saldati alla superficie di vetro. Facendo ricorso a tutta la sua forza di volontà, raggiunse Peček, cercando d'ignorare l'abisso, ma era quasi impossibile. Alla sua destra c'era uno strapiombo di almeno venti metri. Se guardava davanti a sé, la situazione non cambiava. Peček fece ancora qualche passo, mantenendo l'equilibrio senza fatica, poi si accovacciò. Sporse il busto oltre il tetto. Liam si sentiva male soltanto a guardarlo. «Niente specchi», gridò Peček. Liam alzò lo sguardo al cielo e poi lo rivolse al punto in cui iniziava la super-runway. Più guardava lontano, meglio era. Stava atterrando un apparecchio della Lufthansa. Quando fu all'altezza del terminal, era già più in basso di lui. «Dia un'occhiata proprio all'angolo», suggerì all'altro. «Non c'è problema, capo.» Peček si spostò un metro più in là e ispezionò aste e tiranti, tastando il metallo ricurvo e arrotondato. All'improvviso si fermò. «Ehi, professor O'Connor!» «Che c'è, Jo?» «Non so se è quello che sta cercando, ma qui c'è una specie di sportello incassato. Una cosa che non c'entra per niente.» Liam si sentì pervadere da un'ondata di eccitazione. Per un attimo dimenticò la paura. A passi incerti, raggiunse Peček e si accovacciò accanto a lui. «Quanto è grande?» «Due spanne, direi.» «Riesce ad aprirlo?» Peček si sporse ancora di più ed emise un gemito. «È un po'... dura», disse ansimando. «Sia prudente, per amor del cielo!» Peček ansimò ancora più forte. Poi rise soddisfatto. «Che c'è?» chiese Liam, senza fiato. «Cos'ha trovato?» Peček gli rivolse un gran sorriso. «Come ci è arrivato? Come faceva a saperlo?» «Che c'è lì?» «La cosa migliore è che venga lei stesso a dare un'occhiata. Aspetti.» Il tecnico si alzò e fece un passo indietro. «Vada avanti strisciando. Non ci stiamo tutti e due. La tengo io da dietro.» Liam inspirò a pieni polmoni. Poi si mise carponi e avanzò centimetro dopo centimetro fino al bordo.
«Fra un attimo lo vedrà», disse Peček. Che cosa voleva dire «un attimo», per tutti i diavoli? Peček credeva forse che lui avesse le ali? La paura lo respingeva, come se un migliaio di mani premesse contro di lui. Provava quasi un dolore fisico a contrastarla. Sporse il capo in avanti e vide la superficie lucente della facciata che scendeva a picco. Nello spiazzo che separava il nuovo piazzale dal terminal, le persone sembravano formiche. Esaminò aste e tiranti con lo sguardo. «Non vedo nulla», gridò. «E nel tubo, lì sotto.» Il vento quasi copriva le parole di Peček. «Un po' rientrato. Se va avanti ancora un po', lo vede. Non abbia paura, la tengo io.» In qualsiasi altra circostanza, Liam avrebbe fatto ciò per cui Silberman, quel giorno stesso, lo aveva rimproverato: si sarebbe raddrizzato e se ne sarebbe andato. Il suo cuore prese a battere più forte. Con uno sforzo sovrumano, sporse anche le spalle oltre il bordo. «Roba da non credere», disse Peček alle sue spalle. «Chi l'avrebbe mai detto che il caro, vecchio Paddy fosse un tale furfante!» Paddy? Perché all'improvviso Peček parlava di Paddy? Liam alzò la testa di scatto. Si spinse all'indietro e rotolò su un fianco. Giusto in tempo per vedere Peček avventarsi su di lui con le braccia tese. Negli occhi del tecnico passò un lampo di odio, di collera e di consapevolezza. La consapevolezza di aver sbagliato. In un ultimo tentativo di salvarsi, Peček cercò un appiglio nel vuoto, poi scomparve oltre il bordo del tetto. Un breve urlo lacerante si allontanò a una velocità spaventosa. Poi cessò. Ansimando, Liam sbatté la schiena sul tetto e scivolò sulla superficie spiovente di vetro, verso l'altra estremità. Riuscì ad afferrare una delle sbarre che delimitavano le passerelle d'acciaio. Continuò a scivolare, dimenando le gambe, cercando di tornare al lucernario. Sotto di lui, la superficie di vetro scricchiolava. Mosso dalla paura, si aggrappò alla sbarra successiva, raccolse tutte le sue forze e si proiettò in avanti. La sua spalla andò a sbattere contro qualcosa di duro. Lui si sollevò, vide il lucernario davanti a sé e cercò di raggiungerlo. Con un rumore simile a una cannonata, il vetro s'infranse sotto i suoi piedi, trascinandolo inesorabilmente con sé. Il fragore della lastra di vetro che andava in mille pezzi gli squarciò i timpani. Poi, con un dolore lancinante, Liam sbatté su qualcosa.
Si ritrovò disteso sulle tavole del ponteggio, a sedici metri dal pavimento del padiglione delle partenze. Ma la sua mente continuava a precipitare in modo inarrestabile. Cadde in un pozzo infinito e tenebroso, mentre il rettangolo di luce sopra di lui diventava sempre più piccolo. Si sarebbe sfracellato. L'impatto avrebbe polverizzato ogni osso del suo corpo. Ma il pozzo sembrava senza fondo e Liam continuava a precipitare rapidamente, sempre più in profondità, finché le sue molecole non vennero frantumate dalla velocità inumana. Allora capì che era stato risucchiato in un buco nero, nella famigerata singolarità di Stephen Hawking, nel tunnel cosmico. Dall'abisso spuntò qualcosa di nero che risalì verso di lui. «Lo sa cos'è un acceleratore di particelle?» si sentì dire, con un bicchiere in mano. «Sì», rispose una gentile hostess. «Sì, penso che sia qualcosa di simile a lei. È stato un piacere averla a bordo, professor O'Connor. Adesso lei morirà. Le auguriamo buon viaggio.» Incapace di urlare, Liam precipitò nel suo abisso personale. Air Force One «Honk!» Quando Bill Clinton si soffiava il naso, lo faceva con un certo strepito. Si diceva che quel rumore ricordasse il verso di un'oca selvatica. Il paragone era stato fatto da Robert Reich, il segretario del Lavoro nei primi quattro anni della presidenza Clinton, dunque da un uomo che ne sapeva qualcosa. La sua conoscenza delle abitudini di Clinton era iniziata a Oxford, dove entrambi avevano alloggiato nei vecchi cortili interni, in una specie di rito di passaggio all'età adulta dopo gli studi di legge. Cosa che a Clinton non era mai riuscita pienamente. Era diventato un eccellente giurista, però mai davvero adulto. «Honk!» Norman Guterson, il responsabile della sicurezza di Clinton, era seduto di fronte al presidente, con la cintura di sicurezza allacciata, in una delle confortevoli poltrone bianche che avrebbero fatto bella figura anche in un attico arredato con gusto. Guterson immaginò uno stormo di oche che volavano alto, battendo energicamente le ali e starnazzando: «Honk!» Sì, era tutta colpa di Reich. Da quand'era stato pubblicato il libro che l'ex segreta-
rio del Lavoro aveva scritto sul suo ruolo nell'amministrazione Clinton, Guterson non poteva più sentire il presidente starnutire o soffiarsi il naso senza pensare alle oche. Clinton appallottolò il fazzoletto di carta e tirò su col naso un'altra volta. «Maledetto polline!» esclamò. «È l'aria secca dell'aereo», osservò Guterson. L'altro lo guardò, ridacchiando. «Sciocchezze, Norman. È Washington. Mi rimane attaccata ai vestiti.» «Colonia è meglio», lo rassicurò Guterson. Clinton soffriva di varie allergie. Qualsiasi cosa fiorisse gli provocava lacrimazione e gli faceva colare il naso. La prospettiva di governare il Paese per due mandati consecutivi non lo aveva spaventato al pari di quella di dover sopportare Washington, la capitale mondiale del polline. «Colonia si trova in un avvallamento, vero?» chiese. «Tutto ristagna: l'aria, la pioggia, il polline. Probabilmente non smetterò mai di starnutire.» «Chi lo dice?» «Morris.» Guterson scosse il capo. Dick Morris era un caso a parte. Si diceva che nel '96 avesse vinto la seconda elezione per Clinton, sacrificando la politica delle sublimi intenzioni a una strategia basata su sondaggi e ricerche di mercato. Alla fine del primo mandato di Clinton, i valori del presidente erano scesi a un livello preoccupante agli occhi dell'opinione pubblica, nonostante il benessere economico del Paese. Clinton aveva ancora cercato di fare ciò che gli sembrava giusto. Morris, invece, aveva puntato ai voti degli indecisi, un voto di cui avevano urgente bisogno. Perciò, a metà degli anni '90, aveva avviato una ricerca di mercato senza precedenti, per determinare ciò che gli elettori incerti si aspettavano. Qualsiasi cosa i cosiddetti swing voters vedessero di buon occhio, la raccomandava al presidente. Era stato sempre Morris a eliminare completamente termini come «problema» e «crisi» dalla campagna elettorale. Clinton non doveva discutere di «problemi», ma emanare un incrollabile ottimismo. Il piano aveva funzionato e Morris e i suoi si erano autocelebrati come artefici del ritorno del presidente, mentre i ceti sociali più deboli finivano sempre più nel dimenticatoio. Le loro preoccupazioni non erano «popolari». Da allora i critici di Clinton, soprattutto nel suo partito, avevano fatto notare che il presidente si era venduto alle ricerche di mercato. Forse era un'accusa esagerata, però valutava in modo abbastanza corretto una politica che non mirava tanto a risolvere le effettive difficoltà del Paese, quanto a impressionare il ceto medio
indeciso. In altre parole: non bisogna risolvere i problemi degli Stati Uniti, ma ciò che il ceto medio ritiene un problema. Alla fine del primo mandato, le decisioni politiche della Casa Bianca sembravano influenzate soltanto da Morris e dalle sue ricerche di mercato. Mentre in precedenza Clinton ascoltava punti di vista diversi riguardo a ciò che poteva essere buono e giusto per gli Stati Uniti - perché era ancora contemplata la volontà di un cambiamento - ormai non si faceva che guardare ai sondaggi d'opinione. Guterson sapeva che non si trattava più di un fenomeno soltanto americano. Molti politici si affidavano a consulenti come Morris, che esorcizzavano anche gli ultimi princìpi rimasti, in relazione alla loro appetibilità sul mercato. Così in tutto il mondo erano nate superstar politiche ai vertici di partiti mediatici, il cui carisma oscurava l'assenza quasi totale d'idee e di progetti. Personaggi come Tony Blair e Gerhard Schröder si erano presentati come luminose figure di speranza, avevano drasticamente ridotto l'età media della politica, facevano i compagnoni, ammiccavano e, nel frattempo, si chiedevano cosa potesse piacere al popolo. Se poi quella certa cosa non piaceva, le ricerche di mercato correggevano la strategia. E alla fine tutto quadrava, più o meno. Negli ultimi tempi, Clinton aveva ritrovato alcuni princìpi ed era riuscito addirittura a vincere la battaglia contro l'inquisizione repubblicana. Paradossalmente era stato proprio il «Monicagate», ingigantito dai repubblicani, a rendere Clinton più forte e sicuro di sé. Era riemerso il caro, vecchio Bill dell'Arkansas, un irrefrenabile ottimista, capace di prendere decisioni non convenzionali a dispetto di qualsiasi istanza politica e senza passare per i canali ufficiali. Da un lato, era una cosa positiva, perché venivano prese delle decisioni; tuttavia, per la stessa ragione, era una cosa negativa, perché nessuno sapeva mai con chi stesse discutendo il presidente e di cosa. Clinton chiedeva consigli a chi gli pareva, anche al portiere di notte o alla donna delle pulizie, se lo riteneva giusto. Allo stesso modo, anche le sue informazioni su Colonia probabilmente non derivavano dal dossier che era stato faticosamente preparato per lui. Ancora una volta aveva chiesto a tutte le persone possibili e immaginabili. Morris aveva detto questo, tizio aveva detto quello... L'immagine della realtà di Clinton era, come sempre, frammentaria e come sempre il presidente sarebbe riuscito comunque a usarla al meglio. Come sapevano bene Guterson e tutti coloro che stavano intorno a Clinton, era quella la sua vera forza, la sua genialità. Avrebbe dato a Colonia l'impressione di essere la città più bella e più importante per lui, a livello
personale. Ogni abitante di Colonia che lo avesse guardato negli occhi si sarebbe convinto di essere una persona speciale. Era stato esattamente così a Parigi, da dove l'Air Force One era decollato venti minuti prima. Dopo il pranzo con Chirac, il presidente era andato a mangiare un gelato. Clinton sulla terrazza di un bistrot, a fare il galante con una cameriera, poi il bagno di folla non previsto dal cerimoniale, le strette di mano, le chiacchiere. Quello era Clinton. Il sogno della star abbordabile, l'incubo delle sue guardie del corpo. Guterson accavallò le gambe. «Morris non è mai stato a Colonia. Non ha idea di cosa sia. Le piacerà, signor presidente», disse in tono sprezzante. «Il programma mi piace», replicò Clinton. «Schröder è un tipo molto più allegro di Kohl. Ha un sarto migliore, gli piacciono gli Stones e sua moglie non dà costantemente l'impressione di guardare un film proiettato sulla parete. È gente molto carina.» «Vuole davvero andare al concerto degli Stones?» chiese Guterson. «Perché no? Quand'è? Domenica! Non sia così noioso, Norman. Tira sempre in ballo la storia della sicurezza. Non so ancora se ci vado. Gli Schröder volevano uscire a cena con me e Hillary...» «Signor presidente...» «Ma ho promesso a Chelsea di fare il possibile. Lei ci andrà comunque.» Il presidente allungò le braccia e sbadigliò. «Lei non può capire, Norman. Non ha figli.» «No, signore.» «Quanto ritardo abbiamo?» «Circa venti minuti.» «Questa è una seccatura, Norman. La prossima volta m'informi a terra che siamo in ritardo, non soltanto dopo che siamo decollati. È compito suo e del responsabile del protocollo... A dire la verità, non m'importa affatto di chi sia compito. In ogni caso, non ho certo voglia di ricordarmi anche gli orari delle partenze.» «Mi spiace, signor presidente», replicò Guterson. «Non succederà più.» Clinton fece un sorriso conciliatorio. Era un altro suo aspetto straordinario. Ai brevi temporali seguiva quasi istantaneamente il sole. Era capace di essere molto diretto, tuttavia non serbava mai rancore. In effetti, il protocollo aveva tralasciato d'informarlo per tempo del ritardo. La ragione erano i controlli di sicurezza, causati soprattutto dal lungo bagno di folla di Clinton a Parigi. Ma naturalmente il problema non poteva essere attribuito al presidente.
L'Air Force One fece una virata e scese ulteriormente di quota. Guterson guardò fuori dal finestrino, tuttavia non vide granché, a parte un tappeto di nuvole. Gli piaceva quando il presidente restava seduto lì durante l'atterraggio, invece di trattenersi nelle sue stanze. L'Air Force One offriva al presidente e alla sua famiglia una suite completamente arredata con una confortevole camera da letto, uno spogliatoio, vasca da bagno, doccia e toilette, oltre a un ufficio completamente attrezzato. Inoltre a bordo c'era una sala da pranzo per la famiglia del presidente e il suo staff, che veniva utilizzata anche come sala riunioni. C'erano molte possibilità di ritirarsi in privato e numerosi presidenti le avevano sfruttate. Clinton era troppo alla mano. Preferiva starsene a chiacchierare con gli agenti della sicurezza e l'equipaggio. «Com'è il tempo?» chiese distrattamente. «Piove», rispose Guterson. «Voglio assolutamente andare in quella birreria.» Altra sua cosa tipica: cambiare argomento. La mente di Clinton non si concedeva soste, elaborava varie cose contemporaneamente. Guterson era preparato. Con Clinton non ci si annoiava mai. Era rapidissimo, capace d'improvvisare in qualsiasi situazione in modo molto creativo. Se era dell'umore giusto, ci si divertiva un mondo con lui. Con Clinton, le visite di Stato erano sempre una miscela tra seri fatti politici e preparativi per sbevazzate in stile studentesco, comprensive di barzellette sporche, scherzi sciocchi e grida di giubilo. Come ci si poteva aspettare, il presidente aveva subito colto gli aspetti più divertenti di Colonia. Quando gli era stata descritta la mentalità dei coloniesi e gli avevano detto che in città c'erano diverse birrerie tipiche nonché una birra dal gusto molto gradevole, si era entusiasmato. «Dobbiamo andare a vedere uno di quei posti», aveva annunciato, gettando Guterson nella consueta disperazione. Almeno l'aveva detto. Era stato abbastanza difficile abituarlo ad avere un po' di considerazione per le persone che si dovevano occupare della sua sicurezza e che si ritrovavano coi capelli ritti ogni volta che lui faceva uno strappo al protocollo. Non che intendesse bistrattare quelle persone. Ma aveva voluto diventare presidente e, nel contempo, desiderava continuare a vivere come il simpatico ragazzo della porta accanto, che va a bere una birra o a fare jogging quando ne ha voglia. In qualche modo, Clinton non voleva capire che l'uomo più potente del mondo non poteva avere la stessa libertà d'azione di uno studente. Perciò, diverse settimane prima, avevano cominciato a fare il giro delle
birrerie di Colonia, per preparare la visita del presidente. Avevano controllato la Malzmühle, la Päffgen, la Sion e la Küppers, si erano guardati in giro e avevano assaggiato interi menu. Naturalmente Clinton sapeva cosa stavano facendo. Tuttavia avevano intimato ai proprietari dei locali di trattare la questione in modo confidenziale e di non raccontare a nessuno che, forse, tra il 17 e il 22 giugno, il presidente degli Stati Uniti si sarebbe presentato lì all'improvviso per ordinare una Kölsch. Non volevano rovinargli il divertimento. Doveva sembrare una cosa spontanea. Per lui era un divertimento, per il suo staff un altro mattoncino nell'edificio del menefreghismo presidenziale. Sapevano che cose del genere erano ben viste dall'opinione pubblica. Se all'improvviso il presidente desiderava bere una Kölsch, più la cosa era spontanea meglio era. Sembra tutto a posto, pensò Guterson, mentre l'enorme apparecchio si abbassava sempre di più. Non avevano ricevuto nessuna comunicazione allarmante. Chiuse gli occhi per un momento. Non si rilassava mai. In quanto responsabile della sicurezza del presidente americano, non poteva rilassarsi. Forse poteva essere pacato, ma sempre all'erta. Perfino a bordo dell'aereo civile più attrezzato e meglio armato del mondo. Per quattro anni, generali, esperti di sicurezza, agenti dei Servizi segreti e ingegneri avevano lavorato a quell'apparecchio da un milione di dollari. L'Air Force One era una sede del governo e, nel contempo, era una fortezza volante. Attrezzato con sistemi di allarme e di difesa contro missili a guida radar o a guida infrarossa. Aveva un isolamento tale da rendere la sua rete di comunicazioni immune perfino dai disturbi elettromagnetici conseguenti a un'esplosione atomica. Nel ventre dell'Air Force One erano nascosti quattrocento chilometri di cavi e sessanta antenne. Dozzine di telefoni a prova di cimici, radio e fax collegavano l'aereo presidenziale col mondo esterno. Se Clinton voleva, mentre era in volo a diecimila metri, poteva chiacchierare col comandante di un sottomarino nucleare in fondo all'oceano. L'Air Force One riceveva immagini da tutto il mondo, su diciannove schermi televisivi. C'erano sempre a bordo dieci piloti, le provviste erano sufficienti per duemila pasti, c'erano una sala operatoria e un'équipe di medici qualificati. Quel giorno, inoltre, a bordo c'era pure un centinaio di agenti dei Servizi segreti. E l'Air Force One aveva in serbo anche qualche trucco aggiuntivo, di cui nessuno faceva mai parola. Di conseguenza, le speculazioni degli esterni andavano dalle capsule di salvataggio alle armi nucleari. L'Andrew Air Force Base, dove l'Air Force One era di casa, si trincerava dietro un eloquente silenzio, ma in un modo o nell'altro era chiaro che pro-
babilmente non esisteva un luogo al mondo più sicuro di quell'aereo. Guterson riaprì gli occhi. Non c'era nessun luogo sicuro al mondo, soltanto persone che rendevano sicuro un luogo. I suoi uomini. Senza la minima scossa, la fusoliera bianca e blu del Boeing 747-200B, che recava sull'impennaggio il numero 29000, s'immerse nelle nuvole. L'Air Force One aveva iniziato la sua discesa su Colonia. Terminal 2 L'urlo non era stata la cosa peggiore. Piuttosto era stato tremendo il modo in cui si era interrotto quando il corpo di Josef Peček si era schiantato fragorosamente sul tettuccio della camionetta della polizia parcheggiata davanti al terminal. Sembrava che qualcuno avesse sparato una granata contro un gong. Il braccio sinistro dell'uomo scivolò dal tettuccio e si mise a penzolare. La cosa peggiore era la certezza che quell'uomo era morto. Peček era morto. O'Connor no. Mahder cominciò a tremare dalla testa ai piedi. Si sentiva come se avesse un attacco di febbre altissima. Era rimasto ad aspettare all'interno del terminal, intrattenendosi con uno degli operai, mentre teneva sott'occhio la striscia di sabbia tra la facciata e il piazzale. Si aspettava la caduta. Però non doveva essere Peček a precipitare. L'operaio accanto a lui si mise a correre verso il luogo dell'incidente. I due poliziotti che, subito dopo l'impatto, erano saltati giù dal veicolo con le armi in pugno, riparandosi dietro di esso, si arrampicarono sulle fiancate del furgone. Anche altri si avvicinarono. Solo Mahder rimase immobile, come se avesse piantato radici. Mahder, che non riusciva a capacitarsi di ciò che era successo. Inorridito, guardò il sangue scorrere lungo il braccio penzoloni di Peček, mescolarsi con la pioggia e gocciolare sulla sabbia. Fu preso dal panico. Fino a quel momento, aveva saputo cosa fare. Quando O'Connor, nel suo ufficio, aveva capito tutto, Mahder non si era scomposto. Aveva svolto il suo ruolo alla perfezione. Era andato nel locale comunicante e aveva telefonato a Jana tramite la FROG. Sapeva bene che non erano previste chiamate, se non in caso di emergenza. Però quella era, appunto, un'emergenza. O'Connor non doveva raccontare ad altri ciò che aveva scoperto.
Rapidamente, con pochissime parole precise, aveva spiegato tutto. La risposta di Jana era stata altrettanto laconica e chiara, benché in qualche modo distorta dalla gomma da masticare di Cordula Malik. Un altro elemento bizzarro in una situazione già di per sé folle. «Un incidente? Ragazzi! Da un ponteggio? O forse dal tetto? Devi verificare.» Lei si trovava in mezzo ai giornalisti - Mahder lo sapeva -, però aveva parlato in tono normale, come se stesse ricevendo una semplice informazione. Sempre che qualcuno la stesse ascoltando. Poi Mahder aveva portato O'Connor al terminal, continuando a fingere di telefonare a Lavallier. Aveva aspettato che lo scienziato salisse sui ponteggi. Quindi era corso via, come se avesse avuto il diavolo alle costole, e aveva ordinato telefonicamente a Peček di raggiungerlo. Era andato in auto al checkpoint per ricevere il tecnico. In quanto direttore del reparto manutenzione, Mahder poteva entrare nel terminal in qualsiasi momento, ma Peček no, soprattutto non in quelle ore. Mahder aveva sperato e pregato che non ci fossero difficoltà e non ce n'erano state. Peček era entrato, lui l'aveva accompagnato in auto al terminal e, mentre guidava, aveva telefonato a O'Connor, facendogli credere di aver parlato con Lavallier, per poi mandare Peček a fare il suo sporco lavoro solo qualche minuto più tardi. Peček era caduto dal tetto. E dov'era O'Connor? Si sforzò di tranquillizzarsi. Jana ormai doveva essere nella zona di sicurezza. Probabilmente si trovava in mezzo a una marea di giornalisti. Restava un unico segnale trasmissibile per via telefonica. Jana non avrebbe reagito a nient'altro. Non avrebbe potuto, circondata com'era. Rimaneva soltanto quella parola, prevista per l'improvviso fallimento dell'operazione. Ognuno di loro aveva l'opzione di comunicarla agli altri telefonicamente, per poi chiudere subito la comunicazione. La parola era «interruzione». Dipendeva tutto da Mahder. Ma sarebbe stato lui a darne conto. E con una motivazione maledettamente buona. Interrompere l'operazione significava disintegrare in un batter d'occhio una delle due possibilità alle quali avevano lavorato per mesi. Forse addirittura l'unica. Interruzione. Mahder immaginò di telefonare a Jana, di pronunciare quella parola e di riagganciare. Lei avrebbe lasciato subito l'area di sicurezza. Era tanto difficile entrarci quanto era facile uscirne.
Il semplice pensiero lo faceva sentire male. Non aveva il coraggio necessario. Solo in quel momento, vedendo il cadavere sfracellato di Peček che veniva sollevato dal tettuccio del furgone, Martin Mahder si rese conto della situazione in cui si era cacciato. Era successo appena dopo Capodanno, quando Mirko lo aveva avvicinato per conto di Jana, per convincerlo a partecipare al progetto. Gli avevano offerto un milione. Avevano scoperto che prendeva bustarelle dai fornitori, per finanziare il suo stile di vita troppo dispendioso e la sua passione per il gioco. Se lo sapevano loro, anche altri avrebbero potuto saperlo. Quindi gli avevano offerto la soluzione a tutti i suoi problemi. Sapevano che avrebbe accettato. La corruttibilità era un aspetto del carattere. C'erano persone incorruttibili e altre che invece cedevano subito. Individui senza spina dorsale che si vendevano al miglior offerente, esseri amorfi per natura. In altre parole, maiali. Ma, con un milione, lui sarebbe stato un maiale alquanto ricco. Eppure, in quel momento, Mahder si maledisse, augurandosi di sprofondare in un abisso infernale, per non aver resistito alla tentazione. Fissò Peček, poi fece dietrofront, corse fino alla tromba delle scale e raggiunse il padiglione delle partenze. Anche lì c'era una certa ressa intorno all'impalcatura, appena sotto il punto da cui era precipitato Peček. Alcuni andavano avanti e indietro sul livello superiore del ponteggio o si chinavano sopra una sagoma che vi era distesa. Era proprio l'impalcatura sulla quale aveva mandato O'Connor, ben sapendo che lassù non c'era nessuno specchio. Non poteva essere lì: l'altezza era insufficiente. I due specchi che Paddy e Jo avevano installato - sotto la sua vigilanza e nel corso di svariate notti - erano altrove. Nessuno li avrebbe trovati. Nessuno ne era al corrente. Mahder non aveva registrato quegli incarichi, perciò non avevano mai avuto luogo. L'unica cosa che poteva ancora andare storta era che O'Connor risolvesse pure quell'enigma. Sempre che fosse in grado di risolvere enigmi. Mahder si avvicinò. La sagoma era immobile sulle tavole del ponteggio. Una delle vetrate del tetto si era frantumata. A quanto sembrava, O'Connor, cadendo, aveva rotto il vetro, per poi atterrare tre metri più giù, sul ponteggio. Tre metri non erano molti, ma forse abbastanza per una commozione cerebrale o, nel migliore dei casi, per spezzarsi l'osso del collo. Tempo. Avevano bisogno di tempo.
Mahder sentì passi rapidi alle sue spalle. Si girò e vide diversi infermieri, un poliziotto e una poliziotta che correvano verso di lui. Istintivamente pensò alla fuga. Si costrinse a rimanere calmo. Gli infermieri e gli agenti gli passarono accanto, diretti verso la parete del terminal. Li seguì con lo sguardo e poi alzò gli occhi al livello superiore dei ponteggi. La sagoma si mosse. Da sopra le tavole, spuntò la testa di O'Connor. Lo scienziato cercò di sollevarsi e poi si accasciò nuovamente. Poliziotti e infermieri cominciarono ad arrampicarsi sul ponteggio. Era vivo. Peček aveva davvero mandato tutto in malora. Mahder era insensibile, intorpidito. Non aveva idea di cosa fare. Con le gambe pesanti come piombo, si avvicinò alla facciata di vetro e guardò giù. Era arrivata l'auto del medico del pronto intervento e la zona pullulava di uomini in uniforme e in camice bianco. Il corpo di Peček fu disteso su una barella e coperto con un lenzuolo. Lavallier avrebbe bloccato tutto? O'Connor avrebbe puntato il dito contro Martin Mahder, l'uomo che da quattordici anni svolgeva il proprio lavoro in maniera irreprensibile? L'avrebbe accusato di avergli messo alle costole un killer? Guardò l'orologio. Forse sarebbe stata una corsa contro il tempo, ma Jana poteva ancora farcela. Erano stati sfortunati. Paddy. Peček. O'Connor. Inoltre pioveva. Come se tutto congiurasse contro di loro. Ma la pioggia non era molto intensa e in lontananza s'intravedeva una schiarita. Solo pochi minuti! Jana aveva bisogno soltanto di pochi minuti. Fu sopraffatto dallo scoraggiamento. Jana avrebbe potuto anche farcela, ma che ne sarebbe stato di lui? Il suo ruolo nella partita era stato compromesso. Guardò fuori, verso il piazzale. Sospeso in aria, proprio davanti ai suoi occhi, c'era un possente aeroplano. Era così vicino e volava così basso che gli sembrava di poterlo toccare, allungando la mano. Sotto il massiccio dorso bianco era scritto a caratteri cubitali UNITED STATES OF AMERICA. Il muso del jumbo risplendeva di un azzurro intenso, il ventre e i quattro propulsori CF6 erano di un gradevole color verde menta chiaro. Sull'impennaggio spiccava la bandiera a stelle e strisce. L'Air Force One sfilò maestosamente davanti a Mahder e posò le sue trecentosettantacinque tonnellate sulla super-runway con una certa delica-
tezza. Mahder lo seguì con lo sguardo. Poi andò verso la tromba delle scale, dapprima sforzandosi di camminare lentamente, poi sempre più in fretta. Sulle scale si mise a correre, facendo diversi gradini per volta. Corse fuori dal terminal, salì sull'auto e si allontanò. Jana e i suoi compari si erano intromessi nella sua vita. Non gli avevano lasciato scelta se non quella di commettere un tradimento. Qualsiasi cosa succedesse nei minuti successivi, alla fine qualcuno se la sarebbe presa con lui. Sarebbe finito in tribunale e lo avrebbero condannato per concorso in omicidio. Aveva una casa e una famiglia. In carcere non avrebbe avuto niente di tutto ciò. Perciò gli conveniva sparire dalla circolazione e conservare almeno la libertà. Gli dovevano comunque un milione. Poteva esigere quel denaro. Un milione era sufficiente per rendere meno sgradevole l'addio. Kika Wagner Sommessi suoni sinusoidali composero una melodia. Le sue dita scivolarono sui tasti del cellulare e sul display comparve il numero di Liam. Alla fine la nostalgia di lui e la preoccupazione per Kuhn si erano coalizzate in una doppia argomentazione, incalzando Kika in modo insopportabile, mentre lei era ancora impegnata nella trattativa con quelli della televisione. Aveva osservato abbastanza le regole del gioco. E poi, chi avrebbe saputo applicarle meglio di Liam? Aveva lasciato passare un tempo sufficiente. Abbastanza per dimostrare almeno a se stessa, se non a lui, la sua indipendenza. Un'impresa stupida, lo sapeva benissimo, dietro la quale si nascondeva ancora l'immutata, misera paura del rifiuto e della delusione. Se non altro, però, quell'impresa, ammantata nel decoroso mantello grigio della ragione, aveva acquisito una certa rispettabilità. I suoi interlocutori erano stati gradevoli. Naturalmente la questione era il denaro. La casa editrice, nella persona di Kika, aveva sventolato un assegno, ottenendo in cambio un certo impegno a prendere in considerazione le nuove pubblicazioni. Nessuno avrebbe avuto da ridire più di tanto su
un'ingerenza di quel tipo. La trasmissione era presentata come neutrale, ma dopotutto non si compravano recensioni positive. Si acquisiva soltanto la promessa di essere recensiti. Cosa che, come dimostravano certe epiche stroncature, faceva comunque bene agli affari. In un certo senso, le modalità di quell'accordo si addicevano ai tempi. Si poteva vendere soltanto ciò che recava un'etichetta e le personalità pubbliche non facevano eccezione. Kika lasciò il casermone dell'emittente televisiva e, mentre componeva il numero, uscì nel parcheggio. Aveva cominciato a piovigginare. Accelerò il passo. Mentre si avvicinava alla Golf, sentì il segnale di libero. Sorrise. Dopo essersi tormentata tanto - decidendo poi di fare ciò che avrebbe voluto fare già da un pezzo - non vedeva l'ora di sentire la sua voce. Si sentì un fruscio, poi una voce di donna: «Pronto?» Kika trasalì e si fermò di colpo. «Vorrei parlare col professor O'Connor», disse, esitante. Probabilmente ho sbagliato numero, pensò. Oppure aveva addirittura sbagliato ad annotare il numero? La prima possibilità non era un problema; la seconda sarebbe stata una seccatura. La donna tacque per un qualche istante. Poi disse: «Il professor O'Connor ha avuto un incidente. Non può parlarle». Le parole erano suonate fredde, quasi lapidarie. «Un incidente?» fece eco lei, in tono piatto. «Che tipo d'incidente?» «È caduto. Chi parla?» «Kika», rispose, sempre inespressiva. «Sono la sua...» Esitò. Le frullarono in testa mille pensieri confusi. Paddy, Kuhn, Liam, l'aeroporto, gli arrivi, Lavallier, il sospetto che potesse succedere qualcosa di terribile, la certezza che era già cominciato, che era già successo. Aveva avuto un incidente. Che significava? Sentì un groppo in gola. «È...?» «No», rispose la donna. In sottofondo si sentivano altre voci. Sembrava che le stesse parlando da un capannone. «Il professor O'Connor ha sfondato una lastra di vetro. Ha numerose ferite da taglio, ma all'apparenza niente di rotto.» «Perché non posso parlargli?» «Ha perso conoscenza. Non sappiamo se sia una cosa grave. Forse è una commozione cerebrale. È successo qualche minuto fa. Lei è una parente?» «Sono la sua... addetta stampa. E lei chi è?» «L'ufficiale di polizia Gerhard.» «Oh, Dio mio! E dove vi trovate?»
«All'aeroporto. Terminal 2.» «Devo vederlo», esclamò Kika. «La cosa migliore è che lei venga alla stazione di polizia. Sa dov'è?» Kika fissò il parcheggio sotto la pioggia. Fece di corsa gli ultimi metri per raggiungere la sua auto. Piazzale Merci Ovest Jana provava una tranquillità quasi ultraterrena. Anche il fatto che piovesse non cambiava molto le cose. Comunque la pioggia non era molto intensa. Ma, anche se lo fosse stata, lei avrebbe dovuto rassegnarsi. Tutti i partecipanti all'operazione sapevano fin dall'inizio che una pioggia intensa avrebbe potuto compromettere l'impresa. Anche il Cavallo di Troia lo sapeva. E, se quel giorno non avesse funzionato, avrebbero avuto comunque una seconda chance, al momento della partenza di Clinton. Sarebbe stato fastidioso continuare a mantenere una doppia identità fino ad allora, oscillando tra Laura Firidolfi e Cordula Malik. Però forse la seconda chance era addirittura la migliore. Per il volo di ritorno, il presidente avrebbe attraversato la pista di rullaggio insieme con la moglie Hillary e la figlia Chelsea. Sarebbero state al suo fianco nel momento cruciale, proprio come Jackie Kennedy quando avevano sparato al marito, a Dallas. Nessun direttore di rete televisiva avrebbe potuto sperare in immagini migliori. La faccenda di Clohessy era stata irritante. Come lo erano il rapimento dell'editor e il fatto che lui fosse riuscito a mandare un SMS a quella donna. Sì, erano una grossa seccatura. Ma la cosa peggiore era ciò che Mahder le aveva comunicato poco prima: O'Connor sapeva. Jana poteva immaginare come lo avesse scoperto. Era un fisico e si occupava della luce. Era inevitabile che sapesse cos'era uno YAG. Probabilmente era riuscito a decifrare il messaggio di Kuhn. Il passato non si poteva cambiare. Non c'era motivo di prendersela. Jana aveva deciso di andare avanti. Non rimaneva che concentrarsi su quello. A quanto sembrava, nella sfortuna erano stati fortunati. Chissà come, Mahder aveva risolto il problema. L'operazione non era stata interrotta. Nessuno aveva comunicato alla stampa che Clinton non sarebbe atterrato al Colonia/Bonn, che il suo volo era stato dirottato altrove. La Tenda Stampa non era stata invasa da soldati armati, pronti ad arrestare tutti i pre-
senti. Davanti a Jana si accalcavano i giornalisti, con macchine fotografiche e microfoni. Lei si era ritirata nell'ultima fila. Per quello che aveva intenzione di fare non soltanto era sufficiente, ma era addirittura meglio. Anche se partiva dal presupposto che, dopo l'attentato, tutti i giornalisti - lei compresa - sarebbero stati trattenuti per ore, non avere nessuno alle spalle era sempre la mossa migliore. Non si era trattenuta a lungo nella Tenda Stampa, dove i giornalisti rimuginavano sul vertice, intorno ai tavolini su cui c'erano acqua e panini. Aveva bevuto un bicchiere d'acqua ed era andata alle transenne. Alla stampa era stata riservata una postazione molto spaziosa, che permetteva di dominare con lo sguardo il piazzale, gli aerei in arrivo, i politici e la Tenda VIP. Al di là del capannone insonorizzato si estendeva un'altra serie di transenne, che attraversavano il piazzale in senso longitudinale e separavano la Zona Merci Ovest dal General Aviation Terminal. Il convoglio di Clinton avrebbe percorso quel corridoio transennato. Non si sapeva se il presidente avesse intenzione di salire subito a bordo della limousine oppure di rivolgere qualche parola alla stampa, prima. I giornalisti speravano in qualsiasi piccolezza, possibilmente in qualcosa d'insolito. Ma, per quello, quasi tutti riponevano aspettative ancora maggiori in Eltsin. Ricordavano benissimo che, durante la sua ultima visita in Germania, l'orso russo aveva prima dimenticato il nome di Helmut Kohl e poi si era messo a dirigere l'orchestra dell'esercito tedesco. Per la gioia dei giornalisti presenti e con grande rincrescimento di tutti gli altri, si era messo addirittura a cantare. Sembrava che avesse svuotato tutte le bottiglie di vodka della Russia. La stampa ne era stata più che entusiasta. Clinton era Clinton. Tutti lo volevano, si accalcavano e si struggevano per lui, ma in fin dei conti non era divertente come lo zar Boris. Jana guardò la Tenda VIP. Soltanto la stazione televisiva WDR aveva ottenuto due tribune, una su ogni lato della tenda, che sarebbero state direttamente di fronte all'Air Force One. Un palco privilegiato per la televisione pubblica. E quali immagini avrebbero ripreso! Davanti a lei, cominciarono a risuonare grida e chiamate. D'un tratto, tutti si accalcarono contro le transenne. C'era chi sollevava la macchina fotografica sopra la testa e scattava le prime immagini. Sul lato opposto del piazzale, a qualche centinaio di metri di distanza, Jana vide ciò che eccitava tanto i presenti.
L'Air Force One passò sulla pista di rullaggio e scomparve per qualche istante dietro il capannone insonorizzato. Il rumore dei propulsori cominciò a diminuire e poi cambiò ancora quando l'apparecchio si girò di centottanta gradi e tornò indietro. Nel giro di pochi secondi, sarebbe stato di nuovo visibile e molto più vicino. Si sarebbe fermato e il presidente sarebbe sceso sulla passerella, facendo un cenno di saluto. Jana impugnò la Nikon e attese. Tenda VIP Fondamentalmente non era diverso dall'atterraggio di un jumbo. Eppure si trattava di un'esperienza quasi mitica. Ciò che smentiva qualsiasi routine era la certezza dell'identità del passeggero. Ai ministri degli Esteri e ai ministri dell'Economia c'erano abituati, ma a momenti come quello non si sarebbe abituato nessuno. In un batter d'occhio, buffet, divani e tavolini erano stati abbandonati. Quando, da dietro il capannone insonorizzato, spuntò la cabina di pilotaggio azzurra, nessuno riuscì più a trattenersi. I VIP abbandonarono il loro rifugio e uscirono all'aperto, per non perdersi nemmeno un istante di quell'evento storico. Per i delegati del ministero degli Esteri che si dovevano occupare del protocollo, i funzionari del protocollo e i quaranta membri dell'ambasciata americana, iniziava il momento più edificante; per gli agenti di sicurezza, la seconda fase. L'atterraggio si era concluso. Anche durante il rullaggio c'erano momenti pericolosi. Naturalmente l'Air Force One godeva della massima sicurezza quando si trovava ad alta quota, dove in teoria poteva rimanere sino alla fine dei tempi, dato che poteva essere rifornito in volo di carburante e di ossigeno. Nonostante tutti i suoi sistemi di difesa, decollo e atterraggio erano fasi critiche. Ma il momento più critico doveva ancora arrivare. Non appena Clinton lasciava la fortezza volante, il bersaglio di possibili attentati non era più l'apparecchio, bensì la persona. Certo, a Clinton non mancava la protezione. A ogni angolo del piazzale erano stati sistemati bracci mobili sui quali c'erano tiratori scelti. Altri tiratori scelti erano posizionati sui tetti di tutti gli edifici circostanti. Nessuno avrebbe potuto estrarre un'arma. Nessun attacco a sorpresa aveva una chance. Dallas non era ripetibile. Tuttavia, quando uscì dalla tenda insieme con gli altri e vide arrivare l'a-
ereo presidenziale, Lavallier si sentiva come se stesse per vivere una nuova, terribile esperienza. Non c'è ragione di avere paura, si disse. Se lo ripeté come un mantra, ma in effetti era una giaculatoria. Abbiamo controllato tutto. Non c'è ragione. Non c'è ragione. Nessuna ragione. Nessuna ragione. Il suo sguardo vagò fino al capannone insonorizzato. Dal controllo non era emerso nulla. In una corsa contro il tempo, avevano esaminato fin nei minimi particolari ogni centimetro quadrato dell'enorme edificio, comprese le strutture tubolari all'esterno, battendo su ogni cavità. Nulla. Nulla era diverso da come doveva essere. Si soffregò gli occhi. Erano le 19.55. L'aereo si era quasi fermato. Il maggiore Thomas Nader e un suo collega si erano assunti l'incarico di dirigerlo. L'Air Attaché americano non aveva lasciato nemmeno quel compito ai tedeschi. Nader aveva misurato personalmente il piazzale e aveva deciso la posizione del ruotino anteriore dell'aereo, purtroppo molto lontana. Lavallier ricordava le discussioni infinite tra l'amministrazione aeroportuale e il dipartimento di Stato sulla posizione dell'Air Force One al momento dello sbarco del presidente. Se fosse stato per i Servizi segreti, i giornalisti avrebbero visto Clinton a una distanza notevole: non volevano nemmeno che l'apparecchio rullasse sul piazzale. Avrebbero preferito far scendere il presidente sulla pista di atterraggio, una sfida per qualsiasi teleobiettivo. Un affronto, aveva obiettato l'amministrazione aeroportuale, un'intollerabile mancanza di rispetto nei confronti dei media, improponibile nella città mediatica di Colonia. A cosa serviva fare atterrare lì il presidente americano, se nessuno poteva scattare una foto decente del suo arrivo? Il tiro alla fune era durato per un po'. L'amministrazione aeroportuale insisteva su un approccio nose in, il che significava che l'Air Force One si sarebbe diretto verso la Tenda VIP, per fermarsi proprio lì davanti, presentando così il presidente alla stampa dalla distanza più breve possibile. Il dipartimento di Stato insisteva sulla pista di atterraggio. Alla fine, venne raggiunto un compromesso: l'apparecchio si sarebbe fermato in posizione laterale rispetto alla Tenda VIP, a distanza sufficiente per poter compiere una virata di novanta gradi e tornare senza indugio sulla pista in caso di necessità. Sarebbe potuto «fuggire» senza nemmeno essersi fermato. Se non altro, quella sera, avrebbero avuto i giapponesi nose in. Sarebbero arrivati dopo Clinton, erano gli ultimi della giornata. Non una vera e propria consolazione, ma si poteva farla passare per una cosa importante.
Lavallier vide Stankowski e Knott parlare col direttore del SI. Brauer non sembrava per niente soddisfatto. Si era portato sei dei suoi uomini, cui si aggiungevano Lex, una delegazione di dodici uomini dei Servizi segreti e gli agenti di Lavallier. I membri dell'ambasciata s'incamminarono verso l'apparecchio, chiacchierando tra loro. La squadra tedesca per i servizi di assistenza a terra, che era stata controllata da cima a fondo, aveva quasi raggiunto l'aereo. E ovunque c'erano tiratori scelti. Visibili. Invisibili. Chi voleva mandare tutto all'aria con qualcosa che loro non avevano previsto? E soprattutto con che cosa voleva mandarlo all'aria? A Lavallier non venne in mente nulla. Sospirò. E sperò che non fosse venuto in mente neanche a nessun altro. Liam O'Connor Il portellone azzurro dell'Air Force One si aprì. La passerella mobile si stava avvicinando. Con un fragore metallico, la piattaforma superiore si congiunse alla fusoliera del jumbo, poi dall'apparecchio scese un funzionario della sicurezza, il quale diede un'occhiata in giro e rivolse un segnale all'interno. Nell'apertura oscura comparve Bill Clinton. Il presidente sfoggiava quel sorriso accattivante al quale, in ben due campagne elettorali, i repubblicani non erano riusciti a opporre nient'altro che malignità e odio. Sollevò il braccio destro e salutò le persone sulla pista di rullaggio, continuando a sorridere mentre il vento gli scompigliava il ciuffo. I movimenti del braccio e delle dita divennero sensibilmente più lenti, come se l'aria intorno a lui si fosse addensata, diventando sciropposa. Erano movimenti vittoriosi e tormentati nel contempo. Gli astanti rimasero col fiato sospeso. Il sorriso di Clinton sembrò diventare una smorfia. All'improvviso era intriso di dolore. Le folate di vento gli arruffavano con veemenza sempre maggiore i capelli. Il ciuffo si colorò di rosso. Dal cuoio capelluto di Clinton si sprigionarono lingue di fuoco, ma il presidente continuava a sorridere coraggiosamente. Il volto si coprì di vesciche scure. Un istante dopo, dalla bocca, dal naso e dagli occhi proruppero fiamme vive, ma la sagoma infuocata continuava a salutare, muovendosi al rallentatore. Poi cominciò a gridare.
Era un urlo vacuo, non di questa terra, come se non fosse una persona a scomparire all'inferno, ma qualcos'altro. Urlando, bruciando e salutando, il presidente cominciò a scendere dalla scaletta. Il calore che emanava spazzò l'intero piazzale, appiccò il fuoco alle tende, alle persone, ai capannoni e agli hangar, agli autoveicoli e agli aerei. Poi l'uomo esplose. Il suo corpo si disintegrò in mille pezzi e Liam si alzò di scatto, aprì gli occhi e si ritrovò davanti il viso di un poliziotto molto carino. «Lo YAG», disse lo scienziato. Le urla cessarono. Non erano mai state urla, ma piuttosto il rombo dei motori a reazione che si allontanava rapidamente. «Professor O'Connor», disse il poliziotto, chinandosi su di lui. «Mi sente?» Indossava una giacca di pelle nera e aveva capelli corti neri. Lo sguardo di Liam si schiarì e il poliziotto si trasformò in una poliziotta. «Ehi! Sta bene?» Liam allungò una mano verso di lei. La donna gli prese il braccio. Con fatica, lo scienziato si alzò, le gambe ancora incerte. Gli faceva male la schiena, come se lo avessero preso a randellate per ore. Gli tornò alla mente ogni cosa. «Dov'è Lavallier?» gemette. «Devo parlare con lui, presto!» «Lavallier?» La poliziotta corrugò la fronte. «È là fuori, sul piazzale. Cosa vuole da Lavallier, adesso?» Liam lasciò andare il braccio della donna. In quel momento si accorse delle altre persone: operai, infermieri e un secondo agente di polizia. Erano in piedi o in ginocchio intorno a lui e avevano tutti la stessa espressione di sgomento misto a perplessità. «Tranquillo.» Un infermiere gli posò una mano sulla spalla, cercando di calmarlo. «Prima di tutto la medicheremo, d'accordo?» «Per amor del cielo, non ci pensi neanche a medicarmi.» Liam lo allontanò. «Ogni volta che sono andato da un medico, sono stato ammalato per tre settimane.» Afferrò il corrimano e fece un passo in avanti. Il suo sguardo cadde nel vuoto. Improvvisamente tutto cominciò a ruotare. Lui incespicò all'indietro e si guardò le mani. Aveva diverse ferite da taglio che sanguinavano. E c'erano anche delle bende penzolanti. Evidentemente l'infermiere aveva già cominciato a medicarlo. «Che ore sono?» chiese Liam, ansimando.
«Le otto», rispose la poliziotta. «Perché?» Le otto! Liam impiegò qualche istante per capire. Poi si girò di scatto e guardò oltre il vecchio terminal, in direzione dello Scalo Merci. Gli venne un crampo allo stomaco. «Oh, Dio mio!» sussurrò. «Professor O'Connor!» Fissò di nuovo la poliziotta. «Lei è il professor O'Connor, giusto?» «Clinton», disse lui, in tono quasi supplichevole. «Sì, certo.» L'infermiere cominciò a sorridere. «E io sono Madeleine Albright. Adesso, per favore, le spiacerebbe...» «Non deve scendere, capito?» Liam li guardò a uno a uno, in cerca di aiuto, ma tutti lo fissavano senza capire. «Non deve scendere dall'aereo per nessun motivo!» Dolorante, cominciò a zoppicare verso la scaletta dell'impalcatura. La poliziotta lo bloccò. «Bill Clinton?» «Sì, per tutti i diavoli!» esplose Liam. «Maledizione! Parlo forse arabo? Perché non si toglie di mezzo, visto che non capisce niente?» La prese per le spalle, deciso a spostarla di lato. Un istante dopo, si ritrovò bloccato in una morsa. In un batter d'occhio, la donna gli aveva stretto un braccio intorno al collo e lo aveva spinto contro l'inferriata. «Attenzione, amico», lo ammonì. «Non c'è bisogno di mettere in piedi una rivolta. Mi spieghi piuttosto cos'è successo sul tetto. C'è un tizio morto stecchito! Cosa combinavate lassù?» Liam l'avrebbe buttata volentieri giù dal ponteggio e poi l'avrebbe seguita con un balzo, ma nella sua situazione poteva soltanto sperare di non essere scaraventato a terra a sua volta. A poco a poco recuperò la chiarezza mentale e si rese conto dell'effetto che le sue parole dovevano fare sugli altri. «Va bene», disse con voce strozzata. «Mi lasci andare.» «Non so se sia una buona idea», replicò la donna, scettica. «Lei è troppo impetuoso per i miei gusti.» «Anche lei è impetuosa.» «E allora?» Liam si girò. Lei rinsaldò la presa. «Okay, ragazza serpente!» Stava per mancargli il fiato. «Le faccio una proposta. Mi ascolti per un minuto senza interrompermi. Poi può fare quello che vuole... Ma, per amor del cielo, mi lasci andare!»
«Adesso basta», grugnì l'altro agente. «Lei non può proporre un bel niente. Deve solo darci una spiegazione.» «È quello che voglio», gracchiò Liam a denti stretti. «Faremmo più in fretta, se non cercaste di riflettere.» «Lei...» Il poliziotto avvampò e la bocca cominciò a tremargli. «Noi stiamo facendo il nostro lavoro! Ci ha pensato?» «Io non mi rompo la testa in vece di altre persone e non faccio il passo secondo la gamba di qualcun altro», replicò Liam, controllandosi a fatica. «Fondamentalmente non lambicco cervelli più piccoli del mio. Adesso mi volete ascoltare o no?» La presa intorno al collo si allentò. Poi la poliziotta lo lasciò andare. Liam annaspò e si voltò barcollando verso di lei. Respirava sibilando. Gli sembrava di essere stato attaccato da un anaconda. «Parli», disse la donna. «Ha un minuto.» «Basta e avanza. Clinton è già atterrato?» «Sì, in ritardo.» «È sceso dall'aereo?» «Questo non lo so.» «Non deve scendere», disse Liam in tono deciso. «Se lo fa, morirà. Sarà colpito da un raggio laser. Se è un laser della portata che sospetto, la scarica sarà sufficiente per fargli un buco nel petto o nella testa.» Per un istante tutti lo fissarono, muti. «Un laser?» gli fece eco il poliziotto. «Lei non è mica a posto.» Liam ignorò quell'osservazione e continuò a guardare dritto negli occhi la poliziotta. «Dov'è questo laser?» chiese lei con calma. «Non lo so. Da qualche parte, nel raggio di alcuni chilometri. Un laser YAG al neodimio. Probabilmente un apparecchio massiccio. Il raggio sarà deviato tramite un sistema composto da diversi specchi. Almeno due di questi specchi si devono trovare nelle immediate vicinanze del piazzale. Il più importante è l'ultimo, che è il più vicino a Clinton. Dovete distruggerlo.» Fece una pausa. «Lo devo vedere coi miei occhi. Mi porti da Lavallier, per favore!» La poliziotta mantenne un'espressione impassibile. Liam immaginò i pensieri che turbinavano nella sua mente. Poi una scheggia di vetro si frantumò sotto il tacco delle sue scarpe. Crac. La poliziotta prese la radio.
«Lo faccia durante il viaggio», la incalzò Liam. «È meglio se prima...» «Per Dio! Non ha ancora capito? Devo vedere il piazzale! Non abbiamo tempo. Devo vederlo per capire dove sono quei maledetti affari!» La poliziotta espirò lentamente e in modo percettibile. Poi annuì. «D'accordo. Venga con me.» Air Force One «No, signor presidente», disse il presidente. Guterson diede un'occhiata all'orologio e guardò Clinton attraverso la porta dell'ufficio, che era aperta. Da qualche minuto, il presidente era al telefono con Boris Eltsin e sembrava che la conversazione si stesse prolungando. Il russo aveva chiamato non appena erano atterrati. «Lei conosce la mia posizione», stava dicendo Clinton. «Le competenze della KFOR sono regolamentate in modo chiaro nell'Appendice B. Certo che le vostre truppe devono potersi muovere liberamente in Kosovo, qualsiasi altra decisione sarebbe una sciocchezza. Voglio dire soltanto che non dobbiamo dare a Belgrado l'impressione che la Russia e la NATO non mirino al medesimo scopo.» Ascoltò con grande concentrazione per qualche secondo. Poi guardò Guterson e gli fece cenno di chiudere la porta. «Esatto», riprese in tono cordiale. «Non vogliamo colpi di mano in questa riunione, com'è avvenuto a Pristina...» Guterson chiuse la porta e andò verso la parte anteriore dell'aereo, dove le guardie del corpo di Clinton e i membri dell'equipaggio si erano radunati a chiacchierare allegramente. L'umore era buono. A nessuno importava per quanto tempo ancora sarebbero rimasti a bordo. Se Clinton era al telefono, andava bene così. Se le circostanze richiedevano che il presidente degli Stati Uniti trascorresse qualche notte accampato sull'Air Force One, nessuno faceva una piega. In ogni caso, sull'aereo presidenziale non si viveva male. Le due cucine di bordo facevano un lavoro eccellente e si dormiva meglio che nella maggior parte degli hotel. Guterson poteva immaginare l'argomento della conversazione con Eltsin: dall'accordo tecnico-militare del 9 giugno, la suddivisione delle competenze all'interno delle forze di pace della KFOR era regolamentata in modo inadeguato. Non tanto per gli Stati della NATO, quanto per le forze armate russe. Mosca doveva ancora mandar giù il fatto che le truppe internazionali di pace in sostanza fossero truppe NATO con qualche soldato
russo. Tuttavia, nel frattempo, la situazione si era placata. Evidentemente anche Eltsin non aveva più voglia di agitare la sciabola. Guterson immaginava che a Colonia avrebbe gettato le braccia al collo a Clinton e avrebbe baciato Madeleine Albright. Quasi sperava che succedesse. Vedere l'espressione del segretario di Stato Albright nel momento del bacio valeva almeno a million bucks, un milione di dollari! Si avvicinò a uno dei finestrini dell'Air Force One e guardò fuori, sul piazzale. Aveva smesso di piovere. I primi raggi di sole si facevano strada tra le nuvole e creavano riflessi scintillanti sull'asfalto. La passerella mobile era arrivata, il tappeto rosso era stato srotolato, fiancheggiato da due dozzine di soldati dell'esercito tedesco in uniforme da parata: berretto, cravatta e colletto verdi, cinturone bianco, stivali neri tirati a lucido. Coi loro fucili, sembravano baldanzosi e pronti alla battaglia. Era probabile che fossero anche tremendamente orgogliosi, benché, secondo Guterson, il loro fosse un lavoro di merda. Qualsiasi lavoro in cui non ci si poteva grattare quando si sentiva prurito era un lavoro di merda, a prescindere da chi fosse il soggetto davanti al quale si doveva stare sull'attenti. D'altra parte era per quello che esistevano: per fare quel lavoro di merda in caso di emergenza. E l'arrivo del presidente americano era un caso di emergenza. Esplorò il piazzale con lo sguardo, notando il comitato di accoglienza. Alcuni delegati guardavano di soppiatto l'orologio. A Guterson spiaceva davvero che dovessero aspettare, ma non poteva farci nulla. Avrebbero comunque avuto il loro presidente. Kika Wagner L'autostrada che conduceva all'aeroporto non era percorribile. Kika guardò incredula le camionette della polizia. I raccordi che portavano dalla A4 alla A559 erano completamente sbarrati. Dopo che si era fatta largo con la sua Golf, sorpassando a destra, tagliando la strada ad altri automobilisti e superando costantemente il limite di velocità, si ritrovava a non poter imboccare l'autostrada giusta. Certo, gli americani e la sicurezza. Il convoglio presidenziale avrebbe percorso la A559 per raggiungere Colonia e lo Hyatt. Perfino i cavalcavia sull'autostrada sarebbero stati bloccati. Passarci sotto per arrivare fin lì era stato un miracolo, ma probabilmente anche quello sarebbe cambiato di lì a poco. Imprecando, proseguì oltre e imboccò la A3. Il traffico si fece più inten-
so: negli ultimi chilometri prima dell'uscita di Königsforst avanzava davvero a passo di lumaca. Finalmente Kika uscì dall'autostrada e riuscì ad avvicinarsi all'aeroporto lungo la provinciale... ma anche lì non ci si muoveva molto più rapidamente. Radio Colonia parlava di un ingorgo dopo l'altro. Chiamò il servizio informazioni e chiese di essere messa in comunicazione con la stazione di polizia dell'aeroporto, il che causò qualche problema alla centralinista. Quando infine passarono la chiamata, non ricevette la benché minima informazione. Non si sapeva nulla di dove si trovassero Liam o l'ufficiale Gerhard. Si sapeva di un incidente al Terminal 2, ma soltanto che qualcuno vi aveva perso la vita. Kika sentì il cuore che si fermava. Chiese di essere messa in contatto con l'ufficiale Gerhard, ma per qualche motivo ciò era impossibile. Intanto il fiume di auto si trascinava, sempre più lento, verso l'aeroporto. Prossima alle lacrime, Kika compose il numero di Silberman. Eric Lavallier. Ore 20.07 Stare in disparte aveva i suoi vantaggi. Lavallier si era appostato a una certa distanza dal gruppo dei diplomatici e li teneva d'occhio. Il suo sguardo passava dalla Tenda VIP alle transenne tutt'intorno. L'uscita anteriore dell'aereo era ancora chiusa. Qualche minuto prima, dalla scala posteriore si erano riversate schiere di agenti dei Servizi segreti, diretti ai veicoli del convoglio. Il rappresentante del ministero degli Esteri disse qualcosa e scoppiò una risata. Evidentemente aveva fatto una battuta. L'atmosfera era rilassata. Poi qualcuno pronunciò il suo nome alla radio e Lavallier comprese che c'erano guai in arrivo. Era la voce sbagliata per dare buone notizie: «Monsieur le commissaire! Ehi, Lavallier, risponda, per favore». Afferrò la radio. «O'Connor, per tutti i diavoli, che succede? Se questo è un altro dei suoi scherzi...» «Non faccio scherzi», gracchiò la voce di Liam dall'apparecchio. «Dov'è Clinton?» «Come?» «È già sceso?» «No, è ancora sull'aereo. Che succede?» Domanda stupida, pensò. Sai benissimo che succede: quello che temevi più di ogni altra cosa. «Mi ascolti bene», rispose lo scienziato. «Clinton non deve scendere.
Non ho tempo per lunghe spiegazioni. Stiamo venendo da lei. Tenga d'occhio gli edifici più vicini a Clinton. Quelli più alti. Cerchi degli specchi.» «Cosa significa 'stiamo venendo'? Di che diavolo parla?» La radio gracchiò, poi una voce di donna disse: «Commissario Lavallier, qui è l'ufficiale Gerhard. Avvisi i suoi di farci passare. Siamo al blocco ovest. Gelo 0». Gelo. All'improvviso, Lavallier ebbe l'impressione di sentir tremare la terra sotto i piedi. D'istinto rivolse lo sguardo alla facciata del capannone insonorizzato. Gelo. Era il codice che indicava un attentato. A Gerhard Schröder era stato assegnato Gelo 16, a Toni Blair Gelo 5. A Jacques Chirac Gelo 1. Bill Clinton aveva Gelo 0. Jana. Ore 20.08 Era passato un quarto d'ora e il presidente non scendeva. Erano soltanto due le cose che potevano impedirgli di abbandonare l'Air Force One. Prima eventualità: era stato avvertito. In tal caso, O'Connor aveva vinto. Gli agenti della sicurezza non lasciavano scendere Clinton perché sapevano che all'interno dell'apparecchio lui era protetto. Il che a sua volta faceva presupporre che fossero al corrente delle modalità dell'attentato. Altrimenti l'Air Force One si sarebbe già involato da un pezzo. Seconda eventualità: non avevano la più pallida idea dell'attentato. Allora il ritardo del presidente era una benedizione. Nel frattempo, infatti, le nuvole cariche di pioggia si erano disperse. Gli ultimi raggi di sole colpivano di traverso la superficie asfaltata, facendola risplendere. Le condizioni ideali per lo YAG. Lo sguardo di Jana perlustrò il piazzale. Non c'erano segni d'inquietudine. I membri del comitato di accoglienza sembravano tranquilli, limitandosi a guardare ogni tanto il portellone chiuso dell'Air Force One. La squadra dell'assistenza a terra aveva cominciato a scaricare i bagagli. I primi veicoli del convoglio, compresa la limousine presidenziale, partirono da dietro il capannone insonorizzato e raggiunsero il piazzale. Evidentemente il SI aveva ricevuto ordini in merito. Ormai non mancava molto.
Jana era ancora libera d'interrompere l'operazione. Ma, se O'Connor fosse riuscito a comunicare ciò che sapeva, per lei sarebbe stato comunque troppo tardi, ormai. I SEK avrebbero sgombrato la zona della stampa e chiuso il container dei controlli, in modo che nessuno potesse più entrare e, soprattutto, uscire. I giornalisti sarebbero rimasti bloccati nella tenda. Jana sapeva che, dopo l'attentato, sarebbe successo proprio quello. Si prospettava una lunga serata. Ci sarebbero volute ore per controllare i giornalisti, a uno a uno. Anche Cordula Malik doveva aspettarsi perquisizioni, controlli delle apparecchiature tecniche, verifiche con richieste a tutti gli enti possibili e immaginabili. Ma Cordula Malik era il prodotto di una pianificazione altamente professionale. Il suo curriculum era impeccabile. Sulla graziosa giornalista non sarebbe ricaduta nemmeno l'ombra di un sospetto. Si voltò. Le porte del container erano ancora aperte. Liam O'Connor. Ore 20.09 «Siamo bloccati», constatò la poliziotta. «Lavallier», chiamò Liam tramite il microfono della radio. «Non riusciamo ad andare avanti. Quel dannato convoglio blocca tutto.» Si agitava inquieto sul sedile del passeggero dell'autopattuglia, guardando fuori dal finestrino. Dietro lo sbarramento, scorgeva chiaramente la fusoliera dell'Air Force One. Alla loro sinistra c'era l'enorme capannone insonorizzato, così grande che gli sembrava di poterlo toccare. Da lì lo sbarramento si estendeva attraverso il piazzale, circondato dalla polizia. Era cominciato il passaggio del convoglio. Lavallier aveva dato ordine di far passare l'auto proprio nel momento in cui era partito il primo mezzo del convoglio, seguito da quarantacinque furgoni e limousine. Metà del convoglio si trovava ormai sul Piazzale Merci Ovest, mentre l'altra metà aspettava al GAT. «Entrate dal lato est», disse Lavallier. «Incontriamoci alla Tenda VIP. Nel frattempo, blocco tutto.» La poliziotta inserì la retromarcia. Si allontanarono a velocità sostenuta dallo sbarramento. L'auto si girò su se stessa, poi partì a razzo nella direzione opposta e fece una curva. Liam si sentì schiacciare contro lo schienale. Guardò il capannone e prese la radio. «Non ha tempo di bloccare proprio nulla», tuonò. «È una battaglia contro la velocità della luce, Lavallier! Sono piccoli specchi con un diametro dai dieci ai venti centimetri. Non
specchi comuni, ma probabilmente vetro trasparente. Se ne distrugge uno, l'intero sistema va in malora. Perciò, prima di fare qualsiasi altra cosa, spari a quei maledetti affari!» «Dove?» gridò Lavallier. «Dove, Liam?» «Sul capannone insonorizzato.» «Non c'era niente!» «Ce ne deve essere uno lì.» L'auto imboccò la curva successiva, slittando con grande stridore di pneumatici. All'improvviso si ritrovarono su una strada di larghezza notevole e sfrecciarono oltre il capannone e l'Air Force One. A quanto sembrava, la poliziotta stava aggirando il piazzale. Lo sguardo di Liam scivolò sugli edifici che si ergevano dietro il capannone. «La seconda possibilità è la torre», disse rapidamente. «Oppure il grosso edificio giallo che le sta davanti.» Guardò la poliziotta, che premeva il pedale dell'acceleratore. «Se continua a guidare così, tra un po' decolliamo.» «Non sarebbe un problema», replicò lei, asciutta. «Siamo sulla pista di decollo.» Air Force One. Ore 20.09 «C'è voluto troppo tempo», constatò Clinton. Aveva lasciato l'ufficio e si era spostato nella parte anteriore dell'aereo, dove si trovavano l'equipaggio e le guardie del corpo. Il presidente aveva un aspetto magnifico. Se anche nei momenti più bui faceva bella figura, forse era perché, in effetti, aveva una bella figura. Bill Clinton sovrastava quasi tutti, non necessariamente in quanto a carattere, ma di certo in quanto a statura e dignità. L'abito scuro gli calzava a pennello, la splendente cravatta azzurra sembrava emanare lo stesso ottimismo e la stessa fiducia incrollabile del viso, eternamente giovane a dispetto del ciuffo bianco. Guterson provava un certo orgoglio per il fatto che il suo presidente non si tingesse i capelli, come faceva Reagan, e che non avesse lo stesso carisma di un manico di scopa, come George H.W. Bush. Per la prima volta da molto tempo, Clinton era davvero di buonumore. La NATO aveva vinto la guerra dei valori. E non gli sarebbe potuto capitare nulla di meglio che Slobodan Miloševič. La pioggia di bombe su Belgrado era, in un certo senso, rimasta anch'essa vittima di una piccola e rotondetta stagista. La città della pace aveva srotolato il tappeto rosso, non per il presidente degli Stati Uniti, ma per colui che si era legittimato quale
condottiero del mondo libero. Era una sfortunata combinazione che il buonumore del presidente fosse offuscato dal ritardo. «Bene, Norman», disse Clinton. «Siamo pronti?» Dietro di lui, le guardie del corpo si prepararono a lasciare l'Air Force One insieme col presidente. Guterson diede un ultimo sguardo dalla finestrella e fece un passo indietro. «Aprire», disse. Eric Lavallier. Ore 20.10 La torre di controllo. Il palazzo dell'UPS. Il capannone insonorizzato. Da qualche parte sembrava che ticchettasse un orologio, per ricordargli che non poteva fare due cose contemporaneamente. Lavallier fissava il capannone insonorizzato. Avrebbe dovuto fare due cose contemporaneamente: avvisare Lex, che si trovava un bel pezzo più in là, sotto le ali dell'aereo, e dare istruzioni ai tiratori scelti. Ma non poteva. Perciò decise di procedere in quest'ordine: prima i tiratori scelti, poi Lex. «A tutte le unità», disse alla radio. «Gelo 0. Cercare specchi o lastre di vetro, diametro da dieci a venti centimetri, sul capannone insonorizzato, forse sulla torre di controllo e sul palazzo dell'UPS. Ovunque ne vediate, aprite il fuoco.» Poi gli venne in mente un'altra cosa. «Col silenziatore», aggiunse rapidamente. «Niente botti!» Ci mancava soltanto una gragnuola di colpi che facesse scoppiare il panico. Nello stesso momento, alle sue spalle, i rumori di fondo cambiarono. Lavallier si voltò e vide che il portellone dell'Air Force One si era aperto. Uscì un uomo che lui aveva già visto in fotografia. Era Norman Guterson, il responsabile della sicurezza di Clinton. L'americano diede uno sguardo di routine al piazzale. Poi si rivolse verso l'interno dell'apparecchio e fece un cenno. Lavallier sospirò. Sapeva cosa significava quel cenno. Guterson stava indicando al presidente che poteva uscire. YAG Jana guardò nel mirino della Nikon e ruotò l'anello anteriore del teleobiettivo. Un segnale radio raggiunse il laptop di Gruškov al centro spedizioni, a tre chilometri e mezzo di distanza, fu elaborato dal programma e
provocò l'invio di due segnali di torno, uno al capannone insonorizzato e un altro all'edificio dell'UPS, il grande palazzo giallo appena sotto la torre. I tiratori scelti sul tetto del palazzo dell'UPS si concentrarono sulla torre di controllo e sul capannone insonorizzato. Sapevano che non sarebbe servito a molto osservare la propria postazione; l'avrebbero fatto gli altri, che si trovavano sui tetti circostanti o sui bracci mobili per la salita e la discesa dei passeggeri. Così sfuggì loro quello che stava accadendo nella foresta di condotti di aerazione e di antenne che spuntava dal centro del tetto e si stagliava nel cielo per qualche metro. Nessuno di loro vide lo spostamento verso il basso di quella copertura di tubo larga due spanne. Nessuno lo sentì, perché il meccanismo era silenzioso. Il processo si completò nell'arco di due secondi e liberò una lastra di vetro quadrata, bluastra e scintillante, larga venti centimetri. Anche i tiratori scelti sugli altri edifici, quelli sui bracci mobili e gli osservatori alla torre di controllo, non notarono ciò che stava accadendo. Erano troppo concentrati per accorgersene. Contemporaneamente si aprì un secondo sportello, collocato tra le aste e i tiranti esterni del capannone insonorizzato, a dodici metri da terra. Era stato inserito alla perfezione nella superficie ricurva, tanto che i bordi erano invisibili anche a distanza ravvicinata. Il comando a distanza fece rientrare la piccola superficie di metallo e poi la spostò di lato all'interno del tubo. Pure quel meccanismo, di per sé non più complicato del cassetto di un lettore CD, non emetteva nessun rumore. L'apertura che si era così creata era ancora più piccola del suo corrispondente sul condotto di aerazione del palazzo dell'UPS e non era distinguibile né da terra né dalle altre posizioni, a meno che non si guardasse esattamente nel punto in cui bisognava guardare. Lì dietro emerse l'obiettivo di una macchina fotografica. Davanti alla lente scintillava una lastra di vetro simile a quella collocata sul palazzo dell'UPS, ma molto più piccola, mobile e posta davanti all'obiettivo. L'intera struttura non misurava più di dieci centimetri per lato, per quanto riguardava la lastra quadrata, e venticinque centimetri di lunghezza complessiva. Scorrendo su una slitta alla quale era collegata per mezzo di un giunto snodabile, si sporse per un breve tratto e puntò il suo occhio sull'Air Force One. Nel mirino della macchina fotografica, Jana vedeva ciò che veniva trasmesso dall'obiettivo sul capannone insonorizzato mediante un sistema di-
gitale. Jana ruotò l'anello e l'obiettivo collocato fra i tiranti si mosse. Pochi gradi furono sufficienti per puntare sul portellone aperto dell'Air Force One. Si vedeva un uomo che faceva un cenno, rivolto all'interno dell'apparecchio. Jana sapeva che faceva parte del personale di sicurezza del presidente. Poi sulla soglia comparve Clinton. La costruzione dell'obiettivo-mirino era stato il rompicapo più complesso. Originariamente la lastra di vetro era stata montata in posizione rigida sull'obiettivo. Poi avevano fatto una scoperta tanto illuminante quanto sbalorditiva. Mancavano il bersaglio. Se l'obiettivo si spostava di dieci gradi, per mettere a fuoco il bersaglio, l'angolo di uscita del raggio laser cambiava di venti gradi. L'obiettivo poteva anche centrare il bersaglio, ma il raggio non l'avrebbe colpito. Gruškov ci aveva speso qualche notte insonne. Aveva fatto in modo che la lastra di vetro si muovesse su aste telescopiche estraibili a velocità dimezzata rispetto all'obiettivo che le stava dietro. Era un capolavoro della tecnica di comando a distanza. Il sistema sincronizzava e nel contempo adattava i movimenti dei due componenti. Gruškov aveva superato se stesso. L'angolo di uscita del raggio quadrava di nuovo. La sagoma di Bill Clinton era chiaramente riconoscibile sulla soglia. In un battibaleno, Jana zoomò sulla testa del presidente. Entro pochi secondi sarebbe tutto finito. Ruotò ancora il tele e l'obiettivo fra i tiranti si spostò di altri tre gradi. Più che vederlo, Lavallier intuì il riflesso. Successe tutto contemporaneamente, nel momento in cui lui voleva raggiungere Lex. Clinton comparve sulla soglia e, nello stesso istante, fra le aste e i tiranti del capannone insonorizzato, qualcosa brillò per una frazione di secondo. Lavallier si girò di scatto e guardò in alto. Eccolo! All'angolo, dove le aste correvano lungo il bordo esterno. Era grande quanto il palmo di una mano, più scuro del metallo circostante. Si muoveva. Più tardi non avrebbe ricordato esattamente ciò che aveva gridato alla radio, mentre i diplomatici si avvicinavano alla base della scaletta. Nessuno aveva fatto caso a lui. Tutti gli sguardi erano puntati su Bill Clinton. Mentre il sole illuminava il piazzale, preparando un'accoglienza perfetta per il presidente degli Stati Uniti, soltanto Lavallier, Liam e la poliziotta
sapevano che stava per calare il gelo. «Sparate!» fu l'unica cosa che ricordò di aver detto. Lex, che era il più vicino a Lavallier, fu l'unico a sentirlo gridare qualcosa alla radio. Non capi cosa, ma gli bastò uno sguardo. La postura di Lavallier era tesa, l'espressione contratta, lo sguardo diretto verso il capannone insonorizzato. Lex corrugò la fronte. Forse si sbagliava. Ma forse c'era un problema. Le parole di Lavallier raggiunsero i tiratori scelti sui bracci mobili, sui tetti dei magazzini, sul tetto del palazzo dell'UPS. Mentre cercavano febbrilmente le aste nei mirini telescopici delle loro armi, alcuni uomini dovettero combattere contro una deprimente sensazione d'impotenza. Nella fretta, ignorarono la minuscola lastra di vetro scintillante. Altri cercarono troppo in basso; altri ancora troppo a destra o in posti completamente sbagliati. Il primo a vedere quell'affare fu un diciannovenne. Era disteso sul tetto del palazzo dell'UPS, appena sotto lo specchio nel condotto di aerazione. Durante l'addestramento, si era contraddistinto per la particolare precisione e il sangue freddo. Era un tipo tranquillo e ritroso, cui i compagni riconoscevano una grande lealtà e un'eclatante mancanza di fantasia. Era ben lungi dal desiderare un momento come quello; nel contempo, però, non si sarebbe mai sottratto al suo dovere. Non aveva paura di sbagliare mira, né provava soddisfazione o tantomeno un senso di trionfo per avere scoperto quell'oggetto. Conosceva la distanza dal capannone, un po' meno di mezzo chilometro, era consapevole delle costanti e delle variabili che avrebbero influito sul proiettile: gravitazione, imperfezioni nella rigatura, vento laterale. Sapeva dove il proiettile avrebbe intersecato la linea del mirino la prima e la seconda volta e dove avrebbe colpito. Con tutta calma spianò il fucile, inquadrò il bersaglio e mirò. Ora. Aveva il polpastrello dell'indice sull'otturatore. La croce di collimazione era sulla fronte di Clinton. Jana si concentrò. Poi cambiò idea e mise a fuoco esattamente tra gli occhi del presidente, in linea con le sue pupille. Preferiva così.
Con una lieve pressione inviò l'impulso. E il soldato sparò. Finì di premere il grilletto mezzo secondo prima che il dito di Jana azionasse l'otturatore. Il proiettile uscì dalla canna del fucile di precisione semiautomatico e sfrecciò a una velocità di ottocento metri al secondo verso la lastra di vetro. Ma era lentissimo, in confronto alla velocità dell'impulso luminoso che doveva uccidere Clinton. I chip nella Nikon di Jana inviarono al centro spedizioni un segnale radio che attivò lo YAG. Nell'enorme cassa di metallo, una complessa serie di funzioni fu completata in un tempo incredibilmente breve. I due aggregati ad alta tensione da 20 KVA si scaricarono in un colpo, facendo risplendere diverse migliaia di diodi laser in sincronia e inviando un impulso luminoso a un risonatore. Il risonatore era il neodimio dello YAG. L'acronimo stava per Yttrium Aluminum Garnet, cioè granato di ittrio e alluminio. Un cristallo tubolare lungo qualche metro, mescolato con atomi di neodimio, con le estremità molate a piani paralleli che si specchiavano all'interno. Nell'istante in cui Jana azionò l'otturatore e i diodi laser pomparono energia elettromagnetica nel cristallo, tra quelle superfici speculari si formò un'onda luminosa, che venne riflessa ripetutamente dagli specchi, intensificandosi a ogni passaggio, finché il sistema non emise l'onda, mandandola al primo di tre amplificatori. Lì quell'onda s'intensificò ancora di più, si sincronizzò, colpì un altro specchio e venne trasmessa ad angolo retto al secondo amplificatore, dove guadagnò ulteriormente in intensità, per passare infine al terzo amplificatore e uscirne in un piccolo telescopio a specchi del diametro di trenta centimetri, che la mise a fuoco e la proiettò all'esterno tramite il foro nel lato più corto della cassa. A quel punto, la frequenza del laser era 1,6 μm. Il raggio era invisibile all'occhio umano, che era in grado di percepire 0,75 μm come luce visibile nello spettro del rosso. Ma, anche se fosse stata nello spettro visibile, quell'onda non si sarebbe potuta vedere, perché lo YAG non emetteva un raggio continuo, bensì un impulso brevissimo. L'impulso luminoso composto da fasci molteplici che uscì dalla cassa durò soltanto un centomillesimo di secondo, ma aveva una potenza di un
gigawatt! Era un impulso sufficiente a far evaporare d'un colpo trenta centimetri cubi d'acqua oppure trenta centimetri cubi di tessuti umani, composti in prevalenza d'acqua. I tessuti sarebbero stati dilatati in modo esplosivo da circa quaranta metri cubi di vapore acqueo formatosi in un attimo, più che sufficienti per disintegrare qualsiasi struttura circostante. L'impulso fu ricevuto dallo specchio collocato sul treppiede, che era accoppiato a una macchina fotografica e poggiava su minuscoli piezomotori; un sistema che veniva definito «ottica adattiva». Nel momento dell'emissione misurava le contaminazioni delle particelle nell'atmosfera fino al sistema di destinazione sul capannone insonorizzato, e rimandava indietro quell'informazione. Con velocità fulminea, i motori regolavano la superficie dello specchio, curvandolo in modo tale che l'impulso non potesse essere deviato durante il tragitto. L'onda sfrecciò fuori dal cortile, innalzandosi per raggiungere un secondo specchio, fissato in cima a un palo della corrente a qualche centinaio di metri di distanza. Vi si rifletté e fu inviata in un viaggio di tre chilometri sopra le località circostanti, i prati e i boschetti fino al palazzo dell'UPS. Nemmeno una goccia di pioggia disperse l'onda sincronizzata, la sua forza concentrata non si perse in vapore. Ristretta in forma conica, colpì lo specchio al termine del condotto d'aerazione e da lì rimbalzò verso il capannone insonorizzato. Tutto ciò avvenne a trecentomila chilometri orari, alla velocità della luce, insomma, a partire dal momento in cui Jana premette l'otturatore. Il proiettile del tiratore scelto e l'impulso luminoso assassino fecero, per così dire, una gara nelle ultime centinaia di metri fino al capannone insonorizzato. Solo il fatto che Jana avesse rettificato all'ultimo secondo il posizionamento della croce di collimazione salvò la vita al presidente degli Stati Uniti. Il proiettile colpì il giunto snodabile dell'obiettivo nel momento in cui l'impulso raggiungeva lo specchio che vi stava davanti. Il colpo fu sufficiente per distruggere il meccanismo e piegare lo specchio verso l'alto. Invece di colpire la testa di Clinton, l'impulso venne riflesso verso il cielo. Finì su uno stormo di uccelli a milleseicento metri dal suolo. L'animale che fu colpito al petto non sopravvisse nemmeno il tempo sufficiente per poter strillare. Nel giro di una frazione di secondo, le molecole d'acqua del suo corpo si trasformarono in gas e dilatarono l'organismo. Tendini e fibre si strapparono. L'intero corpo esplose, scagliando frammenti di tessuto, piume e particelle di sangue sul resto dello stormo.
Gli uccelli più vicini all'impatto rimasero scioccati. Si misero a stridere e a strillare, persero per qualche istante l'orientamento e retrocedettero nella formazione. Poi si tranquillizzarono. La loro memoria cancellò la parte conscia del ricordo e archiviò il resto come esperienza. Sbattendo energicamente le ali, serrarono le file con gli altri. FASE 4 Jana La sua prima impressione fu che qualcosa non avesse funzionato nel trasferimento delle immagini. Nel momento in cui aveva azionato l'otturatore, il presidente era scomparso dal mirino. Forse c'era un guasto a livello d'impulsi? Eppure i test non avevano evidenziato nessun problema di quel genere. Poi capì che la superficie azzurro pallido che aveva davanti all'occhio destro era il cielo. Esterrefatta, armeggiò con l'anello esterno del teleobiettivo, ma Clinton non ricomparve. All'idea che il sistema potesse essersi rovinato, Jana quasi uscì di senno. Dovette serrare le mascelle per non imprecare. Nell'istante successivo, la trasmissione s'interruppe del tutto. Diede una sbirciata sopra la macchina fotografica e vide che il presidente non manifestava nessuna intenzione di scendere la scaletta. Furente, Jana premette di nuovo l'otturatore. Le batterie che alimentavano lo YAG contenevano energia sufficiente per un secondo colpo. Ma non successe nulla. Se la carica letale di luce aveva lasciato lo YAG, doveva essere svanita nel nulla. Clinton scomparve di nuovo all'interno dell'Air Force One. Era finita. Con un rapido movimento dell'indice sinistro, Jana spostò la levetta dello scomparto delle batterie. Il chip scivolò fuori dalla fotocamera e cadde a terra. Lei lo calpestò. La Nikon era tornata una normalissima macchina fotografica. Puntò il teleobiettivo sull'angolo anteriore e superiore del capannone insonorizzato e zoomò finché non riuscì a individuare il meccanismo distrutto. Dell'obiettivo alloggiato sulla slitta non restava che un ammasso di rottami. Il piano era saltato. Eppure non aveva sentito nessun colpo d'arma da
fuoco. Probabilmente i tiratori scelti avevano usato i silenziatori, ma senza dubbio avevano fatto il loro lavoro. Non c'era più nulla da fare. Da quel momento in poi, a Cordula Malik non restava che comportarsi come tutti gli altri intorno a lei: aspettare e scattare foto. Eric Lavallier «Abbattuto.» La parola era stata ripetuta tre volte nell'apparecchio radio. Nella mente di Lavallier, fu scolpita a lettere dorate su una lastra di marmo lucida e appesa alla porta del suo ufficio. Era la parola più bella del mondo. Era più bella di «Ti amo» e di qualsiasi altra cosa che avesse mai sentito in vita sua. Almeno in quel momento. Gli sembrò di aver dato l'ordine di sparare ore prima. In realtà, erano passati al massimo alcuni secondi. Guardando il capannone insonorizzato alle sue spalle e stringendo la radio nella mano destra, raggiunse Lex. «Che aspetto aveva quell'affare?» chiese, parlando alla radio. «Strano», rispose uno dei tiratori scelti. «Come l'obiettivo di una macchina fotografica. Gli ho sparato diverse volte. Ormai è inservibile.» «Continuate a cercare», disse Lavallier. Clinton era sparito dalla circolazione. Ma Lavallier non sapeva se fidarsi di quella pace. Poteva ancora dare l'allarme. Sapeva bene cosa sarebbe successo, in quel caso. A prescindere dall'effettiva concretezza del pericolo, ci sarebbe stata un'interruzione totale. Gli agenti della sicurezza avrebbero fatto chiudere istantaneamente le porte. L'Air Force One avrebbe lasciato la pista di rullaggio e forse sarebbe decollato alla volta di un altro aeroporto, senza ulteriori spiegazioni. E sarebbe scoppiato il caos. La decisione spettava a lui. Lex lo guardò e corrugò la fronte. «Che succede?» chiese sottovoce. Lavallier scrutò la passerella, irritato. «Dov'è Clinton?» «Dentro. La stavo guardando e non mi è piaciuto ciò che ho visto. Ho dato a Guterson il segnale di rimandarlo dentro.» «Merda!» esclamò Lavallier, senza sapere se lo avesse detto con rabbia o con sollievo.
«Niente paura», lo tranquillizzò Lex. «Per il momento, è tornato a bordo. Nessuno ha pensato a niente di male. Ho soltanto segnalato che ritardiamo l'okay. C'è qualche problema?» Lavallier cercò le parole. Non voleva scatenare l'inferno, ma O'Connor aveva parlato di diversi specchi. D'istinto guardò l'apparecchio radio, come se potesse estorcergli una soluzione. «Eric, che succede?» chiese Lex un'altra volta. E la soluzione arrivò. La radio gracchiò ancora, poi si sentì un'altra voce: «Ancora uno. Abbattuto. Palazzo UPS, in cima, su uno dei tubi». «Ispezionate la torre di controllo», ordinò Lavallier. Ma sulla torre di controllo non avrebbero trovato nulla, pensò, furibondo. Lì non sarebbe stato possibile nessun intervento clandestino. Se c'era un posto in quel maledetto aeroporto in cui Clohessy e la sua banda non avrebbero potuto combinare nulla, era proprio la torre di controllo. O forse no. A cosa poteva ancora credere, dopo una giornata come quella? «Bloccare l'intero terreno dell'aeroporto», ordinò via radio. «Immediatamente. Zona stampa e tutto il resto. Nessuno entra e nessuno esce. Il protocollo procede, Clinton lascerà l'aeroporto come da programma.» Fece una pausa, poi aggiunse: «Non c'è nessun motivo d'inquietudine. Tutto procede come stabilito». Centro spedizioni Maksim Gruškov fissava il monitor a bocca aperta. Sapeva che Jana aveva azionato il laser due volte. Le batterie avevano prodotto una scarica udibile. Gli impulsi erano comparsi sul monitor del suo laptop, sotto forma di potenti oscillazioni. Poiché il sistema a specchi restituiva rapidamente i dati sulle traiettorie degli impulsi, Gruškov sapeva pure che il primo era stato riflesso con un'angolazione decisamente troppo ripida dall'obiettivo-mirino e il secondo non era stato riflesso per niente. Quei dati erano di per sé sufficienti per rimanere sbigottiti. Ma il laptop gli aveva mostrato anche l'immagine che Jana aveva visto nel mirino della macchina fotografica. Ormai il fallimento era una certezza. Se Jana avesse colpito il presidente, la sua morte sarebbe stata visibile, perché l'obiettivo fra le aste e i tiranti del capannone insonorizzato fungeva anche da cannocchiale di puntamen-
to. In effetti, Gruškov aveva visto Clinton in bella mostra sulla soglia dell'aereo, con una croce di collimazione sulla fronte, scivolata alla radice del naso prima che Jana premesse l'otturatore. Poi, all'improvviso, una superficie vaga e confusa. Infine l'immagine era scomparsa. Qualcosa era andato terribilmente storto. Le dita di Gruškov scivolarono sulla tastiera, mandando un debole impulso di prova al sistema. La risposta fu pronta e chiara: dal capannone insonorizzato non arrivava più nessuna misurazione. Non veniva riflesso proprio nulla, perché nulla arrivava fin lì. Richiamò gli ultimi secondi del filmato e aspettò che la figura del presidente scivolasse verso il basso. Ripeté la sequenza diverse volte - il momento decisivo, fotogramma dopo fotogramma - sinché non fu sicuro. Nessun difetto del comando a distanza poteva aver causato un tale disastro. Gruškov espirò lentamente e si accasciò sulla sedia. Dovevano avere scoperto gli specchi. Li avevano scoperti e distrutti. Qualsiasi altra possibilità era da escludersi. Il suo sguardo vagò tra i computer allineati lungo la parete opposta. Da mezz'ora ricevevano diverse stazioni radiofoniche e televisive. Una miscela confusa di rumori, voci e musica riempiva la stanza. La WDR trasmetteva musica pop, la ARD un poliziesco, NTV e CNN dibattiti con esperti economici e politici. Nessuna rete interruppe i programmi per annunciare che Bill Clinton era rimasto vittima di un attentato all'aeroporto di Colonia/Bonn. Totale assenza di eventi su tutti i canali. Gruškov si alzò di scatto, lasciò la stanza ed entrò nel capannone. Guardò fuori, nel cortile, dove lo YAG poggiava sulla sua base semovente. Poi il suo sguardo cadde su Kuhn, ancora incatenato. Fu travolto dall'odio. Sbattendo fragorosamente i tacchi a ogni passo, andò verso il prigioniero, che si era sistemato sul pavimento con la schiena appoggiata alla parete. Sentendo Gruškov avvicinarsi, Kuhn alzò la testa. Quando vide il russo attraversare il capannone per avventarsi su di lui, sgranò gli occhi, cercò di rimettersi in piedi e alzò il braccio libero per difendersi. Ma in un lampo Gruškov gli fu davanti e cominciò a colpirlo al basso ventre con gli stivali appuntiti. Dalle labbra di Kuhn fuoriuscì un grido soffocato. Si piegò in due. Gruškov lo colpì nel fianco. Kuhn gemette e cercò di allontanarsi, strisciando. La catena delle manette si tese, il metallo stridette contro altro
metallo. La collera del russo degenerò in follia. Continuò a colpire l'uomo disteso a terra finché i gemiti non scemarono. Respirando affannosamente, Gruškov sì fermò. Era andata così anche allora. In Russia. Quando aveva ucciso sua moglie a calci. E il bambino. Il piccolo era sopravvissuto per tre giorni. Quella rabbia tremenda che a volte lo assaliva e gli obnubilava la mente si era impossessata di lui e gli aveva portato via la famiglia. Aveva rimosso quella giornata, ma le immagini dei corpi erano sempre presenti, anche quando dormiva. Uno lungo, slanciato, l'altro più piccolo, lì accanto. Sul pavimento della cucina. Dove lei aveva scopato col suo amante... che doveva esistere! Per forza! Anche se lei insisteva che non era mai esistito. Il bambino aveva difeso la madre. Anche il bambino era contro di lui. Tutti erano contro di lui. Non lo avevano preso. Gruškov era fuggito e aveva chiesto aiuto a persone che avevano contatti con altre persone, le quali a loro volta avevano le conoscenze giuste. Il tutto era stato molto dispendioso, però a Mosca lui era un eccellente scienziato e aveva un po' di soldi da parte. Jana era venuta a sapere di lui e l'aveva fatto uscire dalla Russia. Non l'aveva mai condannato, anche se sapeva esattamente ciò che aveva fatto. No, mai una parola di rimprovero. Invece gli aveva offerto una carriera come terrorista. Era stato così facile creare tutte quelle armi. Non dal punto di vista tecnico, ma di per sé, in quanto azione eseguita volontariamente. Armi con le quali Jana uccideva per denaro. Era diventato così facile non avere coscienza che, ogni tanto, Gruškov si chiedeva se ne avesse mai posseduta una. Ma le immagini della cucina gli tornavano sempre in mente. Quella era stata l'unica condizione dettata da Jana. Mai più un attacco d'ira con conseguenze analoghe. Mai nulla del genere. L'uomo ai suoi piedi non si muoveva. Gruškov si accovacciò e allungò con esitazione la mano verso di lui, poi la ritrasse. Era troppo tardi. Sperava che l'uomo fosse ancora vivo, ma non poteva fare nulla, se non aspettare che Jana tornasse. Immaginava che pure Mahder sarebbe ricomparso, prima o poi, sempre che avesse il coraggio di andare da qualche parte dopo quel fallimento. Era possibile che fossero già tutti ricercati.
Decisamente possibile. Meglio far rientrare lo YAG! Si alzò, andò alla console degli interruttori e azionò il meccanismo. Stridendo, le pinze di arresto scattarono e liberarono le ruote. Il mezzo si mise in movimento e, dal cortile, rientrò nel capannone. Gruškov aspettò che fosse dentro, poi chiuse le saracinesche e premette il pulsante di arresto. Non era necessario che quell'aggeggio enorme fosse al centro esatto del capannone. A quanto sembrava, non avrebbero avuto più bisogno dello YAG. D'altro canto... non si poteva mai sapere. Per sicurezza, riaccese le batterie. Entro un'ora lo YAG sarebbe stato di nuovo pronto all'impiego. Per qualsiasi evenienza. Chiuse le saracinesche col telecomando, si passò una mano sulla pelata e tornò nella stanza dei computer a guardare la televisione. Liam O'Connor Non decollarono. La poliziotta fece un'ampia curva intorno al piazzale e puntò verso la Tenda VIP, come se volesse attraversarla. Intanto sentirono alla radio Lavallier che dava il comando di fare fuoco. Mentre lei frenava bruscamente e con grande stridore di pneumatici fermava l'auto di traverso davanti alla tenda, i tiratori scelti comunicavano via radio di aver centrato il bersaglio. Liam aprì la portiera e saltò giù dall'auto senza quasi aspettare che si fermasse del tutto. Clinton non si vedeva. Lo scienziato girò intorno all'auto e s'incamminò verso l'aeroplano. «Ehi!» La poliziotta non ci mise molto a scendere e ad afferrarlo per una manica. «Che ha intenzione di fare?» «Ho intenzione di mettere fine alla sua carriera, se non mi lascia andare subito!» «Lei non va da nessuna parte!» «Allora perché ci siamo fiondati qui come pazzi?» sbraitò Liam. «Devo andare più vicino.» Lei gli lanciò un'occhiata di avvertimento. Liam si ricordò la stretta mortale e involontariamente si portò le mani alla gola. «Adesso ci andiamo, però insieme», disse la donna con decisione. «E lei non si allontana da me.» «O'Connor, mi sente?»
La voce di Lavallier proveniva dalla radio che l'ufficiale Gerhard portava alla cintola. La poliziotta prese l'apparecchio e lo passò a Liam. «Abbiamo colpito due di quegli affari», spiegò Lavallier. «Sul capannone insonorizzato e sul palazzo dell'UPS. Due specchi.» «Ne è sicuro?» chiese Liam, ansimando. «No, sto scherzando. Maledizione! Mi dica se è finita o se c'è ancora pericolo. Lo devo sapere!» Liam scrutò gli edifici circostanti. La torre di controllo era decisamente troppo alta per poter scorgere a occhio nudo un oggetto delle dimensioni di uno specchio per radersi. In ogni caso, da lì tutto era molto diverso rispetto a come appariva dalla pista di rullaggio o nella fotografia aerea appesa nell'ufficio di Mahder. Era tutto più grande e difficile da abbracciare con lo sguardo. Mahder. «Può dare il cessato allarme», disse con calma. «Se ne avete colpiti due, il sistema è distrutto.» «Ne è sicuro?» «Sì. Ah, Lavallier, prima che lei cominci ad annoiarsi... Avete un traditore.» Eric Lavallier «Dunque?» chiese Lex. Lavallier sospirò e guardò la passerella. «Lo faccia scendere.» «Cos'è successo?» «Forse un incidente. Non so di preciso, ma senza dubbio l'abbiamo impedito.» «Un attentato?» ansimò Lex. «E lei si aspetta che io faccia scendere Bill Clinton?» Lo sguardo di Lavallier si spostò verso la Tenda VIP. Vide O'Connor. Forse lo scienziato era un maledetto idiota, ma lui aveva la sensazione di potersi fidare ciecamente della sua opinione. «Il pericolo è passato», disse a Lex. «Dia a quelle persone il loro presidente. Ci rivediamo alla Tenda VIP, d'accordo?» Lex aggrottò le sopracciglia. «Se non riponessi in lei una fiducia sconfinata...» borbottò. Poi diede il segnale e, per la seconda volta quel giorno, il responsabile della sicurezza fece un cenno a Clinton. Soltanto in quel momento Lavallier si rese conto di essere in un bagno di
sudore. Si passò una mano sulla fronte e sugli occhi. Il palmo della mano divenne ancora più bagnato di quanto già non fosse. Lo asciugò sui pantaloni. Clinton apparve: era corrucciato. Senza trattenersi a salutare, scese a passo svelto i gradini e raggiunse il tappeto rosso. Lavallier si chiese se la stampa avesse percepito qualcosa dell'accaduto. I silenziatori si erano inghiottiti gli spari, i colpi contro il capannone probabilmente erano stati sovrastati dal rumore generato dagli stessi giornalisti alla comparsa di Clinton. Forse qualcuno aveva creduto di sentire qualcosa, ma si poteva sempre trovare una spiegazione a posteriori. Qualunque cosa succedesse a posteriori. Poteva ancora succedere, per esempio, che il commissario stringesse la mano a Clinton. Alla luce degli eventi di quegli ultimi minuti, la cosa avrebbe assunto un significato del tutto nuovo. Esistenziale, per così dire. Congratulazioni inespresse per la nuova vita che era stata regalata al presidente. Lavallier esitò. Poi decise di lasciar perdere. Aveva da fare. In più, dopo tutto quel trambusto, aveva le mani troppo umide. Una stretta di mano al presidente degli Stati Unti non doveva essere compromessa dalle secrezioni di paure ormai superate. Mentre Clinton incedeva sul tappeto rosso, tra le file di soldati impettiti, Lavallier raggiunse di gran fretta la Tenda VIP. Convoglio Norman Guterson si pose una lunga serie di domande, ancora più lunga delle due file di auto che avevano raggiunto il piazzale all'atterraggio dell'Air Force One. C'erano un sacco di persone. Gli autisti e i passeggeri delle auto del convoglio guardavano verso di loro, mescolati agli agenti scesi dall'aereo e ai membri della scorta aggiuntiva, coi loro giubbotti antiproiettile e coi mitra. All'altra estremità del tappeto rosso c'erano circa trenta diplomatici. Diversi agenti della sicurezza in borghese e altri in uniforme erano posizionati sotto la coda dell'apparecchio. Poliziotti fiancheggiavano le transenne dietro le quali si accalcavano i giornalisti. Ben poco induceva a pensare che si fosse verificato o che stesse per accadere qualcosa d'imprevisto, a parte il fatto che Clinton era sceso con un certo indugio e soltanto dopo la sua seconda uscita.
Il segnale di Lex poteva significare tutto o niente. Aveva semplicemente fatto cenno di non lasciar ancora scendere il presidente. Forse per una quisquilia, una mancata conferma che tutto era a posto. Così sembrava. Tuttavia Guterson intuiva che non poteva esserci altra ragione se non un attentato. Aveva sviluppato un fiuto per quelle situazioni. I veri pericoli non si manifestavano in modo evidente. Mentre procedeva davanti a Clinton, divenne ancora più vigile del solito. Il suo cervello elaborava a un ritmo accelerato le informazioni che riceveva dai sensi. Studiava volti, movimenti, veicoli, facciate di edifici. Qualsiasi cosa avesse causato quel ritardo, Lex aveva dato retta a un sospetto e aveva preferito andare sul sicuro. A quanto sembrava, la cosa si era risolta. Guterson aveva potuto fare cenno al presidente di uscire nel giro di tre minuti, un ritardo irrilevante, giacché Clinton si era già fatto attendere per venti minuti. Avrebbero potuto dare una spiegazione per quell'uscita improvvisa seguita da un'immediata scomparsa. Come sempre, la questione era che tipo di spiegazione si sceglieva di dare e cos'era effettivamente successo. In ultima analisi, se fosse successo qualcosa oppure no. Guterson sapeva che Clinton era piuttosto arrabbiato con lui. Il presidente odiava che si combinassero pasticci nell'ambito della sicurezza. Non voleva rinunciare alle sue uscite solitarie ed extraprotocollari, ma sapeva benissimo di potersi permettere i bagni di folla soltanto se la sicurezza funzionava senza intoppi. E Guterson quel giorno l'aveva rimandato indietro quand'era già quasi fuori. Sarebbe scoppiato un putiferio. Il responsabile della sicurezza si fece da parte e aspettò. Molti suoi agenti seguivano il presidente a breve distanza, altri avevano preso posizione su entrambi i lati della passerella. Clinton strinse la mano al capo del protocollo tedesco, scambiò qualche parola con lui sorridendo, si scusò per il ritardo, poi salutò l'uno dopo l'altro l'ambasciatore americano a Bonn e sua moglie, gli ufficiali presenti e qualche altro diplomatico. Rispetto al solito, fu di poche parole. I saluti terminarono rapidamente e il sorriso si spense. Clinton si voltò verso Guterson e lo chiamò a sé con un gesto quasi impercettibile. «Che diavolo è successo?» sibilò. «Fuori, dentro...» «Non lo so ancora», rispose Guterson, imbarazzato. «Lo chiarisca. Subito! Lei è responsabile della mia sicurezza, Norman. Faccia il suo lavoro, maledizione!»
«Certo!» «Questo è l'ultimo intoppo per oggi.» Mentre strigliava Guterson, Clinton manteneva un'espressione impassibile. In quell'istante forse non sembrava l'incarnazione del buonumore, ma finché lo sguardo di una persona o un obiettivo erano puntati su di lui, non perdeva mai il contegno, né mostrava il minimo accenno d'insicurezza. Già nel '78, in Arkansas, quando a soli trentadue anni era diventato il più giovane governatore degli Stati Uniti degli ultimi quarant'anni, Clinton aveva imparato la lezione del gioco delle parti. Sarebbe riuscito a dare la sensazione che tutto andava a meraviglia anche di fronte a una catastrofe nucleare. L'unica volta in cui quella sicurezza si era incrinata era stato durante la resa dei conti davanti alle commissioni d'inchiesta. Ma, in confronto a lui, lo stesso Kenneth Starr era finito col sedere per terra. Il rovescio della medaglia del suo enorme autocontrollo era che gli consentiva di mentire apertamente senza fare una piega. Dimostrare che Clinton aveva mentito richiedeva un estenuante lavoro di ricerca dei fatti e quindi era molto difficile. Di certo non gli cresceva il naso. Guterson annuì, individuò Graham Lex, che dalla coda dell'apparecchio si stava avvicinando a lui, e lo raggiunse. Gli parlò sottovoce per qualche secondo, poi proseguì verso il convoglio. Le portiere dei veicoli si aprirono e si chiusero, mentre i cento agenti e l'equipaggio si preparavano a partire. Clinton salì a bordo della limousine. Il giorno prima, un velivolo USGalaxy aveva trasportato al Colonia/Bonn tre lunghissime Lincoln blindate. Quando viaggiavano, si portavano sempre dietro tutto in duplice e in triplice copia. Guterson sapeva che era appena atterrato pure l'apparecchio di riserva di Clinton, un 707 con dotazioni quasi identiche a quelle dell'Air Force One, per qualsiasi evenienza. Non lasciavano nulla al caso. Il caso poteva essere piacevole quando ci s'imbatteva in un vecchio compagno di classe oppure nella donna della propria vita. In politica non era il benvenuto. Era presumibile che la scelta delle limousine avesse rappresentato un ulteriore affronto per i tedeschi, ma a Guterson non importava. Il ministero degli Esteri tedesco e il BKA avevano offerto un'Audi A8 blindata, ma i Servizi segreti avevano rifiutato. La Storia insegnava che gli americani non potevano contare nemmeno sugli americani stessi. Come avrebbero potuto fidarsi di un altro Paese? Contrariato, guardò il presidente scomparire nella sua limousine e a sua volta scivolò sul sedile posteriore dell'auto di riserva. I quarantasei auto-
veicoli del convoglio USA 1 si misero in movimento, lasciarono il piazzale, superarono la tenda nella quale i diplomatici avevano aspettato e attraversarono un breve tratto di brughiera, bordata da un bosco. A quanto sembrava, c'era addirittura un campo da golf. Guterson vide polizia a cavallo e unità cinofile. Dopo un minuto svoltarono e, percorrendo una strada più ampia, tornarono indietro, passarono oltre la torre di controllo e il lato posteriore della tenda e poi sotto un cavalcavia. Un elicottero della polizia li accompagnava, volando a trecentosessanta metri di quota e trasmettendo immagini in tempo reale alla centrale di Waidmarkt tramite una fotocamera ad alta risoluzione. I mezzi della delegazione erano visibili sui monitor della centrale ed erano dotati di GPS e cartine elettroniche della città. Qualunque cosa fosse successa nei giorni seguenti, Clinton non si poteva perdere. Guterson sollevò il ricevitore del telefono del sedile posteriore e compose il numero dell'auto del presidente. «Signor presidente, non abbiamo ancora informazioni definitive», disse. «L'iniziativa è venuta dalla polizia tedesca, Lex sa soltanto che c'era il sospetto di un attentato.» «Un attentato!» Clinton tacque per un secondo. «Di che tipo?» «Non ne ho idea. Ci terranno informati. Mi hanno assicurato che non c'è più nessun pericolo. Però dovremmo esercitare una certa prudenza. Non so se sia una buona idea andare in quella birreria, stasera.» «Le due cose non hanno nulla a che vedere l'una con l'altra», replicò Clinton. «Anch'io non so se sia una buona idea essere il presidente, ma lo sono comunque.» «Allo Hyatt sono stati fatti i preparativi per una cena», ribatté Guterson. «Suvvia, Norman, è noioso mangiare sempre in quarantena», sbuffò Clinton. Non sembrava particolarmente colpito dalla notizia. «Andiamo alla birreria. Niente sosta prolungata con la stampa davanti all'hotel... Voglio andare subito in camera a rinfrescarmi. Aspetto il suo rapporto dettagliato entro mezz'ora.» Fece una pausa, poi aggiunse: «Faccia in modo di mettermi in contatto col cancelliere, non appena sappiamo di più di questa faccenda». C'è il suo piatto preferito, avrebbe voluto aggiungere Guterson, ma sapeva di aver perso. Avevano davvero preparato il piatto preferito di Clinton: bistecca e patate provenienti dall'Idaho. Allo Hyatt avevano previsto ricercate prelibatezze per il palato del presidente... ma nei giorni successivi i menu da gourmet si sarebbero sprecati. Non importava. Clinton non era
un buongustaio però, nel contempo, non disdegnava i piaceri della tavola. Seguiva soltanto le sue pulsioni, come nel sesso. Quando si trattava di mangiare, il presidente non riusciva a trattenersi. Trangugiava tutto ciò che gli capitava sottomano, senza disciplina e talvolta pure eludendo le buone maniere. Era ovvio che non vedesse l'ora di godersi la birra e una porzione abbondante di qualche specialità tedesca. Mentre il convoglio lasciava l'aeroporto e percorreva il raccordo autostradale, Guterson fece una serie di telefonate, per preparare una manciata di locali di Colonia alla possibilità di ricevere il presidente degli Stati Uniti nel giro di un'ora. La cosa poteva anche essere spontanea, ma almeno doveva essere programmata. Container dei vigili del fuoco Lo spazio era ristretto e soffocante, anche se la porta era aperta. Lavallier aveva proposto che l'unità di crisi fosse allestita nella Tenda VIP, ma Lex aveva insistito per quella situazione «intima». Perciò si erano accalcati in cinque nel container dei vigili del fuoco. Seguì una presentazione lampo, dalla quale Liam dedusse di avere a che fare con: il responsabile dei Servizi segreti per la sicurezza nell'aeroporto, il direttore e il vicedirettore del traffico aereo e il direttore della sicurezza del Colonia/Bonn. Venne chiamato un infermiere che gli bendò le mani, gli diedero un bicchiere d'acqua e cominciarono a bombardarlo di domande. «Dov'è Martin Mahder? Che cos'ha...» «Dov'è questo laser?» «Come faceva a conoscere la posizione degli specchi? Come faceva a sapere esattamente...» «Aveva incontrato Mahder in precedenza?» «Come ha fatto a sapere...» Liam non dava loro retta. Dopo aver visto Clinton salire incolume sulla limousine e andarsene, aveva ritrovato la sua consueta calma. Ciò che gli sarebbe piaciuto in quel momento era un Macallan, servito a temperatura ambiente con una bella spruzzata d'acqua di sorgente. Avrebbe anche voluto avere Kika accanto a sé. Sollevò le mani fasciate e lanciò uno sguardo implorante a Lavallier. «Monsieur le commissaire, questo interrogatorio sfocerà in una confusione babelica. Propongo che mi lasciate parlare e basta.»
«È proprio ciò che la pregheremmo di fare», replicò Lavallier. «Sì, ma lo fate tutti nello stesso momento e ognuno di voi ha una propria concezione del verbo 'pregare'. Prima di parlare di qualsiasi cosa, mi sembra importante constatare...» «Soprattutto c'interessa sapere se c'è ancora pericolo per il presidente», intervenne Lex. «... di avere appena salvato la vita a questo presidente», concluse Liam, guardando tutti i presenti. Per un momento tutti rimasero in silenzio. Poi Lavallier allargò le braccia. «Bene, le siamo molto grati. Lei è un eroe. Per contro, noi abbiamo sfasciato qualche specchio senza nemmeno sapere se esiste il laser di cui parla. Dunque, che cosa la rende così sicuro?» Liam sorseggiò l'acqua. Stranamente non sentiva quasi nessun dolore alle mani, sebbene fossero piene di tagli. «Il fatto che finora ho avuto ragione su tutta la linea.» «Com'è questo laser?» «Uno YAG al neodimio è un laser a corpo solido», rispose Liam. «Per corpo solido s'intende il mezzo in cui le onde luminose oscillano, cioè... ah, lasciamo perdere. Passiamo piuttosto...» «Vetro o cristallo con l'aggiunta di atomi particolari», disse Lex impassibile, completando la frase. «Laser del genere possono avere diverse dimensioni. Secondo lei, quanto è grande il nostro?» «I laser a corpo solido vengono eccitati da sorgenti luminose», spiegò Liam, tanto per rimettere al suo posto l'uomo della sicurezza. «Il processo comporta una dispersione di calore. Nemmeno il cinque per cento dell'energia incidente viene trasformata in luce. Per ottenere una potenza d'uscita di 2 kW ci vuole una potenza elettrica di 80 kW e qui dovremmo avere a che fare con almeno 4 o 5 kW di potenza d'uscita. Le sole batterie dovrebbero pesare diverse tonnellate. Gruppi di raffreddamento, pompe, dispositivi di controllo... Anche se hanno pompato lo YAG con laser a diodi, deve essere comunque di dimensioni considerevoli perché l'impulso possa uccidere una persona.» «Io non ci capisco un'acca», disse il direttore del traffico aereo, lanciando un'occhiata a Lex. «Ha risposto alla domanda oppure no?» «Sì», confermò l'americano. «Dobbiamo cercare un cassone lungo almeno dieci metri.» «Nel raggio di qualche chilometro», aggiunse Liam. «Professor O'Connor, c'è una cosa che non mi è ancora chiara», disse
Brauer. «I nostri uomini stanno esaminando gli specchi che abbiamo distrutto. Uno era fisso, ma l'altro era attaccato a qualcosa che a prima vista somigliava all'obiettivo di una macchina fotografica...» «Sì, ha senso», confermò Liam. «All'istituto abbiamo sperimentato strutture di questo genere. Scoprirete che gli specchi sono trasparenti come vetro da entrambi i lati. In questo caso, 'specchio' non significa una superficie in cui ci si può specchiare. Si tratta di superfici sottoposte a un trattamento speciale, che noi chiamiamo 'rivestimento dielettrico multiplo'. Riflettono soltanto la lunghezza d'onda del laser. Sono trasparenti alla luce normale, perciò dietro ci si può installare un obiettivo.» «Ma a che serve l'obiettivo?» «Non è evidente?» «Temo che ce lo dovrà spiegare», sospirò Brauer. Liam sì scolò il resto dell'acqua e posò il bicchiere sul tavolo. «Se permettete ne vorrei ancora. Allora: l'obiettivo trasmette un'immagine. Da qualche parte, dove qualcuno la può ricevere. Immagino che in questo caso abbiamo a che fare con una doppia funzione: trasmissione d'immagini e cannocchiale di puntamento.» Si appoggiò allo schienale della sedia, soddisfatto. All'improvviso la cosa cominciava a divertirlo. «Sì, è proprio ciò che scoprirete. L'obiettivo è il meccanismo di puntamento.» «Comandato a distanza?» «Naturalmente, tramite onde radio, immagino. A queste distanze, gli infrarossi non funzionano.» «Perciò l'obiettivo manda un'immagine», scandì Brauer. «Ma dov'è il cecchino?» Liam cercò una risposta. La domanda era difficile. Lui conosceva a memoria la struttura interna ed esterna dei laser a corpo solido, ma di solito non c'erano cecchini. «Se quell'aggeggio era comandato a distanza, il cecchino poteva essere anche piuttosto lontano, vero?» chiese Lavallier, aggrottando le sopracciglia. «Poteva ricevere il segnale con un laptop, nello stesso luogo in cui si trovava il laser», propose il vicedirettore del traffico aereo. No, pensò Liam, non ha senso. Stando alla successione degli eventi che Lavallier gli aveva descritto prima di entrare nel container, gli specchi erano comparsi dal nulla soltanto all'ultimo secondo. Il che significava che Paddy, Peček o Mahder li avevano camuffati, in modo che venissero alla luce soltanto quando il presidente avesse lasciato l'Air Force One. Essendo
nascosto, l'obiettivo non avrebbe potuto trasmettere nessuna immagine. Il cecchino doveva trovarsi a portata d'occhio rispetto all'apparecchio, per vedere cosa succedeva. Nel momento decisivo, aveva liberato gli specchi dai loro nascondigli e subito dopo aveva sparato. Ma con cosa aveva sparato? Come poteva mirare al presidente con assoluta precisione? E se il mirino fosse stato una macchina fotografica? Soltanto un gruppo di persone aveva la possibilità di avvicinarsi a sufficienza all'Air Force One con l'apparecchiatura necessaria e senza destare sospetti. «I giornalisti», disse Liam. Jana La situazione era davvero deprimente. Avevano affinato il sistema per sei mesi, sottoponendolo a continue prove. Avevano fatto spostare lo YAG diverse volte in cortile, aperto gli sportellini fra i tiranti del capannone insonorizzato e nel canale di aerazione del palazzo dell'UPS e inviato un impulso di prova, per poter attuare correzioni di alta precisione. Lo stesso Gruškov non era riuscito a nascondere lo stupore di fronte a un funzionamento così perfetto. Tutto per ritrovarsi in quella situazione disastrosa. Un guasto tecnico era da escludere. Il fatto che i giornalisti fossero accalcati nella tenda, in attesa di essere controllati a uno a uno, prima di poter lasciare l'aeroporto, non lasciava aperta nessun'altra interpretazione: Liam li aveva battuti. Ancor più del fallimento di quel giorno, le pesava il fatto che, con la distruzione del sistema, si fosse volatilizzata anche la seconda chance. Erano consapevoli delle potenziali difficoltà, per esempio del fatto che l'impulso luminoso non sarebbe arrivato a destinazione in caso di pioggia intensa. Ma, se nessuno avesse intuito la presenza dello YAG, a nessuno sarebbe venuto in mente di cercare gli specchi. Avrebbero potuto tentare una seconda volta nel giorno della partenza di Clinton. Sullo stesso piazzale, con Hillary al suo fianco. Due giornate di pioggia in giugno erano improbabili anche nella mutevole regione della Renania. La seconda volta avrebbe funzionato, senza dubbio. Invece era andato tutto a monte. L'operazione Silenzio assoluto era saltata.
Jana non si chiese che ne fosse stato di Mahder o Peček. L'unica cosa che contava era uscire di lì e svignarsela al più presto. I giornalisti intorno a lei bevevano acqua minerale o Coca-Cola e chiacchieravano. Chi passava i controlli poteva tornare alle transenne per assistere all'arrivo del premier giapponese, il cui aereo stava atterrando in quei minuti, oppure lasciare l'area. Lei pensava ai suoi conti svizzeri. Almeno una parte del denaro era al sicuro. Anche senza i diversi milioni che il Cavallo di Troia non le avrebbe più pagato, avrebbe avuto comunque denaro a sufficienza per incominciare un'altra vita da qualche parte. Sempre che Mirko e i suoi mandanti lasciassero correre il disastro di Paddy, attribuendolo a cause di forza maggiore. Se il regime di Belgrado avesse voluto minimizzare i danni, forse le sarebbe stato chiesto di restituire i soldi già ricevuti. Era già successo: pur di non pagare, Miloševič aveva fatto fuori più di una persona. Ma non li avrebbero avuti, quei soldi. Ricardo aveva escogitato un sistema diabolico per far scomparire il denaro proveniente dai bonifici in un colossale labirinto di coordinate bancarie. Una revoca del bonifico era impossibile. Se avessero voluto indietro quel denaro, avrebbero dovuto prendere Jana. Ma ben presto Jana avrebbe smesso di esistere. Per quanto il risultato fosse sconcertante, lei aveva calcolato anche quella possibilità. Forse non aveva immaginato fin nei dettagli il modo in cui sarebbero andate le cose, tuttavia aveva studiato come lasciare il Paese indisturbata. Doveva soltanto uscire di lì. Poi sarebbe andata al centro spedizioni, avrebbe indossato nuovamente i panni di Laura Firidolfi e il mattino dopo sarebbe ripartita. Non c'erano sospetti sull'imprenditrice italiana. A nessuno sarebbe mai venuta in mente una cosa del genere. E, in ogni caso, anche Laura Firidolfi sarebbe scomparsa nel nulla, la sua esistenza sarebbe stata cancellata dalla storia del mondo nel giro delle ventiquattr'ore successive. Per il momento, tuttavia, doveva continuare a essere Cordula Malik. Sbadigliò in modo ostentato, sorseggiò la sua Coca-Cola e iniziò una conversazione con un giornalista del Kolnische Rundschau. Era passata mezz'ora da quando la polizia aveva chiuso l'area stampa. Davanti aveva una vita intera. Poteva aspettare.
Container dei vigili del fuoco Lavallier lo scrutò. Nei suoi occhi si accese un lampo. Aveva capito subito cosa intendeva Liam. «I giornalisti», ripeté. «Chiaro.» «Crede che gli specchi fossero controllati da una macchina fotografica a terra?» Liam si chinò in avanti. «L'intero sistema era controllato in quel modo. Un giornalista vedeva ogni cosa. Controllando lo specchio con l'obiettivo tramite una macchina fotografica modificata, poteva fare praticamente quello che voleva. Prendere di mira Clinton con tutta calma e premere l'otturatore. Per l'accensione del laser, la distanza non fa nessuna differenza.» «Ma tutti i giornalisti erano accreditati», osservò Brauer, perplesso. «E allora?» replicò Lavallier con uno sguardo cupo. «Avevano tesserine di plastica appese al collo, con sopra la loro foto di merda. Noi diamo un'occhiata alle tessere e le confrontiamo con le foto dell'elenco. Tutto qui.» «Molto professionale», commentò Liam. «Controllate soprattutto le macchine fotografiche. Se c'è qualche componente elettronico che non c'entra, avete trovato il vostro attentatore.» «Lo stiamo già facendo», ribatté Lavallier, irritato. «I controlli sono in pieno svolgimento. Abbiamo mandato un'esperta di tecnologie per fotocamere, c'è un controllo computerizzato, eccetera, eccetera. Ma temo che non servirà a nulla.» «Perché?» «Se l'attentato fosse avvenuto davvero, sarebbe successa la stessa cosa: avremmo perquisito i giornalisti fino al midollo. Il nostro amico deve avere preso le dovute precauzioni. Se è tra i giornalisti, ci sfuggirà comunque.» «Non può essere che Mahder fosse il cecchino?» chiese Brauer. «Mahder non è un giornalista», obiettò il direttore del traffico aereo. «No, però non doveva per forza stare sul piazzale. Bastava essere a portata d'occhio.» Lavallier scosse il capo. «Se qualcuno fosse andato in giro con una macchina fotografica, la cosa ci sarebbe sembrata strana. Se è stato Mahder, deve aver proceduto in un altro modo. Ma non credo sia possibile. Dopo il fallito tentativo di omicidio ai danni di O'Connor, deve essersi reso conto che la sua copertura era saltata. Questo è successo molto prima che Clinton
uscisse dall'aeroplano. È comunque ovvio che stiamo cercando Mahder. Crede davvero che sarebbe rimasto all'aeroporto anche un minuto più del necessario?» Fece una pausa e guardò tutti i presenti, l'uno dopo l'altro. «E, comunque, uno come Mahder dovrebbe essere l'assassino di Clinton?» «I bravi killer sanno camuffarsi bene», osservò Lex. «Storpi, mendicanti, vecchi dementi... Ne abbiamo viste di tutti i colori.» «Va bene, immaginiamo lo scenario. Mahder, Clohessy e Peček. Clohessy sarebbe stato in grado di costruire un laser del genere?» «Non c'era bisogno di costruirlo», replicò Liam. «Ne esistono diversi. Forse ne hanno semplicemente introdotto uno in Germania di nascosto. Il fatto è che Paddy è sempre stato terribilmente disorganizzato e dipendeva comunque da qualcuno con una personalità forte. Non sarebbe mai stato in grado di portare a termine una cosa del genere di sua iniziativa.» «Non si sa ancora per certo se sia stato sparato un colpo», intervenne Brauer. «Voglio dire, forse Mahder era il cecchino designato, ma poi ha dovuto svignarsela e...» «Lasci perdere Mahder. Gli specchi sono usciti nel momento in cui è apparso Clinton», ribatté Lavallier, deciso. «Ma qualcuno voleva sparare! Sono d'accordo col professor O'Connor. Dobbiamo concentrarci sui giornalisti.» Per qualche istante regnò un silenzio imbarazzato. «Vorrei chiederle di nuovo se ritiene che sussista ancora un pericolo per il nostro presidente», disse Lex, rivolgendosi a Liam. Lo scienziato scrollò le spalle. «Se gli specchi sono stati distrutti, no.» «Gli specchi presenti nell'aeroporto sono stati distrutti», replicò Lex con un sorriso cortese. «Lei è più esperto di me, professor O'Connor. A che distanza massima potrebbe essere lo YAG?» Liam rifletté. «Il massimo possibile è dieci chilometri. Ma penso che non abbiano rischiato tanto. Dovreste trovarlo in un raggio di cinque o sei chilometri.» «Allora potrebbe anche sparare in qualche altra direzione, vero? Per esempio nel centro cittadino.» Per qualche istante nessuno fiatò. «Esatto», mormorò Liam. «Controllato da un attentatore che, come ha giustamente osservato Lavallier, ci sta sfuggendo.» Lavallier si alzò di scatto. «Basta così. Tutto il resto passa in secondo piano. Dobbiamo scovare quell'aggeggio alla svelta. Forza, O'Connor, fac-
cia qualcosa per la sua insperata gloria. A cosa dobbiamo prestare attenzione?» «A punti sopraelevati, a rilievi...» rispose Liam. «Di che altezza? Di che aspetto?» «È impossibile valutarlo da quaggiù, Monsieur le commissaire. Purtroppo conosco la vostra bella città soprattutto dalla prospettiva di un bancone da bar.» Lavallier gli sorrise. «Va bene. Allora avrò il piacere di condurla a fare un giro panoramico.» Hotel Hyatt «È a Kalk!» 31 Da oltre un'ora, centinaia di curiosi e giornalisti aspettavano davanti allo Hyatt. Alcuni ascoltavano la radio della polizia. Un tizio agitò il cellulare tramite il quale aveva appena ricevuto la notizia. La folla cominciò ad animarsi. Erano rimasti tutti ad aspettare il presidente, ma ormai era giunto il momento che si facesse vivo davvero. Se era a Kalk, allora era una questione di minuti. Con eventi di quel tipo, era sempre un terno al lotto. Non si sapeva mai esattamente se valesse la pena di precipitarsi sul posto, di attendere con perseveranza, di aver fatto la fila per conquistare il biglietto pool. Per i giornalisti, talvolta era l'Eldorado e talaltra era una fregatura. A volte la personalità in questione se la prendeva comoda, altre volte non si faceva vedere per niente. La maggior parte degli astanti aveva già saputo tramite il cellulare che l'arrivo era stato deludente rispetto alle attese e che, per di più, i giornalisti presenti all'aeroporto avevano dovuto sottoporsi a un controllo non annunciato. Il presidente non aveva fatto nemmeno un cenno di saluto e non aveva rivolto neanche una parola alla stampa. Era così che andavano le cose. Chi s'illudeva che il lavoro del corrispondente consistesse nel corrispondere, doveva ricredersi e constatare che si trattava soprattutto di aspettare e che spesso era come aspettare Godot. Eppure ogni volta ci si appostava nei luoghi promessi con tutta l'attrezzatura, aspettando e sperando, sperando e aspettando. La zona era controllata dalla polizia in tutte le direzioni. Sul tetto del 31
Quartiere di Colonia, non lontano dal quartiere di Deutz, dove si trova l'Hotel Hyatt. (N.d.T.)
Landschaftsverband, 32 tiratori scelti con fucili di precisione e binocoli erano accovacciati dietro sacchi di sabbia. Imbarcazioni della polizia fluviale e altre imbarcazioni più piccole, con a bordo sommozzatori bardati di tutto punto, pattugliavano il Reno. Sperare e aspettare. Prima sentirono l'elicottero, che si avvicinò da sud-est, fece un giro sopra l'hotel e poi sorvolò il Reno. Furono sguainate le prime macchine fotografiche, vennero preparate le telecamere e le aste telescopiche dei microfoni. Poi tutto si svolse a velocità fulminea. Alcune volanti della polizia con le sirene accese, tre limousine nere coi finestrini scuri e altri veicoli del convoglio arrivarono a tutto gas, imboccando le curve a grande velocità, e s'infilarono nell'ultima strada prima della rampa di accesso dell'hotel. Sarebbe stata una fregatura. Le limousine scomparvero nel garage sotterraneo dello Hyatt senza nemmeno fermarsi, a una tale velocità che era impossibile stabilire dove fosse il presidente. Gli altri veicoli si fermarono davanti all'ingresso principale. Dai furgoni blindati e dai fuoristrada scesero un sacco di persone che entrarono nell'hotel. Quando fu chiaro che il presidente non si sarebbe visto, venne scattata qualche foto senza grande entusiasmo e vennero girate alcune sequenze poco eloquenti, in cui sarebbero apparsi membri dei Servizi segreti e dell'FBI che andavano di qua e di là. Clinton non si era fatto vedere. Forse, il giorno dopo, sarebbe stato più clemente coi giornalisti. In un altro momento e in un altro luogo, dopo aver aspettato e sperato, sperato e aspettato. Una volta raggiunto l'accesso del garage sotterraneo, le limousine rallentarono. Guterson aveva telefonato per tutto il tragitto dall'aeroporto all'hotel. Nel frattempo ne sapeva molto più di prima e ciò che sapeva non lo riempiva di gioia. Un attentato con un laser. Santi numi! Avevano tentato di uccidere Clinton con un laser. Le Lincoln rallentarono ulteriormente e si fermarono. Guterson scese e guardò le anime servizievoli che aprivano la portiera a Clinton. Era stato 32
Il Landschaftsverband Rheinland è l'autorità regionale della Renania, e la sua sede è adiacente all'Hotel Hyatt. (N.d.T.)
srotolato un tappeto rosso. Dagli ascensori che conducevano all'interno dell'hotel si avvicinava un gruppetto di persone. Il presidente uscì: la cordialità fatta persona. Neppure una traccia d'irritazione. Guterson sperò che l'umore di Clinton fosse migliorato davvero. Mentalmente ricapitolò chi stava stringendo la mano al presidente in quel momento: la prima fu Nadja Horst, direttrice commerciale dello Hyatt. Il secondo Jan Peter Van der Ree, direttore dell'hotel. Gli altri erano accessori, irrilevanti in quel momento. Ma naturalmente anche loro erano stati sottoposti a un controllo rigoroso. Chiunque fosse in servizio in quell'hotel e avesse a che fare anche solo lontanamente col soggiorno del presidente era stato passato al vaglio da Carl Seamus Drake, il direttore della sicurezza per il settore alloggi. Al confronto, un apparecchio a raggi X era una pentola di zuppa densa. Scesi dalla terza limousine, l'ambasciatore Kornblum e sua moglie si unirono al presidente. Clinton chiacchierava coi suoi ospiti. Fu servito da bere. Poi andarono agli ascensori. Van der Ree chiese notizie di Hillary e Chelsea. Clinton rispose che sarebbero arrivate di lì a due giorni da Palermo, come da programma, e che non vedeva l'ora di riabbracciarle. Vennero scambiate parole armoniose sulla famiglia. Guterson chiamò a sé tre uomini e poi salirono al sesto piano insieme col presidente. Clinton invitò Guterson a entrare nella suite con lui, chiuse la porta alle sue spalle e bevve un sorso della sua Coca-Cola light. «Dunque», disse. Con la coda dell'occhio, il responsabile della sicurezza notò il gigantesco mazzo di rose color champagne che lo Hyatt aveva preparato per il suo ospite. La suite era fantastica. Nulla lasciava intuire che era andata a fuoco e che le riparazioni avessero procurato una montagna di preoccupazioni aggiuntive ai suoi uomini. «Signor presidente, stando a quanto si sa finora, all'aeroporto qualcuno ha tentato di... ehm... di colpirla con un'arma laser», replicò Guterson. Clinton lo fissò. «Questa è davvero nuova.» In effetti, non era la prima volta che i Servizi segreti salvavano il presidente da un attentato, anche se di solito la notizia non arrivava alla stampa. I più scaltri riuscivano a recuperare qualche dato dalla CIA: gli enti preposti alla sicurezza conoscevano per nome circa ottomila potenziali attentatori di Clinton, e ciò negli Stati Uniti soltanto. Alcuni ci avevano già provato e avevano fallito, altri avevano perso la vita nel tentativo e tutto ciò era registrato in dossier segreti. Non si voleva creare un'atmosfera d'incertezza. Bill Clinton si era abituato a gestire senza troppe complicazioni il rischio
continuo che gli derivava soprattutto dalle file dei suprematisti bianchi e dalle milizie fondamentaliste. Vari siti Internet destroidi incitavano apertamente all'assassinio del presidente e c'erano sempre teste calde che si sentivano in obbligo d'ideare attentati, gran parte dei quali andava a monte prima ancora di raggiungere lo stadio della praticabilità. Guterson spiegò in breve al presidente ciò che Lex gli aveva riferito. «Una situazione ambigua», commentò Clinton. «Ma non c'è nessuna vera prova che fosse un attentato nei miei confronti.» «Non ci facciamo illusioni», replicò Guterson. «Piuttosto potremmo chiederci se l'intera storia abbia una qualche rilevanza. Hanno trovato qualche specchio, va bene. Lex ha parlato di un uomo che ha messo loro la pulce nell'orecchio. Al momento, si affidano soprattutto alle sue dichiarazioni e sembra che finora abbia avuto ragione. D'altra parte, molti aspetti della faccenda indicano un coinvolgimento dell'IRA. Se questo laser esiste davvero, allora forse doveva colpire Blair.» «Hmm...» Clinton cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza. «Possiamo rafforzare la sicurezza», aggiunse Guterson. «E lo faremo. Se vuole un consiglio, ceni allo Hyatt e vada a dormire.» «Con tutto il rispetto per il suo consiglio, ma crede veramente che, se stasera mi presento in una di quelle birrerie, saranno lì ad aspettarmi in cucina con una pistola laser?» Guterson sospirò. «No, naturalmente no.» La seccatura era che Clinton aveva ragione. In linea di principio luoghi come la Malzmühle o la Küppers Brauhaus erano più sicuri di qualsiasi altro. «A proposito, il direttore dell'albergo mi ha raccontato una cosa interessante», aggiunse il presidente. «A quanto pare, qui nei dintorni c'è una birreria nella quale servono cotolette spesse come una Bibbia. Si chiama Lommetsman o qualcosa del genere.» «Mai sentita», replicò Guterson, tormentato da brutti presagi. «Di sicuro non l'abbiamo controllata.» «Allora la controlli. Per Dio, Norman, non faccia il muso lungo! Può informarsi, no?» «Non è saggio. Non sappiamo...» «Quando il locale è pieno, si siedono su casse di legno, usando le guide telefoniche a mo' di cuscini», continuò Clinton, ridacchiando. «E, a quanto pare, la birra è strepitosa. Van der Ree dice che è la migliore.» «Ce ne occuperemo», promise Guterson.
Clinton tornò subito serio. «Si occupi soprattutto di questa storia dell'attentato, Norman. Niente più intoppi.» «No, signor presidente.» «Dopodomani arriva la mia famiglia. Non voglio correre nessun rischio.» «Non succederà nulla, signor presidente.» Squillò il telefono. Guterson voleva correre all'apparecchio, ma Clinton lo anticipò. «Ah, buonasera! Sì, grazie... sì, aspetto...» Guterson fece dietrofront e si diresse verso la porta. «Signor cancelliere!» sentì, mentre usciva. «Grazie mille, sono arrivato bene. Un hotel da sogno, tutti molto gentili. Già adoro questa città. Come, scusi? No, nessun problema... a parte forse uno...» Hotel Hyatt. Quartier generale dei Servizi segreti «Il signor Carl Seamus Drake?» «Sono io.» «Il colonnello Graham Lex per lei, signore. Glielo passo.» Drake era alla finestra della suite del sesto piano che era stata trasformata nella centrale dei Servizi segreti, settore alloggi, e guardava il Reno. Aspettava quella chiamata. L'aspettava con ansia, dopo che, mezz'ora prima, Norman Guterson l'aveva informato telefonicamente degli eventi dell'aeroporto. Il capo della sicurezza l'aveva chiamato quand'era ancora in auto, nel momento in cui il seguito di Clinton lasciava l'aeroporto di Colonia/Bonn. Drake aveva dato subito istruzioni di rafforzare le unità di sicurezza nell'hotel e nei dintorni. Come sempre, in casi del genere, i Servizi segreti si erano portati molto più personale di quello necessario per il normale svolgimento della visita di Stato, in modo che i direttori di settore potessero contare su cospicue riserve in caso di necessità. Guterson non si era detto per niente sicuro che si trattasse davvero di un'emergenza, ma aveva anche fatto capire che il presidente insisteva nel volersi recare alla Malzmühle, a prescindere da quanto fossero gustose le bistecche dello Hyatt. Perciò Drake aveva fatto il suo dovere e si era messo in contatto con Pete Nesbit, il direttore del settore centro città. Nesbit era già al corrente dei fatti e aveva aumentato drasticamente il numero degli agenti dei Servizi segreti nelle birrerie. Drake si sarebbe occupato di evitare che qualcosa andasse storto nel tragitto dall'hotel al locale. Non si sapeva ancora per certo in quale locale sarebbe andato
Clinton. Drake immaginava che pure il BKA avesse aumentato il proprio contingente. Erano stati radunati agenti della SEK da tutta la Germania. L'americano sapeva che il duomo, sull'altra sponda del Reno, era letteralmente infestato di tiratori scelti. Erano appesi a dozzine ad archi e cornicioni, accovacciati in angolini e su ponteggi e torrette. E adesso probabilmente ce n'erano ancora di più. Lo stesso valeva per il ponte della ferrovia. Avevano calcolato persino la possibilità che qualcuno sparasse alla suite di Clinton con un lanciarazzi anticarro da un treno in corsa. In sostanza, non c'era nulla che i Servizi segreti non mettessero in conto, a livello ipotetico. Se la CIA era responsabile della sicurezza del Paese in senso lato, i Servizi segreti si occupavano del benessere della famiglia del presidente e dei principali membri del governo. Un'evoluzione sorprendente per un'istituzione nata centotrentacinque anni prima allo scopo di contrastare la circolazione di denaro falso. Soltanto nel 1901, dopo l'assassinio del presidente William McKinley, il Congresso aveva ampliato le competenze dei Servizi segreti. Da allora, le sue responsabilità erano cresciute di pari passo con l'inventiva dei potenziali attentatori. Alla fine del XX secolo, simulare in un'esercitazione tutte le possibilità immaginabili per lo svolgimento di una visita presidenziale era un compito quasi impossibile per i Servizi segreti. Quindi si cercava di affrontare l'imponderabile riducendo al minimo i rischi. Perciò, quella sera, non aveva nessuna importanza da dove provenisse la segnalazione di un attentato. La sicurezza del presidente era indivisibile, come il presidente. Se andava nella zona B, perché quella A era ritenuta una zona critica, automaticamente anche B diventava una zona critica. A Colonia c'erano tre responsabili di settore, Lex, Drake e Nesbit, tutti sottoposti a un supervisore che aveva la responsabilità complessiva della visita del presidente. Ognuno di loro godeva di tutte le libertà possibili e poteva aumentare o ridurre a propria discrezione le forze di sicurezza, ma, se uno segnalava un sospetto, ciò valeva automaticamente per tutti e tre. Chiunque avesse tentato di attaccare Clinton all'aeroporto avrebbe potuto riprovarci anche nel centro cittadino oppure all'hotel. Non aveva importanza se ciò avveniva realmente. Da quel momento in poi, il soggiorno di Clinton a Colonia era soggetto a misure di sicurezza più severe. Drake si allontanò dalla finestra e si sedette sul bordo di una scrivania. La stanza era pervasa dal sommesso ronzio dei computer. Diversi agenti parlavano al telefono su altre linee. Tramite un aereo ricognitore che sor-
volava incessantemente Colonia a diecimila metri di quota, erano in costante contatto con Washington. «Che succede là fuori?» chiese Drake a Lex. «Se lo sapessimo!» replicò Lex, all'altro capo della linea. «Sembra una cosa folle, ma sai come può andare a finire in questi casi. A quanto pare, qualche pazzo ha tentato di uccidere Clinton con un laser.» «Un laser?» gli fece eco Drake. Lex cominciò a riferirgli ciò che sapeva. Un sacco di cose, come poté constatare Drake, soddisfatto. Informazioni più che sufficienti per dargli motivo di agire. «E quest'affare, questo YAG, è qui a Colonia?» chiese. «A quanto pare», replicò Lex. «O nei dintorni. Il professore irlandese ha parlato di un raggio di cinque o sei chilometri. Al momento è in volo con Lavallier...» «Chi è Lavallier?» «Non è nella tua giurisdizione. Polizia dell'aeroporto.» «È molto preoccupante», commentò Drake. «Finché questo laser non viene trovato, la sicurezza del presidente è ancora in pericolo.» «Le ricerche continuano.» «Come faranno a trovare questo YAG in una metropoli?» «Oh, hanno mobilitato un grande schieramento di forze di polizia. La bestia potrebbe essere lunga una decina di metri. Deve trovarsi nelle immediate vicinanze di un edificio molto alto oppure di un qualche rilievo di altezza esorbitante.» «Perché?» «Perché l'impulso del laser deve essere trasmesso da un punto all'altro senza imbattersi in alberi o case.» «Capisco», disse Drake dopo una pausa. «Penso che ci daremo da fare anche noi nelle indagini. Forse terremo d'occhio i punti sopraelevati.» «Non so se sia davvero una buona idea, Carl. Tu non conosci la città e probabilmente il BKA non ne sarebbe entusiasta.» «Sono già stato in Germania qualche anno fa, come attaché a Bonn. Conosco molto bene Colonia. C'è stato un attentato nei confronti di Clinton, quindi me ne frego cordialmente se il BKA è entusiasta o no. E poi ormai dovrebbero sapere che noi abbiamo le nostre idee.» «Fai quello che vuoi», replicò Lex. «Adesso il presidente è tuo. Trattalo con cura. Dov'è, a proposito?» «È appena arrivato», replicò Drake. «Gli ho stretto la mano, sembrava molto rilassato.»
«Sì, Clinton è l'ottimismo in persona. Vuole ancora andare in quella birreria?» «Vuole andare ovunque», rispose Drake, cercando di far trapelare un po' di rassegnazione. «Lo circonderemo di guardie del corpo. Ho già disposto tutto. Non succederà nulla.» «Bene. Vi terremo al corrente.» Drake riagganciò e rimase con lo sguardo fisso davanti a sé. Tutto ciò che poteva andare storto era andato storto. Almeno da quel momento in poi avrebbe fatto in modo che l'ultima parte del piano si svolgesse senza intoppi. Lex gli aveva appena dato la legittimazione necessaria. Compose il numero di un agente che alloggiava in un hotel dei dintorni col suo gruppo e apparteneva alle riserve. «Ci siamo», disse, e riagganciò subito. Eric Lavallier «Devo ammettere che sono un emerito idiota», disse Liam. Lavallier lo guardò storto. «È soltanto una mia impressione o, detto da lei, sembra che si stia facendo un complimento da sé?» L'elicottero passò sopra l'autostrada, diretto verso il Reno. Da un quarto d'ora sorvolavano i dintorni dell'aeroporto. Il sole era basso e immergeva i sobborghi e la brughiera in colori caldi, inframmezzati da ombre lunghe. Liam indicò un gruppo di edifici piuttosto alti. «Case popolari di Porz-Eil», spiegò Lavallier. «Avviciniamoci», propose Liam. L'elicottero puntò il muso verso il basso e si diresse verso i palazzi. Dopo pochi secondi, Liam fece cenno di no. «Troppo basse.» «Perché è un idiota?» chiese Lavallier. «Mi piacerebbe avere la storica opportunità di sentirlo dalla sua stessa voce.» L'altro fece una smorfia. «Be', la faccenda di Mahder.» «Ah!» «Forse non è stato uno dei miei momenti di maggiore lucidità. Voglio dire, soltanto Mahder poteva sapere che avevo scoperto la faccenda dello YAG. Dopodiché è stato tutto sin troppo facile. Avrei dovuto sorprendermi del fatto che mi avesse fatto salire così facilmente sui ponteggi.» «Avrebbe dovuto sorprendersi del fatto che non l'avesse portata subito alla stazione di polizia o sul piazzale», disse Lavallier in tono severo.
«Come le è venuto in mente di mettersi a fare il funambolo nel T2? Come se non ci fossero state migliaia di possibilità per avvertirci!» «Era quello che volevo fare», si difese Liam. «No, O'Connor!» lo corresse Lavallier con un sorriso sottile. «Lei voleva giocare al detective, perché ci riteneva troppo stupidi. È vero?» «Soltanto all'inizio.» «Se Peček non si fosse tradito, quand'eravate sul tetto, sarebbe stato lei a finire stecchito sul piazzale. Per non parlare della sicurezza del presidente.» «Se non fossi salito sul tetto, lei non avrebbe nemmeno scoperto che Mahder è un traditore», ribatté Liam, impassibile. «E io non avrei capito che Mahder aveva mentito sugli incarichi di Paddy. Le significative informazioni sul palazzo dell'UPS e sul capannone insonorizzato le deve a me, ricorda?» «Abbiamo setacciato il capannone insonorizzato anche senza il suo gentile aiuto», precisò Lavallier. «Bene. Patta. Facciamo pace?» Liam gli porse la mano destra fasciata. Lavallier esitò, poi la strinse delicatamente. «Non abbiamo mai fatto la guerra, in realtà.» «No, ma è tanto divertente andare d'accordo. Cos'è quello?» «Cosa?» «L'impianto industriale. Quella zona estesa.» «È la raffineria Shell di Godorf», rispose scettico Lavallier. «Ma qui siamo ad almeno dieci chilometri.» «E là dietro?» «Ma dove ha lasciato il senso dell'orientamento? Il grattacielo della Lufthansa è ancora più lontano, la torre della fiera ancora di più. Tra un po' mi proporrà il duomo!» Liam allargò le braccia, come a indicare che aveva esaurito le risorse. Lavallier si mordicchiò il labbro inferiore. Avevano scoperto una serie di edifici elevati nei dintorni dell'aeroporto che potevano essere adatti allo scopo. Da alcuni di essi si sarebbe potuto tranquillamente sparare sopra i boschi di Kònigsforst. Altri erano sulle colline, molto oltre l'aeroporto. Una fabbrica, una centrale elettrica, un vecchio acquedotto, ripetitori... Verso il Reno, nei vari quartieri di Porz, erano sparsi a casaccio diversi edifici residenziali con numerosi piani. Il risultato delle ricerche non era particolarmente incoraggiante. Qualche chilometro più in là, c'era un secondo elicottero in perlustrazione. Erano in
contatto via radio e riferivano subito a terra ciò che, a loro parere, richiedeva ulteriori indagini. Comunque gli agenti avrebbero impiegato un'eternità a trovare il laser, sempre che lo trovassero. Anche individuare il terzo specchio avrebbe rivelato soltanto che si erano avvicinati ulteriormente allo YAG, ma non dove si trovava. Certo, non sarebbe stato male. Se avessero individuato e distrutto tutti gli specchi in posizione sopraelevata, lo YAG sarebbe stato inservibile per i terroristi. Ma la ricerca a terra non rientrava nella giurisdizione di Lavallier. Con la ricognizione in elicottero era arrivato ai limiti dei suoi poteri. Il suo campo d'azione era la sicurezza dell'aeroporto e dei politici che vi arrivavano. Si chiedeva chi ci potesse essere dietro l'attentato. Sicuramente non Martin Mahder. Alla luce delle indagini, quello del direttore di reparto sembrava sempre più un classico caso di corruzione. Fino a quel momento, Mahder non era rientrato a casa. Sua moglie non era stata in grado di dire dove fosse, probabilmente perché non sapeva davvero nulla. Ma avevano notato che il direttore di reparto faceva una vita da signore. Sì, probabilmente era stato corrotto. Un caso tipico. Mahder non aveva la stoffa per programmare un'azione del genere. Né lui, né Clohessy, né Peček. Soprattutto nessuno dei tre aveva un movente, a parte il fatto che Clohessy era già stato coinvolto in azioni terroristiche. Per quanto riguardava Peček, avevano scoperto che suo padre proveniva dalla Serbia, dove viveva gran parte della sua famiglia, ma ciò non cambiava i risultati del primo controllo. Il curriculum di Peček era impeccabile. Sempre che fosse il suo vero curriculum. Poi c'era la faccenda dell'editor scomparso. Per Lavallier, non c'era dubbio che fosse caduto prigioniero o vittima dei terroristi. Le ricerche proseguivano a pieno regime anche per trovare Kuhn. Lavallier aveva la sensazione che, non appena avessero trovato il laser, avrebbero trovato anche l'editor e l'idea gli suscitava una paura indefinita. Si chinò verso il pilota e gli toccò la spalla. «Interrompiamo», disse. Il pilota annuì e si lanciò in una rapidissima spirale discendente. Liam impallidì e involontariamente si aggrappò a Lavallier. Almeno in quel caso c'era motivo di aver paura! «Vertigini?» chiese Lavallier, fingendosi esageratamente preoccupato. «Un volo l'ha già fatto oggi, anche se di soli tre metri.» «Lo stomaco», disse a fatica Liam.
«Lo stomaco...» Lavallier non riuscì a evitare un ghigno. «Forse dovrebbe passare a un'alimentazione a base di solidi, amico mio. Diventa più facile sopportare situazioni come questa.» «Lavallier, lei non ha capito il senso e lo scopo del piacere», replicò Liam ansimando, mentre continuavano a scendere. «Consiste nel rovinarsi il più possibile. Io sono un maestro indiscusso in questa disciplina. Vuole cimentarsi con me?» Lavallier ci rifletté. «No», rispose infine. «Peccato, potremmo divertirci un mondo.» «Sinceramente, questo tipo di piacere presenta prospettive un po' troppo ristrette per i miei gusti.» «Oh, Dio mio, Lavallier!» gemette Liam. «Com'è acido! Finché la carenza di prospettive si può affogare nello champagne, non vedo motivo di cercare prospettive. Anzi, mi correggo, avrei una prospettiva da offrire, se il nostro Icaro alla cloche non mette fine alla sua picchiata.» «E sarebbe?» chiese Lavallier divertito. «Riempirle l'elicottero di vomito.» Lavallier guardò Liam, incerto. «Scenda con un po' più di delicatezza», disse al pilota. Gli sarebbe piaciuto vedere l'impertinente professore soffrire ancora un po', anche se aveva salvato la vita a Clinton. Ma quell'uomo era notoriamente capace di tutto. In più, in un certo senso, O'Connor cominciava a piacergli. Centro spedizioni Mahder lanciava occhiate impaurite alla strada, ma non c'era nessuno in vista. La piccola zona industriale, anzi più che altro una strada industriale, era in gran parte deserta. Appoggiato a una recinzione, aspettò Jana. Sapeva che prima o poi sarebbe arrivata, a meno che non fosse stata arrestata all'aeroporto. Ma era improbabile. Anche se O'Connor aveva scoperto quasi tutto, era impossibile che sapesse di Jana. E, anche se lo scienziato o la polizia fossero giunti alla conclusione che l'attentatore andava cercato tra i fotografi, non avrebbero trovato nulla che potesse incriminare lei. Certo, poteva essere arrestata comunque. Forse la sua falsa identità non avrebbe retto ai controlli. Forse avevano qualcuno abbastanza esperto di macchine fotografiche da scoprire la piccolissima fessura in cui veniva in-
filato il chip. Forse, forse. Non sapeva nemmeno se l'attentato fosse riuscito, giacché aveva lasciato precipitosamente l'aeroporto. Prima era andato a un piccolo cimitero, a qualche strada di distanza dal centro spedizioni, aveva parcheggiato l'auto sotto un albero e si era infilato nella cappella, in preda al terrore, finché l'attesa non era diventata insopportabile. Non era un professionista di quelle faccende. Sapeva che, in casi simili, si doveva sparire dalla circolazione; tuttavia ignorava come farlo per non essere beccato. Naturalmente avrebbero cercato anche la sua auto. Che peccato! Eh, poteva scordarsela. L'aveva lasciata a malincuore sotto gli alberi. Non appena Jana o Gruškov gli avessero dato il denaro, avrebbe cercato di noleggiare una macchina. Mentre sgusciava fuori dalla cappella, si era sentito come una lepre in fuga dai cani. Aveva camminato rasente ai muri e probabilmente si era mosso in maniera così sospetta da essere notato da chiunque. Mentre attraversava la strada, aveva sentito un tuffo al cuore, aspettandosi di vedersi improvvisamente circondato da schiere di poliziotti. Era come se fosse marchiato a fuoco, come se tutti potessero vedere chi era e cosa aveva fatto. Ma nessuno gli aveva prestato attenzione, nessuno si era fermato puntando il dito contro di lui. In breve aveva raggiunto la tranquilla stradina fiancheggiata da strutture industriali, dove nessuno lavorava più a quell'ora e dove non c'era anima viva in giro. Guardò l'edificio del centro spedizioni sull'altro lato della strada. Era rimasto troppo a lungo nella cappella? L'incertezza era terribile. Forse Jana era già arrivata e se l'era svignata insieme con Gruškov. Che ne era stato dell'uomo, che, come sapeva, tenevano prigioniero? Era morto anche lui? Quel Mirko aveva ucciso un'altra persona? Poi gli venne in mente di aver sentito Jana dire che, nel giorno dell'attentato, Mirko non sarebbe più stato lì. In un certo senso, ciò confermava il sospetto di Mahder che, dietro quel commando, ci fosse qualcun altro. Non gli avevano raccontato praticamente nulla e lui era stato abbastanza saggio da non chiedere. Non voleva sapere nulla che potesse costargli la testa. Non voleva nemmeno sapere se quel maledetto tizio fosse morto, ma gli sarebbe stato pressoché impossibile non scoprirlo. Un rumore si mescolò ai suoi pensieri e diventò sempre più forte. Uno scoppiettio regolare che si avvicinava ad alta velocità. Mahder alzò lo
sguardo al cielo e rimase paralizzato. Un elicottero! Proveniva dalla direzione dell'aeroporto, volando a quota abbastanza bassa, e sembrava che puntasse dritto su di lui. Si spaventò a morte. Fu travolto dall'istinto di fuga. Ma lo avrebbero visto correre, forse gli avrebbero sparato. Tremando, restò dov'era, con lo sguardo fisso sull'apparecchio. Si vedeva chiaramente che era un elicottero della polizia. Stavano cercando lui. Gli si strinse lo stomaco per la paura. Il rombo fece tremare l'aria. Per un momento, Mahder temette che l'elicottero atterrasse direttamente sulla strada, lì, sotto i suoi occhi. Diversi tiratori scelti ne sarebbero scesi precipitosamente, lui avrebbe alzato le mani, loro l'avrebbero frainteso e gli avrebbero sparato. Chiuse gli occhi e annaspò. Poi l'elicottero passò oltre. Il rumore delle pale divenne sempre più fievole e dopo un po' scomparve del tutto. Con un'imprecazione sommessa, Mahder si mise in movimento e attraversò la strada, mentre estraeva la FROG e componeva il numero di Gruškov. «Qui Mahder», disse, quando il russo si annunciò con un: «Da!» Quindi aggiunse: «No nomi». Il pelato non parlava molto bene tedesco, a differenza di Jana o Mirko, che conoscevano parecchie lingue. Quando Jana e Gruškov parlavano tra loro, in genere era in italiano, mentre con Mirko la donna parlava in serbo. Per Mahder non faceva differenza. A parte qualche parola d'inglese, non conosceva nessuna lingua straniera. «Va bene», sibilò. «Dov'è? È al centro spedizioni?» Gruškov rimase in silenzio per qualche istante. «Dov'è lei?» chiese quindi. «Qui fuori. Jana è già arrivata?» «Niet. No nomi!» Ma che pericolo c'era, ormai? Oppure... «Mi spiace», cercò di placarlo Mahder. «Mi faccia entrare, va bene? Qua fuori mi sento troppo a disagio.» «Fuori?» «Accidenti, Gruškov, sono proprio davanti al centro spedizioni! Ci sono sbirri ovunque, perciò apra il cancello, maledizione!» Con un ronzio, qualcosa si mise in movimento sopra Mahder. Lui alzò lo sguardo e scorse l'occhio della telecamera di sorveglianza. A poco a poco il cancello si aprì e Mahder raggiunse il capannone, attraversando di fretta
il cortile. Si aspettava di vedere lo YAG posizionato all'esterno, ma Gruškov aveva già fatto rientrare il laser oppure non lo aveva mandato affatto in cortile. Lo specchio adattivo e il suo cavalletto erano scomparsi sotto la finta cassa. Avevano sparato o no? Non era importante. Voleva i suoi soldi e li voleva subito. Forse Gruškov poteva pagarlo. Se il russo avesse fatto storie, Mahder si sarebbe fatto sentire. Non poteva permettersi di aspettare Jana. Aprì la porta con slancio ed entrò nel capannone. «Gruškov, dove...» Sentì qualcosa di freddo su una tempia. «Silenzio», disse Gruškov. Mahder si bloccò. Tutto il suo coraggio si era volatilizzato. Il russo gli premeva contro la testa la canna di una pistola, mentre con l'altra mano chiudeva la porta. Lo sguardo di Mahder vagò per il capannone. Lo YAG non era al suo posto, al centro, ma vicino alla parete chiusa che dava sul cortile. Evidentemente l'avevano spostato, come da programma, e poi l'avevano fatto rientrare nel capannone, arretrandolo a sufficienza per chiudere le saracinesche. Dal lato opposto arrivò un gemito. C'era un uomo disteso a terra. Mahder immaginò che fosse l'editor. Era vivo. «È tutto a posto, Gruškov», disse con tutta la calma che riuscì a racimolare. «Non faccio niente. Me ne sto buono buono.» «Qualcuno con te?» s'informò l'altro. «Sono solo. Voglio soltanto i miei soldi e poi sparisco. D'accordo? Soltanto i miei soldi.» Gruškov fece un passo indietro e abbassò la pistola, ma continuò a tenerla puntata su di lui. «Aspettare», disse. «Aspettare Jana.» Mahder annuì vigorosamente. «Okay, okay, aspetto Jana. Aspettiamo Jana. Sono solo, Gruškov, davvero. Può smettere di farmi paura. Metta via quel maledetto affare!» Il russo esitò. Poi annuì e si mise l'arma nella cintola. Mahder trasse un sospiro di sollievo. Fece qualche passo avanti verso il centro del capannone e si girò verso il russo. «Allora? È andata?» «Andata?» gli fece eco Gruškov. «Clinton!» Il russo scosse il capo. Ci fu un lampo nelle lenti dei suoi occhiali. «Non funziona», rispose. Mahder inghiottì. Non si aspettava un esito diverso, ma la certezza che
era andato tutto storto rafforzava la sua paura. Era stato scoperto. Solo il cielo sapeva cosa aveva già messo in moto la polizia. «Non mi può dare i soldi?» chiese. «Devo assolutamente scomparire.» «Soldi Jana», replicò Gruškov. Mahder sospirò. Poi scrollò le spalle. Attaccare briga con Gruškov non sarebbe servito a nulla. Gente come lui era un po' troppo per l'integerrimo direttore del reparto tecnico Martin Mahder, la cui vita, fino a sei mesi prima, era stata assolutamente tranquilla. Aspettare Jana. Sempre che Jana arrivasse. Aeroporto Colonia/Bonn Le due ore peggiori della sua vita terminarono quando vide Liam scendere dall'elicottero. Quando la raggiunse, attraversando il piazzale, sembrava goffo e incerto sulle gambe. Aveva le mani fasciate e il suo elegante abito era macchiato di qualcosa di scuro che poteva essere sangue. Nel complesso, sembrava appena uscito da tre round con Mike Tyson, ma aveva lo sguardo raggiante, come se avesse vinto un torneo di Gameboy. Dietro di lui, Lavallier saltò giù dall'elicottero. «Kika!» esclamò Liam, concentrando un mezzo romanzo in quelle due sillabe. Due sillabe che parlavano di bevute di whisky al Jameson's, di momenti di riflessione nella penombra di una stanza d'albergo e di universi sconosciuti all'interno di vecchi alberi; che dichiaravano obsoleta qualsiasi percezione della distanza; ma soprattutto che confermavano come il sipario non si sarebbe chiuso così rapidamente. Tutto ha una sua validità, dicevano quelle due sillabe. Facciamo dell'evento uno stato. Continuiamo a scrivere questa storia. Liam fece un ampio sorriso. Si scambiarono un bacio fuggevole. Un saluto non diverso dal loro congedo del pomeriggio. Aveva qualcosa di rassicurante, come se non fosse successo nulla di particolare. Riprendevano da dov'erano rimasti. Lei gli raccontò che la poliziotta aveva risposto al cellulare. Liam inarcò le sopracciglia. «Me lo ha taciuto», disse, costernato. «Naturalmente ti avrei richiamato e avrei salvato il mondo più tardi.» «Pensavo che fossi morto.» «Ah, Kika! Ero troppo occupato a pensare a te per poter morire.» «Menti», replicò lei in tono allegro. «Hai un aspetto terribile.»
«Certo che mento. Le menzogne sono la cortesia degli amanti. Oh, la voce dell'America!» Fino a quel momento, Aaron Silberman si era tenuto in disparte. Si unì a loro, sorridendo. Liam gli prese la mano destra, la strinse e sussultò. «Faccia attenzione alle mani», gli disse Silberman con uno sguardo scettico alle fasciature. «Che ha combinato? Sembra Boris Karloff sul set della Mummia.» Liam scrollò le spalle. «Niente d'insolito. Sono stato quasi ucciso, ho sfondato un tetto e sono caduto su una montagna di schegge di vetro. Dopodiché Lavallier e io abbiamo dato una piccola mano a Bill Clinton.» «Capisco. Cose di tutti i giorni.» Liam rise. Raggiunsero insieme la Tenda VIP. C'erano rimasti soltanto pochi agenti in divisa, Bär e un altro commissario capo, del comando di polizia di Colonia, che era arrivato poco dopo Kika e si era intrattenuto con Silberman nella tenda in quell'ultimo quarto d'ora. I diplomatici giapponesi e i rappresentanti del ministero degli Esteri avevano lasciato subito l'aeroporto, dopo che Obuchi era sceso incolume dal suo 747 ed era partito in auto. Quello era l'ultimo arrivo importante della giornata, come le avevano detto, a parte il fatto che non le avevano detto nient'altro. Lavallier li raggiunse dopo un po'. Erano passate le nove. La zona transennata per la stampa era deserta. In compenso, c'era una grande attività fra la Tenda Stampa e il checkpoint. Kika sapeva soltanto che era in corso un controllo approfondito e che i giornalisti lasciavano l'area uno alla volta, tutti con un consistente ritardo. In cima al capannone insonorizzato, c'erano persone in tuta da lavoro, impegnate a esaminare un determinato punto fra i tiranti. Kika avrebbe potuto baciare Silberman. Il blocco dell'autostrada per l'aeroporto aveva paralizzato tutto il traffico circostante. Quando aveva raggiunto Silberman al cellulare, sconvolta dalla preoccupazione, l'auto infilata tra due camion da trenta tonnellate e prossima a fermarsi del tutto, il convoglio delle auto di Clinton aveva appena lasciato l'aeroporto. Per prima cosa, Silberman le aveva assicurato che Liam era vivo e vegeto. Subito l'ingorgo aveva smesso di sembrarle così spaventoso e improvvisamente tutto aveva ricominciato a muoversi. Il blocco era stato sospeso e il traffico si era normalizzato. Più o meno nello stesso istante in cui il 747 giapponese atterrava, Kika aveva raggiunto la stazione di polizia dell'aeroporto e lì aveva azionato a comando le ghiandole lacrimali. Dopo che il premier giapponese si era dileguato, diretto al centro cittadino, una volante della polizia l'aveva portata sul piazzale. Era arrivata quando Liam e Lavallier
erano già in volo su Colonia. Silberman le aveva raccontato quel poco che sapeva. In quanto corrispondente alla Casa Bianca, non si era dovuto abbassare a condividere il ghetto della stampa con gli altri giornalisti, ma aveva avuto accesso direttamente al piazzale e, in base ai piani originari, sarebbe dovuto andare allo Hyatt insieme col convoglio. Ma gli uomini di Bär l'avevano pregato di rimanere. Una richiesta alla quale il giornalista aveva prontamente acconsentito, nella speranza di scoprire le cose davvero interessanti. Bär e l'altro commissario avevano messo a verbale che lui e Liam, nell'ambito di una dialettica collaborazione coadiuvata da grandi quantità di porto, avevano elaborato un'ardita teoria. Le domande cortesi di Silberman erano state ignorate con altrettanta cortesia. L'unica cosa che aveva scoperto era l'assenza di qualsiasi traccia di Kuhn. Curioso, chiese a Liam se la loro teoria si fosse rivelata corretta. «Non le hanno detto nulla?» replicò Liam, esterrefatto. Lavallier li raggiunse e scosse il capo. «E continueremo a non dire nulla. Purtroppo vi devo sottrarre ancora una volta il professor O'Connor», aggiunse, con uno sguardo a Kika e Silberman. «Il comando di polizia di Colonia deve registrare la sua deposizione.» «Ancora?» chiese Liam, corrugando la fronte. «Non possiamo andarcene a casa, finalmente?» «Lei ha parlato con noi», precisò Lavallier. «In realtà, avrei dovuto trasferirla al comando di polizia di Colonia. Il suo ruolo è stato alquanto sospetto. Si ritenga fortunato di essere venuto da noi.» «Lavallier, intende comportarsi in modo così importuno con me?» «Sono contento che la cosa non la lasci indifferente.» Liam fece una smorfia. «Posso venire anch'io?» chiese Kika. Lavallier scosse il capo. «Sarebbe contro le disposizioni.» Lei gli fece un sorriso gentile. «Spero che lei riesca a concordare con le disposizioni di riportarmelo indietro al più presto.» «Oh, lo faranno di certo», la tranquillizzò Liam, dandole un bacio. «Ma, se sono rapidi come quando devono trovare la soluzione di determinati misfatti, conviene che tu prenda una stanza all'Holiday Inn.» «Ah, sì?» Lavallier sogghignò. «Mi è sembrato di percepire una certa ironia, pregiato professore.» «Nient'affatto.» Liam cinse amichevolmente le spalle del commissario e andò con lui verso la tenda. «Da tempo ho perso il vizio di essere ironico. Non ne vale la pena. Ogni volta credevo di fare ironia, e invece tutti mi ri-
velavano che avevo semplicemente descritto la realtà.» Jana Toccava a lei. Interruppe la chiacchierata con un gruppo di giornalisti di sesso maschile, che evidentemente provavano tutti un grande piacere a intrattenersi con lei. Nessuno sapeva cosa stesse succedendo. I poliziotti erano cortesi e si scusavano di continuo per quella procedura, dando la colpa agli americani, che avevano chiesto di eseguire un controllo approfondito anche all'uscita. Eventi straordinari? Non ce n'erano stati. Semplici precauzioni di sicurezza americane. Il trauma di Dallas. Si sapeva. «Mah», disse Peter Fetzer, mentre lei usciva. Era appoggiato a un tavolino all'ingresso della tenda e si rigirava tra le dita un bicchiere di acqua minerale. «Una routine strana, non trovi? Gli americani fanno sempre quello che gli pare. È tipico loro.» «Già.» Jana si fermò e scrollò le spalle. «Sono strani. Fanno la guardia al loro presidente ancora meglio degli inglesi coi gioielli della corona.» «Sì, ma Clinton se n'è andato da un pezzo. Che vogliono ancora da noi?» Finse di riflettere. «Forse vogliono soltanto andare sul sicuro», rispose. «Da domani ci saranno bagni di folla e così via. Un altro controllo non può far male.» Fetzer inarcò le sopracciglia e la guardò, dubbioso. «Sei molto comprensiva.» Jana masticò la gomma. «Per niente», replicò. «Voglio soltanto uscire di qui.» Seguì l'agente sul prato. Altri poliziotti, alcuni con giubbotti antiproiettile, erano distribuiti nella zona. C'erano quasi più poliziotti che giornalisti. «È davvero una stronzata», disse, mentre entrava nel container. All'interno la aspettavano due uomini, una donna in uniforme e un'altra donna in borghese. «Che cosa è una stronzata?» chiese uno degli agenti. «Tutto. Questa storia.» Era una buona cosa scaldarsi un po'. Sicuramente prestavano maggiore attenzione a chi cercava di passare inosservato. Non avrebbe fatto loro quel favore. «Non possiamo farci niente», replicò un altro poliziotto, più anziano, con un certo rammarico. «Ha scattato delle foto?» «E che altro?»
«Usi le pose rimaste e poi tolga i rullini dalle macchine.» «Accidenti! Io ci campo, con le foto!» lo aggredì. «È per questo che vogliamo che lei tolga le pellicole. Dobbiamo esaminare le sue macchine fotografiche.» Con evidente risentimento, scattò dapprima le pose rimaste nella Nikon e riavvolse il rullino. Poi ripeté la procedura con la Olympus. «Che stronzata», brontolò. «Già era una giornata di merda...» Ancora una volta le furono porte scuse brevi e formali, poi le macchine fotografiche furono mandate al controllo radioscopico. Jana si lamentò ancora un po' e si comportò da maleducata mentre svuotava le tasche e veniva controllata col metal detector. La gomma da masticare l'aiutava a mangiarsi le parole. Il suo tedesco era perfetto, ma connotato da una certa durezza della pronuncia. Ecco perché aveva scelto un'identità austriaca. Una persona non austriaca non sarebbe stata in grado d'individuare il suo accento. Così, nel dubbio, poteva sembrare chi diceva di essere. Quand'era stata controllata per la prima volta nel container, l'agente si era accontentato di un'occhiata alla sua tessera d'accredito. Invece, in quel caso, le sue generalità vennero trasmesse via radio per un ulteriore controllo. Jana non era preoccupata per la sua identità. Cordula Malik sarebbe passata, purché a nessuno venisse in mente d'informarsi sulla sua morte. In seguito all'accredito, Jana aveva presentato il certificato di nascita e i documenti falsi al BKA e all'ufficio stampa del governo. Sapeva che il controllo sarebbe stato fatto presso quei due enti, non in Austria. A meno che gli agenti in quel container la trovassero estremamente sospetta, non c'era nulla da scoprire per quanto riguardava Cordula Malik. Era una che lavorava da free lance per diverse testate. Il BKA aveva persino alcuni ritagli di giornale. L'agente donna la perquisì e le guardò in bocca. Jana dovette togliersi la cintura e passare nuovamente attraverso il metal detector. La fibbia della cintura fu esaminata, proprio come il suo portamonete, le chiavi dell'hotel e le chiavi dell'auto. «Sta all'Hotel Flandrischer Hof?» «Hmm...» Nel frattempo, la donna in borghese esaminava dapprima il cellulare, poi le due macchine fotografiche. Guardare altrove in modo ostentato sarebbe risultato sospetto, perciò Jana si mostrò interessata. «Non mi romperà mica qualcosa, eh?» brontolò. «Certo che no», replicò la donna.
«Lo sa quanto costano quegli affari? Io sono una free lance. Non ho un editore che me le ricompra, se lei me le sfascia.» La donna studiò attentamente l'interno della Nikon. Poi si diede da fare con l'obiettivo. «Non rompiamo nulla.» Jana masticò la sua gomma e continuò a guardare. «Lei è di Colonia?» chiese alla donna. Quest'ultima alzò lo sguardo. «Sì.» «Dove si può andare da queste parti?» «Che cosa intende?» «Locali, discoteche.» La donna non rispose. Aggrottando le sopracciglia, esaminò ancora l'interno della Nikon. Passò lentamente l'indice all'interno della macchina. All'improvviso, nel container calò un silenzio di tomba. Jana non aveva la tendenza a perdere la calma. Continuò a comportarsi come si sarebbe comportata Cordula Malik, se non fosse stata Jana, ma il cuore prese a batterle all'impazzata. L'esperta abbassò lentamente la macchina fotografica. Sopra la radice del naso le si era formato un profondo solco verticale. La guardò con una strana espressione negli occhi. Non poteva essere! Jana deglutì. Le sembrò che tutta la saliva fosse scomparsa nella gomma da masticare. Aveva la bocca secca e appiccicosa. «Aspetti...» cominciò la donna. Poi la sua espressione si rischiarò. «Io sono troppo vecchia per queste cose, ma mia figlia va regolarmente in discoteca. Ce n'è una che si chiama Paul's Club sulla Rudolfplatz, credo, nel Crowne Plaza. Non so se sia quello che cerca lei, ma può sempre provare.» Posò la Nikon e prese la Olympus. «Grazie», rispose Jana. «Un sacco gentile da parte sua.» Il resto si svolse rapidamente. La donna concluse l'ispezione delle macchine fotografiche. Fu scattata una foto di Jana, le vennero prese le impronte digitali. Poi le furono restituiti i suoi averi e poté andarsene. Quando uscì dal container, si sentì come se fosse entrata in un nuovo mondo, privo di paure e costrizioni. Il mondo della ragazza con la pancia all'aria. E forse con un piercing all'ombelico. Prima o poi. Diede un'occhiata al parcheggio. Un autobus navetta aspettava col motore acceso. Se non altro, i responsabili del controllo si erano preoccupati di garantire autobus a intervalli regolari diretti a Heumarkt.
Diede un'occhiata all'orologio. Le nove e un quarto. Se l'era cavata più in fretta di quanto si aspettasse. Da Heumarkt avrebbe preso un taxi fino a Rudolfplatz. L'auto di Laura Firidolfi era nel garage sotterraneo del Crowne Plaza, dove si trovava anche il Paul's Club. Quasi un buon motivo per divertirsi. Kika Wagner «Allora avevamo ragione», disse Silberman davanti alla Tenda VIP, mentre aspettavano il ritorno di Liam. «Avevamo sicuramente ragione.» Kika osservava il cielo. Il blu aveva sfumature color mercurio. Il sole sfiorava l'orizzonte e la luce era assorbita da una serie di strie. Uno stormo di rondini passò rasente sopra di lei, a caccia d'insetti. Anche se ormai era sera, faceva ancora molto caldo. «Su che cosa avevate ragione?» chiese. «Liam e io eravamo giunti alla conclusione che qualcuno avrebbe tentato di uccidere il presidente degli Stati Uniti. Conosco abbastanza bene le procedure di sicurezza americane. I Servizi segreti decidono in anticipo ciò che faranno. Non è nel loro stile rilanciare sui controlli, come se fosse un'idea dell'ultima ora. Avevamo ragione. E Liam sa tutto.» «Lo sapevamo già ieri», replicò Kika. «È solo che non ci abbiamo creduto, altrimenti non avremmo commesso tutti questi errori.» «Sì, lo so. Liam mi ha raccontato delle vostre attività notturne.» Lei inarcò le sopracciglia, fingendosi inorridita. «Voglio sperare che non le abbia raccontato proprio tutto!» Silberman sorrise. Kika guardò a est, dove un jet di linea stava atterrando al di là dello Scalo Merci. Dopo qualche istante aggiunse: «Il nostro problema è che non siamo in grado di affrontare questo tipo di nuda realtà, credo». «Che intende?» «Ciò che è successo qui, di solito lo vediamo nei film.» Indicò il punto in cui il jet stava scomparendo al di là dei capannoni. «Quella è la nostra realtà, Aaron. Cose normali. Non so come sia per lei, ma io di solito vivo le avventure nella mia testa. Me ne sto seduta davanti al televisore e ascolto le notizie. Se l'annunciatore mi racconta che ogni giorno, in tutto il mondo, ci sono rapimenti e omicidi, non lo metto in dubbio nemmeno per un secondo. Però, se mi guardasse negli occhi e mi dicesse che domani toccherà a me, non gli crederei. Alle persone reali non succede ciò che av-
viene ai personaggi della TV. La cosa potrà farla ridere, tuttavia a me riesce difficile distinguere tra gli spot pubblicitari e le notizie. Tutto sembra fatto su misura per noi, tutto fa parte dello spettacolo. Il fatto che ieri Liam e io siamo andati a pedinare Paddy è un indizio di quanto non abbiamo preso sul serio la situazione. Liam è un giocherellone e io ho giocato con lui. Altrimenti saremmo andati di corsa alla prima stazione di polizia. Non ho davvero riflettuto su ciò che stavamo facendo. Per me era chiaro che a nessuno di noi sarebbe successo qualcosa, non ho avuto paura nemmeno per un istante. Non è folle? Abbiamo seguito un'astrusa sceneggiatura cinematografica, non la ragione. Se fossimo stati più assennati, Kuhn non sarebbe scomparso!» Silberman annuì. «Venga, facciamo due passi.» Camminarono lungo la Tenda VIP. Kika sentì posarsi su di lei gli sguardi dei poliziotti che li osservavano dalle transenne. «Lei si sente in colpa per via di Kuhn», disse Silberman. Non era una domanda, ma una constatazione. «Sì.» «Non deve. Non lo avete costretto a fare nulla.» «Saremmo dovuti andare alla polizia.» «Ciò che avreste dovuto fare e ciò che avete fatto riguarda il vostro modo di rapportarvi alla realtà. Ciò che ha fatto Kuhn riguarda il suo. Personalmente sono molto turbato per la sua scomparsa, ma lei non ha nessuna responsabilità al riguardo.» «Se fossimo andati alla polizia, non avremmo messo in pericolo nessuno.» «Kika.» Il giornalista si fermò e la guardò. Le piaceva il suo viso tondo e gentile, con gli occhi piccoli. «La capisco molto bene. Per quanto mi riguarda, ho fatto esperienze diverse da lei. Sono stato corrispondente in Bosnia e in Kuwait. Ho trasmesso le immagini che lei vede alla TV. C'era chi puntava armi contro le persone; noi abbiamo usato le telecamere. Naturalmente ci siamo sforzati di essere obiettivi, ma la scienza c'insegna che non possiamo osservare nulla senza modificarlo per il semplice fatto di averlo osservato. Sono stato in prima linea, ho visto miserie e violenze e non abbiamo fatto altro che parlarne. Eppure mi sono chiesto spesso se con le nostre telecamere non abbiamo modificato la realtà. Se ciò che vedevo coi miei occhi potesse essere inteso come realtà in senso lato. Ognuno vede un suo frammento di realtà. Anche le persone che riprendevamo lo sapevano e cercavano di apparire in un determinato modo. Avrebbero condotto la
guerra nella stessa maniera se non avessero saputo di avere le telecamere puntate addosso, che quelle immagini avrebbero fatto il giro del mondo? Quante guerre ormai vengono decise dai media, più che dalle bombe? In che misura vi contribuiamo, senza volerlo e senza saperlo? Noi dovevamo decidere quali immagini trasmettere, ma agivamo nel modo giusto? Prima lei ha detto che non siamo in grado di affrontare la nuda realtà. È vero. Nemmeno io ero in grado di farlo. Ora, alla fine di questa guerra del Kosovo che tutti noi abbiamo combattuto fino a qualche settimana fa, che ne sappiamo? Cosa sa l'americano medio, o un tedesco o un russo, degli albanesi del Kosovo e della Serbia? In ultima analisi, gli uni e l'altra non sono che figuranti in una discussione astratta sui diritti umani e sul diritto internazionale. Tutti si sentono in dovere di discutere della legittimità della guerra e della difesa dei valori, ma, fra tutti coloro che lanciano moniti e puntano il dito, ce n'è forse uno che si sia veramente interessato alla storia del popolo serbo e kosovaro? E noi corrispondenti, cosa siamo riusciti a fare? Di che parliamo? Miloševič è pericoloso e amorale, ma, se, col mio lavoro, finisco per demonizzare i serbi, vuol dire che il mio frammento di verità ha distorto la realtà. E lei si tormenta, chiedendosi se fosse giusto giocare ai detective! Lei non era al fronte, Kika, però era disposta a dare spazio a una prospettiva tremenda, cioè che qualcuno potesse compiere un attentato in questo aeroporto. Come si può pretendere di agire nel modo giusto in una situazione del genere? Quanta normalità bisogna lasciarsi alle spalle di fronte a un tale shock? Lei non ha esperienza di queste cose; è già notevole che lei e Liam abbiate fatto qualcosa e, a quanto pare, abbiate avuto successo. Se Clinton fosse morto, sarebbe stato un colpo durissimo per il mondo. Avete contribuito a impedire un crimine e, se, di conseguenza, ne è avvenuto un altro, voi non ne avete colpa. Lo vuole capire, per favore?» Kika lo guardò. Poi si chinò verso di lui e gli diede un bacio sulla guancia. «Allora dobbiamo metterci sulle tracce della verità», commentò. «Temo che sia un obiettivo troppo alto», sorrise Silberman. «In effetti, credo che il mondo non voglia proprio conoscere la verità.» «È vero», disse Liam alle loro spalle. Li raggiunse e arricciò il naso. «Puzzo come un maiale! Sudore, sangue... Questo sicuramente il mondo non lo vuole sapere. Che ne dici, Kika, mi porti a fare una doccia?» Tenda VIP
Lex uscì da dietro il paravento che separava la centrale di comando dalla parte della Tenda VIP destinata ai visitatori. Senza fretta andò al salottino, si lasciò cadere su una delle ampie poltrone e li guardò, l'uno dopo l'altro. O'Connor se n'era appena andato. «È degno di fiducia?» chiese. «Possiamo giudicare soltanto in base ai fatti», rispose Bär. «O'Connor è stato controllato fino al midollo. La sua personalità mostra alcuni aspetti singolari, ma è pulito. E ci ha aiutato.» «Potrebbe avere i suoi motivi per aiutarci.» «Non vedo nessuna ragione di trattenerlo», intervenne Lavallier. «Abbiamo il suo numero di cellulare, se necessario possiamo raggiungerlo ovunque. Lo stesso vale per Kika Wagner e Aaron Silberman.» Lex annuì. «La polizia ha molto da fare in queste ore...» Lavallier sapeva a cosa si riferiva. Parallelamente alla ricerca del laser, che vedeva impegnati anche rinforzi provenienti dalle regioni orientali del Paese, la polizia stava cercando anche Clohessy, Mahder e Kuhn, per non parlare dei controlli ai giornalisti. «You got no dog in this fight», disse Lavallier sorridendo. Lex ricambiò con un sorriso appena accennato. «Ho fatto alcune telefonate. Naturalmente devo sottolineare che sono soltanto un messaggero. Gli Stati Uniti non hanno intenzione d'intervenire in indagini tedesche, se non ci viene richiesto espressamente, ma... Be', c'è stato richiesto.» «Naturalmente», commentò Brauer, il direttore del SI. Lex accavallò le gambe. «Allo stato delle cose, il presidente americano e il cancelliere tedesco sono stati informati a grandi linee. Il ministero degli Esteri ha dato la notizia al supervisore dei Servizi segreti, ai tre direttori di settore, cioè Nesbit, Drake e io, e al vostro capo della polizia, Granitzka. Non si è parlato dei dettagli.» Il commissario del comando di Colonia si schiarì la voce. «In collaborazione coi Servizi segreti, il BKA ha azzardato un'analisi lampo. Pure ipotesi, s'intende. Prima di entrare nei dettagli... il collega Lavallier ha fatto un buon lavoro, possiamo ritenerci d'accordo su questo?» «Non c'è dubbio», rispose Bär. Lex annuì. «Avete già...» cominciò Lavallier. «Sì, certo. Dall'esame degli specchi, che sono stati smontati, è emerso che abbiamo a che fare con un'azione high-tech di livello eccezionale. Gli eventuali moventi di un Martin Mahder o di un Josef Peček sono trascurabili. A nostro parere, quei due sono stati corrotti, ma ci appare comunque
degno di nota il coinvolgimento di un tecnico serbo. Se il curriculum di Peček non è una leggenda, lui è cresciuto in Germania, però metà della sua famiglia vive a Užice.» «Anche il curriculum di Clohessy era una leggenda», osservò Brauer. «Come dicevo, siamo soltanto all'inizio. Evidentemente si tratta di un tentativo di compiere un attentato per mezzo di un laser. Sappiamo poco di esperimenti di questo tipo. Sono in corso progetti negli USA, dove fin dai tempi del programma Star Wars si lavora di continuo alle armi laser, attualmente con...» Il commissario s'interruppe, prese un fax e cominciò a leggere una definizione. «... US Air Force Airborne...» «US Air Force Airborne Laser Theater Ballistic-Missile Defense System», completò Lex. «Sistema di difesa tramite laser.» «Esatto, si chiama proprio così. Per la difesa antimissile. Inoltre in Israele c'era un altro progetto di difesa antimissile, chiamato Nautilus, attualmente ripristinato col nome Thel. In Germania, è in corso da alcuni anni un lavoro di ricerca e di sviluppo nel campo delle armi laser di media potenza.» Fece una pausa. «Il quarto Paese innovatore nel campo della ricerca strategica sul laser è la Russia.» Lavallier congiunse i polpastrelli e guardò per terra. A quel punto, era soltanto una persona di fiducia e un ascoltatore. Il suo ruolo nel caso era concluso. Tuttavia disse: «Se i possibili fornitori del laser sono la Russia, gli Stati Uniti, la Germania o Israele e abbiamo un indiziato tedesco, uno irlandese e uno serbo, cosa dice il BKA? Cosa concludono i Servizi segreti?» Diede un'occhiata a Lex. «Ciò che concludiamo anche noi», rispose il commissario del comando di Colonia. «Procediamo come gli scolari con le frazioni. Semplifichiamo, andiamo per esclusione. C'è stata una guerra contro la Serbia che ai russi non è piaciuta. In questo conflitto, gli Stati Uniti vengono considerati nemici degli interessi russi e serbi. Israele e gli Stati Uniti sono alleati. Prendere in considerazione la Germania sarebbe ridicolo. E qui abbiamo chiaramente a che fare con un caso di terrorismo di Stato.» «Come arriva a questa conclusione?» chiese Brauer. «Il terrorismo high-tech è sempre il risultato d'immense risorse finanziarie e scientifiche», dichiarò Lex. «Questo giochetto col laser puzza di Russia.» «Terrorismo di Stato?» scattò Brauer, spazientito. «Ma siete impazziti? Perché i russi dovrebbero voler uccidere Bill Clinton?» «Non i russi! Forse i russi hanno fornito quell'aggeggio, ma i serbi l'han-
no utilizzato.» Per qualche istante nella tenda calò il silenzio. «Un attentato serbo, dunque», constatò infine Lavallier. Lex sorrise e scosse il capo. «Nessun attentato.» «Come, scusi?» «Non c'è stato nessun attentato. Come dicevo prima, il cancelliere e il presidente sono stati messi al corrente, anche se non nei dettagli, e hanno concordato...» «Un momento!» Lavallier alzò le mani. «Giusto per capire. Lei sostiene che i serbi...» «Lavallier, non ce ne frega un cazzo se sono stati i serbi», ringhiò il commissario del comando di Colonia. «O se hanno sparato con un laser o con una pistola ad acqua. La realtà è che la NATO ha vinto una guerra ed è stata in grado di dimostrare la sua forza. La realtà è che un tizio dei Balcani non mette in pericolo un presidente americano. La realtà è che la Germania non ha interesse a farsi rimproverare carenze a livello di sicurezza...» «Abbiamo mandato a monte un cazzutissimo attentato!» «... anche perché qui sta sorgendo un aeroporto che potrebbe assumere una posizione di primo piano in Europa. La richiesta è venuta dall'amministrazione cittadina e le autorità governative hanno acconsentito.» «Non hanno avuto nemmeno il tempo di acconsentire a qualcosa.» «Cose del genere avvengono alla svelta.» Lavallier fissò Lex. «Io sono soltanto un messaggero», ribadì l'americano. «Ma è un'assurdità», sbuffò Lavallier. «Se ritengono opportuno che passiamo la cosa sotto silenzio, per me va bene. Ma in pratica non è fattibile. Cosa dovremmo raccontare ai tiratori scelti? Sono state coinvolte un sacco di persone, i nostri uomini, O'Connor, la sua addetta stampa, Silberman, l'intero management dell'aeroporto e, in questo momento, stiamo ancora trattenendo i giornalisti. Clinton esce dall'aereo e poi se la svigna di nuovo dentro e voi pretendete di tenere segreto tutto?» «Non è successo nulla», replicò il commissario del comando di Colonia. «Quel seccatore della sicurezza ha rimandato dentro Clinton ancor prima che facesse in tempo a uscire. A tutti è sembrato che il presidente fosse rientrato spontaneamente, forse perché aveva dimenticato qualcosa o perché voleva dire due parole a qualcuno.» «Insomma giochiamo a fare James Bond?»
«Per favore, Eric.» Bär alzò le mani, con un'espressione infelice. Evidentemente la situazione lo metteva in imbarazzo. «Nessuno mette in dubbio il tuo lavoro, qui.» «Anche se si è sbagliato», aggiunse il commissario del comando di Colonia. «Sbagliato?» «Lei ha soltanto seguito una segnalazione», precisò Lex. «Anche O'Connor si è sbagliato. Avevamo un problema con l'IRA all'aeroporto, che per qualche tempo ci ha innervosito un po'. Giustamente abbiamo rimandato il presidente a bordo dell'aereo e per sicurezza abbiamo messo fuori uso alcune innocue videocamere di sorveglianza. Questo è un primo abbozzo... forse prima di domani ci sarà venuto in mente qualcosa di meglio. Se qualcuno fa domande, bisogna smentirlo con pacata sicurezza. Prima o poi, lo stesso O'Connor giungerà alla conclusione di essersi immaginato tutto.» Lavallier era senza parole. Guardò Brauer, ma il direttore del SI si limitò a scrollare le spalle. «Mi sono sbagliato?» Lex si chinò in avanti. «Lavallier, dobbiamo tutto a lei. Nessuno dimenticherà ciò che lei ha fatto. Ma, d'altro canto, nessuno vuole che emerga. Deve capirlo! Non ci sarebbe niente di peggio che dare a un nemico demoralizzato un appiglio per risollevarsi. Se l'Occidente si mostrasse vulnerabile sarebbe un pessimo segnale. Per l'Iran, per l'Iraq, per i falchi russi, per la Libia, per la Corea del Nord e chi più ne ha più ne metta. Abbiamo vinto una guerra, abbiamo il diritto dalla nostra parte. È questo che conta.» Lavallier annuì. «Il diritto, certo.» Lex sorrise. «Lo sapevo che avrebbe capito.» Jana «Lei è una fotografa?» chiese il taxista turco. Lei annuì. «Ho capito da macchina fotografica», disse l'uomo. «Fa foto per giornale?» «Hmm...» «Presidente americano è qui.» «Lo so.» Infilò l'auto nella corsia dei taxi al Crowne Plaza e fermò il tassametro. «Tutto pieno di polizia», disse con disappunto. «Città esagera. Strade chiu-
se.» «È un uomo importante», replicò Jana. «Sì, ma qui no problema. Colonia diversa. Altre città, tanti delinquenti. Francoforte, dice mio collega, brutto. Anche Düsseldorf. Ma Colonia? Tredici marchi, per favore.» «Quindici», disse Jana, porgendogli una banconota da venti. L'uomo rovistò nel portamonete e le diede il resto, tutto in monete da un marco. «È a Hyatt stasera», esclamò. «Se vuole fare foto.» «Chi? Clinton?» «Sì.» «Grazie.» Aprì la portiera e scese. «Ci penserò.» Raggiunse a passo tranquillo le scale che portavano ai parcheggi sotterranei. Nelle aree verdi davanti all'hotel bighellonava una mezza dozzina di punkabbestia con qualche cane dal pelo stopposo. Bevevano birra e parlavano a voce alta. Uno stava urinando sul marciapiede. Jana entrò in ascensore e scese al secondo livello, dov'era parcheggiata l'Audi. Mise le macchine fotografiche nel bagagliaio, accese il motore e uscì dal parcheggio. Percorsi pochi metri di strada, raggiunse un semaforo rosso, prese la FROG e compose il numero di Gruškov. «Da», fece la voce del russo. «Negativo», disse lei subito. «Lo so. Dov'è?» «Per strada. Nessun problema a uscire. Qualche cosa di preoccupante lì?» «MM è qui e vuole i soldi.» «C'è altro cui io debba prestare attenzione?» «Nulla. Nessuno ci ha trovato, ancora.» Gruškov esitò. Poi aggiunse: «Il nostro ospite non sta bene. Temo di avergli rotto qualche costola. O qualcos'altro». Jana sospirò. Aveva sperato che Gruškov non perdesse più la calma. Lo aveva protetto a condizione che si controllasse. D'altra parte, ormai, cosa cambiava? «Non gli rompa nient'altro», disse. «Tra dieci minuti sarò lì, se non ci sono contrattempi.» «Mi... spiace.» «Va bene.» Riagganciò e svoltò nella Hahnenstraße. Tenendo il volante con la mano
sinistra, allungò la destra verso il vano portaoggetti e lo aprì. Il suo sguardo cadde sulla fondina con la Glock 17 e la piccola Walther PP. La vista delle due armi la tranquillizzò. Con una leggera spinta, chiuse lo sportellino e riepilogò mentalmente le tappe successive. Al centro spedizioni. Vestire di nuovo i panni di Laura. Due problemi da risolvere: Mahder e poi Kuhn. Per una notte, tornare all'Hotel Hoppers. Ripartire la mattina dopo. Avrebbe preferito levare le tende subito, ma la polizia avrebbe tenuto d'occhio qualsiasi irregolarità. Avrebbe controllato tutti gli hotel per scoprire chi era partito precipitosamente quella sera. Lei e Gruškov sarebbero partiti come si conveniva. Dopo colazione. Avrebbero pagato il conto e se ne sarebbero andati. Avrebbero attraversato il confine entrando in Svizzera e da lì avrebbero proseguito per vie traverse. Ognuno per la sua strada. No, pensò, Jana non andrà da nessuna parte. Perché Jana non esisterà più. Come si sarebbe chiamata? Chi sarebbe diventata? Chi poteva essere? Kika Wagner Diede un passaggio a Silberman, che altrimenti avrebbe dovuto aspettare la navetta successiva. La Golf attraversò lo Scalo Merci e raggiunse il checkpoint che separava la parte della Heinrich-Steinmann-Straße interna all'aeroporto da quella ufficialmente transitabile. Gli agenti erano già informati. Diedero una rapida occhiata alla targa e lasciarono passare l'auto. Da quel punto cominciava il groviglio di strade dell'enorme cantiere. Mentre Kika cercava di non perdersi, Liam raccontò brevemente gli eventi delle ultime ore. Silberman ascoltava con un sorriso sapiente e non diceva nulla. «Bär e quel musone del comando della polizia di Colonia mi hanno ingiunto di tenere la bocca chiusa», concluse Liam. «Questo vale anche per voi. Come nei film polizieschi.» «Non 'come'. Siamo in un film poliziesco», osservò Kika. «Be', adesso ne siamo quasi usciti.» Liam sospirò. «Il povero Kuhn. Ora è lui il nostro giallo.» «Se l'attentato è comunque fallito, forse lo lasceranno andare», ipotizzò
Silberman. «Se è fallito», gli fece eco Liam. «Che significa?» «Da qualche parte, a Colonia, ci potrebbe essere un secondo sistema di specchi. Finché non si trova il punto più alto, non c'è motivo di dare il cessato allarme. Bär deve trovare il laser per poter chiudere il caso.» «L'esperto sei tu», osservò Kika. «Avranno ancora bisogno di te.» Lui la guardò e increspò il naso. «Spero, signora Wagner, che pure lei abbia ancora bisogno di me.» Lei fece una risata sommessa. Intanto si stavano avvicinando all'entrata dell'autostrada. «Come stai?» gli chiese. «Hai dolori?» «Praticamente no.» Liam si guardò le mani bendate quasi con orgoglio. «Caduto per la patria. Se ci fossero registi tedeschi a girare film patriottici negli Stati Uniti, anche un irlandese potrebbe salvare la vita al presidente. Già... avrebbe potuto essere un bel divertimento, se non fosse per Kuhn...» S'interruppe e guardò fuori dal finestrino. «Va bene, non è stato divertente. Lasciamo perdere. Dato che dobbiamo tenere la bocca cucita, non arriviamo nemmeno ai titoli di testa, perciò tanto vale che proseguiamo il mio tour promozionale. Ho ancora qualche abito pulito.» «Sempre che te lo permettano.» «Io vado dove mi pare.» Kika rimase in silenzio. Eccola che tornava, quella sensazione di... no, non era distacco, piuttosto paura che lui potesse scomparire dalla sua vita. Come essere sbattuti giù da un treno in corsa. E, nel contempo, la paura di restare a bordo. Un amore con Liam sarebbe stato il paradiso, ma una vita con lui? Fu come se lui le avesse letto il pensiero. «Naturalmente parto soltanto a condizione che tu venga con me», aggiunse. Agitò le mani e sorrise. «Devi voltare le pagine quando leggo. È... ehm... soltanto per ragioni pratiche.» «Non posso certo ignorare le ragioni pratiche», replicò lei. Poi scosse tristemente il capo. «Ma non posso. Devo restare qui, Liam. Finché non saprò che cos'è successo a Kuhn.» Lui la guardò serio. Poi annuì. «Sì, certo.» Viaggiavano sull'autostrada. Liam si voltò verso Silberman per dirgli qualcosa, invece restò per qualche secondo a bocca aperta, con lo sguardo fisso su un punto lontano, dietro il giornalista. «Fermati un momento», disse poi, rivolto a Kika. Lei pensò di aver capito male. «Non posso fermarmi qui.»
«Merda! Non si vede più.» Liam si voltò nella direzione di marcia e assunse un'espressione pensierosa. «Puoi tornare indietro?» «Cos'era?» «Forse mi sbaglio. Devo vederlo un'altra volta, d'accordo?» «Come vuoi», rispose Kika. «Abbi soltanto due minuti di pazienza.» Imboccò l'uscita successiva e poi rientrò in autostrada nella direzione opposta. In breve si avvicinarono nuovamente allo svincolo dell'aeroporto. «Rallenta», la esortò Liam, mentre scrutava l'esterno. «Devo uscire qui?» «No... Eccolo! Eccolo là!» Kika rallentò ancora di più. Silberman si era chinato in avanti. Entrambi guardavano dove puntava l'indice teso di Liam. Alla loro destra, non molto lontano dall'autostrada, si ergeva un unico palo sottile. La parte inferiore era coperta dagli alberi. «Sembra un traliccio della corrente», osservò Silberman. «Un traliccio molto alto», commentò Kika. «Sì.» Eccitato, Liam indicò un punto davanti a loro. «Prendi la prossima uscita. Non voglio sbilanciarmi troppo, ma quell'affare potrebbe essere alto abbastanza. Strano, probabilmente ci siamo passati sopra con l'elicottero.» «Cercavate edifici, non pali isolati.» «Cercavamo qualsiasi cosa. Ma è sempre così: le cose evidenti sfuggono. Comunque hai ragione, tutt'intorno non c'è nulla. Sai come ci si arriva?» «Sai davvero come mettere in difficoltà le persone», rispose Kika, guardando il palo che diventava sempre più piccolo nello specchietto retrovisore. «Sono anni che vengo a Colonia soltanto occasionalmente. Non sono mai stata in questa zona.» «Ma tu sei Kika, la divina», esclamò Liam, facendo la parte della sua coscienza. «Ce la puoi fare.» «Forse dovrebbe telefonare a Lavallier», propose Silberman. «Prima diamo un'occhiata. Potrei sbagliarmi.» L'uscita successiva, dopo quasi tre chilometri, era lo svincolo PorzWahn. Kika svoltò a destra due volte, finché non si ritrovarono a viaggiare paralleli all'autostrada, ma in senso inverso. Per un po' attraversarono campi aperti, poi a destra e a sinistra cominciarono a spuntare edifici. «Porz-Urbach», disse lei, leggendo il cartello che delimitava la località. «E adesso?» «Era molto vicino allo svincolo autostradale. Dobbiamo entrare in que-
sta località.» «Se non c'è altro da fare...» Era un'area residenziale con abitazioni unifamiliari e plurifamiliari, una chiesa, un piccolo cimitero, quasi nessun negozio o locale. «Una zona residenziale», constatò Silberman, mentre percorrevano il dedalo di stradine. Diverse volte furono costretti a tornare indietro a causa dei sensi unici. Non c'era quasi nessuno in giro. Poi, all'improvviso, senza quasi accorgersene, passarono sotto l'autostrada. «Indietro», disse Liam. «Sì, capitano!» «A destra.» Svoltarono in una strada stretta che, dopo qualche centinaio di metri, faceva una curva. C'era una serie di edifici piatti, evidentemente era una zona industriale. Una vasta area era racchiusa da un'inferriata alta diversi metri. Lì in mezzo sorgeva il palo. Raggiunsero la recinzione e scesero dall'auto. Un cartello indicava diverse aziende, oltre alla società del gas e dell'elettricità GEW. Non c'era anima viva. Liam passò le dita sull'inferriata e corrugò la fronte. «Allora?» chiese Silberman. «È soltanto un palo oppure dobbiamo prepararci al prossimo guaio?» «Ci sono migliaia di pali come questo», mormorò Liam, rivolgendosi soprattutto a se stesso. «Ma pochi in una posizione così strategica. Credo che tra qui e l'aeroporto ci siano soprattutto alberi.» «Come fai a saperlo?» chiese Kika. «L'ho visto dall'elicottero.» «Non aveva parlato di un raggio di cinque chilometri?» intervenne Silberman. «Stando alle mie stime, qui non siamo a cinque chilometri dall'aeroporto.» «Avevo detto da tre a cinque chilometri.» Liam fece qualche passo lungo l'inferriata. «Forse anche di più. Comunque ha ragione, sono al massimo tre chilometri. Il che vuol dire che lo Scalo Merci è ancora un chilometro più in là. Di solito, quando si parla dell'aeroporto, si pensa sempre al terminal. Quindi tre chilometri... o forse addirittura quattro?» Li chiamò con un cenno della mano. «Venite un attimo qui.» Lo raggiunsero e seguirono il suo sguardo, che era rivolto verso l'alto. «Questa bella inferriata mi tenta, con quelle comode traverse nella parte superiore», disse allegramente. «Se mi date una mano, mi ci posso aggrap-
pare.» «Tu non ti aggrappi proprio a niente», replicò Kika, decisa. «Non puoi, con quelle mani.» Liam la guardò, assorto nei suoi pensieri. Poi, all'improvviso, fece un salto e riuscì ad afferrare la traversa più bassa. Emise un leggero gemito, ma poi si issò. «Si è trovata un compagno appassionante», disse Silberman a Kika. «Già», annuì lei con aria cupa. «Si può definire anche così.» Jana Jana non credeva ai propri occhi. Aveva parcheggiato l'Audi sotto il cavalcavia dell'autostrada, lasciando le macchine fotografiche nel bagagliaio. Indossava un giubbotto che nascondeva la fondina con la Glock e la Walther PP infilate nei pantaloni. Aveva percorso il breve tratto a piedi. E, con suo grande stupore, si ritrovò a constatare che c'era qualcuno intorno alla recinzione del terreno della GEW. Riconobbe subito O'Connor. Dopo che Gruškov aveva scovato la homepage del fisico su Internet, Jana aveva studiato la sua foto con attenzione. Il professore era vanitoso, e a ragione. Non contento di attendere il premio Nobel e di essere in cima alle classifiche dei bestseller, aveva deciso di diventare il flagello personale di Jana. S'infilò subito in un ingresso e da lì scrutò la fine della strada. La donna doveva essere Kika Wagner. Kuhn e Gruškov avevano detto che era molto alta. Jana non sapeva chi fosse l'uomo di colore. Piena di rabbia, si avvicinò di soppiatto. In altre circostanze, sarebbe entrata con la massima naturalezza nel centro spedizioni. I membri del commando erano entrati e usciti diverse volte nel corso dell'ultimo mese, anche in presenza di altre persone o di veicoli. Il modo migliore per mimetizzarsi era mostrarsi apertamente. Tuttavia la presenza di O'Connor cambiava i parametri. Il fatto che fosse appeso all'inferriata e manifestasse un chiaro interesse per quel palo non prometteva niente di buono. Non le serviva nessuna spiegazione per capire cosa ci facesse lì. E cosa avesse scoperto. Involontariamente provò una certa ammirazione. Mentre si avvicinava al gruppetto, rifletteva sul da farsi. Non le restava molto tempo. Intanto riusciva a sentire frammenti della conversazione dei
tre. Nessuno guardò verso di lei; anche se lo avessero fatto, comunque, non avrebbero notato nulla. Jana sarebbe riuscita a rendersi invisibile anche in mezzo a un campo. C'erano innumerevoli possibilità di nascondersi dove cassette dell'elettricità, ingressi di edifici e alberi spezzavano la linea della strada. La gente era cieca. Ma non stupida, purtroppo. Non era da escludere che avessero già avvertito la polizia. lana sapeva di essere costretta ad agire. Sperò ardentemente che i tre scomparissero. Le bastavano cinque minuti per seppellire Cordula Malik nel centro spedizioni e uscirne come Laura Firidolfi, con Gruškov al seguito. Ma Liam continuava ad arrampicarsi. E poi girò la testa e guardò oltre l'autostrada, verso l'aeroporto. Kika Wagner «Ehi!» gridò Liam. Era appeso all'inferriata come una scimmia e faceva cenni con una mano. Sembrava che stesse elemosinando noccioline. Se avesse perso la presa, avrebbe fatto un volo di almeno cinque metri. «Puoi stare un po' attento, per favore?» gridò Kika di rimando. «Voglio dire, per via delle presentazioni che devi ancora fare. Per ragioni puramente pratiche, insomma.» «Non ti preoccupare. Scoppierete d'invidia! Ci sono arrivato un'altra volta: vedo al di là dell'autostrada e sapete cosa vedo ancora?» Rise, soddisfatto. «L'aeroporto!» «E il palo?» «È alto abbastanza. Da lì si può sparare dritto sul piazzale. Di certo è stabile, sembra più massiccio di quanto pensassi. Aspettate, scendo.» «Non voglio guardare», disse Kika sottovoce a Silberman, mentre osservava Liam che, con le mani bendate, più che scendere scivolava giù. «Se lassù ci sia uno specchio o no, è impossibile dirlo da qui», commentò, quando fu di nuovo con loro. «Ma il palo sarebbe adatto. È ancorato bene in tutte le direzioni, in modo che la cima non oscilli. Al massimo potrebbe muoversi di un paio di centimetri, sempre che ci fosse una bufera tremenda. Ma le ottiche adattive sarebbero in grado di compensare uno spostamento del genere.» Silberman guardò il palo con aria scettica. «Comunque è una possibilità su mille, direi.» «Non necessariamente. Dovevo avere la testa piena di segatura quando
abbiamo fatto quel giro in elicottero. Per qualche motivo non mi sentivo benissimo, lassù.» Liam indicò la direzione in cui si trovava l'aeroporto. «Il raggio veniva riflesso dal palazzo dell'UPS al capannone insonorizzato, che è il più vicino a noi. Sapete cosa mi ha tenuto col fiato sospeso nel messaggio di Kuhn? Era la certezza intuitiva di essere in grado di decifrare il testo, se solo avessi trovato il punto di partenza giusto. Sapevo che qualcosa non quadrava, ma non cosa. È così anche in questo caso. Ho in mente ogni genere di struttura laser, di qualsiasi forma possibile e immaginabile. Ci ho lavorato un sacco di volte. Capite, non devo rifletterci troppo, questo palo mi è saltato all'occhio non perché è alto, ma perché sta dove sta. Nel momento in cui l'ho visto, ho riconosciuto un modello di struttura, di diversi multipli più grande delle strutture di laboratorio, ma identico in linea di principio.» Kika socchiuse le palpebre. «E questo luogo sarebbe ideale?» «Lo è! Da qui, l'impulso potrebbe essere inviato al palazzo dell'UPS e riflesso con un angolo acuto dritto dritto sul piazzale.» Kika si guardò intorno. Il terreno della GEW non era grande, si estendeva al di là della curva della strada, per cento-duecento metri. Alcune luci al neon illuminavano gli edifici, ma, per quanto si poteva scorgere dalle finestre, sembrava che non ci fosse più nessuno lì dentro. Sul lato opposto della strada sorgevano piccoli edifici industriali, capannoni bassi e container, in parte nascosti dietro muri di cinta e cancelli. Le facciate delle case iniziavano un bel po' più in là. «Non mi sento a mio agio, qui», disse. Poi vide l'entusiasmo negli occhi di Liam e si rese conto che il giocatore aveva preso di nuovo il sopravvento. «Telefoni a Lavallier», lo incalzò Silberman. «Naturalmente.» Liam guardò trasognato gli edifici all'altro lato della strada e poi di nuovo il palo. «Lasciatemi pensare soltanto un secondo...» «Può pensare anche dopo.» «Dopo è l'adesso dei morti. Se lassù c'è uno specchio, deve essere leggermente inclinato rispetto a noi. L'ideale è che l'impulso lo colpisca con uno stretto angolo acuto, ma in questo caso sono sufficienti quaranta o cinquanta gradi.» Il suo sguardo esaminò la schiera di edifici industriali. Poi Liam attraversò la strada e ne percorse un tratto. Kika lo seguì. Si fermò davanti a un muro di cinta con un ingresso. Lei lo raggiunse e vide che il cancello d'acciaio posava su una rotaia. Era uno di quelli che si aprivano lateralmente. Nel muro di cinta era incassata una targa. «Un centro spedizioni», constatò lei.
«Ci scommetterei», disse Liam in tono quasi reverenziale. «Liam, tu sei matto.» Lui si voltò a guardarla. Gli si erano illuminati gli occhi. «Kika, non sono matto. Dio mio! Lavoro da anni con strutture analoghe. Questo è il punto matematico perfetto.» Lei espirò lentamente e guardò il cancello. «Allora fai qualcosa.» Liam annuì e cominciò a rovistare nelle tasche dell'abito, in cerca del biglietto da visita di Lavallier. Kika si sentì sollevata e si voltò verso Silberman. «Finalmente comincia a ragionare», disse. Il suo sguardo si posò sul giornalista. «Liam», sussurrò. «Che c'è?» Si voltò anche lui e smise di cercare il bigliettino. Alle spalle di Silberman c'era una giovane donna. Sembrava una ragazzina, ma teneva una pistola puntata alla nuca dell'uomo. Nella mano sinistra aveva un cellulare. Scosse lentamente il capo. Il cancello cominciò ad aprirsi. Carl Seamus Drake Una Chrysler Voyager color antracite coi vetri scuri era parcheggiata due strade più in là, ai bordi di un campo, da circa mezz'ora. All'interno c'erano quattro uomini che aspettavano, pazienti. Indossavano abiti eleganti, cravatte con disegni discreti e camicie bianche: la tipica divisa dei Servizi segreti. Uno di loro aveva un auricolare all'orecchio, collegato a un cellulare tramite un cavetto. Negli ultimi minuti aveva semplicemente aspettato, ascoltando con le palpebre semichiuse. In quel momento si raddrizzò come un fuso. «Da!» disse il russo nell'apparecchio. Drake si premette l'auricolare più a fondo nel canale uditivo. Gli altri uomini lo guardavano con attenzione. «Eccoli», disse sottovoce. «Sono qui», rispose la voce di Jana in italiano. «Apra.» «Tutto a posto?» chiese Gruškov. «No. Abbiamo visite.» «Come? Chi?» «L'uomo che ha mandato a monte tutto quanto. Non ho tempo di spiegare. Apra.» La comunicazione s'interruppe. Drake restò con un palmo di naso. «A
quanto pare, ha con sé O'Connor», disse. «E questo cosa significa?» chiese uno degli agenti. «Che ne facciamo di lui?» «E uno dei buoni», disse Drake pensieroso. «Proprio come Kuhn. Non importa. Procediamo come concordato. Mirate a Jana. Abbiamo il fattore sorpresa dalla nostra. Quando avremo ucciso lei, il resto sarà un gioco da ragazzi. Prima lei, poi Gruškov, infine Mahder, in ordine di pericolosità. Deve essere tutto finito in tre secondi e senza danni agli ostaggi.» «Chiaro.» Drake si tolse l'auricolare. «Dopodiché ci sarà qualcosa di più da fare», aggiunse. Controllò la posizione della fondina con le due Colt 1911 sotto le ascelle e fece un cenno agli altri. «Andiamo.» Jana Mentre il cancello scivolava di lato, lei spinse l'uomo grasso di colore dall'altra parte della strada. O'Connor e la donna non si mossero. Fissavano Jana come se fosse un fantasma. In un certo senso lo era. Dovevano avere l'impressione che fosse sbucata fuori dal nulla. Nel bene o nel male, si ritrovava con altri ostaggi. Controllò la strada con la coda dell'occhio, ma non c'era anima viva e nessun autoveicolo. Se fosse arrivato qualcuno, sarebbe stata la fine. Avrebbe potuto farsi strada a colpi di pistola, ma poi? Quanta gente avrebbe dovuto ammazzare? Ne aveva abbastanza. Con un rumore smorzato, il cancello si fermò. Jana fece scivolare la FROG nel giubbotto e, con l'arma, indicò l'interno del centro spedizioni. «Dentro! Presto!» ordinò. Liana la fissò. «Non ci può rapire adesso», disse. «Abbiamo urgente bisogno di una doccia, abbiamo fame e...» «Sparo», disse lei con calma. L'effetto di quella parola fu immediato. I tre entrarono nel cortile. Jana li seguì. Sentì il cancello chiudersi alle sue spalle, poi la porta del capannone si aprì e comparve Gruškov. Nella mano destra teneva una Glock, come quella che aveva lei. «Addirittura tre?» disse in italiano. «Non si poteva evitare?» «No.»
Lei intimò a Liam, a Kika e all'uomo di colore di entrare. Gruškov si fece da parte e li lasciò passare. Jana valutò la situazione. Lo YAG era rientrato, ma distava un bel pezzo dalla sua posizione iniziale. La struttura di collaudo era ancora in piedi. Kuhn era disteso a terra, immobile. Dal centro del capannone le andò incontro Mahder. «Jana!» esclamò. «Finalmente!» Alla vista dell'editor, Kika lasciò da parte qualsiasi cautela e corse da lui. Kuhn girò la testa verso di lei ed emise un gemito. Liam guardò Jana come se fosse sul punto di avventarsi su Kika e Gruškov sollevò l'arma. Jana lo trattenne. Con la pistola, indicò la parete, dove Kika si era inginocchiata accanto a Kuhn. «Tutti laggiù», ordinò. «Jana, per favore, mi dia i miei soldi», la implorò Mahder. «Devo andarmene, non posso restare un secondo di più.» Jana non gli prestò la minima attenzione. «Perché ha dovuto portare qui tutta la banda?» sussurrò Gruškov. «Finiremo per perdere completamente il controllo se non spariamo subito dalla circolazione.» «Perché la banda era sul punto di cacciarci nei guai», rispose lei sottovoce. «Tra cinque minuti, ci saremmo ritrovati qui metà della polizia criminale di Colonia e non potevo certo farli fuori in mezzo alla strada.» «Allora li faccia fuori adesso!» «Jana!» Mahder le si piazzò davanti. Sembrava nervoso e aggressivo. Sopra le protesi dentali, i baffi biondi si erano arruffati. «Chiuda il becco», sibilò Jana. «Chiuderò il becco non appena avrò avuto i miei soldi. Lei ha mandato tutto in malora, stupida oca!» «Le ho detto di stare zitto.» «Non voglio restare qui nemmeno un minuto più del necessario, mi ha sentito?» «Lei resterà qui esattamente quanto io riterrò necessario.» «Merda!» gridò Mahder. «Non farò proprio un cazzo! Ho paura, ha capito? Mi stanno cercando! Voglio andarmene di qui!» «Mahder!» «Vada a farsi fottere! Mi dia quello che mi spetta, una buona volta!» «Avrà ciò che le spetta», replicò Jana. Con un movimento rapido, puntò la pistola contro Mahder e premette il
grilletto. Il proiettile lo colpì tra gli occhi. L'uomo fu scaraventato all'indietro, cadde a terra e rimase immobile. Jana fissò il cadavere per un istante. Si sentiva stranamente distaccata. Poi puntò la pistola verso il gruppo vicino alla parete. Carl Seamus Drake I quattro uomini si avvicinarono al centro spedizioni dalla strada sul retro. Camminarono lungo il muro di cinta, finché Drake non fece loro segno di fermarsi. «Qui», disse sottovoce. Nella mente, visualizzò la piantina del luogo. Conosceva quella struttura nei minimi dettagli. La superficie del centro spedizioni era quasi quadrata e misurava circa quaranta metri per quaranta; visto dall'ingresso, il capannone era in fondo a destra, quindi era rivolto verso di loro; la parete posteriore e il lato destro coincidevano col muro di cinta e delimitavano il terreno rispetto alla strada e al terreno confinante. Il lato rivolto verso l'interno del cortile era costituito quasi interamente da saracinesche; sul lato anteriore c'era una porta e l'unica finestra era sul lato posteriore, rivolta verso il muro di cinta. Faceva parte di uno dei locali separati dal capannone. In passato era un ufficio, ma in quel momento ospitava alcune brande, una macchina del caffè, una cucina, un frigorifero e diversi oggetti che servivano a Jana per le sue metamorfosi. Nel secondo locale, c'era la centrale operativa di Gruškov e più in là si trovava il gabinetto. Drake si concesse un sorriso. Sarebbero stati molto sorpresi. Ma probabilmente non avrebbero avuto il tempo di sorprendersi. Sarebbe successo tutto in un lampo. Guardò il muro di cinta. Circa tre metri e mezzo. Un gioco da ragazzi. Naturalmente sarebbero potuti entrare dall'ingresso principale. Drake aveva un telecomando per aprire le saracinesche, ma Jana avrebbe sentito il rumore. Perciò sarebbero passati dal retro, scavalcando il muro di cinta. «Di nuovo, in breve», disse. «Quando saremo dall'altra parte, senza far rumore, andate alla porta anteriore. Collocate la carica, innescate, entrate e puntate. Al massimo potrebbe esserci di mezzo O'Connor. Kuhn è incatenato alla parete, ma non dovete colpire nessuno dei due.» Fece una pausa, per assaporare la genialità del piano. «Quando avremo fatto fuori gli altri, comincerà il resto.» Infilare il guanto. Togliere la pistola dalle dita irrigidite di Jana.
Sparare a O'Connor e a Kuhn. Chiedere rinforzi. Servizi segreti, polizia tedesca. Perfetto. «Entriamo.» Kika Wagner In televisione era più spettacolare, pensò. Si moriva in modo più plateale e, se qualcuno sparava, il rumore era molto diverso. L'arma della donna aveva emesso soltanto un colpo secco e l'uomo biondo era caduto. Niente urla. Lui le aveva gridato dietro, lei gli aveva puntato contro la pistola, poi lui aveva smesso di gridare. Con la testa di Kuhn in grembo, Kika fissava la donna. Come in trance, si rese conto che l'arma era puntata verso di lei. Lì accanto, Silberman ansimava. Gli tremavano le labbra. La donna si avvicinò a passo rapido, sempre con la pistola in pugno, seguita dall'uomo calvo. Liam le si piazzò davanti e alzò le mani. «Tutto a posto. Okay? Facciamo quello che vuole lei.» Kika sentì l'impulso irrefrenabile di gridare. Nel contempo, era come se alcune morse di ferro le stessero spremendo l'ultimo respiro. D'un tratto si rese conto di ciò che era successo. Le cadde lo sguardo sulla strana struttura all'altro lato del capannone. Quell'affare poggiava su rotaie ed era enorme. Sembrava un carro merci con le ruote messe di traverso... ma poi lei comprese cos'era veramente. Avevano trovato il laser. Sarebbero morti tutti. La donna la guardò, torva. «Non muovetevi», sibilò. «Nessuno di voi.» Disse qualcosa all'uomo con la pelata. Lui annuì e fece un inequivocabile gesto, mimando una lama che tagliava la gola, mentre Jana continuava a puntare la pistola su di lei. «Kika», gemette Kuhn. Aprì gli occhi e tossì. Lei si accorse che emanava un odore pungente. Urina, sangue, esalazioni della paura. Rendeva il tutto ancora più spaventoso. Si aspettava altri colpi, di veder cadere anche Liam e Silberman. Poi il momento in cui il proiettile sarebbe volato verso di lei. Ma non successe nulla del genere. Vide la donna abbassare l'arma e passarle accanto, lo sguardo rivolto a Kuhn. Sui suoi lineamenti comparve una strana tristezza. L'uomo sgranò
gli occhi, alzò la testa e fece un sorriso sbilenco. «Sono contento di rivederti, Jana», disse. «Non volevo che succedesse. Mi puoi credere.» Kuhn ridacchiò. «Almeno hai avuto ciò che volevi?» Lei esitò. Poi distolse lo sguardo e proseguì verso la parte posteriore del capannone. In quell'istante, la porta esplose. 60 secondi Il tempo prese a scorrere più lentamente. Nel lampo della detonazione, Jana, Gruškov, Silberman, Liam e Kuhn apparvero come le figure in una foto. Il botto riecheggiò nel cranio di Kika, poi la frequenza si abbassò di colpo, trasformandosi in un rombo vuoto e sordo. Più che volare all'intorno, le schegge della porta, nere e deformate, si fecero strada verso l'interno del capannone, strisciando tra sculture di fumo e fiamme. Per un centesimo di secondo, tutto si fermò. Stasi. Poi le facoltà percettive di Kika recuperarono terreno sulla realtà e gli eventi si susseguirono più rapidi. Ci furono schianti, schegge, scoppi. Kuhn si accovacciò accanto a lei. Ci fu una mescolanza di grida, mentre vari pezzi della porta sbattevano per terra. Da un momento all'altro era scoppiato l'inferno. Con gli occhi sgranati, lei vide gli uomini spuntare dal fumo e precipitarsi nel capannone, con le armi in pugno. Ci vengono a liberare, pensò. Ci porteranno via di qui. Scattò in piedi. Il primo degli incursori ricordava benissimo l'immagine di O'Connor. Lo vide e il suo programma interno lo scartò senza esitazione. Fece lo stesso con l'uomo incatenato e seduto a terra. L'agente sapeva che avrebbe potuto sparare a qualunque altra persona, perché ogni altra persona era Jana, Gruškov o Mahder. Spianò la pistola. Poi si bloccò, in preda a una gran confusione. La stanza era piena di gente. C'era una donna che sembrava spuntata dal nulla. O'Connor era davanti a lei, un po' spostato di lato; accanto a lui, c'e-
ra un uomo di colore, che indietreggiò, terrorizzato. Da qualche parte, là dietro, c'erano Gruškov e Jana. Gli anni di addestramento ferreo nei Servizi segreti - in cui aveva affinato non solo le capacità fisiche, ma anche quelle mentali -, le percezioni sensoriali e i tempi di reazione gli consentirono di fare un'analisi lampo mentre avanzava nella cortina di fumo. Gli sconosciuti potevano essere ostaggi. Sicuramente non appartenevano al commando di Jana. Chiunque fossero, non doveva colpirli per nessun motivo. Però, se avesse sparato in quel momento, sarebbe successo, perché gli ostruivano la visuale. Per il tempo di un battito cardiaco si sentì perplesso e sopraffatto, poi scattò di lato, per avere una visuale migliore. Quell'istante di esitazione quasi impercettibile segnò il suo destino. Mentre i calcinacci volavano ancora all'intorno, Jana fece una giravolta. Vide spuntare l'agente col braccio teso, a lato di O'Connor, mentre Silberman correva via, in preda al panico. Sparò diversi colpi in rapida successione. Col petto squarciato, l'agente fece un volo all'indietro e crollò tra il fumo. Comparvero altri due uomini, che erano entrati di corsa nel capannone. Il rumore dei colpi delle loro armi rimbalzava contro le pareti e si amplificava in un'eco rimbombante, inframmezzata dai sibili degli impatti. Senza smettere di sparare, Jana fece un balzo fino alla console, al centro del capannone, e con la mano libera premette il pulsante verde. Dalla parete opposta, giunse un brontolio sordo. Lentamente, la pesantissima base dello YAG si mise in movimento. Gruškov non reagì con rapidità. Non era abituato a sparare. Era veloce a programmare e a decriptare codici; pochi riuscivano a star dietro ai suoi pensieri, ma non era all'altezza di quella situazione. La sua fortuna fu che Liam e la donna scattata in piedi davanti a lui ostruivano la visuale dell'agente. Vide cadere il primo degli aggressori, trascinò la donna verso di sé e sollevò l'arma. Poi qualcosa lo colpì all'avambraccio. La pistola gli scivolò via dalle dita. Il secondo agente corse verso Gruškov e cercò di prenderlo di mira. Davanti ai suoi occhi c'era una spaventosa confusione. Sembrava che Jana volasse da una parte all'altra dell'edificio, mentre il russo all'improvviso era
al centro di una mischia. Per qualche istante, si era fatto scudo col corpo di quella donna alta, poi era stato aggredito da O'Connor. Era impossibile colpire Gruškov, così l'agente si voltò e mirò a Jana. Lei se ne accorse con la coda dell'occhio, fece una piroetta intorno alla console e premette il pulsante. L'agente andò a sbattere in piena corsa, lanciando un grido. Poi Jana sentì un dolore bruciante al braccio destro. Era stata colpita! Di striscio. Era una ferita superficiale. Continuò a correre. Liam alzò il braccio per colpire il russo. Non aveva la minima idea di chi fossero gli intrusi, ma sparavano ai terroristi, quindi non potevano essere nemici. Dopo essere riuscito a far cadere la pistola di mano a Gruškov, stava per mollargli un pugno. Quando si trattava di fare a botte, non era affatto un novellino. Il colpo avrebbe fracassato il naso al russo, ma Gruškov fu più rapido. Diede uno spintone a Kika e si allontanò a grandi passi. Quando lei gli cadde addosso, Liam vacillò. Qualcuno lanciò un urlo. Era uno degli uomini venuti a liberarli. Si rotolava per terra e sparava a casaccio. Che razza di liberazione era quella? Qualcosa sibilò accanto al suo orecchio. «Kuhn», urlò Kika. «Dobbiamo...» Liam la prese per le spalle e cominciò a camminare con lei verso il fondo del capannone. «Kuhn!» «No!» Silberman aveva imparato che non era da codardi mettersi in fuga quando volavano le pallottole. Eppure il senso di colpa correva insieme con lui. Era in preda a un terrore agghiacciante e, nel contempo, si rimproverava di non agire con sufficiente ponderazione e coraggio. Era stato corrispondente di guerra. Aveva già vissuto situazioni del genere diverse volte. Macché! Sciocchezze! Non aveva mai vissuto una cosa del genere. In Bosnia, aveva visto le pallottole a distanza di sicurezza. In Kuwait, aveva visto i razzi cadere all'orizzonte. Lui e i suoi colleghi avevano ripreso ciò che erano riusciti a riprendere, senza però temere di diventare vittime di una guerra altrui. Non erano mai scappati. Tuffai più avevano levato
le tende precipitosamente. E c'era sempre un'auto pronta a portarli via dalle zone pericolose. Non si era mai ritrovato chiuso in un capannone con una mezza dozzina di pazzi che si sparavano a vicenda. Gli aggressori sembravano agenti dei Servizi segreti, ma non contribuivano a rendere l'atmosfera più sopportabile. Ciò che stava accadendo in quegli istanti era decisamente troppo per i suoi gusti. Doveva uscire di lì. Si precipitò verso le porte che aveva notato entrando. Evidentemente conducevano a stanze nella parte posteriore del capannone. D'un tratto, alle urla e agli spari si unì un gran baccano. Con la coda dell'occhio, vide avvicinarsi l'affare gigantesco che prima era accostato alla parete. Continuò a correre, spalancò una delle porte e, incespicando, entrò in una stanza. L'urto lo gettò indietro. Inorridito, si rese conto di essersi scontrato con qualcuno. C'era un uomo che lo fissava, sbalordito. Indossava un abito scuro come gli altri aggressori e portava una pistola. Ancora una volta, Silberman riconobbe la divisa dei Servizi segreti, ma non gli importava. Dietro l'agente, il giornalista vide il riquadro di una finestra. Senza fermarsi a pensare, cercò di togliere di mezzo quell'uomo per raggiungere la finestra. L'altro lo agguantò. Il giornalista si ritrovò in una morsa di ferro e cercò di mettere le mani sul viso dell'uomo, ma non servì a nulla. Con un grido, volò fuori dalla stanza. Liam vide Silberman scomparire dietro la porta e ricomparire quasi nello stesso momento. Non c'erano dubbi: era meglio non entrare in quella stanza. Spalancò la porta accanto. Il locale sembrava una centrale operativa: computer, laptop e televisori accesi. «Kika...» «Dobbiamo tornare indietro, Liam. Non possiamo lasciarlo là.» «Tu sei matta! Entra, per amor del cielo!» Lo sguardo di lei era una supplica. «Kuhn», mormorò. Liam annuì con le labbra serrate. Mentre lei entrava nella stanza, camminando all'indietro, lui chiuse la porta e tornò di corsa da Kuhn. Sperò che nessuno andasse a cercarla in quella stanza. Gruškov vide lo YAG avvicinarsi e Jana passargli accanto, col braccio
destro sanguinante. «Lo stringeremo in una morsa», disse lei. Lui si guardò intorno. Due degli aggressori erano fuori combattimento. Il terzo non si vedeva. Anche Jana scomparve dall'altro lato dello YAG. Imprecando, il russo fece un salto all'indietro, prima che quell'affare lo travolgesse. Il piano era buono, ma lui era disarmato. Non importava. Jana lo avrebbe coperto e lui avrebbe garantito la sorpresa necessaria. Il terzo agente lanciava occhiate frenetiche a destra e a sinistra. Il colosso che si era messo in movimento d'un tratto creava una grande confusione, ma almeno lo proteggeva. La sua arma aveva l'otturatore aperto, il caricatore era vuoto. Senza fiato, lo estrasse e ricaricò. Gli spari erano cessati. Nel capannone risuonava soltanto il rumore delle scintillanti ruote nere sulle rotaie. Col cuore in gola, l'agente seguì il movimento dello YAG, dando le spalle alla porta esplosa, ben sapendo che, se non fosse riuscito a reagire più rapidamente di quella maledetta assassina serba, dall'altro lato del laser lo aspettava la morte. L'aveva colpita. Era sicuro di averla colpita, ma era pure sicuro che non era morta. Una paura tremenda s'impadronì di lui. Niente di ciò che Drake aveva detto si era rivelato esatto. I suoi due compagni erano stati messi fuori combattimento nel giro di pochi secondi, dopo aver fatto saltare la porta. Uno era morto, l'altro si rotolava a terra, gemendo. Quell'operazione si stava trasformando in un disastro. Non certo il gioco da ragazzi che gli era stato prospettato. Poi sentì i passi. Provenivano da due direzioni diverse. Impugnò l'arma con entrambe le mani. L'uomo che si faceva chiamare Drake fece due più due. Si erano sbagliati. Non aveva idea di chi fosse quell'uomo grasso e di colore che aveva appena spinto fuori dalla porta. E poi nel capannone si era già sparato troppo. Non era andata secondo i suoi piani. Uscì dalla stanza senza emettere suoni, giusto in tempo per vedere
O'Connor correre verso l'editor incatenato. Guardò lo YAG. Il carro avanzava lentamente al centro del capannone. Qualcuno si muoveva lateralmente lungo la fiancata. Il suo sguardo cercò Jana. Con un balzo, Jana uscì da dietro lo YAG e si ritrovò a faccia a faccia col terzo agente. Lui sparò, come se non aspettasse altro. Lei si tuffò di lato e cadde. Nel contempo, l'agente ferito e disteso a terra aprì il fuoco su di lei. Jana si diede lo slancio con tutte le sue forze. Mentre rotolava, premette il grilletto ripetutamente, fino a svuotare il caricatore. I proiettili sibilarono, rasenti al terreno, e colpirono alla testa, alle spalle e all'addome quell'uomo, che si contorse e infine rimase immobile. Quando si rialzò, il braccio le faceva un male tremendo. Mise la mano dietro la schiena, dove aveva la Walther PP infilata nella cintura. Il terzo agente aveva l'arma puntata contro di lei e gli occhi infuocati. Gruškov era dietro di lui e gli assestò un pugno tra le scapole. L'agente vacillò. L'arma cadde a terra e scivolò sotto lo YAG. Un altro colpo del russo e l'uomo finì lungo disteso. L'agente vedeva la sua arma oltre la rotaia. Il russo lo sovrastava, gridando. Per qualche motivo che non volle sondare, Jana non gli sparò, ma rimase come paralizzata a fissare un punto alle spalle di Gruškov. Non avrebbe avuto un'altra occasione. Prima il russo, poi la donna. Fulmineo, si rotolò su un fianco, allungò la mano verso l'arma e la impugnò. La pesante ruota di ferro gli troncò la mano dal polso come se fosse un coltello che tagliava il burro. Gruškov esultò. Alzò le braccia e unì le sue grida di giubilo alle urla raccapriccianti dell'uomo disteso ai suoi piedi. «No!» gridò Jana. Il russo ammutolì. Nei suoi occhi s'insinuò la paura. Cercò di voltarsi. Una serie di spari squarciò l'aria. Gruškov fu scaraventato in avanti e, come un fagotto di sangue, cadde sull'agente che gridava. Le lenti lucide dei suoi occhiali andarono in frantumi. Sentì la vita abbandonarlo, mentre tutto il corpo si raffreddava. La certezza di dover morire era terribile. Ave-
va voglia di dire qualcosa, ma dalle sue labbra non uscì nessun suono. Gli tremarono gli angoli della bocca e gli si dipinse in volto un'espressione di vago stupore. «No», sussurrò Jana. Dietro il cadavere di Gruškov comparve la sagoma del quarto agente. «Jana», disse lui, sorridendo. Lei lo guardò, esterrefatta, piena di odio. «Mirko.» Liam O'Connor Kuhn respirava a fatica. Gli pareva che dentro il suo petto non ci fossero che rottami. «Basta», sussurrò con gli occhi chiusi. «Basta!» Nella tempesta di colpi, lui non aveva smesso di tremare, come se fosse stato colpito, ma Liam sapeva che non era così. Si era disteso per metà accanto a Kuhn e per metà sopra di lui e lo proteggeva. Non gli era venuto in mente nulla di meglio. In quel modo forse poteva riparare l'indifeso editor dai proiettili vaganti. Ma nessuno dei due sarebbe sopravvissuto a eventuali colpi esplosi contro di loro. Liam non aveva la minima idea delle intenzioni dei vari personaggi di quell'inferno, perciò teneva le braccia avvolte intorno a Kuhn e le spalle alzate, come se servisse a qualcosa contro quella grandine di proiettili. «Tranquillo», disse. «È un gioco, Franz. Soltanto un gioco.» «Un gioco di merda», ribatté Kuhn, ansimando. «Sì, lo so. Ma vinceremo. Vinceremo!» Era un po' sorpreso da quello slancio altruistico, da quell'impulso che lo spingeva a rischiare la propria vita per un'altra persona. Stranamente non era troppo impaurito. Quasi rilassato, si rese conto che la prospettiva di morire si configurava come una nuova, interessante esperienza, un eccellente argomento di conversazione davanti a una tazza di tè coi biscotti o a una bottiglia di champagne. E, anche se fosse morto, in quel momento e in quel luogo, non sarebbe stata una degna conclusione per un'esistenza all'insegna dei sensi, ma del tutto senza senso, tragicamente velata da vizi, genialità ed ebbrezza? Strani pensieri per una sparatoria. Al suo funerale, gli oratori gli avrebbero attribuito cose grandiose. Nella chiesa sarebbero riecheggiate belle parole. «Ha addomesticato la luce e attratto milioni di persone in universi fittizi.» «Beveva parecchio, per lavar
via le profanità dal suo spirito.» «Offendeva chi non era alla sua altezza, metteva tutti al proprio posto.» «In generale, era un uomo di talento. Un geniale, sbadato, egoista, indisciplinato e arrogante stronzo.» Era un gioco. Molto più reale della vita. Solo che non poteva alzare la posta. Kuhn lo guardò. «Non voglio crepare qui», disse. Il feretro delle personalità eminenti veniva esposto? Sotto gli occhi di tutti? Che orrore. Cosa avrebbe indossato? Avrebbero sicuramente scelto una cravatta che non si abbinava all'abito e sbagliato il colore della camicia. Nulla sarebbe andato bene. Avrebbe fatto un'immortale figuraccia. «No, nemmeno io», sussurrò a Kuhn. Mirko A faccia a faccia, incapaci di agire. Nessuno dei due poteva vincere, data la loro posizione. Erano alla pari, entrambi molto bravi, entrambi veloci. Chiunque avesse sparato per primo sarebbe stato colpito a sua volta. Sarebbero morti entrambi, a una frazione di secondo l'uno dall'altra. Non ne valeva la pena. Con un balzo, Mirko si riparò dietro lo YAG, mentre Jana scompariva dall'altra parte. Il pesantissimo apparecchio avanzava lentamente verso di lui. Mirko fece un passo indietro e lo YAG si fermò, emettendo un rumore simile a quello di un gong. Soltanto in quel momento si rese conto di quanto baccano facesse quell'affare. Nell'improvviso silenzio, si sentivano soltanto i gemiti soffocati dell'agente che strisciava verso l'apertura, dove un tempo c'era la porta, stringendo con l'altra mano il moncherino insanguinato. Era riuscito a togliersi di dosso il corpo di Gruškov. Mirko non ci fece caso. Era davanti alla possente fiancata del laser e cercava d'individuare qualsiasi suono che potesse rivelargli la posizione di Jana. Ma Jana era come lui: non faceva rumore. Non gli restava che affidarsi all'intuito. In altre parole, sarebbe potuta sbucare fuori da destra, da sinistra, da sopra o da sotto. Si lasciò cadere a terra e subito balzò di nuovo in piedi. Quell'istante gli era bastato per guardare sotto il carro. Avrebbe dovuto vedere i piedi di Jana da qualche parte, ma non c'era nulla. Capì subito le intenzioni della sua avversaria. Senza esitare, sparò sopra il bordo dello YAG e si mise a
correre all'indietro. Allontanandosi dallo YAG la vide: era distesa lì sopra. Ancora un secondo e l'avrebbe colpito. Mirko sparò all'impazzata e Jana non poté far altro che mettersi al riparo dietro lo YAG con un balzo. Intanto lui era corso fuori, in cortile. Jana Sentì Mirko fuggire e resistette all'impulso di corrergli dietro. L'avrebbe beccata non appena fosse uscita dal capannone. Fuori era in vantaggio lui. Jana non faceva nemmeno più caso alla ferita al braccio. Senza allentare la presa sulla pistola, uscì da dietro lo YAG. Il capannone era in uno stato disastroso. Nel giro di un minuto, era stato travolto da una bufera devastante. Gruškov era morto. Nella parte anteriore c'erano Mahder e gli agenti uccisi. Accanto alla parete, O'Connor si stava alzando lentamente. Un po' più in là, c'era l'uomo di colore. Anche Kuhn cercò di alzarsi, ma si accasciò di nuovo al suolo. Della donna non c'era traccia. Jana infilò la Walther PP nella cintura e inserì un nuovo caricatore nella Glock. Guardò verso l'ufficio dal quale era entrato Mirko. Era aperto. Rapida, lo raggiunse e chiuse la porta. A Mirko sarebbe potuto venire in mente di usare la finestra un'altra volta. Non prevedeva davvero un bis, ma d'altra parte non aveva nemmeno previsto che lui facesse il doppio gioco. In qualche modo, doveva bloccare l'uscita. Aprì la porta della stanza dei computer e si trovò davanti Kika. «Fuori!» gridò. «Con gli altri.» Poi le venne un'idea. Mentre cercava di tenere sott'occhio ogni cosa - Kika, O'Connor e il varco aperto dall'esplosione - diede ordine alla donna di portare con sé una sedia e di usarla per bloccare l'ingresso dell'ufficio. Poi lo sguardo le cadde sul lungo tavolo di legno. «O'Connor!» Lui si voltò. Con quelle bende bianche alle mani, mostrava una bizzarra somiglianza con un maggiordomo. Lei si chiese se fosse in grado di rendersi utile, ma d'altra parte era riuscito ad arrampicarsi sulla recinzione della GEW... Senza perdere di vista il varco, andò dall'uomo di colore e lo fece alzare. Lui emise un gemito. Jana notò del sangue sulla coscia dell'uomo e capì che era stato colpito. In effetti, era un miracolo che qualcuno fosse sopravvissuto in quel capannone, con centinaia di proiettili che fischiavano in tutte le direzioni. «Voi due, tu e O'Connor», disse in tono brusco. «Andate a quel tavolo.»
L'uomo di colore strizzò le palpebre, senza capire, con una smorfia di dolore in viso. Lei ripeté l'ordine in inglese. Lui reagì, ma si avviò zoppicando verso Liam. «Fermo!» L'uomo si bloccò. «Al tavolo, ho detto», gridò Jana. «Prendetelo e sbarrateci la porta. Forza, sbrigatevi!» «È ferito», disse Liam, lanciandole un'occhiata traboccante di collera. «Allora lo faccia da solo!» Continuando a fissare Jana, Liam si avvicinò al tavolo e cominciò a farlo strisciare sul pavimento del capannone. Il rumore era snervante. Jana guardava lui e Kika, che aveva incastrato la sedia sotto la maniglia e si stava avvicinando lentamente. «Aiutalo», le ordinò. Kika obbedì. In due erano più veloci. Per qualche motivo, Jana pensava che Mirko non avrebbe sparato alla donna o a O'Connor. Non ancora. Era evidente che aveva preso di mira il commando, ma era altrettanto evidente che non gli importava affatto della liberazione degli ostaggi. Qualsiasi piano avesse, avrebbe tradito tutti coloro che si trovavano lì dentro. Piena di amarezza, si rese conto che il Cavallo di Troia non aveva mai avuto intenzione di lasciare in vita i membri del commando. In preda a una furia impotente, digrignò i denti. Non era mai stata ingannata così perfidamente in vita sua. Non si era mai sbagliata in modo così spaventoso! Aveva visto il futuro davanti a sé, come in un miraggio: un'altra vita, pacifica, poco spettacolare, forse noiosa... Ma cosa non avrebbe dato per un po' di noia! Poi l'apparizione era scomparsa, come se non fosse mai esistita. Sembrava tutto perduto. Così vicina all'obiettivo, era più lontana che mai dalla pace, intrappolata in quel capannone, circondata dal sangue e dalla paura. C'era da star male. Odiava i massacri. Non avevano nulla a che vedere con un assassinio eseguito in modo pulito, un omicidio professionale. Aveva odiato le carneficine ai danni dei serbi della Krajina, dei bosniaci e dei kosovari; il disprezzo di Karadžič per la vita umana, le arbitrarie esecuzioni di massa di Arkan; gli assalti notturni alle case coloniche, le persone trascinate fuori, le lugubri urla quando dozzine di donne e bambini venivano spinte nelle fosse, per poi essere tempestate di bombe a mano; i suoni della sofferenza umana. Nessuna delle persone che lei aveva ucciso aveva dovuto soffrire. Persino il presidente americano, la cui arroganza aveva corroso come acido il cuore dei Balcani, l'uomo che in poche settimane era riuscito a ottenere ciò che il mostruoso apparato della propagan-
da comunista non aveva saputo fare in mezzo secolo, cioè scatenare l'odio dei serbi contro gli Stati Uniti, persino lui avrebbe avuto una morte misericordiosa e rapida. Avrebbe semplicemente smesso di vivere e, in un istante, da simbolo del potere sarebbe divenuto simbolo del fallimento. Impaziente, guardò Kika e Liam spingere a fatica il tavolo davanti all'apertura annerita e tornare indietro. Silberman aveva raggiunto Kuhn e parlava con lui sottovoce. E se l'attentato fosse riuscito? Gli uomini di Mirko avrebbero attaccato comunque il centro spedizioni? Il Cavallo di Troia voleva cancellare tutte le tracce? In quel caso, stavano facendo tutto alla rovescia, stavano creando le prime tracce che avrebbero condotto immancabilmente a Belgrado o a Mosca. I cadaveri sarebbero stati identificati e si sarebbe scoperto chi erano. Lei e Gruškov. Una nazionalista serba e un criminale russo. Non aveva senso! A meno che non fosse proprio quella la loro intenzione. Jana non riusciva a crederci. Perché Mirko e i suoi mandanti avrebbero dovuto fare una cosa del genere? Doveva scoprire cosa aveva intenzione di fare. Non le sarebbe rimasto molto tempo e, finché Mirko assediava il capannone, non poteva fuggire. Si chiese che avrebbe fatto lui al suo posto. Senza dubbio, Mirko aveva valutato male la situazione. Avrebbe chiamato rinforzi? Se il suo scopo era quello di fare piazza pulita, sicuramente anche lui non aveva tempo in abbondanza. Certo, nel raggio di qualche centinaio di metri non c'erano case, ma l'esplosione o la sparatoria potevano aver richiamato l'attenzione di qualcuno. Prima o poi la polizia avrebbe trovato il centro spedizioni. Sarebbe stato un tutti contro tutti. Prima che arrivasse quel momento, doveva uscire di lì e far fuori Mirko. Posò lo sguardo sull'agente ferito che si stava alzando da terra, sorreggendosi con la mano sana. Per un istante, prese in considerazione l'idea di ucciderlo. Poi le venne un'idea migliore. Liam O'Connor «Potremmo scappare», sussurrò Kika, mentre bloccavano la porta col tavolo. «Tu potresti scappare e io resterei con Kuhn. Forse là fuori ce ne sono altri.» «Vuoi dire che quelli volevano tirarci fuori da qui?» chiese lui sottovo-
ce. «Non lo pensi?» «Non lo so. Come hanno fatto ad arrivare così in fretta? Forse dovevano uccidere i terroristi e noi più che altro gli stavamo tra i piedi. Silberman è stato colpito.» «Ma perché allora hanno attaccato il capannone?» «Ottima domanda. Non lo so, ma non per salvare noi. E perché non la polizia? Credo che fuori saremmo ancora meno al sicuro che qui dentro.» Sentirono un rumore di passi alle loro spalle. Si girarono e videro uno degli aggressori che si avvicinava barcollando. Aveva un aspetto terribile, il volto contratto in un'espressione straziata. Jana si alzò di scatto e sollevò l'arma. «Via dalla porta!» L'uomo si fermò. Alzò le mani. Al posto della destra c'era soltanto un moncherino insanguinato, che lui stringeva con la sinistra. Emise un gemito. Fece qualche passo incerto all'indietro, strabuzzò gli occhi e cadde in ginocchio. «Oh, Dio mio!» esclamò Kika, correndo verso di lui. «O'Connor, può fermare l'emorragia?» chiese Jana. L'uomo si era accasciato contro Kika, che lo sorreggeva dalle spalle. Liam abbassò lo sguardo sul ferito. Con movimenti rapidi, si tolse la cravatta. L'uomo cercava disperatamente di bloccare l'arteria con la mano sana e di contenere gli spruzzi di sangue, ma non sarebbe bastato per evitare di morire dissanguato. «Per favore, aiutatemi», gemette in inglese. Kika continuò a sorreggerlo, mentre Liam prese a fasciargli il braccio. Guardando l'altro negli occhi provò una tremenda frustrazione. Non era più un gioco. Anche la cravatta era andata a farsi benedire. Armani, un esemplare unico. Game over. Kika Wagner Portarono il ferito da Kuhn e Silberman, e lo appoggiarono con la schiena alla parete. Il suo petto si sollevava e si abbassava in respiri profondi e controllati. Evidentemente era sotto shock, ma pareva sforzarsi di recuperare l'autocontrollo. Si rifiutò di sedersi, ma chiese dell'acqua. La terrorista incaricò Kika di prendere una bottiglia dalla stanza dei computer e l'uomo
bevve come se stesse morendo di sete. Un po' per volta, il suo sguardo si fece più chiaro. Lo shock riduceva il dolore fisico e forse anche la consapevolezza di ciò che gli era accaduto. Kika cercò di provare compassione per lui. Ma il suo bagaglio di emozioni non era all'altezza o forse quella situazione la confondeva. Se gliel'avessero descritta, sarebbe giunta alla conclusione di non poter resistere nemmeno per un minuto. Eppure, in quel momento, la terribile menomazione dell'uomo la lasciava indifferente. Si fece un'idea di come dovessero sentirsi i soldati esposti per periodi prolungati a orrori e sofferenze. I meccanismi di difesa naturali andavano bene, purché non portassero all'accumulo di traumi insormontabili, che né il terrore né l'anima potevano vincere. S'inginocchiò accanto a Kuhn e gli accarezzò i capelli. L'editor sembrava catatonico. Mentre la ferita di Silberman si era rivelata superficiale, Kuhn peggiorava a vista d'occhio. Annaspava e, tra le palpebre semichiuse, s'intravedeva soltanto la sclera bianca. Kika alzò lo sguardo verso Liam. «Ha bisogno di andare in ospedale.» Liam scosse energicamente il capo. «Prima di tutto ha bisogno di uscire di qui», mormorò, lanciando uno sguardo a Jana. «E la cosa non è così semplice, giusto?» La donna fissava l'agente ferito. «Questo ce lo svelerà lui», disse. Si avvicinò all'uomo e gli premette la canna della pistola contro la tempia. Lui sussultò. Le sue labbra si mossero. «Per favore, no.» La sua voce era poco più di un soffio. «Non mi spari, per favore.» La donna reagì come se fosse stata presa a schiaffi. Indietreggiò di scatto e lo guardò, incredula. «Sei americano!» esclamò. Lui rimase in silenzio, ma la sua espressione si contorse ancora di più. «Sei americano», ripeté lei a voce bassa, insistente. In un accesso di rabbia, lo afferrò per la gola e lo sbatté contro la parete. Lui gemette e cercò di respingerla. Jana sembrava letteralmente in fiamme dalla rabbia. Alzò l'arma sopra la testa, come se volesse fracassargli il cranio. Per un istante, si lasciò trascinare dalla collera, non si curò più degli altri, perse il controllo. Liam le si avventò contro. Lei incespicò all'indietro. Lui la seguì e la colpì in viso. Jana vacillò, inciampò sui piedi di Kuhn e cadde, sbattendo forte la schiena. «Liam!» gridò Kika. Si alzò di scatto e si precipitò da lui. Liam stava per avventarsi sulla terrorista distesa a terra. Kika lo prese per un braccio e lo
trattenne. «Ti ucciderà!» gli disse in tono implorante. «Smettila! Non ce la puoi fare. Ti sparerà, ci ucciderà tutti.» Liam tremava dalla testa ai piedi. Sovrastava Jana, distesa a terra con la pistola puntata contro di lui. Le fasce di garza che avvolgevano il pugno con cui l'aveva colpita si tinsero di rosso in due punti. «Dai, spara», disse Liam, ansimando. «Perché non ci fai fuori tutti, razza di stronza? Sarebbe molto più facile. Bum! Sistemati!» «La avverto...» sibilò lei. «Mi avverti? Di cosa? Che potrei morire? Non ho bisogno di avvertimenti, lo so già da un pezzo! Il problema è che tu morirai!» «Torni indietro!» «Se esci là fuori morirai!» gridò Liam. «Non è così? Non sai più che pesci pigliare, creperai!» «Ho detto che deve tornare alla parete!» replicò lei, strisciando all'indietro sulla schiena, continuando a puntare la pistola contro di lui. Poi, d'un tratto, guizzò in piedi. Le era bastato un colpo di reni per catapultarsi in posizione eretta. «Jana», sussurrò Kuhn. Tutti si voltarono verso di lui. Kuhn si era appoggiato sui gomiti. Il braccio incatenato formava un angolo innaturale e sembrava rotto, ma lo sguardo di Kuhn era limpido. I suoi occhi lucidi fissavano Jana e sembravano tranquilli. Lei ricambiò lo sguardo senza allentare la tensione o modificare la postura. «Te l'ho detto, che avevano già deciso il tuo prezzo.» Tossì e sputò. Nella saliva che cadde davanti a lui s'intravedevano filamenti di sangue. «Non mi hai voluto ascoltare. È sempre la stessa cosa con voi nazionalisti, patrioti, visionari. Hai perso, Jana. Perché non chiedi a quel povero ragazzo per quale motivo è venuto qui?» «Era quello che volevo fare, prima che quell'idiota del tuo amico si mettesse in mezzo», rispose Jana a denti stretti. «Lascialo perdere, è uno scrittore», disse Kuhn, ridendo a singhiozzo. Evidentemente durante la prigionia aveva sviluppato un rapporto stranamente rilassato con quella donna. «Non sa far altro che esagerare. Sorry, Liam, è stato fantastico, ma del tutto inutile. Lei non ha nessuna intenzione di ucciderci. Non è il suo... stile. Vero, Jana? Tu credi ancora nella moralità dell'omicidio, il tuo concetto di giustizia è... ghigliottinesco. Processare, condannare e ammazzare la vittima condannata ai sensi di legge. Come sei all'antica. Finirai anche tu come Robespierre, vittima della tua stessa giu-
stizia.» «Chiudi il becco, Kuhn.» «Jana, ascoltami. Tutto questo non ha senso. Noi...» Scosse il capo. «Non hai capito cosa sta succedendo. Se quei tizi ci volevano liberare, bene, ma in caso contrario... Voglio dire, rimaniamo sempre nel campo del pensiero ermetico, dobbiamo dare più spazio alla realtà dei fatti...» Kika spostò lentamente lo sguardo da Kuhn alla donna. Jana si era rilassata un po' e stava guardando il killer menomato. «Parla, una buona volta», disse. «Non so nulla», balbettò l'uomo. «Davvero, io...» Jana sparò. Silberman si gettò a terra. Liam indietreggiò. L'uomo gridò e si portò le braccia sul capo per proteggersi. Con quel moncherino insanguinato aveva un aspetto terribile. Kika sentì il cuore in gola, poi capì che Jana l'aveva mancato di proposito. «Dovevamo uccidervi tutti», piagnucolò l'agente. «Dovevate morire tutti. Questo era il nostro incarico. Lei, Gruškov, Mahder... Oh, Dio mio...» «Mahder l'ho fatto fuori io», replicò Jana. «Che altro?» «Non è stata una mia idea! Dovevamo uccidervi e poi... e poi...» «Gli ostaggi», concluse Silberman, in tono piatto. Kuhn lo guardò e annuì debolmente. «Sì, Aaron. Che fantastico intervento di liberazione.» «Dovevamo farli fuori con le vostre armi, per dare l'impressione che li aveste uccisi voi, prima del nostro arrivo», disse l'uomo in un solo fiato. «Era questo il piano. Lo giuro, è la verità!» «Chi siete?» sussurrò Jana. L'uomo abbassò lentamente le braccia. Tremava dalla testa ai piedi. «Lo sa già.» «Dillo.» «Il Cavallo di Troia. Noi siamo... il Cavallo di Troia.» «Voi?» Jana era esterrefatta. «Mirko è...» «No. Cioè, sì... quelli che hanno dato l'incarico a noi e a Drake.» «Drake? Chi è Drake?» «Drake. Draković. Mirko... lo chiami come vuole.» Lei lo fissava, incredula. «Ma... voi siete americani!» «Sì.» L'uomo fece una breve risata, amara e sofferente. «Non le sfugge proprio nulla.»
Mirko Dal tetto del capannone, lui dominava l'intero cortile. Se Jana si fosse arrischiata a uscire non avrebbe avuto nemmeno il tempo di pentirsene. Però Mirko sapeva che non sarebbe uscita. Era ora di farsi venire in mente qualcosa. Entrare nel capannone non sarebbe stato un problema; uscirne vivo sì. Avrebbe potuto far saltare la barricata provvisoria all'ingresso, come avevano fatto saltare la porta, ma Jana sarebbe stata preparata. Mirko sogghignò. In fondo, c'era di che andarne orgoglioso. Aveva scelto la persona giusta. Ancora una volta si chiese che cos'era andato storto. Aveva sbagliato, non c'era modo d'indorare la pillola. Forse era stato l'unico errore e anche il più stupido che avesse mai commesso. Dare per scontato che, quando Jana aveva annunciato a Gruškov che avevano visite, intendesse Liam e nessun altro. Non si poteva mai essere sicuri. Aveva mandato i suoi uomini a morire. Erano uomini in gamba, ma ce n'erano altri che lo erano altrettanto. Certo, data la sua autorità gli sarebbe bastata una telefonata per far convergere sul posto dozzine di altri agenti nel giro di pochi minuti. Era il responsabile del settore alloggi dei Servizi segreti. Ma tutti quegli agenti rispondevano a una chiamata gloriosa, quella di proteggere il presidente degli Stati Uniti, non di assassinarlo. A parte i tre che aveva perso, nessun altro sapeva che Karel Zeman Draković, alias Carl Seamus Drake (un nome che aveva scelto molto tempo prima in un attacco di sentimentalismo, quando gli americani gli avevano consigliato un appellativo dal suono inglese), altri non era che una sorta di fantomatico terminator di nome Mirko, che serviva interessi americani di altra natura e figurava nella lista nera della CIA. Si distese supino e guardò il cielo. Era una zona industriale. Ai prigionieri all'interno del capannone il botto doveva essere sembrato fragoroso come un tuono, ma lì fuori le correnti d'aria avevano rapidamente disperso quel rumore e le prime abitazioni erano parecchio distanti. Lo stesso valeva per la sparatoria. Tuttavia non poteva starsene lì ancora a lungo. Il dilemma rimaneva. Da solo avrebbe potuto fare ben poco contro Jana, a meno che lei non si fosse scoperta, e qualsiasi tipo di rinforzi avrebbe salvato la vita agli ostaggi, il che sarebbe stato altrettanto problematico. In ogni caso, sarebbe stata la fine per Carl Seamus Drake e per tutte le
sue sinonimiche manifestazioni. Un peccato, considerata la ricchezza che il Cavallo di Troia gli offriva. Anche dopo il fallimento dell'attentato, c'era ancora una buona possibilità di far valere i piani dei cospiratori, almeno in parte. Se Jana non fosse uscita, avrebbe dovuto attirarla fuori in qualche modo. Oppure lui sarebbe dovuto entrare. Capannone «Perché gli americani?» Jana guardava l'agente come se potesse spiegarle il proprio fallimento personale. Non riusciva a credere di aver lavorato per gli americani. Aveva preso in considerazione la possibilità che Mirko l'avesse orientata verso Belgrado perché in realtà c'era dietro qualcun altro. Sembrava che fosse coinvolta Mosca, ma forse c'entrava anche il Medio Oriente. Erano così tanti a odiare gli americani e il loro presidente. Per un breve periodo, aveva pensato persino a Cuba. Tutti i Paesi sulla lista nera degli Stati Uniti. E, se non erano stati coinvolti i poteri ufficiali, magari si trattava di soggetti influenti e con grandi risorse finanziarie che investivano nell'economia del terrore, traendo vantaggio dalla bufera in cui gettavano il mondo. Poi si era convinta che Mirko avesse cercato d'installarle quei pensieri perché l'incarico proveniva effettivamente da Belgrado. Perché un'altra nazione in cerca di terroristi da assoldare avrebbe dovuto inscenare un tale raggiro, facendo persino appello al suo patriottismo? Forse perché temevano di non riuscire a convincere nessuno ad assassinare Bill Clinton e dunque avevano cercato una patriota? Ridicolo! Inaccettabile! C'era un sacco di gente che non vedeva l'ora di seppellire il signore dell'attacco preventivo. I fondamentalisti religiosi di tutto il mondo rappresentavano di per sé un potenziale quasi incommensurabile di attentatori che avrebbero intravisto in quel progetto un qualcosa di sacro. Non erano molti i professionisti capaci come Jana, ma se ne sarebbe potuto scovare qualcuno nei campi di addestramento del GIA algerino, degli hezbollah libanesi, persino nelle file dei coloni ebrei ultraortodossi. Non aveva fatto altro che girare in tondo. Ogni traccia che non riconduceva alla Serbia non aveva senso. Alla fine, si era ritrovata a dare la priorità alla variante serba. Ogni traccia che non riconduceva alla Serbia...
E quale senso avevano le tracce che riconducevano alla Serbia? O a Mosca, il luogo di provenienza del laser? Mirko sapeva tutto del vertice, comprese le informazioni interne degli americani. Certo, era normale per un esperto del mestiere ma, alla luce degli ultimi avvenimenti, le sue conoscenze assumevano connotazioni del tutto diverse. Dentro di lei si fece strada un presentimento. Un'idea mostruosa. «Perché non gli americani?» gemette Kuhn. «Il mondo è in mano alle grandi aziende. Mai sentito dire che l'OLP è stata comprata dal Mossad? E l'IRA adesso appartiene alla Disney. Svegliati, Jana. È ora di colazione!» Lei non lo ascoltava. I pensieri si susseguivano a tutta velocità. Investì l'agente di domande. «Chi sono i mandanti di Mirko? Che cosa si nasconde dietro il Cavallo di Troia?» «Dentro il Cavallo di Troia», la corresse allegramente Kuhn. «Era cavo, ma non ti ci hanno fatto entrare. Tu dovevi soltanto condurre il cavallo alle porte della città.» L'agente scosse il capo. Sembrava che stesse gradualmente perdendo le forze. Il suo colorito era passato dal bianco al grigio. «Non lo so», rispose, fiacco. «Davvero, lo... giuro. Drake lo sa... Mirko.» «Mirko era il mio committente e adesso cerca di farci fuori tutti», gridò Jana. «Secondo te, dovrei andare a chiederlo a lui?» «Mirko... lui...» «Chi è Mirko, maledizione? Chi è questo stronzo di cui mi sono fidata?» «Dra... Draković.» La voce dell'agente diventava sempre meno chiara. Faceva pause sempre più lunghe. «È il suo vero nome... nato in Serbia... cresciuto negli Stati Uniti. Non so... altro. Cioè... faceva il... doppio gioco. Era una spia... dei russi, poi... è passato... dall'altra parte. Molto... tempo fa. Dicono che abbia svelato qualche... segreto alla CIA... la sua carriera... CIA, poi... Servizi segreti...» «Ehi, Jana, ho sentito bene?» intervenne di nuovo Kuhn. «Lavori per i Servizi segreti americani? Accidenti!» «E stattene zitto!» lo aggredì lei. «Non se la prenda», disse Silberman. Era la prima volta che parlava dopo la sparatoria. Si avvicinò, zoppicando goffamente, e guardò il ferito. «Quelli come Mirko riescono a ingannare ben altre persone. Ci sono state diverse scelte singolari nelle assunzioni della CIA e a quanto pare anche dei Servizi segreti. Esperti di terrorismo, ex agenti del nemico, stranieri. Preziosi. Spesso ottimi cittadini americani. Non possiamo più fidarci
nemmeno di noi stessi. All'inizio degli anni '90, si è scoperto che il più alto agente della CIA era un doppiogiochista e, se non sbaglio, veniva da Chicago. Per anni, aveva dato a intendere a Reagan e a Bush che l'Unione Sovietica fosse molto più potente di quanto non fosse. Ci sono cascati tutti. Abbiamo investito miliardi per proteggerci da un regno del male che un bel giorno è crollato come una vecchia topaia.» L'agente fece per raddrizzarsi, ma si accasciò. «Se vuole una risposta, Jana, cerchi nel mio Paese», continuò Silberman, mentre guardava il corpo dell'uomo scivolare lungo la parete. «Assassinare i nostri presidenti fa parte di una lunga tradizione. Perché si sorprende?» Si voltò verso di lei e allargò le braccia. «D'altra parte, devo ammettere che preferiamo essere noi a compiere il regicidio rituale, piuttosto che lasciarlo a qualche straniero. Voi esagerate e alla fine va tutto storto.» «E questo tizio?» chiese Kika, guardando l'agente privo di conoscenza. «Perché queste persone vogliono uccidere il loro presidente?» «Questo poveraccio che non ha ancora capito che non potrà più grattarsi il culo con la mano destra? Difficile a dirsi. Penso che faccia parte di una 'cordata'. Ce ne sono diverse che infiltrano gli organi ufficiali dello Stato. Estremisti, nazionalisti, razzisti o semplicemente killer che vogliono arrotondare il loro misero stipendio di dipendenti statali. La domanda è chi sta in cima alla cordata. Questa è la squadra di Mirko, ma lui stesso si è fatto strumentalizzare. Se lei conoscesse meglio la situazione politica degli Stati Uniti, potrebbe trovare migliaia di possibili risposte, ma senza capire quale sia quella giusta.» «Ma io voglio capire!» gridò Jana, furiosa. «Voglio sapere chi è responsabile di questo tradimento!» «Non lo capiresti comunque», disse Kuhn. «Come?» «Anche se lo sapessi, non ti servirebbe a nulla.» Inspirò a fatica. «Non conosci gli Stati Uniti, proprio come il presidente americano non conosce la Serbia. Non siete diversi. Come fai a trovare i cattivi se non sai nemmeno chi sono i buoni? Vai a prepararci un caffè. Oggi il caffè era buono. Ma lascia perdere la politica, d'accordo?» «Non so di cosa parli», replicò Jana, contenendosi a stento. Suo malgrado, Kuhn le faceva pena. Non avrebbe voluto che Gruškov lo prendesse a calci in quel modo, ma cominciava a darle sui nervi. «No, ha ragione», intervenne di nuovo Silberman. La sua voce era ferma; soltanto qualche tremito dei muscoli del viso svelava la sua sofferen-
za. «È proprio questa la cosa triste. Siamo tutti qui in questo capannone a causa di errori tragici. Il suo errore, Jana, è cominciato molti secoli fa e si è temporaneamente concluso col fallimento di un nazionalista dispotico che violenta in continuazione il suo popolo con la sua stessa storia. Il nostro errore consiste nello scambiare la società mondiale con la società dei media. Crediamo veramente di poter 'prescrivere' i nostri valori ad altre persone senza conoscere a fondo la loro vita, le loro particolarità, la loro cultura e la loro storia. E, se guarda con maggiore attenzione, constaterà che noi stessi non abbiamo valori ben definiti. Gli Stati Uniti vivono un profondo conflitto interiore, l'americano è il peggior nemico di se stesso. Bisogna che lei lo capisca, se vuole cercare i traditori.» «Mi dica chi sta dietro Mirko.» «Non lo so.» Il giornalista scosse il capo. «Nel mio Paese ci sono due schieramenti. Quasi nessun presidente li ha fatti emergere in modo netto come Clinton. Con ogni passo che faceva verso la liberalizzazione, si attirava sempre di più l'odio dei reazionari. La maggior parte dei repubblicani ha scarsa considerazione per un presidente che ammette i gay nell'esercito, quando in Texas è tuttora in vigore una legge che classifica gli omosessuali come malati di mente e il sesso orale tra i coniugi è vietato per legge in uno Stato su tre. Secondo loro, il presidente priva l'uomo americano di qualsiasi dignità. Offende il suo senso del decoro con gli scandali sessuali e vuole mettere sottosopra le leggi sulle armi. I salari diminuiscono, gli operai perdono i vecchi posti di lavoro, le loro mogli devono lavorare di più. Nel profondo del Tennessee, della Georgia, del Mississippi, dell'Oklahoma, dell'Arkansas o del Wisconsin, gli uomini non sopportano che le loro mogli portino a casa il pane. E, come se non bastasse, Clinton vuole portargli via anche le armi! Uno così bisogna farlo sparire!» «Come se Schröder volesse vietare agli uomini tedeschi di scopare», ridacchiò Kuhn. «Anzi peggio: di avere un'erezione.» «Intende dire che i repubblicani avrebbero dato l'incarico a Mirko? E di conseguenza a me?» chiese Jana in tono indagatore. «Non è così semplice, Jana. Accidenti! È difficilissimo stabilire da dove salti fuori Mirko. I gruppi che danno la caccia a Clinton sono innumerevoli. Nessun altro presidente è stato preso di mira quanto lui e Kenneth Starr è soltanto il cane che altri gli hanno sguinzagliato contro. Dietro di lui, c'è una giustizia corrotta, che si è fatta strumentalizzare politicamente. Giudici fascistoidi, avvocati ultraconservatori, infangatori internettiani, estremisti religiosi, predicatori televisivi fanatici che incitano alla resistenza pubbli-
ca, equiparano Clinton al diavolo e vogliono esorcizzare il maligno alla Casa Bianca. Immagini una cosa del genere in Germania: Schröder come incarnazione di Lucifero su tutti i canali! Per non parlare di Paula Jones! Quella donna ha sostenuto che, anni fa, Clinton le abbia mostrato il suo 'pezzo forte' senza che gli fosse stato richiesto. E gli ha fatto una guerra spudorata, che di certo non potrebbe finanziare, se non continuassero a spuntare misteriosamente fuori soldi e superavvocati. Anche lei è strumentalizzata da chi odia Clinton, come sono strumentalizzati i semplici operai delusi, i suprematisti bianchi, l'intero mondo della destra estremista.» «Tutti gruppuscoli», replicò Jana, incollerita. «Conosco quel mondo. Nessuno di loro avrebbe potuto commissionare un omicidio di questo tipo.» «Non ha importanza ciò che sono in grado di fare loro, Jana. Ciò che conta è chi li manipola. Da dove arriva il denaro per finanziare questa gente? Chi finanzia lei?» Jana rimase in silenzio. «Il problema degli estremisti del nostro Paese non è il numero», proseguì Silberman. «Rispetto alla popolazione complessiva sono sempre pochi. Per la maggior parte, gli americani sono brave persone. Anche in Serbia è così, ne sono sicuro. Gli skinhead in Germania non ci devono preoccupare. Ciò che preoccupa è chi controlla e sfrutta tutte queste persone, è il capitale. Ma noi abbiamo un profondo rispetto del capitale, perciò preferiamo occuparci dei sintomi. Anche lei, Jana, non è il problema. Non sa nemmeno per chi lavora! Il problema è che mandanti come quelli che stanno dietro la sua operazione sono soprattutto finanziatori, cioè hanno denaro in abbondanza. Perciò rappresentano il fattore decisivo nell'ideologia del capitale che seguiamo: godono di rispetto, hanno potere e influenza, sono ritenute persone benemerite, che non possono avere torto, altrimenti sarebbero povere. A lungo andare, qualsiasi Paese avrà problemi con gli estremisti, se non farà altro che andare a caccia di capri espiatori e si rifiuterà di cercare i veri mostri nelle proprie cerchie di potere e di mettere in dubbio l'onnipotenza del capitale. Come vede, si può comprare persino la morte del presidente americano. Basta comprare Mirko, poi lui compra lei.» «Ci sono migliaia di motivi per dare una lezione ai vostri Stati Uniti 'perbene'.» Silberman aveva parlato con gran foga, poi si era acquietato e d'un tratto sembrava molto avvilito. «Lo crede davvero?» chiese. «Sì, il vostro maledetto, arrogante Occidente!»
«E quanti motivi avrebbe chiunque abbia guardato la televisione negli ultimi mesi e negli ultimi anni di scaricare bombe sul suo Paese?» Ci fu un breve silenzio, poi, con un sospiro, Silberman riprese: «I nemici dei serbi non sono gli americani, i kosovari, i bosniaci. E voi non siete i nostri nemici. I nemici dei tedeschi non erano i russi e nemmeno i francesi. Il nemico è la cecità davanti al proprio Paese, il fatto di guardare altrove, di accettare troppo facilmente ideologie logore. Ha mai sentito parlare di Vince Henrik?» «Henrik?» «È un multimiliardario di Knoxville, editore di alcune pubblicazioni radicali improntate al concetto di ordine pubblico, nonché erede di una nota famiglia industriale. È ritenuto il padrino del conservatorismo americano e il più generoso finanziatore dei repubblicani. Il suo patrimonio viene stimato in dieci miliardi di dollari e i suoi contatti arrivano molto in alto, ma probabilmente anche molto in basso, nella feccia. Con un po' di attenzione, si scopre chi paga gli avvocati che fanno la guerra a Clinton, chi finanzia Kenneth Starr: Vince Henrik. Il gentile vecchio con le rughe intorno agli occhi blu e i capelli bianchi da zio delle fiabe. La sua missione nella vita è annientare Clinton.» Fece una pausa. Sembrava esausto. «Henrik è il primo predicatore dell'odio e si muove in una cerchia di persone con patrimoni di dimensioni simili al suo. L'industria bellica non ne vuole sapere di un presidente cui non interessa la guerra...» «L'industria bellica americana sicuramente ci ha guadagnato a bombardare il mio Paese!» «E per questo lei vuole ammazzare Clinton? Lui non aveva nessuna voglia di fare questa guerra e l'industria bellica lo sa benissimo. Anche la lobby delle armi è infuriata, perché Clinton non ha rispetto per lo spirito pionieristico dei suoi antenati. E i baroni del carbone e dell'acciaio della Pennsylvania, che vogliono abolire lo Stato sociale con cui lui li tormenta, lo ammazzerebbero volentieri. E non dimentichiamo la lobby del tabacco, che fra l'altro si è scelta subito l'avvocato giusto, Kenneth Starr, il quale, le ricordo, è pagato da Vince Henrik. Henrik qua, Henrik là! Clinton ha attaccato briga coi valori fondamentalisti americani e, ancora peggio, col capitale.» Jana aveva abbassato le armi. D'un tratto sentì svanire tutto il suo coraggio. «Perché questa gente ha voluto servirsi di un commando serbo?» chiese in tono piatto. «Non lo so», rispose Silberman.
Liam si schiarì la voce. «Io non ci capisco niente di politica», borbottò. «Non faccia il timido, Liam», lo incalzò Kuhn. «Su, ci faccia contenti.» «È soltanto una teoria che insiste per essere esplorata», disse Liam. «Dunque, se il denaro non è un problema, lo si spende per sbarazzarsi di Clinton. Una volta che è morto, è fuori dai piedi, su chi si può scaricare la colpa? Casualmente nei Balcani si è venuti al dunque. La NATO ha minacciato d'intervenire. Fantastico! Allora sono stati i serbi. Nel dubbio, potrebbero esserci di mezzo anche i russi, il che farebbe ancora più comodo agli interessi degli assassini: si potrebbero indignare pubblicamente, sostenendo che ci sono argomentazioni valide per una nuova Guerra Fredda e in generale per l'esigenza di proteggersi, anche con severe sanzioni. Bene per la lobby delle armi, per l'industria bellica, per i repubblicani. Un tempismo perfetto, perché Al Gore non avrebbe abbastanza spazio per mettersi in luce. Finirebbe dritto dritto contro la baionetta dei repubblicani. Troverebbero sicuramente qualcosa per metterlo sotto. Così il prossimo presidente sarà repubblicano.» «S'ingaggia un commando serbo, si fa uccidere il presidente, poi si ammazzano gli attentatori e li si serve all'Occidente su un piatto d'argento. Tutte le tracce conducono alla Serbia», aggiunse Silberman. «E così tutti ottengono ciò che vogliono», concluse Liam. «L'industria bellica avrà una nuova Guerra Fredda e i repubblicani un nuovo presidente.» Jana non voleva sentire quella storia. Tuttavia, piena di disgusto e nel contempo affascinata da quella possibilità, la ascoltava comunque. Era il presentimento che aveva avuto poco prima. «È terribile», commentò Kika. Liam scrollò le spalle. «È soltanto una teoria.» «Lasci perdere, Jana», mormorò Silberman. «Si è messa contro la persona sbagliata. Il complotto della destra è un complotto dei ricchi. Alla fine, conta solo chi sarà il prossimo presidente. Per questo non devono annientare soltanto Clinton, ma anche la sua carica. Devono indebolire l'unica istituzione nazionale che può ancora porre limiti al capitale. Metta via le sue armi. Ci liberi e si metta al sicuro, prima che succedano altre disgrazie.» Liam si avvicinò al giornalista. «Non può lasciarci andare», disse furibondo. «Il suo amico americano là fuori avrà già perso il buonumore. Jana deve agire. Lei non può uscire e lui non può entrare. Non è così?» Jana scosse il capo. «Neanche voi potete uscire», replicò. «Mirko non ha più tempo. Ucciderà pure voi, se necessario con la sua stessa arma.»
«E se chiamassimo semplicemente la polizia?» propose Kika. «Abbiamo dozzine di telefoni. Che potrebbe fare in quel caso?» «Non sarebbe nel mio interesse», rispose Jana, asciutta. «Che dilemma», commentò Liam. «Una conclusione piuttosto insulsa per un rapimento di per sé assai riuscito.» Si posò l'indice sulla radice del naso. Poi aggiunse: «C'è un'altra possibilità che potrebbe stare bene a tutti». «E quale sarebbe?» chiese Kika. «Be'...» Liam cominciò a camminare avanti e indietro. «Non abbiamo più nessun motivo di farci fuori a vicenda. Il problema si chiama Mirko e sta fra i piedi a tutti noi, giusto?» Jana annuì. «Giusto.» «Tu vuoi svignartela. Noi vogliamo sopravvivere.» Liam si fermò davanti a lei. Jana lo guardò negli occhi. Sapeva dove voleva arrivare. «Va bene», disse. «Facciamo fuori quello stronzo. Insieme.» Malzmühle Guterson era andato alla toilette già tre volte, ma non per un bisogno fisiologico. Il Lommerzheim, come si chiamava il locale in cui, secondo Van der Ree, si potevano consumare mostruose cotolette stando seduti su casse e guide telefoniche, si era messo fuori gioco da sé. Avevano raccolto informazioni su quel posto, che evidentemente era una leggenda a Colonia, e infine avevano incaricato il capo del protocollo tedesco di chiedere se fosse disponibile un tavolo per venti persone. L'uomo che aveva risposto al telefono si esprimeva in modo quasi incomprensibile. Aveva borbottato qualche parola e ne avevano dedotto che il locale era pieno. A quel punto, avevano usato la formula magica che solitamente apriva qualsiasi porta: «Ma noi porteremmo il presidente degli Stati Uniti». La reazione era stata immediata. «E io sono l'imperatore della Cina.» Poi il silenzio. Quel sordo, sgradevole silenzio nel ricevitore quando qualcuno riaggancia inaspettatamente. Guterson non ne era rattristato. Meglio il Malzmühle. Se non altro, Drake e Nesbit l'avevano fatto controllare il giorno precedente e avevano già lasciato detto al proprietario che avrebbe avuto una serata stressante. Così il convoglio si era rimesso in moto, ridotto alla limousine del presidente e ad alcuni furgoni blindati, carichi di
agenti dei Servizi segreti e dell'FBI, seguiti dalle Audi 8 del BKA. Poiché il caso nel mondo dei presidenti funzionava in modo un po' meno casuale che altrove, erano già state prese tutte le misure necessarie e il ponte Deutz era stato bloccato. Anche il traffico fluviale si era fermato per un po'. Nelle giornate successive, non sarebbe stato diverso. Ogni volta che Clinton avesse voluto attraversare il Reno, per motivi protocollari o personali, nessuna imbarcazione si sarebbe potuta avvicinare al ponte. Regole stabilite dagli Stati Uniti. Erano arrivati al Malzmühle da un quarto d'ora. Clinton era accompagnato dall'ambasciatore Kornblum e da un seguito relativamente scarno. Il presidente si era cambiato allo Hyatt, indossando una polo verde e una giacca marrone scuro. Così abbigliato sembrava ancora più giovane del solito, era di ottimo umore e non faceva che stringere la mano a tutti. Guterson odiava quelle situazioni. Poco dopo il loro arrivo, il BKA e i Servizi segreti avevano bloccato l'accesso alla birreria. Se fosse stato per Guterson, tutti gli avventori avrebbero dovuto lasciare il locale, ma Clinton aveva insistito che ciò non accadesse. Per lo meno nessuno poteva più entrare. Intanto, davanti alle porte si erano assembrate alcune centinaia di curiosi, insieme con grossi contingenti di polizia che avevano messo in sicurezza la zona. La birreria era piena zeppa. Clinton, Kornblum e Guterson erano seduti a un tavolo d'angolo, circondati dai fidati di Guterson, che erano riusciti a occupare tutti i tavoli vicini. Comunque non erano lontani più di cinque metri dai normali avventori. All'inizio quasi nessuno si era reso conto dell'arrivo di Clinton, ma poi alcune signore, che facevano parte di un gruppo di turisti americani, erano uscite dalla toilette e avevano riconosciuto il «loro» presidente. Da quel momento, la tranquillità era finita. Clinton fece un giro per il locale, salutò tutti e autografò diversi sottobicchieri. Guterson lo seguiva ovunque. Sentiva sussurri e risatine e capì che riguardavano lui e la sua espressione cupa. Allora cercò di sorridere, senza averne voglia, ma Clinton amava le persone allegre, perciò era giusto che fosse accontentato. Guterson era stato in quella maledetta toilette ben tre volte, perché di solito era lì che iniziava il decorso dei guai. Ma, a quanto sembrava, al Malzmühle l'unico decorso era quello della birra, che dopo essere consumata al piano superiore veniva reimmessa nel ciclo eterno al piano inferiore. Poi era arrivato quel tizio che si chiamava «Köbes» e aveva posto una domanda d'impatto shakespeariano. «Two beer or not to beer?»
I coloniesi avevano un certo senso dell'umorismo, per quanto un po' bizzarro. Clinton era entusiasta. Il cameriere gli chiese che cosa volesse mangiare e il presidente ordinò Sauerbraten alla renana.33 Guterson si astenne e continuò a sorseggiare la sua acqua. Kornblum, per quanto affamato, non volle associarsi pedissequamente a Clinton e credette di trovare il paradiso in terra in un'altra specialità cittadina. Gli fu portata una poltiglia di mele e patate, coronata da una massa color marrone scuro che sembrava l'espressione della vivace attività intestinale di un dobermann. Perplesso, l'ambasciatore si limitò a piluccare quella strana composizione. «Buona, la birra», osservò Clinton. «Mi sembra eccellente, non trova?» «Perché non la importa?» propose Kornblum. «Buona idea, John.» Parlarono di cose di ogni genere e si raccontarono barzellette. Quando Kornblum si allontanò per andare alla toilette, Clinton disse a Guterson: «Ha fatto in modo che la faccenda non venga divulgata, giusto? Il cancelliere e io ci teniamo moltissimo». Guterson annuì. La telefonata di Clinton con Schröder non aveva fatto luce sugli eventi, ma i due statisti si erano trovati d'accordo nel non voler rendere pubblico l'accaduto. Lui stesso si era messo in contatto ripetutamente con Lex. L'elemento IRA si era rivelato assai vacillante. Sembrava piuttosto che nell'attentato fosse coinvolta la Serbia, forse addirittura il governo serbo. Era in corso una febbrile ricerca del laser. «Cos'hanno raccontato i tedeschi ai loro uomini?» chiese Clinton. «Devono aver tirato fuori un qualche motivo.» «No, non hanno detto niente», rispose Guterson. «Cercano un laser. I retroscena non sono stati svelati.» «È realistico?» chiese il presidente, corrugando la fronte. «Mantenere il segreto su una cosa del genere?» Guterson scrollò le spalle. «Possiamo mantenere il segreto su qualsiasi cosa.» «Non è stato un qualche accademico a scoprire la faccenda del laser?» chiese Clinton. «Un professore, no?» «Non importa. Possiamo tenere sulle spine un milione di persone e fare in modo che nessuno di loro apra bocca. Sono altre le cose che mi preoccupano.» «Si spieghi.» «Un secondo tentativo», mormorò Guterson. «Finché quel laser è da qualche parte, può diventare pericoloso per lei.» 33
Piatto di carne simile a un brasato marinato nell'aceto. (N.d.T.)
«Possibile.» Clinton finì la sua Kölsch. «Vede, Norman, questo mi fa venire in mente una bella citazione. Conosce Čajkovskij?» «No.» «È un compositore russo. Piace molto a Boris.» Clinton sogghignò. «Lo sa cos'ha detto?» Naturalmente no, pensò Guterson. Come potrei saperlo? «Cosa?» «'Nella vita non si può camminare in punta di piedi per paura della morte.' Buona, eh? Mi piace molto.» Il presidente staccò un grosso pezzo da una fetta di carne e se lo ficcò in bocca. Mentre masticava, aggiunse: «Perciò sia gentile e faccia tutto il necessario in modo che io non debba camminare in punta di piedi». Kika Wagner Ci vollero grandi quantità d'acqua per far riprendere conoscenza all'agente. Per qualche istante, Kika temette che il cuore avesse smesso di battere, ma poi l'uomo aprì gli occhi. Gli diedero da bere e Jana aspettò che avesse ripreso un po' le forze. «Riesci a stare in piedi?» gli chiese. Lui scosse il capo. «Starai in piedi. E camminerai, anche. Soltanto qualche passo, perché altrimenti ti sparo. Capito?» «Ho bisogno di un medico», gemette lui. «Avrai un medico. Se sopravvivrai o no lo deciderai tu. In un modo o nell'altro, hai perso. Mirko ti ha tradito, ti ha spedito all'inferno. Noi siamo la tua unica speranza.» Fece una pausa. «Oppure la tua fine. Puoi scegliere. Ci aiuterai?» L'uomo esitò. Guardò il moncherino. Poi annuì. «Bene. Cerca di alzarti.» Negli ultimi minuti, la situazione si era evoluta in modo singolare. Jana non teneva più il gruppo in scacco con la pistola. Kika cercava di dissimulare il disgusto che avvertiva nel collaborare con quella donna, ma era l'unica soluzione possibile. Naturalmente avrebbero potuto aspettare che la polizia li trovasse. Ma gli scoppi e gli spari non sembravano aver fatto scattare nessun allarme. Prima che arrivasse qualcuno, Mirko avrebbe potuto uccidere tutti. Non sapevano nemmeno se disponesse di ulteriori rinforzi, se si apprestasse a risolvere i suoi problemi da solo o con un nuovo commando.
Dovevano agire. Non c'era alternativa alla bizzarra alleanza che avevano creato. Se tutto fosse andato liscio, Jana sarebbe riuscita a svignarsela. Lei e Liam avevano elaborato un piano abbastanza pazzesco da poter funzionare. Il pensiero di lasciarla fuggire procurava quasi un dolore fisico a Kika. Guardò Kuhn, che era disteso a terra e aveva perso conoscenza, e pensò a come l'avevano conciato. Anche soltanto per lui non potevano più aspettare. Doveva essere ricoverato in ospedale al più presto. Era evidente che aveva riportato lesioni interne. Senza cure, sarebbe morto. Ne era certa, pur non essendo in grado di valutarne le condizioni sotto il profilo medico. Era un presentimento. Anche Silberman aveva bisogno di assistenza medica, ma per lo meno era ancora in forze e non sarebbe crollato così presto. Vide Liam e il giornalista che si dedicavano ai preparativi e pensò al compito che la attendeva. In parte, il piano si fondava sul fatto che Mirko non sapeva quanti individui ci fossero nel capannone. Avevano ricostruito gli eventi: non poteva aver visto Kika. Su quella base, avevano elaborato una procedura che instillava in lei una repulsione ancora maggiore di Jana. Però avrebbe obbedito. Erano le circostanze a essere ripugnanti. Di per sé, era un buon piano ed eliminare Mirko era l'unica cosa giusta. Sempre che ci riuscissero. Poteva rivelarsi letale. Ancora una volta, Kika si stupì di non sentirsi particolarmente turbata. Invece di perdere il senno per la paura, pensava ai dettagli. Per esempio alle escoriazioni che le manette avevano procurato al polso di Kuhn. Jana lo aveva finalmente slegato dal palo. Era l'unica cosa per cui Kika provasse gratitudine nei suoi confronti. Rimuginava sui dettagli. Si chiedeva se avrebbe capito tutto ciò che Jana aveva intenzione di spiegarle, se sarebbe stata abbastanza veloce. Era passato un quarto d'ora dall'aggressione. Mirko sarebbe rimasto in agguato abbastanza a lungo? Poi le venne un altro pensiero. Era ancora là fuori? L'avevano dato per scontato, perché l'aveva detto Jana. E se si fosse sbagliata? Da quando Mirko era fuggito dal capannone, non l'avevano più visto né sentito. Non c'erano prove che fosse ancora lì. Guardò l'orologio. Era spaventoso quante cose fossero successe in così poco tempo e che lei non fosse rimasta profondamente turbata dagli eventi. Meglio così, pensò. «Kika», disse Jana. Non aveva il diritto di chiamarla per nome, ma Kika
non aveva voglia di litigare per quel motivo. «Vieni con me sul retro.» Lei esitò. Poi guardò Liam. Lui sollevò la testa e sorrise. Il suo sorriso le trasmise calore e una promessa di protezione. Credette di riconoscervi anche qualcos'altro. Per un secondo, si sentì felice e leggera. Sarebbe andato tutto bene. Andò nella stanza dei computer con Jana. I televisori erano ancora accesi, anche se muti, mentre le radio gracchiavano a basso volume. Jana le diede istruzioni brevi e precise. D'un tratto, il piano non le sembrò più così spaventoso. Anzi sembrava piuttosto facile. «Non ti sbagliare. Devi guardare con molta attenzione», ribadì Jana. «E se non funziona?» «L'altra variante funzionerà.» Lei annuì. Poi, cedendo a un impulso improvviso, chiese: «Perché fa una cosa del genere?» Jana alzò lo sguardo dalla scrivania di Gruškov e la guardò. «Che cosa? Uccidere?» «Se fosse riuscita a uccidere Clinton, che avrebbe ottenuto? Altre morti, altra violenza? Lei si arroga il diritto di spegnere la vita degli individui, maltratta gente che non le ha fatto nulla. Perché? Voglio sapere: che razza di persona è lei, Jana?» «Non è quello che vuoi sapere», rispose Jana, senza scomporsi. «Vorresti sapere che razza di bestia sono. Che tipo di mostro. Hai già emesso la tua sentenza, qualsiasi spiegazione sarebbe uno spreco di tempo, perciò lasciamo perdere.» Andò alla porta. «Non ha niente di meglio da dire?» chiese Kika. Jana si fermò e si voltò verso di lei. «Che cos'è? Una conversazione da donna a donna?» chiese in tono beffardo. «Voglio sapere perché ha conciato così Kuhn.» «È stato Gruškov a conciarlo così. Io forse avrei sacrificato la vita di Kuhn per salvare la mia. Questo lo ammetto. Ma non ho mai avuto intenzione di fargli del male. Odio torturare le persone. Puoi credermi oppure no.» «No, ha ragione. Questa non la bevo. Lei è del tutto indifferente alla vita», replicò Kika. La donna la guardò dai suoi grandi occhi scuri. Kika si aspettava di riconoscervi la collera, ma non vi lesse nulla di conosciuto. Stava guardando la superficie di un altro mondo. «Sono cresciuta a Belgrado. Una bellissima città. Ci sei mai stata? A fi-
ne estate, se le guardi dai ponti, le case sono immerse in una luce molto particolare. Ma i ponti sono distrutti. Ci hanno insegnato sempre e soltanto chi non eravamo. Poi è arrivato Miloševič. Prima eravamo una costola dell'Unione Sovietica. Quindi abbiamo scoperto chi saremmo potuti essere, se non ci avessero sempre portato via tutto. I miei genitori non s'interessavano di nulla e io li disprezzavo per questo. Volevo fare qualcosa, lottare. Non contro qualcuno, ma per la mia gente. Perciò mi sono fatta addestrare nell'uso delle armi, nelle tecniche di lotta, nel tiro al bersaglio... Non volevo ammazzare, capisci? Volevo soltanto essere forte e preparata, perché amavo il mio Paese. Da bambina stavo spesso dai miei nonni, in Krajina. Sai dov'è?» Kika rimase in silenzio. «Certo che no. Tu non sai niente del mio Paese. Sono stati gli anni più belli. I miei nonni non si erano mai preoccupati se fosse giusto o sbagliato vivere in un certo luogo. La Serbia aveva occupato le antiche terre della sua eredità storica, la Slavonia occidentale e la Krajina, e loro vivevano lì. Ma i croati le rivendicavano, perciò nel '95 le hanno invase e hanno cacciato i serbi. Il mondo ha dato un'occhiata distratta e non ha minacciato di sganciare bombe, anche se duecentomila persone sono state deportate come bestie e molte sono state massacrate. In quel periodo, mia madre si trovava lì. Lei e mia nonna sono state assassinate dai militari croati.» Fece una pausa. «Io non ho potuto far nulla. Non ho potuto scusarmi con mia madre per il mio disprezzo e mio padre si è impiccato, perché non riusciva ad affrontare quella perdita. Ho pensato che sarebbe stata una buona cosa impedire che ciò che era accaduto in Krajina si ripetesse in Kosovo. I paramilitari mi hanno accolto volentieri, per i miei studi e la mia formazione. Ma anche loro non facevano niente di diverso dai croati. Io volevo giustizia, non pulizia etnica. Vivevamo come principi e agivamo come barbari. Perciò ho deciso di costituire un'opposizione armata che facesse di meglio. Una specie di OLP o di IRA moderata, che conducesse una lotta selettiva, senza commettere genocidi. Per farlo, mi servivano soldi. Ero un'eccellente tiratrice scelta e ho pensato che, se avessi accettato qualche incarico per denaro, avrei potuto finanziare la mia impresa. Ho lavorato per il Mossad, ho ucciso un industriale in Siria per conto di un'azienda, ho fatto fuori un generale in Russia. Con quel lavoro in Russia è stato come se mi si aprisse una porta. Gli affari sono diventati sempre più redditizi, io sono diventata ricca e intanto Miloševič ha iniziato una guerra. Un tempo amavo il mio Paese, ma ormai avevo perso qualsiasi fede. Perciò non ho fatto nulla. Co-
sa avrei potuto cambiare col mio piccolo esercito?» Kika la ascoltava, affascinata. «Perciò è rimasta ciò che era, un'assassina», commentò in tono sprezzante. «La migliore. Di rango mondiale. Ho fallito sul fronte degli ideali, ma ho raggiunto livelli eccellenti. Sono ricca sfondata, ragazza mia. La vita non è stata soltanto brutta. Piuttosto priva di senso, però.» «E la morte di Clinton avrebbe cambiato le cose?» «Mi avrebbe liberato.» «Dio mio!» Kika scosse il capo. «Lo crede veramente. Perché mi ha raccontato tutto questo?» «Non te l'ho raccontato.» Parve riflettere. Poi sul volto le comparve un sorriso. «A proposito, mi chiamo Sonja. Sonja Ćosić. Questo è il mio nome.» «Non m'interessa come si chiama», replicò Kika in tono irritato, anche se aveva altre parole sulla punta della lingua. Jana scrollò le spalle. «Può darsi. A me sì, però», disse poi, uscendo. Mirko Fuggire. Naturalmente avrebbe potuto squagliarsela. Si stava scomodi, lì sul tetto. Era una situazione assurda. Ma perché fuggire? Perché svignarsela, anche se le uniche persone che potevano rappresentare un pericolo per lui erano in quel capannone, probabilmente confuse e demoralizzate? Gli americani gli avrebbero dato la caccia. Sarebbe stato il criminale più ricercato degli Stati Uniti. Una volta smascherato, sarebbe diventato un rischio insostenibile anche per il Cavallo di Troia. Se non fosse stato catturato dalla CIA o dall'Interpol, gli scagnozzi del vecchio gli avrebbero dato il colpo di grazia. Forse c'era qualche angolo del mondo in cui avrebbe potuto vivere in sicurezza. Ma che cosa avrebbe fatto in Groenlandia, in Ecuador o in Senegal senza un centesimo? Prospettive inebrianti. Dall'interno del capannone, giungevano voci smorzate e fievoli rumori. Era impossibile capire che cosa stesse succedendo lì dentro. Il cielo si era oscurato. Erano passati diversi elicotteri a distanza ravvicinata. Non avevano ancora scoperto nulla, ma il cerchio si stava chiudendo. Ogni secondo che passava diminuiva le sue possibilità di risolvere il problema. Non
poteva più aspettare. Rimuginò diverse volte come riuscire a entrare senza essere immediatamente ucciso da Jana. Era inutile: avrebbe dovuto sparare a chiunque gli si parasse davanti. Era seccante, primitivo. Ma soprattutto avrebbe dovuto sparare agli ostaggi con la propria arma. In realtà non importava; poteva sistemare anche quello, dopo. Certo, sarebbe stato un po' difficoltoso cancellare le sue impronte digitali e piazzarci quelle di Jana. I periti balistici avrebbero scoperto che era la sua arma, ma avrebbe potuto far mettere a verbale che Jana gliel'aveva sottratta durante la sparatoria. Si sarebbe fatto venire in mente qualcosa di plausibile. In fin dei conti, sarebbero stati tutti contenti. Aveva trovato il laser ed eliminato il commando. Forse il presidente l'avrebbe ringraziato di persona. Un pensiero esilarante. Mentre stava facendo quelle riflessioni, dal capannone giunse il rumore di un colpo d'arma da fuoco. Trattenne il fiato. Stava succedendo qualcosa, lì sotto. Era tentato di entrare, ma era meglio di no. Qualsiasi cosa stesse succedendo, avrebbe lasciato passare cinque minuti. Rimase in attesa, disteso sul tetto a occhi chiusi. Non erano trascorsi nemmeno tre minuti quando ci furono altri due spari. Aprì gli occhi, in preda all'eccitazione. Chi mai si stava sparando addosso? I suoi agenti? Due erano morti, senza dubbio. Da quello che era riuscito a vedere, il terzo era disteso vicino allo YAG, gravemente ferito. Poi aveva cominciato a strisciare verso la porta, col braccio inzuppato di sangue. Qualcuno cominciò ad armeggiare vicino all'ingresso, quindi si sentì un gran baccano. «Drake!» Mirko s'irrigidì. Era la voce di Francis, l'uomo rimasto schiacciato sotto lo YAG. «Drake, dove sei? Aiutami!» Strisciando come un rettile, Mirko raggiunse il bordo del tetto. Sguainò una delle pistole e diede una prudente sbirciata di sotto. Il cortile era vuoto. In corrispondenza dell'entrata che avevano fatto saltare c'era un lungo rettangolo di luce. «Drake!» La voce dell'agente proveniva da un punto immediatamente
sotto di lui. «Maledizione, non mi puoi lasciare solo. Ho fatto fuori quella stronza, dove sei?» Gli spari. Francis aveva sparato a Jana? «Vieni fuori», disse Mirko. «Non... ci riesco. Non ce la faccio più. Drake! Sono ferito... la mano...» Poteva essere vero? Mirko si alzò e camminò sul tetto, raggiungendo la parte posteriore del capannone. Arrivato in prossimità del bordo, saltò giù. Quattro o cinque metri non erano un problema per lui. Atterrò, si lasciò scivolare sulle ginocchia e poi rimbalzò subito in piedi. Camminando a ridosso della parete, raggiunse l'angolo anteriore del capannone. «Drake!» Si portò davanti all'ingresso e puntò la pistola verso l'interno, mentre il suo cervello elaborava simultaneamente tutti i dati che riceveva, traendo conclusioni. Francis era accovacciato accanto al tavolo col quale avevano sbarrato la soglia. Evidentemente era riuscito a spingerlo di lato e a rovesciarlo. Gli mancava la mano destra e stringeva la pistola nella sinistra. Aveva l'abito intriso di sangue. Sparsi nel capannone c'erano diversi corpi esanimi. «Che è successo?» chiese. «Non ce la faccio più. Ti prego, Drake...» «Tutto a posto, Francis», disse Mirko in tono rassicurante. «Non avere paura, ti tirerò fuori di qui. Dov'è Jana?» «Là in fondo.» L'agente ansimò e cercò di raddrizzarsi. «Ha... ucciso O'Connor. Il nero era già morto, probabilmente... lo avevamo colpito noi. Jana... pensava... che... fossi morto anch'io... è andata là dietro a... cambiarsi.» «L'hai fatta fuori mentre si cambiava?» «Mentre... usciva.» Sembrava che Francis faticasse alquanto a parlare. Probabilmente era in preda a dolori spaventosi. Stringendo i denti, si tirò su e lasciò cadere l'arma, che sbatté a terra tintinnando. Mirko superò la soglia. A sinistra e a destra erano distesi i corpi dei suoi agenti. Davanti allo YAG, vide Gruškov; in mezzo al capannone, Mahder; accanto alla parete altri due corpi: Kuhn e, mezzo disteso su di lui, O'Connor. Raggiunse a passo svelto Francis, gli cinse il torace col braccio libero e lo strinse a sé. Il corpo dell'agente gli avrebbe fatto da scudo, in caso di un attacco dal fondo del capannone. Tanto avrebbe dovuto ucciderlo comunque, con l'arma di Jana, in modo che tutto quadrasse anche nei minimi dettagli. «Vieni, andiamo a vedere», gli disse.
«Non... ce la faccio», sussurrò l'altro. «Sei stato molto bravo, Francis. Eccezionale. Davvero. Cerca di restare in piedi. Fra un attimo sarà tutto finito.» Spinse l'agente ferito davanti a sé, mentre scrutava la parte posteriore del capannone. Dietro lo YAG, intravide il busto di Jana. Indossava di nuovo la giacca scura di Laura Firidolfi e la lunga parrucca. Mirko sapeva che si era dovuta separare dalla sua chioma per interpretare il ruolo di Cordula Malik. Jana era su un fianco e gli dava la schiena. Dell'uomo di colore vedeva soltanto le gambe distese, un po' più in là. «È morta? Sei sicuro?» Francis annuì impercettibilmente. Mirko sparò tre volte al corpo esanime di Jana. I proiettili la colpirono senza provocare nemmeno un sussulto. Era morta. «Tieni duro, Francis», disse, come se stesse trascinando il suo uomo migliore in una giungla ostile, a rischio della propria vita. «Andiamo avanti.» Kika Wagner Non avrebbe funzionato. Poco prima, quando Liam era andato ancora una volta da lei nella stanza coi computer e coi televisori, si era sentita fiduciosa. Non aveva mai tenuto in mano un'arma in vita sua, ma era una brava fotografa, aveva un buon occhio e la Nikon non era difficile da usare. Si erano abbracciati per qualche secondo. Lui non aveva detto quasi nulla. Nessun commento arguto, nessun falso incoraggiamento. Soltanto poche parole: «Shannonbridge. Quando sarà tutto finito». Bere whisky nel negozio di alimentari, tra detergenti per il WC e salsicce. Certe volte erano strane le cose che ti davano forza! Poi lui le aveva detto quello che lei aveva sperato di sentire. E Kika si era resa conto che non avrebbe potuto sopportare la sua dichiarazione d'amore nemmeno un istante prima. Era innamorata, ma una dichiarazione l'avrebbe messa in fuga, come un'overdose di quella roba che lui consumava in quantità industriali. Fino a un'ora prima, nonostante l'incertezza nata da ciò che era successo a Kuhn e dagli eventi dell'aeroporto, aveva assoggettato ogni pensiero sul futuro a un codice interiore, sulla cui copertina spiccava la nuda scritta NORMALITÀ. Si sarebbe lambiccata il cervello pensando a come sarebbe stato vivere accanto a un uomo che beveva incessantemente e che senza dubbio non avrebbe rinunciato ai propri eccessi per una relazione. Si sarebbe trincerata dietro migliaia di «se» e di
«ma» e avrebbe dato la priorità alla ragione, che rovinava il presente, tirando sempre in ballo un problematico domani e dopodomani. Ma quel momento sembrava fatto apposta per un sì. Non si poteva dire di sì al futuro, ma soltanto a un'idea di futuro. Il tempo era una successione di momenti. Il futuro derivava soltanto da ciò che la mente accettava. Una canzone di Björk diceva: Quando te ne vai / il mio cuore si disfa / lentamente si disfa / come un gomitolo. / Il diavolo raccoglie con un ghigno / il nostro amore in un gomitolo. / Non ce lo restituirà. / Perciò quando tornerai / dovremo rifare l'amore. La questione era: ci sarebbe stato un ritorno? Si era sentita così forte e sicura, dopo le brevi istruzioni di Jana. Pronta ad assumersi quell'incarico tremendo. Lo YAG era di nuovo al suo posto, le batterie erano cariche. Il sistema era intatto, perché Jana e Gruškov non avevano modificato la struttura già collaudata e c'era una seconda macchina fotografica. L'immaginazione di Jana era davvero perfida, ma la cosa che stupiva maggiormente Kika era che non fosse rimasta una semplice immaginazione. Quando aveva inquadrato nel mirino della Nikon le persone che si trovavano nel capannone, ben sapendo che una leggera pressione dell'otturatore avrebbe potuto cancellare una vita, aveva improvvisamente capito l'ebbrezza che prendeva chi aveva a disposizione uno strumento potente come lo YAG. Non aveva tentato di respingere quel fascino, anche se le faceva rivoltare lo stomaco. «Regola l'obiettivo finché non vedi il bersaglio nella croce di collimazione», le aveva detto la terrorista. «Poi scatti. Immagina che sia un videogioco.» In effetti, somigliava di più a un videogioco che a un'arma. Puntare, sparare. Hai vinto una partita gratis. Tuttavia, mentre era chiusa nella stanza dei computer e vedeva Mirko nel mirino della Nikon, all'improvviso fu assalita da una paura tremenda. Cercava di puntarlo, e lui si trincerava dietro l'agente. Ogni volta che la croce di collimazione lo centrava, lui cambiava posizione e Kika temeva di colpire l'uomo sbagliato. Poi Mirko sparò, senza che lei potesse vedere a cosa o a chi. Lo spavento la fece star male. Aveva ucciso qualcuno? Oppure Mirko era cascato nel trucco di Jana? Comunque continuava a tenere stretto l'agente. Forza, pensò lei, lascialo andare. Non voleva colpire quell'agente. Ma non aveva scelta. Era orribile pen-
sarla così, però, forse, l'improvvisa morte dell'altro avrebbe creato la confusione necessaria. Sacrificare qualcuno per un obiettivo. Era così che succedeva, dunque. Poi notò un cambiamento nell'espressione di Mirko. Mirko C'era qualcosa di strano. C'erano un sacco di cose strane, anche se sembrava che tutto quadrasse. Jana era morta. Erano morti tutti, tranne lui e Francis e forse Kuhn, che non si muoveva, sotto il corpo disteso di Liam. Fissò il braccio menomato dell'agente. Qualcosa penzolava dalla manica intrisa di sangue. Una cravatta? Il braccio era fasciato. Se Francis si era finto morto, com'era riuscito a fasciarsi il braccio? Lo avevano incastrato. Guardò il cadavere di Jana e improvvisamente capì. La parrucca, la giacca, le spalle... Sì, quelle spalle erano troppo larghe. Probabilmente quel corpo disteso non apparteneva a Jana, ma... Allontanò Francis con una spinta e fece un balzo all'indietro. Stanza dei computer Kika premette l'otturatore. Non aveva idea di ciò che sarebbe successo. Forse il laser lo avrebbe perforato oppure avrebbe fatto esplodere il suo corpo come un proiettile attraverso un frutto maturo. Ciò che temeva di più era la possibilità che fosse uno spettacolo atroce e che lei non potesse fare a meno di guardare comunque, perché altrimenti non avrebbe potuto prendere la mira. Invece non successe nulla. Un istante prima, aveva Mirko davanti agli occhi, indifeso. E poi lui era scomparso. L'aveva mancato! Kika imprecò. In preda al panico, cercò di metterlo a fuoco di nuovo. Capannone
Mirko sentì lo schianto delle batterie nel momento in cui emisero la scarica. Sapeva che il balzo all'indietro gli aveva salvato la vita, ma sapeva pure che le batterie consentivano un secondo colpo. Jana doveva essere nell'ufficio o nella stanza dei computer. Com'era furba, quella stronza! Ma non era abbastanza furba per lui. Non si sarebbe lasciato fregare così facilmente. Nel momento stesso in cui i suoi piedi si posarono sul pavimento, fece una piroetta e mirò all'obiettivo appeso al soffitto. Lo vide muoversi e cercarlo, vide lo specchio lampeggiare e sparò. Con un botto, il meccanismo andò in mille pezzi. Mirko non riuscì a trattenere un grido di trionfo. Ormai Jana non aveva più scampo! Si voltò, pronto a correre verso la parte posteriore del capannone. Si ritrovò davanti uno degli agenti morti. Poco prima, l'uomo era disteso a destra dell'ingresso, l'abito nero crivellato di colpi e intriso di sangue. Adesso invece era di nuovo vivo, aveva il volto di Jana e, nella mano destra, reggeva una pistola. Dalla pistola uscì la morte. L'ultima cosa che Mirko provò fu un misto di ammirazione sconfinata e di orrore indicibile. Poi tutto finì. Malzmühle «È stato bello, davvero. Grazie mille.» Il presidente era raggiante. Lo era anche Guterson, segretamente felice perché la serata si era conclusa. Dopo che il BKA aveva telefonato alla birreria, annunciando l'arrivo di Gerhard Schröder, per un pelo non c'era stato un vertice improvvisato. Ma poi il cancelliere non era venuto. Il gestore del locale aveva portato a Clinton una sorta di onorificenza e il presidente aveva scritto sul libro degli ospiti quanto fosse stata buona la cena, firmandosi William J. Clinton. Aveva entusiasmo da vendere. Per contro, Jonh Kornblum non dava l'impressione di volersi esprimere in termini analoghi a proposito delle pietanze che gli erano state servite. Comunque nessuno glielo aveva chiesto. Saldarono il conto. Clinton aveva bevuto soprattutto Afri Cola, una variante tedesca della classica Coca-Coca. Forse era stato meglio così. Una
Kölsch era bastata per fargli seguire le orme di Kennedy. Era stata una dichiarazione impossibile da ignorare, resa col sorriso di chi fa la Storia: «Ich bin ein Kölsch». Guterson masticava pochissimo tedesco, però nemmeno a lui era sfuggito l'errore. 34 A suo tempo, Kennedy aveva fatto storia dichiarandosi un berlinese e, quando, nel 1963, durante la sua visita a Colonia, aveva lanciato l'energico grido «Kölle Alaaf» 35 davanti al municipio, era stato un momento leggendario. Al confronto, la tardiva confessione di Clinton, che ammetteva di essere una birra, suonava alquanto commovente, ma scialba. Era una di quelle imperfezioni che potevano risultare devastanti. Perché mai voleva costantemente emulare il suo idolo di gioventù? pensò Guterson. Colonia nutriva già un palese affetto nei confronti di Clinton, un affetto dovuto anche alle evidenti somiglianze tra la sua figura e quella di JFK. Dopo Kennedy, nessun politico americano aveva perseguito e conquistato la più alta carica dello Stato con pari tenacia. Come Kennedy, Clinton era un calcolatore che si muoveva sul filo del rasoio tra ciò che era proibito e ciò che era accettabile. Aveva liberato gli Stati Uniti dall'isolamento, era un portatore di speranza accompagnato da una lunga ombra di amoralità, e per questo affascinava qualsiasi potenziale peccatore. Come Kennedy, anche Clinton era un irrefrenabile ottimista, convinto che si potesse sempre trovare un accordo. Proprio per quello entrambi erano riusciti a vendersi così bene. Clinton era convinto che nel complesso si potesse trovare una 34
La celebre frase «Ich bin ein Berliner» era stata pronunciata da Kennedy nel 1963 durante un discorso a Berlino Ovest. «Sono berlinese» in tedesco si direbbe «Ich bin Berliner» e, dato che Berliner è anche una sorta di bombolone alla marmellata, secondo alcune fonti (soprattutto non tedesche), l'aggiunta dell'articolo indeterminativo ein aveva reso ridicola quell'affermazione, come se il presidente americano avesse esclamato: «Sono un bombolone». In realtà, l'uso dell'articolo indeterminativo era giustificato dal senso metaforico della frase, che peraltro non poteva essere fraintesa nel contesto. Per quanto riguarda la frase di Clinton, «Ich bin ein Kölsch» equivale a dire: «Sono una birra (Kölsch)». Sebbene nel dialetto di Colonia kölsch sia anche un aggettivo col significato di «coloniese», la frase attribuita a Clinton non sta in piedi. La forma corretta sarebbe «Ich bin Kölner» o al limite, con una colorazione dialettale: «Ich bin Kölscher». (N.d.T.) 35 Una sorta di «grido di battaglia» del carnevale coloniese, che, secondo alcune fonti, equivale a: «Viva Colonia!» (N.d.T.)
base comune anche con integralisti repubblicani come Newt Gingrich o Pat Buchanan, per non parlare d'individui come Yasser Arafat o Hafez alAssad. Tendeva a essere indulgente e accomodante, il che gli aveva procurato molti voti, ma nel contempo rappresentava il suo maggior problema. Se c'era una cosa che Bill Clinton non riusciva a fare era valutare correttamente i suoi avversari. Pure in quello somigliava a Kennedy. Entrambi erano combattenti e giocatori, che puntavano tutto su una carta, senza davvero sapere chi avevano di fronte. Alla fine, Kennedy aveva perso. Aveva perso tutto, la vita. In compenso era asceso all'Olimpo dell'intangibilità, che condivideva coi grandi della Storia. Clinton lo avrebbe seguito, fermandosi in una sorta di anticamera, se l'attentato col laser fosse stato diretto veramente a lui. Nonostante lo scandalo Lewinsky, la maggior parte degli americani guardava con scetticismo e riluttanza all'azione giudiziaria di Kenneth Starr nei confronti del presidente. Ciò che faceva col suo sigaro erano affari suoi. I flirt di JFK non gli avevano impedito di gestire la crisi cubana; perché quindi le avventure piuttosto innocue di Clinton avrebbero dovuto impedirgli di condurre gli Stati Uniti fuori dal buco nero psicologico in cui erano precipitati dopo il crollo dell'Unione Sovietica? Come nel caso di Kennedy - nonostante la sua impulsività o forse proprio grazie a essa - erano le donne a dare man forte a Clinton. Doveva a loro la sua rielezione. Presumibilmente erano state loro a compatirlo di più quand'era rimasto vittima dell'aggressione di Starr, perché trovavano più accettabili le scappatelle del presidente che le inchieste puritane dell'inquisitore. In fondo, era più che logico che il clamore intorno alla persona di Clinton al Malzmühle non fosse dovuto ai coloniesi, ma a un gruppo di turiste americane. Forse, se quel giorno la catastrofe fosse avvenuta, Clinton sarebbe stato addirittura oggetto di una rivalutazione postuma da parte dei suoi avversari. Ma il culto era riservato a Kennedy. Il parallelo finiva lì. Clinton sognava di fare la Storia: trattati di pace, la soluzione della questione mediorientale, l'immortalità. Kennedy aveva incarnato quel sogno. Per quanti sforzi si facessero, la Storia non si poteva ripetere. Erano le undici quando uscirono in strada. Il presidente salutò la folla, scomparve sulla sua Lincoln e tutti tornarono all'albergo, mentre il ponte di Deutz veniva bloccato un'altra volta e la navigazione sul Reno veniva sospesa. Visto che non potevano farne a meno, pensò Guterson.
Almeno, in quel modo, i coloniesi si sarebbero abituati a ciò che li aspettava nei giorni seguenti. Se volevano Clinton, allora dovevano accettare anche i Servizi segreti, la CIA e l'FBI. E potevano ritenersi fortunati. Per quanto la collaborazione col BKA fosse stata rilassata e amichevole, alcuni colloqui avevano assunto toni assai meno cortesi. Per esempio, c'erano stati conflitti con l'FBI, che, bisognava ammetterlo, si curava ben poco dei diritti di sovranità di altri Stati. Era stato chiesto di sgombrare l'intero centro cittadino per Clinton oppure di definire un percorso individuale dal municipio al Römisch-Germanisches Museum. Quelli del BKA erano andati in bestia. Il francese, l'italiano, il cancelliere, il giapponese seguivano lo stesso percorso... perché Clinton no? L'FBI aveva spiegato che Clinton era il presidente degli Stati Uniti e non il francese o l'italiano, ma la controparte era rimasta irremovibile. In alcuni casi, era sembrato di essere in un bazar. Concessioni da una parte, richieste dall'altra. I Servizi segreti erano riusciti a imporre alcune condizioni: durante la foto coi partecipanti del G8 in Heinrich-Böll-Platz, sul ponte degli Hohenzollern dovevano essere piazzati diversi vagoni ferroviari a mo' di paravento; Clinton non doveva mai passare sopra cavi o sotto di essi, cosa che assumeva proporzioni da incubo per gli organizzatori, data la presenza di ottomila giornalisti e d'innumerevoli chilometri di linee di comunicazione già posate; la limousine di Clinton doveva essere parcheggiata soltanto sul lato destro di una strada o di un viale di accesso; per finire, i Servizi segreti, a propria discrezione, potevano mandare all'aria tutto ciò e definire nuove regole nel giro di poche ore. Quelli dei Servizi segreti avevano la fama di pretendere cose simili dai loro ospiti ed erano ritenuti arroganti e insensibili. La realtà era che lo sapevano e se ne infischiavano. I funzionari di altre nazioni non volevano capire che i Servizi segreti avevano sofferto un trauma per ciò che era accaduto a Dallas, anche se non ne avevano nessuna colpa. Guterson sapeva benissimo che troppo spesso sbagliavano tono. Nelle settimane precedenti, ogni volta che ciò era accaduto, quelli del BKA avevano replicato citando Ingelheim con un freddo sorriso. Ingelheim era un'argomentazione letale. Era il luogo in cui Clinton e Schröder si erano incontrati non molto tempo prima. Schröder era nella posizione in cui doveva stare per salutare il presidente e un'impiegata dell'ufficio del protocollo americano l'aveva apostrofato, dicendogli di muovere immediatamente il culo e di spostarsi di lato. Non si era espressa esattamente in quei termini, ma far notare una cosa del genere al cancelliere tedesco era di per sé sufficiente a creare un sacco
di problemi. Era una delle poche volte in cui i Servizi segreti avevano avuto parecchie noie. Ma se ne infischiavano anche di quello. Guterson guardò fuori dal finestrino. Il convoglio attraversò il Reno e, per un istante, lui rimase particolarmente colpito dalla vista del duomo illuminato e della piccola chiesa antistante. Mentre imboccavano la tortuosa rampa dello Hyatt, discusse alcune cose col presidente. Non c'era stato nessun attentato. Tutti volevano che fosse fatta piena luce con qualsiasi mezzo, per individuare i mandanti, e nel contempo tutti avevano paura di scoprirli. Se il sospetto di un coinvolgimento serbo o addirittura russo fosse stato confermato, le conseguenze sarebbero state spaventose. Però nessuno voleva che fosse successo qualcosa. Non a Colonia, città della pace. Non ci dovevano essere crepe nella struttura. Come al solito, il problema era tutto suo. Suo e dei colleghi tedeschi. L'avrebbero risolto. Kika Wagner «Sì.» «No.» «No.» «Sì.» Kika aveva la sensazione di rispondere sempre alle stesse domande, ma forse era soltanto perché non era in grado di descrivere con chiarezza l'accaduto. Soprattutto era stanca, terribilmente stanca. Erano seduti sul pianale di una camionetta della polizia e aiutavano gli agenti a capire ciò che avevano trovato nel capannone. Comunque era Liam a parlare più di tutti. Gli uomini che li stavano interrogando erano giunti alla conclusione che lui aveva le informazioni più precise e importunavano sporadicamente Kika. Uno di loro era Bär, il commissario capo dell'aeroporto, l'altro non lo conosceva. Erano cortesi, ma anche determinati a raccogliere dati completi nel giro di pochi minuti. Kika non poteva dar loro torto. Cercavano Jana. E Jana era scomparsa. Essere di nuovo libera e fuori pericolo le procurava sentimenti contrastanti. Da una parte, un sollievo quasi indescrivibile; dall'altra una tremenda indifferenza. È normale, pensò, probabilmente ho i nervi a pezzi e ho staccato la spina. La mente e il corpo vogliono la loro pace. È una strategia
di difesa. Cose che aveva letto da qualche parte. Appoggiata a Liam, lo ascoltava, apatica, mentre lui descriveva il piano che aveva elaborato insieme con la terrorista e raccontava di come avevano travestito il più piccolo dei due agenti uccisi con la giacca e la parrucca di Jana, mentre lei s'imbrattava di sangue e s'infilava nell'uniforme del morto. La mascherata era stata quasi ridicola nella sua goffaggine, una macabra parodia. Mirko non se n'era accorto subito perché non si aspettava di vedere qualcosa di diverso. Ricordava i due agenti distesi esattamente dove li aveva ritrovati. La sua attenzione si era concentrata su altre cose, non su un fagotto insanguinato e disteso in posizione contorta, con un braccio che nascondeva metà della testa, e che era chiaramente uno dei suoi uomini. Lo sguardo di Kika vagò verso l'altro lato della strada. Venti minuti dopo che Liam aveva telefonato a Lavallier, il centro spedizioni sembrava un campo di addestramento della polizia. Sulla strada, erano parcheggiate diverse camionette. Erano stati piazzati potenti riflettori. Cancello e saracinesche erano completamente aperti e svelavano le attività frenetiche in corso nel cortile e nel capannone. Gli agenti in divisa entravano e uscivano, le squadre della Scientifica esaminavano i due camion, lo YAG e qualsiasi altra cosa trovassero. Tra i veicoli della polizia erano parcheggiate di traverso due ambulanze. I medici e gli infermieri erano scomparsi nel capannone e non si erano più visti. Aveva sentito dire che c'era qualche difficoltà nel trasportare Kuhn. Aveva riportato lesioni interne e fratture ed era privo di conoscenza. Non erano in grado di prevedere come il suo corpo avrebbe reagito a uno spostamento. Lottavano per salvarlo, ma non si sapeva altro. Accanto a lui c'era Silberman, la cui ferita di striscio era stata medicata senza problemi. L'agente sopravvissuto era già a bordo di un'ambulanza. Kika non sapeva se lo stessero interrogando o se fosse in grado di ascoltare e di rispondere alle domande. Non le importava. Avrebbe mai dimenticato ciò che aveva visto in quel capannone? Sarebbe almeno riuscita a reprimerlo a sufficienza, in modo da non essere tormentata da quelle immagini nei suoi sogni? In un attacco di masochismo, cercò di ricordare quanti cadaveri fossero distesi là dentro, ma non ci riuscì. La sua mente rifiutava di pensarci. Riconoscente, lasciò che erigesse le sue barriere. L'unica cosa che la rendeva veramente felice era di non aver dovuto uccidere Mirko. Quella parte del piano non aveva funzionato. La certezza di aver fallito l'aveva fatta rabbrividire di terrore, ma in seguito l'errore si era
rivelato una benedizione. Forse si sarebbe svegliata urlando e in un bagno di sudore, ma almeno non sarebbe stato perché aveva ucciso un uomo. Anche se si chiamava Mirko ed era una bestia. «Quando potremo andarcene a casa?» chiese. Bär sorrise. «Non appena avremo finito», rispose. «Mi spiace, però fino ad allora dobbiamo pregarla di rimanere a nostra disposizione.» «Ma abbiamo già raccontato tutto tre volte.» Lui prese un appunto su un blocco, senza risponderle. «Non mi è ancora chiaro dove Jana... anzi ha detto che si chiama Sonja. Sonja... mi aiuti.» «Iniziava con la K? Non mi ricordo più. L'ha detto una volta sola.» «Già. Quello che mi sorprende è che nessuno di voi l'abbia vista andarsene dal capannone.» «Avevamo un sacco di altre cose da guardare», rispose Liam. «Anche se aveva appena sparato a un uomo?» «C'è stata una terribile confusione, poi», spiegò Kika. «Non sapevamo se fosse veramente morto e...» «Non lo sapevate? Non aveva un buco in fronte?» «Dovevamo accertarcene. Che pretende? Avevamo paura! C'era Kuhn che non si muoveva più, quell'agente ferito...» «Comunque Jana ha fatto in tempo a riprendersi la parrucca.» «Allora non sarà un problema trovarla», replicò Liam, fingendosi sollevato. «Se i suoi agenti tirano i capelli a tutte le donne che incontrano...» L'altro commissario si chinò in avanti. «Non voglio accusarla di nulla, professor O'Connor. La sua collaborazione all'aeroporto è stata molto positiva, tuttavia, dal nostro punto di vista, il suo ruolo non è sufficientemente chiaro. Devo farle notare che, nascondendo informazioni, potrebbe compromettere quella buona impressione.» «Finora ho sempre compromesso qualsiasi buona impressione nei miei riguardi», replicò Liam. «Faccio il possibile.» «Bene.» «In compenso sto dalla parte della verità. Al diavolo la sua diffidenza professionale! Perché dovremmo coprire questa donna? Le sue insinuazioni sono idiote.» «Nessuno sostiene che stiate coprendo Jana», si affrettò ad assicurare Bär. «La prego di capirci. Lei ha dato un contributo enorme a questo caso. Non c'è bisogno che le dica quanto le siamo grati. Ma sa pure cosa significa se quella donna se ne sta andando in giro per Colonia. C'è un vertice in corso.»
Liam scosse il capo. «Non tenterà un'altra volta di uccidere Clinton.» «Come può esserne così certo?» «Abbiamo trovato il laser. Quell'affare non può più essere utilizzato. Come si comporterebbe lei, al posto di Jana? Farebbe irruzione allo Hyatt e soffocherebbe Clinton col cuscino?» «Ha detto di voler fuggire?» «Non ne abbiamo parlato. Se n'è andata. Se sapessimo dov'è, glielo diremmo.» Bär mordicchiava la penna. «Io credo che fuggirà», disse Kika. «Perché?» Stava per rispondere, quando vide Silberman uscire zoppicando dal centro spedizioni. Avanzava lentamente verso di loro. Più in là l'équipe dell'ambulanza stava scaricando una lettiga. «Come sta Kuhn?» chiese Kika al giornalista. Poi notò che Silberman aveva pianto. Aveva gli occhi gonfi e arrossati. Scosse il capo e passò davanti alla camionetta senza fermarsi. Kika cercò di provare sconforto. Non le riuscì. Sarebbe venuto quel giorno, prima o poi. Adesso voleva soltanto andare a letto e addormentarsi, mentre Liam le teneva la mano e la abbracciava, in modo che non potesse ripiombare nell'incubo delle ultime ore. «Vi lasciamo un po' in pace», mormorò Bär. Liam cinse le spalle di Kika e prese a cullarla dolcemente. Rimasero seduti sulla camionetta come due bambini, con le gambe penzoloni, guardando i poliziotti al lavoro. «È colpa nostra?» sussurrò lei dopo un po'. Lui lasciò trascorrere qualche istante di silenzio. «Tutto è colpa di tutti», rispose. 20 giugno. Maritim Splendeva il sole. Il termometro segnava ventisette gradi. Dalla finestra aperta entrava una leggera brezza, che gonfiava le tende di lino bianco. Quando Kika uscì dalla doccia, Liam era disteso sul letto a leggere una rivista illustrata. Lei gettò l'asciugamano a terra, gli tolse di mano la rivista e lo baciò. «Hmm...» fece Liam. «Io metto tutto sottosopra», disse lei. «Non sono particolarmente ordina-
ta.» «È un avvertimento?» «Più o meno.» «Non funziona. Il disordine è sexy», mormorò lui. «Davvero?» «L'amore non è mai stato ordinato e il sesso neppure. Lo sai bene, si sconvolgono tutti i princìpi, si perde qualsiasi riserbo e poi ci si dà da fare il più possibile per non ritrovare né gli uni né l'altro.» L'attirò a sé. Lei rise e saltò giù dal letto. «Non c'è tempo per il sesso», esclamò, mentre rovistava in un mucchio di biancheria. «Abbiamo un appuntamento.» «Oh, la puntualità...» «... ruba il tempo. Certo. Fatti venire in mente qualcosa di meglio.» Da tre giorni, Liam praticamente non beveva alcol. Non appena aveva qualche problema reale, sembrava che il suo interesse per l'alcol si raffreddasse. E, in quel momento, aveva un problema: non poteva lasciare Colonia. Temporaneamente, dicevano, ma quel «temporaneamente» stava diventando un concetto molto elastico. In teoria, poteva andare dove voleva; in pratica, era bloccato a Colonia. Il vertice non era ancora finito. Il BKA e gli americani avevano un enorme interesse a chiarire il caso nei minimi dettagli e Liam era stato reclutato a forza come esperto. Kika era sollevata nel vedere che Liam riusciva a cavarsela anche senza il suo amato whisky. Nel contempo, però, aveva fatto una straordinaria scoperta: a lungo andare, come astemio le sarebbe apparso un uomo alquanto dubbio e incompleto. Si chiese se, in fondo, anche l'alcolista non fosse soltanto uno dei ruoli nella farsa che Liam recitava. Al momento, comunque, nessuno dei due aveva voglia di bere. In compenso, si amavano con un'intensità che sembrava senza limiti. Lei era alternativamente euforica, felice di ogni minuto che trascorrevano insieme e avvilita quando pensava a Kuhn. Non era soltanto la morte dell'editor a rattristarla, ma anche il fatto che, dopo tre giorni, non fosse ancora riuscita a provare il dolore che secondo lei gli spettava. Si sentiva in colpa, confusa. Quella mancata sofferenza la disorientava e le procurava vergogna. Per un po', si tenne dentro il problema, poi ne parlò con Liam. Lui tacque per qualche istante, poi disse: «Il lutto è un ospite non invitato. Viene e va quando vuole, non quando vuoi tu. Penso che sia la sua migliore qualità».
Ogni tanto pensava a Jana, che aveva perso la sua famiglia. Come non le riusciva di piangere Kuhn, non le riusciva nemmeno di provare odio o rabbia nei confronti della terrorista. Si chiedeva quando fosse iniziato il dolore di Jana e se potesse mai finire. Ma probabilmente il confronto non reggeva. Kuhn non era un suo amico, né tantomeno un parente, ma piuttosto un conoscente per il quale aveva provato simpatia, senza essersene mai accorta. Se lo immaginava che entrava dalla porta e faceva un commento stupido sulla sua altezza, e poi pensava al modo in cui si era comportato con Jana, come se ci fosse stato un legame segreto tra loro. Soltanto dopo quella sera nel capannone si era accorta che Kuhn non ce l'aveva davvero con la sua aguzzina. Si fidava di lei e sperava che l'avrebbe lasciato andare? Oppure era nata una bizzarra simpatia tra quei due? Non l'avrebbe mai saputo. Però doveva essere successo qualcosa: Jana non aveva reagito quando Kuhn si era rivolto a lei in tono canzonatorio. Kika aveva avuto l'impressione che l'editor avrebbe potuto dirle qualsiasi cosa e che la terrorista avrebbe continuato a intimargli di tacere, ma senza troppa convinzione, e ad ascoltarlo. Spesso vittima e aguzzino sviluppavano strane dipendenze reciproche. In quel caso, non si era trattato certo di una dipendenza, ma forse Kuhn aveva indotto Jana a riflettere. Con un'osservazione o con un gesto. Un avvertimento. L'aveva avvertita. Te l'ho detto, che avevano già deciso il tuo prezzo. Non mi hai voluto ascoltare. Forse Kuhn aveva compreso quella faccenda meglio di tutti loro messi insieme? Giunti a quel punto, i pensieri di Kika avevano cominciato a girare in tondo come al solito e poi si erano orientati verso qualcos'altro. Liam, che non aveva nulla da fare, era ansioso di conoscere Colonia. Il suo viaggio promozionale era saltato, ufficialmente per malattia. Pur trattenendolo in città come esperto, la polizia dimostrava un interesse sorprendentemente limitato nei suoi confronti. Kika lo aveva portato in giro per musei, gallerie e locali. Dopo anni di mortificazione, provava un grande piacere nell'avere di nuovo a che fare con una città che era sua e nella quale c'erano novità da scoprire. Il vertice pervadeva l'autocoscienza di Colonia come un'aureola, mentre i cittadini gradualmente perdevano ogni interesse per quello spettacolo. Sopra le loro teste riecheggiavano nuovamente i rotori degli elicotteri. L'onnipresenza della polizia e delle transenne a tratti impauriva Kika e a
tratti la tranquillizzava, ma le metteva sempre davanti ciò che aveva passato. Gradualmente, però, senza quasi accorgersene, aveva ritrovato il suo equilibrio interiore. Era viva. Aveva un sacco di motivi per essere riconoscente. Era strano, ma dormiva benissimo. Forse era grazie a Liam. Per semplicità, si era trasferita nella suite di lui. Anche Kika era stata costretta a non lasciare la città, come Silberman, il quale era stato dispensato dall'incarico di corrispondente, con ogni probabilità non soltanto a causa della ferita che aveva riportato. Avevano preso l'abitudine di fare colazione insieme, alternandosi tra lo Hyatt e il Maritim, dove cercavano di trovare argomenti di conversazione diversi dall'attentato e da quell'ora trascorsa nel capannone. In qualche modo, sembrava che si sforzassero d'ignorare quell'argomento, come uno sgradevole convitato di cui ci disinteressa abbastanza a lungo da convincerlo ad alzarsi e ad andarsene. Il cadavere di Kuhn era stato rapidamente trasferito ad Amburgo. La perizia medica aveva riscontrato uno shock ipovolemico. Kuhn era morto per la lacerazione della milza e per la conseguente emorragia interna. Quando Kika pensava a come Gruškov l'aveva preso a calci, provava un vero terrore davanti alle immagini che le si formavano nella mente e cercava di distrarsi, finché non scomparivano. Quella mattina, Silberman era irritato. Soffiava sul caffè, furente, e dava sfogo al proprio malumore. «Dovrei mantenere il silenzio! Tenere la bocca chiusa. È da giovedì sera che mi propinano sempre la stessa solfa, ormai la posso recitare a memoria, ma ieri hanno passato il segno.» «Chi? La polizia?» «No. Cioè, sì, anche la polizia, però sono venuti a trovarmi anche i nostri. È una follia. Mi hanno raccomandato di pensare all'intera faccenda come se non fosse mai accaduta!» «Che significa? Che non ne deve parlare?» «Secondo loro, non ero nemmeno lì.» «Incomprensibile.» «Già. Credo che preferirebbero chiudermi in una stanza, così non potrei parlare con nessuno.» «Be', in un certo senso hanno ragione. Non vogliono pubblicità negativa fino alla conclusione del vertice. Forse non vogliono mettere a rischio le indagini e sollevare un polverone. Anche a noi è stata raccomandata la stessa cosa.»
«Vi hanno chiesto di farvi fare il lavaggio del cervello?» «Di tacere. Nel nostro caso, ce l'ha chiesto la polizia.» Liam rise, scrollando le spalle. «E per di più io non sopporto le persone taciturne. Non si scopre mai se sono interessanti o semplicemente stupide.» «Sui giornali non c'era nulla. Neanche una parola sull'attentato, soltanto un accenno a controlli più rigorosi nei confronti della stampa. Ma il piazzale dell'aeroporto era pieno di giornalisti... devono aver notato qualcosa! Clinton è arrivato in ritardo, poi è scomparso di nuovo nell'aereo. Non è normale. Eppure nulla! Un bel niente!» «Sì, invece. C'era scritto che si è scusato, che è stato trattenuto a bordo da questioni di politica internazionale, eccetera, eccetera.» «Non so.» «Suvvia, Aaron, fanno soltanto il loro mestiere. Aspetti dopo il vertice. Probabilmente sarà lei a scrivere il primo editoriale.» Silberman non era convinto. Ma non c'era altro da dire in proposito, perciò cambiarono argomento, discutendo di aiuti economici e condono del debito per il Terzo Mondo. In un modo o nell'altro, Colonia era politicizzata. Un grande teatro in cui andava in scena la politica. E il pubblico discuteva il programma. Kika esaminò il suo riflesso nel grande specchio accanto al letto. «Mi sembra carino che ci venga a trovare», disse, mentre allacciava i bottoni dei Levi's. «Sì, stranamente la penso così anch'io», rispose Liam dal bagno. «Eppure all'inizio non mi andava molto a genio.» «Invece credo che ti andasse a genio, però non sopportavi che non si fosse inginocchiato subito davanti a te.» Si passò le dita tra i lunghi capelli color miele e si chiese se farsi la coda. Poi decise di lasciarli così com'erano, lunghi e deliziosamente disordinati. Le piacevano di più in quel modo piuttosto che nella variante pettinata, liscia e controllata. «Se continui così, mi ci affezionerò davvero», scherzò Liam. Uscì dal bagno. Piccole fasciature e cerotti testimoniavano ancora l'incidente sul tetto di vetro del terminal, ma non guastavano il suo aspetto complessivo. Indossava jeans color sabbia e una polo nera ed era magnifico. Raggiunsero l'ascensore e scesero nella lobby. L'atrio multipiano del Maritim, col suo gigantesco tetto a spioventi di vetro, era allestito come una strada costeggiata da negozi, ristoranti e caffè. Nella parte posteriore del seminterrato, c'era un bistrot. Dai tavoli accanto
alle vetrate si godeva una bella vista sul Reno. Quando li vide arrivare, Lavallier si alzò. «Vi trovo molto bene.» «Grazie», replicò Liam. Si strinsero la mano e si accomodarono. «Sa, siamo in vacanza», disse Kika. «Anche se non proprio volontariamente.» «Sì, lo so.» Lavallier sorrise. «Godetevi il bel tempo. Non è frequente, a Colonia. Ah, prima che mi dimentichi...» Infilò la mano in un sacchetto accanto alla sedia e ne estrasse una bottiglia. «Mi hanno detto che le piace questo tipo di bevanda, professor O'Connor. Spero che corrisponda più o meno al livello al quale intende rovinarsi.» Liam prese in consegna la bottiglia e guardò l'etichetta, inarcando le sopracciglia. «Glenfarclas!» Fece un ampio sorriso. «Chi l'avrebbe mai immaginato? Lei è un esperto, Monsieur le commissaire!» «Per niente. È stato il tizio del negozio a dirmi cosa comprare. Ho pensato che, siccome nel prossimo futuro non ha in previsione altri voli o picchiate...» Ordinarono caffè e sandwich. Liam insisteva per sottoporre subito il contenuto della bottiglia a un esame esaustivo, ma Lavallier era in servizio, perciò si limitarono al caffè. «La svuoteremo in suo onore», disse Liam cordialmente. Ecco. Si ricominciava. «Ci dica: come sta?» chiese Kika. «Ha ancora molto da fare per via di quella... faccenda?» Lavallier scrollò le spalle. «No, in realtà no. Il caso non è più affidato a me.» «Perché? Ha fatto le domande sbagliate?» Il commissario rise. «Non mi hanno sospeso, se è questo che intende. No, è semplicemente una questione di competenze. La mia giurisdizione è l'aeroporto. La faccenda ha superato i confini nazionali. Se ne occupano quelli del BKA, l'Europol, l'Interpol, gli americani. Bär e qualche suo superiore dirigono le indagini... A me non spiace.» Tacque per qualche istante. «Però mi spiace molto per il vostro amico. Questo ve lo volevo dire.» Kika annuì. Improvvisamente provò di nuovo quella tristezza. Per Kuhn e perché non riusciva veramente a sentirsi addolorata. «Grazie di essere venuto.» Lavallier esitò. «Be', credo di non essere venuto soltanto per questo.» Liam lo osservò con attenzione. «C'è qualcosa di nuovo?» «Sì e no. Le indagini procedono a pieno regime.»
«E Jana?» «Nessuna traccia. A essere sinceri, non credo che la troveremo mai.» «Perché è così pessimista?» «Non sono pessimista. Ma è improbabile. Cioè, in un certo senso l'abbiamo addirittura già trovata.» Kika alzò lo sguardo. Una sensazione di disagio s'insinuò in lei. «Davvero?» «Sembra proprio di sì. Si era fermata in un hotel del centro di Colonia. L'abbiamo scoperto tramite Gruškov. L'uomo con la pelata, ricordate? È morto nella sparatoria. Alla reception lo hanno identificato come la persona con cui la donna era arrivata due settimane fa.» «Sembra un buon segno», commentò Liam. «Sembra.» Lavallier sorseggiò il caffè. «Era registrata con un altro nome. Un'imprenditrice, proprietaria di una ditta in Piemonte. Per giunta, subito dopo essere fuggita dal centro spedizioni, ha avuto la sfacciataggine di pagare il conto della stanza e di ritirare il bagaglio. Le autorità italiane hanno confermato la sua identità. Aveva un'azienda molto sana, non c'era nessun motivo di metterla in liquidazione.» «È stata messa in liquidazione?» «Tre giorni fa. Anche il direttore finanziario se l'è svignata. Aveva preparato tutto.» «E Mirko?» «Ancora più impenetrabile.» Liam corrugò la fronte. «Bär le ha parlato della mia piccola teoria?» «Piccola teoria? Ah, i retroscena americani della faccenda. Ho sentito che stanno spremendo l'agente ferito come un limone, ma anche lui non sa tutto. Gli americani sono molto preoccupati. Non sono particolarmente contenti che uno dei loro più alti funzionari fosse coinvolto in questa storia. Come se non bastasse, poi, era proprio l'uomo che doveva occuparsi della sicurezza di Clinton allo Hyatt.» «Come? Mirko?» Lavallier finse di non aver sentito bene. «Che intende?» «Ha appena detto...» «Non ho detto proprio nulla.» Liam si rigirò tra le mani un sandwich e poi lo posò sul piatto. «Quel tizio ci ha quasi ammazzato», sibilò. «Mi piacerebbe davvero sapere chi era quella canaglia.» «Forse un agente di collegamento con gli ambienti di estrema destra de-
gli Stati Uniti. I pezzi grossi. L'altro ieri, ho sentito che era un americano di origine serba. Ieri, che probabilmente non è vero nemmeno questo. Non sanno da dove venga e come si chiami.» Fece una pausa. «Né quali fossero i suoi obiettivi.» Kika guardò il commissario capo. Le piaceva. Lavallier era un tipo simpatico e cercava di dire loro parecchie cose. Forse avrebbe raccontato ancora di più se fossero stati sinceri sino in fondo con lui. Ripensò al momento in cui erano intorno al cadavere di Mirko. La preoccupazione per Kuhn. Silberman accanto a lui, allarmato, perché non sentiva più il polso di Kuhn. Lei era tra le braccia di Liam. Il suo sguardo si era posato su Jana. Per un istante, fu come tornare nel capannone. Vide la terrorista togliere la parrucca all'agente travestito e andare alla porta. Lì si era fermata e si era girata un'altra volta. Nessuno le aveva prestato attenzione. Si erano guardate negli occhi. Era stata la parte più strana di quell'esperienza. Era strano desiderare che Jana riuscisse a fuggire. Soltanto per via di una storia sentimentale? La vita è un libro che si può rileggere anche dopo molti anni, pensò. Lascialo riposare. La comprensione matura col tempo. «Lei che ne pensa?» chiese in tono pacato. «Per quanto tempo ancora dovremo rimanere a disposizione?» Lavallier alzò le mani e sorrise. «Non lo so. Davvero.» Guardò l'orologio. «Be', mi spiace, ma vi devo lasciare. Il programma continua. Arrivi, partenze, la solita routine.» «Domani il vertice finisce», osservò Liam. «E spero che finirà anche per noi.» Lavallier si alzò. «Bär vi ha detto di non parlare con nessuno, vero?» Kika annuì. «Non fatelo. Vi dirà anche altre cose. E con questo la mia fonte d'informazioni si è esaurita.» Sorrise di nuovo, ma non sembrava particolarmente allegro. «Sapete, forse sarebbe meglio se domattina, svegliandovi, giungeste alla conclusione di aver sognato tutto. I sogni sbiadiscono. È comodo. Anche il mio sta già sbiadendo.» «Come? Tutto quello che è successo dovrebbe essere soltanto un sogno?» chiese Kika, incredula. «Perché no?» Lei scosse il capo.
«Per quanto tempo ancora dovremo restare qui?» chiese di nuovo Liam, in tono più insistente. Lavallier lo guardò. «Cercate di vedere la faccenda come Bär e tutti i suoi superiori. Convincetelo.» «Di cosa?» chiese Liam. Il commissario non rispose. Guardava il Reno, oltre la vetrata. Sopra il fiume c'era un grosso insetto. Era un elicottero. I finestrini riflettevano la luce del sole. Per qualche istante, rimase sospeso sull'acqua. Poi scomparve alla vista. EPILOGO Il vecchio fissava i contorni delle montagne oltre le colline alberate. Teneva le mani sul davanzale di pietra, la testa incassata tra le spalle. Sentiva freddo, anche se faceva caldo. Diversamente da sei mesi prima. Allora erano altri a rabbrividire, mentre lui era riscaldato dalle sue visioni. Le avevano dato undici milioni di dollari! Per niente! Come aveva fatto a lasciarsi convincere? A fidarsi di quelle sciocchezze? Armi laser! Soltanto lo YAG era costato altri tre milioni. Una spesa folle e un gran trambusto. Il trasporto dall'Istituto di ricerca sui laser ad alta energia di Redondo Beach, in California, a Mosca... E tutto perché Mirko potesse creare le sue piste false. Senza parlare di quella donna che lui non aveva mai visto. Ridicolo! E di Mirko, che non aveva mantenuto le promesse. Eccolo, il problema. Quel presidente aveva creato un'America in cui persino i mascalzoni non valevano più nulla. Si voltò e guardò l'iscrizione sul portale della vecchia chiesa del monastero. IN GOD WE TRUST. Sei un vecchio pazzo sentimentale, pensò. Non dovresti più venirci, qui. Però amava quella chiesetta sugli Appalachi. Era un luogo di raccoglimento, lontano dai suoi uffici, dai suoi palazzi, dalle sue fabbriche e dalle sue macchine da soldi. Ma ormai gli risultava tutto estraneo. Era tutto rovinato. Il Cavallo di Troia era andato in pezzi, gli altri erano irritati e pensavano che lui avesse combinato un pasticcio. Lui. Proprio lui! Il vecchio sbuffò. Senza degnare di un altro sguardo le montagne del Tennessee, entrò. I
suoi uomini lo aspettavano. APPENDICE Questo libro tocca una serie di argomenti che caratterizzano il nostro mondo: terrorismo, nazionalismo, guerra, cultura mediatica, diritti umani, scienza, eccetera, eccetera. Forse, nel corso della lettura, qualcuno si sarà posto alcune domande in merito. Naturalmente il libro non si propone di fornire una risposta esaustiva a ciascuna di queste domande. È un romanzo, non un saggio. Per tutti coloro che comunque vogliono saperne di più della guerra del Kosovo, del terrorismo, delle strutture mafiose in Russia, degli Stati Uniti, del rallentamento della luce e del whisky, ho scritto questa appendice. Essa approfondisce alcuni degli aspetti citati, facilita la comprensione e forse può dare qualche risposta. Sul conflitto del Kosovo La storia del Kosovo è molto complessa. Per i serbi, il Kosovo è una «terra sacra». La ritengono la culla della nazione serba, anche se il primo regno serbo sorse nel IX secolo in Rascia (Račka), l'attuale Sandzak. In effetti, fino al XII secolo, il Kosovo appartenne all'impero bizantino e solo in seguito entrò a far parte del regno serbo, per quasi duecento anni. Probabilmente quasi tutti hanno sentito parlare della Battaglia del campo dei merli o Kosovo Polje. Fu con quella battaglia che iniziò ciò che si è temporaneamente concluso nel 1999: la costante lotta per un pezzo di terra che ha assunto un ruolo mitologico come quasi nessun altro luogo in Europa. Al «campo dei merli», nell'attuale Kosovo, il 28 giugno 1389, giorno di San Vito, il principe serbo Lazar fu sconfitto dal sultano turco Murad I. Fra l'altro, l'esercito di Lazar comprendeva albanesi, ungheresi, croati e bulgari. La sconfitta fu un duro colpo per i serbi, perché, nel XIV secolo, il Kosovo era il centro secolare e religioso del regno serbo. Era il suo granaio, oltre che una regione vinicola, ricca di pascoli e di risorse del sottosuolo. Prizren era la capitale del regno della Grande Serbia, mentre il patriarca risiedeva a Peć. Perciò la sconfitta di Lazar non segnò soltanto la fine di una battaglia, ma dell'intero Stato feudale serbo. Fu suggellata la fine di un'era. La mitologia trasformò rapidamente la sconfitta in una vittoria o, me-
glio, in una promessa di vittoria: Lazar era caduto per l'Occidente cristiano, ma aveva vinto la battaglia culturale, la battaglia per la fede e per gli ideali cristiani. Un giorno, alla sconfitta e alla morte sarebbero succedute la vittoria e la risurrezione, anche se ci fossero voluti secoli per arrivarci! Fu proprio quella la promessa che Miloševič evocò nel 1989, nel secentesimo anniversario della Battaglia del campo dei merli. La sua fiammeggiante visione era offuscata soltanto dal fatto che, in quel momento, la popolazione del Kosovo era per il novanta per cento albanese e i serbi rimasti vivevano, per così dire, in una sorta di diaspora. Ma procediamo con ordine. A metà del XV secolo, il Kosovo si ritrovò definitivamente sotto il dominio ottomano. Cinquant'anni dopo, il dominio ottomano comprendeva anche tutte le zone albanesi. Diversamente da quanto era avvenuto all'epoca del regno della Grande Serbia - quando gli albanesi non svolgevano un ruolo storico significativo e vivevano prevalentemente sulle montagne, mentre i serbi coltivavano gli altipiani -, la maggior parte degli albanesi si era convertita all'Islam e lavorava nelle proprietà feudali del Kosovo. Gli albanesi cominciarono quindi a colonizzare la regione. Nel 1690 avvenne la «grande migrazione» dei Serbi dal Kosovo all'Ungheria, che corrispose a un esodo di oltre trentamila famiglie serbe. I serbi avevano definitivamente perso il Kosovo. All'inizio del XIX secolo, i serbi si sollevarono contro gli ottomani. Nel 1830 fu proclamato il Principato di Serbia, mezzo secolo più tardi si costituì nel Kosovo la Lega di Prizren, il movimento nazionale albanese. Nel 1912, scoppiò la prima guerra balcanica. L'alleanza tra bulgari, serbi, greci e montenegrini scacciò definitivamente gli ottomani dai Balcani. I serbi «riconquistarono» il Kosovo e uccisero migliaia di albanesi. Pochi anni più tardi, il Kosovo entrò a far parte del Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (in serbo e in croato: Kraljevina Srba, Hrvata i Slovenaca; in sloveno: Kraljevina Srbov, Hrvatov in Slovencev, da cui l'acronimo SHS), ma la lotta non si concluse. I cruenti scontri tra četnik serbi e kaçak albanesi si protrassero anche negli anni '20. Nel 1929, la SHS diventò il Regno di Jugoslavia, finché non vi fece irruzione Hitler, il quale divise il territorio jugoslavo tra italiani e tedeschi. Sotto le potenze occupanti, sorse una Grande Albania che comprendeva il Kosovo. Dopo la seconda guerra mondiale, Tito abolì la monarchia jugoslava, sostituendola con una federazione socialista. La struttura, composta da sei repubbliche e due province autonome, si rivelò politicamente stabile e nel
Kosovo subentrò un periodo di calma. Nel 1966, il ministro degli Interni serbo venne addirittura deposto a causa di rappresaglie contro gli albanesi del Kosovo. Otto anni più tardi, infine, al Kosovo furono concessi ampi diritti di autodeterminazione. Tito morì nel 1980. Sei anni dopo, andò al potere un uomo che fino ad allora era stato un obbediente apparatčik comunista, più che altro un burocrate. Si chiamava Slobodan Miloševič e divenne capo del partito in Serbia. Il 24 aprile 1987 ci furono dimostrazioni dei serbi a Kosovo Polje, a ovest di Pristina. Miloševič promise: «Nessuno deve osare picchiarvi!» e la mobilitazione serba in Kosovo ebbe inizio. Già un anno dopo, Miloševič parlava apertamente di «vittoria nella lotta per il Kosovo» e «ricostituzione dell'unità nazionale della Serbia». Nel marzo 1989, il parlamento serbo revocò l'autonomia del Kosovo con un provvedimento anticostituzionale. In maggio, Miloševič divenne il presidente serbo. Insieme con oltre un milione di serbi, festeggiò in Kosovo il secentesimo anniversario della Battaglia del campo dei merli e promise di restituire ai serbi ciò che spettava loro. Proclamò gli albanesi «nemici da seicento anni». Disse che divisioni e tradimenti avevano perseguitato il popolo serbo come una maledizione nel corso della sua lunga storia, ma che era giunto il momento di «coltivare lo spirito dell'unità, della cooperazione e della serietà!» Per gli albanesi in Kosovo cominciò un decennio di repressioni, apartheid e umiliazioni. Nel 1990, il Kosovo si dichiarò indipendente e si diede una propria costituzione, sotto Ibrahim Rugova. Nel contempo, una nuova costituzione serba abrogava formalmente l'autonomia del Kosovo. Nel 1992, col suo partito - l'LDK, cioè il Lidhja Demokratike e Kosovës, la Lega democratica del Kosovo - Rugova vinse le elezioni parlamentari in Kosovo, elezioni che la Serbia aveva proibito, ma di fatto non impedito. Rugova e il suo Stato ombra non vennero presi particolarmente sul serio. Nel 1995, la Croazia riconquistò i territori della Slavonia Occidentale e della Krajina, occupati dalla Serbia. Iniziò un esodo di massa dei serbi. Molti di loro vennero uccisi e diverse decine di migliaia s'insediarono in Kosovo. Qualche tempo dopo, con gli accordi di Dayton, ebbe termine la guerra in Bosnia-Erzegovina. Il piano di pace fu elaborato dal cosiddetto Gruppo di contatto, che comprendeva americani, russi, francesi, inglesi e tedeschi. La soluzione pacifica per la ex Jugoslavia comprendeva anche il Kosovo, ma Miloševič rifiutò caparbiamente qualsiasi colloquio. Per gli
osservatori internazionali, fu evidente che un'escalation era inevitabile. L'anno dopo, una nuova forza diede impulso alla lotta per l'indipendenza degli albanesi del Kosovo. In seguito all'uccisione di un albanese da parte della polizia serba, furono assassinati cinque serbi in un attentato rivendicato da un certo UCK - acronimo di Ushtria Clirimtare e Kosovës -, l'esercito di liberazione del Kosovo. Il conflitto tra albanesi e serbi si acuì un'altra volta, a dispetto di un accordo sulla «normalizzazione del sistema d'istruzione dei giovani albanesi», firmato da Rugova e Miloševič. Fu una delle manovre diversive di Miloševič. In realtà, gli interventi della polizia e dei militari jugoslavi contro gli albanesi del Kosovo diventarono sempre più brutali. Dalla primavera alla fine dell'estate 1998, l'esercito jugoslavo cacciò oltre duecentocinquantamila albanesi, commettendo omicidi e saccheggi, finché Miloševič, sotto la massiccia pressione della NATO, non acconsentì a ritirare le sue truppe dal Kosovo. Ci si cullò nella convinzione che la minaccia di attacchi aerei avesse ricondotto Miloševič alla ragione. In effetti, il presidente jugoslavo accettò una missione di duemila uomini dell'OSCE - l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa - dislocati in Kosovo come osservatori. Ma, solo pochi mesi dopo, proprio sotto gli occhi degli osservatori dell'OSCE, nel villaggio kosovaro di Rečak ebbero luogo i peggiori massacri mai avvenuti fino a quel momento. Intervenne l'UCK. Miloševič inviò in Kosovo un numero sempre maggiore di militari e di forze speciali della polizia, sostenuti da bande di macellai paramilitari guidati da uomini come Arkan e Dugi. Col nuovo anno, gli scontri e le deportazioni entrarono in una fase che rappresentava un palese oltraggio a qualsiasi trattato. La situazione in Kosovo divenne sempre più confusa e le notizie delle atrocità compiute si moltiplicarono. Il 6 febbraio 1999, nel castello di Rambouillet, nei pressi di Parigi, ebbero inizio i colloqui tra i serbi e gli albanesi, ma non si giunse a nessun risultato. Undici giorni dopo, i negoziati ripresero. Il Gruppo di contatto presentò un nuovo piano di pace, sottoscritto dalla delegazione albanese kosovara. Prevedeva che il Kosovo rimanesse sotto la sovranità serba, ma recuperasse la sua ampia autonomia; inoltre contemplava il disarmo dell'UCK e il dispiegamento di truppe NATO. Miloševič rifiutò di firmare il trattato. Il 19 marzo, Richard Holbrooke, l'ormai quasi leggendario «architetto di Dayton», avviò un ultimo tentativo d'indurre Miloševič a una svolta.
Il presidente jugoslavo rimase irremovibile. Il 24 marzo 1999, la NATO diede inizio agli attacchi aerei contro la Jugoslavia, intervenendo per la prima volta in uno Stato sovrano. Sono state fatte molte congetture sui motivi del fallimento dei negoziati di Rambouillet. Fra le altre cose, ci si è chiesti se tutti i partecipanti mirassero al successo dell'impresa. I negoziati ebbero luogo in un universo chiuso quasi ermeticamente: durante le trattative al castello, i membri delle delegazioni non potevano nemmeno utilizzare i cellulari. Quell'isolamento portò a diverse speculazioni. Secondo una di esse, il fallimento fu dovuto a una certa Appendice B, un supplemento militare al Capitolo 7 della bozza definitiva di trattato presentata dal Gruppo di contatto. In base a tale appendice, dopo il ritiro delle unità militari jugoslave dal Kosovo, le truppe della NATO avrebbero potuto muoversi liberamente in tutta la Federazione Jugoslava, quindi in tutta la Serbia e nel Montenegro, utilizzando gratuitamente le infrastrutture e godendo di una sorta d'immunità, che avrebbe impedito alle autorità locali di perseguirle in qualsiasi modo. Nessun politico jugoslavo avrebbe potuto sottoscrivere un'appendice di quel genere. Di conseguenza, cominciarono a circolare voci secondo le quali la conferenza di Rambouillet era stata sabotata di proposito mediante l'Appendice B. Se le cose stanno davvero così, c'è da chiedersi chi avrebbe avuto interesse a far fallire i colloqui, visto che il prezzo del fallimento era la guerra. Presumibilmente, almeno per un certo periodo, il governo tedesco non era stato informato dell'Appendice B. All'epoca, Joschka Fischer disse che la suddetta appendice era negoziabile, contraddicendo i diplomatici russi. Secondo questi ultimi, infatti, l'Appendice B, insieme con altre disposizioni contenute nel Capitolo 7 e relative all'implementazione delle truppe NATO, era stata presentata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna nella seconda settimana dei negoziati, senza essere stata concordata con gli altri membri del Gruppo di contatto e posta come condizione non trattabile. Più o meno nello stesso periodo, il clima peggiorò drasticamente nei rapporti tra la Russia e la NATO. Non è chiaro se ciò sia dipeso dall'Appendice B, la quale rimane un simbolo delle numerose informazioni contrastanti ricevute all'epoca, da cui nacque il sospetto che i negoziati di Rambouillet non si fossero svolti nel modo appropriato. Una cosa è certa: a Rambouillet entrarono in gioco interessi che non facilitarono i negoziati e, in ultima analisi, portarono alla guerra condotta dalla NATO e conclusasi col trattato di Kumanovo del 9 giugno 1999. Una guerra in cui tutte le
parti commisero grossi errori di valutazione: la NATO perché ritenne che Miloševič avrebbe ceduto dopo pochi giorni e Miloševič perché sottovalutò la determinazione della NATO stessa. Ci si può chiedere se la guerra dei valori sia stata una guerra giusta e a tale proposito esistono opinioni divergenti. È certo che le micidiali «pulizie etniche» di Miloševič s'intensificarono sotto la «protezione» dei bombardamenti NATO. È certo pure che i massacri e le deportazioni erano iniziati molto prima che la NATO sganciasse la sua prima bomba. Terrorismo L'affermazione più importante sul terrorismo internazionale è insita nella storia del libro: le vecchie regole del terrorismo non valgono più. I problemi di Jana nel concepire un'arma derivano dall'acuita vigilanza degli organi di sicurezza internazionali, una vigilanza che si fonda sulla giustificata paura di attentati diretti a provocare la morte di milioni di persone. Ecco alcune osservazioni e alcuni approfondimenti a tal proposito. A chi chiedeva se fosse giustificabile radere al suolo interi quartieri o addirittura metropoli, gli attivisti degli anni '70 e '80 rispondevano con un chiaro «no». Gerry Adams, una delle leggendarie menti dell'IRA, si dichiarò a favore della violenza pubblica, pur condannando qualsiasi atto di brutalità inutile: «Se posso ottenere una situazione che consenta al mio popolo di svilupparsi, ricorrerò alle armi». Anche l'ala politica dell'Esercito Repubblicano Irlandese, lo Sinn Féin, ha messo in conto il terrorismo dell'IRA o non ha cercato d'impedirlo. Ma l'IRA non si era mai lasciata trascinare in azioni che potessero provocare la morte di centinaia o migliaia di persone. Nella percezione di sé dei terroristi del dopoguerra c'era un confine invisibile, legato alla loro psicologia e ai loro obiettivi. Oltrepassare quel confine avrebbe comportato il disprezzo di ambienti che, negli anni '80, strimpellavano ancora sulla tastiera dell'opinione pubblica, ottenendo risultati considerevoli. Per molto tempo, i gruppi terroristici si erano sforzati di mantenere un equilibrio tra violenza accettabile e non violenza. In quel contesto, naturalmente, cosa fosse accettabile dipendeva dal punto di vista dell'osservatore. Tuttavia organizzazioni come la RAF o le Brigate Rosse fondavano le loro azioni su una morale strampalata e stranamente goffa. Alla fine degli anni '70, il terrorista di sinistra Michael Baumann disapprovò il dirottamento di un aereo della Lufthansa da parte dei suoi compagni di fede poli-
tica perché riteneva che il Fronte Rivoluzionario dovesse concentrarsi soltanto su persone colpevoli e che il coinvolgimento d'innocenti non fosse etico. Anche Mario Moretti, mente delle Brigate Rosse, portò avanti questa argomentazione in una sorta di caduta libera quando, nel 1984, fu chiamato a rispondere in tribunale del rapimento e dell'omicidio di Aldo Moro. Spiegò che non avevano rapito l'uomo Aldo Moro, ma la sua funzione. Non erano le persone a modificare il paesaggio politico, ma i simboli e i valori simbolici. Le Brigate Rosse non avevano mai voluto causare sofferenze alle persone, aggiunse. Lasciando da parte l'etica, emergono motivazioni evidenti per il contenimento del terrore. In ultima analisi, l'obiettivo era quello di conquistare sostenitori che non fossero terroristi. Si estorceva la disponibilità ad ascoltare, per poi sfruttarla ingegnosamente per suscitare riflessioni, creare simpatie e allargare la propria lobby. Gli attivisti dei primi anni sapevano benissimo come fosse facile spaventare i sostenitori acquisiti e la soglia dell'inibizione negli anni '70 e '80 era molto diversa rispetto a oggi. Talvolta questa vecchia forma di terrorismo aveva addirittura successo. Nel libro è citato il conferimento del premio Nobel a Yasser Arafat, forse il miglior simbolo dell'arte di trasformare il terrore mirato in politica (il che sicuramente non è una scusa per qualsiasi atto di violenza). L'OLP era stata molto abile a giocare coi sentimenti della gente, operando in modo intelligente e mirato. Aveva estorto a un'ampia parte del pubblico mondiale un certo grado di comprensione per il modo in cui agiva, presentandolo come l'unico possibile. Non fu soltanto con la leggendaria stretta di mano tra Arafat e Rabin, suggellata da Clinton come istanza salomonica, che la via del terrorismo divenne presentabile, almeno in alcune sue sfaccettature: Elisabetta II ricevette Nelson Mandela come legittimo capo di governo del suo Paese esattamente dieci anni dopo che Maggie Thatcher aveva detto: «Chiunque creda che l'African National Congress potrà mai andare al governo in Sudafrica vive nel mondo delle nuvole». L'OLP è interessante per comprendere il terrorismo di quegli anni, perché documenta la classica strada che esso utilizzava per raggiungere i suoi obiettivi: creare attenzione, ottenere una conferma e un riconoscimento, conquistare autorità, assumere il potere di governo e infine, da non dimenticare, a tempo debito prendere le distanze dal passato. In questo contesto, appare chiaro perché l'attentato nella metropolitana di Tokyo del 20 marzo 1995 - quello in cui venne usato il gas nervino abbia scatenato una tale ondata di emozione. Nessuno era preparato a uno
sviluppo di quel tipo. Solo qualche settimana dopo, nell'esplosione di un edificio del governo federale americano a Oklahoma City morirono centoventi persone. Due anni prima, l'attentato al World Trade Center di New York aveva già destato scalpore. A quanto sembrava, il terrorismo internazionale era entrato in una fase di accresciuta violenza, con maggiori spargimenti di sangue, una fase fondata su vaghe massime religiose e razziste. Oggi sono proprio l'aspetto religioso e il terrorismo di Stato dei regimi totalitari a farci paura, perché a questi terroristi non importa quante persone uccidano, anzi più sono le vittime meglio è. Inoltre nemmeno i più scaltri esperti di terrorismo sono in grado di dire cosa vogliano effettivamente queste organizzazioni. Per quanto azioni come l'attentato di Tokyo possano sembrare insensate, si basano almeno in parte su un'elevata intelligenza logistica e tecnologica e su risorse finanziarie enormi. Ciò fa presumere che non vi siano coinvolti soltanto i promotori ideologici, ma anche professionisti a pagamento. È proprio così. Il mercato dei terroristi a pagamento non è mai stato così ampio e così privo di scrupoli. Persino Carlos - il leggendario «sciacallo» e superterrorista degli anni '70 e '80, arrestato nel 1994 dalle autorità francesi - si riteneva un uomo con certe convinzioni etiche, al quale la repressione di Stato non aveva lasciato alternativa se non prendere le armi. All'inizio degli anni '90 - se non prima -, la questione della morale era stata ampiamente liquidata. L'oscuro mondo dei killer su commissione registra una costante affluenza: residui di gruppi nazionalisti di tutto il mondo, ex ufficiali del KGB, tiratori scelti provenienti dalle file dei mercenari e delle truppe di élite, ex soldati della Legione Straniera e poliziotti falliti. Mentre gli obiettivi dei gruppi terroristici che operano a livello mondiale diventano sempre più vaghi e le organizzazioni si trasformano gradualmente in centri di profitto, gli scrupoli di una Leila Khaled sono scomparsi, lasciando il posto a sobri executives. Uno dei padri del terrorismo moderno, Abu Nidal, negli anni '80 amministrava circa quattrocento milioni di dollari. La ANO, l'Abu Nidal Organization, riceveva incarichi principalmente dalla Siria, dalla Libia e dall'Iraq e rappresenta forse il miglior esempio di come un attentatore politico non debba per forza essere un ideologo radicale, un fanatico religioso o un nazionalista estremista. Si tratta di fornire un servizio. Alla fine, la ANO ha abbandonato la sua motivazione originaria di provocare cambiamenti religiosi o politici, si è concentrata sulle attività a scopo di lucro e ha investito abilmente i guadagni in imprese e proprietà immobiliari. Appartengono alla ANO una società estremamente redditizia
che commercia in armi, con sede in Polonia, oltre a istituti di ricerca tecnologica e diversi luoghi di divertimento. I giganteschi profitti richiedono una direzione finanziaria all'interno del gruppo, la quale, come già detto, è guidata personalmente da Abu Nidal. Così il bombarolo religioso è diventato presidente di una holding e molti lo stanno emulando. Persino la JRA, irreprensibile nella sua ideologia marxista-leninista, ha accumulato un patrimonio tramite il terrorismo su commissione. Oggi i terroristi su commissione non si chiedono se uccidere per denaro, ma piuttosto fin dove spingersi. Forse anche individui come Carlos, Abu Nidal o Abu Abbas si tirerebbero indietro di fronte alla richiesta di far esplodere una bomba atomica nel centro di New York. Altri invece lo farebbero. Chi si occupa di terrorismo ha un bel daffare per impedire che ciò avvenga. Oggi si sa che soltanto un maggiore scambio di conoscenze tra i servizi d'informazione e la cooperazione tra forze dell'ordine e militari a tutti i livelli possono contrastare in modo efficace i nuovi pericoli. Dopo che l'esercito inglese ha ammesso, anni or sono, di essere inferiore all'IRA sotto il profilo tecnologico, per affrontare il terrorismo di domani bisognerà attrezzarsi a un livello del tutto nuovo. Sulla mafia russa Trattare questo argomento in modo esaustivo è quasi impossibile. La mafia russa ormai è diventata una struttura amorfa che opera in tutto il mondo e per certi versi non ha più nulla a che vedere con la Russia. Nel libro si parla del Cartello di Mosca. A tal proposito, ecco alcune osservazioni che possono essere esemplificative di ciò che s'intende oggi per mafia russa. Il Cartello fu menzionato per la prima volta nel quotidiano moscovita Rossijskaja Gazeta, il quale, verso la metà degli anni '90, ipotizzò che influenti funzionari e uomini di affari avessero costituito, all'ombra del Cremlino, un potente gruppo dalle ingenti risorse finanziarie, detto il «Cartello moscovita», allo scopo di trarre profitto dalla prosperità economica della capitale. Sembra che il Cartello controlli addirittura l'ufficio del sindaco di Mosca. Tramite il dipartimento finanziario, che è annesso all'ufficio del sindaco, costituirebbe aziende per l'esecuzione di operazioni finanziarie. I ricavi verrebbero incassati da politici e imprenditori appartenenti al Cartello e il
denaro finirebbe poi su conti tedeschi, svizzeri o austriaci. Per esempio, subito dopo il crollo dell'Unione Sovietica, l'ufficio del sindaco si è accaparrato il diritto di proprietà sulla ex sede del Consiglio di mutuo aiuto economico. Anche soltanto affittando i locali come uffici, immobili del genere fruttano profitti a sei zeri. Soprattutto non sono soggetti al controllo statale, ma sono semiprivatizzati. Ciò significa che le casse ufficiali della città non vedono nemmeno un centesimo dei guadagni, che affluiscono nelle aziende prestanome controllate dal Cartello. Con quegli utili, il Cartello acquista hotel e casinò, anch'essi controllati dal dipartimento finanziario. Tramite aziende estere, i ricavi vengono trasferiti su conti europei e così nasce una ricchezza russa al di fuori della Russia. Il ministero degli Interni austriaco ha constatato che ogni mese vengono costituite in media dieci società commerciali russoaustriache, nelle quali gli austriaci sono prevalentemente prestanomi. Già da tempo il reticolato d'imprese mafiose e imprese legali è diventato indecifrabile. In Svizzera, la centrale per la lotta al crimine organizzato ha messo in evidenza il fatto che la mafia russa acquisisce imprese svizzere, per poi sostituirne gradualmente i membri, finché, dietro la facciata legale, non nasce un'economia sommersa mafiosa. In Inghilterra, nel 1996 la Financial Investigation Unit della polizia londinese ha riferito che la mafia russa ricicla milioni di sterline alla Borsa di Londra. In Germania la situazione non è migliore. Il problema della Russia è che la leadership del Paese non sarebbe in grado di sopravvivere senza il denaro della mafia e che a un certo punto la mafia smette di essere mafia: i suoi vertici diventano rispettabili. C'è da chiedersi quali discussioni su giustizia e ingiustizia si possano ancora fare, se Stato e clandestinità diventano una cosa sola, che lo vogliano o no. Il denaro cancella tutti i confini. Per le Jana e i Mirko di questo nuovo mondo e per il terrorismo su commissione in generale, si aprono possibilità affascinanti. È nato un mercato dei servizi di cui finora non esisteva che un accenno nell'Italia dei grandi padrini e negli Stati Uniti di Al Capone. È proprio la mafia russa a evidenziare le debolezze della politica legale e a farci perdere la fede nella serietà degli uomini di potere. Ci chiediamo perché Boris Eltsin, per esempio, non abbia fatto di più per contrastare tale evoluzione. La risposta è semplice: tendiamo a sopravvalutare i nostri politici. Crediamo che tutto ciò che fanno sia pianificato a lungo, ben ponderato ed elaborato coscienziosamente. A tal proposito, ecco un piccolo aneddoto.
Negli ultimi giorni del governo di Gorbačëv, il presidente russo Boris Eltsin, il capo del governo ucraino e il capo del governo bielorusso tennero una riunione cospirativa. S'incontrarono nella dacia del bielorusso. Alcuni osservatori, che allora erano guardie del corpo, hanno riferito che le riunioni erano per lo più notturne e che la fine dell'Unione Sovietica fu decisa una notte in cui il tavolo era pieno di bottiglie vuote. Proprio come coloro che volevano deporre Gorbačëv erano tutti ubriachi fradici - e non avevano la minima idea di cosa fare il giorno dopo il putsch -, anche in quel caso la decisione non fu particolarmente sobria. Ma si era arrivati a un pronunciamento, quindi si trattava di scegliere la persona che doveva comunicare la sgradevole notizia a Gorbačëv. Nessuno ne aveva voglia. Avevano appena deciso la fine della più grande unione del mondo, ma per motivi personali trovavano imbarazzante rovinare la giornata a Gorbačëv con quella notizia. Nessuno ne aveva davvero il coraggio. Come ragazzini che dovevano confessare una bravata, contrattavano su chi dovesse sputare il rospo. Quando infine Eltsin si era deciso ad annunciarlo per telefono a Gorbačëv, che rivestiva ancora la carica di presidente dell'Unione Sovietica, erano già circolate voci in proposito. Gorbačëv era rimasto esterrefatto e, da un giorno all'altro, era stato esautorato. Quando si parla di controllo politico! Ciò non significa che tutte le decisioni politiche vengano prese in questo modo, però dimostra che anche i politici sono esseri umani. Quando si ritrovano in determinate situazioni senza esserne all'altezza, possono fare soltanto ciò che loro - o i loro consiglieri - ritengono giusto. Gorbačëv, uno degli uomini più potenti del mondo, alla fine cadde per via di un terzetto riunitosi in segreto, come una banda di monelli. Dunque non c'è da meravigliarsi che i politici inciampino di fronte a organizzazioni clandestine ben strutturate. Putin è molto interessato a contrastare le infiltrazioni da parte di strutture mafiose. Non sarà semplice, perché il problema non è costituito da classici gangster, ma da strutture semilegali. Il pericolo è in agguato laddove la politica rispettabile e il mondo della clandestinità si tendono la mano. È lì che si delinea la strada verso un mondo sempre più criminalizzato. Volendo essere fatalisti, si potrebbe dire: se tutti sono farabutti, in fin dei conti siamo tutti rispettabili, perciò che importa? Ed è proprio così che funziona la mafia russa. Ma non deve necessariamente funzionare. Ciò che serve all'Europa è un maggiore scambio internazionale. Una più stretta collaborazione tra l'Oc-
cidente e la Russia potrebbe senz'altro contribuire a evitare che si giunga a una criminalizzazione globale della politica e dell'economia. Sugli Stati Uniti Aaron Silberman, il corrispondente dalla Casa Bianca di questo libro, descrive lo stile di vita americano alla luce della cultura mediatica. Inevitabilmente cita anche un certo passo falso del presidente. Ormai nessuno sopporta più di sentire il nome Lewinsky, ma i repubblicani non si stancano di riprendere l'argomento, perciò non bisogna lasciarsi ingannare. Per quanto tutte le persone coinvolte - e anche quelle che non lo sono - ne abbiano fin sopra i capelli, la faccenda influenzerà in modo duraturo la maniera in cui verranno condotti gli scontri politici. La prima domanda è: come si è arrivati a mettere alla berlina un politico di alto rango di fronte a un pubblico mondiale a causa di una scappatella? L'altra è direttamente correlata: cosa deve succedere perché la politica non scenda più sotto la cintola? E quali pericoli nasconde un sistema sociale che consente un simile omicidio politico? Naturalmente queste poche pagine non hanno la pretesa di abbozzare un quadro complessivo degli Stati Uniti, ma piuttosto di approfondire alcuni aspetti che possono essere utili a una migliore comprensione. Anzitutto bisogna considerare le differenze tra le concezioni dei valori di Europa e Stati Uniti. L'Europa di oggi, soprattutto l'Europa centrale, nonostante le aberrazioni a destra e a sinistra, è caratterizzata da forze che si compensano a vicenda. Si tende all'intesa. Tutti i grandi partiti mantengono una rotta più o meno moderata; persino nel rapporto con la Chiesa si adotta uno spirito conciliante. Dopo secoli segnati dall'eredità di culture antiche e dal sorgere di culture nuove, da continui spostamenti di confini, dalla mescolanza delle stirpi più diverse, da crociate, rivoluzioni e guerre mondiali, da brutalità da una parte e da enormi conquiste intellettuali ed etiche dall'altra, siamo - temporaneamente - giunti a uno stato di generale armonizzazione. Non perché siamo particolarmente tolleranti, ma perché riconosciamo che tolleranza e coesistenza sono necessarie. Gli Stati Uniti, d'altra parte, hanno una storia molto più recente. Lì non hanno avuto luogo le guerre mondiali, né si è mai osservata la propria storia con sguardo disincantato. Perdurano le questioni sorte all'epoca in cui gli Stati Uniti sono stati fondati: il problema razziale, l'ingloriosa vicenda delle guerre indiane, la questione religiosa, eccetera, eccetera. In Europa,
le evoluzioni culturali si sono svolte lentamente; negli Stati Uniti, la gente è stata catapultata da un'epoca di concezioni morali arcaiche e intransigenza religiosa, caratterizzata da una mentalità provinciale o da Wild West e una certa primitività sociale, a un universo high-tech. Il tutto in un tempo brevissimo, soltanto due secoli. Gli Stati Uniti hanno compiuto la loro evoluzione, ma non l'hanno ancora elaborata. Ribollono, come se la colonizzazione fosse appena avvenuta. Il fatto che gli americani cerchino con tutte le forze di presentare la realtà diversamente, perché vorrebbero volgere indietro lo sguardo a una lunga storia che non hanno - da qui il grande interesse per la storia e la cultura europee -, non fa che accentuare il fenomeno. Gli USA sono lacerati tra concezioni estreme; la storia degli Stati Uniti è caratterizzata dalla violenza, fisica e morale. Il sistema americano risente della propria vaghezza. Nell'ambito di una potente unione che si percepisce come un simbolo di unità senza pari in tutto il mondo, ci sono cinquanta Stati con identità talvolta estremamente diverse. Così gli interessi mondiali e l'onnipotenza globale degli Stati Uniti si accompagnano a una rozza ignoranza nei confronti di tutto ciò che si trova al di là del proprio campo di granturco. In nessun altro luogo del mondo esistono contraddizioni così eclatanti. Di conseguenza, gli Stati Uniti non hanno un'identità nazionale come la Germania, la Francia o l'Inghilterra. Il patriottismo di alcune produzioni hollywoodiane non può creare illusioni; serve piuttosto a compensare la carenza di sincronia interiore. Di fatto, la società americana è un conglomerato d'interessi e di valori che non potrebbero essere più diversi. È composta da pochi che hanno molto e da molti che hanno poco, da liberali e democratici da una parte e, dall'altra, da repubblicani i cui rappresentanti radicali farebbero volentieri girare la ruota della Storia alla rovescia. Naturalmente, sotto molti aspetti, gli Stati Uniti sono anche grandiosi. Esiste davvero la terra delle possibilità sconfinate, che offre al singolo infinite opportunità di sviluppare la propria individualità. Questi Stati Uniti hanno una storia fatta solo di libertà e di successi. L'altra storia, invece, appartiene agli Stati Uniti che violano quotidianamente i diritti umani nell'applicazione della giustizia, in cui vengono giustiziati minorenni e malati di mente, in cui trenta milioni di persone devono ricorrere a servizi di sicurezza privati e un milione e mezzo di persone vegeta dietro le sbarre. Un Paese che spende di più per le carceri che per le scuole superiori, un Paese nel quale il Ku-Klux-Klan gode di una popolarità senza precedenti. Bisogna ammettere che quasi nessun'altra parte del mondo ha fatto regi-
strare appelli così convincenti alla tolleranza e all'uguaglianza e ha dato una tale opportunità al progresso come gli Stati Uniti. Ma proprio per questo i reazionari si sono rifugiati nel passato dei Padri Pellegrini, con la loro estrema pudicizia e le loro nevrosi sessuali, col loro razzismo fondato sulla religione. Sedicenti cristiani senza amore per il prossimo, che all'occorrenza predicano la fede con la forza, stanno prevalendo. Ottusi tutori della morale pronti a tutto auspicano l'instaurarsi di condizioni medievali. Se si studiano certi ambienti ultraconservatori, sembra che il Paese più libero del mondo non abbia nulla da invidiare al fondamentalismo islamico. In questo Paese, non può esistere un presidente che possa in qualche modo accontentare tutti. Finora ogni presidente americano è stato vittima di ostilità, derisione e disprezzo, perché negli Stati Uniti è impossibile imboccare una direzione universalmente accettata. Qualsiasi cosa dica, il presidente avrà sempre una parte del popolo contro di sé. Lincoln, McKinley e Kennedy non sono sopravvissuti a questa situazione; Roosevelt e Reagan se la sono cavata per un soffio e persino Gerald Ford doveva essere assassinato, pur essendo davvero un tipo innocuo. Poi, all'improvviso, arrivò Bill Clinton. Incarnava la speranza di un'America nuova e più aperta al mondo. Meno puritano dei suoi predecessori, orientato alla pace e al disarmo, ben disposto nei confronti degli emarginati, idealista, giovane. Introdusse nella politica un tocco di sensualità e di divertimento. Fece la campagna elettorale col sassofono. Clinton arrivò e mise sottosopra il mondo dei reazionari. Un mondo potente, una lobby. Attaccò briga con l'industria bellica. L'industria bellica è conservatrice e non potrebbe essere altrimenti, ma soprattutto rappresenta un pilastro sul quale si fonda gran parte del benessere americano. I contribuenti americani hanno investito sei miliardi di dollari nel riarmo atomico. Finora l'equilibrio del terrore è costato quasi venti miliardi di dollari. È comprensibile che l'industria bellica si sia presa a cuore l'idea di una nuova Guerra Fredda. Ma Clinton voleva porvi fine. Anche la lobby delle armi era fuori di sé. Com'era possibile che Clinton volesse vietare la vendita al pubblico di armi da fuoco? Sottrarre al nonno la piccola, innocua pistola mitragliatrice, così che i nipotini non potessero più fare la preziosa esperienza di sparare, quando c'erano negri, ebrei, comunisti e pacifisti ovunque? Quel presidente doveva essere un comunista. O un pacifista! Finora abbiamo dato uno sguardo alla fazione legale e ufficiale, che ha semplicemente vedute diverse da quella democratica. Quegli oppositori di
Clinton erano figure pubbliche, che esprimevano i loro interessi politici ed economici. Ma, volenti o nolenti, le loro rivendicazioni si fondavano su un ampio movimento estremista, molto più a destra di quanto si possa immaginare in Europa. Pensiamo ai fautori della supremazia bianca, ai sediziosi, antisemiti e razzisti Christian Patriots, alle circa ottocento milizie antigovernative che rifiutavano qualsiasi legislazione volta a controllare l'uso delle armi, oltre a diffondere l'idea che si vogliano disarmare gli americani per lasciar entrare nel Paese i russi e i cinesi; insomma tutto il mondo di estrema destra. Basta uno sguardo a Internet, per scoprire che la Michigan Militia spiegava così le intenzioni di Clinton: annientare l'opposizione con orde di comunisti, armi sovietiche e bande di latinos. Perciò si preparavano alla rivolta. Le loro teorie erano più che ridicole, eppure avevano dodicimila membri e potevano contare su somme consistenti! Si stima che, nel complesso, il mondo della destra estremista conti dodici milioni di membri, ben radicati nella società, analogamente a Le Pen o Schirinowski in Europa, ben più degli skinhead in Germania. Gli Stati Uniti repubblicani hanno accettato tutto ciò nel proprio codice morale con un'alzata di spalle, ma per una piccola sconcezza nello Studio Ovale hanno crocifisso un presidente che, se non altro, ha tentato di rimediare a certi inconvenienti. Ciò è possibile soltanto in una società in cui si siano sviluppate repentinamente due correnti sociali opposte, una società che non ha avuto il tempo di trovare un'identità nazionale. Un Paese che appare moderato in superficie, mentre nasconde conflitti più aspri che mai, dove proprio coloro che si ergono a tutori delle virtù calpestano qualsiasi morale ed etica, perché temono di restare vittime della modernizzazione e di una nuova mentalità. Clinton è un simbolo, questo bisogna capirlo. Quello che conta non è la sua persona, ma la sua funzione e ciò che rappresenta. È simbolo della guerra tra progresso e regresso che un'America lacerata combatte contro se stessa. Negli ultimi anni, i metodi sono diventati sempre più spregiudicati e tutti hanno partecipato con entusiasmo. Con risultati sconvolgenti. Se Clinton è arrivato sull'orlo dell'abisso, per esempio, è grazie ai media. Paradossalmente il mezzo di comunicazione più moderno, Internet, ha favorito più di qualsiasi altro la medievale caccia alle streghe. Probabilmente, per i responsabili dei media, i conti tornano: si sottraggono dal prevedibile aumento del fatturato eventuali risarcimenti danni; se il risultato è maggiore di zero, viene messo in moto senza scrupoli un giornalismo moralmente riprovevole, fondato su ricerche scadenti, ma in compenso spettacolare.
D'altro canto, però, i media hanno anche salvato Clinton. Sconcertante? Non in un mondo mediatico come il nostro. Alla fine il presidente e i media sono diventati più simili di quanto possano trovare gradevole: sia l'uno sia gli altri hanno perso la propria reputazione morale. Lo stesso vale anche per altre forze pubbliche. Per esempio, l'FBI ha recuperato tramite specialisti informatici alcune lettere d'amore scritte da Monica Lewinsky e destinate a Clinton, ma mai spedite e addirittura cancellate dal suo PC. Per provare cosa, c'è da chiedersi? I valori sociali ormai sono pensabili soltanto se si manifestano infrangendo tabù e facendo rivelazioni pubbliche? Chi o cosa si voleva danneggiare? Il presidente? La democrazia, la libertà dell'individuo? Si tratta di sviluppi davvero preoccupanti. Ai tempi del Watergate di Nixon, politici e media erano più discreti. Nixon non è mai stato fatto a pezzi come Clinton, non è mai stato messo a nudo davanti a tutti in quel modo. Ma i tempi sono cambiati. Un altro esempio. Tutti sapevano che Roosevelt era disabile, ma ci passavano sopra. Il decoro veniva mantenuto, anche dai media, che semplicemente non si occupavano del suo essere disabile. Non c'erano foto del presidente con le grucce o sulla sedia a rotelle. Non c'era nessuna censura; si pensava che le cose importanti fossero la politica e l'integrità, nient'altro. Per contro, si è andati a guardare nelle mutande di Clinton e i suoi inquisitori, coi loro slogan moraleggianti, hanno ampiamente e pubblicamente goduto del fatto che il presidente avesse il pene ricurvo. Ecco qual è lo stile del confronto politico attuale. Per lo meno, i reazionari finora hanno perso le battaglie condotte gettando fango sull'avversario. Questo perché, nel loro odio cieco, non si sono accorti che, con la pubblicazione del rapporto di Kenneth Starr, hanno superato un confine invisibile, assicurandosi l'interesse della popolazione, ma nel contempo anche il suo disgusto. Perciò hanno perso. Tuttavia è innegabile che l'episodio sia esemplare di una nuova non-cultura che minaccia di determinare il confronto politico del futuro. Anche in Europa ci sono accenni di sviluppi analoghi. Se le lobby di destra e i fondamentalisti religiosi si mettono insieme, domani forse avremo uno scandalo Lewinsky anche in Germania, con tutte le sue fatali conseguenze. Sul rallentamento della luce
Non è stato il professor Liam O'Connor a rallentare la luce, ma Achim Wixforth, un fisico di Monaco. La luce ha alcune qualità oltremodo interessanti per la trasmissione dei dati. Per prima cosa, i fotoni - le particelle di luce - sono virtuali, cioè incorporei; in secondo luogo, la luce percorre trecentomila chilometri in un secondo. Ciò significa che, tramite gli impulsi luminosi, si possono trasmettere enormi quantità di dati a velocità mozzafiato. Per questo ogni giorno nel mondo vengono posati innumerevoli chilometri di cavi in fibra di vetro: per allacciare le reti di dati di domani. Nel contempo, però, la velocità rappresenta anche un problema. Per rallentare gli impulsi luminosi o, meglio, per fare in modo che arrivino con un certo ritardo, oggi i tecnici devono inserire lunghezze infinite di cavi in fibra di vetro avvolti in bobine. Devono deviare la luce lungo percorsi estesi, rubandole un po' di tempo, per ottenere qualche milionesimo di secondo di vantaggio. Se invece si potesse rallentare e poi ri-accelerare la luce a piacimento, si aprirebbero possibilità insospettate, fino ad arrivare a computer ottici capaci di elaborare enormi quantità di dati a velocità che nessun normale computer può raggiungere. Il gruppo di ricerca di Achim Wixforth è riuscito ad attirare la luce in una trappola. Il «rallentatore di luce» di Wixforth è un cristallo di pochi millimetri. Tali cristalli vengono denominati «vasi quantistici». Sono costituiti da diversi composti di arsenuro di gallio e in realtà non sono nulla di particolare. Sono alla base di molti componenti di semiconduttori, per esempio nei laser dei lettori di CD. Se s'invia luce in un cristallo del genere, al suo interno si creano cariche positive e negative, che si annientano subito a vicenda e producono un lampo luminoso. In altre parole, la luce sfreccia attraverso il cristallo alla solita velocità. Ora, insieme con l'impulso luminoso, Wixforth invia nel cristallo anche un suono. Le onde sonore sono minuscole, hanno un'altezza di qualche milionesimo di millimetro soltanto, ma dobbiamo immaginarci il tutto nell'ambito delle nanostrutture. In quel contesto, d'un tratto l'effetto si presenta in modo diverso: nel cristallo si verifica un vero e proprio terremoto. Lo si può immaginare anche come la superficie di un oceano molto mosso, con una serie di onde gigantesche che si susseguono e costringono la luce a «fare il surf» sulla loro superficie, andando su e giù. Rispetto alla velocità della luce, gli impulsi luminosi rallentati si muovono a ritmo di lumaca. Nel tempo che un raggio di luce impiega solita-
mente per percorrere un chilometro, gli impulsi luminosi che «fanno il surf» percorrono soltanto un centimetro. Wixforth intende sviluppare ulteriormente questo sistema e i risultati potrebbero essere davvero pionieristici. Meglio si riuscirà a addomesticare la luce mediante onde sonore utilizzate in modo mirato, tanto maggiori potranno diventare le capacità di memoria. Un cristallo che riuscisse a trattenere un impulso luminoso per un secondo, tramite onde sonore che facciano girare in tondo gli impulsi luminosi, sarebbe un risultato fantastico: impedirebbe alla luce di percorrere trecentomila chilometri in quel lasso di tempo. Purtroppo finora Wixforth non ha ricevuto l'attenzione che la sua ricerca merita. Ha ottenuto vari premi importanti, ma gli allori non sono moneta spendibile e finora è mancato il sostegno finanziario per un ulteriore sviluppo della sua tecnologia. È questo il dilemma della ricerca: più dipende dai fondi delle aziende, meno può essere innovativa. Le scoperte che sono solo a pochi anni dall'applicazione non hanno quasi nessuna speranza di essere finanziate. L'industria, infatti, s'interessa primariamente di ciò che è pronto per il mercato. Come dice Wixforth, s'interessa di componenti «dei quali rimanga soltanto da decidere il colore dell'involucro». Sul whisky Liam O'Connor non sarebbe se stesso senza il suo amatissimo whisky. Forse senza quella forza corroborante non gli sarebbe stato così facile mettersi sulle tracce del commando terroristico di Jana. Ma probabilmente quasi tutti i lettori di questo libro si saranno trovati a rimuginare sulla molteplicità delle marche di whisky citate... e devo aggiungere che ne esistono ancora diverse centinaia. Per tutti questi motivi, l'ultimo excursus di questo libro riguarda i distillati. Innanzitutto devo far notare che la grafia «whisky» è un compromesso che ho accettato per non far impazzire la mia redattrice. Kika e Liam, infatti, bevono in successione casuale sia distillati irlandesi sia distillati scozzesi (disdegnano soltanto il bourbon, proprio come me). Ora, in irlandese, whisky si scrive whiskey. Ogni tanto compare anche la denominazione uisge beatha (alcuni omettono la seconda a), che è in lingua gaelica e si pronuncia ish-ke ba-ha, ma si può anche scrivere usquebaugh, se al gaelico gira di scriverlo così. In un modo o nell'altro, significa «acqua della vita». Come se non bastasse, si fa differenza anche tra «blended
whisk(e)y» e «single malt whisk(e)y», whisk(e)y distillati due volte e tre volte, whisk(e)y irlandese e scozzese, «Lowland Malts» e «Highland Malts», «Isley Malts» e «Speyside Malts», tutti con diversi gradi d'invecchiamento e conservati in botti di ogni genere, dalle botti da sherry di tipo «oloroso» alle botti da porto. E questo è soltanto l'inizio. Tutto chiaro? Semplifichiamo le cose. All'esperto estimatore dello uisge beatha non racconterò nulla di nuovo. A tutti gli altri che avessero voglia di seguire le orme di O'Connor - in termini qualitativi, non quantitativi - svelerò forse qualcosa. In principio c'è l'orzo. Viene ammorbidito in acqua finché non germoglia e poi viene fatto asciugare. Questo processo si chiama «maltaggio». In Scozia ciò avviene tradizionalmente su un fuoco di torba ed è per questo che i distillati scozzesi hanno un gusto meno amabile e meno rotondo rispetto a quelli irlandesi, ma in compenso hanno più carattere. Ciascuno ha i suoi lati positivi e vale la pena di provarli entrambi. Fra l'altro, la qualità dell'acqua è determinante. Segue l'ammostatura. Il malto macinato grossolanamente viene mescolato ad acqua calda, il che produce una graziosa poltiglia. Il liquido che ne viene estratto si chiama wort, o mosto di malto, e vi si aggiunge del lievito per avviare la fermentazione. A seguito di tale processo, lo zucchero contenuto nel mosto si trasforma in alcol. Infine il mosto fermentato viene riscaldato in un alambicco, l'alcol evapora, viene condensato nuovamente e raccolto. Quest'ultimo passaggio costituisce il vero processo di distillazione. I Single Malt scozzesi in genere vengono distillati due volte - anche se ci sono eccezioni -, quelli irlandesi tre volte. Dopodiché si passa alla botte, la cui qualità, insieme col luogo di stoccaggio e col relativo clima, è determinante per la bontà del whisk(e)y dopo otto, dieci, dodici, quindici, diciassette o più anni. Ogni malto è diverso e in più in Irlanda esiste tutta una serie di whisk(e)y che non sono Single Malt, ma sono comunque eccellenti. Bisogna provarli per decidere qual è il proprio preferito. In questa sede, posso soltanto fornire un piccolo aiuto al principiante. Sono le mie preferenze personali, ma penso che, a dispetto della soggettività, si tratti di una selezione di tutto rispetto, che si può esporre tranquillamente sullo scaffale senza temere lo sguardo severo dell'esperto. Due Single Malt scozzesi delicati sono il Dalwhinnie, 15 years old, delle Highlands, e lo Auchentoshan, delle Lowlands, che è ottimo invecchiato sia dieci sia dodici anni, e rappresenta un'eccezione: viene distillato tre
volte. Come ricordate... esatto! Eccellenti malti scozzesi di carattere complesso, a volte più deciso a volte più amabile, sono l'Oban, 14 years old; il Macallan, 12 years old (oppure 18 years old... gli studiosi litigano su quale sia il migliore, io trovo eccellenti entrambi!); The Balvenie Double Wood, 12 years old; il Cragganmore, invecchiato dodici anni, proprio come lo Highland Park e infine l'Aberlour, 10 years old. Per passare a un gusto più robusto e pungente, ci sono il Talisker, 10 years old e il Lagavulin, invecchiato sedici anni, che alcuni ritengono il migliore whisky scozzese in assoluto. In entrambi, torba, fumo e aria di mare garantiscono esperienze gustative singolari. Per chi li trovasse comunque troppo scialbi, suggerisco il Laphroaig. Già nella versione invecchiata dieci anni assesta un colpo di spadone celtico al nervo gustatorio, se è invecchiato quindici anni spedisce chi lo beve direttamente nella mitologia scozzese. Tra gli irlandesi ce n'è uno in particolare cui mi sono affezionato, che non è un Single Malt, ma per me racchiude in sé tutta la magia dell'isola verde (per san Patrizio, sto diventando sentimentale!) Si chiama Jameson 1780 ed è invecchiato dodici anni. Per gli esperti scozzesi probabilmente è troppo blando. Ma, se è vero che quando si ascolta la musica irlandese si ricordano cose che non si sono mai vissute, ciò avviene sicuramente anche quando si gusta un Jameson. Resta soltanto una domanda: in quali occasioni si beve whisk(e)y? Preferisco astenermi dal rispondere. W.C. Fields ha già dato la miglior risposta possibile: «Portate sempre con voi una fiasca di whisky in caso vi mordesse un serpente. E portate sempre con voi un piccolo serpente». Slainté! «Alla salute!» RINGRAZIAMENTI Questo libro deve la sua esistenza anche all'impegno di tutti coloro che hanno dedicato parte del loro tempo a sostenere la mia preparazione. Un ringraziamento particolare va al direttore commerciale dell'aeroporto Colonia/Bonn, Heinz Gombel, e al direttore tecnico, Wolfgang Klapdor, per la loro assistenza. Anche il direttore del traffico aereo mi ha dedicato molto tempo. Cornelia Krahforst mi ha fornito materiale fotografico, Andreas Nebelung ha stabilito diversi contatti, Rainer Thienel mi ha avvicinato, nel vero senso del termine, al mondo dei servizi aerei.
Voglio ringraziare il dottor Rolf Schieder dell'Istituto di Fisica della città di Colonia per i suoi input scientifici nel concepimento dello YAG, oltre al dottor Dieter Pfeifer, che ha stabilito questo contatto. Mi hanno aiutato molto il commissario capo della polizia di Colonia, Marcello Baldarelli, il quale, durante il vertice del giugno 1999, era responsabile della direzione operativa all'aeroporto Colonia/Bonn; il commissario Ulli Nockemann; Uwe Steen dell'Ufficio pubbliche relazioni della polizia di Colonia e la commissaria Corinna Monschauer. Devo le mie conoscenze sulle armi al commissario capo Bernd Soens e altre informazioni utili agli agenti e alle agenti della stazione di polizia dell'aeroporto. Non sarebbe stata possibile una rappresentazione realistica degli avvenimenti del vertice senza il contributo di Günter Wienecke, coordinatore per il vertice della città di Colonia e di Kerstin Görke, direttrice delle pubbliche relazioni allo Hyatt di Colonia, dove Bill Clinton ha alloggiato in occasione dell'evento. Per questi contatti, voglio ringraziare Helmut Barten. Mi è stato molto d'aiuto anche il direttore dell'Hotel Maritim di Colonia, Jochen Geweyer. Ho vissuto il vertice da una prospettiva giornalistica grazie a Peter Berger e Jan Brüggelmann, coi quali mi ha messo in contatto Johannes Müller. Tramite il dottor Alfred Gawenda ho conosciuto il dottor Bolesla Wikarczyk, il quale mi ha trasmesso interessanti nozioni di chirurgia plastica. Un caro ringraziamento va alla dottoressa Claudia Dambowy per il suo contributo sui temi della medicina. Jürgen Muthmann, baldanzosa presenza nel Diavolo nella cattedrale, oltre alle mie scorte di single malt, ha ampliato anche le mie conoscenze in materia di radiocomandi. Il look del libro e della homepage www.lautlos.com recano la firma di Yvonne Eiserfey. Stavolta non mi sono fermato nemmeno davanti al mio editore: ha dovuto contribuire alle ricerche e lo ha fatto con piacere. Prosit, Jupp! Grazie anche a Tobias Doetsch, Dorothee Junck, Britta Schmitz, Christel Steinmetz e a tutti gli altri della Emons. Fantastiche foto sono state scattate come sempre da Paul Schmitz, cui è dedicato questo libro e che ringrazio nel modo che capisce meglio: sorriso accennato... Sorrisone! Importanti impulsi sul tema del Kosovo mi sono stati forniti dalle pubblicazioni di Matthias Rüb, Thomas Schmid, Richard Herzinger, Fabian Schmidt, Andreas Zumach, Slavenka Drakulić, Adam Michnik, Jakovos Kambanellis, Felipe Gonzales, Frank Schirrmacher, Paul Virilio e Viktor Kriwulin. In particolare, la scena che si svolge al ristorante dell'Hotel Ma-
ritim, nella quale Liam O'Connor discute del conflitto del Kosovo con gli altri convitati, si fonda su un notevole articolo di Robert Spaemann. La rappresentazione del rallentamento della luce si basa sulle ricerche del fisico Achim Wixforth. Devo molte informazioni sull'estremismo americano, sulla politica americana e sull'amministrazione Clinton alla biografia di Robert Reich e agli scritti di Hans-Henning Scharsach, Raimund Löw, Peter Pelinka, Eric Frey, Andreas Rudas, Benita Ferrero-Waldner, Joachim Riedl, Frederic Morton, Wolfgang Bachmayer, Monica Riedler ed Eugen Freund. Le opere di Walter Laqueur e Bruce Hoffman mi hanno consentito di dare uno sguardo al terrorismo internazionale, i libri di Alain Lallemand e Jürgen Roth alle strutture della mafia russa. Horst Weber ha completato le mie conoscenze sulla tecnologia laser. Già, e Bini, mia moglie Sabina... che dire? Mentre scrivo queste righe, fuori il mondo si sta inabissando in una tempesta nera come la pece eppure splende il sole. Ti amo e ti ringrazio. Per un libro migliore di come sarebbe stato senza di te, per una vita più bella e più felice di come sarebbe stata senza di te. Il futuro appartiene agli orsi. Tu già lo sai. FINE