MIKE ASHLEY STORIA DEI MAGAZINE DI FANTASCIENZA PARTE SECONDA L'ERA DI CAMPBELL (1936-1945) (The History Of The Science ...
29 downloads
891 Views
2MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
MIKE ASHLEY STORIA DEI MAGAZINE DI FANTASCIENZA PARTE SECONDA L'ERA DI CAMPBELL (1936-1945) (The History Of The Science Fiction Magazine Part 2 1936-1945, 1975) INDICE Introduzione MICHAEL ASHLEY: Sul carro della banda fantascientifica 1936 (Astounding Stories): STANLEY G. WEINBAUM: L'isola di Proteo 1937 (Astounding Stories): ERIC FRANK RUSSELL - LESLIE J. JOHNSON: Il Cercatore del Domani 1938 (Marvel Science Stories): JACK WILLIAMSON: Il Punto Morto 1939 (Amazing Stories): WILLIAM F. TEMPLE: Il triangolo quadrilatero 1940 (Planet Stories): NEIL R. JONES: L'eremita degli anelli di Saturno 1941 (Stirring Science Stories): ROBERT A. W. LOWNDES: L'abisso 1942 (Science Fiction Quarterly): DONALD A. WOLLHEIM: Lassù 1943 (Super Science Stories): ROBERT BLOCH: Il pianeta della paura 1944 (Startling Stories): JOHN RUSSELL FEARN: Vagabondo del tempo 1945 (Astounding Science Fiction): MURRAY LEINSTER: Situazione difficile APPENDICI Bibliografie 1936-1945 Elenco delle riviste 1936-1945 Elenco dei curatori 1936-1945 Guida ai disegnatori 1936-1945
MURPHY (Planet Stories, inverno 1943).
Copyrights THE HISTORY OF THE SCIENCE FICTION MAGAZINE, PART 2, 1936-1945. Introduction and Appendices, copyright © 1975 by Michael Ashley: used by permission of the author and the author's agent, Cosmos Literary Agency. PROTEUS ISLAND by Stanley G. Weinbaum, copyright 1936 by Street and Smith Publications, Inc., for Astounding Stories, August 1936. Reprinted by permission of Forrest J Ackerman, agent for the estate.
SEEKER OF TOMORROW by Leslie J. Johnson and E. F. Russell, copyright 1937 by Street and Smith Publication, Inc., for Astounding Stories, July 1937, Reprinted by permission of the authors. THE DEAD SPOT by Jack Williamson, copyright 1938 by Postal Publications for Marvel Science Stories, November 1938. Reprinted by permission of the author and the author's agent, Scott Meredith Literary Agency. THE 4-SIDED TRIANGLE by William F. Temple, copyrigth 1939 by Ziff-Davis Publishing Co., for Amazing Stories, November 1939. Reprinted by permission of the author. HERMIT OF SATURN'S RINGS by Neil R. Jones, copyright 1940 by Love Romances Publishing Co., for Planet Stories, Fall 1940. Reprinted by permission of Forrest J Ackerman for the author. THE ABYSS by Robert A. W. Lowndes, copyright 1943 by Albing Publications, Inc., for Stirring Science Stories, February 1941. Reprinted by permission of Forrest J Ackerman for the author. UP THERE by Donald A. Wollheim, copyright 1942 Columbia Publications, Inc., for Science Fiction Quarterly, Summer 1942. Reprinted by permission of the author. THE FEAR PLANET by Robert Bloch, copyright 1943 by Popular Publications, Inc., for Super Science Stories, February 1943. Reprinted by permission of the author and the author's agent, Scott Meredith Literay Agency. WANDERER OF TIME by John Russell Fearn, copyright 1944 by Standard Magazines. Inc., for Startling Stories, Summer 1944. Reprinted by permission of Mrs. Carrie Fearn and the author's agent, Cosmos Literary Agency. TIGHT PLACE by Murray Leinster, copyright 1945 by Street and Smith Publications. Inc., for Astounding Science Fiction, July 1945. Reprinted by permission of the author's agent, John Farquharson Ltd.
Introduzione Senza dubbio, la fantascienza sta attraversando oggi un periodo di «nostalgia», come il cinema, la TV e molti altri sistemi di diffusione. Forse la cosa non è troppo sorprendente, se si considera che le loro vicende sono concomitanti. L'industria cinematografica, per esempio, nacque da esperimenti effettuati nel decennio 1890-1900, si laureò all'epoca del muto, e nel 1926 sfociò nell'era del parlato. Inoltre, nel gennaio 1926, John Logie Baird diede una dimostrazione della sua forma rudimentale e tuttavia efficiente di televisione. E nell'aprile 1926, l'editore americano Hugo Gernsback pubblicò la prima rivista di science fiction, Amazing Stories. Dopo cinquant'anni, Amazing Stories è ancora viva. L'editore è diverso, il direttore è diverso, il formato è diverso, e soprattutto è diversa la fantascienza, per forma e stile. La rivista ha vissuto due boom della science fiction, una Depressione quasi fatale, una guerra mondiale, la nascita dell'Era Nucleare, i viaggi sulla Luna... e nel frattempo la sua narrativa è maturata, passando dalle vicende di scienziati megalomani che terrorizzavano il mondo con le loro invenzioni spaventose, alle meditate estrapolazioni delle attuali tendenze, miranti a rivelarne i possibili effetti sulle società future. Ed in questo mezzo secolo, il campo di battaglia su cui gli scrittori hanno rivelato la loro visione degli effetti della scienza sull'umanità, è stato formato quasi esclusivamente dalle riviste fantascientifiche. Per quanto denigrate e disprezzate, sono rimaste la base della science fiction, e hanno offerto ad autori come Isaac Asimov, Robert Heinlein, Arthur Clarke e John Wyndham la possibilità di imparare il mestiere. Nella mia serie di antologie, cerco di ricostruire la storia delle riviste di fantascienza che sono apparse e scomparse in questi cinquant'anni, e di rivelare gli influssi che le riviste stesse ed i loro direttori hanno avuto sull'intero genere. Nella Parte I ho fatto vedere com'è venuta al mondo la rivista specializzata e quel che è accaduto durante il suo primo decennio. Ora il discorso prosegue, occupandosi di dieci anni turbolenti, dall'aprile 1936 al marzo 1946. S'inizia dall'America che si riprende dalla Depressione, e si conclude con il Mondo che si riprende dalla guerra. Eppure, nel campo della science fiction quello fu uno dei periodi più fiorenti, che vide l'apparizione di autori della statura di Asimov, Heinlein,
Theodore Sturgeon, A. E. van Vogt, Lester del Rey, L. Sprague de Camp e molti altri. Per rispecchiare la narrativa di quel decennio, ho scelto altri dieci racconti, uno per anno. Nelle pagine seguenti, troverete gli autori famosi accanto a quelli dimenticati. C'è uno dei primi exploits di Eric Frank Russell, Seeker of Tomorrow, esaltato come classico ma mai ripubblicato prima d'ora. C'è un racconto di Stanley G. Weinbaum che è stato ingiustamente trascurato; una macabra lezione del maestro del film dell'orrore, Robert Bloch, più altri sette affascinanti esempi della varietà e dell'ampiezza che la fantascienza può offrire. E per coloro che tengono particolarmente ad esplorare meglio la storia della science fiction, ho incluso un'appendice piuttosto esauriente riguardante la narrativa degli autori prescelti, ed altri particolari sul periodo in esame. Usate questo libro come una macchina del tempo, azionata dalla vostra immaginazione. Tornate ai giorni in cui regnavano le riviste pulp, quando il mondo fantascientifico si trovò all'improvviso privo di Hugo Gernsback, ma nell'imminenza dell'Età d'Oro di John W. Campbell. Buon viaggio... MICHAEL ASHLEY Giugno 1975 RINGRAZIAMENTI Mentre la preparazione e la compilazione di questo volume sono state mia responsabilità, anche per quanto riguarda tutti gli errori, il loro lavoro sarebbe stato molto più difficile ed il risultato molto più meschino, se non avessi avuto la collaborazione di molti, tra cui Walter Gillings, Ejler Jakobssen, Leslie J. Johnson, Robert A. W. Lowndes, Forrest J Ackerman, Frank Parnell, T. Stanhope Sprigg, William F. Temple, John Eggeling e, soprattutto, l'erculeo aiuto di Philip Harbottle. A loro, ed a coloro che avessi dimenticato di menzionare, vanno i miei più sinceri ringraziamenti. Michael Ashley Sul carro della banda fantascientifica 1. La quiete prima della tempesta Seguiamo un appassionato americano di science fiction mentre si avvi-
cina alla sua solita edicola, nell'aprile 1936. Cosa avrebbe trovato? Poiché quasi tutte le riviste uscivano il mese prima della data di copertina, l'attendeva Astounding Stories, datata «maggio 1936». Costava venti centesimi, aveva 160 pagine, e includeva la prima puntata di un nuovo romanzo, The Cometeers di Jack Williamson (seguito attesissimo dell'epica The Legion of Space) e la conclusione di Spawn of Eternal Thought di Eando Binder. C'era John Russel Fearn con il suo ispirato seguito di Mathematica, intitolato Mathematica Plus; ed Elimination, di quel geniale autore «nuovo» che era Don A. Stuart Il numero era completato da racconti di Frank Belknap Long, D. D. Sharp, Raymond Z. Gallun e Clinton B. Kruse. Il nostro ipotetico appassionato si sarà buttato con gioia su queste pagine. Che altro avrà attratto il suo sguardo? Poiché Amazing Stories era diventata bimestrale, in edicola doveva esserci ancora il numero di aprile, l'edizione del decimo anniversario. Questa ricorrenza, però, non era commemorata in copertina, dove Leo Morey aveva raffigurato una scena di Labyrinth, la nona avventura della serie del professor Jameson, di Neil R. Jones. Era una serie popolare, e senza dubbio attirava i compratori, sebbene Amazing costasse venticinque centesimi (cinque più di Astounding), pur avendo soltanto 144 pagine (sedici meno della sua rivale). Oltre a Labyrinth c'era la conclusione dell'emozionante romanzo di Joe Skidmore, The Maelstrom of Atlantis, e l'originale racconto di Isaac Nathanson, A Modern Comedy of Space. A parte questo, l'unico autore degno di nota era Edmond Hamilton con Intelligence Undying. Hamilton, uno dei maggiori autori del genere, aveva spesso collaborato con Amazing fin dal 1928, benché fosse apparso per la prima volta su Weird Tales due anni prima. Se non bastava Jones a far vendere quel numero, avrebbe provveduto Hamilton.
C. R. Thomson illustra Spawn of Eternal Thought di Eando Binder, su Astounding Stories, aprile 1936. Ma poi, che altro c'era? Questo giro d'orizzonte aveva esaurito tutte le riviste in mostra. Comunque, c'era Weird Tales del maggio 1936, con la sgargiante copertina di Margaret Brundage per il racconto di Paul Ernst, The Devil's Double. Ma questo non sarebbe bastato a mettere in fuga i nostri lettori, perché un'occhiata all'indice avrebbe rivelato alcuni nomi notissimi: Edmond Hamilton con Child of the Winds, Jack Williamson con la seconda parte del suo romanzo a puntate The Ruler of Fate, Manly Wade Wellman con The Horror Undying. Wellman era apparso in parecchi numeri delle riviste di Fantascienza, ed era anche collaboratore di Weird Tales. Un punto a favore di quel numero era la ristampa del classico di Donald Wandrei, The Red Brain, dal fascicolo dell'ottobre 1927, uno dei migliori esempi di science fiction pubblicati dalla rivista (1). Erano presenti anche Robert Bloch, August Derleth e Seabury Quinn. Tre testate, per il prezzo complessivo di settanta centesimi, dovevano essere il massimo che il nostro fan poteva permettersi di comprare; ma c'era anche dell'altro, da adocchiare. I numeri più recenti di Thrilling Mystery, Doc Savage, The Spider, Horror Stories, Terror Tales, Dime Mystery Magazine, il primo numero di Dr. Yen Sin, Operator 5, Spicy Mystery Stories e The Shadow, erano in vista tra la pletora dei pulps, tutti con i loro esempi di fantasy piuttosto mediocre. C'era poco che potesse indurre il nostro lettore di fantascienza ad acquistarli; perciò, con le sue tre riviste sotto il braccio, se ne sarebbe tornato a casa tutto soddisfatto. Lo ritroveremo fra qualche anno. Il genere fantascientifico non si era mai ridotto a due sole testate dopo il 1927, e la cosa non si sarebbe mai più ripetuta in avvenire. Dato che gli editori di riviste pulp erano tanti, è sorprendente che due soli facessero esperimenti in questo campo. Le Teck Publications, che stampavano Amazing, avevano la sede a Chicago con uffici editoriali a New York. La Street & Smith, che oltre ad Astounding pubblicava una ventina di riviste, incluse Doc Savage e The Spider, era interamente insediata a New York. Era anzi tra i più vecchi editori di riviste della città, attiva fin dal 1855. All'estremità opposta della gamma, la Standard Magazines era la più recente, fondata nel 1932 da Ned Pines, il quale aveva appena terminato gli studi. Pines aveva incominciato a pubblicare una catena di periodici d'avventura specializzati, che venne soprannominata «il gruppo Thrilling», poiché tutti i titoli
avevano questo prefisso: Thrilling Mystery, Thrilling Adventure, Thrilling Detective. Il direttore editoriale della catena era Leo Margulies, che era stato fattorino di Munsey, e aveva così potuto conoscere molti autori di gran nome. Nuovo del settore, Pines aveva bisogno di uno dell'esperienza di Margulies, che si sarebbe rivelato insostituibile. Adesso, a trentasei anni, aveva la più alta retribuzione nel suo campo. Fu a Pines ed a Margulies che si rivolse Gernsback dopo la delusione datagli dal piano di abbonamenti di Wonder Stories. Il risultato fu che la Standard acquistò Wonder e la rimise nelle edicole nell'agosto 1936, con la testata Thrilling Wonder Stories. Il formato era cambiato pochissimo. C'erano le stesse rubriche: la Science Fiction League, la posta dei lettori (The Reader Speaks), Science Questions and Answers e Test Your Science Knowledge. Ma per quanto riguardava la narrativa, la differenza balzava agli occhi. La scienza era ridotta al minimo, e la massima importanza era attribuita all'azione. Alla Standard le riviste, di regola, erano dirette da un gruppo di tre persone, ma Margulies fece un'eccezione per Wonder. C'era un personaggio nuovo, Mortimer Weisinger, che insieme con Julius Schwartz aveva gestito il Solar Sales Service, un'agenzia letteraria. Weisinger ebbe mano libera, per Wonder, ma con la direttiva che il contenuto doveva rivolgersi ad un pubblico più giovane, poiché i lettori adulti erano già legati ad Astounding. Venduta al prezzo di quindici centesimi, la rivista era la meno cara sul mercato, alla portata del pubblico giovanile. La prima copertina raffigurava una scena di The Land Where Time Stood Still di Arthur Leo Zagat, e mostrava un essere dagli occhi sporgenti che aiutava un umano a lottare contro guerrieri venuti dal passato. Tra l'altro, le copertine di questo genere avrebbero distinto in seguito la rivista. Zagat era apparso su Wonder all'inizio degli Anni Trenta, in collaborazione con Nathan Schachner, ma non era un collaboratore abituale. Non lo era neppure Ray Cummings, il cui Blood of the Moon era il romanzo breve principale di quel numero. C'erano poi Paul Ernst ed Otis Adelbert Kline, nomi già noti agli appassionati, ma non attraverso Wonder. Per la verità, i soli autori presenti quell'agosto 1936 che fossero stati assidui di Wonder erano Eando Binder e Stanley G. Weinbaum, che però apparivano anche altrove. Eando Binder era lo pseudonimo usato dai due fratelli Earl ed Otto Binder. Nel 1935, Earl scriveva sempre meno, e lo pseudonimo veniva usato dal solo Otto, come in The Hormone Menace, uscito appunto in questo numero. Weinbaum era morto tragicamente di cancro nel dicembre 1935 e la sua fine prematura aveva
fatto di lui una leggenda. La sua apparizione su quel numero era una garanzia di successo. Era presente anche Abraham Merritt con The Drone Man, un racconto già apparso in precedenza su una pubblicazione dilettantistica, Fantasy Magazine, cui Weisinger era molto legato. Forse la cosa più sorprendente, in quel numero, era Zarnak, un fumetto a puntate ambientato nell'anno 2936. Era opera di Max Plaisted, che come si seppe poi era lo pseudonimo di Otto Binder; lui aveva scritto il testo, illustrato da un altro suo fratello, il disegnatore Jack Binder. I fumetti venivano pubblicati già da parecchi anni sui giornali, ma in una rivista d'avventure pulp erano un'innovazione. È inutile fingere che la trama fosse buona: non lo era. Il primo episodio rivelava che gran parte della popolazione terrestre era stata annientata da una guerra batteriologica. I superstiti avevano creato un sistema feudale, ad eccezione dei discendenti di un certo scienziato. Uno dei discendenti scopriva che, prima della Guerra Finale, un altro scienziato era riuscito a costruire un razzo e ad abbandonare la Terra. Zarnak, perciò, giurava di ritrovarlo. I disegni erano appena passabili, e questa era una sorpresa, tenendo conto dei livelli abituali di Jack Binder. Un difetto comune agli altri fumetti era la mancanza di profondità. Mentre Buck Rogers poteva essere accettabile su un quotidiano, Zarnak non lo era per gli appassionati di fantascienza. Durò otto numeri e poi morì, incompiuto, sepolto sotto i fischi dei lettori. Ma nonostante i suoi difetti, Thrilling Wonder presentava alcuni ottimi racconti di grossi nomi. Poiché la Standard aveva deciso di pubblicare la rivista bimestralmente, vennero abbandonati i romanzi a puntate (sebbene Amazing, anch'essa bimestrale, continuasse a pubblicarli). L'idea più adatta, per sostituirli, era ricorrere ai racconti appartenenti ad una stessa serie: e questi avevano sempre goduto del favore di autori, direttori e lettori. John Campbell, uno dei maggiori nomi della fantascienza, autore di stravaganti epiche spaziali all'inizio degli Anni Trenta, ed a quel tempo impegnato a rivoluzionare Astounding sotto lo pseudonimo di Don A. Stuart, cominciò una serie sui vagabondi dello spazio Penton e Blake. Il primo, The Brain Stealers of Mars, apparve nel numero del dicembre 1936. Uscirono complessivamente cinque racconti, che si conclusero con The Brain Pirates nell'ottobre 1938. A quell'epoca, era ormai lanciata un'altra serie molto popolare, iniziata con Via Etherline nell'ottobre 1937. La serie Via apparve con la firma «Gordon Giles»: in tutti i racconti, per l'esattezza, eccettuato il nono ed ultimo, Via Jupiter nel febbraio 1942, che rivelò il vero
autore, Eando Binder. Ancora una volta si trattava dell'onnipresente Otto, uno dei migliori e più prolifici autori del periodo. Otto Oscar Binder era nato a Bessemer, Michigan, sabato 26 agosto 1911, ed aveva completato gli studi dell'Università di Chicago. Nel 1932 aveva cominciato a fare lo scrittore indipendente, ed era comparso per la prima volta, insieme con suo fratello Earl, come «Eando» in Amazing dell'ottobre di quello stesso anno, con The First Martian. La sua prima apparizione da solo, sempre come Eando, fu su Weird Tales dell'aprile 1935, con Shadows of Blood. Con il nuovo pseudonimo di Gordon Giles, Binder creò un nuovo autore popolare. Quindi, per un certo periodo, i due scrittori più apprezzati di Wonder furono, in realtà, un solo individuo... Binder! Come Eando, scrisse per la rivista un'altra serie su un uomo immortale, Anton York, che ebbe inizio con Conquest of Life nell'agosto 1937. Queste non furono le uniche serie. Henry Kuttner cominciò quella di Hollywood on the Moon con il racconto dallo stesso titolo nell'aprile 1938; e in collaborazione con Arthur K. Barnes cominciò quella di Pete Manx con Roman Holiday nell'agosto 1939. In quanto a Barnes, era il creatore di un'altra serie popolarissima che aveva per protagonista Gerry Carlisle, il quale andava a caccia di animali alieni per gli zoo; era cominciata con Green Hell nel giugno 1937. Il numero di ottobre del 1937 vide il ritorno di Tubby, un simpatico personaggio inventato da Ray Cummings per le riviste di Munsey circa quindici anni prima. Altri sette racconti apparvero fino al 1946. E via di seguito. Queste serie, insieme con gli ottimi racconti isolati, fecero aumentare ben presto la tiratura di Thrilling Wonder. In pratica, la rivista diventò un'eco dell'Astounding del primo periodo di Tremaine (193435) e, sebbene non fosse originalissima, era estremamente gradevole: il suo futuro era assicurato, almeno per qualche tempo. Bisogna riconoscere i meriti del direttore di Wonder, Mort Weisinger, che aveva solo ventun anni quando assunse la direzione (era quindi di un anno più giovane del suo predecessore, Hornig). Come lui, proveniva dalle file degli appassionati, il che creava una situazione completamente diversa da quella di Tremaine alla Street & Smith. (Tremaine era in pratica un direttore di narrativa generica, con una predilezione per la fantascienza. Oltre ad Astounding, si occupava di sei riviste, inclusa Top-Notch). Weisinger era diverso anche da Sloane, il quale era innanzi tutto uno scienziato ed un famoso pessimista, assolutamente certo che l'uomo non avrebbe mai realizzato il volo spaziale!
Hornig aveva attirato l'attenzione di Gernsback tramite il suo fanzine intitolato Fantasy Fan, sebbene questo tendesse piuttosto verso Weird Tales. Anche Weisinger si era occupato della redazione di riviste dilettantistiche, e nel 1936 ce n'era in circolazione un numero rispettabile. La più importante era Fantasy Magazine che, da quando Weisinger era passato alla Standard, era rimasta affidata interamente a Julius Schwartz. Schwartz era sempre più impegnato con la sua agenzia letteraria, e perciò sempre meno incline a continuare Fantasy Magazine: la rivista, quindi, chiuse i battenti con il numero del gennaio 1937. Con la sua morte sparì la pubblicazione che costituiva il fulcro del fandom, che fu costretto a cercarsi nuovi orientamenti. Il numero delle pubblicazioni dilettantistiche crebbe: molte di esse meritano di essere ricordate per l'aspetto semiprofessionale, e perché pubblicavano narrativa, mentre molte altre contenevano esclusivamente articoli critici e notizie. Nella Parte I ho già ricordato i tentativi compiuti da William Crawford con Marvel Tales e Unusual Stories nel 1934-35. Adesso era il turno di Donald Wollheim con Fanciful Tales of Space and Time, che apparve nell'autunno 1936, curata congiuntamente dallo stesso Wollheim e da Wilson Shepard. Wollheim verrà ricordato come la voce di un gruppo di fan, l'International Scientific Association, creata in opposizione alla Science Fiction League di Wonder Stories. Molte tempeste scoppiarono intorno al nome di Wollheim, ma non si può negare che creasse un notevole movimento. Fanciful Tales era un opuscolo ben stampato, formato digest, di cinquanta pagine. E ostentava The Nameless City di H. P. Lovecraft, The Typewriter di David Keller, The Man from Dark Valley di August Derleth, e altri racconti di Kenneth Pritchard, William Sykora e dello stesso Wollheim, più The Forbidden Room del pianista jazz Duane Rimel, e una poesia di Robert E. Howard. Quest'ultima collaborazione è particolarmente importante, perché meno di quattro mesi prima (11 giugno 1936), Robert E. Howard era morto suicida. Wollheim era un direttore estremamente efficiente. Si era gingillato con molte pubblicazioni dilettantistiche nei due anni precedenti e adesso, a ventidue anni, avrebbe potuto avere la grande occasione con Fanciful. Era evidentemente in programma un secondo numero, e Wollheim cercava di fargli pubblicità nelle riviste professionali. Nella rubrica della posta di Amazing, Discussions, nel numero del febbraio 1937, apparve una lettera firmata «Braxton Wells». Era uno pseudonimo usato talvolta da Wollheim per i suoi articoli, ma è dubbio che Sloane ne fosse al corrente. A proposito
del racconto Hoffman's Widow di Floyd Oles, Wollheim diceva: «Sono tra coloro che hanno giudicato fuori posto Hoffman's Widow. Noi vogliamo che Amazing Stories sia scientifico, e nient'altro. Per la fantasy ed il bizzarro ci sono riviste come Fanciful Tales, e il racconto non andrebbe bene neppure per quelle» (2). Indipendentemente dalle buone intenzioni, non uscirono altri numeri, e Wollheim ritornò a The Phantagraph e ad altre riviste minori. Fanciful Tales ebbe una distribuzione modestissima, ed oggi è estremamente raro. Quasi altrettanto rare sono altre due riviste apparse nello stesso periodo, The Witch's Tales e Flash Gordon's Strange Adventure Magazine, che pure erano distribuite su scala nazionale. Un ulteriore legame tra esse è rappresentato rispettivamente dall'influenza della radio e del cinema. Fin dal maggio 1931 i radioascoltatori americani si erano abituati al programma settimanale The Witch's Tales, con vicende scritte da Alonzo Dean Cole. Nel novembre 1936 uscì una rivista con la stessa testata, in formato grande e su carta pulp. Comprendeva come pezzo forte un racconto di Cole, The Madman, più altri quattro, ed un assortimento di «esperienze vere». Era ufficialmente diretta da Cole, ma con ogni probabilità questi era solo il supervisore: quasi tutto il lavoro editoriale era sbrigato da Tom Chadburn. Per gli appassionati di fantascienza, la rivista aveva un interesse marginale, a meno che guardassero in profondità. Dopotutto, nessuno dei nomi era molto noto; e che interesse poteva provare per le storie di spettri un fan di science fiction? Se il primo numero non lo mostrava, lo mostrò il secondo. Il numero del dicembre 1936 comprendeva sette racconti, oltre a quello di Cole: tra gli altri c'era The Monster of Lake La Metrie di Wardon Allan Curtis. Era imperniato su alcuni concetti sorprendenti, non ultimo il trapianto del cervello di un uomo nella cavità cranica di un mostro preistorico sopravvissuto chissà come fino ai tempi moderni. Un giusto equilibrio tra pathos, emozione e scienza ne faceva un racconto poderoso e veramente fantascientifico. In realtà si trattava di una ristampa: era apparso per la prima volta su Pearson's Magazine nel settembre 1899. Sam Moskowitz, lo storico della science fiction, ha poi indicato almeno altre due ristampe nella rivista, e probabilmente anche il resto proveniva da Pearson's Magazine. Se fossero stati più numerosi i lettori attenti a questa pubblicazione, vi avrebbero tro-
vato una preziosa fonte della fantasy vittoriana, poiché evidentemente i direttori intendevano ristampare altri testi, e chissà quanti altri «capolavori» sarebbero stati scoperti. Purtroppo, come molti tentativi del genere, la rivista morì dopo due soli numeri. Anche Flash Gordon's Strange Adventure Magazine apparve nel dicembre 1936: era un'altra pubblicazione pulp che sperava di sfruttare il successo dei film di Flash Gordon con Buster Crabbe, e dei fumetti disegnati da Alex Raymond. Era pubblicata dalla Stephen Slesinger, Inc, che produceva anche altre due pubblicazioni per ragazzi, Dan Dunn Detective e Tailspin Tommy. Flash Gordon includeva The Master of Mars, un lungo racconto di James Edison Northfield, illustrato nello stile dei fumetti. Se Weisinger non l'avesse battuta sul tempo con Zarnak, sarebbe stata la prima rivista pulp a pubblicare fumetti. Tuttavia, può vantare di essere stata la prima ad usare disegni a colori nell'interno, e sebbene non venissero mai bene sulla carta scadente dei pulps, a prima vista erano sensazionali, soprattutto se si tiene conto che la rivista costava soltanto dieci centesimi. Altri tre racconti completavano questo numero piuttosto smilzo; e quello che avrebbe dovuto colpire l'occhio degli appassionati era il nome di R. R. Winterbotham. Russell Robert Winterbotham (1904-1971) era stato un collaboratore regolare di Astounding dopo la pubblicazione di The Star That Would Not Behave nel numero d'agosto 1935; e sembrava un autore promettente. Era presente in Flash Gordon con un racconto, Saga of the «Smokepot», e quasi certamente con un secondo, The Last War, firmato con il trasparente pseudonimo di R. R. Botham. Se Winterbotham era apparso in quella pubblicazione, forse un domani sarebbero apparsi altri nomi della fantascienza. Ma non ci fu un domani. Nessun altro numero di Flash Gordon's Strange Adventure Magazine apparve nelle edicole, e ripensandoci bene forse si trattò di una fortuna. Alla fine del 1936, quindi, c'era un po' di maretta nell'oceano fantascientifico. Per tutto il 1937 le tre riviste specializzate continuarono ad apparire regolarmente, benché Amazing diventasse sempre più scialba e noiosa, mentre Thrilling Wonder cresceva di forza e di vitalità. Astounding sembrava un po' stagnante, anche se questo non sorprende considerando l'ampiezza degli altri impegni direttoriali di Tremaine. Adesso che Astounding era in vetta nel suo genere, Tremaine si accontentava di lasciare che badasse a se stessa. Questo non significa che pubblicasse roba banale. Molti nuovi autori avevano fatto un grande effetto nella rivista, nel corso dell'ultimo anno. Ross Rocklynne, il cui Man of Iron nel numero d'agosto 1935
aveva segnato un impressionante punto di partenza, stava sfornando una serie di racconti in cui il tenente Jack Colbie cercava di catturare l'astutissimo criminale Edward Deverei, che ricorreva a trucchi scientifici d'ogni genere. L'autore inglese Eric Frank Russell aveva fatto il suo esordio con una divertente imitazione di Weinbaum, The Saga of Pelican West (febbraio 1937), che narra le avventure di Pelican West sul satellite di Giove, Callisto: là, tra gli altri esemplari della fauna, c'è anche un pitone multicolore chiamato Alfred. Nel settembre 1937 comparve per la prima volta il nome di L. Sprague de Camp, con un racconto intitolato The Isolinguals: per caso, quello fu l'ultimo numero curato da Tremaine, promosso Assistente Direttore Editoriale del gruppo. Fu perciò necessario nominare un nuovo direttore per Astounding Stories. La scelta cadde su John W. Campbell. È difficile parlare di Campbell senza lanciarsi in elogi generosi, del resto già ripetuti mille volte. La storia ha la tendenza a distorcere la verità. Si tende a credere che quando Campbell vestì i panni direttoriali, si compirono miracoli da un giorno all'altro. Non ci furono... ma sia chiaro che non tardarono ad arrivare. Il primo numero di Campbell fu quello dell'ottobre 1937, benché non vi sia nulla ad indicarlo. Nel numero di novembre, come in quello dell'ottobre precedente, Tremaine figurava ancora come direttore. L'unica tangibile differenza fu la comparsa di una nuova dicitura sotto il titolo, nella pagina dell'indice: «Questa rivista presenta esclusivamente racconti nuovi. Non vi sono ristampe». Poiché Astounding non si era mai servita di ristampe era un annuncio abbastanza incongruo. (Campbell infranse la sua regola antiristampe una volta sola, nel 1948, come vedremo nel prossimo volume). Niente indicava se l'editoriale Into the Future era di Tremaine o di Campbell, anche se personalmente ritengo che fosse di quest'ultimo. Campbell stava facendo il suo apprendistato sotto Tremaine, e ovviamente molto materiale da lui utilizzato era stato scelto prima del suo avvento. In ogni caso, aveva evidentemente già fatto i suoi piani, e il numero del gennaio 1938 lo prova. Durante il regno di Tremaine, la rubrica della posta era diventata Science Discussions; Campbell riesumò Brass Tacks, combinandolo con Science Discussions ed escludendo gradualmente quest'ultimo. Nello stesso numero istituì Things to Come, l'annuncio del numero successivo che aveva il compito di stuzzicare l'appetito dei lettori. Con il fascicolo di marzo 1938 cambiò la testata: Astounding Stories, che
secondo lui faceva troppo rivista per ragazzi, divenne Astounding Science Fiction. Il 1° maggio la Street & Smith decise di non tenere più direttori generali, e Tremaine lasciò la casa editrice. Campbell rimase solo: e non aveva bisogno d'incitamenti. Le copertine subirono una trasformazione. Howard V. Brown era stato il pilastro di Astounding per tutto il periodo Tremaine. Campbell si servì di lui per disegnare alcune speciali copertine «innovatrici»: la prima fa quella del febbraio 1938, che raffigurava il Sole visto da Mercurio, in modo astronomicamente esatto. Era una copertina eccezionale e sensazionale e illustrava Mercurian Adventure di Raymond Gallun: era destinata ad attirare un numero di acquirenti potenziali assai maggiore delle altre copertine eseguite dallo stesso Brown per Thrilling Wonder. Arrivato a sessant'anni, Brown poteva finalmente mostrare ciò che era in grado di fare. Ritornò Hans Wessolowski, meglio noto come Wesso, che aveva disegnato le copertine per l'Astounding di Clayton, ed il numero del maggio 1938 vide la prima copertina di Charles Schneeman, che in precedenza aveva eseguito le migliori illustrazioni in bianco e nero dell'interno. La mentalità di Schneeman, per quanto riguardava le copertine, si nota particolarmente nel numero del dicembre 1938, che illustra The Merman di L. Sprague de Camp. Raffigurava semplicemente alcuni reporters che si accalcavano per fotografare un uomo in una vasca, e non presentava il sensazionalismo tipico delle riviste pulp. Era difficile classificare come tale la nuova Astounding: eppure, pulp rimase. E mentre cambiavano le copertine, i nomi e le rubriche, che ne era del contenuto? Il 1938 è stato indicato come l'anno che diede inizio all'Età d'Oro di Astounding. Senza dubbio, in quello e nell'anno seguente un enorme afflusso di talenti nuovi fece di Astounding una pubblicazione affascinante ed estremamente originale nei concetti e nella trattazione delle vicende. Non fu tutta opera di Campbell. Le riviste specializzate, ormai, contavano dodici anni di vita. Gli appassionati che avevano scoperto le prime riviste di Gernsback quand'erano ragazzetti, adesso erano intorno ai venticinque anni. Avevano avuto tutto il tempo di valutare le tendenze, di elaborare temi nuovi e di vedere la fantascienza in una luce diversa. Mentre gli Anni Trenta si avviavano a cedere il passo agli Anni Quaranta, molti grandi nomi stavano per scomparire, lasciando il posto ad autori nuovi: e quasi senza eccezione, questi ultimi si affermarono su Astounding. John Wood Campbell Jr. Era nato a Newark, nel New Jersey, mercoledì
8 giugno 1910. Aveva diciannove anni quando When the Atoms Failed apparve su Amazing, nel gennaio 1930. Per la verità, era il secondo racconto che vendeva alla rivista: Sloane aveva perso il primo. Alla fine del 1930 era già considerato un «grande nome», grazie alle sue serie di Arcot, Morey e Wade. Seguendo le orme di E. E. Smith, i cui romanzi della serie Skylark avevano acceso l'immaginazione di tutti, Campbell ambientò le sue vicende in immensi scenari extragalattici. Il culmine fu The Mightiest Machine, pubblicato in cinque puntate a partire dal numero di dicembre 1934 di Astounding, in concomitanza con The Skylark of Valeron di Smith. Fu l'espressione più clamorosa di queste vicende galattiche. Un mese prima, Astounding aveva pubblicato un racconto, Twilight, di Don A. Stuart (3). Era una storia «d'atmosfera», che parlava di una Terra del remoto futuro e del declino dell'uomo: per ironia, suonò come una campana a morto per il tipo di vicenda che lo stesso Campbell aveva reso popolare. Da allora, il nome di Stuart apparve regolarmente, e ben presto divenne uno dei principali autori di Astounding: le sue vicende così ricche d'atmosfera stabilirono un nuovo criterio per la rivista. A quell'epoca, pochissimi lettori si rendevano conto che Stuart era uno pseudonimo di Campbell; solo i fan più informati ne erano al corrente. Nel frattempo, Campbell cominciò a fornire ad Astounding una serie di articoli scientifici, A Study of the Solar System, che iniziò con Accuracy (giugno 1936). In precedenza, c'erano stati pochi articoli sulle riviste di fantascienza, a parte i brevi riempitivi, soprattutto perché Gernsback forniva tutte le informazioni relative nei suoi editoriali. Solo su riviste specializzate come Air Wonder e Scientific Detective Monthly apparivano articoli che si occupavano di argomenti affini. Quando Tremaine assunse la direzione di Astounding, ristampò la rassegna dei fatti inesplicabili, opera di Charles Fort, Lo!, che uscì in otto puntate dall'aprile al novembre 1934. Bene accolta all'inizio, più avanti cominciò a decadere. Gli articoli di Fort, comunque, ebbero una notevole influenza su molti autori, e i libri vengono ristampati ancora oggi. Per colmo d'ironia, Fort era assolutamente antiscientifico nelle sue concezioni della natura del Sistema Solare. Quindi la serie di Campbell offrì i primi articoli «ortodossi» pubblicati da una rivista di science fiction. Furono diciotto in tutto, e cessarono solo quando Campbell divenne il direttore. Anche allora, comunque, egli continuò a scriverne, sotto lo pseudonimo di Arthur McCann. Gli articoli di McCann furono il prototipo degli editoriali di Campbell, destinati a diventare in seguito una delle principali caratteristiche della rivista.
Evidentemente, quindi, nell'incarnazione del narratore Don A. Stuart e degli articolisti John Campbell e Arthur McCann, quest'ultimo aveva già fatto molto per migliorare Astounding, anche prima di diventarne il direttore. Gli articoli scientifici, da allora, sono diventati parte integrante di Astounding. Inizialmente venivano scritti da personaggi come Harry Parker e Thomas Calvert McClary: poi soprattutto da Willy Ley e L. Sprague de Camp. Questa fu l'evoluzione di Astounding come rivista. Ma, naturalmente, il suo contenuto primario era costituito dalla narrativa. Un'occhiata ad alcuni degli eventi in questo settore, durante la prima annata di Campbell, dall'ottobre 1937 al settembre 1938, basterà a mostrare come andavano le cose. Robert Moore Williams superò se stesso con due racconti particolarmente godibili, Flight of the Dawn Star (marzo 1938) e Robot's Return (settembre 1938). Oggi Williams è molto criticato per la massa considerevole di opere scadenti che sfornò in seguito nel corso della sua carriera. Aveva esordito su Astounding nel luglio 1937 come Robert Moore, con Zero as a Limit: era entrato nell'agone fantascientifico piuttosto tardi (aveva trent'anni). Flight of the Dawn Star segnò la sua seconda apparizione su Astounding, e benché continuasse a vendere a Thrilling Wonder e ad Amazing, era evidente che Campbell si assicurava il meglio della sua produzione. Il racconto parlava d'una nave perduta in una regione sconosciuta della Galassia, e del modo in cui l'equipaggio trova la via di casa. Robot's Return segnò l'inizio di un nuovo atteggiamento verso i robot nella narrativa, poiché li trattava con simpatia, invece di presentarli come mostri. C'è un'astronave carica di robot, i quali vanno in cerca del loro creatore e finiscono per scoprire che era una fragile non-macchina, l'Uomo. L'aprile 1938 vide The Faithful e il debutto di Lester del Rey, nome più pronunciabile di Ramon Felipe San Juan Mario Silvio Enrico Smith Heathcourt-Brace Sierra y Alvarez del Rey y de los Uerdes! Del Rey aveva ventidue anni e dimostrava un talento considerevole nella sua storia di cani intelligenti e dell'ultimo superstite umano sulla Terra. Il racconto risentiva dell'influsso delle vicende «d'atmosfera» di Campbell e di Gallun. Lo stesso numero segnò anche la ricomparsa di L. Sprague de Camp, con un esempio del suo umorismo, Hyperpilosity, imperniato su un uomo che si fa crescere un cospicuo vello. Sprague de Camp, di pochi mesi più giovane di Robert Moore Williams, aveva un atteggiamento assai diverso nei confronti della fantascienza. Una sfumatura umoristica è presente quasi sempre, negli stessi momenti seri, con il risultato che le sue vicende sono
addirittura più memorabili. Sprague de Camp aveva anche la passione per la saggistica, ed il numero di luglio presentava il suo articolo, Language for Time Travellers, che esponeva i problemi cui sarebbero andati incontro i viaggiatori nel tempo alle prese con le lingue del futuro. (Un anno dopo, Willy Ley pubblicò una specie di seguito, Geography for Time Travellers). Il maggio 1938 vide l'apparizione di un nuovo romanzo a puntate di Jack Williamson, The Legion of Time, ed un articolo di E. E. Smith, Catastrophe, che in molti mesi venne molto discusso. Il numero di giugno includeva Seed of the Dusk di Raymond Gallun, e quello di luglio segnò il ritorno di Clifford Simak dopo parecchi anni, con Rule 18. (È stato detto che Simak non avrebbe mai più scritto fantascienza se Campbell non fosse diventato direttore di Astounding. Rule 18 era diverso dalla sua precedente narrativa: il viaggio nel tempo veniva utilizzato per formare la migliore squadra di football americano di tutti i tempi. A trentatré anni, Simak aveva nuovamente avviato, ed in modo decisivo, la sua carriera di autore fantascientifico) . Lo stesso numero vide l'ingresso in campo fantascientifico di L. Ron Hubbard. L'uomo che sarebbe divenuto grande sacerdote della Scientologia era apparso spesso sulle riviste pulp generiche come Argosy, ma The Dangerous Dimension, la divertente storia di un professore che era in grado di trasferirsi dovunque per mezzo del pensiero, fu la sua prima escursione nella science fiction. A stretto rigore, era un racconto di fantasy, e negli anni successivi Hubbard dimostrò di essere un ottimo tessitore di vicende fantastiche. A quell'epoca, aveva ventisette anni. Il numero d'agosto, oltre a presentare il primo racconto di Malcolm Jameson, includeva Who Goes There? di Don A. Stuart, la storia ormai classica di un alieno che, precipitato nell'Antartide, assume la forma di diversi uomini ed animali (4). Il primo anno di Campbell ad Astounding fu indubbiamente un inizio molto fausto, ed un ottimo presagio del futuro. Le due principali riviste dell'inizio degli Anni Trenta avevano già cambiato direttore: Astounding era passata da Tremaine a Campbell, e Wonder da Hornig a Weisinger. Poiché nel 1938 O'Conor Sloane di Amazing aveva ottantasei anni, sembrava improbabile che continuasse ancora per molto. Non continuò, infatti, ma non fu la morte a cambiare la situazione: Sloane morì il 7 agosto 1940, tre mesi prima di compiere ottantanove anni. No, la Teck Publications non ce la faceva più a tenere in piedi Amazing. La tiratura era scesa a 27.000
copie: tutt'altro che sorprendente, considerando l'opacità generale della narrativa e della presentazione. Da parecchi anni, la Teck aveva sede a Chicago, mentre la rivista veniva pubblicata a New York. Nel 1938, Amazing fu venduta ad una società di Chicago, la Ziff-Davis. Sloane era troppo vecchio per trasferirsi e, del resto, gli editori avevano bisogno di sangue nuovo per la rivista. A capo dell'azienda c'era William B. Ziff (1898-1953), nato e cresciuto a Chicago, già disegnatore e cartoonist commerciale. Nel 1920 aveva fondato la W. B. Ziff Newspaper Company; nel 1935 operò la fusione con l'editore B. G. Davis. Nel 1938 la Ziff-Davis era un'azienda redditizia, e contava pubblicazioni come Popular Photography e Popular Aviation. Aveva un ufficio a New York, sulla Quarta Strada, ma la sede era a Chicago, e quindi c'era da aspettarsi che il direttore della rivista sarebbe stato di Chicago. Nella città e nei dintorni c'erano numerosi autori di fantascienza. Stanley G. Weinbaum era arrivato a Milwaukee, centotrenta chilometri più a Nord, e Ralph Milne Farley, acclamato autore della serie Radio Man, vi abitava ancora. Simak ed E. E. Smith vivevano anch'essi a Milwaukee. Robert Moore Williams e Ross Rocklynne risiedevano nei pressi. Fu Farley (che era stato senatore con il suo vero nome, Roger Sherman Hoar) a consigliare a Davis di prendere in considerazione, come direttore di Amazing, un certo Raymond A. Palmer. Vi fu un colloquio nel febbraio 1938, e Palmer venne accettato: Amazing si avviava così su un nuovo corso che avrebbe suscitato anche più stupore. Palmer era nato a Milwaukee lunedì 1° agosto 1910, ed era quindi di sette mesi più giovane di Campbell. A sette anni era stato investito da un furgone, che gli aveva spezzato la colonna vertebrale, e a causa dell'incidente era rimasto di statura molto piccola. Ciò che gli mancava in altezza, l'aveva in più in volontà ed immaginazione. Il suo primo racconto, The Time Ray of Jandra, era apparso su Wonder Stories nel giugno 1930, e l'aveva rivelato come un giovane promettente. Palmer era un fan attivo, a differenza di Campbell; aveva collaborato ai primi fanzine e aveva vinto il premio da cento dollari nel concorso lanciato da Gernsback: «Che cosa ho fatto per diffondere la science fiction». Aveva venduto in tutto sei racconti fantascientifici quando divenne direttore di Amazing, ed uno di essi, Matter Is Conserved, era stato acquistato da Campbell per l'Astounding dell'aprile 1938. Ma aveva pubblicato parecchio in altri campi, in particolare western e gialli, ed era uno scrittore mol-
to più competente di quanto venga generalmente ammesso. Si sa che sovente riscriveva per intero i racconti inviati ad Amazing. Il primo numero pubblicato dalla Ziff-Davis recava la data del giugno 1938. Non c'erano state lacune nella tabella di marcia, un numero al bimestre, e tutto il merito era di Palmer, poiché si dice che rifiutò tutti i racconti rimasti dai tempi di Sloane, ad eccezione d'uno solo. Può darsi che l'aneddoto sia vero, ed il racconto era probabilmente Space Pirate di Eando Binder, una rara, autentica collaborazione tra Earl ed Otto (da qualche anno, infatti, Earl non scriveva più). Gli altri testi, a parte due eccezioni, erano di autori cui Palmer aveva facile accesso: Robert M. Williams, Ross Rocklynne, Charles R. Tanner e Ralph Milne Farley. Le due eccezioni erano due racconti di un autore inglese, John Russel Fearn, una delle colonne del periodo «thought variant» di Tremaine. I racconti erano stati ottenuti per mezzo dell'agente di Fearn, Julius Schwartz, amico di Palmer. Uno, The Master of the Golden City, uscì con lo pseudonimo di Polton Cross. L'altro, A Summons from Mars, venne votato dai lettori come il racconto più popolare di quel numero. Cominciò così una collaborazione tra Fearn e Palmer che sarebbe durata fino al 1943 e che avrebbe prodotto anche un racconto scritto a quattro mani, Mystery of the Martian Pendulum (Amazing, ottobre 1941). A proposito di A Summons from Mars, lo stesso Palmer scrisse: «Sembra che sia piaciuto quasi a tutti. E questo ci rallegra, perché l'abbiamo considerato un modello ideale della nostra politica editoriale. È ricco di solide idee scientifiche, presenta un ottimo problema personale, ed è ricco d'interesse umano. Rimane sulla Terra in fatto d'immaginazione, eppure è interessantissimo» (5). È il caso di tenere in mente questa citazione, quando si osservano le altre affermazioni che Palmer avrebbe fatto nei vent'anni successivi. Phil Harbottle, autore di The Multi-Man, un ammirevole studio su John Russell Fearn, mi ha detto che A Summons from Mars, intitolato in origine A Debt of Honour, era stato in effetti scritto per Campbell, su suo invito. Quando Palmer gli aveva chiesto materiale accettabile, Schwartz si trovò alle prese con un dilemma, e lo risolse solo quando ricevette Man of Earth di Fearn; Schwartz presentò quest'ultimo a Campbell, che non vide mai Debt of Honour. Campbell rifiutò il racconto, e Fearn non entrò a far parte della corte di Astounding. Ripensandoci ora, la trovata di Schwartz tornò a
danno della carriera di Fearn, perché lo convinse a rinunciare ad Astounding come possibile mercato, ed a concentrarsi su una più facile produzione per Amazing. Sotto la guida di Palmer, Amazing subì una considerevole trasformazione. Non era più una rivista «cerebrale», presuntuosa e noiosa: era vivace, ringiovanita. Al posto dei lunghi editoriali scientifici, Palmer mise The Observatory, nelle cui pagine parlava un po' di tutto, in un modo che ricordava i suoi notiziari sui fanzine. Sempre vivace e interessante, la rubrica era spesso ricca di notizie affascinanti. Venne introdotta una nuova forma di quiz scientifico, oltre a Questions & Answers; e Correspondence Corner e Collector's Corner erano di grande interesse per gli appassionati. Una sezione dedicata agli scrittori, Meet the Authors, venne accolta con entusiasmo, e Discussions riprese vita. Palmer ebbe molto da fare con le illustrazioni, come con la narrativa. Quasi tutti i disegnatori dei pulps stavano a New York, e quindi Palmer fu costretto a servirsi dell'accordo tra Popular Photography della Ziff-Davis e la Frank Lewis Inc. per realizzare una copertina fotografica. Come misura improvvisata fu estremamente efficace, e venne applaudita dalla maggioranza dei lettori. L'esperimento fu ripetuto il numero successivo, dopodiché Joseph Tillotson, con lo pseudonimo di Robert Fuqua, divenne il principale illustratore delle copertine. Ma la maggiore innovazione di Palmer fu di illustrare anche la quarta di copertina. Di solito era riservata alla pubblicità, ma Palmer incaricò Harold McCauley di eseguire un disegno per This Amazing Universe, l'argomento che veniva trattato in un articolo. Divenne una consuetudine per Amazing, ed in seguito il veterano Frank R. Paul (1880-1963) ne diventò il principale collaboratore. Oltre a tutto questo, il prezzo venne ridotto a venti centesimi. Cosa potevano pretendere di più i lettori? Chiesero migliori illustrazioni interne, che salirono di qualità costantemente, grazie al disegnatore Jay Jackson. Nel frattempo, Palmer aveva acquistato testi narrativi di Arthur Tofte, Arlyn Vance, Thorp McClusky, nonché il primo racconto fantascientifico di Robert Bloch, Secret of the Observatory, imperniato su una macchina che poteva fotografare attraverso i muri. Bloch vendeva ormai a Weird Tales da parecchi anni, sebbene fosse appena ventunenne. La reazione del pubblico alla nuova Amazing fu estremamente favorevole, nonostante le molte critiche. Dal numero di ottobre ridiventò mensile, per la prima volta dal 1935. Le vendite salirono alle stelle, e la rivista continuò a prosperare.
Se fosse stato tutto qui, per il Natale 1938 ci sarebbero state in edicola tre riviste rivitalizzate, ognuna con il suo pubblico adorante, ognuna ben avviata e prospera. Come ha osservato Sam Moskowitz, formavano un'utile scala per gli appassionati: Amazing pubblicava avventure sensazionali per i lettori più giovani; Thrilling Wonder, una narrativa meditata per i ragazzi più grandi, ed Astounding, con la sua mentalità moderna, era più adatta agli adulti. Ma non era tutto qui, perché entro il Natale del 1938 era entrato in campo un altro editore, e la valanga aveva cominciato a rotolare. Stava per avere inizio il boom della science fiction, e avrebbe lasciato sbalorditi tanto il pubblico quanto gli scrittori. 2. Nel frattempo, in Gran Bretagna Poiché ai lettori inglesi erano offerte le edizioni importate delle riviste americane, essi avevano un'idea piuttosto chiara dell'andamento della situazione. Bastava sfogliare le rubriche della posta di tutte e tre le riviste per trovare una quantità di lettere scritte da appassionati inglesi. E non si possono dimenticare John Russell Fearn, Eric Frank Russell e John Beynon Harris, tutti e tre autori britannici, che erano molto apprezzati in America. Ma non era come avere una rivista propria. I fan ricordavano ancora la sfortunata Scoops, che era uscita per venti numeri settimanali durante la primavera del 1934. Rivolta ad un pubblico di ragazzi, si era avviata nella direzione sbagliata, e aveva cambiato rotta quando era ormai troppo tardi. Quando Scoops era caduta nell'oblio, esistevano parecchie sezioni britanniche della Science Fiction League di Gernsback; e nel marzo 1936 Maurice K. Hanson della Sezione di Nuneaton pubblicò un periodico dilettantistico, Novae Terrae, che divenne la spina dorsale del fandom britannico. Saltò un solo numero mensile, e quello finale (il ventinovesimo) recava la data del gennaio 1939. Era diventata l'organo ufficiale della British Science Fiction Association. Dopo quest'ultimo numero, si trasformò in New Worlds ed a Hanson succedette Edward John Carnell. Uscirono solo quattro numeri con questo titolo, poi arrivò per Carnell la chiamata alle armi. Oltre a Novae Terrae esistevano numerosi altri ottimi fanzine. Gli appassionati di Leeds pubblicarono il Bullettin of the Leeds Science Fiction League nel gennaio 1938, a cura di Harol Gottliffe, ma questo titolo lunghissimo divenne The Futurian a partire dal mese di giugno, e le redini
vennero prese da Michael Rosenblum. Il fandom di Leeds poteva contare anche sull'attivissimo Douglas Mayer, che aveva creato la sezione. Nella primavera del 1937, diede vita ad un brillante fanzine intitolato Tomorrow, con programma trimestrale, e in ottobre lanciò una testata sorella, Amateur Science Stories. Quest'ultima è oggi ricordata soprattutto perché pubblicò alcuni dei primi racconti di Arthur C. Clarke. Nel marzo 1938, Tomorrow subì un'operazione di chirurgia plastica: adesso veniva stampata, non ciclostilata, ed era unita con un'altra pubblicazione, Scientifiction: The British Fantasy Review. Scientifiction era nata nel gennaio 1937, e suo padre era un fan di Ilford, Walter Gillings. Era un opuscoletto di sedici pagine, formato digest, dall'aspetto e dal contenuto eccezionalmente professionali, e uscì per sei numeri prima di fondersi con Tomorrow. Comunque, ormai c'era in edicola una rivista professionale, per merito di Gillings. Due dei principali editori inglesi erano Pearson's (che aveva pubblicato Scoops) e Newnes (la società che fin dal 1891 faceva uscire lo Strand Magazine). La Newnes aveva avuto l'idea di creare una rivista di fantascienza già nel 1935, quando stampava due pulps di narrativa specializzata, Air Stories e War Stories. Era arrivata al punto di commissionare racconti ad autori inglesi, ma poi aveva deciso di rimandare tutto. Con questa idea in mente, Gillings si rivolse a The World's Work, un'azienda sussidiaria della casa editrice Heinemann, il cui direttore era Henry Chalmers Roberts. La World's Work (1913) Ltd, com'era chiamata, pubblicava riviste pulp a Kingswood nel Surrey: parecchi anni prima aveva creato il primo pulp veramente specializzato della Gran Bretagna, West. Adesso aveva in corso una serie, Master Thriller, che già includeva titoli come Tales of Mystery and Detection e Tales of Terror, con opere di autori come Sidney Horler, Oliver Onions, Hector Bolitho e R. Thurston Hopkins. Sembrava naturale includere anche una testata di science fiction, e la proposta di Gillings fu accolta con favore. Gillings aveva allora venticinque anni. Nato a Ilford lunedì 19 febbraio 1912, si era appassionato giovanissimo alla fantascienza, e va senza dubbio annoverato tra i primi fan britannici, con le lettere inviate ad Amazing negli anni della sua formazione. Aveva un atteggiamento più maturo di certi suoi coetanei americani, e sfruttò questa esperienza compilando quello che sarebbe divenuto il primo numero di Tales of Wonder, che apparve nelle edicole nel giugno 1937: costava uno scellino, ed aveva 128 pagine nel normale formato pulp. La copertina, di John Nicholson, illustrava Su-
perhuman di Geoffrey Armstrong: il primo viaggio di John Russell Fearn nel regno degli pseudonimi. Il nome era stato inventato da Gillings, perché Fearn era presente anche sotto il suo vero nome con Seed from Space. C'erano anche tutte le «grandi firme» della fantascienza britannica: John Beynon, pseudonimo o meglio abbreviazione di John Beynon Harris, il vero nome di John Wyndham, l'autore di The Day of the Triffids: il suo racconto era The Perfect Creature (spesso ripubblicato sotto titoli diversi, Una o Female of the Species); Eric Frank Russell, che cominciava allora a farsi un nome negli Stati Uniti, presentava un'altra imitazione di Weinbaum, The Prr-r-eet (proclamato dai lettori miglior racconto del numero); Festus Pragnell, un ex poliziotto, aveva Man of the Future, più Monsters of the Moon con lo pseudonimo di Francis Parnell, un altro nome inventato da Gillings, che negli anni successivi creò una certa confusione, poiché c'era anche un famoso fan britannico che si chiamava così! Il numero reggeva bene il confronto con le consorelle americane, e gli appassionati vi si lanciarono avidamente. La World's Work prese in considerazione la possibilità di farne uscire un altro numero. È un particolare sensazionale, se si pensa che nella sua serie Master Thriller, solo un altro titolo, Tales of the Uncanny, aveva avuto più di un numero (tre in tutto). Queste pubblicazioni effimere hanno creato molti problemi per i collezionisti ed i bibliografi, ed un enigma, in particolare, è incentrato sulla sfuggente personalità dello scrittore Henry Rawle. In The Multi-Man, Philip Harbottle aveva congetturato che Rawle fosse uno pseudonimo di Fearn, poiché si sa che questi aveva venduto racconti a riviste apparse successivamente ed in cui figurava il nome di Rawle. Poiché Harbottle ha autenticato un'altra firma comparsa in queste riviste (pubblicate da Gerald G. Swan) come pseudonimo di Fearn (Alex O'Pearson), con ogni probabilità Rawle era un nome vero. I suoi racconti, pubblicati a quel tempo, includevano The Head of Ekillon, e Armand's Return in Ghosts and Goblins, e Revanoff's Fantasia in Tales of Ghosts and Haunted Houses. Forse un giorno la sua identità verrà chiarita e l'enigma risolto. Dopo sei mesi, Gillings ricevette il via per produrre Tales of Wonder con cadenza trimestrale. Il secondo numero, apparso nella primavera del 1938, vantava Sleepers of Mars di John Beynon, seguito del suo popolarissimo Stowaway to Mars; William F. Temple faceva il suo debutto in fantascienza con Lunar Lilliput; il numero comprendeva anche una ristampa da Amazing, Stenographer's Hands di David H. Keller. In seguito, ogni fascicolo incluse ristampe di testi americani, che divennero sempre più nume-
rose. Nell'estate 1938, la rivista comprendeva un articolo scientifico: Can We Conquer Space? di I. O. Evans. Il quinto numero, apparso in dicembre, ne portava uno di Arthur C. Clarke: We Can Rocket to the Moon - Now!. Ormai Tales of Wonder era popolarissima. Sembrava che la Newnes non aspettasse altro, perché finalmente lanciò la rivista Fantasy nel giugno 1938, al termine di una lunga attesa. Dopo un lungo periodo di digiuno, la Gran Bretagna aveva all'improvviso due riviste fantascientifiche. Gillings pagava la narrativa attingendo alla cifra forfettaria assegnatagli da World's Work e, per forza di cose, i suoi compensi non erano elevati. Ma la Newnes, che aveva ben altre possibilità finanziarie, poteva offrire compensi maggiori, e perciò Fantasy attirò i migliori autori inglesi. Potete rendervi conto come Gillings venisse trattato piuttosto male da World's Work. Se la Newnes avesse lanciato Fantasy tre anni prima, forse il panorama della fantascienza britannica sarebbe stato diverso. Il primo numero di Fantasy aveva un aspetto molto professionale, se si eccettua la copertina alla Frankenstein di un disegnatore della casa editrice, S. R. Grigin. Illustrava Menace of the Metal Men, di A. Prestigiacomo, che era apparso per la prima volta qualche anno prima, sull'Argosy britannica. È stato detto che il racconto venne scritto in inglese per suggerimento di Compton Mackenzie! La trama, un semplice caso di rivolta dei robot, non era nuova, ma era narrata in modo gradevole. Com'era prevedibile, erano presenti anche John Beynon, John Russell Fearn ed Eric Frank Russell, con lavori all'altezza della loro fama. Si può dire che quel numero aveva una certa tendenza verso le storie di guerra. Menace of the Metal Men presentava l'esercito in allarme, ed il racconto di Beynon, Beyond the Screen, parlava dell'arma più terribile della civiltà, «l'Annientatore di Judson» (con questo titolo, Judson's Annihilator, apparve successivamente su Amazing). C'era poi Leashed Lightning di J. E. Gurdon, esperto riconosciuto di guerra aerea. Particolarmente interessante era un articolo scientifico, By Rocket-Ship to the Planets: era scritto da P. E. Cleator, che nell'ottobre 1933 aveva fondato la British Interplanetary Society insieme con Leslie J. Johnson. Cleator aveva venduto un racconto a Wonder Stories di Hornig, ed un suo articolo, Spaceward, era stato appena pubblicato da Thrilling Stories nell'agosto 1937. Cleator sarebbe diventato probabilmente il Willy Ley inglese, se non fosse scoppiata la guerra. Anche Ley era presente con un articolo nel secondo numero... un articolo che Gillings gli aveva rimandato perché vi venissero apportate correzioni!
Fantasy era la creatura del suo direttore, T. Stanhope Sprigg, appartenente alla famiglia di quegli Sprigg che si erano fatti un nome nella letteratura e nell'editoria. Aveva diretto Airways, prima di passare nel 1934 alla Newnes con l'intenzione dichiarata di lanciare quattro riviste specializzate: Air Stories, War Stories, Western Stories e Fantasy. Le prime tre furono avviate ben presto, ma trascorsero quattro anni prima che Fantasy ricevesse il benestare. Sprigg s'interessava da tempo alla science fiction ed era certo che una rivista specializzata sarebbe stata non soltanto vitale commercialmente, ma avrebbe anche offerto l'apertura e l'incoraggiamento tanto necessari agli scrittori inglesi. Sprigg si occupava in pratica da solo delle sue quattro riviste e questo fatto, purtroppo, segnò la loro sorte. Il numero 2 di Fantasy uscì nel marzo 1939: era stata data via libera ad una cadenza trimestrale. Il numero 3 apparve in giugno: ma fu anche l'ultimo. Ormai la guerra era imminente e Sprigg, che faceva parte delle forze di complemento della RAF, venne mobilitato: le sue riviste, basate interamente su di lui, morirono con la sua partenza, ad eccezione di Air Stories che sopravvisse ancora per pochi numeri. Tales of Wonder ebbe più fortuna, e alla World's Work va riconosciuto il merito di averne continuato la pubblicazione il più a lungo possibile. Ma con le restrizioni del tempo di guerra e l'inevitabile scarsità di carta, Tales of Wonder ebbe a risentirne. Con il nono numero (dicembre 1939) le pagine scesero a novantasei, poi ad ottanta con il dodicesimo. Nella primavera del 1941 erano ridotte a settantadue, ma almeno veniva mantenuta la regolare cadenza trimestrale. Il numero successivo, però, uscì solo nell'autunno, e poi, nella primavera del 1942, apparve il sedicesimo ed ultimo. A questo punto, la World's Work soppresse la rivista, dando la preferenza a Short Stories. Gillings, nel frattempo, aveva preso ad affidarsi sempre di più alle ristampe di materiale americano, e non c'era da stupirsene, dato che molti dei potenziali scrittori inglesi erano sotto le armi. Con la fine di Tales of Wonder, il mercato per la fantascienza britannica scomparve. Fortunatamente, la stasi non durò troppo a lungo. Dietro le quinte si svolgevano trattative che mostravano l'intenzione di creare altre riviste di science fiction: la continuazione della storia, tuttavia, rientra a buon diritto nell'ambito del prossimo volume. L'autore britannico William Passingham, i cui titoli di merito consistevano principalmente nei romanzi Atlantis Returns e The World Behind the Moon, pubblicati a puntate in Modern Wonder, interessò la World Says Ltd., una società editrice, perché
producesse una rivista di fantascienza nel 1939. Si rivolse a John Carnell, e vennero tenute due riunioni, nell'ottobre 1939 e nel gennaio 1940. Gli accordi finanziari ed editoriali furono conclusi nonostante lo scoppio della guerra, e Carnell venne nominato direttore, con l'impegno di far uscire in marzo la rivista, che si sarebbe chiamata New Worlds. Venne preparato un numero che includeva addirittura una «stella» come Robert Heinlein; e poi, una settimana prima della procedura finale, saltò fuori un inghippo. All'improvviso la World Says Ltd. si mise in liquidazione, e l'editore ritornò al natio Canada. New Worlds era nata morta, e avrebbe dovuto attendere fino al 1946, prima che Carnell potesse darle la sculacciata che l'avrebbe riportata in vita. I fan britannici, comunque, potevano acquistare la produzione americana in tutte le sue varie forme, sia nelle edizioni originali importate, sia nelle ristampe che cominciarono ad apparire, per un'ironia della sorte, proprio mentre la guerra liquidava Fantasy. La maggiore di queste società specializzate in ristampe era l'Atlas Publishing & Distributing Company, che aveva importato moltissime testate americane prima della guerra, e che nell'agosto 1939 cominciò a stampare un'edizione britannica di Astounding. Non corrispondeva esattamente all'edizione americana, e via via la disparità crebbe. Di solito l'Atlas ometteva uno o due racconti, e ridisponeva il resto del materiale. Certe rubriche vennero escluse completamente, e sostituite da pubblicità locale. Comunque, per coloro che non potevano acquistare l'originale, era un sano surrogato. Un'altra società del genere era la Gerald G. Swan Ltd., di Marylebone (Londra). Pubblicava diverse riviste di fumetti, come Topical Funnies e Bitz and Pieces. Nel 1942, mentre Tales of Wonder esalava l'ultimo respiro, la Swan ebbe l'idea di produrre una serie di piccole riviste, Yankee Shorts, cominciando con Romance Shorts, cui seguì Mystery Shorts. Il terzo numero della serie fu Yankee Science Fiction, e per dargli un'aria di autenticità, portava in copertina l'indicazione del prezzo in dieci centesimi, e sul retro quello di tre pence. Aveva il tipico formato pulp, e comprendeva solo trentadue pagine, con quattro racconti, tutti ripresi da Science Fiction Quarterly dell'estate 1940. L'esperimento venne ripetuto con i numeri 11 e 21 della serie, mentre il 6, il 14 e il 19 furono Yankee Weird Shorts. Poi la Swan cominciò a pubblicare di tanto in tanto numeri di Weird Tales, Future e Science Fiction, e continuò per tutta la durata della guerra. Il formato mediocre e le scadenti
illustrazioni, opera di un disegnatore interno sovraccarico di lavoro, impedirono alle riviste di affermarsi: e così finirono per scivolare nell'oblio. Con la conclusione vittoriosa del conflitto (maggio 1945), la Gran Bretagna cominciò ad avviarsi verso la normalità, ed in prima fila nell'elenco delle «cose da fare», per John Carnell, c'era l'impegno di lanciare una rivista di fantascienza. Le sue iniziative e quelle di Walter Gillings verranno esaminate nel prossimo volume della serie. Torniamo ora negli Stati Uniti del 1938: la guerra, là, era lontana ancora quattro anni. 3. Moltiplicazione Proviamo a seguire il nostro ipotetico appassionato mentre torna all'edicola nell'estate del 1938. Avrebbe trovato Astounding di luglio, con il suo fausto contenuto (di cui ci siamo già occupati), ed Amazing di agosto (il secondo numero diretto da Palmer). Weird Tales del luglio 1938 avrebbe attirato il suo sguardo: in copertina spiccava l'illustrazione di Virgil Finlay per Spawn of Dagon di Henry Kuttner, e nell'indice figurava il superlativo He That Hath Wings di Edmond Hamilton, che a mio giudizio è il suo miglior racconto ed una delle più grandi opere di fantasy mai scritte. Thrilling Wonder di agosto presentava testi di Ray Cummings, Henry Kuttner, Gordon A. Giles e persino Ray Palmer. Le quattro riviste sarebbero costate ottanta centesimi al nostro fan. Poi, ad occhi sbarrati, egli si sarebbe affrettato a pagare altri quindici centesimi per acquistare Marvel Science Stories, la prima rivista nuova apparsa dopo sette anni. A parte le pubblicazioni semiprofessionali o derivate dal cinema, dalla radio e dalla televisione di cui si è detto, Marvel era effettivamente la prima rivista fantascientifica americana nuova, da quando Miracle Science & Fantasy Stories aveva fatto una breve apparizione nel 1931. Marvel era un Red Circle Magazine; queste riviste si vedevano comunemente nelle edicole, e tra le altre vi erano Real Sports, Top-Notch Detective e Adventure Trails. Data la popolarità di Astounding e Thrilling Wonder, non fu una sorpresa che anche quella casa editrice entrasse nel campo. Il primo numero recava la data dell'agosto 1938: il direttore era Robert O. Erisman, e l'editore era la Western Fiction Publishing Co. Inc, la cui sede centrale si trovava nello stesso palazzo di Chicago da cui la Teck aveva pubblicato Amazing: 4600 Diversey Avenue.
L'«erotismo» delle illustrazioni di Marvel oggi fa sorridere. Questa, anonima, apparve sul primo numero (ottobre 1938). Il romanzo principale era Survival di Arthur J. Burks, uno scrittore dei pulps particolarmente prolifico in molti campi. Raccontava come, per salvarsi da un'invasione, un gruppo di persone si avventurava sottoterra e ricavava da questo ambiente tutto ciò che era necessario per sopravvivere. Ben presto fu acclamato come uno dei migliori romanzi dell'anno. Non era una cosa da poco, considerando la concorrenza di Astounding. C'erano racconti di Stanton Coblentz, Henry Kuttner, e di due nomi nuovi, James Hall e Robert O. Kenyon. Kenyon scriveva per le riviste poliziesche della Marvel, e quindi si poteva pensare che fosse un giallista trasformato in autore di fantascienza. A quell'epoca, fu un bene che l'illusione reggesse, perché i racconti furono accolti in modo poco lusinghiero. In realtà, erano entrambi pseudonimi di Henry Kuttner; e anche il racconto pubblicato con il suo vero nome fu molto criticato. Non era direttamente colpa di Kuttner. L'editore di Marvel, Martin Goodman, e il direttore, Erisman, avevano deciso di dare un nuovo «orientamento» alla fantascienza, rendendola più piccante. Era stata una caratteristica delle storie dell'orrore, fin da quando era apparso, nel 1932, Dime Mystery Magazine delle Popular Publications. La Western pubblicava un suo Mystery Tales, che poneva in risalto tanto l'aspetto sadico che l'orrore, e Kuttner aveva venduto vari racconti alla rivista. Ora gli veniva chiesto d'includere lo stesso genere di scene nelle sue storie fantascientifiche, come Dictator of the Americas, The Dark Heritage e The Time Trap
(quest'ultimo apparso nel numero di novembre). Secondo i criteri odierni, di sesso ce n'era ben poco, ma le critiche fioccavano, come esemplifica questa lettera: «... Stavo per scrivervi una lettera di congratulazioni, quando ho posato gli occhi su The Time Trap di Kuttner. Posso dire soltanto "PER FAVORE, in futuro, buttate fuori dalla rivista simile robaccia"» (6). Non era giusto nei confronti di Kuttner: però il fatto lasciò per parecchio tempo una macchia sul suo nome agli occhi dei fan. Ma in generale i lettori di Marvel non avevano nulla contro la rivista, ed il successo del primo fascicolo fu superato solo da quello del numero due, uscito in novembre. Comprendeva l'ottimo seguito di Survival di Arthur Burks, Exodus, e The Dead Spot di Jack Williamson, e aveva una copertina di Frank R. Paul: fu accolto trionfalmente. Tuttavia, la rivista non si assestò secondo il ritmo bimestrale prestabilito, poiché il terzo numero, che comprendeva il superbo After World's End di Williamson, apparve soltanto nel febbraio 1939. Nel frattempo Marvel aveva acquisito una sorella, Dynamic Science Stories, uscita appunto all'inizio della tendenza a creare riviste gemelle.
Talvolta, le illustrazioni di Marvel assumevano una punta sadica. Questa, anch'essa anonima,
apparve sul numero del dicembre 1939. L'intenzione di Dynamic era di pubblicare testi più lunghi, lasciando a Marvel i racconti brevi. Il primo numero, datato febbraio, comprendeva The Lord of Tranerica di Stanton Coblentz, che si prestava ad una tipica copertina di Frank Paul. Il resto, a parte una «vignetta» di Nelson Bond (sotto lo pseudonimo di Hubert Mavity), intitolata The Message from the Void, non era nulla di straordinario. Il secondo numero (aprile 1939) includeva un romanzo di Eando Binder, il quale, più della maggior parte degli autori di quell'epoca, riusciva a mantenere una prolifica ubiquità senza sacrificare troppo la qualità. Poi, Dynamic non uscì più: quasi tutto il materiale che non era stato utilizzato fu pubblicato da Marvel. La sua fine non fu pianta, anzi passò inosservata nell'improvvisa fioritura di nuovi periodici. Marvel non era stata l'unica rivista nuova del 1938, ma fu la più fortunata. Il mese di maggio aveva visto la pubblicazione dell'unico numero di Captain Hazard dell'editore A. A. Wynn. Il romanzo principale, Python Men of Lost City di Chester Hawks, era un tentativo di creare una rivista intorno ad un personaggio centrale, un po' come Doc Savage: ma non ebbe buon esito. Quando il 1938 lasciò il posto all'anno nuovo, i cannoni fantascientifici cominciarono a sparare. Nel solo anno 1939 apparvero nove riviste nuove. Nove... quasi il doppio di quelle esistite in precedenza. E di queste nove, ben cinque uscirono nei primi tre mesi. Inoltre, sei erano riviste sorelle di testate già esistenti, e la prima a partire fu la Standard Magazines con Startling Stories. Thrilling Wonder Stories aveva molto successo, e nel fascicolo del febbraio 1938 Weisinger chiese ai lettori pareri e proposte su una eventuale rivista sorella. Poiché a quell'epoca Marvel doveva ancora apparire, quello fu il primo preannuncio d'una pubblicazione nuova. I lettori furono pressoché unanimi nell'approvare, e molti chiesero che la seconda testata venisse pubblicata nel vecchio formato grande. Questo non avvenne, ma nel gennaio 1939 apparve Startling Stories: aveva 132 pagine e formato pulp. La linea editoriale seguita era di pubblicare un romanzo ed una ristampa «classica». Dopotutto, la Standard aveva acquistato i diritti di Wonder Stories, e aveva a sua disposizione tutti i numeri fino dal giugno 1929. Dato che negli Anni Trenta erano entrati in scena molti lettori nuovi, si trattava di un ricco filone da sfruttare.
Per il primo numero, Weisinger aveva acquistato The Black Flame di Stanley G. Weinbaum. Seguito del romanzo breve Dawn of Flame, era lungo il doppio dell'originale. Dawn of Flame era già apparso in una raccolta omonima di racconti, curata da Conrad H. Ruppert, e pubblicata da Raymond Palmer. Data la popolarità postuma di Weinbaum, il suo romanzo inedito (7) per il primo numero di Startling Stories era un colpo eccezionale. La prima ristampa della Hall of Fame (il Famedio, si potrebbe dire) fu The Eternal Man di D. D. Sharp, che ho incluso nella Parte Prima. La copertina anonima illustrava una scena movimentatissima di Science Island di Eando Binder. Otis Adelbert Kline aveva collaborato con un editoriale e Otto Binder con un omaggio a Weinbaum. C'era anche un articolo illustrato di Jack Binder su Albert Einstein, il primo della rubrica They Changed the World, e lo stesso Weisinger aveva fornito una serie di profili di grandi scienziati per Thrills of Science. L'accoglienza riservata a Startling fu rincuorante. Margulies e Weisinger avevano avuto il buon senso di fare una rivista diversa da Thrilling Wonder, che continuò a pubblicare un assortimento di racconti e romanzi brevi. Su Startling, i romanzi erano inizialmente di 150-200 cartelle dattiloscritte, e questo lasciava spazio per poco più della ristampa, le rubriche e alcuni bozzetti. Anche la scelta delle ristampe era saggia: il primo anno vennero riesumati due racconti di Weinbaum, incluso il leggendario A Martian Odyssey. Ma la Standard non si fermò qui. Poiché Startling appariva alternativamente a Wonder, con scadenza bimestrale, venne introdotta una nuova testata da pubblicare con lo stesso ritmo alternativo rispetto a Thrilling Mystery. Il primo numero di Strange Stories uscì nel febbraio 1939: presentava testi di tutti gli autori preferiti di Weird Tales: Robert Bloch, August Derleth, Mark Schoerer, Otis Adelbert Kline, Henry Kuttner e Manly Wade Wellman. Anzi, Bloch, Derleth e Kuttner diedero la preferenza a questa rivista, ed era difficile trovare un numero che non contenesse almeno uno dei loro racconti, anche se sotto pseudonimo. Nacquero così gli alter ego di Bloch (Tarleton Fiske), di Kuttner (Keith Hammond) e di Derleth (Tally Mason). Strange Stories era una chiara imitazione di Weird Tales. Certo, non si trattava di una autentica rivista di fantascienza, ma questo non basta ad escluderla dalla nostra panoramica. (Come vedremo, quasi tutti gli editori che avevano una rivista di science fiction pubblicavano anche una testata
gemella dedicata al «bizzarro»). Strange Stories visse meno della sua compagna, Thrilling Mystery, che a sua volta divenne irregolare dopo il novembre 1939 e chiuse i battenti nel settembre 1942. Finché durò, tuttavia, Strange fu una rivale di Weird Tales, ormai avviata verso una fase cruciale della sua lunga storia. A partire dal 1924 era stata diretta con efficienza (anche se in modo un po' disuguale) da Farnsworth Wright. Nel gennaio 1939, però, la rivista venne venduta alla Short Stories Inc, che aveva sede a New York. Wright si trasferì da Chicago insieme con la rivista, ma la sua salute era già in declino, e non ce la fece a continuare. Si dimise dopo il numero del marzo 1940 e poco dopo morì, a soli cinquantadue anni. La scelta cadde su Dorothy Mcllwraith, una signorina di mezza età che aveva diretto Short Stories. Per quanto dirigesse Weird Tales con competenza, dopo l'abbandono di Wright s'era chiusa innegabilmente un'epoca. Solo pochi anni prima - nel 1936 e nel 1937 - due dei suoi più grandi autori, Robert E. Howard e H. P. Lovecraft erano morti (il primo suicida) e un altro dei preferiti, Clark Ashton Smith, aveva virtualmente smesso di scrivere. Altri grandi nomi, per giunta, apparivano meno di frequente, e quindi la Weird Tales rimasta alla Mcllwraith era già l'ombra di se stessa. Dal nostro punto di vista possiamo osservare che, mentre Wright aveva pubblicato regolarmente anche racconti di science fiction, questo tipo di narrativa divenne molto raro, e furono soprattutto Edmond Hamilton ed in seguito Stanton Coblentz, a tenerne alta la bandiera. Era il momento ideale per Strange Stories: poteva sferrare il colpo e impadronirsi del trono della fantasy. Ma non ci riuscì. Durò solo tredici numeri e si estinse nel gennaio 1941. Perché? Non c'era mercato per il genere? Oppure i lettori erano troppo affezionati a Weird Tales? La spiegazione sta nel fatto che Strange Stories imitava troppo Weird Tales, e di Weird Tales poteva essercene una sola. Mentre la Standard aveva compiuto una scelta saggia con Startling, con Strange aveva commesso un errore. (Oggi, è ricordata soprattutto per la serie di Henry Kuttner sul principe Raynor, che durò per due soli racconti). L'uomo che operò la scelta giusta, per quanto riguardava la fantasy, fu invece John Campbell. Il mese dopo l'uscita di Strange Stories, irruppe sulla scena la compagna di Astounding, intitolata Unknown. Fu una autentica nova, e contribuì allo sviluppo della fantasy. Unknown si accingeva a fare per il fantastico ciò che Astounding aveva realizzato per la fantascienza. La più evidente differenza tra la narrativa di Weird Tales e quella di Unknown stava nella mentalità. Quasi sempre,
Weird Tales presentava narrativa macabra e dell'orrore: il suo scopo era di spaventare e angosciare, e attribuiva molta importanza al bizzarro. Unknown, invece, trattava la fantasy come la realtà quotidiana; e sebbene pubblicasse talvolta anche vicende del terrore, è la sfumatura umoristica che la pervadeva a renderla memorabile. Era il tipo di narrativa resa popolare da Thorne Smith (1893-1934) nella sua serie Topper. Le storie di Unknown non erano mai complicate: al contrario, gli autori si limitavano a proporre una premessa fondamentale - E se...? - e sviluppavano le loro vicende in modo logico. I risultati furono, più che fenomenali, sbalorditivi. Unknown pubblicò senza dubbio la più grande raccolta di vicende di fantasy mai prodotte da una sola rivista. Naturalmente, fu tanta manna per chiunque sapesse mescolare l'humor alla fantasy, e di conseguenza molti autori dimostrarono nelle sue pagine il loro vero valore. L. Sprague de Camp, L. Ron Hubbard, Fritz Leiber (le cui storie del Grey Mouser, rifiutate da Weird Tales, videro la luce qui), Nelson Bond, Henry Kuttner, Theodore Sturgeon, Anthony Boucher, Fredric Brown, H. L. Gold e Malcon Jameson, in particolare, dimostrarono la loro capacità di creare gemme di prim'ordine. E c'erano in serbo altre sorprese. Norwell Page, uno dei più noti autori dei pulps, che sfornava racconti a velocità incredibile e creava le vicende principali per la rivista The Spider della Popular, apparve con due ottimi romanzi imperniati sulla leggenda del Prete Gianni: Flame Winds e Sons of the Bear-God; e Manly Wade Wellman, considerato finora un buon autore di vicende spaziali, ma non di primo piano, produsse un racconto agghiacciante e memorabile su Edgar Allan Poe, When It Was Moonlight. Gli inglesi dovrebbero essere fieri del fatto che il romanzo principale del numero d'esordio fosse di Eric Frank Russell. Sinister Barrier era stato presentato ad Astounding, e restituito per una nuova stesura. Russell evidentemente ci riuscì così bene che lasciò sbalordito persino Campbell. In quel tempo, Campbell pensava di creare una rivista di fantasy, e Sinister Barrier gli parve un'occasione unica per lanciarla. Russell adottò una delle convinzioni di Charles Fort, secondo cui noi siamo proprietà di creature aliene, e scrisse quello che oggi è considerato un classico. Nel romanzo, i terrestri scoprono d'essere veramente proprietà degli alieni, e danno inizio ad una battaglia disperata per conquistare la libertà. Fin dal primo numero, acquistare Unknown divenne un obbligo per gli appassionati sia della fantasy che della fantascienza, poiché comprendeva molte vicende di science fantasy: una delle migliori è Darker Than You
Think di Jack Williamson (dicembre 1940), con il suo approccio «scientifico» nei confronti della licantropia. Subito dopo Unknown apparve Fantastic Adventures, come compagna di Amazing. Il primo numero reca la data del maggio 1939. Fantastic arrivò troppo poco tempo dopo Unknown per essere considerata un'imitazione, ma senza dubbio l'uscita della nuova testata di Campbell indusse la ZiffDavis ad affrettarsi. Palmer afferma: «Abbiamo innalzato la narrativa fantastica al livello delle riviste di qualità, pur conservando il fascino del campo pulp» (8). È un'affermazione strana, vorrete ammetterlo, da parte di un direttore di pulps, sostenere che gli stessi pulps e la qualità non possano andare insieme. Comunque, Fantastic Adventures aveva un suo fascino. Come equivalente di Unknown per un pubblico giovanile era soddisfacente, e sebbene Palmer non decidesse mai se dare la prevalenza a science fiction o a fantasy, la rivista includeva molti ottimi racconti. Con il passare degli anni, la sua qualità superò quella di Amazing, e durante il «periodo Shaver» (ne parleremo più avanti), Fantastic finì per diventare un porto di salvezza. Il primo numero non era spettacolare come quello di Unknown. C'era narrativa di second'ordine a firma di Eando Binder, Harl Vincent, A. Hyatt Verrill, Ross Rocklynne e Frederic A. Kummer, tra gli altri, oltre ad un fumetto, Ray Holmes, Scientific Detective, il cui autore ebbe il buon senso di serbare l'anonimato. Tuttavia, ottenne un certo successo tra i seguaci di Amazing. Senza dubbio, la cosa migliore era la controcopertina di Frank R. Paul che raffigurava «l'uomo di Marte». L'illustrazione era accompagnata da un articolo esplicativo, che dimostrava ancora una volta la versatilità di Paul. Lo aiutava il formato grande di Fantastic, che offriva più spazio per le illustrazioni delle copertine e dell'interno. Nel marzo 1939 entrò in campo un nuovo editore: la Blue Ribbon Magazines of Massachusetts, che aveva sede in Hudson Street, a New York. Ormai il successo di Amazing, sotto la guida di Palmer, e di Marvel, dava da pensare agli editori dei pulps, i quasi si resero conto che era giunto il momento di saltare sul carro della banda. Perciò la Blue Ribbon sfornò Science Fiction, e come direttore assunse Charles D. Hornig, che ormai era un «vecchione» di ventidue anni. Science Fiction ebbe un lancio favorevole, nonostante la mediocre copertina di Frank R. Paul, con nomi come Edmond Hamilton ed Amelia Reynolds Long che trasportavano momentaneamente i lettori ai tempi di Wonder Stories. Ripensandoci oggi, forse sarebbe stato bene che i ricordi
restassero nel passato, poiché i racconti erano di modesta qualità. Il primo numero, comunque, ricevette molti elogi. Un giovane di diciotto anni, che si chiamava Ray Bradbury, scrisse: «... non lasciate degenerare la rivista nella categoria dell'asilo... fatela evolvere insieme ai gusti degli appassionati. Se le altre riviste vogliono rivolgersi ai bambini, lasciatele fare... non acquisiranno un posto nel famedio della science fiction, come invece farete certamente voi, se continuerete anche in futuro a realizzare le vostre idee.» (Hornig rispose): «Io cerco di rendere la rivista attraente anche per le menti mature, e perciò evito le fiabe illogiche» (9). Evidentemente, Hornig si faceva beffe della linea editoriale di Palmer, e forse anche di quella di Weisinger. Ma era giusto, se si pensa che gran parte del materiale di Hornig proveniva da autori che erano le colonne di Palmer e di Weisinger? Questo fatto era celato dagli innumerevoli pseudonimi, i quali nascondevano anche un altro particolare: gli autori che Palmer pagava un centesimo a parola vendevano a Hornig per mezzo centesimo. Tra gli altri c'erano John Russell Fearn, comparso come John Cotton, Ephriam Winiki e Dennis Clive nel primo numero, e che in seguito sarebbe apparso anche come Dom Passante; Edmond Hamilton, che firmava Robert Castle; Henry Kuttner, come Paul Edmonds; ed Eando Binder (incluso Earl), come John Coleridge. Il sistema era ideato da Julius Schwartz, agente degli autori, e gli pseudonimi erano di solito inventati dal direttore, Hornig. Quando venivano usati i veri nomi, il compenso saliva ad un centesimo per parola. Binder apparve con il suo nome riconosciuto nel secondo numero, con un romanzo breve, Where Eternity Ends, svelto e ben scritto, ricordato ancora oggi. Negli Anni Cinquanta, fu ripubblicato in volume da un editore australiano. Binder aveva scritto anche un articolo, A Vision of Possibility, che ispirò a Paul una copertina affascinante, più o meno come procedevano ad Amazing le illustrazioni di quarta di copertina, mentre le tipiche copertine «mutanti» di Campbell erano una specialità di Astounding. Dopo i primi due numeri, Science Fiction cominciò a declinare. Ovviamente, con l'ampliarsi del campo, gli scrittori ed i loro agenti avevano a disposizione un mercato più vasto, e puntavano sulle riviste che pagavano meglio. Hornig era stato legato a Wonder Stories, famigerata per la lentez-
za dei pagamenti. Quando la cosa cominciò a ripetersi con Science Fiction, l'afflusso dei manoscritti degli autori maggiori cominciò a diminuire. Di conseguenza, gli autori che trovavano sempre più difficile mantenersi all'altezza, dato che la loro narrativa era ormai antiquata, ebbero un nuovo mercato: scrittori come Ed Earl Repp, Harl Vincent, Stanton Coblentz e persino Ray Cummings, che sembrava in preda ad una crisi di submicroscopia. Perciò Science Fiction e molte altre riviste avevano di rado la possibilità di pescare qualcosa di meglio del materiale di second'ordine, e benché talvolta la narrativa di second'ordine degli autori di prim'ordine, rifiutata dai mercati migliori, fosse pur sempre superiore alla media degli altri scrittori, trovavano spazio molti lavori mediocri. Nell'estate del 1939 il boom parve declinare per un poco, ma con l'avvicinarsi dell'autunno l'Effetto Valanga riprese, e con una scintilla d'originalità da parte dell'organizzazione Frank Munsey. La Munsey aveva dato l'avvio all'intero campo dei pulps oltre quarant'anni prima, e quella prima testata, Argosy, usciva ancora, sebbene pubblicasse sempre meno fantascienza. Spesso i lettori ricordavano i primi tempi di Argosy e della rivista sorella All-Story (divenuta All-Story Love, una rivista di novelle per un pubblico femminile) e rammentavano con affetto i molti racconti fantastici che avevano pubblicato. C'era una nicchia da riempire, e nel settembre 1939 la Munsey lanciò Famous Fantastic Mysteries, con l'intenzione di ristampare quei vecchi classici. In questo, la rivista fece un ottimo lavoro, sotto l'abile redazione di Mary Gnaedinger, che aveva a disposizione una vasta riserva di narrativa. Poiché l'autore più importante dei primi tempi era stato Abraham Merritt (1884-1943), scelse le sue opere per dare l'avvio al revival. Merritt lavorava ormai a tempo pieno come direttore di American Weekly, e perciò la sua produzione letteraria si era praticamente ridotta a zero, e pochi dei nuovi appassionati avevano avuto l'occasione di assaporare le sue opere. (Anche Gernsback aveva scelto Merritt quando aveva preso a ristampare romanzi su Amazing, dodici anni prima. Era stata una scelta molto azzeccata, e la seconda ristampa di Merritt si rivelò ancora una volta una mossa vincente). Il primo numero conteneva The Moon Fool, tratto da All-Story del 22 giugno 1918, e la prima puntata del seguito, The Conquest of the Moon Pool. Il secondo numero riesumò Almost Immortal di Austin Hall (AllStory, 7 ottobre 1916) e nel terzo figurava Who Is Charles Avison? di Edison Marshall (Argosy, aprile 1916), per citare solo il fior fiore delle ristampe.
Famous Fantastic Mysteries (chiamato per comodità FFM) divenne mensile dopo il secondo numero: una frequenza vantata in precedenza soltanto da Astounding, Unknown ed Amazing. Naturalmente, questo era dovuto alla consistenza finanziaria della Munsey, ma era anche un segno della sua popolarità. Di conseguenza, nel luglio 1940, uscì la rivista sorella, Fantastic Novels, per presentare le opere più lunghe complete, lasciando a FFM i testi più corti. La Gnaedinger usò un sistema ingegnoso. Dal numero del marzo 1940, FFM aveva pubblicato a puntate The Blind Spot di Austin Hall e Homer Eon Flint, un classico particolarmente entusiasmante, tratto da un Argosy del 1921. Dopo la terza puntata, la pubblicazione venne interrotta, e il romanzo fu ristampato, intero, nel primo numero di Fantastic Novels. Quanti desideravano leggerlo tutto non avevano scelta: dovevano acquistare la nuova rivista. Verso la fine dell'anno comparve, a sorpresa, una rivista sorella di Science Fiction: Future Fiction. Il direttore era ancora Charles Hornig. Interessante la genesi della testata: l'editore Silberkleit aveva incominciato la sua attività lavorando in una società di distribuzione legata a Gernsback. Quando Gernsback stava cercando una testata per il periodico che poi vide la luce con il nome di Amazing Stories, Silberkleit gli suggerì Future Fiction. Dopo tredici anni e mezzo, la testata nasceva effettivamente. Future, all'inizio, era poco più d'una copia carbone di Science Fiction. Una delle caratteristiche di Hornig era la sua abilità nel riesumare i nomi del passato. Il primo numero di Future includeva The Infinite Eye di Philip Jacques Bartel, pseudonimo di M. M. Kaplan (il cui primo racconto, One Prehistoric Night, è stato incluso nella Parte Prima), World Rehorn di J. Harvey Haggard, e The Disappearing Papers di Miles J. Breuer... tutti nomi da tempo scomparsi. Sarebbe interessante sapere se Hornig si procurò alcuni dei novantanove manoscritti che Palmer aveva rifiutato quando aveva assunto la direzione di Amazing dopo Sloane, tutte vicende che erano state scritte molti anni prima. Prima di Natale erano uscite altre due riviste, entrambe trimestrali. La prima, datata Inverno 1939, era di una nuova casa editrice, la Love Romances Inc, di New York, e si chiamava Planet Stories. La Love Romances pubblicava molte riviste, e la ragione sociale, «Romanzi d'Amore», era del tutto fuorviante. Northwest Romances, Jungle Stories e Two Complete Detective Books Magazine, per esempio, venivano tutti presentati come «A Fiction House Magazine». Il primo Planet, diretto da Malcolm Reiss, era tutt'altro che sensazionale per la parte narrativa, a parte il gradito ritorno di
autori come Laurence Manning e Fletcher Pratt. Planet pubblicava solo avventure interplanetarie, e senza dubbio tendeva verso il mercato dei giovani. Di numero in numero, la verve di Reiss cominciò a prendere il sopravvento, e la qualità migliorò, sebbene Reiss si scusasse per il materiale scadente, dicendo che era quanto di meglio aveva a portata di mano al momento di andare in macchina. Come molte altre riviste nuove, Reiss cercava di tenersi buoni gli appassionati con una rubrica di recensione dei fanzine, e la pubblicazione acquisì ben presto un seguito devoto.
Una delle «ristampe classiche» su Captain Future, dal numero della primavera 1940. L'illustrazione è di Frank R. Paul. L'altro trimestrale, Captain Future, era edito dalla solita Standard Magazines. Il luglio 1939 aveva visto la prima Convention mondiale della science fiction, tenuta a New York, cui avevano partecipato fan e professionisti. Leo Margulies vi aveva presenziato, ed era rimasto colpito dalla sincerità degli appassionati. Fu appunto alla Convention che lui e Weisinger pensarono di creare Captain Future. Poiché era una rivista che si rivolgeva ai ragazzi, c'è da chiedersi quale idea si era fatta Margulies degli appassionati di fantascienza! Captain Future, uscito per la prima volta con la data dell'Inverno 1940, doveva pubblicare ogni trimestre un romanzo d'avventure completo, che narrava la saga del comandante Curt Newton e delle sue coorti. I romanzi, all'inizio, erano tutti opera di Edmond Hamilton, a partire da Captain Future and the Space Emperor. Hamilton era un autore esperto, e per fortuna
non commise l'errore di calarsi al livello del pubblico; si astenne dalle avventure troppo per i ragazzi, nonostante le formule tipiche dei pulps su cui insisteva l'editore. I romanzi erano buone epiche spaziali. Non meno importante era il fatto che questa rivista, come Startling, pubblicava ristampe: nel caso particolare erano vicende piuttosto lunghe, che potevano venir divise in più puntate. Il primo anno vide la riesumazione di The Human Termites di David H. Keller, che risaliva a dieci anni prima. Il 1939 fu senza dubbio un anno eccezionale per la science fiction, bella e brutta. Segnò l'espansione del mercato per gli scrittori e gli illustratori, ma portò anche alla pubblicazione di molta narrativa scadente. È straordinario notare quanta parte del materiale si rivolgeva al pubblico dei giovani. Mentre Palmer, in origine, aveva deliberatamente mirato in basso, adesso tanto Planet quanto Captain Future erano a un livello anche inferiore. Anzi, la narrativa di Amazing era spesso pari, se non superiore, a quella di Science Fiction e Future Fiction. D'altra parte, Startling e Thrilling Wonder erano ancora più «avventurose» di prima, e FFM costituiva una formidabile pietra di paragone, con le sue rispettabilissime ristampe. Ma come sempre in vetta c'era Astounding; e se il 1938 era stato un anno buono, il 1939 fu ancora meglio. Fu una fortuna per Campbell, perché, nel suo desiderio di essere originale, rifiutava una grande quantità di materiale. Via via che il mercato della fantascienza si allargava e gli autori rifiutati si accorgevano che potevano piazzare facilmente le loro opere altrove, non perdevano più tempo con Astounding. Per questa ragione, Campbell doveva assolutamente trovarsi una scuderia d'autori tutti suoi, e fu appunto ciò che fece. Confrontiamo il suo secondo anno (ottobre 1938-settembre 1939) con il primo (escludendo Unknown). In ottobre del 1938, presentava il primo racconto della serie di L. Sprague de Camp imperniata su Johnny Black, l'orso intelligente - The Command - che venne votato come il migliore di quel numero. Il dicembre del 1938 vide il ritorno di Lester del Rey con Helen O'Loy, la storia di un robot femmina particolarmente emotivo. Nello stesso numero, le «thought variants» di Tremaine venivano sostituite dalle vicende «Nova» di Campbell, a partire da A Matter of Form di H. L. Gold. Fu questa la prima apparizione di Gold sotto il suo vero nome, anche se nel 1934 aveva pubblicato numerosi racconti con lo pseudonimo di Clyde Crane Campbell. Il romanzo a puntate Cosmic Engineers di Clifford Simak cominciò nel
numero di febbraio del 1939, seguito in aprile da One Against the Legion di Jack Williamson. Con questi due romanzi, la space opera di Astounding arrivò alla fine, se si eccettuano i testi che E. E. Smith avrebbe fornito in seguito. John Berryman apparve per la prima volta in maggio con Special Flight; ma più importante fu il numero di luglio con Black Destroyer, che parlava di un felino alieno, Coeurl, e dei suoi tentativi d'impadronirsi di un'astronave terrestre (10). Il racconto segnava l'esordio di A. E. van Vogt sulle riviste fantascientifiche. Lo stesso numero presentava Trends, il primo racconto venduto da Isaac Asimov ad Astounding, anche se in precedenza era apparso Marooned off Vesta (Amazing, marzo 1939). Trends era notevole per la sua premessa: in futuro vi sarebbero state resistenze sociali ai viaggi spaziali. Un mese dopo, il numero di agosto ci dava il primo racconto di Robert Heinlein, Life-Line (la vicenda non troppo memorabile d'una macchina capace di predire la durata della vita d'un uomo), e quello di settembre ci portava le bizzarre avventure di alcuni esseri eterei nel primo racconto di Theodore Sturgeon, Ether Breather. In due anni, Campbell aveva rastrellato quelli che sarebbero diventati i più grandi nomi della science fiction: L. Sprague de Camp, Lester del Rey, E. E. Smith, Eric Frank Russell, Isaac Asimov, Robert Heinlein, A. E. van Vogt e Theodore Sturgeon, oltre a Clifford Simak e a Jack Williamson. Per cominciare bene il suo terzo anno, a partire da ottobre prese ad uscire, in quattro puntate, Grey Lensman di E. E. Smith. 4. Alta marea All'inizio del 1940 continuò il fenomeno della moltiplicazione dei pulps di fantascienza; ma quasi sempre si trattava di riviste gemelle. Charles Hornig si ritrovò con una terza rivista, Science Fiction Quarterly: un numero di prova uscì con la data dell'estate 1940. Dava la preferenza ai romanzi lunghi, come Startling, e nel primo numero c'era una ristampa, The Moon Conquerors di R. H. Romans (da Wonder Stories Quarterly dell'inverno 1930). Evidentemente l'idea delle ristampe prendeva piede rapidamente. Il febbraio e il marzo 1940 videro la nascita di altre due riviste, Astonishing Stories e la sua compagna Super Science Stories. Le due testate si alternavano, e per tre anni furono tra le pubblicazioni più puntuali sul mercato. La pagina dell'indice informava che l'editore era la Fictioneers Inc: si
trattava però semplicemente di una sussidiaria della Popular Publications. La Popular, stranamente, non aveva riviste di fantascienza: si era fatta un nome con le edizioni sesso-sadismo iniziate più o meno con Dime Mystery Magazine (1932) e sviluppatesi con Horror Stories e Terror Tales. Un attivo appassionato della science fiction, Frederik Pohl, si era rivolto al Red Circle nel tentativo di assicurarsi la direzione di Marvel. Nel 1940 la rivista era ormai in declino, ma Erisman mise Pohl in contatto con l'editore della Popular, Henry Steeger. Pohl uscì da quel colloquio con la nomina a direttore delle due nuove riviste. Era mercoledì 25 ottobre 1939. Pohl aveva vent'anni meno un mese, ed era il più giovane direttore al primo impiego, dopo Hornig. Pohl, però, era eccezionalmente maturo, in quanto ad idee e progetti. Le due riviste erano del formato tipico: Astonishing era riservata ai testi brevi, Super Science ai romanzi completi (per un breve periodo, anzi, venne ribattezzata Super Science Novels Magazine). Il primo numero di Astonishing mostrava una netta inclinazione verso l'avventura interplanetaria: conteneva Chameleon Planet di J. R. Fearn e White Land of Venus di Frederic Kummer. Isaac Asimov era presente con Half-Breed, e c'erano anche Henry Kuttner e Manly Wade Wellman, sia pure sotto pseudonimi. Super Science Stories aveva in apertura World Reborn di Thornton Ayre (era sempre Fearn, che in tal modo segnava a suo vantaggio un «doppio» fuori del comune nelle copertine) e conteneva anche racconti di Raymond Gallun, Frank Belknap Long, Ross Rocklynne ed altri. Va ricordata in particolare la prima apparizione di James Blish, allora diciottenne, con Emergency Refuelling. Prima della fine del 1940, le due riviste avrebbero incluso opere di L. Sprague de Camp, Robert Heinlein e Clifford Simak, oltre ad Asimov. In molti casi, si trattava di lavori rifiutati da Campbell, e tuttavia molto buoni. Unite questo al fatto che Astonishing costava solo dieci centesimi e non vi sorprenderà che raggiungesse un vasto mercato. La Popular stampava le riviste di Pohl sotto una diversa ragione sociale soprattutto perché era disposta a pagare solo mezzo centesimo a parola i testi di fantascienza, mentre per le sue altre pubblicazioni pagava un centesimo. Tuttavia, alla fine del 1940, aveva aumentato il budget di Pohl, permettendogli di pagare premi per i racconti di maggior successo. La Popular Publications cominciò ad espandersi. Nel 1935 aveva rilevato Adventure dalla Munsey Corporation, e insieme alla rivista aveva acquisito il direttore, Howard Bloomfield. Nel 1941, rilevò anche le altre testate.
Argosy fu trasformata in una rivista su carta patinata, e smise di pubblicare fantascienza. In questo modo, la Popular entrò in possesso di FFM e di Fantastic Novels, e affidò le pubblicazioni fantascientifiche alla supervisione del suo direttore, Alden H. Norton. Per le riviste, era quasi l'alta marea; il campo fantascientifico aveva raggiunto il livello di saturazione. Dovevano apparire, però, ancora quattro testate, e la prima di esse portò il ritorno in campo di F. Orlin Tremaine. Tremaine (1899-1956) si era riposato a lungo, dopo l'avventura con la Street & Smith, e si era accontentato di produrre qualche opera narrativa, inclusi racconti di science fiction come True Confession (Thrilling Wonder, febbraio 1940), una storia di robot particolarmente viva, e come Golden Girl of Kalendar, per Fantastic Adventures. Ora, sotto gli auspici della H-K Publications, divenne direttore di Comet Stories, apparsa nel dicembre 1940. Ormai gli appassionati di fantascienza stavano diventando schizzinosi nei confronti delle pubblicazioni nuove e, sebbene il nome di Tremaine meritasse più di una semplice occhiata curiosa, il contenuto doveva essere speciale per indurre i lettori a sborsare altri quindici centesimi. Tremaine non produsse quel qualcosa di speciale, anche se il secondo e il terzo numero cominciavano ad apparire più promettenti. Comet pubblicava opere di tutti gli autori, e non aveva una linea editoriale ben definita, né una sua particolare scuderia di scrittori. Fu in questa rivista che Sam Moskowitz esordì con The Way Back nel numero di gennaio 1941, sebbene fosse presente anche in Planet Stories dell'Inverno 1941. Purtroppo, proprio mentre Comet cominciava ad imporsi, Tremaine mollò. La H-K Publications non forniva il danaro per pagare gli autori ed i vincitori dei concorsi, e Tremaine non voleva andarci di mezzo. Comet fu soltanto un effimero sprazzo di luce, e in seguito Tremaine non tornò più a dirigere riviste fantascientifiche. Fece soltanto una breve ricomparsa verso la fine degli Anni Quaranta con una serie di articoli su Thrilling Wonder. Morì lunedì 22 ottobre 1956, lasciando l'Astounding del 1934-37 quale monumento della sua attività. Con le poche riviste venute poi, i problemi finanziari si fecero anche più acuti. Ai tempi di Wonder e di Amazing non era raro che gli autori dovessero attendere a lungo il compenso, dopo che un racconto era stato pubblicato. Astounding della Street & Smith divenne una sorte di Paese di Bengodi, poiché pagava regolarmente all'accettazione. Neppure gli editori più grossi, come Standard, Ziff-Davis e Popular, facevano difficoltà. Ma via via che la fantascienza si espandeva ed entravano in campo gli editori più
piccoli, i problemi crescevano. Il fondo venne toccato quando Donald Wollheim convinse Jerry Albert dell'Albing Publications a lanciare Stirring Science Stories e Cosmic Stories, rispettivamente nel febbraio e nel marzo 1941. Il guaio era che gli editori non avevano capitali sufficienti per pagare tutto subito. Albert diede perciò disposizione a Wollheim di procurarsi materiale, con l'intesa che il pagamento ci sarebbe stato se le riviste avessero avuto successo; un rischio che avrebbe potuto portare alla rapida fine delle pubblicazioni. Wollheim fu però fortunato giacché, come membro della società dei fan newyorchesi, i Futurians, aveva a portata di mano un intero clan di autori in boccio, sin troppo felici di vedere stampati i loro racconti, anche se il compenso era quasi nullo. Di conseguenza, quasi tutti i numeri delle due riviste erano formati pressoché interamente da questo gruppo, i cui membri pubblicavano sotto una quantità di pseudonimi. E così furono lanciati molti autori destinati a diventare poi famosi. L'esempio migliore è quello di Cyril Kornbluth (1923-1958). Kornbluth aveva esordito su Astonishing dell'aprile 1940 in collaborazione con Richard Wilson, sotto lo pseudonimo di Ivar Towers. La sua prima apparizione da solo si ebbe in Super Science Stories del maggio 1940, con King Cole of Pluto, sotto il nome di S. D. Gottesman. Gottesman venne usato soprattutto, comunque, per firmare le collaborazioni tra Kornbluth e Pohl. Con l'avvento di Stirring, egli avrebbe scritto alcune delle fantasie più originali mai pubblicate, come Mr. Packer Goes to Hell (Stirring, giugno 1941) e The City in the Sofa (Cosmic, luglio 1941). Kornbluth ebbe quattro racconti pubblicati su Stirring del giugno 1941: tutti scritti da lui solo, erano firmati rispettivamente A. Corwin, W. C. Davies, Kenneth Falconer e S. D. Gottesman. Damon Knight fece la sua prima apparizione da professionista su Stirring, nel febbraio 1941, con Resilience. Era di pochi mesi più vecchio di Kornbluth, ma sul momento non ottenne lo stesso successo. Altri membri del gruppo che contribuirono all'iniziativa dell'Albing furono James Blish, Robert Lowndes, Walter Kubilius, John B. Michel, Harry Dockweiler, Frederik Pohl ed Isaac Asimov. Secondo le previsioni generali, però, il mancato pagamento del materiale portò a malcontenti nel campo della fantasy, e i tentativi di appianare le cose compiuti da Wollheim e da Albert non servirono a nulla. Sebbene le riviste fossero superiori alla media, non riuscirono a trovare un mercato e si estinsero.
Stirring Stories merita di essere ricordata per un fatto eccezionale: era due riviste in una. La seconda metà, Stirring Fantasy Fiction, aveva un suo editoriale, un suo indice e rubriche sue. Era la sezione fantasy a contenere il materiale migliore (particolarmente memorabile The Coming of the White Worm di Clark Ashton Smith nell'aprile 1941), eppure è quasi dimenticata. Arriviamo così all'estate del 1941, il culmine delle riviste fantascientifiche pulp. In questo periodo, c'erano in edicola più testate di quante ve ne fossero mai state in precedenza. Dovevano apparire ancora una rivista americana ed una rivista originale canadese, che tuttavia meritano solo un accenno di passaggio. Marvel Stories (ormai era conosciuta con questo nome) stava affondando. Una preesistente sorella del genere weird, dal titolo Uncanny Tales, era morta nel maggio 1940 dopo dieci numeri. (Non va confusa con la canadese Uncanny Tales, che sopravvisse per ventun numeri tra il 1940 e il 1943. Sebbene fosse formata in prevalenza da ristampe tratte da fonti statunitensi, pubblicava anche materiale nuovo). Nell'aprile 1941 comparve una testata nuova, Uncanny Stories. I testi tutt'altro che sensazionali di Ray Cummings, R. De Witt Miller e F. A. Kummer ebbero un'accoglienza molto fredda. L'unica cosa interessante era Speed Will Be My Bride di David Keller, ristampato da un opuscolo edito privatamente nel 1940. Uncanny Stories sparì subito. La testata canadese era Eerie Tales, datata luglio 1941. Recava l'indicazione Volume 1, Numero 1: c'era quindi l'intenzione di continuare, tanto più che incominciava un romanzo a puntate, The Weird Queen di Thomas P. Kelley. Ma non venne mai concluso, perché Eerie chiuse i battenti. Merita di essere ricordata, tuttavia, per un racconto particolarmente profetico, The Man Who Killed Mussolini, di Valentine Worth: un monito tempestivo del fatto che l'Europa era in guerra. Sebbene gli Stati Uniti si godessero lo splendido isolamento di Roosevelt, avevano ormai i giorni contati. Nel dicembre 1941 vi fu l'attacco di Pearl Harbour, e cominciarono le restrizioni del tempo di guerra. Il razionamento della carta, dell'inchiostro e del metallo segnò l'inizio della fine per le riviste pulp, che mai più avrebbero ripreso a dominare. Perciò mandiamo il nostro lettore alla solita edicola in quell'ultima estate di pace, e vediamo quanto avrebbe speso per acquistare le riviste allora disponibili, di sola origine statunitense. C'erano in totale diciotto pubblicazioni, includendo Weird Tales ed escludendo Marvel ed Uncanny. In generale costavano quindici centesimi,
alcune costavano solo dieci, altre venti. La produzione totale di un mese corrispondeva a 3,15 dollari, una bella cifra nei tempi prebellici. Ma la marea stava calando, ed era giunto il momento delle tattiche di sopravvivenza. 5. Bassa marea L'improvvisa esplosione delle riviste nel 1939 aveva colto di sorpresa molta gente. Non vi fu un fattore preciso che portò a quella fioritura, ma ve ne sono molti che meritano di essere indicati. Scrittore e studioso, L. Sprague de Camp nel suo libro Science-Fiction Handbook (1953) indicò la trasmissione radiofonica di Orson Welles tratta da The War of the Worlds di H. G. Wells. L'adattamento di Howard Koch indusse moltissimi ascoltatori del programma del Mercury Theatre, alle 8 di sera di domenica 30 ottobre 1938, a credere che fosse veramente in atto un'invasione marziana. Quando la popolazione dell'area di New York si fu ripresa dal trauma, senza dubbio cominciò a interessarsi un po' di più al genere fantastico, e questo potrebbe aver indotto molti ad avventurarsi nel campo. Marvel ed Amazing, a quel tempo, vendevano già molto bene. Amazing aveva avuto un boom con la Fiera Mondiale del 1938, tenutasi in settembre a New York. Venne deciso di seppellire una Capsula del Tempo, simile alla pletora di materiale miscellaneo nascosta a Londra sotto l'Ago di Cleopatra. Si venne a sapere che la documentazione raccolta dalla Westinghouse includeva una copia microfilmata dell'Amazing dell'ottobre 1938: può darsi che la gente, conosciuto il particolare, si sia interessata alla rivista. Vale comunque la pena di ricordare che nel 1938 era cresciuta una nuova generazione, introdotta alla fantascienza dai genitori. Dato che vi erano due generazioni di lettori, le riviste dovevano rivolgersi tanto ai giovani quando agli adulti. L'Amazing di Sloane s'era intorpidita, in confronto all'emozionante Thrilling Wonder e alla sorprendente Astounding. È ovvio allora che, quando Palmer diede nuova vita ad Amazing, la generazione più giovane accorresse a frotte. Marvel apparve nel contempo, quando anche la generazione più vecchia cercava qualcosa di diverso. Quando le vendite di Amazing e di Marvel salirono alle stelle, e le altre riviste sfornarono gemelle redditizie, giunse per gli editori rivali il momento di saltare sul carro della banda. Ma quasi tutti coloro che entrarono tardi in campo non ebbero successo. I capitali insufficienti e la mancanza di originalità portavano a vendite scarse, e quando arrivò il razionamento della carta, la fine fu inevitabile.
Entrava in vigore la legge naturale della sopravvivenza del più forte. Lo schieramento del dicembre 1941 era già ridotto. Marvel Stories aveva chiuso i battenti con il suo nono numero in aprile, sebbene per ironia fosse uno dei migliori, con due ottimi racconti, Last Secret Weapon di Polton Cross, e The Iron God di Jack Williamson. Ma era troppo tardi. Marvel aveva perso molti sostenitori, dopo le sue promesse iniziali. Inoltre, gli editori mostravano maggiore interesse per il campo dei fumetti, che era in pieno sviluppo, e nel quale la fantascienza costituiva una parte consistente. (Ho volutamente evitato di parlare del comic, tranne quando i binari s'incrociano, soprattutto perché sono già apparse ottime opere sull'argomento, come The Steranko History of Comics di James Steranko, pubblicata nel 1970). Cosmic di Wollheim aveva chiuso, e Stirring sarebbe uscita con un altro numero soltanto nel marzo 1942, che giunse come una sorpresa, poiché molta gente era convinta che fosse già morta. Anche Comet di Tremaine era sparita, e Fantastic Novels, la compagna di FFM, era svanita dopo cinque numeri (aprile).
La copertina del numero d'esordio di Superworld Comics (aprile 1939), primo albo a fumetti di fantascienza. L'illustratore è Frank R. Paul. C'erano stati anche numerosi cambiamenti editoriali. Poiché ho appena ricordato il campo dei fumetti, non dovrebbe sorprendere sapere che molti grossi nomi stavano andando in quella direzione: in particolare Otto Binder. Né dovrebbe destare scandalo scoprire che Mort Weisinger, che aveva
incluso il primo fumetto in una rivista pulp, vi si mostrasse interessato. Era già direttore associato di College Humor dal 1939, e all'inizio del 1941 ricevette dalla National Comics l'offerta di dirigere i vari fascicoli di Superman, che avevano avuto inizio con Superman Quarterly nel maggio 1939. (Tra l'altro, i fumetti di Superman non furono i primi in questo campo. Superman Quarterly venne battuto sul tempo da Superworld Comics, illustrato dal solito Frank Paul e diretto, nientemeno, da Hugo Gernsback). Weisinger accettò, e lasciò la Standard. Venne sostituito da Oscar Jerome Friend, un autore quarantatreenne, che produceva in molti campi, soprattutto in quello dei western. Il suo contributo alla fantascienza era stato fino ad allora trascurabile, a parte poche eccezioni. Sarebbe rimasto alla Standard per tre anni, durante i quali raggiunsero... l'immaturità i famigerati editoriali firmati «Sergeant Saturn». Un altro cambiamento ebbe luogo nelle riviste della Blue Ribbon. Per tutto il 1940 l'editore Silberkleit aveva mostrato un'insoddisfazione crescente per il modo in cui Hornig si occupava delle tre riviste, e questo, con la Blue Ribbon a New York e Hornig in California, causava molti problemi. Silberkleit offrì la direzione a Sam Moskowitz, che rifiutò. In quel periodo ricevette una lettera di un fan piuttosto in vista, Robert Lowndes, il quale, su suggerimento di Donald Wollheim, aveva scritto protestando per lo stato spaventoso della fantascienza ed offrendo i suoi servigi. Dopo un colloquio, Lowndes si ritrovò direttore di Future e SF Quarterly; Hornig rimase direttore di Science Fiction, ma non per molto tempo ancora. Con il suo dodicesimo numero, e dopo il sesto di Future (il secondo di Lowndes), le due testate si fusero, sotto la direzione dello stesso Lowndes. Hornig se ne andò, e presto fu preso nel vortice della guerra. Poiché era pacifista, le autorità lo perseguitarono, e scomparve completamente dalla scena. Un cambiamento editoriale di minore importanza, avvenuto in quel tempo, si ebbe alla Popular. In novembre, Pohl retrocedette alla carica di vicedirettore, con Alden H. Norton come responsabile di tutto. Comunque, come si è già detto in precedenza, Norton era il direttore generale delle pubblicazioni fantascientifiche della Popular, e in pratica Pohl conservava le sue mansioni. Quindi, mentre l'America entrava in guerra, c'erano vive e vegete quattordici riviste, pubblicate da sette editori. (Per ricapitolare, erano: Amazing e Fantastic Adventures della Ziff-Davis; Astounding ed Unknown della Street & Smith; Thrilling Wonder, Startling e Captain Future della Standard; Astonishing, Super Science e FFM della Popular; Future, fusa con
Science Fiction, e SF Quarterly della Blue Ribbon/Columbia; Planet della Love Romances; e Weird Tales della Short Stories). Non c'era niente di speciale in nessuna di queste pubblicazioni agli occhi degli editori che, dopotutto, avevano molte altre testate, alcune delle quali assai più popolari e redditizie. Perciò era necessario che le riviste non solo andassero bene nel loro campo, ma anche nell'ambito della loro casa editrice, per poter sopravvivere. Con i razionamenti delle materie prime, gli editori dovevano concentrarsi sulle testate che vendevano di più e chiudere quelle più deboli, anche se queste sarebbero state redditizie in condizioni normali. Sia che una rivista morisse o sopravvivesse, si deve tener presente che nessuna uscì immutata da questo periodo, nessuna ne uscì indenne. All'inizio gli editori fecero ricorso a misure di tamponamento: numeri raffazzonati, meno pagine, caratteri più piccoli; e riducendo i costi in questo modo, tutte le riviste riuscirono a superare il primo anno di guerra. In effetti, apparirono con straordinaria regolarità; FFM riuscì persino ad accrescere la sua cadenza. Quando venne il colpo, fu improvviso, ed in quattro mesi altrettante testate chiusero bottega. Un semplice principio economico imponeva che gli editori con più di una testata fantascientifica lasciassero perdere quella che aveva minor successo. Nel caso della Popular la scelta non fu facile. FFM probabilmente aveva il seguito maggiore, ma a suo favore stava soprattutto il fatto che consisteva in gran parte di ristampe, molto meno costose del materiale nuovo. Alla decisione si arrivò all'inizio del 1943, quando Frederik Pohl venne chiamato a dare il suo contributo allo sforzo bellico. Pohl lasciò la Popular, e sembrò quindi il momento più opportuno per chiudere le sue due riviste. A Pohl succedette il trentunenne finlandese Ejler Jakobbson, il quale, in una lettera inviatami recentemente, ha scritto: «Le due riviste, comunque, già stavano soccombendo alla scarsità di carta dovuta alla guerra, ed il mio compito consistette esclusivamente nel chiudere. L'episodio più memorabile, per me, fu quando Fred mi consegnò un fascio di bozze parzialmente corrette, prima di andarsene. La sua ultima correzione consisteva in un cerchio tracciato a matita intorno ad un refuso particolarmente grave, e una domanda scritta in margine: "Cosa diavolo significa?"» Gli ultimi numeri di Astonishing e di Super Science recavano rispettiva-
mente la data di aprile e di maggio. Aprile vide anche l'ultima uscita di SF Quarterly. Per le stesse ragioni, la Columbia serrò i ranghi, e diede la preferenza ad altre pubblicazioni. SF Quarterly fu comunque una perdita dolorosa, poiché aveva pubblicato ottimi testi: di solito includeva un romanzo di fantascienza ed uno di fantasy in ogni numero. La rivista era servita come veicolo per gli scritti del disegnatore Hannes Bok (1914-1964): aveva pubblicato il suo primo romanzo, Starstone World, nel numero dell'Estate 1942. (Il primo racconto di Bok era apparso in Future combined with Science Fiction del febbraio 1942, ma in precedenza aveva venduto parecchie illustrazioni, realizzando per la prima volta una copertina di rivista con Weird Tales del dicembre 1939, in cui illustrava Lords of the Ice di Keller). SF Quarterly era stata anche una fonte preziosa di materiale ristampato. Silberkleit aveva acquistato i diritti di un buon numero dei primi romanzi di Ray Cummings, inclusi Tarrano the Conqueror (1925) e Brigands on the Moon (1930), che vennero ripubblicati sul Quarterly, mentre altri apparvero su Future. La perdita di SF Quarterly non sarebbe stata, forse, un colpo così duro, se Future non avesse chiuso a sua volta tre mesi dopo. Ormai non si chiamava più neppure Future, sebbene i lettori dagli occhi di lince che avevano seguito la numerazione delle annate sapessero che si trattava della stessa rivista. Future cambiò nome più volte di qualunque altra rivista, con conseguente e prevedibile confusione, soprattutto negli Anni Cinquanta. Come si è detto più sopra, la rivista di Hornig venne fusa con quella di Lowndes a partire dall'ottobre 1941, con il titolo di Future combined with Science Fiction. Un anno dopo diventò Future Fantasy and Science Fiction. Lowndes adottò il sistema usato da Wollheim in Stirring, combinando fantascienza e fantasy in un solo numero (pur non separandole, come faceva invece Mollheim). In questo periodo pubblicò alcuni ottimi racconti, come quello scritto dallo stesso Lowndes ad imitazione di Lovecraft, The Leapers, Storm Warning di Wollheim e Devil's Pawn di Damon Knight. Ma i risultati furono insoddisfacenti e Future Fantasy cambiò nome ancora una volta, dopo tre soli numeri, diventando Science Fiction Stories nell'aprile 1943. Si noti il suffisso Stories. Non era la ricomparsa di Science Fiction, ma una continuazione di Future. Tuttavia, nessun frequentatore distratto delle edicole se ne poteva accorgere, e si sperava che le vendite aumentassero. Ma la Columbia, più o meno, aveva già deciso, e prima che si potessero conoscere i risultati del cambiamento del nome, Science
Fiction Stories chiuse con il numero di luglio.
Un'illustrazione di Edd Cartier per Darker Than You Think di Jack Williamson, da Unknown, dicembre 1940. Poi toccò ad Unknown andarsene. La notizia fu un colpo per molti fan, ma si trattò di una realtà inevitabile. Le vendite andavano male, e con le restrizioni imposte alle forniture di carta, si decise di sacrificare Unknown a favore di Astounding. Unknown aveva subito parecchi cambiamenti esteriori. La prima sorpresa venne con il numero del luglio 1940. All'improvviso, la rivista non aveva più illustrazioni in copertina. Per fortuna, i disegni meravigliosi di Edd Cartier continuavano ad esistere nell'interno, ma per tutto il resto della vita di Unknown, la copertina si limitò a pubblicare l'indice, con un minuscolo disegno accanto ad ogni racconto. Poi, nel dicembre 1940, cominciò a uscire a mesi alterni, e venne introdotto il sottotitolo «Fantasy Fiction». Campbell temeva che la testata Unknown inducesse molti lettori potenziali a credere che si trattasse d'un periodico d'occultismo. Il sottotitolo fu solo temporaneo, e dall'ottobre 1941, la rivista divenne Unknown Worlds; contemporaneamente, il formato s'ingrandì (21 x 27 cm.). Tre numeri dopo, anche Astounding l'imitò, ma fu con Unknown Worlds che i lettori assaporarono per la prima volta il ritorno al vecchio stile. Campbell sosteneva che quel formato permetteva di pubblicare un 15 per cento di testi in più per ogni numero, risparmiando carta. Ma un altro argomento era che, con la legione delle riviste pulp nelle edicole, una rivista di formato maggiore sarebbe stata messa in mostra separatamente, insieme con le testate «mag-
giori», e quindi avrebbe venduto di più. (Era un'idea sensata. Gernsback aveva adottato lo stesso sistema con i primi numeri di Amazing, e Palmer l'aveva imitato con Fantastic Adventures; una volta affermata la testata, comunque, era tornato al formato pulp). Purtroppo le cose non andarono come si sperava, perché gli edicolanti continuavano a relegare tutte le testate di fantascienza negli espositori dei pulps. A parte la testata e le dimensioni, il contenuto di Unknown era come sempre superbo. Sono costretto ad operare una selezione: i testi memorabili non si contano... Basti dire che qui nacquero opere come la serie di Harold Shea di L. Sprague de Camp e Fletcher Pratt; l'affascinante Fear di L. Ron Hubbard e, dello stesso autore, lo stuzzicante Typewriter in the Sky (in cui un pianista si trova all'improvviso coinvolto in una vicenda di pirateria, così come viene scritta da un suo amico, e poiché sa come vanno di solito a finire le vicende narrate dall'amico, cerca in tutti i modi di battere in astuzia l'autore); e The Misguided Halo di Henry Kuttner, nonché altri racconti dello stesso genere. Coloro che si erano disgustati di Kuttner per la sua collaborazione con Marvel, finirono per perdonarlo dopo aver letto i racconti scritti per Unknown. J. Allan Dunn, che appariva in quasi tutte le varietà delle riviste pulp, ad eccezione di quelle fantascientifiche (era famoso per le sue avventure marinaresche) scrisse anch'egli un racconto per Unknown, più un romanzo, On the Knees of the Gods. I tifosi del Gray Mouser di Fritz Leiber trovarono in queste pagine i primi cinque racconti della serie; e c'era anche un splendido assortimento di storie di Lester del Rey, tra cui personalmente prediligo The Coppersmith, sulle tribolazioni d'un elfo nel mondo moderno, e Forsaking All Others, in cui una driade sacrifica la propria immortalità per amore d'un umano. Ma tutte le cose belle hanno fine. L'ultimo numero di Unknown recava la data dell'ottobre 1943, e la sua scomparsa venne rimpianta parecchio. Innegabilmente, lasciò il segno: da allora, la narrativa di fantasy non è mai più stata la stessa. Un'altra rivista soccombette alla guerra, ed è un miracolo che durasse tanto a lungo, fino al maggio 1944. A quel tempo, era ormai un anacronismo. Captain Future pubblicò, in totale, diciassette numeri, per i quali Edmond Hamilton aveva scritto tutti i romanzi d'apertura, tranne due. Questi due erano opera del dottor Joseph Samachson, meglio noto in fantascienza con lo pseudonimo di William Morrison, sebbene per Captain Future firmasse Brett Sterling, come fece talvolta anche lo stesso Hamilton. Dopo la chiusura di Captain Future, altre avventure apparvero su Star-
tling, fino al maggio 1951, portando a ventisette il totale della serie (ne scrisse una anche Manly Wade Wellman). A parte le storie di Curt Newton, Captain Future includeva anche parecchi racconti brevi nuovi, ma il suo merito maggiore era stato di ristamparne altri più lunghi. Nell'estate 1944 sopravvivevano otto riviste. Poiché avevano superato i problemi della scarsità di carta e della partenza per la guerra di autori e illustratori, avrebbero dovuto essere in grado di fronteggiare qualunque cosa. Non fu così, ma almeno ebbero un po' di respiro. Vale la pena di ricordare qui che anche Doc Savage resisteva, nonostante la guerra, ed era rimasto mensile. Nel maggio 1944 uscì il 135° numero; e la pubblicazione non dava segni di stanchezza. Era una rivista della Street & Smith, che pure aveva sacrificato Unknown. Sono fatti che tendono a chiarire le idee allo storico della fantascienza quando cerca di soppesare i pro ed i contro. Tutte le riviste scomparse non erano state vere creature del pubblico degli appassionati, ma degli editori che aspiravano a guadagnare in fretta; e ovviamente, se un editore voleva una rivista di fantascienza, doveva continuare a far sì che piacesse. Ma c'erano pochi editori dotati di una simile mentalità. I princìpi economici venivano sempre per primi, ed è una dura realtà il fatto che la science fiction non vende, poniamo, quanto i gialli, o quanto i periodici di narrativa generica. Se si guarda il problema in questo modo, è addirittura sorprendente che qualche rivista sia riuscita a sopravvivere. In effetti, furono poche. 6. Le superstiti Otto riviste... otto relitti alla deriva sul mare della science fiction. Tra queste otto, ho già parlato di Weird Tales e della sua importanza declinante. Il fatto che cinque delle altre sette sopravvivessero non è una grande sorpresa: ma lo è per quanto riguarda le altre due: Planet Stories e Famous Fantastic Mysteries. Malcolm Reiss era ancora il responsabile di Planet, ma i compiti direttoriali erano passati a Wilbur S. Peacock dal numero dell'Autunno 1942. I due avevano fatto di Planet una rivista vivace, e gli sforzi di Reiss stavano dando i loro frutti, in particolare per la narrativa. In essa, come ho detto, venivano pubblicate soprattutto storie a sfondo interplanetario, e sebbene questo costituisse soltanto una piccola parte della gamma fantascientifica, indusse molti autori ad effettuare esperimenti ed a fare invenzioni, così che, sebbene apparissero ancora le solite avventure spaziali, i lettori pote-
vano sempre attendersi l'inaspettato. Il fiore all'occhiello di Planet è senza dubbio Ray Bradbury, sebbene non fosse stata la rivista a scoprirlo (era stato Alden H. Norton ad acquistare il suo primo racconto, Pendulum per Super Science Stories del novembre 1941), e le sue collaborazioni migliori siano apparse dopo il 1945. Ma i suoi racconti per Planet furono la sua fantascienza più «sperimentale» (così come, nel genere fantasy, lo furono i suoi racconti per Weird Tales). Storie come Morgue Ship e Lazarus, Come Forth, furono i primi passi nella direzione che avrebbe portato a The Million Year Picnic (Estate 1946), la prima delle sue «Cronache Marziane». I due collaboratori più preziosi del primo periodo di Planet furono sicuramente Leigh Brackett, moglie di Edmond Hamilton, e il giallista Fredric Brown. Le opere della Brackett furono tra le primissime di un sottogenere ibrido, la Sword and Sorcery (spada e stregoneria), trasposto su scala interplanetaria, che oggi invece sono piuttosto numerose. Robert E. Howard, il creatore di Conan, aveva dato l'esempio con il romanzo Almuric, pubblicato postumo a puntate su Weird Tales dal maggio 1939 (uno degli ultimi romanzi a puntate pubblicati da quella rivista). Leigh Brackett raccolse poi la fiaccola. La sua prima comparsa su Planet (in tutto, la quarta) si ebbe con The Stellar Legion (Inverno 1940); e da allora sfornò un'avventura dopo l'altra. Collaborò anche con Ray Bradbury per scrivere un racconto di fantasy ad imitazione di Conan. Lorelei of the Red Mist (sempre nell'Estate 1946). Il compianto Fredric Brown (1908-1970) era un abilissimo autore di storie poliziesche. Portò per la prima volta queste sue doti in campo fantascientifico con un breve racconto, Not Yet the End, su Captain Future dell'Inverno 1941. Dopo altri due racconti, il suo capolavoro, The Star Mouse, apparve su Planet del febbraio 1942: era la storia di un topolino tedesco in viaggio per la Luna. Sebbene le sue collaborazioni non fossero frequenti, costituivano invariabilmente l'attrazione di quel numero. The Vizigraph, la rubrica della corrispondenza di Planet, era particolarmente interessante. Direttore e appassionato facevano comunella, e non era sorprendente trovare una delle risposte di Peacock assai più lunga della lettera del lettore. Come ricorda Robert Lowndes: «Wilber era sincero e cortese; gli piaceva togliersi la giacca e mescolarsi alla folla. Nonostante certe sue uscite piuttosto taglienti, non risulta che nessuno si sia mai risentito al punto di non scri-
vere più o di non replicare» (11). Si tenga presente che c'era la guerra, e che questo cameratismo era prezioso per il morale degli appassionati chiamati alle armi. Peacock restò direttore fino al numero dell'Autunno 1945, quando il suo posto venne preso per breve periodo da Chester Whitehorne. L'influenza di quest'ultimo sulla rivista fu trascurabile, poiché Reiss reggeva ancora il timone; il suo contributo alla fantascienza (per quanto minore) l'avrebbe dato solo di lì ad otto anni. Famous Fantastic Mysteries aveva avuto il coraggio di diventare mensile dal giugno al dicembre 1942, e per poco questo non si dimostrò fatale. Il 1943 vide uscire tre soli numeri, uno in marzo, poi più nulla fino a settembre, quando la rivista diventò trimestrale, e infine il terzo numero in dicembre. Nel contempo, la linea editoriale cambiò. Sino al termine del 1942, FFM aveva ristampato regolarmente materiale tratto dai pulps di Munsey; nomi leggendari come Francis Stevens, J. U. Giesy e George Allen England avevano nobilitato le sue pagine. Tutto questo cessò con il 1943. Il numero di marzo presentava Ark of Fire di John Hawkins, che era stato pubblicato a puntate da American Weekly in tempi piuttosto recenti (1938). In seguito, offrì romanzi che in precedenza erano apparsi soltanto in volume, cominciando con un'opera scritta da John Taine nel 1930, The Iron Star (che mostra la continuazione della tendenza delle vicende imperniate sulle razze perdute). In questo modo The Ghost Pirates di William Hope Hodgson venne riesumato nel marzo 1944, seguito poi, nel giugno 1945, dal suo superbo The Boats of the «Glen Carrig» (12). Hodson era stato quasi completamente dimenticato, ma grazie all'impegno del fan H. C. Koenig il suo nome non era andato perduto, e da allora questo autore, morto da ventisei anni, cominciò a ricevere i meritati riconoscimenti. (Ma lo stesso Koenig avrebbe stentato a credere che nel 1974 ben tre diverse case editrici inglesi avrebbero ristampato contemporaneamente Carnacki di Hodgson). Il grande merito di FFM fu di avere utilizzato le brillanti illustrazioni di Virgil Finlay. Finlay (1914-1971) era stato scoperto da Weird Tales, ma in seguito era stato assunto da American Weekly. Quando FFM prese a ristampare le opere di Merritt, questi, che dirigeva American Weekly, usò la propria influenza per indurre Finlay ad illustrare i suoi testi. Cominciò così una collaborazione sensazionale. Frank R. Paul è il decano degli illustratori di fantascienza, e forse può essere stato migliore di Finlay nel disegnare
i macchinari: ma per qualità, immaginazione ed esecuzione superlativa, Finlay non aveva rivali, e le sue figure umane erano parecchi anni-luce più avanti di quelle di Paul. Le linee finissime ed i tratteggi di Finlay contribuirono ad attirare nuovi lettori a FFM, tanto che nel numero d'agosto del 1941 la rivista offrì una cartella di suoi disegni, su carta patinata, per sessanta centesimi. (Un'altra offerta venne fatta nel 1943, e quindi senza dubbio l'artista contribuì notevolmente a mantenere in carreggiata la rivista). Quando Finlay fu arruolato nel 1943, FFM dovette cercare altrove un illustratore in grado di imitarlo: e trovò, nel proprio establishement, Lawrence Sterne Stevens («Lawrence»), un veterano dei pulps che conosceva alla perfezione la tecnica della «incisione simulata» ripresa da Finlay. Riuscì così bene nel suo compito che venne offerta anche una cartella dei suoi disegni. FFM potrebbe sembrare un anacronismo; ma non di rado i referendum tra i lettori l'indicarono come la rivista più popolare, e per un certo periodo ebbe anche la tiratura più elevata. La Standard Magazines aveva coraggiosamente tenuto in vita due testate, Thrilling Wonder e Startling. Sotto la direzione di Weisinger, Wonder aveva raggiunto una cadenza mensile, ma sotto quella di Fried tornò all'uscita bimestrale, alternandosi con Startling. Andò così per tutto il 1942, ma nel 1943 le due riviste si trovarono ridotte a trimestrali (anche dopo la chiusura di Captain Future), e questo ritmo continuò sin verso il termine del 1946. Fried lasciò la Standard alla fine del 1944, e il suo posto venne preso da Samuel Merwin. In campo fantascientifico Merwin, che aveva trentaquattro anni, aveva pubblicato solo due articoli sugli aerei del futuro (su Thrilling Wonder, nel 1943) ed un racconto (The Scourge Below, nell'ottobre 1939). Per l'appassionato, quindi, era l'uomo del mistero ancor più di Friend. Merwin era l'unico figlio di Samuel Merwin Sr. (1874-1936), noto scrittore di storia americana. Il figlio ne aveva indubbiamente ereditato i talenti letterari, e la sua narrativa era gradevolissima. Sotto la sua direzione, ci fu un immediato cambiamento. La rubrica Thrills in Science di Startling, incominciata da Weisinger e tenuta in vista da Friend, cessò. Merwin aveva la capacità di continuarla, ma non ne aveva l'intenzione. Conservò gli editoriali di «Sergeant Saturn», ma solo per il tempo strettamente necessario. Merwin aveva le sue idee, ed era deciso a tradurle in atto, ma dovette attendere la fine della guerra, e ne parleremo in un volume successivo.
Restano così altre tre superstiti da esaminare: due riviste di fantascienza ad una di fantasy-science fiction. Lascerò per ultima Astounding e parlerò prima del fenomenale successo delle riviste di Ray Palmer. Nelle storie del nostro genere letterario si parla moltissimo di John Campbell perché, in prospettiva, egli fece tanto per diffondere idee nuove ed originali e per orientare il genere verso direzioni diverse. Nessuno può negargli il titolo di «padre della fantascienza moderna». Ma di solito si dimentica che a quel tempo fu molto criticato per l'implacabile «sterilizzazione» dei vecchi temi. Sebbene oggi abbiamo molte ragioni per essergliene grati, i lettori di allora non erano tutti favorevoli alle sue tendenze. Molti pensavano che Campbell avrebbe soffocato la fantascienza, invece di lasciarla libera di seguire il suo corso. Il fatto che il genere non soffocò (anzi...), dimostra che i lettori sottovalutavano la potenza e l'immaginazione degli autori dello staff Campbell. E la popolarità delle riviste rivali di Astounding indica a sua volta che buona parte del pubblico preferiva la fantascienza della vecchia guardia. Come puro valore di svago e di avventura, con scarso riguardo per l'originalità, nessuno poteva superare Amazing Stories e Fantastic Adventures. E per andare a caccia del sensazionale, nessuno era meglio di Raymond A. Palmer. Il successo immediato della nuova Amazing fece sì che la rivista potesse riprendere la cadenza mensile dall'ottobre 1938, e la mantenesse fino al settembre 1943. Fantastic era stata bimestrale per i primi quattro numeri, poi ebbe una serie di sei uscite mensili, prima di una certa irregolarità nell'inverno 1940-41. Ma dal maggio 1941 all'agosto 1943 ritornò mensile: Palmer sfornava così ventiquattro numeri l'anno, a quel tempo più di qualunque altro direttore. Nello stesso periodo, Friend era a quota sedici e Campbell diciotto. Solo nel 1940 Weisinger aveva superato questo limite con ventotto numeri, ma va ricordato che Startling e Captain Future includevano ristampe, e quest'ultimo concedeva largo spazio ai romanzi di Hamilton (Amazing ripubblicava talvolta qualche classico, ma non nella stessa proporzione). Inoltre, se si tiene conto del totale delle pagine, le due testate di Palmer ne contenevano quanto le quattro di Weisinger, facendo il calcolo su un intero anno. Nel complesso, Palmer pubblicava più fantascienza di chiunque altro in quel tempo. Poiché la Ziff-Davis era l'unica casa editrice con sede a Chicago, Palmer si andava creando un suo staff di autori locali, molti dei quali gli erano amici fin dai tempi in cui egli era un semplice appassionato. Sebbene conti-
nuasse a pubblicare autori affermati, in particolare Robert Moore Williams, Eando Binder (la cui serie sui robot, Adam Link, fu una delle più popolari pubblicate dalla rivista) e John Russell Fearn, uno spazio sempre più ampio era riservato alla produzione locale, con un'eccezione importante, Nelson S. Bond. Lo staff di Palmer prese forma immediatamente. Già nel 1939 aveva scoperto Don Wilcox e David Vern. Wilcox continuò ad essere uno dei principali collaboratori per il decennio successivo: era in grado di produrre ottime storie, ma preferiva tirar via. Esordì con The Pit of Death (Amazing, luglio 1939), ma un racconto assai migliore di quei primi tempi fu The Voyage That Lasted 600 Years (Amazing, ottobre 1940), una memorabile vicenda di varie generazioni che si succedono a bordo di un'astronave, oggi troppo spesso dimenticata a tutto favore di Universe di Heinlein (Astounding, maggio 1941), di molti mesi anticipato da Wilcox. Vern non aveva pubblicato narrativa sotto il suo vero nome, ma è ricordato sotto il suo pseudonimo principale, David V. Reed, che esordì con Where Is Roger Davis? (Amazing, maggio 1939). J. R. Fearn non era l'unico autore britannico pubblicato da Amazing. Un altro collaboratore che, sebbene apparisse di rado, aveva molto successo, era William F. Temple, che aveva deciso di andare a caccia dei maggiori compensi finanziari del mercato americano seguendo gli incitamenti di Fearn. Il primo racconto che vendette a Palmer fu Mr. Craddock's Amazing Experience, l'inquietante vicenda d'un uomo che regredisce nell'infanzia ma conserva la coscienza di adulto. Lo stile levigato contrastava nettamente con quello di molti collaboratori regolari di Palmer. Il racconto seguente di Temple, The 4-Sided Triangle, venne immediatamente acclamato. Ebbe l'onore della copertina nel fascicolo del novembre 1939 e vinse il premio di cinquanta dollari per aver ricevuto il maggior numero di voti dei lettori. Fearn, che aveva appena vinto il premio per il racconto The Man From Hell uscito nel numero concomitante di Fantastic Adventures, scrisse giubilante a Temple: «Ci vogliamo proprio noi britannici per spuntarla, eh?». Tuttavia, con lo scoppio della guerra, Temple si eclissò temporaneamente. Negli anni seguenti comparvero altri nomi nuovi: David Wright O'Brian, William P. McGivern, Berkeley Livingston, Chester S. Geier, William Hamling e Leroy Yerxa. Costoro formarono il nucleo delle corte di Palmer; erano tutti straordinariamente prolifici, soprattutto O'Brien che, oltre a comparire regolarmente con il vero nome, vendeva parecchio anche con gli pseudonimi di John York Cabot e Duncan Farnsworth, più diversi altri.
Si pensi che nei venti mesi intercorrenti dal gennaio 1941 all'agosto 1942 pubblicò cinquantasette racconti sulle due riviste, tra cui ben quattro in Fantastic del giugno 1942. La guerra stroncò la carriera e la vita di O'Brien, e per tragica ironia l'ultimo racconto che egli vide pubblicato aveva per titolo I'll See You Again (Ci rivedremo)... Una caratteristica della catena Ziff-Davis era l'uso dei «nomi editoriali» cioè di pseudonimi usati da più d'un autore. (L'abitudine non era un'esclusiva della Ziff-Davis: la Standard aveva, per esempio, Will Garth, ed i Futurians usavano tutta una serie di «nomi editoriali» per le loro varie pubblicazioni; la proliferazione non era abbondante quanto con la Ziff-Davis). L'usanza venne lanciata inizialmente da Palmer con i suoi pseudonimi personali, che poi passarono ad altri autori: nomi come Henry Gade, G. H. Irwin e Morris J. Steele. Ma quelli onnipresenti erano Alexander Biade, Gerald Vance e P. F. Costello, usati per la narrativa e gli articoli di varietà. Alexander Biade venne presentato su Amazing del maggio 1941 con The Strange Adventure of Victor MacLeigh, un racconto che era probabilmente opera di David Vern. Il secondo racconto, Dr. Loudon's Armageddon (settembre 1941), era di Louis H. Sampliner. In seguito, quasi tutti gli autori di Palmer usarono lo stesso pseudonimo, per una quantità di ragioni accertabili e non accertabili. Forse non sapremo mai esattamente chi fosse l'autore di alcuni di questi racconti e forse, nel complesso, può darsi che non sia una grande perdita, poiché difficilmente le opere migliori di qualche autore venivano presentate sotto questi nomi fantasma. Tuttavia, essi sono uno dei primi sintomi del gusto che Palmer provava nel confondere e sconcertare gli altri. Per esempio, si divertiva a dar corpo agli pseudonimi includendo biografie inventate nella rubrica Meet the Author, e talvolta arrivava al punto di pubblicare fotografie fasulle. Lo fece, per esempio, con il suo alter ego A. R. Steber (Amazing, marzo 1945), con Tarleton Fiske di Robert Bloch (Fantastic, agosto 1943) e con Peter Horn di David Vern (Amazing, marzo 1940). S'imparò così ben presto a non sapere mai quando era il caso di credere o meno a Palmer. A suo merito, comunque, va detto che quando riceveva un bel racconto da un ambiente al di fuori del suo staff, aveva il buon senso di pubblicarlo: così spuntavano spesso gemme come Phoney Meteor di John Beynon Harris (Amazing, marzo 1941) e Mr. Wisel's Secret di Eric Frank Russell (Amazing, febbraio 1942). Dopo circa un anno, Fantastic Adventures cominciò a trovare il ritmo più adatto. I primi numeri erano un guazzabuglio di fantasia eroica e di pa-
sticci fantascientifici; ma Palmer, vedendo il successo della rivale Unknown e delle sue fantasie umoristiche, decise di includerne anche in Fantastic. Per esempio, utilizzò l'opera di Nelson Bond, che è probabilmente uno degli autori di fantasy più sottovalutati e tuttavia più influenti. Nelson Slade Bond, nato a Scranton in Pennsylvania lunedì 23 novembre 1908, lavorava nel settore delle pubbliche relazioni quando aveva cominciato a vendere racconti. Oggi è noto soprattutto come filatelico e come campione di bridge: uno strano scherzo del destino per un uomo che, fin dalle primissime opere, dimostrò di possedere un'immaginazione eccezionalmente vivida ed un singolare sense of humour. Si fece notare in campo fantascientifico con Down the Dimension (Astounding, aprile 1937); aveva già venduto diversi racconti ad altre riviste della Street & Smith. Conseguì una fama precoce nel novembre dello stesso anno, con la comparsa di un capriccioso racconto fantastico, Mr. Mergenthwirker's Lobblies, nell'elegante rivista Scribner's. Subito acclamato, in seguito fu adattato per la radio e la televisione in varie occasioni, e apparve in molte antologie e ristampe. Sebbene Bond continuasse a scrivere fantascienza era evidente che la fantasy costituiva veramente il suo forte. Spesso la sua science fiction sconfinava nel fantastico, e oggi si ricordano pochi dei suoi racconti «ortodossi». Un'eccezione particolare è la serie su Meg, che diventa sacerdotessa del suo clan in un futuro ambientato dopo il crollo delle civiltà, ma tradisce i propri doveri quando scopre l'amore. Il primo racconto, The Priestes Who Rebelled (Amazing, ottobre 1939), era eccellente, e venne seguito da un altro non meno interessante, The Judging of the Priestess (Fantastic Adventures, aprile 1940). La superiorità della serie fu dimostrata quando il terzo racconto, Magic City, venne acquistato da Campbell e apparve su Astounding! Di regola, la science fiction di Bond era scritta spiritosamente quando la sua fantasy, ed era ciò che voleva Palmer. Acquistò i manoscritti di Bond, ed il suo secondo racconto indicò la strada agli autori successivi. Con The Amazing Invention of Wilberforce Weems, Bond creò la tendenza a conferire alle vicende titoli buffi, dimostrando inoltre di saper scrivere nello stile alla Thorne Smith che Campbell desiderava per Unknown. Nel racconto, Weems dà a un bambino, cui fa da baby-sitter, uno spaventoso intruglio di medicine, per tenerlo tranquillo. Ma la pozione conferisce al piccolo l'immediata conoscenza del contenuto di qualunque libro, appena il volume gli viene accostato alla testa. Con il successivo numero di fantastic (Novem-
bre 1939), Bond introdusse un personaggio memorabile, Lancelot Biggs, un avventuriero spaziale un po' svitato, che ha la particolarità di cacciarsi nelle situazioni più folli. Ben presto, questo stile non venne riservato esclusivamente per Palmer; troviamo The Unusual Romance of Ferdinand Pratt nientemeno che su Weird Tales (dove sarebbero apparse poi le successive avventure di Biggs), e Cartwright's Camera su Unknown. Bond, comunque, non si fissava limiti, e spesso su Unknown pubblicava anche racconti di fantasy seria, come Take My Drum to England (agosto 1941). La popolarità delle vicende di Bond poteva comportare una cosa sola... le imitazioni. La scuderia di Palmer era prontissima a raccogliere l'appello, e nacque così la scuola di narrativa un po' folle, tipica di Fantastic Adventures. David Wright O'Brien fu forse il primo a imporsi con The Strange Voyage of Hector Squinch (agosto 1940); poi introdusse la tendenza in Amazing con Skidmore's Strange Experiment (gennaio 1941). O'Brien aveva collaborato anche con William P. McGivern, considerato oggi un brillante autore di thrillers, e McGivern si mise ad imitare Bond. Perciò, nel 1941, troviamo la firma di McGivern su racconti come The Masterful Mind of Mortimer Meek, The Quandary of Quantus Quaggle, Sidney, the Screwloose Robot e Rewbarb's Remarkable Radio, oltre ad una serie di racconti iniziata da Tink Takes a Hand. Poi Robert Bloch, famoso per il suo insopprimibile senso dell'umorismo, e che già aveva venduto racconti ad Unknown, cominciò la sua serie di storie imperniate su Lefty Feep con Time Wounds All Heels (Fantastic Adventures, aprile 1942). Questa racconti esemplificano il suo stile narrativo, e appaiono influenzati da Bond: tuttavia, si riconoscono gli apporti acuti ed originali di Bloch. Questi riesumò il suo pseudonimo, Tarleton Fiske, e confuse i lettori scrivendo sia science fiction seria e drammatica come Almost Human, sia racconti satirici come The Mystery of the Creeping Underwear. In seguito apparvero spesso racconti che imitavano la serie di Feep, con le storie di Freddy Funk, di Lorey Yerxa, e per la prima parte degli Anni Quaranta Fantastic Adventures fornì narrativa «leggera» di considerevole interesse, soprattutto nel periodo di guerra. Forse non erano vicende sofisticate quanto quelle di Unknown, ma erano godibilissime. Fantastic pubblicava anche fantasy seria: gli esponenti migliori erano O'Brien e Yerxa. Fu un grave colpo per il genere il fatto che entrambi gli autori morissero prima del 1946. Gli effetti della guerra sulla fantascienza furono molteplici. Stimolò tra-
me nei cui confronti Palmer si mostrò particolarmente ricettivo. Le sue riviste includono perciò racconti intitolati Nazi, Are You Resting Well? di Leroy Yerxa (Fantastic Adventures, luglio 1943), Hitler's Right Eye di Lee Francis (Fantastic Adventures, giugno 1944), The Ghost That Haunted Hitler di William P. McGivern (Fantastic Adventures, dicembre 1942) e They Forgot to Remember Pearl Harbour di P. F. Costello (Amazing, giugno 1942). Secondo alcuni critici, le riviste pulp sono una preziosa fonte di commenti sociali, e coloro che accettano questa concezione giudicheranno particolarmente interessante l'Amazing del settembre 1943. In quel mese, quasi tutti i periodici pulp avevano copertine imperniate sul tema delle «donne nell'attività bellica», sottolineato da un emblema, una fiaccola stretta da un pugno, con la dicitura Women War Workers. La copertina di Robert Gibson Jones mostrava una bionda in tuta e berretto a visiera che osservava un sabotatore in una fabbrica di aerei: l'illustrazione si riferiva a War Worker I? di Frank Patton (lo stesso Palmer). A beneficio del morale delle truppe, Palmer produsse anche uno straordinario numero di Amazing, formato da racconti scritti esclusivamente da autori sotto le armi, e integrato da lettere di militari. Il numero speciale apparve nel settembre 1944. In realtà, Palmer si prese diverse libertà, attribuendo gradi agli pseudonimi, e includendo nel gruppo anche un suo alter ego. Questo può dare tuttavia un'idea dell'ampia gamma dei collaboratori: per la cronaca, l'indice della narrativa fantascientifica era il seguente: Star Base X The Thinking Cap Private Prune Speaking Professor Thorndyke's Mistake Dolls of Death Weapon for a Wac Double Cross on Mars Warburton's Invention Overlord of Venus Matches and Kings I'll See You Again
Soldato semplice Robert Moore Williams Sergente William P. McGivern Caporale David Wright O'Brien Sergente P. F. Costello Soldato semplice E. K. Jarvis Sergente Morris J. Steele Sergente Gerald Vance Soldato semplice Russel Storm Tenente W. Lawrence Hamling Caporale John York Cabot Caporale Duncan Farnsworth
L'elenco vi sembrerà lungo, tanto più in un periodo in cui la scarsità di
carta riduceva il volume dei vari numeri. Ma Palmer, tipicamente, non si conformava mai agli standard. Mentre tutti gli altri diminuivano il numero delle pagine, lui l'aumentava. Normalmente le due testate avevano 148 pagine ciascuna. Dall'aprile 1942, Fantastic passò a 244 pagine, ed Amazing l'imitò in agosto. Rimasero così fino al maggio 1943, quando scesero a 212 pagine, e più tardi a 180. Il risultato era stato evidentemente ottenuto sacrificando certe testate della Ziff-Davis a favore delle riviste di Palmer. Questo evento, così raro nel mondo della fantascienza pone in risalto la fiducia che William Ziff riponeva in Palmer come direttore capace di far affluire danaro in cassa. E quella non fu neppure l'unica volta che ciò accadde, come vedremo nel 1947. L'abilità con cui Palmer andava a caccia del sensazionale non l'abbandonò mai. Era questo che rendeva così vivaci le sue riviste, e nonostante tutto ciò che stava accadendo nelle testate di Campbell, quelle di Palmer erano sempre in testa come tiratura. Per esempio, nel numero speciale per l'anniversario di Thrilling Wonder (giugno 1939), Weisinger aveva acquistato diverso materiale dai due figli del creatore di Tarzan, Edgar Rice Burrough: John Coleman e Hulbert. Palmer fece di meglio. L'Amazing del gennaio 1941 pubblicava un nuovo romanzo, John Carter and the Giant of Mars, dello stesso Edgar Rice Burroughs. Il numero di marzo conteneva The City of Mummies, e Fantastic ostentava Slaves of the Fish Men. Nel complesso, le due riviste pubblicarono tredici vicende di «ERB», fino a Skeleton Men of Jupiter, apparso su Amazing del febbraio 1943. Un quattordicesimo racconto scritto a quel tempo, Savage Pellucidar, andò temporaneamente perduto, e venne finalmente pubblicato su Amazing nel novembre 1963. Qualcuno dubita che Palmer avesse effettivamente ottenuto testi di Burroughs, ed i fan che ben conoscevano la sua passione per gli «scherzi» sospettavano che molti dei racconti fossero opera dei due figli del creatore di Tarzan. L'accusa, comunque, non è mai stata provata. A parte la narrativa, le riviste di Palmer contenevano articoli di varietà che meritano di essere ricordati. Per esempio, nel numero del luglio 1939, Fantastic Adventures presentava un servizio illustrato, Romance of the Elements, che forniva dati storici e scientifici su tutti gli elementi, dall'attinio al tungsteno. Scientific Mysteries era una piccola rubrica informativa di Amazing, iniziata da Joseph J. Millard nell'ottobre 1940 con The Fate of the Mammoth. Dal giugno 1942, però, la rubrica venne affidata interamente a L. Taylor Hansen. Entrambe le riviste presero l'abitudine di stampare
un gran numero di piccoli «riempitivi», tutti meticolosamente elencati nell'indice. Nel 1945, Palmer suscitò parecchio scalpore. Amazing, nel mese di maggio, pubblicò I Remember Lemuria! di Richard S. Shaver. Cominciò così il «Mistero Shaver», che segnò l'inizio dell'allontanamento di Palmer dalla fantascienza e del suo avvicinamento all'occulto. Comunque, poiché lo «scandalo» Shaver raggiunse il culmine nel 1947, mi occuperò dei dettagli nel prossimo volume. Basti dire che, a differenza dei direttori venuti prima e dopo di lui, Palmer sapeva veramente suscitare il massimo della sensazione e del fanatismo, ma non quando fermarsi. E con Shaver, si aprirono le cateratte. Di fronte alle iniziative clamorose di Palmer, il lavoro metodico di Campbell sembrava svolgersi quasi in sordina. Il rapporto CampbellPalmer ricorda la favola di Esopo in cui la lepre e la tartaruga gareggiavano in velocità, e finisce per vincere la tartaruga. Palmer balzava freneticamente da un colpo grosso all'altro, finendo per bruciare le proprie energie e deviando in direzioni oscure. Campbell, con la sua decisione e l'ostinata perseveranza, si affermò vincitore. Come si è già ricordato a proposito di Unknown, anche Astounding tentò il formato grande nel 1942, ma nel maggio 1943 ritornò a quello pulp. Con le sue 160 pagine, era più voluminosa di Amazing e di Fantastic, ormai, e pubblicava regolarmente dodici numeri l'anno. Poi si verificò un caso senza precedenti. Con il numero del novembre 1943, Astounding adottò il formato digest, e gli appassionati, in precedenza convinti che sarebbe stato un disastro, si resero conto di non essere stati defraudati. Nelle edicole c'era ormai un numero crescente di riviste tascabili, e quasi tutte erano considerate di qualità elevata. Si sperava che anche Astounding potesse raggiungere un pubblico nuovo, assumendo quel formato. Il termine «digest» era stato adottato per indicare queste riviste dopo la comparsa del Reader's Digest nel 1922. In origine, significava che la rivista ristampava narrativa e articoli di altri periodici in una forma abbreviata, più digeribile. Vennero poi altre pubblicazioni, come Science Digest e Writer's Digest, ma quelle dedicate interamente alla narrativa erano poche. La rivista pulp continuò a prevalere durante gli Anni Trenta ed all'inizio degli Anni Quaranta. Solo poche riviste semiprofessionali avevano utilizzato quel formato, come Marvel Tales di Crawford: quindi Astounding per la prima pubblicazione professionale che operava la metamorfosi. Quando,
negli Anni Cinquanta, per l'industria del pulp giunse la carestia e le riviste dovettero scegliere tra il formato digest o la morte, Campbell avrebbe avuto il diritto di fregarsi le mani, compiaciuto della sua lungimiranza... ma non era il tipo. La rivista non perse nulla, assumendo il formato tascabile. Rimasero tutte le sezioni e le rubriche, più il solito articolo, le recensioni librarie e la maggior quantità di narrativa possibile. Nei giorni del formato «lenzuolo», Astounding aveva anche acquistato un'assistente del direttore, nella persona di Chaterine Tarrant, che tuttavia sparì dopo il primo numero in formato digest, per ricomparire nel marzo 1949. In effetti, restò poi con Astounding fino al febbraio 1972. Coloro che conoscono la rubrica di recensioni del compianto P. Schuyler Miller (1908-1972), The Reference Library, ne avrebbero notato l'assenza, negli Anni Quaranta. Ebbe inizio solo nel 1951: fino ad allora, comparvero irregolarmente recensioni librarie, opera di una quantità di autori, tra cui figuravano lo stesso Campbell, Anthony Boucher, L. Sprague de Camp, Robert Heinlein, Willy Ley e Milton Rothman. Astounding pubblicava ancora la miglior narrativa. Con l'entrata in guerra degli Stati Uniti, però Campbell si trovò in difficoltà. Tutti i suoi collaboratori abituali vennero chiamati alle armi - Asimov, Heinlein, Sturgeon, persino Williamson - proprio mentre stavano sfornando il meglio della loro produzione. Heinlein, all'epoca, era diventato forse il nome di maggior richiamo prima della guerra, con racconti come If This Goes On... e Methusaleh's Children. Van Vogt lo seguiva a ruota, grazie al suo poderoso romanzo Stan. Ma poiché questi scrittori erano temporaneamente fuori causa, Campbell dovette trovarne altri. Astounding era in pratica boicottata dai normali autori dei pulps, ma Campbell sapeva dove cercare. Henry Kuttner aveva prodotto parecchi racconti brillanti per Unknown, ma come scrittore di fantascienza ortodossa era ancora considerato un disastro. Perciò Campbell nascose lui e sua moglie, Catherine Moore, sotto lo pseudonimo di Lewis Padgett; e si aprì un altro capitolo della storia della fantascienza. I Kuttner affrontarono la science fiction nello stile di Unknown e cominciarono una serie di racconti spiritosi, all'inizio imperniati sui robot (Deadlock, The Twonky, Piggy Bank); poi passarono ad altri temi. Via via che trovavano il giusto ritmo, il loro humour divenne più cupo, le vicende più efficaci, e il febbraio 1943 vide Mimsy Were the Borogoves, una sconvolgente vicenda su certi giocattoli del futuro finiti nelle mani di due bambini del presente.
Oltre ai racconti firmati Padgett, i Kuttner scrivevano per Astounding, sotto il nome di Lawrence O'Donnell, altri classici come Clash by Night e il suo seguito, Fury, storie estremamente vivide di avventure venusiane. Allorché scoprirono che tanto O'Donnell quanto Padgett erano in realtà i Kuttner, gli appassionati perdonarono a Henry tutti i suoi trascorsi (come se fosse necessario), e da allora ebbe i riconoscimenti che meritava. Poiché Astounding era la pubblicazione che pagava meglio in campo fantascientifico, Campbell non faticò mai a reclutare scrittori nuovi: ma per aiutare meglio i membri del suo staff ed ottenere i risultati che voleva, molto spesso suggeriva loro le idee. Probabilmente l'esempio più famoso è Nightfall di Isaac Asimov, ispirato da Campbell in base ad una citazione di Ralph Waldo Emerson. La storia di un pianeta dal giorno di durata quasi eterna e della catastrofe causata dal cader della notte apparve nel numero del settembre 1941, e ancora oggi, dopo più di trent'anni, è considerata uno dei migliori racconti di Asimov, e quasi sempre figura in testa agli elenchi dei più grandi racconti di tutti i tempi. Un altro metodo adottato da Campbell consisteva nell'incaricare un disegnatore di realizzare una scena sensazionale, da usare per una copertina, mandandola poi ad un autore perché vi si ispirasse e creasse un racconto sul tema. Non era una novità: era un sistema usato infallibilmente da Mort Weisinger per Thrilling Wonder, ed aveva prodotto colpi gobbi come Beauty and the Beast di Henry Kuttner (aprile 1940). Weisinger, però, si accontentava di lasciare che l'autore se la sbrigasse come voleva, mentre Campbell forniva invariabilmente il suo aiuto. La sua continua ricerca di originalità, sebbene all'inizio lo rendesse impopolare, finì per produrre risultati eccellenti. Durante la guerra, Campbell ebbe fortuna, perché di tanto in tanto gli arrivavano ancora racconti di Asimov, Heinlein, Russell e de Camp: ma in quel periodo scoprì anche nomi nuovi. Il numero di ottobre del 1942 segnò l'esordio di George O. Smith, un ingegnere radiotecnico trentunenne, che sfruttò il suo bagaglio di conoscenze in una serie di racconti imperniati su una stazione di collegamento, inaugurata con QRM - Interplanetary. Raymond F. Jones era comparso la prima volta nel numero del settembre 1941 con Test of the Gods, in cui tre uomini che precipitano su Venere si fanno passare per divinità di fronte ai salvatori indigeni. Tutto va bene fino a quando gli indigeni chiedono loro di sottoporsi alla prova degli dèi. Jones produsse anche altre gemme come Fifty Million Monkeys (ottobre 1943) e Pacer (maggio 1943). Nel 1942 Campbell diede a Murray Leinster il bentornato nella science
fiction. Leinster, autentico decano della fantascienza, era un fortunato autore di western e di altri generi, sotto il suo vero nome, Will F. Jenkins. A partire dall'Astounding dell'ottobre 1942, cominciò a produrre una quantità di narrativa nuova ed originale, completamente diversa dai suoi precedenti tentativi: la nuova produzione includeva First Contact, The Power e A Logic Named Joe (che parla di un robot ostinatamente deciso ad aiutare la gente): tutta questa produzione confermava l'adattabilità di Jenkins. Anche Simak si stava rivelando una vera benedizione per Campbell. La sua serie di City, che fece man bassa di premi, e che parla del futuro della Terra, via via che gli umani se ne vanno e rimangono solo i robot ed i cani intelligenti, ebbe inizio nel numero del maggio 1944. Poi c'era Fritz Leiber, il cui Gather, Darkness! uscì a puntate nei numeri di maggio, giugno e luglio 1943. È una classica vicenda d'una cultura postatomica, con tutti gli elementi della fantascienza e lo stile della fantasy, e dimostra l'abilità con cui Leiber sapeva trattare entrambi i generi. Nel periodo dal 1943 al 1947, Astounding fu l'unica rivista a pubblicare regolarmente romanzi a puntate, e questo sembra essere un segno della sua abilità. Amazing ne pubblicò due nel 1943, poi più nessuno fino al 1948. I romanzi a puntate, che un tempo erano stati parte preponderante delle riviste, erano stati quasi completamente sostituiti da romanzi interi, come quelli pubblicati regolarmente da Startling, sebbene molti di essi, specialmente quelli di Kuttner, fossero science fantasy. I romanzi a puntate di Astounding erano fantascienza pura, e offrivano una grande ricchezza d'idee e di avventure. Tra il gennaio 1943 e il marzo 1946 ne apparvero in tutto undici (più Pattern for Conquest di George O. Smith, che ebbe inizio nel numero di marzo). Erano: Opposites - React di Will Stewart (Murray Leinster); The Weapon Makers di A. E. Van Vogt; Gather, Darkness! di Leiber; Judgement Night di C. L. Moore; The Winged Man di Edna Mayne Hull (la moglie di Van Vogt); Renaissance di Raymond F. Jones; Nomad di George O. Smith (con lo pseudonimo di Wesley Long); Destiny Times Three di Leiber; World of À di Van Vogt; The Mule di Asimov (parte della serie di Foundation) e The Fairy Chessman di Padgett. Se un'altra rivista ne avesse pubblicato anche uno soltanto, avrebbe potuto dichiararsi soddisfatta; ma pubblicarli tutti fu un'impresa memorabile. È stata raccontata spesso la storia dei guai in cui Campbell si mise con le autorità durante la guerra. Gli avevano chiesto di mettere la sordina alle storie imperniate sulla guerra atomica, per motivi di sicurezza. Per Cam-
pbell era assurdo; e il guaio scoppiò con la pubblicazione di Deadline, di Cleve Cartmill, nel numero del maggio 1944. Non molto eccezionale come storia, Deadline parlava di un agente che tentava d'impedire l'esplosione di una bomba atomica. La Military Intelligence piombò su Campbell e Cartmill, accusandoli di aver violato i dettami della sicurezza. Cartmill provò che tutti i suoi dati erano stati presi nelle biblioteche pubbliche, e tutto finì lì. Da allora, i lettori di Astounding furono giustamente fieri che un racconto fantascientifico avesse causato tanto scalpore, e l'episodio fece senza dubbio salire al genere un altro gradino nella scala della rispettabilità. Siamo nel marzo 1946, e che cosa abbiamo? Otto riviste fantascientifiche di diversi gradi di maturità e di qualità. Una rispettabile Astounding, con lo staff di autori meglio dotati. Un'Amazing impazzita per Shaver, e la sua compagna più pacifica, Fantastic Adventures. Una Thrilling Wonder dalle molte aspirazioni, insieme con Startling, rivolta al pubblico giovanile: entrambe tese verso la maturità, ma frenate dalle copertine di Earle K. Bergey, che avevano dato origine al termine BEM, «bug-eyed monsters» (mostri dagli occhi d'insetto). Famous Fantastic Mysteries, patria del romanzesco scientifico, e Planet Stories, provincia del volo spaziale. E Weird Tales, senescente e un po' lugubre. Otto superstiti: quattro di esse esistevano prima del boom, quattro avevano preso slancio grazie ad esso. Se la guerra fosse continuata, sarebbero scomparse altre testate. Tuttavia, con grande sollievo di tutti, la guerra era finita. L'industria editoriale poteva respirare di nuovo, e via via che le restrizioni sulla carta erano abolite, si poté capire che il periodo dopo il 1943 era stato solo una pausa temporanea nel boom della fantascienza. Nel 1947, la valanga avrebbe ripreso a rotolare di nuovo verso l'Everest del 1953-54, al cui confronto il 1939 era soltanto una collina. Nel 1945 le riviste avevano ormai stabilito i loro schemi e le loro tendenze. Non erano più le gernsbackiane fornitrici di «scienza insegnata per mezzo della narrativa». Erano invece, essenzialmente, dispensatrici di avventure scientifiche, che andavano dalle vicende per ragazzi di Planet Stories ed Amazing fino alle estrapolazioni scientifiche e politiche di Astounding. Tuttavia, agli occhi dei grande pubblico, il livello di rispettabilità vantato da Campbell non aveva molto rilievo, in confronto all'aura troppo giovanile suggerita dalle copertine sgargianti e dai titoli clamorosi delle altre pubblicazioni. In realtà, escludendo Astounding, la narrativa di Thrilling Wonder, e fino ad un certo punto persino di Planet Stories, stava
diventando più ragionevole. Era merito, innanzi tutto, della «squadra speciale» degli autori di Campbell che si espandevano anche su altri mercati, anche se non si deve dimenticare che la conclusione tremenda della seconda guerra mondiale aveva rivelato a quali orrori poteva giungere la scienza. Il pubblico si accorse di colpo che poteva esserci qualcosa di valido nella science fiction, e gli autori reagirono con prontezza. Le riviste dell'immediato dopoguerra videro un'alluvione di vicende ammonitrici ambientate in mondi «post-atomici», assai lontane dalle avventure romanzesche prebelliche. A ben pensare, si potrebbe dire che Campbell aveva caricato il cannone della rispettabilità, ma era stata la seconda guerra mondiale a farlo sparare. Se il boom del 1939 aveva avuto un merito, era stato quello di separare gli uomini dai ragazzi, e di aver costretto le riviste ad assumere un'individualità. Le riviste di Frederik Pohl erano di qualità assai migliore di Amazing, poniamo, ma Palmer era molto più avanti per trovate e sensazionalismo. Nel 1945, grazie all'impegno di John Campbell e del suo staff, fantascienza e fantasy erano maturate. Stavano ancora crescendo, e cercavano nuove direzioni. Se un boom aveva fatto tanto per la science fiction, che cosa avrebbe fatto il secondo? Ma per rispondere a questa domanda è necessario un altro volume. Per il momento accontentiamoci di ricordare gli anni in cui gli uomini, mentre combattevano per il loro Paese e le loro vite, attendevano i pochi giorni di riposo per rifugiarsi nel loro mondo personale della science fiction. 7. Sviluppi internazionali Il corso della fantascienza ha un tale rilievo negli Stati Uniti, con la Gran Bretagna distanziata al secondo posto, che è difficile includere altri Paesi nel quadro generale; tuttavia non voglio trascurarli, anche se ne parlerò brevemente. È strano pensare che il Canada, confinante degli Stati Uniti, avesse vietato l'importazione delle riviste pulp: di conseguenza apparve una quantità di ristampe locali. Erano tutte modellate sulle pubblicazioni americane, con le stesse testate; solo alcune, come Eerie Tales e Uncanny Tales, stampavano testi nuovi, quasi tutti donati dai generosi americani. Un'eccezione notevole fu la canadese Science Fiction, che pubblicò sei numeri tra l'ottobre 1941 e il giugno 1942. Era una bella rivista a grande
formato, con sessantaquattro pagine, e costava venticinque centesimi canadesi. Le copertine erano opera di illustratori locali, ma l'affermazione del direttore (William Brown-Forbes) che la rivista presentasse soltanto autori e artisti canadesi è inesatta, poiché ristampava parecchio materiale tratto da Science Fiction e Future Fiction della Columbia, e ne utilizzava anche parte delle illustrazioni. Tuttavia, disegni nuovi, presumibilmente di artisti del posto, venivano sostituiti ad un certo numero di originali. Le copertine illustravano spesso un racconto che non aveva avuto tale onore nella rivista statunitense, come Science from Syracuse di Polton Cross. Più importante per i fan degli altri Paesi, che non sapevano l'inglese, fu l'apparizione di riviste in lingue straniere, in Argentina, Svezia e Francia. L'argentina Narraciones Terrorificas, che pubblicava quasi esclusivamente traduzioni dall'estero, nacque nel 1939 e durò fino al 1950. Cercava di mantenere una cadenza mensile, e spesso ci riusciva: un'impresa considerevole, date le circostanze. Ma assai più sorprendente fu la regolare pubblicazione settimanale svedese: Jules Verne Magasinet, con il primo numero datato 16 ottobre 1940. La rivista conteneva solo materiale straniero, ma per gli svedesi andava benissimo, e continuò per 331 numeri, fino al 1947. I testi provenivano soprattutto dalle riviste della Fictioneers, della Standard e della Ziff-Davis: i due autori che apparivano più di frequente erano John Russell Fearn ed Edmond Hamilton (soprattutto con Captain Future), oltre a Robert Bloch, Malcolm Jameson, Jack Williamson, William McGivern, Robert Moore Williams. Le copertine erano coloratissime, di solito buone riproduzioni degli originali di Fuqua e Krupa della Ziff-Davis, e nell'interno questi autori venivano doverosamente citati. Talvolta erano utilizzate copertine originali dell'illustratore svedese Eugen Semitjov, soprattutto per le vicende di Thornton Ayre. La rivista aveva 64 pagine, e in origine era di formato digest, ma poi passò a quello pulp, (15 x 22 cm.). Sebbene fosse molto attraente, scadeva un po' a causa delle illustrazioni aggiunte talvolta all'interno, che contrastavano stranamente con quelle americane. Un'altra giustapposizione strana era l'inclusione di articoli sul pugilato e sull'atletica, più una quantità di fumetti americani come Superman, pubblicati a colori nell'interno di copertina, Batman e Jungle Jim di Alex Raymond sulla quarta di copertina. Senza dubbio, queste notizie indurranno gli appassionati di fumetti a cercarne le copie: ma è difficile che abbiano fortuna, poiché sono estremamente rare. Si sa che esistono tre sole collezioni complete, in tutta la Svezia, ed io debbo allo studioso di Fearn, Phil Harbottle,
gran parte dei dettagli relativi al contenuto. Con il passare del tempo, la rivista diede sempre maggiore spazio a vicende western e gialle (anch'esse d'origine statunitense), e nel luglio 1947 la testata venne soppiantata da Veckans Aventyr (Avventure Settimanali). L'impresa forse più ambiziosa e sorprendente fu l'apparizione della francese Conquêtes, diretta da George H. Gallet. Il primo numero di questo periodico, che si proponeva di uscire settimanalmente, recava la data del 24 agosto 1939. Gallet si era recato poco tempo prima in Inghilterra, dove si era incontrato con appassionati ed autori, e con Walter Gilling, direttore di Tales of Wonder. Venne concluso un accordo, in forza del quale Gillings fungeva da agente per i diritti del materiale apparso su Tales of Wonder, nonché per altri testi degli stessi autori. Uscirono due numeri, prima che l'invasione tedesca stroncasse tutto. Venne pubblicato a puntate il romanzo Green Men of Graypec di Festus Pragnell, e c'era in programma altro materiale. John Russell Fearn arrivò a concludere un accordo per far tradurre simultaneamente in francese i suoi racconti nuovi, e sembra probabile che, con l'aggiunta di materiale francese originale, la rivista di Gallet avrebbe potuto portare ad un sano sviluppo della fantascienza in Francia. Gallet riuscì poi a lanciare il genere dopo la guerra, con la collana di romanzi Le Rayon Fantastique. Nel prossimo volume vedremo come in molti altri Paesi incominciarono ad essere pubblicate riviste di science fiction e come prese a divampare la scintilla dell'originalità. Bisogna ricordare che pochi appassionati stranieri riuscivano a procurarsi le riviste in lingua inglese, e che dovevano affidarsi alle traduzioni per conoscere la science fiction anglosassone. È strano che in Francia, in particolare, patria di Verne e dei fratelli Boëx (13), il genere non abbia avuto uno slancio maggiore. Sarebbe venuto il giorno... ma questa è un'altra storia. Note: (1) Il racconto è apparso come Il cervello rosso, in BRIAN W. ALDISS, Space Opera, Fanucci, Roma 1977 (Enciclopedia della Fantascienza 1) (N.d.C). (2) Da una lettera di «Braxton Wells» nella rubrica della posta, Discussions, su Amazing Stories, pag. 144, febbraio 1937, edito dalla Teck Publications Inc. (3) Tr. It.: Crepuscolo, in JOHN W. CAMPBELL, La «cosa» da un al-
tro mondo, Fanucci, Roma 1977 (Orizzonti XI/1) (N.d.C). (4) Tr. it.: La «cosa» da un altro mondo, in JOHN W. CAMPBELL, La «cosa» da un altro mondo, cit. (N.d.C). (5) Da The Observatory, rubrica editoriale di Raymond A. Palmer, su Amazing Stories, agosto 1938, pag. 4, edito dalla Ziff-Davis Publishing Co., Chicago, Illinois. (6) Da una lettera di W. Lawrence Hamlin nella rubrica della posta, Under the Lens, su Marvel Science Stories, febbraio 1939, pag. 128, edito dalla Western Fiction Publishing Co., Chicago, Illinois. (7) The Black Flame, nella sua versione integrale, è di prossima pubblicazione presso l'Editore Fanucci (N.d.C). (8) Dalla rubrica editoriale The Editor's Notebook di Raymond A. Palmer su Fantastic Adventures, maggio 1939, pag. 4, edito dalla Ziff-Davis Publishing Co., Chicago, Illinois. (9) Da una lettera di Ray Bradbury, e commento di Charles Hornig, nella rubrica della posta, The Telepath, su Science Fiction, giugno 1939, pag. 126, edito dalla Blue Ribbon Magazines Inc., New York. (10) Tr. it. in: A. E. VAN VOGT, Crociera nell'infinito, Fanucci, Roma 1973 (Futuro 1) (N.d.C). (11) Dall'editoriale di Robert A. W. Lowndes, Those Letter Columns, su The Original Science Fiction Stories, luglio 1958, pag. 122, edito dalla Columbia Publications Inc., New York. (12) Tr. it.: Naufragio nell'ignoto, Fanucci, Roma 1974 (Futuro 6) (N.d.C). (13) Meglio noti con il loro pseudonimo J. H. Rosny (N.d.C). 1936
Stanley G. Weinbaum L'isola di Proteo La science fiction, come tutte le altre forme letterarie, ha la sua parte di tragedie, e forse la più nota fu quella di Stanley G. Weinbaum, la cui carriera, dopo una fulminea ascesa, venne stroncata da un cancro alla gola sabato 14 dicembre 1935. Weinbaum aveva trentatré anni. Il 1935 era stato il suo anno magico. Il primo racconto da lui venduto,
A Martian Odyssey, era apparso sul Wonder Stories di Charles Hornig del luglio 1943. Era divenuto subito una delle opere fantascientifiche di cui più si parlò in quel decennio. Weinbaum aveva creato alieni totalmente alieni, e tuttavia li aveva raffigurati umanamente. Il suo Marte era popolato da una abbondante fauna, la cui esistenza stava al di là della comprensione umana, eppure quegli esseri erano comprensibili. Il seguito, Valley of Dreams, apparve su Wonder in novembre, e poi Astounding gli diede la caccia. Nel 1935 apparvero dieci racconti, di cui sette su Astounding: e ognuno di essi è di una bellezza superlativa. Il primo, Flight on Titan era un'avventura tipo Odissea, ed a quanto pare fu rifiutato da Hornig perché non conteneva «un'idea nuova». Ma poi racconti come The Lotus Eaters, The Planet of Doubt e The Red Peri, dimostrarono la geniale capacità di Weinbaum di concepire trame e personaggi. Quando la morte stroncò questo fiume d'ingegnosità, Weinbaum entrò subito nella leggenda. I direttori delle riviste fecero di tutto per pubblicare i testi rimasti inediti: a quanto pare, erano una quantità considerevole. Tra questi c'era Proteus Island, che all'inizio era stato in circolazione firmato con lo pseudonimo di «John Jessel». Quando, dopo la morte di Weinbaum, si seppe che si trattava di un suo pseudonimo, F. Orlin Tremaine si ricordò del racconto e rapidamente lo pubblicò su Astounding sotto il vero nome di Weinbaum. Sono passati ormai quarant'anni dalla morte dello scrittore e le sue opere sono state continuamente ristampate: appaiono fresche e godibili ad ogni nuova generazione. Brass Tacks di Astounding dell'aprile 1936 pubblicò una «lettera aperta» scritta a Weinbaum da E. E. «Doc» Smith, prima di venire a conoscenza della sua morte. Diceva, tra l'altro: «... desidero ringraziarti per quel "qualcosa d'indefinibile" che hai portato nella science fiction... qualcosa che prima non aveva mai avuto e di cui aveva tanto bisogno.» Anche voi troverete questo «qualcosa» nella storia che state per leggere. Il maori che stava a prua del catamarano fissò intensamente l'Isola Austin che si avvicinava lentamente; poi si girò, volgendo su Carver gli occhi ansiosi. «Tabù!» esclamò. «Tabù! Aussitan tabù!» Carver lo guardò, senza cambiare espressione. Alzò lo sguardo sull'isola. Con aria cupa, il maori riprese a remare. Il secondo polinesiano lanciò allo
zoologo uno sguardo supplichevole. «Tabù,» disse. «Aussitan tabù!» Il bianco lo scrutò per qualche attimo, ma non rispose nulla. I miti occhi bruni si abbassarono, e i due si piegarono sui remi. Ma, mentre Carver guardava intento verso riva, gli indigeni si scambiarono in silenzio un'occhiata significativa. Il proa scivolava sulle onde verdi in direzione dell'isola cinta di spuma; poi cominciò a deviare, come se non volesse avvicinarsi. Carver strinse i denti. «Malloa! Dacci dentro, porco color cioccolata. Dacci dentro, capito?» Guardò di nuovo la terra. L'Isola Austin non era sacra per tradizione, ma per qualche motivo gli indigeni la temevano. Non spettava ad uno zoologo scoprire il perché. Era disabitata ed inclusa nelle carte solo recentemente. Notò le foreste di felci, simili a quelle della Nuova Zelanda, i pini Kauri e i dammar... le colline coperte da boschi scuri, una curva di spiaggia bianca, e sulla sabbia un punto in movimento... un apteryx mantelli, pensò Carver: un kiwi. Il proa avanzava cautamente verso riva. «Tabù,» continuava a bisbigliare Malloa. «Lui molto bunyip!» «Spero che ci sia,» grugnì il bianco. «Mi dispiacerebbe tornare da Jameson e dagli altri, a Macquarie, senza almeno un piccolo bunyip.» E sogghignò. «Bunyip carveris. Niente male, eh? Starebbe bene su un volume illustrato di storia naturale.» Quando si avvicinarono alla spiaggia, il kiwi fuggì nascondendosi nella foresta... se era veramente un kiwi. Aveva un'aria abbastanza strana, e Carver aguzzò gli occhi per osservarlo meglio. Naturalmente doveva essere un apteryx: quelle isole del gruppo della Nuova Zelanda scarseggiavano troppo di fauna perché potesse esser qualcosa d'altro. Una varietà di cane, una di ratto, e due specie di pipistrello... la fauna mammifera della Nuova Zelanda era tutta lì. Naturalmente, c'erano anche i gatti, i maiali ed i conigli importati, diventati selvatici nelle isole del Nord e del Centro; ma lì erano assenti. Non c'erano sulle Auckland, né su Macquarie, meno ancora lì su Austin, solitaria e lontana nel mare, tra Maquarie e le desolate Isole Balleny, quasi al limite dell'Antartide. No: quel punto in movimento doveva essere un kiwi. L'imbarcazione toccò terra. Kolu, a prua, balzò sulla spiaggia come un lampo bruno e trascinò il proa, aiutato dal dolce movimento lambente delle onde. Carver si alzò e scese, poi si arrestò di colpo, quando udì il gemito
che Malloa lanciò da poppa. «Guarda!» ansimò quello. «Gli alberi, wahi! Gli alberi bunyip!» Carver guardò nella direzione indicata. Gli alberi... cos'avevano gli alberi? Erano intorno alla spiaggia, così come cingevano le sabbie di Macquarie e delle Auckland. Poi aggrottò la fronte. Non era un botanico: quello era il campo di Halburton, rimasto con Jameson e la Fortune all'Isola Macquarie. Lui era uno zoologo, ed aveva solo un'idea generica delle variazioni della flora. Tuttavia aggrottò la fronte. Gli alberi erano davvero un po' strani. Visti in distanza, gli erano sembrati simili alle felci arboree ed ai torreggianti pini kauri che ci si poteva aspettare. Eppure, da vicino, avevano un aspetto diverso: non spiccatamente, certo; nondimeno erano strani. I pini kauri non erano esattamente kauri, e le felci arboree non erano le stesse crittogame che prosperavano sulle Auckland e su Macquarie. Certo, quelle isole erano molti chilometri più a Nord, e ci si poteva attendere qualche variazione locale. Però... «Mutanti,» mormorò, accigliandosi. «Questo tende a corroborare le teorie di Darwin sull'isolamento. Dovrò portare un paio di esemplari a Halburton.» «Wahi,» disse nervosamente Kolu. «Torniamo indietro adesso?» «Adesso!» sbottò Carver. «Siamo appena arrivati! Credi che siamo venuti qui da Macquarie soltanto per dare un'occhiata? Resteremo un giorno o due, così avrò la possibilità di dare un'occhiata agli animali. Che cosa vi ha preso?» «Gli alberi, wahi!» gemette Malloa. «Bunyip! Gli alberi che camminano, gli alberi che parlano!» «Bah! Camminano e parlano, eh?» Raccolse un ciottolo e lo lanciò contro la massa più vicina di verde cupo. «Sentiamo se sanno dire qualche parolaccia, allora.» La pietra piombò tra foglie e rampicanti, ed il tonfo si spense nel silenzio immoto. No, non completamente immoto; per un momento qualcosa di scuro e minuscolo svolazzò, innalzandosi brevemente: un nero profilo contro il cielo. Era piccolo come un passero, ma aveva forma di pipistrello, con le ali membranose. Eppure Carver lo fissò sbalordito, perché aveva una coda di trenta centimetri, sottile come una matita: era senza dubbio un'appendice che nessun pipistrello normale poteva possedere. Per qualche attimo l'essere svolazzò goffamente nella luce del Sole, agitando la strana coda, e poi ripiombò nella semioscurità della foresta da cui era fuggito per lo spavento. Restò solo un'eco del suo grido stridulo,
«Whiir! Whi-i-i-r!» «Diavolo!» esclamò Carver. «Ci sono due specie di chirotteri nella Nuova Zelanda e nelle isole vicine, e questo non appartiene a nessuna delle due! I pipistrelli non hanno code simili!» Kolu e Malloa gemevano all'unisono. L'essere era troppo piccolo per suscitare il panico, ma era balenato contro il cielo, in un'apparizione di sinistra anormalità. Era una mostruosità, un'aberrazione, e le menti dei polinesiani non erano capaci di affrontare senza paura simili stranezze. Del resto, pensò Carver, neppure le menti dei bianchi ne erano capaci: si sforzò di liberarsi di un bizzarro senso di apprensione. Sarebbe stata una sciocchezza permettere che le paure di Kolu e di Malloa influenzassero uno zoologo lucido e ragionevole. «Silenzio!» scattò. «Dovremo catturare quell'esemplare, o uno dei suoi simili. Lo voglio, assolutamente. Rhimolophidae, ci scommetterei, ma di una specie nuova. Stanotte ne prenderemo uno con le reti.» Le voci dei due isolani divennero più acute per il terrore. Carver troncò bruscamente le proteste e le esclamazioni e le descrizioni frammentarie degli orrori dei bunyip, gli alberi parlanti e ambulanti, e degli spiriti maligni dalle ali di pipistrello. «Andiamo,» disse, burberamente. «Scaricate la roba dal proa. Io costeggerò la riva, in cerca di un corso d'acqua dolce. Mawson ha segnalato l'esistenza d'acqua sul lato settentrionale dell'isola.» Molloa e Kolu stavano borbottando, quand'egli si allontanò. Davanti a lui la spiaggia si stendeva bianca, sotto il Sole del pomeriggio inoltrato; alla sua sinistra c'erano le onde azzurre del Pacifico, e alla sua destra dormiva la foresta, scura e crepuscolare: notò, incuriosito, la varietà quasi infinita della vegetazione, meravigliandosi perché non vi era quasi un albero o un arbusto che gli fosse possibile identificare con qualche varietà comune su Macquarie o nelle Auckland, o nella lontana Nuova Zelanda. Ma naturalmente, si disse, lui non era un botanico. Comunque, le isole remote producevano spesso varietà particolari di flora e di fauna. L'idea dell'isolamento rientrava nella teoria evoluzionistica di Darwin. Bastava pensare a Mauritius e al suo dodo, alle tartarughe delle Galapagos, o addirittura al kiwi della Nuova Zelanda, o all'estinto, gigantesco moa. Eppure - e Carver si accigliò a quel pensiero - non si trovava mai un'isola interamente ricoperta da forme di vegetazione esclusive. I semi portati dal vento, i detriti sospinti dall'oceano causavano un interscambio di vegetazione tra le isole: gli uccelli portavano semi impigliati nelle
penne, e persino i rari visitatori umani contribuivano allo scambio. Inoltre, un osservatore attento come Mawson, che era stato lì nel 1911, senza dubbio avrebbe segnalato le particolarità dell'Isola Austin. Invece non aveva detto nulla; e del resto, non avevano riferito nulla di particolare neppure i cacciatori di balene, che di tanto in tanto si fermavano lì, sulla rotta per l'Antartide. Certo, i cacciatori di balene erano diventati più rari, in quegli ultimi anni; forse era passato più di un decennio da quando avevano gettato l'ancora ad Austin per l'ultima volta. Eppure, che cambiamento poteva essersi prodotto in dieci o quindici anni? Carver si trovò improvvisamente davanti ad un'insenatura aperta dalla marea, in cui un getto d'acqua chioccolante cadeva da un cornicione, al limitare della giungla. Si chinò, s'inumidì le dita, assaggiò l'acqua. Era leggermente salmastra, ma potabile, e quindi andava bene. Non poteva sperare di trovare un corso d'acqua più abbondante su Austin, poiché il bacino idrografico era troppo piccolo, su di un'isola di undici chilometri per cinque. Seguì con lo sguardo il corso del rigagnolo, nel groviglio della foresta di felci, ed un movimento rapido attirò il suo sguardo. Per un momento restò lì a osservare, incredulo, sapendo che non poteva vedere... quel che vedeva in realtà! L'essere, evidentemente, stava bevendo sul bordo del ruscello, perché quando Carver l'intravvide per la prima volta era inginocchiato. E questo era un motivo di sorpresa, il fatto che fosse inginocchiato... poiché nessun animale, tranne l'uomo, assume quella posa: e l'essere, qualunque cosa fosse, certamente non era umano. I gialli occhi selvaggi ricambiarono il suo sguardo, e l'essere si mise eretto. Era un bipede, una piccola parodia dell'uomo, e non superava i cinquanta centimetri d'altezza. Le piccole dita unghiute si aggrappavano ai rampicanti. Sconvolto, Carver notò il corpo chiazzato da un pelame grigio, una coda agile, i denti affilati nella piccola bocca rossa. Ma vide soprattutto i malevoli occhi gialli, ed una faccia che non era umana, eppure aveva un'inquietante aria di umanità selvatica, una sconvolgente sintesi in miniatura di caratteristiche umane e feline. Carver aveva trascorso molto tempo nelle zone più selvagge del pianeta. La sua reazione fu quasi istintiva, senza l'intervento della volontà o del pensiero: la pistola dalla canna bluastra balzò e lampeggiò, quasi muovendosi da sola. Quell'automatismo era prezioso, nei luoghi pericolosi della Terra; più di una volta si era salvato sparando prima di riflettere. Ma la prontezza della reazione non si conciliava con la precisione.
Il proiettile strappò via una foglia, accanto alla guancia dell'essere. Questi ringhiò e poi, con un ultimo bagliore di fiamma gialla negli occhi frenetici, si lanciò a capofitto nella massa di fogliame e svanì. Carver fischiò. «Che cos'era, in nome del cielo?» borbottò a voce alta. Ma aveva poco tempo a disposizione per riflettere; le ombre lunghe e la sfumatura arancione assunta dalla luce pomeridiana annunciavano l'appressarsi dell'oscurità, un'oscurità improvvisa, priva di crepuscolo. Tornò indietro, lungo la spiaggia curvilinea, in direzione del proa. Uno spuntone basso di corallo nascondeva l'imbarcazione ed i due maori, e si levava come una barra sullo sfondo del Sole calante. Carver socchiuse gli occhi per ripararli dalla luce e avanzò pensieroso... e all'improvviso si arrestò nell'udire un urlo di terrore proveniente dalla direzione del proa! Si mise a correre. Non distava più di un centinaio di metri dal costone corallino, ma a quelle latitudini il Sole scendeva così rapidamente che l'oscurità sembrava fare a gara con lui nel raggiungere la cresta. Le ombre si allungavano sulla spiaggia, mentre egli balzava sulla cima e guardava freneticamente verso il punto in cui l'imbarcazione era stata tirata in secco. C'era qualcosa. Una cassa... parte delle provviste scaricate dal proa. Ma il proa... era scomparso! Poi lo vide, già a mezza dozzina di gomene dalla riva, nella baia. Malloa era acquattato a poppa, Kolu era parzialmente nascosto dalla vela, mentre l'imbarcazione procedeva rapida verso l'oscurità che si addensava al Nord. Il suo primo impulso fu di gridare: e gridò. Poi si rese conto che non poteva udirlo; allora, con grande decisione, sparò tre colpi di pistola. I primi due li sparò in aria, ma poiché Malloa non gettò neppure un'occhiata dietro di sé, la terza volta Carver mirò in direzione dei due fuggitivi. Non riuscì a capire se aveva colpito o no, ma il proa procedette ancora più rapido, allontanandosi nelle tenebre. Seguì con lo sguardo, infuriato, i due disertori, fino a quando anche la vela bianca svanì; poi smise d'imprecare, sedette cupamente sulla cassa che quelli avevano scaricato, e cominciò a chiedersi cosa li avesse atterriti. Ma non riuscì a scoprirlo. Scese l'oscurità. Nel cielo spuntarono le strane costellazioni dell'emisfero meridionale: a Sud-Est brillava la splendida Croce Australe, e a poca distanza le mistiche Nubi di Magellano. Ma Carver non aveva occhi per quei fulgori: già da molto tempo conosceva l'aspetto di quei cieli. Riconsiderò la sua situazione. Era più irritante che disperata, perché era
armato, ed anche se non lo fosse stato, non c'erano animali pericolosi su quelle piccole isole a Sud delle Auckland: eccettuato l'uomo, non ve ne erano neppure nella Nuova Zelanda. Ma neppure l'uomo viveva sulle Auckland, o su Macquarie, o lì, sulla remota Austin. Malloa e Kolu, senza dubbio, si erano spaventati tremendamente: ma bastava pochissimo per destare le paure superstiziose di un polinesiano. Bastava una strana specie di pipistrelli, o magari un kiwi che passava nell'ombra di un arbusto, o anche solo le loro fantasie, stimolate dalle assurde leggende che avevano cinto di tabù la solitaria Isola Austin. Di sicuro, sarebbero venuti a recuperarlo. Forse Malloa e Kolu avrebbero ripreso coraggio, tornando a prenderlo. Se non fossero ricomparsi, forse si sarebbero diretti verso l'Isola Macquarie, dove s'era fermata la spedizione della Fortune. Ma anche se avessero fatto ciò che gli sembrava più probabile, se si fossero diretti verso le Auckland, per raggiungere poi la loro patria, nelle Isole Chatham, dopo tre o quattro giorni Jameson avrebbe cominciato a preoccuparsi, e avrebbe iniziato le ricerche. Non c'era pericolo, si disse: non aveva motivo di preoccuparsi. Era meglio continuare il suo lavoro. Per fortuna, la cassa su cui stava seduto conteneva i barattoli al cianuro per raccogliere gli esemplari d'insetti, le reti, le trappole. Poteva continuare secondo i progetti; solo, avrebbe dovuto dedicare un po' del suo tempo ad andare a caccia ed a prepararsi da mangiare. Carver accese la pipa, cominciò a raccogliere i pezzi di legno gettati a riva dal mare per preparare il fuoco e si dispose ad affrontare la notte. Mormorò parecchi insulti all'indirizzo dei due maori, quando si accorse che il suo comodo sacco a pelo era sparito insieme al proa: ma il fuoco sarebbe bastato a difenderlo dal freddo di quelle alte latitudini meridionali. Terminò di fumare la pipa, meditabondo, si sdraiò accanto al fuoco, con l'intenzione di dormire. Quando, dopo sette ore e cinquanta minuti, l'orlo superiore del Sole si affacciò all'orizzonte orientale, Carver era disposto ad ammettere che la nottata era stata un insuccesso. S'era abituato alle piccole, insistenti pulci che schizzavano dalla sabbia, e la sua pelle era abbastanza coriacea per resistere agli insetti notturni delle isole, assetati di sangue. Eppure non era assolutamente riuscito a dormire. Perché? Senza dubbio, non per il nervosismo ispirato dalla solitudine e dall'ambiente estraneo. Alan Carver aveva trascorso troppe notti in località selvagge e solitarie, per preoccuparsene. Eppure i suoni notturni l'avevano tenuto in uno stato perpetuo d'apprensione e di dormiveglia, e almeno una
dozzina di volte si era destato di colpo, sudato e innervosito. Perché? Il perché lo sapeva. Erano i suoni notturni. Non erano chiassosi, né minacciosi, ma... ecco, erano diversi. Sapeva che l'oscurità portava certi rumori; conosceva tutti i richiami degli uccelli e gli squittii dei pipistrelli di quelle isole. Ma i suoni notturni, lì sull'Isola Austin, non si conformano alle sue conoscenze. Erano strani, inclassificabili, molto più variati di quanto dovevano essere; eppure, anche nel grido più selvaggio, egli aveva l'impressione di riconoscere una nota d'inquietante familiarità. Carver scrollò le spalle. Nella luce chiara del giorno, i ricordi della notte precedente gli sembravano assurdi, imperdonabili per un uomo abituato, come lui, ai luoghi solitari. Si alzò, si stirò, e guardò il groviglio della vegetazione sotto le felci arboree. Aveva fame: e da qualche parte, là dentro, c'era la sua colazione, sotto forma di frutta o di uccelli. Non c'era altra possibilità di scelta, poiché al momento non era tanto affamato da prendere in considerazione altre possibili varianti... ratti, pipistrelli o cani. La fauna di quelle isole non offriva altro. Ma era proprio così? Aggrottò la fronte, colpito da un ricordo improvviso. E il folletto selvatico dagli occhi gialli che l'aveva guardato ringhiando in riva al ruscello? L'aveva dimenticato, troppo preso dalla diserzione di Kolu e Malloa. Senza dubbio non era un pipistrello, né un ratto, né un cane. Che cos'era? Ancora accigliato, toccò la pistola e la guardò, per assicurarsi che fosse pronta a sparare. I due maori potevano essere stati messi in fuga da una minaccia immaginaria, ma l'essere visto accanto al rigagnolo non era certo una superstizione. L'aveva visto con i suoi occhi. Aggrottò ancor più la fronte, quando ripensò al pipistrello caudato della sera precedente. Anche quello non era una fantasia degli indigeni. Si diresse verso la foresta di felci. E se l'Isola Austin ospitava davvero alcuni mutanti, fenomeni viventi, specie individuali... e con questo? Tanto meglio: bastava a giustificare la spedizione della Fortune. Poteva contribuire alla fama dello zoologo Alan Carver, se fosse stato lui il primo a segnalare l'esistenza di quello strano mondo faunistico. Eppure... era strano che Mawson non ne avesse parlato, e che non ne sapessero nulla neppure i balenieri. Al limitare della foresta si arrestò di colpo. All'improvviso capì quello che ne causava la stranezza. Vide ciò che aveva inteso dire Malloa, quando aveva indicato gli alberi. Guardò, incredulo, scrutando una pianta dopo
l'altra. Era vero. Non esistevano specie imparentate. Non c'erano due alberi uguali. Ognuno era unico, per foglie, corteccia, tronco. Non ce n'erano due identici. Erano tutti diversi! Ma era impossibile. Sebbene non fosse un botanico, si rendeva conto dell'impossibilità. Ed era ancora inverosimile, in un'isoletta remota, dove necessariamente dovevano avere luogo incroci tra piante della stessa specie. Gli esseri viventi potevano essere diversi da quelli delle altre isole, ma non potevano essere differenziati tra loro... almeno, non con una simile, incredibile profusione. Il numero delle specie doveva venire limitato dalla stessa intensità della concorrenza, su un'isola. Doveva essere così! Carver indietreggiò d'una dozzina di passi, scrutando la muraglia formata dalla foresta. Era vero. C'erano innumerevoli felci; c'erano pini; c'erano alberi decidui... ma in quel centinaio di metri che egli poteva esaminare accuratamente, non ce n'erano due eguali! Non ve n'erano neppure due abbastanza simili da poterli assegnare alla stessa specie, forse nemmeno allo stesso genere. Rimase immobile, frastornato, senza capire. Cosa significava? Che origine aveva quell'innaturale abbondanza di specie e di generi? Come potevano riprodursi, quelle forme innumerevoli, se non c'erano, da qualche parte, altre delle stessa specie in grado di fecondarle? Certo, i fiori di uno stesso albero potevano fecondarsi a vicenda, ma allora, dove erano le piante derivate? È naturale che dalle ghiande nascano querce, e dalle pigne dei kauri spuntini pini kauri. Perplesso, s'incamminò lungo la spiaggia, allontanandosi dallo sciacquio delle onde, cui si era accostato arretrando. La muraglia compatta della foresta era immobile, tranne dove la brezza marina ne agitava le fronde: ma Carver non vedeva altro che l'incredibile varietà delle foglie. In nessun punto c'era un albero simile a qualunque altro da lui visto in precedenza. C'erano foglie composite, digitate, palmate, cordate, acuminate, bipennate, filiformi. C'erano esemplari di tutte le varietà di cui conosceva il nome, e anche uno zoologo ne conosce parecchie, se ha lavorato con un botanico come Halburton. Ma non vi erano esemplari che sembrassero imparentati con altri, anche alla lontana. Era come se, sull'Isola Austin, le distinzioni fra i generi si fossero dissolte, e fossero rimaste soltanto le divisioni principali. Carver aveva percorso oltre un chilometro e mezzo lungo la spiaggia, quando i crampi della fame gli ricordarono il motivo per cui si era mosso. Doveva trovare del cibo, animale o vegetale. Con un senso di sollievo, no-
tò gli uccelli marini che litigavano con strida rauche sulla spiaggia; quelli, almeno, erano rappresentanti normali del genere Larus: gabbiani. Tuttavia, potevano fornire al massimo carni dure e poco gustose, e Carver girò di nuovo lo sguardo verso la misteriosa foresta. Questa volta scorse una pista, o un sentiero, o forse una rarefazione casuale della vegetazione lungo un costone di roccia, che si addentrava tra le ombre verdi, deviando verso la collina boscosa all'estremità occidentale dell'isola. Era la prima, comoda via d'accesso che aveva incontrato; dopo un attimo s'insinuò in quella corsia crepuscolare, cercando con lo sguardo attento frutti e uccelli. Di frutti, ne vide in abbondanza. Molti alberi erano carichi di globi ed ovoidi di varie dimensioni, ma la difficoltà, per quanto riguardava Carver, stava nel fatto che non ne vedeva nessuno che potesse riconoscere per commestibile. Non osava correre il rischio di addentare una varietà velenosa, e solo il cielo sapeva quali strani, mortali alcaloidi poteva produrre quella bizzarra isola. Gli uccelli svolazzavano sui rami e lanciavano i loro richiami, ma Carver non ne vedeva nessuno abbastanza grosso per giustificare lo spreco di un proiettile. Inoltre, un altro fatto curioso attrasse la sua attenzione: notò che, più si allontanava dal mare, e più diventavano bizzarre le forme infinite degli alberi. Lungo la spiaggia, almeno, era riuscito ad assegnare ogni pianta alla sua famiglia, se non al suo genere: ma qui, anche tali distinzioni cominciavano a svanire. Carver sapeva il perché: «Le piante sulla costa sono incrociate con quelle di altre isole,» borbottò. «Ma qui, si sono scatenate. Tutta l'isola è impazzita.» Il movimento d'una massa scura contro lo sfondo del cielo velato dalle fronde attirò il suo sguardo. Un uccello? In tal caso, era molto più grande dei passeracei canori che gli svolazzavano intorno. Alzò con cura la pistola, e sparò. La strana foresta riecheggiò. Un corpo grosso quanto un'anitra precipitò con un lungo grido, si dibatté per pochi istanti tra l'erba, sul fondo della foresta, e rimase immobile. Carver avanzò in fretta e guardò perplesso la sua vittima. Non era un uccello. Era un animale rampicante, armato di unghie aguzze e di denti candidi e affilati, in una piccola bocca triangolare. Somigliava molto ad un piccolo cane, se pure si poteva immaginare un cane capace di arrampicarsi sugli alberi: per un momento, Carver rimase impietrito dallo
stupore, al pensiero di aver ucciso inavvertitamente un terrier bastardato, o almeno un esemplare di Canis. Ma non era un cane. Anche trascurando il fatto che era caduto dalle cime degli alberi, questo Carver lo capiva benissimo. Gli artigli retrattili, cinque nelle zampe anteriori, quattro in quelle posteriori, ne erano una prova sufficiente: ma ancora più evidente era la presenza dei denti aguzzi. Era un Felide. Un'altra prova consisteva negli occhi gialli che lo fissavano, pieni d'odio moribondo, e perdevano fuoco nella morte. Non era un cane, ma un gatto! La sua mente tornò di colpo all'altra apparizione sulla riva del ruscello. Anche quella aveva un aspetto felino. Che cosa significava? Gatti che sembravano scimmie: gatti che sembravano cani! Non aveva più appetito. Dopo un attimo, raccattò il corpicino peloso e si avviò verso la spiaggia. Lo zoologo aveva avuto la meglio sull'uomo: quella piccola massa di protoplasma non era più cibo, per lui, ma un esemplare raro. Doveva tornare sulla spiaggia per fare il possibile per conservarlo. Senza dubbio, avrebbe preso nome da lui... Felis carveri. Un suono, alle sue spalle, lo fece arrestare di colpo. Si voltò indietro, cautamente, a sbirciare nella galleria dal tetto di rami. Qualcosa lo seguiva. Qualcosa, bestia od uomo, si nascondeva nell'ombra della foresta. L'intravvedeva vagamente, informe come sfumature più cupe nel movimento delle fronde agitate dal vento. Per la prima volta, quella successione di enigmi cominciò a creare un senso di minaccia. Carver accelerò il passo. Le ombre guizzavano dietro di lui; e quasi per togliergli ogni dubbio, un grido sommesso, una sorta di ululato smorzato, si levò nella penombra della foresta alla sua sinistra, e da destra rispose un verso eguale. Non osava mettersi a correre, sapendo che una dimostrazione di paura molto spesso provocava un attacco, sia da parte delle belve che da parte degli umani primitivi. Si mosse più rapidamente che poteva, senza aver l'aria di fuggire da un pericolo, ed alla fine scorse la spiaggia. Là, all'aperto, avrebbe almeno potuto vedere gli inseguitori, se avessero deciso di assalirlo. Ma non accadde nulla. Carver si allontanò dalla muraglia di vegetazione, ma nessuna forma lo seguì. Tuttavia erano lì. Mentre tornava alla cassa ed ai resti del fuoco, sapeva che, al riparo delle fronde, stavano in agguato creature selvatiche. La situazione cominciava ad assillarlo. Non poteva restare in eterno sulla
spiaggia, in attesa d'un attacco. Prima o poi avrebbe dovuto dormire, e allora... Era meglio provocare subito l'assalto, vedere che razza di esseri doveva affrontare, e cercare di metterli in fuga o di sterminarli. Per fortuna, aveva munizioni in abbondanza. Alzò la pistola, mirò all'ombra in movimento, e sparò. Si levò un ululato indubbiamente bestiale: e prima che svanisse nel silenzio, altri gli risposero. Poi Carver indietreggiò bruscamente, mentre gli arbusti tremavano al passaggio degli esseri che vi stavano in agguato, e alla fine poté vederli. Una fila d'una dozzina di forme balzò sulla sabbia dalla bordura del sottobosco. Per un istante rimasero immobili, e Carver pensò di essere in preda ad un incubo zoologico, poiché non esistevano altre spiegazioni più logiche. Il branco era vagamente canino: ma i suoi componenti non somigliavano affatto ai cani selvatici della Nuova Zelanda, o dell'Australia. Non somigliavano a nessun altro cane, se non forse nel metodo d'attacco, simile a quella dei lupi, nei guaiti sommessi, le bocche bavose, e la disposizione dei denti... per quel po' che Carver poteva vedere. Ma il fatto che più lo colpì fu la sorprendente conferma di tutte le sue osservazioni sull'Isola Austin... non si somigliavano! Anzi, Carver pensò turbato e sconvolto, che fino ad ora, su quell'isola pazzesca, non aveva osservato due creature, animali o vegetali, che sembrassero appartenere a specie affini. L'assurdo branco avanzava lentamente. Carver vide gli esseri più diversi... con le lunghe zampe posteriori e quelle anteriori cortissime; una creatura dalla pelle glabra, graffiata dalle spine ed un muso semiumano, da lupo mannaro; un cosino non più grosso di un ratto che guaiva con voce stridula; e una creatura poderosa, dal torace tondeggiante, il cui corpo sembrava quasi creato per la posizione eretta, che procedeva sugli arti posteriori, toccando di tanto in tanto il suolo con le zampe anteriori, come le nocche delle mani di un orango. Quest'ultimo essere era un mostro orrendo, dalle zanne gialle, e Carver lo scelse come bersaglio del suo primo proiettile. L'animale cadde senza un lamento: la pallottola gli aveva squarciato il cranio. Quando l'eco dello sparo risuonò tra le colline all'estremità orientale ed occidentale di Austin, il branco rispose con un coro minaccioso di abbaiamenti, ululati, ringhi e guati. Tutti arretrarono per un attimo dal corpo del compagno, poi avanzarono di nuovo, minacciosi. Carver sparò di nuovo. Un essere saltellante, dagli occhi rossi, guaiolò e
cadde. La fila si arrestò nervosamente, divisa dalle due forme inerti. Le grida erano divenute un ringhio soffocato, mentre gli esseri lo scrutavano con gli occhi rossi e giallastri. Carver sussultò all'improvviso, quando si levò un suono diverso, un grido di cui non seppe determinare la natura, benché sembrasse giungere da un punto dove la scarpata boscosa s'innalzava bruscamente. Fu come se un osservatore invisibile incitasse lo strano branco, perché gli animali ripresero coraggio e avanzarono. In quel momento, una pietra colpì dolorosamente l'uomo alla spalla. Carver barcollò, poi scrutò gli arbusti. Un proiettile indicava la presenza di esseri umani. Quell'isola pazzesca ospitava non soltanto animali aberranti. Risuonò un secondo grido, e un'altra pietra gli passò ronzando accanto all'orecchio. Ma questa volta, Carver aveva scorto il movimento fulmineo in cima all'altura, e sparò immediatamente. Vi fu un urlo. Una figura umana uscì barcollando dal riparo del fogliame, vacillò, e precipitò a capofitto negli arbusti sottostanti, tre metri più sotto. Il branco si disperse ululando, come se il coraggio degli esseri si fosse dileguato di fronte a quella dimostrazione di potenza. Fuggirono, disperdendosi come ombre nella foresta. C'era qualcosa di strano, nella figura caduta dall'alto. Carver aggrottò la fronte, attese un momento per accertarsi che il branco si fosse allontanato, e che non vi fossero altre minacce in agguato nei cespugli, poi corse verso il punto in cui era crollato il suo assalitore. Era un essere umano, senza dubbio... Ma ne era certo? Lì, su quell'isola assurda dove le specie parevano assumere tutte le forme, Carver esitava a trarre una simile conclusione. Si chinò sul nemico caduto, che giaceva bocconi, e poi lo rigirò. E spalancò gli occhi per la sorpresa. Era una ragazza. Il volto, immobile come quello del Buddha di Nikko, era giovane e incantevole come una statuina veneziana, con i lineamenti delicati che, persino nello svenimento, conservavano un'espressione selvatica. Gli occhi, benché fossero chiusi, apparivano leggermente obliqui, come quelli di una driade. Era una ragazza bianca, sebbene la carnagione abbronzata avesse assunto una colorazione aurea. Carver, comunque, fu certo di questo perché, ai bordi dell'unico indumento che portava, una pelle non conciata che sembrava di leopardo, già un po' rigida e screpolata, l'epidermide appariva più bianca.
L'aveva uccisa? Stranamente turbato, cercò la ferita e la trovò, alla fine: una scalfittura che sanguinava appena, sopra il ginocchio destro. Il colpo le aveva soltanto fatto perdere l'equilibrio: era stata la caduta di tre metri a farle perdere i sensi, e sulla tempia sinistra si scorgeva un livido arrossato. Ma era viva. La raccolse prontamente fra le braccia e la portò attraverso la spiaggia, lontana dagli arbusti dove senza dubbio stava ancora in agguato lo strano branco. Carver agitò la borraccia semivuota, poi inclinò la testa della ragazza per versarle tra le labbra un po' d'acqua. Subito lei aprì le palpebre, e per un istante fissò stordita il viso di Carver, a una trentina di centimetri dal suo. Poi spalancò gli occhi, non tanto per il terrore ma per lo sbalordimento. Si divincolò con violenza dalle sue braccia, per due volte cercò di alzarsi, e per due volte ricadde, perché le gambe non la reggevano. Poi restò distesa, passivamente, senza distogliere lo sguardo affascinato. Ma anche per Carver fu un colpo. Quando lei sollevò le palpebre, trasalì nel vederle gli occhi. Erano inaspettati, nonostante il vago taglio orientale, perché lo guardarono fiammeggianti, di un vivo colore lionato. Erano ambrati, quasi aurei, frenetici come gli occhi di un seguace di Pan. La ragazza guardò lo zoologo con l'intensità di un uccello prigioniero, ma senza timidezza, perché egli la vide levare la mano sul coltello ligneo che portava appeso alla cintura per mezzo di un cinghiolo. Carver offrì la borraccia, ma la ragazza si ritrasse, come per sfuggire alla mano protesa. Allora egli scosse il recipiente, e nell'udire il suono gorgogliante del liquido, lei lo prese, impacciata, se ne versò un filo nel cavo della mano: poi, con grande sorpresa di Carver, la fiutò, allargando le narici per quanto lo permetteva il piccolo naso all'insù. Dopo un momento, cominciò a bere nel cavo della propria mano, versò un po' d'acqua, bevve ancora. A quanto pareva, non le era venuto in mente che poteva bere direttamente dalla borraccia. La sua mente si schiarì. Vide i due esseri uccisi, e mormorò con un sommesso suono d'angoscia. Quando si mosse per alzarsi, la scalfittura al ginocchio le fece male: volse gli strani occhi verso Carver, con una rinnovata espressione di paura. Indicò la striscia rossa della ferita. «C'm on?» disse, in tono interrogativo. Carver si rese conto che quel suono somigliava all'inglese solo per caso. «Andiamo dove?» chiese, sogghignando. Lei scosse il capo, perplessa. «B-r-ru-u-um!» fece. «Zii-i-i!» Carver comprese. La ragazza cercava di imitare il suono dello sparo ed il
sibilo del proiettile. Batté la mano sulla pistola. «Magia!» disse in tono d'ammonimento. «Cattiva medicina. Meglio far la brava, capito?» Era evidente che lei non capiva. «Thumbi?» tentò. «Tu maori?» Nessun risultato, tranne una lunga occhiata dei dorati occhi a mandorla. «Beh,» grugnì lo zoologo. «Sprechen sie Deutsch, allora? O kanaka? Oppure... che diavolo! Non so altro... Latinum intelligisne?» «C'm on?» fece lei, con un filo di voce, fissando la pistola. Si massaggiò la scalfittura sulla gamba ed il livido alla tempia: evidentemente le attribuiva entrambe a quell'arma. «Sta bene,» fece cupamente Carver. Pensò che non sarebbe stato male impressionare la ragazza con i suoi poteri. «Guarda questo.» Spianò l'arma contro il primo bersaglio che vide... un ramo morto che sporgeva da un tronco gettato a riva, all'estremità dello spuntone di corallo. Era grosso quanto il suo braccio, ma doveva essere completamente imputridito, perché invece di staccare un pezzo di corteccia, come Carver si aspettava, il pesante proiettile frantumò interamente il ramo. «O-o-oh!» esclamò la ragazza, tappandosi le orecchie con le mani. Lo guardò di sottecchi: poi si rialzò, freneticamente, in preda al panico. «No!» scattò Carver. L'afferrò per il braccio. «Tu resti qui!» Per un attimo, rimase sconcertato dalla forza agile di lei. La ragazza levò fulminea il braccio, impugnando il coltello di legno, e lo zoologo le afferrò il polso. Aveva muscoli che sembravano fili d'acciaio temprato. Si divincolò furibonda: poi, con una resa improvvisa, si fermò come se pensasse: «A che serve lottare con un dio?» Carver la lasciò andare. «Siediti!» ringhiò. Lei obbedì, più al gesto che alla voce. Sedette sulla sabbia davanti a lui, levando la testa, con una sfumatura di paura, ma soprattutto di cautela, negli occhi color miele. «Dov'è la tua gente?» chiese bruscamente Carver, indicando la ragazza e poi agitando la mano, in un gesto che includeva la foresta. Lei lo guardò senza capire, e lo zoologo cambiò simbolismo. «Casa tua, allora?» Mimò l'atto del dormire. Il risultato fu identico: un'espressione turbata di quegli occhi splendidi. «Oh, che diavolo!» borbottò lui. «Avrai un nome, no? Un nome? Guarda!» Si batté la mano sul petto. «Alan. Capito? Alan. Alan.» Lei capì subito, questa volta. «Alan,» ripeté, diligente, guardandolo. Ma quando lo zoologo cercò di indurla a rivelargli il suo nome, registrò un insuccesso totale. L'unico effetto dei suoi sforzi fu un'accentuazione
della perplessità sul volto della ragazza. Alla fine, cercò nuovamente di farsi indicare in qualche modo dov'erano la sua casa e la sua gente, variando i gesti in tutti i modi che seppe escogitare. Alla fine, lei parve comprendere. Si alzò in piedi, dubbiosa, ed emise uno strano grido soffocato e lamentoso. Immediatamente, la risposta si levò dal sottobosco, e Carver s'irrigidì quando ne vide uscire lo stesso branco variegato di esseri bizzarri. Senza dubbio erano rimasti a osservare, nascosti. Ancora una volta, avanzarono aggirando i due compagni uccisi. Carver estrasse fulmineo la pistola. Il movimento fu seguito da un gemito d'angoscia da parte della ragazza, che si buttò davanti a lui, allargando le braccia come per proteggere il branco dalla minaccia. Lo fronteggiò spaventata, e tuttavia con aria di sfida, e nel suo volto c'era anche un'espressione interrogativa. Sembrava accusare l'uomo di averle ordinato di chiamare i suoi compagni solo per esporli alla morte. Carver spalancò gli occhi. «Sta bene,» disse finalmente. «Che cosa sono due esemplari rari, su un'isola che è piena? Mandali via.» La ragazza obbedì al suo gesto imperioso. Lo strano branco si disperse in silenzio, e lei indietreggiò esitante, come per seguire gli animali, ma si fermò di colpo ad un ordine di Carver. Il suo comportamento era strano, in parte ispirato dalla paura, ma dominato soprattutto, sembrava, da una sorta di suggestione, come se non comprendesse bene la natura dello zoologo. Era una sensazione che egli stesso condivideva, in una certa misura, poiché era senza dubbio un mistero incontrare una ragazza bianca sulla folle Isola Austin. Sembrava che vi fosse un esemplare soltanto di ogni specie, lì su quell'isoletta, e lei fosse la rappresentante dell'umanità. Carver continuava a guardare perplesso negli occhi d'ambra. Ricordò, ancora una volta, che nella parte di Austin da lui attraversata non aveva visto due esseri eguali. Forse anche la ragazza era una mutante, una variante di qualche specie non umana, che per puro caso aveva adottato una forma umana perfetta? Come, ad esempio, il gatto simile a un cane, il cui corpo giaceva ancora sulla sabbia dove lui l'aveva scagliato. Forse era l'unica rappresentante della razza umana sull'isola, Eva prima di Adamo nel giardino dell'Eden? C'era stata una donna prima di Adamo, ricordò. «Ti chiameremo Lilith,» disse, pensoso. Il nome si adattava bene ai suoi lineamenti selvaggi e perfetti ed ai suoi occhi color fiamma. Lilith, la creatura misteriosa che Adamo s'era trovato dinanzi in paradiso, prima della creazione d'Eva. «Lilith,» ripeté. «Alan... Lilith. Capisci?»
Lei ripeté i suoni ed i gesti. Senza discutere, accettò il nome che le aveva dato: e il fatto che intendesse quel suono come un nome era evidente dalla sua reazione. Quando Carver lo pronunciò, qualche minuto dopo, gli occhi d'ambra si posarono immediatamente sul suo volto e vi rimasero fissi, in un interrogativo silenzioso. Carver rise e ritornò ai suoi pensieri. Istintivamente, estrasse la pipa, la caricò, poi l'accese con un fiammifero. Lo stupì il grido sommesso di Lilith; alzò gli occhi e vide che lei tendeva la mano. Per un momento non comprese cosa volesse, e poi le dita si chiusero intorno allo stelo sibilante del fiammifero! Aveva cercato di afferrare la fiamma, come se si fosse trattato di un pezzo fluttuante di stoffa. Lilith lanciò un grido di dolore e di paura. Subito il branco riapparve sul limitare della foresta, lanciando ululati di collera, e Carver si voltò di scatto per fronteggiarlo. Ma Lilith, riprendendosi dalla sorpresa della scottatura, fermò gli animali con la voce, e li mandò ad acquattarsi di nuovo nell'ombra. Si succhiò le dita bruciacchiate e volse gli occhi spalancati verso Carver. Con un sussulto d'incredulità, lo zoologo si rese conto che la ragazza non conosceva il fuoco. Nella cassa c'era una bottiglia d'alcool. La prese, afferrò la mano di Lilith, e legò una striscia strappata da un fazzoletto e intrisa di liquido intorno alle due dita scottate, pur sapendo che l'alcool era un rimedio poco efficace per le ustioni. Poi applicò il disinfettante alla scalfittura al ginocchio; lei gemette sommessamente al bruciore, quindi sorrise quando si attenuò, seguendo con gli strani occhi d'ambra le nuvolette di fumo che si levavano dalla pipa, mentre le sue narici fremevano per l'aroma pungente del tabacco. «E adesso,» disse Carver, mentre fumava pensoso, «cosa debbo fare con te?» Lilith, a quanto pareva, non sapeva che rispondere. Continuava a guardarlo ad occhi spalancati. «Almeno,» riprese lui, «dovresti sapere cosa c'è di buono da mangiare su quest'isola pazza. Tu mangi, vero?» E mimò l'atto. La ragazza comprese immediatamente. Si alzò, si avvicinò al punto in cui giaceva il corpo del gatto simile ad un cane, e per un istante parve fiutarne l'odore. Poi si sfilò dalla cintura il coltello di legno, posò il piede nudo sul corpo, e ne staccò una striscia di carne. Gli porse il boccone sanguinoso, e rimase chiaramente stupita del suo gesto di rifiuto. Dopo un momento, lei ritirò la mano, lo guardò di nuovo in faccia, e
piantò nella carne i piccoli denti bianchi. Carver notò con quanta eleganza riusciva ad eseguire quella manovra difficile, in modo da non macchiarsi le labbra tenere, neppure con una goccia di sangue. Ma lui aveva ancora fame. Cercò di pensare un modo per esprimere ciò che intendeva dire, e finalmente trovò una soluzione. «Lilith!» esclamò. Gli occhi balenarono subito verso di lui. Lo zoologo indicò la carne, poi agitò la mano verso la misteriosa fila di alberi. «Frutta,» disse. «Carne degli alberi. Capisci?» E mimò di nuovo l'atto del mangiare. Anche questa volta la ragazza capì subito. Era strano, pensò Carver, che capisse rapidamente certe cose, mentre altre le risultavano inafferrabili. Era strano, come lo era tutto, sull'Isola Austin. Forse, alla fine, Lilith era interamente umana? La seguì verso gli alberi, lanciando uno sguardo furtivo agli occhi color fiamma, al bel volto indomito e selvatico di driade. Lei s'inerpicò per la scarpata, e parve svanire magicamente nell'ombra. Per un momento, Carver provò un senso d'allarme, mentre la seguiva: lì avrebbe potuto sfuggirgli, come se fosse stata davvero un'ombra. Certo, non aveva alcun diritto morale di trattenerla, a parte il pretesto insostenibile offerto dall'attacco di lei. Ma non voleva perderla... non ancora. O forse, non voleva perderla in assoluto. «Lilith!» gridò, quando giunse in cima all'altura. Lei ricomparve, lì accanto. Sopra le loro teste s'intrecciava un bizzarro rampicante, simile a un'edera, carico di frutti biancoverdi, che avevano la forma e le dimensioni di uova di gallina. Lilith ne afferrò uno, lo divise in due con le dita agili, se ne accostò un pezzo alle narici. Fiutò meticolosamente, con grazia, poi gettò via il frutto. «Pah bo!» disse, arricciando sdegnosa il naso. Trovò un altro frutto, dall'aspetto poco gradevole, composto di cinque protuberanze a forma di dita che spuntavano da un disco fibroso e che gli davano l'aspetto di una grossa mano deforme. Lo fiutò scrupolosamente, come aveva fatto con l'altro, poi rivolse un sorriso allo zoologo. «Bo!» disse lei, porgendo il frutto. Carver esitò. Dopotutto, non più di un'ora prima, quella ragazza aveva cercato di ucciderlo. Non poteva darsi che ora perseguisse lo stesso fine, offrendogli un frutto velenoso? Lilith agitò l'oggetto, sgradevolmente bulboso. «Bo!» ripeté; e poi, come se capisse l'esitazione dell'uomo, staccò una appendice a forma di dito e se la mise in bocca. Poi sorrise. «Va bene, Lilith.» Carver sorrise e prese il resto.
Era molto più gradevole al palato che alla vista. La polpa aveva una dolcezza un po' acre che gli era vagamente familiare, ma non riuscì a identificarne con esattezza il sapore. Tuttavia, incoraggiato dall'esempio di Lilith, mangiò fino a placare la fame. L'incontro con Lilith ed il suo branco selvaggio gli aveva fatto dimenticare la propria missione. Mentre tornava verso la spiaggia, aggrottò la fronte, ricordando che era lì come zoologo. Eppure... da dove poteva cominciare? Era venuto sull'isola per classificare gli esemplari e raccoglierli, ma cosa poteva fare, in un luogo pazzesco dove ogni creatura era un'incognita? Non c'era possibilità di classificazioni, perché le classi non esistevano. C'era solo un esemplare di ogni varietà... o almeno così sembrava. Per non accingersi ad un compito futile, Carver cambiò direzione ai propri pensieri. Su Austin c'era il segreto di quel disordine caotico, e gli sembrava più opportuno cercare la chiave decisiva, piuttosto di sprecare il tempo nel compito interminabile della classificazione. Avrebbe esplorato l'isola. Qualche strano gas vulcanico, pensò vagamente, o qualche bizzarro deposito radioattivo... analogo agli esperimenti di Morgan con i raggi X sul plasma germinale. Oppure... oppure qualcosa d'altro. Doveva esserci una spiegazione. «Andiamo, Lilith,» ordinò, e si avviò verso Ovest, dove la collina pareva più alta del rilievo all'estremità orientale dell'isola. La ragazza lo seguì, obbediente come al solito, fissandolo con quello strano miscuglio di paura, stupore e, forse, di incipiente adorazione. Lo zoologo non era troppo preso dall'accumularsi dei misteri per non lanciare qualche occhiata alla bellezza selvatica del volto di Lilith: ad un certo punto, si accorse che cercava di immaginarla con un abbigliamento civile... i capelli color mogano compressi da uno dei minuscoli cappellini alla moda, il corpo snello inguainato in un tessuto fine, anziché in quella pelle secca e screpolata, i piedi calzati di scarpette eleganti, le caviglie fasciate da calze di seta. Con una smorfia, scacciò quell'immagine: ma non si chiese se la respingeva perché gli sembrava troppo anomala o perché gli appariva troppo attraente. Si avviò su per l'erta. Austin era coperta di vegetazione, come le Auckland, ma non era difficile procedere, perché si trattava di una foresta, non di una giungla. Era pazzesca, certo: ma poco intasata dal sottobosco. Guizzò un'ombra, poi un'altra. Ma la prima era soltanto un colombo della regina, che rizzava la splendida cresta di piume, e la seconda era un pappagallo-gufo. Gli uccelli di Austin erano normali: erano la solita fauna
ornitologica dei Mari del Sud. Perché? Perché erano mobili: volavano da un'isola all'altra, o venivano trasportati dalle tempeste. Era pomeriggio inoltrato, quando Carver arrivò sulla vetta, dove un maestoso sperone di basalto nero e spoglio si levava come una torre della guardia forestale. Si arrampicò sull'erta erosa e si fermò, con Lilith al fianco, a scrutare la valle centrale di Austin e la collina sulla punta orientale, che si levava ad un'altezza di poco inferiore. Nel mezzo si stendeva la foresta, nelle cui profondità ombre verdazzurre ondeggiavano nella brezza, come perturbazioni qua e là visibili sulla superficie di un lago calmo. Un uccello volteggiava e in distanza, al centro della valle, si scorgeva lo scintillio dell'acqua. Doveva essere il rivoletto che Carver già conosceva. Ma in nessun luogo v'era traccia di un abitato umano che potesse giustificare la presenza di Lilith... non un filo di fumo, una radura... nulla. La ragazza gli toccò timidamente il braccio, e indicò l'altra collina. «Pah bo!» disse, con voce tremula. Dovette rendersi conto che Carver non capiva, perché cercò di spiegarsi. «R-r-r-r-!» ringhiò, increspando le labbra perfette nell'imitazione d'una smorfia animale. «Pah ho, lay shot.» E indicò di nuovo verso Oriente. Cercava forse di dirgli che in quella zona vivevano belve feroci? Carver non riusciva ad interpretare in altro modo le sue espressioni, e la frase che aveva pronunciato era la stessa che aveva usato per il frutto velenoso. Socchiuse gli occhi, guardando intento l'altura a Est, poi trasalì. C'era qualcosa: non sulla collina di fronte, ma laggiù, in mezzo, accanto al baluginio dell'acqua. Carver aveva appeso al fianco il binocolo prismatico che usava per identificare gli uccelli. Se l'accostò agli occhi. Ciò che vide non era perfettamente nitido, ma sembrava un tumulo od una struttura, coperta di rampicanti, irregolare. Ma potevano essere le mura in rovina di una casetta scoperchiata. Il Sole scendeva verso Occidente. Ormai era troppo tardi per esplorare: avrebbe proseguito l'indomani. S'impresse nella memoria la posizione del tumulo, poi cominciò a scendere. Con l'appressarsi dell'oscurità, Lilith cominciò a mostrarsi stranamente restia a dirigersi verso Oriente: si fermava, talvolta gli si aggrappava timidamente al braccio. Per due volte esclamò: «No! No!» Carver si chiese se quella parola faceva parte del suo vocabolario, o se l'aveva acquisita da lui. Dio lo sapeva, pensò divertito; lui aveva usato abbastanza spesso quella
parola, come se si rivolgesse ad una bambina. Aveva di nuovo fame, nonostante avesse mangiato di tanto in tanto i frutti che Lilith aveva colto per lui. Sulla spiaggia, uccise uno splendido Cygnus atratus, un cigno nero australiano, e lo portò via, con la testa penzoloni, mentre Lilith, intimorita dallo sparo, lo seguiva senza fare obiezioni. Carver si avviò lungo la spiaggia, dirigendosi verso la cassa: quel luogo non era migliore degli altri, ma se Kolu e Malloa avessero deciso di tornare, o avessero guidato una spedizione di soccorso dalla Fortune, l'avrebbero cercato lì, per prima cosa. Raccolse i pezzi di legno gettati a riva dalle onde e, al cader dell'oscurità, accese un fuoco. Sorrise, quando Lilith sussultò atterrita, lanciando un gemito soffocato nel vedere la fiamma dello zolfanello che si diffondeva. Senza dubbio, ricordava di essersi scottate le dita: girò cautamente intorno al fuoco e si accovacciò dietro lo zoologo, che si era seduto per spennare e pulire il grosso uccello. Evidentemente non capì, quando lo vide infilzare il volatile su uno spiedo per arrostirlo: ma Carver sorrise nel vedere come le narici sensibilissime della ragazza fremevano all'odore del legno che bruciava e della carne che cuoceva. Quando il cigno fu pronto, glielo tagliò una porzione, grassa e succulenta come oca arrosto, e sorrise di nuovo del suo sbigottimento. Lilith mangiò, ma con molta incertezza, sconcertata dal calore e dal sapore diverso: senza dubbio, avrebbe preferito la carne cruda e sanguinolenta. Quando ebbe finito, si pulì con grazia le dita unte con la sabbia umida, in una pozza lasciata dalla marea. Ancora una volta, Carver si chiese cosa poteva fare, con quella ragazza. Non voleva perderla, ma non poteva star sveglio tutta la notte per farle la guardia. C'erano le corde che avevano tenuto chiusa la cassa delle provviste: avrebbe potuto legarle i polsi e le caviglie: ma quell'idea non gli piaceva. Lilith era troppo ingenua, troppo fiduciosa, troppo intimorita e adorante. E inoltre, selvaggia o no, era una ragazza bianca, su cui egli non aveva alcuna autorità. Alla fine scrollò le spalle e, attraverso il fuoco agonizzante, rivolse un sorriso a Lilith, che ormai sembrava meno intimorita dalle fiamme. «Sta a te,» osservò affabile. «Mi piacerebbe che rimanessi, ma non insisto.» Lei ricambiò il sorriso con un sorriso balenante, con uno scintillio degli
occhi che avevano lo stesso colore delle fiamme, ma non disse nulla. Carver si sdraiò sulla sabbia: era abbastanza fresco da rallentare l'attività delle fastidiosissime pulci, e dopo un poco si addormentò. Il suo riposo fu piuttosto inquieto. Il coro selvaggio dei rumori notturni lo turbava ancora con la sua stranezza: si svegliò e vide che Lilith guardava fissamente le braci morenti. Qualche tempo dopo si destò di nuovo: il fuoco si era spento, e Lilith era in piedi. Mentre la guardava senza dir nulla, lei si girò verso la foresta. Si sentì stringere il cuore: Lilith se ne stava andando. Ma poi lei si fermò. Si chinò su una forma scura... il corpo d'uno degli esseri cui Carver aveva sparato. Era il più grosso. La vide sforzarsi nel tentativo di sollevarlo; poi, dato che pesava troppo, lo trascinò a fatica verso lo spuntone di corallo e lo fece rotolare in mare. Lentamente, Lilith tornò indietro: raccolse tra le braccia il corpo dell'animale più piccolo e ripeté il gesto, poi restò immobile per lunghi minuti, davanti all'acqua nera. Quando tornò indietro, per un momento si girò verso la Luna sorgente, e Carver vide le lacrime che le brillavano negli occhi. Si rese conto di aver assistito ad una sorta di cerimonia funebre. L'osservò in silenzio. Lilith si lasciò cadere sulla sabbia accanto alla chiazza nera delle ceneri: ma pareva che non sentisse il bisogno di dormire. Guardava verso Oriente con tanta apprensione che Carver si sentì inquieto. Stava per levarsi a sedere quando Lilith, come se fosse giunta ad una decisione dopo aver riflettuto a lungo, balzò improvvisamente in piedi e sfrecciò verso gli alberi. Sbigottito, lo zoologo scrutò nell'ombra: ne udì provenire lo strano richiamo che aveva già udito. Tese l'orecchio, e fu certo di udire fra gli alberi un fievole guaito. Lilith aveva chiamato il suo branco. Carver estrasse la pistola dalla fondina, senza far rumore, e si sollevò un poco, puntellandosi su un braccio. Lilith ricomparve. Dietro di lei, ombre più scure sullo sfondo della vegetazione, si muovevano figure selvatiche, e la mano di Carver serrò più forte il calcio della pistola. Ma gli animali non l'attaccarono. La ragazza lanciò un comando sommesso, le ombre furtive svanirono e lei tornò da sola a prendere posto sulla sabbia. Lo zoologo la vide in faccia, pallida e quasi argentea nel chiarore lunare, mentre lo guardava: ma restò immobile, fingendo di dormire. Dopo un momento, Lilith parve decisa a imitarlo. L'apprensione era svanita dal suo
volto: era più calma, più sicura. Carver ne comprese il perché: aveva messo il branco a montare di guardia contro l'eventuale pericolo che poteva provenire dall'Est. L'alba lo destò. Lilith dormiva ancora, raggomitolata sulla sabbia come una bambina, e per qualche istante si fermò a guardarla. Era bellissima: e adesso, ad occhi chiusi, sembrava molto meno misteriosa. Non pareva più una ninfa o una driade isolana, ma soltanto una incantevole ragazza selvaggia, primitiva. Eppure lui conosceva o cominciava a sospettare, la pazzesca verità dell'Isola Austin. Se era vero ciò che temeva, allora tanto valeva innamorarsi di una sfinge, o di una sirena, o di una piccola centaura... non di Lilith. Si fece forza. «Lilith!» chiamò in tono burbero. Lei si svegliò, con un sussulto di terrore. Per un momento lo fronteggiò con gli occhi colmi di panico. Quel sorriso gli rese difficile ricordare ciò che temeva in lei, perché era splendidamente umana, ad eccezione degli occhi color fiamma: ed anche ciò che credeva di scorgervi poteva essere frutto soltanto della sua immaginazione. Lilith lo seguì verso gli alberi. Non c'era traccia delle sue guardie del corpo, sebbene Carver sospettasse che fossero molto vicini. Mangiò altri frutti che Lilith scelse, in quella varietà infinita, affidandosi alle sue narici delicate. Carver pensò, interessato, che l'odore pareva essere l'unico mezzo per identificare i generi, su quell'isola caotica. L'odore ha natura chimica. Le differenze chimiche comportano differenze ghiandolari, e queste ultime, probabilmente, spiegavano le diversità razziali. Molto probabilmente le differenze tra un gatto e un cane, ad esempio, in ultima analisi si riducevano a una diversità ghiandolare. Fece una smorfia, a quel pensiero, e scrutò attento Lilith: ma per quanto l'osservasse, lei continuava ad apparire una deliziosa selvaggia... Se non fosse stato per quegli occhi... Carver si stava avviando verso la parte orientale dell'isola, con l'intenzione di risalire il ruscello fino al punto in cui stava la baracca in rovina, se pure era davvero una baracca. Ancora una volta notò il nervosismo della ragazza, mentre si avvicinavano al corso d'acqua che quasi divideva in due quella parte della valle. Senza dubbio, a meno che le sue paure fossero ispirate dalla superstizione, lì c'era qualche pericolo. Lo zoologo controllò di nuovo la pistola, quindi proseguì. Sulla riva del ruscello, Lilith cominciò a fare difficoltà. Gli afferrò il braccio per trattenerlo, gemendo «No, no, no», spaventata.
Quando la guardò spazientito, con aria interrogativa, Lilith si limitò a ripetere la frase del giorno innanzi: «Lay shot,» disse, ansiosa e intimorita. «Lay shot!» «Umf!» grugnì Carver. «Qualcosa che depone spari al posto delle uove? Questo potrebbe farlo soltanto un cannone...» Si voltò, per seguire il corso dell'acqua attraverso la foresta. Lilith si fermò. Non se la sentiva di seguirlo. Per un istante, lo zoologo indugiò, voltandosi a guardarla, poi proseguì. Era meglio che lei restasse dov'era, perché era troppo bella per tenerla tanto vicina. Eppure Dio sapeva, pensò, che aveva senza dubbio un aspetto umano. Ma Lilith si ribellò. Quando fu certa che era deciso a proseguire, lanciò un grido spaventato. «Alan!» chiamò. «Alan!» Carver si voltò stupito che lei ricordasse il suo nome; e se la ritrovò al fianco. Era pallida, tremendamente impaurita, ma non era disposta a lasciarlo andare solo. Eppure nulla indicava che quella parte dell'isola fosse più pericolosa del resto. C'era la stessa pazzesca profusione di varietà di piante, lo stesso caos inclassificabile di foglie, frutti e fiori. Ma - o forse se l'immaginava soltanto? - lì gli uccelli erano meno numerosi. C'era qualcosa che rallentava la loro avanzata. In certi punti la sponda orientale del rigagnolo sembrava più sgombra, ma Lilith rifiutava di permettergli di passare dall'altra parte. Quando Carver lo tentava, gli si aggrappava alle braccia con tale disperata violenza che alla fine egli si arrendeva, e proseguiva il cammino nel sottobosco. Pareva che il corso d'acqua fosse una linea divisoria, una frontiera, pensò lo zoologo, aggrottando la fronte. A mezzogiorno erano arrivati ad un punto che Carver riteneva vicino alla sua meta. Sbirciò lungo la galleria vegetale che si arcuava sopra il ruscello: e più avanti, coperto dalle piante in modo da confondersi quasi con la foresta, vide quel che cercava. Era una baracca, o almeno ciò che ne restava. Le pareti di tronchi erano ancora in piedi: il tetto, che senza dubbio era stato di paglia, si era disgregato ormai da molto tempo. Ma quel che colpì Carver fu la certezza, datagli dalla costruzione, dalle aperture delle finestre e della porta, che non si trattava di una capanna indigena. Era stata la baracca di un bianco, e aveva avuto almeno tre stanze. Sorgeva sulla sponda orientale: ma ormai il ruscello era così stretto da risultare un filo d'acqua, che scendeva gorgogliando da una polla e minu-
scole rapide. L'attraversò con un balzo, senza ascoltare il grido angosciato di Lilith. Ma si soffermò, quando la guardò in viso. I magnifici occhi color miele erano spalancati per la paura, le labbra stirate, tese in una smorfia cupa e decisa. Sembrava un'antica martire che andasse incontro ai leoni, mentre attraversava il rigagnolo per raggiungerlo. Quasi pareva voler dire: «Se devi morire, morirò con te.» Tuttavia, fra le pareti sgretolate non c'era nulla che potesse ispirare paura. Non c'erano animali, ad eccezione di piccoli esseri simili a topi, che guizzarono sotto i tronchi al loro avvicinarsi. Carver girò lo sguardo sull'interno, invaso dall'erba e dalle felci, vide i resti di mobili imputriditi, del tetto caduto. Da molti anni, da un decennio almeno, quel luogo non aveva più avuto abitatori umani. Urtò qualcosa, con un piede. Abbassò lo sguardo e vide tra l'erba un teschio ed un femore umano. C'erano anche altre ossa, ma non in posizione naturale. L'umano doveva essere morto là, dove pencolava la branda marcita, ed era stato trascinato in quel punto da... ecco, da un essere che aveva banchettato con i suoi resti. Carver lanciò un'occhiata di sottecchi di Lilith, ma lei si limitava a guardare impaurita verso Oriente. Non aveva notato le ossa: o anche se le aveva notate, per lei non significavano nulla. Lo zoologo le smosse, cercando di trovare qualcosa che indicasse l'identità del morto, ma non c'era nulla, soltanto una fibbia corrosa. Era poco, naturalmente: si era trattato di un uomo, con molta probabilità un bianco. C'era uno strato di detriti alto parecchi centimetri. Carver colpì con un calcio i frammenti di un mobile che un tempo doveva essere stato un armadio, e di nuovo il suo piede urtò un oggetto duro... non un teschio, stavolta, ma un barattolo. Lo raccolse. Era sigillato, e dentro c'era qualcosa. Il coperchio era bloccato inesorabilmente dalla corrosione; Carver spaccò il vetro contro un tronco d'albero. Dai frammenti estrasse un taccuino, ingiallito e reso fragile dal tempo. Imprecò sottovoce, quando una dozzina di pagine gli si disintegrarono tra le mani: ma quelle che rimasero parvero più robuste. Si chinò sul tronco e cercò di scrutare le scritte tracciate con un inchiostro quasi interamente sbiadito. C'erano una data e un nome. Il nome era Ambrose Callan, la data 25 ottobre 1921. Aggrottò la fronte. Nel 1921... vediamo, pensò: quindici anni prima... lui frequentava le elementari. Eppure il nome di Ambrose Callan gli sembrava familiare.
Lesse qualche altra riga sbiadita, poi fissò pensieroso nel vuoto. Era proprio lui, dunque. Ricordava la spedizione Callan perché, da ragazzino, s'interessava di luoghi lontani, di esplorazioni e di avventure, come tutti i giovanissimi. Il professor Ambrose Callan, della Northern University. Ricordava che Morgan aveva basato in parte il suo lavoro sulle specie artificiali, l'evoluzione sintetica, partendo dalle osservazioni di Callan. Ma Morgan era riuscito solo a creare alcune specie nuove della mosca della frutta, la drosofila, esponendo il plasma germinale ai raggi X. Niente di simile al manicomio dell'Isola Austin. Lanciò un'occhiata a Lilith, che stava tesa, spaventata, e rabbrividì... perché gli sembrava così bella e così umana. Tornò a volgere lo sguardo sulle pagine semisgretolate e continuò a leggere, perché finalmente s'avvicinava al segreto. Fu scosso dall'improvviso gemito atterrito di Lilith. «Lay shot!» gridò lei. «Alan, lay shot!» Seguì con lo sguardo la direzione del suo gesto, ma non vide nulla. La ragazza aveva gli occhi più acuti dei suoi, senza dubbio, eppure... Ecco! Nelle ombre fonde della foresta, qualcosa si muoveva. Per un istante lo vide chiaramente... un pigmeo maligno, simile all'orrore dagli occhi di gatto che aveva osservato bere al ruscello. Simile? No, era lo stesso. Doveva essere lo stesso, perché su Austin nessun essere somigliava ad un altro, e mai avrebbe potuto rassomigliargli, se non per un caso quasi inconcepibile. L'essere svanì prima che Carver potesse estrarre l'arma, ma nelle ombre stavano in agguato altre figure, altri occhi che sembravano illuminati da un'intelligenza disumana. Sparò, e udì levarsi un grido bizzarro: gli parve che le forme indietreggiassero, per qualche istante. Ma poi tornarono ad avvicinarsi, ed egli vide, senza stupirsi, l'orda di quelle creature d'incubo. S'infilò in tasca il taccuino e afferrò per il polso Lilith, che era rimasta immobile, quasi paralizzata dall'orrore. Indietreggiò, passando dall'entrata priva d'uscio, superò lo stretto rigagnolo. La ragazza sembrava abbagliata, quasi ipnotizzata alla vista degli esseri che li seguivano. Aveva gli occhi sbarrati per la paura e gli andava dietro incespicando, alla cieca. Carver sparò di nuovo contro le ombre. Lo sparo parve scuotere Lilith. «Lay shot!» piagnucolò; poi riacquistò l'autocontrollo. Lanciò il suo bizzarro richiamo, e da qualche parte si levò una risposta, e poi un'altra, ancora più lontana. Il branco si andava radunando per difendere la ragazza, e Carver provò una fitta d'angoscia pensando alla propria situazione. Non rischiava di trovarsi preso in mezzo tra due nemici?
Non dimenticherò mai quella ritirata lungo il corso del ruscelletto. Solo il delirio avrebbe potuto duplicare le battaglie selvagge cui assistette, le urla atroci, le zuffe mortali di esseri innaturali, che combattevano con la pazza frenesia dei reietti e dei mostri. Lui e Lilith sarebbero stati uccisi immediatamente, se non fosse intervenuto il branco: gli animali uscirono dall'ombra lanciando suoni sommessi e bestiali, girarono cautamente intorno a Carver, ma non mostrarono la minima prudenza nei confronti degli... degli altri esseri. Lo zoologo vide e intuì qualcosa che prima gli era quasi sfuggito. Nonostante il loro aspetto, i componenti del branco di Lilith erano canini. Non per la forma, certamente: si trattava di qualcosa di più profondo. Lo erano per natura, per carattere. Ed i loro nemici, benché fossero selvagge creature d'incubo, avevano qualcosa di felino. Non nell'aspetto, ma nel carattere e nel comportamento. Il loro modo di combattere, per esempio... quasi in silenzio, con gli artigli taglienti, e i denti aguzzi, senza le schermaglie canine, con i balzi e gli slanci dei felini. Ma il loro aspetto, la loro natura di gatti era meglio nascosta dall'apparenza esteriore, perché essi andavano dalla forma semiumana del piccolo dèmone del ruscello ad esseri dalla testa serpentina, pesanti ed agili come pantere. E si battevano con una ferocia ed un'intelligenza assolutamente anormali. La pistola di Carver si rivelò utile. Sparava quando trovava un bersaglio visibile, il che non accadeva troppo spesso: ma quando faceva centro, pareva incutere rispetto agli avversari. Lilith, che aveva come uniche armi le pietre e il coltello di legno, gli stava stretta al fianco, mentre indietreggiavano lentamente verso la spiaggia. Si muovevano con lentezza esasperante, e Carver cominciò a notare, sgomento, che le ombre si allungavano verso Oriente, come per accogliere la notte che scendeva da quella metà del mondo. E la notte significava... fine. Se fossero giunti alla spiaggia, e se il branco di Lilith avesse potuto tenere a bada gli aggressori fino a quando Carver avesse acceso un fuoco, forse sarebbero sopravvissuti. Ma gli alleati della ragazza stavano per venire sopraffatti. Erano inferiori numericamente. Venivano uccisi con sempre maggiore rapidità, via via che ne cadeva uno, come il ghiaccio si scioglie più in fretta quando si riduce di dimensioni. Carver arretrava incespicando nella luce arancione del Sole. La spiaggia! Il Sole già toccava lo spuntone di corallo, e all'oscurità mancavano solo
pochi minuti... pochi brevi minuti. Dagli arbusti irruppero i resti del branco di Lilith, una mezza dozzina di esseri indescrivibili, ringhianti, insanguinati, ansimanti ed esausti. Per il momento si erano liberati degli aggressori, perché i dèmoni felini preferivano restare nell'ombra. Carver si allontanò ancora di più, preso da un presagio di ineluttabilità quando vide la sua ombra allungarsi nel breve istante di crepuscolo che divideva il giorno dalla notte, in quelle altitudini. E poi l'oscurità venne rapida, proprio mentre egli trascinava Lilith verso il ciglio dello spuntone corallino. Vide che la carica era imminente. Ombre bizzarre si staccarono dalle ombre più cupe degli alberi. Laggiù, uno degli esseri canini guaì sommessamente. Oltre la sabbia, profilata nettamente per un istante contro il bianco corallo polverizzato della spiaggia, apparve la figura del piccolo dèmonio dall'atteggiamento semiumano, e risuonò un soffio maligno, crepitante. Fu come se l'essere fosse balzato avanti, come un comandante, per esortare le sue truppe a caricare. Carver scelse come bersaglio quella figura. La pistola lampeggiò: il soffio rabbioso divenne un grido di sofferenza, e poi giunse l'assalto. Il branco di Lilith si acquattò; ma Carver sapeva che ormai era la fine. Sparò. Le ombre guizzanti avanzavano. Il caricatore si vuotò: non aveva tempo di ricaricare l'arma, e l'impugnò per la canna. Sentì Lilith tendersi, al suo fianco. Poi l'avanzata si arrestò. All'unisono, come per un comando, le ombre s'immobilizzarono, in un silenzio rotto soltanto dal ringhio sommesso della creatura morente sulla sabbia. Quando ripresero a muoversi, si allontanarono... via, verso gli alberi. Carver deglutì. Un lieve barlume sulla muraglia della foresta attirò il suo sguardo. Si girò li scatto. Era vero! Laggiù, sulla spiaggia, dove aveva lasciato la cassa delle provviste, ardeva un fuoco: e rigide contro lo sfondo della luce, rivolte verso di lui nell'oscurità, c'erano alcune figure umane. Il pericolo ignoto del fuoco aveva spaventato gli assalitori. Lo zoologo spalancò gli occhi. Là, sul mare, scura contro il fioco bagliore a Occidente, c'era una sagoma nota. La Fortune! Quegli uomini erano i suoi amici: avevano udito gli spari ed avevano acceso un fuoco per guidarlo. «Lilith!» esclamò con voce soffocata. «Guarda! Vieni!» Ma la ragazza si fermò. I superstiti del suo branco fuggirono a ripararsi dietro lo scoglio corallino, lontano dal fuoco. Non erano più le fiamme che
spaventavano Lilith, ma le figure nere che l'attorniavano: e all'improvviso Alan Carver si trovò alle prese con la decisione più difficile della sua vita. Poteva abbandonarla lì. Sapeva che non l'avrebbe seguito: glielo diceva la luce tragica di quegli occhi color miele. E senza dubbio era la cosa migliore: perché non poteva sposarla. Nessuno avrebbe mai potuto sposarla, ed era troppo bella per condurla in mezzo agli uomini che avrebbero potuto amarla... come l'amava Carver. Ma rabbrividì, quando un'immagine gli balenò nella mente. I figli! Che razza di figli poteva mettere al mondo Lilith? Nessun uomo avrebbe potuto rischiare la possibilità che anche Lilith fosse contaminata dalla maledizione dell'Isola Austin. Si voltò, con aria triste... un passo, due passi verso il fuoco. Poi si girò di nuovo. «Vieni, Lilith,» disse dolcemente e poi aggiunse, in tono doloroso: «Altri si sono sposati, sono vissuti e sono morti senza figli. Immagino che potremo farlo anche noi.» La Fortune volava sulle onde verdi, diretta verso Nord, verso la Nuova Zelanda. Carver sorrideva, disteso sulla sdraio. Halburton guardava ancora, con riluttanza, la linea azzurra che indicava l'Isola Austin. «Lascia perdere, Vance,» ridacchiò Carver. «Non riusciresti a classificare quella flora neppure in cent'anni, e anche se ci riuscissi, a che servirebbe? C'è un solo esemplare di ogni varietà, tanto.» «Darei tre dita, pur di tentare,» disse Halburton. «Tu sei rimasto lì quasi tre giorni, e ci saresti rimasto anche di più, se non avessi colpito Malloa. Si sarebbero diretti verso casa, alle Chatham, se il proiettile non l'avesse ferito al braccio. È solo per questo che si sono diretti a Macquarie.» «E per me è stata una fortuna. Il fuoco che avete acceso ha spaventato i gatti.» «I gatti, eh? Ti dispiacerebbe ricominciare daccapo, Allan? È così pazzesco che non ho ancora capito bene.» «Sicuro. Stai attento al maestro e capirai.» Carver sogghignò. «Francamente, all'inizio anch'io non ne avevo la più vaga idea. Tutta l'isola mi sembrava impazzita. Non c'erano due esseri viventi eguali! Solo uno per genere, ed erano tutti generi sconosciuti. Non ho trovato un indizio, fino a quando ho incontrato Lilith. Poi ho notato che lei sapeva distinguere grazie all'olfatto. Poteva discernere i frutti buoni da quelli velenosi, fiutandoli, e ha identificato dall'odore anche il primo felino che avevo ucciso. L'ha mangiato, perché era un nemico, ma non ha toccato i canidi del suo branco
cui avevo sparato.» «E allora?» chiese Halburton, aggrottando la fronte. «Ecco, l'olfatto è un senso chimico. È assai più fondamentale della forma esteriore, perché le funzioni chimiche di un organismo dipendono dalle sue ghiandole. Allora ho cominciato a sospettare che la natura fondamentale di tutte le cose viventi, sull'Isola Austin, fosse la stessa che altrove. Non era cambiata la natura, ma soltanto la forma. Capisci?» «Neanche un po'.» «Capirai. Tu sai cosa sono i cromosomi, naturalmente. Sono i veicoli dell'ereditarietà; o meglio, secondo Weissman, portano i geni che contengono i fattori determinanti dell'ereditarietà. Un essere umano ha quarantotto cromosomi, e ne eredita ventiquattro da ognuno dei due genitori.» «In quanto a questo,» disse Halburton, «li hanno anche i pomodori.» «Sì, ma i quarantotto cromosomi di un pomodoro trasmettono un'eredità diversa, altrimenti sarebbe possibile incrociare con un pomodoro un essere umano. Ma per tornare in carreggiata, tutte le variazioni negli individui derivano dal modo in cui il caso rimescola i quarantotto cromosomi, con il loro carico di fattori determinanti. E questo pone un limite piuttosto preciso alle possibili variazioni. «Per esempio, il colore degli occhi è stato individuato in uno dei geni nella terza coppia di cromosomi. Presumendo che questo genio contenga un numero di determinanti degli occhi castani doppio rispetto a quelli degli occhi azzurri, ci sono due probabilità contro una che il figlio dell'uomo o della donna in possesso di quel particolare cromosoma abbia gli occhi castani... se il suo compagno non ha tendenza spiccata in un senso o nell'altro. Capisci?» «Tutto questo lo so. Arriva ad Ambrose Callan ed al suo taccuino.» «Ci arrivo. Ora, ricorda che queste determinanti contengono tutto il patrimonio ereditario, inclusi forma, dimensioni, intelligenza, carattere, colorazione... tutto. Gli umani, o gli animali e le pietre, possono variare nell'immenso numero di modi in cui è possibile combinare quarantotto cromosomi, con il loro carico di geni e di determinanti. Ma non è un numero infinito. Vi sono limiti: limiti alle dimensioni, al colore, all'intelligenza. Nessuno ha mai visto, per esempio, una razza umana con i capelli celesti.» «E nessuno ci terrebbe a vederla,» grugnì Halburton. «Questo avviene,» proseguì Carver, «perché nei cromosomi umani non vi sono le determinanti dei capelli celesti. Ma, e qui viene l'idea di Callan,
supponiamo di poter aumentare il numero dei cromosomi in un dato ovulo. Cosa accadrà? Se, negli umani o nei pomodori, invece di quarantotto, i cromosomi fossero quattrocentottanta, la possibile gamma delle variazioni sarebbe dieci volte più vasta. «Nelle dimensioni, ad esempio, invece dell'attuale variazione possibile di circa settantacinque centimetri, potrebbe essercene una di sette metri e mezzo! E in quanto alla forma... un uomo potrebbe assomigliare a qualunque cosa! Cioè, nell'ambito degli ordini dei mammiferi. E in quanto all'intelligenza...» S'interruppe, pensieroso. «Ma in che modo,» intervenne Halburton, «Callan si proponeva d'inserire i cromosomi in più? Sono microscopici: i geni a malapena visibili al massimo ingrandimento, e nessuno ha mai visto un fattore determinante.» «Come non lo so,» disse Carver, in tono grave. «Parte dei suoi appunti è andato in polvere, e la descrizione del metodo deve essere scomparsa con quelle pagine. Morgan usa le radiazioni dure, ma il suo scopo ed i suoi risultati sono diversi. Lui non cambia il numero dei cromosomi.» Esitò un istante. «Penso che Callan usasse una combinazione di radiazioni e di iniezioni,» riprese. «Ma non lo so. So soltanto che restò su Austin quattro o cinque anni, e che vi si recò in compagnia di sua moglie. Questa parte degli appunti è abbastanza chiara. Cominciò a trattare la vegetazione nei pressi della baracca, e alcuni cani e gatti che aveva portato con sé. Poi scoprì che l'effetto si diffondeva come una malattia.» «Si diffondeva?» gli chiese eco Halburton. «Certo. Ogni albero da lui trattato spargeva al vento polline pluricromosomico, e in quanto ai gatti... Comunque, il polline aberrante fecondava i semi normali, ed il risultato era un altro mostro, un seme con il numero normale di cromosomi ereditato da un genitore, e dieci volte tanti ereditati dall'altro. Le variazioni erano infinite. Sai con quanta rapidità crescono i kauri e le felci arboree, e quelli avevano una possibile velocità di crescita dieci volte maggiore. «I mostri invasero l'isola, soffocando la vegetazione normale. E le radiazioni di Callan, forse anche le sue iniezioni, influirono sulla fauna indigena dell'Isola Austin... i ratti, i pipistrelli. Cominciarono a produrre mutanti. Callan arrivò nel 1918, e quando si rese conto della sua tragedia, Austin era un'isola di fenomeni anormali, in cui nessun figlio somigliava ai genitori, se non per puro caso.» «La sua tragedia? Cosa vorresti dire?» «Ecco, Callan era un biologo, non un esperto di radiazioni. Non so esat-
tamente cosa accadde. L'esposizione ai raggi X per lunghi periodi produce ustioni, ulcere, tumori maligni. Forse Callan non prese precauzioni adeguate per schermare il suo apparecchio, o forse usava una radiazione particolarmente irritante. Comunque, prima si ammalò sua moglie... un'ulcera che divenne cancerosa. «Callan aveva una radio... un telegrafo senza fili, come dicevano nel 1921: e chiamò la sua nave dalle Isole Chatham. Affondò su quello spuntone corallino: e Callan, disperato, riuscì solo a spaccare la radio. Non era un elettrotecnico, vedi. «Erano giorni confusi, dopo la fine della guerra. Quando la barca di Callan affondò, nessuno seppe esattamente cosa fosse stato di lui, e dopo un po' venne dimenticato. Quando sua moglie morì, la sotterrò; ma quando morì lui, non c'era nessuno che lo seppellisse. I discendenti di quelli che erano stati i suoi gatti se ne occuparono, e tutto finì.» «Sì? E Lilith?» «Già,» disse Carver, tristemente. «E Lilith? Quando ho cominciato a sospettare il segreto dell'Isola Austin, questo mi ha sgomentato. Lilith era davvero del tutto umana? Anche lei era contagiata dalla variazione, ed i suoi figli avrebbero potuto essere diversi come la prole dei... gatti? Non diceva una sola parola delle lingue che conoscevo... o almeno così mi è parso. E non riuscivo a collocarla nel quadro generale. Ma il diario e gli appunti di Callan hanno chiarito tutto.» «E come?» «Lilith è la figlia del capitano dello sloop di Callan, e lo scienziato la salvò quando il veliero fece naufragio sulla costiera corallina. Aveva cinque anni, allora, e quindi oggi ne ha quasi venti. In quanto alla lingua... beh, forse avrei dovuto riconoscere quelle poche parole di francese che si ricordava. C'm on, per esempio, non era come on, andiamo; era comment, cioè "come?" e pah bo era semplicemente pas bon, "non buono". È quello che ha detto a proposito dei frutti velenosi. E lay shot era les chats, perché lei ricordava, o intuiva, che gli esseri della parte orientale dell'isola erano gatti. «Intorno a lei, per quindici anni, si erano raccolti gli esseri canini i quali, nonostante la forma, avevano indole di cani, ed erano fedeli alla padroncina. E tra i due gruppi c'era guerra eterna.» «Ma sei sicuro che Lilith sia immune dalla contaminazione?» «Si chiama Lucienne,» fece pensoso Carver. «Ma credo di preferire Lilith.» Sorrise alla figuretta snella che indossava un paio di calzoni di Jame-
son ed una delle sue camicie, e stava ritta a poppa, a guardare Austin. «Sì, ne sono sicuro. Quando lei finì nell'isola, Callan aveva già distrutto l'apparecchio che gli aveva ucciso la moglie e che stava per uccidere anche lui. Sfasciò completamente lo strumento, sapendo che con l'andar nel tempo i mostri da lui creati sarebbero stati comunque condannati.» «Condannati?» «Sì. I ceppi normali, rafforzati dall'evoluzione, sono più robusti e resistenti. Stanno già ricomparendo alla periferia dell'isola, e un giorno Austin non presenterà più stranezze di qualunque altra isoletta remota. La natura rivendica sempre i suoi diritti.» Titolo originale: Proteus Island (Astounding Stories, agosto 1936). 1937
Eric Frank Russell - Leslie J. Johnson Il Cercatore del Domani È innegabile l'influsso delle opere di H. G. Wells sugli scrittori di fantascienza venuti dopo di lui: e The Time Machine segnò la genesi diretta di Seeker of Tomorrow. La mente che inventò la vicenda, comunque, era quella di Leslie Joseph Johnson, nato nell'area di Seaforth, a North Liverpool, lunedì 18 maggio 1914. Aveva scoperto le riviste di science fiction nel tradizionale modo britannico: i fascicoli usati venduti a poco prezzo nei magazzini «Woolworth's». Su Amazing del marzo 1931 lesse una lettera di John Russell Fearn: gli scrisse e in seguito andò a trovarlo nella vicina Blackpool. Entrambi ammiratori di Wells, decisero di superare il Maestro, e scrissero una loro versione di The Time Machine, intitolata Amen, e più tardi riscritta e ribattezzata Through Time's Infinity. A quel tempo, tutto finì lì. Fearn, naturalmente, continuò a vendere i suoi ottimi racconti della «thought variant» a Tremaine. Johnson, d'altra parte, divenne la forza motrice della British Interplanetary Society, che insieme con Philip Cleator fondò nell'ottobre 1933. Johnson, come segreta-
rio della società, fece molto per promuoverne le attività ed una sua lettera pubblicata su Amazing Stories attirò l'attenzione d'un viaggiatore di commercio, un certo Eric Frank Russell. Russell, allora, abitava nella vicina Bootle, e nella tarda estate del 1934 fece a Johnson una visita che segnò l'inizio di una fruttifera amicizia. Russell aveva nove anni più di Johnson: era nato a Sandhurst nel Surrey venerdì 6 gennaio 1905. Quando entrò in contatto con questi, gli mostrò una serie che aveva scritto per una pubblicazione privata, The Ida and Victoria Magazine. La serie era intitolata Interplanetary Communication. A Johnson, Russell fece una grande impressione, come uomo e come scrittore: e gli consigliò di darsi alla science fiction. Johnson fornì un'idea, e Russell scrisse il racconto Eternal Redifiusion. Presentato a Tremaine, venne rifiutato, e Johnson lo salvò a fatica dalla distruzione per mano del suo autore: lo mise quindi in programma per la sua rivista Outlands, nel 1946, ma la rivista morì dopo il primo numero, e il racconto non vide la luce neanche in questa occasione. È stato stampato solo recentemente, su due pubblicazioni a bassa tiratura: in Gran Bretagna su Fantasy Booklet, stampato privatamente da Philip Harbottle (1973), e in America nel numero di ottobre 1973 della (per poco) risuscitata Weird Tales di Sam Moskowitz. Russell, comunque, avrebbe venduto come primo racconto The Saga of Pelican West, una vicenda che mostrava l'influenza di Stanley G. Weinbaum, e che venne pubblicata su Astounding Stories nel febbraio 1937. Nel frattempo, Johnson aveva mostrato a Russell Through Time's Infinity. Russell riscrisse il racconto intitolandolo Seeker of Tomorrow e lo presentò alla casa editrice Newnes, dove T. Stanhope Briggs cercava testi per la rivista che si proponeva di pubblicare. Accettato in un primo momento, il racconto fu restituito quando la Newnes accantonò temporaneamente la testata. Presentato a Tremaine, fu accettato, e uscì su Astounding Stories nel luglio 1937, ispirando una copertina di Howard Brown, che in seguito fu votata come la più popolare dell'anno. Da allora, è sempre stato considerato un racconto eccellente e memorabile. Tuttavia, non è mai stato ristampato. Russell, naturalmente, passò di successo in successo. Prima della guerra, come aspirante scrittore in cerca di trame, ebbe il prezioso aiuto di Johnson, unito alla sua interpretazione personale della narrativa nello stile di Weinbaum. Durante e dopo la guerra, si creò uno stile proprio, e contò solo su se stesso. Adottò un modo di scrivere molto «americano»,
che spesso ha indotto i lettori a crederlo un autore statunitense. La sua serie Jay Score, pubblicata su Astounding, divenne eccezionalmente popolare, e all'inizio degli Anni Cinquanta egli continuò a produrre gemme come Dear Devil, Legwork, Diabologic, e nel 1955 vinse il Premio Hugo con il racconto Allamagoosa. Johnson, l'altra parte, dedicò il suo tempo al fandom ed alla British Interplanetary Society anziché alla fantascienza, anche se il suo racconto Satellites of Death venne acquistato da Walter Gillings e pubblicato su Tales of Wonder nel terzo numero, nell'estate 1938. Nel prossimo volume di questa serie, Johnson ricomparirà con la sua rivista Outlands, mentre è impossibile non imbattersi in Russell, in ogni decennio della storia delle riviste di fantascienza. Ma, per il momento, ecco l'occasione di leggere quella prima, fortunata collaborazione, per la quale dobbiamo ringraziare H. G. Wells, Leslie J. Johnson, John Russell Fearn e, soprattutto, Eric Frank Russell. I La città venusiana di Kar brillava sotto una volta d'azzurro splendore. Era una giornata magnifica per una manifestazione pubblica come il ritorno a casa della prima spedizione recatasi sulla Terra dopo molti secoli. I cittadini erano soddisfatti della collaborazione del clima; Piazza della Libertà era stipata da una mormorante folla multicolore che turbinava come un caleidoscopio. Qualcosa stridette nella volta celeste: il caleidoscopio divenne di un rosa uniforme, quando cinquecentomila volti si levarono verso il cielo. Lassù, nella stratosfera, apparvero due matite metalliche, che vomitavano fiamme cremisi dalle estremità posteriori. Le onde sonore lanciate dagli ugelli dei razzi scesero, rimbalzando sui timpani della gente in attesa. Le matite ingrandirono: il cremisi si estese lungo le loro superfici inferiori, mentre i razzi frenanti eruttavano con la massima potenza. In pochissimo tempo, gli oggetti apparvero nitidamente: erano lunghe astronavi affusolate. Con sorprendente rapidità divennero enormi, torreggianti, e scesero dietro la mole poderosa dell'università. Parvero soffermarsi per un momento, mentre i grandi oblò circolari lungo le fiancate sembravano fissare la folla sottostante al di sopra dell'orlo del tetto. Poi scomparvero. Vi fu uno scroscio enorme, riverberante, cui seguì un momento di silenzio assoluto. La
gente ritrovò la voce, proruppe in un torrente di suoni e, spontaneamente, s'incanalò lungo il Viale dell'Università in direzione dell'Aeroporto di Kar. Il campo d'atterraggio presentava una scena estremamente confusa. Da una parte stavano le astronavi, circondate dalla folla che gridava e si agitava. Il frastuono era più intenso nel punto dove le Guardie Civiche, sopraffatte dalla calca, si erano ridisposte in una formazione a cuneo e lottavano disperatamente per farsi largo. Il vocìo salì in crescendo, quando si vide che l'astronave più vicina stava aprendo il portello della prua. Il disco metallico ruotò sul perno, ritraendosi nell'ombra. Ancora una mezza rotazione, e svanì nell'interno della nave, mentre nel varco appena schiuso appariva una figura umana. I presenti gridarono, rossi in viso per lo sforzo: «Urnas Karin! Urnas Karin!» Karin rispose con un cenno alle grida e levò la mano per chiedere silenzio. Metà della folla sibilò per zittire gli altri presenti, che continuavano a gridare. Quelli che sibilavano rimproveravano quelli che urlavano, e questi ultimi reagivano chiassosamente. Ognuno prendeva a spintoni qualcun altro, e si offendeva quando veniva spinto a sua volta. Una donna svenne, ed un ometto lontano dieci metri si prese un colpo in testa a titolo di rappresaglia. In un baleno, cinquanta individui assunsero diverse versioni di pose di minaccia. Un cane nascosto chissà dove guaì, quando qualcuno lo calpestò, e dal fondo della folla una voce penetrante strillò: «Woopsey! Woopsey!» Immediatamente, la folla rise; la situazione potenzialmente pericolosa passò, e scese il silenzio. Karin balzò al suolo, seguito da venti compagni. Nei pressi c'era un piccolo podio, alto circa tre metri e mezzo. Karin vi salì, girò lo sguardo acuto sulle persone in attesa. Una guardia in uniforme gli piazzò davanti una scatoletta color ebano, montata su un treppiede. Karin accennò alla guardia di scostarsi, si mise davanti alla scatoletta e parlò. «Amici miei,» disse, con una voce piacevolmente ingigantita dal diffusore che stava usando, «il vostro meraviglioso benvenuto è una ricompensa preziosa. Vi ringrazio: e vi ringrazio anche a nome dei miei colleghi. Ora, sono sicuro che tutti voi scoppiate dalla voglia di sapere se la spedizione ha compiuto qualche scoperta importante sul nostro Pianeta Madre.» Fece una pausa e sorrise, mentre la folla, con un ruggito, confermava che stava veramente per scoppiare.
«Bene, purtroppo la nostra storia è troppo lunga perché io possa raccontarvela dettagliatamente. Basti dire che non abbiamo trovato tracce della civiltà dei nostri antenati. Le grandi città, le macchine possenti che un tempo appartenevano a loro si sono ridotte in polvere, e sono state completamente annientate dal piede del Tempo. La vecchia Madre Terra è priva d'aria, d'acqua e di vita, totalmente, completamente. «Ma abbiamo fatto una scoperta straordinaria.» Indugiò per un minuto, mentre la folla smaniava. «Abbiamo trovato il corpo di un uomo preistorico! Si è trattato veramente di una scoperta sbalorditiva. Su un mondo così antico da non serbare più traccia delle creazioni artificiali, dove l'atmosfera si è dispersa nello spazio e persino la rotazione assiale è cessata, giaceva il corpo di quest'uomo. «L'esame del cadavere ha rivelato un fatto apparentemente impossibile: la vita l'aveva abbandonato non più di cinquanta ore prima. Per fortuna avevamo con noi, nell'equipaggiamento, una camera a normalità. Vi abbiamo collocato il cadavere, l'abbiamo riscaldato, abbiamo reso liquido il sangue, e siamo riusciti a riportarlo in patria in condizioni tali da farci sperare che gli esperti del nostro Istituto di Medicina e Chirurgia potranno risuscitarlo. «Il corpo di quest'uomo è in condizioni perfette. La causa della morte è stata, letteralmente, la mancanza di respiro. Sembra appartenere ad un periodo di parecchi millenni anteriore al tempo in cui i nostri antenati abbandonarono la Terra moribonda e si stabilirono qui su Venere, un periodo così lontano nel tempo che le nostre bobine storiche non ne parlano. Ha la testa coperta di capelli, ed ha addirittura peli sul petto e sulle gambe! «In questo tempo così progredito, la capacità degli scienziati di riportare in vita i morti nei casi in cui la fine non è dovuta alla vecchiaia e non è accompagnata da lesioni gravi è una meraviglia troppo nota perché io debba sottolinearla. Forse anche qui sono presenti alcuni che non sarebbero con noi, se non fosse stato per i miracoli compiuti dai nostri uomini e dalle nostre donne migliori.» Fu interrotto da numerose grida di assenso. «Ritengo vi siano ottime possibilità che l'Istituto riporti in vita quest'uomo e lo metta in grado di raccontarci direttamente la sua storia. Se le mie speranze saranno giustificate, intendo chiedere ufficialmente ad Orra Sanla, presidente della Commissione Stereovisiva, che questo abitante solitario di un pianeta morto da tanto tempo si presenti davanti alle stereocamere della Stazione di Kar e dia al nostro mondo una spiegazione delle circostanze che, per essere sincero, noi consideriamo assolutamente ine-
splicabili.» Karin si volse e fece un cenno ad un robusto individuo che stava in prima fila nella schiera dei suoi venti compagni. «Comunque, stasera avrete di che divertirvi. Olaf Morga, aiutato da suo fratello Reca, che è a bordo dell'altra astronave, ha realizzato un documentario completo della nostra impresa, dal momento in cui siamo partiti da Kar fino a quello in cui abbiamo lasciato la Terra. La registrazione verrà consegnata alla Stereostazione di Kar e sarà trasmessa stasera, a partire dal tramonto.» Karin fece per scendere, tra un uragano di applausi. Una donna, al centro della folla, gridò: «La cintura!» La parola venne ripetuta da migliaia d'altri: prima che Karin avesse posato il piede sul primo gradino, l'intera folla stava ruggendo: «La cintura! Vogliamo la cintura!» Morga e Karin si scambiarono un sorriso. Karin tornò al centro del podio, slacciandosi lentamente la cintura di metallo flessibile che gli cingeva la vita. La sorresse per un'estremità, mentre la folla si agitava, eccitata. All'improvviso, la fece roteare sopra la testa, la lanciò verso l'alto, lontano. La cintura serpeggiò nell'aria verso il punto in cui la calca era più fitta. Una cinquantina di uomini balzò per afferrarla, mentre ricadeva. Poi la cintura sparì sotto una massa di esseri umani che lottavano freneticamente per impadronirsi del prezioso ricordo. Approfittando del diversivo, le Guardie Civiche aprirono un varco, dalle astronavi alla torre di controllo. Karin ed i suoi, insieme all'equipaggio della nave gemella, si avviarono svelti ed entrarono nell'edificio. La folla si riversò fuori dall'aeroporto, formando un torrente colorato che si diresse per il Viale dell'Università e mise a dura prova la capacità di carico delle strade mobili che portavano ai sobborghi. Il crepuscolo scese su Venere. Le stelle incastonate nel cielo senza luna penetravano il denso velo dell'atmosfera quanto bastava per dipingere fiochi brillii d'acciaio sulle fiancate delle viaggiatrici dello spazio interplanetario. Una accanto all'altra, sul campo costellato di rifiuti, le astronavi dormivano. II Due mesi dopo Bern Hedan, l'uomo che aveva preso la fibbia della cintura, manovrava i comandi del suo stereovisore e imprecava. Lo schermo in pan-selenite dell'apparecchio nuovissimo mostrava, a colori naturali e
con effetti stereoscopici, la fase finale della metamorfosi di un esemplare della fauna lacustre venusiana. Un annunciatore fuoricampo parlava in toni tali da far capire che gli scagnozzi di Sanla consideravano una nenia funebre suonata con un oboe asmatico l'accompagnamento più adatto alle acrobazie di quel pesce dal muso di ranocchio. «Per la morte della Terra!» esclamò Bern Hedan, usando l'imprecazione più terribile che la sua immaginazione era in grado di concepire in quel momento. «Ho pagato cinquantacinque yog d'anticipo, e altri dodici ad ogni alta marea per acquistare l'apparecchio. Pago bollette esorbitanti per l'energia necessaria per farlo funzionare. Caccio diciotto yog all'anno per il diritto di usare ciò che ho acquistato... o che sto acquistando.» Fece un gesto, senza rivolgersi a qualcosa di particolare, e parlò a voce alta. Gli piaceva parlare da solo. Gli piaceva anche il buon senso. «E cosa ci danno, per questo prezzo enorme? Cosa ci danno, dico io? Documentari sulle abitudini domestiche dai babbuini venusiani a cosce rosse, accompagnati da un gemito di strumenti a corde. Le avventure erotiche di un verme abissale con sottofondo d'una sinfonia per dieci armoniche. Bah!» Regolò rabbiosamente la manopola che sporgeva dalla parte anteriore dell'apparecchio. Lo schermo si oscurò, si annebbiò, poi si schiarì e presentò una scena nuova. Era l'interno della Sala dei Dibattiti, nella città di Newlondon. Due uomini erano seduti su poltrone sistemate su un podio semicircolare, di fronte ad un grande auditorio stipato di spettatori. Un terzo individuo stava in piedi sul palco, di fronte ad una stereocamera. Bern Hedan notò lo specchio appeso sulla parete di fondo, che creava un bizzarro effetto, mostrando lo schermo trasmittente, e creando una doppia immagine delle tre persone sul podio. Lo stereopresentatore stava dicendo: «Questa sera avete assistito a un dibattito estremamente interessante e istruttivo sulla Grande Migrazione. Tutti voi conoscete le ragioni che costrinsero la razza umana a sfruttare la scoperta del volo spaziale trasferendosi in massa sulla nostra patria attuale... Venere. I sintomi della decadenza senile planetaria, come la dispersione dell'atmosfera, la perdita della velocità orbitale e della rotazione assiale, divennero così allarmanti da rendere evidente che le caratteristiche della Terra cambiavano più rapidamente di quanto l'umanità potesse adattarsi al mutamento. I giorni della Terra erano contati... almeno dal punto di vista umano. Venere era un habitat adatto per i nostri antenati, per noi e per i figli dei nostri figli, e i mezzi per raggiungerla erano disponibili.
«Il problema discusso questa sera è stato, per riassumere: "La storia si ripeterà?" Con il passare del tempo, in un futuro remoto, la sorte del nostro pianeta ripeterà quella della Terra. Forse preferiremmo non pensarci, ma è una realtà, un fatto perfettamente naturale e inevitabile. I venusiani moriranno con Venere, oppure vi sarà un'altra Grande Migrazione?» E fece un cenno all'uomo seduto alla sua destra. «Il pessimista ritiene che siamo spacciati per le ragioni da lui esposte, la più seria delle quali sta nel fatto che la più vicina base nello spazio è il pianeta Mercurio... e Mercurio è inabitabile per gli esseri umani.» Poi indicò dalla parte opposta. «L'ottimista ritiene che l'umanità non scomparirà mai dal creato, soprattutto grazie al nostro costante progresso scientifico che, come egli ha detto, ci permetterà di perfezionare l'arte del volo spaziale, e di scegliere tra una dozzina di mondi prima che quello attuale diventi troppo scomodo. «Si conclude così questo dibattito tra Leet Loris di Kar e Reca Morga della Società dei Dibattiti di Newlondon.» Si alzò, fissando lo schermo della trasmissione, mentre nell'auditorio scrosciavano gli applausi. «Veniamo ora all'evento che tutta Venere ha atteso con la più grande emozione. Da quando l'Istituto di Kar è riuscito a resuscitare l'uomo preistorico, due mesi fa, il mondo intero è rimasto in attesa di udire la sua storia. Vi sono stati diversi commenti su questo indugio di due mesi, dovuto al fatto che la resurrezione di quest'uomo non bastava, da sola, a giustificarne l'immediata apparizione sugli stereoschermi. Egli ha avuto bisogno d'un periodo di convalescenza, durante il quale ha imparato la nostra lingua. Noterete che la parla piuttosto correttamente, dato che la sua è antenata della nostra.» Bern Hedon regolò la manopola del contrasto del suo apparecchio, in modo che lo schermo presentasse più nitidamente il podio. Trascinò una poltrona davanti allo stereo, sedette e attivò il grattatesta automatico. Placato dalla comodità dei cuscini e dal delicato massaggio del grattatesta, si preparò ad ascoltare, con spirito di tolleranza. I due che avevano partecipato al dibattito lasciarono il podio. Il presentatore si avviò verso il fondo, aprì la porta e, con aria teatrale, fece entrare l'uomo preistorico. Questi si fermò davanti allo schermo, e scrutò i dodicimila venusiani presenti nell'auditorio. Duecento milioni di venusiani scrutarono lui. I venusiani rimasero un po' delusi. L'oggetto della loro attenzione non aveva l'aspetto di chi vive sugli alberi e si nutre solo di noci. Aveva la testa
coperta da disgustosi capelli, ma per il resto sembrava del tutto normale. Era alto un metro e ottanta; gli occhi erano scuri, vivaci, il viso intellettuale persino secondo i criteri venusiani. Dalle spalle gli pendeva un silvoid karossa, alla vita portava l'inevitabile cintura venusiana. Sembrava perfettamente a suo agio: evidentemente non era d'accordo con il pubblico, che attribuiva alla sua personalità un valore puramente antiquario. «Ho l'onore,» disse il moderatore, «di presentarvi Glyn Weston, l'uomo del 2007 a.C.... una data che si colloca approssimativamente settantamila anni prima della Grande Migrazione, circa centocinquantamila anni fa.» Un brusio di sorpresa corse tra i sedili affollati. «Glyn Weston ha raccontato la sua storia al Comitato dell'Università di Kar: ha dato un preziosissimo contributo alle pagine della storia antica. Ora lo pregherò di ripetere il suo racconto, e credo che, quando lo avrete ascoltato, riconoscerete che questa voce del passato ha narrato la vicenda più sbalorditiva mai trasmessa dallo stereo. Glyn Weston!» III «Amici miei,» cominciò Weston, con voce gradevolmente modulata, «c'è qualcosa che debbo dire, prima di narrarvi la mia storia. Il dono più grande di Dio all'uomo è la vita. Non posso dire che voi mi avete dato la vita, ma alle straordinarie conoscenze della vostra civiltà meravigliosa io debbo la restituzione di quello che mi era stato tolto... appunto, la vita! Il linguaggio è inadeguato per esprimervi la gratitudine che io provo. Vorrei che ognuno di voi sapesse quanto profondamente sono riconoscente per ciò che la scienza venusiana ha fatto per me.» (Un uragano di applausi scosse l'auditorio. Il pubblico decise che stava ascoltando un uomo, non un selvaggio.) «Come già vi è stato detto, mi chiamo Glyn Weston. Non conosco la mia età: la ragione risulterà evidente più avanti. Nel mio tempo, se pure c'è un tempo che io possa dire mio, ero un fisico. «Cominciai la mia ricerca a ventotto anni, quando ebbi la fortuna di ereditare un cospicuo patrimonio. Ero allora assistente del celebre professor Vanderveen, astrofisico dell'Osservatorio di Glasgow. Per molti anni avevamo avuto l'hobby di studiare l'opera di McAndrew, chiamato comunemente "l'Uomo del Raggio della Morte". «McAndrew era uno scienziato del decennio precedente. Il suo lavoro aveva superato quello di certi matematici e fisici del ventesimo secolo, so-
prattutto Einstein, Graham, Forrest e Schweil. Era il massimo esponente mondiale del concetto dello spazio-tempo e, come molti altri geni, era morto screditato dai suoi contemporanei, perché aveva affermato che sarebbe stato possibile viaggiare nel tempo, spostarsi nel futuro. «Schweil, che aveva collaborato con McAndrew, aveva dimostrato che il tempo non era un concetto indipendente, bensì un aspetto del moto. Non poteva esservi tempo senza moto... né moto senza tempo. «Questo potrà apparire piuttosto oscuro ad alcuni di voi, ma in realtà è molto semplice. Provate ad immaginare il tempo senza moto: considerate i mezzi con cui calcolate il tempo. I due fattori sono inseparabili, perché sono semplicemente due aspetti diversi della stessa cosa. McAndrew aveva dedicato tutta la sua vita alla scoperta della vera relazione tra questi due aspetti e, se posso esprimermi così, alla definizione della "differenza". «La sua opera fu coronata dal successo due anni prima della morte. Lavorando sulla teoria secondo cui la velocità del moto e il ritmo del tempo conservavano invariabilmente un parallelo costante, realizzò un raggio con cui fece scomparire un gran numero di oggetti. Egli affermava che il raggio accelerava la velocità del moto degli elettroni, facendo in modo che gli atomi percepissero il tempo più velocemente, e spingendo quindi a forza gli oggetti nel futuro. Naturalmente, fu deriso. «La sua scoperta venne descritta nei termini più assurdi, come "disintegratore automatico" e "raggio della morte". McAndrew lasciò i suoi dati all'unico scienziato che credeva in lui. Si trattava di Vanderveen, il mio superiore. «Vanderveen aveva superato la cinquantina, quando raccolse la torcia accesa di McAndrew. Durante il periodo della mia collaborazione, m'incoraggiò continuamente, quasi come un padre. Il mio interesse per McAndrew lo rallegrava moltissimo. Quando ricevetti l'eredità, gli dissi che intendevo usarla per proseguire le ricerche dal punto in cui le aveva interrotte McAndrew. «"Weston," mi disse allora, posandomi una mano sulla spalla, "speravo che questa fosse la sua grande ambizione. McAndrew, purtroppo, aveva trovato in me un cane troppo vecchio per imparare nuovi giochi. Ma lei... lei è giovane." «Così il seme venne gettato. Ma Vanderveen non visse abbastanza per vederne le messi. Ventidue anni dopo, io diventai il soggetto umano di un esperimento di viaggio nel tempo. Avevo creato il mio laboratorio in una località selvaggia del Peak District, nel Derbyshire, in Inghilterra, dove po-
tevo svolgere il lavoro senza troppe interferenze. Dal laboratorio spedivo nell'ignoto, presumibilmente nel futuro, una quantità di oggetti, e persino numerosi esseri viventi, come ratti, topolini, piccioni e polli. Non riuscii mai a riportare indietro ciò che avevo fatto sparire. Quando se ne andava, il soggetto se ne andava per sempre. Non c'era modo di scoprire esattamente dove fosse finito. Non v'era altro da fare che correre il rischio, e andare di persona. «A questo scopo, progettai una camera stagna per i viaggi nel tempo, e la feci costruire immediatamente. Poteva contenere il proiettore SchweilMcAndrew molto perfezionato, me stesso, ed una quantità di materiale che ritenevo indispensabile portare. Il proiettore era sistemato in modo che l'intera camera, con tutto il suo contenuto, svanisse non appena il raggio veniva attivato. Sapevo, naturalmente, che se quella camera mi avesse veramente trasportato nel futuro, avrei dovuto tener conto delle possibili alterazioni del profilo del suolo durante il periodo da me coperto. Sarebbe stato assurdo tentare l'esperimento in un punto dove il suolo avrebbe potuto alzarsi, lasciandomi sepolto sotto parecchi metri di terra. Perciò affittai un campo, in cima ad una collina, quindici chilometri a nord-ovest di Bakewell... una località molto solitaria: e fissai alle travature del tetto un paracadute di mia invenzione, per ovviare all'eventualità opposta. «Il 14 aprile del 1998 d.C, tutto era pronto per la grande prova. Avevo regolato i miei affari finanziari, pensando al futuro. La camera per i viaggi nel tempo, munita di finestre e simile ad una grande cabina telefonica, attendeva in mezzo al campo dell'agricoltore Wright. Mentre mi avviavo per raggiungerla, senza sapere che cosa mi riservasse il Fato, pensai che era un oggetto incongruo, tra i solchi. Senza la minima esitazione, aprii la porta, entrai e la richiusi, avviai l'apparecchio per purificare l'aria, diedi un'ultima occhiata alla Terra primaverile, e chiusi i contatti del proiettore. IV «La sensazione causata dall'influenza dei raggi era estremamente strana. La mia mente sembrava svuotata d'ogni pensiero, e conservava solo impressioni alternate di ruvido e liscio, viscido e levigato, come se persino la mia materia cerebrale ondeggiasse tra una pseudofibrosità simile a quella di una stoffa stiracchiata ed una morbidezza piacevole, come una pallina di stucco fresco. Un velo di vapori si levò tra me e il mondo, e aguzzai gli occhi per cercare di vedere. La nebbiolina era sfuggente, intangibile. So-
pravvenne un temporaneo difetto ottico, e sventò tutti i miei tentativi di accertare se il vapore ricopriva le finestre della camera oppure velava i miei globi oculari. «Mi colse un panico improvviso; abbassai l'interruttore che ancora stringevo con la mano destra. Una sensazione di tensione immensa straziò il mio corpo dalla testa ai piedi, i vasi sanguigni ribollirono come se il contenuto fosse stato sostituito da seltz. La nebbiolina sfuggente era caduta, come il velo d'una danzatrice orientale. Stavo male come un cane. «La mia chiave scattò nella serratura della porta. Uscii e mi guardai intorno. Tutto appariva esattamente come l'avevo lasciato. Il campo era ancora arato; alcuni alberi ed arbusti mostravano di essersi accorti della primavera: il cielo era ancora nebuloso, l'aria stimolante come prima. Il mio esperimento era stato un insuccesso. «Avvilito, m'incamminai lungo i viottoli solitari per tornare al mio laboratorio. Ricordo che gli uccelli cantavano, ma non li ascoltavo, in quel momento; i primi fiori arricchivano con la loro bellezza il mio mondo triste, ed io non li vedevo... in quel momento. «Maledicendo mentalmente l'imprevidenza che mi aveva indotto a non lasciare l'auto parcheggiata nel campo, svoltai una curva della strada e cominciai a salire un'altura, tra la camera ed il laboratorio. Un contadino uscì da un viottolo alla mia sinistra e proseguì, dietro di me. Accelerò il passo, mi raggiunse e mi chiese l'ora. Si trattava di un vecchio loquace e, secondo me, quella domanda era solo un pretesto per attaccare discorso. Tuttavia, estrassi la catena d'oro e diedi un'occhiata al modesto orologio appeso alla sua estremità. «"Mi dispiace," risposi. "Il mio orologio si è fermato."» «"Anche il mio," disse il vecchio. "Dovrò sentirlo alla radio, quando arriverò a casa." Accese una sigaretta e per un po' camminò in silenzio. "Cosa ne pensa del grande volo del razzo?" chiese all'improvviso. «Faticai a riprendermi, e prima di poter rispondere dovetti compiere uno sforzo mentale. Riuscii a ricordare il sensazionale volo attraverso la Manica di Robert Clair. Era stato acclamato come il primo esperimento veramente riuscito di un razzo con passeggero umano. Se non ricordavo male, aveva avuto luogo solo un mese prima. La scienza della missilistica interessava un numero ridotto di persone; era strano che quel vecchio mostrasse tanto interesse per un evento accaduto ormai da quattro settimane. La cortesia m'imponeva di rispondere. «"Solo un altro passo avanti nella marcia inevitabile del progresso," dis-
si. «"Pensa che arriveranno davvero sulla Luna?" «"E chi può dirlo?" ribattei, evasivamente. «"Ecco, se ne parla; se ne parla molto," insistette il vecchio. "Leggevo sui giornali, proprio l'altro giorno, che un professore ha calcolato il tempo che occorrerebbe per andare su Venere, e come si potrebbe costruire un razzo adatto, quanto costerebbe. Avevo sempre pensato che Venere fosse una donna nuda, non un pianeta. Questo dimostra quanti progressi ci sono stati, da quando io ero giovane." «"Ah! È destino di noi tutti, venir considerati ignoranti secondo la mentalità dei tempi successivi," lo consolai. «"Chissà dove andrà il mondo?" chiese il vecchio, aspirando furiosamente la sigaretta. "Prima le macchine a vapore, e poi le automobili, e gli aerei e quei come-si-chiamano che sembrano mulini a vento e non hanno ali, e gli aeroplani stratosferici... e adesso i razzi! Ricordo, quand'ero bambino, il chiasso che fecero i giornali perché Ginger Leacock circum... circum... beh, fece il giro della Terra senza scalo, con uno di quei vecchi, pazzeschi aerei stratosferici. Da allora l'hanno fatto sei volte, e non sono ancora contenti! Così, adesso, si sono messi a pasticciare con i razzi. «"Prima c'è un pazzo che scavalca una casa e si rompe l'osso del collo. E lo chiamano martire della scienza. Poi un altro idiota che tiene a diventare martire si lancia attraverso il Canale della Manica con un razzo e si spacca tutte e due le gambe. Per non sfigurare, un altro matto parte da Dublino e va a sfondare un grattacielo di New York, sfracellandosi..." «"Ehi!" l'interruppi. "Di che diavolo sta parlando?" «"Dei razzi," rispose il vecchio. "E adesso, quando possono andare da qui in Nuova Zelanda in ventiquattro ore, fermate comprese, o in diciotto ore senza scalo, io dico che è..." «"Mi vuole ascoltare?" gridai, affermandolo per le spalle. "In nome del cielo, di cosa sta parlando?" «"Non si offenda, non si offenda," fece quello, nervosamente, cercando di svincolarsi. "Non intendevo dir niente, davvero!" «"Non mi sono offeso," ruggii. Poi, rendendomi conto che il mio comportamento lo sconvolgeva, mi calmai, e continuai in toni più pacati: "Deve scusarmi. L'argomento di cui sta parlando m'interessa moltissimo; e per certe ragioni, da qualche tempo non ho notizie al riguardo. La mia emozione è stata causata dal suo accenno a un volo a razzo fino a New York. Vuol dirmi quando è avvenuto?"
«"Mi lasci pensare!" Chiaramente rassicurato, l'uomo si fermò a contemplare il cielo, frugando nella propria memoria. "Se non ricordo male, era la fine dell'estate del 2004." «"Che anno?" «"2004," ripeté lui. «"E quando è stato il grande volo cui ha accennato all'inizio?" chiesi, compiendo uno sforzo enorme per controllarmi. «"Ieri." «"Le sembrerà una domanda strana," dissi. "Ma non ho nulla di grave. Soffro soltanto di lievi disturbi della memoria. Mi dica, che giorno era ieri?" «Mi guardò con aria di comprensione, estrasse dalla tasca sinistra un giornale piegato, l'aprì e me lo porse. In prima pagina c'era un titolo a caratteri cubitali. NUOVO PRIMATO DI UN REATTORE, diceva. E sotto: IN NUOVA ZELANDA IN DICIOTTO ORE - Lampson precipita nella Hawkes Bay. Non feci molto caso a questa notizia, per quanto fosse clamorosa. I miei occhi cercarono ansiosamente sopra la testata. E c'era la data, chiara, inequivocabile: DAILY VOICE - 22 maggio 2007. «Prima che il vecchio, sbalordito, avesse la possibilità di muoversi, l'avevo abbracciato e baciato. Lanciai in aria il giornale e quando ricadde gli sferrai un calcione. Gridai esultante con tutto il fiato che avevo in gola e ballai un fandango in mezzo alla strada. Il cappello mi cadde dalla testa e rotolò nel fosso; il mio orologio schizzò fuori dal taschino e ballonzolò appeso alla catena. Il mio esperimento era riuscito! Per cinque minuti mi scatenai, mentre il mio interlocutore, dimenticando la dignità della vecchiaia ed i reumatismi, saliva al galoppo la collina come un cervo inseguito e spariva oltre il dosso. V «Essere riuscito a compiere un breve balzo nel tempo ebbe su di me un effetto completamente diverso da quello che avrei previsto qualche anno prima. Non mi precipitai, trionfante, a sventolare la grande notizia sotto gli occhi del mondo sbalordito. Al contrario, divenni sospettoso e circospetto come un avaro di campagna. Il desiderio di acquisire la fama ed il rispetto del mondo scientifico svanì, sostituito da una curiosità così insaziabile che ogni giorno diventava soltanto una parentesi di speculazione sull'indomani. Il futuro mi dominava come una droga.
«In precedenza, avevo serbato il segreto perché ero deciso a non permettere che la mia opera cadesse in mani indegne. Ora, temevo di venir privato dei mezzi per soddisfare il desiderio di esplorare il futuro nel modo più completo. «Sotto ogni punto di vista, mi sembrava opportuno intraprendere subito la mia nuova avventura. Il mio patrimonio personale contava poco: il mio danaro era nascosto al sicuro... ma non abbastanza per resistere ai danni del tempo. Giunsi alla conclusione che potevo permettermi di ignorare la sorte dei miei beni terreni: non era probabile che potessi rivendicarli in una data remota. «Nell'atmosfera tranquilla del laboratorio polveroso, riflettei sul problema. La camera dei viaggi nel tempo doveva venire rimossa al più presto possibile. Chissà quale storia bizzarra aveva raccontato il mio interlocutore, quand'era tornato a casa, e quali occhi curiosi, quali mani indagatrici avrebbero esplorato l'oggetto nel campo di Wright. Per la verità, non sapevo neppure se il campo apparteneva ancora a Wright. Il proprietario, chiunque fosse, avrebbe potuto sfasciare arbitrariamente l'oggetto comparso sulla sua proprietà. Dovevo muovermi quella stessa notte. «Un'ora prima del tramonto entrai nella camera e chiusi la porta, per prepararmi alla seconda avventura. Avevo lo stomaco vuoto: in laboratorio non c'erano viveri, e non mangiavo da parecchie ore. Mi consolai con una sigaretta vecchia di nove anni... e ancora fresca! Fiochi riflessi di luce permeavano ancora il cielo, in direzione dello Staffordshire: una falce di luna brillava bassa sull'orizzonte, le stelle scintillavano nitide. La sigaretta esalò l'ultimo sbuffo di fumo fragrante. La calpestai e dissi: "Addio, 2007!" «Esitai, con la mano sull'interruttore. L'ultima volta, era rimasto chiuso tra i sei ed i dieci secondi, a quanto potevo stimare, ed io mi ero spostato di nove anni. La distanza percorsa era direttamente proporzionale al tempo durante il quale restava chiuso l'interruttore? Sarei morto di colpo, quando i raggi mi avessero portato nel giorno che la Natura aveva fissato quale data della mia morte, oppure, fosse logico o no, era possibile spostarsi oltre quello che avrebbe dovuto essere il giorno della propria fine? Il silenzio soltanto rispose alle mie mute domande. Non potevo far altro che cercare di scoprirlo. L'alternativa era tra il successo ed il suicidio. Spostai l'interruttore con esagerata lentezza. Il dado era tratto! «Non vi annoierò con un'altra descrizione del malessere che ho chiamato nausea del tempo. I raggi rimasero in funzione per un periodo circa dieci
volte più lungo che nell'occasione precedente... circa un minuto. Poi aprii l'interruttore: il mio corpo subì una tensione poderosa ma momentanea. Ero arrivato. La chiave tintinnò nella serratura, la porta si spalancò verso l'interno. Con lo sguardo levato verso le colline lontane, uscii. Qualcosa intralciò il mio passo, e caddi lungo disteso. Mi rialzai, e scoprii che la camera era sprofondata nel terreno per una quindicina di centimetri. Ero inciampato nel gradino di terra, oltre la porta. Per fortuna, non avevo montato nella camera un portello che si aprisse verso l'esterno, altrimenti sarei rimasto imprigionato. «Guardandomi intorno, notai per prima cosa che il campo non era coltivato. Pochi alberi ed arbusti stenti mostravano gli ultimi brandelli di fogliame bruniccio. Il cielo era grigio, coperto e minaccioso; conclusi che doveva essere autunno avanzato, o inverno iniziato da poco. Non c'era anima viva, intorno, mentre attraversavo il campo, dirigendomi verso il viottolo. «Arrivai ad un muretto di pietra alto poco più d'un metro, vi salii, scrutai l'orizzonte lontano e il terreno circostante. Non c'era segno di vita, né di abitati umani. I miei occhi scrutarono ansiosi, scorsero una sagoma inspiegabile a media distanza, a circa sette chilometri. Estrassi gli occhiali, li pulii e me li assestai con cura sul naso. L'oggetto era un enorme emisfero, di colore opaco. «L'edificio sporgeva da una sommità rocciosa, come una verruca da un naso. Si trovava nella direzione opposta rispetto a quella in cui si trovava il mio laboratorio... se pure esisteva ancora. Avevo molta fame: il mio stomaco sosteneva che quell'unica costruzione artificiale nel paesaggio poteva significare cibo. Scesi con un balzo dal muretto e mi avviai nella direzione della roccia lontana. «Procedendo ad andatura svelta, dopo quasi un'ora arrivai a poche centinaia di metri dall'oggetto che si era rivelato per una grande massa liscia di cemento, del diametro di circa trecento metri ed alto centocinquanta. Sembrava che in cima vi fosse una grande apertura. Non ebbi la possibilità di fermarmi ad esaminarlo, prima di procedere; esitai, mentre muovevo un passo, e una voce si materializzò nell'aria, dietro di me. Parlava con un accento bizzarramente secco, un po' come gli scozzesi, e in modo conciso e sbrigativo. M'intimò: "Fermo!" «Mi voltai di scatto. Di fronte a me c'era un uomo dall'abito marrone scuro, che sembrava una via di mezzo fra la tuta di un macchinista ed
un'uniforme militare. Sulla testa portava un elmo, una calotta di metallo opaco; le mani stringevano, puntandolo contro di me, un oggetto che somigliava solo lontanamente a un fucile. L'abbigliamento era disadorno: gli dava un aspetto che ricordava un po' un fantaccino, un po' un idraulico. «"Da dove viene?" esclamai. «"Sono sbucato da un cespuglio," fece quello, con un gran sogghigno. "E lei?" «"Vengo dall'anno 2007." «"Davvero! Allora il passato si scatena contro di noi!" Una sfumatura di sarcasmo colorò la sua voce; ma sembrava un individuo intelligente. «"Deve credermi," ribattei. "La mia storia è assai lunga, ma quando l'avrà ascoltata la giudicherà..." «"Molto plausibile!" m'interruppe quello. "Se come bugiardo vale più di noi, deve essere in gamba. Adesso si muova. Potrà raccontarci come ha fatto a salvare il mondo nel 2300, quando saremo dentro." «"2300! Ha detto 2300?" Cercai di afferrargli il braccio. «Mi puntò contro lo stomaco la canna della sua arma. "Certo, ho detto 2300. Muova un po' più i piedi e un po' meno la lingua. E nel caso che voglia continuare la commedia, Matusalemme, posso anticipare la sua domanda dicendole che questo è l'anno di disgrazia 2486." «"Santo cielo!" gridai, mentre mi voltavo e salivo la collina. "Ho compiuto un balzo di quasi quattro secoli!" «"Dalla padella nella brace," osservò il mio interlocutore. «"Perché? Cosa vorrebbe dire?" «"Esattamente quello che ho detto," rispose lui, con espressione sardonica. "Sarà un bravo saltatore, ma ha scelto male. Perché non si è fermato un po' prima o non è andato più avanti? Un saltatore che sceglie questo anno è matto. Diavolo, del resto lo sapevo che era pazzo!" «"Sì, ma..." «"Avanti, saltatore, cammini!" ordinò l'uomo. "Non voglio usare il fucile a economia contro un bianco, anche se è pazzo." «"Perché chiama la sua arma fucile a economia?" gli chiesi. «Quello sospirò. "Beh, se ci tiene a parlare e se proprio vuol fingere di ignorare le cose più comuni, si chiama così perché spara dardi avvelenati con un meccanismo ad aria compressa, e perciò consente di risparmiare gli esplosivi di cui c'è tanto bisogno altrove..." «Stavo per chiedergli dove mai c'era tanto bisogno di esplosivi, e per quale scopo, quando mi accorsi che eravamo arrivati ai piedi dell'emisfero
di cemento, e stavamo di fronte ad una porta metallica. «Il mio accompagnatore toccò la porta e scostò uno spioncino al centro, rivelando uno schermo fluorescente. Si mise davanti allo schermo e parlò: "Numero KH-3285kB4, con un signore giunto dall'anno 2007." VI «La porta si aprì senza far rumore. Entrammo. Davanti a noi c'era un lungo corridoio illuminato indirettamente da feritone laterali. Con un passo sincrono, che mi dava fastidio e che io cercavo invano di spezzare, percorremmo il corridoio, svoltammo in fondo a destra, ci avviammo lungo un passaggio di cemento ed entrammo in un'ampia stanza. «Un individuo dalla pelle coriacea e dai baffi vistosi alzò la testa dalla scrivania. "Cosa vuole?" scattò. «"Mangiare," risposi, laconicamente. «"Portagli da mangiare," disse quello, rivolgendosi al mio guardiano. Poi mi guardò e fece: "Sieda." «Dietro di me, sul pavimento, c'era un grosso cubo di gomma rosso. Mi sedetti, impacciato. Era un cuscino d'aria, comodissimo. L'uomo dietro la scrivania si protese verso di me, accese uno strumento che somigliava vagamente agli antichi registratori. Si accarezzò i baffi e mi squadrò. «"Nome?" domandò. «"Professor Glyn Weston." «"Professore, eh? Di che università?" «"In origine, dell'Osservatorio di Glasgow; ma poi ho lavorato nel mio laboratorio privato, a circa quindici chilometri di qui." «"Non c'è nessun laboratorio entro un raggio di venti chilometri," ribatté lui, acido. «"Il mio laboratorio era a quindici chilometri da qui nell'anno 2007," insistetti, ostinato. «"Nel 2007! Quanti anni ha, allora?" «"Da un punto di vista, poco più di cinquanta; da un altro, quasi cinquecento." «"Assurdo!" esclamò quello. "Chiaramente assurdo!" «"C'è una spiegazione per questa apparente assurdità. Nell'anno 2007, fui il primo uomo a compiere un viaggio nel tempo... cioè, nel futuro. Vi ero arrivato dal 1998. Poi ho ripetuto l'esperimento. Il risultato eccolo... sono qui! "
«"Ah!" Quello si strofinò il naso con l'indice e mi guardò in modo strano. "La popolarità della fantascienza ci ha reso molto familiare il tema dei viaggi nel tempo. Però sono impossibili." «"Perché?" domandai. «"Sono illogici." «"La vita è illogica; i terremoti sono illogici." «"È vero," riconobbe l'uomo. "Secondo certi punti di vista è profondamente vero. Ma lei può accettare l'idea di stringere la mano ai suoi antenati, qualche secolo prima di nascere?" «"No... questo sarebbe veramente illogico. I miei esperimenti mi hanno dimostrato che nel tempo ci si può muovere in un'unica dimensione... in avanti, nel futuro. Non vi può essere ritorno al passato, neppure per una frazione di secondo." «Il mio interlocutore si alzò e si allontanò dalla scrivania, raggiunse uno scaffale d'angolo, frugò tra i volumi e tirò fuori un grosso tomo nero. Ne sfogliò le pagine. Si rivolse a me, tenendo in mano il libro aperto e m'interrogò. "Che popolazione aveva Bakewell nel 2007?" «"Non saprei dirglielo," risposi. "Ho trascorso pochissimo tempo in quell'anno. Ma nel 1998 era di circa 4500 persone." «"Uhm. E chi era il primo ministro della Gran Bretagna?" «"Richard Grierson." «"Esatto! In quell'anno Clair sorvolò la Manica. Chi aveva progettato il suo razzo?" «"Lo sperimentatore astronautico tedesco Fritz Loeb." «"Ancora esatto!" «"Mi stia a sentire," lo supplicai. "Se quella che ha lì è una specie di antica enciclopedia, la prego di cercare la voce Tempo, e di vedere chi ha scritto libri sull'argomento." «L'uomo si umettò l'indice, sfogliò il volume. Lo depose sulla scrivania, ne prese un altro, cercò anche in quello. Esplorò quattro tomi, prima di trovare quel che voleva. «"Ecco qui. Tra parentesi, io sono il capitano Henshaw," aggiunse, quasi soprappensiero. "Vediamo. Schweil, Herman, un libro in tedesco, Der nonsochecosa; ancora Schweil, con un altro libro; McAndrew, Fergus, Space-Time Coordinates; ancora McAndrew, Time-Motion Relationship; Weston, Glyn... beh, che io possa diventare un giallo! Weston, Glyn, Atomic Acceleration in the Time Stream; e ancora, Weston, Glyn, SchweilMcAndrew Theories Simplified. Un altro, un altro: uno, due, tre, quattro,
cinque, sei! Glyn Weston... è lei!" «"E posso provarlo," dissi, immensamente soddisfatto nel constatare che il mio lavoro era ricordato dopo cinque secoli. «"Come?" chiese il capitano Henshaw. «"La mia camera per i viaggi nel tempo attende la sua ispezione in un luogo che posso indicarle solo come il campo dell'agricoltore Wright. È a un'ora di cammino da qui." «All'improvviso, si aprì una porta alla mia sinistra. Apparve un uomo in divisa, che sospingeva un carrello di lucidi tubi metallici montato su ruote. Lo fece girare con destrezza, volgendolo davanti al mio posto, ne prese un vassoio ben carico e, con l'aria disinvolta di un esperto prestigiatore, ne estrasse, dalla parte inferiore, quattro gambe telescopiche. Assestò a dovere il congegno, poi indietreggiò, agitò un tovagliolo e s'inchinò con un sorriso impudente. «"Deve aver fame, dopo cinquecento anni di digiuno," disse. Lanciò un altro sogghigno a Henshaw ed uscì. «"Per essere sincero," disse Henshaw, mentre io attaccavo quel graditissimo pasto, "il suo racconto è troppo ridicolo perché possa crederle, nonostante le prove che può offrire. Non pensi che intenda darle del bugiardo; non ci penso neppure. Posso dirle solo che non mi pronuncerò, al riguardo, fino a che non avrò avuto la possibilità di esaminare quella sua cabina magica, e ho intenzione di andarla a vedere non appena avrò finito il turno di servizio, tra circa due ore." «"Con piacere," borbottai io, a bocca piena, agitando in aria la forchetta. «"E quando avrò visto il suo congegno, farò un rapporto a Manchester. Allora i miei superiori potranno decidere come trattarla." «"Mi suona un po' minaccioso," osservai, masticando in fretta. «"E nel caso che la sua storia risultasse vera in tutti i particolari, c'è qualcosa che lei vorrebbe sapere?" «"Sì!" riposi, infilzando una patata. "Dove sono?" «"Nella Fortezza d'Intercettazione Numero 37." Henshaw si scostò dalla scrivania e cominciò a camminare avanti e indietro. «"Che cosa?" domandai, con improvvisa energia. «"Fortezza d'Intercettazione," ripeté lui. "C'è una guerra in corso." «"Una guerra!" gli feci eco, con un fil di voce. «"La più grande e feroce che il mondo abbia mai conosciuto. Dura da cinque anni e ha tutta l'aria di voler continuare per altri cinque. Un decimo della popolazione terrestre è stata spazzata via, annientata. La Metropoli,
che ai suoi tempi veniva chiamata Londra, non esiste più, se non come una vasta distesa di mattoni frantumati, di pezzi d'ardesia e frammenti di cemento, dove giacciono le ossa di coloro che l'abitavano da vivi. Se lei, come afferma, è capace di spostarsi nel tempo, vivrà per maledire l'invenzione che l'ha portata nel presente." L'espressione di Henshaw si fece amara, la voce rauca. «"E contro chi combatte la Gran Bretagna?" chiesi, dimenticando di mangiare. «"La Gran Bretagna non esiste più," rispose Henshaw. "È un nome che venne abbandonato due secoli fa. Non c'è neppure un Impero Britannico. Ora lei si trova in Inghilterra, uno Stato autonomo che fa parte del Mondo Bianco, come la Scozia, l'Irlanda, l'Australia, la Germania, la Russia e tutti gli altri. La Terra, oggi, ha tre sole divisioni: il Mondo Bianco, il Mondo Giallo e il Mondo Bruno. «"Il Mondo Bruno è il più piccolo ed insignificante. Comprende le cosiddette razze nere ed è neutrale... per il momento. Il Mondo Bianco e quello Giallo si combattono spietatamente per affermare il proprio diritto di riprodursi indipendentemente dallo spazio disponibile. Ma le sto rovinando il pranzo. Finisca, la prego, poi la condurrò nella sala della teleosservazione. Potrò mostrarle qualche aspetto della guerra." «Con la mente assillata da dozzine di pensieri, mangiai in silenzio, mentre Henshaw si aggirava inquieto davanti allo scaffale, estraendo volumi e rimettendoli a posto. Finii il pasto, bevvi le ultime gocce della bevanda, masticai l'ultimo frammento di galletta e mi alzai. «Henshaw indicò la porta da cui era entrato. La varcammo, ci incamminammo per un lunghissimo corridoio, passammo un'altra porta, salimmo una scala a chiocciola e arrivammo in un altro passaggio; giunti in fondo, ci trovammo in una lunga sala rettangolare, sotto il tetto della fortezza. «"Ecco la sala della teleosservazione," disse Henshaw. VII «Le pareti ed il pavimento della sala erano coperti da una quantità di strumenti e di apparecchi. Quattro uomini si aggiravano indaffarati, mentre, in fondo, altri due sedevano davanti a quelli che mi parvero quadri di comandi. L'oggetto più notevole era un gran disco di vetro fissato ad un'intelaiatura metallica al centro. Era leggermente inclinato rispetto al piano orizzontale: aveva la superficie a specchio e somigliava notevolmente ai ri-
flettori astronomici dei miei tempi. «Henshaw prese una sedia. La piazzò accanto allo specchio, mi invitò ad accomodarmi e si avvicinò agli uomini seduti ai quadri dei comandi, conversò brevemente con loro. Poi tornò, si fermò accanto a me. «"Questa teleosservazione fu il risultato dell'aver lasciato che gli sperimentatori dilettanti delle onde corte giocassero con la televisione. È troppo complicato per spiegarglielo, ma per dirla in breve, un raggio viene puntato verso il cielo; attraversa gli Strati di Heaviside e di Appleton e rimbalza sullo Strato di Grocott, che si trova ad una quota di circa milletrecento chilometri. Poi ritorna sulla Terra, e capta la scena che si svolge nel punto in cui colpisce. «"Rimbalza esattamente intorno alla Terra, registrando la scena là dove colpisce casualmente: la prima espressione è la più forte, e quando captiamo di nuovo il raggio, non è difficile escludere la confusione delle altre scene, lasciando chiara e nitida solo la prima. Ora gli operatori stanno cercando di angolare il raggio in modo da offrirci una visione della Metropoli. Dovrebbe arrivare da un istante all'altro." «Mentre parlava, il disco a specchio prese vita, con sbalorditiva rapidità. Non si annebbiò. La superficie, che un attimo prima non mostrava altro che brillìi, raffigurò una scena con nitidezza sorprendente. Mi protesi per osservarla. «Una strada devastata, crivellata da crateri irregolari, passava per una zona piena di montagnole di materiale edilizio in rovina. Sebbene cercassi attentamente, non scorsi un solo punto in cui due mattoni erano ancora congiunti, o dove vi fosse un mattone intero. La scena aveva un'uniformità allucinante dal primo piano allo sfondo: un chilometro quadrato di testimonianza tremenda. «Nulla si muoveva, in quello scenario desolato; non si udiva un passo, là dove un tempo camminavano dieci milioni di paia di piedi; non una voce si levava là dove un tempo s'innalzavano le voci gaie dei bambini. Un nodo mi strinse la gola, quando compresi che la Metropoli, la cara vecchia Londra, non c'era più. Era una grande cicatrice grigia su quella che, ancora, pensavo fosse la dolce faccia verde della Madre Terra: come una cicatrice sull'anima dell'umanità. «Lo Specchio cambiò fuoco, quando gli uomini in fondo alla sala ne manovrarono i comandi. L'estremità più vicina della strada parve sollevarsi, venirmi incontro, apparendomi più dettagliatamente. Vidi ossa che
sporgevano da un cumulo di terriccio, ad una cinquantina di metri da un ampio cratere; accanto alle gambe giaceva lo scheletro appiattito di un cane. Henshaw chinò la testa, si massaggiò il mento con un suono graffiante, poi parlò. «"Ecco davanti a lei uno degli episodi più strazianti della guerra. Il cane rifiutò di abbandonare il padrone che era stato colpito. Restò lì, a morire di fame. Migliaia di persone assistettero alla sua prova di devozione, la seguirono attraverso il teleosservatore fra imprecazioni e lacrime d'impotenza. Il tenente pilota O'Rourke, disobbedendo agli ordini, fece un tentativo disperato di salvare il cane, quando ormai era ridotto pelle ed ossa. Fu abbattuto da una squadriglia dei Gialli. Il suo aereo a reazione oggi è frammisto alla polvere del Marble Arcb. Dio conceda riposo a quel valoroso gentiluomo!" «"Stanno vincendo i Gialli?" chiesi io, con una stretta al cuore. «"No, non direi proprio. La guerra ha ormai raggiunto quella fase di perfezione in cui nessuno vince e tutti perdono. La Metropoli, o ciò che ne resta, non è in condizioni peggiori di Kobe e Tokyo. La campagna consiste in una serie di assalti devastanti, seguiti da rappresaglie altrettanto tremende; non vi sono lunghe battaglie, come avveniva in passato, soltanto uno scambio di rapidi colpi da una parte e dall'altra. La fine di questa grande città è il risultato di uno di questi colpi: la fine di Tokyo è stata la nostra risposta. Venga, andiamo a dare un'occhiata alla sua camera per i viaggi nel tempo." «Mi alzai. Lasciammo la sala del teleosservatore, ripercorremmo i corridoi, fino alla porta metallica. Si aprì senza far rumore, rivelando un piccolo veicolo aerodinamico sul sentiero, all'esterno. Henshaw infilò a fatica le lunghe gambe sotto il volante, mentre io gli sedevo al fianco. Sbattendo la portiera, Henshaw premette un pulsante che sporgeva dal mozzo dello sterzo. Un sommesso ronzio si levò dal cofano, e ci mettemmo in moto. «"Non deve lasciarsi sconvolgere troppo da quell'immagine del teleosservatore," disse Henshaw, mentre manovrava il volante. "Eravamo stati preavvertiti dell'incursione dal nostro straordinario servizio di spionaggio, e riuscimmo ad evacuare in tempo nove decimi della popolazione. L'altro decimo venne annientato: ma il numero dei morti non fu enorme come può far credere l'immagine che lei ha visto." «"E cosa ha causato le devastazioni?" chiesi. «"Bombe... ad alto potenziale esplosivo, lanciate dagli aerei stratosferici e dai reattori che volavano a quote altissime. La prossima incursione sarà su Manchester o Sheffield, perché sono le città meridionali più importanti,
centri dell'industria degli armamenti. La nostra fortezza fa parte di una catena che si estende sulle colline del Derbyshire per proteggere Manchester. Non possiamo impedire il bombardamento, ma possiamo farlo pagare a caro prezzo, con le nostre bombe a reazione ed i siluri aerei, che sono in grado di salire a grandi altezze: i siluri, ad esempio, grazie all'energia trasmessa dalla Stazione Radiazioni Nord." «"Il Continente deve essere molto malridotto!" commentai. «"Meno di quanto lei possa pensare," rispose Henshaw. "Le forze in campo si sono scatenate su quelli che considerano i centri nevralgici del nemico: perciò Inghilterra e Giappone costituiscono i bersagli preferiti. Entrambe le parti si servono dell'aviazione non tanto per difesa, quanto per la rappresaglia. Ecco perché queste fortezze sono molto importanti... rappresentano una delle poche concessioni alla difesa strappate alle autorità che adorano la politica dell'attacco, esclusivamente dell'attacco." Diede uno strattone al volante, seguì la curva di un muro di pietra e continuò, in tono ancor più amareggiato. «"Non sto attendendo con ansia la prossima incursione. Abbiamo saputo, da fonte certa, che i Gialli hanno perfezionato una bomba disintegratrice, ideata da uno scienziato che studiava la radiazione solare. A quanto ne so, quando la bomba cade, esplode, altera la stabilità della materia tutto intorno e provoca un processo di autocombustione. «"Il processo non continua all'infinito, ma dura quanto l'energia della bomba: più la bomba è grande, e maggiore è l'area interessata. Il processo è stato definito un riadattamento dell'equilibrio elettronico, e credo avvenga ad una velocità tale da intrappolare tutti, tranne gli scattisti più veloci." «Il veicolo superò la cresta di una collina. Vidi un campo. Nello stesso istante, scorgemmo la camera dei viaggi nel tempo. Scendemmo un lieve pendio, affrontammo un'erta piuttosto dolce e ci fermammo accanto al muretto da cui avevo scorto la fortezza lontana. Henshaw scese, estrasse l'orologio e lo guardò. «"Quattro minuti... niente male, considerando le condizioni della strada." «"Una media di circa cento all'ora," osservai. "Che tipo di motore è?" chiesi, indicando il veicolo. «"Elettrico. Funzionava con batterie Freimeyer ad alto potenziale, con lastre di lega di argento e tantalio." Henshaw scavalcò il muretto e fissò l'oggetto al centro del campo. "Dunque, quella è la scatola magica, eh?
Andiamo a vedere." «Anch'io superai il muro. Ci avviammo verso la camera. Henshaw si accarezzava i baffi, con aria di vivo interesse. Il suolo era umido e sdrucciolevole. Avevamo coperto metà della distanza, quando un sibilo rauco risuonò sulle colline ed echeggiò nella valle. Henshaw si fermò di colpo. Il sibilo cessò, e fu seguito da sei fischi brevi. «Henshaw si girò di scatto, mi afferrò per il braccio e mi trascinò verso il veicolo. "Per il Bottone del Mandarino!" ruggì, avvampando in viso. "Un'incursione! Ha sentito la sirena? È l'allarme della fortezza! Dobbiamo rientrare subito! Si muova, per amor del cielo! Non c'è un attimo da perdere." «Corremmo verso il muretto. Ad una ventina di metri, sdrucciolai, barcollai agitando disperatamente le braccia, scivolai ancora e caddi riverso, con una violenza che mi mozzò il fiato. Henshaw, che era più avanti di una dozzina di passi, rallentò, tornò indietro e mi afferrò le mani, per aiutarmi a rimettermi in piedi. «"Guardi!" ansimai, fissando il cielo ad occhi sbarrati. "Guardi!" «A circa un chilometro e mezzo di distanza, avviata nella nostra direzione, veniva una macchina aerea dorata, sagomata come un proiettile, con ali piccole e tozze che spuntavano dai fianchi, seguita da una lunga scia di fuoco. Era sinistra, minacciosa: mi sentii gelare il cuore. «"Per l'Ade! Un caccia ricognitore dei Gialli," gridò Henshaw. "Ci ha avvistati, ed ha intenzione di divertirsi. Corra come un fulmine. Siamo spacciati." «Così dicendo, mi rimise in piedi con un violento strattone. Gli afferrai le spalle. Barcollammo, scivolammo e cademmo insieme. Qualcuno fece tintinnare un pezzo di roccia in un barattolo mostruoso: un rombo ci passò sopra la testa, un getto d'aria calda c'investì. Ci rialzammo. Il ricognitore ci aveva superati di un chilometro e saliva verso l'alto in una grande cabrata. Il veicolo era un relitto fumante. «"Sta tornando indietro per liquidarci," gridò Henshaw. "È finita. Non possiamo nasconderci da nessuna parte!" «"Il cielo ci aiuti..." cominciai, e m'interruppi, colpito da un pensiero. "La camera dei viaggi nel tempo! Venga. Con un po' di fortuna possiamo farcela. Là saremo al sicuro." VIII
«Mi voltai, mi diressi verso il centro del campo, agitando pazzamente le braccia, senza osare correre troppo forte per timore di cadere. Henshaw mi era al fianco, ansimante, livido. «Nonostante l'andatura faticosa, trovò il fiato per rivolgermi una domanda: "A che servirà arrivarci? Il ricognitore lo farà saltare in aria!" «"Aspetti e vedrà," grugnii. «Un suono si fece più forte, dietro di noi, riempiendoci di una paura che ci spinse ad accelerare il passo. Con sorprendente rapidità, il ricognitore ci passò ruggendo sopra la testa. seguito dalla scia d'aria surriscaldata. Dietro di noi si levò una terribile esplosione. Henshaw si voltò indietro. «"Una bomba a disintegrazione!" urlò. "Sta divorando tutto e viene verso di noi come un fulmine. Corra! Corra come non ha mai corso in vita sua!" «I miei piedi doloranti accrebbero la velocità. La distanza totale dal muretto alla camera non superava i cinquecento metri. Non avrei mai creduto che una distanza così modesta potesse essere tanto tremenda. Trenta metri ci dividevano dalla camera, e sembravano trenta chilometri. La distanza già coperta fece sentire i suoi effetti nell'ultimo tratto: non correvamo più, vacillavamo. «Henshaw, che mi precedeva, raggiunse la camera e tirò all'impazzata la porta, mentre un senso di calore mi colpiva la parte posteriore delle gambe. Il capitano, agitatissimo e impaziente, tirava invano. Gli gridai: "Spinga! Spinga!" Cadde all'interno, a capofitto. Dopo una frazione di secondo varcai barcollando la soglia, mi voltai e vidi il terreno che letteralmente si fondeva e bolliva, ad un metro di distanza dal gradino. Appena in tempo. «Senza altri indugi, sbattei la porta, chiusi l'interruttore del proiettore del raggio. Oltre le finestre si levarono balzanti fiamme rosse; un velo di nebbia le cancellò. Il mio corpo formicolava della vecchia sensazione ormai nota: e mentre mormoravo una preghiera di riconoscenza, la camera s'inclinò e cadde da un lato. Battei la testa contro una sporgenza della parete. Freneticamente, strinsi più forte l'interruttore, mentre scivolavo nell'incoscienza. «Il periodo di torpore non durò a lungo... o almeno così mi parve. Ripresi i sensi, tesi una mano per cercare l'interruttore, lo trovai e lo tirai. «Qualcuno disse: "Ahi!" «Mi levai di scatto a sedere. Ero a letto. «È facile immaginare il mio sbalordimento. Ero a letto, su questo non
c'era dubbio. A tentoni, sentii le lenzuola, ne studiai il tessuto e mi diedi un pizzico. Non c'era dubbio. Con assoluta certezza, ero seduto su un letto, avvolto in una vestaglia cremisi. «Un movimento appena intravvisto, da una parte, attirò la mia attenzione. Mi soffregai gli occhi, guardai meglio. In piedi accanto al letto, con un'espressione di mite sollecitazione, stava un uomo calvo, vestito d'una tuta coloratissima. Aveva la fronte alta, gli occhi grandi, liquidi, castani, la bocca ed il mento minuti, quasi femminei. Dal collo, fissato a una catena, gli pendeva uno strumento placcato: evidentemente era quello che io avevo tirato per sbaglio, strappandogli l'"Ahi!" di dolore. «"Dove sono?" chiesi con un filo di voce, usando una frase convenzionale in circostanze del genere. «"È in casa mia, nella città di Leamore," rispose l'uomo, con voce piacevolmente modulata. "E siamo nell'anno 772, secondo il Nuovo Computo, o il 34.656 secondo quello vecchio. Lei ha superato un abisso di tempo di circa trentaduemila anni!" «"E come sa che sono un viaggiatore nel tempo?" chiesi. «"Perché il suo congegno si è materializzato dal nulla sotto gli occhi d'una cinquantina di cittadini. Ha scelto come punto d'arrivo il centro di una strada molto frequentata. Dozzine di persone hanno assistito al fenomeno che, in un passato lontano, indubbiamente avrebbe ricevuto una spiegazione sovrannaturale. La nostra soluzione è stata che lei aveva viaggiato nel tempo: una soluzione semplice, tenuto conto che la sua impresa è stata la seconda, negli ultimi cinque secoli. Infine, il suo compagno ha confermato la nostra..." «"Henshaw!" l'interruppi, ricordando che avevo avuto un accompagnatore, nel mio viaggio attraverso il tempo. "Henshaw... dov'è?" «"Si sta facendo depilare," fu la sbalorditiva risposta. «"Depilare? Depilare! Perché? Cosa?" La mia mente ripiombò nella confusione, di fronte alla piega assurda che aveva preso la conversazione. Per la seconda volta mi pizzicai, per esser certo di non sognare. L'uomo dalla tuta azzurra sorrise, notando l'effetto delle sue parole. Sedette sull'orlo del letto, si cinse un ginocchio con le mani intrecciate e proseguì. «"Il suo amico sembra un individuo abituato a prendere decisioni rapide. Sono passati appena trenta minuti, da quando il congegno ha fatto quella sensazionale comparsa, eppure il suo amico ha già scoperto che, secondo le convenzioni moderne, capelli e peli sono considerati poco simpatici. A quanto pare, è deciso ad apparire simpatico ad ogni costo, perciò si sta fa-
cendo depilare con un procedimento indolore. Gli stiamo togliendo i baffi e i capelli. La stoppia che ha sulle guance dovrà però crescere un po' più, prima che la si possa eliminare." «"Mi venga un accidente!" sbottai. "Henshaw... benedetto caprone! Gli dò un passaggio attraverso una quantità di secoli, e cosa succede? Si precipita in un istituto di bellezza lasciandomi agonizzante in un letto." L'indignazione mi spinse ad alzarmi. "E con una vestaglia cremisi addosso!" aggiunsi. «Il mio ospite rise sonoramente. "Non c'è pericolo che lei muoia, per ora," mi assicurò. "Ha solo preso una brutta botta, da cui si riprenderà subito. In quanto alla vestaglia, come la chiama lei, gliel'abbiamo infilata addosso dopo averle fatto fare quel bagno di cui aveva un gran bisogno; nel frattempo, le stiamo cercando abiti adatti." «"I miei cos'avevano, che non andasse?" domandai. «"Sono stati bruciati, come quelli del suo amico. Il contenuto delle tasche è stato sottoposto a fumigazioni disinfettanti; e così pure la camera dei viaggi nel tempo. Lei è finito in un mondo amante dell'igiene. Non ci dispiace che siate venuti qui, ma non possiamo permettere assolutamente che importiate cospicue quantità di germi che abbiamo eliminato con tanta fatica. Abbiamo simpatia per lei e per il suo amico; ma non ne abbiamo per i vostri passeggeri." «"Chiedo scusa!" feci io, umilmente. «"Tutto a posto," rispose il mio ospite, alzandosi. "Forse sono stato troppo brusco. Toccava a me scusarmi." Attraversò la stanza e premette un pulsante. Un pannello della parete si abbassò senza far rumore, rivelando un guardaroba. L'uomo frugò nell'interno, tirò fuori indumenti d'una stoffa simile a seta, e li gettò sul letto. «Mi tolsi la vestaglia cremisi con un senso di sollievo, e cominciai a vestirmi. La stoffa morbida ed elegante avvolse piacevolmente le mie membra lavate e riposate. Non c'era neppure un bottone. Si allacciava tutto con una specie di chiusura lampo. Indossai l'uno dopo l'altro gli indumenti dal taglio strano, li allacciai, e alla fine, quando mi guardai nello specchio, mi vidi abbigliato di una tuta verde smeraldo, con calze verdi e sandali in tinta, un tricorno verde inclinato maliziosamente sulla testa. Fissai la mia immagine: mi sentivo come un idiota. «"Le piace?" chiese il mio ospite. «"Niente male. Ma adesso mi occorre il gatto." «"Il gatto?" ripeté quello, stupito.
«"Sì, il gatto. Sembro il ragazzo di Dick Whittington." «"Dick Wittington?" mormorò l'uomo, senza capire. «"Non può saperlo... lasciamo stare!" Provai a dare un'altra inclinazione al tricorno; il risultato fu abominevole. Alla fine, mi arresi. Se erano tutti vestiti così, un idiota in più sarebbe passato inosservato. «"Ecco, sono pronto, signor... signor..." «"Mi chiamo Ken Melsona," rispose il mio ospite. «"Ed io Glyn Weston." Ci stringemmo la mano. Melsona aprì una porta, mi precedette lungo un corridoio, verso un secondo uscio, che si abbassò quando egli premette un pulsante. Fuori c'era la strada. Vergognandomi del mio abbigliamento inconsueto, esitai. Melsona, vestito come il Ragazzo in Blu, uscì arditamente. Lo seguii. IX «Davanti a me si offriva una scena così inaspettata che mi fermai a bocca aperta. Tra i marciapiedi scorreva una strada mobile, dalla superficie liscia, che fluiva da Ovest ad Est. Era divisa in tre sezioni, tutte in moto nella stessa direzione: le sezioni esterne procedevano a cinque chilometri orari, quella centrale a dieci. Centinaia di persone vestite d'abiti sgargianti erano ferme a chiacchierare sulla strada, o passavano da una sezione all'altra, lasciandosi trasportare come le figurine dei tirassegno delle fiere. L'ampiezza totale della strada era una trentina di metri: i marciapiedi fissi erano ornati di mosaici. «Ville pittoresche, circondate da ricchi giardini ben coltivati, fiancheggiavano la strada mobile, dai due lati. Alberi ornamentali d'ogni grandezza e d'ogni colore, tagliati in tutte le forme immaginabili, spuntavano dai marciapiedi ad intervalli di trenta metri. Era un panorama bellissimo, il più bello che avessi mai veduto. La strada meritava il nome di Viale del Paradiso. «Melsona si avviò verso la più vicina sezione mobile della strada, avvertendomi di salire con la faccia rivolta nella direzione del moto. Passammo nella sezione centrale, e ci fermammo, fianco a fianco, lasciandoci trasportare verso Est. Mi sentivo contento come un ragazzino alla fiera. «"Fermiamoci in un paio di negozi," propose la mia guida. "Poi andremo a prendere il suo amico... ehm... ha detto che si chiama Henshaw, no?" «Borbottai una conferma, mentre guardavo interessato lo scenario, e la folla dei viaggiatori, assorto e affascinato.
«Percorremmo oltre un chilometro, prima che Melsona mi segnalasse di prepararmi e passasse destramente sulla corsia lenta di destra; l'attraversò e scese sul marciapiede. Mentre lo seguivo, si diresse verso un gruppo di cinque o sei negozi, entrando in uno che metteva in mostra una quantità di merci che non ebbi tempo di esaminare. Un uomo e una donna, vestiti a colori vivaci ed entrambi calvi, ci vennero incontro. «"Vi prego di servire questo gentiluomo," disse Melsona, indicandomi con un gesto di protezione. «"Ah, certo, è un piacere," fece premuroso il commesso, lavandosi le mani con un sapone invisibile. "Di cosa ha bisogno?" «"Danaro," dissi io, concisamente. «"Danaro!" ripeté quello. "Danaro! Che strana richiesta! Può trovarlo, certamente, ma dovrà rivolgersi ad un collezionista." «"E allora come diavolo posso..." «"Tutto a posto," m'interruppe Melsona. "Basta che lei chieda ciò che le occorre. Se il negozio ce l'ha, lei l'avrà; altrimenti, potrà fornirglielo qualche altro esercizio." «"Chiedete e vi sarà dato," citai. Mi sembrava un'idea pazzesca, ma come potevo permettermi di discutere i principi economici di quell'epoca? "Sigarette," dissi, speranzoso. «Non avevo finito di parlare, quando la commessa si precipitò verso uno scaffale, precedendo il suo collega, afferrò una dozzina di pacchetti di forme e dimensioni assortite e li posò sul banco. Spalancai gli occhi, sbalordito e felice. Erano pacchetti di sigarette. Presi uno dei più grossi. La commessa mi domandò se mi occorreva altro. Chiesi un portasigarette, e l'ottenni. Chiesi un accendino. La commessa mi fornì una copia dello strumento che Melsona portava appeso al collo, e che io avevo scambiato per l'interruttore. Passai mezz'ora in quel negozio, e ne uscii convinto di essere capitato in Utopia. «Ci fermammo fuori, sul marciapiede. Aprii il pacchetto, mi misi una sigaretta tra le labbra, e Melsona m'insegnò ad usare l'accendino. Aveva la forma di una pigna allungata, era fatto di metallo e appeso alla solita catenella da portare al collo. Un coperchietto scattò all'estremità più larga, mostrando un filamento incandescente. Accesi la sigaretta e aspirai il fumo fragrante con indescrivibile soddisfazione. «"Per quanto durerà?" chiesi, studiando incuriosito l'estremità luminescente dell'accendino. «"Per tutta la vita," rispose Melsona. "È..." All'improvviso alzò lo sguar-
do, mentre un forte rumore scendeva tonando dalle nubi. "Guardi! Ecco il transmondiale!" «In cielo sfrecciò un sigaro titanico, color argento; era cinto di fiamme, e ispirava timore. M'era difficile farmi un'idea delle dimensioni. Calcolai che quel mostro doveva essere lungo un chilometro e mezzo, con un diametro di centosessanta metri. Lassù, tra le nubi rade e semitrasparenti, offriva veramente uno spettacolo maestoso, con il muso conico puntato verso il Sole che tramontava, la coda che eruttava lance di fiamme, brillantissime, allargate in un enorme ventaglio di vapori. «Si muoveva ad una quota di almeno undicimila metri, eppure la sua grandezza e la trasparenza prodigiosa dell'atmosfera permettevano di distinguere alla perfezione le file degli oblò circolari. Investendo l'intera città di Leamore con un bombardamento sonoro, si allontanò rapido verso Occidente: la sua mole ciclopica faceva apparire minuscoli come formiche gli umani che l'avevano costruito. «"Cosa gliene pare?" chiese orgoglioso Melsona. «"È magnifico! È meraviglioso!" esclamai. «Un grido attirò la nostra attenzione sulla strada. Un uomo, ritto sulla corsia più lontana dei cinque chilometri, agitò freneticamente le braccia, si precipitò verso di noi, mise il piede sul bordo della striscia dei dieci chilometri ed eseguì una sorta di capriola incompleta. Mentre la strada continuava ad avanzare sotto di lui, rotolò lungo disteso nella direzione opposta, falciando dozzine d'altri passeggeri. Continuando a rotolare, si liberò da un groviglio di forme cadute, si rigirò e cercò di rimettersi in piedi, proprio sull'orlo. «Si alzò, per una frazione di secondo, con un piede sulla corsia centrale e l'altro su quella vicina; poi la differenza di velocità lo travolse. Scelse la corsia dei cinque chilometri e vi cadde seduto pesantemente. Ci passò davanti, mentre noi lo guardavamo interessati. Giaceva riverso, con i piedi in aria. Cinquanta metri più avanti, riuscì a mettersi al sicuro sul marciapiede con un movimento acrobatico improvviso, si girò e corse verso di noi. «Quando si avvicinò, mi accorsi che aveva la carnagione più scura della maggior parte delle persone che avevo visto lì. La tuta era di un giallo orribile, sopra la cintura, e nera nella parte inferiore; le calze erano nere, i sandali neri, ornati di giallo. Un basco giallo gli stava calcato sulla testa, con una nappa gialla che gli scendeva penzolando sull'orecchio sinistro. «"Weston!" gridò. "Sono io... Henshaw!" «Ci raggiunse, radioso, e mi diede una gran pacca sulla schiena. Lo stu-
diai attentamente. Era pelato come un uovo. «"Non ci credo," dissi, seccamente. «"Neanch'io ci credo, quando guardo lei," ribatté. «"E allora, come mi ha riconosciuto?" «"Perché lei è l'unico individuo peloso di questo mondo." Arretrò di un passo e mi squadrò dalla testa ai piedi. "L'unico Robin Hood, com'è vero che io sono vivo," disse. "Le piace il mio abbigliamento?" Allargò le braccia e girò lentamente su se stesso. «"Preferisco non dire quello che penso," feci io, distogliendo lo sguardo da quel giallo bilioso. "Sarei costretto a usare termini volgari." «"È geloso!" commentò lui, sogghignando. "Personalmente, ritengo che questo abbigliamento dia colore alla vita. Se ha un difetto, secondo me, è che rende difficile distinguere gli uomini dalle donne. È stato a far spese, eh?" Puntò il dito verso l'accendino che portavo appeso al collo. "Le piace questo mondo senza danaro?" «"Dato che sa del danaro, o meglio della sua assenza, è evidente che anche lei è andato a fare acquisti," commentai. «"Oh, no," ci assicurò Henshaw. "Ho fatto per pagare il depilatore, e si è comportato come se l'avesse colpito un fulmine. Allora ho scoperta la faccenda del danaro. Mi ha detto che gli sarebbe piaciuta una moneta, se potevo dargliela. Ho lasciato che frugasse nella mia borsa, che m'ero affrettato a riprendere quando mi avevano portato via i vestiti per bruciarli. Per poco non gli sono schizzati gli occhi dalle orbite, quando ha visto cosa avevo: diciotto dollari e quarantasette centesimi in buon danaro bianco." «"Danaro bianco?" chiesi io. «"Ma certo. Non penserà che avessi danaro dei suoi tempi, per caso? Beh, quello ha frugato, e ha scelto un mezzo dollaro, che era la moneta più antica. Scodinzolava come un cane con due code. Gli ho chiesto cosa intendeva farsene. Non indovinerà mai cosa mi ha risposto." «"Cosa?" domandai. «"Non sono ancora riuscito a capire se sono deficiente o se in questo mondo sono tutti matti, tranne me. Lo creda o no, ha detto che avrebbe scambiato quel mezzo dollaro per un pesce di vetro!" «"Un pesce di vetro?" gli feci eco, incredulo. «"Ora, cosa diavolo vuol farsene?" continuò Henshaw. "Un pesce vivo sarebbe già strano, un pesce morto andrebbe un po' meglio... ma un pesce di vetro!" «"Posso spiegarlo io," intervenne Melsona. "Vedete, questo mondo è
progredito al punto che il problema principale consiste nel tenere occupata la gente. Non esiste un sistema monetario: si può avere qualunque cosa, basta chiederla. Tutto il lavoro è svolto da volontari, ma i nostri metodi sono così efficienti che non c'è mai abbastanza lavoro per quelli che lo cercano. Gli abitanti di questo mondo debbono occupare in un modo o nell'altro parecchio tempo libero; quindi il lavoro, che un tempo era una maledizione, oggi è un dono del cielo. «"In che modo passano il tempo libero, i nostri cittadini? Ve lo dirò io. Un po' meno della metà si dedica alla scienza, un po' più della metà alle arti. Tutti inventano o creano, ed ognuno si sforza di rendere il proprio lavoro individualistico e superiore a quello degli altri. «"La gente si sbarazza dei prodotti indesiderati dalla propria attività esponendoli nei negozi, a disposizione di quanti li richiedono. È una grande vergogna, per un cittadino, quando uno dei suoi prodotti resta per mesi in attesa in un negozio. Il trionfo più grande è quando sono in tanti a richiedere una delle sue opere che per assegnarla è necessario tirare a sorte. «"Coloro che raccolgono le opere di un dato artista, o che desiderano in particolare procurarsene una, possono ottenerla in tre modi: possono chiederla in un negozio, se ce l'ha; oppure, se l'autore è così popolare che i suoi lavori non arrivano mai nei negozi, può rivolgersi all'artista, mettendosi in nota con gli altri, per l'estrazione a sorte; oppure, se per caso anche l'artista fa collezione di qualcosa, può combinare con lui una specie di baratto. «"Questo spiega l'intenzione del depilatore, che si propone di scambiare una moneta con un pesce di vetro. Le monete dei vostri tempi non sono soltanto rare... sono assolutamente sconosciute, e perciò, preziosissime per un collezionista. Uno dei principali collezionisti di questi vecchi mezzi di scambio è Torquilea, il più grande artista del vetro esistente sulla Terra. Vorrei mostrarvi un esempio delle sue opere. Venite con me." X «Seguimmo Melsona lungo il marciapiede, nella direzione opposta al moto della strada. Continuammo a conversare animatamente: Henshaw ed io tempestammo Melsona di domande. Venimmo a sapere che un sistema di strade mobili s'irradiava, proprio come i raggi di una ruota, dal centro di Leamore verso la periferia; che le strade si muovevano alternativamente verso l'esterno e verso l'interno; che chi voleva viaggiare in direzione opposta al moto di una strada tagliava per una via laterale fino a raggiungere
quella che gli interessava. Noi ne seguivamo una che andava verso il centro della città: se Melsona fosse tornato a casa e non avesse avuto voglia di camminare, avrebbe dovuto semplicemente prendere la strada adiacente, che andava verso l'esterno, e sarebbe rientrato in casa dall'ingresso posteriore. Tutte le vie che superavano i trenta metri di larghezza erano mobili; quelle più strette erano fisse. L'intero sistema di trasporto era incredibilmente semplice. «Melsona ci spiegò che le macchine aeree ed i veicoli a ruota di proprietà privata erano numerosissimi, ma non potevano entrare nelle città né sorvolarle, e dovevano limitare la loro attività alla campagna. Proprio in quel momento, passammo davanti ad un ristorante all'aperto. Non proseguimmo: come per una tacita intesa, tornammo indietro, entrammo e scegliemmo un tavolino. «"... quindi solo i grandi apparecchi di linea diretti agli aeroporti cittadini posso sorvolare le zone abitate," disse Melsona, concludendo la spiegazione. "Cosa prendete?" «"Bistecca," disse Henshaw. «"Bistecca? Che cos'è?" «"Carne," rispose Henshaw, leccandosi le labbra e allentandosi la cintura. Sul viso di Melsona apparve un'espressione di disgusto indicibile. «"Scherzavo," gli assicurò prontamente Henshaw. "Prenderemo quel che ci consiglia lei." «Dall'espressione di Melsona si capiva chiaramente che non considerava lo scherzo molto spiritoso. Scarabocchiò su un blocco incorniciato al centro del tavolo, premette un pedale che sporgeva dal pavimento. Il tavolo si abbassò e scomparve, lasciandoci lì a guardare sbalorditi il buco tra i nostri piedi. Dopo un poco, risalì, si assestò davanti a noi: sul piano erano disposti tre pasti completi. Ci mettemmo a mangiare. Il cibo era strano, ma gradevole. «Alla fine, sentendomi rimesso a nuovo, mi alzai e, insieme ai miei compagni, mi rimisi in cammino. Mi abbandonai alle mie fantasticherie, pensando che il pasto precedente l'avevo consumato solo poche ore prima... o meglio, parecchi millenni addietro. Camminammo per una decina di minuti, poi Melsona si fermò così bruscamente che, immerso nei miei pensieri, andai a sbattergli contro. M'indicò il giardino d'una bellissima villa. «"Ecco uno splendido esempio delle opere di Torquilea," disse; "Entrate a dare un'occhiata." Senza esitare, aprì il cancello ed entrò nel giardino, di-
cendoci che il nostro interesse sarebbe stato giudicato molto lusinghiero sia dall'artista che dal proprietario. Ci condusse ad un oggetto al centro del prato. Lo guardammo in silenzio. Era divino: non c'era altra parola per definirlo. «Una massa di marmi colorati, onice, agata e lapislazzuli, ingegnosamente disposti, s'innalzava fino all'altezza di tre o quattro metri. Sopra di essa scorreva una finta cascata di vetro, così realistica che ci si stupiva dell'assenza del suono. L'abilità dell'artista era così superba che persino le venature della pietra sottostante erano state sfruttate per creare un'espressione di vortici subacquei. Incorporati nel vetro, non so con che procedimento, vi erano bolle ed ombre e vaghi guizzi di luce che formavano una simulazione perfetta della vita e della danza dell'acqua. «La cascata s'infrangeva alla base, fluendo e lasciando spruzzi tra le rocce colorate, mentre qua e là minuscole gocce erano sospese, scintillanti, sulle crepe e le incrinature. Due salmoni di vetro risalivano a balzi la cascata. Guardando più da vicino, notai che parecchi fili sottilissimi li tenevano sospesi a mezz'aria, ma le dita del genio li avevano modellati con tanta perfezione che era difficile credere che non fosse stata la bacchetta di un moderno Merlino a fissarli nella pienezza del godimento d'una vita vibrante. «Henshaw si tolse il basco e disse: "Faccio tanto di cappello a quest'opera d'arte." «"È stato veramente un grande trionfo, per Torquilea," ci disse Melsona. "Ben ventisettemila persone tirarono a sorte per decidere a chi doveva spettare questo capolavoro." «Guardò pensosamente Henshaw. "Torquilea va pazzo per le vecchie monete. Solo l'altro giorno ha visto una delle sue opere, che presto verrà assegnata a qualcuno. Era semplicemente una piccola ciotola, contenente una pozza d'acqua marina, eseguita in vetro. Sul fondo c'erano sabbia e ciottoli; un paio di gamberetti semitrasparenti giacevano in profondità; un ciuffo d'alghe verdi cresceva da una piccola roccia, su cui fioriva uno splendido anemone di mare con tutti i tentacoli protesi. Era una riproduzione della natura così perfetta, così meravigliosa, che quasi ci si aspettava di vedere incresparsi la superficie del vetro. Torquilea è il più felice degli uomini, poiché le sue opere sono tanto richieste. Sono certo che accetterebbe di compiere uno scambio." «Henshaw capì al volo. Estrasse una moneta e la porse a Melsona, dicendogli di usarla nel modo migliore, per tutti noi. Melsona parve molto
soddisfatto di quel cameratismo che ci collegava tutti e tre. Accettò lietamente il dono, annunciando che sarebbe intervenuto presso Torquilea alla prima occasione. «L'oscurità era scesa da parecchie ore, quando tornammo a casa del nostro ospite per riposare. Avevamo viaggiato su metà delle strade mobili di Leamore, avevamo esplorato negozi e palazzi, ammirato molte meraviglie, ed eravamo stati presentati a tanta gente che non riuscivamo a ricordare tutti. Melsona, continuando a farci da guida, ci aveva condotto di qua e di là, proclamandosi il più felice degli uomini, perché il nostro arrivo gli aveva offerto la possibilità di usare del tempo libero. Incalzato dalle nostre domande, ci fornì una quantità di notizie straordinarie. «Scoprimmo, innanzi tutto, che la durata del giorno era molto più lunga che ai miei tempi, e che la rotazione assiale della Terra rallentava con tale ritmo che, secondo i calcoli degli scienziati, sarebbe cessata completamente entro venti o trentamila anni. Il fenomeno risaliva all'arrivo dell'Invasore, che segnava l'inizio del nuovo calendario: quello era l'anno 772 N.C.: N.C. significava "Nuovo Computo". «L'Invasore, venimmo a sapere, era un pianeta grande il doppio di Giove che, arrivato dagli spazi interstellari, aveva attraversato il Sistema Solare ed era poi svanito nel cosmo. Era passato tra le orbite di Marte e la fascia degli asteroidi, e la sua influenza aveva perturbato il normale equilibrio di metà Sistema. Aveva reso molto più eccentriche le orbite dei pianetini, di Marte e della Terra, catturando e portandosi via due asteroidi del cosiddetto "Gruppo Troiano". «Apprendemmo che Venere era stata raggiunta da astronavi una cinquantina d'anni dopo il passaggio dell'Invasore; che i voli interplanetari erano ancora così difficili e rischiosi che l'attuale popolazione di Venere non superava le dodicimila unità, e che per ogni individuo giunto illeso sul pianeta, un altro era rimasto ucciso nel tentativo. «La popolazione terrestre non era cambiata numericamente, negli ultimi diecimila anni: tutto il pianeta riconosceva un governo centrale con sede ad Osmia, ed il sistema sociale era il pallarismo. Scoprimmo che Osmia sorgeva dove una tempo stava la città che avevo conosciuto con il nome di Costantinopoli, e che il sistema in auge era basato sulle teorie di un filosofo di nome Palla, vissuto intorno al 22.800 d.C. «Ci scaldammo lo stomaco con una buona cena, e con le menti piene dei ricordi delle esplorazioni di quel giorno, andammo a letto. Per riguardo ai miei gusti, l'ospite aveva preparato sul mio letto quello che pareva un co-
stume da bagno nero. La vestaglia cremisi era stata trasferita sul letto di Henshaw. Henshaw venne in camera mia per chiedermi cosa pensavo del suo abbigliamento notturno. Mi addormentai mormorando un commento che egli non poté udire. XI «I quattro giorni che seguirono, li considero i più piacevoli che avessi mai vissuto. Viaggiammo in lungo e in largo insieme al nostro ospite, familiarizzandoci completamente con quel mondo strano e nuovo. Al mattino del quinto giorno, stavamo viaggiando sulla corsia centrale della Strada del Derby, diretti alla periferia della città, quando Melsona chiamò con un fischio un vecchio che camminava sul marciapiede, avviato nella direzione opposta. Il vecchio si fermò. Melsona passò sulla corsia lenta, poi sul marciapiede. Lo seguimmo. «"Questo è l'Anziano Glen Moncho," ci disse. "Anziano è un titolo che riserviamo agli uomini molto dotti," aggiunse, a mo' di spiegazione. «"Come professore," feci io. «"Esattamente. Questo è l'Anziano Glyn Weston, e questo è il Capitano Henshaw." Sorrise, mentre stringevamo la mano al vecchio. "L'Anziano è il nostro storico più illustre. Pensavo che gli interessasse incontrarvi." «Henshaw si affrettò ad approfittare dell'occasione, e chiese: "Chi vinse la Guerra tra i Bianchi e i Gialli del 2481-2486?" «"Le donne," rispose prontamente l'anziano. «"Le donne?" Henshaw lo guardò sbalordito. «"La guerra durò nove anni, non cinque," proseguì lo storico. "Finì per l'intervento d'un'organizzazione militante di donne che, per prima cosa, rifiutarono di mettere al mondo altri figli, poi disertarono le fabbriche di munizioni, costringendo entrambi gli schieramenti a ritirare dal fronte molti uomini per sostituirle; ed infine, presero le armi ed assassinarono gli individui che consideravano responsabili della guerra. Il conflitto fu la causa diretta della matriarchia mondiale che durò poi per tremila anni." «"Beh, io sono uno sporco militare!" esclamò Henshaw. «"Dunque, lei è il famoso viaggiatore nel tempo," disse lo storico, rivolgendosi a me. "Ho sentito molto parlare di lei nei notiziari. Mi risulta che verrà invitato al Congresso Annuale degli Scienziati, in programma a Metro la settimana prossima. Sarebbe molto interessante se portasse con sé il suo apparecchio."
«"Questo è strano!" esclamai. "Sono qui ormai da diversi giorni, e non ho mai pensato di chiedere che fine ha fatto il mio strumento." «"È al sicuro," disse Melsona. "È stato portato via, mentre voi due venivate condotti nella mia casa. È stato collocato nel Museo della Scienza, in attesa che lei lo richiedesse." «"Molto bene," dissi. "Vi piacerebbe venire a vederlo?" L'Anziano Moncho e Melsona si dichiararono ansiosi di poter esaminare la camera dei viaggi nel tempo. Tagliammo per una stradetta laterale, raggiungemmo la più vicina corsia mobile diretta verso il centro, e ci avviammo verso la città. «"La cosa più strana, nei viaggi nel tempo," dissi allo storico, "è che altera le idee. Per esempio, si potrebbe pensare che ho sconfitto la Natura, vivendo per mille anni; ma come viaggiatore nel tempo, so che non è così. In realtà, sono invecchiato solo di una settimana dall'inizio del mio esperimento. Ora so che la Natura ha fissato la data della mia fine, non in termini di anni secondo il computo umano, bensì in termini di anni di vita. Io morirò un certo numero dei miei anni dopo la nascita, indipendentemente dal modo in cui potranno essere divisi o distribuiti nel futuro." «"C'è un particolare che, secondo me, è ancora più curioso," osservò l'Anziano. "Il fatto che noi, nonostante la nostra grande civiltà, il nostro enorme interesse per ogni ramo della scienza, non siamo riusciti a risolvere il problema già risolto da due uomini nati migliaia d'anni prima." «"Henshaw non l'ha risolto," gli dissi. «"Non mi riferivo a Henshaw, bensì al suo predecessore. «"Al mio predecessore?" Non riuscivo a comprendere che cosa intendesse. «"Le avevo detto che conoscevo l'esistenza dei viaggi nel tempo," intervenne Melsona. "Gliel'avevo detto appena ci siamo incontrati, che era già stato realizzato prima." «Frugai nella memoria e ricordai vagamente di averlo sentito accennare a qualcosa del genere. Sul momento mi era sfuggito, e mi sentivo piuttosto confuso. «"Quando comparve Schweil, affermando che..." «"Schweil!" gridai, con tutto il fiato che avevo in gola. "Ha detto Schweil?" «"Sì!" rispose lo storico, sbalordito. "Quando comparve, affermando di provenire dal suo tempo, venne deriso e...". «"Mi dica," l'interruppi. "Da quale anno affermava di provenire?"
«"Mi lasci pensare." Moncho fissò il suolo e rifletté a lungo. "Era il 1944, mi pare." «"Ecco!" urlai, tremando per l'emozione. "Ecco!" La gente che passava mi guardava come se mi credesse ammattito. Stavo facendo una figuraccia, ma non me ne importava. «"Lo conosceva?" chiese lo storico, in tono suadente. «"No. Morì alcuni anni prima della mia nascita. O almeno, venne creduto morto. Partì con il suo aereo personale per recarsi, disse, ad un congresso scientifico a New York. E sparì. Il relitto dell'aereo venne gettato sulle rive della Nova Scotia un mese dopo. Era un tipo piuttosto eccentrico, non molto popolare, e alcuni insinuarono che si fosse trattato di un evidente suicidio. Le sue teorie, e quelle del suo successore, vennero poi usate da me. Che è stato di lui? Dov'è? La prego, mi dica tutto... tutto quello che sa." Lo storico, turbato, trasse un profondo respiro e disse: "Nel 312 N.C., quattrocentosessant'anni fa, questo Schweil apparve alla periferia di Metro, la nostra grande città sul Tamigi, e dichiarò di essere venuto dal passato. La sua macchina era una sfera di metallo opaco, del diametro di circa tre metri. Nonostante le sue caratteristiche ataviche, non venne creduto. La sua macchina fu esaminata e giudicata un'impostura. «"Schweil non era in grado di provare le sue asserzioni, se non dando una dimostrazione pratica, e abbandonando così la stessa gente che doveva convincere, perché ci disse che era possibile spostarsi nel futuro, ma non nel passato." «"È esatto," dissi io, pendendo dalle sue labbra. «"Schweil era molto amareggiato. Secondo lui, la nostra era l'ottava epoca che aveva visitato, ed in nessuna gli avevano creduto. Alla fine emigrò su Venere, portando con sé la sfera metallica. Visse lassù per quasi un anno, poi riuscì a convincerci che le sue affermazioni erano veritiere. Ci riuscì entrando nella sfera e scomparendo davanti agli occhi di mille coloni. Non è più tornato. Da allora, non l'abbiamo più rivisto." «"Si è spostato in avanti nel tempo," feci io, agitato come un gatto che cammina su mattoni caldi. "In avanti nel tempo. Oh, se avessi potuto incontrarlo! Un uomo del mio tempo, il compagno ideale per i miei viaggi! Debbo trovarlo! Debbo trovarlo assolutamente! Mi aspetta chissà dove, nel domani. Debbo cercarlo! La mia camera del tempo deve venire trasportata subito su Venere!" Così dicendo, nella mia agitazione, balzai sulla corsia centrale e cominciai a correre, con la mente piena di un solo pensiero: arri-
vare al più presto al Museo della Scienza e organizzare il trasporto della camera. «Lo sforzo della corsa calmò un poco la mia mente. Dopo ottocento metri ritornai sul marciapiede e attesi che gli altri mi raggiungessero. Arrivarono uno dopo l'altro, ansanti: prima Henshaw, poi Melsona, lo storico per ultimo. «Entrammo insieme nel Museo, e Melsona s'informò dove era stata sistemata la mia camera. Lo seguimmo, all'ultimo piano. Ormai mi ero calmato abbastanza per ricordare che i miei compagni desideravano esaminare il mio apparecchio. Aprii la porta, e cominciai a spiegare come funzionava il proiettore del raggio e come avevo messo in pratica la teoria. «Sembrava che la camera avesse subito pochi danni. Gli angoli esterni erano scalfiti e ammaccati; una delle finestre era incrinata. Estrassi le valvole e il tubo del raggio, li accostai alla luce, li esaminai, e li rimisi a posto, dopo aver constatato che erano ancora in buone condizioni. «Controllai l'intero apparecchio, sistemando i cavi e stringendo i morsetti. Per parecchi minuti mi diedi da fare, come una madre che accudisce alla sua creatura. Stavo per chinarmi per esaminare il contatto di un "vibratore McAndrew" quando la nausea mi vinse, e il contatto si confuse davanti ai miei occhi. XII «Mi raddrizzai, vidi che le finestre inquadravano una semitrasparenza in cui un'ombra vaga danzava, guizzava e poi spariva, come la fiamma di una candela. Fui preso dal panico, quando il solito vapore mi oscurò la vista. Mi resi conto di ciò che era accaduto. Inspiegabilmente, il proiettore era entrato in funzione. «Freneticamente, cercai l'interruttore nella foschia che mi avvolgeva. Le impressioni alternate di fibrosità e di levigatezza mi confondevano la mente. Cercai come un ubriaco. Tirai tutto ciò che la mia mano toccava. Strattonai oggetti invisibili che non si mossero, mentre altri scattavano e tornavano indietro. «Non so per quanto tempo continuassi così. Ero frenetico al pensiero che quel mondo delizioso si allontanava rapidamente in un passato irrecuperabile. Cominciai a sferrare calci in tutte le direzioni, all'impazzata. Uno spicinio di vetro infranto, seguito da una sensazione di tensione, ricompensò i miei sforzi. La nebbia si diradò, lasciandomi lì a fissare una valvola rotta.
La camera dei viaggi nel tempo s'era fermata. «Un denso vapore rivestiva le superfici interne delle finestre. La mia attenzione fu attratta da un sibilo acuto. Stupito, mi accorsi che l'aria usciva precipitosamente attraverso il varco della porta semiaperta. La chiusi del tutto, aprii la valvola della bombola d'ossigeno di scorta, strofinai i vetri delle finestre per liberarli dell'umidità e guardai fuori. «La scena che si offrì ai miei occhi era deprimente: una distesa piana e regolare di terriccio e di polvere si estendeva fino all'orizzonte. Il cielo brillava, da una parte, di luce bianca, dall'altra era di un minaccioso porpora scuro. Mi bastò un'occhiata per capire che il mondo, in quel tempo, era privo d'aria, deserto, morto. L'orrore s'impadronì di me, con la certezza di avere le ore contate. La morte mi aspettava all'esterno... e anche lì! «Alcune ore dopo, mentre il prezioso ossigeno continuava a consumarsi, io guardavo cupamente dalle finestre della mia camera, notando che il cielo non era cambiato: evidentemente, ero situato in una zona di eterno crepuscolo. Mentre guardavo l'istinto mi spinse a rivolgere l'attenzione verso l'orizzonte lontano. Là, in una curva maestosa, scendeva un'astronave colossale, sottile e lucente, la coda ornata da una scia di fuoco. Il cuore mi balzò in gola, mentre seguivo la sua linea di volo: poi calò verso un punto invisibile, appena oltre l'orizzonte. «Non mi chiesi perché mai un'astronave stesse sorvolando un mondo privo d'aria. Non mi passò per la mente il sospetto di essere vittima di un'allucinazione. Piegai un fazzoletto per formare un tampone, lo fissai alla bombola d'ossigeno semivuota e aprii la porta. Appoggiando il tampone alle narici, corsi verso l'orizzonte... «Mi parve di correre per interminabili chilometri, ansimando, con il cuore che mi batteva forte e la mente sconvolta. La lingua mi si gonfiò in bocca, gli occhi, dolorosamente, sporgevano dalle orbite; non vidi più nulla. Non sapevo se procedevo in linea retta o in cerchio, e non me ne importava. Contava solo che mi muovessi. Il delirio s'impadronì di me: mi muovevo, mi muovevo come un automa. «Lasciai cadere la bombola, credo; poi crollai e morii. Ma questo non lo rammento. Il mio ultimo ricordo della Terra è che fuggivo, con le gambe plumbee, come se fossi inseguito dai fantasmi, in un incubo. Il resto della mia storia lo sapete. Ho ripreso i sensi nella sala rianimazione dell'Istituto di Kar, con il corpo straziato dai dolori, ed il sangue che pulsava rispondendo ai battiti di un cuore meccanico sospeso sopra il mio petto. «E poi cosa farò? Avete il diritto di saperlo. Ho intenzione di trascorrere
qualche tempo visitando il vostro mondo bellissimo. Voglio vedere i monumenti, studiare le vostre usanze. Con grande interesse ho appreso che l'immensa attività causata dalla Grande Migrazione ha provocato molti cambiamenti radicali, rispetto all'ultima civiltà che ho visitato. Voglio leggere della Grande Migrazione, e imparare tutto su questa epica straordinaria della storia umana, per conoscere i cambiamenti che ha portato, come, per esempio, la reintroduzione del sistema monetario. «Poi mi metterò all'opera e costruirò un'altra camera per i viaggi nel tempo. Lo farò perché intendo trovare il mio contemporaneo, Schweil. Abbiamo bisogno l'uno dell'altro. Vorreste sapere come penso di riuscirvi? Ve lo dirò. «Compirò una serie di cortissimi balzi nel futuro, e ricaverò i dati necessari per certi calcoli che mi permetteranno di dirigermi verso una data predeterminata. Se nel frattempo Schweil non sarà comparso, gli lascerò un messaggio, dandogli un appuntamento nel lontano futuro, e poi partirò per quella data. Quando Schweil arriverà, e riceverà il mio messaggio, si sposterà alla stessa data. Così ci incontreremo in un rendez-vous nel futuro. «Sono certo che questo progetto funzionerà, se Schweil riceverà il mio messaggio. Voi dovrete cercarlo. Sono sicuro che è tornato già una dozzina di volte, dopo l'ultima comparsa di cui ho notizia. Dato le accoglienze che aveva ricevuto in precedenza, e conoscendo bene il suo carattere, posso dirvi che probabilmente è tornato in segreto, senza pubblicità. «Voi potete aiutarmi! Vi chiedo solo di tenere sempre vivi la mia storia ed il mio messaggio!» Il presentatore si avvicinò discretamente allo schermo trasmittente. Nell'auditorio, tutti gli occhi erano fissi, intenti, sulla figura centrale. Con un movimento improvviso, Glyn Weston, il «Cercatore del Domani», lasciò il podio. Titolo originale: Seeker of Tomorrow (Astounding Stories, luglio 1937). 1938
Jack Williamson Il Punto Morto Dopo la scomparsa di Edmond Hamilton e Murray Leinster, Jack Williamson rimase l'autore con la carriera fantascientifica più lunga, poiché esordì su Amazing nel dicembre 1928 con The Metal Man, e continuò a scrivere per quasi cinquant'anni sino alla data della sua morte, nel 1977. Non era però lo scrittore più vecchio in attività; altri lo superavano, in particolare Clifford D. Simak, Manly Wade Wellman e la gran dama dei gialli, Miriam Allen De Ford, anch'essa oggi scomparsa. Williamson nacque nell'Arizona mercoledì 29 aprile 1908, e passò gli anni dell'infanzia in una squallida fattoria. Scoprì Amazing fin dai primi numeri, e ben presto cominciò a sfornare un torrente di fantascienza, che in genere mostrava l'influsso spiccato di A. Merritt, non solo nel tema, ma anche nello stile e nelle descrizioni. Particolarmente notevole nella sua narrativa è l'uso del colore, che appare evidente fin nei titoli: Through the Purple Cloud, The Green Girl, In the Scarlet Star e The Blue Spot. Leggendo The Dead Spot, notate quante volte il colore viene usato come unica connotazione descrittiva: per esempio, «un breve bagliore violetto», «una piatta desolazione grigia», «la polvere che ardeva fredda, violetta, verde, purpurea, gialla...» e «la luce rosea». Grazie a queste descrizioni cromatiche, spesso i racconti di Williamson vengono scelti per essere illustrati in copertina, a parte il valore di richiamo del nome. Sebbene Williamson abbia prodotto molti racconti memorabili, sembra trovarsi più a suo agio con i romanzi. Tra il 1929 e il 1943 ben sedici furono pubblicati a puntate dalle riviste (più uno ristampato), e in un paio di occasioni due romanzi apparvero contemporaneamente. Nel 1934 Wonder presentò Xandulu, mentre Astounding offriva ai lettori The Legion of Space, e nel 1936 Astounding pubblicò The Cometeers simultaneamente a The Ruler of Fate, che usciva su Weird Tales. Sono pochi gli autori che possono vantare un simile primato. Da allora, le sue opere a puntate hanno continuato ad apparire sulle riviste. Mentre moltissimi scrittori si persero lungo la strada con i cambiamenti operatisi nella fantascienza dopo la seconda guerra mondiale, Williamson restò all'avanguardia. With Folded Hands, apparso su Astounding nel luglio 1947, è considerato tuttora uno dei racconti classici sui robot, ed è stato incluso in molte antologie. Oltre ad essere un grande esperto di H. G. Wells, Williamson ha contri-
buito a introdurre corsi di science fiction nelle università americane, e questa attività ha assorbito gran parte dei suoi ultimi anni, nel quadro della sua carriera di professore d'inglese all'Università del Nuovo Messico. Per fortuna, ha sempre continuato a scrivere, spesso in collaborazione con Frederik Pohl; una delle ultime loro opere è il romanzo The Org's Egg, uscito a puntate su Galaxy nel 1974. Il romanzo che ha scritto da solo, The Moon Children (1971), è un'opera notevole, ricca di colore e d'interesse come le sue prime vicende, e tuttavia è essenzialmente moderna nello stile narrativo. (Altre due opere lunghe sono uscite prima della sua morte.) Senza dubbio, Williamson fa parte della spina dorsale della science fiction. Il Punto Morto si creò l'8 maggio 1940. Il giorno prima, il terreno era coperto dalle messi dorate; il giorno dopo, in un cerchio che copriva un'area di ventiseimila chilometri quadrati, nel Kansas e nel Nebraska, c'era solo morte. Accadde al crepuscolo. Un breve bagliore violetto illuminò il cielo. Tutti coloro che l'avevano veduto provarono un senso di bruciore alla pelle, un dolore plumbeo nelle ossa, una sete tormentosa. E morirono... orribilmente. La medicina non servì a nulla: i medici morirono come gli altri. I cadaveri si sgretolarono in una polvere grigia e pesante, che il vento non smuoveva. Le abitazioni, le stalle e il grano, disgregati dall'incredibile putredine che aveva aggredito tutta la materia organica, caddero in mucchi di polvere. La notte era stranamente luminosa, ed il Sole si levava su di una piatta desolazione grigia e lebbrosa. I limiti erano stranamente netti. E tutti coloro che si avventuravano oltre la barriera, persino gli aerei in volo, cadevano immediatamente. Il mondo intero era atterrito da quel cancro inesplicabile del pianeta, che i giornalisti televisivi chiamavano «il Punto Morto.» Cos'era successo? E se fosse avvenuto ancora? Per trovare una risposta a questi problemi assillanti, il presidente convocò il Congresso in una seduta d'emergenza. Non fu necessario organizzare i soccorsi, poiché dal territorio assassinato non uscì neppure un superstite. La scienza non sapeva spiegare cosa l'avesse devastato. Perplessi, i legislatori finirono per creare il Servizio Segreto Speciale. Alla ricerca di un capo per l'SSS, il presidente mandò a chiamare un uomo che la notte della catastrofe si trovava sul fondo del Pacifico. Rye-
land Ames, che allora aveva soltanto venticinque anni, era già doppiamente famoso per le ardite esplorazioni negli abissi oceanici con la bentosfera progettata da lui stesso, e per il successo ottenuto frantumando l'atomo con il suo superciclotrone. Ames, un uomo abbronzato e robusto, alto un metro e ottantatré, con i capelli rossi spettinati e i calmi occhi azzurri, entrò nello studio presidenziale e ascoltò, sobriamente. «Farò tutto quel che potrò, signor presidente,» disse. «Ma vi sono uomini più vecchi di me, più esperti. Rathbone, per esempio, è il miglior fisico del mondo, in fatto di radiazioni.» «Rathbone è all'ospedale,» disse il presidente. «E si teme che non guarirà. È rimasto ferito in un esperimento fallito.» Fissò attento lo scienziatoesploratore. «No, lei è l'uomo adatto per questo compito, Ames. Il Punto Morto ha ingoiato duecentomila persone. Se la cosa si ripete, può ingoiarne due milioni... o il mondo intero, per quel che ne sappiamo! Tocca a lei scoprire di che si tratta, e trovare un rimedio.» «La ringrazio, signor presidente,» rispose Ryeland Ames. «Farò del mio meglio.» Ames mantenne la promessa. L'SSS venne completamente organizzato in una settimana, con cinquecento uomini reclutati nelle file degli uffici investigativi della Polizia e dei corpi federali. Ames creò un servizio di guardia intorno al Punto Morto, lo fece circondare da una recinzione d'acciaio alta tre metri per tenere lontani gli incauti e radunò uno staff di scienziati per studiare ogni aspetto del disastro. Si assicurò anche la collaborazione del dottor Gresham Rathbone. Il fisico stava morendo in ospedale di una malattia cardiaca incurabile, aggravata dalle lesioni. Ames gli costruì un cuore nuovo. Era una pompa per il sangue che sfruttava i principi di Lindbergh e di Carrel. Era uno strumento compatto e minuscolo, fissato nella cavità toracica; i tubi di platino erano suturati ingegnosamente alle grandi vene ed arterie. I nervi, dai plessi cardiaci, lo controllavano per mezzo del contatto indicativo con un minuscolo relais elettromagnetico. La caratteristica più straordinaria, però, era l'energia motrice. Una traccia d'idrogeno proveniente dal vapore acqueo, trasformata in elio mediante un processo segreto che Ames aveva scoperto nei suoi esperimenti con il superciclotrone, forniva un'energia inesauribile. Quel «cuore di ferro», dichiarò Ames, avrebbe funzionato per cent'anni. Era sufficiente che Ra-
thbone si sottoponesse ogni settimana ad iniezioni del liquido catalizzatore verdepallido che attivava la reazione atomica. Rathbone poté alzarsi poche settimane dopo, ed entrò a far parte dello staff scientifico di Ames. Era un uomo alto, dal volto aquilino, con i folti capelli brizzolati e gli occhi acuti, infossati, di un azzurro gelido, ancora pallido e irritabile in seguito alla malattia. «Ho disegnato una mappa del Punto Morto,» gli disse Ames, quando lo scienziato si presentò nella tenda che costituiva il quartier generale. «Al centro del cerchio c'era la città di Freedom.» I suoi occhi calmi scrutarono il volto segnato di Rathbone. «E abbiamo scoperto che lei è rimasto ferito proprio là. Voglio sapere cosa stava facendo, Rathbone.» Gli occhi infossati arsero di un'amarezza rabbiosa. «Sarei morto, se non fosse stato per lei,» disse Rathbone. «E farò tutto ciò che posso.» Le dita scarne si strinsero come artigli. «L'uomo che mi aveva ridotto così è il dottor Clyburn Hope!» ansimò con voce rauca lo scienziato. «Ed è stato Hope a causare il Punto Morto!» Ames trasalì. «Mi dica,» mormorò. «Cos'è accaduto?» «Hope era un genio bizzarro,» fece Rathbone, con voce nasale. «Era il miglior biofisico d'America. Lavorava a Freedom. Inducendo mutazioni e sviluppando cellule artificiali, stava creando nuove specie.» «Nuove specie?» chiese stupito Ames. Gli occhi incavati di Rathbone balenarono di nuovo. «Infatti... Non era contento dell'attuale razza umana. È per questo che litigammo.» Le mani si decontrassero. «Sono state ottenute mutazioni, trasformando i geni dei cromosomi per mezzo di vari raggi,» spiegò. «E Hope mi chiamò a collaborare con lui, perché ero uno specialista in fatto di radiazioni.» Ames si tese, ascoltando attento. «L'evoluzione,» proseguì Rathbone, «è stata un progresso casuale, reso possibile dal bombardamento dei raggi cosmici e delle loro radiazioni secondarie sul plasma germinale. Uomini come Muller, con i suoi esperimenti sulle mosche della frutta, hanno accelerato di molte migliaia di volte l'evoluzione, usando raggi X o il radio. Ma Hope aveva trovato qualcosa di meglio... il Campo Sigma. «Si tratta di una speciale distorsione spaziale analoga a quella indotta da un campo magnetico. La particolarità significativa è che rende instabili, radioattivi, tutti gli atomi al di sopra del neon. Il Campo Sigma accelera l'evoluzione fino al limite imposto dalla distruzione delle cellule germina-
li! «Grazie al campo, ed alla sua tecnica di costruire cellule viventi sintetiche per mezzo della combinazione delle grandi molecole di proteina, Hope si stava accingendo a creare una razza nuova, per sostituire l'umanità!» Le mani adunche si erano nuovamente contratte. «Litigammo per questo. Perché sapevo che la sua nuova razza sarebbe stata nemica della vecchia.» Rathbone trasse un respiro ansimante. «Ci azzuffammo nel laboratorio. Hope mi colpì... e sarebbe stata una lesione mortale, se non fosse intervenuto lei, Ames.» «Ed il Campo Sigma ha creato il Punto Morto!» «Eh!» Ames lo fissò, poi annuì. «Capisco,» mormorò. «La radioattività distrugge la vita normale... forse per lasciare spazio ai nuovi esseri?» Si alzò, impaziente. «Lei è in grado di neutralizzare il campo?» «No.» Rathbone scosse il capo. «Hope mi trattava come un meccanico. Progettavo gli apparecchi, secondo quanto mi ordinava, ma lui teneva segrete le sue teorie e le sue scoperte. Naturalmente, però, ora tutte le mie capacità sono al suo servizio.» «Grazie, dottore,» disse Ames. «Abbiamo bisogno di lei. Se riuscisse a vincere il Punto Morto...» E Gresham Rathbone divenne il capo del nuovo, grande laboratorio dell'SSS nei pressi del cerchio desolato. Furono stanziati milioni di dollari. Rathbone ed Ames e cento altri vi lavoravano disperatamente. Una dozzina di specialisti morirono, in seguito a tremende ustioni da radiazioni. Ma il segreto del Campo Sigma sfuggiva ad ogni tentativo di scoprirlo. E le Terre Morte restarono invincibili... letali. Tuttavia, tre anni dopo, una serie di morti inspiegabili, in raffinerie metallurgiche, nel deposito di Fort Knox e nella Banca d'Inghilterra, provocarono l'intervento dell'SSS. Tutte le vittime erano morte per ustioni da radiazioni. E gli uomini di Ames trovarono oro, argento e platino, per un valore di quattro milioni di dollari, che presentavano le tracce di una radioattività temporanea in declino. Fu impossibile scoprirne l'origine, ma Ames formulò una teoria. «Può darsi che la trasformazione continui, nel Punto Morto,» disse a Rathbone. «I metalli pesanti preziosi, con quelle radiazioni, potrebbero formarsi partendo da elementi leggeri. Se fosse possibile farvi entrare degli uomini e farli uscire vivi...» «Uomini,» l'interruppe solennemente Rathbone. «Oppure gli esseri sintetici del dottor Hope!»
Trascorsero altri anni. Ryeland Ames rimase a capo dell'SSS. Il suo volto magro s'incupì. I suoi occhi azzurri assunsero un'espressione ossessionata. Per diversi mesi all'anno viveva in un pallone-osservatorio ancorato nei pressi del muro della morte, studiandone la radiazione con elettrometri, spettroscopi e contatori Geiger. Per tre volte, venne ricoverato in ospedale a causa di ustioni tremende. Il suo volto era abbronzato e segnato da cicatrici. Divenne torvo e taciturno, persino con Rathbone. Poche persone avevano visto la foto che conservava nel portafoglio. Sullo sfondo c'era la desolazione piatta delle Terre Morte. Mostrava la minuscola figura lontana di una donna, che sorvolava la squallida pianura... aveva fragili ali bianche. Ma Ames non rispondeva alle domande sulla natura dell'originale. Verso la fine del 1939, il Punto Morto cominciò ad estendersi. Come un grigio cancro della Terra, si ampliò. La recinzione venne inghiottita. La vegetazione e gli edifici crollarono, riducendosi a mucchi di pesante polvere immota. Vi furono poche vittime, perché Ames organizzò l'evacuazione dei centri e delle fattorie condannate, precedendo quell'avanzata lenta e inesorabile. Ma nessuno sforzo poteva fermarla. Le Terre Morte avevano già raggiunto il Missouri. Le sue acque assorbivano sempre più l'energia letale. Divenne un terribile fiume di morte, stranamente luminoso di notte. Tutte le città abbandonate si sgretolavano, riducendosi in polvere: Kansas City, St. Louis, Menphis, New Orleans. Due anni dopo, in un piccolo accampamento provvisorio che l'indomani sarebbe stato abbandonato, Ames annunciò a Rathbone la sua intenzione di entrare nel Punto Morto. «Ma non può!» Rughe severe s'incisero agli angoli delle labbra sottili di Rathbone, una paura grigia gli ombreggiò gli occhi infossati. «Sarebbe la fine.» «Debbo andare,» rispose seccamente Ames. «Il Punto Morto deve essere arrestato. Con questo ritmo di estensione, può calcolare quanto vivrà una qualunque città, o il mondo intero. Non ci resta molto tempo.» «Una dozzina di uomini dell'SSS vi è penetrata,» obiettò Rathbone. «Con tutte le protezioni che eravamo in grado di fornire loro. E non ne è tornato nessuno. La vita, semplicemente, non può esistere nel Punto Morto.» «Ma esiste. Io l'ho vista... l'ho fotografata.» Ames mostrò la foto che teneva nel portafoglio. Aggrottando la fronte dubbioso, Rathbone la studiò in silenzio.
«L'ho scattata dal pallone, con il teleobiettivo.» Gli occhi spiritati e la voce profonda di Ames si erano addolciti. «L'avevano veduta prima, con il binocolo... mezza dozzina di volte, negli ultimi tre anni. E... beh... l'ho sognata.» Rathbone sbuffò, bruscamente, ed un profondo rossore si diffuse sul viso abbronzato di Ames. «Mi limito a esporle la situazione, Rathbone,» proseguì, cupo. «Non cerco di spiegarla, perché non posso. Ma per ben tre volte, sul pallone, mentre ero mezzo morto per la stanchezza, ho creduto... o sognato... che quella donna mi parlasse. È veramente alata. Si chiama Arthedne. È disperata. E sa molte cose di questo mistero. Se riuscissi a trovarla...» Rathbone sbuffò di nuovo. «Comunque, andrò lo stesso.» Ames tese la mano per riprendere la fotografia. «Ho progettato una macchina... con qualche aggiunta ideata da me. Voglio controllare i piani insieme a lei...» «Le assicuro,» insistette Rathbone, «che la vita non può esistere...» «Esiste!» scattò Ames. «E sopra tutto, c'è un traffico regolare, dentro e fuori. I nostri rivelatori hanno individuato aerei a reazione che volano troppo in alto perché sia possibile seguirli. E c'è una quantità sempre maggiore di metallo avvelenato, sul mercato! È stato trattato in modo da neutralizzare le radiazioni, ma ne esiste a sufficienza per dimostrare che proviene dal Punto Morto!» Un mese dopo, un aereo dall'aspetto strano stava su un campo nei pressi del confine avanzante delle Terre Morte. Era tozzo, robusto, grigio, rivestito da una speciale vernice al piombo. Le linee aerodinamiche della fusoliera coprivano un globo del diametro di un metro e venti, che conteneva uno strato d'acqua tra doppie pareti di lega di piombo. Accanto all'apparecchio, Ryeland Ames stava ritto, barcollando un po', chiuso in una ingombrante tuta di tessuto al piombo, così pesante che persino la sua struttura poderosa faticava a sopportarla. Gli occhi azzurri erano protetti da enormi lenti di vetro al piombo. Una massiccia pistola automatica era fissata alla cintura, e controbilanciata da due lucidi cilindri d'acciaio. «Il piombo assorbirà parte dei raggi,» dichiarò Ames ai telecronisti che l'attorniavano. «Gli schermi magnetici ne devieranno altri. Gli atomi d'idrogeno contenuti nell'acqua cattureranno alcuni neutroni. Non è una protezione perfetta. Ma spero di vedere il centro del Punto Morto, e di ritornare vivo.»
Si accinse ad inerpicarsi goffamente nella grande sfera di piombo. Un cronista chiese: «I cilindri...» «Bombe atomiche,» grugnì Ames. «Idrogeno triatomico stabile, ad alta pressione. Il mio processo catalitico lo convertirà istantaneamente in elio... liberando energia sufficiente a spianare una città.» Il massiccio portello fu avvitato; il periscopio ruotò, avanti e indietro. L'aereo corse sul campo, rombando, decollò pesantemente. Gli osservatori trattennero il respiro, quando lo videro attraversare la barriera invisibile. Ma non precipitò. Continuò a volare, verso il cuore desolato delle Terre Morte. Rimpicciolì, divenne un puntolino, e svanì oltre l'orizzonte grigio. Ma la voce profonda di Ames trasmetteva attraverso il comunicatore a onde corte: «Sto seguendo una vaga striscia che deve essere stata un'autostrada. Sotto di me c'è un motivo rettangolare nella polvere. Doveva essere una città...» Di nuovo silenzio, qualche scarica. «La valvola dell'ossigeno si è bloccata!» Era trascorsa mezz'ora, e la voce di Ames era più debole. «Ho dovuto aprire il portello per respirare. Non riesco a capire il motivo dell'avaria... avevo controllato la valvola questa mattina... «Sono teso e dolorante. Comincio a provare un formicolio alla pelle. I raggi cominciano a fare effetto, certo. Ma forse mi resta tempo...» Un'altra pausa ronzante. «C'è qualcosa, davanti a me... «Edifici! Un fumo verde che esce da una ciminiera. Una lunga cava grigia, e grosse scavatrici al lavoro. Sembra una miniera!... E un campo, con lunghi aerei a reazione! Deve essere di qui che proviene il metallo trasmutato...» Dieci minuti di attesa ansiosa. «Il motore si surriscalda.» La voce era rauca, tesa. «Perde colpi... forse la benzina si disintegra... ma... là!» Un'esclamazione di meraviglia incredula. «Là... è una città!... «Sì, una città al centro del Punto Morto. Torri metalliche. Ciminiere che esalano fumo verde. E macchine... macchine enormi! Ma debbo tornare indietro. Gli effetti delle radiazioni si fanno sentire...» Un silenzio più lungo, poi un mormorio: «Non ce la farò. Il motore sta per spegnersi. Vedo il Missouri, in distanza. Qualcosa... uno strano barbaglio sulle colline! E vedo qualcosa che si muove... sembra un gigante me-
tallico!... Rathbone, lei mi aveva avvertito! Ma continuate! L'SSS deve arrestare il Punto Morto!» La voce fioca s'interruppe all'improvviso. Il ronzio ed il crepitio delle strane energie delle Terre Morte erano ormai gli unici suoni che uscivano dalla ricevente. Scese la notte, e il cerchio proibito ridivenne stranamente luminoso. Stringendosi tra le mani la testa dolorante, Ryeland Ames tentò di sollevarsi a sedere. Urtò contro qualcosa. Poi ricordò. La caduta l'aveva stordito. Era ancora all'interno della sfera di piombo. La pelle era febbricitante, e prudeva. Un dolore sordo gli rodeva le ossa. La sete lo tormentava. Avrebbe voluto bere l'acqua che filtrava dalla parete interna incrinata, ma sapeva che le radiazioni assorbite l'avevano trasformata in un liquido letale. La fine polverosa del Punto Morto. Muovendosi goffamente nella pesante tuta, aprì il portello. Era il crepuscolo. La distesa piatta e desolata già brillava della sua strana luminosità cupa. Le alture oltre il Missouri splendevano torve ed il fiume era un pigro serpente di dannazione. Là aveva visto quel che sembrava un gigante metallico. Ora, dalla parte del fiume, scorse un brillio fuggevole. Era la stessa cosa di metallo, che si aggirava cautamente nel burrone arido, cercando lui? E cos'era? Un uomo, o una bizzarra creatura di Clyburn Hope? Uscì dalla sfera, con movimenti rigidi, cercò con le mani guantate la pistola automatica e le due bombe atomiche. Abbandonò il relitto dell'aereo, già luminescente ed in fase di disgregazione, e si avviò lungo il fiume. «Sto per andarmene, sicuro,» mormorò. «Ma prima troverò una spiegazione.» Era verso monte, infatti, che aveva veduto il brillio sulle alture. Uno strano pellegrinaggio. Passava tra mucchi di pesante polvere che ardeva fredda, violetta, verde, purpurea, gialla. Attraversava a guado depressioni piene di gas luminoso che gli bruciava i polmoni come una fiamma. Incespicava. Si sollevava pesantemente. Cadeva di nuovo. Il dolore nelle ossa aumentava rapidamente. Tutto il suo corpo bruciava. La sete era una tortura... Una volta si guardò alle spalle, e vide un luccichio in movimento. La cosa metallica lo seguiva? Non aveva molta importanza. Ormai si stava trascinando. Poi, quando ormai pareva che non vi fosse più speranza, lei gli venne in-
contro. Arthedne... l'essere fulgido della foto e dei sogni. Volteggiò sopra le alture buie, planò verso di lui sulle ali di splendida fiamma. Non battevano l'aria: c'era in essa una pulsazione di colore, d'oro e di rosa, malva e zafferano. Ames si sollevò faticosamente in ginocchio, agitò le braccia. E lei scese leggera sulla polvere lucente, davanti a lui. Le ali scomparvero all'improvviso. Due antenne sottili salivano incurvandosi dalle spalle. Le ali erano state fiamme tra quelle antenne. «Ames!» La voce era una melodia argentina. «Sei venuto!» Gli si avvicinò, svelta. Era alta, snella, bellissima. Una tunica d'argento tessuto aderiva alle curve del suo corpo. Una stella gemmata brillava sulla fascia che le tratteneva i capelli dorati. «Arthedne!» esclamò Ames, con voce soffocata. «Tu...?» Era reale, interamente umana. Anche i delicati fili delle antenne pulsanti di colori erano naturali, bellissimi. Erano necessari quanto le due braccia: senza, sarebbe apparsa sfigurata. La debolezza l'invase. Strinse i denti, per dominare la sofferenza. «Tesoro,» mormorò. «Ti avevo vista... volare. Così bella. Volevo... speravo... di venire da te!» Vacillò. Lei lo sorresse, prontamente. «Ames! Ti avevo percepito, oltre le Nuove Terre!» Lo sostenne con le braccia. «Solo in te trovavo l'affinità con la mia razza perduta, assassinata dagli Uomini-Tec. Perciò ti ho chiamato. Ma Ames...» Rabbrividì, sgomenta. «Tu stai male!» «Sto per morire,» mormorò lui. «Non ancora, Ames... perché ti ho portato questo!» Mostrò una boccetta metallica, riempì il tappo a vite di un liquido celeste. «Sei come il dottor Hope... della vecchia forma di vita: non puoi sopportare le radiazioni delle Nuove Terre. Bevi questo! È il neutralizzatore che lo teneva in vita.» Ames inghiottì il liquido, e si sentì rianimare rapidamente. Dopo pochi minuti riuscì ad alzarsi in piedi. Ricordò l'inseguitore furtivo, si guardò alle spalle, con apprensione. «Ho visto gli Uomini-Tec.» La voce di Arthedne era un fremito di timore. «Sono in caccia, stanotte. Ma forse potremo trovare Futuron. Non l'hanno mai trovato, dietro il suo schermo a Campo Tau.» Gli occhi di Arthedne erano oscurati dall'angoscia e dalla paura.
«Futuron era l'ultima città costruita dai Neozoici... il mio popolo,» disse lei. «Quando i raggi bellici degli Uomini-Tec distrussero tutto il resto, cessarono di lottare, e non misero più al mondo altri figli, per non farli vivere in un mondo di disperazione. Ormai sono l'ultima neozoica... e gli UominiTec sono ancora in caccia.» «Ma vieni!» Ames riprese a camminare barcollando, al suo fianco. Raggiunsero le alture dove egli aveva scorto lo strano brillio. Era un saliente che sporgeva sulle acque lucenti e velenose del Missouri. L'eccitazione e la paura facevano scorrere guizzi di colore lungo le fini antenne di Arthedne. «Dove...?» ansimò Ames. Si fermò, si soffregò gli occhi. Aveva udito un ronzio sommesso. E le Terre Morte erano scomparse. Erano entrati in una cupola di luce rosea. Davanti a lui s'innalzavano eleganti colonnati, e le bianche torri di edifici spaziosi, simili a templi. «Questa è Futuron,» sussurrò Arthedne. «Ma non l'avevo vista!» protestò Ames, sbalordito. «E questa luce rosea...» «La città è quasi invisibile,» spiegò Arthedne. «È la nostra unica difesa contro gli Uomini-Tec. Il Campo Tau, un adattamento del Campo Sigma del dottor Hope, deflette la luce tutto intorno. Il chiarore roseo è un fortunato effetto secondario. Altrimenti, poiché la luce non può penetrare se non attraverso gli oblò, saremmo immersi nell'oscurità.» Fiori delicati, strani e coloratissimi, di varietà che Ames non aveva mai visto, creavano dovunque piacevoli chiazze cromatiche. Nell'aria aleggiava un profumo esotico. Arthedne lo condusse nell'appartamento semplice e silenzioso in cui abitava. «Tutta la città?» chiese Ames, cercando di reprimere un brivido di stupore sgomento, «È vissuta ed è decaduta dopo l'avvento del Punto Morto?» «Il tempo scorre più rapido, nel Campo Sigma,» rispose lei. «Dodici Neozoici fuggirono con il dottor Hope, per fondare la prima città. Io sono nata nella quarta generazione.» Sedettero su un divano, in un padiglione rischiarato dalla luce rosea. Ames la guardò intento. «Gli Uomini-Tec?» chiese. «È stato il dottor Hope a crearli?» «Sì, ed anche i Neozoici,» mormorò la fanciulla. «Cercava di formare una razza nuova, più dotata di quella antica. Vi furono molti errori, molti insuccessi. Gli Uomini-Tec furono i primi a risultare promettenti. Avevano
grossi cervelli, e corpi inadeguati, che dovevano essere integrati da meccanismi complessi. Li teneva sotto osservazione, in laboratorio. «Intanto, però, un altro esperimento aveva prodotto i Neozoici. Noi avevamo caratteristiche mentali e fisiche equilibrate, ed eravamo pressoché indipendenti dalle macchine. Possedevamo sensi nuovi, nuove facoltà, che mancavano agli Uomini-Tec.» «Il dottor Hope decise di lasciarci vivere, in una piccola colonia, sperando che potessimo coesistere in pace con la vecchia razza. E intendeva distruggere gli Uomini-Tec, perché l'allarmava la tendenza alla spietatezza atavica che era comparsa in loro. «Tutte le sue creature erano adattate a vivere nel Campo Sigma, e incapaci di esistere al di fuori di esso. Il dottor Hope si proponeva semplicemente d'invertire il campo negli alloggi degli Uomini-Tec. «Ma quelli erano intelligenti, e volevano sopravvivere. Sospettavano del dottor Hope. Guidati da un mutante nato con una aggressiva volontà di potenza, si ribellarono, s'impadronirono di tutto il laboratorio, ed ampliarono il Campo Sigma su di uno spazio vastissimo.» «Capisco!» mormorò Ames. «È stato allora che sono venute le Terre Morte!» «Le Terre Nuove, per noi,» sussurrò la fanciulla. «Il capo ribelle, lo ZarTec, tentò di uccidere il dottor Hope e tutti i Neozoici,» proseguì. «Ma essi fuggirono, e fondarono la nostra prima città. E gli Uomini-Tec rimasero, e costruirono Technopolis.» «Technopolis!» esclamò Ames. «La città che ho vista avvolta in un sudario verde?» «La città delle grandi macchine è Technopolis,» disse la fanciulla. «È da lì che gli Uomini-Tec hanno intrapreso la guerra contro la mia gente. Per molto tempo, i Neozoici sperarono di sopravvivere. Costruirono sette città, nascoste sotto lo Schermo Tau. Ma poi il dottor Hope morì, e le nuove armi atomiche degli Uomini-Tec li sopraffecero. «Allora lo Zar-Tec cominciò ad accrescere la potenza del Campo Sigma, mantenuto dai grandi generatori situati nella torre centrale di Technopolis. Cerca di estendere le Terre Nuove su tutto il pianeta. Aspira a dominare il mondo... «Dunque è così!» bisbigliò Ames. «È quella macchina che fa estendere il Punto Morto. Allora è necessario distruggerla!» Arthedne fece per parlare, ma si trattenne. Una strana paura le oscurava
gli occhi violetti. Il corpo snello rabbrividì nella tunica d'argento, e lo splendore colorato svanì dalle antenne. Finalmente disse, in tono grave: «Non sarà facile, Ames. Technopolis è lontana, e gli Uomini-Tec sono già qui a darci la caccia. La città e la torre dello Zar-Tec sono ben difese. E i generatori del campo sono troppo enormi perché sia facile manometterli.» «Ho un'arma.» Ames toccò le bombe atomiche. «Posso tentare.» La fanciulla aveva un'aria stranamente solenne. «Quando ti sarai ripreso,» mormorò lentamente. «Ora puoi toglierti l'armatura,» gli disse. «È inutile, poiché hai preso il rimedio. Ed ora ceneremo.» In silenzio, preparò una tavola carica di cibi strani quanto i fiori che l'ornavano. Una musica bizzarra suonava sommessa, come la melodia funebre di una razza scomparsa. Ames tentò di dimenticare l'orrore che stava oltre i colonnati rischiarati dalla luce rosea ed il compito disperato che l'attendeva. Fece sedere accanto a sé Arthedne, così bella, così solenne. Lei era calda e tremante tra le sue braccia: le sue labbra erano inebrianti. Per qualche istante. Ames dimenticò... All'improvviso, Arthedne balzò in piedi, con le antenne protese, frementi d'allarme. «Hanno trovato Futuron!» esclamò. «Lo schermo-spia ci mostrerà...» Corse ad una sorta di armadio. Ames guardò oltre la spalla di lei, vide uno schermo coperto, e le immagini degli Uomini-Tec. Una ventina di giganti metallici, alti quattro metri, che avanzavano svelti dallo squallore delle Terre Morte. Le braccia lucenti stringevano strani meccanismi... armi! Freneticamente, Ames cercò una via di fuga. Ma c'era soltanto il fiume splendente e mortale. Strinse a sé la fanciulla. «Tu puoi volare,» le sussurrò, concitato. «Tu puoi andartene. E io... li affronterò!» Arthedne scosse disperata la testa bionda. «Staranno osservando con i raggi da guerra. Mi brucerebbero in volo.» Gli si aggrappò, mormorando: «E poi Ames, non voglio lasciarti.» I calmi occhi azzurri dell'uomo si socchiusero all'improvviso. Sganciò una delle piccole atomiche, regolò il meccanismo ad orologeria. «C'è una via d'uscita!» La sua voce risuonò bassa e cupa. «Il fiume!» Gettò la bomba dietro di sé. Contando sottovoce, afferrò la ragazza per il braccio, corse verso una torre che sorgeva in riva al fiume. Dietro di loro, quattro Uomini-Tec irruppero attraverso lo schermo roseo.
Mentre si raccoglieva per affrontarli, Ames vide le teste gigantesche all'interno dei grandi caschi di vetro e d'acciaio. Poi gli occhi scintillanti, profondamente incassati, enormi e disumani li scoprirono. Le armi sfolgoranti si alzarono, minacciose. La pistola automatica sobbalzò nella mano solida di Ames. I tre giganti più vicini caddero, con i caschi in frantumi. Ma il quarto lanciò un fascio di luce verde, incandescente, che toccò le bianche colonne di futuron. L'elegante guglia centrale esplose... e lo schermo roseo svanì. La piatta desolazione delle Terre Morte riapparve ed il cerchio dei giganti avanzò precipitosamente, spianando le armi bizzarre. «... diciannove,» mormorò Ames. «Centoventi... Salta!» Lasciò cadere la pistola scarica, trascinò Arthedne con sé, giù dallo strapiombo. Il fiume oleoso e lucente parve salire verso di loro, l'investì con un colpo gelido, l'inghiottì. Attraverso l'acqua giunse un rimbombo immane, come se tutto il mondo risonasse dell'urto d'un martello cosmico. Semistorditi, risalirono alla superficie... e si affrettarono ad immergersi di nuovo per sfuggire ai frammenti della città e dei suoi invasori che piovevano nel fiume. «Futuron!» Il mormorio di Arthedne era soffocato, dolente. «Il mio luogo natale...» Nuotarono nel senso della corrente. Nulla si muoveva lungo le alture cupe. Finalmente emersero, fianco a fianco, riposarono su una lingua di sabbia gialla e lucente. Ames prese la fanciulla tra le braccia, sussurrandole: «Tesoro, sai che ti amo.» Gli occhi violetti si annebbiarono di lacrime. Lei lo baciò, gli si aggrappò. Sfumature dolci e calde pulsavano nelle lunghe antenne. «Tienimi stretta, Ames,» mormorò lei. «Prima che la gioia mi spinga a volar via.» Ma all'improvviso s'irrigidì, come per uno spasimo di sofferenza. Si sollevò a sedere. «Perché fingere?» La voce era rauca, offuscata dall'angoscia. «Tu sei come la mia gente, Ames. C'è una scintilla nuova e vitale... in te, l'evoluzione ha cercato di colmare la lacuna fra la tua razza e la mia. Ed io ti amo, Ames... ti voglio. Ma tu non puoi vivere a lungo nelle Terre Nuove. Ed io non posso vivere all'esterno.» Trasse un respiro simile ad un singhiozzo. «La tua realtà cerca la mia. Ma esiste ancora un abisso, tra noi, che non potremo mai varcare. A meno che...» Gli occhi violetti guardarono al di là del fiume lucente. Arthedne rabbri-
vidì di nuovo. «A meno che non moriamo!» Lasciarono il fiume all'alba. Ames esaminò la bomba atomica che gli era rimasta, la sua unica arma. Era indenne. «Puoi condurmi a Technopolis?» chiese. La fanciulla annuì solennemente. «Ma vi sono molte barriere.» Per tutto quel giorno camminarono attraverso la piana desolata e polverosa. Videro i nastri grigi che erano stati strade, i mucchi di macerie sgretolate che erano state case. Di tanto in tanto, in un monticello di cenere, riconoscevano i contorni bianchi di uno scheletro umano. Ames non si lagnava: ma la sua epidermide era intorpidita, le ossa gli dolevano di nuovo. Cominciava a soffrire una sete torturante. Arthedne sembrava in preda ad un umore strano. Talvolta cercava di scherzare, ma sempre c'era un'ombra che pesava su di lei. Una volta lo lasciò, s'involò con le ali di fiamma splendente spiegate tra le antenne delicate. «È meraviglioso, volare,» mormorò felice, posandoglisi accanto. «Volevo farlo ancora una volta.» Le ali si spensero. Prese la mano di Ames: proseguirono insieme. La strana polvere era caduta di nuovo, e la pianura morta cominciava a rifulgere di una cupa luce ultraterrena, quando Arthedne si soffermò, tese la mano. «Là...» bisbigliò. «Technopolis!» Sorgeva sulla cresta scura e ardente di una collina lontana. Una muraglia di torri metalliche, inondate di luce, avvolte da un sudario di fumo verde. Avvicinandosi, udirono il rombo e il battito di grandi macchine, in un riverbero aspro ed incessante. «Capisco,» disse Ames, «perché il dottor Hope si era pentito di aver creato gli Uomini-Tec. La tua città di Futuron era un dolce paradiso. E quest'inferno fragoroso è troppo simile alle città che ho conosciuto.» Avanzarono ancora, furtivi, e Arthedne indicò. «La guglia centrale, la più alta... sovrastata dalla fredda fiamma purpurea... è la torre dello Zar-Tec,» sussurrò. «I generatori sono là.» Ames strinse la bomba all'idrogeno. «Se possiamo arrivarci...» Giunsero ad una barriera alta sei metri, formata da lame di metallo seghettate, dalle cui punte sprizzavano minacciose scintille bluastre. Ames si fermò, dubbioso, ma Arthedne gli tese le braccia. «Afferrami i polsi,» gli disse. «Le mie ali sono abbastanza forti.»
Ames obbedì, riluttante. Le antenne si protesero verso l'esterno, le ali di luce si riaccesero, balenando. Il volto della fanciulla sbiancò per il dolore: ma s'innalzò, sollevandolo. Superarono la barricata, planarono verso la base delle torri. «Oh, Ames,» gemette lei, straziata. «Non posso...» Le ali luminose svanirono. Piombarono insieme al suolo. Ames la raccolse. Era inerte, inconscia. Dopo un attimo, riaprì gli occhi violetti. «Mi dispiace,» mormorò. «Esausta...» Avanzarono furtivi, nell'oscurità luminescente, tra vie che sembravano profondi canaloni. Alcuni corpi giganteschi, simili a robot, vennero verso di loro, con le strane teste enormi visibili dentro i caschi. Ames trascinò Arthedne contro un muro, la guardò, angosciato. E Arthedne era scomparsa! Un improvviso manto di tenebra assoluta calò su di lui. Sbigottito, cercò a tentoni la mano della fanciulla, la trovò, tesa e tremante. Lei gli prese le dita, ricambiò rapidamente la stretta. In un attimo, l'oscurità sparì. Gli Uomini-Tec erano passati oltre. «Noi...» ansimò Ames. «Invisibili?» Arthedne annuì, accennandogli di essere prudente. «L'accelerazione evolutiva del dottor Hope ha creato poteri nuovi, nei Neozoici,» mormorò. «Basati soprattutto su di una comprensione diretta della distorsione spaziale. Voliamo grazie ad un suo adattamento. Un altro crea un campo che deflette la luce... ma non sono abbastanza esperta per mantenerlo a lungo.» Proseguirono verso l'alta torre centrale. In diverse occasioni Arthedne rese invisibili entrambi, mentre il pericolo passava oltre. Ames stringeva la bomba atomica. Finalmente giunsero ad un grande viale. «Laggiù.» Indicò un edificio. «La torre.» Davanti a loro sfilarono file interminabili di giganti metallici. L'asfalto tremava al passaggio di un torrente rombante di macchine strane e immense. Sembravano carri armati, pensò Ames: veicoli corazzati su cui erano montate lunghe canne. «Lo Zar-Tec si prepara alla guerra,» mormorò Arthedne. «Se la tua razza penetrasse nelle Terre Nuove...» Un gigante armato comparve sul viale, dietro di loro. La fanciulla rese invisibili entrambi, sino a quando fu passato. Lo sforzo la lasciò debolissima. Ma finalmente, nel corteo di macchine belliche, si aprì un varco. Di
nuovo avvolti nell'oscurità, attraversarono la strada, rapidissimi. Ames inciampò sul marciapiedi di fronte. La fanciulla si lasciò sfuggire un singulto soffocato di stanchezza. La coltre di tenebra svanì, e lei gli si lasciò cadere accanto. Ames vide i giganteschi Uomini-Tec avanzare a grandi passi verso di loro. Un fischio d'allarme gli lacerò i nervi. «Mi dispiace...» sussurrò Arthedne con un filo di voce, e giacque immobile. Ames regolò il detonatore della bomba su tre secondi, la scagliò attraverso una finestra all'interno della torre che creava il Campo Sigma. Raccolse la fanciulla fra le braccia, tornò ad attraversare la strada, vacillando, evitando appena un pesante carro armato. Dozzine di Uomini-Tec che fischiavano, sibilavano, sferragliavano, si dirigevano verso di loro, barcollando grottescamente. Ansando, Ames contò. «... due... e... tre!» Si lasciò cadere dietro un riparo, insieme alla fanciulla, attese l'esplosione d'energia immane che avrebbe dovuto spianare la città. Probabilmente li avrebbe anche uccisi: ma se fosse bastato ad arrestare il Punto Morto, non avrebbe avuto importanza. Attese, trattenendo il respiro. E non accadde nulla. La folla fantastica e sferragliante dei giganti li attorniò. Freneticamente, Ames sperava ancora... fino a quando un altro Uomo-Tec uscì dalla torre, portando la bomba atomica. Il detonatore a tempo era fracassato. Possibile che gli Uomini-Tec avessero saputo in anticipo...? Un braccio di metallo scattò, lo colpì alla testa, cancellando ogni pensiero. Ames riprese i sensi in una vasta sala illuminata dall'aspro chiarore rosso e guizzante del neon. Due giganti metallici lo sorreggevano, tenendolo per le braccia. Davanti a lui c'era una grande scrivania, coperta di pulsanti e quadranti e strani strumenti. Dietro sedeva un altro corpo metallico corazzato, più grande degli altri: l'occupante era nascosto dietro una maschera truce d'acciaio e di vetro. Quello doveva essere il capo... lo Zar-Tec. Arthedne era scomparsa... dov'era? Immenso e terribile come un dio d'acciaio, lo Zar-Tec si girò verso Ames, lo scrutò con le lenti fredde. Una voce bronzea tuonò nella sala illuminata di rosso. «Uomo della vecchia razza, perché sei qui?» Ames digrignò i denti, cercò di liberarsi dalle mani d'acciaio.
«Bene,» disse la voce raschiante. «Non è necessario che tu parli... Tu sei Ryeland Ames, capo dell'SSS... Quali sono i piani della tua organizzazione per contrastare l'avanzata delle Terre Nuove?» Nauseato, tremante, Ames cercò di svuotare la propria mente. «Bene,» disse la voce stridula. «Allora non dobbiamo temere la minima opposizione.» Il volto d'acciaio si girò verso le guardie. «Portatelo in laboratorio. Procedete alla dissezione di entrambi i prigionieri. Ci fornirà altri dati sulle diverse razze... e porrà fine ad ogni opposizione da parte loro.» Dissezione... entrambi i prigionieri! Quelle parole risuonarono nella testa dolorante di Ames, come un gong funebre. I giganti lo trascinarono via. Si tese, tentò un balzo disperato, si svincolò da quello di destra. L'altro incespicò, crollò goffamente. Era libero. Arthedne! Dove...? Ma gli arti metallici del primo guardiano si avventarono verso di lui. Una rossa bomba di sofferenza esplose nella sua testa sofferente. Si rese conto che lo stavano trasportando verso il laboratorio... E poi si trovò disteso sulla strada. La testa gli pulsava, il corpo era rigido e indolenzito. Si levò in piedi, incredulo. Perché Technopolis era... morta. I due guardiani erano distesi accanto a lui, sull'asfalto. I corpi minuscoli da macrocefali erano irrigiditi e bluastri negli abitacoli delle loro macchine cadute. Technopolis si era fermata. Tutti gli Uomini-Tec che vedeva erano morti. Cos'era accaduto? E Arthedne dov'era? Attraversò a passo incerto la via silenziosa. All'estremità, intavvide in lontananza le Terre Morte... stranamente cambiate. La bizzarra luminosità era scomparsa. Il fuoco che consumava il suo corpo, notò all'improvviso, si era attenuato. «Ames!» Una voce fioca singhiozzò il suo nome. Arthedne si posò accanto a lui. Le ali fulgide impallidirono, svanirono. Vacillò. Ames la prese tra le braccia. «Arthedne,» mormorò. «Tesoro... che cosa...?» «Ci sono riuscita, Ames... per te. Mi sono resa invisibile, sono fuggita, ho raggiunto in volo la torre. Ho invertito il Campo Sigma. Il dottor Hope ci aveva insegnato il segreto. È la fine per le Terre Nuove... e gli UominiTec... e... me!»
Rabbrividì, fra le sue braccia. «Addio, Ames, caro. Ma cerca di...» Gli si aggrappò. Ames le baciò le labbra... parevano già quasi fredde. Le braccia s'irrigidirono all'improvviso. Un chiaro balenio cremisi pulsò nelle antenne. Tremando, Arthedne ansimò: «Presto, Ames! La torre! Lo ZarTec... ancora vivo...» Appena terminato l'avvertimento, gli si abbandonò tra le braccia. Le antenne si afflosciarono, divennero grigie, inerti. Le palpebre calarono sui laghi chiari degli occhi. Ames la depose al suolo, teneramente, e corse nella torre. Un ascensore: brancolando ne azionò i comandi, e salì. Balzò fuori, nella vasta sala illuminata di rosso dello Zar-Tec. Il seggio dietro la scrivania era vuoto; il sovrano dal corpo metallico era sparito. Lo Zar-Tec si era protetto in qualche modo dall'inversione di campo? Ames scorse qualcosa che luccicava sulla scrivania... una piccola siringa, che giaceva in una pozza di liquido verde. Vi fu un cigolio d'ingranaggi, seguito da un ronzio crescente. Il terrore travolse Ames come una valanga. Doveva essere il generatore del Campo Sigma, che Arthedne aveva fermato. Lo Zar-Tec lo stava rimettendo in funzione, per ricreare il Punto Morto! Vinto dalla disperazione, Ames ricordò di essere disarmato. Tornò correndo all'ascensore, strappò ad un Uomo-Tec morto un pesante oggetto di cristallo e di metallo bianco, che poteva servire come clava. Tornò nell'ampia sala dietro la scrivania dello Zar-Tec. Era piena di meccanismi. Alcuni riusciva a riconoscerli. Convertitori atomici, evidentemente basati sugli stessi principi da lui scoperti. Generatori colossali, trasformatori, valvole alte dieci metri. Bobine immani avvolte intorno ad un nucleo cilindrico che, pensò, doveva essere la base della guglia purpurea. Era quello che creava il Punto Morto! I suoi occhi sgomenti trovarono un altro oggetto che subito riconobbe: una copia del suo superciclotrone. L'elettromagnete da quattrocento tonnellate incombeva ad un'altezza di dodici metri. Ames vide la cabina d'osservazione schermata, in fondo alla sala. La sua scoperta era stata usata contro il mondo? Poi vide lo Zar-Tec, torreggiante accanto al quadro comandi del generatore del Campo Sigma. Ames rabbrividì, stringendo più forte la clava improvvisata. Cosa poteva fare, contro le tonnellate d'acciaio di quel colosso alto cinque metri?
Eppure avanzò. Il fiume crescente di suono travolgeva il rumore dei suoi passi. Una fievole speranza lo sostenne. Forse un colpo sferrato all'improvviso... Ma la testa maestosa si girò di scatto. Le enormi lenti lo fissarono dalla maschera mostruosa. Ed una voce metallica gracchiò: «Bene, Ryeland Ames! Sei venuto qui in tempo per assistere alla fine della tua razza. Avevamo ampliato lentamente le Terre Nuove, per fare spazio a Technopolis solo quand'era necessario. Ma ora allargherò il campo fino ad avvolgere l'intero pianeta... per cancellare la tua specie degradata e obsolescente!» Lo Zar-Tec si chinò minacciosamente verso il quadro dei comandi. E il corpo dolorante di Ames si tese, fremette. Si appoggiò alla massa fredda del superciclotrone, cercò di acquietare il turbinio dei pensieri. «Non hai distrutto Technopolis, Ryeland Ames.» Le lenti enormi scintillavano, come azzurri dischi maligni. «Perché Technopolis sono io!» Un braccio gigantesco si abbassò verso i quadranti e gli interruttori. «Aspetta!» La voce di Ames risuonò rauca e ansimante, soffocata dall'incredulità. «Zar-Tec!... Io so chi sei! E so come fermare te... e Technopolis!» Lentamente, le sue mani tremanti alzarono l'arma. «E so perché l'SSS non ha potuto arrestare le Terre Morte,» risuonò l'accusa. «E perché il mio aereo è precipitato! E perché la mia bomba atomica non è esplosa...» Il colosso metallico si era scostato dal quadro dei comandi. Si avvicinò a lui, pesantemente, con un passo che scuoteva il pavimento. Le dita frenetiche di Ames tastavano il congegno sconosciuto, come se quasi lo comprendessero. «So perché sei sopravvissuto agli Uomini-Tec!» Il gigante torreggiava sopra di lui. Le membra d'acciaio si avventarono, come magli colossali. Ames lasciò cadere l'arma sconosciuta, si buttò a ritroso contro il superciclotrone. «Muori!» gracchiò lo Zar-Tec. «Con la tua razza maledetta...» Ma le dita brancolanti di Ames trovarono una leva che conoscevano. Una pioggia di scintille azzurre scaturì da un interruttore automatico. Il ronzio dei generatori diventò più fondo per il sovraccarico. L'arma che aveva lasciato cadere volò verso il magnete colossale, l'urtò con un tonfo, vi restò appesa. La voce bronzea dello Zar-Tec tacque di colpo. Ed il grande corpo metallico si rovesciò lentamente in avanti. Ames mosse la piccola leva al con-
trario, per arrestare il superciclotrone e si scostò di scatto. Lo Zar-Tec cadde con uno scroscio nel punto in cui egli si trovava un attimo prima. «No, la tua mascheratura metallica non mi ha ingannato,» mormorò Ames, sottovoce, al colossale meccanismo inerte. «Perché ho visto la siringa sulla scrivania, ed il catalizzatore sparso. E ho capito come potevo fermarti, perché una volta ho rovinato un orologio avvicinandomi troppo al superciclotrone in funzione... e sapevo che il relais magnetico nella tua testa era molto più delicato d'un orologio.» La caduta aveva frantumato i cristalli della torretta. E il volto grigio rivolto verso Ames, rigido e orrendo nella cieca sofferenza della morte, era il volto del dottor Gresham Rathbone. «Quando lo Zar-Tec non è morto, sussurrò Ames, «ho compreso che era un uomo. Logicamente, dovevi essere tu. Perché avevi lavorato con il dottor Hope, e sapevi tutto degli Uomini-Tec... molto più di quel che avevi detto a me. «Eri geloso di Hope, e l'odiavi... è chiaro, a giudicare dalle menzogne che dicevi sul suo conto. La sete di potere ti ha spinto a guidare la rivolta degli Uomini-Tec. E devi aver guadagnato milioni con i metalli trasmutati, contrabbandandoli per mezzo degli aerei a reazione!» Ames arrestò i convertitori atomici, interruppe il tonante fiume d'energia. Tornò indietro, debole e solo, attraversando la sala dello Zar-Tec, e scese per le vie silenziose. Nella fredda luce grigia di un'alba triste, cercò Arthedne. Intristito, tremante, scrutò il canalone immerso nell'ombra. In quel silenzio, la morte era una realtà vicina. Ames non si era reso conto di essere tanto stanco e delle irreparabili lesioni che le radiazioni delle Terre Morte avevano causato al suo corpo robusto. Barcollò. La vista gli si offuscò. Tutto il suo essere bruciava di fuoco lento, implacabile. Ma continuò ad avanzare, vacillando. Finalmente i suoi occhi obnubilati scorsero una chiazza bianca, informe, immobile sull'asfalto. Doveva essere Arthedne. L'ultima della razza meravigliosa che avrebbe potuto... Si fermò brancolando, sbigottito. Lieve come un alito di vento, qualcosa aveva sfiorato il suo viso dolente. Gli occhi offuscati scorsero un guizzo di colori gai, tenui, evanescenti. Una dolce voce nota giunse fino a lui. «Aspetta, Ames... tesoro! Non tornare a... a quello. Perché io sono qui!» Lui protese le mani, brancolando alla cieca. «Arthedne?» mormorò incredulo. «Sei ancora... viva? Dove sei, Arthed-
ne? Sta diventando così buio! Sento la tua voce, ma non riesco a vederti.» «Sono qui, Ames,» rispose lei. «Qui, accanto a te.» Egli sentì un tocco fresco e leggero sulla spalla. Barcollando pesantemente, sferzò i sensi stanchi, cercando di vederla ancora una volta. «Credevo...» ansimò «Credevo... che fossi morta.» «Sì, Ames. Il mio corpo è morto.» La voce esile giungeva attraverso nebbia sempre più densa, da lontano. «Ma c'è un altro potere, che avevo soltanto sospettato, e che è venuto a me nel momento della morte. Per mezzo degli stessi organi che mi permettevano di volare e di diventare invisibile, ha creato un campo nuovo nello spazio, che sarà la dimora del mio essere, per sempre.» Ames vacillò, stordito. «Sento in te un poco dello stesso potere, Ames... perché in te l'evoluzione seguiva la via della mia gente perduta. Con l'aiuto di quel potere... se tenterai, Ames, caro... potrai venire da me.» Le nebbie si chiusero, dense e nere. Un freddo torpore cancellò ogni sofferenza. Ames si rese conto, vagamente, di cadere. «Vieni da me, Ames.» Fioca, remota, udiva ancora la voce di Arthedne. «Vieni, attraversa la barriera...» Ames tentò... Il Servizio Segreto Speciale scoprì, quel giorno, che il Punto Morto non era più morto. Un aereo atterrò a mezzogiorno, sulla polvere grigia, nei pressi di Technopolis, e gli agenti dell'SSS si affrettarono ad esplorarne le silenziose meraviglie. Trovarono Ryeland Ames ed Arthedne, distesi fianco a fianco. Sui loro visi aleggiava l'ombra di un sorriso di stupore e di speranza. Titolo originale: The Dead Spot (Marvel Science Fiction, novembre 1938). 1939
William F. Temple Il triangolo quadrilatero
Il terzo autore britannico di questa Parte Seconda, William F. Temple, fu una delle pietre angolari del fandom inglese dei primi tempi: era coinquilino del famoso appartamento che ospitava anche Arthur C. Clarke ed altri notabili. Contribuì alla nascita del fanzine inglese Novae Terrae e collaborò al Bulletin della British Interplanetary Society, che allora era negli anni formativi. Perciò non sorprende che, quando apparve Tales of Wonder, Temple fosse presente. Il suo primo racconto pubblicato era stato una breve storia dell'orrore, The Kosso, che era riuscito a vendere a Thrills, uno dei volumi antologici rilegati della serie di Philip Allan, pubblicati all'inizio degli Anni Trenta. Le ambizioni letterarie di Temple erano state accese da tre fattori principali: la sua ammirazione per l'opera di H. G. Wells; la passione per il cinema; e l'appartenenza alla British Interplanetary Society. Il primo e l'ultimo gli diedero un'inclinazione naturale verso la science fiction. Nel genere, fece la sua prima comparsa con Lunar Lilliput, nel secondo numero di Tales of Wonder. Il racconto, sebbene oggi risulti troppo datato, è comunque una lettura affascinante, soprattutto perché presenta la British Interplanetary Society come l'organizzatrice del primo volo sulla Luna. Dimenticato per molto tempo, il racconto fu riesumato da Spaceway nell'ottobre 1969, e del resto lo meritava. Il successivo contributo di Temple fu ancora più inquietante: The Smile of the Sphinx, imperniato sul concetto che il gatto abbia avuto origine sulla Luna. Scritto in uno stile wellsiano e plausibile, questo racconto capriccioso è una vera delizia. Temple sfondò poi sul mercato statunitense vendendo testi a Palmer, e così il pubblico americano poté scoprire le qualità della sua prosa, più vicina a quella matura di Wells che a quella del livello pulp. Il suo 4-Sided Triangle ebbe ottima accoglienza ed i lettori lo votarono in massa; sebbene Don Wilcox avesse usato lo stesso tema base in Wives in Duplicate solo tre numeri prima, oggi è ricordato solo il racconto di Temple. Willy Ley, scrittore e pioniere della missilistica, sostenne che Temple avesse sprecato un soggetto per un buon romanzo sacrificandolo in un racconto. Temple si dichiarò d'accordo, e cominciò a trasformarlo in romanzo, mentre era un «Topo del deserto» con l'8a Armata britannica in Africa. Il manoscritto, finito per metà, andò perso in una scaramuccia nel deserto della Tunisia. Temple ricominciò daccapo, tra altre azioni di guerra. Era arrivato a metà, quando il nuovo manoscritto sparì ancora una volta nel corso di un'operazione notturna, sulla testa di ponte di Anzio.
Temple, paziente come un ragno che ritesse la sua tela strappata, ricominciò di nuovo, e finì il romanzo, con le dita semicongelate, nel mezzo delle Alpi, durante gli ultimi giorni di guerra. La scarsità di carta del periodo postbellico ritardò la pubblicazione fino al 1949. Il libro venne giustamente acclamato, e in seguito ne fu ricavato un film. Il racconto che costituisce la prima versione, però, è rimasto pressoché inaccessibile per i lettori, ed è privilegio poterlo ripresentare. Negli Anni Cinquanta, Temple si affermò sulle riviste, vendendo racconti di qualità costantemente elevata su tutte e due le sponde dell'Atlantico. Tra i suoi lavori più recenti figurano The Year Dot (su If del gennaio 1969) e Life of the Party (su Vision of Tomorrow del febbraio 1970). Nel contempo, ha pubblicato due romanzi eccezionali, Shoot at the Moon e The Fleshpots of Sansato. Data la sua sensibilità, subì una crisi creativa quando il secondo dei due romanzi venne macellato in malo modo in una versione abbreviata e non autorizzata per una collana di tascabili. Temple, che ha da poco compiuto i sessant'anni, vive e lavora a Folkestone, nel Kent, e non può dedicare alla letteratura tutto il proprio tempo, come vorrebbero i suoi numerosi ammiratori. È auspicabile che la situazione possa cambiare. Tre persone guardavano attraverso una finestra di quarzo. La ragazza era stretta fra i due uomini, scomodamente, ma per il momento nessuno dei tre se ne preoccupava. L'oggetto che stavano guardando era troppo interessante. La ragazza si chiamava Joan Leeton. Aveva i capelli di un bruno indeterminato, ed i riccioli erano dovuti ai bigodini, non alla natura. Gli occhi erano decisamente bruni, accesi di un inarrestabile buonumore. Quand'era serio, il suo viso non era eccezionale, sebbene fosse tutt'altro che scialbo; ma quando sorrideva, era bellissimo. La sua attrattiva più grande (e il fatto più interessante era che lei non se ne rendeva conto) era il carattere. Era comprensiva e rasserenante senza diventare mai stucchevole, molto equilibrata (una dote rara in una donna), e del tutto altruista. Non perdeva mai la calma per nessun motivo, non si offendeva mai, non gonfiava mai la verità a proprio favore: era peraltro tollerante nei confronti di questi difetti altrui. Possedeva un cervello eccezionalmente capace di affrontare i problemi della scienza, tuttavia aveva gusti semplici. William Fredericks (chiamato «Will») aveva parecchio in comune con
Joan, ma la sua simpatia era un po' meno disinteressata, il suo umorismo meno spontaneo: e aveva certi pregiudizi. Le sue simpatie erano riservate per le cose che considerava degne. Ma era un tipo calmo, di buon carattere, e la sua fermezza era rassicurante. Aveva i capelli neri ed un'espressione di tranquilla soddisfazione. William Josephs (chiamato «Bill») era diverso. Era completamente instabile. Rosso di capelli, era alternativamente fiammeggiante e depresso. Impulsivo, generoso, estremamente emotivo nei confronti dell'arte e della musica, si abbandonava a periodi di gaiezza e a crisi di nera malinconia. Nei momenti migliori, raggiungeva vette di acutezza mentale assai superiori agli altri due, ma lunghe fasi di letargo gli impedivano di sfruttarle a dovere. Tuttavia, aveva un vivo senso dell'humor, e spesso rideva del proprio carattere assurdamente ipersensibile: ma non poteva cambiarlo. I due uomini erano profondamente innamorati di Joan, ed entrambi si sforzavano di nasconderlo. Se Joan aveva qualche preferenza, la nascondeva con la stessa abilità, benché entrambi sapessero che era affezionata ad entrambi. La finestra di quarzo, attraverso cui stavano guardando i tre, era inserita in un alto contenitore metallico: e a poca distanza c'era un secondo contenitore, identico in ogni particolare. In alto c'era un complesso intricato di apparecchi: valvole bulbose e argentate, piccoli motori elettrici che ronzavano nei punti più impensati, schermi improvvisati di zinco, saldati grossolanamente, avvolgimenti di filo, ed una rete di cavi tesi che conferivano a quel luogo un aspetto da giungla tropicale invasa da liane. Una grossa dinamo rombava in un angolo, e un paio di grossi archi voltaici crepitavano continuamente, riempiendo il laboratorio di una strana luce azzurra sussultante, mentre il giorno svaniva oltre le finestre e l'oscurità si addensava. Un intruso capitato nel laboratorio forse avrebbe guardato attraverso la finestrella dell'altro contenitore ed avrebbe visto, montato su un'intelaiatura di ferro in una camera cubica, un ritratto ad olio di Madame Croignette di Boucher, delicatamente illuminato da lampade nascoste. Non l'avrebbe capito, ma il ritratto si trovava nel vuoto. Se si fosse insinuato dietro ai tre accanto all'altro contenitore ed avesse sbirciato attraverso la finestrella, avrebbe visto uno spettacolo apparentemente identico: un ritratto ad olio di Madame Croignette di Boucher, montato su un'intelaiatura d'acciaio sospesa nel vuoto, e delicatamente illumi-
nato da lampade nascoste. E non avrebbe capito molto, probabilmente. L'importante stava nel fatto che il quadro osservato dai tre con tanta attenzione non era lo stesso del primo contenitore .. . non ancora. C'erano differenze minutissime, nel colore e nelle proporzioni. Ma poco a poco le differenze scomparivano, perché la seconda tela veniva costruita atomo per atomo, molecola per molecola, diventando una gemella esattamente identica di quella su cui si era posato il pennello di François Boucher. L'apparecchio meravigliosamente complesso, che sfruttava un adattamento di un principio magnetico appena scoperto, consumava solo una quantità d'energia modesta, per ordinare le linee dei campi di forza che portavano in posizione ogni protone, ogni elettrone nella rispettiva orbita equilibrata. Era una macchina che poteva deviare il flusso di grandi forze, senza la capacità di sfruttarne l'energia. «Ormai ci siamo!» mormorò Will. Bill strofinò con impazienza il vetro, appannato dal suo respiro. «No!» disse, e subito tornò ad appannare il vetro. Senza fretta, tentò di ripulire un tratto con il grazioso nasetto di Joan. Lei scoppiò a ridere, annebbiando di nuovo la lastra, e nella confusione temporanea i tre non riuscirono a scorgere l'evento che avevano atteso per giorni... il completamento del duplicato del quadro, fino all'ultimo atomo. Gli archi voltaici si spensero con un crepitio finale, una lampada si accese sul quadro dell'indicatore, e la dinamo cominciò a rallentare ronzando, per fermarsi. Pulirono la finestrella: e là c'era Madame Croignette che li guardava senza capire, con i grandi occhi bruni esattamente identici al color seppia della tavolozza di Boucher, ed i due nèi ed ogni capello della parrucca incipriata erano perfettamente a posto, al milionesimo di millimetro. Will girò una valvola, e si udì il sibilo dell'aria che penetrava nella camera. Aprì lo sportello, ed estrasse impacciato il quadro, come se temesse che gli si sbriciolasse tra le mani. «Perfetto... una bellezza!» mormorò. Levò verso Joan gli occhi che gli brillavano. Bill notò quello sguardo, e inspiegabilmente soffocò l'impulsivo grido di gioia che stava per lanciare. Tossì, invece, e si piegò sopra la spalla di Joan per scrutare più attentamente Madame Croignette. «È andata,» continuò Will. «Abbiamo investito tutto il nostro denaro,
ma non passerà molto tempo prima che guadagnarne abbastanza per fare tutto ciò che desideriamo... tutto.» «Tutto... tranne tirare Bill giù dal letto la domenica mattina,» sorrise Joan. Gli altri due risero. «Nessun milionario ragionevole si alzerebbe dal letto la mattina,» disse Bill. La fabbrica in vetro e acciaio della Art Replicas Limited, splendeva come un diamante tra le verdi colline del Surrey. Da un punto di vista finanziario, era veramente nata da un diamante... dalla vendita di una copia del Koh-i-noor. Era stato l'unico prodotto della Precious Stones Limited, una ditta preesistente che il governo aveva fatto chiudere, quando si era reso conto che avrebbe rovinato il mercato mondiale dei diamanti. Un'altra azienda, la Radium Products, stava andando forte, su a Nord, perché era stata riconosciuta la sua importanza scientifica. Ma tutto l'amore dei tre direttori della società andava all'Art Replicas; ed era là che trascorrevano il loro tempo. Opere d'arte famose, provenienti da tutto il mondo, passavano dalle porte della fabbrica, e davano origine a innumerevoli copie, che venivano distribuite e vendute a prezzi ragionevoli. Anche le famiglie dotate di mezzi modesti potevano permettersi di avere un Turner o un Constable in sala da pranzo e una statuetta di Rodin nell'ingresso. Questa diffusione della proprietà degli oggetti d'arte, che erano autentici a tutti gli effetti, rafforzava enormemente l'interesse per l'arte. Quando la gente viveva per po' in loro compagnia, cominciava a percepirne la bellezza... perché non sempre la vera bellezza è accessibile a prima vista: e allora aspirava a conoscere meglio quelle opere e gli uomini che le avevano concepite e create. Perciò i tre direttori, Will, Bill e Joan, profondevano tutte le loro energie per soddisfare le richieste del mondo: e consci della parte che svolgevano nell'affermazione della civiltà, erano pienamente soddisfatti. Per qualche tempo. Poi Bill, impaziente, facile alla noia, un giorno sbottò, durante una riunione dei Direttori. «Oh, al diavolo le stime sui Ming!» gridò, spazzando via dal tavolo un mucchio di ordinazioni. Joan e Will, riconoscendo i sintomi, si scambiarono occhiate d'ironico divertimento.
«State a sentire,» continuò Bill. «Non so cosa pensiate voi due, ma io ne ho abbastanza! Ormai non siamo altro che industriali! Non è la vita per noi. Ripetizioni, ripetizioni, ripetizioni! Sto diventando pazzo! Noi siamo ricercatori, non cottimisti! Per amor del cielo, cominciamo a fare qualcosa di nuovo.» Lo sfogo lo calmò, e quasi subito prese a sorridere. «Però, davvero, perché non lo facciamo?» supplicò. «Sì,» risposero all'unisono Joan e Will. «E allora?» Will tossì e si preparò. «Joan ed io ne stavamo parlando proprio questa mattina, per la verità,» disse. «Stavamo per proporre di vendere la fabbrica, per ritirarci nel nostro laboratorio, riattrezzandolo.» Bill prese il calamaio e lo vuotò solennemente sulle stime dei Ming. L'inchiostro formò un lago lucente al centro dell'antico tavolo prezioso. «Finalmente si ragiona,» disse. «Ora, voi conoscete la linea di ricerca che vorrei aprire. Sono certo che non siamo riusciti a creare un duplicato vivente di un organismo perché il quoziente che avevamo calcolato per l'azione xy...» «Un momento, Bill,» l'interruppe Will. «Prima di andare avanti, io... ecco, voglio dire, una delle ragioni per cui Joan ed io vogliamo ritirarci è che... ecco...» «Sta cercando di dire,» fece tranquillamente Joan, «che intendiamo sposarci e starcene in pace per un po', prima di riprendere le ricerche.» Bill li guardò. Si rese conto che le sue guance stavano avvampando lentamente. Si sentiva stordito. «Bene!» disse. «Bene!» (Non gli veniva in mente altro. Era incredibile! Avrebbe dovuto ripensarci quando fosse rimasto solo, altrimenti avrebbe lasciato trasparire la sua totale mortificazione.) Tese automaticamente la mano, e gli altri due gliela strinsero. «Sapete che vi auguro ogni felicità,» disse, con voce un po' rauca. Gli pareva di avere la mente vuota. Tentò di aggiungere qualche commento, ma non riuscì a mettere insieme una sola frase di senso compiuto. «Credo che saremo felici, infatti,» disse Will, sorridendo a Joan. Lei ricambiò il sorriso, e involontariamente ferì il cuore di Bill. Con uno sforzo, Bill si riprese e suonò, per ordinare del vino, per festeggiare. Ordinò una ricostruzione moderna di un rarissimo '94.
Era una notte serena e senza luna, e le miriadi di stelle scintillanti della Via Lattea si stendevano attraverso il cielo, come se qualcuno avesse gettato una manciata di brillanti su un velluto nero. Ma scintillavano continuamente, perché nell'alta atmosfera c'erano forti correnti d'aria. Quel viale nel Surrey era buio e silenzioso. I soli segni di vita erano i rari bagliori lontani dei fari di una macchina che passava sull'autostrada, a circa un chilometro e mezzo, ed il punto rosso di una sigaretta accesa, in un varco tra le siepi. La sigaretta era di Bill. Era seduto su un cancello e guardava il cielo, e si chiedeva cosa poteva fare della propria vita. Si sentiva completamente sbandato, senza uno scopo, indicibilmente depresso. Aveva pensato che la frase «pene di cuore» fosse solo vagamente descrittiva. Adesso sapeva cosa significava. Era una sensazione fisica concreta, una sofferenza che lo dilaniava incessantemente. Desiderava con tutto il suo essere di vedere Joan, di stare con Joan. Quella smania non gli dava requie. Avrebbe gridato, per sfogarsi. Cercò di convincersi ad assumere un punto di vista più razionale. «Sono uno scienziato,» si disse. «Perché debbo lasciare che Madre Natura mi torturi in questo modo? Conosco bene i trucchi di quella vecchia furbacchiona. Questi sentimenti sono reazioni puramente chimiche, secrezioni ghiandolari mescolate nel sangue. La mia mente è senza dubbio abbastanza forte per superarlo. Altrimenti, vuol dire che ho un cervello di terz'ordine, non lo strumento scientifico di cui mi gloriavo. Fissò le stelle che scintillavano, in apparenza stabili e serene, antichissime e immutabili. Ma lo erano davvero? Forse continueranno ad apparire così anche quando tutta l'umanità, con i suoi amori ed i suoi odii, avrà abbandonato questo pianeta, lasciandolo gelido e buio... Ma Bill sapeva che in realtà cambiavano posizione a velocità spaventose, e si allontanavano da lui a migliaia di chilometri al secondo. «La Natura è un'imbrogliona, piena di illusioni,» ripeté... Cominciò così una concatenazione di pensieri, un misericordioso anestetico in cui si perdette per qualche minuto. Nelle profondità del suo subcosciente un'idea che, a sua insaputa, si era evoluta per settimane, all'improvviso si scosse ed emerse alla luce. Bill trasalì, fece cadere la sigaretta, e la lasciò per terra. Rimase seduto sul cancello, irrigidito, e considerò quell'idea. Era pazzesca... incredibilmente pazzesca. Ma se avesse lavorato con impegno, a lungo, c'era la possibilità di realizzarla. Gli avrebbe offerto una
ragione per vivere, almeno, finché c'era speranza di riuscita. Balzò giù dal cancello e si avviò a passo svelto lungo il viale, verso la fabbrica. La sua mente stava già esaminando le possibilità, formulava progetti. Nella promessa di quella nuova avventura, la sofferenza era stata temporaneamente dimenticata. Trascorsero sei mesi. Bill si era ritirato nel vecchio laboratorio, e passava molto tempo ampliandolo e riattrezzandolo. Vi aggiunse un recinto per i conigli, e trasformò un appezzamento vicino in un cimitero, per seppellire quelli che morivano per causa sua. Era un cimitero diverso da tutti gli altri al mondo, perché era pieno anche di esseri morti che non erano mai morti... perché non erano mai stati vivi. Le sue ricerche non approdavano a nulla. Poteva costruire, atomo per atomo, l'esatta copia fisica di qualunque animale vivente, ma tutti i duplicati restavano ostinatamente inanimati. Assumevano un aspetto straordinariamente vivo, ma era una vita cristallizzata. Sembravano immagini di cera, sebbene fossero morbidi come gli animali veri, immersi nel sonno. Bill pensava di aver identificato la lacuna in una certa equazione, ma quando ricontrollò scoprì che era invece esatta. Non c'erano falle nella teoria, né nella pratica, a quanto poteva capire. E tuttavia non riusciva a duplicare la forza della vita. Doveva aggiungerla lui, quella forza? Come? Applicò impulsi elettrici, in varie misure, ai centri nervosi dei conigli, tentò con rapide alternanze di temperature, minuscoli «polmoni d'acciaio», massaggi vigorosi, esterni ed interni, iniezioni endovenose e spinali di ogni sostanza, dall'adrenalina fino agli stimolanti più poderosi ideati dalla sua fertile mente. Ma i conigli artificiali restavano mucchietti inerti di pelo. Joan e Will tornarono dalla luna di miele e si stabilirono in una vecchia casa, grande e comoda, a pochi chilometri di distanza. Talvolta andavano a vedere come procedevano le ricerche. Bill si mostrava sempre vivace e gaio, quando i due arrivavano, e scherzava sugli insuccessi. «Credo che frugherò tutto il mondo per trovare la coniglia più appetitosa e le insegnerò a ballare la danza del ventre sul banco del laboratorio,» diceva. «Così qualcuno di quei cadaveri dovrà pure svegliarsi!» Joan diceva che stava pensando seriamente di aprire un ristorante specializzato in pasticcio di coniglio, se Bill avesse continuato a fornire conigli morti. Bill rispondeva che ne aveva già sepolti abbastanza da sfamare un
esercito. In generale la loro conversazione era scherzosa, tranne quando si addentravano nei particolari tecnici. Ma quando i due visitatori se ne andavano, Bill cominciava a rimuginare, e pensava a Joan. E per il resto della giornata, non riusciva a concentrarsi su nient'altro. Finalmente, più o meno per caso, trovò il pulsante che destava la vita nei conigli. Stava facendo esperimenti con una soluzione sanguigna da lui preparata, pensando che potesse rimanere più costante del sangue naturale dei conigli, che diventava troppo presto inutilizzabile. Aveva costruito una minuscola pompa per estrarre il sangue naturale dalle vene dei roditori, sostituendolo invece con la soluzione artificiale. La pompa funzionava da pochi secondi, quando il coniglio si agitò debolmente e aprì gli occhi. Mosse il naso, restò immobile per un momento: solo una zampa continuava a fremere. Poi, all'improvviso, scattò, spiccò un salto prodigioso giù dal bancone. I sottili tubi di gomma fissati al suo collo si staccarono a mezz'aria, e la bestiola cadde goffamente, con un tonfo pesante sul pavimento. Il sangue continuò a fluire da uno dei tubi spezzati, ma la pompa che lo costringeva a scorrere era il cuore del coniglio... che finalmente batteva. Sembrava che l'animale avesse esaurito tutte le sue energie in quell'unico balzo poderoso, perché rimase disteso sul pavimento e spirò, quietamente. Bill restò a guardarlo, le dita ancora posate sul volano della pompa. Poi, quando si rese conto del significato di tutto ciò, recuperò un poco della sua vecchia esuberanza, e fece il giro del laboratorio, danzando, stringendo fra le braccia una damigiana d'acido come se fosse un'urna greca. Altri esperimenti lo convinsero di aver varcato le porte della cittadella meglio custodita della Natura. Certo, non poteva creare niente di unico, di originale nella vita. Ma poteva creare un'immagine vivente di ogni creatura che vivesse sotto il Sole. Un caldo pomeriggio d'estate, un fresco prato verde ombreggiato da olmi, e sul prato due figure biancovestite, Joan e Will, che giocavano a minigolf. Un tendone a strisce vivaci accanto alla siepe, e sotto il tendone, due comode sedie di tela ed un tavolinetto moresco con bibite analcoliche. Un muro coperto d'edera di una vecchia casa di mattoni rossi, che si scorgeva tra gli alberi. La risata dolce ma trionfante di Joan, quando Will sba-
gliò il tiro. Questa era l'atmosfera che Bill trovò, al termine della camminata lungo il viale, con partenza dal suo laboratorio... era la sua prima escursione all'aperto dopo diverse settimane. E non poté fare a meno di paragonare quell'atmosfera al mondo in cui aveva vissuto: i banchi e le provette e i lavelli, l'oculare stancante del microscopio, i fogli dei calcoli sotto la cruda luce elettrica nel cuore della notte, l'odore del sangue e delle sostanze chimiche e dei conigli. E comprese che la scienza non era la cosa più importante della vita: era più importante la felicità personale. Quello era lo scopo di tutti gli uomini, in qualunque modo cercassero di raggiungerlo. Joan lo vide sul limitare del prato, e si affrettò ad andargli incontro. «Dove sei stato tutto questo tempo?» gli chiese. «Morivamo dalla voglia di sapere come andavano le cose.» «Ce l'ho fatta,» rispose Bill. «Ce l'hai fatta? Davvero?» La voce di lei divenne quasi un grido. L'afferrò per il polso e lo trascinò da Will. «Ce l'ha fatta!» annunciò: e restò in mezzo ai due, scrutandoli ansiosamente in viso. Will accolse la notizia con la solita calma, e strinse sorridendo la mano a Bill. «Congratulazioni, vecchio mio,» disse. «Vieni a bere qualcosa, e raccontaci tutto.» Sedettero sull'erba e si servirono. Will si rendeva conto che Bill aveva lavorato troppo. Il viso era pallido e stanco, le palpebre arrossate; era in preda ad una tensione nervosa che lo rendeva stordito e malsicuro. Anche Joan se ne accorse, e si astenne dal rivolgergli le domande di cui avrebbe voluto tempestarlo. Rientrò in casa, in silenzio, e preparò il tè cinese che serviva sempre a placare l'emicrania di Bill. Quando Joan si fu allontanata, Bill, con uno sforzo, si liberò dello stordimento e guardò in faccia Will. Abbassò gli occhi, e cominciò a strappare l'erba, oziosamente. «Will,» esordì, dopo qualche istante. «Io...» Si schiarì la gola, nervosamente, e ricominciò, con voce malferma. «Senti, Will, debbo dirti una cosa un po' difficile, non sono molto bravo ad esprimermi. Innanzi tutto, sono sempre stato pazzamente innamorato di Joan.» Will si raddrizzò e lo guardò incuriosito, ma lo lasciò proseguire. «Non ho mai detto niente perché... ecco, perché temevo che non sarei stato un buon marito. Sono troppo instabile per mettermi tranquillo, con
una cara ragazza come Joan. Mi ero però accorto che non potevo tirare avanti senza di lei, e stavo per dichiararmi... quando tu mi hai battuto sul tempo. Da allora mi sono sempre sentito infelice, anche se il mio lavoro mi ha calmato un po'.» Will guardò il volto pallido dell'amico, con aria interrogativa. «Il lavoro era una grande speranza, per me. E adesso ho realizzato la parte principale. Sono in grado di fare una copia viva di qualunque essere vivente. Ora... tu capisci perché mi sono buttato in questa ricerca? Voglio creare una gemella viva di Joan, e sposarla!» Will trasalì. Bill si alzò, cominciò a camminare nervosamente avanti e indietro. «Lo so, lo so di chiedere molto. È una questione molto più profonda della curiosità scientifica. Nessun uomo sensato può prendere in considerazione una proposta del genere, senza avere tristi presentimenti per sua moglie e per se stesso. Ma sinceramente, Will, non credo che possa venirne niente di male. Certo, l'unico risultato positivo sarebbe quello di rendere felice un egoista. Per amor del cielo, fammi sapere cosa ne pensi.» Will rifletté, mentre Bill, angosciato, continuava ad andare in su e in giù. Dopo un po' chiese: «Sei sicuro che non possa accadere nulla di male a Joan nel corso dell'esperimento?» «Sicuro... assolutamente sicuro,» disse Bill. «E allora, personalmente non ho obiezioni. Non conoscevo i tuoi sentimenti, Bill, e sarei molto triste, ed anche Joan, sapendoti costretto a continuare così.» Vide sua moglie che si avvicinava con un vassoio carico. «Naturalmente, la decisione spetta a lei,» proseguì. «Se non vorrà, non se ne deve più parlare.» «No, certo che no,» riconobbe Bill. Ma sapevano entrambi quale sarebbe stata la risposta di Joan. «Fermati un momento, Will,» disse all'improvviso Joan, e sua marito premette il freno. La macchina si arrestò sul viale, in cima alla collina. Attraverso un varco nella siepe, i due potevano scorgere il laboratorio di Bill, nella conca della vallata. Joan tese la mano. Nel campo dietro al «cimitero» passeggiavano due figure. Pure a quella distanza, Bill era riconoscibile per i suoi capelli fiammanti. Accanto gli stava una donna vestita di bianco. L'attenzione di Joan
era rivolta a lei. «È viva, adesso!» mormorò, con un lieve tremito nella voce. Will annuì. Notò la sua apprensione e le strinse la mano, per farle coraggio. Joan riuscì a sorridere ironicamente. «Non capita tutti i giorni di far visita a se stessa,» disse. «È stato abbastanza sconvolgente, la settimana scorsa, vederla distesa sull'altro divano del laboratorio, vestita del mio abito rosso... che io portavo... così pallida e... Oh, era come vedermi morta!» «Adesso non è morta, e Bill le ha acquistato abiti diversi, quindi consolati,» fece Will. «Lo so, è una situazione strana, ma l'unico modo è considerarla dal punto di vista scientifico. È un evento unico. E per giunta, ha reso felice Bill.» Rifletté per qualche attimo. «Vorrei che ci avesse detto in che modo compie quel suo processo di rianimazione, però,» disse poi. «Comunque, credo abbia ragione di tenerlo segreto. È una scoperta che si presterebbe ad abusi tremendi. Pensa ai dittatori che potrebbero fabbricarsi eserciti stupidi e devoti, partendo da un soldato devoto e stupido! O agli industriali, che otterrebbero mano d'opera a poco prezzo! Avremmo presto un mondo di robot, senza più traccia d'individualità. Niente varietà, niente di unico... la vita non meriterebbe più d'essere vissuta.» «No,» rispose meccanicamente Joan: tutti i suoi pensieri erano incentrati su quella figura biancovestita. Will lasciò il freno, e la macchina scese la collina, verso il laboratorio. I due sul campo la videro arrivare, e attraversarono il «cimitero» per venirle incontro. Raggiunsero la strada mentre l'automobile si fermava. «Salve!» esclamò Bill. «Siete in ritardo... avevamo il bricco sul fuoco da mezz'ora. Doll ed io cominciavamo a preoccuparci.» Si fece avanti, e la donna biancovestita indugiò, esitante. Joan strinse le labbra, si fece forza per affrontare quell'evento sconcertante. Scese dalla macchina, e mentre i due uomini si scambiavano una stretta di mano, si avviò incontro alla gemella. Evidentemente, Doll aveva deciso di affrontarla allo stesso modo, e s'incontrarono con espressioni stranamente uguali di sorridente disinvoltura, con sfumature di curiosità e di dubbio. Ognuna vide e comprese nello stesso istante l'espressione dell'altra. Scoppiarono a ridere entrambe. E questo semplificò le cose. «Non è poi tanto terribile,» disse Doll, e Joan si trattenne dal fornire lo
stesso commento istintivo. «No davvero,» riconobbe. Non era tanto terribile. Sebbene Doll le apparisse familiare, non la identificava con se stessa in modo anormale. Non solo l'abito e la pettinatura erano diversi, ma in un certo senso il viso, la figura e la voce sembravano appartenere ad un'altra persona. Joan non si rendeva conto che fino a quel momento si era vista solo parzialmente negli specchi, da certe angolazioni, e che non avesse mai udito la propria voce al di fuori della sua testa, per così dire... mai da una distanza di qualche passo. Comunque, durante il tè si sentì vagamente inquieta, sebbene cercasse di nasconderlo, sfoggiando un fuoco di fila di osservazioni spiritose. E anche l'altra se stessa le sorrideva dal lato opposto del tavolo e parlava disinvolta. Si confrontavano dettagliatamente, e scoprivano di essere identiche in tutto, fino al piccolo particolare nel neo sull'avambraccio sinistro. Anche i loro gusti erano eguali. Mettevano la stessa quantità di zucchero nel tè, e apprezzavano o detestavano gli stessi cibi. «Io tengo d'occhio quella torta dalla glassa rosa,» rise Doll. «E tu?» Joan lo ammise. Se la divisero. «Non avrete mai problemi, quando si tratterà di scambiarvi regali per il compleanno o per Natale,» osservò Will. «Che bellezza, sapere esattamente cosa vuole l'altra!» Bill aveva un sorriso perpetuo dipinto sul volto, e continuava a raggiare. Una volta tanto, non parlava molto. Sembrava troppo felice, e perdeva il filo della conversazione per fissare Doll con adorazione. «Ci sposeremo domani!» annunciò inaspettatamente. Joan e Will protestarono, sorpresi di non essere stati preavvertiti. Ma promisero di essere presenti. Nella serata giocarono vari giochi, ed i processi di pensiero, così simili in Joan e Doll, causarono molto divertimento, soprattutto negli indovinelli. Disputarono due partite a scacchi, ed entrambe le volte conclusero alla pari. Fu una serata lieta, e Bill era il più felice di tutti. Eppure, al momento di scambiarsi la buonanotte, Joan sentì ritornare la vecchia inquietudine. Mentre se ne andavano in macchina, scorse il volto di Doll, che stava ritta al cancello accanto a Bill. E intuì che, nonostante l'aria gaia, Doll soffriva del suo stesso disagio. Il giorno dopo, Doll e Bill si sposarono in un lontano ufficio del registro,
usando per Doll un nome e un luogo di nascita fittizi, per evitare ogni pubblicità... dopotutto, nessuno avrebbe messo in discussione la sua identità. L'inverno venne e passò. Doll e Bill sembravano felici, e tutti e quattro rimasero intimi amici. Doll e Joan vennero prese dalla smania d'imparare a volare per hobby, e s'iscrissero all'aeroclub locale. Acquistarono un monoposto per ciascuna, e presero l'abitudine di compiere lunghi voli, fianco a fianco. Quasi per proteggersi da quell'abbandono, poiché non avevano alcun interesse per il volo, Bill e Will ricominciarono a lavorare insieme, approfondendo i misteri dell'atomo. Questa volta cercavano di scoprire un modo per sfruttare l'energia potenziale contenuta nella materia. E quasi subito trovarono una pista nuova. In precedenza erano riusciti a dirottare l'energia atomica, senza poterla trasformare in qualcosa di utile. Era come se avessero costruito un gran numero di dighe artificiali in vari punti di un fiume turbolento, che alternavano il corso dell'acqua, senza sfruttarne la forza... anche se l'analogia era inadatta. Ma adesso avevano ideato una macchina sorprendentemente complessa che, nella stessa insoddisfacente analogia, poteva venir paragonata ad una turbina, e sfruttava parte dell'energia di quel fiume. Il «fiume», però, era davvero molto turbolento, e per imbrigliarlo occorreva abilità e coraggio. E c'era il rischio che la diga cedesse all'improvviso. Dopo qualche tempo, gli altri si accorsero che la salute di Doll stava declinando poco a poco. Lei si sforzava di conservare la sua solita aria gaia e vivace, ma non riusciva a dormire, ed era irrequieta e nervosa. E Joan, che era quasi sempre con lei, capì all'improvviso cosa assillava quella mente tanto simile alla sua. La rivelazione fu un autentico trauma, che la lasciò sbigottita: ma l'affrontò. «Penso sarebbe bene per Doll e Bill venire a stare qui con noi per un po', fino a che Doll starà meglio,» disse un giorno a Will, cautamente. «Sì, d'accordo, se credi di riuscire a convincerli,» rispose Will, un po' perplesso. «Abbiamo anche troppe stanze vuote, qui.» continuò lei, in tono difensivo. «Comunque, potrei essere d'aiuto a Doll, se le fossi più vicina.» Doll sembrava ansiosa di trasferirsi, anche se aveva ancora qualche dubbio, ma Bill giudicò l'idea magnifica. Arrivarono quella stessa settimana.
All'inizio, la situazione migliorò. Doll cominciò a riprendersi, parve tornare a se stessa. Era meno tesa, e partecipava con piacere ai giochi serali degli altri tre. Studiò il gioco preferito da Will, backgammon, e si divertì a batterlo regolarmente. E poi Joan cominciò a declinare. Divenne nervosa, malinconica, persino bisbetica. Sembrava che, aiutando Doll a ritrovare la salute, fosse stata contagiata dagli stessi disturbi. Will era preoccupato, e insisteva perché si facesse vedere da un medico. Il medico disse a Will, in privato: «Fisicamente non ha nulla. È rosa da qualche preoccupazione segreta, e continuerà a peggiorare fino a quando se ne libererà. La convinca a dirle di che si tratta... con me ha rifiutato di parlare.» Joan rifiutò di parlare anche con Will, nonostante le sue suppliche. E Doll, che conosceva il segreto, cominciò a preoccuparsi per Joan. Poco dopo, ricadde nelle condizioni iniziali. Continuò così per una settimana, una settimana infelice per i due mariti angosciati e perplessi, che non sapevano da che parte voltarsi. La settimana successiva, però, le due donne parvero compiere uno sforzo: si rianimarono un po', ed a pranzo ripresero addirittura a ridere. Il miglioramento proseguì, e Will e Bill ritennero di poter riprendere la loro attività quotidiana in laboratorio, per completare la macchina che doveva imbrigliare l'atomo. Un giorno, Will tornò a casa inaspettatamente, e trovò le due donne che piangevano disperate, abbracciate su un divano. Restò a fissarle per un momento, sbalordito. Poi si accorsero della sua presenza e si staccarono, asciugandosi gli occhi. «Che succede, Will? Perché sei tornato?» chiese Joan, malsicura, tirando su col naso. «Uhm... per prendere il mio regolo calcolatore. L'avevo dimenticato,» rispose lui. «Bill voleva fidarsi della sua memoria, ma credo che i suoi calcoli siano sbagliati. Voglio controllare, prima di collaudare la macchina. Ma... cosa vi ha preso, a voi due?» «Oh, non è niente,» disse Doll, tesa, in tono non molto convincente. Si soffiò il naso e cercò di ricomporsi. Ma quasi subito scoppiò di nuovo in lacrime, e Joan la cinse con le braccia, per confortarla. «Sentite,» sbottò Will, esasperato. «Ne ho avuto abbastanza. Sapete che io e Bill siamo disposti ad affrontare quel che vi preoccupa. Ma voi due
non dite una parola... piangete, vi agitate, e basta. Come possiamo aiutarvi, se non ci dite nulla? Credete che ci faccia piacere vedervi così?» «Te lo dirò io, Will,» fece Joan, sottovoce. Doll lanciò un «No!» soffocato, ma Joan non le diede retta e proseguì: «Non vedi che Bill ha creato un'altra me, in ogni particolare? Ogni ricordo, ogni sentimento? E poiché Doll pensa e sente come me, è innamorata di te! Lo è fin dall'inizio. Per tutto questo tempo ha cercato di superare il suo sentimento, di reprimerlo, e di rendere felice Bill.» Le spalle di Doll erano scosse dall'intensità dei singhiozzi. Will vi posò le mani gentilmente, per consolarla. Non sapeva che dire. Non aveva mai immaginato una situazione del genere, per quanto ora apparisse evidente. «Ti sorprende che questo conflitto l'abbia depressa?» fece Joan. «Povera ragazza! L'ho portata qui perché ti fosse più vicina, e questo le ha facilitato le cose.» «Ma non a te,» proseguì Will sottovoce, guardandola in faccia. «Ora capisco perché hai cominciato a preoccuparti. Perché non me l'hai detto subito, Joan?» «E come potevo?» Will si morse le labbra, si avvicinò nervosamente alla finestra, voltando le spalle alle due donne sul divano. «Che situazione!» pensò. «Cosa possiamo fare? Povero Bill!» Si chiese come avrebbe potuto dare la brutta notizia al suo migliore amico: ma, mentre se lo domandava, il problema si risolse da sé. Dalla finestra si scorgeva tutta l'ampia valle poco profonda, e a circa tre chilometri si scorgeva il laboratorio di cemento bianco annidato ai piedi d'uno dei pendii più lontani. C'erano campi, tutto intorno, ed una lunga fila di grande querce maestose incominciava dal suo angolo settentrionale. Da quell'altezza e da quella distanza, il laboratorio sembrava un modellino. Will fissò triste quel piccolo cubo bianco in cui stava Bill, e cercò di rimettere ordine nei propri pensieri caotici. E improvvisamente, incredibilmente, davanti ai suoi occhi il lontano cubo bianco esplose in una nube di polvere gessosa, e prima che le particelle avessero raggiunto la massima altezza, quella parte della valle venne divisa da una cortina di fiamme sfolgoranti. Tutte le querce del filare, robuste e radicate profondamente, si sollevarono in aria come lanugini di cardo, spinte dalla violenza della tremenda eruzione. La fiamma abbagliante svanì all'improvviso, come una lampada spenta di colpo, e lasciò al suo posto una densa nebbia bruna, una nube di terra
polverizzata. Will intravvide le querce sradicate e dilaniate che ricadevano nella nuvola turbinante, e poi lo spostamento d'aria, risalendo la valle, investì la casa. La finestra si frantumò immediatamente, venne scagliata verso l'interno, e Will fu spinto all'indietro in mezzo ad una pioggia di frammenti di vetro. Finì goffamente sul pavimento, vi restò disteso, e soltanto allora la sua mente intorpidita comprese quanto era accaduto. L'abituale impazienza di Bill aveva finito per costargli cara. Aveva rifiutato di aspettare il ritorno di Will, e aveva proseguito il collaudo, confidando nella propria memoria. E si era sbagliato. La diga era crollata. Un uomo sedeva su una collina da cui si scorgeva un ampio, incantevole panorama della campagna, fulgida nel Sole estivo. I ricchi riquadri verdi dei campi, i nastri bianchi dei viali, i blocchi gialli dei pagliai ed i campanili verdi delle chiese dei villaggi formavano un quadro infinitamente gradevole alla vista. E le api ronzavano insonnolite, le pecore e i bovini si muovevano tranquilli, e in un vicino boschetto risuonava il canto incessante di cento uccellini. Ma era come se quella scena fosse su un altro pianeta, perché l'uomo non vedeva e non udiva nulla. Era sprofondato in un inferno. Erano passate due settimane, ormai, dalla morte di Bill. Quando il dolore aveva cominciato ad attenuarsi, aveva lasciato il posto al problema più sconcertante che mai si fosse posto ad un membro della razza umana. Will era rimasto a vivere con due donne che l'amavano con lo stesso trasporto. Nessuna delle due avrebbe mai potuto vincere o reprimere quell'amore, qualunque cosa facessero. E lo sapevano. D'altra parte, Will era capace di amare una donna soltanto. La monogamia è profondamente radicata in molte persone normali, ed era appunto il caso di Will. Aveva pensato di vivere la sua esistenza con una compagna, ed una soltanto... Joan. Ma adesso c'erano due Joan, identiche nell'aspetto, nei sentimenti, nei pensieri. Eppure, erano due persone diverse. E in mezzo a loro, Will era un uomo angosciato e incerto: la sua vita familiare era andata in pezzi. Non poteva alleviare la tortura mentale con il lavoro, perché dopo la fine tragica di Bill, non se la sentiva di far nulla, in un laboratorio. Per Joan e Doll non era più facile. Anzi, probabilmente era ancora più
tremendo. Avere se stessa come rivale, sia pure come rivale amichevole e comprensiva, per l'affetto e la compagnia di un uomo... era quasi insopportabile. Quel pomeriggio, erano andate insieme all'aeroclub, per cercare di sottrarsi temporaneamente all'assillo delle preoccupazioni, a quanto pareva, anche se nessuna delle due era in condizioni ideali per volare, poiché barcollavano sull'orlo di una crisi nervosa. Il club era vicino alla collina dove Will sedeva sforzandosi di trovare una soluzione pratica per un problema umano eccezionale e apparentemente insolubile. Non fu per caso che, poco dopo, un ronzio nel cielo, l'indusse a sollevare gli occhi mesti verso i due monoplani che volteggiavano nello spazio azzurro, tra i grandi cumuli color panna. Will si sdraiò sull'erba, a osservarli. Si chiese quale delle due donne era a bordo dell'uno, quale dell'altro: ma era impossibile capirlo, perché erano modelli eguali. E del resto, non sarebbe bastato a dirgli quale era Joan e quale Doll, perché spesso si scambiavano gli apparecchi, per mantenere «la mano» su entrambi. Si chiese che cosa stavano pensando loro, lassù... Uno degli aerei raddrizzò la rotta e volò verso Ovest, acquistando quota. Il suo ronzio diventò più debole. L'altro apparecchio continuò a virare ed a curvare, là in alto. Dopo un po', Will chiuse gli occhi e cercò di assopirsi nel Sole caldo. Fu inutile. Nell'oscurità della sua mente vorticavano le stesse immagini esasperanti, gli stessi dubbi, gli stessi problemi. Gli pareva di essere precipitato in un incubo da cui non poteva destarsi. All'improvviso, il motore dell'aereo lassù in alto si arrestò. Will riaprì gli occhi, ma per un istante non riuscì a individuarlo. Poi lo vide, controluce: stava precipitando rapidamente, a vite. Uscì dal bagliore diretto del Sole, e Will lo scorse chiaramente: ruotava su se stesso, precipitando, e le ali brillavano come un eliografo. Sconvolto, si accorse che era ormai a poche decine di metri dal suolo. Balzò in piedi, tremendamente agitato. «Joan!» gridò, rauco. «Joan!» L'apparecchio continuò a cadere, senza riprendersi, al di sotto del livello del suo sguardo, e piombò al centro di uno dei riquadri verdi dei campi, laggiù. Will cominciò a scendere di corsa dalla collina, nel momento in cui l'aereo toccò terra. Quando il suono dello schianto lo raggiunse, vide una rosa
di fuoco fiorire come per magia nel riquadro verde, e poi una massa ondeggiante di fumo nero, oleoso, che saliva al cielo. Le lacrime cominciarono a sgorgargli dagli occhi. Arrivato sul posto, il peggio di quell'inferno era passato, e quando le fiamme si spensero vide che non era rimasto nulla, solo cose nere, informi, irriconoscibili, di cui non si poteva capire se erano state un corpo umano o pezzi di macchina. Dalla strada giunse uno stridore di freni. Era arrivata un'ambulanza dall'aeroclub. Due uomini balzarono a terra, passarono correndo attraverso la siepe. Impiegarono pochi secondi per rendersi conto che non c'erano speranze. «Presto, signor Fredericks, salga,» gridò uno di loro, riconoscendo Will. «Dobbiamo correre subito dall'altro.» L'altro! Prima di avere la possibilità d'interrogarli, Will si ritrovò stretto in mezzo ai due uomini nella cabina di guida dell'ambulanza. Invertirono rapidamente la marcia e sfrecciarono nella direzione opposta. «L'altro... l'altro aereo...» cominciò Will, e le parole gli si bloccarono in gola. L'autista, tenendo gli occhi sulla strada che scorreva sotto le ruote a cento all'ora, annuì cupo. «Non aveva visto, signore? Sono precipitati entrambi nello stesso momento e nello stesso modo... a vite. Un incidente tremendo... terribile. Non so come esprimerle le mie condoglianze, signore. Spero soltanto che quest'altro, non abbia avuto conseguenze così tragiche.» Will aveva perduto la capacità di provare qualcosa. I suoi pensieri rallentarono, quasi arrestandosi. Restò lì seduto, intontito. Non osava pensare. Ma, torpidamente, i suoi pensieri si trascinavano avanti. Joan e Doll erano precipitati nello stesso momento, esattamente nello stesso modo. Non era stata una coincidenza. Dovevano aver pensato entrambe allo stesso modo, e questo significava che erano precipitate volontariamente. Ora si rendeva conto di quella tragica ironia. Si lasciò sfuggire un gemito. Joan e Doll avevano cercato di risolvere il problema, ciascuna a modo suo; e ciascuna era giunta alla stessa conclusione, senza sapere ciò che pensava l'altra. Avevano capito che una di loro doveva togliersi di mezzo, perché Will potesse essere felice. Sapevano che quell'una doveva togliersi
di mezzo del tutto, perché non poteva continuare a vivere, se doveva perdere Will. E tipicamente, ognuna delle due aveva deciso di sacrificare se stessa. Doll si sentiva un'intrusa, sentiva di aver rovinato la vita di una coppia felice. Non era colpa sua: non aveva chiesto lei di essere creata, piena d'amore per un uomo che non avrebbe mai potuto avere. Ma pensava di vivere un'esistenza inutile, che ad ogni istante faceva soffrire l'uomo da lei amato. Perciò aveva deciso di rinunciare al dono della vita. Joan aveva pensato di essere in parte responsabile della venuta al mondo di Doll, che non aveva chiesto di nascere, ed era nata con i suoi stessi sentimenti e gli stessi desideri. E quei sentimenti erano stati crudelmente calpestati e frustrati. Non era giusto. Doll aveva gli stessi diritti alla felicità che aveva lei. Joan aveva vissuto il suo periodo di felicità con Will: ora toccato a Doll. E così era accaduto che due aerei, ad un chilometro di distanza l'uno dall'altro, erano precipitati in incidenti che dovevano apparire casuali... e tali sembravano, ma non agli occhi di un uomo, l'uomo che ancor più di tutti gli altri non avrebbe mai dovuto sapere la verità. L'autista aveva ripreso a parlare. «Per noi, al club, è stato un dilemma tremendo. Li abbiamo visti precipitare in due punti diversi, e incendiarsi. Avevamo soltanto un'autopompa e un'ambulanza. Abbiamo dovuto mandare l'autopompa in un posto, l'ambulanza nell'altro. Qui, comunque, l'autopompa non sarebbe servita a niente. Spero che sia arrivata in tempo, dove stiamo andando adesso!» La mente stordita di Will parve accettare con distacco quelle parole. Chi era rimasta uccisa nell'incidente cui aveva assistito? Joan o Doll? Joan o Doll? Poi, all'improvviso, comprese di amare solo la vera Joan. Era lei la persona che conosceva da tanto tempo, l'oggetto del suo affetto. I capelli che aveva accarezzato, le labbra che aveva baciato, gli allegri occhi bruni che gli avevano sorriso. Non aveva mai toccato Doll in quel modo. Doll sembrava soltanto un'ombra di quella realtà. Forse ricordava quegli avvenimenti, ma non li aveva mai vissuti. Erano solo ricordi artificiali. Eppure a lei dovevano apparire reali. L'ambulanza arrivò sul luogo del secondo incidente. L'aereo si era rimesso sull'orizzontale a pochi metri dal suolo, e non era atterrato disastrosamente quanto l'altro. Era accartocciato attraverso una
siepe bruciata e annerita. L'autopompa aveva spento le fiamme in pochi minuti. E l'aviatrice era stata estratta priva di sensi, malconcia e ustionata. La caricarono sull'ambulanza e la portarono all'ospedale. Will era seduto accanto al letto da tre ore, quando la giovane donna aprì gli occhi. Erano occhi bruni, vacui, quelli che guardarono prima lui, poi la stanza dell'ospedale, senza cambiare espressione. «Joan!» mormorò Will, stringendole il braccio libero... l'altro era ingessato. Lei non reagì. Giaceva fissando il soffitto senza vederlo. Will si umettò le labbra aride. Non poteva essere Joan. «Doll!» provò a dire. «Come ti senti?» Nessuna reazione. «Conosco quello sguardo,» disse il dottore, che stava accanto al letto. «Ha perso la memoria.» «Definitivamente, vuol dire?» chiese Will, turbato. Il dottore sporse le labbra, per far capire che non sapeva. «Buon Dio! Non c'è modo di scoprire se è mia moglie o mia cognata?» «Se non può riconoscerla lei, non può farlo nessuno, signor Fredericks,» rispose il medico. «Non sappiamo su quale aereo fosse l'una, su quale fosse l'altra. Non possiamo dedurre niente dagli abiti, perché sono rimasti bruciacchiati nell'incidente, e distrutti prima che ci rendessimo conto della loro importanza. Spesso avevamo notato l'eccezionale rassomiglianza. Senza dubbio lei è in grado di distinguerle.» «Non posso!» rispose Will, angosciato. «Non è possibile.» Il giorno dopo, la paziente aveva ripreso i sensi, ed era in grado di sollevarsi a sedere sul letto e di parlare. Ma una parte della sua memoria era stata cancellata. Non ricordava niente della sua gemella, non ricordava nulla degli eventi dopo l'esperimento di duplicazione. L'ultima cosa che ricordava era di essersi sdraiata sul divano del laboratorio, preparandosi secondo le istruzioni di Bill. Lo psicologo dell'ospedale disse che il trauma dell'incidente l'aveva indotta a sopprimere inconsciamente una parte della sua vita che non voleva ricordare. Ormai non poteva ricordare, neppure se l'avesse voluto. Disse che sarebbe stato possibile scoprire la verità, ma in ogni caso sarebbero occorsi mesi... forse anni. Ma naturalmente, il ricordo di Will, e del loro matrimonio, era intatto, e lo amava come sempre.
Era Joan o Doll? Will passò una notte insonne, rimuginando. Aveva davvero tanta importanza? Ormai ne era rimasta una sola... perché non presumere che fosse Joan, e tirare avanti? Ma sapeva che, finché esistevano dubbi e incertezze, non avrebbe potuto riprendere la vecchia vita serena che aveva trascorso con Joan. Pensò che avrebbe dovuto affidarla allo psicologo; ed in questo modo sarebbero venuti alla luce particolari che lui, Joan e Bill non avrebbero mai voluto rivelare. Ma il giorno dopo avvenne qualcosa che cambiò tutto. Mentre Will sedeva accanto al letto, e conversava con la ragazza che poteva essere Joan e poteva non esserlo, un'infermiera venne a dirgli che un uomo desiderava parlargli. Will uscì, e trovò ad attenderlo un funzionario di Polizia. Dopo la catastrofe che aveva devastato il laboratorio di Bill, la Polizia aveva continuato a ispezionare la località, in cerca di ogni possibile indizio. Sepolta nel suolo avevano trovato una cassaforte, sfondata e aperta. Dentro c'erano i resti carbonizzati di libri, documenti e lettere. Li avevano esaminati, senza ricavarne molto, ed ora il funzionario voleva sapere se Will era in grado di capirci qualcosa. Will prese il materiale e l'esaminò. C'era un pacchetto di lettere personali, e alcuni conti pagati con le relative ricevute. Questi li distrusse, con il consenso del funzionario. Ma c'erano anche i resti semibruciati di tre dei taccuini su cui Bill annotava i dati degli esperimenti. Erano scritti con il sistema stenografico di Bill, che Will capiva benissimo. I primi due erano vecchi, e non avevano particolare interesse. Il terzo, invece, che purtroppo era il più malconcio, conteneva il resoconto dei tentativi compiuti da Bill per infondere la vita nelle sue copie di esseri viventi. Le ultime pagine parlavano dell'esperimento per la creazione di un'altra Joan, e l'ultima annotazione leggibile diceva: «Questa fastidiosa faccenda di pompare attraverso i tubi, come in una trasfusione di sangue, ha lasciato una piccola cicatrice alla base del collo di Doll, l'unica lacuna in una copia di Joan che per il resto è perfetta. Mi è dispiaciuto...» Il resto era bruciato. Con grande sorpresa dell'ispettore di Polizia, Will gli voltò le spalle sen-
za dire una parola e si affrettò a rientrare nella stanza. «Permettimi di esaminarti il collo, cara; voglio vedere se ti sei data un morso da sola,» disse, in tono fintamente gaio. Stupita, la ragazza si lasciò esaminare. Sul collo non c'era la minima traccia d'una cicatrice. «Tu sei Joan!» esclamò Will, e l'abbracciò con trasporto, per quanto glielo permettevano le ferite di lei. «Io sono Joan,» ripeté lei, baciandolo e ricambiando l'abbraccio. E finalmente ritrovarono la beatitudine della serenità. Una volta tanto il Fato, che li aveva trattati così duramente, si era mostrato misericordioso: non seppero mai che nel pacchetto dei conti pagati di Bill, che Will aveva distrutto, ce n'era uno d'uno specialista di chirurgia plastica, che cominciava così: «Per eliminazione di una cicatrice da operazione sul collo, e due giorni di ricovero e cure...» Titolo originale: The 4-Sided Triangle (Amazing Stories, novembre 1939). 1940
Neil R. Jones L'eremita degli anelli di Saturno L'ultimo racconto di Neil R. Jones apparso su una rivista fantascientifica fu The Star Killers in Super Science Stories dell'agosto 1951. Non soltanto segnò la fine della sua carriera, (a parte le ristampe), ma anche della serie dei racconti sul Professor Jameson, cui Jones deve la sua fama. Apparvero in tutto ventun racconti, che formarono una delle più lunghe serie mai pubblicate sulle riviste di science fiction. Era incominciata con The Jameson Satellite su Amazing Stories del luglio 1931, esattamente vent'anni prima. In quel racconto, il professore entrava in contatto con gli alieni Zoromi, dai corpi incapsulati nel metallo. Con il seguito, The Planet of the Double Sun, uscito su Amazing del febbraio 1932, cominciò il vero divertimento, e il professor Jameson, a sua volta incapsulato nel metallo,
partì con gli Zoromi per esplorare l'Universo. La serie fu una delle più popolari della science fiction, e perciò ha posto in ombra gran parte dell'attività di Jones in questo campo, soprattutto dopo la ristampa dei racconti in una serie di volumi tascabili editi dagli Ace Books verso la fine degli Anni Sessanta. Oltre ad un'altra serie imperniata su Duma Rangue, Jones produsse una quantità di racconti non legati tra loro. Non legati, voglio dire, se non per una struttura complessiva, in cui ogni vicenda costituisce una parte della storia del futuro, inventata da Jones prima di Heinlein e di Asimov. Il racconto-chiave è l'avventura di Jameson Time's Mausoleum (Amazing, dicembre 1933), che rimase la base per tutte le altre storie di Jones. Jones era un abile scrittore, ed il suo talento risultò evidente fin dal suo primo racconto pubblicato, The Death's Head Meteor in Air Wonder Stories nel gennaio 1930. Questi pregi pongono The Hermit of Saturn Rings un gradino al di sopra degli altri racconti che uscivano su Planet a quel tempo. Dopo un periodo di servizio militare oltremare, con il grado di colonnello, Jones conobbe a Londra la sua futura moglie, e sì sposò quindici mesi dopo la fine della guerra. In seguito inventò un gioco, «Interplanetary», che si vendette molto bene. Ha l'hobby di rilegare la sua collezione di riviste di fantascienza. Fino a tempi recenti è stato impiegato presso il Dipartimento del Lavoro di New York. I Il vecchio Jasper Jezzan si passò le dita fra i capelli brizzolati e guardò, oltre l'oblò dell'astronave, la tremenda magnificenza degli anelli di Saturno. Ringraziò la fortuna che gli aveva permesso di vivere in quel ventiquattresimo secolo, in cui l'umanità ampliava i confini del Sistema Solare inesplorato, con le imprese dei pionieri spaziali. Da giovane, Jasper aveva partecipato alla prima spedizione a Marte. Adesso, sia Marte che Venere erano in fase di colonizzazione. Jasper aveva preso parte a molte strane vicende su entrambi i mondi, su diversi satelliti di Giove e su numerosi asteroidi. Saturno era ancora territorio vergine. Jasper aveva passato la settantina, ma lo spirito d'avventura ardeva tuttora nel suo corpo robusto. Ringraziò ancora la sorte che gli aveva permesso di essere tra i primi a contemplare la splendida maestà dei grandi anelli, a distanza così ravvicinata. Si era unito alla spedizione di Grenard perché era
un esperto, e sapeva che la City of Fomar avrebbe cercato di aprirsi un passaggio attraverso un'ottantina di chilometri brulicanti di piccolissimi asteroidi. La City of Fomar cominciò a superare alcuni di quelli esterni, ancora a parecchi chilometri dalla fascia principale: molti erano più grandi dell'astronave ed avevano contorni accidentati. Era come penetrare in una foresta, in cui gli alberi appaiono meno numerosi via via che ci si addentra. Gli asteroidi dell'anello erano arrotondati e levigati dai contatti e dagli urti. A causa della lieve attrazione gravitazionale, i più piccoli stavano intorno a quelli più grandi. L'astronave si avventurò più profondamente in quella massa. Tutti gli uomini erano ai loro posti, ma osservavano le meraviglie all'esterno. Jasper era solo a svolgere le sue mansioni, questa volta. Era di turno nella camera di rinnovamento dell'aria; e se così non fosse stato questa storia forse non sarebbe mai stata raccontata o sarebbe capitata ad un uomo più giovane. Ignaro di ciò che stava per accadere, Jasper aveva visto per l'ultima volta le facce dei suoi compagni d'avventura, vivi o morti. Volse lo sguardo attento sui contatori, poi dedicò di nuovo la sua attenzione ai misteri dell'anello di Saturno. L'astronave della spedizione Grenard si addentrò ancora più profondamente della massa diradantesi degli asteroidi. La luce solare era eclissata quasi di continuo, meno brillante. Le ombre, come sempre nello spazio, erano nere e nette. La luce lasciò posto finalmente a periodi sempre più lunghi di oscurità, e le luci della City of Fomar splendevano nel buio. Di tanto in tanto la City of Fomar urtava un asteroide, quando s'insinuava in un varco stretto, e mandava quel frammento a sbattere contro i suoi vicini, in un'incessante concatenazione d'inerzia, senza nessuna influenza ritardante. Continuarono ad addentrarsi nell'anello. Senza aver ricevuto una chiamata, Jasper si sintonizzò con la sala osservazione, dove erano radunati gli ufficiali della spedizione. «Queste lune minuscole debbono essere trilioni!» Era il comandante Grigsby. Fu Grenard a rispondere. «È possibile.» «Cos'è quella nebbia bianca, laggiù?» «Quale nebbia... la piccola luna bianca?» «No... non è un asteroide. Guardi come cambia forma... ed è vaporosa.» «Già, sì: sembra fumo, e viene da questa parte.» «Guardi come si protende, quasi fosse viva. Cosa può essere?»
«Polvere.» Questo era stato un ufficiale inferiore. «Senza un'atmosfera in cui possa fluttuare?». La voce di Grigsby era un po' irridente. «Si sta scindendo.» Jasper aveva viaggiato troppo a lungo nello spazio per non percepire qualcosa d'insolito. Andò all'oblò a guardar fuori, appoggiando la testa da una parte, per sbirciare in direzione obliqua. Non riuscì a vedere ciò che cercava. Un po' irritato, restò in ascolto, per sentire altri particolari. «Cosa la fa muovere?» «Prima mi dica cos'è.» «Non può essere viva!» «La nave l'attira! La nube si scinde in diverse parti!» Jasper tornò a guardare fuori, e vide un po' di quella strana sostanza. Era come un fumo bianco, dotato di volontà autonoma. Non sapeva immaginare quale sostanza fosse, come non poteva spiegarne il movimento. Sembrava quasi viva, eppure quell'idea pareva assurda persino a Jasper Jezzan, che aveva veduto tante cose strane. Era un elemento nuovo, o una nuova combinazione di elementi, che si comportava in modo bizzarro, in quell'anello esterno di Saturno. Gli stessi anelli erano fenomenali. La nube bianca divenne grigia, mentre si espandeva, lasciando trasparire, dietro, i contorni vaghi di alcune minuscole lune. Poi sembrò comprimersi di nuovo, come un liquido denso o un solido. «Ecco, arrivano altre nubi!» «E altre ancora! Là! Là! E tutto intorno!» «Si stanno fondendo!» «Una parte si divide! Guardate... si scinde!» Le voci dei capi della spedizione esprimevano sbalordimento e preoccupazione. Jasper provò un brivido di eccitazione, mentre osservava lo strano comportamento della sostanza sconosciuta. La vide raccogliersi intorno all'astronave. Il suo oblò divenne improvvisamente di un grigio traslucido, e non riuscì a vedere più nulla. Scrutò nelle profondità di quella massa bianca, da cui lo divideva una lastra di cristallo di venticinque centimetri di spessore. Era come guardare un fumo denso, o una nebbia fittissima. Sullo scafo della City of Fomar risuonavano colpi ed altri rumori inspiegabili. «Non procediamo più alla stessa velocità!» Jasper udì la voce del comandante Grigsby, e notò una sfumatura d'inquietudine in quei toni.
«È possibile che quella maledetta roba bianca ci faccia rallentare?» «Non so... ma aspettate! Gli oblò, da questo lato, cominciano a schiarirsi!» Vi fu una pausa significativa. Jasper tese le orecchie. Il suo oblò era ancora oscurato. «Grigsby... guardi quei lunghi tentacoli, simili a cavi! Ci ha ancorato agli asteroidi!» «Più energia!» ordinò il comandante. Un fievole sospiro soffocato dello scafo, sopra la sua testa, attirò di nuovo verso l'oblò lo sguardo di Jasper. Scorse una sagoma bianca che scivolava via. Guardò fuori e vide che i lunghi fili della ragnatela di nebbia mostravano un'aderenza ed una forza tensile straordinaria, nell'ancorare la City of Fomar alle piccole lune circostanti. Quando venne usata un'energia maggiore, Jasper vide gli asteroidi agganciati seguire l'avanzata dell'astronave, superando gli altri corpi sullo sfondo. Vide le piccole sfere che si scontravano, senti la leggera deviazione dell'astronave, udì i colpi stridenti via via che la City of Fomar urtava vari corpi al suo passaggio. Poi l'oblò venne di nuovo coperto da una nebbia più densa e bianca di prima. Dai commenti agitati che provenivano dalla sala d'osservazione, comprese che anche là le condizioni erano identiche. I colpi martellanti sconcertavano tutti. Poi, dalla sala comando, venne una nuova nota d'allarme. «Sta penetrando nel portello stagno! Un lungo filo sottile che entra, come un getto di vapore!» «Deve esserci un punto debole nel portello esterno!» esclamò agitato Grenard. «Senza la pressione dell'aria nella camera stagna, il portello esterno non è mai fissato bene! Dobbiamo riempirla!» Jasper si sentì chiamare per nome. «Sì, signore!» «Immetta una buona quantità d'aria nella camera stagna!» Il vecchio balzò ai comandi e sentì il sibilo dell'aria nei tubi, in direzione della camera stagna. «Quella roba maledetta continua a entrare!» «Un po' più lentamente!» «L'aria esce!» «Caccia fuori la nebbia!» «Adesso... la porta è perfettamente stagna!»
«La sostanza bianca infiltrata all'interno si sta espandendo!» Jasper ricevette all'improvviso l'ordine d'interrompere l'afflusso dell'aria. Non seppe mai il perché. Nessuno visse abbastanza a lungo per spiegarglielo. Udì molte voci levarsi, allarmate, troppo confuse perché potesse capire più del fatto che il portello interno era stato forzato. E poi, ancora una volta, cedette quello esterno. La sostanza bianca entrava, e l'aria sfuggiva dalla nave. Inorridito, Jasper lo constatò guardando gli indicatori. Grida acute, urla spaventose giunsero fino a lui: urla tremanti che venivano soffocate e cessavano di colpo. Non durò a lungo. Ben presto regnò un silenzio malaugurante. La nebbia bianca velava ancora l'oblò: ed era anche all'interno dell'astronave. Jasper si fece forza, corse nel corridoio per isolare quella parte della nave. Troppo tardi. La nebbia bianca già si attorceva in spire sul pavimento e sulle pareti del corridoio, come se li esplorasse. Quasi avesse percepito la sua presenza, si estese nella sua direzione con rapidità allarmante, nello stesso istante in cui egli si fermava sgomento al centro del corridoio. Un velo di quella sostanza spaventosa si protese come fumo lungo il soffitto, gli agitò uno pseudopodo davanti al volto. Una paura indicibile obnubilò per un istante la mente di Jasper: ma poi il vecchio esploratore spaziale riacquistò l'autocontrollo. Si voltò di scatto e si precipitò di nuovo nella camera dell'atmosfera. La nebbia bianca aveva abbandonato le pareti, il soffitto e il pavimento del corridoio, raccogliendosi, e veniva verso di lui, dapprima lentamente, poi acquistando velocità. Arrivato nella camera, Jasper girò la valvola della tubazione principale dell'aria, e la chiuse. Poi afferrò la tuta spaziale appesa ad una parete e balzò dentro a un serbatoio d'aria vuoto, proprio nell'attimo in cui la bianca sfera di nebbia gli piombava addosso a tentoni. Sempre alla cieca, trovò la tuta; e poi, all'improvviso, barcollò stordito, urtando con la testa la parete metallica del serbatoio. Si sentiva stranamente esilarato e stordito. Aveva immesso troppa aria nel serbatoio. Era un'intossicazione da ossigeno, la sua: e pericolosa, in quelle circostanze. Cercò, a tastoni, trovò di nuovo la valvola e la chiuse. Poi crollò, in preda alle vertigini. Ma lì era in agguato la morte per assideramento, e Jasper sapeva che doveva indossare la tuta spaziale. Aveva i muscoli irrigiditi e doloranti per la temperatura che continuava ad abbassarsi. Ma riuscì a indossare la tuta, e mise in funzione l'impianto dell'aria ed il riscaldamento. Solo allora cedette alla tensione che l'opprimeva. Cadde di fianco sul fondo del serbatoio e perse i sensi. II
Jasper Jezzan non seppe mai per quanto tempo fosse rimasto svenuto nel serbatoio d'aria, chiuso nella tuta spaziale. Gli sembrava che fossero trascorsi solo pochi minuti: ma forse erano state ore. Nel buio, valutò la situazione, radunando i propri pensieri. La morte si era impadronita di quella nave, la devastante morte bianca. Si chiese se qualcun altro si era salvato. Aveva la sensazione che la nube minacciosa fosse ancora in agguato là fuori, e si domandava quali proprietà maligne poteva usare contro un uomo chiuso in una tuta spaziale. Non aveva intenzione di farne l'esperienza diretta, se poteva sottrarvisi. Decise di aspettare con pazienza, per vedere se la terribile nebbia avrebbe lasciato l'astronave. Inspiegabilmente, la sentiva presente fuori dal serbatoio, intenta a vagare, a frugare la City of Fomar, dalla quale l'aria era uscita disperdendosi nello spazio tra le minuscole lune. Jasper accese le lampade della tuta per alleviare la monotonia della tenebra e per concentrare i propri pensieri su qualcosa di tangibile, qualcosa che potesse vedere, sebbene l'interno del serbatoio, con le valvole ed i comandi, gli fosse già noto. Si alzò e fece uscire l'aria. Sarebbe stato necessario ridurre almeno la pressione, prima di aprire il coperchio. Poi sedette sul fondo e aspettò, cambiando posizione di tanto in tanto. C'era una strana affinità tra quella nebbia bianca ed un sottile sesto senso, perché Jasper si rese conto, con grande sollievo, che la presenza si era allontanata. Tuttavia fu prudente, aprì adagio il coperchio del serbatoio e sbirciò all'esterno. Le luci dell'astronave erano ancora accese, dentro e fuori. Per prima cosa, andò a guardare oltre l'oblò. La City of Fomar stava andando alla deriva tra le piccole lune. Una quasi toccava la nave dal lato anteriore. Jasper non vide la minima traccia della sostanza spettrale che si era insinuata a bordo. Aveva la certezza che se ne fosse andata. Fece una prova, sebbene fosse quasi certo in anticipo del risultato. Prese da uno scaffale una scatola di polvere per lucidare, tolse il coperchio, ne lasciò uscire un poco. I granelli non fluttuarono lentamente sul pavimento: caddero come sassi. Come Jasper aveva intuito, l'aria era fuoriuscita totalmente dalla nave. Si avviò lentamente lungo il corridoio, verso prua, attraversò la sala comando ed entrò nella sala osservatorio. Era preparato a uno spettacolo di morte: ma non ad uno tanto completo ed orribilmente efficiente. Sul pavimento giacevano ossa e teschi sbiancati. La nebbia bianca aveva assorbito la carne ed i capi di vestiario. Smosse con un piede un osso, e sbalordì nel
vedere l'intaccatura lasciata dalla sua scarpa metallica. Si chinò, raccattò un femore, che gli si sbriciolò in mano. Che entità spaventosa era mai la nebbia dell'anello di Saturno? Si aggirò lentamente nella nave e scoprì altre ossa sgretolate, mentre lo colpiva una certezza agghiacciante. Era l'ultimo, l'unico uomo rimasto vivo a bordo. Tornò in sala comando per controllare i meccanismi, chiedendosi come avrebbe potuto, da solo, guidare l'astronave lontano dall'anello. Ma non dovette chiederselo a lungo. Tutti gli strumenti e gli apparecchi elettrici erano rovinati in modo irreparabile. Li esaminò, e i suoi sospetti trovarono conferma. La vicinanza della nebbia bianca li aveva devastati e distrutti completamente, come se un fulmine avesse centrato l'astronave. Era solo a bordo di un relitto, sperduto nell'anello di Saturno. Rabbioso, Jasper cercò di controllare i propri nervi. La situazione avrebbe potuto essere peggiore. A bordo c'erano viveri e bevande a sufficienza per tutta una vita. L'impianto dell'aria funzionava regolarmente. Avrebbe potuto chiudere un paio di camere della nave, e sarebbe riuscito a sopravvivere. Non osava pensare al futuro, alla prospettiva di passare il resto della sua esistenza come un prigioniero solitario dell'anello di Saturno. Il piano di Grenard, entrare nel terzo anello mentre si dirigeva verso uno dei satelliti, Dione, era noto, naturalmente, su tutti e tre i mondi degli umani, ma le probabilità che qualcuno attraversasse l'anello esterno proprio in quel punto, anche alla ricerca della spedizione perduta, erano quasi inesistenti. Con una stretta al cuore, Jasper constatò che anche il sistema di comunicazione dell'astronave era andato distrutto. Gli venne fame. Trovò i viveri e li portò nel serbatoio d'aria. Trovò anche un riscaldatore a radium e l'installò, perché gli desse luce e calore. Poi portò dentro il necessario per prepararsi un giaciglio ed altri oggetti essenziali. Avrebbe dovuto vivere lì dentro fino a quando avesse potuto attrezzare e isolare qualche camera della nave. La City of Fomar era suddivisa in tre sezioni, costruite in modo che potessero venire isolate in caso d'emergenza. Il disastro era stato troppo rapido, inaspettato e devastante perché fosse stato possibile ricorrere a quel sistema. Jasper aveva intenzione di bloccare e di usare il settore che comprendeva la camera dell'atmosfera e la stiva. Di tanto in tanto, guardava fuori, tra le piccole lune, nel timore di scorgere una traccia della nebbia bianca in procinto di ritornare: ma tutto era tranquillo, immobile. Spense le luci della City of Fomar. Voleva rispar-
miare l'energia, almeno fino a quando avesse valutato bene la situazione e si fosse reso conto se era necessario conservare la corrente. In quanto alla nebbia, ricordava la sua luminescenza spettrale, che l'aveva resa evidente in lontananza, là dove le lunine avevano schermato le luci dell'astronave. Rendere abitabile la sezione prescelta della nave fu un lavoro più lungo di quanto Jasper avesse previsto. La nebbia bianca aveva causato danni che in un primo momento gli erano sfuggiti. Molte sostanze, come il cuoio, il feltro ed altri prodotti d'origine organica erano state assorbite o parzialmente danneggiate dalla strana entità bianca che viveva nello spazio, e Jasper constatò che molti pezzi di ricambio avrebbero richiesto un lungo lavoro di riparazione, prima che gli fosse possibile isolare le camere e renderle abitabili. C'erano alcuni cronometri che non erano stati danneggiati dalla nebbia, e Jasper li serbò con cura e li mantenne in funzione. Impiegò più di due settimane di tempo terrestre per riassestare la parte della nave in cui aveva scelto di vivere la sua esistenza solitaria. Altre cinque settimane furono impiegate nel lungo corridoio collegato con la camera dell'atmosfera, dove costui un portello stagno. Jasper stava sempre in guardia, e aveva persino congegnato una sorta di allarme elettrico, che attivava durante le ore del sonno: ma la nebbia bianca non tornò in quelle faticose settimane. Jasper, comunque, era preparato. Era convinto che i proiettori di raggi radioattivi avrebbero avuto qualche effetto sulla nebbia. Non voleva che quella sostanza potesse penetrare al primo colpo, cogliendolo alla sprovvista. Ricordava ancora con un brivido le condizioni in cui aveva trovato lo sportello ligneo di un armadio: ridotto in schegge da colpi violenti sferrati dalla minaccia nebulosa. Dietro i rottami dello sportello aveva trovato le ossa sgretolate di Holman, con cui aveva fatto amicizia durante il volo verso Saturno. Jasper era stato fortunato, quando aveva scelto il robusto serbatoio dell'aria. Nei lunghi mesi che trascorsero, la nebbia non ricomparve, ed il vecchio Jasper Jezzan visse la sua solitaria esistenza a bordo del relitto. Talvolta lasciava la City of Fomar, chiuso nella tuta spaziale, ma non si avventurava mai troppo lontano, tra le minuscole lune, sebbene lasciasse sempre accese le luci dell'astronave, per fargli da guida. Quando le luci erano spente, fuori era tutto nero e cupo... neppure il brillio delle stelle, solo lo spazio invaso dagli asteroidi fluttuanti. Jasper sapeva che un tempo quelle innumerevoli legioni di frammenti erano state un satellite di Saturno, poi disgregatosi. Nel corso delle brevi escursioni, portava sempre con sé un pro-
iettore di raggi radioattivi, da usare nel caso che il pericolo bianco sopraggiungesse sorprendendolo all'aperto. In una di quelle uscite, Jasper fece una scoperta interessante. Stava cercando di scalfire una delle piccole lune, quando il suo casco entrò in contatto con il corpo celeste. Jasper era alla ricerca di minerali, e si accorse che i suoi colpi producevano un suono innaturale. Colpì di nuovo, più volte, e all'improvviso si rese conto che la luna microscopica era cava. La segnò, e cominciò a cercarne altre. Ne trovò solo altre tre, fra le centinaia che circondavano l'astronave. Poteva formulare soltanto un'ipotesi: l'interno del satellite era ancora fuso, quando si era schiantato a causa della violenta attrazione di Saturno. Si erano formate così alcune spesse bolle, che poi si erano raffreddate. Poiché non aveva nulla di meglio da fare, Jasper progettò immediatamente di trapanare uno degli asteroidi cavi: scelse il più grande, una sfera di sette metri e mezzo di diametro. Trovò a bordo della City of Fomar l'equipaggiamento necessario, e si mise all'opera. Si stupì della densità e della resistenza della sostanza semimetallica, e dello spessore della bolla. Trapanò per quasi un metro, prima di incontrare la cavità. Impiegò parecchi giorni per praticare nello sferoide un varco abbastanza ampio per permettergli di entrare: e quando fu nell'interno trovò solo ciò che aveva previsto: un contorno concavo un po' irregolare, che rifletteva i raggi della sua lampada. In questo e in molti altri modi, Jasper lottava contro lo spettro della solitudine. Fece esperimenti con gli strumenti della nave, effettuando collaudi e riparazioni, e finì per convincersi di aver scoperto la direzione in cui si trovava Saturno. Se fosse stato possibile rimettere in funzione la nave, pensava, sarebbe riuscito a guidarla fuori dall'anello, nello spazio aperto. Circa un anno dopo la catastrofe che aveva colpito l'astronave, accadde l'evento che Jasper aveva nervosamente atteso. Le nubi bianche ritornarono. La minaccia giungeva da tutte le direzioni, e puntava verso la City of Fomar. Per fortuna, Jasper era a bordo, al momento dell'attacco. Vide la luminescenza innaturale al di là degli oblò, dove avrebbe dovuto regnare l'oscurità più completa, e con il cuore che gli batteva forte guardò le spire spettrali di sostanza bianca avviluppare il relitto, coprendo ancora una volta tutti gli oblò. Jasper si precipitò nella torretta che aveva attrezzato. Il proiettore mobile di raggi radioattivi era pronto. Il vecchio impugnò nervosamente la leva e scagliò una scarica prolungata. Non poteva vedere il risultato, perché l'oblò
era oscurato: ma si rese conto che qualcosa era accaduto, perché vi fu uno spostamento visibile nella sostanza bianca, che ingrigiva e si diradava. Quando l'oblò si schiarì, vide che il proiettore stava effettivamente aprendo un varco nell'entità nebulosa. Girò l'arma e osservò, con lugubre soddisfazione, mentre apriva squarci di vuoto nella nebbia maligna che si ritraeva istintivamente, mentre le parti separate si ricongiungevano e si fondevano. C'era qualcosa di ripugnante, in quella scena, e Jasper rabbrividì, ricordando le ossa sbriciolate delle vittime. Il proiettore investiva solo una parte insignificante della nebbia, e poteva agire soltanto su di un'area ridotta. Jasper udì ancora una volta gli strani rumori sullo scafo del relitto. Il tremendo visitatore cercava di entrare, premendo, contraendosi e sferrando colpi, alla ricerca di punti deboli. Jasper accorse al suo portello stagno improvvisato, e si accorse, inorridito, che la nebbia bianca era riuscita a penetrare. Il portello esterno era stato forzato. Il vapore mortale si era impadronito di tutta la nave, eccettuata la parte che Jasper aveva isolato. Impugnò un proiettore e si affrettò a collegarlo con uno spioncino a lato del portello. Aveva previsto quella possibilità, ed era preparato. Aprì lo spioncino e irradiò una scarica contro la nebbia che si addensava rapida e minacciava il portello interno. La vide arretrare e provò una gioia frenetica quando evaporò; le spire intatte si ritrassero dalla camera stagna come se, telepaticamente, si fossero rese conto del pericolo. La minaccia era stata eliminata in quel punto, e appena in tempo, perché Jasper sapeva quale pressione poteva esercitare la nube sul portello interno. Era già accaduto, la prima volta. L'istinto gli suggerì di controllare in fretta altre parti del suo alloggio isolato: e fu una fortuna. Trovò una nube brancolante nella camera dell'atmosfera. Una rapida occhiata ad un sottile filamento bianco che fuoriusciva da un tubo collegato ad altre parti della nave bastò a Jasper per riconoscere la via d'accesso utilizzata dalla nebbia. Si affrettò a distruggere la nube e immise una corrente d'aria del tubo, espellendo con la pressione la nebbia che l'invadeva. Poi si affrettò a stringere la giuntura che, in circostanze normali, non aveva mai presentato perdite. Jasper si augurò che quella sostanza insidiosa non trovasse il modo di penetrare in massa, perché sapeva che non sarebbe riuscito a combatterla efficacemente con i proiettori. Sarebbe stato sopraffatto. Rabbrividì a quel pensiero. Jasper era coraggioso, e aveva vissuto parecchie avventure, nella sua esistenza movimentata, ma c'erano molti modi di morire preferibili all'idea di venire assimilato dalla tremenda nube bianca. Tornò correndo al
portello e, come aveva temuto, scoprì che si stava riempiendo nuovamente di vapore. Lo spazzò via, poi si precipitò di nuovo nella camera dell'atmosfera. Lì era tutto a posto. Esaminò in fretta i magazzini e respirò di sollievo. Lì non c'erano state irruzioni. Tornò al portello per combattere la nebbia che si andava accumulando. Fu un lungo, orrendo incubo. Questa volta la nebbia restò più a lungo, forse perché il suo appetito era aguzzato e non trovava soddisfazione. Eppure Jasper si rendeva conto che la nube era autosufficiente. Ancora una volta riuscì a penetrare nella camera dell'atmosfera, e Jasper dovette combatterla. I cronometri indicavano che erano trascorse sessantadue ore, prima che la strana abitante dell'anello di Saturno se ne andasse, misteriosamente com'era giunta. Per tutto quel tempo, Jasper non aveva dormito. Poi si abbandonò al sonno, poiché sapeva istintivamente che la nube non sarebbe ritornata per un pezzo. III Ristorato dalla lunga dormita, Jasper esaminò il portello danneggiato, e prese una rapida decisione. Avrebbe lasciato la City of Fomar, che offriva troppe possibilità d'accesso all'insistente nebbia bianca, e si sarebbe stabilito nella robusta luna cava in cui era penetrato con tanta difficoltà. Nei giorni che seguirono, giorni registrati soltanto dai suoi cronometri nell'immutabile tenebra dell'anello di Saturno, Jasper lavorò industriosamente, come aveva lavorato un tempo per isolare una sezione dell'astronave. Era certo che, se l'avesse munita di un robusto portello, la sfera avrebbe resistito in eterno alla minaccia bianca. Per prima cosa, allargò la via d'accesso, fino a raggiungere le dimensioni di una delle uscite di sicurezza della City of Fomar. Rimosse dalla nave due grossi portelli. Uno lo installò all'esterno del passaggio aperto nella spessa parete del globo, l'altro all'interno. In questo modo, ebbe una camera stagna per entrare ed uscire dal suo eremo. Poi installò pareti divisorie ed un pavimento, ed equipaggiò quest'ultimo con la sostanza gravitazionale tolta dalla pavimentazione dell'astronave. Realizzò quattro stanze: due erano il suo alloggio. Delle altre, una era un magazzino, l'altra era destinata ad ospitare l'impianto atmosferico ed il sistema di riscaldamento che intendeva trasportare lì dalla City of Fomar. Non appena riuscì a concludere i lavori, il vecchio Jasper Jezzan divenne un Robinson Crusoe cosmico. Oltre alle scorte di viveri, il magazzino conteneva materiale necessario
di ogni genere, portato dalla nave. Jasper non abbandonò la City of Fomar; per impedire che andasse alla deriva e si allontanasse, l'ancorò all'asteroide con un lungo cavo. Aveva osservato che le piccole lune si spostavano, a seconda delle dimensioni e delle loro vicine. Le lievi forze gravitazionali avevano effetti strani, ed il vecchio aveva notato un lento cambiamento di posizioni nelle lune circostanti, dopo la catastrofe. Jasper finì di completare il suo rifugio, e lasciò senza rammarico la City of Fomar, con i suoi tremendi ricordi e la continua paura di un'altra visita della sostanza bianca. Durante i lavori, erano trascorsi altri otto mesi di solitudine. Jasper si era rassegnato a quel tipo di esistenza, nelle profondità dell'anello esterno di Saturno. Il pensiero di vivere lì non gli pesava quanto l'idea di morirvi senza la compagnia di esseri umani... solo e abbandonato. Si chiedeva, talvolta, se il suo eremo ed il relitto ad esso ancorato sarebbero stati trovati, un giorno, quando le lune di Saturno fossero state esplorate e colonizzate. Forse la scoperta sarebbe avvenuta dopo secoli, o millenni. Jasper era vecchio, ed aveva già conosciuto la solitudine nel cosmo: tuttavia non n'era mai stato, prima d'ora, il prigioniero involontario. Si chiedeva se la nube spettrale avrebbe finito per trovare il modo di arrivare sino a lui, o se sarebbe morto di vecchiaia. Con i viveri di cui disponeva, avrebbe potuto durare ancora vent'anni, e aveva fiducia negli impianti dell'atmosfera e del riscaldamento, e nella propria capacità di farli funzionare alla perfezione. Le macchine non erano troppo complesse, e Jasper disponeva dei pezzi di ricambio. Comunque, conservò un locale per sé, a bordo dell'astronave: l'officina. Vi lavorava indossando la tuta spaziale. Quando il rifugio all'interno dell'asteroide fu completo, Jasper provò un senso di sollievo, ed insieme di delusione. Sollievo, perché adesso si sentiva meglio protetto contro il nemico bianco; delusione, perché ancora una volta il tempo gli sembrava non trascorrere mai. Per fortuna c'erano i libri, i nastri audiovisivi e gli altri mezzi d'istruzione e di svago, a bordo della City of Fomar: ma anche quelli, prima o poi, avrebbero perduto l'interesse della novità. Jasper viveva da più di sei mesi nella nuova dimora quando, durante uno dei periodi di sonno, fu destato da un brusco tonfo che mise in movimento l'asteroide. Quella bizzarra interruzione della monotonia del silenzio e della relativa stabilità nell'anello di Saturno lo svegliò come un colpo di cannone. Accese per mezzo del telecomando i poderosi riflettori della City of Fomar e guardò oltre il cristallo trasparente del portello esterno. Vide uno
strano spettacolo. Tutte le piccole lune cambiavano posizione. Le vide carambolare in una concatenazione di movimento, causato da qualcosa d'invisibile. Urtavano contro le compagne, poi si fermavano, mentre la trasmissione dell'inerzia proseguiva. E la sua sfera era in moto. Dopo un po', urtò dolcemente un altro corpo. Il relitto era stato spinto più vicino, ed il cavo era incurvato, aveva assunto una forma fantastica. Un altro asteroide colpì l'eremitaggio, e l'improvviso contatto fece perdere l'equilibrio a Jasper. I piccoli globi che non si scontravano direttamente continuavano a muoversi, dividendo il moto con i corpi che urtavano. Non c'era perdita di moto, non c'erano rallentamenti dovuti alla gravità: il movimento si comunicava. Jasper si rese conto che quei contatti sarebbero continuati nella stessa direzione, con tangenti diverse, attraverso tutto l'anello. Si chiese cosa poteva avere messo in moto le lune. Forse uno sciame di meteore aveva investito l'anello. Restò a guardare fino a quando la zona del movimento lo ebbe superato completamente, e tutto ritornò immobile e tranquillo come prima. Allora riprese il sonno interrotto. Quando si svegliò e guardò fuori, fu scosso da un brivido. Una nebbia vaporosa oscurava il portello esterno dell'eremo. Con i piccoli proiettori di raggi radioattivi installati sulla roccia e azionati dall'interno eliminò l'ostacolo e guardò. Il relitto era coperto da un manto niveo e vivo, che ondeggiava e si agitava. Comprese che si trattava della parte più esterna della sostanza spintasi all'interno della City of Fomar e intenta ad esplorare avidamente ogni angolo, assimilando tutto ciò che aveva origine organica. Persino il cavo che ancorava la nave all'eremitaggio era coperto da uno spesso strato di quella sostanza. Jasper provò un piacevole senso di sicurezza. Non temeva più la nebbia bianca. Era curioso. Si chiese se c'era un rapporto tra il ritorno dell'entità bianca e il recente movimento delle piccole lune. Erano state le nubi maligne a provocare la perturbazione, oppure era stata quest'ultima ad attirare la nebbia? Jaser avrebbe desiderato sapere dove andava la nebbia, e cosa faceva, quando non si raccoglieva intorno al relitto ed al suo asteroide. E decise di tentare un esperimento. Nelle profondità dell'anello, creò egli stesso deliberatamente una perturbazione. A bordo della City of Fomar c'erano esplosivi: ne piazzò sei cariche su altrettante minuscole lune situate a distanza di sicurezza dal suo rifugio. Tornò alla base e le fece esplodere per mezzo di un impulso radio. Le sfere balzarono via, all'improvviso, allontanandosi dal centro comune, e trasmisero il movimento alle vicine, e così via, all'infinito.
Jasper attese, pazientemente. Aveva preparato una trappola per catturare un po' di quella nebbia. Aveva intenzione di studiarla, se e quando fosse ritornata. Attese diverse ore, e non vide traccia del terrore bianco proveniente dallo spazio ignoto dell'anello. Si era quasi convinto di avere sbagliato pista, quando il cuore gli diede un tuffo, all'improvviso, alla vista dei diafani tentacoli che si attorcevano come fumo luminoso tra le lune più vicine. La diabolica sostanza era stata effettivamente attirata, come Jasper aveva previsto. Sembrava che una qualsiasi perturbazione l'attirasse infallibilmente verso gli oggetti estranei. La nebbia si raccolse di nuovo sul relitto, ne invase l'interno, infittendosi anche intorno all'eremitaggio come se, grazie ad un senso particolare o all'intuizione, ne conoscesse lo strano contenuto. Come era avvenuto durante le visite precedenti, Jasper ne sentì gli strani effetti. Lo rendeva irrequieto; pareva esercitare un influsso irritante sul suo corpo, simile (anche se meno intenso) a quello che aveva avuto sugli apparecchi elettrici della City of Fomar nel corso dell'assalto iniziale. La nebbia si trattenne per la durata abituale, e poi si allontanò. Quando Jasper ne fu certo, indossò la tuta spaziale e si recò in fretta sull'astronave, incuriosito. Provò un senso di trionfo quando vide che la sua trappola era scattata, imprigionando automaticamente un piccolo quantitativo di nebbia bianca. Vide il denso vapore attraverso il coperchio trasparente della scatola ermeticamente chiusa. La prese, e tornò al suo eremo. I giorni seguenti furono i più interessanti che gli fosse accaduto di vivere da quando aveva fatto naufragio, quasi tre anni prima. Studiò la strana sostanza e compì vari esperimenti. Era viva. La scienza terrestre non aveva mai conosciuto nulla di simile: di questo era certo. La teneva sempre in un recipiente ermetico, travasandola all'occorrenza da un contenitore all'altro. Per essere un vapore, era straordinariamente pesante. Non la toccava mai, benché sapesse che il metallo era immune agli effetti della nebbia tremenda. Talvolta sembrava diventare quasi un solido, spesso pareva un liquido in stato di quiete, raccolto negli angoli della cassetta metallica. Jasper scoprì che soltanto di rado assumeva forma gassosa, la condizione in cui l'aveva sempre vista prima. Lo poteva constatare ogni volta che scuoteva la scatola o agitava la sostanza, e la vedeva diventare gassosa: passava allo stadio di vapore quando era molto attiva. Come liquido, era torpida; come solido, quiescente. E constatò che era notevolmente radioattiva.
C'erano molte altre proprietà, ma gli mancavano i mezzi e le conoscenze specializzate per accertarle. Gettava pezzetti di cuoio, di lana e di cibo, che venivano assorbiti dalla nebbia bianca. Dopo questi pasti, la piccola nube aumentava di volume. Jasper rabbrividiva al pensiero di ciò che sarebbe accaduto se quella sostanza radioattiva si fosse scatenata sulla Terra o su un altro mondo abitato. Eppure c'erano mezzi per distruggerla. Il raggio al radio era molto efficace. L'habitat naturale della nebbia bianca era il freddo estremo, tuttavia occorreva un calore fortissimo, vicino al punto di ebollizione dell'acqua, per distruggerla. Come era logico, il calore moderato la faceva espandere. I pensieri di Jasper si aggiravano fra le teorie scientifiche. Cos'era quella strana forma di vita? Era nata nell'anello di Saturno, o proveniva da qualche lontano angolo dell'universo? Probabilmente era antichissima e immortale come le piccole lune dell'anello, o come lo stesso Saturno. Il satellite che si era disintegrato aveva ospitato anticamente la vita? Quella nube lattiginosa che poteva suddividersi e fondersi a volontà rappresentava il supremo culmine della vita del satellite esistito nel passato? Jasper s'interrogava, ma riusciva solo a formulare teorie, non più fantastiche della sostanza vivente che le ispirava. Il vecchio tenne accuratamente chiusa la nebbia bianca, e poco a poco se ne disinteressò. Aveva scoperto sul suo conto tutto ciò che poteva. IV Il tempo trascorreva più lento. Jasper stava esaurendo rapidamente tutti i suoi interessi. A poco a poco, prese a curarsi meno del proprio futuro. Si esponeva a rischi maggiori, allontanandosi tra gli asteroidi più di quanto avesse osato fare in precedenza. Lo stupì constatare che aveva acquisito un'istintiva capacità di orientamento nell'anello di Saturno, e per due volte mise alla prova quella facoltà addentrandosi nelle tenebre, fra le minuscole lune, spingendosi dove non potevano giungere i fiochi raggi della nave: come unica illuminazione, aveva solo le lampade della tuta spaziale. Entrambe le volte trovò la via del ritorno, senza esitazioni. Era arrivato al punto di non attribuire molta importanza alla propria vita. Persino il pericolo di incontrare la mortale nebbia bianca tra gli asteroidi lo spaventava assai meno. Desiderava udire una voce umana, sognava più che mai la vicinanza dei suoi simili. La solitudine dell'anello era tremenda. Se si fosse trovato nello spazio aperto, sarebbe stato meglio. Avrebbe potuto vedere le
stelle, le vecchie costellazioni ben poco diverse, scorte dall'orbita di Saturno, da quanto apparissero nella prospettiva dei pianeti interni. Jasper aveva conosciuto la solitudine degli spazi cosmici, ma aveva sempre avuto la compagnia delle stelle lucenti. Nell'anello di Saturno, era come essere sepolto sotto innumerevoli lapidi nella tenebra di una tomba immensa, in cui era autorizzato a vagare. Finì per trovare compagnia nei resti muti delle ossa sgretolate dei compagni morti da tanto tempo, a bordo della City of Fomar: e provava il desiderio di raggiungerli. L'inquietante suggestione si affacciò alla sua mente, e Jasper si affrettò a scacciarla, prima che si affermasse. Scrollò le spalle, si fece forza e tirò avanti. Avrebbe continuato così finché avesse conservato la ragione e l'equilibrio mentale. E tuttavia incupiva. La tristezza invase persino la quiete del sonno. Una notte, poi, non riuscì ad addormentarsi. Per lui, la notte era semplicemente il periodo del sonno, calcolato secondo i tempi terrestri. Era notte ogni volta che lui spegneva le luci. Ma questa volta restò sveglio. L'inquietudine l'invadeva: era una sensazione nota, così familiare che l'indusse a guardare fuori nella tenebra, in cerca della minaccia bianca. Ma non c'era, a meno che si nascondesse dietro le lune circostanti, e Jasper sapeva che questo non avveniva mai. I nervi e l'immaginazione gli stavano giocando un brutto scherzo. Una scoperta sconcertante che egli fece durante il normale periodo di veglia, tuttavia, rivelò la causa della sua inquietudine. Non era stato uno scherzo dei nervi e dell'immaginazione. La nebbia bianca era vicina, ma non all'esterno del rifugio, dove l'aveva cercata. Quando andò in magazzino per prendere i viveri, venne accolto da una grande nube grigia che protese uno pseudopodo verso di lui. I nervi tesi di Jasper scattarono, a quella tremenda scoperta: lanciò un urlo, trovandosi inchiodato, mentre con gli occhi dilatati valutava fulmineamente la situazione. Fuggì dal magazzino e bloccò la porta d'acciaio, portando con sé la visione terribile della nebbia bianca insediata nella sicurezza del suo eremitaggio. Il recipiente spezzato in cui aveva conservato la sostanza vivente ed i contenitori schiacciati e dispersi dei viveri raccontavano una storia muta e minacciosa. Quel frammento di vita s'era liberato, aveva assimilato le sue scorte di viveri, acquisendo proporzioni pericolose. Non osava affrontarla con un proiettore a raggi di radium. L'avrebbe fatto solo come estrema risorsa. Jasper si calmò. Doveva sbarazzarsi della nube bianca. Decise di cercare di attirarla fuori dall'asteroide, nello spazio, tenendo pronto uno dei proiet-
tori più potenti se il piano non avesse avuto effetto. Non voleva usare il proiettore nell'eremo, se non era assolutamente necessario, perché quando l'aveva adoperato contro il portello stagno dell'astronave era stato devastante quanto la stessa nebbia. Infilò la tuta spaziale, spense il riscaldamento e l'impianto dell'aria nella luna cava, e si accinse ad aprire i due portelli della camera stagna. Poi spalancò l'uscio del magazzino e attese, in un angolo lontano, tenendo pronto il proiettore. Lo sgradito inquilino non uscì. Jasper sbirciò, cautamente, vide la nube aleggiare sopra le scatole devastate dei viveri. I barattoli erano schiacciati, e c'erano tracce del contenuto che era fuoriuscito. Sparò una debole scarica contro la massa grigia che turbinò, si espanse, si sollevò dal pasto e lanciò pseudopodi serpeggianti in cerca dell'origine di quel tormento. Un globulo della maligna entità si avventò in direzione della soglia, e Jasper arretrò in fretta, impugnando il proiettore. Da lontano, vide il frammento di nuvola soffermarsi sulla soglia ed esaminarla, indipendentemente dalla massa principale, che non emergeva. Dopo un po' vide apparire dal magazzino altri sbuffi di nebbia, fino a quando comprese che si era ricongiunta, ricostituendosi nella sua interezza. La nube avanzò lentamente nel suo alloggio, esplorandolo. Jasper attese, affascinato, appoggiato alla parete, sperando che si dirigesse verso il portello spalancato, verso la libertà dello spazio cui era abituata. Ma era preparato anche all'eventualità che si spostasse verso di lui. Restò immobile, seguendo cupamente i vagabondaggi della nube. Attese che raggiungesse il passaggio aperto e sgusciasse fuori. La vide muoversi lungo la parete più vicina al portello. Si volse a guardare la soglia del magazzino, dove indugiava esitante un piccolo frammento: lo scrutò, con attenzione. Quando tornò a guardare in direzione del portello, il cuore gli balzò, colmo d'improvvisa speranza. Un tentacolo bianco si era proteso nell'apertura. Esplorando, la nube aveva trovato un varco. Spesso Jasper si era chiesto se quel rarefatto materiale possedeva impulsi telepatici. Era convinto che il resto della nube grigia sarebbe stato informato di quella via d'uscita nello spazio e avrebbe raggiunto l'avanguardia. Il frammento che era rimasto sulla soglia del magazzino, intanto, si era ricongiunto al corpo principale. Una differenza sconcertante attirò all'improvviso la sua attenzione. La nebbia che stava nella camera stagna aveva la solita consistenza bianca. La nube che si muoveva lungo la parete, partendo dalla porta del magazzino, era grigia. L'orrore della rivelazione lo agghiacciò, e la lenta crescita del
volume della minaccia bianca nella camera stagna giustificò le sue peggiori paure. Quella non era una parte della nube grigia uscita dal magazzino: stava entrando nell'eremitaggio dallo spazio, anziché disperdersi nel vuoto! Il pericolo bianco era tornato! La nube grigia nel magazzino, mediante chissà quale misterioso mezzo di comunicazione, aveva chiamato altra nebbia, dispersa tra le lune... e la legione mortale aveva risposto all'appello. Jasper si scosse, si precipitò barcollando verso la camera stagna e cercò di chiudere il portello per bloccare le forze tremende che lo minacciavano. Ai suoi movimenti rapidi rispose una corrispondente alacrità da parte della nebbia che entrava: si gonfiò di colpo e sgusciò all'interno così rapidamente che il proiettore di raggi, subito usato da Jasper, non bastò a eliminarla con la velocità necessaria per consentirgli di raggiungere il portello e di sbarrarlo. Una muraglia bianca si espanse, gli sferrò un colpo che lo scagliò attraverso la stanza. La nebbia calò su di lui più lentamente, mentre egli si rialzava e azionava il proiettore, appoggiandosi con le spalle alla parete. Lingue di morte bianca saettarono e lo sfiorarono, suscitando una frenesia di orrore formicolante dovunque il gas sfiorasse la tuta spaziale. Il raggio al radium disintegrava e distruggeva gli pseudopodi bianchi, mentre la massa principale avanzava per schiacciarlo. Madido di sudore, sfinito, Jasper combatteva freneticamente la sua battaglia perduta. Il delirio gli ottenebrava la ragione, ma non intralciava la sua efficienza. Azionava il proiettore come un dèmone impazzito negli abissi dell'inferno. Il raggio apriva squarci e fori nella compattezza della nube, ma erano subito colmati. I contatti formicolanti divennero meno frequenti. Jasper si sentiva le braccia pesanti come piombo. I sensi minacciavano di abbandonarlo, ma egli resisteva, con disperazione. Vi erano momenti fuggevoli in cui la vista si oscurava e la nebbia bianca sembrava diventare rossa. All'improvviso, le ginocchia gli si piegarono: scivolò sul pavimento, contro la parete, seduto, muovendo più lentamente il proiettore. La nube bianca si precipitò nel punto in cui poco prima stava la sua testa. Il respiro ansimante sibilava come vapore entro il casco della tuta spaziale. Jasper si chiese, vagamente, perché la nebbia bianca non lo sopraffaceva. I suoi sforzi diventavano meno frenetici, i movimenti meccanici. Era ormai troppo debole per continuare a difendersi. Sapeva ciò che questo significava, ma persino la sua forza di volontà invocava una tregua, un lun-
go, infinito riposo. La nebbia bianca parve svanire. Si ritirava. Jasper riuscì a distinguere gli oggetti nel suo alloggio. Notò il vapore che si riversava rapidamente fuori dal portello, e se ne stupì. L'oblio vinse il suo corpo esausto. Il proiettore cadde dalle dita inerti, disattivandosi con il cessare della pressione sul grilletto. Jasper non seppe per quanto tempo era rimasto lì, nella tuta spaziale, facile vittima per il ritorno della nebbia bianca. L'eremo era pervaso dal freddo dello spazio. Le luci erano ancora accese. I due portelli della camera stagna erano spalancati. Quando riprese i sensi, si volse intorno. Si alzò, si avviò barcollando fino alla soglia del magazzino e guardò dentro. La minaccia bianca era sparita, ma delle sue scorte di viveri era rimasto ben poco. La morte per fame era inevitabile. E tuttavia, Jasper si rallegrò. Preferiva morire in un altro modo. Lentamente, si aggirò, chiuso nella tuta, effettuando riparazioni temporanee. Si chiese perché la nebbia bianca aveva abbandonato così all'improvviso l'asteroide ed i suoi dintorni; eppure quella strana sostanza presentava tanti misteri inesplicabili. All'improvviso interruppe il suo lavoro di saldatura. Fuori dal suo rifugio brillavano delle luci. Non aveva acceso i riflettori del relitto, e si chiese che cosa li avesse attivati. Guardò attraverso i due portelli della camera stagna. Un'altra astronave incrociava lungo la City of Fomar. Un'emozione indescrivibile s'impadronì di Jasper, quando egli entrò tremando nella camera stagna e chiuse il portello interno. Nella sua mente balenò la spiegazione dello strano comportamento della nebbia bianca. Quando l'astronave era penetrata nell'anello, aveva causato una forte perturbazione. Il vapore se n'era accorto, ed era piombato sul relitto e sull'eremitaggio... e li aveva abbandonati all'appressarsi dell'astronave, per attaccarla. Jasper vide, tuttavia, che la nave sconosciuta non era avviluppata dalla nebbia. Spalancò il portello esterno. Scalciando, si lanciò attraverso il vuoto, verso la fiancata dell'astronave. Trovò il portello della camera stagna aperto, invitante. Quando entrò, nel compartimento si riversò il sibilo dell'aria che veniva immessa. Volti di esseri umani lo guardavano con amichevole stupore. Il portello interno si aprì, e un uomo lo aiutò a sganciarsi il casco della tuta. Jasper Jezzan si guardò intorno, stralunato, fissò quei visi, troppo sconvolto per parlare subito. Poi finalmente ritrovò la voce, mentre le lagrime gli scorrevano sul viso. «Gente!» gridò, tremando. «Gente! Gente vera, finalmente!»
Titolo originale: Hermit of Saturn's Rings (Planet Stories, autunno 1940). 1941
Robert A. W. Lowndes L'abisso Con Robert Augustine Ward Lowndes, arriviamo ai uno dei personaggi principali del fandom americano delle origini che, insieme a nomi come Frederik Pohl, James Blish, Donald Wollheim e Sam Moskowitz, contribuì parecchio a influenzare il corso della science fiction di quegli anni. Mentre di Lowndes direttore ci siamo occupati diffusamente nell'introduzione, Lowndes autore è un personaggio più sfuggente. Ed è un peccato, perché possiede il raro dono di congegnare una narrativa efficace, sia nella fantasy che nella fantascienza. In parte, questo deriva dal fatto che Lowndes è un lettore insaziabile, e divora con velocità sbalorditiva tutto ciò che trova. In questo modo, riusciva a setacciare tutta la produzione editoriale, mentre curava ancora le sue riviste dilettantistiche (delle quali Le Vombiteur cominciò a uscire settimanalmente dal dicembre 1938) e quelle professionali, e scriveva un numero considerevole di racconti. Robert Lowndes è nato lunedì 4 settembre 1916. La sua prima lettura fu Ghost Stories di MacFadden, e non riuscì a procurarsi una copia di Amazing Stories fino al 1928, all'età di dodici anni. Ci riuscì sfruttando il tagliando che dava diritto ad una copia gratuita, pubblicato su un numero di The Open Road for Boys, custodito nella biblioteca pubblica di Stamford, nel Connecticut. Era uno dei tipici sotterfugi cui ricorrevano gli appassionati nei tempi in cui i genitori vietavano letture del genere. Nel 1931, Lowndes si lasciò attirare da Weird Tales, che in precedenza aveva evitato, e da Strange Tales. Le sue letture sì estesero così al genere fantasy, e verso la metà degli Anni Trenta, inclusero anche Dime Mystery, Horror Stories e Terror Tales. Senza dubbio, quindi, Lowndes aveva un'ampia conoscenza pratica dell'intera gamma della narrativa d'immaginazione. Cominciò a scrivere regolarmente lettere alle riviste, soprattutto a Wonder Stories, che gliene pubblicò una, per la prima volta, nel numero del luglio 1932.
Talvolta, egli si firmava «Doc» Lowndes, non perché fosse davvero dottore, ma perché quello era il soprannome che si era dato da solo prima che qualcun altro gliene affibbiasse uno peggiore. Senza dubbio, Lowndes tendeva piuttosto alla fantasy: i suoi autori preferiti erano Clark Ashton Smith, H. P. Lovecraft e Robert E. Howard. Non è quindi una sorpresa scoprire che gran parte dei suoi scritti, prosa e poesia, rientra in questo campo. Anche la sua fantascienza è nettamente bizzarra. The Abyss imita Lovecraft, e rientra nella classificazione generale di science fantasy, un'autentica fusione del fantascientifico con il fantastico: il tipo di narrativa, per intenderci, che Lovecraft aveva scritto per oltre un decennio, prima di morire. Lowndes usò questo stile, con grande effetto, in altri racconti come Lilies, The Long Wall, e The Slim People, ispirato da Frank Paul. Quando la Columbia sospese Future, Lowndes continuò a lavorare come direttore editoriale dell'intera catena dei pulps, e fu responsabile di Future quando la Columbia lo riesumò negli Anni Cinquanta. Divenne direttore della collana di fantascienza della Avalon fin dal primo titolo, Three to Conquer (1956) di Eric Frank Russell, e curò quasi tutta la serie. Un romanzo interessante che vi fu pubblicato è il suo Believer's World (1961), che parla di un sistema triplanetario iperspaziale popolato da coloni terrestri, dove ogni pianeta ha una religione basata sugli insegnamenti di Ein (Einstein). In anni più recenti diresse Magazine of Horror, insieme ad altre testate affini, che mostravano il suo autentico amore per questo genere, e che costituiscono un bell'esempio di riviste dirette in modo personale. Quando chiusero, nel 1971, Lowndes divenne direttore di Sexology, la rivista creata da Hugo Gernsback nel 1933, e tuttora pubblicata dal suo erede, Harvey Gernsback. La versione di The Abyss usata qui è la terza, riveduta e corretta da Lowndes per la pubblicazione nel numero dell'Inverno 1965 di Magazine of Horror. In origine, aveva scritto il racconto nel 1937, per il secondo numero di Fanciful Tales di Wollheim, che non si concretizzò mai. Venne riveduto una prima volta nel 1941 per essere pubblicato su Stirring Fantasy Fiction, la «metà fantastica» di Stirring Science Stories. Portammo fuori il corpo di Graf Norden nella notte novembrina, sotto le stelle che ardevano di un terribile splendore, e corremmo in macchina come pazzi, su per la strada di montagna. Il cadavere doveva venire distrutto,
per via degli occhi che non si potevano chiudere, e sembravano fissare un oggetto alle spalle dell'osservatore, quel cadavere interamente svuotato di sangue senza la minima traccia di ferite, e la cui carne era coperta di segni luminosi, che mutavano continuamente forma. Incuneammo quel che era stato Graf Norden dietro il volante, sistemammo una miccia improvvisata nel serbatoio, l'accendemmo, poi spingemmo la macchina oltre il bordo della strada, facendola precipitare sull'autostrada, come una meteora fiammeggiante. Solo il giorno dopo ci rendemmo conto che tutti avevamo agito spinti dalla suggestione di Dureen... persino io l'avevo dimenticato. Altrimenti, come avremmo potuto precipitarci fuori con tanta impazienza? Dal momento in cui le luci si erano riaccese, ed avevamo visto la cosa che, fino ad un attimo prima, era stata Graf Norden, eravamo divenuti figure indistinte d'ombra, che si muovevano in un sogno. Avevamo dimenticato tutto, tranne i taciti comandi, mentre guardavamo la macchina in fiamme che si sfasciava sull'asfalto al disotto; e poi eravamo tornati indietro storditi, ognuno a casa propria. Quando, il giorno seguente, recuperammo in parte la memoria e cercammo Dureen, era scomparso. E poiché tenevamo alla libertà, non dicemmo a nessuno cos'era accaduto, né cercammo di scoprire dov'era finito Dureen. volevamo soltanto dimenticare. Credo che forse avrei dimenticato, se non avessi sfogliato di nuovo il Canto di Yste. Per gli altri, c'è stata una tendenza crescente a trattarlo come un'illusione, ma io non posso. Una cosa è leggere libri come il Necronomicon, il Libro di Eibon o il Canto di Yste... ma è ben diverso, quando la nostra esperienza conferma alcune delle cose che vi sono contenute. Ho trovato un paragrafo del genere nel Canto di Yste, e non ho proseguito la lettura. Il volume, insieme agli altri testi di Norden, è ancora nella mia libreria; non l'ho bruciato. Ma non credo che lo leggerò più... Conobbi Graf Norden nel 193..., all'Università di Darwich, al corso del dottor Held sulla storia del Medio Evo e dell'inizio del Rinascimento, che era soprattutto uno studio sul pensiero dell'occultismo. Norden era vivamente interessato; aveva compiuto varie esplorazioni nell'occultismo; in particolare era affascinato dagli scritti e dai documenti di una famiglia di adepti, i Dirka, che facevano risalire la loro ascendenza ai tempi pre-glaciali. I Dirka avevano tradotto il Canto di Yste, dalla sua forma leggendaria nelle tre grandi lingue delle culture primitive, e poi in greco, latino, arabo e inglese arcaico. Dissi a Norden che deploravo il cieco disprezzo in cui il mondo tiene
l'occulto, ma che non avevo mai indagato a fondo la materia. Mi accontentavo di fare da spettatore, lasciando che la mia immaginazione si lasciasse trasportare dalle molte correnti di questo fiume tenebroso; a me bastava sorvolare la superficie... solo di rado mi tuffavo in profondità. Poeta e sognatore, cercavo di non smarrirmi nell'oscurità delle acque in cui mi aggiravo... potevo sempre emergere per ritrovare un sereno cielo azzurro ed un mondo che non pensava a queste realtà. Per Norden era diverso. Cominciava già a nutrire dubbi, mi disse. Non era una strada facile da percorrere; c'erano pericoli atroci, nascosti lungo il percorso, e spesso il viandante se ne accorgeva quand'era troppo tardi. I terrestri non erano giunti molto lontano sulla via dell'evoluzione; erano ancora molto giovani e la loro mancanza di conoscenza, come razza, pesava parecchio su quei pochi che aspiravano a percorrere strade sconosciute. Parlava di messaggeri venuti da Fuori, e citava oscuri passi del Necronomicon e del Canto di Yste. Parlava di esseri alieni, entità terribilmente inumane, che era impossibile misurare con i nostri criteri e che l'umanità non poteva combattere con efficacia. Dureen comparve sulla scena più o meno a quel tempo. Un giorno entrò in aula durante una lezione; più tardi, il dottor Held lo presentò come un nuovo allievo giunto dall'estero. In Dureen c'era qualcosa che subito suscitò il mio interesse. Non ero in grado di stabilire a che razza o nazionalità appartenesse... era quasi bello, ed ogni suo movimento era pieno di grazia e di ritmo. Tuttavia, non poteva venire giudicato effemminato. Il fatto che i suoi compagni di corso, in maggioranza, l'evitassero, non lo turbava affatto. Per quanto mi riguardava, non mi sembrava genuino; ma per gli altri, si trattava probabilmente della sua assenza di emotività. Per esempio, quando in laboratorio gli scoppiò in faccia una provetta, e parecchie schegge di vetro gli si piantarono nella pelle, in profondità, non mostrò il minimo fastidio, respinse ogni espressione di sollecitudine da parte di alcune ragazze, e riprese l'esperimento non appena l'infermiere ebbe terminato di medicarlo. L'atto finale ebbe inizio quando ci stavamo occupando della suggestione e dell'ipnotismo, un pomeriggio: discutevamo le possibilità pratiche della materia. Colby espose un argomento contrario molto ingegnoso, ridicolizzò l'accostamento degli esperimenti di telepatia con la suggestione, e giunse alla conclusione che l'ipnotismo era impossibile, al di fuori del ricorso ai mezzi meccanici d'induzione. A questo punto intervenne Dureen. Non riesco a rammentare ciò che
disse: ma andò a finire che Dureen venne sfidato a provare le sue affermazioni. Norden non disse nulla, nel corso del dibattito; era un po' pallido e, notai, cercava di fare cenni di avvertimento a Colby. Quella notte eravamo in cinque, a casa di Norden: Granville, Chalmers, Colby, Norden ed io. Norden fumava una sigaretta dietro l'altra, si rosicchiava le unghie e mormorava tra sé. Sospettai che ci fosse in aria qualcosa di strano, ma non avevo idea di cosa si trattasse. Poi arrivò Dureen e la conversazione s'interruppe. Colby ripeté la sfida, dicendo che aveva condotto gli altri con sé come testimoni, per non correre il rischio di farsi ingannare da trucchi da prestigiatore. Non erano permessi specchi, luci, e altri mezzi meccanici per l'induzione dell'ipnosi. Doveva essere esclusivamente questione di volontà. Dureen acconsentì con un cenno, tirò le tende, poi si voltò, puntando lo sguardo su Colby. Restammo a guardare; ci aspettavamo che eseguisse qualche movimento con le mani e pronunciasse qualche comando: ma non fece nulla di tutto ciò. Rivolse gli occhi su Colby, e questi s'irrigidì come fosse stato colpito da un fulmine; poi, con gli occhi fissi nel vuoto, si alzò lentamente, ritto sulla stretta fettuccia nera che tagliava diagonalmente il centro del tappeto. Il mio pensiero tornò al giorno in cui avevo sorpreso Norden nell'atto di distruggere certe carte e certi apparecchi: questi erano stati costruiti con il mio aiuto, nel corso di diversi mesi. I suoi occhi avevano un'espressione terribile, e vi si leggeva il dubbio. Poco tempo dopo quell'evento, era comparso Dureen: poteva esserci un nesso? Me lo chiedevo. La mia fantasticheria fu interrotta bruscamente dalla voce di Dureen che ordinava a Colby di parlare, di dirci dov'era e cosa vedeva intorno a sé. Quando Colby obbedì, fu come se la sua voce ci giungesse da molto lontano. Stava in piedi, disse, sopra uno stretto ponte lanciato su di un abisso spaventoso, così immenso e profondo che non ne scorgeva né la base né i confini. Dietro di lui, il ponte si estendeva fino a perdersi in una foschia azzurra: davanti, si protendeva verso una sorta di pianoro. Lui esitava a muoversi perché il ponte era troppo stretto, tuttavia capiva che doveva avviarsi verso il pianoro, prima che la vista dell'abisso sottostante gli facesse perdere l'equilibrio. Si sentiva stranamente pesante, e parlare gli era faticoso.
Quando la voce di Colby tacque, tutti guardammo, affascinati, la sottile striscia nera che divideva il tappeto azzurro. Era quello dunque, il ponte sull'abisso... ma cosa poteva dare l'illusione della profondità? Perché la sua voce sembrava così lontana? Perché si sentiva appesantito? Il pianoro doveva essere il tavolo in fondo alla stanza: il tappeto saliva lungo una specie di pedana su cui si trovava il tavolo di Norden, la cui superficie era a circa due metri dal pavimento. Colby cominciò a camminare adagio sulla striscia nera, muovendosi con estrema prudenza, al rallentatore. Le membra sembravano pesanti; il respiro rapido. Dureen gli ordinò di fermarsi e di guardare con cautela nell'abisso, descrivendoci ciò che vedeva. Noi osservammo di nuovo il tappeto, come se non l'avessimo mai visto prima e non sapessimo che era del tutto privo di decorazioni, a parte la fettuccia nera su cui stava Colby. La sua voce risuonò di nuovo. Disse, dapprima, che non vedeva nulla nell'abisso sottostante. Poi gemette, barcollò, quasi perse l'equilibrio. Vedemmo il sudore imperlargli la fronte ed il collo, intridergli la camicia celeste. C'erano cose nell'abisso, rispose con voce rauca: grandi forme che sembravano grumi nerissimi, ma che sapeva essere vive. Dalle masse centrali di quegli esseri scaturivano incredibili tentacoli. Si muovevano avanti e indietro... orizzontalmente: ma a quanto pareva, non potevano spostarsi verticalmente. Ma le cose non erano tutte sullo stesso piano. Certo, i loro movimenti erano solo orizzontali, in rapporto alle rispettive posizioni, ma alcune erano parallele a lui, altre in diagonale. In distanza, scorgeva altre cose perpendicolari. Sembrava che fossero assai più numerose di quanto avesse inizialmente creduto. Le prime che aveva visto erano molto più in basso, ignare della sua presenza. Ma queste l'avevano percepito, e cercavano di raggiungerlo. Ora si muoveva più in fretta, disse: ma a noi sembrava che continuasse a camminare al rallentatore. Lanciai un'occhiata a Norden: anche lui sudava abbondantemente. Si alzò, si accostò a Dureen, parlandogli sottovoce, in modo che nessuno di noi poté udirlo. Capii che si riferiva a Colby, e che Dureen rifiutava di acconsentire alle sue richieste. Poi Dureen venne dimenticato, almeno per il momento, quando la voce di Colby si levò di nuovo, tremante di paura. Le cose cercavano di afferrarlo. S'innalzavano e si abbassavano da ogni parte: alcune erano lontane, altre atrocemente vicine. Nessuna aveva trovato il piano esatto su cui sarebbe stato possibile catturarlo; i tentacoli sfreccianti non l'avevano toccato, ma ormai tutti gli esseri percepivano la sua presen-
za, ne era certo. E temeva che fossero in grado di alterare a volontà i loro piani, benché sembrasse che lo facessero alla cieca, come creature bidimensionali. I tentacoli che guizzavano verso di lui erano fili di tenebra totale. Un sospetto tremendo nacque in me, quando rammentai alcune delle precedenti conversazioni con Norden, e ricordai certi passi del Canto di Yste. Cercai di alzarmi, ma le mie membra erano prive di forza: dovetti restare ad assistere, impotente. Norden stava ancora parlando con Dureen, e vidi che era divenuto pallidissimo. Accennò ad allontanarsi... poi si volse, andò a un armadietto, ne estrasse qualcosa, e si accostò alla striscia su cui stava Colby. Norden rivolse un cenno a Dureen, ed io vidi cosa teneva in mano: un poliedro che sembrava di vetro. Tuttavia, irradiava una luminescenza che mi sgomentò. Tentai disperatamente di ricordarne il significato, poiché lo sapevo... ma i miei pensieri erano annientati, sembrava: e quando gli occhi di Dureen si posarono su di me, tutta la stanza parve ondeggiare. Udii di nuovo la voce di Colby: adesso aveva un tono disperato. Temeva di non riuscire a raggiungere il pianoro. (In realtà, era a circa un metro e mezzo dalla fine della striscia nera e della pedana su cui si trovava il tavolo da lavoro di Norden). Le cose, disse Colby, ormai erano vicine: una massa di tentacoli filiformi l'avevano appena sfiorato. Poi ci giunse la voce di Norden: anche quella sembrava lontanissima. Era... ma la sua voce si spense, ed io sentii il potere di Dureen cancellarne il suono. Di tanto in tanto captavo una frase o poche parole sconnesse. Mi era comunque sufficiente per intuire ciò che stava accadendo. Era veramente un'esperienza transdimensionale. Noi immaginavamo di vedere Norden e Colby ritti sul tappeto... o forse era l'effetto dell'influenza di Dureen. La dimensione senza nome era la dimora di quegli esseri d'ombra. L'abisso e il ponte su cui stavano i due erano illusioni create da Dureen. Quando ciò che Dureen aveva predisposto si sarebbe compiuto, le nostre menti sarebbero state sondate, le nostre memorie trattate in modo da consentirci di ricordare solo ciò che Dureen avrebbe permesso. Norden era riuscito a imporre a Dureen un accordo vincolante; se entrambi fossero riusciti a raggiungere il pianoro prima che gli esseri d'ombra li toccassero, sarebbe andato tutto bene. Altrimenti... Norden non spiegò, ma fece capire che erano inseguiti, come gli uomini inseguono la selvaggina. Il poliedro conteneva un elemento da cui gli esseri rifuggivano. Norden era poco più indietro di Colby: lo vedevamo prendere la mira
con il poliedro. Colby riprese a parlare, e ci disse che Norden si era materializzato dietro di lui ed aveva portato una specie d'arma capace di tenere lontani quegli esseri. Poi Norden mi chiamò per nome, e mi chiese di occuparmi delle sue cose, se non fosse ritornato: mi disse di guardare ciò che si riferiva agli «adumbrali» nel Canto di Yste. Lentamente, lui e Colby si avviarono verso la pedana e la tavola. Colby precedeva Norden di qualche passo: salì sulla pedana e, con l'aiuto dell'altro, si arrampicò sul tavolo. Poi cercò di assistere Norden ma, mentre questi montava sulla pedana, s'irrigidì all'improvviso ed il poliedro gli cadde dalle mani. Tentò freneticamente di issarsi, ma si rovesciò all'indietro ed io compresi che ormai era perduto... Ci giunse un grido d'angoscia, e poi le luci si spensero. L'incantesimo che ci aveva tenuti inchiodati svanì; ci precipitammo come pazzi, cercando di trovare Norden, Colby e l'interruttore della luce. Poi, all'improvviso, le lampade si riaccesero, e vedemmo Colby seduto sul tavolo, stordito, mentre Norden giaceva sul pavimento. Chalmers si chinò sul corpo, per rianimarlo, ma quando vide le condizioni dei resti di Norden fu preso da una tale crisi isterica che dovemmo metterlo fuori combattimento a pugni, per farlo tacere. Colby ci seguì meccanicamente, apparentemente ignaro di quanto stava accadendo. Portammo fuori il corpo di Norden, nella notte novembrina, e lo distruggemmo con il fuoco; più tardi dicemmo a Colby che il nostro amico era stato colpito da un collasso cardiaco mentre guidava lungo la strada di montagna; la macchina era precipitata ed il corpo era stato incenerito dalle fiamme. In seguito io, Chalmers e Granville ci riunimmo, per tentare di razionalizzare ciò che avevamo visto ed udito. Chalmers si era ripreso, dopo essere rinvenuto, e ci aveva aiutato a sbrigare il nostro macabro compito sulla strada di montagna. Nessuno dei due, scoprii, aveva udito la voce di Norden, dopo che questi aveva raggiunto Colby nel presunto stato d'ipnosi. E non ricordavano di aver visto nulla nella mano di Norden. Ma in meno d'una settimana, anche questi ricordi erano svaniti dalle loro menti. Credevano veramente che Norden fosse morto in un incidente, dopo un tentativo fallito, da parte di Dureen, d'ipnotizzare Colby. In precedenza, la loro spiegazione era stata che Dureen aveva ucciso Norden per ragioni ignote, e che noi eravamo stati inconsapevolmente suoi complici. L'esperimento ipnotico era stato un pretesto per radunarci e trovare un modo per
sbarazzarsi del cadavere. Non dubitavamo, allora, che Dureen fosse riuscito a ipnotizzare tutti. Sarebbe stato inutile dir loro ciò che appresi pochi giorni dopo, ciò che appresi dagli appunti di Norden, che spiegavano l'arrivo di Dureen. E sarebbe stato altrettanto inutile citare loro passi del Canto di Yste, trasposti in un inglese comprensibile. ... E questi non sono altro che gli adumhrali, le ombre viventi, esseri dai poteri e dalla malignità incredibili, che dimorano all'esterno dei veli dello spazio e del tempo quali noi li conosciamo. Essi amano attirare nel loro regno gli abitatori di altre dimensioni, cui giocano orridi scherzi con molteplici illusioni... ... Ma ancora più spaventosi sono i cercatori che essi inviano in altri mondi e dimensioni, esseri che loro stessi hanno creato e modellato nella forma di quelli che abitano in qualunque dimensione, o su qualunque mondo in cui i cercatori vengono inviati... ... I cercatori possono essere riconosciuti solo dall'adepto, ai cui occhi esperti l'eccessiva perfezione della forma e del movimento, la stranezza e l'aria di alienità e di potere sono un segno inequivocabile... ... Il saggio Jhalkanaan ci parla d'uno di questi cercatori che illuse sette sacerdoti di Nyaghoggua inducendoli a sfidarlo in un duello di arti ipnotiche. Inoltre, egli dice che due di essi furono catturati e consegnati agli adumbrali, ed i loro corpi vennero restituiti quando le cose d'ombra ebbero finito di divertirsi... ... Curiose soprattutto erano le condizioni dei cadaveri, interamente svuotati di ogni fluido e tuttavia senza tracce di ferite anche lievi. Ma l'orrore più tremendo era dato dagli occhi, che non si potevano chiudere, e sembravano fissare inquieti verso l'esterno, oltre l'osservatore, ed i segni stranamente luminosi sulla carne morta, disegni bizzarri che parevano muoversi e cambiare forma sotto gli occhi del riguardante... Titolo originale: The Abyss (Stirring Science Stories/Stirring Fantasy Fiction, febbraio 1941). 1942
Donald A. Wollheim Lassù È giusto che questo racconto ed il precedente vengano pubblicati a fianco a fianco. Quello di Lowndes apparve sulla rivista di Wollheim, e quello di Wollheim uscì sulla rivista di Lowndes. Donald Alien Wollheim è nato due anni prima di Lowndes. Figlio di un medico, vide la luce a New York giovedì 1° ottobre 1914. Scoprì la fantascienza nei primi tempi di Science and Invention, e presto divenne un accanito autore di lettere alle riviste. Il primo racconto da lui venduto, The Man from Ariel, apparve su Wonder Stories del gennaio 1934, quando aveva diciannove anni. In seguito, Wollheim ruppe con Wonder per la questione della Science Fiction League, come è stato già raccontato nella Parte I, ed una storia presentata in seguito alla rivista, The Space Lens, fu pubblicata con lo pseudonimo di Millard Verne Gordon. Come Lowndes, Wollheim è il tipo dell'autore-direttore. La sua rivista e le sue attività editoriali sono già state discusse nell'introduzione, perciò qui parleremo solo dei suoi scritti. L'influenza ispiratrice di questo racconto è abbastanza interessante. Nel testo troverete riferimenti alle opere di Charles Fort, che ho già ricordato nell'introduzione. Charles Hoy Fort (1874-1932) esercitò un influsso considerevole sugli scrittori di fantascienza, sebbene personalmente non ne avesse mai scritta. Nella sua vita, si limitò a raccogliere tutte le notizie inspiegabili che riusciva a trovare. Impiegò anni ed anni di ricerche, ed il risultato venne pubblicato in quattro libri: The book of the Damned (1919), New Lands (1932), Lo! (1931) e Wild Talents (1932). Tremaine pubblicò a puntate Lo! su Astounding, ma l'opera più influente rimane The Book of the Damned, soprattutto grazie alla conclusione che Fort espone nel libro: per esempio, che noi siamo proprietà di una sconosciuta civiltà aliena. L'idea divenne il seme d'una quantità di racconti e di romanzi, e Edmond Hamilton ne diede una prova con The Space Visitors (Air Wonder, marzo 1930) e The Earth Owners (Weird Tales, agosto 1931). Il culmine si ebbe con Sinister Barrier di Eric Frank Russell (1939). In Up There scopriamo la confutazione dell'astronomia da parte di Fort, uno dei temi meno comuni nella fantascienza, per quanto Set Your Course by the Stars di Eando Binder (Astounding Stories, maggio 1935) ne sia uno dei primi esempi. Una Società Fortiana, fondata nel 1931, esisteva ancora nel 1957, l'anno in cui accusò gli scienziati di aver affermato frau-
dolentemente che era stato messo in orbita un satellite artificiale. Il fatto che Fort traesse conclusioni errate dalla sua montagna di dati non basta a cancellare il particolare che le notizie da lui raccolte rimangono tuttora inesplicabili. In tempi più recenti diversi autori, come Erich Van Daniel in Charity of the Gods (1968) ed Andrews Tomas in We Are Not the First (1971) hanno fatto ottimi lavori, traendo conclusioni da fatti strani assai simili: ma il primo fu Fort. Attualmente, Wollheim è il fortunato editore dei Daw Books, di New York, ma per molti anni fu il direttore degli Ace Books, ed ebbe il merito di stabilirne il programma fantascientifico. Contribuì anche a divulgare le antologie, curando nel 1943 la prima edizione in brossura. Fra parentesi, vale la pena di ricordare qui un racconto di Wollheim, Mimic, perché detiene probabilmente il primato in fatto di ristampe su riviste. Apparve per la prima volta in Astonishing Stories del dicembre 1942, ai tempi in cui era diretta da Alden Norton. Quando, nel 1947, Wollheim divenne direttore di Fantasy Reader per la Avon Book, riesumò il racconto e l'incluse nel terzo numero, nel giugno di quell'anno. Poco tempo dopo Alden Norton, divenuto responsabile di Fantastic Novels, lo ripubblicò nel numero del settembre 1950. Come se non bastasse Chester Whitehorne, nel tentativo di produrre una rivista di ristampe, Science Fiction Digest, incluse lo stesso racconto nel secondo numero, datato Primavera 1954. Un anno dopo, Wollheim lo inserì nella sua antologia Terror in the Modem Vein (aprile 1955), pubblicata dalla Hanover House. Cinque apparizioni in meno di tredici anni ne fanno uno dei racconti più onnipresenti della prima fantascienza. Se non fosse stato per questa ragione, l'avrei incluso nella raccolta, dato che si tratta di un testo eccellente. Comunque, Up There è buon secondo, e non era mai stato ripubblicato in un'antologia rilegata... fino ad ora. Non credo di aver mai capito che cosa poteva essere un individualista arrabbiato, fino a quando arrivai nella fattoria di mio zio Ephraim per la convalescenza, dopo la mia avventura in mare. Ero stato silurato a bordo di uno dei mercantili d'un convoglio diretto in Inghilterra, ero stato tratto in salvo dopo una lunga nuotata nelle acque gelide, ed ero uscito dall'ospedale di Boston dopo due settimane, con l'ordine di riposare un mesetto, prima di ripresentarmi a prendere servizio in Marina. E così, ero andato nella fattoria di mio zio, nel New Hampshire.
Ricordavo mio zio come un tipo stizzoso, quando ero andato a trovarlo da bambino. Scoprii che i miei ricordi d'infanzia non mi avevano ingannato. Era davvero un vecchio stizzoso, e aveva gli atteggiamenti e le idee più strani che avessi mai sentito. Ma non voglio dire che era pazzo... assolutamente no. Non oserei mai, dopo quel che ho visto ieri notte dalle parti della Stella Polare. Quando mi avviai dalla strada alla vecchia fattoria, con il mio sacco in mano, non notai nessuno. La casa, vecchia ma ben costruita, ed i campi dall'aria prospera mi fecero una notevole impressione: sembravano solidi, sostanziosi. Ma non c'era in giro nessuno. Da qualche parte arrivava un martellare, e io girai dietro la fattoria, per andare a vedere. Sicuro, zio Eph era proprio là, in cima ad una scala a pioli appoggiata a un lucente aeroplano argentato, intento a inchiodare fogli di plastica intorno ai bordi della cabina a vetri. Quando vidi che l'aereo portava la svastica e la croce maltese della Luftwaffe, ed era in effetti un grosso bombardiere nazista, lasciai cadere il sacco e restai lì a bocca aperta. «Chiudi il becco o c'entrano le mosche,» scattò mio zio, con voce brusca. «Hai mica mai visto un arioplano?» «Ma è un aereo nazista,» protestai. «E che cosa stai facendo?» Zio smise per un momento di smartellare e mi lanciò un'occhiata di disapprovazione. Sputò un getto di sugo di tabacco, ruminò la sua cicca e sbottò: «No, è mica un arioplano nazista... lo era, e c'è una bella differenza. Adesso è il mio aereo e io ci faccio quel cavolo che mi pare e piace, grazie tante.» Mi avvicinai e lo guardai. L'aereo era in ottime condizioni, sembrava perfettamente in ordine. Mio zio finì di martellare e scese. Mi venne incontro, pulendosi le mani con uno straccio. «Bello eh?» fece. «È uno di quelli che han bombardato New York la settimana scorsa. È rimasto senza benzina ed è caduto qui dritto come un fischio sulla mia terra, proprio dove che lo vedi adesso.» «E l'equipaggio, che fine ha fatto?» chiesi. A zio brillarono gli occhi; sputò un altro getto di tabacco. «Li ho sparati,» disse. «Nessuno può mettere piede sulla mia terra senza permesso.» Masticò ancora un po', e poi proseguì. «Sono stato a 'spettare che uscissero fuori tutti; era prima mattina e m'avevano spaventato a morte i polli. Li ho sparati dalla finestra là di dietro, col mio vecchio fucile per la caccia agli orsi. Non ho sprecato neanco un colpo, uno due, tre, quattro,
così.» Sputò quattro volte, in successione. Il vecchio stizzoso aveva una vista perfetta. Accidenti, potevo ben credere che l'avesse fatto davvero. «E cos'hai fatto dei cadaveri?» «Cosa credi che ne ho fatto?» scattò lui, stizzito. «Li ho seppelliti dietro la stalla. Non sono mica un cannibale, non sono mica.» Prima che avessi il tempo di aggiungere altro, s'incamminò a passo energico verso la casa. «Vieni dentro e mangia un boccone. Immagino che devi aver fame.» Lo seguii in casa. La sua governante, una vecchia zitella sorda, probabilmente eccentrica quanto lui, mi salutò con un cenno del capo e mi accompagnò nella stanza assegnatami. Mi lavai e scesi. Zio non mi aveva aspettato: si stava già ingozzando con gusto. Era in gran forma, per la sua età. Dopo aver mangiato un po', gli rivolsi un'altra domanda che mi era venuta in mente: «Non ha protestato nessuno, perché hai tenuto l'aereo?» «Qualcuno sì,» disse lui. «Ma non è servito a niente.» Ingoiò un altro boccone e continuò. «Quel che vien giù dal cielo o si trova sulla mia terra è roba mia. È la legge. Lo sceriffo aveva cercato di convincermi a dare l'aerio al governo. Cribbio, no. Io no. Io pago le tasse, non gli devo niente, al governo, e il governo mi ha mica mai fatto dei regali, e io non ho intenzione di farcene a lui. E poi, ho intenzione di adoperarlo io, l'aerio.» «Ma non sai volare,» dissi io. «Non hai pilotato un aereo in vita tua.» Zio Eph finì di ripulire il piatto prima di rispondermi. Poi si appoggiò alla spalliera della sedia e tirò fuori la pipa di fusto di granturco. «Chi è che aveva insegnato a volare a Wilbur Wright?» fece. «Prova a rispondermi.» Non potei rispondere, e lui continuò: «Non sono mica più scemo del giovane Wright. Ho dei libri, so leggere, ci vedo, e so pensare meglio di tanti altri. Cribbio, sicuro che so far volare quell'aggeggio. Le lezioni vanno bene per gli scemi.» «E dove hai intenzione di andare?» chiesi io. «Dio buono, sei un bel ficcanaso, eh? Però c'era da 'spettarselo, se sei mio parente. Beh, visto che l'hai chiesto, te lo dico. Ho intenzione di andare su in cielo, e vedere che cosa succede lassù.» Mi lasciai sfuggire un'esclamazione soffocata, ed il boccone mi andò di traverso. «Co... cosa? cosa vorresti dire... "il cielo "? Non puoi, non è possibile.»
Con gli occhi che gli brillavano, mio zio scosse il capo. «Hai proprio le idee confuse come tutti gli altri, hai? Hai mai usato quella testa per altro che per tenerci su il cappello? Magari credi che non posso salire su finché voglio.» Finii di mangiare, prima di rispondere. Poi scostai la sedia, deciso a scoprire cosa aveva in mente quel vecchio matto. «No, non puoi,» protestai. «Dopo circa trenta chilometri, non troverai più abbastanza aria per sostenere l'aereo. A millecinquecento chilometri non c'è più aria, e non c'è niente da raggiungere, a meno di trecentoventimila chilometri.» Lui non si scompose minimamente. «Scemenze,» scattò. «Fesserie! Tu sei mai stato su, a trenta chilometri?» «No,» ribattei. «E neanche tu!» «E neanche nessun altro, giovanotto!» abbaiò lui, di rimando. «Quindi, non stare a credere tutto quel che ti racconta qualche sapientone. E non c'è mai stato nessuno, su fino a millecinquecento chilometri, per dire che non c'è aria, e nessuno ha mai misurato niente, su in cielo.» «Sì, invece!» gridai. «Gli astronomi hanno misurato tutto.» «Gli astronomi!» sbuffò zio Eph. «Te ne conosci qualcuno? No. E neanche io. E nessun astronomo è stato lassù a vedere e nessuno ha intenzione di andarci per scoprirlo. Gli astronomi! Bah! Cretini!» «Lo hanno dimostrato con i telescopi e fotografie e la matematica,» replicai, in difesa dell'astronomia. «Cinquecento anni fa avevano dimostrato che la terra era piatta. Non parlare di matematica con me, giovanotto. Credo che l'hanno inventata dei furbi per far fessa la gente onesta. Tu sai calcolare un'orbita o la distanza di una stella?» «No, non sono abbastanza istruito,» dissi io. «E non lo può fare neanche nessun altro, perché non si può. Non ci sono orbite e le stelle sono tutte alla stessa distanza.» «Cosa?» gridai. «Com'è possibile?» «Perché no?» ribatté zio Eph. «Per tutta la vita t'hanno insegnato un sacco di frottole, e adesso non sei capace di vedere la foresta perché ci sono troppi alberi. Perché le stelle hanno da essere a distanze diverse? Perché non dovrebbero essere alla stessa distanza e di grandezze differenti? Per anni, quei furbacchioni hanno imbrogliato il pubblico con fandonie fantastiche. Perché i fessi li pagassero. Ogni volta che la gente comincia a domandarsi perché deve continuare a mantenere università e osservatori, quei
vecchi avvoltoi si mettono d'accordo e tirano fuori un nuovo pianeta o un'idea vertiginosa e magari allargano l'universo di qualche trilione di chilometri o lo stringono un pochino... o magari ti inventano una quarta dimensione e così confondono le idee alla gente. Idiozie! Fesserie! Hanno imbrogliato la gente che adesso non riesce più neanche a pensare, ma non hanno mica imbrogliato me, nossignore.» «Ma è logico e scientifico,» risposi, debolmente. «Fesserie,» abbaiò zio Eph. Trasse uno sbuffo di fumo dalla pipa. «Quell'aerio là fuori. Quello sì, che è logico e scientifico. Ma l'astronomia... non ha mica senso. Ogni cento anni ammettono che quel che pensavano il secolo prima per questo secolo non va più bene. È giusto, giovanotto?» «Sì, ma la scienza progredisce, e abbandona le vecchie idee.» «Progredisce! Questa sì che è da ridere! Vorrai dire che inventano idee più assurde per continuare a far fessa la gente. Senti... cos'è meno fantastico? Pensare che l'universo è un infinito finito curvato intorno ad una quarta dimensione che nessuno riesce a capire, tutto pieno di miliardi di soli che esplodono atomicamente, qualunque cosa voglia dire, e dozzine di pianeti che girano e s'incrociano, mentre tutto quanto si precipita in mezzo al niente a velocità pazzesche come centocinquanta chilometri al secondo, magari? Oppure pensare che il cielo è solo una superficie come un normale soffitto, su a poche centinaia di chilometri, e le stelle sono solo vulcani e magari le luci di città e fattorie. E il sole è un falò che rotola, insieme ai pianeti, che non sono più grandi di un metro. Lo domando a te, pensaci sopra. Cos'è più fantastico? Cos'è che ti sembra più sensato?» Ci pensai sopra. Beh, come si fa a rispondere? Cos'è più fantastico? Ovviamente, le idee degli astronomi. Ma come potevo ammetterlo? Tentai un'altra linea di attacco. «Ci sono le fotografie delle stelle e dei pianeti.» «Mai vista una fotografia che non poteva essere fasulla,» fece zio Eph, demolendo la mia linea di ragionamento. «Ma non può essere!» esclamai disperato. «Oh, sì che può essere, ed è così.» Zio Eph gracchiò trionfante. «Tutto il mondo si fa tirar scemo da un pugno di imbroglioni con le loro frottole e quelle foto pazzesche. Come fanno quei furbacchioni a non ammettere che le meteore possono continuare a venir giù nello stesso posto, una notte dopo l'altra, se non cascano da un soffitto proprio sopra la nostra testa?»
«Ma non cadono nello stesso posto,» gemetti. «Sì, invece,» insorse mio zio. «E se le idee degli astronomi fossero giuste non potrebbe succedere. Ma le meteore cascano spesso una notte dopo l'altra nella stessa zona. Una volta è capitato anche qui, e ci sono le prove. Un certo Charles Fort aveva raccolto mucchi di prove che gli astronomi non vogliono accettare.» Si alzò. «Ne ho parlato abbastanza. Vado fuori. Ho ancora da lavorare sul mio arioplano.» Lo seguii. Mi girava la testa. Cosa potevo pensare? Possibile che tutto il mondo si lasciasse imbrogliare da un pugno d'uomini? Non era possibile. Non poteva. Guardai mio zio lavorare sull'aereo. Caricava a bordo viveri e altra roba, come per un lungo viaggio. Alla fine, non seppi più trattenermi. «Tutto il mondo crede quel che credono gli astronomi... non possono sbagliare,» azzardai. Zio spostò la pipa e ripose un prosciutto affumicato. «Sbagliato di nuovo,» sentenziò alla fine. «I contadini cinesi ci credono? No.» Non attese la mia risposta. «Non ci credono. E fanno un quarto del mondo. E i contadini dell'India e i neri dell'Africa e i rossi dell'America del Sud e i poveri d'Europa lo sanno o ci credono? No, ed ecco mezzo mondo che non ci crede. Quindi vacci piano con la parola mondo. Gran parte del mondo non crede a queste fesserie. Quasi tutti sarebbero d'accordo con me e con altra gente con la testa sulle spalle.» Per un po' me ne stetti zitto. Gironzolai, riflettendo, mentre zio finiva di caricare l'aeroplano. Aveva già stivato una grossa scorta di benzina e di latte d'olio. Evidentemente, aveva intenzione di partire presto. Rientrò di nuovo in casa, e quando uscì gli chiesi quando progettava di andarsene. «Stanotte, appena escono fuori le stelle, così posso orientarmi. Ho aspettato che arrivassi tu, per tenere in ordine la fattoria fino al mio ritorno.» Vidi che aveva preso un paio di libri e quando mi avvicinai per vedere meglio, rimasi sbalordito nel constatare che erano un dizionario e una grammatica cinesi. «Perché il cinese?» domandai. «Non penserai di trovare dei cinesi lassù, vero?» «Perché no?» ridacchiò zio Eph. «I cinesi si fanno chiamare Celesti e credo che loro dovrebbero saperlo meglio degli altri. Credo che la gente delle città lassù nel cielo sia cinese. Quattrocento milioni di tipi intelligenti
non possono sbagliarsi tutti quanti, sulla loro origine. Credo che me la caverò bene, lassù.» Questo, credo, mi mise definitivamente fuori combattimento. Per tutto il pomeriggio rimasi in silenzio, perplesso e confuso. Zio Eph finì i preparativi di bordo e poi mi condusse a fare il giro della fattoria, spiegandomi ciò che avrei dovuto fare. Venne l'ora di cena, venne la sera, e spuntarono le stelle. Zio Eph scese, bardato degli abiti pesanti, invernali, con un berretto di pelliccia calcato sulle orecchie. Lo accompagnai all'aereo. M'indicò la Stella Polare. «Ho sempre pensato che quella stella così importante non sia sistemata abbastanza chiaramente, e ho intenzione di rimediare. Tienila d'occhio,» mi disse. «Beh, è ora di andare. Non dimenticarti di ritirare regolarmente la posta.» «Ehi!» gli gridai, all'ultimo momento. «Hai il paracadute?» «Per cosa?» sbottò lui, dal portello dell'aereo. «Non mi succederà mica niente. I paracadute vanno bene per gli incapaci. E adesso, se ti muovi e fai girare quella manovella vicina all'elica, possiamo cominciare.» Stordito, mi avvicinai e misi in moto l'elica. Si avviò con un ruggito. Zio Eph sbatté il portello della cabina, agitò la mano in segno di saluto e alzò il motore. L'aereo avanzò con un sobbalzo, prese la rincorsa, oscillò pazzamente e si lanciò in aria, quando zio Eph alzò i giri al massimo. Salì lungo un gradiente ripido, mentre io mi aspettavo da un momento all'altro che precipitasse o si rovesciasse. Ma poi si raddrizzò un po', deviò verso il Nord, e cominciò a salire verso la Stella Polare. Io lo seguii con lo sguardo, mentre spariva nelle tenebre, tra le miriadi di stelle della notte. Prevedevo che mio zio sarebbe tornato prima dell'alba, quando avesse constatato che il suo aereo non poteva salire oltre la stratosfera. E attendevo, preoccupato, nel timore di sentir squillare il telefono e di sentirmi dire che era precipitato chissà dove. Ma quella notte non accadde nulla. Zio Eph non ritornò, e non precipitò. Ci pensai sopra per tutto il giorno seguente e mi convinsi che avrei fatto meglio a chiamare un dottore e a far ricoverare il vecchio. C'erano troppi scienziati che avallavano le teorie «normali» sul cielo. Eppure, anche per tutto quel giorno non ebbi notizie dell'aereo di mio zio. E anche quella notte, e i due giorni successivi.
Adesso non so cosa pensare. Zio Eph non è mai tornato indietro, e non ho più saputo nulla di lui, a meno che... ma non me la sento di ammettere una simile possibilità. Ormai sono passate due settimane, e l'unica cosa che non riesco a spiegare è il fatto che adesso ci sono altre cinque stelle nella coda dell'Orsa Maggiore, e si protendono in linea retta, esattamente verso la Stella Polare. Sono state notate ieri notte, per la prima volta. Secondo i giornali di questa mattina, i marinai sono felici, perché le considerano un aiuto per la navigazione, ma gli astronomi si rifiutano di parlarne. Titolo originale: Up There (Science Fiction Quarterly, estate 1942). 1943
Robert Bloch Il pianeta della paura Bloch nacque a Chicago giovedì 5 aprile 1917, e divenne un devoto di Weird Tales all'età di dieci anni. Nel 1932 aveva ormai avviato una corrispondenza regolare con H.P. Lovecraft; esordì nel numero di Marvel Tales dell'Inverno 1934 con un racconto, Lilies. Poco dopo un altro, The Feast in the Abbey, uscì su Weird Tales (gennaio 1935) e da allora cominciò a vendere regolarmente la sua produzione. Tutto questo prima di compiere i vent'anni. Robert Bloch sapeva scrivere nello stile più onorifico come in quello più spiritoso. Con The Fear Planet, Bloch mescolò abilmente queste due doti, producendo una vicenda agghiacciante in un mondo d'incubo. Il racconto contiene molti degli elementi che Bloch avrebbe in seguito usato con grande effetto in opere come Psycho. Nonostante le seduzioni di Hollywood, Bloch non ha mai abbandonato le riviste di science fiction e di fantasy. Fu uno dei primi autori a vincere il Premio Hugo con un racconto non fantascientifico, That Hellhound Train (Magazine of Fantasy and Science Fiction, settembre 1958), e dimostrò la sua stretta affinità con il fandom scrivendo racconti sugli appassionati di
fantascienza, come A Way of Life (Fantastic Universe, ottobre 1956). In tempi più recenti ha scritto storie quali The Old Switcheroo (If, aprile 1972) e Double Whammy (Fantastic, febbraio 1970). Bloch continua a godere di una popolarità crescente e dozzine dei suoi racconti degli anni precedenti sono stati ristampati in antologie e raccolte, in questi ultimi anni, suscitando l'interesse di una nuova generazione di lettori. Spero che nessuno legga ciò che scrivo. Perché, se qualcuno lo leggesse, vorrebbe dire che qualcun altro è arrivato sin qui. E se arriva sin qui, verrà preso in trappola, come è accaduto a noi. Per stare sul sicuro, non citerò le date, non dirò il nome della nostra spedizione. Nessun indizio. Solo un avvertimento. Siamo atterrati ieri, su questo maledetto asteroide. Eravamo in quattro: il comandante Jason Sturm; il piccolo Benson, ingegnere e ufficiale di rotta; Hecker, il nostro biologo. Ed io... marconista, assistente ufficiale di rotta, tuttofare. Lasciamo perdere il viaggio. Era stato schifoso. Stretti come sardine in un'astronave, a sfrecciare nello spazio. Saremmo stati disposti ad atterrare anche su una cometa, per sentire qualcosa di solido sotto i piedi. Le carte del comandante Sturm erano ricche d'immaginazione, ma solo di quella. Non ho mai saputo perché avesse scelto in particolare quella destinazione. Un piccolo asteroide dimenticato da Dio, mi sembrava... ed è saltato fuori che era davvero così. Ma quando siamo scesi, eravamo euforici. I dati di Benson sulla pressione atmosferica, la densità e l'analisi delle componenti indicavano che avremmo potuto uscire liberamente, senza bisogno di indossare le tute isolanti. Aria umida, ossigeno quasi in eccesso. Temperatura superiore ai quaranta gradi. Quando siamo atterrati, Benson ha guardato attraverso il periscopio. «Dio!» ha borbottato. «Che posto!» Ho sbirciato la superficie di quella terra in miniatura. Ai miei tempi ho bevuto la mia parte, e ho visto elefanti rosa. Ma era la prima volta che vedevo incubi verdi. Ecco cos'era questo posto... un incubo verde. Solo foresta, a perdita d'occhio... una foresta tropicale verde, lussureggiante. Piante palustri salivano da una fanghiglia che non era marrone, era verde. E in quel labirinto di tentacoli vegetali si attorceva la nebbia. La nebbia livida, formata da un vapore verdognolo.
Il nostro bacino del Rio delle Amazzoni era uno scherzo, in confronto a quella maledizione putrida. Un vero inferno verde. Ma noi eravamo rimasti per settimane chiusi nell'astronave. Come ho detto, qualunque cosa ci andava bene. E se l'aria era respirabile... «Andiamo,» ha detto il comandante Sturm. Era un vecchio lupo dello spazio, alto, burbero, ma era un grosso nome negli annali dell'esplorazione cosmica. Aveva già tirato fuori e srotolato la bandiera: un gesto tipico di Sturm. Hecker, il biologo, mi ha aiutato a trascinare la lapide con il disco ufficiale della spedizione. Abbiamo calato la scaletta e siamo scesi in mezzo al limo. Sturm apriva il corteo. È sceso nella nebbia turbinante e si è avviato. Dopo tre passi, quasi non lo vedevamo più, tanto era denso il vapore. Ma lui ha piantato l'asta della bandiera nel fango e ha tenuto un discorsetto. «Prendo possesso di questo corpo celeste in nome di...» Io non l'ascoltavo, cercavo di rimorchiarmi dietro la lapide. Hecker, al mio fianco, grugniva. Quel maledetto coso era pesante, e ad ogni passo sprofondavamo di più nella fanghiglia viscida. Abbiamo cominciato ad ansimare. Respirare quel vapore umido e caldo non era un gran sollievo. «Accidenti alle liane!» Per poco Hecker non era caduto: si era impigliato con i piedi nelle spire da piovra di una pianta cadente. «Aspettate un momento!» Sturm aveva concluso le formalità verbali. Si è fermato accanto a me e ha alzato la mano. «Meglio prendere qualche coltello,» ha suggerito. «Porteremo la lapide su un'altura e toglieremo le liane tutto intorno. Così si vedrà meglio.» «Non credo che servirà a molto,» ha commentato Hecker, chinandosi ad esaminare un tralcio vagabondo. «Probabilmente questa roba ricrescerà in quarantotto ore.» «Che cos'è?» «Ancora non lo so. Certamente non è terrestre. È piuttosto simile alla vegetazione di Venere. Notate la conformazione valvolare.» Avremmo dovuto portarci dietro un paio di aborigeni armati di machete. Siamo stati costretti virtualmente ad aprirci la strada in mezzo alla foresta. All'inizio non era seccante. L'euforia dell'atterraggio ci teneva ancora su di morale. Hecker si asciugava il vapore dagli occhiali e sogghignava. Benson apriva un varco, davanti a sé. Sturm marciava, bonario come al solito. «Ecco un posto adatto,» ha suggerito, indicando un piccolo dosso verde. Hecker ed io abbiamo deposto la lapide, con respiri di sollievo. Non mi piaceva molto respirare. Inalavo troppa aria... fetida e marcia.
Marcia e fetida, come la vegetazione. La vegetazione... «Ehi!» Hecker ha alzato la voce, agitato. «Cosa succede?» Gli ho lanciato un'occhiata. Si guardava alle spalle con aria d'apprensione. «Mi è sembrato di aver visto qualcosa muoversi. Un arbusto, là da quella parte.» Ho seguito la sua occhiata. Non c'era altro che una massa di piante livide, lievemente ondeggianti. «Ti sbagli. Asciugati il vapore sugli occhiali.» Con un sogghigno, Hecker ha seguito il mio consiglio. Abbiamo portato su la lapide, pronti a scavare intorno alla base per fissarla meglio. Sturm e Benson si sono chinati per aiutarci. Per questo hanno visto solo troppo tardi quello che stava per accadere. «Attento!» Mi sono raddrizzato di scatto, e ho visto un orrore. Era verde. È tutto quel che ho visto, in un primo momento... i contorni verdi della figura che veniva avanti veloce. La grande figura verde, con le braccia ondeggianti. Ho guardato meglio e mi sono reso conto della verità. «È una pianta!» ho gridato. «Ed è viva!» Ondeggiando verso di me, ondeggiando sui tentacoli che somigliavano a tumide caricature di gambe umane, veniva avanti la mostruosità torreggiante. Due tronchi sostenevano il corpo gonfio e polposo come quello d'un idolo osceno. Sopra c'erano le braccia ondeggianti della pianta, ai lati di un'escrescenza corrispondente ad una testa. La testa era il peggio. Rotonda, tozza, grossa come un cocomero, oscillava sul collo del mostro - se pure era un collo - come un fiore dondolante. Ma non c'era nulla del fiore, in quella faccia oscena e grinzosa, nella parte anteriore della testa. La cosa aveva una faccia... una faccia con occhi e bocca. Lo so che aveva una bocca. Perché veniva avanti troppo in fretta perché potessi far altro che restare a guardarla, tremando, cercando di schivare le braccia brancolanti. Mi sono buttato da una parte, ma era troppo tardi. I tentacoli mi hanno avviluppato. Sturm stava gridando ordini. Benson brandiva il coltello. Non vedevo Hecker. Ma non prestavo attenzione a loro. Tutto il mio essere, fisicamente e mentalmente, era nella stretta del silenzioso, viscido orrore verde dalle braccia serpentine che mi serrava la gola in un abbraccio elastico. Ho lottato, graffiando, ma ero stretto contro il corpo polposo del mostro.
I tentacoli mi tenevano inchiodata la testa all'indietro. Guardavo le orride grinze verdastre che parodiavano una faccia, in cima allo stelo che serviva da collo. Fissavo gli occhi smeraldini... occhi dalle pupille livide che sembravano nuotare nella clorofilla. Ho sferrato un pugno contro quella spaventosa caricatura di un viso umano. Il mostro ha stretto più forte. Ho visto Sturm al mio fianco. Anche lui brandiva un coltello: ha avventato un colpo, rabbiosamente, verso il corpo dell'essere vegetale. «Attento!» ha gridato, ancora. All'improvviso l'essere mi ha sollevato tra le braccia. Scalciavo in aria, mentre mi teneva sospeso. La testa si è fatta più vicina, l'orrida imitazione di una faccia umana si girava sul collo a stelo, come se cercasse di piantarmi i denti nella carne. Ho guardato il foro della bocca... Dibattendomi freneticamente, mi sono svincolato. Ma troppo tardi. Mentre cadevo, i tentacoli mi hanno afferrato le caviglie. Sono rimasto penzoloni a testa in giù, mentre il gigantesco vegetale si chinava. Ho sentito le labbra di gomma del mostro premere contro la mia gamba. Ho avvertito un fitta di dolore lancinante nei polpacci. Poi, stordito e debolissimo, sono caduto. L'ultima cosa che ricordavo era un vortice caleidoscopico di orrore. La nausea provocata da quella faccia, il dolore del morso, i visi stravolti di Sturm, Benson e Hecker, che piantavano i coltelli nel torreggiante corpo verde... e poi la morbida freschezza del suolo muscoso su cui ero caduto. Quando mi sono svegliato, stavo nella mia cuccetta. Sturm era chino su di me, con aria grave. Mi sono rizzato a sedere. «Cosa stai facendo alla mia gamba?» gli ho chiesto. Aveva strappato via il calzone destro, e scoperto la gamba fino al ginocchio. Adesso stava lacerando la stoffa della gamba sinistra. «Quel coso deve averti punto,» mi ha detto. Ha indicato con le dita le due incisioni nella carne dei due polpacci. Punture minute e profonde nella parte carnosa, circondate da piccoli aloni violacei. Ho notato un leggero gonfiore infiammato sulla punta delle ferite. «Meglio inciderle,» ha borbottato Sturm. «Quel maledetto coso poteva avere un pungiglione velenoso.» Ho scrollato il capo. «Mettici su un po' d'antisettico e vediamo cosa succede,» ho proposto. «Adesso non fanno male... e non mi andrebbe di fare il viaggio di ritorno a letto, se non è assolutamente necessario.»
Sturm ha scrollato le spalle. «Cos'è successo, dopo che ho perso i sensi?» ho chiesto. «Quel demonio se n'è andato,» ha ammesso lui. «Ti ha punto, ti ha lasciato cadere, ed è scappato via. Gli avevamo piantato addosso i coltelli. Benson ha cercato d'inseguirlo. La pianta ha avventato uno di quei tentacoli verdi e lo ha steso. Poi è sparita nella giungla.» Ha applicato l'antisettico, e si è scostato. Mi sono rigirato e ho cercato di mettermi in piedi. Non ci sono riuscito. Un'ondata di debolezza mi ha trascinato in una nube di vertigine. Mi sono lasciato cadere sulla cuccetta. «Cosa ti succede, ragazzo?» ha chiesto Sturm. Mi fissava con aria ansiosa. «Non... non so,» ho mormorato. «Mi sento debole. Mi sembra di avere le gambe intorpidite.» «Cosa? Non ti sento.» Possibile? Mi sembrava di parlare con voce normale, eppure lui non mi sentiva. Dovevo essere più debole di quel che credevo. «È meglio che ti sdrai e mi lasci incidere,» ha proposto Sturm. «No.» Ho sorriso, forzatamente. «Me ne starò disteso e dormirò un po'. Dovrebbe rimettermi in sesto.» «Lo pensi proprio? Noi andiamo fuori a dare un'occhiata in giro. Vogliamo vedere se ci imbatteremo in qualche altra di quelle cose. E stavolta andiamo armati.» «Andate pure,» ho detto io. «Buona fortuna.» Sturm è uscito. Mi sono girato con la faccia verso la parete. Mi sentivo accaldato, febbricitante. Le gambe erano intorpidite, e il formicolio pareva salire verso i fianchi. Era una sensazione calda, piacevole. Con uno sforzo, mi sono messo a sedere, ho appoggiato la testa sulla mano, ho guardato le mie gambe. Il gonfiore non era aumentato. Era un sollievo. Mi sono lasciato ricadere sul cuscino e sono rimasto lì. Il torpore era naturale, dopotutto. Ero molto stanco. Molto stanco. Avrei dormito. Mi sono assopito. Per quanto tempo ho dormito, non lo so. Ma quando ho riaperto gli occhi, ero un uomo diverso. Il torpore era sparito. Mi sono seduto, ho dato un'altra occhiata, le mie gambe non erano cambiate. Niente infiammazione. Niente dolori. Sono saltato giù dalla cuccetta, mi sono alzato in piedi. Tutto bene. Ho frugato un po' in giro, ho trovato una vecchia camicia bianca, l'ho
fatta a pezzi e mi sono fasciato in fretta le gambe. Poi sono uscito. Il cambiamento era straordinario. La depressione era passata. Ora potevo guardare lo strano paesaggio con occhi nuovi. Anche se là, lontano, c'erano in agguato chissà quali terrori, c'era una certa orrida bellezza, in quel posto dimenticato da Dio su un asteroide solitario. Mentre mi guardavo intorno, il crepuscolo verde ha avvolto ogni cosa. Gli alberi erano ombreggiati dall'appressarsi dell'oscurità, ed il vapore assumeva nuove forme fantastiche, popolando gli abissi della foresta di nebbiose presenze spettrali. Presenze spettrali! Ho pensato al mostro uscito dalla giungla. Cos'era... quel vegetale ambulante? Quale mutazione, quale aberrazione biologica aveva prodotto lo strano essere vivente che mi aveva aggredito? Ho guardato il crepuscolo, riflettendo. Era già buio, quando loro sono tornati. Non la solita oscurità bluastra della Terra: era verde. Un verde cupo, pesante. «Come stai?» ha chiesto Sturm. «Benone.» Ho indicato la fasciatura che mi ero avvolto intorno alle gambe. «Queste sono utili.» «Forse un altro po' d'unguento ti farebbe meglio,» ha suggerito Hecker. «Non disturbarti, va bene così.» Stavo bene, infatti. Mi sentivo molto meglio, dopo quel sonno plumbeo; Pieno d'energia nuova. «Cosa stai fissando?» mi ha chiesto Sturm. «Guarda,» ho mormorato, indicando alle sue spalle. Gli altri si sono voltati a guardare le lune nascenti. Due. Lune per un asteroide. Lune verdi. Lune d'incubo per un mondo d'incubo. Si levavano oltre l'orizzonte, lontana l'una dall'altra, come due occhi verdi nella vasta faccia dello spazio. Occhi verdi che guardavano soddisfatti quel mondo aggrovigliato dalla vita pazzesca. «Dove siete stati?» ho chiesto. «Non siamo andati molto lontano,» mi ha risposto Sturm. «Questa maledetta giungla è troppo fitta per muoverci nel buio. E poi, quelle cose...» «Dimenticale,» ho detto io, in fretta. «Non posso dimenticarle,» mi ha interrotto Hecker, pulendo gli occhiali con un fazzoletto. «C'è qualcosa di anomalo, qui. Vegetali animati con caratteristiche animali. Quasi antropomorfi.»
«Quasi che?» «Antropomorfi. Di forma umana.» «Sei matto.» «Non sono matto. È pazza la natura, sì. Voglio indagare. È qualcosa di nuovo. Mai, negli annali delle scoperte biologiche o chimiche interspaziali, ho sentito parlare di queste forme di vita. La chimica è assurda! La clorofilla non reagisce... è come il plasma sanguigno!» «Perché non prepari l'equipaggiamento portatile del laboratorio e non fai qualche controllo?» ha chiesto Sturm. «Tanto vale che annoti qualcosa nei tuoi appunti. Ce ne andremo domattina... quando verrà il mattino, qui.» «È giusto,» ha aggiunto Benson. «Chissà quanto dura la notte, da queste parti?» «Vedremo. Ma spero che sia breve. Francamente, questo posto mi dà i brividi.» Era un'ammissione sensazionale, da parte di un uomo come il comandante Sturm. Ma la pensavamo tutti come lui. Comunque, Hecker si è dato da fare. È tornato a bordo e ha cominciato a pasticciare. Lo sentivo canticchiare sottovoce. Era uno strano suono, nel vuoto verde e morto tutto intorno a noi. «E adesso?» ha chiesto Benson. «Mangiamo qualcosa,» ha proposto Sturm. Hanno mangiato. «E tu?» mi ha chiesto Sturm. «Non ho fame, ho risposto. Era la verità. Non avevo voglia di mangiare. «Sei ancora sconvolto. Perché non torni a sdraiarti?» Mi sono messo a ridere. «Mi sento troppo pieno d'energia. Diamo un'altra occhiata intorno, quando avete finito di mangiare.» «Vai tu, Benson,» ha detto Sturm. «Io farò una dormita, qui, mentre Hecker lavora.» Così io e Benson ci siamo avviati. Le nostre torce elettriche tagliavano scie di luce bianca nella giungla verde. Anche i coltelli si aprivano un varco. Avanzavamo lentamente, a fatica, scavando nella tana dell'incubo. Se almeno vi fosse stato qualche suono, qualche segno di vita! Ma c'era solo il silenzio, il silenzio interminabile, denso come la vegetazione della foresta. Eppure tendevamo le orecchie, per captare un suono. Un fruscio. Il suono che potevano produrre quelle piante che si avvolgevano in spire e colpivano e pungevano. Erano da qualche parte, in agguato, e aspettavano. Erano acquattate chissà dove, in quel labirinto verde.
Benson ed io abbiamo continuato ad avanzare faticosamente. Fino a che... «Là!» Benson mi ha stretto la spalla. Allora l'ho vista. Fra i tronchi torreggianti e bizzarri di un gruppo di mostri vegetali, la livida luce dei satelliti scendeva su quella incredibile visione. «Una nave!» ho gridato. Lo era davvero. Un'astronave, con il tozzo muso sepolto nella fanghiglia, da cui s'innalzavano le braccia soffocanti delle liane che la stringevano e la trascinavano più giù, nel limo. Era una nave... ma che nave! Non ne ho mai vista una, se non nei musei, a casa. Aveva almeno settanta od ottant'anni... un modello antiquato, con propulsione a reazione. Era incomprensibile come avesse fatto un simile rottame ad atterrare lì con le sue sole forze. Ci siamo avvicinati. Benson ha aperto la bocca per gridare un saluto, poi vi ha rinunciato. Ha sorriso, impacciato. Naturalmente, non c'era bisogno di salutare. La nave era ovviamente deserta. Abbiamo trovato il cavo guida che portava su alla cabina. Il portello era spalancato, e penzolava sui cardini. Un modello molto vecchio, davvero, quel tipo di nave che chiudevano con un saldatore, prima della partenza, e che riaprivano all'atterraggio. Siamo entrati. «Cerchiamo i documenti,» ha suggerito Benson. Li abbiamo cercati. La cassaforte era aperta. Ho frugato nell'interno. «Eccoli,» ho detto. Ma avevo parlato troppo presto. Le mie mani non hanno trovato altro che ceneri. «I documenti... li hanno bruciati,» ho mormorato. «Chissà perché?» ha chiesto Benson. «Andiamocene, è meglio,» gli ho detto io. «Possiamo tornare domani con Sturm, a indagare.» Ho cercato di spingerlo fuori dalla cabina. Ma lui ha visto. «Là,» ha mormorato. «Sul pavimento.» L'aveva visto, veramente. Le chiazze rossicce... e i brandelli laceri di stoffa... e i pezzi di tralci putrefatti. Bastavano a rivelare la storia. «Quegli esseri vegetali,» ha bisbigliato Benson. «Debbono essere entrati
qui. Ma dove sono i cadaveri?» «Lascia stare,» ho risposto io. «Andiamocene.» Ce ne siamo andati, ma la faccenda non era stata dimenticata. Il pensiero ci ossessionava: ci ossessionava la terribile foresta che stavamo attraversando. Ghignava dalla nebbia verdognola. Ghignava come la faccia polposa del mostro... «L'ho visto!» Benson mi ha tirato per il braccio. Rabbrividendo, ho mosso qualche passo indietro. Ha indicato la radura, davanti a lui. Sicuro, ho riconosciuto la sagoma anche troppo nota di un essere vegetale. Camminava torpido fra la nebbia, con il lungo collo verde inclinato da una parte. Ci siamo rannicchiati, mentre passava oltre. «Guardagli la schiena,» mi ha detto Benson. Ho spalancato gli occhi. Ero ammattito... o vedevo davvero i resti laceri di un indumento che pendevano dal corpo del mostro? Non era possibile. Gli esseri avevano ucciso gli uomini a bordo dell'astronave da noi scoperta, prendendone poi gli abiti, come avrebbero fatto le scimmie o gli aborigeni. Un altro mistero. Una nave sconosciuta. I documenti bruciati. E piante che indossavano vestiti. Perchè? Abbiamo seguito con lo sguardo l'apparizione che si allontanava nella nebbia. Poi siamo tornati al campo, quasi correndo. Io non potevo muovermi troppo in fretta. Me l'impedivano le gambe gonfie. Anche le mie mani erano stranamente intorpidite. Quel maledetto orrore vegetale che mi assaliva... Ma ho dimenticato tutto quando siamo arrivati all'accampamento. Sturm aveva acceso un fuoco, ed i suoi occhi riflettevano i bagliori, quando ci siamo avvicinati. «Grazie a Dio,» ha borbottato. «Siete salvi.» «Dov'è Hecker?» ho chiesto io. Sturm non ha risposto. Mi ha stretto la spalla, mi ha spinto verso la nave. Benson ci ha seguiti. Quasi quasi mi aspettavo ciò che ho visto... una scena identica a quella nell'astronave in rovina, che avevamo trovato nella foresta. Il laboratorio portatile non c'era più. Frammenti di vetro e pezzi di metallo contorto sparsi in un groviglio sul pavimento. E sul vetro e sull'acciaio scintillavano gocce lugubremente rosse di un liquido denso... «Mi ero appisolato,» ha mormorato Sturm. «Appena appisolato. Mi è parso di vedere un'ombra passare davanti al fuoco. Si muoveva svelta, co-
me se la vedessi in sogno. Ma non era un sogno, quando ho sentito Hecker urlare.» «Dov'è Hecker?» ho ripetuto. Sturm ha indicato il silenzio il disordine sul pavimento. Io non capivo. Poi il suo dito ha descritto una linea, verso l'esterno. Una linea non del tutto immaginaria, segnata dalle vivide gocce rosse. «Quei mostri sono svelti,» ha borbottato. «L'ha trascinato via fra gli alberi, nella foresta, in mezzo alla nebbia. Non potevo lasciare il campo e inseguirlo. E poi... da come ha urlato Hecker... ho capito che sarebbe stato inutile. Inutile. Hecker è andato.» Mi sono girato. Ma Benson, al mio fianco, rabbrividiva senza vergogna. «Provvediamo al carburante e andiamocene,» ha detto. «dobbiamo andarcene.» Se quella proposta usurpava la sua autorità, il comandante Sturm, comunque, non si è offeso. La sua scrollata di spalle, anzi, era un'espressione di sollievo. «Quanto tempo occorrerà per portare l'energia al massimo?» ha chiesto. «Sette od otto ore, velocità piena. «Questo significa che siamo bloccati per tutta la notte.» «Potremo fare la guardia a turno.» Ho aperto la bocca. «Non ce n'è bisogno. Benson, tu lavorerai dentro. Sturm, tu puoi dormire. Io farò la guardia qui, vicino al fuoco. Non sono stanco.» Sturm mi ha rivolto un sorriso di gratitudine, poi ha aggrottato la fronte. «No,» ha detto. «Sei ancora scosso; hai le gambe gonfie. Oggi l'hai scampata per miracolo. Non fare l'eroe. Tu dormirai, ed io monterò di guardia.» «Ma...» «È un ordine.» Sturm mi ha battuto la mano sulla spalla. «Lasciamo che Benson faccia il suo lavoro. Sdraiati nell'altra cabina. Io starò vicino al fuoco.» C'è stato un momento di silenzio. Tutti e tre ci siamo girati, come spinti da un impulso collettivo, e abbiamo guardato la nebbia verde. Abbiamo fissato i lividi occhi delle lune, abbiamo scrutato la tenebra e ci siamo chiesti che cosa si aggirava là, in agguato. Poi Sturm è uscito. Benson, dopo aver lanciato uno sguardo tremante al pavimento, si è girato verso i quadri dei comandi. Io sono andato nell'altra cabina e mi sono sdraiato sulla cuccetta.
Prima di spegnere la luce ho preso altre bende. Non avevo detto a Sturm che la sua diagnosi era esatta. Ero scosso. Molto scosso. Mi sono fasciato come una mummia. Vaghe apprensioni mi turbinavano nel cervello. Le ho respinte, le ho avvolte in bende mentali, strette come quelle in cui avevo avvolto le mie membra. Non osavo pensare. Ho dormito. E poi ho sognato. Ho sognato la foresta piena di nebbia, e la nave che avevamo trovato. Ho sognato i mostri vegetali e ciò che era accaduto al povero Hecker. Nel sogno, Sturm e Benson ed io recitavamo ruoli curiosi. Ruoli che in un certo senso erano del tutto naturali... adesso. Mi sembrava di comprendere, per la prima volta, che era tutto normale. Ho rivissuto la nostra scoperta: ma questa volta non c'erano sensazioni di stranezza. Era naturale. Anche l'urlo era naturale. L'urlo che ha spezzato il mio sonno, mi ha fatto balzare in piedi. Mi ha spinto a precipitarmi nell'altra cabina. Quando ci sono arrivato, l'urlo si era smorzato in un gemito orribile. Poi un altro gemito, e silenzio. Un silenzio verde, profondo. Ho spalancato la porta, poi ho indietreggiato. Il quadro era chiaramente visibile... troppo chiaramente, perché nessuno può vedere con nitidezza un incubo. Benson, afflosciato sul quadro dei comandi, era morto. Morto quanto può esserlo un individuo parzialmente decapitato. Sturm, al suo fianco, era ancora vivo. L'ascia gli pendeva pesantemente dalla mano. Ma io li ho appena guardati. I miei occhi erano inchiodati sulla figura distesa ai piedi di Benson, con i tentacoli che fremevano ancora, stretti intorno alla gola dell'ingegnere. La figura verde, la figura della foresta, l'immagine della follia vegetale che aveva dilaniato il collo di Benson con le avide zanne. La figura vegetale... che portava indumenti umani. Ho fissato quell'orrore grottesco, quella caricatura demente di ciò che era stato, un tempo, un uomo. Una sorta di spaventapasseri, metà umana e metà pianta... con una traccia di lineamenti contorti sulla faccia polposa. Sturm aveva colpito il corpo con l'ascia, e adesso la creatura era morta. Morta, e dalle cellule e dalle vene riversava il suo spaventoso icore rossastro e verdognolo. L'ho fissata, sbattendo le palpebre nel vedere gli indumenti umani che scoppiavano alle cuciture, i tentacoli che si aprivano a forza un varco. Indumenti umani... Gli indumenti di Hecker!
Sturm mi ha guardato, ha gettato l'ascia sul pavimento. L'ho raccattata, ho guardato la lama macchiata, poi l'ho gettata fuori del portello della cabina. «Non capisci?» ha mormorato Sturm. «È Hecker. È stato morso, portato via dai mostri vegetali. E adesso... anche lui è uno di loro!» Sturm si è seduto su una cuccetta, con la testa fra le mani. Io guardavo le vene che gli pulsavano convulsamente nel collo. «Capisci cosa significa?» ha mormorato. «Hecker si è trasformato in uno di loro e ha morso Benson. Adesso Benson risorgerà. Come... come la vecchia leggenda terrestre dei vampiri. «Qualcosa entra nel sangue, e cambia tutta la struttura fisiologica. Un virus, ma qualcosa di più di un virus. Qualcosa che trasforma rapidamente, con sorprendente rapidità. E tiene lontana la morte, anche. Trasforma un essere animale in un essere vegetale carnivoro.» All'improvviso, Sturm si è raddrizzato a sedere, con un sorriso confuso. «Ma è incredibile,» è sbottato. «No. Ho parlato come un bambino spaventato. Non può essere così, non è vero?» Mi sono diretto verso di lui, muovendomi lentamente, ostacolato dalle bende. «Forse sì, Sturm. Credo di sì.» Mi ha rivolto un sogghigno, ma io ho continuato ad avvicinarmi. «Vedi, io lo so,» ho mormorato. «Lo sai? Come?» «Perché ti ho mentito, oggi. Non sono stato punto da quella cosa, quando mi ha attaccato... sono stato morso. E dopo non mi sono addormentato, quando mi hai lasciato sdraiato sulla cuccetta. «Sono morto, invece. E sono tornato vivo.» Sturm è balzato in piedi, ma era troppo tardi. L'ho spinto indietro, contro la cuccetta. Era un uomo robusto, ma anch'io ero forte. Molto forte. Le mie bende si sono sciolte. Ho alzato le mani verso la sua gola. Lui le ha viste. Per la prima volta ha notato quanto erano cambiate. Erano verdi... E poi ha visto quello che usciva dalla mia giacca, che sbocciava dal mio petto e dai miei fianchi. Ha visto la mia faccia. La mia forza fioriva, sì, fioriva! Questo è accaduto diverse ore fa, naturalmente. Sto ancora trasformandomi, mentre scrivo. Sturm non si è ancora svegliato. Ma si sveglierà. E
anche Benson. Allora saremo di nuovo insieme. Andremo fuori, tutti e tre, e cercheremo Hecker nella foresta. E gli altri... gli altri che sono giunti prima di noi. Vivremo là, cresceremo là, per sempre. Ed un giorno arriverà un'altra nave. Un'altra nave, con altri uomini. Guardati intorno, tu che mi leggi. Guardati intorno. Se vedi una forma muoversi dietro di te... la storia è finita! Titolo originale: The Fear Planet (Super Science Stories, febbraio 1943). 1944
John Russell Fearn Vagabondo del tempo Fearn è il quarto autore inglese presente in questo volume. Nacque a Worsley, Manchester, venerdì 5 giugno 1908, ma trascorse quasi tutta la vita a Blackpool; da giovane prese a interessarsi del cinema, una passione che conservò per tutta la vita, e questo portò ai suoi primi pezzi, pubblicati da Film Weekly. Nel 1931 scoprì Amazing Stories: e con la certezza che la rivista esisteva per permettergli di sfogare la sua fertile fantasia, inviò The Intelligence Gigantic, che venne pubblicato a puntate a partire dal giugno 1933. Ma Fearn trovò il suo vero ritmo con Astounding Stories di Tremaine e con il fascino delle «thought variants»: iniziò con The Man Who Stopped the Dust (marzo 1934), cui fece seguire una quantità di racconti originali e brillantemente concepiti, come Brain of Light (maggio 1934), He Never Slept (giugno 1934) e Before Earth Came (luglio 1934). Quando la rivista pioniera della fantascienza britannica, Scoops, uscì nello stesso 1934, Fearn fu tra i collaboratori, e naturalmente, quando Walter Gillings lanciò Tales of Wonder, Fearn rispose all'appello. In seguito, abbandonò lo stile della «thought variant» a favore delle vicende d'azione. Questo indispettì molti lettori, ed il suo nome, oggi, figura nel gruppo degli innumerevoli autori di second'ordine che proliferarono
nelle riviste durante gli Anni Quaranta. Con il tempo, questa opinione è divenuta troppo esagerata. Basta leggere le rubriche della posta delle riviste che pubblicavano le opere di Fearn per constatare che moltissimi le ammiravano e le apprezzavano. Poiché molto materiale apparve sotto gli pseudonimi di Thornton Ayre e di Polton Cross, non sempre i lettori sapevano a chi rivolgevano in realtà i loro elogi. Verso la fine degli Anni Quaranta, Fearn abbandonò virtualmente il mercato americano, con la successiva eccezione di una serie imperniata sulla Golden Amazon, che scrisse per la canadese Star Weekly. Si dedicò invece al mercato britannico, in particolare al fiorente settore dei tascabili, e nacque così il periodo di Vargo Statten, di cui si parlerà più a lungo nel prossimo volume. Fearn continuò a scrivere fino quasi al giorno della morte, causata da un attacco cardiaco nel settembre 1960: da allora, è praticamente caduto nell'oblio. Sono lieto di avere l'occasione di rievocare il suo nome con questo racconto, che era tra i preferiti dello stesso Fearn. Una volta il professor Hardwick tenne una dotta lezione a un gruppo di zelanti studenti. «Il tempo in realtà non esiste,» aveva detto il professor Hardwick. «É semplicemente il termine con cui la scienza indica una condizione dello spazio che non comprende pienamente. Sappiamo che c'è stato un Passato, e possiamo provarlo; sappiamo anche che c'è un Futuro, ma non possiamo dimostrarlo. Qui subentra l'esigenza del termine " tempo ", in modo che una difficoltà insormontabile possa venire risoluta secondo la comune comprensione.» Questo estratto della lezione (senza dubbio un'osservazione pedantesca) aveva indotto Blake Carson, che a tempo perso si dilettava di fisica, a pensarci sopra. E ad andare più avanti. Aveva udito Hardwick formulare quell'affermazione, cinque anni prima. Ora Hardwick era morto, ma tutte le osservazioni che aveva effettuato, tutti i trattati che aveva scritto, erano stati assorbiti meticolosamente dal giovane fisico. Tra i venticinque e i trent'anni aveva divorato anche le opere più profonde di Einstein, Eddington e Jeans. «Il tempo,» osservava Blake Carson, rivolgendosi al suo piccolo laboratorio, dopo quei cinque anni, «decisamente non esiste! È un concetto generato dai limiti di un corpo fisico. E un corpo fisico, secondo Eddington e Jeans, è solo la manifestazione esteriore del pensiero. Cambia il pensiero e
cambierai il corpo, nella stessa misura. Tu credi di conoscere il passato. Allora adatta la mente alla situazione, e non c'è ragione per cui tu non debba conoscere il futuro.» Due anni più tardi, aggiunse un emendamento. «Il tempo è un cerchio, in cui il pensiero e le sue creazioni procedono in un ciclo interminabile, ripetendo senza fine il processo. Perciò, se in un remoto passato abbiamo fatto le stesse cose che facciamo ora, è logico presumere che sia rimasto un residuo di memoria... un residuo del passato che, dal punto di vista del presente, sarà nel futuro, perché è molto indietro nel cerchio temporale. «Il mezzo del pensiero è il cervello. Perciò, ogni residuo deve essere nel cervello. Trovalo, e avrai la chiave del tempo futuro. Tutto ciò che farai, in realtà, sarà svegliare un ricordo del remoto passato.» Da questa concezione nacque, nel laboratorio di Blake Carson, una complicata massa di apparecchi, realizzata con laboriosi risparmi e messa su nel tempo libero. Egli costruiva e ricostruiva, provava e sperimentava; e alla fine ottenne la collaborazione di altri due giovani che avevano idee simili alle sue. Non comprendevano pienamente la sua teoria, ma erano impressionati dal suo entusiasmo. Finalmente, Carson preparò tutto come voleva: un sabato sera convocò i suoi due amici e indicò l'apparato. Dick Glenbury aveva i capelli scomposti, il volto rubizzo e gli occhi azzurri... era un uomo impulsivo, onesto, fidato. Hart Cranshaw, era esattamente l'opposto... olivastro di carnagione, con i capelli neri in ordine. Era un fisico brillante, un cinico inveterato: solo la sua grande intelligenza gli impediva di essere completamente noioso. «Ragazzi, ci sono,» dichiarò con entusiasmo Blake Carson, con gli occhi grigi che brillavano di gioia. «Conoscete la mia teoria dei residui. Questa,» e indicò l'apparecchio, «è la Sonda.» «Non vorrai dire che hai intenzione di usarla sul tuo cervello per sondarlo, alla ricerca del punto giusto, per caso?» domandò Dick Glenbury. «Infatti è la mia idea.» «E quando ci sarai riuscito?» chiese Cranshaw, che come al solito badava al concreto. «Potrò dirtelo quando saprò qualcosa,» fece Carson, sorridendo. «Per ora, voglio che seguiate le mie istruzioni». Sedette sulla poltrona, sotto il caos di strane lenti, lampade e valvole.
Seguendo le sue direttive, Glenbury cominciò a lavorare al quadro dei comandi. Un proiettore irradiò un raggio viola che avvolse completamente la testa di Blake Carson. Di fronte a lui, in modo che potesse vederlo chiaramente, si accese uno schermo riquadrato e numerato, che presentò un profilo perfetto del cranio, come una radioscopia. Differiva da questa solo perchè le circonvoluzioni del cervello apparivano più vivide delle altre. «Ecco,» fece Carson, all'improvviso. Guarda nella Sezione Nove, Riquadro Cinque. C'è un segno ovale nero... un punto neutro. Come diciamo in gergo, una "macchia cieca". Nessuna registrazione. È un residuo.» Premette un interruttore sul bracciolo della poltrona. «Sto facendo una fotografia,» spiegò. Poi diede l'ordine di spegnere l'apparecchio e si alzò in piedi. Pochi minuti dopo, la custodia ad autosviluppo produsse una copia stampata. Carson la mostrò agli altri, estasiato. «E con questo?» ringhiò Cranshaw, frastornato. «Adesso che hai un punto neutro, o macchia cieca, che dir si voglia, a cosa ti serve? Tutto questo è ben lontano dalla fisica che io ho imparato. Non puoi ancora vedere il futuro.» L'ultimo commento fu formulato con una certa impazienza. «Ma lo vedrò.» La voce di Carson era tesa. «Vedi che la macchia cieca è esattamente dove potevamo aspettarci che fosse? Nell'area del subcosciente. Per ottenere una chiara conoscenza di quello che contiene, c'è un solo metodo da usare.» «Già,» fece cupo Glenbury. «Un chirurgo dovrebbe collegare la porzione neutra con quella attiva del tuo cervello, per mezzo di un nervo. E sarebbe una faccenda piuttosto delicata.» «Non ho bisogno di un chirurgo,» disse Carson. «Perché usare un nervo? Un nervo è solo un mezzo organico per trasportare correnti elettriche molto deboli. Un piccolo apparecchio elettrico può benissimo sostituirlo. In altre parole, un nervo meccanico esterno.» Si voltò, estrasse un oggetto non molto diverso da uno stetoscopio. Alle due estremità c'erano delle ventose, e minuscole pile: tra le ventose un tratto di cavo robusto. «Un cervello irradia sottili scariche elettriche... questo lo sanno tutti,» riprese Carson. «Questo strumento meccanico può ottenere il suo effetto attraverso la scatola cranica. Perciò, la macchia cieca e l'area normale del cervello verrebbero collegati. Almeno credo.» «Bene,» disse Dick Glenbury, lanciando un'occhiata inquieta a Cran-
shaw. «A me sembra un modo nuovo per suicidarsi.» «Come soffocare nei propri rifiuti,» convenne Cranshaw. «Se non foste così terra-terra mi capireste,» sbuffò Blake. «Comunque, io intendo provare.» Attivò di nuovo l'apparecchio per la lettura del cervello, studiò per un momento lo schermo e la fotografia, poi si fissò alla testa un'estremità del nervo artificiale. Mosse indeciso l'altra ventosa, guardando sullo schermo per vedere dove doveva piazzarla. Più volte girò intorno alla zona neutra, e finalmente sistemò la ventosa, con una leggera pressione. Una sensazione di nausea l'investì, come se il suo corpo venisse lentamente rovesciato. Nel laboratorio, i visi tesi di Glenbury e di Cranshaw si annebbiarono misteriosamente e scomparvero. Nel cervello si incresparono immagini, come riflesse da un'acqua inquieta. Una massa indefinita d'impressioni piombò di colpo nella sua coscienza. C'erano persone che si muovevano in fretta, sovrapposte a scogliere tormentate, contro cui si avventuravano onde schiumanti. Dalle scogliere parevano levarsi le torri di una città sconosciuta, remota, incomparabilmente bella, che riflettevano le luci di un sole invisibile. Macchine... persone... nebbie. Una sofferenza tonante, schiacciante... Carson aprì gli occhi all'improvviso, e si trovò disteso sul pavimento del laboratorio. Il brandy gli bruciava la gola. «Che razza di assurdo esperimento,» esplose Dick Glenbury. «Ti sei spento come una candela, dopo pochi minuti.» «Te l'avevo detto che era inutile,» sbuffò Cranshaw. «Le leggi della fisica si oppongono a questo genere di cose. Il tempo è bloccato...» «No, Hart, non lo è.» Carson si mosse sul pavimento e si massaggiò la testa dolorante. «Non lo è affatto,» insistette. Si alzò in piedi e guardò davanti a sé, con aria sognante. «Ho visto il futuro!» mormorò. «Non c'era nulla di chiaro... ma doveva essere il futuro. C'era una città come noi non l'abbiamo mai immaginata. Era tutto incrociato, come in un montaggio. La causa è stata l'inesattezza con cui ho centrato il nervo artificiale. La prossima volta, farò meglio.» «La prossima volta,» gli fece eco Cranshaw. «Hai intenzione di continuare a rischiare? Potresti anche ucciderti, prima di aver finito.» «Può darsi,» ammise Carson con voce tranquilla. Scrollò le spalle. «Spesso i pionieri hanno pagato a caro prezzo le loro scoperte. Ma io ho una chiave. Continuerò, ragazzi, fino a quando la porta si spalancherà.» Nei mesi che seguirono, Blake Carson si lasciò assorbire dai suoi espe-
rimenti. Rinunciò all'impiego, visse dei risparmi che aveva messo da parte e si dedicò interamente alla sua scoperta. All'inizio era felice della precisione e dell'esattezza con cui otteneva i risultati. Poi, con il passare dei giorni, Hart Cranshaw e Dick Glenbury notarono che si era operato in lui uno strano cambiamento: sembrava incupito, timoroso di lasciarsi sfuggire certe affermazioni. «Che c'è, Blake?» insistette una sera Dick Glenbury, quando arrivò per farsi mettere al corrente degli ultimi progressi. «Sei diverso. Hai in mente qualcosa. A me potresti dirlo: sono il tuo miglior amico.» Quando Blake Carson sorrise, Glenbury notò all'improvviso che aveva l'aria stanchissima. «E questo non include Hart, eh?» chiese Carson. «Non è questo che intendevo, esattamente. Ma per dire la verità, lui si è un po' raffreddato. Cos'è che non va?» «Ho scoperto quando morirò,» rispose sobriamente Blake Carson. «E allora? Tutti si muore, prima o poi.» Dick Glenbury s'interruppe, inquieto. Sul volto esausto di Blake Carson era apparsa un'espressione strana. «Sì, si muore tutti, prima o poi. Ma io morirò tra un mese. Il quattordici aprile. E morirò sulla sedia elettrica, per omicidio di primo grado.» Dick Glenbury spalancò gli occhi, sgomento. «Cosa! Tu, un assassino? Ma è assolutamente... ecco, quel nervo artificiale non funziona bene.» «Temo di no, Dick,» rispose Carson. «Ora mi rendo conto che la morte pone fine alla fase particolare dell'esistenza su questo piano. Le visioni del futuro che ho osservato si riferiscono a qualche altro piano, più oltre, il piano cui finiranno per portarmi le morti successive. Con la morte, ogni associazione con le cose di qui si spezza.» «Non credo comunque che commetterai un omicidio,» disse Dick Glenbury. «Tuttavia morirò dopo essere stato riconosciuto colpevole,» continuò Carson, con voce aspra. «E l'uomo che mi metterà in questa situazione e che avrà un alibi perfetto è... Hart Cranshaw.» «Hart? Vuoi dire che commetterà un omicidio e farà ricadere la colpa su di te?» «Senza dubbio. Già sappiamo che adesso è interessato alla mia invenzione: sappiamo anche che si rende conto di avere una zona neutra nel cervello, come tutti gli altri. Hart, che è un tipo calcolatore, a sangue freddo,
capisce il valore di questa invenzione e aspira ad acquisire il potere. Il gioco in borsa, le speculazioni azzardate, la conoscenza anticipata della storia. Potrebbe addirittura diventare il dominatore del mondo. Mi ruberà il segreto e si sbarazzerà dei due soli uomini che conoscono le sue mire.» «I due soli uomini?» ripeté Glenbury. «Vuoi dire che verrò ucciso anch'io?» «Sì.» La voce di Blake Carson aveva un suono lontano. «Ma non è possibile,» gridò rauco Glenbury. «Non mi lascerò... assassinare per favorire le ambizioni di Hart Cranshaw. Neanche per idea. Dimentichi una cosa, Blake... uomo avvisato è mezzo salvato. Possiamo sventare le sue manovre.» Si accalorò di colpo. «Ora che sappiamo, possiamo prendere le misure per bloccarlo.» «No,» interruppe Carson. «Ho avuto molte settimane per pensarci, Dick... settimane che quasi mi hanno fatto impazzire, quando mi sono reso conto della verità. La legge del tempo è inesorabile. Deve accadere! Non hai ancora compreso che quanto ho visto è solo una memoria infinitamente remota di un tempo passato, che ora stiamo rivivendo? Tutto ciò è già accaduto prima. Tu verrai assassinato, sicuramente come sapevo che saresti venuto qui stasera, ed io morirò riconosciuto colpevole di questo delitto.» Il volto di Dick Glenbury era diventato terreo. «E quando accadrà?» «Esattamente alle undici e nove minuti, questa sera... qui.» Carson fece una pausa, strinse con forza le spalle dell'amico. «Per le stelle, Dick, non capisci quanto mi fa soffrire tutto questo, quanto è spaventoso, per me, dovertelo dire. Ho parlato solo perché ti conosco bene.» «Sì... lo so.» Glenbury si lasciò cadere fiaccamente su una sedia. Per qualche istante, la sua mente divagò. Poi si accorse che il suo sguardo era puntato sull'orologio elettrico. Erano esattamente le dieci e quaranta. «Alle undici meno dieci... tra dieci minuti, quindi, Hart entrerà,» proseguì Carson. «Le sue prime parole saranno... "Mi dispiace di essere in ritardo, ragazzi, ma sono stato trattenuto a una riunione straordinaria". Poi ci sarà una discussione, poi l'omicidio. Tutto è chiaro fino al momento della mia morte. Poi, Hart è cancellato dal mio futuro. La visione della vita continua su un piano diverso da questo: vi ho riflettuto profondamente.» Dick Glenbury non parlò, ma Carson proseguì, pensando a voce alta. «Supponiamo,» disse, «che io tentassi un esperimento con il tempo. Poiché possiedo una conoscenza che nessuno ha mai avuto finora... immagina che io riuscissi a sovvertire l'ordine del cerchio. Supponi che io tornassi, dopo essere stato giustiziato, per affrontare Hart e accusarlo del tuo omici-
dio e della mia ingiusta condanna.» «Come?» Glenbury era troppo intontito per capire chiaramente. «Ti ho già spiegato che il corpo obbedisce alla mente. Normalmente, alla mia morte, ricreerò il mio corpo su un piano lontano da questo. Ma supponi che i miei pensieri, al momento della morte, siano concentrati interamente sull'idea di ritornare a questo piano, in una data posteriore di una settimana all'esecuzione. Sarebbe il ventun aprile. Credo che potrei tornare, in questo modo, per fronteggiare Hart.» «Sai di poterlo fare?» «No: mi sembra però logico presumerlo. Poiché il futuro, dopo la morte, è su un altro piano, non posso sapere se il mio progetto si realizzerebbe o no. Come ti ho detto, Hart cessa di appartenere al mio futuro dal momento in cui muoio: a meno che io possa cambiare il corso del Tempo, facendo quindi qualcosa di unico. Credo che...» Carson s'interruppe mentre la porta si apriva all'improvviso ed entrava Hart Cranshaw. Buttò da parte il cappello, con disinvoltura. «Mi dispiace di essere in ritardo, ragazzi, ma sono stato trattenuto a una riunione straordinaria...» S'interruppe. «Cosa succede, Dick? Stai per svenire?» Dick Glenbury non rispose. Fissava l'orologio. Mancavano esattamente dieci minuti alle undici. «Sta benissimo,» disse sottovoce Blake Carson, voltandosi. «Ha avuto solo un trauma, ecco tutto. Ho dato un'occhiata al futuro, Hart, e ho scoperto molte cose non precisamente gradevoli.» «Oh?» Cranshaw assunse un'aria pensierosa, per un momento, poi continuò: «Per la verità, Blake, credo di non essere stato abbastanza cordiale nei tuoi confronti, considerato ciò che hai realizzato. Mi piacerebbe sapere di più di questa invenzione, se sei disposto a parlarmene.» «Sì, per poterla rubare!» gridò all'improvviso Glenbury, balzando in piedi. «Questa è la tua intenzione. Il futuro, questo l'ha già mostrato a Blake. E tu cercherai di uccidermi, per riuscirci. Ma non ce la farai. Per Dio, no! Dunque non si può frodare il Tempo, Blake? La vedremo.» Corse verso la porta, ma non la raggiunse. Hart Cranshaw l'afferrò per il braccio e lo tirò indietro. «Di cosa diavolo stai farneticando?» scattò. «Vuoi dire che ho intenzione di assassinarti?» «Sei venuto qui per questo,» dichiarò con calma Carson. «Il Tempo non mente, e tutte le tue proteste d'innocenza non nascondono le tue vere in-
tenzioni. Prevedi di guadagnare parecchio, con la mia invenzione.» «Sta bene, e se anche fosse?» ribatté Hart Cranshaw, estraendo fulmineamente dalla tasca una pistola automatica. «Che cosa potreste fare?» Blake Carson scrollò le spalle. «Solo quello che mi spinge a fare la legge immutabile.» «Al diavolo!» gridò Dick Glenbury. «Non ho intenzione di starmene qui ad obbedire alle leggi immutabili... quando è in pericolo la mia vita. Hart, lascia cadere quella pistola!» Hart Cranshaw si limitò a sfoggiare un sorriso gelido. Disperato, Glenbury si avventò, inciampò con il piede in un cavo sul pavimento e urtò il fisico. Blake non riuscì a capire, sul momento, se fosse un caso o no, ma certamente la pistola sparò. Hart Cranshaw restò in silenzio un momento, mentre Dick Glenbury scivolava lentamente sul pavimento e vi restava immobile. Gli occhi di Blake Carson si volsero verso l'orologio... le undici e nove! Finalmente Hart Cranshaw parve riprendersi. Strinse più saldamente l'automatica. «Okay, Blake, tu conosci il futuro, quindi saprai anche il resto...» «Sì,» l'interruppe Blake Carson. «Darai la colpa a me. Hai sparato apposta a Dick.» «Non apposta. È stato un incidente. È successo prima di quanto avessi calcolato, ecco tutto. Quando voi due non sarete più sulla mia strada, cosa m'impedirà di diventare padrone del mondo, grazie al tuo apparecchio? Niente!» Hart Cranshaw sorrise torvo. «Avevo preventivato tutto, Blake. Per questa sera, ho un alibi di ferro. Sarà compito tuo provare che sei innocente dell'omicidio di Dick Glenbury.» «Non ci riuscirò: questo lo so già.» Hart Cranshaw lo guardò in modo strano. «Considerato quello che ho fatto... e quello che farò... te la prendi con molta calma.» «Perché no? La conoscenza del futuro rivela ciò che è inevitabile... per entrambi.» Blake Carson pronunciò quelle ultime parole in tono significativo. «Ho già controllato il mio futuro, e so benissimo che mi attendono giorni favorevoli,» ribatté Hart Cranshaw. Rifletté per un momento, poi fece un cenno con la pistola. «Non voglio correre il rischio che tu distrugga il tuo macchinario, Blake. Ti sparerei e poi mi fabbricherei un alibi: ma non voglio complicare troppo le cose. Prendi il telefono e chiama la Polizia. Confessa quello che hai fatto.»
Con calma rassegnata, Blake Carson obbedì. Quando ebbe finito, Hart Cranshaw annuì compiaciuto. «Bene. Prima che la Polizia arrivi, io me ne sarò andato, lasciando qui la pistola di cui dovrai spiegare la presenza. Poiché ho sempre tenuto i guanti, non si troveranno le mie impronte, anche se non ci saranno neppure le tue. Comunque, qui stasera c'eravate solo tu e Dick. Io sono stato visto altrove. Posso provarlo.» Blake Carson sorrise cupamente. «Poi, più tardi, ti atteggerai ad amico comprensivo, ti offrirai di occuparti del mio lavoro durante la mia detenzione, e ti salverai grazie a ottimi avvocati e un alibi di ferro. Molto intelligente, Hart. Ma ricorda, c'è tempo per tutto!» «Per ora,» rispose Hart Cranshaw con quel suo tono sicuro, «il futuro è molto roseo, per quanto mi riguarda...» Inevitabilmente, accadde tutto ciò che Blake Carson aveva previsto. Quando fu nelle mani della Polizia, interrogato implacabilmente, vide svanire tutte le possibilità di salvarsi. Venne riconosciuto colpevole d'omicidio di primo grado, e la corte pronunciò la condanna a morte. Il processo si era svolto a tempo di primato, poiché il delitto era considerato flagrante, ed i giornali attaccavano spietatamente Carson. Con grande orrore del suo avvocato, rifiutò di presentare appello o di ricorrere ai soliti mezzi dilatori. L'atteggiamento di Carson era fatalista, ed era impossibile distoglierlo dalla sua evidente decisione di morire. Nella sua cella, Blake trascorse gran parte del tempo tra la sentenza e l'esecuzione ripensando ai dati che aveva ricavato dai suoi esperimenti. Nella cella della morte era un detenuto modello, tranquillo, assorto, appena un po' cupo. Tutto il suo essere era concentrato su un punto, ardentemente e inflessibilmente: la data del ventun aprile. Dal dominio delle forze elementari in punto di morte dipendeva la sua unica possibilità di cambiare la Legge del Tempo e di mettere Hart Cranshaw di fronte all'impossibile, il ritorno dalla morte. Non si lasciò sfuggire una sola parola delle proprie intenzioni. Perfino l'ultima mattina restò impassibile, ascoltò in un silenzio di pietra le brevi parole consolatrici del cappellano del la prigione, poi percorse il tratto semibuio del corridoio, in mezzo alle guardie, fino alla camera fatale. Sedette sulla sedia della morte con la calma di un uomo che si accinge a presiedere una riunione. Le fibbie delle cinghie tintinnarono un poco, disturbandolo.
Si rendeva conto a malapena di quanto avveniva in quel luogo lugubre, fiocamente illuminato. Se prima la concentrazione mentale sul ventun aprile era stata forte, ora diventava fanatica. Irrigidito, con il sudore che gli scorreva sul volto, preso dai suoi pensieri, attese... Poi sentì la corrente agghiacciante, straziante che gli mordeva le viscere, e si diffondeva, si diffondeva in un'angoscia infinita in cui il mondo e l'universo erano un breve inferno ardente di dissoluzione... Poi tutto fu quiete... una strana quiete. Aveva la sensazione di andare alla deriva in un mare impalpabile... fluttuando, da solo. Adesso la sua concentrazione veniva sostituita da un nascente stupore, dallo sforzo di affrontare la situazione bizzarra in cui si trovava. Era morto... il suo corpo era morto: di questo era convinto. Ma adesso era necessario spezzare le ferree fasce della paralisi. Compì uno sforzo improvviso, e tutto parve mettersi bruscamente a fuoco. Si sentì strappare, dal vuoto della transizione ad un ambiente normale... o almeno terreno. Si mosse lentamente. Era ancora solo, disteso riverso su una piana cupa e fredda di polvere rossastra. Gli diede un senso di stupore passeggero scoprire che indossava ancora la camicia di cotone leggero e i calzoni da detenuto. Il freddo mordente dell'aria gli passò all'improvviso nel midollo delle ossa. Rabbrividì, alzandosi in piedi e guardandosi. «Certo, pensavo ai miei vestiti come al mio corpo, quindi era inevitabile che si ricreassero...» Si guardò intorno, sconcertato. In alto, il cielo era di un azzurro violetto, impolverato da una schiera infinita di stelle. Sulla destra c'era un'austera catena di alture. E dovunque, il suolo rosso. Era passato un lungo tempo... infinitamente lungo. Con un grido soffocato, si voltò e corse ansimando verso le alture, s'inerpicò svelto sul pendio sassoso. Quando arrivò in cima si fermò, sgomento. Un Sole rosso, enorme, era diviso a metà dal lontano orizzonte irregolare... un Sole verso cui sembravano protendersi le stelle. Era vecchio, ormai, indicibilmente vecchio, ed i suoi fuochi incandescenti si erano estinti. «Milioni, miliardi d'anni,» mormorò Blake Carson, lasciandosi cadere seduto su una pietra rovesciata e guardando la squallida, cupa immensità. «In nome del cielo, che cosa ho fatto? Che cosa ho fatto?»
Guardò nel vuoto, e con uno sforzo sovrumano s'impose di riflettere con calma. Aveva puntato su una settimana dopo la sua morte. Invece era finito lì, virtualmente alla fine dell'esistenza della Terra, dove ogni cosa recava l'impronta della vecchiaia. Il Sole quasi non si muoveva, e indicava che la Terra era pressoché bloccata dagli effetti frenanti delle maree. Il suolo era rosso, l'ossido ferroso dell'estrema senilità, la ruggine dei depositi metallici del terreno. L'aria rarefatta aveva fatto diventare azzurro-viola l'atmosfera, e rendeva doloroso il respiro. E c'era qualcosa d'altro, oltre questo, che Blake Carson cominciava appena a comprendere. Non poteva più vedere il futuro. «Ho modificato il corso normale dell'Al di Là,» si disse, meditabondo. «Non mi sono portato sul piano contiguo per riprendere la vita e non mi sono trasferito al ventun aprile, come avrei dovuto. Questo può significare soltanto che all'ultimo momento c'è stato un errore imprevedibile. È possibile che la carica elettrica abbia sovvertito la mia pianificazione e abbia spostato la concentrazione dei miei pensieri, in modo che sono stato scagliato nel futuro... non di una settimana, ma qui. E ho perduto il potere di vedere nel futuro. Se fossi morto in altro modo, non per l'elettricità, l'errore non ci sarebbe stato.» Rabbrividì di nuovo, mentre un vento sottile e gelido ululava tristemente sulla distesa desolata, trafiggendolo. Si alzò, costretto a muoversi dal freddo. Proteggendosi la faccia contro quel breve uragano sferzante, costeggiò le alture, guardò il panorama da un punto più elevato. E da lì vide qualcosa d'altro. Rovina, evidentemente. Cominciò a correre per scaldarsi, ma poi l'aria rarefatta gli sferzò i polmoni, minacciando di farli scoppiare. Rapidamente, continuò a dirigersi verso l'immane Sole quasi immobile, e alla fine si fermò nell'ombra di un immenso palazzo corroso. Era rosso, come tutto il resto. All'interno c'erano i resti ponderosi di macchinari soffocati dalla ruggine, colossi d'energia da tempo in disuso e dimenticati. Li fissò, incapace di comprenderne il significato. Il suo sguardo si spinse oltre... verso le rovine dei possenti edifici di metallo rugginoso sullo sfondo. Un terrazzo sopra l'altro, fino al cielo violetto. Era un monumento arrugginito alla passata grandezza dell'Uomo, con le macchine massicce e inesplicabili che rappresentavano il segreto del suo potere... E l'Uomo? Era andato su altri mondi? Era morto tra la polvere rossa? Blake Carson si scosse rabbiosamente, di fronte all'inevitabile certezza del-
la solitudine assoluta. Solo le stelle, il Sole e il vento... quel vento terribile, che adesso gemeva sommesso tra le rovine, sollevando all'orizzonte una nube gigantesca che oscurava lo scintillio bronzeo delle stelle settentrionali. Poi Blake Carson si voltò. In fondo alle rovine, il suo sguardo scorse un fioco riflesso del Sole cremisi. Brillava come un diamante. Stupito, si girò e corse in quella direzione, si avvide che la distanza era ingannevole, che era lontano oltre tre chilometri. Più si avvicinava, e più il brillio si risolveva in una cupola di vetro massiccio, del diametro di circa due metri, accanto ad altre simili. Erano otto, in tutte, sparse su un piccolo pianoro che era stato quasi completamente sgombrato dai detriti e dalle pietre. Sembrava il fondo di un cratere, cinto da severe pareti di roccia. Sconcertato, Carson si avvicinò alla cupoletta più vicina e sbirciò nell'interno. In quel momento dimenticò il vento malinconico e la sua solitudine disperata... perché laggiù c'era la vita! Un brulicare di vita. Non esseri umani, certo, ma almeno qualcosa che si muoveva. Impiegò qualche istante per abituarsi alla cosa sorprendente che aveva scoperto. Ad una sessantina di metri sotto la cupola, vivamente illuminata, c'era una città in miniatura. Gli ricordava un modellino d'una città del futuro, che una volta aveva veduto in un'esposizione. C'erano terrazze, percorsi pedonali, torri, persino mezzi aerei. Era tutto in una scala infinitamente minuta, e probabilmente si estendeva sottoterra oltre la portata dei suoi occhi. Ma le orde brulicanti erano... formiche. Miriadi di formiche. Non si precipitavano di qua e di lì con l'apparente avventatezza dei suoi tempi, ma si muovevano ordinatamente, con uno scopo. Formiche in un mondo morente? Formiche con una città tutta loro? «Ma certo,» mormorò Carson, ed il suo respiro appannò il vetro. «Ma certo. La legge dell'evoluzione: dall'uomo alla formica, e dalla formica ai batteri. La scienza l'ha sempre pensato. Io non potevo saperlo, perché il futuro che vedevo non era su questo piano...» E Hart Cranshaw? Il progetto di vendetta? Adesso sembrava così remoto. Laggiù c'era compagnia... formiche intelligenti che, qualunque cosa potessero pensare di lui, forse almeno gli avrebbero parlato, l'avrebbero aiutato... All'improvviso, batté i pugni sul vetro, gridò con voce rauca. Non ottenne risultati immediati. Bussò ancora, questa volta frenetica-
mente, e di colpo le orde indaffarate, laggiù, si soffermarono, incerte. Poi cominciarono a disperdersi all'impazzata, come polvere trasportata dal vento. «Aprite!» gridò Carson. «Aprite! Sto morendo assiderato.» Non comprese con certezza ciò che accadde, poi, ma gli sembrò di impazzire. Ebbe la sensazione confusa di correre ad ogni cupola, di battere i pugni contro la liscia superficie implacabile. Il vento, il vento incessante gli aveva agghiacciato il sangue. Finalmente si lasciò cadere su uno sperone di roccia sul bordo del pianoro, nascose la testa fra le mani e rabbrividì. Provava un desiderio soverchiante di addormentarsi. Ma poi passò, quando Carson scoprì pensieri nuovi che affioravano nel suo cervello, pensieri poderosi che non erano suoi. Vide, in una bizzarra visione caleidoscopica, l'ascesa dell'uomo alle vette supreme: vide l'uomo rendersi gradualmente conto che il suo mondo era condannato. Vide il diradarsi delle moltitudini e la sopravvivenza del più adatto... l'opera lenta, inesorabile della Natura, mentre adattava la vita per adeguarla alle sue esigenze finali. Come in un panorama di ère, Blake Carson vide il corpo umano cambiarsi in quello della termite, di cui la termite del suo tempo era solo la progenitrice, la forma sperimentale. Le termiti, dotate d'intelligenze sovrumane, aveva creato quelle città sotterranee, ricche di tutte le attrezzature scientifiche: pretendevano ben poco dalla Terra morente, poiché erano così piccole. Soltanto nel sottosuolo c'era la salvezza dall'atmosfera rarefatta. Sì, la Natura era stata abile nella sua organizzazione, e lo sarebbe stata ancora di più, quando fosse giunto il momento dell'ultima mutazione in batteri. Batteri indistruttibili che potevano vivere nello spazio, raggiungere fluttuando altri mondi, per ricominciare daccapo il ciclo eterno. Carson alzò lo sguardo all'improvviso, chiedendosi perché conosceva tutte queste cose. Ciò che vide l'indusse a balzare in piedi: ma subito si lasciò ricadere, perché aveva le gambe intirizzite dal freddo. C'era un piccolo esercito di formiche, vicinissimo a lui, come una stuoia sul rosso del suolo. Telepatia! Ecco come aveva saputo. La verità era stata comunicata volutamente al suo cervello. Se ne rese conto con chiarezza, perché vi fu un bombardamento di domande mentali: ma provenivano da una tale moltitudine di menti che non avevano un senso chiaro. «Un rifugio,» gridò lui. «Cibo e calore... ecco ciò che voglio. Sono ve-
nuto dal Tempo... sono un viandante... e il caso mi ha portato qui. Mi considererete un esemplare antico, perciò vi sarò sicuramente utile. Se resterò qui fuori, il freddo presto mi ucciderà.» «Sei stato tu a creare questo caso, Blake Carson,» gli giunse un'onda nitida di pensiero. «Se fossi morto come stabiliva la Legge del Tempo, saresti passato alla fase successiva dell'esistenza, separata da questa. Invece hai cercato di sconfiggere il Tempo per compiere la tua vendetta. Noi, che comprendiamo il Tempo, lo Spazio e la Vita, sappiamo quali erano le tue intenzioni. «Non puoi ottenere aiuto, adesso. La legge del cosmo impone che tu viva e muoia secondo i suoi dettami. E la morte che subirai questa volta non sarà la transizione normale da questo piano ad un altro, ma la transizione ad un piano che noi non possiamo neppure visualizzare. Hai alterato per sempre la linea cosmica del Tempo che avresti dovuto seguire. Non potrai mai correggere quell'alterazione.» Blake Carson spalancò gli occhi: avrebbe voluto poter muovere le membra intirizzite. Stava morendo, e lo capiva, ma l'interesse manteneva ancora vigile la sua mente. «È questa la vostra ospitalità?» mormorò. «È questa la benevolenza scientifica di un'epoca progredita? Come potete essere così spietati, se sapete perché ho cercato la vendetta?» «Sappiamo perché, certamente: ma è una cosa da poco, in confronto alla colpa infinita che hai commesso cercando di piegare la legge scientifica alle tue esigenze. La colpa contro la scienza è imperdonabile, qualunque ne sia il movente. Tu sei un esemplare regredito, Blake Carson... un estraneo! Soprattutto per noi. Non hai mai trovato Hart Cranshaw, l'uomo che cercavi. Non lo troverai mai.» All'improvviso, Blake Carson socchiuse gli occhi. Notò che, mentre i pensieri gli giungevano, la massa delle formiche si era ritirata ad una certa distanza, evidentemente disinteressandosi di lui, per ritornare al proprio regno. Ma la potenza dei pensieri che arrivavano alla sua mente non era diminuita. All'improvviso, ne scoprì la ragione. Una termite, più grossa delle altre, stava sola sul suolo rosso. Carson la fissò con occhi ardenti, mentre i pensieri più intimi della minuscola creatura gli sondavano il cervello. «Capisco,» bisbigliò. «Sì, capisco! Vedo i tuoi pensieri. Tu sei Hart Cranshaw. Sei il Hart Cranshaw di quest'epoca. Hai realizzato i tuoi fini. Hai rubato la mia invenzione... sì, sei divenuto il padrone della scienza, il
signore della Terra, come avevi stabilito. Hai scoperto che c'era modo per restare sul piano normale dopo ogni morte, un modo assolutamente certo, se la morte non era causata dall'elettricità. Ecco che cosa ha sventato il mio piano... la sedia elettrica. «Ma tu hai continuato, morendo e rinascendo con un corpo diverso eppure identico. Un uomo eterno, sempre più potente ad ogni rinascita!» La voce di Carson era divenuta stridula. Poi si calmò. «Fino a quando la Natura ti ha trasformato in una formica, ha fatto di te il padrone della comunità delle termiti. Non avevo previsto che la mia scoperta ti avrebbe consegnato il mondo. Ma se io ho violato la legge cosmica, Hart Cranshaw, anche tu l'hai fatto. Hai defraudato più e più volte la normale azione del tempo, con innumerevoli morti. Sei rimasto su questo piano, mentre avresti dovuto passare ad altri. Entrambi siamo colpevoli. Per te, come per me, questa volta la morte significherà l'ignoto.» Un'energia che non era sua diede forza a Blake Carson, in quel momento. La vita riaffluì nelle membra plumbee: si alzò in piedi, barcollando. «Ci siamo ritrovati, Hart, dopo miliardi d'anni. Ricordi che cosa dissi, in un lontano passato? C'è sempre tempo per tutto. Ora so perché non vuoi salvarmi.» S'interruppe mentre, con rapidità fantastica, la termite solitaria tornava correndo verso la massa dei suoi simili che si stavano allontanando. Se si fosse perduta in mezzo a loro, Carson lo sapeva, non avrebbe più potuto identificarla. Si costrinse ad agire: spiccò un balzo. Era l'ultimo movimento che era in grado di compiere. Cadde bocconi, e la sua mano si chiuse intorno all'insetto che correva. La termite gli sfuggì. La guardò muoversi sul dorso della sua mano... e poi attraversargli freneticamente il palmo, quando aprì delicatamente le dita. Non sapeva per quanto tempo era rimasto a osservarla... ma finalmente l'insetto si arrampicò sulla punta del pollice. L'indice si chiuse all'improvviso... schiacciò. Si ritrovò a fissare la chiazza nera sul pollice e sull'indice. Non riuscì a muovere più la mano. La paralisi aveva bloccato completamente le sue membra. Una sofferenza straziante gli serrava il cuore. La vista si offuscò. Si sentì scivolare... Ma con la transizione nell'Al di Là, cominciò a comprendere qualcosa d'altro. Non aveva defraudato il Tempo... e neppure vi era riuscito Hart Cranshaw! Aveva già fatto tutto questo, altrove... l'avrebbero fatto anco-
ra... all'infinito, fino a quando fosse esistito il Tempo. Morte... transizione... rinascita... evoluzione... ritorno all'èra dell'ameba... ascesa alla condizione umana... il laboratorio... la sedia elettrica... Eterno. Immutabile! Titolo originale: Wanderer of Time (Startling Stories, estate 1944). 1945
Murray Leinster Situazione difficile Murray Leinster era il Decano riconosciuto della science fiction, sebbene avesse pubblicato molta altra narrativa in diversi campi. Di lui non apparve più nulla di nuovo dopo un articolo a carattere scientifico, Applied Science Fiction (Analog, novembre 1967). Poco prima, nel 1966, erano usciti diversi suoi racconti, A Planet Like Heaven (su If), Quarantine World, uno dei suoi popolari racconti della serie Med Service (su Analog) e Stopover in Space (su Amazing). Purtroppo, Murray Leinster non è più tra noi. Era nato, con il suo vero nome di William Fitzgerald Jenkins, a Norfolk in Virginia, martedì 16 giugno 1896. Morì domenica 8 giugno 1975 in una clinica di Glicester, in Virginia, otto giorni prima del suo settantanovesimo compleanno. Aveva venduto brevi pezzi riempitivi a Smart Set fin dal 1913, ed uno dei suoi primi racconti a sfondo di fantascienza fu Atmosphere (Argosy, 26 gennaio 1919), ma la sua carriera fantascientifica ebbe inizio con The Runaway Skyscraper (Argosy, 22 febbraio 1919); vennero poi due racconti sulla rivista «protofantascientifica» della Street & Smith, The Thrill Book. Quando Gernsback lanciò Amazing Stories, Leinster era già un autore affermato. Leinster non scrisse mai per le riviste di Gernsback, sebbene questi ristampasse parecchi suoi racconti. Poiché vendeva al più redditizio mercato di Argosy, non aveva bisogno di scrivere per Gernsback. Si lasciò attirare nel campo della rivista di fantascienza con Astounding Stories: e fu
presente nel numero 1 anno I (gennaio 1930) con un racconto breve, Tanks. È delle riviste fantascientifiche apparissero sulla stessa testata trentasette anni dopo. Va detto, a merito di Leinster, che non si abbassò mai a scrivere in modo da compiacere il pubblico meno preparato. Usava tutto lo stile e l'abilità che adoperava per le riviste eleganti: perciò gran parte della sua produzione fantascientifica è di qualità superiore alla media dei suoi colleghi, soprattutto durante gli Anni Trenta. Basta leggere classici come The Power planet (Amazing, giugno 1931) e Sidewise in Time (Astounding Stories, giugno 1934) per rendersene conto. Quest'ultimo racconto fu uno dei primissimi che sfruttavano il tema dei mondi alternati. In seguito, fu ristampato in una raccolta delle sue opere migliori, pubblicato da Shasta nel 1952, un volume che costituisce una lezione sull'arte della narrativa. Durante la guerra, Leinster ricomparve sulle riviste con una quantità di idee nuove che stupirono i lettori, i quali erano convinti che egli fosse un prodotto degli Anni Venti. Vinse poi lo Hugo nel 1956 con il romanzo breve Exploration Team (Astounding, marzo 1956). Il fatto che fosse ancora capace di produrre eccellenti opere più di quarant'anni dopo le sue prime prove, ne dimostra l'abilità e l'adattabilità; includerlo in questo volume è un giusto omaggio al suo talento. Steve Dennin non capiva perché un uomo dovesse perdere la testa soltanto perché si trovava in una situazione difficile, ma vi fu una volta in cui quasi lo comprese. Avvenne durante la Battaglia degli Asteroidi Interni, quando la sua astronave, la Mygale, venne colpita da una bomba alla detonite, ed egli fu l'unico superstite. L'esplosione gli fece perdere i sensi, e le stelle turbinavano pazzamente e il Sole era un cerchio sopra il suo casco, quando egli riapri gli occhi. Per alcuni secondi guardò stordito le strisce di luce che gli balenavano intorno. Poi tutto divenne nero. Stava girando all'impazzata nello spazio vuoto, chiuso nella tuta: ma era fuori dalla nave e non aveva possibilità di rientrarvi. Lo schianto che aveva udito prima di svenire era stato causato da un proiettile alla detonite che colpiva la nave: e se era stato scagliato fuori dalla Mygale, voleva dire che l'astronave era finita. Ed era la fine anche per Steve Dennin, Fisico di Prima Classe. Adesso era soltanto una particella che ruotava nello spazio fra i pianeti. Avrebbe continuato così, in una folle orbita eccentrica, a duecento milioni di chilometri dal Sole: e alla fine la tuta spaziale sarebbe scoppiata, e lui sarebbe divenuto un oggetto incar-
tapecorito e mummificato, destinato a fluttuare per sempre in un vuoto terribile. Estrasse la torcia atomica. Era inutile, naturalmente. Non sarebbe servita a nulla, dov'era lui, dato quel che stava accadendo. Non sapeva per quanto fosse rimasto privo di sensi. Forse aveva ancora a disposizione quasi tutte le sei ore d'aria della tuta: o forse mezz'ora, forse dieci minuti... forse neppure quelli. Non alzò gli occhi verso la fascia degli strumenti all'interno del casco, per controllare. Accese invece la torcia. Nello spazio vuoto, la fiamma era di un bizzarro bianco crudo. Non era stata ideata come mezzo a reazione, tuttavia produceva una certa controspinta. Sulla Terra sarebbe stata impercettibile, ma ora poteva servire ad arrestare la rotazione... con un po' di tempo. Gli spaziali imparavano il trucco nel corso d'indottrinamento, senza pensare di doversene mai servire. Steve tenne accesa la torcia per mezz'ora, mentre valutava la situazione in cui si trovava. Dopo un po', le stelle divennero punti di luce in movimento, non più striature luminose. Il Sole rallentò, divenne una sfera fiammeggiante. Più tardi le stelle si acquietarono in un moto impercettibile, ed egli poté guardarsi intorno, aguzzando gli occhi, in cerca di una speranza. Non ce n'erano. Fluttuava nel vuoto sconfinato. Era praticamente morto. Chissà dove, probabilmente a cento chilometri di distanza, c'era una nave, con le fiamme di reattite che scaturivano dagli oblò e dai portelli. Il carburante s'era incendiato e bruciava con intensità sufficiente a far scoppiare portelli e oblò, ma non per mandare in pezzi l'astronave. Ma, quando la vide, esplose in un lampo mostruoso. E c'era qualcosa d'altro che si andava distruggendo nello spazio, più lontano. Sfere di fuoco prorompevano da una fonte invisibile, in un torrente impazzito. Poi vi fu un bianco lampo attinico e le sfere si ampliarono formando un globo ancora bruciante: nessun'altra le seguì. Ad una quindicina di chilometri c'era una massa fremente di vapore, che si espandeva con incredibile rapidità. Una bomba fumogena si consumava invano nel vuoto. A parte quello... nulla. Steve Dennin si girò molto lentamente, e guardò. Persino in tempo di pace, un uomo perduto da un'astronave in volo è spacciato. Oh, ha qualche possibilità, se la sua scomparsa viene scoperta entro pochi minuti, in modo che la nave può decelerare adeguatamente, sulla stessa rotta, esatta al millimetro, perché egli possa raggiungerla: ma è necessario che a bordo si sappia il momento esatto in cui si è perduto. E se i rilevatori antimeteore dirottano la nave, è spacciato in ogni caso. Ma in tempo di guerra, un uomo separato dalla sua astronave nello spazio è mor-
to. Punto e basta. La battaglia era finita. Era durata solo pochi secondi, mentre le due flotte si precipitavano l'una contro l'altra, s'interpenetravano, e proseguivano per leccarsi le ferite, magari per tornare indietro a tentare un altro scontro pazzesco. La flotta di cui aveva fatto parte Steve Dennin non aveva cercato quel tipo di battaglia: non assicura vantaggi alle astronavi pesanti. La flotta nemica era formata da un numero enorme di vascelli piccoli e furtivi, i battelli ombra. Uno scontro simile significava che solo pochi di essi rischiavano di venire colpiti, mentre avevano buone possibilità di mettere fuori combattimento le astronavi pesanti, che non erano invece in grado di affrontare in una battaglia normale. Steve Dennin, comunque, non riusciva a vedere se avesse vinto... o perso. Non c'era assolutamente nulla da vedere. Accese l'interfono spaziale, passando dalla frequenza interna della nave a quella dello spazio, e non captò nulla. Era rimasto privo di sensi per un certo tempo. La sua flotta, ormai, era probabilmente lontana ottantamila chilometri, e continuava ad allontanarsi. La flotta nemica non doveva essere molto più vicina. Steve Dennin, Fisico di Prima Classe, era spacciato. Le stelle si affievolirono leggermente. Il vapore della bomba fumogena, espandendosi, l'aveva raggiunto. Era rarefatto quanto il contenuto di una valvola a vuoto, ormai, ma le particelle ultramicroscopiche potevano cogliere e riflettere la luce solare. Presto la pressione della luce le avrebbe sospinte lontano dal Sole. E intanto... S'inumidì le labbra e alzò gli occhi. La fascia degli strumenti all'interno del casco stava a meno di quattro centimetri dai suoi occhi, ed i quadranti non avevano un diametro superiore agli otto millimetri, ma le minuscole lenti gli permettevano di leggere chiaramente i dati. Aveva un'ora e mezzo d'aria. Gli stabilizzatori termici - che mantenevano eguale la temperatura nella parte in ombra della tuta e in quella illuminata dal Sole - non avevano dovuto lavorare troppo, a causa della rotazione. Le Batterie Sikken erano quasi completamente cariche. La sua tuta funzionava alla perfezione. Ma... era spacciato. Il vapore della bomba fumogena rifletté più vivacemente la luce. Era probabile che Dennin fosse in movimento verso il punto in cui era esplosa... ma questo non significa nulla. Gli interfono spaziali tacevano. Era morto. Avrebbe continuato a respirare per un'ora e mezzo. Se avesse voluto, avrebbe potuto prolungare un po' quel tempo a disposizione, ma non sarebbe servito a nulla. Si sentiva molto strano. Ogni uomo che sa di essere sul punto di morire si sente strano. Non riesce a crederlo, e prova un'impa-
zienza enorme, perché non può far nulla per evitarlo. Steve Dennin imprecò fra sé, sottovoce. Avrebbe preferito rimanere ucciso sul colpo. Morire in una tuta spaziale, nello spazio vuoto, non è particolarmente doloroso, ma è straziante. Il solo pensarci ha spinto più di un uomo in una nevrosi che lo rende isterico alla sola prospettiva d'indossare una tuta spaziale. Steve non aveva mai capito come mai un uomo dovesse perdere la testa soltanto perché si trovava in una situazione difficile, ma adesso quasi riusciva a comprenderlo. E imprecò. All'improvviso, gli interfono spaziali tuonarono. Il cuore gli balzò in petto. Una voce ansimò, quasi al suo orecchio, pronunciando sillabe della lingua del nemico. Era una voce scossa dal panico... quasi demente. Steve provò una fitta d'odio. Poi sogghignò, ironicamente. Qualcun altro era nella sua stessa situazione. Un nemico. Ma... «Non strillare con me,» disse sardonicamente, nella propria trasmittente. «Stavo solo imprecando contro me stesso. Non posso farti del male, e non posso aiutarti.» Una pausa. Di nuovo la voce del nemico. Parlava in modo intelligibile, questa volta, quasi senza accento. «Mi arrendo,» ansimò la voce. «Venite a raccogliermi! Parlerò! Farò qualunque cosa!» Steve Dennin strinse le labbra. Era una delle cose che la sua razza odiava di più, nei nemici. Erano disposti a dire qualunque cosa, a fare qualunque cosa, a promettere tutto. Il tradimento era un istinto, in loro. In passato era stato un vantaggio enorme: ma come ogni istinto, aveva un'utilità strettamente limitata. Poiché potevano tradire ogni idea d'onore e la loro specie, non avevano vinto la guerra. Per un uomo già morto, come Steve, era quasi una consolazione avere a portata di mano un nemico da disprezzare. Scoppiò a ridere. «Parlare non servirà a nulla,» disse, ironicamente. «Sto andando alla deriva. La mia nave è stata colpita, ed io sono stato sbalzato fuori. Non posso far nulla.» La voce del nemico singultò: «Sto ruotando intorno ad un relitto. Sono immerso nel fumo... ho fatto esplodere la bomba fumogena, sperando di ricevere aiuto. Il relitto è solo a un chilometro di distanza! Se riuscissi ad arrivarci, avrei l'aria, e forse lo recupereranno, prima o poi. Forse c'è un comunicatore. Forse...» Steve Dennin si negò quella speranza. Disse, in tono duro: «Stai a senti-
re, tu! Mi dirigo in mezzo al fumo. Non è probabile, ma può darsi che possiamo aiutarci a vicenda. Sei disposto a concludere una pace separata con me?» La voce proruppe freneticamente nell'interfono spaziale. Era isterica. Steve ridivenne sprezzante. Non riusciva a capire un uomo che perdeva la testa soltanto perché era in una situazione difficile. Le probabilità che da quel contatto derivasse qualcosa di buono erano infinitesimali. C'era una remotissima possibilità di poter cambiare la rotta in modo utile, con i mezzi di cui disponeva. Quel farneticare impaurito di promesse abiette in cambio di quella che sarebbe stata l'eventualità di compiere l'impossibile... era rivoltante. «Sta bene! Sta bene!» rispose Steve, spazientito. «Non vedo molto chiaramente. Adesso ascolta! Metterò il mio interfono sul raggio. Tu ascolta e grida quando mi senti.» Girò l'interruttore del raggio e cominciò a contare. «Uno, due, tre, quattro, cinque...» Non aveva speranze. Si ripeté, crudamente, che non c'era la minima possibilità. Ad esser sinceri, una possibilità esisteva, anche se vaghissima. Ma era sempre meglio che restar lì senza tentare di fare qualcosa. Usò la torcia, per voltarsi. Usò come punti di riferimento il Sole, visibile nella luminosità nebbiosa, ed il puntolino rosso che era Marte. Marte era abbastanza splendente da apparire anche attraverso le particelle del fumo che si diradava. Nello spazio vuoto una bomba fumogena è un segnale visivo, un'invocazione d'aiuto. Una normale bomba fumogena Mark IV forma appunto un segnale visivo che ha la densità della coda d'una cometa, visibile anche quando si dirada espandendosi in un globo di centocinquanta chilometri di diametro. Steve sapeva di non essere troppo lontano dal nemico che era suo compagno di sventura. Aveva visto il vapore espandersi fino ad avvilupparlo. Inoltre, un segnale dell'interfono spaziale perde forza in fretta, nel vuoto. Irradiato sfericamente, ha una portata ridotta. Perciò le tute spaziali servono a trasmettere solo per i gruppi che lavorano all'esterno delle astronavi: ma le tute da combattimento hanno antenne a raggio per le comunicazioni su distanze notevoli. Steve usava il suo raggio per scoprire l'ubicazione dell'altro. Dapprima provò con un raggio ampio, muovendolo lentamente, mentre contava. Quando ebbe un orientamento preciso, notò le coordinate. Si sentiva la gola secca. Una nave da guerra è nera, all'esterno, quando è pronta ad entrare in azione. Se non spara o non s'incendia, è in pratica invisibile, contro le
stelle. Non era sorprendente che non riuscisse a scorgere il relitto... soprattutto dopo che il fumo aveva cominciato ad espandersi. Comunque, la probabilità che riuscisse ad avvicinarsi all'individuo o al relitto quanto bastava per concludere qualcosa di utile era infinitamente remota. Se lo ripeté, cupo. Aveva un'ora e mezzo d'aria. Aveva trenta metri di cavo. Aveva il solito coltello, la solita torcia atomica (la riparazione dei danni, nel corso di un'azione, spettava a tutto l'equipaggio). Ma non aveva altro. Dopo quindici minuti, però, Dennin si morse le labbra, per escludere l'esultanza dalla propria voce, la speranza dal proprio cuore. Si stava avvicinando all'altra figura. Era sorprendentemente vicino. Le coordinate del raggio non cambiarono. Poteva essere a ottanta chilometri, come a cinque. La sua velocità, relativamente all'altro, poteva essere di un chilometro all'ora, o di un chilometro al secondo. Ma non doveva essere molto elevata, altrimenti avrebbe già superato quel fumo tenue e sempre più rarefatto. «Ho un'idea,» disse con fermezza nella trasmittente. «Girati, in modo che il Sole si rifletteva sul vetro del casco. Intanto abbasserò il volume; e tu dimmi quando si riduce.» È un metodo molto rudimentale per calcolare approssimativamente le distanze, nello spazio. I ricevitori dei caschi regolano automaticamente il volume. Ma vi è un valore minimo in cui l'adattamento è instabile. Steve scese verso quel volume. L'altro era in preda all'isterismo e non riusciva a controllarsi. Farneticava di continuo invocando aiuto, invece di concentrarsi sul tentativo di calcolare la distanza. La risposta fu che erano lontani sedici chilometri. Steve alzò lo sguardo verso la fascia degli strumenti. Ormai gli restavano quaranta minuti d'aria. Non aveva una possibilità. Quando un successivo controllo indicò che la distanza era di quattordici chilometri e un altro mostrò che si era ridotta a tredici, comprese che non ce l'avrebbe fatta. Quel sistema per calcolare le distanze era aleatorio, ma anche con l'interpretazione più favorevole, e anche se la sua rotta fosse stata improbabilmente vicina, gli sarebbe rimasto troppo poco tempo per fare qualcosa. Poteva far durare l'aria un po' di più, forse: ma difficilmente avrebbe potuto permetterselo. Aveva bisogno di tutta la sua lucidità, e tra poco anche di tutta la sua forza. Vide l'ammiccante punto di luce solare riflessa che era il vetro della visiera dell'altra tuta. Il fumo si disperdeva nel vuoto mostruoso, e adesso lasciava trasparire le stelle. Poteva controllare la sua rotta basandosi sulla posizione delle stelle dietro quel vetro scintillante. La traiettoria era quasi
esatta. Quasi. Perse secondi preziosi cercando l'astronave di cui aveva parlato l'altro. La vide. C'era uno squarcio enorme nel settore di poppa, ma dovevano esistere ancora alcuni compartimenti stagni. Poteva esserci ancora una speranza di riuscire a... ma era inutile pensarci. Era a sei chilometri e mezzo dal relitto, ma la sua rotta deviava lateralmente. Nel tempo che aveva a disposizione, non poteva acquisire la velocità necessaria per raggiungerlo. Ma poteva giungere vicino alla tuta spaziale. La tuta spaziale sussultava freneticamente. La voce del nemico farneticava... Steve sganciò l'estremità del cavo che portava avvolto intorno alla cintura. Ne tagliò un pezzo d'una trentina di centimetri. Lo scagliò violentemente lontano. Ne tagliò un secondo pezzo e lo gettò via. Ne tagliò un terzo... avrebbe potuto usare la torcia, ma come mezzo di reazione aveva un valore trascurabile, è non è il caso di puntare una fiamma atomica in una direzione, mentre si compiono gesti violenti. Gettando via i pezzi di cavo poteva acquisire un lieve movimento nello spazio. Dennin calcolò che ogni frammento di cavo, scagliato lontano alla massima velocità di cui era capace, gli avrebbe dato una velocità di tre centimetri al secondo, nella direzione esattamente opposta. Ogni lancio, inoltre, lo faceva turbinare pazzamente. Ma due pezzi di cavo avrebbero aggiunto sei centimetri di velocità al secondo. Venticinque pezzetti di cavo avrebbero cambiato la sua rotta di settantacinque centimetri al secondo, ed in un minuto questo significava una divergenza di cinquanta metri, cento metri in due minuti... in un'ora, sarebbe stata una deviazione di oltre ottocento metri. Ma Steve non aveva quell'ora a disposizione. Il vapore della bomba fumogena si era quasi interamente dileguato. Dennin continuò ad avanzare. Avrebbe mancato il relitto di quasi un chilometro e mezzo, ma prima sarebbe passato molto vicino alla figura chiusa nella tuta. C'erano molti frammenti che fluttuavano intorno al relitto... alcuni erano vicini al naufrago. Steve provò un senso di disprezzo per il nemico: lui avrebbe cercato di raggiungerne uno. «Ascolta,» disse con voce ferrea. «Intorno c'è una quantità di frammenti. Con la mia direzione e la mia quantità di moto, se riusciamo a stabilire un contatto potrò trascinarti nello spazio insieme con me. Ma dobbiamo spingerci uno contro l'altro, e raggiungere frammenti separati, e da lì lanciarci verso la nave. Capito?» L'altro farneticò, come al solito. Steve strinse le labbra. Levò lo sguardo verso i suoi strumenti. Quindici minuti d'aria. Ridusse un poco l'afflusso.
Tagliò un tratto di corda lungo tre metri e lo scagliò lontano, calcolando accuratamente l'angolazione. Le due tute spaziali si avvicinavano l'una all'altra, nel vuoto. Il Sole era un disco lontano di luce sfolgorante. C'erano innumerevoli stelle indifferenti. C'era il relitto squarciato che ruotava lentamente, e che era stato un'astronave sorella della Mygale di Steve. Era sfasciata e inservibile, ma continuava ad andare alla deriva, incontrollata, nello spazio che non opponeva resistenza. E quel fatto spiegava la scarsa velocità relativa di Steve. La sua astronave e quella avevano fatto parte della stessa formazione, e avevano proceduto alla medesima velocità, quando erano state colpite. Allorché Steve riconobbe il relitto, comprese altre cose. I superstiti dell'equipaggio dovevano essersi stipati a bordo di una scialuppa e avevano seguito la flotta, per farsi raccogliere successivamente. L'uomo chiuso nella tuta si era trovato, probabilmente, a bordo di uno dei battelli-ombra nemici, ideati per camuffarsi e per mescolarsi alla flotta avversaria, inserendosi nella formazione, alla stessa velocità e sulla stessa rotta, eliminandone i componenti furtivamente, via via che se ne presentava l'occasione. Solo a bordo di un battello-ombra, un nemico poteva aver condiviso la rotta e la velocità di un'astronave della flotta di Steve. Il particolare più ironico era che il battello-ombra doveva essere stato distrutto da un proiettile sparato dai suoi amici, durante i quindici secondi della battaglia. Era giustizia, in fondo. Un uomo come Steve disprezzava il sistema dei battelli-ombra: ma non era il momento di abbandonarsi a cavilli morali. Erano entrambi in una situazione disperata. Era logico che stabilissero una tregua personale. Da parte di Steve, la tregua era valida. Avanzava verso chi forse era stato il responsabile della distruzione. Masse di rottami fluttuavano intorno, nel vuoto, apparentemente immobili, mentre in realtà ruotavano in orbite infinitamente lente intorno al vascello di cui avevano fatto parte. «Quasi tutto il mio cavo è andato,» disse Steve, con calma. «Buttami il tuo. Presto!» L'altra tuta spaziale scalciò convulsamente. Una fune si srotolò nel vuoto. Mancò Steve di qualche metro, ma egli lanciò il tratto di cavo che gli era rimasto, l'agganciò e la tirò a sé. Si aggrappò con forza. La forza d'inerzia lo stava portando oltre l'altro uomo. La fune si tese. I due furono trascinati in un sorta di folle girotondo, roteando intorno al comune centro di gravità: ma entrambi erano presi dal moto di Steve, che l'avrebbe trasporta-
to oltre il relitto. Insieme, condividevano la sua traiettoria precedente, a velocità ridotta, ma individualmente orbitavano l'uno intorno all'altro, spostandosi alternativamente verso l'astronave e lontano da essa, mentre andavano alla deriva. «Adesso dobbiamo muoverci in fretta,» disse Steve. «Non mi resta molta aria. Raccoglieremo i frammenti...» Poi una lama di coltello lampeggiò accecante nella cruda luce del sole. La tensione della corda si spezzò. E un'ondata di rabbia soffocante invase Steve Dennin. Il moto di rivoluzione reciproca aveva offerto al nemico un'occasione di tradimento, e quello ne aveva approfittato. Nel momento in cui si erano trovati a distanza eguale dall'astronave, ma con Steve che recedeva e il nemico che si avvicinava, questi aveva reciso il cavo. Ed ora fluttuava trionfante verso il relitto, mentre Steve veniva scagliato verso l'esterno, lontano, lungo una tangente. A Steve restavano dieci minuti scarsi d'aria. Il nemico s'era salvato con il suo sopraggiungere. E le probabilità di Steve erano state a dir poco infinitesimali: ma l'aveva defraudato anche di quelle. Gli pervenne la voce del nemico, giubilante e beffarda, attraverso l'interfono. Ringraziava ironicamente... Steve usò cinque secondi d'aria per prorompere in un torrente di imprecazioni cariche d'odio, poi spense l'interfono, per non udire più quelle frasi irridenti. Era pieno d'una rabbia furibonda che lo dominava, più forte dell'amore per la vita. Si girò di scatto, per vedere. Le altre masse di rottami... c'era una sezione enorme di rivestimento esterno, dilaniato e squarciato, a quattrocento metri da lui. L'avrebbe mancato di un centinaio di metri. Ritirò la fune - era quasi tutta del nemico, quella - e ne tagliò un pezzo. L'arrotolò rapidamente e la scagliò. Un secondo groviglio. Un terzo. Poteva vedere l'effetto della sua manovra. Usando grosse masse e calcolando esattamente la sua velocità e le distanze, fluttuava in modo apparentemente caotico nello spazio vuoto, ma... ogni azione aveva una reazione eguale e contraria. Poi si accorse che avrebbe mancato di sei metri il grosso pezzo di rivestimento, e che non aveva nulla da lanciare per acquisire lo slancio necessario. Agitò violentemente intorno a sé il pezzo di fune che gli restava... e la fune s'impigliò ad esso. Gli restavano solo otto minuti d'aria... ed era a due chilometri dal relitto. Ma aveva già in mano la torcia atomica, mentre si accostava al pezzo di rivestimento. Si aggrappò con una mano, con l'altra azionò rabbiosamente la torcia. Agganciò la sezione staccata del rivestimento con le suole magne-
tizzate degli stivali, la girò nella direzione opposta a quella della nave, scalciò con violenza... togliendo la corrente magnetizzante. Il pezzo che aveva tagliato volò via, roteando, nel vuoto. La massa maggiore, cui Steve stava aggrappato, acquistò una certa velocità, in direzione dell'astronave. Tagliò un secondo pezzo, lo spinse dietro di sé con uno scatto energico. Subito riprese a tagliare. Una spinta bene esercitata conferisce maggiore energia del colpo più violento, data la conformazione dei muscoli umani. Steve usava masse che ammontavano a più di duecentocinquanta chili. Se le spingeva indietro... e così facendo spingeva avanti la massa maggiore. L'intero pezzo di rivestimento doveva pesare circa tre tonnellate. La parte cui stava aggrappato acquisiva la metà dell'energia cinetica impartita da ogni spinta, il che significava che prendeva un'esatta frazione della velocità impressa alla parte più piccola. Ogni calcio trasmetteva una velocità maggiore alla parte sempre più ridotta del rivestimento. Ogni spinta l'aumentava. Steve, in effetti, usava la propria forza come un motore a reazione per muovere se stesso e la massa cui era aggrappato in direzione dell'astronave, con una velocità ed un'efficienza che aumentavano di continuo. Quando gli rimanevano ormai solo quattro minuti d'aria, vide il suo nemico che fluttuava ancora in direzione del relitto. Ma Steve l'aveva già superato, e si muoveva con una velocità che avrebbe reso pericoloso l'urto. Tagliò altri pezzi, li scagliò via, freneticamente, per correggere la rotta. Poi invertì il processo che gli era servito per accelerare, lanciò davanti a sé alcune parti del rivestimento, per ridurre la velocità ad un valore di sicurezza. Un attimo prima che l'ultimo resto di quel che era stato un quarto dello scafo andasse a precipitare entro lo squarcio sulla fiancata dell'astronave, Steve spiccò un balzo con tutte le sue forze, allontanandosi dalla nave che tanto desiderava raggiungere. L'ultimo pezzo di rivestimento urtò con violenza, ma fu un impatto stranamente silenzioso, nello spazio vuoto. Steve atterrò dietro di esso, più dolcemente. E il suo indicatore dell'aria segnava zero. Provò una sensazione di soffocamento crescente. Lì, nello scafo sventrato, c'era una oscurità abissale. Accese la lampada del casco e... con i polmoni tormentati in modo orribile, cercò. Trovò quel che cercava, e si mosse freneticamente, mentre i polmoni minacciavano di scoppiare. Entrò barcollando in una camera stagna, si chiuse il portello alle spalle. Macchie rosse gli danzavano davanti agli oc-
chi. Si appoggiò contro il portello interno, strappò via la visiera del casco. E respirò. Cinque minuti dopo vi fu un tonfo scrosciante contro il relitto, all'esterno. Steve, istintivamente, aveva già preso una tipica precauzione immediata per uno spaziale. S'era accostato alle tubature dell'aria del compartimento, che fa di ogni sezione di una nave da guerra un'unità isolata e autonoma, in caso di danni, e ricaricò il serbatoio della tuta. È un atto abituale ricaricare l'aria prima di togliersi una tuta, dopo averla usata. E quel tonfo... Tolse da una rastrelliera un disintegratore. Esitò un momento, poi uscì attraverso la camera stagna, passando nella sezione squarciata dello scafo. Le suole magnetiche degli stivali lo tenevano ancorato al pavimento. La luce del casco brillava. Non c'era nulla che si muoveva: ma c'era un ampio tratto di rivestimento di ferro che si stava piegando lentamente, verso l'esterno. Steve comprese. Quando aveva spinto i frammenti di metallo tagliato per raggiungere il relitto, aveva impresso loro una velocità retrograda rispetto a se stesso... non rispetto alla nave. Due o tre l'avevano seguito verso il suo obiettivo, a velocità semplicemente ridotta. Uno di essi aveva urtato, e adesso rimbalzava, allontanandosi di nuovo. Accese l'interfono spaziale, mentre cercava il suo avversario con lo sguardo. Una voce gli singhiozzò istericamente nelle orecchie. Era il nemico. Steve si mosse, andò a sbirciare attraverso il grande squarcio nello scafo. Vide l'altro a non più di quindici metri da lui. Ma non si stava avvicinando. Il suo moto era regolare, continuo. La tuta spaziale era illuminata dalla cruda luce del Sole lontano. Oscillando, lentamente, inesorabilmente, stava passando oltre il relitto. Aveva sbagliato i calcoli. Forse aveva sbagliato a prevedere lo slancio che aveva acquisito recidendo la fune. Forse aveva conteggiato male il senso della rotazione che lui e Steve avevano compiuto uno intorno all'altro. Comunque, aveva mancato il relitto. Ormai lo stava superando, avviato verso il vuoto, verso la terribile solitudine eterna delle stelle. La sua cintura era vuota. Aveva gettato via il coltello e la torcia atomica in un vano tentativo di cambiare rotta e di raggiungere la nave. Passava oltre, lentamente, singhiozzando, e faceva movimenti disperati, come se nuotasse nel vuoto, cercando di spingersi verso il relitto. C'era una cosa soltanto che Steve poteva fare. La corda che gli restava era troppo corta. Centrò la fiamma della torcia su una trave metallica sfa-
sciata, ne tagliò un pezzo che sulla Terra sarebbe pesato dieci o quindici chili. Lo lanciò nel vuoto, tenendosi saldamente ancorato con le suole magnetiche. «Amico,» disse sardonicamente, «ecco un aiuto. Usalo, e poi te ne manderò un altro.» La massa di ferro fluttuò verso la figura che nuotava frenetica. Sembrava un missile. In realtà, era l'unico aiuto possibile. Si allontanava dal relitto, certo, ma a non più di un metro e mezzo al secondo. In preda al panico, il nemico si spostava a meno di sessanta centimetri al secondo. Se avesse afferrato il peso che si muoveva lento e l'avesse scagliato via, più rapidamente, lontano dalla nave, avrebbe acquisito uno slancio che l'avrebbe portato più vicino al relitto. Almeno, la massa gli avrebbe permesso di liberarsi della velocità di fuga. Ma per l'altro la voce di Steve non era quella del buon Samaritano. Era la voce di un nemico, che aveva tradito solo pochi istanti prima... e che secondo ogni logica avrebbe dovuto perdersi in quel vuoto verso cui ora si dirigeva egli stesso. La massa metallica che avanzava verso di lui sembrava un proiettile... qualcosa destinato malignamente a colpirlo, a spingerlo ancora più lontano dal rifugio che sapeva di avere perduto. Urlò, rauco, al primo suono della voce di Steve. Ma quando vide il pezzo di ferro che fluttuava verso di lui, cedette alla disperazione frenetica di un ratto preso in trappola. Era impotente, disarmato e, ne era convinto, stava per venire allontanato dall'impossibile speranza di salvezza da quegli oggetti, scagliati per colpirlo, per spingerlo verso la morte. Urlò, in preda ad un furore demente. Il pezzo di ferro lo raggiunse. Ma egli non l'afferrò, non lo scagliò dietro di sé. Gridando pazzamente, lo strinse e lo lanciò, mosso dall'odio folle per l'uomo che pensava si facesse beffe di lui, proprio in direzione di Steve. La massa di ferro si arrestò in volo. Sembrò fermarsi, e poi fluttuò esitando, delicatamente, ritornando verso la nave. Il nemico non era riuscito a scagliarla contro Steve in un colpo pericoloso: era riuscito soltanto a lanciare se stesso più oltre, in direzione del vuoto. Steve, che aveva già un altro pezzo di ferro tagliato e pronto per gettarlo in aiuto del suo nemico, lo guardò sbalordito. I ricevitori del suo interfono risuonavano della delirante follia dell'altro, che ormai si spostava troppo velocemente ed era troppo lontano perché potesse venir raggiunto da un qualche aiuto. Steve spense l'interfono ed esclamò, indignato: «Ma perché ha perso la
testa? Soltanto perché era in una situazione difficile?» Ormai, non poteva più far nulla. Nulla. Scrollò le spalle e rientrò attraverso la camera stagna, per contemplare i motori del relitto, danneggiati ma ancora riparabili. Titolo originale: Tight Place (Astounding Science Fiction, luglio 1945).
APPENDICI
HANNES BOK (Astonishing Stories, aprile 1941). Anche le Appendici che seguono, come quelle poste alla fine della Parte I, hanno la funzione di completare con dati bio-bibliografici le informazioni relative allo sviluppo delle riviste di fantascienza nel periodo trattato (in questo caso il decennio 1936-1945) e sono organizzate nel medesimo modo. Le bibliografie sono limitate, per necessità di spazio, agli autori che figurano nella sezione antologica. Non posso esimermi però dal menzionare, almeno, gli altri scrittori che in quegli anni furono tra i più popolari: in particolare Nelson Bond, Robert
Heinlein, Henry Kuttner e A. E. van Vogt.
Appendice 1 Bibliografie 1936-1945
Appendice 2 Elenco delle riviste 1936-1945
Appendice 3 Elenco dei curatori 1936-1945
Appendice 4 Guida ai disegnatori 1936-1945
FINE